Correggio e Parmigianino nel ‘500 d’oro di Parma, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale la mostra “Correggio e Parmigianino. Arte e Parma nel Cinquecento”, aperta dal 12 marzo al 26 giugno 2016, presenta una vasta selezione di opere provenienti da oltre 40 istituzioni museali e da altri prestatori, fino ad Amburgo e Londra, Strasburgo e Vienna, Copenaghen e Oxford, New York, Washington e Los Angeles. Curatore della mostra e del Catalogo della Silvana editorialeDavid Ekserdjian, che ha studiato la Scuola di Parma per 35 anni con numerose pubblicazioni,tra cui due monografie sul Correggio nel 1997 e sul Parmigianino nel 2006.

Una mostra molto interessante, questa delle Scuderie del Quirinale, perché non solo presenta due grandi artisti del ‘500  in un allestimento  che li pone testa a testa,  inducendo il visitatore a cercare gli influssi e, di conseguenza, le analogie e le diversità;  ma li inquadra nel periodo d’oro  della città di Parma, attraverso le opere di epigoni contemporanei..

Non sono due presentazioni monografiche, ma le storie intrecciate di due artisti viste in parallelo in un contesto cittadino che fino al loro arrivo era di livello modesto sotto il profilo artistico, ma poi si elevò notevolmente fino rendere la città, dove si era creata la “scuola di Parma”, un centro di attrazione.

Per questo motivo seguiremo, pur se con alcune varianti, la presentazione delle opere nelle 10 sale della mostra, che alterna momenti di singolo approfondimento a momenti di raffronto diretto nelle diverse fasi della vita dei due artisti, isolando in apposite sezioni giovinezza e maturità anche per dare il senso dell’evoluzione di ciascuno pur nella comparazione implicita e spesso esplicita.

Correggio e Parmigianino

Una breve presentazione introduttiva per delineare alcune caratteristiche e peculiarità della vita e dell’arte dei due grandi pittori cinquecenteschi, ma saranno le loro opere la vera presentazione.

La  prima considerazione riguarda i rispettivi soprannomi, Antonino Allegri  fu chiamato “il Correggio”  e Francesco Mazzola “il Parmigianino”, con riferimento alle località di provenienza, componenti  importanti della loro vita. Il primo veniva dalla cittadina vicino Parma dove nacque nell’agosto 1489 e da cui prese il nome, vi rimase fino al 1503,  poi andò a Modena e Mantova; il secondo era nato a Parma nel gennaio 1503 da una famiglia di pittori, di qui il diminutivo riferito alla sua precocità di artista, non alla statura, vi rimase fino al 1524, quando si trasferì a Roma.

Il Correggio a 14 anni  frequentò la scuola di Francesco Bianchi Ferrari, due anni di formazione allo stile aggraziato con colori luminosi proprio del suo maestro; su queste basi si innestò  prima la rudezza stilistica del Mantegna, dominante a Mantova, poi un richiamo alla grazia espressiva nella scuola di Costa succeduto al primo maestro. Nel 1910 è a Parma, ne  rivoluziona il panorama artistico,  prima del suo arrivo la locale scuola di pittura era così poco qualificata che venivano
date commissioni ad artisti forestieri, poi ne divenne il maestro indiscusso.

Sulla sua formazione e la sua arte, il direttore della R. Galleria di Parma Armando Ottaviano Quintavalle,  in occasione del quarto centenario della morte dell’artista,  nel 1934, ha scritto : “Queste  dunque le origini del Correggio: grazia di atteggiamenti e di colore ispirati agli emiliani e forza di disegno, con duri contrasti derivati dal Mantegna”; si aggiunge l’influsso di Leonardo, conosciuto a Milano, “dal quale soprattutto attinse quella dolcezza dello sfumato che riscontriamo fin dalle prime opere, pur se reso in modo sostanzialmente diverso”.  In seguito approda a “strutture più robuste, ad una costruzione più serrata, ad una visione più particolare che, pur conservando nei tratti e nelle dolci espressioni l’originale grazia, e pur non distaccandosi del tutto dalle forme dei maestri, è già saldamente e particolarmente la sua pittura”. 

Sentirà anche l’influsso di Raffaello e Michelangelo, mantenendo la sua naturale grazia espressiva, e avrà momenti di manierismo; prevale in lui la gioiosa serenità, ma si cimenta anche con il dolore.

Il Parmigianino si trasferì a Roma dopo essere rimasto a Parma fino ai 21 anni, a parte il soggiorno a 18 anni a Viadana  – allorché lasciò la sua città assediata dai francesi – quando realizzò comunque una pala d’altare e un dipinto di santi, un affresco mitologico e un ritratto nobiliare.  A Parma sentì  l’influsso del Correggio che Giorgio Vasari nell’edizione delle “Vite” del 1550 definì suo maestro. Nell’edizione successiva del 1568  non si trova più questo riferimento, ma “l’importanza dell’artista più anziano per il più giovane resta in ogni caso enorme”, scrive il curatore David  Ekserdjian.

Aggiunge che “Parmigianino non si affrancò mai dall’influenza di Correggio”, del quale conosceva non solo le opere finite ma anche alcuni lavori preparatori, come provano dei fogli con le copie dei disegni  del Correggio in parte diversi dagli affreschi conclusivi; e sembra accertato che ebbe modo di salire sui ponteggi degli affreschi in lavorazione, alcune sue opere sono conformi.  Resta a Roma fino al Sacco della città del 1527, allorché va a Bologna e vi si ferma 3-4 anni, fino al 1530-31, quando torna a Parma e  vi rimane fino al termine del decennio. Straordinaria la sua maestria nel disegno, nella quale supera il Correggio, con un marcato  influsso michelangiolesco.

La sua peculiare cifra artistica è l’eleganza e il distacco rispetto al soggetto rappresentato, mentre il Correggio ne rende la gamma dei sentimenti umani, dalla  gioia,che è prevalente, fino al dolore, con partecipazione emotiva  evidente; differenze percepibili nella comune raffinatezza e grazia stilistica ed espressiva. 

Intorno a questi due maestri, incrociandosi   con loro anche nell’esecuzione delle committenze, gli altri tre artisti parmensi presenti in mostra, Michelangelo Anselmi, Giorgio Gandini Del Grano e Girolamo Mazzola Bedoli completano la visione d’insieme della straordinaria stagione artistica vissuta da Parma nella prima metà del ‘500, definita “per la città una vera e propria età dell’oro”.

La mostra la fa rivivere nelle 10 sale del percorso espositivo che ne ripercorrono i momenti salienti, dal periodo giovanile dei due maggiori artisti, alla maturità, ai disegni e ai tre epigoni.

Il primo confronto tra i due grandi artisti

Si apre la mostra con la Sala 1 che pone i due grandi artisti a confronto diretto con un’opera sullo stesso tema religioso, il “Matrimonio mistico di Santa Caterina”:quella del  Parmigianino viene dal Louvre, quella delCorreggio dal Museo di Capodimonte di Napoli. 

L’umanità del Correggio, che esprime sentimenti di gioia e dolore,  e l’eleganza del Parmigianino, che trasmette raffinatezza e grazia, sono particolarmente evidenti nelle due opere. Il Correggio presenta una scena familiare con la Santa  e un’altra figura femminile protese sorridenti con dolcezza su un bambino tenuto in braccio che le guarda teneramente  quasi a cercare protezione, con degli alberi e un paesaggio di sfondo; il Parmigianino invece  compone una specie di monumento, la Santa con il bambino è assisa su un piedistallo, intorno i santi Giovanni Evangelista e Giovanni Battista, ricorda le Madonne in trono, nello sfondo in alto delle colonne su una rotonda.Del Parmigianino vediamo anche “Santa Cecilia” e “David”, imponenti figure gemelle tra colonne tortili sovrastate da putti con cesti di frutta, vengono dalla Basilica magistrale di Parma.

 Le loro opere giovanili

Nelle prime opere del Correggio troviamo conferma, sia nelle singole figure, sia nella composizione, dell’influenza di Mantegna, pittore di corte a Mantova dove morì nel 1506, sono accertati i suoi rapporti nel 1512 con il figlio del grande precursore mantovano.  Questi dipinti per lo più  di piccole dimensioni,  esposti nelle Sale 2 e 3,   prefigurano aspetti caratteristici della sua arte che ha avuto una evoluzione graduale evidenziata in mostra  con un’impostazione cronologica oltre che tematica per i ritratti, la mitologia e i disegni.

Sono esposti 10 dipinti,  tra i quali hanno figure in primissimo piano le due “Madonna con Bambino”, precisamente la “Madonna Barrymore” e la “Madonna Campori,  inoltre “La Sacra Famiglia con san Giovannino ” e “La Pietà”, fino al tenebroso “Giuditta e la sua ancella con la testa di Oloferne”. Mentre sono composizioni corali il  “Commiato di Cristo dalla madre” e il “Matrimonio mistico di santa Caterina con sant’Anna, san Francesco e san Domenico”,  la santa in trono in una composizione di tono liturgico ben diversa da quella di tono familiare presentata nella prima sala. Il tono familiare riappare nel “Ritorno durante la fuga in Egitto con san Giovannino”,  con il richiamo  naturalistico nel grande albero. Infine un insolito tono orientaleggiante in “David davanti all’Arca dell’Alleanza”, groviglio di figure e trombe con sfondo di cupole e guglie.

Per il Parmigianino, c’è la peculiarità di essere stato precoce, così fin dall’adolescenza ha prodotto opere compiute con una originalità manifestata fin dall’inizio e destinata a confermarsi nel tempo. Di questo periodo iniziale sono esposti soltanto due dipinti, a differenza del Correggio maggiormente rappresentato:  il “Matrimonio mistico di santa Caterina con san Giacomo minore”  sorprende perché ha un tono familiare che lo accosta al primo dipinto su questo tema del Correggio, il quale a sua volta, come abbiamo visto, nell’adolescenza ha reso invece la scena in modo rituale; il “Ritratto di Lorenzo Cybo”, la cui imponenza e solennità è temperata dal sorriso del bambino in basso,  anticipa la galleria dei ritratti della Sala 8.  Le altre 4 opere sono in matita rossa: “Madonna col Bambino, due santi e un donatore” ,  “Studi di putti”,  e “Studi da Correggio”.

 Le  opere della loro maturità

Sono esposte nella Sala 4 opere molto significative dei due artisti, 5 per ognuno, che consentono un raffronto delle rispettive forme artistiche negli anni ’20 e ’30 del ‘500: il Correggio morì nel 1534 a 45 anni e il Parmigianino nel 1540 a 37 anni, per entrambi un’esistenza breve ma intensa.

Del Correggio spicca “Noli me tangere”, con Cristo in piedi e la donna in ginocchio ritratti come in una danza davanti  a un albero con un paesaggio di sfondo, ricorda il suo “Giovane che sfugge alla cattura di Cristo”, con il corpo luminoso ma in uno sfondo buio. Gesù è al centro di altri due dipinti , “Il Redentore in gloria con angeli” e “Volto di Cristo”, quasi un ingrandimento del viso ma con la corona di spine e l’espressione prima gioiosa ora sofferente. Vediamo inoltre il “Martirio dei santi Placido, Flavio, Eutichio e Vittorino” dove nonostante  due carnefici li trafiggano con le spade non vi è dramma ma estatica accettazione del sacrificio supremo. 

Imponenti le figure che dominano due dipinti del Parmigianino, “San Rocco con il donatore Baldassarre della Torre da Milano”, in cui il santo è un vero gigante con gli occhi rivolti al cielo,  e “Conversione di Saulo”, in cui il gigante è il cavallo da cui Paolo cade nel momento della folgorazione guardando in alto con gli occhi che non vedono, su un  paesaggio dall’orizzonte lontano. Inoltre è esposta la “Madonna di san Zaccaria”, con una copia, c’è un senso di intimità nelle figure strette le une alle altre con i due bambini che si abbracciano teneramente. 

Completano l’esposizione della sala i disegni “L’adorazione dei pastori (La Notte)” del Correggio e “Studio delle figure in primo piano nello ‘Sposalizio della Vergine’ del Parmigianino.

 Le opere mitologiche e simboliche

Alla maturità, tra gli anni ’20 e ’30,  appartengono anche i dipinti su temi mitologici,  poco frequenti perché prevalevano le opere di tema religioso e per questo molto curati dagli artisti; Correggio e Pamigianino anche agli inizi affrontarono temi mitologici, ma in forma di affreschi.

Vediamo nella Sala 5 un’esposizione parallela di due opere per ognuno  dei grandi artisti.

Del  Correggio “Danae”,  parte di un ciclo di 4 opere sugli amori di Giove  realizzate negli ultimi anni, tra il 1930 e il 1934, l’anno della morte, nei movimenti e nella composizione obliqua  ricorda “Noli me tangere”, sotto una pioggia dorata Cupido le toglie il drappo che le copre le gambe per offrirla completamente nuda a Giove. Nuda anche  Venere alata come dea dell’amore, nel dipinto “Venere con Mercurio e Cupido (Educazione d’Amore)”,  in cui Mercurio insegna a leggere al loro figlio Cupido.

I  dipinti mitologici del Parmigianino furono eseguiti quasi tutti per un solo committente, il cavalier Francesco Baiardi. In “Saturno e Filira” il nudo di lei contrasta con il grande cavallo bianco in una composizione potente e dinamica,  è definita “bozzata di colore finito”, come fosse incompiuta.

Anche in “Circella” c’è dinamismo nella veste e nei gesti, è un disegno su una figura che ricorda la Maga Circe nell'”Orlando innamorato” del Boiardo.   

Idealizzato e allusivo il “Ritratto di giovane donna detta ‘Schiava turca’”, figura emblematica alla quale è dedicata la Sala 6, insieme al dipinto di Bedoli “Quattro membri della famiglia Bergonzi”.  Non si tratta di una schiava, l’aggettivo “turca” forse deriva dal copricapo molto eleborato, come un turbante, dal quale spuntano capelli scuri e riccioli, sotto una fronte pallida e delle guance rosee, l’abito è sontuoso, le dita affusolate, è l’immagine della bellezza piuttosto che un vero ritratto.

L’esposizione su questi temi prosegue nella Sala 10  con due opere dell’ultima fase della vita del Parmigianino,  “Pallade Atena”, un bel volto con gli occhi rivolti in basso, uno splendido monile con scritto il nome greco; e “Lucrezia”, il petto nudo, il gesto deciso, il viso rivolto in alto. 

Vi è anche “Antea”, un’altra rappresentazione simbolica della bellezza ideale piuttosto che il ritratto della cortigiana romana con questo nome: sguardo intenso, figura eretta, veste sontuosa.

I disegni e i ritratti

Un posto a sé occupano i disegni nel percorso degli artisti cinquecenteschi, perché spesso servivano da preparazione ai dipinti e , in genere, alle opere realizzate con varie tecniche.  Nella Sala 8 vi è un’esposizione particolarmente ricca, sono quasi 60, di cui circa 20 per ognuno dei due maestri, il Correggio e il Parmigianino, e altrettanti  per gli artisti loro epigoni.

Nei disegni si utilizzava in genere la penna  per impostare i contorni e la composizione, la matita per completare e rifinire.

Il Correggio disegnava soprattutto con la matita rossa e alcune sue prove sono di eccezionale valore, siano esse preparazioni pittoriche o progetti architettonici, i disegni esposti si dividono equamente tra le due categorie.

Per le prime,  6 di natura religiosa, di cui 2 studi  per una “Madonna della scodella”, e “Madonna col Bambino e santi”, ‘”Annunciazione” e  “San Bernardo”, “Adorazione dei Magi” e  “Due apostoli seduti con putti“; e 5  di natura profana, come “Venere addormentata” e “Allegoria del vizio”, “Genio che versa un libagione e donna con una cornucopia”, “Uomo a cavallo di un toro con altre figure” e “Nudo seduto di profilo”.

Dei disegni progettuali, 3 per il Duomo di Parma tra cui due sulla “Decorazione della cupola”,  2 sul “Sottarco della Cappella del Bono” e uno “Studio per la decorazione a grottesca di una crociera”.

Il Parmigianino viene ritenuto superiore a lui, nel disegno a penna e ad acquerello, con matita rossa e nera. La sua produzione è vastissima perché oltre che per scopi preparatori disegnava anche per diletto e, non essendo vincolato da committenze, raffigurava scene di vita quotidiana, paesaggi e perfino scene erotiche.

Sono esposti 8 suoi disegni  di natura religiosa, di cui 3 in preparazione dello “Sposalizio della Vergine”, 2 studi per la “Madonna dal collo lungo” e per  la “Madonna nella ‘visione di san Girolamo’”,  per “Annunciazione”, e per una “Testa di Gesù Bambino”.

Gli studi di natura profana in mostra sono 7,  “Figure su un’imbarcazione” e “Uomo seduto con sgabello”,  “Monarca riceve un libro da un sacerdote” e “Donna seduta a terra mentre allatta il bambino”,  “Figura virile seduta di spalle” e Paesaggio”, su temi mitici, “Saturno che divora i suoi figli”  “Diogene” e “Mosè”.  

I disegni progettuali sono 2,  per la “Decorazione della volta in Santa Maria della Steccata a Parma” e “Progetto per la cornice di una pala d’altare” .

La lunga carrellata si conclude con  7 disegni di Giorgio Gandini del Grano e 7 di Girolamo Mazzola Bedoli, 3 di Michelangelo Anselmi e 2 di Francesco Maria Rondani. Ma di questi artisti parleremo nella conclusione, appena terminata la presentazione dei due maggiori con i ritratti. 

I ritratti del Correggio e del Parmigianino sono particolarmente apprezzati nell’ambito della loro produzione artistica, ne sono esposti due per ciascuno, molto significativi: del Correggio“Santa Caterina con libro” e “Ritratto di uomo con libro”; del Parmigianino  “Ritratto di uomo con libro” e “Ritratto di giovane uomo”,  c’è il libro nell’immagine religiosa e in quella laica dei due artisti.

Gli epigoni, Gandini del Grano, Anselmi, Bedoli

Concludiamo la nostra visita alla mostra con gli artisti che  hanno concorso a creare la stagione d’oro nella Parma cinquecentesca, seguendo i due grandi maestri. I loro dipinti sono esposti nella Sala 7, mentre i loro disegni nella Sala 8 insieme a quelli di Correggio e Parmigianino.

Di Giorgio Gandini del Grano, oltre ai 7 disegni, vediamo 3 dipinti dei pochi che ha lasciato – è morto giovanissimo – anche lui come Correggio e Parmigianino si è cimentato nel “Matrimonio mistico di santa Caterina”  che, come la “Madonna col Bambino,  san Michele, san Giovannino e san Cristoforo”,  presenta una scena vivacemente movimentata e dal cromatismo brillante con dei bei paesaggi nello sfondo; mentre “Madonna col Bambino ed angeli” mostra una scena raccolta di grande tenerezza con i due volti accostati in posa inconsueta incorniciati da un tronco d’albero. Stessa maestria compositiva e forte dinamismo nelle figure che si assiepano in varie forme. 

Ancora più brillante il cromatismo di Michelangelo Anselmi in “Cristo e la samaritana”, con intensi contrasti di colori, anche qui il paesaggio domina lo sfondo,  mentre “Lucrezia” , presenta tinte smorte e lo sfondo cupo in carattere con la drammaticità della scena del suicidio col pugnale. 

 n Girolamo Mazzola Bedoli  troviamo ugualmente scene con paesaggi ben evidenti sullo sfondo, la “Madonna con Bambino fra i santi Giovanni Battista e Cristoforo” è posta a confronto con l’opera di Gandini del Grano, è un’originale composizione in atteggiamenti inconsueti, tonalità scure, mentre ha tonalità chiare la “Sacra Famiglia con san Francesco”.  Sono suoi anche i dipinti  “Quattro membri della famiglia Bergonzi”  e “Parma abbraccia Alessandro Farnese”, improntati a grande solennità e rigore compositivo,  esposti rispettivamente nelle Sale 6 e 10.

Le loro opere concorrono all’età dell’oro nel ‘500 a Parma,  dominata dai due maggiori maestri Correggio e Parmigianino che con i loro epigoni hanno creato una straordinaria temperie artistica, rievocata e documentata magistralmente dalla mostra che per questo appare meritoria e imperdibile.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio, 16, Roma. Apertura tutti i giorni ore 10,00, chiusura da domenica a giovedì ore 20,00, venerdì e sabato ore 22,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero euro12,00, ridotto euro 8,00. Tel.  06.39967500, www.scuderiequirinal.e.it. Catalogo “Correggio e Parmigianino. Arte a Parma nel Cinquecento”, a cura di David Ekserdjian, Silvana Editoriale, marzo 2016, pp.256, formato 23 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta.  Le date dei dipinti non sono indicate in mostra e in Catalogo: per Correggio si collocano tra il 1510 e il 1534, per Parmigianino  tra il 1520 e il 1540, le immagini sono alternate tra i due artisti. In apertura, Correggio, “Noli me tangere”, seguono, Correggio, “Commiato di Cristo dalla madre” e Parmigianino, “Pallade Atena”; poi, Correggio, “Madonna col Bambino (Madonna Campori)” e Parmigianino, “Ritratto di Lorenzo Cybo” quindi, Correggio,  “Martirio dei santi Placido, Flavio, Eustachio e Vittorino”  e Parmigianino, “Ritratto di uomo”; inoltre, Correggio, “Ritratto di dama”  e Parmigianino, “Ritratto di giovane donna detta ‘Schiava turca’”, ancora, Correggio, “Danae”  e Parmigianino, “Conversione di Saulo”; infine, Correggio,Riposo durante la fuga in Egitto” e  Parmigianino, “San Rocco con il donatore Baldassarre della Torre da Milano”; in chiusura, Correggio, “Il Redentore in gloria con angeli”. 

Shakespeare, 7 artisti lo celebrano alla galleria Russo

di Romano Maria Levante

La Galleria Russo celebra il 400° anniversario della morte di William Shakespeare con la mostra “Shakespeare  in Rome”,  che espone  dal 16 aprile al 7 maggio 2016  le opere di 7  artisti ispirate al grande drammaturgo. Gli artisti sono Enrico Benetta e Diego Ceresa Molino, Roberta Coni e Manuel Felisi, Michael Gambino, Massimo Giannoni e Tommaso Ottieri; le loro opere vanno dai dipinti ad olio su tela e stampa fotografica alla tecnica mista su tela e resina, ai collage e alle sculture in vetro di Murano.  La mostra è progettata e curata da Maria Cecilia Vilches Riopedre, catalogo bilingue italiano-inglese Manfredi Edizioni.

E’ un omaggio diverso da quello che c’è stato per Gogol, dato che del grande romanziere russo si sono celebrati i rapporti con Roma, dove soggiornò a lungo considerandola una sua seconda patria e dedicandole espressioni di grande ammirazione. Il titolo della mostra non si riferisce alla sua presenza a Roma in vita, bensì alla sua evocazione oggi nella città eterna come è eterna la sua arte letteraria. 

A Roma viene celebrato anche al “Globe Theatre”, l’unico teatro elisabettiano del nostro paese,  con la direzione artistica di Gigi Proietti in un ciclo di spettacoli tra l’estate e l’autunno promossi da  Roma Capitale con la partecipazione di Zètema. In scena sei  delle sue opere più note, ambientate in Italia e imperniate sul valore della giustizia e il rispetto della legge, “Re Lear” e “Sogno di una notte di mezza estate”, “Il Mercante di Venezia” e “Il racconto d’inverno”, “Romeo e Giulietta” e “La tempesta”; inoltre un recital di Proietti di brani da “Kean” e una serata sui suoi “Sonetti d’amore”.

Paul Sellers, direttore del British Council Italia, consigliere culturale presso l’Ambasciata britannica, ne ha evocato la figura sottolineando che “più del cinquanta per cento della popolazione mondiale lo studia a scuola, quando nessun’altro poeta viene studiato da più dell’uno o due per cento. Oggi è rappresentato più di qualsiasi altro drammaturgo, includendo anche gli autori contemporanei”.

Il motivo di tale successo planetario viene trovato nel fatto che è stato il primo a rappresentare i diversi aspetti della condizione umana affrontando temi come l’avidità e l’invidia, la gelosia e la lussuria, la rabbia e il tradimento, fino alla fede e all’amore “che, alla fine, è la dinamica fondamentale dei trentotto mondi creati da Shakespeare per i nostri palcoscenici contemporanei”. Inoltre  è stato antesignano nel propugnare la tolleranza e l’integrazione mettendo in rilievo le diversità di ogni tipo, di età e genere, con la valorizzazione della donna, di etnia e religione, di sessualità e disabilità.

L’assenza delle arti visive nelle sue opere

Nei suoi mondi, però – osserva il critico inglese Andrew Dickson, il cui ultimo libro del 2015 tratta l’influenza di Shakespeare a livello globale – sono praticamente assenti le arti visive.. C’è soltanto una scultura, nell’ultima scena del “Racconto d’inverno”, attribuita “a quell’illustre maestro italiano Giulio Romano, un’opera testé completata dopo anni di lavoro”.   Ma la “statua dipinta”  come monumento di  Ermione,  si rivela essere Ermione stessa considerata morta da sedici anni e ora riportata alla vita con “il più stupefacente colpo di teatro”,  quindi neppure qui va in scena l’opera d’arte.

In “Amleto”   vengono additati i ritratti  del padre e dello zio di Geltrude per sottolineare le diverse sembianze,  e nel poema “Lo stupro di Lucrezia”  la protagonista dopo la violenza si lancia contro “un pezzo di sapiente pittura” sulla caduta di Troia per lacerarlo con le proprie unghie, ma il dipinto non si vede.  Nessun quadro, cavalletto o cornice viene citato nei 40 manoscritti giunti fino a noi dove sono indicati gli oggetti di scena,dai libri alle lettere, dalle candele alle spade, fino a un set di scacchi.

Ciò è dovuto all’essenzialità del suo teatro, che rende reale il mondo rappresentato non attraverso oggetti ed elementi naturalistici, ma tramite il linguaggio,  si andava  a teatro “per ascoltare”, non “per vedere”, Dickson nel ricordare questo, osserva che “c’erano poche opportunità per l’inganno visivo che potessero rivaleggiare con le trasformazioni create dal testo”.  Del resto, per la pittura,  i maggiori artisti erano stranieri e non erano familiari nella società inglese. Lo stesso Giulio Romano, lo scultore del “Racconto d’inverno”,  era architetto,  “un malizioso scherzo shakespeariano” come Ermione al posto della statua.

La presenza  della pittura nella raffigurazione del suo teatro

Per un paradosso o una compensazione della storia, mentre  l’arte visiva e la pittura erano assenti nelle sue opere,   sono state invece presenti in modo massiccio nella loro raffigurazione.

Dickinson osserva: “il fatto stesso che le opere di Shakespeare siano principalmente opere dell’immaginazione, non legate  a periodi o luoghi specifici, offre agli artisti una libertà assoluta: la libertà di reinventarsi  volontà”.  Per questo,  dopo la sua scomparsa nel 1616, “con la crescita della sua fama, le successive generazioni di pittori e di incisori si precipitarono a teatro per ammirare le opere e fissarle su carta o tela”. Così Shakespeare è stato  il riferimento e l’ispirazione per gli artisti visivi soprattutto inglesi di inizio e metà XVIII secolo.  La carrellata fatta da Dickinson è particolarmente ricca ed espressiva.

Inizia con le incisioni di Elisa Kirkall del 1709 per i sei volumi dell’Opera omnia curata da Nicholas Rowe, che oltre a raffigurare le scenografie, si sbizzarrivano nelle più libere interpretazioni. Nel  1745  William Hogart, tra i più importanti artisti del ‘700 inglese, riproduce in un dipinto ad olio l’attore-imprenditore David Garrick nei panni di Riccardo III in una delle ultime scene della tragedia.

Altri attori sono stati ritratti da diversi artisti nei panni di personaggi shakespeariani, tra loro nel 1750 Susannah Cibber e James Quin nelle vesti di Falstaff, riprodotto anche in statuette di terracotta fabbricate per oltre un secolo; Sarah Siddons e John Philip Kemble furono ritratti  da Thomas Lawrence, il secondo come Coriolano e Amleto con pose in studio oltre che a teatro, in modo da creare una vera e propria icona;  Charles Macklin fu ritratto da Johann Zoffany.

Nel 1789 l’incisore Josiah Boydell creò una “Galleria shakespeariana” raccogliendo le opere che ne interpretavano la visione teatrale, e non solo riproducevano gli attori in scena, ritenendo che “nessun soggetto è più appropriato per creare una scuola inglese di pittura storica  delle scene dell’immortale Shakespeare”. Tra i presenti nella sua galleria altri importanti artisti del ‘700, Joshua Reynolds, per “Oberon, Titania e Puck con Fate Danzanti”, e Joseph Wright of Derby, con interpretazioni di “Racconto d’inverno” e “La Tempesta”; c’erano anche  Angelica Kaufmann e Francis Smirke.

Una citazione  a parte merita Henry Fuseli perché, oltre a partecipare alla galleria di Boydell prima con 9 dipinti in stile gotico ispirati ad “Amleto”, “Macbeth” e “La Tempesta”, poi con altri 4 ispirati a “Sogno di una Notte di mezza estate”e a “Macbeth”, restò legato fino alla fine a tale ispirazione con  85 opere. 

Come lui,  William Blake, pur non facendo parte della galleria di Bloydell,  dal 1780 mise Shakespeare al centro della sua ispirazione per più di quarant’anni con acquerelli sia illustrativi sia di libera interpretazione, di opere tra cui citiamo “Riccardo III” e “Fantasmi”, “Oberon, Titania e Puck con Fate Danzanti” e “Macbeth”.

Aderenti alla lettera del teatro shakespeariano altri artisti, come John Everett Millais, in una Ofelia da “Amleto” del 1852,  Charles Robert Leslie e William Holman Hunt in “Valentino che libera Silvia da Proteo” del 1851;  poca genuinità in molte altre interpretazioni del XIX secolo, ad eccezione di “Enrico VI a Towton” in cui nel 1860 William Dyce,  conclude Dickson è l’unico che “si avvicina al mondo immaginativo e psicologico di Shakespeare”.

In Francia, sebbene i suoi personaggi fossero molto conosciuti, tanto che “venne adottato nel XIX secolo come un onorario figlio nativo”, pochi artisti si ispirarono a lui, ma tra loro Eugene Delacroix che iniziò con 13 litografie, realizzate nel 1827 e pubblicate nel 1843, sull'”Amleto”  parigino interpretato da Charles Kemble, e proseguì a lungo con molti studi ad olio, come quello su Lady Macbeth,  e piccoli dipinti.

Nei giorni nostri l’interesse per il mondo shakespeariano è virato soprattutto sull’ironia in relazione alle tante reinterpretazioni trasgressive delle sue opere, come il punk “Romeo + Giulietta” di Baz Luhrmann del 1996 e le molte versioni di Bollywood; ed ha riguardato anche gli artisti giapponesi di manga e gli autori di fumetti, tra cui Neil Gaiman con la serie “Sandman” del 1889-96 illustrata da vari artisti. 

Questa la conclusione di Dickson dopo l’accurata ricognizione di cui abbiamo fornito i dati essenziali: “Negli ultimi anni molti artisti si sono ispirati al drammaturgo, ma pochi artisti di punta hanno raccolto la sfida, forse timorosi di cadere dentro un letteralismo storico o accademico. E tutto ciò rende ancora di più ‘Shakespeare in Rome’ un progetto assai gradito. Presentando sette artisti europei provenienti da diverse tradizioni e discipline e che utilizzano diversi linguaggi e tecniche, il progetto racchiude in sé un interessante corpus di lavoro – dalla ritrattistica al paesaggio, dalla scultura alle creazioni a tecnica mista  che corrispondono alla multiformità  degli scritti del drammaturgo”.

E’ il momento di passare in rassegna le opere presentate dalla mostra, dopo averla  inquadrata nel mondo shakespeariano e nelle sue interpretazioni artistiche: un contesto che  fa risaltare il valore dell’iniziativa non soltanto sotto l’aspetto celebrativo, e l’importanza della sfida raccolta dai 7 artisti espositori con opere, tutte del 2016, create espressamente per questa occasione.

Metà circa delle opere sono dipinti ad olio, le altre sono in tecnica mista, in vari materiali e collage.

I dipinti ad olio sui temi shakespeariani

Quattro gli espositori di dipinti ad olio e in acrilico,  con opere di stile figurativo in chiave contemporanea.

Cominciamo con Tommaso Ottieri, che ci presenta le sue spettacolari visioni, le abbiamo viste in precedenza in mostre curate dalla stessa Galleria Giulia riferite ai panorami delle grandi città, agli interni delle basiliche e dei grandi teatri, ora al dramma shakespeariano “La Tempesta”:   in “WS Tempest 1”  sul palcoscenico c’è il mare in burrasca, in tonalità rosse e oro, in “WS Tempest III” un veliero in naufragio con l’acqua che sembra riversarsi sulla platea, i toni sono plumbei.  

La sua ben nota impostazione, derivante dalla formazione in architettura, emerge anche da queste opere. Ma non finisce qui, espone anche un’interpretazione di “Macbeth”, “Lady M”, un busto di profilo, nella sua conturbante nudità, con il volto avvolto dall’ombra, torna “la funzione del nero” della sua personale del 2015 alla stessa galleria Giulia.  E un’interpretazione di “Amleto” con “Yorick”, il teschio che nella tragedia è nelle mani del principe di Danimarca, qui emerge dal buio  dipinto a olio sulla stampa fotografica.

Dalla  visione trasognata di “Lady M.”  a “Lady Macbeth” di  Roberta Comi, anch’essa conturbante nel suo mantello rosso con cui si copre parte del viso come fosse uno “chador”  rendendolo misterioso pur senza ombre, anzi in una luminosità che fa risaltare il viso e le mani.  I grandi ritratti rappresentano un importante filone nell’arte della Coni, insieme alla rappresentazione sanguigna dei canti dell’Inferno, anche per apprezzare questa artista le mostre della galleria Russo sono state preziose.

Vediamo la  sua interpretazione di “Romeo e Giulietta” nel grande dipinto “Juliet”, la testa è cinta da una coroncina di fiori, ma l’espressione è corrucciata, quasi disperata, un contrasto netto espresso anche dal volto per metà in piena luce e per metà nell’ombra più scura. E’ questa, in fondo la sintesi di una storia d’amore e di morte, traspare dallo sguardo della fanciulla che sembra implorare aiuto dinanzi al destino. 

Di “Amleto”vediamo “Ophelia”, un corpo  abbandonato sull’acqua sopra al quale galleggiano dei fiori, ripensiamo alla coroncina di “Juliet”, l’espressione distesa e insieme angosciata, anche qui aleggia la sorte infausta segnata dal destino, la grande immagine è rovesciata come se venisse verso l’osservatore.

Con Diego Cerero Molina un’interpretazione disincantata, quasi a voler stemperare i toni cupi della tragedia con quelli della commedia e dell’ironia. Il suo “Macbeth” è un’immagine quasi satirica del Re, dall’espressione spiritata con una grande corona che gli balla in modo ridicolo sul capo, il petto coperto di onorificenze, le grandi mani in primo piano che sembra vogliano afferrare l’osservatore ma senza incutere timore, tanto grottesco.

Uguale tono satirico in “William Shakespeare”, questa volta la sua ben nota immagine incorniciata viene presentata tra le mani di un sogghignante individuo che fuma un grosso sigaro,  e forse per questo la grossa cornice sembra una scatola di sigari con sopra la relativa etichetta offerta in vendita. Potrebbe alludere alla mercificazione della società consumistica che non risparmiare nulla, neppure un anniversario come questo.

Celebra l’anniversario in due modi che ne riassumono i motivi Massimo Giannoni: “Shakespeare”  presenta una grande antica biblioteca carica di libri, con in primo piano in basso sulla sinistra un’immagine del drammaturgo che sembra far capolino con discrezione; “1616-2016” dedica ai 400 anni un omaggio floreale, rose ed altri fiori, tra il bianco, il rosa e il rosso. Dalla solennità all’intimità, dunque.

Le  opere in vari materiali e forme espressive

Dopo i dipinti ad olio passiamo alle opere in materiali e alle tecniche di vario tipo, alle sculture e ai collage.

Vediamoun grande pannello lungo 3 metri e alto quasi 2,  di  Manuel Felisi lin tecnica mista su tela,  “A Midsummer Night’s Dreams”,  una composizione con 55 riquadri attraversati da sottili alberi con dei rami leggeri e aerei che convergono in una visione di tipo onirico anche se quanto mai reale, perché rami e alberi sembra di toccarli, ma si possono vedere così soltanto nei sogni di una notte di mezza estate.

Ha lo stesso titolo  “A Midsummer Night’s Dreams” un pannello più piccolo in tecnica mista su resina in 10 riquadri nei quali all’elemento dei rami degli alberi che si prolungano da un riquadro all’altro si aggiungono le scritte di brani della stessa opera, in una materializzazione dei sogni anche attraverso il testo.

Un altro pannello su resina con 49 riquadri si intitola “Caducità”, in ogni riquadro dei fiori e si intravvedono delle scritte, e delle immagini sfuggenti,  la visione suggestiva dell’artista del mondo shakespeariano.

Fin qui siamo nel figurativo pittorico pur declinato con modalità e contenuti diversi. Cambia tutto con gli ultimi due artisti della galleria shakespeariana.

Enrico Benetta  ci dà tre diverse forme interpretative. Per l’ “Amleto”  scolpisce una testa  in vetro di Murano trasparente che riproduce il teschio di Yoprick, ricoperto di grandi lettere maiuscole a caratteri Bodoni, il titolo inequivocabile è “To be or not to be”,  mentre per “The Merchant of Venice”  utilizza una  sorta di installazione lunga 3 metri  divisa in sei scomparti di 50 cm, con elementi in vetro rosso di Murano che sembrano grosse gocce di sangue applicati a una lamiera nera. E’ l’elemento risolutivo del dramma, Shylock non può pretendere di avere la libbra di carne perché nell’impegno preso dal debitore non era compreso il sangue che sarebbe stato versato.

Ancora diverso “Sonnet”,  in rame ha realizzato un volume aperto con i fogli sollevati, ci sono anche grosse lettere Bodoni.  Il pensiero va  all’indimenticabile immagine del  Vangelo sfogliato dal vento sulla bara di papa Woytila  nella cerimonia funebre di Piazza San Pietro.

Concludiamo con un ‘omaggio che ci è parso straordinario, per la sua capacità di esprimere con semplicità e inarrivabile suggestione la miriade di pensieri e sentimenti ispirati da un personaggio così grande che con le sue opere ha incantato e continua ad incantare il pubblico di tutto il mondo.

Siamo stati presi  dalle farfalle ritagliate di Michel Gambino, che “volano”  nei cinque collage esposti.

Sono applicate su fondo fosforescente in “Sogno di una notte di mezza estate/ A Midsummer Night’s Dream”, dove escono dal libro con la copertina rossa, il testo dell’opera teatrale per innalzarsi come  nella fumata bianca del conclave; in “Shakespeare’s Words”,  dal libro con la scritta Shakespeare si dipartono verso destra come  un arco teso che scocca le sue frecce; e in “Existence Shakespeare”, si irradiano ad aureola circolare con al centro il colore blu da un libro recante sulla copertina marrone la scritta “Potrei vivere  nel guscio di una noce e sentirmi il re dello spazio infinito”, dal secondo atto di “Amleto”.

Non finisce qui, le farfalle sono appuntate su tela in “United Kingdom” con la sagoma geografica in cui differenti colori segnano la divisione tra Inghilterra e Scozia, Galles e Irlanda del Nord.

E soprattutto le farfalle compongono il “Ritratto di Wllliam Shakespeare/ Portrait of William Shakespeare”, il più suggestivo omaggio che si potesse immaginare.

Sono farfalle che fanno volare nel cielo dell’immortalità.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20. Lunedì ore 16,30-19,30, da martedì a sabato ore 10,00-19,30, domenica  chiuso. Ingresso gratuito. http://www.galleriarusso.com, tel. 06.6789949 – 06.69920692. Catalogo“Shakespeare in Rome”, Manfredi Edizioni, aprile 2016, pp. 72, formato  22 x 22, bilingue italiano-inglese; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. i  nostri articoli: in questo sito per mostre  precedenti della Galleria Russo su Tommaso Ottieri 11 maggio 2015,  e su Roberta Comi il 20 febbraio 2013; in “cultura.inabruzzo.it”  sulle mostre celebrative a Roma di Gogol  16 e 25 novembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella Galleria Russo, si ringrazia la galleria con i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta.  In apertura, una bella “enclave” con 4 opere poi riprodotte singolarmente, di Roberta Comi (di fronte), Tommaso Ottieri (a dx e sin) ed Enrico Benetta (al centro); seguono, Tommaso Ottieri, “WS Tempest I” e “WS Tempest III“; poi, Roberta Comi,  “Lady Macbeth”,  “Juliet” e “Ophelia”; quindi, Diego Cerero Molina, “Macbeth” e “William Shakespeare”; inoltre, Massimo Giannoni, “Shakespeare”, e Manuele Felisi,  “A Midsummer Night’s Dream”, e “Caducità”; infine,  Enrico Benetta, “The Merchant of Venice” e “Sonnet”; in chiusura, Michael Gambino, “Shakespeare’s Words” e “Ritratto di William Shakespeare/ Portrait of  William Shakespeare”.

Botero, una straordinaria “Via Crucis” al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La Pasqua al Palazzo Esposizioni con la mostra “Botero. Via Crucis, la passione di Cristo”, aperta dal 13 febbraio al 1°maggio 2016. Sono esposti 27 dipinti, la maggior parte di grandi dimensioni, in numero quasi doppio rispetto alle 14 Stazioni canoniche per la reiterazione di una serie di momenti del dramma cristiano con qualche aggiunta,.e 34 disegni a matita ed acquerello.  La mostra è  promossa dall’Ambasciata della Colombia in Italia, organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in collaborazione con il Museo d’Antioquia di Medellin e Glocal Project Consulting, Catalogo bilingue italiano-inglese della “Silvana Editoriale” con un saggio introduttivo di Conrado Uribe Pereira.

Una Via Crucis come quella di Botero sarebbe un evento straordinario anche per un pittore dedito alle celebrazioni dei momenti della fede, perché non si tratta dei temi consueti della religione trionfante, con la glorificazione della Madonna e il Bambino, Cristo e i Santi, e neppure del solo Crocifisso, ma viene ripercorsa interamente la Passione con tutte le 14 stazioni della Via Crucis, e alcuni momenti reiterati con grande efficacia, in 27  dipinti, la maggior parte  di grandi dimensioni,  con 34 disegni e acquerelli preparatori, anch’essi di elevato livello artistico. 

Ma oltre a questo aspetto pur illuminante,  ne va considerato un altro: l’artista che si è cimentato in un’opera così eccezionale per sua natura e scelta stilistica non è rivolto al dramma e alla sofferenza, tutt’altro. La sua peculiare caratteristica è rappresentare, con figure ridondanti e tranquille, una condizione umana ben diversa nella quale è del tutto assente il dramma e inoltre vi è uno spiccato senso di ironia, anche questo non si addice di certo al tema della Passione.

La formazione e il percorso artistico di Botero

E allora la prima cosa che viene da chiedersi riguarda il motivo che ha portato l’artista a una prova così lontana dal suo orientamento tradizionale, la seconda se abbia mantenuto la sua cifra stilistica delle forme abbondanti, la terza se abbia conservato la sua tendenza all’ironia e alla dissacrazione.

Per l’interrogativo di fondo seguiamo le riflessioni di  Conrado Uribe Pereira che nascono da un’accurata analisi dell’opera del maestro dal primo periodo ad oggi; le altre due risposte vengono dalla visione dei suoi dipinti e dei disegni preparatori, una galleria  fortemente espressiva.

Sull’ispirazione non vi è dubbio che la sua terra, la Colombia, abbia rappresentato il primo  influsso con la solarità e  il clima sudamericano nel quale sono immerse le sue figure corpose e indolenti; ma su questo motivo si è innestata la cultura occidentale della quale è stato imbevuto avendo diviso le sue residenze tra Colombia, la sua Medellin e Bogotà,  Italia e Francia, Stati Uniti a  New York.

In Italia è stato fondamentale il suo contatto con le opere dei grandi maestri dal 400 e Rinascimento in poi, tra quelli che più lo hanno interessato, osserva Uribe Pereira, “nella sua pittura attraverso omaggi e reinvenzioni. Botero si riappropria così di alcuni artisti che hanno lasciato il segno nella storia dell’arte”. Non solo mediante  citazioni, ma “nel far proprie molte, se non tutte, le tematiche di questi artisti”.  La chiama addirittura “ossessione per i i soggetti tradizionali dell’arte”.

Come citazione diretta  indica il suo dipinto del 1972 “Cena con Ingres y Piero della Francesca”, in cui si rappresenta a tavola con i due artisti, comunque la sua attenzione va anche a Paolo Uccello, Rubens e Velasquez, Cezanne e Picasso. Nelle opere religiose dei grandi maestri ritrova gli stimoli che gli provenivano dalla  religiosità della sua terra, espressa negli ambienti  pubblici e privati.  Si realizza, così, un incrocio virtuoso tra i ricordi del passato del pittoresco  mondo sudamericano, e le sollecitazioni del presente di un’arte di livello alto nei temi e nelle forme espressive.

Pur con questi forti influssi, però, la sua opera non è mai imitativa, perché li traduce nel suo stile personalissimo e inconfondibile.  Abbiamo così anche sue opere religiose, ma si sbaglierebbe se da queste si facesse discendere la “Via Cruicis”  sia per la sua specificità, anzi unicità nella forma seriale della rappresentazione –  un ciclo completo sullo stesso tema – sia per la sua netta diversità.

Infatti anche i temi drammatici sono resi abitualmente dall’artista in modo sereno e tranquillo, il suo è sempre, osserva Uribe Pereira, “un mondo sensuale, popolato da esseri dilatati di un piacere turgido e felice, generalmente immuni dal degrado del tempo e della miseria morale. Tutto in intima relazione con questo modo così particolare di ricomporre le proporzioni ed esaltare i volumi”. 

Perciò gli viene attribuita “la capacità di evocare quella domenica felice della vita in cui ogni essere vivente, ogni pianta, ogni mobile ed ogni casa trovano tranquillamente  e pigramente il posto più adeguato, lontano dal male e dalla meschinità, in un’uguaglianza felice e antigerarchica”.

Anche nel “Trittico della Via Crucis” del 1969, realizzato quarant’anni prima dei 27 dipinti  del 2010-11,  prosegue Uribe Pereira, “l’elaborazione di questi temi si effettua attraverso l’abbondanza tranquilla e voluttuosa di tutte quelle forme che raggiungono la maturità alla fine degli anni settanta”;  di anticipatorio ci sono le “distorsioni spazio-temporali”, come l’ambientazione moderna e certe inversioni nella sequenza, ma non si sente il dramma: “Questo è un Cristo morto già sceso dalla  croce, come testimoniano le ferite sul costato e sulla mano destra; anche gli occhi chiusi sembrano suggerire l’idea della morte, ma il Cristo non giace accanto alla croce né all’interno del sepolcro: in posizione eretta sembra benedirci con un gesto che conosciamo dalle immagini del sacro Cuore di Gesù e il cui sangue continua a scorrere, come se fosse ancora vivo”.

Nelle stazioni della nuova “Via Crucis”,  in numero quasi doppio delle 14 canoniche, aleggia invece il dramma, anche se le forme sono sempre opulente, i colori delicati, le linee arrotondate, nell’assoluto rispetto del suo stile personalissimo. Si può dire che queste forme turgide, altrimenti segno di  abbandono felice all’opulenza, nella drammaticità della Passione rendono Cristo ancora più indifeso e vulnerabile, suscitando una pena indicibile nel vederlo vilipeso e oltraggiato, ferito e crocifisso.

Abbiamo così dato una risposta alle altre due domande  poste all’inizio: mantiene il suo stile personalissimo delle forme ridondanti  ma ne fa un elemento drammatico; assente  ogni ironia o attenuazione del pathos della “Passione”.

I precedenti della “Via Crucis”, “Violencia in   Colombia” e “Abu Ghraib”

Dobbiamo, però, trovare ancora risposta  all’interrogativo di fondo su come sia stato spinto ad esprimere in modo così drammatico un tema in passato affrontato con la leggerezza che abbiamo ricordato. Uribe Pereira collega la “Via Crucis” ai due  precedenti cicli pittorici sulla  violenza in Colombia e sulle torture nel carcere di Abu Ghraib: “Trasformazioni. La presenza del dramma nell’opera di Botero”; con l’interrogativo: “Un nuovo capitolo nell’opera dell’artista?”

La sua risposta è nettamente affermativa. In passato, anche quando ha affrontato temi politici e sociali, nonché temi religiosi – compresa la  stessa Via Crucis, come abbiamo ricordato – la sua cifra artistica è stata sempre la sensibilità umana con una tendenza verso l’aspetto esistenziale nella sua espressione più serena e tranquilla con inclinazione all’ironia e alla satira. Ciò vale anche per il tema della morte, come in “La corrida”, 1984, dipinto nel quale mancano toni drammatici: i tori pur nella loro imponenza sono inoffensivi, il sangue sembra un ornamento, l’insieme una festa collettiva.

Nei due cicli più recenti anteriori alla “Via Crucis”, invece, il dramma è insito nella violenza delle scene rappresentate. Il ciclo ispirato dal suo paese, “Violencia in Colombia”, è esplicito:  in “Un consuelo”  nel 2000  il grande scheletro che avvinghia dal di dietro una figura bendata, raffigura la morte con la pietà verso il prigioniero  torturato, le mani legate e insanguinato come Cristo.

Appare evidente la  partecipazione dell’artista al dramma del suo paese, sconvolto da decenni da un conflitto  aspro come una guerra civile,  da lui attribuito alla mancanza di giustizia sociale oltre che all’ignoranza; sembrerebbe che non si è sentito di restare estraneo a una vicenda che sconvolge da troppo tempo il suo paese, la sua sensibilità  umana si ribella in un soprassalto di patriottismo.

Ma  non è solo patriottico, la sua è una reazione appassionata alla violenza e all’ingiustizia in ogni latitudine. Lo dimostra la  drammaticità che troviamo anche nelle opere del ciclo “Abu Ghraib”, il carcere nel quale l’esercito americano ha sottoposto i prigionieri a inenarrabili violenze e torture.

Botero si è impegnato in tali cicli contro la violenza per 14 mesi nel 2000, quasi una missione contro le violazioni dei diritti umani ovunque  si verificano, nel suo paese o in altre parti del mondo. tanto più se perpetrate da una nazione come gli Stati Uniti  che si presentano come modello di democrazia mentre si sono macchiati di “cose che sfuggono a qualsiasi norma di civiltà”.  Commenta Uribe Pereira: “Perfettamente consapevole che l’arte non ha il potere di cambiare lo stato delle cose, Botero sa anche che l’arte ha però la capacità sociale di mettere in evidenza, e la potenza storica di promuovere, il ricordo e la memoria”. 

L’arte come testimonianza per non dimenticare

Nel 2004 veniva definito “Testimonio de la barbarie” da Santiago Londono,  riferendosi alle sue nuove donazioni al Museo Nazionale della Colombia; nel 2005  due interviste dai titoli eloquenti, in aprile a “Revista Diners”  è in prima persona, “Fernando Botero. “Botero pinta el hottor de Abu Ghraib: la injustitia  me hace hervir la sangre”,  in giugno a “El Tiempo” è intitolata “Botero: el arte es en accusaciòn permanente”.

In una nuova  intervista del febbraio 2007  al periodico “Revolution”  intitolata  “Fernando Botero y Abu Ghraib: No me pude quedar callando”  ribadisce:  “Quando i giornali smettono di parlare e la gente smette di parlare, l’arte rimane. Ci sono tanti avvenimenti storici conosciuti attraverso l’arte. I dipinti di Goya e ‘Guernica’ sono fatti che potrebbero essere dimenticati se non fosse per le immagini che li raccontano . Spero che questi dipinti fungano da testimonianza per tanto tempo”.

Sono parole eloquenti che Botero ha accompagnato con i fatti. Le due serie di opere che hanno precorso la “Via Crucis”  le ha donate  con l’intento di diffonderne  la visione perché la sua testimonianza svolgesse un ruolo attivo nel muovere le coscienze. “Violencia in Colombia”  la donò al Museo Nacional de Colombia, addirittura con la condizione che fosse presentata in una mostra itinerante nel paese e all’estero. “Abu Ghraib”  fu donata all’Università californiana di Berkley.

Entrambe suscitarono  polemiche, segno che l’iniziativa dell’artista aveva raggiunto il suo scopo: una testimonianza quanto più viene discussa tanto più si diffonde e si imprime nelle coscienze.

Le reazioni alla denuncia dell’artista

Rispetto a “Violencia in Colombia”   le discussioni vertevano soprattutto sul piano artistico. Secondo alcuni critici il suo stile pittorico non era idoneo ai temi drammatici, le sue caratteristiche figure ridondanti non avrebbero potuto esprimere il ripudio della violenza, in particolare Andrés Hoyos ha espresso questa sua convinzione in “El Malpensante” del giugno-luglio 2004, in un articolo intitolato significativamente “Monotonia”.  Mentre per Santiago Londono nel già citato “Testinonio de la barbarie”  proprio la staticità e imponenza delle figure dava al dolore una rappresentazione toccante,giudizio su cui concordiamo; Elkin Robiano  nella rottura con la sua pittura tradizionale placida e beata ha visto una “irradiazione della verità accompagnata da commozione”.

Le reazioni alla donazione di “Abu Ghraib”  all’Università californiana furono invece soprattutto di tipo politico;  fu vista, soprattutto da una parte del pubblico,  come una provocazione agli Stati Uniti, come lamenta Botero in un’intervista a Milena Fernandez  in “Arcadia” del novembre-dicembre 2009  osservando che nel registro dei visitatori ha trovato espressioni di odio e accuse di ingerenza negli affari interni degli americani. Lo stesso artista ne ha ridimensionato la portata dicendo che venivano da gruppi reazionari pericolosi ma ristretti, perché la maggioranza degli americani è contraria alla tortura. Un critico a lui favorevole, Arthur C. Danto in “Body in Pain”, su “La Nation” del novembre 2006,  attribuisce alla serie una forza drammatica addirittura superiore a “Guernica”  che appare decorativo a chi non ne conosce il significato; mentre in Botero “il suo tanto denigrato manierismo rende più intenso il nostro coinvolgimento rispetto alle immagini”.  E ancora: “Raramente il dolore si è avvertito così da vicino o è stato così umiliante per chi lo ha perpetrato”.

Botero, nel già citato discorso con il quale nel 2007 presentò la serie negli Stati Uniti  disse: “Ovviamente è più gradevole dipingere soggetti gradevoli. Durante tutta la vita ho scelto, con convinzione, di dipingere soggetti piacevoli. Nella storia dell’arte la maggior parte dei soggetti sono gradevoli ma, naturalmente, ci sono pittori che riescono a dare piacere attraverso temi drammatici”. E, con riferimento alle immagini “orribili” della Crocifissione dipinte dal pittore tedesco Grunewald, aggiunse: “Niente potrebbe essere più orribile, Lo spettatore vive prima il piacere estetico della bellezza e poi, con il tempo, avverte il dolore”.

Uribe Pereira , nel rievocare questi precedenti, collega la presentazione in America della “Via Crucis”  a quella del ciclo “Abu Ghraib”. Non per la donazione, avendola  donata al Museo della sua città natale Medellin dopo averla realizzata per il proprio 80° compleamnno; ma per la prima esposizione dato che scelse New York – dov’era peraltro una delle sedi del suo gallerista – e suscitò polemiche il fatto che la “Crocifissione”, una delle stazioni più spettacolari della “Via Crucis”, aveva come sfondo i grattacieli come se Cristo fosse stato crocifisso in quella città; per di più  si vedono  persone che passeggiano con carrozzine o fanno jogging, minuscole ma abbastanza nitide per coglierne l’indifferenza rispetto alla sua gigantesca  figura che sovrasta il parco con i filari di alberi, sembra guardare in alto solo una madre con bambino..

Secondo il critico “l’artista esprime una nuova dichiarazione d’intenti in una duplice ottica: l’una artistica continuando ad andare contro corrente,come già aveva fatto da giovane, scegliendo con convinzione una proposta figurativa, e l’altra in favore della pittura, minacciate di morte l’una dall’astrazione  e l’altra da un presunto storico conseguimento degli obiettivi”.  E lo fa proprio nella terra dell’espressionismo astratto e del  minimalismo, dell’arte concettuale e della Pop Art per citare solo alcune delle avanguardie trasgressive statunitensi, “collocando una crocifissione, un’opera che si oppone al flusso, che va contro le tendenze dominanti, giusto al centro della Grande Mela”.

Il retroterra culturale e il percorso nei due mondi

C’è un vasto retroterra nelle scelte artistiche di Botero considerando la sua costante presenza nei due mondi. In quello  americano è vissuto al Sud, tra la Colombia – dal paese natale  Medellin alla capitale Bogotà – e il Messico, in cui si stabilisce nel 1956 dopo il matrimonio, mentre nel 1958, a 26 anni, è nominato professore  alla Scuola delle Belle Arti dell’Università nazionale della Colombia di Bogotà  dove nel 1971 apre uno studio; ed è stato anche al Nord,  nel 1967 si è trasferito a  New York al Greenwich Village e nel 1971 ha spostato lo studio alla 30ma strada.

Nel  mondo europeo lo troviamo ventunenne a Firenze nel 1953, nell’Accademia San Marco  dove vive  un’importante esperienza formativa, ammira maestri come Giotto e Tiziano,Masaccio, Piero della Francesca e Paolo Uccello, nel 1973 va a vivere a Parigi, conservando le altre sedi, nel 1983 si stabilisce  in Toscana per due anni. Mantiene contemporaneamente diversi studi sparsi per il mondo, attualmente si divide tra Medellin, New York e Pietrasanta in continuo  movimento  da una parte all’altra, anche per seguire le sue mostre,  l’elenco negli anni è fittissimo.

Da questa esperienza così vasta e articolata ha tratto la conclusione che “la storia dell’arte è la storia di coloro i quali hanno assunto posizioni forti” e non solo per le tematiche affrontate. Lo ha scritto nel 1990 aggiungendo che  “il soggetto è, nello stesso tempo, molto e poco importante”, ciò che conta è che l’artista  crei un proprio mondo  riconoscibile.  

Uribe Pereira concorda dicendo che “non si può identificare l’artista nell’adesione ad alcune tematiche o nel perdurare delle stesse, bisogna riferirsi, piuttosto, al linguaggio con cui le  affronta e le interpreta”.  E il linguaggio, nel caso di Botero, è così importante da rappresentare il suo sigillo inconfondibile,  più che nella gran parte degli artisti, quale che sia il tema trattato, sacro o profano.

Pur in questa coerenza e costanza nel tempo, qualcosa è cambiato.  “Il mondo boteriano – conclude il critico – è rimasto relativamente immutabile per quasi quattro decenni. Più che un tradimento, come qualcuno ha osservato, questa svolta, in cui fa incursione il dramma, dovrebbe essere considerata come un nuovo sviluppo, nel quale la continuità si accompagna alle trasformazioni che arricchiscono e potenziano l’opera e, di conseguenza, le interpretazioni che ne derivano”. 

Guardando i dipinti del ciclo della “Via Crucis” ci si sente immersi nel grande mistero della svolta di un artista nel quale, comunque, prevale sempre la misura e la fedeltà al suo personalissimo modo di rappresentare l’umanità, con forme esuberanti che generalmente portano al sorriso anche per l’ironia che le anima, ma nella Passione accentuano fortemente  il senso di pietà e di tenerezza.

Le 27  stazioni della “Via Crucis” di Botero

Sono 27 e non le 14  canoniche,  le “stazioni”  della “Via Crucis” di Botero, e  34 i disegni preparatori su carta – di 40 x 30 cm,  20  in matita e colori e 14 in matita e acquerello – che consentono di ripercorrere l’itinerario figurativo dei 27 dipinti: per alcuni,  come l’aiuto a Gesù di Simone  il cireneo ci sono tre disegni, mentre i due disegni con Ponzio Pilato e quello nel Giardino degli ulivi non sono stati tradotti in un dipinto; nel Giardino degli ulivi la distanza siderale tra il Cristo orante in ginocchio e i discepoli addormentati nell’indifferenza è accentuata dalla sproporzione tra la sua gigantesca figura svettante e i loro piccoli corpi distesi. Quattro disegni sono sulle cadute di Cristo sotto la croce, due riferiti espressamente alla prima e seconda caduta, gli altri due genericamente intitolati “Gesù cade” non tradotti in dipinti.

I disegni a matita fanno risaltare ancora di più le forme ridondanti delle sue figure, mentre quelli ad acquerello creano delicati effetti cromatici. La sequenza grafica è  un complemento  alla visione dei dipinti,  in quanto rende partecipi della tensione creativa del Maestro nel suo  primo manifestarsi.

Dei 27 dipinti  8  superano i 2 metri di altezza e 13  il metro, 6 si svolgono in orizzontale, solo 4 sono della dimensione dei disegni. In  4 dipinti Gesù è a terra con la croce, 2 sono intitolati “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù cade per la  seconda volta”,  gli altri due  “Simome aiuta Gesù”  e “Gesù e Veronica”, non c’è il dipinto “Gesù cade per la terza volta”.

La figura di Cristo è al centro della composizione  nel “Bacio di Giuda” e in “Gesù e la moltitudine”, in “Gesù consola le donne” è sulla sinistra rispetto al gruppo di pie donne  con le braccia tese parallele e le teste coperte dal velo che si confondono fino a formare un’unica immagine. In “Gesù incontra sua madre” la moltitudine è in secondo piano, fatta di teste sbiadite che non contano,  Cristo guarda solo la genitrice in tunica bianca con un lungo velo nero.

Tre  persone intorno a lui, sono quelle evangeliche, nella “Deposizione dalla croce”  e nella “Sepoltura di Cristo”, a loro nel secondo dipinto  si aggiunge un angelo che evidentemente prepara la Resurrezione, è l’unico segno perché quella che è considerata la 15^ stazione non viene espressa né nei disegni né nei dipinti.

C’è  vicino a lui il soldato romano suo aguzzino in Il flagello”e“Il cammino della sofferenza”, in  “Gesù cade per la prima volta” e “Gesù spogliato delle vesti”:  negli ultimi due è presente un’altra persona in atteggiamento diverso. poi il dipinto  “Simone aiuta Gesù”  mostra il cireneo caritatevole  in primo piano;  in “Gesù e la Veronica” si vede la Sacra sindone, il lenzuolo con il volto di Gesù è in primo piano in “Veronica”.

Dalla carità si passa all’amore materno nei tre dipinti  in cui Cristo è solo con la madre, dopo quello in cui c’era anche la moltitudine ma sbiadita e lontana dai suoi pensieri. In  “Maria e Gesù morto” lei lo sorregge amorevolmente quasi volesse rimetterlo in piedi per farlo tornare in vita, in “Pietà” è  preso in braccio dalla madre in piedi monumentale, lui piccolo con la tenerezza di un bambino; mentre in “Cristo è morto”  la Madonna si copre il volto in lacrime vegliando il figlio disteso in una  camera ardente. Due dipinti più piccoli  la mostrano  in raccoglimento a mani giunte,  “Madre di Cristo” a  occhi chiusi,  “Madre afflitta” con gli occhi aperti e il viso implorante rivolto al cielo. Di dimensioni maggiori “Testa di Cristo”, con la corona di spine e le gocce di sangue che gli scendono sul corpo. C’è sempre misura, l’opposto della “Passion” cinematografica  di Mel Gibson, cruenta fino all’orrore. Botero non suscita repulsione da grand guignol, ma tanta tenerezza.

In 8 dipinti Cristo sembra da solo, non ci sono altre figure come la sua, a differenza delle altre stazioni della Via Crucis che abbiamo citato; ma a ben vedere non è mai  solo. In “Cristo alla colonna” e in “Flagellazione di Cristo”  c’è una piccola figura di donna alla finestra e una al balcone della propria casa con le  braccia aperte quasi volesse abbracciarlo, in “Gesù  cade per la seconda volta”  si protende una mano verso di lui; invece  le minuscole figure di passanti nel parco sono indifferenti rispetto alla “Crocifissione” tra i grattacieli che abbiamo già commentato.  Sono piccole le figure dei soldati romani, rispetto a quelle dei dipinti con la flagellazione e le sofferenze, in “Gesù inchiodato alla croce” e “Crocifissione con il soldato”: la figura di Cristo giganteggia, sono i momenti culminanti della Passione, nel secondo si vede la  lancia levata in alto verso il costato.

Andrebbero descritti i colori, che creano un’atmosfera raccolta, e gli ambienti, tipicamente domestici e sudamericani, a parte i grattacieli nella “Crocifissione”, come i volti della gente nei dipinti in cui è presente. Ma a questo punto  soltanto la visione diretta delle immagini può rendere il clima drammatico e insieme sereno e consapevole della “Passione ” di Botero: la  Passione di epoca antica di Cristo nel ciclo della “Via Crucis” che viene dopo le Passioni  della nostra epoca  nei cicli della violenza in Colombia e delle torture ad Abu Ghraib. Una trilogia di cicli della Passione che mostra come questi drammi si ripetono e l’arte ha il dovere e il merito di far rivivere per non dimenticare.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Da domenica  a giovedì, tranne lunedì chiuso, ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-22,30. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8. Catalogo “Botero. Via Crucis. La passione di Cristo”, introduzione di Conrado Uribe Pereira, Silvana Editoriale, febbraio 2016, pp. 92, bilingue italiano-inglese, formato  24 x 30, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e le correnti richiamati nel testo cfr.i nostri articoli; in questo sito per le mostre su Cezanne 24 e 31 dicembre 2013, Tiziano  10 e 15 maggio 2013, Cubisti e Picasso 16 maggio 2013, le correnti d’avanguardia americane nelle mostre su  Guggenheim 22, 29  novembre e 11 dicembre 2012, ed Empire  31 maggio 2013; in “cultura.inabruzzo.it” per la mostra su Giotto 7 marzo 2009(tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito)..

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione  della mostra , si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Museo di Medellin con l’artista, per l’opportunità offerta. Tra i 27 dipinti, tutti del 2010-2011, ne presentiamo 14 con i quali abbiamo riunito le 14 Stazioni di una “Via Crucis” canonica; manca  “Gesù cade per la terza volta” che non figura tra i suoi dipinti, le altre immagini in cui è a terra con la croce, oltre alla prima e seconda caduta, sono con Simone il cireneo e  la Veronica; le 14 Stazioni da noi individuate sono precedute dall’immagine di “Cristo tra la moltitudine” e sono seguite da “La Pietà” e “Madre afflitta”. In apertura,  “Gesù e la moltitudine”, 106 x 81 cm; seguono “Il flagello”, 123 x 94, e “Il cammino delle sofferenze”, 188 x 146; poi, “Gesù cade per la prima volta”, 139 x 158, e “Gesù incontra sua madre”, 145 x 160; quindi, “Simone aiuta Gesù”, 29 x 33, e “Gesù e Veronica”, 114  x 58; inoltre, “Gesù cade per la seconda volta”, 27 x 31, e “Gesù consola le donne”, 138 x 195; ancora, “Gesù spogliato delle vesti”, 168 x 130, e “Gesù inchiodato alla croce”, 180 x 129; infine, “Crocifissione”, 206 x  150, “Deposizione dalla croce”, 229 x 127, e “Sepoltura di Cristo”, 150 x 303; in chiusura, “La Pietà“, 238 x 147,  e “Madre afflitta”, 71 x 58.

CoBrA, l’avanguardia creativa europea alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Visita alla  mostra “Cobra. Una grande  avanguardia europea 1948-1951”,  aperta   dal  4 dicembre 2015 al 3 aprile 2016 nel Palazzo Cipolla della Fondazione Roma in Via del Corso, con l’illustrazione delle opere del gruppo “CoBrA”,  artisti di Danimarca, Belgio e Olanda, e non solo, riuniti in nome della creatività e della fantasia libera da vincoli  stilistici e di contenuto. La mostra è promossa dalla Fondazione Roma eorganizzata  dalla Fondazione Roma Arte-Musei, prestatori grandi musei intrnazionali, curata, come il Catalogo bilingue italiano-inglese Skira, da Damiano Femfert e Francesco Poli.

Motivazioni, aspetti essenziali e spinta ideale del gruppo “CoBrA”

Abbiamo ripercorso le motivazioni alla base dell’incontro degli artisti fondatori del gruppo espresse nel documento di intenti dell’ 8 novembre 1948, che diede vita a un movimento di avanguardia creativa dal 1948 al 1951, non limitato alla pittura ma esteso anche alla vita come era stato il pur diversissimo Futurismo.  Pur se ha avuto una vita molto breve, appena un triennio, le sue enunciazioni teoriche, espresse anche in un’apposita rivista,  e le sue espressioni artistiche hanno influenzato notevolmente gli sviluppi successivi dell’arte europea.

Ne richiamiamo gli aspetti essenziali riportando le parole del presidente della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele, che sente la mostra in modo particolare per le sue frequentazioni artistiche milanesi – in particolare con Enrico Baj, legato a Jorn, uno dei massimi esponenti del gruppo – nei “favolosi anni sessanta”  quando perdurava la carica creativa del movimento sebbene si fosse sciolto da un decennio anche per la malattia di Jorn e del poeta-pittore Davemport. 

Nacque “un pensiero nuovo e vitale, che ebbe il coraggio di rompere definitivamente col passato, sprigionando un vero  e proprio grido liberatorio con echi inimmaginabili”. Alla grande novità sul piano artistico, in opposizione al Classicismo accademico e al freddo Modernismo, al Realismo socialista e all’Astrattismo geometrico, si aggiunge la spinta ideale che dava slancio al movimento, una spinta di cui si sente un bisogno quanto mai impellente oggi che il sogno europeo sembra offuscato in modo sempre più preoccupante.  “Le caratteristiche culturali ed estetiche di tale movimento si qualificano proprio per quell’ansia di libertà che si percepisce nelle opere esposte in mostra, le quali vibrano di entusiasmo perché nate dalla consapevolezza di chi pensava di anticipare con esse l’inizio di un cammino di cui già pregustava idealmente il traguardo, con la caparbia volontà di disegnare un’Europa già unita e capace di trasmettere nuovamente valori universali dopo la tragedia dell’ultimo conflitto mondiale”.

Ecco come si esprime in campo artistico  questa tensione ideale, ancora nelle parole di Emanuele: “La potenza esasperata del colore, la forza espressiva del segno e la capacità di ‘sentire’ in modo assolutamente originale i propri sentimenti furono gli ingredienti da cui originò quel movimento lontano da ogni definizione precisa di stile e che si autodefinì ‘CoBrA’ prendendo il nome delle città di provenienza degli artisti: Copenaghen-Bruxelles-Amsterdam”. In definitiva,”il gruppo CoBrA  realizzò e rappresentò un moto rivoluzionario con la ferrea volontà di svincolare l’artista dal peso gravitazionale delle regole imposte dalla critica e dalla consuetudine, per avvicinarlo sempre più all’imprevedibilità dell’immaginazione, cui fa seguito il gesto istintivo e provocatorio della parola come del pennello”.

La visita alla mostra fa vedere tutto questo, cominciando dal forte impatto emotivo dato dalla tempesta di colori, dall’intensità materica e dal potere evocativo delle immagini.

Sono esposte non solo le opere del triennio in cui è rimasto attivo il gruppo, ma anche quelle  degli anni e decenni successivi degli artisti che ne avevano fatto parte in modo da renderne visivamente l’evoluzione; oltre alle opere di artisti che in seguito ne sono stati fortemente influenzati. Non solo dei tre paesi dove è nato il movimento, ma anche di paesi che ne hanno recepito il messaggio, Germania e Francia, Gran Bretagna e Italia, fino all’Islanda.

I danesi di Copenaghen, da Jorn a Pedersen,  

In Danimarca precorre la formazione di CoBrA di un quindicennio Jorn che con Pedersen e altri artisti aveva formato a Copenaghen un gruppo d’avanguardia intorno alla rivista “Linien” fondata nel 1934 sulla base di un Surrealismo astratto in autonomia rispetto alla linea di Breton; già nel 1937 organizzarono una mostra con 23 artisti danesi espressionisti, astrattisti e surrealisti, consideravano loro maestri Klee e Kandinskij, Mirò ed Ernst. L’idea del nuovo movimento  venne nel 1946 dopo due incontri di Jorn con l’olandese Constant a Parigi ed Amsterdam, seguiti l’anno successivo da un incontro a Bruxelles con il belga Dotremont. Il gruppo CoBrA comincia a delinearsi, dopo un anno sarà formato nell’incontro dell’8 novembre. 

Sono esposte ben 20 opere di Asger Jorn, 3 sculture del 1972,  2 in marmo di Carrara “Senza titolo” e una in bronzo  intitolata “Brutto scherzo”, e 17 dipinti di cui 7  tra il 1948 e il 1952, sono i dipinti a colpire maggiormente,  con i loro impasti cromatici e le forme abbozzzate in un evidente spontaneismo informale.

I primi 8 dipinti appartengono agli anni in cui è esistito il gruppo CoBrA o appena successivi,  dal 1948 al1953:  sono intriganti perché la loro composizione materica, con un cromatismo alquanto omogeneo, è marcata da segni che delineano delle forme più o meno riconoscibili, umane o animali.  Sono “Un visage suffit à nier le mirror”, 1948, con questa scritta che attraversa il simulacro di un volto allo specchio, e 3 “Senza titolo (Bregnerod)”, 1949,  con una serie di  volti  appena abbozzati sovrapposti e altre sagome indistinte; “La lune et les animaux” e “The Young Old Man”, entrambi del 1950, con forme  che esprimono distintamente il contenuto del titolo, “Ravnen”, 1952, e “Senza titolo”, 1953, anche qui sagome pur se meno delineate.

Altri 9 dipinti si allontanano via via nel tempo, con un  cromatismo sempre più intenso e contrastato. Hanno  titoli ben precisi, una sfida per il visitatore a percepire le forme in  cui si esprimono:  vediamo “Le Bouc émissaire”, 1956, e “Appassionata”, 1962,  “Die Brucke”, 1963-70, e “Eine Cobra-Gruppe”, 1964, quest’ultimo con i volti abbozzati  di alcuni antichi colleghi del gruppo, quasi una foto di famiglia nell’impasto materico vicino all’informale. La ricerca della corrispondenza tra titolo e forme delineate si confronta con “Intoxicateur familiale-Mignon et sans danger”, 1964, e “Ohne Verteidigung”, 1968, dove i contrasti cromatici si accentuano in una sagoma inquietante, e “Bitter Ernst”, 1971, in cui la figura è abbozzata in un cromatismo esplosivo.

Di Jorn, a conclusione della sua piccola mostra personale, ci piace citare alcune espressioni eloquenti: “L’arte esiste in ogni azione delle persone felici. L’arte è gioia di vivere, è il riflesso automatico del nostro atteggiamento nei confronti della vita”. Non è solo un fatto individuale: “Quanto più un popolo ha la libertà di vivere, di godersi la vita, tanto più l’arte penetra il suo spirito e i suoi costumi. La libertà di un popolo è alla base del suo piacere di vivere e, con esso, della sua produzione artistica”.  Infine: “Arte popolare non significa ‘cantare per il popolo’, ma ‘fare in modo che sia il popolo a cantare’. L’arte popolare non è – come tanti democratici felicemente credono – fare un’arte che piace al popolo, è piuttosto cercare di far sbocciare tutto quello che scaturisce dal popolo come arte”.

Dopo questo inno alla libertà e alla “gioia di vivere” di Jorn  – che ci richiama Matisse, il quale intitolò così un suo celebre dipinto – le  visioni  di Carl-Henning Pedersen riportano ai sogni infantili.  Al periodo CoBrA appartengono i 4 dipinti dal 1949 al 1952 con forme ben percepibili di animali  e castelli, in cromatismi forti e contrastati. I titoli: “Landskabmed red maske”, 1949, e il grande “Venezia ofrer til havet”, 1950, “Stjernelandskab”, 1951, e “Det rede slot ved havet”, 1952.

Negli anni successivi la matrice infantile si accentua. Restano gli animali,  nel cromatismo freddo di “Blat Violet Lykkedyr”, 1957, e in quello acceso di “Orange Bird Horse”, 1977.  E si definiscono le forme dei volti nelle maschere a dominante arancione di “Orange Blat Hoved Med Jordgron”, 1957, e “Orange havfigurer”, 1966, e  nell’ectoplasma a dominante blu  di “Frieren (Der Vereher”, 1984.

La galleria danese comprende 3  dipinti di Else Alfelt, molto diversi da tutti gli altri della sezione, in cromatismo delicato con striature soprattutto chiare e celesti in “Senza titolo1 “, e “Regnbue-variation I, Island”, entrambi del 1948,  e a dominante celeste frastagliata di bianco in “Bla Univers II”, 1962.  Mentre i 2 dipinti di Mogens Balle, “Vegetative Spring”, 1950, e “Som skaemte sommerfugle”, 1965, presentano forme inquietanti da incubo infantile fortemente contrastate.

I belgi di Bruxelles, Alechinsky e Dotremont

Due gli artisti del Belgio presentati nella mostra, con opere lontane dal periodo del gruppo CoBrA.

Con Pierre Alechinsky si va dal 1966 al 2006, un arco di tempo nel quale si alternano i cromatismi diffusi e variegati di tono onirico di “Le Point du jour”, 1966, e “Jaune comme le particulier”, 1974, e quelli definiti di “Gilles végétal”, 1967, e “C’est ma foi vrai”, 1978,  volti inquieti in campo blu. Fino al triangolo iscritto in un quadrato di “Terril XXVI”, siamo vicini ai giorni nostri, è del 2006.  L’artista riserva altre sorprese, due grandi pannelli,  “Bouche”,  1987, e “Réseau romain”, 1988, con grandi sigilli tondi tra forme fluttuanti, nel secondo c’è scritto “Acea – Servizio acque”.

E’ esposta anche un’opera a due livelli, “Ondes extrémes”, 1974-79, nel livello superiore forme fluttuanti in dominante viola, nel livello inferiore tre riquadri fitti di segni grafici, quasi giapponesi. Li ritroviamo  nei dipinti vicini, e si capisce perché, quest’opera ha per autori Pierre Alechinsky & Christian Dotremont, è con il poeta-pittore fondatore del gruppo “CoBrA”.

Di Christian Dotremont  sono esposte 4 opere in china su carta montata su tela, materiali usati anche da Alechinsky, di cui 3 con il solo inchiostro e 1 su carta rossa coperta di colore a olio marrone intitolata “L’impatience me gagne, mais j’emporie la lenteur”, 1972. Anche i titoli delle altre tre sono evocativi, il trittico “En hiver un jour Iapon”, 1971, “Chére Madame”, 1975, e “Et caetera, dit le début. Ex nihilis dit la fin”, 1978.

Sono parole di un poeta, come quelle usate in occasione della mostra di Amsterdam del gruppo CoBrA, definiti “gli artisti più onesti  e più sani di oggi”. E attaccò il formalismo razionalista in nome del “sogno che esprime tramite scorciatoie e simboli il desiderio”. Per concludere: “In questa situazione una bella chiazza di colore assume tutto il suo valore. E’ come un grido scaturito dalla mano del pittore che il formalismo soffocava. E’ come un grido della materia che il formalismo vuole rendere schiava dello spirito, e che spirito… lo spirito da salotto e quello da pianerottolo”. E’ l’autore della “dichiarazione d’intenti” dell’8 novembre 1948, il grido di ribellione dal quale nacquero i  CoBrA.

Gli olandesi di Amsterdam, da Constant ad Appel, da Corneille  a Lucebert

La galleria dell’Olanda è la più ricca dell’esposizione, ben 4 artisti sono rappresentati con 10 o più opere ciascuno, come piccole mostre personali; e sono tra i più rappresentativi del gruppo.

Degli 11 dipinti di Constant, inoltre, ben 8 sono del periodo dei CoBrA e 3 dei due anni immediatamente successivi, quindi documentano appieno l’attività del movimento.  Ritroviamo figure animali e sagome umane più o meno abbozzate e con caratteri tra l’infantile e l’ossessivo, tra i titoli  “Femme qui a blessé un oiseau avec une feuille morte”,  e  “Téte-Oiseau”, “Senza titolo” e “Femme terrible”, tutti del 1949, “Concentratiekamp (oorlog)”  e  “De Zondebok”, entrambi del 1950. Subito dopo  tutto cambia, non vediamo più sagome ma vaste campiture cromatiche forti e contrastate , in “De vlam”,  e “De stier”, del 1952, in “Colombe bleue” e “Collage met gekleurde vlakken”, del 1953.

Karl Appel, invece, sembra mantenere nel tempo le due caratteristiche evidenti nei 10 dipinti esposti. Il pesante cromatismo, lineare in“Begging Children”, 1948, lo ritroviamo in forme aggrovigliate in “Animals”, 1953, e “La grande fiori de la notte”, 1954, “Meisje”, 1957, “Senza titolo”, 1958,  e “Téte de soleil”, 1961; mentre i volti assorti da disegno infantile in “Senza titolo”, 1950, e “Baardman Viskop”, 1951, e le sagome allucinate di “Les Solitaires”, 1953, assumono una forma più precisa e marcata dai colori luminosi nello spettacolare “Visage avec oiseau”, 1970.

Ben diverso e con una marcata evoluzione nel tempo Corneille, di cui sono esposte 14 opere, il maggior numero tra gli artisti in mostra.  Le 5 opere del periodo CoBrA presentano uniformità cromatica  e toni smorti, si intravvedono sagome con una vaga tendenza all’astrazione non di tipo geometrico. Così in “La Ville”, 1947, e nei due “Le Désert”, del 1951 e 1952, in “Habitants du désert”, ed “Espace animé”, del 1952; in “Insects“, 1953, vediamo sagome ingabbiate da segni scuri, che troviamo in una maggiore astrazione anche in “Gao”, 1953,  “Heure matinale. Le port Blanc”, 1956, e “Jour d’eté”, 1957. Poi si accentua il cromatismo e tornano le forme definite, in “Le voyage du grand soleil rouge”, 1963, e  “La Grande Symphonie solaire”, 1964, fino all’esplosione di colori e forme nitide e allusive in un evidente simbolismo in “La Main du Bonheur dans la Plénitude de l’Eté”, 1977, e in “Petite Musique du printemps”, 1987.

Evoluzione anche in Lucebert, dalle forme scure delineate come nei graffiti di “Voel de tijd aan de Tand”, 1952, e “Beest en kind”, 1960, alle sagoma ben definita nella sua imponenza di “Giant Robber”, 1962, e alle teste inquietanti di “Dance of the Infidels”, che ci ricordano i crani di Pablo Echaurren, fino al picassiano “Giganten”, 1990.

Vediamo poi 4 dipinti di Eugéne Brands: “Tweepalt”, e “Neptunus”, del 1951, richiamano i disegni infantili per le chiare forme anatomiche dalle tinte smorte, mentre  “Dans le Jardin d’Amour”. 1958, è un paesaggio tratteggiato con pesanti segni scuri in un rosso fuoco.

La ricca galleria si conclude  con 2 dipinti di Anton Rooskens,Rodee vlek”, 1952 e “No 1”, 1955, precisi e contrastati nel cromatismo intenso, e 2 di Theo Wolvekamp, “Explosie”1949,  e “Saturnus”, 1960, grovigli cromatici di colori soprattutto freddi.

I disegni e gli altri artisti in Germania e Francia, Gran Bretagna e Italia

Terminata la galleria del gruppo CoBrA, soprattutto pittorica, ma con alcune sculture, non finisce la mostra. C’è una sala dedicata alla documentazione, nelle vetrine centrali spicca la rivista “Cobra”, nella quale venivano pubblicati testi teorici sull’impostazione e la filosofia del gruppo, sono esposte anche le 15 monografie sui singoli esponenti pubblicate nella  “Biblioteque Cobra”.  Alle pareti una serie di disegni che esprimono, in modo ancora più diretto dei dipinti, la spontaneità e l’automatismo, l’energia dell’immaginazione e l’immediatezza nel gesto. Sono 23 disegni, i più rappresentativi sono di Jorn e Corneille, Lucebert e Gotz.

Karl Otto Gotz  ci porta alla galleria di artisti di altre nazionalità influenzati dai CoBrA, iniziando dalla Germania. Aderì subito al movimento, entrando in contatto con Corneille, Appel e Constant, e presentò propri dipinti alla mostra di Amsterdam del 1949, portandoli di persona con un viaggio in treno; poi fu presente alla mostra di  Bruxelles del 1950. Pubblicò in Germania la rivista “Cobra 5” e si impegnò per far organizzare una mostra dei CoBrA  nel suo paese a Brandenburgo.  Dopo il 1951, esaurita la spinta del movimento, aderì all’Espressionismo astratto – “astratto è bello” diceva – attirato dall’informale che definirà, nel 2008, “dissoluzione dell’idea classica della forma”, Riza ne ricostruisce il passaggio dai CoBrA all’informale nell’accurato saggio in catalogo. In effetti, i 5 dipinti in mostra, 2 “Senza titolo” e 3 datati “08.08.53”, “18.12.53” e “Stordo 8.11.57” fanno pensare a Pollock  come primo impatto visivo, in una composizione meno aggrovigliata. Molto diverse le 4 opere di Siegfried Reich an der Stolpe, un disegno e 3 dipinti, quello del 1950 “Auf gnaumen Grund” richiama i motivi dei CoBrA, mentre “Farbige Abstraktion auf schwarzam Grund”,  1958,  e “Rotes Kraftfeld”, J993, sono maggiormente astratti, l’ultimo in un intenso cromatismo rosso su fondo scuro. 

Della Francia vediamo 3 dipinti di Jacques Doucet, dal 1948 al 1973, nelle forme abbozzate di “Poéme des migrations”, 1967, e “Composition”, 1973, resta viva l’influenza dei CoBrA.

Nella sezione della Gran Bretagna troviamo due dipinti dello scozzese William Gear, nel 1946 era maggiore dell’esercito e responsabile della tutela del patrimonio culturale, visitò lo studio di Gotz e ne fu colpito fino a procurargli materiale per dipingere, pubblicò una critica positiva e lo fece esporre in iuna mostra da cui era stato escluso. Gear era astrattista, ma “White Tree”, 1949-50, esprime, e “Mondale”, 1945,  precorre con tre anni di anticipo, le forme abbozzate dei CoBrA.

I due dipinti della Finlandia, di Svavar Gudnason, “Gult rum” e “Senza titolo”, 1943, sono suggestivi incroci cromatici, dopo i quali entriamo nella sezione dedicata al nostro paese.

Per l’Italia troviamo Enrico Baj, con 2 dipinti del 1958, “Ultracorpo” e “La grande roccia”, tipici della sua “pittura nucleare”; e 2 collage del 1959,  “Specchio” e “Due personaggi in una situazione elettrica”, dove si delineano dei visi grotteschi, una premessa all’aspra satira sui generali con il petto coperto di  medaglie della graffiante  produzione successiva. Sempre del 1958, “Accident dans la montagne per une belle journée d’eté”, opera a quattro mani di Enrico Baj & Corneille che prova la sua vicinanza al gruppo; “Senza titolo” di Asger Jorn & Pinot Gallizio collega al gruppo l’altro artista italiano.

Concludiamo questo viaggio coinvolgente e sconvolgente nella tempesta cromatica e immaginifica di un gruppo di “capitani coraggiosi”, con le parole con cui Gotz inizia la toccante poesia dedicata a Dotremont nel 2002: “Come una meteora/ hai attraversato con la tua luce/ il destino di tanti pittori e poeti”. Ebbene, Dotremont è lo scrittore che ha redatto il manifesto dei “CoBrA” nello storico incontro di fondazione dell’8 novembre 1948. Per questo crediamo che le sue parole possano essere riferite all’intero gruppo CoBrA. Lo merita.

Info

Fondazione  Roma.Museo, Palazzo Cipolla,  Via del Corso 320  Roma. Dal martedì alla domenica ore 11,00-22,00. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 10,00. Tel. 06.22761260.(per attività didattiche tel. 346.0865728). http://www.mostracobra.it/, www.fondazioneromamuseo.it. Catalogo “CoBrA. Una grande avanguardia europea 1948-1951”, a cura di Damiamo Femfert e Francesco Poli, Skira, dicembre 2015, pp. 272, bilingue italiano-inglese, formato 22 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito il 17 marzo 2016.  Per le mostre sulle correnti e gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito, su“Impressionsti  e modernisti” anche per Kandinskij  12, 18 e 27 gennaio 2016, “Secessione”  6, 7 dicembre 2014 e 21 gennaio 2015, “Empire” 31 maggio 2013,  “Guggenheim“anche per Pollock 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012, “Astrattisti italiani” 5 e 6 novembre 2012,  Matisse 23 e 26 maggio 2015, Klee 1 e 5 gennaio 2013, Mirò 15  ottobre 2012, Echaurren 20, 22 febbraio e 4 marzo 2016, 23,30 novembre e 14 dicembre 2012, i futuristi Tato 19 febbraio 2015, Dottori e le “feste futuriste” 2 marzo 2014, Marinetti, 2 marzo 2013;  in “cultura.inabruzzo.it” su “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011, “Dada e Surrealisti” 6 e 7 febbraio 2010, “Il teatro del sogno” anche per Ernst  30 settembre, 7 novembre e 1° dicembre 2010,  “Futurismo”  30  aprile, 1° settembre e 2 dicembre 2009, “De Chirico… Baj”  23 settembre 2009  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla della Fondazione Roma, si ringrazia la Fondazione Roma-Musei, insieme ai titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Asger Jorn, “Appassionata”, 1962; seguono, Carl-Henning Pedersen, “Landskab med red naske”, 1949, e “Frieren (Der Verehrer”, 1984; poi, Karel Appel, “Animals”, 1953, e Corneille, “Le Voyage du grand soleil rouge”,1963; quindi, Constant, “Concentratiekamp (oolog)”, 1950, e Lucebert, “Giant Robber”, 1962; inoltre, Christan Dotremont, “L’impatience me gagne, mais j’emporie la lenteur”, 1972, e Pierre Alechinsky, “Gilles végétal”, 1967; infine, Karl Otto Gotz, “Stordo 8.11.1957”, 1957, e Jacques Doucet, “Composition”, 1973; in chiusura, Enrico Baj, “Ultracorpo”, 1958.

Parchi nazionali, la difesa della Biodiversità, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Si conclude  il nostro resoconto delle due mostre al Vittoriano sui Parchi nazionali.  Abbiamo già commentato la mostra che ha chiuso il ciclo “Roma verso Expo”, intitolata  “Dall’Expo al Vittoriano. L’evoluzione delle aree naturali protette”, che è stata apertadal 17 dicembre 2015 al 16 gennaio. E abbiamo introdotto il tema della seconda mostra, “A passi di biodiversità verso Cancun”, dal 5 marzo al 1° aprile 2016, nell’Ala Brasini lato Fori Imperiali, organizzata, come la prima, dal Ministero dell’Ambiente in collaborazione con Federparchi  e con “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Approfondiamo l’analisi della biodiversità in particolare sulle minacce per l’ambiente e le azioni di contrasto a livello internazionale e  a livello nazionale soprattutto in ordine all’azione svolta dal nostro sistema dei Parchi e agli obiettivi posti.

Abbiamo chiuso il primo servizio con le parole del presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza sulle sfide per la difesa dell’ambiente; ma non vengono citate  le sfide dello spopolamento dei piccoli borghi con il conseguente degrado e perdita dei valori storici e umani oltre che ambientali. “La biodiversità troppo spesso è vista come una questione solo per specialisti ed appassionati. Come se non riguardasse la nostra vita quotidiana e le scelte politiche sul futuro del paese”. Soltanto un terzo dei cittadini europei conosce il significato della parola, come dice lui stesso  citando l’Agenzia europea dell’ambiente, senza peraltro  chiedersi il perché.

Per noi il motivo risiede nella sottovalutazione del fattore umano la cui valorizzazione sul territorio è fondamentale per salvaguardare anche la  biodiversità  delle specie oltre ai valori di tradizioni e storia, umanità e cultura dei piccoli borghi di montagna. Pasolini ha scritto: “La cultura non si porta. la cultura è nei luoghi”, e la mostra non manca di ricordarlo.

Il valore educativo delle mostre sule minacce ambientali

Detto questo senza remore e infingimenti, per amore della verità,  ci piace dare atto del valore della mostra sulla Biodiversità come di quella che l’ha preceduta sui Parchi dopo l’Expo. Spicca  la massima di Confucio: “Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso”. E’ molto positivo , dunque,  puntare i riflettori sui Parchi nazionali, sull’ambiente,  il territorio  e le specie  che lo popolano e rendono vitale, a patto che non si trascuri la specie umana ignorandone o sottovalutandone le criticità.

Il  valore educativo sarà tanto maggiore quanto più  agli occhi dei  visitatori e in particolare delle scolaresche si apriranno a 360 gradi non soltanto le bellissime immagini naturali ma anche le problematiche sulla sopravvivenza dei piccoli borghi, croce e delizia dei Parchi dove i mille campanili tra le montagne sono retaggio di storia e tradizioni millenarie.

Abbiamo ritenuto doveroso evocare il degrado a cui sono sottoposti i piccoli borghi  nei Parchi nazionali e nelle aree protette soprattutto degli Appennini, per lo spopolamento e il conseguente abbandono e deterioramento ambientale. E altrettanto doveroso ricordare che sulle Coste e altre aree protette come il Mare incombe la minaccia opposta  data dall’invadenza delle attività dell’uomo,  con la cementificazione incontrollata e la depauperazione delle risorse ittiche e non solo.

Quest’ultimo fenomeno  minaccia anche la biodiversità come ha dichiarato nel 2010 il  segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon  all’inaugurazione dell’Anno internazionale della Biodiversità. “La crescita delle attività umane sta impoverendo la diversità delle specie ad un tasso mille volte superiore a quello naturale”.  Ogni anno c’è un consumo di risorse tale che occorrerebbe un anno e cinque mesi per rigenerarle.  Questo si aggiunge ai cambiamenti climatici, altra minaccia epocale.

La diversità biologica, si legge nella Convenzione del 1992, riguarda “la variabilità degli organismi viventi di ogni origine, compresi gli ecosistemi terrestri, marini ed altri ecosistemi acquatici, ed i complessi ecologici di cui fanno parte, ciò include la diversità nell’ambito delle specie, tra le specie e degli ecosistemi”. Questa diversità deve essere  salvaguardata a livello globale, nazionale e regionale  combattendo le cause che la minacciano e affermandone l’elevato valore sul piano ecologico, scientifico ed economico.

La “Red list” con le categorie a rischio di perdita della biodiversità

Entriamo nella problematica che troverà  nell’assise di Cancun la sede in cui sarà dibattuta  a livello internazionale, anche se la kermesse con 198 delegazioni diventa la passerella finale, come sempre  caotica e roboante, che conclude il lavoro degli sherpa tradotto, si spera, in decisioni concrete.

C’è una “Red list” con le minacce a livello mondiale delle specie che vanno contrastate in base a un’intesa  anch’essa sul piano globale.  Il consumo di risorse naturale – divenuto insostenibile  anche se non si è avuto l’esaurimento catastrofico vaticinato ormai mezzo secolo fa dal Club di Roma – ha effetti negativi su  quasi un terzo delle specie, il 40% delle specie minacciate rischia l’estinzione.  Questa minaccia nasce anche dalle pratiche agricole insostenibili e soprattutto dalla introduzione  di “specie alloctone invasive”.  Viene graduato il rischio secondo una scala che presenta al culmine l’estinzione passando per diversi livelli di pericolo e per vari livelli di guardia.

Tra le 11 categorie di rischio estinzione della “Red list”  quella estrema è l'”Estinta”,  per la quale “si ha la definitiva certezza che anche l’ultimo individuo sia deceduto”, quindi è irrecuperabile,  mentre l'”Estinta in ambiente selvatico”  non esiste più in natura ma c’è ancora in cattività; poi abbiamo le categorie “In Pericolo critico”, “In pericolo” e “Vulnerabile”, fino alla “Quasi minacciata” e alla categoria  “Minore preoccupazione”,  denominazioni  che esprimono il livello di attenzione richiesto ai Parchi e alle strutture territoriali che hanno il compito di fronteggiare le minacce.

La perdita di biodiversità  rende gli ecosistemi più deboli  e indifesi rispetto agli shock ambientali. Nell’agricoltura  la minore diversità genetica riduce la capacità di adattamento ai mutamenti climatici nei territori esposti alla siccità con drammatici effetti di desertificazione; inoltre la scomparsa di specie vegetali riduce la possibilità di curare le malattie con la medicina tradizionale cui si affida l’80 per cento della popolazione mondiale, considerando che vengono utilizzate a fini medici 70.000 specie di piante, e che dei 150 farmaci più prescritti negli Stati Uniti 118 derivano da fonti naturali e 9 dei 10 maggiormente utilizzati da prodotti vegetali naturali.  La deforestazione, che  fa sparire 350 Kmq di foreste ogni giorno, oltre a minacciare la biodiversità delle specie naturali e vegetali dei boschi, riduce le riserve di ossigeno e carbonio ed espone i territori all’erosione, alle frane e alle alluvioni.

Cambiamenti climatici e specie aliene,  le principali minacce alla biodiversità

A  quanto risulta dai documenti preparatori della Conferenza di Cancun le cause di tutto ciò sono cinque: l’alterazione, la frammentazione e la perdita di habitat; l’invasione di specie aliene; l’inquinamento; i cambiamenti climatici; il sovra sfruttamento e l’uso non sostenibile delle risorse.

Tra i  cambiamenti climatici, oltre al riscaldamento globale che interessa tutto il pianeta, viene segnalato il fatto che il riscaldamento dei mari  sta provocando una vera e propria tropicalizzazione del Mediterraneo, dove sono entrate negli ultimi 40 anni, attraverso il canale di Suez,  almeno 400 specie vegetali e animali tropicali. 

All’invasione di specie aliene è dedicata un’intera parete della mostra con  la riproduzione di un gran numero delle specie suddette; il canale di Suez, dal quale proviene la metà delle specie aliene,  viene definito “sfortunatamente la più efficace opera dell’uomo al mondo nel favorire le invasioni biologiche, seconda solo al trasporto involontario mediante acque di zavorra”, e con l’allargamento la situazione si aggraverà. Alcune specie minacciano quelle autoctone, come il barracuda in competizione con la  spigola,  mentre altre ono tossiche, come il pesce palla maculato ha causato decessi da avvelenamento. 

Per contrastare il fenomeno è stato emanato nel 2014 un apposito Regolamento dell’Unione Europea per la cui attuazione è necessaria l’approfondita conoscenza delle specie aliene, dei loro vettori e dei meccanismi di introduzione di tali specie nei nostri mari; viene ritenuto necessario un controllo delle attività umane che favoriscono l’invasione e il rafforzamento e la diversificazione delle specie autoctone con la reintroduzione e rinaturalizzazione.

Tornando al fattore climatico, al ritmo attuale di innalzamento della temperatura entro il 2100 scomparirebbe una specie su 6, con un grave impoverimento della biodiversità.  I sistemi che aiutano a resistere a questi cambiamenti sono quelli che assorbono carbonio ma devono essere “in buona salute – si afferma – ricchi di biodiversità e capaci di fornire servizi ecosistemici adeguati”. Nei parchi nazionali italiani si accumulano 5 tonnellate di carbonio per ettaro in più rispetto alla media nazionale. “E’ questo il motivo per cui le aree protette, svolgendo il compito per cui sono nate, assolvono anche alla funzione fondamentale di contrastare il cambiamento climatico”.

Strategie, obiettivi e azioni per la biodiversità

C’è una “Strategia nazionale per la biodiversità”  adottata nel  2010 sulla base degli impegni della Convenzione del 1992  coerente con la “Strategia europea per la biodiversità 2020”.  Si articola in tre “tematiche cardine” per ognuna delle quali è indicato un obiettivo strategico per il 1020. .

La prima tematica è Biodiversità e servizi ecosistemici: l’obiettivo è garantire la conservazione della biodiversità e la salvaguardia ed il ripristino dei servizi eco sistemici.

Seconda tematica. Biodiversità e cambiamenti climatici; l’obiettivo è ridurre nel territorio nazionale l’impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità.

Terza tematica: Biodiversità e politiche economiche: l’obiettivo è integrare la conservazione della biodiversità nelle politiche economiche e di settore, rafforzando la comprensione dei benefici offerti dai servizi ecosistemici.

A livello operativo vengono posti 26 obiettivi da raggiungere entro il 2015 o 2020, raggruppati  nei 5 obiettivi strategici seguenti: risolvere le cause della perdita di biodiversità aumentando il  rilievo  della biodiversità all’interno dei programmi di governo; ridurre le pressioni dirette sulla biodiversità e promuovere l’uso sostenibile; migliorare lo stato della biodiversità attraverso la salvaguardia degli ecosistemi, delle specie e della diversità genetica; aumentare i benefici derivanti dalla biodiversità e dal servizi eco sistemici per tutti; aumentare l’attuazione attraverso la pianificazione partecipata, la gestione delle conoscenze e il capacity building.

Abbiamo riportato testualmente i cinque obiettivi strategici, ripetizioni comprese, risparmiamo l’indicazione dei 26 obiettivi operativi. Come viene declinato tutto questo a livello nazionale?

Per preservare il grande capitale naturale della biodiversità negli ecosistemi che costituiscono l’habitat dei nostri territori di maggiore qualità ambientale viene svolta un’attività che consenta la  loro conservazione e ripristino  salvaguardandoli  non solo per il loro valore intrinseco ma anche per la loro importanza ai fini dello sviluppo economico e del benessere.  Deve essere approfondita la conoscenza dello stato delle specie vegetali e animali nei diversi habitat naturali del paese e delle minacce in modo da individuare quelle a rischio di estinzione  e le relative cause, come premessa agli interventi operativi.  Queste le dichiarazioni ufficiali.

Sono state individuate cinque “aree di lavoro”  nelle quali le azioni per la biodiversità sono  considerate fattori trasversali  all’interno della politiche settoriali e generali.. L’elenco di queste aree è espressivo della vastità del campo interessato: si tratta di specie, habitat, paesaggio; aree protette, risorse genetiche; agricoltura; foreste, acque interne, ambiente marino; infrastrutture e trasporti, aree urbane; salute; energia; turismo, ricerca e innovazione; educazione, informazione, comunicazione e partecipazione; l’Italia e la biodiversità nel mondo.

Un “vasto programma”, per dirla con la celebre espressione di De Gaulle che esprime scetticismo sulle costruzioni troppo ambiziose e dispersive come potrebbe sembrare la frammentazione in un numero così ampio di tematiche da coordinare per ricondurre a unità e soprattutto a operatività.

Dobbiamo confidare nel rapporto biennale previsto sia per gli obiettivi specifici delle singole aree di lavoro, sia per quelli strategici complessivi, riassunti in una serie di indicatori sullo stato della biodiversità e sull’efficacia delle azioni messe in atto per il raggiungimento degli obiettivi.  Il primo rapporto, dell’aprile 2013, peraltro,  lamentava che la tutela della biodiversità non è entrata nelle politiche di settore  e anche dove vi sono indirizzi al riguardo non sono seguite azioni concrete. L’aspetto positivo riguarda gli aspetti economici: la maggiore sensibilità verso la “green economy”  e verso l’esigenza di ridurre gli impatti negativi sull’ambiente.

La bellezza “nei piccoli mondi” che “sta morendo”  e va salvata

Gli obiettivi che sono stati posti nella prospettiva della Conferenza di Cancun sono:  dare piena attuazione alle direttive sull’habitat e gli uccelli; ripristinare e mantenere gli ecosistemi e i relativi servizi, incrementare il contributo dell’agricoltura e della silvicoltura al mantenimento della biodiversità; garantire lo sfruttamento sostenibile delle risorse relative alla pesca; combattere le specie esotiche invasive; contribuire ad evitare la perdita di biodiversità a livello mondiale.

C’è da perdere la testa in questo affastellarsi di obiettivi e strumenti in parte ripetitivi e sovrapposti, abbiamo voluto riportarli per dare un’idea di come sia difficile poi sistemare il tutto in un’assise con 190 paesi. Per fortuna in una parete della mostra è esibita in bell’evidenza una poesia di  Tonino Guerra, con la quale ci piace concludere il nostro resoconto: arido come sono aride le relazioni di cui abbiamo cercato di rendere l’essenziale, mentre ben diverse sono le immagini stupende della natura dei nostri parchi che scorrono nei visori e che pervadono i versi qui riportati con il significativo titolo “La  bellezza”: “Il nostro petrolio è la bellezza/  La bellezza ci fa pensare alto/ E noi la buttiamo via come se fosse danaro/ dentro tasche bucate/ La  bellezza grida i suoi dolori in modo silenzioso./ Bisogna curare le orecchie di chi comanda/ perché riescano a sentirla/ La bellezza è il nutrimento della mente/ La bellezza in Italia puoi anche incontrarla per strada/ e ti riempie subito di stupore/ Ma nei piccoli mondi c’è tanta bellezza che sta morendo./ Se noi la salviamo, salviamo noi”.

Non potevamo trovare migliore eco al nostro appello per la salvezza dei piccoli borghi di montagna minacciati dall’abbandono e dal degrado. E’ la biodiversità umana in pericolo, non solo quella naturale!

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini,  lato Fori Imperiali,via San Pietro in carcere. Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica,  ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito fino a 45 minuti dalla chiusura. Tel. 06.6780664. www.comunicareorganizzando.it.  Il primo articolo è uscito il 14 marzo 2016. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le mostre  del programma “Roma verso Expo”: nel 2015, Colombia 16 ottobre, Slovacchia e Moldova 22 settembre , Mozambico e Sao Tomé7 luglio, Usa, Haiti e Cuba 3 luglio, Congo e Polonia 28 aprile, Tunisia e Dominicana 25 marzo, Grecia e Germania 22 febbraio,  Estonia 7 febbraio, Vietnam 14 gennaio; nel 2014, Albania e Serbia 9 dicembre, Egitto e Slovenia 8 novembre. 

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare la Federparchi, per l’opportunità offerta.

Parchi nazionali, la difesa della Biodiversità, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Si conclude  il nostro resoconto delle due mostre al Vittoriano sui Parchi nazionali.  Abbiamo già commentato la mostra che ha chiuso il ciclo “Roma verso Expo”, intitolata  “Dall’Expo al Vittoriano. L’evoluzione delle aree naturali protette”, che è stata apertadal 17 dicembre 2015 al 16 gennaio. E abbiamo introdotto il tema della seconda mostra, “A passi di biodiversità verso Cancun”, dal 5 marzo al 1° aprile 2016, nell’Ala Brasini lato Fori Imperiali, organizzata, come la prima, dal Ministero dell’Ambiente in collaborazione con Federparchi  e con “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Approfondiamo l’analisi della biodiversità in particolare sulle minacce per l’ambiente e le azioni di contrasto a livello internazionale e  a livello nazionale soprattutto in ordine all’azione svolta dal nostro sistema dei Parchi e agli obiettivi posti.

Abbiamo chiuso il primo servizio con le parole del presidente di Legambiente Vittorio Cogliati Dezza sulle sfide per la difesa dell’ambiente; ma non vengono citate  le sfide dello spopolamento dei piccoli borghi con il conseguente degrado e perdita dei valori storici e umani oltre che ambientali. “La biodiversità troppo spesso è vista come una questione solo per specialisti ed appassionati. Come se non riguardasse la nostra vita quotidiana e le scelte politiche sul futuro del paese”. Soltanto un terzo dei cittadini europei conosce il significato della parola, come dice lui stesso  citando l’Agenzia europea dell’ambiente, senza peraltro  chiedersi il perché.

Per noi il motivo risiede nella sottovalutazione del fattore umano la cui valorizzazione sul territorio è fondamentale per salvaguardare anche la  biodiversità  delle specie oltre ai valori di tradizioni e storia, umanità e cultura dei piccoli borghi di montagna. Pasolini ha scritto: “La cultura non si porta. la cultura è nei luoghi”, e la mostra non manca di ricordarlo.

Il valore educativo delle mostre sule minacce ambientali

Detto questo senza remore e infingimenti, per amore della verità,  ci piace dare atto del valore della mostra sulla Biodiversità come di quella che l’ha preceduta sui Parchi dopo l’Expo. Spicca  la massima di Confucio: “Il momento migliore per piantare un albero è vent’anni fa. Il secondo momento migliore è adesso”. E’ molto positivo , dunque,  puntare i riflettori sui Parchi nazionali, sull’ambiente,  il territorio  e le specie  che lo popolano e rendono vitale, a patto che non si trascuri la specie umana ignorandone o sottovalutandone le criticità.

Il  valore educativo sarà tanto maggiore quanto più  agli occhi dei  visitatori e in particolare delle scolaresche si apriranno a 360 gradi non soltanto le bellissime immagini naturali ma anche le problematiche sulla sopravvivenza dei piccoli borghi, croce e delizia dei Parchi dove i mille campanili tra le montagne sono retaggio di storia e tradizioni millenarie.

Abbiamo ritenuto doveroso evocare il degrado a cui sono sottoposti i piccoli borghi  nei Parchi nazionali e nelle aree protette soprattutto degli Appennini, per lo spopolamento e il conseguente abbandono e deterioramento ambientale. E altrettanto doveroso ricordare che sulle Coste e altre aree protette come il Mare incombe la minaccia opposta  data dall’invadenza delle attività dell’uomo,  con la cementificazione incontrollata e la depauperazione delle risorse ittiche e non solo.

Quest’ultimo fenomeno  minaccia anche la biodiversità come ha dichiarato nel 2010 il  segretario generale dell’ONU Ban Ki-Moon  all’inaugurazione dell’Anno internazionale della Biodiversità. “La crescita delle attività umane sta impoverendo la diversità delle specie ad un tasso mille volte superiore a quello naturale”.  Ogni anno c’è un consumo di risorse tale che occorrerebbe un anno e cinque mesi per rigenerarle.  Questo si aggiunge ai cambiamenti climatici, altra minaccia epocale.

La diversità biologica, si legge nella Convenzione del 1992, riguarda “la variabilità degli organismi viventi di ogni origine, compresi gli ecosistemi terrestri, marini ed altri ecosistemi acquatici, ed i complessi ecologici di cui fanno parte, ciò include la diversità nell’ambito delle specie, tra le specie e degli ecosistemi”. Questa diversità deve essere  salvaguardata a livello globale, nazionale e regionale  combattendo le cause che la minacciano e affermandone l’elevato valore sul piano ecologico, scientifico ed economico.

La “Red list” con le categorie a rischio di perdita della biodiversità

Entriamo nella problematica che troverà  nell’assise di Cancun la sede in cui sarà dibattuta  a livello internazionale, anche se la kermesse con 198 delegazioni diventa la passerella finale, come sempre  caotica e roboante, che conclude il lavoro degli sherpa tradotto, si spera, in decisioni concrete.

C’è una “Red list” con le minacce a livello mondiale delle specie che vanno contrastate in base a un’intesa  anch’essa sul piano globale.  Il consumo di risorse naturale – divenuto insostenibile  anche se non si è avuto l’esaurimento catastrofico vaticinato ormai mezzo secolo fa dal Club di Roma – ha effetti negativi su  quasi un terzo delle specie, il 40% delle specie minacciate rischia l’estinzione.  Questa minaccia nasce anche dalle pratiche agricole insostenibili e soprattutto dalla introduzione  di “specie alloctone invasive”.  Viene graduato il rischio secondo una scala che presenta al culmine l’estinzione passando per diversi livelli di pericolo e per vari livelli di guardia.

Tra le 11 categorie di rischio estinzione della “Red list”  quella estrema è l'”Estinta”,  per la quale “si ha la definitiva certezza che anche l’ultimo individuo sia deceduto”, quindi è irrecuperabile,  mentre l'”Estinta in ambiente selvatico”  non esiste più in natura ma c’è ancora in cattività; poi abbiamo le categorie “In Pericolo critico”, “In pericolo” e “Vulnerabile”, fino alla “Quasi minacciata” e alla categoria  “Minore preoccupazione”,  denominazioni  che esprimono il livello di attenzione richiesto ai Parchi e alle strutture territoriali che hanno il compito di fronteggiare le minacce.

La perdita di biodiversità  rende gli ecosistemi più deboli  e indifesi rispetto agli shock ambientali. Nell’agricoltura  la minore diversità genetica riduce la capacità di adattamento ai mutamenti climatici nei territori esposti alla siccità con drammatici effetti di desertificazione; inoltre la scomparsa di specie vegetali riduce la possibilità di curare le malattie con la medicina tradizionale cui si affida l’80 per cento della popolazione mondiale, considerando che vengono utilizzate a fini medici 70.000 specie di piante, e che dei 150 farmaci più prescritti negli Stati Uniti 118 derivano da fonti naturali e 9 dei 10 maggiormente utilizzati da prodotti vegetali naturali.  La deforestazione, che  fa sparire 350 Kmq di foreste ogni giorno, oltre a minacciare la biodiversità delle specie naturali e vegetali dei boschi, riduce le riserve di ossigeno e carbonio ed espone i territori all’erosione, alle frane e alle alluvioni.

Cambiamenti climatici e specie aliene,  le principali minacce alla biodiversità

A  quanto risulta dai documenti preparatori della Conferenza di Cancun le cause di tutto ciò sono cinque: l’alterazione, la frammentazione e la perdita di habitat; l’invasione di specie aliene; l’inquinamento; i cambiamenti climatici; il sovra sfruttamento e l’uso non sostenibile delle risorse.

Tra i  cambiamenti climatici, oltre al riscaldamento globale che interessa tutto il pianeta, viene segnalato il fatto che il riscaldamento dei mari  sta provocando una vera e propria tropicalizzazione del Mediterraneo, dove sono entrate negli ultimi 40 anni, attraverso il canale di Suez,  almeno 400 specie vegetali e animali tropicali. 

All’invasione di specie aliene è dedicata un’intera parete della mostra con  la riproduzione di un gran numero delle specie suddette; il canale di Suez, dal quale proviene la metà delle specie aliene,  viene definito “sfortunatamente la più efficace opera dell’uomo al mondo nel favorire le invasioni biologiche, seconda solo al trasporto involontario mediante acque di zavorra”, e con l’allargamento la situazione si aggraverà. Alcune specie minacciano quelle autoctone, come il barracuda in competizione con la  spigola,  mentre altre ono tossiche, come il pesce palla maculato ha causato decessi da avvelenamento. 

Per contrastare il fenomeno è stato emanato nel 2014 un apposito Regolamento dell’Unione Europea per la cui attuazione è necessaria l’approfondita conoscenza delle specie aliene, dei loro vettori e dei meccanismi di introduzione di tali specie nei nostri mari; viene ritenuto necessario un controllo delle attività umane che favoriscono l’invasione e il rafforzamento e la diversificazione delle specie autoctone con la reintroduzione e rinaturalizzazione.

Tornando al fattore climatico, al ritmo attuale di innalzamento della temperatura entro il 2100 scomparirebbe una specie su 6, con un grave impoverimento della biodiversità.  I sistemi che aiutano a resistere a questi cambiamenti sono quelli che assorbono carbonio ma devono essere “in buona salute – si afferma – ricchi di biodiversità e capaci di fornire servizi ecosistemici adeguati”. Nei parchi nazionali italiani si accumulano 5 tonnellate di carbonio per ettaro in più rispetto alla media nazionale. “E’ questo il motivo per cui le aree protette, svolgendo il compito per cui sono nate, assolvono anche alla funzione fondamentale di contrastare il cambiamento climatico”.

Strategie, obiettivi e azioni per la biodiversità

C’è una “Strategia nazionale per la biodiversità”  adottata nel  2010 sulla base degli impegni della Convenzione del 1992  coerente con la “Strategia europea per la biodiversità 2020”.  Si articola in tre “tematiche cardine” per ognuna delle quali è indicato un obiettivo strategico per il 1020. .

La prima tematica è Biodiversità e servizi ecosistemici: l’obiettivo è garantire la conservazione della biodiversità e la salvaguardia ed il ripristino dei servizi eco sistemici.

Seconda tematica. Biodiversità e cambiamenti climatici; l’obiettivo è ridurre nel territorio nazionale l’impatto dei cambiamenti climatici sulla biodiversità.

Terza tematica: Biodiversità e politiche economiche: l’obiettivo è integrare la conservazione della biodiversità nelle politiche economiche e di settore, rafforzando la comprensione dei benefici offerti dai servizi ecosistemici.

A livello operativo vengono posti 26 obiettivi da raggiungere entro il 2015 o 2020, raggruppati  nei 5 obiettivi strategici seguenti: risolvere le cause della perdita di biodiversità aumentando il  rilievo  della biodiversità all’interno dei programmi di governo; ridurre le pressioni dirette sulla biodiversità e promuovere l’uso sostenibile; migliorare lo stato della biodiversità attraverso la salvaguardia degli ecosistemi, delle specie e della diversità genetica; aumentare i benefici derivanti dalla biodiversità e dal servizi eco sistemici per tutti; aumentare l’attuazione attraverso la pianificazione partecipata, la gestione delle conoscenze e il capacity building.

Abbiamo riportato testualmente i cinque obiettivi strategici, ripetizioni comprese, risparmiamo l’indicazione dei 26 obiettivi operativi. Come viene declinato tutto questo a livello nazionale?

Per preservare il grande capitale naturale della biodiversità negli ecosistemi che costituiscono l’habitat dei nostri territori di maggiore qualità ambientale viene svolta un’attività che consenta la  loro conservazione e ripristino  salvaguardandoli  non solo per il loro valore intrinseco ma anche per la loro importanza ai fini dello sviluppo economico e del benessere.  Deve essere approfondita la conoscenza dello stato delle specie vegetali e animali nei diversi habitat naturali del paese e delle minacce in modo da individuare quelle a rischio di estinzione  e le relative cause, come premessa agli interventi operativi.  Queste le dichiarazioni ufficiali.

Sono state individuate cinque “aree di lavoro”  nelle quali le azioni per la biodiversità sono  considerate fattori trasversali  all’interno della politiche settoriali e generali.. L’elenco di queste aree è espressivo della vastità del campo interessato: si tratta di specie, habitat, paesaggio; aree protette, risorse genetiche; agricoltura; foreste, acque interne, ambiente marino; infrastrutture e trasporti, aree urbane; salute; energia; turismo, ricerca e innovazione; educazione, informazione, comunicazione e partecipazione; l’Italia e la biodiversità nel mondo.

Un “vasto programma”, per dirla con la celebre espressione di De Gaulle che esprime scetticismo sulle costruzioni troppo ambiziose e dispersive come potrebbe sembrare la frammentazione in un numero così ampio di tematiche da coordinare per ricondurre a unità e soprattutto a operatività.

Dobbiamo confidare nel rapporto biennale previsto sia per gli obiettivi specifici delle singole aree di lavoro, sia per quelli strategici complessivi, riassunti in una serie di indicatori sullo stato della biodiversità e sull’efficacia delle azioni messe in atto per il raggiungimento degli obiettivi.  Il primo rapporto, dell’aprile 2013, peraltro,  lamentava che la tutela della biodiversità non è entrata nelle politiche di settore  e anche dove vi sono indirizzi al riguardo non sono seguite azioni concrete. L’aspetto positivo riguarda gli aspetti economici: la maggiore sensibilità verso la “green economy”  e verso l’esigenza di ridurre gli impatti negativi sull’ambiente.

La bellezza “nei piccoli mondi” che “sta morendo”  e va salvata

Gli obiettivi che sono stati posti nella prospettiva della Conferenza di Cancun sono:  dare piena attuazione alle direttive sull’habitat e gli uccelli; ripristinare e mantenere gli ecosistemi e i relativi servizi, incrementare il contributo dell’agricoltura e della silvicoltura al mantenimento della biodiversità; garantire lo sfruttamento sostenibile delle risorse relative alla pesca; combattere le specie esotiche invasive; contribuire ad evitare la perdita di biodiversità a livello mondiale.

C’è da perdere la testa in questo affastellarsi di obiettivi e strumenti in parte ripetitivi e sovrapposti, abbiamo voluto riportarli per dare un’idea di come sia difficile poi sistemare il tutto in un’assise con 190 paesi. Per fortuna in una parete della mostra è esibita in bell’evidenza una poesia di  Tonino Guerra, con la quale ci piace concludere il nostro resoconto: arido come sono aride le relazioni di cui abbiamo cercato di rendere l’essenziale, mentre ben diverse sono le immagini stupende della natura dei nostri parchi che scorrono nei visori e che pervadono i versi qui riportati con il significativo titolo “La  bellezza”: “Il nostro petrolio è la bellezza/  La bellezza ci fa pensare alto/ E noi la buttiamo via come se fosse danaro/ dentro tasche bucate/ La  bellezza grida i suoi dolori in modo silenzioso./ Bisogna curare le orecchie di chi comanda/ perché riescano a sentirla/ La bellezza è il nutrimento della mente/ La bellezza in Italia puoi anche incontrarla per strada/ e ti riempie subito di stupore/ Ma nei piccoli mondi c’è tanta bellezza che sta morendo./ Se noi la salviamo, salviamo noi”.

Non potevamo trovare migliore eco al nostro appello per la salvezza dei piccoli borghi di montagna minacciati dall’abbandono e dal degrado. E’ la biodiversità umana in pericolo, non solo quella naturale!

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini,  lato Fori Imperiali,via San Pietro in carcere. Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica,  ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito fino a 45 minuti dalla chiusura. Tel. 06.6780664. www.comunicareorganizzando.it.  Il primo articolo è uscito il 14 marzo 2016. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le mostre  del programma “Roma verso Expo”: nel 2015, Colombia 16 ottobre, Slovacchia e Moldova 22 settembre , Mozambico e Sao Tomé7 luglio, Usa, Haiti e Cuba 3 luglio, Congo e Polonia 28 aprile, Tunisia e Dominicana 25 marzo, Grecia e Germania 22 febbraio,  Estonia 7 febbraio, Vietnam 14 gennaio; nel 2014, Albania e Serbia 9 dicembre, Egitto e Slovenia 8 novembre. 

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare la Federparchi, per l’opportunità offerta.

CoBrA, “un morso di vita” alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Alla Fondazione Roma, nel Palazzo Cipolla in Via del Corso,  la mostra “CoBrA. Una grande  avanguardia europea 1948-1951”, presenta,  dal  4 dicembre 2015 al 3 aprile 2016, una vasta raccolta di opere riferibili a tale  movimento. Sono opere di artisti danesi, belgi  e olandesi, componenti del gruppo di avanguardia identificato dall’acronimo “CoBrA”, dalle  iniziali delle capitali, realizzate nel triennio di vita del gruippo 1948-51 e nei decenni successivi; e di artisti di altri paesi, tedeschi  e francesi, inglesi e italiani, che ne hanno ricevuto l’influenza sul piano artistico; è esposta anche un’accurata documentazione sulla loro attività, con monografie e  riviste.  La mostra, promossa dalla Fondazione Roma e organizzata  dalla Fondazione Roma Arte-Musei, si avvale di prestiti dei più grandi musei;  è a cura di Damiano Femfert e Francesco Poli, che hanno curato anche il Catalogo  bilingue italiano-inglese edito da Skira.

Il presidente della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele ha concluso così la sua presentazione della mostra: “Un ‘morso’ di vita, insomma, quello di CoBrA, che destò l’Europa dal letargo intellettuale in cui l’aveva tristemente relegata la guerra, creando i presupposti di un’arte libera, ansiosa di elaborare nuove teorie estetiche  e critiche, capace di fare ‘tendenza’ ancora oggi, nel momento in cui questa aggancia lo spirito e scopre quanto di più autentico e profondo risiede nell’animo umano”. 

I CoBrA contro il Realismo socialista,  l’astrattismo geometrico e altri modernismi

E’ qualcosa di più di un intervento di routine, del resto la  partecipazione personale di Emanuele appare chiara da queste altre parole: “L’ansia di liberare la fantasia e  dare finalmente sfogo al colore nella sua essenza materica e cromatica ebbe un effetto dirompente, tanto da contaminare letteralmente l’intero continente europeo, arrivando perfino in Italia, dove nacque un’articolata e vivacissima rete di esperienze scaturite da  una visione creativa comune, che successivamente ho avuto l’opportunità di condividere grazie al rapporto amicale e intellettuale con Enrico Baj“.

Siamo nei “favolosi anni sessanta a Milano”, che lui stesso ricorda con riferimento anche a un altro maestro con cui ha vissuto queste esperienze, Ugo Nespolo, prestatore con la sua collezione privata in aggiunta alle maggiori collezioni museali olandesi e danesi, francesi e tedesche, belghe e italiane. Agli “Irripetibili anni sessanta”, esplosione di vitalità dopo gli anni febbrili della ricostruzione postbellica,  Emanuele ha dedicato una mostra, come ai “Realismi socialisti” e al loro maggiore esponente, Deineka – l’arte oltre cortina cui i CoBrA si ribellavano – al Palazzo Esposizioni nel periodo della sua presidenza.

Ma non solo si ribellano ai “Realismi socialisti”, improntati al realismo intriso di retorica a fini di propaganda politica; rifiutano, sul versante opposto, anche l’astrattismo geometrico improntato a una fredda razionalità; e le correnti moderniste improntate al formalismo dei post cubisti e all’astrattismo lirico della “scuola di Parigi”. I CoBrA si distaccano inoltre, più che ribellarsi, dai surrealisti di André Breton, anche se hanno molte assonanze con loro, tanto che Edouard Jaguer ha ricondotto tale ripudio alle “proprie pulsioni edipiche” non superate.

Abbiamo accennato a ciò a cui i CoBrA si ribellavano o da cui comunque si differenziavano. E’ il momento di parlare in positivo di un gruppo che la mostra ha il grande merito di rivelare ai più e comunque di illustrare come mai fatto prima in Italia con una notevole ricchezza espositiva.  Nella visita alla mostra si è risucchiati  in un vortice di colori, non ci si stanca mai di guardare immagini lontane tanto dal figurativo quanto dall’astratto,  prodotte da un creatività personale fuori da ogni schema, lasciata alla gestualità e all’impulso del momento; immagini che mettono  a nudo le pulsioni  interiori come portato della fantasia o della memoria, tali da evocare e configurare ascendenze primitive o infantili. Questo abbiamo provato al primo immediato impatto,  con tutte le sensazioni e le emozioni che ne sono derivate.

Cerchiamo di capirne le motivazioni e le derivazioni, prima di passare in rassegna le opere e gli autori visitando una mostra così coinvolgente e, per tanti versi, sconvolgente.

Una dichiarazione d’intenti di respiro europeo

Di sorpresa in sorpresa, ci troviamo di fronte a qualcosa di diverso dalle  tendenze di avanguardia che si sono succedute, per tanti motivi  che ne fanno un caso a sé particolarmente intrigante.

Il gruppo ha dato vita a un movimento  vero  e proprio con una precisa dichiarazione d’intenti e appositi eventi espositivi,  non limitandosi all’arte pittorica o scultorea ma aprendosi ad altre forme, poetiche e letterarie, in base a una propria filosofia; un gruppo sorto dopo un incontro dell’8 novembre 1948 di artisti danesi, olandesi e belgi nel caffè di un hotel parigino, e sviluppatosi nel breve spirare di un triennio, dal novembre 1948 al novembre 1951, allorché ha cessato di operare  pur mantenendo la propria spinta propulsiva nell’evoluzione artistica dei suoi maggiori esponenti.

La dichiarazione d’intenti “Le Cause ètait entendue”,  redatta dallo scrittore belga Dotremont  e sottoscritta nell’incontro di Parigi appena citato  dal promotore,  il danese Jorn, e dagli olandesi Constant, Appel e Corneille,  reca questo indirizzo  programmatico: “Noi ci rifiutiamo di essere intruppati in un’unità teorica artificiale. Noi lavoriamo insieme, noi lavoreremo insieme. E’ in uno spirito d’efficacia che noi sommiamo insieme alle nostre peculiari esperienze nazionali un’esperienza dialettica tra i nostri gruppi”. 

Sommare le diverse esperienza nazionali in uno spirito comune, nel confronto tra diverse esperienze è stato un modo per costituire a livello artistico un primo nucleo di quell’unione che doveva poi fare tanta strada nella politica  europea, sia pure con arresti improvvisi e riprese, illusioni e delusioni. Damiano Femfert, curatore della mostra con Francesco Pioli,  sotto il titolo “Iter di una mostra europea”, attribuisce ad essa un particolare  valore nel momento in cui c’è un “clima europeo di odio e frammentazione, di colpevolizzazioni reciproche, di riaffermazione rancorosa delle discrepanze tra le nazioni invece delle loro vicinanze, di crisi fastidiose (Grexit, Brexit, Dexit)”.  Dai CoBrA venne una “nuova idea di convivenza europea”  con ancora aperte le ferite della guerra.

Non si è trattato esclusivamente di un movimento pittorico e scultoreo, le sue espressioni letterarie  e poetiche sono state  altrettanto importanti;  si definivano “artisti sperimentali” impegnati in un lavoro creativo  che prescindeva dal risultato della creatività, espressa  non solo in un quadro o in una scultura, ma anche in una poesia o in una festa. Il lavoro creativo era espressione di una vitalità positiva proiettata anche nella vita come reazione al pessimismo del dopoguerra.

Come non tornare con il pensiero al nostro Futurismo, all’esplosione di vitalità e di rinnovamento che lo animava, proiettato verso la modernità in ogni campo dall’arte alla letteratura,  fino ai tanti aspetti della vita quotidiana e alle “feste futuriste”, veri happening  creativi?  C’era la dichiarazione d’intenti del “manifesto” di Marinetti e dei manifesti successivi sui diversi comparti dell’arte  e non solo, mentre la matrice ideologica era ben diversa, fortemente nazionalista, laddove quella dei CoBrA  è stata  europeista contro le barriere nazionali;  a parte il pacifismo dopo il conflitto distruttivo mentre il Futurismo nacque con  le concezioni belliciste della “guerra igiene del mondo”, prima della disillusione nella vita in trincea degli artisti accorsi volontari nella prima guerra mondiale.

Ma non è al Futurismo che si richiamano i CoBrA, anzi si nutrono di concezioni marxiste, bensì al surrealismo, anche se per il “complesso edipico”  evocato da Jaguer ostentano di distaccarsene. Il riferimento a tale fondamentale corrente artistica del ‘900 ne fa comprenderne meglio la natura.

Dai surrealisti ai CoBrA  con gli artisti fondatori del gruppo

I surrealisti già prima della nascita del gruppo CoBrA ricercavano la liberazione dello spirito nel riflettere la realtà al di fuori da ogni schema quale che fosse lo strumento di espressione prescelto, dalle arti visive alla poesia.  L’immaginazione e la fantasia erano viste come riflesso della realtà, l’immagine  espressa con qualunque strumento, forme e colori per il  pittore,  lessico e sintassi per il poeta. Ciò che contava era la spontaneità con la quale venivano liberate le pulsioni inconsce in modo automatico senza elaborazioni concettuali o ricerche stilistiche.  Non esistevano forme prefissate, la libertà di espressione era assoluta sia nella pittura  e scultura, sia nella poesia.

Queste basi del Surrealismo sono state declinate in vario modo nei diversi paesi europei, e in particolare nei tre cui appartenevano i membri del gruppo CoBrA, Danimarca, Olanda e Belgio, fino  a dar luogo a un movimento originale particolarmente dinamico e propulsivo.

In Danimarca, si poneva l’accento sulla spontaneità creativa; alle forme astratte, che pure i CoBrA non accettavano nella loro variante geometrica, veniva attribuito un valore simbolico come riflesso della vita interiore. Nulla di angoscioso e complessato anche se la psicologia freudiana veniva tenuta in grande considerazione. Jorn, uno dei massimi esponenti del gruppo, proclamava anzi “la nostra forza è che la vita ci dà gioia, che la vita in tutti i suoi aspetti amorali suscita il nostro interesse. Ed è proprio questo il fondamento dell’arte di oggi”. Più che al Surrealismo ciò fa pensare al Futurismo. Jorn va oltre, parlando di “collaborazione organica” e perfino di “fratellanza” come basi vitali delle  diverse forme artistiche senza confini e barriere tra loro.  Lo ricorda Hilde de Bruijn nel suo saggio su “CoBrA e mondo contemporaneo”  riportando quest’altra significativa citazione di Jorn sul “linguaggio della nuova era”: “E’ il passaggio a un altro ritmo di vita, in cui non si privilegia più il privato, il capolavoro, l’individuo… né la divisione della vita in forme chiuse, rubriche e classificazioni, ma il fluire della vita stessa, la sua esuberanza e la libera crescita”; in questo modo si potrà creare “uno stile di vita che sia davvero vitale,  una collaborazione organica tra gli esseri umani, una società organica a tutti gli effetti”.

La distanza dal Surrealismo, pur se ne veniva avvertita fortemente l’influenza nella matrice comune, è  ancora maggiore in Belgio, dove Dotremont,  che scrisse la dichiarazione di intenti iniziale, si oppone all’idealismo del guru del Surrealismo Breton,  pur avendo avuto nella sua poesia un periodo “surrealista”;  lo affianca l’altro poeta presente alla riunione fondativa,  Noiret, che scrive: “Siamo usciti dallo spazio mentale idealista che separa arbitrariamente la mano, la sensibilità, la testa: non esiste spirito poetico senza realtà materiale”.  Un materialismo dichiarato,  con un’adesione esplicita alla visione marxista che Dotremont sulla rivista “Cobra” espresse in forma interrogativa: “Come può definirsi marxista chi non attribuisce alla materia una vita profonda, un potere dell’immaginazione che trascende l’immaginazione stessa, chi non riconosce l’impulso creativo della mano, il ruolo dell’esecuzione nel progetto e del materiale sulla totalità dell’opera?”.

In Olanda, addirittura, il Surrealismo non era penetrato se non in modo episodico e isolato: Gli artisti protagonisti, con i danesi e belgi, della nascita di CoBrA, sentivano in modo autonomo le pulsioni libertarie  come reazione agli anni di occupazione e deportazione; tanto gli artisti quanto i poeti  sono per la spontaneità senza vincoli, la libera ispirazione al posto della  alla costruzione sapiente. Eloquenti le parole  di Lucebert, pittore e poeta, che riassume le due figure: “Mi godo la libertà che riescono a comunicarmi solo i miei quadri, le mie poesie… concreto e astratto, per me è lo stesso, quasi non percepisco la differenza, so solo che si tratta di concetti di un mondo ideologico in cui sono e desidero restare uno straniero xenofobo”.

Tre paesi, tre declinazioni dell’anelito libertario con uno sbocco ricco di vitalità e di carica espressiva nel gruppo dei CoBrA,  che Constant, anch’egli tra i fondatori, ha così rievocato nel 1983, dopo 35 anni: “Per noi non si trattava di rinnovare l’arte, ma di liberarla. Rigettavamo tutto ciò che poteva limitare la nostra libertà: l’importante era l’apertura, che i percorsi che ci si aprivano fossero praticabili e che ciascuno potesse avventurarvisi come meglio credeva. CoBrA era rivoluzionario e CoBrA era primitivo. Ma non esistono né uno stile né un’estetica CoBrA”.

Dopo questa citazione,  Jean-Clarence Lambert conclude così la sua accurata analisi degli ascendenti del movimento: “Sì, CoBrA è stato davvero, per i pittori, gli scultori, i poeti, ciò che Dotremont aveva annunciato nella sua conferenza di Amsterdam: un grande appuntamento naturale”.  E’ sua la definizione dell’ “interspecialismo”: “Il poeta scrive, il pittore dipinge, nello stesso tempo, nelle stesse circostanze, sullo stesso piano, con un ritmo comune, le parole organizzano le forme, le forme fanno nascere le parole”. Anche qui viene spontaneo il riferimento al Futurismo, e non solo alle “parolibere”; viene in mente il dipinto di  Francesco Cangiullo del 1914 in cui le parole formavano la “Grande folla a Piazza del Popolo”.  

I CoBrA visti dall’Italia

I nostri riferimenti al Futurismo, precisiamo, sono soltanto libere associazioni di idee senza alcuna pretesa di collegamento critico, questo avviene con il Surrealismo pur nelle evidenti diversità. Ma dato che abbiamo evocato il Futurismo, e con esso l’Italia,  aggiungiamo qualcosa sulle forme in cui si è prestata attenzione nel nostro paese a questo movimento di artisti danesi, belgi e olandesi.

Enrico Crispolti trova quattro  “punti per una riflessione su CoBrA e l’Italia”. Il primo è l’influsso che ha avuto, anche tramite il risalto internazionale dei dieci fascicoli della rivista “Cobra” pubblicati tra il 1948  e il 1951, come “una sostanziale motivazione liberatoria, d’ascendenza automatistica, esplicitamente di matrice surrealista… verso la fenomenologia operativa informale”.

Il secondo punto di riflessione riguarda la prima effettiva manifestazione italiana  dell’immaginario di marca CoBrA: Enrico Baj e Dangelo sono molto attivi nella seconda mostra di “pittura nucleare” a Bruxelles nel febbraio-marzo 1952 allorché pubblicano un manifesto con  espressioni gestuali ma  diverse dall’ “animismo panico” dei CoBrA, che si sono sciolti solo un trimestre prima. Trascorre meno di un anno e nasce uno stretto rapporto tra Baj  e Jorn con un epistolario e anche mostre:  a Milano nel maggio 1954  Jorn con Appel e Corneille espone alla Libreria Schwarz, Baj aderisce al “Mouvement International pour une Bahaus imaginiste”, di cui è segretario Jorn. E così via. 

Un altro elemento è la diffusione in Italia di scritti dei CoBrA e sui CoBrA nelle riviste specializzate: “Numero” nel 1°fascicolo del settembre-novembre 1949,  l’anno dopo  la nascita del movimento, ospita un articolo sulla “immaginazione liberamente inventiva  [di marca CoBrA] contro la ‘pittura immaginata’ del surrealismo storico” ; nel 1950  e 1951 pubblica articoli di Dotremont, Crispolti prosegue nel suo excursus di articoli ed eventi espositivi nei decenni successivi. Di tutto questo dà conto la mostra con le vetrinette nelle quali è esposto questo prezioso materiale.

Ne discende il quarto punto di riflessione, “il riconoscimento storiografico”  nel nostro paese ai singoli artisti e al movimento nel suo insieme, a partire dal rilievo dato da Schwarz nel 1956, nel suo “Pittura italiana del dopoguerra”, dell’importanza del rapporto  tra “nucleari” milanesi e artisti CoBrA, attraverso “il prolungato dialogo Baj.Jorn”. Poi  l’excursus sui decenni successivi.

Peculiarità e spirito dei CoBrA

Lo spirito del movimento CoBrA ha delle  notevoli peculiarità, oltre quella di unire, in un crogiuolo creativo, artisti di diverse nazioni europee e di varia estrazione, dalle arti visive  a quelle letterarie,

Abbiamo già accennato al loro rifiuto dell’astrattismo geometrico e dell’astrattismo lirico come del Realismo socialista e del formalismo modernista subentrato al cubismo; e del distacco dal surrealismo idealista e individualista per una dimensione materialista e collettiva vicina al popolo. Lo sbocco di tale posizione non è comunque  unitario, assume aspetti diversi nei singoli artisti per cui una fisionomia del movimento può nascere solo dalle loro espressioni personali.

Possiamo tuttavia fornire una serie di spunti, per preparare la visita alle opere esposte, seguendo la ricostruzione della “grande avventura di CoBrA”  fatta da uno dei due curatori,  Francesco Poli. “I CoBrA, in linea di principio rifiutano ogni definizione precisa di stile, essendo per loro fondamentale la spontaneità creativa diretta e vitale. Per loro, un’immagine deve emergere dalla materia in modo assolutamente naturale, come un cambiamento subitaneo del tempo, come un temporale imprevisto. L’automatismo grafico e gestuale, lo sfogo espressivo delle pulsioni del desiderio, e l’enfatizzazione anarchica delle energie dell’immaginario sono considerati come le migliori armi nell’utopica battaglia liberatoria dell’avanguardia”. Con queste modalità espressive: “Sulla scia dei surrealisti, ma con spirito rinnovato e originale, si appassionano alle forme primarie dell’arte dei primitivi, all’iconografia più autentica del folclore e della mitologia nordica, alle espressioni creative infantili, degli outsider e degli alienati”.

Ne nascono composizioni che, sebbene derivino da spessori materici apparentemente informi, frutto di spontaneismo e di gestualità, non sono  mai astratte, ma, aggiunge Poli, “danno vita a un mondo di immagini primordiali, mitiche, simboliche, grottesche e favolistiche con valenze violente  e gioiose, ironiche e poetiche. Un mondo con esplosive accensioni cromatiche e figurazioni provocatorie, popolato da strane figure, da maschere e facce stravolte, da inquietanti troli, da un fantastico bestiario di cani, gatti, serpenti e uccelli minacciosi”.

In questo mondo favolistico  ci immergeremo descrivendo le opere esposte nella mostra, dopo aver cercato di delinearne  le motivazioni e le pulsioni recondite con un approfondimento nato dall’impatto  immediato con la prima sala espositiva allorché ci ha preso il vortice di colori e di vitalità informale quanto mai evocativa e intrigante. Racconteremo prossimamente la nostra visita alla mostra che si preannuncia  come un viaggio ricco di suggestioni e fonte di intense emozioni.

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Info

Fondazione  Roma.Museo, Palazzo Cipolla,  Via del Corso 320,  Roma. Dal martedì alla domenica ore 11,00-22,00. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 10,00. Tel. 06.22761260.(per attività didattiche tel. 346.0865728).  http://www.mostracobra.it/, www.fondazioneromamuseo.it, . Catalogo “CoBrA. Una grande avanguardia europea 1948-1951”, a cura di Damiamo Femfert e Francesco Poli, Skira,  dicembre 2015, pp. 272, bilingue italiano-inglese, formato 22 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo uscirà il 24 marzo 2016, con 12 immagini.  Per le mostre sulle correnti e gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito,  “Impressionsti  e modernisti” 12, 18 e 27 gennaio 2016, “Secessione”  6, 7 dicembre 2014 e 21 gennaio 2015, “Empire” 31 maggio 2013,   “Guggenheim“anche per Pollock 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012, “Astrattisti italiani” 5 e 6 novembre 2012,  i futuristi Tato 19 febbraio 2015, Dottori e le “feste futuriste” 2 marzo 2014, Marinetti  2 marzo 2013, “Cubisti” 16 maggio 2013, “Corporate Art” per Nespolo  9 settembre 2015, Deineka 26 novembre, 1° e  16 dicembre 2012;  in “cultura.inabruzzo.it” su “Gli irripetibili anni ’60”  3 articoli il 28 luglio 2011, “Realismi socia1isti”  3 articoli il 31 dicembre 2011, “Dada e Surrealisti” 6 e 7 febbraio 2010, “Il teatro del sogno” anche per Ernst  30 settembre, 7 novembre e 1° dicembre 2010,  “Futurismo”  30  aprile, 1° settembre e 2 dicembre 2009, “De Chirico… Baj”  23 settembre 2009  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla della Fondazione Roma, si ringrazia la Fondazione Roma-Musei, insieme ai titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Karel Appel, “Visage avec oiseau”, 1970; seguono, Asger Jorn, “Senza titolo”, 1956-57, e Carl-Henning Pedersen, “Det rede slot ved havet”, 1952; poi, Pedersen, “Orange Bird Horse”, 1977, e Karel Appel, “Les Solitaires”, 1953; quindi, Appel, “Senza titolo”, 1958, e Corneille, “La Grande Symphonie solaire”, 1964; inoltre, Corneille, “Petite Musique du printemps”, 1987, e Constant, “De vlam”, 1952; infine, Pierre Alechinsky & Christian Dotremont, “Ondes etremes”, 1974-1979;in chiusura, la Foto con i maggiori artisti del gruppo “CoBrA”

Renzo Arbore, un nuovo futurismo al Macro Testaccio

di Romano Maria Levante.

Al Macro Testaccio, nel Centro di produzione culturale “La Pelanda”, la  mostra “Renzo Arbore. Videos, radios, cianfrusaglies. ‘Lasciate ogni tristezza voi ch’entrate’ ” celebra dal 19 dicembre 2015 al 3 aprile 2016, i suoi 50 anni di attività artistica con i 25 anni dell’Orchestra italiana, in un originale allestimento espositivo in cui le  espressioni del suo talento poliedrico sono rievocate da 50 monitor e grandi schermi, con immagini  e suoni, gigantografie e installazioni, presenze virtuali e oggetti reali che fanno rivivere le sue performance ed esprimono la sua originalità. Promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai beni Culturali,  prodotta da Civita con la Rai e il contributo di Rai Teche, allestita da Giovanni Licheri e Alida Cappellini. A latere, il libro illustrato “Renzo Arbore. E se la vita fosse una jam session?  Fatti e misfatti di quello della notte”, di Renzo Arbore e Lorenza Foschini, Editore Rizzoli, 2015, pp. 312, formato 24x 17. 

Televisione e musica della sua Orchestra italiana, cianfrusaglie raccolte con un collezionismo appassionato, capi di abbigliamento personale altrettanto ricercati, fino alla Radio, suo primo amore, sono altrettanti capitoli di una storia artistica  che evoca momenti rimasti nella memoria di tutti, specchio di un costume collettivo e di emozioni individuali. 

Abbiamo già sottolineato come questo happening coinvolgente  rifletta la creatività e l’inventiva di Arbore, sempre associata alla leggerezza e al buon gusto, all’eleganza e alla misura. E abbiamo definito la mostra un “inno alla gioia” perché tale è la sensazione che si prova nel visitarla: non solo si abbandona ogni tristezza, ma non si è assaliti da quella suscitata dalla nostalgia del tempo che fu, e si è contagiati dal clima festoso e dall’atmosfera colorata e colorita,  con la sua presenza accattivante resa attraverso gigantografie visive in cui sembra rivolgersi direttamente al singolo visitatore.

Nel raccontare la visita alla mostra, che è anche un excursus sulla storia artistica di Arbore,  abbiamo già rievocato le sue trasmissioni televisive divenute un cult,  soffermandoci particolarmente su “Quelli della notte” e “Indietro tutta”, che rivoluzionarono la nostra televisione e alle quali appartiene il maggior numero dei frammenti trasmessi ininterrottamente dai 30 monitor. Ora il nostro racconto si porta sugli altri capitoli della sua storia: la musica e, in conclusione, la Radio, e sulle sue  passioni di collezionista di oggetti di plastica quanto più inutili tanto più intriganti, e di utilizzatore e collezionista  di capi di abbigliamento fantasiosi in una forma di futurismo moderno altrettanto intrigante.

Il capitolo musicale con l’Orchestra italiana

Arbore ha cominciato in Rai come programmista musicale e la musica, lo confida lui stesso, è stata sempre al culmine dei suoi pensieri. Canta e suona chitarra. tastiere e non solo il prediletto clarino, immortalato nella canzone giunta a un soffio dalla vittoria nel Festival di San Remo del 1986 in cui si piazzò al secondo posto, con una musica swing e delle parole  garbatamente intrise di doppi sensi ammiccanti quanto mai godibili; del resto  erano insiti in canzoni d’epoca come “La pansè”, delle quali lui stesso in una trasmissione ebbe a segnalare in modo scherzoso ma penetrante il carattere allusivo.

La sua passione per il jazz e lo swing è ben nota, tradotta anche in canzoni proprie e in piccoli complessi, dice al riguardo “suonare il jazz è parlare con il cuore e non si può mentire”. E cita il suo idolo: “Louis Armstrong l’ho sempre amato in una maniera viscerale, come fosse uno di famiglia. Ancora oggi mi basta vedere una sua fotografia per emozionarmi”.

Nella mostra spiccano gigantografie di Armstrong con la celebre tromba, una statua e una colonna a più ripiani con una serie di statuette di musicisti neri e dei loro strumenti,  quasi un’icona religiosa. Tra i suoi idoli non solo i grandi del  jazz, ma anche Roberto Murolo, che in una trasmissione televisiva ebbe a paragonare per la sua voce profonda alla celebre “cassa armonica”  di un parco napoletano.  Ma c’è anche una piramide con le immagini di quelli che sente più vicini a lui, sono musicisti americani come Armstrong e Ray Charles,  Glenn Miller ed Elvis Priesley, Ella Fitzegerald e Frank Sinatra, Miles Davis e Bessie Smith; e italiani, Roberto Murolo, Renato Carosone e Domenico Modugno, al vertice Giuseppe Verdi, c’è anche Totò che fu pure musicista oltre a tutto il resto, abbiamo già ricordato che una sua trasmissione celebrativa era dominata da una grande statua di Totò come presenza viva.

La sua attività musicale di gran lunga prevalente ha avuto come  molla una forte motivazione personale: “Affascinato da un concerto di Enzo Jannacci, mi sono detto: ma io che ci sto  a fare seduto qui? Non sarebbe meglio stare seduto là sopra al palco? Così a 44 anni ho provato a fare l’artista”.  Non erano le sue prime esibizioni quelle del 1981, risale a 35 anni, nel 1972,  la creazione di un suo complesso musicale con cui incide anche un disco,  “N.U. Orleans Rubbish Band”, N.U. non è un refuso da New, ma sta per “Nettezza Urbana”,  con lui fedeli compagni che lo seguiranno in radio e poi in televisione.

Fino a che al richiamo della vocazione musicale sempre più irresistibile si è aggiunto un obiettivo preciso: “L’idea dell’Orchestra italiana nacque – sono ancora le sue parole –  perché temevo che molte canzoni bellissime, autentiche opere d’arte, scritte tra la fine dell’Ottocento e oltre la metà del Novecento, ma neglette e snobbate, venissero definitivamente dimenticate”. 

Per questo nel 1991 passa il Rubicone, crea un’orchestra di 15 componenti tra strumentisti  e cantanti,  che non solo ha operato per la salvezza di questo patrimonio musicale  ma lo ha portato trionfalmente in tutto il mondo. Si tratta delle più celebri canzoni napoletane, attraverso le quali si è proposto di raggiungere  un altro importante risultato: “Tutti noi, ‘bravi ragazzi’ dell’Orchestra italiana, cerchiamo di cancellare la Napoli ‘lazzara’ e ‘pulcinellesca’ e far riemergere quella ‘Napoli nobilissima’ , che si voglia o no, è il più grande focolaio di artisti, della musica e della parola, del nostro paese”. Una bella  dichiarazione d’amore per la sua terra di adozione, accompagnata dai fatti:  l’Orchestra italiana diffonde questo messaggio in tutti i continenti.

La sala dedicata alla sua musica – con l’albero dei 20 monitor che trasmettono immagini delle tournè  dell’Orchestra italiana di Renzo Arbore”, dopo un positivo esperimento con la “Barilla Boogie Band” reso possibile dal geniale inserimento del nome dello sponsor nello stesso nome – ci porta l’entusiasmo delle platee  osannanti nel segno della canzone napoletana. Non solo musica, sempre per spezzoni e frammenti che compongono un happening su scala mondiale, ma anche immagini divertenti  colte nei viaggi con i fondali più diversi e sorprendenti.

L’entusiasmo  delle platee è altrettanto contagioso di quello dei musicisti in fila con lui dinanzi alle cupole di San Basilio a Mosca, in atteggiamento scherzoso, eppure sono protagonisti di un grande evento:  “La prima orchestra a far ballare con le melodie tricolore e partenopee, diecimila moscoviti infreddoliti e non curanti della pioggia che cadeva incessante sulla Piazza Rossa”.

Come scherzano nei contrafforti della Grande muraglia cinese, anche qui un evento straordinario: “Il pubblico cinese, notoriamente molto riverente e composto, si è lasciato andare con cori e danze, lasciandoci di stucco, e l’orchestra ha contraccambiato con una popolarissima canzone cinese cantata da Barbara Bonaiuto, in cinese”.

E poi l’America, con i grattacieli di New York e  immagini altrettanto scherzose con  richiami appassionati: “Noi che amiamo New Orleans siamo una setta di privilegiati… città del jazz, del cibo, delle avventure… Una città piena di contaminazioni non solo musicali. Accanto ai francesi e ai canadesi, vi erano anche italiani calabresi, bergamaschi, siciliani. Nick La Rocca è stato il primo ad incidere un disco jazz ‘Jass’ nel 1916″.

Queste sono solo tre delle tante immagini evocative  delle tourné mondiali, mai sussiegose e paludate, sempre leggere e scherzose, irridenti e dissacranti: oltre alle gigantografie,  un grande schermo diffonde queste immagini  tra un aereo e l’altro, un fondale panoramico e l’altro, mentre nei 20 video  scorrono le riprese dei concerti

Venticinque anni di viaggi e di successi, dal primo del 1991,  che continuano senza segni di stanchezza. Anche per merito della sua “Orchestra italiana”  la grande canzone napoletana è tutt’altro che a rischio dimenticanza, per di più diventa un appuntamento gioioso in ogni latitudine.

Si entra maggiormente  nella sfera personale di Arbore, perché – come  i componenti la sua orchestra – è visto nei momenti di relax, in atteggiamenti confidenziali con il suo abbigliamento molto particolare.

L’abbigliamento futurista

L’abbigliamento è stato sempre un aspetto caratteristico del suo modo di presentarsi in pubblico,  all’insegna di un anticonformismo fantasioso e divertente manifestato dallo schermo televisivo  come dalla ribalta della sua  orchestra. Tutti  ricordano le sue camicie e i suoi gilet, appariscenti e colorati come non mai,  sebbene Arbore non sia mai venuto meno alla leggerezza e signorilità di comportamento. Vogliamo dire che non vi è traccia della sguaiatezza di certa modernità anche nei vestiti, anzi una compostezza esemplare espressa in modo libero e creativo, e questo spiega la particolarità del suo abbigliamento.  Non c’è trasgressione incontrollata né volgare trascuratezza, ma eccentricità ricercata, anzi colta, che trova  prestigiosi riferimenti nel Futurismo del primo ‘900.

Il Futurismo fu una ventata di modernità e di anticonformismo,  legata alla visione creativa e rinnovatrice che scuoteva una società statica e stantia, una ventata che dalle arti invadeva la vita quotidiana, sia negli arredi e nell’abbigliamento, sia nei comportamenti: le “serate futuriste” erano momenti di abbandono alla creatività, come lo erano le “parolibere” e altre manifestazioni di questo movimento.  Arbore non direbbe che “la guerra è l’igiene del mondo” – fu l’abbaglio iniziale dei  futuristi spazzato via dall’esperienza in trincea – ma sottoscriverebbe molti dei loro atteggiamenti ai quali sembra ispirarsi.

Possiamo dire che i suoi Giletnascono di lì, ne vediamo qualche diecina allineati alla parete con i luccichii quando sono cosparsi di strass, con la durezza delle applicazioni incastonate come nei mosaici – bottoni,  conchiglie e altro – con tante varianti sul tema dell’insolito e del sorprendente. Tra loro, manca il gilet raffigurato nel quadro del 1923 di Fortunato Depero, “Panciotto futurista”,  sostituito da una fotografia perché l’originale è esposto nella mostra “Dolce vita? Dal liberty al design 1900-1940”  al Palazzo Esposizioni, coincidente per circa un mese, dal 19 dicembre 2015 al 17 gennaio 2016 con la mostra di Arbore. Quindi pensare ad Arbore futurista moderno non è avventato,  va ricordato e sottolineato che ha acquisito il quadro del celebre pittore futurista con il gilet, oltre a indossarne e collezionarne dei più fantasiosi e colorati.

Dai gilet alle Camicie, che occupano un’intera parete,  quasi un centinaio nei più diversi colori e conformazioni, e alle Cravatte, ne abbiamo contate un’ottantina in gruppi di 5, sono ancora più fantasiose e incredibili per le fogge e raffigurazioni, alcune sembrano strumenti musicali o altri oggetti  appesi al collo:  strabiliante!

E non basta, la sequenza di suoi Cappelli – e neppure tutti, non vi abbiamo trovato quello scozzese – completa questa carrellata  fantasmagorica, mentre un Divano  insolito con 100 cilindri verticali di gomma si aggiunge a un’eccentricità  meno superficiale di come sembri.

Le “piccole cose di pessimo gusto” in plastica,  inutili e preziose

Non finisce qui l’esplorazione nel privato di Arbore, la mostra ci rivela aspetti già conosciuti  per averne lui parlato con la solita arguzia, che non mancano di sorprendere alla visione diretta.  “Quando ho cominciato a lavorare, nel 1965, con i primi guadagni ho iniziato a dare sfogo al mio desiderio di fare acquisti – ha confidato – quasi forma di compensazione per tutti i giocattoli che non avevo posseduto da bambino a causa della guerra. Giravo per mercatini a caccia degli oggetti più disparati”. Ed ecco quali tipi di oggetti: “Si sa, io sono innamorato del disutile, dell’oggetto falso che, sostengo, è meglio del vero perché non appassisce, come i meravigliosi fiori di plastica”.

Guardiamo le diverse  vetrine dove sono esposti gli Oggetti curiosi per lo più di plastica colorata, che ha raccolto nei suoi viaggi in lungo  e in largo per il mondo con la curiosità dell’esploratore e la passione del collezionista in uno spirito antico volto al presente. Le “piccole cose  di pessimo gusto” della signora Felicita di Gozzano portate nella modernità, anzi nel “modernariato” cui si richiama Arbore, diventano da oggetti decadenti a prodotti della  fantasia tanto più preziosi quanto più inutili, tanto più ricercati quanto più kitch, tanto più considerati quanto più insignificanti. Ha detto Luigi Abete, presidente di Civita Cultura cui si deve la mostra: “Questi oggetti  sono la nostra identità collettiva, italiana ed europea”.   

Si resta a lungo dinanzi alle  vetrine dove sono allineati, vale la pena di osservarli ad uno ad uno, e sono tantissimi. Alle borsette di plastica e bachelite  sono dedicate due vetrine,  tante sono le forme e le fogge, il materiale  non è certo elegante ma proprio per questa anomalia hanno il pregio della  ricercatezza.

E poi gli Occhiali, prima di vedere quelli esposti  non si può immaginare come la fantasia si possa sbizzarriresu un oggetto per la vista dalla  forma obbligata,  invece ecco  prolunghe incredibili, come quelle che raffigurano palme su spiagge esotiche; e Pupazzetti di ogni tipo e foggia, a centinaia, non mancano  figurine irridenti anche con  nudi  ostentati,   sembra impossibile che siano stati prodotti e poi raccolti se non ci si lascia andare sulle ali della curiosità e della fantasia. E  allora si apprezza la creatività di chi li ha ideati e fabbricati e di chi li ha individuati e acquistati per farne una collezione.

Un collezionismo insolito, del quale ha spiegato l’origine, che sembrerebbe stravagante se non fosse coerente con i gilet e le camicie, con le cravatte e gli altri oggetti di vita quotidiana anch’essi raccolti con cura;  in definitiva con la sua natura leggera ma mai banale, trasgressiva ma mai volgare. Questa collezione di plastica dagli anni ’60 che vediamo nella mostra, è perennemente esposta in bella vista nella sua abitazione in appositi scomparti in muratura alle pareti, quasi  volesse esserne fasciato a mo’ di rivestimento protettivo. L’abbiamo collegata ai quadratini di Pablo Echaurren della serie “Volevo fare l’entomologo”, un modo di sezionare la realtà con lo spirito del ricercatore, Arbore ha sezionato così a modo suo il costume.

La radio, il primo amore

Un  posto a parte, tra gli oggetti raccolti, spetta alle Radio,  modelli inconsueti di ogni tipo e misura, a partire dalle mitiche “radio a galena”, ci sono anche grandi apparecchi di riproduzione  stereo con uno splendido Juke box originale.

La radio è fondamentale nella vita di Arbore,  rappresenta la prima parte della sua carriera artistica, e in lui è rimasta la predilezione anche dopo i successi televisivi: “Adoro la radio – sono parole –  è uno strumento fantastico. Mi ha insegnato a vincere la timidezza. La amo perché avendo solo la voce  è il mezzo che, più della televisione, scatena la fantasia”.

Nella mostra c’è  un angolo raccolto come uno studio di registrazione, dove vengono evocate le sue celebri trasmissioni radiofoniche, che ci consentono  di risalire nel tempo,  all’inizio del cinquantennio di vita  artistica, quando entrato in Rai come programmista musicale, incontra Gianni Boncompagni, aretino che colpì lui, foggiano ma napoletano d’adozione con la sua “totale, scanzonata disinvoltura”.  Dice lui stesso: “Io, che da mio padre avevo ricevuto un’educazione imperniata sul principio che bisogna lavorare, sgobbare, prepararsi, ho dovuto imparare la personalissima ‘teoria della relatività’ di Boncompagni: ottenere gli stessi risultati, ma con il minimo impegno”. Per ottenere questi risultati, però, occorre  creatività e prontezza, inventiva e capacità di improvvisare, doti messe in campo nelle sue trasmissioni radiofoniche  che ebbero subito un grande successo nelle giovani generazioni..

Con “Per voi giovani”, da lui ideato e condotto agli inizi,  e con “Bandiera  Gialla”, dal 1965 al 1970, appuntamento imperdibile per i giovani, venivano “lanciati in orbita” dalla radio, prima paludata e preconfezionata, dischi con  musiche e canzoni senza il pedigree nazionale, sull’onda delle tendenze all’estero, in particolare in America, con scelte assolutamente personali senza influenze di case discografiche o altri. Inoltre con la particolarità, anch’essa inedita, anzi fino ad allora vietata, che gli “improvvisatori” parlavano anche sovrapponendosi al disco;  pur nell’happening era  un “format” con tanto di votazioni, il titolo si riferiva proprio alla quarantena cui erano soggette le canzoni  straniere. Poi tra un  gruppo e l’altro di dischi si introdusse la lettura di massime di scrittori e poeti, un modo di avvicinare i giovani alla cultura. Il pubblico di giovanissimi in studio non era passivo pur non essendo visibile, faceva sentire la sua presenza con canti, grida, altra trasgressione ai composti modelli di allora.

I giovani in studio divennero ancora più attivi con la sua trasmissione nella televisione in bianco e nero, “Speciale per voi”, alla fine degli anni ’60 per due anni:  Arbore interpretò il clima diffuso dalla contestazione sessantottina  infrangendo il conformismo e la separazione dei due mondi, i cantanti e i giovani, con discussioni anche aspre perché i giovanissimi superarono ogni timore reverenziale e criticavano in diretta i cantanti mentre lui  era impegnato a far comunicare senza filtri  i due mondi di cui uno prima era solo ricettore passivo. Non solo mostri sacri ma ritenuti superati come Claudio Villa, ma idoli dei giovani come Caterina Caselli  e Don Backy subirono in diretta l’urto del nuovo protagonismo giovanile, fece scalpore quando la  Caselli lasciò una trasmissione in lacrime.

Tornando alla radio, “Alto gradimento”, un programma quasi giornaliero trasmesso per tutti gli anni ’70, sia pure con alcune interruzioni, era all’insegna dell’illogicità surreale e demenziale, sul filo dell’improvvisazione e della sorpresa, tali erano le interruzioni improvvise dei brani musicali con gag irresistibili di personaggi strampalati  ricorrenti  nei loro tormentoni esilaranti, in un clima goliardico e festoso, ricordiamo tra tutte le autentiche maschere comiche di Bracardi e Marenco, poi approdati in televisione.  Si possono immaginare le difficoltà da superare in una Rai diffidente e conservatrice. “Alto gradimento è stato l’antesignano del cazzeggio”, dice Arbore oggi, ma di qualità insuperata. 

Sempre, però, ci teniamo a ribadirlo, con il senso della misura e del buon gusto, con la  stessa leggerezza che gli fa indossare  gli improbabili  gilet, cravatte e  camicie e raccogliere le ancora più improbabili “piccole cose di pessimo gusto” che nella sua vastissima collezione diventano  un’immersione nella fantasia e nella creatività senza uno scopo preciso, come espressione di libertà.

Educato sempre, disciplinato mai, l’arrivederci ad “Arbore Channel”

Non termina qui l’universo delle sue multiformi attività, c’è anche il Cinema, irridente e scanzonato, disinibito e provocatore, dal “Pap’occhio”  che ha portato l’ironia sul sacro soglio ben prima di Nanni Moretti, a “FFSS… Cioè che mi hai portato a fare sopra Posillipo se non mi vuoi più bene?”. Siamo nel 1986,  l’anno del secondo posto del “Clarinetto” a Sanremo.

Tutto questo si coniuga con un’attenzione ad aspetti della realtà che richiedono una solidarietà attiva, e la sua generosa attività di testimonial della “Lega del Filo d’oro” ne è la dimostrazione concreta. E’ altamente significativo che la mostra si concluda con questo spazio, l’inno alla gioia di un futurista moderno termina con la vicinanza ai più sfortunati affinché la gioia possa coinvolgere anche loro.   

“Educato sempre, disciplinato mai”,  si definisce.  E aggiunge: “L’improvvisazione ha scandito una vita intera, la mia,  tutta trascorsa a tempo di jazz”. Un autoritratto al quale ci permettiamo di aggiungere che  la sua vita a tempo di jazz ha avuto come colonna sonora la melodia napoletana, e come visione la sua sfolgorante televisione, così il cerchio si chiude.  Ed è  bello che lui stesso possa dire, a 50 anni dall’inizio della sua attività artistica: “Come Armstrong anche io posso affermare di avere avuto una bella vita e tutto ciò che desideravo… perché ci ho lavorato”. Pensiamo che lo abbia fatto con il massimo impegno, al di là della “personalissima teoria della relatività” di Boncompagni.

Ci piace concludere riportando la sua risposta alla domanda che gli abbiamo rivolto nel corso della presentazione della mostra, chiedendogli come si sentiva a non poter esprimere  le proprie reazioni ai molteplici stimoli offerti dalla realtà odierna così in movimento, data la sua assenza dalla televisione. Ci ha detto con prontezza: “Esprimo, esprimo, basta guardare su Arbore Channel“.

Ebbene, non poteva esserci notizia più positiva e rassicurante, sapere che Arbore “esprime”  e  venire a conoscenza del sito su cui trovarlo consente di continuare a ricevere i frutti della sua fantasia e della sua creatività in un mondo che tende all’omologazione. Contro l’appiattimento in atto, grigio e noioso oltre che deleterio, ciò che Arbore continua ad esprimere è un “tetrafarmaco” provvidenziale in grado di creare anticorpi efficaci e, quel che più conta, quanto mai gradevoli.

Info

Macro Testaccio, La Pelanda, Centro di produzione culturale, Piazza Orazio Giustiniani. 4.  Dal martedì al venerdì, ore 14.00-20.00, sabato e domenica ore  10.00-20.00, la biglietteria  chiude un’ora prima. Ingresso,  intero euro 12,00, ridotto  euro  10,00 per giovani tra 18 e 25 anni e over 65 anni, nonché  gruppi oltre 15 persone; ridotto speciale euro 4,00  per i minori di 18 anni; gratuito per i  minori di 6 anni, un accompagnatore per gruppo di adulti, diversamente abili e un accompagnatore, due insegnanti per scolaresca e per le altre categorie legittimate. Tel 06.06.08 e 199.15.11.21 macro@comune.roma.it. Il primo articolo  è uscito il 9 marzo 2016 con altre 15 immagini sulla sua  televisione e la sua musica. Cfr. in questo sito i nostri articoli, per la mostra sulla Rai  13 marzo 2014, su “Dolce vita? Dal Liberty al design 1900-1940” con il futurismo e  il quadro di Depero “Panciotto futurista” 14 novembre 2015;  sul “Futurismo” in “Secessione”  21 gennaio 2015, sui futuristi Tato 19 febbraio 2015, Dottori 2 marzo 2014, Marinetti 3 marzo 2013;  su Echaurren  20, 27 febbraio, 4 marzo 2016,  23, 30  novembre, 14 dicembre 2012; in “cultura.inabruzzo.it” sul “Futurismo” 30 aprile e 1° settembre 2009 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Macro Testaccio, La Pelanda, alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione e Civita, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta, in particolare Renzo Arbore anche per aver accettato di farsi riprendere. Sono riportate immagini degli oggetti da lui collezionati e del suo  abbigliamento futurista. In apertura, Renzo Arbore seduto davanti a una delle vetrine con la collezione di oggetti in plastica; seguono, uno scorcio di due vetrine con altri oggetti, e una vetrina con oggetti di bachelite; poi, una vetrina con borsette e occhiali in plastica, e la parete con le sue pittoresche camicie; quindi, l’albero delle sue stravaganti cravatte e un primo piano di cravatte con raffigurati strumenti musicali; inoltre, la parete con i suoi speciali gilet, al centro la foto del “Panciotto futurista” di Depero e un gilet dai colori brillanti con impresse immagini marine; ancora, un gilet con le applicazioni più eterogenee, e un divano molto particolare; infine, due vetrine con diversi tipi di radio d’epoca da lui collezionate; in chiusura, una tavola imbandita con cibi di plastica e, al termine, lo schermo con lui a grandezza naturale che parla dalla propria casa seduto davanti agli scomparti con gli oggetti collezionati, sulla sinistra si riconosce la piramide dei suoi miti musicali, al centro l’albero con i monitor che trasmettono video dei concerti della sua Orchestra italiana

Parchi nazionali, e Biodiversità, in due mostre al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano due mostre nel giro di un mese sui Parchi nazionali. La prima a conclusione del ciclo di mostre del programma “Roma verso Expo”, intitolata  “Dall’Expo al Vittoriano. L’evoluzione delle aree naturali protette”, apertadal 17 dicembre 2015 al 16 gennaio  2016 nella Gipsoteca,  lato Ara Coeli;la seconda, in corso, A passi di biodiversità verso Cancun”, dal 5 marzo al 1° aprile 2016, nell’Ala Brasini lato Fori Imperiali. Entrambe organizzate dal Ministero dell’Ambiente in collaborazione con Federparchi  e con “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia.

Luci ed ombre dei Parchi nazionali

Una  mostra essenzialmente fotografica “Dall’Expo al Vittoriano. L’evoluzione delle aree naturali protette”, con bellissime immagini dei nostri Parchi nazionali dalle Alpi agli Appennini, dalle Coste ai Mari e alle  Isole: l’occasione per una  ricognizione delle nostre bellezze naturali.

I “Parchi made in Italy” sono  “un sistema tutto italiano di gestione del sistema delle aree protette. E’ fondato sul legame millenario tra natura ed attività dell’uomo e ha dimostrato nei fatti di essere una ricetta vincente per superare quel pregiudizio del secolo scorso che legava la parola ‘parchi’ a quella di ‘divieto’. Nei territori dove la natura è protetta e valorizzata non si salva solo la biodiversità  ma si creano anche più occasiono di sviluppo e di crescita, c’è più occupazione, più sviluppo, più agricoltura, più qualità. I parchi hanno insomma dimostrato di poter essere un asset strategico per lo sviluppo del nostro paese”. Queste le dichiarazioni ufficiali al riguardo.

Però non possiamo non notare l’assenza di qualsiasi problematica  territoriale nella esaltazione acritica che considera “capitale verde” anche la moltiplicazione degli organismi che vigilano sulle aree protette.  Ci sono in Italia  23 Parchi nazionali con 147 Riserve naturali statali;  134 Parchi regionali con 365 Riserve e 171 altre aree protette regionali, 27 aree marine protette con 2 parchi sommersi e il santuario dei mammiferi marini. L’area protetta copre il 10,5% del territorio nazionale, percentuale che si raddoppia fino a superare il 20% aggiungendo la Rete natura 2000.

Non è questa estensione il problema, anzi è un valore, bensì potrebbe esserlo la pletora di organismi che se ne occupano, a livello nazionale e regionale, cui vanno aggiunte le Comunità montane, i Bacini imbriferi e quant’altro prodotto dalla fantasia dei burocrati. Un bis della proliferazione delle società partecipate se vi corrispondono strutture farraginose e costose.

 “Senza parchi, si afferma, molti animali simbolo della nostra fauna sarebbero scomparsi  dai boschi, dalle montagne, dalle coste e dai nostri mari. Le aree protette sono la fabbrica naturale dove si fabbricano aria e acqua pulita, sono fondamentali per il  contrasto al dissesto geologico e costituiscono la difesa più valida contro il cambiamento climatico e i suoi effetti”.

Non si parla della presenza dell’uomo sui territori  da salvaguardare, come nelle zone di  montagna dove lo spopolamento minaccia la stessa esistenza dei piccoli borghi, baluardo contro il degrado.  E’ vero che ci sono le istituzioni civiche locali, ma  i Parchi devono vigilare anche  su questa frontiera svolgendo gli interventi di propria competenza e verificando  attivamente quelli  che spettano ad altri denunciando, se del caso, le omissioni  perché ci siano interventi sostitutivi.

Occorre fornire anche questi dati, oltre a quelli sugli 80 mila posti di lavoro, soprattutto di giovani,  nel settore agro-alimentare delle aree protette, sui 162 milioni di presenze turistiche con un fatturato di 12 miliardi di euro nell’ultimo anno, aumentato del 20%  in un quinquennio.

Non si vuole sminuire con queste considerazioni il valore dei Parchi  e delle altre aree protette nella tutela del territorio, ma stimolare ad una azione più penetrante sul piano della valorizzazione in grado di  contrastare o almeno controbilanciare lo spopolamento e il conseguente degrado.

Le diverse situazioni nei parchi di Appennini e Alpi, Coste e Mari

Questo problema riguarda in modo particolare gli Appennini, giustamente definiti “il cuore della natura protetta italiana”,  dato che il suo sistema di parchi rappresenta il 50% di quello nazionale. Al riguardo viene sottolineato: “La creazione dei parchi, oltre all’importante ruolo di conservazione,  è stata uno straordinario strumento di riscatto culturale economico e sociale per aree segnate da secoli di marginalità”. Ma proprio questo isolamento ha fatto sì che vi siano “importanti insediamenti presenti fin dalla preistoria e un vastissimo patrimonio immateriale costituito da feste, tradizioni, gastronomia e artigianato, paesaggi agrari, miti, leggende, musiche,  minoranze etniche linguistiche, piccoli comuni”. Cioè i piccoli borghi minacciati di estinzione, da salvaguardare, ma cosa si fa per contrastare o compensare l’inevitabile spopolamento?

Per le Alpi  si sottolinea  che  molte specie animali sono tornate sia per la reintroduzione sia perché vi hanno trovato un rifugio sicuro, mentre la flora alpina ha mostrato la sua capacità di adattamento a condizioni estreme, e qui è d’obbligo la citazione delle stelle alpine care alla memoria di tutti; inoltre  i parchi alpini svolgono l’importante opera di monitoraggio dei ghiacciai la cui superficie si è ridotta del 30%  nell’ultimo mezzo secolo per il riscaldamento climatico, depauperando un’importante risorsa idrica, energetica, paesaggistica e turistica. Le  Alpi sono “una delle più importanti zone turistiche al mondo” con 120 milioni di presenze l’anno, e una popolazione residente di 14  milioni di persone. Questo le pone a un livello ben diverso rispetto agli Appennini,  nei quali la popolazione residente nei parchi è estremamente esigua e in estinzione.

Nelle Coste e nei Mari il problema è opposto rispetto allo spopolamento delle zone appenniniche , soprattutto nel centro-sud, la minaccia viene dalla presenza umana sempre più invadente con un turismo distruttivo dell’ambiente e la  cementificazione che consuma il suolo e lo espone ai dissesti idrogeologici.  Le coste protette si estendono per  360 mila ettari, pari al 10% della superficie costiera,  vengono sperimentate forme di sviluppo sostenibile:  come la “pesca sostenibile”, estesa anche alla pesca-turismo, che hanno ridotto l’impatto sulle risorse ittiche e salvaguardato le specie ottenendo per di più rese di pesca superiori a quelle delle aree non protette; si sono anche realizzati “veri e propri scrigni di biodiversità, con centinaia di specie vegetali e animali”.

E così siamo alla biodiversità, oggetto specifico della seconda mostra al Vittoriano. Il ministro dell’Ambiente e della Tutela del Teritorio e del Mare, Gian Luca Galletti nel suo intervento alla presentazione della mostra,  l’ha definita “un patrimonio indispensabile per la protezione dell’ambiente, un asset che il nostro paese deve valorizzare”, e ha precisato di aver provveduto affinché  “le scelte di biodiversità vengano  operate su base scientifica e non in base all’emozione del momento”.

I Parchi nazionali  per la tutela della biodiversità

La mostra “A passi di biodiversità verso Cancun”  non è fotografica, anche se ci sono immagini delle specie aliene, è imperniata sui video concentrati sulle specie vegetali e animali a rischio di estinzione, protette nel vari parchi, e riprese nei filmati; culmina con una sezione in cui con straordinari visori stereoscopici si è realizzata una vera immersione nei parchi, per cui puntando il visore sul parco e sulla zona prescelta si può ruotare a  360 gradi  al suo interno.

Oggetto dell’attenzione  la biodiversità della quale forse non né noto a sufficienza l’elevato valore dal punto di vista ecologico e ambientale. Essa è il risultato di processi millenari di evoluzione delle specie vegetali e animali nel loro adattamento alle mutevoli condizioni ambientali, garanzia della sopravvivenza, tanto maggiore quanto più varia è la diversità delle specie.  I sistemi ad elevato tasso di biodiversità sono i più resistenti e quelli dotati di maggiore equilibrio ecologico, quindi più protetti dinanzi al rischio  di estinzione delle specie e degrado ambientale. Sono, quindi, vitali per il benessere e la prosperità delle specie che ne fanno parte, in primo luogo la specie umana:  ne dipende la produzione di cibo e materie prime vegetali, e la regolazione dell’aria e dell’acqua, del clima e della fertilità dei terreni.

Pertanto  la biodiversità è un patrimonio prezioso da conservare, per la sua importanza sul piano ecologico e genetico, economico e scientifico, sociale ed educativo, estetico e culturale,  e questo è uno dei compiti primari dei Parchi nazionali.

La Conferenza di Cancun del prossimo dicembre  è la 13^  che si tiene tra i paesi che hanno sottoscritto la Convenzione sulla Diversità Biologica firmata a Rio de Janeiro nel 1992 durante la Conferenza dell’UNU su Ambiente e Sviluppo per impegnare i sottoscrittori a difendere la diversità del patrimonio genetico di ogni specie, la diversità delle specie e la diversità degli ecosistemi  a livello globale, nazionale e regionale, impegnandosi a contrastare i fattori che la minacciano.

L’Italia presenta le condizioni ideali per una  biodiversità ricca ed equilibrata: è una penisola che si estende dal Nord al Sud nel mare, con una situazione geologica e orografica altrettanto varia, dalle pianure alle colline e alle montagne, e circostanze storiche che hanno valorizzato l’ambiente fino  a renderla un’eccellenza in Europa con la presenza nel nostro paese del 65% degli habitat e del 30% delle specie umane e vegetali riconosciute di interesse comunitario dalla direttiva dell’Unione Europea. E’ presente da noi la metà delle specie vegetali europee e  un terzo delle specie  animali.  

I valori assoluti sono altrettanto eloquenti:  ci sono in Italia oltre 6700 piante vascolari e circa   57400   specie animali, di cui 56200 invertebrati e  1200 i vertebrati tra i quali circa 90 specie di mammiferi,  470 di uccelli, quasi 60 di rettili, 40 di anfibi, 470 di pesci ossei, 70 di pesci cartilaginei.

Una notevole diversità anche nelle strutture del nostro paese preposte alla tutela e conservazione di habitat preziosi e delicati, come abbiamo detto a proposito della prima mostra osservando che sorprende l’elevato numero degli organismi preposti alla protezione, c’è  rischio della deriva burocratica e della dispersione di risorse da impiegare sul territorio nel mantenimento di tali apparati, male endemico del nostro paese che sembra emergere anche da questi dati, vorremmo essere smentiti.

Le criticità da non trascurare, il Parco nazionale del Gran Sasso

Abbiamo sollevato dinanzi al presidente della Federparchi  Giampiero Sammuri il caso del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga  del quale non si avverte una presenza significativa almeno nel versante teramano del Gran Sasso, il lato opposto rispetto a quello aquilano dove ha sede l’Ente Parco. Commentando la manifestazione  “La “Vetrina del Parco” del l’agosto 2015 abbiamo denunciato questa carenza, citando come esempio il fatto che dopo aver posto vistose frecce in legno con i tempi di percorrenza dei principali sentieri non ci si è curati che fossero resi  agibili, quale che ne sia la competenza, se del Parco o del comune di appartenenza. Ci riferiamo ai  sentieri impraticabili che partono da Pietracamela, il “nido delle aquile” alle falde del Gran Sasso, subito dopo le frecce la barriera dei rovi che rende irridente l’indicazione dei tempi, e questa è soltanto la punta dell’iceberg.  Il Parco si vanta del programma di salvaguardia del “Gambero italico”, per il quale ha realizzato tre incubatoi ad Artista, Capestrano e Rocca di Mezzo; nulla ha fatto per la sopravvivenza dell’area faunistica con il camoscio d’Abruzzo nel cuore di Pietracamela, località Grottone; è stata abbandonata dopo le amorevoli cure iniziali dei volenterosi  che avevano portato la coppia iniziale a moltiplicarsi, segno di vitalità e fonte di attrazione turistica.

Nel visitare la mostra, prima di immergerci nella visione a 360° dei parchi  con i visori tridimensionali di cui abbiamo parlato, siamo stati sorpresi nel vedere che la grande installazione multimediale al centro della sala  con immagini suggestive è stata realizzata anche con la collaborazione di tale Parco nazionale, del quale è riprodotta una cascata, insieme agli alberi monumentali del Parco nazionale della Sila, alle faggete del Gargano  e ai coralli dell’Area marina protetta del Plemmirio.  Il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga ha battuto un colpo, dunque, ma non è questo il modo migliore di manifestare la propria presenza, sconosciuta ai pochi abitanti che resistono nei piccoli borghi sparsi nel suo territorio.

L’attenzione alla salvaguardia delle specie protette è sacrosanta, ma non si può dimenticare la specie umana che con lo spopolamento della montagna diventa altrettanto prezioso mantenere nel territorio; o comunque provvedere alla salvaguardia dei piccoli borghi che vengono lasciati nell’abbandono mettendo a rischio un patrimonio secolare fatto delle antiche abitazioni in pietra, di costumi tradizionali, di storia patria.

Sorprende e preoccupa il trionfalismo delle autorità preposte, che nelle presentazioni delle due mostre hanno evitato non solo di evidenziare i punti critici ma anche di dare risposte appropriate quando questi sono stati prospettati, e noi lo abbiamo fatto per il Parco del Gran Sasso, la risposta del presidente della Federparchi è stata: “E’ solo uno dei tanti, per gli altri non vi sono questi problemi, vedrà la notevole attività svolta nella mostra”. Il “tutto va ben, madama la marchesa” non è stato mai un modo adeguato di affrontare la realtà, che soprattutto in questo campo è molto problematica e foriera di rischi e minacce.

Vittorio Cogliati Dezza, presidente di Legambiente,  ha aperto il suo commento sull’attuale  situazione con le parole: “Il sistema nazionale delle aree protette si misura con gli impegni internazionali e con la sfida per uno sviluppo sostenibile”, ed ecco i termini di questa sfida: “Il patrimonio naturale è migliorato. Numerosi i successi nelle politiche di conservazione, nel recupero di specie, ma anche nell’atteggiamento delle popolazioni che vivono nelle aree protette: oggi il valore di vivere in un ambiente di qualità è più diffuso”.  Ne spiega il senso: “Molti di noi sono tornati a voler passare il proprio tempo libero in natura, nelle aree verdi urbane o immersi nella natura dei parchi nazionali. la bellezza e l’importanza della natura sono diventate un valore condiviso”. 

Sembra si stia parlando di una Disneyland nostrana: “Il sistema delle aree protette italiane ha svolto un ruolo essenziale e rappresenta un’esperienza di eccellenza in Europa”.   Proseguiamo nella citazione: “I successi di questi anni: dal  camoscio al lupo, dalla foca monaca alle praterie di poseidonia… dimostrano che si può intervenire a difesa della natura e per incrementare la biodiversità, e che nelle aree protette italiane ci sono le  capacità per farlo”.  I rischi sono  globali, “il consumo di risorse naturali è la prima minaccia alla perdita di specie ed habitat. Si aprono nuove sfide”.

Torneremo prossimamente su queste sfide dando conto dei rischi e delle minacce alla biodiversità, delle strategie e relativi  obiettivi per contrastarli, nonché dell’attività e dei programmi dei Parchi.

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Complesso del Vittoriano, Ala Brasini,  lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere. Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica,  ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito fino a 45 minuti dalla chiusura. Tel. 06.6780664. www.comunicareorganizzando.it.  Il secondo e ultimo articolo uscirà il 19 marzo 2016.  Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le mostre  del programma “Roma verso Expo”,  nel 2015, Colombia 16 ottobre, Slovacchia e Moldova 22 settembre, Mozambico e Sao Tomé7 luglio, Usa, Haiti e Cuba 3 luglio, Congo e Polonia 28 aprile, Tunisia e Dominicana 25 marzo, Grecia e Germania 22 febbraio,  Estonia 7 febbraio, Vietnam 14 gennaio; nel 2014, Albania e Serbia 9 dicembre, Egitto e Slovenia 8 novembre; per la “Vetrina del Parco” l’articolo “Montorio al Vomano, la Vetrina del Chiostro 2015”  29 agosto 2015. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare la Federparchi, per l’opportunità offerta.

Renzo Arbore, un inno alla gioia la mostra al Macro Testaccio

di Romano Maria Levante.

Al Testaccio,  nell’antico mattatoio romano divenuto spazio espositivo del Macro,  precisamente a “La Pelanda”, Centro di produzione culturale,  dal 19 dicembre 2015 al 3 aprile 2016,  la  mostra “Renzo Arbore. Videos, radios, cianfrusaglies. ‘Lasciate ogni tristezza voi ch’entrate'” celebra i 50 anni di attività del noto personaggio presentandone le molteplici espressioni, in particolare attraverso la  radio, la  televisione  e la musica della sua Orchestra Italiana, che compie 25 anni,  e la sua passione di collezionista di “cianfrusaglie”,  ricercati oggetti inutili,  e capi di abbigliamento insoliti. La mostra è promossa da Roma Capitale, Sovrintendenza Capitolina ai beni Culturali,  prodotta da Civita  con la Rai e il contributo di Rai Teche, allestimento a cura di Giovanni Licheri e Alida Cappellini. .A latere della mostra il libro illustrato sulla sua attività artistica, “Renzo Arbore. E se la vita fosse una jam session?  Fatti e misfatti di quello della notte”, di Renzo Arbore e Lorenza Foschini, Editore Rizzoli, 2015, pp. 312, formato 24 x 17.  

La direttrice del Macro, Federica Pirani, nel presentare la mostra insieme al Presidente di Civita Cultura Luigi Abete, ha definito Arbore il Warhol italiano, mentre Abete ha detto che “con Arbore la cultura è comunità”: l’artista si è schermito citando i propri versi della sigla di “Quelli della notte” , “Lo diceva Neruda che di giorno si suda…, rispondeva Picasso io di giorno mi scasso” espressivi di una leggerezza irridente e scanzonata, senza pretese,  ma all’insegna dell’originalità: “Questa mostra fa vedere cos’è l’originalità, ha detto Arbore, ciò che è fuori dal banale, tutto quello che è ‘altro’. Altra radio, altro cinema, altra TV, altra musica”. Il tutto con l’apporto “dei personaggi che ho incontrato e della loro bizzarra fantasia”. 

Lo si vede nei vasti saloni  della “Pelanda”, nulla di pedante e sussiegoso,  c’è un grande spiegamento di audiovisivi, oltre 50 monitor in continuo funzionamento, più diversi grandi schermi con proiezioni ininterrotte,  pareti, installazioni  e vetrine con  le sue singolari predilezioni  nell’abbigliamento personale e negli oggetti curiosi raccolti.

Tutto è scintillante e coinvolgente,  nel segno dell’originalità, della creatività e dell’inventiva  di Renzo Arbore. Perciò ci piace definire la mostra un “inno alla gioia”, è questa la sensazione che si prova nella visita ai saloni della “Pelanda” in una sinfonia esaltante di suoni e luci, colori e visioni che dà appunto gioia. La scritta che accoglie in questo paradiso dello spettacolo, speculare all’inferno dantesco, “lasciate ogni tristezza voi ch’entrate”, è addirittura riduttiva: non c’è solo questo, ci si abbandona alla gioia, e il richiamo all’inno dell’Unione europea  esprime anche il cosmopolitismo entrato nell’attività del  personaggio con i viaggi per il mondo della sua orchestra.  

Si è immersi in una dimensione festosa, dalla figura affabulante del padrone di casa che  invita al sorriso con il suo abbigliamento colorato, il suo fare colorito e le sue parole accattivanti, all’allestimento volto a colpire l’immaginazione nell’immediato con rimandi nostalgici continui anch’essi volti al sorriso. Le stesse immagini di personaggi dello spettacolo scomparsi non portano alla malinconia della perdita ma alla gioia di averli ritrovati nel pieno della loro attività artistica e della vitalità umana. Vi abbiamo visto un vero paradiso dello spettacolo  perché è naturale la resurrezione senza che resti traccia della triste vicenda umana, ogni tristezza viene lasciata fuori dall’ingresso invitante della mostra.  I personaggi sono resi eterni dalla loro presenza viva, come nel mito di Eos e Titone,  però Titone ebbe da Giove solo la vita eterna per l’amore di Eos,  la dea dell’Aurora, non l’eterna giovinezza di Troisi e Bramieri, Murolo e  Iannacci e degli altri che qui rivivono.

Un paese dei balocchi per adulti, il Lucignolo Arbore accompagna con la sua presenza nei grandi schermi di benvenuto a grandezza naturale e nei monitor che inondano delle sue immagini la scena.

Si può parlare di scena nella quale si recita a soggetto, questo è l’effetto che si prova assistendo alla trasmissione ininterrotta su tanti schermi di frammenti di programmi come se si improvvisassero gag e sketch esilaranti, frammenti che ripercorrono la sua vita artistica e insieme ci fanno ripercorrere la nostra vita di spettatori. E’ l’itinerario della mostra, e sarà questo il nostro racconto nel quale oltre alle immagini che scorrono davanti ai nostri occhi di visitatori daremo conto dei momenti topici della carriera dell’artista, nella festosa condivisione di sensazioni e di emozioni per la magia della mostra.

Oltre ai tanti video le gigantografie, soprattutto dei suoi viaggi, mentre  all’ingresso si passa tra due ali di copertine di periodici a lui dedicate,  almeno una sessantina, in due tabelloni; e dinanzi all’esposizione delle copertine dei molti dischi. In una parete i diplomi, le cittadinanze onorarie e gli incontri più prestigiosi, si tratta della consacrazione del suo successo.

La prima televisione di Arbore

Si provano emozioni e si è portati anche alla meditazione (“meditate, gente, meditate…”) perché la televisione di Arbore anticipa  l’evoluzione del  costume nazionale con l’affrancamento da conformismi paralizzanti per il gioioso manifestarsi di impulsi creativi e liberatori. innovazione e trasgressione nel buon gusto e nella leggerezza, una sorta di marchio di fabbrica.

Comincia nel 1976 con “L’altra domenica”,  rivoluziona gli schemi del pomeriggio festivo, prima nazional-popolare,  con una sperimentazione d’avanguardia nei toni, nei contenuti e nei personaggi, il clima creativo li metteva in condizione di esprimersi in assoluta libertà. Si contrapponeva alla  “Domenica In” di Pippo Baudo, in un duello alla Coppi e Bartali.

“L’altra domenica” è un caleidoscopio di macchiette e di sketch esilaranti con il lancio di talenti che si affermano subito, basta ricordare Benigni e Milly Carlucci, Nichetti e Mirabella, con Isabella Rossellini in collegamento da New York, il cugino americano Andy Luotto e le ineffabili  Sorelle Bandiera, altri esploderanno in seguito.  Così ha formato una squadra, che lo ha accompagnato nelle creazioni successive, e ha portato alla ribalta personaggi che sarebbero cresciuti a dismisura.

Lancia maliziosamente con ardite inquadrature che ne valorizzano la procacità Lory Del Santo all’inizio degli anni ’80  in “Tagli, ritagli e frattaglie” insieme a Luciano De Crescenzio, partner arguto dalla filosofia accattivante,  seguito da “Telepatria Internazional”.  Nel1984 celebra il 60° anniversario della radio con lo spettacolo televisivo, “Cari amici, vicini e lontani”, ispirato al saluto del “mitico” Nunzio Filogamo, primo conduttore del Festival di San Remo che peraltro poi aggiungerà “ovunque voi siate”  per sottolineare  la penetrazione delle trasmissioni della Rai.  E’ la televisione che celebra la radio, un  binomio che è stata una parte importante della sua vita artistica. Inutile dire che le cinque trasmissioni furono una sfilata di tutti i volti e le voci divenute familiari per gli italiani, come in una festa di compleanno alla quale si invitano parenti e amici in un abbraccio affettuoso.  Nulla di trasgressivo nè stravagante, alternava la giacca del presentatore alla camicia del musicista nel complesso che completava magnificamente l’allestimento festaiolo della ricorrenza celebrata.

Irrompe “Quelli della notte”

La grande innovazione irrompe nel 1985 con “Quelli della notte” , un successo straordinario in seconda serata che ha rivoluzionato la scala dei valori degli spettacoli serali dove prima contava soltanto il “prime time”. Ma questo è quasi un accessorio rispetto all’altra novità rivoluzionaria per la televisione: l’improvvisazione che era stata la sua carta vincente alla radio portata sulla  scena visiva. Un’improvvisazione, per di più, unita allo stesso carattere surreale e stravagante già da lui sperimentato con “Alto gradimento”, ma che ora deve misurarsi con le immagini. Di qui il salotto notturno  con improbabili discussioni, recite a soggetto su un  tema spesso banale o strampalato, la commedia dell’arte in video in contenuti bislacchi e toni irridenti: farlo a ruota libera e nel più esilarante non sense è un salto mortale senza rete.

Una satira non plateale ma percepibile, al primo diffondersi dei talk show con improbabili partecipanti sui temi più svariati nei quali non avevano vera competenze ma presenziavano per la loro notorietà, fenomeno  destinato a moltiplicarsi che fu colto da Arbore nelle manifestazioni iniziali. Il suo salotto era improvvisato e così sconclusionato da risultare  ancora più esilarante delle gag costruite ad arte, l’ascolto arrivò a superare il 50% degli spettatori notturni. Si affermarono personaggi ineffabili e provocatori, come fra Antonino da Scasazza, il finto frate di Nino Frassica che storpiava le parole e prendeva fischi per fiaschi;  il comunista romagnolo di Maurizio Ferrini, tra il tormentone dei pedalò e gli improbabili segreti della Russia sovietica; l’intellettuale  del “brodo primordiale” di Riccardo Pazzaglia i cui maldestri tentativi di elevare il livello del dibattito venivano resi vani dal becero andamento della discussione; che veniva riportata all’ovvietà lapalissiana dagli interventi di Massimo Catalano, del tipo “meglio essere ricchi e in salute che poveri e malati” spacciati come scoperte brillanti; non mancavano le citazioni colte divenute tormentone, “l’insostenibile leggerezza dell’essere” di Kundera rientrava nelle ossessioni dell’edonista reaganiano Roberto d’Agostino, e neppure il cosmopolitismo con Andy Luotto che da arabo fu così dissacrante da suscitare proteste di ambasciate e minacce di fanatici al punto da dover mutare caricatura, non più verso gli arabi ma verso i ricchi italo-americani di Brooklin: fino a Simona Marchini, la segretaria svampita del “Signor Arbore” e la giovanissima Marisa Laurito.

Non solo gag ma musiche con altrettanti personaggi, e due sigle altrettanto irridenti e stravaganti, come  quella di apertura  che alludeva maliziosamente “s’ammoscia, s’ammoscia, s’ammoscia di giorno, ma la notte no”, e  quella di chiusura che cantava “ma il materasso è il massimo che c’è”, perché “il materasso è la felicità”.

La trasmissione non fu soltanto un evento televisivo per il successo folgorante quanto inatteso, fece superare il clima di angoscia diffuso dagli “anni di piombo”. “‘Quelli della notte’ – ricorda Arbore – segnò il cambiamento. Si tornava a ridere, a fare tardi, a bere birra e a dire stupidaggini”. la sua citazione della birra ci fa ripensare a lui come testimonial  con il motto di “chi beve birra campa cent’anni”. E dire che l’idea gli venne dopo una riunione di condominio a Foggia, quelle che tutti conoscono, sconclusionate e inconcludenti.

Avanti con “Indietro tutta”

Quando nel dicembre 1987  si trattò di tentare di nuovo il successo, con “Indietro tutta” pur con l’handicap del raffronto con un risultato che sembrava ineguagliabile, fu estratto dal cilindro un altro coniglio come ha rivelato  nella presentazione della mostra Arbore stesso. Fu anticipato l’inizio  alle 22,30 rispetto alle 23,10 di “Quelli della notte”, con relativo accorciamento del TG 2, sacrificio che il direttore Alberto La Volpe accettò perché c’era un altro inedito, frutto anch’esso della fantasiosa genialità di Arbore:  la sigla di chiusura  “Vengo dopo il ti gi”, un inno al telegiornale che non era stato mai neppure concepito, tanto appariva surreale. Lui  si rivolge a lei mentre va e letto dopo la trasmissione dicendole che l’avrebbe raggiunta “dopo il ti gi”, con parole assimilabili a  maliziosi doppi sensi, da “vengo” a “tosto dopo il ti gi”. Anche se meno evidenti della sigla di successo della precedente trasmissione “Ma la notte no” e del  “clarinetto”.

Di nuovo la seconda serata invece del “prime time”, a cadenza quotidiana, con relative canzoni ammiccanti, “Indietro tutto” invece di “Avanti tutta” con l’esaltazione del TG,  anche qui ammiccando, ma questa volta invece dell’happening permanente, una finta struttura di gioco a premi con vincite milionarie in una contrapposizione tra Nord e Sud con tifoserie scatenate come nelle curve degli stadi, il pubblico in studio che diventa protagonista, Miss Nord e Miss Sud, le due “guardiane”, una delle quali diventerà attrice famosa, Maria Grazia Cucinotta,  costumi esageratamente opulenti. Non era una satira organizzata e coerente, presto il filo conduttore veniva dimenticato nell’improvvisazione che riproduceva l’happening  incontrollabile, e per questo  irresistibile e coinvolgente.

Anche qui personaggi scolpiti nella storia della televisione, Arbore in divisa bianca di ammiraglio con megafono sulla tolda della nave immaginaria che naviga all’indietro, con Nino Frassica, trasformato dal frate sconclusionato di “Quelli della notte”  in  “bravo presentatore” che entrava in scena in pompa magna e lustrini con mosse maldestre tra carri addobbati a mo’ di  portantine, e dialogava in modo surreale con l'”ammiraglio”;  e i tormentoni: “Volante uno, volante due”,  “Chiamo io, chiama lei”, con Alfredo Cerruti il coautore. Poi l’ingresso improvviso del “Pensatore”,  del quale si dovevano indovinare i pensieri sotto il casco di capelli riccioluti, il “non sense”  portato al parossismo.

Finché non irrompeva con la sua travolgente carica di festosa sensualità il balletto musicale del “Cacao meravigliao”, un prodotto fittizio che divenne  tanto popolare da far gola a un produttore il cui intento di metterlo in commercio suscitò una mobilitazione contro la minaccia di registrarne il marchio  che avrebbe scippato e calpestato la fantasia e la creatività: il prodotto di Arbore era stato adottato da  tutti.

Il passaggio dall’evocazione fantastica e satirica alla realtà è congeniale alle creazioni di Arbore, per il suo carattere anticipatore dei movimenti profondi nel costume della società. Lo vediamo con le “ragazze coccodè”, ebbene le “veline”, le “letterine” e quant’altro connesso al corpo femminile come richiamo,  hanno superato lo stesso spirito satirico messo in campo da Arbore in “Quelli della notte” con le 13 fanciulle discinte . Ma nel mettere in berlina il degrado, purtroppo moltiplicatosi in seguito, nel modo di concepire la presenza femminile in televisione, ha portato per primo le donne alla ribalta come protagoniste: le sue “le chiamavano ‘Donne parlanti’ perché erano le prime a parlare in video”, ne vediamo le sagome disegnate a grandezza naturale con la testa parlante per mezzo di un video.

Sono tessere di un mosaico la cui successione incessante e incalzante nella mostra non lascia spazio a tristi  abbandoni, del resto si è lasciata ogni tristezza all’ingresso, né rattristano le  rimembranze del tempo che fu, le situazioni surreali  e parossistiche trascinano nella loro esilarante vacuità.

Così  per “la vita è tutto un quiz”, perché “è col  quiz che ti danno i milioni”,  da cui segue l’esclamazione grata “evviva le televisioni!”. Oggi “i milioni” non si vincono con i quiz che comunque richiedevano  almeno un certo impegno, bastano le scatole nei “Fatti vostri” e gli equivalenti nelle altre occasioni lasciate alla pura fortuna, “e noi giochiamo e rigiochiamo”, perché “aspetta e spera, che poi s’avvera”. Con l’associazione, nella televisione odierna,  dell’azzardo portato al diapason  a una perfida  dose di sadismo nel voler  evidenziare  l’errore del concorrente nella scelta pur se casuale fino a metterne a rischio l’equilibrio pichico. “Siamo un popolo di concorrenti”, cantava Arbore, si è avverato in termini ben più deteriori.

Un “come eravamo”  festoso e coinvolgente

Ma ci sono anche immagini di trasmissioni, come la striscia musicale di “D.O.C.” del 1987,  con il fido Gegè Telesforo tra i tanti,  jazz, blues e rock  molto curati, a “Denominazione di Origine Controllata”. I monitor presentano  sequenze di “Il Caso Sanremo”,  del 1990, dove è un giudice semiserio in toga nel processo al  Festival con  avvocati stravaganti come Michele Mirabella e Lino Banfi e gag esilaranti; e brani  dell’omaggio  televisivo  “Caro Totò… ti voglio presentare”, del 1992, con la grande statua portata in scena come presenza viva del  re della comicità. Non manca nulla,  anche  l’esperienza di direttore artistico e testimonial di Rai International, la Tv per i connazionali all’estero,  nel 1996  22 ore di conduzione ininterrotta di “La Giostra”; fu un’esperienza  breve, non consona alle sue improvvisazioni. Dopo cinque anni, nel  2001 lo ritroviamo  sul satellite di Rai-Sat con l’Altra domenica e tre nuovi suoi Speciali sul Giappone. Altre  presenze nel 2002 con “Do Re Mi Fa Sol La Si” e singole apparizioni.

Non mancano le immagini di  “Speciale per Me”, il suo ritorno nel gennaio 2005 con un  motto in controtendenza rispetto all’Auditel televisivo, “Meno siamo meglio stiamo”.  Una collocazione ancora più notturna, ambientazione da night club dove alla musica si alternano le gag imperdibili di presenze stabili  e di ospiti coinvolti anch’essi nel clima goliardico e dissacrante di notti gioiose tutte  da vivere; è rimasta impressa  Mariangela Melato con “sola me ne vo per la città”.

Le immagini dei video, familiari per tutti e scolpite nella memoria collettiva,  riportano a quei tempi e alle continue scoperte che si facevano  nelle sue trasmissioni,  un vero  laboratorio di creatività intelligente e stimolante. E’ un  “come eravamo”  coinvolgente in cui la componente nostalgica che porterebbe sentimenti di malinconia e rimpianto viene sopraffatta dalla componente ludica, come se si fosse saliti sulla macchina del tempo e si rivivessero quelle emozioni direttamente e non in un ricordo lontano, in una sorta di elisir di giovinezza.

“Quelli della notte” e “Indietro tutta” sono prevalenti, in un caleidoscopio di immagini esilaranti con  un continuo riconoscere e riconoscersi in quei momenti  che tornano con la freschezza di allora.

 “Ho cercato di mettere sale  e pepe nella televisione razzolando nell’inconsueto – sono le sue parole – Tutto quello che ‘non andava’, che non si poteva fare, a me al contrario interessava moltissimo. Diciamo che ho sempre inseguito il successo di ‘risonanza’ rispetto a quello dell’Auditel”. Che comunque è giunto anch’esso con i grandi numero degli ascolti anche nella tarda serata.

Non ci si alzerebbe mai dalla fila di sedie predisposte per far gustare comodamente al visitatore l’esaltante cavalcata negli spettacoli televisivi di una vita attraverso i 30 monitor in funzione, sedie eleganti e particolari, di un modernariato ricercato, anch’esse in carattere con l’insieme.

Ma c’è un altro importante capitolo della sua creatività che merita di essere esplorato, quello musicale, Ci attende in una sala apposita,  prima degli altri capitoli ancora più personali, sul suo abbigliamento eccentrico e fantasioso, fino al primo amore che non scorda mai, la radio, che chiude la colorita rassegna della sua vita artistica rivissuta attraverso immagini  e suoni,  oggetti e presenze virtuali.  Ne parleremo prossimamente.

Info

Macro Testaccio, La Pelanda, Centro di produzione culturale, Piazza Orazio Giustiniani. 4.  Dal martedì al venerdì, ore 14.00-20.00, sabato e domenica ore  10.00-20.00, lunedì chiuso; la biglietteria  chiude un’ora prima. Ingresso,  intero euro 12,00, ridotto  euro  10,00 per giovani tra 18 e 25 anni e over 65 anni, nonché  gruppi oltre 15 persone; ridotto speciale euro 4,00  per i minori di 18 anni; gratuito per i  minori di 6 anni, un accompagnatore per gruppo di adulti, diversamente abili e un accompagnatore, due insegnanti per scolaresca e per le altre categorie legittimate. Tel 06.06.08 e 199.15.11.21 macro@comune.roma.it. Il secondo e ultimo articolo, che tratterà anche della sua musica,  uscirà in questo sito il 16 marzo p.v. con altre 15 immagini, sugli oggetti da lui collezionati e sul suo speciale abbigliamento. Cfr. in questo sito i nostri articoli, per la mostra su Warhol 15 e 22 settembre 2014, sulla Rai  13 marzo 2014; in “cultura.inabruzzo.it” su Eos e Titone due articoli il 23 novembre 2014  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito). 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Macro Testaccio, La Pelanda, alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione e Civita, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta, in particolare Renzo Arbore che abbiamo ripreso nella conferenza stampa.  Sono riportate immagini della sua televisione, della sua musica, e di due grandi apparecchi radio-dischi e juke box. In apertura, Renzo Arbore tra Federica Pirani, direttrice del Macro, e Luigi Abete, presidente di Civita Cultura; seguono, uno scorcio da destra di parte dei 30 monitor con i video e il grande schermo che trasmettono frammenti delle sue trasmissioni televisive,  e alcune sagome con le sue “donne parlanti”; poi, la “piramide”  dei suoi idoli musicali con al culmine Verdi, e una colonna con miniature di strumenti e suonatori jazz; quindi, il suo idolo Armstrong e un primo piano della sua statua a grandezza naturale; inoltre, una serie di immagini di viaggio in Oriente con la sua orchestra, e i 15 elementi dell’Orchestra Italiana con lui al centro in fila nella Piazza Rossa di Mosca; ancora, una serie di immagini di viaggio in USA con la sua orchestra, e l’albero dei monitor con i video di frammenti dei concerti dell’Orchestra italiana in tutto il mondo; infine, uno speciale apparecchio radio con giradischi e un juke box originale; in chiusura, uno scorcio da sinistra di parte dei 30 monitor con i video e il grande schermo che trasmettono frammenti delle sue trasmissioni televisive e, al termine, uno dei pannelli che espongono le copertine di riviste a lui dedicate