Baselitz, la dolente galleria degli Eroi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Georg Baselitz. Gli Eroi”, che dal 4 marzo al 18 giugno espone al Palazzo delle Esposizioni 70 dipinti, disegni e xilografie, realizzati nel furore creativo del biennio 1965-66, tutti raffiguranti “Eroi” o “Nuovi tipi”, con una selezione del “remake” di 35 anni dopo dei soggetti di allora. La mostra è stata organizzata da Stadel Museum in collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo-Palazzo delle Esposizioni, Muderna Museet, Guggenheim Bilbao,  curatore Max Hollein, direttore del San Francisco Museum of Fine Arts e in precedenza direttore dello Stadel Museum di Francoforte, con Daniela Lancioni, del Palazzo delle Esposizioni. Catalogo dell’editore Hirmer. 

Dopo averne delineato genesi e motivazioni, passiamo a descrivere gli “Eroi” di Baselitz, ritratti monumentali a figura piena quasi a grandezza naturale, misurando in media 160 cm di altezza, che fanno sentire il visitatore delle sale come fosse al centro di piazze affollate da un’umanità dolente:  c’è l'”eroe” e il “partigiano”, l'”insorto” e il “ribelle”, ma anche il “pastore” e il “pittore”.

“Si tratta di outsider, all’apparenza sperduti, osserva il curatore Max Hollein, in una condizione passivo-aggressiva. Sono malinconici ma capaci di liberarsi grazie alla forza di volontà, attivata dalla riflessione”.  Quindi un doppio atteggiamento, nella compresenza di contrari tipica dell’artista, il ripiegamento dolente e nel contempo un barlume di reazione: “Immagini di una tragedia e di un conflitto ulteriore al contempo, queste figure portano in sé lo spavento, il dolore e il terrore, ma anche il pathos e la commozione necessari alla catarsi”.

I caratteri esteriori specchio dei sentimenti interiori

Consideriamo intanto, guardandoli da vicino, i caratteri esteriori comuni ai diversi ritratti, mentre esprimono i sentimenti interiori su cui ci siamo soffermati in precedenza, anche in relazione alla biografia dell’autore.

Hollein li descrive così: “Sono colossi dai capi minuti… feriti e invulnerabili, maldestri e sconvenienti. Nonostante i loro atteggiamenti marziali ancora evidenti, emanano una delicatezza sorprendente”.  Le loro “uniformi, ormai lacere e misere”, ce li mostrano come succubi  di un potere militarista senza la possibilità di reagire; ma nello stesso tempo “si sottraggono alle costrizioni e all’omologazione grazie alle ferite, alle esperienze, alle conoscenze derivate da ciò che hanno vissuto”, e questo dà loro la possibilità di affrancarsi ed acquisire “una nuova forza rivoluzionaria nel momento in cui le trappole, ostacoli e limitazioni di ogni sorta vengono lasciati alle spalle”.

Il messaggio dell’artista, come abbiamo già accennato, va ben oltre l’ispirazione personale nel clima postbellico segnato ancora dalla guerra fredda:  “Nelle sue opere, i protagonisti non vogliono più assumere il ruolo che è stato loro affidato in un mondo i cui fondamenti e il cui ordine sono stati scossi. Catene, trappole  mutilazioni gli impediscono di agire, eroi e vinti al contempo. Nei loro corpi gonfi e deformi, rinchiusi in uniformi logore, trovano espressione sia una forza innata sia una debolezza latente. Si tratta di soggetti in uniformi, di ogni tipo e classe sociale, che devono arrestarsi a riflettere e isolarsi, personificazioni singolari e curiose  di un ‘Nuovo tipo’, dell‘Eroe'”. Ed è evidente che “se generalmente associamo agli eroi attributi  quali valore, audacia e coraggio, e li immaginiamo affrontare con essi situazioni concrete e ammirevoli e uscirne vincitori, allora le immagini di Baselitz sono del tutto estranee alla figura dell’eroe”.

Uwe Fleckner lo sottolinea anche sotto il profilo compositivo: “Nonostante la presenza dominante della figura, quella monumentalità che è propria di  tutti gli ‘Eroi’ e ‘Nuovi tipi’, non è assolutamente possibile parlare per queste figure lacere di una dimensione eroica e possente”.  E lo spiega: “Ad eccezione di ‘I grandi amici’, tutte le figure sono solitarie e isolate, mutilate e senza una dimora, intrappolate… Piuttosto, a questi eroi stanche, è stata data la parvenza di sofferenti perfino di martiri; sono persi nel dipinto, senza un’impresa apparente da compiere… l’eroe non è colto in atti eroici, la storia a cui queste immagini sembrano accennare  rimane priva di accadimenti”.  

Allora come può evolvere la storia di tali figure, curate le ferite e dismesse le uniformi lacere? “Non è chiaro – afferma Hollein –  se poi esse faranno effettivamente qualcosa, avanzeranno combattive, prenderanno in mano qualche attrezzo, pennello, per creare con la loro forza un mondo migliore e meno ambiguo, o s invece torneranno a sprofondare letargiche in un ambiente fatale” Come “immagini di una tragedia e di un conflitto interiore al contempo, queste figure portano con sé lo spavento, il dolore e il terrore, ma anche il pathos e la commozione necessaria alla catarsi”.

Questa ambivalenza rende intrigante il loro messaggio, e crea un forte impatto sull’osservatore portato a riflettere e a dare una propria risposta all’interrogativo su cosa faranno dopo aver superato la depressione e l’isolamento seguiti alla sconfitta subita, il loro “eroismo” sta nella ripresa volitiva.

Dal punto di vista pittorico si nota subito un cromatismo aspro e cupo pur nelle tonalità calde,  si tratta dell’ennesimo contrasto, un groviglio di segni contorti che delimitano e anche compongono la figura e gli elementi posti a complemento per contestualizzarla, dando un’evidenza visiva al tormento interiore non riservata ai volti pur se stravolti o assorti e attoniti,  ma espressa dall’intera figura, con un linguaggio del corpo anch’esso evidente addirittura in modo provocatorio per certe esibizioni anatomiche impudiche.  Gli sfondi cambiano, dai toni pastello al tutto nero o tutto bianco.

Sugli elementi posti a complemento si sofferma Eva Mongi-Vollmer, dopo aver sottolineato anch’essa la deformazione dei corpi soprattutto nelle proporzioni, evidenziando i particolari di contorno della figura dell'”Eroe” o “Nuovo tipo” che possono sfuggire all’osservatore preso dall’immagine dominante: “Il paesaggio desolato sullo sfondo mostra – analogamente al corpo – devastazioni di ogni tipo: case in fiamme, alberi e cespugli senza foglie, terra smossa appaiono in varie dimensioni, Strumenti di tutti i tipi occupano la superficie: attrezzi agricoli,come aratri ed erpici, molto di frequente una carriola, … l’equipaggiamento di un vagabondo, ossia zaino militare e calzature, tavolozze e pennelli, da pittore, e spesso anche trappole, gli strumenti del martirio in cui rimangono incastrati piedi, mani e perfino il capo. Bandiere afflosciate o dismesse opprimono il protagonista, invece di dargli un appoggio. Alcuni animali, spesso anatre, lo accompagnano lungo il cammino o lo incrociano. Fuochi più o meno grandi cancellano i resti di case e oggetti”.

Questa descrizione ci fa entrare, per così dire, nei dipinti, è dunque il momento di raccontarli. Segnaliamo che nel Catalogo la galleria delle opere è accompagnata da rievocazioni storiche che fanno rivivere tanti momenti emozionanti richiamati in qualche modo dalla visione artistica.

I principali personaggi

Nella nostra rassegna dei  “personaggi” di Baselitz cominciamo naturalmente da “L’eroe”, il braccio sinistro proteso, ma con la mano destra indica la ferita, quasi protestando, poi  l’eroe è nudo, dalla cintola in giù,  e questo concorre a togliergli ogni tono celebrativo ed enfasi eroica.

“Il pastore”  lo vediamo in 3 dipinti: nel primo è quasi imprigionato in una nicchia, in mano  e intorno minuscoli strumenti di lavoro, quasi a evocarne l’esistenza ma non l’utilizzazione da parte del lavoratore attonito e bloccato; nel secondo  è quasi accasciato su un ammasso informe, colpito al capo da una croce misteriosa che piove dal cielo, ma non sembra toccato dalla grazia quanto percosso  e quasi tramortito; nel terzo sembra invece in ripresa volitiva, in piedi, casacca chiara e pantaloni scuri con la gamba destra nuda, domina l’ambiente e gli oggetti che vi sono sparsi..

E il “Partigiano”? Anche qui nulla di epico, ha le braccia  abbassate, potrebbe sembrare un gesto di rassegnazione, il viso però esprime ancora energia e decisione. In un piccolo disegno le braccia sono aperte, l’apparente rassegnazione è contemperata da un certo dinamismo dell’immagine.

Anche il “Ribelle” presenta una figura apparentemente dimessa, le braccia abbassate, la mano sinistra nella tasca di una sorta di tuta, su fondo nero, come se emergesse dal buio; molto simile un disegno a carboncino, quasi uno studio preparatorio, mentre in un altro disegno su fondo chiaro le due braccia sono ugualmente abbassate ma le mani stringono due piccoli oggetti.

Il “Pittore moderno”, invece, in entrambi i dipinti che lo raffigurano è seduto ma esprime una certa energia e decisione nel volto, il corpo è tormentato da segni: in un dipinto la mano destra impugna qualcosa, non è un fucile ma l’atteggiamento è quello di chi ha un’arma, nell’altro dipinto invece le mani si immergono nella terra, quasi alla ricerca delle proprie radici.

C’è anche il “Pittore bloccato”, in piedi, davanti a un albero e appoggiato a un bastone, nella mano sinistra pennello e tavolozza, mentre il braccio destro è abbassato con la mano aperta.  La Fleckner vi vede “l’allegoria di una pittura, della sua pittura, che… genera l’immagine di una situazione senza uscita. Il pittore, amputato e stigmatizzato, sta a ridosso di un albero spoglio, in claustrofobica vicinanza, a margine di un’isola cromatica rosso sangue; dietro di lui un oggetto che giace a terra di traverso delimita il motivo e rimanda fatalmente alla tipica architettura del Muro di Berlino, e quindi alla divisione della Germania  e alla situazione personale dell’artista, tra Ovest ed Est (‘Sventurata la terra che ha bisogno di eroi’)”; ma della sua biografia abbiamo detto in precedenza.

Non è bloccato soltanto il pittore, in “Uno bloccato” forse  la qualifica si riferisce al fatto che con le due mani impugna una sorta di spada arrossata che non può usare, altrimenti l’atteggiamento sembra determinato, gli occhi guardano lontano. 

Arrossato è l’intero dipinto, “Senza titolo”, degli schizzi rossi, chissà se indicano il sangue, sprizzano intorno alla figura, eccezionalmente ridotta a quasi metà della composizione invasa del tutto dagli schizzi, li asociamo ai segni rossi pur molto diversi ma ugualmente invasivi,  dei disegni di Pablo Echaurren nella fase politiczzata dalla ribellione e contestazione del suo multiforme impegno artistico: chissà se il nostro collegamento è troppo ardito o si è ispirato proprio a questo motivo. 

Il “nuovo tipo”  e i ritratti personali

Nella galleria di ritratti spicca il “Nuovo tipo”,  vediamo diversi dipinti con questo titolo, in uno di essi e in diversi disegni è rappresentato con le braccia larghe, anche qui in apparente rassegnazione, in altri le braccia sono distese lungo il corpo, persino con la sinistra  curiosamente piegata ad angolo e con le braccia in alto in un disegno, che potrebbero essere in segno di resa o di slancio. Fino all’immagine che riteniamo espressiva ed enigmatica insieme, la sciarpa rossa al vento, il  modo con cui la figura spicca senza zavorre, il braccio destro abbassato come il sinistro ma con un gesto volitivo nel reggere una borsa lo mostra quasi in viaggio verso il futuro, mentre il membro rigido e gigantesco sembra un segno volitivo di trasgressione ribelle, ricordando anche i guai che aveva passato per la sua arte considerata all’inizio “indecente” per questi vistosi particolari anatomici.

Altri  ritratti  nei numerosi “Senza titolo”, con le braccia nella varie positure, quasi studi preparatori  delle identificazioni nei diversi  tipi di “eroi”. E soltanto 2 personalizzazioni,  “Bonjour monsieur Courbet”, il raro ritratto in cui la figura non è ferma ma in cammino verso destra,  rappresentata con grande dignità e compostezza, il passo deciso e senza incertezze, e “Ralf”. una testa in primo piano che per la posizione di profilo sembra un ingrandimento di quella di Courbet; ci sono anche 3 grandi “Teste”  contrassegnate da un numero progressivo, delineate con segni chiari su fondo nero, i visi sono normali, come quello di “Fondo nero”, senza le deformazioni dei ritratti degli “eroi”.

Le figure spezzate e l’albero protagonista

Vediamo esposti anche  dipinti in cui la figura è spezzata in due, appartengono alla serie dei “quadri fratturati”: il “Nuovo tipo. pittore con il cappotto”  nel  secondo quadro è spezzato in tre parti,  come lo è la “Grande notte in bianco. Patria”, mentre  è spezzato in due anche “L’eroe diviso” e l’uomo comune, “Ricciuto”.

Un vero protagonista è “L’albero“, lo vediamo rappresentato da solo in 3 dipinti, sempre tormentato nei rami contorti e  in ciò che ha intorno e sulla corteccia; non è l’albero della vita di certe enfatizzazioni ma viene umanizzato facendone discendono dei semi a fecondare la terra.

L’albero sta dietro alla figura oltre che in “Pittore bloccato”, come abbiamo visto, in “Vento in poppa”, quasi a voler spingere la figura dalle braccia larghe e nuda dalla cintola in giù con quel che segue, per sottolinearne lo spirito tutt’altro che rassegnato; ci sono due alberi in “Trappola”, come se impedissero alla figura seduta di alzarsi, anche se l’atteggiamento è tranquillo, le mani a terra.

Altri temi fino ai “grandi amici”

Altre rappresentazioni tematiche e non più personali, “Immagine per i padri” ed “Economia”, “Con bandiera rossa” e “Il rossoverde”, “Segni diversi”, “Uno rosso”  e “Uno verde”, con la figura in cammino verso sinistra ma con le spalle incurvate, la testa reclinata, l’atteggiamento dolente, ben diverso da quello che abbiamo visto in “Courbet”, mentre in “Bianco nero” una figura simile, però in cammino verso destra, sembra invece determinata.

Come sono opposti gli atteggiamenti della figura in piedi in “Fondo nero”, delineata solo da tratti cromatici ma molto espressiva, il viso composto, la mano sinistra in alto per ammonire, forse l’immagine più positiva tanto più costruita sul buio; e della figura distesa bocconi – non ne abbiamo visto altre così – in “A terra”,  sarebbe la definitiva sconfitta senza possibilità di ripresa ma è un piccolo disegno non tradotto in dipinto forse perché l’artista non si riconosce nella resa definitiva con il suo spirito di ribellione e di lotta.

Ci piace concludere la galleria con “Gli amici”, 2 ritratti sempre a figura intera come tutti, tranne le  poche “Teste”: sono ripresi in diversi atteggiamenti, uno sereno, l’altro malinconico; mentre “I grandi amici”, l’unico con figura doppia e dimensione  doppia, 2,5 per 3 metri, su fondo nero, le braccia abbassate la prima, la seconda con il braccio sinistro ad angolo e la sciarpa al vento, immagine positiva già vista in “Un nuovo tipo”: i  grandi amici sono le nuove  figure umane.

Dopo questa emozionante immersione  che lascia senza fiato tra figure sconvolgenti e insieme enigmatiche lasciamo ancora la parola Hollein per una considerazione finale: “Con queste figure in equilibrio precario, all’artista interessa in particolare riacquisire e stabilire un contegno, sviluppare  e mantenere una posizione anticonformistica  e profondamente individuale, al di fuori dei sistemi. Solo l’artista autonomo, in qualità di individuo che si muove si margini della società e sa superare le avversità, è in grado di creare qualcosa di nuovo, al di là di ordini sociali contrastanti, ideologie distruttive e dubbi diktat stilistici”.  

Sulla difficile traduzione del  messaggio trasmesso vale quanto evocato da Shiff  il quale, nel ricordare che “la traduzione ‘sblocca’ il percorso che permette allo spettatore di giungere al messaggio codificato”  riporta l’eloquente citazione del critico americano Leo Steinberg: “Chi avrebbe bisogno di quadri se fossero così traducibili?”. 

E che si abbia un grande bisogno dei quadri di Baselitz lo dimostrano le 4 grandi mostre paneuropee  dopo mezzo secolo dalla loro creazione allorché sono tornati ad essere quanto mai vivi e attuali.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “Georg Baselitz. Gli Eroi“, Editore Hirmer, pp. 168. formato 24 x 30, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra à uscito in questo sito il  23 maggio  u.s. con altre 10 immagini. Cfr. inoltre i nostri articoli: in questo sito su Echaurren, citato nel testo, 27 febbraio, 4 marzo 2016 per le opere di impegno politico, 23, 30 novembre, 14 dicembre 2012 per l’intera produzione artistica; in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra “100 capolavori dello Stadel Museum”, dove si trovano le opere di Baselitz esposte nell’attuale mostra, 3 articoli il 13 luglio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,per l’opportunità offerta.  Sono tutti dipinti di Baselitz del 1965-66. In apertura, “Vento in poppa”; seguono, “Pittore bloccato” e “Trappola”; poi, “Il rossoverde” e “Ribelle”; quindi, “Senza Titolo”  e “Albero”; inoltre, “Il nuovo tipo”” e “Senza Titolo”; in chiusura, “Bonjour Monsieur Coutbet”.

Botero, le prime 3 sezioni pittoriche della mostra al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al  Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, la mostra “Botero”  presenta – in 8 sezioni tematiche con 48 opere, di cui 43  grandi dipinti  e  5 imponenti  sculture – le caratteristiche raffigurazioni dell’artista colombiano prevalentemente realizzate dal 2000 in poi, che intrigano per la personalissima  conformazione dei volumi, gonfi e ridondanti in un figurativo deformato. La mostra, promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, è prodotta e organizzata da “Arthemisia” con “MondoMostreSkira”, e curata, insieme al Catalogo Skira, da  Rudy Chiappini.

Il mondo molto particolare di Botero

Abbiamo cercato di interpretare la matrice, i motivi e i risultati dell’opera di un artista così insolito e intrigante come Botero iniziando dalla sua formazione, marcata dalle immagini della civiltà e delle tradizioni  latino-americane su cui si sono innestati i valori della grande arte europea ed italiana, con l’immersione nel mondo statunitense scosso dalle avanguardie dell’espressionismo astratto e non solo. La quadratura del cerchio dell’attaccamento alla sua terra con la continua separazione è stata la “sintesi di regola e passione”, mentre i suoi corpi gonfi dalle forme stravolte sono una trasfigurazione favolistica della realtà che non suscita riso ma tenerezza e “la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica”, per cui l’osservatore guarda “divertito, perplesso, incuriosito” e comunque sereno.

Verifichiamo ora queste considerazioni generali con la galleria delle opere esposte in un allestimento che ha posto le sculture in successione nella rampa di accesso, a parte il “Cavallo”, all’esterno nello spazio antistante, con le 7 sezioni pittoriche isolate nelle rispettive “enclave” e poste opportunamente in una successione che ne sottolinea la continuità e complessiva omogeneità.

Si vede che il suo è un mondo molto particolare, come  lo è il figurativo controcorrente rispetto alle avanguardie imperanti:. “Il passaggio dal mondo normale al mondo  di Botero non comporta nessuna metamorfosi – ha scritto Paolo Mauri nel 1991 – semplicemente per Botero il mondo è così”. In altre parole: “In Botero la grassitudine… è un approdo mentale: la diversità si rivela dunque soltanto ad un visitatore che venga da un altro mondo, da un diverso pianeta”. Con queste particolarità: “Dunque la grassitudine è una caratteristica che Botero regala ai suoi personaggi e non una loro caratteristica connaturata. Come dire che Botero inventa i soggetti e li vede in questo modo a prescindere dalla loro reale esistenza. La grassitudine è nella mente del pittore e diventa un tratto dell’anima dei soggetti”.  

Percorrendo la galleria delle  48 opere esposte, i soggetti sembrano  accogliere il visitatore come ospite gradito:  “Se un quadro di Botero può spingere al sorriso, la visione di molte opere annulla l’effetto comico: c’è un che di malinconico, di perplesso,  di metafisico in questa grassitudine  esibita senza ostentazione, senza rumore, senza dramma”. 

Nel passare in rassegna le sezioni  si trova conferma all’enunciazione dell’artista: “Per me lo stile è un linguaggio che deve essere coerente… La mia opera è un tentativo che ho seguito durante tutta la vita  perché il volume è un pensiero che porto con me per sempre”. Commenta il curatore Rudy Chiappini: “Il linguaggio, dunque, è l’ossequio alla propria continuità sorretto da un ‘pensiero dominante’ , e quel pensiero determina lo stile”. Con questi contenuti: ” Tuttavia per quanto il linguaggio si perfezioni, e la forma si purifichi, i soggetti di vita civile, di vita privata, di corride, di circo, di bordello, di matrimonio, di violenza, di feste campestri, dell’apparato di religiosità cattolica  sono tenacemente persistenti e rappresentano l’universo di visioni cui Botero non può rinunciare”. Sono le visioni offerte al visitatore  che cercheremo di raccontare, citando le parole stesse dell’artista efficacemente riportate nel Catalogo come originali schede alle singole opere, dopo una concisa introduzione del curatore alle singole tematiche. Nello stesso tempo faremo riferimento anche alle opere viste nella mostra del 1991-92 come logico completamento, in un’integrazione che valorizza l’attuale aggiornamento: una staffetta ideale di Botero a Roma.

Fabrizio D’Amico nel 1991 ha citato le parole di Soavi: “E’ impensabile che a un personaggio di Botero possa capitare un dramma”,  e di Sciascia:  “In loro è assente la gioia come è assente il dolore”, e ha concluso: “Perché il dramma è l’ultima
precipitazione di una vita, l’insanabile contraddizione di due verità inconciliabili, è giusto e necessario che l’umanità di Botero, che allontana da sé la vita a prezzo della propria faticosa immensità, ne sia preservata”.

Abbiamo già visto come questo si riscontri anche nel ciclo “Corrida”, ci limitiamo a riportare un’altra citazione del 1991 di Ana Maria Escallon: “Goya osserva, quasi sempre, i tori dall’interno, mentre Botero li guarda dall’esterno, per una necessità d’esprimersi in un mondo differente, dove il cuore non batte, la vita non si rischia, la fortuna non esiste. E’ un mondo dall’anima lasciva, colmo di poesia,di forme piene che lasciano spazio a colori armonici”. Il trionfo del colore, dunque, mentre “l’atmosfera ieratica nega il furore della ‘fiesta’, l’espressione è contratta in un gesto congelatore  di emozioni, perché ciò che interessa a Botero è l’espressione d’impassibilità”. Anche in “Muerte de Ramon Torres”, 1986, dove il torero a terra inanimato sembra addormentato piuttosto che ucciso dal toro sopra di lui cavalcato dallo scheletro di morte quasi in un gioco.

L’atmosfera muta nei tre cicli in cui il suo atteggiamento distaccato verso il dramma si trasforma in diretta partecipazione, con uno spirito umanitario che va oltre l’angoscia per la tragedia della sua terra lacerata dalla guerra civile. Nel 2000 dipinse il ciclo “Violencia in Colombia”, e  il ciclo “Abu Ghraib” accomunati dalla  ribellione contro le violazioni dei principi di umanità perpetrate nel suo paese con il sanguinoso conflitto intestino come nella grande democrazia degli Stati Uniti con le torture ai prigionieri nel famigerato carcere della guerra irachena.

Ha scritto Conrado Uribe Pereira nel 2016: “Come cittadino del mondo , qui l’artista assume una posizione globale e, per i quattordici mesi di lavoro che costituiscono, come Botero stesso ha dichiarato, una parentesi nella sua carriera, ha prodotto questa sorta di catalogo particolare nel quale raccoglie un frammento delle oscure cronache dell’attualità”.

E’ stata “una parentesi nella carriera”, sono “serie anomale nella carriera di Botero che ne attestano una coscienza politica che va dal locale al globale”, dunque; dieci anni dopo, nel 2010, per i suoi 80 anni, nel ciclo della “Via Crucis” torna la denuncia evocata nel “Crocifisso” avente per sfondo i grattacieli di New York con evidente riferimento ad “Abu Ghraib”. E torna il tema drammatico della violenza e dell’oltraggio all’umanità di Cristo, indifesa come quella dei perseguitati, espresso senza toni forti ma con un senso di pietà reso più struggente dalle forme ridondanti dell’essere indifeso che accentuano la tenerezza per lui in un’atmosfera di rassegnata contemplazione.

Così conclude Pereira sui tre cicli che lo hanno portato “a contravvenire in parte alle sue stesse norme, a rendere più impervio un sentiero faticosamente costruito nel corso della sua carriera artistica”: “Più che come un tradimento come qualcuno ha affermato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera”.  

Non potevamo non farne parola anche se i temi della mostra attuale non comprendono queste  “serie anomale” rispetto  alle sue espressioni consuete. Lo stesso artista le considera, come abbiamo visto, “una parentesi nella sua carriera”, di cui resta il segno incancellabile di natura morale e umana con tutto il suo valore civile e politico.

Le versioni di antichi maestri

Abbiamo ricordato come dai suoi primi viaggi in Europa quando aveva 20 anni, in particolare in Italia e Spagna,  l’artista fu profondamente colpito, e quindi influenzato,  dai grandi maestri italiani, da Giotto a Leonardo, da Paolo Uccello a Piero della Francesca soprattutto, e spagnoli, da Velasquez a Goya, poi conoscerà anche Durer e Rubens, Manet e Cèzanne, trovando delle ideali  “affinità elettive”.

Le esprime dedicandosi ai “d’aprés” che, a differenza di quelli di altri grandi artisti come De Chirico, non riproducono con variazioni modeste le opere ispiratrici, ma le re-interpretano radicalmente nel proprio personalissimo linguaggio; che non è soltanto una cifra stilistica diversa, ma comporta una dilatazione dei volumi tradotta in un gonfiamento dei corpi che determina la notevole deformazione, resa ancora più vistosa dall’inevitabile confronto con l’originale.

Ma proprio questa verifica conferma quanto si è premesso, nessun effetto caricaturale, non sembrano irriverenti né suscitano comicità, al massimo ironia, e fanno apprezzare lo sforzo di rendere omaggio ai grandi maestri “cercando, a secoli di distanza – commenta il curatore – di renderne lo spirito, attualizzato e fatto proprio attraverso la sua idea originale del volume e dello spazio, del segno e del colore”.

La 1^ sezione pittorica con 8  “Versioni degli antichi maestri” evidenzia come si sia dedicato ai “d’aprés” non solo nella fase iniziale, ma nell’intero percorso artistico, come  De Chirico che sull’orlo della vita ultimava l’ultimo dipinto, ripetendo un “d’après” realizzato in passato: la prima è del 1959, seguono 3 de 1984 e 1998, e 4  dal 2005 al 2008.

Iniziamo con i “d’aprés” di Velasquez, sono 3, il primo, “Nino de Vallecas”, 1959, ancora non rivela interamente la sua cifra stilistica che si manifesta invece in un “Busto femminile”, 1984, e ovviamente in “L’Infanta Margherita Teresa”, nel quale la deliziosa grazia infantile dell’originale si trasforma in una forma  imbarazzata più che goffa, che non suscita riso ma ispira tenerezza. Nel ricordare di essere stato “copista” al Prado, dove conobbe i dipinti del maestro spagnolo, l’artista rivela: “L’arte che ammiravo nelle grandi stanze del Museo del Prado era per me impenetrabile, una vera scoperta, e la tecnica con cui quei capolavori erano realizzati mi affascinava”.

Dopo il “d’aprés” di Rubens, “Rubens e sua moglie”, 2005, in cui l’apparente  goffaggine delle due figure, con le mani simili a spatole che si uniscono, si traduce anch’essa in tenerezza, vediamo “Maria Antonietta”, 2005, figura dignitosa e accattivante, che serve all’artista per precisare come la scelta di questo come altri soggetti non significhi abbandono delle proprie radici: “Voglio che la mia pittura abbia radici, ma nello stesso tempo non voglio dipingere soltanto campesinos. Voglio essere capace di dipingere tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI , ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

Ed eccoci ai grandi maestri italiani, sono esposti i “d’aprés” di Piero della Francesca e Raffaello. Del primo parla così: “Di Piero della Francesca ho scoperto l’espressione più totale dell’arte: la pienezza del volume, delle forme composite, dei colori smaglianti, resi con tonalità difficilissime da creare. Il soggetto aveva una dignità straordinaria. Le figure emanavano un’impressione di monumentalità e di grande dignità”.  Possiamo dire che è proprio questa l’impressione che si ricava dal dittico esposto, “I duchi di Urbino”, la monumentalità non è resa dalla dilatazione dei volumi, appena percepibile, ma
dalla severità dell’espressione, c’è rispetto per la dignità della figura.

Invece nel “d’aprés” di Raffaello, “La Fornarina”, 2008, la dilatazione è evidente e l’immagine ne viene coinvolta: dalla grazia pudica e seducente si va all’imbarazzo timido, per questo tenero. Torna il mente il “d’aprés” di Leonardo, “Monna Lisa”, 1977, visto alla mostra del 1991-92, realizzato 30 anni prima di quello della “Fornarina”, analogo coinvolgimento nel tradurre nel proprio linguaggio: all’intrigante mistero di un sorriso indefinibile si sostituisce un atteggiamento di placida attesa.

La reiterazione dei “d’aprés” anche in epoca recente indica che per l’artista questi capolavori non sono pezzi da museo, come le cosiddette “lingue morte”, gloriose ma inattuali.

Nature morte

Così le “Nature morte”, di cui ne sono esposte 6 nella 2^ sezione pittorica, alle quali l’artista attribuisce un significato che va oltre la mera composizione di oggetti ma, come osserva il curatore, rivelano “un vero e proprio mondo a sé, ricco diversificato, regolato da regole precise”. Le enuncia lo stesso artista: “Quando dipingo una mela o un’arancia, so che si potrà riconoscere che è mia e che sono io che l’ho dipinta, perché quello che io cerco è dare a ogni elemento dipinto, anche al più semplice, una personalità che viene da una convinzione profonda”.

E’ come dare vita alle cosiddette nature morte, la cui definizione, pur in termini diversi, fu contestata da De Chirico che vi si dedicò chiamandole “nature silenti”. L’artista vi  imprime il proprio sigillo stilistico, ma proprio per renderle vive non le stravolge limitando la dilatazione, restano naturali pur se subito riconoscibili dall’osservatore come afferma di volere l’artista.

Lo vediamo nella “Natura morta dinanzi al balcone”, 2000, con una bottiglia e delle arance su un tavolo tondo coperto in parte da una tovaglia rosa shocking,  dinanzi a una ringhiera con sfondo di tetti. Tre arance sono intere, nella loro perfetta rotondità, la quarta è a metà, e questo dà vita alla composizione, rendendola dinamica. In “Arance”, un suo quadro del 1989, non in mostra, i frutti sono i soli protagonisti, poggiati su una cassapanca con una tovaglia di un giallo discreto, senza sfondo né altri oggetti; .anche qui tre arance intere, ma altre tre  a metà una delle quali anche sbucciata. Dieci anni dopo, dunque, torna lo stesso motivo, dare vita alla “natura morta”.

Analoghe considerazioni si possono fare per una “Natura morta” del 1970, in cui oltre a due arance tagliate  a metà e un grande  ananas anch’esso tagliato, ci sono delle bucce e delle posate, con una forchetta addirittura conficcata nell’ananas, quasi che l’artista avesse colto l’attimo fuggente di uno spuntino interrotto, sospensione accentuata dal cassetto del
tavolino rimasto socchiuso.

Vediamo l’aggiunta di altri elementi compositivi nelle ultime due “Nature morte” di questo tipo, dove la frutta è ulteriormente diversificata, sempre con l’elemento vitale dello spuntino evocato.

In “Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000, ci sono anche un cestino pieno di pomi, un piatto e una forchetta, oltre  alla bottiglia piena per metà, con una tovaglia verde chiaro su cui sono poggiate due banane intere e una tagliata a metà che, con lo spicchio d’arancia, dà vita alla natura morta.

Mentre “Natura morta con caffettiera”, 2002, mostra un cromatismo più intenso, di nuovo il mobiletto dal cassetto semiaperto con la tovaglia rosa shocking, una maggiore varietà di frutta, tre mele verdi, due banane e altro in una fruttiera bianca, una pera, una mela verde e due ciliegie sul tavolo dov’è anche un coltello e una fetta di cocomero rosso su un piatto blu, lo stesso colore della grande caffettiera e della parete di sfondo con uno specchio che riflette i frutti poggiati più in alto.

Questa la descrizione dell’artista: “Quando guardate una delle mie nature morte noterete che i coltelli e le forchette, la frutta, il tavolo, il tovagliolo, ogni cosa è resa nella stessa maniera, perciò l’intero lavoro irradia un senso di unità, armonia e coerenza. Questo è ciò che comunica la sua verità essenziale” della quale, aggiungiamo, fa parte anche la vita data alle “nature morte”.

Non più frutti nella “Natura morta con lampada e fiori”, 1997, i fiori sono otto, sembrano rose non sbocciate di un colore sbiadito come la tovaglia, di un giallo più intenso il vaso con manico in cui sono raccolte in una composizione compatta. Al lato una lampada a olio grigia, grande come il vaso, con la fiammella accesa, il segno di vita come la forchetta all’angolo del tavolo con un pezzetto di cocomero, più piccolo della fetta nella “Natura morta con caffettiera”, ma evidente.

Ritroviamo la bottiglia piena a metà della “Natura morta con frutta e bottiglia” nella “Natura morta con strumenti musicali”, 2004, su un mobile questa volta dal cassetto chiuso, c’è un trombone con un mandolino sull’immancabile tovaglia, che diventa di colore arancio in sintonia con gli strumenti illuminati da una luce gialla. Danno vita alla composizione l’archetto dello strumento e i fogli dello spartito musicale, appoggiati come per una sospensione momentanea dell’esecuzione. Ci tornano  in mente tre dipinti non in mostra: la “Natura morta con Le Journal”, 1989, con il mandolino e, oltre agli oggetti dei quadri descritti, la caffettiera con uno sbuffo di liquido,  l’arancia intera e quella sbucciata fino a una fetta sottile sopra il giornale, la natura non è morta, è viva; la “Natura morta con violino”, 1965, dove  non c’erano ancora questi segni di vita; e “Interno con figure”, 1990,  dove i segni di vita erano  non solo nelle arance tagliate, ma nelle due persone, un uomo e una donna di spalle, sedute a tavola per lo spuntino che è solo evocato in tutti gli altri dipinti.

L’artista si lascia andare a una vera confessione, ricordando come un errore nel disegno del mandolino con il foro centrale troppo piccolo gli aveva fatto esclamare “Ma qui c’è una proporzione diversa, è straordinario”. Poi aggiunge: “E ho dipinto subito il quadro esagerando il volume del mandolino, dilatandolo, dando il massimo rilievo alla forma. Questa dilatazione, questa affermazione dell’oggetto nello spazio era ciò che avevo cercato anche nei classici”. E così si chiude armonicamente e coerentemente il cerchio con i suoi “d’aprés” che abbiamo già commentato.

Religione 

La 3^ sezione pittorica ci porta nel  campo della “Religione” che ritroviamo nella sua prima formazione, quando le tradizioni colombiane e i riti religiosi, insieme alle immagini sacre, erano dominanti. “Io non sono religioso, afferma l’artista, ma nell’arte la religione è parte della tradizione”.  Poi si sono aggiunte le realizzazioni artistiche dei  maestri europei su temi sacri, una tradizione a livello universale. .

Il curatore osserva che nel suo mondo il “clima favolistico”  fa sì che “la realtà deve fare sempre i conti con lo sconfinamento in una fantasia che determina compiutamente i pensieri e i gesti della gente. In un simile contesto la religione si pone come un esempio di pratica del soprannaturale che permea la quotidianità da tradursi in sorpresa, in contemplazione estatica, in forma adattata a un pensiero pronto a plasmare uniformemente le cose e le persone”.

Ma a parte queste considerazioni, la selezione delle 5 opere sul tema è una escalation rituale: dai seminaristi al monsignore, dal nunzio al cardinale, dalla  Madonna col Bambino fino al Crocifisso.

Il “Seminario”, 2004, raffigura  in un ambiente spoglio quasi metafisico nelle arcate di sfondo, cinque seminaristi in quattro  posizioni: uno sulla sinistra in ginocchio mentre prega con lo sguardo verso l’alto e le mani giunte,  un altro in primo piano sdraiato mentre legge il breviario con la testa appoggiata alla mano destra, un terzo a destra seduto su una poltrona con il rosario nella mano sinistra, come un quarto in piedi al centro, al pari del quinto dallo sguardo attonito, più degli altri raffigurati. Sono come presi da un senso di arcano stupore, accomunati in un quieto raccoglimento dal quale sembra contagiato il gattino sulla destra, nero come le loro tonache, e come loro assorto.

Saliamo di livello con il monsignore di “Passeggiata sulla collina”, 1977, ha il rosario che pende dalla mano sinistra e un curioso ombrellino nero nella destra aperto sebbene non vi sia il sole ma un cielo nuvoloso su un prato verde; le forme gonfie, ma non in modo debordante,  in una composizione semplice ed essenziale, danno un senso di leggerezza che non intacca la serena compostezza del prelato. Un ombrellino lo ricordiamo in altri due dipinti non in mostra. Nella“Passeggiata al lago”, 1989,  è di colore rosso porpora perché in mano a un cardinale in veste talare con strascico della stessa tinta, in una composizione molto diversa con la figura umana minuscola dinanzi al gigantismo degli alberi nel bosco, che si riflettono nelle acque.  In “La passeggiata”, 1978, è nero, tenuto in mano da una signora, che ha nell’altra un borsellino, intorno due grandi alberi su un prato verde sconfinato.

Cresce ancora il livello nella gerarchia ecclesiastica con i dipinti che raffigurano due alti prelati,  con le vesti rosse e la mitria sul capo, raffigurati nel 2004 in pose e atteggiamenti ben diversi.

“Il nunzio”  è in piedi con il pastorale nella mano destra e il rosario nella sinistra, mentre incede solenne davanti a dei banani lussureggianti con il piccolo chierico in cotta bianca che regge l’ombrello rosso dell’autorità vescovile. “E’ una variegata macchia di colore – commenta il curatore – che entra a far parte del paesaggio secondo la logica delle apparizioni capaci di trasformare l’evento, per noi inatteso, in marcata consuetudine”. Ricordiamo il “Vescovo in nero”, 1982, non in mostra, mentre benedice davanti a una nicchia, senza sfarzo.

Mentre “Il cardinale addormentato” è  immerso nel sonno con indosso i paramenti, mitria compresa,  in un ambiente spoglio in cui c’è soltanto un piccolo Crocifisso nella parete, su un letto spartano circondato da sei candele accese, come se fosse una veglia mortuaria. Ironia dell’artista?

Le due immagini sacre riportano alla iconografia cristiana, ma con una particolarità per “Nostra Signora di Colombia”, 1992: con in braccio il Bambino, invero quasi un ometto con camicia, calzoni corti e scarpe ha in testa una corona inconsueta per la Madonna, quasi un triregno da papa, mentre due piccoli angeli sostengono un piccolo telo verde dietro di lei. Null’altro di particolare, la figura è nobile, anche se la corona sembra fuori luogo e il telo precario e inadeguato.

Siamo giunti al culmine delle raffigurazioni religiose con “Cristo crocifisso”, 2000, in cui la dilatazione del volume non toglie armonia alla forma che ispira raccoglimento e rispetto senza drammaticità; le gocce di sangue che si intravedono nel corpo e nella croce sono leggerissime, quasi invisibili.  

Ci ricorda “Ecce Homo” , 1967, anch’esso composto e senza segni visibili di torture e sofferenza, e il successivo “Trittico della Via Crucis”, 1969, quarant’anni prima del ciclo dipinto nel 2010-11 per il suo 80° anno, sulle 14 stazioni con tanti disegni preparatori, in cui  il  “Crocifisso”, come abbiamo ricordato, polemicamente ha come sfondo i grattacieli di New York.

Prossimamente descriveremo le altre 4 sezioni pittoriche, dedicate alla “Politica” e al “Circo”, alla “Vita latino-americana”  e ai  “Nudi”, e infine le” Sculture”, anch’esse molto personali e caratteristiche.

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skira Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 2 giugno scorso, il terzo e ultimo uscirà il 6 giugno, con altre 13 immagini ciascuno.  Per  le citazioni di De Chirico, i suoi  “d’après” e la “natura silente” cfr. i nostri articoli in  www. culturainabruzzo.it , 8. 10, 11 luglio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in altro sito),  e il nostro articolo “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, in “Metafisica”,  Quaderni della Fondazione  Giorgio e Isa De Chirico,  n. 11-13 del 2013, pp. 403-418.

Foto 

Le immagini, relative alle prime 3 sezioni della mostra e alla sezione con le sculture, sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “La Fornarina”, 2008; seguono, “Piero della Francesca” (dittico, parte destra), 1998, e “Maria Antonietta”, 2005; poi, “Natura morta davanti al balcone”, 2000, e “”Natura morta con strumenti musicali”, 2004; quindi, “Natura morta con caffettiera blu”, 2002, e “Cardinale addormentato”,2004; inoltre, “Nostra Signora di Colombia”, 1992, e “Seminario”, 2004; infine le sculture, “Donna a cavallo”, 2015, “Leda e il cigno” , 2006, e “Donna sdraiata”; s.d.; in chiusura, “Il Presidente. La first lady” (dittico, le due parti), 1969.

Botero, lo stile inconfondibile nella mostra al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra “Botero” al Vittoriano, dal 5 maggio al 27 agosto 2016, espone 48 opere, di cui 43 grandi dipinti  e  5 grandi sculture, dell’artista colombiano dallo stile inconfondibile aperto  e  misterioso, solare ed enigmatico che stimola il visitatore oltre che il critico alla ricerca della chiave interpretativa della sua affascinante singolarità. Promossa da Roma Capitale con il patrocinio della Regione Lazio, prodotta e organizzata da “Arthemisia” con MondoMostreSkira, a cura di  Rudy Chiappini che ha curato anche il Catalogo Skira. Un progetto didattico è collegato alla mostra.

A distanza di un anno, un nuovo evento artistico ha per protagonista Botero a Roma: dopo  la ” Via Crucis, la passione di Cristo” nella Pasqua 2016 al Palazzo Esposizioni, la mostra tematica al Vittoriano alla cui presentazione ha partecipato l’artista, con Iole Siena, presidente di “Arthemisia” –  il gruppo che ha affiancato ripetutamente le grandi sedi espositive romane nell’organizzare le mostre e dal 2016  ha la titolarità esclusiva dell’Ala Brasini del Vittoriano – e con  Rudy Chiappini, curatore della mostra, presente l’ambasciatore di Colombia. L’artista ha parlato delle radici stilistiche e di contenuto  delle sue figure dilatate dalle forme prorompenti, in una visione dell’arte e della vita disincantata e popolare che porta alla condivisione di sentimenti sereni.

E’ questo un tema appassionante data la singolarità nel panorama artistico mondiale di un approccio così originale e per tanti versi azzardato perché rischia di cadere nella caricatura e nel grottesco. Ma non è così, anzi dinanzi alla sua galleria di dipinti si resta come soggiogati e colti da tenerezza,  per nulla portati al riso, bensì presi nell’intimo dalla percezione di un messaggio di profonda umanità.

La  prosecuzione ideale delle altre mostre di  Botero a Roma

Avevamo provato questa sensazione dinanzi alle stazioni della Via Crucis che dipinse per celebrare i suoi 80 anni,  il Cristo gonfio al posto di quello ischeletrito della tradizione suscitava un sentimento di pietà non minore, quasi fosse ancora più indifeso nella tenerezza che esprimeva, mentre nei suoi carnefici le forme ingrossate moltiplicavano la violenza cieca, insana e perversa.

Ora  si prova sempre tenerezza dinanzi alle figure prorompenti delle 48 grandi opere esposte, ma premono anche altre sensazioni e  sentimenti ben diversi da quelli suscitati dal dramma della Passione. La suddivisione delle opere in 8 sezioni tematiche permette di misurare queste sensazioni dinanzi a situazioni diverse anche se rappresentate con lo stesso stile inconfondibile: si va dalle Natura morte alla Religione, dalla Politica al Circo, dalla Vita latino-americana ai Nudi, fino alle Sculture, con la premessa delle Versioni da antichi maestri in cui Botero si è cimentato,  come De Chirico e altri artisti,  tutte immagini serene. Non sono presenti nella mostra  opere di quattro cicli su vicende drammatiche, “Corrida” e  “Violencia in Colombia”, “Abu Grahib” e “Via Crucis”.

Si può  essere tentati di cogliere l’evoluzione stilistica, tra il  d’aprés  “Velàsquez” del 1959 e la “Passeggiata sulla collina” del 1977, tra le 4 opere della fine degli anni ’80 e le 7 della fine degli anni ’90 fino alle 32 dal 2000 in poi, di cui ben 20 dal 2005, l’ultima  “Carnevale” del 2016.  Ma si resterebbe delusi data la costanza della sua cifra stilistica che esprime una visione ferma e radicata.

Neppure nella precedente grande mostra antologica di Botero a Roma, tra il dicembre 1991 e il febbraio 1992 al Palazzo Esposizioni, con 60 dipinti, 39 disegni, 16 sculture e in più la travolgente sezione di 37 opere sulla “Corrida”, dalla vasta galleria ordinata in modo cronologico si avvertivano segni apprezzabili di mutamenti. La mostra attuale si pone come la sua prosecuzione ideale, solo  “Il bagno”, del 1989,  fu presentato anche allora, le altre sono tutte inedite per Roma e c’è il meritorio aggiornamento dell’ultima serie degli anni ‘2000 dopo  la “Via Crucis” dipinta nel 2010-11 presentata, come abbiamo ricordato, un quarto di secolo dopo nello stesso Palazzo Esposizioni.

Pertanto tutto l’interesse si concentra nell’interpretare la cifra stilistica costante, applicata a diversi contenuti accomunati da una visione che cercheremo di decifrare, partendo dalla formazione riflessa nella sua biografia di artista sudamericano legato al proprio paese, che però ha frequentato a lungo l’Europa e gli Stati Uniti, e ne è stato  influenzato. In questa interpretazione ci aiuteranno le sue stesse parole riportate efficacemente nel Catalogo come originali schede delle opere esposte.

La formazione cosmopolita, fino all’escalation

Nato a Medellin, nella provincia colombiana di Antioqua, dove studiò dai Gesuiti, fu affascinato dalla corrida, la sua prima opera è un acquerello con un torero, anzi per due anni frequentò una scuola per toreri, aveva 12 anni, è di quarant’anni dopo il suo celebre ciclo pittorico la “Corrida”. E’  precoce, a 16 anni la prima esposizione a Medellin.  La sua formazione risente fortemente delle tradizioni locali, lo affascinano le figure dei santi e gli altari barocchi, con l’arte precolombiana e i muralisti messicani tra cui Diego Rivera;  di Picasso lo attira “il non conformismo nell’arte”, cui dedica un apposito articolo  a seguito del quale viene espulso dal collegio, ha appena 16 anni. 

A 20 anni lascia Medellin per  la capitale Bogotà dove fa subito la prima esposizione e conosce personaggi dell’avanguardia colombiana, impiega i primi guadagni per raggiungere l’Europa. Un anno in Spagna, pochi giorni a  Barcellona, poi Madrid; quindi  Parigi dove più che l’avanguardia lo attirano gli antichi maestri al Louvre. Ma è in Italia, dove soggiorna dal 1953 al 1955, che viene affascinato dagli artisti del Rinascimento, si appassiona a Giotto e Piero della Francesca, Masaccio e Leonardo, e alla metafisica di De Chirico, è colpito dalle critiche d’arte di Berenson e Longhi. Con  base a Firenze, percorre la Toscana in motocicletta, visita Arezzo e Siena, Venezia e Ravenna.

Torna a Bogotà ma i suoi quadri dipinti a Firenze non hanno successo, ben diversi dallo stile di moda delle avanguardie, finché nel 1956 ha l’illuminazione del volume, nascono le forme dilatate. Si sposa e si trasferisce  a Città del Messico dove vive con la vendita dei propri quadri. Ma non si ferma, l’anno dopo il salto negli Stati Uniti, una mostra a Washington e contatti diretti a New York con l’espressionismo astratto, la galleria Gres si offre di appoggiarlo.

Nel 1958, ha soltanto 26 anni, si divide tra la Colombia – dove insegna pittura a Bogotà ed illustra il maggiore quotidiano, e partecipa al Salone d’arte tra accesi contrasti – e gli Stati Uniti dove  a ottobre  nella mostra alla galleria Gres le opere esposte sono vendute quasi tutte il giorno stesso  dell’inaugurazione;  espone a una collettiva a New York e vince il “premio Guggenheim internazionale 1958”.

Di nuovo in Colombia nel 1959-60, e ancora a New York dove si stabilisce al Greenwich Village, ma arrivano i momenti difficili. Si separa dalla moglie, da cui ha avuto due figli, Fernando e Lina, la galleria Gres chiude, la sua prima mostra nella galleria newyorkese, “The Contemporaries” nel 1962  riceve molte critiche, l’opposto dell’esordio alla galleria Gres di quattro anni prima.  Ma reagisce alle contrarietà della vita e dell’arte,  si sposa di nuovo nel 1964, dopo sei anni avrà il terzo figlio Pedro; intanto ha trasferito lo studio prima nell’East Side poi nella 14^ Strada sempre a New York, ma non trascura la sua terra,  vince il 2° premio al Salone di arte moderna di Bogotà.

E l’Europa? Non l’ha dimenticata, espone nel 1966 in tre città tedesche, ma nello stesso anno sfonda negli Stati Uniti con la mostra intitolata “Opere di Fernando Botero”, in un celebre museo, un successo di pubblico e di critica meno effimero del precedente, ne parla bene anche “Time”.

Nel 1967 di nuovo in Europa, Germania e Italia, oltre che a New York e in Colombia, un pendolarismo senza sosta, è il periodo in cui si rafforza la sua formazione cosmopolita. Secondo lui un artista latino-americano deve trovare un propria “autenticità”, “l’arte deve essere indipendente”,  la pittura deve trovare radici, “perché esattamente queste radici danno significato e verità al creato”, ma aggiunge: “Nello stesso tempo, però, non voglio dipingere soltanto campesinos sudamericani. Voglio essere capace di dipingere di tutto, anche Maria Antonietta e Luigi XVI, ma sempre con la speranza che tutto ciò che faccio sia pervaso dall’anima latino-americana”.

Sono parole che sembrano il sigillo della sua formazione, punto di arrivo e anche di partenza. Ha interiorizzato i potenti stimoli della sua terra, poi ha conosciuto la grande arte rinascimentale e non solo, che lo ha colpito e affascinato, è anche entrato in contatto con la modernità statunitense, in particolare le avanguardie dell’espressionismo astratto. Può superare l’angoscia che attanaglia l’artista fino a quando “non padroneggia il proprio mestiere e non sa esattamente quello che desidera esprimere”. Perché o ha delle idee ma non sa come esprimerle artisticamente, oppure sono confuse in quanto non le sente sue.  “Arriva poi il momento – afferma – in cui il pittore riesce a dominare la tecnica e al tempo stesso tutte le sue idee diventano chiare: allora il suo desiderio di trasportarle fedelmente sulla tela diventa così preciso e impellente che il dipingere si trasforma in gioia”.

Ormai l’artista è lanciato, si divide tra New York, con un nuovo studio sulla 5^ strada, e Bogotà, ma affitta anche un appartamento a Parigi dove si trasferirà nel 1973 dopo 13 anni trascorsi a New York.  Tornano i momenti difficili nella vita familiare, nel 1974 la tragedia, il figlio Pedro muore a 4 anni in un incidente stradale, l’anno dopo si separa dalla moglie. Si immerge ancora di più nell’arte, è come se volesse far tornare in vita il figlio ritraendolo in dipinti, disegni e sculture, nel 1976-77 si dedica essenzialmente alla scultura, crea 25 opere su vari temi, anche animali e oggetti. In memoria del figlio dona 16 opere per la sala a lui dedicata nel Museo d Medellin.

Le mostre in Sudamerica, negli Stati Uniti e in Eropa si moltiplicano negli anni in un’escalation inarrestabile, ma ci frmiamo qui perché ci interessava la parte della sua biografia che consentisse di meglio interpretarne l’opera.

La quadratura del cerchio della sua arte

Possiamo dire che la sua formazione è nella biografia, non tanto o non solo per gli artisti di cui ha conosciuto l’opera e lo hanno influenzato, ma soprattutto per il suo dividersi tra il Sudamerica, in Colombia e Messico, gli Stati Uniti a New York e l’Europa in Spagna e Italia. Tutto questo gli ha dato un mentalità cosmopolita, ma anche un problema interiore, tanto che così precisa l’apparente contraddizione tra il suo sentire di artista con una peculiare forma espressiva e la formazione, che gli ha attirato critiche come se avesse tradito le proprie origini allontanandosi dalla sua patria: “Si trova in tutta la mia pittura un mondo che ho conosciuto durante la giovinezza. E’ una specie di nostalgia e ne ho fatto il soggetto centrale del mio lavoro. Ho vissuto quindici anni a New York, ma questo non ha cambiato nulla della mia disposizione, nella mia natura e nel mio spirito di latino-americano. Il rapporto con il mio paese è totale”.  

Lo ha dimostrato con il ciclo “Corrida”, di cui non vediamo opere nella mostra attuale, ma segnaliamo quelle viste nella mostra del 1991-92,  ben 36 opere di cui 18 grandi dipinti, e 18 tra disegni, sanguigne e acquerelli del 1984-88. Un tema così sentito che, come abbiamo ricordato, fu oggetto del primo acquerello che riuscì a vendere sulla piazza di Medellin, e nel quale c’è la propria esperienza personale di allievo di una scuola di toreri, che lasciò il giorno in cui, trovatosi di fronte al toro, fu bloccato dalla paura della morte. E questo, azzardiamo, forse ha indirizzato la sua arte verso la rimozione di ogni tensione, per un clima di serena contemplazione, non solo nella corrida, di cui da possibile protagonista divenne illustratore, ma anche nello spettro dei molteplici soggetti della sua arte. 

Di qui il modo distaccato con cui ha raffigurato in tutti i suoi aspetti questo importante momento tradizionale e ancora attuale della vita sudamericana. Come commentava nel 1991 Ana Maria Escallon, “Botero non condivide il denso e lacerante mondo di Goya; Botero omette il dramma”. E spiegava che “tutto lo scenario della corrida implica tumulto,
frastuono, tensione e morte; tutto ciò è assente nei quadri perché essi non vogliono essere la realizzazione di una cronaca taurina, né la rappresentazione psicologica di un duello tra la vita e la morte; il quadro esiste solo come bisogno d’espressione, colmo di una realtà lontana che non può ammettere le regole della logica quotidiana”. La morte, però, non è assente, ci torna in mente lo scheletro che cavalca il toro in “Toro muriendo”, 1985 e in“Muerte de Ramon Torres“, 1986,  questa volta mentre l’animale scalpita sul corpo inanimato del torero, opere della mostra antologica del 1991-92 che citiamo, come faremo con altre delle varie tematiche, nel segno della continuità delle due mostre di Botero a Roma.

Vicinanza alla terra, la sua, rafforzata  nel 2000 con il ciclo pittorico “Violencia in Colombia”, un impegno che lo ha fatto partecipare intensamente, anche diffondendo all’estero la sua denuncia,  alla tragedia del proprio paese sconvolto dalla guerra civile, che lui fa risalire alla mancanza di giustizia sociale  e all’ignoranza. Un impegno appassionato mosso non solo dal patriottismo ma anche dalla sensibilità umana, come archetipo di tutte le ingiustizie: alle violenze sanguinose in Colombia si sono aggiunte le torture del carcere di  “Abu Ghraib”, due suoi cicli pittorici correlati.  Ai quali ha dedicato interviste coraggiose nel 2005, sulla sua arte come “accusa permanente”, mentre già nel 2004 quando fece donazioni al Museo colombiano era stato definito “Testimonio de la barbarie”.

Ma torneremo più avanti su questo aspetto altamente drammatico del suo impegno di artista e di persona dall’alta sensibilità umana, anche se è estraneo alla mostra  che, ripetiamo,  non espone opere di tali cicli né della “Via Crucis” del 2010-11, a parte un “Cristo crocifisso” del  2000. 

Ora  vogliamo sottolineare che la nostalgia non si traduce in malinconia ma, come scrive il curatore Rudy Chiappini, è “corretta dal sorriso, da una diffusa, non sarcastica ironia in cui non trovano spazio gli stati d’animo estremi”. E si esprime indirettamente nella presenza delle suggestioni della sua terra impresse in lui prima degli influssi cosmopoliti: l’arte precolombiana e l’artigianato popolare, le derivazioni creole e l’iconografia cristiana, con tutti gli altri stimoli delle realizzazioni  delle civiltà latino-americane, Colombia e Messico, che ha ricevuto dall’infanzia. Ma ha sentito anche come la dominazione spagnola, con l’arte barocca, abbia prodotto una deformazione negli artisti locali cui non si è assoggettato, avendo una visione più vasta.

Quindi, sempre nelle parole del curatore, “l’insopprimibile rapporto con la sua terra, testimoniato dalla fecondità e dalla purezza formale, non fa tuttavia di Botero un artista etnico, folcloristico, ma costituisce il presupposto obbligato di un transito, di una meditazione del raggiungimento della consapevolezza di poter creare e dar vita a un’arte originale e autentica connaturata al temperamento latino-americano”. 

Come ha potuto realizzare  una simile quadratura del cerchio?  Mediante l’alchimia degli influssi cosmopoliti che ha saputo metabolizzare avendo recepito dalla cultura europea la curiosità e l’inquietudine intellettuale per raggiungere l’arte autentica quale “interpretazione della realtà attraverso l’intelligenza e la sensibilità che portano alla consapevolezza stilistica”. Il tutto  in una “sintesi perfetta di regola  e di passione”. Perché, prosegue Chiappini, “la sua è un’arte fedele alle proprie radici ma al tempo stesso alimentata dalla conoscenza, dal confronto con altre sensibilità e altri linguaggi, affascinata dall’incontro con le opere del Trecento e Quattrocento italiani”.

Lo abbiamo visto nella biografia, i grandi maestri spagnoli come Velasquez e Goya, e soprattutto italiani, da Giotto a Leonardo, Paolo Uccello e  in modo particolarePiero della Francesca, gli hanno rivelato – sono parole dell’artista – “l’essenza del classicismo per l’organizzazione dello spazio, la serenità della forma e l’armonia dei colori, trasmettendo un grande senso di quiete”.  Perché “la storia dell’arte è la storia della bellezza e della sua creazione” e in questo senso fa sua la definizione di Poussin: “La pittura è un’interpretazione della Natura, con forme e colori, su una superficie piana per dare piacere”. 

Non poteva sintetizzare meglio la propria arte, l’inconfondibile effetto visivo che ne deriva, del quale comunque è intrigante esaminare componenti così insolite e singolari.

I  corpi gonfi  dalle forme stravolte come trasfigurazione favolistica della realtà

Con questa matrice insieme vasta e profonda, cerchiamo di decifrare il suo inconfondibile sigillo, le deformazioni dei corpi gonfiati che derivano dalla peculiare concezione del volume per lui fondamentale. Non sono caricaturali, non suscitano il riso, al massimo ironia  ma soprattutto  tenerezza, abbiamo detto:  “Tutto assomiglia ad un gioco da adulti su di un palcoscenico. Forse ad un rito” – ha scritto Fabrizio D’Amico nel presentare la mostra del 1991-92 – Nulla nasce, cresce,  si consuma e si estingue secondo il ritmo delle ore e delle stagioni; nulla avviene per conseguente, prevedibile, normale concatenazione logica”.

Ed è qui una chiave interpretativa accessibile al visitatore, senza  visioni intellettualistiche estranee alla poetica di Botero, che porta alla favola dove troviamo le deformazioni e i gigantismi – si pensi ad “Alice nel paese delle meraviglie” – e, anche se non sono delle favole, al “Gigante egoista” di Oscar Wilde e ai “Viaggi di Gulliver” che rivelano un mondo illogico ma metaforico e fiabesco.

“Al riparo dei loro corpi inadatti all’azione – prosegue D’Amico –  i personaggi di Botero rifiutano di sottoporsi ad ogni legge conosciuta della fisica e della ragione. Della morale, perfino”. Nessuna proporzione della realtà viene rispettata, i corpi sono trasbordanti rispetto ai letti e alle sedie che dovrebbero contenerli, gli arti non potrebbero svolgere le azioni richieste, come nel paradosso dell’acrobata sospeso in un impossibile equilibrio della sua figura tozza ma insieme aggraziata. Perché questo è il risultato incredibile, un’armonia superiore, pur nell’inverosimile e impensabile.

Così l’artista: “Nei miei dipinti mi muovo con una libertà che ho in un certo senso ereditato dall’arte antica italiana: quella di pensare che nessuna cosa corrisponda alla dimensione prospettica della composizione”. E  ancora: “Questo vuol dire che qualche volta lo spazio viene usato in modo soggettivo, al di là del rispetto delle proporzioni. La grandezza delle figure e degli elementi che compongono i miei quadri non segue le regole della prospettiva, ma mi serve semplicemente per creare un’armonia generale”.

Prevale  per lo più  la dimensione umana, venendo dilatate essenzialmente le persone, come per sottolineare la loro prevalenza rispetto alle cose molto più piccole, dagli oggetti  banali ai letti e ai bagni; sembrerebbe a prima vista  fare eccezione “Il ladro”, 1980, non in mostra, con la figura piccola al centro del dipinto che porta un grosso sacco pieno di roba rubata, ma i tanti tetti che occupano la scena sono in proporzione più piccoli, come le molte finestre che si intravvedono.

Nelle persone la dilatazione dei volumi riguarda la parte carnale dei corpi, mentre le bocche,  i nasi e altri organi sono per lo più minuscoli, con gli occhi alquanto piccoli e fissi, spesso rivolti all’osservatore come per interrogarlo o trasmettergli la loro umanità.

L’effetto non è solo visivo, è ben più profondo. Botero ci presenta un mondo che non ritroviamo nella realtà e non è neppure stravolto dall’espressionismo astratto o dall’astrattismo che ne fa perdere del tutto i contorni. E’ una realtà riconoscibile ma deformata senza divenire irriverente perché “monta, all’opposto, l’innocenza della favola”, e con essa “il sorriso, l’indulgenza, l’ironia accostante e quasi consolatoria di un mondo troppo smisurato per riguardare davvero la nostra esistenza, i nostri progetti o i nostri spaventi, un mondo che si può guardare con le stesse attese e lo stesso abbandono, la stessa disarmata fiducia con cui si guarda dentro una scatola magica o, al massimo, con la curiosità intensa e passeggera con cui da bambini spiavamo, dal pertugio di una serratura, le stanze e i gesti dei grandi”, così  ancora D’Amico.

Da parte sua, l’artista afferma: “Voglio che alla fine del quadro ci sia calma e che tutto trovi il suo posto. Non voglio dipinti inquietanti, nel senso che per me il dipinto è pronto quando niente si può muovere, quando regna la calma. Rembrandt ha detto una cosa bellissima: ‘Il quadro per me è finito quando smetto di pensare’. La ritengo una definizione meravigliosa”.

Dacia Maraini osservava, sempre nel 1991: “L’arcano che intrappola il nostro sguardo incuriosito sembra nascere dall’enigmaticità che accompagna la distillazione della bellezza. Una bellezza che non consiste soltanto nella poetica scoperta della equiparazione dei corpi, animati e inanimati, ridotti al grado zero della pittura nella dilatazione sistematica delle forme. L’elefantiasi biscottata dei fantocci che ingombrano le scene di questo teatro boteriano non racconta tutta la verità”.  E non si trova neppure nei contenuti evocati. “Curiosamente, mentre osserviamo questi pesi massimi, rigorosamente fedeli alla loro estrema ‘lourdeur’, essi finiscono per diventare di una lieve e aurea leggerezza. Alla fine ci troviamo di fronte a un mondo di corpi goffi, soffici, in procinto di volare via. Come a dire che i segni si contraddicono e rivelano in ogni momento il rovescio di sé”.

Ci voleva la fantasia della scrittrice, lontana dalle elucubrazioni cerebrali della critica, per entrare in sintonia con il mondo favolistico dell’artista e far sintonizzare anche noi. Ripensiamo alla scena finale del film “Miracolo a Milano”, con le figure che lievitano e si innalzano sconfitta la forza di gravità, l’immagine della Maraini ci fa pensare anche a questi corpi in volo, liberati dal peso materiale che diventa riscatto morale dalle oppressioni di una vita difficile.

Usciamo dalla favola, torniamo alla realtà.  Nel 1991 Paolo Mauri commentava:”In queste storie l’antagonista vero non è mai dentro al quadro, ma è fuori: è colui che guarda divertito, perplesso, incuriosito. Dal personaggio, dalla sua grassitudine, dalla sua malinconia… E’ difficile non andare d’accordo con i personaggi dipinti da Botero e non desiderare alla fine di averne uno da guardare sempre”.

Nella mostra ce ne sono  quasi 50 da guardare, quante sono le opere esposte, compreso  il grande “Cavallo”  in bronzo nel largo antistante l’ingresso, anch’esso un richiamo quasi favolistico, ripensiamo al cavallo di Troia  che ha popolato le fantasie di tutti negli anni scolastici. 

Racconteremo la visita prossimamente facendo conoscenza dei  personaggi del teatro di Botero, un mondo  che abbiamo cercato di interpretare nelle sue motivazioni profonde e nelle sue espressioni più vistose.  Un mondo affascinante che ha i contorni della favola nella trasfigurazione della realtà.    

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, Ala Brasini, via San Pietro in carcere: tutti i giorni, compresi i festivi, apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 19,30, venerdì e sabato ore 22,00, domenica ore 20,30, festivi orari diversi, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura.  Ingresso (audioguida inclusa) intero euro 12,00, ridotto euro 10,00 per 65 anni compiuti, da 11 a 18 anni non compiuti, studenti fino a 26 anni non compiuti, e speciali categorie, riduzioni particolari per le scuole. Catalogo “Botero”, 2017, a cura di Rudy Chiappini, Skyra Arthemisia, pp. 144, formato 22,5 x 28,5. Dal Catalogo sono tratte alcune delle citazioni del testo, altre sono tratte dai Cataloghi delle due mostre romane precedenti: “Botero Via Crucis. La passione di Cristo”, Silvana Editoriale – Palazzo delle Esposizioni, 2016, pp. 92, formato  24 x 30; e  “Botero. Antologica 1949-1991”,  Edizioni Carte Segrete”, 1991,  pp.214, formato 24 x 28.  Gli altri due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 4 e 6 giugno p. v. con altre 13 immagini ciascuno. Per i riferimenti del testo cfr. i nostri articoli in questo sito: “Accessible Art, 17 articoli sulle favole di Oscar Wilde” 3 gennaio 2017 e  “Alice, le meraviglie della favola nella galleria RVB Arts” 25 dicembre 2015.

Foto 

Le immagin, che rappresentano tutte le sezioni della mostra, i sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Arthemisia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Picnic”, 2001; seguono, “Piero della Francesca”, dittico, lato sinistro, 1998.. e “Natura morta con frutta e bottiglia”, 2000; poi, “Il nunzio”, 2004, e “L’ambasciatore inglese”, 1987;quindi, “Il Presidente. La first lady”, dittico,  lato sinistro, e “Musici“, 2008; inoltre, “Pagliaccio“, 2008, e  “Carnevale”, 2016; ancora, “La vedova”, 1997, e “Atelier di sartoria”, 2000; infine, “Adamo ed Eva”, 2005,  e “Ballerini”, 2012, scultura; in chiusura, la presentazione della mostra al Vittoriano, al centro Fernando Botero con a fianco l’interprete e alla sua sinistra la presidente di Arthemisia Jole Siena e il curatore della mostra Rudy Chiappini.

Seicento italiano, 1. Le collezioni dei Reali di Spagna alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Dal 14  aprile al 31 luglio 2017 alle Scuderie del Quirinale la mostra “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle Collezioni dei Reali di Spagna”  espone  60 opere  del Patrimonio Nacional, l’istituzione spagnola che gestisce le collezioni della Corona e ha partecipato all’organizzazione italo-spagnola della mostra insieme  ad Ales, la società del Mibact che gestisce le Scuderie, presidente e A.D. Mario De Simoni  che nelle Scuderie come Direttore generale dell’Azienda Speciale Palaexpo ha organizzato dal 2008, tra le tante, 8 grandi mostre monografiche e 5 importanti retrospettive. La mostra è a cura di Gonzalo Redin Michaus, come lo splendido catalogo edito da Skira con i due enti organizzatori.

La nuova gestione delle Scuderie del Quirinale fa il bis dopo “Il Museo universale”, due mostre spettacolari accomunate, oltre che dalla ricchezza espositiva, con cataloghi veramente monumentali, dalla destinazione estera, edidenziata da entrambe,  delle opere dei nostri grandi artisti del ‘500 per la mostra precedente, del 1600 per quella attuale. Si ferma qui l’analogia perché  tale destinazione mentre nel “Museo universale”  è stata temporanea in quanto dopo le  requisizioni napoleoniche del 1796-1811  si è avuta  la restituzione al nostro paese nel 1916, per i “Capolavori del ‘600 italiano” è stata definitiva, sono entrate nelle Collezioni Reali con modalità del tutto regolari, tra donazioni, acquisti e committenze.

I doni di opere d’arte venivano fatti al Re di Spagna direttamente oppure tramite i suoi alti dignitari, Ambasciatori e Viceré, ai quali venivano regalate  dai principi e governatori italiani per ingraziarsene i favori, come avvenne ad esempio per il principe di Piombino, Niccolò Ludovisi, che lasciò per testamento a Filippo IV  sei opere d’arte che il re avrebbe potuto scegliere a piacimento dalla sua collezione.

Inoltre vi erano gli acquisti diretti e le committenze di opere con precise destinazioni, come fece Filippo IV, lo documenta l’accurato saggio di David Garcia Cueto che ricorda il suo grande interesse per la pittura italiana, favorito dalla conoscenza diretta di artisti e mecenati.

Volendo portare la  modernità nell’austero Palazzo Reale di Madrid, creò il Salòn Nuevo, che fu chiamato “degli specchi” e per adornarlo  incaricò l’ambasciatore a Roma, il nobile Inigo Vélez de Guevara, conte di  Onate e altri suoi rappresentanti in Italia, come il governatore di Milano don Gonzalo de Còrdoba, di prendere contatto con gli artisti per gli acquisti e le committenze;  queste ultime con precise indicazioni sui temi da illustrare nell’ambito di un  programma iconografico complessivo “destinato ad esaltare, con dipinti di eccellente qualità, la grandezza del principato degli Asburgo”. Già nel ‘500 Carlo V aveva avviato il collezionismo di opere d’arte italiana, pratica che si estese nel ‘600 con i successori.

Il ricchissimo patrimonio artistico della Corona fu collocato nel Museo Real, istituito nel 1819 da re Ferdinando VII,  poi è divenuto il Museo del Prado dove si trovano attualmente, a parte le opere rimaste nei Reales Sitios, le residenze regali. Quella che era una semplice collocazione è divenuta  un’acquisizione definitiva dal 1865 allorché la regina Isabella cedette alla Stato la gestione dei beni ereditati rinunciando a conservarne la proprietà; a tal fine fu istituito l’apposito fondo collezionistico, il “Patrimonio National” che per questa mostra ha selezionato le opere da esporre mirando alle eccellenze e, come abbiamo premesso, ha partecipato alla sua organizzazione.

Le opere della collezione reale hanno esercitato  notevole influenza nell’arte spagnola, che ha avuto il suo culmine in Velàsquez, anche perché comprendevano  maestri come Caravaggio e Bernini, i due estremi del realismo e del barocco insieme ad altri alfieri del classicismo e del naturalismo.

Per questo, sempre nel ‘600  vi furono proficui scambi di artisti, lavorarono alla Corte spagnola artisti italiani come Luca Giordano, per dieci anni, mentre artisti spagnoli vennero in Italia, come José de Ribera che si trasferì stabilmente a Napoli dieci anni dopo essere giunto a Roma nel 1606, quando aveva 15 anni.

Ciò riflette gli stretti legami sul piano artistico e culturale tra Italia e Spagna nel nome dei quali la mostra è stata inaugurata dal Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella alla presenza del Presidente della Camera dei Deputati di Spagna Ana Pastor Juliàn.

Le opere sono presentate in 5 sezioni che ripercorrono una parte importante della storia dell’arte italiana ed europea nel Seicento, e consentono le opportune comparazioni tra artisti diversi mettendone in risalto le differenze di stile in ordine alle principali correnti del periodo, dal naturalismo al realismo, dal classicismo al barocco. in questo senso ha un alto valore didattico ed educativo e pertanto va raccomandata alle scuole d’arte e agli istituti scolastici in genere.

Dal punto di vista del visitatore è una cavalcata esaltante tra 60 opere di grandi artisti,  capolavori di pittura e scultura, molti spettacolari per le dimensioni, la resa cromatica e la maestria compositiva, esposti in modo suggestivo nella penombra delle Scuderie.

 Racconteremo la mostra, dopo aver sottolineato ancora l’importanza che i grandi allestimenti nei palazzi reali spagnoli ebbero nelle richieste di opere d’arte degli italiani  per esservi collocate a seguito di donazioni, acquisti o committenze. Dal Salon Nuevo dell’Alcazar, poi “degli specchi”, come abbiamo ricordato,  al Palazzo del Buen Ritiro, inaugurato nel 1633, e soprattutto all’Escorial, definito “Pantheon reale”, un monastero con le spoglie degli avi di Filippo IV che lo inaugurò il 15 marzo 1654 dopo un restauro di decenni; le opere considerate minori venivano collocate in una parte secondaria del monastero, e questa sorte toccò anche al “Crocifisso” di Bernini, un vero capolavoro che fu paradossalmente “declassato”, come vedremo, a vantaggio di un’opera meno pregiata.

La storia delle acquisizioni è molto interessante, perché consente di entrare in vicende con intrecci tra aspetti personali e istituzionali che fanno rivivere ancora di più il periodo storico in cui si collocano le opere esposte nella mostra. Questa ricostruzione si trova nel saggio del già citato David Garcia Cueto, che consigliamo per una lettura istruttiva e avvincente. Ma anche tutti gli altri saggi del ricchissimo catalogo, che illustrano e documentano accuratamente i vari aspetti del periodo storico, e non citiamo solo per brevità, sono una documentazione preziosa di cui fare tesoro.

Dal manierismo  al realismo con Caravaggio passando per Barocci

La visita inizia con la 1^ sezione, “Dalla maniera alla natura. Tra  Barocci e Caravaggio”. Il titolo riassume un evento epocale nella storia dell’arte, l’irrompere del realismo di Michelangelo Merisi, il Caravaggio, che ha rivoluzionato la pittura con la sua rappresentazione veristica della realtà, nella drammaticità data dall’ uso della luce e delle ombre, in un chiaroscuro fatto di sciabolate tale da scolpire le immagini rendendole vive e calandole nella realtà del suo tempo.

Anche lui fa riferimento alla natura, ma prendendola nella sua interezza, senza sceglierne le parti più belle ed edificanti come il naturalismo, né  quelle che esaltavano l’ideale della bellezza come il classicismo, e tanto meno quelle artificiose e affettate come il manierismo. 

Caravaggio, anzi, manifesta la propria rabbia esistenziale – che lo vide coinvolto in episodi di violenza fino all’uccisione avvenuta in una rissa e a lui imputata, divenuta causa delle sue tormentate peregrinazioni – eludendo i vincoli delle committenze religiose con modelle e modelli presi dall’umanità considerata degradata e con il rilievo dato a particolari non certo edificanti ma espressione della cruda realtà.

E’ al centro di uno dei tanti confronti che la mostra offre al visitatore perché possa vedere direttamente i radicali salti stilistici tra vari artisti nella rappresentazione degli stessi soggetti, cogliendo anche le notevoli differenze nei contenuti più profondi delle opere esposte.

“Salomè con la testa del Battista” di Caravaggio, 1607,  e “Giuditta con la testa di Oloferne”, 1596-1610,  di Fede Galizia, degli stessi anni di due artisti lombardi, sembrano agli antipodi. Alla drammaticità della scena scolpita dalla luce che scava nel buio del primo, con i volti delle tre figure presi dalla gravità del momento, corrisponde un’immagine improntata a letizia, spiccano l’abito di velluto e broccato e l’acconciatura scintillante di gioielli, i volti sorridenti anche se nel vassoio c’è una testa mozzata peraltro dall’espressione placida rispetto alla durezza di quella di Caravggio.

Il  naturalismo è rappresentato dal dipinto di Federico Barocci, “Vocazione di sant’Andrea e san Pietro”, 1584-88,  il cui dono del duca Della Rovere al re Filippo II procurò un invito a corte all’artista, declinato per misantropia e salute cagionevole. Figure luminose in primo piano con un fondale  marino scuro dall’atmosfera corrusca, un’apertura paesaggistica che si impone all’attenzione  nonostante la posizione dominante di Cristo e san Pietro.

II  curatore Gonzalo Redin Michaus  giustifica la presenza di quest’opera anteriore in una mostra dedicata al ‘600, ricordando quanto scritto nella biografia di Giovanni Bellori secondo cui vi sono “nell’opera di Barocci tratti – quali l’accentuata indole emozionale delle sue dinamiche composizioni, caratterizzate da forti contrasti di luce – che anticipano il barocco e che furono tenuti ben presenti da alcuni dei suoi protagonisti: Annibale Carracci (1560-1609), Peter Paul Rubens (1577-1640), Giovanni Lanfranco (1582-1647), e Gian Lorenzo Bernini (1598-1680)”. E prosegue: “Composizioni che Barocci costruisce, almeno in parte, secondo il metodo classicista caldeggiato da Bellori, incentrato sulla paziente esecuzione di disegni preparatori alla maniera di Raffaello (1483-1520) e sullo studio del naturale, passaggio indispensabile per abbandonare l’arte della maniera, fondata sull’artificio e l’affettazione del tutto estranea all’imitazione della natura”.

Le altre opere della sezione sono scultoree, un piccolo “Crocifisso”in bronzo di Antonio Susini su disegni del Gianbologna, 1602, in cui Cristo è ancora in vita, guarda verso l’alto e non presenta segni di sofferenza né nel volto né nel corpo che sembra intatto; in un altro “Crocifisso”  di avorio, forse di Georg Petel, la testa invece è reclinata, l’espressione patetica e sofferente, il corpo leggermente arcuato che segue la naturale curvatura della sezione della zanna da cui è stato ricavato dallo scultore e all’insegna della sofferenza, come tutto il resto, dalla bocca aperta nell’esalare l’ultimo respiro, alle mani, i piedi e la pelle raggrinzita, e ulteriori dettagli altamente drammatici.

Siamo fuori dal tormento e dalla sofferenza del Cristo in croce  nel “Tabernacolo” di Domenico Montini, 1619, in bronzo e argento con  un mosaico fiorentino in pietre dure, come un tempio rinascimentale con statuette di santi intorno e sotto la cupola, e nelle nicchie in basso, è alto circa 190 cm, veramente spettacolare. L’autore era uno specialista di tabernacoli con inserti lapidei, si legge nelle cronache che gli era stato chiesto di inserire una serie di pietre, la cui lista la dice lunga su quanto fossero esigenti i committenti che minacciavano anche penali in caso di inadempienza: agata, eliotropio, lapislazzuli, diaspro, calcedonio, corniola e ametista.  

Infine due “Ritratti di giovane di profilo”, uno rivolto a sinistra, l’altro a destra, di Giovanni Baglione, il rivale, per così dire, di Caravaggio. Sono di piccole dimensioni, volti femminili  che, scrive Maria Cristina Terzaghi, “non sono iconograficamente uniformabili ai ritratti di ‘belle donne’ che ebbero una vasta fortuna in Europa nella seconda metà del Cinquecento e fino al Settecento, generalmente ritratte frontalmente. Il taglio di profilo suggerisce la vicinanza con le antiche medaglie e dunque, più che ritratti, sembrano immagini ideali o di antiche donne illustri, che talvolta completavano le più diffuse serie maschili.

Abbiamo parlato di ideali, questo ci introduce alla sezione successiva della mostra, e vedremo perché.

Dal naturalismo fino al realismo, poi all’idealizzazione

Nella 2^ sezione, “Natura e ideale. da Caravaggio a Reni”, irrompe sulla scena un nuovo protagonista, Guido Reni della scuola  bolognese allorché, dopo le affettazioni del manierismo veniva propugnato un ritorno alla natura ma senza difetti, per seguire un ideale di bellezza.

In particolare, secondo le “prescrizioni” di Giuseppe Aguzzi, ricorda il curatore, si dovevano superare le formule manieristiche con un rinnovamento, già attuato ma con forza realistica da Caravaggio, “attraverso uno studio incessante della natura; una natura che, tuttavia, l’artista doveva emendare per rappresentare le cose come dovrebbero essere in tutta la loro perfezione  e non raffigurarle tal quale, come faceva Merisi”. A questo scopo si doveva seguire una “‘Idea della bellezza’ superiore a quella offerta dalla natura stessa, raggiungibile soltanto dopo averne selezionato le parti migliori e tenendo a mente i modelli della scultura antica”.Guido Reni, pur sposando questa impostazione, come osserva ancora il curatore, non si libera subito dal fascino del realismo: “Nonostante la pronta adesione al ‘bello ideale’, si confrontò con la pittura di Caravaggio per un breve periodo… di quel momento restano tracce nella Santa Caterina immersa nell’oscurità”. Nel quadro del 1606, che vediamo esposto, l’influenza caravaggesca viene trovata “nella luce verso la quale  rivolge il viso; un’illuminazione proveniente,.come in Caravaggio, da una fonte invisibile che nonostante l’assoluta idealizzazione consente alla figura di acquisire, grazie all’intenso chiaroscuro appreso dal maestro lombardo fisicità e verosimiglianza”, mentre il volto sembra “in procinto di esalare un sospiro”, a differenza del modello cui sembra si sia ispirato, la “Santa Cecilia” di Raffaello.

Di Guido Reni vediamo anche la “Conversione di Saulo”, 1621, selezionato tra i sei quadri che, come abbiamo già ricordato, furono lasciati per testamento dal principe di Piombino alla scelta di Filippo IV. Nel dipinto viene riscontrata una “equilibrata composizione di maniera e compassato naturalismo”, con una raffigurazione insolita che isola il protagonista  facendone l’unico soggetto della scena pur movimentata, a parte il cavallo da cui è caduto a terra, per evidenziare “il carattere contemplativo e solitario della conversione” spostandosi quindi dalla rappresentazione naturale all’ideale.

 Non viene  confrontato con la”Conversione di Saulo” di Caravaggio, perché non fa parte delle Collezioni reali ma è posto nella parete della cappellina della chiesa di Piazza del Popolo a Roma, insieme al “Martirio di san Pietro”, meta di un flusso continuo di visitatori. ma la differenza è notevole, il realismo caravaggesco  e la fisicità della scena appaiono addirittura sconvolgenti.

Un altro dei sei quadri dell’eredità del duca di Piombino, anch’esso esposto in mostra, è “Lot e le figlie”, del  Guercino, al secolo Giovanni Francesco Barbieri, artista della provincia bolognese, quindi della stessa scuola di Reni e dei Carracci, uno dei quali, Ludovico, per questo quadro e per “Susanna e i vecchioni”, di soggetto affine, stabilì un prezzo elevato, e definì così il Guercino, in una lettera del 1617 a un amico: “Un giovane di patria di Cento, che dipinge con somma felicità d’invenzione. E’ un gran disegnatore, e felicissimo coloritore: è mostro di natura, e miracolo da far stupire chi vede le sue opere”. Di più non avrebbe potuto dire, del resto Ludovico muore nel 1619, due anni dopo la lettera, per cui si è trattato del  “passaggio di testimone”  dall’anziano caposcuola al  giovane artista emergente.

In effetti, il quadro ha una forte presa emotiva con un naturalismo sconfinante nel realismo per la luminosità diffusa che fa spiccare sullo sfondo scuro una scena carica di sensualità. Davide Benati descrive efficacemente la “pericolosa intimità” tra il vecchio padre, malfermo e stordito,e le figlie  che lo ubriacano in una scena di seduzione in cui “una gli incombe sopra, intenta a sollevare l’anfora per versargli altro vino, mentre l’altra, seduta ai suoi piedi, con la destra gli regge il calice e con l’altra mano ne percorre con studiata lentezza la gamba, così da avvicinarsi  insidiosamente al suo grembo”.  Visti in primo piano, il viso avvinazzato del vecchio e i volti vogliosi delle giovani figlie hanno uno straordinario impatto realistico, l'”idea del bello”  appare molto lontana. Anche in “Susanna e i vecchioni” dello stesso anno,  una scena di sensualità contrastata, qui il corpo nudo della donna che si offre alla vista bianco e indifeso sulla destra, contrasta con la figura del vecchio voglioso proteso sulla sinistra.

Sono presenti in questa sezione altri due artisti. 

Di Simone Cantarini vediamo la “Pietà” e “Sant’Antonio da Padova”, 1640,  due piccole formelle esagonali la cui attribuzione del ‘700 ad Annibale Carracci, per l’assonanza con la sua “Pietà”  farnese, ne prova il livello artistico, mentre il materiale raro, l’alabastro cotognino che veniva dall’Egitto, dei dipinti a olio  ne qualificano il valore e fanno pensare a un dono giunto in Spagna per vie diplomatica. Hanno uno sfondo e il cromatismo simile, i colori neutri rischiarati dal celeste di un abito. Nella prima formella troviamo originale che un angelo-putto sorregga la mano di Cristo volgendo la testa all’indietro verso un altro angelo-putto che si protende verso i piedi sempre di Cristo, riverso supino sulle ginocchia della Madonna, la veste celeste, il viso raffaellesco; nella seconda,  uno dei tre angeli sulla destra ha la veste celeste, al centro il santo che solleva uno dei bimbi alla sinistra.

Spettacolare il grande dipinto di Emilio Savonanzi, 265 per 190 cm, “San Benedetto da Norcia e san Giuseppe (?)“, 1630, anch’esso con un’attribuzione prestigiosa al Guercino al cui stile si avvicina, ma nel suo dipinto ci sono anche altre influenze, da Ludovico Carracci a Guido Reni, del resto si definiva “pittore di più pennelli”. Il quadro  forse fu acquistato da Carlo IV di Borbone nell’esilio romano, e per questo il santo con san Benedetto potrebbe essere san Placido, come risulta da documenti dell’epoca. Su san Benedetto non vi sono dubbi per la presenza della tiara e del pastorale tenuti da due angeli, e di un corvo dietro di lui, il volatile al quale si tramanda abbia affidato il pane avvelenato. Indossa un saio scuro, è seduto immerso nella lettura, con un’espressione attenta e distesa; mentre appare movimentata la scena sulla destra con un angelo che porge un ramoscello al santo in veste rossa e oro che farebbe invece escludere san Placido, raffigurato sempre in abito monastico; per san Giuseppe milita la scritta in basso del salmo “Beatus vir”, riferito normalmente  a lui.

Così termina la 2^ sezione della mostra, racconteremo  prossimamente le restanti 3 sezioni, “La Roma di Bernini”, “Ideale e  Accadenia”,  “Da Roma a Napoli, da Napoli alla Spagna”. con  Bernini e Algardi, De Ribeira, Luca Giordano e tanti altri.  

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Da Caravaggio a Bernini. Capolavori del Seicento italiano nelle collezioni dei Reali di Spagna. “, a cura di Giordano Redin Michaus, Patrimonio Nacional, Scuderie del Quirinale, Skira,aprile 2016, pp. 228, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà in questo sito il  7 giugno p. v. con altre 12 immagini.  Sugli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito, per Caravaggio 6 giugno 2013 e 27 maggio 2016,  per Baglione, Reni, Carracci  5, 7, 9 febbraio 2013, per Guercino 15 ottobre 2012; in cultura.inabruzzo.it, per Caravaggio 8 e 11 giugno, 21, 22, 23 gennaio 2010; per Barocci 28 febbraio e 1° marzo 2010  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Caravaggio (Michelangelo Merisi), “Salomè con la testa  del Battista”,1607;seguono. Fede Galizia,  “Giuditta con la testa di Oloferne”,  1596-1610, e Federico Barocci,  “Vocazione di sant’Andrea e san Pietro”, 1584-88; poi, Giovanni Baglione, “Ritratto di giovane di profilo rivolta a destra” con “Ritratto di giovane di profilo rivolta a sinistra”, 1621-22, e Guido Reni, “Conversione di Saulo”, 1921; quindi, Guercino (Giovanni Francesco Barbieri), “Lot e le figlie”, 1617; inoltre, Emilio Savonanzi, “San Benedetto di Norcia e san Giuseppe (?)”, 1630, e Giovanni Lanfranco e bottega, “Trionfo di un imperatore romano con due re prigionieri”, 1634-36; ancora, Domenico Montini, “Tabernacolo”, 1619, e Charles Le Brun, “Cristo morto compianto da due angeli”, 1642-45, e Velasquez (Diego Rodrigo de Silva), “La tunica di Giuseppe”, 1630-34; in chiusura, Giulio Cartari, “La regina Cristina di Svezia”, 1681.  

Baselitz, gli Eroi tra disperazione e speranza, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante  

La mostra “Georg Baselitz. Gli Eroi”, espone, dal 4 marzo al 18 giugno 2017, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, 70 dipinti di grandi dimensioni, disegni e xilografie, per la maggior parte della serie “Eroi” o “Nuovi tipi”, del 1965-66, più una selezione di “Remix”, dipinti realizzati dopo il 2000 sugli stessi soggetti di 35 anni prima. La mostra, ideata e organizzata da Stadel Museum in collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo-Palazzo delle Esposizioni, Muderna Museet, Guggenheim Bilbao,  è curata da Max Hollein, direttore del San Francisco Museum of Fine Arts e in precedenza direttore dello Stadel Museum di Francoforte, con Daniela Lancioni, curatore senior del Palazzo delle Esposizioni. Catalogo dell’editore Hirmer. 

Georg Baselitz, con il suo intervento alla presentazione della mostra, è stato un motivo aggiuntivo di interesse perché si è aperto alle confidenze. Ha ricordato che il successo non arrivò subito, il suo stile era molto diverso da quello dell’epoca, e suscitava forti contrasti, mentre adesso i suoi “Eroi” sono tornati ad essere attuali.  “E’ vero che continuiamo a non aver bisogno di eroi, ma i miei non sono veri eroi, tutt’altro, non sono figure mitiche e neppure protagonisti di favole”. 

Nessuna ideologia né linea politica dietro quelle figure, ma una visione molto personale, tuttavia afferma: “Ho avuto 50 anni di tempo per riflettere su cosa fossero questi quadri, mi sono accorto che i tedeschi si consideravano superuomini, cosa fatale che li portò alla guerra, come se qualcuno fosse il lato oscuro del mondo. I miei quadri sono nati da un male oscuro, in un mondo oscuro”. 

Ha detto molte altre cose, disponibile a rispondere, ha parlato anche della nuova serie “Remix”, nata in un periodo in cui si sentiva isolato e dimenticato: “Ma i giovani imitavano i miei quadri, allora mi sono fatto sentire non come amico ma come avversario, ho fatto uscire i miei ‘Eroi’ dall’oscurità e li ho ridipinti in modo forse ancora più efficace”.

E rispetto all’oggettività ha affermato che  lui ha cercato di esse oggettivo, anche se “gli ‘Eroi’ vanno visti come corrieri capaci di veicolare le idee, a prescindere da ciò che trasmettono”.

Cerchiamo dunque di sentire direttamente cosa trasmettono ripercorrendo anche la genesi della loro creazione. 

Il clima nel quale sono maturate le opere del ciclo degli Eroi

L’impatto visivo delle opere degli “Eroi” di Baselitz è notevole, colpisce la loro intensità espressiva e trasmettono un’inquietudine indefinibile insieme all’ansia di decifrare il perché  di tali sensazioni.

Prima di entrare nel vivo dell’opera dell’artista e rispondere a questi interrogativi, è bene inquadrarla nella particolare sua posizione, nel clima degli anni lontani in  cui è stata realizzata e nelle sue modalità, anch’esse peculiari.

Ci troviamo in quel tormentato crinale della storia dell’Europa, e del mondo  nel ‘900, che è stata  la Germania, a vent’anni dalle distruzioni fisiche e morali del secondo conflitto mondiale, divisa in due stati collocati nei versanti opposti sulle barricate della guerra fredda, trauma che si è aggiunto alla tragica sconfitta aggravata dai crimini contro l’umanità del regime nazista. Bisogna considerare che nel 1963 si era celebrato il primo processo su Auschwitz e si era acceso il dibattito sul prolungamento dei termini di prescrizione per i crimini di guerra. Il boom economico con la conseguente euforia collettiva portava a rimuovere il passato, anche perché molto scomodo per usare un eufemismo, e a guardare in avanti. Anche dal lato artistico forti contrasti, con gli strascichi del “Realismo socialista” che si scontravano con gli stimoli dell’astrattismo e di altre correnti di avanguardia emergenti a livello internazionale. Ne hanno dato conto la mostre a Roma sui “Realismi socialisti”, “Deineka” e il grande fotografo “Rodcenko”, fino a “Russia on the Road”, con le varie anime di un mondo imbevuto di ideologia nella spinta inarrestabile della modernità.

In questo contesto a dir poco tormentato, Hans-George Bruno Kern, il nome di Baselitz all’anagrafe, nato in Sassonia nel 1938, dopo essere stato espulso per “immaturità socio-politica” dall’Accademia delle Belle Arti di Berlino Est nella Repubblica democratica tedesca nel 1956,  si trasferisce nell’analoga accademia della Repubblica federale tedesca, quindi  la costruzione del muro nel 1961 lo trova a Berlino ovest  dove proprio in quell’anno adotta il nome d’arte in omaggio alla città natale Deutschbaselitz che non potrà più rivedere. Si sposa e ha un figlio, una vita del tutto normale per un giovane artista nella parte della Germania libera dall’oppressione sovietica anche se di frontiera com’era l’avamposto berlinese circondato dal muro.

E’ tuttavia irrequieto, firma i dissacranti “Manifesti Pandemonici” in coppia con il pittore Eugen Schonebeck, con i quali si richiama  ad Artaud e a Lautréamont,  espone a mostre a Berlino e a Monaco, alcune sue opere del 1962 e 1963 sono ritenute immorali, nel 1965 nel dibattito sulla censura cinematografica viene citato come esempio di “arte indecente”  da combattere per proteggere la popolazione; si discusse anche in tribunale se la presunta oscenità rientrasse nel diritto costituzionale alla libertà di espressione artistica. Siamo in Germania, pur se in un clima politico-ideologico opposto il pensiero torna all’epiteto di “arte degenerata” con cui il nazismo condannava  l’arte moderna fino a organizzare una mostra diffamatoria che ebbe un enorme successo di pubblico.

Con il giovane Baselitz  le accuse di “arte indecente” contro la morale pubblica portarono alla richiesta di revocargli la borsa di studio di una residenza artistica a Villa Romana a Firenze, ma l’associazione fondata da Max Klinger nel 1905 che l’aveva conferita respinse le  pressioni dei finanziatori,  perché i membri della giuria erano stati impressionati dai suoi lavori esposti  all’annuale mostra dell’associazione tedesca degli artisti.

Dopo queste premesse così movimentate, sia sul piano artistico che su quello esistenziale, a Firenze – come ricorda Eva Mongi-Vollmer  nella sua accurata ricostruzione della vita e dell’arte di Baselitz – entra in una comunità  in cui ogni artista doveva confrontarsi, come scrisse lo storico dell’arte tedesco Gustav René Hocke, sulla “domanda della capacità dell’arte di aiutare l’uomo a trovare una misura, un’armonia degli opposti”; era il caso del nostro artista, che per il percorso compiuto fino ad allora, pur nella sua giovane età,  di opposti ne aveva da gestire! 

Hocke aveva approfondito il significato del “manierismo”,  basandosi sul manierismo fiorentino, Baselitz lo conosceva e lo apprezzava al punto di avere una raccolta di stampe manieriste nel suo atelier a Firenze. Si può capire perché  ne fosse attratto dalla concezione dello stesso storico dell’arte  secondo cui il manierismo può diventare “un mezzo idoneo per definire un determinato rapporto ‘problematico’ con il mondo, per spiegare il relativo gesto espressivo di un ‘individuo problematico’, che è tale per vari  motivi psicologici e sociologici”.  E non si può dire che Baselitz non lo fosse, data la storia che stava vivendo.

Ebbene, il direttore di Villa Romana, Michael Siegel, nel suo rapporto alla direzione afferma: “Quel Baselitz sempre pensieroso non fa altro che dipingere senza sosta”;  forse “pensieroso” non è sinonimo di “problematico”, ma Siegel non si ferma qui, precisa che “Georg Baselitz ricevette il grande atelier che dà sul giardino, in modo che questo ‘pittore inarrestabile’ realmente ossessionato potesse rimanere veramente fedele ai suoi amati grandi formati”.  E aggiunge che “subito si svilupparono e proruppero sui tutte le pareti quadri rosso-brunastri, rosso ruggine, rosso sangue, rosso arancio, rosso mattone, rosso terra, rosso fucsia, rosso rosso, rosa e color carne, biancastri e giallognoli”. La Mongi-Voller ricorda che un’altra storica dell’arte, Antje Kosegarten,sottolineava “l’aspetto ‘fervidamente visionario’ dell’arte di Baselitz, che si sottraeva a qualsiasi inquadramento in ‘direzioni comuni’ e poteva essere catalogata come un’arte ‘dell’Est'”; e precisa: “I ‘Nuovi tipi’ e gli ‘Eroi’ avevano di fatto vista la loro nascita nell’intenso scenario fiorentino. Ritornato a Berlino Ovest,  Baselitz continuò a lavorare sul tema e lo fece in un brevissimo lasso di tempo.  Con un atto creativo impetuoso aveva preso posizione , in modo duro e consapevole”. La sua “arte dell’Est” era  contrapposta a quella del Realismo socialista, che aveva avuto i suoi eroi, ma quanto diversi!

Gli “Eroi” di Baselitz, un “unicum” nell’iconografia eroica   

Gli eroi socialisti si  inquadrano nell’immagine dell’eroe come si è determinata nella storia dell’uomo.  L’eroe del mito antico  esprime quei valori che elevano l’uomo e lo avvicinano alla divinità, si distingue dai comuni mortali che sovrasta nelle doti fisiche e nella forza psichica,  ed  è sostenuto da una visione superiore che lo porta  a battersi con coraggio e perseveranza senza risparmio, con sprezzo del pericolo e spirito di sacrificio fino a immolarsi. 

L’evoluzione di questa figura nel tempo fa irrompere nel Pantheon degli eroi quelli che si battono per la fede religiosa o  per una  spinta intellettuale, come i grandi pensatori e gli scienziati, gli artisti e i poeti, sono eroi del pensiero; e gli eroi che si battono per la libertà, personale e del popolo cui appartengono. Fino all’eroe borghese, di cui viene esaltato il sacrificio quotidiano, e alla società post eroica in cui l’individuo scompare rispetto alla maggioranza su cui si fonda la democrazia; mentre nei sistemi autoritari si ha bisogno dell’eroe per scopi propagandistici, soprattutto quando la mistica di regime innalza l’uomo nuovo a livelli mitici impersonati dall’eroe.  

E’ questo il caso dell’eroe nel Terzo Reich, identificato soprattutto nel soldato  invincibile come sublimazione del bellicismo sfrenato nazista, e anche il caso del Realismo socialista, l'”arte dell’Est” che  aveva mitizzato l’ “eroe del lavoro” con immagini di forza e vigore, perseveranza e fiducia, rivolto al futuro che stava costruendo  abbattendo ogni ostacolo, in una sorta di identificazione individuale dello sforzo collettivo delle masse operaie, considerate in una marcia trionfale inarrestabile; anche lo sport, nobilitando il fisico, era visto come virtù suprema che elevava l’uomo a eroe, pensiamo alle immagini celebrative di Aleksandr Deineka.

Invece l’eroe di Baselitz  ha connotati opposti,  per qualche verso fa pensare all’eroe romantico, che si sacrifica nella rinuncia e nel dolore, non nella lotta per un ideale superiore, ma se ne differenzia perché  non ne ha la nobiltà e la compostezza, tutt’altro. La sua figura è lacerata più che tormentata, distrutta più che desolata, si avvicina piuttosto all’eroe morente sul campo di battaglia o in contesti diversi altrettanto angosciosi. “Si tratta di uomini robusti, ma al contempo letargici, osserva il curatore Max Hollein, malinconici superstiti in un mondo distrutto e caotico, che dominano sulla scena in cui sono raffigurati dal basso tra vari elementi paesaggistici, con un  forte senso di pathos. Il tratto che li delinea è inquieto, volutamente incerto”.

E’ l “eroe post-eroico”, lo definisce  Uwe Fleckner – dopo un’ampia carrellata sulla figura dell’eroe nella storia umana – sottolineando che “i dipinti sono caratterizzati da una contraddizione di fondo per nulla eroica”. Come Hollein la trova  in una serie di elementi che ne  stravolgono la figura abbinando caratteristiche opposte, l’imponenza apparente abbinata ad una  goffa dissoluzione, la posa fintamente marziale insieme a una vistosa  impotenza, constatazioni che le fanno osservare: “Nei suoi ‘Eroi’ il pittore ricorre a una figura tabù, resasi colpevole per sempre a causa della guerra e della tirannia”. Ed ecco come lo presenta: “Ridotto in condizioni misere, l’eroe viene messo in scena  ancora una volta come un dubbio monumento di se stesso, ma questi quadri mostrano soprattutto che il suo eroismo è fallito “.

Un monumento, dunque, che ci fa pensare alla tristezza dei monumenti che vengono abbattuti quando cade un regime, quanto più ridondante era l’enfasi celebrativa, tanto più  appaiono miseramente decadenti; Baselitz ci presenta i suoi eroi come i tanti  monumenti che aveva visto celebrati nella sua giovane vita, ma quanto tormentata, e poi abbattuti.  

Ma la sua non è una visione solo negativa., e il riferimento al “manierismo” fiorentino cui  abbiamo accennato all’inizio lo fa capire, come afferma  Hollein: “Gli ‘Eroi’ non sono ‘manieristici’ soltanto nei loro aspetti formali – nella scelta e nella costellazione dei colori, nella distorsione delle proporzioni delle figure – bensì anche nel messaggio di fondo: smascherare il mondo con il suo ordine apparente, adottando una prospettiva inquietante e introspettiva, e farlo vacillare per necessità intrinseca, per poi lasciare spazio a una forza e a un eventuale modo di agire nuovi”.

Pr questo  in un solo anno, tra l’estate del 1965 e del 1966, creò l’intero ciclo degli “Eroi” , ben 60 dipinti, 130 disegni e 38 stampe, in quello che il curatore chiama “un vero furore creativo, un’esplosione artistica senza eguali,  un intenso dipingere contro il tempo, capace di dare vita nel giro di pochi mesi a una quantità di opere monumentali e impressionanti”.  E’ la sua ribellione verso la società del suo paese che ha rimosso il passato cullata dal consumismo, lungo una china rovinosa che rischia di esseresenza ritorno se non si fanno i conti con la propria storia per riacquistare l’identità perduta, quell’identità che lui stesso sentiva di avere smarrito e cercava di recuperare. 

Richard Shiff” ricorda un episodio della sua vita scolastica raccontato dallo stesso artista negli incontri a Monaco di Baviera del 1992, “Discorsi sulla Germania”:  “Nonostante fosse condizionato dalla sua educazione a riconoscere il primato tedesco, Baselitz giunse a una conclusione scioccante: ‘Eravamo noi gli stranieri in quel luogo’. Aveva così trovato la prova di non avere una patria. Da quel momento in poi non poté più affermare di avere un legame organico e storico con il territorio in cui viveva. Ora era perduto, senza più una storia, una terra e senza più le stesse mitologie”.

Il suo “furore creativo” non si può spiegare se non con l’impellente necessità di recuperare l’identità perduta attraverso una catarsi  che prende coscienza del passato senza le rimozioni interessate per costruire un nuovo futuro, una sorta di lavacro psicanalitico. Hollein la vede così: “Gli ‘Eroi’ risultano essere in parte anche autoritratti ovvero forme rappresentative della condizione e dell’impegno artistici in cui Georg Baselitz sentiva di trovarsi. le immagini rappresentano uno stato d’animo in cui l’artista può riconoscersi, individuano un tipo umano e un’esperienza con cui egli deve confrontarsi per creare qualcosa di nuovo”.

Il “qualcosa di nuovo” del 1965 può conservare  una qualche validità anche oggi, o risulta irrimediabilmente datato dopo oltre mezzo secolo in cui nel mondo tutto è cambiato? Forse una risposta positiva si può trarre già dalla circostanza che proprio nel momento attuale per la prima volta viene presentato l’intero “corpus” del ciclo “Gli Eroi”, e non solo in questa mostra al Palazzo Esposizioni, ma in altre tre primarie sedi espositive europee, allo Stadel Museum di Francoforte prima di Roma, e poi al Moderna Museet di Stoccolma e al Museo Guggenheim di Bilbao.

Il curatore  dà questa interpretazione che è anche una spiegazione della viva attualità dell’opera: “Allora gli ‘Eroi’ riflettevano soprattutto un’immagine di sé, la coscienza di sé del giovane artista; oggi essi risultano essere la rappresentazione di una condizione al di là della prospettiva storica , evocano l’immagine di un uomo sensibile in un mondo lacero”.  E del fatto che il mondo oggi sia lacero se ne ha conferma quotidianamente.

Non resta ora che raccontare la visita alla mostra descrivendo le opere di cui abbiamo cercato di delineare motivazioni e significati rievocando le tormentate vicende dell’artista nella patria divisa. Lo faremo prossimamente.

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Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “”Georg Baselitz. Gli Eroi“, Editore Hirmer, pp. 168. formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. L’articolo conclusivo sulla mostra uscirà in questo sito il 5 giugno p.v. Per le citazioni nel testo di correnti e artisti cfr. i nostri articoli: in questo sito, per “Russia on the Road”  18, 26 novembre 2015, e Deineka 26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo. it,  per i “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011;  in fotografia.guidaconsumatore,  per Rodcenko 2 articoli il 27 dicembre 2011; cfr. inoltre, in cultura.inabruzzo.it, i nostri 3 articoli del 13 luglio 2010 sulla mostra “100 capolavori dello Stadel Museum”, dove si trovano le opere di Baselitz esposte nell’attuale mostra (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono tutti dipinti di Baselitz del 1965-66. In apertura, “Uno verde”; seguono, “Un nuovo tipo” e “Il pastore”; poi, “Ribelle” ed “Eros diviso”; quindi, “Ralf” e “Fondo nero”; infine, “Uno rosso” e “Senza Titolo”; in chiusura, “Senza Titolo”. 

Palazzo Barberini e Corsini, l’accoppiata vincente per l’Arte Antica

di Romano Maria Levante

Il rilancio della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma ha visto intanto le prime due mostre che abbiamo commentato in precedenza, “Il pittore e il gran Signore” e “Mediterraneo in chiaroscuro”. Racconteremo al termine la terza mostra della serie “Venezia scarlatta” , con 4 opere di Lorenzo Lotto, aperta dal 10 marzo al 15 giugno 2017, curata da Michele Di Monte, ma prima intendiamo dare altre notizie sulla nuova direzione della Galleria Nazionale d’Arte Antica che ha introdotto profonde innovazioni, a partire dalla denominazione, e sulle due sedi museali, Palazzo Barberini e Palazzo Corsini.

Il rilancio  avviene secondo gli orientamenti – che abbiamo già ricordato testualmente in precedenza e che riportiamo –  così sottolineati dal Ministro  per i Beni e le Attività  Culturali e il Turismo Dario Franceschini: “L’inizio del riallestimento delle collezioni, la realizzazione di percorsi multidisciplinari e del sistema multimediale, con maggiori approfondimenti del percorso di visita del museo”;  Con questi cambiamenti, messi in atto dal nuovo direttore Flaminia Gennari Santori, “Palazzo Barberini e Galleria Corsini si apprestano a diventare, in una fase di profonda innovazione del sistema museale italiano, luoghi di incontro e di dialogo paragonabili alle più moderne realtà museali europee non solo”.

Ed ecco i dati sul nuovo direttore selezionato con il concorso internazionale,  come per gli altri 29 musei cui è stata data autonomia dalla riforma del Ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo Dario Franceschini. Flaminia Gennari Santori  è storica dell’arte, con un prestigioso curriculum  di livello internazionale, sia nel corso di studi, tra Roma e Firenze,  Londra e Chicago, sia nella carriera:  dalla Fondazione Adriano Olivetti di Roma tra il 2002  e il 2006  al Metropolitan  Museum of Art di New York tra il 2006 e il 2008, fino al Vizcaya Museum and Garden di Miami tra il 2008 e il 2013, periodo in cui è stata anche docente  di History of Collecting and Display alla Syracuse University in Florence. Ha scritto saggi, in particolare sul collezionismo internazionale,  e fa parte del gruppo di ricerca del Getty Research Institute sul collezionismo e il mercato dell’arte tra Ottocento e Novecento, di cui è tra i maggiori esperti internazionali; nel 2014 ha pubblicato il libro  “The Melancholy of Masterpieces”. Ha sempre abbinato la ricerca culturale con la progettazione pratica e la gestione museale, ottenendo risultati notevoli, come nel Vizcaya Museum di Miami divenuto un laboratorio di ricerca e innovazione con progetti d’artista che hanno accresciuto l’interesse del pubblico per il museo e hanno avuto una forte eco nella stampa americana.

Le aspettative per il nuovo corso delle Gallerie Nazionali d’Arte Antica è dunque motivato da queste caratteristiche molto positive del nuovo vertice direttivo.  Si è cominciato con la “nuova identità visiva, nuovo sito e nuovo social”, a partire da un logotipo che dà centralità alle due sedi interdipendenti: la denominazione  della Galleria Nazionale d’Arte Antica è stata sintetizzata in  “Barberini Corsini Gallerie Nazionali”, con i nomi dei palazzi evidenziati in neretto,  in modo parallelo e non sappiamo quanto coordinato, alla sintesi operata da altra direzione per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna in “La Galleria Nazionale”, con la sottolineatura dell’articolo.  Il nuovo sito web è diviso in tre sezioni per un più facile accesso, quella di sinistra per i visitatori , quella centrale con le icone, si è perseguita la semplicità insieme alla presa emozionale. Sui social network  nuova pagina in Fecebook, con evidenziate le due sedi e le loro interconnessioni, oltre che su Twitter e sul nuovo account Istagram  ricco di immagini.

Non mancano le indicazioni sugli scambi in atto con i maggiori musei internazionali, troviamo il Metropolitan Museum di New York e la National Gallery di Londra, il Louvre e il Prado, gli Uffizi e la Galleria Borghese, la Pinacoteca di Bologna e l’Accademia Carrara. E altre notizie, come i prestiti degli ultimi due anni, 75, il personale impiegato, 69 addetti, i giorni di apertura dell’anno, in media 311 per entrambi i palazzi.

Oltre a fornire queste notizie sull’attualità,  la nuova direzione rievoca la storia della formazione delle collezioni e delle due sedi, opera meritoria perché  si possono apprezzare le Gallerie Nazionali d’Arte Antica nella doppia articolazione in Palazzo Barberini e Palazzo Corsini, sotto l’aspetto storico e artistico: una staffetta prestigiosa,, con due pontefici e una regina protagonisti.  

Parleremo, quindi,  dei due palazzi, Barberini e Corsini,  per ricordare l’alto valore storico e l’immenso patrimonio artistico in essi contenuto con la formazione delle collezioni e i collegamenti reciproci. Poi daremo conto della 3^ mostra per il rilancio, “Venezia scarlatta”, con al centro Lorenzo Lotto.

Palazzo Barberini

In pieno centro di Roma, tra Via Veneto e la Fontana di Trevi, con l’omonima piazza, la “Piccadilly Circus romana”, gode di una posizione ideale dal punto di vista logistico se si evita il rischio di essere schiacciata in quella che viene definita “sedimentazione urbanistica”.  Ma non si può negare che la Galleria Nazionale di Arte Antica, soprattutto in  questo palazzo  – Palazzo Corsini è da tutt’altra parte del centro cittadino, in Via della Lungara – non soffre del decentramento e del sostanziale isolamento della Galleria Nazionale d’Arte Moderna  a Valle Giulia.

Per qualificare Palazzo Barberini  basta ricordare che è frutto dell’iniziativa di Maffeo Barberini, vissuto tra la metà del ‘500 e del ‘600,  due anni dopo che divenne papa, nel 1623 con il nome di Urbano VIII.

Carlo Maderno fu il primo architetto impegnato nella realizzazione del nuovo palazzo per i nipoti del pontefice, e lo fece con una forma ad H del tutto nuova ottenuta collegando la preesistente Villa Sforza che si affaccia su Piazza Barberini, acquistata per l’occasione, con un’ala parallela unita ad essa con un braccio centrale: tra le due ali il grande giardino all’italiana con cortili e piante rare.

Dal 1629  nella direzione dei lavori a Maderno subentra Gian Lorenzo Bernini che disegna la finta loggia vetrata sul porticato verso via Quattro Fontane.  poi interverrà anche Francesco Borromini nel disegnare la scala elicoidale a pianta ovale che fa da “pendant” alla scala “a pozzo quadrato” disegnata dal Bernini, con la quale si accede al salone di rappresentanza con gli affreschi di Pietro da Corona.  I lavori per le decorazioni interne si sono protratti dal 1620 fino a metà del ‘700, per iniziativa della principessa Cornelia Costanza Barberini con il coniuge il principe Giulio  Cesare Colonna di Sciarra che ristrutturarono e arredarono il secondo piano in stile tardo rococò. Nell’appartamento all’ultimo piano hanno abitato gli eredi Barberini fino al 1955.

Ma quello che più importa ricordare sono le collezioni custodite nel palazzo con una sorpresa, solo nel 1953 diventa la sede della Galleria Nazionale di Arte Antica insieme a Palazzo Corsini  che aveva invece questa destinazione sin dal 1865. E ci diventa perché le collezioni di Palazzo Corsini si sono talmente ampliate con importanti acquisizioni e donazioni,  come vedremo, da richiedere maggiore spazio. D’altra parte la collezione originaria dei Barberini era stata dispersa a cominiare dal ‘700 per dissidi tra gli eredi finché nel 1934 un Regio decreto consentiva la vendita  anche all’estero delle opere, tranne un piccolo nucleo passato allo Stato italiano per compensazione, tra cui per fortuna c’è “La Fornarina” di Raffaello, divenuta l’icona della Galleria, insieme a “Giuditta e Oloferne” di Caravaggio, anche se la nuova direttrice ci ha detto di volere una sede “aiconica”.

ln mancanza di una quadreria originaria, come quella che si trova invece, come vedremo, a Palazzo Corsini, è stata organizzata la galleria in senso cronologico con le principali tendenze pittoriche dal duecento al settecento, con particolare riguardo al cinquecento e seicento.

Sono presenti i maggiori maestri con le opere più rappresentative, ci basta aver citato Raffaello e Caravaggio, gli artisti delle collezioni sono 450, i dipinti oltre 1600, di cui circa 450 esposti in 35 sale cui va aggiunto il Salone di Pietro da Cortona, inoltre vi è la Sala Ovale e la Sala Marmi, per 7.500 metri quadri di superficie espositiva. Gli altri 1.100 dipinti sono  nel deposito all’interno o all’esterno; , con le sculture e gli altri oggetti artistici si arriva a 4400.  Un patrimonio consistente!

Palazzo Corsini

A questo patrimonio le Gallerie Nazionali d’Arte Antica aggiungono le collezioni della Galleria Corsini: oltre 600 dipinti, di cui circa 300 esposti e gli altri in deposito o concessi temporaneamente ad enti esterni, più 200 sculture, bronzetti e arredi, gli artisti sono 500, 8 sale espositive del museo e 1 per mostre temporanee per 765 metri quadri di allestimento.

La particolarità è che l’esposizione in atto rispecchia l’inventario del 1771, cosa che garantisce la sua integrità rispetto alla consistenza originaria, a differenza di Palazzo Barberini, spogliato dalle vendite  da parte della eredi della famiglia, a parte le eccezioni pur di eccellenza che abbiamo citato.

Sono state le acquisizioni della Galleria Corsini  dopo la vendita  al Regno d’Italia nel 1883 eccedenti rispetto agli spazi del palazzo, ad essere trasferite a Palazzo Barberini, acquistato dallo Stato  nel 1949 proprio a questo fine: si tratta del Fondo Torlonia   nel 1892  finalizzata alla Galleria Nazionale Italiana aperta nel 1895, e delle collezioni Chigi, Monte di Pietà ed Hertz anch’esse pervenute  alla Galleria Corsini. In realtà, poiché Palazzo Barberini divenne la nuova sede della Galleria Nazionale, riaperta nel 1953,  vi furono trasferite tutte le opere detenute a questo titolo dalla Galleria Corsini e non soltanto le acquisizioni eccedenti gli spazi ora citate; negli anni ’80  è stata ripristinata la raccolta Corsini fino alle acquisizioni successive al 1883 sopra citate. Va sottolineato che alla vendita del palazzo allo Stato il principe Tommaso Corsini aggiunse la donazione delle opere d’arte che vi erano contenute, collezione pervenuta quindi inalterata.

Ma  com’è caratterizzata tale collezione e come nasce? Si tratta dell’unica quadreria settecentesca  rimasta a Roma nell’assetto originario senza le vendite degli eredi, come per Palazzo Barberini, e le spoliazioni di varia natura avvenute nei secoli. La vediamo con i quadri che coprono interamente le pareti fino al soffitto,  un vero spettacolo in cui l’arte è coniugata alla storia e al costume.

Il primo nucleo viene da Firenze, opera del marchese Bartolomeo (1622-85), dopo gli acquisti di opere d’arte avvenuti sin dall’inizio del ‘600; la spinta decisiva venne nel ‘700 da Lorenzo Corsini divenuto papa Clemente XII e dal cardinal nipote Neri Corsini, definiti “i veri artefici della collezione” , il secondo era esperto d’arte e si concentrò sui grandi maestri del ‘600 e del ‘500, oltre che dei suoi contemporanei. Alcuni nomi? Caravaggio e Guido reni, Guercino e Rubens. Nell”800 proseguirono gli acquisti uniti a vendite mirate secondo gli orientamenti artistici dell’epoca.

Una storia prestigiosa quella delle collezioni, come è di grande prestigio la storia del Palazzo, la costruzione è iniziata  nel 1511 ad opera del cardinale Raffaele Riario in via della Lungara, poi vi furono interventi per sistemare le statue al piano terra e la quadreria al piano nobile. Artefice di queste modifiche addirittura una regina, Cristina di Svezia, che  visse nel palazzo per trent’anni, dal 1659 al 1689, dopo la conversione al cattolicesimo, e ne fece un cenacolo culturale, nell’Alcova  della regina ci sono ancora le decorazioni del ‘500.

L’evento straordinario della permanenza della regina, donna di cultura e amante delle arti che divenne  un prestigioso punto di riferimento, fu anteriore al passaggio in proprietà alla famiglia Corsini, che avvenne nel 1736 allorché Lorenzo divenne papa Clemente XII e la sua famiglia, per trasferirsi da Firenze incaricò l’architetto Ferdinando Fuga di ristrutturare e ampliare il palazzo appositamente acquistato.  Fu aggiunta una nuova ala, in simmetria con quella esistente, collegate da un corpo centrale con una scalinata monumentale, troviamo in questo una qualche analogia con le opere che furono realizzate a Palazzo Barberini, ma è soltanto una mera associazione di idee. la facciata su Via della  Lungara è unitaria, mentre la parte posteriore mostra l’eterogeneità iniziale.

Il giardino, che fu ristrutturato da Fuga e costituisce l’Orto botanico di Roma,  arriva fino al Gianicolo. Nel palazzo, oltre alla Galleria Nazionale d’Arte Antica , c’è l’Accademia dei Lincei  con una ricca biblioteca che ha accolto anche la biblioteca del cardinale nipote Neri Corsini; vi  è anche l’Istituto Nazionale della Grafica con una collezione di stampe antiche molto pregiata.

La mostra “Venezia Scarlatta” a Palazzo Barberini

Ed ora eccoci alla terza mostra di rilancio, questa volta dopo il “ritratto d’occasione” e il “Mediterraneo in chiaroscuro” con il gemellaggio maltese, un’intrigante collegamento tematico all’insegna del colore rosso considerato nell’ambiente veneziano in cui riveste un particolare significato. Per i pittori veneti il rosso scarlatto con il suo forte valore cromatico è legato anche a un’antica tradizione di tintori e alchimisti di cui Venezia è stata portatrice;  ma soprattutto ha forti significati simbolici, che rimandano a serie di motivi,  mondani e privati, civili e religiosi.

Inoltre, come si afferma nella presentazione, “la grande qualità della pittura di queste opere, caratterizzate da una pittura cangiante  con sfumature variabili e tonalità sensuali, rifocalizza il luogo comune circa i presunti rapporti di dipendenza e sudditanza tra periferia e centro, tra Terraferma e Dominante”.

Nelle 6 opere esposte sono raffigurati motivi diversi proprio per la variabilità dei simboli evocati:  vi sono ritratti e rappresentazioni di vita, scene bibliche e immagini religiose; e  pur nell’autonomia stilistica e compositiva dei tre artisti autori, vengono riscontrati elementi comini ai pittori veneti.

Quanto basta per giustificare l’impegno organizzativo pur nel limitato numero di opere esposte: provengono, infatti, da New York, il  Metropolitan Museum of  Art , e da Parigi, il Musée du Louvre, da Madrid, Museo Nacional do Prado, e Bergamo, Accademia Carrara.

Il direttore ci tiene a sottolineare, oltre alla collaborazione con i maggiori musei appena citati, il fatto che la mostra è “nata attorno al nostro capolavoro di Lorenzo Lotto,  “Matrimonio mistico di santa Caterina”, nelle due versioni del 1524, della Galleria Nazionale romana, e del 1523, dall’Accademia Carrara di Bergamo, entrambe da committenze private con finalità auto celebrative.

Come è auto celebrativa un’altra delle sue opere esposte, “Ritratto di Marsilio Cassotti e Faustina Assinica”, 1523, che innova la consueta forma rappresentativa accentuando gli elementi realistici e insieme quelli simbolici: come il “giogo nuziale” imposto sotto lo sguardo malizioso di Cupido.

Il “Matrimonio mistico di Santa Caterina”  della versione “romana” era complementare rispetto al  ritratto della coppia appena citato, in quanto entrambi concepiti come un doppio dipinto, mentre  il matrimonio mistico nella versione “bergamasca” è concentrato in uno spazio unico; si tratta di un’immagine sacra ma destinata alla devozione privata, tanto che il matrimonio si svolge nella dimora del committente Niccolò Bonghi nel ruolo di testimone di un evento soprannaturale con l’esibizione di tappeti preziosi e di abiti sfarzosi.

Viene definito “speculum perfectionis in cui si riflette il modello perfetto dei novelli sposi”, con la Vergine in veste rosso scarlatto di consigliera sui modi per raggiungere Cristo, la scrittura con la protezione di San Girolamo, la carità appassionata, con il dolore delle spine, per la protezione di Santa Caterina.

La quarta opera di Lotto esposta, “Cristo portacroce”, 1526″,  è più integralmente religiosa, ma Cristo che cade sul Golgota sotto il peso della croce, avvolto nella veste con il rosso della passione,  è visto in modo ravvicinato quasi da un testimone oculare, mentre l’osservatore si sente nei panni del Cireneo chiamato a portare la croce al posto di Cristo disteso al suolo.  Lorenzo Lotto, uno dei maggiori artisti veneti, è stato grande ritrattista, in gioventù vicino allo stile di Giovanni Bellini, poi sotto l’influenza  di Raffaello e Durer, il tutto vissuto in modo innovativo.

Rosso come la veste di Cristo anche l’abito di velluto del santo nel dipinto “San Matteo e l’angelo”, 1534, che illumina la scena notturna del silenzioso dialogo, ora come simbolo di carità, in una composizione che ha l’immediatezza di un ritratto, innovativa  rispetto alla tradizione, con gli effetti di luce e la consistenza materica della superficie dipinta.  L’autore, Giovanni Gerolamo Savoldo, da Brescia a Venezia nel 1520,  di formazione lombarda, sentì l’influsso di Lotto, oltre che di Giorgione e Tiziano.

L’ultima opera esposta della “Venezia scarlatta” è di Giovanni Busi detto il Cariani, lombardo vissuto a Venezia tranne 7 anni di soggiorno a Bergamo dove ebbe molte commissioni di dipinti nei quali si sente l’influsso di Lotto che lavorava in quella città negli stessi anni.  Si tratta del “Ritratto di Giovanni Benedetto Cariaggi”, 1520-21, una composizione ispirata a quelle devozionali di Bellini, dal mantello in primo piano al paesaggio di sfondo. Il rosso brillante è nella toga del dottore in medicina, che richiama l’attività dell’autore:  lettore e rettore dell’Università di Padova, medico apprezzato a Crema, la città natale, persino implicato in un traffico d’armi tra Venezia e Milano.

Si conclude così la nostra presentazione del rilancio della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma, nella quale oltre a commentare le prime tre mostre tematiche, fortemente selettive, abbiamo cercato di fornire qualche elemento sulle linee seguite dalla nuova direzione con le prime iniziative, e soprattutto abbiamo rievocato la genesi delle collezioni connessa alla storia dei due palazzi Barberini e Corsini,  a loro volta legata a grandi personaggi, due papi e una regina. Tutti fattori che lasciano ben sperare sulla valorizzazione  delle Gallerie sul piano artistico, storico e culturale.

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Le immagini saranno inserite prossimamente

Baselitz, gli eroi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante  

La mostra “Georg Baselitz. Gli Eroi”, espone, dal 4 marzo al 18 giugno 2017, al Palazzo delle Esposizioni di Roma, 70 dipinti di grandi dimensioni, disegni e xilografie, per la maggior parte della serie “Eroi” o “Nuovi tipi”, del 1965-66, più una selezione di “Remix”, dipinti realizzati dopo il 2000 sugli stessi soggetti di 35 anni prima. La mostra, ideata e organizzata da Stadel Museum in collaborazione con Azienda Speciale Palaexpo-Palazzo delle Esposizioni, Muderna Museet, Guggenheim Bilbao,  è curata da Max Hollein, direttore del San Francisco Museum of Fine Arts e in precedenza direttore dello Stadel Museum di Francoforte, con Daniela Lancioni, curatore senior del Palazzo delle Esposizioni. Catalogo dell’editore Hirmer. 

Georg Baselitz, con il suo intervento alla presentazione della mostra, è stato un motivo aggiuntivo di interesse perché si è aperto alle confidenze. Ha ricordato che il successo non arrivò subito, il suo stile era molto diverso da quello dell’epoca, e suscitava forti contrasti, mentre adesso i suoi “Eroi” sono tornati ad essere attuali.  “E’ vero che continuiamo a non aver bisogno di eroi, ma i miei non sono veri eroi, tutt’altro, non sono figure mitiche e neppure protagonisti di favole”. 

Nessuna ideologia né linea politica dietro quelle figure, ma una visione molto personale, tuttavia afferma: “Ho avuto 50 anni di tempo per riflettere su cosa fossero questi quadri, mi sono accorto che i tedeschi si consideravano superuomini, cosa fatale che li portò alla guerra, come se qualcuno fosse il lato oscuro del mondo. I miei quadri sono nati da un male oscuro, in un mondo oscuro”. 

Ha detto molte altre cose, disponibile a rispondere, ha parlato anche della nuova serie “Remix”, nata in un periodo in cui si sentiva isolato e dimenticato: “Ma i giovani imitavano i miei quadri, allora mi sono fatto sentire non come amico ma come avversario, ho fatto uscire i miei ‘Eroi’ dall’oscurità e li ho ridipinti in modo forse ancora più efficace”.

E rispetto all’oggettività ha affermato che  lui ha cercato di esse oggettivo, anche se “gli ‘Eroi’ vanno visti come corrieri capaci di veicolare le idee, a prescindere da ciò che trasmettono”.

Cerchiamo dunque di sentire direttamente cosa trasmettono ripercorrendo anche la genesi della loro creazione. 

Il clima nel quale sono maturate le opere del ciclo degli Eroi

L’impatto visivo delle opere degli “Eroi” di Baselitz è notevole, colpisce la loro intensità espressiva e trasmettono un’inquietudine indefinibile insieme all’ansia di decifrare il perché  di tali sensazioni.

Prima di entrare nel vivo dell’opera dell’artista e rispondere a questi interrogativi, è bene inquadrarla nella particolare sua posizione, nel clima degli anni lontani in  cui è stata realizzata e nelle sue modalità, anch’esse peculiari.

Ci troviamo in quel tormentato crinale della storia dell’Europa, e del mondo  nel ‘900, che è stata  la Germania, a vent’anni dalle distruzioni fisiche e morali del secondo conflitto mondiale, divisa in due stati collocati nei versanti opposti sulle barricate della guerra fredda, trauma che si è aggiunto alla tragica sconfitta aggravata dai crimini contro l’umanità del regime nazista. Bisogna considerare che nel 1963 si era celebrato il primo processo su Auschwitz e si era acceso il dibattito sul prolungamento dei termini di prescrizione per i crimini di guerra. Il boom economico con la conseguente euforia collettiva portava a rimuovere il passato, anche perché molto scomodo per usare un eufemismo, e a guardare in avanti. Anche dal lato artistico forti contrasti, con gli strascichi del “Realismo socialista” che si scontravano con gli stimoli dell’astrattismo e di altre correnti di avanguardia emergenti a livello internazionale. Ne hanno dato conto la mostre a Roma sui “Realismi socialisti”, “Deineka” e il grande fotografo “Rodcenko”, fino a “Russia on the Road”, con le varie anime di un mondo imbevuto di ideologia nella spinta inarrestabile della modernità.

In questo contesto a dir poco tormentato, Hans-George Bruno Kern, il nome di Baselitz all’anagrafe, nato in Sassonia nel 1938, dopo essere stato espulso per “immaturità socio-politica” dall’Accademia delle Belle Arti di Berlino Est nella Repubblica democratica tedesca nel 1956,  si trasferisce nell’analoga accademia della Repubblica federale tedesca, quindi  la costruzione del muro nel 1961 lo trova a Berlino ovest  dove proprio in quell’anno adotta il nome d’arte in omaggio alla città natale Deutschbaselitz che non potrà più rivedere. Si sposa e ha un figlio, una vita del tutto normale per un giovane artista nella parte della Germania libera dall’oppressione sovietica anche se di frontiera com’era l’avamposto berlinese circondato dal muro.

E’ tuttavia irrequieto, firma i dissacranti “Manifesti Pandemonici” in coppia con il pittore Eugen Schonebeck, con i quali si richiama  ad Artaud e a Lautréamont,  espone a mostre a Berlino e a Monaco, alcune sue opere del 1962 e 1963 sono ritenute immorali, nel 1965 nel dibattito sulla censura cinematografica viene citato come esempio di “arte indecente”  da combattere per proteggere la popolazione; si discusse anche in tribunale se la presunta oscenità rientrasse nel diritto costituzionale alla libertà di espressione artistica. Siamo in Germania, pur se in un clima politico-ideologico opposto il pensiero torna all’epiteto di “arte degenerata” con cui il nazismo condannava  l’arte moderna fino a organizzare una mostra diffamatoria che ebbe un enorme successo di pubblico.

Con il giovane Baselitz  le accuse di “arte indecente” contro la morale pubblica portarono alla richiesta di revocargli la borsa di studio di una residenza artistica a Villa Romana a Firenze, ma l’associazione fondata da Max Klinger nel 1905 che l’aveva conferita respinse le  pressioni dei finanziatori,  perché i membri della giuria erano stati impressionati dai suoi lavori esposti  all’annuale mostra dell’associazione tedesca degli artisti.

Dopo queste premesse così movimentate, sia sul piano artistico che su quello esistenziale, a Firenze – come ricorda Eva Mongi-Vollmer  nella sua accurata ricostruzione della vita e dell’arte di Baselitz – entra in una comunità  in cui ogni artista doveva confrontarsi, come scrisse lo storico dell’arte tedesco Gustav René Hocke, sulla “domanda della capacità dell’arte di aiutare l’uomo a trovare una misura, un’armonia degli opposti”; era il caso del nostro artista, che per il percorso compiuto fino ad allora, pur nella sua giovane età,  di opposti ne aveva da gestire! 

Hocke aveva approfondito il significato del “manierismo”,  basandosi sul manierismo fiorentino, Baselitz lo conosceva e lo apprezzava al punto di avere una raccolta di stampe manieriste nel suo atelier a Firenze. Si può capire perché  ne fosse attratto dalla concezione dello stesso storico dell’arte  secondo cui il manierismo può diventare “un mezzo idoneo per definire un determinato rapporto ‘problematico’ con il mondo, per spiegare il relativo gesto espressivo di un ‘individuo problematico’, che è tale per vari  motivi psicologici e sociologici”.  E non si può dire che Baselitz non lo fosse, data la storia che stava vivendo.

Ebbene, il direttore di Villa Romana, Michael Siegel, nel suo rapporto alla direzione afferma: “Quel Baselitz sempre pensieroso non fa altro che dipingere senza sosta”;  forse “pensieroso” non è sinonimo di “problematico”, ma Siegel non si ferma qui, precisa che “Georg Baselitz ricevette il grande atelier che dà sul giardino, in modo che questo ‘pittore inarrestabile’ realmente ossessionato potesse rimanere veramente fedele ai suoi amati grandi formati”.  E aggiunge che “subito si svilupparono e proruppero sui tutte le pareti quadri rosso-brunastri, rosso ruggine, rosso sangue, rosso arancio, rosso mattone, rosso terra, rosso fucsia, rosso rosso, rosa e color carne, biancastri e giallognoli”. La Mongi-Voller ricorda che un’altra storica dell’arte, Antje Kosegarten,sottolineava “l’aspetto ‘fervidamente visionario’ dell’arte di Baselitz, che si sottraeva a qualsiasi inquadramento in ‘direzioni comuni’ e poteva essere catalogata come un’arte ‘dell’Est'”; e precisa: “I ‘Nuovi tipi’ e gli ‘Eroi’ avevano di fatto vista la loro nascita nell’intenso scenario fiorentino. Ritornato a Berlino Ovest,  Baselitz continuò a lavorare sul tema e lo fece in un brevissimo lasso di tempo.  Con un atto creativo impetuoso aveva preso posizione , in modo duro e consapevole”. La sua “arte dell’Est” era  contrapposta a quella del Realismo socialista, che aveva avuto i suoi eroi, ma quanto diversi!

Gli “Eroi” di Baselitz, un “unicum” nell’iconografia eroica   

Gli eroi socialisti si  inquadrano nell’immagine dell’eroe come si è determinata nella storia dell’uomo.  L’eroe del mito antico  esprime quei valori che elevano l’uomo e lo avvicinano alla divinità, si distingue dai comuni mortali che sovrasta nelle doti fisiche e nella forza psichica,  ed  è sostenuto da una visione superiore che lo porta  a battersi con coraggio e perseveranza senza risparmio, con sprezzo del pericolo e spirito di sacrificio fino a immolarsi. 

L’evoluzione di questa figura nel tempo fa irrompere nel Pantheon degli eroi quelli che si battono per la fede religiosa o  per una  spinta intellettuale, come i grandi pensatori e gli scienziati, gli artisti e i poeti, sono eroi del pensiero; e gli eroi che si battono per la libertà, personale e del popolo cui appartengono. Fino all’eroe borghese, di cui viene esaltato il sacrificio quotidiano, e alla società post eroica in cui l’individuo scompare rispetto alla maggioranza su cui si fonda la democrazia; mentre nei sistemi autoritari si ha bisogno dell’eroe per scopi propagandistici, soprattutto quando la mistica di regime innalza l’uomo nuovo a livelli mitici impersonati dall’eroe.  

E’ questo il caso dell’eroe nel Terzo Reich, identificato soprattutto nel soldato  invincibile come sublimazione del bellicismo sfrenato nazista, e anche il caso del Realismo socialista, l'”arte dell’Est” che  aveva mitizzato l’ “eroe del lavoro” con immagini di forza e vigore, perseveranza e fiducia, rivolto al futuro che stava costruendo  abbattendo ogni ostacolo, in una sorta di identificazione individuale dello sforzo collettivo delle masse operaie, considerate in una marcia trionfale inarrestabile; anche lo sport, nobilitando il fisico, era visto come virtù suprema che elevava l’uomo a eroe, pensiamo alle immagini celebrative di Aleksandr Deineka.

Invece l’eroe di Baselitz  ha connotati opposti,  per qualche verso fa pensare all’eroe romantico, che si sacrifica nella rinuncia e nel dolore, non nella lotta per un ideale superiore, ma se ne differenzia perché  non ne ha la nobiltà e la compostezza, tutt’altro. La sua figura è lacerata più che tormentata, distrutta più che desolata, si avvicina piuttosto all’eroe morente sul campo di battaglia o in contesti diversi altrettanto angosciosi. “Si tratta di uomini robusti, ma al contempo letargici, osserva il curatore Max Hollein, malinconici superstiti in un mondo distrutto e caotico, che dominano sulla scena in cui sono raffigurati dal basso tra vari elementi paesaggistici, con un  forte senso di pathos. Il tratto che li delinea è inquieto, volutamente incerto”.

E’ l “eroe post-eroico”, lo definisce  Uwe Fleckner – dopo un’ampia carrellata sulla figura dell’eroe nella storia umana – sottolineando che “i dipinti sono caratterizzati da una contraddizione di fondo per nulla eroica”. Come Hollein la trova  in una serie di elementi che ne  stravolgono la figura abbinando caratteristiche opposte, l’imponenza apparente abbinata ad una  goffa dissoluzione, la posa fintamente marziale insieme a una vistosa  impotenza, constatazioni che le fanno osservare: “Nei suoi ‘Eroi’ il pittore ricorre a una figura tabù, resasi colpevole per sempre a causa della guerra e della tirannia”. Ed ecco come lo presenta: “Ridotto in condizioni misere, l’eroe viene messo in scena  ancora una volta come un dubbio monumento di se stesso, ma questi quadri mostrano soprattutto che il suo eroismo è fallito “.

Un monumento, dunque, che ci fa pensare alla tristezza dei monumenti che vengono abbattuti quando cade un regime, quanto più ridondante era l’enfasi celebrativa, tanto più  appaiono miseramente decadenti; Baselitz ci presenta i suoi eroi come i tanti  monumenti che aveva visto celebrati nella sua giovane vita, ma quanto tormentata, e poi abbattuti.

Ma la sua non è una visione solo negativa., e il riferimento al “manierismo” fiorentino cui  abbiamo accennato all’inizio lo fa capire, come afferma  Hollein: “Gli ‘Eroi’ non sono ‘manieristici’ soltanto nei loro aspetti formali – nella scelta e nella costellazione dei colori, nella distorsione delle proporzioni delle figure – bensì anche nel messaggio di fondo: smascherare il mondo con il suo ordine apparente, adottando una prospettiva inquietante e introspettiva, e farlo vacillare per necessità intrinseca, per poi lasciare spazio a una forza e a un eventuale modo di agire nuovi”.

Pr questo  in un solo anno, tra l’estate del 1965 e del 1966, creò l’intero ciclo degli “Eroi” , ben 60 dipinti, 130 disegni e 38 stampe, in quello che il curatore chiama “un vero furore creativo, un’esplosione artistica senza eguali,  un intenso dipingere contro il tempo, capace di dare vita nel giro di pochi mesi a una quantità di opere monumentali e impressionanti”.  E’ la sua ribellione verso la società del suo paese che ha rimosso il passato cullata dal consumismo, lungo una china rovinosa che rischia di esseresenza ritorno se non si fanno i conti con la propria storia per riacquistare l’identità perduta, quell’identità che lui stesso sentiva di avere smarrito e cercava di recuperare. 

Richard Shiff” ricorda un episodio della sua vita scolastica raccontato dallo stesso artista negli incontri a Monaco di Baviera del 1992, “Discorsi sulla Germania”:  “Nonostante fosse condizionato dalla sua educazione a riconoscere il primato tedesco, Baselitz giunse a una conclusione scioccante: ‘Eravamo noi gli stranieri in quel luogo’. Aveva così trovato la prova di non avere una patria. Da quel momento in poi non poté più affermare di avere un legame organico e storico con il territorio in cui viveva. Ora era perduto, senza più una storia, una terra e senza più le stesse mitologie”.

Il suo “furore creativo” non si può spiegare se non con l’impellente necessità di recuperare l’identità perduta attraverso una catarsi  che prende coscienza del passato senza le rimozioni interessate per costruire un nuovo futuro, una sorta di lavacro psicanalitico. Hollein la vede così: “Gli ‘Eroi’ risultano essere in parte anche autoritratti ovvero forme rappresentative della condizione e dell’impegno artistici in cui Georg Baselitz sentiva di trovarsi. le immagini rappresentano uno stato d’animo in cui l’artista può riconoscersi, individuano un tipo umano e un’esperienza con cui egli deve confrontarsi per creare qualcosa di nuovo”.

Il “qualcosa di nuovo” del 1965 può conservare  una qualche validità anche oggi, o risulta irrimediabilmente datato dopo oltre mezzo secolo in cui nel mondo tutto è cambiato? Forse una risposta positiva si può trarre già dalla circostanza che proprio nel momento attuale per la prima volta viene presentato l’intero “corpus” del ciclo “Gli Eroi”, e non solo in questa mostra al Palazzo Esposizioni, ma in altre tre primarie sedi espositive europee, allo Stadel Museum di Francoforte prima di Roma, e poi al Moderna Museet di Stoccolma e al Museo Guggenheim di Bilbao.

Il curatore  dà questa interpretazione che è anche una spiegazione della viva attualità dell’opera: “Allora gli ‘Eroi’ riflettevano soprattutto un’immagine di sé, la coscienza di sé del giovane artista; oggi essi risultano essere la rappresentazione di una condizione al di là della prospettiva storica , evocano l’immagine di un uomo sensibile in un mondo lacero”.  E del fatto che il mondo oggi sia lacero se ne ha conferma quotidianamente.

Non resta ora che raccontare la visita alla mostra descrivendo le opere di cui abbiamo cercato di delineare motivazioni e significati rievocando le tormentate vicende dell’artista nella patria divisa. Lo faremo prossimamente.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30. Ingresso intero euro 13,50, ridotto euro 10,00.  Catalogo “”Georg Baselitz. Gli Eroi“, Editore Hirmer, pp. 168. formato 24 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le citazioni di correnti e artisti cfr. i nostri articoli: in questo sito per “Russia on the Road”  18, 26 novembre 2015, e Deineka 26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012; in cultura.inabruzzo. it per i “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011;  in fotografia.guidaconsumatore per Rodcenko 2 articoli il 27 dicembre 2011; cfr. inoltre, in cultura.inabruzzo.it, i nostri 3 articoli del 13 luglio 2010 sulla mostra “100 capolavori dello Stadel Museum”, da cui provengono le opere di Baselitz esposte  (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).   

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione nel Palazzo Esposizioni, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,per l’opportunità offerta.

Pirri, spazio colore e luce, Fortuna e i silos, al Macro Testaccio

di Romano Maria Levante

Due mostre in contemporanea al Macro Testaccio dal 12 aprile al 4 giugno 2017: “Alfredo Pirri, i pesci non portano fucili” al Padiglione B, a cura di Benedetta Carpi de Rosmini e Ludovico Pratesi, presenta  una antologica di 50 opere dagli anni ’80 ad oggi, che spaziano dalla stampa fotografica alle composizioni con vari materiali fino alle installazioni;“Pietro Fontana, S,I.L.O.S.”  al Padiglione A, a cura di Pietro Gaglianò presenta a sua volta una serie di installazioni a forma di Silos, con alcune opere in lambda su carta.. Ambedue le mostre sono promosse da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita culturale e Soprintendenza capitolina ai Beni Culturali; e realizzate in collaborazione con delle gallerie, la prima con Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea ed Eduardo Secci Contemporary, la seconda con Montoro 12 Contemporary Art di Roma.

Luce, colore e materiali negli spazi di Pirri

Conoscevamo di Alfredo Pirri  l’ingresso realizzato per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna, un pavimento di specchi spezzati con sopra qualche statua, che rendeva emozionante l’accesso alle sale in cui è esposta la straordinaria galleria artistica del museo romano di  Valle Giulia. Abbiamo scritto “che rendeva”, dato che la nuova direzione lo ha eliminato per sostituire a questa emozionante “ouverture”  un anonimo salone con dei divani, nell’intento di rendere più accattivante l’entrata, ma ha tolto la magia indefinibile che si ripeteva invariabilmente ogni volta che si visitava il museo.

Non abbiamo mancato di esprimere il nostro dissenso verso chi ha fatto svanire l’incanto degli specchi spezzati – non si interrompe un’emozione, per ripetere uno slogan di qualche anno fa, e tanto meno si cancella –  come non manchiamo di manifestare la soddisfazione di aver ritrovato gli specchi spezzati sul pavimento nell’opera “Passi”, 2017, che segna il passaggio tra le due sezioni dell’attuale mostra di Pirri, anche se sono pochi metri di transito rispetto alla vastissima estensione che aveva l’analogo pavimento nella Galleria d’Arte Moderna; sono lastre in vetro extra chiaro argentato di 6 mm infrante meccanicaente. E’ stato come recuperare qualcosa di prezioso, anche se nella forma di una rapida evocazione della memoria piuttosto che di una replica.

L’artista, da noi interpellato, ci ha detto che non ha utilizzato gli specchi eliminati dalla Gnam, l’installazione, quindi, è completamente nuova anche se tecnica e ispirazione sono le stesse. E’ come se gli specchi sul pavimento si spezzassero sotto i passi del visitatore, e lo portassero a meditare sull’ambiente circostante: qui è un transito tra i mondi evocati da Pirri, là era  lo spazio sconfinato dell’arte moderna che veniva incontro per poi dilatarsi a dismisura.

E cosa mostrano le due sezioni della mostra di Pirri unite dal corridoio di specchi spezzati? Lo spazio, la luce e il colore in una serie di opere molto diverse, nella latitudine espressiva alla quale fa riferimento il titolo, apparentemente criptico, ma legato a un progetto omonimo iniziato nel novembre 2016 con la mostra RWD/FWD nello studio dell’artista.

Il titolo “I pesci non portano fucili” dall’opera di Philip K. Dick “The Divine Invasion”  evocano una società del futuro fluida come il mare aperto nel quale ci si immerge per riemergere in forme nuove in un ambiente pacifico senza armi e conflitti, con una rete culturale in cui le istituzioni sono autonome e dialogano tra loro.

La fluidità, con il continuo cambiamento, è alternata alla fissità nell’itinerario artistico di Pirri ripercorso con le 50 opere della mostra che partono dagli anni ’80 e arrivano ai giorni nostri.

Ma c’è di più, la mostra non fornisce solo un’antologica tematica o cronologica bensì, come spiega il curatore Ludovico Pratesi nella presentazione, “permette una lettura complessa e ragionata della ricerca di Alfredo Pirri attraverso un itinerario espositivo strutturato come un’opera in sé. Lo spazio del Macro Testaccio viene interpretato dall’artista in maniera da sottolineare le componenti fondamentali del suo pensiero, per invitare il visitatore a condividere un’esperienza immersiva giocata sull’armonia tra spazio luce e colore”.

L’immersione avviene nella città , considerata come spazio aperto di incontro e condivisione e non solo come conglomerato urbano, e la visione dello spazio svaria dall’aspetto architettonico a quello simbolico modulato nelle sue più diverse espressioni.

Pratesi precisa: “Come l’accordo musicale ha una natura sincronica, che risiede nella sovrapposizione istantanea di note, indipendentemente da quelle che sono precedute e si susseguono,  così il percorso espositivo implica una struttura che viene disegnata dall’idea di un’immagine simbolica della città che contestualmente ripercorre le grandi tematiche dell’opera di Pirri. Nelle quali utilizza i materiali più diversi, la legno  al rame, dal vetro al bronzo, dal lattice al plexiglass, con uso di olio e acquerello, smalto e vernice, e l’impiego della fotografia oltre che della pittura e della composizione materica più variegata.    

“Quello che avanza”, del 2017, è la più recente delle 50 opere esposte ed apre la mostra, con  144  stampe fotografiche di 100 x 70 cm in diverse tonalità blu con la tecnica della cianotipia.

In plexiglass  le 3 “Kindertotenlieder”, 2015, con pasta di colore e le 3 “Arie”, 2013-14 in piume e colore.  A un altro dei quattro elementi riserva i 2 acquerelli su carta con acciaio e vernici acriliche, “Acque”, 2007.

Ancora plexiglass, con piume d’oca conciate, vernici acriliche  e resina epossidica per “Le Jardin feérique”,. 2006,  mentre nell’installazione “Verso N”, 2003, di 5 componenti,  a tale materiale di base unito a cartone museale è applicato smalto e colore acrilico, con il risultato di delineare “un orizzonte immaginario, un paesaggio spirituale attraversato da fasci di luce che si irradiano nello spazio riflettendo i colori della pittura”, leggiamo nella presentazione.  

Nel nostro andare a ritroso nel tempo torniamo agli anni ’90, rappresentati da una nutrita serie di opere, la più recente “La stanza di Penna”, 1999, un profilo cittadino  formato da copertine di libri in una luce che richiama il tramonto.

All’inizio del decennio “Gas”, 1990, un installazione di 20 tele frottage a olio su tela ognuna grande 110 cm di forma quadrata, con 6 elementi di oltre 3 m per 1,5 a intonaco e pigmenti colorati su struttura di metallo. Alla base sempre il concetto di spazio, questa volta attraversato da una materia invisibile, un’atmosfera indefinibile che la composizione propone all’osservatore.

Dello stesso 1990  “Per Noi – Acqua con polvere”, 100 piccoli elementi di cm 30 x 20 in  inchiostro di china su vetro e carta, pigmenti in polvere, nastro telato; e “Colorea”, una grande composizione cromatica di quasi 5 m x 3, in olio su legno .

Precedente di un anno le 3  lacche “Squadra Plastica”, 1989, 2 in poliestere su legno con acrilico, in una rosso, nell’altra blu,  la terza  in lacca e tempera alla caseina su legno.

Tra queste opere che segnano gli estremi del decennio abbiamo  “Facce di gomma”, 1992, altri 100 elementi di cm 25 x 12, quindi ancora più piccoli di quelli sopra citati di Per Noi”, e nello stesso anno “Faccia di gomma con copertina”, in lattice di gomma e cartone, garza e cementite, tempera vinilica. Oltre a un “Senza Titolo”, 1994, lunga 2 m in bronzo patinato  e bronzo nichelato.

Del decennio precedente 2 opere circolari, entrambe del 1985  del diametro di circa 1,5  m su legno, “Canto” in grafite,  e “Il pensiero dell’Alba” in tecniche miste, e una quasi quadrata del 1988 intitolata “Cure” in rame brunito e acciaio ramato, vernice acrilica e luce,  come materiale di base.

Abbiamo lasciato per ultime le due opere evocative di temi letterari “Ratto d’Europa”, 1996, in rame brunito dell’altezza di  2,60 m, e “Inferno, Purgatorio, Paradiso”, 1887,  un trittico di 3 piccoli elementi, ciascuno di cm 21 x 17, in lacca acrilica e colore vinilico su legno. 

E’ di trent’anni fa, una delle più la”remota” delle opere esposte conclude il nostro viaggio espositivo a ritroso nel tempo, ma è nella parte iniziale dell’itinerario artistico dell’autore.  Aveva allora trent’anni, essendo nato a Cosenza nel 1957, da molti anni lavora a Roma dove partecipa con il suo particolare concetto di spazio collegato alla superficie e di ambiente collegato al colore e alla luce anche a progetti multidisciplinari con architetti.

Delle opere esposte abbiamo voluto citare i materiali perché ci sembra un aspetto rilevante la sua ricerca da alchimista moderno. Sono tanti e combinati nei modi più diversi, ma tra tutti ci piace ricordare ancora l’approdo all’estrema semplicità materica delle “lastre in vetro extra chiaro argentato tipo ‘Safe mirror’, spessore 6 mm poggiate su pedana e infrante meccanicamente”, così la definizione tecnica: sono i vetri spezzati di “Passi”  che ci hanno emozionato nel ricordo del grande pavimento in vetri spezzati della Gnam.  Un’altra “Roma sparita” che non dimenticheremo.

I “S.I.L.O.S.” di Fortuna

Molto diversa nella concezione oltre che, ovviamente nel contenuto, la mostra di Pietro Fortuna. Infatti non è  cronologica trattandosi di opere realizzate appositamente per la mostra nel 2017, ma antologica delle tematiche affrontate dall’artista.

Per questo viene presentata come “un osservatorio che mette in luce come per Pietro Fortuna il processo e l’ideazione siano stati sempre preminenti rispetto all’esito”; nelle 33 opere esposte “si condensa il senso del fare come prassi e come nucleo teorico, come rivendicazione di autonomia, come possibilità, e diritto, dell’arte a essere improduttiva”.  La preminenza del “processo”‘ che segue l’ “ideazione” rispetto al risultato, valorizza il lavoro artistico dell’autore dell’opera, il “fare” indipendentemente dalla conclusione.

C’è un pensiero filosofico dietro questa impostazione, l’arte viene vista come “forma del divenire”, libera e senza vincoli legati ad una conclusione prevista, così può distinguersi nettamente dalla produzione anche culturale che è finalistica, tendente al risultato. 

L’artista non deve progettare ma “fare”  senza conoscere in anticipo lo sbocco del suo lavoro, quindi senza elaborare un progetto che lo vincolerebbe e senza venire incalzato dall’attesa della conclusione con il compimento dell’opera.

Quindi si ha una totale indipendenza dal tempo inteso come misura della durata del  lavoro artistico, come ha scritto nel 1995 Rocco Ronchi: “Il ‘fare’, qui come altrove, è un gesto compiuto che non domanda nulla al tempo pur impiegandolo”, e riferendosi espressamente alle opere dell’artista ha aggiunto: “E’ a questa loro sorprendente indipendenza dal tempo che tali forme del fare devono quel loro senso di quiete, di perfezione e di inutilità che infondono nell’osservatore”.

Sul senso di “inutilità” si potrebbe discutere, perché i Silos sono l’immagine concreta di depositi di merci non utilizzate nell’immediato ma in quanto necessarie richiedono di essere stipate in scorte per l’emergenza; la “quiete” è  invece indiscutibile, la movimentazione in genere non è continua.

La presentazione scava ancora di più nei significati reconditi di una forma artistica particolare e di un pensiero che sconfina nella filosofia: “L’ umanesimo di Fortuna si distanzia da quell’individualismo che si realizza nella dialettica tra interrogazione privilegiata e risposte necessarie. Forse in questo si trovano le ragioni del suo pensiero: il fare coincide con il tempo e lo spazio per una cerimonia più vicina alla vita, a come questa si mostra”.

Troviamo questo orientamento nella biografia dell’artista, che ha studiato filosofia ed architettura. Nato nel 1950 a Padova, ha una notevole esperienza internazionale, non solo si sposta  tra Roma e Bruxelles, le due città in cui vive, ma dopo aver lavorato da giovanissimo a scenografie nei più grandi teatri italiani – La Scala di Milano, la Fenice di Venezia e il San Carlo di Napoli – negli anni ’80, tra i 30 e i 40  anni,  lo troviamo alla XVI Biennale di San Paolo e alla XII Biennale di Parigi, al Kunstverein di Francoforte e alla Kunstler House di Graz,  oltre a Ville Aston a Nizza e alla Galleria Comunale d’Arte Moderna a Bologna.

Nel decennio successivo, siamo agli anni ’90, eccolo con installazioni e opere di grandi dimensioni al Palais de Glace di Buonos Aires e al Museo d’Arte Moderna di Bogotà e a Le Carré Musée Bonnat di Bayonne, oltre che alle gallerie d’Arte Moderna di San Marino e Roma e al Museo Pecci a Prato.  Le presenze più recenti lo vedono al Watertoren, Centre for Contemporary Art di Vissingen e al Tramway di Glasgow, in Italia a Carrara alla XII Biennale Internazionale di Scultura e a Napoli alal Fondazione Morra, e soprattutto a  Roma al  Macro, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  e alla Quadriennale, dove

La sua vivacità intellettuale lo ha portato a fondare, negli anni ’90, una sorta di cenacolo culturale, se è lecito questa definizione datata per il luogo d’incontro tra moderni protagonisti nel campo dell’arte, della musica e del pensiero, citiamo Pistoletto e Kounellis, Philip Glass e Jan Fabre, Carlo Sini e Kankell, “Opera Paese” è il nome di questo stimolante laboratorio culturale.

Il quadro che abbiamo tracciato con le notizie disponibili farebbe pensare a opere cerebrali, con intitolazioni particolarmente elaborate, criptiche, da decifrare. Tutt’altro. Vediamo 6 grandi cilindri, sono i suoi Silos, o meglio S.I.L.O.S., sembrano effettivamente tali,  “Senza Titolo”, anche se si intravvedono delle scritte identificative.

A fronte di questi 6 grandi contenitori in materiali vari, in media di 3 metri per 3,  le opere in lambda su carta, 11 piccolissime, di 24,5 x 31cm applicate all’alluminio, e  3  più grandi di 80 x 115 cm,  tutte “Senza Titolo” anch’esse; e non sono intitolati i 3 collage su carta di 1 m per 80 cm circa, le 2  grafiche inchiostro su carta di 180 x 140 cm e l’opera in acciaio, PVC e carta alta 160 cm.

Vi sono 3 eccezioni all’assenza di titoli, la più recente, del 2017 come tutte le altre fin qui citate, in legno e oggetti vari per un’estensione di 12 metri, intitolata  “Picnic”; le altre 2 sono a matita e inchiostro su carta, i titoli intriganti:“All forward, full speed ahead”, 2016, che fa pensare a un messaggio futurista,  e “Think not that”, 2011, che fa semplicemente pensare.

Come tutta la sua opera, quale che sia la percezione e il giudizio del visitatore, non lascia indifferenti e pone molti interrogativi. In ogni caso è un bel risultato sorprendere e  far riflettere.

Museum Beauty Contest, i vincitori nel gran finale alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna il 27 marzo 2017 c’è stata la proclamazione dei vincitori del Museum Beauty Contest, il premio alla Miss e al Mister dei Ritratti esposti in competizione dal 21 febbraio e in mostra fino al 1° maggio 2017. Si è svolto il “Gran finale”, nel Salone centrale con tutt’intorno sulle pareti i 70 Ritratti selezionati, mentre i due Ritratti scelti dai visitatori in sei mesi di votazioni  sono stati posti sui podi dei vincitori, tra il lancio di coriandoli d’oro.. 

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E’ stato uno  spettacolo di marca teatrale con un omaggio a Luchino Visconti, una coppia di attori nelle vesti del gran ballo del “Gattopardo”, mentre  i personaggi in lizza sono stati fatti rivivere in una originale pantomima che ha visto  la simbolica rinuncia al premio di Giuseppe Verdi – nel ritratto  di Boldini – le cui musiche  hanno accompagnato lo spettacolo insieme a quelle di Wagner, quasi a voler riproporre la loro rivalità nel clima competitivo del Beauty Contest.

La Miss, risultata vincitrice per i Ritratti femminili è “Maria Sogni”,  ritratto che  prima del “battesimo” di Paco Cao è intitolato “Sogni”, per sottolineare l’espressione sognante della giovane donna resa dall’artista. Il vincitore nella categoria dei Ritratti maschili, il Mister, è “Giuseppe Nudo”, con lo sguardo  a terra e le braccia aperte come se volasse. 

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Sono gli ambasciatori per il 2017 della Galleria Nazionale, e in effetti si distaccano da tutti gli altri ritratti, la maggior parte dei quali aventi il crisma dell’ufficialità nella positura  e nell’abbigliamento, tranne le opere di Modigliani e Savinio, De Chirico e Boccioni per le donne; Van Gogh e Pistoletto per gli uomini.

Del proclamato Mister Galleria Nazionale 2017  colpisce la figura atletica del corpo nudo scolpito dalla luce in contrasto con lo sfondo scuro, un effetto caravaggesco di caratura artistica e valenza spettacolare; della Miss Galleria Nazionale 2017 l’intensità espressiva insieme alla disinvoltura in una composizione fresca e ariosa.

Non hanno prevalso i personaggi ritratti, dato che i vincitori sono entrambi anonimi, né i maggiori nomi degli autori, il cosiddetto “Giuseppe Nudo”  è addirittura opera di un ignoto francese, “Sogni”  è di Vittorio Corcos, di cui è doveroso fornire  brevi notizie personali come avviene per i vincitori di ogni competizione.

Vittorio Corcos è nato nel 1895 a Livorno, si è formato a Firenze all’Accademia delle Belle Arti con Enrico Pollastrini,  ha soggiornato a Napoli nel 1878-79 con la guida di Domenico Morelli, del quale abbiamo giù citato le due opere esposte in mostra.

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Poi è stato a Parigi nel 1880-81, dove ha frequentato  in modo saltuario  lo studio di Lèon Bonnat, ritrattista della “Parigi bene”  che lo ha iniziato ai ritratti femminili da “Belle epoque”; un contratto di collaborazione di 15 anni con la casa d’arte Goupil lo ha mantenuto  in rapporto con l’ambiente artistico francese, così ha esposto al Salon dal 1881 al 1886. Nel 1887 ha sposato Emma Ciabatti Rotigliano,  ben inserita nei circoli letterari, che lo ha messo in contatto con Carducci e D’Annunzio, e si è stabilito a Firenze.

Ha dipinto  immagini femminili seducenti come “Ritratto di giovane donna”, 1895, e “Donna”;  altri suoi quadri sono ambientati in un paesaggio arioso  come “Sogni”, tra questi citiamo “Pomeriggio in terrazza” e “Regards vers la mer” con due soggetti  sereni e disinvolti, mentre ritroviamo l’intensità dello sguardo di “Sogni” in  “Jeunne fille au foulard jaune” e in un altro dipinto intitolato ancora “Donna” : invece è tenebrosa e aggressiva la figura di “La Morhinomane”. Sono opere non esposte nella mostra, in cui vi è solo “Sogni”, abbiamo voluto ricordarle per inquadrare l’artista, il cui “Autoritratto” del 1915, con un ‘espressione accigliata, si trova  agli “Uffizi”, nella sua città.

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Nei concorsi di bellezza, al premio principale si affiancano premi accessori,  ricordiamo  Miss Eleganza e Miss Cinema a fianco di Miss Italia.  Anche qui,  oltre a Miss Galleria Nazionale  abbiamo Miss Eleganza in “Maria Polymnia” (John Lavery,” Polymnia” 1909), non c’è Miss Cinema ma  Miss Simpatia in “Luce Balla” (Giacomo Balla, “Veli rosa. Ritratto di luce”, 1921). Oltre a Mister Galleria Nazionale c’è Mister Eleganza, il “Principe Aleksandr Ivanovic Barjatinskij” (Horace Vernet,” Ritratto del Principe Barjatinskij”  1837), e Mister Simpatia, “Giuseppe Uomo” (“Ritratto d’uomo”, 1936).

Paco Pao, ideatore e realizzatore della manifestazione,  ne ha filmato la conclusione, come ha fatto nelle altre fasi,  per un documentario che farà rivivere la sua residenza nella Galleria Nazionale con la realizzazione di un progetto così innovativo culminato nel “Gran finale” del  “Beauty Contest”. 

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Ci viene in mente quale ulteriore interesse presenterebbe un eventuale “Beauty Contest”  esteso alle altre Gallerie e musei con la partecipazione al concorso delle  vere  bellezze femminili e virili ben presenti nei Ritratti dipinti da tanti artisti; con l’alternativa tra un Beauty Contest complessivo oppure singoli concorsi per i grandi musei con il gran finale come per Miss Universo cui partecipano le Miss dei singoli paesi.

Una possibile variante potrebbe  essere un concorso sempre imperniato sulla bellezza nei Ritratti, ma con  in lizza anche  gli artisti, ciascuno dei quali presenterebbe idealmente i  propri “campioni”, cosa che consentirebbe anche di analizzare i diversi modi in cui la bellezza viene declinata nell’arte in base alle visioni personali e alle forme stilistiche.

Questa prima edizione, in effetti, ha mostrato un’eterogenità di presenze forse eccessiva, è come se ci si fosse dimenticati del “Beauty Contest”  per esporre quanto di immediatamente disponibile. Una selezione di Ritratti poco accurata, comunque da migliorare. Detto questo, tuttavia, non si può che salutare in modo positivo un’iniziativa così stimolante e innovativa.  

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00, gratuito per gli under 18, ridotto con il biglietto del MAXXI e i soci del programma CartaFRECCIA  di Trenitalia. L’articolo di presentazione della mostra è uscito in questo sito il 30 marzo 2017 con 22 immagini.  

Foto  Le immagini dei vincitori del Beauty Contest sono state tratte dal sito della Galleria Nazionale, si ringrazia la Direzione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Miss Galleria Nazionale 2017 Maria Sogni; segue Mister Galleria Nazionale 2017 Giuseppe Nudo; poi Miss Eleganza  Maria Polymnial,  e  Mister Eleganza il Principe Aleksandr Ivanovic Barjatinskijl; quindi Miss Simpatia Luce Balla e Mister Simpatia Giuseppe Uomo; in chiusura, un momento del “gran finale”, nella parete i Ritratti di Miss e Mister Galleria Nazionale 2017.

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Ebrei, la propaganda contro la “razza nemica” e la psichiatria persecutoria

di Romano Maria Levante

A Roma dopo una serie di mostre che hanno documentato l'”infamia tedesca” – dalla razzia degli ebrei, all’olocausto nei campi di sterminio – nei primi mesi del 2017  due esposizioni molto diverse in un virtuale gemellaggio, che fanno nuova luce sul delirio nazista e le propaggini fasciste. I prodromi dello sterminio sono documentati nella mostra “La Razza nemica. La propaganda antisemita nazista e fascista”, nella Casina dei Vallati al Portico d’Ottavia  presentata dalla Fondazione della Shoah nella “settimana della memoria”, dal 30 gennaio al 7 maggio 2017. Un’altra aberrazione odiosa sfociata nello sterminio, nella mostra “Schedati, perseguitati, sterminati. Malati psichici e disabili durante il nazionalsocialismo”, al Vittoriano, dal 9 marzo al 14 maggio 2017,  realizzata dalla  Società tedesca di psichiatria e psicoterapia su impulso di Frank Schneider, con una sezione sull’Italia curata dalla Società italiana di psichiatria.   


Le due mostre, oltre ad avere in comune la denuncia delle aberrazioni naziste e una sezione sull’adesione anche se parziale dell’Italia fascista, non si limitano alla ricostruzione storica nel segno della memoria di eventi terribili perché non tornino a verificarsi. Rispondono alla domanda angosciosa “come è potuto accadere?” con una accurata ricognizione storica; e ammoniscono in modo fermo a non sottovalutare ciò che può degenerare se non si ferma all’inizio. Il delirio nazista sulla superiorità della razza e l’esigenza di tutelarla, prese l’avvio da strumentali concezioni genetiche pseudoscientifiche,  poi divenne una valanga invadendo la società civile per preparare la criminale conclusione tragica della “soluzione finale” con la agghiacciante eliminazione di massa, così disumana e aberrante da suscitare angoscia e sgomento al solo ricordo. 

Entrambe hanno il patrocinio dell’Unione della Comunità Ebraiche Italiane, la prima è patrocinata anche dalla Presidenza del Consiglio, dalla Regione Lazio e da Roma Capitale, nonché dalla Comunità ebraica di Roma,e  realizzata da  C.O.R., Creare Organizzare Realizzare di Alessandro Nicosia, a cura di Marcello Pezzetti e Sara Beger. La seconda, che ha l’alto patronato del Presidente della Repubblica, è patrocinata dall’Ambasciata della Repubblica Federale di Germania con il sostegno  del Ministero degli Affari esteri tedesco, realizzata dalla Società tedesca di psichiatria il cui presidente Frank Schneider ne è stato l’ideatore, curatrice Petra Lutz;  e dalla Società italiana di psichiatria per la parte sull’Italia, curata da Andreas Conca e Gerardo Favaretto.  A parte la sezione italiana, la mostra, presentata per la prima volta nel 2014 al Parlamento di Berlino, si è tenuta già a Londra e Vienna, Osaka, Città del Capo e Toronto; dopo Roma, nel 2017-18, si trasferirà a Bolzano e Venezia, Genova e Milano.  

Un programma di visite, soprattutto di studenti delle scuole, è stato studiato per l’opportuna divulgazione e diffusione di queste conoscenze tra i giovani; in parallelo alla mostra sulla persecuzione dei malati psichici, conferenze e  incontri sui crimini nazisti e sulla malattia mentale, con rappresentazioni teatrali e cortometraggi di studenti sul tema e relative premiazioni.

La razza nemica nella propaganda mistificatrice

Iniziamo con la dichiarazione di intenti del presidente della Fondazione Museo della Shoah Mario Venezia: “Vogliamo che un numero sempre maggiore di persone capisca come sia potuto accadere che centinaia di migliaia di persone comuni abbiano potuto condividere e sostenere una delle pagine più tragiche e tristi della storia dell’umanità”. Un’accurata ricerca ha consentito di raccogliere una vasta documentazione visiva che fa comprendere come si sia “lavorato abilmente, e in modo insidioso, sulle popolazioni, arrivando a inoculare il veleno dell’odio verso l’ebreo mostrandolo in tutte le sue forme più dispregiative e arrivando a convincere le persone che l’ebreo, mostrato costantemente con il naso adunco e dai modi ambigui e striscianti, fosse il colpevole di qualsiasi cosa negativa avvenisse nel mondo”.

Si è creata così la “razza nemica” agli occhi della società civile, per cui non ci si deve sorprendere se all’atto della criminale e disumana degenerazione dal dileggio alla deportazione fino all’eliminazione di massa  non ci sia stata un ripulsa proporzionata alla spaventosa gravità di ciò che si stava commettendo, anzi “centinaia di migliaia” di persone vi hanno avuto un ruolo attivo, soprattutto in Germania. Limitarlo all’ideologia delirante nazista diventa riduttivo essendovi coinvolti strati ben più vasti della popolazione,  proprio perché era stato inoculato il “veleno dell’odio verso l’ebreo” di cui parla Venezia.

E come è stato possibile questo? Con l’arma della propaganda, sottile e subdola, che in determinate forme può diventare subliminale, entrando nell’inconscio oltre ogni difesa cosciente.

Tale propaganda si è avvalsa di tutti gli strumenti più avanzati a disposizione dei mezzi di comunicazione di massa dell’epoca. Li abbiamo visti alla presentazione della mostra visitandola con la guida appassionata del curatore Marcello Pezzetti, sono strumenti di una demonizzazione sistematica che ha sfruttato ogni possibilità di penetrare in profondità nel corpo sociale cominciando  dall’età più giovane e indifesa:per mettere alla berlina fino a crocifiggere il “nemico” ebreo. 

Il cinema è stato utilizzato a tal fine, come  nelle due opere del 1940: “Jud Suss”, di Veit Harlan, e il documentario “Der ewige Jude”, di Fritz Hippler, diffuso anche in Italia con il titolo “L’ebreo errante”, considerato “il prodotto più violentemente antisemita del Terzo Reich, una vera e propria metafora dell’antisemitismo nazionalsocialista”. Vediamo  scene in apparenza accattivanti aventi lo scopo di suscitare non una reazione cosciente bensì una lenta,  inesorabile assuefazione.

Ma c’è di più sotto questo profilo. E’ quanto mai eloquente la ricerca sull’istigazione subdola all’odio antiebraico mediante una serie di elementi presenti nella vita quotidiana di tutti, quindi familiari e per questo più penetranti.  Perfino il libretto dell’assicurazione di malattia con la scritta “Meidet judische Arze”, cioè “Evitate i medici ebrei”, cartoline e timbri con scritte antiebraiche, riproduzione dei manifesti della mostra antisemita “Der ewige Jude” , “L’ebreo errante”, come il  documentario  prima citato.  Inoltre  un’oggettistica che sarebbe banale se non si riferisse a una etnia perseguitata e non  nascondesse intenti perversi riproducendo le fattezze caricaturali con cui veniva applicato un naso adunco al volto spacciato per quello dell’ebreo: così lo schiaccianoci, così i bersagli umani  nel Luna Park da abbattere con le palline, così i boccali di birra con scene irridenti.   

La collezione privata di oggetti del periodo nazista di Wolfgang Haney è quanto mai eloquente, come l’altro materiale e i documenti che provengono dai maggiori archivi pubblici tedeschi e italiani, oltre che dalla Fondazione Museo della Shoah di Roma e dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.

Si va oltre queste che potrebbero sembrare curiosità, ma non lo sono, per scavare nel sottofondo culturale che ne è alla base, e riguarda la concezione delirante sostenuta con determinazione della superiorità della razza su altre presunte inferiori come quella ebraica, considerata tale pur essendo una religione, per il suo perpetuarsi in via ereditaria consolidando le proprie radici. Alle motivazioni socio-economiche sulla presunta avidità e sul prepotere a livello economico-finanziario, e a quelle culturali e religiose, si aggiungono concezioni pseudoscientifiche genetiche e biologiche, in una demonizzazione che viene da lontano: dall’antisemitismo europeo dei primi del ‘900, esasperato in Germania e trasmesso all’Italia dell’asse Roma-Berlino, fino alle leggi razziali del 1938. 

E’ del 1938 la rivista italiana “La Difesa della Razza”, dell’editore romano Tuminelli, diretta da Telesio Interlandi, che viene posta a confronto con la rivista tedesca “Der Turmer”, fondata 15 anni prima a Norimberga da Julius Streicher, alla quale è dedicata una intera parete con eloquenti riproduzioni dei titoli e degli articoli, come si fa per la rivista italiana citata.

La sezione “italiana” è contenuta ma eloquente, per certi aspetti rivelatrice e a conferma di quanto da molti è sottovalutato, cioè la penetrazione nel mondo intellettuale del razzismo antisemita. Si leggono affermazioni impensabili firmate da personaggi divenuti celebri nell’antifascismo, allora molto giovani e quindi permeabili alla subdola propaganda  e alle motivazioni che la sostenevano, per quanto fossero pseudoscientifiche fino a divenire visibilmente deliranti. Ma, in compenso, sono documentate anche le reazioni alla campagna propagandistica di chi ne colse la pericolosità.

Opportunamente la mostra si conclude evocando le terribili conseguenze di quella che altrimenti potrebbe sembrare una mistificazione grottesca per quanto deplorevole alimentata da una propaganda ossessiva ma fine a se stessa. Tutt’altro, le leggi di Norimberga del 1935, che istituirono   i ghetti, con l’isolamento degli ebrei dal resto della popolazione, crearono le premesse della deportazione nei campi di sterminio per la “soluzione finale” di un problema pur insensato, ma che  la propaganda assillante e pervasiva di ogni strato sociale tendeva a rendere ossessivo.  

Dopo aver seguito passo passo il formarsi della palla di neve e il suo ingrossarsi fino a divenire una valanga, la mostra ricorda come si sia abbattuta in modo rovinoso su milioni di esseri umani indifesi, demonizzati in modo perverso dalla propaganda.

L’ammonimento valido anche per il presente che nasce da tutto questo è evidente. I mezzi di comunicazione di massa sono così pervasivi da poter diventare strumento di aberrazioni se usati in maniera distorta, lo sottolinea l’organizzatore di questa mostra, e di molte altre precedenti sul tema dell’ “infamia tedesca” al Vittoriano,  Alessandro Nicosia. Oggi come ieri e più di ieri, perché il rischio si è aggravato con la moltiplicazione dei social network via Internet a livello planetario. E’ un ammonimento su cui torneremo, perché viene anche dall’altra mostra, di cui parliamo subito. 

La tragica  persecuzione dei malati mentali in Germania

Come per la prima, per la seconda mostra iniziamo con una considerazione di carattere generale del suo  ideatore Frank Schneider – il presidente della Società tedesca di psichiatria, sul quale torneremo al termine – che assume un altissimo valore morale: “La dignità umana è sempre la dignità del singolo individuo e nessuna legge ci può obbligare a venir meno a questo principio”.

E cita le parole di Gustav Radbruch, il quale nel 1946 sostenne che quando la legge positiva entra in contrasto con il più alto concetto di giustizia, e non con le concezioni personali, è “la legge, in quanto ‘diritto errato'”, che deve “cedere il passo al senso di giustizia”; non solo, ma “quando poi il concetto di giustizia come fine ultimo della legge non viene neppure preso in considerazione, quando viene imposto un diritto positivo che deliberatamente rinnega il principio di uguaglianza, che è l’essenza stessa della giustizia, allora le leggi non solo si presentano come ‘diritto errato’ bensì perdono la stessa natura di diritto”.  

Tutto questo nasce dalla ricostruzione di come poté avvenire che centinaia di migliaia di individui fossero eliminati sulla base di motivazioni attinenti anch’esse alla difesa della razza;. Ma questa volta per preservarla non dalle contaminazioni di altre etnie ritenute sconsideratamente inferiori, o scomode, come gli ebrei;  bensì dall’indebolimento dovuto alla presenza all’interno della razza ritenuta eletta, di malati psichici e disabili che dovevano perciò essere neutralizzati fino ad essere eliminati.

E’  la degenerazione dell’ “eugenetica”, che nel Terzo Reich divenne “igiene razziale”, secondo cui “doveva essere eliminato il debole affinché il forte potesse diventare ancora più forte”.

L’ “eugenetica” già dalla fine dell’800 aveva preso piede in Europa, nell’impero tedesco, nei paesi scandinavi e anglosassoni, tanto che nel 1914 nel Parlamento tedesco fu presentato un disegno di legge “sulla sterilizzazione e sull’interruzione di gravidanza” per i malati mentali che non fu approvato solo perché scoppiò la prima guerra mondiale; ma nel luglio 1933 fu approvata la “Legge per la prevenzione della prole con malattie ereditarie”, con la sterilizzazione forzata a “protezione delle future generazioni”, che Schneider definisce “un modo perverso di giustificare le sofferenze inflitte a una singola persona in funzione di un futuro ipotetico benessere degli altri”.  

Nella legge le malattie mentali furono classificate come ereditarie insieme ad  altre menomazioni, e chi ne era affetto non poteva procreare per non indebolire il “corpo della nazione germanica”. Anche in altri paesi era prevista la sterilizzazione, ma solo in Germania questa poteva avvenire contro la volontà della persona, perché vi fosse, sono parole della legge, “l’esistenza in ogni momento di un numero sufficiente di famiglie numerose, geneticamente sane e preziose per il popolo  tedesco da un punto di vista razziale”.

Era già una terribile violazione del diritto all’integrità fisica e della dignità personale, ma si trattava solo dell’inizio. Con l’invasione della Polonia del 1939  Hitler decretò il programma di “eutanasia” con la schedatura dei malati negli ospedali psichiatrici ai fini della loro selezione in base all’utilità”, cioè alla capacità di lavoro; seguì l’eliminazione.

Con l’operazione denominata T4 venivano prelevati dagli ospedali e portati su autobus grigi in sei istituti psichiatrici forniti di camere a gas per lo sterminio sistematico e programmato.  Non solo, molti pazienti venivano usati come cavie per ricerche seguite dalla loro uccisione con relativa autopsia, ciò avveniva anche su adolescenti e addirittura bambini, orrore nell’orrore.

Risultato: nel 1934 iniziò la schedatura dei soggetti con “difetti ereditari”, poi venne la sterilizzazione forzata di 400.000 cittadini tedeschi uomini e donne, con patologie, soprattutto mentali, ritenute incurabili ed ereditarie; quindi l’escalation dell’orrore, che  raggiunge il culmine  tra il 1939 e il 1945 con l’eliminazione di  200.000 ricoverati negli ospedali psichiatrici tedeschi,   sempre per la folle difesa della razza della delirante ideologia nazista. Anche i bambini minorati psichici o fisici furono perseguitati, i morti furono ben più dei 5.000 finora accertati.

Tutto questo viene documentato nella mostra in 50 pannelli con fotografie dei responsabili e dei loro complici  e dolenti immagini e delle vittime, vediamo bambini che inteneriscono, storie raccapriccianti e biografie, documenti e  immagini dell’orrore divenuto pratica burocratica.  

La situazione in Italia,  e  l’ammonimento della Società italiana di psichiatria .

C’è anche una sezione italiana, al piano superiore della sede espositiva, assolutamente inedita, aggiunta alla mostra itinerante tedesca, nella quale viene documentata la morte di circa 30.000  persone ricoverate nei manicomi, e la deportazione in Germania di molti malati mentali dagli ospedali psichiatrici del Settentrione. Nessun programma italiano di eliminazione e neppure di sterilizzazione forzata, ma i tanti morti per inedia, abbandono, incuria, oltre alle deportazioni, indicano che pur senza raggiungere i vertici dell'”infamia tedesca”, il virus dell’ “eugenetica”  aveva infettato anche la psichiatria italiana, che oltretutto diede il suo avallo scientifico alle leggi razziali.

Va precisato che la psichiatria italiana sotto il fascismo fu sempre contraria all’uccisione dei malati, a differenza della psichiatria tedesca che ne fu strumento decisivo, come vedremo. Ma la Società italiana di psichiatria con la presidenza di Arturo Donaggio fu  l’unica entità scientifica a legittimare le leggi razziali, un atto questo che dalla stessa società viene definito oggi “una drammatica violazione dell’etica scientifica da parte di chi si deve prendere cura delle persone”.   

Il suo presidente, Claudio Mencacci, che ha diretto il progetto espositivo, ha dichiarato solennemente: “Facciamo ammenda per allora. Mai più dovrà accadere una così grave e dissennata offesa all’essere umano. Il rispetto e la dignità del malato e della persona sono motivo centrale della nostra pratica linica”.  E ha avvertito sui rischi sempre incombenti quando il clima di forte  malessere sul piano economico e sociale, con l’aggressività e la violenza che porta con sé, rendendo più vulnerabile il corpo sociale  può far degenerare la paranoia  –  disturbo della personalità che affligge il 2-4%  della popolazione – da individuale a collettiva  con conseguenze deleterie che nel delirio nazista hanno avuto una manifestazione  tragica e perversa che potrebbe riprodursi. “Purtroppo bastano appena quattro generazioni perché tutto sia dimenticato, perché le posizioni razziste e stigmatizzanti prese 70 anni fa siano considerate lontane, irripetibili”.  

Bernardo Carpiniello, presidente eletto della stessa Società italiana di psichiatria aggiunge: “La nostra mostra può e deve essere un’occasione per meditare soprattutto sul presente, perché i segnali di una ‘febbre’ che sta salendo nel mondo ci sono tutti e credere che quanto è accaduto non possa tornare è un’illusione… dimentichiamo spesso come sia veloce il passaggio da una democrazia a una democrazia limitata”, quindi all’autoritarismo e alla dittatura, come quelle del “secolo breve”.  

La svolta nella Società tedesca di psichiatria e nelle leggi tedesche

Un discorso a parte merita la Società tedesca di psichiatria, la cui storia è molto più tormentata di quella della Società italiana, perché è stata corresponsabile in modo diretto delle gravissime vicende documentate dalla mostra: schedatura, sterilizzazione ed eliminazione di massa di malati mentali.  

Il riconoscimento che erano state compiute queste  nefandezze è stato tardivo, sia da parte di tale autorevole istituzione che da parte della politica e della società civile tedesca. A denunciarlo con parole che più forti non potrebbero essere è stato  Frank Schneider nel novembre 2010, allorché è intervenuto da Presidente della Società  tedesca di psichiatria e psicoterapia a Berlino, alla commemorazione delle vittime, ricostruendo senza omissioni il cosiddetto “programma di ‘eutanasia’” e la sua bestiale esecuzione  citando luoghi, fatti  e persone, insigni psichiatri, e denunciando che una cinquantina provvedevano alla selezione dei condannati all’eliminazione. 

Ebbene, nonostante questi comportamenti criminali, alcuni di loro hanno occupato nel dopoguerra cariche di vertice nella Società tedesca  di psichiatria:  Presidenti o membri onorari. Non è stato per disattenzione oppure per aver saputo celare le loro responsabilità individuali, il crimine stesso non veniva riconosciuto, Schneider lo denuncia apertamente: “Dopo la guerra, in campo psichiatrico, avvenne ciò che era avvenuto anche in altri ambiti della vita nazionale. Si verificò una gigantesca opera di rimozione, per cui le società psichiatriche come i singoli psichiatri – a parte alcune eccezioni – non raccontarono quanto era accaduto. Di questo oggi proviamo vergogna e sgomento”.

Metà dei medici tedeschi era inquadrata in organizzazioni naziste, l’altra metà poteva resistere. Nel periodo della persecuzione una parte dei medici di famiglia, per il loro più stretto rapporto con i pazienti, non denunciava i malati nonostante l’obbligo di legge; mentre gli psichiatri apertamente dissenzienti venivano allontanati o costretti a lasciare la Germania, Poi, nel dopoguerra, all’inizio degli anni ’70, i primi studi sull’ “eutanasia” nazista, dieci anni dopo gli studi divennero più seri e approfonditi, ma i tentativi di “raccontare i fatti furono impediti o ostacolati”. Solo dopo altri dieci anni la Società tedesca di psichiatria manifestò “il disgusto e il cordoglio rispetto all’olocausto di malati mentali, ebrei e altre persone perseguitate”, tuttavia senza ammettere coinvolgimenti.   

Omertà nel tentativo di salvare la reputazione della psichiatria tedesca?  Indubbiamente,  il responsabile medico della famigerata operazione T4, pur se perseguito, fece addirittura carriera come perito giudiziario sotto falso nome nello Schleswig-Holstein,  coperto da medici e giuristi che ne conoscevano l’identità. x 

Ma non solo, la denuncia di Schneider va ben oltre e investe l’intero mondo politico con citazioni precise. 1965: “Legge sul risarcimento delle vittime della persecuzione nazista”, non potevano beneficiarne i sottoposti alla sterilizzazione forzata né le famiglie delle vittime della criminale operazione “con la motivazione che non erano stati perseguitati per motivi razziali”, e l’aggravante che i periti della Commissione parlamentare per il risarcimento ” erano in parte gli stessi che durante il nazionalsocialismo avevano giustificato la sterilizzazione forzata e che avevano collaborato alle azioni di uccisione”.  

1974: viene finalmente sospesa dal Parlamento tedesco, dopo quasi trent’anni dalla fine del nazismo, la “Legge per la prevenzione della prole con malattie ereditarie” alla base degli orrori dell'”eutanasia” criminale; sospesa soltanto, si dovrà attendere addirittura il 2007 per la sua abolizione formale in quanto incostituzionale, cosa che l’ha resa illegittima fin dall’atto della nuova Costituzione. 1988: anche qui meglio tardi che mai, il Bundestag dichiara finalmente che le sterilizzazione forzate ai sensi della legge del 1933 “erano da considerarsi ingiustizie di stampo nazista”: ingiustizie, però, non crimini, termine che appare più appropriato.   

Tutto a posto finalmente, pur dopo questi colpevoli ritardi?  Nient’affatto, ecco la denuncia di Schneider: “Continua, invece, a vigere inalterata la ‘Legge federale sul risarcimento delle vittime‘ del 1965. Per questo motivo, fino ad oggi, le persone sottoposte a sterilizzazione forzata e i malati di mente assassinati non sono riconosciuti come vittime”. E afferma: “Qui la politica dovrebbe intervenire prima che sia troppo tardi. Solo eliminando questa ingiustizia, la sofferenza continua delle vittime e il loro tragico destino sarebbero degnamente riconosciuti dallo Stato tedesco”. E sarebbe ora!

Da parte sua, per impulso dello stesso Schneider, la Società tedesca di psichiatria nel 2010 ha istituito una Commissione internazionale per l’indagine della storia dei predecessori alla sua guida sotto il nazismo per fare piena luce sul loro coinvolgimento nei crimini; non solo, ma è stata stabilita una seconda fase di indagine relativa al dopoguerra per far luce sulle colpevoli omertà. Ora vogliamo riportare le parole sconvolgenti usate da Schneider nell’aprire il vaso di pandora della psichiatria tedesca sotto il nazismo e anche dopo, più eloquenti di qualsiasi commento.  

L’esordio:  “Sotto il nazionalsocialismo gli psichiatrici, con disprezzo dell’essere umano, hanno tradito la fiducia dei pazienti che erano stati loro affidati, ingannando in modo atroce sia loro che i familiari e arrivando perfino a ucciderli. Perché ci  abbiamo messo tanto tempo per trovare il coraggio di guardare in faccia questa realtà? Abbiamo scotomizzato e negato per troppo tempo una parte cruciale del nostro passato. Di questo ci vergogniamo profondamente. Altrettanto vergognoso il fatto che neppure dopo il 1945 noi, come Società tedesca di psichiatria, abbiamo dato solidarietà alle vittime. Peggio ancora: siamo stati responsabili della loro ulteriore discriminazione”. 

Poi prosegue: “Le vicende della psichiatria sotto il nazionalsocialismo costituiscono uno dei capitoli più bui della disciplina. In questo periodo, gli psichiatri e i rappresentanti delle loro associazioni hanno ignorato e atrocemente reinterpretato il loro dovere professionale di curare e guarire. La psichiatria si è lasciata corrompere e a sua volta ha corrotto: invece di curare uccise. Perse la consapevolezza dei propri obblighi verso il singolo individuo: in nome di un ipotetico progresso … gli psichiatri fecero ricorso alla violenza e uccisero un numero enorme di persone…”.   L’insegnamento: “Che questo ci serva da ammonimento nel nostro lavoro quotidiano per non perdere mai di vista i pazienti di cui ci occupiamo e che curiamo! Loro, e solamente loro, devono essere la bussola del nostro comportamento, non le ideologie predominanti nella società. Solo i singoli individui”.  

Ee ecco la conclusione: “A nome della società tedesca di psichiatria e psicoterapia chiedo perdono alle vittime e ai loro familiari, per la sofferenza causata e le ingiustizie subite ai tempi del nazionalsocialismo a opera di psichiatri tedeschi e della psichiatria tedesca, e per il fatto che la psichiatria tedesca nel dopoguerra abbia taciuto, sminuito e rimosso quanto era accaduto per un lasso di tempo in accettabilmente lungo”.

Non solo questa conclusione ma l’intero intervento di Schneider il 23  novembre 2010 fu adottato all’unanimità come documento ufficiale della Società tedesca di psichiatria e psicoterapia.

La catarsi si è così compiuta.     

Info 

Museo della Shoah, Casina dei Vailati, Roma, via del Portico d’Ottavia, 29. Da domenica a giovedì ore 10-17, venerdì 10-13, chiuso sabato e nelle festività ebraiche; ingresso gratuito.  Complesso del Vittoriano, Roma, Via San Pietro in carcere, lato piazza Ara Coeli.  Tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30, da venerdì a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura; ingresso gratuito.   Catalogo della mostra al Museo della Shoah: “Vite spezzate. 80° Leggi razziali”, a cura di sara Berger e Marcello Pezzetti, Gangemi Editore International  pp. 240, formato  17 x 24; dal Catalogo sono tratte le notizie e le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli: per le altre mostre sul tema, in questo sito, “Ebrei romani, 70 anni dopo l’ ‘infamia tedesca’”  24 novembre 2013, e “Roma, la liberazione del 1944 dopo 70 anni”   5 giugno 2014; in www.visualia.it , “Roma. I ghetti nazisti, fotografie shock  al Vittoriano”  27 gennaio 2014, “Roma. Ombre di guerra all’Ara Pacis”  2 febbraio 2012; “Roma. In mostra le fotografie dello sbarco di Anzio”, 22 giugno 2014″  21 gennaio 2012in “cultura.inabruzzo.it”  “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010, e “Scatti di guerra alle Scuderie”  8 agosto 2009.  (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasteriti su altro sito, verranno comunque forniti a richiesta).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentzione delle due mostre, al Museo della Shoah e al Vittoriano, si ringraziano le direzioni delle due sedi espositive, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, la Locandina della mostra al Museo della Shoah, seguono 10 immagini  della documentazione esposta e commentata nel testo; poi la Locandina della mostra al Vittoriano, seguono 7 immagini della documentazione esposta e commentata nel testo; infine, in chiusura, due immagini di vetrine della mostra al Museo della Shoah.