Palazzo Barberini, due mostre per il rilancio della Galleria d’Arte Antica

di Romano Maria Levante

A Palazzo Barberini – che con Palazzo Corsini è sede della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Roma – il nuovo direttore dal novembre 2015 Flaminia Gennari Sartori ha dato avvio a una vasta operazione di rilancio con 3 mostre tematiche mirate all’approfondimento, secondo la nuova strategia dell’importante sede museale, profondamente rinnovata. Le prime 2 mostre, dall’apertura contemporanea il 12 gennaio 2017, sono state “Il pittore e il  gran Signore” sul “ritratto d’occasione” fino al 23 aprile, e “Mediterraneo in chiaroscuro” con alcuni caravaggeschi fino al 21 maggio; la 3^mostra, dal 15 marzo all’11 giugno 2017 è stata su “Venezia scarlatta”., la 1^ e la 3^ mostra curate da Michele Di Monte, la 2^ da Sandro Debono e Alessandro Cosma.. A Palazzo Corsini, da febbraio ad aprile 2017, l'”Omaggio a Daniele Da Volterra. I dipinti d’Elci”.

Nell’ambito di questa intensa attività espositiva, descriviamo le prime due mostre a Palazzo Barberini, riservandoci di  descrivere successivamente la terza mostra, “Venezia scarlatta” e di illustrare, oltre al  nuovo assetto della Galleria Nazionale d’Arte Antica, la sua storia affascinante,  che ha per protagoniste famiglie di Pontefici e perfino una regina, Cristina di Svezia.

Per ora ci limitiamo a citare le parole del ministro Dario Franceschini, artefice della riforma che ha portato alla scelta del nuovo direttore mediante un concorso internazionale: “Barberini e Corsini, le nuove Gallerie Nazionali di Roma, uno dei trenta musei autonomi introdotti con  la riforma del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, inaugurano il nuovo corso con l’inizio del riallestimento delle collezioni, della realizzazione di percorsi multidisciplinari e del sistema multimediale, con maggiori approfondimenti del percorso di visita del museo”. Mentre il direttore  Flaminia Gennari Sartori, riferendosi alla storia affascinante delle due gallerie, ha aggiunto: “E’ una storia che pochi musei al mondo possono raccontare in maniera così vivida in cui la dimensione materiale degli spazi storici e delle opere si intreccia costantemente a quella sempre in divenire degli allestimenti e dei percorsi multidisciplinari e multimediali, in un museo contemporaneo”.

Si inizia con gli approfondimenti tematici, intorno a un “focus” che per la prima mostra è il “ritratto d’occasione”, per la seconda il “Mediterraneo in chiaroscuro”, le esposizioni pongono a confronto su tali temi opere di grandi artisti provenienti dai maggiori musei attraverso un sistema di scambi.

Il Pittore e il gran Signore nel “ritratto d’occasione”

La tematica  del “ritratto d’occasione” è stata ispirata da un evento che si può definire anch’esso  occasionale, pur se molto significativo: nel 2016 lo Stato italiano ha acquistato dagli eredi della sua famiglia il “Ritratto del principe Abbondio Rezzonico”, 3 x 2 metri,commissionato a Pompeo Batoni, e realizzato nel 1766 per celebrarne l’ingresso nel Palazzo senatorio del Campidoglio come Senatore di Roma, il cui acquisto è stato destinato alle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma.

L’autore, figlio di un orafo di Lucca trasferitosi a Roma dal 1727, era il più rinomato pittore operante a Roma, soprattutto nel campo dei ritratti, a lui si rivolgevano i visitatori della città eterna, in particolare i viaggiatori  inglesi nel loro Grand Tour in Italia, per essere raffigurati..

Il personaggio ritratto era un nobile veneziano, nipote di papa Clemente XIII, vissuto tra il 1742 e il 1810, e assurto ala dignità molto prestigiosa di senatore capitolino nel 1765. Pertanto il pittore la raffigura in una loggia aperta sul Campidoglio, nei paludati abiti ufficiali in una posa autorevole con in mano lo scettro d’avorio, dietro di lui la statua protettiva della dea Roma. Bene in vista intorno a lui i simboli del potere legato al rango istituzionale: la spada e il fascio littorio espressione della giustizia innanzi a tutto, poi la bilancia come segno dell’equità e la palma d’olivo segno della clemenza per moderare l’esercizio del potere.

Nella presentazione è stato definito “un vertice assoluto della ritrattistica settecentesca, superlativo tour de force” tecnico e virtuosistico, sfarzosa effigie personale ma non meno icona rituale. Per queste caratteristiche il ritratto è divenuto il simbolo del clima civile e culturale in una città che viveva ancora nei fasti dell’antichità e su questi modellava le celebrazioni istituzionali. mentre cominciavano a profilarsi i radicali cambiamenti indotti dalla modernità: non va dimenticato che il ‘700 è il secolo della rivoluzione industriale, soprattutto per gli inglesi che abbiamo prima citato.

Gli altri 5 “ritratti d’occasione” dipinti negli stessi anni ed esposti in mostra, consentono di porre a confronto i diversi modelli di autorappresentazione e i relativi cerimoniali, dal Pontefice ai “milord” in visita alla città di Roma, sede del potere religioso e meta dei “Grand tour ” dei paesi europei.

Tre di questi ritratti sono ancora di Pompeo Batoni, e – come il nuovo acquisto che abbiamo appena citato – fanno parte della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Antica e sono significativi della rappresentazione di altre tre condizioni: dopo il senatore capitolino come personaggio politico, vediamo il console del Granducato di Toscana come personaggio nobiliare, quindi il baronetto inglese come viaggiatore prestigioso e infine il clou del personaggio religioso, addirittura il Papa.

Il “Ritratto del conte Niccolò Soderini”, 1765, mostra il console del granducato, che era anche collezionista d’arte, con un tavolo, dei documenti e un orologio che segna l’una dopo la mezzanotte, simboli dell’intesa attività, anche a favore degli esuli della famiglia Stuart e di una loggia giacobita.

Mentre il “Ritratto di Sir Henry Peirce”, 1775, presenta il baronetto, che era anche parlamentare,  in una posizione che si ritrova in altri ritratti dell’artista che spesso raffiguravano viaggiatori inglesi – su uno sfondo all’antica, quindi da viaggiatore nella città eterna. Le quotazioni dei suoi ritratti erano sostenute ma molto inferiori, dell’ordine di un terzo, rispetto a quelle del pittore inglese Sir Joshua Reynolds, perciò gli inglesi approfittavano del viaggio in Italia per farsi fare il ritratto da lui.

Ed ecco il “Ritratto di Clemente XIII Rezzonico”, 1760 – il papa zio di Abbondio Rezzonico che, come abbiamo detto, fu ritratto nel 1766, appena divenuto senatore – raffigurato in piedi mentre benedice con il braccio in alto, senza imporre soggezione ma con un’espressione bonaria nel viso.

Viene considerato quasi in sequenza con l’opera dallo stesso titolo di due anni prima, di Anton Raphael Mengs, il “Ritratto di Clemente XIII Rezzonico”, 1758, dalla Pinacoteca di Bologna, che ritrae il Pontefice appena eletto,  seduto nel trono con la veste bianca e il camauro, la sola e la mozzetta, mentre guarda verso  lo spettatore con un cenno benedicente, vicino a lui il suo scrittoio, dietro una colonna marmorea. La solennità papale è contemperata dalla benevolenza pastorale, vi è distacco e anche vicinanza, comunque con maggiore solennità rispetto al successivo ritratto di Batoni.

Mengs, di origine boema, si fermò ripetutamente a Roma, oltre che in alter città italiane, in Germania e Spagna, era un ritrattista di talento, in concorrenza con Batoni, viene considerato uno dei maggiori esponenti del Neoclassicismo, non solo come pittore ma anche come critico.

La mostra si chiude con il “Ritratto di Sir Robert Clive”, 1766,. anche questo della collezione di Palazzo Barberini, di Anton von Maron, di Vienna, trasferitosi definitivamente a Roma nel 1755 dove fu  allievo di Mengs e ne sposò la sorella, anch’egli ritrattista apprezzato in particolare dai viaggiatori nel loro Grand Tour, come Batoni e Mengs. Il dipinto raffigura il governatore del Bengala, molto conosciuto come “Clive of India”, in un’ambientazione orientale che crea un’atmosfera esotica, sebbene sia stato realizzato a Roma come è scritto nella firma con l’anno.

Mediterraneo in chiaroscuro, da Roma a Malta

A differenza della mostra precedente, in cui dei 6 dipinti esposti 5 sono della Galleria Nazionale di Arte Antica e solo uno in prestito da Bologna, in questa mostra dei 18 dipinti esposti, ai 9 della collezione propria della Galleria Nazionale d’Arte Antica se ne aggiungono altri 9 provenienti dal Muza, l'”Heritage Malta”, il museo della capitale La Valletta, attualmente chiuso per la totale riorganizzazione in atto, con il quale è stata avviata una proficua campagna di scambi che, oltre a questo prestito maltese contempla il prestito italiano di altrettante opere per una grande mostra a Malta nell’ambito delle iniziative previste per il 2018 con l’isola Capitale europea della cultura. E’ la prima delle collaborazioni che seguiranno con i più importanti musei internazionali per valorizzare le collezioni diffondendone maggiormente la conoscenza con appropriati scambi.

Questa mostra intende ricordare proprio i legami artistici intercorsi in passato tra l’Italia e Malta: vi si trasferirono Caravaggio per due anni tormentati, dal 1606 al 1608, prima della tragica fine, e Mattia Preti, vi soggiornò dal 1661 fino alla morte nel 1699 portandovi il nuovo Barocco romano.

Intorno a questi grandi maestri le due sezioni dell’esposizione raggruppano le opere presentate, sempre nell’ottica dell’approfondimento tematico e stilistico cui sono rivolte queste nuove mostre. Sono mescolate le opere della collezione propria con quelle in prestito da Malta, che in molti casi riguardano gli stessi artisti, da de Ribera e Stoner a Matteo Preti presenti in entrambe le raccolte.

Tra i caravaggeschi spicca Jusepe de Ribera soprannominato “Spagnoletto” per le sue origini, trasferitosi prima a Roma quindicenne nel 1606, e poi a Napoli nel 1616 dove morì nel 1652 – che   fu colpito dalla pittura di Caravaggio adottandone lo stile ma in modo personale fino ad attenuare di molto i contrasti cromatici dal 1640.

Sono esposte a diretto confronto “Santo Stefano”, proveniente da Malta, e “San Gregorio Magno”, della Galleria Nazionale d’Arte Antica, entrambi tra il 1610 e il 1615 quando era ancora a Roma. Il primo, il santo diacono, ritratto con i simboli del sacrificio supremo, le pietre della lapidazione e la palma del martirio in un ambiente naturale riprodotto con molta cura sul quale si proietta dall’alto una sciabolata di luce. Mentre il secondo – commissionato dalla famiglia Giustiniani – ritrae il dottore della Chiesa ripreso in modo inusuale di spalle in una composizione dal taglio molto originale.

Di uno dei principali caravaggeschi fiamminghi, Mathias Stoner, vediamo 4 dipinti, di cui ben 3 provenienti da Malta. Tra le poche notizia sull’artista il suo soggiorno a Roma nel 1630, poi a Napoli, quindi in Sicilia dove visse per dieci anni diffondendo lo stile “a lume di candela”.

L’unica sua opera della collezione della Galleria Nazionale d’Arte Antica è “Sansone e Dalila”, 1630-31, realizzata a Roma con effetti luminosi di luce artificiale che danno drammaticità alla scena in cui Dalila addormenta Sansone per privarlo della sua forza tagliandogli i capelli nel sonno.

Delle 3 opere maltesi, anche “La parabola del Buon samaritano”, 1630-32, viene ricondotta al soggiorno romano;  non viene rappresentato il gesto caritatevole, ma l’assalto al viaggiatore mentre si allontana un sacerdote, e una figura a cavallo, una versione inconsueta senz’altro coraggiosa.

Le altre due opere, invece, evocano i due spostamenti successivi. “Adamo ed Eva piangono Abele morto, 1632-35, è stato dipinto a Napoli, colpiscono i modi contrapposti in cui i genitori piangono il figlio esangue, Eva con gli occhi rivolti verso l’alto e le mani giunte, Adamo con lo sguardo basso e le braccia aperte.

Al periodo siciliano appartiene la “Decollazione del Battista”, 1640-45, in un controluce caravaggesco con la luce di una torcia che fa risaltare il corpo del santo nel momento in cui viene decapitato e il vestito di Salomè con in mano il piatto in cui porterà la testa del santo ad Erodiade.

La luce artificiale aveva un tale rilievo nella pittura dei caravaggeschi che una serie di dipinti – realizzati dal 1630 al 1650 il cui autore è rimasto sconosciuto – con le scene notturne a lume di candela è stata attribuita nel 1960 da Benedict Nicolson a un ipotetico “Candlelight Master”. Con tale nome e tale illuminazione vediamo esposta “Vanitas”, immagine allegorica con lo specchio, il teschio e la lanterna fonte della luce caravaggesca.

Stesse caratteristiche in “San Girolamo”, 1630-35, tipico soggetto caravaggesco ripreso con il manto rosso mentre scrive. Autore Trophime Bigot, entrato anch’egli in contatto con la pittura di Caravaggio in un viaggio in Italia, e soggiorno a Roma, tra il 1620 e il 1634, la cui figura nell’attribuzione delle opere al lume di candela si intreccia con l’anonimo che ne ha preso il nome, e con un altro artista dello stesso genere, Jacomo Massa.

Tra i caravaggisti olandesi spicca Hendrick Ter Brugger, anch’egli entrato in contatto con Caravaggio e i seguaci a Roma tra il 1604 e il 1614, rientrato ad Utrecht realizza dipinti realistici con forti contrasti di luci e ombre, spesso su temi musicali. Nella mostra è esposto “Duetto”, 1629, un concerto a due con una figura maschile e una femminile, a composizioni di questo tipo viene dato un significato allusivo dell’accordo tra strumenti come allegoria di quello tra le persone.

A un altro olandese, che ha soggiornato a Roma, David de Haen, in occasione di questa mostra è stato attribuito “Eraclito”, 1615-20. – il “filosofo del pianto” contrapposto a Democrito “filosofo del riso” – il viso scolpito dalla luce emerge dal fondo scuro nel tipico contrasto caravaggesco.

Il lume di candela, questa volta concentrato sugli effetti in controluce, è alla base del quadro “L’artista nello studio”, 1647-48, vuol dire che sebbene siamo a metà del secolo permane questo motivo caravaggesco. Dietro il giovane che scrive si vedono la testa di una Niobide e il volto di “Seneca” di Guido Reni, che dovette senza dubbio influenzarlo. L’autore, Michael Sweerts, è un altro artista olandese giunto nel 1646 a Roma, dove divenne cavaliere ad opera del nipote di papa Innocenzo X, il principe Camillo Pamphilj, per il quale fece una serie di dipinti con scene di vita quotidiana. Una vita inquieta la sua: dal punto di vista artistico tornato in Olanda si dedica all’incisione e apre un’accademia di disegno. 

Dopo “San Girolamo” troviamo un altro soggetto caravaggesco “La buona ventura”, 1617:,  la scena del  giovane imbrogliato dalle due zingare è resa senza la drammaticità del grande maestro, anzi con qualche nota spiritosa e comunque popolare. Autore è un artista francese, Simon Vouet, dal 1612  il viaggio in Italia protrattosi nel tempo, con tappe a Venezia, Genova e Roma, dove conosce le opere di Caravaggio e di Annibale Carracci subendone l’influenza ma mantenendo una impronta personale. Ebbe come committente Matteo Barberini, fu  Principe dell’Accademia di San Luca. L’esperienza italiana è stata preziosa, tornato in Francia dopo 15 anni nel 1627  fu il primo pittore di corte di re Luigi XIII, impegnato nei grandi palazzi di Parigi, e contribuì alla diffusione in Francia del Barocco.

Il Barocco diffuso in Francia con il contributo di Vouet  ci fa passare naturalmente al Barocco diffuso a Malta ad opera di Mattia Preti che 55 anni dopo il breve soggiorno di Caravaggio giunse nell’isola nel 1661 e vi restò, salvo brevi interruzioni, fino alla morte nel 1699.

Nel 1630, a 17 anni, si era trasferito a Roma dove lavorò per i privati e, dal 1650, per committenze pubbliche, tra cui l’affresco per la chiesa di Sant’Andrea della Valle, quella dell’inizio dell’opera “Tosca”.  Del periodo romano vediamo esposto “Fuga da Troia”, 1635-40, con Enea, il padre Anchise e il figlio Ascanio, si sentono gli influssi da Vouet a Carracci, da Poussin a Bernini.

E’ datato tra il 1955 e il 1560 “Resurrezione di Lazzaro”, dipinto di grandi dimensioni, m.  2 x 2,60, realizzato a Napoli – dove andò dopo aver lasciato Roma – una scena di massa imperniata sulla figura di Cristo nel contrasto tra tinte cupe e toni argentei.

Come Caravaggio ma con permanenze ben più lunghe, dopo Napoli va nel 1661 a Malta, dove viene nominato  cavaliere dell’Ordine di San Giovanni e pittore ufficiale dell’Ordine. Di questa fase finale della sua vita artistica – in cui, come abbiamo già accennato, si impegnò nella diffusione del Barocco a Malta – vediamo esposte tre opere, dipinte tra il 1675 e il 1680, cioè circa 15 anni dopo la venuta nell’isola e 20 anni prima della morte; provengono tutte dal Museo di Malta, mentre le due citate in precedenza appartengono alla Galleria Nazionale d’Arte Antica.

Sono  “Incredulità di San Tommaso” con Cristo che appare agli apostoli e Tommaso che mette il dito nel costato, doveva fare “pendant”  con il “Battesimo di Cristo”  anch’esso al Museo di Malta, e la coppia di “pendant”  appena restaurati “Ebbrezza di Noè”  e “Lot e le figlie”, entrambi dedicati al vino e ai suoi effetti. Nel primo, Noè che si è addormentato ubriaco, viene additato con derisione dal figlio Cam e coperto invece con rispetto da Sem e Jafete; nel secondo sono le figlie a far ubriacare il padre per avere con lui inconsapevole l’unione carnale che garantirebbe la successione.

Potrebbe essere Mattia Preti, calabrese di nascita e maltese di adozione dopo i soggiorni a Roma e a Napoli, con i 5 suoi dipinti, 2 della Galleria e 3 del Museo di Malta,  l’artista che chiude la mostra essendo anche intestata a lui la seconda delle due sezioni. Invece è un artista la cui vita percorre quasi tutto il ‘700, dal 1696 al 1782: si tratta del napoletano Francesco de Mura, formatosi nella bottega di Solimena, con commissioni nelle chiese di Napoli e nell’abbazia di Montecassino, e un percorso molto diverso da quello degli artisti fin qui citati, infatti resta sempre a Napoli, a parte un periodo a Torino nella corte dei Savoia, ma senza esperienze maltesi.

Perché allora a lui l’onore della conclusione? Lo si vede dal titolo del suo dipinto, “Allegoria della Nobiltà dell’Ordine di Malta”, 1747,  che segue di due anni l’ “Allegoria della Nobiltà” da lui realizzato per il Palazzo Reale di Torino con la donna  e la lancia, la statua di Minerva e la corona, a cui aggiunge la Croce di Malta per celebrare i Cavalieri di San Giovanni.

Naturalmente anche questo dipinto proviene dal Museo di Malta e non poteva che essere il sigillo di una mostra nella quale la tematica del Mediterraneo si collega alle derivazioni caravaggesche nelle varie modalità e intensità, il tutto nell’ambito di un gemellaggio artistico e culturale particolarmente proficuo.

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Le immagini saranno inserite prossimamente

Civette, un’intrigante “civetteria” alla “Casina” di Villa Torlonia

Nella “Casina delle Civette” di Villa Torlonia a Roma, dal 29 gennaio al 30 aprile 2017 la mostra “Tre Civette sul Comò – Civett’Arte”, che richiama l’antica filastrocca “Ambaraba, ciccì, cocò…”, espone circa 70 opere raffiguranti la civetta nei più diversi  stili, forme e materiali. Curatrici della mostra Stefania Severi e Maria Grazia Massafra, direttrice del Museo delle Civette. Catalogo  “Edilet – Edilazio Letteraria” con un’accurata ricognizione sul significato della civetta nella storia e sulla sua presenza nell’arte e nella letteratura, nonché nel costume.

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Cosa di più normale di una mostra sulle civette nella “Casina delle civette” di Villa Torlonia dove vi sono sculture  e vetrate con il mitico volatile? Giovanni Torlonia jr. fece inserire elementi decorativi e artistici ispirati alla civetta nella “casina” che aveva fatto costruire all’interno di Villa Torlonia tra il 1908 e il 1920, nelle vetrate di Cambellotti, nei capitelli all’esterno e negli arredi all’interno oggi perduti, e questo  perché era nato il 10 ottobre 1873 sotto al costellazione della Civetta.

Ebbene, pur nella scontata normalità ci sono motivi che lo rendono un evento diremmo eccezionale.

I motivi alla base della mostra

Il primo di essi è l’origine della mostra, nel racconto di Stefania Severi, che l’ha curata con la direttrice del Museo Maria Grazia Massafra. Nasce da una concatenazione di fatti che risale ai primi anni ’80, quando la madre le regalò una piccola civetta di cera dicendole che le assomigliava, ne fu inorgoglita perché sapeva che era la prediletta da Athena-Minerva come simbolo di preveggenza.  Da lì iniziò una raccolta cui fu riconosciuta la  dignità di collezione quando fu oggetto di un articolo su “La Gazzetta dell’Antiquariato” rivolto ai collezionisti. Si era nel febbraio 2016, il passo successivo, l’idea della mostra nella “Casina delle civette”  non si fece attendere, perché la Severi dal 2012  collaborava con la direttrice Massafra e aveva elaborato un progetto per tale sede insieme alla Scuola d’Arte e Mestieri di Roma Capitale “Scienza e Tecnica”.

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E con questa scuola si innesta l’altro motivo eccezionale. La mostra non è stata concepita come un inventario delle rappresentazioni artistiche già esistenti delle civette, ma come un laboratorio creativo dal quale far nascere interpretazioni nuove, per di più utilizzando la molteplicità di materiali presenti nell’arredamento della Casina, dal legno al ferro battuto, dalla ceramica al tessuto, dal gesso al bronzo, dal mosaico al vetro che impreziosisce l’ambiente con le vetrate di Cambellotti.

Quindi, selezione in base alla predilezione per i singoli materiali mediante il coinvolgimento di artisti internazionali provenienti da 12 paesi oltre alla mobilitazione  delle Scuole d’Arte e dei Mestieri di Roma Capitale, “Arti Ornamentali” e “Nicola Zampaglia” nonché dell‘”Accademia Internazionale ‘Alta Moda e Arte del Costume Koefia” di Roma.

Ne è nata quella che la locandina definisce “Civett’Arte”, una “civetteria”, come l’ha definita Diana Poidimani, “variegata e variopinta”  per riportare gli aggettivi usati dalla Severi, con le più diverse forme espressive,  dalle tradizionali pitture e sculture, peraltro con tecniche e materiali particolari, a una vasta tipologia di oggetti, dal gioiello al ricamo, al libro e all’abito fino a monopattino.

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La rutilante “civetteria” si integra perfettamente nella peculiarità ambientale della sede espositiva perché, oltre alla sala al piano terra, anima le salette e gli anditi, le verande e tutti gli angoli della “Casina”  in una magistrale integrazione che fa apparire le opere componenti dell’arredamento.

Passeremo in rassegna questa movimentata galleria, ma prima intendiamo penetrare nel mondo delle civette, analizzato in occasione della mostra negli accurati saggi meritoriamente inseriti nel Catalogo, un mondo misterioso e  intrigante  che sorprende e affascina nel contempo.

Il mondo delle civette, ambivalenza di significati

Lo esplora Maria Grazia Massafra  iniziando addirittura dalle evidenze iconografiche rinvenute in Francia, nelle “Grotte di Chavet”, che risalgono a 32 mila anni fa e  nella grotta “Les Tros Fréres” di 15 mila anni fa dove si trova la “Galleria delle Civette”.

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Ecco poi gli idoli in pietra e in argilla del neolitico in Siria e Giordania, il rilievo in terracotta  proveniente da Babilonia, i totem antropomorfi della Bretagna e Irlanda,  le sembianze femminili delle statue-menhir in Francia e nella penisola iberica, i sigilli e amuleti egizi, mentre viene nobilitata in Grecia associandola ad Athena e facendone un simbolo di abbondanza e ricchezza. Anche negli altri continenti è presente l’iconografia della civetta, dalle civiltà precolombiane, i Maya e i Moche con reperti di terracotta,  alla Cina e agli indiani d’America.

I significati dati a questo simbolo misterioso sono molteplici, legati anche al mondo dei defunti, alla chiaroveggenza e divinazione, fino alla medicina, in particolare nell’antica Grecia dove veniva  associata ad Asclepio, il medico divino figlio di Athena. Ma non andiamo troppo indietro. Maria Luisa Caldognetto compie una accurata ricostruzione su come l’animale notturno è stato considerato nei secoli, ricordando che “se all’inizio del Cristianesimo la civetta era ancora correlata alla saggezza, e può addirittura rimandare alla figura di Cristo nel suo volontario passaggio attraverso le tenebre della morte redentrice, nell’immaginario medievale l’antica Dea della morte, e della rigenerazione, associata all’aspetto conturbante e negativo della femminilità, si identificherà nella strega (dal latino volgare striga, lattino classico strix, strige, civetta).

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“A partire dal  Medioevo – aggiunge  la Massafra – superstizioni e credenze vengono legate alla raffigurazione di questo rapace, che viene messo in connessione con la stregoneria e il maleficio, ma si mantiene comunque il suo significato positivo, come simbolo di eternità e di immortalità dell’anima” nella visione retrospettiva. Questi due aspetti restano compresenti anche in seguito: “Nel corso dei secoli successivi rimane l’ambivalenza simbolica della raffigurazione: da un lato icona del sapere di Athena,divinità femminile e lunare, sensibile e sensitiva, dall’altro simbolo dell’oscurità,della morte, della paura di tutto ciò che si conosce”. Entrambi  gli aspetti si riferiscono alla sua natura di uccello notturno, ma in due accezioni opposte: la capacità di vedere nel buio,quindi di penetrare i misteri, attributo della saggezza; i timori connessi al buio come oscurità fonte di pericoli, che accomuna la civetta ai pipistrelli.

Natale Antonio Rossi, presidente della Federazione Unitaria Scrittori,  si chiede: “Le timoranze notturne che le loro strida suscitano oggi, sono quelle di ieri, di un secolo fa, di duemila e più anni fa?  E soprattutto l’oculatezza della civetta (e di Athena) è ancora utile per sciogliere gli inviluppi mentali o psicologici dell’uomo e della donna?”. 

L’immagine popolare tramandata  nel tempo ha tradotto tali credenze  in  riti e costumi, la visione nel buio è stata vista come un pericolo per chi non ha queste doti, come gli uomini, o come un ausilio nella protezione dei bambini, secondo alcune credenze nordiche per cui  le civette si riposerebbero all’alba sui rami degli alberi dopo aver vegliato la notte su di loro.

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In Italia, ricorda la Severi, dal 1400 si svolge  ogni anno a Pisa  la “Fiera delle Civette”, il 29 settembre, giorno della festa del patrono San Michele, nel segno della caccia, mentre dal 1995,  lo ricorda la Caldognetto, è stata lanciata in Francia, da Jean Claude Genot la “Notte europea della Civetta” con cadenza biennale, coinvolge almeno 50 mila persone che in vari paesi  nella stessa notte cercano di captare le strida dell’animale notturno.

Le civette nell’arte e nella letteratura

L’arte non poteva rimanere insensibile a una figura così intrigante, nella “Crocifissione” di Antonello da Messina  del 1475 è appollaiata su una roccia in attesa, dato che traghettava i defunti nell’oltretomba, ma pensiamo che Cristo non ne aveva bisogno essendo predestinato alla resurrezione, anche se discese agli inferi, forse era lì peri due ladroni. Angosciose e allucinate  le raffigurazioni del “Trittico del Giardino delle delizie”, 1480-90 di Bosch, l’animale notturno appollaiato su due danzatori nella composizione popolata da figure danzanti nude; e del “Sonno della ragione genera mostri” di Goya, con la figura addormentata circondata dai volatili.  Mentre un’unica civetta è raffigurata in “The Owl”, di Valentine Cameron Prinseps tra le braccia della dolce fanciulla; e nell'”Autoritratto a forma di gufo” di Savinio, la testa è quella dell’animale,

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Dalla pittura alla letteratura, troviamo la civetta in Ovidio e Plauto, Properzio e Plinio in termini negativi, Virgilio le fa annunciare la morte di Didone; ben diverso il saggio che ai giorni nostri Umberto Eco ha dedicato alla filastrocca al cui inizio “Ambarabà ciccì coccò”  segue “tre civette sul comò”  che ha dato il nome alla mostra.

Gerasimos Zoras ha passato in rassegna le trasposizione poetiche, per così dire, del mito della civetta, partendo dall’invocazione, ripetuta più volte, del poeta nazionale della Grecia Kostis Parmalas, “Tu, o sacro volatile di Atena”,  “La civetta disse Atena”, fino alla poesia che scrisse Salvatore Quasimodo dopo la visita ad Atene del 1956 –  ma “non fu un richiamo maligno… Suonò la civetta sul mare, fresca, felice”.

Altrettanto positiva la visione di Giovanni Pascoli nel “Poemi conviviali” del 1904-05, allorché scrive:  “E il sacro uccello della notte in alto/ si sollevò con muto volo d’ombra” per concludere: “E disse alcuno, udendo il fausto grido/ della civetta: Con fortuna buona!”. Ma nelle “Miricae”, pur nell’immagine ancora riferita alla  notte, “tra l’ombre svolò rapida un’ombra dall’alto”, non ha più un “fausto grido” ma “una stridula risata di fattucchiera/ una minaccia stridula”, e “lo squillo acuto del tuo riso” fa sussultare nell’ “ombra che ci occulta silenziosa”, evocando la morte. Anche  il silenzio è angoscioso: “E quando taci, e par che tutto dorma/ nel cipresseto,trema ancora il nido/ d’ogni vivente, ancor, nell’aria, l’orma/ c’è del tuo grido”.

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Più vicino nel tempo Aldo Palazzeschi ne dà due immagini: in “Cobò” vicina al moribondo, “fissando il capezzale/ la civetta/ veglia e aspetta”; in “Lo specchio delle Civette”, musicato da Nino Rota,  si affollano “sull’acqua del fiume tranquillo”: “Si posan la notte, sul ramo sporgente,/ civette a migliaia./ Si posan ridendo…”. Specchiarsi nell’acqua come guardarsi dentro, torna la meditazione notturna.

Infine il “Secondo Diario Minimo” di Umberto Eco che disserta sulla celebre filastrocca.

Com’è la “civetteria” che ci presenta la mostra? E’  variegata e festosa, variopinta e allegra, nulla di inquietante anche se l’animale notturno viene declinato in tutte le forme e gli stili,  e con i materiali più diversi. Lo vediamo subito.

La “civetteria” della mostra: i “ritratti”

Si può evocare in vari modi la galleria di civette che anima la  Casina”. Il modo forse più appropriato sarebbe ripercorrere l’itinerario della visita e soffermarsi su ogni “incontro”, da quelli nella grande sala espositiva al pianterreno, agli anditi, salette e angoli suggestivi all’interno della palazzina, dove le opere sono “ambientate”  tra le vetrate liberty e gli altri particolari dell’arredo.

Un altro modo  è di darne conto  in relazione ai materiali con cui le opere sono realizzate, la cui importanza è data dal fatto che vi è stata una scelta precisa sulla base dei materiali presenti nella “Casina”. Abbiamo contato   opere in tecnica varia,    in pittura      in scultura, più   oggetti e altro, sono quasi tutte del 2016, quindi citeremo la data soltanto in quelle realizzate in precedenza.

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Preferiamo riferirci invece al tipo di rappresentazione, cominciando da quelle che, pur con vari materiali e diverse angolazioni, danno il ritratto, per così dire, della civetta, per poi passare ai primi piani con dei particolari posti in evidenza. In seguito le altre raffigurazioni con più civette o composizioni nelle quali le sembianze dell’animale notturno si perdono nel contesto ambientale.E allora il “ritratto” che ci ha colpito maggiormente è stata l’ “Ipnotica creatura”, 2016, l'”affresco su celerit” di Adelio Bartolucci nel quale, per usare le parole della curatrice Severi – che lo accompagnano con un commento, come per le altre opere – “le piume conservano tutta la loro leggerezza e lo sguardo serba tutta la sua ardente profondità”.   “Ci guarda e sembra leggerci dentro”, secondo la Severi, la “Nyctea Scandiaca”, civetta bianca delle nevi scandinava fotografata vicino Perugia da Maria Luisa Passeri. Mentre in “Guarda che ti vedo”, del pittore noto anche in Cina, Sandro Trotti, è riconoscibile la sagoma della civetta, non così lo sguardo.   

Una sguardo intrigante anche in “Civetta”, in tecnica mista con cartapesta di Nobushige Akiyama, quasi l’ “Ipnotica creatura” imbalsamata e in “Alla finestra della notte”, carboncino su carta di Nikos Kiritsis e in “La Dame Blanche”, di Andrée Liroux,  una scatola-libro-scultura, come   “Codice della civetta diurna”, in tecnica mista con carta di Vittorio Fava; si intitola “Passato prossimo”  la figura stilizzata in legno e gommapiuma, tela e acrilico di Antonia Ciampi.

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Poi due mosaici, “Civetta togata”  realizzato in marmo policromo dall’Associazione Agea Mosaici con la supervisione della presidente Nadia Ridolfini, uguale all’originale a El Jern Museum in Tunisia; e “Civetta della Casina”, immagine moderna in marmo e pasta vitrea di FraMe, al secolo Francesca Merola, in omaggio alle vetrate di Cambellotti.  Sempre “La civetta della Casina” , ma invece del mosaico  uno specchio retro inciso e retro illuminato l’opera di Paolo Hermanin, tra ombre inquietanti  lo sguardo penetrante, e anche qui “ipnotico” dell’uccello notturno.  

Non sono mosaici marmorei ma delicati ricami tessili , “Civetta sul ramo” di Gabriella De Matteis. in cotone  a mezzo punto su canovaccio, e “La civetta di Pino Melis”, delle Sorelle Piredda, un ricamo ispirato a un disegno dell’artista illustratore, sardo come le autrici. La tessitura a mano di Lucia Pagliuca, “Dalla notte dei tempi”, ha un sapore arcaico come la tecnica usata, due  grandi occhi si aprono su  un tessuto con un ciuffo di filati, che fa pensare ai vecchi spaventapasseri.

Irrompono ora le sculture, con l’animale notturno in bronzo in 7  opere. Di queste, 3 sono   intitolate “Eule”, quelledell’irlandese Fidelma Massey e del tedesco Hans Nubold  hanno gli occhi socchiusi, la terza del tedesco Strassacker Kunstgiesserei li ha aperti ma stravolti verso l’alto, mentre “Civettuola” di Capri Otti, li ha spalancati. “Nactheule” di Thomas Schone  e “Farmacia notturna” di Bettina Scholl-Sabbatini  aggiungono un elemento, il primo con un quarto di luna nella cui concavità protettiva si rifugia l’animale notturno, eretto e attento, il secondo con la scritta in greco e i flaconi medicinali nel piumaggio che ricade compatto,  mentre in “Whispring wind” di Helga Sauvageot, la figura robotica è alleggerita dalle piume che si aprono in filamenti.

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L’estrema sintesi con materiali molto diversi è ottenuta da Romana Vanacore in “Gli occhi della notte”, in terra autosmaltante, bronzo e ingobbio, due grandi occhi e un corpo piumato, e soprattutto  “Athena noctua”, di Raffaele della Rovere, in gesso bianco lucido, dai grandi occhi, ma  dove sono evidenziate soprattutto le ali, quasi in un volo angelico.  

In “Civetta”, di Francesca Cataldi, in vetro fuso e rame, legno  e ferro, la testa è interamente presa dai  due grandi occhi che sembrano un periscopio, una semplificazione che ritroviamo in “Civettuola” di Massimo Luccioli, ceramica smaltata e vetro blu con due grandi occhi stilizzati.

Stilizzato l’intero corpo in un ovale da anfora antica come il titolo evocativo, “Vae Sapientiae” di Luigi Manciocco, e ancora di più in “Civetta”, di Lucio Pari,  ferro forgiato che evoca le etrusche “ombre della sera”, due fori in cima a una lastra molto stretta e alta nello stile di Giacometti.

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Le ultime 4 immagini ci mostrano  la civetta com’è nella realtà  in “La civetta e il topolino” dove Enzo Flammia utilizzando cartapesta la raffigura in una visione aerea in volo, in “Natura morta”  dove  Walter Kratner  ne evoca l’utilità nell’equilibrio naturale imbalsamandola in una vetrina dopo che ha ghermito  un topolino e in “Omaggio a Zuccheri”, un olio su teladove l’iracheno Aziz Karim  lo rappresenta in un figurativo dal cromatismo intenso, appollaiata su un ramo con in primo piano un libro, un barattolo e un vaso con una pianta grassa.  E  nell’interpretazione robotica della grande installazione posta all’esterno in legno e alluminio, ferro e ceramica, “Automa ibrido”, il robot  della  interpretazione  di  Elisabeth Ann Tronheim.

Agli antipodi della versione da fantascienza le due opere che evocano la “civetteria” femminile per attirare l’attenzione, entrambe intitolate: “Civette”: la prima è  una delicata composizione di Antonella Cappuccio in cui il cromatismo non è reso da pennellate ma da carte colorate con la civetta sulla spalla della bella fanciulla “civettuola”,  nella seconda, di Paolo Cazzella, c’è  l’uccello svolazzante tra immagini di volti femminili che alludono appunto alla “civetteria”. Alla figura femminile  della Cappuccio affianchiamo quella della scultura in bronzo “In attesa del principe”, di Alba Gonzales, del 2011, con la civetta che veglia, perché entrambe sono vezzose e a seno nudo.

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Nei  primissimi piani con i particolari salienti dell’uccello notturno troviamo i 6  piccoli occhi gialli nel buio di “Giovanna Dejua”, in “Civetta chouette owl“, e un unico grande occhio: in “Occhio di civetta” di Lilka Iatruli è giallo con la pupilla nera, in “Sguardo” di Salvatore Giunta l’occhio appare in una grafica astratta e geometrica estremamente semplificata.

Più civette,  le astrazioni, gli oggetti a forma di civetta 

Dal trittico in vetro dipinto alla maniera di Cambellotti di Marco Calanca, Maria Grossi  e Maria Laura Venturelli,  “Silenzi”, all’olio su tela “Bad Owl” di Maurizio Colombo con le civette di Nottingham,  dalla tecnica mista con materiali tecnologici usati da Giulio Cavalla per l’opera “Con gli occhi aperti vegliano sulle nostre notti”, l’immagine positiva nei pesi nordici, alla tecnica origami in carta da imballaggio di “Civette in volo” del giapponese Yasue Akiyama, dall’opera video “Tre civette sul comò” di Maria Pia Michieletto,  all’encausto su tavola “Tre civette su Minerva” di Massimiliano Kornmuller che si rifà all’antico nella dea e nella tecnica, dall’olio su tela di Massimo Campi con le tre civette di “Ambarabciccicocco” ai  burattini in tecnica mista di “Tre civette sul ramo” di Maria Sigorelli,  ai pastelli su carta di “Il gatto e la civetta”, opera del 1991 di Minette, Maria Ceccarelli, un’italo-francese che amava gli animali, scomparsa nel 1997.fino al dipinto ad olio e sabbia su tela  dello spagnolo Julio Pjea, “Filastrocca”, che reitera il motivo delle tre civette moltiplicandole cambiandone i colori in un  suggestivo impianto cromatico e figurativo.

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E’ una straordinaria carrellata non solo di immagini multiple, ma di tecniche utilizzate, che si aggiunge alla galleria  prima illustrata di immagini singole.

Ma non è tutto. Da un lato abbiamo ancora il figurativo, con la visione idilliaca dell’olio su tela “Civette a Villa Torlonia”, di Lucio Castagneri  e  la visione onirica della visita a Villa Torlonia di “Il principe notturno”  di  Stefania De Angelis con la scorta di civette in ferro piombato e foglia di rame, la visione mitica della “Dea Bianca” con la sua ala protettrice rispetto alle Parche nell’olio su tela di Mirko Lucchini  e “Il canto della civetta”  che si diffonde nei “labirinti dell’invisibile” dell’orizzonte dipinto in tecnica mista su tela da Rita Piangerelli.

Dall’altro le visioni vicine all’astrazione di “Il canto della civetta” di Letizia Ardillo, in tecnica mista su carta, e di “Dillo alla luna”, vetrata policroma di Cinzia, Eleonora e Rosanna di Studio Artetutta, di “Ambiguità”, un elegante rilievo in terracotta di Laura Lotti, e di “Civettetria” di Diana Poidimani, fino ad “Appartata”, ‘olio su tela diLaura Barbarini,in un fantastico mondo floreale.

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Per concludere, persino gli oggetti ispirati alla civetta: per i bambini il monopattino  in legno di Anna Addamiano, “Vola, civetta vola” e  l’ “Aquilone Civetta” in carta giapponese  e stecche di bambù di Anna Onesti e Virginia Lorenzetti; per gli adulti il ventaglio di stoffa dipinta “Melodia notturna” di Miro Bonaccorsi e la collana in bronzo e vetro di Murano “Casina delle Civette” di Stefania Ancarani, fino agli abiti in cotone, tulle e Swarovsky  “Lil-Itu”, nome ebraico della civetta, di Riccardo Celotti e Lorenzo Renzi della Koffia Accademia d’Alta Moda.  

Le ultime citazioni per “Athena con la civetta”, statua in legno e stoffa dell’olandese Marijcke Van der Maden  e “Calamaio della lettrice notturna” di Maria Cristina Crespo,una vecchia lanterna, una biblioteca in miniatura, una civetta protettrice”; “dulcis in fundo”, la locandina della mostra, “CivettArrte” di Lucio Troiano, con la civetta-artista che seduta sul comò dipinge la “Casina” con tanto di pennelli e cavalletto, sorridendo amabilmante ai visitatori.

Ebbene, quanto di più rassicurante anche per chi, come il sottoscritto, nell’infanzia era turbato ogni notte dallo stridìo angoscioso della civetta annidata sul campanile della chiesa vicina. E’ un effetto liberatorio il cui merito va a una mostra singolare, così interessante e istruttiva. Dopo la “riabilitazione”, per così dire, del  lupo, per l’impegno meritorio di Franco Tassi, è il momento della civetta, per l’impegno di Stefania Severi e Maria Grazia Massafra. E’ meritorio anche questo.  

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Info

Museo di Villa Torlonia, Casina delle Civette, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso alla Casina delle Civette intero euro 5,00, ridotto euro 4,00, per i residenti a Roma Capitale  1 euro in meno e ingresso gratuito la prima domenica del mese. Info 060608 e 328.9097609, Cooperativa Sociale Apriti Sesamo. Catalogo  “Tre Civette sul Comò. CivettArte”, a cura di Stefania Severi e Maria Grazia Massafra, Edilazio Letteraria, gennaio 2017, pp. 120, formato 20 x 20; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Casina delle Civette alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; non è indicata la data nelle opere del 2016, è precisata solo nelle due opere in data diversa. In apertura,Adelio Bartolucci,“Ipnotica creatura”; seguono,  Aegea Mosaici, “Civetta togata”, e Antonella Cappuccio, “Civette”; poi, Mirko Lucchini, “Dea Bianca” , e, a dx Francesca Cataldi, “Civetta”, a sin. Luigi Manciocco, “Vas Sapientiae”; quindi, Massimo Luccioli, Civettuola”, e a dx Thomas Schone, “Nachteule”, a sin. Capri Otti, “Civettuola”; inoltre, Raffaele della Rovere, “Athena noctua”, e  Marco Calanca, Maria Grossi, Maria Laura Venturelli, “Silenzi… ; ancora, Alba Gonzales, “In attesa del principe”, 2011, e Julio Ojea, “Filastrocca”; si prosegue, Frame, “Civetta della Casina”, Marijcke van der Maden, “Athena con la civetta”, ed Elisabeth Ann Tronhjem, “Automa ibrido”; infine, un angolo dell’esposizione con al centro di Anna Addamiano, “Vola civetta vola”, nella parete a sinistra, di Lucio Castagneri, “Civette a Villa Torlonia”, 2014, appesa al centro, di Maria Cristina Crespo, “Calamaio della lettricenotturna”;  nella vetrata, di Ezio Flammia, “La civetta e il topolino”; in chiusura,Walter Kratner, Natura morta”.

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Adami, segno e colore nella mostra all’Accademia d’Uugheria

di Romano Maria Levante

Abbiamo già presentato in anticipo la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi”  che dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 ha esposto 60 opere pittoriche dell’artista i cui capisaldi sono l’interpretazione molto personale della funzione della linea e del colore, con l’importanza fondamentale del disegno preparatorio. La mostra si è svolta  nell’Accademia d’Ungheria, e in altre due “location” collegate, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia, ed è stata curata da Lea Mattarella con il catalogo di Carlo Cambi Editore in cui vi sono 10 saggi a corredo della ricca iconografia; la raccontiamo brevemente.

La linea narrativa dell’artista: il segno e il colore

Prima di dare conto della galleria di opere esposte completiamo l’inquadramento della peculiare cifra artistica di Valerio Adami, di cui abbiamo già indicato i capisaldi stilistici e di contenuto, con quella che Octavio Paz definisce la sua “linea narrativa” ispirandosi alle parole della stesso artista il quale è prodigo di analisi dell’arte e autoanalisi della propria, cosa che lo avvicina a De Chirico al quale lo accostano anche altri aspetti peculiari, come abbiamo evidenziato in precedenza.

Ecco cosa scrive: “Disegnare è una occupazione letteraria. Io non abbandono un disegno fino a quando posso scriverci la parola fine… Mi piacerebbe che anche in pittura si potessero usare le parole prosa e poesia per definire così il mio lavoro come una pittura in prosa. L’impulso narrativo è essenziale”, e, aggiungiamo, in lui si manifesta in forma sintetica attraverso il segno.

Ha una propria autonomia, il disegno non segue qualcosa di preordinato ma si sviluppa in sequenza. “La linea, da parte sua – rileva Paz – è una successione di punti o, se si vuole, una successione di ponti fra un punto e un altro”. In quanto tale è la forma migliore di rappresentare il tempo: “Retta o sinuosa, circolare o spiraliforme, la linea va sempre da un qui a un altrove. La linea cammina, si raddoppia senza fine e senza fine ci racconta il suo tragitto: la linea va sempre transitando. per questo è narrativa”.

Così si esprime: “E che cosa racconta la linea? Ogni sorta di eventi e di idee nel tempo, e che sono tempo. Tuttavia, la linea non parla: per raccontare deve inventare delle forme adatte a farlo. I racconti della linea sono le forme che essa disegna”. Anche perché, spiega nelle “Sinopie”, “cerco nel disegno gli equivalenti di passato remoto, presente & futuro”.

Ma come decifrare questo racconto? Lo spiega l’artista: “Lo strumento per leggere il disegno è il colore, come la voce è lo strumento per leggere la parola scritta”, torna l’equiparazione tra pittura e letteratura, lo ribadisce Paz: “La voce – l’intonazione, è il colore della scrittura; il colore è la voce della pittura . I colori danno voce alle forme di Adami… Via via che avanza, la linea racconta e traccia una storia o diverse storie; i colori danno corpo e voce a queste storie”.

E come sono questi colori? .Netti e precisi, senza chiaroscuri né modulazioni, quasi fossero  creati incontaminati dall’aria e dalla luce, ma non sono colori puri sebbene possano sembrare tali. Lo stesso artista  nell’intervista a Penot dello scorso anno dice che si tratta di “colori piatti, sì, ma non sono stesure di colori puri. Io preparo sempre in anticipo,  nei barattoli, centinaia di toni diversi che utilizzo a seconda delle emozioni che cerco di creare”. E aggiunge: “Io non disegno mai senza pensare al colore, E’ quella la finalità del mio viaggio! Tutte le mie esitazioni iniziali, tutte le mie  cancellature debbono scomparire dietro le stesure di colore… Tutto partecipa alla scelta: il braccio, gli occhi, il cuore, il pensiero”. Conclude così: “Alla fin fine, .mi lascerò trasportare da uno stato d’animo malinconico? O mi lascerò guidare da un’idea puramente plastica?”.

Il risultato lo sottolinea con un’immagine efficace la curatrice Lea Mattarella: “Adami ha tolto la corona dalla testa di quella che è stata la regina della pittura del Novecento, della cosiddetta modernità nata con gli impressionisti: la pennellata”.

E spiega come: “Adami elimina il tocco, il segno del pennello che colpisce la tela”. Così “il colore è dato per campiture, è intatto, non conosce incertezze né comunica tensioni coi suoi contorni. Sta bene, è al sicuro tra linee chiuse che ne proteggono l’integrità, la certezza, la fermezza del ruolo”.

L’autoanalisi artistica nelle “Stanze” di Adami

Nelle “Stanze” l’artista sintetizza: “Contorno chiuso, campiture, ordine compositivo: sono queste le regole”. E precisa: “Solo il cuore può capire di che si tratta – e se di stile si tratta , questo nasce dall’idea ma si produce nel tatto delle mani”, una manualità che spesso sottolinea.

Si sofferma sulla forma, lui che mette in primo piano il segno libero da vincoli: “La forma è parola diurna e con questa ci si deve rivolgere agli altri, mentre la non forma è quel silenzio notturno che ci chiude in noi stessi e nel sogno – l’uno e l’altra convivono, e giorno e notte si susseguono”.

E spiega: “La forma è persistente. Chiusa nel palmo di una mano, se ne sta ben ferma nella stanza della memoria. Da qui nascono le forme, molteplici e complicate, l’occhio del pittore le fissa nel contorno e ne cerca la ragione -ma questa abita il cuore… Infinite combinazioni ruotano disegnando, poi appare di nuovo una forma finita”.

Torna ancora sul tema: “Dapprima la forma appare chiusa in se stessa, specchio di quel che l’occhio vede e la mano tocca; vedendola, toccandola e pensandola in un percorso metaforico, la forma uscirà da se stessa e sarà diversa – diversa nel procedere, nell’aggiungere e nel togliere per somiglianze, per stanze poetiche, ecc.”.

Ed ecco come opera praticamente: “Disegno di ora in ora, disegno il destino del colore, disegno quel che vedo e quel che tocco, cancello più volte: l’oggetto si attraversa meglio nel cancellarlo e meglio si conosce nel ripeterlo. La gomma nella mano sinistra è l’attesa del tempo che passa – il mio volto che invecchia. L’unico augurio appropriato, quello di buon viaggio”.

Il suo viaggio artistico ha l’orizzonte indefinito, in una visione di tipo filosofico: “Rappresentabile/ non rappresentabile/ rappresentabile. Ossia figurabile/non figurabile/figurabile. E ancora, visibile/invisibile/visibile; e così via, per mettere fine alla linea del tempo, per manifestare in un gesto la linea che corre veloce. Così devitalizzato, però, il disegno lascia il suo posto allo schizzo – l’emozione in prima persona!”.

Schizzo, disegno, con segno e colore abbinati in modo personalissimo nei grandi acrilici su tela che colpiscono per la loro forza espressiva hanno l’eco profonda che  viene dal passato delle antiche incisioni, vivono  nel presente con le assonanze ai fumetti e alla Pop Art,  si proiettano nel futuro  con il loro messaggio di modernità fantascientifica. E’ giunto il momento della visita alla mostra.

La galleria di metafisiche e metamorfosi di Adami

Introduciamo la galleria di dipinti con le parole della curatrice, che sono state da guida alla nostra visita: “Le figure di Valerio Adami, le sue immagini, non vanno prese di petto, non devi cercare di comprenderle. Le devi ascoltare… I suoi quadri richiedono contemplazione”.

E non parla a caso di “ascoltare”, cita l’altro grande scrittore che, come Calvino, gli ha dedicato uno scritto intenso riferito costantemente a lui, Antonio Tabucchi, il quale ricordava “un’affermazione di Adami nella quale l’artista cercava un colore per i suoi disegni, ‘come se cercasse un suono, perché esso ha per lui lo stesso statuto delle note musicali’. Così ascoltare questi quadri non significa solo prendere parte di una storia, ma sentire la nota di un colore, il suo particolare suono”. E’ una visione in cui “questi dipinti sono partiture, l’elemento cromatico le modula, dà il ritmo, le fa vibrare anche laddove, apparentemente, tutto sembra immobile”.  L’artista lo conferma rivelando come i suoi barattoli, che sui coperchi recano scritta l’indicazione del colore, “appaiono come la tastiera di un grande strumento” 

La curatrice commenta: “A lui, dunque, non resta che suonarlo”, e lo collega a Kandinsky, che gli ispirato il valore della pittura oltre la stessa pittura in una feconda frequentazione: “Per l’artista russo la relazione tra colore/suono/emozione è molto potente. Intitola le sue opere composizioni, improvvisazioni perché hanno uno stretto rapporto con la musica. Adami e Kandinsky non hanno quasi niente in comune, in pratica. Ma la teoria di una connessione tra colore, suono, emozione, trova qui , tra queste metafisiche e metamorfosi, un suo sviluppo originale  infallibile”.

Ecco come l’artista esemplifica, rispondendo a una domanda di Penot nell’intervista del 2016,  il rapporto tra colore ed emozione: “La Morte di Colombina è dipinta in blu – diversi blu – ritenuti adatti a tradurre un sentimento di malinconia. Se, invece di questo blu, avessi privilegiato un fondo giallo, avrei senza dubbio raccontato un’altra storia, che sarebbe stata quella d’una Colombina solare, luminosa. Ma questa visione serena non mi ha sollecitato, d’istinto, quando ho riportato il disegno sulla tela, sono stato preso da questa malinconia che ho cercato di tradurre in toni blu”.

Tante sono le emozioni, più o meno intense o leggere, come tanti i colori piatti elaborati dall’artista e modellati sulla tela senza pennellate come vengono modulati i suoni su una tastiera.

Li abbiamo visti nei dipinti posti nelle pareti del Palazzo Falconieri – e delle due gallerie collegate -.dove sono state esposte composizioni di soggetti diversi accomunate dalle peculiarità della cifra artistica di Adami che abbiamo cercato di evidenziare, tra il segno e il colore, con  la base del disegno. Tanto che per metà delle opere, quasi tutte quelle degli ultimi anni, il Catalogo presenta il disegno a matita su carta oltre all’acrilico su tela eseguito dopo uno-due anni.

Il segno marcato non solo delimita i contorni ma fa da nervatura alle immagini percorrendole come con arabeschi o cicatrici, e il colore è piatto e monocorde all’interno delle forti linee che delimitano la forma. Evocano il passato delle incisioni settecentesche in un presente da fumetti d’autore e da Pop Art, mentre irrompe il futuro di una modernità evoluta, tra memoria, tradizione e meditazione.

Ci sono da un lato soggetti singoli – e ritratti, tra i quali diversi personaggi celebri – i più numerosi, dall’altro scene con più figure, e anche quadri di denuncia. Le opere esposte per la maggior parte erano dell’ultimo triennio, ma non sono mancate opere a testimonianza della sua produzione negli anni 70, 80, ’90, e del primo decennio del 2000, in una antologica fortemente selettiva.

Sulle opere dagli anni ’70 al 2013 rileviamo che la mostra ne ha presentate 3 per gli anni ’70, i “Ritratti” di “Freud”  e “Benjamin”, la “Morte di Orfeo”; 2 per gli anni ’80 tra cui “Il ritorno del figliol prodigo” e l’evocativo “Metamorfosi” il dipinto di maggiori dimensioni, 2 metri per 2,60; 5 per gli anni ’90, tra cui il “Ritratto di Berio”, il “Passaggio sul Gange” e il “Muro del Pianto”, due sacralità rituali a confronto; 10 per gli anni ‘2000 fino all’ultimo triennio, tra questi il “Ritratto di Herman Hesse” e di “Antonio Tabucchi”, che come abbiamo visto gli dedicò una citazione molto significativa sul “suono” della sua pittura e un “diario cretese” con annesso racconto mitico sulla “cefalea del Minotauro”; troviamo altri riferimenti in“I nuovi Argonauti (news from Palestine)”, rivisitazione metafisica in occasione di un viaggio in quei luoghi. E una visione paesaggistica in “Quadro in un tramonto”, di vita quotidiana in “Home Sweet Home” e “Folding Screen”, ” Lezioni di nuoto” e “Cine Cine”, fino all’ impegno antimilitarista in”Figura crocifissa – We Want Peace dedicato a Ben Shan”, “La passione della Mira” e soprattutto in “Non ci sono guerre giuste (Ezra Pound)”..

Prevalgono nelle opere citate le tinte calde, come i gialli e i rossi, mentre nell’ultimo triennio sono sempre presenti le tinte fredde, come il verde e soprattutto il blu, in cui identifica la malinconia, in competizione con le tinte calde che persistono fino ad essere dominate in “Studio per brutti Presagi” e a sparire del tutto nell’ultimo quadro esposto, “Giacomo Leopardi recanatese nel letto di morte”, dove la malinconia diventa angoscia con tinte tenebrose, entrambi sono del 2016.

Soffermiamoci sulle opere del triennio 2014-16, cominciando da due composizioni enigmatiche del 2014, “Le Singe (disegno senza parole)” e “Il muro ‘capriccio turco’”, in entrambe una presenza umana dominante con misteriose piccole figure o parti di esse quale contorno allusivo.

Niente di  misterioso, invece, nei  “Ritratti“, degli 8 che ricordiamo, 6 sono del 2016: 2 “Autoritratti” uno da giovane, l’altro come un “giovane James Joyce”, 4 Ritratti di personaggi, “Nietsche” e “Riccardo Wagner”, “Giuseppe Verdi”  e “Gioacchino Rossini”, fino a “Filottete morso da una serpe (omaggio a Hayez)” e “Le bouquetin (studio)”.

Poi la quotidianità di “Un giallo alla TV”, il volo pindarico di “Sarasvati, Dea della Poesia” e le evocazioni alpestri di “Muflone” e “Passeggiata sulle Alpi”, del 2015, con l’animale a fianco dell’uomo in una serie che parte da “La notte dello stambecco” del 1988. fino a “Scena con due cani” e “Scena d’amore con cane e due violini”, del 2016. Ancora figure singole in primo piano negli“Angeli” raffigurati in 3 suggestive composizioni, “L’ange Dechu”, “L’angelo della sera” e “L’angelo e l’elefante”, immagini serene rispetto all’angoscioso “L’angelo” del 1992, un angelo della morte con la falce che scende accanto al letto del malato.

Diventano due i protagonisti della quotidianità evocata in “Le ore della sera, il passare del giorno”, e“Cercando l’ispirazione” del 2015, “L’incontro” e “Ballo al chiaro di luna” del 2016, accomunati da vitalità e passione anche nel cromatismo addirittura carnale;  mentre in “L’arcangelo San Michele che abbatte il demonio da Pelagio Palagi” e  “L’ora dell’angelo“, ambedue del 2016, la seconda figura è uno scheletro. La scena si anima con più figure gioiose in “Teatro (‘Sei figure per una Commedia)” e “Siedo e guardo il giorno di un pugile”, anch’essi del 2016, oltre al precedente “Tenerezza (la famiglia)”, 2014,

Non è mancato il paesaggio, come sfondo in “Uomo e donna (durante una vacanza alpestre)”, con la figura femminile dominante rispetto a quella maschile e all’animale nonché all’orizzonte con montagne, cielo azzurro percorso da qualche nuvola e caseggiato; e in primo piano, ma con evocazioni militaresche, nei due soldati che si immaginano contrapposti dalle diverse “uniformi” in “Paesaggio”,  e “Sulla spiaggia”, alla figura in divisa in primo piano si aggiungono il paracadute che scende dall’ alto e la minuscola tenda in basso.

L’antimilitarismo è apparso esplicito in “La rancon de la guerre”, e “Memoria del tempo di guerra”, “Commando” e, “Niente di nuovo all’est”, del 2016, che segue di tre anni “La fine di un mondo”  del 2013, è quello dei “communists”, una vistosa scritta con la grande falce e martello, una sorta di “si scopron le tombe…” al contrario, tra il rosso e il giallo. Forse anche “Au depart de l’avion” si può leggere in chiave antimilitarista, dinanzi al pianto della madre che viene consolata mentre sullo sfondo si vede un aereo militare in attesa; così, sia pure con maggiori dubbi, “Western con Pinocchio”, del 2016, ce lo fa pensare il fucile in alto e la bandiera piantata in basso. E poi la “Nemesi”, composizione in 4 quadri, nel primo la casa, nel secondo la partenza verso un radioso orizzonte, negli ultimi due i volti affranti con la croce del cimitero sullo sfondo grigio.

Alla scena tragica di “Une Famme chasse la mort” vogliamo contrapporre  le immagini volitive di “Ikaros (all’alba)” del 2014 e “Il sogno di volare”, del 2016, che dimostra come la vitalità non solo non sia venuta mai meno ma anzi appaia sublimata nei tempi più recenti.

La lezione di vita per tutti

Un’ultima notazione: la maggior parte delle opere esposte è stata realizzata nel nuovo millennio, dopo il 2000, e quasi un terzo nello scorso anno: precisamente, dei 65 dipinti, circa 10 fino al 2000, e dei 55 realizzati  nel nuovo millennio, 15 fino al 2013, e 40 nell’ultimo triennio, di cui 10 nel 2014 e 10 nel 2015, mentre 20 nell’ultimo anno, il 2016.

Quindi l’artista, classe 1935,è  ancora attivo eccome! Una longevità artistica non comune, considerando che la sua prima mostra collettiva risale al 1960 e la prima personale al 1964, oltre mezzo secolo di successi in tanti paesi nei vari continenti con una creatività mai scemata nel tempo.

E’ un’ulteriore, straordinaria peculiarità, oggetto dell’ultima domanda all’artista da parte di Penot, nell’intervista del 2016 cui ci siamo riferiti in precedenza. La domanda è stata questa: “”‘Amate la vita! E’ ciò che deve dire un quadro, tanto a chi lo fa, quanto a chi lo guarda’ affermavate all’alba dell’anno 2000. E’ perché amate la vita che continuate a dipingere, a ottant’anni passati?”.

La risposta dell’artista è eloquente: “Io continuo a dipingere perché sono in vita e la pittura è tutta la mia vita… E’ una necessità profonda, reale. Il mio cuore batte; il mio cuore dipinge. Quando cesserà di battere cesserà di dipingere”.

Una lezione di vita anche per noi giornalisti, collimante con quella di Indro Montanelli, e chi scrive, quasi coetaneo dell’artista, la mette in pratica quotidianamente. E una lezione esemplare per tutti, perché trovino nella quotidianità motivi di stimolo: la linfa prodigiosa dell’amore per la vita.

Per tutti, quindi, oltre che per l’artista, vale l'”augurio di buon viaggio” con cui si chiudono le sue “Stanze”.

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma,  Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è uscito in qusto sito il 16 gennaio u.s. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli: in questo sito per Kokoska, De Chirico e la  Pop Art.

Foto 

Le immagini saranno inserite prossimamente

Strazza. Ricercare tra “un gomitolo di segni”, alla Galleria Nazionale

di Romano Maria Levante

La mostra antologica  “Guido Strazza. Ricercare”,  aperta  dal 7 febbraio al 26 marzo 2017  alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea – ribattezzata sinteticamente dalla nuova direzione “La Galleria Nazionale” –  presenta 145 opere, di cui 56 dipinti, 42 disegni, 31 incisioni di due serie organiche ed  altre 13  legate ai dipinti e ai disegni,  di un artista che nella  sua lunga vita ha cercato di esprimere visivamente l’inesprimibile, di descrivere l’indescrivibile,  in un linguaggio personalissimo nel quale si è liberato della forma e in parte del colore come viene comunemente inteso e utilizzato,  per affidare la rappresentazione al solo segno, al tratto che smaterializza l’immagine rendendo un’idea embrionale che si modifica in itinere. Curatore della mostra e del Catalogo della Galleria Nazionale Giuseppe Appella..

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 Le parole “un gomitolo di segni” sono dello stesso Straffa e si riferiscono a tutto quanto ci circonda, o che ci è portato dalla memoria, per lui i segni sono l’elemento distintivo e costitutivo della realtà, prima della materia, del colore, anche della luce. E’ un mondo intrigante e misterioso quello aperto dalle sue parole, ma non indecifrabile. L’artista ce ne dà la chiave interpretativa  in modo esplicito e trasparente mediante due scritti quanto mai rivelatori: il libro “Il gesto e il segno”, frutto di una ricerca didattica sul campo nell’incisione, vera e propria teoria che parte dalla matrice geometrica per  raggiungere livelli filosofici pur nella impostazione di  manuale pratico; il  “Dizionario. Lessico del pittore. Pensieri minimi”  di 74 parole, di cui ben 60 spiegate con l’intervento dei segni che quindi si confermano come portanti e onnipresenti nella sua visione.

I segni diventano una sorta di elemento primordiale, di matrice prima,  la loro origine è indifferenziata, l’artista non ha nella mente la figurazione finale, ma soltanto il segno, sarà esso stesso a suggerire l’eventuale definizione in immagine per poi magari tornare ad essere segno. E’ fondamentale, come sottolinea il curatore  Giovanni Appella, “l’attenzione dedicata ai materiali sui quali dipingere o incidere, alla preparazione delle tele, dei fogli di carta o delle lastre, all’incisione diretta e indiretta, alle vernici, agli acidi, agli attrezzi, all’inchiostrazione, alla stampa, perfino alla disposizione di un tipo di atelier per incisore”.  Un aspetto pratico importante che si aggiunge alla elaborata costruzione teorica nella valutazione dell’opera dell’artista in tutta la sua complessità.

Per entrare  in questo mondo e poter così interpretare correttamente le opere dell’artista esposte nella mostra antologica è bene premettere ciò che emerge dai suoi scritti rivelatori e dalle valutazioni dei critici che in occasione della mostra ne hanno analizzato l’opera in profondità.

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I segni di Strazza nelle sue parole  

Il suo primo scritto è il libro “Il gesto e il segno”,  frutto di ricerche collettive nell’Istituto di calcografia nazionale tra il 1964 e il 1967 e il 1974-76,  trattato teorico e manuale pratico sul segno che parte  dalle figure geometriche più semplici fino alle composizioni più complesse con riferimento, sono sue parole, “alla loro posizione rispetto alle direttrici di riferimento verticale-orizzontale sulla quale si fonda in gran parte la variabilità del loro significato espressivo”. 

Ed ecco come ci fa entrare nel mondo dell’incisione, nella sua peculiare visione: “Se si sceglie il bianco e nero (segni e trame) è perché si intuisce e si cerca qualcosa che il colore non può dare: qualcosa che, all’inverso, inutilmente si cercherebbe di imitare col colore di cui i segni e tracce non sono in alcun modo surrogati, né hanno il nome”.   

In questa dialettica bianco-nero e colore domina la luce: mentre “la trama è la luce percepita come vibrazioni dal bianco e nero, alternanza ritmica tra presenza e assenza di luce e si dà come struttura dinamica con verso e direzioni di espansione”, a sua volta “il colore è luce percepita secondo le diverse collocazioni nello spettro visibile”.  In definitiva,  la luce, per l’artista non è un semplice “mezzo di rivelazione delle cose”, bensì  “l’evento primario come se tutto, ogni forma o colore o rapporto fossero un modo della luce”.

E il segno?  E’ l’idea iniziale, la base di tutto, può restare isolato o convergere, svilupparsi in trame, senza derivare da immagini riconoscibili, anzi sarà il segno stesso a suggerirle. Il nostro mondo “è pienezza di segni, in attesa di essere pensati, chiamati, formati, riconosciuti. Segnare è quel chiamare”, ma senza immagini precostituite da ricomporre assemblando segni:  “Nel progetto originario (il gesto e il segno per esercizio manuale)  erano nascosti a mia insaputa gli insetti. Me ne sono accorto e li ho inseguiti”. 

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Nel secondo scritto rivelatore, il “Dizionario. Lessico del pittore. Pensieri minimi”,  riassume il proprio lavoro in tre parole, tutte incentrate sui segni: “Andare… per il mondo vedendo segni che, riconosciuti, si fanno forma e misura nostre e del mondo”. Vedere….i segni delle ‘cose’ prima di vedere le stesse cose – nome che tutti vedono e i segni rappresentano, Tempo… Tempi del vedere,, del gestire, del segnare…”.

Ma spigoliamo tra le 60 parole riferite ai segni”. La Materia è “‘Segno primo’ dell’arte”, e lo Spazio è “Assoluto vuoto pieno di segni visti e non visti in attesa indifferente di essere riconosciuti per dargli forma, nome, dimensione”; la Forma è fatta di  “Segni organizzati per ordini e nomi” e al  Colore “Sono i segni di confine a dargli forma e nome con aggettivi di colore”. Soggetto, oggetto , condizione del segnare”.  Mentre per la Memoria  “Il segno è già in sé memoria/ progetto di memoria”  e, più in generale,  Segnare è “Dare forma e significato a segni visti, intravisti, pensati, immaginati”. Tutto questo nella Realtà così definita: “Tutti i segni del mondo che, insieme, chiamiamo realtà, ma uno per uno chiamiamo con altri nomi”, collegata con la Natura,  “‘Realtà ‘ non fatta da noi, che si sta sempre formando e trasformando e traduciamo in segni progetto di segni”. Il Progetto è fatto di “Segni organizzati  per un fine di logica e poetica utilità”, e anche il Ritratto riporta al segno: “Chiamo una figura per nome, col nome dei suoi segni”.

Diventa sempre più penetrante.  In Pensare: “Se penso un segno lo sto mentalmente disegnando. Disegnato, lo vedo senza averlo pensato”, e in Cercare: “I segni sono già tutti lì, sotto il foglio. L’artista non li cerca: li vede, li pensa, li riconosce e li fa”. In Riconoscere: “L’ avevo perso  di vista, quel segno,; l’ho ritrovato, riconosciuto, lo posso disegnare”, e in Disegnare: “Da segno a segno, uno dopo l’altro, sull’altro, con l’altro, un pensiero si sta facendo forma, nome, significato”. 

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Non c’è mera tecnica, tutt’altro,  in  Ripetere: “Segno ripetuto non è segno, fatto più volte, ma nuovo soggetto ‘tempo-spazio’ del segnare” e in  Ritoccare: “Tra il fare e disfare, segno su segno che non dimentica il vecchio”; in Distinguere: “La distinzione che conta è tra ciò che di un segno si vede e ciò che, non visto, è invece visto e si fa vedere”, e in Rappresentare: “Un segno in sé non rappresenta, si presenta rappresentando altro”.

Dal segno all’atto creativo  in Tradurre, “Al solo vederlo un segno è tradotto in un altro segno”, fino a  Opera, “Come un segno, un’opera non sarebbe mai  finita se appagamento o metafisica stanchezza non la facessero compiuta. ‘Opera finita’ è improvviso silenzio: non chiama altri segni”.

Abbiamo citato soltanto 20  delle  60 parole del Dizionario definite con i segni, e l’ultima parola ci riporta all’opera compiuta, al di là delle componenti fatte di segni; a questa si riferiscono i giudizi critici più recenti che hanno analizzato in profondità un’impostazione così personale e intrigante.

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L’opera di Strazza nei giudici della critica

Cominciamo dal curatore, Giuseppe Appella, che ne inquadra l’opera così: “L’idea costruttiva è la struttura più o meno libera, ma geometrica, di una composizione che nella libertà espressiva del segno, anche il più elementare, trova il primo approccio , la prima presa di posizione mentale,  rispetto a qualcosa che si realizzerà  in un fitto contraddittorio tra l’idea di partenza e le nuove idee che nascono dallo stesso lavoro”.  Ed ecco come si sviluppa il processo creativo: “Ogni prova di segni è fatta senza pensare ad altro che al modo di eseguirli, tanto da scoprire  che i segni tracciati sono anche ali e zampe di insetti, parti di cieli stellati, etichette occasionali di vino, e da accogliere il suggerimento dei segni di essere letti altresì come parti di un progetto, un nuovo progetto, di fare degli insetti”. L’immediatezza si unisce alla sistematicità: l’immediatezza è nei “ricordi, anche inconsci, impressioni, emozioni germinate spontaneamente nel momento in cui si trasformano in realtà di linee”; la sistematicità nel fatto che, “al tempo stesso sono il punto di arrivo di un lavoro lento e metodico la cui intenzione non è quella di organizzare segni per rappresentare qualcosa ma per farli essere qualcosa, carica espressiva e provocazione, eterna risposta a infinite provocazioni, alla ricerca continua di un centro, ovvero di un equilibrio”.

La visione di Antonio Pinelli  si collega a quella del curatore: “Strazza individua la genesi dell’atto creativo in quello che potremmo  definire un incessante percorso di andata e ritorno dal dominio dei segni e delle parole a quello delle immagini e delle cose; quel percorso che trasforma due punti in due virtuali pupille, due linee che s’intersecano in un potenziale orizzonte, una virgola in un’ipotetica zampa di formica. Ma si badi bene: pupille virtuali , orizzonti potenziali, zampe di formica ipotetiche, pronte a regredire di nuovo allo stadio precedente di segni o a procedere verso altre trasformazioni, altre nominazioni”.  Per concludere: “Strazza sa bene che l’atto creativo sta nel percorso, non nel punto di arrivo , che è di per sé provvisorio, instabile, inconcluso. E tale rimane anche quando l’opera è licenziata dall’artista, se non altro perché si offre disarmata e, per così dire, istituzionalmente disponibile, all’interazione con lo sguardo e la mente di ogni suo spettatore”.

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Penetra ulteriormente nella genesi dell’atto creativo Lorenza Trucchi: “Strazza dà ai propri strumenti linguistici – segno, colore, luce, materia, spazio – un carattere ed un valore di immediatezza, di fragranza. Una eredità che gli viene dall’informale e che fa sì che la sua pittura sia anche, hic et nunc, proiezione immediata dell’io. Se passato e presente, memoria  e realtà si alternano e fondono, ciò non avviene mai in forma iconica e narrativa”.  Si manifesta così: “Il suo ricordare non è fatto di citazioni, ma di essenze ed equivalenze; il suo diario, diretto, immediato, si realizza attraverso una criptoscrittura ad un tempo febbrile e lucida, penetrante e labile.  Un discorso fatto dunque di lontananze e presenza , di silenzi e confessioni, un dire che è anche un celebrarsi, un celarsi che è anche un dichiararsi “. E’ una compresenza di ossimori che viene spiegata: “Questa andatura, sebbene oscillante, non è però ambigua. Se Strazza appare talvolta misterioso, se non addirittura impenetrabile, è perché crede che la parte più alta, più lirica del vivere sia inesprimibile. Da qui la propensione intellettuale verso la sublimazione della propria tensione emotiva”.

Tensione che  paradossalmente, con un altro ossimoro virtuale, si esprime nella forma meno aulica, mediante semplici segni, in una realizzazione grafica essenziale , così commentata da  Tullio Gregory: “Sempre, perfino nei titoli, il segno, la trama, la partitura sono presenti come elementi caratterizzanti che intervengono ad interrompere l’omogeneità di un colore, di uno sfondo, di una prospettiva, la determinano e la definiscono in modo imprevisto: il segno, prepotente, è come la firma dell’Autore, non più marginale ma impetuosa e centrale”.  E ancora: “Quello che interessa Guido Strazza è sempre e solo la suggestione di un segno, assunto nel proprio itinerario creativo come tale, senza più alcun rapporto con la realtà che pur lo aveva evocato e suggerito”.  Infatti  “il segno si libera da ogni riferimento oggettivo o pretesa imitativa  e non rinvia ad altro che a se stesso, nella radicale libertà del gesto creatore; non lancia messaggi, non cerca dialoghi se non con altri segni, tutti gratuiti, senza altro senso che quello di essere segni”. In questo contesto, “il colore è sempre condizionato, imbrigliato da un tessuto, una trama di segni che costruiscono e condizionano lo spazio in cui si collocano i colori”.  E ricordiamo che per l’artista  a dare ad essi “forma e nome” sono proprio “i loro segni di confine” , la “trama di segni” di cui parla Gregory.

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Semplici segni, abbiamo detto, ma con le loro trame vengono accostati alla musica. Lo spiega così Giorgio Nottoli, che ha creato composizioni musicali ispirandosi alle due principali cartelle grafiche di Strazza, prendendo l’avvio dalla terza delle tre parole poste dall’artista alla base del proprio lavoro, il Tempo, insieme a Vedere ed Andare: “Il Tempo è quello del vedere e del segnare, è quello del gesto che produce il segno e che al segno è indissolubilmente legato. L’arte visiva, quindi, si sviluppa effettivamente nello spazio, ma lo fa con un tempo che noi percepiamo anche a ‘cose fatte’, come parte costituente dei segni e impronta dei gesti che li hanno generati. Ma anche gesto e suono sono indissolubilmente legati”.  Con queste diversità e assonanze: ” La differenza dovuta al momento in cui l’informazione temporale viene ceduta al segno, prima o durante la fruizione dell’opera, resta una distinzione importante fra le due arti, ma la presenza nel tempo, acclarata da Strazza come componente fondamentale anche della pittura, rende possibile una visione analitica capace di accomunare almeno alcuni  procedimenti applicabili alle due arti”.

E al termine di questa rassegna critica, ecco le parole di Massimo Maiorino che collegano direttamente le opere al loro creatore: “Sono occhi infinitamente desideranti quelli di Strazza che illuminano un nuovo ricercare che è ricerca di sé, dei propri segni, del proprio linguaggio. E sono nuove carte e tele, nuovi segni e colori, a caratterizzare un orizzonte mobile, in perenne mutamento”.  Per concludere: “Continua così l’arte di Strazza a crescere nel giardino fecondo in cui s’incrociano pittura e scrittura, a nutrirsi e soprattutto a nutrirci”.

Visitare la mostra è come entrare in questo giardino, nel quale l’opera, per ricordare le parole di Nottoli che abbiamo già citato, “si offre disarmata e, per così dire, istituzionalmente disponibile, all’interazione con lo sguardo e la mente di ogni suo spettatore”.  Lo faremo con il vivo interesse di vedere finalmente come si esprime nella realtà un’impostazione così particolare e sorprendente.

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I segni e le trame delle incisioni, pitture e grafiche di Strazza 

La mostra antologica, per sua stessa natura, crea un diretto collegamento delle opere con il percorso di vita dell’artista, cui faremo cenno nel passare in rassegna la galleria di incisioni e disegni, tempere e acqueforti, grafiche ed  alcuni oli.

Si inizia con 3 disegni su carta  del 1942, “Il decollo”, “Combattimento”e “Volo notturno”, sono del periodo iniziale in cui si avvicina ai Futuristi dopo l’incontro con Tommaso Marinetti, e  partecipa alle importanti mostre  di Aeropittura a Roma e a Venezia con i suoi “segni” aggrovigliati nei vortici dell’aeropittura. Ha soltanto 20 anni, quindi continua i suoi studi laureandosi in ingegneria civile nel 1946, poi si impiega presso la “Sogene”, ma vi resta poco, pur contro il volere dei genitori,  perché non riesce a conciliare pittura e lavoro; non solo lascia la società ma parte per il Perù dove percorre il paese come rilevatore topografico prima di aprire uno studio pittorico a tempo pieno e partecipare a stagioni espositive intense in Sudamerica dal 1948 al 1953. Vediamo esposte “Cantiere in via Bissolati” del 1948, prima di partire. che nella schematica struttura compositiva riecheggia i freschi studi ingegneristici, e una serie di opere degli anni sudamericani, dai 2 su carta in inchiostro e carboncino “Matador”, 1949, e “”Machu Pucchu”, 1952, ai dipinti ad  olio su tela a colori, uno del  1952, “Paesaggio-Aura” e 4  del 1953, “Paracas” e “Coda hano hay que ganarie  ala tierra”, “Si  el rio llega todo serà arruinado” e “y los perros ladran en las noches”.

L’anno dopo, nel 1954, rientra in Italia e risiede a Venezia fino al 1955, di tale anno l’olio su tela  “Racconto scenico” e la tempera “Senza titolo”, dalla pittura sudamericana con influssi precolombiani passa ai pittogrammi con immagini e segni, tratti grafici che diventeranno sempre più preminenti.

Dopo Venezia,  a Milano dal 1956 al 1963.  Nei primo quinquennio il segno si ispessisce, ci sono forti addensamenti materici nei 3 carboncini e pastello su carta “Balzi rossi”, che riflettono la sua  permanenza sulla costa omonima, tra Mentone e Ventimiglia,  dove si trovano le grotte che lo riportano sulla linea di “avanzare regredendo”  delle ultime opere sudamericane di influsso precolombiano,  tanto che al critico Marco Valsecchi ispirano “le apparizioni improvviso di un mondo nuovo e innocente agli occhi vergini dei preistorici abitatori di quelle piagge marine”. 

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Gli addensamenti proseguono nei 2 “Paesaggi olandesi”  del 1960, mentre in un terzo “Paesaggio olandese” e poi in 2 “Figure”, anch’esse del 1960, si sciolgono in tratti anche se ancora alquanto spessi. Riflettono il viaggio in Olanda di quell’anno per conoscere la terra della  compagna Ille che sposa nel gennaio del 1962 a Milano.  Saranno ben diversi gli “Orizzonti olandesi” di cui parleremo più avanti, come lo sono le ultime opere esposte del periodo milanese, l’olio su tela “Luce e immagini”, 1961, e le 2 tempere su tela del 1963, “Progetto di un viaggio”, e “Grande progetto per il viaggio alla ricerca di Atlantide”, ampie  superfici aperte percorse da pochi tratti.

E’ un’evoluzione che diviene ancora più marcata con il definitivo trasferimento a Romanel 1964,  frequenta fino al 1967 la  Calcografia Nazionale su invito del direttore Maurizio Calvesi per approfondisce il rapporto tra segno e colore con sperimentazioni su acqueforti presentate in mostre in Italia e all’estero.  Di questi anni sono esposte opere di varie tecniche,  “Segni e trame”, su vetro armato e tavola,  e la tempera su carta “Esperidi“, entrambe del 1966, le acquatinte su carta “Ritmato” e “Luce + Luce1”, del 1967,  con la progressiva apertura alla luce e a punti o linee di colore. L’attenzione alla luce è altrettanto esplicita nelle due grafite su carta “Riflessioni  e rifrazioni”, del 1970, in cui i raggi vengono solidificati in un intenso chiaroscuro. 

Nel 1971 riceve l’incarico di insegnamento di tecniche dell’incisione presso l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila diretta da Pietro Sadun, che svolge fino al 1975, e subito inizia il progetto “Ricercare”, con una prima tempera “Ricercare in rosa”, dello stesso anno, la grafite su carta  “Ricercare” e la tempera su tela “Ricercare Nocar”, entrambe del 1972, progetto che culmina nelle 11 litografie del 1973 della cartella “Ricercare”, tutte esposte in mostra: le litografie  presentano grandi campiture bianche con delle modulazioni molto delicate tanto da aver ispirato la composizione musicale di Nodoli che abbiamo ricordato. Dello stesso anno le 2 grafite su carta “Paesaggio olandese”, con il parallelismo dei tratti ad evocare l’orizzontalità dei Paesi Bassi.

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Anticipano  la cartella “Orizzonti olandesi”, del 1974, anno in cui torna nella Calcografia nazionale, questa volta su invito di Carlo Bertelli per la ricerca di gruppo che porterà al libro “Il gesto e il segno” di cui abbiamo parlato.  Sono  20 acqueforti con diverse varianti tecniche, in metà delle quali i segni molto sottili che riecheggiano i “Paesaggi” si presentano in varie modulazioni, nelle altre, invece, si addensano in macchie scure, due di esse sono definite “maniera nera”.

“Trama quadrangolare”, è un altro ciclo in cui si manifesta l’intenso impegno artistico e di sperimentazione di quegli anni. Vediamo 9 tempere e carboncino su tela del 1976 e 2 del 1979, con l’ulteriore evoluzione in riquadri chiari e scuri e altre figure in cui i tratti si  consolidano; mentre in 2 acqueforti datate 1978-83  tornano dominanti  grandi fasci di tratti rettilinei che si incrociano.  I riquadri prevalgono di nuovo  nelle tre tempere e carboncino su carta “Segno e trame”,  del 1978.

Siamo giunti così al  ciclo “Segni di Roma”, anche per quest’opera oltre che per la sua caratura ha avuto un prestigioso  riconoscimento  cittadino nel 2002, Vediamo esposte 15 tempere e grafiti su carta e su tela in cui dalla composizione dei tratti in riquadri, come quelli già commentati, nella tempera e carboncino con l’aggiunta significativa “Gesto e segno” del 1979, si va a composizioni in cui i tratti visualizzano chiaramente, oltre che  dichiaratamente nel titiolo, l’elemento ispiratore, 6  le colonne, di cui una “spezzata”, 5 i pavimenti di cui 4 cosmateschi, 3 gli archi,  una il muro. Il curatore Appella  afferma che “‘Segni di Roma’ (‘Colonne’, ‘Segni e trame’, ‘Cosmati’) rimane emblematico” come coronamento  “della lunga e complessa attività di Strazza, dall’esperienza  peruviana alla sosta veneziana, al momento milanese, al definitivo approdo romano”.  E lo spiega così: “In questo approdo, quasi a voler continuare il sogno di Piranesi, accampa il suo lavoro, non per animare le rovine  ma per estrarre i segni incancellabili, nonostante tutto, di quella Roma antica e moderna con la quale continua a fare i conti anche la nuova Europa”. Una Roma che resta “città dell’immaginazione, eternamente viva dentro di noi, il luogo di peregrinazioni fisiche e ideali, il suo eterno rinascere suggerito dai suoi minimi segni”.

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L’opera di Strazza prosegue nel terzo millennio, la mostra presenta 4 lavori di una nuova serie “Orizzonti”, di cui 2  del 2001 sono acqueforti  con tratti paralleli dominanti in orizzontale o verticale, 2 tempere del 2004-05 invece con grandi riquadri tendenti al blu.

Ancora più intenso il cromatismo di altre opere del periodo più recente, che richiama l’esplosione di colori del Guttuso  volitivo di “Angurie”, una delle ultime opere che segna il trionfo della vita in una fase dimessa, umbratile e malinconica. Vediamo le tempere su tela “Rosso,  segno azzurro”, 1999-2005, e le  “Partitura in due” una ” blu cornice verde”, l’altra ” giallo cornice blu”, colore che troviamo anche in “Blu, segni bianchi”, 2008, e in 2 “Senza titolo”, del 2006 e 2014. I caratteristici tratti su fondo grigio sono invece in “Segno bianco”, 2011 e “Segni”, due tempere  su tela del 2012 e 2014.  Fino alle due ultime opere, “Forte blu su  bianco”  la prima, “Senza titolo” la seconda con un motivo rosso su dominante nera.

Sono entrambe del 2016, la prima opera esposta risale al 1942, quindi la mostra antologica copre addirittura 74 anni di vita artistica nella quale ci sono stati altri prestigiosi riconoscimenti  oltre a quelli già citati. Aggiungiamo solo che nel 1985 è stato direttore dell’Accademia di Belle Arti fino al 1988, nel 1988 ha ricevuto il  Premio Antonio Feltrinelli, ripetuto per la grafica nel 2003, nel 1997 eletto  Accademico di San Luca, di cui diviene presidente nel 2011-2012.

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Tra  questi momenti, un gran numero di  importanti esposizioni in Italia e all’estero oltre ai tre anni di  docenza sul linguaggio dell’incisione alla Scuola di specializzazione in Archeologia e Storia dell’Arte  nel 1993-95.  Con il nuovo millennio  il premio “Cultori di Roma”  del corpo accademico dell’Istituto Nazionale di Studi Romani consegnatogli il 21 aprile del 2002 dal sindaco Veltroni per il suo contributo artistico e personale alla conoscenza della città, cui segue nel 2014 il Premio Vittorio De Sica a Palazzo Barberini;  insieme a  una nuova vasta serie di mostre  sulla sua intensa attività artistica lungo un percorso coerente e rigoroso che abbiamo cercato di raccontare.

Da tale percorso si può trarre più di un insegnamento, ci limitiamo a riportare quello da lui stesso indicato al termine di una conversazione-intervista  con Stefano Marson: “Spero che i miei studenti abbiano appreso dalla mia didattica questa libertà nel vedere i segni, perché quando noi guardiamo le cose, prima del loro nome e significato queste ci appaiono come segni specifici, Spero di averli educati a questa presa di possesso di sé e del mondo”.  Sostituendo alla parola “studenti” la parola “visitatori”  il messaggio della mostra ci sembra esplicito. Un messaggio formativo, anzi educativo.

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Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00. Catalogo  “Guido Strazza. Ricercare”, a cura di Giuseppe Appella, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, 2017, pp. 152, formato 19,5 x 25, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la citazione di Guttuso,  cfr., in questo sito, il secondo dei due articoli del 25 e 30 gennaio 2013.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale alla presentazione della mostra, si ringrazia la Direzione della Galleria, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, a sin. “Cosmate (tensione dell’ordine) 1984 e a dx “Partitura in quattro” 1989; seguono, “Luce e paesaggio” 1958, e “Ricercare in rosa” 1971; poi, “Ricercare un centro”  1973, e “La trama quadrangolare” 1975; quindi, “Trama quadrangolare” 1976, e “Segni di Roma” 1979; inoltre, “Trama quadrangolare” 1979, e “Gran cosmate” 1982; ancora, “Segni di Roma (colonna spezzata)” 1987, e “Grande aura” 1992; infine, “Rosso, segno azzurro”   1999-2005, e “Senza titolo” 2014, in chiusura, “Senza titolo” 2016.

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Ritratti di poesia 2017, 11^ maratona poetica al Tempio di Adriano

di Romano Maria Levante

A Roma, nel Tempio di Adriano a Piazza di Pietra, il 3 febbraio 2017 si è svolta l’11^ edizione di “Ritratti di  poesia”, organizzata dalla “Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo” ,  un’intera giornata di immersione totale nella poesia contemporanea, articolata in sezioni che in successione incalzante offrono un panorama aggiornato della situazione e delle tendenze in campo poetico. Si sono avvicendati sul palco  35 poeti italiani, di cui 2 poeti dialettali, e 4 poeti stranieri, e sono stati conferiti 3 Premi dei concorsi poetici nazionale e internazionale, vi sono state sorprese e momenti emozionanti. La manifestazione, ideata e realizzata dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele, poeta oltre che operatore in campo culturale, artistico  e finanziario, è stata curata come sempre da Vincenza Mascolo, molto attento  ai tempi e ai contenuti.

L’idea ispiratrice e la sua realizzazione

L’annuale maratona “Ritratti di poesia” non smette  di sorprendere. Mentre lo scorso  anno il consueto “tour de force” poetico fu ravvivato da “Poetry Slam”, il “certamen” giovanile ripetuto anche nell’attuale edizione, questa volta sono stati introdotti la “physical poetry“, e l’accompagnamento con l’arpa, il video poetico e l’“artistical poetry”,  così ci piace definire lassociazione poesia-pittura rinascimentale; nell’allestimento, dopo il vulcano del 2016, evocazioni arboree collegate alla poesia.

Si continua a dare corpo al motivo ispiratore dell’ideatore e realizzatore, Emmanuele F. M. Emanuele, presidente della “Fondazione  Terzo pilastro – Italia e Mediterraneo”: “All’origine di tutto vi è il mio personale convincimento che in Italia la poesia dovesse avere la medesima visibilità e fruibilità delle altre forme artistiche (le arti visive, il cinema, il teatro, la musica e la danza) attraverso un appuntamento  in grado di arricchire in modo originale l’offerta culturale della città e del Paese”.

Un’idea nata in lui come poeta, e sviluppata come imprenditore. L’appuntamento, che ha celebrato nel 2016 il decennale, non si è limitato a fornire una pur esauriente rassegna annuale delle tendenze poetiche in Italia  e nel mondo. “In questi anni – prosegue Emanuele – abbiamo coinvolto in via sempre maggiore le scuole, abbiamo favorito la diffusione della poesia contemporanea tra i giovani, abbiamo creato suggestivi momenti di contaminazione tra la poesia e le altre espressioni artistiche ed abbiamo favorito la conoscenza in Italia e a Roma dei più significativi autori stranieri in attività”. 

Quindi un’azione propulsiva, non soltanto conoscitiva o tanto meno puramente contemplativa, che non trascura il mercato – e come potrebbe farlo un imprenditore! – anzi ne presenta uno spaccato, con l’intervento dei rappresentanti delle case editrici impegnate nel difficile campo della poesia, che viene aggiornato annualmente con nuove presenze, analisi e valutazioni.

Nulla di asettico in tutto questo, la poesia non viene considerata un’entità immateriale  che acquisendo vita propria si distacca da chi l’ha creata; al contrario, viene fortemente personalizzata valorizzando il legame con l’autore che non solo legge lui stesso i propri componimenti ma viene preventivamente intervistato sui loro contenuti e sui motivi interiori. Non ci sono divani psicanalitici bensì candide poltrone, però il risultato é  sempre una autoanalisi, fatta in pubblico ma non meno autentica e sincera, seguita dalla manifestazione poetica di ciò che si è confidato, e in molti casi confessato.

Come si possa dispiegare una maratona protrattasi per l’intera giornata nella successione incessante di letture poetiche richiesta dal programma è un mistero gaudioso che si ripropone ogni anno. Al curatore della manifestazione Vincenzo  Mascolo, conduttore garbato e intervistatore penetrante, va il merito di una regia impegnata nel rispetto dei tempi, scanditi da un contaminuti, e nella sequenza e articolazione dei contenuti,che assicura varietà ed evita pause e dilazioni, come accelerazioni e concitazioni. Tutto si dipana naturalmente, secondo un canovaccio noto agli “abitué” nelle sue linee generali, senza momenti di stanchezza nel fluire ordinato del programma con le novità e i motivi di attrazione che sollecitano l’interesse e la curiosità.

Alle  sezioni abituali, “Di penna in penna” sugli autori italiani, e “Poesia sconfinata” sugli autori stranieri, “La lingua, le lingue” sulla poesia dialettale e  le “Idee di carta” sulle case editrici, con il Premio nazionale e internazionale, che fa salire alla ribalta ogni anno un poeta italiano  e straniero di grande spessore, si aggiungono gli intermezzi a sorpresa come la “Physical poetry” del mattino, che nel pomeriggio diviene “Hope”,  la poesia con l’arpa e con la pittura cui abbiamo accennato all’inizio, mentre il “Poetry slam”  diventa un appuntamento ricorrente.

Una rapida rassegna di una  giornata così particolare non pretende di renderne l’intensità insieme alla leggerezza, ossimoro meno impraticabile di quanto possa apparire, sebbene anche in questo caso “intender non lo può chi non lo prova”, mentre chi ha partecipato alla “total immersion” poetica può testimoniare che non dà stanchezza ma continue emozioni.   

L’ “ouverture” con gli studenti di cinque istituti romani

Si inizia con “Caro poeta”,  due ore dedicate agli studenti  entrando nel loro mondo:  5 le scuole romane presenti con i ragazzi  in platea nella loro esuberanza giovanile e sul palco l’incontro con sei poeti affermati. Le scuole sono  intitolate a De Sanctis e Kant, Machiavelli e Rossellini, grandi maestri in campi diversi della cultura, ma non si parla di loro, bensì di poesia, ed è giusto che sia così. Dei sei poeti vengono lette alcune creazioni, ne citiamo degli scampoli per entrare nel clima.

La solitudine in Franco Buffoni: “La mano sinistra della tua costanza/ che ribadiva non sarà nulla/ un cambio di indirizzo/ una voltura” e in Claudio Damiani: “Cielo azzurro e poche nuvole, piccole/ odore forte di rosmarino e ginestre/… e giù lo scoglio dove passo tutte le notti/ a piangere guardando il mare”.

Un  tormento interiore in Maria Grazia Calandrone,  “Non sono io il pericolo: la tua nemica/ è l’anima, che porta la fatica/ di volere/ negando di volere”, e in Luigia Sorrentino, “Lascerà la vallata/ l’agonia di tutti i movimenti/ moltiplicava i nostri nomi/ prima di entrare nel rigore di ogni/ alba, di ogni notte…”. E la “dottrina dei contrari” in Rosa Pierno,  “Agendo impulsivamente abbiamo costruito un illusorio mondo/ …non ci troviamo all’estremità di un segmento/ ma in un’area senza connotazione, ove tutto può accadere/ e da cui si può proseguire verso qualsiasi direzione/ senza mai trovare l’uscita”.

Il valore della “Libertà”  in Elio Pecora:  “E’  una parola che le comprende tutte/… libero è chi s’ascolta nella mente/ e segue il cuore che sente e consente,/  chi agli altri riconosce/ quanto lui stesso vuole,/ chi prende e dona amore./ E’ libero chi ignora la violenza,/ chi rifiuta l’inganno e la bugia,/ e chi alla sua giornata/ pensa come a una strada/ scelta: e pure è un dono e un’avventura”. Espressioni intense che suscitano riflessioni profonde, “e chiamale se vuoi, emozioni…”

L’incontro con i giovani prosegue nel “Poetry Slam” –  che come gli Slam tennistici fa parte di una catena di manifestazioni analoghe, in questo caso il Campionato nazionale della Lega Italiana di  Poetry Slam, poesia orale  e performativa – maestro di cerimonie  come lo scorso anno il vivacissimo Lello Voce, partecipanti Sergio Garau e Alessandra Racca, Silvia Salvagnini e Gabriele Stera, gli spettatori e non più la giuria di studenti decretano il vincitore tra il tifo da curva nord dei compagni in sala.

Poesie, premiazioni e “performance”  poetico-artistica

Dopo le due ore festose con i giovanissimi  inizia la sfilata di poeti – ciascuno prima viene intervistato, poi legge numerose sue composizioni –  con la 1^  parte di “Di penna in penna”, è di scena Alessandro Fo, citiamo da “Al figlio”, virtualmente potrebbe essere tra i ragazzi che hanno appena lasciato la sala: “Là in alto era l’amore/ all’ombra di una storia famosa/… però/ nulla è mai davvero come sembra,/ ma almeno sette volte più complesso”, la complessità della vita che si scopre a poco a poco.

E’ soltanto un assaggio, siamo al primo dei tre momenti ufficiali, la consegna da parte di Emanuele del “Premio Fondazione Terzo Pilastro Ritratti di poesia”, a Giuseppe Conte, che nel 1995 l’Unesco, la sezione culturale dell’Onu, invitò a rappresentare l’Italia nel “World Institute for Opera and Poetry”. Ecco un frammento del suo “Il Poeta”: “La mia anima si cerca ora nelle acque,/ e nel fuoco, nelle mille/famiglie dei fiori e degli alberi/ negli eroi che io non sono/ nei giardini dove tutta la pena/ di nasce e e morire è così leggera./  Forse il poeta è un uomo che ha in sé/la crudele pietà di ogni primavera”. Peccato che gli studenti siano andati via, avrebbero sentito che “è passata come una cometa/ l’età ragazza  di Ettore e di Achille/ non sono diventato altro che un uomo”.   

Nell’era di Internet, con i suoi “social network”, ci si può esprimere in poesia entro i 140 caratteri di “Twitter”, anzi si può essere premiati dal presidente Emanuele che ha introdotto nella maratona poetica anche questa modernità. Consegna il “Premio nazionale e il Premio europeo ‘Ritratti di poesia. 140′”  in base al responso della giuria composta da Maria Borio, Evelina De Signoribus e Tommaso Di Dio.

Dalla modernità di Internet alla novità della “Physical Poetry” di Erika Lemay, artista canadese di fama mondiale, “guest star” del “Cirque lu Soleil”, ed è tutto dire; è stata madrina del nuovo Malpensa per l’Expo milanese, ospite al Festival di Venezia. E’ una “performance” strepitosa di grande forza espressiva, l’armonia dei suoi  movimenti acrobatici, in cui l’arte della danza e del teatro si sposa con la maestria della ginnasta, fa dimenticare la difficoltà e il rischio insito nell’esibizione. Dopo la poesia attraverso i cinguettii del passerotto di “Twitter”,  la poesia nelle armoniose e ardite  movenze di Erika! 

Il sandwich poetico, due editori e due riviste tra sei poeti

Le  “Idee di carta”  presentano le case editrici Donzelli e Gatti, e le riviste “Argo” e “Voce Romana”, mezz’ora di confronto di esperienze e analisi di un mercato difficile come quello delle pubblicazioni in tema di poesia: a metà della giornata, tra tante evocazioni poetiche che portano nell’empireo dell’immaginazione, misurarsi con la realtà è senz’altro opportuno e utile.

Prima e dopo le “Idee di carta”, altre due parti di “Di penna in penna”, nel sandwich di editori e riviste tra sei poeti.

Nella 2^ parte, la madre in Luciana Argentino, “Ha un senso vivere e lavorare se una bambina mi guarda a lungo/ e poi mi dice sei bella e alla sua voce io di lei mi accorgo/ e del suo sguardo fermo su me assente/ e sanata risalgo al mio presente”, e la figlia in Rossella Tempesta, “Ho visto un albero immenso/ il padre di tutti gli alberi/ ho pensato: ecco mio padre./ ma mio padre è un esile faggio/ il suo seme caduto a caso, lontano dal filare/ cresciuto sfasato, stranito dai venti”; il passato disinibito in Carlo Bordini, “Fare l’amore era come andare sempre in taxi/ casualmente,/ in un taxi senza meta”, e il domani ansiogeno di Mario De Santis, in cui “Tutto verrebbe segnalato,  per prima la sottile/ differenza tra il sogno della morte/ e un altro giorno in cui saresti stato qui:/ lo chiameremo, in ogni caso, storia”.  

La 3^ parte presenta Alessandro De Santis, con l’enigma, “Senza dote di stelle lo raggiunse brusca la notte/ gli aprì la bocca come  a prendere fiato ./ Vide l’esatto diametro del cuore umano e/ pensò che fosse proprio una bella/ giornata per ricominciare”, e  Simone Di Biasio, con la quotidianità, “Si crede qualcuno ci nomini/ se perdiamo il controllo delle posate/  se scivola il bicchiere dalle mani/ o  applaudono in concerto coperchi e piatti”.

La maratona poetica dopo il giro di boa

Alle ore 14 la maratona gira la boa, una breve pausa dopo oltre cinque ore di poesia poi si riprende: “Poetry first”!

E la poesia incalza con la 4^ parte di “Di penna in penna”, dove troviamo la natura in Antonietta Gnerre, “Di tutti i colori amo il verde./… dove trovo il verde/ il senso delle cose si ripete./ Si ripete da lontano fino all’inizio dei rami/ nel gioco dell’istante./ Dal verde tutto emerge  e tutto muta/ nel miracolo di un nuovo germoglio”; e in Cinzia Marulli, “Eppure c’è un sentiero/ che porta in alto/ in quel luogo di sole/ dove l’ombra è amica/ un luogo piccino/ che affaccenda il respiro/ e il riposo saluta/ come farebbe un amico”. L’umanità in Pasquale Vitagliano, “Non c’è più la malattia/ a far galleggiare sul pantano/ il nostro amore senza amore./… Vorrei andare al cinema/ a rivedere la mia storia”. 

Ma ecco l’incontro con Fernanda Mancini, viene illustrato il progetto artistico “Liquefare l’immobile”, che costituisce sfondo e cornice alla manifestazione, con rilievi intagliati e pannelli a inchiostro di china, foglie e carta velina che recano impresse immagini naturali come gli alberi miste a immagini simboliche, dal cerchio al triangolo al pesce con iscrizioni poetiche del cinese Gu Cheng, in una sintesi di espressioni artistiche che avvicina fino a riunire culture e civiltà diverse.

Fanno parte della cultura come retaggio della tradizione e insieme specchio del presente i dialetti, con cui la poesia si misura nella sezione significativamente intitolata “La lingua, le lingue”.  In un romanesco alla Belli, Francesco di Stefano con “Er tritacarne de la storia”, ammonisce bonariamente sul fatto che “Nel corzo de li secoli passati/ de civiltà ne s’o cascate a frotte,/ puro l’imperi mejo organizzati/ so’ finiti co l’ossa tutte rotte”; in un sardo dal suono ancestrale, Anna Cristina Serra con “E’ dalla stanza di dentro” ci dice che “Est de s’aposentu di aintru/ su prus cuau/ in cust”omu de sempri” [“è dalla stanza lontana/ la più nascosta, / in questa casa di sempre”], “chi movint is miradas/ de babbus a filius/ de filius a babbus/ circhendu unu mori.” [“che partono gli sguardi/ da padri a figli/ da figli a padri/ cercando un sentiero”].

Rientra nell’accostamento tra  culture e civiltà la “Poesia sconfinata”, in 3 parti, l’ultima in chiusura: in ognuna un poeta che dopo l’intervista-colloquio ha recitato le proprie poesie in lingua originale mentre sullo schermo passava la traduzione italiana.  Il poeta mongolo G. Mend-Ooyo in “Alba di luna sull’antico tempio”  dice: “La luna sorge sul tempio antico, illumina/ di fievoli raggi l’apatia della mente/… Nella mestizia delle ombre del mondo/ c’è di sicuro una luce, una candela della mente”.  E la  poetessa islandese  Sigurbjorg Prastardòttir, in “Diluita”  in modo molto personale confida: “Accentuo le rughe/ così per svago, perché so che le valli/ sotto gli occhi provengono/ dal monte che sovrasta la chiesetta campestre/ di mia nonna, che era in gamba…”. Anche la  poetessa libanese Vénus Khoury-Ghata va sul personale in “Ortiche”: “L’ira del padre ribaltava la casa/ … la madre ci chiamava fino al tramonto/ doveva esser bello ed era solo triste/ i giardini trapassavano più lentamente degli uomini/ mangiavano la nostra pena fino all’ultima briciola/ poi eruttavano schegge in faccia al sole”.

Gli autori italiani incalzano, la 5^ parte di “Di penna in penna” presenta 3 poeti, tre modi di declinare l’ansia della vita. Antonella Bukovaz, “Guardami/ sono lo specchio del corpo insepolto/ riflessa, capovolta/ la legge divina dimora e scorre/ mentre viva, sepolta,  mi divora/ nel corpo acceso/ sua dimora/ guardami tu sei in me…”. Giovanna Marmo, “Baciatemi presto,/ sto lottando contro il crepuscolo./ Posso resistere fino a quando la luce nella casa/ di fronte si accende. Non c’è tempo,/ Baciatemi”. Italo Testa, “Non ero io, non vedi, in quella folla, non erano le mie mani, a toccarsi,/ non erano le mani, soprattutto questo, dico ancora una volta,/ soprattutto questo, e non riuscivo a trattenerle, tutte quelle immagini, a destra e a sinistra, la pressione che monta”.

I “mondi concentrici” della poetica di Emanuele, memoria e natura  

Siamo ad un altro momento suggestivo, viene proiettato il video “Mondi concentrici” con una serie di poesie di Emmanuele F. M. Emanuele recitate da  noti attori, Siravo e Prisco, la Casali, la Marcucci e Daniela Poggi in luoghi artistici e ameni di rara bellezza, con musiche suggestive e trasposizioni pittoriche del maestro cinese Wang Huangsheng direttore del Museo di Pechino, regista Francesco Verdinelli.  Abbiamo rivissuto le emozioni della serata dell’ottobre 2010  al  “Teatro Quirino”,   quando le poesie di Emanuele in un caleidoscopio di luci, colori e  musica facevano sentire soprattutto la forza della natura. Nel “Tempio di Adriano” il clima più raccolto ha posto in primo piano l’interiorità dei sentimenti.  Gli attori hanno dato voce alla poetica dell’autore collocati nel contesto artistico e naturale che gli è congeniale. Per i quattro libri di poesie pubblicati dal 2008, “Un lungo cammino” e “Le molte terre”, “La goccia e lo stelo” e “Pietre e vento” ha ricevuto numerosi premi letterari prestigiosi; oltre a questi, ha avuto riconoscimenti del suo impegno a 360 gradi, poetico e culturale, di promotore e mecenate, citiamo i premi più recenti, per il 2016, “Federico II”, “Fair Play”, “Pianeta azzurro. I protagonisti”. 

Ora, a testimonianza della poetica di Emanuele – le memorie e i sentimenti immersi nella natura – riportiamo l’ultimo componimento della prima silloge della  “trilogia degli affetti”, come è stata  definita:  “Nuvole immobili/ il sole le passa/ riscalda le pietre sconnesse dal tempo/ l’umano rincorre l’umano/ costretto da un vivere incerto/ inquieto si aggira/ chiedendo conferma…”; e dalla silloge conclusiva, il componimento che le ha dato il nome, “La goccia e lo stelo”: “La goccia splendente si appoggia/ allo stelo che da sotto/ felice la guarda./ Pura e bella, rugiada del/ cielo./ La luce si frange su di essa,/ la passa e la scinde in mille/ colori./ Trasforma l’essenza in diamante/  di luce./ Ma poi d’incanto lo stelo/ si erge/ e la goccia silente scivola via./  Il  bello che la sorte/ ti dà di portare, d’improvviso diviene gravoso e/ lo perdi/ proteso a raggiungere altro”. Nella quarta silloge, il “lungo cammino”  passa dalla dolcezza della goccia e dello stelo, all’asprezza di “pietre e vento”.

Continua l’immersione poetica con nuove sorprese

La 6^ parte di “Di penna in penna” si frappone tra questo momento emozionante e un altro momento inatteso quanto sorprendente. E’ un intermezzo che vede di scena due poeti: Giuseppe Langella, con la visione apocalittica di “Brace, brace!”, “L’Europa coi motori in avaria/ consuma la sua ennesima agonia/ su un’altalena infida d’exit poll/… baby, game over, l’urna/ è il flipper delle plebi”; e all’opposto l‘intimità vitale di Vittoria Fonseca con “Le mani di mia madre/ Non punivano/ e non davano carezze/… Le mani di mia madre suonavano la vita,/ parlavano di fede e di fusione/ erano mani di benedizione”.

Siamo al momento inatteso, l’altra sorpresa di “Ritratti di poesia”:“Piero della Francesca e la poesia contemporanea”. Sullo schermo scorrono le immagini degli splendidi capolavori del maestro, mentre vengono lette le poesie ispirate ai celebri dipinti da Marina Di Benedetto e Moira Ergan che con Damiano Abeni ha introdotto  questo bel cammeo da “Feathers from the Angels Wing – Persea Books”.

Ma come le ciliegie una sorpresa tira l’altra, c’è  la staffetta tra pittura e musica in una forma particolarmente ricercata e suggestiva. La 7^ parte di “Di penna in penna” ci regala  le note dell’arpa, suonata da Francesco Benozzo che  accompagna i versi del suo poema in nove parti “La capanna del naufrago”, di cui ne recita alcuni, eccone un frammento: “E si fece silenzio.  E intorno al lido/ tutto era oscurità, tuto era cielo/ tutto un cumulo fosco di piovaschi/…non ricordavo che vaghe invisibili cose/ a me sempre più care e famigliari,/ in qualche punto, in alto, come neve/ guizzava l’ala di un uccello immacolato./ Era un mattino terso, azzurro-acciaio/ e un vento dolce accarezzava il mondo”. Come faceva quella sera il suono della sua arpa.

Ancora la “Physical Poetry” di Erika Lemay con “Hope” prima del momento culminante, al quale vogliamo far precedere le ultime due parti di  “Di penna in penna”

Nell‘8^ parte, il senso del tempo e del passato di Biagio Cepollaro, “… scorre le foto dei passati momenti e ancora stupisce della forza/ che ha il passato di sparire quanto più prova a far di sé testimonianza/ ci rinuncia e a questa incessante di sé cancellazione si adegua o ci prova”, e di Tiziano Fratus, “Ho atteso il tempo del legno,/ per chiedere permesso a Dio/ …Ho socchiuso gli occhi, pregato me stesso/ di non pensare più a niente, di centrare il mare del vuoto./ Non ho vestito l’anima di pace, che non è spuntata./ Ho solo percepito il terrore della materia/ annidata, cerchio su cerchio, un anno dopo l’altro”; poi l’inquieta visione cosmica  della “Rotazione terrestre” di Sonia Gentili, “Suonare flauti organi, campane/ di capre, strumenti di tortura, suonare per overe/ teologico, per farne meccanica di questa/ sfera armonica. La notte rotante ci trascina/ alle stelle, al fango di voragini/ e montagne, alle/comete”.

La 9^ e ultima parte di “Di penna in penna” conclude la sezione con i temi intimisti di Alessandro Ceni. “Entra in questa Lapponia della mente in questa Islanda del cuore,/ nel pubere esilio di un’infinita prospettiva, nella talga nella tundra/ nella mia fornace, un cumulo rossiccio e senza fondo,/ dove puoi imparare a fare a meno di dio…”, di Rosita Copioli, “Come mi batte il  cuore, dici,/ mentre io sono come ferma, bloccata dall’emozione/ che si è presa tutto il cuore fino a farne/ una pietrina raccolta, chiusa,/ che raccoglie la luce solo/ quando raccoglie il tuo sguardo”, e infine di Stefano Dal Bianco, “Ma altri vi potranno assicurare/ (e oggi io sono tra quelli)/ che tutto questo spossamento, in certi giorni,/ non procede dall’aria né dal corpo/ ma è soltanto dolore/ di anime costrette,/ solitudine di molti,/ vuoto vissuto male,/ mancanza o assenza di uno scopo”.

Che manchi uno scopo, o un risultato non si può dire per “Di penna in penna”, una vasta rassegna di poesia contemporanea di cui abbiamo cercato di dare un piccolo scampolo per ogni poeta. E’ stata una maratona a sé, all’interno della maratona dei “Ritratti di poesia”, considerando che abbiamo riportato un frammento di una sola poesia per autore, mentre sono state tante quelle lette da ciascuno di loro dopo l’intervista-colloquio che ne ha mostrato la sensibilità evidenziando gli aspetti salienti della rispettiva motivazione e vocazione poetica. Con le nostre citazioni abbiamo cercato di rendere il clima della  giornata e dare il senso della continuità perché le espressioni poetiche  personali e  individuali hanno formato un percorso collettivo: tanti rivoli e affluenti sono confluiti nell’unico fiume di parole, uno spettacolo corale di tipo teatrale, con gli effetti visivi del video posto in alto: una “sacra rappresentazione”, nel segno della sacralità della poesia eternatrice. 

Il premio internazionale a Ko Un, cos’è la poesia  

Ma eccoci al “clou” che abbiamo voluto collocare al termine del nostro racconto – non ci piace definirlo resoconto – cioè la consegna  del “Premio Internazionale Fondazione Terzo Pilastro – Ritratti di poesia” al poeta della Corea del sud, Ko Un, da parte di Emanuele.

Il poeta coreano è un personaggio di straordinario spessore culturale e umano, che  ha vissuto i traumi di due tremendi conflitti, la seconda mondiale e la guerra civile, si è rifugiato nella meditazione da monaco buddista per dieci anni, poi è tornato laico amareggiato e  deluso, cadendo  in una cupa depressione da cui si è risollevato battendosi per i diritti umani e impegnandosi in campo culturale fino ad essere candidato per il Nobel della letteratura nel 2002 e 2004.

Una vita movimentata, della quale racconta gli incontri più importanti in “Diecimila vite” , un’impressionante serie di volumi in continua crescita; scrittore inesauribile sui temi più diversi con 120 libri, tradotti in parecchi paesi, tra cui molti libri di  poesie, lunghe come la serie “Zen”, brevi come gli “Epigrammi”. In occasione della  sua presenza in Italia “Lieti Colli” ha pubblicato “L’isola che canta”:  dopo “L’isola che non c’è” abbiamo un’isola che c’è e si fa sentire. Le sue poesie sono  permeate di sensibilità per la natura, come ha sottolineato Emanuele, in carattere con il tema di fondo della maratona poetica di quest’anno.

Un primo componimento: “La strada non c’è/ Da qui in poi, speranza./ Mi manca il respiro,/ da qui in poi, speranza./ Se la strada non c’è,/ la costruisco mentre procedo./ Da qui in poi, storia./ Storia non come passato, ma come tutto ciò che è.”. Un secondo, altrettanto espressivo, diremmo fulminante, si intitola proprio “Poesia”: “Un giorno/ sembrava  mia ospite./ Un altro/ sembrava la mia padrona./ In tutto questo tempo/ ho sognato/ camini che buttavano fumo./ Ancora oggi non so chi sia, questa Poesia”. 

Ci torna in mente la risposta che diede  Emanuele a  Francesco De Gregori nella serata a lui dedicata nei “Ritratti di Poesia” del  2012, replicando amabilmente alla sua affermazione nell’intervista prima del concerto, che  nelle proprie canzoni non c’era vera poesia, dovendo sottostare  ai vincoli dell’abbinamento musicale. Ma lo disse in termini tali e le sue canzoni sono così poetiche che Emanuele si sentì di contraddirlo, “Invece la sua è vera poesia,  e lo ha confermato questa sera”, concluse.

Si può rispondere in modo simile a  Ko Un, rispetto al verso finale sopra citato. Non solo lo sa, ma lo ha fatto sentire a tutti cos’è la poesia. Sono i  versi del suo componimento – breve e quanto mai intenso – che abbiamo riportato integralmente, nella loro icastica semplicità e  toccante efficacia. E’ quella la poesia!  

Con questa constatazione ci sembra di poter concludere il nostro racconto della maratona dei Ritratti di poesia” 2017.

Info 

Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, Roma. Catalogo Fondazione Terzo Pilastro – Roma e Mediterraneo, “Ritratti di Poesia – In viaggio con la poesia, dodicesima edizione, 2006-2017, Roma 3 febbraio 2017, manifestazione a cura di Vincenzo Mascolo, .Per le manifestazioni degli anni precedenti cfr. i nostri articoli: in questo sito, 19 febbraio 2016 “10^ maratona poetica al Tempio di Adriano”,  15 febbraio 2013 “Ritratti di poesia, al Tempio di Adriano con la Fondazione Roma”; in “fotografia.guidaconsumatore.com”, 30 gennaio 2012 “Ritratti di poesia anche fotografici al Tempio di Adriano”, e in “cultura.inabruzzo.it”, 9 maggio 2011 “‘Ritratti di poesia’  al Tempio di Adriano”, questi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su un sito accessibile.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Tempio di Adriano nel corso della manifestazione, si ringrazia la “Fondazione Terzo Pilastro – Italia e Mediterraneo” per l’opportunità offerta.  In apertura, il promotore e realizzatore Emmanuele F. M. Emanuele al microfono, seguono  alcuni momenti-tipo della manifestazione: una poetessa legge le proprie composizioni, con a sinistra seduto Vincenzo Mascolo che l’ha appena intervistata, poi uno scorcio della platea; quindi la lettura poetica di un’altra autrice con a sinistra l’intervistatrice, e due volteggi acrobatici di Erika Lemay nella “Physical poetry”; inoltre tre componenti dell’allestimento nel progetto artistico di Fernanda Mancini “Liquefare  l’immobile”; ancora,  Francesco Benozzo che accompagna le poesie con l’arpa e l’abbinamento dell'”artistical Poetry”; infine tre momenti clou, Emanuele presenta il premiato Ko Un, seduto a sinistra, poi il poeta legge alcuni suoi componimenti, quindi la consegna del premio; in chiusura, l’esterno del Tempio di Adriano nel quale si è svolta la manifestazione.

Museo Universale, 3. Dalle requisizioni ai musei nati dalle Accademie, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

La nostra visita alla mostra aperta dal 16 dicembre 2016 al 12 marzo 2017,  alle Scuderie del Quirinale, con il titolo evocativo “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”  termina con la descrizione delle altre opere esposte, in particolare quelle dei “precursori” del ‘300 e ‘400 dei grandi artisti del Rinascimento di cui abbiamo dato conto in precedenza,  nel segno della natura e dell’ideale, oltre ai maestri dell’antichità.  La mostra, curata da Valter Curzi, Caterina Brook e Claudio Parise Presicce, con il Catalogo Skira, è  organizzata da ALES, la società “in house” del MiBACT, di cui è presidente e A. D. Mario De Simoni, con l’Azienda Speciale Palaexpo, precedente curatrice delle Scuderie, nella fase di transizione gestionale.

Abbiamo rievocato la vicenda storica, prima dolorosa della requisizione e asportazione delle nostre opere d’arte portate in Francia, a seguito della conquista napoleonica;  poi gaudiosa con il  provvidenziale recupero, anche se parziale, alla sconfitta dei francesi.  E ci siamo soffermati sulle motivazioni, il “sogno di Napoleone” divenuto un incubo per i territori italiani, in particolare Roma, spogliata dei capolavori dell’antichità e del Rinascimento nel tentativo di oscurarne l’immagine di “città eterna” a vantaggio di Parigi e del suo imperatore.

Poi abbiamo sottolineato la vicenda gloriosa, a conclusione dell’evento così sconvolgente, la nascita di una coscienza popolare, prima limitata ai singoli territori, poi divenuta sentimento patriottico pur nella frammentazione territoriale, del valore dell’arte come fattore identitario e patrimonio collettivo da tutelare e valorizzare. Fino alle  raccolte d’arte in musei legati al territorio.

La visita alla mostra ha permesso finora di dare conto delle opere-simbolo,  dell’antichità e del Rinascimentoi, con il ritorno alla natura fino all’ideale della scuola bolognese e ai “maestri del colore”. Proseguiamo la carrellata con i  “primitivi” e le opere poste nelle sedi museali sui territori.

 Dalle requisizione dei “primitivi” ai musei nati dalle accademie

Come in un dramma in tre  tempi, le requisizioni non si sono limitate a quelle della fine del 1796, concluse rapidamente con il trasferimento a Parigi delle opere antiche più pregiate e dei maestri del Rinascimento,  di cui le opere esposte nella mostra fin qui commentate sono un campione molto significativo.

 Il secondo tempo si apre nel 1802 con la nomina a direttore del Louvre di Dominique Vivant Denon, che intendeva riordinare le collezioni per le scuole artistiche e per questo coltivò l’idea di  integrare la raccolta dei sommi maestri del ‘500 e ‘600, anche a fini didattici, con i precursori del ‘300 e ‘400; nella prima razzia era stato preso soltanto il Perugino come maestro di Raffaello e non per i suoi pregi, pur notevoli.E come fare questa integrazione? Ovviamente con una nuova campagna di requisizioni in Italia: Denon era vissuto a lungo a Venezia, Firenze e Napoli, e vi tornò nel settembre 1811 per requisire le opere dei  precursori, i cosiddetti “Primitivi”. Fu agevole reperire lquelle che provenivano da congregazioni religiose soppresse da Napoleone, quindi accumulate nei depositi.

Nel terzo tempo si vanifica l’intero disegno, siamo al 1815, “arrivano i nostri”, come nei film western, il “settimo cavalleggeri” infligge l’estrema sconfitta a Napoleone, i predatori devono restituire il bottino, le opere d’arte  tornano nei territori di origine.

Vediamo esposta una selezione delle opere di questi “primitivi”, 2 dipinti raffigurano  la Madonna, altri 2 i santi, quasi tutte tempere su tavola di medie dimensioni.. 


 Di Zanobi Machiavelli,  la “Madonna in trono con il bambino tra i santi Antonio da Padova, Silvestro, Ranieri e Francesco”, 1455-65, la Madonna al centro regge appena il Bambino in piedi sulle sue ginocchia, ha un mantello blu scuro ravvivato dal vestito rosa che si apre sul petto, i santi intorno con abiti per lo più chiari in varie pose oranti, le loro figure sono poste lateralmente, distanziate senza sovrapporsi.

Invece nella“Madonna con il Bambino e sant’Anna con donatrici (Sant’Anna Mettetrza) “, 1468, di  Benozzo Gozzoli ,i tre soggetti principali si sovrappongono stretti l’uno all’altro in senso diagonale, con i visi accostati, mentre le figure delle donatrici in preghiera sono poste in basso in dimensioni minuscole, il tutto inquadrato in una specie di teca con in alto il timpano recante l’immagine di Dio padre. 

Di profilo le figure nel dipinto centinato di  Giovanni Mazone, “San Francesco presenta Sisto IV”, 1490,  in una composizione suggestiva per la tonalità cinerea e lo sfondo desertico e roccioso con il Crocifisso che si apre dietro un colonnato che ha una colonna spezzata.

Posti frontalmente i tre santi ritratti da Luca Baudo da Novara, “Sant’Agostino tra i santi Ambrogio e Monica”, 1497, la figura centrale è dominante, su un trono imponente sotto un baldacchino architettonico particolarmente elaborato.

Il banchetto di Erode”, 1387-88, diLorenzo Monaco , è una composizione ariosa, le figure allineate orizzontalmente con una leggerissima prospettiva, tonalità tenui di un cromatismo comunque vivace, nella scena a prima vista serena spicca al centro la testa recisa del santo che viene portata su un piatto dinanzi a una tavola senza cibo, come se quello fosse il “fiero pasto”.

L’“Imago pietatis”, del Perugino, presenta il Cristo con la braccia larghe in basso che si mostra nella sua inerme nudità , ritroviamo nei sequestri dei “primitivi” l’artista già incontrato nelle prime requisizioni dei rinascimentali, forse perché quest’opera è anteriore al 1500 essendo del 1495.

Ricordiamo che l’arrivo delle opere asportate dei “primitivi” fu celebrato con una grande mostra al museo parigino nel 1814, il canto dl cigno del “sogno di Napoleone”: l’anno dopo la sua sconfitta fece scattare le restituzioni. Intanto dal male venne il bene, la spoliazione fece maturare sempre più la sensibilità per il valore dell’arte come patrimonio collettivo che, oltre a stimolare l’orgoglio per i grandi maestri, fece rivalutare pure le opere di artisti minori, fino ad allora sottovalutate e per questo accumulate nei depositi dopo la soppressione degli enti religiosi che le possedevano senza alcuna intenzione di esporle..

Con le iniziative che seguirono per istituire gallerie museali pubbliche, la cui sedi naturali erano le locali Accademie delle belle Arti,  la grave minaccia della spoliazione, solo in parte rientrata perché  il recupero fu parziale ma molto consistente, si trasformò in una opportunità positiva, la mostra ne dà conto con alcune opere significative, quasi tutte tempere su tavola.

Della Pinacoteca  che fu creata a Bologna con la testimonianza dell’evoluzione artistica emiliana, vediamo esposte 3 composizioni con la Madonna.

Nella “Madonna con il Bambino, angeli e il donatore Giovanni da Piacenza”, 1378, di Simone dei Crocifissi, al secolo Simone di Filippo, quasi l’intero spazio è occupato dalla figura principale su sfondo dorato, gli angeli  al lato sono piccoli, quasi incorporati nelle colonne tortili, la figura del donatore anche qui è minuscola, con un rilevo dato dall’abito scuro che spicca sulla tonalità dorata della composizione.

Al contrario, nella “Madonna con Bambino in trono e i santi Agostino, Giorgio, Giovanni,Stefano e un angelo (Pala dei Manzuoli o del cardellino)”, 1490, del Francia, al secolo Francesco Raibolini, la sua figura, anche se collocata più in alto seduta senza un vero trono, è più piccola di quella dei 4 santi, due a destra e due a sinistra in pose alquanto disinvolte, soltanto il piccolo angelo in basso appare in preghiera.

Spicca da sola, in primo piano la grande figura nell’abito tradizionale – ripresa fino alla vita con uno sfondo nel quale si distinguono in lontananza delle rocce, un albero e una costruzione – della“Madonna con il Bambino”  di Giovanni Battista Cima, 1495.

Altri 3 dipinti documentano la creazione delle Gallerie dell’Accademia a Venezia, di cui 2 composizioni con la  Madonna.

Quella di Bartolomeo Vivarini raffigura la “Madonna  in trono con i santi Andrea, Giovanni Battista, Domenico e Pietro”, 1464, si tratta del “Polittico Ca’ Morosini”, quattro formelle separate con le figure dei santi isolate, ciascuna con un proprio simbolo, al centro la Madonna in un abito blu scuro tendente al nero nell’inconsueta posizioni con le mani giunte  e il Bambino disteso addormentato sulle sue ginocchia.Stefano  “plebanus” di Sant’Agnese, nell’“Incoronazione della Vergine”, 1381, la presenta in una composizione molto originale, al centro l’incoronata con l’incoronante che le pone la mano sul capo, la corona è incorporata nell’aureola; sono entrambi seduti con una abbigliamento  simile, mantello sul nero e veste sul rosso, ma sempre con motivi dorati, intorno un tripudio di angeli con aureole, ai loro piedi due angeli musicanti; è un quadro di notevole impatto cromatico e compositivo.

Due figure austere accostate, una con pastorale, l’altra  che regge un modellino di basilica, nel dipinto stretto e alto di Carlo Crivelli, “I santi Girolamo e Ansovino”, 1488-90.

Viene ricordata la nascita della  Pinacoteca di Brera a Milano che, come capitale della Repubblica cisalpina, risentiva in modo particolare dell’influenza francese, per cui sull’esempio del Louvre non era limitata all’arte del territorio, ma attraverso scambi con Bologna, Venezia e la Francia tendeva a dare un panorama variegato dell’arte occidentale.

Sono presentati nella mostra degli oli su tavole centinate del 1529,  di Alessandro Bonvicino, con i santi “Bonaventura da Bagnoregio e Antonio da Padova”, “Berardino da Siena e Ludovico da Tolosa”,  e con San Francesco d’Assisi”, quest’ultima è un’immagine frontale, le altre riprese di tre quarti, tutte con la testa leggermente reclinata.

Nasce  un sentimento nazionale pur nella frammentazione politica

La nuova sensibilità acquisita con i salvataggi del recupero portò ad impedire la vendita di opere destinate al mercato per acquisirle al patrimonio pubblico, come avvenne per il “Ritratto funebre di Gaston de Foix, del Bambaia, al secolo Agostino Busti, inizi del 1500, che faceva parte di un mausoleo rimasto incompiuto; vediamo esposto il calco in gesso di Pietro Pierotti, del 1870, di 2 metri di lunghezza, celebra la morte eroica a 23 anni di Gaston de Foix duca di Nemours, nipote di Luigi XII, nominato governatore di Milano nel 1512 e caduto nell’aprile dello stesso anno combattendo alla guida dei francesi contro la Lega santa; è ritratto con gli occhi chiusi, le braccia leggermente piegate, le mani incrociate. Con lui le statue alte circa 50 cm dei  5 “Apostoli” marmorei dello stesso Bambaia.

Al  culto delle memorie patrie si devono anche le donazioni alle istituzioni cittadine di importanti opere, come la “Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli“, morto nel 1501 a Imola da condottiero e procuratore militare al seguito di Cesare Borgia, scolpita da Tullio Lombardo, 1525. In marmo, lunga 170 cm, fu donata  con un esplicito richiamo al “decoro nazionale”. Colpisce il languore del volto esangue con la testa reclinata come nel sonno, vestito di un armatura leggera, immagine dolce e romantica che ha emozionato intere generazioni.

Sono esposte altre opere a testimonianza della nuova attenzione alla tutela dell’arte come espressione delle memorie e dei valori legati ai singoli territori: immagini sacre verso le quali la considerazione è di molto accresciuta, venendo ritenute un vero patrimonio locale. Completano la galleria llustrata fino a qui, che vista in sequenza appare un caleidoscopio in cui l’oro si mescola al rosso e al blu e celeste delle vesti, le figure sembrano animarsi nelle diverse posizioni in cui sono riprese.

Ancora tempere su tavola, le ultime che vediamo esposte sono  le 4 Madonne con Bambino e santi di Niccolò di Liberatore detto l’Alunno, 1458, e Giovanni Santi, 1484-89, Nicolò Rondinelli, post 1495, e Defendente Ferrari, 1505-10; nonché altre rappresentazioni della Madonna con Bambino in trono e angeli musicanti di Giovanni Martino Spanzotti, 1526-28, come Vergine annnnciata, con il cartiglio “Ecce ancilla Dni”, in una piccola tavola a fianco a quella con l’“Arcangelo Gabriele“.  

Ma al di là del territorio, il sentimento nazionale comincia ad affiorare alimentato dalle memorie del passato, anche se lo ostacola la frammentazione politica in tanti “staterelli” prima del sospirato raggiungimento dell’unità d’Italia.  

A simbolo del patriottismo emergente la serie di busti di una sorta di  “Pantheon degli italiani illustri”, promosso da Antonio Canova commissionando le statue  ad artisti a lui vicini – ne vediamo esposti 3 di Alessandro d’Este, e altri 4 di Biglioschi e Trentanove, Manera e Albacini, sono volti pensosi con in basso l’iscrizione del nome.  

Sono state realizzate tra il 1813, quindi prima della restituzione delle opere requisite. Vediamo i busti di artisti che, salvo Giotto e il Beato Angelico, sono autori di opere asportate prima e restituite poi: Correggio e Tiziano Vecellio, Paolo Veronese e Andrea del Sarto, il Domenichino e  il Perugino. Fu un’intuizione quasi profetica, la celebrazione ci fu prima con la partecipazione popolare  al ritorno delle opere, poi con l’esposizione al Pantheon dei busti voluti da Canova..

Abbiamo ricordato all’inizio come lo scopo fosse di alimentare il sentimento nazionale, al di là dell’ambizione personale di Canova, che vedeva nel Pantheon la destinazione permanente, essendo il monumento-simbolo in cui Raffaello aveva chiesto fossero poste le proprie spoglie.

 Infine, al  culmine di questa galleria,  troviamo la “Venere Italica”  che Canova aveva realizzato nel 1809-11, allorché il governo della Toscana gli commissionò una copia della “Venere degli Uffizi”, portata a Parigi con le requisizioni nel 1802: lo scultore creò invece una statua di propria concezione, ponendola, con il titolo che le assegnò, a simbolo dell’immagine dell’Italia nell’arte unita alla bellezza. 

Alla nudità della Venere antica aggiunse un panneggio con cui si copre in un gesto pudico all’uscita dal bagno, e le diede nell’espressione e nella positura una dimensione psicologica che, sottolinea il curatore Curzi, “non sfuggiva a Ugo Foscolo”, il grande poeta così sensibile ai motivi patriottici, vedi “i Sepolcri”, “in estatica ammirazione di fronte alla scultura canoviana, non nascondendo la sua predilezione per l’opera moderna giudicata ‘voluttuosissima donna’”. .

Per sottolineare il carattere allora ancora utopistico dell’immagine patriottica di Canova viene presentata nella stessa sala terminale del percorso  “La Meditazione (l’Italia del 1848)”,  di Francesca Hayez, 1851,  che raffigura una Venere popolare, bella e sensuale nella sua parziale nudità, ma come indifesa e umiliata, dimessa e smarrita con in mano una croce  simbolo del sacrificio nei moti risorgimentali del 1848, espressione dello smarrimento del paese lacerato dalle divisioni e dai conflitti.

E’ un colpo di teatro che suscita la riflessione sulla storia patria dopo aver ripercorso una vicenda così particolare nella quale l’arte si collega alla storia, come avviene nei momenti critici per il valore simbolico ed evocativo delle creazioni artistiche.

Tema molto attuale questo al giorno d’oggi,  allorché non si tratta più di spoliazioni e bottini di guerra ma di distruzioni ancora più deprecabili e dissennate volte a rimuovere la memoria di quanto di più prezioso ci sia: le radici della nostra civiltà. 

Dalla mostra viene, dunque, anche un ammonimento e un monito a difendere il patrimonio artistico come inalienabile scrigno di valori, oltre a una evocazione storica di alto significato morale e civile. 

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, a cura di Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce, Skira, dicembre 2016, pp. 312, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due  articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il  9 gennaio e 21 febbraio u. s.,  con altre 11 immagini ciascuno. 

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Tullio Lombardo, particolare della “Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli”, 1525; seguono, Stefano “plebanus” di Sant’Agnese, “Incoronazione della Vergine”, 1381, e  Tintoretto (Jacopo Robusti), “Sant’Agnese resuscita il figlio del prefetto (Miracolo di sant’Agnese”, 1563-78 (spostare); poi, Perugino (Pietro Vannucci), “Imago Pietatis”, 1495, e “Testa di Giove”, prima metà I sec. a. C.; quindi, Alessandro d’Este, “Giotto di Bondone”, 1815, e Pietro Pierotti, “Ritratto funebre di Gaston de Foix”, 1870; Antonio Canova, Venere Italica”, 1809-11, e Francesco Hayez, “La Meditazione (L’Italia del 1848)”, 1851, inoltre, inquadrate nella penombra,  la “Vergine Italica” e , in chiusura, la “Lastra sepolcrale di Guidarello Guidarelli“.

Thayaht, futurismo eccentrico e geniale alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Alle Galleria Russo, a Roma, dal  9 febbraio al 2 marzo 2017  la mostra “Thayath, un futurista eccentrico. Sculture, progetti, memorie” espone  oltre 200 opere tra decorazioni ed oggetti, disegni e progetti,  pitture e sculture, un’immersione in un mondo affascinante, dall’eleganza unita a una linearità  associata a un cromatismo variegato, alla ricerca della perfezione formale. Ha collaborato con la Galleria Russo l’Associazione per il patrocinio e la promozione della figura e dell’opera di Ernesto e Ruggero  Alfredo Michahelles, i nomi suo e del fratello con il nome d’arte”Ram”, e l’Archivio  Seeber Michahelles. Curatrice della mostra Daniele Fonti, Catalogo Manfredi Edizioni con saggi della curatrice, di Carla Cerutti e di Agnese Ferrazza,e “un ricordo” di Elisabetta Seeber.

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La figura di Thayaht è indubbiamente intrigante, dal nome palindromico cui ha aggiunto l’h dopo l’iniziale Taiat, al futurismo eccentrico e tardivo, per così dire, ma così geniale, incisivo  e personale, all’apertura a diverse arti orientate verso il pubblico, con un design artistico di alto livello, alla sintesi tra influssi anglosassoni e spirito italianismo, fino alla fiducia nel regime fascista cui dedicò un’originalissima effigie del Duce in linea con la semplificazione estrema dei suoi volumi.

Questa esposizione alla Galleria Russo si inserisce meritoriamente nella riproposizione del futurismo con l’evocazioni di esponenti di spicco a partire da Marinetti, proseguendo con Erba e Dottori,  fino all’aeropittura di Tato. 

Al futurismo Thayath approdò tardi, negli anni ’30,dopo un incontro con Marinetti che lo colpì profondamente, ma di certo lo seguì fin dall’inizio, anche se una certa mentalità cosmopolita – derivante dalle origini, dall’educazione e  cultura familiare e dalla propria curiosità che lo portò a viaggiare  in Europa e negli Stati Uniti – e in particolare gli influssi anglosassoni,  lo preservarono da una adesione pronta e totale, cui si opponeva anche la sua poliedricità artistica e la sua ripulsa degli atteggiamenti esteriori spesso eccessivamente movimentisti e non certo eleganti del futurismo montante nella prima fase.

Ben prima della consacrazione futurista, comunque,  c’erano state le decorazioni negli anni ’10,  l’intuizione della Tuta al termine del decennio, che rifletteva l’estensione del futurismo dall’arte alla vita in tutte le sue manifestazioni salienti compreso l’abbigliamento,  del qualericordiamo  gli abiti di Depero e di Balla, con i suoi giubbotti futuristi, fino alle prove plastiche  del 1922 che chiamava “ritmi plastici” in assonanza alle ricerche di Boccioni del”ritmo plastico puro”. 

Uno dei primi ispiratori – ricorda la curatrice Daniela Fonti nella sua accurata ricostruzione dell’arte di Thayaht – sembra fosse stato il pittore americano Giulio Roslshoven,  che viveva a  Firenze; da lui apprese la ricerca dell’armonia attraverso la linea e l’equilibrio della composizione; il risultato doveva essere qualcosa di semplice e immediatamente percepibile. Questa impostazione derivava anche dalle tesi di Arthur Wesley Dow, che in più negava la gerarchia tra arti maggiori e arti minori perché tutte ispirate al principio dell’armonia, basato a sua volta su tre elementi, linea, colore e rapporti tra luce e ombra intesi in senso astratto e decorativo e non in senso plastico. Anche le prove nella scultura lo portavano a far perdere alla materia la sua plasticità e gravità per assumere un puro ritmo dinamico di tipo musicale.

Siamo nel 1920, Thayaht  imbevuto di queste teorie, va in America, ad Harward, ai corsi di Denman Ross, che era stato allievo proprio di Doss, come Georgia O’‘Keeffe,  e aveva apprezzato  alcune sue prove grafiche astratte definendolo “giovane e promettente designer”, e in effetti sentiva la vocazione per il “fashion design” e voleva aggiornarsi.

Così  inizia dalle decorazioni per passare a disegni per abiti, agli oggetti fino alle piccole sculture, tutto destinato al pubblico; si aggiungono progetti e disegni “privati” anch’essi esposti.

Le decorazioni e i modelli

Dalle decorazioni inizia la nostra rassegna delle opere in mostra seguendo il percorso artistico e di vita di Thayaht Vediamo
esposti 10 acquerelli e tempere su carta inseriti nelle più diverse figure geometriche, tra il 1915 e il 1925, con il titolo “Motivo decorativo”: 6 rettangolari, con diverse tonalità e intensità cromatica, 4 ovali, di cui 3 con tonalità fredde e una calda,  2 circolari e 1 triangolare. Non se ne conosce la destinazione, dovrebbero essere studi per  mattonelle o ceramiche, tessuti o vetrate. Vi sono poi 2 “cartoncini” con 12 e 15 disegni di motivi decorativi e 2 “Prove di decori” con diverse forme gometriche o arabescate come poste a confronto per la scelta, un “Disegno per potiche“e 2 “Disegni per vaso”. .

Negli stessi anni, in particolare tra il 1919 e il 1925, la collaborazione  con la famosa stilista Madeleine Vionnet, conosciuta in un suo viaggio a Parigi, che gli aveva chiesto  di soggiornare due volte all’anno nella capitale francese per progettare tessuti, abiti e accessori, i suoi disegni per abiti femminili erano di foggia marcatamente geometrica, lo “stile Thayaht” celebrava la donna dinamica e sportiva liberata sia dal ruolo di madre di famiglia sia da quello di “femmina fatale”.

Il “Manifesto per Madeleine Vionnet, con una figura femminile ammantata che domina una colonna ionica, divenne il logo della maison, riprodotto sulle etichette di abiti e profumi, su cartoline, inviti e perfino sulle fatture. Ed ecco alcuni suoi disegni in tempera o acquerello su carta con 2 ” modelli per vestito” da lui disegnati nel 1918, prima di conoscere la Vionnet, un figurino sul retro di una cartolina postale e un modello in una stanza davanti  a una scrivania; del 1919 sono esposti i disegni di modelli ambientati all’esterno, un “Modello per costume da bagno” tra il verde in riva a uno  specchio d’acqua, un altro per un vestito con la donna che guarda il sole al tramonto in uno scenario suggestivo, questo fa capire come non son semplici schizzi ma ambientazioni. Era già con Voinnet quando ha realizzato la tempera su carta “Manekinios”, con due modelle in piedi alla prova di un tessuto che ancora non è divenuto abito.  Nella “Composizione con figura” del 1920 la figura nuda con in mano la mela dinanzi a un albero stilizzato con geometrie sferiche sembra evocare il peccato originale, viene ritenuto  un disegno preparatorio per una scena teatrale.

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E al teatro sono dedicati circa 20 “Bozzetti per costume teatrale” che si aggiungono ai disegni di modelli per la maison parigina. A differenza da questi ultimi, per lo più  non sono stati commissionati, ma creati sulla spinta del  suo interesse per il teatro, nato dai contatti a Parigi anche con i balletti russi, tanto che organizzava  rappresentazioni a Firenze nel proprio giardino. Mentre i modelli per la moda sono ambientati in interni ed esterni suggestivi ma sono statici, i bozzetti per il teatro non hanno sfondi ma sono molto dinamici: non più mannequin in posa, ma figure in movimento molto accentuato con le gambe allargate nel passo di danza e le braccia protese  spesso in movimenti acrobatici, alcuni con un forte cromatismo in modelli variegati e variopinti.

Parlando di modelli non si può non concludere con il clou del suo spirito creativo in questo campo, l’invenzione della “Tuta” , di cui vediamo esposti alcuni disegni, in particolare “Due figure maschili in tiuta” e “Modello di bituta“, entrambi del  1919. Ideato insieme al fratello Ruggero, in arte Ram, fu un’innovazione allora rivoluzionaria,  l’abito universale come anticipazione del futuro, largamente pubblicizzato anche con un cartamodello allegato al quotidiano fiorentino “La Nazione”, e con un evento spettacolare, regolarmente filmato, di centinaia di fiorentini in tuta e bastone da passeggio mescolati ai passanti divertiti tra Piazza della Signoria e Piazzale Michelangelo. Siamo in linea con l’impostazione futurista di favorire anche nel vestito il dinamismo e il movimento che propugnava, come dimostra l’ “abito maschile futurista” di Balla che abbiamo già citato.

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Lo ricorda la curatrice della mostra Daniela Fonti spiegando che proprio nell’anno della Tuta  aggiunse due “h” al palindromico nome d’arte, prima Taiat, nel quale spiccano le due “T”, e l’assonanza con Tight, l’abito anch’esso universale di gala, peraltro congeniale all’artista,  che veniva quasi contestato dal nuovo abito da lui creato per l’uso generalizzato. Così la Fonti: “Curiosamente  verrà dunque proprio dall’artista più dandy e conservatore del panorama italiano fra le due guerre l’intuizione assolutamente profetica di un indumento che, come il moderno jeans, è in grado di cancellare, nel segno dell’economia, della praticità e dello standard le differenze sociali che si manifestano attraverso l’abbigliamento”.  

E’ una delle manifestazioni contraddittorie quanto geniali del talento dell’artista descritto da Tullio Crali “elegantissimo vestito di bianco, bianco come l’immancabile baschetto”, quindi proteso non a omologarsi, ma a distinguersi anche nell’abito; e da Antonio Maraini, citato da Carla Cerutti, cone “un insieme di contrasti da spiegare benissimo quanto era in lui di singolare e, nello stesso tempo, da far accettare l’espressione del suo dandismo come un fatto genuino e spontaneo”.

Maraini “tenne a battesimo Thayaht a Monza nel 1923”, alla 1^ Mostra d’Arte Decorativa ripetuta poi ogni due anni, dove sì si apre un nuovo scenario nelle espressioni poliedriche del suo talento.

L’oggettistica e le sculture

A Monza, nella sala della Toscana, Thayaht presentò una serie di oggetti realizzati tra il 1920 e il 1922  che vediamo esposti nella mostra attuale: due “Candelabri” e una “Coppa”, un “Portacipria pentagonale” e un “Portacipria rotondo” in legno dorato, un “Piatto” in talattite – la lega cui diede il proprio nome da lui realizzata con alluminio e silicio, stagno e nichel –  e alcuni vassoi e vasi in metallo e ceramica dalle superfici lisce o incise con disegni geometrici, anche colorati.

Si trattava di lanciare l’arte applicata in un artigianato di qualità, con i mobili di Duilio Cambellotti, le ceramiche di Gio Ponti e i vetri di Zecchin, i maestri e precursori del design moderno – che abbiamo visto rievocato nella mostra romana “La dolce vita” al Palazzo Esposzioni – tra cui si colloca anche Thayaht, soprattutto dopo la partecipazione alla biennale di Monza del 1927, saltata quella del 1925.  Prende quota il nuovo design artistico, si afferma lo stile novecentesco anche in questo campo con la presenza molto qualificata di alcuni dei  grandi sopra citati e anche del nostro artista, che espone in una saletta definita “piena di garbo, di gusto d’intelligenza e d’ardire”  in un articolo sulla mostra  della rivista “Emporium”.  

Nel 1929 aderisce al futurismo dopo il colpo di fulmine dell’incontro con Marinetti, e presenta i suoi oggetti in talattite all’Esposizione internazionale di Barcellona, dove viene premiato, poi di nuovo a Monza e alla XVII Biennale di Venezia, con un vetrina di sue opere sempre nel campo dell’oggettistica. Si afferma il suo spirito di designer di oggetti per produzione in serie destinata al pubblico, anche quando dagli oggetti passa alle sculture, per lo più piccole come soprammobili..

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E una delle sue più celebri sculture, “Il violinista”, spicca nella foto d’epoca sul lungo tavolo della mostra di Monza del 1927, tavolo che vediamo nel suo disegno del 1928 “Progetto per interno di negozio”. 

Siamo così giunti alla scultura, senza soluzione di continuità con le altre espressioni artistiche in un percorso parallelo a
quello del futurismo ma con delle proprie peculiarità molto pronunciate.

Le sue sculture non avevano destinazioni celebrative, quindi non erano monumentali, costtituivano un’estensione del design artistico; concepite in piccole serie per il pubblico; potevano essere realizzate con differenziazioni nei materiali, dall’ottone, al bronzo all’alluminio, e nelle patinature, dal rame al bronzo fino all’oro. Per il gusto,  siamo nell’ “Art Nouveau” degli anni ’20.  definita con il nome di “Déco”, che assecondava lo slancio vitale  verso la modernità e il futuro liberandosi dalle scorie del passato. Era questa la molla della rivoluzione futurista, e anche Thayaht ne fu protagonista, però in lui la figura umana non esprimeva un’energia fisica prorompente, bensì un’energia  definita da Daniela Fonti “etérica e impalpabile che la figura raccoglie e riverbera nell’ambiente, onda più emotiva che fisica, destinata perciò a trasformarsi in puro ritmo”.  

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Viene trovato  in questo un qualcosa di medianico secondo le tendenze spiritualiste verso l’irrazionale e l’occulto – del resto vediamo esposto un suo “Tavolino per sedute spiritiche” del 1930 –  ma ciò che risulta evidente è la matrice musicale, il ritmo compositivo e la ricerca di esprimersi mediante figure legate alla musica. Abbiamo così il “Violinista”, 1921,  e il “Flautista”, 1929, alti circa 70 cm, esposti insieme a due disegni per “Direttore d’orchestra”, 1929,  e “Contrabasso”, 1933. Tra queste opere di ispirazione  musicale ve ne sono di più piccole, alte meno di 30 cm, come “La sentinella” e “Bautta”, figura  caratteristica che vediamo anche disegnata in “Scena veneziana”, 1922-25, e “Bautta e il timoniere”, 1930; di ambiente veneziano anche il disegno “Gondoliere al tramonto. Spiccando il volo”, 1930-33.

Oltre alla musica lo sport, vediamo la scultura, altrettanto celebre del “Violinista”, “Tennista”, 1935,  ancora più esplicita nel gesto con la racchetta, realizzata in gesso per la Mostra internazionale di Arte sportiva dell”XI Olimpiade di Berlino del 1936 – di cui si ricorda il memorabile exploit di Owens nell’atletica davanti ad Hitler – ma non ci fu il tempo per la fusione, che avvenne per presentarla alla  XX Biennale di Venezia dello stesso anno; c’èanche un disegno preparatorio “Backand”, 1935, con appunti in inglese sul colpo di rovescio raffigurato.

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E soprattutto vediamo “Tuffo”, 1932, la più spettacolare, alta quasi 3 m, ma non ha nulla della scultura monumentale perché la sua verticalità esasperata, con l’essenzialità e la linearità del gesto atletico ne fa quasi l’evocazione immateriale del sogno di perfezione stilistica del tuffatore, si resta affascinati da tale forza evocativa, c’è chi vi vede la macchina perfetta. Realizzata dopo una progettazione iniziata nel 1929, fu presentata alla XVIII Biennale di Venezia nella sala dei Futuristi italiani, poi una versione ridotta alla citata Mostra di Arte sportiva delle olimpiadi berlinesi del 1936.  Successivamente il disegno  “Mani del ‘Tuffo’“, 1934, con il primo piano di braccia e viso in una sequenza sempre più stilizzata; mentre “Doccia”, 1934, è diretta discendente da “Tuffo” nella sua verticalità.  Altri progetti scultorei: “Starter”, 1927-30, con la figura che spara in aria , “Quadriga in corsa”, 1931, con il dinamismo nelle ruote moltiplicate per rendere la velocità.

Altri studi di sculture sono esposti in mostra: “Nike di Samotracia”, 1913, e “Studio” con testa rivolta ll’indietro”, 1916, ” Io sono te”, 1935, e “Progetto per scultura polimaterica”, 1936, il primo con una figura seduta e un’interessante annotazione, il secondo per una scultura polimaterica sul “Bollettino meteorologico. Probabilità”, 1934-36.

Ma vogliamo sottolineare tre progetti su temi che lo esaltarono, li riportiamo nel crescendo ideologico ad essi sotteso. :

Il primo “Palombartiglio”, 1933,  e “Artiglio”, 1934, per celebrare la  nave-recupero inabissatasi nel 1930 con la morte di tre palombari nel recupero del piroscafo “Egypt” nelle acque francesi, operazione che fu portata a termine da “Artiglio II” con riconoscimenti encomiastici, sono schematizzati degli scafandri per grandi profondità.  

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Il secondo è la serie di “Progetti per l’Altoparlante italico (Ritratto di F. Marinetti”, 6 disegni del 1935 con una testa che combina casco da aviatore, altoparlante  e fari, una trasposizione e sintesi di motivi che si muove verso l’astrazione. Alquanto astratti, oltre ai citati “Direttore d’orchestra”,“Madonna con bambino”, 1920 e “Ondina”, 1927, “Maschera”, 1929 e “Pesci”, 1935-36 , quest’ultimo realizzato anche in gesso, con una sequenza di  piccoli siluri geometrici identici..

Siamo al terzo progetto, ideologico per eccellenza perché riguarda l’ “Effigie del Duce”, 1929, vediamo  il primo  disegno della scultura “Dux” presentata a Palazzo Vecchio e donata, su indicazione di Marinetti, al Duce che scrisse su una fotografia che la raffigurava “Questo è Benito Mussolini come piace  a Benito Mussolini”, e l’artista la riportò sul disegno esposto. E’ una testa stilizzata in cui viene rimarcata la forma squadrata del volto con la mascella volitiva per esprimerne la forza virile, come in altro senso nel dipinto “Madonna di Montenero” dello stesso anno con la forma geometrica a uovo

La scultura “Dux” segnò  la sua consacrazione tra i futuristi alla XVII Biennale di Venezia, con l’evoluzione verso l’aeroscultura in opere come “Vittoria dell’aria”, 1931, e “Liberazione dalla terra”, 1934, definiti da Marinetti “vita aerea solidificata”, senza essere monumentali e neppure retorici. Si moltiplicano le sue partecipazioni alle mostre e iniziative futuriste, ne dà conto Agnese Ferrazza nell’accurata biografia dell’artista, “Da Firenze a Marina di Pietrasanta”.

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La pittura e i disegni

Siamo alle ulteriori forme  espressive di un artista poliedrico, aderisce all’aeropittura  nel 1930  e, nel 1931 partecipa a  ben 5 mostre per lo più  futuriste in Italia, e ad una all’estero, a Berlino; inoltre organizza a Firenze la “Mostra futurista . Pittura Scultura- Aeropittura”.  Ci fermiamo qui, ma l’escalation prosegue  negli anni successivi.

Di aeropittura forse si può parlare per due oli esposti, “Paesaggio marino in tempesta”, 1940, e “Tromba marina”, 1941, nel primo i nembi incombono su due isolette, nel secondo sono due barchette con le vele al vento esposte alla violenza dell’aria e dell’acqua, nel 1934 c’era stata una  tromba d’arta e nel 1937 tre trombe marine che evidentemente gli erano rimaste impresse.

Altre opere pittoriche  esposte sono anch’esse umbratili, su immagini prevalentemente ravvicinate, come le due intitolate “Giardino”, del 1915 e 1916, che in “Giardino controluce”, 1917, virano verso l’astrazione; come in  “Tramonto”, 1916 un modo diverso di vedere lo stesso orizzonte raffigurato cinque anni prima in “Paesaggio”, 1912, siamo nella fase iniziale.

Intense e cupe le ombre nei due “Notturno”, 1913-14, nel primo si intravede con molta difficoltà un pianoforte con pianista al centro di un giardino, nel secondo lo stesso ambiente è animato da una diecina di sagome sedute intorno a un tavolo tondo, quasi quello per sedute spiritiche presentato a Monza nel 1930, come abbiamo ricordato, c’è l’atmosfera mediatica..

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Un’atmosfera che ritroviamo in “I Quattro elementi”, 1929, dei volti che simboleggiano  terra e fuoco, acqua e aria, compenetrati in una composizione molto scura da lui utilizzata come biglietto augurale per l’anno nuovo, come ha fatto anche la Galleria Russo in occasione della mostra.  Altra incursione originale e inattesa, questa volta in materia geometrica, l’olio su tavola del 1942, “Teorema di Pitagora”,  con evidenziati cromaticamente i triangoli che compongono i quadrati costruiti sui cateti e l’ipotenusa, nei suoi “Diari”  c’è uno schizzo del terorema con qualche variante e alcuni appunti.

Poi abbiamo i dipinti  a olio “Mani e uovo”, 1930, e “Le mani dell’uomo”, 1934, “Pesci (Ritmi subacquei)”, 1931, e  “Composizione”, 1929, una tempera su carta che ricorda le opere  futuriste con linee di forza e una figura librata nell’aria, fino ad  “Acrobazia contro sole”, 1934, e  “Ombrelloni”, 1940,  sintesi geniali di situazioni e ambienti. L’estrema varietà dei motivi ispiratori l’arte pittorica di Thayaht è dimostrata anche dalle  figure umane, come “Ritratto di Elio”, e “Autoritratto”, entrambi del 1925, nello stesso atteggiamento del volto pensieroso con la testa appoggiata alla mano.

Molti volti e figure umane nei disegni, che si aggiungono a quelli preparatori di sculture già citati. Vediamo tre “Ritratti”, 1914, 1920 e 1925, due maschili e uno femminile, e “Fanciulla”, 1915-18, “Nudo femminile”, 1916,  e due “Autoritratti” – uno con i baffi, 1916, e l’altro con il cappello, 1930 –  “Donna che cuce”, 1919,  e “Studio di figura”, 1920-25, “Giovane che dorme”, e “Giovane disteso”, entrambi 1925, “Ermindo”,  1926, e “Fosco”, 1930.

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Colpisce la sua tendenza a disegnare giovani addormentati e distesi in piaggia, segno del suo spirito di osservazione che lo
portava a riprodurre, anche nei taccuini, ciò che vedeva in Versilia, dove le visioni balneari erano prevalenti. Tutto questo si è accentuato nel dopoguerra allorché, deluse le aspettative riposte nel regime mussoliniano nel segno del rinnovamento sociale da lui auspicato e in cui aveva creduto, si ripiegò in un visione sempre più intimistica, come del resto Mario Sironi.

I disegni dei giovani popolani ripresi in spiaggia, che abbiamo visto interessarlo anche trent’anni prima, diventano  sempre più numerosi, è esposto in mostra “Giovane sulla spiaggia”, 1950, che nella magrezza e nell’abbandono sconsolato esprime una realtà deprimente; dello stesso anno  “Autocalco”, si ritrae con fattezze forzatamente giovanili.  Cerca l’evasione nella ripresa dei temi esotici  di Gauguin, quasi l’aspirazione alla vita primordiale e innocente che vediamo in “Paesaggio tahitiano”, 1949. 

L’astronomia è un’altra passione liberatoria, nella “casa bianca” di Fiumetto aveva un grande telescopio, lo vediamo in unafotografia con Ettore Toto, il giovane che gli faceva compagnia e fu da lui adottato.L’immagine è dell’aprile 1958. Morirà nel 1959.

Ci sembra che quest’ultima citazione completi il quadro della sua poliedricità artistica senza bisogno di  lteriori precisazioni. Ma la sua personalità?  la evochiamo ancora con le parole di Antonio Maraini, che lo conosceva da vicino: “All’esteriore pittoresco ed un po’ eccentrico corrispondeva nel carattere e nelle idee una strana mescolanza d’ingenuità e d’astuzia, di senso pratico e di estetismo quasi superstizioso. Il tutto in buona fede con lampi geniali e inverosimili scarsezze”. Di certo i lampi geniali erano di gran lunga prevalenti, ci sentiamo di concludere.

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Info

Galleria Russo, via Albert  20, Roma. Aperta il lunedì dalle ore 16,30 alle 19,30, dal martedì al sabato dalle ore 10 alle 19,30, domenica chiuso. Tel. 06.6789949, 06.60020692 www.galleriaarusso.com, . Catalogo  “Thayaht. Un futurista eccentrico”, a cura di Daniela Fonti, Manfredi Edizioni, gennaio 2017, pp. 218, formato 22,5 x 22,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli in questo sito, per i futuristi alla galleria Russo, suTato 19 febbraio 2015, Dottori 2 marzo 2014, Erba 1° dicembre 2013, Marinetti 2 marzo 2013; per la mostra “Dolce vita? ” su modelli e oggettistica  dell’epoca, 1°, 14, 23 novembre 2015.

Foto

Le immagini sono state tratte dal Calogo, si ringrazia l’Editore con i titolari dei diritti per l’opportunità concessa.  In apertura, “Figura” 1919; seguono 3 “Motivi  decorativi” 1915-21;  poi,“Disegno per potiche” 1919, e “Modello per costume da bagno” 1919; quindi, “Manekinos” 1922, e  “Modello di bituta” 1919-20; inoltre, 2 “Bozzetti per costume teatrale” 1918; ancora, “Il flautista” 1929, e “Tuffo” 1932; infine, “Il tennista” 1935, e “Composizione” 1929; conclude “Ombrelloni” 1938-40; in chiusura, “Teorema di Pitagora” 1942.

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Museo Universale,2. Le requisizioni dei capolavori del Rinascimento, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Alle  Scuderie del Quirinale iniziamo la visita alla mostra “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova” aperta dal 16 dicembre 2016 al 12 marzo 2017, con un’ampia selezione di opere di grande valore, partendo da quelle dell’antichità e del Rinascimento, fino ai “maestri del colore”, e infine alle opere dei loro precursori, che commenteremo successivamente, tutte  prelevate da Napoleone, vincitore e conquistatore dell’Italia,  per  il Museo del Louvre, e riportate alla sua sconfitta nei territori di origine  nel gennaio del 2016. La mostra, organizzata da Ales, la società “in house” del MiBACT,presidente e A. D.  Mario De Simoni, con l’Azienda Speciale Palaexpo, è stata curata da Valter Curzi, Caterina Brook e Claudio Parise Presicce, e così il Catalogo Skira.

Abbiamo già rievocato la convulsa fase storica in cui Napoleone, con il trattato di Tolentino del 1796, si arrogò il diritto di conquista di requisire e portare in Francia le maggiori opere artistiche dell’Italia e non solo, perché la razzia colpì anche la Germania e l’Inghilterra. Fu una sorta di rapina nobilitata nel sottotitolo della mostra come “il sogno di Napoleone”, cogliendo in effetti il suo duplice  intento: dare al Louvre il prestigio di “Museo universale”, e poteva farlo solo con l’arte italiana; far acquisire a Parigi, alla Francia e a se stesso un ruolo dominante soppiantando Roma umiliata dalla spoliazione. 

L’operazione riguardò anche Bologna, Venezia, Firenze e molte altre città italiane, e al ritorno delle opere sequestrate nei territori da cui erano state asportate ci fu una spontanea partecipazione di popolo. Un risultato questo già importante per quell’epoca, ma avvenne qualcosa di più, forse inatteso.

La  nuova coscienza dell’arte come  identità collettiva e patrimonio pubblico

Con il reintegro delle opere recuperate in circostanze così eccezionali, fu stimolata la coscienza popolare sul valore pubblico dei beni  culturali come patrimonio collettivo portando alla  valorizzazione di opere d’arte prima sottovalutate, come identitarie dei diversi territori di origine.

Pur nella disgregazione e frammentazione territoriale e politica, con i sogni ancora irrealizzati dell’Italia di “Marzo 1821”, “una d’arme, di lingue, d’altare, di memorie,.di sangue, di cor”,  verso le opere d’arte  nasceva attenzione per la tutela, anche da vendite che ne avrebbero privato la comunità.L’importanza data ai musei dall’esempio del Louvre, fece sì che furono creati, ancor prima del recupero delle opere asportate, musei cittadini per valorizzare le presenze artistiche sul territorio.

E’ il caso di Bologna, con l’apertura di una galleria d’arte nel 1808 all’interno dell’Accademia delle Belle Arti.  Lo stesso avvenne a Venezia, dove sempre nell’Accademia, che era stata riformata nel 1807 ispirandosi all’esempio bolognese,  nacque il museo cittadino. A Milano, come capitale del regno napoleonico del 1805 e quindi centro di una politica culturale di stampo francese, il nuovo museo, la Pinacoteca di Brera, derivò sempre dell’Accademia, ma non ci si limitò alle presenze e testimonianze artistiche locali; sull’esempio del Louvre si puntò a rappresentare l’arte senza confini scambiando opere con Bologna, Venezia, e anche con la Francia.

Tutto questo viene rievocato nella mostra con l’evidenza delle spettacolari opere d’arte che due secoli fa sono state recuperate, e che visitiamo con l’emozione suscitata dalle loro traversìe.  

Il simbolo  e i ritratti dei protagonisti

Apriamo il racconto della mostra con le opere che possiamo considerare il simbolo dell’evento  che viene celebrato: l’opera più rappresentativa-e i ritratti dei protagonisti.

L’opera è il Laocoonte,  di cui avevano parlato in modo entusiasta artisti e letterati dal suo rinvenimento a Colle Oppio, a Roma, nel 1506 dove accorsero Sangallo e  Michelangelo, sembra che fosse l’oggetto del desiderio di Napoleone. Il viaggio per trasferire le opere asportate durò un anno, per il”Laocoonte” da Gaspard Monge, incaricato delle requisizioni, fu previsto un carro trainato da dodici bufali per il trasporto. Nel viaggio di ritorno, tra l’autunno e l’inverno del 1815, sul Moncenisio il ghiaccio provocò un incidente che fece cadere la cassa con il Laaocconte  provocando la frattura del torso,  nel 1816 fu restaurato e divenne il centro del nuovo allestimento museale.

Per i protagonisti vediamo il “Ritratto di Antonio Canova” di Thomas Lawrence, 1815-19,  lo scultore aveva conosciuto Lawrence nel suo viaggio in Inghilterra fatto per ringraziare il re Giorgio IV del sostegno  per piegare le resistenze francesi alla restituzione delle opere d’arte asportate e dell’offerta di denaro e mezzi di trasporto per il ritorno delle opere in Italia. Aveva posato per il ritratto, commissionato da Hamilton, altro sostenitore del recupero che poi glielo aveva donato, è in posizione di tre quarti mentre guarda a sinistra con un’espressione ispirata, in un romanticismo alla  Byron.

Sempre del 1816, ancora di Lawrence “Ritratto di Giorgio IV d’Inghilterra”, del cui ruolo abbiamo detto, il pittore ritrasse anche il papa. In mostra è esposto il  “Ritratto di  Pio VII,  non di Lawrence ma di Vincenzo Camuccini, di data anteriore, 1814-15.

Nello stesso 2016  Antonio Canova scolpì il gruppo“Marte e Venere”, il dio della guerra è alto oltre 2 metri, celebrava la pace in Europa dopo il congresso di Vienna, anche qui il riferimento all’evento è diretto, l‘opera gli fu commissionata da Giorgio IV che era andato a ringraziare.

Quattro opere recuperate, requisite nel mito dell’antico

Il mito dell’antico, insieme all’eccellenza rinascimentale furono i criteri primari nella selezione delle opere da requisire e portare in Francia nel nuovo Museo del Louvre.

L’ “Apollo del Belvedere” li riassume, per così dire, perché si tratta della statua classica con i restauri rinascimentali. E’ alta m. 2,20, fu realizzata su un esemplare greco da un artista romano nel periodo compreso tra l’età adrianea e l’età antoniniana, è esposta una copia definita “gesso di ricostruzione” perchè la riproduce nell’aspetto che aveva al suo rinvenimento prima dei restauri: il dio è raffigurato in un gesto ritenuto tipico dell’arciere. Con il Laocoonte è un simbolo delle requisizioni, in quanto tale è riprodotto in un’acquaforte dell’epoca; inoltre nel convoglio che lo trasferì in Francia c’era anche il Laocoonte, il 6 ottobre 2015 fu rilasciato dal museo francese per la restituzione..

Al simbolo della bellezza maschile accostiamo quello della bellezza femminile, la “Venere capitolina”,, prima metà del II sec., di circa 190 cm, in marmo, una tipologia scultorea di influenza prassitelica, fu trasferita con il secondo convoglio. Un’immagine sensuale con le mani che cercano di coprire le nuditòà in un gesto di pudore, il corpo inclinato in avanti, la testa rivolta a sinistra, a fianco un vaso con un drappo.

Austera con espressione  pensosa la “Testa di Giove”,  I sec. a. C, alta quasi 90 cm, in marmo. Il volto è incorniciato da lunghe ciocche di capelli, ha una folta barba arricciata, doveva far parte  di una statua con il dio sul trono. Fu collocata al museo parigino nella sala del Laocoonte. Si ispira al modello greco dello “Zeus criselefantino” di Fidia, con varianti tardo ellenistiche.

La quarta opera è un dipinto in cui viene visto il riflesso dell’antico, in particolare del gruppo delle “Niobidi”,  nell’equilibrio perfetto tra i sentimenti e le forme armoniose, divenne un modello per gli artisti, in particolare Poussin. E’ “La strage degli innocenti” di Guido Reni, 1611.

L’eccellenza rinascimentale, obiettivo delle requisizioni

Andrea del Sarto e il Correggio, Federico Barocci e il Perugino sono un primo poker d’assi dell’eccellenza rinascimentale.

Dei primi due abbiamo il “Compianto del Cristo morto”, entrambi del 1523-24. In Andrea del Sarto  il grande dipinto di circa 2,40 per 2 m, c’è  solennità nella composizione con una posa statuaria dei principali personaggi. Nel Correggio, al secolo Antonio Allegri, tutti i soggetti manifestano dolore, con maggiore intensità nella Maddalena, e  il modo in cui viene espresso questo sentimento, dall’espressione dei visi alla posizione della testa e delle mani, sarà un esempio molto seguito in futuro. Nel “Trasporto di Cristo al sepolcro” del Cavalier d’Arpino”, al secolo Giuseppe Cesari, il Cristo ha una posizione distesa con il braccio destro pendente, analoga a quella del quadro del Correggio, mentre in Andrea del Sarto è praticamente seduto.

 Una copia da un dipinto del Correggio è la “Madonna con il Bambino e i santi Girolamo, Maria Maddalena, Giovannino e un Angelo”, attribuita a Federico Barocci, è un esemplare delle numerose copie pittoriche e incisioni di un’opera di successo, molto particolare la disposizione dei volti allineati con uno sfondo che si apre su un orizzonte lontano.

Del Perugino, al secolo Pietro Vannucci, 2 dipinti, “L’arcangelo Gabriele o Angelo annunziante”, dopo il 1508, e “San Giovanni Battista tra i santi Francesco Girolamo, Sebastiano, e Antonio da Padova.”, 1510.Il primo è un tondo dal diametro di un metro, il secondo un olio su tavola di 2 m per 1,70, si nota la stessa posizione della testa reclinata dell’arcangelo e del santo che legge il libro, in entrambi i dipinti aleggia serenità nei volti e nello sfondo del cielo azzurro.

Natura e ideali, nel mirino delle requisizioni  il ‘600 bolognese

Ritroviamo Guido Reni, e con lui Agostino, Annibale e Ludovico Carracci, il Guercino e il Domenichino, nel ritorno alla natura da un lato, nel passaggio dal naturalismo all’ideale dall’altro.  La scuola bolognese nei rapporti con Roma e l’antico, si segnala nella cura del disegno e del colore in un equilibrio compositivo e un’eleganza formale all’insegna degli ideali.

Con  Guido Reni si passa da “San Giovanni Battista nel deserto, 1635,  a “La Fortuna con una corona”, 1637, due opere molto diverse nel tema ma con delle assonanze.

La prima rientra nella cosiddetta “seconda maniera”  e viene accostata a un “San Sebastiano” dello stesso periodo, nonché a un “San Giovanni Battista” a figura intera, dello stesso artista; tema ovviamente sacro, il santo, in ambiente ombroso, guarda in alto sulla sinistra.

Nella seconda,  il tema è profano, la donna nuda che si libra in cielo con un putto guarda anch’essa in alto sulla sinistra, ed è questa l’assonanza nella diversità oltre che nel soggetto, anche nella tonalità, scura la prima, luminosa la seconda;  il quadro,  dopo essere stato restituito dai francesi  ed essere ricollocato nella Pinacoteca capitolina, fu depositato in Vaticano fino alla definitiva sistemazione nel 1836 all’Accademia di San Luca, dove nel 1845 furono destinati altri 12 dipinti  di “soggetto sconveniente”, come ricorda Guarino, lo citiamo come emblematico, l’innocenza della figura che si libra in volo non fu capita.

 E poi la carrellata dei tre Carracci. Di Agostino Carracciun’immagine profana,“Plutone”, un ovato che con altri tre della stessa serie, “Salacia”, “Flora” e “Venere”  furono asportati dal Palazzo ducale di Modena e portati a Parigi a fine luglio 1797 nelle requisizioni napoleoniche, tornarono a Modena  insieme agli altri ovati a seguito della missione dei plenipotenziari modenesi per la restituzione. Sono stati riferiti anche a Ludovico ed Annibale, ma il luminismo dell’opera insieme alla sua forza michelangiolesca l’hanno fatto attribuire definitivamente ad Agostino.

Sacre le immagini degli altri due Carracci. Di Annibale Carracci  un nuovo “Compianto di Cristo morto con i santi Francesco, Chiara, Giovanni evangelista, Maria Maddalena e angeli”, 1585. portato a Parigi da Parma nel 1796. Si ispira al Correggio sia nella gloria dell’angelo con la croce in alto, sia nella posa dolorosa del Cristo al centro in basso.

Mentre è di Ludovico Carracci, la Madonna con il bambino tra i santi Giuseppe, Francesco e i committenti (La Carraccina)”,1591, grande tela di 2 metri e 25 per 1 metro e 66 con le figure della coppia di committenti che fanno capolino  in basso a destra; anch’essa portata a Parigi nel 1796. La scena alquanto oscura è ravvivata dal manto rosso che attraversa metà del dipinto sulla destra e dai colpi di luce che caratterizzano la cifra artistica dell’artista e lo differenziano da Annibale.

La razzia della scuola bolognese e successivo recupero comprende altri due grandi, il Guercino e il Domenichino.

Vediamo del Guercino, al secolo Giovanni Francesco Barbieri, “La cattedra di san Pietro“, 1618. il grande dipinto di quasi 4 m di altezza per 2,20 di larghezza, fu prelevato a Cento dai commissari napoleonici e portato a Parigi insieme alle altre opere appena citate,  La scena raffigura Cristo che invita Pietro a salire  sul trono per amministrare le chiavi del regno,  sottotitolo del quadro. E’ uno dei capolavori dell’artista, Francesco Scannelli ha affermato che “maggior verità non ha mai dimostrato lo stesso Michelangelo da Caravaggio”, soprattutto nella figura di San Pietro, che sembra “più vero e di rilievo che dipinto”; anche i colpi di luce riportano a Caravaggio.

La galleria bolognese comprende inoltre “La nascita della Vergine” di Francesco Albani, 1600 circa, ma vogliamo concluderla con il dipinto del Domenichino, al secolo Domenico Zampieri, “Madonna in trono con il Bambino e i santi Giovanni Evangelista e Petronio”, patrono di Bologna, una grande pala di m 4,30 per 2,80  circa. E’ una composizione gloriosa con i santi in atteggiamento estasiato e la Madonna con espressione serena, quasi dimessa, al centro di una cornice di putti e angeli musici. Fu prelevata nel 1812, con il pretesto che si trovava in una chiesa chiusa e poteva deteriorarsi, nella  missione del direttore del Louvre Denon, su cui torneremo di seguito, quindi ebbe un percorso diverso da quello delle altre opere requisite; oltre a rientrare alla fine del 1816 non fu riportata a Bologna ma a Brera  per una controversa questione di concambi.

Tutte le altre opere bolognesi citate  tornarono a Bologna alla fine di  dicembre 1815, Antonio Canova in persona partecipò all’apertura delle casse che contenevano i cilindri con le tele, peraltro ben conservate, ripulite e protette; si provvide poi a fissarle sugli appositi telai. Il 15 gennaio 1816 furono esposte nella chiesa di Santo Spirito con una partecipazione di popolo che vide gente di ogni ceto e categoria sociale, le cronache dell’epoca parlano di “dotti e imperiti, nobili e plebei, e donne e uomini tutti, e fino i fanciulli”. Era nato così un vero orgoglio popolare per il patrimonio artistico.

 Anche i maestri del colore nelle requisizioni napoleoniche

Il tris d’assi dei maestri del colore comprende nientemeno che Tiziano, Veronese e Tintoretto,  e oltre ai loro capolavori, ulteriori opere di scuola veneta furono asportate e trasferite a Parigi nel 1798: 18 dipinti, 2 sculture, centinaia di libri e perfino la Quadriga della basilica e il Leone di San Marco. presi a Venezia, altre opere furono prelevate a Verona.

Le tele di maggiori dimensioni sono di Tiziano e del Tintoretto, pale alte 4 metri per 2 metri e oltre.

Di Tiziano Vecellio,  l'”Assunzione della Vergine“, 1530-32, la raffigura in alto su una nuvola con le mani giunte, mentre in basso una folla di uomini dalle forme michelangiolesche si agitano con le teste rivolte in alto dinanzi al prodigio:  una scena di grande equilibrio compositivo e cromatico. E’ tra le opere individuate dal direttore del Louvre Denon nella sua missione del 1811, giunse a Parigi nel 1813 dopo  scambi epistolari con il direttore dell’Accademia di Firenze che l’aveva promessa al collega francese.  Anche questa, comunque, venne restituita.

Nell’altra grande pala, del Tintoretto, il “Miracolo di sant’Agnese“, Sant’Agnese  resuscita il figlio del prefetto, scena riassunta nel sottotitolo, una composizione divisa in due dal tempio posto in mezzo, in alto la gloria degli angeli celesti, in basso la santa luminosa con il miracolato a terra sulla sinistra e sulla destra il prefetto in tunica rosa  e la folla che si accalca; una storia edificante, la santa riporta in vita Licinio sebbene avesse tentato di violentarla, ma verrà martirizzata con l’accusa di stregoneria, epilogo evocato dagli angeli che reggono una simbolica corona di spine. E’ tra le opere requisite nel 1797.

Più piccola, ma comunque di dimensioni consistenti, m. 2,60 per 2,  la scena, altrettanto miracolosa, dipinta dal Veronese, al secolo Paolo Caliari, “San Barbara guarisce gli infermi”, 1566-70. E’ monumentale il colonnato circolare con capitelli corinzi davanti al quale il santo dalla figura imponente compie il prodigio su due figure seminude quasi accasciate a terra, tra altri che le sorreggono. Il cromatismo blu e rosa della lunga veste del santo contrasta con il grigiore dell’insieme, tranne qualche spunto cromatico in alcune vesti dei presenti. 

Il “Compianto su Cristo morto”, 1548, dello stesso Caliari, alto poco più di 75 cm, presenta Cristo nella posa dei dipinti del Correggio e del Cavalier d’Arpino, forse con maggiore abbandono, ma le espressioni dei volti pur se esprimono sentimenti di dolore sono meno sofferenti di quelle del Correggio.

Anche le due opere del Veronese .sono tra quelle requisite nel 1797. la seconda rientrò nel marzo 1816, quindi tre mesi dopo il ritorno delle opere bolognesi.

Termina così la spettacolare galleria di opere del Rinascimento, oltre che di arte antica, prossimamente concluderemo il racconto della visita alla mostra con le opere dei “precursori” del ‘300 e ‘400, prelevante nella seconda parte della razzia.    

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, a cura di Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce, Skira, dicembre 2016, pp. 312, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il  9 gennaio u. s., il terzo e ultimo uscirà il 5 marzo p. v. con altre 11 immagini ciascuno.  Sugli artisti citati cfr. i nostri articoli, in questo sito per Correggio 3 maggio 2016, per Tiziano 10, 15 mggio 2013, per i Carracci, Reni, d’Arpino, 5, 7, 9 febbraio 2013, per Tintoretto 25, 28 febbraio, 3 marzo 2013;  in cultura.inabruzzo. it per  Barocci 28 febbraio, 1° marzo 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito).   

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Guido Reni, “La Fortuna con una corona”, 1637; seguono, Cigoli (Ludovico Cardi), “Ecce Homo”,  1607, e Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, “La cattedra di san Pietro (Cristo invita Pietro a salire sul trono per amministrare le chiavi del regno dei cieli”, 1618; poi, Guido Reni, “San Giovanni Battista nel deserto”, 1634, e Tiziano Vecellio, “Assunzione della Vergine”, 1530-32; 816; quindi, Veronese (Paolo Caliari), “Compianto sul Cristo morto”, 1548,  e  “San Barnaba guarisce gli infermi”, 1566-70; inoltre, Benozzo Gozzoli, “Sant’Anna Metterza (Madonna con il Bambino e sant’Anna con donatrici; in alto Dio padre, 1468,  e Luca Baudo da Novara,  “Sant’Agostino tra i santi Ambrogio e Monica”, 1497;  infine, Simone dei Crocifissi (Simone di Filippo), “Madonna con il Bambino, angeli e il donatore Giovanni da Piacenza”, 1378, e, in chiusura,  Bartolomeo Vivarini, “Madonna in trono con i santi Andrea, Giovanni Battista, Domenico e Pietro (Polottico di Ca’ Morosini)”, 1464.

Adami, metafisiche e metamorfosi all’Accademia d’Uugheria

di Romano Maria Levante

In tre location”, dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi” presenterà una selezione di oltre 60 opere di un artista ben noto all’estero che dà un’interpretazione del tutto personale della linea e del colore, con una discendenza stilistica che va dalle incisioni veneziane del ‘500 alla Pop art, in una valorizzazione del disegno come strumento della composizione e soprattutto base dell’atto creativo che prende forma quasi in modo autonomo.  La mostra, curata da Lea Mattarella, si svolgerà presso l’Accademia d’Ungheria, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia. Il bel catalogo, con 10 saggi e una ricca iconografia, è di Carlo Cambi Editore.

Atto meritorio dell’Accademia d’Ungheria è estendere con questa mostra – non limitata alle sale di Palazzo Falconieri ma con parecchie opere presentate nella vicina galleria André e nella Mucciaccia – la conoscenza a Roma e in Italia  di un artista, molto apprezzato all’estero, che ha girato in tante città e nazioni  in diversi continenti, dimorando a lungo dove lo portava la sua insaziabile volontà di conoscere. “Avevo la curiosità del mondo e la curiosità delle persone. Degli uomini, delle donne, della loro vita, delle loro ide”. Si era nel secondo dopoguerra “molte cose ci erano state nascoste. Molte altre  erano state interrotte. Allora io volevo scoprire il mondo coi miei stessi occhi”.

Così soggiorna a lungo sempre dove si svolgono le sue mostre, a un ritmo incessante. Ne abbiamo contate 70 personali, 50 collettive, oltre a 30 collezioni pubbliche selezionate: si va dall”Italia tra Firenze e Venezia, Milano e Roma, Torino e Ravenna, Lucca e Siena; alle altre nazioni europee, Belgio e Svizzera, Germania e Gran Bretagna, Francia e Grecia, Spagna e Portogallo, fino a Israele e alla Finlandia; al continente americano, Stati Uniti, Cuba, Messico; al Giappone e l’India.

Lo hanno fatto conoscere anche 20 monografie selezionate su di lui, e si è fatto conoscere con 5 proprie pubblicazioni in cui disvela i segreti della propria arte, cui vanno aggiunte interviste, come quella molto personale in cui ripercorre la sua vita fin dall’infanzia, data  a Christophe Penot nel 2016, riportata nel Catalogo con il titolo “Valerio Adami, l’uomo”.

Le origini e i capisaldi della sua arte

L’iniziazione all’arte, di Valerio Romani Adami – bolognese del 1935 trasferito presto a Milano, come artista ha semplificato il cognome – avvenne a Venezia nello studio di Felice Carena, che “mi faceva disegnare molto”, ma la folgorazione ci fu  alla Biennale del 1952 dinanzi al “Prometeus” di Oskar Kokoschka, per lui “la tela non era che un immenso foglio bianco sul quale si proponeva di esprimere, coi pennelli, le idee che sapeva d’altra parte sviluppare così bene” con la scrittura. Di qui nasce una frequentazione assidua così rievocata: “Kokoscha, che ho rivisto spesso, mi invitava sul lago Lemano  a dare alla mia pittura una dimensione intellettuale, che  non avrebbe mai potuto trovare senza la sua influenza”. Fino a scoprire  che “la pittura è molto di più che la pittura”. 

Ma non per questo trascura la forma pittorica, l’intenso “apprendistato tecnico” a Milano, nell’Accademia di Belle Arti di Brera ai corsi di Achille Funi, in cui “disegnavamo otto ore al giorno”, ha fatto sì che il segno divenisse la base della sua pittura, seguito dal colore. Funi era “un disegnatore straordinario! Io aspettavo con impazienza le sue correzioni”, e ha continuato a farle  autocorreggendosi in proprio, sempre avendo la gomma a portata di mano, fino a intitolare una sua pubblicazione del 2002 “Dessiner. la gomme et les crayons”, ma non si tratta delle “cancellature” di Emilio Isgrò applicate in modo definitivo a scritte simboliche, quelle di Adami sono transitorie.

Dà molta importanza alla luce, ritenendola fondamentale sia per chi guarda sia per chi dipinge, luce che varia a seconda delle situazioni: “E’ come la luce del giorno: rischiara,certo, ma non è mai la stessa!”.  Però c’è dell’altro ancora più importante: “Eppure, lo sapete, i miei quadri nascono tutti con lo stesso procedimento: prima disegno, ed è questo disegno che riporto sulla tela. Dunque, il disegno è all’origine di tutto. E’ quello che apporta la luce, se la luce c’è . ma è quello che allo stesso tempo conserva un a parte di oscurità, seguendo una propria logica, che non è sempre quella che io gli assegnavo…”. Come nei “segni” di Guido Strazza, in mostra quasi contemporanea alla Galleria Nazionale, che però non si trasformano in un “figurativo”, come in Adami, il quale accetta questa qualifica ma rifiuta quella data alle sue opere di ” figurazioni narrative”, basata sul movimento pittorico “Figuration narrative” in cui all’inizio degli anni ’60 si facevano rientrare i pittori che si contrapponevano all’arte astratta sempre più diffusa,

Ed ecco come procede praticamente, secondo la sua istintiva rievocazione in cui, dopo essersi schermito delle “lodi sulla forza del mio disegno, sulla mia maestria”, spiega: “Ma in realtà le cose sono più complicate. Quando prendo un foglio di carta per disegnare, come faccio ogni giorno, non so mai quali gesti compiere, né quale disegno nascerà. Allungo il braccio, la mano posa la punta della matita sul foglio: un punto. Un  punto che si muove e diventa linea, creando ben presto una forma, vale a dire un raccordo tra il vuoto e lo spazio, il visibile e l’invisibile.”.

Finora solo disegno, poi sembra subentrare Kokoscha: “E’ un rapporto che talvolta mi sorprende, mi infastidisce, mi disturba? Allora cancello, aspetto il tratto seguente, che certamente cancellerò di nuovo. Forse è il mio inconscio, un inconscio che si rivela più forte della mano… Un inconscio nato da tutti i ricordi, tutti gli incontri, tutte le mie esperienze  passate e dalla mia vita quotidiana”. 

E sono tante per un artista che ha girato il mondo in lungo e in largo, ma è sempre tornato in Italia, dove si è formato artisticamente al classicismo e alla modernità, come ha sottolineato l’amico scrittore Carlos Fuentes. Sugli stimoli inconsci l’artista cita il concetto di Edouard Munch, “essenziale per la comprensione del mio lavoro: io non dipingo ciò che vedo, dipingo ciò che ho visto… tutto quello che ho visto si trova archiviato nella mia memoria, alla quale attinge l’inconscio a seconda delle mie emozioni. ma , dovunque attinga, l’inconscio ritrova la mia identità italiana”. E lui stesso nelle “Sinopie” scrive: “Il vero autore dei miei quadri è la tradizione cui appartengo”

Per questo non può essere assimilato alla visibilità realista della Pop Art al di là delle apparenze: “Chiamo sinopia – afferma nello scritto così intitolato -. quel substrato di associazioni, di intenzioni, di presente & passato, di ricordi, etc., che tanta importanza ha nella genesi di un quadro. Questo processo mette il pensiero in movimento e, a sua volta, la mente mette in movimento la mano”.

Oltre ai maestri ha incontrato anche, se non un mecenate, un mercante che, con un contratto di esclusiva nel quale aveva tutte le opere di Adami – dai quadri compiuti, ai disegni preliminari, fino agli schizzi sui foglietti dei caffè francesi – e, racconta l’artista, “in cambio egli prese in carico tutte le mie spese, assicurandomi un tenore di vita inimmaginabile per un giovane pittore. Perché allora ero un giovane pittore. per lui rappresentavo l’avvenire.”. Si chiamava Aimé Maeght, conosciuto intorno al 1970 dopo aver avuto una sala tutta per sé alla Biennale di Venezia del 1968, era un mercante che lavorava con tanti grandi artisti come Matisse e Chagall, Braque e Mirò, Adami gli riconosce “un ruolo decisivo” esprimendogli riconoscenza con queste parole: “Tutti i vantaggi materiali che hanno facilitato la mia vita, li debbo a Aimé Maeght”;  e perché non si cada in equivoco conclude: “Ma, ancora una volta, il grande mentore della mia esistenza resta Oskar Kokoscha. E’ lui che mi ha permesso di diventare il pittore che Aimé Maeght in  seguito ha difeso”.

Di qui la conoscenza di alcuni grandi pittori,tra cui Mirò verso il quale ci fu “una vera ammirazione e d un vero affetto – un affetto che egli mi rendeva, credo”, e una frequentazione, “più volte, con Camilla, siamo andati a trovarlo  nella sua casa di Maiorca”, Camilla è la moglie pittrice che firma anch’essa con il cognome Adami. Ciononostante erano molto diversi, “io avevo una conoscenza del disegno, che lui non possedeva, ma che non cercava neppure. A che gli sarebbe servita? Mirò volteggiava in un altro mondo, su un altro pianeta”, e aveva un segreto, “la sua semplicità. Durante tutta la sua vita, lui ha dipinto come si respira, naturalmente, senza porsi domande”.

Rispetto a Giorgio de Chirico la curatrice Lea Mattarella istituisce assonanze e dissonanze, richiamandosi per le prime “a Dore Ashton che si meraviglia per quanto poco il Grande metafisico sia stato citato come ‘predecessore spirituale’ di Adami. Li unisce l’occhio italiano, la linea chiusa, l’amore per il classico, l’idea che la pittura conduca altrove“. Così prosegue la Ashton: “Anche le ombre in de Chirico sono delimitate da linee, e quando ha bisogno di suggerire la modellatura, è spesso il tratteggio classico, compresa la linea, che la genera”. Ed ecco l’ “altrove”: “Non è solo l’amore per la linea precisa e pulita che collega de Chirico ad Adami, ma anche una concezione della pittura che onora la memoria (o l’immaginazione) sopra ogni cosa”.

Tutto ciò porta alle  visioni “metafisiche” cui si intitola la mostra aggiungendo però “metamorfosi”, le dissonanza che la curatrice sottolinea: “Oltre all’ “apertura di Adami verso l’Oriente, un’altra lontananza è la consapevolezza che esistono e si possono affrontare in pittura anche scene  apparentemente intime e quotidiane, senza per questo negare quel senso di attesa che qualcosa accada”, cioè l’atmosfera di sospensione metafisica che avvolge di mistero le piazze del “Pictor classicus”, nel suo ritorno alla classicità. mentre “Adami fa un’operazione ancora più sofisticata: applica alla classicità una specie di decostruzione  per poi ricomporla in una nuova veste. E così facendo, la salva per sempre”, così le sue “metamorfosi” si aggiungono alle “metafisiche”.

Ma “tocca ad ogni artista trovare la sua strada”, lui si sente più vicino a Tintoretto che a Pollock perché lavora sulla rappresentazione attraverso la forma in modo nuovo, di “ispirazioni eterne”.

Gli scritti per Adami, da Italo Calvino ad Antonio Tabucchi

Anche grandi scrittori scrivono rivolgendosi direttamente a lui, Italo Calvino  nel 1980 “Quattro fiabe d’Esopo per Valerio Adami”. Sono riportate nel Catalogo, precedute da alcune “massime” di Adami sull’argomento riassunto nel titolo;  poi lo scrittore penetra nella creazione pittorica e si cala  nel mondo dell’artista con delle favole i cui  protagonisti sono gli elementi costitutivi delle sue composizioni – indicati nei titoli – che si contrappongono orgogliosi per primeggiare l’uno sull’atro.

In “La mano e la linea” la linea cessa di essere tale acquisendo la forma di una mano, ciascuna pensa di dominare l’altra mentre sono reciprocamente dominate, la linea perché non è più libera ma fissata nei contorni delle mani che disegna, la mano  perché senza linea non esisterebbe più.

Nella seconda favola, “I piedi e la figura”, questa non accetta di dipendere  dai piedi del pittore essendo fatta di linee e colori che le danno leggerezza per sollevarsi, ma viene richiamata alla realtà dal pittore il quale riesce a disegnarla solo partendo dai suoi piedi che la fissano al suolo.

“La linea orizzontale e il colore blu”  presenta un acceso dialogo in cui ciascuno si vanta di essere “padrone dello spazio” – l’orizzonte è indicato da una linea lontana, o dall’azzurro del cielo  o del mare –  mentre irrompono le figure che si posizionano e in tal modo dominano  spazio e tempo.

Con la quarta favola, “La parola scritta, i colori e la voce”, due elementi della composizione, manca la linea, si sottopongono al giudizio della voce, sembra prevalga la parola scritta perché viene letta e pronunciata, ma i colori hanno il sopravvento e la voce può cantare a voce spiegata.

Si resta senza fiato nel leggere questi sapidi quadretti sul mondo creativo di Adami, vi abbiamo ritrovato il fascino meditativo ed enigmatico di “Palomar” con le riflessioni profonde di Calvino mosse dall’osservazione attenta e disincantata con una disinvoltura sul filo del paradosso.

Altrettanto sorprendente il “Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami” che Antonio Tabucchi gli dedica con sapide annotazioni da Cnosso tra il !°  e il 4 giugno 2000, da Hanià e Sfakià tra il 6 e l’11 giugno. Leggiamo che nel suo viaggio lo scrittore si è portato le fotocopie dei disegni dell’artista perché, esordisce, “caro Valerio, credo che questo luogo, forse come nessun’altro, sia adatto per parlare della tua pittura”; inoltre, guardando il labirinto cretese, gli torna in mente “una frase letta nei tuoi appunti: ‘Il mito è uno dei tracciati-radice della nostra cultura, il cui sapere si definisce in un pensiero di metamorfosi’. Non ho potuto fare a meno di pensare al tracciato dei tuoi disegni, e al punto di entrata, che è libero”.  

Come con Calvino, troviamo lo scrittore impegnato ad interpretare l’arte del pittore: “Se il tracciato delle tue opere è aperto a ogni arbitrario ingresso, rischiamo di restarci rinchiusi dentro come degli uccelli in una pania”. Per trarne considerazioni amare: “In questo universo in cui siamo allegramente entrati, con una libertà che  rasenta la sconsideratezza, cominciamo ad indugiare, ne rimandiamo l’uscita e vi facciamo naufragio”.

Del diario di Tabucchi potremmo ricordare anche il dialogo con un pittore locale sul libro di Adami che lo scrittore gli ha mostrato, il ricordo di quando a Parigi l’artista gli disse che cercava “un colore per i tuoi disegni come se tu cercassi un suono, perché esso ha per te lo stesso statuto delle note musicali”;  fino all’esclamazione “Caro Valerio, bisognerebbe dare un premio alla mente umana perché è riuscita a concepire l’infinito, concetto che a quanto pare esiste solo lì dentro”. Per questo gli ispira il “racconto a espansione limitata” “Le cefalee del Minotauro”,  provocate “dalla marea del tempo che ti è scoppiata nella testa come un brodo dell’origine che ribolle, e dove tu affoghi”. Lo manda ad Adami scrivendogli che, mentre si esploreranno i misteri insoluti, “noi continuiamo a fare quello che facciamo ogni giorno: cose fatte di linee, di colori, di parole”.

A Tabucchi dovrebbero essere riferite le parole, mentre ad Adami le linee e i colori; e forse questo è il senso che dà lo scrittore a tale considerazione. Ma non possiamo non ricordare che in alcune opere di Adami ci sono delle scritte, e questo non va ritenuto un fatto secondario, come si vede dal modo approfondito pur se disincantato con cui, in un ampio scritto immaginifico, viene analizzata  la “frase che attraversa Ich in alto” da parte di Jacques Derrida, da lui conosciuto a Parigi intorno al 1975 allorché realizzò il manifesto per Glass che divenne simbolo del movimento decostruzionista.

Tra le quattro favole di Calvino e il diario cretese di Tabucchi mettiamo le “Righe per Adami” di Carlos Fuentes, non sono solo righe ma pagine e pagine di una cronaca surreale che comincia e finisce con il Cavaliere e il suo Scudiero, al termine identificati in don Chisciotte e Sancho Panza, si vivono le situazioni più strane e diverse, spesso paradossali,  c’è anche Camilla, la moglie di Adami e lui stesso come convitato di pietra di cui si sente sempre la presenza, con qualche citazione diretta.

Si parla anche seriamente di temi legati alla pittura: “E lui dice che vede il tempo come qualcosa di eternamente aperto, in sé non formale né formalizzabile. Forse soltanto un quadro possiede il valore formante del tempo”. In modo forse più criptico;: “Allora avviene che le cose avvengono, che son percorse da situazioni che a loro volta le percorrono; che l’assenza di un oggetto può cospirare contro la presenza di un soggetto, e viceversa; che queste temibili cose, innocue  meravigliose, succedono in uno spazio che le situa,, cioè che dà loro un luogo, ma che anche le insegue, le incalza, le mette in movimento”.

Repentino il passaggio al quadro, che segue subito dopo: “Dice che, semplicemente, ogni quadro è la struttura stessa del quadro. Aneddoticamente invisibile, a un quadro può succedere tutto e tutto è successo, prima e dopo il suo spazio” .

E dal quadro al suo autore: “Il creatore guarda il quadro prima che esista, e a poco a poco ne diventa il primo spettatore; ma, contemporaneamente, è guardato dal quadro. Il creatore provoca una fame di spettacolo nel quadro. Divorato dal proprio quadro, l’artista, che non smetterà mai di guardarlo, non potrà più vederlo se non guarda insieme con lui i nuovi spettatori che, a molteplici livelli, lo//li guardano e ripetono il processo all’infinito”.

Qui l’orizzonte si allarga: “Che fare d’una mente, d’una materia o di una società isolate? Non bastano: bisogna catturarle dentro il loro sistema di dipendenze e poi liberarle dentro uno nuova struttura e sottomettersi alle pochezze dell’univoco e del reale. la pittura di Valerio Adami: riferimento mobile continuo della struttura del reale alla struttura figurativa, con tanto di biglietto d’andata e ritorno”.

Non si limita a questo accenno, più avanti afferma: “Cerchiamo di vedere l’arte di Adami come una vasta profanazione dei significati di questa ‘realtà’ chiusa , mediante un rimescolamento dei segni che la sostengono: scompiglio che è  un modo di fare ordine, il proibito, l’inquietante, l’insopportabile, ciò che converte la sicurezza, la simmetria, l’analogia, i premi, i castighi, l’interazione dell’ordine in un incubo di disordini appassionati, cioè insoddisfatti”.

Anche lo scritto di Fuentes, come quelli di Calvino e Tabucchi, è tutt’altro che un’ordinaria amministrazione, tutti e tre sono originalissimi e toccano aspetti importanti della creatività artistica di Adami inserendoli nelle situazioni più improbabili in un contesto fantasioso e immaginifico.

E ci sembra che quanto abbiamo citato  – tra il tanto di più che si potrebbe ricordare rispetto a una vita artistica così intensa e feconda – basti per definire la straordinaria caratura di questo artista.

Visiteremo la mostra che si preannuncia così importante e rivelatrice, dopo aver riassunto la linea narrativa dell’artista e la sua personalissima visione del segno e del colore, i capisaldi della sua arte, ansiosi di vederne la realizzazione pittorica. .  

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma, Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà pubblicato il 12 marzo p. v.  Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito per Kokoka, Isgrò, De Chirico, Strazza,  Matisse, Chagall, Braque e i cubisti,  Pop Art, Mirò, Tintoretto, Pollock.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

I Martini e i Gianselmi, storie aziendali e lezioni di vita

di Romano Maria Levante

Il romanzo “I Martini. Una famiglia, un’azienda: leadership fra istinto e ragione”, “Libreria Utopia Editrice”, pubblicato nel novembre 2016  inaugura  “Libri di bordo”, una collana di letteratura con l’ambizione di parlare di impresa e far parlare chi fa impresa”. L’autore Piercarlo Ceccarelli   appena due anni fa,  nel novembre 2014, ha pubblicato il suo romanzo di esordio, precursore del nuovo filone narrativo, “I Gianselmi, Una storia famigliare”, Mind Edizioni.  Il nuovo filone narrativo possiamo chiamarlo “Company Thriller” anche se la sua “suspence” è diversa da quella dei  “Legal Thriller” di John Grisham, mentre è paragonabile l’approccio  di due autori ben addentro al mondo molto particolare dei loro racconti.

Non siamo soliti recensire romanzi,  bensì  mostre d’arte ed eventi culturali, ma  non è un’eccezione se ci dedichiamo a questi due libri, uno dei quali recentissimo, perché si tratta di vero e proprio evento culturale: un nuovo filone narrativo irrompe in campo letterario con i due romanzi di Piercarlo Ceccarelli, legati a vicende aziendali apparentemente  riservate a una categoria ristretta ma in realtà fonti di insegnamento per tutti: le sue storie familiari fanno  riflettere, sono lezioni di vita.

Nei  “Libri di bordo”  i “Company Thriller” di Piercarlo Ceccarelli

Al  nuovo filone narrativo viene data la dignità della collana editoriale “Libri di bordo. Narrazioni del mondo dell’impresa vista dall’interno”, il precursore di questa serie è dunque Piercarlo Ceccarelli con un anticipo di due anni. I “libri di bordo” che nascono con il suo secondo romanzo, “I Martini”, riflettono l’interesse anche della letteratura per l’economia e la finanza, i cui temi sono entrati nei pensieri, e anzi nelle preoccupazioni di tutti, a livello generale e personale. E  “solo la letteratura è in grado di dare voce ai personaggi, indagandone il carattere, la psicologia, le motivazioni profonde,  in una parola il fattore umano”, questa la motivazione della nuova collana.

Ma può  raccontare questo mondo dall’interno soltanto chi ne ha vissuto tutte le manifestazioni e  penetrato  i risvolti  più nascosti. Può farlo l’imprenditore che ripercorre la sua “case story”;  ancora meglio chi non conosce soltanto la propria azienda ma può spaziare nel vasto panorama del mondo imprenditoriale. per averlo scandagliato  a fondo in tutta la sua estensione con un’attività di alto livello ad ampio raggio.

Il  precursore del nuovo filone narrativo, Piercarlo Ceccarelli,  ha questa peculiarità, come titolare da 35 anni di una primaria società di Consulenza Direzionale a carattere internazionale e in quanto tale lo  abbiamo accostato a John Grisham, che da avvocato di grido è diventato l’espressione del “Legal Thriller”, il fortunato filone narrativo di ambiente giudiziario cui accostiamo il “Company Thriller”  di Piercarlo Ceccarelli; un “thriller”  diverso, ma pur sempre emozionante,  che nasce dalla “suspence” creata da intrecci aziendali e familiari aggrovigliati fino all’ “agnitio” conclusiva.

“I  Martini”, i “Gianselmi”,  nei sottotitoli c’è sempre il riferimento a vicende familiari,  che farebbe pensare a una precisa scelta  dell’autore di tipo sociologico e psicologico se non familistico, in contrasto con la razionalità che dovrebbe presiedere alle vicende aziendali, basate su dati e parametri oggettivi di valutazione e di raffronto con la concorrenza sul mercato.

Invece è proprio l’approccio razionale a far considerare determinanti e spesso decisivi i fattori umani che nella consulenza corrente spesso vengono sottovalutati se non ignorati, portando a conclusioni magari gradite alla committenza perchè non mettono a nudo i suoi condizionamenti e limiti,  ma non rispondenti alle esigenze dovute a  tali connotati psicologici.

Ceccarelli è giunto a queste conclusioni dopo una vita di imprenditore prima, nell’industria e nel terziario avanzato, poi di  titolare della società di Consulenza di Direzione internazionale da lui fondata, che porta il suo nome, fino ad essere ideatore  e animatore del “Club Impronte” che al contatto  con imprenditori e manager per le consulenze aggiunge  un dialogo quotidiano con una platea quanto mai vasta su temi di management ed economia che vengono sottoposti con continuità a un forum permanente competente e motivato.

E’ intrigante che un imprenditore e manager così impegnato su vari fronti tutti ancorati alle fredde valutazioni  tipiche della consulenza aziendale, dopo aver scritto dieci libri di management abbia sentito la spinta e abbia avuto la forza di trasferire questo mondo nel campo letterario con due romanzi in cui la dimensione familiare e quella psicologica sono dominanti.

Immaginiamo che i contatti quotidiani attraverso il “Club Impronte” abbiano avuto un ruolo non secondario in questa scelta, perché ha potuto cogliere ancora di più i fattori umani che presiedono alle opinioni e alle scelte aziendali, al di là dei dati tecnici pur essi fondamentali. La consulenza aziendale penetra all’interno delle strutture, ne sono interlocutori i responsabili delle diverse funzioni mentre l’imprenditore committente può sembrare il “dominus” da orientare nelle scelte senza poter superare i tratti caratteriali che pure ne condizionano fortemente le decisioni finali.

Ma c‘è qualcosa di peculiare che rende ancora più intrigante la svolta di Ceccarelli. Si potrebbe pensare che voglia ovviare alla carenza dei dati  sulla posizione dell’azienda sul mercato rispetto alle caratteristiche interne e alle proprie strategie, da cui  una loro sottovalutazione forzata, mentre avviene tutt’altro. La sua società di Consulenza Direzionale ha avuto da sempre un “asso nella manica”, il metodo PIMS, “Profit Impact of Market Strategy”,  imperniato su una grande banca dati in cui sono immagazzinati i dati sensibili di una miriade di imprese internazionali in tutti i settori produttivi, che misurano la posizione dell’impresa sotto esame nel vastissimo campione disponibile, con assoluta precisione,  mediante tutti i parametri rilevanti. Sembrerebbe in grado di dare le risposte necessarie ai problemi aziendali mediante il confronto costante e “matematico” con le esperienze vissute, individuando soluzioni e interventi. Forse è stato questo strumento scientifico e oggettivo a far emergere la seconda gamba delle decisioni, quella soggettiva, relativa agli interventi sulle risorse umane e, nelle aziende dinastiche, ai complessi  rapporti familiari.

E così, Piercarlo Ceccarelli che da Londra ha guidato lo sviluppo del metodo PIMS in Europa, fornendo uno strumento oggettivo prezioso, ha sentito il richiamo irresistibile verso l’elemento soggettivo quale decisivo protagonista nell’azienda e nella vita, con in più la considerazione che per gli imprenditori si aggiunge “il peso delle responsabilità”. Lo spiega così: “Per questo ho deciso di indagare l’impatto psicologico – a livello personale, sociale, famigliare e professionale – delle varie situazioni che il capo azienda deve affrontare. E per renderlo più chiaro e vivido l’ho inserito in un romanzo, nella speranza di trasmettere il caleidoscopio di sentimenti, di emozioni, di aspirazioni, di dilemmi e di drammi che il capo azienda deve vivere per fare bene il suo lavoro”.  

Possiamo dargli atto di esserci riuscito, il suo racconto  fa entrare nelle più diverse situazioni:  liete e distensive come tese e drammatiche, nella vita aziendale e nel tempo libero, a livello personale e familiare, mediante descrizioni così accurate da far rivivere, come se vi si assistesse, ambienti e protagonisti. Dagli  ambienti di lavoro a quelli domestici e per il tempo libero, che poi non lo è mai,  i diversi tipi umani, molto ben  caratterizzati, compongono uno psicodramma collettivo  avvincente perché  l’impatto delle diverse mentalità con la razionalità delle scelte  diventa un “thriller” appassionante. Senza togliere rigore alla visione propriamente aziendale, resa con precisione e professionalità, si crea interesse a questi temi considerati specialistici anche per il lettore comune, che partecipa al “reality” rappresentato in modo coinvolgente e a tratti emozionante.

Ecco come sono nati “I Gianselmi”, ed ora “I Martini”. Cominciamo da questi ultimi, che dopo l’apripista del 2014 inaugurano la nuova collana “I libri di bordo”  della “Libreria Utopia Editrice”.  

“I Martini”, uno  psicodramma familiare illuminante

Ci sono dei film nei quali si attende che avvenga qualcosa mentre si dipanano scene interminabili che sembrano prive di interesse, ma quando l’impazienza raggiunge il massimo ecco  il miracolo: il film prende quota,  diviene avvincente e ciò che prima era apparso un diversivo trascurabile diviene centrale nella vicenda. E allora viene voglia di rivedere la prima parte  che si era trascurata.

Una sensazione analoga si prova nella lettura de “I Martini”. Non perché  sia poco scorrevole, tutt’altro, la scrittura è piana e  vivace, le situazioni vengono evocate in modo brillante, sono curati i particolari soprattutto  nelle descrizioni dei diversi soggetti,  che diventano figure familiari; ma perché le confessioni dei membri della famiglia, che si susseguono come sedute psicanalitiche, sembrano momenti interlocutori rispetto alla vicenda vera e propria, e quindi da doversi superare rapidamente. Invece, come nelle vicende classiche,  nell'”agnitio” finale diviene quanto mai importante ogni passaggio psicologico, ogni rievocazione di fatti apparentemente secondari ma che sono carichi di significati. Tutto si scopre “dopo”, e fa tornare il lettore sui propri  passi  con il senso di colpa di avere sbrigativamente trascurato passaggi rivelatisi invece decisivi.

Ma non è questa la maggiore sorpresa del romanzo. Non è solo la vicenda dei personaggi a rivestire un interesse che prima faticava a manifestarsi per il carattere interlocutorio delle loro confessioni che occupano gran parte del libro; è  la vicenda umana  del lettore a entrare in gioco all’improvviso, perché viene coinvolto nella psicodramma in cui si cala la storia narrata.

Gli atteggiamenti e comportamenti della storia aziendale,  analizzati e sezionati con  gli strumenti avanzati della Consulenza di Direzione, mostrano la loro forza paradigmatica e il loro valore simbolico in quanto l’elemento umano e soggettivo diventa prevalente anche risoetto ai fattori razionali ed oggettivi, pur se inequivocabili. Questo perché tali fattori vengono filtrati e interpretati dalla persona, e sulla razionalità aziendale prevalgono  i  condizionamenti personali, di cui fanno parte le “certezze” su cui si basano le decisioni senza che ci si renda conto che diventano opinabili quanto le posizioni contrarie. I  “Legal Thriller” di John Grisham non escono dalla pagina per entrare nella vita del lettore, il “Company Thriller” di Piercarlo Ceccarelli invece penetra nell’anima. E spinge a riconsiderare tante nostre scelte e decisioni delle quali siamo stati sicuri ma ora ci appaiono opinabili. Perché abbiamo avuto la dimostrazione lampante, con gli strumenti analitici più raffinati apparsi quanto mai affidabili e coinvolgenti, che non dobbiamo riposare su certezze forzatamente dipendenti  dai nostri condizionamenti mentali, ma dobbiamo aprirci al confronto per superare i nostri limiti di cui non ci rendiamo conto.

E questo vale quale che sia il nostro carattere, visto come il fattore che alla fine prevale anche sull’oggettività delle dimostrazioni tecniche e scientifiche, perché è il filtro non neutrale ma altamente soggettivo attraverso il quale viene distillata la decisione finale.  Quindi la vicenda aziendale che divide  la famiglia  Martini diventa la metafora della vita anche del lettore, chiamato a riconsiderare le proprie vicende familiari misurandosi con se stesso, le proprie aperture e le proprie impuntature di carattere di cui non è consapevole credendo di essere nel vero, mentre la sua è solo una parte del vero.. E’ capitato a noi, crediamo che capiti a tutti, fino a provocare una sorta di catarsi interiore

Non rievochiamo la vicenda della famiglia Martini e dell’impresa “Martini Legnami” per mantenere la  “suspence”. Diciamo solo che la narrazione procede come se si sfogliassero le pagine di un diario, la maggior parte dei capitoli si apre con il luogo e la data in cui si svolge la vicenda, nell’arco di poco più di quattro mesi, dal 28 maggio all’8 ottobre.

I  protagonisti: dal capostipite Alvise ai decani dell’azienda, opposti come carattere e risultati ottenuti, in perenne disaccordo, i fratelli Stefano e Federico con la moglie Mariuccia, Simone figlio di Stefano, attuale Amministratore delegato,  alle prese con un serio problema aziendale, l’acquisizione di un importante concorrente sul mercato americano, con la moglie Marta;  il figlio Filippo alle prese con una tesi a Boston per il master in “Business Administration” con cui coronerà i suoi studi, e la sua ragazza Kathy, i professori dell’MIT  Sanders e i colleghi Rudin e Greenberg. Poi gli altri membri del Consiglio di amministrazione, il precedente Amministratore delegato Martello, Schmidt e la Ferrandi, il direttore di produzione Ferrello e il consigliere commercialista Treviretti. E, in un ruolo determinante, il consulente di direzione Nicola Fabbroli, con il suo team, Buoninverno, Silvy Kubert e Venturo, fino al titolare dell’impresa da acquisire, Clayton,  e Delpio, possibile partner. Aggiungiamo soltanto che si incrociano i due  percorsi, e da paralleli diventano convergenti: la preparazione della tesi del Master del più giovane della famiglia, Filippo, e la preparazione dell’offerta per l’acquisizione dell’importante concorrente per sbarcare sul mercato americano. Entrambi imperniati su rigorose procedure di analisi aziendale, con il primo percorso rivelatore dell’importanza dei risvolti umani, il secondo  basato sulla pura tecnica rivelatasi necessaria ma non sufficiente.

La chiave di volta è il collegamento dei tratti caratteriali con l’atteggiamento verso le problematiche aziendali, come l’innovazione e il rischio, le opportunità e il coordinamento organizzativo. Se i tratti caratteriali vengono semplificati nelle due categorie di “introverso” ed “estroverso”, ecco aprirsi un ventaglio di reazioni contrapposte corrispondenti agli impulsi prevalenti. E di regola  neppure i dati oggettivi hanno la forza di prevalere quando il condizionamento caratteriale è così forte. Né si può fare una distinzione come tra buoni e cattivi, ogni tratto caratteriale ha i suoi pregi e i suoi difetti, in comune hanno l’errato convincimento di essere sempre nel giusto in entrambi i casi, che può portare a sbagliare inconsapevolmente. 

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Guardiamoli questo tratti prevalenti,  per conoscerli in modo non superficiale anche in relazione ai rispettivi punti forti e  deboli non solo nelle scelte aziendali ma anche e soprattutto in quelle personali che si pongono di continuo nella vita di tutti.

Dunque, l’introverso è spinto da creatività e idealismo, con un umore variabile, timidezza e senso di autocritica, per questo in lui c’è  pessimismo e cautela verso le novità e nei rapporti sociali che sono scarsi ma importanti; i suoi traguardi sono proiettati nel lungo periodo. All’opposto, l’estroverso ha spirito di adattamento e  tendenza alla concretezza, umore stabile e socievolezza, pertanto è ottimista e attratto dalle novità,  cerca popolarità e un’affermazione sociale rapida se non immediata.

Ne deriva la netta diversità negli atteggiamenti. Verso l’innovazione l’introverso procede ad accurati studi preliminari per valutarla ed, eventualmente, programmarla; l’estroverso tende ad adottarla  in modo spontaneo e con immediatezza, anche se si basa soltanto su un’idea brillante senza approfondirla. Nei riguardi del  rischio, all’avversione o comunque alla neutralità dell’introverso che lo porta ad evitarlo se non riesce a minimizzarlo data la sua propensione per il certo rispetto all’incerto, corrisponde la reazione opposta dell’estroverso il cui ottimismo istintivo lo porta a sovrastimarne i benefici anche se cerca di minimizzarlo e comunque finisce per accettarlo. 

Ma ci sono anche le opportunità da considerare quando si presentano. Ebbene, l’introverso anche qui procede ad accurate valutazioni, spesso seguendo uno schema preordinato, mentre l’estroverso  segue il proprio istinto per coglierle al volo senza verifiche e senza chiedere consigli anche a rischio di errori.

Come comportamento generale l’introverso tende a dotarsi di tutto quanto può aiutarlo nelle decisioni che si presentano nell’azienda come nella vita, su piani diversi ma con delle costanti comuni; l’estroverso fa più affidamento sulle proprie percezioni e tende  a trasmettere la sua visione egocentrica, che è proiettata sui risultati piuttosto che sulle metodiche.

Da tali considerazioni che nel romanzo avvicinano alla conclusione della vicenda aziendale si ricava un insegnamento per tutti, inaspettato quanto illuminante, che scuote  intimamente e porta a riconsiderare  atteggiamenti e  decisioni alla luce di questa suggestione rivelatrice.  E’ dunque un ausilio prezioso non solo per i capitani d’industria e le loro decisioni, ma anche per la vita di tutti i giorni che pone dilemmi e scelte non meno basilari alle persone nei campi e  momenti  più diversi.

“I Gianselmi”, una storia appassionante tutta da vivere 

Molto diverso “I Gianselmi”, nell’impostazione e nello svolgimento, anche se si tratta ugualmente di una famiglia di imprenditori di più generazioni alle prese con decisioni vitali per l’azienda meccanica di produzione di giunti ad alta specializzazione che ne porta il nome. Non si avverte la forma narrativa che rende impaziente la prima parte della lettura nei “Martini”, non per la scrittura, sempre scorrevole e vivace, ma per l’interesse al prosieguo della vicenda rallentato nell’altro romanzo  dalle confessioni familiari considerate come dispersive prima che  risaltino decisive  e anche istruttive.

I Gianselmi avvincono fin dall’inizio,  la trama è aggrovigliata e questo crea “suspence”, l’analisi minuziosa e diffusa è dedicata ai meccanismi dell’impresa più che ai fattori psicologici. Per l’autore, questo che è il suo primo romanzo aziendale è stato dunque più aderente al suo approccio immediato alle problematiche dell’impresa alla luce della razionalità, anche se  l’elemento umano nella dimensione familiare è ben presente. Soltanto non è debordante e risolutivo come nei “Martini” che in questo senso si allontanano di più dalla matice aziendale  nell’elaborazione drammaturgica dell’autore. Ciò che crea un motivo aggiuntivo di  attesa e interesse per il prosieguo della serie con l’auspicabile terzo romanzo dell’autore.

Qui i meccanismi dell’impresa si dipanano in modo piano e avvincente inseriti in situazioni ambientali e personali gradevolissime che diventano cariche di “suspence”.  Il merito va alla scrittura dell’autore  e all’interesse della storia,  più che narrata rivissuta nei  minimi dettagli e passaggi, senza la fretta di andare “al sodo” ma con la pazienza di descriverne tutti i contorni. L’accuratezza di una scenografia cinematografica è un suo grande pregio, e non è solo un  merito formale, ma un valore sostanziale,  il lettore si sente “convitato di pietra” delle varie situazioni.  

Sono tante e le più diverse come ambientazione e come protagonisti, la storia si apre e si chiude con la festa natalizia dell’impresa, nell’arco di tempo di un anno si formano e si sciolgono tanti nodi. Tutto avviene in una integrazione continua dei personaggi, descritti con precisione salgariana, con gli ambienti anch’essi descritti con analoga cura, si sente il gusto che prova l’autore nell’usare un linguaggio piano, diverso da quello tecnico freddo ed essenziale, anche nelle parti specialistiche. 

Siamo a livello di “top class” e quindi ci si muove in ambienti consoni, siano quelli di lavoro, con i saloni dei Consigli di amministrazione e gli studi direzionali, che quelli dei tempo libero, dal golf  alla vela, anche i pranzi e le consumazioni al bar sono all’altezza, ma i personaggi centrali non sono su un piedistallo, mostrano tutta la loro umanità nei comportamenti scanditi dai loro diversi ruoli.

Il problema aziendale viene enunciato subito in tutta la sua complessità, mentre viene descritto in parallelo Alfio, il titolare dell’azienda di famiglia che sente su di sé il peso della responsabilità di fare la scelta giusta per sé e per l’impresa. Vendere l’azienda che perde i colpi, con la sollecitazione dei cugini consiglieri-azionisti che premono per l’accettazione dell’offerta pervenuta, volendo monetizzare la loro parte, o impegnarsi in un  rilancio con i rischi e gli oneri che comporta?  Una decisione che Alfio non si sente di prendere da solo, anche se in qualche momnento pensa seriamente di cedere tutto deluso dal disinteresse del figlio Artù, che vede prospettive per lui preferibili a Londra dove è stato mandato per una formazione poi tradotta nell’inserimento nella finanza in cui intende lanciare con dei colleghi una banca d’affari per progetti innovativi.  

Anche qui, come nei “Martini”, entra in scena la Consulenza di Direzione, ritroviamo lo stesso Nicola Fabbroli “testaquadra”, e il suo team di esperti, il coordinatore Buoninverno con la bella Silvy Kubert e il più giovane Venturo; si aggiunge il tecnico  Cecchetti. Con  loro, da parte  dell’impresa, il timoroso Amministratore delegato Gabriolo, i responsabili di settore, dal brillante  Cerrati della produzione al dinamico Smith del commerciale, fino alla protettiva Santin del personale e allo stakanovista Tagliatelli dell’amministrazione. L’inappuntabile segretaria Anna completa il “cast”.

Si  dipana a ritmo incalzante la metodologia dell’intervento fino alle proposte conclusive dopo la “multintelligence” di gruppo, si seguono le diverse  fasi senza lentezze che suscitino impazienza nel lettore. L’autore si sente nel suo elemento, e lo si nota dalla padronanza  in cui  spiega complessi passaggi consulenziali unendo all’aspetto tecnico  reso in modo piano e accessibile, quello psicologico e umano ai vari livelli, in un approccio che gli risulta altrettanto congeniale.

Al livello del protagonista Alfio, che non dà nulla per scontato, nemmeno dinanzi alle assicurazioni dei consulenti, e anche al loro livello, nulla vi è di preconfezionato,  del resto anche nella realtà la società di consulenza dell’autore si definisce “una boutique che confeziona abiti su misura”. Le soluzioni nascono dall’analisi rigorosa delle potenzialità dell’azienda rispetto alle sue carenze, superate le diffidenze  iniziali rese magistralmente. Come sono resi magistralmente i diversi passaggi, ognuno dei quali apre ai momenti successivi, con i problemi affrontati uno dopo l’altro con ordine senza arrendersi dinanzi alle difficoltà  facendo tesoro degli insegnamenti dai quali emerge la necessità di aprirsi sempre più al cambiamento.

Ma non è facile, dato che si può rimanere chiusi in concezioni superate e inadeguate senza rendersene conto, soltanto perché non si sono colte  appieno le nuove esigenze. E quelle  portate dalla globalizzazione mutano radicalmente il quadro aziendale:  le competenze specialistiche come l’impegno indefesso e quindi accentratore, da valori assoluti possono diventare handicap,  se le prime limitano la visione manageriale d’insieme e il secondo  contrasta con la necessità di delegare che l’accresciuta complessità rende ineludibile. 

Altrettanto istruttive le modalità, nelle imprese multinazionali, per conciliare gli opposti, cioè gli aspetti identitari delle concezioni nazionali e una visione unitaria condivisa necessaria per far muovere le varie  componenti nella stessa direzione. La soluzione trovata da Fabbroli risiede nell’individuazione dei punti comuni delle singole concezioni in modo da far convergere l’impegno di ciascuno in base ai valori condivisi nei quali tutti si possano riconoscere e motivare.

Nelle imprese familiari, c’è l’alternativa della formazione ad esserne azionisti invece che imprenditori e manager per gli eredi che non sono portati a continuarne la gestione diretta nella dinastia familiare; e i  Consigli di Amministrazione vanno aperti ad esterni competenti e non limitati ai membri della famiglia. La vita dell’impresa, che investe tanti  aspetti economici, sociali e umani del territorio in cui opera, va ben al di là dei soli aspetti familiari e dinastici, pur se rilevanti. .

Ci sembra bene non aggiungere altro sulla trama del romanzo perché ogni nuovo capitolo, e ce ne sono trentatre,agili e scorrevoli, si apre con delle novità avvincenti nell’ambientazione e nei protagonisti, anche quando  non cambiano ma muta il loro stato d’animo e il clima di “suspence” resta coinvolgente.

Dei protagonisti abbiamo citato il titolare dell’impresa Alfio con il suo Amministratore Delegato, il titolare della Consulenza di Direzione Fabbroli, e i cugini azionisti e consiglieri, Elena e Pietro. Della sua famiglia c’è anche la moglie Luisa e il figlio Artù,  personaggio fondamentale che compare nei momenti topici, con la fidanzata Liz, il fratello Ottorino e il figlio Paolo, ma nessun altro, mentre nei “Martini”  erano tre generazioni a confronto diretto.  Poi c’è Federico, consigliere azionista molto fidato e preparato, che fornisce ad  Alfio consigli preziosi, come quello della consulenza direzionale, oltre ad  essere con lui nelle partite di golf settimanali e suo commensale, fino all’implacabile burocrate Minestrucci, che imperversa dalla locale Azienda municipalizzata..

Abbiamo solo accennato ai personaggi e agli ambienti, leggendo il libro li abbiamo visti in azione senza potercene staccare, fino all'”agnitio” finale, perciò per noi è un vero “Company Thriller”. “I Martini” e  “I Gianselmi”, paradigma umano

I  sottotitoli dei due romanzi che abbiamo descritto sommariamente, potrebbero essere invertiti,  “Una storia famigliare” sembra particolarmente aderente ai “Martini”, mentre “Una famiglia, un’azienda, leadership tra istinto e ragione” fotografa perfettamente la vicenda dei “Gianselmi”. Entrambe sono imprese di medie dimensioni di respiro internazionale, con diverse centinaia di occupati. .

Istinto e ragione, carattere e razionalità, sono i poli tra cui si muovono i protagonisti nel proscenio dell’azienda e della famiglia, in situazioni intricate di cui non si intravvede la soluzione fino a che i nodi si sciolgono quando questi  poli si avvicinano fino ad integrarsi, per una visione illuminata che non deve mai mancare, nella vita aziendale ma anche, e soprattutto,  nella vita familiare.

Non ci riferiamo all’azienda come alla grande famiglia delle visioni paternalistiche; ma alla compresenza nel corpo aziendale come nel corpo familiare, delle sollecitazioni spesso di segno opposto  che vengono dalla razionalità e dall’istinto, conciliabili soltanto a livello psicologico.

E’ proprio questa l’operazione-verità compiuta dall’autore. Gli dobbiamo essere grati per aver portato a conoscenza di tutti  quanto ha acquisito nel corso di una lunga attività nel microcosmo dell’azienda che diventa rivelatore per il microcosmo della famiglia e il macrocosmo dell’umanità.

Info

Piercarlo Ceccarelli, “I Martini. Una famiglia, un’aziernda: leadership tra istinto e ragione”, Libreria Utopia Editrice, Milano, novembre 2016, pp. 224, euro 19,50. Piercarlo Ceccarelli, “I Gianselmi. Una storia famigliare”,  Mind Edizioni, novembre 2014, pp. 182, euro 19,00. Entrambi i volumi sono rilegati con sovracoperta a colori. 

Foto

Le immagini, a parte naturalmente le copertine dei due romanzi, sono state tratte da siti Internet i cui titolari si ringraziano per l’opportunità offerta, pronti ad eliminarle se il loro inserimento non è gradito dai proprietari dei diritti, considerando che tale inserimento è meramente illustrativo, ideato esclusivamente dall’autore della lunga recensione per alleggerirla, e senza la benchè minima motivazione economica, essendo tutto senza fine di lucro. Evocano gli ambienti in cui si svolgono i romanzi:  in particolare domina su tutto l’elemento umano variamente rappresentato, oltre a questo ugualmente per entrambi gli stabilimenti indistriali e le sale da riunione dei Consigli di amministrazione, mentre per “I Martini”  anche la villa per  i colloqui rivelatori di Filippo e per “I Gianselmi” il campo da golf per il tempo libero e la regata,  di cui si parla nel libro.