Adami, metafisiche e metamorfosi all’Accademia d’Uugheria

di Romano Maria Levante

In tre location”, dal 19 gennaio al 26 febbraio 2017 la mostra “Valerio Adami. Metafisiche e metamorfosi” presenterà una selezione di oltre 60 opere di un artista ben noto all’estero che dà un’interpretazione del tutto personale della linea e del colore, con una discendenza stilistica che va dalle incisioni veneziane del ‘500 alla Pop art, in una valorizzazione del disegno come strumento della composizione e soprattutto base dell’atto creativo che prende forma quasi in modo autonomo.  La mostra, curata da Lea Mattarella, si svolgerà presso l’Accademia d’Ungheria, la Galleria André e la Galleria Mucciaccia. Il bel catalogo, con 10 saggi e una ricca iconografia, è di Carlo Cambi Editore.

Atto meritorio dell’Accademia d’Ungheria è estendere con questa mostra – non limitata alle sale di Palazzo Falconieri ma con parecchie opere presentate nella vicina galleria André e nella Mucciaccia – la conoscenza a Roma e in Italia  di un artista, molto apprezzato all’estero, che ha girato in tante città e nazioni  in diversi continenti, dimorando a lungo dove lo portava la sua insaziabile volontà di conoscere. “Avevo la curiosità del mondo e la curiosità delle persone. Degli uomini, delle donne, della loro vita, delle loro ide”. Si era nel secondo dopoguerra “molte cose ci erano state nascoste. Molte altre  erano state interrotte. Allora io volevo scoprire il mondo coi miei stessi occhi”.

Così soggiorna a lungo sempre dove si svolgono le sue mostre, a un ritmo incessante. Ne abbiamo contate 70 personali, 50 collettive, oltre a 30 collezioni pubbliche selezionate: si va dall”Italia tra Firenze e Venezia, Milano e Roma, Torino e Ravenna, Lucca e Siena; alle altre nazioni europee, Belgio e Svizzera, Germania e Gran Bretagna, Francia e Grecia, Spagna e Portogallo, fino a Israele e alla Finlandia; al continente americano, Stati Uniti, Cuba, Messico; al Giappone e l’India.

Lo hanno fatto conoscere anche 20 monografie selezionate su di lui, e si è fatto conoscere con 5 proprie pubblicazioni in cui disvela i segreti della propria arte, cui vanno aggiunte interviste, come quella molto personale in cui ripercorre la sua vita fin dall’infanzia, data  a Christophe Penot nel 2016, riportata nel Catalogo con il titolo “Valerio Adami, l’uomo”.

Le origini e i capisaldi della sua arte

L’iniziazione all’arte, di Valerio Romani Adami – bolognese del 1935 trasferito presto a Milano, come artista ha semplificato il cognome – avvenne a Venezia nello studio di Felice Carena, che “mi faceva disegnare molto”, ma la folgorazione ci fu  alla Biennale del 1952 dinanzi al “Prometeus” di Oskar Kokoschka, per lui “la tela non era che un immenso foglio bianco sul quale si proponeva di esprimere, coi pennelli, le idee che sapeva d’altra parte sviluppare così bene” con la scrittura. Di qui nasce una frequentazione assidua così rievocata: “Kokoscha, che ho rivisto spesso, mi invitava sul lago Lemano  a dare alla mia pittura una dimensione intellettuale, che  non avrebbe mai potuto trovare senza la sua influenza”. Fino a scoprire  che “la pittura è molto di più che la pittura”. 

Ma non per questo trascura la forma pittorica, l’intenso “apprendistato tecnico” a Milano, nell’Accademia di Belle Arti di Brera ai corsi di Achille Funi, in cui “disegnavamo otto ore al giorno”, ha fatto sì che il segno divenisse la base della sua pittura, seguito dal colore. Funi era “un disegnatore straordinario! Io aspettavo con impazienza le sue correzioni”, e ha continuato a farle  autocorreggendosi in proprio, sempre avendo la gomma a portata di mano, fino a intitolare una sua pubblicazione del 2002 “Dessiner. la gomme et les crayons”, ma non si tratta delle “cancellature” di Emilio Isgrò applicate in modo definitivo a scritte simboliche, quelle di Adami sono transitorie.

Dà molta importanza alla luce, ritenendola fondamentale sia per chi guarda sia per chi dipinge, luce che varia a seconda delle situazioni: “E’ come la luce del giorno: rischiara,certo, ma non è mai la stessa!”.  Però c’è dell’altro ancora più importante: “Eppure, lo sapete, i miei quadri nascono tutti con lo stesso procedimento: prima disegno, ed è questo disegno che riporto sulla tela. Dunque, il disegno è all’origine di tutto. E’ quello che apporta la luce, se la luce c’è . ma è quello che allo stesso tempo conserva un a parte di oscurità, seguendo una propria logica, che non è sempre quella che io gli assegnavo…”. Come nei “segni” di Guido Strazza, in mostra quasi contemporanea alla Galleria Nazionale, che però non si trasformano in un “figurativo”, come in Adami, il quale accetta questa qualifica ma rifiuta quella data alle sue opere di ” figurazioni narrative”, basata sul movimento pittorico “Figuration narrative” in cui all’inizio degli anni ’60 si facevano rientrare i pittori che si contrapponevano all’arte astratta sempre più diffusa,

Ed ecco come procede praticamente, secondo la sua istintiva rievocazione in cui, dopo essersi schermito delle “lodi sulla forza del mio disegno, sulla mia maestria”, spiega: “Ma in realtà le cose sono più complicate. Quando prendo un foglio di carta per disegnare, come faccio ogni giorno, non so mai quali gesti compiere, né quale disegno nascerà. Allungo il braccio, la mano posa la punta della matita sul foglio: un punto. Un  punto che si muove e diventa linea, creando ben presto una forma, vale a dire un raccordo tra il vuoto e lo spazio, il visibile e l’invisibile.”.

Finora solo disegno, poi sembra subentrare Kokoscha: “E’ un rapporto che talvolta mi sorprende, mi infastidisce, mi disturba? Allora cancello, aspetto il tratto seguente, che certamente cancellerò di nuovo. Forse è il mio inconscio, un inconscio che si rivela più forte della mano… Un inconscio nato da tutti i ricordi, tutti gli incontri, tutte le mie esperienze  passate e dalla mia vita quotidiana”. 

E sono tante per un artista che ha girato il mondo in lungo e in largo, ma è sempre tornato in Italia, dove si è formato artisticamente al classicismo e alla modernità, come ha sottolineato l’amico scrittore Carlos Fuentes. Sugli stimoli inconsci l’artista cita il concetto di Edouard Munch, “essenziale per la comprensione del mio lavoro: io non dipingo ciò che vedo, dipingo ciò che ho visto… tutto quello che ho visto si trova archiviato nella mia memoria, alla quale attinge l’inconscio a seconda delle mie emozioni. ma , dovunque attinga, l’inconscio ritrova la mia identità italiana”. E lui stesso nelle “Sinopie” scrive: “Il vero autore dei miei quadri è la tradizione cui appartengo”

Per questo non può essere assimilato alla visibilità realista della Pop Art al di là delle apparenze: “Chiamo sinopia – afferma nello scritto così intitolato -. quel substrato di associazioni, di intenzioni, di presente & passato, di ricordi, etc., che tanta importanza ha nella genesi di un quadro. Questo processo mette il pensiero in movimento e, a sua volta, la mente mette in movimento la mano”.

Oltre ai maestri ha incontrato anche, se non un mecenate, un mercante che, con un contratto di esclusiva nel quale aveva tutte le opere di Adami – dai quadri compiuti, ai disegni preliminari, fino agli schizzi sui foglietti dei caffè francesi – e, racconta l’artista, “in cambio egli prese in carico tutte le mie spese, assicurandomi un tenore di vita inimmaginabile per un giovane pittore. Perché allora ero un giovane pittore. per lui rappresentavo l’avvenire.”. Si chiamava Aimé Maeght, conosciuto intorno al 1970 dopo aver avuto una sala tutta per sé alla Biennale di Venezia del 1968, era un mercante che lavorava con tanti grandi artisti come Matisse e Chagall, Braque e Mirò, Adami gli riconosce “un ruolo decisivo” esprimendogli riconoscenza con queste parole: “Tutti i vantaggi materiali che hanno facilitato la mia vita, li debbo a Aimé Maeght”;  e perché non si cada in equivoco conclude: “Ma, ancora una volta, il grande mentore della mia esistenza resta Oskar Kokoscha. E’ lui che mi ha permesso di diventare il pittore che Aimé Maeght in  seguito ha difeso”.

Di qui la conoscenza di alcuni grandi pittori,tra cui Mirò verso il quale ci fu “una vera ammirazione e d un vero affetto – un affetto che egli mi rendeva, credo”, e una frequentazione, “più volte, con Camilla, siamo andati a trovarlo  nella sua casa di Maiorca”, Camilla è la moglie pittrice che firma anch’essa con il cognome Adami. Ciononostante erano molto diversi, “io avevo una conoscenza del disegno, che lui non possedeva, ma che non cercava neppure. A che gli sarebbe servita? Mirò volteggiava in un altro mondo, su un altro pianeta”, e aveva un segreto, “la sua semplicità. Durante tutta la sua vita, lui ha dipinto come si respira, naturalmente, senza porsi domande”.

Rispetto a Giorgio de Chirico la curatrice Lea Mattarella istituisce assonanze e dissonanze, richiamandosi per le prime “a Dore Ashton che si meraviglia per quanto poco il Grande metafisico sia stato citato come ‘predecessore spirituale’ di Adami. Li unisce l’occhio italiano, la linea chiusa, l’amore per il classico, l’idea che la pittura conduca altrove“. Così prosegue la Ashton: “Anche le ombre in de Chirico sono delimitate da linee, e quando ha bisogno di suggerire la modellatura, è spesso il tratteggio classico, compresa la linea, che la genera”. Ed ecco l’ “altrove”: “Non è solo l’amore per la linea precisa e pulita che collega de Chirico ad Adami, ma anche una concezione della pittura che onora la memoria (o l’immaginazione) sopra ogni cosa”.

Tutto ciò porta alle  visioni “metafisiche” cui si intitola la mostra aggiungendo però “metamorfosi”, le dissonanza che la curatrice sottolinea: “Oltre all’ “apertura di Adami verso l’Oriente, un’altra lontananza è la consapevolezza che esistono e si possono affrontare in pittura anche scene  apparentemente intime e quotidiane, senza per questo negare quel senso di attesa che qualcosa accada”, cioè l’atmosfera di sospensione metafisica che avvolge di mistero le piazze del “Pictor classicus”, nel suo ritorno alla classicità. mentre “Adami fa un’operazione ancora più sofisticata: applica alla classicità una specie di decostruzione  per poi ricomporla in una nuova veste. E così facendo, la salva per sempre”, così le sue “metamorfosi” si aggiungono alle “metafisiche”.

Ma “tocca ad ogni artista trovare la sua strada”, lui si sente più vicino a Tintoretto che a Pollock perché lavora sulla rappresentazione attraverso la forma in modo nuovo, di “ispirazioni eterne”.

Gli scritti per Adami, da Italo Calvino ad Antonio Tabucchi

Anche grandi scrittori scrivono rivolgendosi direttamente a lui, Italo Calvino  nel 1980 “Quattro fiabe d’Esopo per Valerio Adami”. Sono riportate nel Catalogo, precedute da alcune “massime” di Adami sull’argomento riassunto nel titolo;  poi lo scrittore penetra nella creazione pittorica e si cala  nel mondo dell’artista con delle favole i cui  protagonisti sono gli elementi costitutivi delle sue composizioni – indicati nei titoli – che si contrappongono orgogliosi per primeggiare l’uno sull’atro.

In “La mano e la linea” la linea cessa di essere tale acquisendo la forma di una mano, ciascuna pensa di dominare l’altra mentre sono reciprocamente dominate, la linea perché non è più libera ma fissata nei contorni delle mani che disegna, la mano  perché senza linea non esisterebbe più.

Nella seconda favola, “I piedi e la figura”, questa non accetta di dipendere  dai piedi del pittore essendo fatta di linee e colori che le danno leggerezza per sollevarsi, ma viene richiamata alla realtà dal pittore il quale riesce a disegnarla solo partendo dai suoi piedi che la fissano al suolo.

“La linea orizzontale e il colore blu”  presenta un acceso dialogo in cui ciascuno si vanta di essere “padrone dello spazio” – l’orizzonte è indicato da una linea lontana, o dall’azzurro del cielo  o del mare –  mentre irrompono le figure che si posizionano e in tal modo dominano  spazio e tempo.

Con la quarta favola, “La parola scritta, i colori e la voce”, due elementi della composizione, manca la linea, si sottopongono al giudizio della voce, sembra prevalga la parola scritta perché viene letta e pronunciata, ma i colori hanno il sopravvento e la voce può cantare a voce spiegata.

Si resta senza fiato nel leggere questi sapidi quadretti sul mondo creativo di Adami, vi abbiamo ritrovato il fascino meditativo ed enigmatico di “Palomar” con le riflessioni profonde di Calvino mosse dall’osservazione attenta e disincantata con una disinvoltura sul filo del paradosso.

Altrettanto sorprendente il “Diario cretese con le sinopie di Valerio Adami” che Antonio Tabucchi gli dedica con sapide annotazioni da Cnosso tra il !°  e il 4 giugno 2000, da Hanià e Sfakià tra il 6 e l’11 giugno. Leggiamo che nel suo viaggio lo scrittore si è portato le fotocopie dei disegni dell’artista perché, esordisce, “caro Valerio, credo che questo luogo, forse come nessun’altro, sia adatto per parlare della tua pittura”; inoltre, guardando il labirinto cretese, gli torna in mente “una frase letta nei tuoi appunti: ‘Il mito è uno dei tracciati-radice della nostra cultura, il cui sapere si definisce in un pensiero di metamorfosi’. Non ho potuto fare a meno di pensare al tracciato dei tuoi disegni, e al punto di entrata, che è libero”.  

Come con Calvino, troviamo lo scrittore impegnato ad interpretare l’arte del pittore: “Se il tracciato delle tue opere è aperto a ogni arbitrario ingresso, rischiamo di restarci rinchiusi dentro come degli uccelli in una pania”. Per trarne considerazioni amare: “In questo universo in cui siamo allegramente entrati, con una libertà che  rasenta la sconsideratezza, cominciamo ad indugiare, ne rimandiamo l’uscita e vi facciamo naufragio”.

Del diario di Tabucchi potremmo ricordare anche il dialogo con un pittore locale sul libro di Adami che lo scrittore gli ha mostrato, il ricordo di quando a Parigi l’artista gli disse che cercava “un colore per i tuoi disegni come se tu cercassi un suono, perché esso ha per te lo stesso statuto delle note musicali”;  fino all’esclamazione “Caro Valerio, bisognerebbe dare un premio alla mente umana perché è riuscita a concepire l’infinito, concetto che a quanto pare esiste solo lì dentro”. Per questo gli ispira il “racconto a espansione limitata” “Le cefalee del Minotauro”,  provocate “dalla marea del tempo che ti è scoppiata nella testa come un brodo dell’origine che ribolle, e dove tu affoghi”. Lo manda ad Adami scrivendogli che, mentre si esploreranno i misteri insoluti, “noi continuiamo a fare quello che facciamo ogni giorno: cose fatte di linee, di colori, di parole”.

A Tabucchi dovrebbero essere riferite le parole, mentre ad Adami le linee e i colori; e forse questo è il senso che dà lo scrittore a tale considerazione. Ma non possiamo non ricordare che in alcune opere di Adami ci sono delle scritte, e questo non va ritenuto un fatto secondario, come si vede dal modo approfondito pur se disincantato con cui, in un ampio scritto immaginifico, viene analizzata  la “frase che attraversa Ich in alto” da parte di Jacques Derrida, da lui conosciuto a Parigi intorno al 1975 allorché realizzò il manifesto per Glass che divenne simbolo del movimento decostruzionista.

Tra le quattro favole di Calvino e il diario cretese di Tabucchi mettiamo le “Righe per Adami” di Carlos Fuentes, non sono solo righe ma pagine e pagine di una cronaca surreale che comincia e finisce con il Cavaliere e il suo Scudiero, al termine identificati in don Chisciotte e Sancho Panza, si vivono le situazioni più strane e diverse, spesso paradossali,  c’è anche Camilla, la moglie di Adami e lui stesso come convitato di pietra di cui si sente sempre la presenza, con qualche citazione diretta.

Si parla anche seriamente di temi legati alla pittura: “E lui dice che vede il tempo come qualcosa di eternamente aperto, in sé non formale né formalizzabile. Forse soltanto un quadro possiede il valore formante del tempo”. In modo forse più criptico;: “Allora avviene che le cose avvengono, che son percorse da situazioni che a loro volta le percorrono; che l’assenza di un oggetto può cospirare contro la presenza di un soggetto, e viceversa; che queste temibili cose, innocue  meravigliose, succedono in uno spazio che le situa,, cioè che dà loro un luogo, ma che anche le insegue, le incalza, le mette in movimento”.

Repentino il passaggio al quadro, che segue subito dopo: “Dice che, semplicemente, ogni quadro è la struttura stessa del quadro. Aneddoticamente invisibile, a un quadro può succedere tutto e tutto è successo, prima e dopo il suo spazio” .

E dal quadro al suo autore: “Il creatore guarda il quadro prima che esista, e a poco a poco ne diventa il primo spettatore; ma, contemporaneamente, è guardato dal quadro. Il creatore provoca una fame di spettacolo nel quadro. Divorato dal proprio quadro, l’artista, che non smetterà mai di guardarlo, non potrà più vederlo se non guarda insieme con lui i nuovi spettatori che, a molteplici livelli, lo//li guardano e ripetono il processo all’infinito”.

Qui l’orizzonte si allarga: “Che fare d’una mente, d’una materia o di una società isolate? Non bastano: bisogna catturarle dentro il loro sistema di dipendenze e poi liberarle dentro uno nuova struttura e sottomettersi alle pochezze dell’univoco e del reale. la pittura di Valerio Adami: riferimento mobile continuo della struttura del reale alla struttura figurativa, con tanto di biglietto d’andata e ritorno”.

Non si limita a questo accenno, più avanti afferma: “Cerchiamo di vedere l’arte di Adami come una vasta profanazione dei significati di questa ‘realtà’ chiusa , mediante un rimescolamento dei segni che la sostengono: scompiglio che è  un modo di fare ordine, il proibito, l’inquietante, l’insopportabile, ciò che converte la sicurezza, la simmetria, l’analogia, i premi, i castighi, l’interazione dell’ordine in un incubo di disordini appassionati, cioè insoddisfatti”.

Anche lo scritto di Fuentes, come quelli di Calvino e Tabucchi, è tutt’altro che un’ordinaria amministrazione, tutti e tre sono originalissimi e toccano aspetti importanti della creatività artistica di Adami inserendoli nelle situazioni più improbabili in un contesto fantasioso e immaginifico.

E ci sembra che quanto abbiamo citato  – tra il tanto di più che si potrebbe ricordare rispetto a una vita artistica così intensa e feconda – basti per definire la straordinaria caratura di questo artista.

Visiteremo la mostra che si preannuncia così importante e rivelatrice, dopo aver riassunto la linea narrativa dell’artista e la sua personalissima visione del segno e del colore, i capisaldi della sua arte, ansiosi di vederne la realizzazione pittorica. .  

Info

Accademia d’Ungheria  in Roma, Istituto Balassi, Palazzo Falconieri – Via Giulia 1, Roma; Galleria André, Via Giulia 175, Roma; Galleria Mucciaccia, Largo Fontanella di Borghese, Roma.  Catalogo “Valerio Adami. Metafisiche e Metamorfosi”, a cura di Lea Mattarella, Carlo Cambi Editore,  gennaio 2017, pp.222, formato 25 x 34. Bilingue italiano-inglese, con 10 saggi introduttivi, dal  catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà pubblicato il 12 marzo p. v.  Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito per Kokoka, Isgrò, De Chirico, Strazza,  Matisse, Chagall, Braque e i cubisti,  Pop Art, Mirò, Tintoretto, Pollock.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

I Martini e i Gianselmi, storie aziendali e lezioni di vita

di Romano Maria Levante

Il romanzo “I Martini. Una famiglia, un’azienda: leadership fra istinto e ragione”, “Libreria Utopia Editrice”, pubblicato nel novembre 2016  inaugura  “Libri di bordo”, una collana di letteratura con l’ambizione di parlare di impresa e far parlare chi fa impresa”. L’autore Piercarlo Ceccarelli   appena due anni fa,  nel novembre 2014, ha pubblicato il suo romanzo di esordio, precursore del nuovo filone narrativo, “I Gianselmi, Una storia famigliare”, Mind Edizioni.  Il nuovo filone narrativo possiamo chiamarlo “Company Thriller” anche se la sua “suspence” è diversa da quella dei  “Legal Thriller” di John Grisham, mentre è paragonabile l’approccio  di due autori ben addentro al mondo molto particolare dei loro racconti.

Non siamo soliti recensire romanzi,  bensì  mostre d’arte ed eventi culturali, ma  non è un’eccezione se ci dedichiamo a questi due libri, uno dei quali recentissimo, perché si tratta di vero e proprio evento culturale: un nuovo filone narrativo irrompe in campo letterario con i due romanzi di Piercarlo Ceccarelli, legati a vicende aziendali apparentemente  riservate a una categoria ristretta ma in realtà fonti di insegnamento per tutti: le sue storie familiari fanno  riflettere, sono lezioni di vita.

Nei  “Libri di bordo”  i “Company Thriller” di Piercarlo Ceccarelli

Al  nuovo filone narrativo viene data la dignità della collana editoriale “Libri di bordo. Narrazioni del mondo dell’impresa vista dall’interno”, il precursore di questa serie è dunque Piercarlo Ceccarelli con un anticipo di due anni. I “libri di bordo” che nascono con il suo secondo romanzo, “I Martini”, riflettono l’interesse anche della letteratura per l’economia e la finanza, i cui temi sono entrati nei pensieri, e anzi nelle preoccupazioni di tutti, a livello generale e personale. E  “solo la letteratura è in grado di dare voce ai personaggi, indagandone il carattere, la psicologia, le motivazioni profonde,  in una parola il fattore umano”, questa la motivazione della nuova collana.

Ma può  raccontare questo mondo dall’interno soltanto chi ne ha vissuto tutte le manifestazioni e  penetrato  i risvolti  più nascosti. Può farlo l’imprenditore che ripercorre la sua “case story”;  ancora meglio chi non conosce soltanto la propria azienda ma può spaziare nel vasto panorama del mondo imprenditoriale. per averlo scandagliato  a fondo in tutta la sua estensione con un’attività di alto livello ad ampio raggio.

Il  precursore del nuovo filone narrativo, Piercarlo Ceccarelli,  ha questa peculiarità, come titolare da 35 anni di una primaria società di Consulenza Direzionale a carattere internazionale e in quanto tale lo  abbiamo accostato a John Grisham, che da avvocato di grido è diventato l’espressione del “Legal Thriller”, il fortunato filone narrativo di ambiente giudiziario cui accostiamo il “Company Thriller”  di Piercarlo Ceccarelli; un “thriller”  diverso, ma pur sempre emozionante,  che nasce dalla “suspence” creata da intrecci aziendali e familiari aggrovigliati fino all’ “agnitio” conclusiva.

“I  Martini”, i “Gianselmi”,  nei sottotitoli c’è sempre il riferimento a vicende familiari,  che farebbe pensare a una precisa scelta  dell’autore di tipo sociologico e psicologico se non familistico, in contrasto con la razionalità che dovrebbe presiedere alle vicende aziendali, basate su dati e parametri oggettivi di valutazione e di raffronto con la concorrenza sul mercato.

Invece è proprio l’approccio razionale a far considerare determinanti e spesso decisivi i fattori umani che nella consulenza corrente spesso vengono sottovalutati se non ignorati, portando a conclusioni magari gradite alla committenza perchè non mettono a nudo i suoi condizionamenti e limiti,  ma non rispondenti alle esigenze dovute a  tali connotati psicologici.

Ceccarelli è giunto a queste conclusioni dopo una vita di imprenditore prima, nell’industria e nel terziario avanzato, poi di  titolare della società di Consulenza di Direzione internazionale da lui fondata, che porta il suo nome, fino ad essere ideatore  e animatore del “Club Impronte” che al contatto  con imprenditori e manager per le consulenze aggiunge  un dialogo quotidiano con una platea quanto mai vasta su temi di management ed economia che vengono sottoposti con continuità a un forum permanente competente e motivato.

E’ intrigante che un imprenditore e manager così impegnato su vari fronti tutti ancorati alle fredde valutazioni  tipiche della consulenza aziendale, dopo aver scritto dieci libri di management abbia sentito la spinta e abbia avuto la forza di trasferire questo mondo nel campo letterario con due romanzi in cui la dimensione familiare e quella psicologica sono dominanti.

Immaginiamo che i contatti quotidiani attraverso il “Club Impronte” abbiano avuto un ruolo non secondario in questa scelta, perché ha potuto cogliere ancora di più i fattori umani che presiedono alle opinioni e alle scelte aziendali, al di là dei dati tecnici pur essi fondamentali. La consulenza aziendale penetra all’interno delle strutture, ne sono interlocutori i responsabili delle diverse funzioni mentre l’imprenditore committente può sembrare il “dominus” da orientare nelle scelte senza poter superare i tratti caratteriali che pure ne condizionano fortemente le decisioni finali.

Ma c‘è qualcosa di peculiare che rende ancora più intrigante la svolta di Ceccarelli. Si potrebbe pensare che voglia ovviare alla carenza dei dati  sulla posizione dell’azienda sul mercato rispetto alle caratteristiche interne e alle proprie strategie, da cui  una loro sottovalutazione forzata, mentre avviene tutt’altro. La sua società di Consulenza Direzionale ha avuto da sempre un “asso nella manica”, il metodo PIMS, “Profit Impact of Market Strategy”,  imperniato su una grande banca dati in cui sono immagazzinati i dati sensibili di una miriade di imprese internazionali in tutti i settori produttivi, che misurano la posizione dell’impresa sotto esame nel vastissimo campione disponibile, con assoluta precisione,  mediante tutti i parametri rilevanti. Sembrerebbe in grado di dare le risposte necessarie ai problemi aziendali mediante il confronto costante e “matematico” con le esperienze vissute, individuando soluzioni e interventi. Forse è stato questo strumento scientifico e oggettivo a far emergere la seconda gamba delle decisioni, quella soggettiva, relativa agli interventi sulle risorse umane e, nelle aziende dinastiche, ai complessi  rapporti familiari.

E così, Piercarlo Ceccarelli che da Londra ha guidato lo sviluppo del metodo PIMS in Europa, fornendo uno strumento oggettivo prezioso, ha sentito il richiamo irresistibile verso l’elemento soggettivo quale decisivo protagonista nell’azienda e nella vita, con in più la considerazione che per gli imprenditori si aggiunge “il peso delle responsabilità”. Lo spiega così: “Per questo ho deciso di indagare l’impatto psicologico – a livello personale, sociale, famigliare e professionale – delle varie situazioni che il capo azienda deve affrontare. E per renderlo più chiaro e vivido l’ho inserito in un romanzo, nella speranza di trasmettere il caleidoscopio di sentimenti, di emozioni, di aspirazioni, di dilemmi e di drammi che il capo azienda deve vivere per fare bene il suo lavoro”.  

Possiamo dargli atto di esserci riuscito, il suo racconto  fa entrare nelle più diverse situazioni:  liete e distensive come tese e drammatiche, nella vita aziendale e nel tempo libero, a livello personale e familiare, mediante descrizioni così accurate da far rivivere, come se vi si assistesse, ambienti e protagonisti. Dagli  ambienti di lavoro a quelli domestici e per il tempo libero, che poi non lo è mai,  i diversi tipi umani, molto ben  caratterizzati, compongono uno psicodramma collettivo  avvincente perché  l’impatto delle diverse mentalità con la razionalità delle scelte  diventa un “thriller” appassionante. Senza togliere rigore alla visione propriamente aziendale, resa con precisione e professionalità, si crea interesse a questi temi considerati specialistici anche per il lettore comune, che partecipa al “reality” rappresentato in modo coinvolgente e a tratti emozionante.

Ecco come sono nati “I Gianselmi”, ed ora “I Martini”. Cominciamo da questi ultimi, che dopo l’apripista del 2014 inaugurano la nuova collana “I libri di bordo”  della “Libreria Utopia Editrice”.  

“I Martini”, uno  psicodramma familiare illuminante

Ci sono dei film nei quali si attende che avvenga qualcosa mentre si dipanano scene interminabili che sembrano prive di interesse, ma quando l’impazienza raggiunge il massimo ecco  il miracolo: il film prende quota,  diviene avvincente e ciò che prima era apparso un diversivo trascurabile diviene centrale nella vicenda. E allora viene voglia di rivedere la prima parte  che si era trascurata.

Una sensazione analoga si prova nella lettura de “I Martini”. Non perché  sia poco scorrevole, tutt’altro, la scrittura è piana e  vivace, le situazioni vengono evocate in modo brillante, sono curati i particolari soprattutto  nelle descrizioni dei diversi soggetti,  che diventano figure familiari; ma perché le confessioni dei membri della famiglia, che si susseguono come sedute psicanalitiche, sembrano momenti interlocutori rispetto alla vicenda vera e propria, e quindi da doversi superare rapidamente. Invece, come nelle vicende classiche,  nell'”agnitio” finale diviene quanto mai importante ogni passaggio psicologico, ogni rievocazione di fatti apparentemente secondari ma che sono carichi di significati. Tutto si scopre “dopo”, e fa tornare il lettore sui propri  passi  con il senso di colpa di avere sbrigativamente trascurato passaggi rivelatisi invece decisivi.

Ma non è questa la maggiore sorpresa del romanzo. Non è solo la vicenda dei personaggi a rivestire un interesse che prima faticava a manifestarsi per il carattere interlocutorio delle loro confessioni che occupano gran parte del libro; è  la vicenda umana  del lettore a entrare in gioco all’improvviso, perché viene coinvolto nella psicodramma in cui si cala la storia narrata.

Gli atteggiamenti e comportamenti della storia aziendale,  analizzati e sezionati con  gli strumenti avanzati della Consulenza di Direzione, mostrano la loro forza paradigmatica e il loro valore simbolico in quanto l’elemento umano e soggettivo diventa prevalente anche risoetto ai fattori razionali ed oggettivi, pur se inequivocabili. Questo perché tali fattori vengono filtrati e interpretati dalla persona, e sulla razionalità aziendale prevalgono  i  condizionamenti personali, di cui fanno parte le “certezze” su cui si basano le decisioni senza che ci si renda conto che diventano opinabili quanto le posizioni contrarie. I  “Legal Thriller” di John Grisham non escono dalla pagina per entrare nella vita del lettore, il “Company Thriller” di Piercarlo Ceccarelli invece penetra nell’anima. E spinge a riconsiderare tante nostre scelte e decisioni delle quali siamo stati sicuri ma ora ci appaiono opinabili. Perché abbiamo avuto la dimostrazione lampante, con gli strumenti analitici più raffinati apparsi quanto mai affidabili e coinvolgenti, che non dobbiamo riposare su certezze forzatamente dipendenti  dai nostri condizionamenti mentali, ma dobbiamo aprirci al confronto per superare i nostri limiti di cui non ci rendiamo conto.

E questo vale quale che sia il nostro carattere, visto come il fattore che alla fine prevale anche sull’oggettività delle dimostrazioni tecniche e scientifiche, perché è il filtro non neutrale ma altamente soggettivo attraverso il quale viene distillata la decisione finale.  Quindi la vicenda aziendale che divide  la famiglia  Martini diventa la metafora della vita anche del lettore, chiamato a riconsiderare le proprie vicende familiari misurandosi con se stesso, le proprie aperture e le proprie impuntature di carattere di cui non è consapevole credendo di essere nel vero, mentre la sua è solo una parte del vero.. E’ capitato a noi, crediamo che capiti a tutti, fino a provocare una sorta di catarsi interiore

Non rievochiamo la vicenda della famiglia Martini e dell’impresa “Martini Legnami” per mantenere la  “suspence”. Diciamo solo che la narrazione procede come se si sfogliassero le pagine di un diario, la maggior parte dei capitoli si apre con il luogo e la data in cui si svolge la vicenda, nell’arco di poco più di quattro mesi, dal 28 maggio all’8 ottobre.

I  protagonisti: dal capostipite Alvise ai decani dell’azienda, opposti come carattere e risultati ottenuti, in perenne disaccordo, i fratelli Stefano e Federico con la moglie Mariuccia, Simone figlio di Stefano, attuale Amministratore delegato,  alle prese con un serio problema aziendale, l’acquisizione di un importante concorrente sul mercato americano, con la moglie Marta;  il figlio Filippo alle prese con una tesi a Boston per il master in “Business Administration” con cui coronerà i suoi studi, e la sua ragazza Kathy, i professori dell’MIT  Sanders e i colleghi Rudin e Greenberg. Poi gli altri membri del Consiglio di amministrazione, il precedente Amministratore delegato Martello, Schmidt e la Ferrandi, il direttore di produzione Ferrello e il consigliere commercialista Treviretti. E, in un ruolo determinante, il consulente di direzione Nicola Fabbroli, con il suo team, Buoninverno, Silvy Kubert e Venturo, fino al titolare dell’impresa da acquisire, Clayton,  e Delpio, possibile partner. Aggiungiamo soltanto che si incrociano i due  percorsi, e da paralleli diventano convergenti: la preparazione della tesi del Master del più giovane della famiglia, Filippo, e la preparazione dell’offerta per l’acquisizione dell’importante concorrente per sbarcare sul mercato americano. Entrambi imperniati su rigorose procedure di analisi aziendale, con il primo percorso rivelatore dell’importanza dei risvolti umani, il secondo  basato sulla pura tecnica rivelatasi necessaria ma non sufficiente.

La chiave di volta è il collegamento dei tratti caratteriali con l’atteggiamento verso le problematiche aziendali, come l’innovazione e il rischio, le opportunità e il coordinamento organizzativo. Se i tratti caratteriali vengono semplificati nelle due categorie di “introverso” ed “estroverso”, ecco aprirsi un ventaglio di reazioni contrapposte corrispondenti agli impulsi prevalenti. E di regola  neppure i dati oggettivi hanno la forza di prevalere quando il condizionamento caratteriale è così forte. Né si può fare una distinzione come tra buoni e cattivi, ogni tratto caratteriale ha i suoi pregi e i suoi difetti, in comune hanno l’errato convincimento di essere sempre nel giusto in entrambi i casi, che può portare a sbagliare inconsapevolmente. 

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Guardiamoli questo tratti prevalenti,  per conoscerli in modo non superficiale anche in relazione ai rispettivi punti forti e  deboli non solo nelle scelte aziendali ma anche e soprattutto in quelle personali che si pongono di continuo nella vita di tutti.

Dunque, l’introverso è spinto da creatività e idealismo, con un umore variabile, timidezza e senso di autocritica, per questo in lui c’è  pessimismo e cautela verso le novità e nei rapporti sociali che sono scarsi ma importanti; i suoi traguardi sono proiettati nel lungo periodo. All’opposto, l’estroverso ha spirito di adattamento e  tendenza alla concretezza, umore stabile e socievolezza, pertanto è ottimista e attratto dalle novità,  cerca popolarità e un’affermazione sociale rapida se non immediata.

Ne deriva la netta diversità negli atteggiamenti. Verso l’innovazione l’introverso procede ad accurati studi preliminari per valutarla ed, eventualmente, programmarla; l’estroverso tende ad adottarla  in modo spontaneo e con immediatezza, anche se si basa soltanto su un’idea brillante senza approfondirla. Nei riguardi del  rischio, all’avversione o comunque alla neutralità dell’introverso che lo porta ad evitarlo se non riesce a minimizzarlo data la sua propensione per il certo rispetto all’incerto, corrisponde la reazione opposta dell’estroverso il cui ottimismo istintivo lo porta a sovrastimarne i benefici anche se cerca di minimizzarlo e comunque finisce per accettarlo. 

Ma ci sono anche le opportunità da considerare quando si presentano. Ebbene, l’introverso anche qui procede ad accurate valutazioni, spesso seguendo uno schema preordinato, mentre l’estroverso  segue il proprio istinto per coglierle al volo senza verifiche e senza chiedere consigli anche a rischio di errori.

Come comportamento generale l’introverso tende a dotarsi di tutto quanto può aiutarlo nelle decisioni che si presentano nell’azienda come nella vita, su piani diversi ma con delle costanti comuni; l’estroverso fa più affidamento sulle proprie percezioni e tende  a trasmettere la sua visione egocentrica, che è proiettata sui risultati piuttosto che sulle metodiche.

Da tali considerazioni che nel romanzo avvicinano alla conclusione della vicenda aziendale si ricava un insegnamento per tutti, inaspettato quanto illuminante, che scuote  intimamente e porta a riconsiderare  atteggiamenti e  decisioni alla luce di questa suggestione rivelatrice.  E’ dunque un ausilio prezioso non solo per i capitani d’industria e le loro decisioni, ma anche per la vita di tutti i giorni che pone dilemmi e scelte non meno basilari alle persone nei campi e  momenti  più diversi.

“I Gianselmi”, una storia appassionante tutta da vivere 

Molto diverso “I Gianselmi”, nell’impostazione e nello svolgimento, anche se si tratta ugualmente di una famiglia di imprenditori di più generazioni alle prese con decisioni vitali per l’azienda meccanica di produzione di giunti ad alta specializzazione che ne porta il nome. Non si avverte la forma narrativa che rende impaziente la prima parte della lettura nei “Martini”, non per la scrittura, sempre scorrevole e vivace, ma per l’interesse al prosieguo della vicenda rallentato nell’altro romanzo  dalle confessioni familiari considerate come dispersive prima che  risaltino decisive  e anche istruttive.

I Gianselmi avvincono fin dall’inizio,  la trama è aggrovigliata e questo crea “suspence”, l’analisi minuziosa e diffusa è dedicata ai meccanismi dell’impresa più che ai fattori psicologici. Per l’autore, questo che è il suo primo romanzo aziendale è stato dunque più aderente al suo approccio immediato alle problematiche dell’impresa alla luce della razionalità, anche se  l’elemento umano nella dimensione familiare è ben presente. Soltanto non è debordante e risolutivo come nei “Martini” che in questo senso si allontanano di più dalla matice aziendale  nell’elaborazione drammaturgica dell’autore. Ciò che crea un motivo aggiuntivo di  attesa e interesse per il prosieguo della serie con l’auspicabile terzo romanzo dell’autore.

Qui i meccanismi dell’impresa si dipanano in modo piano e avvincente inseriti in situazioni ambientali e personali gradevolissime che diventano cariche di “suspence”.  Il merito va alla scrittura dell’autore  e all’interesse della storia,  più che narrata rivissuta nei  minimi dettagli e passaggi, senza la fretta di andare “al sodo” ma con la pazienza di descriverne tutti i contorni. L’accuratezza di una scenografia cinematografica è un suo grande pregio, e non è solo un  merito formale, ma un valore sostanziale,  il lettore si sente “convitato di pietra” delle varie situazioni.  

Sono tante e le più diverse come ambientazione e come protagonisti, la storia si apre e si chiude con la festa natalizia dell’impresa, nell’arco di tempo di un anno si formano e si sciolgono tanti nodi. Tutto avviene in una integrazione continua dei personaggi, descritti con precisione salgariana, con gli ambienti anch’essi descritti con analoga cura, si sente il gusto che prova l’autore nell’usare un linguaggio piano, diverso da quello tecnico freddo ed essenziale, anche nelle parti specialistiche. 

Siamo a livello di “top class” e quindi ci si muove in ambienti consoni, siano quelli di lavoro, con i saloni dei Consigli di amministrazione e gli studi direzionali, che quelli dei tempo libero, dal golf  alla vela, anche i pranzi e le consumazioni al bar sono all’altezza, ma i personaggi centrali non sono su un piedistallo, mostrano tutta la loro umanità nei comportamenti scanditi dai loro diversi ruoli.

Il problema aziendale viene enunciato subito in tutta la sua complessità, mentre viene descritto in parallelo Alfio, il titolare dell’azienda di famiglia che sente su di sé il peso della responsabilità di fare la scelta giusta per sé e per l’impresa. Vendere l’azienda che perde i colpi, con la sollecitazione dei cugini consiglieri-azionisti che premono per l’accettazione dell’offerta pervenuta, volendo monetizzare la loro parte, o impegnarsi in un  rilancio con i rischi e gli oneri che comporta?  Una decisione che Alfio non si sente di prendere da solo, anche se in qualche momnento pensa seriamente di cedere tutto deluso dal disinteresse del figlio Artù, che vede prospettive per lui preferibili a Londra dove è stato mandato per una formazione poi tradotta nell’inserimento nella finanza in cui intende lanciare con dei colleghi una banca d’affari per progetti innovativi.  

Anche qui, come nei “Martini”, entra in scena la Consulenza di Direzione, ritroviamo lo stesso Nicola Fabbroli “testaquadra”, e il suo team di esperti, il coordinatore Buoninverno con la bella Silvy Kubert e il più giovane Venturo; si aggiunge il tecnico  Cecchetti. Con  loro, da parte  dell’impresa, il timoroso Amministratore delegato Gabriolo, i responsabili di settore, dal brillante  Cerrati della produzione al dinamico Smith del commerciale, fino alla protettiva Santin del personale e allo stakanovista Tagliatelli dell’amministrazione. L’inappuntabile segretaria Anna completa il “cast”.

Si  dipana a ritmo incalzante la metodologia dell’intervento fino alle proposte conclusive dopo la “multintelligence” di gruppo, si seguono le diverse  fasi senza lentezze che suscitino impazienza nel lettore. L’autore si sente nel suo elemento, e lo si nota dalla padronanza  in cui  spiega complessi passaggi consulenziali unendo all’aspetto tecnico  reso in modo piano e accessibile, quello psicologico e umano ai vari livelli, in un approccio che gli risulta altrettanto congeniale.

Al livello del protagonista Alfio, che non dà nulla per scontato, nemmeno dinanzi alle assicurazioni dei consulenti, e anche al loro livello, nulla vi è di preconfezionato,  del resto anche nella realtà la società di consulenza dell’autore si definisce “una boutique che confeziona abiti su misura”. Le soluzioni nascono dall’analisi rigorosa delle potenzialità dell’azienda rispetto alle sue carenze, superate le diffidenze  iniziali rese magistralmente. Come sono resi magistralmente i diversi passaggi, ognuno dei quali apre ai momenti successivi, con i problemi affrontati uno dopo l’altro con ordine senza arrendersi dinanzi alle difficoltà  facendo tesoro degli insegnamenti dai quali emerge la necessità di aprirsi sempre più al cambiamento.

Ma non è facile, dato che si può rimanere chiusi in concezioni superate e inadeguate senza rendersene conto, soltanto perché non si sono colte  appieno le nuove esigenze. E quelle  portate dalla globalizzazione mutano radicalmente il quadro aziendale:  le competenze specialistiche come l’impegno indefesso e quindi accentratore, da valori assoluti possono diventare handicap,  se le prime limitano la visione manageriale d’insieme e il secondo  contrasta con la necessità di delegare che l’accresciuta complessità rende ineludibile. 

Altrettanto istruttive le modalità, nelle imprese multinazionali, per conciliare gli opposti, cioè gli aspetti identitari delle concezioni nazionali e una visione unitaria condivisa necessaria per far muovere le varie  componenti nella stessa direzione. La soluzione trovata da Fabbroli risiede nell’individuazione dei punti comuni delle singole concezioni in modo da far convergere l’impegno di ciascuno in base ai valori condivisi nei quali tutti si possano riconoscere e motivare.

Nelle imprese familiari, c’è l’alternativa della formazione ad esserne azionisti invece che imprenditori e manager per gli eredi che non sono portati a continuarne la gestione diretta nella dinastia familiare; e i  Consigli di Amministrazione vanno aperti ad esterni competenti e non limitati ai membri della famiglia. La vita dell’impresa, che investe tanti  aspetti economici, sociali e umani del territorio in cui opera, va ben al di là dei soli aspetti familiari e dinastici, pur se rilevanti. .

Ci sembra bene non aggiungere altro sulla trama del romanzo perché ogni nuovo capitolo, e ce ne sono trentatre,agili e scorrevoli, si apre con delle novità avvincenti nell’ambientazione e nei protagonisti, anche quando  non cambiano ma muta il loro stato d’animo e il clima di “suspence” resta coinvolgente.

Dei protagonisti abbiamo citato il titolare dell’impresa Alfio con il suo Amministratore Delegato, il titolare della Consulenza di Direzione Fabbroli, e i cugini azionisti e consiglieri, Elena e Pietro. Della sua famiglia c’è anche la moglie Luisa e il figlio Artù,  personaggio fondamentale che compare nei momenti topici, con la fidanzata Liz, il fratello Ottorino e il figlio Paolo, ma nessun altro, mentre nei “Martini”  erano tre generazioni a confronto diretto.  Poi c’è Federico, consigliere azionista molto fidato e preparato, che fornisce ad  Alfio consigli preziosi, come quello della consulenza direzionale, oltre ad  essere con lui nelle partite di golf settimanali e suo commensale, fino all’implacabile burocrate Minestrucci, che imperversa dalla locale Azienda municipalizzata..

Abbiamo solo accennato ai personaggi e agli ambienti, leggendo il libro li abbiamo visti in azione senza potercene staccare, fino all'”agnitio” finale, perciò per noi è un vero “Company Thriller”. “I Martini” e  “I Gianselmi”, paradigma umano

I  sottotitoli dei due romanzi che abbiamo descritto sommariamente, potrebbero essere invertiti,  “Una storia famigliare” sembra particolarmente aderente ai “Martini”, mentre “Una famiglia, un’azienda, leadership tra istinto e ragione” fotografa perfettamente la vicenda dei “Gianselmi”. Entrambe sono imprese di medie dimensioni di respiro internazionale, con diverse centinaia di occupati. .

Istinto e ragione, carattere e razionalità, sono i poli tra cui si muovono i protagonisti nel proscenio dell’azienda e della famiglia, in situazioni intricate di cui non si intravvede la soluzione fino a che i nodi si sciolgono quando questi  poli si avvicinano fino ad integrarsi, per una visione illuminata che non deve mai mancare, nella vita aziendale ma anche, e soprattutto,  nella vita familiare.

Non ci riferiamo all’azienda come alla grande famiglia delle visioni paternalistiche; ma alla compresenza nel corpo aziendale come nel corpo familiare, delle sollecitazioni spesso di segno opposto  che vengono dalla razionalità e dall’istinto, conciliabili soltanto a livello psicologico.

E’ proprio questa l’operazione-verità compiuta dall’autore. Gli dobbiamo essere grati per aver portato a conoscenza di tutti  quanto ha acquisito nel corso di una lunga attività nel microcosmo dell’azienda che diventa rivelatore per il microcosmo della famiglia e il macrocosmo dell’umanità.

Info

Piercarlo Ceccarelli, “I Martini. Una famiglia, un’aziernda: leadership tra istinto e ragione”, Libreria Utopia Editrice, Milano, novembre 2016, pp. 224, euro 19,50. Piercarlo Ceccarelli, “I Gianselmi. Una storia famigliare”,  Mind Edizioni, novembre 2014, pp. 182, euro 19,00. Entrambi i volumi sono rilegati con sovracoperta a colori. 

Foto

Le immagini, a parte naturalmente le copertine dei due romanzi, sono state tratte da siti Internet i cui titolari si ringraziano per l’opportunità offerta, pronti ad eliminarle se il loro inserimento non è gradito dai proprietari dei diritti, considerando che tale inserimento è meramente illustrativo, ideato esclusivamente dall’autore della lunga recensione per alleggerirla, e senza la benchè minima motivazione economica, essendo tutto senza fine di lucro. Evocano gli ambienti in cui si svolgono i romanzi:  in particolare domina su tutto l’elemento umano variamente rappresentato, oltre a questo ugualmente per entrambi gli stabilimenti indistriali e le sale da riunione dei Consigli di amministrazione, mentre per “I Martini”  anche la villa per  i colloqui rivelatori di Filippo e per “I Gianselmi” il campo da golf per il tempo libero e la regata,  di cui si parla nel libro. 

Museo Universale, 1. La grande arte torna alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Alle  Scuderie del Quirinale, dal 16 dicembre 2016 al 12 marzo 2017,  la  mostra “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”  espone un gran numero di capolavori che erano stati  prelevati dall’esercito di Napoleone per l’istituendo Museo del Louvre nella vittoriosa campagna d’Italia, e furono riportati nel nostro paese nel 1816 dopo la sconfitta dell’imperatore. Sono dipinti e sculture dei periodi d’oro, Rinascimento e antichità, e dei maggiori artisti, di forte  presa spettacolare anche per le loro notevoli dimensioni, come le pale d’altare. Organizzata da ALES, Arte, lavoro e Servizi s.p.A., la società “in house” del MiBACT, presidente e .A.D. Mario De Simoni, con il supporto dell’Azienda Speciale Palaexpo in  fase di transizione gestionale, a cura di Valter Curzi, Caterina Brook e Claudio Parise Presicce curatori anche del Catalogo Skira.

Un ritorno in grande stile quello delle Scuderie del Quirinale che la Presidenza della Repubblica  ha affidato dal giugno 2016 alla gestione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo tramite ALES, la società “in house” del Ministero  di cui, dopo la fusione per incorporazione con “Arcus” nel marzo 2016,  è stato nominato Presidente e Amministratore Delegato Mario  De Simoni, già direttore generale dell’Azienda Speciale Palaexpo. Un rinnovamento per il rilancio con la garanzia di un trapasso senza scosse, quindi con una certa  continuità, dato che De Simone ha gestito come direttore generale dell’Azienda Speciale Palaexpo le Scuderie con il Palazzo delle Esposizioni, la Casa del Cinema e il Museo del Jazz e in tale funzione  ha organizzato dal 2008 oltre 4000 eventi. Nelle Scuderie, in particolare, tra le grandi mostre monografiche realizzate dal 2008 al 2016,  ricordiamo quelle su Giovanni Bellini e Frida Kahlo, Tiziano e Lorenzo Lotto, Caravaggio e Tintoretto, Lippi con Botticelli e Correggio con Parmiginino; e tra le grandi retrospettive  quelle su Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese e Memling, Rinascimento fiammingo, il Futurismo e i Pittori del Risorgimento, fino alla Scultura buddista giapponese.

Perchè ritorno in grande stile? Per l’importanza dell’evento, che prende lo spunto dal secondo centenario  del recupero  dello straordinario patrimonio artistico portato in Francia  dalle truppe napoleoniche, per la qualità delle opere esposte,  pitture e sculture di eccezionale valore artistico, e per  il magistrale allestimento; un percorso  spettacolare  e insieme istruttivo che consente di rivivere passo per  passo i fatti storici conosciuti nelle grandi linee ma  non nei particolari illuminanti.

Arte e storia, come spesso accade, marciano insieme, e in questo caso pongono questioni intriganti. E’ scontata la condanna drastica e senza appello delle razzie di opere d’arte dei nazisti tramite la famigerata Divisione Goering, anche perché legate a un regime che si è macchiato di crimini orrendi; non è altrettanto severo il giudizio sull’appropriazione da parte delle  truppe francesi dei maggiori capolavori, forse perché  i francesi erano alfieri di libertà ed erano all’avanguardia nella concezione del “museo universale” dove collocare tali opere, e sono stati maestri per i nascenti musei italiani; tanto che la mostra si intitola al “sogno di Napoleone” e non alla spoliazione rientrata per la sua sconfitta e la restituzione imposta dal Congresso di Vienna.

L’organizzazione della società in-house del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, cui la Presidenza della Repubblica ha voluto fossero affidate le Scuderie, rappresenta una sorta di ritorno alle istituzioni di una sede espositiva così prestigiosa, che viene inaugurato con una mostra celebrativa del ritorno alle nostre istituzioni nazionali dei tesori artistici asportati dai francesi tra il 1896 e il 1914. Per carità, nessuna assimilazione tra il ritorno da una spoliazione e l’avvicendamento di società specializzate nel settore espositivo, ma la presenza delle istituzioni nei due casi porta a questo parallelo.

L’ambizioso disegno dei francesi alla base delle requisizioni

Il sottotitolo “dal sogno di Napoleone a Canova” è intrigante, perché da un lato nobilita in sogno quella che è stata una appropriazione, per non dire una rapina, dall’altro fa finire il “sogno” con Canova che fu protagonista nella fase del recupero, in particolare dei beni pontifici.  E’ stato possibile nobilitare la spoliazione delle maggiori opere d’arte all’insegna del “fine che giustifica i mezzi”, dato che l’obiettivo era la creazione di un “museo universale” , il Louvre, dove le opere sarebbero state valorizzate inserendole in una cornice altamente prestigiosa di respiro europeo.

D’altra parte,  non era ancora invalso il concetto dell’arte come patrimonio pubblico di valore incommensurabile per la comunità, e solo l’esaltazione dovuta al recupero  riuscì a far emergere questa nuova coscienza popolare, che portò ad una  radicale revisione delle concezioni museali.

“Artisti, accademici, eruditi – ricorda uno dei curatori, Valter Curzi – si unirono nel progetto di valorizzazione della storia delle scuole pittoriche locali, ripercorsa, per la prima volta, a partire dalle testimonianze più antiche, per il decoro della patria o il vantaggio della nazione”; mentre in precedenza  il territorio, “perduta in molti casi la propria identità e tradizione storica, aveva abbandonato per secoli nel totale degrado affreschi e tavole dei cosiddetti primitivi, opere ridotte a deboli testimonianze di un passato difficile da valorizzare e perfino da decifrare”.

E il museo universale? Di certo la  nuova sensibilizzazione a gestire in modo autonomo l’eredità culturale nel segno dell’identità e del patrimonio nazionale, confliggeva con l’idea di una coscienza estetica identificata nel museo e valida per l’intera Europa, tanto più che l’estremo tentativo dei francesi di ostacolare il ritorno delle opere asportate in Italia aveva proprio questa motivazione.

Il direttore  del Louvre Vivant Denon, dopo aver accompagnato i sovrani  dei piccoli stati italiani che si erano presentati per reclamare le opere prese dai loro territori in visita al museo nell’estate del 2015,  pensava di averli convinti della sua impostazione tanto che la stampa alla fine di agosto informava fiduciosa i parigini della proposta di “dichiarare le collezioni di dipinti e statue attualmente riunite nella galleria del Louvre, Museo europeo. Le collezioni saranno considerate come una proprietà comune delle nazioni europee, affidate alla custodia dei parigini”.

Troppo strumentale e tardiva per essere sincera, anche se anticipava i tempi, perché è stata in fondo la via seguita dai grandi musei, rappresentativi di una storia universale come lo è l’arte senza confini. D’altra parte il Louvre, aperto nel 1793 con il nome di Museo nazionale, e non universale, aveva bisogno di  rivolgersi al pubblico europeo per riaffermare la grandezza della Francia anche nelle arti, sull’esempio di Roma che anche per il suo predominio artistico aveva assunto un ruolo dominante nel ‘700. Ma ci si rendeva conto che le collezioni venute dalla Corona e dagli aristocratici “emigrates” non erano all’altezza degli ambiziosi propositi, e allora il “sogno di Napoleone”, non potendo realizzarsi con le risorse francesi poteva essere alimentato soltanto con le grandi risorse artistiche del paese del Rinascimento, che le conquiste napoleniche consentivano di prelevare.

L’ambizioso progetto museale, che con la spoliazione di Roma a favore di Parigi avrebbe potuto spostare nella capitale francese l’indiscusso prestigio culturale della città eterna, era funzionale anche rispetto all’ambizione di Napoleone di  diventare l’erede delle antiche civiltà, nel segno di Augusto e di Alessandro Magno. Va considerato, comunque, che il papa, non potendo opporsi alla spoliazione, cercò comunque di limitare i danni operando in tre direzioni: fece fare i calchi delle principali sculture, effettuò importanti acquisti di opere e radunò le sculture di Antonio Canova. Queste nuove opere furono inserite al posto i quelle asportate colmando almeno i principali vuoti.

Il  recupero contrastato dai francesi e il ritorno delle opere

Per questo nella campagna d’Italia del 1796 di Napoleone,  al seguito dell’esercito occupante vi era una Commissione di artisti e scienziati  per selezionare le opere destinate al Louvre, in particolare i grandi maestri dell’antichità e del Rinascimento, pietre  miliari della civiltà artistica europea, considerati veri modelli per la formazione degli artisti e del buon gusto, criterio cui si ispirarono le scelte della Commissione: fine nobile, mezzi spregevoli.

Una parvenza di legittimazione a quella che, al di là delle coperture diplomatiche fu un’appropriazione di rapina da parte di chi la compì e una spoliazione da parte di chi la subì, viene trovata nel trattato di pace di Tolentino del  29 febbraio 1797, dopo l’armistizio di Bologna del 23 giugno 1796, laddove entrambi agli articoli rispettivamente 8 e 13 imponevano alla Stato Pontificio di consegnare alla Francia 100 opere d’arte, precisate in 17 dipinti e 83 sculture, oltre 500 manoscritti.

La motivazione era a metà tra  le riparazioni e il bottino di guerra, infatti la loro consegna avrebbe evitato l’occupazione di Roma, e viene un brivido al ricordo dell’analogo ricatto dei nazisti agli ebrei romani, un secolo e mezzo dopo, con la consegna di tonnellate d’oro per evitare la deportazione, che poi invece avvenne tragicamente.

Claudio Parisi Presicce, altro prestigioso curatore della mostra, ricorda che a Valadier fu dato l’incarico di progettare i carri di trasporto e provvedere all’imballaggio delle opere, e che “due incisioni del 1798 mostrano il convoglio che passa sotto Monte Mario al momento della partenza e il corteo trionfale che si svolse nel campo di Marte all’arrivo a Parigi”. Avremo poi, nel 1816, .la scena analoga ma di segno opposto, la partecipazione popolare al ritorno nei territori d’origine.

Non solo questo, sempre Parisi Presicce osserva: “L’imperialismo francese, che aveva trasformato le collezioni pontificie in bottino di guerra e determinato il saccheggio delle opere d’arte e la prigionia del papa, accelerò la fioritura di sentimenti patriottici anche tra coloro che osteggiavano l’unificazione”. E sulla spinta di questa sensibilizzazione popolare il grande scultore Antonio Canova  nel 1806 impegnò 9 apprendisti per le erme marmoree degli italiani illustri destinate al Pantheon; ma con il ritorno alla normalità i busti commemorativi furono collocati altrove,  sono restati a testimonianza della temperie artistica e morale del tempo, anche se il curatore vi vede l’interesse dello scultore a collegare la sua figura a quella dei patrioti.

Siamo al termine del dominio di Napoleone, con la sua sconfitta il Congresso di Vienna sancì il diritto al recupero delle opere d’arte asportate, per lo Stato pontificio proprio Canova  fu nominato Commissario straordinario dal  papa Pio VII. Svolse  la sua missione a Parigi dall’agosto all’autunno del 1815, andò a Londra per ringraziare  Giorgio IV, il sovrano il cui forte appoggio aveva favorito il successo nell’operazione di recupero, e il 29 dicembre dello stesso anno assisteva a Bologna all’apertura delle casse con i dipinti della scuola emiliana, mentre le opere d’arte restituite a Roma sarebbero giunte nella città eterna una settimana dopo, il 4 gennaio 1916. L’attesa era tale che tanti andarono incontro al convoglio per molte miglia prima del suo arrivo. Il 4 gennaio del 1916; nel mese di settembre altre 52 casse giunsero a Civitavecchia sulla nave dal nome fatidico di  “Abbondanza”, partita da  Aversa alcuni  mesi prima, una vera “suspence”.

A missione compiuta il papa  chiese alle autorità cittadine di inserire il  nome di Canova nel libro d’oro del Campidoglio, con una rendita annua di 3000 scudi, e gli conferì la più alta onorificenza pontificia, l’ordine di Cristo.  L’operazione  non era stata semplice per le resistenze dei francesi, che si appellavano a presunte cessioni diverse dalle requisizioni e rendevano difficile l’identificazione delle opere, tanto che gli alleati convinsero  il papa  a donare  45 dipinti e 20 sculture al re  francese Luigi XVIII rinunciando alla restituzione, con la motivazione formale della sua cristianità. Il sostegno degli alleati che esigevano anch’essi al restituzione delle opere prese in Italia, fu molto importante, per questo, Canova andò in Inghilterra per ringraziarli.

Di fatto, prosegue la precisa ricostruzione di  Parise Presicce, “dei cinquecentosei dipinti asportati, solo duecentoquarantanove furono riportati a Roma. Nove invece non furono ritrovati e altri centoquarantotto rimasero in Francia. Nonostante l’annuncio nel giornale romano ‘Cracas’  pubblicato due giorni dopo l’arrivo del convoglio a Roma, il cardinale Consalvi preferì evitare qualsiasi celebrazione solenne dell’avvenimento, temendo possibili tumulti popolari”:

Non solo, ma “a causa dei costi ingenti che i proprietari avrebbero dovuto  sostenere per il trasporto fino a Roma, delle centoventinove sculture della collezione Albani ben poche rientrarono a Villa Albani e la maggior parte sono messe in vendita a Parigi stessa. Ventinove le acquista il re Luigi XVIII”.  Ilaria Sgarbozza fornisce questa contabilità: “Dei cento tesori requisiti dai commissari direttoriali nel 1797, ne tornano a Roma settantasette, mentre rientrano soltanto quarantacinque dei centoventiquattro dipinti asportati dalle altre città dello Stato pontificio nel biennio 1796-98. Trentanove pitture umbre, marchigiane, romagnole ed emiliane restano in Francia, e quaranta di esse risultano disperse prima dell’approdo al Louvre. Si tratta per lo più di dipinti cinque-seicenteschi, ascritti ad artisti di solida fortuna storiografica e abbondante produzione”.

Canova  si concentrò sul recupero dei dipinti del Louvre, rinunciando a quelli nei musei provinciali, nei palazzi reali e nelle chiese. La spoliazione non aveva riguardato solo Roma, ma anche Bologna, Cento e Forlì, Perugia e Foligno, Todi e Città di Castello, Pesaro, Fano e Loreto, soprattutto per i dipinti; per le sculture Venezia e Verona,, Modena e Parma, Firenze e Torino. la restituzione riguardò anche loro, e al ritorno delle opere emiliane ci fu una viva partecipazione popolare.

I criteri di selezione, dai maestri del Rinascimento ai “primitivi” del ‘300 e ‘400″

Le opere asportate, selezionate dall’apposita Commissione al seguito di Napoleone in base ai requisiti di cui si è detto, erano soprattutto opere del  Rinascimento che, a seguito dei criteri adottati, celebravano il ritorno alla natura, e la sublimazione nell’ideale, fino al trionfo del colore, in modo da poter esercitare un’efficace educazione artistca. 

Per la natura vi era l’arte antica, cui si ispiravano i maestri del Rinascimento, dopo le presunte deviazioni della seconda metà del ‘500 che avrebbero allontanato dalla visione del bello: l’“Apollo del Belvedere” , ad esempio, era considerato il canone del bello, e il “Laocoonte”  pur esso un  simbolo, anche se dei tormenti, nelle sue contorsioni angosciose tra le spire del serpente.

Il passaggio dalla visione naturalistica a quella idealizzata raggiunge livelli di eccellenza con Guido Reni e i Carracci, il Guercino e Domenichino – protagonisti della scuola bolognese nella prima parte del ‘600 che avevano conosciuto anche l’arte antica a Roma – le cui opere furono requisite intorno al 1796. Il messaggio educativo è la purezza morale resa anche dall’eleganza delle forme di ispirazione classica, l’esemplare di spicco è la “Fortuna” di Guido  Reni, presa come “testimonial” della mostra, sembra volare nel cielo azzurro con qualche nuvola come una Venere antica, accanto a lei un putto che le tira i capelli facendole girare il volto all’indietro in un gesto vezzoso.

Dopo la scuola bolognese quella veneta,  Tiziano, Veronese e Tintoretto, le cui opere furono portate  a Parigi nel 1798, insieme alle opere d’arte dello Stato pontificio e alla quadriga prelevata dalla Basilica veneziana insieme al suo simbolo, il Leone di San Marco.  I grandi maestri del colore ebbero molto successo sui visitatori del Louvre, non soltanto emozionando il pubblico ma anche influenzando profondamente la pittura francese.

In quei primi anni non si andò oltre da parte dei francesi, ed era già tanto, troppo; non per limitarsi nell’appropriazione, bensì per la precisa scelta  di prendere soltanto i sommi maestri, in particolare Raffaello, di cui fu asportata l’intera opera che era possibile spostare, affreschi ovviamente esclusi, oltre ai dipinti del Perugino solo perché era stato il maestro dell’urbinate.

Con la nomina, nel 1802, del nuovo direttore del Louvre, Vivant, figura di grande spessore culturale vissuto a Firenze, Venezia e Napoli, il programma cambiò: lui stesso nel 1811 venne in Italia per requisire anche i cosiddetti “Primitivi”, che avevano preceduto Raffaello, i maestri del ‘300 e ‘400 con i quali poter ricostruire  il percorso artistico che aveva portato al Rinascimento. In effetti, erano artisti fino ad allora trascurati, le cui opere furono prelevate agevolmente essendo state accumulate nei depositi dopo la soppressione da parte di Napoleone degli enti religiosi. Nel 1814, completato il trasferimento e la sistemazione, al Louvre fu fatta una grande esposizione. Poi la restituzione, di cui abbiamo già ricordato le circostanze.

Parleremo prossimamente di ciò che questi eventi produssero nei singoli territori, creando una visione più ampia, e poi racconteremo la visita alla mostra che testimonia momenti divenuti fondamentali per il formarsi di una coscienza nazionale.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, a cura di Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce, Skira, dicembre 2016, pp. 312, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e il terzo articolo sulla mostra usciranno in questo sito il  21 febbraio e 5 marzo p. v.,  con altre  11 immagini ciascuno.  Sulle mostre alle Scuderie richiamate e gli artisti citati  cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2016, per la  Scultura buddista giapponese  24 agosto, Caravaggio 27 maggio, Correggio e Parmigianino 3 maggio; nel 2014, per Memling 8 dicembre, Kahlo 24 marzo, 12, 16 aprile 2014; nel 2013, per Lippi e Botticelli 24  giugno,  Caravaggio 6 giugno, Tiziano 10, 15 maggio, Tintoretto, 25, 28 febbraio, 5 marzo, i Carracci e Reni 5, 7, 9 febbraio; nel 2012, per Vermeer 14, 20, 27 novembre; in cultura.inabruzzo.it.,. nel 2011, per Lorenzo Lotto 2, 12 giugno,  I pittori del Risorgimento 2 articoli 8 gennaio; nel 2010, I pittori del Risorgimento 29 dicembre, Caravaggio 8, 11 giugno, 21, 22, 23 gennaio; nel 2009, per il Futurismo 30 aprile e 1° settembre, Giovanni Bellini 4 febbraio. .

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Autore sconosciuto, “Laocoonte (calco)” XIX secolo (?); seguono, Guido Reni, “La strage degli innocenti”, 1611, e Antonio Canova, “Marte e Venere”, 1816;  poi, Thomas Lawrence,”Ritratto di Antonio Canova”, 1815-19, e Vincenzo Camuccini, “Ritratto di Pio VII”, 1814-15; quindi, Thomas Lawrence, “Ritratto di Giorgio IV d’Inghilterra”, 1816, e Perugino (Piero Vannucci), “L’arcangelo Gabriele o angelo annunciante (pala di Sant’Agostino”, post 1508; inoltre, Perugino (Piero Vannucci), “San Giovanni Battista tra i santi Francesco Girolamo, Sebastiano e Antonio da Padova”, 1510, e Correggio (Antonio Allegri), “Compianto sul Cristo morto”, 1523-24; infine, Federico Barocci (copia dal Correggio), “Madonna con il Bambino e i santi Girolamo, Maria Maddalena, Giovannino  e un angelo (il Giorno o Madonna di san Girolamo), tra il ‘500 e il ‘600, e, in chiusura, Laboratorio restauri e calchi Musei Vaticani, “Apollo del Belvedere”, ricostruzione in gesso 1982.

Via della Seta, 100 antichi reperti cinesi e orientali in mostra al Quirinale

di Romano Maria Levante

Un centinaio di antichi reperti esposti al Palazzo del Quirinale dal 6 dicembre 2016 al 26 febbraio 2017 nella mostra  “Dall’antica alla nuova Via della Seta” per celebrare insieme il mitico ma reale itinerario che attraversava il continente euroasiatico mettendo in contatto popoli e civiltà  e  il nuovo percorso degli scambi commerciali destinato a svilupparsi enormemente per gli immensi investimenti in programma per iniziativa del governo cinese. La mostra è curata dal Consigliere del Presidente della Repubblica in materia di iniziative culturali ed espositive Louis Godart, e dal sinologo delle Università di Venezia e di Enna Maurizio Scarpari, curatori anche del Catalogo, insieme al fondatore del Forum Italia-Cina e della Nuova Via della Seta David Gosset.

 E’ una mostra in cui all’importanza sul piano storico e culturale si aggiunge il rilievo sul piano politico, testimoniato dalle parole del Presidente della repubblica  nel presentare l’evento che si svolge significativamente nella sede della Presidenza.  Sergio Mattarella ha rievocato le millenarie relazioni tra l’Europa e la Cina nelle quali l’Italia ha avuto “un ruolo fondamentale”. In tale contesto ha ricordato la prima ambasceria di Marc’Aurelio nella Roma antica, che ha permesso “ai due imperi più grandi e longevi della storia, quello romano e quello cinese, di conoscersi e di apprezzarsi a vicenda. Poi c’è stata nel 200 “l’odissea della famiglia Polo”  e il racconto del “Milione” di Marco – assurto al rango di consigliere e ambasciatore del Gran Kahn – che ha spinto viaggiatori e mercanti a spingersi verso l’oriente sconfinato; e nel ‘500 i gesuiti con Matteo Ricci e Martino Martini con il messaggio evangelico senza fondamentalismi bensì in spirito di apertura sono entrati anch’essi tra le figure in cui la massima autorità della Cina riponeva fiducia.

Tutto questo come premessa all’auspicio che “anche oggi, davanti ai grandi mutamenti economici e sociali, mentre il mondo diventa più piccolo e interdipendente, le strade del dialogo tra Europa e Cina portino a uno sviluppo della cultura e dell’umanità, liberandola da fanatismi, violenze e ingiustizie, e dando spazio ai costruttori di benessere e di pace”. e a nessuno sfugge quanto se ne abbia bisogno dinanzi alle guerre e alle minacce del terrorismo che tormentano la nostra epoca.

Il progetto strategico della “Nuova  Via della Seta”

Abbiamo voluto iniziare con le parole  del Presidente sul significato morale e politico che viene attribuito al rapporto tra l’Italia in seno all’Europa, e la Cina per la pace e il benessere dei popoli.

Questo secondo aspetto è stato sottolineato in particolare da uno dei curatori, Maurizio Scarpari, che, ricollegandosi anch’egli alle antiche tradizioni, ha affermato: “Non deve quindi sorprendere se la Cina oggi è divenuta promotrice di un progetto strategico di grande respiro che si rifà, non solo metaforicamente, alla Via della Seta, volto a favorire la cooperazione e i collegamenti tra i apesi dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa. I paesi coinvolti sono 65 e rappresentano circa il 70% della popolazione mondiale e il 55% del PIL globale, e possiedono il 75% delle riserve energetiche conosciute”.

Non è un semplice proposito, senza risvolti pratici, sono state costituite apposite strutture finanziarie , come l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib)  banca di sviluppo multilaterale, ben distinta dalla World Bank, con la partecipazione di 56 paesi tra cui l’Italia, e il Fondo per la Via della Seta con il compito di finanziare iniziative infrastrutturali lungo la nuova Via della Seta. per il commercio cinese si prevede , a progetto realizzato, un aumento dell’ordine di 2.500 miliardi di dollari l’anno per il prossimo decennio, quindi è una prospettiva ravvicinata nel tempo.

Ci sono, infatti, già stanziamenti per centinaia di miliardi di solalri e progetti in fase esecutiva. “L’investimento complessivo previsto- precisa Scarpari – sfiora i 4.000 miliardi di dollari; per dare , un’idea dell’ordine di grandezza di questo intervento si pensi che il Piano Marshall, avviato dagli Stati Uniti dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, attualizzato a oggi varrebbe 130 miliardi di dollarii”. Il presidente cinese Xi Jinping ha voluto lanciare nel 2013 il grande progetto “Una cintura e una via”  da due località  simboliche: nel mese di settembre da Astana, capitale del Kazakistan, transito obbligato per secoli di mercanti e viaggiatori, per la nuova Via della seta terrestre; nel mese di ottobre da Giacarta, l’antica Batavia, meta degli antichi traffici per mare sulla Via delle spezie, per la Via della Seta marittima del XXI secolo.

Abbiamo parlato di “nuova Via della Seta” perché i collegamenti tra Cina ed Europa sono stati sviluppati molto al di là dell’itinerario tradizionale, che resta come riferimento storico velato da un alone romantico. Due linee ferroviarie principali collegano Cina ed Europa, quella settentrionale collegata alla transiberiana russa, quella meridionale che attraversa anch’essa la Russia collegando diversi paesi asiatici, mentre è in fase di realizzazione una terza linea anch’essa tra molti paesi.

Si tende a creare uno spazio  unitario euro-asiatico, mentre i trattati TPP e TTIP promossi dagli USA andrebbero in direzione opposta, verso uno spazio commerciale alternativo che escluderebbe l’Europa.

L’Eurasia, area integrata tra Europa e Asia   

Ma  l’integrazione tra Europa e Asia è incontestabile per un altro curatore della mostra, David Gosset:  “la Via della Seta evoca l’Eurasia che, dal  punto di vista culturale, è il èrodotto di una vasta e antica rete di scambi, la Via della Seta arricchisce l’Oriente e l’Occidente. identità e diversità non si escludono radicalmente; se l’Oriente  e l’Occidente possono apparire diversi, non debbono sembrare assolutamente opposti. la storia dell’Eurasia è stata segnata dalle interazioni tar oriente ed Occidente  e questa interconnessione  è stata spesso sinonimo di arricchimento reciproco”.

Gosset afferma che “la frontiera tra l’Europa e l’Asia è un concetto astratto”, che viene  approfondito dal consulente del Presidente, anch’egli curatore della mostra, Louis Godart, sul piano geografico, linguistico e culturale per concludere che non è possibile tracciare dei confini.

A livello geografico l’Europa non va “dall’Atlantico agli Urali”, secondo la nota formula di De Gaulle, perché al di là della catena montuosa si apre  una vasta area percorsa per millenni dagli europei  che si muovevano verso Est. Sotto il profilo linguistico la stessa definizione di “lingue indo-europee” segna lo stretto legame tra le lingue delle nazioni europee e quelle orientali derivando tutte da un unico ceppo. Per l’aspetto culturale non si può certo considerare estranea all’Europa una nazione “asiatica” come la Russia con i suoi celebri scrittori nei quali si incarna la civiltà europea.  Su questo punto Godart conclude: “L’Europa è essenzialmente la partecipazione d parte dei popoli che la compongono a una medesima opera civilizzatrice, a un medesimo modello culturale, a uno stesso ideale di vita”.

In questo contesto sono molteplici i contributi, dati da popoli “profondamente diversi: alcuni sono mediterranei, altri nordici od orientali”, gli eventi della storia li hanno segnati in modi differenti, ma “ognuno portando il proprio contributo ha aiutato a modellare il volto dell’Europa”. E cita l’apporto delle invenzioni e scoperte dei popoli asiatici, da quelle per cavalcare – la sella e la staffa, il tiro e i ferri per gli zoccoli, all’aratro con le ruote, dalla falconeria alle piante officinali; dalla bussola alla carta e alla stampa, e soprattutto il loro contributo alle scienze dalla matematica, geografia e astronomia  alla chimica, farmacologia e medicina, Per concludere: “Possiamo quindi affermare che l’Europa si è costruita e arricchita anche grazie all’Asia e ai contatti che dall’alba della storia hanno avvicinato tra loro le donne e gli uomini del vasto continente asiatico”.  Come è avvenuto tutto questo? Anche attraverso la Via della Seta, percorsa da mercanti e diplomatici, missionari e viaggiatori  spinti dalla sete di sapere. 

L’itinerario millenario della Via della Seta

Non si trattava di un unico viaggio nell’intero itinerario, ma di percorsi intermedi con soste nelle apposite stazioni di ristoro dove si moltiplicavano i contatti, gli scambi  di notizie con le conseguenti sollecitazioni anche sul piano culturale. . Così Scarpari riassume questi movimenti: “Mercanti di diversa nazionalità, provenienti dai luoghi più disparati, si incontravano, soggiornando tanto nei centri maggiori quanto nelle remote oasi disseminate lungo la strada o, molto spesso, in caravanserragli che si trovavano grosso modo a un giorno di viaggio l’uno dall’altro, commerciando merci e raccogliendo informazioni, essenziali epr proseguire il viaggio con profitto e sicurezza. A loro si accompagnavano ambasciatori, monaci, esploratori e avventurieri di ogni risma. Aveva luogo uno scambio continuo di beni e di conoscenze, venivano messe a confronto usanze, pratiche, idee e fedi religiose in un mondo che ai nostri occhi appare assai più tollerante e aperto di quello in cui viviamo oggi”.

Questa descrizione  affascinante ci è sembrata la migliore introduzione alla galleria espositiva  che con 100 reperti evoca le suggestioni alimentate da questo luogo di incontri e scambi reciproci.

Ma prima  rievochiamo brevemente i movimenti sulla Via della Seta sulla base delle notizie fornite da Scarpari in modo da contestualizzare i reperti esposti che appartengono alle diverse fasi storiche.

Nel periodo più remoto tra quelli considerati, il primo impero cinese tra il 206 a. C, e il 220 d. C., , durante la cosiddetta “pax sinica”, furono mandate dall’imperatore Wu, vissuto tra il 141 e l’87 a. C., delle spedizioni in Occidente, comandate dal generale Zhang Qian, per risolvere i problemi con i popoli delle steppe lungo i confini  dell’impero, nonché per entrare in contatto con i governi  dell’Asia centrale e per esplorare nuove terre. Non c’erano intenti di conquista e neppure finalità commerciali, si possono equiparare a missioni diplomatiche volte ad estendere il raggio d’azione.  Poi si mossero i mercanti, e cominciò a delinearsi l’itinerario della Via della Seta, sicuro nelle fasi di prosperità, pericoloso nei momenti di decadenza.  Uno di questi momenti negativi si verificò intorno al 200 d. C. con il declino della “pax sinica” e il conseguente contraccolpo sul  flusso di viaggiatori e diplomatici per le ripercussioni sugli scambi commerciali e le relazioni in generale.

Con il secondo impero, nel VI sec., una nuova “pax sinica” segnò un’era di forte  sviluppo economico e di espansione commerciale favorita dalla pace e dalla stabilità politica e sociale accompagnate da una crescita culturale. Per questo la capitale dell’impero per 10 dinastie si chiamò Chang’an, “pace perpetua”, e fu meta dei viaggiatori provenienti da altri paesi asiatici e anche dall’Europa, nell’VIII sec. gli stranieri  raggiunsero  il numero di 100.000 su una popolazione di un milione di abitanti e contribuirono a rendere la società cinese  più dinamica, aprendola a nuovi costumi e tecniche, a nuove correnti di pensiero e fedi religiose. Con l’estensione delle conquiste mongole ai territori dall’Asia orientale all’Europa e l’instaurazione della “pax mongola”, gli scambi commerciali si intensificarono e si aprirono nuovi itinerari.

Siamo tra il 1200  e il 1250,  arrivano i francescani, Giovanni da Pian di Carpine scrive “Historia mongolo rum”, il fiammingo Guglielmo di Rubruk “Itinerarium fratis Wilielmi de Rubruquis de ordine fratum Minorum”, finché Marco Polo, da Venezia alla Cina, la descrive nel “Milione”, che facendo conoscere questo mondo lontano stimola i viaggiatori a cercare nuove terre, anche Colombo ne fu stimolato e credeva di aver raggiunto le Indie sulla scorta di tali descrizioni.

La conoscenza fece passi da gigante e furono redatte nuove mappe, come il planisfero di Fra’ Mauro con tutte le terre conosciute fino alla metà del XV sec., fino alle rappresentazioni cartografiche dei gesuiti, soprattutto  Matteo Ricci con il quale si entra nel XVII sec.

La galleria espositiva degli antichi reperti

In questo mondo affascinante fa entrare la galleria espositiva: vediamo statuette con figure, sono 16, poi 7 tessuti, 5 carte geografiche e 3 mappamondi, 8 contenitori per te, – dalla teiera alle foglie e tazze da te fino al servizio da te completo – 10  tra coppe, brocche e piatti, 10 statuette religiose, e 3 placche.

Due  delle 3 placche placche sono tra i reperti più antichi, provengono dalla Mongolia interna e risalgono tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., raffigurano una “Tigre con un capride nelle fauci” e un “Signore degli animali”. Ma il reperto più remoto è una “Coppa in lapislazzuli” da Batriana in Afghanistan del III-II millennio a . C. , seguito da un affresco del I sec., “Concerto di donne”, proveniente da Stabia.. La terza placca, invece, con una “Testa di cinghiale” dell’Iran, è del VI sec.

Altri reperti tra i più antichi, che  provengono dal Pakistan, sono 4 scisti nell’arte del  Gandhara raffiguranti  Una “Testa femminile” della metà del I sec.,“Buddha stante”,  “Maitrey  seduto nella posizione del loto”, e “Bodhisattva (Maitreya?)”, del II-III sec, e lo stucco dipinto con una “Testa di personaggio principesco” del IV sec. Vediamo anche un “Rilievo funerario”  in calcare dorato” dipinto del III sec. proveniente da Palmira in Siria. Dello stesso periodo la terracotta e invetriatura colorata di  un “Cavallo con ciuffo e corta criniera” dalla Cina sud-occidentale e alcune monete: 3 del Regno cosmopolita del Kusana e 2 Sasanidi con un busto coronato..

Nella cronologia dei reperti esposti, da collegare alla rapida cronologia degli eventi storici cui abbiamo accennato,  si passa al VI sec., l’era della forte ripresa in tutti i campi con la nuova “pax sinica, Vediamo una “Coppa con motivo zoomorfo e vegetale”  in argento dorato e cesellato e un “Cammello accosciato con in groppa il cammelliere”  in terracotta a pittura policroma,  una “Coppa decorata con croci e volatili” in argento dorato dall’Iraan e  “Tavoletta del regno di Nabonedo” in argilla, una “Brocca con coperchio e ansa configurati”, dalla Cina settentrionale e “Ampolla raffigurante Menas tra due cammelli” in terracotta dall’Egitto,  che introduce al VII sec..

Un Cammelliere su cammello batriato in terracotta e invetriatura policroma apre la vasta serie dei reperti, soprattutto oggetti, del VII-X sec.;  Sono figure in terracotta invetriata, grigia o rossa,  provenienti dalla Cina, dinastia Tang, che  rappresentano: “Mercante sogliano” e “Mercante centroasiatico”, “Attendente sogliano” e “Monaco seduto in una nicchia”, “Palafraniere straniero” e “Straniero dal volto velato”,  “Guardiano di tomba” e “Barbaro con costume kusano” e “Gruppo di sei suonatori a cavallo”, “Cavallerizza con animale da caccia” e  2 coppe provenienti dall’Iran, , una “Coppa con versatoio”, e una “Coppa in pasta vitrea turchese”, con le quali si entra nell’XI sec.,

Siamo nel secondo millennio, la sfilata dei reperti continua con presenze campionarie dei singoli secoli:tra il XII e XIII sec. Una “Brocca ‘a testa di fenice'” in porcellana dalla Cina e un “Grande piattocon breve tesa obliqua” in Faenza silicea;  tra il XIII e il IV sec. una “Mattonella con giocatori di polo”, ceramica dipinta proveniente dall’Iran, e una “Brocca” in ottone e argento dalla Siria o dall’Egitto; una “Statuina raffigurante il Buddha” in oro lavorato dalla Cina,  e un “Piatto con girotondo di pesci” in ceramica decorata dall’Iran;  del XV sec. un “Piatto con decoro a fiori”, in porcellana decorata dalla Cina;  del XVI sec. un “Piatto con decoro alla porcellana” in maiolica, manifattura di Montelupo e un “Orciolo da farmacia” in maiolica da Cafaggiolo; del XVII sec. un “Piatto con orlo poliulobato” in ceramica dall’Iran; del XX sec. un “Calco della Stele nestoriana di Xi’an”, su carta, della prima metà di tale secolo, mentre la Stele è del 781, della dinastia Tang..

Fin qui la sfilata ha riguardato soprattutto oggetti di uso comune con qualche stucco o scisto, non abbiamo però citato oggetti altrettanto di uso comune con precisa destinazione, per il tè, cui è dedicato uno spazio apposito: vediamo il “Servizio ‘Neve della luna felice'” in ceramica e 2  “Servizi da tè”, uno  in porcellana da Taiwan, l’altro in ferro,  2  “Teiere”  cinesi  e “Le foglie di tè”,  in pietra del Fujian, “Scatole da tè in lacca” e  “Tazza da tè”   in porcellana, un “Piattino da tè artigianale” in terracotta e un “Piatto da tè inciso con paesaggio di montagna e di fiume” in pietra, fino a  una “Teiera millenaria” in ferro artigianale.

Di questi reperti legati al tè non è indicata l’epoca, come non lo è per altri oggetti che rappresentano soggetti diversi, come “Bonsai”  e “Cavallo” in rame, “Montagna artificiale” in spugna e “Monte Baojin” in bronzo, “Sogno della Cina” in porcellana e “Canto sulla strada” in lacca, Capriccio d’acqua” in giada e “Piacere” in pietra. Ma sono indicati gli artisti, di 5 l’autore è Qiu Qijing.

Invece l’epoca è precisata per i tessuti, la provenienza è dall’Italia, sono tra le merci pregiate che andavano lungo al Via della Seta verso l’Oriente. Vediamo una “Seta raffigurante coppia di leoni affrontati entro rotae” dell’VIII-X sec., e 4 tessuti del XIV sec. “Seta decorata con volatili affrontati all’interno di mandorle” un “Frammento di tessuto con uccelli fantastici e leoni passanti”,  un “Frammento di tessuto con leoni entro formelle polilobate” e un “Frammento di tessuto con  motivi vegetali, grifi, basilischi, fontane e vasi”. Con questi frammenti di tessuti, 2 calzari del XVII-XX sec., un “Paio di scarpe cinesi maschili” e e una “Scarpa cinese femminile”, e  4 paramenti rituali del XIII-XIV sec., “Piviale” e “Stola”, “Dalmatica”e “Calzari”, tutti di fine XIII-inizi XIV sec.

Si riferiscono a papa Benedetto XI, domenicano, 1240-1304,  e vengono dalla basilica di San Domenico di Perugia . dove saranno riportati a mostra conclusa – dopo un restauro concluso nel 2016. Vediamo nei parati, “in panni tartarici”,  una fitta rete di motivi, come bacche e fiori di loto, finemente intessuta in oro:  l’arte ornamentale cinese che utilizzava filati metallici si sposa con la predilezione per l’oro. Erano chiamate”panni tartarici”le stoffe intessute d’oro con il riferimento al Tartaro, l’inferno, tanto erano temute le orde  mongole; questi tessuti preziosi, opera di artigiani cinesi, islamici e del centro Asia, raggiunsero l’Occidente con la “pax mongolica” che rendeva il cammino dalla Cina al Mar Nero così sicuro che un proverbio mongolo arrivava a dire: “Una vergine sola, sopra un mulo carico d’oro, può traversare i domini del Qan senza alcun pericolo”.

Concludiamo con i 12 reperti geografici, per così dire, dal XIV al XVIII sec., per lo più di grandi cartografi e astronomi italiani, oltre a “Geographia” di Claudius Ptilemaus e “Descrizione illustrata del mondo” di Ferdinand Verbiest.  Vediamo la “Carta nautica  di Pietro Vesconte” e la “Carta della Moscovia di Battista Agnese”, il “Mappamondo di Fra’ Mauro” e il “Mappamondo detto “Genovese”, il “Mappamondo circolare di Andrea Bianco” e il “Mappamondo cordiforme in lingua turca”, “Le estreme regioni asiatiche nella Tabula Peutingeriana”  e l”“Atlante cinese, detto ‘del Carletti'”.

Al culmine di questa galleria di reperti  poniamo i due preziosi documenti veneziani che riportano a Marco Polo, l’incunabolo “Marco Polo, ‘De le meravigliose cose del mondo’ di Giovanni Battista Sessa del 13 giugno 1496, e  la pergamena “Testamento di Marco Polo”del 9 gennaio 1324.

Perché per tutti, crediamo, e non solo per noi, la Via della Seta è legata in modo indissolubile alla figura del grande viaggiatore veneziano che l’ha percorsa e  fatta conoscere ai suoi tempi restando ancora oggi la figura più fulgida del collegamento tra  le due più prestigiose civiltà del pianeta.

Accessible Art, 17 artisti sulle favole di Oscar Wilde

di Romano Maria Levante

La mostra natalizia è  diventata un appuntamento immancabile nella galleria romana RvB ARTs,  di via delle Zoccolette, collegata all’Antiquariato Valligiano” della vicina via Giulia, ma da due anni l’ormai tradizionale Christmas Collection è
legata a temi favolistici, nel 2015 ad “Alice nel paese delle Meraviglie”, quest’anno ad “Oscar Wilde, The Happy Prince e Altre Fiabe”,  con  una grande varietà di  opere  di 17 artisti dal 1° dicembre  al 14 gennaio 2017.  E’ arte contemporanea adatta ad entrare negli ambienti familiari e abbordabile anche dal punto di vista economico., aspetto fondamentale per la sua diffusione al di là degli spazi consueti. 

Michele von Buren, titolare e animatrice della galleria, organizza a getto continuo le mostre di una scuderia di giovani talenti e di artisti affermati in base alla formula di “Accessible Art”con la quale cerca meritoriamente di diffondere l’arte  nelle famiglie mediante una attenta selezione di opere compatibili con gli ambienti domestici e con le disponibilità economiche.

Abbiamo dato conto di molte delle mostre organizzate negli ultimi anni, quindi abbiamo già parlato di alcuni degli artisti
espositori, in particolare Lucianella Cafagna e Lorenzo Bruschini, Alessandro Sicioldr e Giulio Rigoni, Alvaro Petritoli, Vera Rossi e Chiara Caselli. Vi sono numerose “new entry”, una serie di artisti che si aggiungono alla squadra di RvB Arts, mentre sono presenti nella galleria anche le sculture floreali  di Alessio Deli e quelle filiformi di Lorenzo Gasperini, artisti cui sono state già dedicate mostre personali o collettive, che accentuano il carattere di familiarità dell’ambiente, in cui sembra di ritrovare ogni volta dei cari amici.

Una festa di  amici è stato il “vernissage”, molto affollato e in un clima festoso, collegata alla mostra una lotteria con in palio due opere messe a disposizione degli artisti.

Ricorderemo le principali caratteristiche degli artisti già conosciuti, per poi passare alle “new entry”, ma prima parliamo di
Oscar Wiulde e delle sue favole cui si sono ispirati gli espositori.

Il Principe felice”  e “Il Gigante egoista”

Ne citiamo due, “Il Principe felice” e “Il Gigante egoista”, entrambe dai  forti significati simbolici e dagli alti contenuti educativi improntate a valori chiaramente positivi.

In entrambe si assiste alla metamorfosi dei protagonisti, il Principe e il Gigante all’inizio sono insensibili,  chiusi nei loro spazi privilegiati restano indifferenti e del tutto distaccati rispetto a quanti hanno bisogno di aiuto;  poi il Principe soccorre con doni principeschi le persone che vede misere o sfortunate e il Gigante accoglie i bambini in cerca di spazi per i loro giochi.

Il Principe diventa altruista e caritatevole dopo che,  alla sua morte,  la statua che lo raffigura, eretta per celebrarlo in un giardino pubblico molto frequentato, lo mette in contatto con la sofferenza umana;  e allora il  rondinotto che gli si posa sulla testa lo aiuta a soccorrere una fiammiferaia, uno scrittore depresso e un terzo bisognoso donando a ciascuno una pietra preziosa, due rubini e uno smeraldo. Alla morte del rondinotto il Principe potrà ricongiungersi a lui, felice, perché viene fusa la sua statua.

La metamorfosi del Gigante avviene dopo aver scacciato i bambini che giocavano nel suo giardino fiorito, quando vede che è rimasto brullo e freddo mentre la primavera è esplosa tutt’intorno; allora si pente e li accoglie, ne aiuta uno piccolo e incapace di salire sugli alberi come gli altri, lo pone su un ramo fiorito. Il suo giardino torna a fiorire con i bambini che lo affollano festosi, ma non vede più il bambino che ha aiutato e ne soffre, lo cerca invano per tutta la vita. Divenuto vecchio, il bambino gli appare sull’albero fiorito, ha delle ferite alle mani, dice che sono “i segni dell’amore”,  per ricambiare di averlo fatto giocare nel suo giardino lo farà entrare nel proprio, il Paradiso, è Gesù. I bambini venuti a giocare lo trovano a terra senza vita,con il sorriso della felicità sul volto.

Due storie parallele, metafore evidenti in cui i valori della vita si incrociano con la morte senza che questa sia motivo di
angoscia, in entrambi i casi è una morte bella, e non nel senso eroico, dannunziano, ma etico.   

I nove artisti già conosciuti in mostre precedenti a RvB Arts

Sono nove gli artisti che abbiamo incontrato in precedenti mostre alla galleria RvB Arts cimentatisi nelle interpretazioni del
mondo di Wilde, dal “Principe” al “Gigante” nella propria cifra artistica.

Di Lucianella Cafagnaricordiamo  le intense interpretazioni del mondo infantile, ripreso in un suggestivo bianco-nero percorso da vibrazioni visive ed emozionali in un clima di sospensione per rendere la fuggevolezza di un’età che ritorna nella memoria e nella nostalgia. E poi  la delicatezza con cui ha evocato  Alice nel paese delle meraviglie vista nel sonno e nei sogni che la portano lontano verso avventure che non si vedono ma si sentono. Ricordiamo anche figure femminili maestose, come quella selezionata per il “Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2011. In  questa mostra “Donna rossa in piedi” e “One Lady’s Dance”, “Soul in the Word” e “The agony Dance”  danno nuove espressioni di un’artista versatile e sensibile, che ha studiato all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi e ha trascorso un periodo formativo nello studio di Pierre Canon, allievo di Balthus.

Altro grande ritorno quello di Lorenzo Bruschini, anch’egli formatosi nella scuola d’arte parigina come borsista, diplomato in pittura all’Accademia delle Belle Arti di Roma. In lui è costante la dimensione del sogno unito al mito, in un’atmosfera
favolistica dove figure umane e animali si mescolano in composizioni in bianco e nero che alimentano la fantasia e l’immaginazione. Per lo più non vi sono sfondi né ambientazioni, le figure spiccano nelle loro forme sinuose fluttuando nello spazio con  significati simbolici e collegamenti magici. E’ un processo creativo, il suo, che attraverso labirinti fantastici porta a disvelare i contenuti più profondi e reconditi della realtà dove tragedia  e commedia, sogno e fantasia si alternano nella sua visione con basi filosofiche e poetiche.  Nella mostra “Self-Shaping”  ha approfondito il tema dell’identità con immagini in trasformazione, come se si auto modellassero.  Le opere ispirate alle favole di Oscar Wilde hanno titoli evocativi: “Giardino misterioso” e “Il mostro dell’affetto”, “L’altra notte” e “Non smettere di sognare”.

Ha invece una formazione inglese  Alvaro Petritoli, laureato al Central Saint Martins College of Art  and Design di Londra, vive  ad Hastings in Inghilterra, dove ha presentato 7 mostre personali dal 2011 al 2016. Utilizza una serie di materiali anche inconsueti come tè e caffe  con tecniche tradizionali e innovative. Le sue opere sono spesso di piccolo formato, in quella esposta in mostra, “Cielo stellato”,  nel blu della volta celeste punteggiato di formazioni cosmiche un’immagine alata sembra attraversarlo tutto. Ricordiamo una sua originalissima mostra in un bar romano.

Anche Giulio Rigoni  ha esperienze inglesi, essendosi trasferito a Londra dopo aver terminato gli studi, e dopo alcuni anni
è tornato in Italia. Utilizza materiali particolari, come carta, tessuti, ottone, dopo una fase iniziale in cui dipingeva a olio su tavole di legno ma, a differenza della pittura antica, preparava le tavole con gesso di Bologna.  Nelle sue composizioni e immagini si trovano  elementi tradizionali di ispirazione classica ed elementi moderni, tra il descrittivo e il surreale. In
mostra vediamo un dipinto esplicitamente riferito ad Oscar Wilde, intitolato “Il principe felice”, e due testine regali.

Non solo di formazione, ma di nazionalità inglese  Justin Bradshow, nato a Londra, dove si è formato al City and East London Art College, si è trasferito  in Italia nel 1994; dal 2000 15 mostre personali soprattutto a Roma. La sua pittura spazia dall’acquerello su carta ai colori ad olio su rame e legno, tra gli ultimi temi delle nature morte definite nei minimi particolari, vediamo esposti 4 quadretti, uno raffigura una caffettiera bicolore.  

Di Maiti, al secolo Maria Teresa Invernizzi, ricordiamo delle sculture molto particolari, figure di animali costruite con strutture di filo di ferro riempite con  materiali quali gesso e resina, cera e sabbia, che lasciano vuoti, quasi  lacerazioni, in forme sinuose e precarie. La sorpresa della mostra sono dei visi modellati su un reticolo leggero soltanto con delle semplici pressioni.

Vediamo di nuovo Alessandro Sicioldr, formatosi nella preparazione dei pigmenti e dei supporti secondo le tecniche di Cennini, con le sue immagini oniriche e inquietanti, dalla suggestione indefinibile, quasi una nuova metafisica.

E ritroviamo Vera Rossi, la cui ispirazione diretta da Oscar Wilde è evidente nei titoli in inglese.

Chiude la sfilata degli artisti che hanno già esposto nella galleria RvB Arts Chiara Caselli, con una caratteristica peculiare rispetto a tutti  gli altri, è un’artista che opera in campo cinematografico a livelli di eccellenza. Nel 2016 ha diretto il cortometraggio “Molly Bloom” dall’Ulisse di James Joyce, presentato con successo a Venezia, il suo debutto da regista è del 1999 con il cortometraggio “Per sempre”, vincitore del  “Nastro d’Argento”; prima dell’attività  registica quella di attrice, sempre ad alto livello, con registi  come Michelangelo Antonioni e Liliana Cavani, Marco Tullio Giordana e Gus Van Sant.  Nell’arte figurativa si è segnalata con la fotografia, anche qui ha avuto importanti riconoscimenti, nel 2011 alla Biennale di Venezia e alla Mostra internazionale di Fotografia di Roma, nel 2014 ha esposto in Giappone a Tokyo una “personal site specific” negli spazi  dell’Istituto italiano di cultura ideati da Gae Aulenti. Altre mostre personali a Milano e Bari, Jesi e Fano; mostre collettive a Roma, di cui 4 a RvB Arts, e Milano, Firenze e Venezia.

Gli altri otto  artisti  espositori

Spettacolare la grande tela di Miriam Pace, “Marionette”, su uno sfondo celeste  spiccano delle forme variegate con macchie ocra, una sorta di carta geografica frastagliata. Del resto, caratteristica della sua pitturaè  la sovrapposizione di strati di colore, una trama di concrezioni su un superficie cromatica uniforme. L’artista, nata a Catania, si è formata all’Istituto Europeo di Design e all’Accademia delle Belle Arti di Milano, dove si è laureata in design alla facoltà di Architettura al  Politecnico. 10 mostre personali a Catania, Bologna Milano e in altre località italiane e una a Parigi nel 2014
alla Selective Art Gallery; 24 mostre collettive dal 2004, tra cui la mostra al New York art Expo nel 2013 e la mostra “Artisti
di Sicilia. Da  Pirandello a Jodice”
a Catania, Palermo, Favignana a cura di Vittorio Sgarbi. Ha ricevuto dei premi ed
è stata selezionata per residenze d’artista, figura nella collezione permanente del Museo Arte Contemporanea Sicilia di Catania.

E’ ben diversa l’opera esposta di Serena Vigolini,, una composizione con una figura in un paesaggio, rappresentati con precisione. Apparentemente un figurativo descrittivo, in realtà un modo suggestivo di rendere la condizione umana nell’abbinamento con la natura. Inquietudine e smarrimento che traspaiono da queste immagini fanno riflettere, del resto sono frutto delle sue attente riflessioni, in una sorta di riscoperta di sé con il presente tra lo scorrere degli eventi. Premiata nel 2011, 4 mostre personali a Prato e  27 mostre collettive dal 2011, in una serie di città italiane, tra cui Firenze e Torino,  Padova ed Ancona, all’estero in Slovenia nel 2015.

Figurativa anche l’opera di Sergio Padovani, le  immagini questa volta non rendono l’introspezione inquieta, ma dei moti dell’animo che si elevano  al di sopra del mondo reale,  alla ricerca di qualcosa che trascende. In uno dei dipinti  esposti, “Divisione dell’anima”,  vediamo una sublimazione dei corpi, che fluttuano nell’aria come Paolo e Francesca nella celebre illustrazione di Gustavo Dorè, ma qui le due figure sono distaccate,  disposte in parallelo, l’atmosfera è onirica. L’artista la definisce “una manifestazione salvifica”  dinanzi all’ “accecante grazia del creato” che rende attoniti,  si avverte il “bisogno più accecante dell’uomo, la salvezza appunto”,  mediante “personificazioni che si sentono inadeguate alla vita, alla loro storia, a sé stesse”.  Un’altra opera è intitolata  “La città salva”.  Vincitore di ben 9 premi dal 2007 al 2016, due dei quali all’estro nel 2009, 12 mostre personali,  a Milano e Padova, Modena e Rimini ed altre sedi, oltre 30 mostre collettive in diverse località, tra cui Milano e Torino, Bologna e Roma,  Livorno e Catania; tra queste il Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2011 curato da Vittorio Sgarbi. . Presente in collezioni permanenti a Como, Rende e Catania.

Molto particolare l’opera di Orietta Mengucci, diplomata in pittura all’Accademia Belle Arti di Roma con un tirocinio al Museo Etrusco di Valle Giulia e corsi di ceramica presso maestri del settore  come Maddalena, Colbeck e Galassi.
Responsabile del laboratorio di ceramica presso l’Onlus ANFFAS, e insegnante allo Studio Kemir per scultura, pittura e ceramica, ha partecipato nel 2010 alla mostra d’arte ceramica internazionale “Concreta”,  Questa suaformazione si riflette sui materiali usati, e sulle forme artistiche, si va dalla carta paglia a strati di calce e gesso per l’espressione pittorica, alle argille refrattarie per le forme scultoree, come o “monoliti preistorici”. Riesce  ad instaurare “un contatto naturale e primigenio con i materiali utilizzati, imprimendo loro una vena poetica tipica della sua sensibilità”.

Altri artisti espositori, Olmo e Xia Yong, quest’ultima, una giovane che si è appena avviata su un percorso artistico, nterpreta  le favole di Wilde con due grandi dipinti dalle forme incerte e un cromatismo violento.

Infine Alessandra Gasparini con “Cuori di carta” e Simona Gasperini, con “Il giovane Re”, “La torre umana” e “Il pescatore e la sua anima” si calano in modo diretto nell’universo favolistico, con opere evocative con le quali ci piace chiudere questa rassegna.

Una rassegna sommaria e lacunosa la nostra che non può rendere il caleidoscopio di immagini, diverse per stili e contenuti ma accomunate dalla celebrazione nell’arte del grande Oscar Wilde”.  Soltanto visitando la mostra ci si può immergere
in questo mondo fantastico  con le migliori condizioni di spirito date dall’atmosfera che si crea nelle festività natalizie e di fine anno.  

De Antonis, dai ritratti classici alla fotografia astratta

di Romano Maria Levante

Il libro-catalogo di Diego Mormorio, della mostra   “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte  1951-1957”,  organizzata a Teramo nel 2003 dall’Associazione culturale “Teramo Nostra” presieduta da Piero Chiarini,  ripercorre l’itinerario artistico del fotografo, dai ritratti all’astrazione fotografica, di cui diamo conto dopo molti anni, per il suo persistente carattere rivelatore che non si limita all’artista presentato, ma all’arte astratta in generale e alla fotografia astratta in particolare.

 Di questi aspetti più generali abbiamo parlato in precedenza rievocando l’evoluzione che ha portato alla fotografia astratta  come  superamento della riproduzione più o meno meccanica della realtà visibile fissata in un attimo, che non corrisponde alla complessità e alla mutevolezza del vero reale fatto di continui cambiamenti e di contenuti non visibili, interni alle cose e soprattutto alle persone.. Ci ha particolarmente colpito il vero e proprio ossimoro consistente nella proposizione dell’astrattismo come espressione della vera realtà in contrapposizione al  realismo  visto come mera manifestazione parziale di un momento isolato, quindi distorcente la realtà effettiva.

La formazione, gli incontri, la prima fase a Pescara

Di De Antonis ci ha affascinato il percorso di vita che accompagna quello artistico, da Pescara a Bologna a Roma con il suo studio  divenuto circolo culturale con i  maggiori intellettuali e artisti, con i quali ha avuto incontri e amicizie di cui sono rimaste vive testimonianze. Come il sodalizio nato a Pescara con Ennio Flaiano, che nel racconto del 1942 “Le fotografie” parla di “un’amicizia bellissima, durata quasi cinquant’anni”; e con Mino Maccari, incontrato per la prima volta mentre passeggiava in riva al mare con Flaiano, che lo descrive in una pagina carica di humor; di Tommaso Cascella parla lo stesso De Antonis, ricordando le corse con lui in automobile attraverso l’Abruzzo e la spinta a fotografare nel 1935-36  le feste popolari predilette dal pittore.

Alcune di queste fotografie furono pubblicate nel 1941 sulla rivista “Documento”,  nel numero di aprile 6 immagini della festa del “Lupo di Pretoro” e 6 della festa del “Venerdì Santo a Spoltore”, nel numero di maggio 6 della festa delle “Verginelle di Rapino”; poi le rivediamo nel 1984 in una mostra al “Museo Nazionale di Arti e Tradizioni popolari”. Sulle foto  delle fanciulle biancovestite  nella festa appena citata, nel catalogo della mostra l’artista scrive che “hanno di nuovo riflesso tutta la luce di quelle esperienze indimenticabili”. E, più in generale: “Penso che rimanga in queste immagini l’intenzione che avevo di fondere il ricordo lasciatomi dall’opera di Botticelli con la forza e la durezza della vita contadina”.

Mormorio ne sottolinea la semplicità e la “capacità di ricondurre all’essenziale, aprendo la porta dell’immaginazione e della riflessione” e aggiunge, in un articolo sulla mostra del 1984 intitolato “Con l’occhio a Botticelli”che “in un tempo dominato da molti fotografi senza grandezza, questa parte del lavoro di De Antonis serve a tornare alla grande fotografia: a quel sottilissimo equilibrio in cui si pongono il sogno e la realtà, dissolvendosi frequentemente l’uno nell’altra”.

Le fotografie delle feste popolari abruzzesi gli valsero nel 1936 l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove insegnava allora Blasetti,  il grande regista; seguì, nel 1939, l’apertura di uno studio  a Roma, a Piazza di Spagna,  era stato di uno dei maggiori fotografi italiani, Arturo Bragaglia, appena saputo che è in vendita lo acquista e vi si trasferisce subito,  lasciando aperto lo studio di Pescara affidato alla sorella Anna.

Erano passati quindici anni dalla prima fotografia del 1924,  il campanile del Duomo di Teramo, che precede di due anni l’inizio della sua attività fotografica con una fotocamera che aveva già un millesimo di secondo, cui si aggiunse una macchina in legno di un fotografo torinese.  Dopo cinque anni, nel 1931,  lo troviamo a Bologna dove un amico del padre aveva uno studio fotografico, frequenta la Scuola d’arte  e  riceve insegnamenti sul colore e sulla forma.

Aveva realizzato nel 1933  due ritratti che furono esposti nella mostra teramana, molto diversi tra loro: “Ritratto di ‘don Donato’ De Antonis, padre del fotografo”, con effetti rinascimentali di luminosità e di colore realizzati anche artificialmente, e Ritratto di signora pescarese”, con una purezza stilistica che punta all’essenziale; la modernità è ancora più evidente nel pur diversissimo ‘“Esposizione multipla eseguita durante uno spettacolo teatrale“, con forme e colori che si accavallano in una suggestiva sequenza quanto mai animata.

Lui stesso ha detto che colorava le fotografie “avendo come preciso riferimento gli effetti luministici della pittura cinquecentesca”, lo vediamo anche nella stampa “Mani di donna  con un bocciolo di rosa”, siamo nel 1941, due anni dopo l’approdo romano, mentre  nella “Signora romana”, del 1947,  in bianco e nero, a distanza di sei anni, il riferimento riiguarda l’inquadratura austera e composta che ricorda i  solenni ritratti nobiliari.

Lo studio a Roma, vita culturale, ritratti e  fotografie del mondo della  moda 

A Roma prosegue l’attività avviata a Pescara di fotografo ritrattista, che non si limita all’estetica, ma usa la tecnica per andare oltre, come dice lui stesso: “Nei ritratti una continua ricerca dell’anima del soggetto, ricerca incantata da una luce morbida, nitida, senza effetti, ma legata a una fantasia di sogno”. La luce tornerà in modo molto diverso nella sua fotografia astratta, del resto ne abbiamo ricordato il ruolo cruciale nell’annullare la “distanza incolmabile” che,  secondo Mormorio, esiste ad una prima osservazione tra fotografia vincolata all’oggetto e astrattismo libero senza limiti.

Nella  capitale del cinema e della moda, il suo studio a Piazza di Spagna viene frequentato da artisti e intellettuali, che come lui si ritrovano fino a tarda ora anche nel Caffè Greco, come faceva ai suoi tempi D’Annunzio e come De Chirico, pure con lo studio a Piazza di Spagna. Alla chiusura del caffè alle ore 23, andava con gli amici nell’unico luogo della zona aperto tutta la notte, lo documenta l’istantanea del 1943 “Ennio Flaiano nella farmacia di piazza San Silvetro”.

Poi, nel 1946, terminata la guerra, l’incontro con Irene Brin, che ha appena aperto la “Galleria dell’Obelisco”, da lei diretta insieme al marito Gasparo del Corso, vi ambienterà il primo servizio fotografico, in cui figura “Irene Brin nella galleria dell’Obelisco”, ma dopo cercherà altri set, in particolare atelier di artisti e musei, come richiamo culturale.

Una serie di fotografie di moda a partire da  quel periodo erano esposte nella mostra a Teramo e figurano nel Catalogo. Citiamo  la “Fotografia di moda  nello studio dello scultore Pietro Consagra”, 1947,  e le due “Fotografie di moda alle Terme di Diocleziano”, 1948, la “Fotografia di moda Marella Agnelli Caracciolo a palazzo Torlonia”, 1948, e la “Fotografia di moda. Modelle all’atelier Schubert”, 1950, fino alla  “Fotografia di moda  alla Galleria Borghese”, dello stesso anno, con la modella nella stessa posizione della vicina statua di Canova   in un parallelo ideale, e “La modella  Ive Nicholson vicino al banco ottico di De Antonis”, 1955, con uno sfondo composito, una parete a riquadri argentati e una camera fotografica in legno dal grande soffietto  con due rose dal gambo lungo.

Sempre nel 1946 Luchino Visconti,  presentatogli poco tempo prima da Corrado Alvaro, lo va a trovare espressamente per chiedergli un servizio fotografico sul suo “Delitto e castigo” in programma al Teatro Eliseo a Roma, ne derivano immagini straordinarie e nuove conoscenze, come il gruppo di artisti Guerrini, Dorazio, Perilli, il quale descrive così la sua ritrattistica: “Toglieva, con sapiente lavoro di luci, rughe e tracce della vecchiaia, dando un’abile ritoccata alle cicatrici della vita. Il colore, da lui sviluppato in un laboratorio che sapeva più di alchimia che di fotografia, raggiungeva toni sapienti, quasi ad uguagliare la sapienza cromatica del quadro. Otteneva la perfezione della riproduzione, aggiungendo qualcosa di più al lavoro del pittore”.

Per il cromatismo vediamo il “Ritratto di Alexander Calder”, 1952, in cui, sempre secondo Perilli, “il volto rubizzo dello scultore eguagliava un Rubens”. Nei ritratti in bianco e nero spicca l’immagine pensosa dall’espressione  particolarmente intensa di Luchino Visconti, 1950, poi di Bruno Barilli, 1953,  in chiaroscuro con il papillon, di Franco Zeffirelli, 1956, proteso con lo sguardo penetrante da attor giovane, fino a Fabrizio Chierici, 1958, in piedi mentre dipinge.

Ci sono anche due “Nature morte”, del 1952 e 1953, e due “Fotografie di moda., riprese  in occasione della presentazione a Roma del film 2001, Odissea nello spazio“, nel 1968. Ma con queste ultime usciamo dalla fotografia tradizionale per entrare nell’elaborazione libera data da accostamenti speciali e cromatismi molto particolari che avvolgono l’immagine.

D’altra parte, già nel 1951 inizia la sua sperimentazione della fotografia astratta, che si sviluppa fino al 1957 con una ricerca che esplora diverse vie come testimoniano le opere presentate. Nel 1970 l’artista realizza un film in VHS  con le sue fotografie astratte degli anni ’50..

L’indipendenza dai  gruppi contrapposti, giudizi sull’artista

Sono gli anni in cui infuria l’aspra polemica tra coloro che si definivano “formalisti e marxisti”, come i sopra citati Guerrini, Dorazio e Perilli, oltre a Consagra e Carla Accardi, Sanfilippo e Turcato, e i realisti come Renato Guttuso,  nell’occhio del ciclone artistico-politico; attraverso la rivista “La Biennale di Venezia”, ricorda Mormorio. Nel 1950 Lionello Venturi aggiunge un nuovo gruppo con Afro e Birolli, Corpora e Santomaso, Moreno e Morlotti, Vedova e ancora Turcato.

De Antonis irrompe sulla scena senza aderire ad alcun gruppo nel 1951 con una mostra alla Galleria dell’Obelisco diretta, come abbiamo visto, da Irene Brin, che segue una mostra di  Kandiskij presentata da Dorazio; in questa galleria nei quattro anni dall’apertura del 1946 erano state allestite mostre di altri 90 artisti, come Toulouse Lautrec e Gauguin, Cocteau e Dalì, Morandi e Vespignani,   De Chirico  e Savinio, Campigli e Levi, oltre ad alcuni di quelli sopra citati; e il fotografo List.

Cagli presentò la mostra sottolineando come De Antonis con la sua nuova concezione dell’arte fotografica era riuscito a superare il diaframma che la divideva dall’arte pittorica come lui la intendeva, più dei grandi fotografi come Cartier Bresson troppo vincolato dal realismo; e parlando riferendosi a lui, di “poetica di un nuovo, profondo  poeta”.

Mormorio cita anche le espressioni particolarmente lusinghiere per De Antonis della scrittrice Gianna Manzini, nell’articolo intitolato “Il fotografo magico”, in cui nel 1953, nel definire i numerosi riflettori del suo studio “un piccolo firmamento a portata di mano”, esclamava: “Servirsi, come strumento, della luce, disporne graduandola, avvicinandola, dirigendola, a piacere, farne il proprio impalpabile scalpello per esaltare un oggetto, oppure per consumarlo e sbiadirlo; per renderlo massiccio e preciso o magari, invece, leggero e scorporato, che privilegi!”.

E il poeta Leonardo Siningalli nella presentazione a una mostra del 1957, cui ne seguì un’altra a Teramo nel 1961, scrisse che “De Antonis si è creato il suo passatempo dentro la sua fatica, l’hobby dentro il job”.  Mormorio osserva che “egli ha sempre fotografato con diletto, anche quando si trattava di riprendere cose nelle quali altri avrebbero visto soltanto un lavoro ordinario”. Ciò gli ha consentito di infondere in tutte le s ue fotografie il fascino della bellezza. La Bellezza era per De Antonis l’inizio e la fine di tutto. Un provenienza e una destinazione che accompagnavano ogni suo gesto”.

Per questa mostra Alfredo Mezio scrisse sul “Mondo” una descrizione quanto mai efficace delle immagini da lui create: “Le fotografie astrattiste di De Antonis possono evocare delle galassie, delle cristallizzazioni e un’infinità di altre cose sconosciute; tuttavia il loro scopo non è quello di forzare l’immaginazione con analogie o somiglianze. Sono delle combinazioni gratuite, disinteressate, chiuse in se stesse” E allora come interpretarle? Non seguendo l’invito di Leonardo a usare l’immaginazione nel guardare le macchie di umidità sui muri, ma l’altra sua definizione della pittura “come ricettacolo di tutte le forme esistenti in natura e che non hanno ancora un nome”.

I 4 gruppi di fotografie astratte, con diversi effetti di luce

Ed ora guardiamole queste fotografie astratte,  sono 51 contrassegnate soltanto da un numero romano progressivo, da I a LI, e l’anno – 21  del 1951, 26 del 1957, solo 3 del 1956 e 1 senza data – con la tecnica utilizzata, stampate in bromuro d’argento direttamente o da negativo, poche su carta invertibile. Sono raggruppate  in quattro gruppi in base ai loro caratteri distintivi.

Il primo gruppo  presenta “Luci in movimento con sfuocature”, sono 18 fotografie ottenute  con la tecnica del fuori-fuoco utilizzando diverse luci e un obiettivo con minima profondità di campo in modo che venissero sfumate le parti meno vicine a quelle messe a fuoco.  Fotografando piccole lampadine o altri soggetti luminosi e muovendo la macchina o gli oggetti, otteneva strisce  più o meno intense secondo l’esposizione, e l’utilizzo di un foglio di carta invece della pellicola.  Sono immagini soffuse e delicate, come ectoplasmi, dove le ombre e le luci coesistono, in una continuità visiva dalle forme sfuggenti e in fieri, come nebulose astrali.

Quanto mai nitide, invece, le “Immagini dei liquidi oleosi in sospensione”, un secondo gruppo con 19 fotografie , in copia unica utilizzando una lastra di vetro illuminata dal basso sopra cui spargeva dei liquidi sovrastati da una lampada, in modo che le due illuminazioni si mescolassero  producendo trasparenze ed ombre, per alcune aggiungeva nello sviluppo una solarizzazione.  L’effetto è molto variegato, sembrano piccoli corpi vaganti dalle forme diverse simili a macchie che si propagano.

“Ritagli di carta bianca” fotografati a colori su un fondo bianco costituiscono il terzo gruppo di 3 fotografie, per le quali usava due diversi procedimenti: o la pellicola negativa a colori per luce artificiale con due sorgenti luminose che davano effetti rosastri e bluastri per la diversa temperatura delle luci, una naturale calda  e l’altra artificiale fredda, rispetto al materiale fotosensibile usato; oppure la carta invertibile, quindi in copia unica, e due luci, una rossa e una blu (cui aggiungeva delle volte una luce gialla) con le quali illuminava  ritagli di carta fotografica lucida su foglio bianco cosicché la luce formava un’ombra blu e una rossa sui due lati estremi.Sembrano degli arabeschi colorati a larghe volute, sfumati e nel contempo ben definiti, un bell’effetto.

Il quarto e ultimo gruppo, “Vetri e plastiche trasparenti“, comprende due diverse tipologie: la prima, del 1951, con 3 immagini presentate, utilizza oggetti in vetro su cui proietta luci di vari colori con il fuori fuoco; la seconda, del 1957, con 6 immagini, si serve invece di plastiche trasparenti e vetri su un piano illuminato da una luce polarizzata mentre un filtro polarizzatore è posto dinanzi all’obiettivo per avere una notevole varietà di effetti proiettati sul negativo a colori, tecnica che adotterà anche per il film astratto in VHS. Sono molto diverse, nel primo tipo si distingue la  materialità translucida degli oggetti, nel secondo tipo si ha una mappatura di pezze dal cromatismo diverso ma senza forti contrasti, con un gradevole effetto sfumato.

Tutto realizzato con la macchina fotografica senza le manipolazioni chimiche in camera oscura delle esperienze precedenti, quindi essenzialmente lavoro di ripresa da fotografo d’arte e non da alchimista. Alla base di ciò la sua concezione che  poneva al centro la struttura della macchina fotografica per cui  ogni fotografia doveva  passare attraverso l’obiettivo senza deviazioni. Non seguiva nessuna corrente, i metodi adottati erano frutto della sua ricerca e della sua inventiva.

Così conclude Mormorio: “Nelle sue fotografie astratte non vi è mai nulla di casuale. La sua straordinaria capacità di controllare la luce gli consentiva di conoscere in anticipo il risultato finae, De Antonis non lasciava alcun posto al caso”.

Del resto la luce come soggetto dell’immagine è l’essenza stessa dell’astrattismo fotografico; e data la sua natura incorporea e nel contempo visibile può dare la capacità di cogliere la realtà più nascosta. Nella luce si trova l’essenza di ogni cosa.

Il cerchio si chiude con il ritorno alle origini di tutto, al “fiat lux” biblico che si coniuga alla modernità senza vincoli e confini dell’astrattismo fotografico di cui De Antonis è stato un esponente altamente rappresentativo in una forma d’arte difficile che va compresa e meditata.

Info 

Mostra “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”,  svolta  a Teramo nel 2003, pomossa da Regione Abruzzo, Provincia e Comune di Teramo e Bacino Imbrifero Montorio al Vomano-Tordino, organizzata da “Associazione Culturale Teramo Nostra”  presieduta da Piero Chiarini. Catalogo: Diego Mormorio, “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”, Teramo Nostra, 2003, pp. 120, formato  21 x 27, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo; il catalogo ha avuto a suo tempo il Premio internazionale che viene conferito a Orvieto. Il primo articolo è  ucito in questo sito il 19 dicembre u. s..

Foto

Le immagini sono state tratte dal Catalogo,  si ringrazia “Teramo Nostra” con il presidente PIero Chiarini e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 7 immagini rigiuardano la ritrattistica, le 5 seguenti la fotografia astratta alla quale sono dedicate tutte le 12 immagini inseite nel primo articolo riguardante la fotografia astratta in generale. In apertura, “Ritratto di signora pescarese”, 1933; seguono, “Rapino. Festa delle Verginelle”, 1935, e   “Fotografia di moda alle Terme di Diocleziano”, 1948; poi, un’altra “Fotografia di moda alle Terme di Diocleziano”, 1948, e una “Fotografia di moda nella Galleria Borghese”, 1950, quindi  “La modella Ive Nicholson vicino al banco ottico di De Antonis“, 1955, e “Fotografia di moda ripresa in occasione della presentazione a Roma del film ‘2001. Odissea nello spazio'”, 1968; inoltre, foto astratte, gruppo I, “XVI” , 1951, Stampa da diapositiva, e gruppo II, “X”, 1957,  Fotografia diretta su carta bromuro d’argento”;  infine, ancora gruppo II, “XI”, 1957,  Fotografia diretta su carta bromuro d’argento, e gruppo  III, “XX “, 1957,  Stampa da negativo; in chiusura, gruppo IV, “XXIII”, 1957, Stampa da negativo”.

De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro resoconto del Convegno tenuto dalla Fondazione Giorgio e Isa De Chirico all’Accademia di San Luca il 22 novembre 2016 sul tema “La fine della bellezza, dibattito sull’arte classica e moderna”.  Abbiamo in precedenza riassunto le comunicazioni del presidente  Paolo Picozza sull’attività della Fondazione nel trentennio dalla sua nascita, e di Fabio Benzi sul numero speciale della rivista “Metafisica” che nella sua versione inglese “Metaphysical Art” ha pubblicato per la prima volta la “Commedia dell’Arte” di De Chirico in questa lingua e il suo corpus poetico. E abbiamo cercato di rendere il senso dell’approfondito dibattito filosofico dei professori ordinari di università milanesi, fiorentine e romane Donà, Givone e Di Giacomo, con l’introduzione dello storico dell’arte e critico Claudio Strinati. Completiamo il resoconto con dei cenni sulle conclusioni di  Riccardo Dottori, del Comitato scientifico della Fondazione,  e  con un’analisi più ampia, anche se sommaria, delle sue considerazioni su “La realtà profanata”,  lo scritto in cui De Chirico espone la propria concezione della realtà, contro quella degli intellettuali e dei pittori “moderni”, basata su un profondo pensiero filosofico da cui nasce la pittura metafisica.  

Ed eccoci a Riccardo Dottori, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Roma “Tor Vergata”, che entra nei temi toccati dai precedenti relatori, partendo dall’enigma che per San Paolo è “speculum aeternitatis”, ma osserva che “se il segno è diverso dal significato, impegna a cercarlo attraverso di sé”; e aggiunge che “il non senso della vita si supera guardando per trovarlo”. Torna sulla rivelazione avuta da De Chirico a Santa Croce precisando che “ha riguardato due elementi, la statua e le ombre”, anche  Nietsche nel 2010 fu colpito dalle ombre mentre passeggiava per Torino.

Di qui la proiezione nella malinconia, “non c’è nessuno ma l’ombra di se stesso, il segno di cui si può scoprire il significato”.
Dottori in questo è positivo, parla di superare l’angoscia che viene dall’inquietudine della metafisica del nulla e di dare un senso alla vita, vi concorrono il sogno e l’incubo, lo spirito e il rimorso. “Il pittore è la madre”, l’identità si riconquista attraverso il viaggio, in questo De Chirico si rivela come pittore post-moderno, ha ispirato Magritte e il Surrealismo.

La realtà profanata e la verità

Abbiamo solo accennato a quanto lo studioso ha argomentato anche rispetto alle relazioni precedenti, perché ci preme dar conto sia pure sommariamente, del suo saggio “Tra filosofia e pittura: Giorgio de Chirico e la realtà profanata”, uscito su “Metafisica”, 24 pagine di considerazioni filosofiche e artistiche sull’articolo di De Chirico, “La realtà profanata”, dove si legge che la realtà “non ha nessun rapporto con l’arte, ma tutt’al più con il soggetto che è raffigurato in un’opera d’arte”, cosa “di nessuna importanza per il fenomeno stesso dell’arte”. 

Nonostante questo, secondo De Chirico, non è accettabile l’atteggiamento negativo verso la realtà dovuto all’assenza di artisti in grado di gestire “tanto il reale quanto l’irreale” e al materialismo scientifico che ha suscitato la reazione,  per quanto attiene allo spirito, contro la realtà: un “fenomeno instabile e difficile a trattare”, temporale in quanto legato a passato, presente e futuro, e atemporale, “inchiuso nell’eternità”, che “si identifica con la verità” ma ha tanti aspetti quante sono le mentalità.

Bisogna, tuttavia, essere prudenti “nei nostri giudizi sulla sua relatività”  perché,  al di là della molteplicità di situazioni, “la realtà del vero è concreta e, per noi, la più importante; essa è la realtà della saggezza”, che “corrisponde al sentimento e al giudizio degli uomini ragionevoli di tutti i tempi”;  resta la stessa attraverso i secoli e “si identifica con la verità”. In quanto tale “non si dovrebbe mai permettere che il suo significato sia sfigurato”, mentre “per l’uomo moderno è nulla, perché egli ignora la realtà per la ‘mania dell’intelligenza’” che “ha ignorato il rispetto della verità, la venerazione dei veri valori; ha ignorato insomma le cose concrete che sono le ‘realtà dello spirito'”.

La sua denuncia diventa veemente verso gli uomini politici, “che hanno osato manovrare con la realtà in modo talmente spudorato ‘grazie al terreno molto bene preparato dagli intellettuali'”, perché senza il loro disprezzo per la realtà i politici non avrebbero potuto servirsi per la loro retorica di invenzioni contrarie alla realtà vera, con autentiche menzogne. Nell’arte  la “mania dell’intelligenza” ha fatto nascere “la leggenda che una grande opera d’arte della nostra epoca deve, quasi obbligatoriamente, essere incomprensibile”, con il risultato di allontanarla dalla realtà, che invece deve essere difesa da “questi falsi intellettuali” i quali “si satollano con una dubbia metafisica, con un surrealismo ed un ‘mistero che sembrano fatti su misura per loro e che naturalmente non hanno nulla a che vedere con la metafisica, il surreale e il mistero”. Ripudiando la realtà  “in nome dello spirito moderno”,  la “rappresentazione dell’universo, la Weltanschaung, è stata semplicemente sostituita dal caos”. E così “oggi gli uomini vanno a tastoni nel caos, incapaci di cambiare chicchessia, di conchiudere qualcosa, subendo così la giusta vendetta della realtà ripudiata”.  

Sono parole quanto mai coraggiose ed estremamente attuali, scritte tra il 1941 e il 1943, in una fase cruciale della seconda guerra mondiale  e pubblicate nel 1945, a guerra finita, in “Commedia dell’arte moderna”, con lo pseudonimo “Isabella Far”. Dottori le commenta inquadrando queste espressioni del talento filosofico di De Chirico  nella grandi correnti di pensiero cui lo stesso artista  si ispirava negli scritti teorici per poi tradurne i motivi salienti nella pittura metafisica, che presenta una realtà enigmatica, come il senso del tempo che precorre Bergson e le analisi metafisiche di Heidegger, e dello spazio “che è parallelo alle discussioni sollevate dalle geometrie non euclideea”.

Dottori riassume la concezione di Heidegger che “distingue l’essere come tale da un  lato, e l’ente in quanto ente” come soggetto della scienza e della tecnica, da cui lo separa una “differenza ontologica”; ma nel contempo  “l’ente come tale non può venire separato dall’essere, perché l’essere ne costituisce il senso”, oltre “le domande della scienza e le disponibilità della tecnica”.

La metafisica tradizionale porta alla tecnica che “riduce l’essere all’ente, dimenticando la loro differenza essenziale” Per
questo Dottori si chiede se “esiste un pensiero completamente altro dal pensare metafisico, che non riduca l’essere all’ente e riesca a presentare l’essere quale esso è”; e se il superamento per tale via della metafisica classica porterebbe per De Chirico alla “sconfessione della sua opera o della pittura Metafisica”.   

Una risposta è nelle parole di De Chirico che abbiamo già riportato, secondo cui “la realtà è collegata al tempo, non nel senso che essa è semplicemente nel tempo, quanto perché si costituisce appunto sulla base di queste tre manifestazioni temporali”, che sono il passato, il presente e il futuro, quindi considera “la temporalità come la dimensione fondamentale della realtà”, mentre per Heidegger “questo equivale a dire che la temporalità è la dimensione fondamentale dell’esserci, che è l’essere dell’uomo come esistenza” collocato nel tempo, per cui “il tempo è il senso dell’essere”, De Chirico lo esprime in pittura dipingendo grandi orologi sugli edifici.

Quindi, se per Heidegger “l’essere non è semplicemente nel tempo, ma il tempo è piuttosto il senso dell’essere”,  dell’essere-nel-mondo,  De Chirico anche se “non arriva a dire che il tempo è il senso della realtà, ci dice comunque che la realtà si forma da queste manifestazioni temporali”.

Il pensiero filosofico dell’artista è particolarmente complesso perché, come abbiamo visto, collega la realtà non solo alla temporalità contingente, ma anche all’eternità, cosa che, osserva Dottori, “significa elevare la realtà al di sopra del tempo inteso come mera relazione degli istanti del passato, presente e futuro, cioè di quella temporalità che Heidegger chiama Zeitlichkeit, la volgare concezione del tempo come puro scorrere”.   Ciò non vuol dire, però, che la realtà sia eterna, le tre dimensioni temporali “sono fondamentalmente le dimensioni dell’esistere dell’uomo, dell’essere-nel-mondo”; essa è inchiusa nell’eternità, essenzialmente temporale, e si manifesta nella sua verità solo nella trascendenza dell’esserci che è la temporalità in cui si svela la sua verità, il suo senso”. 

La verità, dunque, per De Chirico come per Heidegger, è il risultato della “presa di coscienza dell’autentica realtà”, perché “l’essere nella sua latenza è il vero, e la realtà non dimenticata e non profanata è anch’essa la verità”. Come nella scienza ogni risposta fa nascere nuove domande, così nella filosofia, perché a questo punto ci si chiede in cosa consiste  la verità. Sembra una risposta scontata considerarla l’adeguamento del nostro pensiero alla realtà,  ma non è così semplice,  la realtà è strana  e inspiegabile, molteplice e sfuggevole, quindi non è univoca. E allora si torna all’interrogativo su cos’è la realtà, per misurare su di essa il nostro pensiero che porta alla verità: “La realtà non può essere considerata semplicemente come l’oggettività su cui misuriamo il nostro sapere, perché non sarebbe più uno strano fenomeno, ma ciò che il nostro sapere, la scienza, sa”.  In termini pratici: “Possiamo piuttosto dire che la realtà è identica alla verità se riusciamo a far luce sul fenomeno strano e inspiegabile che essa è”.

La caccia al tesoro ci riporta all’enigma della realtà 

Il modo con cui Dottori ripercorre il pensiero filosofico di De Chirico collegato a quello di Heidegger è intrigante, appassiona come un’indagine, prende come una caccia al tesoro, di tappa in tappa, di scoperta in scoperta impegnando la mente nei collegamenti più sottili e insieme profondi. 

Ora è giunto il momento di far luce sul fenomeno-realtà, così strano e a prima vista inspiegabile. Ma non per chiarirlo
spiegandolo e riconducendolo alla sua essenza, come voleva Husserl, fondatore della fenomenologia e  maestro di Heidegger; non possiamo “mettere la realtà empirica tra parentesi; quando sospendiamo i nostri giudizi e i nostri problemi per arrivare all’essenza delle cose”, invece “è piuttosto restando ben fermi nella nostra esperienza del mondo e nella sua problematicità, nella tensione stessa della realtà, che il fenomeno ci appare nella sua non-latenza”.  E questo avviene al di là dei differenti aspetti che la realtà assume nei diversi individui e momenti, come nella diversa visione temporale in cui il contingente si contrappone all’eternità. Nonostante ciò, “la realtà resta, oltre ogni relatività, presupposta come non semplicemente ferma in se stessa, ma come identica a se stessa, perché questa è la condizione per cui essa possa poi apparirci nella sua non latenza, come la verità che continuiamo a  cercare, perché forma il principio di ogni nostro orientamento”.  

Identica a se stessa e nel contempo mutevole a seconda delle situazioni, personali o storiche, qual è dunque la vera faccia della realtà? Quella che risulta dall’essere una e centomila, solo così può uscire dalla sua “non latenza”  e rivelarci la verità. “In questo senso la realtà e la verità sono la stessa cosa per noi, e solo in questo modo la realtà ci appare quale vera realtà”.

E’ la metafisica di De Chirico, ben diversa dalla metafisica scolastica secondo cui “la realtà resterebbe nella sua indistinzione e indifferenza, e può apparirci invece, a seconda del modo con cui ci rapportiamo ad essa, nella sua non-latenza”.  Lo vediamo nelle “Piazze d’Italia”.

Ma non è finito il percorso filosofico delineato da Dottori, si deve ancora passare alla verità, che è strettamente collegata alla realtà, quindi partendo da quest’ultima: “Il suo essere per noi ha il suo riscontro nel nostro essere per lei, cioè nel nostro voler essere nella verità, e solo in questo modo la realtà ci appare come vera realtà”. Il collegamento avviene mediante un atto volitivo: “Con il voler essere nella verità in rapporto alla realtà infatti si costituisce la verità della realtà  per noi  e tramite noi”. E non è  una realtà meramente fenomenica ed esteriore, si rivela “come autentica realtà spirituale, la realtà della nostra vita e della nostra storia, e della storia di tutti gli spiriti, così come è la vera realtà in quanto tale”.  Così conclude Dottori: “In questo consiste da ultimo la serietà della realtà di cui parla De Chirico”, l’unica realtà  autentica, una realtà spirituale che si raggiunge attraverso la saggezza e l’arte, alla realtà strettamente collegata, e attraverso essa alla verità.  

Torniamo alla “realtà profanata” di De Chirico per rendere con le sue parole il valore non solo teorico e filosofico ma soprattutto concreto, della sua concezione della realtà, che gli fa usare tutta la sua vis polemica contro coloro, intellettuali o politici, i quali, disprezzandola,  la manipolano e la distorcono, nascondendola alla gente con  gravi conseguenze sul piano pratico: “Ma la realtà, anche quand’essa è invisibile agli uomini, esiste ed implacabile attende la sua ora. L’uomo intelligente si rende conto che la realtà, tanto cattiva di natura, è stata lasciata per troppo tempo sola e senza essere sorvegliata; egli sa che questa ignoranza della realtà ha fatto sì che il male è andato sempre aumentando e oggi l’uomo intelligente trema pensando che s’avvicina il momento fatidico in cui il male giungerà al colmo e la catastrofe sarà immensa”. Per concludere sulla “realtà profanata”: “Tanto grande sarà allora la catastrofe, che in essa, e per via di essa, la realtà apparirà di nuovo a tutti, e tutti dovranno riconoscerla”.

Parole gravi, ispirate anche dal conflitto mondiale che era in atto, ma quanto mai profetiche e valide ancora oggi. Tanto che il  “diritto umano alla conoscenza” viene  rivendicato anche in sede di Nazioni Unite, perché la realtà, e quindi la verità che ad essa è collegata, diventi patrimonio di tutti.  Una realtà che diventa spirituale con la saggezza e l’arte, le due “vie della vita” con le quali, per De Chirico, si può raggiungere.

Il ritorno alla realtà quotidiana

Così si è conclusa l’intensa mattinata, con arte e filosofia accomunate in una “total immersion” di straordinario interesse per i sapienti approfondimenti compiuti, di cui abbiamo cercato di dare i passaggi principali consapevoli che la complessità degli argomenti espone a incomprensioni oltre che a imprecisioni, per non parlare delle manchevolezze di una sintesi quanto mai
difficile e forzata.  

Siamo usciti dalla sala del Convegno ancora presi dai ragionamenti filosofici ascoltati,  incentrati sulla realtà anche nel suo rapporto misterioso con la verità.  Non potevamo non guardare la realtà intorno a noi con occhi diversi, immaginando che  essa ci apparisse oltre la sua latenza, e ci disvelasse la verità.

Nel palazzo monumentale dell’Accademia di San Luca abbiamo percorso  la rampa a spirale del Borromini, lungo le pareti
abbiamo passato in rassegna le opere grafiche e  scultoree della mostra,  aperta dal 13 ottobre 2016 al 13 gennaio 2017, “Roma-Parigi. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi”, 130 opere tra quadri e disegni, rilievi e sculture sui concorsi delle due accademie, l’Accademia di San Luca e l’Accademia di Francia, tra la metà del ‘600 e l’inizio dell”800, periodo in cui stavano per fondersi in un europeismo “ante litteram”. Il sodalizio di artisti delle due accademie era rafforzato dal principio condiviso dell’unità nel disegno delle tre arti, pittura, scultura e architettura. Sempre nel Palazzo Carpegna, verso l’uscita abbiamo visitato altrre due mostre collegate, aperte dal 26 ottobre 2016 al 25 febbraio 2017, “Il Grand Tour, Alvaro Siza in Italia. 1976-2016” e “La misura dell’Occidente, Alvaro Siza -Giovanni Chiaramonte”, disegni, planimetrie progettuali e fotografie di architetture molto particolari, con un gran numero di schizzi di eccellente fattura, un vero spettacolo di arte grafica e fotografica.

La realtà ha continuato a presentarsi a noi in forma di arte, come è sua natura in modi molteplici, e siamo rimasti ancora nella “total immersion” filosofico-artistica, presi nei sensi e nella mente.   

Infine siamo usciti “a riveder le stelle”, ci siamo immersi di nuovo nella realtà quotidiana. Ma non ci è sembrata più la stessa di prima. Forse perchè dopo la magica mattinata all’Accademia di San Luca nel trentennale della Fondazione, che ci ha fatto penetrare nel  pensiero filosofico trasfuso nell’arte del grande Giorgio de Chirico. siamo noi a non essere più gli  stessi.  

Info 

Accademia di San Luca, piazza Accademia di San Luca 77,  Roma. Tel. 06.6798850. Orari: Biblioteca lunedì-venerdì ore 9,00-19,00, sabato 10,00-14,00 ; Galleria  lunedì-sabato ore 11-19. Casa Museo Giorgio De Chirico, sede della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, Piazza di Spagna  n. 31, visite guidate  in italiano-inglese, gruppi di 10 in 3 turni, ore 10-11-12,  da prenotare a prenotazione@fondazionedechirico.org,  tel. 06.6796546. Biglietto, intero euro 7, ridotto euro 5 per under 18 e over 65, gratuito under 12. Il primo articolo sul Convegno è uscito in questo sito il 17 dicembre 2016.

Per le mostre di De Chirico dal 2009 cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, ela mostra parallela “L”Enigma dell’ora di Paolini, con de Chirico al  Palazzo Esposizioni” 10 luglio (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013, articolo a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418;  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. 

Foto

Le immagini  presentano una serie di inquadrature dei diversi ambienti della Casa Museo Giorgio De Chirico. Sono state tratte da siti web di pubblico dominio, precisando che sono inserite a titolo meramente illustrativo e che non vi è alcuna finalità promozionale e tanto meno economica,. Si ringraziano i titolari dei siti, assicurando che se qualcuno di loro non gradisse la pubblicazione, la relativa immagine verrà immediatamente eliminata su semplice richiesta. Ecco i siti nell’ordine di successione delle rispettive immagini inserite nel testo: artlife.com,  arttribune.it, contemporarydaily.it, desireememoli.it,  scoprendoroma.it, tripadvisor.com, italianways.it, rome-accomodationnet.it, rocaille.it, turismoroma.it.  

De Antonis, nella fotografia astratta un nuovo realismo

di Romano Maria Levante

 “Pasquale De Antonis – Fotografie astratte 1951-1957” , di Diego Mormorio, è il libro-catalogo a cura di  “Teramo nostra” – cui si deve il “Premio annuale per la fotografia cinematografica Gianni Di Venanzo” giunto alla XXI edizione, insieme ad una serie di iniziative culturali e ad attività per il recupero di valori del territorio come il Teatro antico di Teramo – pubblicato nel giugno 2003  in occasione della mostra realizzata a Teramo dalla benemerita associazione culturale.

Ce ne occupiamo a molti anni di distanza dalla pubblicazione appena l’abbiamo scoperta, avendo trovato il libro-catalogo non solo celebrativo dell’arte fotografica di Pasquale De Antonis,  ma rivelatore, perché rovescia quanto sembra acquisito e indiscutibile sui rapporti tra arte figurativa ed arte astratta, nella fotografia come nella pittura e nella scultura.  Non si tratta soltanto di teoria, le immagini di fotografia astratta di De Antonis – che illustrano l’articolo e commentermo prossimamente – consentono una verifica diretta di quanto affermato dall’autore  Diego Mormorio con dovizia di argomenti e di riferimenti. 

L’ampliamento di orizzonte rispetto all’astrattismo

Abbiamo definito rivelatore il libro-catalogo perché disvela quanto di più misterioso, e quindi incomprensibile, c’è nell’arte astratta  per il comune osservatore che non vi trova quei riferimenti alla realtà visibile  sempre presenti nell’arte tradizionale pur nelle sue tante varianti stilistiche alla ricerca della forma espressiva più consona ai tempi e al talento degli artisti: e sono tante, con i grandi capisaldi dell’arte classica, del ‘400 e del Rinascimento, e l’evoluzione incessante con  l’impressionismo e il divisionismo, il realismo fino al cubismo, forse l’ultimo avamposto del figurativo, ancora presente sia pure nella scomposizione anche drastica delle forme e dei volumi. 

L’astrattismo è invece la prima decisiva uscita dal figurativo, cui si aggiungono le trasgressioni dell’espressionismo e  del dadaismo, nonché di tante altre forme dal minimalismo al  concettualismo,  in un’arte contemporanea sempre più senza limiti né riferimenti a tendenze e correnti, che ormai si manifesta in forme inusitate fuori da ogni classificazione, se ne potrà vedere un’ampia rassegna nella “16^ Quadriennale di Roma”  al Palazzo Esposizioni di Roma, in cui 150 opere di 99 artisti italiani saranno riunite in 10 sezioni tematiche, in un ossimoro tra  libera creatività e catalogazione per temi.

Ma perché questo ampliamento di orizzonte all’indietro e in avanti nella considerazione dell’astrattismo cui si ricollega direttamente la fotografia artistica di De Antonis? 

Guardando avanti abbiamo fatto un cenno, con un riferimento alla mostra della 16^ Quadriennale romana, all’evoluzione irrefrenabile della creatività artistica che con i suoi eccessi supera sempre i limiti precedenti e fa rientrare l’astrattismo in confini ormai tradizionali senza più quel carattere di trasgressione che ha avuto allorché ha rivoluzionato l’arte.

All’indietro è andato Mormorio dopo aver definito l’astrattismo “il più radicale atto di ribellione  contro il razionalismo positivista ottocentesco,che affondava le sue radici nei modelli culturali – e dunque anche figurativi – elaborati a partire dal Quattrocento”.  Una ribellione che ha portato “al superamento degli schemi naturalistici e, dunque, anche alla dissoluzione dello spazio prospettico-matematico, cui è strettamente connessa l’invenzione della fotografia”.

Questi “schemi naturalistici” consistono nella rappresentazione esteriore, quindi “fotografica”, della realtà, che ha avuto il culmine nel Rinascimento, con derivazione diretta dall’arte classica, a differenza dell’arte orientale, dall’India alla Cina, con una “complessità che trascende il visibile”.

Nell’arte classica, come si vede nella scultura greca, la complessità è stata “invece azzerata dalla ricerca dell’istantaneità”, dando avvio al “cammino figurativo che porta alla fotografia e al cinema”. Mormorio cita il celebre “Discobolo” di Mirone nel quale lo scultore ha cercato di cogliere, e fissare sul marmo, “il moto fuggevole, l’espressione istantanea” dell’attimo immediatamente precedente il lancio del disco, come il più significativo per rendere il soggetto rappresentato.

Il sociologo tedesco  Hauser lo definisce  “momento pregnante”, ma Mormorio si chiede “quanto questo ‘momento’ sia effettivamente ‘pregnante’, quanto cioè esso corrisponda all’etimo della parola, vale a dire, sia gravido di vita”. E dà subito una risposta precisa, ricordando che :invece “è stato praticamente considerato da molti una falsificazione della realtà, una caduta nella pura esteriorità e, conseguentemente, dalla vita presa nella sua interezza”, sin dalla fine dell’Ottocento, allorché “questo momento raggelato, fotografato, ha cominciato a risultare innaturale”.

E qui comincia a dispiegarsi la rivelazione, il rovesciamento di quanto percepito dall’osservatore. La prospettiva, che sembra la massima aderenza alla visione effettiva, diventa invece “un’ardita astrazione della realtà”, cioè un allontanamento laddove sembrerebbe il massimo accostamento. Intorno al 1930 Erwin Panofsky ne spiega i motivi, lo spazio “costante e omogeneo” della prospettiva  riflette una realtà deformata dal fatto che il nostro occhio non è immobile e non dà la “visione piana” della realtà, ma soprattutto dalla differenza tra tale spazio “costante e omogeneo”,  di tipo “matematico”, e lo spazio “psico-fisiologico”, addirittura “antinomici” tra loro.

Quindi c’è “una fondamentale discrepanza tra la ‘realtà’ e la costruzione” , che si manifesta nel figurativo e perfino nella fotografia ancorata alla stessa visione prospettica e naturalistica contraddicendone l’assoluta verisimiglianza, che è solo  apparente, quindi ingannevole.  

L’arte astratta nella rappresentazione della realtà

Sin dal 1924  Pavel Florenskij aveva  relegato la prospettiva alla matematica e all’architettura negando ad essa ogni valore nella rappresentazione artistica del mondo reale che presuppone più punti di vista e non una visione monoculare, uno sguardo non fisso ma frutto dei movimenti degli occhi, della testa e del corpo; e cita l’arte egizia, in particolare funeraria,  iconica, che coglie i tratti ideali  in una visione di carattere metafisico al di là del lato empirico, riconoscibile in Kandinskij e Malevic. Perciò era contrario alla fotografia che non poteva rendere il movimento e non concepiva il ritratto come unica immagine incapace di esprimere i tanti aspetti della personalità.

L’arte astratta nasce da questa esigenza. A differenza del modo di guardare “fotografico” della tradizione, scrive Mormorio, “invece la pittura d’icone è  un universo metafisico. Il quale educa a guardare le cose con un terzo occhio puramente spirituale”.  Si tratta di un “antinaturalismo” nato dalla constatazione che non si può rendere la realtà cercando di riprodurla e per esprimere la creatività bisogna cercare forme nuove.

Malevic, citando episodi occasionali per lui rivelatori, arriva a sostenere che “tra l’arte di creare  e l’arte di ripetere la differenza è grande” e che “la forma intuitiva deve scaturire dal niente”. Anche Kandinskij da episodi occasionali trae conclusioni analoghe: “Seppi allora inequivocabilmente che gli oggetti nuocevano alla mia pittura”.  Mormorio così commenta: “Per Malevic, l’artista deve trovare nella natura  non oggetti da riprodurre, ma lo stimolo a creare forme che non hanno niente in comune con la natura”, e aggiunge: “Di fatto, Malevic. Kandinskij, e gli astrattisti in generale  percepiscono la realtà fisica nella sua effettiva complessità”. Che non è riconducibile alla riproduzione più o meno fotografica ma comunque naturalistica: “L’arte astratta è, dunque, un tentativo di superamento della realtà fenomenica per giungere alla luce del pensiero”, addirittura “alla capacità dell’uomo di percepire l’assoluto”.

Se questa è l’arte astratta, “a una prima osservazione si potrebbe dire che tra la fotografia e l’astrattismo esiste una distanza incolmabile”, e Mormorio lo spiega sottolineando  che essa “è intimamente connessa alla realtà fisica. Essa ha cioè sempre bisogno di un soggetto: di qualcosa che stia di fronte al fotografo. Di qualcosa che l’obiettivo fotografico o il materiale sensibile possano percepire”.

Da un non-oggetto, la luce,  fotogrammi, rayogrammi e vortofotografie

Anche il pittore si può ispirare alla realtà che vede, ma non è legato ad essa, può liberare la sua fantasia, mentre il fotografo può soltanto documentare una realtà fisica cercando di creare una “realtà immaginativa”  che la trasfiguri ma non la ignori. “La fotografia ha bisogno di oggetti . Con una sola eccezione: la luce. Al pari del  suono, infatti, la luce è una realtà fisica senza essere un oggetto. Ed è proprio in questo non oggetto – la luce – che l’astrattismo pittorico e quello fotografico trovano il loro punto di unione. E’ grazie alla luce che la fotografia può essere astratta. Può cioè raggiungere la capacità di percepire
la realtà sottile e superiore. La luce è, infatti, all’origine di tutto. E di ogni cosa, l’essenza”. Ricordiamo la creazione, “fiat lux, e la luce fu”.

La luce è un’energia che si propaga dalla fonte generatrice irraggiando tutt’intorno, è incorporea ma collegata alla materia che la genera e la trasmette, l’assorbe, la riflette e la diffonde. E’ il “non- oggetto che costituisce forse il maggior punto di attrazione dell’arte fotografica, il più straordinario soggetto della visione. Un non-oggetto che riconduce a ciò che è all’origine del nostro vedere tutte le cose, alla stessa meraviglia dell’esistenza”. Ed è proprio su queste caratteristiche della luce che si fonda la straordinaria bellezza della fotografia astratta”, parole dello stesso Mormorio nella voce “luce” dell'”ABC della fotografia”.  

Sono rivelatrici di un percorso nel quale Mormorio ha il grande emerito di accompagnare passo dopo passo alla scoperta delle motivazioni recondite di un’arte, quella astratta,  spesso incompresa o peggio, e della sua espressione nella fotografia.  Lo seguiamo ancora nel suo itinerario sapiente quanto originale ed istruttivo che entrando nel campo della fotografia prepara all”arte fotografica astratta di De Antonis.

A questo punto occorre citare i precursori, primo tra essi Laszlo Moholy Nagy, poeta e artista ungherese che, lasciò il realismo espressionista interessandosi al suprematismo e costruttivismo di Malevic, El Lissitsky e Rodcenko, il fotografo russo celebre per le sue inquadrature oblique; e prestò attenzione alla fotografia come segno di modernità accostando dipinti di pittori d’avanguardia a fotografie di automobili e orologi, eliche e dinamo, ma soprattutto  dedicando un interesse tutto particolare alla luce mediante composizioni con lastre di plastica trasparenti  poste davanti a pannelli bianchi dove si disegnavano dei giochi di luce mutevoli. Da questi primi tentativi, con l’influsso di dadaisti e cubisti, nacque il “fotogramma”, fotomontaggio senza macchina fotografica. L’artista lo definisce così: “Il fotogramma  è l’azione della luce durante un determinato periodo di tempo: vale a dire il movimento della luce nello spazio”; la luce “produce spazio” senza strutture ma con i mezzi toni del nero e del grigio, “che avanzano e recedono mediante la forza irradiante dei loro contrasti e delle loro sfumature sublimi”. 

Mormorio sottolinea che “le forme create dal fotogramma sono simili alla musica”, potremmo definirle una musica luminosa. “Come la musica, attraverso l’impalpabile, il fotogramma giunge alla forma. Sta qui il miracolo dell’esperienza di Laszlo Moholy Nagy. Un miracolo che è tale nel suo essere interamente sperimentale”, un risultato  “del tutto consapevole e deliberato”.  La tecnica del fotogramma, descritta da Nagy con precisione, consisteva nell’esporre alla luce dei corpi con grado di rifrazione diverso o nel deviarla in vario modo, davanti a una lastra sensibile, anche senza camera fotografica, su cui  si fissano le luci e le ombre filtrate dagli oggetti. “Per questa via si rendono possibili composizioni luminose dove la luce, nuovo mezzo creativo alla stessa stregua del colore in pittura e del suono in musica, si lascia padroneggiare perfettamente”.

Man Ray, l’altro grande precursore, giunse invece casualmente alla scoperta del “rayograph”, allorché sviluppò per errore, senza volerlo, un foglio di carta sensibile non impressionato e  vide formarsi un’immagine deformata di oggetti su cui si rifletteva la luce. Interessato dal fenomeno fece altri tentativi, ottenendo immagini che  Tristan Tzara,  appena le vide in una visita al suo studio, definì  “purissime creazioni dada”,  considerandole superiori ai precedenti  tentativi di Christian Schad che nel 1921 aveva posto sulla carta sensibile strisce di carta e pezzi di spago. 

Prima c’erano state le “vortofotografie” del 1916-17 del grande fotografo Alvin London Coburn, che furono commentate addirittura da Ezra Pound, il poeta tanto discusso per motivi politici, il quale descrive come, attraverso il “vortografo”, strumento inventato nel 1916, abbia trasferito nella fotografia  lo stile pittorico del  cubismo e del vorticismo, movimento fondato nel 1914 in Inghilterra.

In realtà, più che di uno strumento, si trattava di tre specchi a forma di prisma con cui venivano ottenute immagini nelle quali il poeta, a somiglianza delle note musicali e delle variazioni cromatiche, vedeva la “bellezza e l’espressività di una combinazione di forme”; e attribuiva alla fotografia un proprio “statuto estetico” superando i pregiudizi della sua  non artisticità e della necessità di riferirsi alla pittura. Mentre la “vortofotografia”, alla quale Pound attribuisce un ruolo pionieristico come lo ebbero gli studi di anatomia nella tradizione accademica, si distaccava dalla fotografia pittorialista, da lui definita  “piatta e provinciale”.

Le sperimentazioni successive in Europa e un precursore di fine ‘800

L’itinerario che Mormorio ci ha fatto ripercorrere approda finalmente alla fotografia astratta con Jaroslav Rossler che operava a Praga negli anni dei “fotogrammi” di Nagy e dei ” rayogrammi” di Man Ray, seguiti alla”vortografia” di Coburn. Fino all’inizio degli anni ’40  si moltiplicano poi le sperimentazioni in molti paesi europei, in Germania con Nerlinger, Cavael e Schulze e in Svzzera con Hausmann, in Olanda con Zwart e in Belgio con Ubac, in Polonia con Roszak e in Serbia con Bor, in Ungheria con Kepes e in Italia con Luigi Veronesi.

Siamo giunti al periodo in cui ha operato  De Antonis, la cui esperienza  astrattista ha inizio nel 1951, dopo un quarto di secolo di fotografia.  Ma prima di entrare nel suo mondo fotografico astratto un ultimo riferimento ai precedenti di fine dell’800, i veri precursori.

Ha precorso i tempi il noto scrittore August Strindberg che realizzò nel 1890 le “cristallografie” mettendo  i fiori di ghiaccio a contatto della carta sensibile e nel 1892 le “celestografie” impressionando direttamente sulla carta fotografica “il movimento della luna e il vero aspetto della sfera terrestre libero dalle deformazioni del nostro occhio ingannevole”, immagini che colpirono il pittore Edward Munch quando conobbe lo scrittore a Berlino nello stesso 1892.  Le parole di Strindberg nel racconto del 1903 “Fotografia a filosofia”, citate come le altre prima riportate da Mormorio, sono la migliore premessa alla visione diretta delle immagini di fotografia astratta: “Da un negativo si ottiene un positivo, lì le ombre tornano ad essere luce”. Ovvio ma basilare.

Lo vedremo prossimamente dalle opere del nostro fotografo astratto Pasquale De Antonis.

Info

Mostra “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”,  svolta  a Teramo nel 2003, pomossa da Regione Abruzzo, Provincia e Comune di Teramo e Bacino Imbrifero Montorio al Vomano-Tordino, organizzata da “Associazione Culturale Teramo Nostra”  presieduta da Piero Chiarini. Catalogo: Diego Mormorio, “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”, Teramo Nostra, 2003, pp. 120, formato  21 x 27, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo; il catalogo ha avuto a suo tempo il Premio internazionale che viene conferito a Orvieto. Il secondo e ultimo articolo, sull’arte fotografica di De Antonis, dai ritratti classici alle fotografie astratte, uscirà in questo sito il  29 dicembre p.v. Cfr., in questo sito, i nostri rticoli: per una fotografia molto diversa da quella astratta, la fotografia cinematografica, l’articolo sul XXI Premio intitolato a Gianni Di Venanzo organizzato anch’esso da “Teramo Nostra”, del 28 novembre 2016; per le correnti e gli artisti citati nel testo, gli articoli sulla “16^  Quadriennale di Roma”  16 giugno, 24, 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016, su impressionisti e moderni 12, 18 gennaio 2016, sul cubismo 16 maggio 2013, sull’astrattismo 5, 6 gennaio 2012, sul minimalismo, la pop art e altre avanguardie del ‘900 inel Guggenheim 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012; in fotografia.guidaconsumatore.it, su Rodcenko 2 articoli il 27 dicembre 2011; in cultura.inabruzzo.it,  su dadaismo ed espressionismo 6, 7 febbraio 2010 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state tratte dal Catalogo, si ringrazia “Teramo Nostra” con il presidente Piero Chiarini e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le 12 immagini – l’artista intitola le 51 foto astratte con un numero romano da I a LI, aggiungendo solo data e tecnica utilizzata – riguardano tutte la fotografia astratta di De Antonis con riferimento ai 4 gruppi della sua evoluzione tecnica; alla sua fotografia astratta saranno dedicate anche le ultime 5 immagini del 2° articolo, mentre le 7 immagini iniziali riguarderanno la sua ritrattistica classica. In apertura, gruppo I, 1951, Stampe bromuro d’argento da negativo, “V”: seguono, sempre gruppo I e 1951, stessa tecnica, “VI”  e  XIV”; poi, ancora gruppo I, 1951, ma Fotografia diretta su carta invertibile, “XVIII”, e gruppo II, 1957, Fotografia diretta su carta bromuro d’argento, IX” ; quindi, anora gruppo II ma 1956, Fotografia diretta su carta invertibile, “XV”,  e 1957, Fotografia diretta su carta bromuro d’argento “XXXII”,”XXXIII”; inoltre, gruppo III, “XIX”, 1956, Fotografia diretta su carta invertibile,  e gruppo IV, 1957, Stampe da negativo, “XXV” e XXIX”; in chiusura, ancora gruppo IV e 1957, stessa tecnica, “XXX”.  

De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione

di Romano Maria Levante

All’Accademia di San Luca a Roma  la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico ha celebrato i primi 30 anni di attività il 22  novembre 2016 con un Convegno nel quale il presidente Paolo Picozza ha  ripercorso il lungo cammino per la tutela e la divulgazione dell’opera del  grande artista,; poi è stato presentato da Fabio Benzi  il numero celebrativo delle riviste “Metafisica” e  “Metaphysical Art” con la pubblicazione della prima traduzione in inglese della “Commedia dell’Arte moderna” e del corpus delle poesie di De Chirico, e si è svolta una discussione  filosofica tra professori ordinari delle Università di Milano, Firenze e Roma, Massimiliano Donà, Sergio Givone e Giuseppe Di Giacomo con gli interventi di Riccardo Dottori e Claudio Strinati, del Comitato scientifico della Fondazione, sul tema del  Convegno “Fine della Bellezza? Dibattito tra arte classica e moderna”. Nei tre giorni precedenti, dal 18 al 21 novembre, l’invito alla  Casa-museo di Giorgio de Chirico a  Piazza di Spagna, con visite gratuite  di mezz’ora per gruppi di 15 persone senza prenotazione.

L’attività della Fondazione e le pubblicazioni nel trentennale

E’ stata una mattinata densa di contenuti e fonte di emozioni quella del 22 novembre, quando si è entrati nel mondo di De Chirico gradualmente, iniziando con il  racconto del presidente Paolo Picozza che ha fatto rivivere l’attività della Fondazione tra molte difficoltà ma con il risultato di aver svolto un lavoro non solo di divulgazione ma anche di recupero delle opere del Maestro – 300  sono state riportate in Italia – con il vanto di non aver fatto nessuna vendita ma solo acquisizioni, per cui la Fondazione dispone di un grande patrimonio artistico avendo risolto altrimenti i problemi economici.

Ha anche donato  24 opere alla Galleria Nazionale  d’Arte Moderna, il museo con cui l’artista ebbe un rapporto controverso, celebrato nella mostra del 2009 presso la stessa galleria.

La Fondazione, sorta  nel 1986, inizialmente si è impegnata sul piano culturale,  nel centenario della nascita dell’artista ha promosso la ricerca critica di Maurizio Calvesi,  si è battuta in merito alla problematica vero-falso  sulle sue opere, soprattutto le  più recenti, come falso da contraffazione o presunto falso d’autore nella datazione.   

Una svolta si è  avuta nel 1998 con l’apertura della Casa-Museo, nella residenza che l’artista, nelle “Memorie della mia vita” definì così: “Dicono che Roma sia il centro del mondo e che piazza di Spagna sia il centro di Roma, io e mia moglie quindi si abiterebbe  nel centro del centro del mondo, quallo che sarebbe il colmo in fatto di centralità e il colmo in fatto di eccentricità”.  Quindi la pubblicazione  di un suo romanzo inedito e  di una nuova edizione delle “Memorie della mia vita”  con la prefazione di Carlo Bo, l’organizzazione di mostre  in Italia, come quelle a Milano e a Taranto, all’estero, in particolare in Belgio e a Buenos Aires; la prestigiosa rivista “Metafisica” , con l’edizione in inglese “Metaphysical Art”, ha consentito di diffondere la conoscenza di importanti carteggi di De Chirico e  di suoi testi teorici anche sul rapporto tra arte e filosofia, centrale nell’opera del Maestro,  il quale nei suoi  scritti si richiama soprattutto  a Schopenauer e a Nietsche. 

Della rivista “Metafisica”  ha parlato Fabio Benzi,  ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea dell”Università di Chieti-Pescara, definendola “fondamentale prodotto della Fondazione”, i cui contributi hanno posto pietre miliari e aperto nuovi scenari nella ricostruzione  dell’opera di De Chirico, non solo artistica ma anche critica.

Le molteplici residenze della sua vita  hanno portato alla perdita di molte testimonianze scritte e di documenti originali, tuttavia c’è tanto da scoprire e tanto su cui indagare, per un artista dalle forti radici europee. Con l’edizione inglese della rivista, “Metaphysical Art”  si può diffonderne la conoscenza universalmente, superando le limitazioni dell’italiano di cui si rendeva conto lo stesso artista, che era veramente cosmopolita:  nato in Grecia, educato in Germania, vissuto per lunghi periodi in altri paesi, oltre all’Italia, in città come Roma e Parigi, Londra e New York,  fino a parlare  ben cinque lingue da  cittadino del mondo come nessun altro artista del ‘900 e a scrivere nella lingua del paese dove risiedeva al momento.  

Benzi  ha poi illustrato i contenuti del numero speciale per il trentennale con gli scritti di De Chirico “Commedia dell’Arte
Moderna”
, e il corpus poetico, nonché scritti critici di Lorenzo Canova,  presente al Convegno, Claudio  Strinati e Riccardo Dottori, del Comitato scientifico, che hanno aperto e chiuso il dibattito filosofico-artistico. 

Il dibattito filosofico su contenuti e significati dell’arte classica  e moderna.

Claudio Strinati, il noto storico e critico dell’arte, ha ricordato che diversi artisti si sono segnalati per  i contenuti culturali, e
in particolare filosofici, inscindibili da quelli strettamente artistici dello loro opere e ha citato gli artisti del Rinascimento, soprattutto Leonardo e Michelangelo, ricordando che nel ‘900 si è parlato di “senso-iconologico dell’arte”, rispetto al suo contenuto più profondo.  

De Chirico, cui viene associato il filosofo Heidegger, si muoveva a livello filosofico anche se veniva coinvolto in polemiche come quelle sui falsi che lo  inseguivano, mentre  vero e falso per lui erano due facce della stessa medaglia che si ricollegava al suo pensiero filosofico.  

Strinati introduce il tema del Convegno osservando che il problema della fine della bellezza se lo pose già De Chirico  anche a livello teorico,  tanto che considerava  l’arte “uno scrigno prezioso e sacrale”, e il dibattito tra classico e moderno era al centro del  suo pensiero filosofico e della sua espressione artistica che culmina nella metafisica, con l’enigma e la reiterazione di  sue tematiche basilari.  

Parla di mistero anche nel suo testamento, oltre che nel titolo del “Bagni misteriosi”, con riferimento al grande tema del rapporto tra classicità e modernità, sottolineando l’esigenza di un ritorno alla concezione sacrale dell’arte che aleggia nelle sue opere.  “La Fondazione tiene accesa questa fiaccola, con la dimensione speculativa della concezione sacrale dell’arte”, e lo fa significativamente nell’Accademia di San Luca con cui De Chirico ebbe un rapporto molto contrastato.  “Oggi sarebbe contento che se ne parli proprio qui”, ha concluso Strinati.

Entrando nel vivo del pensiero filosofico-artistico,  Massimiliano  Donà, ordinario di Metafisica e Ontologia dell’arte all’Università San Raffaele di Milano, ha parlato del “mistero della forma”, intesa come “disegno del contorno dello spettro”, che in quanto tale riassume in sé l’evidenza di “non appartenere a questo mondo, la forma è evidente e nel contempo irreale”.
Viene “ripulito il fenomeno dal troppo”, per l’evidenza dell’irrealtà, “la forma non appartiene a questo mondo e si fonde con l’atmosfera che la circonda”.  

Solo nell’artista c’è una visione che gli consente di liberare l’esistente dalla durezza e dalle incrostazioni che presenta, in una accezione platonica. E come? “L’artista rende le cose essenziali nella loro individualità, mentre noi le guardiamo nella loro universalità”,  secondo l’uso che ne facciamo.  

Invece l’oggetto reso artisticamente non è qualcosa di generico, bensì di molto specifico, individuale, liberato dalla durezza e
dal senso logico; se resta nel senso comune non riesce ad emergere. Bisogna guadagnare “l’insensata e tranquilla bellezza della materia” con una visione ambivalente: capire che la cosa è fusa con l’atmosfera che la circonda, quindi con  il contesto nel quale si trova; e separarla dall’utilizzo pratico scindendola dalla relazione astratta con il contesto, come parte di un tutto.

“Il vero artista è quello che separa l’inseparabile, il positivo dal negativo, l’essere dal non essere, sa qual è la vera forma e sa liberarla dai suoi significati pratici, sa mostrare nel non essere della forma quello che è veramente”.

Di qui la “magicità” della forma, che a differenza del ‘logos’ non ha bisogno di essere spiegata, almeno quella classica perché gli artisti moderni invece si affannano a dare spiegazioni.  “Il mistero dell’esistenza risiede nell’oggetto stesso”, nella realtà contingente, non nell’infinito.  

Anche Sergio Givone, ordinario di Estetica all’Università di Firenze, sia pure in modo diverso, evoca la compresenza di opposti.  Lo sguardo dell’artista è  “accecato come in un mare di nebbia,  nella  pochezza e impotenza verso l’infinito, ma nello stesso tempo illuminato da una luce interna quando l’infinito entra in noi e  illumina la mente”, fino al sublime kantiano. L’infinito hegeliano è “quel tutto che è al tempo stesso se stesso e altro da sé”, per questo dobbiamo liberarcene. 

De Chirico con la sua capacità rabdomantica di cogliere il valore della filosofia, oltrepassa questo concetto di infinito: “Se l’infinito è tutto e più di tutto, se lo pensiamo al plurale usciamo dall’aporia hegeliana, vuol dire pensare come paralleli il tutto e il suo al di là che dà un senso al tutto”. Non si riferisce né a Kant né ad Hegel, e allora ci si chiede: come fa i conti con loro, e con l’infinito?  Mostra una impressionante  consapevolezza di questa problematica filosofica e si riferisce a Schopenauer  e Nietsche per il concetto di infinito, dove nasce dissolvenza e dissoluzione della realtà, e il fenomeno nella sua realtà attuale è diverso dall’uso che se ne fa, in quanto individuale ed unico. Tornano così alcuni dei concetti espressi dal primo filosofo intervenuto. 

Il passaggio chiave di De Chirico sta nella trasformazione del concetto di infinito, che va superato nel concetto di vuoto: “Non si tratta del contorno della realtà né del principio di identità, ma il contrario, secondo cui l’essere si qualifica rispetto al non essere”. L’infinito va portato sulla cosa reale che si identifica rispetto al vuoto intorno ad essa. E determina lo svuotamento del senso del mondo, secondo cui le cose ci appaiono nel loro uso, in base al principio di causa ed effetto su cui si basa la nostra esperienza legata alle relazioni di spazio e tempo;  almeno questo è quanto possiamo dire della realtà fenomenica.  “L’arte ci fa conoscere le cose fuori da tale principio e dalle relazioni connesse, restituisce alle cose la loro inspiegabilità, ce le offre a un godimento puro e libero”. L’arte è “restituzione dell’enigma alle cose”, e sappiamo bene come De Chirico riesca a renderlo in modo magistrale, in particolare con la sua pittura metafisica.  

Questo concetto si ritrova in Nietsche, secondo cui “la conquista dell’insensatezza delle cose fa sì che vengano ritrovate e siano degne di considerazione”.  Soltanto così  “riposano nel loro tranquillo essere in quello che sono, senza i significati che si vogliono dare loro, in un luce misteriosa che è compito dell’arte mostrare”.

Il filosofo tedesco sente l’enigma più che il mistero, vi vede un orizzonte che ci sfugge, come l’infinito, ma l’enigma può essere decifrato disponendo della chiave interpretativa. Le cose possono esserci  restituite nella loro enigmatica misteriosità sottraendole al principio di causalità e “precipitandole nel vuoto”. Cioè   “vanno riconquistate a partire dal vuoto, che si sostituisce all’infinito della pittura tradizionale, cercando di raggiungere l’origine delle cose nella loro insensatezza, in modo da rivelarle nelle bellezza pura e insensata della natura espressa nell’arte”.   

E’ la concezione che segna la fine del romanticismo, come movimento nel quale  si è cercato di simulare  l’infinito. rappresentandolo mediante la prospettiva.  Per De Chirico deve finire  il “mare di nebbia”, si intende terminato il percorso della pittura dal Rinascimento al Romanticismo nel segno della prospettiva e dell’infinito, irrompe l’enigma e il mistero, “l’irreale che libera il reale dalla sua identità e condanna le cose ad essere sé stesse, in tal modo in esse appare dell’altro”. 

L’artista fa una “metafisica del non senso e del nulla”, perché la realtà è inafferrabile, avvengono cose non riconducibili
all’esperienza ma la trascendono e non sono visibili. E pongono domande cui è impossibile rispondere. Non è nichilismo ma liberazione, per il senso della vita si cita Schopenauer che ne ha rivelato l’insensatezza, mentre Nietsche vi vede la capacità di emozionare.

C’è una dimensione lontana da cui vengono le cose,  “come altro da sé, irriducibili al significato che diamo loro, così la pittura mostra il non essere e assume un carattere sacrale”.

E poi c’è l’atmosfera,  in cui è collocata la forma, e a questo riguardo Givone cita i diversi significati della parola ‘Kairos’, che nel greco antico riguarda “il tempo sottratto al divenire, ‘sub specie aeternitatis'”, mentre nel greco moderno “il tempo atmosferico”, da qui la scienza della kairologia che lo studia. Proprio nel tempo atmosferico, non eterno, l’essere è altro da
sé, solo in questo vuoto di senso irreale la forma rivela se stessa.  De Chirico, da sensibile rabdomante, vede come la forma mostra la sua essenza nel momento in cui si fonde con l’atmosfera così intesa.  

Il tempo di riprendere fiato dopo questa immersione nelle profondità della filosofia applicata all’arte, e  Giuseppe Di Giacomo, ordinario di Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma,  approfondisce il tema del Convegno facendo riferimento a un altro filosofo, Adorno. Nell’arte tradizionale la bellezza è vista come possibilità di vincere il tempo, i movimenti d’avanguardia l’hanno rimossa scambiando la novità con l’arte. De Chirico, che aderisce a tale concezione,  ha recepito l’arte tradizionale, compresa l’arte classica dal ‘300 all”800 ponendosi tra la tradizione e la modernità in modi e forme da  pittore moderno. Picasso ha sbloccato l’arte ma non ha avuto il coraggio di abbandonare il mondo reale. 

L’arte ha a che fare con il non senso, ad  esempio nel “recupero della tradizione con il suo rovesciamento”. Nella pittura metafisica c’è “la capacità di cogliere l’altro nelle cose”, in una visione filosofica, che fa esclamare: “Possa Dio dare al
filosofo lo sguardo acuto  per vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti e che non vedono”. E cos’è questo “altro” rispetto al visibile? Il cogliere l’irreale nel reale, e in tal modo “irrealizzare il mondo”.     

Perciò la pittura di De Chirico non ha più a che fare con il sensibile e neppure con il logos, il razionale, caratteristici dell’arte classica.:”Al posto del sensibile c’è il segno, come collegamento tra l’insignificante e il significato”. Qui nascono le statue senza testa o senza volto, l’immobilità delle figure anche di ispirazione classica, come testimonianza della totalità, in forme non classiche. La metafisica viene dal guardare le cose per la prima volta in modo diverso, del resto nacque quando De Chirico dinanzi alla statua di Dante  inella piazza fiorentina con la  chiesa di Santa Croce, ebbe come una rivelazione, cogliendo nel particolare cose mai viste prima e sensazioni mai provate prima.  

Viene citata la finitezza del tempo e della vita che fa sentire l’infinito, e al riguardo nell’opera d’arte c’è “l’enigma che è senza soluzione,  più si cerca di spiegarlo, più si rinchiude in se stesso e resta irrisolto”. Per questo,  un elemento centrale delle composizioni in esterno di De Chirico è che sono viste al tramonto, “il momento della giornata in cui si vede e non si vede, qualcosa di indecifrabile che non si può spiegare né definire. Le sue figure vivono in un mondo senza senso, il non senso è il senso della vita”.   

Così le “Muse inquietanti”, senza tempo, hanno corpi che inquietano perché non familiari, come fossero in attesa di qualcosa in un set teatrale; ma quando il palcoscenico si apre non c’è nessuno, è vuoto, siamo oltre l’arte classica e tradizionale, l’arte di  De Chirico è la liberazione dell’assoluto nel particolare. Attraverso la forma sciolta dal suo significato l’artista testimonia la  realtà, anche attraverso la disumanizzazione, con la perdita dell’essere a testimonianza di un mondo che ha perduto la misura dell’umanità”.

Dopo questo tris d’assi di elevate dissertazioni filosofico-artistiche, la parola a un altro professore ordinario,  Riccardo Dottori,  che come membro del Comitato scientifico ci riporta alla Fondazione De Chirico. Ne daremo conto prossimamente, completando  il poker d’assi del dibattito filosofico.  

Info

Accademia di San Luca, piazza Accademia di San Luca 77,  Roma. Tel. 06.6798850. Orari: Biblioteca lunedì-venerdì ore 9,00-19,00, sabato 10,00-14,00 ; Galleria  lunedì-sabato ore 11-19. Casa Museo Giorgio De Chirico, sede della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, Piazza di Spagna  n. 31, visite guidate  in italiano-inglese, gruppi di 10 in 3 turni, ore 10-11-12,  da prenotare a prenotazione@fondazionedechirico.org,  tel. 06.6796546. Biglietto, intero euro 7, ridotto euro 5 per under 18 e over 65, gratuito under 12. Il secondo e ultimo articolo sul Convegno uscirà in questo sito il  21 dicembre 2016. Per le mostre di De Chirico dal 2009 cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386.

Foto

Le immagini  presentano una serie di inquadrature dei diversi ambienti della Casa Museo Giorgio De Chirico. Sono state tratte da siti web di pubblico dominio, precisando che sono inserite a titolo meramente illustrativo e non vi è alcuna finalità promozionale e tanto meno economica. Si ringraziano i titolari dei siti, assicurando che se qualcuno di loro non gradisse la pubblicazione, la relativa immagine verrà immediatamente eliminata su semplice richiesta. Ecco i siti nell’ordine di successione delle rispettive immagini inserite nel testo: contemporarydaily.it, arttribune.it, viaggiatricecuriosa.it, zerodelta.net, artlife.com, desireememoli.it, f italianways.it, turismoroma.it, latitudinex.com, ibc.regione.emilia-romagna.it 

16^ Quadriennale di Roma, 5. Confronto tra curatori vent’anni dopo

di Romano Maria Levante

Alla Sala Cinema del Palazzo Esposizioni di Roma,  nella mattinata di  domenica 27 novembre 2016, si è svolto l’incontro ”1996- 2016, la Quadriennale d’arte vent’anni dopo: curatori a confronto”‘, moderatore il critico d’arte e curatore Ludovico Pratesi, intervenuti, soprattutto per la Quadriennale 1996,  Laura Cherubini, Giorgio Verzotti, e Daniela Lancioni, per la Quadriennale 2016 di cui sono curatori Cristiana Perrella, Denis Viva, e Luca Lo Pinto. Prima della conclusione,  l’intervento del presidente della Quadriennale di Roma Franco Bernabè, che ha seguito l’incontro come attento ascoltatore.

Le due Quadriennali, del 1996 e del 2016

I titoli delle due Quadriennali sono proiettati nel tempo: la mostra del 1996 era intitolata  ”Ultime Generazioni’‘, si svolse  non solo nel Palazzo delle Esposizioni ma anche nell’Ala Mazzoniana della Stazione Termini;  mentre questa del 2016, intitolata  “Altri tempi altri miti”, è esclusivamente nel Palazzo Esposizioni, anche se molte manifestazioni collaterali, collegate alla Quadriennale, si sono svolte e si volgono in diverse parti della città. Ricordiamo per tutte la “Rome Art Week” che dal 14 al 29 ottobre 2016 ha mobilitato il mondo artistico romano in 459 iniziative,  99 mostre di arte contemporanea, 207 eventi e 153 visite agli atelier di artisti. Per tutto questo c’è stato l’auspicio che l’Ala Mazzoniana possa essere recuperata come sede elettiva per mostre ed eventi d’arte.

Il moderatore Ludovico Pratesi ha ricordato che nella Quadriennale del 1996 erano presenti opere di 174 artisti, tra i  quali molti   “scoperti” in quella sede, che poi si sono affermati: nell’area milanese Mario Airò e Massimo Bartolini, Maurizio Cattelan e Grazia Toderi, Liliana Moro e Bruna Esposito, Vanessa Beecroft e Myriam Laplante, Annie Ratti e Gregorio Botta; nell’area romana Gianni Dessì e Nunzio, Piero Pizzi Cannella, Giacinto Cerone e Cesare Pietroiusti;  Alberto Di Fabio, Andrea Salvino e Matteo Basilè.  Era una rassegna di opere singole, incentrata sugli artisti, che diede luogo a una grande mostra collettiva.  Furono  ripristinati i premi, il primo assegnato a Stefano Arienti, gli altri a Studio Azzurro, Umberto Cavenago, Cristiano Pintaldi

Nell’attuale Quadriennale 2016, sono 99 gli artisti autori delle circa 150 opere esposte in 10 sezioni tematiche corrispondenti ai progetti curatoriali selezionati in base a una chiamata rivolta a curatori giovani ma già sperimentati. Le tematiche intorno alle quali sono raggruppate le opere individuate da 11 curatori sono motivi attuali o elaborazioni concettuali anch’esse figlie del presente, in modo da fornire una mappa di ciò che si muove nel contemporaneo soprattutto tra i giovani artisti, per lo più nati tra le due metà contigue degli anni ’70 e ’80. E’, quindi, una rassegna di opere a tema, incentrata sui progetti curatoriali che danno luogo a 10  piccole mostre collettive.  A questa classe di età appartengono i premiati, Rossella Biscotti, Premio Quadriennale 2016 e  Adelita Husni-Bey,  Premio Illy Under 35, Domenico Quayola  e Alek O. con due menzioni speciali.

Gli  interventi dei sei critici e curatori   

Più che di un confronto si è trattato di un incontro tra generazioni e modalità curatoriali, considerando che già nella Quadriennale del 1996 c’erano alcune premesse per l’evoluzione successiva; e non vi sono state divergenze tra le rispettive visioni, pur riferite a tempi molto diversi, dato che anche nel 1996 venivano discusse criticamente le concezioni di allora.

Nel grande schermo dietro  al tavolo degli oratori scorrono in sequenza le immagini delle due mostre, in quelle in bianco e nero della mostra del 1996 si possono vedere anche gli spazi dell’Ala Mazzoniana della Stazione Termini; le immagini della Quadriennale 2016 sono a colori, ma in quella di “Himalaya” 2012 di Maloberti sono visibili soltanto  i ritagli di illustrazioni scultoree sparsi sul pavimento, senza la “scultura umana” del giovane che all’inaugurazione tagliava le immagini, prova visiva dei problemi creati spesso dalla fretta di cui si è parlato nell’incontro, riguardo al  catalogo e agli apparati, quando si lavora in tempi stretti  per l’urgenza.

Inizia Laura Cherubini, chiamata “memoria  storica” della Quadriennale, preferisce definirsi “memoria critica” essendosi dimessa due volte  perché non si dava modo ai curatori di esercitare la pratica curatoriale, a cui ha sempre attribuito un’importanza basilare, in linea con le concezioni attuali, tanto che pone la presente mostra nella terna delle  migliori, quelle del 1992, 1996 e, appunto, del 2016.  Si  è sempre opposta alle “grandi ammucchiate”,  un altro intervenuto ha parlato di “calderone”, espressioni che  ci sono apparse una versione,  in campo artistico, della famigerata  “accozzaglia” nelle polemiche sul referendum costituzionale imminente.

E’  stata sempre contraria all’abitudine di affidare l’allestimento agli architetti,  perché così curatori e artisti non avevano voce in apitolo, mentre la “pratica curatoriale” è la migliore garanzia per un allestimento all’altezza delle opere esposte. Ritiene che siano importanti entrambi i termini: la “pratica” sottolinea l’esigenza di non improvvisare, deve essere frutto dell’esperienza, “va fatta gavetta, gavetta, gavetta”; solo così si crea competenza  e quindi qualità nelle scelte, e a tale proposito  ricorda con orgoglio di essere stata allieva di Giulio Carlo Argan ed essersi formata come assistente dai 19 anni di età di Maurizio Fagilo dell’Arco; “curatoriale”  rimanda alla cura, all’attenzione  che nasce dall’amore per le opere d’arte e per gli artisti, solo così si riesce a dare  loro la migliore visibilità.

Il secondo intervenuto, Denis Viva,, nella Quadriennale 2016 ha curato la sezione “Periferiche”, con artisti i quali  traggono stimoli e ispirazione da un mondo, dove hanno scelto di vivere, un tempo definito “policentrismo consapevole”, ma sempre più emarginato dalle dinamiche di crescita della globalizzazione. Da storico dell’arte è diventato curatore, la Quadriennale del 1996 non l’ha vista, ma dalle notizie raccolte ha tratto l’impressione che è stata una fase di “transizione” in cui il critico d’arte, fino ad allora “dominus”  assoluto,  ha cominciato a convivere con il curatore. Il critico d’arte sentiva l’esigenza di dare continuità, e lo esprimeva negli scritti, avvertendola come una responsabilità, in un ruolo di orientamento del pubblico in base a una  mappatura artistica in chiave geografica, o anagrafica o di tendenza. Con la mostra del 1996 è iniziata l’evoluzione verso quanto sviluppatosi appieno nell’edizione del  2016. 

Nell’attuale  Quadriennale, infatti, la mostra è incentrata su idee progettuali portate fino in fondo senza alcuna mappatura di artisti e senza la minima ricerca di continuità, tutt’altro. Gli artisti vengono riuniti intorno a un progetto curatoriale nel quale la visione si allarga anche ai temi politici e sociali più sentiti. Il ruolo dei curatori è nell’approfondimento dei temi e nel conseguente orientamento; e anche nell’allestimento che viene costruito insieme agli artisti intorno alle opere per rendere leggibile la mostra nei suoi contenuti e significati.

Con Cristiana Perrella  la parola resta a una curatrice della Quadriennale attuale,  dove ha  curato la sezione “La seconda volta”, ispirata al concetto di “economia circolare”, la rimessa in circolo con il riciclo delle sostanze utilizzate come avviene negli organismi viventi. Sottolinea come dalla Quadriennale  del 1996 a quella del 2016 si è completato il passaggio  da una rassegna di singole opere individuali molto personali di difficile lettura per il pubblico a un mostra di progetti curatoriali  che mette in relazione le opere tra loro e fa dell’esposizione un racconto rivolto ai visitatori.  Viene creato così un filo conduttore ben visibile tra gli artisti.

Giorgio Verzotti,  sulla presunta antinomia tra critico e curatore rivendica polemicamente di essere stato prima critico, poi è divenuto curatore, mentre non è mai stato storico dell’arte. E ricorda che nella Quadriennale del 1996 furono presentati artisti divenuti molto importanti, come Accardi, Fabro, e altri:  scelte naturali, afferma, da un punto di vista generazionale.  Sui cataloghi e gli apparati aggiunge che spesso i testi sono scritti in modo affrettato per l’urgenza, ma ci tiene a sottolineare che la scrittura non è solo “critica o critichese”, è un elemento duttile che va dal testo del Catalogo alle didascalie, molto importanti per spiegare l’opera. Quindi con la scrittura si può operare in senso progettuale.

Anche Luca Lo Pinto, definito il Catalogo come strumento utile, insiste sulla differenza metodologica e di contenuto delle due Quadriennali a confronto, l’elemento fondamentale che qualifica quella del 2016 è che gli 11 curatori, pur impegnati nei loro specifici progetti, hanno lavorato insieme. Crede nel linguaggio espositivo della mostra e considera il curatore alla stregua di un autore, lui ha curato la sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti“, imperniata su oggetti che sembrano inanimati ma hanno un’anima, la memoria di chi li ha prodotti o usati.

Nonostante la sua articolazione, la Quadriennale attuale non presenta dieci mostre diverse, ma una grande mostra con un racconto  in dieci capitoli, quasi fossero stati “strappati e poi messi insieme”. In genere, delle grandi mostre non rimane un ricordo preciso, di questa mostra invece resta il ricordo di un viaggio in mondi molto diversi con differenti aspetti anche sociali. Torna sul tema degli apparati, le didascalie che il pubblico legge per orientarsi vanno viste come esercizio di lettura più che di scrittura espositiva. Per vincere i pregiudizi diffusi sull’arte contemporanea ritenuta criptica e indecifrabile occorre che sia data una spiegazione per aiutare a capire l’opera, quando è possibile e non sempre lo è: “Come spiegare con una didascalia un’opera di De Dominicis?”

Daniela Lancioni parla del passaggio dalle “mappe del territorio” delle Quadriennali precedenti, come quella del 1996, a una visione complessiva. Nell’edizione di venti anni fa vi fu una ricognizione sulla storia delle Quadriennali: prima erano presenti soltanto ogni 4 anni, poi è nato un Archivio ed è diventata una istituzione permanente con la memoria storica dell’arte italiana del ‘900;  la Quadriennale del 1996 segnò un passaggio, l’avvio verso l’acquisizione di una nuova identità.  

E’ stato rievocato criticamente l’allestimento di tale Quadriennale,  un’organizzazione rigida, affidata all’archistar Massimiliano Fuksas, con grandi pannelli alti sei metri, quasi fino al soffitto,  e si è ricordato come allora il Consiglio di Amministrazione della Quadriennale era nominato su base politica, spesso senza le competenze richieste da un compito di questa natura, e ciò danneggiava le scelte. Per la Quadriennale 2016 non solo sono stati selezionati con la pubblica chiamata  gli 11 curatori forse migliori in Italia, ma hanno anche lavorato insieme in un “tavolo intelligente di  confronto”. L’allestimento deve mettere  il pubblico in condizione di leggere le opere, a questo riguardo è determinante la “struttura espositiva”, nella definizione di Achille Bonitoliva. 

Dalla riflessione all’azione nell’intervento del presidente Bernabè

Terminati gli interventi in programma, il  presidente della Quadriennale, Franco Bernabè,  ha preso la parola e,  manifestato apprezzamento per l’interessante quadro comparativo fornito a livello curatoriale, ha ribadito l’importanza del ruolo che le istituzioni pubbliche devono svolgere per non lasciare il campo artistico, fondamentale per l’identità del Paese, soltanto agli operatori privati con interessi particolari, legittimi, ma spesso con finalità soprattutto di natura economica e  commerciale.

Questa riflessione è alla base dello stesso ritorno della Quadriennale dopo otto anni, perché  lui stesso si era chiesto se valeva la pena rinnovare la manifestazione nei tempi così mutati, per concludere che ancora di più con la globalizzazione si deve  incidere nei campi identitari, importanti a livello internazionale su tanti  piani, tra cui quello culturale e quello economico.

Passando dalla riflessione all’azione, in un’ottica da imprenditore  ha voluto proiettare lo sguardo in avanti, verso ciò che si potrà realizzare con il rilancio della Quadriennale. Gli spazi dello storico Arsenale Pontificio recuperati e concessi all’istituzione consentiranno di fare un lavoro importante, per il quale si attende idee e suggerimenti validi per i quattro anni che separano dalla prossima Quadriennale del 2020. “Propulsione” e “continuità” i termini da lui usati, intendendo per continuità l’assenza di interruzioni, per il resto tutto va stimolato in termini di innovazione.

L’appello di Bernabè, naturalmente, va ben oltre l’occasione transitoria del confronto tra curatori in via di conclusione, può essere l’avvio di un ampio dibattito con idee ben meditate  e con proposte all’altezza.

Intanto sono emersi subito dei primi orientamenti, come il mantenimento della formula dei curatori intorno a dei progetti curatoriali, l’esigenza di avviare presto l’attività per la prossima Quadriennale creando una “catena di curatori, non un’aggregazione”,  affnchè possano operare almeno nell’arco di un triennio e non soltanto nell’imminenza della prossima manifestazione;  del resto gli spazi dell’Arsenale Pontificio restaurato consentiranno di creare un laboratorio stabile e un importante punto di incontro. Si è sostenuto  che non ci si deve rinchiudere nella dimensione nazionale, anche se l’arte italiana è l’oggetto dell’interesse dell’istituzione pubblica e ha bisogno di essere difesa nella sua affermazione di identità;  occorre il confronto con l’arte internazionale, in particolare europea, ricercato dagli stessi artisti. Si è accennato all’utilità di un direttore artistico, mentre è stato unanime il riconoscimento che la via intrapresa con la 16^ Quadriennale è quella giusta.

Con questi primi spunti venuti dai curatori e riassunti dal moderatore Pratesi, si è concluso in termini propositivi e di prospettiva un incontro il cui  riferimento a  “vent’anni dopo”  riecheggiava il  vecchio romanzo d’appendice,  ma nello svolgimento si è rivelato quanto mai fresco di idee e di proposte.

Usciamo dalla Sala Cinema del Palazzo Esposizioni e attraversiamo i saloni della mostra, già visitata all’inaugurazione. Abbiamo a suo tempo manifestato le nostre impressioni di visitatori, attenti lettori del Catalogo che  ben più delle didascalie,  inadatte allo scopo data la natura delle opere, consente la loro migliore “leggibilità”, insieme all’inserimento diretto nelle sezioni tematiche ampiamente motivate dai curatori con  la forza espressiva di artisti essi stessi. E ne abbiamo tratto  la conclusione che, al di là di quanto di discutibile vi si possa trovare, la sensazione è di fare un salto nel futuro. Con l’emozione e insieme l’inquietudine che inevitabilmente comporta.

Detto questo a livello sensoriale e di impatto immediato, sul piano razionale tante sono le questioni aperte e  sul piano operativo sorgono altrettante minacce e opportunità:  l’arte contemporanea è un crogiolo dall’alchimia imprevedibile e un vulcano dall’energia incontrollabile.

Ripensiamo alle parole di Bernabè, “propulsione” e  “continuità”, che aprono all’innovazione permanente. E ci chiediamo  se nello storico Arsenale.Pontificio messo a disposizione della “Quadriennale”,  potrà nascere  il nucleo di una “Silicon Valley” dell’arte italiana contemporanea. 

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni per studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5.  I nostri 3 articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 24, 27 ottobre e 1° novembre 2016;  l’articolo di presentazione è uscito il 16 giugno 2016.  Cfr. il nostro articolo, in questo sito, per  “Rome Art Week”  26 ottobre 2016.   

Foto

L’immagine di apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni, Sala Cinema, il giorno dell’incontro, le immagini delle opere nella mostra attuale sono state riprese nelle sale del Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. In apertura,   Franco Bernabè, visibile sulla sinistra, nel suo intervento, dietro il tavolo i curatori con al centro il moderatore Ludovico Pratesi; seguono, Margherita Moscardini, “Wall”, 2016, e Alessandro Balteo-Yazbeck, “Italian Farm Hand from Fortune Magazine”, 2011-2015; poi, Alessandra Ferrini, “Negotiating Amnesia”,  video HD, 2015, e Rà di Martino, “Le storie esistono solo nelle storie”, 2016; quindi, Leone Contini, “Uncontrolled Denominations, New Delhi”, 2014, e Michelangelo Consani, “La rivoluzione del filo di paglia”, 2016; inoltre, Marinella Senatore, “Speak Easy Collage # 4”, 2009-2013, e Maria Elisabetta Novello, “Paesaggi”, 2016; infine, altre 3 opere esposte; in chiusura, uno dei tanti filmati della mostra.