Guttuso, realismo inquieto e valori cristiani, al Quirinale

di Romano Maria Levante

Al Palazzo del Quirinale, nella Galleria di Alessandro VII, dal 10 settembre al 9 ottobre 2016 la mostra “Guttuso. Inquietudine di un realismo” espone una serie di opere collegate alla Crocifissione di Cristo, come gli studi preparatori e il celebre quadro, e  opere su temi evangelici e  cristologici; inoltre opere di riflessione sulla vita, come lo “Studio per la Fuga dall’Etna” e il grande dipinto “Spes contra Spem”.  E’ organizzata dagli “Archivi Guttuso”, in collaborazione con Civita”, curata da Fabio Carapezza Guttuso, presidente degli Archivi e da  Crispino Valenziano, insigne teologo e critico d’arte, tra i suoi numerosi ruoli e incarichi di prestigio in tali campi, presidente della Accademia Teologica ‘via pulchritudinis’; insieme  hanno curato anche il Catalogo di De Luca Editori d’Arte, pubblicato in contemporanea al libro di analisi e testimonianze di Crispino Valenziano, “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio” , De Luca Editori d’Arte Libreria Editrice Vaticana.

E’  una mostra tematica molto significativa per il contenuto, le opere soprattutto di natura religiosa, e per l’eccezionale “location”, il  Quirinale. I due aspetti  concorrono al fascino dell’esposizione che viene incontro all’improvviso,  nel corso della visita guidata attraverso i vasti saloni del palazzo.

La “location” del Quirinale per una mostra “francescana”

Colpisce subito  il contrasto delle immagini  pittoriche all’insegna dell’umiltà e del sacrificio e  l’ambiente circostante invece all’insegna dell’opulenza nell’architettura e negli arredi, tra stucchi e vasi preziosi, e fa riflettere sul contrasto di fondo tra la povertà di Cristo e la vita nel palazzo che una volta era residenza dei Papi, tra  agi e ricchezze.  Oggi non vi risiedono più i papi e anche se i palazzi vaticani non sono da meno,  papa Francesco vive nei 50 metri quadrati di Santa Marta, un  esempio luminoso ma isolato, che purtroppo non è seguito dai cardinali con residenze di 400 metri quadrati.

Viene spontanea un’altra riflessione a livello laico, dato che il Quirinale, simbolo delle istituzioni repubblicane, è giustamente aperto sempre più al popolo nella sua trasformazione virtuale in museo  che la gente può visitare. Non era  a misura di Papa, e se era a misura di Re – nella visione aristocratica e nobiliare per di più arricchita, è il caso di dire, dal privilegio della posizione cui si attribuiva addirittura un’investitura divina –  forse non è a misura di Presidente nella concezione democratica e repubblicana che dovrebbe rifuggire da ostentazioni di ricchezza;  anche se è indubbio il  prestigio di una simile cornice in carattere con l’Italia fucina di arte, storia e cultura, che si vede così visivamente rappresentata e celebrata nella massima sede istituzionale.

Anche a questo fa pensare la mostra delle opere religiose di Guttuso, coerenti con la sua ispirazione popolare  sensibile ai sacrifici della povera gente, alle sue sofferenze, alle ingiustizie della società e agli abusi del potere. L’immagine di Cristo, nella natura umana fuori dalle attribuzioni divine, è di un rivoluzionario per  la giustizia e l’uguaglianza, i valori per i quali Guttuso si è sempre battuto ed ai quali ha informato il suo impegno civile e politico, oltre a trarne ispirazione per la sua arte.

Per essere vicino agli umili e agli oppressi  e impegnarsi per la loro causa ha militato nel partito che  poneva questi ideali alla base del proprio credo politico, sebbene le realizzazioni del “socialismo reale” si siano rivelate di tutt’altro segno.  Sul piano artistico, a questo corrispondeva il realismo sociale che non ha mai abbandonato respingendo le tentazioni dell’astrattismo come segno di modernità, fino a farne una battaglia ideale affiancata alla battaglia civile nella politica; ma non ha mai aderito minimamente al “realismo socialista” di impronta sovietica, che faceva dell’arte uno strumento di propaganda del regime con esaltazioni retoriche e trionfalistiche pur con  eccezioni di sincera fiducia  nei più autentici valori dell’umanità.

Nella sua incessante attività è stato in stretto collegamento con gli esponenti della cultura del suo tempo, il suo studio era diventato un cenacolo letterario oltre che artistico. Ripercorrere le principali fasi della sua vita civile ed artistica consente di inquadrare le opere esposte nella mostra, vicine ai momenti estremi dell’esistenza e perciò ancora più significative.


I valori civili e umani nel suo percorso di vita e di arte 

Vogliamo rievocare la sua umanità e la sua arte all’insegna dei valori che sono stati una vera ragione di vita per un artista così aperto e sensibile,  per collocare la mostra attuale nel più vasto scenario  umano e artistico presentato nella mostra antologica che tra il 2012 e il 2013  celebrò il centenario della nascita. Allora vedemmo esposte 100 opere e ne seguimmo la ricostruzione nella testimonianza appassionata del figlio adottivo   Fabio Carapezza Guttuso, che ne ha  riassunto la figura con le sue  parole  “Ho sentito il bisogno di dipingere il mio tempo”, e ha aggiunto questa osservazione: “E’ il pittore della narrazione, si avvicina agli scrittori, Moravia, Pasolini, Ungaretti, che hanno raccontato i grandi momenti collettivi”.

Con questi scrittori particolarmente sensibili e impegnati, come con Gatto, Quasimodo e Vittorini, è stato in stretto collegamento, così con gli altri artisti del suo tempo, da Birolli e Sassu,  a Manzù e  Cagli,  Afro e Savinio, fino a Trombadori, a  lui particolarmente vicino.

A Bagheria sin dall’infanzia lo colpiscono le storie popolari dipinte sui colorati carretti siciliani, di lì inizia il suo realismo sociale. A 19 anni partecipa a Roma alla prima “Quadriennale”, e stringe rapporti con la “Scuola romana” manifestando presto un impegno attivo;  non si rinchiude nella torre d’avorio dell’artista, tutt’altro, frequenta anche l’ambiente milanese negli anni trascorsi a Milano, e tenta una saldatura tra le scuole d’arte e di vita della capitale reale e di quella morale.    

Un’apertura  totale e un impegno anche a livello civile e politico. Dopo le leggi razziali del 1938 la galleria “La Cometa” che aveva ospitato la sua prima personale viene chiusa, Cagli e  i proprietari Pecci Blunt esuli negli Stati Uniti, per lui un ripiegamento su se stesso con nature morte, figure femminili  ed altri soggetti del suo studio,  unito alla partecipazione civile con “Fuga dall’Etna” e politica con “Fucilazione in campagna”  sull’uccisione di Garcia Lorca da parte dei franchisti.

La sua ribellione non si limita al piano artistico, entra nella lotta clandestina della Resistenza con il nome di “Giovanni”, è costretto a lasciare Roma per sfuggire alla polizia politica, caduto il fascismo fa parte del “Comitato per l’accoglienza degli antifascisti”,  con Trombadori e Colorni si unisce alla rivolta romana del 1943 a Porta San Paolo contro i tedeschi.

Nel 1940-41 ha dipinto la “Crocifissione” come simbolo della lotta alla violenza e all’ingiustizia fino al sacrificio supremo, dipinge in uno studio clandestino  le 24 tavole “Gott unt Mitt” sulla barbarie nazista contrapposta alla dignità delle vittime delle torture. Il  dopoguerra lo vede subito  impegnato a livello artistico, per lui l’esigenza di  edificare un nuovo mondo richiede un rinnovamento che però non può fare  ‘tabula rasa’” dell’esistente ma deve ripartire dalla realtà. Così,  nell’ottobre 1946 firma con Birolli, Cassinari e Carlo Levi, Morlotti e Pizzinato, Santomaso e Turcato, Vedova e Viani  il Manifesto della “Nuova Secessione Artistica Italiana”, che nel gennaio 1947  si chiamerà “Nuovo Fronte delle Arti” con gli artisti romani in maggioranza; era stato tra gli animatori di “Corrente”.

Conosce Picasso e sottoscrive il Manifesto del neocubismo, ma tale influenza  non lo allontana dal realismo, per lui “sentire qualche cosa è sempre stato nell’ordine di cercare la ‘realtà'”. Per questo si oppone all’astrattismo sempre più invadente, al punto che i suoi colleghi Ugo e Carla Accardi, Dorazio e Consagra, Guerrini e Perilli,Sanfilippo e Turcato,  fondano la rivista “Forma” mentre lui è assente per un viaggio a Parigi, proclamando che  i progressisti non dovevano “adagiarsi nell’equivoco di un realismo spento e conformista”, mentre loro si sentono “formalisti e marxisti”. Guttuso reagisce dicendo  “ho parlato sempre di realismo e di cubismo, sono antiastratto, antidecorativo, antiformalista”; lo stile cubista per lui andava considerato  “educazione che riconducesse all’oggetto, ne agevolasse la identificazione”. Ribadisce che “se sono caduto in errori di semplicismo è stato sempre in senso realistico mai in senso astrattista”. Improntato al realismo sociale, ma non socialista, il dipinto di questo periodo, “Ballo popolare”, l’opposto dell’astrattismo.

Il “Nuovo Fronte delle Arti” si spacca con critici schierati da una parte e dall’altra e scontri pubblici molto accesi, tanto che i due gruppi frequentano a Piazza del Popolo locali diversi, gli astrattisti il caffè Rosati, i realisti il caffè Canova. Togliatti alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea del 1948 a Bologna si schiera con i realisti, si infuoca ancora di più il dibattito finché il “Nuovo Fronte” viene chiuso.

In questo periodo all’impegno critico e dialettico Guttuso unisce quello artistico con opere di taglio narrativo, come “La pesca del pesce spada”,  e di impegno sociale come “L’occupazione delle terre incolte in Sicilia” e storico come il grande dipinto “Battaglia di ponte dell’Ammiraglio”.

Nel 1950 le nozze con Mimise, testimone Pablo Neruda  in difesa del quale con Trombadori, Moravia e la Morante accorre alla Stazione Termini per opporsi alla sua espulsione quando giunge a Roma esule dal Cile. Nel 1953 dipinge “La zolfara” sul lavoro disumano della miniera, e opere di un realismo quotidiano festoso come ““Boogie Woogie”, poi nel  1955 “La Spiaggia”, nel 1958 “La gita in Vespa”, dall’edificio di via Margutta dove aveva lo studio, lo stesso dal quale era partita la celebre scena in scooter del film “Vacanze romane”. Il realismo quotidiano è anche nei dipinti ispirati alla vista della città dai nuovi studi e abitazioni, “Tetti di via Leonina” e “Tetti di Roma”.

Insieme a questi dipinti disimpegnati, opere di ispirazione politica su eventi drammatici come i fatti d’Ungheria del 1956, che ferìrono i suoi ideali di libertà, ne nacquero i disegni dell’album “Erano veramente colpevoli? Restano solo i morti”; e opere sui fervidi dibattiti del 1960, come  “Discussione”, tra giornali e visi di militanti. L’illustrazione della “Divina Commedia” lo riporta su temi spirituali.

La definitiva abitazione nella storica residenza del monumentale Palazzo del Grillo  porta il suo realismo sempre più su una quotidianità ricca di spunti, come in  “Damigiane e bottaccino”, 1959, e “Natura morta con fornello elettrico”, 1961;  e anche sulle memorie familiari, come in “Autobiografia” e “Il Padre agrimensore”, e sui ricordi personali, come nel 1966  in  “Incendio alla cancelleria apostolica”, “Paracadutista”, e “Il trionfo della guerra”. 

Con gli anni ’70,  grandi opere emblematiche di forte ispirazione,  “Giornale Murale. Maggio 1968”  e “I funerali di Togliatti”, “Il Caffè Greco” – in cui ritrae anche De Chirico, che ne era abituale frequentatore, come lo era stato D’Annunzio, citati dall’artista in una intervista sul quadro –  e “La Vucciria”:in tutti spicca l’elemento umano,  dai personaggi celebri alla gente comune.

Nel  decennio, l’impegno politico diretto nelle istituzioni, viene eletto  consigliere comunale a Palermo e poi senatore per due legislature nel 1976 e 1979, nelle liste del Partito comunista: “Comizio di quartiere”, del 1975, si ispira alla campagna elettorale.

Ma ora la sua maggiore fonte di ispirazione artistica è la vita a Palazzo del Grillo, dove riceve gli amici, come Bufalini e Trombadori, i letterati come Sapegno e i politici, fino al vescovo Angelini. Ne nascono opere di intonazione oscura come “Allegorie” e “Il sonno”, del 1979-80,  opere intime e misteriose come “Tigre che entra nel mio giardino”, e accorate interpretazioni del tema dell’esistenza, come  “La visita della sera” e “Sera a Velate”, del 1980; e le nature morte allegoriche del 1984, come “Bucranio”,”Mandibola di pescecane”, “Drappo nero contro il cielo”.

Non riflette solo le meditazioni  la sua vena artistica in questa ultima fase, ci sono nudi di donna  come “Ginecei” e “Due donne sdraiate” e un’opera, “Angurie”,  di un rosso rutilante, dopo tanta oscurità, prorompente di vitalità dopo tanto ripiegamento interiore, quasi una ribellione a tale stato d’animo  che Fabio Carapezza Guttuso ricorda così: “L’ora della malinconia, la nera compagna con cui da tempo dialoga l’artista che proietta la sua ombra su luoghi familiari riempiendoli di oscuri presagi”.

E’ al termine della sua esistenza, muore il 18 gennaio 1987,  tre mesi dopo la scomparsa dell’amata Mimise. Alle sue esequie una grande folla, il popolo sempre in cima alla sua ispirazione, orazione funebre di Moravia e Carlo Bo, intervengono i massimi esponenti comunisti e anche il cardinale Angelini che nella cerimonia religiosa afferma “L’eternità della sua arte è anch’essa momento e segno dello spirito che accomuna tutti gli uomini e che li predispone al mistero”.

E’ un mistero che la mostra al Quirinale cerca di esplorare con opere, che tranne la “Crocifissione” non erano  presenti nella mostra del centenario, focalizzate sulla spiritualità legata ai temi religiosi.

Le prime risposte sulla religiosità nel suo impegno civile ed artistico

Ci poniamo una prima domanda, legata al realismo della sua arte. Possiamo riferire al realismo pure queste sue opere? “A me interessa trarre da ciò che vivo giornalmente – disse lui stesso – l’elemento per dire qualcosa sulla realtà nella quale vivo, che mi circonda”. E successivamente aggiunse:  “Dipingi quello che hai davanti, con cui sei in intimità, che conosci bene perché ci stai insieme. Negli oggetti, nelle persone, nelle cose, si riflette quello che è il movimento generale della realtà”.

Facevano parte della “realtà in cui viveva”, di ciò con cui era “in intimità”, che “conosceva bene”  perché ci stava “insieme”,  i momenti legati alla religione, non come generica spiritualità, ma come sequenza di simboli ed esempi supremi, da Cristo a San Paolo, con specifici episodi evangelici,  come la Fuga in Egitto e l’Ingresso in Gerusalemme, la Cena di Emmaus, fino al legno della Croce? 

Vedremo in  seguito le risposte  di mons. Crispino Valenziano, che  analizza le opere esposte nella mostra da grande esperto di arte cristiana, teologo e filosofo, e soprattutto testimone diretto di conversazioni con l’artista e delle confidenze su questi temi sentiti e vissuti intensamente.

Alcune  risposte più generali sui motivi ispiratori dell’intera vita artistica e dell’umanità di Guttuso le troviamo nelle considerazioni di Claudio Strinati, membro del Comitato scientifico della mostra, nello scritto “Ideale civile ed elemento religioso nella pittura di Renato Guttuso”.

Innanzi tutto osserva che il suo impegno politico “non è stato mai in contrasto con una dimensione religiosa intesa in primo luogo quale sacrale esercizio della professione di artista ma nel contempo intesa come ecumenismo intrinseco al suo stesso stile, realista”. Era il comunismo sovietico che definiva la religione “oppio dei popoli”, aggiungiamo noi, nel comunismo italiano c’erano anche cattolici dichiarati, per tutti citiamo Franco Rodano; poteva a maggior ragione esserci chi, come Guttuso, “credeva di non credere” nell’eloquente espressione usata a ragion veduta da Valenziano. Del resto, l’esposizione nella mostra dello “Studio per la Fuga dall’Etna”, 1938, si inserisce in questo suo ecumenismo sensibile alle sofferenze della gente che trovano la massima espressione nel sacrificio di Cristo, visto nella “Crocifissione” come simbolo dell’umanità sofferente, perseguitata e oppressa. E non è una visione religiosa il “Colosseo”, 1973, altra opera in mostra, “come braciere e come ossario”?

La differenza rispetto alla religiosità conclamata è nella incapacità di percezione del divino nella realtà, resa invece incrollabile” da quell’imponderabile virtù che il cristiano chiama Fede”,  mentre il non credente non ha alcuna certezza personale. Ma  la fede è un sentimento oltre che  personale comunitario, e Guttuso ha sempre considerato la sua arte “intrinsecamente collettiva” in quanto rivolta all’Umanità e non al singolo, perciò i suoi dipinti sono animati da  “presenze unite da un afflato comune, da una istanza di solidarietà, di sostegno, di dialogo, di conoscenza”.  Strinati ne trae  una prima conclusione: “E’ questa la porta di ingresso a una dimensione che può essere definita religiosa e che, anzi, è una chiave di lettura complessiva per tutta la sua opera”.

A questo  riguardo cita le parole testuali di Guttuso  nel 1982 dopo aver dipinto la “Fuga in Egitto”, di cui è esposto in mostra il bozzetto molto espressivo: “Anche se comunista… io ho un senso religioso della vita… ritengo di essere un pittore civile e l’aderire agli ideali civili contiene sempre un elemento religioso”, perché esprimono le aspirazioni più alte e nobili della società.  Ci sono  verità profonde radicate nelle nostre coscienze,  che il laico riconosce pur senza dargli il valore metafisico e trascendente che il credente trae dai  Vangeli.

L’arte di Guttuso è la narrazione, laica  e religiosa insieme, di queste verità scolpite nella storia dell’essere umano e nel suo destino, attraverso le tragedie reali delle tante vicende di ingiustizie e sopraffazioni da lui dipinte in un magma nel quale confluiscono gli influssi molteplici delle forma artistiche emergenti nel suo tempo, metabolizzate nel suo inconfondibile stile personalissimo. E la verità spesso deforma e rende grottesca l’evidenza, perché va oltre la superficie spesso artatamente edulcorata per nascondere la realtà vera, di qui certe asprezze del suo stile e la “deformitas”, componente del suo realismo. La verità  è nuda, come la donna protesa verso  Cristo in Croce nella “Crocifissione” che  suscitò scandalo quasi volesse offendere la sensibilità cristiana, come sono nudi i corpi dipinti da Michelangelo nel “Giudizio Universale” della Cappella Sistina a suo tempo contestati fino all’imposizione dei “braghettoni”; come la donna alla finestra in “Spes contra spem” .

Connesso con tali verità c’è un elemento che Guttuso dichiaratamente identificava non solo nella sua arte ma anche nel suo impegno politico, cosi definito da Strinati: “La responsabilità umana e civile è la religione artistica di Guttuso ed è strettamente interconnessa con la grande e autentica tradizione cristiana”. Un ulteriore passaggio dello storico e critico dell’arte porta ancora oltre: “La responsabilità, dunque. È il ‘Vero’, il realismo come lo intende Guttuso, e il Vero è l’afflato popolare, anzi, come dice il pittore, è la gente, che per lui è proprio il popolo siciliano, emblema universale di una stirpe in perenne combattimento contro i mali del mondo”. 

Sono mali provenienti dalla società e dalla natura – la “Fuga dall’Etna” è emblematica al riguardo – che configurano un caos da tradurre in ordine e armonia come conquista finale per la quale occorre impegnarsi senza risparmio; e lui lo fece anche con l’incessante attività di critico d’arte che ci ha lasciato un patrimonio di analisi approfondite e riflessioni profonde  alla ricerca della verità, un impegno critico a cui si accosta, pur se su contenuti molto diversi, forse solo quello di De Chirico.

In questa visione,  le opere di ispirazione sociale si affiancano a quelle di ispirazione religiosa come un tutto unico animato dal tormento dell’artista dinanzi ai tanti mali che affliggono la società costituita dal suo popolo sempre oppresso e sofferente, con pochi momenti di quiete nella quotidianità pur essa da lui rappresentata ma su cui incombono gli eventi drammatici.

Lo vedremo prossimamente, con riferimento alle singole opere esposte al Quirinale.  

Info

Palazzo del Quirinale, piazza del Quirinale, Roma, Galleria di Alessandro VII,  Martedì-mercoledì, da venerdì a domenica, chiuso lunedì e giovedì, ore 10-16, ultima entrata ore 15, ingresso gratuito su prenotazione al sito del Quirinale. Catalogo “Guttuso. Inquietudine di un realismo”, a cura di Fabio Carapezza Guttuso e Crispino Valenziano, De Luca Editori d’Arte, Roma, agosto 2016, pp. 72, formato 21 x 23, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Insieme è stato pubblicato il libro di  Crispino Valenziano, “Guttuso. Pathos dell’Uomo Patemi di Dio”, De Luca Editori d’Arte e Libreria Editrice Vaticana, Roma, agosto 2016, pp. 150.  In questo sito usciranno altri due nostri articoli sulla mostra il 2 e 4 ottobre 2016. Per la precedente mostra al Vittoriano nel centenario della nascita dell’artista cfr., in questo sito,  i nostri 2 articoli il 25 e 30 gennaio 2013. In merito alle correnti artistiche citate nel testo cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle rispettive mostre: sul “campione” del  Realismo socialista, Deineka  24 novembre, 1° e 16 dicembre 2012,  e sui temi  del Realismo socialista  in “Russia on the Road”  18 e 26 novembre 2015;  per le mostre sugli astrattisti e gli altri gruppi in Italia  5 e 6 novembre 2012, sui cubisti 16 maggio 2013, sulla Secessione 12 e 21 gennaio 2015. Sui “Realismi socialisti”, inoltre, cfr. i nostri 3 articoli di fine dicembre 2011 in “cultura.inabruzzo.it”, non più raggiungibile, saranno inseriti, con gli altri 400 articoli ivi pubblicati, in apposito sito.  

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Le immagini sono tratte dal Catalogo, tranne “David suona la cetra davanti a Saul”  preso dal libro di Valenziano,  testi fornitici cortesemente da Fabio Carapezza Guttuso che ringraziamo. In apertura, “L’Atelier“, 1975; seguono, “La creazione”, 1984, e “Adamo”, 1984; poi, “Caino e Abele”, 1939, e  “Saul e David”, 1963; quindi, “David suona la cetra davanti a Saul”, 1963, e “Conversione di San Paolo”, 1977; inoltre, “Particolare della conversione di Saulo”, 1984, e “Il legno della croce”, 1980; inchiusura, “Colosseo”, 1973.

Giappone, la spiritualità buddhista nelle sculture alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

La mostra “Capolavori della scultura buddhista giapponese”, aperta alle Scuderie del Quirinale dal 29 luglio al 4 settembre 2016, presenta per la prima volta in Italia  21 opere summe, per un totale di 35 pezzi scultorei di gran pregio.Sono opere per il culto realizzate tra il VII-VIII e il XIII secolo, dal periodo Asuka al periodo Kamakura, provenienti da grandi musei nazionali e anche eccezionalmente dai templi e santuari. L’esposizione si inserisce nelle celebrazioni del 150°: anniversario del primo Trattato  di Amicizia e Commercio firmato il 25 agosto 1866, con cui iniziarono i rapporti diplomatici tra Italia e Giappone.  Il programma, gestito da un apposito Comitato, contiene una serie di altri eventi su iniziativa dell’Ambasciata del Giappone in Italia e del Consolato giapponese di Milano, dell’Istituto giapponese di cultura di Roma  e dell’Università degli Studi di Milano. L’Alma Mater Studiorum dell’Università di Bologna  ha collaborato a questa mostra, organizzata dall’Agenzia per gli Affari Culturali del Giappone, Bunkacho,  con l’Azienda Speciale Palaexpo e il supporto di MondoMostre.  La mostra è a cura di Takeo Oku, specialista delle proprietà culturali del Bunkacho, del Comitato scientifico fanno parte gli autori dei saggi del Catalogo edito dalle Scuderie del Quirinale.

Una mostra speciale, che porta il visitatore in un mondo carico di misteri e di suggestioni, permeato di spiritualità, e fa sentire il potere della divinità espresso dalle figure maestose che incutono rispetto anche in chi abbraccia una fede diversa e sente il respiro della divinità nella penombra dell’allestimento che richiama l’atmosfera dei templi buddhisti dai quali provengono.   Ma è difficile penetrare i contenuti interiori sottesi alla potenza espressiva delle imponenti sculture in legno, che è il materiale prediletto, come per gli scultori occidentali è stato il marmo anche se non mancano statue lignee di straordinario valore spirituale e artistico come le Madonne che si trovano nel Museo d’Abruzzo.

Questa difficoltà è sottolineata da Claudio Strinati quando afferma che “resta la distanza enorme  tra la immediata e spontanea percezione di queste opere, molte delle quali hanno l’evidenza caratteristica del capolavoro, e la nostra effettiva possibilità di comprendere l’essenziale in mancanza, per la maggior parte di noi, di cognizioni storico-critiche sulla scultura giapponese, cognizioni che sono pure indispensabili”. Ma subito aggiunge  che “la qualità intrinseca di queste sculture lignee è chiaramente eccelsa e l’idea di bellezza che ne promana non sembra per nulla lontana da quella reperibile nella nostra cultura occidentale”.  D’altra parte in queste sculture non si avverte il senso della continua trasformazione che rende “sfumata” l’arte giapponese, “qui vediamo , invece, immagini di assoluta evidenza e forza, che ci parlano di una cultura solidissima e perentoria nelle sue affermazioni e di una potenza creativa formidabile”.

Francesco Lizzani cerca di evidenziare la peculiarità della bellezza e della forza nell’arte scultorea giapponese. Mentre il “canone occidentale” fa leva sui concetti di ordine e proporzione, simmetria e armonia – archetipo è il “Doriforo” di Policleto nel suo perfetto equilibrio che contiene in sé “tutta l’energia potenziale della figura umana”-   l’arte giapponese si ispira al “soffio vitale”, sicché nel “Naraenkengo” di Tankei, “un lampo di energia esplode e si irradia in ogni fibra dei muscoli, dei tendini, delle vene, della veste, producendo una scarica che la figura non può contenere e dominare”. Ma Lizzani, come prima Strinati, non insiste sulla contrapposizione di diversi canoni, anzi afferma che “proprio questa mostra può aiutarci a comprendere come negli strati più profondi dell’universale umano si agitano le stesse passioni e le stesse esigenze espressive, capaci di imporsi perfino a dispetto dei più consolidati canoni estetici”. E come prima aveva contrapposto il “Doriforo” di Policleto al “Naraenkengo” di Tankei, ora accomuna “Basu Sennin”, l’eremita di Tankei alla “Maddalena ” lignea di Donatello” come espressioni vicine “di uno slancio ascetico che non nega il mondo, ma ne prosciuga il dolore dal fondo di una ‘condizione umana’ integralmente con-patita: comune sorgente e foce di buddhismo e cistianesimo”.

Ed ecco come si esprimono questi contenuti nelle opere in mostra secondo Strinati: “Figure profondamente meditative, melanconiche, introspettive ci si manifestano accanto a immagini di furie, demoni, personaggi raffigurati nel turbine di apparizioni inquietanti e terrorizzanti, sconvolgenti nel poderoso naturalismo che vi promana, eseguite da mani sapientissime e eccelse sul piano tecnico ed espressivo”. Sentimenti e impulsi che il visitatore coglie pur senza conoscere i moti interiori e i rituali buddhisti, e Strinati lo sottolinea, affermando anzi che “percorrendo la strada maestra dell’arte” si può “entrare più nel profondo della immensa complessità spirituale del buddhismo”.

Una spiritualità espressa anche collocando le sculture rituali in templi e cappelle difficili da raggiungere perché spesso situati in luoghi appartati tra montagne e foreste accessibili attraverso percorsi impervi. “L’obiettivo – scrive Laura  Ricca – è di esaltare la sensazione dell’‘avanzare’, del ‘progredire’  verso un luogo dedicato al divino, perché il sacro è difficile da raggiungere… la solitudine favorisce la meditazione e la preghiera, mentre la ricerca di un’armonia con la natura contraddistingue da sempre l’atteggiamento religioso, estetico ed artistico dei giapponesi”.  Oltre a questa ragione rituale c’è anche la speciale concezione  della bellezza: “Si tratta di una bellezza nascosta, difficile da scoprire, che si svela gradualmente in un percorso spazio-temporale anche introspettivo,  perché nella visione estetica giapponese ciò che è interiore è più importante e superiore a ciò che è esteriore. La ricerca della bellezza è un esercizio dello  spirito, una Via per giungere all’Assoluto”.

Pur se vi sono tali differenze con la nostra visione, Strinati  conclude: “Tuttavia, i pensieri scaturenti da queste opere, come la meditazione e la concentrazione, la quiete o l’ira, la comprensione o l’ostilità, sono tali da non escludere che  nessuno, che abbia attenzione e sensibilità all’arte, da un confronto con tali capolavori facile e spontaneo, a dimostrazione che l’idea giappponese di una sorta di indeterminatezza che l’arte in ogni caso tarscina  con sè, non è affatto estranea al nostro sentire e al nostro desiderio”.

A lungo le opere rituali sono state considerate come manifestazione di fede e non come espressione artistica,  questa è la prima mostra nella quale viene valorizzata l’ arte scultorea in un’atmosfera da tempio buddista.

Il  numero notevole di statue rituali pervenute si deve anche al fatto che nonostante la religione giapponese sia scintoista, nonè mai entrata in conflitto con il buddhismo, che anzi ha rappresentato il secondo pilastro religioso del paese, a parte episodi iconoclasti allorché si volle rivalutare lo shintoismo separandolo dal buddhismo.

I periodi più antichi, Asuka e Nara

La scultura rituale giapponese risale al VII secolo, il primo periodo è quello  Asaka,  nel segno del “wa”, l’armonia, considerata valore fondante dell’intera società nella Costituzione del 604, la più antica del mondo, con i suoi 17 articoli.  Il pensiero religioso, a differenza delle concezioni indiane secondo cui la misericordia divina concedeva la grazia a prescindere dalle opere,  professa la necessità del perfezionamento spirituale dell’individuo per raggiungere la salvezza: nell’arte questo si traduce in  opere di stile classico,  che esprimono calma e nobiltà.  E’ esposta una scultura di questo periodo, dedicata a “Shaka Nyorai”, “colui che ha raggiunto l’illuminazione, si è liberato dal ciclo delle reincarnazioni”, spiega  Takeo Oku, precisando che “a cominciare dal Buddha storico, Sakyamuni (giap. Shaka Nyorai” in passato sono vissuti 6 Nyorai”. In mostra sono esposte altre  4 statue intitolate a Nyorai, una per questa stessa figura ma di sei secoli successiva, le  altre su due figure diverse.  E’ un raro capolavoro di arte arcaica, l’unica scultura in  bronzo tra quelle esposte, tutte le altre sono in legno; Hidemichi Tanaka commenta: “Nonostante la semplificazione, la frontalità e l’ingenuità delle forme, questa statua possiede un’intensa nobiltà spirituale”.

Segue il  periodo Nara, la nuova capitale, siamo entrati nell’VIII secolo, la nuova fase presenta un forte centralismo politico con il dominio diretto dello Stato; è un’arte di stile classico in cui si sente l’influenza dellla Cina verso la quale si sentiva vicinanza e insieme netto distacco.  

In mostra sono esposte 2 statue dell’VIII secolo e 2e “Maschere gigaku” in lacca secca, del 752,  riferite all’arte teatrale che presenta personaggi e divinità in atteggiamenti strani, qui l’espressione evoca l’ira o l’ebbrezza.

La statua “Bonten (Brahma)” è la più alta tra quelle in mostra, oltre 2 metri, solo la testa, in lacca secca ,  è del periodo Nara, il corpo, in legno, è  del periodo Kamakura, 6 secoli dopo. Raffigura la divinità corrispondente al Brahma, che secondo l’induismo ha creato l’universo, secondo il buddhismo protegge la dottrina; viene spesso raffigurato come un nobile aiutante del grande Nyorai Sakamuni, mentre dopo il  Narà sarà presentato anche con 4 volti e 4 braccia.

“Yuima Koji (Vimalakirti Nirdesa)”, l’altra statua alta 92 cm., è dedicata al discepolo di  Nyorai  Sakamuni protagonista del  Vimalakirti Nirdesa, sutra del buddhismo Mahayana. Il maestro invitava i discepoli ad andarlo a trovare essendo malato, ma rifiutavano perché usava fare prediche aggressive forte della sua eloquenza, andò soltanto Manjusri che si confrontò con Yuima Koij sul concetto di “vuoto”, basilare  nel buddhismo Mahayana, e invece di una risposta dialettica ebbe il silenzio. E’ raffigurato seduto, con un copricapo, le ciglia aggrottate e la bocca aperta come se parlasse.

Il periodo Henian

Con il trasferimento della capitale da Nara a Kyoto si avvia un rinnovamento polittico e religioso che nella scultura dà luogo a una nuova fase, il  periodo Henjan, nel quale nel buddhismo,  spiega Tanaka,  “dalla centralità dell’impegno individuale della scuola Hosso si passò alla meno esigente concezione della salvezza come esclusivo dono della misericordia divina predicata dalla dottrina Jodo”; nell’arte  “si perse il forte carattere classico mentre si rafforzarono le tendenze all’intellettualismo e al decorativismo, spesso non disgiunte dalla sensualità”, si diffonde il “manierismo” di corte.

Di questo periodo vediamo esposte 3 statue, una dell’VIII secolo e 2 del X secolo. La più antica, alta 164 cm,  raffigura “Yakushi Nyorai (Bhaisajyaguru)”, in piedi su una base a fiore di loto, realizzata su un unico blocco di legno con una lunga apertura posteriore verticale per evitare le crepe; la veste è adornata da un panneggio con pieghe profonde e da bordi elaborati con eleganza che oltre a mostrare la perizia dello scultore danno vitalità all’immagine. E’ una statua propiziatoria  dedicata “a colui che libera gli esseri viventi dalla malattia”,  nei riti di contrizione e purificazione si pregava Yakushi e Kannon perché concedessero la salvezza ai singoli e la pace alla nazione.

“Kannon a undici teste (Ekadasamukha) “, in 42 cm raffigura la divinità in piedi su un piedistallo circolare a più strati con 10 piccole teste sopra la testa, tutto in un unico blocco di legno, è una delle prime  rappresentazioni del buddhismo esoterico introdotte in Giappone. La figura è eretta, il panneggio staccato dal corpo, il volto con occhi e naso marcati alla moda indiana.

Le 2 statue del X secolo sono molto diverse, nella tecnica e nel contenuto. Il “Sovrano celeste”, di 178 cm, in piedi, coperto dall’armatura, schiaccia uno spirito maligno che fa da basamento.  Fa parte dei“Quattro Sovrani Celesti (Shitennò)”, divinità indiane a protezione dell’insegnamento buddhista , che venivano considerate i guardiani della disciplina nei giorni del mese in cui anche i laici erano tenuti a rispettare i precetti religiosi. L’atteggiamento aggressivo, oltre all’armatura, deriva proprio da queste credenze,  la statua nella visione frontale mostra un dinamismo che si attenua nella vista laterale.

L’altra statua del X sec., “Divinità Maschile”, presenta invece una figura con bombetta e pizzetto, quindi assimilata a un funzionario, realizzata con una tecnica mista, le forme sono appena abbozzate con una lama piatta, le parti scoperte  rifinite  a colpi di scalpello con la tecnica definita “natabori”, vi sono soltanto 40 statue dello stesso tipo, le più antiche dell’inizio del IX sec. Si vuole esprimere così “il processo con cui la divinità, sia scintoista che buddhista, si manifestava  a partire dalla materia” , disvelandosi progressivamente, come abbiano sottolineato all’inizio”,  dando protezione rispetto ai demoni. Questi  sono  gli Yaksa, divinità che inizialmente portavano calamità agli uomini in quanto prendevano dimora sugli alberi colpendoli con i fulmini, ma dopo la conversione al buddhismo  cominciarono a rivolgere la loro energia contro i nemici della fede”.

Il periodo Heian si protrae nell’XI e nel XII sec.,  in mostra sono esposte 3 statue. La prima, “Bodhisattva su nuvola”,  del 1053, è di piccole dimensioni, alta 57 cm., realizzata dalla bottega di Jocho che perfezionò la tecnica  “yosegi” dei blocchi di legno sviluppando lo “warihagi” con cui il singolo blocco di legno viene tagliato all’interno per poi riunire le parti dopo aver apportato i ritocchi ritenuti necessari. Fa parte di una serie di 42 statue in atteggiamenti diversi, dalla preghiera alla danza alla musica, tutte con notevole libertà espressiva;  quella esposta ha un panneggio molto ricco con pieghe che danno il senso del movimento e un orlo molto ricco.   Le altre due statue sono della fase tarda del periodo Heian, XII sec., una di  tipo guerriero, con armatura e atteggiamento aggressivo, l’altra che ricorda le effigi consuete del Buddha.

“Tamonten (Valsravana)”, alta 157 cm, richiama i “Quattro Sovrani Celesti” già visti nella statua del X sec. cui si può accostare l’espressione del volto e il panneggio posteriore dietro la corazza, nonché l’atto di calpestare lo sconfitto che fa da basamento. La testa è stata separata dal resto e poi ricollocata secondo la tecnica appena descritta del “warihagi”. 

La statua intitolata “Amida Nyorai (Amitabha)”  è diversa da tutte le altre finora considerate, aggressive o comunque severe, la figura è accoccolata, rotondeggiante, linee morbide, panneggio armonioso, espressione placida con gli occhi a fessura,  nell’atto di ammonire o ammaestrare con il gesto della mano destra.

Il periodo Kamakura

Al periodo Heian segue quello denominato Kamakura, a seguito delle profonde trasformazioni nel mondo giapponese seguite a gravi sommovimenti,  la classe dei guerrieri subentrò all’aristocrazia. Furono  riformati  i fondamenti teologici,  oltre alle pratiche di culto,  Buddha divenne immanente nella terra degli uomini e non più nella lontana “Terra pura”, di qui le sue frequenti apparizioni ai fedeli.  La devozione non richiedeva  più la creazione di nuove statue, ma la venerazione di quelle esistenti spesso celate nei templi, e i monaci avevano il potere di mostrarle ai fedeli; poi  comparvero gli asceti che non seguivano i  normali percorsi religiosi e promuovevano  la realizzazione di nuove statue come manifestazione del Buddha immanente.

Tutto ciò si rifletteva in campo artistico e quindi nella statuaria religiosa: “Il periodo Kamakura – spiega  Takeo Oku – fu caratterizzato dal realismo in tutte le arti figurative. Si ritiene che questo realismo sia conseguenza di un atteggiamento mentale di confronto diretto  con la realtà, da cui scaturì anche la religiosità del ‘nuovo buddhismo’ di Kamakura o delle correnti riformatrici del ‘vecchio buddhismo’, che aveva come obiettivo la salvezza di tutto il popolo”. Considerando anche la diffusione di nuove statue salvifiche e di statue da abbigliare, “il realismo della scultura del periodo Kamakura può essere visto come il prodotto di una volontà di percepire concretamente l’aldilà e del desiderio di garantirsi una strada per raggiungerlo”. Vengono umanizzate le immagini buddhiste  in modo da “percepire la presenza del sacro nella realtà immanente”.

Delle statue esposte in mostra 3 presentano figure sedute, anzi accoccolate, e 6  in posizione eretta. 

Tra le prime, “Taizan Fukun” , 1237,  alta 124 cm, raffigura il dio del Taishan con un copricapo  a larghe tese, ampie maniche da funzionario , uno scettro con 2 teste nella mano sinistra, espressione corrucciata,  il Grande Sovrano della Vetta Orientale  che con i Dieci Sovrani, giudica le anime condannandole all’Inferno oppure destinandole alla reincarnazione  in uno dei sei Mondi.

Ben diversa la statua di “Nyoirin Kannon (Cintamanicakra)”“, 1224, di 96 cm, sei braccia come le divinità indiane, è la divinità che accorre su chiamata dei fedeli dedicandosi alla salvezza dei vivendi nei sei Mondi  dove le anime andranno secondo i loro meriti. La sua figura è protettiva.

Non solo divinità, vediamo anche un “Monaco”, in posa accoccolata con le mani giunte nella preghiera, altezza 83 cm,  simili statue c’erano anche nel più antico periodo Nara, del resto dopo l’ascesi venivano attribuiti loro poteri soprannaturali, come il guarire i malati con la preghiera.Tra le statue con figure in piedi ve ne sono di multiple, come  “Bishamonten (Vaisravana)”, alta 166 cm, con ai lati “Kichijoten (Mahasri” e “Zennishi Doji“, tra 70 e 80 cm. Si tratta di uno dei 4 “Sovrani celesti”, che in un’altra statua abbiamo visto chiamato Tamonten, era venerato perché scacciava gli spiriti maligni e accompagnava l’anima del fedeli nell’aldilà.; il busto leggermente piegato in un movimento armonioso e l’espressione del volto esprimono serenità.

Ugualmente  sereno il viso atteggiato  a un leggero sorriso di “Shaka Nyorai (Sakyamuni)”, di 97cm, in posizione eretta, una lunga veste che termina in strati sovrapposti avvolge la figura con panneggio a cerchi concentrici. Questa scultura è accompagnata da “I Dieci Grandi Discepoli”, statuette la cui altezza è pari alla metà della statua sopra citata, sono i 10 seguaci segnalatisi ciascuno per una peculiarità,  tra i 1250 discepoli  del maestro, raffigurati con un realismo delicato.

Dopo i dieci grandi discepoli, i “Dodici Generali Divini”, la scultura alta 90 cm evoca i protettori dei fedeli dello Yakushi Nyorai (Bhaisajyaguru) che abbiamo già incontrato con la statua dell’VIII sec.; ognuno protegge un’ora della giornata e sulla fronte ha il simbolo costituito da un animale, i dodici generali derivano dai demoni indiani abitanti sugli alberi.  E’ una figura di notevole dinamismo, il corpo piegato maggiormente rispetto al Sovrano Celeste Tamonten prima commentato, poggia su un basamento roccioso, non sulla vittima, in un dinamismo disarmonico nella posizione degli arti, e delle pieghe della veste che sventola in modo non coordinato con il movimento del corpo. Gli altri discepoli  presentano varianti nella positura e nell’atteggiamento.

Molto simili “Amida Nyorai” (Amitabha)”, e “Jizo Bosatsu ((Ksitigarbha)”, di 97-98 cm, assimilabili alla statua già citata di “Shaka Nyorai” nella compostezza della posizione eretta, nell’espressione del viso e nel panneggio, evocano l’immagine dl Buddha misericordioso che scende dalla Terra Pura per aiutare a raggiungere l’aldilà l’anima di chi sta lasciando il mondo.

Termina così la rapida rassegna delle statue in mostra, delle quali ci siamo limitati a citare gli aspetti salienti senza entrare  nei particolari  realizzativi e nei loro contenuti rituali e spirituali.

Hidemiki Tanaka fornisce  una preziosa chiave interpretativa di un mondo magico, pervaso di spiritualità e  per noi occidentali avvolto nel mistero anche per l’assenza  di una conoscenza adeguata alla comprensione , come ha avvertito Claudio Strinati da noi citato all’inizio. Ecco cosa ha detto la Tanaka:  “Secondo molti storici dell’arte, la scultura buddhista termina con il periodo Kamakurata.  Per i monaci Zen le immagini non erano oggetto di culto e il cosiddetto buddhismo Kamakura si concentrava nella pratica dell’invocazione (nenbutsu). Si  tratta di differenze nella pratica religiosa rispetto alle precedenti forme di buddhismo che sono affini alle differenze fra cattolici e protestanti. Anche se i templi delle scuole citate ospitavano  statue sacre, i fedeli, anziché vedere il divino nell’immagine sacra, cercavano con il nenbutsu   di individuare il divino dentro se stessi”.  E conclude : “Le statue buddhiste hanno continuato ad essere realizzate fino ai nostri giorni ma se le opere realizzate fino al periodo Kamakura erano animate da un’autentica ricerca della fede, nella scultura successiva, pur non mancando di valore ornamentale e di perizia tecnica, si è andato spegnendo l’afflato vitale”. 

Merito della mostra è aver permesso di coglierne il grande fascino nella suggestiva penombra del percorso espositivo dove alla bellezza dell’arte si associa la sottile magia di una spiritualità profonda  accresciuta dal senso di mistero che pervade un mondo così suggestivo.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma, tel. 06.39967500, www.scuderiequirinale.it.  Da domenica  a venerdì ore 12,00-20.00, sabato 10,00-23,00, la biglietteria chiude un’ora prima del termine delle visite. Catalogo “Capolavori della scultura giapponese”, Scuderie del Quirinale, luglio 2016, pp. 144, formato 24 28, con saggi di Takeo Oku e Raffaele Milani, Francesco Lizzani e Laura Ricca, Claudio Strinati e Hidemichi Tanaka; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per una mostra precedente sull’arte giapponese cfr. il nostro articolo in questo sito “Giappone, 70 anni di pittura e decori ‘nihonga alla Gnam”  25 aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Yuima Koji (Vimalakirti Nirdesa”, VIII sec.; seguono “Shaka Nyorai (Sakyamunil)“, VII sec., e  “Sovrano celeste”, X sec.; poi, “Divinità maschile”, X sec., e “Taizan Fukun”, 1237; quindi, “Bishamonten (Vaisaravana)”, “Kichijoten (Mahasri)”,”Zennishi Doji”, XIII sec., e “Amida Nyorai (Amitabha)”, XII sec ; inoltre, “Tamonten (Vaisaravana)”, XII sec., e   “Nyoirin Kannon (Cintamanicakra)”, 1224; infine,  “Monaco”, XIII sec; in chiusura, “Dodici Generali Divini”, 1310. 

Pietracamela, Clorindo Narducci, la storia del “natio borgo selvaggio” rivissuta con amore

di Romano Maria Levante

Abbiamo frugato in “Un vecchio zaino di ricordi” di Clorindo Narducci, il compianto  Angelino, il grande alpinista, guida alpina che ha aperto nuove vie di difficoltà estrema sul Gran Sasso d’Italia, scomparso il 27 giugno 2016, restando ammirati dal  suo amore sviscerato per la la montagna, da lui descritta in termini incantati di fronte alla bellezza naturale e spirituale che vede e sente  irradiarsi: dalle albe e dai tramonti, dai fiori e dai boschi, dalle verdi vallate  e dalle cime rocciose.

La Copertina del secondo libro

Non è una montagna generica, è la “sua” montagna, il Gran Sasso dove ha vissuto nei due versanti, uniti  e non divisi dalla catena montuosa: la prima parte della vita, in particolare infanzia e giovinezza, nel versante teramano a Pietracamela, la seconda parte della sua vita nel versante aquilano a Fossa, con la residenza portata vicino al luogo di lavoro.

Già abbiamo ricordato le espressioni rivolte al suo paese di adozione, definito  “luogo delle beatitudini”. E anche la sua esclamazione “paese mio, non ti ho scordato e non ti scorderò mai”:  che non l’ha dimenticato lo dimostra il secondo aureo libretto, “Pietracamela. Tra storia  e leggenda”, Demian Edizioni, 2014, nel quale scende idealmente dalla montagna alla ricerca delle radici di quel retaggio di usi e costumi, tradizioni e valori di cui è orgoglioso e che non vuole vadano dispersi.

Seguiamolo passo passo anche in questa impresa, estremamente impegnativa per un montanaro la cui passione unita alla tenacia riesce a fargli svolgere una ricerca storica molto personale, che utilizza la logica più che gli scarsi reperti;  una logica alimentata dalla propria visione idealizzata. Questa volta l’idealizzazione non è rivolta alla natura ma alle radici umane, nasce dalla constatazione che solo esseri straordinari potevano superare le inenarrabili difficoltà di un luogo inospitale e isolato, e creare una comunità rinserrandosi nel “borgo murato”  superando cimenti ardimentosi. E si cimenta anche in un campo estraneo a lui, uomo di montagna, quello linguistico: l’amore per l’idioma della sua terra, il “pretarolo”, lo porta a inserire al termine del libro un glossario dei vocaboli a lui più noti, può essere l’avvio di un vero Dizionario da comporre partendo da questa base iniziale fortemente evocativa.

Pietracamela, in una foto d’epoca

Dalla montagna al borgo, dal Gran Sasso a Pietracamela

L’evocazione del suo paese è preceduta dall’immersione  nella  montagna, “la montagna vera, chiesa madre, maestra di umanità, sorgente di vita, luogo di pace”, vissuta da semplici escursionisti oppure da provetti alpinisti, perchè “non vi è differenza” se non dal lato tecnico:  “Il merito, l’orgoglio, la gioia sono sullo stesso piatto d’argento, per essere offerti come una preghiera bellissima a quel Dio che ci governa e che quassù ci è un po’ più vicino  e non solo perché siamo più in alto, ma perché il nostro animo è più disposto a riceverlo e onorarlo”. La montagna è per tutti: “E’ un universo bello, dove l’uomo trova pace, tranquillità e soprattutto la gioia di vivere. Ognuno ritrova se stesso immerso nella natura a totale completamento di essa”.

Un’immersione  estasiata,  nei boschi secolari “si scopre un mondo nuovo, un mondo di folletti, si respira un’aria pungente, impregnata del sapore acre del muschio, sovrastato dal profumo dei frutti del bosco, dai mille gusti e con tanti colori”.  Dagli odori e dai colori ai suoni, “che vanno dallo stormire delle foglie mosse dal vento al canto degli uccelli o al rumore secco di uno scoiattolo impaurito, che rompe un ramoscello e fugge via lontano, fra i rami che sono la sua casa”. E la vegetazione, dai licheni alle felci, dai funghi alle bacche, tra “piccole sorgenti di acque sempre molto fresche, che rotolando verso il fondo valle cantano l’eterna canzone dei grandi alberi che le sovrastano”.

L’ingresso in paese con uno scorcio della Piazza degli Eroi in una cartolina d’epoca

Non è soltanto ammirazione estasiata, è prodigo di consigli per approfittare di tutto questo e di raccomandazioni per evitare i pericoli.  E conclude: “Che cosa si può immaginare di più bello che camminare in mezzo ai fiori? Sembra di essere in paradiso: mentre si avanza si apre un invisibile sentiero come il mare davanti a Mosè… Quanti fiori! Una sinfonia di colori… Ultimo, ma non ultima, l’aria sana, pulita, pura e frizzante. Tutto questo, e non è poco, è la montagna”.

Montagna che appare in tutta la sua bellezza percorrendo la tortuosa strada provinciale che sale da Ponte Arno in un ambiente a prima vista “inospitale e a tratti tenebroso”. Superato l’ennesimo tornante, “appena completata la svolta, esplode l’orizzonte: la visuale si allarga, riappare il sole con tutto il suo splendore e si ha di fronte Lui, in tutta la sua maestosa bellezza”. E chi è Lui? “Sua altezza il Gran Sasso, il Gigante d’Abruzzo, che sta lì immoto nei secoli, con tutta la lunghezza della sua catena, a formare la spina dorsale dello Stivale, cioè l’Italia nostra”.

A questo punto in mezzo al verde, in alto,  appare lei: “Pietracamela. Elegante e snella ma superba come una nobildonna dell’ottocento. Contornata e protetta: dal Rio Porta a sinistra e dal Rio d’Arno a destra. Un’immagine irreale, un quadro affrescato da un Angelo del Paradiso, come se aspettasse di essere appeso alle pendici di Capo le Vene, a completamento di quel mondo dai mille colori e dai tanti aspetti”. Con la montagna,”il Gran Sasso, a totale protezione dello splendido Borgo”.  

Angelino  si dedica esclusivamente alla ricerca delle radici del  paese natale, dove sono anche le proprie radici, quelle della sua famiglia. Di queste ha parlato nel primo libro tirando fuori da “un vecchio zaino di ricordi”  la descrizione delle tre ascensioni dell’insigne botanico D’Amato, di cui il nonno era la guida, che conclude: “Commetterei ora un imperdonabile errore di omissione se non raccomandassi caldamente agli ascensionisti sul Monte Corno la Guida Giuseppe Narducci di Pietracamela, e ciò è unicamente nel loro interesse”, siamo nel 1873. Inoltre ricorda la scoperta casuale sul tetto della propria casa a Pietracamela di un “pinco”, un coppo con l’iscrizione datata “24 luglio1582” attribuita ai suoi antenati, creando un collegamento forte tra le origini della sua famiglia e quelle del suo paese, e rivendicando tale nesso indissolubile.

Il Monte Calvario che sovrasta la piazza principale

Gli abitanti

Ora, nella sua ricerca appassionata, con pochi elementi disponibili, interroga se stesso, in un commovente attaccamento.

“I pretaroli li conosco bene e posso affermare che non sono stati mai secondi a nessuno. La primitiva stirpe ha prodotto uomini geniali, che si sono distinti in tutti i campi: la medicina, la pittura, le lettere, le scienze. In poche parole sono molti coloro che con le loro imprese e le tante opere hanno reso grande il nostro piccolo Borgo Murato”. Ricorda Ernesto Sivitilli, fondatore del gruppo “gli Aquilotti del Gran Sasso”, i primi valligiani che si dedicarono all’alpinismo, prima riservato “a pochi eletti cittadini” – precedendo gli “Scoiattoli” di Cortina e i “Ragni” di Lecco – dei quali cita i precursori, tra cui i grandi alpinisti, guide emerite e Accademici del CAI Bruno Marsilii e poi Lino D’Angelo, fino agli attuali componenti del gruppo; e cita  il pittore Guido Montauti, la sua arte e le sue “Pitture rupestri” del Pastore Bianco.

Risalendo ai più antichi progenitori che hanno creato il borgo si chiede: “Sono venuti, poco alla volta e in varie zone di tutto il territorio o forse tutti insieme? E quale fu il vero motivo che li spinse a migrare  e da dove venivamo, per la conquista di quelle che all’epoca dovevano essere delle lande alquanto inospitali, oltre che deserte? Era un’unica comunità oppure  erano di più origini?”.

Per rispondere in modo documentato occorrerebbero elementi di cui Angelino non dispone, ma non si arrende per questo, adotta il metodo personalissimo di trarre conclusioni da ciò che sente con la sua sensibilità: “Di una cosa ho certezza incrollabile: i fondatori di Pietracamela erano  persone speciali, una razza forte e con sani principi… il mo istinto mi dice  che quel popolo era formato da uomini che avevano un unisco scopo: la sicurezza dell’intera comunità”, di qui la scelta dell’ubicazione, il “nido d’aquile” in una zona inospitale, arroccato alla base della montagna.

Considera innanzitutto l’ipotesi di diverse etnie con propri usi e costumi e propri dialetti, ma ne prende subito le distanze: “Qui i dubbi che sorgono sono molti. Questo popolo così composto, come una piccola babele, con linguaggi diversi tra loro, con usi e costumi probabilmente incompatibili gli uni con gli altri, certamente non avrebbe avuto vita facile. Conseguenza logica la incompatibilità in tutti i sensi e il risultato una chiara conseguenza: quasi certamente Pietracamela e quindi i pretaroli, non esisterebbero”. Dato che un evento impellente sembra essere alla base della scelta di una  località impervia dove stabilirsi, l’ipotesi più coerente è che fosse un’unica comunità “forzata chissà da quale causa da noi ignorata ad abbandonare la madre patria per andare in luoghi più sicuri”.

Il locale di un antico artigiano, il banco di lavoro

Quindi nessuna fusione tra etnie diverse ed eterogenee, ma “unicità di razza” e impegno solidale fin dall’inizio nel provvedere “alla sopravvivenza e all’integrità dell’intera comunità”.  Per prima cosa “la realizzazione di un villaggio fortificato, quasi inaccessibile a qualsiasi attacco di ladri, o malfattori di qualunque specie”. Viene da immaginare il fervore di attività per ricostruire il borgo che erano stati costretti ad abbandonare nel “territorio da edificare, piuttosto vasto, rupestre, difficile, quindi pericoloso”; e l’impegno estremo, considerando anche l’altezza degli edifici, molti di tre e quattro piani, con la difficoltà date dai poveri  mezzi di allora.

Sempre basandosi su una logica stringente unita alla sensibilità di profondo conoscitore dei luoghi e delle persone, Angelino va avanti nella sua ricostruzione storica: dal nutrito complesso di case di epoca antica deduce il notevole numero di persone e dall’esigenza di sicurezza che le muoveva deduce l’organizzazione della vita urbana: “Corpi di guardia veri e propri a protezione del nascente borgo e del suo popolo”, presidi adeguati per la difesa e vedette pronte ad allertare la comunità con segnali luminosi, così la popolazione impegnata nei cantieri di lavoro, la notte poteva riposare.

Gli insediamenti per l’avvistamento e la difesa come una cintura protettiva tutt’intorno hanno fatto pensare a una pluralità di villaggi, invece per lui confermano l’esigenza primaria della sicurezza in una comunità unica e solidale, forte e laboriosa.

Come si svolgeva la vita in questa comunità all’interno del “Castello”, il borgo urbano nascente all’ombra della grande roccia a forma di cammello, che forse ha dato il nome al paese, nella zona di Sopratore, alla quale è particolarmente affezionato?: “Sopratore per noi era tutto.  Campo di gioco, le prime conquiste alpinistiche, all’inizio solo sulla rocca, piccolo Gran Sasso, normalmente già abbastanza impegnativo: raggiungere la vetta della Vena Grande equivaleva alla conquista del Gran Sasso”, E non solo: “Inoltre la Vena Grande, con il piazzale di Sopratore, risulta il belvedere più alto del Paese ed è da lì che parte il sentiero che va dal centro abitato verso il Canale , la fonte delle monache e i Prati di Tivo”.   

Questo ancora oggi, per i tempi antichi Angelino parla di “una vivibilità più umana, una sicurezza totale”, quindi di gente evoluta che non era costretta a vivere da selvaggi trogloditi, ma nelle migliori condizioni consentite dal borgo.

Il lavoto all’arcolaio, all’aperto

La sua costruzione ha richiesto un'”immane fatica” da parte di soggetti evoluti tanto che il borgo “è ancora quasi totalmente in piedi, quindi la loro opera fu ed è tuttora un’opera di alta ingegneria”, il cui significato va ben oltre l’aspetto materiale, dà un’alta qualifica a coloro che l’hanno realizzata: “Il loro quotidiano lavoro, fatto con molta passione e non privo di grandi sacrifici, protrattosi in tempi anche molto più vicini ai nostri giorni, è la testimonianza che trattasi di una stirpe sicuramente speciale, con un coraggio indomito, con un’intelligenza acuta e pronta e con uno spirito della comunità e  del dovere collettivo, veramente straordinari”.

Non è un elogio narcisistico, tanto che subito dopo afferma: “Noi uomini moderni siamo diventati un popolo che per tante ragioni non ha più la connotazione primitiva, vera condizione per una società sana e unita”; un popolo al quale manca “lo spirito combattivo che oggi dovrebbe essere innato in noi perché eredi di qui grandi che ci hanno preceduto”.

E non solo, “abbiamo anche perduto l’acutezza della nostra intelligenza in quanto non siamo più stati capaci di vedere quanto avevamo ancora sotto gli occhi, come in un libro scritto che non siamo riusciti ancora a leggere, se non qualche paragrafo di rare pagine di un grande libro, molto spesso anche poco chiare e sparse qua e là per i secoli passati”.

Angelino non pretende di aver saputo leggere il libro lasciato dagli antenati con le loro opere, anzi lancia un appello perché altri si impegnino per approfondire i temi che ha cercato di evocare soltanto con la forza della logica e la spinta del sentimento.  E arriva ad immaginare le origini e la provenienza dei progenitori, il loro percorso epocale, dal lontano Oriente alle coste illiriche, “traghettato per l’Adriatico dai Liburni, popolo di navigatori, e sbarcato sulla foce del Tronto (presso la moderna Martinsicuro) per poi occupare la vallata del Gran Sasso oggi chiamata Valle Siciliana”.

Per concludere: “Proviamo a immaginare lo stato d’animo di quegli improvvisati esploratori che, nonostante tutto, superano tutte le difficoltà, alla fine conquistano l’intero territorio di cui diventano padroni e ne fanno buon uso”. Con questo interrogativo: “Siamo noi alla loro altezza  visto che oltretutto non dobbiamo più costruire ma solo mantenere il già fatto?”.

Ballo in località laghetto, a Cima alta, tra la fine degli anni ’20 e gli inizi degli anni ’30

Il borgo, la Rocca e le Porte

Darà una risposta amara al termine della sua appassionata ricognizione nell’intero borgo, che segue l’altrettanto appassionata rievocazione, sempre immaginifica, del suo assetto originario.

La Rocca del “nido d’aquile”, il “Castello”,  aveva una struttura urbana molto solida, con edifici alti e senza finestre ai piani più bassi e finestrelle a fessura ai secondi piani per impedire accessi abusivi, con maggiore altezza rispetto al terreno sottostante, sempre a protezione; oggi ciò non  vede più per la vegetazione sviluppata alla base e lo spessore creato dai materiali di risulta che visivamente ha ridotto l’altezza delle fondamenta, oltre che per l’apertura in tempi recenti di finestre ai piani inferiori che hanno mutato i prospetti.

Il pittore Guido Montauti nel Grottone

Ma il maggior interesse di Angelino è ricostruire l’assetto urbanistico per la vigilanza e la difesa, in particolare il sistema delle Porte a partire dall’unica di cui è pervenuta una traccia fotografica. Le Porte, presidiate di notte da armati, “altro non erano che un arco di pietra, di larghezza e altezza adeguate, e variamente impreziosite con pietre lavorate da esperti scalpellini”.

Quella più recente, fotografata nell”800,  era situata a lato della Chiesa Madre e chiamata, per la sua ubicazione, Porta a Valle.  Angelino si sofferma sulle quattro fotografie disponibili, che consentono di individuare due archi, “come a creare una sorta di tunnel di pochi metri di lunghezza, uniti forse da una copertura e come se all’interno vi fosse un corpo di guardia, anche perché la prima figura sulla destra  di una delle foto sembra una sentinella”. E quella che è stata nei tempi moderni la canonica, vicina alla Chiesa Madre, era nell’antichità una torre di avvistamento, tanto che è chiamata “la torre” forse per questa origine,  non per la sua forma caratteristica.

Una“Pittura rupestre” del gruppo pittorico di Guido Montauti, “Il Pastore bianco”

La ricostruzione di Angelino individua altrettante porte sui restanti  lati  del borgo, dal centro, alla parte più alta, a quella più bassa. Dopo la Porta a Valle, salendo al centro storico, la porta principale di accesso al borgo a Piazza degli Eroi, tra le mura di sinistra con alle spalle il monte Calvario e i muri di un edificio sulla destra.

 “La porta successiva era quella di Porta Piedi. Ripartendo da Piazza Cola di Rienzo e  andando ancora avanti, si arriva a una biforcazione  dove a sinistra si va verso San Giovanni, mentre a destra si degrada verso la strada pianeggiante che poi prosegue verso Porta Fontana”.

Prima di andare in quella direzione si scende verso il Casarino e, superati due archi, si arriva dove una volta c’era Porta Piedi, nella zona chiamata Piedi Castello, alla base inferiore del borgo detto appunto “Castello”.

Risalendo lungo la ripida scalinata si passa per Piedi Terra e si riprende la direzione di Porta Fontana:  “Al primo incrocio si svolta a destra e si va verso le Lisce, nella parte più bassa anche lì si incontrano tre archi e questo forse è il tratto più scosceso di tutto il tratto della muraglia, forse è questa la ragione per cui nel tratto Porta Piedi-Le Lisce non vi sono porte fino a Porta Fontana”.

Angelino  ripercorre l’itinerario che faceva girando per il paese, ma ora la sua mente è rivolta a un passato ben più lontano, all’ubicazione delle antiche Porte, dalla Porta a Valle  e quella di  Piazza degli Eroi fino all’ultima, la più facile da immaginare perché è evidente la sua antica collocazione  “tra la  casa dello Sguitto e la casa di Gelasio”.

Centro storico, scorcio della chiesa di San Giovanni con le campane dal rintocco orario

Porta Fontana prende il nome da quello che Angelino definisce “il primo storico monumento”,  dove i paesani andavano ad attingere acqua per gli usi domestici prima che fosse realizzato l’acquedotto all’inizio del ‘900. Ricorda che la zona era frequentata dai giovani dei due sessi perché “la necessità d’acqua aveva un secondo e romantico motivo e quel tratto di strada diventava il viale degli innamorati”, dove si svolgevano i primi corteggiamenti ponendo le premesse per i matrimoni. Negli ultimi anni due mostre di fotografie e cimeli a Pietracamela hanno fatto rivivere queste abitudini e usanze, facendo conoscere le antiche tradizioni, nello stesso spirito di questa appassionata rievocazione.

Ma la passione di Angelino si trasforma in indignazione quando, nella ricerca di antiche testimonianze di un passato da mantenere vivo, trova i preziosi reperti in uno stato di avvilente degrado  da imputare non tanto al tempo, che ha le sue regole inflessibili, quanto all’incuria degli uomini, questa sì colpevole. 

Si comincia con “lo storico lavatoio. Oggi ridotto a una triste e ingloriosa fine”, anche prima degli effetti rovinosi della frana che si è abbattuta nel 2010 sulla contrada. Angelino si immedesima nel faticoso lavoro delle donne con le mani immerse nella gelida acqua di montagna, passando dalla vasca per la prima lavatura, “una sorta di ammollo con relativa insaponatura”, alla vasca di centro, “dove si faceva il primo risciacquo e la seconda insaponatura”, fino alla terza e ultima vasca “dove si faceva l’ultimo risciacquo e la torcitura; alla fine si rimetteva il tutto nella bagnarola e si riportava sulla testa per essere steso al sole ad asciugare”.

Centro storico, un edificio con il caratteristico balcone

Non sono notazioni storiche apprese da cronache antiche, ma ricordi d’infanzia e della prima gioventù, come sono ricordi personali e vivi quelli riguardanti la vicina Chiesa di Colle Molino, dove si celebravano le messe domenicali  in un tempio dalla pianta tutta particolare, immerso nella vegetazione rigogliosa, perfettamente inserito nella natura. Questo tempio nell’antichità era adibito anche a cimitero con l’inumazione nelle botole che portavano le salme al di sotto del pavimento, quindi il suo valore esteso alla memoria e al rispetto degli antenati è sempre stato altissimo. Ciononostante il colpevole abbandono in cui  è stato lasciato lo ha fatto andare in rovina, oggi ci sono soltanto i ruderi che perpetuano lo “scempio”: “Questa è un’eresia, un peccato mortale, ma soprattutto è un’ingiuria della peggiore specie: l’oltraggio ai nostri avi che avevano il diritto ad una sepoltura dignitosa, avendo il diritto di rimanere dove erano stati per tanto tempo”.

Almeno questo chiede Angelino, “rendere quel Sacro luogo degno di ospitare quei defunti, che sono tutti noi”. Ormai il suo itinerario diventa un “triste percorso”, dalla ricerca delle vestigia del passato allo sconforto per le miserie del presente. Un’altra miseria è quella di “un altro bel monumento sulla riva del Rio d’Arno: il mulino di cui sono rimasti soltanto due condotti di scarico”. Sembra l’imbocco di due gallerie, tutto è stato distrutto, anche questa vestigia della locale produzione di farina con il grano delle pur povere coltivazioni in montagna, protrattasi fino al secondo dopoguerra, come ricorda Angelino e noi con lui: l’acqua precipitava impetuosa nella gora e muoveva le macine di pietra sottostanti, una spettacolo che ci è rimasto impresso dall’infanzia.

Nel largo antistante, in un declivio naturale, come per una riparazione,  è stata realizzata da alcuni anni una piccola cavea  per spettacoli all’aperto, non c’era in passato ma si inserisce nel verde lussureggiante. Le due grandi rocce “sorgenti dalle acque” del torrente Rio d’Arno sono un fondale suggestivo dal quale si apre la discesa verso Intermesoli e la salita lungo il corso del fiume verso la montagna. Peccato che alle puntuali frecce direzionali in legno collocate dall’Ente Parco con l’indicazione degli itinerari e i tempi di percorrenza non corrisponda la manutenzione del sentiero, impraticabile perchè invaso dai cespugli di rovi.

Centro storico, la prima parte della scalinata di via Roma, sotto l’arco

Ma queste sono nostre osservazioni di oggi, Angelino è di nuovo proiettato al passato nella cui storia la “Vena dei Segatori” che si trova dalla parte opposta dell’itinerario compiuto, “merita un capitolo a parte”, posta sul crocevia tra “quattro strade di grande interesse: una verso il vecchio e diruto mulino e la chiesa della Madonna di Colle Molino, la seconda verso il Grefo e le Fonticelle, la terza verso San Rocco, per poi dividersi”, con la quarta che “risaliva verso la Rocca e Sopratore”.

Qui i ricordi si affollano, nella “Grotta dei Segatori” la gloria locale, il pittore Guido Montauti realizzò le “Pitture rupestri” del “Pastore bianco”, che noi abbiamo visto come una sorta di “Quarto stato montanaro”, sagome assorte  in un’attesa coinvolgente, tutt’uno con la roccia.  “Quell’angolo che era già un pezzo di storia per tutti i pretaroli, dal pittore trasformato in un’opera nota ai pretaroli e a moltissimi italiani e stranieri. Grazie Pittore, così come molto confidenzialmente ti chiamavamo quando d’estate tornavi a Pietracamela”.  Peccato che la frana le abbia distrutte – non tutte, alcune sono sopravvissute ed è necessario quanto urgente che vengano restaurate e sia realizzato un nuovo percorso di accesso –  mentre il Premio Internazionale di Pittura Rupestre, di cui nel 2014 si è svolta la prima edizione, impegna gli artisti contemporanei a cimentarsi  nella pittura sulla roccia per creare di nuovo l’indefinibile magia di presenze pittoriche quanto mai vive.

Centro storico, la seconda parte della scalinata di via Roma verso l’antico Municipio

Ma perché la “Vena dei Segatori” – intorno alla quale altre rocce  creavano il suggestivo ambiente con le pitture – “era ed è un pezzo di storia”?  Angelino rievoca “il ruolo ad essa assegnato, vale a dire la trasformazione dei tronchi di legno provenienti dalla vicina faggeta del Grefo in travi  e tavole”, un impegno fondamentale nella primitiva costruzione del borgo che abbisognava di tali materiali per i tetti, oltre che per le porte  e le finestre fino agli arredi, letti, tavoli e sedie, e alle suppellettili, come i manici di legno dei numerosi attrezzi in ferro.

Per quest’ultimo materiale doveva trovarsi nelle vicinanze un’officina apposita, che oltre agli attrezzi forgiava serrature e catenacci, chiavi e cardini, chiodi e quant’altro veniva prodotto in loco in un’economia di sussistenza dove erano molto limitati gli apporti esterni, anche a causa dell’ubicazione del borgo collocato in posizione impervia e isolata. Ma, nonostante tutto, i pretaroli anche nell’epoca più antica cercavano contatti e sbocchi commerciali, come ricorda Angelino citando la testimonianza cinquecentesca del primo conquistatore del Gran Sasso, Luigi de Marchi.

Centro storico, unìaltra caratteristica scalinata

I primi ardimentosi  commerci  da Campo Pericoli

E’  una cronaca altamente drammatica che prende avvio dal nome della vallata ad alta quota che congiunge il versante teramano e quello aquilano del Gran Sasso tramite il passo della Portella: Campo Pericoli, dove i pretaroli svolgevano un’attività molto pericolosa per liberarsi dall’isolamento e sviluppare un  commercio primitivo quanto vitale.

I nostri progenitori, dopo l’insediamento nel territorio, si spinsero sempre più in alto nella montagna sovrastante, prima per la caccia, poi per cercare un passaggio verso l’altro versante dove si trovavano  comunità con cui entrare in contatto.   La vallata, “sicuramente la più bella, vasta e rigogliosa, fra le più importanti della nostra montagna”  attraverso il passo della Portella, una gola tra le cime di Corno Grande, Corno Piccolo e il monte d’Intermesoli, consentiva di instaurare i primi rapporti commerciali. Quali erano le produzioni disponibili in una economia autarchica e di sussistenza?  Certamente le lane carfagne – prodotte con l’allevamento ovino che dava carne e latte – in eccesso sulle necessità locali di arredamento e abbigliamento per tessuti e coperte, maglie e altro.

Centro storico, un angolo particolarmente rustico

Si doveva raggiungere sull’altro versante, dopo Assergi,  Santo Stefano di Sessanio, la località aquilana allora in contatto con il grande mercato di Firenze da cui si diramavano gli scambi con il Nord Italia e d’Europa; si sarebbe aperta così “una finestra sul mondo”.

Vengono rievocati i primi tentativi di portare le grandi balle di lana carfagna, pesanti rotoli da far salire fino alla vallata in modo da raggiungere il valico per poi farli scendere fino alla base aquilana del Gran Sasso. Una volta portate in alto con molta fatica, diveniva naturale far rotolare le balle lungo il ripido pendio dell’altro versante, ma le rocce taglienti le riducevano a brandelli, per cui si sarebbe dovuto rinunciare se non si fosse operato in modo diverso. La soluzione fu rotolare le balle di lana nella stagione invernale, con la neve che copriva le punte rocciose: “Il tutto facilitato anche dai già noti attrezzi da loro inventati, costruiti e usati con perizia e audacia; avevano in qualche modo risolto anche il problema della rovina dei preziosi tessuti, che in questo caso scivolavano sul freddo ma sicuramente molto più morbido e alto cuscino  di neve e che loro seguivano con coraggio e silenzio”.

Centro storico, uno dei caratteristici archi

Angelino è affascinato dal coraggio dei progenitori descritto da  De Marchi, che nella cronaca della prima ascensione del Gran Sasso del 19 agosto 1573 ha lasciato una testimonianza preziosa di quanto fossero elevati i rischi affrontati nella vallata di Campo Pericoli,  per far rotolare fino ad Assergi le balle di lana e seguirle in modo spericolato in pieno inverno. Riporta testualmente in tre pagine quella che sembra una emozionante telecronaca di uno sport estremo.

Mentre  le balle di lana rotolavano senza problemi sul cuscino della neve gelata, gli uomini dovevano seguirle proiettandosi nel ripido versante a cavalcioni di lunghi bastoni con dei ferri, che avevano anche nelle calzature,  e con delle aste ferrate per poter frenare la vertiginosa discesa. Era come tuffarsi nel vuoto per tre miglia e mezzo, alla velocità degli uccelli, come scrive De Marchi, allineati sul bastone e stretti gli uni agli altri in un numero che variava da un minimo di sei a un massimo di dieci per scendere velocemente senza superare il limite di sicurezza, ma purtroppo le vittime non mancarono. In più c’erano le valanghe che nel 1579 seppellirono 18 uomini e nel 1971 un padre con due figli sulla via del ritorno, mentre fu trovata viva dopo tre giorni sotto la neve la quarta persona, sopravvissuta pur se con la perdita dei piedi per congelamento, perchè “haveva una pelliccia et una cappa di lana carfagna et haveva uno Zahiino con  pane e cacio il quale mangiò là sotto”.

Piazza degli Eroi, sovrastata da Vena Grande, con le aiuole e le panchine dell’assetto moderno

De Marchi conclude: “Tornando agli ‘huomeni della Pietra, se non vogliamo fare questa strada à tornare à  casa, bisogna allungarla una giornata di più per mala strada, ma non pericolosa com’è questa. Del che quasi tutti tornano per la strada lunga per non tornare per il pericoloso passo della Portella sopra il Castello di Sercio”, cioè Assergi.  Abbiamo già raccontato che Angelino, aprendo “un vecchio zaino di ricordi”, ha detto di essere tornato lui su quel “pericoloso passo” in tempi moderni per raggiungere da Pietracamela la sede  all’Aquila perché un lunedì la  nevicata che aveva bloccato la strada carrozzabile gli avrebbe impedito di essere al lavoro.

Ecco come Angelino commenta le condizioni estreme a Campo Pericoli: “L’enormità della fatica, il disagio del freddo, la paura di lasciarsi andare in quell’orrido e bianco burrone,  tanto pericoloso ma infinitamente importante per la loro vita”. E il coraggio degli ardimentosi: “Essi avevano la consapevolezza che l’incolumità dei compagni di viaggio era nelle mani di ognuno di loro; tanto che all’epoca erano molte le persone di Pietracamela che furono sepolte nel cimitero di Assergi perché periti proprio lungo quella gelida voragine”. Per finire: “Facilmente si intuisce quali grandi sacrifici affrontarono quei coraggiosi, e con lo spettro della morte ad ogni viaggio, con smisurata fatica e sempre con indomito coraggio. Quale nome poteva essere più appropriato se non quello quasi certamente da loro coniato: Campo Pericoli”.

La Vena dei Segatori, appena fuori dal paese verso la montagna

La voce della montagna, la voce di Angelino

Dai rischi inenarrabili dei progenitori che suscitano la sua ammirazione fino a proporne la rievocazione ripetendo il loro tuffo spericolato con le stesse attrezzature di allora come sport estremo, all’idealizzazione somma  della montagna:  si chiude il cerchio della  visione di Angelino al centro della quale c’è Pietracamela, il suo paese natale alle falde del Gran Sasso, dal 2005 entrato nel Clu dell’ANCI  “i Borghi più belli d’Italia”, poi proclamato Borgo dell’Anno 2007.

I fiori, il paesaggio, la sinfonia della natura per il semplice escursionista come per l’alpinista provetto: “Si sale sempre di più, quasi ci sembra di toccare il cielo con un dito: siamo in vetta, sopra di noi solo le nuvole, solo il cielo, Dio. Il cuore sembra voglia scoppiare, il sangue pulsa nelle vene, ci si guarda intorno avendo la sensazione di non sapere dove e a chi rivolgere la nostra attenzione”. E non è necessario salire in cima alla montagna per provare queste emozioni: “Sono tante le cose da guardare ma anche molte da percepire; ascoltare la voce della montagna che racconta la sua leggenda, la storia di tanti uomini che l’hanno visitata, amata, rispettata, vissuta”.

Angelino ci ha raccontato la loro storia, scavando nella storia del paese tanto amato, Pietracamela.  In questa storia è entrato anche lui, con le sue imprese alpinistiche, certo, ma anche con le sue evocazioni  che hanno fatto sentire in modo ancora più intenso e profondo la voce della montagna, nella quale ci sembra di sentire riecheggiare la sua stessa voce.. 

Non si potrà mai dimenticare Angelino ogni volta che si assisterà allo spettacolo della natura, ora che lui è salito su una vetta molto più alta di quelle raggiunte in vita. Lo immagineremo sempre sopra le nuvole, oltre il cielo, fino a Dio.

Campo Pericoli, con il passo della Portella, tra i due versanti

Info 

Clorindo (Angelo) Narducci, Pijtte, “Pietracamela. Tra storia e leggenda”, Demian Edizioni, 2014, pp. 80. Dal libro sono tratte le citazioni del testo. Per il primo libro di Clorindo Narducci, “Un vecchio zaino di ricordi”, Andromeda Editrice, 2008, pp. 112, cfr. il nostro articolo  in questo sito il 3 luglio scorso.. Per le mostre citate cfr. i nostri articoli, in questo sito, del 2012 sulla mostra con le foto di Aligi Bonaduce “Il pittore Guido Montauti nel Grottone” 29 agosto; del 2014, sui “Matrimoni di una volta” 17 luglio, seguito dai “Figli di una volta” 14 agosto; cfr. anche gli articoli del 2014 sulla “Mostra internazionale di pittura rupestre Guido Montauti” il 14 luglio e il 2, 9 settembre.

Post scriptum: aggiorniamo l’Info del presente articolo del 2016 per aggiungere la citazione degli articoli usciti in questo sito nel 2018, per il centenario della nascita del pittore Guido Montauti, alle date del 13, 22, 29 luglio, 11, 19, 20 agosto.

Foto

Le immagini n. 1, 3, 5, 6, 7, 11, 20, 21 sono state tratte dal libro (la n. 20 dal primo libro); le n. 2 e 4 sono d’epoca; la n. 8 con il “Ballo al Laghetto, a Cima Alta”, e la n. 9 con “Il pittore Guido Momtauti nel Grottone” sono state esposte nelle mostre a Pietracamela sopra citate, la prima sui “Matrimoni di una volta”, la seconda con le foto di Aligi Bonaduce al Pittore Montauti; le immagini n. 10, da n. 12 a 19 sono state riprese da Romano Maria Levante. In apertura, La Copertina del secondo libro; seguono, Pietracamela, in una foto d’epoca, L’ingresso del paese con uno scorcio della piazza in una cartolina d’epoca. la Chiesa parrocchiale di San Leucio all’ingresso del paese in una immagine d’epoca. e Il Monte Calvario che sovrasta la piazza principale; poi, Il locale di un antico artigiano, il banco di lavoro, Il lavoro all’arcolaio, all’aperto e Ballo al Laghetto, Cima alta, tra fine anni ’20 e inizio anni ’30; quindi, Il pittore Guido Montauti nel Grottone e Pittura rupestre del gruppo pittorico di Guido Montauti, il Pastore Bianco; inoltre, Centro storico, scorcio della chiesa di San Giovanni con le campane dal rintocco orario, e Centro storico, un edificio con il caratteristico balcone; ancora, , e Centro storico, la prima parte della scalinata di via Roma sotto l’arco; e Centro storico, la seconda parte della scalinata di Via Roma verso l’antico Municipio; ; continua, Centro storico, un’altra caratteristica scalinata; Centro storico, un angolo particolarmente rustico e Centro storixo; uno dei caratteristici archi; prosegue, Piazza degli Eroi, sovrastata da Vena Grande, con le aiuole e le panchine dell’assetto moderno, e La Vena dei Segatori, appena fuori dal paese verso la montagna; infine, Campo Pericoli, con il passo della Portella, tra i due versanti e, in chiusura, Clorindo Narducci, Angelino, davanti alla cappellina di Sant’Antonio, sulla strada provinciale prima dell’ingresso in paese. 

Clorinxo Narducci, Angelino, davanto alla cappellina di Sant’Antocnio, sulla strada provinciale
prima dell’ingresso in paese

Pietracamela, Clorindo Narducci, il “suo” Gran Sasso che domina “il nido delle aquile”

di Romano Maria Levante

La scomparsa di Angelino, così tutti chiamavamo Clorindo Narducci, avvenuta il 27 giugno 2016, dopo la recente scomparsa di Lino D’Angelo e prima di Bruno Marsilii, decani, e di Enrico De Luca, degli “Aquilotti del Gran Sasso” –  il gruppo alpinistico di Pietracamela, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga –  marca ancora di più  il passaggio generazionale che il tempo determina inesorabilmente. Il triste evento addolora chi lo  ha conosciuto e ne ha apprezzato la straordinaria umanità, al di là delle altrettanto straordinarie doti alpinistiche che lo hanno portato ad aprire vie nuove di estrema difficoltà in tante scalate di Corno Grande e Corno Piccolo nella catena del Gran Sasso d’Italia, .  

La Copertina del primo libro

Per lui le scalate non erano uno sport o un diversivo, davano un senso alla vita, e anche quando con l’età e i problemi di salute ha dovuto rinunciarvi, i ricordi erano sempre vivi e presenti nella sua mente, tanto che non ha potuto più tenerli solo per sé, ma ha voluto farne partecipi tutti.

“Un vecchio zaino di ricordi”, Andromeda Editrice 2008,  è il libro nel quale li ha trasfusi, un atto d’amore per la sua montagna, il Gran Sasso d’Italia nei due versanti, in quello teramano di Pietracamela dove è nato e vissuto, e in quello aquilano di Fossa, dove si è trasferito nella seconda parte della vita.  

Non si è fermato, Angelino, a questa pur intensa confessione di un sentimento interiore profondo, ha voluto esprimere l’attaccamento alle sue radici, e per far questo è sceso idealmente dalla montagna e si è immerso nella storia del suo paese con una ricerca altrettanto appassionata. E di nuovo ha voluto esternare i risultati in un aureo libretto,“Pietracamela. Tra storia  e leggenda”, Demian Edizioni, 2014, un altro atto d’amore nel quale c’è il timore che un patrimonio di tradizioni, di usi e consumi, insomma di vita, vada disperso e per questo ha voluto fissarlo, dalla ricostruzione storica di un insediamento così particolare, un “nido d’aquile” arroccato in un ambiente inospitale, suggestivo nel suo isolamento, al suo inconfondibile dialetto, unico nella fonetica e nella semantica.

Vogliamo ricordarlo con questi due suoi libri che ci parlano di lui, e per di più attraverso le sue parole e le sue ricerche lasciano un qualcosa di permanente e di valido per la nostra storia patria.

Corno Piccolo, Fiamme di pietra

La montagna fa parte della nostra patria, il paese natale è la nostra patria.

Partiamo dalla montagna, Angelino la presenta aprendo “Un vecchio zaino di ricordi”, in una  accorata autoanalisi: è un libro di sentimenti, una “montagna di sentimenti” mossi dalla “sua” montagna. Sentimenti profondi, valori veri, permanenti.

La sua religiosità e il suo paese

La religiosità emerge in tanti passaggi, come quelli sulla “bianca Castellana”, la Madonnina all’Arapietra vista come un altare di una grande basilica che abbraccia l’intera Italia, immagine che solo un amore sconfinato come il suo poteva concepire. 

Ma si potrebbe dire che l’intera sua visione è permeata di religiosità: una religiosità della natura come creazione perfetta con tutte le sue meraviglie, le meraviglie del Creato evocato nei momenti salienti con l’omaggio al Creatore.

           La patria è il suo paese, la sua terra tanto amata. Al punto di impegnarsi in un difficile lavoro filologico sul dialetto pretarolo, “lingua” che vuole preservare dal possibile oblio. E’ la premessa della ricerca successiva, potrà corredare il secondo libro “Pietracamela tra storia e leggenda”  di un “Piccolo dizionario del ‘pretarolo’” con 350 vocaboli italiani espressi nella lingua paesana, compreso il suo soprannome, “Pijtte”. 

Corno Grande, Paretone

Nel suo paese, oltre che nella sua famiglia, ci sono le radici che evoca con insistenza e affetto, quasi volesse stringere ancora di più un legame che sente strettissimo, per assicurare la sua vita a un altro chiodo sicuro, fermo, piantato stabilmente nella dura roccia della sua terra.

Ricostruisce la storia dai primordi in modo appassionato, non con una fredda ricostruzione storica, ma con una riflessione umana. Anche qui seguirà l’approfondimento nel libro successivo.

           Intanto scrive: “Andarono con coraggio, spinti dalla necessità, alla scoperta del gigante di roccia e ghiaccio che li sovrastava; con lentezza, tanta fatica, tanti sacrifici e certamente con molte vite perdute, ma con altrettante conquiste ottenute ancora con la loro bisaccia a tracolla, con pochi viveri e molto ardimento”.

“Primo corso Guide e Portatori 1954 (in piedi sul fondo, a sinistra, Clorindo Narducci, a destra Lino D’Angelo), foto Marsilii”

E’ una Una storia dove i sacrifici non hanno tempo. E non hanno limiti i dolori e le sofferenze.

Ne è espressione l’arco sotteso, tra inizio e fine del libro, tra le vittime nel bianco accecante di Portella a Campo Pericoli e quelle nel buio delle gallerie scavate per le centrali elettriche, “l’opera ciclopica”. Dall’epoca di Luigi De Marchi, primo conquistatore del Gran Sasso di fine 1500, il doloroso tributo di vite umane sul lavoro prosegue nel remoto paese di montagna, come purtroppo in ogni latitudine.

            De Marchi ricorda come i pretaroli si lasciassero scivolare dalla Portella lungo il ripido pendio ghiacciato dopo aver lanciato i “ruotoli del panno”, Angelino compiange le vittime di allora e di sempre. E’ bella l’immagine in cui il “tran tran quotidiano della vita montana” viene scosso dal suono della sirena del cantiere che scandisce la fine dei turni sovrapponendosi ai rintocchi dell’orologio della chiesa di San Giovanni. E quando suona fuori orario è segno di tragedia in galleria. Quanta umanità in questi ricordi!

E’ espressione dei sacrifici richiesti da una terra avara anche la storia dell’emigrazione alla quale dedica immagini dolcissime. La tristezza della partenza è compensata dalla gioia del ritorno con tante scoperte e tante sorprese, tante emozioni e tante soddisfazioni: dal dramma all’epopea.

“Clorindo Narducci all’età di 18 anni alle ‘Fiamme di pietra’

     Si immedesima nell’emigrante ripercorrendone il ciclo di vita come se fosse lui stesso a compierlo: parte dal paese con angoscia, arriva in Canada, ritorna nelle vesti e nell’animo di chi è dovuto partire.  Arriva anche a proporne la celebrazione per mantenerne memoria perenne con un Monumento, delle pietre votive per i morti al di qua e al di là dell’oceano, una festa coincidente con quella della Madonnina; oltre al gemellaggio con Toronto, meta di gran parte del flusso migratorio..

      Ma cos’è il luogo natio per Angelino?  Bastano queste sue parole: “Paese mio, non ti ho scordato e non ti scorderò mai! Le strade del mondo sono le tue strade in qualunque paese o città io sia; per qualunque via io cammini sono fra le tue mura, sono con la tua gente, respiro la tua aria, rivivendo a pieno la mia fanciullezza e adolescenza, fino ai primi anni di uomo sposato e con figli. Il mondo è il mio paese, tu sei il mio mondo”.

PerPerò non si sente esule, emigrante in patria e lo dice esplicitamente: ha trovato nel paese d’adozione nuove radici. Parla di Fossa con affetto, ricerca anche i collegamenti antichi di questo paese dell’aquilano con la sua terra trovando “Nannaluccio”, un paesano che già negli anni trenta si era trasferito da Pietracamela a Fossa.

In fondo la sua terra è la montagna, il Gran Sasso, che divide il versante aquilano da quello teramano, Fossa da Pietracamela. Ma forse è meglio dire che unisce, perché la montagna è una, unica e unita come il sentimento che la lega ad Angelino. 

“Narducci e D’Angelo, prima invernale nella Parete Est del Corno Piccolo – foto Marsilii”

Dinanzi al Gran Sasso esclama: “Io in qualunque momento posso vedere il confine che separa il mio paese da quello d’adozione e idealmente sentirmi a casa mia fra la mia gente”.  E prosegue: “Fossa, dove io mi sento perfettamente a mio agio e dove la mia vita scorre serena nel pieno rispetto di tutti i cittadini di questo paese da me ampiamente ricambiati, paese ricco di storia millenaria e con opere di valore, uniche e importantissime, con un’agricoltura fiorente ha dato, cosa più unica che rara, i natali a due santi e a due beati”. E li ricorda: “San Massimo, protettore dell’Aquila, San Cesidio, martire dell’Eucarestia, il Beato Domenico sepolto a Nizza e  il Beato Bernardino dottore della Chiesa”. E aggiunge che “altri beati e Asceti hanno frequentato questi posti”, ci sono i “santi e le spelonche” e l’eremita San Franco.  Poi descrive “la grande esedra rocciosa che sovrasta il centro abitato e la dolina carsica che ha dato il nome al paese ed è oggi totalmente riempita”.

“Ecco perché questo paese – conclude – è stato a ragione denominato ‘Luogo delle Beatitudini’, una landa di mondo favorita dal Creatore e abitata da un popolo con il quale si vive bene”. Ancora non si era abbattuta su questo paradiso la mazzata del terremoto dell’aprile 2009, che ha colpito entrambi i suoi paesi, Fossa e Pietracamela, compresi nel cratere sismico, e ha costretto Angelino  a lasciare per lungo tempo la propria deliziosa abitazione montanara di Fossa divenuta inagibile.

“Narducci e Marsilii, prima invernale nella Parete Est del Corno Piccolo – foto D’Angelo”

Vedeva questi paesi uniti nella bellezza, prima di vederli feriti dalla furia della natura: “Fossa ai miei occhi ha ancora un gran pregio: quello di essere proprio di fronte a Campo Imperatore, quindi come una gran dama d’altri tempi austera e nobile si specchia sulla vela maestra del Gran Sasso per farsi bella e a me, comunque, sembra di essere sempre a casa: Fossa, il Gran Sasso come ‘legame’, Pietracamela, un itinerario, due paesi e una montagna, a formare una triade perfetta”.

La sua montagna

      I valori di Angelino, le sue radici sono racchiusi nella sua montagna, nella quale identifica la sua terra, il Gran Sasso,  ma che diventa cosmica, globale, espressione massima della Creazione.

Alla montagna si riconducono non solo la religione, la famiglia, l’appartenenza alla terra, ma anche le virtù che rendono forte la persona, dalla pazienza alla perseveranza, dal coraggio all’umiltà.

L’amicizia cementata dagli altri valori si ritrova nelle pagine sugli “Aquilotti del Gran Sasso”,  “pigmei all’assalto del gigante”, un sodalizio di coraggiosi fondato nel 1923 da Ernesto Sivitilli – un medico appassionato alpinista – che per tre generazioni ha tramandato l’arte dell’arrampicare, primo gruppo in Italia, e continua a mantenere viva la passione e anche i valori sottesi ad essa. Ricorda i nomi dei precursori con i caratteristici soprannomi, quelli dei continuatori,  tra cui lui stesso e Lino D’Angelo dopo Bruno Marsilii, fino ai seguaci attuali.

“Clorindo e Lino

E’ un’amicizia che diventa gratitudine sconfinata fino alla venerazione per lo “Zio Lino”, la guida,  alpinista eccelso, il maestro e il mentore, ne sente la presenza quotidianamente, avendogli appreso da lui tutto dell’alpinismo e non solo, afferma con umiltà e devozione. Anche lui, come detto all’inizio, se n’è andato di recente, precedendolo come nelle loro scalate.  

      Nessun moto di giottesca voglia di superare il maestro, nessuna evidenza alle proprie capacità alpinistiche, presenta sempre e solo lo “Zio Lino” come ‘artefice indiscusso delle scalate, anche se le prime ascensioni al limite delle possibilità hanno impegnato parimente lo stesso Angelino. Come quando Lino rimase ferito alla mano, come quando Angelino si accorse che non aveva più il sostegno del chiodo, quindi doveva sbrigarsela da solo e senza sicurezza.

      Ed è toccante anche l’elogio postumo a Bruno Marsilii, tra i fondatori del gruppo degli Aquilotti e suo prestigioso compagno di molte cordate difficili, sempre insieme allo “Zio Lino”.

“Invernale 2”

Le scalate

Belle e intense le descrizioni alpinistiche, ma non si creda che indulga nel raccontare la tecnica delle scalate, è interessato più al resto: ai risvolti psicologici, agli aspetti ambientali.

     Particolarmente interessanti le parti in cui si sofferma sulla preparazione delle scalate: dal sogno all’idea, alla progettazione, con avvistamenti sempre più ravvicinati, poi alla decisione fino alla levataccia per essere all’alba all’attacco della parete, infine la stretta di mano in vetta, il modo sobrio per festeggiare.

     Le scalate rappresentano solo cinque capitoli sui ventisei del libro e, ripetiamo, anche in essi c’è  molta umanità oltre al racconto alpinistico che le fa rivivere. Noi ci limitiamo a un rapido accenno, l’elenco delle vie aperte da Angelino sarebbe molto lungo quanto prestigioso.

      Descrive la prima ripetizione dello spigolo a destra della Crepa, con il gustoso episodio delle suore e la lezione di vita dell'”oracolo Lino”.

Poi la prima ascensione nella parete sud della Punta Livia nell’arco di due giorni, con la descrizione delle attrezzature artigianali predisposte per l’occasione sempre dallo “zio Lino”.

” Grande cengia del Paretone, prima salita al Terzo pilastro: Narducci e D’Angelo – foto D’Angelo”

Segue la via Aurelio Spera dedicata a un compagno al Corso di portatori e guide alpine prematuramente scomparso, percorsa con lo “zio Lino” e il dottore, Bruno Marsilii, dopo l’incidente della “pluridecantata e sempre presente” Vespa di Lino.

Ci fa sentire con lui nella prima salita invernale della parete Est di Corno Piccolo, con la “vista inaspettata di un nugolo di farfalle” e lo splendore della montagna baciata dal sole: “Quei raggi che colpivano il suolo ghiacciato si riflettevano e rifrangevano dando luogo ad un gigantesco caleidoscopio, netta era la sensazione di essere su una montagna di cristallo… Rendeva d’oro gli strapiombi e d’acciaio brunito le pareti”.

Della prima salita del Paretone  basta ricordare le parole iniziali del racconto per essere invogliati a leggerlo: “L’imponenza, la maestosità, la grandiosità, la superba e vertiginosa verticalità rendono questa impresa grande ed esaltante”; ma vi sono anche i momenti “che sembrarono eterni”  perché la situazione divenne molto pericolosa. E non solo nelle difficili scalate.

“Sulla parete

RacRacconta la “traversata inevitabile”, l’attraversamento del Gran Sasso in pieno inverno sugli sci. E’ straordinaria la semplicità con cui ricorda un’impresa temeraria; fatta non per senso sportivo o per un traguardo ambito, ma per non mancare al lavoro all’Aquila il lunedì mattina, non essendo raggiungibile in autobus da Pietracamela a causa del blocco delle strade per una forte nevicata. Non solo prova di coraggio dell’alpinista ma di grande serietà della persona.

      Troviamo anche la descrizione di come questa traversata – Pietracamela-L’Aquila e ritorno – se fatta nella bella stagione può essere fonte di vero godimento per il turista al quale dà tutte le indicazioni e fornisce i particolari di un itinerario suggestivo. Che attraversa Campo Pericoli, simbolo della vita perigliosa dei progenitori che si lasciavano calare sul pendio ghiacciato a rischio della vita.

Abruzzo forte e gentile in queste pagine scritte da Angelino sulla sua montagna: come l’ha vissuta, e come l’ha idealizzata con parole veramente ispirate.

“Vicino alla vetta”

      La grande bellezza

ma,Ma, ripetiamo, la parte alpinistica è secondaria rispetto all’ammirazione per la montagna nella sua grande bellezza. Comincia con una bellezza generalmente trascurata, quella dei fiori. Dove alla bellezza estetica si aggiunge l’interesse scientifico, ne parla sin dall’inizio raccontando le sue ricerche dei fiori rari per conto dell’illustre botanico prof. Zodda.

Ed è straordinaria la cura  nella ricerca e nella raccolta, c’è una lettera del professore  meticolosa e dettagliata dalla quale traspare l’amore dello studioso ma anche la fiducia per la giovanissima guida alla quale trasmette le istruzioni: un’intesa, un “feeling”, si direbbe oggi.

Così le mani del montanaro scalatore diventano leggere e delicate come i teneri fiori montani che raccoglie, il suo sguardo, non più alla ricerca di appigli ma di virgulti, appare intenerito e dolce. Fanno a gara nel mettere sull’altare i fiori raccolti, nel custodirli con amorevoli cure.

Camino Ciai”

E’ istintiva la domanda che si fa Angelino se il professore ha mantenuto la promessa di citarlo come il ritrovatore della “primula Orsini”; come è spontaneo il rammarico per non essere riuscito a trovare invece il “papavero giallo di montagna”, che resta misterioso e inafferrabile cone l’araba fenice. Né è riuscito a individuarlo –  mi ha confidato – nelle ricerche svolte negli ultimi anni sull’erbario fiorentino.

      Quando parla del “Gran Sasso primo incontro” descrive “uno scenario di fiaba, superbo, a volte austero” della montagna. E spicca la visione dei Prati “come la veste di una gran signora allacciata alla vita, i Prati: candidi e virginali d’inverno, verdi di speranza la  primavera, una gran festa d’estate; mille  e più i colori, tantissimi i fiori, la veste merlettata di boschi ai lati”. Una straordinaria visione antropomorfa.  Ma è solo l’inizio, e lo vedremo presto.

Intanto “la prima grande emozione”, l’iniziazione fu quasi casuale, da ragazzo: una normale gita dal paese ai Prati di Tivo, una sosta alla casetta Mirichigni con l’attenzione carpita da capanne fatte di paletti fissati e annodati in modo meticoloso che descrive con molta cura, poi fronde e arbusti a coprirne la parte superiore anch’essi osservati minuziosamente.

“Uscita camino Ciai”

La sua attenzione è attirata da questi particolari, poi si rimette in cammino sul sentiero, “a tratti a pieno sole”, finché la rivelazione. Così la descrive: “Di colpo si aprì il sipario su uno scenario fiabesco, apparve in tutto il suo splendore e nella sua meravigliosa bellezza Lui, il Grande Gigante. Il respiro diventò un rantolo, il cuore batteva veloce. Il sogno si avverava anche se era solo l’inizio. Anche se già in altre occasioni avevo ammirato il Gran Sasso dai Prati di Tivo in compagnia di grandi, questa volta ero solo, io e la montagna, quasi in simbiosi con la natura viva, vera,  quasi  selvaggia. Ricordo ancora la sensazione di sentirmi sempre più piccolo, più i miei occhi si soffermavano sulla grandiosità del massiccio e più diventavo piccolo come se implodessi nel mio cervello senza poter far nulla per fermare quella sensazione che mi stringeva la gola, fino quasi a strangolarmi.  Ero solo, dovevo reagire. Improvvisamente mi sentii grande: avevo preso la mia decisione importante, autonoma: a tredici anni mi sentii uomo, forse quello fu il momento in cui decisi che una parte della mia esistenza sarebbe servita alla scoperta e alla conoscenza dei miei monti, come già prima di me avevano fatto i miei avi”.

Partendo da questa premessa non deve stupire l’idealizzazione della montagna, la sua visione dall’interno che gli consente di scoprire, vedere, ammirare, aspetti che sfuggono anche a chi ne ha un’immagine non superficiale ma non ha l’occhio così esercitato nè l’animo così sollecitato dai ricordi di esperienze dirette, indimenticabili.

Cerchiamo di spigolare, fior da fiore, tra le belle pagine scritte da Angelino, e ognuno potrà immedesimarsi vedendo la montagna con i suoi occhi e soprattutto con il suo animo e il suo spirito.

“Camino vetta”

Il quadro d’insieme: “Qualunque sia il volto che ci mostra è sempre di una bellezza incomparabile a qualunque altra armonia conosciuta, perché la sua attrattiva è totale e assoluta sempre. Per apprezzarla, amarla e conoscerla in tutte le sue vere sembianze è essenziale viverla intensamente e quotidianamente. Solo così essa c’insegna a riconoscere le sue ricchezze immense, in fatto di fascino, di panorami grandiosi, di flora e fauna. Solo così si riesce a riconoscere ed evitare i suoi grandi pericoli, anch’essi comunque sono parte integrante e giustamente completano l’attrattiva e l’incanto dei monti esaltandone il fascino, quasi spiritualizzandoli”.  Una natura, aggiungiamo noi, che anche quando sembra ostile e violenta, fonte di difficoltà e di pericoli,  resta sempre madre, non è mai matrigna.

I particolari: “Ammirare il merletto delicato di una cresta, il disegno strampalato di una parete, o il tetro di una gola umida e fredda, di una forra buia e viscida, seppure  in antitesi tra di loro, rappresentano sempre una bellezza primordiale, una bellezza di un’altra dimensione”.

Ed ecco cosa suscita la vista del sorgere del sole dalla vetta orientale del Corno Piccolo: “Improvvisamente la grandiosità del creato sembrava essere tutta sotto i miei occhi ed io ne  ero il centro e al centro di esso… Io piccolo, insignificante essere umano ero salito idealmente sulla vetta più alta dell’Universo. Avevo visto il paradiso, ero stato al cospetto di Dio (dove gli angeli ti volano intorno come variopinte libellule, in uno stagno argenteo e un cielo azzurro) e dove volano gli angeli è il paradiso. Il sole torna a splendere, il mondo torna alla normalità, il comune mortale con nostalgia e rimpianto torna su questa terra a raccontarlo ai suoi simili. In quanti crederanno e capiranno?”.

“1960, vista dalla finestra della Chiaravaglia

Potranno capirlo coloro che sanno vedere il moltiplicarsi delle stagioni come Angelino, quando il fulgore del sole che brilla sul ghiaccio in pieno inverno può far pensare alla primavera mentre un freddo mattino di primavera con la brina che copre la natura può far tornare all’inverno e una notte estiva e buia ci riporta a stagioni più tristi e inclementi.

Le sensazioni e le emozioni

Ma non si potranno provare tutte le sensazioni, neppure Angelino ne è capace e lo confessa: “Non riesco più a rivivere quelle emozioni, la sensazione di una libertà infinita, come librati nell’alto del cielo e di lassù avere il dominio del mondo intero – non un dominio materiale ma un senso di potenza interiore che ti permette di vivere in un mondo che, forse, pochi riescono a sentire; sicuramente coloro che entrano in simbiosi con il creato e il Creatore. E’ questo uno stato di grazia che appaga completamente e una sensazione vissuta solo in rare occasioni in montagna”.

Tuttavia quelle sensazioni riesce a ricordarle nitidamente e ce le fa vivere con le sue parole, a noi che non le abbiamo provate con tale intensità. La montagna si apprezza con tutte le facoltà sensoriali:  la vista, l’udito, il tatto, l’olfatto e anche il gusto, perché può gustarsi l’insieme di immagini e sensazioni. Quando la si “ascolta”, e si sa ascoltare, non finisce di stupire.

“Lino e Clorindo, oggi”… “il duo storico”, compagni di cordata in tante prime vie

Anche questo emerge dalle parole di Angelino: “Tutti credono nel silenzio della montagna: niente di più falso. La montagna ha una sua vita, la montagna ha una sua voce, la montagna ha un suo cuore che pulsa, la montagna ascolta, la montagna parla e racconta: leggende, favole, e soprattutto racconta la storia di tanti uomini che l’hanno amata e rispettata, solo come si può amare una bella donna”.

E tra questi, davanti a tutti i pastori. Dai loro primitivi strumenti musicali, racconta,  “traevano musiche dolcissime che invadevano le valli e risalivano le pareti, accarezzavano le creste. E sulle ali del vento formavano concerti senza fine, né di tempo né di spazio  e tutte quelle melodie ancora oggi e per sempre vagano sui monti per chi sa ascoltarle, traendone serenità e felicità”.

     IIn montagna la “voce del silenzio”  può essere assordante, può trasmettere l’onda di un’eco infinita, può racchiudere tutti i suoni dell’universo, inteso come creazione, può essere la voce del Creatore. Ci fa sentire questa voce con le sue belle immagini, senza sovrapporsi alla nostra immaginazione. Perché, ci ricorda, “la faccia più bella della montagna è quella che ciascuno di noi ha idealizzato nel suo cuore o l’immagine che pur sempre rimarrà nei suoi occhi e nel suo cervello”.

Clorindo Narducci, nella neve

Il lascito di Angelino

Rimangono nei nostri occhi e nella nostra mente le suggestive  immagini che muovono  in noi emozioni e sentimenti suscitati dalla montagna rivissuta attraverso la sua sensibilità: perché l’animo di Angelino è un animo puro, lo spirito di Angelino uno spirito generoso, il cuore di Angelino un cuore caldo. 

      Non è solo in un vecchio zaino di ricordi che Angelino affonda le mani, scava nel suo animo, nel suo spirito, nel suo cuore. Con gli occhi del saggio di oggi ci regala intatte le emozioni del giovane di ieri innamorato del suo Gran Sasso e del suo paese..

Dobbiamo essergli grati per averci fatti partecipi  delle meraviglie della natura con le bellezze che ci ha mostrato della sua e nostra montagna; e per farcele apprezzare ancora di più rivelandone aspetti reconditi e sorprendenti; e con essi aprendoci il suo animo, il suo spirito e il suo cuore che ha saputo preservarle per farcene dono prezioso.

Clorindo Narducci, un primo piano

Nella sua “visione personale della montagna” confida: “Descrivere, raccontare, esaltare la montagna è forse facile, entrare in comunione con la montagna è forse l’arrampicata più difficile; questa è un’impresa che solo pochi eletti riescono a compiere e chi ha questo privilegio non sa riconoscerlo, perché è la sua modestia a renderlo degno di averlo”.

Ebbene, queste parole di Angelino sono l’immagine più vera di quello che è stato capace di fare, del privilegio che ha avuto di entrare in comunione con la montagna, facendo trasparire l’umiltà di non essersene reso conto appieno. In noi ha suscitato la presunzione di rendercene conto perché è riuscito a farci entrare in comunione con la montagna trasmettendoci le forti sensazioni che ha saputo descrivere.

Continueremo ad ascoltare le sue parole dinanzi allo spettacolo della natura, a sentirlo vicino a noi con la sua passione, la sua sensibilità. Lo stesso avverrà quando saremo nel suo e nostro paese, al quale ha dedicato il secondo aureo libretto “Pietracamela, tra storia e leggenda”, del quale parleremo prossimamente. Anche questo è il lascito prezioso dell’indimenticabile Angelino. “Il duo storico oggi“, con Lino D’Angelo, l’abituale compagno di cordata in tante prime vie.

“Pietracamela – Foto Narducci (da notare, in alto a sinistra, la roccia a forma di testa di cammello)

Info 

Clorindo Narducci, “Un vecchio zaino di ricordi”, Andromeda Editrice 2008, pp. 112. Dal libro sono tratte le citazioni del testo. Per il secondo libro di Clorindo (Angelo) Narducci, Pijtte, “Pietracamela. Tra storia e leggenda”, Demian Edizioni 2014,  pp. 80, cfr. il nostro articolo che uscirà in questo sito il prossimo 5 luglio.. Cfr. in questo sito il nostro articolo sul libro “Corno Piccolo” di Ernesto Sivitilli, il fondatore del gruppo “Aquilotti del Gran Sasso” il 12 settembre 2013.

Post scriptum : aggiorniamo l’Info del presente articolo del 2016 per aggiungere la citazione dell’articolo uscito in questo sito nel 2018, sugli “Aquilotti del Gran Sasso” nell’ambito della festa “Il borgo in Arte”, il 31 agosto,

Foto

Le immagini n. 1, da 4 a 8, 10, da 16 a 20, sono state tratte dal libro con le didascalie virgolettate; le immagini n. 9, da 11 a 15 sono state fornite cortesemente da Domenico Verdone, titolare di “Andromeda” editrice del libro, che ringraziamo di averle messe a nostra disposizione per questo ricordo condiviso di Angelino, anche per queste immagini i titoli virgolettati sono quelli scelti dall’autore; le immagini n. 2 e 3 sono tratte dai siti “summitpost.org” e “teramoprovincia.com”, i cui titolari ringraziamo per l”opportunità offerta; l’ultima, n. 21 è stata ripresa da Romano Maria Levante. In apertura,  la Copertina del primo libro, seguita da Corno Piccolo, Fiamme di pietra e Corno Grande, Paretone; poi le immagini di Angelino, “Primo corso Guide e Portatori 1954 (in piedi sul fondo, a sinistra, Clorindo Narducci, a destra Lino D’Angelo), foto Marsilii”, e “Clorindo Narducci all’età di 18 anni alle ‘Fiamme di pietra’“; quindi, “Narducci e D’Angelo, prima invernale nella Parete Est del Corno Piccolo – foto Marsilii”, e “Narducci e Marsilii, prima invernale nella Parete Est del Corno Piccolo – foto D’Angelo”; inoltre, “Clorindo e Lino” , e  “Invernale 2”; ancora, ” Grande cengia del Paretone, prima salita al Terzo pilastro: Narducci e D’Angelo – foto D’Angelo”, e “Sulla parete”; continua, “Vicino alla vetta”, e “Camino Ciai“; prosegue, “Uscita camino Ciai“, e “Camino vetta“; poi, 1960, vista dalla finestra della Chiaravaglia, e “Lino e Clorindo, oggi….”il duo storico”, compagni di cordata in tante prime vie; quindi, Clorindo Narducci, nella neve e “Clorindo Narducci”, primo piano ; infine, “Pietracamela – Foto Narducci (da notare, in alto a sinistra, la roccia a forma di testa di cammello)” e, chiusura, Il Gran Sasso con alle falde Pietracamela.

Il Gran Sasso con alle falde Pietracamela

Quadriennale di Roma,,la 16^ Edizione al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Il ritorno della Quadriennale di Roma  dopo otto anni, con la 16^ edizione,  è stato presentato  il 6 giugno 2016 nel grande salone del Ministero dei Beni Culturali al Collegio Romano,  con l’intervento del ministro Dario Franceschini, dal suo presidente Franco Bernabè e dal Commissario all’Azienda Speciale Palaexpo Innocenzo Cipolletta  partner dell’iniziativa prodotta in modo paritetico. La mostra, allestita al  Palazzo Esposizioni dal 13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, sarà una che vetrina dell’arte contemporanea con  150 opere di cui 60 nuove e  90 realizzate soprattutto nell’ultimo biennio.

Una presentazione non rituale, quella della 16^ Edizione della Quadriennale di Roma, con  gli 11 giovani curatori i quali, dopo l’esposizione del presidente Bernabè , che ha sottolineato la ricerca della  “creatività” a tutti i livelli, hanno illustrato i criteri seguiti da ciascuno di loro nella scelta degli artisti e le relative motivazioni . I risultati si vedranno nella mostra al Palazzo Esposizioni dell’autunno-inverno 2016  con 99 artisti, numero che non è un  richiamo alla Fontana delle 99 cannelle dell’Aquila, simbolo dell’Abruzzo, ormai sono lontani i tempi della solidarietà post terremoto; prelude alla “centesima opera”,  o meglio al “100° artista”, Sandro Ghia con  la sua BMW Art Car che sarà posta a chiusura del percorso espositivo.

Questo si deve alla novità introdotta nel rapporto con i privati che concorrono alla copertura del budget di 2 milioni di euro, metà del quale finanziato dalla Direzione generale Arte e Architettura contemporanea e Periferie urbane del Mibact, l’altra metà coperta dai due partner promotori e dagli sponsor; lo sponsor principale è l’ENI che partecipa con una installazione permanente al Palazzo Esposizioni e un progetto di comunicazione rivolto ai giovani  sull’arte contemporanea; sponsor la BMW Italia che celebra i propri 50 anni e i 100 anni del BMW Group con l’opera citata.  Tra i partner l’Axa Italia e l’Axa Art, impegnati nella valorizzazione delle nuove generazioni artistiche anche con altre manifestazioni, Illy che partecipa con un Premio e Fondazione Altagramma con il ruolo di Ambasciatore della Quadriennale.

E’  importante che l’intervento dei privati non si limiti alla partecipazione finanziaria ma si traduca in  alleanze legate  a progetti specifici: può essere la nuova frontiera di un rinnovato interesse per l’arte con un effettivo mecenatismo che possa servire di sostegno ai giovani artisti contemporanei.

Che la Quadriennale di Roma ne sia l’apripista è insito nella sua stessa funzione:  presentare una rassegna dell’arte contemporanea,  una vetrina prestigiosa per le nuove generazioni delle opere più recenti. L’assenza per otto anni – è saltata l’edizione del 2012 – accresce il valore dell’edizione attuale anche perché, piuttosto che “recuperare” il tempo perduto, si proietta ancora di più in avanti, con il 40% delle opere scelte del tutto inedite e il 60%  soprattutto degli ultimi due anni.

Inoltre è prevista nello stesso periodo una serie di eventi collaterali sull’arte contemporanea  a Roma,  nei musei, fondazioni e gallerie che vi hanno aderito, finora  25 ma l’adesione resta aperta. Sarà  promossa un’attività didattica nelle scuole per farla  conoscere e apprezzare ai più giovani.

La selezione dei curatori

Si potrebbe dire che l’edizione del 2012, che è stata “saltata”, nella sostanza è stata sostituita dal Padiglione Italia della Biennale di Venezia  del 2011 nel 150°  anniversario dell’Unità d’Italia. Vittorio Sgarbi  lo  organizzò all’insegna di una vis polemica esibita da par suo contro i critici d’arte,  volutamente esclusi dalle selezioni:  le opere realizzate a partire dall’inizio del nuovo millennio furono  selezionate da personaggi che lui stesso scelse tra i non addetti ai lavori ma in posizione eminente nel mondo della  cultura e nella società . Risultato: un gran numero di  opere esposte nel Padiglione Italia a Venezia  e nei padiglioni regionali, per il Lazio a Palazzo Venezia

Bernabè, nella sua ricerca della creatività giovanile anche dei segnalatori-curatori oltre che degli artisti, non è stato da meno di Sgarbi nell’innovazione, perché  non ha seguito il metodo tradizionale di affidare la cura della Quadriennale a una Commissione nominata dal Consiglio di Amministrazione; nè  ha scelto lui i curatori  a cui affidare la selezione delle opere e degli artisti come ha fatto Sgarbi rivolgendosi ai VIP,  ma è ricorso a una speciale procedura che ha richiesto sei mesi di tempo, per garantire la massima aderenza agli obiettivi posti alla 16^ Edizione della Quadriennale, così enunciati:  “Contribuire in maniera significativa a individuare e a valorizzare le espressioni più rilevanti dell’arte italiana dopo il Duemila, dare voce a una pluralità di linguaggi e sprigionare le potenzialità delle nuove generazioni”.

E chi avrebbe potuto  farlo meglio di giovani curatori,  in sintonia con gli artisti delle nuove generazioni?  Dei giovani  coinvolti  nel progetto di “dare una mappatura mutevole delle produzioni artistiche e culturali dell’Italia contemporanea” , variegate e per questo difficili da cogliere.

In linea con il metodo seguito dal ministro Franceschini per la scelta giustamente meritocratica dei Direttori dei maggiori musei, anche se questa volta si è operato  a livello nazionale, è stata aperta una “Call for project”  rivolta  ai  più  qualificati giovani curatori  affermatisi dopo il 2000,  di età tra i 30  e i 40 anni, con l’invito a presentare oltre al curriculum un progetto espositivo curatoriale debitamente motivato.

Tra i 38 progetti ricevuti dai 69 curatori interessati alla chiamata, elaborati appositamente, una giuria interdisciplinare –  con l’artista  Penone, la storica dell’arte Messina e la critica d’arte Vettese, l’architetto Di Battista e lo scrittore Belpoliti – ne ha selezionato 10.  Diversi i percorsi formativi e professionali dei curatori prescelti, ma tutti contrassegnati da posizioni di eccellenza raggiunte pur nella giovane età ed esperienze curatoriali di alto livello.

L’impostazione della 16^ Quadriennale

Le novità non finiscono qui, è solo l’inizio.  Dalla  scelta dei curatori si passa all’individuazione, da parte loro, degli artisti e delle opere espressive dell’arte contemporanea italiana più recente, che abbiamo detto essere mutevole. 

Come svolgere questo difficile compito senza rischiare di cadere nella routine ma cogliendo le motivazioni di fondo alla base delle nuove espressioni artistiche per quanto sfuggenti?

I giovani curatori hanno accettato la  sfida  individuando ciascuno  un filone intorno al quale raccogliere, in un denominatore comune,  le nuove proposte artistiche, cui dedicare una sezione espositiva. Ma c’è anche un denominatore comune alle diverse sezioni, così definito:  “Gli approfondimenti  proposti nelle 10 sezioni della mostra  sono percorsi dalla tensione generata dal  confronto tra le narrazioni istituzionalizzate dell’arte del passato e un presente in via di definizione, che appunto non è possibile qualificare se non come altro “. 

In modo ancora più esplicito: “La differenza emerge quindi come la condizione inevitabile sulla quale questa edizione della Quadriennale si edifica e diventa lo strumento di lettura offerto allo spettatore, invitato quindi a interpretare le sezioni espositive come incarnazione di discorsi artistico-culturali in dialogo con il passato attraverso strategie di rilettura critica, innovazione e superamento”.   Differenza come elemento comune e come spartiacque tra una sezione e l’altra, essendo affidate a curatori diversi che propongono, oltre che tematiche differenti, anche proprie ipotesi interpretative,  scritture artistiche altrettanto dissimili e così i dispositivi allestitivi. “Vive la différence”, viene da esclamare, pensando ovviamente a queste differenze, non a quelle di genere.

Passiamo in  rassegna l’impostazione delle 10 sezioni, basandoci per ora  sulle enunciazioni, perché  soltanto con l’esposizione delle 150  opere nella mostra del prossimo autunno si potrà fare una verifica sul campo della rispondenza tra  intenti enunciati  e  risultati ottenuti. Mentre i curatori parlavano nella presentazione,  scorrevano sullo schermo le immagini di molte  opere, da cui si è potuta cogliere  l’estrema modernità e varietà, dai materiali alle forme espressive:  un antipasto del pranzo espositivo che si preannuncia quanto mai succulento.

I contenuti delle 10 sezioni rispondono  ad altrettante  chiavi di lettura dell’arte contemporanea più recente, in base ad esse sono state inserite le singole opere che dovrebbero darne l’espressione visiva. E’ un intento intrigante e ambizioso che fornisce un ulteriore motivo di interesse per il visitatore della mostra: verificare la rispondenza tra visione astratta e realizzazione concreta, vedere con i propri occhi se il nucleo di opere di ogni sezione è collegato dal filo rosso virtuale enunciato che dà ad esse il valore di una narrazione.

Sono momenti distinti,  eppure collegati,  di una storia comune,  sintetizzata dal titolo scelto per la  16^ Quadriennale,  “Altri tempi, altri miti”. Non si tratta  di unagenerica allusione al mutare dei punti di riferimento con il mutare dei comportamenti individuali e collettivi prodotti dal passare del tempo;  ma dell’indicazione  precisa di voler dar conto della molteplicità di orientamenti artistici del paese,  frazionati come lo è l’Italia raccontata da  Pier Vittorio Tondelli nella raccolta “Un weekend postmoderno. Cronache degli anni Ottanta” , dalla quale è stata tratta l’espressione.

“Vibrazioni nascoste e caratteri manifesti” in entrambi i casi, dunque:  nei viaggi dello scrittore come atteggiamenti e costumi, nelle opere selezionate per la Quadriennale come orientamenti stilistici e contenuti.  I titoli delle varie sezioni introducono i 10 capitoli del grande libro della mostra,”Altri tempi, altri miti”. Non sono capitoli  da seguire in una successione predeterminata, sarà il visitatore a scegliere il proprio percorso nelle 10 sale che fanno corona alla rotonda centrale dove si svolgeranno proiezioni e performance  collaterali a singole esposizioni.   

Le  prime cinque sezioni della mostra

 Si comincia con”I would prefer not to/ Preferirei di no”,  i curatori Simone Ciglia e Luigia Lonardelliprendono la progressiva negazione alla vita attiva del protagonista dell’omonimo racconto di Melville – “il nodo di negazione, resistenza, alienazione” –  come metafora  dello stato attuale dell’arte in Italia:  imprevedibile, non codificata, sorprendente,  come per sottrarsi a un’identità solo immaginata, non reale.

“Il nuovo millennio ha significato un’estensione del dominio della precarietà dal piano sociale a quello esistenziale. Instabilmente fondata sulla debolezza delle ipotesi storiche, la figura dell’artista è apparsa divisa fra professionalizzazione e fughe impossibili, al limite spesso dell’invisibilità. Quest’attitudine alla sottrazione concorre a creare un clima che attraversa le generazioni e si traduce in scelte indirizzate verso livelli esistenziali periferici e appartati”.  

Sono 13 gli artisti scelti per declinare questo tema – tra loro Vitone, Airò e soprattutto il ben noto Gianfranco Baruchello del 1924,  “fuori quota” come età rispetto ai più giovani – in quanto iniziatori di tendenze artistiche in atto: “Gli artisti in mostra rivendicano il diritto ad allontanarsi dal perdurante affastellamento dei fatti e delle cose senza per questo smarrire la consapevolezza del proprio vissuto, personale e collettivo”.  Il loro sottrarsi al presente non è nichilismo, “preferiscono di no, un no che non è più contestatario, resistente, ma una didascalica negazione della possibilità di scegliere”. Vedremo come la esprimono nel linguaggio dell’arte.

Con “Ehi, voi!” il curatore Michele D’Aurizio presenta il tema della sezione utilizzando il richiamo diretto e  amichevole  rivolto agli interlocutori. In astratto viene  riferito anche al richiamo con cui sono stati invitati gli artisti alla Quadriennale o con il quale gli stessi artisti interpellano curatori, organizzatori e spettatori; in concreto riguarda le  persone che fanno parte della  cerchia dei 22  artisti prescelti – tra i quali il “fuori quota” è  Corrado Levi  del 1936 –  siano essi loro amici o vicini,  partner o colleghi.  Vengono  presentano i loro ritratti insieme ad autoritratti nelle forme più diverse, dalla pittura e scultura a video e performance, fino a diari e archivi.  

Torna in mente la mostra “Interni d’artista”  in cui si è entrati nella loro intimità ricostruendone studi e atelier come se vi lavorassero ancora,  qui  è lo stesso artista a fornire “opere ampiamente intese come rappresentazione del sé”, mettendo a nudo la propria umanità. “In questo  senso il ritratto è un genere che intrinsecamente afferma una continuità tra la vita e l’opera dell’artista laddove propone una riflessione del sé attraverso l’atto del fare arte”.   Un genere, la ritrattistica, solo apparentemente verista,  essendo  la rappresentazione  di per sé innaturale  come “atto d’intimità” che può rendere quanto di ermetico e inafferrabile c’è nell’arte contemporanea. 

Le immagini ritratte “invitano lo spettatore a condividere con l’artista le narrazioni del processo del fare arte, del vivere facendo arte, del sopravvivere facendo arte”.  Siamo ansiosi di provare questa condivisione.

Con “La democrazia in America”, il curatore Luigi Fassi si affida alla celebre opera di Tocqueville “per riflettere su alcuni aspetti problematici della storia dell’Italia contemporanea, dal suo incerto sviluppo come repubblica democratica del dopoguerra, al suo rapporto fatto di accelerazioni e rallentamenti con la storia dell’Europa unita, sino alle instabilità e alle complesse trasformazioni geopolitiche in corso nel presente”.

La scelta di quest’opera come esplicativa dei contenuti della sezione è significativa, a parte la sua notorietà in Italia e i legami dell’autore con il nostro paese,  perché è una sorta di diario di viaggio alla scoperta  di  uno stato con le istituzioni pubbliche e la vita sociale permeate dall’uguaglianza dei diritti e dalla parità delle condizioni di partenza  che sono la base della democrazia, mentre per l’Europa di allora erano un dilemma.

I  5 artisti  espositori  si ispirano ad alcuni temi fondamentali del pensiero politico dell’autore, dalla relazione  tra libertà e uguaglianza al ruolo dei partiti politici, dal rapporto tra ricchezza individuale e uguaglianza alla libertà di stampa, la cui attualità è evidente. “Obiettivo finale è leggere le riflessioni di  La democrazia in America da una prospettiva contemporanea italiana per suscitare con gli artisti partecipanti idee, ipotesi e interpretazioni inedite rivolte al presente del paese e alla sua storia recente”.  Saremo lieti di verificarlo, come tutti i visitatori.

Da “La democrazia in America” si passa all’“Orestiade italiana” . Il curatore Simone Frangi approfondisce  la visione del contesto nazionale presentando opere che hanno una visione critica o comunque analitica dell’intero versante culturale e sociale, economico e politico. L’impostazione è definita “una ‘riscrittura’  analogica e corale dei nuclei forti di  ‘Appunti per un’Orestiade Africana’”, di Pierpaolo Pasolini, partendo dal mito di Oreste  “inteso come una ‘lunga preparazione alla catarsi’,  usando il linguaggio dell’arte, come lo scrittore-regista  aveva fatto con il linguaggio cinematografico, per svolgere “diverse linee di ricerca sulla ‘domesticità nazionale’ italiana e sulle dinamiche con cui essa si riversa in una prospettiva transnazionale e globale”.

La pratica artistica si confronta con la ricerca culturale:  i 14 artisti prescelti – i meno giovani,  Armin Linke e Giovanni Morbin sono del 1956 – approfondiscono una serie di temi geopolitici così presentati: “Legame ambivalente tra approccio documentario e orientalismo culturale in prassi antropologiche ed etnologiche; nomadismo e migrazioni identitarie; questioni coloniali italiane con un focus sull’impatto della colonizzazione e dell’apertura della ‘postcolonia’ sull’immaginario politico; studio dei conflitti latenti e della stasi europea; micro fascismi e normalizzazioni sociali; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioni; resistenza politica e simbolica”. Dopo questo elenco  che lascia senza fiato, attendiamo gli artisti al banco di prova anche sui temi più criptici e cerebrali.

“A occhi chiusi, gli occhi sono straordinariamente aperti”,  con questa espressione in apparenza paradossale di Marisa Merz  il curatore Luca Lo Pinto  intitola la propria sezione, in cui presenta opere di  7 artisti, tra cui cita quella di Emilio Villa, del 1914, scomparso nel 2003,  un frammento di vetro dipinto con sopra un’iscrizione in greco le cui parole sono quasi illeggibili, ma che resta valido come immagine: “Il frammento di Villa è una traccia, un segno complesso da interpretare, incluso in una Storia nella quale risulta difficile capire dove collocarsi”. Gli altri 6 artisti presentano ciascuno “un modo personale di guardare al mondo insieme singolare e universale”, di raccontare una storia  “performata attraverso immagini, suoni, oggetti, sculture che parlano un lingua labirintica, allegorica, metaforica dentro al nostro presente”.  Proseguiamo nella citazione: “Tempo, memoria, identità in continua metamorfosi  e messe in discussione nella relazione del singolo con la collettività. Opere come schegge di una icona immaginaria, effimera, che simbommbile, fugace ritratto delle attitudini di una certa arte italiana attuale”.

Il curatore spiega che “la mostra e le opere che la costituiscono non è da considerarsi come strumento per l’illustrazione di un teorema quanto una materia da esplorare in un continuo processo di associazioni e dissociazioni”. E fornisce alcuni esempi indicativi, anche se vanno decrittati: “Protagoniste sono opere dove le parole possano tramutarsi in immagini e viceversa, in cui gli oggetti possano parlare. Forme instabili che si tramutano in altre come didascalie di un racconto che si disvela agli occhi e alla mente degli spettatori lasciando a loro la possibilità di delinearne una trama. Lingue vive che possano dialogare con l’esperienza evocata dal luogo in cui si trovano a parlare”. E più in generale: “L’esposizione è concepita come un dispositivo di visione in cui tutte le opere chiuse come ricci possano vedere lentamente la luce e guardare gli occhi di chi le osserva. Le opere in mostra manifestano tutti i segni di un’esperienza vissuta”.

Come nascondere , dopo queste parole, la nostra ansia di vedere in pratica  il verificarsi di questi miracoli?

Le cinque sezioni finali della mostra

 “De rerum rurale”  del curatore Maurizio Lucchetti fa tornare con i piedi per terra in senso stretto, perché di terra si tratta, in uno scenario post-rurale  che ha visto svanire i confini tra urbano e agricolo per l’uso dissennato del territorio, con  l’insorgere di nuovi localismi nella crisi degli ideali nazionali e sovranazionali.

“Il concetto di ruralità è inteso come un grado zero dello spazio antropizzato, un luogo nel quale la creazione di leggi e la loro applicazione si trovano in un costante stato di negoziazione e flessibilità, una dimensione ideale nella quale nuove comunità possono costituirsi e illustrare nuove interpretazioni di quello che consideriamo bene comune”.

Come viene espresso tutto questo  dai 14  artisti espositori, tra i quali la meno giovane è Anna Scalfi Eghenter del 1965?  Alcuni evocano il mondo agricolo, altri denunciano lo sfruttamento  delle risorse e delle persone che coltivano oggi le nostre campagne, ma con una radicale differenza rispetto al passato celebrato da tanti nostri artisti dell”800 e ‘900 con visioni idilliache o appesantite dalla fatica del lavoro, ricordiamo i dipinti suggestivi di artisti abruzzesi dei quali ricordiamo la mostra “Gente d’Abruzzo” , oltre a Segantini, Sironi, e tanti altri.  Oggi “il rurale si presta a immaginare nuovi scenari a basso grado di antropizzazione, dove regole e codici esistenti possono venire riscritti collettivamente e dare il via a nuovi modi dell’abitare. E ancora, il rurale si presta come catalizzatore di narrazioni minori che provengono da comunità temporanee, immaginate, nomadi, oppresse o resistenti che popolano il territorio italiano contemporaneo”.

Non visioni naturalistiche, ma calate nel mondo civile e sociale, vedremo come l’arte saprà esprimerle.

Con “Lo stato delle cose”  la curatrice Marta Papini compie due operazioni che non troviamo in nessun’altra sezione: non definisce il tema intorno al quale raccogliere le interpretazioni degli artisti; trasforma la mostra collettiva in 7 mostre personali, quanti  sono i giovani artisti selezionati.

La prima operazione deriva dall’impossibilità di ricondurre  a una lettura univoca  espressioni molto diverse, dalla quale deriva l’opportunità di porle  confronto tra loro e con il pubblico in modo innovativo. Cioè – è questa la seconda operazione – non esponendole contemporaneamente, ma singolarmente, a staffetta:  sono 7 artisti per 7 mostre  in successione. Nel proprio spazio e nel proprio tempo espositivo l’artista,  oltre a mostrare la sua opera, può promuovere direttamente iniziative di contorno, conferenze e proiezioni, laboratori e  “studio visit” che faranno approfondire la sua conoscenza insieme ai contenuti e alle modalità del suo lavoro.

Per questo la sezione non  è “una mostra collettiva, dove le immagini e i significati delle opere si sovrappongono e si intrecciano grazie alla tessitura di una regia curatoriale. E’piuttosto un  esercizio di attenzione: il pubblico, in un rapporto uno  a uno con l’opera, ha la possibilità di soffermarsi sulla ricerca di ciascun artista sia nella mostra sia attraverso un public programme, pensato come parte integrante del progetto che ne approfondisca la complessità”.

In questo caso nessun rebus interpretativo aperto, tuttavia gli elementi di curiosità e interesse non mancano.

Neppure per la sezione “La seconda volta”  viene definito il tema unificante, ma questa volta la curatrice Cristiana Perrella sottolinea nei 5 artisti “una comune attenzione per l’uso di materiali densi di storie già vissute, di cui danno nuova lettura, riattivandoli in insospettabili combinazioni”.

Abbiamo visto utilizzare  materiali di risulta dall’artista libico Wak Wak,  i residuati della guerra nel suo paese, e da Alessio Deli, i rifiuti metallici da discariche, fino ai legni di Louise Nevelson,  nelle loro sculture. Per i 5 artisti della sezione  “la loro è un’arte di resti e frammenti, composita, residuale, ibrida; un’arte di montaggio, di trasformazione, di rinascita, forse anche un’arte della crisi”, perché “riuso e assemblaggio, dalla loro comparsa come tecniche artistiche all’inizio del Novecento, hanno sempre intrattenuto una profonda relazione con l’idea di trauma”.

Forse può venirne anche un’assimilazione di significati oltre che di materiali, considerando che nella visione contemporanea “si guarda molto al passato e l’euforia del consumo, del nuovo, è un sentimento che appare appannato, inappropriato”.

Gli artisti lo mettono in pratica con tecniche artigianali e di bricolage di basso profilo utilizzando vecchi mobili  e oggetti,  reperiti nei mercatini e altrove,.dando loro forme e contenuti sorprendenti.

Di qui la curiosità e l’interesse di vedere la realizzazione pratica.

Con “Cyphoria”,  del  curatore Domenico Quaranta, si torna all’approfondimento di tematiche socio-economiche, in particolare quelle poste dai profondi mutamenti provocati dal progresso tecnologico che preferisce chiamare “evoluzione e non rivoluzione”  in quanto continuo,  pervasivo e non esaurito in un preciso momento:  “La politica, l’economia, il lavoro, le forme della comunicazione  e della socialità, ma anche l’intimità e il sogno sono stati stravolti dall’impatto dei media digitali, e questioni come la privacy, la sorveglianza, la capitalizzazione della vita sociale definiscono una parte importante di ciò che chiamiamo presente”.

Tutto questo si riflette nelle opere dei 12 artisti selezionati, che hanno iniziato a operare all’interno di questa evoluzione,  ed unisce i termini “cyber” e “dysphoria” per evocare,  secondo la definizione di  Basar, Coupland e Obrist, “lo stato di chi crede che Internet sia un mondo reale; ma è adottata qui per descrivere lo sforzo, e il disagio di vivere una condizione che l’uomo ha prodotto, ma che non è stato istruito ad abitare; di decodificarne e rivelarne i linguaggi e l’influenza sulle forme del lavoro, e della comunicazione, della socialità e della politica, di adottarne e di plasmarne le estetiche e gli immaginari”.

In  questa prospettiva vedremo opere che ne esplorano la dimensione pubblica, come la censura e la crisi della proprietà intellettuale, i misteri e l’ubiquità delle produzioni  culturali della rete;  e quella  privata, con conseguenze intime e personali spesso traumatiche. I motivi di interesse sono vivissimi.

 Dalla rete cibernetica mediatica torniamo di nuovo sulla terra, dopo la crisi contadina di “De ruralia” la crisi cittadina di “Periferiche“, l’ultima sezione curata da Denis Viva: in passato  la “ricchezza di centri, di tante false periferie”  rappresentava  “postazioni di una pluralità e di un conflitto che rifiutava di esaurirsi  in un unico modello dominante”, le periferie che ricordiamo nei suggestivi dipinti di Mario Sironi,  esprimevano il “policentrismo consapevole”  di Castelnuovo e Ginzburg, mentre  negli ultimi decenni sono diventate  piuttosto luoghi di “ritardo culturale”.

La domanda alla quale  hanno risposto  con le loro opere gli 8 artisti prescelti  è  la seguente “l’Italia conserva ancora questo policentrismo? Trova  nelle sue ‘periferie’ una voce altrettanto capace di offrire alternative all’omologazione globale?”. Tre di loro, Paolo Icaro, Paolo Gioli  e Carlo Guaita, nati tra il 1936 e il 1965, hanno conosciuto  fasi più lunghe rispetto ai cinque più giovani, della storia delle periferie, tutti insieme hanno potuto fornire “uno spazio  policentrico, diverso dal mainstream globale dell’informazione e della produzione”, un quadro articolato e dinamico della problematica esistenziale e culturale insieme, una diversa concezione del tempo e dello spazio.

Non si tratta solo della periferia cittadina, “la ‘periferica’ è qui una metafora che indica un dispositivo libero di agganciarsi e di sganciarsi, di connettersi e di ripararsi, dal flusso inarrestabile dei centri globali”. Non sono in alternativa al centro, al quale devono essere collegate, ne sono consapevoli gli artisti la cui opera “trae linfa da territori eterogenei e diversi, spesso marginali”. Del resto,  nelle ultime elezioni amministrative per i sindaci delle grandi città le periferie sono state il tema più dibattuto per l’esigenza igiugno 2014, rrinunciabile di dare ad esse nuovo slancio superando il degrado.

Il quadro che abbiamo fornito dei contenuti delle 10 sezioni della 16^  Quadriennale, attraverso le enunciazioni dei curatori, con ampie citazioni testuali,  indica la complessità e profondità del lavoro svolto  dalla giuria selezionatrice dei curatori e del lavoro dei curatori che hanno selezionato gli artisti. Viene così fornita “una visione della ricchezza espressiva dell’arte italiana degli ultimi quindici anni, offrendo anche un punto di vista significativo sui riferimenti culturali e sul processo di formazione degli artisti e dei curatori italiani delle ultime generazioni”.  E’ il grande risultato del ritorno della  Quadriennale di Roma nel suo ruolo istituzionale e nella sua impostazione estremamente innovativa  aperta ai giovani.

Info

La mostra della 16^ Quadriennale si svolgerà al Palazzo Esposizioni, via Nazionale, Roma.  Per gli eventi e le mostre sugli artisti citati nel testo cfr. i nostri articoli, in questo sito su: “Padiglione Italia”, 8, 9  ottobre 2013, “Interni d’artista”, 12 maggio 2014, Pier Paolo Pasolini, 27 ottobre 2015, 27 maggio, 15 giugno 2014, 11, 16 novembre 2012, Wak Wak 27 gennaio 2013, Alessio Deli, 26 aprile  2013, Louise Nevelson, 25 maggio 2013, Mario Sironi, 1°, 14, 29 dicembre 2014, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in cultura.inabruzzo.it su “Gente d’Abruzzo”, 10 e 12 gennaio 2010, tale sito non è più raggiungibile, i 400 articoli ivi pubblicati dal 2009 saranno trasferiti in un apposito sito.

Foto
Le immagini sono state fornite dalla “Quadriennale”, che si ringrazia: in apertura, la foto di gruppo al termine della presentazione, con gli 11 curatori delle 10 sezioni e, al centro, il ministro dei Beni e Attività Culturali e del Turismo  Dario Franceschini con alla destra il presidente della Quadriennale Franco Berrnabè e alla sinistra il commissario straordinario dell’Azienda Palaexpo, Innocenzo Cipolletta; in apertura, Alek O.,  “Tina”, 2015, e Chiara Fumai, “Ritratto”, 2016;  poi, Michelangelo Corsano, “La rivoluzione del filo di paglia”, e Adelita Husni Bey, “White Paper. The Law”; in chiusura, la mappa cittadina delle manifestazioni “esterne”  in programma nella quadriennale romana.   

Accessible Art, 3 artisti spagnoli e 5 italiani a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Alla galleria RvB Arts in via delle Zoccolette 28, con la consueta estensione nell'”Antiquariato Valligiano” dell’adiacente Via Giulia 193,  dal  19 maggio  al 18 giugno 2016   la mostra “Da Palermo a Madrid” – organizzata e curata da Michele von Buren nell’ambito del programma  “Accessible Art”, che offre al pubblico opere accessibili  economicamente e compatibili con gli spazi domestici – presenta 8 artisti, 3 spagnoli e 5 italiani. I loro dipinti,  tra forti  richiami simbolici, solo legati alla realtà, nelle inquietudini della vita contemporanea e della condizione umana. Gli  spagnoli sono Luis Serrano, Martinez Cànovas ed Evita  Andùjar; gli italiani  Dalila Belato, Roberto Calò, Massimiliano Carollo,  Luca Crivello e Nicola Pucci.

 L’intrigante titolo allude a un gemellaggio artistico tra le due capitali mediterranee, l’originale convergenza di 3 artisti madrileni, e in generale spagnoli, e 5 artisti palermitani capitanati, per così dire, da Nicola Pucci, in un’esposizione spettacolare di opere recentissime, quasi tutte del 2016.

Un elemento unificante, nella differenziazione di stili e di contenuti si può trovare nello spirito mediterraneo rivelato, pur con modalità diverse, dai colori accesi o dalle forme  figurative, senza le espressioni cerebrali e indecifrabili, oltre che trasgressive, cui ricorre spesso l’arte contemporanea.

Viviana Quattrini vi vede “un forte ritorno al reale”,  riferendolo alla crisi di valori e alla perdita di certezze del mondo d’oggi: “Quando ai modelli e ai valori si sostituisce la persuasione, che nell’attuale società viene amplificata per via di una pervasiva spettacolarizzazione di prodotti, relazioni e sentimenti, l’arte non può far altro che intervenire con forti sollecitazioni visive”. E lo fa, in questi casi, in modo opposto rispetto a Warhol  e alla Pop Art che  hanno celebrato i miti della società consumistica; per gli otto artisti in mostra il ritorno al reale si manifesta,  sempre secondo la Quattrini,  “recuperando generi, repertori e simboli comprovati” ma non in modo retrò e conservativo, bensì  mediante “nuove capacità e funzioni espressive in grado di interpretare condizioni individuali e sociali conformi alla contemporaneità”.

Un’associazione di idee ci porta all’iniziativa che Michele von Buren da anni ha intrapreso nella galleria con un impegno meritorio nella selezione degli artisti, affermati e giovani di talento, per una formula alla quale si possono applicare le stesse parole appena citate rispetto alla mostra attuale: la sua “Accessible Art”  interpreta, infatti,  l’esigenza di far penetrare l’arte  a livello individuale e sociale secondo le esigenze contemporanee, promuovendo l’inserimento nella vita domestica di opere  di artisti  accessibili nel prezzo e  compatibili con gli ambienti familiari.

Per questo l’esposizione in atto,  come tutte quelle che a ritmo incalzante organizza Michele von Buren avvalendosi del supporto critico di Viviana Quattrini, è una “mostra mercato” con i prezzi sempre contenuti, indicati nella targhetta delle opere esposte, insieme al titolo e all’anno.

I tre artisti spagnoli

Cominciamo la nostra rapida carrellata con i tre artisti spagnoli che hanno in comune, oltre alla laurea in Belle Arti in Spagna,  un periodo di formazione artistica a Roma.

Di Luis Serrano è esposto “Carrefour Ballesteros”,  il  muro di cinta  raffigurato rimanda all’ambiente mediterraneo con la luminosità resa dal  bianco calcinato sotto un cielo azzurro, in uno spazio mostrato nella sua realtà ma rivestito di contenuti simbolici senza uscire dal figurativo;  tanto più aperto è lo spazio esterno quanto più è chiusa da un grande portone serrato come in un fortino invalicabile  la realtà interna, una vita quotidiana che protegge i suoi  sentimenti  interiori.

L’artista oltre alla pittura predilige il disegno, e si vede nel perfetto equilibrio di linee della sua composizione; ha esposto in Italia al museo Praz  per la Galleria Nazionale d’Arte Moderna nell’ottobre 2012, e ha in corso la mostra “Akragas” alla galleria “Honos Art”, anche’essa a Roma, realizzata con il fotografo Alessandro Crapanzano.

Simbolismi anche in Juan José Martinez Cànovas, che non si limita a sottintenderli in modo allusivo come l’artista precedente, ma li rende visibili con il ricorso a innesti innaturali quanto eloquenti. I suoi ritratti hanno atteggiamenti strabilianti, come “Culebras”, il mezzo busto di profilo nel quale l’irridente linguaccia contrasta con l’assetto serio  e composto; in altri ritratti inserisce  elementi vegetali e animali con una precisione tale da farli ritenere reali, come nella “Metamorfosi”  kafchiana che prende il lettore per la sua verosimiglianza. La Quattrini cita il richiamo ad Arciboldo piuttosto che alla fisiognomica di Leonardo. Il corpo,  in una inquietante metamorfosi, esprime  l’inquietudine esistenziale con una metafora visiva pittorica. Vediamo “Morlaco”, con il grande toro “pronto  a scattare, il vello diviso in due con incisi dei numeri..

Il giovane artista dal 2009 ha al suo attivo 12 mostre personali, di cui 11 in Spagna e una in Italia.

Evita Andùjar la conosciamo bene, fa parte stabilmente della “scuderia” di artisti della galleria, di 25 pittori, 5 scultori e 13 fotografi”, ne abbiamo commentato le opere presentate in precedenza. Ricordiamo i suoi legami con l’Italia, la borsa di studio all’Accademia di Spagna a Roma e il suo lavoro di  restauro di affreschi lungo la penisola, dalla  Sicilia al Trentino, tra il 2001 e il 2008. Le sue opere sono in collezioni permanenti, alla Fondazione Roma e all’Aquila, e in collezioni private a Cadice e a Roma; è stata  premiata ripetutamente in Italia,  2 volte come vincitrice a Roma e Trieste e al Premio Arte H Europa Etica,  2 volte come finalista a Lucca e Milano, 3^ a Corchiano.

Il suo cromatismo denso su dei supporti grezzi e ruvidi come la tela di juta crea immagini  intense che sembrano formarsi con il colore, quasi per fusione alchemica, quindi senza contorni  né forme delineate, ma in divenire nell’instabilità tipica di una realtà mutevole e quindi inafferrabile.

Le serie “Liquidi”  e “Preliquidi” esprimono questa cifra stilistica e di contenuto, le figure sono deformate dal continuo mutamento, una di esse sembra un ectoplasma cromatico; vediamo anche “L’ora del te” o “Autoritratto da te”, dove al posto della deformazione c’è il raddoppio dell’immagine peraltro acefala,  in “Forse”  invece è raddoppiata la figura, il titolo sembra alludere al dubbio che il doppio sia realmente così integro.

I cinque artisti italiani 

Tutti e cinque gli italiani sono nati a Palermo, nella loro formazione gli studi nell’Accademia di Belle Arti, per lo più a Palermo o in altri istituti, nel loro percorso artistico molte mostre collettive. Le “new entry”  per la Galleria sono la Belato e Crivello, con forme espressive diversissime.

Di Danila Belato vediamo dei rilievi di volti ripresi in espressioni caratteristiche, anche molto particolari come  il viso bianco su fondo bianco nel quale spicca una grande lingua rossa nella foggia della celebre foto ensteiniana, su cui è posato un insetto, al quale si deve l’espressione sconvolta,  e il titolo “Fly”, mentre è quasi ciceroniano, anche se con una leggera smorfia,  il volto con l’insetto sulla guancia, intitolato “Sting”.  Sono sculture incastonate in quadretti con materiali dal gesso alla polvere di marmo alle resine speciali,  con i quali l’artista riesce a rendere  gli atteggiamenti in immagini frontali nelle quali sembra di sentire la stessa epidermide.

L’impegno nel restauro lapideo, unito alla scultura, è alla base della maestria nell’uso dei materiali particolari di cui si è detto, resi simili al marmo, al bronzo o al ferro applicando apposite patine. Va sottolineata l’attenzione all’anatomia che consente all’artista di esprimere la vitalità del soggetto.

 Dal 2013 ha esposto in 6 mostre collettive a Palermo, nel 2015 ha ricevuto il premio  Expo Arte Italiana, sezione scultura, di Villa Bagatti Valsecchi a Varedo; le sue opere sono nel Museo Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona a Renda, Cosenza.

Luca Crivello è il più giovane degli espositori, nato nel 1992,  laurea in Arte sacra contemporanea, continua gli studi a latere dell’attività pittorica.  Ha esposto in 8 mostre collettive dal 2015, ed è presente nella collezione Roberto Bilotti Ruggi d’Aragona di Roma.

Ci sono rimaste impressi i due dipinti con figure femminili dalle quali traspaiono dei sentimenti che si cerca di penetrare, tanto è suggestiva l’atmosfera in cui sono immerse e che riescono  a creare con la loro forza espressiva; le due fanciulle che si tengono per mano ci hanno ricordato nei loro atteggiamenti intensi e ispirati quelli dei dipinti di  Lucianella Cafagna visti nella stessa RvB Arts.

Dagli atteggiamenti traspare un insieme di impulsi anche contrastanti  che nascono dai diversi momenti della vita, il titolo della serie è, infatti, “Pulse”, stupenda la figura vestita di giallo che apre un velo bianco alla sua sinistra coprendo altre figure in un  coinvolgente senso di mistero..

La figura umana è al centro anche dell’opera di Roberto Calò, che  ha partecipato dal 2010 a 18 mostre collettive,  8 delle quali  a Palermo e Catania, tra cui l’esposizione “Artisti di Sicilia. Da Pirandello a Iudice”, del 2014 e 2015 a cura di Vittorio Sgarbi, le altre a Roma e Milano, Noto, Pietrasanta e Sassoferrato, e a Lisbona.

I volti e le figure sono inondati dalla luce in una essenza traslucida che valorizza l’elemento spirituale e interiore rispetto alla consistenza materiale e corporea, come evidenziano anche i titoli, “Anime dense” e “Dense soul”, impressionante  il volto in un verde intenso di uno di essi . In “Lux XVI” la figura maschile è tagliata in due da un raggio di luce. La Quattrini collega alla tradizione caravaggesca la particolare funzione assunta dalla luce: “Questa viene indagata sia in quanto simbolo di conoscenza metafisica e di rivelazione religiosa, sia in quanto materia che attraverso la frequenza delle sue onde ci permette di vedere e captare la natura sensibile delle cose”.  Così la trasparenza diventa  trasfigurazione.

 Di Massimiliano Carollo,  laureato in pittura con successiva specializzazione in arte grafica e design, va sottolineata la versatilità che lo ha portato  nel 2003 a fondare, con Dario Enea, la compagnia teatrale Teatro TerzoUomo   nella quale ha operato come scrittore e regista, attore e scenografo,  collaborando con il drammaturgo Franco Scaldati in spettacoli in Italia e all’estero e con la regista Roberta Torre, in particolare nell’allestimento di “Insanamente Riccardo III”.

E’ tornato recentemente alla pittura, dopo una lunga assenza testimoniata dalle mostre, 11 dal 1005 al 2000,  nessuna  per il decennio successivo, poi 2 mostre nel 2011,  a RvB Arts e a Palermo con una personale.  E’ un percorso che conferisce particolare importanza  alla sua presenza in RvB Arts..Vediamo esposte due opere, “Neonati” e “Tauromachie”, del 2013-14, temi molto diversi accomunati da una peculiarità stilistica in cui l’immagine baluginante si forma per effetto di una alchimia cromatica e materica alimentata da una energia  che porta alla sublimazione della realtà in una visione  trasognata  che fa riflettere l’osservatore alla ricerca della sua motivazione interiore .

E siamo così all’artista più rappresentativo, stabile componente della squadra di RvB Arts, Nicola Pucci, lo abbiamo incontrato all’inaugurazione della mostra dopo averne commentato le opere esposte in precedenti occasioni a RvB Arts,  cogliendo nella sua vitalità e acutezza la matrice di un’arte  sempre alla ricerca di nuovi  approdi  per superarli e andare oltre; e non si tratta tanto di un’evoluzione stilistica, il suo è un figurativo molto personale, quanto dell’approfondimento del tema di fondo, legato alla condizione umana vista nelle sue espressioni più o meno visibili.

Ricordiamo la sua celebre serie “Circoli” con le 8 versioni di “Lettura quotidiana”,  in cui le persone sedute in cerchio leggono ciascuna il giornale dell’altro, e con le versioni di “Passaparola” in cui ciascuna parla all’orecchio dell’altra  senza ottenere risposta. L’incomunicabilità  e insieme la spersonalizzazione omologante del nostro tempo viene espressa con una straordinaria efficacia.

 Non possiamo non citare la serie “Incontri”, con dei bambini insieme a giganteschi animali senza averne paura, con le simbiosi “Uomo gallo” , “Donna con gallo” e l’assimilazione tra due pugili  e un cane nei “Tre  boxer” che va oltre la mera battuta terminologica, fino agli “incontri” tra animali: In questi “incontri”   fuori dal comune non c’è l’incomunicabilità degli incontri consueti, tutt’altro. 

In “Controllori di volo” e “Partenza nuoto” dall’incomunicabilità passa all’irrazionalità dei comportamenti umani, nel primo non si “controllano”  gli aerei ma gli uccelli che volano tutt’intorno, nel secondo i nuotatori si tuffano in una piscina impossibile perché minuscola.

E’ sua anche la serie “Fusioni”, con i volti che si sdoppiano e si ricompongono,  immagini aperte alle interpretazioni  più libere nel denominatore comune della più profonda  umanità.

E la mostra attuale? Cambia tutto, per così dire, nulla di quanto ricordato, il suo percorso esplora strade ancora diverse,  la qualità, il numero  e l’importanza delle opere esposte ne fanno  una mostra  personale all’interno della collettiva.  

La strada che abbiamo percepito è dechirichiana, con la trasposizione  in un ambiente e contesto del tutto estraneo, apparentemente   incompatibile.  Pensiamo ai “Mobili nella valle” portati da De Chirico all’esterno, agli alberi all’interno di  “Ma chambre dans le midi”, fino alla barchetta  con i remi che naviga nella stanza allagata del “Ritorno di Ulisse”.

Pucci  nella stanza ambienta la scena calcistica di “Rovesciata”, ricordiamo il dipinto di Deineka intitolato “Portiere”, del 1934,  allungato in tuffo orizzontale, ma era in esterno; vediamo inoltre il “Ciclista con specchio”, e un “Placcaggio”  da  rugby  sempre all’interno di una stanza, come la “Donna sul divano”, una ginnasta che fa acrobazie aeree nel salotto, mentre “Donna distesa sul divano” mostra l’abbandono intimo con il volto velato da strisce di luce mentre delle grandi braccia maschili sembrano accorrere al richiamo.

Poi una scena di “Corrida” sotto  a un ampio scalone ellittico; non manca la corrida nella sua arena naturale, ma con l’innaturale  placcaggio del toreador da parte di un giocatore di baseball che gli impedisce di conficcare le banderillas sul dorso del toro; infine la “Sala biliardo” su cui sfreccia sopra le teste dei giocatori un treno dell’alta velocità e “Salto in stazione”,  con dei nuotatori in piena “trance” agonistica che stanno per lanciarsi, non in una piscina bensì in una scalinata. Sono tutte opere del 2016 dall’elevata resa spettacolare, formano un  “corpus”  omogeneo,  ci piacerebbe che l’artista lo intitolasse come ha fatto per le serie prima ricordate, “Circoli”, “Incontri”, “Fusioni”.  

Il figurativo luminoso  dell’artista è un modo molto personale di esprimere meccanismi interiori e processi psichici di solito resi attraverso modalità artistiche nelle quali si perdono le forme e i contorni della realtà per un impiego istintivo della materia e del colore: pensiamo al surrealismo, all’espressionismo e alle altre  correnti sempre più lontane dalla rappresentazione della figura.

Un artista coraggioso, quindi, che non ha ceduto alla moda delle avanguardie, la sua genuinità e il suo talento sono stati riconosciuti da personaggi quali Larry Gagosian, grande mercante d’arte, e Carlo Bilotti, grande collezionista, nel cui museo a Villa Borghese  il Comune di Roma organizzò nel 2008 la prima mostra dedicata a un artista contemporaneo; nel 2014 è stato finalista del prestigioso Premio Terna.

Le sue opere sono presenti in alcune importanti collezioni, tra cui quelle di Bilotti e Gagosian, dal 1997 almeno 15 mostre personali in Italia a Roma e Palermo, San Benedetto del Tronto, Spoleto e Potenza,  all’estero a Londra e New York, e  25 mostre collettive, oltre che nelle città ora citate, in Italia a Catania e Cosenza, Venezia e Milano, all’estero a Los Angeles e Gstaad.

Alle opere esposte nella mostra attuale si attaglia il giudizio critico di Giusi Diana che vede nella sua  arte “il senso del movimento e la ricerca del ritmo, ma soprattutto la monumentalità e la teatralità, che hanno avuto la loro massima diffusione in un’altra epoca storica, quella barocca”.

La Quattrini  collega al barocco tuta la mostra “Da Palermo a Madrid” , non solo l’opera di Nicola Pucci: “Un’epoca, quella barocca, che sembra ripetersi nella contemporaneità con la crisi dei valori e delle certezze acquisite, con i suoi dubbi e le sue stravaganze ma anche con un forte ritorno al reale”.  Sono motivi e pulsioni che l’arte interpreta con il proprio linguaggio, e ci sembra sia questa la cifra comune degli artisti espositori, con opere pur così dissimili nello stile e nei contenuti.

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Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 15 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2016 il 23 gennaio, nel 2015 il 25 dicembre, 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Per le citazioni del testo,  cfr., in questo sito, i nostri 3  articoli sulla mostra di Deineka a Roma,  il 26 novembre, 1° e 26 dicembre 2012,  nel primo è riprodotto in apertura il suo dipinto “Portiere” da noi collegato al dipinto “Rovesciata” di Pucci; e i nostri articoli sulle mostre di De Chirico da noi collegato per i suoi  “Mobili nella valle”  a un altro dipinto di Pucci, il 1° marzo 2015 per la mostra di Campobasso, il 20 e 26 giugno e 1° luglio 2013 per la mostra di Montepulciano; inoltre  in “cultura.inabruzzo.it il 27 agosto, 23 settembre e 22 dicembre 2009, 8, 10 e 11 luglio 2010 per tre mostre a Roma (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito); inoe ltre il nostro articolo in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013, e nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Nicola Pucci, “Corrida”; seguono, Luis Serrano, “Carrefour Ballestreros”, Martinez Cànovas, “Culebros” , “Morlaco”; poi, Evita Andùjar, serie  “Liquidi”, 1, 2, …, fino a “L’ora del te”,   e Danila Belato, “Fly”; quindi, Luca Crivello, “Pulse 1″ , “Pulse 2“,  e Roberto Calò, “Anima densa”,  “Lux XVI”; inoltre, Massimiliano Carollo, “Neonati”, “Tauromachie”, e Nicola Pucci, “Donna sul divano”, “Sala biliardo”; infine,Pucci, “Salto in stazione” ,“Ciclista con specchio”; in chiusura,  Pucci, “Rovesciata”.

; seguono.

Caravaggio, uno spettacolo ad alta tecnologia al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni a Roma, dal 24 marzo al 3 luglio 2016,  “Caravaggio Experience”,  con una video-installazione altamente innovativa, offre  uno straordinario spettacolo  con la proiezione  di 57 capolavori del Maestro ad alta definizione sulle pareti dalle sale espositive a cura di Stefano Fomasi e i video-artisti di “The Fake Factory”,  accompagnati dalle musiche originali di Stefano Saletti e dagli effetti olfattivi dei maestri dell’Officina Profumo – Farmaceutica di Santa Maria Novella.  E’ una  “total immersion” nel mondo caravaggesco, con le sue opere  presentate in una successione che inizia con  quelle dalla luce  dominante, seguite da quelle con il naturalismo, poi le opere nelle quali esplode la violenza, fino ai luoghi di Caravaggio e alla passerella finale con la sfilata di tutte le opere presentate. Il progetto espositivo,  con la consulenza scientifica di Claudio Strinati, è coprodotto da Azienda Speciale Expo e Medialart di Firenze, con Roma & Roma S.r.L.

Un’esperienza nuovo, un modo innovativo e spettacolare di presentare l’opera di Caravaggio. Non più l’esposizione dei suoi capolavori e neppure dei suoi ingrandimenti spettacolari, ma una “total immersion” nel suo mondo, fatto di realtà e di luminosità, di teatralità e di violenza, dei luoghi della sua vita. Sono queste, infatti, le 5 sezioni della mostra, se ha senso citare un termine tradizionale per qualcosa di rivoluzionario, seguite dalla successione finale di tutte le opere presentate.

Ma in cosa consiste questa rivoluzione, tale da far immergere il visitatore nella suggestiva atmosfera creata da  57 suoi capolavori esibiti in modo da massimizzarne la forza espressiva?

L’installazione visiva  rivoluzionaria

Nei  saloni del secondo piano del Palazzo Esposizioni, lungo le pareti scorrono le immagini dei dipinti proiettate da apparecchiature ad altissima tecnologia, con visioni panoramiche e dettagli ingranditi, in modo avvolgente; si tratta di una storia raccontata per 50 minuti con le immagini dei capolavori, mentre le musiche di Stefano Saletti portano indietro nel tempo e le fragranze olfattive dei maestri profumieri fiorentini  dell’Officina Profumo – Farmaceutica di Santa Maria Novella accrescono il senso della realtà.   Tutto questo crea  un  “flusso di emozioni”  di indicibile portata.

In grande evidenza la tecnologia innovativa utilizzata. Un sistema di pannelli a cristalli liquidi al silicio LCOS produce immagini cristalline in grado di svelare particolari infinitesimi, e questo è fondamentale nella visione dei capolavori;  33 proiettori Canon XEED in Alta Definizione proiettano le immagini con un ritmo incalzante. Si  tratta della tecnologia “Infinity Dimension”, sviluppata dalla “The Fake Factory”.

Ogni proiettore ha tre pannelli per il rosso, verde e blu, in ogni pannello uno strato di pixel a cristalli liquidi applicato su uno specchio riflettente, sotto il quale vi sono i circuiti di comando; tale assetto, con  l’esclusivo “Sistema di Illuminazione Aspettuale” della Canon,  determina immagini omogenee con eccezionali gradazioni di colore, senza gli effetti “reticolo” e “arcobaleno” che disturbano le immagini dei proiettori tradizionali LCD e DLP.  “L’uso di combinazioni di tecnologie trasmissive e riflessive di tale portata rende il progetto un unicum anche nel panorama delle realizzazioni di videoinstallazioni immersive”, cosi la presentazione. E consente il risultato unico di una storia raccontata con le immagini dei capolavori  che si inseguono a ritmo incessante con zoom e  carrellate magistrali, accompagnate dalla musica.7

Il suono della luce

Anche nella musica una novità straordinaria, dovendo accompagnare le immagini di Caravaggio, l’artista delle sciabolate di luce che danno drammaticità alla scena. Stefano Saletti che ne è l’autore, lo chiama “il suono della luce”, e così descrive il suo impegno: “Dare un suono alla luce che proviene dalle immagini. Sono partito da qui  per scrivere le musiche della mostra/installazione su Caravaggio. La luce. E’ lì il centro della sua grandezza, quella luce che arriva improvvisa a svelare il mistero. Una luce che racconta la vita, e una luce che non c’è, che rimane oscura e che resta nell’ombra, sottesa”. Ed ecco come la trasforma in musica: “Così si alternano suoni di ambiente, echi lontani, rumori e battiti che poi vengono attraversati da fasci di musiche, da temi e timbri che interrompono i silenzi e diventano parte del racconto”.

Oltre alla luce il dramma, “c’è il dolore, c’è il terrore, la violenza, la sensualità e l’amore.. Ci sono le genti raccontate senza i filtri dell’estetica classica”, interpretato così: “Ho usato suoni duri, acidi, lavorando su due piani differenti: da un lato l’accentuazione della drammaticità con corde, archi, percussioni,  ance e distorsioni, dall’altro  – per contrasto – la rarefazione degli spazi musicali, con grandi riverberazioni dei suoni, quasi che l’assenza timbrica desse più forza alle zone d’ombra delle sue opere più oscure e ‘maledette'”.   

L’effetto è dirompente: “E’ come se il quadro uscisse dalla cornice: è la musica che si trasforma da quadro a cornice, nella quale ciascuno può catturare l’immagine che lo emoziona”.

Saletti non si limita alla visione dal lato musicale, si sofferma anche sul lato figurativo, nello stile e nei contenuti: “Lo spazio si riempie, si colora. La vita prende forma. I volti, i piedi sporchi, i giovinetti, le nature morte, il sacro, i santi e i pellegrini ci invadono nella loro bellezza”.  E  si lancia in una descrizione  appassionata: “L’opera di Caravaggio vista come  una grande  rappresentazione scenica, come personaggi che ci raccontano la vita e la morte, il bene e il male, il trascendente e l’immanente. Immersi nel suo mondo, affascinati dai dettagli delle sue linee esaltate dalla scomposizione e ricomposizione digitale realizzata da Stefano Fomasi, Caravaggio ci travolge”.

Lo ha provato il musicista alla ricerca dell’ispirazione che lo ha investito al di là del previsto, lo prova il visitatore alla ricerca dell’arte caravaggesca che lo travolge insieme al ritmo di vita impresso dalla successione incalzante di visioni ingrandite scandite magistralmente.

Saletti conclude: “La musica descrive questo spaesamento, perde il centro tonale e poi lo recupera, diventa dura e spigolosa e poi torna a dare voce ai colori e alla luce. Rassicura, per un attimo, e poi rimette tutto in discussione. Riparte il mistero. Infinito, come la vita”.

Il dramma caravaggesco nelle proiezioni avvolgenti

Il visitatore inondato di immagini, suoni e odori,  si sente  proiettato nei drammi seicenteschi dalle grandi dimensioni che lo avvolgono, partecipe del miracolo della creazione artistica del grande Maestro, anch’egli frastornato dal mistero evocato intorno a lui. La vita, l’arte, la storia. E’ questa la cosiddetta “arte immersiva”, resa possibile dall’impiego di tecnologie avanzate multimediali.

E’ un tutt’uno, nei 50 minuti di proiezione a 360 gradi, scandito nelle sezioni prima citate che confluiscono nel momento finale con la passerella delle 57 opere che sono andate in scena come altrettanti personaggi della narrazione caravaggesca o, se si vuole, capitoli o quadri teatrali della sua storia così breve nel tempo, è morto a 37 anni, ma così intesa.

Con la video installazione si realizza, in fondo,  in modo corale e collettivo,  il  coinvolgimento diretto del visitatore,   carattere distintivo dell’opera di Caravaggio che elimina la barriera fra spazio dipinto e spazio reale facendo  entrare, per così dire, l’osservatore nel quadro.   E questo avviene con  57 quadri nella rutilante tempesta di immagini, suoni, odori, che coinvolge emotivamente.

Una grande  rappresentazione  in 5 atti, con la passerella finale di tutte le opere di Caravaggio, che Stefano Fomasi  ha realizzato con i video-artisti e illustrato nelle motivazioni  e  nei  contenuti..

Il primo atto è la Luce, il sigillo dell’artista, che la utilizza in modo rivoluzionario dando ad essa la funzione fondamentale di disvelare quella  realtà evidenziata in modo diretto e imperioso. E’ la luce a dar vita ai personaggi facendoli emergere dall’oscurità, è la luce a porre alla ribalta, nella composizione, i protagonisti, è la luce a restare come una costante pur nell’evoluzione stilistica dell’artista  Citiamo solo, tra i tanti capolavori che scorrono sulle pareti, “La vocazione di Matteo”, dove la luce che proviene dalla spalle di Cristo assume un carattere ultraterreno, divino.

Dalla luce al Naturalismo, che riguarda sia le opere dove appaiono elementi naturali, come il tralcio di vite di “Bacco” e nature morte come il “Canestro di frutta”; sia quelle in cui natura equivale a realtà,  realtà equivale a vita – la vita dei vicoli e delle botteghe – e la vita si sublima nel sacro e nel mitico.  Vediamo scorrere  “San Giovanni” e “L’amore vincitore”, “Il suonatore di liuto” e “I musici”. Poi irrompe l’immagine di “Narciso”, la spettacolarità della rappresentazione moltiplica la magia di un incantamento soprannaturale che non avviene guardando in alto, le stelle e il firmamento, ma in basso, nello specchio d’acqua che riflette la sua figura: il divino  nelle cose terrene, in noi stessi.

Nel terzo atto, la Teatralità,  si fa partecipe lo spettatore di un’operazione complessa resa spettacolare dai mezzi utilizzati, sebbene a questo fine vengano spogliate le immagini della luce e dei colori, cioè degli elementi visivi più appariscenti. Le immagini sono scomposte per isolare gli elementi essenziali, e dare il senso dell’intera composizione evidenziando le posizioni e gli equilibri  delle figure, le forme e i loro contorni, la collocazione nello spazio evidenziata anche con il ricorso alla tridimensionalizzazione delle figure piatte trasformate in manichini in rilievo. Un colpo di scena teatrale di grande effetto l’irruzione della “Medusa” con le serpi che per diversi minuti si allargano sulle pareti  invadendo l’intero spazio quasi a voler avvolgere anche i visitatori.

Con la  parte dedicata alla Violenza,  il quarto atto, dalla tecnica si torna all’arte allo stato puro. L’ispirazione  nasce dalla realtà in cui è vissuto Caravaggio soprattutto a Roma, fatta di risse ed esecuzioni pubbliche, osterie e locali equivoci,  gente del popolo e prostitute, una realtà che è alla base di un’esistenza breve quanto tormentata, tra condanne ed esilio, fino alla Sicilia e a Malta, per concludersi tragicamente quando stava per  avere invece un esito felice con il perdono papale in omaggio alla sua arte, nella sfortunata traversata navale con i suoi dipinti, pegno prezioso. Nella grande rappresentazione sulle pareti  ritroviamo tutti i componenti di questo suo mondo così duro e violento,  i suoi personaggi, i suoi protagonisti che hanno dato vita allo spettacolo della sua arte.

Nel quinto e ultimo atto di questa rappresentazione teatrale, I luoghi,  vediamo la topografia di un’esistenza così movimentata in una cronologia  che scandisce le tappe della sua vita tumultuosa illuminata dalla luce di un’arte incomparabile, conclusa nel buio di una tragica fine.

E quando, al termine, c’è la passerella dei suoi 57 capolavori, L’arte immortale di Caravaggio strappa un applauso a scena aperta.

Sfilano  gli incomparabili interpreti della sua grande rappresentazione, ma i visitatori – che si sentono sul palcoscenico anche loro e non in platea –  pensano all’artista che ha saputo creare tanta grandezza. Pensano a Caravaggio con emozione e anche con una certa commozione..  

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, la biglietteria chiude un’ora prim della chiusura. Ingresso intero euro 10,00, ridotto euro 8,00.  Per le opere di Caravaggio e il suo influsso cfr. i nostri articoli su 4 mostre: in questo sito, 6 giugno 2013 e 27 maggio 2016,  in cultura.inabruzzo.it  8 e 11 giugno, 21, 22, 23 gennaio 2010 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito)..

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra. Si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta.  Sono state inquadrate alcune composizioni tra le tante che scorrevano sulle pareti a diversi ingrandimenti, nelle quali si possono riconoscere alcune celebri opere dell’artista delle 57 riprodotte; ma ciò di cui si intende dare una idea, pur se inadeguata, è la scenografia spettacolare accompagnata da una musica coinvolgente, mentre per le opere si rinvia agli articoli sulle mostre di tipo tradizionale sopraindicati alla fine di “Info”. 

Minya, ritratti dell’Italia di oggi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

 A Roma, Palazzo Esposizioni,  dal 14 al 22 maggio 2016,  la mostra “Minya.  GAPscape – State of Art – Italia” presenta 35  ritratti  di personaggi italiani contemporanei nei diversi settori, dallo sport alla musica, passando  per  l’arte e la letteratura, l’imprenditoria e le professioni. Sono ritratti, con interventi pittorici, doppi:  il primo con il solo viso del VIP, il secondo con la trasparenza di un paesaggio dietro il volto, possibile perché  fotografato su plexiglas. Con il patrocinio di Regione Lazio, e Istituto svizzero, Comitato Italiano Paraolimpico e “Insieme – Roma Candidate City Olympic Games 2024”, curatore e promotore del progetto Achille Bonito Oliva. Catalogo del Palazzo delle Esposizioni, bilingue.

Il titolo riassume forma e contenuti della mostra di Minya Mikic, l’artista che utilizza una tecnica personalissima in cui la pittura si sposa con la fotografia, il ritratto con il paesaggio, in una fusione altamente simbolica:  “GAPscape” indica il vuoto riempito con il paesaggio, dal “gap” al “landscape”, “State of Art- Italia” allude all’opera dei personaggi ritratti nei vari settori.

L’insieme costituito dai  ritratti di personaggi celebri e dai paesaggi in essi incorporati fino a diventarne parte integrante,  rende per immagini il corpo e l’anima di un paese come il nostro nel quale alle eccellenze ambientali si uniscono quelle personali,  e meritano di essere celebrate insieme.

Naturalmente, la scelta dei 35 personaggi che simboleggiano le eccellenze personali, come i  paesaggi ad esse associati, è  stata operata direttamente dall’artista, pescando a sua discrezione nei diversi campi, dallo sport alla musica, dall’arte alla letteratura, dall’imprenditoria alle professioni.

Una scelta per molti versi è opinabile, ci è sembrata influenzata dalla presenza  mediatica dei soggetti, ben oltre il loro valore emblematico;  comunque non si può negare che presenta un quadro variegato dell’Italia di oggi, un racconto  per immagini  del paese come lo vediamo rappresentato. In fondo è un racconto dell’artista, un viaggio in Italia tra personaggi e paesaggi fusi in una alchimia artistica la cui composizione è fatta rivivere nel backstage appositamente visualizzato.

Nel Catalogo, infatti, troviamo in 30 fotografie gli “incontri”, con i personaggi in posa per le fotografie di base nei loro ambienti di vita e di lavoro;  in altre 24 fotografie i “luoghi”, o meglio i momenti in cui le loro immagini, trasferite su plexiglass, vengono fotografate in modo da riprendere come loro sfondo scorci ambientali per lo più monumentali. Le trasparenze del plexiglass forniscono i “vuoti”, il gap dove irrompe il  paesaggio, il “landscape”. Una sorta di magia.

Soltanto fotografia sovrapposta a fotografia?  No di certo, entra in campo la pittura, i quadri sono dipinti  utilizzando pigmenti puri in  pasta acrilica che vengono  applicati sulla superficie trasparente del  plexiglas. Anzi, sono gli interventi pittorici a dare l’impronta a questa fusione.

Vi sono anche 4 opere con soli pigmenti su plexiglas, senza immagini, con dominante  verde,  blu,  o bianca, che rimandano ai lavori astratti dell’artista alla base dell’exploit  ritrattistico; e un’opera in cui l’immagine su cui sono applicati pigmenti blu è quella del Colosseo, preso come personaggio.

E’ dell’ottobre 2008  il prologo dell’attuale mostra, ma senza personaggi: infatti espose nella galleria di New York “Monkdogz  Urban Art”  la sua prima personale con quadri astratti in pigmenti puri su plexiglas fotografato con fondi di paesaggi di Roma e New York, Londra, Zurigo e Parigi. Dopo cinque anni, nel 2013, il progetto  di utilizzare la sua particolare forma artistica per “raccontare” l’Italia di oggi unendo personaggi ad ambienti caratteristici, per il suo attaccamento al nostro paese, nel quale si è trasferita dal 1999 provenendo da Novi Sad, nella ex Jugoslavia, dove si è diplomata all’Accademia delle Belle Arti, ed è stata campionessa nazionale di ginnastica artistica.   Ha al suo attivo mostre in USA, Italia e Svizzera, dove ha uno studio a Zurigo.

 Nel 2015,  la prima prestigiosa vetrina  di “GAPscape –  State of Art Italia” , a New York  le opere realizzate  sono state esposte dal 2 giugno per sei mesi su invito del Console Generale di New York, Natalia Quintavalle , nell’ambito dei  festeggiamenti per la Repubblica.

Il mondo dello sport e non solo

Con queste premesse e con questi  contenuti l’attuale mostra avviene in un momento particolare,  che spiega come al patrocinio delle istituzioni locali, la Regione Lazio e Roma Capitale, si aggiunga il Comitato Italiano Paraolimpico e “Insieme per Roma, Candidate City Olympic Games 2024”.  E’ il momento di sostenere questa candidatura anche con un’opera  –  come ha scritto il presidente del Coni  Giovanni Malagò – “che può diventare il biglietto da visita più efficace per promuovere l’immagine vincente della tradizione tricolore”.   e questo perché presenta “tanti protagonisti, un unico comune denominatore: il senso di appartenenza nei confronti delle nostre radici, l’orgoglio di rappresentare e sventolare – con legittima fierezza – una tradizione che si specchia nel successo”.

Tutto ciò Malagò lo vede nei “campioni che veicolano l’immagine più  bella della nostra patria, che scrivono la storia con il loro esempio fatto di talento e determinazione, perché ogni traguardo va costruito con abnegazione e con determinazione. E’ una lezione che si riflette nella quotidianità,  che fa dello sport uno stile di vita, concetto che questa preziosa galleria sa impreziosire con una sapiente vena artistica”.  Reca la scritta “Stile di vita” l’immagine di Malagò – uno dei 35 personaggi – con in trasparenza la spiaggia di Sabaudia sormontata dal promontorio. 

Oltre a Malagò, Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano Paraolimpico, in trasparenza la  romana Piazza del Popolo, con le parole  “I limiti sono nella nostra testa”:  soggettivi, non oggettivi, messaggio forte per chi ha subito menomazioni ma non per questo deve sentirsi condizionato, sta a lui  reagire positivamente e, come avviene nelle paraolimpiadi,  fino alla vittoria non solo su se stessi. Non poteva mancare Luca Cordero di Montezemolo,in trasparenza le due torri di Bologna, ben noto “businessman”  ma con un ruolo di punta oltre che nello sport, si pensi alla Formula 1, nella sfida olimpica di Roma.

Come non potevano mancare, tra i personaggi immortalati, due campioni olimpionici e campioni del mondo nella ginnastica –  in omaggio all’attività sportiva dell’artista – i cui trionfi sportivi sono rimasti nella mente e nel cuore di tutti.  Le loro immagini, con le trasparenze di una chiesa di Prato e un mausoleo di Treviso, sono accompagnate da una riflessione  che ci riporta alle parole di Pancalli: “Ogni sogno è possibile se ci credi fino in fondo”, il messaggio di Juri Chechi, “Insegui il tuo sogno e non mollare nonostante le difficoltà, la tua passione farà la differenza”  il messaggio di Igor Cassina,  li accomuna il sogno unito alla determinazione.  Altrettanto eloquente, per altro verso, il motto della modella di moda Bianca Balti, con la trasparenza di una piazza e chiesa di Lodi:  il suo “Let go, let God”  realizza i sogni andando sulla passerella con l’aiuto di Dio.

L’insegnamento dello sport è anche nel messaggio che accompagna il volto di Filippo Magnini, nuotatore campione del mondo  ritratto con in trasparenza uno scorcio aprico di Pesaro: “Affronto la vita 100 metri per volta”, con quanta determinazione si può vedere dai suoi record natatori. Mentre la campionessa olimpica e del mondo, sempre di nuoto, Federica Pellegrini, accompagna il suo bel viso nella trasparenza della laguna di Venezia con le parole “Pesce d’acqua dolce”. Venezia con le gondole, anche nella trasparenza dietro il volto di Gino Strada, di Emergency.

Torna il sogno a commento dell’immagine del calciatore  Gianluca Zambrotta, in trasparenza una chiesa di Como: “Il mondo è nelle mani di coloro che hanno il coraggio di sognare e di correre il rischio di vivere i propri sogni”. 

Al riguardo lo skipper Giovanni Soldini, con un angolo panoramico di Genova in trasparenza, esclama: “Voglio essere felice di quello che mi aspetta ogni mattina quando mi sveglio”,  e spesso si è svegliato da solo nella vastità sconfinata dell’oceano nel suo giro del mondo in solitario.

Una felicità che Bebe Vio, schermitrice campione dei giochi paraolimpici, esprime con uno stupefacente trasporto, “La vita è una figata!”, messaggio spontaneo di valore incommensurabile.  

Il mondo delle imprese e delle professioni

Anche Ferruccio Ferragamo, con cui apriamo la galleria degli imprenditori dopo quella degli sportivi,  evoca i sogni e la determinazione, mentre in trasparenza si intravede un edificio monumentale di Firenze: “Mio padre mi ha insegnato che è possibile realizzare i propri sogni. Bisogna crederci ed essere tenaci”.  Oscar Farinetti, creatore di “Eataly”, ci ha creduto e ha avuto il successo che tutti conoscono, lo si vede dall’espressione soddisfatta del viso, uno dei pochi sorridenti, in trasparenza un edificio torinese, eloquente come il messaggio di Ferragamo.

Vediamo poi il viso di un terzo imprenditore, Stefano Ricci, con la trasparenza della basilica fiorentina di Santa Maria del Fiore; e quello di un ingegnere, Gianni Silva, in trasparenza il Duomo di Milano.  L’architetto Marco Casamonti è anche lui ripreso con in trasparenza una veduta di  Santa Maria del Fiore, questa volta laterale, mentre torna  Milano con il Duomo nella trasparenza di Fabiola Gianotti, fisica delle particelle, Direttore generale del Cern, e con la Galleria nella trasparenza dietro il volto del direttore artistico Davide Rampello.  Rivediamo la basilica di San Pietro nella trasparenza dell’archistar Massimiliano Fuksas, mentre si intravede dietro l’immagine dell’architetto Nicola di Battista, con il messaggio “All’ombra del Pantheon non tutto resiste”.

Vi associamo  “Nulla è permanente quanto il cambiamento”, il messaggio della scienziata virologa Ilaria Capua,  con la basilica di Padova  in trasparenza, tra forti pigmenti rossi sui capelli. Ma c’è anche un messaggio meno impegnativo, “Vieni in Italia con me”, è del chef Massimo Bottura,l’espressione peraltro è severa, in carattere con la  trasparenza monumentale di Modena. Un leggero sorriso sul volto del giornalista Beppe Severgnini, molto presente mediaticamente, che nella trasparenza della cattedrale di Crema manda un messaggio dal chiaro significato esistenziale:  “La vita è un viaggio e non viaggiamo da soli”. Il volto di Oliviero Toscani, dinanzi alla trasparenza del Duomo di Lucca, ci dà un altro messaggio esistenziale, irridente e paradossale a prima vista, ma denso di contenuti: “Gli stupidi vedono il bello solamente nelle cose belle”

Il mondo dell’arte e della letteratura, dello spettacolo e della musica

L’arte è presente soltanto con Michelangelo Pistoletto, ritratto in una trasparenza architettonica di  Biella, e con Nanni Balestrini, artista-poeta, dinanzi alla  spettacolare facciata della basilica romana di Santa Maria Maggiore, ci sembra troppo poco. Per il cinema,  il regista Matteo Garrone, nella trasparenza di Castel Sant’Angelo accompagnata dalle parole “Semplicità non presunzione”, non scontate nel mondo del cinema e per lo spettacolo l’attrice Paola Cortellesi, troppo poco anche qui.

Dall’arte alla letteratura con la bella immagine di Dacia Maraini dinanzi alla trasparenza di un edificio monumentale a Palermo, e con Umberto Eco, il cui messaggio è legato a una località: “La città più bella d’Italia? San Leo: una rocca e due chiese”, si percepiscono appena in trasparenza del tutto incorporate nel volto aperto e pensoso, l’espressione di uno scrittore che è anche filosofo.

Infine la musica, il settore con maggiori presenze nella galleria di volti di Minya. Due musicisti jazz, i cui messaggi paralleli sono inequivocabili, Enrico Rava, con la trasparenza della Mole Antonelliana di Torino confida “Jazz mi ha salvato la vita”, mentre Stefano Bollani, dinanzi alla trasparenza dei ruderi del Foro Romano aggiunge “Jazz ha salvato la vita anche a me”.

Dai musicisti jazz a due mostri sacri. Vediamo  il grande compositore Ennio Morricone, dinanzi a due  trasparenze romane, Castel Sant’Angelo e la basilica di Santa Maria Maggiore, con le parole “Il segno, il sogno”, che riassumono le sue musiche, hanno segnato i momenti più emozionanti di grandi film, e hanno alimentato il sogno della sterminata platea di spettatori. Ed ecco il grande Andrea Bocelli, anche lui con Roma in trasparenza, questa volta il Foro Romano, e il messaggio “I strongly elieve that love does justice”, universale come la lingua nella quale lo ha espresso.

Il presidente della Regione Lazio Zingaretti e il curatore Bonito Oliva

Abbiamo lasciato per ultimi due personaggi che sono al centro dell’iniziativa, con ruoli diversi: il presidente della Regione Lazio che la patrocina,  il critico d’arte Achille Bonito Oliva, curatore e promotore culturale dl progetto.

Nicola Zingaretti è ritratto, nella trasparenza di piazza Colonna,  con un’espressione tranquilla, il suo è l’unico volto alla base del quale si intravede camicia bianca, giacca e cravatta, l’ufficialità è rispettata. Ha vissuto quest’esperienza  nella “doppia veste di protagonista e fruitore”, e ha potuto apprezzare l’impegno e il carattere innovativo di un lavoro artistico proiettato sull’attualità: “Personaggi provenienti da tante città italiane diverse e tutti uniti nella rappresentazione del ‘corpo’ e dell’ anima’ del nostro paese. Mikic è riuscita a immortalare un patrimonio di luoghi e di persone che sono divenuti patrimonio comune”, sono le sue parole. 

Achille Bonito Oliva, dinanzi alla trasparenza di una via del centro di Roma con i suoi edifici monumentali, ammonisce: “La memoria progetta il passato della vita”. A questa massima aggiunge un altro assioma  non meno intrigante: “L’arte è una domanda sul mondo, e l’artista è un inviato della realtà”.  Poi  la sua dialettica ermetica e pindarica insieme  prende il sopravvento: “L’arte è un massaggio del muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva,  è l’irruzione di un gesto catastrofico sull’equilibrio del linguaggio interpersonale e paradossalmente la capacità di giocare tra catastrofe e comunicazione. Minya riesce con equilibrio a manovrare entrambi gli aspetti”. E lo fa creando “immagini personali a partire dall’osservazione che lei produce nei confronti del mondo e della realtà” e comunicandole nella forma particolare che abbiamo visto.  La sua opera “intende cogliere nella realtà sociale che circonda l’artista, ma direi anche il suo pubblico,  le eccellenze,  figure che sul piano morale, economico, sociale, politico sono state e sono capaci con il loro comportamento di valorizzare l’identità del proprio paese; in questo caso l’Italia”. Così inquadra queste eccellenze: “L’Italia è un paese di poeti, guerrieri e navigatori ci dice un’antica retorica del passato. E pure il ventaglio di personaggi scelti dall’artista sono assolutamente documentati dalla storia personale di ognuno, ma direi anche dalla capacità di essere trasformati in icone”.   E così definisce la tecnica utilizzata: “Riesce a riportare sulla superficie speculare con pixel e adeguata assistenza manuale dell’artista per produrre una figurazione, una rappresentazione, uno spostamento dalla vita all’opera di personaggi riconoscibili, ma questa riconoscibilità passa attraverso la griglia linguistica”.

Minya, l’interpretazione autentica della propria arte  

Minya Mikik molto semplicemente, dopo aver affermato che “l’artista deve essere sempre molto attento ad osservare tutto quello che lo circonda, tutto quello che succede nella nostra società, dalla cultura, alla scienza, alla politica… Più esperienza si ha nella vita, più l’arte traspira di contenuto interessante” , confida: “Le mie esperienze di vita, dal mio paese natale a quello adottivo, il mio passato di sportiva: passione, disciplina, precisione, obiettivi… sono diventati il mio stile di vita e si rispecchiano nella mia arte. Il mio compito, o desiderio, è poi quello di comunicare agli altri questa esperienza, i miei pensieri, i ragionamenti, e magari anche le mie conclusioni”.

 Non è una visione neutrale, né una registrazione passiva: “Nelle sue più diverse forme ed espressioni l’arte deve provocare, porre domande, istigare il pensiero… aprire la mente. Ciò che importa non è il risultato, ma il percorso, il processo della creazione”. Ed ecco il processo da lei seguito: “Per me essere un’artista significa mescolare tutto ciò che ho a disposizione: dalla tecnologia alla sociologia, la psicologia,  la storia, all’attualità, e ottenere una mia visione della realtà che ci circonda”. E non solo: “Per l’autenticità del progetto è stato fondamentale  il coinvolgimento personale dei protagonisti. Conoscerli personalmente è stato fondamentale nella realizzazione dei quadri, ho scattato moltissime foto durante le sessioni per poi selezionarne solo una o due con quel ‘qualcosa in più’ che andava oltre l’estetica, che ne rispecchiava l’anima”.

Lo vediamo nelle immagini del backstage con la bionda giovane artista che li fotografa in ambienti domestici, ne coglie l’umanità: “Parlando con loro ho cercato di intuire il ‘loro’ colore, la sfumatura che meglio li descriveva. Dipingendo i quadri, entrando nei dettagli della fisionomia facciale, mi è sembrato di conoscerli intimamente, di scoprire i loro segreti e comprendere la loro eccellenza”.

Il risultato?  Così ne parla  Bonito Oliva: “La figurazione nel caso produce una galleria, l’esemplare di eccellenze esistenziali comportamentali, professionali che producono modelli di comportamento attraverso la contemplazione che il pubblico può assumere di queste figure e partecipare da fermo, attraverso questa nuova iconografia, a sviluppare, massaggiare il muscolo atrofizzato della sensibilità collettiva”. E conclude: “Opera sociale è questa collettivamente organizzata che produce nuovi processi di conoscenza. Nel nostro caso, conoscenza di nuovi modi di produrre l’immagine, di praticare la pittura, e dall’altra parte direi la capacità di creare, illustrare la storia del nostro paese”.

Qualcosa di nuovo, anzi d’antico

Ci sembra che in questo abbinamento risieda il grande pregio del progetto artistico. Nuovi modi di produrre l’immagine non sono mancati, per tutti ricordiamo la tecnica innovativa di Elio con i suoi ritratti di icone mondiali della modernità. Ma questa finalizzazione a celebrare le eccellenze del nostro paese fa sentire che “c’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”.

Non lo scopriamo noi,  il “Ritratto dei Duchi di Urbino”   del 1472 posto  nelle prime pagine del Catalogo della mostra,  fa da apripista alla sfilata dei VIP contemporanei,  anche i  busti dei Duchi hanno come sfondo i paesaggi, come le trasparenze dietro i volti dei VIP  quasi 450 anni dopo… 

Il commento di apertura, nella sua cristallina semplicità, è la decrittazione delle espressioni più criptiche del curatore: “La Storia d’Italia è stata nel tempo ampiamente illustrata attraverso ritratti di personalità rilevanti nel loro periodo, realizzati con tecniche artistiche all’epoca innovative. Basti pensare alla scoperta rinascimentale della prospettiva e alla sua portata addirittura rivoluzionaria per la ritrattistica. I ritratti realizzati per la mostra ‘GAPscape – State of Art Italia’ propongono una versione moderna di questa narrazione e Minya, con la sua tecnica del tutto personale e originale, ci regala una possibilità di osservare l’Italia di oggi attraverso i suoi personaggi e i suoi paesaggi raccontati con un linguaggio contemporaneo”.

Che tutto questo venga finalizzato alla candidatura olimpica di Roma è  secondario, l’elemento primario è la formula nuova e antica insieme di celebrare il nostro paese. Una formula così potente da richiedere una selezione rigorosa dei soggetti che ne illustrano le benemerenze. Il concetto di “eccellenza” è forse più alto di quello qui adottato, troppe sono le assenze e molte le presenze cui viene dato un peso sproporzionato. 

La visione dell’artista riflette insindacabili preferenze  quanto situazioni occasionali. Per questo  non si tratta del Pantheon della nazione, bensì di uno specchio alquanto  deformato da effetti mediatici e rapporti personali, ma pur sempre indicativo dell’Italia come appare oggi agli occhi di tutti.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Orari. da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, la biglietteria chiude un’ora prim della chiusura. Ingresso intero euro 10,00, ridotto euro 8,00. Catalogo “Minya. GAPscape – State of Art – Italia”, a cura di Achille Bonito Oliva, Palazzo delle Esposizioni, maggio 2016, pp. 120, formato 24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Espopsizioni  alla presentazione della mostra. Si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. In apertura, Andrea Bocelli; seguono, Federica Pellegrini e Gino Strada; poi, Giovanni Soldini e Ilaria Capua; quindi, Oliviero Toscani e Achille Bonito Oliva; inoltre, Michelangelo Pistoletto e Stefano Bollani; infine  Ennio Morricone e, in chiusura, l’immagine singola di Andrea Bocelli.

Correggio e Parmigianino nel ‘500 d’oro di Parma, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale la mostra “Correggio e Parmigianino. Arte e Parma nel Cinquecento”, aperta dal 12 marzo al 26 giugno 2016, presenta una vasta selezione di opere provenienti da oltre 40 istituzioni museali e da altri prestatori, fino ad Amburgo e Londra, Strasburgo e Vienna, Copenaghen e Oxford, New York, Washington e Los Angeles. Curatore della mostra e del Catalogo della Silvana editorialeDavid Ekserdjian, che ha studiato la Scuola di Parma per 35 anni con numerose pubblicazioni,tra cui due monografie sul Correggio nel 1997 e sul Parmigianino nel 2006.

Una mostra molto interessante, questa delle Scuderie del Quirinale, perché non solo presenta due grandi artisti del ‘500  in un allestimento  che li pone testa a testa,  inducendo il visitatore a cercare gli influssi e, di conseguenza, le analogie e le diversità;  ma li inquadra nel periodo d’oro  della città di Parma, attraverso le opere di epigoni contemporanei..

Non sono due presentazioni monografiche, ma le storie intrecciate di due artisti viste in parallelo in un contesto cittadino che fino al loro arrivo era di livello modesto sotto il profilo artistico, ma poi si elevò notevolmente fino rendere la città, dove si era creata la “scuola di Parma”, un centro di attrazione.

Per questo motivo seguiremo, pur se con alcune varianti, la presentazione delle opere nelle 10 sale della mostra, che alterna momenti di singolo approfondimento a momenti di raffronto diretto nelle diverse fasi della vita dei due artisti, isolando in apposite sezioni giovinezza e maturità anche per dare il senso dell’evoluzione di ciascuno pur nella comparazione implicita e spesso esplicita.

Correggio e Parmigianino

Una breve presentazione introduttiva per delineare alcune caratteristiche e peculiarità della vita e dell’arte dei due grandi pittori cinquecenteschi, ma saranno le loro opere la vera presentazione.

La  prima considerazione riguarda i rispettivi soprannomi, Antonino Allegri  fu chiamato “il Correggio”  e Francesco Mazzola “il Parmigianino”, con riferimento alle località di provenienza, componenti  importanti della loro vita. Il primo veniva dalla cittadina vicino Parma dove nacque nell’agosto 1489 e da cui prese il nome, vi rimase fino al 1503,  poi andò a Modena e Mantova; il secondo era nato a Parma nel gennaio 1503 da una famiglia di pittori, di qui il diminutivo riferito alla sua precocità di artista, non alla statura, vi rimase fino al 1524, quando si trasferì a Roma.

Il Correggio a 14 anni  frequentò la scuola di Francesco Bianchi Ferrari, due anni di formazione allo stile aggraziato con colori luminosi proprio del suo maestro; su queste basi si innestò  prima la rudezza stilistica del Mantegna, dominante a Mantova, poi un richiamo alla grazia espressiva nella scuola di Costa succeduto al primo maestro. Nel 1910 è a Parma, ne  rivoluziona il panorama artistico,  prima del suo arrivo la locale scuola di pittura era così poco qualificata che venivano
date commissioni ad artisti forestieri, poi ne divenne il maestro indiscusso.

Sulla sua formazione e la sua arte, il direttore della R. Galleria di Parma Armando Ottaviano Quintavalle,  in occasione del quarto centenario della morte dell’artista,  nel 1934, ha scritto : “Queste  dunque le origini del Correggio: grazia di atteggiamenti e di colore ispirati agli emiliani e forza di disegno, con duri contrasti derivati dal Mantegna”; si aggiunge l’influsso di Leonardo, conosciuto a Milano, “dal quale soprattutto attinse quella dolcezza dello sfumato che riscontriamo fin dalle prime opere, pur se reso in modo sostanzialmente diverso”.  In seguito approda a “strutture più robuste, ad una costruzione più serrata, ad una visione più particolare che, pur conservando nei tratti e nelle dolci espressioni l’originale grazia, e pur non distaccandosi del tutto dalle forme dei maestri, è già saldamente e particolarmente la sua pittura”. 

Sentirà anche l’influsso di Raffaello e Michelangelo, mantenendo la sua naturale grazia espressiva, e avrà momenti di manierismo; prevale in lui la gioiosa serenità, ma si cimenta anche con il dolore.

Il Parmigianino si trasferì a Roma dopo essere rimasto a Parma fino ai 21 anni, a parte il soggiorno a 18 anni a Viadana  – allorché lasciò la sua città assediata dai francesi – quando realizzò comunque una pala d’altare e un dipinto di santi, un affresco mitologico e un ritratto nobiliare.  A Parma sentì  l’influsso del Correggio che Giorgio Vasari nell’edizione delle “Vite” del 1550 definì suo maestro. Nell’edizione successiva del 1568  non si trova più questo riferimento, ma “l’importanza dell’artista più anziano per il più giovane resta in ogni caso enorme”, scrive il curatore David  Ekserdjian.

Aggiunge che “Parmigianino non si affrancò mai dall’influenza di Correggio”, del quale conosceva non solo le opere finite ma anche alcuni lavori preparatori, come provano dei fogli con le copie dei disegni  del Correggio in parte diversi dagli affreschi conclusivi; e sembra accertato che ebbe modo di salire sui ponteggi degli affreschi in lavorazione, alcune sue opere sono conformi.  Resta a Roma fino al Sacco della città del 1527, allorché va a Bologna e vi si ferma 3-4 anni, fino al 1530-31, quando torna a Parma e  vi rimane fino al termine del decennio. Straordinaria la sua maestria nel disegno, nella quale supera il Correggio, con un marcato  influsso michelangiolesco.

La sua peculiare cifra artistica è l’eleganza e il distacco rispetto al soggetto rappresentato, mentre il Correggio ne rende la gamma dei sentimenti umani, dalla  gioia,che è prevalente, fino al dolore, con partecipazione emotiva  evidente; differenze percepibili nella comune raffinatezza e grazia stilistica ed espressiva. 

Intorno a questi due maestri, incrociandosi   con loro anche nell’esecuzione delle committenze, gli altri tre artisti parmensi presenti in mostra, Michelangelo Anselmi, Giorgio Gandini Del Grano e Girolamo Mazzola Bedoli completano la visione d’insieme della straordinaria stagione artistica vissuta da Parma nella prima metà del ‘500, definita “per la città una vera e propria età dell’oro”.

La mostra la fa rivivere nelle 10 sale del percorso espositivo che ne ripercorrono i momenti salienti, dal periodo giovanile dei due maggiori artisti, alla maturità, ai disegni e ai tre epigoni.

Il primo confronto tra i due grandi artisti

Si apre la mostra con la Sala 1 che pone i due grandi artisti a confronto diretto con un’opera sullo stesso tema religioso, il “Matrimonio mistico di Santa Caterina”:quella del  Parmigianino viene dal Louvre, quella delCorreggio dal Museo di Capodimonte di Napoli. 

L’umanità del Correggio, che esprime sentimenti di gioia e dolore,  e l’eleganza del Parmigianino, che trasmette raffinatezza e grazia, sono particolarmente evidenti nelle due opere. Il Correggio presenta una scena familiare con la Santa  e un’altra figura femminile protese sorridenti con dolcezza su un bambino tenuto in braccio che le guarda teneramente  quasi a cercare protezione, con degli alberi e un paesaggio di sfondo; il Parmigianino invece  compone una specie di monumento, la Santa con il bambino è assisa su un piedistallo, intorno i santi Giovanni Evangelista e Giovanni Battista, ricorda le Madonne in trono, nello sfondo in alto delle colonne su una rotonda.Del Parmigianino vediamo anche “Santa Cecilia” e “David”, imponenti figure gemelle tra colonne tortili sovrastate da putti con cesti di frutta, vengono dalla Basilica magistrale di Parma.

 Le loro opere giovanili

Nelle prime opere del Correggio troviamo conferma, sia nelle singole figure, sia nella composizione, dell’influenza di Mantegna, pittore di corte a Mantova dove morì nel 1506, sono accertati i suoi rapporti nel 1512 con il figlio del grande precursore mantovano.  Questi dipinti per lo più  di piccole dimensioni,  esposti nelle Sale 2 e 3,   prefigurano aspetti caratteristici della sua arte che ha avuto una evoluzione graduale evidenziata in mostra  con un’impostazione cronologica oltre che tematica per i ritratti, la mitologia e i disegni.

Sono esposti 10 dipinti,  tra i quali hanno figure in primissimo piano le due “Madonna con Bambino”, precisamente la “Madonna Barrymore” e la “Madonna Campori,  inoltre “La Sacra Famiglia con san Giovannino ” e “La Pietà”, fino al tenebroso “Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne”. Mentre sono composizioni corali il  “Commiato di Cristo dalla madre” e il “Matrimonio mistico di santa Caterina con sant’Anna, san Francesco e san Domenico”,  la santa in trono in una composizione di tono liturgico ben diversa da quella di tono familiare presentata nella prima sala. Il tono familiare riappare nel “Ritorno durante la fuga in Egitto con san Giovannino”,  con il richiamo  naturalistico nel grande albero. Infine un insolito tono orientaleggiante in “David davanti all’Arca dell’Alleanza”, groviglio di figure e trombe con sfondo di cupole e guglie.

Per il Parmigianino, c’è la peculiarità di essere stato precoce, così fin dall’adolescenza ha prodotto opere compiute con una originalità manifestata fin dall’inizio e destinata a confermarsi nel tempo. Di questo periodo iniziale sono esposti soltanto due dipinti, a differenza del Correggio maggiormente rappresentato:  il “Matrimonio mistico di santa Caterina con san Giacomo minore”  sorprende perché ha un tono familiare che lo accosta al primo dipinto su questo tema del Correggio, il quale a sua volta, come abbiamo visto, nell’adolescenza ha reso invece la scena in modo rituale; il “Ritratto di Lorenzo Cybo”, la cui imponenza e solennità è temperata dal sorriso del bambino in basso,  anticipa la galleria dei ritratti della Sala 8.  Le altre 4 opere sono in matita rossa: “Madonna col Bambino, due santi e un donatore” ,  “Studi di putti”,  e “Studi da Correggio”.

 Le  opere della loro maturità

Sono esposte nella Sala 4 opere molto significative dei due artisti, 5 per ognuno, che consentono un raffronto delle rispettive forme artistiche negli anni ’20 e ’30 del ‘500: il Correggio morì nel 1534 a 45 anni e il Parmigianino nel 1540 a 37 anni, per entrambi un’esistenza breve ma intensa.

Del Correggio spicca “Noli me tangere”, con Cristo in piedi e la donna in ginocchio ritratti come in una danza davanti  a un albero con un paesaggio di sfondo, ricorda il suo “Giovane che sfugge alla cattura di Cristo”, con il corpo luminoso ma in uno sfondo buio. Gesù è al centro di altri due dipinti , “Il Redentore in gloria con angeli” e “Volto di Cristo”, quasi un ingrandimento del viso ma con la corona di spine e l’espressione prima gioiosa ora sofferente. Vediamo inoltre il “Martirio dei santi Placido, Flavio, Eutichio e Vittorino” dove nonostante  due carnefici li trafiggano con le spade non vi è dramma ma estatica accettazione del sacrificio supremo. 

Imponenti le figure che dominano due dipinti del Parmigianino, “San Rocco con il donatore Baldassarre della Torre da Milano”, in cui il santo è un vero gigante con gli occhi rivolti al cielo,  e “Conversione di Saulo”, in cui il gigante è il cavallo da cui Paolo cade nel momento della folgorazione guardando in alto con gli occhi che non vedono, su un  paesaggio dall’orizzonte lontano. Inoltre è esposta la “Madonna di san Zaccaria”, con una copia, c’è un senso di intimità nelle figure strette le une alle altre con i due bambini che si abbracciano teneramente. 

Completano l’esposizione della sala i disegni “L’adorazione dei pastori (La Notte)” del Correggio e “Studio delle figure in primo piano nello ‘Sposalizio della Vergine’ del Parmigianino.

 Le opere mitologiche e simboliche

Alla maturità, tra gli anni ’20 e ’30,  appartengono anche i dipinti su temi mitologici,  poco frequenti perché prevalevano le opere di tema religioso e per questo molto curati dagli artisti; Correggio e Pamigianino anche agli inizi affrontarono temi mitologici, ma in forma di affreschi.

Vediamo nella Sala 5 un’esposizione parallela di due opere per ognuno  dei grandi artisti.

Del  Correggio “Danae”,  parte di un ciclo di 4 opere sugli amori di Giove  realizzate negli ultimi anni, tra il 1930 e il 1934, l’anno della morte, nei movimenti e nella composizione obliqua  ricorda “Noli me tangere”, sotto una pioggia dorata Cupido le toglie il drappo che le copre le gambe per offrirla completamente nuda a Giove. Nuda anche  Venere alata come dea dell’amore, nel dipinto “Venere con Mercurio e Cupido (Educazione d’Amore)”,  in cui Mercurio insegna a leggere al loro figlio Cupido.

I  dipinti mitologici del Parmigianino furono eseguiti quasi tutti per un solo committente, il cavalier Francesco Baiardi. In “Saturno e Filira” il nudo di lei contrasta con il grande cavallo bianco in una composizione potente e dinamica,  è definita “bozzata di colore finito”, come fosse incompiuta.

Anche in “Circella” c’è dinamismo nella veste e nei gesti, è un disegno su una figura che ricorda la Maga Circe nell'”Orlando innamorato” del Boiardo.   

Idealizzato e allusivo il “Ritratto di giovane donna detta ‘Schiava turca’”, figura emblematica alla quale è dedicata la Sala 6, insieme al dipinto di Bedoli “Quattro membri della famiglia Bergonzi”.  Non si tratta di una schiava, l’aggettivo “turca” forse deriva dal copricapo molto eleborato, come un turbante, dal quale spuntano capelli scuri e riccioli, sotto una fronte pallida e delle guance rosee, l’abito è sontuoso, le dita affusolate, è l’immagine della bellezza piuttosto che un vero ritratto.

L’esposizione su questi temi prosegue nella Sala 10  con due opere dell’ultima fase della vita del Parmigianino,  “Pallade Atena”, un bel volto con gli occhi rivolti in basso, uno splendido monile con scritto il nome greco; e “Lucrezia”, il petto nudo, il gesto deciso, il viso rivolto in alto. 

Vi è anche “Antea”, un’altra rappresentazione simbolica della bellezza ideale piuttosto che il ritratto della cortigiana romana con questo nome: sguardo intenso, figura eretta, veste sontuosa.

I disegni e i ritratti

Un posto a sé occupano i disegni nel percorso degli artisti cinquecenteschi, perché spesso servivano da preparazione ai dipinti e , in genere, alle opere realizzate con varie tecniche.  Nella Sala 8 vi è un’esposizione particolarmente ricca, sono quasi 60, di cui circa 20 per ognuno dei due maestri, il Correggio e il Parmigianino, e altrettanti  per gli artisti loro epigoni.

Nei disegni si utilizzava in genere la penna  per impostare i contorni e la composizione, la matita per completare e rifinire.

Il Correggio disegnava soprattutto con la matita rossa e alcune sue prove sono di eccezionale valore, siano esse preparazioni pittoriche o progetti architettonici, i disegni esposti si dividono equamente tra le due categorie.

Per le prime,  6 di natura religiosa, di cui 2 studi  per una “Madonna della scodella”, e “Madonna col Bambino e santi”, ‘”Annunciazione” e  “San Bernardo”, “Adorazione dei Magi” e  “Due apostoli seduti con putti“; e 5  di natura profana, come “Venere addormentata” e “Allegoria del vizio”, “Genio che versa un libagione e donna con una cornucopia”, “Uomo a cavallo di un toro con altre figure” e “Nudo seduto di profilo”.

Dei disegni progettuali, 3 per il Duomo di Parma tra cui due sulla “Decorazione della cupola”,  2 sul “Sottarco della Cappella del Bono” e uno “Studio per la decorazione a grottesca di una crociera”.

Il Parmigianino viene ritenuto superiore a lui, nel disegno a penna e ad acquerello, con matita rossa e nera. La sua produzione è vastissima perché oltre che per scopi preparatori disegnava anche per diletto e, non essendo vincolato da committenze, raffigurava scene di vita quotidiana, paesaggi e perfino scene erotiche.

Sono esposti 8 suoi disegni  di natura religiosa, di cui 3 in preparazione dello “Sposalizio della Vergine”, 2 studi per la “Madonna dal collo lungo” e per  la “Madonna nella ‘visione di san Girolamo’”,  per “Annunciazione”, e per una “Testa di Gesù Bambino”.

Gli studi di natura profana in mostra sono 7,  “Figure su un’imbarcazione” e “Uomo seduto con sgabello”,  “Monarca riceve un libro da un sacerdote” e “Donna seduta a terra mentre allatta il bambino”,  “Figura virile seduta di spalle” e Paesaggio”, su temi mitici, “Saturno che divora i suoi figli”  “Diogene” e “Mosè”.  

I disegni progettuali sono 2,  per la “Decorazione della volta in Santa Maria della Steccata a Parma” e “Progetto per la cornice di una pala d’altare” .

La lunga carrellata si conclude con  7 disegni di Giorgio Gandini del Grano e 7 di Girolamo Mazzola Bedoli, 3 di Michelangelo Anselmi e 2 di Francesco Maria Rondani. Ma di questi artisti parleremo nella conclusione, appena terminata la presentazione dei due maggiori con i ritratti. 

I ritratti del Correggio e del Parmigianino sono particolarmente apprezzati nell’ambito della loro produzione artistica, ne sono esposti due per ciascuno, molto significativi: del Correggio“Santa Caterina con libro” e “Ritratto di uomo con libro”; del Parmigianino  “Ritratto di uomo con libro” e “Ritratto di giovane uomo”,  c’è il libro nell’immagine religiosa e in quella laica dei due artisti.

Gli epigoni, Gandini del Grano, Anselmi, Bedoli

Concludiamo la nostra visita alla mostra con gli artisti che  hanno concorso a creare la stagione d’oro nella Parma cinquecentesca, seguendo i due grandi maestri. I loro dipinti sono esposti nella Sala 7, mentre i loro disegni nella Sala 8 insieme a quelli di Correggio e Parmigianino.

Di Giorgio Gandini del Grano, oltre ai 7 disegni, vediamo 3 dipinti dei pochi che ha lasciato – è morto giovanissimo – anche lui come Correggio e Parmigianino si è cimentato nel “Matrimonio mistico di santa Caterina”  che, come la “Madonna col Bambino,  san Michele, san Giovannino e san Cristoforo”,  presenta una scena vivacemente movimentata e dal cromatismo brillante con dei bei paesaggi nello sfondo; mentre “Madonna col Bambino ed angeli” mostra una scena raccolta di grande tenerezza con i due volti accostati in posa inconsueta incorniciati da un tronco d’albero. Stessa maestria compositiva e forte dinamismo nelle figure che si assiepano in varie forme. 

Ancora più brillante il cromatismo di Michelangelo Anselmi in “Cristo e la samaritana”, con intensi contrasti di colori, anche qui il paesaggio domina lo sfondo,  mentre “Lucrezia” , presenta tinte smorte e lo sfondo cupo in carattere con la drammaticità della scena del suicidio col pugnale. 

 n Girolamo Mazzola Bedoli  troviamo ugualmente scene con paesaggi ben evidenti sullo sfondo, la “Madonna con Bambino fra i santi Giovanni Battista e Cristoforo” è posta a confronto con l’opera di Gandini del Grano, è un’originale composizione in atteggiamenti inconsueti, tonalità scure, mentre ha tonalità chiare la “Sacra Famiglia con san Francesco”.  Sono suoi anche i dipinti  “Quattro membri della famiglia Bergonzi”  e “Parma abbraccia Alessandro Farnese”, improntati a grande solennità e rigore compositivo,  esposti rispettivamente nelle Sale 6 e 10.

Le loro opere concorrono all’età dell’oro nel ‘500 a Parma,  dominata dai due maggiori maestri Correggio e Parmigianino che con i loro epigoni hanno creato una straordinaria temperie artistica, rievocata e documentata magistralmente dalla mostra che per questo appare meritoria e imperdibile.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio, 16, Roma. Apertura tutti i giorni ore 10,00, chiusura da domenica a giovedì ore 20,00, venerdì e sabato ore 22,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero euro12,00, ridotto euro 8,00. Tel.  06.39967500, www.scuderiequirinal.e.it. Catalogo “Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”, a cura di David Ekserdjian, Silvana Editoriale, marzo 2016, pp.256, formato 23 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta.  Le date dei dipinti non sono indicate in mostra e in Catalogo: per Correggio si collocano tra il 1510 e il 1534, per Parmigianino  tra il 1520 e il 1540, le immagini sono alternate tra i due artisti. In apertura, Correggio, “Noli me tangere”, seguono, Correggio, “Commiato di Cristo dalla madre” e Parmigianino, “Pallade Atena”; poi, Correggio, “Madonna col Bambino (Madonna Campori)” e Parmigianino, “Ritratto di Lorenzo Cybo” quindi, Correggio,  “Martirio dei santi Placido, Flavio, Eustachio e Vittorino”  e Parmigianino, “Ritratto di uomo”; inoltre, Correggio, “Ritratto di dama”  e Parmigianino, “Ritratto di giovane donna detta ‘Schiava turca’”, ancora, Correggio, “Danae”  e Parmigianino, “Conversione di Saulo”; infine, Correggio,Riposo durante la fuga in Egitto” e  Parmigianino, “San Rocco con il donatore Baldassarre della Torre da Milano”; in chiusura, Correggio, “Il Redentore in gloria con angeli”. 

Shakespeare, 7 artisti lo celebrano alla galleria Russo

di Romano Maria Levante

La Galleria Russo celebra il 400° anniversario della morte di William Shakespeare con la mostra “Shakespeare  in Rome”,  che espone  dal 16 aprile al 7 maggio 2016  le opere di 7  artisti ispirate al grande drammaturgo. Gli artisti sono Enrico Benetta e Diego Ceresa Molino, Roberta Coni e Manuel Felisi, Michael Gambino, Massimo Giannoni e Tommaso Ottieri; le loro opere vanno dai dipinti ad olio su tela e stampa fotografica alla tecnica mista su tela e resina, ai collage e alle sculture in vetro di Murano.  La mostra è progettata e curata da Maria Cecilia Vilches Riopedre, catalogo bilingue italiano-inglese Manfredi Edizioni.

E’ un omaggio diverso da quello che c’è stato per Gogol, dato che del grande romanziere russo si sono celebrati i rapporti con Roma, dove soggiornò a lungo considerandola una sua seconda patria e dedicandole espressioni di grande ammirazione. Il titolo della mostra non si riferisce alla sua presenza a Roma in vita, bensì alla sua evocazione oggi nella città eterna come è eterna la sua arte letteraria. 

A Roma viene celebrato anche al “Globe Theatre”, l’unico teatro elisabettiano del nostro paese,  con la direzione artistica di Gigi Proietti in un ciclo di spettacoli tra l’estate e l’autunno promossi da  Roma Capitale con la partecipazione di Zètema. In scena sei  delle sue opere più note, ambientate in Italia e imperniate sul valore della giustizia e il rispetto della legge, “Re Lear” e “Sogno di una notte di mezza estate”, “Il Mercante di Venezia” e “Il racconto d’inverno”, “Romeo e Giulietta” e “La tempesta”; inoltre un recital di Proietti di brani da “Kean” e una serata sui suoi “Sonetti d’amore”.

Paul Sellers, direttore del British Council Italia, consigliere culturale presso l’Ambasciata britannica, ne ha evocato la figura sottolineando che “più del cinquanta per cento della popolazione mondiale lo studia a scuola, quando nessun’altro poeta viene studiato da più dell’uno o due per cento. Oggi è rappresentato più di qualsiasi altro drammaturgo, includendo anche gli autori contemporanei”.

Il motivo di tale successo planetario viene trovato nel fatto che è stato il primo a rappresentare i diversi aspetti della condizione umana affrontando temi come l’avidità e l’invidia, la gelosia e la lussuria, la rabbia e il tradimento, fino alla fede e all’amore “che, alla fine, è la dinamica fondamentale dei trentotto mondi creati da Shakespeare per i nostri palcoscenici contemporanei”. Inoltre  è stato antesignano nel propugnare la tolleranza e l’integrazione mettendo in rilievo le diversità di ogni tipo, di età e genere, con la valorizzazione della donna, di etnia e religione, di sessualità e disabilità.

L’assenza delle arti visive nelle sue opere

Nei suoi mondi, però – osserva il critico inglese Andrew Dickson, il cui ultimo libro del 2015 tratta l’influenza di Shakespeare a livello globale – sono praticamente assenti le arti visive.. C’è soltanto una scultura, nell’ultima scena del “Racconto d’inverno”, attribuita “a quell’illustre maestro italiano Giulio Romano, un’opera testé completata dopo anni di lavoro”.   Ma la “statua dipinta”  come monumento di  Ermione,  si rivela essere Ermione stessa considerata morta da sedici anni e ora riportata alla vita con “il più stupefacente colpo di teatro”,  quindi neppure qui va in scena l’opera d’arte.

In “Amleto”   vengono additati i ritratti  del padre e dello zio di Geltrude per sottolineare le diverse sembianze,  e nel poema “Lo stupro di Lucrezia”  la protagonista dopo la violenza si lancia contro “un pezzo di sapiente pittura” sulla caduta di Troia per lacerarlo con le proprie unghie, ma il dipinto non si vede.  Nessun quadro, cavalletto o cornice viene citato nei 40 manoscritti giunti fino a noi dove sono indicati gli oggetti di scena,dai libri alle lettere, dalle candele alle spade, fino a un set di scacchi.

Ciò è dovuto all’essenzialità del suo teatro, che rende reale il mondo rappresentato non attraverso oggetti ed elementi naturalistici, ma tramite il linguaggio,  si andava  a teatro “per ascoltare”, non “per vedere”, Dickson nel ricordare questo, osserva che “c’erano poche opportunità per l’inganno visivo che potessero rivaleggiare con le trasformazioni create dal testo”.  Del resto, per la pittura,  i maggiori artisti erano stranieri e non erano familiari nella società inglese. Lo stesso Giulio Romano, lo scultore del “Racconto d’inverno”,  era architetto,  “un malizioso scherzo shakespeariano” come Ermione al posto della statua.

La presenza  della pittura nella raffigurazione del suo teatro

Per un paradosso o una compensazione della storia, mentre  l’arte visiva e la pittura erano assenti nelle sue opere,   sono state invece presenti in modo massiccio nella loro raffigurazione.

Dickinson osserva: “il fatto stesso che le opere di Shakespeare siano principalmente opere dell’immaginazione, non legate  a periodi o luoghi specifici, offre agli artisti una libertà assoluta: la libertà di reinventarsi  volontà”.  Per questo,  dopo la sua scomparsa nel 1616, “con la crescita della sua fama, le successive generazioni di pittori e di incisori si precipitarono a teatro per ammirare le opere e fissarle su carta o tela”. Così Shakespeare è stato  il riferimento e l’ispirazione per gli artisti visivi soprattutto inglesi di inizio e metà XVIII secolo.  La carrellata fatta da Dickinson è particolarmente ricca ed espressiva.

Inizia con le incisioni di Elisa Kirkall del 1709 per i sei volumi dell’Opera omnia curata da Nicholas Rowe, che oltre a raffigurare le scenografie, si sbizzarrivano nelle più libere interpretazioni. Nel  1745  William Hogart, tra i più importanti artisti del ‘700 inglese, riproduce in un dipinto ad olio l’attore-imprenditore David Garrick nei panni di Riccardo III in una delle ultime scene della tragedia.

Altri attori sono stati ritratti da diversi artisti nei panni di personaggi shakespeariani, tra loro nel 1750 Susannah Cibber e James Quin nelle vesti di Falstaff, riprodotto anche in statuette di terracotta fabbricate per oltre un secolo; Sarah Siddons e John Philip Kemble furono ritratti  da Thomas Lawrence, il secondo come Coriolano e Amleto con pose in studio oltre che a teatro, in modo da creare una vera e propria icona;  Charles Macklin fu ritratto da Johann Zoffany.

Nel 1789 l’incisore Josiah Boydell creò una “Galleria shakespeariana” raccogliendo le opere che ne interpretavano la visione teatrale, e non solo riproducevano gli attori in scena, ritenendo che “nessun soggetto è più appropriato per creare una scuola inglese di pittura storica  delle scene dell’immortale Shakespeare”. Tra i presenti nella sua galleria altri importanti artisti del ‘700, Joshua Reynolds, per “Oberon, Titania e Puck con Fate Danzanti”, e Joseph Wright of Derby, con interpretazioni di “Racconto d’inverno” e “La Tempesta”; c’erano anche  Angelica Kaufmann e Francis Smirke.

Una citazione  a parte merita Henry Fuseli perché, oltre a partecipare alla galleria di Boydell prima con 9 dipinti in stile gotico ispirati ad “Amleto”, “Macbeth” e “La Tempesta”, poi con altri 4 ispirati a “Sogno di una Notte di mezza estate”e a “Macbeth”, restò legato fino alla fine a tale ispirazione con  85 opere. 

Come lui,  William Blake, pur non facendo parte della galleria di Bloydell,  dal 1780 mise Shakespeare al centro della sua ispirazione per più di quarant’anni con acquerelli sia illustrativi sia di libera interpretazione, di opere tra cui citiamo “Riccardo III” e “Fantasmi”, “Oberon, Titania e Puck con Fate Danzanti” e “Macbeth”.

Aderenti alla lettera del teatro shakespeariano altri artisti, come John Everett Millais, in una Ofelia da “Amleto” del 1852,  Charles Robert Leslie e William Holman Hunt in “Valentino che libera Silvia da Proteo” del 1851;  poca genuinità in molte altre interpretazioni del XIX secolo, ad eccezione di “Enrico VI a Towton” in cui nel 1860 William Dyce,  conclude Dickson è l’unico che “si avvicina al mondo immaginativo e psicologico di Shakespeare”.

In Francia, sebbene i suoi personaggi fossero molto conosciuti, tanto che “venne adottato nel XIX secolo come un onorario figlio nativo”, pochi artisti si ispirarono a lui, ma tra loro Eugene Delacroix che iniziò con 13 litografie, realizzate nel 1827 e pubblicate nel 1843, sull'”Amleto”  parigino interpretato da Charles Kemble, e proseguì a lungo con molti studi ad olio, come quello su Lady Macbeth,  e piccoli dipinti.

Nei giorni nostri l’interesse per il mondo shakespeariano è virato soprattutto sull’ironia in relazione alle tante reinterpretazioni trasgressive delle sue opere, come il punk “Romeo + Giulietta” di Baz Luhrmann del 1996 e le molte versioni di Bollywood; ed ha riguardato anche gli artisti giapponesi di manga e gli autori di fumetti, tra cui Neil Gaiman con la serie “Sandman” del 1889-96 illustrata da vari artisti. 

Questa la conclusione di Dickson dopo l’accurata ricognizione di cui abbiamo fornito i dati essenziali: “Negli ultimi anni molti artisti si sono ispirati al drammaturgo, ma pochi artisti di punta hanno raccolto la sfida, forse timorosi di cadere dentro un letteralismo storico o accademico. E tutto ciò rende ancora di più ‘Shakespeare in Rome’ un progetto assai gradito. Presentando sette artisti europei provenienti da diverse tradizioni e discipline e che utilizzano diversi linguaggi e tecniche, il progetto racchiude in sé un interessante corpus di lavoro – dalla ritrattistica al paesaggio, dalla scultura alle creazioni a tecnica mista  che corrispondono alla multiformità  degli scritti del drammaturgo”.

E’ il momento di passare in rassegna le opere presentate dalla mostra, dopo averla  inquadrata nel mondo shakespeariano e nelle sue interpretazioni artistiche: un contesto che  fa risaltare il valore dell’iniziativa non soltanto sotto l’aspetto celebrativo, e l’importanza della sfida raccolta dai 7 artisti espositori con opere, tutte del 2016, create espressamente per questa occasione.

Metà circa delle opere sono dipinti ad olio, le altre sono in tecnica mista, in vari materiali e collage.

I dipinti ad olio sui temi shakespeariani

Quattro gli espositori di dipinti ad olio e in acrilico,  con opere di stile figurativo in chiave contemporanea.

Cominciamo con Tommaso Ottieri, che ci presenta le sue spettacolari visioni, le abbiamo viste in precedenza in mostre curate dalla stessa Galleria Giulia riferite ai panorami delle grandi città, agli interni delle basiliche e dei grandi teatri, ora al dramma shakespeariano “La Tempesta”:   in “WS Tempest 1”  sul palcoscenico c’è il mare in burrasca, in tonalità rosse e oro, in “WS Tempest III” un veliero in naufragio con l’acqua che sembra riversarsi sulla platea, i toni sono plumbei.  

La sua ben nota impostazione, derivante dalla formazione in architettura, emerge anche da queste opere. Ma non finisce qui, espone anche un’interpretazione di “Macbeth”, “Lady M”, un busto di profilo, nella sua conturbante nudità, con il volto avvolto dall’ombra, torna “la funzione del nero” della sua personale del 2015 alla stessa galleria Giulia.  E un’interpretazione di “Amleto” con “Yorick”, il teschio che nella tragedia è nelle mani del principe di Danimarca, qui emerge dal buio  dipinto a olio sulla stampa fotografica.

Dalla  visione trasognata di “Lady M.”  a “Lady Macbeth” di  Roberta Comi, anch’essa conturbante nel suo mantello rosso con cui si copre parte del viso come fosse uno “chador”  rendendolo misterioso pur senza ombre, anzi in una luminosità che fa risaltare il viso e le mani.  I grandi ritratti rappresentano un importante filone nell’arte della Coni, insieme alla rappresentazione sanguigna dei canti dell’Inferno, anche per apprezzare questa artista le mostre della galleria Russo sono state preziose.

Vediamo la  sua interpretazione di “Romeo e Giulietta” nel grande dipinto “Juliet”, la testa è cinta da una coroncina di fiori, ma l’espressione è corrucciata, quasi disperata, un contrasto netto espresso anche dal volto per metà in piena luce e per metà nell’ombra più scura. E’ questa, in fondo la sintesi di una storia d’amore e di morte, traspare dallo sguardo della fanciulla che sembra implorare aiuto dinanzi al destino. 

Di “Amleto”vediamo “Ophelia”, un corpo  abbandonato sull’acqua sopra al quale galleggiano dei fiori, ripensiamo alla coroncina di “Juliet”, l’espressione distesa e insieme angosciata, anche qui aleggia la sorte infausta segnata dal destino, la grande immagine è rovesciata come se venisse verso l’osservatore.

Con Diego Cerero Molina un’interpretazione disincantata, quasi a voler stemperare i toni cupi della tragedia con quelli della commedia e dell’ironia. Il suo “Macbeth” è un’immagine quasi satirica del Re, dall’espressione spiritata con una grande corona che gli balla in modo ridicolo sul capo, il petto coperto di onorificenze, le grandi mani in primo piano che sembra vogliano afferrare l’osservatore ma senza incutere timore, tanto grottesco.

Uguale tono satirico in “William Shakespeare”, questa volta la sua ben nota immagine incorniciata viene presentata tra le mani di un sogghignante individuo che fuma un grosso sigaro,  e forse per questo la grossa cornice sembra una scatola di sigari con sopra la relativa etichetta offerta in vendita. Potrebbe alludere alla mercificazione della società consumistica che non risparmiare nulla, neppure un anniversario come questo.

Celebra l’anniversario in due modi che ne riassumono i motivi Massimo Giannoni: “Shakespeare”  presenta una grande antica biblioteca carica di libri, con in primo piano in basso sulla sinistra un’immagine del drammaturgo che sembra far capolino con discrezione; “1616-2016” dedica ai 400 anni un omaggio floreale, rose ed altri fiori, tra il bianco, il rosa e il rosso. Dalla solennità all’intimità, dunque.

Le  opere in vari materiali e forme espressive

Dopo i dipinti ad olio passiamo alle opere in materiali e alle tecniche di vario tipo, alle sculture e ai collage.

Vediamoun grande pannello lungo 3 metri e alto quasi 2,  di  Manuel Felisi lin tecnica mista su tela,  “A Midsummer Night’s Dreams”,  una composizione con 55 riquadri attraversati da sottili alberi con dei rami leggeri e aerei che convergono in una visione di tipo onirico anche se quanto mai reale, perché rami e alberi sembra di toccarli, ma si possono vedere così soltanto nei sogni di una notte di mezza estate.

Ha lo stesso titolo  “A Midsummer Night’s Dreams” un pannello più piccolo in tecnica mista su resina in 10 riquadri nei quali all’elemento dei rami degli alberi che si prolungano da un riquadro all’altro si aggiungono le scritte di brani della stessa opera, in una materializzazione dei sogni anche attraverso il testo.

Un altro pannello su resina con 49 riquadri si intitola “Caducità”, in ogni riquadro dei fiori e si intravvedono delle scritte, e delle immagini sfuggenti,  la visione suggestiva dell’artista del mondo shakespeariano.

Fin qui siamo nel figurativo pittorico pur declinato con modalità e contenuti diversi. Cambia tutto con gli ultimi due artisti della galleria shakespeariana.

Enrico Benetta  ci dà tre diverse forme interpretative. Per l’ “Amleto”  scolpisce una testa  in vetro di Murano trasparente che riproduce il teschio di Yoprick, ricoperto di grandi lettere maiuscole a caratteri Bodoni, il titolo inequivocabile è “To be or not to be”,  mentre per “The Merchant of Venice”  utilizza una  sorta di installazione lunga 3 metri  divisa in sei scomparti di 50 cm, con elementi in vetro rosso di Murano che sembrano grosse gocce di sangue applicati a una lamiera nera. E’ l’elemento risolutivo del dramma, Shylock non può pretendere di avere la libbra di carne perché nell’impegno preso dal debitore non era compreso il sangue che sarebbe stato versato.

Ancora diverso “Sonnet”,  in rame ha realizzato un volume aperto con i fogli sollevati, ci sono anche grosse lettere Bodoni.  Il pensiero va  all’indimenticabile immagine del  Vangelo sfogliato dal vento sulla bara di papa Woytila  nella cerimonia funebre di Piazza San Pietro.

Concludiamo con un ‘omaggio che ci è parso straordinario, per la sua capacità di esprimere con semplicità e inarrivabile suggestione la miriade di pensieri e sentimenti ispirati da un personaggio così grande che con le sue opere ha incantato e continua ad incantare il pubblico di tutto il mondo.

Siamo stati presi  dalle farfalle ritagliate di Michel Gambino, che “volano”  nei cinque collage esposti.

Sono applicate su fondo fosforescente in “Sogno di una notte di mezza estate/ A Midsummer Night’s Dream”, dove escono dal libro con la copertina rossa, il testo dell’opera teatrale per innalzarsi come  nella fumata bianca del conclave; in “Shakespeare’s Words”,  dal libro con la scritta Shakespeare si dipartono verso destra come  un arco teso che scocca le sue frecce; e in “Existence Shakespeare”, si irradiano ad aureola circolare con al centro il colore blu da un libro recante sulla copertina marrone la scritta “Potrei vivere  nel guscio di una noce e sentirmi il re dello spazio infinito”, dal secondo atto di “Amleto”.

Non finisce qui, le farfalle sono appuntate su tela in “United Kingdom” con la sagoma geografica in cui differenti colori segnano la divisione tra Inghilterra e Scozia, Galles e Irlanda del Nord.

E soprattutto le farfalle compongono il “Ritratto di Wllliam Shakespeare/ Portrait of William Shakespeare”, il più suggestivo omaggio che si potesse immaginare.

Sono farfalle che fanno volare nel cielo dell’immortalità.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20. Lunedì ore 16,30-19,30, da martedì a sabato ore 10,00-19,30, domenica  chiuso. Ingresso gratuito. http://www.galleriarusso.com, tel. 06.6789949 – 06.69920692. Catalogo“Shakespeare in Rome”, Manfredi Edizioni, aprile 2016, pp. 72, formato  22 x 22, bilingue italiano-inglese; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. i  nostri articoli: in questo sito per mostre  precedenti della Galleria Russo su Tommaso Ottieri 11 maggio 2015,  e su Roberta Comi il 20 febbraio 2013; in “cultura.inabruzzo.it”  sulle mostre celebrative a Roma di Gogol  16 e 25 novembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella Galleria Russo, si ringrazia la galleria con i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta.  In apertura, una bella “enclave” con 4 opere poi riprodotte singolarmente, di Roberta Comi (di fronte), Tommaso Ottieri (a dx e sin) ed Enrico Benetta (al centro); seguono, Tommaso Ottieri, “WS Tempest I” e “WS Tempest III“; poi, Roberta Comi,  “Lady Macbeth”,  “Juliet” e “Ophelia”; quindi, Diego Cerero Molina, “Macbeth” e “William Shakespeare”; inoltre, Massimo Giannoni, “Shakespeare”, e Manuele Felisi,  “A Midsummer Night’s Dream”, e “Caducità”; infine,  Enrico Benetta, “The Merchant of Venice” e “Sonnet”; in chiusura, Michael Gambino, “Shakespeare’s Words” e “Ritratto di William Shakespeare/ Portrait of  William Shakespeare”.