16^ Quadriennale di Roma, 2. Le prime 4 sezioni, con Tocqueville

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Altri tempi altri miti”, con la quale la 16^ Quadriennale di Roma torna dopo 8 anni al Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, con 150 opere di 99  artisti italiani contemporanei, selezionati da  11 curatori e raggruppate in 10 sezioni  intitolate a temi specifici dei quali i curatori, che li hanno ideati, forniscono motivazioni in qualche caso molto elaborate e cerebrali, ma per lo più  esplicative e ricche di riferimenti culturali. L’organizzazione della mostra, e il Catalogo, sono della Fondazione della Quadriennale presieduta da Franco Bernabè e dell’Azienda Speciale Palaexpo che gestisce il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, hanno concorso  insieme alla copertura finanziaria, con il Ministero dei Beni e delke Attività Culturali e del Turismo, e curato il Catalogo della mostra. . “Main partner” l’ENI, presente in mostra con una installazione permanente, “partner” la BMW  con la “BMW Art Car” di Sandro Chia.

“Ehi, voi”, una spiegazione cerebrale, una realizzazione comprensibile

Abbiamo già illustrato l’impostazione della mostra, sottolineando l’intrigante contrasto, un vero ossimoro,  tra la scelta tematica delle sue sezioni e l’inafferrabilità spesso indecifrabile delle opere di arte contemporanea, la cui creatività senza limiti rispecchia un mondo che è già nel futuro, con tanti ansiosi interrogativi.

Ora iniziamo l’excursus tra le opere delle 10 sezioni della mostra da quella che sembrerebbe, in base all’enunciazione del tema, la più vicina alla comprensione,  iniziando dal titolo, “Ehi, voi!”, con cui il curatore Michele D’Aurizio evidenzia i richiami confidenziali anche tra artisti, curatori e visitatori,  in particolare nella cerchia intorno ai  22 artisti espositori. Sono stati annunciati i loro ritratti e autoritratti in qualsiasi modo e con qualunque supporto realizzati, come espressione della continuità tra la vita e l’opera dell’artista, quasi una autoanalisi in forma artistica.

Anche se si è ben lontani dalla ricostruzione degli atelier come fu per la mostra “Interni d’artista” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, le opere esposte sembrano riflettere il loro mondo: si va da immagini fotografiche e stampe a sagome,  da  macchie con forti colori a oscuri bianco-nero, da evocazioni  scultoree classicheggianti a scritte evocative, quindi non si viene spiazzati, per così dire, dalle opere,  tutt’altro.  Spiazza la motivazione con cui il curatore annuncia le opere nel Catalogo, con uno scritto così cerebrale da sembrare un’opera contemporanea  a sé stante, in aggiunta a quelle dei 22 artisti.

I suoi “appunti per una comunità artistica sotto tiro”  proclamano, in antitesi al “gruppo in fusione”  sostenuto da Sartre per reagire all’inerzia e alla passività, la costituzione di un “gruppo in evaporazione, ovvero privo di identità, inafferrabile. ininquadrabile, instrumentalizzabile, e di conseguenza incorruttibile, inespugnabile”, come estrema forma di difesa;  e per far questo illustra con ampiezza una serie di identificazioni necessarie: “noi, poseur” e “noi, clubber”, “noi, power-bottom” e “noi, emo”, finché “anche noi possiamo trasformarci in poltergeist, entità immateriali di ‘disturbo'”. Una contemporaneità, con un ricco contorno di citazioni colte, che porta l’elementare immagine del ritratto nella dimensione imperscrutabile di un futuro inquietante e avveniristico.

Ben più comprensibili le opere esposte, il che è tutto dire. Dallo scatto fotografico immortalato in “Lulaclub” di Alessandro Agudio, che mostra in un ambiente squallido e in posizione precaria una fotografa il cui viso coperto dai capelli è tutt’uno con la fotocamera, alle vere fotografie di Corrado Levi, “Vestiti di arrivati”, e Italo Zuffi, “Flavio staccato”, Ninetto Davoli e Marcello Maloberti, fino alla stampa di Francesco Nazardo, “Chiara” che ci presenta l’adolescenza e ai due  dipinti intitolati “Autoritratto”,  di Beatrice Marchi, un viso forte reso con tratto deciso in un viola diffuso, e di Carol Rama, molto diverso, un’immagine quasi infantile e dolente resa con dense pennellate. Non mancano elaborazioni classiciste come i due corpi distesi di Davide Stucchi, “Heat Dispersion (Mattia and Davide)” che sembrano reperti lapidei  pompeiani, mentre sono in “sapone e acciaio”,  e l’imponente testa  in stampa ma di impronta scultorea di Patrick Tuttofuoco, “Portraites (Christian)”, fino al portaritratti fossile di Andrea Romano, Mizuki (Claque & Shill)”.

In bianco  e nero l’accostamento nitido di Francesco Vezzoli, “Self  Portrait as Marlene Dietrich”, un’immagine fotografica della diva in completo nero a lato di un manichino nudo, e le figure in esterni in dissolvenza di Michele Manfellotto, “Persistence”; mentre sono in un forte cromatismo le immagini intense di DER Sabrina nelle quali si intravedono dei piedi avvolti dai colori, “Backdoor # 3”, Diego Marcon, “Head Falling 01” un grande occhio nel primo piano di metà di un viso rosso intenso,  e Massimo Grimaldi, “Portraits. Shown on Two Apple iPad Air 2s”, un viso abbozzato che nella seconda immagine è ancora più indistinto. Momentum con “Intensity” presenta su fondo blu una sorta di anatomia di pulsazioni interiori tra il bianco e il rosso. All’opposto il disegno a linea sottile di Francesco Cagnin, “Inspiration. Chaque gorgée, une révelation” e le sagome di profilo  di volti di Dario Guccio, “Porta Bianca”, fino alla geometria di un ingresso verso un interno desolato di Alberto Garutti,“Stanza di soggiorno”.

Il  richiamo di “Ehi, voi” si esprime anche nella parola scritta, ed ecco tra le altre le schede di Costanza Candeloro, “Alice’s Adventures Underground”, che è stato il tema della mostra di Natale 2015 della galleria RvB Arts, il quadro di Giulia Piscitelli, “S.A.M.”, e  la bacheca di Gasconade, “Le petit jeu (4-H1)“, con in vista il libro dal titolo eloquente “The Endless City” .

“Preferirei di no”, normale esposizione di opere senza tema

Di tutt’altro segno”I would prefer not to/Preferirei di no”, i curatori Simone Ciglia e Luigia Lonardellinella presentazione iniziale avevano fatto cerebrali riferimenti al “nodo di negazione, resistenza, alienazione” del racconto di Melville da cui hanno preso il titolo, come metafora dello stato dell’arte nel nostro paese, quasi che la scelta delle opere avesse seguito tale linea guida. Nell’ampia illustrazione del Catalogo, invece, si legge il loro racconto della immaginaria visita dell’oscuro impiegato F. a una mostra d’arte in cui si incontrano in successione le opere scelte per la Quadriennale, che diventa una spiegazione della propria sezione con gli occhi del visitatore.

Su ogni opera presentano un breve commento con tratti da normali critici d’arte: così per il quadro su  rame di Nicola Samorì – uno dei pochi dipinti esposti, opera veramente pregevole che mantiene viva la pittura in una mostra di tutt’altro contenuto – intitolato “Lieto fine di un martire“, figura reclinata all’indietro, di linea classica con la parte superiore del corpo che diventa eterea, quasi sublimata nella trasfigurazione; poi l’abbozzo di scalinata con una pianta di Invernomuto, “Zon, paesaggio”,  il leone appollaiato dello stesso autore, “Motherland”, e il pannello con il cavaliere munito di lancia su fondo verde di Matteo Fato, “Senza titolo con Quattro esercizi Equestri”. Segue il salto nell’intraducibile, la barra verticale che culmina nella testa di serpente, con il cucchiaio e il petalo di Mario Airè, “Paolina”, le due opere dalla superficie bianca, l’alabastro con due fogli piegati ai bordi ma in realtà marmorei di Massimo Bartolini, “Left Page, Right Page”, e “L’insurmontabile”di Gianfranco Barucchello, il noto artista vicino a Duchamp,  non giovane ma con un’opera del 2015, motivi  appena percettibili su un fondo grigio chiaro.

Concludiamo la rapida rassegna della sezione con il filmato “Nope” di Claude Fontaine, dove tra evocazioni geografiche e geometriche si dipana un thriller indecifrabile, animato da persone che vogliono muovere la casa e il sole.

Non si ripetono le argomentazioni cerebrali secondo cui “gli artisti in mostra rivendicano il diritto ad allontanarsi dal perdurante affastellamento dei fatti e delle cose senza per questo smarrire la consapevolezza del proprio vissuto, personale e collettivo”.  Anche se proprio qui  si trova la spiegazione del titolo della sezione:  “Preferiscono di no, un no che non è più contestatario, resistente, ma una didascalica negazione della possibilità di scegliere”. Nel Catalogo nulla di tutto questo, il racconto della visita a una mostra d’arte contemporanea.Una resipiscenza?“Lo stato delle cose”,  7 mostre personali separate in momenti diversi

Una terza sezione ci propone una visione ancora diversa, questa volta in  assoluta coerenza tra la presentazione iniziale e l’illustrazione del Catalogo. In “Lo stato delle cose”  la curatrice Marta Papini  non solo non enuncia alcun tema prestabilito, ma non indica neppure le opere selezionate e il motivo della sua scelta. Questo anche perché non vi è la mostra collettiva come nelle altre sezioni, ma si annunciano 7 singole mostre personali in successione, una per ogni artista con il riconoscimento dell’impossibilità di ricondurle a un motivo comune, scelta che riteniamo sincera rispetto a spericolate acrobazie supportate dalla dialettica più che dalla logica.

Si richiama il concetto dell’opera d’arte “come una possibilità d’incontro, come un invito a partecipare rivolto dagli artisti a ciascuno i noi”, di cui all’ “Autoritratto” di Carla Lonzi,  per spiegare tale scelta in controtendenza rispetto alle altre. Nessun tema per le 7 mostre personali, e nel catalogo i 7 artisti si presentano in interviste singole in cui vengono poste le stesse 11 domande. Descrivono nelle risposte il loro modo di concepire l’arte e di praticarla, l’importanza che ha nella propria vita, i risultati ottenuti, le difficoltà e i pentimenti,  la comunicazione con il pubblico.Uno dei 7 artisti è Margherita Moscardini, già vincitrice di “6artista”, nel  suo “Wall” si vede un cane su un bagnasciuga mosso dalla risacca; di Christian Chironi, “My House is a Le Corbusier”  un solitario breakfast in un interno, due immagini di solitudine;  abbiamo poi le elaborazioni digitali con ombre lunghe su un antro roccioso di Alberto Tadiello,“Melisma”, che accostiamo a “A Fragmented World”, video-installazione di Elena Mazzi e Sara Tirrelli altrettanto ombrosa.  Un’altra video-installazione mostra delle fiamme che squarciano il buio, si tratta di “In girum imus nocte” di Giorgio Andreotta Calò, mentre di Yuri Ancarani, “Baron Samedi”, una veduta d’installazione con lapidi, croci e la sagoma di uno stambecco. Chiudiamo con i corpi di Adelita Husni Bey, artista che ritroveremo più avanti, in “After the Finish Line”,  una figura piegata nella scatto allo start, poi delle sagome appena delineate tra  macchie color arancio e scritture di ansietà, stress, paura.

Le 3 sezioni appena illustrate le abbiamo poste all’inizio del nostro personale itinerario tra le 10 sale della mostra, essendoci apparse diverse dalle  altre 7 sezioni soprattutto nella presentazione dei curatori, in una sorta di gara di creatività con gli autori fino a rendere cerebrali e capziosi nessi a volte  evidenti o,  al contrario, facendo venir meno, di fatto, i nessi preannunciati, fino alla negazione di qualunque nesso  al punto di rinunciare alla  mostra collettiva.“La democrazia in America” con Tocqueville, da qui i nessi sono visibili

Dalle prime sezioni con enunciazioni dei curatori che ci sono apparse disgiunte dalle espressioni artistiche degli autori passiamo ora alle altre sezioni che offrono nuove  sorprese. Non nascono dalle enunciazioni, che questa volta sono  attinenti e comprensibili, ma dai contenuti. La mostra continua a colpire i sensi con le rutilanti ollecitazioni non solo visive, ma anche auditive, e sfida la mente a cogliere i nessi e i significati di un’arte contemporanea così criptica e cerebrale. Sono caratteri propri della creatività, che non ammette limiti e forse neppure spiegazioni soprattutto in campo artistico.

I  nessi delle opere con il tema della sezione vengono rivendicati, e in tre sezioni sono riferiti  in modo diretto ed esplicito a grandi intellettuali che hanno segnato la storia precorrendo motivi e situazioni con enunciazioni tuttora sorprendentemente valide per interpretare i fenomeni sociali. Non si può che rimanere stupiti nel vedere la creatività cercare  un legame con visioni lucide del passato, radicate in una realtà apparentemente molto diversa ma che vediamo riproporsi  in una disarmante continuità facendo a pugni con il cambiamento sconvolgente della nostra epoca, perché persistono pecche ataviche. Sono quelle delle ingiustizie sociali e dello sfruttamento, e la ribellione che suscitano  impedisce una visione razionale, di qui il ricorso ai grandi pensatori di ieri.“La democrazia in America” si ispira agli scritti di Alexis de Tocqueville  nati da due viaggi, il primo nella Sicilia del 1827,  dopo settimane trascorse a Roma e a Napoli, l’altro nell’America del  1831, iniziando da New York. Due situazioni diverse, e per molti versi opposte,  in Sicilia la miseria e l’ oppressione di un sistema  feudale, in America un'”uguaglianza di  condizioni”  diffusa ma con tante contraddizioni, come quella tra crescita dei diritti civili e schiavismo,  tra ricchezza individuale e parità politica, tra libertà e uguaglianza, Sono questi e altri gli elementi su cui ci si interroga anche nella realtà attuale,  e sui quali artisti italiani si sono cimentati riflettendo sull’incerto sviluppo democratico del nostro paese.

E allora ecco una rivisitazione delle idee di Tocqueville  in chiave artistica illustrata con la precisione  dello storico dal curatore Luigi Fassi senza elucubrazioni cerebrali ma in modo piano e determinato, cui è sottesa una forte passione civile. Sui passaggi chiave del pensiero di Tocqueville  viene presentata  l’interpretazione  degli artisti raggruppati nella sezione.

L’influenza irresistibile  della stampa se si muove nella stessa direzione, spesso fuorviante,  è resa da Niccolò Degiorgis che ha analizzato “la comunità errante” dei mussulmani con una ricerca su oltre 1000 articoli usciti dal 2001 ad oggi in un giornale di Treviso,  martellanti nella loro ostilità e inadeguati a rappresentare la vera realtà documentata anche con una ricostruzione fotografica delle condizioni precarie di questa comunità. Oltre  al filmato sugli articoli, abbiamo visto la foto con le schiene curve all’aperto in assenza di moschea in “Festa di Eid Eil-Ftr, Associazione culturale islamica di Treviso, Villorba”. Ma poi la partecipazione, e su questa Adelita Husni-Bej, che abbiamo già trovato nella sezione precedente, presenta “Agency . Giochi di potere”, un video su un intenso workshop di simulazione sociale con un gruppo di studenti liceali a impersonare cinque categorie professionali  di rilievo nell’analisi critica delle relazioni di potere che, dominando la società, compromettono l’uguaglianza alla base della democrazia.

Si torna nell’ottica americana con le inserzioni pubblicitarie e gli articoli di “Fortune”, “Italian Farmer Hand” , che Alessandro Balteo Yazbeck presenta insieme ad alcune intense immagini visive del contadino calabrese misero ma con tanta dignità come altri tre milioni simili a lui, “una sfida al capitalismo occidentale”. L’esigenza di far progredire tutto il popolo, con la cultura e la lotta all’emarginazione, è visualizzata da Gianluca e Massimiliano De Serio in un racconto visivo, “Rovine”,  sull’abbattimento della mega baraccopoli torinese “Platz”,  con un’installazione sonora. Ma ci sono anche immagini ridenti, in  Renato Leotta  la concezione di Tocqueville sulla mobilità delle persone che avvicina e rende somiglianti popoli e nazioni, si manifesta nella serie di filmati “Belvedere”, paesaggi e scene rurali che mostrano delle “Egadi” una dimensione mediterranea.

Abbagliati e storditi passiamo alla sezione successiva, con un titolo che riporta a Pier Paolo Pasolini, il quale a quarant’anni dalla scomparsa ha trovato le celebrazioni mancate nella vita,  in cui i suoi stimoli culturali e vitali, presi per provocazioni, hanno incontrato tante ottuse chiusure e lui ha dovuto subire sulla sua pelle le rezioni più aspre e scomposte anche delle istituzioni, si pensi alla persecuzione giudiziaria, fino al tragico epilogo. Possiamo anticipare che la sezione si basa su un riferimento a un suo progetto cinematografico, l'”Orestiade Africana”, i cui appunti furono definiti dall’autore “un film su un film da farsi”, ispirato all'”Orestiade di Eschilo”  ma calato nella realtà di paesi come l’Uganda e la Tanzania da lui visitati nel 1968 e 1969  ricavandone una “spinta pedagogica rivoluzionaria”  che dà alle immagini un tono ben diverso dalla tradizionale narrazione coloniale, ponendosi come denuncia  delle responsabilità europee  nel tentativo di rovesciare lo sterotipato mito borghese del “buon selvaggio”: “Prima ne abbiamo negato l’esistenza…. In seguito, dal momento in cui non è stato possibile sostenere la rimozione, abbiamo adottato altre due misure: da una parte l’integrazione reciproca tra una cultura d’eccellenza (la nostra)  e la cultura (ammessa) del ‘buon selvaggio’; dall’altra parte il riconoscimento oggettivo di quest’ultima cultura come un ‘insieme’ esaustivo una volta per sempre della totalità, in strutture immodificabili”

Parleremo prossimamente dell'”Orestiade italiana”   e delle altre 5  sezioni della mostra.

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Info  

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni per studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it..Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti – Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato  23,5 x 30,5; dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il  24 ottobre, i due ultimi usciranno il  1° e  29 novembre 2016;  l’articolo di presentazione è uscito il  23 giugno 2016. Su temi connessi cfr. i nostri articoli:  in questo sito: sulla vincitrice del premio “6artista”, le mostre sugli “Interni d’artista”  e su “Alice nel paese delle meraviglie”,  citate, rispettivamente 3 gennaio 2013, 12 maggio 2014, e 25 dicembre 2015; per le mostre su Pasolini, 16 novembre 2012,  27 maggio, 15 giugno 2014, 29 ottobre 2015;  in “fotografia.guidadel consumatore.it”,  per Pasolini  4 maggio 2011, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli saranno ricollocati.    

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 3 per ogni sezione, nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo. In apertura,  Giulia Piscitelli, “S.A.M.”, 2013; seguono, Francesco Nazardo, “Chiara (Crissier)”, 2013, e Patrick Tuttofuoco, “Porrtraits (Christian)”, 2016; poi, Nicola Samorì, “Lieto fine di un martire”, 2015, Invernomuto, “Zon, Paesaggio”, 2014, e  Matteo Fato, “Senza titolo con Quattro esercizi equestri”, 2013-2016; quindi, Giorgio Andreotta Calò, “In girum imus nocte”, 1015, Alberto Tadiello, “Melisma”, 2014, e Cristian Chironi, “My House is Le Corbusier (Esprit Noveau)”, 2015; inoltre, Nicolò Degiorgis, “Festa di Eid Eil-.Fitr, Associazione islamica di Treviso, Villorba (TV)”, 2013, Massimilano De Serio, “Rovine”, 2016, e Renato Leotta, “Egadi (Il mondo di ieri)“, 2016; in chiusura,  uno dei tanti  filmati in mostra. 

16^ Quadriennale di Roma, 4. Le ultime 6 sezioni, con Pasolini

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Altri tempi altri miti” della 16^ Quadriennale di Roma, al  Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, che torna dopo otto anni con 150 opere di 99  artisti  italiani contemporanei selezionati da 11 curatori, esposte in 10  sezioni sui temi intorno ai quali i curatori le hanno raggruppate spiegandone ampiamente le motivazioni. E’ stata organizzata dalla Fondazione della Quadriennale  presieduta da Franco Bernabè e dalla Azienda speciale Palaexpo cui fa capo il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, istituzioni che hanno curato anche il Catalogo, e fornito la copertura finanziaria con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. L’ENI è “main partner”della mostra, c’è una sua apposita installazione, mentre la BMW è “partner” con un’opera celebrativa, la “BMW Art Car” di Sandro Chia. .  

Altre 3 sezioni,  “Orestiade italiana”, “Ad occhi chiusi ma aperti”, “De rerum rurale”,

Abbiamo già descritto le prime 4 sezioni della mostra, l’ultima delle quali ispirata a Tocqueville, e abbiamo anticipato  che un altro ispiratore  è Pier Paolo  Pasolini, nella sezione “Orestiade italiana”. Il curatore Simone Frangi si ispira  ai suoi  “Appunti per un’Orestiade africana”, analizzati per “recuperare il carattere propedeutico, ipotetico, di ricognizione e di risveglio politico”.  Di qui la scelta di artisti su temi come “studio dei conflitti latenti e della stasi europea; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioniste; micro fascismi, normalizzazioni sociali; legami ambivalenti tra approccio documentario e orientalismo culturale e multiculturale in prassi antropologiche ed etnologiche” e altri sul colonialismo, fino ai “fenomeni migratori trans-continentali intereuropei”, al “sincretismo religioso”, alla “resistenza politica e simbolica”. 

Non abbiamo la velleità di individuare  le opere riferite ai temi specifici così enunciati, citiamo  per prima la spettacolare immagine di una sorta di “cave” moderna, “Helicotrema, veduta di una sessione d’ascolto al festival dell’audio registrato”, di Blauer Hase e Giulia Morucchio; poi la foto di epoca coloniale sovrastata dalla grande scritta “Has the ‘new man’ moved on to colonise our memory?”, di Alessandra Ferrini, dal titolo “Negotiating Amnesia”, e “Il Baro”,  di Diego Tonus, altra immagine coloniale. Tra le altre ritroviamo Nicolò Degeorgis, con le immagini “Hidden Islam”Vincenzo Latronico e Armin Linkeo con foto in bianco e nero di un viaggio in Etiopia, Danilo Correale e Blauer Hase il primo con un “libro d’artista”, il secondo con la pubblicazione  “Paesaggio”. Per il resto filmati e video, da Riccardo Arena a Invernomuto, Maria Iorio e Raphael Cuomo, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom, Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli;  

E’ un‘Orestiade che si avvale di tutti i mezzi  per approfondire lo sguardo. In questo tourbillon video e sonoro spicca l’efficacia cartesiana dei 4 diagrammi ” dai titoli intriganti, “Analogia senza rimpatrio” e “Allegoria senza malinconia”, “Etica generica senza identità” e “Via d’uscita”  nel segno dell’innocenza e della fiducia, un finale positivo, dunque.

Il personaggio, cui si ispira Luca Lo Pinto,  curatore della sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti”, è Emilio Villa, che nel 1941 emise un giudizio sulla storia antitetico alla vulgata comune che “Historia est magistra vitae”, per lui “la Storia è uno sbaglio continuo che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedersi, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani”. E non si è limitato ad affermarlo, ha cercato di cancellare ogni riferimento temporale nelle sue opere per impedirne la storicizzazione, ed evitare ad ogni costo di entrare nella storia facendo di tale atteggiamento un valore esistenziale.

Questa premessa per inquadrare la sezione,  imperniata sull’esigenza di non farsi mistificare da ciò che si vede, come avviene con i fatti storici,  ma di aprirsi, chiudendo gli occhi, al sogno e alla meditazione che portano a percezioni fuori dell’ordinario e rimuovono ogni contraddizione. In questo senso l’anima è nelle cose, e gli artisti nelle loro opere che ne sono espressione  rivelano “un modo personale di guardare al mondo, insieme singolare e universale”. Di qui una sezione “archeologica”, che parte da un frammento di vetro dipinto con l’immagine di una vergine e una scritta a pennarello di Villa, in un greco indecifrabile.  L’esposizione è concepita “come un dispositivo di visione in cui tutte le opere, chiuse come ricci, possano vedere lentamente la luce e guardare negli occhi chi le osserva”, in una speciale dimensione temporale. Per Giorgio Andreotta Calò questa dimensione è quella della clessidra, l’immagine fotografica nella doppia versione dello scatto e nella sua trasposizione  si specchia su se stessa rivelando una doppia identità, mettendo in relazione “il sensibile e l’intelligibile”, sono 4 località in dissolvenza.

Se questo appare criptico non lo è da meno il “Poggiaschiena” di Martino Gamper, “Back to Front Chair (Single)”, e così le tre opere “Senza Titolo” in gomma e altro materiale di Nicola Martini, e il totem “Pazuzu” di Roberto Cuoghi. Mentre “Le storie esistono solo nelle storie” di Rà di Martino è un documento vivo e animato, che dall’archeologia riporta alla realtà presente.

Le restanti 4 sezioni entrano  ancora di più nell’attualità, a dispetto dell’erraticità e irrazionalità della creatività ontemporanea: si va dai mutamenti dell’ambiente alla cibernetica passando per il riciclo e le periferie,  una rassegna dei disagi e delle opportunità dell’attuale fase storica. Ciò vale per le enunciazioni e le motivazioni dei curatori, e lo abbiamo già visto nella presentazione del 6 giugno, mentre per le interpretazioni degli artisti siamo sempre nell’indeterminato e inconoscibile.

“De Rerum rurale” non si riferisce al mondo agricolo, come potrebbe sembrare, Matteo Lucchetti vi ricomprende quelle aree sempre più vaste in cui si perdono i confini tra città e campagna, come i centri commerciali e le villette con il verde ai margini delle città, le valli e i terreni di discarica, e quant’altro di urbanizzato al di fuori dei centri e in contatto con la campagna. Il terreno agricolo  è stato decimato dal consumo di suolo connesso alla cementificazione urbana, fino ad esporre il territorio ai rischi del dissesto, un “rurale continuo” che si sottrae ad ogni regola di protezione. 

La sezione ispirata  al “De rerum natura” di Lucrezio interpreta la natura in chiave rurale: “Come ambiente in crisi e biisognoso di nuove narrazioni, come luogo abitato da comunità in conflitto tra loro o, ancora, come spazio ibrido, in divenire, dove la metamorfosi tra stati è generativa di scenari inediti e trasformativi”. Ben 14 artisti sono mobilitati  intorno a questo tema, distribuiti in tre spazi nei quali l’allestimento passa dall’ordine all’accumulo e all’entropia, cioè dalla disciplina alla frenesia, seguendo Lucrezio secondo cui la natura prima crea e alimenta, poi accresce, infine distrugge.  Oltre agli oggetti semplici e ordinati di Anna Scafi Eghenter, tra cui una serie di righelli sagomati, le “Matrici irregolari”, e un contenitore di “acque internazionali”, “Res communis omnium”, vediamo evocati gli abusi delle multinazionali e le minacce al paesaggio. Di Adelina Husni-Bej, che ritroviamo nella sua terza sezione, un  manifesto recante una ideale convenzione sull’uso dello spazio con tante annotazioni colorate, frutto di approfondimenti del tema, cui accostiamo il racconto di due viaggi molto speciali  di Rossella Biscotti.  

Molto diverse  le opere di Valentina Vetturi sugli hacker,  installazione luminosa e “coro a cadenza casuale”, e di  Danilo Correale, che con il titolo “The Great Sleeper” presenta la figura di Edison addormentato tra strumenti di misura del riposo nello sfruttamento capitalistico del lavoro. Da un ordine così inquietante si passa alla formazione di comunità come difesa collettiva, che gli artisti presentano con  installazioni e performance, così Marzia Migliorai visualizza l’assenza con le pannocchie abbandonate,Elena Pugliese fa rivivere la storia estrema dell’imprenditore Isidoro Danza, rapinatore  per pagare i suoi operai, cui segue la storia  di Simone Pianetti che uccise i simboli del potere e divenne mito degli anarchici, nell’installazione di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio. Più pacifiche le storie comunitarie di Beatrice Catanzaro, su un’associazione di donne per donne, e di Marinella Senatore, con i suoi strumenti  per stimolare la partecipazione, foto, collage, ecc.

Lo spazio del disordine entropico cerca di rendere i turbinosi cambiamenti nel mondo agricolo con riferimento anche alle antiche mitologie rurali. Queste sono evocate da Moira Ricci, in “Da buio a buio”, museo immaginario di immagini in bianco e nero dei contadini maremmani, mentre l’installazione di Leone Contini  celebra con vivace cromatismo “Un popolo di trasmigratori”. La varietà delle forme artistiche comprende il busto di un agronomo giapponese intitolato alla sua  “Rivoluzione del filo di paglia” con immagini di “Riso amaro”, di Michelangelo Consani, e un film di Nico Angiuli sulla “Cerignola di ieri dentro quella di oggi”, con lo sfruttamento dei migranti che cancella le lotte vittoriose del passato. Ai migranti si riferisce anche l’opera di Luigi Coppola, “Dopo un’epoca di riposo”, che documenta , con video e stendardi, la riqualificazione di aree degradate a discarica convertite con culture miste, “scelte dal terreno”  più che dall’agronomo, in un’integrazione naturale metafora di quella con i migranti.

Le ultime tre sezioni,  “Periferiche”, “La seconda volta” e “Cyphoria”

Dal rurale inteso anche come estensione abnorme dell’urbano alle “Periferiche”,  un tema che in passato ha interessato pittori come Mario Sironi il quale ha evocato le “periferie”  con intensi dipinti nei quali si sente la solitudine. La curatrice Doris Viva afferma che occorre sfatare l’illusione di una loro vitalità data da un policentrismo positivo, la globalizzazione schiaccia ogni cultura localizzabile e quindi identitaria. “Periferia, in una geografia ormai delocalizzata e interconnessa, non può che ritenersi quel luogo incapace di attrarre investimenti, privo di grande valore strategico e soggetto a fenomeni sociali, demografici e culturali tutt’altro che dinamici”; perciò si apre una “fase di riconfigurazione della quale è impossibile allo stato attuale prevedere il destino”.  Tutto questo si riflette anche sugli artisti, che vedono smarrire la loro identità nell’omologazione globale, ma possono anche “documentare o criticare tali processi, sollecitare discorsi di consapevolezza e di coscienza politica, oppure, a partire dalla scala della propria singolarità, tentare vie di mobilità e di emancipazione”. 

Gli 8 artisti prescelti hanno deciso di operare in periferia per ripararsi dalla globalizzazione e sentire la linfa della  loro eterogeneità, senza però ostentare questa posizione “dislocativa” che pure li alimenta.  Hanno in comune “la rivendicazione di un tempo più biologico e meditato” e “una forma di più radicale attenzione a un’antropologia del quotidiano, a un’umanità poco dinamica”,  la “vocazione della loro ricerca per la reiterazione”,  e “l’assoluta indifferenza per l’evoluzione tecnologica”.

Colpisce  la lunga cassa coperta di riquadri ad uncinetto colorati, “coperta di lana e zucchero”, intitolata Sim Sala Bim”, di Giulia Pisciatelli,  e la catasta di travi di Michele Spanghero, “Listening is Making Sense”, la colonna piramidale in gesso di Paolo Icaro, “Pile Up”, e il trittico “Paesaggi” di Maria Elisabetta Novello.  Poi il bianco e nero “Volti dell’anonimo” di Paolo Gioli, che espone anche “Luminescenze”, fino al “Massimo Ritratto” e agli “Affreschi su Impressione” di Emanuele Becheri“Parte della superficie terrestre” di Carlo Guaita è una borsa sul pavimento, come se fosse smarrita o dismessa.

E così dalle “Periferiche” passiamo alla sezione “La seconda volta”, che essendo ispirata al riuso dei materiali scartati, in un certo senso si associa al senso di marginalità attribuito al periferico. Ma come le periferie diventano fondamentali in una visione equilibrata della città, così il riuso acquista un ruolo centrale nel riequilibrare gli eccessi del consumismo che distrugge risorse non sempre riproducibili. Gli scarti sono stati definiti “la faccia tragica del consumismo” e hanno attirato anche gli artisti nel riciclo e assemblaggio, tra loro  ricordiamo i legni abbandonati dell’americana Louise Nevelson,  i residui bellici del libico Wak Wak, i rifiuti da discaricadell”italiano Alessio Deli; ben prima, il riuso con finalità artistiche ha fatto nascere il collage, sin dai Futuristi,  e il “ready made”, Marcel Duchamp avanti a tutti. Ma a parte quest’ultimo, che ha nobilitato oggetti di uso comune, i materiali di recupero sono stati impiegati al servizio dell’arte soprattutto scultorea al posto  di quelli tradizionali. Invece,  i  5 artisti presentati nella sezione curata da Cristiana Perrella, non scolpiscono né dipingono, si avvicina al “ready made” Martino Gamper con le sue “100 sedie in 100 giorni” , “trovate, smontate e riconfigurate”; mentre un riuso originale di una statua classica, traducendo il marmo imperiale in poliuretano, lo troviamo in Francesco Vezzoli, che in “Metamorfosi (Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia)”,  ha sostituito con il calco del proprio volto il viso dell’Apollo del Belvedere mantenendo intatto il resto della statua. 

L’opposto fa Lara Favaretto che punta sulla cancellazione di un’opera, più che sulla reiterazione,  in forme transitorie  che ne fanno trasparire qualche traccia per farla riemergere in un ciclo reversibile, “Dipinti trovati, lana” sono tre tele rosse con dei contorni sottostanti appena delineati, come quelli di ripensamenti, ci tornano in mente il minimalismo con Rauschenberg e, in tutt’altro senso, le “cancellature”  di Isgrò. Mentre A1ek O. espone oggetti o materiali presi dalla quotidianità, in qualche caso anche personale o familiare, per dare loro una nuova vita che mantiene il retaggio di quella precedente con interventi minimali, spesso assemblaggi operati artigianalmente. Così nelle greche di “Tina” e in “E’ già mattino”, una parete derivata dai manifesti, foderata di celeste con applicazioni dai colori brillanti. Ma il più spettacolare, quanto più elementare, ci è sembrato  “Himalaya” di Marcello Maloberti, un giovane apollineo a torso nudo accovacciato a terra, vera scultura umana, intento a ritagliare dai libri d’arte le foto di sculture classiche, cosparse sul pavimento per essere calpestate e spostate dai visitatori: venendo mosse in modo casuale e continuo danno il senso dell’imprevedibilità della vita.

E siamo all’ultima sezione, nel nostro personale percorso non può che essere “Cyphoria”, dove il curatore Domenico Quaranta affronta il tema del futuro che è già iniziato. Quello della “disforia”, cioè il disagio  e l’insoddisfazione, applicata alla cibernetica, in particolare a Internet che ha stravolto tutti i campi e i momenti della vita diventando in molti casi quello che Gene McHugh ha definito “non un posto del mondo in cui rifugiarci, ma piuttosto quello stesso mondo da cui cercavamo rifugio”.  E’ stata così rapida e pervasiva la sua diffusione, anche con gli strumenti di comunicazione più avanzati che si sono moltiplicati, come i “social network”, che non si riesce a dominare un mondo virtuale dalle parvenze del reale né a decodificarne i linguaggi e a contenerne l’influenza.

Anche nell’arte questa nuova forma di espressione si è diffusa  come tecnologia innovativa; ma pochi, osserva il curatore, “realmente affrontano la questione di cosa significhi pensare, vedere e filtrare le emozioni attraverso il digitale”.  Tra loro, i 14 artisti  presenti in questa sezione della mostra, che esplorano la nuova sconvolgente condizione umana sotto diversi aspetti critici a livello pubblico e privato, passando dalle problematiche generali alle reazioni intime.

Sarebbe arduo cercare di descrivere le opere presentate, per lo più si tratta di video, film o di installazioni molto elaborate, ci limitiamo a citare dei titoli, in relazione ai temi esplorati. Eva e Franco Mattes con i video di “Befnoed”  parlano della “nuova schiavitù”  con lo sfruttamento del lavoro via Internet, tema trattato anche da Elisa Giardina Papa in “Technologies of Care”, un video sulle lavoratrici “on line”. Enrico Boccioletti in “Angelo Azzurro” entra, sempre con un video, nella disperazione generazionale, mentre della zona grigia tra arte e spazzatura mediale si occupa Roberto Fassone insieme a Valeria Mancinelli con l’archivio video “The Importance of Being Context”, al quale accostiamo il tema che il collettivo “Alterazione video” sviluppa con il turbo-film “Surfing With Satoshi” e l’installazione “Take Care of the One You Love”.  “Overexposed”, di Paolo Cirio e Giovanni Fredi, con i ritratti di membri della CIA viola il loro privato come l’agenzia di intelligence fa regolarmente nella sua attività spionistica, mentre Fredi presenta dei “selfi” che si moltiplicano sul web in “Everyone Has Something to Share”.

Un approccio visivo delicato quello di Simone Monsi con la serie “Transparent Word Banners” e di Kamilia Kard con “Betrayal”, mentre in “My Love is Religious – The Three Graces” esplora l’amore “on line”.  Mara Oscar Cassiani con l’installazione “Eden” si cimenta sulla ricerca del relax, la cura dell’acqua e la mercificazione della cura del corpo, e Natàlia Trejbalovà con il video “Relax” e un’installazione denuncia i rischi ambientali e climatici a cui reagire con piccoli sistemi eco-domestici. Vi colleghiamo Marco Strappato che indaga sui cambiamenti dell’immagine del paesaggio e sul modo in cui le arti plastiche reagiscono con la forma-schermo, e lo fa in una stampa e armadietti con schermi dal titolo “Apollo and Daphne e Laocoon”, tema che troviamo in evidenza nella scultura di Quayola, “Laocoon”,  un clone dell’originale di grandi dimensioni, rispettoso dell’antico, con effetti di digitalizzazione; è una presenza spettacolare di forte rilievo scultoreo, come di  forte rilievo pittorico sono i quadri del ciclo “The Brotherhood” di Federico Solmi,  video animazioni di figure di leader dalle maschere grottesche come i generali di Enrico Baj, che nella loro vistosa presenza  disvelano quanto la  finta  fratellanza sia fonte di caos e degenerazione.

La “centesima” opera esposta, la “BMW Art Car” di Sandro Chia, con cui si celebra il centenario del gruppo automobilistco  e il mezzo secolo della sua presenza in Italia, è il fuoco d’artificio finale di una mostra che fa sentire proiettati nel futuro. L’arte associata alla tecnologia conclude un percorso in cui non è mancato l’elemento umano: anche figure umane maschili  e femminili accoccolate la cui serietà e compostezza nella postura allontana ogni possibile associazione con l’irridente scena delle “Vacanze intelligenti” di Alberto Sordi, in cui la “sua signora” seduta viene scambiata per una scultura vivente. 

Del resto anche così  l’arte contemporanea, che nella rutilante esposizione abbiamo visto declinata in un tourbillon di manifestazioni con l’impiego dei materiali più diversi e delle forme espressive più varie, fa riflettere seriamente sul futuro.

Ed è questo il merito della  mostra  nella prospettiva del  rilancio permanente della Quadriennale romana negli spazi ristrutturati del settecentesco  Arsenale Pontificio.    

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni a studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.  Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5;  dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Gli altri 2 articoli  sulla mostra sono usciti in questo sito il  24 e  27 ottobre,  l’ultimo articolo, sul confronto tra curatori, uscirà  il 29 novembre 2016; l’articolo di presentazione della mostra è uscito il  16 giugno 2016. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli.  in questo sito,  su Pasolini, 16 novembre 2012, 27 maggio e 15 giugno 2014, 27 ottobre 2015, su Duchamp gennaio 2014, Nevelson 25 maggio 2013, Wak Wak 27 gennaio 2013, Deli  21 novermbre 2012 e 5 luglio 2013, Isgrò 16 settembre 2013, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2012, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in “fotografia.guidadel consumatore.it”, per Pasolini  4 maggio 201, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli aaranno ricollocati.

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 2 immagini per ogni sezione, riportate nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo.In apertura,  Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato 2012-2016”, veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”  settembre 2015, seguito da Diego Tonus, “Il baro”, 2016; seguono, Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d., e Roberto Cuoghi, “Pazuzu”, 2014; quindi, Danilo Correale, “The Great Sleeper”, e Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”, inoltre, Paolo Icaro, “Pile Up”, 2008 (1978), e Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim, 2013; ancora, Lara Favaretto, “032-2012”, 2015, e Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto come Apollo che uccide il satiro Marsia”, infine, Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share”, 2015, e Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces”, 2016; in chiusura, Marcello Maloberti, “Himalaya”, 2012. 

Slovacchia, i Tesori dell’arte gotica, in mostra al Quirinale

di Romano Maria Levante

Al Quirinale, nella Palazzina Gregoriana, dal 30 settembre al 13 novembre 2016,  la mostra “Tesori Gotici della Slovacchia”,  con  la presidenza di turno slovacca del Consiglio dell’Unione Europea,  presenta  per la prima volta in Italia “L’arte nel Tardo Medioevo in Slovacchia” , sottotitolo della mostra, con 36  opere del XV e XVI secolo, pitture di stile nordico, sculture lignee di Pavol di Levoca, preziosi oggetti liturgici di artigianato artistico. La mostra, promossa dalle Presidenze della Repubblica italiana e slovacca, con i Ministeri degli Esteri e dei Beni culturali,  è  organizzata da Civita,  curata da Louis Godart,  Consulente della Presidenza della Repubblica italiana in materia di iniziative ed eventi culturali ed espositivi, con  Maria Novotna e  Alena Piatrova, curatrici dell’Arte medievale e dell’Artigianato del Museo nazionale Slovacco. Catalogo del Segretariato Generale della  Presidenza della Repubblica Italiana e di Civita.

Un’altra presidenza del Consiglio  dell’Unione Europea viene celebrata al Quirinale con una mostra in cui si  presenta il Paese capofila dell’Europa  comunitaria per un semestre attraverso opere d’arte che ne definiscono e rivelano l’identità: ricordiamo,  tra le altre,  le mostre al Quirinale sulla Grecia, in staffetta presidenziale e anche artistica con l’Italia, e su Cipro. La Slovacchia era stata già presentata  artisticamente al Vittoriano un anno fa,  in occasione dell’Expo, con le opere recenti  di tre giovani artisti,  Juraj Kollàr,  Stefan Papco, Jàn Kekel,  nei peculiari mezzi figurativi,  pittura, scultura, fotografia.    

Questa volta, più che in passato, la mostra si svolge in un momento in cui l’Unione Europea è scossa da contrasti sempre più aspri su aspetti fondamentali nei quali la coesione sarebbe quanto mai necessaria: dagli scontri sulla risposta all’epocale emergenza delle migrazioni, che vede i paesi europei divisi tra accoglienza e rifiuto,  agli scontri sull’economia che li vede divisi tra il rigore dell’austerità e  la flessibilità della crescita. Populismi  e spinte centrifughe che ne derivano, alimentati anche dalle diverse  situazioni economiche, politiche e sociali, rischiano di compromettere la stabilità dell’Unione fino a metterne in crisi la stessa esistenza.

L’appello del presidente Mattarella e il valore europeista della mostra 

Per tale motivo il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella ha colto anche questa occasione per perorare le ragioni dell’unità europea, ribadendo:  “Abbiamo soprattutto il compito di impedire che le  difficoltà, le crisi, le paure determinate da nuovi fenomeni di portata globale incidano sul tessuto di collaborazione e di impegno comune”.  Vi sono ragioni di portata nazionale, “perché nella globalizzazione nessuno, neppure il più forte tra noi, può illudersi di farcela da solo, insieme, invece, esprimiamo una grande forza”;  e di portata più generale, perché  alimentare e far crescere l’ideale europeo è un fattore “decisivo per la pace, per un equilibrato sviluppo del mondo, per la crescita della cultura e della civiltà
fondata sulla libertà e i diritti della persona umana”.

In questo quadro si colloca l’allargamento dell’Unione verso i paesi dell’Europa centro-orientale la cui identità è “così strettamente connessa con la vocazione umanistica del nostro continente”; e la mostra evidenzia “come le radici culturali, artistiche e religiose dialoghino tra loro e sottolineino l’influenza reciproca e l’interdipendenza tra le regioni d’Europa”.

Ne ha parlato anche il presidente della Repubblica Slovacca, Andrej Kiska,  per la prima volta alla presidenza del Consiglio dell’Unione Europea, che segna non solo un impegno diretto sui grandi temi europei e mondiali ma anche una fase di riflessione su un territorio che, al di là delle vicende storiche del suo popolo,  “è stato teatro di grandi spinte culturali, sociali e artistiche che hanno avuto una grande eco in tutta l’Europa”.   Ne è una prova  “l’unicità e bellezza” dei tesori gotici  che la mostra presenta in Italia, “un paese in cui il gotico, rispetto all’arte dell’antichità o a quella tanto celebrata del Rinascimento, si è affermato solo marginalmente”.  Sono i capolavori scultorei  in legno di Pavol di Levoca, e gli ori e  argenti dell’artigianato artistico di eccelsa qualità, pochi  presi dai musei slovacchi, quasi tutti dalle chiese cristiane in cui sono  collocati dall’origine, e questo rende la mostra una testimonianza viva e attuale dell’intensa spiritualità del paese.

“I valori della Classicità, della Cristianità e dell’Illuminismo hanno fatto grande l’Europa capace di mettere al servizio dell’Uomo le conquiste e gli insegnamenti dei popoli che la compongono”,  afferma Louis Godart, – che ha curato la mostra con le due curatrici  dei settori interessati nel Museo Nazionale Slovacco –  aggiungendo: “L’arte che non conosce ‘confini geografici’ e rappresenta il primo e più efficace degli elementi di unificazione dell’Europa, ha saputo interpretare questi valori e tradurli in capolavori”. 

Perchè  ha tratto ispirazione e committenze dalla Chiesa, che era “il vero collante dei popoli”,  e divenne, alla crisi dell’Europa carolingia con la morte di Carlo Magno, “l’unico punto di riferimento culturale e morale” dell’Occidente.  I  popoli europei erano costituiti di “uomini e donne che si sentivano più cristiani che figli di una determinata entità territoriale chiamata ‘patria’”, e quindi “i paesi occidentali erano ben poca cosa di fronte alla grande patria ecumenica rappresentata dalla Cristianità”; a sua volta percorsa da grandi correnti spirituali, come quelle legate a San Benedetto e San Francesco, che assunsero carattere europeo.

“E’ questa stessa azione del Cristianesimo – osserva ancora Godart – che promuovendo costantemente l’arte e le grandi correnti di pensiero in grado di scavalcare le frontiere spesso mal definite dei regni, ha contribuito a dotare gli occidentali di una coscienza che si è lentamente laicizzata ed è divenuta coscienza europea”.  Sono queste le incontestabili “radici cristiane” dell’Europa, che furono tanto evocate e dibattute nella travagliata preparazione della Costituzione europea.    

La mostra testimonia questo percorso, dato che “l’arte gotica, nata su impulso della Chiesa trionfante del XIII e XIV secolo, è una delle più alte espressioni della cultura europea”.

Godart conclude citando l’affermazione di Jean-Jacques Rousseau, “non vi sono più oggi francesi, Tedeschi, Spagnoli, perfino Inglesi; vi sono soltanto cittadini europei”, il pensatore francese non ha nominato i tanti altri popoli dell’Unione Europea, la realtà è andata ben oltre la sua riflessione di valore profetico.

La diffusione e le caratteristiche del Gotico slovacco nel tardo Medioevo

La  mostra, che abbiamo avuto l’opportunità di visitare con la guida sapiente e prestigiosa quanto appassionata dello stesso Godart, testimonia il respiro europeo coniugato con l’identità nazionale, in una fase storica e artistica in cui – come ricorda Gabriela Poduselova, vice direttrice generale del  Museo Nazionale Slovacco – “il Medioevo cominciava ad essere avvicendato da correnti di pensiero e filosofiche provenienti dal sud e portatrici dei messaggi dell’Umanesimo e del Rinascimento”.

Siamo, infatti, nel “tardo Medioevo”,  l’attuale Slovacchia, “affermatasi politicamente come popolo solo nella seconda metà del XX secolo” – lo ha ricordato il suo presidente Kiska – ebbe tre sovrani ungheresi, il cui “mecenatismo artistico” presentava notevoli differenze, mentre fiorivano i lasciti di  privati  alle chiese per la salvezza delle proprie anime, nonché di committenze di arte sacra da parte di singoli e di fondazioni.

“Le chiese di rappresentanza – precisa Jan Lukacka a conclusione di un’accurata analisi delle condizioni storico-sociali della Slovacchia nel tardo Medioevo – testimoniavano lo sviluppo delle comunità urbane e diventavano i simboli della loro forza e prosperità economica”, di qui l’interesse dell’aristocrazia e della borghesia emergente nel finanziarne la costruzione e l’arredo interno con opere d’arte e di alto artigianato. 

Maria Novotna, curatrice dell’Arte Medievale del Museo Nazionale Slovacco, nel rievocare queste vicende, osserva che “le fondazioni direttamente o indirettamente coinvolte con la nascita delle opere d’arte  e gestite dalle famiglie andavano ad abbellire non solo le chiese e i conventi dei dintorni (o le cappelle di famiglia), ma si spingevano anche oltre le frontiere di quella che attualmente è la Slovacchia”, addirittura giungendo fino a Roma, per il tabernacolo della Basilica di Santo Stefano Rotondo e addirittura contribuendo alla Basilica di San Pietro.

Ci fu un vero “boom artistico”, essenzialmente di opere sacre, prima pale d’altare, poi polittici con pannelli mobili ornati di dipinti e rilievi, che nella chiusura e apertura davano loro un aspetto mutevole. “Predelle” alla base, “cimase” con un “bosco” di pinnacoli gotici, e “scrigni” per accogliere le statue,  rendevano ancora più elaborata la composizione che richiedeva l’opera di maestranze e di artisti impegnati fin dai 12-13 anni in un percorso formativo nella pittura, scultura od oreficeria, al termine del quale potevano diventare “maestri”.

Il Gotico diffuso nel territorio che si identifica con l’odierna  Slovacchia nella prima metà del XV secolo era collegato allo stile sviluppato nella corte di Parigi ma con i tratti specifici acquisiti nella corte ungherese di Praga; nella seconda metà del secolo ci fu l’influenza di Vienna e Norimberga, Cracovia e Breslavia.

Si diffondono grandi polittici a pannelli multipli recanti storie di santi, in particolare Sant’Elisabetta d’Ungheria, e sculture inserite in apposite nicchie; si sviluppano anche gli oggetti di oro e argento a carattere liturgico, molto elaborati e raffinati, come i codici dipinti, le monete e medaglie.La mostra presenta una selezione di queste opere, provenienti soprattutto dalle chiese in cui sono tuttora collocate, qualcuna dai Musei: alcuni dipinti  inseriti in origine in pale composite, capolavori scultorei in legno di Pavol di Levoca, autore del più grande altare ligneo gotico del mondo di 18,62 metri, nella Basilica di San Giacomo a Levoca, con un’umanità sofferta tradotta nel sacro; oggetti liturgici di oreficeria ad alto artigianato artistico, che con l’originalità e creatività della fattura, di elevatissimo pregio, rappresentano un fattore identitario di grande valore.

I dipinti su temi cristiani di artisti slovacchi del ‘500

Sono tutti in tempera su tavola di legno di tiglio i Dipinti esposti, risalgono alla prima metà del XVI secolo. Entriamo subito nel clima del tardo Medioevo in territorio slovacco con  “Sant’Anna ll(Metterza) di Roznava”, 1513,  di autore ignoto, per la cattedrale dell’Assunzione, è un quadro di cm 184 x 140.Vediamo Sant’Anna, la Madonna col Bambino, e in alto Dio Padre con un globo nelle mani e la colomba dello Spirito Santo, dietro di loro  un albero sui cui rami quattro angeli nudi suonano ciascuno uno strumento diverso, in un paesaggio montuoso con molte figure intente ai lavori dell’attività mineraria, rappresentate con precisione di dettagli, dai rilevamenti ai pozzi all’escavazione fino all’estrazione e al trasporto, collegando il sacro molto sentito dalla popolazione con il profano del settore minerario particolarmente sviluppato nel paese. La composizione si presta a una serie di interpretazioni, dal modo di rappresentare la figura di Sant’Anna Metterza al suo rapporto con i minatori, come patrona, all’albero con gli Angeli e a Dio Padre e lo Spirito Santo, tanti temi che è inconsueto 
trovare riuniti nello stesso dipinto.

Un quadro della stessa lunghezza,  182 cm, ma alto un terzo, 45 cm, del maestro Hans T., dedicato all'”Adorazione dei Magi”,  1510, della basilica di san Giacomo di Levoca, faceva parte della “predella” di una composizione che comprendeva anche  lo “scrigno” con  le statue di quattro santi e le “pale” con Cristo, la Madonna Addolorata e altri due santi. Si tratta di una vasta panoramica con al centro la scena tradizionale della  Natività davanti a un’abitazione modesta inserita in un paesaggio lussureggiante con il verde e, in lontananza, le acque; sulla sinistra è raffigurato l’arrivo dei cavalieri, sulla destra la solenne consegna dei doni e l’adorazione, una suggestiva visione cinematografica delle fasi dell’evento favorita dalla forma del dipinto, una striscia lunga e stretta, come nel dipanarsi dei fotogrammi.

La terza opera pittorica esposta è costituita dalle “Tavole dell’altare principale di Lipany”, 1526, del “monogrammista H.I.E.R.”,  della chiesa parrocchiale di san Martino:  è una coppia di “portelle”  fisse e mobili che, come il dipinto precedente, erano inserite in una composizione con statue di santi; si tratta di 8 dipinti su due file orizzontali,  nelle quali è rappresentata la Passione di Cristo, nelle due portelle fisse centrali la veglia sul Monte degli Ulivi e il bacio di Giuda, la salita sul Calvario e la Crocifissione, nelle due mobili laterali altre scene anche non canoniche come Cristo che si  congeda dalla Madre e la morte di Maria, fino alla Deposizione dalla Croce, non c’è la Resurrezione. Il pittore  si è ispirato alle xilografie di Durher sullo stesso tema del 1497-1510, era collaboratore di Pavol di Levoca.

I  capolavori scultorei del grande Pavol di Levoca con Cristo al centro

Ci avviciniamo ancora di più al grande scultore slovacco – del quale sono esposti 4 capolavori, Statue e gruppi statuari – con le due portelle dell’“Altare della Vergine Maria”, 1521, dipinte dal Maestro WE  per la chiesa parrocchiale della natività della Vergine Maria di Spisské Podhradie. Raffigurano 8 sante ritratte in ricchi abiti con oggetti identificativi, che hanno subito il martirio per proteggere la loro fede: le 4 sante nel lato  anteriore della portella, raffigurate con un paesaggio sullo sfondo, dai pagani persecutori, le 4 nel lato posteriore dalle tentazioni, tradimenti e incomprensione dei propri cari. Le sante sul lato anteriore hanno un fregio dorato nella fascia superiore che richiama quello, ancora più decorativo, nella zona centrale del trittico di cui le portelle sono la parte laterale.

Al centro, dentro una nicchia dorata, la “Statua della Vergine Maria (in origine Santa Caterina)”, 1520,  scultura policroma in legno: una figura ieratica con una pesante veste dorata mossa da pieghe, nella destra uno scettro, nella sinistra un libro, con il viso malinconico,  la fronte alta e il mento rotondo, gli occhi a mandorla  distanti e le mani lunghe con le dita affusolate. Sono i segni inequivocabili dell’arte inconfondibile di Pavol di Levoca, che ha lasciato una forte impronta.

Nelle sue sculture lignee esposte ritroviamo la Vergine, che abbiamo visto celebrata nella sua maestà, nelle situazioni estreme: l’umiltà contemplativa nella nascita di Cristo, il dolore composto dinanzi al Crocifisso, l’angoscioso abbraccio dopo la Deposizione.

Le 7 statue dell’“Altare della Natività” , 1506, della basilica di Levoca presentano la Madonna con il volto che si è descritto, ha le mani giunte,, l’espressione assorta,  il mantello dorato come le vesti degli altri soggetti rappresentati ciascuno in un diverso atteggiamento, dallo stupore di san Giuseppe e del Pastore all’esultanza del piccolo Angelo con le mani rivolte al cielo, ognuno solo con se stesso. Il ritrovamento nel 1698 delle statue murate nel municipio fece gridare al miracolo.

Poi le espressioni dolenti e disperate della Vergine: nel  “Calvario di Bardejov”, 1520-30,  della basilica di tale città, la vediamo alla sinistra del crocifisso, con la testa piegata nel dolore che traspare dal viso in modo sommesso, mentre alla destra san Giovanni alza le braccia, questa volta il gesto è segno di sconforto;  nel “Compianto sul Cristo morto dell’altare dei Santi Giovanni”, 1520,  dalla basilica di san Giacomo in Levoca, è al centro della  composizione scultorea dorata  mentre abbraccia,  con la disperazione in volto, il corpo di Cristo disteso a terra su un telo, circondato dagli altri testimoni della tragedia con gesti drammatici, san Giovanni che la sorregge mentre si china, e san Giuseppe d’Arimatea che sostiene il capo di Cristo morto, la Maddalena che gli asciuga i piedi con i propri capelli e Nicodemo con in mano il balsamo e un telo bianco;  poi le altre figure allineate in alto, san Giacomo fratello di Giovanni, la loro madre Salome e Maria di Cleofa.

Cristo crocifisso al centro dell’opera ora descritta non è l’unico esposto. Vediamo anche il “Crocifisso di Spisské Vlachy”, 1500, dalla chiesa parrocchiale di san Giovanni Battista, la doratura caratteristica delle altre opere dell’artistala ritroviamo  nel panno annodato alla vita con pieghe e svolazzi;  è l’unico elemento idealizzato, per il resto c’è una visione naturalistica con forte realismo  nel corpo martoriato e nel volto straziato dal dolore dell’agonia mentre esala l’ultimo respiro.

Un panno dorato annodato alla vita anche nella  “Meditatio Christi di Presov”, 1520, dalla chiesa parrocchiale di san Nicola, un’immagine prima di essere crocifisso in cui Cristo seduto su una pietra con la testa appoggiata alla mano destra sembra riflettere sul sacrificio che sta per compiere per la salvezza dell’umanità. Il Cristo in meditazione fu introdotto dalle xilografie di Duhrer sulla passione, copiate da un italiano e al centro di un contenzioso risolto dal governo di Venezia. Esprime  le riflessioni sul peccato e la colpa, la redenzione  e la provvisorietà della vita terrena.

I preziosi  oggetti di culto, Croci e Pianete, Bacili e Calici, fino al Turibolo

I Crocifissi di Pavol di Levoca sono opere scultoree di elevato livello artistico, veri capolavori. Ma anche gli oggetti di culto in argento e oro esposti rivelano un artigianato assimilabile all’arte. Sono sbalzati con grande maestria, recano rilievi di varia natura fino a piccole statue incorporate.

Le due “Croci d’altare”,  attribuite al Maestro Anton di Kosice, in argento parzialmente dorato, sono molto diverse: la prima, del 1518, con Reliquario, alta 50 cm,  presenta solo i simboli del sole e della luna nei bracci della croce,  nella simbologia medioevale la natura divina e umana di Cristo e la redenzione permanente come l’alternarsi nel giorno  e nella notte; la seconda, del 1520, alta 72 cm.,  più lavorata con fiori sbalzati e la base a forma di bocciolo con rilievi floreali.

Un Crocifisso è al centro della “Pianeta con scene della Passione”,  di fine XVI, si tratta di una croce dorsale ricamata, che prende interamente il tessuto di seta a righe orizzontali blu e bianche alto 1 metro al centro del quale è applicata, in alto si vede la Crocifissione, in basso la Deposizione e il Compianto del Cristo morto.  Gli altri tre tessuti esposti, “Lino  di Bardejov – bakacina”, del XV sec., presentano decori blu su fondo bianco: piccoli disegni geometrici e di uccelli e pavoni nel  primo, agnelli di Dio uno di fronte all’altro nel secondo, il giglio d’Angiò e piccoli fiori nel terzo.

Vediamo anche vari oggetti usati nei riti, in particolare  “Bacili” e  “Calici”, prima degli ostensori.  

I  2  “Bacili battesimali”,  degli inizi del XVI sec., forse provenienti da Norimberga, sono in ottone sbalzato, bulinato, punzonato. Il primo con  Adamo ed Eva, ai lati dell’albero stilizzato a cui è avvinto il serpente simbolo del peccato, intorno i fiori anch’essi stilizzati, il giglio simbolo d’innocenza e il  cardo simbolo di condanna. Il secondo bacile reca al centro un cervo simbolo del battesimo perché cerca una fonte di acqua viva per placare la sete, intorno una fascia con piccole foglie.

E’ una stilizzazione che troviamo in forma ben più evidente e spettacolare nei Calici” esposti, della fine del XV-inizi
XVI sec., alti circa 20 cm, in argento dorato fuso, per lo più sbalzato e filigranato, bulinato e smaltato. Sono 14, hanno in comune la parte superiore naturalmente liscia e il piede con sei lobi lavorati per lo più con ornamenti di fogliame e fiori;  nel Calice con monete antiche”,  delle 18  monete d’oro romane e bizantine poste  su tre file,  6 sono nel piede  contornate da motivi di foglie.  Ad eccezione del  “Calice di Bojnice”, sobrio e liscio in ogni sua parte, gli altri sono carichi di fregi con motivi vegetali e anche figure animali: dalla coppa, al di sotto della parte liscia, allo stelo, al nodo, e negli anelli di congiunzione,  fino al piede, è tutto un susseguirsi di intrecci e motivi a sbalzo, trafori e cesellature,  indicati spesso  nel titolo. Vediamo il “Calice con  rilievi”,   e il “Calice con granati”,  il “Calice con filigrana e granulazione”  e il “Calice con smalto  e filigrana”, il “Calice del conte Hanns”  e il “Calice con lo stemma del prevosto Pethge”, il “Calice di Telegdi” e il “Calice di Komàrmo”, fino al “Calice con nodo architettonico”,  a forma di  edicola esagonale con archi ogivali, pinnacoli e delle statuette di santi nelle nicchie.

Ancora più architettonica la parte superiore del “Turibolo di Komàrmo”, il coperchio su una coppa a forma di sfera e la parte inferiore come il piede a calice a sei lobi: si tratta di un puntale turricolato in stile gotico a pinnacoli a due piani, di pianta esagonale con finestre bifore adornate da trafori con scudo e figurine musicanti. Motivi che ritroviamo negli ostensori.

Il Gotico più ardito negli spettacolari  Ostensori

Chiudiamo la visita con gli “Ostensori”, la più straordinaria espressione visiva del Gotico della mostra.  Sono 4 ostensori,  del 1500 circa, in argento dorato, sbalzato, fuso, bulinato,  con i piedi a lobi di diverse dimensioni,  lo stelo e il nodo a forma di edicola dalla conformazione molto diversa, in comune lo slancio della verticalità gotica con pinnacoli, ogive e trafori.  

Il meno alto, 110 cm, è l’ “Ostensorio di Poprad-Vel’kà”, dalla chiesa di san Giovanni Evangelista, a forma triangolare, la miniatura architettonica di una cattedrale al lato della custodia circolare cinta di raggi.

I due intermedi sono alti cm 116,  l’“Ostensorio di Prievidza”, dalla chiesa parrocchiale di san Bartolomeo,  è di forma triangolare ancora più acuta, quindi con una verticalità accentuata, su due piani con pinnacoli e motivi vegetali, e le  statuette dei santi; l’ “Ostensorio di Bojnice”, dalla chiesa di san Martino, ha invece la teca a forma di rettangolo che si innalza con pinnacoli ed elementi vegetali stilizzati, mentre ai lati della custodia vi sono le statuette dei 4 evangelisti.

Il più alto, anche se leggermente,  tra quelli conosciuti in Slovacchia, 117 cm, è l’Ostensorio di Spisskà Novà Ves, dalla chiesa dell’Assunzione della Vergine Maria,  la maggiore imponenza viene  data soprattutto dalla forma rettangolare per le  tre torri di due piani affiancate, con pilastrini, alette intricate e statue della Madonna e dei santi patroni, che culminano nei tre pinnacoli, quello centrale è sovrastato dalla croce. E’ veramente spettacolare, nella sua armoniosa composizione.

Ripensiamo alle guglie del Duomo di Milano o di Colonia,  alla verticalità che si protende verso l’alto,  tendendo all’assoluto e  come il diapason del suono fa sentire il culmine della spiritualità. Anche questo è un merito della mostra: un’altra spiritualità,  diretta ed immediata,  dopo quella tutta da decifrare delle opere religiose di Renato Guttuso esposte di recente sempre al Quirinale.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

16^ Quadriennale di Roma, 2. Le prime 4 sezioni, con Tocqueville

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Altri tempi altri miti”, con la quale la 16^ Quadriennale di Roma torna dopo 8 anni al Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, con 150 opere di 99  artisti italiani contemporanei, selezionati da  11 curatori e raggruppate in 10 sezioni  intitolate a temi specifici dei quali i curatori, che li hanno ideati, forniscono motivazioni in qualche caso molto elaborate e cerebrali, ma per lo più  esplicative e ricche di riferimenti culturali. L’organizzazione della mostra, e il Catalogo, sono della Fondazione della Quadriennale presieduta da Franco Bernabè e dell’Azienda Speciale Palaexpo che gestisce il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, hanno concorso  insieme alla copertura finanziaria, con il Ministero dei Beni e delke Attività Culturali e del Turismo, e curato il Catalogo della mostra. . “Main partner” l’ENI, presente in mostra con una installazione permanente, “partner” la BMW  con la “BMW Art Car” di Sandro Chia.

“Ehi, voi”, una spiegazione cerebrale, una realizzazione comprensibile

Abbiamo già illustrato l’impostazione della mostra, sottolineando l’intrigante contrasto, un vero ossimoro,  tra la scelta tematica delle sue sezioni e l’inafferrabilità spesso indecifrabile delle opere di arte contemporanea, la cui creatività senza limiti rispecchia un mondo che è già nel futuro, con tanti ansiosi interrogativi.

Ora iniziamo l’excursus tra le opere delle 10 sezioni della mostra da quella che sembrerebbe, in base all’enunciazione del tema, la più vicina alla comprensione,  iniziando dal titolo, “Ehi, voi!”, con cui il curatore Michele D’Aurizio evidenzia i richiami confidenziali anche tra artisti, curatori e visitatori,  in particolare nella cerchia intorno ai  22 artisti espositori. Sono stati annunciati i loro ritratti e autoritratti in qualsiasi modo e con qualunque supporto realizzati, come espressione della continuità tra la vita e l’opera dell’artista, quasi una autoanalisi in forma artistica.

Anche se si è ben lontani dalla ricostruzione degli atelier come fu per la mostra “Interni d’artista” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, le opere esposte sembrano riflettere il loro mondo: si va da immagini fotografiche e stampe a sagome,  da  macchie con forti colori a oscuri bianco-nero, da evocazioni  scultoree classicheggianti a scritte evocative, quindi non si viene spiazzati, per così dire, dalle opere,  tutt’altro.  Spiazza la motivazione con cui il curatore annuncia le opere nel Catalogo, con uno scritto così cerebrale da sembrare un’opera contemporanea  a sé stante, in aggiunta a quelle dei 22 artisti.

I suoi “appunti per una comunità artistica sotto tiro”  proclamano, in antitesi al “gruppo in fusione”  sostenuto da Sartre per reagire all’inerzia e alla passività, la costituzione di un “gruppo in evaporazione, ovvero privo di identità, inafferrabile. ininquadrabile, instrumentalizzabile, e di conseguenza incorruttibile, inespugnabile”, come estrema forma di difesa;  e per far questo illustra con ampiezza una serie di identificazioni necessarie: “noi, poseur” e “noi, clubber”, “noi, power-bottom” e “noi, emo”, finché “anche noi possiamo trasformarci in poltergeist, entità immateriali di ‘disturbo'”. Una contemporaneità, con un ricco contorno di citazioni colte, che porta l’elementare immagine del ritratto nella dimensione imperscrutabile di un futuro inquietante e avveniristico.

Ben più comprensibili le opere esposte, il che è tutto dire. Dallo scatto fotografico immortalato in “Lulaclub” di Alessandro Agudio, che mostra in un ambiente squallido e in posizione precaria una fotografa il cui viso coperto dai capelli è tutt’uno con la fotocamera, alle vere fotografie di Corrado Levi, “Vestiti di arrivati”, e Italo Zuffi, “Flavio staccato”, Ninetto Davoli e Marcello Maloberti, fino alla stampa di Francesco Nazardo, “Chiara” che ci presenta l’adolescenza e ai due  dipinti intitolati “Autoritratto”,  di Beatrice Marchi, un viso forte reso con tratto deciso in un viola diffuso, e di Carol Rama, molto diverso, un’immagine quasi infantile e dolente resa con dense pennellate. Non mancano elaborazioni classiciste come i due corpi distesi di Davide Stucchi, “Heat Dispersion (Mattia and Davide)” che sembrano reperti lapidei  pompeiani, mentre sono in “sapone e acciaio”,  e l’imponente testa  in stampa ma di impronta scultorea di Patrick Tuttofuoco, “Portraites (Christian)”, fino al portaritratti fossile di Andrea Romano, Mizuki (Claque & Shill)”.

In bianco  e nero l’accostamento nitido di Francesco Vezzoli, “Self  Portrait as Marlene Dietrich”, un’immagine fotografica della diva in completo nero a lato di un manichino nudo, e le figure in esterni in dissolvenza di Michele Manfellotto, “Persistence”; mentre sono in un forte cromatismo le immagini intense di DER Sabrina nelle quali si intravedono dei piedi avvolti dai colori, “Backdoor # 3”, Diego Marcon, “Head Falling 01” un grande occhio nel primo piano di metà di un viso rosso intenso,  e Massimo Grimaldi, “Portraits. Shown on Two Apple iPad Air 2s”, un viso abbozzato che nella seconda immagine è ancora più indistinto. Momentum con “Intensity” presenta su fondo blu una sorta di anatomia di pulsazioni interiori tra il bianco e il rosso. All’opposto il disegno a linea sottile di Francesco Cagnin, “Inspiration. Chaque gorgée, une révelation” e le sagome di profilo  di volti di Dario Guccio, “Porta Bianca”, fino alla geometria di un ingresso verso un interno desolato di Alberto Garutti,“Stanza di soggiorno”.

Il  richiamo di “Ehi, voi” si esprime anche nella parola scritta, ed ecco tra le altre le schede di Costanza Candeloro, “Alice’s Adventures Underground”, che è stato il tema della mostra di Natale 2015 della galleria RvB Arts, il quadro di Giulia Piscitelli, “S.A.M.”, e  la bacheca di Gasconade, “Le petit jeu (4-H1)“, con in vista il libro dal titolo eloquente “The Endless City” .

“Preferirei di no”, normale esposizione di opere senza tema

Di tutt’altro segno”I would prefer not to/Preferirei di no”, i curatori Simone Ciglia e Luigia Lonardellinella presentazione iniziale avevano fatto cerebrali riferimenti al “nodo di negazione, resistenza, alienazione” del racconto di Melville da cui hanno preso il titolo, come metafora dello stato dell’arte nel nostro paese, quasi che la scelta delle opere avesse seguito tale linea guida. Nell’ampia illustrazione del Catalogo, invece, si legge il loro racconto della immaginaria visita dell’oscuro impiegato F. a una mostra d’arte in cui si incontrano in successione le opere scelte per la Quadriennale, che diventa una spiegazione della propria sezione con gli occhi del visitatore.

Su ogni opera presentano un breve commento con tratti da normali critici d’arte: così per il quadro su  rame di Nicola Samorì – uno dei pochi dipinti esposti, opera veramente pregevole che mantiene viva la pittura in una mostra di tutt’altro contenuto – intitolato “Lieto fine di un martire“, figura reclinata all’indietro, di linea classica con la parte superiore del corpo che diventa eterea, quasi sublimata nella trasfigurazione; poi l’abbozzo di scalinata con una pianta di Invernomuto, “Zon, paesaggio”,  il leone appollaiato dello stesso autore, “Motherland”, e il pannello con il cavaliere munito di lancia su fondo verde di Matteo Fato, “Senza titolo con Quattro esercizi Equestri”. Segue il salto nell’intraducibile, la barra verticale che culmina nella testa di serpente, con il cucchiaio e il petalo di Mario Airè, “Paolina”, le due opere dalla superficie bianca, l’alabastro con due fogli piegati ai bordi ma in realtà marmorei di Massimo Bartolini, “Left Page, Right Page”, e “L’insurmontabile”di Gianfranco Barucchello, il noto artista vicino a Duchamp,  non giovane ma con un’opera del 2015, motivi  appena percettibili su un fondo grigio chiaro.

Concludiamo la rapida rassegna della sezione con il filmato “Nope” di Claude Fontaine, dove tra evocazioni geografiche e geometriche si dipana un thriller indecifrabile, animato da persone che vogliono muovere la casa e il sole.

Non si ripetono le argomentazioni cerebrali secondo cui “gli artisti in mostra rivendicano il diritto ad allontanarsi dal perdurante affastellamento dei fatti e delle cose senza per questo smarrire la consapevolezza del proprio vissuto, personale e collettivo”.  Anche se proprio qui  si trova la spiegazione del titolo della sezione:  “Preferiscono di no, un no che non è più contestatario, resistente, ma una didascalica negazione della possibilità di scegliere”. Nel Catalogo nulla di tutto questo, il racconto della visita a una mostra d’arte contemporanea.Una resipiscenza?“Lo stato delle cose”,  7 mostre personali separate in momenti diversi

Una terza sezione ci propone una visione ancora diversa, questa volta in  assoluta coerenza tra la presentazione iniziale e l’illustrazione del Catalogo. In “Lo stato delle cose”  la curatrice Marta Papini  non solo non enuncia alcun tema prestabilito, ma non indica neppure le opere selezionate e il motivo della sua scelta. Questo anche perché non vi è la mostra collettiva come nelle altre sezioni, ma si annunciano 7 singole mostre personali in successione, una per ogni artista con il riconoscimento dell’impossibilità di ricondurle a un motivo comune, scelta che riteniamo sincera rispetto a spericolate acrobazie supportate dalla dialettica più che dalla logica.

Si richiama il concetto dell’opera d’arte “come una possibilità d’incontro, come un invito a partecipare rivolto dagli artisti a ciascuno i noi”, di cui all’ “Autoritratto” di Carla Lonzi,  per spiegare tale scelta in controtendenza rispetto alle altre. Nessun tema per le 7 mostre personali, e nel catalogo i 7 artisti si presentano in interviste singole in cui vengono poste le stesse 11 domande. Descrivono nelle risposte il loro modo di concepire l’arte e di praticarla, l’importanza che ha nella propria vita, i risultati ottenuti, le difficoltà e i pentimenti,  la comunicazione con il pubblico.Uno dei 7 artisti è Margherita Moscardini, già vincitrice di “6artista”, nel  suo “Wall” si vede un cane su un bagnasciuga mosso dalla risacca; di Christian Chironi, “My House is a Le Corbusier”  un solitario breakfast in un interno, due immagini di solitudine;  abbiamo poi le elaborazioni digitali con ombre lunghe su un antro roccioso di Alberto Tadiello,“Melisma”, che accostiamo a “A Fragmented World”, video-installazione di Elena Mazzi e Sara Tirrelli altrettanto ombrosa.  Un’altra video-installazione mostra delle fiamme che squarciano il buio, si tratta di “In girum imus nocte” di Giorgio Andreotta Calò, mentre di Yuri Ancarani, “Baron Samedi”, una veduta d’installazione con lapidi, croci e la sagoma di uno stambecco. Chiudiamo con i corpi di Adelita Husni Bey, artista che ritroveremo più avanti, in “After the Finish Line”,  una figura piegata nella scatto allo start, poi delle sagome appena delineate tra  macchie color arancio e scritture di ansietà, stress, paura.

Le 3 sezioni appena illustrate le abbiamo poste all’inizio del nostro personale itinerario tra le 10 sale della mostra, essendoci apparse diverse dalle  altre 7 sezioni soprattutto nella presentazione dei curatori, in una sorta di gara di creatività con gli autori fino a rendere cerebrali e capziosi nessi a volte  evidenti o,  al contrario, facendo venir meno, di fatto, i nessi preannunciati, fino alla negazione di qualunque nesso  al punto di rinunciare alla  mostra collettiva.“La democrazia in America” con Tocqueville, da qui i nessi sono visibili

Dalle prime sezioni con enunciazioni dei curatori che ci sono apparse disgiunte dalle espressioni artistiche degli autori passiamo ora alle altre sezioni che offrono nuove  sorprese. Non nascono dalle enunciazioni, che questa volta sono  attinenti e comprensibili, ma dai contenuti. La mostra continua a colpire i sensi con le rutilanti ollecitazioni non solo visive, ma anche auditive, e sfida la mente a cogliere i nessi e i significati di un’arte contemporanea così criptica e cerebrale. Sono caratteri propri della creatività, che non ammette limiti e forse neppure spiegazioni soprattutto in campo artistico.

I  nessi delle opere con il tema della sezione vengono rivendicati, e in tre sezioni sono riferiti  in modo diretto ed esplicito a grandi intellettuali che hanno segnato la storia precorrendo motivi e situazioni con enunciazioni tuttora sorprendentemente valide per interpretare i fenomeni sociali. Non si può che rimanere stupiti nel vedere la creatività cercare  un legame con visioni lucide del passato, radicate in una realtà apparentemente molto diversa ma che vediamo riproporsi  in una disarmante continuità facendo a pugni con il cambiamento sconvolgente della nostra epoca, perché persistono pecche ataviche. Sono quelle delle ingiustizie sociali e dello sfruttamento, e la ribellione che suscitano  impedisce una visione razionale, di qui il ricorso ai grandi pensatori di ieri.“La democrazia in America” si ispira agli scritti di Alexis de Tocqueville  nati da due viaggi, il primo nella Sicilia del 1827,  dopo settimane trascorse a Roma e a Napoli, l’altro nell’America del  1831, iniziando da New York. Due situazioni diverse, e per molti versi opposte,  in Sicilia la miseria e l’ oppressione di un sistema  feudale, in America un'”uguaglianza di  condizioni”  diffusa ma con tante contraddizioni, come quella tra crescita dei diritti civili e schiavismo,  tra ricchezza individuale e parità politica, tra libertà e uguaglianza, Sono questi e altri gli elementi su cui ci si interroga anche nella realtà attuale,  e sui quali artisti italiani si sono cimentati riflettendo sull’incerto sviluppo democratico del nostro paese.

E allora ecco una rivisitazione delle idee di Tocqueville  in chiave artistica illustrata con la precisione  dello storico dal curatore Luigi Fassi senza elucubrazioni cerebrali ma in modo piano e determinato, cui è sottesa una forte passione civile. Sui passaggi chiave del pensiero di Tocqueville  viene presentata  l’interpretazione  degli artisti raggruppati nella sezione.

L’influenza irresistibile  della stampa se si muove nella stessa direzione, spesso fuorviante,  è resa da Niccolò Degiorgis che ha analizzato “la comunità errante” dei mussulmani con una ricerca su oltre 1000 articoli usciti dal 2001 ad oggi in un giornale di Treviso,  martellanti nella loro ostilità e inadeguati a rappresentare la vera realtà documentata anche con una ricostruzione fotografica delle condizioni precarie di questa comunità. Oltre  al filmato sugli articoli, abbiamo visto la foto con le schiene curve all’aperto in assenza di moschea in “Festa di Eid Eil-Ftr, Associazione culturale islamica di Treviso, Villorba”. Ma poi la partecipazione, e su questa Adelita Husni-Bej, che abbiamo già trovato nella sezione precedente, presenta “Agency . Giochi di potere”, un video su un intenso workshop di simulazione sociale con un gruppo di studenti liceali a impersonare cinque categorie professionali  di rilievo nell’analisi critica delle relazioni di potere che, dominando la società, compromettono l’uguaglianza alla base della democrazia.

Si torna nell’ottica americana con le inserzioni pubblicitarie e gli articoli di “Fortune”, “Italian Farmer Hand” , che Alessandro Balteo Yazbeck presenta insieme ad alcune intense immagini visive del contadino calabrese misero ma con tanta dignità come altri tre milioni simili a lui, “una sfida al capitalismo occidentale”. L’esigenza di far progredire tutto il popolo, con la cultura e la lotta all’emarginazione, è visualizzata da Gianluca e Massimiliano De Serio in un racconto visivo, “Rovine”,  sull’abbattimento della mega baraccopoli torinese “Platz”,  con un’installazione sonora. Ma ci sono anche immagini ridenti, in  Renato Leotta  la concezione di Tocqueville sulla mobilità delle persone che avvicina e rende somiglianti popoli e nazioni, si manifesta nella serie di filmati “Belvedere”, paesaggi e scene rurali che mostrano delle “Egadi” una dimensione mediterranea.

Abbagliati e storditi passiamo alla sezione successiva, con un titolo che riporta a Pier Paolo Pasolini, il quale a quarant’anni dalla scomparsa ha trovato le celebrazioni mancate nella vita,  in cui i suoi stimoli culturali e vitali, presi per provocazioni, hanno incontrato tante ottuse chiusure e lui ha dovuto subire sulla sua pelle le rezioni più aspre e scomposte anche delle istituzioni, si pensi alla persecuzione giudiziaria, fino al tragico epilogo. Possiamo anticipare che la sezione si basa su un riferimento a un suo progetto cinematografico, l'”Orestiade Africana”, i cui appunti furono definiti dall’autore “un film su un film da farsi”, ispirato all'”Orestiade di Eschilo”  ma calato nella realtà di paesi come l’Uganda e la Tanzania da lui visitati nel 1968 e 1969  ricavandone una “spinta pedagogica rivoluzionaria”  che dà alle immagini un tono ben diverso dalla tradizionale narrazione coloniale, ponendosi come denuncia  delle responsabilità europee  nel tentativo di rovesciare lo sterotipato mito borghese del “buon selvaggio”: “Prima ne abbiamo negato l’esistenza…. In seguito, dal momento in cui non è stato possibile sostenere la rimozione, abbiamo adottato altre due misure: da una parte l’integrazione reciproca tra una cultura d’eccellenza (la nostra)  e la cultura (ammessa) del ‘buon selvaggio’; dall’altra parte il riconoscimento oggettivo di quest’ultima cultura come un ‘insieme’ esaustivo una volta per sempre della totalità, in strutture immodificabili”

Parleremo prossimamente dell'”Orestiade italiana”   e delle altre 5  sezioni della mostra.

http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_1597948c519.jpg

Info  

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni per studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it..Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti – Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato  23,5 x 30,5; dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il  24 ottobre, i due ultimi usciranno il  1° e  29 novembre 2016;  l’articolo di presentazione è uscito il  23 giugno 2016. Su temi connessi cfr. i nostri articoli:  in questo sito: sulla vincitrice del premio “6artista”, le mostre sugli “Interni d’artista”  e su “Alice nel paese delle meraviglie”,  citate, rispettivamente 3 gennaio 2013, 12 maggio 2014, e 25 dicembre 2015; per le mostre su Pasolini, 16 novembre 2012,  27 maggio, 15 giugno 2014, 29 ottobre 2015;  in “fotografia.guidadel consumatore.it”,  per Pasolini  4 maggio 2011, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli saranno ricollocati.    

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 3 per ogni sezione, nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo. In apertura,  Giulia Piscitelli, “S.A.M.”, 2013; seguono, Francesco Nazardo, “Chiara (Crissier)”, 2013, e Patrick Tuttofuoco, “Porrtraits (Christian)”, 2016; poi, Nicola Samorì, “Lieto fine di un martire”, 2015, Invernomuto, “Zon, Paesaggio”, 2014, e  Matteo Fato, “Senza titolo con Quattro esercizi equestri”, 2013-2016; quindi, Giorgio Andreotta Calò, “In girum imus nocte”, 1015, Alberto Tadiello, “Melisma”, 2014, e Cristian Chironi, “My House is Le Corbusier (Esprit Noveau)”, 2015; inoltre, Nicolò Degiorgis, “Festa di Eid Eil-.Fitr, Associazione islamica di Treviso, Villorba (TV)”, 2013, Massimilano De Serio, “Rovine”, 2016, e Renato Leotta, “Egadi (Il mondo di ieri)“, 2016; in chiusura,  uno dei tanti  filmati in mostra. 

Accessible Art, 4 artisti a RvB Arts nella settimana del RAW romano

di Romano Maria Levante

Nella galleria RvB Arts  tre manifestazioni per la settimana dal 24 al 29 ottobre 2016 dedicata alla 1^  edizione del “RAW – Rome Art Week”,  il cui programma  ha mobilitato  intorno all’arte contemporanea  la molteplicità di gallerie cittadine con 99 mostre e 207 eventi, oltre a 153 visite agli atelier e alle performance degli artisti che hanno aderito, più di 200:  in tutto 459 appuntamenti, accompagnati da 18 critici d’arte.  Per la galleria di via delle Zoccolette, associata all’Antiquariato Valligiano di via Giulia, si è trattato di tre eventi, “l’aperitivo con Nicola Pucci” il 25 ottobre, il “cocktail d’arte con Bato e Matta” il27 ottobre in una mostra che prosegue fino al 12 novembre, l'”incontro con Alessio Deli” presentato da Lorenzo Canova  il 29 ottobre.  In tal modo la galleria RvB Arts colloca in un contesto più vasto, che abbraccia l’intero spettro del contemporaneo romano e non solo, l’impegno meritorio  con cui la titolare animatrice Michele von Buren da anni si prodiga nella  promozione di artisti giovani e affermati e nella diffusione dell’arte contemporanea mediante  “Accessible Art”, programma basato su opere accessibili economicamente e compatibili con gli ambienti domestici.

La mobilitazione del RAW e la “Quadriennale di Roma”

Un missile a tre stadi quello lanciato dalla galleria RvB Arts nel quadro della manifestazione che ha mobilitato gallerie, fondazioni e istituzioni romane intorno all’arte  contemporanea in concomitanza con la “!6^ Quadriennale di Roma”, rilanciata dal presidente Franco Bernabè, con il fermo sostegno del ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo  Dario Franceschini. Anzi, il RAW è inserito nel programma delle manifestazioni esterne alla mostra “Altri Tempi  altri Miti”, in corso al Palazzo Esposizioni  dal 13 ottobre al 7 gennaio 2017,  e curiosamente abbiamo constatato che il numero 99 c’è sia  nella Quadriennale come numero di artisti espositori,  sia nel RAW come numero di mostre.

Ci auguriamo che tutto ciò possa portare a interessanti sviluppi e convergenze, anche nel laboratorio permanente che la Quadriennale di Roma aprirà nei 1500 metri quadrati dell’antico Arsenale pontificio ristrutturato e dedicato al contemporaneo, come ha annunciato il ministro Franceschini.

Il presidente della Quadriennale Franco Bernabè ha detto che ha già chiamato a raccolta i musei, le fondazioni private e le gallerie che operano sul territorio, per avere il loro contributo  “all’inventario di protagonisti e idee che concorrono a formare l’arte italiana in questo avvio di secolo”. 

Le 99 mostre e i 200  artisti della settimana di Raw Art hanno fornito nuovo materiale artistico all’inventario di protagonisti e di idee promosso da Bernabè, e la galleria RvB Arts con  i quattro artisti che ne sono stati protagonisti è in prima linea per la sua impostazione all’insegna dell'”Accessible Art” volta ad avvicinare l’arte contemporanea al pubblico diffondendone l’inserimento nelle comuni abitazioni con l’accessibilità economica e la compatibilità ambientale.

Una prestigiosa partecipazione, quindi, quella della  galleria diretta da  Michele von Buren,  molto  significativa dal punto di vista della scelta operata.  I quattro artisti presentati, ai quali sono state dedicate in passato mostre personali e collettive nella galleria, configurano forme diverse di arte contemporanea,  mediante visioni ed espressioni  molto personali della libera creatività dell’artista.

Ne evochiamo i motivi e i contenuti  senza descriverne le singole opere, di cui peraltro abbiamo parlato in occasione delle loro precedenti mostre a RVB Arts, dato il carattere della manifestazione.

Ed ecco ora  i tre stadi del missile di RvB Arts, cominciando dalla prima testata, il cui percorso più lungo porta nell’atmosfera, un’atmosfera rarefatta, ma nel contempo percorsa da impulsi elettromagnetici con quelle che sono state definite “vertiginose presenze in camere fibrillanti”.

La “terra di vertigine” di Nicola Pucci

Si tratta di Nicola Pucci, l’artista siciliano che abbiamo presentato in occasione delle sue mostre, personale e collettiva, nella stessa galleria, ma di cui ora intendiamo approfondire il peculiare carattere, come si è fatto nella giornata del 25 ottobre a lui dedicata, sulla base di opere presentate  nella mostra di Spoleto, “Vertigoland”, conclusa lo scorso  25 settembre. Una mostra il cui  titolo apre scenari psicologici e psicanalitici, fa ripensare al film “Vertigo”  nel quale Hitchock si avvalse dell’arte magnetica e parossistica di Salvador Dalì per scavare nell’inconscio.  Il  regista del brividoè citato da Gianluca Marziani nel commentare la mostra di Spoleto: di lui “Pucci ha capito la lezione e sta lavorando sulle camere in modo simile, distillando atmosfere da thriller cerebrale”.

Sono “terra di vertigine”, dunque, le opere di Pucci, e con quali contenuti e prospettive?   In precedenza abbiamo evidenziato l’aspetto “circolare” delle sue composizioni, come le letture alternate, i voli e i tuffatori. Ma anche l’aspetto paradossale dei suoi interni, apparentemente normali, nei quali irrompe l’assurdo, come negli ambienti domestici con la rovesciata del calciatore e la parata del portiere, lo scatto del ciclista in una stanza, cui associamo il fantino a cavallo che salta dentro al tram, gli ambienti pubblici con il treno che sfreccia nella sala sopra al  bigliardo, i tuffatori in una piscina inesistente o i saltatori nella scala mobile della metropolitana, in una visione dello  sport pervasiva, ma soprattutto  eversiva del sentire comune; come lo è lo specchio deformante dell’improbabile compresenza di animali giganteschi con persone e bambini.

Ora cerchiamo di entrare in questa “terra di vertigine”, pur  considerando l’ampio margine di indecifrabilità dell’arte contemporanea che va rispettato; è lo stesso artista a “provocare” questo tentativo di scavare all’interno, con i suoi titoli e le sue “trappole” figurative. Perché il suo è un figurativo seducente, apparentemente normale, nel quale si scatena l’inatteso e inimmaginabile.

Marziani  parla di “scenari meta temporali. Sono ambienti densi di energia, esistenti ma astratti nell’essere palcoscenico per fulminei incontri ravvicinati”. Ripensiamo a quelli “del terzo tipo” nei quali si svolgevano con il misterioso essere extraterrestre, qui si tratta, invece, di incontri con la realtà, rivissuta così dall’artista: “Osservo i comportamenti, mi interessano le cause che generano effetti, soprattutto sugli esseri viventi. Dall’osservazione scaturisce una nuova interpretazione della realtà in cui il possibile e l’improbabile si mischiano. Il movimento diventa elemento essenziale, focalizzato nel suo durante, ed è un moto senza compimento, un accadere senza succedere, pura sospensione di un gesto”. Un’interpretazione autentica, un’autoanalisi  che dà già una prima risposta agli interrogativi che nascono da opere così allusive e misteriose.

Nel sottolineare  la compresenza del dinamismo futurista e della  introspezione visionaria del surrealismo alla Magritte, il critico aggiunge: “Si veleggia sul filo lungo del costante mistero, dell’irrisolto metafisico, dentro un climax drammaturgico che sospende il giudice assieme al giudizio”. E non ci si lasci fuorviare dal figurativo eclatante, che parte dall’osservazione di disegni e fotografie: “Il risultato parla di verisimiglianza ma non di puro realismo, è come se l’artista avesse inventato una lente Zeiss per plasmare i corpi pittorici, le loro contorsioni plastiche, gli scatti sinuosi, le posture anomale”. Lo afferma lo stesso artista: “In ambito pittorico amo la verosimiglianza della realtà, mi accanisco su quel dettaglio, cerco di dargli la terza dimensione rispetto al resto. Poi il lavoro  si sviluppa strato su strato con decine di velature e pennellate più o meno materiche. Cerco di farmi guidare dalle linee delle immagini, a quel punto vorrei che tutto restasse sospeso, che il tratto preciso e definito lasciasse il posto al gesto emozionale”.

Non  è in gioco soltanto la forma esteriore, dunque, si scava nel profondo: “Senti che circola un moto centrifugo e gravitazionale, un’energia invisibile che teatralizza le scene e alza il livello del quotidiano secondo accenti onirici che non sono mai puro sogno ma neanche piena aderenza al vero”.  Lo verifichiamo anche nella realtà quotidiana, con quei sogni prima del risveglio che deformano i sedimenti dell’inconscio abbinando ricordi lucidi a sovrapposizioni paradossali, e di certo lo sport come gli animali sono una presenza immanente dentro di noi che riaffiora in modi inusitati.

“Si tratta di un percorso tra viaggio mentale e realtà, stranezza e presumibile, artificio e provocazione muscolare, tra dimensioni relazionali che creano qualcosa d’inclassificabile, nel canone inverso della ‘realtà altra’”.  Ci troviamo dinanzi all’ “alterazione della realtà”, che crea nell’osservatore una forte impressione,  Marziani la descrive così: “Difficile non emozionarsi davanti alla sua pittura misteriosa, drammaturgica, dinamica, ambigua , realistica, eppure assurda… è una visione che inventa immagini, una pittura cinematica dal montaggio interno, puro movimento implicito come poche volte capita in un quadro”. 

Non si dimenticano i protagonisti della sua messa in scena, sempre teatrale anche se in ambienti domestici, gli sportivi, e ne abbiamo parlato, le donne, gli animali, e ciò che sta intorno, in una “anomalia narrativa” con  ossimori paradossali. Ci si sente  coinvolti nell’accettare l’insensato come normale o almeno possibile in astratto, e quante volte la cronaca presenta eventi impensabili ma pur accaduti!

L’assurdo è tra noi e può verificarsi, fa bene Pucci a ricordarcelo, forse è anche questa la chiave del futuro già iniziato.

I vuoti e i pieni di Matta e Bato

Il secondo stadio del missile di RvB Arts sono due artisti,  tanto diversi da rappresentare estremi che alla fine si toccano. Si tratta di Arianna Matta e Bato, anche di loro già parlato in occasione di una precedente mostra rievocandone la formazione,  soprattutto artistica in Matta, filosofica in Bato, la prima ricerca l’effetto pittorica, il secondo scava nell’essenza delle cose.

Arianna Matta  presenta i suoi interni domestici dettagliati e “pieni” di particolari, ma risultano “vuoti” per l’assenza di coloro che dovrebbero abitarli; è un vuoto, tuttavia, che si riempie di un calore solo immaginato, lo si sente emergere da ciò che viene vissuto e solo momentaneamente abbandonato:  “E’  come se le poltrone, le sedie, le gabbie contenessero vivo il calore delle presenze che le abitavano”, osserva Viviana Quattrini, che aggiunge: “Se nei contesti intimi gli oggetti appaiono distinguersi per una loro presenza metafisica, nei luoghi della collettività si assiste invece ad una sorta di alienazione dove questi si moltiplicano”.

L’intenso cromatismo si coniuga a una costruzione geometrica della composizione, abbinando gli effetti sensoriali, quindi  istintivi, dati dalle macchie di colore, alla razionalità architettonica dell’insieme: è come se l’artista volesse raccogliere, in scenografie private e pubbliche incentrate sul fondamentale aspetto abitativo, le due matrici dell’azione umana, l’impulso e la ragione.

Nelle opere di Bato, invece, contorni essenziali fatti di segni isolati, qualche volta colorati, delineano  immagini lontane dalla realtà come sembrerebbero lontani i semplici segni che le richiamano. Ma nella loro semplicità sfidano l’osservatore a riempire quei vuoti, a considerare quei contorni come una citazione lasciata volutamente incompleta per aprirla alla fantasia e all’immaginazione che potrà dare ad essa  compiutezza di contenuti.

Anche qui vediamo la compresenza di due opposti, pur se molto diversi da quelli di Matta: da un lato un’arcaicità di segni che richiama i graffiti primordiali; dall’altro una modernità estrema nel rendere la percezione fuggevole, un baleno che lascia negli occhi e nella memoria soltanto delle tracce, ma molto profonde, che l’artista riesce a fissare con un segno altrettanto rapido e scarno. 

“La sua pittura si libera così dal peso della materia – commenta la Quattrini – rispecchiando l’istantaneità percettiva con cui oggi ci troviamo sempre più a dover decifrare messaggi ed immagini”. Ed evidenzia  altri due opposti che coesistono nel modo in cui  l’artista rende le sue percezioni: “Si tratta di un lavoro di analisi e sintesi volto a cogliere il meccanismo interno delle cose”. Quindi a coglierne l’essenza, in un processo mentale filosofico prima che pittorico.

E’ la trasposizione della filosofia in pittura, ma c’è dell’altro, le figure rappresentate con segni scarni, sinuosi e avvolgenti, sono il risultato di un percorso che l’artista ci rivela, parlando della profonda impressione ricevuta nel visitare a Berlino la ricostruzione della porta d’ingresso di Babilonia con le figure delle divinità Ishtar, Adad e Marduk. Dalla filosofia alla religione la sua matrice si arricchisce, del resto è pura filosofia la prova ontologica dell’esistenza di Dio, il nostro Dio, e a un giovane sensibile e aperto come Bato anche l’Ishtar babilonese ispira forti suggestioni.

Il classicismo con materiale povero di Alessio Deli  

Un riferimento agli archetipi rupestri c’è anche in Alessio Deli, anche se come motivo ispiratore piuttosto che come mezzo espressivo, dato che il suo mezzo è  ben più elaborato e composito. 

Si tratta di un artista con forti basi nel classicismo che declina fino alle fonti più arcaiche, per immergerlo nella realtà attuale mediante l’uso di materiali di risulta da lui reperiti nelle discariche. 

Nulla di casuale neppure in questo, è stato il contatto con la discarica umana che sono le carceri, in un corso d’arte per detenuti, a  fargli maturare la consapevolezza che nei rifiuti, umani o materiali, c’è un materiale prezioso da recuperare, riportando alla luce il vissuto  che è in loro.

Ma procediamo per gradi, dalla ricerca di questo materiale che avviene nelle aree più degradate all’isolamento  dagli scarti accumulatisi sopra di esso e intorno ad esso, fino a liberare la figura o l’oggetto che già vi vede incorporato, anzi impersonato, quasi fosse il marmo per lo scultore.

Così i rifiuti scartati diventano componenti da assemblare e modellare nelle forme classiche predilette,  il materiale povero quant’altri mai viene nobilitato dall’arte,  che diventa la pietra filosofale nel trasformarlo in oro,  in una trasfigurazione che solo il talento può realizzare.  

Guardiamo questo materiale, sono elementi semplici come lamiere e chiodi, pezzi di legno e profilati, e anche  compositi  come apparecchiature e marmitte, parti di elettrodomestici e di macchinari, eliminati dal  consumismo nel suo inarrestabile spreco di risorse che non contempla riparazioni anche di guasti modesti,  bensì sostituzioni complete, alla ricerca spasmodica di una spinta produttiva senza fine per la quale al meccanismo galbraithiano dei consumi indotti dalla produzione si aggiunge l’obsolescenza programmata con la sua azione preordinata autodistruttiva.

In Deli, tuttavia, non c’è l’intento di contestare questi meccanismi, la sua non è una ribellione come quella di alcune opere esposte nella mostra della 16^ Quadriennale di Roma nelle quali la qualifica artistica è data solo dal loro inserimento nel contesto curatoriale, spesso di matrice ideologica; anzi vede questi materiali come espressione positiva di un vissuto, dell’uomo contemporaneo tutto da scoprire, e valorizzare,  non soltanto fisico con le sue abitudini, ma anche ideale, con i suoi sogni.

Oltre ai contenuti forti che esprimono,  questi materiali hanno una forza plastica che l’artista definisce “dirompente”, e riadatta ai soggetti che gli vengono ispirati e intende rappresentare.

Sono soggetti forti e imponenti, come le grandi sculture metalliche di “Summer” e “Big”, oppure minuscoli e delicati, come delle gabbiette e dei nidi, che ci rimandano al ciclo dei gabbiani, con l’uccello marino declinato nelle sue tante positure che emana un indefinibile fascino.

Grani figure classiche, uccelli dal chiaro contenuto simbolico, ma anche piante, in una ricca serie di sculture sempre metalliche con gli steli rigogliosi, in una contraddizione apparente tra la delicatezza del vegetale e la durezza del materiale usato, ma anche qui il vissuto che esprime lo trasfigura.

Di Deli sono in atto sviluppi ulteriori in un processo continuo che aggiunge sempre nuovi  motivi espressivi in una gamma quanto mai ampia di forme e di contenuti. Sono incessanti gli stimoli reali ricevuti dai materiali di risulta che si offrono al suo talento perché liberi i tanti “prigioni” racchiusi nella loro materia degradata riportandoli alla luce e alla vita con il tocco magico dell’arte.

Così i tre stadi del missile lanciato da Michele Von Buren per “Rome Art Week” hanno messo in orbita 4 artisti molto diversi, accomunati oltre che dal talento dalla formula di “Accessible Art” che rende le loro opere alla portata  in tutti i sensi delle normali famiglie per i loro ambienti domestici. L’augurio di centrare l’obiettivo al missile dell’arte è il minimo che si possa rivolgere per un’attività  benemerita  di diffusione dell’arte a largo raggio.

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Le immagini saranno inserite prossimamente.

16^ Quadriennale di Roma, 1. Un caleidoscopio dell’arte contemporanea italiana

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni, dal 13 ottobre 2016 all’8 gennaio  2017, la 16^ Quadriennale di Roma con la mostra “Altri tempi altri miti” presenta 150 opere di 99  artisti  italiani contemporanei, scelti dagli 11 curatori  di 10  sezioni imperniate su temi specifici di cui hanno spiegato le motivazioni nel Catalogo e, ancora prima, nella presentazione della mostra avvenuta il 6 giugno in un incontro al Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo nel quale il presidente della Quadriennale Franco Bernabè espose i criteri del rilancio dopo otto anni di assenza e il ministro Dario Franceschini ne delineò gli importanti sviluppi futuri. E’ stata oganizzata dalla Fondazione della Quadriennale e dall’Azienda speciale Expo che gestisce il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta,  hanno curato il Catalogo e partecipato alla copertura finanziaria  insieme al MiBACT.  L’ENI è il “main partner”, ed è presente con una installazione permanente, la BMW  “partner” con la “BMW Art Car” di Sandro Chia. 

Una mostra inedita e insolita, sorprendente e sconvolgente:  sono i primi aggettivi che ci vengono in mente per definire una manifestazione che torna dopo otto anni in modo innovativo. Il suo presidente Franco Bernabè  si è chiesto se valeva la pena di mantenere la Quadriennale, in un’epoca in cui l’arte contemporanea passa per tanti rivoli, dalle gallerie ai musei, dalle fondazioni alle fiere, mentre lo Stato non può nè deve continuare ad essere il “deus ex machina” che promuove e assiste una realtà sociale sempre più complessa e multiforme, e  per questo tende a ritirarsi in nome della sussidiarietà.  Ma subito dopo  ha detto: “La risposta sta nell’accresciuta consapevolezza del ruolo che la creatività svolge come strumento di valorizzazione dell’identità nazionale e di come essa possa rappresentare un formidabile strumento di crescita per un paese come l’Italia”.

Dalle ragioni della presenza al  rilancio in  laboratorio permanente

Possiamo aggiungere che in tal modo si salvaguardia e si valorizza anche lo sterminato patrimonio artistico del passato impedendo che diventi un giacimento culturale senza vita e senza futuro, e ciò  con il moltiplicarsi di iniziative, il fiorire di talenti, per l’affermarsi su tale base di un’arte senza confini temporali e spaziali.

“L’identità culturale di una nazione  appare oggi come un patrimonio collettivo da trasmettere nella sua sedimentazione temporale e da rendere parte viva in processi pubblici di confronto tra visioni del mondo e gruppi di interesse geopolitici se non economici”, afferma  Bernabè  nell’illustrare i suoi propositi di rilancio della Quadriennale. Nell’epoca della globalizzazione, che ha stravolto tutti i termini di riferimento, anche “l’esistenza di una specificità italiana in campo artistico richiede di essere reinterpretata in termini adeguati alla contemporaneità”.  In una realtà così mutevole e inafferrabile, che nel campo dell’arte è ancora più erratica e indefinibile, “missione della Quadriennale non è quella di indicare la strada dell’arte contemporanea italiana ma di farla conoscere e di agire da catalizzatore dell’energia espressa da tutti coloro che ne fanno parte”.

Quindi nessun indirizzo o corrente artistica viene privilegiato e neppure delineato, si impegna un’istituzione benemerita ma a lungo assente come la Quadriennale di Roma  in un progetto di rilancio dell’arte contemporanea italiana a partire dal territorio romano con il concorso dei soggetti che vi operano, dai musei e gallerie alle fondazioni private,  chiamati a “contribuire all’inventario di protagonisti e di idee che concorrono a formare l’arte italiana in questo avvio di secolo”.   

Sono i motivi  che non solo spiegano  il ritorno della Quadriennale dopo otto anni, ma anche il rilancio  dell’istituzione come fulcro di un’attività  di promozione  con l’adesione dei privati e la messa in campo di energie, competenze e mezzi adeguati alla diffusione anche a livello internazionale con il concorso del Ministero degli Esteri attraverso gli Istituti italiani di cultura nei principali paesi del mondo.

Il Miniatro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini è il primo promotore di  tale rilancio, per il quale ha scelto Bernabè in quanto  manager sperimentato, a lungo al vertice di multinazionali come l’Eni e la Telecom,  imprenditore di un proprio gruppo operante nella consulenza strategica, nella finanza e nella telematica,  e già presidente delle più grandi istituzioni museali quali la Biennale di Venezia e il Mart di Rovereto  fino all’Azienda Speciale Palaexpo di Roma da cui ha gestito, nel periodo della sua presidenza,  il Palazzo delle Esposizioni, dove si svolge la mostra, e le Scuderie del Quirinale; è l’attuale presidente, oltre che della Quadriennale, della Commisssione per l’Italia dell’Unesco, che ne prmuove e diffonde  nel nostro paese i programmi culturali.

Si tratta di un  rilancio del quale la mostra è soltanto un avvio che proseguirà  in una forma ancora più impegnativa e coinvolgente, come ha detto il ministro: “La Quadriennale torna così ad assolvere il  ruolo che le è proprio nelle politiche culturali nazionali. Un ruolo che presto avrà una continuità permanente grazie agli spazi dell’Arsenale Pontificio, complesso settecentesco situato sulle rive del Tevere a ridosso di Porta Portese”.

La Quadriennale ne farà “un centro per la formazione e la sperimentazione nel campo delle arti contemporanee”,  nei  1200 metri quadri  dell’Arsenale recuperato nell’ambito del Piano Strategico Grandi progetti Culturali  realizzerà aree per attività sperimentali e laboratori di restauro del contemporaneo, atelier per residenze d’artista e foresterie per soggiorni di studio dei curatori.  Molto di più di un incubatore  culturale, potrà divenire una grande bottega del  contemporaneo.

Intanto ecco il primo passo, la mostra della 16^ Quadriennale di Roma,  che vogliamo traguardare in questa ambiziosa prospettiva. E’ una grande esposizione che permette di coglierne le premesse  e le implicazioni, la complessità e la difficoltà operando in un campo tutto da decifrare. E quanto sia arduo  muoversi su questo terreno magmatico lo vediamo nel visitare una mostra piena di sorprese.

Bernabè precisa che non si è organizzata una “mostra a tesi”  attraverso un curatore scelto dalla Fondazione, ma si è voluto che “emergesse la complessità delle riflessioni attuali, se possibile anche gli sbandamenti e la difficile ricerca di un’identità”, dato che “la chiave del mondo contemporaneo è la precarietà e la mancanza di certezze”, e la mostra ne è espressione evidente. Di qui il “call for project”  rivolto alle generazioni più giovani  che ha portato alla scelta degli 11 curatori i quali hanno selezionato 99 artisti intorno a temi da loro ideati. C’è stato un sentire comune che ha portato alla ricerca di radici all’interno della diversità italiana, attraverso un tavolo di confronto per “mettere a fuoco, in chiave dialettica, le principali divergenze e le possibili intersecazioni”, nel quale è stato concordato il titolo della mostra in omaggio a Pier Vittorio Tondelli,  quale interprete della modernità.

La creatività è la forza distintiva del nostro paese, espressa nelle varie epoche storiche “in modo diverso, ma sempre con risultati sorprendenti”.  E non ci si nasconde che l’arte contemporanea risulta spesso indecifrabile ai più, ostica al grande pubblico,  perciò ci si preoccupa  di trasmettere il messaggio che “non è un mondo incomprensibile e bizzarro riservato a esperti e a collezionisti”; e per questo nel periodo della mostra sono coinvolte le scuole in chiave didattica.   

L’iceberg della contemporaneità rivelato dalla Quadriennale

Ciò premesso, non sappiamo se è la punta di un iceberg tutto da scoprire o  la parte sommersa nella sua attuale estensione, ciò che la mostra della 16^ Quadriennale rivela ai visitatori. Di certo dà un’immagine sconvolgente dell’arte contemporanea, e potrebbe trattarsi ancora solo di una parte del sommovimento che viene allo scoperto. Ne viene investito il concetto stesso di arte, nelle sue espressioni più avanzate, perché si va ben oltre la modernità delle  correnti che conosciamo: la pop art e il minimalismo, e ancor più l’astrattismo e il “ready made”  diventano classici quasi tradizionali largamente sovvertiti.  

Irrompe un tourbillon di forme espressive non solo non classificabili nei generi del passato, pittura e scultura in testa – e questo è del tutto naturale e avviene ormai regolarmente –  ma sfuggenti e indeterminate, adottate soltanto in via transitoria in funzione di un determinato obiettivo, come dissolvenze inafferrabili che appaiono e scompaiono per poi riapparire. Forme nelle quali si trovano anche i video di dibattiti e simili che il curatore classifica opere d’arte in quanto contributi validi per il  tema specifico prescelto, come per  gli oggetti comuni del “ready made” di Duchamp; dinanzi alle quali viene da chiedere se restano opere d’arte anche al di fuori della collocazione temporanea nella sezione tematica.

Se l’arte può essere vista anche come anticipazione del futuro in quanto fa venir fuori i fermenti nascosti, possiamo dire che la 16^ Quadriennale svolge questa funzione proiettandoci in un mondo di cui non siamo ancora del tutto consapevoli  pur essendovi già entrati. E’ il mondo della complessità e della estraniazione dato dalla globalizzazione nell’economia e nella società, di cui si intravedono gli effetti più vistosi in termini fisici nelle migrazioni epocali, e in termini mediatici nel villaggio globale di Internet, che nel Web sconfinato tutto  amplifica e nel contempo dissolve.

Ebbene, è questa l’impressione che si prova  al primo contatto con la mostra,  girando per le varie sezioni in una iniziale visione d’insieme, senza altro intento che quello di vedere lo spettacolo davanti agli occhi da una sala all’altra; si ha l’immagine del futuro, in un caleidoscopio di emozioni che prendono la vista e l’udito, e non sono riconducibili a processi logici, bensì a impulsi sensoriali.

Quanto più ciò che si vede o si sente è lontano dalle attese e dalla  capacità di comprensione, tanto più,  proprio per questo, è lo specchio del  futuro  che è già nel presente e in quanto tale  affascina e sgomenta nello stesso tempo.  Affascina per la molteplicità di stimoli che colpiscono i sensi in modo inusitato, sgomenta per il suo carattere erratico e incontrollato, fuori da schemi e regole.

Si sente di aver perduto ogni riferimento sicuro, cessano le certezze nell’arte e nella vita, tutto è lasciato alla spinta incontenibile di un’ispirazione che si esprime senza confini, in un estraniamento indecifrabile. E questo avviene anche se l’ispirazione nasce da motivi vivi  e presenti, addirittura dichiarati, che muovono una reazione o ribellione  condivisibile, ma poi l’espressione visiva diventa un  qualcosa che riesce arduo sia identificare in una  forma d’arte sia ricollegare alla matrice di origine.

Del  futuro,  la mostra disvela prodromi ed aspetti che risultano inquietanti se si pretende di analizzare, verificare, interpretare; mentre sono appaganti dal punto di vista spettacolare perché la visita alla mostra è un giro vorticoso in un ottovolante di sensazioni e, lo ripetiamo, di emozioni.

Non è possibile passare in rassegna le 99 opere in mostra  seguendo i criteri tradizionali, d’altra parte nulla di tradizionale resta valido dinanzi all’impetuoso e prorompente salto nel futuro, sono tante le forme espressive e soprattutto tanti i riferimenti resi espliciti da richiedere una fruizione diretta non surrogabile. Ma si può compiere un’operazione che sembrerebbe impossibile dopo quanto si è detto: ripercorrere l’itinerario creativo non delle opere dei singoli artisti ma dei raggruppamenti nelle dieci sezioni realizzati dai curatori.  I quali sono stati prodighi nel rendere espliciti i motivi, più che i criteri, informatori della scelta di ciascuno imperniata su una propria idea forte intorno alla quale ha riunito un  gruppo di  artisti; l’insieme delle 10  idee forti con i 99  artisti in cui si sono riconosciute  ha portato alla mostra.

Se si pensa all’indefinibilità di tante opere di arte contemporanea, spesso “Senza titolo” perché neppure l’autore sa o vuole dare loro un soggetto, diventa un ossimoro intrigante riferirle o volerle ricondurre addirittura a un motivo preciso,  reale o ideologico che sia. Un ossimoro tradotto nella pratica in  altre opere di viva contemporaneità, questa volta non frutto del talento degli artisti espositori, ma della  complessità argomentativa e dialettica dei curatori ciascuno dei quali  ha spiegato le proprie motivazioni  inerenti al tema prescelto componendo una sorta di psicodramma collettivo di impronta teatrale.

Lo abbiamo vissuto nella presentazione orale al Salone del Ministero dei Beni culturali svoltasi il 6 giugno, lo riviviamo in forma più meditata e analitica nei capitoli del Catalogo dedicati alle singole sezioni affidati alla loro curatela, per poi confrontarci con la realtà vivente della mostra, che va al di là delle interpretazioni, pur se autentiche, di coloro che hanno selezionato e riunito  le opere esposte dei 99 artisti prescelti.

Della presentazione al MiBACT abbiamo già detto a suo tempo manifestando l’attesa e la curiosità di vedere come i propositi dei curatori  sarebbero stati messi in pratica calando nella realtà le loro idee e ideologie addirittura attraverso opere di artisti contemporanei che della creatività libera da sollecitazioni esterne fanno un credo irrinunciabile.  Una quadratura del cerchio  superare tale  contraddizione, anche se va considerato che le opere non sono state prodotte su commissione per il tema assegnato, ma scelte ex post secondo una linea guida, quindi nulla di preordinato dalla parte degli artisti.

L’aspetto inafferrabile e intrigante, spesso irridente della contemporaneità, tanto più nell’arte, viene messo a dura prova con la finalizzazione delle opere a un tema preciso, laddove la loro indecifrabilità  rifugge da qualsiasi classificazione: come opere singole e tanto più come insieme di opere. Ma la contemporaneità agisce con le stesse ineffabili caratteristiche pure nei curatori, che si cimentano  nelle acrobazie più spericolate pur di  riuscire nel proprio intento, anche se con le loro ardite interpretazioni rischiano di entrare in concorrenza se non in contrasto con la libera espressione degli artisti.

La sfida dell’arte contemporanea nel futuro laboratorio della Quadriennale

Ci troviamo dinanzi a una sfida che potrà avere un seguito nel futuro laboratorio di arte contemporanea annunciato dal Ministro Franceschini. Anche l’arte contemporanea si potrà ricondurre a moduli espressivi che con le molteplici possibilità rese dai nuovi materiali e soprattutto dalle nuove tecnologie, visive e mediatiche, informatiche e telematche,  pur nella loro inafferrabile e incontenibile creatività riescano ad esprimere le pulsioni e le angosce, le speranze e le attese di una mondo alle prese con un futuro sempre più difficile da dominare, proprio quando le possibilità sembrerebbero  accrescersi a dismisura.

Nello stesso Palazzo Esposizioni, oltre sei anni fa, la mostra “Astri e particelle” ci diede una sensazione analoga alla mostra attuale: allora si trattava di avveniristiche presentazioni scientifiche, spesso impenetrabili, oggi si tratta di opere d’arte contemporanea altrettanto avveniristiche e non meno impenetrabili. Del resto l’arte e  la scienza, in particolare la scienza teorica moderna  le cui  visioni utopistiche  hanno superato la concezione tradizionale legata alla verifica sperimentale, hanno in comune di essere alimentate dalla creatività, e che creatività! La teoria dei “multiversi”, per citare una delle molteplici visioni  astronomiche e cosmologiche,  è sconvolgente  non meno delle installazioni di arte contemporanea più ardite.

Ma  è il futuro nel quale stiamo già entrati ad essere sconvolgente.  E l’arte contemporanea come sua espressione ed anticipazione ci aiuta a convivere con una realtà che non finirà mai di sorprenderci, in un impatto visivo  che spiazza perché indecifrabile e spesso inimmaginabile;  e non ponendosi limiti ci prepara a ben altri traumi di crescita, anche nella vita.

Al presidente della Quadriennale si presenta una vera sfida, perché un laboratorio di arte contemporanea come quello preannunciato dal ministro Franceschini nei grandi spazi settecenteschi del vecchio Arsenale pontificio pone non pochi problemi. La creatività senza limiti  dove potrà arrivare?  Si potranno escludere approcci banali che non sembrano propriamente artistici, e ne vediamo anche nella mostra, e approcci tanto fuori del comune da surclassare in modo intollerabile l’accettabilità?  Le capacità di Berrnabè, sperimentate ai più alti livelli in campo imprenditoriale e manageriale e applicate all’arte nelle massime sedi espositive, saranno messe alla prova allorchè si troverà alle prese con tali interrogativi.

Descriveremo prossimamente,  nel  racconto della visita alla mostra, le opere esposte in relazione all’intitolazione tematica  data alle singole sezioni, cercando di penetrare nell’intrigante ossimoro che abbiamo evocato.

Info 

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso:  intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni per studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it..catalogo/  Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”,  La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato 23,5 x 30,5. I successivi 2 articoli sulla mostra usciranno in questo sito il  27 ottobre e il 1°  novembre 2016; seguiti da un articolo su curatori il 29 novembre; l’articolo di presentazione è uscito il  26 giugno 2016. Su correnti e artisti connessi cfr. i nostri articoli: in questo sito, per  Pop Art, espressionismo astratto, minimalismo, ecc., nella Phillip Collection 12, 18 e 27 gennaio 2016, nell’arte emericana in generale 31 maggio 2013, nelle collezioni del Guggheneim  22, 29 novembre, 11 dicembre 2012,  per l’astrattismo italiano 5 novembre 2012, per  Duchamp e il “ready made”  16 gennaio 2014; nel sito “cultura.inabruzzo.it”,  per il surrealismo e il dadismo 6, 7 febbraio 2010, per la mostra “Astri e particelle” citata 12 febbraio 2010, tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno ricollocati.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni, o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Viene riportata un’immagine per ogni sezione, nell’ordine in cui le sezioni saranno commentate nei due articoli successivi. In apertura, Davide Stucchi, “Heath Dispersion (Mattia and Davide)”, 2916; seguono,  Invernomuto, “Motherland”, 2014, e  Adelita Husni-Bey, “After the Finish Line”, 2015; poi, Alessandro Balteo-Yazbeck,“CBS da Fortune Magazine (1949-51)” dalla serie “Know Your Company”, 2011-2015, e Maria Iorio-Raphael Cuomo, “Appunti del paesaggio”,  still video HD 2014-2016; quindi, Martino Gamper, “Back to Front Chair (Single)”, 2011-2016, e Marzia Migliora, “Stilleven # 01″, 1993-2015; inoltre, Michele Spanghero, “Listening is Making Sense”, 2012, e  Martino Gamper, “Sonet Butterfly, # 10”, 2006, parte di “100 Chiairs in 100 Days”, 2005-2007; ancora, Quayola, “Laocoon # D20 Q1”, 2016, e Federico Solmi, “His Angry Lord”, in video LED, 2015; infine,  una visione particolare e,  in chiusura,  un’altra opera della mostra.

Misericordia nell’Arte, la mostra giubilare ai Musei Capitolini

di Romano Maria Levante

Nella tradizionale mostra a cadenza annuale del Centro Europeo del Turismo, generalmente dedicata ai recuperi da parte delle forze dell’ordine di opere d’arte trafugate e collocata a Castel Sant’Angelo, quest’anno cambia tutto: è dedicata alla “Misericordia nell’Arte” ed espone 30 opere ai Musei Capitolini, nel Palazzo dei Conservatori, dal 31  maggio al 27 novembre 2016, con proroga all‘8 gennaio 2017.  E’ promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Crescita Culturale,  ed ha il patrocinio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, organizzazione museale di Zétema Cultura.

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Egidio Cola  da Orte, “Madonna dei Raccomandati”, 1500-1503

Il sottotitolo “Itinerario Giubilare tra i Capolavori dei grandi Artisti italiani” evidenzia il riferimento all’evento voluto da Papa Francesco in un momento storico nel quale le guerre e il terrorismo in tante parti del mondo e il flagello della fame che porta a migrazioni bibliche fanno invocare sempre più una misericordia che possa prevalere sugli odi,  le violenze e le privazioni.

“Era dunque urgente – ha scritto mons. Jean-Louis Bruguès, O.P. nel  presentare la mostra – forzare in qualche modo il cuore dell’uomo contemporaneo per obbligarlo a chinarsi sulle miserie del mondo. Perché questo è appunto il senso del termine: la misericordia infatti mostra precisamente l’amore che si manifesta verso coloro che soffrono”.

La misericordia, dall’Enciclica di Giovanni Paolo II al Giubileo di papa Francesco

Al principio religioso, che  riconduce al “Dio di misericordia” e al sacrificio di Cristo,  è dedicato il Giubileo straordinario del 2016  che, a differenza di quelli ordinari concentrati su Roma caput mundi, coinvolge le nazioni cattoliche con Porte sante aperte “in loco” senza necessità dei pellegrinaggi conciliari. E questo per trasmettere il messaggio di pace e solidarietà in modo che possa radicarsi dovunque nel mondo.

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Pittore senese primi decenni ‘400,
“Madonna col Bambino
e una famiglia di devoti”

Non c’è da illudersi su un’adesione spontanea, lo dimostra l’Enciclica “Dives in misericordia”, la seconda del pontificato ultraventennale di Giovanni Paolo II che nel 1980 ammoniva: “La mentalità contemporanea, forse più di quella dell’uomo del passato, sembra opporsi al Dio di misericordia e tende altresì ad emarginare dalla vita e a distogliere dal cuore umano l’idea stessa della misericordia. La parola e il concetto di misericordia sembrano porre a disagio l’uomo, il quale, grazie all’enorme sviluppo della scienza e della tecnica, non mai prima conosciuto nella storia, è diventato padrone e ha soggiogato e dominato la terra”. 

A distanza di oltre 35 anni  questa constatazione sembra ancora più vera, il dominio dell’uomo sulle risorse è ancora più completo   all’insegna dell’egoismo e dell’indifferenza verso i bisogni del prossimo,  per cui si è reso necessario, anzi vitale,  il richiamo alla misericordia per promuovere solidarietà e giustizia.

La mostra intende contribuire  a questo richiamo ai principi primari dell’umanità presentando le opere di artisti del passato ispirate alla misericordia. Sono espressioni che oggi possono apparire ingenue, ma che avevano un forte impatto popolare, quindi agivano positivamente nel cercare di orientare le masse religiose verso l’applicazione concreta di questi sani principi.

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Niccolò di Liberatore, detto l’Alunno,
“Gonfalone della confraternita
di Santa Maria del Vescovado”, 1462

Sono due i filoni artistici nei quali si manifestano le rappresentazioni pittoriche della misericordia che la mostra documenta con una trentina di opere:  la “Madonna della Misericordia”  veniva presentata con il manto aperto per accogliere i derelitti; le “Opere di Misericordia” riproducevano scene edificanti di aiuto al prossimo secondo i principi  evangelici.

La collocazione nei Musei Capitolini non fa rimpiangere quelle precedenti a Castel Sant’Angelo, sono due luoghi unici al mondo per le suggestioni storiche evocate, nei Musei capitolini poi ci sono le straordinarie gallerie di arte e di antichità romana.   All’altezza di tutto questo un allestimento sobrio con le singole opere incastonate in modo da far risaltare il fascino emanato dalle immagini della Madonna con il mantello aperto per abbracciare i devoti  in preghiera che chiedono protezione e le scene caritatevoli delle opere di misericordia nei diversi campi dell’assistenza ai bisognosi.

Le origini della Madonna della Misericordia

Le prime immagini della Madonna misericordiosa si trovano nell’iconografia pittorica dei secoli XIV e XV soprattutto tra le Marche e il Veneto, comprendendo Umbria, Toscana ed Emilia, ma le prime testimonianze letterarie risalgono al V e VI sec., seguite da altre del X sec. nel mondo bizantino in cui è descritta la “Madonna del mantello” con riferimento a Costantinopoli, immagine  portata poi in Occidente ad opera dei monaci francescani, benedettini e cistercensi ivi presenti.

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Pietro Vannucci, detto il Perugino,
“Madonna della Misericordia
con i santi Stefano e Girolamo e committenti” 1512-13  

 Il carattere votivo si diffuse con le pestilenze  allorché le comunità minacciate dalle epidemie portavano in processione i Gonfaloni con le immagini della Madonna in riti propiziatori molto sentiti; ciò avveniva anche quando il flagello era passato in segno di ringraziamento. Vengono citati i gonfaloni della bottega di Benedetto Bonfigli, con la Madonna che vigila dall’alto per la protezione dell’abitato rispettivamente di Perugia e Corciano  riprodotto in basso. 

Oltre che nel mondo religioso tale immagine veniva evocata anche dalle Confraternite laiche, in uno spirito di solidarietà, non solo riproducendola su miniature nei documenti ufficiali, ma dando apposite committenze, come quella della confraternita  di Borgo Sansepolcro  a Piero della Francesca per il celebre “Polittico della Misericordia”  destinato all’altare maggiore della chiesa  della confraternita, chiamata proprio “della Misericordia”. Le Confraternite  avevano assunto un ruolo primario nella carità espresso visivamente con il mantello aperto della Madonna come simbolo dell’accoglienza e della protezione. Ci viene in mente un’immagine  di attualità: la grande scultura di Giovanni Paolo II posta negli scorsi anni a Roma in Piazza dei Cinquecento, davanti alla Stazione Termini a lui dedicata, ha anch’essa l’ampio mantello aperto come simbolo di accoglienza. 

Nell’Italia centrale si diffusero immagini della Madonna della Misericordia con in braccio il Bambino benedicente, di ispirazione bizantina  con il velo tradizionale trasformato in pesante mantello:  il “pallium” derivava dal “maphorium”, reliquia protettiva  contro pestilenze e calamità venerata a Costantinopoli.  La  Madonna poteva avere anche la corona, come nel polittico di Piero della Francesca, con riferimento alla sua incoronazione e consacrazione sul trono di Cristo; figura in diversi dipinti in mostra con gli angeli che la pongono sulla sua testa, ne accresceva la devozione.

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Raffaello Botticini, “Madonna della Misericordia”,  1510-1515

In base al numero di coloro che si rifugiavano sotto il mantello, era “Mater omnium”  o “Mater paucorum”  fino a “Mater unius”, come nella “Pala della Vittoria”  di Andrea Mantegna al Louvre.

Con la fine del ‘400 venne sostituita dalla Madonna del Rosario, che aggiungeva il riferimento alla Passione di Cristo accrescendo la potestà protettiva anche contro le eresie, non c’era più l’ampio mantello ma i postulanti imploranti come nel dipinto di Caravaggio del 1607, un secolo dopo. 

I dipinti con la Madonna della Misericordia

Sono 7 i dipinti esposti che documentano la “Madonna della Misericordia”, dai primi decenni del XV, alla metà del XVI sec.

Il più antico è una “Madonna col Bambino e una famiglia di devoti”, dei primi decenni del ‘400, opera di un pittore senese,  un dipinto verticale su fondo rosso in cui non c’è ancora il mantello protettivo ma una coppia – di piccole dimensioni rispetto alla Vergine dominante – in posa supplice con un bimbo in braccio, il Bambino divino nella sinistra tiene un cardellino, con la destra benedice.  Rappresenta una forma privata di devozione, forse ex voto per la nascita del bambino o per la sua guarigione miracolosa, in forma di affresco sebbene sia tempera su tela, come si usava a Siena.

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Vincenzo Tamagni, “La Madonna della Misericordia” 1527

Il mantello aperto compare nel “Gonfalone della confraternita di Santa Maria del vescovado”, 1462, di Niccolò di Liberatore, detto l’Alunno, di Foligno. Sotto  al mantello, numerosi confratelli vestiti di bianco e in ginocchio, molto piccoli ammassati di profilo, con ai lati le figure di san Francesco e santa Chiara, di dimensioni intermedie rispetto alla maestosa Madonna cui fanno corona 6 piccoli serafini incorniciati in raggiere rosse, mentre due grandi angeli in volo su fondo azzurro la incoronano solennemente.  La tela è dipinta anche nel verso con tre santi vescovi con mitra e pastorale nella parte superiore e scene della vita di san Biagio,  uno dei santi vescovi.

Ugualmente incoronata da due angeli la “Madonna dei Raccomandati”, 1500-03, di Egidio di Cola da Orte,  però su uno sfondo d’oro, con uno schieramento di fedeli inginocchiati allineati frontalmente sotto il mantello tenuto largo dalle sue braccia protese come in un abbraccio;  davanti a tutti Alessandro VI  Borgia anche lui in ginocchio, con la tiara e i  paramenti. L’artista morì prima di terminare il dipinto, cosa che fu fatta dal figlio Egidio  e forse da Giovanni Antonio da Roma, come risulta da documenti rinvenuti nel 1991 che ne hanno facilitato l’attribuzione.

Meno solenne la “Madonna della Misericordia con i santi Stefano e Girolamo e committenti”, 1512-13, di Piero Vannucci, il Perugino – il più grande tra gli artisti di questa sezione – che accoglie sotto il manto con un gesto familiare, quasi volesse accarezzarne le teste, i due santi inginocchiati, dietro i quali si intravedono le piccole figure della coppia dei committenti. Anche qui due angeli in volo intorno alla sua testa, sullo sfondo del cielo azzurro, ma sono oranti e non la incoronano, in carattere con il tono confidenziale . L’opera ha vissuto vicende romanzesche in epoca recente, rubata nell’ottobre 1897, ritrovata in modo fortunoso in  Giamaica nel 1990, poi sottoposta a un restauro che ha portato a interessanti scoperte; un intervento di supporto ligneo ha consentito di rinforzarne il telaio ed esporla in mostra.

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  Jacopo Zanguidi, il Bettoja, “Madonna della Misericordia”, 1564

Resta abbastanza confidenziale la “Madonna della Misericordia”, 1510-15, quindi contemporanea a quella ora citata, del fiorentino  Raffaello Botticini,  sebbene due piccoli cherubini nudi come dei putti su due nubi nel cielo azzurro le pongano la corona sopra la testa, e due grandi angeli vestiti sollevino i due bordi del mantello molto largo sotto il quale è accolto un nutrito gruppo di devoti appartenente alla stessa famiglia, la coppia di progenitori committenti in primo piano  e, dietro,  i maschi a sinistra e le femmine a destra. In un primo tempo fu ritenuta “una “bellissima imitazione di Raffaello” e attribuita al concittadino Innocenzo Falcucci.

La solennità torna con “La Madonna della Misericordia”, 1527,  di Vincenzo Tamagni, da San Gimignano, due grandi angeli le mettono la corona in testa su sfondo d’oro, mentre due piccoli cherubini-putti  tengono allargata l’ampia veste a mantello, ricamata con gigli dorati simbolo della castità, sotto la quale vengono accolti i confratelli e le consorelle della Compagnia dei Bianchi di cui vestono le caratteristiche cappe – non divisi per sessi come nel dipinto precedente –  inginocchiati  a mani giunte in adorazione. Potrebbe essere stato lo stendardo della Confraternita.

Di nuovo confidenziale la “Madonna della Misericordia”, 1564,  di Jacopo Gianguidi detto il Bertoja, da Parma: allarga le braccia, mentre il mantello quasi non  si vede, per cui il motivo dell’abbraccio supera quello dell’accoglienza. In alto,  le fanno onore due frati domenicani, in basso si vedono le figure dei confratelli  inginocchiati  con le mani giunte in preghiera in una visione prospettica che le colloca  di profilo  in  successione; è la devozione  espressa in modo semplice, del resto era il gonfalone della  Confraternita,  perciò nel retro della tela  ci sono altre figure come abbiamo visto in precedenza. La cornice ricca di elementi floreali,  la monumentalità dei personaggi, e altre peculiarità riportano al Parmigianino dal quale fu influenzato notevolmente.

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inoltre, Guido Reni, “La Carità cristiana”,1604-07,  “Dar da mangiare agli affamati”

Le 7 opere di Misericordia, le origini

Alla sezione dedicata alla Madonna della Misericordia segue quella con i dipinti su “Le sette opere di Misericordia”, sono circa 20 opere, con una scultura, molto rappresentative, anche se non c’è il celebre quadro di Caravaggio che le riunisce in un’unica scena composita nella grande tela.

Dio è presentato anche nell’Antico Testamento come essere misericordioso che chiede all’uomo di esserlo altrettanto, nel libro di Isaia vengono già declinate le opere di misericordia; nel Nuovo Testamento  i messaggi sono espliciti,  dal Vangelo di Luca (“Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso”), al passo delle Beatitudini del Vangelo di Matteo (“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”) nel quale sono indicate le opere di misericordia corporali: “Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero  e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi”; sono sei opere, e ad esse si riferiscono le espressioni artistiche dei sec. XI-XIII;  sarà aggiunta la settima, dal libro di Tobia, seppellire i morti, che figura nei dipinti dal sec. XIV. 

Le opere di misericordia cominciano ad essere raffigurate nel Medioevo,  nei codici miniati e nei portali delle Basiliche e Abbazie, con il  portale della Madonna della Salute di Viterbo del 1330 il loro numero sale a 7. Le due massime espressioni si pongono a distanza di 4 secoli, la prima è la “Porta del Redentore”  nel Battistero di Parma di Benedetto Antelami (1216), l’ultima la già citata “Le Sette Opere di Misericordia” del Pio Monte della Misericordia di Napoli, di Caravaggio.

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Sebastiano Conca,  “Cristo e la Samaritana al pozzo” , 1710 
“Dar da bere agli assetati”

Sono 2 i dipinti in mostra che raffigurano più opere di misericordia, gli altri illustrano momenti particolari in cui si esprime in vari modi il sentimento di carità verso il prossimo.  La carità è una delle virtù teologali, insieme a fede e speranza, e secondo San Paolo e Sant’Agostino è insita nella legge di Cristo  per l’identità tra l’Amore di Dio e l’amore nei confronti degli altri. San Paolo nella lettera ai Corinzi  pone la carità al culmine delle virtù: “Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità”. Se manca, a nulla valgono tutti i beni del mondo.

Le opere di misericordia e la carità nella galleria artistica della mostra

Alla metà del XV sec.  risalgono i 4 affreschi staccati del parmense Bertolino de’ Grossi  con le “Opere di misericordia: Dar da mangiare agli affamati, Dar da bere agli assetati, Accogliere i pellegrini, Soccorrere gli infermi”, sono andati perduti gli affreschi con le ultime tre opere. Vengono dalla sede di una storica confraternita di Parma che si dedicava a iniziative assistenziali, Le composizioni seguono lo stesso schema, a sinistra il benefattore, a destra gli assistiti, in primo piano i due principali, poi gli altri dietro i quali c’è l’immagine di Cristo benedicente; gli atteggiamenti e le posizioni sono simili, è una narrazione che si diffonde nei particolari.

L’altra opera  sul tema declinato in modo plurimo è costituita da 2 tele, “Dar da bere agli assetati”, 1682, e “Dar da mangiare agli affamati”, 1683, del lombardo  Antonio Cifrondi,  dal convento dei frati minori cappuccini di Bergamo, con una similitudine di impostazione nei soggetti e nei gesti; si ritiene che in origine ci fossero altri 5 dipinti con le restanti opere di misericordia.

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Vincenzo Tamagni, “San Martino divide il mantello col povero” 1505-10, “Vestire gli ignudi”.  

Sono 2 anche le opere genericamente riferite alla  carità. “La carità cristiana”, 1604-1607, del grande Guido Reni, è resa in un tondo da una giovane donna di profilo a cui si aggrappano tre bimbi nudi, interpretati come la moltiplicazione nelle tre virtù teologali, fede, speranza e carità,  in un’atmosfera caravaggesca. Mentre la “Carità romana (Cimone e Pera)”, 1615, di Bartolomeo Manfredi, raffigura la celebre scena – che si trova sulla destra del dipinto di Caravaggio sulle 7 opere di  misericordia – di Pera, l’eroina che porge il seno al padre Cimone ammanettato in carcere, per nutrirlo e salvarlo dalla morte per fame, in un contesto reso drammatico da luci e ombre.

La carità evangelica di Cristo con i samaritani è resa da 2 dipinti:  nel  “Buon Samaritano”, 1639-65, di Mattia Preti, di Taverna, si vede come cura amorevolmente il  corpo di Cristo ferito, disteso nell’ombra  in un’atmosfera drammatica; in “Cristo e la Samaritana nel pozzo”, 1710, di Sebastiano Conca, di Gaeta, Gesù viene dissetato tra ruderi e case in un paesaggio agreste.

Sulla Passione di Cristo 2 dipinti che mostrano la cura amorevole dopo la Crocifissione. “Deposizione”, 1815, del palermitano Francesco Marino, raffigura la scena con grande efficacia cromatica, con il biancore del corpo di Cristo e del lenzuolo al centro, la Madonna e le sante donne, il centurione e gli altri soldati ai lati appena rischiarati dalla luce in pieno equilibrio compositivo. Anche “Trasporto di Cristo nel sepolcro”, 1605-15, della Cerchia romana dei Carracci,  dà un’immagine composta della settima opera misericordiosa, “seppellire i morti”, senza eccessi drammatici, in modo da fornire un modello altissimo suscitando l’imitazione  nell’onorare i defunti.

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Domenico Lenzi, “Specchio Umano”, 1335-47, “Alloggiare i pellegrini”

Le  opere di misericordia di singoli santi 

Sono 8 i dipinti esposti nella mostra che raffigurano le opere di misericordia  di singoli santi.

In 2 di essi vengono sfamati gli affamati. “La carità di Sant’Elisabetta d’Ungheria”, 1610-11, del modenese  Bartolomeo Schedono,  ritrae la santa – con la testa fasciata dal turbante per nascondere i capelli biondi e sfuggire ai fulmini del marito tutt’altro che compassionevole –  che come ogni notte distribuisce il pane ai poveri e agli infermi;  luci e ombre creano un’atmosfera suggestiva. Gabriele d’Annunzio volle che l’immagine di questa santa fosse riprodotta nel soffitto della Stanza del Lebbroso al Vittoriale dopo aver avuto una visione in cui lo assisteva insieme ad altre sante donne.  Anche “San Giuseppe da Leonessa distribuisce il pane ai poveri”, nel  dipinto, 1736,  del romano Placido Costanzi,in un esterno tipicamente romano di tono popolare nella costruzione di sfondo e nelle figure intorno al santo, tra cui il bambino e il portatore del vassoio con i pani, e di tono barocco nei due cherubini che parlano tra loro sulla nuvoletta sopra al santo.

Altri 2 dipinti per la scena simbolo  dell’azione caritatevole, “vestire gli ignudi”, entrambi intitolati “San Martino divide il mantello col povero“. Il dipinto del 1505-10 di  Vincenzo Tamagni, di san Gimignano, era la parte anteriore dello stendardo della Compagnia di san Martino recante sul lato opposto l’apparizione della Madonna al beato Bartolo e a santa Fina, la scena si svolge su uno sfondo spoglio e irreale, con le figure statiche come fossero bloccate; l’altorilievo del 1595-98 di Piero Bernini, di Sesto Fiorentino,  che proviene dal frontone del portale d’ingresso della Certosa di san Martino, è più dinamico ed espressivo  nel gesto con cui, mentre il cavallo scalpita, si gira per protendersi verso il povero che  afferra i lembi del mantello con la forza della disperazione.

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Mattia Preti, “Buon Samaritano”, 1639-45, “Visitare gli infermi”

Sui  poveri  c’è anche il dipinto  “San Lorenzo distribuisce i beni della chiesa ai poveri”, 1615-20, del genovese Bernardo Strozzi: in un’atmosfera caravaggesca si incontrano la figura del giovane santo a destra e le figure di due vecchi a sinistra nel momento culminante della consegna dei beni ai poveri per sottrarli ai persecutori che li reclamavano finché lo portarono al martirio. Si tratta di oggetti rituali, come il pastorale, il calice e la patema, che passano in un gioco di mani in cui la mano destra del santo si riflette nella sinistra del vecchio, e così per la mano della vecchia. 

Agli interventi salvifici dei santi verso gli ammalati sono dedicati 2 dipinti: “San Giovanni di Dio guarisce gli appestati”, 1680,  del romano Giovanni Battista Leonardi, mostra il santo con l’abito talare mentre si china su un appestato disteso nudo in una specie di corsia di ospedale, con tante figure, di sfondo un arco e sopra un lucernario. “San Camillo De Lellis mette in salvo gli ammalati dell’ospedale di santo Spirito in Sassa durante l’inondazione del Tevere”, 1746, del francese Pierre Subleyras, presenta una scena con molte analogie, anche qui si svolge in una corsia, sembra la corsia sistina dell’ospedale Santo Spirito,  con il biancore dei lenzuoli, mentre i malati vengono sollevati per portarli in salvo nella concitazione dovuta all’emergenza.  

Sempre 2 i dipinti su altri destinatari delle opere di misericordia, i reclusi in carcere. “San Leonardo libera un carcerato”, 1698,  del reatino Antonio Gherardi, ritrae due figure affiancate molto diverse, il santo in piedi con la veste talare che con la mano sinistra stringe al polso il carcerato seduto a petto nudo, e con la mano destra gli indica la via per la libertà, a terra i ceppi divelti, pane e acqua. Mentre “Luisa Sanfelice in carcere”, 1874, di Gioacchino Toma,  presenta un momento delle tormentate vicende dell’eroina, mentre nella cella prepara il corredino per il nascituro,  un’immagine tranquilla resa drammatica dalla luce che piove dall’alto e rende l’ambiente livido,  considerando il triste destino della donna giustiziata l’11 settembre del 1800.

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Gioacchino Toma, “Luisa San Felice in carcere”, 1874, “Visitare i carcerati”

Oltre ai dipinti citati finora, in mostra sono esposte delle miniature e una scultura.

Le 4 miniature, tratte da un manoscritto membranaceo noto con il titolo “Specchio umano”, 1335-37, del fiorentino Domenico Lenzi,  in cui ne sono contenute nove, raffigurano, con notevole vivacità narrativa e nitidezza cromatica, la cacciata da Siena dei poveri accolti e sfamati a Firenze, e Orsanmichele in periodo di carestia, quindi con un riferimento preciso al contesto in cui si aveva bisogno di misericordia e veniva esercitata a livello non soltanto individuale ma collettivo.

Infine la scultura, “San Rocco”, 1793, di oltre un metro e mezzo, in argento cesellato e rame dorato opera dello scultore napoletano Giuseppe Sanmartino con l’argentiere Biagio Giordano, dalla Concattedrale Ruvo di Puglia, ritenuta tra le più significative dell’argenteria meridionale, definita di “straordinaria bellezza” da Elio Catello, e con riferimento all’autore, “una delle sue opere più delicate e ricche di sentimento”. Il santo è rappresentato come viandante con i simboli del pellegrinaggio di fede verso Compostela, e mostra i segni della peste sulla gamba; il protagonista dell’opera di misericordia è il cane, che lo accompagna sempre nell’iconografia, è  seduto ai suoi piedi con una pagnotta tra i denti che richiama la cura  del fedele animale per il santo  malato e abbandonato da tutti, che sfamava portandogli ogni giorno il pane preso alla mensa di un ricco signore di Piacenza.   

San Rocco è venerato in modo particolare in molti paesi del Centro-sud d’Italia, tra cui il nostro paese natale, Pietracamela, che lo festeggia il 16 agosto con una processione accompagnata dal suono dei tamburi a ricordo dell’antica tradizione in cui la percussione itinerante tra i vicoli si protraeva per l’intera giornata. Con questo ricordo personale, unito all’immagine rassicurante del santo, ci piace concludere la visita alla coinvolgente  galleria artistica dedicata alla misericordia.

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Francesco Manno, “Deposizione”, 1815, “Seppellire i morti”

Info

Musei Capitolini, Piazza del Campidoglio, Roma. Tutti i giorni dalle 9, 30 alle 19,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 15, ridotto euro 12, gratuità alle categorie legittimate, per i residenti la prima domenica di ogni mese. Tel.06.0608. Catalogo “La Misericordia nell’Arte. Itinerario Giubilare tra i Capolavori dei grandi Artisti italiani” a cura di Maria Grazia Bernardini e Mario Lolli Ghetti, Gangemi Editore, maggio 2016, pp. 144, formato 22 x 22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le precedenti mostre del Centro Europeo del Turismo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, su “Arte e Stato”  20, 25,  30 ottobre 2015;  “Papi della memoria”  15 ottobre 2012,   “Arte salvata nel 150°”  1° giugno 2013, “Archeologia, capolavori recuperati a Castel Sant’Angelo” 22 luglio 2013; in cultura.inabruzzo, “Tesori invisibili”  10 luglio 2009  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su un altro sito).

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Le immagini sono state tratte dal Catalogo, si ringrazia l’Editore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità concessa. Le prime 6 immagini sono sulla “Madonna della Misericordia”, le successive 7 sulle singole opere di misericordia, l’ultima su 4 opere di misericordia. In apertura,  Egidio Cola  da Orte, “Madonna dei Raccomandati” 1500-1503; seguono, Pittore senese dei primi decenni del Quattrocento, “Madonna col Bambino e una famiglia di devoti”, prima metà del ‘400; e  Niccolò di Liberatore, detto l’Alunno, “Gonfalone della confraternita di Santa Maria del Vescovado” 1462; poi,  Pietro Vannucci, detto il Perugino, “Madonna della Misericordia con i santi Stefano e Girolamo e committenti” 1512-13, e  Raffaello Botticini, “Madonna della Misericordia”  1510-1515; quindi, Vincenzo Tamagni, “La Madonna della Misericordia” 1527, e   Jacopo Zanguidi, il Bettoja, “Madonna della Misericordia” 1564; inoltre, Guido Reni, “La Carità cristiana” 1604-07  “Dar da mangiare agli affamati”, e Sebastiano Conca,  “Cristo e la Samaritana al pozzo” 1710  “Dar da bere agli assetati”; ancora, Vincenzo Tamagni, “San Martino divide il mantello col povero” 1505-10 “Vestire gli ignudi”, e Domenico Lenzi, “Specchio Umano” 1335-47 “Alloggiare i pellegrini”; infine, Mattia Preti, Buon Samaritano” 1639-45 “Visitare gli infermi”, e Gioacchino Toma, “Luisa San Felice in carcere”  1874 “Visitare i carcerati”; conclude, Francesco Manno, “Deposizione”  1815 “Seppellire i morti” e, in chiusura, Bertolino de’ Grossi, “Opere di misericordia: Dar da mangiare agli affamati, Dar da bere agli assetati, Accogliere i pellegrini, Soccorrere gli infermi” metà del XV sec.  

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Bertolino de’ Grossi, “Opere di misericordia: Dar da mangiare agli affamati, Dar da bere agli assetati, Accogliere i pellegrini, Soccorrere gli infermi”, metà del XV sec

Guttuso, la “Crocifissione”, tormento ed estasi, al Quirinale

di Romano Maria Levante

Termina la nostra visita alla mostra “Guttuso. Inquietudine di un realismo”, al Palazzo del Quirinale nella Galleria di Alessandro VII dal 10 settembre al 9 ottobre 2016 che va da un’opera di contenuto umano e  spirituale come “Spes contra Spem”, ad  opere su temi religiosi, biblici ed evangelici in un percorso che culmina con la “Crocifissione”, il grande dipinto del 1940-41  a cui è dedicato questo terzo articolo conclusivo. Organizzata dagli “Archivi Guttuso”, con “Civita”, ne sono curatori Fabio Carapezza Guttuso, presidente degli Archivi e  Crispino Valenziano, presidente della Accademia Teologica ‘via pulchritudinis’; hanno curato pure il Catalogo di De Luca Edtori d’Arte. Di Crispino Valenziano anche il libro “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio” , De Luca Editori d’Arte e Libreria Editrice Vaticana, sulle opere viste in chiave biblica ed evangelica e interpretate in base agli scritti dell’artista e alle sue confidenze.

Dopo aver ripercorso l’itinerario artistico, civile e umano di Guttuso, anche in prospettiva religiosa, e aver commentato le opere presentate nella mostra, con la variante di essere partiti da “Spes contra Spem” che nella visita si incontra al termine dell’esposizione, siamo giunti al culmine. La  rappresentazione biblica ed evangelica, dalla Creazione, Adamo,  Caino e Abele al legno della Croce, dalla fuga in Egitto all’ingresso a Gerusalemme, dalla conversione di Saulo alla Passione di Cristo, deriso e flagellato, non poteva che concludersi con la “Crocifissione”.

La sua gestazione è stata tormentata, come ha affermato l’artista. Prima aveva pensato di ambientare la scena altamente drammatica in un luogo affollato, poi cambiò idea e si orientò su un luogo chiuso, una stanza di tortura metafora di “come si uccide nel tempo moderno”, realizzando  in conformità  di tale visione gli studi preparatori del 1935 che abbiamo commentato in precedenza. Infine la decisione finale, un luogo aperto ma non affollato,  con il Cristo crocifisso quasi compresso dalle croci dei due ladroni poste in prospettiva ravvicinata, tra le “tre Marie” e gli aguzzini con i loro cavalli. Lui stesso lo  spiega così: “Cambiai idea, pensai ai torturati, ai martiri, agli anni della guerra”, non più come tormento individuale ma collettivo, universale, “infine mi venne l’idea di piantare la croce all’aperto”.

I nuovi “Studi per la Crocifissione”, dopo gli studi del 1935,  preparano la sua visione definitiva, ma gradualmente. Infatti, nei due studi appena tratteggiati del 1939, che non sono in mostra,  in uno c’è in primo piano il cavallo bianco con cavaliere che troveremo, in diversa positura, nell’opera finita; nell’altro la sola figura del Cristo in croce isolata dal contesto, di foggia michelangiolesca, con sullo sfondo il motivo del paese bombardato dietro un ponte, presente nell’opera finita.

Nei due studi molto elaborati e a colori del 1940, che vediamo esposti,  l’intera composizione si va delineando, in uno di essi figurano sia pure con varianti di positura e forma, i principali elementi, le tre croci quasi giustapposte  con Cristo e i due ladroni,  il  cavaliere a torso nudo sul cavallo bianco e l’altro sul cavallo scuro, la donna nuda  protesa verso la  Croce.

Siamo giunti così all’opera clou della mostra e anche della visione cristiana di Guttuso, strettamente collegata  alla sua sensibilità umana verso la sofferenza e alla sua ribellione all’ingiustizia comunque e dovunque perpetrata, anche al male derivante dalla natura. Nell’accingersi a un’opera così emblematica ebbe a dire: “Questo è tempo di guerre, gas, forche,  decapitazioni. Voglio dipingere questo supplizio di Cristo come una scena d’oggi… Simbolo di tutti coloro che subiscono oltraggio,carcere, tortura per le loro idee… Le croci, le forche… i soldati, le donne scarmigliate, discinte piangenti”.

L’assimilazione, qui implicita, è resa esplicita venti anni dopo nello “Studio per condannati a morte“, 1960,  anch’esso esposto, in cui il Crocifisso di Cristo è bene in vista ma confuso tra immagini di esecuzioni e torture di ogni tipo, dalle forche con gli impiccati in alto a sinistra alle sedie elettriche al centro, o almeno sembrano tali in una moltiplicazione quasi alla Warhol, alle fucilazioni con i corpi che cadono in avanti, ai torturati e massacrati ammucchiati a terra.  Una versione precedente è del 1956, anno in cui abbiamo “Cristo zolfataro”, immagine di un crocifisso senza croce ma con le braccia aperte in alto e il volto di un povero minatore qualunque.  

La Crocifissione, un forte simbolismo che suscitò scandalo

Ed eccoci alla “Crocifissione” , 1940-41,nella versione finale, una grande composizione di 2 metri per 2, che, a differenza degli studi preparatori, è molto netta e precisa nei contorni e nei colori contrapposti. Non solo la scena si svolge all’aperto, ma in lontananza in alto a sinistra è delineato l’abitato di una città, sembra bombardato, separato dalla scena del supplizio da un ponte, dalla cui sagoma si riconosce il Ponte dell’Ammiraglio della sua Palermo, quasi a volerla separare dal crimine ma nel contempo a volerne marcare il coinvolgimento come vittima degli orrori della guerra.  Dell’iniziale idea dell’interno resta il tavolino in primo piano con gli strumenti di tortura.

Colpiscono i corpi nudi di quasi tutte le figure della composizione, ad eccezione della Madre, semicoperta da un cavallo,  con le mani sul viso. Sono nudi i due carnefici, uno sceso da cavallo con la tunica rossa davanti, nella sinistra tiene la lancia con cui ha trafitto il corpo di Cristo, l’altro in groppa a un cavallo blu con nella destra una canna verde forse emblema di comando; delle “tre Marie” solo  la Madre di Cristo ha addosso uno “straccio” celeste, le altre due – una delle quali è la Maddalena – sono nude, una a braccia alzate, semicoperta dalla croce di un ladrone, l’altra in piedi,  protesa versa la Croce, che asciuga il sudore e il sangue dal corpo di Cristo crocifisso.

Perché questi nudi che suscitarono tanto scandalo quasi fosse una volontaria profanazione di un momento di così intensa drammaticità, il più alto nell’iconografia cristiana?  E’ facile rispondere, avendo a mente che Guttuso ha voluto dare un valore simbolico al sacrificio di Cristo come espressione di tutte le ingiustizie e le sofferenze, le sopraffazioni e i mali del mondo: le vesti avrebbero limitato il riferimento a un determinato periodo storico, spogliati dei vestiti con i loro corpi si identificano nell’umanità senza tempo e senza luogo, nelle sue opposte espressioni, il sacrificio e la pietà da un lato, la barbarie e l’ottusa violenza dall’altro.

Guttuso ha raccontato la genesi dell’opera, e riguardo ai nudi dice chiaramente: “Pensai che i personaggi non dovessero  vestire costumi, né storici (romano/palestinesi) né contemporanei (Amleto in frak!).  Per dare alla scena atemporalità in modo che fosse antica e contemporanea insieme le figure seminude o semicoperte da qualche accorgimento”: così sono universali.

Dall’ostracismo religiose e politico alla svolta di Paolo VI

All’epoca, l’opera che ebbe il secondo riconoscimento al IV Premio Bergamo del 1942 suscitò scalpore,  il puritanesimo e certa ottusità clericale si saldava con le faide fasciste accesesi tra il Premio Cremona, caro a Farinacci perché in linea con la mistica fascista e la propaganda di regime,  e il Premio Bergamo, che lasciava autonomia agli artisti e per questo sostenuto da Bottai fautore della libertà dell’arte.  Si parlò di “scandalo fino al sacrilegio” e di “oscenità”, eppure nel 1931 Guttuso era stato premiato alla “Mostra Internazionale d’Arte Sacra Cristiana” a Padova, per due opere di quell’anno, “Flagellazione” e “San Sebastiano”, cosa che rende ancora più aberrante tale reazione scomposta.  La vicenda viene fatta rivivere da  Fabio Carapezza Guttuso nella sua accurata ricostruzione “La Crocifissione. La vita di un quadro”, una cronaca precisa di fatti che oggi sembrano paradossali, eppure sono veri, fanno parte dell’album di famiglia del nostro paese.  

Vengono citati, tra gli altri,  due articoli dell'”Osservatore Romano”, l’organo vaticano: in uno si parlava di “orrenda e oscena figurazione”, nell’altro, dell’arcivescovo Celso Costantini presidente della Pontificia Commissione per l’Arte Sacra, di “baccanale orgiastico”; e alcuni articoli della stampa laica che prendevano di punta le figure femminili, sulla Maddalena, la rivista “Architrave” parla di “sensualità ingrata”, la “Stampa”  di “pesante carnalismo nudo”,  nel “Giornale d’Italia” di nuovo interviene l’arcivescovo Costantini sulle “tre Marie ritratte nell’adamitica realtà della modella di posa”. In più, oltre all’accusa di oscenità, quella di “irriverenza” nel relegare in secondo piano il Cristo e nel rappresentarlo senza aureola, nel posizionare le croci una a ridosso dell’altra e non allineate a distanza,  nell'”offensiva di colori, il contrario del lutto”, secondo l’espressione di Ugo Ojetti, peraltro critico interessato in quanto sostenitore del Premio Cremona, tutti elementi ritenuti così gravi da suscitare indignazione nei benpensanti  e “una sorta di scomunica” ecclesiale, equivalente a una messa all’Indice.

A livello politico, sull’apertura di Bottai prevalse l’intransigenza ideologica di Farinacci sotto la spinta delle  pressioni clericali, e la manifestazione fu chiusa in anticipo;  seguì addirittura la fine del Premio Bergamo, che dopo quattro anni di regolasre svolgimento da quell’anno non fu più ripetuto.

Né l’ostracismo si arrestò, dieci anni dopo, nel 1952,  il Patriarca di Venezia Agostini intervenne perché il quadro non fosse presentato alla Biennale nella sala dedicata a Guttuso, il quale lamentò che fu rimosso poco prima dell’apertura,  nel 1959 per intervento del Vaticano fu escluso dall’8^ Quadriennale di Roma, mentre nessuna opposizione ci fu a Milano da parte del cardinale Montini all’esposizione alla galleria “Il Milione”.

Montini, divenuto papa Paolo VI, incontrò Guttuso nel 1973 all’inaugurazione della Collezione Religiosa di Arte Moderna ai Musei Vaticani, cui l’artista donò tre opere e non la Crocifissione che sarebbe stata accolta ma previa copertura del nudi, cosa inaccettabile per l’artista che rifiutò di essere il “braghettone di me stssso”, e per l’arte. Già prima di questo incontro che coincise con la coraggiosa apertura del papa all’arte moderna, c’erano state prese di posizione nuove del mondo cattolico, da quella dell’intellettuale Testori, che respingendo le critiche moralistiche aveva definito l’opera  “un’unica, sussultante spianata espressiva”, a quella di padre Turoldo che nel 1969  aveva parlato di “Guttuso come un narratore biblico, di una Bibbia in fiamme mai finita che è la nostra storia”.

L’ulteriore evoluzione nei rapporti e nell’ispirazione artistica

Rievocate queste vicende, non possiamo non ricordare che l’artista, sebbene avesse una notevole vis polemica  e non si tirasse mai indietro  dalle discussioni quanto più accese fossero, non reagì come era solito fare dinanzi agli attacchi, tanto più scriteriati come quello alla “Crocifissione”. Si risentì piuttosto del dolore arrecato a sua madre fervente religiosa dal prete del paese che le aveva presentato la filippica dell’ “Osservatore Romano”, mentre da parte sua scontava ancora la gestione travagliata dell’opera, che ha poi definito “quadro ibrido come ibridi e incerti erano i miei sentimenti in quel momento”,  ma aggiungendo:  “Il quadro fece urlare i vescovi che  ci videro un sacrilegio, c’era caso mai  il contrario”.   Ne fanno fede i suoi intenti sinceri: “Io avevo inteso presentare il supplizio di un uomo giusto, dando stile e sentimenti moderni a quella rappresdentazione…. La nudità dei personaggi non voleva essere intenzione di scandalo”.

Nell’unica intervista di quel periodo disse: “Il mio quadro certo non va d’accordo con i canoni della iconografia religiosa. Ma non per questo è meno religioso, nego poi assolutamente che sia un quadro empio. Ho lavorato con serietà su un tema alto e difficile, ma pochi hanno tenuto conto di ciò”.   

Dopo che  Paolo VI lo ebbe accolto così benevolmente, e con lui l’arte moderna sui temi religiosi, il segretario del pontefice,  mons. Macchi, diventò frequentatore abituale di Palazzo del Grillo, e sulla sua scia vi si recarono autorevoli visitatori come i cardinali Lercaro e Pappalardo, mons. Valenziano, che gli affiderà l’illustrazione dell’Evangeliario, il cardinale Angelini che fu stabile frequentatore domenicale della sua casa dove celebrò addirittura una messa, su richiesta dell’artista, nel dicembre 1986, l’anno in cui Guttuso predispose due nuovi “Studi per la Crocifissione”, esposti in mostra.

Sono ben diversi dagli studi preparatori  del 1935, 1939 e 1940, che abbiamo commentato in precedenza: si vedono  poche figure assorte nel nuovo studio a colori acrilici, con il Crocifisso isolato al centro appena tratteggiato,  una verde vallata di sfondo; mentre lo studio in inchiostro di china delinea le immagini con segni sottili, le due croci come tronchi contorti con i corpi dei suppliziati protesi verso l’alto, e due figure femminili, una in piedi tra le due croci, l’altra seduta come in attesa, sullo sfondo il lontano orizzonte appena delineato.  Tanta pacatezza e serenità, nessun simbolismo ribelle e angoscioso, il raggiungimento forse della pace interiore, l’estasi dopo il tormento. Purtroppo non ha potuto creare la nuova “Crocifissione”  come sembra delineata da questi ultimi studi, e del resto non ha mai abbandonato quella così travagliata del 1940-41. 

Guttuso morirà il mese dopo  aver assistito alla messa di Angelini “sotto quel quadro”, rivela Carapezza Guttuso riferendosi alla “Crocifissione”; di qui le illazioni sulla conversione.

E pensare che il vescovo Bernareggi aveva vietato nel 1942  “a tutto il clero della diocesi e a quello di passaggio”  di visitare la mostra del Premio Bergamo, annunciando che se lo avessero fatto sarebbero stati sospesi “a divinis”! Guttuso dirà: “Fui molto dispiaciuto e mortificato. Avevo dipinto la Crocifissione con animo realmente religioso che avevo trasmesso attraverso un immenso rispetto per la figura del Suppliziato… Nonostante ciò mi piombò addosso una sorta di scomunica”. E ancora: “La mia ispirazione era religiosa. Ho dipinto questo quadro con animo religioso… Per questo mio pensiero religioso fui accusato di oltraggio alla religione”.  Amarezza, non  polemica.

Un’analogia significativa, in cui  gli estremi si toccano

Una vicenda per molti versi analoga era stata vissuta da Gabriele d’Annunzio per il suo “Martirio di San Sebastiano” – che ispirò anche l’opera di Guttuso del 1935 – quando prima dello rappresentazione a Parigi il 22 maggio 2011 e della stessa pubblicazione giunse la pronuncia del vescovo della capitale francese, mons. Amette che proibiva ai cattolici di assistere allo spettacolo musicato da Debussy, dopo la  messa all’Indice di tutte  le opere del Poeta avvenuta l’8 maggio. D’Annunzio fu molto colpito dalla condanna, e dichiarò:  “Nessuna opera è più propriamente mistica e più semplicemente ortodossa della mia… vi è continua la presenza invisibile di Cristo”. Per poi aggiungere: “Ed ora, proprio quando il mio spirito si volge al cristianesimo, quando sto realizzando il mio sogno, accarezzato per molti anni, di esprimere tutta la mia fede, ora si vieta il  San Sebastiano”.  

Ai divieti ecclesiastici seguirono condanne dei benpensanti per i due grandi personaggi del nostro ‘900, opposti sul piano politico e umano, ma accomunati nell’incomprensione della loro arte altamente ispirata da parte di chi conservava una visione oscurantista e ristretta della religione, chiusa alle allegorie e ai simbolismi; e accomunati dal fatto che se il cardinale Angelini visitò Guttuso nell’ultima fase della sua vita, il parroco di Gardone Riviera don Fava sulla morte di D’Annunzio disse “io corsi al Vittoriale ‘chiamato'”. Per entrambi vi fu il funerale religioso, tra l’altro le immagini di quello di D’Annunzio con i preti in cotta bianca e ostensorio davanti al feretro recante impressa la croce furono a lungo nascoste. Comunque anche per Guttuso valgono le parole che disse Piero Bargellini a questo proposito  per  D’Annunzio: “Un mistero che l’uomo si è portato nella morte”.

Ricordiamo, collegandoli  a questo mistero, gli “Studi per la Crocifissione” del 1986,  segno che  intendeva realizzarne un’altra,  “in limine mortis”, e questa volta, lo abbiamo visto dai bozzetti esposti in mostra, senza gli arditi contenuti simbolici delle prime Crocifissioni. La scena è di grande compostezza e  purezza calligrafica, pervasa di serenità forse rassegnata ma pacata, come se dai dubbi e dai contrasti dei dipinti tra il 1935 e il 1940 l’artista dopo mezzo secolo avesse raggiunto una  chiarezza mentale e una serenità spirituale, passando dal  tormento esistenziale all’estasi contemplativa. 

La religiosità dell’opera d’arte e dell’artista

Siamo al termine di questa carrellata sulle opere in tema religioso, con il viatico di Crispino Valenziano, impagabile non solo sul piano spirituale e artistico ma anche sul piano della testimonianza diretta delle confidenze, quasi confessioni, dell’artista che si unisce a quella di Fabio Carapezza Guttuso.

Alla fine del nostro percorso non possiamo non ricordare che lo stesso Guttuso mette in guardia implicitamente sull’interpretazione da dare a tali opere dicendo: “Che cos’è un tema religioso?  Un tema tratto dalla storia sacra, dall’Antico e Nuovo Testamento non dà necessariamente luogo a un’opera d’arte religiosa… La religiosità di un’opera d’arte è frutto non tanto del sentimento individuale, quanto della partecipazione a una generale [culturale/ecclesiale] concezione del mondo, della presenza nell’opera d’arte, del riflesso di questa  concezione”.

E più direttamente: “E’ la rispondenza naturale tra l’opera e quel che l’artista ha pensato e creduto; ma non soltanto: non esiste contenuto artistico che non sia storico, e cioè vivente, cioè pienamente rispondente alle idee e ai sentimenti dell’artista, e alle idee e ai sentimenti, alla concezione generale del mondo di cui l’artista partecipa”. E aggiunge: “Se un artista riesce a dare la sensazione di qualcosa che si nasconde dietro a ciò che si vede, compie  un’operazione religiosa in sé”. 

Queste due condizioni si realizzano nella sua arte. La sua concezione di vita, come abbiamo visto ripercorrendone  l’itinerario,  è animata da quei valori civili per i quali si è sempre battuto e ha tradotto in opere di denuncia di straordinario vigore pittorico, collimanti con la visione cristiana della vita, e l’impegno a cui il credente è chiamato.  Inoltre il suo realismo sociale ha cercato sempre di andare oltre l’apparenza, anche mediante la “deformitas”  contro i falsi abbellimenti.

Essendovi queste condizioni, è logico che lui dica: “Io ho un senso religioso dell’arte e della vita… Vuol dire che io credo nel mistero che pervade ogni cosa, la vita e il mondo”.  Ma quando si passa alla affermazioni sulla fede interviene la ragione: “Non potrei mai dire che sono ateo, perché mi sembrerebbe sbagliato affermarlo, Non potrei mai dire, tuttavia, che sono certo dell’esistenza di Dio”.  Conclude così: “E però ogni volta che tento di dire di non credere mi sento preso da un grande sgomento”, e e ripete “sono ateo, io non lo dirò mai. Non ne ho il coraggio e non troverei la forza per farlo”.

Sono confessioni che vanno anche oltre il “credeva di non credere” con cui  Valenziano riassume la sua visione interiore volta alla religiosità.

Grande merito della mostra, e del notevole approfondimento di mons. Valenziano, è aver riproposto anche questo lato nascosto di un grande artista e grande protagonista del ‘900.

Info

Palazzo del Quirinale, piazza del Quirinale, Roma, Galleria di Alessandro VII. Martedì-mercoledì, da venerdì a domenica, chiuso lunedì e giovedì, ore 10-16, ultima entrata ore 15,  ingresso gratuito su prenotazione al sito del Quirinale. Catalogo “Guttuso. Inquietudine di un realismo”, a cura di Fabio Carapezza Guttuso e Crispino Valenziano, De Luca Editori d’Arte, Roma, agosto 2016, pp.  72, formato 21 x 23. Sul tema è stato pubblicato anche il libro di  Crispino Valenziano, “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio”, De Luca Editori d’Arte e Libreria Editrice Vaticana, Roma, agosto 2016, pp. 150.  Da questo libro e dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 2 e 4 ottobre 2016.  Sempre in questo sito, cfr. i nostri articoli sulla mostra al Vittoriano nel centenario della nascita dell’artista,  25 e 30 gennaio 2013; i nostri 6 articoli sulla religiosità di  D’Annunzio il 12, 14, 16, 18, 20, 22  marzo 2013 e,  su tale tema, il nostro libro-inchiesta “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, dicembre 1996, pp. 528. 

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Le immagini sono tratte dal Catalogo,  tranne “Studio per Crocifissione” 1935  e “Crocifissione in una stanza”  presi dal libro di Valenziano, testi fornitici cortesemente da Fabio Carapezza Guttuso che ringraziamo. In apertura, “Crocifissione”, 1940-41; seguono, “Cristo deriso”, 1938, e “Studio per Crocifissione”, 1935; poi, “Crocifissione in una stanza”,1940, e “Mano del Crocifisso”, 1965; quindi, due “Studi per la Crocifissione”, 1940-41; inoltre, “Studio per Centomila Martiri”, 1960,e “Studi di Crocifissione”, 1986; in chiusura, “Autoritratto”, 1975, ripreso da Romano Maria Levante nella mostra del centenario.

Guttuso, la speranza e il messaggio cristiano, al Quirinale

di Romano Maria Levante

Entra nel vivo la nostra visita alla mostra “Guttuso. Inquietudine di un realismo”  che presenta nei saloni del  Palazzo del Quirinale  nella Galleria di Alessandro VII, dal 10 settembre al 9 ottobre 2016,  opere in materia religiosa, dai temi biblici a quelli evangelici, fino alla “Crocifissione”, con una serie di studi preparatori nella fase iniziale e in quella finale della vita; e opere di intensa umanità,  come “Spes contra Spem”. Organizzata dagli “Archivi Guttuso”, con “Civita”, curatori della mostra e del Catalogo di De Luca Edtori d’Arte, Fabio Carapezza Guttuso, presidente degli Archivi e   Crispino Valenziano, presidente della Accademia Teologica ‘via pulchritudinis’, autore anche del libro “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio” , De Luca Editori d’Arte Libreria Editrice Vaticana, con citazioni di testi sacri, testimonianze  e parole dell’artista.

Abbiamo ripercorso la vita e l’arte di Guttuso sottolineando i valori civili e umani e abbiamo cercato di dare le prime risposte alle domande sulla componente religiosa anche seguendo le linee interpretative suggerite da Claudio Strinati, lo storico dell’arte membro del Comitato scientifico.

Seguiamolo ancora nella sua interpretazione che vede nella “Crocifissione” e in “Spes contra Spem”, due poli estremi della visione artistica ed esistenziale di Guttuso.

Nella “Crocifissione” c’è una “sconnessione caotica e disordinata che sembra fare piazza pulita di qualunque senso di armonia, di ordine, di olimpica maestà” delle Crocifissioni classiche, “per farci entrare in una sorta di laboratorio dove un sentimento ecumenico e veramente evangelico si volge alle cose e alle persone con lo stesso sguardo casto e inquieto al contempo”. 

“Spes contra Spem” rappresenta invece la liberazione dai tormenti di un impegno civile e politico sempre alle prese con ingiustizie da combattere, sofferenze da denunciare, drammi sociali divenuti ispirazione e materia della sua arte con qualche sprazzo di vita quotidiana.

“Spes contra Spem”,  una finestra aperta sul futuro

In “Spes contra Spem”,  1975, una “sacra rappresentazione” corale e nel contempo intima, è raffigurato l’artista, come nell’altro quadro dello stesso anno esposto in mostra, “L’Atelier”, nel quale si ritrae per tre volte intento a dipingere, con una giubba di colore diverso ma la stessa attenzione nel dare la pennellata, in un moltiplicarsi pirandelliano che lo accosta agli enigmi del grande drammaturgo della sua terra.

Nel maestoso dipinto intitolato alla speranza anche nell’impossibile, lui si vede seduto ed anche in piedi vicino a Mimise nel lato domestico della scena, con gli oggetti del suo lavoro di artista e i suoi libri, dominati da un teschio ammonitore, con una tela ancora da dipingere e un quadro cubista invece finito di  Picasso, nell’altro lato gli amici che discutono, “tre filosofi” uno dei quali  ha in mano un libro dalla copertina rossa come la tela. Tutto in un’immobilità rotta dal movimento di una bambina che attraversa di corsa la scena davanti  a una tartaruga, anche qui la compresenza degli estremi come nei due quadri, uno da fare e l’altro finito, e nelle età contrapposte; e come si vede nell’incombere dall’alto dei mostri decorativi di una villa di Bagheria, un inferno che minaccia la quiete meditativa della scena, con i presenti inconsapevoli e la bambina innocente.

Nel quadro, ha detto lui stesso, “hanno trovato simboli di vita e di morte, sarà anche vero; e c’è malinconia, perché c’è solitudine; e c’è il personaggio-pittore che si racchiude in se stesso, nella propria cultura, nei propri ricordi”.  Ma la speranza può vincere nonostante tutto, ed è nella finestra aperta sulla luce e sul futuro, da una giovane donna nuda come la “Moglie di Lot”, 1968, altro suo quadro esposto in mostra, che deve resistere alla tentazione di chiuderla per guardarsi indietro, se vuole sfuggire alla sorte biblica sia pure in chiave moderna.

“Bisogna avere il coraggio di spalancarla quella finestra” ebbe a dire l’artista mentre dipingeva il quadro. E sull’inquietudine, che ha dato anche il titolo alla mostra, precisò:”C’è differenza tra la ‘inquietudine’ e la ‘inquietudine rassegnata’; tra la insoddisfazione e la ricerca nella speranza di cogliere la realtà e il gioco dell’intelligenza che può spingersi ovunque nella convinzione della propria speranza perduta”. Fino alla confessione anch’essa rivelatrice: “Leonardo Sciascia ha creato per me una formula che riassume un po’ la mia condizione: ‘roso dalla certezza’ – in contrapposizione a se stesso ‘roso dal dubbio’ – Ma che razza di certezza potrebbe essere quella che mi rode, se non fossi roso al dubbio?”.

Entrambi i tormenti, dunque, in questa testimonianza diretta riportata da Crispino Valenziano che ha coniato per lui l’espressione “credeva di non credere” evocandone il superamento in una visione superiore; e ha dedicato alle opere religiose in mostra una riflessione quanto mai profonda e intensa, oltre che colta,  punteggiata da confidenze ricevute direttamente da Guttuso nel corso di una frequentazione personale.

Le sue riflessioni ci accompagnano mentre commentiamo le opere religiose, come ci hanno accompagnato  nel commento a “Spes contra Spem”,  insieme alle osservazioni di Strinati su quest’opera e sul suo intero percorso artistico e di vita.

I temi religiosi si inseriscono, dunque, in un itinerario, che abbiamo rievocato, punteggiato da opere all’insegna di una forte tensione sociale, ispirate da una visione del mondo coerente con la sua vita in cui ha trovato ampio spazio l’impegno civile e politico intorno ai valori più alti dell’umanità, nella sensibilità verso i poveri e i sofferenti, nella lotta contro le ingiustizie e i mali del mondo: una visione del tutto coerente con quella  cristiana per cui la sua arte risulta pervasa da un’intima religiosità. Non nei termini riduttivi di un generico afflato spirituale, ma con un’attenzione precisa e costante al mondo della cristianità, dall’Antico al Nuovo Testamento, e soprattutto alla figura di Cristo.

Su queste opere Valenziano interpreta la  sua arte nel segno dei valori cristiani che sente intensamente al pari dei valori civili che non ne sono disgiunti.  Lo seguiremo in parte, il nostro percorso inizia come il suo dalle origini, poi se ne distacca passando dalle opere su temi biblici a quelle su temi evangelici, fino alle opere ispirate alla passione e morte di Cristo con al culmine la Crocifissione.  

Il legno della Croce con la mano di Cristo,  risalendo ad Adamo e non solo  

Iniziamo con l’opera “Il legno della croce”, 1980, nel dipinto i nodosi pezzi lignei recano ancora la corteccia dell’albero da cui sono tratti, di cui sono sparse a terra le foglie, mentre in alto spiccano in un colore che richiama la parte interna del legno due mani intrecciate e la mano del Cristo trafitta da un grosso chiodo; è l’angosciosa “Mano del Crocefisso” dipinta già in  primo piano nel 1965, la vediamo da vicino come impressionante simbolo della sofferenza estrema.  

Valenziano  racconta un suggestivo retroscena,  quando un amico teologo gli parlò della curiosità  dell’artista  per la “Legenda de ‘L’albero secco” , la “pianta dispogliata, l’albero edenico del bene e del male”  seccatasi per la trasgressione del primo  Adamo, albero  che San Paolo nella Lettera ai Corinzi descrive “esposto  a rinverdire  appresso all’adempimento del nuovo Adamo” con la salvezza, “in virtù del raccordo della sua umanità con la divinità, ‘il seme d’ogni giusto'”.  E ciò per il sacrificio del Cristo, uomo e Dio,  la cui mano trafitta  emblematicamente appare nel “Legno della croce” insieme alle due mani unite nella solidarietà, dato che la Croce per i cristiani è diventata “il legno della misericordia”.

Per soddisfare quella che gli parve ben più di una curiosità, ma un interesse sincero a penetrare i misteri cristiani, gli  trasmise, da colto teologo qual è, un’approfondita  analisi  basata sulle Sacre Scritture circa gli alberi con i quali fu composto il legno della Croce che derivano  da quelli nati dalla tomba di Adamo,  fino al legno per l’Arca di Noè che ha la stessa origine.  Il teologo dinanzi all’opera dell’artista che si avvalse di queste sue dissertazioni bibliche, parla di “ispirazione reinventiva”, che va “oltre la piana inventività sino alla restituzione di verità invisibile in fondo a realtà visibile”. E’ il suo “realismo di fondo” che però trascende la stessa realtà, come l’artista stesso ha lasciato capire scrivendo: “Il pittore ha idee ma non dipinge idee, il pittore dipinge solo le cose, ma dal modo come le dipinge scaturiscono le idee. La vera questione è nel metodo o, si potrebbe dire, nell’ ‘attitudine morale’ con cui il pittore affronta il ‘regno delle apparenze”. E qui assumono rilievo e significato  “certi orientamenti”  e “certa estrazione” dell’artista e dell’uomo Guttuso che Valenziano si propone di disvelare richiamando le confidenze rivelatrici avute da lui.

Il riferimento ad Adamo non si limita al suo collegamento recondito con il “Legno della croce”, è esplicito nel rivisitare “La creazione dell’uomo” del Giudizio Universale di Michelangelo con le due opere simili ma non identiche, del 1975 e del 1980,  sulla trasmissione del soffio vitale dal dito del creatore al dito del primo uomo, nell’uno con delle varianti nel contatto delle dita, nell’altro con l’aggiunta del sole e della luna per calare nella realtà immanente la scena trascendente.

L’interesse biblico non si ferma qui, copre l’intero arco di vita artistica, è del 1939 “Caino e Abele”, con la sua scritta autografa “Caino e Abele da Tintoretto”, del 1984 il bozzetto Adamo”, un intenso primo piano del volto,  di anni intermedi “Saul e David”, 1963, e “Moglie di Lot”, 1968, esposti in mostra, “Il sogno di Giacobbe”, 1938, e “David suona la cetra davanti a Saul”, 1963, non esposti.

Gli episodi evangelici, da San Paolo alla vita di Gesù

Dall’Antico Testamento si passa al Nuovo Testamento, con gli Atti degli Apostoli e i Vangeli. 

Ispirate agli “Atti degli Apostoli” due opere a distanza di 7 anni sullo stesso tema, San Paolo folgorato sulla via di Damasco. 

Nella “Conversione di San Paolo”, 1977, 4 cavalli scalpitano, due con in sella il cavaliere, dagli altri 2 sono caduti a terra Saulo e un suo compagno in viaggio. Valenziano fa un riferimento ai 4 cavalieri dell’Apocalisse, osservando che il cavallo bianco e quello nero rifulgono della luce sfolgorante del sole e dell’azzurro del cielo, e mentre il cavaliere dalla giubba verde sembra fuggire sul suo destriero, l’altro  porge la mano a Saulo atterrito mentre il cavallo su cui è in groppa avvicina il muso dall’espressione umana alla mano protesa del folgorato il cui viso è coperto dai capelli. E’ come se il cavaliere prendesse la “grande spada” dell’Apocalisse, nelle parole della Lettera agli Efesini “Prendete la spada dello Spirito, cioè la Parola di Dio”; Valenziano conclude: “Da parte mia, cotesta ‘Conversione di San Paolo” io la intendo ‘Illuminazione di Saulo'”.

Il  “Particolare della conversione di Saulo”, 1984, ritrae  solo il cavallo imbizzarrito che lo ha disarcionato, e qualcuno cerca di trattenere, mentre un’altra persona soccorre Saulo disteso a terra con il viso in primo piano e le spalle rivolte al resto della scena che vede 4 figure con diverso abbigliamento sotto un cielo  nuvoloso. E’ una visione  più serena, dell’Apocalisse restano i cavalieri privati dei cavalli. 

Ispirato ai Vangeli il  “Bozzetto per la fuga in Egitto, realizzato nel 1983 in preparazione del grande murale per il Santuario del Sacromonte di Varese commissionatogli da don Macchi, segretario di Paolo VI, che realizzò in pubblico, apportando diverse varianti al bozzetto esposto in mostra, in particolare  nel paesaggio desertico, in cui inserì un cactus, e nella sacca dell’asinello. E’ una scena molto nitida, l’asinello che porta in groppa la Sacra Famiglia, con a lato una capretta,  calca una landa desolata con in fondo delle formazioni rocciose e al centro una piccola oasi di verde con un gruppo di palme sopra le quali vola una colomba, molto simile alla “Colomba della pace” che aveva tratteggiato in un’acquaforte del 1972.  

L’artista lo definì “una Sacra Famiglia di oggi”, dando questa spiegazione: “L’esodo,  la migrazione obbligatoria,  l’Uomo, la Donna, il Bambino, costretti ad abbandonare la casa, la città, il lavoro, a causa di un ‘eterno Erode’ che li minaccia nelle persone e nelle cose”. Non vi si può non vedere una premonizione per le migrazioni del nostro tempo, anche se oggi sono fenomeni di massa e non isolati come quello rappresentato. Ma c’erano anche allora, tanto che nella composizione della scena si ispirò alla fotografia di una famiglia palestinese costretta a lasciare la propria terra. Questo avveniva dopo la guerra dei sei giorni del giugno 1967 tra Israele da una parte, l’Egitto e altri stati arabi dall’altra,  il cui ricordo suscitato da quella fotografia lo colpì al punto da realizzare un’altra opera, intitolata “Esodo di arabi” e datata 14.07. 1967.  E’ a inchiostro di china, molto diverso dalla “Fuga in Egitto” , colorato,  lineare e preciso nelle sue scarne figure, il solo collegamento sembra la donna in primo piano urlante con il velo simile a quello della Madonna, peraltro comune alle altre donne  disperate; richiama invece, nelle figure concitate che si addensano nella composizione,  lo “Studio per la Fuga dall’Etna”, 1938, esposto in mostra, tra il motivo politico-sociale e quello religioso e i relativi valori.

Direttamente dal testo evangelico “La cena di Emmaus”, 1981, in cui l’episodio dell’incontro con gli apostoli che lo riconobbero soltanto dopo che ebbe spezzato il pane, prima che si dileguasse, viene evocato con la visione delle sole mani di Cristo, e non del suo volto, mani straordinarie come altre da lui dipinte, che ritroviamo due anni dopo nel dipinto “Le mani, 1983, non esposto in mostra, nel quale le stesse mani della “cena” sono raffigurate in alto a sinistra a dominare un affollarsi di mani con le sole braccia, mentre in alto si intravede in parte il busto dell’artista. Nella “Cena” la composizione è tagliata per non riprendere il viso di Cristo, in primo piano la pagnotta di pane spezzato su una tovaglia raggrinzita, una sorta di sindone, il tavolo si vede appena.

E’ precedente di tre anni “Il Pane”, 1978, che, secondo Valenziano, “Guttuso è riuscito a dipingere con bellezza che ‘percepisce l’infinito in pura contemplazione'”, una bellezza di cui l’artista parla così: “Essa deve arrivare all’anima attraverso i sensi e ad essa solo deve parlare, e troverà nell’anima dell’artista quel tanto di soprannaturale capace di coglierla e di esprimerla”.

“Ingresso in Gerusalemme”, altro importante momento evangelico, è di interesse particolare perché espressivo dell’ultimo periodo, è del 1985,  l’artista morirà nel gennaio 1987; fu realizzato per l’Evangeliario delle Chiese d’Italia, su richiesta dello stesso Valenziano d’intesa con il  cardinale Pappalardo per un progetto che ha coinvolto 18 grandi artisti, ognuno su un tema evangelico.  L’intero Evangeliario fu presentato a Paolo VI nel marzo 1987, due mesi dopo la morte di Guttuso.  

La sua opera ha un fascino particolare, esprime la premonizione del sacrificio mediante la composizione a forma di croce dei corpi della donna in primo piano a braccia alzate, di Cristo e dell’asino in groppa al quale entra nella città andando incontro al martirio. A parte il bianco che forma la croce, le figure sono molto colorate, con i rami di palma levati in alto, tante mani in vista tra cui – racconta Valenziano che gli fu confidato dall’artista – quelle dello stesso Guttuso.

Le opere sulla passione  di Cristo

Dopo l’ingresso in Gerusalemme, nella vita di Cristo c’è la passione, che ha ispirato all’artista una serie di opere nelle quali il senso religioso si unisce all’afflato sociale. “Cristo deriso”, 1938, con l’affollamento di corpi  informi intorno alla sua figura  e il dileggio della fiaccola accesa sul suo volto bendato, che vediamo in mostra, è stato seguito due anni dopo da “Cristo coronato di spine”, 1940, anno della “Crocifissione” , non esposto, dove la brutalità della tortura è nell’aguzzino che gli  copre il volto davanti a una finestra. La colonna della flagellazione, che manca in questo dipinto, la troviamo un quarto di secolo dopo  nello “Studio dal Cristo alla colonna di Caravaggio”, 1966, con il corpo contorto e il volto assimilato a quello di ogni persona sofferente.

Al culmine della Passione di Cristo c’è la Crocifissione anche nell’opera di Guttuso. Una prima interpretazione  precede “Cristo deriso”, risale al 1936: è uno “Studio per la Crocifissione nel quale, per sua stessa affermazione, l’artista si è basato “sulle fotografie di un linciaggio”, sono gli anni della “Fucilazione in campagna” e della “Fuga dall’Etna”, l’impegno dell’artista contro le violenze dell’uomo e della natura sulla gente inerme è totale, e il sacrificio di Cristo ne è un simbolo.  “La Crocifissione la pensai subito come un supplizio”, ha aggiunto,  “il supplizio di un uomo giusto” , nello Studio sono tre i torturatori in un ambiente chiuso. L’idea della “Crocifissione in una stanza”, il primo dipinto del 1940 sul tema, rispondeva all’intenzione di ambientare la scena “in un interno, così come avvengono i supplizi oggi”, ma era soltanto la preparazione del dipinto definitivo, tanto che nel retro reca la scritta “Bozzetto per la Crocifissione 1940”; quest’opera, fosca e angosciosa,  sono le sue parole, “può essere considerata una prima versione dell’opera da fare”.

Siamo entrati, così, nel tema della crocifissione, citando i primi approcci dell’artista. Proseguiremo prossimamente con gli altri suoi studi preparatori fino alla grande “Crocifissione” del 1940 -41 con la quale chiuderemo la nostra visita a una mostra che muove i sentimenti più  profondi  sul piano religioso, umano e civile, oltre a riproporre i valori universali dell’arte nell’opera del grande artista del ‘900  Renato Guttuso.

Info

Palazzo del Quirinale, piazza del Quirinale, Roma, Galleria di Alessandro VII. Martedì-mercoledì, da venerdì a domenica, chiuso lunedì e giovedì, ore 10-16, ultima entrata ore 15, ingresso gratuito su prenotazione al sito del Quirinale. Catalogo “Guttuso. Inquietudine di un realismo”, a cura di Fabio Carapezza Guttuso e Crispino Valenziano, De Luca Editori d’Arte, Roma, agosto 2016, pp. 72, formato 21 x 23. Insieme è stato pubblicato il libro di  Crispino Valenziano, “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio”, De Luca Editori d’Arte e Libreria Editrice Vaticana, Roma, agosto 2016, pp. 150.  Da questo libro e dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 27 settembre, il terzo e ultimo uscirà il 4 ottobre 2016.  Sulla mostra al Vittoriano nel centenario della nascita dell’artista cfr., in questo sito,  i nostri 2 articoli il 25 e 30 gennaio 2013.

Foto

Le immagini sono tratte dal Catalogo, tranne “Le Mani”  preso dal libro di Valenziano, testi fornitici cortesemente da Fabio Carapezza Guttuso che ringraziamo. In apertura, “Spes contra Spem”, 1982; seguono, “Studio per la fuga dall’Etna”, 1938, ed “Esodo di arabi”, 1967; poi, ” Il pane”, 1978, e “Cena da Emmaus”, 1981; quindi, “Le Mani”, 1983, e “Bozzetto per la fuga in Egitto”, 1983;L inoltre, “Ingresso in Gerusalemme”, 1980, e “Studio del Cristo alla colonna dal Caravaggio”, 1966; in chiusura, “Colomba della pace”, 1972. 

Galleria Nazionale, l’intervallo e la durata apre la nuova stagione

di Romano Maria Levante

 La mostra “The  Lasting. L’intervallo e la durata”, espone, dal 22 giugno 2016 al 29 gennaio 2017,  30 opere di arte contemporanea – pitture e sculture, fotografie, video e installazioni –  di 15 artisti italiani e stranieri di diverse generazioni, compresi giovani già affermati, insieme ad opere di Alexander Calder, Lucio Fontana e Medardo Rosso presenti nel Museo. Così si valorizzano le opere della Collezione permanente e si nobilita l’esposizione di artisti contemporanei. Curata da Saretto Cincinelli, la mostra inaugura la stagione espositiva nella nuova direzione di Cristiana Collu.http://blognew.aruba.it/blog.arteculturaoggi.com/gallery//uid_16356b039b7.jpg

La nuova direzione di Cristiana Collu,  le prime due innovazioni  

Prima di parlare delle opere esposte, è d’obbligo soffermarsi sull’avvio della nuova direzione di Cristina Collu, selezionata con il concorso internazionale voluto opportunamente dal Ministro dei Bini e le Attività Culturali e il Turismo Dario Franceschini. Lei stessa divide il suo “percorso da novembre 2015 a giugno 2016” in quattro fasi: “i primi due mesi di  auscultazione del respiro, del battito e del polso, non solo delle persone che abitano questa Galleria, ma anche dell’edificio, della sua architettura e del suo rapporto con la città, con il territorio, con il nostro paese e con le altre istituzioni internazionali”; i successivi tre mesi “di rodaggio e messa a punto delle possibilità di cambiamento e di consolidamento delle buone pratiche; la terza fase, conclusa con la “parziale riapertura della Galleria nella sua nuova veste”, tra aprile e giugno ha visto interventi di trasformazione pur lasciando aperte le sale del Novecento ai visitatori che hanno risposto positivamente, per cui non si sono verificate flessioni nelle presenze; la quarta fase, iniziata con questa riapertura, comporta la chiusura di tutte le sale, escluse quelle della mostra, per i lavori di riordino fino alla  completa riapertura della Galleria il 10 ottobre. 

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Degli interventi di trasformazione per ora  ne conosciamo due che riguardano l’immagine e l’aspetto esteriore.

Il nome è stato semplificato in “La Galleria Nazionale”, evidentemente superando la difficoltà data dall’esistenza della Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini; e Palazzo Corsini; l’abbreviazione  in La Galleria con la sottolineatura dell’articolo, marca la sua unicità, in modo da avere il rilievo che merita nel contesto internazionale. Un mutamento
c’era già stato, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna era stato aggiunto  “e Contemporanea”, ma ha continuato a persistere l’imbarazzante abbreviazione “Gnam” , da esclamazione fumettistica, di certo la nuova abbreviazione “La Galleria”  esprime di per sé il  maggior prestigio dovuto allo storico museo.

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Se su questa innovazione il nostro giudizio è totalmente positivo, non lo è invece sull’altro vistoso intervento, quello sull’ingresso dei visitatori.  Finora, superata la biglietteria, si attraversava un vasto salone dal pavimento a specchi spezzati, allestimento dell’artista Pirri, con delle piccole statue, per entrare in un altro salone nel quale erano esposte a terra e alle pareti opere famose di celebri artisti moderni e contemporanei. Con circospezione attenta e ammirata si camminava sugli specchi quasi temendo di spezzarli ancora, poi la bellezza delle celebri opere  esposte creava stupore ed emozione. Andando ancora avanti per raggiungere la mostra temporanea aperta pro-tempore si attraversavano delle sale che portavano al diapason stupore ed emozione. La sindrome di Stendhal diventava una realtà, tale era l’impatto emotivo.

Il nuovo assetto ci ha sconvolto in senso opposto, si tratta della normalizzazione di una eccezionalità che ha cancellato il
fascino e la magia di un’iniziazione emozionante della visita per creare una sorta di sala d’aspetto con dei divani e quant’altro di accogliente ci possa essere per una sosta che, peraltro, può essere gradita lungo il percorso espositivo piuttosto che all’inizio.

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Ecco come viene motivato: “Si è trattato di un intervento che ha messo al centro l’idea di ospitalità e di accglienza e ha creato uno spazio dedicato alle persone. Chi oggi entra in Galleria non deve necessariamente entrare in mostra, può anche passare il tempo nella Sala delle Colonne, nelle due corti laterali interne, può prendere un caffè, leggere, curiosare, fare acquisti al bookshop, ricaricare il telefono, utilizzare il  wi-fi. La sala espositiva è separata da un filtro leggero che fa intravedere la mostra”. 

Non siamo d’accordo, perché non si interrompe un’emozione, anzi non si cancella quando si è riusciti a crearla con l'”ouverture”  unica al mondo dell’ingresso magico nella Gnam. Soprattutto con una motivazione che sa di sala d’aspetto ferroviaria o da centro commerciale; ma la Galleria non si trova lungo gli itinerari dello shopping o del passeggio, si deve raggiungere appositamente nell’ambiente ameno ma molto isolato di Valle Giulia, e non lo si fa per “prendere un caffè, leggere, curiosare” e tanto meno per “ricaricare il telefono, utilizzare il wi-fi”, mentre gli “acquisti al book shop” vengono dopo la visita alla mostra. Nessuno si sobbarcherebbe al viaggio per raggiungere la Galleria solo per passare il tempo in anticamera.

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E anche se “l’operazione di riallestimento dell’ingresso e della Sala delle Colonne è firmata da uno dei più geniali rappresentativi designer contemporanei, Martì Guixé”,  non ci sentiamo di condividere che “è in questo senso esemplare”,  come non abbiamo condiviso la Teca innovativa con cui l’archistar Mayer ha modernizzato la protezione dell’Ara Pacis.

Neppure ci convince la motivazione architettonica: “E’ stato un lavoro quasi archeologico, che ha cercato di riportare in luce una sorta di splendore originario, quello dell’esordio di un secolo fa… nulla è stato aggiunto, a tutto è stata tolta una patina opaca”.  Naturalmente si riferisce ad altro, e non all’ingresso dove non è stata tolta una patina ma tutto,  e il tutto creava emozione.  E sembra non considerare che si tratta di una Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea dove l’esigenza di riportarsi a un secolo fa non può ritenersi primaria rispetto alla valorizzazione di quanto creato dalla modernità. 

Sono queste valutazioni personali, nate d’impulso, che non potevamo non premettere al racconto della mostra, nella quale ci si trova immersi subito, senza l’emozionante carrellata che accompagnava i visitatori nell’assetto precedente. 

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La mostra, “manifesto” della nuova direzione, all’insegna del tempo

Il  titolo della mostra, “The Lasting. L’intervallo e la durata”,  sembra alludere  all’attuale fase di attesa e rilancio della
Galleria Nazionale,  come viene sottolineato nella presentazione: “La mostra che abbiamo immaginato per questo esordio è una sorta di ‘manifesto’, indica una direzione, riporta alcentro dell’edificio le mostre temporanee, ne riduce l’estensione privilegiando temi e senso”.  Il ministro Franceschini saluta “l’inizio di una fase in cui il contemporaneo ritorna con forza nel museo, in un dialogo che deve essere di nuovo continuo e costante con le realtà alle quali si deve parte della collezione permanente a cintervallo , mostre , gnamominciare dalla Biennale di Venezia e la Quadriennale di Roma”.

Intervallo e durata scandiscono il tempo in modo apparentemente opposto, sono compresenti e inscindibili nei processi di
trasformazione in cui l’attesa rappresentata dall’intervallo si coniuga con la resistenza di ciò che va superato e il consolidamento dei cambiamenti scanditi dalla durata.

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Questo assume un rilievo e una connotazione particolare nel  nostro tempo in cui, lo ha sottolineato Franceschini, “la tecnologia e la rete sembrano dilatare il tempo e lo spazio in un continuum infinito, regalando illusioni di ubiquità e
di eternità al prezzo di una sottrazione crescente di attenzione al contesto che ci circonda. Lo sguardo profondo e il pensiero lungo di chi riesce a restituire al tempo la dimensione che gli è propria permette allo spettatore di recuperarne, attraverso l’opera d’arte, il senso più autentico”.

Le opere degli artisti sull’intervallo e la durata

La mostra presenta 30 opere   di dimensioni notevoli, realizzate da 15 artisti nei più diversi generi cercando di evocare questi temi sfuggenti  che esprimono l’intervallo e la durata, con l’imprevedibilità e l’espressione spesso criptica dell’arte contemporanea.

Hiroshi Sugimoto lo fa con le sequenze fotografiche della serie “Theatres” , che diventano cinematografiche ma sfumano nella pura luminosità  mediante un tempo di esposizione dilatato per coniugare intervallo e durata; sono esposti “Cinema Odeon, Firenze”, “Cinema Teatro Nuovo, San Gimignano”, e “Salle 37, Palais de Tokyo, Paris“, tutti del 2013.

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Un’operazione speculare e contraria rispetto alla dissolvenza la vediamo in “The Raid (101 Minutes)“, 2015,  di Elisabeth
McAlpine,
  che  torna  addirittura alla materialità della pellicola di 35 mm con una scultura fatta di 150 mila fotogrammi sovrapposti del  film da cui deriva il titolo dell’installazione. 

Franco Vimercati in  “Senza Titolo (Brocca)”, 1980-81, reitera i soggetti, presi dalla vita quotidiana, non in modo estemporaneo, ma a seguito di una ricerca durata anni.

Mentre Barbara Probst  in “Exposure # 104; N.Y.C. , Vanderbilt & Lafayette Avenues 01, 13, 13, 9:50 a. m. 2013”, 2013.  riesce a trasformare  il singolo istante, l’intervallo,  in un tempo immobile, quindi di durata interminabile.

Dalla fotografia alla pittura, ovviamente in chiave contemporanea, con Antonio Catelani, che declina il confronto tra attualità e virtualità mimando l’arte astratta con tre opere intitolate “Concordia”, 1899, “Limen” e “Turnturm”, 2010 .

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Marie Lund in “Stills”, 2015, utilizza tende stinte dal sole intelaiate per evocare visivamente sulla parete l’azione erosiva del tempo nella sua durata.

A sua volta  Alessandro Piangiamore  nelle cere di “Le XXX sorelle (se Roma non brucia)” cerca  di rendere la dimensione temporale con un materiale che deperisce, ad alto valore simbolico: le candele votive.

Emanuele Becheri utilizza le lumache per delle “tracciature cieche” della loro bava lasciate nel passaggio lento e incerto su
cartoni neri,  le due opere (n. 7 e 13) della serie intitolata “Shining”  sono definite “una sorta di elogio della durata, o della lentezza”. 

Un elemento simbolico è impiegato da Giorgio Andreotta Calò nelle sculture della serie “Clessidra”, 2012, strumento 
che marca il passaggio del tempo congelandone la durata e la relativa corrosione in un processo a ritroso che riporta alla causa prima.

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Antonio Fiorentino nelle sculture mutanti  “Dominium Melancholiae” , 2014, procede anch’egli nella trasformazione della materia verso una vegetazione chimica sempre più ramificata, in una metamorfosi invasiva che investe tutta la superficie fino a ricoprirla. 

Sculture sui generis anche le scarpe femminili appese al muro di Tatiana Trovè, esprimono  ciò che resta di un fatto
svoltosi nel passato recente mantenendone la presenza, quindi la durata; così i materiali usati per imballare i propri lavori e ormai inutilizzati, sono consolidati nel bronzo mediante fusioni e calchi: i titoli, “Untitled”, 2009, e “Refolding”, 2011.

Di nuovo un processo speculare, l’erosione rispetto al consolidamento, lo troviamo nelle 5 sculture di Giulia Cenci con detriti che rappresentano i resti di una vita precedente, il  passato pur sempre  parte del presente e proiettato nel futuro.
Sono del 2014 le 3 intitolate “Almost invisible”, n. 6,7, 8 e “Profilo di Clio (terra-terra)”, del 2016  le 3 “Senza Titolo”.

E’ il passato che resta, e torna, anche nelle sculture di due artisti con grandi installazioni  da ritenersi complementari, che occupano vasti spazi della sala espositiva.

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Daniela De Lorenzo interpreta il senso del tempo con il movimento della caduta  in verticale, vediamo esposti “L’identico e il differente”, 2003, e “Contrattempi”, 2014.

Invece Andrea Santarlasci punta sugli sdoppiamenti nell’altro di se stesso per evocare trasformazione e mobilità, come segni del tempo che passa, come si vede dalla sua opera intitolata significativamente “Casa difesa (gemmazioni)”, 1992. 

Siamo passati da fotografia e cinema alla pittura,  poi alla scultura in varie declinazioni, ora ecco il  video della serie intitolata “Railings”, 2004, realizzato da  Francis Alys, in collaborazione con Daniel Ortega, nel quale l’artista percuote con la bacchetta del batterista in modo ritmico i cancelli delle ville londinesi di Fitzroy Square dove passeggia, è anche questo un modo di marcare il tempo.

Le opere dei tre grandi artisti presenti nel Museo esposte insieme a quelle dei contemporanei sono anch’esse inerenti al tema
dell’intervallo e della durata, cioè al tempo, espresso secondo i rispettivi canoni stilistici e di contenuto.

Vediamo la caratteristica forma aerea sospesa di Alexander Calder, “Mobile”,  1958,  la cui leggerezza le fa evolvere in
composizioni volubili nel rapporto tempo-movimento in continua evoluzione.

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E invece delle ben note incisioni su tela vediamo la scultura “Concetto spaziale. Natura”, 1959-60,  di Lucio Fontana,  espressione di un percorso interiore  che diventa esplosione di energia:  dal pensiero attraverso un travaglio mentale nasce l’atto, la spinta intellettuale da virtuale diventa reale materializzandosi nell’opera, l’insieme rende il concetto di intervallo, come attesa, e durata come persistenza.

Infine Medardo Rosso fissa il tempo nell’attimo con delle sculture che evocano le sensazioni suscitate dalla realtà, le quali possono distaccarsene anche di molto,  la metafora di intervallo e durata vista nella forma di apparenza e verità; così in “Impression de boulevard: La femme à la voilette”, 1893, e il suggestivo “Ecce puer”, 1905,  che doveva essere un ritratto di un determinato bambino, ed è diventato archetipo dell’infanzia colta nell’attimo fuggente.

Il rilancio della Galleria Nazionale

Con queste celebri opere della Collezione permanente,  presentate insieme a quelle degli artisti contemporanei esposte nella mostra temporanea,  si chiude il nostro racconto dell’apertura della nuova stagione nella Galleria Nazionale impegnata in un rilancio a livello della  straordinaria ricchezza di capolavori presenti nelle sue sale. 

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Le iniziative in corso lasciano ben sperare. Si lavora sulla definizione di una immagine maggiormente competitiva  con il logo più efficace citato all’inizio e la creazione di un  sito web strutturato in modo semplice e ben accessibile. Viene potenziata la presenza sui social network per renderla più ampia e continuativa in modo da attivare l’ascolto e la condivisione,  già oggi la galleria figura al primo posto tra i musei italiani per soddisfazione dei visitatori, come rilevato dal MiBACT. Sarà ultimata la digitalizzazione degli Archivi – storico,  iconografico e  fotografico – in modo da poter accedere on line a questo vasto patrimonio. Inoltre si procede a collaborazioni con soggetti pubblici e privati, in particolare il Maxxi,  Museo nazionale delle arti del XXI secolo, e a partnership con diverse aziende fornitrici.

Riteniamo si debba affrontare anche il problema dell’isolamento della Galleria lontana dal centro storico, che la rende meno
accessibile ai turisti rispetto ai principali musei romani;  il potenziamento delle linee di trasporto urbane che passano per il Viale delle Belle Arti, in particolare come frequenza delle corse, sembra indispensabile,  in assenza di una linea apposita.

Tanto si sta facendo e tanto c’è da fare, dunque. Usciamo dalla mostra con questi pensieri, ed è un bene perché mentre attraversiamo il nuovo ingresso dimentichiamo che dove  c’è ora una sorta di sala d’aspetto a noi apparsa anonima per usare un eufemismo, prima c’era un percorso esaltante sul pavimento di specchi spezzati tra i capolavori.  Forse c’è un vantaggio, non si rischia più la sindrome di Stendhal.   Ma si è interrotta un’emozione forte e ricorrente, ne valeva la pena?

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 Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, viale delle Belle Arti, 131, Roma,  tel. 06.32298221. Orari  di apertura, dal martedì alla domenica ore 8,30-19,30, lunedì chiuso, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso, intero euro 10,00, ridotto euro 5,00.

Foto

Poichè si sono rese indisponibili per un incomveniente le foto scattate come di consueto dall’autore, le immagini sono state tratte dai siti sotto indicati, che si ringraziano,  ritenendole di pubblico dominio;  siamo pronti a eliminare quelle che i siti interessati non volessero vedere riprodotte a semplice richiesta, trattandosi di mere illustrazioni di un articolo giornalstico senza alcuno scopo di lucro: i siti sono, in particolare, roma2oggi e domusweb, artribune e armaproma, rainews e magazzinoartemoderna. In apertura, Antonio Catelani, una delle 3 opere esposte, “Concordia” 1999, “Limen” e “Turnturm” 2010; seguono, una panoramica della mostra, e  Hiroshi Sigimoto, “Theatres”  2013; poi, Franco Vimercati, “Senza Titolo (Brocca)” 1980-81, e Barbara Probst, “Exposeures” 2013; quindi, Marie Lund, “Stills” 2014,e Alexander Calder, Mobile”, 1958; inoltre,  Alessandro Piangiamore, 2 coppie di opere della serie “Cere di Roma – Roma non brucia”, la prima è la XXVII, la seconda la XXX  2016; ancora, Antonio Fiorentino, 2 opere della serie “Dominium Melancholiae”  2014; infine, Lucio Fontana, “Concetto spaziale. Natura”  1959-60, e Medardo Rosso, “Ecce puer” 1906; conclude la nostra galleria un’altra panoramica della mostra; in chiusura, la direttrice Cristiana Collu presenta la mostra con il Ministro per i Beni e le Attività Culturali e il Turismo Dario Franceschini.

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