Pietracamela, il “Borgo in Arte” tra memoria e modernità

di Romano Maria Levante

Abbiamo già descritto la  cerimonia che ha aperto la festa di fine stagione a Pietracamela  sabato 19 agosto 2017, l’omaggio ai Vigili del fuoco di Bellinzona con la consegna della Targa ricordo da parte del sindaco Michele Petraccia in segno di gratitudine  ricambiata dal Gagliardetto del corpo dal comandante ten, col. Samuele Barenco, a ricordo dell’aiuto da loro prestato accorrendo dalla Svizzera in soccorso del borgo nell’emergenza neve dello scorso inverno, oltre ai tanti corpi nazionali mobilitati dalla Protezione civile. E abbiamo riportato, riassumendole in forma di flash, le parole del sindaco sulle iniziative per i tre temi cruciali nella vita del borgo: la sicurezza, la ripresa economica e il rilancio turistico.

Ci immergiamo ora nella festa del paese di cui abbiamo ricordato, insieme ai problemi e alle iniziative in corso, anche i riconoscimenti ottenuti per le sue speciali attrattive naturalistiche e i suoi pregi ambientali. La  manifestazione dal titolo “Borgo in Arte” , ben  appropriato dato che il 2007 è stato proclamato “Anno dei Borghi” dal Ministero per i Beni, le Attività Culturali e il Turismo, è stata organizzata, con l’Amministrazione comunale, dalla Pro loco.  Il presidente Paolo di Giosia, che l’ha curata, ci tiene a sottolineare l’impegno del direttivo di giovani molto attivi e motivati, spinti dall’amore per il loro paese. 

Vogliamo premettere che a nostro avviso sarebbe stato difficile dare una cornice migliore all’accoglienza degli amici svizzeri, perché si è valorizzata la vocazione anche culturale della comunità locale.

L’imprinting culturale

Il borgo si gloria di aver dato i natali al pittore Guido Montauti, l’artista dalle “pitture rupestri” che, come tanti suoi dipinti, presentano una sorta di “quarto stato montanaro”, assorto e in attesa ma solido e determinato, come sono stati, del resto, gli abitanti nel resistere alle avversità della natura, dal terremoto alla neve che ha sepolto il paese; a lui è stato dedicato il “Premio Internazionale Pittura Rupestre Guido Montauti”, la cui prima edizione del 2014 è stata vinta dall’affermato artista tedesco Jorg  Gunert; per l’artista nato a Pietracamela nel 1918 si prepara la celebrazione del centenario. 

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Ernesto Sivitilli  si segnalò non solo nelle scalate, fondò il gruppo degli “Aquilotti del Gran Sasso” primo in Italia – precedendo gli “Scoiattoli di Cortina” e i “Ragni di Lecco”- e nel 1930 pubblicò il libro pionieristico “Il Corno piccolo”, la cui ristampa è stata  presentata a Pietracamela nell’agosto 2013.

Nella maestria alpinistica è stato seguito da Bruno Marsilii, medico scalatore anche di spedizioni himalayane, da  Lino D’Angelo e Clorindo Narducci, gli ultimi due autori di libri traboccanti affetto per la loro montagna, oltre che  maestria,  “Le alte vette della mia vita”  il primo, “Un vecchio album di ricordi” e “Pietracamela tra storia e leggenda”  il secondo.

Berardino Giardetti ha scritto i “Racconti montanari – Incontro col diavolo” e non solo; la sua storia di “Manodoro, il generale dei briganti” , considerato  patriota del luogo, e la sua coraggiosa ricerca sulle “Miserie e nobiltà dell’Unità d’Italia” ci hanno dato una storia vista dal basso, dal popolo, con l’intento di fare giustizia delle visioni interessate imposte dalle classi dominanti.

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Sono tutti scomparsi, mentre altri  “pretaroli”  hanno scritto e pubblicato libri, non solo sul paese, come il romanzo-verità con una storia positiva di emigrazione da Pietracamela , “Rolando e i suoi fratelli. L’America!”; ma anche su “D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale”, libro-inchiesta nel quale l’autore cita Pietracamela per delle circostanze straordinarie, e per la  novella di D’Annunzio del 1887 intitolata  “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scùrcola”.

E addirittura un libro su “Gesù l’uomo” e due volumi su “Dio, fede e inganno” e “L’uomo, il virus di Dio”, l’autore che si è cimentato su temi che toccano le coscienze di tutti è Gelasio Giardetti all’insegna della coraggiosa linea controcorrente dello zio Berardino Giardetti che abbiamo appena citato, in un campo ancora più delicato della ricerca storica, quello religioso.

Quale è stato l’imprinting culturale della festa? L’esposizione in una sorta di “Street Art” non nel senso di artisti di strada, come i “madonnari” e simili che disegnano sul selciato, ma di presentazione nei vicoli del centro storico, sulle pareti di pietra degli edifici, dinanzi alle porte vecchie o restaurate, delle loro opere, pittoriche o fotografiche: alcune sono di principianti che vogliono esserci con la loro passione, altre di artisti sperimentati impegnati nell’affinamento e nella ricerca inesausta di una propria cifre espressiva. E un recital  poetico seguito da una danza coinvolgente.

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Il pittore e il poeta,  nel loro nuovo percorso artistico

Sono oltre 30 gli artisti dei vari generi, tra gli espositori della mostra e gli altri protagonisti della festa,  dalla pittura al collage, dall’installazione alla performance, fino alla danza e alla musica, per i loro nomi rinviamo alla locandina riportata all’inizio. Ci soffermiamo su due di loro, con cui abbiamo parlato alla festa, li  avevamo conosciuti nella mostra  “Pietracamela per l’Arte”  dell’agosto 2013  – allora organizzata, sempre con la direzione di Paolo di Giosia, dall’Amministrazione separata dei beni di uso civico presieduta dal compianto Sergio Marchegiani – in una sorta di simbiosi creativa tra il poeta, Francesco Barnabei,  e il pittore Paolo Foglia, che ci ricordava il gemellaggio, in una mostra al Vittoriano a Roma, tra il poeta Italo Benedetti e il pittore Vincenzo Maugeri. 

La simbiosi è venuta meno, ma non l’amicizia e la comune partecipazione a manifestazioni artistiche, come  la  “Poesia in cassetta”, con le composizioni del poeta accomunate alle tele del pittore e collocate nelle cassette di frutta. Paolo Foglia  ha maturato in sé l’ispirazione per la pittura e si è affrancato dalla poesia, vediamo una sua forte interpretazione dell’onda di sentimenti angosciosi che provò al sisma rovinoso di Amatrice, l’immagine è tormentata e sconvolgente.

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Nelle scalinate del centro storico ci sono 4 suoi dipinti, li traguardiamo con quelli visti anni prima, l’evoluzione è evidente. Continuano le “citazioni”, non sono “d’aprés” ma ispirate dai grandi, allora riconoscemmo Modigliani in alcune morbide figure femminili,  ora ci vediamo Picasso, più consono a momenti  che sconvolgono, come quelli del terremoto che lo ha ispirato.

D’altra parte le citazioni, frequenti negli artisti più impegnati, sono segno di una ricerca che continua e ha fatto evolvere la sua cifra espressiva verso un impatto violento nei colori brillanti e nei contorni marcati che danno alle sue figure una forza dirompente.  Ci parla di un crescente interesse verso i suoi dipinti, richiesti anche all’estero, del “Premio Borsellino” conferitogli di recente, e ci mostra un suo ritratto di “Falcone e Borsellino”  incisivo ed efficace. I ritratti sono una sua peculiare forma artistica , con intensa penetrazione psicologica.  E’ un artista motivato e appassionato, proteso verso nuovi traguardi, attento alla comunicazione e a quanto possa promuovere l’attenzione per l’arte.

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E il poeta Francesco Barnabei? Anche in lui l’evoluzione, non solo nella cifra espressiva ma anche nel modo di “vivere la poesia”, sono sue parole.  E’ diventato “performer poetico”, a Pietracamela  è stato attore e cantante in  un “recital” di poesie di Piero Ciampi con una tale immedesimazione da dare ad esse il tono della drammaturgia, fino al canto liberatorio finale “Tu No”, che considera “la più bella canzone d’amore di tutti i tempi”.  Il segreto è nel titolo che ha dato alla performance, “la guerra si fa con il Cuore non con le armi” e nella sua dedica “ad un artista troppe volte dimenticato per la sua dirompente realtà, quella verità che fa girare il capo da un’altra parte” . L’angolo del centro storico in cui si è esibito, in una semplicità rustica autentica accortamente valorizzata, con il pubblico seduto sulle scalinate preso dalla sua interpretazione intensa e appassionata, è stata la cornice ideale di un ritorno all’antico, quasi fosse un “aedo” omerico.   

Però la nostra memoria ci ha reso curiosi, lo avevamo conosciuto come poeta e non potevamo rinunciare a chiedergli le sue nuove creazioni poetiche, dopo quelle che nella precedente occasione prima ricordata facevano parte della  “Street Art” , affisse sui muri di pietra insieme alle pitture che avevano ispirato. Ecco dunque  una rapidissima spigolatura sulla poesia  di Francesco Bernabei oggi, se ne può avvertire la forza interiore, la stessa profusa nel recitare facendo  rivivere la poetica di Ciampi con un temperamento e una fisicità che gli ha fatto portare al diapason toni e  accenti.

Nella sua poetica c’è una totale partecipazione, la sentiamo in una poesia che sarebbe piaciuta a Marco Pannella, tanto fa immedesimare nella tetra e triste solitudine del carcere. Pannella com’è noto è di Teramo, cui è rimasto sempre legato, e “Teramo Nostra” lo ha celebrato nell’ottobre  2016 a pochi mesi dalla scomparsa; quindi conterraneo di Barnabei, che per la sua Montorio, a pochi chilometri dal capoluogo, ha scritto le poesie appassionate “Porgo le braccia” e “Montorio dall’alto”.

E’ tratta dalla raccolta “Liberazione Poetica”, della Pellicano Libri,  la poesia intensa e drammatica intitolata “Statico”: “Abitare senza volere/ stare tra ferro e cemento/ piccoli posti dove abitare/ scalciando piedistalli./ Uno sguardo regala il cielo/ una porzione/ come il dolce della festa./ oggi è nuvolo ed è così bello/ da non provare più niente./ Un piccolo sgabello/ dove poggiare i pensieri/ chissà come ci si sente a stare in attesa./ inganni al tempo/ camminare avanti e indietro./ Alle volte è possibile / sentirsi leggeri/ è possibile sognare./ chiusi in metri quadri segnati/ qualcuno smette /e si toglie il respiro./ troppo lungo il tempo da abitare qui/ inganno della solitudine/ troppo lungo è attendere/ non basta all’attesa/ questa porzione di Cielo.

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Ancora solitudine in un’altra poesia, questa volta intima e dolce, in cui è ripiegato su se stesso nell’accorata ricerca di sé, una ricerca che continua: “Cerco/ questo infinito/ dentro me/  rifletto su un cuore/  dove uno spazio/ ancora esiste/ ascolto questa solitudine/ come un respiro/ dolce e gentile/ come le parole/ che non riescono ad uscire/ come sentire freddo/ anche in estate/ resto avvolto/ in questa luce/ di colore grigio e azzurra/ gli occhi riposano/ alla vista/ di questo correre indietro/ senza vedere/ attendere il nulla / in un vortice/ di dna diversi/ omologati all’esterno”.

L’assolo danzante e le foto di oggi e di ieri, un mestiere antico e la “disco music”

Nello stesso angolo raccolto, la performance poetica è stata seguita da un assolo danzante. La bianca figura femminile  che aveva assistito dall’alto di un vecchio  balcone, avvolta in veli bianchi ma così immobile da apparire un manichino, ha preso vita, è divenuta una danzatrice.  Ne è nata una danza difficile da definire, da tarantolata con i veli da tutù di ballerina classica,  movimenti bruschi e insieme armoniosi,  pause e riprese, acrobazie da ginnasta e piegamenti da contorsionista, uno spettacolo di grazia e potenza insieme, una trasfigurazione. Quando ha terminato tra gli  applausi del pubblico, la danzatrice Teresa Morisano ha dato una sensazione indefinibile, sembrava un’altra persona, quasi irriconoscibile, nella danza scatenata era come se lievitasse, mentre ora appariva in una assoluta normalità; la rivedremo anche in occasioni più impegnative, lo merita. E’ stato uno  spettacolo che non si dimentica nell’ambientazione dell’Anura installazione “Star Dust”.

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Diverse prove artistiche, dunque,  pittura, poesia e danza, ma c’è stato dell’altro. A Pietracamela negli anni scorsi si sono svolte mostre sui costumi montanari di una volta, legati al matrimonio o alla nascita dei figli con reperti d’epoca insieme alle vecchie fotografie. Di nuovo qualche piccolo, significativo scampolo  di un “album di famiglia” variegato e nostalgico,  è stato esposto, questa volta su vecchie porte, tra le fotografie di oggi appese ad altre porte o affisse ai muri del centro storico.

Le immagini attuali, vere prove d’autore, interpretano la realtà da tante diverse angolature e visioni personali. Sono molte, allineate come panni stessi ad asciugare , vediamo ritratti di bimbi e adulti, due primissimi piani dei visi della bambina sorridente e della vecchina dolente con la mano sul volto, muri di case e antichi arnesi, un stadera e un csrretto,  classiche immagini del Gran Sasso e paesaggi calligrafici, fino alla dolce istantanea della farfalla ripresa sopra a una margherita. 

Oltre a queste, le  fotografie d’epoca documentano un mondo sparito nella realtà quotidiana ma rimasto vivo nella memoria. La gente del luogo presente alla festa si cimenta nel riconoscere paesani, parenti e antenati, e così ritrova le proprie radici. Come facciamo noi stessi, che nella mostra a Pietracamela del 2013 sugli “sposalizi di una volta” riconoscemmo i nostri genitori nella foto di un ballo di giovani coppie al “laghetto”, il pianoro erboso in località “Cima Alta”,  da dove si sale verso la parte rocciosa.   

Ne citiamo alcune, delle foto d’epoca, i  genitori con i due figli piccoli nei cesti sul basto di un mulo verso la Madonnina del Gran Sasso per l’annuale festa, come si faceva a quei tempi con i bambini, loro non ci sono più, ma la bambina di allora, Celestina De Luca, oggi non può non emozionarsi davanti a questa immagine; come si emoziona Aligi Bonaduce nel rivedere la fotografia di una stornellata ai Prati di Tivo, con il padre Francesco alla chitarra seduto a terra a fianco di Berardino Giardetti al mandolino e la mamma tra i paesani in cerchio. Aligi scattò quasi quarant’anni fa delle foto profetiche al pittore Guido Montauti davanti alla grotta crollata nel 2010 sulle sue “Pitture rupestri”, foto presentate nel 2012 in una mostra a Pietracamela; ora vediamo esposte, tra le altre, due sue fotografie molto espressive, quattro splendide nonnine del paese sedute nei lunghi abiti neri tradizionali dalle larghe gonne con il fazzoletto in testa, prezioso reperto di costume e umanità, e un primo piano delle mani grinzose di una di loro, immagini che suscitano commozione  nel clima nostalgico che si è creato.

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Pietracamela  è un paese di longevi, da poco è scomparsa a 107 anni la mitica Gina che scriveva poesie, prima se n’era andata dopo aver superato cent’anni Mariuccia,  rimasta presto vedova di Ernesto Sivitilli, il pioniere del Gran Sasso che abbiamo citato.

Le memorie del passato non sono soltanto in queste fotografie, sul muretto sono esposte riproduzioni in legno delle attività che nei tempi antichi occupavano la  gente di montagna, dalla cardatura alla filatura della lana per poi preparare le maglie e le calze con cui difendersi dal freddo. 

C’è anche l’esibizione pratica di questo mestiere antico, con i relativi strumenti azionati come si faceva allora. I “pretaroli”, viene ricordato, al termine della stagione in cui erano impegnati nel lavoro nei campi – pur se molto avari alle alte quote ma senza alternative per la sopravvivenza – partivano soprattutto per la Toscana, l’Umbria e le Marche  per cardare la lana, e tornavano nella nuova stagione.  Il fiocco della tosatura delle pecore con la cardatura diventava un lungo filamento morbido e spesso, da trasformare poi nel filo pronto per fare maglie, calze, coperte e altro, girando l’apposita ruota con il fuso e quant’altro necessario alla filatura. Romolo Intini  mostra come lui stesso cardava la lana a quei tempi, con l’apposita apperecchiatura che ha conservato, e si vede anche la dimostrazione di come il cardato diventava poi filato.

Ma ci siamo lasciati prendere da una partecipazione personale alle memorie del paese natio, mentre il cronista si dovrebbe mantenere estrameo con una indifferenza che non ci sentiamo di simulare.

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Il ritorno al presente, dopo le memorie del passato, è peraltro immediato.  Nel “Belvedere Guido Montauti”, intitolato alla gloria del paese che abbiamo ricordato, il complesso musicale “Le Galassie” – con la monumentale batteria collocata sullo sfondo del cielo risplendente delle galassie siderali, gli altri musicisti ai loro strumenti e due simpatiche cantanti – suona ritmi da “disco music”. Nessuna indulgenza per la musica folcloristica e le canzoni del passato. Pur nel rispetto, fino al culto, della tradizione e delle memorie, Pietracamela vuol vivere nella modernità.

Proprio per questo confida in tutto quanto gli strumenti più moderni di comunicazione e di gestione di situazioni ambientali e naturali come la sua possono fare per il proprio futuro. Che deve vederne il rilancio in linea con le sue attrattive,  prima tra tutte l’atmosfera di favola che si vive nel borgo, il cui valore è incommensurabile in un mondo oppresso dall’affollamento e dalla congestione. 

Dinanzi a certe riprese di pienoni estivi nelle località più rinomate di villeggiatura viene da dire “via dalla pazza folla” e rintanarsi nel “nido delle aquile”, con tutte le straordinarie aperture che offre, per ritrovare la dimensione umana nello splendido borgo montano alle falde delle maggiori vette boscose dell’Appennino, immerso nel verde rigoglioso di una natura dal fascino ineguagliabile.

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Info

Per l’omaggio ai Vigili del fuoco di Bellinzona che ha aperto la manifestazione “Borgo in Arte”  v.  il nostro precedente articolo in questo sito il 28 ottobre u.s., con 13 immagini; per gli eventi a Pietracamela, in parte citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito,  per il “Premio pittura rupestre Guido Montauti”  14 luglio, 2 e 7 settembre 2014, per le mostre sugli antichi costumi montanari, lo sposalizio di una volta 15 luglio 2014, i bambini di una volta 14 agosto 2014, sul libro di Ernesto Sivitilli e “Pietracamela per l’Arte”  27 agosto 2013,  sui  libri di Clorindo Narducci 3 e 5 luglio 2016, sui libri di Gelasio Giardetti 10 e 13 giugno 2015,2 febbraio 2014, sul libro di Adina Riga presentato a Pietracamela 4 settembre 2014; sui temi collegati, i Parchi nazionali 16 e 19 marzo 2016, la “Vetrina del Parco” di Montorio 29 agosto 2015 e 3 ottobre 2013, per la manifestazione di “Teramo Nostra” con l’omaggio a Marco Pannella 28 novembre 2016;  in cultura.inabruzzo.it  per  il “Premio pittura rupestre Guido Montauti”  8 luglio 2014,  per la mostra sugli antichi costumi montanari,  lo sposalizio di una volta 15 agosto 2013, per “Il crollo del Grottone 3  e 5 settembre 2012, su “Pietracamela per l’Arte”  9 settembre 2013, per  “Il  rilancio di Pietracamela, il cuore del Gran Sasso” con il testo integrale della novella di D’Annunzio  22 giugno 2009, su “Il terremoto a Pietracamela”  21 aprile 2009,  per “Il  cielo sopra Pietracamela”  8 gennaio 2009;  sui temi collegati “Crognaleto, il cuore dei Monti della Laga” 29 luglio 2009 e “Festa della pastorizia nel Monti della Laga”  6 luglio 2009; in www.fotografarefacile.it  per la mostra fotografica  sul pittore Montauti nel Grottone settembre 2012.  Questi ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla manifestazione del 19 agosto 2017, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, la locandina con tutti i nomi degli artisti e protagonisti;  seguono,  il complesso “Le Galassie” nel “Belvedere Guido Montauti”, e due quadri esposti nella speciale “Street Art”  all’inizio della scalinata verso il vecchio comune; poi, i dipinti di Paolo Foglia lungo un’altra parte della scalinata nel centro storico, il primo è quello ispirato dal terremoto di Amatrice, e  un dipinto in primo piano sempre di Paolo Foglia; quindi, Francesco Barnabei nella sua performance poetica; inoltre,  4  fotografie in sequenza temporale cominciando dalla più antica,  di fine anni ’20, un ballo di giovani coppie in un pianoro di “Cima alta” detto “il laghetto” dalla mostra sugli “sposalizi di una volta” del 2013, nell’ultima coppia a destra si riconoscono Argene Paglialonga e Luigi Levante; poi, qualche decennio fa, i genitori sistemano Celestina e il fratellino sul basto di un mulo, inoltre, nel 1954, Francesco Bonaduce alla chitarra e Berardino Giardetti al mandolino in una stornellata festosa ai Prati di Tivo, a fianco in basso Osvaldo Trinetti che canta; nell’ultima foto  4 splendide nonnine negli abiti tradizionali; infine due momenti della danza  di Teresa Morisano; in chiusura, Romolo Intini impegnato nella dimostrazione dell’antico mestiere praticato d’inverno dai “pretaroli”, la cardatura della lana.

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Pietracamela, l’omaggio ai Vigili di Bellinzona nel “Borgo in Arte”

di Romano Maria Levante

Festa di fine stagione a Pietracamela, sabato 19 agosto 2017, con l’espressione della gratitudine per l’aiuto nell’emergenza neve dello scorso inverno ricevuto dai Vigili del fuoco di Bellinzona, oltre che dai corpi della Protezione civile di varie località italiane e dall’Esercito. Il riconoscimento è stato espresso in una cerimonia con la consegna da parte del sindaco di una Targa ai Vigili venuti dalla Svizzera in apertura della manifestazione organizzata dalla Pro loco, curata dal presidente Paolo Di Giosia con il direttivo di giovani attivi e motivati, intitolata “Borgo in Arte”. La festa, nel segno della cultura e della tradizione, ha presentato dipinti e fotografie artistiche nelle scale e nei vicoli del centro storico, un recital  poetico  e una danza coinvolgente in un angolo suggestivo,  fotografie d’epoca e lavorazioni laniere in diretta, anch’esse d’epoca; poi musica dal vivo con un complesso in posizione panoramica, il belvedere in cui si è svolta la cerimonia in onore dei Vigili di Bellinzona.

Pietracamela, dal 2005 nel club dell’Anci “I borghi più belli d’Italia”, nel 2007 “Borgo dell’anno”,  con le cinque stelle alpine di eccellenza, prepara il rilancio dopo l’emergenza con gli interventi sulle case inagibili dal sisma del 2009 e la messa in sicurezza del borgo con il definitivo consolidamento degli aggregati abitativi che rafforza anche le abitazioni non danneggiate.  

In questa situazione di attesa, che si protrae da troppo tempo, l’estate è stata inferiore alle aspettative, nonostante la ripresa turistica sul litorale abruzzese che ha visto, secondo i primi consuntivi, il tutto esaurito. Eppure è il paese-simbolo del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, parte della zona integrale alle falde delle vette più alte dei due Corni nel versante boscoso con i Prati di Tivo che salgono fino alla parte rocciosa in un declivio spettacolare sormontato dal  “Gigante che dorme”, il gruppo montuoso  di tipo dolomitico di grande fascino, da sempre palestra di escursioni e di scalate.

L’immagine di insicurezza seguita ai movimenti tellurici del 2009 e dell’agosto 2016 si fa ancora sentire, sebbene i danni, pur rilevanti, abbiamo riguardato le abitazioni più fatiscenti, anche se numerose, e soprattutto gli interni, per cui il borgo appare intatto, con le case di pietra nel centro storico arroccate le une unite alle altre, ricevendo da questa coesione e dalle antiche chiavi strutturali una maggiore capacità di resistenza. Quindi l’immagine generalizzata che associa in modo  sbrigativo questa e altre località montane d’Abruzzo alle zone più disastrate delle regioni colpite dal sisma prolungato va rovesciata, la ricettività nel paese è consistente in edifici sicuri, collaudati sul campo proprio dai movimenti tellurici durante i quali non hanno subito danni; e la sicurezza sarà accresciuta dalle opere di rafforzamento antisismico di tutti gli aggregati abitativi interessati.

Nel paese, d’inverno la popolazione residente è esigua, costituita in maggior parte di anziani, e sparsa nelle varie parti del borgo tra ampie zone disabitate,  oltre che ai Prati di Tivo e nella frazione di Intermesoli, per cui l’isolamento  è stato micidiale sul piano materiale e psicologico. Si può capire come in una situazione così difficile lo sciame sismico con le ultime scosse dell’anno scorso dopo il terremoto del 2009 pur senza arrecare troppi danni ha accresciuto le inquietudini.

L’opera della Protezione civile – con le Associazioni di volontari di Trento e Amalfi, il Soccorso alpino di Abruzzo, Toscana e Friuli-Venezia Giulia, l’Esercito con il X e XI Reggimento Genio, i Vigili del fuoco della Regione Abruzzo, mobilitati negli interventi per fronteggiare l’emergenza, cui si sono aggiunti i Vigili del fuoco di Bellinzona – è stata provvidenziale: si potrebbero chiamare  “angeli della neve”, come i volontari  dopo l’alluvione di Firenze furono chiamati “angeli del fango”.

Una neve caduta così in abbondanza in poco tempo, quindi con modalità inusuali rispetto alle consuete nevicate lunghe ma moderate, oltre a mettere fuori uso le linee elettriche vitali anche per le comunicazioni telefoniche bloccava i movimenti, e con lo spessore raggiunto impediva  di uscire dalle porte delle abitazioni  minacciando di sfondare i tetti,  trasformandosi poi in una coltre congelata dura e impenetrabile con una serie di effetti negativi a catena, fonte di ulteriori allarmi e angosce.

Gli “angeli della neve” sono intervenuti –  potremmo dire volati dato che gli elicotteri facevano la spola – e con la loro attività infaticabile e la loro stessa presenza rassicurante hanno dato agli abitanti i mezzi e la forza di superare l’emergenza. Per questo, meritoriamente, il sindaco di Pietracamela ha voluto dedicare a loro la festa con cui la stagione estiva si avvia alla conclusione, e dovendo scegliere un gruppo, per tutti i corpi che si sono prodigati, ha reso omaggio ai Vigili del fuoco di Bellinzona i quali, al di fuori del circuito nazionale della Protezione civile, sono accorsi spontaneamente dalla Svizzera e sono stati destinati a soccorrere, tra gli italiani, i “pretaroli” bisognosi di aiuto.

I soccorsi nell’emergenza neve rievocati dal Sindaco

Sono venuti alla festa otto Vigili del fuoco di Bellinzona, in rappresentanza dei 18 vigili del contingente, con il loro comandante. Il sindaco Michele  Petraccia ha espresso la gratitudine della comunità con un intervento molto sentito nel quale ha sottolineato l’importanza della loro azione anche sul piano psicologico, oltre a quella più evidente sul piano materiale. Nel  risolvere gli infiniti problemi pratici, per molti versi vitali, con la loro sperimentata competenza, hanno svolto di fatto l’opera altrettanto importante di rassicurare tutti con la loro fattiva presenza, così la comunità non si è sentita più in balia degli eventi ma aiutata e sostenuta, e ha potuto ritrovare vigore e fiducia.

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ll comandante, ten. col. Samuele Barenco, ha risposto ringraziando in modo non rituale con accenti sinceri, anch’egli preso dall’emozione. La consegna da parte del sindaco di Targhe con espressa la riconoscenza è stata ricambiata con il Gagliardetto del corpo perché possa restare sempre esposto in municipio a ricordo di un evento così gratificante.

Ha detto il sindaco che molto avrebbe potuto raccontare sull’emergenza che è stata fronteggiata con l’aiuto decisivo dei soccorritori, ma doveva limitarsi a manifestare la gratitudine che resterà sempre per l’opera compiuta, in particolare dai Vigili di Bellinzona, con generosità, altruismo, dedizione.

L’interesse giornalistico ci ha spinto a chiedergli  di ricordare quei momenti che hanno segnato il prezioso lavoro dei vigili, e non si è fatto pregare, come primo cittadino responsabile della comunità sente di avere un debito di riconoscenza anche sul piano personale, tanto si è sentito coinvolto.

“Ho dovuto fronteggiare una situazione da stato di guerra, si sono trovate a lavorare insieme fino a 80 persone in spazi così ristretti. Il personale è stato sistemato in modo accettabile, i vigili di Bellinzona dormivano nei locali dove una volta c’era l’asilo e si facevano la doccia nell’albergo del borgo”. Al loro arrivo il sindaco ha chiesto al comandante, “Che cosa avete?”, e gli è stato risposto “Che cosa vi serve?”. Perché “avevano tutto, compresi tre mezzi dalle dimensioni giuste per aprire i varchi necessari nella massa nevosa muovendosi negli stretti vicoli e sulle ripide scalinate del centro storico”.

Hanno preso in mano la situazione adattandosi perfettamente alle particolari condizioni dei luoghi.  Con la loro sperimentata esperienza e grande professionalità hanno affrontato e risolto i problemi che si susseguivano uno dopo l’altro per  ripristinare un minimo di sostenibilità. C’era da assicurare i collegamenti vitali superando la massa di neve che impediva di spostarsi nel paese, di raggiungere Intermesoli e i Prati di Tivo a 1500 metri dove addirittura la neve caduta, ripetiamo, era arrivata a 4 metri di spessore, mentre nel borgo, alla quota di 1000 metri, aveva superato i 2 metri raggiungendo finestre e balconi ai primi piani; e con il suo peso soverchiante minacciava di sfondare i tetti, prontamente liberati dai vigili.

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I rifornimenti di viveri per elicottero – ne volteggiavano fino a 6 o 7 –  gli abitanti radunati nell’albergo in paese; dalle casette a pianterreno del NAP costruite dopo il terremoto del 2009 sono stati tirati fuori gli occupanti imbragandoli per superare la barriera di neve; dai Prati di Tivo si sono dovuti evacuare tutti per il pericolo costituito dalle valanghe scendendo con l’unico mezzo possibile, il “gatto delle nevi”, e con tanta difficoltà perché doveva segnare il tracciato come per le piste da sci.

“L’opera dei vigili di Bellinzona è stata preziosa e, va ribadito, quanto mai generosa, la gente del paese appena li ha visti arrivare per la cerimonia che ha aperto la festa li ha riconosciuti e accolti con affettuosa gratitudine; sono passati pochi mesi, ma di certo li ricorderà negli anni a venire”, ci tiene a dichiarare il sindaco. E’ un calore che va ben oltre le formalità rituali, così fascia tricolore e inno nazionale sono apparsi segni tangibili del grande valore civile e umano delle targhe conferite.

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Un flash sulle iniziative per il borgo, nelle parole del sindaco

Non finisce qui l’interesse, ma non è soltanto giornalistico, è anche personale di chi scrive, perché Pietracamela è il paese natale cui si rimane legati da un vincolo indissolubile.

Siamo nel 2017, proclamato “Anno dei Borghi” dal Ministro dei Beni e le Attività Culturali e il Turismo Dario Franceschini con una mostra alle Terme di Diocleziano a Roma che per oltre un mese ha dedicato singole giornate alle varie regioni, il 7 giugno è stata la giornata dell’Abruzzo. Questi territori sono venuti alla ribalta nazionale, perciò è il momento di chiedere  al sindaco un flash  sulle iniziative in un borgo già colpito dal sisma dell’aprile  2009 con la successive minori scosse dell’agosto 2016, prima dell’emergenza neve; ma che deve e può rilanciarsi all’insegna dei suoi pregi straordinari, per l’ambiente in cui è immerso, e la sua struttura urbana: dal centro storico arroccato tra scalinate e archi, anditi e camminamenti, alla parte meno antica, in un’atmosfera da favola, una sorta di fiaba vivente offerta ad abitanti,  turisti e visitatori.  

Dal 2005 è  nel club dell’Anci “I borghi più belli d’Italia”, è stato “Borgo dell’anno 2007”, ha avuto il sigillo dell’eccellenza, le cinque stelle alpine, ricordiamo ancora questi riconoscimenti per ribadire  che non possono restare limitati al valore simbolico senza avere un’adeguata valorizzazione turistica.  

Solo un flash gli abbiamo chiesto, e anche a questo riguardo il sindaco non si è fatto pregare. Ci limitiamo ad accennare alle iniziative che ha citato per tre temi cruciali su cui si è soffermato maggiormente.

Il primo tema la sicurezza: nel borgo. “Per il prossimo inizio dei lavori di risistemazione, consistenti nel  riattamento delle abitazioni inagibili, si stanno attivando i vari consorzi che, in aggiunta agli interventi sulle singole abitazioni, metteranno in sicurezza definitivamente gli aggregati in cui sono arroccate le une unite alle altre; si stanno superando le ultime difficoltà che hanno impedito finora di iniziare i lavori, non ultime le verifiche dopo il sisma dello scorso anno”. Osserviamo che per prossimo inizio si intende ormai la primavera del 2018, a ben 9 anni dal terremoto della primavera del 2009!  Il sindaco ci fornisce questa notizia che non conoscevamo: “Ai Prati di Tivo  per scongiurare il pericolo di valanghe è in fase avanzata il progetto per un sistema modernissimo di difesa, mediante apposite apparecchiature nella parte superiore del lungo declivio, che emettendo aria a pressione eviteranno il formarsi di masse nevose pericolose: sono stati già risolti i problemi di finanziamento, l’installazione sarà a cura dell’unica ditta super specializzata”. Ci auguriamo che l’iniziativa vada in porto senza intoppi, e che non ci siano nuovi rinvii, comunque motivati, ai lavori di riattamento in paese, da troppo tempo in programma. 

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Il secondo tema  la ripresa economica.  “I lavori di riattamento delle abitazioni inagibili e di  consolidamento degli aggregati, che investiranno larga parte del paese, sono di entità tale da rappresentare una linfa vitale nell’economia del territorio per la vasta mobilitazione di imprese, lavoratori e mezzi”.  Riteniamo di poter aggiungere che  dovranno venirne vantaggi per i pochi esercizi e operatori economici del paese nella ristorazione e ricettività, nonché per le due piccole unità artigianali attive nei settori interessati, in particolare termoidraulico ed elettrico: sono risorse locali limitate, preziose per essere disponibili in loco e competitive, da utilizzare al completo perché acquisiscano nuova forza e prospettive di sviluppo e possano così garantire stabilmente servizi essenziali agli abitanti del borgo e ai turisti, nell’interesse di tutti, e in particolare delle istituzioni del territorio: dal Comune di Pietracamela alla Provincia di Teramo, alla Regione Abruzzo fino al Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Le imprese edili  che abitualmente operano nel territorio, alle quali andrebbe data priorità rispetto alle altre a parità di offerta, dovrebbero tenerne conto aggregandole, altrimenti si tratterebbe di una inaccettabile colonizzazione.

Il terzo tema il rilancio turistico.  In parte è collegato ai primi due, in parte è autonomo perché richiede una promozione adeguata. Per questo, precisa il sindaco, “il 2 e 4 aprile scorso ho fatto partecipare alla Borsa Italiana del Turismo Pietracamela, che è stato uno dei due comuni della provincia di Teramo presenti, e  tra il 27 e il 29 ottobre prossimi sarò al Salone Internazionale Svizzero delle Vacanze di Lugano, che fa parte del circuito delle più importanti fiere europee del settore. Ho aperto il sito ‘discoverpratiditivo’,  nel titolo la località sciistica ma nel contenuto anche il borgo, è collegato ai social network, da Facebook a Twitter a Instagram, che danno la massima visibilità e sono lo strumento di comunicazione e soprattutto promozione al passo con i tempi”.  Lungo questa direttrice crediamo si rendano necessarie iniziative idonee per interessare grandi operatori turistici ad orientarsi verso un territorio che ha suscettività e attrazioni naturali ben superiori a località, anche dell’Appennino, verso le quali vengono rivolte attenzioni maggiori. Dopo la lunga stasi commissariale occorre promuovere il rilancio ormai improcrastinabile operando con creatività e dinamismo anche mediante soluzioni innovative. 

Il sindaco assicura di avere ben presente l’importanza dei contatti con le comunità di pretaroli all’estero,  che rappresentano una risorsa di grande valore nell’accezione del paese allargato a comprendere, oltre ai residenti che ovviamente hanno il ruolo primario, gli emigrati, e sono tanti, e quelli che Giammario Sgattoni chiamava “i fuorusciti” in varie parti dell’Italia, i quali tornano sempre nel paese natale pur senza risiedervi. Gli oltre 800 contatori dell’acqua appena collocati dalla “Ruzzo Reti”, un numero impensabile rispetto alle scarse presenze stabili, testimoniano come allo spopolamento che accomuna il borgo alla gran parte dei paesi di montagna, non corrisponda l’abbandono, tutt’altro;  lo si vede, oltre che dai ritorni frequenti dei “nativi”, dalla cura esemplare con cui viene mantenuto l’ordine e la pulizia nell’abitato.  

Anche da questa cura deriva l’atmosfera da favola che si respira nel borgo: nella rete di vicoli e scalinate, anditi ed archi nessun segno di incuria nella gestione della pulizia urbana a turbare il clima fiabesco. L’addetto comunale Carlo che ne è l’artefice ci parla dell’educazione ricevuta, i suoi gli dicevano che un paese si giudica anche dall’assenza di ciuffi di fili d’erba ai bordi dei vicoli come effetto di una manutenzione accurata, di qui il suo estremo impegno per l’ordine e la pulizia.

Il flash sulle iniziative termina qui, trattandosi di un intermezzo in uno spazio dedicato alla manifestazione di chiusura della stagione estiva. Immergiamoci dunque nella festa  del “Borgo in Arte”, dopo l’omaggio ai provvidenziali Vigili del fuoco di Bellinzona che l’ha aperrta con un momento particolarmente significativo. Ne parleremo prossimamente.

Info

Sulla festa “Borgo in Arte”, aperta dalla cerimonia in onore dei Vigili del fuoco di Bellinzona, v. il nostro articolo che uscirà il  1° ottobre p. v., con altre 13 immagini, nel quale saranno citati pure i nostri precedenti servizi su Pietracamela e dintorni. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla cerimonia del 19 agosto, come le altre immagini, del paese, meno quella di chiusura esposta nel centro storico, con altre fotografie d’epoca, nella festa del “Borgo in Arte”. In apertura, il Manifesto con l’abbraccio del Comune ai Vigili, e una veduta panoramica della parte più antica del paese, “la Terra”, ripresa dal Monte Calvario; seguono le immagini della cerimonia, la consegna della Targa con la gratitudine del Comune da parte del sindaco Michele Petraccia al comandante dei Vigili di Bellinzona e un momento dell’intervento del comandante ten. col. Samuele Barenco che ha ringraziato, poi i vigili intervenuti alla cerimonia e la sua conclusione con il sindaco mentre mostra il Gagliardetto del Corpo ricevuto dai vigili e il comandante dei vigili, tra i suoi uomini, con la Targa ricevuta dal Comune; inoltre una inquadratura evocativa delle strette scalinate del centro storico liberate nella grande nevicata con gli appositi mezzi antineve, e 4 momenti della festa “Borgo in Arte” aperta dalla cerimonia in onore dei Vigili di Bellinzona, cioè alcuni quadri all’inizio della scalinata sotto l’arcata del centro storico verso il vecchio Municipio,  foto d’epoca su un’antica porta, la ballerina Teresa Morisano in un momento della sua danza acrobatica che la vede in posizione eretta, e Romolo Intini nell’antico mestiere pretarolo della “cardatura” della lana; infine una veduta panoramica della parte meno antica del paese, “la Villa”, ripresa dalla balconata del belvedere sotto “vena Grande” a Sopratore; in chiusura, la foto d’epoca con la neve nella parte antica vista dalla Chiesa madre,a sin. la Porta che era in origine all’ingresso di Pietracamela.

“Uncinematic” di George Drivas e “Corpo a corpo”, con i “Leoni” della Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dal 22 giugno al 24 settembre  2017, due  mostre contemporanee:  “/Uncinematic” di George Drivas, con una serie di cortometraggi , “Closed Circuit”,  e la trilogia “Social Welfare”, “Empirical Data”  e “Sequence Error”, fino a “Kepler”, in un linguaggio narrativo che mette in relazione ambienti e architetture alienanti con situazioni e soggetti immersi in un’atmosfera di sospensione; e  “Corpo a corpo-Body to Body”, con 15 artisti  che esprimono, soprattutto con il mezzo fotografico, l’autodeterminazione della donna, dagli anni ’60 e ’70 al periodo attuale. Dall’apertura delle due mostre sulla scalinata di accesso e nel largo antistante sono collocati i “Leoni”, di Davide Rivalta, come simbolo e metafora allusiva.

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Il “Time is Out of Joint” dell’arte, e i “Leoni” di Rivalta

Una sorta di ideale trilogia espositiva, dunque, nell’intensa attività espositiva della Galleria Nazionale che si sta rilanciando all’insegna del “Time is Out of Joint”,  un “tempo, mondo, natura, fuori squadra, disarticolato, sconnesso” che, nella parole della direttrice Cristiana Collu, “va ricomposto, ‘messo al diritto”,  e questo creando “nuove inaspettate relazioni nello spazio simbolico del museo. Relazioni che non rispondono alle ortodosse e codificate leggi della cronologia e della storia (dell’arte), ma si muovono assolte e svincolate in una sorta di anarchia che… non ha nulla a che vedere con il disordine, ma si appella a qualcos’altro che viene prima delle regole”. 

Di qui la riorganizzazione delle sterminate collezioni che contano circa 20.000 opere, in base a un criterio che “supera la consueta trama cronologica e si dirama in percorsi simultanei in cui le opere sono accostate per assonanze, rimandi e citazioni”.  E gli artisti, dall’800 ai giorni nostri? “Insieme ai grandi nomi della storia dell’arte, le opere di artisti contemporanei italiani e stranieri permettono un’apertura dello sguardo a stimoli e situazioni differenti”.  Questo il risultato atteso: “Rileggendo le opere in situazioni diverse da quelle in cui si erano originariamente formate, si moltiplicano le prospettive e le letture possibili”.

Nell’ambito della mostra permanente dello storico museo così riorganizzata si inseriscono le mostre temporanee, che hanno visto le fotografie e i video, le pitture e le sculture dell’allusivo  “L’intervallo e la durata”, poi l’originale novità del “Beauty Contest”,  l’inedito “concorso di bellezza”  ideato da Paco Cao, tra personaggi femminili e maschili raffigurati nei dipinti selezionati appositamente, e infine la mostra di “Guido Strazza, Ricercare”, un viaggio intrigante nel suo mondo che alla forma e al colore sostituisce, per così dire, il segno, sul quale ha costruito una teoria oltre che una pratica magistrale nell’incisione e in altre forme espressive.

Le due nuove mostre contemporanee sono accompagnate dall’installazione dei “Leoni/Lions” di Davide Rivalta sulla scalinata nella quale campeggia la grande scritta in bianco “Time is Out of Joint”. Sono accoccolati in varie positure, di colore tendente al marrone ma più scuro della realtà che li rende quasi irriconoscibili a distanza dato che la loro presenza, come si legge nella presentazione, “si sottrae alla statuaria: nella visione ravvicinata, infatti, la figura, senza per questo dissolversi, cede il passo al gesto formante, all’evidenza magistrale della somiglianza e si offre come magistrale risultato di un processo in atto”., una “verisimiglianza naturalistica”  nella “sospensione di un istante che mantiene una distanza proprio mentre l’oltrepassa””.

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 “Hic sunt leones”, viene proclamato,  e alla loro presenza viene dato un duplice significato, oltre al riferimento alla storia della Galleria. Il leoni diventano “simbolo e metafora dei territori inesplorati, delle terrae incognitae dell’arte” , che dovranno essere ancora scoperte o resteranno segrete ma custodite, queste ultime forse per alludere allo sterminato giacimento culturale dei depositi con le opere non aperte al pubblico;  e  nello stesso tempo sono l’espressione dell’atteggiamento  richiesto in “un luogo  dove ospitare e abitare l’utopia, dove avere coraggio, energia, forza, sempre all’erta. vigili e pronti allo scatto al di là di ogni mansueta apparenza”. 

“Vaste programme” avrebbe detto De Gaulle,  ma noi confidiamo che venga realizzato.

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 /Uncinematic,  video sull’alienazione e la solitudine

Il titolo della prima mostra della nuova stagione della Galleria Nazionale, “L’intervello e la durata”, potrebbe riassumere in qualche misura le “performance” cinematografiche di George Drivas  che nella mostra curata da Daphne Vitali  vediamo in diverse salette dove vengono  presentati cortometraggi insoliti, con  fotogrammi singoli che però non hanno la fissità dell’immagine fotografica, dato che vengono sostituiti da fotogrammi successivi con i quali, però, non si realizza il movimento ma si dà il senso di una sospensione.

L’intervallo tra un fotogramma e l’altro e la durata della sospensione creano un clima di “suspence”  mentre si cerca di ricostruire mentalmente una storia evocata nel video in modo criptico.  Un esercizio che fa seguire le immagini mettendo alla prova la propria capacità di intuire e collegare.

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E’ un procedimento tecnicamente molto semplice che si basa su un elemento ben noto: l’immagine cinematografica in movimento deriva dalla successione di una serie di fotogrammi singoli, 24-25 al secondo, perciò, prendendone soltanto alcuni,  l’immagine diviene fissa ma, essendo fotogrammi in sequenza intervallata anche se discontinua, si crea, nelle parole dell’autore, “una pausa provocatoria, un dettaglio, un interessantissimo ‘niente'” che viene riempito dall’attesa ansiosa dell’osservatore, tanto più che l’ambiente rappresentato lo merita. “Alla fine tutte le mie opere, afferma Drivas, prendono forma dagli elementi mancanti; traggono il loro significato da quello che non dicono, da quello che non mostrano”.

Non si tratta di un espediente per accrescere la resa spettacolare del filmato, è qualcosa di ben più ambizioso, attiene agli intenti e ai contenuti: “La mia opera sfida il pensiero lineare, l’approccio causa-effetto, la narrazione inizio-sviluppo-fine”. E questo perché “si ferma, riparte, si congela, lascia intervalli aperti  e domande senza risposta. Talvolta non ha un vero inizio o una vera fine”. E, nei contenuti: “E’ una fetta di storia, la parte mancante di un film. Il suo pieno significato risiede nella piena partecipazione dello spettatore, in un certo modo, richiede l’attivazione della creatività dello spettatore. Lo spettatore deve riempire i punti mancanti, porre le domande importanti e dare le risposte”. 

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Ci torna in mente la nostra esperienza giovanile, allorché si entrava nel cinema ad ogni ora, senza porre attenzione all’orario di inizio del film, per cui ci si trovava a sforzarsi di immaginare cosa era avvenuto prima per poter seguire la vicenda che continuava a sciorinarsi sullo schermo senza conoscere le premesse, né riguardo ai personaggi né riguardo alla vicenda, capitava anche di vedere prima il secondo tempo e poi il primo tempo con le conseguenze immaginabili. Si dovevano “riempire i punti mancanti”, ed erano tanti, ci si ponevano “domande importanti”  e si era costretti a “dare le risposte”, come  ci indica oggi Drivas nella sua stimolante provocazione.

La sua opera ha suscitato riflessioni sul rapporto tra fotografia e cinema, e sulle diverse implicazioni che derivano dall’immagine fissa e da quelle in movimento. La curatrice afferma che “l’immagine fissa, a differenza della ‘presenza’ filmica dell’immagine in movimento, è la ‘registrazione’ di qualcosa che appartiene al passato”  e cita il saggio di Roland Bathes  secondo cui  “il cinema, proprio in ragione del movimento, perde la sua relazione con la temporalità dell’immagine fissa”, e l’affermazione di Laura Mulvey che “rallentando diventano visibili momenti e significati chiave che non erano percepibili quando si celavano dietro il flusso narrativo e il movimento del film”.   

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Forse proprio per questo Drivas si definisce non regista o sceneggiatore ma “documentarista”,  e chiama i suoi filmati “documentari” per sottolineare l’aderenza alla realtà anche se poi le nega l’evidenza assoluta: “Che cos’è reale e cosa non lo è? Come possiamo provare la differenza, come possiamo concordare su ciò che è reale, come possiamo capire la documentazione, qualunque cosa significhi?”. La risposta risiede nella consapevolezza dei propri limiti ma anche del proprio potenziale che può consentire di superarli, in modo da poter “comprendere e accettare un fatto, progettare la struttura all’interno della quale ci muoviamo e, in sostanza, esistiamo”.

Ma andiamo ai contenuti delle sue opere documentaristiche, partendo da come sono costruite le sue storie. “I suoi eroi, secondo la Vitali, sono personaggi spersonalizzati, esseri senza passato e senza futuro, senza identità, e spesso senza nome. L’architettura e gli elementi architettonici assumono un ruolo di grande rilevanza, dando forma ai suoi fotogrammi stilizzati”. Il clima che ne deriva è di sospensione, in un’atmosfera di solitudine e spaesamento, in definitiva di alienazione. “Tempo e durata diventano concetti fluidi, persino insignificanti o irrilevanti”.

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Quindi “i suoi film potrebbero essere visti ovunque  e in qualunque momento, nel futuro o nel passato perché trasmettono un sentire futuristico  e. al tempo stesso, retrospettivo”. Sommano, quindi, le caratteristiche opposte attribuite alla visione cinematografica in movimento  e all’immagine fotografica fissa, e del resto il procedimento è a metà, reiterando immagini fisse in sequenza con una progressione incessante.

Ne risulta, osserva Saretto Cirinelli, che non ci troviamo mai né di fronte al cinema-cinema né alle fotografia-fotografia  ma ad una sorta di fusione a freddo dei due”. E aggiunge:  “Grazie alla sua ineluttabile dimensione documentaria l’immagine fotografica,quand’anche proposta in proiezione non duplica il tempo, come fa il cinema, ma lo sospende, lo gela, e nel far ciò, appunto documenta il suo immobile trascorrere… e induce tacitamente l’osservatore a dissolvere la stasi  di ciascuna immagine per supplire a quelle mancanti”. 

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Ciò lo pone in una situazione psicologica di tensione, a prescindere dal motivo. E’ questo il risultato, fermando l’immagine si crea ogni volta la “suspence” che invece nel filmato cinematografico nasce soltanto nei momenti conclusivi o in situazioni chiave; qui l’abbiamo nel normale sviluppo di storie rese criptiche ed enigmatiche ad ogni passaggio di fotogramma del quale si ignora quello immediatamente successivo.

Il  resto lo fanno i protagonisti, definiti prima nel loro carattere misterioso, e gli ambienti: in esterno facciate di grattacieli e grandi edifici in costruzione, di cui i fotogrammi fissi dilatano l’imponenza spesso incombente sui personaggi inermi dinanzi a tali dimensioni smisurate; effetto che negli interni di stazioni o nei vastissimi atri e sale di grandi “corporation”  alimenta la profonda solitudine e l’atmosfera di alienazione.

Il tutto è molto realistico, fa rivivere situazioni personali vissute nelle normali vicende della vita, quando le situazioni ambientali esterne opprimenti hanno la proiezione interiore nel senso di angoscia e spaesamento che prende quando ci si sente soli dinanzi a soggetti ostili. Ci ricordano l’atmosfera opprimente del primo film di Ermanno Olmi, “Il posto”, inizio anni ’60, premio della giuria al Festval di Cannes, con i concorsi e i colloqui, le ansie e le attese dei protagonisti.http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1633f205bd0.jpg

Le misteriose storie metropolitane di /Uncinematic

Sono cortometraggi di lunghezza diversa, i più brevi  “Closed Circuit”   e “Development Plan” durano meno di 5 minuti, il più lungo “Empirical Data”  34′; intermedi  “Beta Test” e “Case Study” , “Sequence Error” e “Kepler” tra i 10′ e i 15′.  Vi sono icastici messaggi di marca prettamente informatica, alcuni con delle conclusioni di ordine manageriale che orientano molto sommariamente sull’intreccio della vicenda, ma se ne può prescindere dando anche diversi significati, non ha rilevanza la storia sottesa alle immagini quanto il clima che le stesse creano.

Il primo, “Closed Circuit”, 1955, riguarda un’indagine su un crimine che viene soltanto immaginato, ma si dichiara che è un caso irrisolto; ciò che si vede sono due individui, un uomo e una donna, prima isolati, poi che si allontanano insieme, fino alla misteriosa scomparsa, forse un amore che degenera nel presunto crimine,  il mistero regna sovrano.

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M intendiamo soffermarci sulla trilogia “Social Software”, realizzata negli anni successivi,  che  ripete situazioni dell’opera precedente e  comprende due storie,  anch’esse con un protagonista maschile e uno femminile, e la storia di una città, Berlino, dove si svolgono le due vicende. Il titolo  evoca il prodotto informatico di comunicazione, si riferisce a una missione per verificare un programma.  

Oltre ai protagonisti sono in grande evidenza gli edifici pubblici, non fanno da sfondo, sono fondamentali nel  creare il clima delle vicende, come osserva la Vitali: “Attraverso la freddezza dell’architettura modernista e la poesia degli spazi vuoti catturati, i personaggi rispecchiano l’incertezza  e la lotta per l’autodeterminazione  e la comunicazione in un agglomerato urbano contemporaneo”.

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La prima storia, “Beta Test”, 2006, mostra due protagonisti  impegnati  nella prova di un software, ma all’inizio sembrano essi stessi sottoposti alla prova e manipolati o almeno osservati, quasi in una inversione dei ruoli con le macchine,  per poi cercare di sottrarsi al controllo riaffermando la propria volontà.  Entrambi con il cappotto, l’uomo il maglione con il collo alto, la donna l’abbottonatura anch’essa stretta al collo, sempre insieme, prima piccole figure in una grande scalinata, poi in ambienti chiusi ristretti, tutti simboli legati all’evoluzione della storia, pur misteriosa.

Di “Case Study”, 2007,  ricordiamo immagini di scale mobili della stazione,  poi il sottopassaggi e l’atrio, fino all’esterno con una figura di donna sola, un cappotto scuro sempre nell’ombra. Nessun’altra persona intorno e neppure sullo sfondo, evento raro nelle stazioni, quindi significativo, è come se dai due personaggi della prima storia si passasse ad uno solo per qualche motivo.

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Questa dissolvenza si completa nella terza parte, “Development Plan”, 2009, nessuna figura umana, ma immagini di grandi caseggiati, facciate imponenti, viali deserti delimitati da alti edifici,  in primi paini e campi lunghi, quasi a voler giustapporre la riqualificazione urbana a quella personale.

Accostiamo all’ultima storia “Kepler”, 2014, pur riguardando la città di Tiblis in Georgia e non Berlino,  perché presenta altre immagini di grandi edifici, di un progetto urbano  controverso,  e riguarda l’ambiente e il rischio tossico, per questo prende nome dall’ultimo pianeta scoperto  che potrebbe essere abitato, oltre ai caseggiati immagini inquietanti di armadi con reperti nei liquidi.

Per ultime, anche se precedenti,  abbiamo lasciato “Empirical data”, 2006, e “Sequence error”, 2011, perché fanno sentire  la solitudine e l’alienazione dell’individuo indifeso nell’ambiente ostile, in questo casi quello dell’accoglienza e delle grandi “corporation”.

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In “Empirical data” viene seguito un  georgiano immigrato in Grecia nelle difficili fasi del suo inserimento e dei tentativi di integrazione. Vediamo lunghe sequenza su un ponte, con un accompagnatore, finché lo saluta, e si allontana, sempre  sul ponte che sottolinea la sua solitudine; dalla solitudine al gelo della “receptionist”  che lo attende seduta a un tavolo, e alla “suspence” dei successivi incontri valutativi di vari “formati”, con tre persone intorno a un tavolo, poi a tu per tu  con uno di loro in un buio angosciante, fino all’uscita seguita da una presentazione a una platea. I messaggi informatici parlano di parametri, comportamento e vigilanza, fino a concludere sembra con valutazione positiva sulla capacità di collaborazione.

“Sequence Error” utilizza il termine informatico che indica l’errore di sistema quando gli elementi di una sequenza non seguono l’ordine prestabilito per definire ben altra crisi di sistema, quella che porta l’azienda ai licenziamenti sovvertendo la normale regolarità del suo sistema interno.  Vediamo la scena in cui il dirigente comunica la notizia a un certo numero di dipendenti seduti intorno a tavolo, poi  il singolo dinanzi alla commissione ristretta, fino al singolo solo con se stesso in un’attesa sconsolata. Un gelo maggiore di quello visto prima intorno all’immigrato georgiano.

Ma le storie sono secondarie, ciò che conta, sottolinea la Vitali,  è “la narrazione di spazi urbani deserti, che sottolineano la solitudine, l’incertezza e l’ansia,  come nei film neorealisti italiani. Inoltre, l’alienazione nelle opere  non  si manifesta soltanto in ambienti urbani esterni, ma anche in  ambienti interni. Gli elementi architettonici possono simboleggiare sentimenti muti: in particolare, le pareti illustrano la capacità (o l’incapacità) dei personaggi di stabilire relazioni reciproche”.

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Abbiamo cercato di illustrarlo, come abbiamo cercato di rendere la più generale peculiarità della forma espressiva basata sul fermo immagine in sequenze fisse ma provviste di una loro dinamica, terreno sul quale si era mosso Andy Warhol nel suo “Empire”  ma con modalità diverse,  riprese  a camera fissa di soggetti statici.

La migliore conclusione crediamo possano essere le parole di Drivas  su questo suo procedimento innovativo: “Basati su immagini fisse, i miei film procedono e si bloccano allo stesso tempo, raccontano una storia e interrompono la narrazione ogni volta. Funzionano come intero, come un’unità singola, quando in realtà sono costituiti da frammenti, da piccole parti e da dettagli.”.  Con questi effetti: “Ogni mio lavoro si sviluppa lungo due direzioni: da un lato la linearità , la narrazione, il racconto di qualcosa che procede e che si sviluppa, dall’altro l’irreale, la pausa, il dimenticarsi di come andrà a finire, congelati nel momento fotografato” .  In altri termini: “Una ‘lentezza velocizzata’ simile al non-ritmo dei sogni, una rapidità percepita in maniera quasi ipnotica, cosicché il tempo e la durata diventino quasi irrilevanti…”.

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 “Corpo a corpo, Body to Body”, di scena l’autodeterminazione femminile

La seconda mostra, curata da Paola Ugolini,  contemporanea a “/Uncinematic”,  ripercorre il cammino dell’autodeterminazione femminile,  attraverso le opere di 15 artisti nelle diverse fasi in cui il processo si è manifestato, dagli anni ’60-’70 al presente .

Ma prima di accennare  a tali contributi, va rilevato che la forma espressiva comune è quella che utilizza il  linguaggio del corpo, la cosiddetta “Body Art”, diffusasi all’inizio degli anni ’60 dopo gli happening della fine degli anni ’50  in America con John Cage e il suo allievo  Allan Kaprow e in Giappone con il gruppo Gutai. Il collegamento è costituito dal comportamento, preso come elemento centrale, prima negli happening, poi nella traduzione artistica,  ma soggetto protagonista e comunque canale del comportamento è il corpo.

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La “Body Art” comprende una serie di espressioni artistiche diverse, e a questo riguardo va ricordato che  la sua diffusione avviene allorché i confini tra le varie forme tendono a cadere fino ad una fusione delle diverse arti, anzi si parla addirittura  di sparizione dell’opera di tipo tradizionale, quadro e scultura, per assumere il corpo come strumento espressivo. L’inscindibilità tra arte e vita, alla base degli happening ricordati ma in effetti già di matrice dannunziana, viene  considerata anche come riferimento della Body Art.    

In questo quadro è naturale che il tema dell’autodeterminazione della donna venga espresso attraverso immagini in cui il corpo è protagonista, con scene anche di quotidianità personale o familiare, con sottolineature a particolari considerati significativi se non emblematici.

Negli anni 1960-70, la disparità tra uomo e donna era vistosa,  anche in campo artistico la loro presenza nelle grandi rassegne espositive era esigua, ancora nel 1975 Ketty  La Rocca scriveva alla critica americana  Lucy Lippardi che “ancora, in Italia, essere una donna e fare il mio lavoro è di una difficoltà incredibile”.  Su questa condizione  di  netta inferiorità  della donna in campo sociale  si esercitano le opere di Marina Abramovic con Ulay e Sanja  Ivakovic, Ketty La Rocca e Gina Pane, Suzanne Santoro e Francesca Woodman.

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Lo strumento prescelto è soprattutto quello fotografico, insieme a forme performative, viene ricordato che sin dai primi anni ’60 le artiste se ne servirono “per continuare lo scardinamento del linguaggio e dei mezzi espressivi classici e sottolinearne l’inadeguatezza”, mentre il linguaggio veniva considerato inadatto ad esprimere stati d’animo particolarmente complessi.

Una lotta che porta a indubbi risultati, dagli anni  70 la situazione va cambiando positivamente, sulla spinta femminista si ha la riappropriazione del corpo con l’autodeterminazione e la libertà sessuale, in campo artistico viene rivendicata maggiore apertura e qualcosa si muove, sempre più rapidamente. L’arte diventa strumento “esteticamente e socialmente efficace allo stesso tempo”, come affermava  Lucy Lippard, aggiungendo che era caratterizzata “da un elemento di divulgazione e da un bisogno di connessione di là dal procedimento e dal prodotto”.

Le opere esposte che riflettono questa fase di positivo riequilibrio di posizioni sono delle artiste dell’ultima generazione, la coppia formata da Eleonora Chiari e Sara Goldschmied,  Chiara Fumai e Silvia Giambrone, Valentina Morandi e Alice Schivardi  , fino al collettivo artistico con sede a Parigi di Claire Fontaine.  Il linguaggio è quello della destrutturazione visiva, con fotografie, collage e video, e resta il più adatto ad esprimere sentimenti e concetti difficili da rendere con altri mezzi espressivi dell’arte, compreso il linguaggio. D’altra parte, per contemperare  le ragioni dell’estetica con quelle della politica sono questi gli strumenti artistici che risultano  più adeguati.

Ci sono anche due testimonianze artistiche maschili. quasi a voler dimostrare che le donne non sono state lasciate sole nella battaglia per vedersi riconoscere la parità di diritti, ed è stato giusto ricordarlo. Sono Claudio Abate, con due fotografie molto diverse, le persone sono accoccolate ai margini di una vastissima sala, forse una palestra, oppure si muovono in piedi su una piccola piattaforrma, e Tomaso Binga, che con “Alfabetiere pop”, 1977, presenta i cartelloni per il primo apprendimento dei bambini con inseriti piccoli corpi femminili nudi nelle posizioni più varie, spesso acrobatiche, nell’illustrazione delle parole “dado” ed “erba”, “imbuto” e “luna”, “rosa” e “uva”, “vaso” e “zappa”: l’innocenza infantile, quindi, di fronte a evocazioni tutte da interpretare, comunque tormentate.

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Visitando la galleria soprattutto fotografica ci si immerge nella quotidianità e nelle altre situazioni con le quali viene resa la lotta per l’emancipazione. In altre mostre di alcuni anni fa è stata illustrata l’evoluzione nel ruolo della donna, nei più diversi settori della società e momenti storici; questa volta l’angolatura è diversa, squisitamente artistica, con la denuncia degli abusi che vorremmo relegati al passato, purtroppo i  ricorrenti femminicidi sono continua fonte di sgomento e di orrore.

Renate Bertlmann presenta una sequenza, “Deflorazione in 14 stazioni”, 1977, in cui il linguaggio del corpo si manifesta con  fotogrammi di gesti rapidi e violenti, e anche un riquadro molto diverso, “Verwanlungen”, 1969 (stampa 2013) con 149 volti femminili in altrettante acconciature con espressioni pensose. Gina Pane  con “Azione sentimentale, 1973, usa il linguaggio del corpo in sequenze multiple molto movimentate e inquiete, mentre Ketty La Rocca  con “Le mie parole e tu”, 1974, ci presenta il linguaggio delle mani in una breve sequenza fotografica, come tutte le altre in bianco e nero. Abbiamo anche le sequenze newyorkesi del 1976 di Francesca Woodman,  “Lighting Legs. Providence. Rhode Islands” , due gambe nude in primo piano in ambiente degradato, e “Senza Titolo. N. Y.

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Si torna nel colore e soprattutto nella tradizione con Alice Schivardi, “Ero figlia unica. Tutti con me e me con voi”, 2011-17, non più una sequenza di gesti ma una serie di fotografie staccate e indipendenti a colori da album di famiglia collegate dall’immagine di una placida vita familiare, tutti insieme appassionatamente in posa in montagna, in giardino,  e perfino sul grande letto matrimoniale”. E’ come se dopo tanta lotta per l’emancipazione si sia ritrovato il rifugio nella famiglia e nell’amicizia, la data recentissima potrebbe far pensare alla conclusione tranquilla di un percorso tormentato. 

Ma non manca, nello stesso periodo, una visione più problematica, come quella di Goldschmied & Chiari, “Dispositivi di “; mentre per la trasgressione vediamo il video di 5’44″i del 1977 di Valentina  Miorandi, “Moments of Pleasure“, un primissimo piano della bocca femminile con  le labbra  riprese in verticale in modo molto esplicito in due posizioni: teneramente socchiuse e invitanti, ma poi aperte fino a mostrare la dentatura in una aggressività da femminismo militante.

A parte queste sommarie citazioni, l’arte rivela ancora la sua capacità di incidere positivamente sui mali della società, lo abbiamo visto, tra l’altro, con le denunce artistiche di “Violenza in Colombia” e “Abu Grahib” di Botero, una parentesi drammatica della sua placida e beata visione artistica. Anche questa è una positiva conferma che riceviamo da questa mostra.

 Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFreccia  di Trenitalia.  Catalogo “/Uncinematic. George Drivas”, a cura di Daphne Vitali, La Galleria Nazionale, 2007, pp. 136, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. i nostri articol: in questo sito, sulle precedenti mostre della nuova stagione nella Galleria Nazionale,  “Beauty Contest” 30 marzo 2017, “Strazza”  11 marzo 2017, “L’intervallo e la durata” 1° ottobre 2016; e sugli artisti citati, “Botero” 2, 4, 6 giugno 2017 e 25 marzo 2016,  “Warhol”  15 e 22 settembre 2014; in cultura.inabruzzo.it sulla mostra “Le donne che hanno fatto l’Italia” 16 gennaio 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la  direzione della Galleria Nazionale, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 18 immagini riguardano “/Uncinematic” di George Drivas, riprese, in particolare, dai filmati “Case Study”, “Empirical Data” e “Sequence Error” con fotogrammi fissati dal fermo immagine per poi abbozzare un movimento subito fermato, si sente solitudine e alienazione nelle sequenze con uomo o donna soli, in due casi insieme, in più il clima angoscioso  dei colloqui aziendali; le successive  4 immagini sono della mostra“Corpo a corpo- Body to Body”, riprendono, in particolare, le opere di Renate Bertlmann, “Deflorazione in 14 immagini” 1977, seguita da Ketty La Rocca, “La mia parola e tu” 1974, e Gina Pane, “Azione sentimentale”1973; infine, una delle foto di Alice Schivardi, “Essere figli tutti con me e me con tutti” 2011-17; in chiusura, Davide Rivalta, “Leoni”  2917 dinanzi all’ingresso monumentale della Galleria Nazinale.

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Via della Seta, 100 antichi reperti cinesi e orientali in mostra al Quirinale

di Romano Maria Levante

Un centinaio di antichi reperti esposti al Palazzo del Quirinale dal 6 dicembre 2016 al 26 febbraio 2017 nella mostra  “Dall’antica alla nuova Via della Seta” per celebrare insieme il mitico ma reale itinerario che attraversava il continente euroasiatico mettendo in contatto popoli e civiltà  e  il nuovo percorso degli scambi commerciali destinato a svilupparsi enormemente per gli immensi investimenti in programma per iniziativa del governo cinese. La mostra è curata dal Consigliere del Presidente della Repubblica in materia di iniziative culturali ed espositive Louis Godart, e dal sinologo delle Università di Venezia e di Enna Maurizio Scarpari, curatori anche del Catalogo, insieme al fondatore del Forum Italia-Cina e della Nuova Via della Seta David Gosset.

 E’ una mostra in cui all’importanza sul piano storico e culturale si aggiunge il rilievo sul piano politico, testimoniato dalle parole del Presidente della repubblica  nel presentare l’evento che si svolge significativamente nella sede della Presidenza.  Sergio Mattarella ha rievocato le millenarie relazioni tra l’Europa e la Cina nelle quali l’Italia ha avuto “un ruolo fondamentale”. In tale contesto ha ricordato la prima ambasceria di Marc’Aurelio nella Roma antica, che ha permesso “ai due imperi più grandi e longevi della storia, quello romano e quello cinese, di conoscersi e di apprezzarsi a vicenda. Poi c’è stata nel 200 “l’odissea della famiglia Polo”  e il racconto del “Milione” di Marco – assurto al rango di consigliere e ambasciatore del Gran Kahn – che ha spinto viaggiatori e mercanti a spingersi verso l’oriente sconfinato; e nel ‘500 i gesuiti con Matteo Ricci e Martino Martini con il messaggio evangelico senza fondamentalismi bensì in spirito di apertura sono entrati anch’essi tra le figure in cui la massima autorità della Cina riponeva fiducia.

Tutto questo come premessa all’auspicio che “anche oggi, davanti ai grandi mutamenti economici e sociali, mentre il mondo diventa più piccolo e interdipendente, le strade del dialogo tra Europa e Cina portino a uno sviluppo della cultura e dell’umanità, liberandola da fanatismi, violenze e ingiustizie, e dando spazio ai costruttori di benessere e di pace”. e a nessuno sfugge quanto se ne abbia bisogno dinanzi alle guerre e alle minacce del terrorismo che tormentano la nostra epoca.

Il progetto strategico della “Nuova  Via della Seta”

Abbiamo voluto iniziare con le parole  del Presidente sul significato morale e politico che viene attribuito al rapporto tra l’Italia in seno all’Europa, e la Cina per la pace e il benessere dei popoli.

Questo secondo aspetto è stato sottolineato in particolare da uno dei curatori, Maurizio Scarpari, che, ricollegandosi anch’egli alle antiche tradizioni, ha affermato: “Non deve quindi sorprendere se la Cina oggi è divenuta promotrice di un progetto strategico di grande respiro che si rifà, non solo metaforicamente, alla Via della Seta, volto a favorire la cooperazione e i collegamenti tra i apesi dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa. I paesi coinvolti sono 65 e rappresentano circa il 70% della popolazione mondiale e il 55% del PIL globale, e possiedono il 75% delle riserve energetiche conosciute”.

Non è un semplice proposito, senza risvolti pratici, sono state costituite apposite strutture finanziarie , come l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib)  banca di sviluppo multilaterale, ben distinta dalla World Bank, con la partecipazione di 56 paesi tra cui l’Italia, e il Fondo per la Via della Seta con il compito di finanziare iniziative infrastrutturali lungo la nuova Via della Seta. per il commercio cinese si prevede , a progetto realizzato, un aumento dell’ordine di 2.500 miliardi di dollari l’anno per il prossimo decennio, quindi è una prospettiva ravvicinata nel tempo.

Ci sono, infatti, già stanziamenti per centinaia di miliardi di solalri e progetti in fase esecutiva. “L’investimento complessivo previsto- precisa Scarpari – sfiora i 4.000 miliardi di dollari; per dare , un’idea dell’ordine di grandezza di questo intervento si pensi che il Piano Marshall, avviato dagli Stati Uniti dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, attualizzato a oggi varrebbe 130 miliardi di dollarii”. Il presidente cinese Xi Jinping ha voluto lanciare nel 2013 il grande progetto “Una cintura e una via”  da due località  simboliche: nel mese di settembre da Astana, capitale del Kazakistan, transito obbligato per secoli di mercanti e viaggiatori, per la nuova Via della seta terrestre; nel mese di ottobre da Giacarta, l’antica Batavia, meta degli antichi traffici per mare sulla Via delle spezie, per la Via della Seta marittima del XXI secolo.

Abbiamo parlato di “nuova Via della Seta” perché i collegamenti tra Cina ed Europa sono stati sviluppati molto al di là dell’itinerario tradizionale, che resta come riferimento storico velato da un alone romantico. Due linee ferroviarie principali collegano Cina ed Europa, quella settentrionale collegata alla transiberiana russa, quella meridionale che attraversa anch’essa la Russia collegando diversi paesi asiatici, mentre è in fase di realizzazione una terza linea anch’essa tra molti paesi.

Si tende a creare uno spazio  unitario euro-asiatico, mentre i trattati TPP e TTIP promossi dagli USA andrebbero in direzione opposta, verso uno spazio commerciale alternativo che escluderebbe l’Europa.

L’Eurasia, area integrata tra Europa e Asia   

Ma  l’integrazione tra Europa e Asia è incontestabile per un altro curatore della mostra, David Gosset:  “la Via della Seta evoca l’Eurasia che, dal  punto di vista culturale, è il èrodotto di una vasta e antica rete di scambi, la Via della Seta arricchisce l’Oriente e l’Occidente. identità e diversità non si escludono radicalmente; se l’Oriente  e l’Occidente possono apparire diversi, non debbono sembrare assolutamente opposti. la storia dell’Eurasia è stata segnata dalle interazioni tar oriente ed Occidente  e questa interconnessione  è stata spesso sinonimo di arricchimento reciproco”.

Gosset afferma che “la frontiera tra l’Europa e l’Asia è un concetto astratto”, che viene  approfondito dal consulente del Presidente, anch’egli curatore della mostra, Louis Godart, sul piano geografico, linguistico e culturale per concludere che non è possibile tracciare dei confini.

A livello geografico l’Europa non va “dall’Atlantico agli Urali”, secondo la nota formula di De Gaulle, perché al di là della catena montuosa si apre  una vasta area percorsa per millenni dagli europei  che si muovevano verso Est. Sotto il profilo linguistico la stessa definizione di “lingue indo-europee” segna lo stretto legame tra le lingue delle nazioni europee e quelle orientali derivando tutte da un unico ceppo. Per l’aspetto culturale non si può certo considerare estranea all’Europa una nazione “asiatica” come la Russia con i suoi celebri scrittori nei quali si incarna la civiltà europea.  Su questo punto Godart conclude: “L’Europa è essenzialmente la partecipazione d parte dei popoli che la compongono a una medesima opera civilizzatrice, a un medesimo modello culturale, a uno stesso ideale di vita”.

In questo contesto sono molteplici i contributi, dati da popoli “profondamente diversi: alcuni sono mediterranei, altri nordici od orientali”, gli eventi della storia li hanno segnati in modi differenti, ma “ognuno portando il proprio contributo ha aiutato a modellare il volto dell’Europa”. E cita l’apporto delle invenzioni e scoperte dei popoli asiatici, da quelle per cavalcare – la sella e la staffa, il tiro e i ferri per gli zoccoli, all’aratro con le ruote, dalla falconeria alle piante officinali; dalla bussola alla carta e alla stampa, e soprattutto il loro contributo alle scienze dalla matematica, geografia e astronomia  alla chimica, farmacologia e medicina, Per concludere: “Possiamo quindi affermare che l’Europa si è costruita e arricchita anche grazie all’Asia e ai contatti che dall’alba della storia hanno avvicinato tra loro le donne e gli uomini del vasto continente asiatico”.  Come è avvenuto tutto questo? Anche attraverso la Via della Seta, percorsa da mercanti e diplomatici, missionari e viaggiatori  spinti dalla sete di sapere. 

L’itinerario millenario della Via della Seta

Non si trattava di un unico viaggio nell’intero itinerario, ma di percorsi intermedi con soste nelle apposite stazioni di ristoro dove si moltiplicavano i contatti, gli scambi  di notizie con le conseguenti sollecitazioni anche sul piano culturale. . Così Scarpari riassume questi movimenti: “Mercanti di diversa nazionalità, provenienti dai luoghi più disparati, si incontravano, soggiornando tanto nei centri maggiori quanto nelle remote oasi disseminate lungo la strada o, molto spesso, in caravanserragli che si trovavano grosso modo a un giorno di viaggio l’uno dall’altro, commerciando merci e raccogliendo informazioni, essenziali epr proseguire il viaggio con profitto e sicurezza. A loro si accompagnavano ambasciatori, monaci, esploratori e avventurieri di ogni risma. Aveva luogo uno scambio continuo di beni e di conoscenze, venivano messe a confronto usanze, pratiche, idee e fedi religiose in un mondo che ai nostri occhi appare assai più tollerante e aperto di quello in cui viviamo oggi”.

Questa descrizione  affascinante ci è sembrata la migliore introduzione alla galleria espositiva  che con 100 reperti evoca le suggestioni alimentate da questo luogo di incontri e scambi reciproci.

Ma prima  rievochiamo brevemente i movimenti sulla Via della Seta sulla base delle notizie fornite da Scarpari in modo da contestualizzare i reperti esposti che appartengono alle diverse fasi storiche.

Nel periodo più remoto tra quelli considerati, il primo impero cinese tra il 206 a. C, e il 220 d. C., , durante la cosiddetta “pax sinica”, furono mandate dall’imperatore Wu, vissuto tra il 141 e l’87 a. C., delle spedizioni in Occidente, comandate dal generale Zhang Qian, per risolvere i problemi con i popoli delle steppe lungo i confini  dell’impero, nonché per entrare in contatto con i governi  dell’Asia centrale e per esplorare nuove terre. Non c’erano intenti di conquista e neppure finalità commerciali, si possono equiparare a missioni diplomatiche volte ad estendere il raggio d’azione.  Poi si mossero i mercanti, e cominciò a delinearsi l’itinerario della Via della Seta, sicuro nelle fasi di prosperità, pericoloso nei momenti di decadenza.  Uno di questi momenti negativi si verificò intorno al 200 d. C. con il declino della “pax sinica” e il conseguente contraccolpo sul  flusso di viaggiatori e diplomatici per le ripercussioni sugli scambi commerciali e le relazioni in generale.

Con il secondo impero, nel VI sec., una nuova “pax sinica” segnò un’era di forte  sviluppo economico e di espansione commerciale favorita dalla pace e dalla stabilità politica e sociale accompagnate da una crescita culturale. Per questo la capitale dell’impero per 10 dinastie si chiamò Chang’an, “pace perpetua”, e fu meta dei viaggiatori provenienti da altri paesi asiatici e anche dall’Europa, nell’VIII sec. gli stranieri  raggiunsero  il numero di 100.000 su una popolazione di un milione di abitanti e contribuirono a rendere la società cinese  più dinamica, aprendola a nuovi costumi e tecniche, a nuove correnti di pensiero e fedi religiose. Con l’estensione delle conquiste mongole ai territori dall’Asia orientale all’Europa e l’instaurazione della “pax mongola”, gli scambi commerciali si intensificarono e si aprirono nuovi itinerari.

Siamo tra il 1200  e il 1250,  arrivano i francescani, Giovanni da Pian di Carpine scrive “Historia mongolo rum”, il fiammingo Guglielmo di Rubruk “Itinerarium fratis Wilielmi de Rubruquis de ordine fratum Minorum”, finché Marco Polo, da Venezia alla Cina, la descrive nel “Milione”, che facendo conoscere questo mondo lontano stimola i viaggiatori a cercare nuove terre, anche Colombo ne fu stimolato e credeva di aver raggiunto le Indie sulla scorta di tali descrizioni.

La conoscenza fece passi da gigante e furono redatte nuove mappe, come il planisfero di Fra’ Mauro con tutte le terre conosciute fino alla metà del XV sec., fino alle rappresentazioni cartografiche dei gesuiti, soprattutto  Matteo Ricci con il quale si entra nel XVII sec.

La galleria espositiva degli antichi reperti

In questo mondo affascinante fa entrare la galleria espositiva: vediamo statuette con figure, sono 16, poi 7 tessuti, 5 carte geografiche e 3 mappamondi, 8 contenitori per te, – dalla teiera alle foglie e tazze da te fino al servizio da te completo – 10  tra coppe, brocche e piatti, 10 statuette religiose, e 3 placche.

Due  delle 3 placche placche sono tra i reperti più antichi, provengono dalla Mongolia interna e risalgono tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., raffigurano una “Tigre con un capride nelle fauci” e un “Signore degli animali”. Ma il reperto più remoto è una “Coppa in lapislazzuli” da Batriana in Afghanistan del III-II millennio a . C. , seguito da un affresco del I sec., “Concerto di donne”, proveniente da Stabia.. La terza placca, invece, con una “Testa di cinghiale” dell’Iran, è del VI sec.

Altri reperti tra i più antichi, che  provengono dal Pakistan, sono 4 scisti nell’arte del  Gandhara raffiguranti  Una “Testa femminile” della metà del I sec.,“Buddha stante”,  “Maitrey  seduto nella posizione del loto”, e “Bodhisattva (Maitreya?)”, del II-III sec, e lo stucco dipinto con una “Testa di personaggio principesco” del IV sec. Vediamo anche un “Rilievo funerario”  in calcare dorato” dipinto del III sec. proveniente da Palmira in Siria. Dello stesso periodo la terracotta e invetriatura colorata di  un “Cavallo con ciuffo e corta criniera” dalla Cina sud-occidentale e alcune monete: 3 del Regno cosmopolita del Kusana e 2 Sasanidi con un busto coronato..

Nella cronologia dei reperti esposti, da collegare alla rapida cronologia degli eventi storici cui abbiamo accennato,  si passa al VI sec., l’era della forte ripresa in tutti i campi con la nuova “pax sinica, Vediamo una “Coppa con motivo zoomorfo e vegetale”  in argento dorato e cesellato e un “Cammello accosciato con in groppa il cammelliere”  in terracotta a pittura policroma,  una “Coppa decorata con croci e volatili” in argento dorato dall’Iraan e  “Tavoletta del regno di Nabonedo” in argilla, una “Brocca con coperchio e ansa configurati”, dalla Cina settentrionale e “Ampolla raffigurante Menas tra due cammelli” in terracotta dall’Egitto,  che introduce al VII sec..

Un Cammelliere su cammello batriato in terracotta e invetriatura policroma apre la vasta serie dei reperti, soprattutto oggetti, del VII-X sec.;  Sono figure in terracotta invetriata, grigia o rossa,  provenienti dalla Cina, dinastia Tang, che  rappresentano: “Mercante sogliano” e “Mercante centroasiatico”, “Attendente sogliano” e “Monaco seduto in una nicchia”, “Palafraniere straniero” e “Straniero dal volto velato”,  “Guardiano di tomba” e “Barbaro con costume kusano” e “Gruppo di sei suonatori a cavallo”, “Cavallerizza con animale da caccia” e  2 coppe provenienti dall’Iran, , una “Coppa con versatoio”, e una “Coppa in pasta vitrea turchese”, con le quali si entra nell’XI sec.,

Siamo nel secondo millennio, la sfilata dei reperti continua con presenze campionarie dei singoli secoli:tra il XII e XIII sec. Una “Brocca ‘a testa di fenice'” in porcellana dalla Cina e un “Grande piattocon breve tesa obliqua” in Faenza silicea;  tra il XIII e il IV sec. una “Mattonella con giocatori di polo”, ceramica dipinta proveniente dall’Iran, e una “Brocca” in ottone e argento dalla Siria o dall’Egitto; una “Statuina raffigurante il Buddha” in oro lavorato dalla Cina,  e un “Piatto con girotondo di pesci” in ceramica decorata dall’Iran;  del XV sec. un “Piatto con decoro a fiori”, in porcellana decorata dalla Cina;  del XVI sec. un “Piatto con decoro alla porcellana” in maiolica, manifattura di Montelupo e un “Orciolo da farmacia” in maiolica da Cafaggiolo; del XVII sec. un “Piatto con orlo poliulobato” in ceramica dall’Iran; del XX sec. un “Calco della Stele nestoriana di Xi’an”, su carta, della prima metà di tale secolo, mentre la Stele è del 781, della dinastia Tang..

Fin qui la sfilata ha riguardato soprattutto oggetti di uso comune con qualche stucco o scisto, non abbiamo però citato oggetti altrettanto di uso comune con precisa destinazione, per il tè, cui è dedicato uno spazio apposito: vediamo il “Servizio ‘Neve della luna felice'” in ceramica e 2  “Servizi da tè”, uno  in porcellana da Taiwan, l’altro in ferro,  2  “Teiere”  cinesi  e “Le foglie di tè”,  in pietra del Fujian, “Scatole da tè in lacca” e  “Tazza da tè”   in porcellana, un “Piattino da tè artigianale” in terracotta e un “Piatto da tè inciso con paesaggio di montagna e di fiume” in pietra, fino a  una “Teiera millenaria” in ferro artigianale.

Di questi reperti legati al tè non è indicata l’epoca, come non lo è per altri oggetti che rappresentano soggetti diversi, come “Bonsai”  e “Cavallo” in rame, “Montagna artificiale” in spugna e “Monte Baojin” in bronzo, “Sogno della Cina” in porcellana e “Canto sulla strada” in lacca, Capriccio d’acqua” in giada e “Piacere” in pietra. Ma sono indicati gli artisti, di 5 l’autore è Qiu Qijing.

Invece l’epoca è precisata per i tessuti, la provenienza è dall’Italia, sono tra le merci pregiate che andavano lungo al Via della Seta verso l’Oriente. Vediamo una “Seta raffigurante coppia di leoni affrontati entro rotae” dell’VIII-X sec., e 4 tessuti del XIV sec. “Seta decorata con volatili affrontati all’interno di mandorle” un “Frammento di tessuto con uccelli fantastici e leoni passanti”,  un “Frammento di tessuto con leoni entro formelle polilobate” e un “Frammento di tessuto con  motivi vegetali, grifi, basilischi, fontane e vasi”. Con questi frammenti di tessuti, 2 calzari del XVII-XX sec., un “Paio di scarpe cinesi maschili” e e una “Scarpa cinese femminile”, e  4 paramenti rituali del XIII-XIV sec., “Piviale” e “Stola”, “Dalmatica”e “Calzari”, tutti di fine XIII-inizi XIV sec.

Si riferiscono a papa Benedetto XI, domenicano, 1240-1304,  e vengono dalla basilica di San Domenico di Perugia . dove saranno riportati a mostra conclusa – dopo un restauro concluso nel 2016. Vediamo nei parati, “in panni tartarici”,  una fitta rete di motivi, come bacche e fiori di loto, finemente intessuta in oro:  l’arte ornamentale cinese che utilizzava filati metallici si sposa con la predilezione per l’oro. Erano chiamate”panni tartarici”le stoffe intessute d’oro con il riferimento al Tartaro, l’inferno, tanto erano temute le orde  mongole; questi tessuti preziosi, opera di artigiani cinesi, islamici e del centro Asia, raggiunsero l’Occidente con la “pax mongolica” che rendeva il cammino dalla Cina al Mar Nero così sicuro che un proverbio mongolo arrivava a dire: “Una vergine sola, sopra un mulo carico d’oro, può traversare i domini del Qan senza alcun pericolo”.

Concludiamo con i 12 reperti geografici, per così dire, dal XIV al XVIII sec., per lo più di grandi cartografi e astronomi italiani, oltre a “Geographia” di Claudius Ptilemaus e “Descrizione illustrata del mondo” di Ferdinand Verbiest.  Vediamo la “Carta nautica  di Pietro Vesconte” e la “Carta della Moscovia di Battista Agnese”, il “Mappamondo di Fra’ Mauro” e il “Mappamondo detto “Genovese”, il “Mappamondo circolare di Andrea Bianco” e il “Mappamondo cordiforme in lingua turca”, “Le estreme regioni asiatiche nella Tabula Peutingeriana”  e l”“Atlante cinese, detto ‘del Carletti'”.

Al culmine di questa galleria di reperti  poniamo i due preziosi documenti veneziani che riportano a Marco Polo, l’incunabolo “Marco Polo, ‘De le meravigliose cose del mondo’ di Giovanni Battista Sessa del 13 giugno 1496, e  la pergamena “Testamento di Marco Polo”del 9 gennaio 1324.

Perché per tutti, crediamo, e non solo per noi, la Via della Seta è legata in modo indissolubile alla figura del grande viaggiatore veneziano che l’ha percorsa e  fatta conoscere ai suoi tempi restando ancora oggi la figura più fulgida del collegamento tra  le due più prestigiose civiltà del pianeta.

Wal, le sculture ludiche dei “putti”, alla “Casina delle Civette”

di Romano Maria Levante

Nei Musei di Villa Torlonia, a Roma, precisamente  nel Giardino e nella “Casina delle Civette” dal 20 maggio al 1° ottobre 2017,  la mostra “Il meraviglioso mondo di Wal. Sculture fantastiche, animali magici e dove cercarli” espone una quarantina di opere scultoree che esplorano l’ingenuità e l’innocenza del mondo infantile nei significati legati allo spirito ludico che investono anche il “sacro”. L’organizzazione è dell’Associazione culturale Maniero Exibartlab S.r.l., la mostra è a cura di Cesare Biasini Selvaggi e Maria Grazia Massafra che hanno curato anche il catalogo “Exibart Edizioni”.

Dalla “civetteria” della precedente mostra al festival dei “puffi”, pardon, dei “putti” e non solo, di Wal, in cui troviamo anche un’opera dell’artista raffigurante  tre civette,  in omaggio alla prestigiosa sede che accoglie le sue sculture, inserendole organicamente in un ambiente  particolare. Non solo all’interno, tra sale e salette, anditi e verande impreziosite dalle vetrate liberty di Cambellotti, ma anche all’esterno, nel grande giardino dove spiccano spettacolari installazioni scultoree di notevoli dimensioni, ingrandimenti delle piccole sculture  esposte all’interno. Sia animali del bestiario favolistico dell’artista sia putti, creature giganti  nel loro biancore inserite nel verde della vegetazione. La maggior parte, comunque, sono  collocate all’interno integrate perfettamente con l’arredo e con gli ambienti che si aprono uno dopo l’altro come in un castello fatato..

C’è una sostanziale uniformità, nei materiali e nello stile di queste figure, soprattutto “putti”  ma anche animali, pur se presentati nelle più varie posizioni e nei più diversi atteggiamenti accomunati dallo spirito ludico che è proprio del bambino e dell’animale.Questa rappresentazione si inserisce in una lunga tradizione dedicata a tale tema,  l’ “Homo ludens” per citare il titolo dato da Maria Grazia Massafra, che ha curato la mostra insieme a Selvaggi, al saggio introduttivo nel quale ne analizza contenuti e significato. Pertanto non possiamo trascurare le implicazioni che tutto ciò comporta per una valutazione consapevole che vada oltre la semplice evidenza visiva del candore e dell’innocenza di queste figure infantili le quali sembrano bearsi della loro corporeità debordante, richiamando l’inconfondibile tratto con cui Botero esprime una concezione serena della vita che a maggior ragione non può mancare nella tenera età dei “putti” di Wal.

Ma non è soltanto questo l’aspetto che stimola all’approfondimento dell’analisi, ce n’è un altro ancora più intrigante che riguarda non il percorso di questa tematica  nella storia dell’arte, quanto il percorso personale dell’artista approdato ai “putti” dopo esperienze completamente diverse e per certi versi opposte; da qui nasce un ulteriore stimolo alla ricerca e alla riflessione, sulla base dell’accurata ricostruzione che ne fa l’altro curatore  della mostra, Cesare Biasini Selvaggi.

Il gioco dei putti nella storia dell’arte

L’ “Homo ludens”, nella sua declinazione infantile, ha sempre ispirato l’arte: “Bambini  e putti che giocano con oggetti, animali o elementi della natura – premette Maria Grazia Massafra – sono stati raffigurati dall’antichità a oggi in ogni forma di opera d’arte. Scherzosi combattimenti, competizioni sportive e acrobatiche, attività produttive e religiose, sono riprodotte con scene di putti sia nell’antichità che dal Rinascimento in poi”.  

Ma dal XVI secolo, dietro il diffondersi  di questo tema nell’arte sacra e profana, c’è una considerazione dell’età infantile più evoluta, dal “putto” riprodotto a fini essenzialmente ornamentali  si passa al bambino come soggetto autonomo con una propria identità. Per questo “i putti, che sono stati sempre rappresentati come esseri pudicamente laboriosi, diventano, a partire dal Rinascimento, esseri ‘in carne  e ossa’, animati da un’incontenibile volontà di agire: modello culturale, ideologico, sociale, pedagogico, con valore formativo per adulti e bambini. Il Cinquecento è il periodo di passaggio dal putto al bambino, in cui il modello idealizzato viene trasformato e assume maggiore realismo”.

Nel ‘600 sono presenti le due visioni, idealizzata e realistica, mentre nel ‘700, in coerenza con lo spirito dell’epoca, l’aspetto ludico torma a prevalere persino nelle Crocifissioni. E’ con l’ 800 che si diffonde l’immagine identitaria dal “putto”  al bambino con  autonomia, sentimenti e ferma volontà di esprimerli anche attraverso azioni non semplicemente ludiche.

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Significati delle immagini ludiche di Wal

Con Wal le due visioni sono compresenti, le figure infantili sono impegnate nel gioco  ma non come semplici “putti” senz’anima, bensì con la loro personalità di bambini “in carne e ossa” .  L’innocenza e il candore emergono evidenti in un contesto di grande raffinatezza: “Le figure, gli oggetti e gli animali che compongono le scene sono intessute di ritmo, di armonia, di gentilezza, di grazia, di bellezza corporea – osserva la Massafra – Il bambino e l’animale giocano perché ne hanno piacere, e in questo sta la loro libertà”.

Ma non c’è nulla di superficiale, perché le opere di Wal nel trasmettere il senso di libertà proprio del gioco, portano ad “allontanarsi dalla sfera ordinaria per entrare in uno ‘spazio altro’, dove si può agire per finta, per scherzo”.  E ci si può sorprendere dinanzi all’affermazione che segue secondo cui “questo ‘spazio altro’ è abitato da un’azione  ‘sacra’, che è quella del gioco, indispensabile per la salute dell’individuo”.

Che sia un’azione “sacra” lo prova il fatto che i “putti” sono stati inseriti proprio nelle raffigurazioni religiose, la maggior parte delle figure di angeli sono  proprio “putti” sorridenti.  L’ausilio alla salute dell’individuo viene dall’effetto liberatorio del gioco, sul piano esistenziale e, per gli artisti come Wal, sul piano della creatività: “”L’uomo/artista – è sempre la Massafra – gioca come il bambino, può divertirsi e ricrearsi sotto il livello della vita seria, ma può giocare sopra il livello del puro trastullo, generando bellezza e senso del sacro”. 

E più direttamente: “Le immagini ludiche di Wal nascono da questo stato di esaltazione e di estasi in cui si dispone il suo animo nell’atto del processo creativo”.  I suoi “putti-bambini” giocano da soli o con gli animali, come è sempre stato, e vi sono anche animali ripresi mentre giocano autonomi, esprimendo così in altra forma il senso del sacro, perché a loro è stato sempre attribuito un valore simbolico di matrice religiosa. C’è una differenza, evidentemente, sottolineata dalla curatrice: “Anche gli animali giocano, ma con l’uomo il gioco si fa più consapevole, e passa dalla sfera della natura a quella della cultura”.In questo contesto dalle molteplici sfaccettature, “l’artista Wal, Homo ludens – osserva la Massafra – crea la sua arte come gioco della fantasia, dello spirito e della mano, che cerca di superare il limite dell’ordinario attraverso lo spirito ludico”. Naturalmente questo è contagioso, si trasmette anche all’osservatore delle sue opere, tanto più nella speciale atmosfera della “Casina delle Civette”  dove l’effetto ludico è accentuato dal passaggio da un ambiente all’altro, tra anditi e pianerottoli, verande e scalinate, come in un gioco a rimpiattino alla caccia dei “putti” dello scultore  che vi sono disseminati.

Conclude la curatrice: “Le sculture di Wal si muovono e giocano come apparizioni  negli spazi onirici e visionari della Casina delle Civette, in un dialogo pieno di ironia, ma anche di mistero”.

Un percorso artistico e un approdo stupefacente

A questo punto dovremmo passare  a raccontare la mostra, dopo aver esplorato i significati racchiusi nelle sculture di “putti” nelle più diverse posizioni e situazioni ludiche, magari con qualche  citazione dei momenti della vita dell’artista che hanno determinato particolari ispirazioni.

Nel caso di Wal, nome d’arte di Walter Guidobaldi,  per comprendere e apprezzare l’arte espressa nelle opere esposte non si può fare a meno di rievocarne il percorso il cui approdo è nelle sculture dei “putti”. E’ sorprendente, anzi stupefacente rilevare come abbia attraversato le avanguardie della seconda metà del ‘900 con delle sperimentazioni quanto mai innovative ogni volta superate da nuove esperienze, sempre diverse, sempre al limite,  per arrivare a una forma stilistica e a dei contenuti che non si sarebbero potuti mai immaginare all’inizio, ma a cui si è avvicinato progressivamente da angolazioni diverse, fino all’approdo definitivo, almeno per ora.

Una fonte preziosa cui faremo continuo riferimento  è la ricostruzione quanto mai accurata e dettagliata del  curatore, con la Massafra, della mostra, Cesare Biasini Selvaggi, che fa rivivere con dovizia di particolari una temperie artistica vivace e creativa in cui Wal è stato tra i protagonisti.

La sua formazione inizia nell’Istituto d’Arte di Reggio Emilia, non solo disegno ma anche intaglio, intarsio ed ebanisteria, per una manualità che ritroveremo nelle sue sculture con più materiali.

Nella prima fase un avvio alla pittura con impasti materici contornati rigorosamente, per soggetti forme femminili di tipo arcaico.  Poi a Bologna il corso di scultura di Umberto Mastroianni, dal forte senso plastico nella continua contrapposizione tra forma e spazio, considerati  come antagonisti.

Siamo nel 1968, Wal si trova al centro dei movimenti di contestazione, nel 1970 emerge con forza il movimento dell'”Arte povera” a Torino, nel 1971 risponde al “richiamo della foresta” trasferendosi a Milano, più vicina di Bologna alle avanguardie, a Brera avevano avuto come docente Marino Marini, lo scultore ammirato da Wal per la sintesi tra tradizione e modernità in forme essenziali. La cattedra era passata a un altro scultore molto apprezzato, Luciano Minguzzi, ma Wal lo considera troppo legato alla tradizione e lo abbandona,  mentre segue Alik Cavaliere, più aperto al nuovo e Veronesi nella cromatologia e altre ricerche pionieristiche. A Brera, inoltre, ci sono artisti impegnati in corsi e iniziative sperimentali, come la tecnologia dei materiali, le loro opere sono mosse da meccanismi interni, Wal entra in contatto con loro.

Viene affascinato dall’ “arte concettuale”, e in particolare dalle ricerche di Vincenzo Agnetti  sul linguaggio come veicolo e oggetto dell’arte, dai lavori di Giulio Paolini incentrati su un rapporto di tipo nuovo tra autore, opera e spettatore, dalle idee di Joseph Kossuth sul significato delle parole. “Da questo crogiuolo di esperienze concettuali, afferma Selvaggi, deriva l’improvviso, ma non longevo, ‘azzeramento’ della risalente (e aggiungerei, innata) attitudine pittorica di Wal”.

L’opera d’arte viene vista solo come “idea dell’artista” – di qui il termine “concettuale” – non come espressione tangibile e visibile di un’ispirazione. D’altra parte, il rapporto con gli oggetti necessita comunque di un supporto concettuale, di un significato che tende  a fondersi con l’oggetto. Ma quando questo diventa uno  stereotipo perché il significato prende il sopravvento sull’evidenza concreta,  va verificato “il metodo di assegnazione dei significati ai vari oggetti, in altre parole il rapporto esistente tra visivo e ideologico”.  Ed ecco come:  “Tale verifica può attuarsi solo attraverso situazioni metaforiche, paradossali, contraddittorie che costringono  a restituire credibilità all’oggetto caricandolo di ulteriori significati ed estrapolandolo sistematicamente dal mondo degli stereotipi”. Non basta: “Questa operazione di restituzione può avvenire soltanto se si è riusciti a istaurare un rapporto dialettico di interscambio tra significato e immaginazione, rientrando quindi in un rapporto armonico con l’oggetto stesso”.

Non ci si crederà, dinanzi alla semplicità cristallina di forma e contenuto delle sculture “ludiche” di Wal che quelle appena riportate sono sue parole, da cui appare invece un’elaborazione ideologica e mentale estremamente complessa e tormentata. Per questo abbiamo ritenuto di esplicitarla, in modo da apprezzare nella misura giusta il suo approdo con le opere esposte di cui diremo al termine.

Siamo tra il 1978 e il 1979, ha “azzerato” la sua pittura,  la sua “arte concettuale” si manifesta con parole tracciate in vario modo e con vari materiali, che nella “metafisica del quotidiano”  esprimevano la contrapposizione tra l’elemento comune  e una dimensione metafisica di natura spirituale e religiosa. Forse qualche prodromo sul senso religioso del gioco di cui abbiamo detto.

Ma è pur sempre un’arte puramente razionale priva di qualsiasi emozione al punto di rinunciare a creare opere d’arte limitandosi al concetto, un’idea che comunque resta fine a se stessa, E allora si riavvicina alla pittura che aveva “azzerato”, incoraggiato dall’analogo percorso di artisti come Salvo e Ontani,  – che vediamo con lui e molti altri in una fotografia dell’aprile 1980 – su cui Selvaggi sottolinea come “dopo una sua prima traduzione attraverso processi e linguaggi di matrice concettuale, abbia  virato poi verso strumenti più tradizionali, con l’impiego del disegno,  dell’acquarello e, soprattutto, della pittura a olio su tela”.  Riguardo al nostro artista il curatore afferma chiaramente: “Per Wal, allora, non ci sono dubbi. Forse non ci sono mai stati, perché la sua predilezione per pennelli, tele e cavalletti si era solo sopita. Mai spenta”.

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Trasecoliamo dinanzi alle sculture che sono dinanzi a noi, vuol dire che il percorso che conduce a questo approdo è ancora lungo. Infatti passa attraverso il fumetto, per tradurre in un linguaggio moderno di tipo pittorico concetti anche di tipo usuale, come fanno, ciascuno in modo personale,  altri artisti come Matta,  Adami e  Baruchello in Italia, soprattutto Roy Liechtenstein in America,

I suoi “fumetti” non raccontano storie, l’aspetto pittorico soverchia quello narrativo,  questa fase sfocia nella “Pittura teatrica”, nome della mostra del 1979  che segna la fine di questa fase.

L’inquietudine sua e di altri artisti, come i già citati Salvo e Ontani, li porta a costituire il gruppo dei “Nuovi-nuovi”, che, per reagire alla freddezza dell’arte concettuale da cui la pittura era stata portata al “grado zero” fino  a far temere la “morte dell’arte”, per usare le parole di Argan, reintrodusse gli strumenti pittorici tradizionali, come l’uso del colore, e una nuova figurazione in un rinnovata “arte manuale”.

Per Wal nasce il “ciclo delle api”, l’immagine tipo viene stilizzata, come ha scritto Verzotti, “non diversamente da quanto farebbe un illustratore di fumetti, cioè con una certa enfasi infantile un po’ perversa”. La stessa enfasi infantile che troviamo, però senza perversione, nelle sculture esposte.  Rispetto ai fumetti nelle “api” c’è   la  riappropriazione del valore della forma sul contenuto, e questo lo porta alla scultura, la prima è un’ape. Seguono le strutture ricreative per bambini commissionategli per il parco giochi “Africa”, altra avvisaglia . dell’approdo che ci interessa, anche se qui sono sagome geometriche in policromia. Poi, alla fine degli anni ’80, il ciclo degli “Alpeggi”, sagome in legno con animali al pascolo, ci avviciniamo sempre più agli animali che giocano con i bambini nelle sculture esposte in mostra.

E’ l’ultimo passo, ma ci voleva un motivo specifico per passare ai “putti” così paffuti. Ed è stato il dipinto di Goya “Ritratto di Manuel Osorio Manrique de Zuniga”, 1787-88,  pubblicato su una rivista di cui Wal conserva il ritaglio, ci sono a terra dei piccoli animali con richiami simbolici. Selvaggi cita le parole rivelatrici di Mussini, secondo cui questa immagine “ha avuto precipuamente la funzione di mettere in moto il meccanismo della memoria e di fare ritornare Wal al mondo dell’infanzia ch caratterizzava il periodo dei fumetti”  e al quale, aggiungiamo noi, si era accostato in modo decisivo nei cicli delle “Api” e degli “Alpeggi”  nonché nel parco giochi “Africa”. Con questa particolarità: “Nella serie dei putti, tuttavia, non sono più gli oggetti usati nell’infanzia che lo interessano, bensì il protagonista del gioco, raffigurato in vivace animazione, e intento a interpretare con meticolosa serietà il proprio ruolo”.  La serie è nata all’inizio degli anni ’90,  ricorda Selvaggi, quando la moglie era in attesa del figlio Francesco, allora Wal “concepiva” il primo putto di gesso.

Una “gestazione” che viene da lontano, dunque, divenuta poi particolarmente prolifica, come approdo di una ricerca inquieta e contrastata, con accostamenti molto diversi al mondo dei bambini fino a raggiungerne l’essenza, come la “perfetta armonia” cui pervenne la ricerca di Mondrian.

Siamo pronti ora a dare alle rotonde immagini infantili esposte il loro giusto valore dopo aver ripercorso, attraverso la minuziosa ricostruzione del curatore Selvaggi, l’iter artistico di Wal..

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La galleria di “putti-bambini” e animali ludici

La prima serie di cui vogliamo parlare è acromatica, sono sculture in vari materiali,  bronzo smaltato o verniciato e terracotta smaltata, fiberglass verniciato e marmo, nella loro morbida  rotondità di un bianco uniforme. “Questo loro candore assoluto, quasi spettrale – commenta Selvaggi – conferisce al putto una facies sovrannaturale, di immagine sacra, devozionale, ricordando quei Bambini Gesù rotondelli e paffuti dei presepi”. Non ci si deve fermare all’apparenza : “Ma qui c’è qualcosa di più. Sono figure troppo arcadiche, troppo irreali e allusive nella loro compostezza per essere vere, circondate da un’aura di mistero, di ambiguità e, finanche, di lieve inquietudine”.  

Tale serie, che comprende anche le grandi opere all’aperto, rappresenta la metà circa dell’intera esposizione. Due “putti-bambini” in  “Giocolieri”, 1999, una giravolta in piedi su  tre morbidi cuscini,  e in due grovigli dinamici di segno opposto del 2015-16,  “Lotta di titani” e “L’abbraccio”. Un’unica figura in tutti gli altri, nel  “Giocoliere”del 2014,  il “putto-bambino” è proteso acrobaticamente su una sfera, in quello del  2012 è su un cubo a testa in giù, mentre in “Partenza”, 2014,  è  ancora su un cubo pronto a  scattare allo “starter”, con vicino una sfera. Sempre  il “putto-bambino” lo vediamo seduto  a braccia conserte in “Attesa”, 2014-15 e  comodamente assiso sulla corazza in “Il passo della lumaca”, 2017 .

Ci sono anche due raffigurazioni con putti musicanti, “la musica, osserva Selvaggi, entra in questo giocoso spazio mitico in quanto ogni attività musicale è un ‘giocare’ all’infinito, attraverso al ripetitività dell’esecuzione”, anche Mondrian per diversi motivi ne  era molto interessato. In “Swing”, 2014, il “putto-bambino” in piedi suona uno strumento e in “Va pensiero”, 2015, è sdraiato su un pianoforte. Ancora un riferimento musicale  nelle due opere intitolate  “Minuetto”  “1” e “2”, 2015, il “putto-bambino”  è al culmine di un grande uovo, mentre suona una tromba  e un violoncello.  La figura è molto piccola rispetto all’intera composizione, come in “Mongolfiera”, 2015,  all’interno della navicella, e “L’argonauta”, 2016, il “putto-bambino” è minuscolo rispetto alla base di 2 metri, in equilibrio su una sfera regge un lungo filo con in alto tre palline. Un po’ più grande, anche se non come il “Giocoliere” il “putto-bambino” di “Folletto”, 2015-16,  in cima a una lunga scalinata nella quale fa rotolare delle sfere, non sappiamo se sia una reminiscenza voluta o casuale della scala del film “Apocalipto” in cui venivano fatte rotolare le teste mozzate nel macabro rituale degli antichi adoratori del Sole, la scena è molto simile, di significato e tono opposto, il gioco scaccia l’orrore quasi in ua catarsi liberatoiria.

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Compare la testa di un animale dalle lunghe orecchie in “Guglielmo Tell”, 2015-16,  è inserita in un cerchio-bersaglio la testa bendata del “putto-bambino”, che vediamo su un cavallo in “Miklaja”, 2015-16, e in “Bi-Mucca”, 2014-16, su una  mucca bifronte, la base è a forma di incudine. Infine “Sulle rive del Nilo”, 2015-16 presenta 3 animali con le teste rivolte in alto, e “Sul delta del Nilo”, 2016-17 ne mostra uno seduto su un morbido cuscino con lo sguardo sempre verso l’alto.

Dopo la galleria delle opere che spiccano per il loro candore immacolato, quelle con degli interventi cromatici, che non riguardano mai il “putto-bambino”, sempre bianco levigato, bensì la base, variamente composta,  oppure altri elementi. Sono marroncini i tre cuscini su cui si appoggiano le tre figure  in “Menelik”, 1996-97,  di color rosa tenue la grande sfera su cui il”putto-bambino” sta in groppa a un animale in “Mai a letto”, 2013-16, e  “L’uovo di struzzo”, 2012-13, spezzato  da cui esce, immagine che ritroviamo con la figura più piccola in “Melograno”, 2012, su una sfera di un rosa più intenso, aperta nei grani dell’interno di colore dorato. Altrettanto grande la sfera gialla di “Hoola hoop”, 2015, con sopra una minuscola figura sopra a una pallina.

In “La perla ritrovata”, 2012-13, e “Tesoro”, 2013, oltre alla base in celeste-azzurro, sono colorati elementi della composizione che ha sempre al centro il “putto-bambino” immacolato:  rispettivamente  in rosa e marrone  una sorta di costume da bagno e in giallo la palla che stringe a sé sdraiato su due cuscini. In “Cavalcata”, 2012, ed “Europa”, 2014,  oltre alla base, è colorato, in entrambi in verde,  l’animale su cui  il “putto-bambino” è a cavallo.

Troviamo anche gli animali da soli in composizioni variamente colorate, la più variopinta è “Radames”, 2016, cuscino giallo, righe orizzontali azzurre sul gatto che sorregge con la testa un globo policromo, globo che ritroviamo in “Pianeta”, 2007, il “putto-bambino” ci gioca seduto su una base a tronco di cono colorata di rosso con sottili strisce verticali., mentre in “Gatto mammone”  la sua figura minuscola è sulla testa del gigantesco gatto seduto su una base gialla.  “Inflorescenza”, 2016, fa sbocciare l’animale bianco da un fiore con leggerissime tracce  cromatiche, mentre in “Crociera”, 2016, i tre animali sono su una base con strisce colorate. Così “Barabà-cicci-coccò”,  3 civette su un trespolo rosso e blu con gli occhi colorati, quella al centro dal petto puntinato. L’opera è del  2012-13, cinque anni prima della recente mostra in questa stessa “location”,  “Tre civette sul comò”, intitolata alla seconda parte della filastrocca, in cui non era esposta, una preveggenza.

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Ma c’è un altro cromatismo nelle basi delle sculture, allorché utilizza piastrelle di bagni  e pezzi di cucine per ricomporle con pazienza e maestria lasciando le “fughe”  tipiche dei pavimenti, e dare loro nuova vita, nelle parole di Selvaggi mediante  “complessi patchwork in ceramica nei quali si fondono memoria e invenzione”.  In “Basket”, 2007, sulla base marroncina così ottenuta, il “putto-bambino”  è in piedi su un cuscino celeste e regge la grande palla gialla nel cesto, mentre in “Attesa”, 2016, “I” e “II”, la base  dove siede il “putto-bambino” è in ceramica istoriata con bordi rosa il primo, con stratture rosse e celesti il secondo,  e in “Il dormi-stufi”, 2016, a sedere c’è il gatto su una base a mosaico rosa con bordi e piedi azzurri, infine in “Cavalcata” , 2017, la dolce immagine seduta sul cuscino ha una base con componenti assemblati dal tenue colore celeste.

Il clou è costituito da un’installazione  la cui realizzazione in un lunghissimo arco temporale dimostra che è “in fieri” ed ha un alto valore simbolico, vediamo  un grande Buddha  assiso su un cuscino giallo circondato da tanti piccoli Buddha  che presentano piccole differenze tra loro. Così ne parla la Massafra: “L’azione sacra del gioco, che porta alla catarsi, ha il il suo nucleo generatore di senso nell’installazione “Asteroide’, 1998-2017, in cui l’iconografia ieratica del Buddha in meditazione viene ripetuta ossessivamente in diverse dimensioni, come a volerci dare la chiave di lettura dell’intera mostra: l’umanità, attraverso la ‘sacralità del gioco’, mantiene l’ordine dell’universo”. E, più in generale: “L’immaginazione e la fantasia creatrice di Wal  si esprimono in forma ludica per generare opere d’arte: l’uomo/artista gioca come il bambino,  può divertirsi e ricrearsi sotto il livello della vita seria, ma può giocare sopra il livello del puro trastullo, generando bellezza e senso del sacro”.

La curatrice conclude così: “Le sculture di Wal si muovono e giocano come apparizioni negli spazi onirici e visionari della Casina delle Civette, in un dialogo pieno di ironia, ma anche di mistero”. Ebbene, abbiamo contato 12 piccoli Buddha intorno al grande Buddha, non sappiamo se sia casuale o voluto questo numero, perché è quello dei 12 Apostoli di Cristo. L'”ordine dell’universo” non pone limiti tra le religioni, anzi porta al sincretismo. E’ anche questo il messaggio dell’artista? Ci sembra di poter rispondere che genera di certo il senso del sacro in un dialogo pieno di mistero, dopo tanta ironia nelle rappresentazioni ludiche con le sue figure ridondanti alla Botero.

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Info

Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale 1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608 e 391.7970779, 339.4893339, www,exibartlab.com. Catalogo  “Wal”, a cura di Cesare Biasini Selvaggi e Maria Grazia Massafra, Exibart Edizioni, maggio 2017, pp. 128, formato 23 x 28. Dal Catalogo sono tratte le notizie e le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli: in questo sito,  per la mostra sulle “Civette” 15 marzo 2017, su Botero 2,4, 6 giugno 2017 e 25 marzo 2016, Mondrian 13, 18 novembre 2012; in cultura.inbruzzo.it, su Giulio Paolini 10 luglio 2010 (questo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Info

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Casina delle Civette alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta.  Sono riportate in modo alternato le immagini delle sculture poste all’interno della “Casina delle Civette” e quelle delle grandi sculture all’esterno nel vasto giardino. In apertura, “Asteroide”, 1998-2017; seguono,“Giocoliere”, con dietro “Partenza”, entrambi 2012, e “L’uovo di struzzo”, 2012-13; poi, “Sulle rive del Nilo”, 2015-16, e “La perla ritrovata”, 2012-13; quindi, “Va pensiero”, 2015, e “Giocolieri”, 1999; inoltre,“Basket”, 2007, e “Gatto mammone”, 2014-15; infine, Mai-a-letto”, 1913-16, “Bijou”, 2013, e “Folletto”, 2015-16; in chiusura, “Barabà-ciccì-coccò”, 2012-13.

Vie Francigene, la VII edizione del Festival Europeo dei Cammini nell’anno dei Borghi

di Romano Maria Levante

 “Via Francigena Collective Project 2017” è il nome dato al VII ” Festival Europeo dei Cammini sulla via Francigena Francigena Project 2017″, alla sua 7^ Edizione,  è statopresentato il 30 maggio  2017 nella sede di Civita, che collabora alla manifestazione, con i 450 eventi lungo l’itinerario storico-religioso che si snoda dall’Europa centrale all’Italia passando per Roma per concludersi a Gerusalemme, e ha sempre rappresentato la congiunzione tra Occidente e Oriente collegando anche l’Età Antica al Medio Evo, il Cristianesimo al Paganesimo.  Coincide con l’ “Anno dei Borghi” proclamato dal Ministero epr i Beni e le Attività Culturali e il Turismo, che segue l’ “Anno dei Cammini”  del 2016  in una staffetta emblematica, perché i Cammini si snodano attraverso i Borghi, in una mappa di straordinario valore storico e artistico, splendidamente resa dalle Guide del Touring, “Itinerari a piedi”,  distribuite nell’incontro.

La presentazione del vice presidente di Civita, Emanuele

Si inizia  con la solenne affermazione di chi ha girato il mondo nei  diversi continenti traendone la conclusione che  l’Italia è il più grande paese per bellezza dei luoghi, e la bellezza promuove la crescita economia e sociale, oltre a salvare il mondo secondo la celebre profezia.

E’ del vice presidente di Civita,  Emmanuele F. M. Emanuele  che sostiene il progetto francigeno  anche come presidente della Fondazione Terzo Pilastro.Mediterraneo – il quale non manca di ricordare le nostre migrazioni dei secoli passati con il conseguente spopolamento dei Borghi che sono stati sempre più ignorati dal turismo di massa polarizzato sulle città d’arte e sulle riviere marittime. Ma la nostra civiltà “è nata dal dialogo, dall’incontro, da strade che collegano e uniscono, da un continuo pellegrinaggio che permette agli uomini di conoscersi e confrontarsi”.  

Ha definito la Via Francigena “il percorso che unisce spiritualmente l’Europa, ne costituisce la memoria storica e valoriale, ed  è lo strumento più adatto per consentirci di riprendere il dialogo con le nostre radici, fatte di primato della persona, di valorizzazione della dignità umana,  di profondi sentimenti di libertà, giustizia, tolleranza, apertura al diverso”.  E ha detto che hanno raggiunto il numero di  450 le manifestazioni  sulla via Francigena, dalla Svizzera a Roma fino a Gerusalemme, è un evento epocale in crescita esponenziale come  partecipanti e come risultati economici.

Civita ha curato la messa “on line” della manifestazione, è stato predisposto l’apposito sito “bisaccia del pellegrino,it”  che promuove le produzioni agroalimentari lungo il percorso,  nel quale i pregi artistici e i valori spirituali legati alla tradizione portano alla valorizzazione del territorio.

Le energie invisibili  nascono da una realtà in cui sono presenti tali valori, dando una forte spinta propulsiva. Ogni anno si avverte la crescita della partecipazione, con evidenti riflessi di carattere sociale, aumenta l’occupazione e si contrasta  lo spopolamento dei borghi, una delle maggiori  piaghe per il nostro territorio.  

I presidenti dell’Associazione Europea delle Vie Francigene e del  Festival 2017

Mario Tedeschi, presidente dell’Associazione Europea delle Vie Francigene, parla di un’associazione di enti locali con 130 comuni, da Canterbury a Roma, in collaborazione con Civita.

Nel Cammino non c’è solo spiritualità e storia, ci sono anche  fattori economico-sociali, in primo luogo legati all’artigianato. A parte questo, si può dire che “cambia la vita di coloro che camminano e delle comunità che attraversano”. Il progetto “Via Francigena” ne comprende altri,, come “l’idea di utilizzare i borghi che vanno in rovina mettendoli al servizio di questo progetto”; c’è anche un accordo con Trenitalia per biglietti speciali rivolti a viaggiatori particolari.

Il direttore del Festival Europeo 2017, Sandro Polci, che ha moderato l’incontro con siparietti esplicativi,  parla a sua volta di “shock creativo”, sostenendo che “occorre creare una rete tra gli eventi sulle Vie Francigene e le altre vie storiche, integrando le strategie di condivisione e comunicazione”, il tutto legato ai borghi. Nasce una nuova “economia circolare” da questo approccio innovativo al territorio che ne fruisce senza consumarlo.

 “La principale infrastruttura della Via Francigena è la condivisione e l’emozione legate al  cammino e al pernottamento.  Il cammino lento non è così lento, anzi è un cammino vero, assimilabile solo alla bicicletta, che fa  ritrovare la profondità anche in sé stessi.

Denatalità  e conseguente riduzione della popolazione sono rischi incombenti,  molte realtà dimostrano che si tratta di saper organizzarsi, non basta proteggere e tutelare, occorre  sviluppare le forze interne, facendo appello all’energia e all’orgoglio che pervade i luoghi. “L’elemento decisivo è  sviluppare l’energia che spinge a partire, nei i borghi saranno portate capacità e vitalità per farli rinascere”. 

Immagini del cosmo vengono collegate alla Via Francigena, il pellegrino come l’astronauta, con i piedi appoggiati con forza sulle nuvole, in effetti il sottotitolo della manifestazione è “Nuvole e Borghi”  con l’invito ad “alzare lo sguardo”.  Poi  l’esclamazione: “Potrei vivere nel guscio di una noce e sentirmi padrone dello spazio infinito”. Viene citato anche Gabriele d’Annunzio..  

La voce dei  “borghi autentici” e dei “monti azzurri”

Vincenzo d’Urbano presidente dell’Associazione Borghi Autentici, cita il caso sorprendente di un borgo in provincia dell’Aquila la  cui popolazione è aumentata da 700 ad 840 abitanti, ma una rondine non fa primavera. “Nel percorso lungo la Via Francigena i camminatori  incontrano i borghi, per questo dobbiamo migliorarvi la qualità della vita, non solo nella bellezza esteriore e nell’assetto urbano, ma anche nei servizi  per i turisti e per chi ci vive”. L’associazione punta sulle comunità,  a differenza del Club dei Borghi più belli d’Italia  dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani che invece seleziona gli aderenti in base alla bellezza dei luoghi e dell’assetto urbano..

Ci scontriamo con una politica che li ignora, la “piccola Italia viene dimenticata”,. Invece occorre fare leva su tutti i fattori che possano mettere le comunità in grado di essere accoglienti: “non solo strutture turistiche, ma persone che salutano, che raccontano, questa è la vera accoglienza”.  Il cammino va visto come una possibile forma di integrazione.

Gianpiero Feliciotti, presidente dell’Unione Monti Azzurri, ha un esordio poetico, “è bello coniugare la pietra con la nuvola della speranza”, la pietra è dei 15 comuni terremotati, la speranza quella degli abitanti ospitati negli alberghi al mare che vogliono ritornare nei borghi. “Il territorio però non crolla per la forza delle sue componenti spirituali e artistiche, economiche e sociali, e il cammino è la cornice dove si manifesta la vitalità della natura, dall’aquila al camoscio, al capriolo”.  

Si possono individuare i punti focali della possibile ripresa, viene prospettata la formazione di un quadrilatero di comuni, i quali hanno aderito al patto dei sindaci che però si è fermato. “Il nostro  territorio soffre ma fa sognare e tutti i comuni al di là della concorrenza tra campanili sono aperti all’accoglienza. La saggezza della tradizione espressa nelle memorie e nelle antichità tramandate”. ione.

Un intermezzo pittoresco è dato dalle 10 contrade di Acquapendente, ciascuna delle quali .con un tableau di 10 metri quadrati floreali, li portano 500 giovani.

La parola alle Pro Loco d’Italia e a un centro Studi francigeni 

Il  presidente dell’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia, Antonio  La Spina, rende onore agli umili volontari che si impegnano nel promuovere il territorio,  per la valorizzazione turistica di ogni località.  Il Protocollo di intesa con l’Associazione Vie Francizene Europee  può rappresentare un riferimento per i camminatori i quali possono trovare punti di appoggio e accoglienza che legano i vari percorsi in un’unica rete.

L’imperativo è di  mantenere le tradizioni e richiamarsi ad esse, i volontari sono impegnati a dare segnali di normalità, va rassicurata la parte sociale ed economica  che non vede un futuro nel rarefarsi delle prenotazioni turistiche. Il dramma del terremoto va messo alle spalle per lanciare messaggi positivi.

Viene ricordata l’iniziativa lanciata dieci  anni fa per la valorizzazione turistica dei borghi a rischio spopolamento, favorendo la nascita di aziende per sostenerne l’economia, il ministro dei Beni e delle  Attività Culturali e del Turismo si è impegnato ad appoggiare le attività artigianali per non farle scomparire, anche mediante misure apposite di natura fiscale.

La salvaguardia del dialetto è un altro problema cruciale, la lingua locale si va contaminando e perde la sua connotazione identitaria,  vanno tutelate le nicchie linguistiche, c’è un Premio nazionale per i dialetti che si propone di mantenere e promuovere questa sorta di  DNA, è un modo per riconoscersi, interessa anche i turisti che vanno alla ricerca dell’autenticità in contatto con i portatori di questi valori.

E le Pro loco svolgono un’azione preziosa anche in questo campo, ma non basta, occorre fare sistema promuovendo maggiori contatti con le associazioni e coordinandosi con le istituzioni.

L’Unione ha promosso il premio “Cammini italiani”, che viene conferito, insieme a quello dedicato a “La sagra più bella che c’è”, in una competizione quanto mai stimolante tra i Borghi del paese. .

Alberto Alberti, del  Centro Studi Francigeni di Fondi – dove sono stati creati un Servizio informazioni e una galleria gastronomica – parla dell’importanza dei simboli sul percorso del Cammino di Santiago, sono cippi e croci, rivelano l’amore per i luoghi della gente che ci vive.  A Priverno  Fossanova non c’era nulla,  ora è stata messa una stele, mentre a Montefiascone lungo il percorso vi sono due figure fornite di  bastione e di zaino, zaini.

E’ stato indetto un Premio che sarà conferito alle 5 migliori realizzazioni di simboli di pellegrinaggio il prossimo ottobre a conclusione del Festival dei cammini. A Roma ci sarà una mostra di arte contemporanea “on the road”,

Le conclusioni del Ministero dei Beni e Attività Culturale e del Turismo

Conclude il direttore generale per il Turismo del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Francesco Palumbo, che ricorda l’impegno del ministro Franceschini per la valorizzazione dei borghi e dei cammini, uscendo dalla polarizzazione verso i grandi attrattori turistici, come le celebri città d’arte del nostro paese.

Al lavoro continuo da fare sul territorio si affianca l’azione del Ministero orientata su due principali aspetti: il primo è “l’accompagnamento da parte del Ministero al centro dei temi locali,  in questo modo le singole associazioni sentono di appartenere a un percorso di livello nazionale: ne fanno parte le attività di promozione e comunicazione, tra queste le iniziative del Ministero di proclamare il 2016 ‘Anno dei Cammini’ e il  2017 ‘Anno dei Borghi’; il secondo  aspetto, meno visibile nell’immediato, è rappresentato da  politiche e azioni concrete  affinché tali iniziative non restino una sorta di  fiammata mediatica fine a se stessa”.

Ecco in pratica cosa si fa: nell’anno dei Cammini una mappa a livello nazionale dei percorsi, non solo tracciati sulla carta ma anche percorribili, ci sarà l'”Atlante dei Cammini”, con indicati gli edifici del Demanio che si incontrano,  importante aggiunta ai percorsi; alcuni hanno dimensione regionale, altri nazionale e devono rispondere a  standard qualitativi definiti su quattro livelli.

Il primo è strutturale: completare le infrastrutture, marciapiedi, ponti, e mettere il percorso in sicurezza prestando attenzione a dove si incrocia la via provinciale.

Un altro livello è informativo, occorre  pensare ai punti in cui intrecciano con il sistema dei trasporti, con stazioni e scambi, inserendo i Cammini in una rete di trasporti  più ampia.

Il terzo livello è quello dei servizi, verranno impiegate risorse  per accesso ai servizi essenziali come l’acqua, e altri fino al facchinaggio, ciò vuol dire non solo  agevolare il camminatore ma anche  sviluppare piccole imprese con queste funzioni.

Naturalmente un sistema così razionale ed efficiente deve essere promosso a livello  nazionale e internazionale, il turista non deve essere attratto soltanto da Venezia e Roma,  Firenze e Napoli, ma anche dall’Italia alternativa che è quella dei borghi.

L'”Anno dei Borghi” serve a porre in evidenza il problema degli antichi borghi, soprattutto negli Appennini fino all’area del “cratere” dove sono quelli colpito dal sisma. Del resto “i Borghi sono infrastrutture dei Cammini, se ne incontrano uno ogni circa 20 Km. Nella scenografia creata alle Terme di Diocleziano a Roma per l'”Anno dei Borghi”, 18 Regioni presentano giorno per giorno i propri borghi con i rispettivi prodotti tipici e le attività artigianali caratteristiche.

Come promuovere i piccoli borghi, spesso spopolati? Quali  località vive o musei?  “Ci stiamo lavorando -, ha affermato – per definire quali sono i temi di cui il sindaco deve tener conto per sviluppare il borgo ai fini turistici. Non solo il turismo come panacea dello spopolamento, ma attività da avviare in campo artigianale e commerciale per mantenere o creare un tessuto vivo”. A tal fine devono essere avviate anche le risorse della ricostruzioni che restano disponibili.

Si deve agire anche sul piano della comunicazione nella forma più avanzata. La piattaforma digitale mette a disposizione informazioni accessibili e integrate per  interessati, mediante “siti intelligenti” che forniscono servizi per i turisti e per i residenti. Occorre rendere omogenee le regole di accoglienza, pur essendo di competenza regionale,  non possono cambiare da una regione all’altra. 

In merito al lato economico, il programma “industria 4.0” favorisce il raggiungimento di livelli più elevati di competitività, comunque occorre promuovere soprattutto l’artigianato.

La promozione deve avvenire a livello internazionale, con un forte investimento per i Cammini e i Borghi con particolare riguardo alla dorsale appenninica.

Si tratta di un insieme di misure e interventi integrato e coordinato all’interno del Piano strategico del Turismo, che è stato elaborato con le associazioni di categoria ed enti locali, regioni e comuni italiani, sindacati ed esperti e fa parte di una strategia più ampia che comprende anche i grandi musei e le città d’arte. Queste, per la loro forza attrattiva, hanno vita autonoma, ma possono essere considerate porte di accesso al resto del territorio: Cammini e Borghi vanno considerati la circolazione arteriosa, per questo va curata la tracciabilità dei percorsi e l’interconnessione tra un Cammino e l’altro. Tutto si tiene, in una visione sinergica con interventi opportunamente coordinati.

Il fascino dei Borghi e della via Francigena   

E’ il caso di aggiungere  che nei Borghi  c’è un vero e proprio “museo diffuso” da valorizzare non solo per gli evidenti risultati di natura economica, ma anche per diffondere l’immagine più autentica del Bel Paese, polarizzata sulle grandi città d’arte mentre nel territorio il presepio dei Borghi medievali nei quali si vive un clima di favola ha un fascino incomparabile di immenso valore non solo identitario rispetto all’omologazione e all’appiattimento, ma anche attrattivo in un mondo oppresso dalla congestione e dall’affollamento.

Ripensiamo all’invito musicale di Franco Battiato e Mario Scamandro, riportato come  sigillo del progetto francigeno: “Ti invito al viaggio in quel paese che ti somiglia tanto… tutto è ordine e bellezza, calma e voluttà”,  sono questi i pregi incommensurabili dei nostri antichi borghi. 

Ha concluso il convegno il trailer del film “Le energie invisibili” di  Luca Contiero, nel filmato si vede il camminatore,  “un senso oltre i sensi”,  con le energie invisibili che lo sostengono lungo l’itinerario freancigeno.

Se tutte le strade portano a Roma – ci viene di commentare ricordando l’antico adagio – da Roma proseguono lungo la  Via Francigena fino a Gerusalemme.

Non è finita, nella terrazza panoramica della sala conferenze, con  la splendida vista sul Vittoriano, in una sfavillante giornata di sole, c’è stato un brindisi con una vinaccia tipica delle Marche: un assaggio delle tante specialità enogastronomiche che si trovano lungo l’itinerario, oltre alle meraviglie ambientali e artistiche  illustrate magnificamente nella guida del Touring.

Veniva voglia di incamminarsi subito sulla via Francigena. Ma Gerisalemme era troppo lontana…

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

Seicento italiano, 2. Le ultime tre sezioni della mostra alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria LevanteSi conclude la nostra visita alle opere esposte  alle Scuderie del Quirinale nella mostra “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni dei Reali di Spagna” , aperta dal 14 aprile al 31 luglio 2017. Le 60 opere esposte sono  del Patrimonio Nacional, che gestisce le collezioni della Corona e ha collaborato nell’organizzazione della mostra con ALES, la società “in house” del MiBACT, presidente e A.D. Mario De Simoni,  che gestisce le Scuderie del Quirinale. La mostra è curata da Gonzalo Redin Michaus, come il catalogo Skira.

     Abbiamo già raccontato le prime due sezioni, con Barocci e Caravaggio, Guercino e Guido Reni, dopo aver rievocato la creazione delle Collezioni dei Re di Spagna, che soprattutto con Filippo IV vollero arredare i nuovi edifici e saloni reali con opere di artisti italiani che amavano in modo particolare. Questa rievocazione è stata una cavalcata sull’evoluzione artistica del ‘600 nel superamento del manierismo, tra naturalismo,  realismo e idealismo, fino a barocco.

Il trionfo del barocco con Bernini e Algardi

Passiamo alla  3^ sezione della mostra, “La Roma di Bernini” che intende sottolineare l’irruzione del barocco attraverso una serie di sculture di Bernini e Algardi.

Il percorso espositivo, però, non compie un salto così brusco, prima presenta il dipinto di Giovanni Lanfranco e bottega,  “Trionfo di un imperatore romano con due re prigionieri”, 1634-36, lungo oltre 3 metri e 60, del cosiddetto “barocco decorativo” che l’artista  portava avanti con Rubens e Pietro da Cortona.  E’ uno dei 6 quadri sul ciclo della storia di Roma commissionati a Lanfranco  dall’ambasciatore spagnolo per il palazzo del Buen Retiro  ultimato nel 1633. Il quadro raffigura il corteo con dei colpi di luce su figure e volti ma con forme rotondeggianti di tipo barocco.

Dopo Lanfranco, pittore di corte in Spagna per dieci anni, uno spagnolo autentico, il grande Velasquez, al secolo Diego Rodriguez de Silva, che presumibilmente dopo il primo viaggio in Italia – vi tornerà venti anni dopo –  dipinse “La tunica di Giuseppe”, 1630-34, anch’esso di grandi dimensioni, 2 metri e 13 per 2 e 84,  e “La fucina di Vulcano”. 1630.

In entrambi, e possiamo vederlo nella “Tunica” esposto in mostra, troviamo un ritorno alla visione caravaggesca pur nell’impostazione classicista. Infatti, come afferma il curatore Gonzalo Redin Michaus, l’artista non cercava “di stabilire un repertorio di carattere universale delle espressioni dell’essere umano e tanto meno intendeva fissare – come faceva, ad esempio, Reni – una bellezza ideale valida per tutte le proprie figure”. Ed ecco la sua linea artistica: “Per il maestro spagnolo, come per Caravaggio, entrambe le cose dovevano avere il proprio fondamento nella realtà e tradurre al contempo una verità assoluta, comprensibile a tutti”. Il realismo è “nel volto tra l’attonito e l’orripilato di Giacobbe”, che raffigura “la reazione di un individuo reale e concreto dinanzi a una notizia sgradita, ma è allo stesso tempo l’ incarnazione stessa della sorpresa, riconoscibile da qualsiasi osservatore”.

Soggiornò in Italia anche Charles Le Brun,  del quale vediamo esposto “Cristo morto compianto da due angeli”, 1642-45. rappresentazione iconografica meno frequente della “Pietà” sulle ginocchia della Madonna; è disteso a terra, con i due piccoli angeli-putti che sollevano appena un lembo del sudario, è come se nessun essere umano fosse degno di piangerne la morte.

Prima delle sculture barocche  vediamo ancora due dipinti, un altro Cristo, questa volta  calato dalla Croce, è la “Deposizione” di Giovan Francesco Romanelli, 1661-62, di cui viene sottolineata la “straripante vitalità barocca” presa da Bernini, temperata dalla classicità di Raffaello; e “Santo Stefano protomartire e arcidiacono”, di Charles Mellin, 1630, a braccia conserte, grandezza naturale, gli occhi rivolti in alto, la sua è “una tavolozza sensuale e una pennellata pastosa”.

 Siamo giunti così alle sculture, vediamo lo straordinario “Cristo crocifisso” 1654-56, di bronzo, di Gian Lorenzo Bernini il grande maestro del Barocco, un’opera alta 1 metro e 40, commissionata dalla Spagna per il Pantheon reale dell’Escorial, dove rimase poco tempo per essere poi spostato in una parte del monastero non aperta al pubblico, inaspettatamente sostituito dal Crocifisso meno pregiato di Guidi, allievo del suo rivale Algardi. forse perché non era dorata. E’ una figura composta, serena come se dormisse con la testa appena reclinata, dalla forte carica devozionale . Di Bernini c’è anche il modello in bronzo dorato della “Fontana dei quattro fiumi”, 1651-65,  un bozzetto alto 1 metro  e mezzo della grande fontana commissionatagli da papa Innocenzo X nell’ambito del progetto di trasformazione barocca dello spazio urbano romano, con la personificazione dei fiumi a simbolo dei quattro elementi. Fu l’unica committenza che ebbe da questo papa, il quale preferì Algardi ritenendo Bernini compromesso con il suo predecessore inviso, Urbano VIII.Ad  entrambi Diego de Aragon, 4° duca di Terranova, che considerava Roma “madre universale delle novità”, nel 1654 commissionò  in modo equanime una serie di opere per Filippo IV. Invece al solo Algardi furono commissionate 4 coppie di sculture per il “Salone degli specchi” dell’Alcazar, di cui abbiamo già parlato.

 Di Alessandro Algardi, dunque, vediamo “Nettuno”  e “Cibele”, 1665-66, due  sculture  movimentate alte oltre un metro, suo il modello, con le figure di contorno che sembrano roteare intorno alla figura centrale che dà il nome alle opere, le due in basso sono femminili in groppa a cavalli marini per Nettuno,  putti in groppa a leoni per Cibele.

Su invenzione di Algardi,modello di Ferrata e Da Cortona, fusione di Loti e Artusi, l’“Altare di Leone I: Incontro tra Attila e papa Leone I Magno”, alto 1 metro, quindi poco meno delle due sculture precedenti, una sorta di bassorilievo in argento in una nicchia con trabeazione di bronzo dorato, composizione con vitalità e dinamismo dato da figure intrecciate e sovrapposte. Nel “Calvario”, 1680-84, c’è un “Cristo” crocifisso, opera forse di Algardi, di dimensioni minori di quello di Bernini e dalla figura più tormentata, ai suoi piedi la “Maddalena”, di Antonio Raggi, sgomenta, con la veste attorcigliata.

Con la “Sacra Famiglia” di Giovanni Battista Foggini, 1679-83, un ovale in bronzo dorato su lapislazzuli e legno, si chiude la spettacolare sezione dedicata al barocco.

La ricerca dell’ideale nell’equilibrio tra arte e natura

Nella 4^ sezione, “Ideale e Accademia. da Albani a Maratti”, si celebra, per così dire, l’ulteriore evoluzione del passaggio dalla natura e dal realismo all’ideale.

Seguendo la linea classicista,  Bellori nel suo discorso del 1664 all’Accademia romana di San Luca  suggeriva di “seguire gli antichi nella selezione delle parti più belle della natura, per poi concepire un’idea di perfetta bellezza mediante la propria immaginazione”, così il curatore riassume i concetti contenuti nel  testo del discorso dal titolo “Idea del pittore dello scultore dell’architetto”.  Quindi né la fantasia innaturale del manierismo, né il naturalismo spinto di Caravaggio, ma “un equilibrio tra arte e natura che tragga linfa dalla statuaria classica e dalle prove di Raffaello, Annibale Carracci, Poussin e Domenichino”. A questi avrebbe aggiunto poi Guido Reni, Andrea Sacchi e Carlo Maratti, “al culmine di una genealogia che iniziava con Carracci, continuava con il suo più fedele collaboratore, Franco Albani (1578-1660), e proseguiva con Andrea Sacchi, discepolo del precedente e maestro di Maratti”; aggiungiamo che 124 dipinti di quest’ultimo furono venduti nel 1772 dalla figlia Faustina  alla corona spagnola per il Palazzo reale destinato ai sovrani Filippo V ed Elisabetta Farnese. Sono i tre artisti che  troviamo nella galleria di dipinti di questa sezione.

 Di Francesco Albani vediamo “Sant’Andrea adora la croce del suo martirio”, 1610-17, un olio su rame  di piccolissime dimensioni, 22 per 16 cm, che rappresenta un episodio dei Vangeli apocrifi.  La figura dell’apostolo spicca per la luminosità del corpo, chiaroscurato con attenzione ai particolari della barba, in un viso dall’espressione orante accentuata dalle braccia allargate nella preghiera, mentre le figure degli aguzzini sono molto scure, senza volto, con colpi di luce solo sulle braccia, la tunica del bambino che regge il vassoio viene accostata a quella di un angelo di Annibale Carracci.

Ritratti molto espressivi di Sacchi e di Maratti, che fu suo allievo. La “Testa di anziano” di Andrea Sacchi, 1627-30,  richiama altre due teste dello stesso autore, una delle quali di “Sant’Andrea” , ma se ne differenzia perché più essenziale, non vi sono le mani i cui dettagli nelle altre sviano l’attenzione dal volto, che qui è l’unico soggetto della raffigurazione, reso con uno squarcio di luce nel collo e nella fronte che rischiara le ombre nere dominanti l’intera immagine dando corpo alla barba e al busto.

Completamente diverse dalla testa di Sacchi e anche tra loro le due figure  di Carlo Maratti. Il primo dipinto, “Ritratto di Francesca Gommi come santa Caterina”, 1683, della serie fatta avere dalla figlia dell’artista Faustina a Filippo V, raffigura la donna, che da mercante addetta alla vendita delle opere  di Maratti divenne sua amante per vent’anni; si sposarono solo nel 1700 alla morte della  prima moglie; perciò la raffigurazione nelle vesti di santa Caterina fu ritenuta sconveniente a quei tempi data la sua posizione ancora non legittimata. Nell’impiego di una modella anche chiacchierata per una santa e nello sguardo che fissa l’osservatore viene trovato un parallelo con la cortigiana-modella del Caravaggio, l’immagine luminosa spicca sul fondo nero, la mano sinistra morbida in primo piano, mentre la destra con le dita affusolate regge il simbolo della santa. 

Analoga luminescenza su fondo scuro in   “Lucrezia si dà la morte”, 1685,  che viene accostato a un ritratto di “Cleopatra” dello stesso artista: la luce ravviva il mantello rosso e la veste bianca che le lascia scoperto il seno riprodotto come il volto con grande attenzione anatomica  e delicata sensualità: all’eroina, che si uccise dopo la violenza subita da Tarquinio, fu accomunata la figlia dell’artista che resistette al tentativo di violenza del duca Sforza Cesarini divenendo un simbolo. 

Dopo la “Madonna col Bambino in gloria”, di Giacinto Calandrucci, 1685, già attribuita allo stesso Maratti, anch’essa acquistata da Filippo V, immagine iconica molto tradizionale, cambia tutto: siamo alle sculture, anche in questa sezione.

Apre la serie Francis Duquesnoy, suoi “Mercurio con amorino”, e “Apollo insegna a Cupido a tirare con l’arco”, 1630-40, due figure languide  con il corpo flessuoso piegato all’indietro in un gesto voluttuoso, di ascendenza greca e non romana, in una delicatezza  raffaellesca, l’opposto del vigore michelangiolesco.

Chiudono la galleria della sezione 3 busti in marmo: “La regina Cristina di Svezia” di Giulio Cartari, 1681, “Semiramide”  e “Pentesilea”, di Johann Bernhard Fischer von Erlach, 1680-85. Il primo raffigura la regina al centro della vita culturale romana, legata a Bernini, al quale il busto era stato attribuito: è presentata come un’eroina vestita all’antica con la testa rivolta a sinistra in una posa autorevole. Gli altri due busti, con la regina dell’Assiria e la regina delle Amazzoni, evidenziano i loro caratteri distintivi, la colomba la prima, un solo seno per meglio tirare l’arco la seconda; le sculture si ispirano chiaramente alla statuaria classica delle divinità.Luca Giordano e de Ribera, tra Italia e Spagna, 

Si passa così all’ultima parte della mostra, la 5^  sezione, “Da Roma a Napoli. Da Napoli alla Spagna”,  nella quale viene sottolineata la presenza della scuola napoletana nelle collezioni dei Re di  Spagna, che dominarono Napoli per due secoli e ne furono artisticamente conquistati, una sorta di “Graecia capta, ferum victorem cepit…”. Il grande pittore spagnolo de Ribera andò a Napoli nel 1616 a 26 anni, ma dal 1606 era a Roma dove conobbe anche di persona Caravaggio che, tra l’altro,  soggiornò due volte a Napoli: di qui il titolo della sezione, che sottolinea anche l’altra direttrice della spola artistica, dall’Italia alla Spagna, protagonista e alfiere Luca Giordano.

Vediamo le opere di una nutrita serie di artisti operanti a Napoli e spesso anche a Roma, molti dei quali influenzati da de Ribera. Francesco Fracanzano  fu tra coloro che ne sentirono di più l’influsso, ma lo reinterpreta in modo meno naturalistico in “San Paolo”, 1630-40, espressione intensa, mani nervose. Mentre di Pietro Novelli, il maggiore pittore siciliano del ‘600 che conobbe Van Dyck a Palermo e de Ribera a Napoli, con “Lot e la famiglia in fuga da Sodoma”, 1640 è presente  una delle migliori opere, era stata “censurata” con una velatura sulla scollatura – rimossa in sede di restauro – ritenuta inadatta per la sua collocazione nel convento dell’Escorial.

Di Louis Cousin detto Luigi Primo o Gentile, fiammingo operante a Roma e Napoli, è esposto  “I quattro padri della chiesa latina“, 1635, in un naturalismo stemperato dall’impronta barocca. A Massimo Stanzione è stata attribuita definitivamente con il restauro “I sette arcangeli”, intorno al 1630, prima assegnato a un discepolo; era il principale rivale di de Ribera a Napoli.

A sua volta Domenico Gargiulo è rappresentato da due composizioni molto affollate, “La strage degli innocenti” e “Il ratto delle Sabine”, 1650, in un insolito abbinamento. Due opere anche per Andrea Vaccaro – che con Luca Giordano è tra gli artisti del ‘600 napoletano più presenti e apprezzati nelle collezioni reali spagnole – “La logica” e “Riposo durante la fuga in Egitto”, tra il 1640 e il 1660, lo stile naturalistico è addolcito dall’influenza di Guido Reni.

Giovanni Battista Beinaschi, piemontese, si stabilì a Napoli intorno al 1670 dopo aver operato anche a Roma, il suo “San Paolo eremita”, 1655-61, sorpreso e  sbigottito all’arrivo dell’aquila, ricorda l’ “Omero cieco” e si ispira allo stesso soggetto di de Ribera. Un moto di sorpresa anche nell’altra figura di santo solitario, “San Girolamo ascolta la tromba del Giudizio universale”, 1670-75, di Mattia Preti, la positura diagonale e i contrasti di luce richiamano il dipinto più caravaggesco di de Ribera sullo stesso soggetto.

E’ una carrellata coinvolgente per la varietà e intensità delle immagini, dalle figure singole alle composizioni anche molto affollate con la luce che svolge un ruolo primario nello scolpire le figure e in qualche caso si diffonde sull’intera  scena, spesso con l’evidente influsso di de Ribera.

Ma prima di parlare dello spagnolo trapiantato a Napoli, per gli effetti di luce e i “trapassi chiaroscurali” – per usare le parole di Marco Vincenzo Fontana –  che scolpiscono le immagini,  ci soffermiamo su Luca Giordano, napoletano, il più apprezzato dalla corte spagnola dove si fermò per un decennio, come abbiamo ricordato,  nella seconda metà del ‘600, celebre per la prontezza nel dipingere. Vediamo esposti “L’asina di Balaam” ed “Ebrezza di Noè”, 1665-66. Anche a lui viene attribuita una dipendenza quasi mimetica da de Ribera, ma in chiave barocca, in molti particolari dei dipinti: nel primo, l’angelo minaccioso, l’asina recalcitrante e il profeta ignaro che la sferza suscitando uno sguardo supplice molto umano; nel secondo, lo “spiccatissimo tenore ribeiresco del dipinto” si nota nei corpi scolpiti dalla luce, nel drappo rosso, su un fondo scuro nel quale la composizione si anima con straordinario dinamismo.

Siamo giunti, così, a Jacopo de Ribera, chiamato a Napoli “lo Spagnoletto”, di cui sono esposti in mostra 6 dipinti, trasferito a Napoli  nel 1616, a 26 anni, come abbiamo ricordato, dopo che nei dieci anni romani aveva conosciuto Caravggio, il cui influsso è presente in lui.

Lo vediamo nelle 3 opere scolpite dalla luce, i corpi tormentati in un  realismo che rimanda al Merisi, “San Francesco d’Assisi si getta in un roveto”, 1630-32, di 2 metri e mezzo per 1,80, dove il corpo è smagrito e scavato, il viso attonito rivolto verso l’angelo, un dipinto sullo stesso tema del 1642 è meno tormentato. Altrettanto “San Girolamo in meditazione”, 1635, che si inserisce nel filone di figure maschili  “prese a pretesto – scrive Giuseppe Porzio – per  una rappresentazione spesso compiaciuta della vecchiaia, secondo un gusto naturalistico che costituisce l’espressione meglio nota e e fortunata del fenomeno riberesco”, 

Il santo viene raffigurato anche in una situazione più tormentata con “San Girolamo penitente”, 1635, il critico appena citato lo definisce “una delle più originali e potenti invenzioni del pittore nell’ambito della sua vastissima produzione di santi eremiti”, con il corpo anche qui smagrito e scavato, quasi scolpito dalla luce, mentre la quarta opera che vediamo, “Giacobbe e il gregge di Labano”, 1632, non presenta questi segni di sofferenza, anche se il viso è attonito con i colpi di luce che illuminano sul fondo scuro la mano sinistra e il vello delle pecore.

Cambia tutto con le ultime 2 opere esposte. “San Francesco d’Assisi riceve le stimmate”, 1642, segue di un decennio la scena del roveto, il dipinto è altrettanto monumentale, metri 2,30 per 1,80, ma qui la scena è illuminata dall’azzurro del cielo, il santo ha le braccia aperte e il viso rivolto in alto, non è estasiato come si potrebbe pensare per l’insieme della scena, bensì attonito e preoccupato,  la distanza dalle altre opere dell’artista ha fatto dubitare sull’attribuzione fino al 1992.

Ancora più sorprendente il “Ritratto equestre di don Giovanni d’Austria”, 1648, siamo nella stessa fase più avanzata della vita artistica di de Ribera, anche qui irrompe l’azzurro del cielo e del golfo di Napoli dove si intravedono delle navi, in un ritratto equestre in cui il diciottenne condottiero non viene raffigurato in modo epico, come avrebbe giustificato la repressione della rivolta di Masaniello al comando di una flotta e migliaia di soldati; ma come un elegante principe vestito di velluto e broccato secondo le descrizioni delle cronache dell’epoca; del resto l’infante era colto e raffinato, amante delle arti e con il pittore dovevano esserci stati dei rapporti.

Si parla di istruzione artistica ma anche di una seduzione da parte del nobiluomo della figlia o nipote di de Ribera  che gli avrebbe dato addirittura un figlio o una figlia, cosa che sarebbe dimostrata dal fatto che una figlia naturale dell’infante risultava nata “da una bellissima fanciulla, figlia del famoso pittore chiamato Spagnoletto Ribera”. Gabriele Finaldi, nel citare l’episodio, aggiunge che, sulla base delle ricerche di Ulisse Prota-Giurleo, “si tende a pensare che la madre della bambina fosse piuttosto una figlia di Juan, fratello dell’artista anche lui a Napoli, di cui si perdono le tracce  a partire dal 1627, o di uno dei fratelli di Caterina Azzolino, la moglie del pittore”.  E commenta così: “L’episodio si prestava a essere romanzato e il biografo degli artisti napoletani, Bernardo De Dominici, racconta la storia con molti dettagli, indicando che quel disonore costituì per Ribera la punizione divina, dato il suo carattere altero e la sua cattiva condotta nei confronti degli altri pittori in città”.

Sembrerebbe estranea questa storia più attinente al gossip d’epoca che alla vicenda artistica, ma ci piace concludere così il nostro racconto della mostra per sottolineare quale vastità di temi anche storici e umani presenta un’esposizione  dal notevole  impatto spettacolare e dall’importante valenza culturale: una simile carrellata tra gli stili e le tendenze più significative di un periodo cruciale della storia dell’arte è quanto mai rara soprattutto nella sua valenza documentaria e didattica.

Dopo la Francia del “Museo universale”, lora a Spagna delle collezioni reali, occorre aggiornare in termini edificanti e non di degrado, l’antica espressione “o Franza o Spagna, purché se magna”: se è cibo artistico, all’insegna della natura, della verità e dell’ideale, ben venga, è cibo dell’anima, alimento dello spirito. Da ritenersi salutare per la formazione morale e civile di cui si ha sempre più bisogno in un mondo globalizzato e in un’arte disorientata che rischia di perdere punti di riferimento vitali.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle collezioni dei Reali di Spagna. “, a cura di Giordano Redin Michaus, Patrimonio Nacional, Scuderie del Quirinale, Skira,aprile 2016, pp. 228, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 30 maggio u. s.  con altre 12 immagini.  Per gli artisti citati, in particolare Lanfranco, cfr. i nostri articoli, in questo sito, 5, 7, 9 febbraio 2013.

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Gian Lorenzo Bernini, “Cristo crocifisso”, 1654-56; seguono,  Jusepe de Ribera, “Giacobbe e il gregge di Laban”1632, e  “Ritratto equestre di don Giovanni d’Austria”, 1648; poi, Giovanni Battista Foggini, “Sacra Famiglia”, 1679-83, e  Luca Giordano, “La cattura di Cristo”, 1699-1700; quindi, Giovanni Battista Beinaschi, “San Paolo eremita”, 1655-61, e Andrea Vaccaro, “La logica”, 1650-60, inoltre, Alessandro Algardi, “Cibele”, 1655-56, e Giovan Francesco Romanelli, “Deposizione”, 1661-62,; infine,  Charles Mellin, “Santo Stefano protomartire e arcidiacono” 1630, e Giacinto Calandrucci, “Madonna con il Bambino in gloria”, 1685; in chiusura, Massimo Stanzione, “I sette arcangeli”.

Botero, le ultime 5 sezioni della mostra, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Concludiamo il racconto della visita alla mostra  “Botero”, al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016,  con le ultime 5 delle 8 sezioni tematiche, che seguono le prime 3 sezioni già commentate: 48 opere, di cui 43 grandi dipinti  e 5 sculture imponenti, realizzate per lo più dal 2000 in poi, nel personalissimo stile dell’artista in un insolito figurativo dai volumi dilatati. Patrocinata dalla Regione Lazio, promossa da Roma Capitale, la mostra è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con MondoMostreSkira, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

Abbiamo già ripercorso la formazione di Botero per evidenziare le matrici del percorso artistico alimentato dalla cultura latino-americana della sua terra con l’arte tradizionale precolombiana e quella portata dalla dominazione spagnola con il barocco; poi nel contatto con l’Europa, Italia e Spagna, l’influsso dei grandi maestri, in particolare Piero della Francesca, cui i 15 anni vissuti negli Stati Uniti hanno aggiunto il contatto con le avanguardie dell’espressionismo astratto. Poi abbiamo cercato di penetrare nella peculiare cifra stilistica e contenutistica della sua arte e di comprendere da dove nascono quelle forme gonfie e ridondanti e come riescano a non suscitare il riso delle caricature, ma tenerezza e un senso di serena condivisione da parte dell’osservatore.

Dopo questa analisi preparatoria abbiamo dato avvio alla visita alla mostra descrivendo le prime 3 sezioni pittoriche, “Versioni da antichi maestri”, “Nature morte”, “Religione”. Ora passiamo alle ultime sezioni del nostro percorso, con le 4 sezioni pittoriche restanti, da “Politica”  e “Circo”, a “Vita latino-americana” e “Nudi”, e in conclusione alle “Sculture”  – collocate in modo ambivalente sulla rampa da cui si accede alla mostra e se ne esce – perché le abbiamo collegate ai “Nudi”.  Entriamo così ancora di più nel mondo di Botero, nell’umanità popolare fino all’intimità personale.

Politica e  Circo

Iniziamo con la “Politica”,la  4^ sezione pittorica della mostra con 5 dipinti, di cui 4 dedicati al vertice delle istituzioni, il Presidente con la “first lady”, e 1 a un ambasciatore.  Hanno come caratteristica comune, oltre alla ridondanza delle forme e ad una certa fissità di espressione, la presenza di particolari nei soggetti, che sembrerebbero marginali ma riducono la solennità del loro “aplomb”.

Così “L’ambasciatore inglese”, 1987, stringe nella mano sinistra una bandierina minuscola, contrastante con le sue dimensioni e la postura, quasi una sua scelta per ridurre l’imbarazzo; dello stesso anno “Il Presidente”, analoga postura in contrasto con la mano destra che tiene tra le dita una minuscola sigaretta, mentre la sinistra stringe un foglio arrotolato.

E nella “Famiglia presidenziale”, 2003, la composizione in un interno che richiama le foto ufficiali dei regnanti, è resa meno pomposa e solenne dal  gesto del presidente di sistemarsi la cravatta con la mano destra, e anche il cagnolino in primo piano crea una maggiore familiarità; mentre la “first lady” –  la chiama così nel quadro successivo – lo tiene sottobraccio con la destra, ha un ventaglio nella sinistra e sul volto  un’espressione attonita,  quasi che l’immagine ufficiale la spaventasse, temendo di non apparire all’altezza di un ruolo così elevato. Il gesto di sistemarsi la cravatta, qui con la mano sinistra, lo ritroviamo in “Il Presidente”, 1990,  stesso abbigliamento ufficiale ma con cappello,  invece del quadro alle spalle, la vista dei tetti e dei monti dal balcone dietro di lui. 

L’opera successiva è il dittico “Il Presidente e la first lady” , 1989, entrambi con i loro grossi corpi rigonfi su cavalli dalle zampe tozze, davanti a lussureggianti piante di banano, il particolare che si distacca dal resto è il frustino che impugnano, minuscolo rispetto all’animale che cavalcano.

Dalle immagini presidenziali personale e familiare a quella corale in “Il Presidente e i suoi ministri”, 2011, anche qui la solennità è rotta dai gesti quasi imbarazzati con le mani al petto del Presidente, di un ministro e del Cardinale, con un cagnolino a terra, soltanto il generale in divisa e decorazioni saluta militarmente sull’attenti, in una composizione
rappresentativa del potere. Nel “Ritratto militare della Giunta Militare”, 1971, non in mostra, il potere era raffigurato  in modo ancora più pomposo, il Presidente in rosso, quanto mai debordante, con un prelato e i generali, di cui uno addirittura  a cavallo, ma la scena marziale era ingentilita dal cagnolino, il bimbo in braccio in divisa però con un trenino a terra. Anche nel dittico del 1990, “Visita di Luigi XVI a Maria Antonietta a Medellin”, non in mostra, l‘immagine del  potere era ingentilita dal minuscolo uccellino nella mano sinistra della Regina e dalla testa che si affaccia timidamente dalla porta
socchiusa dietro la monumentale figura del sovrano.  

Niente a che vedere con la forte denuncia del potere dittatoriale di Larraz, la cui “pittura della libertà” mette alla berlina i satrapi sudamericani rappresentandoli impettiti in modo ridicolo negli atteggiamenti più diversi; e neppure con il nostro Enrico Baj che ridicolizza i generali tronfi nelle loro medaglie.  Botero è interessato allo sfarzo e ai colori,  nulla di grottesco pur nelle forme ridondanti. “Il tono di Botero, commenta il curatore Rudy Chiappini, è quello di un narratore indipendente, di un affabulatore dall’accento libertario la cui caratteristica  risiede nella saggezza temperata dal sorriso e da un innato  senso di ironia”; che qui, forse, si manifesta maggiormente che sugli altri temi. Ma nei due cicli di cui abbiamo già parlato, “Violencia in Colombia” e “Abu Ghraib”, la denuncia del potere è invece quanto mai aspra, non c’è ironia ma condanna senza appello.

Vi colleghiamo, quasi provocatoriamente, la 5° sezione pittorica sul“Circo”,  perché troviamo un’analogia nelle figure singole con una punta di imbarazzo, e nelle composizioni collettive ugualmente colorate e rappresentative del mondo del circo. “Pierrot”, 2007, e “Pagliaccio”, 2008, sembrano altrettanto  imbarazzati del “Presidente”, mentre “Numero da circo”, 2007, e  “Contorsionista”, 2008, rivelano la straordinaria capacità dell’artista di rendere agili anche le sue forme dilatate e ridondanti impegnandole addirittura in acrobazie, il primo un nudo.

Le due composizioni collettive, Musici”, 2008,e “Gente del circo con elefante”, 2007, riassumono il mondo del circo, durante lo spettacolo la prima in un cromatismo tenue, nei momenti di pausa la seconda, in un cromatismo molto intenso, con l’elefante e l’acrobata che si esercita, la donna cannone con una scimmia vestita e il clown. “Un universo variopinto e un caleidoscopio di colori che innalzano la meraviglia a principio essenziale di comprensione”, commenta il curatore, e aggiunge: “Se il circo è il luogo fisico e mentale in cui lo stupore è la regola indispensabile al funzionamento del suo articolato meccanismo, il particolare atteggiamento creativo di Botero con le sue invenzioni ne favorisce il trasferimento sulla tela”.

Così ne parla l’artista nel ricordare che l’idea iniziale gli venne assistendo alla sfilata dei carrozzoni e poi allo spettacolo serale con la moglie Sophia in una piccola città del Messico: “Io ho cercato di rendere armonici i colori che qui sono esagerati. Di questa gente mi ha colpito il nomadismo che si traduce in poesia. In tale clima appare leggera anche l’enorme donna trapezista sospesa sorprendentemente nel vuoto. Dunque io dipingo qualcosa che è improbabile ma non è impossibile”. E lo vediamo nel “Contorsionista”, 2008, altrettanto enorme e sospeso nell’aria acrobaticamente appoggiato a una testa: l’improbabile trasformato in realtà, del resto è questo il messaggio del circo con i domatori di bestie feroci e gli uomini volanti, gli equilibristi e i giocolieri.

Vita latino-americana

Mentre il ciclo del “Circo” nasce da una circostanza occasionale, la “Vita latino-americana”, cui è dedicata la6^ sezione pittorica, è permeata dal profondo legame dell’artista con la sua terra, mantenutosi intatto, come lui stesso ricorda, pur essendo vissuto molti anni in Europa e 15 anni negli Stati Uniti, a New York. “Le esperienze personali che ho vissuto in Sudamerica  e che hanno caratterizzato la mia giovinezza – sono le sue parole – si ritrovano nella maggior parte dei miei lavori. L’anima latino-americana permea tutta la mia arte”.

Non ne fa una propria peculiarità, bensì un connotato generale: “Quello che un artista vede nel corso della sua giovinezza resta fondamentale per gli sviluppi di tutta la sua opera futura… Credo che un artista che lavora senza tener conto delle proprie radici culturali non possa giungere a un’espressione autentica, universale”.  E lo spiega: “Da una parte emerge costantemente un sentimento di nostalgia per certi momenti della gioventù e dall’altra si ha sempre la tendenza a dipingere la realtà che si conosce meglio: il vissuto dell’adolescenza. Bisogna descrivere qualcosa di molto locale, di molto circoscritto, qualcosa che si conosce benissimo, per poter essere capiti da tutti”.  In termini personali: “Io mi sono convinto che devo essere parrocchiale, nel senso di profondamente, religiosamente legato alla mia realtà, per poter  essere universale”.

Così descrive questa realtà: “L’essere cresciuto a Medellin mi ha consentito di vivere in una sorta di microcosmo in cui erano rappresentate tutte le componenti sociali, dalla borghesia benestante alle classi più povere, in cui il vescovo era per noi come il Papa e il Sindaco come il Presidente della Repubblica.” E  confida come l’ha metabolizzata: “Medellin era una piccola città, ai tempi contava circa centomila abitanti, oggi ne ha quasi tre milioni. Proprio questa sensazione di vivere in un mondo a parte ha contribuito a sviluppare la mia ispirazione, perché nell’arte spesso ci si affida alla memoria per costruire il proprio immaginario”.

Ed ecco come questo si traduce in immagini nelle parole del curatore: “Il tessuto narrativo di Botero proviene dai racconti e dai climi della terra natale in cui egli continua a specchiarsi e da cui trae alimento. Nelle scene di vita quotidiana ricondotte sulla tela le persone raffigurate sono profondamente comprese nel loro ruolo di dispensatrici di immagini così lontane dal nostro vivere attuale: ci osservano dal loro paesaggio incantato, esibendo una compunta impassibilità. Le azioni godono di una lenta armonia e di una espansione osmotica capace di coinvolgere gesti, atteggiamenti, ambientazione e oggetti”.

Degli 8 grandi dipinti esposti in mostra, 4 sono scene all’aperto e 4 in interni molto raccolti.

Tra i primi il più recente, “Carnevale”, 2016,  presenta un folto gruppo di gente del popolo, in maschera o meno, con le più diverse fattezze, posizioni e colori, dietro al grande suonatore di tromba, in primo piano di profilo, con le due gambe dei
pantaloni dalle tinte differenti, figura che ricorda il ciclo del “Circo”, mentre a terra sono sparse le cicche di sigarette come in molti interni.

“La strada”, 2000, mostra invece poche persone ben caratterizzate; la donna con bambino per mano e il cane, il grosso uomo che cammina visto di spalle e l’altrettanto ridondante donna di colore con un grande vassoio di frutta sul capo che viene avanti; mentre sulla destra un uomo piccolo sta per uscire dalla porta di  una casa dal muro di un viola intenso, sulla sinistra una grossa donna si affaccia a una piccola finestra di una casa dall’altro lato della strada con un muro giallo, nello sfondo case e un campanile, poi una collina. Come la finestra, così la strada sembra troppo angusta rispetto ai passanti, lo ritroveremo negli interni più intimi, quelli dei “Nudi”.  L’evoluzione verso il più marcato stile boteriano rispetto al dipinto con lo stesso titolo del 1988 è notevole, le proporzioni erano quasi quelle reali con la prospettiva corretta, gli spazi adeguati, i volumi poco dilatati. 

Le altre due scene all’aperto sono molto diverse. “Il club del giardinaggio”, 1997, .presenta cinque donne quasi in posa per una foto ricordo, con vasi di fiori e alberi, due sedute e tre in piedi, due delle quali con un cappellino, tutte con in mano strumenti del loro lavoro, pompa, rampini, palette.

Invece “Picnic”, 2001, mostra una coppia, con lei che si appoggia a lui, entrambi distesi a terra su una coperta viola stesa sul prato verde, a lato un cesto di frutta con una bottiglia e un bicchiere, sullo sfondo un paese a sinistra, alberi e più dietro dei monti sulla destra, scena placida e dolce. Era ancora più delicato il  “Picnic in montagna”, 1966, non in mostra, coppia quasi infantile, con i viveri già apparecchiati per lo spuntino, il tutto su improbabili rocce aguzze, senza sfondo. I viveri riempiono addirittura l’intera scena in “Picnic”, 1989, non in mostra, sulla tovaglia un grande cesto ricolmo di frutta, banane e arance, mele, uva e altro, un bottiglia e 4 bicchieri, due piatti con salami e altro, un’arancia tagliata, peperoni o cetrioli, un filoncino di pane tagliato; a destra  la testa dell’uomo addormentato, a sinistra spuntano solo le mani della donna ben sveglia  che beve e fuma.

Siamo in un ambito sempre più personale, che troviamo nei 4 dipinti in interno, il primo dei quali, “Le sorelle” , 1969-2005, richiama, come struttura compositiva e atteggiamenti, “Il club del giardinaggio”: quattro donne e una bambina schierate  come in posa, anche se di una seminascosta si vede solo la testa, tre di loro hanno in mano qualcosa, i ferri per la maglia di cui si vede il gomitolo a terra, il rosario, un gatto, altri due sono a terra e un altro sul mobiletto dietro di loro, sulla parete di fondo la parte inferiore di un grande quadro e dei quadretti, il tutto con forti contrasti cromatici. Più raccolta “Una famiglia”, 1989, non in mostra, lei seduta in poltrona con la bimba in braccio sotto un albero dal quale cadono frutti,  lui in piedi che tiene per mano un altro bambino, a lato l’immancabile cane.

Mentre altri due dipinti mostrano i soggetti intenti nel loro lavoro quotidiano: “Atelier di sartoria”, 2000, con quattro donne, due sedute e due in piedi con abiti di colori diversi, impegnate a cucire, a macchina e con l’ago, davanti a un’esposizione di tessuti anch’essi di vari colori, a terra un gatto sopra a un tappeto verde sul pavimento di legno. “La vedova”, 1997, è una composizione altrettanto affollata, con la protagonista in piedi in nero e tre bambini, due in piedi, di profilo e di spalle, una seduta a terra con il bambolotto, e a fianco dei giocattoli, dietro un tavolo con sopra due teli, rosso e  verde, e un  ferro da stiro collegato da un filo elettrico che il bimbo in piedi prende in mano, stesi su un filo dei panni di vari colori. Un’instancabile operosità addolcita dal gatto in braccio alla vedova. Al contrario “La casa di Mariduque”, 1972, non in mostra, presentava cinque donne di cui si può immaginare l’attività anche dall’uomo disteso a terra addormentato sotto la sedia,  che gozzovigliano gaudenti con venti cicche di sigarette a terra,  mentre una  piccola fantesca a destra, con la ramazza in mano, sembra attendere il via per ripulire il pavimento.   

Ancora più personale “Fine della festa”, 2006, quattro figure, un uomo disteso sul letto stremato a occhi chiusi con la sigaretta tra le dita, sul pavimento  le  cicche sparse, ancora venti, testimoniano le molte presenze alla festa, è nudo con gli abiti a terra, seduta sul letto davanti a lui una donna che si è tolta il reggiseno e si copre quasi fosse stata sorpresa da un estraneo, l’altra discinta con una gamba appoggiata sul letto, mentre in piedi dietro al letto un uomo con il cappello continua a suonare la chitarra guardando avanti come se la festa proseguisse, in primo piano a terra un bimbo che si protende. Un letto era anche al centro di “La casa di Armanda Ramirez”, 1988, ma invece dell’uomo addormentato è raffigurato un amplesso con una bambina di spalle che guarda e un uomo in primo piano alza sulla spalla una minuscola donna nuda, a lato la piccola fantesca con ramazza. 

Con queste immagini entriamo in una intimità che viene disvelata appieno nei “Nudi”.

I Nudi e le Sculture

Nella  7^ sezione pittorica, quasi da 7° sigillo,  sonoesposti4 “Nudi” rappresentativi di unaproduzione ampia, di cui della mostra del 1991-92 ricordiamo “Donna sdraiata”, 1974, e “Omaggio a Bonnard”, 1975, “La lettera”, e “Donna seduta”, 1976, “Donna che si sveste”, 1980, e “Colombiana che mangia una mela”, 1992,  “Donna di fronte alla finestra” e il trittico “L’Atelier”, 1990, fino a “Il modello maschile”, 1984, e “Autoritratto con bandiera”, che ritrae l’artista in piedi con tavolozza e pennelli nella mano sinistra e una bandierina rossa nella destra  quale pudica foglia di fico.

C’era anche “Il Bagno”, 1989, esposto pure nella mostra attuale, nel quale la sproporzione tra le forme straboccanti in modo quanto mai vistoso della donna di spalle che si specchia contrastano visibilmente con le dimensioni ridotte della vasca e del WC, per non parlare del minuscolo rotolo di carta igienica rosa, nell’impossibilità palese di utilizzarli. Ripensiamo ad “Alice nel paese delle meraviglie” con il corpo ingigantito dai prodigi della favola rispetto al resto, sedia e tavolo minuscoli rispetto a lei e uscio divenuto una strettissima porticina da cui non può uscire. Mentre in “Omaggio a Bonnard” del 1975 la donna era distesa dentro la vasca, la dilatazione dei volumi era ancora contenuta, l’effetto favola non si dispiegava come nelle opere più recenti in mostra.

L’altro nudo che vediamo esposto con lo stesso titolo “Il Bagno”, 2001, è successivo di 12 anni, la donna è sempre in piedi ma di fronte, con nella mano sinistra un asciugamano cremisi e al polso un orologino miniscolo, a lato si intravede l’orlo di una vasca visibilmente di dimensioni ridotte ma la sproporzione non è così palese come nel precedente.

Testimonial della mostra, che figura in grandi cartelli pubblicitari nelle strade del centro, sui bus, nelle stazioni della metropolitana, per citare i più vistosi, è il terzo nudo esposto, “Donna seduta”, 1997, figura frontale su una panca rivestita di verde con un panno bianco e dietro una tenda viola, quasi in posa da concorso di  bellezza con il braccio sinistro dietro la testa in un gesto vezzoso ed esibizionista. Il dipinto dallo stesso titolo del 1976  ha somiglianze nella positura, ma la  capigliatura è molto diversa e nel lato destro spunta una mano maschile con un cerino per accendere la sigaretta che lei ha nella mano destra, c’è il minuscolo orologino al polso di “Il Bagno” del 2001.

Il quarto nudo esposto, “Adamo ed Eva”, 2005, reca in piedi, di profilo, le due imponenti figure che si dividono la minuscola mela, tra loro si insinua come una rossa saetta dal cielo  il serpe tentatore. 

La raffigurazione dei primi esseri umani nell’Eden, fatta già in precedenza, ha fatto dire a Paolo Mauri nel 1991: “Il mondo di Botero è un ormai un universo provvisto  persino dei suoi Adamo ed Eva (sono quadri del 1989). Un mondo sornione, intrigante, divertente anche ma soprattutto filosofico. Il mondo è forma, sembra gridare Botero, perché non ve n’accorgete?  Il mondo è carne, ma la carne cos’è?”.

Nello stesso anno Fabrizio D’Amico, riguardo ai nudi: “I loro amplessi saranno di fatto resi impossibili dall’ingombro del ventre sui minuscoli sessi, dai letti inadatti a contenerne la mole…”. E Dacia Maraini, con l’iperbole della scrittrice: “Sono curiosamente privati di sessualità, maschile o femminile, androgini perfetti nella sospensione attonita di quelle carni talmente simili fra di loro da apparire, più che fratelli, parti smembrate di una stessa grande persona divina in forma di globo”.

Noi vi troviamo tanta tenerezza, in un ritorno all’innocenza primigenia, concordiamo con la visione del curatore Chiappini che parla dei “volumi ammantati della straordinaria grazia muliebre, nonostante l’abbondanza rubensiana dei corpi, le storie sembrano immerse in una sorta di Eden primordiale che non contempla la malizia e il peccato”.

D’altra parte, se la sessualità dei nudi è bandita dalla loro innocenza, la sensualità in quelle forme morbide e offerte non manca, lo afferma l’artista collegandola con la peculiarità della propria arte: “In un’opera la forma, il colore, la composizione del tema e la sensualità devono coesistere, ma ogni artista privilegia sempre uno di questi aspetti”. Ancora più direttamente: “L’obiettivo del mio stile è esaltare i volumi, non solo perché questo amplia l’area dove posso applicare il colore, ma anche perché trasmette la sensualità, l’esuberanza, la profusione della forma che sto cercando”.

Un discorso a parte va fatto per le  “Sculture” di bronzo, l’apposita sezione ne espone 5,  di cui 4 nella rampa interna di ingresso-uscita, una all’esterno, nel largo antistante.  Non  c’è il colore, che rende spettacolari i dipinti insieme ai caratteristici volumi dilatati dei quali l’artista diceva che “la plasticità tridimensionale e volumetrica delle forme è molto
importante”, quindi  metteva anche sulla tela il rilievo spaziale tipico della scultura. Ma anche senza colore spicca il suo timbro  inconfondibile: “Botero ha risolto il problema – commenta il curatore – rivolgendo una particolare attenzione al volume e alla tipologia delle immagini per ottenere una conquista armonica e suadente dello spazio che talora si impreziosisce di una affascinante solennità, di un intimo mistero”. La chiave risolutiva è nella materia, come dice l’artista: “Non potrei intervenire sulla pietra, il gesso mi dà l’idea della morte, la creta significa la vita, mentre il bronzo è sinonimo di resurrezione”.

Lo vediamo in “Ballerini”, 2012,  due figure nude erette e distanziate che ricordano più il dipinto “Adamo ed Eva”  prima citato che “Ballerini“, 1967, non in mostra, in cui erano allacciate e dinamicamente lanciate nella danza.  Ha rappresentato due figure affiancate ma distese nella scultura “Insonnia”, 1990, non in mostra.  Mentre “Ballerina”, 2013, con la mossa vezzosa alla Degas, è ben diversa dall’omonima scultura del 1998, nuda, in un passo di danza molto dinamico.

Torna il nudo in “Donna a cavallo”, 2015, fa parte di una serie di sculture su temi analoghi non in mostra, come “Donna in piedi”, 1981 e “Donna che fuma una sigaretta”, 1987, “Uomo e cavallo”, 1984 e “Uomo e donna”, 1988, “Il pensiero”, 1988 e “Il Cavaliere”, 1989.

Con “Leda e il cigno”, 2006, entriamo nel mito e nella classicità, cui ha dedicato una serie di sculture, quali “Venere”, 1988 e  “Ratto di Europa”, 1989, “Venere dormiente”, 1990,  e “Guerriero romano”, 1985; ha scolpito anche il “Torso”, 1983 e il busto “Omaggio a Canova”, 1989,  perfino “Natura morta con anguria”, 1976, tutte opere non in mostra.

Usciamo dal Vittoriano, nell’area antistante domina l’imponente  “Cavallo”, 1999, soggetto che ritroviamo in altre sculture, per lo più cavalcato o anche sellato, nel 1990, ma di dimensioni molto minori, altezza fino a poco più di un metro  rispetto ai 3 metri e 25 cm di quello esposto. Le zampe tozze e possenti non rimandano al cavalluccio per i giochi infantili come quello del dipinto “Pedro a cavallo”, 1971, non in mostra, mentre la dimensione gigantesca e la collocazione all’esterno ce lo fa associare istintivamente al Cavallo di Troia.

Ma Botero non ne ha bisogno per introdursi nel Vittoriano, vi è entrato ricevendo l’omaggio che merita la sua figura di grande artista nell’incontro con la stampa; e soprattutto lo ha conquistato con le sue opere così insolite e sorprendenti, e per questo inconfondibili e affascinanti, coinvolgenti nella tenerezza e nell’umanità che emanano, lasciando nella città eterna un segno incancellabile.

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Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 2 e 4 giugno scorsi, con altre 13 immagini ciascuno. Per i riferimenti citati nel testo cfr.: in questo sito i nostri articoli “Botero, una straordinaria ‘Via Crucis’ al Palazzo Esposizioni”, 25 marzo 2016, “Larraz, la pittura della libertà al Vittoriano”, 15 ottobre 2012; in www. culturainabruzzo.it, “A Teramo De Chirico, Rosai, Campigli, De Pisis, Capogrossi, Baj, Fontana”, 23 settembre 2009 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito). 

Foto

Le immagini, relative alle ultime sezioni della mostra  commentate nel testo meno la sezione con la scultura le cui immagini sono riportate nell’articolo precedente, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Il presidente”, 1987; seguono, “Il presidente e i suoi ministri”, 2011, e “Famiglia presidenziale”, 2003; poi, “Pierrot”, 2007, e “Numero da circo”, 2007; quindi, “Contorsionista”, 2008, e “Le sorelle”, 1969-2005; inoltre, “La strada”, 2000, e “Il club del giardinaggio“, 1997; infinedue “Il bagno“, 1989 e 2001, e “Donna seduta“, 1997; in chiusura, “Cavallo”, 1989.

Baselitz, la dolente galleria degli Eroi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Georg Baselitz. Gli Eroi”, che dal 4 marzo al 18 giugno espone al Palazzo delle Esposizioni 70 dipinti, disegni e xilografie, realizzati nel furore creativo del biennio 1965-66, tutti raffiguranti “Eroi” o “Nuovi tipi”, con una selezione del “remake” di 35 anni dopo dei soggetti di allora. La mostra è stata organizzata da Stadel Museum in collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo-Palazzo delle Esposizioni, Muderna Museet, Guggenheim Bilbao,  curatore Max Hollein, direttore del San Francisco Museum of Fine Arts e in precedenza direttore dello Stadel Museum di Francoforte, con Daniela Lancioni, del Palazzo delle Esposizioni. Catalogo dell’editore Hirmer. 

Dopo averne delineato genesi e motivazioni, passiamo a descrivere gli “Eroi” di Baselitz, ritratti monumentali a figura piena quasi a grandezza naturale, misurando in media 160 cm di altezza, che fanno sentire il visitatore delle sale come fosse al centro di piazze affollate da un’umanità dolente:  c’è l'”eroe” e il “partigiano”, l'”insorto” e il “ribelle”, ma anche il “pastore” e il “pittore”.

“Si tratta di outsider, all’apparenza sperduti, osserva il curatore Max Hollein, in una condizione passivo-aggressiva. Sono malinconici ma capaci di liberarsi grazie alla forza di volontà, attivata dalla riflessione”.  Quindi un doppio atteggiamento, nella compresenza di contrari tipica dell’artista, il ripiegamento dolente e nel contempo un barlume di reazione: “Immagini di una tragedia e di un conflitto ulteriore al contempo, queste figure portano in sé lo spavento, il dolore e il terrore, ma anche il pathos e la commozione necessari alla catarsi”.

I caratteri esteriori specchio dei sentimenti interiori

Consideriamo intanto, guardandoli da vicino, i caratteri esteriori comuni ai diversi ritratti, mentre esprimono i sentimenti interiori su cui ci siamo soffermati in precedenza, anche in relazione alla biografia dell’autore.

Hollein li descrive così: “Sono colossi dai capi minuti… feriti e invulnerabili, maldestri e sconvenienti. Nonostante i loro atteggiamenti marziali ancora evidenti, emanano una delicatezza sorprendente”.  Le loro “uniformi, ormai lacere e misere”, ce li mostrano come succubi  di un potere militarista senza la possibilità di reagire; ma nello stesso tempo “si sottraggono alle costrizioni e all’omologazione grazie alle ferite, alle esperienze, alle conoscenze derivate da ciò che hanno vissuto”, e questo dà loro la possibilità di affrancarsi ed acquisire “una nuova forza rivoluzionaria nel momento in cui le trappole, ostacoli e limitazioni di ogni sorta vengono lasciati alle spalle”.

Il messaggio dell’artista, come abbiamo già accennato, va ben oltre l’ispirazione personale nel clima postbellico segnato ancora dalla guerra fredda:  “Nelle sue opere, i protagonisti non vogliono più assumere il ruolo che è stato loro affidato in un mondo i cui fondamenti e il cui ordine sono stati scossi. Catene, trappole  mutilazioni gli impediscono di agire, eroi e vinti al contempo. Nei loro corpi gonfi e deformi, rinchiusi in uniformi logore, trovano espressione sia una forza innata sia una debolezza latente. Si tratta di soggetti in uniformi, di ogni tipo e classe sociale, che devono arrestarsi a riflettere e isolarsi, personificazioni singolari e curiose  di un ‘Nuovo tipo’, dell‘Eroe'”. Ed è evidente che “se generalmente associamo agli eroi attributi  quali valore, audacia e coraggio, e li immaginiamo affrontare con essi situazioni concrete e ammirevoli e uscirne vincitori, allora le immagini di Baselitz sono del tutto estranee alla figura dell’eroe”.

Uwe Fleckner lo sottolinea anche sotto il profilo compositivo: “Nonostante la presenza dominante della figura, quella monumentalità che è propria di  tutti gli ‘Eroi’ e ‘Nuovi tipi’, non è assolutamente possibile parlare per queste figure lacere di una dimensione eroica e possente”.  E lo spiega: “Ad eccezione di ‘I grandi amici’, tutte le figure sono solitarie e isolate, mutilate e senza una dimora, intrappolate… Piuttosto, a questi eroi stanche, è stata data la parvenza di sofferenti perfino di martiri; sono persi nel dipinto, senza un’impresa apparente da compiere… l’eroe non è colto in atti eroici, la storia a cui queste immagini sembrano accennare  rimane priva di accadimenti”.  

Allora come può evolvere la storia di tali figure, curate le ferite e dismesse le uniformi lacere? “Non è chiaro – afferma Hollein –  se poi esse faranno effettivamente qualcosa, avanzeranno combattive, prenderanno in mano qualche attrezzo, pennello, per creare con la loro forza un mondo migliore e meno ambiguo, o s invece torneranno a sprofondare letargiche in un ambiente fatale” Come “immagini di una tragedia e di un conflitto interiore al contempo, queste figure portano con sé lo spavento, il dolore e il terrore, ma anche il pathos e la commozione necessaria alla catarsi”.

Questa ambivalenza rende intrigante il loro messaggio, e crea un forte impatto sull’osservatore portato a riflettere e a dare una propria risposta all’interrogativo su cosa faranno dopo aver superato la depressione e l’isolamento seguiti alla sconfitta subita, il loro “eroismo” sta nella ripresa volitiva.

Dal punto di vista pittorico si nota subito un cromatismo aspro e cupo pur nelle tonalità calde,  si tratta dell’ennesimo contrasto, un groviglio di segni contorti che delimitano e anche compongono la figura e gli elementi posti a complemento per contestualizzarla, dando un’evidenza visiva al tormento interiore non riservata ai volti pur se stravolti o assorti e attoniti,  ma espressa dall’intera figura, con un linguaggio del corpo anch’esso evidente addirittura in modo provocatorio per certe esibizioni anatomiche impudiche.  Gli sfondi cambiano, dai toni pastello al tutto nero o tutto bianco.

Sugli elementi posti a complemento si sofferma Eva Mongi-Vollmer, dopo aver sottolineato anch’essa la deformazione dei corpi soprattutto nelle proporzioni, evidenziando i particolari di contorno della figura dell'”Eroe” o “Nuovo tipo” che possono sfuggire all’osservatore preso dall’immagine dominante: “Il paesaggio desolato sullo sfondo mostra – analogamente al corpo – devastazioni di ogni tipo: case in fiamme, alberi e cespugli senza foglie, terra smossa appaiono in varie dimensioni, Strumenti di tutti i tipi occupano la superficie: attrezzi agricoli,come aratri ed erpici, molto di frequente una carriola, … l’equipaggiamento di un vagabondo, ossia zaino militare e calzature, tavolozze e pennelli, da pittore, e spesso anche trappole, gli strumenti del martirio in cui rimangono incastrati piedi, mani e perfino il capo. Bandiere afflosciate o dismesse opprimono il protagonista, invece di dargli un appoggio. Alcuni animali, spesso anatre, lo accompagnano lungo il cammino o lo incrociano. Fuochi più o meno grandi cancellano i resti di case e oggetti”.

Questa descrizione ci fa entrare, per così dire, nei dipinti, è dunque il momento di raccontarli. Segnaliamo che nel Catalogo la galleria delle opere è accompagnata da rievocazioni storiche che fanno rivivere tanti momenti emozionanti richiamati in qualche modo dalla visione artistica.

I principali personaggi

Nella nostra rassegna dei  “personaggi” di Baselitz cominciamo naturalmente da “L’eroe”, il braccio sinistro proteso, ma con la mano destra indica la ferita, quasi protestando, poi  l’eroe è nudo, dalla cintola in giù,  e questo concorre a togliergli ogni tono celebrativo ed enfasi eroica.

“Il pastore”  lo vediamo in 3 dipinti: nel primo è quasi imprigionato in una nicchia, in mano  e intorno minuscoli strumenti di lavoro, quasi a evocarne l’esistenza ma non l’utilizzazione da parte del lavoratore attonito e bloccato; nel secondo  è quasi accasciato su un ammasso informe, colpito al capo da una croce misteriosa che piove dal cielo, ma non sembra toccato dalla grazia quanto percosso  e quasi tramortito; nel terzo sembra invece in ripresa volitiva, in piedi, casacca chiara e pantaloni scuri con la gamba destra nuda, domina l’ambiente e gli oggetti che vi sono sparsi..

E il “Partigiano”? Anche qui nulla di epico, ha le braccia  abbassate, potrebbe sembrare un gesto di rassegnazione, il viso però esprime ancora energia e decisione. In un piccolo disegno le braccia sono aperte, l’apparente rassegnazione è contemperata da un certo dinamismo dell’immagine.

Anche il “Ribelle” presenta una figura apparentemente dimessa, le braccia abbassate, la mano sinistra nella tasca di una sorta di tuta, su fondo nero, come se emergesse dal buio; molto simile un disegno a carboncino, quasi uno studio preparatorio, mentre in un altro disegno su fondo chiaro le due braccia sono ugualmente abbassate ma le mani stringono due piccoli oggetti.

Il “Pittore moderno”, invece, in entrambi i dipinti che lo raffigurano è seduto ma esprime una certa energia e decisione nel volto, il corpo è tormentato da segni: in un dipinto la mano destra impugna qualcosa, non è un fucile ma l’atteggiamento è quello di chi ha un’arma, nell’altro dipinto invece le mani si immergono nella terra, quasi alla ricerca delle proprie radici.

C’è anche il “Pittore bloccato”, in piedi, davanti a un albero e appoggiato a un bastone, nella mano sinistra pennello e tavolozza, mentre il braccio destro è abbassato con la mano aperta.  La Fleckner vi vede “l’allegoria di una pittura, della sua pittura, che… genera l’immagine di una situazione senza uscita. Il pittore, amputato e stigmatizzato, sta a ridosso di un albero spoglio, in claustrofobica vicinanza, a margine di un’isola cromatica rosso sangue; dietro di lui un oggetto che giace a terra di traverso delimita il motivo e rimanda fatalmente alla tipica architettura del Muro di Berlino, e quindi alla divisione della Germania  e alla situazione personale dell’artista, tra Ovest ed Est (‘Sventurata la terra che ha bisogno di eroi’)”; ma della sua biografia abbiamo detto in precedenza.

Non è bloccato soltanto il pittore, in “Uno bloccato” forse  la qualifica si riferisce al fatto che con le due mani impugna una sorta di spada arrossata che non può usare, altrimenti l’atteggiamento sembra determinato, gli occhi guardano lontano. 

Arrossato è l’intero dipinto, “Senza titolo”, degli schizzi rossi, chissà se indicano il sangue, sprizzano intorno alla figura, eccezionalmente ridotta a quasi metà della composizione invasa del tutto dagli schizzi, li asociamo ai segni rossi pur molto diversi ma ugualmente invasivi,  dei disegni di Pablo Echaurren nella fase politiczzata dalla ribellione e contestazione del suo multiforme impegno artistico: chissà se il nostro collegamento è troppo ardito o si è ispirato proprio a questo motivo. 

Il “nuovo tipo”  e i ritratti personali

Nella galleria di ritratti spicca il “Nuovo tipo”,  vediamo diversi dipinti con questo titolo, in uno di essi e in diversi disegni è rappresentato con le braccia larghe, anche qui in apparente rassegnazione, in altri le braccia sono distese lungo il corpo, persino con la sinistra  curiosamente piegata ad angolo e con le braccia in alto in un disegno, che potrebbero essere in segno di resa o di slancio. Fino all’immagine che riteniamo espressiva ed enigmatica insieme, la sciarpa rossa al vento, il  modo con cui la figura spicca senza zavorre, il braccio destro abbassato come il sinistro ma con un gesto volitivo nel reggere una borsa lo mostra quasi in viaggio verso il futuro, mentre il membro rigido e gigantesco sembra un segno volitivo di trasgressione ribelle, ricordando anche i guai che aveva passato per la sua arte considerata all’inizio “indecente” per questi vistosi particolari anatomici.

Altri  ritratti  nei numerosi “Senza titolo”, con le braccia nella varie positure, quasi studi preparatori  delle identificazioni nei diversi  tipi di “eroi”. E soltanto 2 personalizzazioni,  “Bonjour monsieur Courbet”, il raro ritratto in cui la figura non è ferma ma in cammino verso destra,  rappresentata con grande dignità e compostezza, il passo deciso e senza incertezze, e “Ralf”. una testa in primo piano che per la posizione di profilo sembra un ingrandimento di quella di Courbet; ci sono anche 3 grandi “Teste”  contrassegnate da un numero progressivo, delineate con segni chiari su fondo nero, i visi sono normali, come quello di “Fondo nero”, senza le deformazioni dei ritratti degli “eroi”.

Le figure spezzate e l’albero protagonista

Vediamo esposti anche  dipinti in cui la figura è spezzata in due, appartengono alla serie dei “quadri fratturati”: il “Nuovo tipo. pittore con il cappotto”  nel  secondo quadro è spezzato in tre parti,  come lo è la “Grande notte in bianco. Patria”, mentre  è spezzato in due anche “L’eroe diviso” e l’uomo comune, “Ricciuto”.

Un vero protagonista è “L’albero“, lo vediamo rappresentato da solo in 3 dipinti, sempre tormentato nei rami contorti e  in ciò che ha intorno e sulla corteccia; non è l’albero della vita di certe enfatizzazioni ma viene umanizzato facendone discendono dei semi a fecondare la terra.

L’albero sta dietro alla figura oltre che in “Pittore bloccato”, come abbiamo visto, in “Vento in poppa”, quasi a voler spingere la figura dalle braccia larghe e nuda dalla cintola in giù con quel che segue, per sottolinearne lo spirito tutt’altro che rassegnato; ci sono due alberi in “Trappola”, come se impedissero alla figura seduta di alzarsi, anche se l’atteggiamento è tranquillo, le mani a terra.

Altri temi fino ai “grandi amici”

Altre rappresentazioni tematiche e non più personali, “Immagine per i padri” ed “Economia”, “Con bandiera rossa” e “Il rossoverde”, “Segni diversi”, “Uno rosso”  e “Uno verde”, con la figura in cammino verso sinistra ma con le spalle incurvate, la testa reclinata, l’atteggiamento dolente, ben diverso da quello che abbiamo visto in “Courbet”, mentre in “Bianco nero” una figura simile, però in cammino verso destra, sembra invece determinata.

Come sono opposti gli atteggiamenti della figura in piedi in “Fondo nero”, delineata solo da tratti cromatici ma molto espressiva, il viso composto, la mano sinistra in alto per ammonire, forse l’immagine più positiva tanto più costruita sul buio; e della figura distesa bocconi – non ne abbiamo visto altre così – in “A terra”,  sarebbe la definitiva sconfitta senza possibilità di ripresa ma è un piccolo disegno non tradotto in dipinto forse perché l’artista non si riconosce nella resa definitiva con il suo spirito di ribellione e di lotta.

Ci piace concludere la galleria con “Gli amici”, 2 ritratti sempre a figura intera come tutti, tranne le  poche “Teste”: sono ripresi in diversi atteggiamenti, uno sereno, l’altro malinconico; mentre “I grandi amici”, l’unico con figura doppia e dimensione  doppia, 2,5 per 3 metri, su fondo nero, le braccia abbassate la prima, la seconda con il braccio sinistro ad angolo e la sciarpa al vento, immagine positiva già vista in “Un nuovo tipo”: i  grandi amici sono le nuove  figure umane.

Dopo questa emozionante immersione  che lascia senza fiato tra figure sconvolgenti e insieme enigmatiche lasciamo ancora la parola Hollein per una considerazione finale: “Con queste figure in equilibrio precario, all’artista interessa in particolare riacquisire e stabilire un contegno, sviluppare  e mantenere una posizione anticonformistica  e profondamente individuale, al di fuori dei sistemi. Solo l’artista autonomo, in qualità di individuo che si muove si margini della società e sa superare le avversità, è in grado di creare qualcosa di nuovo, al di là di ordini sociali contrastanti, ideologie distruttive e dubbi diktat stilistici”.  

Sulla difficile traduzione del  messaggio trasmesso vale quanto evocato da Shiff  il quale, nel ricordare che “la traduzione ‘sblocca’ il percorso che permette allo spettatore di giungere al messaggio codificato”  riporta l’eloquente citazione del critico americano Leo Steinberg: “Chi avrebbe bisogno di quadri se fossero così traducibili?”. 

E che si abbia un grande bisogno dei quadri di Baselitz lo dimostrano le 4 grandi mostre paneuropee  dopo mezzo secolo dalla loro creazione allorché sono tornati ad essere quanto mai vivi e attuali.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “Georg Baselitz. Gli Eroi“, Editore Hirmer, pp. 168. formato 24 x 30, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra à uscito in questo sito il  23 maggio  u.s. con altre 10 immagini. Cfr. inoltre i nostri articoli: in questo sito su Echaurren, citato nel testo, 27 febbraio, 4 marzo 2016 per le opere di impegno politico, 23, 30 novembre, 14 dicembre 2012 per l’intera produzione artistica; in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra “100 capolavori dello Stadel Museum”, dove si trovano le opere di Baselitz esposte nell’attuale mostra, 3 articoli il 13 luglio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,per l’opportunità offerta.  Sono tutti dipinti di Baselitz del 1965-66. In apertura, “Vento in poppa”; seguono, “Pittore bloccato” e “Trappola”; poi, “Il rossoverde” e “Ribelle”; quindi, “Senza Titolo”  e “Albero”; inoltre, “Il nuovo tipo”” e “Senza Titolo”; in chiusura, “Bonjour Monsieur Coutbet”.

Botero, le prime 3 sezioni pittoriche della mostra al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, la mostra “Botero”  presenta – in 8 sezioni tematiche con 48 opere, di cui 43  grandi dipinti  e  5 imponenti  sculture – le caratteristiche raffigurazioni dell’artista colombiano prevalentemente realizzate dal 2000 in poi, che intrigano per la personalissima  conformazione dei volumi, gonfi e ridondanti in un figurativo deformato. La mostra, promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con “MondoMostreSkira”, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

Il mondo molto particolare di Botero

Abbiamo cercato di interpretare la matrice, i motivi e i risultati dell’opera di un artista così insolito e intrigante come Botero iniziando dalla sua formazione, marcata dalle immagini della civiltà e delle tradizioni  latino-americane su cui si sono innestati i valori della grande arte europea ed italiana, con l’immersione nel mondo statunitense scosso dalle avanguardie dell’espressionismo astratto e non solo. La quadratura del cerchio dell’attaccamento alla sua terra con la continua separazione è stata la “sintesi di regola e passione”, mentre i suoi corpi gonfi dalle forme stravolte sono una trasfigurazione favolistica della realtà che non suscita riso ma tenerezza e “la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica”, per cui l’osservatore guarda “divertito, perplesso, incuriosito” e comunque sereno.

Verifichiamo ora queste considerazioni generali con la galleria delle opere esposte in un allestimento che ha posto le sculture in successione nella rampa di accesso, a parte il “Cavallo”, all’esterno nello spazio antistante, con le 7 sezioni pittoriche isolate nelle rispettive “enclave” e poste opportunamente in una successione che ne sottolinea la continuità e complessiva omogeneità.

Si vede che il suo è un mondo molto particolare, come  lo è il figurativo controcorrente rispetto alle avanguardie imperanti:. “Il passaggio dal mondo normale al mondo  di Botero non comporta nessuna metamorfosi – ha scritto Paolo Mauri nel 1991 – semplicemente per Botero il mondo è così”. In altre parole: “In Botero la grassitudine… è un approdo mentale: la diversità si rivela dunque soltanto ad un visitatore che venga da un altro mondo, da un diverso pianeta”. Con queste particolarità: “Dunque la grassitudine è una caratteristica che Botero regala ai suoi personaggi e non una loro caratteristica connaturata. Come dire che Botero inventa i soggetti e li vede in questo modo a prescindere dalla loro reale esistenza. La grassitudine è nella mente del pittore e diventa un tratto dell’anima dei soggetti”.  

Percorrendo la galleria delle  48 opere esposte, i soggetti sembrano  accogliere il visitatore come ospite gradito:  “Se un quadro di Botero può spingere al sorriso, la visione di molte opere annulla l’effetto comico: c’è un che di malinconico, di perplesso,  di metafisico in questa grassitudine  esibita senza ostentazione, senza rumore, senza dramma”. 

Nel passare in rassegna le sezioni  si trova conferma all’enunciazione dell’artista: “Per me lo stile è un linguaggio che deve essere coerente… La mia opera è un tentativo che ho seguito durante tutta la vita  perché il volume è un pensiero che porto con me per sempre”. Commenta il curatore Rudy Chiappini: “Il linguaggio, dunque, è l’ossequio alla propria continuità sorretto da un ‘pensiero dominante’ , e quel pensiero determina lo stile”. Con questi contenuti: ” Tuttavia per quanto il linguaggio si perfezioni, e la forma si purifichi, i soggetti di vita civile, di vita privata, di corride, di circo, di bordello, di matrimonio, di violenza, di feste campestri, dell’apparato di religiosità cattolica  sono tenacemente persistenti e rappresentano l’universo di visioni cui Botero non può rinunciare”. Sono le visioni offerte al visitatore  che cercheremo di raccontare, citando le parole stesse dell’artista efficacemente riportate nel Catalogo come originali schede alle singole opere, dopo una concisa introduzione del curatore alle singole tematiche. Nello stesso tempo faremo riferimento anche alle opere viste nella mostra del 1991-92 come logico completamento, in un’integrazione che valorizza l’attuale aggiornamento: una staffetta ideale di Botero a Roma.

Fabrizio D’Amico nel 1991 ha citato le parole di Soavi: “E’ impensabile che a un personaggio di Botero possa capitare un dramma”,  e di Sciascia:  “In loro è assente la gioia come è assente il dolore”, e ha concluso: “Perché il dramma è l’ultima
precipitazione di una vita, l’insanabile contraddizione di due verità inconciliabili, è giusto e necessario che l’umanità di Botero, che allontana da sé la vita a prezzo della propria faticosa immensità, ne sia preservata”.

Abbiamo già visto come questo si riscontri anche nel ciclo “Corrida”, ci limitiamo a riportare un’altra citazione del 1991 di Ana Maria Escallon: “Goya osserva, quasi sempre, i tori dall’interno, mentre Botero li guarda dall’esterno, per una necessità d’esprimersi in un mondo differente, dove il cuore non batte, la vita non si rischia, la fortuna non esiste. E’ un mondo dall’anima lasciva, colmo di poesia,di forme piene che lasciano spazio a colori armonici”. Il trionfo del colore, dunque, mentre “l’atmosfera ieratica nega il furore della ‘fiesta’, l’espressione è contratta in un gesto congelatore  di emozioni, perché ciò che interessa a Botero è l’espressione d’impassibilità”. Anche in “Muerte de Ramon Torres”, 1986, dove il torero a terra inanimato sembra addormentato piuttosto che ucciso dal toro sopra di lui cavalcato dallo scheletro di morte quasi in un gioco.

L’atmosfera muta nei tre cicli in cui il suo atteggiamento distaccato verso il dramma si trasforma in diretta partecipazione, con uno spirito umanitario che va oltre l’angoscia per la tragedia della sua terra lacerata dalla guerra civile. Nel 2000 dipinse il ciclo “Violencia in Colombia”, e  il ciclo “Abu Ghraib” accomunati dalla  ribellione contro le violazioni dei principi di umanità perpetrate nel suo paese con il sanguinoso conflitto intestino come nella grande democrazia degli Stati Uniti con le torture ai prigionieri nel famigerato carcere della guerra irachena.

Ha scritto Conrado Uribe Pereira nel 2016: “Come cittadino del mondo , qui l’artista assume una posizione globale e, per i quattordici mesi di lavoro che costituiscono, come Botero stesso ha dichiarato, una parentesi nella sua carriera, ha prodotto questa sorta di catalogo particolare nel quale raccoglie un frammento delle oscure cronache dell’attualità”.

E’ stata “una parentesi nella carriera”, sono “serie anomale nella carriera di Botero che ne attestano una coscienza politica che va dal locale al globale”, dunque; dieci anni dopo, nel 2010, per i suoi 80 anni, nel ciclo della “Via Crucis” torna la denuncia evocata nel “Crocifisso” avente per sfondo i grattacieli di New York con evidente riferimento ad “Abu Ghraib”. E torna il tema drammatico della violenza e dell’oltraggio all’umanità di Cristo, indifesa come quella dei perseguitati, espresso senza toni forti ma con un senso di pietà reso più struggente dalle forme ridondanti dell’essere indifeso che accentuano la tenerezza per lui in un’atmosfera di rassegnata contemplazione.

Così conclude Pereira sui tre cicli che lo hanno portato “a contravvenire in parte alle sue stesse norme, a rendere più impervio un sentiero faticosamente costruito nel corso della sua carriera artistica”: “Più che come un tradimento come qualcuno ha affermato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera”.  

Non potevamo non farne parola anche se i temi della mostra attuale non comprendono queste  “serie anomale” rispetto  alle sue espressioni consuete. Lo stesso artista le considera, come abbiamo visto, “una parentesi nella sua carriera”, di cui resta il segno incancellabile di natura morale e umana con tutto il suo valore civile e politico.

Le versioni di antichi maestri

Abbiamo ricordato come dai suoi primi viaggi in Europa quando aveva 20 anni, in particolare in Italia e Spagna,  l’artista fu profondamente colpito, e quindi influenzato,  dai grandi maestri italiani, da Giotto a Leonardo, da Paolo Uccello a Piero della Francesca soprattutto, e spagnoli, da Velasquez a Goya, poi conoscerà anche Durer e Rubens, Manet e Cèzanne, trovando delle ideali  “affinità elettive”.

Le esprime dedicandosi ai “d’aprés” che, a differenza di quelli di altri grandi artisti come De Chirico, non riproducono con variazioni modeste le opere ispiratrici, ma le re-interpretano radicalmente nel proprio personalissimo linguaggio; che non è soltanto una cifra stilistica diversa, ma comporta una dilatazione dei volumi tradotta in un gonfiamento dei corpi che determina la notevole deformazione, resa ancora più vistosa dall’inevitabile confronto con l’originale.

Ma proprio questa verifica conferma quanto si è premesso, nessun effetto caricaturale, non sembrano irriverenti né suscitano comicità, al massimo ironia, e fanno apprezzare lo sforzo di rendere omaggio ai grandi maestri “cercando, a secoli di distanza – commenta il curatore – di renderne lo spirito, attualizzato e fatto proprio attraverso la sua idea originale del volume e dello spazio, del segno e del colore”.

La 1^ sezione pittorica con 8  “Versioni degli antichi maestri” evidenzia come si sia dedicato ai “d’aprés” non solo nella fase iniziale, ma nell’intero percorso artistico, come  De Chirico che sull’orlo della vita ultimava l’ultimo dipinto, ripetendo un “d’après” realizzato in passato: la prima è del 1959, seguono 3 de 1984 e 1998, e 4  dal 2005 al 2008.

Iniziamo con i “d’aprés” di Velasquez, sono 3, il primo, “Nino de Vallecas”, 1959, ancora non rivela interamente la sua cifra stilistica che si manifesta invece in un “Busto femminile”, 1984, e ovviamente in “L’Infanta Margherita Teresa”, nel quale la deliziosa grazia infantile dell’originale si trasforma in una forma  imbarazzata più che goffa, che non suscita riso ma ispira tenerezza. Nel ricordare di essere stato “copista” al Prado, dove conobbe i dipinti del maestro spagnolo, l’artista rivela: “L’arte che ammiravo nelle grandi stanze del Museo del Prado era per me impenetrabile, una vera scoperta, e la tecnica con cui quei capolavori erano realizzati mi affascinava”.

Dopo il “d’aprés” di Rubens, “Rubens e sua moglie”, 2005, in cui l’apparente  goffaggine delle due figure, con le mani simili a spatole che si uniscono, si traduce anch’essa in tenerezza, vediamo “Maria Antonietta”, 2005, figura dignitosa e accattivante, che serve all’artista per precisare come la scelta di questo come altri soggetti non significhi abbandono delle proprie radici: “Voglio che la mia pittura abbia radici, ma nello stesso tempo non voglio dipingere soltanto campesinos. Voglio essere capace di dipingere tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI , ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

Ed eccoci ai grandi maestri italiani, sono esposti i “d’aprés” di Piero della Francesca e Raffaello. Del primo parla così: “Di Piero della Francesca ho scoperto l’espressione più totale dell’arte: la pienezza del volume, delle forme composite, dei colori smaglianti, resi con tonalità difficilissime da creare. Il soggetto aveva una dignità straordinaria. Le figure emanavano un’impressione di monumentalità e di grande dignità”.  Possiamo dire che è proprio questa l’impressione che si ricava dal dittico esposto, “I duchi di Urbino”, la monumentalità non è resa dalla dilatazione dei volumi, appena percepibile, ma
dalla severità dell’espressione, c’è rispetto per la dignità della figura.

Invece nel “d’aprés” di Raffaello, “La Fornarina”, 2008, la dilatazione è evidente e l’immagine ne viene coinvolta: dalla grazia pudica e seducente si va all’imbarazzo timido, per questo tenero. Torna il mente il “d’aprés” di Leonardo, “Monna Lisa”, 1977, visto alla mostra del 1991-92, realizzato 30 anni prima di quello della “Fornarina”, analogo coinvolgimento nel tradurre nel proprio linguaggio: all’intrigante mistero di un sorriso indefinibile si sostituisce un atteggiamento di placida attesa.

La reiterazione dei “d’aprés” anche in epoca recente indica che per l’artista questi capolavori non sono pezzi da museo, come le cosiddette “lingue morte”, gloriose ma inattuali.

Nature morte

Così le “Nature morte”, di cui ne sono esposte 6 nella 2^ sezione pittorica, alle quali l’artista attribuisce un significato che va oltre la mera composizione di oggetti ma, come osserva il curatore, rivelano “un vero e proprio mondo a sé, ricco diversificato, regolato da regole precise”. Le enuncia lo stesso artista: “Quando dipingo una mela o un’arancia, so che si potrà riconoscere che è mia e che sono io che l’ho dipinta, perché quello che io cerco è dare a ogni elemento dipinto, anche al più semplice, una personalità che viene da una convinzione profonda”.

E’ come dare vita alle cosiddette nature morte, la cui definizione, pur in termini diversi, fu contestata da De Chirico che vi si dedicò chiamandole “nature silenti”. L’artista vi  imprime il proprio sigillo stilistico, ma proprio per renderle vive non le stravolge limitando la dilatazione, restano naturali pur se subito riconoscibili dall’osservatore come afferma di volere l’artista.

Lo vediamo nella “Natura morta dinanzi al balcone”, 2000, con una bottiglia e delle arance su un tavolo tondo coperto in parte da una tovaglia rosa shocking,  dinanzi a una ringhiera con sfondo di tetti. Tre arance sono intere, nella loro perfetta rotondità, la quarta è a metà, e questo dà vita alla composizione, rendendola dinamica. In “Arance”, un suo quadro del 1989, non in mostra, i frutti sono i soli protagonisti, poggiati su una cassapanca con una tovaglia di un giallo discreto, senza sfondo né altri oggetti; .anche qui tre arance intere, ma altre tre  a metà una delle quali anche sbucciata. Dieci anni dopo, dunque, torna lo stesso motivo, dare vita alla “natura morta”.

Analoghe considerazioni si possono fare per una “Natura morta” del 1970, in cui oltre a due arance tagliate  a metà e un grande  ananas anch’esso tagliato, ci sono delle bucce e delle posate, con una forchetta addirittura conficcata nell’ananas, quasi che l’artista avesse colto l’attimo fuggente di uno spuntino interrotto, sospensione accentuata dal cassetto del
tavolino rimasto socchiuso.

Vediamo l’aggiunta di altri elementi compositivi nelle ultime due “Nature morte” di questo tipo, dove la frutta è ulteriormente diversificata, sempre con l’elemento vitale dello spuntino evocato.

In “Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000, ci sono anche un cestino pieno di pomi, un piatto e una forchetta, oltre  alla bottiglia piena per metà, con una tovaglia verde chiaro su cui sono poggiate due banane intere e una tagliata a metà che, con lo spicchio d’arancia, dà vita alla natura morta.

Mentre “Natura morta con caffettiera”, 2002, mostra un cromatismo più intenso, di nuovo il mobiletto dal cassetto semiaperto con la tovaglia rosa shocking, una maggiore varietà di frutta, tre mele verdi, due banane e altro in una fruttiera bianca, una pera, una mela verde e due ciliegie sul tavolo dov’è anche un coltello e una fetta di cocomero rosso su un piatto blu, lo stesso colore della grande caffettiera e della parete di sfondo con uno specchio che riflette i frutti poggiati più in alto.

Questa la descrizione dell’artista: “Quando guardate una delle mie nature morte noterete che i coltelli e le forchette, la frutta, il tavolo, il tovagliolo, ogni cosa è resa nella stessa maniera, perciò l’intero lavoro irradia un senso di unità, armonia e coerenza. Questo è ciò che comunica la sua verità essenziale” della quale, aggiungiamo, fa parte anche la vita data alle “nature morte”.

Non più frutti nella “Natura morta con lampada e fiori”, 1997, i fiori sono otto, sembrano rose non sbocciate di un colore sbiadito come la tovaglia, di un giallo più intenso il vaso con manico in cui sono raccolte in una composizione compatta. Al lato una lampada a olio grigia, grande come il vaso, con la fiammella accesa, il segno di vita come la forchetta all’angolo del tavolo con un pezzetto di cocomero, più piccolo della fetta nella “Natura morta con caffettiera”, ma evidente.

Ritroviamo la bottiglia piena a metà della “Natura morta con frutta e bottiglia” nella “Natura morta con strumenti musicali”, 2004, su un mobile questa volta dal cassetto chiuso, c’è un trombone con un mandolino sull’immancabile tovaglia, che diventa di colore arancio in sintonia con gli strumenti illuminati da una luce gialla. Danno vita alla composizione l’archetto dello strumento e i fogli dello spartito musicale, appoggiati come per una sospensione momentanea dell’esecuzione. Ci tornano  in mente tre dipinti non in mostra: la “Natura morta con Le Journal”, 1989, con il mandolino e, oltre agli oggetti dei quadri descritti, la caffettiera con uno sbuffo di liquido,  l’arancia intera e quella sbucciata fino a una fetta sottile sopra il giornale, la natura non è morta, è viva; la “Natura morta con violino”, 1965, dove  non c’erano ancora questi segni di vita; e “Interno con figure”, 1990,  dove i segni di vita erano  non solo nelle arance tagliate, ma nelle due persone, un uomo e una donna di spalle, sedute a tavola per lo spuntino che è solo evocato in tutti gli altri dipinti.

L’artista si lascia andare a una vera confessione, ricordando come un errore nel disegno del mandolino con il foro centrale troppo piccolo gli aveva fatto esclamare “Ma qui c’è una proporzione diversa, è straordinario”. Poi aggiunge: “E ho dipinto subito il quadro esagerando il volume del mandolino, dilatandolo, dando il massimo rilievo alla forma. Questa dilatazione, questa affermazione dell’oggetto nello spazio era ciò che avevo cercato anche nei classici”. E così si chiude armonicamente e coerentemente il cerchio con i suoi “d’aprés” che abbiamo già commentato.

Religione 

La 3^ sezione pittorica ci porta nel  campo della “Religione” che ritroviamo nella sua prima formazione, quando le tradizioni colombiane e i riti religiosi, insieme alle immagini sacre, erano dominanti. “Io non sono religioso, afferma l’artista, ma nell’arte la religione è parte della tradizione”.  Poi si sono aggiunte le realizzazioni artistiche dei  maestri europei su temi sacri, una tradizione a livello universale. .

Il curatore osserva che nel suo mondo il “clima favolistico”  fa sì che “la realtà deve fare sempre i conti con lo sconfinamento in una fantasia che determina compiutamente i pensieri e i gesti della gente. In un simile contesto la religione si pone come un esempio di pratica del soprannaturale che permea la quotidianità da tradursi in sorpresa, in contemplazione estatica, in forma adattata a un pensiero pronto a plasmare uniformemente le cose e le persone”.

Ma a parte queste considerazioni, la selezione delle 5 opere sul tema è una escalation rituale: dai seminaristi al monsignore, dal nunzio al cardinale, dalla  Madonna col Bambino fino al Crocifisso.

Il “Seminario”, 2004, raffigura  in un ambiente spoglio quasi metafisico nelle arcate di sfondo, cinque seminaristi in quattro  posizioni: uno sulla sinistra in ginocchio mentre prega con lo sguardo verso l’alto e le mani giunte,  un altro in primo piano sdraiato mentre legge il breviario con la testa appoggiata alla mano destra, un terzo a destra seduto su una poltrona con il rosario nella mano sinistra, come un quarto in piedi al centro, al pari del quinto dallo sguardo attonito, più degli altri raffigurati. Sono come presi da un senso di arcano stupore, accomunati in un quieto raccoglimento dal quale sembra contagiato il gattino sulla destra, nero come le loro tonache, e come loro assorto.

Saliamo di livello con il monsignore di “Passeggiata sulla collina”, 1977, ha il rosario che pende dalla mano sinistra e un curioso ombrellino nero nella destra aperto sebbene non vi sia il sole ma un cielo nuvoloso su un prato verde; le forme gonfie, ma non in modo debordante,  in una composizione semplice ed essenziale, danno un senso di leggerezza che non intacca la serena compostezza del prelato. Un ombrellino lo ricordiamo in altri due dipinti non in mostra. Nella“Passeggiata al lago”, 1989,  è di colore rosso porpora perché in mano a un cardinale in veste talare con strascico della stessa tinta, in una composizione molto diversa con la figura umana minuscola dinanzi al gigantismo degli alberi nel bosco, che si riflettono nelle acque.  In “La passeggiata”, 1978, è nero, tenuto in mano da una signora, che ha nell’altra un borsellino, intorno due grandi alberi su un prato verde sconfinato.

Cresce ancora il livello nella gerarchia ecclesiastica con i dipinti che raffigurano due alti prelati,  con le vesti rosse e la mitria sul capo, raffigurati nel 2004 in pose e atteggiamenti ben diversi.

“Il nunzio”  è in piedi con il pastorale nella mano destra e il rosario nella sinistra, mentre incede solenne davanti a dei banani lussureggianti con il piccolo chierico in cotta bianca che regge l’ombrello rosso dell’autorità vescovile. “E’ una variegata macchia di colore – commenta il curatore – che entra a far parte del paesaggio secondo la logica delle apparizioni capaci di trasformare l’evento, per noi inatteso, in marcata consuetudine”. Ricordiamo il “Vescovo in nero”, 1982, non in mostra, mentre benedice davanti a una nicchia, senza sfarzo.

Mentre “Il cardinale addormentato” è  immerso nel sonno con indosso i paramenti, mitria compresa,  in un ambiente spoglio in cui c’è soltanto un piccolo Crocifisso nella parete, su un letto spartano circondato da sei candele accese, come se fosse una veglia mortuaria. Ironia dell’artista?

Le due immagini sacre riportano alla iconografia cristiana, ma con una particolarità per “Nostra Signora di Colombia”, 1992: con in braccio il Bambino, invero quasi un ometto con camicia, calzoni corti e scarpe ha in testa una corona inconsueta per la Madonna, quasi un triregno da papa, mentre due piccoli angeli sostengono un piccolo telo verde dietro di lei. Null’altro di particolare, la figura è nobile, anche se la corona sembra fuori luogo e il telo precario e inadeguato.

Siamo giunti al culmine delle raffigurazioni religiose con “Cristo crocifisso”, 2000, in cui la dilatazione del volume non toglie armonia alla forma che ispira raccoglimento e rispetto senza drammaticità; le gocce di sangue che si intravedono nel corpo e nella croce sono leggerissime, quasi invisibili.  

Ci ricorda “Ecce Homo” , 1967, anch’esso composto e senza segni visibili di torture e sofferenza, e il successivo “Trittico della Via Crucis”, 1969, quarant’anni prima del ciclo dipinto nel 2010-11 per il suo 80° anno, sulle 14 stazioni con tanti disegni preparatori, in cui  il  “Crocifisso”, come abbiamo ricordato, polemicamente ha come sfondo i grattacieli di New York.

Prossimamente descriveremo le altre 4 sezioni pittoriche, dedicate alla “Politica” e al “Circo”, alla “Vita latino-americana”  e ai  “Nudi”, e infine le” Sculture”, anch’esse molto personali e caratteristiche.

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 2 giugno scorso, il terzo e ultimo uscirà il 6 giugno, con altre 13 immagini ciascuno.  Per  le citazioni di De Chirico, i suoi  “d’après” e la “natura silente” cfr. i nostri articoli in  www. culturainabruzzo.it , 8. 10, 11 luglio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito),  e il nostro articolo “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, in “Metafisica”,  Quaderni della Fondazione  Giorgio e Isa De Chirico,  n. 11-13 del 2013, pp. 403-418.

Foto 

Le immagini, relative alle prime 3 sezioni della mostra e alla sezione con le sculture, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “La Fornarina”, 2008; seguono, “Piero della Francesca” (dittico, parte destra), 1998, e “Maria Antonietta”, 2005; poi, “Natura morta davanti al balcone”, 2000, e “”Natura morta con strumenti musicali”, 2004; quindi, “Natura morta con caffettiera blu”, 2002, e “Cardinale addormentato”,2004; inoltre, “Nostra Signora di Colombia”, 1992, e “Seminario”, 2004; infine le sculture, “Donna a cavallo”, 2015, “Leda e il cigno” , 2006, e “Donna sdraiata”; s.d.; in chiusura, “Il Presidente. La first lady” (dittico, le due parti), 1969.