Museo Universale, 1. La grande arte torna alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Alle  Scuderie del Quirinale, dal 16 dicembre 2016 al 12 marzo 2017,  la  mostra “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”  espone un gran numero di capolavori che erano stati  prelevati dall’esercito di Napoleone per l’istituendo Museo del Louvre nella vittoriosa campagna d’Italia, e furono riportati nel nostro paese nel 1816 dopo la sconfitta dell’imperatore. Sono dipinti e sculture dei periodi d’oro, Rinascimento e antichità, e dei maggiori artisti, di forte  presa spettacolare anche per le loro notevoli dimensioni, come le pale d’altare. Organizzata da ALES, Arte, lavoro e Servizi s.p.A., la società “in house” del MiBACT, presidente e .A.D. Mario De Simoni, con il supporto dell’Azienda Speciale Palaexpo in  fase di transizione gestionale, a cura di Valter Curzi, Caterina Brook e Claudio Parise Presicce curatori anche del Catalogo Skira.

Un ritorno in grande stile quello delle Scuderie del Quirinale che la Presidenza della Repubblica  ha affidato dal giugno 2016 alla gestione del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo tramite ALES, la società “in house” del Ministero  di cui, dopo la fusione per incorporazione con “Arcus” nel marzo 2016,  è stato nominato Presidente e Amministratore Delegato Mario  De Simoni, già direttore generale dell’Azienda Speciale Palaexpo. Un rinnovamento per il rilancio con la garanzia di un trapasso senza scosse, quindi con una certa  continuità, dato che De Simone ha gestito come direttore generale dell’Azienda Speciale Palaexpo le Scuderie con il Palazzo delle Esposizioni, la Casa del Cinema e il Museo del Jazz e in tale funzione  ha organizzato dal 2008 oltre 4000 eventi. Nelle Scuderie, in particolare, tra le grandi mostre monografiche realizzate dal 2008 al 2016,  ricordiamo quelle su Giovanni Bellini e Frida Kahlo, Tiziano e Lorenzo Lotto, Caravaggio e Tintoretto, Lippi con Botticelli e Correggio con Parmiginino; e tra le grandi retrospettive  quelle su Vermeer, il secolo d’oro dell’arte olandese e Memling, Rinascimento fiammingo, il Futurismo e i Pittori del Risorgimento, fino alla Scultura buddista giapponese.

Perchè ritorno in grande stile? Per l’importanza dell’evento, che prende lo spunto dal secondo centenario  del recupero  dello straordinario patrimonio artistico portato in Francia  dalle truppe napoleoniche, per la qualità delle opere esposte,  pitture e sculture di eccezionale valore artistico, e per  il magistrale allestimento; un percorso  spettacolare  e insieme istruttivo che consente di rivivere passo per  passo i fatti storici conosciuti nelle grandi linee ma  non nei particolari illuminanti.

Arte e storia, come spesso accade, marciano insieme, e in questo caso pongono questioni intriganti. E’ scontata la condanna drastica e senza appello delle razzie di opere d’arte dei nazisti tramite la famigerata Divisione Goering, anche perché legate a un regime che si è macchiato di crimini orrendi; non è altrettanto severo il giudizio sull’appropriazione da parte delle  truppe francesi dei maggiori capolavori, forse perché  i francesi erano alfieri di libertà ed erano all’avanguardia nella concezione del “museo universale” dove collocare tali opere, e sono stati maestri per i nascenti musei italiani; tanto che la mostra si intitola al “sogno di Napoleone” e non alla spoliazione rientrata per la sua sconfitta e la restituzione imposta dal Congresso di Vienna.

L’organizzazione della società in-house del Ministero dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, cui la Presidenza della Repubblica ha voluto fossero affidate le Scuderie, rappresenta una sorta di ritorno alle istituzioni di una sede espositiva così prestigiosa, che viene inaugurato con una mostra celebrativa del ritorno alle nostre istituzioni nazionali dei tesori artistici asportati dai francesi tra il 1896 e il 1914. Per carità, nessuna assimilazione tra il ritorno da una spoliazione e l’avvicendamento di società specializzate nel settore espositivo, ma la presenza delle istituzioni nei due casi porta a questo parallelo.

L’ambizioso disegno dei francesi alla base delle requisizioni

Il sottotitolo “dal sogno di Napoleone a Canova” è intrigante, perché da un lato nobilita in sogno quella che è stata una appropriazione, per non dire una rapina, dall’altro fa finire il “sogno” con Canova che fu protagonista nella fase del recupero, in particolare dei beni pontifici.  E’ stato possibile nobilitare la spoliazione delle maggiori opere d’arte all’insegna del “fine che giustifica i mezzi”, dato che l’obiettivo era la creazione di un “museo universale” , il Louvre, dove le opere sarebbero state valorizzate inserendole in una cornice altamente prestigiosa di respiro europeo.

D’altra parte,  non era ancora invalso il concetto dell’arte come patrimonio pubblico di valore incommensurabile per la comunità, e solo l’esaltazione dovuta al recupero  riuscì a far emergere questa nuova coscienza popolare, che portò ad una  radicale revisione delle concezioni museali.

“Artisti, accademici, eruditi – ricorda uno dei curatori, Valter Curzi – si unirono nel progetto di valorizzazione della storia delle scuole pittoriche locali, ripercorsa, per la prima volta, a partire dalle testimonianze più antiche, per il decoro della patria o il vantaggio della nazione”; mentre in precedenza  il territorio, “perduta in molti casi la propria identità e tradizione storica, aveva abbandonato per secoli nel totale degrado affreschi e tavole dei cosiddetti primitivi, opere ridotte a deboli testimonianze di un passato difficile da valorizzare e perfino da decifrare”.

E il museo universale? Di certo la  nuova sensibilizzazione a gestire in modo autonomo l’eredità culturale nel segno dell’identità e del patrimonio nazionale, confliggeva con l’idea di una coscienza estetica identificata nel museo e valida per l’intera Europa, tanto più che l’estremo tentativo dei francesi di ostacolare il ritorno delle opere asportate in Italia aveva proprio questa motivazione.

Il direttore  del Louvre Vivant Denon, dopo aver accompagnato i sovrani  dei piccoli stati italiani che si erano presentati per reclamare le opere prese dai loro territori in visita al museo nell’estate del 2015,  pensava di averli convinti della sua impostazione tanto che la stampa alla fine di agosto informava fiduciosa i parigini della proposta di “dichiarare le collezioni di dipinti e statue attualmente riunite nella galleria del Louvre, Museo europeo. Le collezioni saranno considerate come una proprietà comune delle nazioni europee, affidate alla custodia dei parigini”.

Troppo strumentale e tardiva per essere sincera, anche se anticipava i tempi, perché è stata in fondo la via seguita dai grandi musei, rappresentativi di una storia universale come lo è l’arte senza confini. D’altra parte il Louvre, aperto nel 1793 con il nome di Museo nazionale, e non universale, aveva bisogno di  rivolgersi al pubblico europeo per riaffermare la grandezza della Francia anche nelle arti, sull’esempio di Roma che anche per il suo predominio artistico aveva assunto un ruolo dominante nel ‘700. Ma ci si rendeva conto che le collezioni venute dalla Corona e dagli aristocratici “emigrates” non erano all’altezza degli ambiziosi propositi, e allora il “sogno di Napoleone”, non potendo realizzarsi con le risorse francesi poteva essere alimentato soltanto con le grandi risorse artistiche del paese del Rinascimento, che le conquiste napoleniche consentivano di prelevare.

L’ambizioso progetto museale, che con la spoliazione di Roma a favore di Parigi avrebbe potuto spostare nella capitale francese l’indiscusso prestigio culturale della città eterna, era funzionale anche rispetto all’ambizione di Napoleone di  diventare l’erede delle antiche civiltà, nel segno di Augusto e di Alessandro Magno. Va considerato, comunque, che il papa, non potendo opporsi alla spoliazione, cercò comunque di limitare i danni operando in tre direzioni: fece fare i calchi delle principali sculture, effettuò importanti acquisti di opere e radunò le sculture di Antonio Canova. Queste nuove opere furono inserite al posto i quelle asportate colmando almeno i principali vuoti.

Il  recupero contrastato dai francesi e il ritorno delle opere

Per questo nella campagna d’Italia del 1796 di Napoleone,  al seguito dell’esercito occupante vi era una Commissione di artisti e scienziati  per selezionare le opere destinate al Louvre, in particolare i grandi maestri dell’antichità e del Rinascimento, pietre  miliari della civiltà artistica europea, considerati veri modelli per la formazione degli artisti e del buon gusto, criterio cui si ispirarono le scelte della Commissione: fine nobile, mezzi spregevoli.

Una parvenza di legittimazione a quella che, al di là delle coperture diplomatiche fu un’appropriazione di rapina da parte di chi la compì e una spoliazione da parte di chi la subì, viene trovata nel trattato di pace di Tolentino del  29 febbraio 1797, dopo l’armistizio di Bologna del 23 giugno 1796, laddove entrambi agli articoli rispettivamente 8 e 13 imponevano alla Stato Pontificio di consegnare alla Francia 100 opere d’arte, precisate in 17 dipinti e 83 sculture, oltre 500 manoscritti.

La motivazione era a metà tra  le riparazioni e il bottino di guerra, infatti la loro consegna avrebbe evitato l’occupazione di Roma, e viene un brivido al ricordo dell’analogo ricatto dei nazisti agli ebrei romani, un secolo e mezzo dopo, con la consegna di tonnellate d’oro per evitare la deportazione, che poi invece avvenne tragicamente.

Claudio Parisi Presicce, altro prestigioso curatore della mostra, ricorda che a Valadier fu dato l’incarico di progettare i carri di trasporto e provvedere all’imballaggio delle opere, e che “due incisioni del 1798 mostrano il convoglio che passa sotto Monte Mario al momento della partenza e il corteo trionfale che si svolse nel campo di Marte all’arrivo a Parigi”. Avremo poi, nel 1816, .la scena analoga ma di segno opposto, la partecipazione popolare al ritorno nei territori d’origine.

Non solo questo, sempre Parisi Presicce osserva: “L’imperialismo francese, che aveva trasformato le collezioni pontificie in bottino di guerra e determinato il saccheggio delle opere d’arte e la prigionia del papa, accelerò la fioritura di sentimenti patriottici anche tra coloro che osteggiavano l’unificazione”. E sulla spinta di questa sensibilizzazione popolare il grande scultore Antonio Canova  nel 1806 impegnò 9 apprendisti per le erme marmoree degli italiani illustri destinate al Pantheon; ma con il ritorno alla normalità i busti commemorativi furono collocati altrove,  sono restati a testimonianza della temperie artistica e morale del tempo, anche se il curatore vi vede l’interesse dello scultore a collegare la sua figura a quella dei patrioti.

Siamo al termine del dominio di Napoleone, con la sua sconfitta il Congresso di Vienna sancì il diritto al recupero delle opere d’arte asportate, per lo Stato pontificio proprio Canova  fu nominato Commissario straordinario dal  papa Pio VII. Svolse  la sua missione a Parigi dall’agosto all’autunno del 1815, andò a Londra per ringraziare  Giorgio IV, il sovrano il cui forte appoggio aveva favorito il successo nell’operazione di recupero, e il 29 dicembre dello stesso anno assisteva a Bologna all’apertura delle casse con i dipinti della scuola emiliana, mentre le opere d’arte restituite a Roma sarebbero giunte nella città eterna una settimana dopo, il 4 gennaio 1916. L’attesa era tale che tanti andarono incontro al convoglio per molte miglia prima del suo arrivo. Il 4 gennaio del 1916; nel mese di settembre altre 52 casse giunsero a Civitavecchia sulla nave dal nome fatidico di  “Abbondanza”, partita da  Aversa alcuni  mesi prima, una vera “suspence”.

A missione compiuta il papa  chiese alle autorità cittadine di inserire il  nome di Canova nel libro d’oro del Campidoglio, con una rendita annua di 3000 scudi, e gli conferì la più alta onorificenza pontificia, l’ordine di Cristo.  L’operazione  non era stata semplice per le resistenze dei francesi, che si appellavano a presunte cessioni diverse dalle requisizioni e rendevano difficile l’identificazione delle opere, tanto che gli alleati convinsero  il papa  a donare  45 dipinti e 20 sculture al re  francese Luigi XVIII rinunciando alla restituzione, con la motivazione formale della sua cristianità. Il sostegno degli alleati che esigevano anch’essi al restituzione delle opere prese in Italia, fu molto importante, per questo, Canova andò in Inghilterra per ringraziarli.

Di fatto, prosegue la precisa ricostruzione di  Parise Presicce, “dei cinquecentosei dipinti asportati, solo duecentoquarantanove furono riportati a Roma. Nove invece non furono ritrovati e altri centoquarantotto rimasero in Francia. Nonostante l’annuncio nel giornale romano ‘Cracas’  pubblicato due giorni dopo l’arrivo del convoglio a Roma, il cardinale Consalvi preferì evitare qualsiasi celebrazione solenne dell’avvenimento, temendo possibili tumulti popolari”:

Non solo, ma “a causa dei costi ingenti che i proprietari avrebbero dovuto  sostenere per il trasporto fino a Roma, delle centoventinove sculture della collezione Albani ben poche rientrarono a Villa Albani e la maggior parte sono messe in vendita a Parigi stessa. Ventinove le acquista il re Luigi XVIII”.  Ilaria Sgarbozza fornisce questa contabilità: “Dei cento tesori requisiti dai commissari direttoriali nel 1797, ne tornano a Roma settantasette, mentre rientrano soltanto quarantacinque dei centoventiquattro dipinti asportati dalle altre città dello Stato pontificio nel biennio 1796-98. Trentanove pitture umbre, marchigiane, romagnole ed emiliane restano in Francia, e quaranta di esse risultano disperse prima dell’approdo al Louvre. Si tratta per lo più di dipinti cinque-seicenteschi, ascritti ad artisti di solida fortuna storiografica e abbondante produzione”.

Canova  si concentrò sul recupero dei dipinti del Louvre, rinunciando a quelli nei musei provinciali, nei palazzi reali e nelle chiese. La spoliazione non aveva riguardato solo Roma, ma anche Bologna, Cento e Forlì, Perugia e Foligno, Todi e Città di Castello, Pesaro, Fano e Loreto, soprattutto per i dipinti; per le sculture Venezia e Verona,, Modena e Parma, Firenze e Torino. la restituzione riguardò anche loro, e al ritorno delle opere emiliane ci fu una viva partecipazione popolare.

I criteri di selezione, dai maestri del Rinascimento ai “primitivi” del ‘300 e ‘400″

Le opere asportate, selezionate dall’apposita Commissione al seguito di Napoleone in base ai requisiti di cui si è detto, erano soprattutto opere del  Rinascimento che, a seguito dei criteri adottati, celebravano il ritorno alla natura, e la sublimazione nell’ideale, fino al trionfo del colore, in modo da poter esercitare un’efficace educazione artistca. 

Per la natura vi era l’arte antica, cui si ispiravano i maestri del Rinascimento, dopo le presunte deviazioni della seconda metà del ‘500 che avrebbero allontanato dalla visione del bello: l’“Apollo del Belvedere” , ad esempio, era considerato il canone del bello, e il “Laocoonte”  pur esso un  simbolo, anche se dei tormenti, nelle sue contorsioni angosciose tra le spire del serpente.

Il passaggio dalla visione naturalistica a quella idealizzata raggiunge livelli di eccellenza con Guido Reni e i Carracci, il Guercino e Domenichino – protagonisti della scuola bolognese nella prima parte del ‘600 che avevano conosciuto anche l’arte antica a Roma – le cui opere furono requisite intorno al 1796. Il messaggio educativo è la purezza morale resa anche dall’eleganza delle forme di ispirazione classica, l’esemplare di spicco è la “Fortuna” di Guido  Reni, presa come “testimonial” della mostra, sembra volare nel cielo azzurro con qualche nuvola come una Venere antica, accanto a lei un putto che le tira i capelli facendole girare il volto all’indietro in un gesto vezzoso.

Dopo la scuola bolognese quella veneta,  Tiziano, Veronese e Tintoretto, le cui opere furono portate  a Parigi nel 1798, insieme alle opere d’arte dello Stato pontificio e alla quadriga prelevata dalla Basilica veneziana insieme al suo simbolo, il Leone di San Marco.  I grandi maestri del colore ebbero molto successo sui visitatori del Louvre, non soltanto emozionando il pubblico ma anche influenzando profondamente la pittura francese.

In quei primi anni non si andò oltre da parte dei francesi, ed era già tanto, troppo; non per limitarsi nell’appropriazione, bensì per la precisa scelta  di prendere soltanto i sommi maestri, in particolare Raffaello, di cui fu asportata l’intera opera che era possibile spostare, affreschi ovviamente esclusi, oltre ai dipinti del Perugino solo perché era stato il maestro dell’urbinate.

Con la nomina, nel 1802, del nuovo direttore del Louvre, Vivant, figura di grande spessore culturale vissuto a Firenze, Venezia e Napoli, il programma cambiò: lui stesso nel 1811 venne in Italia per requisire anche i cosiddetti “Primitivi”, che avevano preceduto Raffaello, i maestri del ‘300 e ‘400 con i quali poter ricostruire  il percorso artistico che aveva portato al Rinascimento. In effetti, erano artisti fino ad allora trascurati, le cui opere furono prelevate agevolmente essendo state accumulate nei depositi dopo la soppressione da parte di Napoleone degli enti religiosi. Nel 1814, completato il trasferimento e la sistemazione, al Louvre fu fatta una grande esposizione. Poi la restituzione, di cui abbiamo già ricordato le circostanze.

Parleremo prossimamente di ciò che questi eventi produssero nei singoli territori, creando una visione più ampia, e poi racconteremo la visita alla mostra che testimonia momenti divenuti fondamentali per il formarsi di una coscienza nazionale.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Aperto tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato chiusura protratta alle 22,30. La biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50. Tel. 06.39967500; www.scuderiequirinale.it.  Catalogo “Il Museo Universale. Dal sogno di Napoleone a Canova”, a cura di Valter Curzi, Carolina Brook, Claudio Parisi Presicce, Skira, dicembre 2016, pp. 312, formato 23,5 x 28. dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e il terzo articolo sulla mostra usciranno in questo sito il  21 febbraio e 5 marzo p. v.,  con altre  11 immagini ciascuno.  Sulle mostre alle Scuderie richiamate e gli artisti citati  cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2016, per la  Scultura buddista giapponese  24 agosto, Caravaggio 27 maggio, Correggio e Parmigianino 3 maggio; nel 2014, per Memling 8 dicembre, Kahlo 24 marzo, 12, 16 aprile 2014; nel 2013, per Lippi e Botticelli 24  giugno,  Caravaggio 6 giugno, Tiziano 10, 15 maggio, Tintoretto, 25, 28 febbraio, 5 marzo, i Carracci e Reni 5, 7, 9 febbraio; nel 2012, per Vermeer 14, 20, 27 novembre; in cultura.inabruzzo.it.,. nel 2011, per Lorenzo Lotto 2, 12 giugno,  I pittori del Risorgimento 2 articoli 8 gennaio; nel 2010, I pittori del Risorgimento 29 dicembre, Caravaggio 8, 11 giugno, 21, 22, 23 gennaio; nel 2009, per il Futurismo 30 aprile e 1° settembre, Giovanni Bellini 4 febbraio. .

Foto

Le immagini sono state  riprese da Romano Maria Levante in parte nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte dal Catalogo, si ringrazia Ales, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Autore sconosciuto, “Laocoonte (calco)” XIX secolo (?); seguono, Guido Reni, “La strage degli innocenti”, 1611, e Antonio Canova, “Marte e Venere”, 1816;  poi, Thomas Lawrence,”Ritratto di Antonio Canova”, 1815-19, e Vincenzo Camuccini, “Ritratto di Pio VII”, 1814-15; quindi, Thomas Lawrence, “Ritratto di Giorgio IV d’Inghilterra”, 1816, e Perugino (Piero Vannucci), “L’arcangelo Gabriele o angelo annunciante (pala di Sant’Agostino”, post 1508; inoltre, Perugino (Piero Vannucci), “San Giovanni Battista tra i santi Francesco Girolamo, Sebastiano e Antonio da Padova”, 1510, e Correggio (Antonio Allegri), “Compianto sul Cristo morto”, 1523-24; infine, Federico Barocci (copia dal Correggio), “Madonna con il Bambino e i santi Girolamo, Maria Maddalena, Giovannino  e un angelo (il Giorno o Madonna di san Girolamo), tra il ‘500 e il ‘600, e, in chiusura, Laboratorio restauri e calchi Musei Vaticani, “Apollo del Belvedere”, ricostruzione in gesso 1982.

Via della Seta, 100 antichi reperti cinesi e orientali in mostra al Quirinale

di Romano Maria Levante

Un centinaio di antichi reperti esposti al Palazzo del Quirinale dal 6 dicembre 2016 al 26 febbraio 2017 nella mostra  “Dall’antica alla nuova Via della Seta” per celebrare insieme il mitico ma reale itinerario che attraversava il continente euroasiatico mettendo in contatto popoli e civiltà  e  il nuovo percorso degli scambi commerciali destinato a svilupparsi enormemente per gli immensi investimenti in programma per iniziativa del governo cinese. La mostra è curata dal Consigliere del Presidente della Repubblica in materia di iniziative culturali ed espositive Louis Godart, e dal sinologo delle Università di Venezia e di Enna Maurizio Scarpari, curatori anche del Catalogo, insieme al fondatore del Forum Italia-Cina e della Nuova Via della Seta David Gosset.

 E’ una mostra in cui all’importanza sul piano storico e culturale si aggiunge il rilievo sul piano politico, testimoniato dalle parole del Presidente della repubblica  nel presentare l’evento che si svolge significativamente nella sede della Presidenza.  Sergio Mattarella ha rievocato le millenarie relazioni tra l’Europa e la Cina nelle quali l’Italia ha avuto “un ruolo fondamentale”. In tale contesto ha ricordato la prima ambasceria di Marc’Aurelio nella Roma antica, che ha permesso “ai due imperi più grandi e longevi della storia, quello romano e quello cinese, di conoscersi e di apprezzarsi a vicenda. Poi c’è stata nel 200 “l’odissea della famiglia Polo”  e il racconto del “Milione” di Marco – assurto al rango di consigliere e ambasciatore del Gran Kahn – che ha spinto viaggiatori e mercanti a spingersi verso l’oriente sconfinato; e nel ‘500 i gesuiti con Matteo Ricci e Martino Martini con il messaggio evangelico senza fondamentalismi bensì in spirito di apertura sono entrati anch’essi tra le figure in cui la massima autorità della Cina riponeva fiducia.

Tutto questo come premessa all’auspicio che “anche oggi, davanti ai grandi mutamenti economici e sociali, mentre il mondo diventa più piccolo e interdipendente, le strade del dialogo tra Europa e Cina portino a uno sviluppo della cultura e dell’umanità, liberandola da fanatismi, violenze e ingiustizie, e dando spazio ai costruttori di benessere e di pace”. e a nessuno sfugge quanto se ne abbia bisogno dinanzi alle guerre e alle minacce del terrorismo che tormentano la nostra epoca.

Il progetto strategico della “Nuova  Via della Seta”

Abbiamo voluto iniziare con le parole  del Presidente sul significato morale e politico che viene attribuito al rapporto tra l’Italia in seno all’Europa, e la Cina per la pace e il benessere dei popoli.

Questo secondo aspetto è stato sottolineato in particolare da uno dei curatori, Maurizio Scarpari, che, ricollegandosi anch’egli alle antiche tradizioni, ha affermato: “Non deve quindi sorprendere se la Cina oggi è divenuta promotrice di un progetto strategico di grande respiro che si rifà, non solo metaforicamente, alla Via della Seta, volto a favorire la cooperazione e i collegamenti tra i apesi dell’Asia, dell’Europa e dell’Africa. I paesi coinvolti sono 65 e rappresentano circa il 70% della popolazione mondiale e il 55% del PIL globale, e possiedono il 75% delle riserve energetiche conosciute”.

Non è un semplice proposito, senza risvolti pratici, sono state costituite apposite strutture finanziarie , come l’Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib)  banca di sviluppo multilaterale, ben distinta dalla World Bank, con la partecipazione di 56 paesi tra cui l’Italia, e il Fondo per la Via della Seta con il compito di finanziare iniziative infrastrutturali lungo la nuova Via della Seta. per il commercio cinese si prevede , a progetto realizzato, un aumento dell’ordine di 2.500 miliardi di dollari l’anno per il prossimo decennio, quindi è una prospettiva ravvicinata nel tempo.

Ci sono, infatti, già stanziamenti per centinaia di miliardi di solalri e progetti in fase esecutiva. “L’investimento complessivo previsto- precisa Scarpari – sfiora i 4.000 miliardi di dollari; per dare , un’idea dell’ordine di grandezza di questo intervento si pensi che il Piano Marshall, avviato dagli Stati Uniti dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, attualizzato a oggi varrebbe 130 miliardi di dollarii”. Il presidente cinese Xi Jinping ha voluto lanciare nel 2013 il grande progetto “Una cintura e una via”  da due località  simboliche: nel mese di settembre da Astana, capitale del Kazakistan, transito obbligato per secoli di mercanti e viaggiatori, per la nuova Via della seta terrestre; nel mese di ottobre da Giacarta, l’antica Batavia, meta degli antichi traffici per mare sulla Via delle spezie, per la Via della Seta marittima del XXI secolo.

Abbiamo parlato di “nuova Via della Seta” perché i collegamenti tra Cina ed Europa sono stati sviluppati molto al di là dell’itinerario tradizionale, che resta come riferimento storico velato da un alone romantico. Due linee ferroviarie principali collegano Cina ed Europa, quella settentrionale collegata alla transiberiana russa, quella meridionale che attraversa anch’essa la Russia collegando diversi paesi asiatici, mentre è in fase di realizzazione una terza linea anch’essa tra molti paesi.

Si tende a creare uno spazio  unitario euro-asiatico, mentre i trattati TPP e TTIP promossi dagli USA andrebbero in direzione opposta, verso uno spazio commerciale alternativo che escluderebbe l’Europa.

L’Eurasia, area integrata tra Europa e Asia   

Ma  l’integrazione tra Europa e Asia è incontestabile per un altro curatore della mostra, David Gosset:  “la Via della Seta evoca l’Eurasia che, dal  punto di vista culturale, è il èrodotto di una vasta e antica rete di scambi, la Via della Seta arricchisce l’Oriente e l’Occidente. identità e diversità non si escludono radicalmente; se l’Oriente  e l’Occidente possono apparire diversi, non debbono sembrare assolutamente opposti. la storia dell’Eurasia è stata segnata dalle interazioni tar oriente ed Occidente  e questa interconnessione  è stata spesso sinonimo di arricchimento reciproco”.

Gosset afferma che “la frontiera tra l’Europa e l’Asia è un concetto astratto”, che viene  approfondito dal consulente del Presidente, anch’egli curatore della mostra, Louis Godart, sul piano geografico, linguistico e culturale per concludere che non è possibile tracciare dei confini.

A livello geografico l’Europa non va “dall’Atlantico agli Urali”, secondo la nota formula di De Gaulle, perché al di là della catena montuosa si apre  una vasta area percorsa per millenni dagli europei  che si muovevano verso Est. Sotto il profilo linguistico la stessa definizione di “lingue indo-europee” segna lo stretto legame tra le lingue delle nazioni europee e quelle orientali derivando tutte da un unico ceppo. Per l’aspetto culturale non si può certo considerare estranea all’Europa una nazione “asiatica” come la Russia con i suoi celebri scrittori nei quali si incarna la civiltà europea.  Su questo punto Godart conclude: “L’Europa è essenzialmente la partecipazione d parte dei popoli che la compongono a una medesima opera civilizzatrice, a un medesimo modello culturale, a uno stesso ideale di vita”.

In questo contesto sono molteplici i contributi, dati da popoli “profondamente diversi: alcuni sono mediterranei, altri nordici od orientali”, gli eventi della storia li hanno segnati in modi differenti, ma “ognuno portando il proprio contributo ha aiutato a modellare il volto dell’Europa”. E cita l’apporto delle invenzioni e scoperte dei popoli asiatici, da quelle per cavalcare – la sella e la staffa, il tiro e i ferri per gli zoccoli, all’aratro con le ruote, dalla falconeria alle piante officinali; dalla bussola alla carta e alla stampa, e soprattutto il loro contributo alle scienze dalla matematica, geografia e astronomia  alla chimica, farmacologia e medicina, Per concludere: “Possiamo quindi affermare che l’Europa si è costruita e arricchita anche grazie all’Asia e ai contatti che dall’alba della storia hanno avvicinato tra loro le donne e gli uomini del vasto continente asiatico”.  Come è avvenuto tutto questo? Anche attraverso la Via della Seta, percorsa da mercanti e diplomatici, missionari e viaggiatori  spinti dalla sete di sapere. 

L’itinerario millenario della Via della Seta

Non si trattava di un unico viaggio nell’intero itinerario, ma di percorsi intermedi con soste nelle apposite stazioni di ristoro dove si moltiplicavano i contatti, gli scambi  di notizie con le conseguenti sollecitazioni anche sul piano culturale. . Così Scarpari riassume questi movimenti: “Mercanti di diversa nazionalità, provenienti dai luoghi più disparati, si incontravano, soggiornando tanto nei centri maggiori quanto nelle remote oasi disseminate lungo la strada o, molto spesso, in caravanserragli che si trovavano grosso modo a un giorno di viaggio l’uno dall’altro, commerciando merci e raccogliendo informazioni, essenziali epr proseguire il viaggio con profitto e sicurezza. A loro si accompagnavano ambasciatori, monaci, esploratori e avventurieri di ogni risma. Aveva luogo uno scambio continuo di beni e di conoscenze, venivano messe a confronto usanze, pratiche, idee e fedi religiose in un mondo che ai nostri occhi appare assai più tollerante e aperto di quello in cui viviamo oggi”.

Questa descrizione  affascinante ci è sembrata la migliore introduzione alla galleria espositiva  che con 100 reperti evoca le suggestioni alimentate da questo luogo di incontri e scambi reciproci.

Ma prima  rievochiamo brevemente i movimenti sulla Via della Seta sulla base delle notizie fornite da Scarpari in modo da contestualizzare i reperti esposti che appartengono alle diverse fasi storiche.

Nel periodo più remoto tra quelli considerati, il primo impero cinese tra il 206 a. C, e il 220 d. C., , durante la cosiddetta “pax sinica”, furono mandate dall’imperatore Wu, vissuto tra il 141 e l’87 a. C., delle spedizioni in Occidente, comandate dal generale Zhang Qian, per risolvere i problemi con i popoli delle steppe lungo i confini  dell’impero, nonché per entrare in contatto con i governi  dell’Asia centrale e per esplorare nuove terre. Non c’erano intenti di conquista e neppure finalità commerciali, si possono equiparare a missioni diplomatiche volte ad estendere il raggio d’azione.  Poi si mossero i mercanti, e cominciò a delinearsi l’itinerario della Via della Seta, sicuro nelle fasi di prosperità, pericoloso nei momenti di decadenza.  Uno di questi momenti negativi si verificò intorno al 200 d. C. con il declino della “pax sinica” e il conseguente contraccolpo sul  flusso di viaggiatori e diplomatici per le ripercussioni sugli scambi commerciali e le relazioni in generale.

Con il secondo impero, nel VI sec., una nuova “pax sinica” segnò un’era di forte  sviluppo economico e di espansione commerciale favorita dalla pace e dalla stabilità politica e sociale accompagnate da una crescita culturale. Per questo la capitale dell’impero per 10 dinastie si chiamò Chang’an, “pace perpetua”, e fu meta dei viaggiatori provenienti da altri paesi asiatici e anche dall’Europa, nell’VIII sec. gli stranieri  raggiunsero  il numero di 100.000 su una popolazione di un milione di abitanti e contribuirono a rendere la società cinese  più dinamica, aprendola a nuovi costumi e tecniche, a nuove correnti di pensiero e fedi religiose. Con l’estensione delle conquiste mongole ai territori dall’Asia orientale all’Europa e l’instaurazione della “pax mongola”, gli scambi commerciali si intensificarono e si aprirono nuovi itinerari.

Siamo tra il 1200  e il 1250,  arrivano i francescani, Giovanni da Pian di Carpine scrive “Historia mongolo rum”, il fiammingo Guglielmo di Rubruk “Itinerarium fratis Wilielmi de Rubruquis de ordine fratum Minorum”, finché Marco Polo, da Venezia alla Cina, la descrive nel “Milione”, che facendo conoscere questo mondo lontano stimola i viaggiatori a cercare nuove terre, anche Colombo ne fu stimolato e credeva di aver raggiunto le Indie sulla scorta di tali descrizioni.

La conoscenza fece passi da gigante e furono redatte nuove mappe, come il planisfero di Fra’ Mauro con tutte le terre conosciute fino alla metà del XV sec., fino alle rappresentazioni cartografiche dei gesuiti, soprattutto  Matteo Ricci con il quale si entra nel XVII sec.

La galleria espositiva degli antichi reperti

In questo mondo affascinante fa entrare la galleria espositiva: vediamo statuette con figure, sono 16, poi 7 tessuti, 5 carte geografiche e 3 mappamondi, 8 contenitori per te, – dalla teiera alle foglie e tazze da te fino al servizio da te completo – 10  tra coppe, brocche e piatti, 10 statuette religiose, e 3 placche.

Due  delle 3 placche placche sono tra i reperti più antichi, provengono dalla Mongolia interna e risalgono tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., raffigurano una “Tigre con un capride nelle fauci” e un “Signore degli animali”. Ma il reperto più remoto è una “Coppa in lapislazzuli” da Batriana in Afghanistan del III-II millennio a . C. , seguito da un affresco del I sec., “Concerto di donne”, proveniente da Stabia.. La terza placca, invece, con una “Testa di cinghiale” dell’Iran, è del VI sec.

Altri reperti tra i più antichi, che  provengono dal Pakistan, sono 4 scisti nell’arte del  Gandhara raffiguranti  Una “Testa femminile” della metà del I sec.,“Buddha stante”,  “Maitrey  seduto nella posizione del loto”, e “Bodhisattva (Maitreya?)”, del II-III sec, e lo stucco dipinto con una “Testa di personaggio principesco” del IV sec. Vediamo anche un “Rilievo funerario”  in calcare dorato” dipinto del III sec. proveniente da Palmira in Siria. Dello stesso periodo la terracotta e invetriatura colorata di  un “Cavallo con ciuffo e corta criniera” dalla Cina sud-occidentale e alcune monete: 3 del Regno cosmopolita del Kusana e 2 Sasanidi con un busto coronato..

Nella cronologia dei reperti esposti, da collegare alla rapida cronologia degli eventi storici cui abbiamo accennato,  si passa al VI sec., l’era della forte ripresa in tutti i campi con la nuova “pax sinica, Vediamo una “Coppa con motivo zoomorfo e vegetale”  in argento dorato e cesellato e un “Cammello accosciato con in groppa il cammelliere”  in terracotta a pittura policroma,  una “Coppa decorata con croci e volatili” in argento dorato dall’Iraan e  “Tavoletta del regno di Nabonedo” in argilla, una “Brocca con coperchio e ansa configurati”, dalla Cina settentrionale e “Ampolla raffigurante Menas tra due cammelli” in terracotta dall’Egitto,  che introduce al VII sec..

Un Cammelliere su cammello batriato in terracotta e invetriatura policroma apre la vasta serie dei reperti, soprattutto oggetti, del VII-X sec.;  Sono figure in terracotta invetriata, grigia o rossa,  provenienti dalla Cina, dinastia Tang, che  rappresentano: “Mercante sogliano” e “Mercante centroasiatico”, “Attendente sogliano” e “Monaco seduto in una nicchia”, “Palafraniere straniero” e “Straniero dal volto velato”,  “Guardiano di tomba” e “Barbaro con costume kusano” e “Gruppo di sei suonatori a cavallo”, “Cavallerizza con animale da caccia” e  2 coppe provenienti dall’Iran, , una “Coppa con versatoio”, e una “Coppa in pasta vitrea turchese”, con le quali si entra nell’XI sec.,

Siamo nel secondo millennio, la sfilata dei reperti continua con presenze campionarie dei singoli secoli:tra il XII e XIII sec. Una “Brocca ‘a testa di fenice'” in porcellana dalla Cina e un “Grande piattocon breve tesa obliqua” in Faenza silicea;  tra il XIII e il IV sec. una “Mattonella con giocatori di polo”, ceramica dipinta proveniente dall’Iran, e una “Brocca” in ottone e argento dalla Siria o dall’Egitto; una “Statuina raffigurante il Buddha” in oro lavorato dalla Cina,  e un “Piatto con girotondo di pesci” in ceramica decorata dall’Iran;  del XV sec. un “Piatto con decoro a fiori”, in porcellana decorata dalla Cina;  del XVI sec. un “Piatto con decoro alla porcellana” in maiolica, manifattura di Montelupo e un “Orciolo da farmacia” in maiolica da Cafaggiolo; del XVII sec. un “Piatto con orlo poliulobato” in ceramica dall’Iran; del XX sec. un “Calco della Stele nestoriana di Xi’an”, su carta, della prima metà di tale secolo, mentre la Stele è del 781, della dinastia Tang..

Fin qui la sfilata ha riguardato soprattutto oggetti di uso comune con qualche stucco o scisto, non abbiamo però citato oggetti altrettanto di uso comune con precisa destinazione, per il tè, cui è dedicato uno spazio apposito: vediamo il “Servizio ‘Neve della luna felice'” in ceramica e 2  “Servizi da tè”, uno  in porcellana da Taiwan, l’altro in ferro,  2  “Teiere”  cinesi  e “Le foglie di tè”,  in pietra del Fujian, “Scatole da tè in lacca” e  “Tazza da tè”   in porcellana, un “Piattino da tè artigianale” in terracotta e un “Piatto da tè inciso con paesaggio di montagna e di fiume” in pietra, fino a  una “Teiera millenaria” in ferro artigianale.

Di questi reperti legati al tè non è indicata l’epoca, come non lo è per altri oggetti che rappresentano soggetti diversi, come “Bonsai”  e “Cavallo” in rame, “Montagna artificiale” in spugna e “Monte Baojin” in bronzo, “Sogno della Cina” in porcellana e “Canto sulla strada” in lacca, Capriccio d’acqua” in giada e “Piacere” in pietra. Ma sono indicati gli artisti, di 5 l’autore è Qiu Qijing.

Invece l’epoca è precisata per i tessuti, la provenienza è dall’Italia, sono tra le merci pregiate che andavano lungo al Via della Seta verso l’Oriente. Vediamo una “Seta raffigurante coppia di leoni affrontati entro rotae” dell’VIII-X sec., e 4 tessuti del XIV sec. “Seta decorata con volatili affrontati all’interno di mandorle” un “Frammento di tessuto con uccelli fantastici e leoni passanti”,  un “Frammento di tessuto con leoni entro formelle polilobate” e un “Frammento di tessuto con  motivi vegetali, grifi, basilischi, fontane e vasi”. Con questi frammenti di tessuti, 2 calzari del XVII-XX sec., un “Paio di scarpe cinesi maschili” e e una “Scarpa cinese femminile”, e  4 paramenti rituali del XIII-XIV sec., “Piviale” e “Stola”, “Dalmatica”e “Calzari”, tutti di fine XIII-inizi XIV sec.

Si riferiscono a papa Benedetto XI, domenicano, 1240-1304,  e vengono dalla basilica di San Domenico di Perugia . dove saranno riportati a mostra conclusa – dopo un restauro concluso nel 2016. Vediamo nei parati, “in panni tartarici”,  una fitta rete di motivi, come bacche e fiori di loto, finemente intessuta in oro:  l’arte ornamentale cinese che utilizzava filati metallici si sposa con la predilezione per l’oro. Erano chiamate”panni tartarici”le stoffe intessute d’oro con il riferimento al Tartaro, l’inferno, tanto erano temute le orde  mongole; questi tessuti preziosi, opera di artigiani cinesi, islamici e del centro Asia, raggiunsero l’Occidente con la “pax mongolica” che rendeva il cammino dalla Cina al Mar Nero così sicuro che un proverbio mongolo arrivava a dire: “Una vergine sola, sopra un mulo carico d’oro, può traversare i domini del Qan senza alcun pericolo”.

Concludiamo con i 12 reperti geografici, per così dire, dal XIV al XVIII sec., per lo più di grandi cartografi e astronomi italiani, oltre a “Geographia” di Claudius Ptilemaus e “Descrizione illustrata del mondo” di Ferdinand Verbiest.  Vediamo la “Carta nautica  di Pietro Vesconte” e la “Carta della Moscovia di Battista Agnese”, il “Mappamondo di Fra’ Mauro” e il “Mappamondo detto “Genovese”, il “Mappamondo circolare di Andrea Bianco” e il “Mappamondo cordiforme in lingua turca”, “Le estreme regioni asiatiche nella Tabula Peutingeriana”  e l”“Atlante cinese, detto ‘del Carletti'”.

Al culmine di questa galleria di reperti  poniamo i due preziosi documenti veneziani che riportano a Marco Polo, l’incunabolo “Marco Polo, ‘De le meravigliose cose del mondo’ di Giovanni Battista Sessa del 13 giugno 1496, e  la pergamena “Testamento di Marco Polo”del 9 gennaio 1324.

Perché per tutti, crediamo, e non solo per noi, la Via della Seta è legata in modo indissolubile alla figura del grande viaggiatore veneziano che l’ha percorsa e  fatta conoscere ai suoi tempi restando ancora oggi la figura più fulgida del collegamento tra  le due più prestigiose civiltà del pianeta.

Accessible Art, 17 artisti sulle favole di Oscar Wilde

di Romano Maria Levante

La mostra natalizia è  diventata un appuntamento immancabile nella galleria romana RvB ARTs,  di via delle Zoccolette, collegata all’Antiquariato Valligiano” della vicina via Giulia, ma da due anni l’ormai tradizionale Christmas Collection è
legata a temi favolistici, nel 2015 ad “Alice nel paese delle Meraviglie”, quest’anno ad “Oscar Wilde, The Happy Prince e Altre Fiabe”,  con  una grande varietà di  opere  di 17 artisti dal 1° dicembre  al 14 gennaio 2017.  E’ arte contemporanea adatta ad entrare negli ambienti familiari e abbordabile anche dal punto di vista economico., aspetto fondamentale per la sua diffusione al di là degli spazi consueti. 

Michele von Buren, titolare e animatrice della galleria, organizza a getto continuo le mostre di una scuderia di giovani talenti e di artisti affermati in base alla formula di “Accessible Art”con la quale cerca meritoriamente di diffondere l’arte  nelle famiglie mediante una attenta selezione di opere compatibili con gli ambienti domestici e con le disponibilità economiche.

Abbiamo dato conto di molte delle mostre organizzate negli ultimi anni, quindi abbiamo già parlato di alcuni degli artisti
espositori, in particolare Lucianella Cafagna e Lorenzo Bruschini, Alessandro Sicioldr e Giulio Rigoni, Alvaro Petritoli, Vera Rossi e Chiara Caselli. Vi sono numerose “new entry”, una serie di artisti che si aggiungono alla squadra di RvB Arts, mentre sono presenti nella galleria anche le sculture floreali  di Alessio Deli e quelle filiformi di Lorenzo Gasperini, artisti cui sono state già dedicate mostre personali o collettive, che accentuano il carattere di familiarità dell’ambiente, in cui sembra di ritrovare ogni volta dei cari amici.

Una festa di  amici è stato il “vernissage”, molto affollato e in un clima festoso, collegata alla mostra una lotteria con in palio due opere messe a disposizione degli artisti.

Ricorderemo le principali caratteristiche degli artisti già conosciuti, per poi passare alle “new entry”, ma prima parliamo di
Oscar Wiulde e delle sue favole cui si sono ispirati gli espositori.

Il Principe felice”  e “Il Gigante egoista”

Ne citiamo due, “Il Principe felice” e “Il Gigante egoista”, entrambe dai  forti significati simbolici e dagli alti contenuti educativi improntate a valori chiaramente positivi.

In entrambe si assiste alla metamorfosi dei protagonisti, il Principe e il Gigante all’inizio sono insensibili,  chiusi nei loro spazi privilegiati restano indifferenti e del tutto distaccati rispetto a quanti hanno bisogno di aiuto;  poi il Principe soccorre con doni principeschi le persone che vede misere o sfortunate e il Gigante accoglie i bambini in cerca di spazi per i loro giochi.

Il Principe diventa altruista e caritatevole dopo che,  alla sua morte,  la statua che lo raffigura, eretta per celebrarlo in un giardino pubblico molto frequentato, lo mette in contatto con la sofferenza umana;  e allora il  rondinotto che gli si posa sulla testa lo aiuta a soccorrere una fiammiferaia, uno scrittore depresso e un terzo bisognoso donando a ciascuno una pietra preziosa, due rubini e uno smeraldo. Alla morte del rondinotto il Principe potrà ricongiungersi a lui, felice, perché viene fusa la sua statua.

La metamorfosi del Gigante avviene dopo aver scacciato i bambini che giocavano nel suo giardino fiorito, quando vede che è rimasto brullo e freddo mentre la primavera è esplosa tutt’intorno; allora si pente e li accoglie, ne aiuta uno piccolo e incapace di salire sugli alberi come gli altri, lo pone su un ramo fiorito. Il suo giardino torna a fiorire con i bambini che lo affollano festosi, ma non vede più il bambino che ha aiutato e ne soffre, lo cerca invano per tutta la vita. Divenuto vecchio, il bambino gli appare sull’albero fiorito, ha delle ferite alle mani, dice che sono “i segni dell’amore”,  per ricambiare di averlo fatto giocare nel suo giardino lo farà entrare nel proprio, il Paradiso, è Gesù. I bambini venuti a giocare lo trovano a terra senza vita,con il sorriso della felicità sul volto.

Due storie parallele, metafore evidenti in cui i valori della vita si incrociano con la morte senza che questa sia motivo di
angoscia, in entrambi i casi è una morte bella, e non nel senso eroico, dannunziano, ma etico.   

I nove artisti già conosciuti in mostre precedenti a RvB Arts

Sono nove gli artisti che abbiamo incontrato in precedenti mostre alla galleria RvB Arts cimentatisi nelle interpretazioni del
mondo di Wilde, dal “Principe” al “Gigante” nella propria cifra artistica.

Di Lucianella Cafagnaricordiamo  le intense interpretazioni del mondo infantile, ripreso in un suggestivo bianco-nero percorso da vibrazioni visive ed emozionali in un clima di sospensione per rendere la fuggevolezza di un’età che ritorna nella memoria e nella nostalgia. E poi  la delicatezza con cui ha evocato  Alice nel paese delle meraviglie vista nel sonno e nei sogni che la portano lontano verso avventure che non si vedono ma si sentono. Ricordiamo anche figure femminili maestose, come quella selezionata per il “Padiglione Italia della Biennale di Venezia 2011. In  questa mostra “Donna rossa in piedi” e “One Lady’s Dance”, “Soul in the Word” e “The agony Dance”  danno nuove espressioni di un’artista versatile e sensibile, che ha studiato all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux-Arts di Parigi e ha trascorso un periodo formativo nello studio di Pierre Canon, allievo di Balthus.

Altro grande ritorno quello di Lorenzo Bruschini, anch’egli formatosi nella scuola d’arte parigina come borsista, diplomato in pittura all’Accademia delle Belle Arti di Roma. In lui è costante la dimensione del sogno unito al mito, in un’atmosfera
favolistica dove figure umane e animali si mescolano in composizioni in bianco e nero che alimentano la fantasia e l’immaginazione. Per lo più non vi sono sfondi né ambientazioni, le figure spiccano nelle loro forme sinuose fluttuando nello spazio con  significati simbolici e collegamenti magici. E’ un processo creativo, il suo, che attraverso labirinti fantastici porta a disvelare i contenuti più profondi e reconditi della realtà dove tragedia  e commedia, sogno e fantasia si alternano nella sua visione con basi filosofiche e poetiche.  Nella mostra “Self-Shaping”  ha approfondito il tema dell’identità con immagini in trasformazione, come se si auto modellassero.  Le opere ispirate alle favole di Oscar Wilde hanno titoli evocativi: “Giardino misterioso” e “Il mostro dell’affetto”, “L’altra notte” e “Non smettere di sognare”.

Ha invece una formazione inglese  Alvaro Petritoli, laureato al Central Saint Martins College of Art  and Design di Londra, vive  ad Hastings in Inghilterra, dove ha presentato 7 mostre personali dal 2011 al 2016. Utilizza una serie di materiali anche inconsueti come tè e caffe  con tecniche tradizionali e innovative. Le sue opere sono spesso di piccolo formato, in quella esposta in mostra, “Cielo stellato”,  nel blu della volta celeste punteggiato di formazioni cosmiche un’immagine alata sembra attraversarlo tutto. Ricordiamo una sua originalissima mostra in un bar romano.

Anche Giulio Rigoni  ha esperienze inglesi, essendosi trasferito a Londra dopo aver terminato gli studi, e dopo alcuni anni
è tornato in Italia. Utilizza materiali particolari, come carta, tessuti, ottone, dopo una fase iniziale in cui dipingeva a olio su tavole di legno ma, a differenza della pittura antica, preparava le tavole con gesso di Bologna.  Nelle sue composizioni e immagini si trovano  elementi tradizionali di ispirazione classica ed elementi moderni, tra il descrittivo e il surreale. In
mostra vediamo un dipinto esplicitamente riferito ad Oscar Wilde, intitolato “Il principe felice”, e due testine regali.

Non solo di formazione, ma di nazionalità inglese  Justin Bradshow, nato a Londra, dove si è formato al City and East London Art College, si è trasferito  in Italia nel 1994; dal 2000 15 mostre personali soprattutto a Roma. La sua pittura spazia dall’acquerello su carta ai colori ad olio su rame e legno, tra gli ultimi temi delle nature morte definite nei minimi particolari, vediamo esposti 4 quadretti, uno raffigura una caffettiera bicolore.  

Di Maiti, al secolo Maria Teresa Invernizzi, ricordiamo delle sculture molto particolari, figure di animali costruite con strutture di filo di ferro riempite con  materiali quali gesso e resina, cera e sabbia, che lasciano vuoti, quasi  lacerazioni, in forme sinuose e precarie. La sorpresa della mostra sono dei visi modellati su un reticolo leggero soltanto con delle semplici pressioni.

Vediamo di nuovo Alessandro Sicioldr, formatosi nella preparazione dei pigmenti e dei supporti secondo le tecniche di Cennini, con le sue immagini oniriche e inquietanti, dalla suggestione indefinibile, quasi una nuova metafisica.

E ritroviamo Vera Rossi, la cui ispirazione diretta da Oscar Wilde è evidente nei titoli in inglese.

Chiude la sfilata degli artisti che hanno già esposto nella galleria RvB Arts Chiara Caselli, con una caratteristica peculiare rispetto a tutti  gli altri, è un’artista che opera in campo cinematografico a livelli di eccellenza. Nel 2016 ha diretto il cortometraggio “Molly Bloom” dall’Ulisse di James Joyce, presentato con successo a Venezia, il suo debutto da regista è del 1999 con il cortometraggio “Per sempre”, vincitore del  “Nastro d’Argento”; prima dell’attività  registica quella di attrice, sempre ad alto livello, con registi  come Michelangelo Antonioni e Liliana Cavani, Marco Tullio Giordana e Gus Van Sant.  Nell’arte figurativa si è segnalata con la fotografia, anche qui ha avuto importanti riconoscimenti, nel 2011 alla Biennale di Venezia e alla Mostra internazionale di Fotografia di Roma, nel 2014 ha esposto in Giappone a Tokyo una “personal site specific” negli spazi  dell’Istituto italiano di cultura ideati da Gae Aulenti. Altre mostre personali a Milano e Bari, Jesi e Fano; mostre collettive a Roma, di cui 4 a RvB Arts, e Milano, Firenze e Venezia.

Gli altri otto  artisti  espositori

Spettacolare la grande tela di Miriam Pace, “Marionette”, su uno sfondo celeste  spiccano delle forme variegate con macchie ocra, una sorta di carta geografica frastagliata. Del resto, caratteristica della sua pitturaè  la sovrapposizione di strati di colore, una trama di concrezioni su un superficie cromatica uniforme. L’artista, nata a Catania, si è formata all’Istituto Europeo di Design e all’Accademia delle Belle Arti di Milano, dove si è laureata in design alla facoltà di Architettura al  Politecnico. 10 mostre personali a Catania, Bologna Milano e in altre località italiane e una a Parigi nel 2014
alla Selective Art Gallery; 24 mostre collettive dal 2004, tra cui la mostra al New York art Expo nel 2013 e la mostra “Artisti
di Sicilia. Da  Pirandello a Jodice”
a Catania, Palermo, Favignana a cura di Vittorio Sgarbi. Ha ricevuto dei premi ed
è stata selezionata per residenze d’artista, figura nella collezione permanente del Museo Arte Contemporanea Sicilia di Catania.

E’ ben diversa l’opera esposta di Serena Vigolini,, una composizione con una figura in un paesaggio, rappresentati con precisione. Apparentemente un figurativo descrittivo, in realtà un modo suggestivo di rendere la condizione umana nell’abbinamento con la natura. Inquietudine e smarrimento che traspaiono da queste immagini fanno riflettere, del resto sono frutto delle sue attente riflessioni, in una sorta di riscoperta di sé con il presente tra lo scorrere degli eventi. Premiata nel 2011, 4 mostre personali a Prato e  27 mostre collettive dal 2011, in una serie di città italiane, tra cui Firenze e Torino,  Padova ed Ancona, all’estero in Slovenia nel 2015.

Figurativa anche l’opera di Sergio Padovani, le  immagini questa volta non rendono l’introspezione inquieta, ma dei moti dell’animo che si elevano  al di sopra del mondo reale,  alla ricerca di qualcosa che trascende. In uno dei dipinti  esposti, “Divisione dell’anima”,  vediamo una sublimazione dei corpi, che fluttuano nell’aria come Paolo e Francesca nella celebre illustrazione di Gustavo Dorè, ma qui le due figure sono distaccate,  disposte in parallelo, l’atmosfera è onirica. L’artista la definisce “una manifestazione salvifica”  dinanzi all’ “accecante grazia del creato” che rende attoniti,  si avverte il “bisogno più accecante dell’uomo, la salvezza appunto”,  mediante “personificazioni che si sentono inadeguate alla vita, alla loro storia, a sé stesse”.  Un’altra opera è intitolata  “La città salva”.  Vincitore di ben 9 premi dal 2007 al 2016, due dei quali all’estro nel 2009, 12 mostre personali,  a Milano e Padova, Modena e Rimini ed altre sedi, oltre 30 mostre collettive in diverse località, tra cui Milano e Torino, Bologna e Roma,  Livorno e Catania; tra queste il Padiglione Italia della Biennale di Venezia del 2011 curato da Vittorio Sgarbi. . Presente in collezioni permanenti a Como, Rende e Catania.

Molto particolare l’opera di Orietta Mengucci, diplomata in pittura all’Accademia Belle Arti di Roma con un tirocinio al Museo Etrusco di Valle Giulia e corsi di ceramica presso maestri del settore  come Maddalena, Colbeck e Galassi.
Responsabile del laboratorio di ceramica presso l’Onlus ANFFAS, e insegnante allo Studio Kemir per scultura, pittura e ceramica, ha partecipato nel 2010 alla mostra d’arte ceramica internazionale “Concreta”,  Questa suaformazione si riflette sui materiali usati, e sulle forme artistiche, si va dalla carta paglia a strati di calce e gesso per l’espressione pittorica, alle argille refrattarie per le forme scultoree, come o “monoliti preistorici”. Riesce  ad instaurare “un contatto naturale e primigenio con i materiali utilizzati, imprimendo loro una vena poetica tipica della sua sensibilità”.

Altri artisti espositori, Olmo e Xia Yong, quest’ultima, una giovane che si è appena avviata su un percorso artistico, nterpreta  le favole di Wilde con due grandi dipinti dalle forme incerte e un cromatismo violento.

Infine Alessandra Gasparini con “Cuori di carta” e Simona Gasperini, con “Il giovane Re”, “La torre umana” e “Il pescatore e la sua anima” si calano in modo diretto nell’universo favolistico, con opere evocative con le quali ci piace chiudere questa rassegna.

Una rassegna sommaria e lacunosa la nostra che non può rendere il caleidoscopio di immagini, diverse per stili e contenuti ma accomunate dalla celebrazione nell’arte del grande Oscar Wilde”.  Soltanto visitando la mostra ci si può immergere
in questo mondo fantastico  con le migliori condizioni di spirito date dall’atmosfera che si crea nelle festività natalizie e di fine anno.  

De Antonis, dai ritratti classici alla fotografia astratta

di Romano Maria Levante

Il libro-catalogo di Diego Mormorio, della mostra   “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte  1951-1957”,  organizzata a Teramo nel 2003 dall’Associazione culturale “Teramo Nostra” presieduta da Piero Chiarini,  ripercorre l’itinerario artistico del fotografo, dai ritratti all’astrazione fotografica, di cui diamo conto dopo molti anni, per il suo persistente carattere rivelatore che non si limita all’artista presentato, ma all’arte astratta in generale e alla fotografia astratta in particolare.

 Di questi aspetti più generali abbiamo parlato in precedenza rievocando l’evoluzione che ha portato alla fotografia astratta  come  superamento della riproduzione più o meno meccanica della realtà visibile fissata in un attimo, che non corrisponde alla complessità e alla mutevolezza del vero reale fatto di continui cambiamenti e di contenuti non visibili, interni alle cose e soprattutto alle persone.. Ci ha particolarmente colpito il vero e proprio ossimoro consistente nella proposizione dell’astrattismo come espressione della vera realtà in contrapposizione al  realismo  visto come mera manifestazione parziale di un momento isolato, quindi distorcente la realtà effettiva.

La formazione, gli incontri, la prima fase a Pescara

Di De Antonis ci ha affascinato il percorso di vita che accompagna quello artistico, da Pescara a Bologna a Roma con il suo studio  divenuto circolo culturale con i  maggiori intellettuali e artisti, con i quali ha avuto incontri e amicizie di cui sono rimaste vive testimonianze. Come il sodalizio nato a Pescara con Ennio Flaiano, che nel racconto del 1942 “Le fotografie” parla di “un’amicizia bellissima, durata quasi cinquant’anni”; e con Mino Maccari, incontrato per la prima volta mentre passeggiava in riva al mare con Flaiano, che lo descrive in una pagina carica di humor; di Tommaso Cascella parla lo stesso De Antonis, ricordando le corse con lui in automobile attraverso l’Abruzzo e la spinta a fotografare nel 1935-36  le feste popolari predilette dal pittore.

Alcune di queste fotografie furono pubblicate nel 1941 sulla rivista “Documento”,  nel numero di aprile 6 immagini della festa del “Lupo di Pretoro” e 6 della festa del “Venerdì Santo a Spoltore”, nel numero di maggio 6 della festa delle “Verginelle di Rapino”; poi le rivediamo nel 1984 in una mostra al “Museo Nazionale di Arti e Tradizioni popolari”. Sulle foto  delle fanciulle biancovestite  nella festa appena citata, nel catalogo della mostra l’artista scrive che “hanno di nuovo riflesso tutta la luce di quelle esperienze indimenticabili”. E, più in generale: “Penso che rimanga in queste immagini l’intenzione che avevo di fondere il ricordo lasciatomi dall’opera di Botticelli con la forza e la durezza della vita contadina”.

Mormorio ne sottolinea la semplicità e la “capacità di ricondurre all’essenziale, aprendo la porta dell’immaginazione e della riflessione” e aggiunge, in un articolo sulla mostra del 1984 intitolato “Con l’occhio a Botticelli”che “in un tempo dominato da molti fotografi senza grandezza, questa parte del lavoro di De Antonis serve a tornare alla grande fotografia: a quel sottilissimo equilibrio in cui si pongono il sogno e la realtà, dissolvendosi frequentemente l’uno nell’altra”.

Le fotografie delle feste popolari abruzzesi gli valsero nel 1936 l’ammissione al Centro Sperimentale di Cinematografia, dove insegnava allora Blasetti,  il grande regista; seguì, nel 1939, l’apertura di uno studio  a Roma, a Piazza di Spagna,  era stato di uno dei maggiori fotografi italiani, Arturo Bragaglia, appena saputo che è in vendita lo acquista e vi si trasferisce subito,  lasciando aperto lo studio di Pescara affidato alla sorella Anna.

Erano passati quindici anni dalla prima fotografia del 1924,  il campanile del Duomo di Teramo, che precede di due anni l’inizio della sua attività fotografica con una fotocamera che aveva già un millesimo di secondo, cui si aggiunse una macchina in legno di un fotografo torinese.  Dopo cinque anni, nel 1931,  lo troviamo a Bologna dove un amico del padre aveva uno studio fotografico, frequenta la Scuola d’arte  e  riceve insegnamenti sul colore e sulla forma.

Aveva realizzato nel 1933  due ritratti che furono esposti nella mostra teramana, molto diversi tra loro: “Ritratto di ‘don Donato’ De Antonis, padre del fotografo”, con effetti rinascimentali di luminosità e di colore realizzati anche artificialmente, e Ritratto di signora pescarese”, con una purezza stilistica che punta all’essenziale; la modernità è ancora più evidente nel pur diversissimo ‘“Esposizione multipla eseguita durante uno spettacolo teatrale“, con forme e colori che si accavallano in una suggestiva sequenza quanto mai animata.

Lui stesso ha detto che colorava le fotografie “avendo come preciso riferimento gli effetti luministici della pittura cinquecentesca”, lo vediamo anche nella stampa “Mani di donna  con un bocciolo di rosa”, siamo nel 1941, due anni dopo l’approdo romano, mentre  nella “Signora romana”, del 1947,  in bianco e nero, a distanza di sei anni, il riferimento riiguarda l’inquadratura austera e composta che ricorda i  solenni ritratti nobiliari.

Lo studio a Roma, vita culturale, ritratti e  fotografie del mondo della  moda 

A Roma prosegue l’attività avviata a Pescara di fotografo ritrattista, che non si limita all’estetica, ma usa la tecnica per andare oltre, come dice lui stesso: “Nei ritratti una continua ricerca dell’anima del soggetto, ricerca incantata da una luce morbida, nitida, senza effetti, ma legata a una fantasia di sogno”. La luce tornerà in modo molto diverso nella sua fotografia astratta, del resto ne abbiamo ricordato il ruolo cruciale nell’annullare la “distanza incolmabile” che,  secondo Mormorio, esiste ad una prima osservazione tra fotografia vincolata all’oggetto e astrattismo libero senza limiti.

Nella  capitale del cinema e della moda, il suo studio a Piazza di Spagna viene frequentato da artisti e intellettuali, che come lui si ritrovano fino a tarda ora anche nel Caffè Greco, come faceva ai suoi tempi D’Annunzio e come De Chirico, pure con lo studio a Piazza di Spagna. Alla chiusura del caffè alle ore 23, andava con gli amici nell’unico luogo della zona aperto tutta la notte, lo documenta l’istantanea del 1943 “Ennio Flaiano nella farmacia di piazza San Silvetro”.

Poi, nel 1946, terminata la guerra, l’incontro con Irene Brin, che ha appena aperto la “Galleria dell’Obelisco”, da lei diretta insieme al marito Gasparo del Corso, vi ambienterà il primo servizio fotografico, in cui figura “Irene Brin nella galleria dell’Obelisco”, ma dopo cercherà altri set, in particolare atelier di artisti e musei, come richiamo culturale.

Una serie di fotografie di moda a partire da  quel periodo erano esposte nella mostra a Teramo e figurano nel Catalogo. Citiamo  la “Fotografia di moda  nello studio dello scultore Pietro Consagra”, 1947,  e le due “Fotografie di moda alle Terme di Diocleziano”, 1948, la “Fotografia di moda Marella Agnelli Caracciolo a palazzo Torlonia”, 1948, e la “Fotografia di moda. Modelle all’atelier Schubert”, 1950, fino alla  “Fotografia di moda  alla Galleria Borghese”, dello stesso anno, con la modella nella stessa posizione della vicina statua di Canova   in un parallelo ideale, e “La modella  Ive Nicholson vicino al banco ottico di De Antonis”, 1955, con uno sfondo composito, una parete a riquadri argentati e una camera fotografica in legno dal grande soffietto  con due rose dal gambo lungo.

Sempre nel 1946 Luchino Visconti,  presentatogli poco tempo prima da Corrado Alvaro, lo va a trovare espressamente per chiedergli un servizio fotografico sul suo “Delitto e castigo” in programma al Teatro Eliseo a Roma, ne derivano immagini straordinarie e nuove conoscenze, come il gruppo di artisti Guerrini, Dorazio, Perilli, il quale descrive così la sua ritrattistica: “Toglieva, con sapiente lavoro di luci, rughe e tracce della vecchiaia, dando un’abile ritoccata alle cicatrici della vita. Il colore, da lui sviluppato in un laboratorio che sapeva più di alchimia che di fotografia, raggiungeva toni sapienti, quasi ad uguagliare la sapienza cromatica del quadro. Otteneva la perfezione della riproduzione, aggiungendo qualcosa di più al lavoro del pittore”.

Per il cromatismo vediamo il “Ritratto di Alexander Calder”, 1952, in cui, sempre secondo Perilli, “il volto rubizzo dello scultore eguagliava un Rubens”. Nei ritratti in bianco e nero spicca l’immagine pensosa dall’espressione  particolarmente intensa di Luchino Visconti, 1950, poi di Bruno Barilli, 1953,  in chiaroscuro con il papillon, di Franco Zeffirelli, 1956, proteso con lo sguardo penetrante da attor giovane, fino a Fabrizio Chierici, 1958, in piedi mentre dipinge.

Ci sono anche due “Nature morte”, del 1952 e 1953, e due “Fotografie di moda., riprese  in occasione della presentazione a Roma del film 2001, Odissea nello spazio“, nel 1968. Ma con queste ultime usciamo dalla fotografia tradizionale per entrare nell’elaborazione libera data da accostamenti speciali e cromatismi molto particolari che avvolgono l’immagine.

D’altra parte, già nel 1951 inizia la sua sperimentazione della fotografia astratta, che si sviluppa fino al 1957 con una ricerca che esplora diverse vie come testimoniano le opere presentate. Nel 1970 l’artista realizza un film in VHS  con le sue fotografie astratte degli anni ’50..

L’indipendenza dai  gruppi contrapposti, giudizi sull’artista

Sono gli anni in cui infuria l’aspra polemica tra coloro che si definivano “formalisti e marxisti”, come i sopra citati Guerrini, Dorazio e Perilli, oltre a Consagra e Carla Accardi, Sanfilippo e Turcato, e i realisti come Renato Guttuso,  nell’occhio del ciclone artistico-politico; attraverso la rivista “La Biennale di Venezia”, ricorda Mormorio. Nel 1950 Lionello Venturi aggiunge un nuovo gruppo con Afro e Birolli, Corpora e Santomaso, Moreno e Morlotti, Vedova e ancora Turcato.

De Antonis irrompe sulla scena senza aderire ad alcun gruppo nel 1951 con una mostra alla Galleria dell’Obelisco diretta, come abbiamo visto, da Irene Brin, che segue una mostra di  Kandiskij presentata da Dorazio; in questa galleria nei quattro anni dall’apertura del 1946 erano state allestite mostre di altri 90 artisti, come Toulouse Lautrec e Gauguin, Cocteau e Dalì, Morandi e Vespignani,   De Chirico  e Savinio, Campigli e Levi, oltre ad alcuni di quelli sopra citati; e il fotografo List.

Cagli presentò la mostra sottolineando come De Antonis con la sua nuova concezione dell’arte fotografica era riuscito a superare il diaframma che la divideva dall’arte pittorica come lui la intendeva, più dei grandi fotografi come Cartier Bresson troppo vincolato dal realismo; e parlando riferendosi a lui, di “poetica di un nuovo, profondo  poeta”.

Mormorio cita anche le espressioni particolarmente lusinghiere per De Antonis della scrittrice Gianna Manzini, nell’articolo intitolato “Il fotografo magico”, in cui nel 1953, nel definire i numerosi riflettori del suo studio “un piccolo firmamento a portata di mano”, esclamava: “Servirsi, come strumento, della luce, disporne graduandola, avvicinandola, dirigendola, a piacere, farne il proprio impalpabile scalpello per esaltare un oggetto, oppure per consumarlo e sbiadirlo; per renderlo massiccio e preciso o magari, invece, leggero e scorporato, che privilegi!”.

E il poeta Leonardo Siningalli nella presentazione a una mostra del 1957, cui ne seguì un’altra a Teramo nel 1961, scrisse che “De Antonis si è creato il suo passatempo dentro la sua fatica, l’hobby dentro il job”.  Mormorio osserva che “egli ha sempre fotografato con diletto, anche quando si trattava di riprendere cose nelle quali altri avrebbero visto soltanto un lavoro ordinario”. Ciò gli ha consentito di infondere in tutte le s ue fotografie il fascino della bellezza. La Bellezza era per De Antonis l’inizio e la fine di tutto. Un provenienza e una destinazione che accompagnavano ogni suo gesto”.

Per questa mostra Alfredo Mezio scrisse sul “Mondo” una descrizione quanto mai efficace delle immagini da lui create: “Le fotografie astrattiste di De Antonis possono evocare delle galassie, delle cristallizzazioni e un’infinità di altre cose sconosciute; tuttavia il loro scopo non è quello di forzare l’immaginazione con analogie o somiglianze. Sono delle combinazioni gratuite, disinteressate, chiuse in se stesse” E allora come interpretarle? Non seguendo l’invito di Leonardo a usare l’immaginazione nel guardare le macchie di umidità sui muri, ma l’altra sua definizione della pittura “come ricettacolo di tutte le forme esistenti in natura e che non hanno ancora un nome”.

I 4 gruppi di fotografie astratte, con diversi effetti di luce

Ed ora guardiamole queste fotografie astratte,  sono 51 contrassegnate soltanto da un numero romano progressivo, da I a LI, e l’anno – 21  del 1951, 26 del 1957, solo 3 del 1956 e 1 senza data – con la tecnica utilizzata, stampate in bromuro d’argento direttamente o da negativo, poche su carta invertibile. Sono raggruppate  in quattro gruppi in base ai loro caratteri distintivi.

Il primo gruppo  presenta “Luci in movimento con sfuocature”, sono 18 fotografie ottenute  con la tecnica del fuori-fuoco utilizzando diverse luci e un obiettivo con minima profondità di campo in modo che venissero sfumate le parti meno vicine a quelle messe a fuoco.  Fotografando piccole lampadine o altri soggetti luminosi e muovendo la macchina o gli oggetti, otteneva strisce  più o meno intense secondo l’esposizione, e l’utilizzo di un foglio di carta invece della pellicola.  Sono immagini soffuse e delicate, come ectoplasmi, dove le ombre e le luci coesistono, in una continuità visiva dalle forme sfuggenti e in fieri, come nebulose astrali.

Quanto mai nitide, invece, le “Immagini dei liquidi oleosi in sospensione”, un secondo gruppo con 19 fotografie , in copia unica utilizzando una lastra di vetro illuminata dal basso sopra cui spargeva dei liquidi sovrastati da una lampada, in modo che le due illuminazioni si mescolassero  producendo trasparenze ed ombre, per alcune aggiungeva nello sviluppo una solarizzazione.  L’effetto è molto variegato, sembrano piccoli corpi vaganti dalle forme diverse simili a macchie che si propagano.

“Ritagli di carta bianca” fotografati a colori su un fondo bianco costituiscono il terzo gruppo di 3 fotografie, per le quali usava due diversi procedimenti: o la pellicola negativa a colori per luce artificiale con due sorgenti luminose che davano effetti rosastri e bluastri per la diversa temperatura delle luci, una naturale calda  e l’altra artificiale fredda, rispetto al materiale fotosensibile usato; oppure la carta invertibile, quindi in copia unica, e due luci, una rossa e una blu (cui aggiungeva delle volte una luce gialla) con le quali illuminava  ritagli di carta fotografica lucida su foglio bianco cosicché la luce formava un’ombra blu e una rossa sui due lati estremi.Sembrano degli arabeschi colorati a larghe volute, sfumati e nel contempo ben definiti, un bell’effetto.

Il quarto e ultimo gruppo, “Vetri e plastiche trasparenti“, comprende due diverse tipologie: la prima, del 1951, con 3 immagini presentate, utilizza oggetti in vetro su cui proietta luci di vari colori con il fuori fuoco; la seconda, del 1957, con 6 immagini, si serve invece di plastiche trasparenti e vetri su un piano illuminato da una luce polarizzata mentre un filtro polarizzatore è posto dinanzi all’obiettivo per avere una notevole varietà di effetti proiettati sul negativo a colori, tecnica che adotterà anche per il film astratto in VHS. Sono molto diverse, nel primo tipo si distingue la  materialità translucida degli oggetti, nel secondo tipo si ha una mappatura di pezze dal cromatismo diverso ma senza forti contrasti, con un gradevole effetto sfumato.

Tutto realizzato con la macchina fotografica senza le manipolazioni chimiche in camera oscura delle esperienze precedenti, quindi essenzialmente lavoro di ripresa da fotografo d’arte e non da alchimista. Alla base di ciò la sua concezione che  poneva al centro la struttura della macchina fotografica per cui  ogni fotografia doveva  passare attraverso l’obiettivo senza deviazioni. Non seguiva nessuna corrente, i metodi adottati erano frutto della sua ricerca e della sua inventiva.

Così conclude Mormorio: “Nelle sue fotografie astratte non vi è mai nulla di casuale. La sua straordinaria capacità di controllare la luce gli consentiva di conoscere in anticipo il risultato finae, De Antonis non lasciava alcun posto al caso”.

Del resto la luce come soggetto dell’immagine è l’essenza stessa dell’astrattismo fotografico; e data la sua natura incorporea e nel contempo visibile può dare la capacità di cogliere la realtà più nascosta. Nella luce si trova l’essenza di ogni cosa.

Il cerchio si chiude con il ritorno alle origini di tutto, al “fiat lux” biblico che si coniuga alla modernità senza vincoli e confini dell’astrattismo fotografico di cui De Antonis è stato un esponente altamente rappresentativo in una forma d’arte difficile che va compresa e meditata.

Info 

Mostra “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”,  svolta  a Teramo nel 2003, pomossa da Regione Abruzzo, Provincia e Comune di Teramo e Bacino Imbrifero Montorio al Vomano-Tordino, organizzata da “Associazione Culturale Teramo Nostra”  presieduta da Piero Chiarini. Catalogo: Diego Mormorio, “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”, Teramo Nostra, 2003, pp. 120, formato  21 x 27, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo; il catalogo ha avuto a suo tempo il Premio internazionale che viene conferito a Orvieto. Il primo articolo è  ucito in questo sito il 19 dicembre u. s..

Foto

Le immagini sono state tratte dal Catalogo,  si ringrazia “Teramo Nostra” con il presidente PIero Chiarini e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 7 immagini rigiuardano la ritrattistica, le 5 seguenti la fotografia astratta alla quale sono dedicate tutte le 12 immagini inseite nel primo articolo riguardante la fotografia astratta in generale. In apertura, “Ritratto di signora pescarese”, 1933; seguono, “Rapino. Festa delle Verginelle”, 1935, e   “Fotografia di moda alle Terme di Diocleziano”, 1948; poi, un’altra “Fotografia di moda alle Terme di Diocleziano”, 1948, e una “Fotografia di moda nella Galleria Borghese”, 1950, quindi  “La modella Ive Nicholson vicino al banco ottico di De Antonis“, 1955, e “Fotografia di moda ripresa in occasione della presentazione a Roma del film ‘2001. Odissea nello spazio'”, 1968; inoltre, foto astratte, gruppo I, “XVI” , 1951, Stampa da diapositiva, e gruppo II, “X”, 1957,  Fotografia diretta su carta bromuro d’argento”;  infine, ancora gruppo II, “XI”, 1957,  Fotografia diretta su carta bromuro d’argento, e gruppo  III, “XX “, 1957,  Stampa da negativo; in chiusura, gruppo IV, “XXIII”, 1957, Stampa da negativo”.

De Chirico, e la Fondazione, la realtà profanata tra filosofia e pittura

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro resoconto del Convegno tenuto dalla Fondazione Giorgio e Isa De Chirico all’Accademia di San Luca il 22 novembre 2016 sul tema “La fine della bellezza, dibattito sull’arte classica e moderna”.  Abbiamo in precedenza riassunto le comunicazioni del presidente  Paolo Picozza sull’attività della Fondazione nel trentennio dalla sua nascita, e di Fabio Benzi sul numero speciale della rivista “Metafisica” che nella sua versione inglese “Metaphysical Art” ha pubblicato per la prima volta la “Commedia dell’Arte” di De Chirico in questa lingua e il suo corpus poetico. E abbiamo cercato di rendere il senso dell’approfondito dibattito filosofico dei professori ordinari di università milanesi, fiorentine e romane Donà, Givone e Di Giacomo, con l’introduzione dello storico dell’arte e critico Claudio Strinati. Completiamo il resoconto con dei cenni sulle conclusioni di  Riccardo Dottori, del Comitato scientifico della Fondazione,  e  con un’analisi più ampia, anche se sommaria, delle sue considerazioni su “La realtà profanata”,  lo scritto in cui De Chirico espone la propria concezione della realtà, contro quella degli intellettuali e dei pittori “moderni”, basata su un profondo pensiero filosofico da cui nasce la pittura metafisica.  

Ed eccoci a Riccardo Dottori, ordinario di Filosofia teoretica all’Università di Roma “Tor Vergata”, che entra nei temi toccati dai precedenti relatori, partendo dall’enigma che per San Paolo è “speculum aeternitatis”, ma osserva che “se il segno è diverso dal significato, impegna a cercarlo attraverso di sé”; e aggiunge che “il non senso della vita si supera guardando per trovarlo”. Torna sulla rivelazione avuta da De Chirico a Santa Croce precisando che “ha riguardato due elementi, la statua e le ombre”, anche  Nietsche nel 2010 fu colpito dalle ombre mentre passeggiava per Torino.

Di qui la proiezione nella malinconia, “non c’è nessuno ma l’ombra di se stesso, il segno di cui si può scoprire il significato”.
Dottori in questo è positivo, parla di superare l’angoscia che viene dall’inquietudine della metafisica del nulla e di dare un senso alla vita, vi concorrono il sogno e l’incubo, lo spirito e il rimorso. “Il pittore è la madre”, l’identità si riconquista attraverso il viaggio, in questo De Chirico si rivela come pittore post-moderno, ha ispirato Magritte e il Surrealismo.

La realtà profanata e la verità

Abbiamo solo accennato a quanto lo studioso ha argomentato anche rispetto alle relazioni precedenti, perché ci preme dar conto sia pure sommariamente, del suo saggio “Tra filosofia e pittura: Giorgio de Chirico e la realtà profanata”, uscito su “Metafisica”, 24 pagine di considerazioni filosofiche e artistiche sull’articolo di De Chirico, “La realtà profanata”, dove si legge che la realtà “non ha nessun rapporto con l’arte, ma tutt’al più con il soggetto che è raffigurato in un’opera d’arte”, cosa “di nessuna importanza per il fenomeno stesso dell’arte”. 

Nonostante questo, secondo De Chirico, non è accettabile l’atteggiamento negativo verso la realtà dovuto all’assenza di artisti in grado di gestire “tanto il reale quanto l’irreale” e al materialismo scientifico che ha suscitato la reazione,  per quanto attiene allo spirito, contro la realtà: un “fenomeno instabile e difficile a trattare”, temporale in quanto legato a passato, presente e futuro, e atemporale, “inchiuso nell’eternità”, che “si identifica con la verità” ma ha tanti aspetti quante sono le mentalità.

Bisogna, tuttavia, essere prudenti “nei nostri giudizi sulla sua relatività”  perché,  al di là della molteplicità di situazioni, “la realtà del vero è concreta e, per noi, la più importante; essa è la realtà della saggezza”, che “corrisponde al sentimento e al giudizio degli uomini ragionevoli di tutti i tempi”;  resta la stessa attraverso i secoli e “si identifica con la verità”. In quanto tale “non si dovrebbe mai permettere che il suo significato sia sfigurato”, mentre “per l’uomo moderno è nulla, perché egli ignora la realtà per la ‘mania dell’intelligenza’” che “ha ignorato il rispetto della verità, la venerazione dei veri valori; ha ignorato insomma le cose concrete che sono le ‘realtà dello spirito'”.

La sua denuncia diventa veemente verso gli uomini politici, “che hanno osato manovrare con la realtà in modo talmente spudorato ‘grazie al terreno molto bene preparato dagli intellettuali'”, perché senza il loro disprezzo per la realtà i politici non avrebbero potuto servirsi per la loro retorica di invenzioni contrarie alla realtà vera, con autentiche menzogne. Nell’arte  la “mania dell’intelligenza” ha fatto nascere “la leggenda che una grande opera d’arte della nostra epoca deve, quasi obbligatoriamente, essere incomprensibile”, con il risultato di allontanarla dalla realtà, che invece deve essere difesa da “questi falsi intellettuali” i quali “si satollano con una dubbia metafisica, con un surrealismo ed un ‘mistero che sembrano fatti su misura per loro e che naturalmente non hanno nulla a che vedere con la metafisica, il surreale e il mistero”. Ripudiando la realtà  “in nome dello spirito moderno”,  la “rappresentazione dell’universo, la Weltanschaung, è stata semplicemente sostituita dal caos”. E così “oggi gli uomini vanno a tastoni nel caos, incapaci di cambiare chicchessia, di conchiudere qualcosa, subendo così la giusta vendetta della realtà ripudiata”.  

Sono parole quanto mai coraggiose ed estremamente attuali, scritte tra il 1941 e il 1943, in una fase cruciale della seconda guerra mondiale  e pubblicate nel 1945, a guerra finita, in “Commedia dell’arte moderna”, con lo pseudonimo “Isabella Far”. Dottori le commenta inquadrando queste espressioni del talento filosofico di De Chirico  nella grandi correnti di pensiero cui lo stesso artista  si ispirava negli scritti teorici per poi tradurne i motivi salienti nella pittura metafisica, che presenta una realtà enigmatica, come il senso del tempo che precorre Bergson e le analisi metafisiche di Heidegger, e dello spazio “che è parallelo alle discussioni sollevate dalle geometrie non euclideea”.

Dottori riassume la concezione di Heidegger che “distingue l’essere come tale da un  lato, e l’ente in quanto ente” come soggetto della scienza e della tecnica, da cui lo separa una “differenza ontologica”; ma nel contempo  “l’ente come tale non può venire separato dall’essere, perché l’essere ne costituisce il senso”, oltre “le domande della scienza e le disponibilità della tecnica”.

La metafisica tradizionale porta alla tecnica che “riduce l’essere all’ente, dimenticando la loro differenza essenziale” Per
questo Dottori si chiede se “esiste un pensiero completamente altro dal pensare metafisico, che non riduca l’essere all’ente e riesca a presentare l’essere quale esso è”; e se il superamento per tale via della metafisica classica porterebbe per De Chirico alla “sconfessione della sua opera o della pittura Metafisica”.   

Una risposta è nelle parole di De Chirico che abbiamo già riportato, secondo cui “la realtà è collegata al tempo, non nel senso che essa è semplicemente nel tempo, quanto perché si costituisce appunto sulla base di queste tre manifestazioni temporali”, che sono il passato, il presente e il futuro, quindi considera “la temporalità come la dimensione fondamentale della realtà”, mentre per Heidegger “questo equivale a dire che la temporalità è la dimensione fondamentale dell’esserci, che è l’essere dell’uomo come esistenza” collocato nel tempo, per cui “il tempo è il senso dell’essere”, De Chirico lo esprime in pittura dipingendo grandi orologi sugli edifici.

Quindi, se per Heidegger “l’essere non è semplicemente nel tempo, ma il tempo è piuttosto il senso dell’essere”,  dell’essere-nel-mondo,  De Chirico anche se “non arriva a dire che il tempo è il senso della realtà, ci dice comunque che la realtà si forma da queste manifestazioni temporali”.

Il pensiero filosofico dell’artista è particolarmente complesso perché, come abbiamo visto, collega la realtà non solo alla temporalità contingente, ma anche all’eternità, cosa che, osserva Dottori, “significa elevare la realtà al di sopra del tempo inteso come mera relazione degli istanti del passato, presente e futuro, cioè di quella temporalità che Heidegger chiama Zeitlichkeit, la volgare concezione del tempo come puro scorrere”.   Ciò non vuol dire, però, che la realtà sia eterna, le tre dimensioni temporali “sono fondamentalmente le dimensioni dell’esistere dell’uomo, dell’essere-nel-mondo”; essa è inchiusa nell’eternità, essenzialmente temporale, e si manifesta nella sua verità solo nella trascendenza dell’esserci che è la temporalità in cui si svela la sua verità, il suo senso”. 

La verità, dunque, per De Chirico come per Heidegger, è il risultato della “presa di coscienza dell’autentica realtà”, perché “l’essere nella sua latenza è il vero, e la realtà non dimenticata e non profanata è anch’essa la verità”. Come nella scienza ogni risposta fa nascere nuove domande, così nella filosofia, perché a questo punto ci si chiede in cosa consiste  la verità. Sembra una risposta scontata considerarla l’adeguamento del nostro pensiero alla realtà,  ma non è così semplice,  la realtà è strana  e inspiegabile, molteplice e sfuggevole, quindi non è univoca. E allora si torna all’interrogativo su cos’è la realtà, per misurare su di essa il nostro pensiero che porta alla verità: “La realtà non può essere considerata semplicemente come l’oggettività su cui misuriamo il nostro sapere, perché non sarebbe più uno strano fenomeno, ma ciò che il nostro sapere, la scienza, sa”.  In termini pratici: “Possiamo piuttosto dire che la realtà è identica alla verità se riusciamo a far luce sul fenomeno strano e inspiegabile che essa è”.

La caccia al tesoro ci riporta all’enigma della realtà 

Il modo con cui Dottori ripercorre il pensiero filosofico di De Chirico collegato a quello di Heidegger è intrigante, appassiona come un’indagine, prende come una caccia al tesoro, di tappa in tappa, di scoperta in scoperta impegnando la mente nei collegamenti più sottili e insieme profondi. 

Ora è giunto il momento di far luce sul fenomeno-realtà, così strano e a prima vista inspiegabile. Ma non per chiarirlo
spiegandolo e riconducendolo alla sua essenza, come voleva Husserl, fondatore della fenomenologia e  maestro di Heidegger; non possiamo “mettere la realtà empirica tra parentesi; quando sospendiamo i nostri giudizi e i nostri problemi per arrivare all’essenza delle cose”, invece “è piuttosto restando ben fermi nella nostra esperienza del mondo e nella sua problematicità, nella tensione stessa della realtà, che il fenomeno ci appare nella sua non-latenza”.  E questo avviene al di là dei differenti aspetti che la realtà assume nei diversi individui e momenti, come nella diversa visione temporale in cui il contingente si contrappone all’eternità. Nonostante ciò, “la realtà resta, oltre ogni relatività, presupposta come non semplicemente ferma in se stessa, ma come identica a se stessa, perché questa è la condizione per cui essa possa poi apparirci nella sua non latenza, come la verità che continuiamo a  cercare, perché forma il principio di ogni nostro orientamento”.  

Identica a se stessa e nel contempo mutevole a seconda delle situazioni, personali o storiche, qual è dunque la vera faccia della realtà? Quella che risulta dall’essere una e centomila, solo così può uscire dalla sua “non latenza”  e rivelarci la verità. “In questo senso la realtà e la verità sono la stessa cosa per noi, e solo in questo modo la realtà ci appare quale vera realtà”.

E’ la metafisica di De Chirico, ben diversa dalla metafisica scolastica secondo cui “la realtà resterebbe nella sua indistinzione e indifferenza, e può apparirci invece, a seconda del modo con cui ci rapportiamo ad essa, nella sua non-latenza”.  Lo vediamo nelle “Piazze d’Italia”.

Ma non è finito il percorso filosofico delineato da Dottori, si deve ancora passare alla verità, che è strettamente collegata alla realtà, quindi partendo da quest’ultima: “Il suo essere per noi ha il suo riscontro nel nostro essere per lei, cioè nel nostro voler essere nella verità, e solo in questo modo la realtà ci appare come vera realtà”. Il collegamento avviene mediante un atto volitivo: “Con il voler essere nella verità in rapporto alla realtà infatti si costituisce la verità della realtà  per noi  e tramite noi”. E non è  una realtà meramente fenomenica ed esteriore, si rivela “come autentica realtà spirituale, la realtà della nostra vita e della nostra storia, e della storia di tutti gli spiriti, così come è la vera realtà in quanto tale”.  Così conclude Dottori: “In questo consiste da ultimo la serietà della realtà di cui parla De Chirico”, l’unica realtà  autentica, una realtà spirituale che si raggiunge attraverso la saggezza e l’arte, alla realtà strettamente collegata, e attraverso essa alla verità.  

Torniamo alla “realtà profanata” di De Chirico per rendere con le sue parole il valore non solo teorico e filosofico ma soprattutto concreto, della sua concezione della realtà, che gli fa usare tutta la sua vis polemica contro coloro, intellettuali o politici, i quali, disprezzandola,  la manipolano e la distorcono, nascondendola alla gente con  gravi conseguenze sul piano pratico: “Ma la realtà, anche quand’essa è invisibile agli uomini, esiste ed implacabile attende la sua ora. L’uomo intelligente si rende conto che la realtà, tanto cattiva di natura, è stata lasciata per troppo tempo sola e senza essere sorvegliata; egli sa che questa ignoranza della realtà ha fatto sì che il male è andato sempre aumentando e oggi l’uomo intelligente trema pensando che s’avvicina il momento fatidico in cui il male giungerà al colmo e la catastrofe sarà immensa”. Per concludere sulla “realtà profanata”: “Tanto grande sarà allora la catastrofe, che in essa, e per via di essa, la realtà apparirà di nuovo a tutti, e tutti dovranno riconoscerla”.

Parole gravi, ispirate anche dal conflitto mondiale che era in atto, ma quanto mai profetiche e valide ancora oggi. Tanto che il  “diritto umano alla conoscenza” viene  rivendicato anche in sede di Nazioni Unite, perché la realtà, e quindi la verità che ad essa è collegata, diventi patrimonio di tutti.  Una realtà che diventa spirituale con la saggezza e l’arte, le due “vie della vita” con le quali, per De Chirico, si può raggiungere.

Il ritorno alla realtà quotidiana

Così si è conclusa l’intensa mattinata, con arte e filosofia accomunate in una “total immersion” di straordinario interesse per i sapienti approfondimenti compiuti, di cui abbiamo cercato di dare i passaggi principali consapevoli che la complessità degli argomenti espone a incomprensioni oltre che a imprecisioni, per non parlare delle manchevolezze di una sintesi quanto mai
difficile e forzata.  

Siamo usciti dalla sala del Convegno ancora presi dai ragionamenti filosofici ascoltati,  incentrati sulla realtà anche nel suo rapporto misterioso con la verità.  Non potevamo non guardare la realtà intorno a noi con occhi diversi, immaginando che  essa ci apparisse oltre la sua latenza, e ci disvelasse la verità.

Nel palazzo monumentale dell’Accademia di San Luca abbiamo percorso  la rampa a spirale del Borromini, lungo le pareti
abbiamo passato in rassegna le opere grafiche e  scultoree della mostra,  aperta dal 13 ottobre 2016 al 13 gennaio 2017, “Roma-Parigi. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi”, 130 opere tra quadri e disegni, rilievi e sculture sui concorsi delle due accademie, l’Accademia di San Luca e l’Accademia di Francia, tra la metà del ‘600 e l’inizio dell”800, periodo in cui stavano per fondersi in un europeismo “ante litteram”. Il sodalizio di artisti delle due accademie era rafforzato dal principio condiviso dell’unità nel disegno delle tre arti, pittura, scultura e architettura. Sempre nel Palazzo Carpegna, verso l’uscita abbiamo visitato altrre due mostre collegate, aperte dal 26 ottobre 2016 al 25 febbraio 2017, “Il Grand Tour, Alvaro Siza in Italia. 1976-2016” e “La misura dell’Occidente, Alvaro Siza -Giovanni Chiaramonte”, disegni, planimetrie progettuali e fotografie di architetture molto particolari, con un gran numero di schizzi di eccellente fattura, un vero spettacolo di arte grafica e fotografica.

La realtà ha continuato a presentarsi a noi in forma di arte, come è sua natura in modi molteplici, e siamo rimasti ancora nella “total immersion” filosofico-artistica, presi nei sensi e nella mente.   

Infine siamo usciti “a riveder le stelle”, ci siamo immersi di nuovo nella realtà quotidiana. Ma non ci è sembrata più la stessa di prima. Forse perchè dopo la magica mattinata all’Accademia di San Luca nel trentennale della Fondazione, che ci ha fatto penetrare nel  pensiero filosofico trasfuso nell’arte del grande Giorgio de Chirico. siamo noi a non essere più gli  stessi.  

Info 

Accademia di San Luca, piazza Accademia di San Luca 77,  Roma. Tel. 06.6798850. Orari: Biblioteca lunedì-venerdì ore 9,00-19,00, sabato 10,00-14,00 ; Galleria  lunedì-sabato ore 11-19. Casa Museo Giorgio De Chirico, sede della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, Piazza di Spagna  n. 31, visite guidate  in italiano-inglese, gruppi di 10 in 3 turni, ore 10-11-12,  da prenotare a prenotazione@fondazionedechirico.org,  tel. 06.6796546. Biglietto, intero euro 7, ridotto euro 5 per under 18 e over 65, gratuito under 12. Il primo articolo sul Convegno è uscito in questo sito il 17 dicembre 2016.

Per le mostre di De Chirico dal 2009 cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, ela mostra parallela “L”Enigma dell’ora di Paolini, con de Chirico al  Palazzo Esposizioni” 10 luglio (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013, articolo a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418;  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386. 

Foto

Le immagini  presentano una serie di inquadrature dei diversi ambienti della Casa Museo Giorgio De Chirico. Sono state tratte da siti web di pubblico dominio, precisando che sono inserite a titolo meramente illustrativo e che non vi è alcuna finalità promozionale e tanto meno economica,. Si ringraziano i titolari dei siti, assicurando che se qualcuno di loro non gradisse la pubblicazione, la relativa immagine verrà immediatamente eliminata su semplice richiesta. Ecco i siti nell’ordine di successione delle rispettive immagini inserite nel testo: artlife.com,  arttribune.it, contemporarydaily.it, desireememoli.it,  scoprendoroma.it, tripadvisor.com, italianways.it, rome-accomodationnet.it, rocaille.it, turismoroma.it.  

De Antonis, nella fotografia astratta un nuovo realismo

di Romano Maria Levante

 “Pasquale De Antonis – Fotografie astratte 1951-1957” , di Diego Mormorio, è il libro-catalogo a cura di  “Teramo nostra” – cui si deve il “Premio annuale per la fotografia cinematografica Gianni Di Venanzo” giunto alla XXI edizione, insieme ad una serie di iniziative culturali e ad attività per il recupero di valori del territorio come il Teatro antico di Teramo – pubblicato nel giugno 2003  in occasione della mostra realizzata a Teramo dalla benemerita associazione culturale.

Ce ne occupiamo a molti anni di distanza dalla pubblicazione appena l’abbiamo scoperta, avendo trovato il libro-catalogo non solo celebrativo dell’arte fotografica di Pasquale De Antonis,  ma rivelatore, perché rovescia quanto sembra acquisito e indiscutibile sui rapporti tra arte figurativa ed arte astratta, nella fotografia come nella pittura e nella scultura.  Non si tratta soltanto di teoria, le immagini di fotografia astratta di De Antonis – che illustrano l’articolo e commentermo prossimamente – consentono una verifica diretta di quanto affermato dall’autore  Diego Mormorio con dovizia di argomenti e di riferimenti. 

L’ampliamento di orizzonte rispetto all’astrattismo

Abbiamo definito rivelatore il libro-catalogo perché disvela quanto di più misterioso, e quindi incomprensibile, c’è nell’arte astratta  per il comune osservatore che non vi trova quei riferimenti alla realtà visibile  sempre presenti nell’arte tradizionale pur nelle sue tante varianti stilistiche alla ricerca della forma espressiva più consona ai tempi e al talento degli artisti: e sono tante, con i grandi capisaldi dell’arte classica, del ‘400 e del Rinascimento, e l’evoluzione incessante con  l’impressionismo e il divisionismo, il realismo fino al cubismo, forse l’ultimo avamposto del figurativo, ancora presente sia pure nella scomposizione anche drastica delle forme e dei volumi. 

L’astrattismo è invece la prima decisiva uscita dal figurativo, cui si aggiungono le trasgressioni dell’espressionismo e  del dadaismo, nonché di tante altre forme dal minimalismo al  concettualismo,  in un’arte contemporanea sempre più senza limiti né riferimenti a tendenze e correnti, che ormai si manifesta in forme inusitate fuori da ogni classificazione, se ne potrà vedere un’ampia rassegna nella “16^ Quadriennale di Roma”  al Palazzo Esposizioni di Roma, in cui 150 opere di 99 artisti italiani saranno riunite in 10 sezioni tematiche, in un ossimoro tra  libera creatività e catalogazione per temi.

Ma perché questo ampliamento di orizzonte all’indietro e in avanti nella considerazione dell’astrattismo cui si ricollega direttamente la fotografia artistica di De Antonis? 

Guardando avanti abbiamo fatto un cenno, con un riferimento alla mostra della 16^ Quadriennale romana, all’evoluzione irrefrenabile della creatività artistica che con i suoi eccessi supera sempre i limiti precedenti e fa rientrare l’astrattismo in confini ormai tradizionali senza più quel carattere di trasgressione che ha avuto allorché ha rivoluzionato l’arte.

All’indietro è andato Mormorio dopo aver definito l’astrattismo “il più radicale atto di ribellione  contro il razionalismo positivista ottocentesco,che affondava le sue radici nei modelli culturali – e dunque anche figurativi – elaborati a partire dal Quattrocento”.  Una ribellione che ha portato “al superamento degli schemi naturalistici e, dunque, anche alla dissoluzione dello spazio prospettico-matematico, cui è strettamente connessa l’invenzione della fotografia”.

Questi “schemi naturalistici” consistono nella rappresentazione esteriore, quindi “fotografica”, della realtà, che ha avuto il culmine nel Rinascimento, con derivazione diretta dall’arte classica, a differenza dell’arte orientale, dall’India alla Cina, con una “complessità che trascende il visibile”.

Nell’arte classica, come si vede nella scultura greca, la complessità è stata “invece azzerata dalla ricerca dell’istantaneità”, dando avvio al “cammino figurativo che porta alla fotografia e al cinema”. Mormorio cita il celebre “Discobolo” di Mirone nel quale lo scultore ha cercato di cogliere, e fissare sul marmo, “il moto fuggevole, l’espressione istantanea” dell’attimo immediatamente precedente il lancio del disco, come il più significativo per rendere il soggetto rappresentato.

Il sociologo tedesco  Hauser lo definisce  “momento pregnante”, ma Mormorio si chiede “quanto questo ‘momento’ sia effettivamente ‘pregnante’, quanto cioè esso corrisponda all’etimo della parola, vale a dire, sia gravido di vita”. E dà subito una risposta precisa, ricordando che :invece “è stato praticamente considerato da molti una falsificazione della realtà, una caduta nella pura esteriorità e, conseguentemente, dalla vita presa nella sua interezza”, sin dalla fine dell’Ottocento, allorché “questo momento raggelato, fotografato, ha cominciato a risultare innaturale”.

E qui comincia a dispiegarsi la rivelazione, il rovesciamento di quanto percepito dall’osservatore. La prospettiva, che sembra la massima aderenza alla visione effettiva, diventa invece “un’ardita astrazione della realtà”, cioè un allontanamento laddove sembrerebbe il massimo accostamento. Intorno al 1930 Erwin Panofsky ne spiega i motivi, lo spazio “costante e omogeneo” della prospettiva  riflette una realtà deformata dal fatto che il nostro occhio non è immobile e non dà la “visione piana” della realtà, ma soprattutto dalla differenza tra tale spazio “costante e omogeneo”,  di tipo “matematico”, e lo spazio “psico-fisiologico”, addirittura “antinomici” tra loro.

Quindi c’è “una fondamentale discrepanza tra la ‘realtà’ e la costruzione” , che si manifesta nel figurativo e perfino nella fotografia ancorata alla stessa visione prospettica e naturalistica contraddicendone l’assoluta verisimiglianza, che è solo  apparente, quindi ingannevole.  

L’arte astratta nella rappresentazione della realtà

Sin dal 1924  Pavel Florenskij aveva  relegato la prospettiva alla matematica e all’architettura negando ad essa ogni valore nella rappresentazione artistica del mondo reale che presuppone più punti di vista e non una visione monoculare, uno sguardo non fisso ma frutto dei movimenti degli occhi, della testa e del corpo; e cita l’arte egizia, in particolare funeraria,  iconica, che coglie i tratti ideali  in una visione di carattere metafisico al di là del lato empirico, riconoscibile in Kandinskij e Malevic. Perciò era contrario alla fotografia che non poteva rendere il movimento e non concepiva il ritratto come unica immagine incapace di esprimere i tanti aspetti della personalità.

L’arte astratta nasce da questa esigenza. A differenza del modo di guardare “fotografico” della tradizione, scrive Mormorio, “invece la pittura d’icone è  un universo metafisico. Il quale educa a guardare le cose con un terzo occhio puramente spirituale”.  Si tratta di un “antinaturalismo” nato dalla constatazione che non si può rendere la realtà cercando di riprodurla e per esprimere la creatività bisogna cercare forme nuove.

Malevic, citando episodi occasionali per lui rivelatori, arriva a sostenere che “tra l’arte di creare  e l’arte di ripetere la differenza è grande” e che “la forma intuitiva deve scaturire dal niente”. Anche Kandinskij da episodi occasionali trae conclusioni analoghe: “Seppi allora inequivocabilmente che gli oggetti nuocevano alla mia pittura”.  Mormorio così commenta: “Per Malevic, l’artista deve trovare nella natura  non oggetti da riprodurre, ma lo stimolo a creare forme che non hanno niente in comune con la natura”, e aggiunge: “Di fatto, Malevic. Kandinskij, e gli astrattisti in generale  percepiscono la realtà fisica nella sua effettiva complessità”. Che non è riconducibile alla riproduzione più o meno fotografica ma comunque naturalistica: “L’arte astratta è, dunque, un tentativo di superamento della realtà fenomenica per giungere alla luce del pensiero”, addirittura “alla capacità dell’uomo di percepire l’assoluto”.

Se questa è l’arte astratta, “a una prima osservazione si potrebbe dire che tra la fotografia e l’astrattismo esiste una distanza incolmabile”, e Mormorio lo spiega sottolineando  che essa “è intimamente connessa alla realtà fisica. Essa ha cioè sempre bisogno di un soggetto: di qualcosa che stia di fronte al fotografo. Di qualcosa che l’obiettivo fotografico o il materiale sensibile possano percepire”.

Da un non-oggetto, la luce,  fotogrammi, rayogrammi e vortofotografie

Anche il pittore si può ispirare alla realtà che vede, ma non è legato ad essa, può liberare la sua fantasia, mentre il fotografo può soltanto documentare una realtà fisica cercando di creare una “realtà immaginativa”  che la trasfiguri ma non la ignori. “La fotografia ha bisogno di oggetti . Con una sola eccezione: la luce. Al pari del  suono, infatti, la luce è una realtà fisica senza essere un oggetto. Ed è proprio in questo non oggetto – la luce – che l’astrattismo pittorico e quello fotografico trovano il loro punto di unione. E’ grazie alla luce che la fotografia può essere astratta. Può cioè raggiungere la capacità di percepire
la realtà sottile e superiore. La luce è, infatti, all’origine di tutto. E di ogni cosa, l’essenza”. Ricordiamo la creazione, “fiat lux, e la luce fu”.

La luce è un’energia che si propaga dalla fonte generatrice irraggiando tutt’intorno, è incorporea ma collegata alla materia che la genera e la trasmette, l’assorbe, la riflette e la diffonde. E’ il “non- oggetto che costituisce forse il maggior punto di attrazione dell’arte fotografica, il più straordinario soggetto della visione. Un non-oggetto che riconduce a ciò che è all’origine del nostro vedere tutte le cose, alla stessa meraviglia dell’esistenza”. Ed è proprio su queste caratteristiche della luce che si fonda la straordinaria bellezza della fotografia astratta”, parole dello stesso Mormorio nella voce “luce” dell'”ABC della fotografia”.  

Sono rivelatrici di un percorso nel quale Mormorio ha il grande emerito di accompagnare passo dopo passo alla scoperta delle motivazioni recondite di un’arte, quella astratta,  spesso incompresa o peggio, e della sua espressione nella fotografia.  Lo seguiamo ancora nel suo itinerario sapiente quanto originale ed istruttivo che entrando nel campo della fotografia prepara all”arte fotografica astratta di De Antonis.

A questo punto occorre citare i precursori, primo tra essi Laszlo Moholy Nagy, poeta e artista ungherese che, lasciò il realismo espressionista interessandosi al suprematismo e costruttivismo di Malevic, El Lissitsky e Rodcenko, il fotografo russo celebre per le sue inquadrature oblique; e prestò attenzione alla fotografia come segno di modernità accostando dipinti di pittori d’avanguardia a fotografie di automobili e orologi, eliche e dinamo, ma soprattutto  dedicando un interesse tutto particolare alla luce mediante composizioni con lastre di plastica trasparenti  poste davanti a pannelli bianchi dove si disegnavano dei giochi di luce mutevoli. Da questi primi tentativi, con l’influsso di dadaisti e cubisti, nacque il “fotogramma”, fotomontaggio senza macchina fotografica. L’artista lo definisce così: “Il fotogramma  è l’azione della luce durante un determinato periodo di tempo: vale a dire il movimento della luce nello spazio”; la luce “produce spazio” senza strutture ma con i mezzi toni del nero e del grigio, “che avanzano e recedono mediante la forza irradiante dei loro contrasti e delle loro sfumature sublimi”. 

Mormorio sottolinea che “le forme create dal fotogramma sono simili alla musica”, potremmo definirle una musica luminosa. “Come la musica, attraverso l’impalpabile, il fotogramma giunge alla forma. Sta qui il miracolo dell’esperienza di Laszlo Moholy Nagy. Un miracolo che è tale nel suo essere interamente sperimentale”, un risultato  “del tutto consapevole e deliberato”.  La tecnica del fotogramma, descritta da Nagy con precisione, consisteva nell’esporre alla luce dei corpi con grado di rifrazione diverso o nel deviarla in vario modo, davanti a una lastra sensibile, anche senza camera fotografica, su cui  si fissano le luci e le ombre filtrate dagli oggetti. “Per questa via si rendono possibili composizioni luminose dove la luce, nuovo mezzo creativo alla stessa stregua del colore in pittura e del suono in musica, si lascia padroneggiare perfettamente”.

Man Ray, l’altro grande precursore, giunse invece casualmente alla scoperta del “rayograph”, allorché sviluppò per errore, senza volerlo, un foglio di carta sensibile non impressionato e  vide formarsi un’immagine deformata di oggetti su cui si rifletteva la luce. Interessato dal fenomeno fece altri tentativi, ottenendo immagini che  Tristan Tzara,  appena le vide in una visita al suo studio, definì  “purissime creazioni dada”,  considerandole superiori ai precedenti  tentativi di Christian Schad che nel 1921 aveva posto sulla carta sensibile strisce di carta e pezzi di spago. 

Prima c’erano state le “vortofotografie” del 1916-17 del grande fotografo Alvin London Coburn, che furono commentate addirittura da Ezra Pound, il poeta tanto discusso per motivi politici, il quale descrive come, attraverso il “vortografo”, strumento inventato nel 1916, abbia trasferito nella fotografia  lo stile pittorico del  cubismo e del vorticismo, movimento fondato nel 1914 in Inghilterra.

In realtà, più che di uno strumento, si trattava di tre specchi a forma di prisma con cui venivano ottenute immagini nelle quali il poeta, a somiglianza delle note musicali e delle variazioni cromatiche, vedeva la “bellezza e l’espressività di una combinazione di forme”; e attribuiva alla fotografia un proprio “statuto estetico” superando i pregiudizi della sua  non artisticità e della necessità di riferirsi alla pittura. Mentre la “vortofotografia”, alla quale Pound attribuisce un ruolo pionieristico come lo ebbero gli studi di anatomia nella tradizione accademica, si distaccava dalla fotografia pittorialista, da lui definita  “piatta e provinciale”.

Le sperimentazioni successive in Europa e un precursore di fine ‘800

L’itinerario che Mormorio ci ha fatto ripercorrere approda finalmente alla fotografia astratta con Jaroslav Rossler che operava a Praga negli anni dei “fotogrammi” di Nagy e dei ” rayogrammi” di Man Ray, seguiti alla”vortografia” di Coburn. Fino all’inizio degli anni ’40  si moltiplicano poi le sperimentazioni in molti paesi europei, in Germania con Nerlinger, Cavael e Schulze e in Svzzera con Hausmann, in Olanda con Zwart e in Belgio con Ubac, in Polonia con Roszak e in Serbia con Bor, in Ungheria con Kepes e in Italia con Luigi Veronesi.

Siamo giunti al periodo in cui ha operato  De Antonis, la cui esperienza  astrattista ha inizio nel 1951, dopo un quarto di secolo di fotografia.  Ma prima di entrare nel suo mondo fotografico astratto un ultimo riferimento ai precedenti di fine dell’800, i veri precursori.

Ha precorso i tempi il noto scrittore August Strindberg che realizzò nel 1890 le “cristallografie” mettendo  i fiori di ghiaccio a contatto della carta sensibile e nel 1892 le “celestografie” impressionando direttamente sulla carta fotografica “il movimento della luna e il vero aspetto della sfera terrestre libero dalle deformazioni del nostro occhio ingannevole”, immagini che colpirono il pittore Edward Munch quando conobbe lo scrittore a Berlino nello stesso 1892.  Le parole di Strindberg nel racconto del 1903 “Fotografia a filosofia”, citate come le altre prima riportate da Mormorio, sono la migliore premessa alla visione diretta delle immagini di fotografia astratta: “Da un negativo si ottiene un positivo, lì le ombre tornano ad essere luce”. Ovvio ma basilare.

Lo vedremo prossimamente dalle opere del nostro fotografo astratto Pasquale De Antonis.

Info

Mostra “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”,  svolta  a Teramo nel 2003, pomossa da Regione Abruzzo, Provincia e Comune di Teramo e Bacino Imbrifero Montorio al Vomano-Tordino, organizzata da “Associazione Culturale Teramo Nostra”  presieduta da Piero Chiarini. Catalogo: Diego Mormorio, “Pasquale De Antonis. Fotografie astratte 1951-1957”, Teramo Nostra, 2003, pp. 120, formato  21 x 27, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo; il catalogo ha avuto a suo tempo il Premio internazionale che viene conferito a Orvieto. Il secondo e ultimo articolo, sull’arte fotografica di De Antonis, dai ritratti classici alle fotografie astratte, uscirà in questo sito il  29 dicembre p.v. Cfr., in questo sito, i nostri rticoli: per una fotografia molto diversa da quella astratta, la fotografia cinematografica, l’articolo sul XXI Premio intitolato a Gianni Di Venanzo organizzato anch’esso da “Teramo Nostra”, del 28 novembre 2016; per le correnti e gli artisti citati nel testo, gli articoli sulla “16^  Quadriennale di Roma”  16 giugno, 24, 27 ottobre, 1° e 29 novembre 2016, su impressionisti e moderni 12, 18 gennaio 2016, sul cubismo 16 maggio 2013, sull’astrattismo 5, 6 gennaio 2012, sul minimalismo, la pop art e altre avanguardie del ‘900 inel Guggenheim 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012; in fotografia.guidaconsumatore.it, su Rodcenko 2 articoli il 27 dicembre 2011; in cultura.inabruzzo.it,  su dadaismo ed espressionismo 6, 7 febbraio 2010 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su altro sito). 

Foto

Le immagini sono state tratte dal Catalogo, si ringrazia “Teramo Nostra” con il presidente Piero Chiarini e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le 12 immagini – l’artista intitola le 51 foto astratte con un numero romano da I a LI, aggiungendo solo data e tecnica utilizzata – riguardano tutte la fotografia astratta di De Antonis con riferimento ai 4 gruppi della sua evoluzione tecnica; alla sua fotografia astratta saranno dedicate anche le ultime 5 immagini del 2° articolo, mentre le 7 immagini iniziali riguarderanno la sua ritrattistica classica. In apertura, gruppo I, 1951, Stampe bromuro d’argento da negativo, “V”: seguono, sempre gruppo I e 1951, stessa tecnica, “VI”  e  XIV”; poi, ancora gruppo I, 1951, ma Fotografia diretta su carta invertibile, “XVIII”, e gruppo II, 1957, Fotografia diretta su carta bromuro d’argento, IX” ; quindi, anora gruppo II ma 1956, Fotografia diretta su carta invertibile, “XV”,  e 1957, Fotografia diretta su carta bromuro d’argento “XXXII”,”XXXIII”; inoltre, gruppo III, “XIX”, 1956, Fotografia diretta su carta invertibile,  e gruppo IV, 1957, Stampe da negativo, “XXV” e XXIX”; in chiusura, ancora gruppo IV e 1957, stessa tecnica, “XXX”.  

De Chirico, tra arte e filosofia nel trentennale della Fondazione

di Romano Maria Levante

All’Accademia di San Luca a Roma  la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico ha celebrato i primi 30 anni di attività il 22  novembre 2016 con un Convegno nel quale il presidente Paolo Picozza ha  ripercorso il lungo cammino per la tutela e la divulgazione dell’opera del  grande artista,; poi è stato presentato da Fabio Benzi  il numero celebrativo delle riviste “Metafisica” e  “Metaphysical Art” con la pubblicazione della prima traduzione in inglese della “Commedia dell’Arte moderna” e del corpus delle poesie di De Chirico, e si è svolta una discussione  filosofica tra professori ordinari delle Università di Milano, Firenze e Roma, Massimiliano Donà, Sergio Givone e Giuseppe Di Giacomo con gli interventi di Riccardo Dottori e Claudio Strinati, del Comitato scientifico della Fondazione, sul tema del  Convegno “Fine della Bellezza? Dibattito tra arte classica e moderna”. Nei tre giorni precedenti, dal 18 al 21 novembre, l’invito alla  Casa-museo di Giorgio de Chirico a  Piazza di Spagna, con visite gratuite  di mezz’ora per gruppi di 15 persone senza prenotazione.

L’attività della Fondazione e le pubblicazioni nel trentennale

E’ stata una mattinata densa di contenuti e fonte di emozioni quella del 22 novembre, quando si è entrati nel mondo di De Chirico gradualmente, iniziando con il  racconto del presidente Paolo Picozza che ha fatto rivivere l’attività della Fondazione tra molte difficoltà ma con il risultato di aver svolto un lavoro non solo di divulgazione ma anche di recupero delle opere del Maestro – 300  sono state riportate in Italia – con il vanto di non aver fatto nessuna vendita ma solo acquisizioni, per cui la Fondazione dispone di un grande patrimonio artistico avendo risolto altrimenti i problemi economici.

Ha anche donato  24 opere alla Galleria Nazionale  d’Arte Moderna, il museo con cui l’artista ebbe un rapporto controverso, celebrato nella mostra del 2009 presso la stessa galleria.

La Fondazione, sorta  nel 1986, inizialmente si è impegnata sul piano culturale,  nel centenario della nascita dell’artista ha promosso la ricerca critica di Maurizio Calvesi,  si è battuta in merito alla problematica vero-falso  sulle sue opere, soprattutto le  più recenti, come falso da contraffazione o presunto falso d’autore nella datazione.   

Una svolta si è  avuta nel 1998 con l’apertura della Casa-Museo, nella residenza che l’artista, nelle “Memorie della mia vita” definì così: “Dicono che Roma sia il centro del mondo e che piazza di Spagna sia il centro di Roma, io e mia moglie quindi si abiterebbe  nel centro del centro del mondo, quallo che sarebbe il colmo in fatto di centralità e il colmo in fatto di eccentricità”.  Quindi la pubblicazione  di un suo romanzo inedito e  di una nuova edizione delle “Memorie della mia vita”  con la prefazione di Carlo Bo, l’organizzazione di mostre  in Italia, come quelle a Milano e a Taranto, all’estero, in particolare in Belgio e a Buenos Aires; la prestigiosa rivista “Metafisica” , con l’edizione in inglese “Metaphysical Art”, ha consentito di diffondere la conoscenza di importanti carteggi di De Chirico e  di suoi testi teorici anche sul rapporto tra arte e filosofia, centrale nell’opera del Maestro,  il quale nei suoi  scritti si richiama soprattutto  a Schopenauer e a Nietsche. 

Della rivista “Metafisica”  ha parlato Fabio Benzi,  ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea dell”Università di Chieti-Pescara, definendola “fondamentale prodotto della Fondazione”, i cui contributi hanno posto pietre miliari e aperto nuovi scenari nella ricostruzione  dell’opera di De Chirico, non solo artistica ma anche critica.

Le molteplici residenze della sua vita  hanno portato alla perdita di molte testimonianze scritte e di documenti originali, tuttavia c’è tanto da scoprire e tanto su cui indagare, per un artista dalle forti radici europee. Con l’edizione inglese della rivista, “Metaphysical Art”  si può diffonderne la conoscenza universalmente, superando le limitazioni dell’italiano di cui si rendeva conto lo stesso artista, che era veramente cosmopolita:  nato in Grecia, educato in Germania, vissuto per lunghi periodi in altri paesi, oltre all’Italia, in città come Roma e Parigi, Londra e New York,  fino a parlare  ben cinque lingue da  cittadino del mondo come nessun altro artista del ‘900 e a scrivere nella lingua del paese dove risiedeva al momento.  

Benzi  ha poi illustrato i contenuti del numero speciale per il trentennale con gli scritti di De Chirico “Commedia dell’Arte
Moderna”
, e il corpus poetico, nonché scritti critici di Lorenzo Canova,  presente al Convegno, Claudio  Strinati e Riccardo Dottori, del Comitato scientifico, che hanno aperto e chiuso il dibattito filosofico-artistico. 

Il dibattito filosofico su contenuti e significati dell’arte classica  e moderna.

Claudio Strinati, il noto storico e critico dell’arte, ha ricordato che diversi artisti si sono segnalati per  i contenuti culturali, e
in particolare filosofici, inscindibili da quelli strettamente artistici dello loro opere e ha citato gli artisti del Rinascimento, soprattutto Leonardo e Michelangelo, ricordando che nel ‘900 si è parlato di “senso-iconologico dell’arte”, rispetto al suo contenuto più profondo.  

De Chirico, cui viene associato il filosofo Heidegger, si muoveva a livello filosofico anche se veniva coinvolto in polemiche come quelle sui falsi che lo  inseguivano, mentre  vero e falso per lui erano due facce della stessa medaglia che si ricollegava al suo pensiero filosofico.  

Strinati introduce il tema del Convegno osservando che il problema della fine della bellezza se lo pose già De Chirico  anche a livello teorico,  tanto che considerava  l’arte “uno scrigno prezioso e sacrale”, e il dibattito tra classico e moderno era al centro del  suo pensiero filosofico e della sua espressione artistica che culmina nella metafisica, con l’enigma e la reiterazione di  sue tematiche basilari.  

Parla di mistero anche nel suo testamento, oltre che nel titolo del “Bagni misteriosi”, con riferimento al grande tema del rapporto tra classicità e modernità, sottolineando l’esigenza di un ritorno alla concezione sacrale dell’arte che aleggia nelle sue opere.  “La Fondazione tiene accesa questa fiaccola, con la dimensione speculativa della concezione sacrale dell’arte”, e lo fa significativamente nell’Accademia di San Luca con cui De Chirico ebbe un rapporto molto contrastato.  “Oggi sarebbe contento che se ne parli proprio qui”, ha concluso Strinati.

Entrando nel vivo del pensiero filosofico-artistico,  Massimiliano  Donà, ordinario di Metafisica e Ontologia dell’arte all’Università San Raffaele di Milano, ha parlato del “mistero della forma”, intesa come “disegno del contorno dello spettro”, che in quanto tale riassume in sé l’evidenza di “non appartenere a questo mondo, la forma è evidente e nel contempo irreale”.
Viene “ripulito il fenomeno dal troppo”, per l’evidenza dell’irrealtà, “la forma non appartiene a questo mondo e si fonde con l’atmosfera che la circonda”.  

Solo nell’artista c’è una visione che gli consente di liberare l’esistente dalla durezza e dalle incrostazioni che presenta, in una accezione platonica. E come? “L’artista rende le cose essenziali nella loro individualità, mentre noi le guardiamo nella loro universalità”,  secondo l’uso che ne facciamo.  

Invece l’oggetto reso artisticamente non è qualcosa di generico, bensì di molto specifico, individuale, liberato dalla durezza e
dal senso logico; se resta nel senso comune non riesce ad emergere. Bisogna guadagnare “l’insensata e tranquilla bellezza della materia” con una visione ambivalente: capire che la cosa è fusa con l’atmosfera che la circonda, quindi con  il contesto nel quale si trova; e separarla dall’utilizzo pratico scindendola dalla relazione astratta con il contesto, come parte di un tutto.

“Il vero artista è quello che separa l’inseparabile, il positivo dal negativo, l’essere dal non essere, sa qual è la vera forma e sa liberarla dai suoi significati pratici, sa mostrare nel non essere della forma quello che è veramente”.

Di qui la “magicità” della forma, che a differenza del ‘logos’ non ha bisogno di essere spiegata, almeno quella classica perché gli artisti moderni invece si affannano a dare spiegazioni.  “Il mistero dell’esistenza risiede nell’oggetto stesso”, nella realtà contingente, non nell’infinito.  

Anche Sergio Givone, ordinario di Estetica all’Università di Firenze, sia pure in modo diverso, evoca la compresenza di opposti.  Lo sguardo dell’artista è  “accecato come in un mare di nebbia,  nella  pochezza e impotenza verso l’infinito, ma nello stesso tempo illuminato da una luce interna quando l’infinito entra in noi e  illumina la mente”, fino al sublime kantiano. L’infinito hegeliano è “quel tutto che è al tempo stesso se stesso e altro da sé”, per questo dobbiamo liberarcene. 

De Chirico con la sua capacità rabdomantica di cogliere il valore della filosofia, oltrepassa questo concetto di infinito: “Se l’infinito è tutto e più di tutto, se lo pensiamo al plurale usciamo dall’aporia hegeliana, vuol dire pensare come paralleli il tutto e il suo al di là che dà un senso al tutto”. Non si riferisce né a Kant né ad Hegel, e allora ci si chiede: come fa i conti con loro, e con l’infinito?  Mostra una impressionante  consapevolezza di questa problematica filosofica e si riferisce a Schopenauer  e Nietsche per il concetto di infinito, dove nasce dissolvenza e dissoluzione della realtà, e il fenomeno nella sua realtà attuale è diverso dall’uso che se ne fa, in quanto individuale ed unico. Tornano così alcuni dei concetti espressi dal primo filosofo intervenuto. 

Il passaggio chiave di De Chirico sta nella trasformazione del concetto di infinito, che va superato nel concetto di vuoto: “Non si tratta del contorno della realtà né del principio di identità, ma il contrario, secondo cui l’essere si qualifica rispetto al non essere”. L’infinito va portato sulla cosa reale che si identifica rispetto al vuoto intorno ad essa. E determina lo svuotamento del senso del mondo, secondo cui le cose ci appaiono nel loro uso, in base al principio di causa ed effetto su cui si basa la nostra esperienza legata alle relazioni di spazio e tempo;  almeno questo è quanto possiamo dire della realtà fenomenica.  “L’arte ci fa conoscere le cose fuori da tale principio e dalle relazioni connesse, restituisce alle cose la loro inspiegabilità, ce le offre a un godimento puro e libero”. L’arte è “restituzione dell’enigma alle cose”, e sappiamo bene come De Chirico riesca a renderlo in modo magistrale, in particolare con la sua pittura metafisica.  

Questo concetto si ritrova in Nietsche, secondo cui “la conquista dell’insensatezza delle cose fa sì che vengano ritrovate e siano degne di considerazione”.  Soltanto così  “riposano nel loro tranquillo essere in quello che sono, senza i significati che si vogliono dare loro, in un luce misteriosa che è compito dell’arte mostrare”.

Il filosofo tedesco sente l’enigma più che il mistero, vi vede un orizzonte che ci sfugge, come l’infinito, ma l’enigma può essere decifrato disponendo della chiave interpretativa. Le cose possono esserci  restituite nella loro enigmatica misteriosità sottraendole al principio di causalità e “precipitandole nel vuoto”. Cioè   “vanno riconquistate a partire dal vuoto, che si sostituisce all’infinito della pittura tradizionale, cercando di raggiungere l’origine delle cose nella loro insensatezza, in modo da rivelarle nelle bellezza pura e insensata della natura espressa nell’arte”.   

E’ la concezione che segna la fine del romanticismo, come movimento nel quale  si è cercato di simulare  l’infinito. rappresentandolo mediante la prospettiva.  Per De Chirico deve finire  il “mare di nebbia”, si intende terminato il percorso della pittura dal Rinascimento al Romanticismo nel segno della prospettiva e dell’infinito, irrompe l’enigma e il mistero, “l’irreale che libera il reale dalla sua identità e condanna le cose ad essere sé stesse, in tal modo in esse appare dell’altro”. 

L’artista fa una “metafisica del non senso e del nulla”, perché la realtà è inafferrabile, avvengono cose non riconducibili
all’esperienza ma la trascendono e non sono visibili. E pongono domande cui è impossibile rispondere. Non è nichilismo ma liberazione, per il senso della vita si cita Schopenauer che ne ha rivelato l’insensatezza, mentre Nietsche vi vede la capacità di emozionare.

C’è una dimensione lontana da cui vengono le cose,  “come altro da sé, irriducibili al significato che diamo loro, così la pittura mostra il non essere e assume un carattere sacrale”.

E poi c’è l’atmosfera,  in cui è collocata la forma, e a questo riguardo Givone cita i diversi significati della parola ‘Kairos’, che nel greco antico riguarda “il tempo sottratto al divenire, ‘sub specie aeternitatis'”, mentre nel greco moderno “il tempo atmosferico”, da qui la scienza della kairologia che lo studia. Proprio nel tempo atmosferico, non eterno, l’essere è altro da
sé, solo in questo vuoto di senso irreale la forma rivela se stessa.  De Chirico, da sensibile rabdomante, vede come la forma mostra la sua essenza nel momento in cui si fonde con l’atmosfera così intesa.  

Il tempo di riprendere fiato dopo questa immersione nelle profondità della filosofia applicata all’arte, e  Giuseppe Di Giacomo, ordinario di Estetica all’Università “La Sapienza” di Roma,  approfondisce il tema del Convegno facendo riferimento a un altro filosofo, Adorno. Nell’arte tradizionale la bellezza è vista come possibilità di vincere il tempo, i movimenti d’avanguardia l’hanno rimossa scambiando la novità con l’arte. De Chirico, che aderisce a tale concezione,  ha recepito l’arte tradizionale, compresa l’arte classica dal ‘300 all”800 ponendosi tra la tradizione e la modernità in modi e forme da  pittore moderno. Picasso ha sbloccato l’arte ma non ha avuto il coraggio di abbandonare il mondo reale. 

L’arte ha a che fare con il non senso, ad  esempio nel “recupero della tradizione con il suo rovesciamento”. Nella pittura metafisica c’è “la capacità di cogliere l’altro nelle cose”, in una visione filosofica, che fa esclamare: “Possa Dio dare al
filosofo lo sguardo acuto  per vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti e che non vedono”. E cos’è questo “altro” rispetto al visibile? Il cogliere l’irreale nel reale, e in tal modo “irrealizzare il mondo”.     

Perciò la pittura di De Chirico non ha più a che fare con il sensibile e neppure con il logos, il razionale, caratteristici dell’arte classica.:”Al posto del sensibile c’è il segno, come collegamento tra l’insignificante e il significato”. Qui nascono le statue senza testa o senza volto, l’immobilità delle figure anche di ispirazione classica, come testimonianza della totalità, in forme non classiche. La metafisica viene dal guardare le cose per la prima volta in modo diverso, del resto nacque quando De Chirico dinanzi alla statua di Dante  inella piazza fiorentina con la  chiesa di Santa Croce, ebbe come una rivelazione, cogliendo nel particolare cose mai viste prima e sensazioni mai provate prima.  

Viene citata la finitezza del tempo e della vita che fa sentire l’infinito, e al riguardo nell’opera d’arte c’è “l’enigma che è senza soluzione,  più si cerca di spiegarlo, più si rinchiude in se stesso e resta irrisolto”. Per questo,  un elemento centrale delle composizioni in esterno di De Chirico è che sono viste al tramonto, “il momento della giornata in cui si vede e non si vede, qualcosa di indecifrabile che non si può spiegare né definire. Le sue figure vivono in un mondo senza senso, il non senso è il senso della vita”.   

Così le “Muse inquietanti”, senza tempo, hanno corpi che inquietano perché non familiari, come fossero in attesa di qualcosa in un set teatrale; ma quando il palcoscenico si apre non c’è nessuno, è vuoto, siamo oltre l’arte classica e tradizionale, l’arte di  De Chirico è la liberazione dell’assoluto nel particolare. Attraverso la forma sciolta dal suo significato l’artista testimonia la  realtà, anche attraverso la disumanizzazione, con la perdita dell’essere a testimonianza di un mondo che ha perduto la misura dell’umanità”.

Dopo questo tris d’assi di elevate dissertazioni filosofico-artistiche, la parola a un altro professore ordinario,  Riccardo Dottori,  che come membro del Comitato scientifico ci riporta alla Fondazione De Chirico. Ne daremo conto prossimamente, completando  il poker d’assi del dibattito filosofico.  

Info

Accademia di San Luca, piazza Accademia di San Luca 77,  Roma. Tel. 06.6798850. Orari: Biblioteca lunedì-venerdì ore 9,00-19,00, sabato 10,00-14,00 ; Galleria  lunedì-sabato ore 11-19. Casa Museo Giorgio De Chirico, sede della Fondazione Giorgio e Isa De Chirico, Piazza di Spagna  n. 31, visite guidate  in italiano-inglese, gruppi di 10 in 3 turni, ore 10-11-12,  da prenotare a prenotazione@fondazionedechirico.org,  tel. 06.6796546. Biglietto, intero euro 7, ridotto euro 5 per under 18 e over 65, gratuito under 12. Il secondo e ultimo articolo sul Convegno uscirà in questo sito il  21 dicembre 2016. Per le mostre di De Chirico dal 2009 cfr. i nostri articoli: in questo sito, nel 2015, “De Chirico, a Campobasso la gioiosa Metafisica”  1° marzo,  nel 2013 a Montepulciano, “L’enigma del ritratto” 20 giugno, “I Ritratti classici” 26 giugno, i “Ritratti fantastici” 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulle mostre a Roma “I disegni di de Chirico e la magia della linea”  27 agosto, a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” 23 settembre, a Roma “De Chirico e il Museo”  22 dicembre; nel 2010   a Roma “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio, e la mostra parallela, “L”Enigma dell’ora’ di Paolini, con de Chirico al Palazzo Esposizioni” 10 luglio  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque forniti a richiesta); in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013,  a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  anche  nell’edizione inglese dei “Quaderni”, Metaphysical Art”, n. 11-13 del 2013, “De Chirico and Nature.Or Existence? The Exhibition at Palazzo Esposizioni Rome 2010”,  pp. 371-386.

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Le immagini  presentano una serie di inquadrature dei diversi ambienti della Casa Museo Giorgio De Chirico. Sono state tratte da siti web di pubblico dominio, precisando che sono inserite a titolo meramente illustrativo e non vi è alcuna finalità promozionale e tanto meno economica. Si ringraziano i titolari dei siti, assicurando che se qualcuno di loro non gradisse la pubblicazione, la relativa immagine verrà immediatamente eliminata su semplice richiesta. Ecco i siti nell’ordine di successione delle rispettive immagini inserite nel testo: contemporarydaily.it, arttribune.it, viaggiatricecuriosa.it, zerodelta.net, artlife.com, desireememoli.it, f italianways.it, turismoroma.it, latitudinex.com, ibc.regione.emilia-romagna.it 

16^ Quadriennale di Roma, 5. Confronto tra curatori vent’anni dopo

di Romano Maria Levante

Alla Sala Cinema del Palazzo Esposizioni di Roma,  nella mattinata di  domenica 27 novembre 2016, si è svolto l’incontro ”1996- 2016, la Quadriennale d’arte vent’anni dopo: curatori a confronto”‘, moderatore il critico d’arte e curatore Ludovico Pratesi, intervenuti, soprattutto per la Quadriennale 1996,  Laura Cherubini, Giorgio Verzotti, e Daniela Lancioni, per la Quadriennale 2016 di cui sono curatori Cristiana Perrella, Denis Viva, e Luca Lo Pinto. Prima della conclusione,  l’intervento del presidente della Quadriennale di Roma Franco Bernabè, che ha seguito l’incontro come attento ascoltatore.

Le due Quadriennali, del 1996 e del 2016

I titoli delle due Quadriennali sono proiettati nel tempo: la mostra del 1996 era intitolata  ”Ultime Generazioni’‘, si svolse  non solo nel Palazzo delle Esposizioni ma anche nell’Ala Mazzoniana della Stazione Termini;  mentre questa del 2016, intitolata  “Altri tempi altri miti”, è esclusivamente nel Palazzo Esposizioni, anche se molte manifestazioni collaterali, collegate alla Quadriennale, si sono svolte e si volgono in diverse parti della città. Ricordiamo per tutte la “Rome Art Week” che dal 14 al 29 ottobre 2016 ha mobilitato il mondo artistico romano in 459 iniziative,  99 mostre di arte contemporanea, 207 eventi e 153 visite agli atelier di artisti. Per tutto questo c’è stato l’auspicio che l’Ala Mazzoniana possa essere recuperata come sede elettiva per mostre ed eventi d’arte.

Il moderatore Ludovico Pratesi ha ricordato che nella Quadriennale del 1996 erano presenti opere di 174 artisti, tra i  quali molti   “scoperti” in quella sede, che poi si sono affermati: nell’area milanese Mario Airò e Massimo Bartolini, Maurizio Cattelan e Grazia Toderi, Liliana Moro e Bruna Esposito, Vanessa Beecroft e Myriam Laplante, Annie Ratti e Gregorio Botta; nell’area romana Gianni Dessì e Nunzio, Piero Pizzi Cannella, Giacinto Cerone e Cesare Pietroiusti;  Alberto Di Fabio, Andrea Salvino e Matteo Basilè.  Era una rassegna di opere singole, incentrata sugli artisti, che diede luogo a una grande mostra collettiva.  Furono  ripristinati i premi, il primo assegnato a Stefano Arienti, gli altri a Studio Azzurro, Umberto Cavenago, Cristiano Pintaldi

Nell’attuale Quadriennale 2016, sono 99 gli artisti autori delle circa 150 opere esposte in 10 sezioni tematiche corrispondenti ai progetti curatoriali selezionati in base a una chiamata rivolta a curatori giovani ma già sperimentati. Le tematiche intorno alle quali sono raggruppate le opere individuate da 11 curatori sono motivi attuali o elaborazioni concettuali anch’esse figlie del presente, in modo da fornire una mappa di ciò che si muove nel contemporaneo soprattutto tra i giovani artisti, per lo più nati tra le due metà contigue degli anni ’70 e ’80. E’, quindi, una rassegna di opere a tema, incentrata sui progetti curatoriali che danno luogo a 10  piccole mostre collettive.  A questa classe di età appartengono i premiati, Rossella Biscotti, Premio Quadriennale 2016 e  Adelita Husni-Bey,  Premio Illy Under 35, Domenico Quayola  e Alek O. con due menzioni speciali.

Gli  interventi dei sei critici e curatori   

Più che di un confronto si è trattato di un incontro tra generazioni e modalità curatoriali, considerando che già nella Quadriennale del 1996 c’erano alcune premesse per l’evoluzione successiva; e non vi sono state divergenze tra le rispettive visioni, pur riferite a tempi molto diversi, dato che anche nel 1996 venivano discusse criticamente le concezioni di allora.

Nel grande schermo dietro  al tavolo degli oratori scorrono in sequenza le immagini delle due mostre, in quelle in bianco e nero della mostra del 1996 si possono vedere anche gli spazi dell’Ala Mazzoniana della Stazione Termini; le immagini della Quadriennale 2016 sono a colori, ma in quella di “Himalaya” 2012 di Maloberti sono visibili soltanto  i ritagli di illustrazioni scultoree sparsi sul pavimento, senza la “scultura umana” del giovane che all’inaugurazione tagliava le immagini, prova visiva dei problemi creati spesso dalla fretta di cui si è parlato nell’incontro, riguardo al  catalogo e agli apparati, quando si lavora in tempi stretti  per l’urgenza.

Inizia Laura Cherubini, chiamata “memoria  storica” della Quadriennale, preferisce definirsi “memoria critica” essendosi dimessa due volte  perché non si dava modo ai curatori di esercitare la pratica curatoriale, a cui ha sempre attribuito un’importanza basilare, in linea con le concezioni attuali, tanto che pone la presente mostra nella terna delle  migliori, quelle del 1992, 1996 e, appunto, del 2016.  Si  è sempre opposta alle “grandi ammucchiate”,  un altro intervenuto ha parlato di “calderone”, espressioni che  ci sono apparse una versione,  in campo artistico, della famigerata  “accozzaglia” nelle polemiche sul referendum costituzionale imminente.

E’  stata sempre contraria all’abitudine di affidare l’allestimento agli architetti,  perché così curatori e artisti non avevano voce in apitolo, mentre la “pratica curatoriale” è la migliore garanzia per un allestimento all’altezza delle opere esposte. Ritiene che siano importanti entrambi i termini: la “pratica” sottolinea l’esigenza di non improvvisare, deve essere frutto dell’esperienza, “va fatta gavetta, gavetta, gavetta”; solo così si crea competenza  e quindi qualità nelle scelte, e a tale proposito  ricorda con orgoglio di essere stata allieva di Giulio Carlo Argan ed essersi formata come assistente dai 19 anni di età di Maurizio Fagilo dell’Arco; “curatoriale”  rimanda alla cura, all’attenzione  che nasce dall’amore per le opere d’arte e per gli artisti, solo così si riesce a dare  loro la migliore visibilità.

Il secondo intervenuto, Denis Viva,, nella Quadriennale 2016 ha curato la sezione “Periferiche”, con artisti i quali  traggono stimoli e ispirazione da un mondo, dove hanno scelto di vivere, un tempo definito “policentrismo consapevole”, ma sempre più emarginato dalle dinamiche di crescita della globalizzazione. Da storico dell’arte è diventato curatore, la Quadriennale del 1996 non l’ha vista, ma dalle notizie raccolte ha tratto l’impressione che è stata una fase di “transizione” in cui il critico d’arte, fino ad allora “dominus”  assoluto,  ha cominciato a convivere con il curatore. Il critico d’arte sentiva l’esigenza di dare continuità, e lo esprimeva negli scritti, avvertendola come una responsabilità, in un ruolo di orientamento del pubblico in base a una  mappatura artistica in chiave geografica, o anagrafica o di tendenza. Con la mostra del 1996 è iniziata l’evoluzione verso quanto sviluppatosi appieno nell’edizione del  2016. 

Nell’attuale  Quadriennale, infatti, la mostra è incentrata su idee progettuali portate fino in fondo senza alcuna mappatura di artisti e senza la minima ricerca di continuità, tutt’altro. Gli artisti vengono riuniti intorno a un progetto curatoriale nel quale la visione si allarga anche ai temi politici e sociali più sentiti. Il ruolo dei curatori è nell’approfondimento dei temi e nel conseguente orientamento; e anche nell’allestimento che viene costruito insieme agli artisti intorno alle opere per rendere leggibile la mostra nei suoi contenuti e significati.

Con Cristiana Perrella  la parola resta a una curatrice della Quadriennale attuale,  dove ha  curato la sezione “La seconda volta”, ispirata al concetto di “economia circolare”, la rimessa in circolo con il riciclo delle sostanze utilizzate come avviene negli organismi viventi. Sottolinea come dalla Quadriennale  del 1996 a quella del 2016 si è completato il passaggio  da una rassegna di singole opere individuali molto personali di difficile lettura per il pubblico a un mostra di progetti curatoriali  che mette in relazione le opere tra loro e fa dell’esposizione un racconto rivolto ai visitatori.  Viene creato così un filo conduttore ben visibile tra gli artisti.

Giorgio Verzotti,  sulla presunta antinomia tra critico e curatore rivendica polemicamente di essere stato prima critico, poi è divenuto curatore, mentre non è mai stato storico dell’arte. E ricorda che nella Quadriennale del 1996 furono presentati artisti divenuti molto importanti, come Accardi, Fabro, e altri:  scelte naturali, afferma, da un punto di vista generazionale.  Sui cataloghi e gli apparati aggiunge che spesso i testi sono scritti in modo affrettato per l’urgenza, ma ci tiene a sottolineare che la scrittura non è solo “critica o critichese”, è un elemento duttile che va dal testo del Catalogo alle didascalie, molto importanti per spiegare l’opera. Quindi con la scrittura si può operare in senso progettuale.

Anche Luca Lo Pinto, definito il Catalogo come strumento utile, insiste sulla differenza metodologica e di contenuto delle due Quadriennali a confronto, l’elemento fondamentale che qualifica quella del 2016 è che gli 11 curatori, pur impegnati nei loro specifici progetti, hanno lavorato insieme. Crede nel linguaggio espositivo della mostra e considera il curatore alla stregua di un autore, lui ha curato la sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti“, imperniata su oggetti che sembrano inanimati ma hanno un’anima, la memoria di chi li ha prodotti o usati.

Nonostante la sua articolazione, la Quadriennale attuale non presenta dieci mostre diverse, ma una grande mostra con un racconto  in dieci capitoli, quasi fossero stati “strappati e poi messi insieme”. In genere, delle grandi mostre non rimane un ricordo preciso, di questa mostra invece resta il ricordo di un viaggio in mondi molto diversi con differenti aspetti anche sociali. Torna sul tema degli apparati, le didascalie che il pubblico legge per orientarsi vanno viste come esercizio di lettura più che di scrittura espositiva. Per vincere i pregiudizi diffusi sull’arte contemporanea ritenuta criptica e indecifrabile occorre che sia data una spiegazione per aiutare a capire l’opera, quando è possibile e non sempre lo è: “Come spiegare con una didascalia un’opera di De Dominicis?”

Daniela Lancioni parla del passaggio dalle “mappe del territorio” delle Quadriennali precedenti, come quella del 1996, a una visione complessiva. Nell’edizione di venti anni fa vi fu una ricognizione sulla storia delle Quadriennali: prima erano presenti soltanto ogni 4 anni, poi è nato un Archivio ed è diventata una istituzione permanente con la memoria storica dell’arte italiana del ‘900;  la Quadriennale del 1996 segnò un passaggio, l’avvio verso l’acquisizione di una nuova identità.  

E’ stato rievocato criticamente l’allestimento di tale Quadriennale,  un’organizzazione rigida, affidata all’archistar Massimiliano Fuksas, con grandi pannelli alti sei metri, quasi fino al soffitto,  e si è ricordato come allora il Consiglio di Amministrazione della Quadriennale era nominato su base politica, spesso senza le competenze richieste da un compito di questa natura, e ciò danneggiava le scelte. Per la Quadriennale 2016 non solo sono stati selezionati con la pubblica chiamata  gli 11 curatori forse migliori in Italia, ma hanno anche lavorato insieme in un “tavolo intelligente di  confronto”. L’allestimento deve mettere  il pubblico in condizione di leggere le opere, a questo riguardo è determinante la “struttura espositiva”, nella definizione di Achille Bonitoliva. 

Dalla riflessione all’azione nell’intervento del presidente Bernabè

Terminati gli interventi in programma, il  presidente della Quadriennale, Franco Bernabè,  ha preso la parola e,  manifestato apprezzamento per l’interessante quadro comparativo fornito a livello curatoriale, ha ribadito l’importanza del ruolo che le istituzioni pubbliche devono svolgere per non lasciare il campo artistico, fondamentale per l’identità del Paese, soltanto agli operatori privati con interessi particolari, legittimi, ma spesso con finalità soprattutto di natura economica e  commerciale.

Questa riflessione è alla base dello stesso ritorno della Quadriennale dopo otto anni, perché  lui stesso si era chiesto se valeva la pena rinnovare la manifestazione nei tempi così mutati, per concludere che ancora di più con la globalizzazione si deve  incidere nei campi identitari, importanti a livello internazionale su tanti  piani, tra cui quello culturale e quello economico.

Passando dalla riflessione all’azione, in un’ottica da imprenditore  ha voluto proiettare lo sguardo in avanti, verso ciò che si potrà realizzare con il rilancio della Quadriennale. Gli spazi dello storico Arsenale Pontificio recuperati e concessi all’istituzione consentiranno di fare un lavoro importante, per il quale si attende idee e suggerimenti validi per i quattro anni che separano dalla prossima Quadriennale del 2020. “Propulsione” e “continuità” i termini da lui usati, intendendo per continuità l’assenza di interruzioni, per il resto tutto va stimolato in termini di innovazione.

L’appello di Bernabè, naturalmente, va ben oltre l’occasione transitoria del confronto tra curatori in via di conclusione, può essere l’avvio di un ampio dibattito con idee ben meditate  e con proposte all’altezza.

Intanto sono emersi subito dei primi orientamenti, come il mantenimento della formula dei curatori intorno a dei progetti curatoriali, l’esigenza di avviare presto l’attività per la prossima Quadriennale creando una “catena di curatori, non un’aggregazione”,  affnchè possano operare almeno nell’arco di un triennio e non soltanto nell’imminenza della prossima manifestazione;  del resto gli spazi dell’Arsenale Pontificio restaurato consentiranno di creare un laboratorio stabile e un importante punto di incontro. Si è sostenuto  che non ci si deve rinchiudere nella dimensione nazionale, anche se l’arte italiana è l’oggetto dell’interesse dell’istituzione pubblica e ha bisogno di essere difesa nella sua affermazione di identità;  occorre il confronto con l’arte internazionale, in particolare europea, ricercato dagli stessi artisti. Si è accennato all’utilità di un direttore artistico, mentre è stato unanime il riconoscimento che la via intrapresa con la 16^ Quadriennale è quella giusta.

Con questi primi spunti venuti dai curatori e riassunti dal moderatore Pratesi, si è concluso in termini propositivi e di prospettiva un incontro il cui  riferimento a  “vent’anni dopo”  riecheggiava il  vecchio romanzo d’appendice,  ma nello svolgimento si è rivelato quanto mai fresco di idee e di proposte.

Usciamo dalla Sala Cinema del Palazzo Esposizioni e attraversiamo i saloni della mostra, già visitata all’inaugurazione. Abbiamo a suo tempo manifestato le nostre impressioni di visitatori, attenti lettori del Catalogo che  ben più delle didascalie,  inadatte allo scopo data la natura delle opere, consente la loro migliore “leggibilità”, insieme all’inserimento diretto nelle sezioni tematiche ampiamente motivate dai curatori con  la forza espressiva di artisti essi stessi. E ne abbiamo tratto  la conclusione che, al di là di quanto di discutibile vi si possa trovare, la sensazione è di fare un salto nel futuro. Con l’emozione e insieme l’inquietudine che inevitabilmente comporta.

Detto questo a livello sensoriale e di impatto immediato, sul piano razionale tante sono le questioni aperte e  sul piano operativo sorgono altrettante minacce e opportunità:  l’arte contemporanea è un crogiolo dall’alchimia imprevedibile e un vulcano dall’energia incontrollabile.

Ripensiamo alle parole di Bernabè, “propulsione” e  “continuità”, che aprono all’innovazione permanente. E ci chiediamo  se nello storico Arsenale.Pontificio messo a disposizione della “Quadriennale”,  potrà nascere  il nucleo di una “Silicon Valley” dell’arte italiana contemporanea. 

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni per studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5.  I nostri 3 articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 24, 27 ottobre e 1° novembre 2016;  l’articolo di presentazione è uscito il 16 giugno 2016.  Cfr. il nostro articolo, in questo sito, per  “Rome Art Week”  26 ottobre 2016.   

Foto

L’immagine di apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni, Sala Cinema, il giorno dell’incontro, le immagini delle opere nella mostra attuale sono state riprese nelle sale del Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. In apertura,   Franco Bernabè, visibile sulla sinistra, nel suo intervento, dietro il tavolo i curatori con al centro il moderatore Ludovico Pratesi; seguono, Margherita Moscardini, “Wall”, 2016, e Alessandro Balteo-Yazbeck, “Italian Farm Hand from Fortune Magazine”, 2011-2015; poi, Alessandra Ferrini, “Negotiating Amnesia”,  video HD, 2015, e Rà di Martino, “Le storie esistono solo nelle storie”, 2016; quindi, Leone Contini, “Uncontrolled Denominations, New Delhi”, 2014, e Michelangelo Consani, “La rivoluzione del filo di paglia”, 2016; inoltre, Marinella Senatore, “Speak Easy Collage # 4”, 2009-2013, e Maria Elisabetta Novello, “Paesaggi”, 2016; infine, altre 3 opere esposte; in chiusura, uno dei tanti filmati della mostra.  

Cina, i capolavori dell’antica porcellana a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

La mostra  “Capolavori dell’antica porcellana cinese dal Museo di Shasnghai: X-XIX secolo”  presenta per la prima volta in Italia nelle sale quattrocentesche di Palazzo Venezia, dal 23 giugno 2016 al 17 febbraio 2017, una selezione di  74 preziosi pezzi della tradizione artistica del “paese della porcellana”, prodotti in diverse epoche storiche. E’ la quarta delle 5 mostre previste dal Memorandum d’Intesa sul Partenariato per la Promozione del Patrimonio Culturale siglato il 7 ottobre 2010  dai Ministeri culturali dei due paesi per esposizioni dell’arte cinese a Palazzo Venezia e dell’arte Italiana nel Museo Nazionale della Cina a Piazza Tienammen. Organizzata dalla State Administration of Cultural Heritage della Repubblica Popolare Cinese , dalla Direzione Generale Musei del MiBACT e dal Polo Museale del Lazio, progettata dallo Shanghai Museum e da  MondoMostre. Mostra e Catalogo a cura di Lu Minghua con  Zhang Dong e Peng Tao, editore Shanghai Museum

Cenni sulla storia della porcellana cinese

La nascita della porcellana cinese risale al VI secolo, nell’epoca delle Dinastie del Nord, poi si diffuse in tutta la Cina dal X secolo, con le dinastie Song, Jim e Yuan, tra il X e il XIV secolo, quando si moltiplicò  sia il numero delle fornaci sia la varietà degli oggetti e delle utilizzazioni della porcellana.

Alla fondazione della dinastia Ming, che ha regnato dal XIV al XVII sec., le fornaci furono trasferite a Jingdezhen,  e l’uso delle ceramiche per le necessità della corte imperiale aumentò di molto., già nel XV sec. le ceramiche precedenti erano ricercate come pezzi di collezione.

Con la dinastia Qing, dal XVII al XX sec., furono introdotte importanti innovazioni tecnologiche e la produzione di ceramiche raggiunse il suo livello più elevato, come quantità e qualità. Aumenta ancora la varietà degli oggetti e delle loro forme, dei colori e dei materiali; le decorazioni diventano policrome, fino  a cinque colori,  in aggiunta al bianco e blu della dinastia Ming; si introducono nuovi pigmenti e tecniche per gli smalti; nelle raffigurazioni oltre ai fiori, draghi e nuvole di sempre, vengono introdotti temi tradizionali con figure umane di alto contenuto simbolico.

L’uso della ceramica si estese, dagli impieghi per soddisfare le esigenze più evidenti della vita quotidiana ad  una gamma sempre più vasta di destinazioni  generiche e specializzate fini a investire ogni aspetto della vita materiale e anche spirituale per l’estensione agli usi rituali. Non c’è un rapporto stretto tra tipo di ceramica e utilizzazione, essendo previsti per lo più impieghi multipli.

Sulle tecniche produttive Zhang Dong ripercorre l’intero corso della ceramica cinese iniziando dalle  differenze tra la produzione al Nord e al Sud per i diversi tipi di argilla estratti in loco che richiedevano tecniche diverse e forni diversi; anche le tecniche di modellazione erano diverse, tra gli  stampi, il tornio e la mano libera.  L’invetriatura era un momento
critico, e quando  una nuova tecnica di cottura per aumentare la produzione lasciava scoperto l’orlo, si ricopriva con oro, argento o altri metalli nobili.  Continue modifiche si dovevano apportare alle tecniche di produzione  dinanzi ai mutamenti nelle  materie prime e nelle utilizzazioni del prodotto finito.

Le  storiche utilizzazioni della ceramica, quotidiane e rituali

Queste utilizzazioni riguardano le funzioni delle ceramiche nella vita quotidiana e non solo, come spiega Peng Tao analizzandole singolarmente in rapporto ai vari periodi storici.

L’uso più antico della ceramica fu per il vasellame da cucina, i contenitori di cibi e bevande, presto esteso alle esigenze rituali, che implicavano l’offerta di sacrifici per i quali si usavano i recipienti disponibili, fino a farne oggetto di produzioni a ciò dedicate.

Tra i contenitori dei cibi in ceramica ci sono quelli  per contenere vivande,  come scodelle e piatti, e per conservare derrate come i vasi, oltre agli utensili per mangiare, come cucchiai e bacchette. I contenitori di bevande risalgono all’era neolitica,  comprendono quelli per conservare gli alcolici, come vasi, bottiglie e brocche, quelli per versarli come i fiaschi, e i vasi per misurare le capacità, quelli per  bere come tazze e calici, piattini e scodelle.  Inoltre gli oggetti da te, prima uguali agli altri, poi differenziati anche in termini funzionali per mantenere calda la bevanda.

Gli oggetti di uso rituale e religioso, con significati spirituali e simbolici, riguardano in primo luogo  il culto dei defunti,  che richiedeva di seppellire con loro gli ciò che avevano utilizzato in vita; oltre  agli oggetti di uso comune,  c’erano i “mingqi”, creati proprio per accompagnarli  nell’al di là.

Inoltre ci sono gli utensili sacrificali, utilizzati nei riti con sacrifici nel corso di pratiche religiose o propiziatori in occasione di banchetti, matrimoni ed altre circostanze particolari, tra cui gli incensieri. Preziosi reperti  sono pervenuti fino a noi, in particolare la composizione di un set rituale all’epoca della dinastia Ming,  e alcuni set rituali con decorazione a smalti policromi.

La ceramica era usata infine per le attività di studio e scrittura tenendo gli appositi oggetti sopra ai tavoli; oltre alla funzionalità si richiedeva una certa estetica secondo la posizione dell’interessato,  del quale accompagnavano la vita. Vengono citati “i quattro tesori del letterato” , cioè pennello e carta, inchiostro e pietra per scioglierlo; poi i contenitori per pennelli e i poggia pennelli che potevano assumere la forma allungata delle “barche per pennelli”, una sorta di scatola dove riporli. Fino ad altri oggetti, come gli utensili per profumare gli ambienti o per illuminarli che Peng Tao definisce “capolavori in cui funzionalità e valore artistico si fondono perfettamente”.

Nella visita alla mostra si vede comequesto si sia manifestato nelle fasi storiche della Cina, dall’epoca d’oro della ceramica tra il X e il XIII sec., alla nascita e sviluppo della ceramica imperiale, fino all’apice della ceramica cinese, fasi alle quali sono dedicate  3 sezioni con le testimonianza concrete dei risultati raggiunti, espressi da una galleria di oggetti di ogni tipo con le più diverse forme, colori e decorazioni che suscitano ammirazione per la loro qualità artistica.

  Le ceramiche dell’epoca d’oro

Partendo dalle lontane origini del VI sec., tra  il X e il XIII sec. la  ceramica si sviluppa sia diffondendo la produzione in tutto il territorio con la moltiplicazione delle fornaci,  sia accrescendo l’assortimento degli oggetti in rapporto all’aumento e diversificazione delle tipologie di utilizzo.  Ci sono le ceramiche per i letterati, sobrie ed eleganti, e quelle popolari,  più vivaci destinate alla gente comune.  

Sono 21 gli oggetti in porcellana  di questo periodo esposti in mostra, di cui 6 tra il 960 e il 1127,  8 tra il 960 e il 1279, e gli altri 7 per il periodo successivo, fino al 1368.

I primi oggetti di porcellana che vediamo si presentano con la superficie bianca senza sbalzi né decorazioni,  con il colore dell’argilla e un sottile strato di invetriatura trasparente. In particolare un “Vaso con coperchio e quattro manici”, una “Scodella a forma di foglia di loto” e un “Piatto con motivi impressi di fiori, nuvole e draghi”, con invetriatura bianca,  un “Set per scaldare bevande alcoliche”  e  un “Piatto con motivi decorativi impressi”, con invetriatura ‘ginghai’.

 Poi ci sono le superfici a sbalzo, in invetriatura verde, nel “Vaso con motivi intagliati di rami in fiore”  e nel  “Vaso con coperchio e cinque piccoli tubi, decorata con motivi ad intaglio di petali di fiori di loto”, nel “Vaso con decorazione intagliata, due piccole anse” e nel “Vaso con coperchio, decorazione di drago in rilievo”, nel “Vaso a forma di ‘cong'” e nel  “Piatto con decorazione di drago” , nella “Lampada a olio” e nel “Poggiatesta con decorazione ad intaglio”..

Dopo gli sbalzi e il verde dell’invetriatura,  ecco i motivi in nero su bianco  e quelli  in blu che decorano la superficie degli oggetti di porcellana rendendola sempre più appariscente.  Così il “Vaso con quattro caratteri dipinti in nero su fondo bianco” e il “Vaso bianco e blu con motivi di peonie, fiori e rami”, che anticipa l’evoluzione successiva, la “Ciotola  per le offerte con invetriatura azzurra e macchie rosse”  e l‘”Incensiere  con tre piedi e due manici , con invetriatura azzurra a macchie rosse”, il “Bacile con tre piedi e invetriatura celeste” e la “Tazza invetriata  a’pelle di lepre’” fino alla “Tazza con motivi a ramo di pruno” , un utensile da tè,  il più scuro finora, dal colore marrone che ritroviamo nel “Poggiatesta a forma di bambino con decori dipinti in nero sotto un’invetriatura giallo-marrone”, dove c’è un viso infantile, prima figura umana.

Le ceramiche dell’età imperiale

Il trasferimento delle fornaci a Jingdezhen, avvenuto con la dinastia Ming alla metà del sec. XIV portò a un notevole sviluppo della produzione per la corte imperiale, che divenen di gran lunga prevalente. Si moltiplicarono i tipi di porcellane in relazione alla moltiplicazione degli impieghi, e si diversificarono anche nel cromatismo: alle porcellane bianche  e blu si aggiunsero quelle policrome cosiddette sopra-coperta e quelle invetriate nei colori bianchi, rossi e gialli.

Le 23 porcellane esposte in mostra danno testimonianza di questa fase di sviluppo anche qualitativo, tra il 1368 e il 1620,  2 del XIV sec, 13 del XV sec. e 8 del XVI e XVII sec.

 Ritroviamo motivi visti nella sezione precedente, uniti a motivi più elaborati e colorati.

 Tra i primi,  la invetriatura bianca della “Ciotola con motivi floreali incisi”, appena percettibili, e la invetriatura verde della “Brocca con motivi impressi”, nonché  una serie di oggetti in bianco e blu che estendono il motivo ornamentale anticipato dal vaso con motivi floreali prima citato. In particolare, il “Vaso bianco e blu con motivi di loto” e il “Vaso bianco e blu con motivi floreali”,  il “Vaso bianco e blu con motivo degli Otto Tesori” e il “Piatto bianco e blu raffigurante gli Otto tesori”, il “Calice bianco e blu con motivi floreali” e  la “Ciotola bianca e blu con motivo di peonie”, il “Piatto con decorazione ‘nascosta’ e invetriatura blu” e il “Manico di pennello bianco e blu con motivi floreali”,  il “Poggiapennelli” e il “Portapennelli  bianco e blu con figure di draghi”. Figure umane e non più ornamenti vegetali nel “Vaso meiping’ bianco e blu, raffigurante un uomo che, portando un ‘qin’, visita un amico” e nel “Vaso bianco e blu con scena narrativa”.      

 Aumenta la vivacità con il rosso nel pigmento e nell’invetriatura. Vediamo una “Ciotola con motivi floreali dipinti in rosso  sotto-coperta”  e un “Calice con motivi in rosso sopra-coperta e in blu sotto-coperta”, un “Piatto con invetriatura rossa”,  un “Incensiere ‘gui’ con motivi incisi e invetriatura rossa”  e una “Ciotola con motivi di draghi rossi fra le onde blu”.

C’è anche il giallo, nel “Piatto con invetriatura gialla”, e il verde nel “Piatto bianco a figure verdi con motivo di drago tra le nuvole”,  poi la sinfonia di colori nella “Scatola da frutta con coperchio e decorazione policroma ‘wucai’ (cinque colori)”.

 La sezione si chiude con due oggetti diversi da tutti gli altri: la “Statuetta bianca e blu raffigurante un personaggio seduto su un animale”, con le fattezze del leone; e l’ “Incensiere a forma di anatra con decorazione polimocra ‘sancai'”, un oggetto ingegnoso, il corpo nel quale si bruciava l’incenso diviso in due parti, quindi apribile, e il becco dal quale usciva il fumo odoroso rivolto verso  l’alto, in una posa vitale, è questa l’immagine presa a testimonial della mostra.

L’apice della ceramica cinese

Dalla dinastia Ming si passa alla dinastia Qing, le fornaci di Jingdezhen  si sono sviluppate ulteriormente, la produzione è ai livelli massimi sia in termini quantitativi, sia sotto il profilo tecnico e in termini qualitativi con decorazioni e invetriature.

Sono 26 le porcellane esposte a documentazione di questi livelli di eccellenza, tra il 1644 e il 1911, di cui 6 fino al XX sec., le altre 20 del XIX e XIX sec.Anche  in questa fase avanzata troviamo  i motivi iniziali, come la superficie bianca senza sbalzi e decorazioni, lo vediamo nel “Vasetto per acqua con due piccoli manici e invetriatura in stile Ru”, e con i soli sbalzi sul bianco, nel “Vaso con invetriatura bianca e motivi ad intaglio di fiori e uccelli”. Torna la “Brocca bianca e blu con gli Otto tesori” e si affacciano altri colori nel “Vaso zen con invetriatura ‘polvere di tè'”, liscio in un leggero verde che tende al giallo con macchie impercettibili; mentre ha un colore intenso, senza decorazioni, il “Vasetto ‘taibai’ con invetriatura rossa ‘fiore di pesco’”,  e ha soltanto delle striature rosse il “Secchiello con invetriatura che riproduce le venature del legno”.  Due striature blu su una superficie di colore rosso intenso nel “Vaso con invetriatura di tipo ‘Jun'”.

 Dopo queste reminiscenze della semplicità iniziale irrompe la decorazione con figure colorate nello stile raffinato dell’antica tradizione pittorica cinese, calligrafica e ispirata a principi e valori spirituali.  I primi due oggetti che vediamo sono  ancora nel bianco e blu  caratteristico della porcellana cinese dei periodi precedenti, ma già i titoli indicano la svolta nella decorazione: “Vaso bianco e blu a sezione rettangolare , raffigurante un paesaggio” e “Vaso raffigurante personaggi dipinti in blu, e rosso sotto-coperta”, fa capolino quest’altro colore, che è ancora più evidente nel “Vaso raffigurante personaggi dipinti in rosso e blu sotto-coperta”. Il “Vaso a coste con decorazione fiori e uccelli in ‘famille’ rosa” ci fa conoscere questa particolare porcellana, con una composizione elegante e raffinata su fondo bianco senza figure umane; gli associamo,  per una certa analogia compositiva e cromatica, il “Vaso con fiori e frutti blu e rossi sotto-coperta”.

Si fa un passo avanti con il “Portapennelli ‘doucai’ (colori contrastanti) con scena di immortali”, insieme al blu e al rosso c’è il verde,  la scena è ravvivata dalle figure in movimento.  Così nel “Piatto a smalti policromi ‘wucai’ raffigurante Ma Gu che offre dei doni”, la Regina Madre è su un carro trainato come auspicio di longevità.  Un altro “Piatto con decorazione policroma ‘wucai’ e oro raffigurante il Dirupo Rosso”  rappresenta una barca con il poeta Su Shi che veleggia ranquillo tra la vegetazione senza alcuna avvisaglia di dirupi; un’immagine amena anche nel “Vaso con paesaggio dipinto a smalti policromi ‘famille’rosa”.

 Non viene abbandonata la decorazione floreale, la troviamo  nella “Tazza con motivi di rose e fiori cinesi a smalti falagcai'” , con pochi elementi ben dipinti su sfondo blu intenso. Ma soprattutto in vasi  con una decorazione stilizzata in modo delicato, senza immagini precise ma con volute ornamentali vegetali o di draghi, su fondi colorati in tinte pastello.

Così  in “Vaso ‘famille rose’ con decorazione di draghi su fondo verde”,  i draghi sono stilizzati e filiformi, salvo due, il verde è molto tenue;  lo stesso dicasi per il “Vaso ‘benba’ in porcellana ‘famille rose’ con motivi di fiori di loto e draghi”, dove il fondo è bianco, e per “Vaso ‘famille rose’ con motivi floreali”, questa volta così  addensati da coprire completamente il fondo, ma non viene meno l’eleganza e la leggerezza.

Vediamo “Cinque oggetti rituali ‘famille rose’ su fondo carminio”, sono vasi sacrificali posti davanti alle immagini di Buddha  o sugli altari, con un motivo floreale su fondo carminio, dei fiori di loto che sorreggono gli Otto Tesori, il set è formato da un incensiere, 2 calici e 2 candelabri.

Una forma allungata, a differenza di tutti i vasi finora richiamati ha,  per sua stessa natura, il “Calice ‘gu’ con invetriatura color bronzo e decorazione a foglia di banano”  stilizzata in modo marcato; mentre è tondeggiante con motivi floreali su fondo verde chiaro la “Scatola con coperchio ‘famille rose’ con marchio ‘Daya zhai’“, di intonazione simile il “Vassoio ‘famille rose’ su fondo verde a forma di begonia con una poesia dell’imperatore” scritta nella parte piana centrale, mentre le decorazioni sono nella larghezza del bordo.

Dallo scettro alla figura ascetica carica di valori spirituali

Finora tutti oggetti tipici dell’uso quotidiano, essenzialmente piatti, vassoi e vasi, nome usato anche per quelli che culminano in un collo allungato e stretto. Ma vi è anche un oggetto molto particolare, uno “Scettro ‘ruyi’ con decorazione in rosso e oro con invetriatura di tipo ‘Ge'”; la testa ha la forma del cappello di un fungo o di una nuvola, era un simbolo di benessere, fortuna, felicità, non ce n’erano molti, soprattutto di questo  tipo, quello esposto è definito “più unico che raro”.

E dallo scettro passiamo all’ultimo oggetto speciale, la “Statuetta raffigurante Bodhidharma seduto”: una figura religiosa, l’espressione dignitosa e serena esprime la forza spirituale e l’imperturbabilità, le pieghe del mantello mosso dal vento danno dinamismo.

La spiritualità che ispira l’arte cinese nelle sue più diverse manifestazioni, tra cui quella delle porcellane storiche, è resa da un artigianato superiore di livello artistico che oltre a sublimare gli oggetti di uso quotidiano, sa anche raggiungere questi livelli elevatissimi in una vera scultura . Sembra possa essere questa la migliore conclusione della nostra rassegna sui capolavori della porcellana cinese. Che si innalza dalla quotidianità pur se nobilitata, alla spiritualità espressa nei valori e nei simboli, e qui la troviamo evocata in una figura che trasmette un’indicibile perfezione ascetica.

Info

Museo Nazionale del Palazzo Venezia, Roma, Via del Plebiscito 118. Da martedì a domenica ore 10,00-19,00,  ingresso fino alle ore 18, lunedì chiuso. Ingresso intero euro 4,00, ridotto euro 2,00. Tel. 06.69994388. Catalogo “Capolavori dell’Antica Porcellana Cinese dal Museo di Shanghai X-XIX sec.”, Shanghai Museum, 2016, pp. 200, formato 21,5 x 28,5, bilingue italiano-cinese; dal catalogo sono tratte le notizie del testo. Per le precedenti mostre a Roma sull’arte cinese cfr. i nostri articoli in questo sito:  nel 2016 “Cina oggi, il crocevia di 12 artisti, al Vittoriano”, 6 gennaio; nel 2015, “Fan Zeng, la sinfonia delle civiltà al Vittoriano”, e “Awangdui, le tombe cinesi del 2° sec. A. C., a Palazzo Venezia”  17 gennaio; nel 2013, “Visual China, l’odierno realismo figurativo al Vittoriano” 17 settembre, “Cina, la pittura moderna ‘oltre la tradizione’, a Palazzo Venezia” 25 giugno, e la “Via della Seta” nella mostra a Palazzo Esposizioni 19, 21, 22 febbraio; nel 2012, “Weisham, 30 sculture della Cina moderna a Palazzo Venezia”  24 novembre. In www.antika.it , nel 2011 “I due imperi, l’Aquila e il Dragone”  febbraio.

Foto 

Le immagini sono state riprese  da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Venezia, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Incensiere a forma di anatra con decorazione policroma ‘sancai'”, 1465-87; seguono, “Vaso con quattro caratteri dipinti in nero su fondo bianco”, 960-1279, e  “Poggiatesta a forma di bambino con decori dipinti in nero sotto un’invetriatura  giallo-marrone”, 1115-1234; poi, “Incensiere con tre piedi e due manici, con invetriatura azzurra a macchie rosse”, 1271-1368, e “Ciotola con motivi di draghi rossi tra le onde blu”, 1522-66; quindi, “Scatola da frutta con coperchio e decorazione policroma ‘wucai’, cinque colori”, 1573-1620, e“Statuetta bianca e blu raffigurante unpersonaggio seduto su un animale”, 1573-1620; inoltre, “Portapennelli ‘doucai’ (colori contrastanti) con scena di immortali”, 1644-61, e “Vaso ‘famille rose’ con decorazione di draghi su fondo verde”, 1736-95; infine, “Vaso ‘benba’ in porcellana ‘famille rose’ con motivi di fiori di loto e draghi”, 1736-95, e “Statuetta raffigurante Bodhidharma seduto”, 1644-1911; in chiusura, un particolare dell’esposizione con oggetti datati tutti 1662-1722, da sinistra, “Vaso raffigurante personaggi dipinti in blu e rosso sotto-coperta”  e”Piatto a smalti policromi ‘wucai’ raffigurante Ma Gu che offre dei doni”, Piatto con decorazione policroma ‘wucai’ e oro raffigurante il Dirupo Rosso”  e “Vaso bianco e blu a sezione rettangolare, raffigurante un paesaggio”.   

Fotografia cinematografica, XXI Premio Gianni Di Venanzo di Teramo Nostra

di Romano Maria Levante

A Teramo dal 20 settembre al 29 ottobre 2016 si è svolta la manifestazione “XXI Premio Internazionale della Fotografia Cinematografica Gianni Di Venanzo”, con il patrocinio della Regione Abruzzo, della Provincia e del Comune di Teramo, della Camera di Commercio, di alcune banche e soggetti privati tra cui l’IZS “G. Caporale” e l’Istituto musicale G. Braga. E’ organizzata ogni anno da “Teramo Nostra“, l’associazione culturale presieduta da Piero Chiarini, impegnata nella salvaguardia e promozione dei beni ambientali della provincia e in altre iniziative meritevoli; l’organizzazione generale di Piero Chiarini, la direzione artistica di Sandro Melarangelo, è l’unico premio per tale categoria. Prima di dare conto della mnifestazione  ricordiamo alcunii interventi con i quali l’associazione mantiene viva la vigilanza e l’azione su temi a cuore della cittadinanza incalzando da vicino le istituzioni e riuscendo a raggiungere risultati prestigiosi di grande valore civile.  

L’impegno di “Teramo Nostra” per il territorio e la cultura

E’ questo il caso, in particolare, del recupero del  Teatro Romano di Interamnia, per il quale la lunga battaglia condotta da “Teramo Nostra” è riuscita a ottenere la sottoscrizione di un preciso cronoprogramma da parte di Governo, Soprintendenza e Comune, con le firme di garanzia della stessa associazione e di Marco Pannella, mobilitato con la sua ben nota carica dirompente.  La prima fase dell’intervento programmato per riportare alla luce la cavea prevede l’abbattimento del Palazzo Adamoli, di proprietà pubblica, e del palazzo Salvoni, per il quale occorre definire l’indennizzo spettante al proprietario che ha avanzato una richiesta di 600.000 euro. Il Governo e la Regione hanno già finanziato i lavori. Tutto a posto, dunque?

Il presidente Piero Chiarini, nel bollettino trimestrale di “Teramo Nostra”  dell’ultimo quadrimestre del 2016, nel ringraziare il ministro per i beni culturali Franceschini e il presidente della regione Abruzzo D’Alfonso dei finanziamenti  erogati, invita a non abbassare la guardia: “Non vorremmo  però che anche questi finanziamenti, come i precedenti, fossero mal utilizzati”.

Al riguardo Chiarini cita, come esempio di cattiva utilizzazione di fondi pubblici, l’impiego,  nell’iniziativa “Stati generali della cultura”, di 23.000 euro per “fare il punto della situazione”,  peraltro ben nota alle associazioni culturali che operano nel territorio le quali soffrono della mancanza di un aiuto finanziario da parte degli enti pubblici come riconoscimento e
sostegno alla loro meritoria attività.

“Teramo Nostra” non si limita a battersi per il Teatro Romano di Interamnia, è impegnata su vari  fronti. In particolare, ha coinvolto altre 7 associazioni in una battaglia comune  per il recupero della Chiesa di San Giuseppe, importante bene storico, artistico e religioso il cui dissesto è stato aggravato dal sisma del 24 agosto 2016 con il crollo della cuspide del campanile seicentesco “a  vela”.

Oltre all’impegno assiduo per la  vigilanza, il recupero e  e la valorizzazione del patrimonio storico e artistico del territorio, l’associazione promuove e organizza manifestazioni  culturali di largo interesse. Ricordiamo il “Premio Internazionale Pittura Rupestre Guido Montauti”  dell’agosto 2014 a Pietracamela, con mostra dei bozzetti partecipanti nella sede di Teramo; il premio, dopo la forzata interruzione dovuta alla crisi amministrativa – due anni di Commissario prefettizio e due elezioni – con il nuovo sindaco dovrebbe tornare nell’estate 2018 tra le celebrazioni per il centenario della nascita dell’artista.

A parte questa iniziativa in provincia, il programma pubblicato nel bollettino per gli ultimi quattro mesi dell’anno esprime la vitalità e l’impegno dell’associazione nel capoluogo Teramo. A novembre “San Martino con l’arte“, a dicembre la presentazione del libro di Giovanni Di Girolamo su S. Antonio e il “Premio internazionale amico Rom ” a cura di Santino Pinerlli, il Premio per studenti “Letterine  di Natale”  a cura di Bruno Di Pasquale e la Festa della Teramanità. San Berardo patrono di Teramo con  riconoscimenti a cittadini illustri.

Mostre, libri e concerti al Premio Gianni Di Venanzo

Sono iniziative minori, ma significative, che  seguono il grande impegno annuale del “Premio Internazionale della Fotografia Cinematografica Gianni Di Venanzo” per il quale oltre alle premiazioni e alle relative proiezioni, si sono svolte manifestazioni nell’arco di oltre un mese, in diverse sale cittadine, dalla sede di “Teramo Nostra” al Teatro Romano, dal Cineteatro Comunale alla Sala polifunzionale della Provincia di Teramo, dalla sala  espositiva “Torre Bruciata” alla Scuola Superiore ITIS, e soprattutto alla Casa di Riposo G. De Benedictis, dove si è avuta l’apertura del Premio con la proiezione di 4 film d’autore su tema sacro, e la chiusura con il Concerto finale, un’attenzione per gli anziani veramente meritoria  dinanzi a certo giovanilismo esasperato fino alla “rottamazione”; come è meritoria l’apertura gratuita al pubblico  di tutte le manifestazioni del programma. E’ un programma molto fitto che ripercorriamo momento per momento.

Ma prima vorremmo ricordare che  Gianni Di Venanzo, scomparso nel 1966 a 46 anni, ha operato nel periodo più felice del cinema italiano, a partire dal 1943; come Direttore della fotografia dal 1956, in dieci anni ha affiancato i maggiori registi italiani in oltre 30 film, ricevendo 5 Nastri d’argento per film nella memoria di tutti, “Il grido” e “I magliari”, “Salvatore Giuliano” e  “8 e 1/2”, fino a “Giulietta degi spiriti” alla memoria.  Non citiamo gli altri film ma i registi: Francesco Rosi(6 film) e Federico Fellini (3 film), Michelangelo Antonioni (5 film) e Carlo Lizzani (4 film), Gianni Puccini (2 film) e Federico Mselli (3 film), Mario Camerini (2 film), Mario Monicelli e Luigi Comencini (collaborazioni in un film ognuno). 

Il Premio internazionale a lui intitolato per la fotografia cinematografica, che è stata la sua forma espressiva a livelli di eccellenza, fu istituito da “Teramo Nostra” nel 1996, con la consegna dell’ “Esposimetro d’oro alla memoria a tre maestri della fotografia cinematografica, dopo le celebrazioni del 30° anniversario della sua scomprsa con l’intitolazione a lui di una via cittadina. Da allora ogni anno la menifestazione si è arricchita sempre più di motivi e di contenuti.

Quest’anno, il XXI, il preludio il 20 settembre,  con il Concerto Omaggio a Liliana e Marco Pannella, a quattro mesi dalla scomparsa del personaggio, con la partecipazione del Liceo Braga e dell’Alexian Spinelli Group, ha presentato Laura De Berardinis. Si è svolto significativamente al Teatro Romano per il quale il teramano Pannella, grande amico  di “Teramo Nostra”, si è battuto a fianco dell’associazione ottenendo il finanziamento del recupero, di fondamentale importanza sul piano storico e culturale. In sua memoria anche il “Primo Premio di Integrazione e Solidarietà ‘Marco Pannella’”.

Due le mostre presentate: il 4 ottobre, nella sala “Torre Bruciata”, la “Mostra “Omaggio a Cesare Zavattini”,  a cura di Orio Caldiron e Paolo Speranza,  ha aggiunto la figura dello scrittore commediografo, poeta e sceneggiatore, protagonista della grande stagione del neorealismo cinematografico italiano,  alle figure dei teramani illustri presentati negli scorsi anni, De Antonis e Sagaria, Rambelli e Melarangelo; il 10 ottobre, nella sede di “Teramo Nostra”, la mostra “Le Emozioni Fotografiche”, premio intitolato a Lucio de Marcellis, prematuramente scomparso, a cura di Frederic Vienne, con gli interventi di Sandro Melarangelo, Franco Pace e Loredana Di Giampaolo, premio consegnato nella sede il 1° novembre.

Inoltre presentazioni di libri, sempre nella sede:  l’8 ottobre “Teramo e il Teatro Lirico”, di Elio Simone Serpentini, edito da Artemia, con interventi di Piero Chiarini e Sandro Melarangelo e l’intervento musicale di Franco Di Donatantonio. E’ un nuovo appello alla memoria dei teramani, dopo  il primo volume sulla storia delle proiezioni cinematografiche a Teramo, ora si tratta della grande musica nelle sedi teatrali cittadine, tra cui spicca l”ottocentesco “Teatro comunale”, abbattuto purtroppo nel 1969 nel segno di una sciagurata modernità iconoclasta per far posto a un supermercato e ad una sala cinematografica senza più lo spettacolare anfiteatro di tre ordini di palchi con il loggione, deliziosa miniatura dei più grandi teatri lirici, l’indignazione scuote ancora chi come noi ha conosciuto il prima e il dopo. L’altra presentazione si è svolta  il 13 ottobre, nel programma “Scambialibro” – con il quale l’associazione  culturale “Detto tra noi” organizza ogni mese la condivisione della letturasi è trattato del libro “Anna Magnani, biografia di una donna”, di Matteo Persica, Edizioni Odoja, ha condotto Dino Orsatti. Il libro inizia dalla folla che premeva ai cancelli dell’ospedale alla sua morte il 26 settembre 1973, e bloccò la città il giorno dei funerali, prosegue ricostruendone la figura attraverso le sue parole , in un dialogo virtuale con lei che equivale a un incontro e emozionante nell’ultima parte della sua vita.

Tre i concerti dopo quello inaugurale. Il 5 ottobre nella Sala Polifunzionale della Provincia di Teramo, il “Concerto Salviamo la Chiesa di San Giuseppe” , a cura del maestro Paolo Speca, soprano Alba Riccioni; si inserisce nell’impegno dell’associazione per recuperare un bene prezioso danneggiato dal terremoto con il crollo della volta e anche dall’incuria.  

E il 14 ottobre,  al Cineteatro Comunale,  il “Concerto Musica per il cinema” con la voce e l’accompagnamento al piano di  Federica D’Ippolito, la chitarra di  Tony Di Gabriele e i Musici Lotariani, formazione di 40 fiati, Franco Di Donatantonio al pianoforte, su brani di Ennio Morricone, Nino Rota e Stelvio Cipriani. Una spettacolo emozionante, con le atmosfere create dalle composizioni di straordinari musicisti che riescono  a far rivivere scene  indimenticabili e suggestive.  Al termine della manifestazione, il 29 ottobre, alla Casa di Riposo G. De Benedictis,   “Concerto Finale” a cura di Raimondo Paganico e Gianni Novelli, un omaggio agli anziani  che ha chiuso nel modo migliore il premio Gianni Di Venanzo,

Proiezioni, stage e provini collaterali al  Premio Gianni Di Venanzo

Finora non abbiamo parlato di cinema perché abbiamo voluto citare prima l’ampia gamma di offerte culturali e celebrative del Premio, ma è evidente che al cinema va la parte del leone con le proiezioni non limitate alle opere dei premiati per la fotografia cinematografica e con le premiazioni.

Si inizia con le  “Proiezioni Luce sul Sacro” ,  4 film d’autore alla Casa di  Riposo G. De Benedictis, nei giorni dal 3 al 6 ottobre. Introdotti da Enrico Borganti i film “Francesco” e “Fratello Sole e Sorella Luna”, “Il Vangelo secondo Matteo” e “Risorto”; tali opere, tutte su tema religioso, vanno dalle due celebrazioni francescane molto diverse di Liliana Cavani e di Franco Zeffirelli alle due immagini della Palestina altrettanto diverse  di Pierpaolo Pasolini e di Kevin  Reynolds, il film più recente ha avuto uno dei maggiori riconoscimenti della manifestazione,  il premio “Autore della Fotografia Cinematografica straniera”.

Il 10 ottobre alla Scuola Superiore ITIS la proiezione del cortometraggio “La Stalla”, di Franco Di Domenico, vincitore del “Premio sul rapporto uomo-animale”, una “fiaba contemporanea dell’ambientazione rurale” con musiche di Mahler, e un incontro-dibattito sul tema a cura dell’IZS e di “Teramo Nostra”; proiezione anche del corto dello stesso autore, ” Adele Beatrice”, con l’intervento di Eleonora Corona.

L’indomani, 11 ottobre, questa volta alla Sala Polifunzionale della Provincia di Teramo, la proiezione del lungometraggio “Fukushima. A Nuclear Storry”, di ChristineReinhold, Matteo Gagliardi e Pio d’Emilia, “un viaggio lungo quattro anni nella duplice tragedia che ha colpito il Giappone nel marzo 2011” del  giornalista D’Emilia giunto per primo nelle zone investite dal sisma distruttivo e dallo tsunami che danneggiò pericolosamente  la centrale nucleare. Conduttore Rino Orsatti con Piero Chiarini e la partecipazione molto attesa di Stefano Pallotta, presidente dell’Ordine dei Giornalisti.

Non solo visione passiva, anche partecipazione attiva, per questo il 14 ottobre, nel pomeriggio, nella sede di “Teramo Nostra”, “Stage  e provini” del regista Lo Piero per il film “Bellini” di prossima produzione, un’occasione per tanti appassionati, anche se non sono più i tempi resi magistralmente da “Bellissima”; è positivo che non sono solo i “talent”  a promuovere la partecipazione dei giovani, l’arte cinematografica ha uno spessore ben maggiore delle effimere illusioni  televisive, spesso banali.

Lo stesso 14 ottobre, nella serata, al Cineteatro Comunale l’inaugurazione della “Mostra dello scultore Ivo Galassi” presentata da Paola De Felice. Poi, con il “Concrerto Musica per il Cinema”, la “Rassegna Corti” del Premio Integrazione e Solidarietà Marco Pannella e  la  proiezione del film documentario  “Figli del set”, di Carlotta Bolognini: 30 “figli d’arte” hanno raccontato i ricordi e le emozioni derivanti dall’aver vissuto l’atmosfera creata dai genitori artisti, da cui è nata anche la loro passione, tra loro, tanti cognomi celebri, ricordiamo Rossellini e Tognazzi, Bolognini e Tessari, Gemma e Quinn, Vallone e Risi, i figli rivelano il lascito che sentono di aver avuto dai genitori.

Proiezioni anche il 28 ottobre, ultima giornata del Premio Gianni Di Venanzo prima del concerto di chiusura del 29 ottobre,  nella sede di “Teramo Nostra” i “Corti in concorso per VII Premio Speciale G. Caporale”.

Il clou della manifestazione, i vincitori del Premio Gianni Di Venanzo

Come in ogni spettacolo che si rispetti, portiamo sul proscenio alla fine le “star”, anche se nella manifestazione sono state distribuite nell’arco di un mese. Precedute da due  premi:  la “Targa Speciale Autore della Fotografia Cinematografica Fiction TV ‘Peppe Bernerdini'” a Marco Pieroni per Luisa Spagnoli di Ludovico Gasperini, e la “Targa Speciale della Giuria ‘Marco Onorato'” a Greta De Lazzaris.

Ma ecco le prime due “star”, di cui il 12 ottobre, nella sala “G. Di Venanzo” di “Teramo Nostra”, sono stati proiettati i film nei quali hanno diretto la fotografia, sono i  vincitori delle rispettive sezioni del premio.

Il film Concorrenza sleale” di Ettore Scola,  con Abatantuono, Castellitto e Depardieu, direttore della fotografia Franco Di Giacomo,scomparso il 30 aprile dell’anno in corso, a cui è stato conferito  il “Premio alla memoria”. Ha iniziato come  operatore di macchina con Tonino Delli Colli in film memorabili di De Sica e Pasolini, Sergio Leone e Marco Bellocchio, poi come direttore della fotografia con molto uso della luce naturale è stato ricercato dai registi anticonformisti, finchè è passato addirittura alla commedia, Nel 1983 ha  vinto il David di Donatello per il film “La notte di San Lorenzo”  dei fratelli Taviani. Dal  1970 al 2008 si contano circa 35 direzioni della fotografia in film di varia natura, tra cui  “In nome del padre” del 1971 e “Don Camillo”, 1984, “Il postino”, 1994, fino ad “Appuntamento ad ora insolita”, 2008. Dal 1995 4 film con Ettore Scola, “Il romanzo di un giovane povero” e “La cena”, “Gente di Roma”  e “Concorrenza sleale”. Quest’ultimo é un film sulla quotidianità senza scene madri ma con la suggestione degli interni e la introspezione psicologica rese magistralmente dalla sua fotografia.

Nella sezione “Premio Autore della Fotografia Cinematografica Italiana” il  film “Pericle il nero”, regia Stefano Mardini, del 2016, per il quale è stato premiato il Direttore della fotografia Matteo Cocco. che  ha saputo rendere l’atmosfera di sospensione del film e la ricerca di sé del protagonista con i chiaroscuri, i giochi di ombre  e luci  tra i cieli grigi e i mari plumbei della parte del Nord Europa dove si svolge il film, con una fuga rocambolesca tra il Belgio e la Francia.

Dopo il Premio alla memoria, il  “Premio alla Carriera”,  conferito ad Aiace Parolin, che iniziò come assistente ed operatore di macchina di alcuni grandi direttori della fotografia come  G.R. Aldo, Brizzi e Martelli in film di Rossellini e Monicelli, Bolognini e Castellani,  Lizzani e Germi negli anni ‘50. Quest’ultimo, avuto modo di conoscerne il carattere di antidivo, come era lui, e la maestria nel bianco e nero, lo prese come direttore della fotografia in ben 9 film nel corso di un ventennio, il primo dei quali “Sedotta e abbandonata”,  che ne segnò l’esordio alla direzione: è  una commedia graffiante sul perbenismo dell’epoca ossessionato dalle apparenze,  girata sotto il martellante sole siciliano con una dimessa Stefania Sandrelli, un sanguigno Saro Urzì  e uno spaesato Lando Buzzanca.. Altri grandi registi con cui ha diretto la fotografia sono  Zurlini e Comencini, Corbucci e Gregoretti. Ha lavorato anche in film spaghetti-western e in serie televisive di successo.  

Infine la parte internazionale, il “Premio Autore della Fotografia Cinematografica Straniera” conferito a  Lorenzo Senatore per il film “Risen. Risorto” di Kevin Reynolds, regista di 11 film  dal 2004 al 2016, da “Post Impact” nel 2004 a “Bersaglio mortale” nel 2011, da “Asylum” nel 2013 a “Risorto” nel 2016, proiettato anche, come abbiamo ricordato, alla Casa di Riposo “De Benedictis” in apertura.  Quet’ultimo film ripercorre la storia della Resurrezione attraverso il tribuno militare incaricato da Ponzio Pilato di vigilare sul corpo di Cristo affinché non fosse trafugato dai credenti; si impegna nella ricerca quando il corpo scompare, fino a trovarsi di fronte a Cristo risorto. La fotografia, con gli effetti di luce della Resurrezione  nel cielo della Palestina, riscatta gli artifici e le insufficienze di un film che in diversi momenti banalizza troppo il messaggio evangelico e non trova nell’attore Joseph Fiennes un interprete all’altezza del profondo travaglio spirituale del protagonista. 

La scomparsa del decano dei cartellonisti cinematografici Averardo Renato Ciriello

Così si conclude il grande lavoro dell’organizzazione di “Teramo Nostra” per una manifestazione che ha animato per un mese il capoluogo teramano; e l’impegno della Giuria composta dal critico Stefano Masi, presidente, dai registi Giorgio Treves e Roseella Izzo, dal membro dell’A.I.C Giuseppe Venditti e dal giornalista Franco Mariotti, dal docente universitario Padre Virginio Fantucci e da Laura Delli Colli e Pasquale Cuzzopoli, Evelina Santercole e Carlotta Bolognini.

Ma non termina la nostra nota perché non possiamo non segnalare la scomparsa, una settimana dopo la conclusione del Premio, di un altro grande artista del cinema, Averardo Renato Ciriello, decano dei cartellonisti cinematografici, pittore e illustratore – fu il successore di Walter Molino per la copertina della “Domenica del Corriere” – al quale si devono oltre 3000 manifesti di film, non ne citiamo nessuno perché sarebbe riduttivo ignorare i moltissimi che sono entrati nella storia del  cinema: Ciriello ha saputo riassumere ogni film in un’immagine pittorica coinvolgente. I manifesti sono stati lo strumento di diffusione del cinema e di attrazione in passato, prima che si moltiplicassero i canali di comunicazione. E hanno richiesto un impegno artistico, i bozzetti su cui sono stati realizzati erano vere composizioni pittoriche. Oggi che anche questo è cambiato, assumono un valore maggiore, diventano storia, e non vanno dimenticati.

A  Ciriello è dedicata una sala del Museo dei Bozzetti cinematografici “Cinema a pennello” di Montecosaro, Macerata, inaugurato nel2012  – madrina Claudia Cardinale –  realizzato nell’antico palazzo nobiliare di famiglia nel cuore del centro storico, dal  collezionista appassionato  Paolo Marinozzi, che ha avuto  direttamente dall’artista i bozzetti originali esposti, circa 50, come quelli degli altri autori di manifesti cinematografici. Il presidente dell’Archivio Storico del Cinema Italiano Graziano Marraffa  ha avuto modo di incontrarlo  personalmente di recente, dopo averne apprezzato l’arte e la maestria.

A questo punto ci sentiamo di avanzare una proposta. “Teramo Nostra” potrebbe organizzare un “Omaggio ad Averardo Renato Ciriello” in una delle edizioni del Premio, con l’esposizione dei suoi bozzetti originali e dei manifesti presenti nel Museo di  Montecosaro  e magari anche di altre sue opere pittoriche.  Il titolare del museo  come il presidente dell’Archivio Storico del Cinema Italiano potrebbero essere della partita.

La proposta è rivolta al presidente dell’associazione  Piero Chiarini; siamo certi che considererà con attenzione, nel segno della sua grande passione per il cinema, la possibilità di rendere onore ad Averardo Renato Ciriello, che ne è stato per unanime riconoscimento un protagonista con il suo apporto artistico alla presentazione e alla più larga diffusione dei film.

Info

“XXI Premio Internazionale della fotografia cinematografica Gianni Di Venanzo, Maestro del colore, maestro della luce”, programma in brossure, “Teramo Nostra”, pp. 34, formato 15 x 15, svoltosi a Teramo, nella sede di “Teramo Nostra”, al Teatro Romano, nella Sala espositiva “Torre Bruciata” e al Cineteatro Comunale, nella Sala polifunzionale della Provincia di Teramo, nella Scuola Superiore ITIS e nella Casa di Riposo “De Benedictis”. Cfr. in questo sito i nostri articoli: per il Museo dei Bozzetti cinematografici di Montecosaro e l’opera di Renato Averardo Ciriello, citati nel testo, il 15, 17, 19 novembre 2012 (nel 3°  Ciriello), oltre al catalogo del Museo, “Cinema a Pennello. Un bozzetto di storia”, di Paolo Marinozzi, edito dal “Centro del Collezionismo”, Montecosaro, giugno 2011, formato 24 x 28, pp. 304  illustrato su carta patinata a colori; per un’altra iniziativa di “Teramo Nostra” su una fotografia molto diversa da quella cinematografica, la fotografia astratta con riferimento all’opera di Domenico De Antonis, i 2 articoli che usciranno il 19 e 29 dicembre p. v. .

Foto

Le immagini – a parte quella di apertura e le 2 di chiusura, tratte dal Catalogo del Museo dei bozzetti per le quali si ringrazia il titolare Paolo Marinozzi – sono state riprese da Internet su siti di pubblico dominio, per l’illustrazione dell’articolo senza fini di lucro; si precisa che si è disponibili a rimuoverle immediatamente su semplice richiesta dei titolari dei rispettivi siti o di eventuali titolari dei diritti, che comnque si ringraziano per l’opportunità offerta. In apertura, la copertina del Programma della manifestazione, design Danilo Di Furia;  seguono  le immagini di tre personaggi celebrati in vario modo, Marco Pannella con il Concerto  e il Premio a lui intitolato, Cesare Zavattini con la “Mostra omaggio” e Anna Magnani con la presentazione della sua biografia; poi due immagini sui riconoscimenti, il premio fotografico intitolato a De Marcellis, nella foto,  una scena di “La stalla”, premiato per il rapporto uomo-animale, e  di “Figli del set”, con i figli d’arte; quindi, per il cuore della manifestazione, un’immagine della fiction Tv “Luisa Spagnoli” per la Targa speciale a Marco Pieroni, Greta De Lazzaris per  la Targa speciale della Giuria a lei conferita; fino al clou, con  una scena di “Sedotta e abbandonata”  per il  “Premio alla Carriera”  ad Aiace Parolin,  di  “Concorrenza sleale”, per il “Premio alla Memoria”  a Franco Di Giacomo, di “Pericle il nero” per il Premio Autore  Fotografia Cinematografica  italiana a Matteo Cocco, di “Risen-Risorto” per il “Premio Autore Fotografia Cinematografica Straniera” a  Lorenzo Senatore;  infine, per il decano dei cartellonisti cinematografici scomparso di recente, il pittore Averardo Renato Ciriello, i bozzetti per i manifesti del film  “Sfida a White Buffalo” regia J. Lee Thompson  e, in chiusura, del film “Sentieri selvaggi”  regia John Ford.

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