Tinto Brass, uno sguardo libero, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Fori Imperiali, dal 24 febnbraio al 23 marzo 2016 la la mostra “Tinto Brass, uno sguardo libero”, espone manifesti, foto di scena e altri materiali  che consentonop di ripercorrere la carriera artistica del regista che ha diretto 26 film lungo 46 anni in due fasi; nel ventennio 1963-83 13 film di denuncia degli abusi del potere e di ribellione, nei 26 anni successivi, dal 1983 al 2009  13 film disinibiti sempre all’insegna della liberazione, che lo hanno fatto definiore “maestro dell’erotismo”. La mostra, con il patrocinio di Roma Capitale,  è realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, in collaborazione con l’Istituto Luce-Cinecittà, Rai Teche e Acea. E’ a cura di Caterina Varzi che ha curato anche il Catalogo  di Gangemi Editore con  Andrea De Stefani.

E’ una mostra  che fa scoprire  il valore in parte nascosto di un regista divenuto  il “maestro dell’erotismo”, come è generalmente noto, dopo un  percorso artistico ad alto livello  coerente con i suoi principi e le sue convinzioni profonde e coraggiose legate al concetto della libertà espressiva e di vita.

La svolta dell’erotismo è stata lo sfogo in senso libertario contro una società conformista e paludata che aveva chiuso gli spazi di ribellione nei quali  aveva creduto.  Ecco le sue parole: “La vita è semplice ma complicata dalla paura che le persone hanno della libertà”. Perché la scelta del sesso? “La libertà di un uomo si evince principalmente dal rapporto che ha con la propria sessualità”. 

Nel suo percorso artistico hanno avuto notevole influsso elementi peculiari che vanno individuati nella sua vita, come lui stesso rivela: “La mia vita è stata l’essenza del mio cinema. Tutti i miei film e tutte le mie ossessioni: questo sono io”.   Per questo la mostra procede cronologicamente dall’infanzia e adolescenza alla maturità e tematicamente dal cinema sperimentale fino al cinema erotico;  ne dà documentazione l’accurata ricostruzione che ne fa nel Catalogo Caterina Varzi, curatrice della mostra e non solo.  

Ripercorriamo questo itinerario  attraverso la ricostruzione della Varzi e seguendo le immagini della mostra  corredate da documenti, quali sceneggiature di film,  lettere a scrittori – molti suoi film sono tratti da romanzi – articoli della stampa che fanno rivivere il clima nel quale si è svolta la sua attività; vi sono anche i suoi strumenti di cineasta, come la moviola nella quale si impegnava personalmente per l’importanza decisiva che dava al montaggio, e degli scorci suggestivi dei suoi ambienti di lavoro più raccolti.  Cominciamo il nostro viaggio dalla sua città e dalla sua famiglia che hanno inciso molto su di lui, per poi passare in rassegna i film, di cui vediamo allineati su una parete i manifesti.

La sua città e la sua famiglia

E’ nato a Milano, ma la città di adozione è Venezia, dove la sua famiglia si trasferì  subito dopo la sua nascita, alla quale lui stesso dice di “essere incatenato alla città come da un vincolo matrimoniale”. Questo si rifletterà nella sua cinematografia, che travestirà “di volta in volta sotto le maschere dell’ironia, dello sberleffo o della provocazione”, prosegue, aggiungendo: “Ma sempre nel segno dell’eleganza di Venezia, della sua raffinata bellezza e del suo ilare e disincantato dialetto”.

L’infanzia vissuta nell’incomprensione dei genitori – nelle foto esposte lo vediamo bambino con il padre in barca e con la madre in campagna – questo lo  ha avvicinato ai nonni, la nonna Lina gli ha insegnato quattro lingue, il nonne Italico, pittore, lo ha avvicinato all’arte; vedendolo sempre disegnare  un giorno disse, “abbiamo un piccolo Tintoretto in casa”,  da allora invece di usare il suo nome Giovanni  lo chiamarono Tinto, il nonno aveva raccolto una collezione di Tintoretto, oltre che di Tiziano, nella galleria dove dipingeva, l ‘Abbazia della Misericordia. Nell’adolescenza peggiorarono i rapporti con il padre, la cui durezza  da vice prefetto e severità nell’esigere il rispetto delle regole configgeva con il suo spirito libertario, al punto che lo cacciò di casa. “Avevo diciassette anni – ricorda –  Provavo  una forte rabbia ma non per questo ero disperato”. E direttamente sul genitore: “Quando ti rendi conto di pietre fare le stesse cose di tuo padre con le donne, metti in discussione la sua autorità e il tuo rapporto con lui diventa paritario”,  il sesso comincia ad essere un simbolo di libertà.

Negli anni liceali si interesse alla fotografia e si appassiona al cinema sogna di realizzare i film che vede, frequenta il Circolo del cinema Pasinetti mentre entra in conflitto con le autorità scolastiche; conosce Carla Cipriani, che sposa nel 1957  e alla quale resta legato per tutta la vita, in una vera simbiosi espressa anche nel nome come il suo con cui lei sarà sempre chiamata:  “Tinta mi ha dato cinquant’anni di felicità. Era il parafulmine della mia esistenza, il cancellino dei miei dubbi, il pozzo delle mie certezze, l’allucinogeno  dei miei sogni, il fiammifero della mia lussuria”. Torna il sesso unita a tanta dolcezza e amore. Hanno avuto due figli, Bonifacio e Beatrice, che sorridono con lui in una bella immagine da adulti.

La formazione e gli inizi

Si laurea  in Giurisprudenza nell’anno del matrimonio, ma il richiamo del cinema lo porta prima a lavorare all’ufficio stampa della Mostra d’arte cinematografica di Venezia, poi alla Cinèmathèque Francais a Parigi come archivista e proiezionista. Lì conosce dei giovani francesi amanti del cinema, tra cui Francois Truffault, Jean-Luc Godart, Claude Chabrol, ne segue le visioni degli stessi film, da loro nascerà la Nouvelle Vague, e realizza “Spatiodynamisme”, sua prima ripresa filmica, poi assiste Joris Ivens al montaggio di un documentario su Chagall e Roberto Rossellini nel montaggio del documentario “L’India vista da Rossellini”, mentre lavora ancora nella cineteca: “Quello fu un inverno memorabile. L’India era per Rossellini la terra in cui il sacro coincideva con il profano. Nella fase di montaggio nacquero episodi di forte intensità  poetica”. 

Fu per lui molto istruttivo: “Da quel maestro di vita e di cinema ho tratto l’insegnamento che la macchina non può essere un ostacolo, può essere posizionata in qualunque punto della scena”.  Tanto che, lo dichiara lui stesso, shs girato tutti i suoi film utilizzando tre macchine collocate in posizioni diverse in modo da avere una molteplicità di immagini tra le quali scegliere componendo le tessere del mosaico nel montaggio  che esegue lui stesso alla moviola. “Il montaggio imprime alla pellicola il mio stile personalissimo, osserva, ho bisogno di un contatto manuale e sensuale con la pellicola, perciò ancora oggi utilizzo la moviola”. Non firmo la regia se non posso montare il film, come accaduto in passato con ‘Caligola’”. Vediamo nella mostra una delle sue moviole esposte e ricostruzioni suggestive di angoli di lavoro con la sua figura e le pizze delle riprese da sbobinare.

Nel 1959  il primo lavoro da assistente alla regia del film “La prima notte” di Alberto Cavalcanti, seguito dal più importante ruolo di assistenza a Roberto Rossellini nel “Generale Della Rovere”,  in mostra c’è una fotografia che lo vede giovane sul seti vicino al maestro, è il 1059, ha 26 anni; sempre nel 1959  partecipa a “L’Italia non è un paese povero”, un film per la televisione commissionato ad Ivens da Enrico Mattei per sostenere l’importanza della metanizzazione per lo sviluppo del paese; furono imposti tagli  per correggere l’immagine data di Ferrandina in Lucania, lui sottrae la copia originale, salvanfo così l’edizione integrale. E’ esposta una sua foto in primo piano sul set del film con l’occhio incollato alla macchina da presa e Ivens dietro di lui.

Il cinema sperimentale e di denuncia

Comincia la carrellata della sua vasta produzione cinematografica, vediamo i manifesti di 27 film esposti in una successione spettacolare, dopo  la sequenza di molte fotografie di scena. Nel parlare dei film citeremo manifesti e fotografie con i relativi autori, per l’importanza che il regista dà all’immagine e alla forma ritenuta prevalente sullo stesso contenuto.

La sua opera prima presentata al Festival di Venezia del 1963 è “Chi lavora è perduto”,  tra agli altri Tino Buazzelli, una commedia amara sull’alienazione del lavoro, gli emarginati e gli sconfitti, tema ricorrente, ma  c’è anche il riflesso della contestazione al rigore paterno, la censura la ritiene contraria alla famiglia,  alla morale e alla patria e impone tagli e divieti ai minori di 18 anni.  Nel manifesto l’abbraccio dei protagonisti è contornato da scene di disagio e ribellione. E’ esposta anche una fotografia di scena di Franco Giacometti con il regista sul set in una spiaggia affollata.    

Segue nel 1964 “Ca ira, il fiume della rivolta”  sulle rivoluzioni del ‘900, si basa sui fatti e non cerca di forzarli per ragioni ideologiche, anzi nella realizzazione fa una scoperta: “Mi accorgevo come la Storia smentisse il rigore delle ideologie, anche quelle dell’ideologia meno compromessa e sconfessata, l’ideologia marxista”, seguirà la lenta consapevolezza che non è questa la via per la liberazione per cui la ricercherà nell’erotismo, l’approdo libertario cui perverrà il suo cinema.

Di qui una serie di film sempre nel 1964,  “L’uccellino e l’automobile” e “Il Disco volante” basato su “Un marziano a Roma” di Flaiano, entrambi prodotti da Dino De Laurentiis, con Alberto Sordi e Silvana Mangano, nel secondo anche Eleonora Rossi Drago e Monica Vitti; nonché i cortometraggi “Tempo libero” e “Tempo lavorativo”, ancora sul lavoro, precisamente sull’integrazione sociale. Una foto di scena lo ritrae con il megavfono in mano e Sordi al suo fianco in divisa sul sett di “Disco volante”.

Invece con “Yankee” , nel 1966  realizza un western  con Philippe Leroy e Adolfo Celi, in un linguaggio innovativo da Pop Art. Nel manifesto la figura statuaria del protagonista si staglia su uno scenario metafisico, una grande pianura abbacinata dal sole e  in fondo un edificio con un’arcata; è esposta anche una foto di scena di Enrico Appetito con i protagonisti.  .

Il suo stile diverso rispetto a quello usuale e i contenuti di denuncia e ribellione lo rendono sorvegliato speciale della censura per motivi differenti ma non meno forti del cinema erotico di molti anni dopo.

Dal 1967  al 1972 realizza a Londra quattro film. “Col cuore in gola”, 1967,  con Jean Louis Trintignant ed Ewa Aulin, utilizza il linguaggio dei fumetti e si serve delle tavole disegnate da Guido Crepax, il creatore della celebre Valentina, sono alcune diecine, esposte lungo una parete della mostra: le immagini soco scomposte in vignette più piccole per analizzarne i particolari. Sono disegni icastici, con riquadri e indicazioni scenografiche essenziali in una galleria artistica d’eccezione, mentre nel manifesto spiccano i due volti dei protagonisti, e il tema del film è completato dalle due figure che corrono “con il cuore in gola”. Due le foto di scena esposte: il regista mentre prende con le mano destra il volto della Aulin per orientarne  l’espressione e mentre fotografa sul set il protagonista Trintignant .

In Nerosubianco”,  1968, con Anita Sanders, Terry Carter e Nello Segurini, appare l’erotismo anche nel titolo, come mezzo di liberazione dopo che le fantasie evocate da un incontro con un uomo di colore seducente sono state represse all’inizio nella giovane donna sposata da ansie, paure e sensi di colpa. Nel bel manifesto c’è l’abbraccio della donna bianchissima con un’ombra scura, mentre in una foto di scena di Luigi Crescenzi c’è il regista che verifica la posa della Sanders.  

Dello stesso anno “L’Urlo”, con Tina Aumont, Gigi Proietti e Tino Scotti, un’utopia rivoluzionaria per una ripresa vitale bloccata per quattro anni dalla censura che lo riteneva contrario alla morale e al buon costume per i suoi nudi, quando uscì nel 1972 non c’era più il clima della contestazione sessantottina. Nel manifesto la donna che urla stretta da due mani misteriose ha la forza disperata del quadro di Munch.  Le foto di scena di Enzo Falessi mostrano  Proietti  scherzoso mentre la Aumont è affranta, in un’altra foto è ripresa tra i veli dell’abito bianco con il regista che la istruisce. C’è anche un’immagine, sempre sul set di “L’Urlo”, con la moglie Tinta che lo assisteva nei suoi film svolgendo, tra li altri, ruoli di segretaria di produzione e di sceneggiatrice.

Nel quarto film londinese, “Dropout”,  del 1971, interprete è ancora Gigi Proietti con Franco Nero e Vanessa Redgrave, signora ricca trascinata tra gli emarginati da un emigrato italiano fuggito dal manicomio che le fa apprezzare i piaceri dell’amore e del sesso. Il  manifesto ha un manichino quasi dechirichiano,  che figura anche in una  foto di scena di Angelo Samperi, in una landa desolata e crivellata dove si staglia la figura di lei in piedi in abito bianco e cappello nero mentre lui è chino  a terra  Un’altra foto di scena vede il primo piano dei due protagonisti in un interno altrettanto desolato. 

I due sono di nuovo insieme in “La Vacanza”, girato in Veneto nel 1972, questa volta è lei a uscire dal manicomio  e Franco Nero ad aiutarla nel periodo di licenza. Gli attori erano associati a lui regista nella cooperativa di produzione, la distribuzione fu poco efficace e riuscì solo a recuperare le spese, ma “La Vacanza” vinse il Premio della giuria come miglior film italiano a Venezia. Il manifesto è diviso in due, sopra i due in possa scherzosa, sotto in un abbraccio ardente.  Quattro le foto di scena di Angelo Saperi esposte, tutte in esterni, in tre i  protagonisti sono uniti sempre più strettamente, nella quarta invece, in un ambiente allucinato spicca una grande scritta,  altrettanto angosciosa,  “Vigilando redimere” , evidentemente della casa di cura psichiatrica. 

Si  dedica al teatro avendo perduto la fiducia nel cinema ostacolato dalla censura, pensa alle vaste platee degli stadi o di grandi tendoni per farne uno spettacolo popolare non per intellettuali, nel 1974 è il regista della commedia satirica di Roberto Lerici, “Pranzo di famiglia”.

Nel 1975 torna al cinema dopo quattro anni con un’opera dirompente, “Salon Kitty”,   interpreti Helmut Berger, Teresa Ann  Savoy e Ingrid Thulin, sulle aberrazioni del potere nella Germania nazista espresse rese comprensibili senza pudori né remore attraverso gli abusi e le perversioni sessuali. “Ma l’erotismo che traspare dalla pellicola, osserva Caterina Varzi, non è solo follia, sadismo, depravazione. E’ anche vita. Come Eros è tutte le volte che esplode con la sua forza di sentimento e amore, capace allora di illuminare le coscienze, suscitando in esse coraggio e certezze”. E’ il messaggio che diventerà sempre più esplicito. Nel manifesto la folla de personaggi del film, mentre le foto di scena di Samperi presentano il regista in camicia rigata che dà le istruzioni a  Berger e alla Tulin, e  Teresa Ann Savoy mentre brinda in giarrettiere a seno nudo.

La censura non manca di infierire sul film, trenta tagli e divieto ai minori di 18 anni, Brass risponde l’anno dopo con “Caligola”,  che uscì solo nel 1979 per dissensi con la produzione che gli aveva impedito di fare lui il montaggio, tanto che era indicato soltanto “Riprese dirette da Tinto Brass”; il film fu sequestrato e lui  processato per oscenità ma assolto perché non figurava come regista essendo escluso dal montaggio.  E’ una nuova metafora storica più lontana nel tempo, in una Roma imperiale barocca e volgare. Così la Varzi: “Brass utilizza in modo corale le comparse e la straordinaria interpretazione di grandi attori, per mantenere sempre un tono di alta levatura artistica, alternando fasi di drammaticità e poesia”. Il cast: Peter O’ Tool e Malcom McDowell, Teresa Ann Savoy e John Gielguld, gli italiani Adriana Asti e Leopoldo Trieste.  Con questo intento:  “Il sesso violento, il lato grottesco e delirante, la costituzione di scenografie sfarzose facevano parte di un discorso sulla mostruosità del potere, attraverso la storia di un personaggio emblematico. E’ l’eccesso a muovere Caligola, il regista ne visualizza le stravaganze, le follie, Di qui immagini di grande suggestione”. Il manifesto sintetizza con la donna discinta sul triclinio in primo piano e la testa dell’imperatore che gronda sangue sopra una quadriglia di cavalli in galoppo sfrenato. Mentre le foto esposte  mostrano scene corali e ravvicinate, oltrre a una significativa immagine con il grande regista Michelangelo Antonioni in visita al set.

Siamo  alle ultime due opere di questa fase di  sperimentazione e denuncia,  la regia teatrale di “L’Uomo di Sabbia”, scritto e interpretato da Riccardo Reim,  sulle miserie della famiglia borghese in cui sono vittime i figli più deboli e sensibili, e qui c’è l’eco dell’incomprensione paterna,  come quelli sessualmente diversi.

E il film “Action”, 1980, con le sue amare riflessioni dopo l’esperienza e le delusioni di “Caligola”, interpreti ancora Adriana Asti con Luc Merenda e Alberto Lupo, allora divo della televisione. Nel manifesto i protagonisti si guardano negli occhi appoggiati a una pompa di benzina, la foto di scena di Gianfranco Salis è molto più esplicita, squallore all’aperto tra nudi e simboli fallici con uno sfondo altrettanto alienante.

L’erotismo diviene sempre più esplicito, siamo alla vigilia della svolta che si avrà con “La chiave”. Il  film cult del 1983  darà avvio alla seconda fase della sua cinematografia, che lo farà definire “il maestro dell’erotismo”. Ne parleremo prossimamente.

Info

Complesso del Vittoriano,  Ala Brasini, lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere. Tutti i giorni,  9,30 – 19,30, ingresso gratuito, consentito fino a 45 minuti prima della chiusura.   Tel. 06.6780664,  www.comunicareorganizzando.it.  Catalogo “Tinto Brass. Uno sguardo libero”,  a cura di Caterina Varzi con la collaborazione di Andrea De Stefani, Gangemi Editore, febbraio 2016,  pp. 128, formato 22 x 24, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo uscirà in questo sito il 5 marzo p. v.  Per le mostre sugli enti e gli artisti citati cfr. i nostri articoli:  in questo sito per la Rai e l’Istituto  Luce  rispettivamente13 marzo e 24 agosto 2014,  Chagall  30 maggio e 12 giugno 2015; “fotografia.guidaconsumatore.it” per. Crepax e “Valentina”  1° luglio 2012 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare Tinto Brass, per l’opportunità offerta. In apertura, Tinto Brass alla macchina da presa, foto di Salis; seguono, l’inizio della mostra con immagini della fase di formazione, e la ricostruzione di un suo angolo di lavoro; poi, una sua moviola e una esposizione di documenti e locandine; quindi, una carrellata dello storyboard di Crepax del film “Col cuore in gola” e due immagini ravvicinate dei disegni; inoltre, costumi dei film e una panoramica di foto di scena  in bianco e nero dei film del primo periodo, in particolare  “La vacanza” , foto di Samperi, e “L’urlo”, di Faletti; infine, manifesti dei film “Col cuore in gola” e “Nerosubiano” , “La vacanza” e “Droupont”, “L’urlo”, “Salon Kitty e “Caligola,  una foto di scena, di Tursi, di “Caligola”  e  foto di scena a colori, di Salis, dei film del secondo periodo,di cui diremo prossimamente, come  “Capriccio”, “Snack Bar Budapest” e “Paprika”; in chiusura, Tinto Brass alla presentazione della mostra, alla sua dx Caterina Varzi, alla sua sin M. Lo Foco.

Echaurren, l’impegno creativo fuori dalla pittura alla Gnam

di Romano Maria Levante

Prosegue la visita alla mostra “Pablo Echaurren. Contropittura”, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dal 20 novembre 2015 al 3 aprile 2016 , con oltre 200 acrilici su carta e tela, disegnie grafiche, illustrazioni e fumetti,- con i quali si ripercorre un periodo agitato da movimenti giovanili e funestato dagli anni di piombo che si riflette nelle opere di un artista con forti ideali, impegnato ma non schierato, che giunge a lasciare la pittura per la militanza, per poi riprenderla. La mostra è tematica ed organizzata dalla Gnam conla Fondazione Echuaurren Salaris, a cura di Angelandreina Rorro, che ha curato anche il Catalogo bilingue italiano-inglese della “Silvana Editoriale”.

Abbiamo ricordato la formazione e l’originale espressione artistica iniziale di Echuarren, soffermandoci sui “quadratini” di “Volevo fare l’entomologo”, la 1^ sezione della mostra che  espone una trentina  di queste griglie il cui cromatismo va dal pastello ai colori brillanti ma sempre in una evidente omogeneità compositiva: sono acquarelli e china molto curati su temi diversi, da visioni ancestrali a immagini metaforiche con chiari riferimenti ideologici, a fantasie personali. Ora procediamo. 

Le “decomposizioni floreali”

Siamo negli anni 1971-76, dai 19 ai 25 anni, la sua ricerca di questo primo periodo non si ferma ai “quadratini”,  esplora  nel contempo una forma diversa di “catalogazione”  di tipo collezionistico,  si tratta delle cosiddette “Decomposizioni floreali”, alle quali è dedicata la 2^ sezione della mostra, che segue gli scambi con Boltanski al quale inviava disegni di fiori attratto dalla sua poesia visiva.

La base è il disegno del profilo delle piante ricalcando l’ombra proiettata sul foglio,  alla Twombly, ma soprattutto si nota il cromatismo leggero dato non da colori artificiali, bensì dallo sfregamento  dei petali e delle foglie quali pigmenti naturali; e si intravede anche l’intelaiatura in quadratini.

A ben pensarci sono una forma ancora più diretta di catalogazione e classificazione, addirittura  vere tracce naturali della flora analizzata,  mentre i “quadratini” trasfiguravano nell’allegoria e nel disegno. Infatti le “Decomposizioni floreali” esposte risalgono al 1971, e corrispondono alla prima fase dei “quadratini”. Già nel 1972 erano esposte alla Galleria Rizzoli a Roma come prova scientifica che esorcizza l’infanzia, nello stesso anno è chiamato da Emilio Villa alla Galleria Grifo per una rassegna di giovani artisti e nel 1973 da Achille Bonito Oliva per una mostra internazionale di pittura giovanile. 

L’escalation della prima metà degli anni ‘70

Nel  presentare la mostra  nel 1974 alla galleria Schwartz, che abbiamo citato in precedenza, Henry Martin affermava  che l” “uso delle immagini molteplici”, tipico dei suoi “quadratini”, “è ciò che sta alla base del tentativo di tutta l’arte del ventesimo secolo di affrontare la simultaneità: cubismo analitico, futurismo, ‘Il nudo che scende le scale’ di Duchamp e anche tutte le forme varie di arte cinetica”.  E’ la prova che Echaurren veniva posto dalla critica su un livello particolarmente elevato, come espressione originale di movimenti di  avanguardia,  dal Dada e surrealismo alla Pop Art e Ready made, , minimalismo e concettualismo,  i riferimenti erano André Breton e Tristan Tzara ,  Marcel Duchamp e Max Ernst,  frequentava Kounellis e Schifano, Giosetta Fioroni e Franco Angeli.  Chiunque avrebbe  continuato lungo  quella linea,  magari introducendo innovazioni più o meno accentuate, avrebbe comunque proseguito, la critica più avanzata lo aveva già adottato.

Non solo, ma  aveva raggiunto  la notorietà anche presso il grande pubblico. Come? Con la copertina di “Porci con le ali”, il “diario sessuo-politico di due adolescenti”  della Beat generation. “Questo disegno dal tratto infantile, naif e pop”  scrive Claudia Salaris, “con sottigliezza raffigura l’ingorgo dei sentimenti diffusi tra gli adolescenti dopo gli scossoni del femminismo”: ebbene, si tratta di 9 quadratini con bandiere rosse, particolari di nudi, un pugno alzato e il porco alato al centro, “figura neomitologica che ben sintetizza la condizione della sinistra giovanile di quel tempo sospesa tra utopia e libido”, è sempre la Salaris che cita  le parole di Enzo Siciliano: “A mio avviso, ciò che riesca a rappresentare  il disegno di Eucharren non riesce a rappresentarlo e esprimerlo il romanzo di Rocco e Antonia”.  Il massimo che si può chiedere alla potenza rappresentativa.

Siamo nel 1976, l’anno delle due ultime composizioni a “quadratini” che abbiamo già commentato. Cosa avviene dopo?  Non  la consacrazione  attesa dopo una escalation così precoce, l’artista ha solo 25 anni, e così impetuosa, con il libro best seller i “quadratini”  decollano. Ma il suo abbandono dell”arte pittorica per mettere la creatività al servizio dell’impegno sociale civile.

Via dalla  pittura  per Lotta Continua  e gli “indiani metropolitani”,

La curatrice Angelandreina Rorro afferma che “Pablo matura una sorta di saturazione e di bisogno di allontanamento” mentre, secondo la Salaris, per mettere in pratica l’identificazione arte-vita, “anche Pablo pensava a un superamento dell’arte come fatto individuale e, abbandonata la professione di pittore, si calò in quella realtà molteplice e collettiva”.

Su invito di Adriano Sofri, il guru del movimento,  lavora  in modo stabile nel quotidiano   “Lotta Continua”  al quale aveva collaborato saltuariamente nel 1973 all’insegna del “personale è politico”,  lo interpreta in un modo fantasioso e leggero con  disegni surreali ed espressioni apparentemente senza senso per denunciare i tentativi del potere di assoggettare le masse.

Entra nel movimento degli “indiani metropolitani”, del quale Maurizio Calvesi scrive: “In qualche modo l’apparizione degli indiani metropolitani fu un fatto epocale, destinato a deviare una cultura già in via di esaurimento e così metabolizzata nell’azione, dai binari dell’arte  a quelli della vita  e del consumo esistenziale, con un impatto di dissoluzione”,  attestando che gran parte delle grafiche apparse sulle riviste del movimento erano di Echaurren.

Veniva messa  in pratica la ribellione alle regole precostituite di un  mondo  prefabbricato  e anche agli schemi della politica e dell’ideologia, come reazione libertaria agli eccessi ideologici della contestazione del 1968 che aveva interrotto la rivolta generazionale alimentata dalla musica, dai fiori e dai colori nella spontaneità  gioiosa e libertaria senza leader né rappresentanti,  che si avvaleva dell’ironia e della leggerezza dopo la violenza degli scontri tra opposte visioni per “riappropriarsi della vita” personalmente  senza dare più deleghe.

In questa sua partecipazione ironica e disincantata quanto convinta fu tacciato di futurismo,  grave accusa per gli ambienti di sinistra dato che questo movimento artistico convisse con il regime fascista.  Non si indignò per questa equiparazione, anzi studiò il movimento leggendo i libri di Marinetti, Ardengo Soffici e Palazzeschi,  ricercati con l’aiuto di un amico nelle bancarelle dell’usato,  trovandovi delle positive anticipazioni ai Dada e ai Surrealisti nelle parolibere che uniscono parole a immagini in composizioni creative e libertarie; non solo, ma il suo spirito di collezionista si è esercitato nel raccogliere quanto più possibile di libri, manifesti e giornali  sul movimento fino a formare una delle collezioni più complete esistenti, nel 1981 ha scritto “Le edizioni futuriste di ‘Poesia”.

Intanto nel lasciare la pittura, come promette a Duchamp in un gustoso fumetto, con i suoi disegni e fumetti l’ha portata indirettamente tra il popolo, tra i giovani, in modo da entrare con l’arte nella vita di ogni giorno, nella “concezione dell’arte come impegno diretto e attivo nelle lotte” quotidiane,  come scrive Kevin Rapp nel catalogo delle carte  e taccuini di Echuarren acquistati in blocco dalla Beinecke Rare Book and Manuscript Library of Yale.

La Rorro conclude su questo punto: “Ecco quindi che proprio le sue carte, i suoi taccuini e i suoi giornali diventano le sue opere più importanti, quelle in cui l’alto delle citazioni colte si sposa con il basso della lotta sociale e dell’ironia sulle stesse forme della lotta”.

I piccoli schizzi e i fumetti di “Rrouge Sélany”

“Rrouge Sélavy” si intitola la 3^ sezione della mostra dedicata al 1977,  espressione che figura in un disegno su foglio di quaderno quadrettato, queste parole sono scritte sette volte in rosso e c’è una macchia anch’essa rossa con degli schizzi che troviamo in altri tre fogli contemporanei, “Il passaggio dall’organizzazione alla disaggregazione”, “Duchamp Eliséèe”e “Le malattie senili del comunismo”,in quest’ultimo la macchia rossa con gli schizzi finisce nella celebre “Fontana” di Duchamp, l’orinatoio dissacrante.  La “Fontana” e altri “Ready made” di Duchamp figurano in schizzi rossi  anche in un altro disegno su carta con la scritta in corsivo ripetuta tre volte  al centro del foglio “Epos c’est la vie” e ai margini in maiuscole, “Duchamp è la negazione della contemplazione”, “Duchamp è azione”, “E’ distribuzione di creatività a tous les étages”. E il “Portabottiglie” di Duchamp lo troviamo in uno schizzo in rosso con la scritta “Odio le molotov”.

Vediamo 4 fogli di quaderno con indiani, che evocano i “metropolitani”,  titoli quali “Il movimento è un Ready Made” e “L’ordine del discorso è il discorso dell’ordine”, “Avere l’apprendista nel sole”e “The Bride-Electricity”. I fogli di quaderno esposti sono numerosi, immaginifici e trasgressivi, in “Altrove” le scritte  “Allucianiamo Marx” e “Spaziamo i cortei”, “Duchamp è di sinistra” e “Attenzione arte fresca” con sotto “Attenzione pittura fresca”, fino a “Pipe ai pensionati, canne ai ragazzini”, e tanti altri “Titoli e appunti”tra il surreale e il trasgressivo. Altri titoli, “La realtà non ci va” e “Lascia o raddoppia”, “Meglio smobilitare” e “Macchine coniugi”.

Curiosità suscita la serie dal titolo intrigante “Arp-o-Marx”, con scritto “che cosa apparirà” e l’invito ad arrossare o annerire gli spazi contrassegnati dal puntino, e non mancano i quadratini, in gruppi di 7, con titoli quali “Grazie e disgrazie” e “Anno di grazia  e anno di disgrazia”, contrassegnati dalla macchia rossa sul quadratino centrale; invece sono nere le macchie con schizzi in “Il discorso dell’ordine è l’ordine del discorso-viola”.

Delle stesse dimensioni del foglio di quaderno, grafiche in china con chiavi inglesi, bottiglie e una pistola, con le ricorrenti macchie rosse imperversanti anche sui disegni più grandi sempre con simboli meccanici quali pistoni e meccanismi vari, oltre a una lampadina, una pipa e una ruota,

Le scritte che figurano negli schizzi esprimono il guazzabuglio di stimoli e motivazioni, nonché degli orientamenti e del disorientamento dei giovani impegnati come era Echaurren.

I grandi schizzi con richiami industrialisti ed evocazioni  dadaiste

Molto spesso compare la scritta “Dada” in varie forme, semiserie come “Dada libero”,  e “Dada/ppertutto”, irridenti come “Dada-punpa”  che riecheggia il balletto televisivo cult delle gemelle Kessler, e “Dada-spontex” ;  del resto,  in lui sono stati visti diretti riferimenti  al dadaismo e “Ready made”, e altre forme di avanguardia, oltre che al Futurismo. In “S/mobilitazione”,  un  ventilatore alimentato da “illusioni” distribuisce “primavera” e “strappo teorico” e lo fa “dada/ppertutto”;  stesso riferimento a “Dada” in “Altrove” con un razzo e le scritte “che fare?”, “andare?” e “occupazione”.

Quest’ultima parola è in “D/istillati”, con fumi rossi che escono da una caldaia regolata da una valvola “on” e “off”, alimentata da “rabbia” e “innocenza”. Mentre “dada/ppertutto”  lo ritroviamo in “Corteobabbeo” dove tra leve e chiavi si leggono le parole “autodifesa” e “servizio d’ordine”, “slogan” e “direzione di marcia”; e in “Bleah” senza meccanismi ma con un tracciato segmentato per “emarginati” e una busta di “Presidenza” con “arroganza” e “supponenza”, in mezzo “assemblea” segmentata in rosso. Un circuito in “491” distribuisce  “tenerezze”  e “conformismo”, “protagonismo”  e ” retorica”, “militarismo”  e “oratoria” ,  ma anche “strafattezze”  con un grande “Dadatotò” in rosso.    

Di nuovo “Altrove” su un disegno di macchina con la base nel “movement” e delle pale con “ironia” e “follia”, viene evocato “il compagno Tristan Tzara” , il dadaismo personificato, c’è anche  “Dis/aggregazione” ,  in un altro disegno accompagnata dalle parole “corteo” e “ritornello”, “ironia” e “dogma” che escono da un pistone. “Altrove” esce da un altro meccanismo, insieme a “didascalico”, alla base c’è la scritta “Il passaggio da militante a desiderante”, altre scritte-titolo serie  “Manicheismo, malattia senile dell’estremismo” e “L’arte o sarà collettiva o non sarà”.  E ancora “che fare?” con “minima militalia” tra congegni meccanici.

La macchina di “Il leader include “zombi” “dogma” con le scritte “a ciascuno il proprio dada” e “dada per tutti”. “Il dada è tratto” segna un disegno senza macchine e congegni ma delle note musicali in basso, un “blind/ato” in alto che emette note, e la scritta “Bologna ‘77”.  Non manca la favola in “Alice” e “Alice oltre il labirinto”, sempre nei congegni e meccanismi tra schizzi rossi.

Molti di questi disegni recano una scritta maiuscola in rosso dedicata a  Picabia, l’altro artista d’avanguardia con Tzara, anche lui citato, oltre a Duchamp,  valgano  per tutte le scritte l’impegnato  “Picabia vive e lotta insieme a noi” e il dadaista “Servirsi di Picabia come asse da stiro” il volitivo  “Riprendiamoci Tzarae l’ecumenico Duchamp per tutti”.

In diversi disegni di macchine appare la parola “Oask”. La vediamo in  “Come si fa un giornale, anzi tre” con una pentola di “desir” da cui escono “street” e  “movement”, “abatjour” e    “Wam”, al centro in alto “Oask?!”; poi in  altri meccanismi con la scritta “dada”, “Oask” è sempre al centro, in uno con le derivazioni “kitch” e “naif”, “anti” e “disaggregazione”, in un altro con “The street” e “La rue”.  “Oask?!” è messa in bocca agli indiani nei fumetti “Il molteplice singolare-Il plurale individuale” e “Disaggregarsi è ora”, è ricorrente in posizione dominante.

La spiegazione si trova nella “Testata inedita” della rivista degli Indiani metropolitani, “essere in Oask?!” è una condizione del movimento, figura al centro del vortice di parole che si avvitano come in un gorgo, mentre la pagina reca un fittissimo testo capovolto; l’interiezione dei fumetti diventa così  un simbolo e uno slogan accessibile  a tutti. Le successive quattro pagine della rivista sono un significativo esempio delle “parolibere” degli indiani metropolitani, non isolate ma in fittissime dissertazioni, come quella intitolata “Qualcosa a proposito della indianità del movimento”nella vignetta “I piccioni di Siena sono in Oask?” hanno delle reticelle per catturare minuscoli padroni in frak, fino a “Come fondere cellule e nuclei sconvolti clandestini”, nulla a che fare con le successive cellule eversive delle Br, siamo sempre nel paradosso surreale.

Completano la sezione altre tavole di Fumetti con gli indianiin bianco e nero e a colori, molti con macchie  nere e rosse che schizzano. Vediamo titoli paradossali e irridenti quali “Sporchi indiani metropolitani non si capisce un accidente di quello che dicono” e “Maledetti indiani metropolitani fatevi capire quando parlate”, “Ci siamo stufati, sempre lo stesso cioccolato” e “Azionare il motore desiderio e scendere dal treno blindato; ma anche titoli seri e impegnati come “Il linguaggio dell’uomo totale sarà il linguaggio totale”  e “Per un’arte applicabile e replicabile”, fino a “Il linguaggio dei fatti” e “Potere alle donne”. Siamo sempre nel 1977.

Nello stesso anno la serie di Disegni per “Lotta continua”,  che segnarono il temporaneo abbandono della pittura per l’impegno in una forma di  militanza. Alcuni con figure preistoriche,  altri con riquadri recanti figure di vario tipo, anche Paperino,  con slogan a effetto. In particolare,  “Non si tratta di scegliere l’arte del sacrificio”, “Contro il sacrificio dell’arte”, “La fine del sacrificio come arte”; e “La consuetudine, è vero, ha così ben mutilato l’uomo/, che egli crede,/ mutilandosi,/ di obbedire alla legge naturale” ;  “Quantitativamente vinta dai progressi in materia sanitaria/ la morte/ si introduce quantitativamente nella sopravvivenza”; “E ognuno diventa grande ricacciando la sua infanzia/ fino a che/ il rimbambimento/ e l’agonia/ lo persuadono che è riuscito a vivere da adulto”.

I collage futuristi  di “Ossidazioni”, nel disincanto ideale

Dopo quest’attività  del 1977, oltre a “Lotta Continua” collabora  nel 1978 a  “L’Avventurista” e “Il Male”, esprimendo la sua leggerezza in questi giornali satirici, sempre nello spirito degli “indiani metropolitani”.  Ma torna presto un clima ben più pesante di quello della contestazione  del 1968. Con il sequestro  e l’uccisione di Aldo Moro dopo i 55 giorni di prigionia seguiti alla strage di cinque agenti di scorta, si entra nel periodo cupo degli “anni di piombo” ; l’attacco terroristico e le misure d’emergenza tolgono ogni spazio alla leggerezza e ironia  degli “indiani metropolitani”.

E allora per Echaurren l’unica alternativa è tornare alla pittura. Ma come, senza sconfessare le sue idee e i suoi ideali?  Trova l’ispirazione nelle vie percorse dal Futurismo, al quale si è appassionato. ripartendo dalla concezione di Marinetti che l’arte è più importante di mille impostazioni programmatiche, per tornare all’arte in senso stretto; ma usando soprattutto la carta che è stata sempre il suo supporto preferito, e avvalendosi della tecnica del collage per espressioni più intime e personali. E’ la sua terza modalità espressiva dopo i “quadratini”  del primo periodo e il surrealismo impregnato di ideologia del periodo di “Lotta continua”. 

Nel nuovo clima di restaurazione non rinnega il passato e si proietta verso il futuro  partendo dal “quotidiano”  dei ritagli di giornale, frammenti della realtà da ricomporre  dove la forma esteriore è espressione del pensiero che la origina. “Le ‘ossidazioni’- commenta la Rorro – piccole opere minimaliste e preziose prove compositive, vanno proprio rilette alla luce di una ricerca che non ha mai abbandonato l’attenzione alla realtà, anche nei momenti di apparente ripiegamento interiore”.

Inoltre si dedica alle illustrazioni, sempre in un modo molto personale, e ancora ai  fumetti, ma “colti”, con vite di artisti  corredate dai necessari riferimenti letterari, un altro modo di portare la cultura verso il “basso”. Sono storie disegnate, “graphic novel“, su Marinetti  in “Linus”, su Majakovskij, Pablo Picasso,  Ezra Pound, e tanti altri, la sua comunicazione è a largo raggio.

Ma guardiamo le “Ossidazioni” esposte nella 4^ sezione della mostra, 25 collage su carta da 30  a 50 cm,. Dal  1978 al 1980   10 collage “Senza titolo”, piccoli  frammenti di fogli, di quaderno o giornale, per lo più ingialliti , senza una regola;  non vi sono  scritte, cosa che sorprenderebbe avendone utilizzate tante nel 1977,  come abbiamo visto, se non si considerasse la nuova realtà che ha cancellato tutto quanto aveva consentito il fantasioso movimento degli indiani metropolitani

Nei collage del 1985  appaiono poche  scritte non aggiunte ma esistenti sui ritagli, che danno il titolo al collage il cui colore è sempre sul giallo ma più carico. Vediamo “N.ro 14934” e “Manifesto”, “Azione” e “Taglio e cucito”, “Tandi aughure” e “Semplicismi”, “Musica” e “Italia” “Proudhom” e “Scena comica in un parco”, “Napoleone imperatore” e “Occhi”.

I quattro collage del 1989 presentano una novità, l’intervento grafico dell’artista in aggiunta la frammento cartaceo, appena percettibile  in “Napoleone Imperatore”, 5 macchie come impronte digitali, più evidente in “Occhi” , parola scritta a mano tra riquadri e cerchi appena delineati e due frecce in direzioni opposte molto marcate, insieme a un grande punto interrogativo nero.  Fino a “Esisto” e “Punti di vista” dove il collage cartaceo non è quasi percepibile, sovrastato da segni molto marcati che invadono l’intera superficie: nel primo è la scritta del titolo a caratteri cubitali ripetuta con una grande mano nera, nel secondo  frecce, croci e frecce oltre alla scritta del titolo.

“La tigre è ancora viva”, possiamo dire ricordando la ripresa volitiva di Sandokan dopo la distruzione di Mompracem. Vedremo prossimamente come tornerà a esprimersi nell’arte.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 8,30-19,30, entrata fino  a45 minuti prima della chiusura; lunedì chiuso. Ingresso euro 8 (mostra + museo), ridotto 4 euro per i giovani UE 18-25 anni, gratuito per i minori di 18 anni e altre categorie previste. http://www.gnam.beniculturali.it/ Tel. 06.32298221.  Catalogo “Pablo Echaurren. Contropittura”, a cura di Angelandreina Rorro, Silvana Editoriale, novembre 2015, pp. 264, bilingue italiano-inglese, formato  23,5 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il  primo articolo sulla mostra è uscito  in questo sito il  20 febbraio 2016, il terzo e ultimo articolo uscirà il 4 marzo,   con altre 12 immagini ciascuno. Per gli artisti e i movimenti citati  cfr. i nostri articoli in questo sito sulla mostra di Echaurren alla Fondazione Roma 23, 30 novembre e 14 dicembre 2012 , su Duchamp 16 gennaio 2014,  sul Futurismo  nella mostra “Dolce vita? Dal Liberty al design 1900-1940” al Palazzo Esposizioni14 novembre 2015 e nella “Secessione”alla Gnam21 gennaio 2015, sui futuristi  Marinetti 3 marzo 2013,  Dottori  2 marzo 2014,Tato 19 febbraio 2015,su Giosetta Fioroni   1° gennaio 2014,  su Franco Angeli  31 luglio 2013;  in “cultura.inabruzzo.it”  sul Futurismo al Vittoriano  30 aprile e 29 settembre 2009 , su  Max Ernst, Tzara in  Dada e surrealisti al Vittoriano 6 e 7 febbraio 2010 e in “Teatro del sogno”a Perugia  30 settembre, 1° dicembre 2010;  in “fotografia.guidaconsumatore.it” su Schifano  15 maggio 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna che si ringrazia, con la Fondazione Echaurren e i titolari dei diritti,  in particolare l’artista che ha accettato di essere ripreso davanti a una sua opera. In questo articolo, che descrive la 2^,  3^ e 4^ sezione della mostra  le cui immagini sono inserite nel primo articolo, le immagini riguardano la 5^ sezione descritta nel terzo articolo. In apertura, l’artista dinanzi alla sua opera “The Fall of the Wall”, 1989;  seguono, “Wart”, 1989,  e “Ascendenze. Anti-neo”, 1989;  poi, “Vulcanizzatori di anime forate”, 1990, e “Città muta”, 1990; quindi, “Stupid eternity”, 1990, e “Vermi!”, 1990; inoltre, “Artisti estremisti”, trittico, 1990, e “Relativo”, 1991; infine, “Il giudizio”, 1991, “Senza dimensioni”, 1991, e  “Da zero a infinito e viceversa”, 1989; in chiusura, da dx, “Voi siete qui”, 1989, poi “Vulcanizzatori di anime forate”, e “Stupid eternity“, 1990.

Echaurren, 200 opere di “Contropittura” alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea,  dal 20 novembre 2015 al 3 aprile 2016  la mostra “Pablo Echaurren. Contropittura” presenta oltre 200 opere – acrilici su carta e tela, disegni  e grafiche, illustrazioni e fumetti – espressioni diverse fortemente caratterizzate  di un artista eclettico dal forte impegno civile che si riflette nella scelta espositiva di carattere tematico e non antologico per renderne il percorso legato alle vicende di un periodo animato da movimenti giovanili  irridenti e fantasiosi caduto poi nell’incubo degli “anni di piombo”.  Organizzata dalla Gnam e la Fondazione Echuaurren Salaris, a cura di Angelandreina Rorro, come il Catalogo bilingue italiano-inglese della “Silvana Editoriale”, con nota critica della curatrice e un’accurata Biografia di Claudia Salaris.

Alla presentazione della mostra abbiamo espresso all’artista la nostra sorpresa nel non trovarvi    nessuna delle opere esposte alla precedente grande mostra della Fondazione Roma dall’ottobre 2010 al marzo 2011 al Palazzo Cipolla,  a parte i quadratini dell’esordio e qualche illustrazione. E’ straordinario come si sia potuta allestire un’altra esposizione, altrettanto grande, con opere del tutto diverse. Non solo, ma di un altro  genere artistico e tipo di impegno,  di qui il titolo “Contropittura”.

Si trattava soprattutto di pittura nell’esposizione precedente, con i grandi acrilici  su Roma e sulla musica, sulla natura e sull’horror vacui; le  sculture e i piatti nelle ceramiche blu, le tarsie variopinte,  le copertine di libri come quella divenuta celebre per “Porci con le ali” e altre grafiche.

Il percorso della mostra e gli inizi dell’artista

Ebbene, sono le grafiche su carta il cuore della mostra attuale, in una escalation che iniziando dai caratteristici quadratini percorre l’intera gamma fino alle grandi superfici a forti colori.

Non è questa l’unica e già notevole sorpresa della mostra, c’è dell’altro. L’esposizione  di queste sue opere di “contropittura”  porta a ripercorrerne le trasgressioni all’insegna della libertà da ogni schema e da ogni allineamento che attraversano una fase particolarmente vivace e creativa della nostra vita civile. E ci riporta agli  “indiani metropolitani” di cui l’artista fece parte nel superare, finché fu possibile, con lo sberleffo e il surreale, la deriva politica seguita alla contes1tazione del ’68.

Passare in rassegna le opere esposte fa tornare  a quegli anni che si riflettono direttamente nelle varianti fantasiose delle espressioni di uno spirito  inquieto  disposto a dare tutto se stesso per l’ideale di libertà, fino a rinunciare temporaneamente alla sua vocazione per la forma pittorica.

La curatrice della mostra Angelandreina Rorro ne fa una accurata ricostruzione, rendendo esplicito l’intento di base: “Questa mostra intende ricostruire tale percorso seguendo quel filo che si trova nella sua attività pittorica, anzi ‘contro pittorica’, anche quando questa apparentemente si arresta”.

Va premesso che si tratta di un figlio d’arte, il padre Roberto Sebastian Matta Echaurren, artista cileno che dopo Londra e New York approdò a Roma dove si sposò e nacque Pablo, nome scelto in onore al poeta Neruda – intenerisce il ricordo del piccolo “Pablito” del film “Il Postino” –  dal cui cognome per un errore all’anagrafe rimase soltanto quello materno e sparì Matta;  viene da sorridere nel pensare che all’anagrafe romana nel 1951 vi fosse la stessa approssimazione immortalata da Mario Puzo nel nome “Corleone” dato al  futuro “Padrino”  alla frettolosa registrazione di Ellis Island. Anche per il nome  una curiosità,  oltre a Pablo, Miguel e Papageno, dal Flauto magico di Mozart, abbreviato dai romani in Paino, cioè damerino o giù di lì, verrà chiamato così  dagli amici.

La figura del padre non gli fu vicina fisicamente, lui stesso lo definisce “trasparente”, ma non mancò la presenza attraverso lettere con giochi di parole e disegni, oltre che argomentazioni, fuori da ogni schema consueto, del resto Matta era un pittore surrealista e così si esprimeva; se si aggiunge che nelle pareti della sua camera c’erano i disegni dei gatti mito-lirici di Victor Brauner,  il poster di “Guernica”  e un quadro di Mirò con forme tondeggianti che associava a Topolino, si comprende come posso essere nata la sua spiccata propensione per i “cartoon”.

Si manifestò presto insieme a un’altra attitudine, legata alla passione del collezionismo, dai fossili alle figurine, dalle farfalle ai francobolli, in cui esprimeva la sua volontà di catalogare e mettere ordine alla cose. Nella vita di adolescente  era disordinato come tutti i “capelloni”, trascurava gli studi per la musica rock, ma oltre ad andare al Piper Club,  suonava il basso in un piccolo complesso, i Lemon, che si esibiva d’estate,  passione da cui nascerà più tardi un ciclo pittorico.

La folgorazione dell’arte, per la quale smise di suonare, si deve a una combinazione scolastica che gli fece incontrare Paolo Baruchello, il quale dipingeva “mappe dell’inconscio” su ispirazione poetica, e attraverso lui Arturo Schwartz, il critico e gallerista patron del movimento dada e surrealista in Italia. Anche Echaurren disegnava mappe, quadratini con scomposizioni meticolose di oggetti e fenomeni, Schwartz  cominciò ad acquistarli e fece con lui un contratto di esclusiva.

Siamo nel 1973, Pablo ha lasciato l’università per seguire la sua ispirazione fino ad allora espressa con i quadratini, in compenso si butta sui testi marxisti e sulla letteratura, da Salinger a Queneau, da Gadda a Calvino, e vedremo come con quest’ultimo ebbe uno scambio fecondo; nell’arte lo attirano Marcel Duchamp e Tzara con André Breton padre del surrealismo; entra in contatto con Max Ernst.

I “quadratini” di “Volevo fare l’entomologo” dal 1970 al 1973

I  quadratini disegnati, diremmo cesellati con minuziosa precisione, li vediamo esposti in gran numero, mentre nella mostra della Fondazione Roma erano presenti ma in misura minore data la prevalente impostazione pittorica di quella mostra antologica, questa è invece “tematica” come sottolinea la curatrice: “Intende mettere in luce l’aspetto più importante dell’arte di Echaurren e il suo avanguardistico contributo al pensiero contemporaneo”. Ed è questo l’aspetto chiave, la ricerca inesausta e l”elaborazione concettuale che c’è dietro la  “contropittura” di un artista che ha dimostrato come sappia esprimersi anche nella forma pittorica ma l’ha disdegnata per una parte del suo itinerario per seguire le proprie pulsioni interiori.

Inizia con “Volevo fare l’entomologo”, titolo della 1^ sezione che espone una trentina delle composizioni a quadratini, dalla prima del 1970 con Baruchello  all’ultima del 1976 allorché la sua ricerca lo porta verso altre forme di impegno personale e civile prima che artistico.

Si tratta per lo più di blocchi di quadratini in acquerello e china su carta che formano  rettangoli con 6  quadratini di base e 9 in altezza, 54 in tutto, l’ultimo quadratino con il tema/titolo, negli altri quadratini la  scomposizione del tema nei dettagli più specifici, come  sotto il microscopio di un ricercatore.  In una mostra della Gnam del 2013 sulle coperttine della rivista  “Mass Media” è stato analizzato il quadrato sotto il profilo simbolico e artistico, qui abbiamo la visione dell’entomologo che classifica e scompone le specie sottoposte alla sua osservazione; così fa il giovane Echaurren con un cromatismo omogeneo per ogni raggruppamento, anche se da una composizione all’altra  spazia su tinte pastello  calde e fredde.

Surreali e senza l’ordine che troviamo nei successivi, i quadratini con Baruchello del 1970, mentre nei due del 1972 c’è già la precisione dell’entomologo applicata non solo a oggetti ma a considerazioni personali, come “Chi di voi si è creato un mondo personale al di sopra della realtà alzi la mano”, in cui questo mondo è dato da una molteplicità di vette montuose frastagliate di cuspidi, e “Riconoscersi nella terra”, un centinaio di quadratini, questa volta in un rettangolo orizzontale, con delicate immagini primordiali.

Del 1973 vediamo una scomposizione e ricomposizione della falce e martello, in  9 quadratini, e una serie di materiali edili assemblati in vario modo in “Lavori in corso”, una bicromia pastello, ancora più delicatezza in “Mike’s pig and Mrs, Gamp”, le mani formano ombre cinesi incolori.

Dall’assenza di colore al  rosso acceso nello stesso anno in “Basta con i padroni, con questa brutta razza”, non poteva rappresentare altrimenti le bandiere rosse del comunismo mentre cancella il padrone. Non solo ideologia: in 9 quadratini con sezionati i sogni erotici giovanili  rappresenta “L’amavo follemente ma faceva finta di niente”, quello centrale richiama significativamente un’immagine di “Guernica”.

I “quadratini” dal 1974 al 1976, anno di svolta

Anche di 9 quadratini è “Egregio maestro…”, siamo al 1974, sono graffiti di animali, c’è anche il rinoceronte tanto prediletto da Salvador Dalì.  E’ l’anno nel quale vediamo una diecina di  composizioni di questo tipo. Una incolore, “Senza titolo”, con elementi dei “lavori in corso” in forma totemica a due immagini sdoppiate;  una in  gradazioni di tinte pastello di fondo a uno scheletro scomposto nei vari elementi, un’altra presenta “Il fattore Katsushiika  che ripropone nei 54 quadratini la visione del vulcano, evidentemente di  creatività,  su fondo questa volta bianco.

Poi i colori si accentuano, in “La vecchia Mother Jones con le sue selvagge”torna il rosso di “basta con i padroni ” con espliciti messaggi e rivendicazioni sul lavoro.  Allusioni  politiche  evidenti in “I lavori per la nuova fusione procedono a ritmo incessante”,  una serie di chiavi inglesi e attrezzi, macchinari e fabbriche in tinta neutra, che diventa rossa nell’acciaio fuso e nella falce e martello.

Non solo la politica, anche la natura, “E la Grotta del Bue Marino” scompone la caverna e gli isolotti colore della roccia nell’azzurro del mare; analogamente “Sulla rotta di Karl-Island”, immerge nel mare il verde degli isolotti, due dei quali costituiti da due vistose falce e martello coperte di verde; il  verde  domina anche in It promotes gastric function”, promotrici sono foglie di tutti i tipi. Fino alla provocazione filosofica“Dal realismo intellettuale al realismo fortuito attraverso il realismo mancato”, con assemblate le  immagini più disparate, in disegni infantili a forti contrasti cromatici.

Sempre nel 1974,  i quadratini sono disegnati in rettangoli di 12  nella parte superiore di una scatola, in quella inferiore vi sono sei scomparti  con gli oggetti riferiti al tema illustrato dai disegni: in “Sono un triste pappagallo” vediamo indumenti intimi  sotto la scomposizione del nudo femminile, in “Minerali”e  in “E lo schizoblasto”,  oggetti veri dove sopra erano disegnati in forma allusiva.

Anche nel 1975 troviamo una scatola simile, il tema “Dallo scarabocchio fondamentale all’aggregato”  viene reso con disegni arruffati  e figure solide negli scomparti.  Come per l’anno precedente, è ricco di composizioni nella tipica forma rettangolare di sei quadratini  di base e 9 in altezza. Fanno eccezione  “Avanti così”,  9 quadratini con nomi di artisti, Brueghel e Marcel Duchamp, Bosch e Vincent Van Gogh, con al centro “Mai 68”, che rimanda alla contestazione; e “Che cosa significa quest’oste la cui taverna è il corpo stesso”, altra elucubrazione illustrata questa volta con figure da incubo.

Immagini invece  serene illustrano un tema altrettanto ermetico “Fu così che apina si svegliò un po’ frastornata”,  si vedono prati e colline apriche e amene con gialli, rosa e verde molto delicati.

Torna il tema del vulcano in “Tra quarantatré secondi circa”, con dei rossi intensi su fondo bianco, laddove  in Katsushika dell’anno precedente era soprattutto bianco, e spento, mentre ora è in eruzione con il getto dal cratere e le colate di lava; e torna il tema degli elementi naturali in forma totemica, lo vediamo in “Stringendo al petto la bambola”,formazioni rocciose anche arcaiche  che formano arcate  e passerelle,  e I lavori della famiglia Yu Kung procedono a ritmo incessante”, le rocce  formano  a poco a poco anche  una falce  e martello.

Dal rosse intenso siamo tornati al pastello, mentre “Sull’avvistamento della grande macchia rossa” è su fondo azzurro e blu carico con una luna rossa centrale tra fasi lunari e altre formazioni planetarie, in due globi c’è la falce e martello. E’ un’immagine politica ricorrente anche “Sulle tracce di una Limenitis anonyma”, sembra la precedente composizione scolorita, figure bianche su leggerissimo celeste e verde appena percepibili, non più immagini planetarie ma  figure di costellazioni  celesti, una delle  quali  il citato stemma comunista.

Non figura, invece, in “Una galassia di costolette”, questa volta il richiamo planetario intitola la successione dei consueti 54 quadratini in ognuno dei quali c’è schizzato un busto umano, spesso in giacca e cravatta, con al posto della testa un salume, dalle bistecche agli affettati di tutti i tipi; predomina il rosso su fondo bianco  in un apparente divertissement nel quale, tuttavia, sono stati visti riferimenti all’alienazione  che priva della capacità raziocinante per trasformare le teste in alimenti e pance,  macchine e altri oggetti simbolici.

L’ideologia è esplicita in “Dall’utopia alla scienza”, 9 quadratini con le lettere che compongono Karl Marx, una per quadratino, e in quello centrale una formula; mentre in “Ehi, Caspar!!!”, vediamo i 45 quadratini di prammatica tutti con un albero dal quale si dipartono tentacoli di polipo in un viola leggerissimo.

E’ il 1976, termina la galleria di “Volevo fare l’entomologo”, l’artista è preso da altre sollecitazioni.

Interpretazioni e giudizi sui “quadratini” artistici

Quale interpretazione dare a queste opere con visioni originali, primordiali e cosmiche, personali  e politiche, scomposte in immagini frammentate nei particolari più minuti mediante quadratini riuniti come in fogli dei francobolli che collezionava come raccoglieva e catalogava farfalle e minerali?

Claudia Salaris, nella biografia molto accurata dell’artista alla quale abbiamo attinto nel nostro excursus , cita  Giuliano Briganti che  le definisce “immagini nate da immagini, immagini tipicizzate, idee ricevute, sintetizzate con la tecnica del fumetto, dei disegni didattici o della pubblicità. E si rifanno appunto al mondo dei fumetti, dei disegni esplicativi , dei francobolli o dei cataloghi”. La passione di “entomologo” diventa arte, e non solo. Perché, sempre secondo Briganti, l’impegno politico gli fa “iniettare un po’ di umorismo corrosivo fra i gioiosi colori da Corrierino dei Piccoli e che spinge queste favole a diventare apologhi”. Ma non c’è accanimento ideologico, bensì “un’ironia così leggera e felice da far supporre quasi un legame non ancora interrotto”  con un mondo favolistico verso il quale la sua è  “una partecipazione totale e innocente” .

Vogliamo citare tre riscontri concreti dei significati da attribuire a  questi suoi apparenti scherzi infantili.  La Rorro ricorda le parole di Katsushika Hokusai, che con  Hiroshige lo fece appassionare all’arte giapponese,  lo colpì il loro analizzare la natura per rivelarne l’armonia. Abbiamo visto la metafora in “Il fattore Katsushika”,  il maestro giapponese afferma che ha sempre disegnato nei particolari “la forma delle cose”  senza poterne penetrare completamente l’essenza.

Tra queste cose “La grande onda” che ispira ad Echaurren alcuni dei suoi celebri quadratini, uno dei quali lo invia ad Italo Calvino che ne trae a sua volta ispirazione per quel pezzo straordinario sull’onda contenuto in “Palomar”; il rigoroso pensatore cerca di scomporre la visione ottica con una logica stringente, e per analizzarla iscrive l’onda in un quadrato al fine di  separarla dalle altre che si susseguono incessantemente, come ha fatto Echaurren. Non solo, ma la copertina del libro di Calvino recava un disegno di Durer in cui il soggetto viene visto attraverso  una griglia di quadratini, esattamente come l’onda scomposta nei quadratini dei Echaurren.

La  curatrice cita anche gli scambi con Max Ernst cui nel 1971 inviò  ogni mese un quadratino della griglia di 9 complessivi sul tema del deserto accolti dal grande surrealista come momenti di una gravidanza, per un’opera puzzle; e i contatti con Adriano Spatola, che gli scrive  anch’egli della griglia dei suoi quadratini,  fino a Toti Scialoja che frequentò per anni assiduamente.

Nel 1974,  anno in cui la produzione di “quadratini” artistici è molto intensa, Arturo  Schwartz che, come abbiamo visto ha preso la sua esclusiva, gli organizza una personale presso la propria galleria.  Tommaso Trini  scrive che “Pablo dipinge, in apparenza, come un bambino alle prese coi fumetti, ma scrive titoli da lucido scrittore” che danno “la morale della favola” secondo un filone che si muove “verso un’immagine fredda e poetica”; per Cesare Vivaldi “catalogando esorcizza il mondo infantile cui è tanto legato”, e nel far questo dà una soluzione, almeno sul piano artistico, alla dialettica tra il se stesso adulto e il se stesso bambino che tuttora consapevolmente l’intriga”.  La Salaris, nel citare  questi giudizi, conclude: “Il carattere ludico, ma al tempo stesso lucido, è ciò che la critica ha colto nel suo lavoro fin dagli esordi”.

E dopo? Se ci ha sorpresi agli esordi, Echaurren ci sorprenderà ancora di più nel prosieguo, dopo questa fase così promettente che lo aveva già lanciato nel mondo artistico con giudizi così positivi. Ci si attenderebbe un’escalation pittorica, invece la sua inquietudine e la sua estrema sensibilità verso tutto ciò che si muoveva nel mondo giovanile e non solo portano a una direzione ben diversa, sempre nello spirito di ricerca espresso nelle parole “volevo fare l’entomologo”, applicate questa volta alla società in cui vive.

Ne parleremo prossimamente, proseguendo la visita alle restanti sei sezioni della mostra.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 8,30-19,30, entrata fino  a45 minuti prima della chiusura; lunedì chiuso. Ingresso euro 8 (mostra + museo), ridotto 4 euro per i giovani UE 18-25 anni, gratuito per i minori di 18 anni e altre categorie previste. http://www.gnam.beniculturali.it/ Tel. 06.32298221.  Catalogo “Pablo Echaurren. Contropittura”, a cura di Angelandreina Rorro, Silvana Editoriale, novembre 2015, pp. 264, bilingue italiano-inglese, formato  23,5 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due articoli successivi sulla mostra usciranno in questo sito il  27 febbraio 2016 e il 4 marzo con altre 13 immagini ciascuno. Per gli artisti e i movimenti citati  cfr. i nostri articoli:  in questo sito sulla mostra di Echaurren alla Fondazione Roma  23, 30 novembre e 14 dicembre 2012,  Duchamp  16 gennaio 2014,  Brueghel  5 maggio 2013,  Dalì  2 e 24 dicembre 2012,  su “Mass Media, 27 artisti sul quadrato alla Gnam” 23 marzo 2014;  “in cultura.inabruzzo,it   Dada e i surrealisti al Vittoriano 6  e 7 febbraio 2010 , Van Gogh  17 e 18 febbraio 2011  (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna che si ringrazia, con la Fondazione Echaurren e i titolari dei diritti,  in particolare l’artista a cui si è grati anche per aver accettato di farsi ritrarre davanti a una sua opera.  In questo articolo, che descrive in particolare la 1^ sezione della mostra, le immagini riguardano tale 1^ sezione,  le sezioni 2^, 3^ e 4^ descritte nel secondo articolo e i collage della 7^ descritta nel terzo articolo. In apertura, “La vecchia Mother Jones con le sue selvagge”, 1974; seguono, “Chi di voi si è creato un mondo personale al di sopra della realtà alzi la mano”, 1972, e “I lavori per la nuova fusione procedono a ritmo incessante”, 1974; poi, “Dal realismo intellettuale al realismo fortuito attraverso il realismo mancato”, 1974, e “Decomposizioni floreali”, 1971; quindi, “Distillati”, 1977, e “Azionare il motore desiderio e scendere dal treno blindato”,  1977; inoltre,  “Altrove”,  1978″, e Duchamp per tutti”, 1977; infine, “No.14934”, 1985, “Festa punk”, 1996, e “La religione murale”,  1996; in chiusura, una sala con dipinti della  5^ sezione, nella parete sinistra il trittico “Artisti estremisti“, 1990, nella parete destra,  “Vermi”, 1990, a sin.  e “Città muta”, 1990, a dx.

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Ritratti di poesia, 10^ maratona poetica, al Tempio di Adriano

di Romano Maria Levante

Al Tempio di Adriano il 5 febbraio 2016 si è svolta la 10^ edizione dell’annuale incontro con la poesia promosso dalla Fondazione Roma, organizzato dalla “Fondazione Roma-Arte-Musei” con “InventaEventi”. “Ritratti di poesia”, curato come sempre da Vincenzo Mascolo,  ha presentato per l’intera giornata 45 poeti che hanno offerto una scelta dei loro componimenti  nelle varie sezioni su versanti dell’espressione poetica, comprese le lingue e i dialetti, con particolare attenzione ai giovani. E’ stato conferito il Premio Fondazione Roma a Giancarlo  Majorino e Carol Ann Duffy.

“Ritratti di poesia”  compie dieci anni,  durata che testimonia non solo la  validità ma la vitalità di una manifestazione che annualmente impegna poeti e pubblico in una avvincente maratona poetica. Allestimento sobrio e funzionale, dei cubi affastellati, cinque poltrone per le interviste, qualche vezzo nel microfono con pendenti ornamentali, e un grande planisfero, nella sala non si sono più i tavolini tondi delle manifestazioni che abbiamo seguito in  passato, così la capienza è aumentata..

Non c’è più il concerto serale preceduto da un’intervista sulla poesia nella canzone, dopo Lucio Dalla e Francesco De  Gregori,  Fiorella Mannoia e Roberto Vecchioni, la poesia resta nella sua purezza, sottolineata dal presidente della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele che ne è l’ideatore e il realizzatore, nel registrarne i risultati positivi, perché l’incontro annuale è la punta dell’iceberg di una serie di iniziative: “Abbiamo seminato la poesia contemporanea nelle scuole, abbiamo fatto incontrare la poesia con le altre arti,  abbiamo portato a Roma la testimonianza di grandi autori italiani e stranieri, contribuendo a diffonderne la cultura”. E  ha aggiunto: “Sono orgoglioso  dei risultati raggiunti, che ci danno l’entusiasmo per continuare a coltivare e far crescere questo genere letterario puro, non contaminato dalle logiche economiche, rinnovandoci ogni volta”.

Un entusiasmo, quello del Presidente, evidentemente contagioso a stare alle ovazioni con  gridolini da concerto rock dei numerosi giovani  presenti al Teatro di Adriano. Questo ci ha colpito in modo particolare, pur avendo assistito alle edizioni precedenti: le generazioni giovanissime, sempre più distratte dalle semplificazioni offerte dalla tecnologia informatica e telematica, le abbiamo sentite e viste sotto i nostri occhi sensibili al richiamo della poesia al punto da entusiasmarsi come ad un concerto del divo canoro del momento. Questo per aver “seminato” la poesia contemporanea nelle scuole;  dell’incontro della poesia con le altre arti, rivendicato dal Presidente,  diremo al termine. 

I giovani alla ribalta della Poesia

Sono dei licei di Roma Aristofane e De Sanctis, Machiavelli, Rossellini e Virgilio,  i giovani entusiasti che affollano la sala, i loro “campioni” si alternano al microfono leggendo le poesie:  è il tradizionale appuntamento “Caro poeta” in cui gli studenti incontrano  i poeti che hanno lavorato con loro nelle scuole avviandoli alla poesia, sono Franco Buffoni, Terry Olivi ed Elio Pecora, Maria Grazia Calandrone e Luigia Sorrentino. Ecco alcuni frammenti di loro poesie che parlano di amore e  di vita. Buffoni: “L’amore è un lavoro, o forse un lavorìo/…l’amore è un garanzia per una forma/ di protezione degli opposti/ un calcolo sbagliato”.  Olivi: “Sul terrazzo bianco/ danzano figure leggere/ Ere di tempo geologiche/ travasano/ da un emisfero  a un altro”.  Pecora: “In quell’immenso ordito la sua vicenda non è /che un intreccio infinitesimo, il disegno sbilenco/ di una foglia prossima a insecchire”. Calandrone: “Raramente ci è dato approvare senza sospetto l’amore che ci viene portato/… ma, a volte la guerra che facciamo a noi stessi ci lascia sconfitti”. Sorrentino: “Il figlio viene  dalle piante/ d’albero, dalla voce stesa/ il profilo dell’aquila icona/ gelata sulle labbra/ dalla panchina/ non so più chiamarti”.

Il clima si accende ancora di più con il  “Poetry slam”,  che fa parte del campionato nazionale della L.I.P.S, Lega Italiana Poetry Slam,  è intrigante soprattutto per i giovani vedere l’agonismo applicato alla poesia. Si tratta di una gara poetica tra Antonella Bukovaz e Rosaria Lo Russo, Sergio Garau, Francesca Gironi e Simone Savogin, in due “manche”, eliminatoria e finale, con tempo limite di 3 minuti  e penalità per ogni sforamento.  E’  animata da Lello Voce, conduttorevivacissimo,  che unisce citazioni colte alla gestione agonistica. Una giuria di cinque giovanissimi “dà i voti” su  lavagnette che ricordano le palette televisive, dal computo si eliminano i due voti estremi, come per tutte le gare con giurie, meno quella televisiva di “Ballando con le stelle” in cui si fa spettacolo a scapito della correttezza, con i voti erratici dei giurati più stravaganti.

La poesia  non è la canzone, ma può suscitare analoghi entusiasmi e coinvolgimenti se inserita in una cornice moderna, e qui se ne dà una dimostrazione tangibile. I cinque si alternano con la loro poesia di tre minuti, scattano anche le penalità, votazioni e applausi scandiscono il confronto.

I  premi “Ritratti di Poesia. 140”  e il “Premio Fondazione Roma”

In attesa della seconda “manche” la consegna dei premi  “Ritratti di poesia.,, 140”,  “una poesia in un tweet”, giuria composta dai poeti Rosaria Lo Russo e  Anna Toscano e dal traduttore di poesie Damiano Albeni . A Sotirios Pastakas il premio per la  sezione estera, a Maria Angela Rossi per la sezione italiana. Si ascolta la lettura delle loro poesie.

Il presidente Emanuele  presenta poi  il vincitore del Premio Fondazione Roma  e ribadisce il proprio  concetto sull’importanza fondamentale della  cultura in un paese come il nostro privo di risorse naturali, dove  la cultura va vista come risorsa preziosa e per fortuna disponibile; e la Fondazione, che interviene nelle emergenze sociali e umane non dimenticando i disabili,  ha promosso la cultura a 360 gradi, dalle arti visive alla musica e all’arte in senso stretto. In questo ambito si colloca la poesia, che è “nel cuore di tutti”, dell’essere umano: “Tutte le arti hanno bisogno di qualcosa per esprimersi – ha detto –  la poesia non ha bisogno di nulla, solo di sensibilità”.

Il bilancio di dieci anni è pienamente positivo, un continuo aumento di interesse e partecipazione. Emanuele ha ricordato gli inizi al mare di Castelporziano, con le serate e notti  trascorse tra balli e poesie, quest’anno sarà rinnovata l’iniziale consuetudine ad Ostia antica, dove verrà raccontata e ascoltata la poesia. “L’entusiasmo dei  giovani oggi conferma che avevamo visto giusto”.

Il vincitore è Giancarlo Majorino,  poeta contemporaneo dei più rappresentativi, autore di opere teatrali e musicali, presidente della Casa della poesia di Milano. Le sue  poesie vengono lette da Sonia Bergamasco, Nastro d’Argento 2004 come protagonista del film “La meglio gioventù”  di Marco Tullio Giordana, ha avuto  due premi anche per il teatro nel 2012 e 2014. Ha alternato  con maestria e sensibilità toni sussurrati a toni accesi. Ecco alcuni versi da “Torme di tutto”: “Incalcolabile bellezza d’E/ è la tua incalcolabile onestà/ masnade t’han senza grossi guai/ architettata di veridici sogni/ quando, gravata, porta il suo corsetto curvo/ è la luna sotto le rondini che ti fiancheggia/ se tu non mi lasci, io mai ti lascerò”.

La sfilata dei poeti entra nel vivo, tornano i giovani

Il ritmo  non rallenta, scandito da un conto alla rovescia luminoso, Vincenzo Mascolo perfetto maestro di cerimonie, conduttore, intrattenitore e anche intervistatore da solo o con altri. Siamo alla 1^  parte  della rassegna poetica “Di penna in penna”,  una passerella  di poeti,  intervistati sulle loro poesie prima di leggerle con il trasporto e l’immedesimazione tipica degli autori  che si aprono direttamente per  condividere contenuti e sentimenti con gli ascoltatori.

Ecco alcuni versi toccanti di Milena De  Magistris Von Rex: “La mia carezza, testarda e vincente/ scava forma e materia,/ scava, scava e raggiunge e vince la morte (nello sfiorare il tuo esserci ancora,/ in spazio e tempo vibrante,/ forse confuso fra i tramonti/ della tua disarmante purezza”, ripensiamo alla purezza della poesia evocata da Emanuele. Di morte con il riscatto divino parlano i versi di Mariù Safier: “Sulla carta geografica di un viso smarrito/ è scritto lo sgomento/ di un popolo ferito/…Quant’è piccola e ingiusta / la giusta causa – la giusta morte, il giudizio terreno./ Quanto immenso invece il perdono/ di un Dio qualunque/ anglicano, afgano, armeno, romano/ che abbraccia  e prende per mano/ ogni essere umano”.

Non c’è tempo per meditare, irrompe la 2^ manchedel “Poetry slam”, gli stessi giovani  poeti, accresciuto l’entusiasmo da stadio negli spalti, pardon, nella sala del Tempio di Adriano. Vince Simone Savogin,  la sua poesia ha le cadenze incalzanti del Rap, anche per questo il voto sulle  palette dei giurati è 10,  gli applausi e i gridolini dei ragazzi raggiungono il diapason. Abbiamo notato un particolare,  ha letto l’ultima poesia sullo “smartphone”,  ci è sembrato un messaggio su come anche la poesia si attagli alle nuove tecnologie amate dai giovani, è qualcosa su cui costruire.

La Poesia,  terapia per le malattie e soccorso alle lingue in pericolo

L’accorta regia della manifestazione fa seguire un altro momento speciale, altrettanto inusuale: dopo il “Poetry Slam” la “Poetry Therapy”,  Ne parla Dome Bulfaro,  ricordando che  l’idea ha oltre mezzo secolo, e si è affermata negli anni ’80. La poesia è sempre terapeutica, ha premesso, come cura dell’anima, ma per determinate patologie può essere usata in modo mirato, con varie tecniche che insegnano a raccontare e a farsi ascoltare; si deve operare con cautela facendo leva su parole appropriate, mostra un libro che raccoglie le poesie adatte e spiega come superare gli ostacoli psicologici. La sua è una vera esibizione, con una filastrocca  per bambini utilizzata per far superare loro la paura dell’acqua mediante un’ immersione virtuale  dall’incalzante ritmo onomatopeico.

Anche alle “Lingue in pericolo”  la poesia può essere di soccorso,  sono destinate a scomparire entro questo secolo rischiando di perdere un patrimonio di cultura e di conoscenze; è una previsione dell’Unesco che ha redatto l'”Atlante delle lingue in pericolo” e predisposto un programma di interventi  per  la conservazione di quelle in estinzione con la loro rivitalizzazione e trasmissione alle giovani generazioni . Ne parla con passione Ines Cavalcanti di Chambra d’Oc, impegnata nel difendere la lingua occitana, cura il Premio Ostana sulle lingue in estinzione.  Antony Heulin  lo dimostra con il bretone, ricorda  Demis Roussos,  non solo nel fisico ma nel modo in cui porge una suggestiva canzone, come una nenia mistica. Ecco un frammento della traduzione dal bretone di una sua poesia, parla dei “Treni di notte”: “Ci si addormenta afferrando il primo sogno che passa/ in bolle di sapone  che ogni sosta minaccia/…abbiamo sempre troppe cose da farci rimproverare/ anche quando non siamo degli assassini/ per attraversare senza intoppi le pianure del silenzio”.  

Dopo i poeti,  le Case Editrici di libri di Poesie

Nell’incessante alternanza di temi e motivi  la 2^  parte di  “Di penna in penna”, altri quattro poeti parlano della propria visione poetica e presentano  i versi in cui si esprime, eccone alcuni.  Corrado Benigni si chiede: “A chi domandare? E cosa?/  In quest’attesa che fa da scudo all’aldilà/ mentre brama uno spiraglio,/come le lunghe ore dell’inverno/… Siamo scrittura da decifrare tra la pietra e le stelle,/ conosciamo noi stessi fino  a metà della prova/  da dove il destino è inciso/ con un nome di figlio sull’acqua”.  Sembra rispondergli  Domenico Cipriano: “Esistiamo perché mutiamo. Il corpo/ si trasforma con il tempo, così la voce/… Se c’è una storia da ricomporre (pezzo a pezzo)  è nel modificarsi/ delle orme che tracciamo./ Continuiamo a dirci vivi/ ostinandoci a non apparire uguali/ e questo morire eternamente/ è il volto stesso che la vita ci consente.”  Troviamo un’eco in Stelvio Di Spigno: “… Era tutto e solo da capire/ quel vento angusto che non disturbava,/ era l’amore, la speranza infinita, la canzone/ invalida, estatica della felicità/ … Il cuore che batte senza un movimento/ il tempo che non avanza un momento”.  Mentre Isabella Leardini  guarda alle rondini: “Pensavo che saremmo stati/ perfetti come il volo degli uccelli/ nei cerchi e nelle svolte del destino/ io non volo e non mi poso/ io non canto/ Le rondini non sanno partire/… continuano a ripetere che questo/ è il loro autunno radioso d’aria / mentre le prende piano la neve”.

L’incontro con le Case Editrici, “Idee di carta”,  riporta alla realtà dei libri di poesia,  con risposte ai due intervistatori, tra cui Vincenzo Mascolo,  che chiede qual è la loro idea di poesia. Emerge un quadro variegato di visioni e di iniziative  in una situazione  attualmente molto negativa dal punto di vista del mercato, ma senza il timore che le nuove tecnologie possano far scomparire i libri e tanto meno la poesia: questa esisterà finché “non ci si vergognerà di avere un cuore” e, per i libri,  quelli cartacei resteranno sempre purché curati nella carta e nella grafica. Un editore ha presentato le sue   “lanterne scritte”  distribuite nelle scuole per essere  corredate di poesie, e l’ “orchestra di carta”,  con veri strumenti a percussione e intorno ai suonatori 20 ragazzi con strumenti di carta.  Il rilancio di un altro editore si basa sull’estensione della platea autoriale, dai consueti nomi degli stessi poeti ben noti  ad altri autori segnalatisi ad esempio in narrativa da lanciare nella poesia, in modo che “non ci sia lo scambio delle solite figurine”, così si potrà uscire dal campo ristretto degli addetti ai lavori. Sono solo scampoli di  un confronto di mezz’ora con la Kolibris Edizioni, Marcos y Marcos, Marco Saya Edizioni, Raffaelli Editore, l’ultima sezione dell’intensa mattinata.

Sono le ore 14, l’instancabile Mascolo concede una pausa di soli quindici minuti, come l’intervallo tra il primo e il secondo tempo di una partita di calcio, anche in questo si vive un clima agonistico. .

Dai poeti in italiano a quelli in dialetto e in lingue straniere

La  prosecuzione delle  sezioni poetiche della mattinata è articolata in  parti intervallate tra loro e con  nuove sezioni “La lingua, le lingue” e “Poesia sconfinata”, fino all’ultima premiazione.

Ne daremo conto,  seguendo la successione delle presentazioni come nella mattinata, cercando di rendere così il ritmo e la cadenza di una maratona che è giunta al traguardo senza mai un intoppo.

“Di penna in penna” , quattro  nuove parti con tre poeti ciascuna dopo le due della mattina. Nella 3^  parte, ecco dei frammenti che, come i precedenti,  non  intendono presentare il poeta, ma solo far “assaggiare”  la sua poetica.  Domenico Alvino: “Avevi nello sguardo striature siderali/ Flussi di energia ti frusciavano sui fianchi./ Già allora eri a mezzo tra il nulla e l’infinito/ che ruggiva nel tuo gesto/ come una cometa tra gli astri”.    Mentre per Mariella De Santis “bisognerà si ricominci  a parlare di te che poi vuol dire/ parlare di noi/… prima che quella temuta cosa accada  e non ci sia più / più noi ma lì, loro, voi chi non unisce  e non separa”.  Incomunicabilità?  Forse anche in Maria Pia Quintavalla: “Non so, come non sento alone di un altro tempo che si sposti da qui, l’eterno dove sei rivolta, i due volti guardano/ nello stesso punto senza fissarsi, all’unisono./ E dove era caduta la rondine più alta, per forare spostandolo, il muro a me incompiuto” .

Una nuova sezione, “La lingua, le lingue”, 1^  parte,  entra nel campo dei dialetti, in qualche misura minacciati anch’essi, mentre vanno considerati vere e proprie lingue e la poesia dialettale ha la stessa dignità di quella  nella lingua propriamente detta.   Dina Basso, di Catania, la cui opera prima ha vinto tre premi per i giovani,  parla del corpo; “L’ossa muti lassu/ ca parranu ppi mia/ – ogni ddenti canuscia/ a megghia parola/ ca si lassa pinsari, ma mora ‘na ucca/ e mporta ‘rresta na gola”, in lingua “Le ossa mute lascio/ che parlino al mio posto/ ogni dente conosce/ la parola migliore/ che si lascia pensare, ma/ muore nella bocca/ e morta resta nella gola”. Di Andrea Longega, di Venezia, che ha pubblicato 5 raccolte di poesie  un brano inedito:  “Ghe le portarò al frutariòl/ le mie poesie, che le méta dentro/ una de le so tante cassette”.

 Altrettanto nuova la  “Poesia sconfinata”, 1^ parte, l’aggettivo  si addice molto alla poesia, che non ha confini di alcun tipo, né di temi e contenuti né di soggetti, è aperta  a tutto e a tutti, qui si riferisce all’assenza di confini geografici. Vengono presentati poeti in lingue straniere, con le traduzioni. Comincia la francese Angèle Paoli: “C’è tempo / nella luce serale/ un tempo contato a scrutare/ le stelle a pensare la tenerezza/ che si dice/ nel loro scintillio../ c’è il silenzio/ che cade nel tempo stesso/ del sole”.  Segue l’indiana Rati Saxena, parla di radici:  “… scivolano nella sera/ e nel momento in cui sono vicina/ le piante dei miei piedi svaniscono/ nella loro stessa ombra”.

Continua la sfilata di poeti nelle varie sezioni

Si va avanti con “Di penna in penna”,  4^ parte. Ecco Vito Bonito: “Non entrerai dice la pietra/ ogni respiro/ ti ha rifiutato”. Sembra proseguire il dialogo Vincenzo Frungillo: “Se queste pietre avessero pietà/ per le mie ferite, io avrei ragione,/ in quanto animale tra le creature,/ perché l’accento che tu noti, il dolore,/ è solo memoria che si corrompe/ e, pensa bene, non vale niente.”. Mentre per Rosa Pierno “nessun rapporto tra mare e cielo. Nessuna equivalenza né/ unità. Solo un colore plumbeo che rimbalza tra due teli stesi”.

Un breve intermezzo con la 2^ parte di “Lingue in pericolo”  Aurélia Lassaque, nella lingua occitana,  il titolo è  “Non voltarti”: “Hai preso il cammino del paese di notte/ dove il deserto è di gelo/ e le stelle si struggono/ apri le braccia  e scava, / la polvere sarà il tuo pane,/ ti disseterai alle nostre lacrime”.

Ancora  “Di penna in penna”,  è la 5^ parte. Tomaso Kemeny sull’ “incontro con l’Angelo del Lucore”: “Dagli immani abissi del fulgore/ smisurata e rapida tempesta/ accresce la gioia/ di essere vivi.”. Silvio Raffo  va oltre: “La vita è un’irreale pantomima/ che c’inganna e ci fa sembrare veri/ sogni timori impulsi e desideri/ in attesa che il falso si redima.”. Mentre Albero Toni sul “sordo rumore del cuore”: “…vedeva/ e non vedeva , scavalcava. Lo sentivo appena./ Poteva non conoscere, non sapere dove/ svetta la chioma dell’ultimo albero rimasto?”.

“Poesia sconfinata” presenta, nella 2^ parte, un solo ospite, lo svedese Jesper Svenbro, con il suo “Apollo Lappone”: “Veramente vicini non gli arrivammo mai/ era troppo incomprensibile là nell’arazzo/ della sua testa/ ricamato con la corona luccicante della costellazione dell’Alce./ Ma il sapere della sua presenza in alto, lassù,/prese in noi forma di un intimo sorriso/ che durò giorni, mesi, anni”. 

Tornano i dialetti con la 2^ parte di “La lingua, le lingue”, Franca Grisoni, di Sirmione, 9 libri di poesie e 2 opere teatrali,  parla di forme e nomi:  “Ne ricordam. Te no? L’è mio el bisogn/ che ‘l so: som stacc ensema/ prima de furme e non/ e ‘nsema, amò, ‘l sarom/ sensa po’ forme e nom”. Cioè “Ci ricordiamo. Tu no? E’ mio il bisogno/ perché lo so; siamo stati assieme/ prima di forme e nomi/  e assieme, ancora, lo saremo/ senza più forme e nomi”. E Nevio Spadoni, poeta e drammaturgo, vincitore del Premio Gozzano,  parla dell’inverno con la luna e i baci: “”Scumet che nènch la lòna la s’è smenga/ pinsé che insana a ir la s’à gvardè/ trapèsa al pipi/ a e’ vers dal zghèl  ch’agli  insurdéva i bis”.  In italiano: “Scommetto che anche la luna si è dimenticata,/ / pensqare che fino a ieri ci ha spiato/ nascosti tra i pioppi/ al verso/ delle cicale che insordivano i baci”.

Il Premio Internazionale Fondazione Roma  e la fine della rassegna poetica

Siamo al clou, il Premio Internazionale Fondazione Roma “Ritratti di poesia”,  il presidente Emanuele premia  Carol Ann  Duffy, dal 2009  insignita dell’onorificenza concessa per la prima volta a una scozzese, di “Poeta laureato del Regno Unito”. Una delle sue poesie lette da Sonia Bergamasco parla di api: “Affondano, le mie  api poete,/ tra pistilli e petali,/ in cardi, in rose, narcisi, perfino/ nei loto dorati; scivolano così,/ splendenti, serene, dorate -/ sagge – e sanno di noi:/ che il tuo profumo pervade/ il mio cuore ombroso, solerte,/ e il miele è arte”.

La maratona si avvia alla conclusione con  di “Di penna in penna”, 6^ parte.EccoGabriele Frasca: “… spartiamoci da amici questa meta/ che nel nostro rincorrerci è pretesto/ di quanto si discorre via dal testo/ nel tempo che la voce lo completa.”. Anche in Mario Santagostini troviamo la luce: “Certo, adesso non amano la luce,/ e nemmeno c’è una luce/ che li ha amati/…chiunque tu sei/ dismetti la certezza che la vita/ è stata il loro/ momento migliore”. Mentre Aldo Nove, 7 libri di poesia e molti romanzi, l’ultimo “Tutta la luce del mondo”, parla del tempo: “Un’altra ora e ce ne sono state,/ ce ne saranno ancora, forse meno/ di prima, contenute nelel case,/ costrette nelel cose, e forse troppe/ ne restano, di ore da riempire”.

Con la 3^ parte di “Poesia sconfinata”  termina la maratona. E’ di scena in un atravolgente performance poetica e musicale l’americana Joy  Harjo, discendenza dagli indiani Cherokee, la più importante poetessa nativa degli Usa, musicista, che ha inciso 4 album con poesie e ritmi tribali di intensa spiritualità, vincitrice nel 2009  del “Native American Music Award”.  Riportiamo solo alcuni versi da “Il mio cielo”: “Se tu sei nuvola/ io sono lacrima,/ Ti vedo in lto, lontano/ volare spinto da un vento viola,/ la tua casa nel cielo senza confini”.  La nuvola è protagonista dell’enigma ornitologico” del portoghesei Nuno Jùdice: “Un uccello entrò in una nuvola,/ una nuvola entrò in un uccello./ ‘Qual è la verità?’, chiese/ l’uomo. ‘E’ nell’uccello?’ Oppure/ è nella nuvola?’ E mentre/ l’uomo cercava la risposta, /l’uccello uscì dalla nuvola, facendo/ in modo che la verità uscisse dall’uomo”.

L’arte ispirata alla poesia nelle opere-installazioni di Enrico Miglio

Si esce dalla sala con in testa quest’enigma, ma si è subito colpiti dall’ultima sorpresa. Non c’è più il concerto serale, ma l’incontro della Poesia con le Arti di cui ha parlato Emanuele è reso in modo spettacolare da una serie di opere-installazioni di  Enrico Miglio, tutte del 2016, ispirate a  brani poetici riportati per esteso a corredo del titolo. Avevamo visto in passato il collegamento all’arte fotografica attraverso i ritratti  ai poeti di Dino Ignani, ora si è raggiunto il massimo, e non si tratta della Divina Commedia che ha ispirato tanti artisti, ma di componimenti da Empedocle  a Guillame Machant,  da Thomas Eliot ad Hermann Hesse, dalle  “Tavole smaragdine” al “Canto degli spiriti sulle acque”.   La scelta è appropriata,  così abbiamo visto presentare le opere dell’artista in altre sedi:  “I materiali utilizzati sono materiali ordinari, elementi facili da reperire nella vita quotidiana.  La maestria per trasferirli in Arte sta nel comporli… proprio come le parole in una poesia”.   

Tra le sue opere un Vesuvio in eruzione con tanto di lava fiammeggiante. E’ il  botto finale dello spettacolo pirotecnico sulla Poesia che ha illuminato il cielo del centro di Roma il 5 febbraio 2016.

Info

Tempio di Adriano, Piazza di Pietra, Roma.  Un agile compendio con una poesia per poeta: “Ritratti di Poesia. In viaggio con la poesia”, 10^ Edizione, 5 febbraio 2016, Fondazione Roma Arte-Musei, pp. 64, dal compendio e dalle letture al Tempio di Adriano sono tratti i versi citati nel testo. Per i nostri  articoli sulle passate edizioni  cfr., in questo sito, “Ritratti di Poesia, al Tempio di Adriano con la Fondazione Roma”  15 febbraio 2013;  in “fotografia.guidaconsumatore.it”, “Ritratti di poesia anche fotografici al Tempio di Adriano”  30 gennaio 2012;  in   “cultura.inabruzzo.it” “Ritratti di Poesia al Tempio di Adriano” 9 maggio 2011 (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito). Per le interpretazioni artistiche della “Divina Commedia” cfr., in questo sito, gli articoli “Rodin, disegni sull’Inferno, Roberta Coni, dipinti sul  I Canto” 2 febbraio 2013, e “Gianni Testa, l’espressionismo onirico al Vittoriano” 14 settembre 2014. 

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Tempio di Adriano, si ringrazia la Fondazione Roma Arte-Musei, con le persone riprese, e l’artista Enrico Miglio per l’opportunità offerta. In apertura, una panoramica del  palco con in fondo il presidente Emmanuele F. M. Emanuele; seguono due immagini ravvicinate, nella prima il presidente Emanuele al microfono, nella seconda  il vincitore del Premio Fondazione Roma Giancarlo Majorino tra Emanuele e Mascolo; poi, due giovani partecipanti al “Poetry Slam” in gara;  quindi  una votazione della giuria di giovani con Lello Voce, e la proclamazione del vincitore, il primo da sinistra, tra i 5 concorrenti da parte di  Lello Voce; inoltre, per “Idee di carta”, i rappresentanti di 4 Case Editrici di libri di poesie,  modera Vincenzo Mascolo sullo sgabello a sin; ancora, un’immagine della “Poetry Therapy” con Dome Bulfaro e,  per le “Lingue in pericolo”, Antony Heulin mentre recita e canta in bretone; in aggiunta, per “Di penna in penna”,  Isabella Leardini intervistata da Mascolo  e la Leardini mentre recita le sue poesie; infine, Sonia Bergamasco nella lettura delle poesie del vincitore del premio Fondazione Roma, sezione nazionale, seduti, da sin. Majorino, Emanuele, Mascolo, poila visione della parte della sala con i giovani studenti e l’installazione  di Enrico Miglio ispirata a una poesia di Empedocle, “I venti, il mare, la terra”; in chiusura, la più spettacolare installazione di Enrico Miglio,  ispirata alle “poesie meliche” di Giuseppe Battista, “Lo ‘ncendio del Vesuvio”.

Montorio al Vomano, la Vetrina del Chiostro 2015

di Romano Maria Levante

A Montorio al Vomano, all’ingresso del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, dal 21 al 23 agosto 2015 l’annuale  manifestazione “La Vetrina del Parco”, tre giorni di mostre e musica, spettacolo e gastronomia, giunta alla XX edizione dopo  che nel 1995 Domenico Verdone e altri idearono questo momento di presentazione e valorizzazione del Parco. Organizzata dall’Associazione culturale “Il Chiostro” di Maurizio Di Giosa con il contributo degli Enti locali.

Francesca Casolani, “La visione di Anna”, 2015,  a sin., e “Le lettere di Paolo”, 2009, a dx.

L’assenza del Parco, nella manifestazione e nel territorio

Il titolo non è un refuso, c‘è una precisa ragione nel differenziarlo dal vero titolo della manifestazione. Il Parco manca del tutto mentre il Chiostro è ben presente.  Lo avevamo già rilevato in precedenza, ma mai come quest’anno l’assenza è stata così plateale, il declino progressivo sempre più accentuato da un anno all’altro ha portato alla sua totale scomparsa. Il suo stand non manca, anzi è il più ampio  come dimensioni tra quelli presenti nella piazza principale di Montorio, dinanzi alla Chiesa di San Rocco, il cui primo nucleo voluto da Vittoria Camponeschi e la Collegiata risalgono al XVI secolo; ma l’ampiezza dello stand ne fa risaltare  il vuoto,  una gigantografia dei monti con un profilo di camoscio, una cartapesta da un lato, un’esposizione in vendita di ben noti opuscoli e carte  su località del Parco e sui sentieri montani, null’altro.

Al cronista che chiedeva elementi sull’attività del Parco è stato fornito, con un’enfasi degna di miglior causa, solo un depliant sul “Progetto leader. Gambero Italico. Intervento a tutela dell’Austropotamobius italicus” , quasi fosse l’esigenza più urgente del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.  Pur essendo  nativo della zona e legato ad essa da una vita con ritorni continui  quest’esigenza sfuggiva, come sfugge a coloro, anch’essi nativi nel Parco che il buon giornalista ha consultato. Per questo ha obiettato che altre gli sembrava fossero le esigenze prioritarie ed altri  i  “progetti leader”  da attivare, con tutto il rispetto per il “gambero italico”, senza dubbio meritevole di attenzione da parte degli animalisti.  

Uno scorcio dell’esposizione fotografica di Alessandro De Ruvo – Mario Di Basilio

Con pari enfasi è stata sottolineata la “manutenzione dei sentieri”, ma per la gentile rappresentante del Parco nello stand  è stato come cadere, o far cadere, dalla padella alla brace; perché il vostro cronista, forte della sua conoscenza dei luoghi, ha potuto contrapporle, sul tema specifico, i sentieri,  ad esempio quello sul Rio d’Arno a Pietracamela, nel cuore del Parco, dal 2005 nel Club dei “Borghi più belli d’Italia” dell’Anci, nel 2006  nell’eccellenza delle “Cinque stelle alpine”, “Borgo dell’Anno 2007” e, a detta dell’ex sindaco Antonio Di Giustino, dal 2013 tra i 400 borghi più belli del mondo. Si deve dare atto al Parco di aver posto delle grosse frecce di legno con meta paesaggistica e tempi di percorrenza, salvo il particolare,  trascurabile per il benemerito Ente, che sin dai primi metri il sentiero è impraticabile perché bloccato dai rovi. tanto che lo sventurato il quale seguisse l’indicazione ne rimarrebbe imprigionato e per di più ferito, potrebbe richiedere persino i danni; per non parlare dell’Ippovia fantasma, segnalata e costata parecchio ma impraticabile, a detta di chi vorrebbe utilizzarla.  Dagli uffici del Parco precisano che questa non è loro competenza, ma spetta ai territori e al CAI, che riceve appositi dinanziamenti pubblici, e soltanto da poco l’Ente ha avuto dei fondi che consentiranno qualche limitato intervento.

Questa è mera cronaca  del nostro primo contatto con la manifestazione che, denominata “Vetrina del Parco” ,  dovrebbe presentarne non solo l’attività –  cosa che non fa, a parte il “Gambero Italico”  per il quale, lo precisiamo per dare atto doverosamente di quanto compiuto e reclamizzato,  sono stati realizzati tre incubatoi ad Arsita, Capestrano e Rocca di Mezzo –  ma anche gli antichi  borghi  che lo compongono con peculiarità e tradizioni, bellezze naturali e paesaggistiche.

Nelle manifestazioni dei primi anni erano presenti stand dei diversi Enti interessati e anche degli altri parchi abruzzesi,  per la valorizzazione del territorio con i suoi borghi e i suoi pregi ambientali, ora se n’è perduto anche il ricordo in un’assenza assoluta, un silenzio assordante su tutta la linea.  Nella piazza dove si svolge la parte “esterna” della manifestazione, pochi stand oltre a quello famigerato del Parco, tra cui uno sul volontariato, e una piccola palestra di roccia, in cui i ragazzi provano il brivido dell’arrampicata adeguatamente assistita, con in più  equitazione e “mountain bike”; a questo si collega lo spettacolo acrobatico di Bike Trial con il vice campione italiano Renatas Salichovas.  

Francesca Casolani, “L’Arcangelo Michele”, 2010

La manifestazione all’esterno, in Piazza Orsini

Alla componente gastronomica sono  dedicati  il  “Gran Galà della Cucina Tradizionale Montoriese”, e un’appendice  nella contigua Piazza della Corte di Corso Valentini con “I dolci della tradizione montoriese”, troveremo altrove “I sapori del Parco”, li citeremo più avanti.

Sempre nella piazza  Orsini il grande palco con musica (“Tammuriata rock”  di Enrico Capuano, gli “Allabua e la “pizzica salentina”) e spettacolo (“Vincenzo Olivieri Show” e  “Il Fuoco”, Compagnia dei Folli,  teatro e danza, trampoli e pirotecnica,  a chiusura della manifestazione). E’ la parte “esterna”,  che nell’insieme è apparsa sottotono. Come ci è sembrata inferiore alle attese la presenza del pubblico in una manifestazione che al richiamo gastronomico comune alle sagre locali, ma qui particolarmente qualificato, aggiunge peculiari motivi di interesse, dalle mostre d’arte alla musica, fino alla prestigiosa etichetta del Parco.

Poco male se queste assenze o almeno carenze, del Parco e del pubblico, riguardassero soltanto la manifestazione, tre giorni  e nulla più. Ma il Parco è assente nella promozione, che oltre alla tutela dovrebbe essere una sua funzione primaria;e se non lo prevede l’attuale normativa cosa si aspetta ad adeguarla alle esigenze reali del territorio, sempre più spopolato per cui poco ci si può attendere dalle amministrazioni locali dei piccoli preziosi borghi da valorizzare? Ed è sempre più rarefatto se non assente il pubblico di turisti,  nel territorio montuoso del Parco, rispetto alla ripresa del turismo marino abruzzese, così rilevante da dare all’Abruzzo il primo posto tra le regioni italiane, nella crescita di presenze al mare rispetto al 2014..

Francesca Casolani, “Giona e il mare”, 2015

Il rilancio del Parco con una presidenza competente e dinamica

Se anche per i Musei, la quintessenza della mera tutela e conservazione, si va verso la valorizzazione sul piano economico, per il territorio del Parco,  con la popolazione viva e vera, la valorizzazione turistica è ragione di sopravvivenza.  E come può realizzarsi se nessuna iniziativa viene promossa, e perfino le strade, in particolare  la provinciale Ponte Arno-Pietracamela-Prati di Tivo, che conosciamo bene, sono campi minati di buche che neppure gli slalomisti al volante riescono ad evitare,  pur a rischio di incidenti, che si sono verificati numerosi?  Non è competenza del Parco ma della Provincia – lo sappiamo –  però è il Parco che ha la responsabilità della tutela dell‘intero territorio, quindi avrebbe dovuto agire fino a provocare un conflitto istituzionale risolutorio, tanto più che la strada statale a valle è ben curata; e non attenua il giudizio severo il tardivo stanziamento promesso dalla Regione per la sistemazione delle strade, la stagione 2015 intanto è andata perduta con ciò che comporta sul piano economico e non solo.

Ci si potrebbe chiedere perché ci siamo limitati a tartassare la rappresentante dello stand  con una successiva rapida verifica presso gli uffici e non abbiamo intervistato il Presidente. La risposta è semplice,  non solo la “Vetrina del Parco” era lì e di quella volevamo dare conto, ma soprattutto la  presidenza di Arturo Diaconale, che si è affacciato il primo giorno,  è scaduta il 20 agosto, quindi alla vigilia della manifestazione, e il direttore generale addirittura da un anno, con assenza più che decenanle anche del Consiglio generale, e qui le responsabilità sono tutte del Ministero  competente; per non parlare del drastico taglio degli stanziamenti pubblici, tale da consentire solo quanto è finanziabile con i fondi europei limitati alla ricerca (“Gambero italico”  docet).  Ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa insistere ancora su questo tema pur se cruciale, per il quale lo scaricabarile tra le istituzioni sulle rispettive competenze è un classico paralizzante. Dopo il progetto “Strada Maestra” per le aree interne con la riattivazione di case cantoniere per l’accoglienza e qualche arredo ambientale ampiamente reclamizzato dal predecessore Walter Mazzitti , non ricordiamo  altro; a quanto si dice allora Castel del Monte fu “miracolato” dagli interventi del Parco, poi è avvenuto quanto abbiamo riassunto, taglio dei finanziamenti e stagnazione.

Donatella Giagnacovo, l’ “Uomo cartone

Non vogliamo fare processi, si deve guardare avanti e  il momento sembra favorevole per una vera e propria svolta, come è stato nelle direzioni dei Musei, per le quali il ministro dei Beni Culturali e del Turismo Dario  Franceschini ha indetto un concorso internazionale scegliendo, dopo una selezione culminata nella terna di nomi,  9 direttori stranieri su 20 in base al curriculum di ciascuno dei concorrenti, alle esperienze specifiche e soprattutto alle idee manifestate. E’ troppo chiedere una cosa simile per la nomina del nuovo Presidente del Parco, o almeno una vera selezione tra comprovati esperti del settore? Che sia accompagnata dalla revisione delle competenze che allarghi le funzioni del Parco alla valorizzazione dei borghi sempre più spopolati, incapaci di provvedere al necessario per alimentare un turismo in linea con i propri pregi ambientali.  Naturalmente è un problema anche di risorse, ma un’esigenza primaria come questa si pone tra le priorità assolute. 

Un consigliere provinciale ha proposto di convocare un grande esperto del Trentino per risollevare i Prati di Tivo, la località in territorio di Pietracamela  il cui manto erboso lambisce le rocce di Monte Corno,  con le due vette al culmine del Gran Sasso d’Italia, le più alte degli Appennini. A  maggior ragione per la presidenza del Parco si avverte la necessità di un grande esperto della materia con idee innovative e propositi al livello delle esigenze di rilancio dopo la stasi durata troppo a lungo, da ricercare come si è fatto per i direttori dei Musei o con procedure altrettanto selettive, in collegamento con l’aggiornamento dei compiti del Parco nel senso della valorizzazione da aggiungere alla tutela e alla ricerca.

Donatella Giagnacovo, il “Cane Bambino”

L’arte fotografica nel cortile del  Chiostro

Non ci sembra questa, dunque, la “Vetrina del Parco”,  il vuoto nella valorizzazione territoriale ha reso ancora più evidente il vuoto, giustificato o meno, di iniziative dell’Ente Parco.  Ma ci piace chiamarla, per ragioni opposte e quindi positive, “La “Vetrina del Chiostro”, ne dobbiamo dar merito all’organizzazione, con Maurizio di Giosa in testa. Come la parte “esterna” è risultata povera, così la parte “interna” ha mostrato ancora una volta la sua preziosa valenza artistica e culturale.

Intanto la bellezza architettonica delle arcate claustrali  che racchiudono il cortile all’aperto in un ampio  ambulacro quadrangolare, con le zone interne dai soffitti  ad arco nei mattoni d’epoca in un restauro perfetto effettuato a suo tempo con maestria evitando  eccessi ed addizioni stonate. 

Sotto le arcate due tipi di rappresentazioni. Alle pareti tutto intorno al quadrilatero del Chiostro una serie di gigantografie di Foto d’epoca su “come eravamo”: soprattutto nella montagna innevata e no, e non solo, con le figure caratteristiche della gente montanara: immagini della memoria su un mondo “sparito” che è bello ritrovare come sfogliando l’album di famiglia.

Le altre immagini della montagna non sono luoghi della memoria ma “Luoghi dell’anima”, titolo molto indovinato dato alla esposizione, discreta come lo sono le fotografie esposte che sembrano piovere dall’alto quasi fossero dei miraggi o materializzazioni dell’immateriale; evocano le sensazioni che dà la montagna nell’ambiente circostante, il tutto sentito con il cuore e non solo visto con gli occhi. Scorci inediti e particolari paesaggistici inconsueti fanno scoprire aspetti inusitati, ben diversi dalle riprese da “cartolina”, mentre una luce suggestiva  rende le immagini eteree, il filo che le sostiene in alto nell’allestimento ne rende la sospensione ideale. Autori Alessandro De Ruvo e Mario Di Basilio, che con maestria fotografica  e sensibilità trasmettono sentimenti poetici.

Roberto Di Carlo, “Maternità”

L’arte pittorica e non solo all’interno del Chiostro e dintorni   

Ma siamo soltanto all’inizio delle belle sorprese che riserva il Chiostro. Dopo la mostra fotografica sotto le arcate,  una mostra pittorica evocatrice di richiami ancestrali e di intense suggestioni.  E’ dedicata “alla memoria di Piero”, cioè di Piero Ferretti, scomparso da un anno, uno dei soci fondatori dell’associazione “Il Chiostro”, esperto nelle arti figurative, animatore delle  iniziative culturali; ce ne parla, senza nascondere la commozione, il figlio Enzo che ha collaborato all’esposizione.   

L’artista è Francesca Casolani,  la cui opera si ispira, per sua stessa affermazione, al mondo della marionetta, in cui i rimandi tra oggetto e soggetto, corpo animato e inanimato, simboli di pensiero e ricordo, di vita e morte,  non solo suscitano interesse, ma fanno entrare in un “universo pieno di stupore e di emozioni ” in cui si ritrova “quel filo rosso che unisce il mondo arcaico, sacro e primitivo”. Così dal ciclo “Nel ventre di Pinocchio”, dal 2011 al 2013, visto come “percorso spirituale e alchemico che Pinocchio deve compiere per giungere alla purificazione” l’artista perviene all’ultimo ciclo presentato nella mostra, “Ri-scritture”,  in cui il percorso spirituale si svolge nel mondo biblico. L’arcaismo  medievale è unito alla delicatezza bizantina in figure che superano i limiti della prospettiva e dell’anatomia divenendo delle icone incorporee ma immanenti nella loro forza evocatrice.

Fabiola Leonetti, Senza Titolo, un dipinto con un accostamento suggestivo

Vediamo nella prima stanza “Le Generazioni”, domina “La Visione di Anna“, 2015, una grande tavola di 138 x 224 cm, il volto reclinato nell’adorazione, la figura imponente;  di dimensioni analoghe “Le lettere di Paolo”, 2009,  ritratto mentre  scrive con la sinistra tenendone una nella mano destra. Sono di minori dimensioni la tenerissima e suggestiva “Natività”, 2012,  50 x 50 cm, e “Carte”, 2015, 20 dipinti 40 x 40  cm con le Storie della Genesi, dalla cacciata di Adamo ed Eva dall’Eden  alla rivelazione a Mosè con una nube, al posto del roveto, della liberazione degli Ebrei con l’uscita dall’Egitto.

Commenta la sequenza Filippo Lanci, dinamico parroco di Pietracamela e del comprensorio montano nel cuore del Parco per quindici anni, ora approdato ad Atri, massimo centro artistico e culturale della provincia di Teramo.  Così commenta l’opera pittorica di cui fornisce una lettura biblista colta ed approfondita: “Si tratta di una soluzione estetica dal fortissimo valore simbolico, che non nega il valore della storia, piuttosto mira a dilatarla nello spazio e nel tempo fino alla contemporaneità”.  Per concludere: “L’esito di una simile impresa non può che restare sospeso davanti al mondo interiore di chi osserva e, a sua volta, esservi calato ed esteso, ancora nelle infinite narrazioni delle quali ognuno è capace”.

Giovanni Gavioli, dal “Presepio artistico”, la cucina

E’ un commento che si può applicare alle opere dell’altra stanza,  “I Profeti”, anche se oltre a temi religiosi come “Madonna con bambino” e “L’Arcangelo Michele”, 2010, nuovi motivi si aggiungono a quelli biblici in un intreccio intrigante: così “Giona e il mare” e  “La fuga di Pinocchio”, 2015, accomunati dall’elemento acquatico, “Giobbe”, 2015,  e “Ob-audire la terra”, 2009,accomunati dalla perdita dei  figli del primo con la tragedia del terremoto del secondo. Così commenta Alessandra Morelli: “Un racconto a più tempi, in cui ogni singolo dettaglio diventa la metonimia delicata e pensosa di una redenzione, uno scorcio a cui accedere con gli accenti del dubbio e della bellezza”.

Nella “Vetrina” del  2013,  disseminate tra gli archi e nella Sala Conferenze erano esposte  opere di  Silvio Mastrodascio, originario di Cerqueto dov’erano i “mastri d’ascia”  che “scolpivano” il legno con le loro accette, è divenuto uno scultore di fama in Canada , già presente con  grandi installazioni urbane e mostre a Teramo oltre che a Montorio; a Teramo espone di nuovo dal 3 settembre al 15 ottobre 2015 al Museo Archeologico.

Questa volta nella Sala Conferenze al piano superiore  c’è la mostra “Let’s Play” di Donatella Giagnacovo,un “gioco” di marca prettamente contemporanea  che inizia con  una sequenza di grandi tessere rettangolari sul pavimento, sono gli “Intendimenti (accomodamenti)” che segnano la reiterazione  del tempo; poi una figura scultorea distesa nuda in orizzontale,  l’“Uomo cartone” esprime l’emarginazione disumana degli “homeless” rispetto all’umanizzazione paradossale del “Cane bambino” , cucciolo umano in posizione eretta, fino all’ “Uomo automa-donna automa”  con la corazza della mercificazione consumistica  sulla sua vuota forma antropomorfa. Sono opere di una contemporaneità accessibile nell’espressione e nei significati, che è  presente in un tempio della tradizione insieme alle opere pittoriche di sapore  arcaico sopra descritte.

La galleria d’arte non finisce qui, ne consideriamo un prolungamento naturale l’esposizione, nello spazio della vicina Biblioteca,  intitolata ” L’Artigianato in vetrina”: non solo oggetti della tradizione locale, ci sono i dipinti di Fabiola Leonetti con volti dolenti di donna molto intensi e accostamenti magistrali in un contesto tradizionale, le sculture di Roberto Di Carlo, “Rinascita”, “Maternità”, e il  bassorilievo “Achille”, tutte opere di autentico valore artistico; fino ai coppi decorati a mano di Wilma Schioppa e la ricca esposizione artigianale con tante offerte, le più diverse, di alta qualità.

Ma la “Vetrina del Chiostro” non è circoscritta alle pur prestigiose mostre d’arte; oltre al dibattito svoltosi in apertura sul tema “Promozione e sviluppo: come  rafforzare il binomio per il bene del territorio”  c’è dell’altro nel Chiostro. Per la gastronomia, mentre in Piazza Orsini  abbiamo cibi e dolci montoriesi, qui troviamo addirittura “I sapori del Parco”, l’unica evocazione esplicita del grande assente, il Parco; per la musica il concerto jazz “Suoni e ritmi diffusi” di Sabatino Matteucci & Gabriele Mascitti Quintet, la musica unita alla  danza “Anna Anconitano e il gruppo ‘Abruzzo a Sud – Notte del Saltarello”. Un programma completo che potrebbe essere autosufficiente rispetto alla parte all’esterno.   

Giovanni Gavioli, dal “Presepio artistico”, la camera da letto

Il presepio artistico di Gavioli

Ma ciò che colpisce maggiormente il visitatore  venuto a Montorio per la prima volta,  è il “Presepio artistico” di Giovanni Gavioli, noto agli abitanti locali  da 42 anni,  esposto in permanenza all’interno del “Chiostro” dal 2004. Il termine presepio può sviare, si tratta di una certosina ricostruzione dei vecchi ambienti domestici e artigianali in forma di presepio sulla vita familiare e gli antichi mestieri, quindi non in fotografie o freddi plastici ma con interni riprodotti nei minimi particolari, alcuni in dimensioni naturali, altri  più piccoli ma sempre ben evidenti.

Vediamo le camere delle misere abitazioni con le suppellettili e le figure degli abitanti negli abiti tradizionali, come le botteghe artigianali, dal fabbro al falegname, le donne impegnate nella filatura all’arcolaio, e così via. Inoltre una ricca collezione di oggetti domestici e strumenti artigianali nelle pareti in un’esposizione che riporta a quell’epoca con un’immersione totale come se si fosse tornati indietro sulla macchina del tempo, tra le centinaia di figure ce ne sono anche in movimento. Sono tempi vicini ai nostri, per cui scavano anche nella memoria suscitando autentica emozione.

Giovanni Gavioli, un’attività tradizionale, la filatura all’arcolaio

Cos’è il Parco

Al termine della visita alla manifestazione qualche considerazione finale, anche per evitare possibili  equivoci che possono nascere dall’aver derubricato “La Vetrina del Parco”  che evoca ampi spazi e vasti orizzonti,  in “La Vetrina del Chiostro” che per sua natura risulta quanto mai chiusa e ristretta pur se riferita a un luogo tradizionale particolarmente suggestivo.

L’amore per questa terra ci ha portato ad esprimere, con intenti costruttivi, le sensazioni spontanee nate in noi, nel timore – vicino alla consapevolezza – che la palude in cui il Parco sembra impantanato possa vanificare anche iniziative come questa indubbiamente meritorie ma da contestualizzare senza equivoci se si vogliono evitare delusioni come la nostra con il rischio che si estendano  all’insieme investendo pure le “performance” artistiche e spettacolari peraltro di qualità e sicuro interesse.

Ricordiamo la prima “Vetrina del Parco” del 1996, abbiamo conservato il bell’opuscolo di 50 pagine edito da Andromeda, in cui ad ogni paese  del territorio era dedicata un’esauriente scheda con foto panoramica, descrizione, bandierine identificative degli aspetti caratteristici, tra montagna e tradizioni,  artigianato e gastronomia, arte e turismo, fino all’editoria. Ebbene, il Parco – appena istituito con i suoi  44 comuni, di cui 16 dell’Aquila e 14 di Teramo, 10 di Pescara, 2 di Rieti e 2 di Ascoli Piceno – veniva definito così  nell’introduzione dedicata ai “Paesi del Parco”: “Natura, paesaggi, fauna protetta e flora da salvaguardare. Il Parco è questo; ma Parco è, innanzitutto, un insieme di uomini, cioè un insieme di paesi. Uomini e paesi che ne fanno la storia, che dentro  il territorio perpetuano ritmi e tradizioni, arricchiscono patrimoni artistici ed economici, godono delle risorse naturali.  Parco è, perciò, gente che vive dentro e con la natura… Parco è Storia… Parco è Tradizione… Parco è Artigianato… Parco è Arte…Parco é Economia…  Parco è Editoria… Parco è Tempo libero… Parco è Gastronomia… Parco è tutto questo, nelle mille interpretazioni, nelle innumerevoli forme, nelle tante vicende, negli infiniti volti degli uomini di ciascuno dei suoi paesi”.  C’è la significativa precisazione: “Parco è storia, che si muove sui binari delle vicende naturali ma anche su quelli delle vicende che l’uomo, a sua colpa o a suo merito, determina”.

Le vicende naturali recenti non sono state propizie,  basti pensare al terremoto del 2009 che ha devastato l’Aquila e i paesi del “cratere”, e al crollo di una caverna del Grottone a Pietracamela che ha ferito la vallata e distrutto le “Pitture rupestri” del “Pastore Bianco”, il gruppo del pittore Guido Montauti con le sue sagome umane assorte  e immobili in attesa tra le rocce.

Per le vicende determinate dall’uomo è  giunta l’ora che si possa parlare di meriti e non più di colpe. Ma questo passa per un profondo rinnovamento che determini la ripresa di iniziativa, con un dinamismo mosso dalla passione e sorretto dalla capacità. E’ ormai un imperativo categorico.

Un tunnel del “Chiostro” con oggetti e attrezzi d’epoca

Info

Sede della manifestazione Montorio al Vomano, “la porta del Parco”, tra Piazza Orsini, Corso Valentini e il Chiostro degli Zoccolanti. Cfr. i nostri articoli:  in questo sito sulla XVIII edizione della  manifestazione,  “La Vetrina del Parco, a Montorio è mancato il Parco”, 3 ottobre 2013, al quale si rinvia anche per le indicazioni, in nota, degli altri nostri articoli sul territorio, cui vanno aggiunti quelli successivi per due mostre a Pietracamela sugli antichi costumi montanari, il   15 luglio e il 14 agosto  2014, e per il Premio internazionale pittura rupestre Guido Montauti il 2 e 7 settembre 2014;   infine sul crollo del Grottone,  in  cultura.inabruzzo.it e in http://www.visualia.it/“,  al momento non raggiungibili per la recente chiusura di tali testate,  ma che saranno trasferiti in questo sito.      

Foto 

Le immagini sono state riprese durante la manifestazione a Montorio al Vomano da Romano Maria Levante. In apertura, Francesca Casolani, “La visione di Anna”, 2015,  a sin., e “Le lettere di Paolo”, 2009, a dx; seguono, uno scorcio dell’esposizione fotografica di Alessandro De Ruvo – Mario Di Basilio e, di Francesca Casolani, “L’Arcangelo Michele”, 2010; poi, di Francesca Casolani, “Giona e il mare”, 2015 e, di Donatella Giagnacovo, l’ “Uomo cartone“; quindi, di Donatella Giagnacovo, il “Cane Bambino”, di Roberto Di Carlo, “Maternità”, e di Fabiola Leonetti, Senza Titolo, un dipinto con un accostamento suggestivo; inoltre, di Giovanni Gavioli, dal “Presepio artistico”, la cucina, e la camera da letto; infine, un tunnel del “Chiostro” con oggetti e attrezzi d’epoca e, in chiusura, un’antica immagine ravvicinata della  montagna.

Un’antica immagine ravvicinata della  montagna

Impressionisti, “Téte a Téte”, ritratti dipinti e scolpiti, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, dal 15 ottobre 2015 al 21 febbraio 2016,  la mostra “Impressionisti dal Musée d’Orsay. Téte a Tète”, espone quasi 70 opere del Musée d’Orsay e de l’Orangerie,   51 dipinti e 16 sculture collocati in 5 sezioni tematiche: “Un nuovo ritratto d’artista” e “L’intimità”, “Ritrarre l’infanzia”, “Mondanità” e “Modernità”. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura dei vertici del museo francese, Guy Cogeval, Ophélie Ferlier, Xavier Rey, che hanno curato pure il Catalogo Skira.  La chiusura inizialmente prevista per il  7 febbraio, per il notevole  afflusso di visitatori è stata prolungata di due settimane.

 Dopo “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”,  del 2010 al Vittoriano, e la contemporanea “Impressionisti e Moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”,  stesse date di apertura e chiusura al Palazzo Esposizioni ma con pochi dipinti impressionisti, viene presentato un aspetto del grande movimento pittorico diverso da quello con il fascino ineguagliabile dei paesaggi dipinti  “en plein air”, quindi ritenuto meno attraente.

La mostra, forse anche per questo, accompagna il titolo “Impressionisti”  in grande evidenza, con  due sottotitoli. Il primo rimanda al Musée d’Orsay, del quale al Vittoriano sono stati già presentati di recente altri capolavori, con la storia del museo; questo si inserisce nel filone delle mostre alimentate da singole collezioni come le precedenti alle Scuderie del Quirinale sulle collezioni di “Al-Sabah Kuwait. Arte islamica”, al Palazzo Esposizioni sul “Guggenheim” “I capolavori dello Stadel Museum”, alla Fondazione Roma sulla collezione “Zevi-Santarelli“, per citarne alcune importanti. 

Il secondo sottotitolo, il piccolo quanto ermetico corsivo “Tète a Tète”, indica che sono “Ritratti”, ma non è reso esplicito. 

L’innovazione  impressionista rispetto al ritratto tradizionale

Il perché lo dice Guy Cogeval presentando la mostra che ha curato parlando del ritratto:”Il genere in sé non ha mai suscitato grande attenzione. Sembra quasi che gli storici dell’arte abbiano trascurato il fatto che la ritrattistica è stata il veicolo privilegiato di quell’avanguardia pittorica che si impose sulla scena artistica a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento”.

L’attenzione per la vita moderna e l’evoluzione sociale, mentre entrava con prepotenza la fotografia, “fanno del ritratto un passaggio obbligato della stagione impressionista, al quale è stimolante associare la scultura”. Il “téte a téte” della mostra  avviene non solo con le figure dipinte  ma anche con i busti scolpiti, inseriti nelle varie sezioni tematiche in una compresenza pittura-scultura stimolante, tanto più che nel caso di Degas lo stesso artista opera nei due settori.

Il presidente del Musée d’Orsay spiega poi che il ritratto impressionista non va confuso con la ritrattistica consueta per la sua carica innovativa: “Il ritratto si confonde così con la pittura di genere, e assume un’importanza cruciale una volta abbandonati i grandi soggetti accademici. Partecipa inoltre a pieno titolo a un movimento che rivoluzionerà il modo di dipingere”.  Dinanzi ad alcune figure che rendono appieno ceto sociale e ambiente  Cogeval  esclama: “Si può ancora parlare di ritratto? E’ del tutto legittimo porsi questa domanda e cercare di individuare le ragioni profonde di questo tipo di rappresentazione”.

Una risposta la dà Louis Godart, il Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico del Presidente della Repubblica Italiana”  che pone l’accento sull’interesse a rendere l’evoluzione del costume come indicatore della modernità: “Le norme del ritratto si allargano fino ad autorizzare la resa di figure tipiche e di scene d’insieme, nelle quali l’individuazione dei personaggi vale come garanzia di veridicità”. Perciò “scompaiono le distinzioni tra i generi, tanto che diviene difficile distinguere il ritratto di un individuo da quello di un modello professionale, assunto per definire un tema pittorico o una figura della vita dell’epoca”.  Ed ecco come si configura il nuovo ritratto: “Non si tratta più della riproduzione di una fisionomia o dell’analisi di un carattere, ma dell’istantanea di un essere umano in un contesto familiare o sociale, magari circondato da quelli che incidono sulla sua vita. Il modello, non più fissato in una convenzione fuori dal tempo, è vivo nel mondo”.

Con una premessa così illuminante si può passare alla visita alla mostra, per cogliere direttamente  questi motivi, che riportano alla società e al mondo culturale francese resi attraverso soggetti della vita comune  immersi nel fervore del loro tempo, al posto dei personaggi studiati per se stessi e ripresi dalla storia, quindi in un’aura accademica e celebrativa lontana dalla realtà quotidiana..

Il ritratto impressionista in pittura e scultura

La 1^ sezione, “Un nuovo ritratto d’artista”, presenta subito una galleria particolarmente ricca di dipinti e sculture in un inconsueto raffronto tra due forme espressive così diverse su soggetti interpretati  con lo spirito nuovo di cui si è detto,  tradotto in visioni e tecniche innovative.

I pittori  si cimentano in “Autoritratti”, vediamo esposti  quelli  giovanili di Léon Bonnat ed Edgar   Degas, entrambi del 1855,  quando frequentavano insieme l’Ecole des Beaux Arts, nel primo c’è un lontano paesaggio rinascimentale, il secondo è concentrato nell’espressione pensosa.

L’ “Autoritratto”  di Paul  Cézanne, 1875,  è uno dei numerosissimi che dipinse nelle sue varie età,  portando il ritratto in una nuova dimensione psicologica, è  impressionante l’intensità del viso corrucciato, mentre  un quadro con alberi dipinti occupa lo sfondo della parete dietro la testa.

Addirittura  l’autoritratto di Charles Durant  è da“Convalescente”,1860, abbandonato sulla poltrona a lato di un tavolino a occhi chiusi con la testa appoggiata a un cuscino.

Fréderic Bazile  si rappresenta non da solo, ma in un momento di vita quotidiana  nell’“Atelier di Bazile”, 1870,  con sei pittori nel vasto ambiente con una poltrona e una stufa,  una scala in legno a sinistra con due di loro, mentre tre al centro discutono e uno a destra suona seduto al pianoforte;  il tutto con la presenza dominante dei quadri alle pareti e a terra, se ne contano una quindicina, almeno sei di grandi dimensioni, una scena spettacolare. Pur se ripresi da lontano sono ben riconoscibili  Monet e Renoir, Sisley e Manet, oltre a Bazille, si rivelerà un vero poker d’assi.

Dello stesso Bazille vediamo anche “Pierre Auguste Renoir”, 1867, che introduce ai ritratti  di artisti colleghi, in questo modo il genere diventa, a differenza del passato, un elemento della quotidianità e della resa dell’ambiente in cui vivevano. Veniamo così a conoscere aspetti della vita di allora all’interno del mondo artistico, ma vedremo poi che si allarga alla  società. Il ritratto di Renoir è confidenziale, è seduto  sulla sedia con le braccia nelle ginocchia che sono sollevate.

Pierre Auguste Renoir, a sua volta, ritrae “Claude Monet”, 1975, .mentre si appresta a dipingere, con il camice, la tavolozza nella sinistra e il pennello nella destra, nel vano di una finestra con delle piante e una tenda semiaperta, immagine che rende il rapporto amichevole e confidenziale.

Negli stessi anni Edgar Degas, di cui abbiamo visto l’Autoritratto giovanile di venti anni prima, presenta il “Ritratto degli incisori Desboutin e Lepic”, 1876-77,  mentre lavorano su una lastra per la stampa con un unico esemplare di cui lui si serviva, espressione intensa in ambiente oscuro.

“Degas e la sua modella”, 1906,  sono ripresi da Maurice Denis  trent’anni dopo, in atteggiamento disinvolto, visti di profilo mentre lui sembra darle delle indicazioni con in mano un taccuino, entrambi vestono  pesanti abiti scuri e hanno il cappello, lo sfondo è illuminato da un suo quadro.

Ritroviamo Charles Durant, dopo il “Convalescente”, con “Edouard Monet”,  1880, lo ritrae con cappello e abito chiaro all’esterno in uno sfondo indistinto spiccatamente impressionista.

A sua volta Edouard Manet   è autore del ritratto di “Stéphane Mallarmè”, molto confidenziale anche questo, una vera istantanea, il poeta seduto in modo disinvolto sembra gesticolare con la mano destra sopra alcuni fogli evidentemente delle sue poesie.

Dal poeta al musicista, dopo i pittori ,  Marcel Baschet  ritrae “Claude Debussy”, 1884, lo sguardo fermo e determinato, nessuna indulgenza  all’ambientazione, fondo scuro nel ritratto d’altri tempi.

Non sono d’altri tempi i 5 ritratti in bronzo esposti, segnano anch’essi una svolta perché viene colto l’attimo, diremmo l'”impressione”  invece del paludato atteggiamento della tradizione, per cui appaiono volti molto marcati su busti anch’essi  inattesi pur nei limiti dati dalla rigidità del genere.

Ritratti ancora dei “colleghi” nell’arte, di Paul Paulin  con il busto “Edgar Degas a 72 anni“,  1907, austero e dignitoso ma certamente non convenzionale, caratteristica ancora più spiccata in Rodin. Del grande Auguste Rodin, di cui troveremo  altre sculture nelle sezioni successive, “Pierre Pavis de Chevennes”,  1890-1901, è in qualche misura assimilabile al precedente nella posa austera, anche se gli abiti che si intravvedono nel busto sono moderni per volontà del rappresentato.  Molto diverso  “Alphonse Legros”, 1881-82,  solo la testa con il viso colto in una smorfia drammatica. E “Victor Hugo“, 1897, un busto senza abiti con la testa reclinata che conferisce al viso una maestosità al di fuori da ogni confronto, è l’opera che per Louis Godard spicca su tutte le altre.

Troviamo Rodin  come soggetto del ritratto di uno scultore di cui vedremo altre opere:  di   Paolo Troubetzkoy, “Auguste Rodin”, 1906, un bronzo a figura intera della stessa altezza dei busti,  in posa disinvolta con le mani in tasca, anche se austera, confidenza tra colleghi ma altrettanto rispetto.

Intimità e infanzia

Nella  2^ sezione, “L’intimità”, la nuova concezione del ritratto si alimenta di ulteriori motivi, come il ruolo dominante assunto con la rivoluzione industriale dalla borghesia rispetto alle classi nobiliari e quindi l’interesse ad esplorarne la personalità non soltanto attraverso i caratteri del volto ma entrando nella sua sfera intima, fatta di atteggiamenti e di atmosfera che ne renda il privato.

“Abito rosa”, 1864, di Frédéric Bazile ne dà una dimostrazione evidente, riprende la cugina Thérese des Hours  mentre guarda il panorama assolato della località presso Montpellier dove abitava la famiglia, è girata di spalle e il volto non si vede, ma l’intimità  psicologica è notevole.  “L’ortensia e le due sorelle”, 1894, di Berthe Morisot rende l’intimità  nel gesto della seconda sorella di sistemare l’acconciatura alla prima,  in un ambiente lussureggiante con la grande ortensia.

Si tratta di due esterni, ma sono gli interni il connotato fondamentale del nuovo ritratto perché di lì nasce l’intimità.. Lo vediamo in due ritratti pur molto diversi, “Madame Proudhom”, 1865 , di Georges Courbet,  in  una posa rilassata e amichevole, con un’espressione compiaciuta, e  “Charlotte Dueburg”, 1882, di Henry Fantin-Latour,  in una posa rigida e sostenuta con un’espressione altera, la stessa che ha in un  dipinto precedente dello stesso autore in cui è ripresa con altri tre membri della “Famiglia Duesburg“, 1878. Per entrambi gli artisti c’è un rapporto speciale  con i soggetti,  Proudhom  era il celebre filosofo evidentemente amico, i Dueburg  stretti familiari della moglie di Fantin-Layour, Charlotte.  Intimità domestica ancora maggiore in “La famiglia Haléry”, 1903, di Jacques Emile Blanche, rispetto alla “Famiglia Duesburg” in posa quasi dinastica, qui le tre figure sono  sorprese nell’intimità domestica, due alzano gli occhi come se il pittore fosse un fotografo entrato all’improvviso nella stanza, la terza donna  non se n’è accorta.

Un altro modo  di rendere l’intimità lo vediamo in “Alice Maréchal”, 1892, di Georges Lemmen, con la figura seduta su una sedia di cui si vede la spalliera modesta, dietro una scansia con delle ampolle, e in “Donna con fazzoletto verde”, 1893, di Camille Pizzarro, anche qui un arredo domestico, sedia  e tavolino, in più il particolare dell’abbigliamento, entrambe viste  di tre quarti.

E siano a Edgar Degas, presente nella sezione con  tre dipinti: due figure singole,“Hilaire de Gas”, 1857, la posa del personaggio è austera ma l’intimità è resa dal  bastone sulle ginocchia e dal divano, e “Ritratto di donna con vaso di porcellana”, 1872,  oltre al vaso domina il grande fiore rosso alla sommità, vent’anni prima dell’ortensia della Morisot; tre commilitoni, “Jeantaud, LIonet, Lainé”, 1871, sorpresi in pose confidenziali, come  gli Halery di Emile Blanche trent’anni dopo.

Di Degas sono esposte anche tre sculture in bronzo: “Ritratto, testa poggiata sulla mano”, 1882-95, l’impressionismo nei lineamenti solo abbozzati, l’intimità nella malinconia; e “Testa, studio per  il ritratto di Madame S.” in due versioni, “piccolo” di 14,5 cm, come coperto da un velo, “grande” di 24 cm, più definito. L’artista nella sua esplorazione della figura umana non si limita alla pittura.

Un’altra sorpresa, un busto in malta policroma di Auguste Renoir, “Madame Renoir”, 1916, il colore rosa e il cappellino con fiori rendono l’intimità affettuosa. Come nel dipinto  “Donna con jabot bianco”, 1880,  con il particolare vezzoso dell’abbigliamento,  mentre “William Sisley”, 1964, sempre di Renoir, rientra nella moda sorta di ritratti tra artisti in atteggiamento confidenziale.

Con Renoir passiamo alla sezione “Ritrarre l’infanzia”, una sua piccola personale  molto suggestiva, i caratteri impressionisti sono ben più valorizzati che nelle opere fin qui commentate. Va premesso che l’attenzione all’infanzia è un’altra svolta nel costume colta dall’impressionismo: prima i bambini apparivano solo in gruppi familiari, non erano concepiti nella società come entità con diritti autonomi, come quello all’educazione invece del lavoro minorile dell’epoca precedente.

La galleria di Auguste Renoir inizia con Fernand Halphen bambino”, 1880, vestito alla marinara, e “Julie Manet”, 1887, con il micino in braccio che fa le fusa, tendenzialmente precisionisti. Mentre  “Bambina con cappello di paglia”, 1908, e” Geneviéve Bernheim de Villiers“, 1910,   presentano i caratteri dell’impressionismo  più suggestivo, con figure infantili  dalla forte personalità; lo stesso nel “Ritratto della signora  Bernheim-Jeune e del figlio Henry”, 1910, con il fratello di Geneviéve. Un  terzo bambino della famiglia “Claude Bernheim de Villers”, 1905-06,  ritratto  da Edouard Villard,  è altrettanto impressionistico, il bimbo quasi si confonde con il divano a macchie di colore.

Abbiamo poi due scene di vita familiare.“Ogni felicità”, 1880, di Alfred Stevens, resa con la  fusione tra madre e bambino nell’abito che sembra unico, il padre di spalle allo scrittoio; “Bambino e donna in un interno”, 1890, di Paul Mathey, mostrano il bimbo in primo piano, mentre nella stanza retrostante si vedono due figure impegnate nel lavoro domestico indubbiamente secondarie.

C’è  anche una scultura in bronzo di Medardo Rosso del 1906, e che scultura!  Doveva essere il “Ritratto di Alfred William Mond a sei anni” commissionatogli dal ricco industriale Emil Mond, ma lo scultore ne vide il viso dietro una cortina e lo rappresentò come con un velo che ne copriva i tratti trasfigurandone i lineamenti fino a distaccarsi dal soggetto per diventare, come disse l’artista, “una visione di purezza in un mondo banale”, Divenuta una rappresentazione dell’infanzia senza nome, prese il nome di  “Impressione di bambino”, poi, nel 1909, di “Ecce puer” come “Ecce Homo”.

Mondanità e Modernità

Dall’infanzia all’espressione meno intima ma altrettanto  personale dell’epoca nella sezione “Mondanità” che ci fa entrare ulteriormente nella vita di società di un tempo vivo e vivace. .

Lo vediamo soprattutto negli abiti, la piccola personale di Auguste Renoir continua con due donne sedute, “Colonna Romano”, 1913,  in interno e “Ritratto di Madame Bernheim de Villers”, questa volta senza il figlio Henry, in giardino;  e delle figure in piedi, “Charles de Coeur”, 1874, e “L’altalena”, 1876,  due esterni con vere esibizioni di moda maschile e femminile; in “Madame Dorras”, 1868, un primo piano del volto con la veletta che scende da un vistoso cappello nero.

 Esibizioni di moda anche in “Giovane donna in abito da ballo”, 1894, ritroviamo Berthe Morisot; in “La viscontessa del Poilloie di Saint-Périer”,1883, di John Singer Sargent, e “Nella serra”, 1881, di Albert Barttholomé. Ma soprattutto in “Ritratto della signora Jourdain”, 1886, di Albert Besnard, e in “Ritratto della signora Max”, 1996, di Giovanni Boldini, due giovani donne in piedi con  movenze addirittura da mannequin nel valorizzare i loro lunghi abiti da sera molto eleganti. Invece è seduta, altrettanto elegante,  “La contessa di Keller”, 1873, di Alexandre Cabanel.  A questo dipinto accostiamo “Madame Vicuna”, 1882, scultura in marmo di Auguste Rodin, dopo i visi bronzei scavati visti in precedenza, qui un busto delicatissimo e levigato molto elegante.

L’eleganza nella figura intera in scultura è espressa dai due bronzi imponenti,  “Madame Adelaide Aurnheimer“,1897-98, e “Il conte Roberto di Montesquieu”, 1907,  di Paolo Troubetzkoy, 1997-98 e nella lastra di bronzo di stile classico “Anna Lyman Gray”, 1902, di Augustus Saint Gaudens..

Nella sezione anche due dipinti di Edouard Manet, “Angelina, o donna alla finestra”, 1865, e “Il balcone”, 1868-89″,  nel primo ritrae una spagnola, nel secondo tre figure che non comunicano, sono artisti, un pittore, un violinista e la pittrice Berthe Morisot di cui abbiamo visto delle opere. L’estraneità tra loro, fatto inedito nei gruppi che provocò polemiche, fa entrare nella modernità.

Proprio  alla “Modernità” è dedicata l’ultima sezione della mostra,  con tre dipinti del grande Paul Cézanne, simbolo della modernità post impressionista, con il rovesciamento dato dalla costruzione dello spazio con la ricerca dei volumi e delle forme al posto degli effetti di luce e dei colori scomposti. Vediamo “Ritratto di Madame Cézanne”, 1885-90,   “I giocatori di carte”, 1890-92,  e “Donna  con caffettiera”, 1890-95,  senza dubbio una  lavoratrice, non amica o familiare. Anche qui una scultura, alta e sottile, “Studio di nudo per la ballerina vestita” 1921-31, di Edgar Degas.

Chiude  la ricca ritrattistica della mostra un dipinto dl 1899, nitido ed essenziale, che viene così presentato alla fine del Catalogo: “Féliz Vallotton con il ‘Ritratto di Monsieur Alexandre Natanson’ apre un’altra strada. L’artista esplora infatti la via di un iperrealismo semplificato che rende omaggio, da un lato ai maestri del Rinascimento, dall’altro alla modernità pittorica che ormai, alle soglie del XX secolo, si sta imponendo. Un’ambizione dall’avvenire fecondo, soprattutto con il ritorno all’ordine e alle fonti classiche che domina in pittura e in scultura tra le due guerre”.

Ci sembra che questa proiezione al futuro con il richiamo al glorioso passato, possa essere la migliore conclusione del nostro racconto di una mostra  insolita e rivelatrice.

Info

Complesso del Vittoriano,  Ala Brasini, lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere. Tutti i giorni apertura 9,30, chiusura dal lunedì al giovedì ore 19,30, venerdì e sabato 22,00, domenica 20,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00, gratuito ai soggetti legittimati.  Tel. 06.6780664, prevendite 06.32810811. www.comunicareorganizzando.it.  Catalogo “Impressionisti dal Musée d’Orsay. Téte à Téte”, a cura di Guy Cogeval, Ophélie Ferlier, Xavier Rey,  Skira, ottobre 2015, pp. 128, formato 22 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per le collezioni e gli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, per  le collezioni “Impressionisti e moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”  12, 18 e 27 gennaio 2015,  “Musée d’Orsay.Capolavori”, 11 maggio 2014, del  “Guggenheim”  22 e 29 novembre 2012, “Al-Sabah  Kuwait. Arte islamica “  3 e 10 agosto 2015, “Zevi-Santarelli” 15 ottobre 2012, per gli artisti, Cézanne 24 e 31 dicembre 2013,   Rodin  20 febbraio 2013; in”cultura.inabruzzo.it” per “I capolavori dello “Stadel Museum” 3 articoli nel luglio 2011; “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”, 27 e 29 giugno 2010  (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Musée d’Orsay, per l’opportunità offerta. In apertura, Paul Cézanne, “Autoritratto”, 1875; seguono, Edouard Manet, “Stéphane Mallarmé”,  1876,  ePierre Auguste Renoir, “Claude Monet”, 1875; poi, Charles Durant, “Convalescente”, 1860, e Fréderic Bazille,  “Pierre Auguste Renoir”, 1867; quindi, Auguste Rodin, “Victor Hugo”, 1897,  e Berthe Morisot, “L’ortensia”  o “Le due  sorelle”, 1894;inoltre,  Pierre Auguste Renoir, “Bambina con cappello di paglia”,  1908, e Auguste Rodin,  “Madame Vicuna”, 1888;  infine, Pierre Auguste Renoir, “Ritratto di Madame Bernheim de Villers”, 1901,  Albert Besnard, “Ritratto della signora  Jourdain”, 1886, e Paul Cézanne, “I giocatori di carte”, 1890-92; in chiusura, un salone dello spazio espositivo con due gruppi scultorei in bronzo di Paolo Troubetzkoi, “ Il conte Robert de Montesquieu”, 1907, al centro, e “Madame Adelaide Auenheimer”, 1897-98, a sin., nella parete si distinguono,  a dx,  Edouard Manet, “Il balcone“, 1868-69, al centro,  Pierre Auguste Renoir, “L’altalena”, 1876, a sin., Berthe Morisot,  “Giovane donna in abito da ballo”, 1879.  

Israele, nove porte sulla vita e sul futuro, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, ala Brasini, lato Fori Imperiali, dal 21 gennaio all’11 febbraio 2016, la mostra “Open a door to Israel – Discover/ Experience/  Connect”  fa entrare nella realtà di Israele attraverso  9 porte supertecnologiche e interattive aprendo le quali il visitatore scopre aspetti sconosciuti della vita civile di un popolo crogiolo di etnie  lanciato verso il progresso nell’innovazione in molti campi fondamentali della vita civile. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri di Israele e dell’Ambasciata di Israele in Italia.

La porta è una calamita di riflessioni, ci si chiede spesso cosa c’è “dietro quella porta”, La struggente immagine manzoniana della madre della piccola Cecilia che “scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci” è rimasta nel cuore di tutti;  come  le porte ben diverse di tanti film del passato, dei telefoni bianchi  e non solo. Ai giorni nostri ricordiamo le vecchie porte dipinte da Rosanna Borzelli dove dei grandi volti,  immaginati nell’abitazione, sembrano uscire all’esterno.

L’epopea di un popolo lanciato nella modernità

Trovare “tutte le porte chiuse” è una sconsolata constatazione, come al contrario trovare “le porte aperte” è sinonimo di  riuscita. Nella mostra le porte sono chiuse, ma basta tirare la maniglia che si aprono, e rivelano un mondo quanto mai edificante, la vita di un popolo espressa visivamente.

Una vita dinamica volta all’impegno e all’innovazione, con risultati di eccellenza che pongono il paese ai primi posti nella corsa alla modernità. Né c’è da meravigliarsi, è un crogiolo di etnie ciascuna delle quali dà il meglio di sé, risultato com’è di una speciale selezione, quella degli immigrati in Israele da ogni parte soprattutto dell’Europa inseguendo un’aspirazione,  ideale, un sogno, il sogno della terra promessa in cui riunirsi con il proprio popolo, il mitico popolo di Israele le cui radici sono nella Bibbia.

Ogni tentativo di sradicarle è stato sconfitto dalla reazione orgogliosa e vittoriosa di gente temprata a tutto, che da remissiva è diventata fortemente reattiva, dopo l’olocausto, la vergogna dell’Europa, si è ribellata al ruolo di vittima sacrificale cui il mondo arabo voleva condannarla e ha potuto iniziare una nuova storia esaltante.

C’è voluta una lotta aspra senza quartiere, una popolazione di poco superiore a due volte la città di Roma ha saputo resistere a un insieme di nazioni con cento milioni di abitanti votate alla sua eliminazione, con delle guerre di difesa vittoriose che hanno imposto alla comunità internazionale il nuovo stato sorto con la storica delibera dell’Onu dopo il 1948, ma che aveva già respinto il tentativo iniziale di distruggerlo.  L’epopea di “Exodus” è proseguita con un’emigrazione continua, fonte di nuovi apporti e stimoli.

Di tutto questo nella mostra non ci sono segni, come se si volesse spostare lo sguardo dalle immagini consuete, legate alle drammatiche vicende della sicurezza, da un’Intifada all’altra, da un attacco missilistico e un attentato all’altro, alla realtà di un popolo dalla vita pacifica il cui impegno   porta il paese a posizioni di eccellenza in tanti settori nei quali è notevole il suo apporto alla soluzione dei problemi di tutti.

Israele come caposaldo di innovazione ed efficienza in un continente, come quello africano, che ne ha tanto bisogno, appendice di eccellenza di un’Europa che mostra invece segni di stanchezza e di rallentamento.  Anche nella mostra del 2013 al Macro, ” Israel now” il sottotitolo “Reinventare il futuro”  dava il messaggio di innovazione e dinamismo, espresso artisticamente in installazioni e sequenze fotografiche, video e pitture con grafiche di 24 artisti israeliani contemporanei.

Le porte chiuse che il visitatore apre

La porte inizialmente chiuse della mostra attuale esprimono visivamente la scarsa conoscenza che si ha di Israele dinamica e lanciata in un progresso incessante sovrastata dall’immagine della nazione sotto assedio che rimbalza continuamente nei media con l’evidenza delle minacce continue e degli attacchi frequenti.

Basta aprirle per vedere la vera Israele: il culto della famiglia in un paese giovane ma con un’eredità culturale antica, l’economia lanciata dalla forte spinta tecnologica che si basa anche sull’importanza data all’apprendimento e sulla capacità di mettere in una relazione feconda il crogiolo di culture, fino al gusto dell’avventura, e infine la speranza verso qualcosa di positivo accompagnata sempre dal coraggio.

Nella presentazione, resa viva dalla  padronanza e dalla comunicativa di Alessandro Cecchi Paone, l’ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon ha dato all’apertura delle porte il significato della scoperta di valori condivisi, aventi il retaggio della storia e della cultura, che si esprimono attraverso temi al centro della vita di tutti, non solo in Israele ma nel mondo.  E ha sottolineato, come espressione delle “strette relazioni  tra i nostri paesi e i nostri popoli, il privilegio dato all’Italia di essere la prima ad ospitare, nel Complesso museale del Vittoriano, la mostra che nel 2016  toccherà anche Francia, Polonia  e Russia, Corea del Sud, Giappone e Cina, Argentina, Brasile e Stati Uniti. 

E Alessandro Nicosia, nel ricordare mostre del passato, ha detto che con Israele ci sono “sempre novità e c’è sempre da imparare, ci sono tante eccellenze non conosciute, la tecnologia al servizio dell’intelligenza”.

Ne è la dimostrazione la mostra con installazioni interattive che utilizzano tecnologie molto avanzate e design innovativi  al servizio della comunicazione. Perché non si era mai visto, in queste mostre, uno schermo di straordinaria lunghezza, con uno speciale robot  che movimenta un video per evidenziare le immagini prescelte tra quelle che scorrono: tutte immagini di esaltazione dei risultati di eccellenza nei diversi campi, con particolare riguardo a quelli legati all’alimentazione e alla salute, con il paese che mostra quale importante contributo può dare alla soluzione dei problemi di tutti, anche dei paesi ostili e nemici. E sopratutto non si è mai vista una tecnologia  avanzata così  accattivante al servizio della comunicazione per far entrare  quasi materialmente oltre che idealmente il visitatore all’interno di una realtà così complessa.

“Ogni singola porta che si apre – sono ancora parole dell’ambasciatore Gilon – presenta un aspetto e un settore diverso della società israeliana e di ciò che lo Stato di Israele ha da offrire. I visitatori potranno conoscere e fare esperienza con modalità uniche delle iniziative e dei progressi israeliani, della cultura, dei sapori, delle persone, e ovviamente dei luoghi di Israele”.   Le nove porte interattive “consentono ai visitatori di incontrare Israele con delle esperienze originali, e con modalità indimenticabili che sono certo susciteranno ispirazione ammirazione nei riguardi dello Stato di Israele e della gente che ci vive”.  L’intento è dichiarato con esemplare sincerità, nessun messaggio subliminale salvo forse quello di dimenticare le immagini ben diverse che i media diffondono ogni giorno, la vera Israele è questa, un popolo che vive una vita di pace proiettata al futuro con uno straordinario  impegno nella modernità dai risultati di eccellenza.

All’inaugurazione hanno  partecipato l’ambasciatore Gilon e  il Vice Ministro degli esteri di Israele Tzipi Hotovely, il ministro italiano dell’Istruzione e dell’Università Stefania Giannini e la direttrice del polo museale del Lazio Edith Gabriele, la responsabile della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello  e Riccardo Pacifici, Gianni Letta e Cecchi Paone che aveva moderato la presentazione, Significative le presenze degli ambasciatori del Canada Peter Mc Govern e della Repubblica Ellenica Demiris Themistoklis, Israele ha bisogno della vicinanza attiva delle nazioni democratiche.

Il significato delle nove porte  che si aprono su Israele

La prima porta blu è dedicata alla “Famiglia”.  Viene ricordato che gli 8 milioni di cittadini israeliani sono “un mosaico affascinante di gruppi etnici, culture e religioni e fanno parte di una variegata storia sociale”. E’  il crogiolo di etnie di cui parlavamo all’inizio, che combina valori dell’oriente  e dell’occidente, del passato e del presente, di tradizioni secolari e di avanguardie, e crea “una cultura della famiglia unica in Israele”.  Cultura basata “sul desiderio condiviso di una vita democratica, del rispetto reciproco e della fede nei valori  della famiglia”. Si sente Il riferimento alla pace, come aspirazione massima, pur se resta implicito.

I valori della famiglia risalgono all’ “Eredità culturale”, la seconda porta amaranto che si apre. Come patria delle tre religioni monoteiste e “terra promessa” della Bibbia  è “una terra di fede e speranza per i credenti di tutto il mondo”. Questi valori di portata universale non vengono solo custoditi ma messi in pratica nel presente, viene usata la bella espressione che “hanno fatto sbocciare fiori nel deserto”, diffondendo a beneficio di tutti i vantaggi del progresso. E’ un luogo “che invita tutti coloro che lo amano a vivere fraternamente uno accanto all’altro”, messaggio nel quale traspare  l’aspirazione alla pace con i propri vicini così ostili.  .

“Fare in modo che accada” è il tema della terza porta viola aperta sul futuro: “Siamo sempre stati spinti dalla convinzione che per raggiungere condizioni migliori di esistenza siano necessarie azioni pratiche e positive oggi”: di nuovo il messaggio di modernità di un paese “tra i più dinamici al mondo”, che rifiuta di essere confinato non solo nella cronaca inquieta ma neppure nella storia sia pure esaltante che ha basi antiche di grande forza e valenza. I risultati si vedono nell’espansione dell’economia di cui viene sottolineato il tasso di innovazione “uno dei più rapidi nel mondo”, e soprattutto spinto dal settore delle economie eco-sostenibili, una garanzia per l’ambiente a vantaggio di tutti. 

Anche la quarta porta verde contiene un messaggio volitivo, è dedicata all'”Avventura”  che va affrontata con uno spirito che va oltre il gusto dell’esplorazione, e diventa “audace, ingegnoso e pionieristico”, nel quale vale il principio “volere è potere”, in Israele “più forte che in tutto il resto del mondo”, ne sono testimonianza concreta i “fiori nel deserto” emblema di una nazione che è tutta una sfida vittoriosa all’impossibile.

La quinta porta arancione è espressamente dedicata all'”Impegno”, c’è anche dietro le porte precedenti ma qui non viene evidenziato il dinamismo e l’efficienza ma un altro aspetto:  “E’ consuetudine per noi essere socialmente :impegnati, dedicarci a una causa che ha lo scopo di migliorare le condizioni di esistenza di individui e comunità”. La presentazione aggiunge: “Siamo anche naturalmente estroversi, ci piace lo spirito di cameratismo, la condivisione del sapere e il coinvolgimento della gente”; per finire: “Ci piace impegnarci e coinvolgere gli altri”.  Tutto l’opposto dell’isolamento nel bunker blindato che è l’immagine consueta.

E’ di un rosso vivo la sesta porta sul tema “Esprimersi”,  che vuole forse sfatare un’altra convinzione diffusa, nata con i kibbuz e le comuni della fase eroica della costituzione dello Stato di Israele, e ribadita dall’impegno vitale per la difesa comune. La spinta verso al comunità nell’impegno c’è, ma  on a scapito della persona: “Lo Stato di Israele ritiene che l’individuo sia sovrano. L’individuo è l’unico proprietario della propria vita”, un’affermazione che pone Israele tra i paesi che hanno la più alta concezione : “Le libertà civili sono protette dalla legge, quindi siamo liberi di credere a ciò che vogliamo ed esprimerci senza paure o restrizioni”. E’ una enclave della migliore Europa in un continente dominato dagli assolutismi e dalle dittature, dove anche le speranze aperte dalla cosiddetta “primavera araba” sono andate presto deluse.

La settima porta è dedicata all’ “Apprendimento”, è verde intenso, forse per evocare l’età in cui  si comincia ad apprendere per raggiungere la conoscenza, “prerequisito di ogni traguardo in qualsiasi campo”.  Ma la conoscenza “un diritto democratico di ciascun individuo”, viene intesa oltre l’accezione più elementare, come capacitò di “mettere in discussione, valutare utilizzare le informazioni” e quindi viene incoraggiato “attivamente lo spirito di indagine nelle persone di qualsiasi età e ambiente”.  Sembrerebbe un diritto acquisito in modo universale ma non è così, a stare alla battaglia condotta dai radicali di Marco Pannella anche in sede Onu per “L’affermazione del diritto umano alla conoscenza”  molto meno rispettato di quanto si pensi, anche nei paesi democratici, al di là delle apparenze ingannevoli.

Rosa intenso tendente al rosso l’ottava porta, “Relazionarsi”, è istruttivo vedere come il crogiolo di etnie dia i risultati di eccellenza cui si è accennato per il modo con cui viene affrontata la realtà non solo nel mondo fisico ma nella vita sociale: “Si esprime nelle nostra abilità di mescolare tecnologie, idee, invenzioni, modi di lavorare e perfino di cucinare a prima vista non collegati tra di loro”. E questo al fine di “creare qualcosa di originale, stimolante, che cambi la vita”.  Tutto questo c’è insito “nella nostra naturale socievolezza e nel nostro candore emotivo, nella forza dell’amicizia e nell’impegno verso la famiglia”.

Un visione così positiva non può che essere alimentata dalla “Speranza”, è la nona e ultima porta, celeste come il cielo. “La speranza di Israele non è un ottimismo passivo, ma si costruisce sul coraggio, sulla fede e sull’azione allo scopo di  migliorare la status quo”. E ha le basi nella sofferta esperienza di un popolo: “Ci accomuna la convinzione che nulla sia inevitabile nelle faccende umane e che, insieme, possiamo migliorare al situazione”. Per concludere: “Perfino l’inno nazionale è chiamato ‘Hatikvah’ – la Speranza”.

Cosa si vede all’apertura delle porte

Tutto quanto di didascalico può apparire dall’esplicitazione dei contenuti che sottostanno alle singole installazioni non figura minimamente nello spettacolo offerto al visitatore che passa da una porta all’altra aprendole senza alcuna sollecitazione pedagogica. Le immagini della famiglia israeliana sono festose e piene di gioventù, come quelle della lezione scolastica in cui si è coinvolti interattivamente nell’interrogazione avente come tema ovviamente Israele spingendo uno dei punti interrogativi che si aprono sopra le mani alzate degli scolari.

Si partecipa anche a uno scherzoso palleggio tennistico impugnando l’apposita racchetta mentre nello schermo si alternano gli inviti allo scambio e vola al pallina, come a feste spettacolari con danze collettive  diventando veri dj  che scelgono le musiche sulla consolle.

C’è anche molto di più, come la scoperta delle tecnologie più avanzate a beneficio dell’umanità, prima tra tutte quelle alimentari e sanitarie, basta premere l’apposito tasto della porta che si apre per entrare  in questi aspetti cruciali per la vita di tutti.

L’immersione nella storia di Israele, anch’essa regolabile dal visitatore girando l’apposita manopola come in una macchina del tempo,  fa ritrovare radici comuni nelle immagini bibliche di re e profeti.

Sono innovazioni supertecnologiche,  queste della mostra, per comunicare l’immagine di un popolo lanciato con innovazioni di eccellenza nella modernità, che nelle sue radici millenarie storiche e religiose trova la forza e le motivazioni incrollabili per progredire in una visione altamente positiva.

Una lezione e un invito per tutti viene  dalla possibilità di “incontrare Israele con delle esperienze originali, e con modalità indimenticabili che sono certo susciteranno ispirazione e ammirazione nei riguardi dello Stato di Israele e della gente che ci vive”.  Sono parole dell’ambasciatore Gilon che facciamo nostre, l’epopea di Exodus, perpetuata nelle esaltanti anche se drammatiche vicende successive  è incancellabile. Ad essa si aggiunge, perpetuandola ancora, questa nuova immagine di impegno indefesso e solidale del suo crogiolo di etnie, nell’innovazione  di eccellenza volta al progresso che il suo popolo offre per la soluzione di tanti problemi che assillano il mondo. 

E’  il Cincinnato che l’immagine guerriera non deve più offuscare. Dedito alla pace dopo il duro “apprendimento” di tante guerre, per godere delle gioie della “famiglia”, nel costante “impegno”  per il progresso alimentato dai suoi valori basati su un’antica “eredità culturale”- Spinto dal suo spirito di ‘”avventura” verso nuove scoperte e nuovi traguardi, desideroso di “esprimersi” nel modo più convincente per “relazionarsi” anche verso i popoli ostili a cui apre le sue porte, sorretto dalla “speranza” di essere ascoltato. “Fare in modo che accada” è il suo imperativo categorico.

Ci sembra sia questo il messaggio che Israele voglia lanciare con la mostra che apre le porte al mondo, al quale è destinata l’esposizione itinerante dopo la prima tappa di Roma.  E’ un messaggio di pace e di progresso nell’apertura fiduciosa verso un futuro di cooperazione che cade in un momento molto difficile per le minacce del terrorismo, frutto dell’intolleranza più abietta e del  fanatismo.più cieco.

Tutto ciò rende meritoria la mostra che lancia un raggio di luce in un orizzonte internazionale quanto mai fosco e inquietante.

Info

Complesso del Vittoriano, ala Brasini, lato Fori Imperiali, via San Pietro in Carcere. www.comunicareorganizzando.it , tel. 06.6780664. Tutti i giorni dalle ore 9,30 alle 19,30, entrata fino a 45 minuti dalla chiusura, ingresso gratuito.  Per le mostre citate cfr., in questo sito, i nostri articoli,  “Israel now, 24 artisti israeliani al Macro Testaccio” 6 febbraio 2013, e “Borzelli, le sue porte manzoniane al Fondaco” 17 aprile  2014.   

Foto

Le immagini, tranne la 2^ e la 4^ trasmesse dall’organizzazione, sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Otganizzando” per l’opportunità offerta e per le due foto fornite. In apertura, la prima porta da aprire su Israele; seguono, la porta aperta sullo sport con il tennis interattivo, e due porte chiuse nella suggestiva penombra; poi la porta aperta sulla famiglia, e la porta aperta sul passato, con i pionieri di Exodus; quindi, una porta aperta su una festa familiare e una porta aperta su una scolaresca con partecipazione interattiva a domande e risposte; inoltre, la porta aperta sulla musica e una visione panoramica delle porte pronte per essere aperte; in chiusura, la presentazione della mostra, al centro Alessandro Cecchi Paone moderatore, seduto alla sua destra Naor Gilon,  ambasciatore di Israele in Italia, alla sua sinistra Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando”. 

Impressionisti e moderni, fino all’espressionismo astratto, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra al Palazzo Esposizioni,  dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio 2016,  “Impressionisti e moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”, 60 opere  dell’800 e del ‘900, selezionate dalla raccolta messa insieme da Duncan Phillip in quarantacinque  anni di intensa attività di collezionista: creò nel 1921 la Phillip Memorial Gallery all’avanguardia negli Stati Uniti nell’affiancare artisti europei a talenti emergenti americani  con allestimenti atti a stimolare confronti proficui da parte di artisti e visitatori. La mostra è organizzata dalla Phillip Collection con l’Azienda Speciale Palaexpo, curata da Susan Behrends Frank, curatrice della Collezione di Washington, Catalogo Silvana Editoriale  con Palazzo delle Esposizioni.

Abbiamo rievocato in precedenza l’appassionata attività di Duncan Phillip che lo portò a raggiungere 2000 opere, dalle 300 iniziali della raccolta di famiglia con cui aprì il Museo,  diventate 3000 con la prosecuzione dopo la sua morte nel 1966.  Poi abbiamo raccontato la nostra visita alle prime tre sezioni della mostra, “Classicismo, romanticismo, realismo”, “Impressionismo e postimpressionismo”, “Parigi e il cubismo“. Passiamo ora alla visita alle ultime tre sezioni,  “Intimismo e modernismo”, “L’espressionismo e la natura” ed “Espressionismo astratto”.  

Intimismo e modernismo, Bonnard e Vuillard,  fino a Matisse e Morandi

Il titolo della  4^ sezione “Intimismo e modernismo”, abbina due termini che sembrerebbero  un ossimoro per certe trasgressioni visive, ma sono un accostamento naturale per la svolta moderna di trasmettere nel dipinto l’intimità fatta di meditazioni e sentimenti, immaginazioni e fantasie.

Si tratta di scene della vita privata e degli interni abitativi da cui traspare lo stato psicologico,  analizzato in modo rivoluzionario dalla psicanalisi che stava nascendo in quel periodo. Non è la realtà di per se stessa che ispira l’artista, ma come si imprime nella memoria, e muove i sentimenti.

Di Pierre Bonnard vediamo due opere espressive  di questo atteggiamento. La prima in ordine cronologico è  “Bambini con gatto” , 1909, un primo piano tenerissimo nel rosa  delle figure in un cromatismo denso. Poi abbiamo  “Nudo in un interno”, 1935,   uno dei tanti dipinti in cui riprende al bagno  la donna della sua vita, Marthe Boursin,  cinquant’anni di vita insieme, qui  all’età di sessant’anni mentre si strofina la gamba con un guanto, in un ambiente spoglio e irreale perché riprodotto come lo ricorda, non come lo vede.

 Suo anche “La Riviera”, 1923,  una veduta del sud della Francia, nella zona di Cannes dove andava a dipingere dal 1922,  con tocchi di colore impressionisti ma linea compositiva alla Cézanne, i colori creano la forma in una giustapposizione tra il primo piano e l’orizzonte vicino e  lontano che fa sentire in questa sequenza l’onda dei ricordi.

Phillip predilesse Bonnard che definiva “poeta dell’intimità di ogni aspetto della vita”,  trovava in lui il sensualismo di Tiziano e Renoir, ne acquistò 17 dipinti, la maggiore raccolta in America, ma apprezzava anche l’intimismo di Vuillard che con Bonnard e altri artisti faceva parte del gruppo “Nabis”, profeta. Ritraevano interni domestici con familiari e amici  nel rifiuto dell’impressionismo per una nuova concezione pittorica dello spazio e del colore, orientato su tinte luminose.

Di Edmond Vuillard acquistò 4 opere  tra cui le due esposte, diceva che  “riconosce l’anima della casa, di ogni stanza, e degli oggetti di cui si circonda, e verso cui prova affetto”. “Il giornale” risale al 1896-98 e rende appieno tutto questo, ci sono il  tavolo apparecchiato e le sedie, i quadretti e la carta da parati, la tenda e la finestra tagliata in alto, importante nei suoi interni, con  l’albero all’esterno che entra nel quadro. La figura che legge in poltrona  ha il volto quasi completamente coperto dal giornale, non è il lettore il protagonista ma il foglio tenuto aperto dinanzi agli occhi.

“Bambinaia con bimbo vestito alla marinara”, 1895,  anche se è un esterno ha la stessa intimità degli interni,  dipinto a macchie cromatiche con figure appena abbozzate ma molto espressive, come il bimbo alle spalle della donna che si stringe alla sua gonna teneramente, quell’abbigliamento  è rimasto a lungo,  ripensiamo al “Vestivamo alla marinara” di Susanna  Agnelli, e all’abito della nostra prima comunione.

Un salto in avanti di oltre quarant’anni con “Joinville”, 1938, di Raoul Dufy, ne abbiamo apprezzato nella sezione precedente la linearità e luminosità solare del suo studio d’artista sul celeste, qui la dominante è verde, anche se in primo piano questo colore è dell’acqua, tanto  intenso da sembrare erba,  alcune barchette con rematori navigano verso le arcate di un ponte con lo sfondo di alberi, una scena che esprime gioia di vivere.

La gioia di vivere è stato il motivo ispiratore della pittura di  Henri Matisse , basta ricordare per tutte la sua opera del 1906 con questo titolo nella quale presentava  una scena bucolica con uno stile chiaramente decorativo, di ispirazione orientale, che sarà il motivo della sua pittura serena, basata sulla semplificazione della forma con linee e colori puri.  E’ stato innovativo sia rispetto ai classici sia rispetto alle avanguardie, ed è riuscito a mantenere la sua visione  contemplativa anche negli anni sconvolgenti  di due guerre mondiali, senza mostrare  inquietudini né  entrare nelle polemiche.   

 Phillip acquistò la sua prima opera  nel 1927, qui ne è esposta una del secondo dopoguerra, “Interno con tenda egiziana”, 1948, l’artista aveva quasi ottant’anni, il nero del fondo evoca l’età e le forme rosse e verdi la sua vitalità, con la palma che irrompe dalla finestra come segno di longevità;  in primo piano, il melograno con i  semi segno di fertilità, la lancia segno di virilità,  la gioia di vivere è ancora intatta. 

Fondo nero anche in “Il filodendro”, 1952, di Georges Braque, ritroviamo l’artista le cui natura morte avevano catturato Phillip venticinque anni prima, e lo affascinavano ancora mentre Braque continuava a farne la sua massima espressione pittorica, ne acquisterà 13, l’ultima è questa presa nel 1953, poco dopo la sua realizzazione. Si ispira a ciò che vedeva nel giardino della sua casa in Normandia, dove tornò a guerra finita, non c’è gioia di vivere ma un senso nostalgico, del filodendro si intravede la sagoma, protagonista è il tavolino tondo in primo piano evidenziato dal colore arancio con sopra caraffa, bicchiere  e mela, che sembra in rilievo, tale è il suo effetto volumetrico: fra il ricordo e il sogno, la realtà e la fantasia.

Tra le due ultime opere si collocano, cronologicamente, le nature morte del 1950  con cui chiudiamo la sezione, ricordando che  per gli artisti moderni questo genere è sempre stato un modo per sperimentare nuove forme espressive senza significati simbolici, ma con il gusto di selezionare e ordinare gli oggetti in base ai sentimenti personali che ispirano.  Questo si trova al massimo livello in Morandi, che con limitate eccezioni ha dedicato  la parte di gran lunga prevalente, e comunque la più rilevante, della propria attività artistica alle nature morte: non frutta ma oggetti, bottiglie e ciotole, brocche e vasi, che teneva nello studio impolverate studiandone le diverse disposizioni e assortimenti con un’attenzione ai volumi levigati e luminosi. Di Giorgio Morandi è esposta “Natura morta”. 1950, caraffa, brocche e bottiglie nella sua tipica tonalità delicata.

Vediamo inoltre “Natura morta, 17 marzo 1950”, dello stesso 1950, di Ben Nicholson. artista che ha avuto molti riconoscimenti e come Morandi teneva tanti oggetti nello studio per scegliere di volta in volta le composizioni, ma si esprime in modo radicalmente diverso:  non in modo figurativo ma con  l’ispirazione cubista che nell’opera citata sfocia in piani sovrapposti con geometrie bidimensionali.

L’espressionismo, dalla natura all’astrazione, Kokoshhka e  Kandinskij, Pollock e Rothko

Una  mostra tematica come questa presenta continui salti cronologici, perché i temi possono essere  compresenti negli stessi anni anche se vengono tenuti distinti, per cui si torna indietro nel tempo.

Nella 5^ sezione, “L’espressionismo e la natura”, torniamo di nuovo indietro di vent’anni  per una tendenza artistica che accentua i motivi personali e intimisti che al contrario  dell’impressionismo trovavano nella natura il punto di partenza e non di arrivo, il mondo non veniva visto nella sua realtà esteriore ma nella visione personale dell’artista che esprimeva le proprie emozioni attraverso il colore con forme e linee sempre più lontane da quelle  della realtà.  Il collegamento con la natura in questa sezione ne fa mantenere ancora la percezione visiva e non trasfigurata dall’interiorità. 

Lo vediamo nella rappresentazione panoramica “Courmayeur e la Dent du Géant”, 1927, di Oskar Kokoshka,  che lo dipinse con altre due opere in occasione di un viaggio in quella località. Il paese è incastonato nei monti,  dal cromatismo intenso con macchie di colore in un equilibrio compositivo che rende tutto chiaramente percettibile in una notevole profondità  prospettica. Fa parte della serie “Mondo dipinto” di cui Phillip acquistò 4 opere con molte altre dell’artista.

Più indistinti, con i soggetti  delineati  in modo appena percepibile,  due dipinti con intense tonalità, tra il marrone e il rosso con striature e forme verde scuro.Con “Ultimo bagliore, Galilea”, 1930, ritroviamo  Georges Rouault. l’artista della sofferenza umana  che trae dalla visione della natura il modo di collegare con la realtà la propria immaginazione di artista, si intravvede la barca di Pietro in un ambiente corrusco che si riflette nel titolo.

Mentre “Chiatta rossa”, 1931,  ci fa conoscere Arthur Dove, che con il gruppo di pittori intorno a Stieglitz esprimeva le proprie sensazioni dinanzi alla natura, e fu tra i primi ad arrivare all’astrazione. Il dipinto  raffigura la chiatta con volumi in movimento,  era il periodo in cui dormiva su una barca, la caratteristica saliente è data dalla visione raddoppiata dal riflesso sull’acqua,  da non considerare soltanto elemento visivo ma un appello all’immaginazione. Dove fu prediletto da Phillip che lo sostenne, acquistandone addirittura  60 dipinti tra il 1926 e il 1966..

“Il fagiano”, di Chaim Soutine, 1926-27, lo assimiliamo a questa modalità espressiva, forza  compositiva e cromatismo intenso, qui unito a contrapposizioni chiaro-scuro, immobilità e movimento. Nato in Russia e vissuto a Parigi tra i “pittori maledetti” , usa il colore in modo violento con pennellate dense, le sue nature morte sono popolate da animali, dai volatili ai conigli, fino al bue.  Phillip acquistò 4 suoi quadri e fu il primo  a presentarlo  negli Stati Uniti.

Il soggetto è ben percepibile, come in  Georgia O’ Keefe, che faceva parte con Dove del gruppo di Stiglitz:   lei si concentrava invece sui fiori visti molto da vicino nella loro composizione interna, con i pistilli ingranditi in modo che fu ritenuto allusivo. L’opera esposta “Motivi di foglie”, 1936, presenta una lunga frattura, le inseriva nelle sue figurazioni floreali come segno delle lacerazioni  che la attraversavano, anche per il tempestoso rapporto con Stiglitz. Phillip  acquistò 6 sue tele.

Un lungo salto indietro e troviamo  Vasilij Kandinskij,  il quale dal 1910 aveva già pensato che non occorreva un soggetto per l’espressione artistica, poteva anche essere astratta per il contenuto spirituale da lui attribuito all’arte,  tuttavia continuava a riferirsi alla realtà, come in  “Autunno II”, 1912, esposto in mostra. Mentre dei dipinti precedenti  abbiamo sottolineato  la percettibilità, maggiore o minore ma pur sempre presente del soggetto, qui notiamo l’astrazione:  la giornata autunnale è resa dai colori cui si assegnano significati simbolici, e non dalle forme assolutamente indistinte.  Del resto l’artista riteneva che la linea “liberata dal fine di disegnare una cosa funge essa stessa da cosa”. Un  astrattismo  in senso stretto,  pensiamo che siamo all’inizio del secondo decennio del secolo scorso.

La 6^ e ultima sezione, “L’espressionismo astratto” ci proietta nel secondo dopoguerra allorché negli Stati Uniti, anche per opera di artisti fuorusciti,  si sviluppò un movimento che assunse presto un valore internazionale, con gli artisti americani all’avanguardia in un espressionismo di tipo nuovo che, pur con riferimento ai maestri europei –  Klee, Mirò e Mondrian, oltre a quelli già citati – attingeva ad altre culture esotiche come i nativi americani e lo sciamanesimo per affrontare quella che chiamavano “crisi del soggetto”. 

I fuorusciti ci sembrano mantenere un legame debole ma percepibile con la cultura europea e le sue fonti di ispirazione. Il russo Nicholas De Stael lo mostra con “La fuga”,  1951-52, una serie di blocchi modulari nei quali  è riconoscibile l’origine naturale pur se non sono figurativi ma trasfigurati;  del resto l’artista, che ammirava Courbet e Braque, non si ritenne mai pittore astratto. Fu la prima delle 8 sue opere acquistate da Phillip,  che gli diede questo titolo trovandovi il ritmo e la ripetizione caratteristiche delle fughe musicali.  

Della portoghese Maria Elena Viera Da Silva, “Cavalletti da pittore“, 1960,  un’opera in cui l’intelaiatura verticale dà la sensazione di sbarre che creano angoscia.  E’ nel suo stile presentare una visione spaziale dalla percezione labile pur se non è antifigurativa. Tende a creare un’atmosfera piuttosto che  a rappresentare una scena o un soggetto, lo vediamo in questi  suoi “cavalletti”

Sono gli americani a distaccarsi del tutto dalla realtà  affidandosi all’atto del dipingere in sé e per sé per esprimere le proprie sensazioni ed emozioni del momento, di qui le diverse tecniche utilizzate.

A  Jackson Pollock  viene ricondotto l’espressionismo astratto, anche con lo sgocciolamento puro e semplice del colore. Non sono esposte opere di questo tipo,  quindi non ci soffermiamo su questa sua peculiarità artistica,  ma  “Composizione”, 1938-41,  del periodo precedente nel quale si ispirava all’arte dei nativi; infatti le figure richiamano maschere tribali rimaste nel suo inconscio.

“Numero 182”, di Morris Louis  rende bene, invece, la propria tecnica innovativa: faceva scendere il colore dall’alto sulla tela fissata nel telaio senza l’intermediazione della pennellata, e senza distinzione tra alto e basso dopo che il colore si era rappreso compenetrato nel tessuto. Le strisce dell’opera esposta sono  in colori forti e brillanti, un’iride verticale  di forte impatto cromatico.

Di Adolph Gottlieb,  “Equinozio, 1963, formato da quattro elementi circolari sfrangiati,bianco e nero, rosso  e blu,  uno sopra  e tre allineati che galleggiano su  fondo rosa in colori puri, un modo di evocare il fenomeno cosmico non del tutto astratto.

Mentre di Mark Rothko  è  esposta un’opera visibilmente assimilabile a questa. “Senza titolo”, 1968,  mostra al posto dei cerchi un rettangolo orizzontale sfrangiato che galleggia su un analogo fondo a tinta unita, arancio invece che rosa. Come già ricordato all’inizio, oltre ad acquistare 4 dipinti di questo artista, gli dedicò una sala apposita nel museo,  dedicata all’approfondimento. 

Ricordano i cerchi di Gottlieb alcuni elementi circolari in “La lezione”, 1975, di Philip Guston, che su un  paesaggio immaginario era solito inserire oggetti tangibili:  qui degli abbozzi di teste calve,  suole di scarpe e una bolla, forse la contrapposizione tra la caducità e la realtà della vita,  nell’indecifrabile astrazione.

Concludiamo con Richard Diebenkorn, marine di stanza a Washington che visitando il museo di Phillip si era appassionato ai grandi europei e agli americani Dove e Hopper, quest’ultimo non rappresentato in mostra.  Nel contrasto tra figurazione e astrazione, la luce e il colore hanno grande rilievo, lo vediamo in “Berkeley n. 1″, 1953, con macchie cromatiche luminose, mentre l’opera di quasi vent’ anni dopo, “Ocean Park n. 38“,  fa parte della serie così intitolata nella quale l’astrazione rende in modo visibile la luce della California dove si era trasferito a Santa Monica. In quest’opera i gialli  di varie intensità con l’azzurro del cielo su piani allineati o sovrapposti sono parte dell’astrazione stilistica, ma non si differenziano,  pur in una forma così diversa, da una contemplazione di tipo classico.

Termina la cavalcata nell’arte dell’800 e ‘900 iniziata con il classicismo;  l’espressionismo astratto raggiunge il suo culmine quando l’osservatore riesce a cogliere i sentimenti dell’artista come in questo caso.  Analogamente per le altre correnti ricordate nelle quali  è il soggetto a dominare.  Tutto converge nell’autentica  manifestazione artistica senza tempo e senza nazionalità perché universale. E la mostra ne dà una dimostrazione visiva fonte di continue emozioni per il visitatore.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Impressionisti e moderni”,”Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940″ e, fino al 15 dicembre è stato possibile vedere anche “Russia on the Road” (cfr. i nostri articoli, in questo sito, su “Una dolce vita?” 1°, 14 e 23 novembre, “Russia on the Road” 18 e 26 novembre 2015).  Catalogo “Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillip Collection di Washington”,  Silvana Editoriale, 2015, pp. 166, formato 24,5 x 28,5.dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sono usciti in questo sito il 12 e 18 gennaio 2016, con 12 immagini ciascuno.  Per gli artisti e movimenti citati nel testo, cfr. in questo sito i nostri articoli su  Matisse  23 e 26 maggio 2015,  Morandi, 17 e 25 maggio 2015, per Pollock, Rothko e gli altri artisti americani i due articoli sul Guggenheim  22 e 29 novembre 2012, per l’arte culinaria di Pollock l’articolo del 3 luglio 2015 sulla mostra di presentazione degli Usa all’Expo; in “cultura.inabruzzo.it”, su Georgia O ‘Keeffe due articoli del febbraio 2012 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, la Phillip C   ollection e i singoli artisti,  per l’opportunità offerta. Sono riportate prima tre immagini della 4^  sezione della mostra commentata in questo articolo, mentre le altre quattro immagini sono nell’articolo precedente; poi le immagini delle sezioni 5^ e 6^ qui commentate. In apertura, Henri Matisse,  “Interno con tenda egiziana”, 1948; seguono,  Raoul Dufy, “Joinville”, 1938, e Georges Braque, “Il filodendro”, 1952; poi, Oskar Kokoschka,  “Courmayeur e la Dent du Géant”, 1927,  e  Georgia O’ Keeffe,  “Motivo di foglie”, 1926;  quindi,  Georges Rouault, “Ultimo bagliore, Galilea”, 1930,  e Vasilij Kandinskij, “Autunno II”,  1912;  inoltre, Jackson Pollock,  “Composizione”,  1938-41, e Richard Diebenkorn, “Berkeley n. 1”, 1953; infine, Mark Rothko, “Senza titolo”,  1968, e Philip Guston, “La lezione'”, 1975; in chiusura, Adolph Gottlieb, “Equinozio”, 1963, si intravede sulla dx la parte finale di “Numero 182” di Morris Louis, in primo piano l’ombra di una visitatrice.

Accessible Art,, le “Dfferent Views” di 5 artisti

di Romano Maria Levante 

La nuova mostra della galleria RvB Arts di via delle Zoccolette a Roma, con l’Antiquariato Valligiano dell’adiacente Via Giulia, presenta le “Different Views” di cinque artisti,  Fabio Imperiale  e  Annalisa Fulvi,  Arianna Matta, Charlie Manson e Bato. La mostra è aperta dal 14 gennaio al 2 febbraio 2016, organizzata e  curata da Michele Von Buren, nell’ambito del programma “Accessible Art”  che attraverso frequenti  mostre-mercato mira a diffondere l’arte in ambiti familiari con opere valide artisticamente, accessibili economicamente e adatte all’ambiente domestico.

“L’Epifania tutte le feste si porta via”, è l’antico motto ben noto, e si è portata via anche la mostra natalizia “Alice in Wonderland” che ha allietato le feste con l’immagine deliziosa della fanciulla coinvolta in avventure quanto mai fantasiose e intriganti cui si sono ispirati gli artisti espositori.  

Ma finita una mostra se ne fa un’altra, ha pensato l’infaticabile animatrice di RvB Arts,  Michele von Buren, ed ecco che dopo meno di un settimana di intervallo apre una nuova mostra con i percorsi stilistici e di contenuto,  le “Different views”  di cinque artisti che presentano le rispettive visioni e percezioni di una realtà con tante facce e con stili personalissimi.

Sono raffigurazioni di ambienti visti con occhi che vanno oltre l’apparenza, alla ricerca dell’essenza più profonda da rivelare usando le tecniche e le forme più adeguate alla propria visione: si va così dal figurativo precisionista a simbolismi ed astrazioni che creano una scenografia ricca e mutevole.

Prima di fare una rapida rassegna dei cinque artisti e delle loro “Different views” non si può non sottolineare ancora il programma, meritorio quanto ambizioso, che Michele von Buren persegue da anni nella galleria all’insegna dell’ “Accessible Art” impegnandosi per far entrare nelle famiglie l’arte contemporanea. Per fare ciò seleziona tra le opere di artisti attuali quelle compatibili con l’ambiente domestico – e sappiamo come l’arte spesso si esprima oggi in forme incompatibili – e quelle  accessibili sotto il profilo economico, di autori di sicura qualità e caratura artistica.

In tal modo ha creato una squadra di 20 pittori, 5 scultori e 13 fotografi d’arte  che, insieme ai frequenti nuovi arrivi, riesce a dar vita a cicli espositivi ravvicinati. Artisti con contenuti e stili diversi per un percorso comune,  coerente con le finalità del programma: la formula della galleria, al di là della mostra contingente, è di presentare tante “different views” convergenti su finalità in cui l’interesse collettivo si aggiunge alla valorizzazione di giovani emergenti e di artisti affermati.

Così nelle mostre che si succedono, le nuove opere in esposizione convivono con significative persistenze e permanenze di opere precedenti, creando un clima familiare, perché si ritrovano ogni volta opere divenute amiche cui si è affezionati, in  un’atmosfera resa ancora più confidenziale dai mobili dell’Antiquariato Valligiano che rendono l’dea del loro inserimento in un arredamento domestico raffinato,  e anch’esso accessibile, che viene ugualmente proposto  ai visitatori.

Abbiamo descritto ripetutamente questo programma e il suo valore, lo ricordiamo ancora  per l’importanza che si deve attribuire a un’iniziativa  ben oltre l’aspetto meramente espositivo.

Ed ora percorriamo le “Different views” presentate dalla mostra attuale con cinque artisti attraverso le opere esposte nelle due accoglienti sale della galleria  RvB Arts, quasi tutte realizzate nel 2015.

Imperiale, Matta e Fulvi;: solitudine, alienazione, sospensione

Il primo espositore che incontriamo è Fabio Imperiale, un artista romano il cui percorso va dalle lontane prospettive urbane alle visioni ravvicinate di  strade bianche rese ancora più desolate e solitarie da alcuni animali, fa pensare al cavallo che passa nella desolazione per sottolineare la solitudine di Gelsomina nella “Strada” di Fellini.  Solitudine che si trasferisce alla figura femminile nel primo piano della testa vista dal retro “Da sola”,  quasi priva di personalizzazione per renderla emblematica: rimane impressa la sequenza dei tre volti  su una piccola scala in una ascesa ideale.

Gli esterni urbani sono un soggetto che abbiamo visto in diverse mostre recenti, dalle “Periferie” di Sironi alle immagini notturne illuminati da fasci di luce di Bergamini, fino alle spettacolari panoramiche di  Ottieri. Imperiale con le sue opere entra in questa galleria con le diverse facce della realtà che dall’esterno entra in noi; come restano impresse le immagini di solitudine umana.

La solitudine, collegata all’assenza di integrazione nel contesto urbano e sociale, che resta estraneo e quasi ostile al soggetto che ci vive e vi si dovrebbe inserire organicamente, porta all’alienazione. Forse  hanno portato l’artista a evocare questo tema nelle sue opere gli iniziali studi di grafico  pubblicitario nei quali  ha conosciuto direttamente la manipolazione dei comportamenti con la creazione di bisogni indotti lontani dalle reali esigenze umane al solo scopo di sostenere la produzione in un inseguimento senza fine, che Warhol ha trasferito nell’arte in una consacrazione del consumismo rivelatrice.

I titoli sono  criptici,  e non  solo per la lingua, abbiamo gli allusivi “Come in un sottotetto” e “Non per colpa ma per vento”.

In fondo alla sala,  le opere di Arianna Matta riflettono anch’esse l’alienazione  in una forma pittorica i cui i luoghi abbandonati e desolati sono resi in una densità materica e un cromatismo che rispecchia lo stato d’animo dinanzi a una realtà sempre più frammentata e straniante. E’ un’artista romana, laureata al Dams che ha frequentato i corsi  della “Rome University of Fine Arts” , dal 2009 ha effettuato 4 mostre personali e 9 collettive, finalista nel 2011 di tre premi, di cui uno a Los Angeles. I titoli delle opere esposte parlano di “assenza”, in fondo è questa la fonte e l’effetto dell’alienazione.

Sempre nella prima sala fronteggiano, per così dire, le visioni urbane di Imperiale, quelle ravvicinate di Annalisa Fulvi, le quali riprendono da vicino strutture architettoniche  percorse e sostenute da trame che le attraversano come delle nervature o degli orpelli, e viste nella fase realizzativa danno l’idea della provvisorietà e della sospensione.

In effetti, viviamo in una realtà dove  l’architettura non ha più i caratteri di stabilità stilistica e persistenza del passato che ci ha tramandato i più imponenti e spettacolari edifici e templi dai quali veniva il carattere identitario di un’epoca o di una forma costruttiva.  Per tutti valgano i rifacimenti in corso di grandi edifici pur recenti dell’Eur a Roma, ben più radicali degli interventi  che avvenivano in omaggio ai nuovi stili, come per il barocco spesso sovrapposto alla semplicità francescana di facciate ed interni delle chiese.

Diciamo questo solo per sottolineare  che l’evidenziare,  da parte dell’artista, l’instabilità e il cambiamento delle forme architettoniche  riflette una realtà sotto gli occhi di tutti per cui le sue opere suscitano un interesse particolare come un invito all’osservatore a cercare riferimenti e affinità con la propria esperienza diretta.

Milanese, si è laureata all’Accademia delle Belle Arti di Brera, con specializzazione in pittura, nel 2011 vincitrice del premio Ghiggini Arte Giovani di Varese e finalista in altri 4 premi, nel 2012 finalista al Premio Lissone, in questi due anni 4 mostre personali in Lombardia; dal 2007  al 2013 ha partecipato a 23 mostre collettive, una in Belgio nel 2010, una in Turchia nel 2012.

Masson e  Bato:  luminosità ambientale e leggerezza calligrafica

 Molto diverse le opere degli altri due artisti,  sono vedute ambientali dove non si avverte alienazione e frammentarietà nelle forme e nella densità cromatica, bensì serenità  e leggerezza nelle tinte delicate e nella purezza compositiva.

Charlie Masson utilizza linee al posto di strati materici,  tracce sottili in un contesto luminoso bianco e celeste, le sue vedute rurali e urbane sono state  accostate alle rappresentazioni solari delle tranquille residenze della provincia americana nella serenità del vivere quotidiano di Edward Hopper. D’altra parte,  Masson è nato a New York, quindi l’influsso americano è pertinente, si è laureato nella School of the Art Institute di Chicago e ha conseguito il Master al Camberwell College of Arts di Londra; nel 2010 ha ottenuto una borsa di studio alla Royal Drawing School. E’ un artista internazionale, dal 2007,  20 mostre collettive, di cui 10 a Londra e 4 a New York, e 2  personali, a  Parigi nel 2013 e a Miami nel 2015.

Il quinto artista, che espone nella seconda sala dello spazio espositivo, è Daniele Battocchi, in arte Bato,  romano, con formazione umanistica oltre che artistica, da dieci anni realizza originali  performance pittoriche  con musicisti jazz allo Smoker’S Hot Club di Roma. Ha compiuto viaggi in Europa e in Sud America, che hanno contribuito al suo stile  basato sull’improvvisazione in una immediatezza documentaria resa con la china e l’acquerello. Vediamo ampie superfici bianche in un approccio calligrafico che a volte viene interrotto da grandi macchie per l’impulso del momento, sono opere “Senza titolo” aperte all’interpretazione e alla fantasia dell’osservatore.

La sua appare una visione espressionista in quanto manifesta all’esterno le pulsioni interiori, ma la leggerezza, la forma stilistica delicata e rarefatta, è molto diversa da quella  degli espressionisti in senso stretto.

Con Bato si concludono le “differenti vie”  della mostra, in una convergenza sul tema esistenziale  nell’attuale  contesto urbano e ambientale, dove le differenze maggiori, oltre a quelle stilistiche e di contenuto, risiedono nelle visioni contrastanti dell’alienazione e della serenità, compresenti nella vita. Sono,  in fondo,  gli opposti moti dell’animo che la realtà odierna suscita in noi a seconda di come vediamo ciò che è fuori di noi per le motivazioni  profonde  che sono dentro di noi.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 13 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 25 dicembre, 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Per la citazioni del testo cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di Sironi  2 novembre e 7 gennaio 2015, 1, 14 e 29 dicembre 2014,  Ottieri 11 maggio 2015,  Bergamini 6 dicembre 2013,  Warhol 15 e 22 settembre 2914,  sul Barocco 23, 30 giugno e 4 luglio 2015; in “cultura.inabruzzo.it”  per Hopper  12 e 13 giugno 2010    (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, e in particolare Michele von Buren, con gli artisti titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, un’opera di Fabio Imperiale; seguono un’altra sua opera e due opere di Annalisa Fulvi; poi, due opere di Arianna Matta; quindi, due affiancate di Charlie Masson; inoltre due opere di Bato; in chiusura due affiancate di Fabio Imperiale.

Pittori di Marina, sei artisti premiati e un libro celebrativo

di Romano Maria Levante

Il 20 gennaio 2016 nella Biblioteca centrale del Palazzo della Marina a Roma è stato conferito il  titolo “Pittore di Marina” a sei artisti che si sono segnalati per i loro dipinti di soggetto marinaro: Alessandro Feruglio e Giuseppe Frascaroli, Mario Magnatti e Gianfranco Munerotto, Davide Orler e Gianni Testa. Inoltre è stato presentato il libro “La storia della Marina attraverso i dipinti“, dell’ammiraglio Paolo Bembo Vice presidente dell’Associazione “Pittori di Marina”, dal comandante Giosuè Allegrini  Capo Ufficio Storico della Marina Militare, che lo ha curato con  l’editore Carlo Rodorigo intervenuto alla manifestazione insieme allo storico Enrico Cernuschi. Ha presieduto il capitano di vascello Luca Conti, Capo Ufficio Immagine e Promozione,  in chiusura il saluto dell’ammiraglio Raffaele Caruso in rappresentanza del Capo di Stato Maggiore della Marina.

Una vera immersione, è il caso di dirlo, nel mondo della Marina, si è svolta nella Biblioteca dello storico palazzo con i  pittori che hanno realizzato opere artistiche sulle navi e sull’ambiente marino.

I diplomi  ai sei “Pittori di Marina” e il libro sulla storia della Marina in pittura

Non si è trattato di una mostra, come per le opere dei “Pittori del Risorgimento” presentate alle Scuderie del Quirinale alla fine del  2010, ma delle due originali iniziative citate: il conferimento del titolo di “Pittore di Marina” , con apposito diploma, ai sei artisti  dei quali sono state mostrate significative riproduzioni di dipinti marinari; e la presentazione del libro “La storia della Marina attraverso i dipinti” dell’ammiraglio Paolo Bembo. C’è uno stretto collegamento tra i due momenti, perché questi pittori hanno anche alimentato con le loro opere la galleria iconografica del volume. 

L’Associazione Pittori di Marina, di cui l’autore è Vicepresidente, istituita nel 1998,  conferisce  periodicamente questo riconoscimento collegato a un’antica tradizione, addirittura preunitaria  e mantenuta fino all’ultimo dopoguerra,  rinverdita con la costituzione dell’associazione.

Abbiamo parlato di immersione nel mondo della Marina perché si è andati ben oltre la cerimonia del conferimento dei diplomi da parte del capitano di vascello Conti e del comandante Allegrini,  e la presentazione del libro sulla storia della Marina attraverso i dipinti,  donato anch’esso ai premiati.

I valori e la storia della Marina sono stati illustrati nel lungo e appassionato intervento del presidente dell’Associazione  comandante Allegrini, che ha introdotto anche il libro dell’amm. Bembo,  con il commento altrettanto appassionato dello storico della Marina Cernuschi

Nulla di burocratico né militaresco, ha prevalso la cultura nelle rievocazioni marinare e l’arte nelle pur indirette visioni delle opere dei pittori insigniti del riconoscimento. Il capitano di vascello Luca Conti,  nel presiedere la manifestazione, ci ha tenuto a sottolineare   l’importanza che la Marina attribuisce alla cultura e all’arte nella diffusione e divulgazione dei propri valori.

Ampio spazio anche alla storia, la lunga storia della Marina che aleggiava  nel grande palazzo illustrato nell’apposito intervento del sottotenente di vascello Desireé Tommaselli:  costruzione iniziata nel 1912 su un progetto Liberty, ripresa dopo la prima guerra mondiale su diverse basi stilistiche e con inserimento nel 1929  alla base della facciata dei “manufatti della vittoria navale”, le due gigantesche ancore delle  corazzate  affondate “Lissa”, quasi una rivincita sulla storica battaglia, e la  poderosa  “Viribus Unitis”, che hanno reso il Palazzo un “unicum” immediatamente riconoscibile.  La stessa Biblioteca, nella quale si è svolta la manifestazione, reca i simboli marinari nelle ringhiere e nello spettacolare  lampadario, oltre che, naturalmente, nei preziosi volumi allineati negli antichi scaffali che fasciano interamente il vasto salone.

L’attività militare della Marina è stata imponente anche nella Grande guerra che invece nell’immaginario collettivo è ricordata come guerra di trincea, da Caporetto a Vittorio Veneto, dal Carso a Montegrappa, lo dimostrano i numeri forniti, citiamo solo le  86 mila missioni, corrispondono a molte volte il giro del mondo; altrettanto imponente la documentazione, ben 10 milioni di documenti e 1 milione di fotografie.  Ma non si deve considerare solo l’aspetto militare, quanto quello economico: la sicurezza dei mari è la base degli scambi commerciali che nella storia dell’umanità hanno  avuto grande sviluppo  per il fondamentale apporto delle attività marinare.

Nella presentazione del proprio libro,  l’ammiraglio Bembo ha ricordato che l’idea di una storia della Marina attraverso i dipinti gli era stata data dal Capo di stato maggiore in anni lontani, cui sono seguite lunghe ricerche.  Ha poi precisato che ci sono i “pittori illustratori navali” in senso anglosassone, non uomini di mare ma osservatori spesso tanto attenti da riuscire a rendere la vita marinara non vissuta direttamente, tra loro ha citato Bucci; e “pittori uomini di mare” che a parità di talento artistico hanno “una marcia in più”.  Tanto altro è stato detto sul libro anche dallo storico Cernuschi, ma dobbiamo tornare sull’altro evento della giornata, il conferimento dei diplomi.

Al riguardo presentiamo ciascuno dei sei artisti riconosciuti “Pittori di Marina”, in base alle immagini fornite e ai dati biografici, che aiutano a conoscere il loro rapporto con il mondo del mare.

Di tre artisti vediamo dipinti di navi della Marina Militare in navigazione nella loro imponenza.

Le navi di Alessandro Feruglio sono quasi in dissolvenza, in un’atmosfera rarefatta:  due oli con una nave portaerei  nel Centenario dell’Aviazione di Marina, e il “Sommergibile  Emo” mentre emerge tra le onde, e due acquerelli, la “Nave Impavido” e le  “Vespucci”  e “Palinuro”, la celebre nave scuola in primo piano mentre dietro si vede la sagoma simile dell’altra, quasi il suo riflesso.

Appassionato di mare fin da bambino, studi nautici a Venezia, diplomato nell’Istituto nautico di Trieste, guardiamarina dopo un corso nell’Accademia navale di Livorno, anche se dopo aver terminato il servizio militare in Marina lavorerà in banca; ma resterà sempre appassionato di mare.   Si imbarca su varie unità  a vela negli anni ‘80 e partecipa ai raduni e alle regate di barche d’epoca.

Comincia a ritrarre navi e barche a vela soprattutto nel mare in burrasca finché l’entusiasmo per la Coppa America non lo porta negli anni ’90 a dipingerne le regate esponendo i suoi lavori fino  a partecipare nel 1998 al concorso “Pittori di Marina” indetto dall’Ufficio storico della Marina Militare; ha poi dipinto immagini delle unità della Marina Militare, da quelle storiche alle più recenti, come quelle citate. Uomo di mare, ha tradotto nell’arte la sua autentica passione, appartiene alla categoria che ha vissuto nell’ambiente marinaro e ne conosce motivazioni  e atmosfere.  .

Di Mario Magnatti vediamo tre “digital paint” della “Nave Cavour”, ripresa di coda, che ne riduce l’imponenza, e la “Nave Gaeta”, con fumi neri che escono dai fumaioli, oltre all’ “Incrociatore classe Zara”, nello sfondo  un cielo nuvoloso; si vede ritratto anche l’ammiraglio De Giorgi.

Nella sua biografia non ci sono riferimenti marinari ma  molti riconoscimenti artistici per le  opere in cui utilizza varie tecniche impegnandosi anche nella ricerca.  I primi successi dal 1994 al 1997, in cinque concorsi nazionali due volte primo e tre volte terzo; dopo cinque anni di interruzione, dal 2002 al 2013,  primo in quattro concorsi internazionali  e in uno nazionale, secondo in tre concorsi internazionali e terzo in un concorso nazionale. A questi si aggiunge un gran numero di altri premi internazionali. Lo consideriamo tra i cosiddetti “illustratori”, non uomini di mare ma profondi conoscitori delle navi e dell’ambiente marino per passione.

Ugualmente nella biografia di Gianfranco Munerotto non ci sono precedenti di vita marinara vissuta di persona, il suo interesse per il mare è di natura storica, studioso com’è della marineria antica e tradizionale non solo attraverso i documenti ma anche mediante l’iconografia artistica come verifica, in particolare dei materiali da lui ricostruiti per le imbarcazioni venete. Ha pubblicato illustrazioni e ricostruzioni grafiche, ha catalogato e valutato sotto il profilo storico  i reperti di barche e collabora con il Museo storico navale di Venezia, ha  realizzato dipinti anche per conto della Marina Militare. Un impegno di studioso il suo che nasce dalla passione per la marineria antica e si è trasferito nella pittura di Marina, con l’aderenza alla realtà e la precisione nel ritrarre le navi data dalla sua conoscenza specifica, e l’aggiunta di un ambiente marino fatto di luci e di colori, non convenzionale ma personale,  dagli effetti suggestivi.

Lo vediamo nei quattro oli presentati,  due sulla “Nave Luigi Rizzo” e “Nave Perseo“, due sul “Sommergibile Toti” e  sulla nave portaerei per il Centenario Aviazione Navale. Sono immagini  con forte evidenza cromatica, scene movimentate dai marosi nella superficie del mare e dagli aerei ed elicotteri in volo, a parte il sommergibile qui visto in completa immersione nella sua imponenza.

Frascaroli, Orler: ammiragli e barche da favola

Di Giuseppe Frascaroli vengono presentati tre oli con i ritratti di ammiragli; due  a mezzo busto di Giuseppe De Giorgi e Paolo Thaon De Revel, concentrati sull’espressione del volto; uno di grandi dimensioni, a figura intera, Paolo Thaon De Revel  in piedi tra simboli patriottici e sfondo marino.

Anche per lui non si forniscono precedenti marinari, ma la storia artistica che lo pone “tra i più talentuosi e autorevoli pittori figurativi classici”, come “il pittore neoclassicista italiano di maggiore rilievo a livello istituzionale”, studioso anche di arte pittorica.  Si è segnalato nella pittura di matrice religiosa e colta, è noto come il “Pittore dei Papi”,  ed è ritrattista e paesaggista, con preferenza per la pittura di soggetto marinaro, ed ecco spiegati i ritratti di ammiragli in cui unisce le due inclinazioni, per il ritratto e per la marina. Il lungo elenco delle sedi istituzionali italiane ed estere  dove sono collocate le sue opere, degli ambiti museali nazionali e internazionali con testimonianze bibliografiche ed iconografiche e delle onorificenze  dà un’idea dell’unanime riconoscimento alla sua elevata caratura artistica.

E siamo a uno dei due pittori che abbiamo lasciato per ultimi non solo per l’ordine alfabetico, ma anche per il differenziarsi dai quattro artisti precedenti, sotto il profilo dei soggetti marinari presentati:  non moderne e imponenti  navi da combattimento, né ammiragli in alta uniforme,  ma scene pittoresche ed evocative  in un ambiente suggestivo che crea una magica atmosfera.

E’  Davide Orler, al quale è stato conferito il riconoscimento di “Pittore di Marina” alla memoria, essendo scomparso il 7 dicembre 2010, il diploma è stato ritirato dal figlio.  Conosceva per esperienza diretta la vita marinara, essendosi arruolato volontario a 18 anni in Marina per il suo attaccamento al mare, non volendo andare negli alpini cui era destinato come trentino.  Resta in Marina per l’intero periodo di ferma di otto anni, imbarcato sui dragamine e su altre navi nel servizio di pattuglia nei mari italiani.

Si dedica fin da giovanissimo all’arte e alla pittura, traendo ispirazione dall’amore per la sua terra nei  paesaggi montani e dalla passione per il mare nei dipinti con visioni mediterranee e immagini ambientali di località marine.  A questi temi unisce  una forte sensibilità per i motivi spirituali, che lo porta all’arte sacra, ritrae  la figura tragica dell’Ecce Homo e del Cristo morto. Dalle immagini sacre a quelle marine, domina nelle sue raffigurazioni  il senso del pathos.

A 26 anni,  con la prima personale ha in premio la collocazione per quattro anni in uno studio di artisti veneziani, l’anno dopo in una nuova personale al Museo Picasso di Antibes conosce il grande Pablo Picasso, e con lui protagonisti della cultura e dell’arte, come Germaine Richter, Jean Cocteau,  Jaques Prévert. Presente alla Biennale d’Arte sacra di Bologna, alla Biennale  di Milano e alla Quadriennale di Roma, nel 1963  ottiene il primo premio di pittura ex aequo all’Opera Bevilacqua La Masa;  oltre quarant’anni dopo, nel 2007, il premio alla carriera alla Biennale internazionale di Firenze. Nel mezzo,  tante mostre personali e tanti riconoscimenti che fanno di lui “uno dei più rilevanti figurativi italiani della seconda metà del Novecento”. Degli anni ’90 va ricordato il suo ciclo pittorico della Bibbia, un centinaio di dipinti sul Vecchio e Nuovo testamento.  

I quattro dipinti a olio presentati parlano per lui, “A Palermo 2” e “Porto Carbone a Palermo 2” mostrano barche tratteggiate con straordinaria evidenza materica, in un figurativo all’opposto del  precisionismo, con lo spessore del tratto e la forte colorazione riesce a far sentire ciò che anima l’ambiente riprodotto; “Barca a vela” e “Le sirene” sono immagini  con altrettanta intensità materica e cromatica, rendono mirabilmente l’aspetto favolistico e onirico dei soggetti raffigurati.

Gianni Testa: le vele marine nell’espressionismo onirico

Ed eccoci infine a Gianni Testa, l’ultimo dei premiati in ordine alfabetico,  il primo nei nostri pensieri  avendone conosciuto a fondo e commentato con sincero apprezzamento la pittura ricca di motivi e di suggestioni, che abbiamo definito a suo tempo “espressionismo onirico” per la forza delle sue composizioni. Esse spaziano su una gamma quanto mai vasta, dai celebri cavalli alle nature morte, dalle piazze romane alle persone, ritratti e non solo, dai temi sacri alla Divina Commedia, fino ai paesaggi e alle marine.

Un eclettismo tematico il suo, associato a una unitarietà stilistica che deriva da un iter formativo artistico particolarmente ricco innestato su una passione per la pittura che lo portò a lasciare gli studi di architettura intrapresi con risultati di eccellenza dopo due anni.  Nella scuola di restauro della Galleria Borghese guidata dalla direttrice prof.ssa Della Pergola approfondisce i metodi e le tecniche con cui i Maestri del passato davano vita ai soggetti delle loro opere trasmettendo emozioni e sensazioni, e vi trova ulteriori motivazioni, tanto che si dedica  al restauro per dieci anni.

Poi un’ulteriore tappa della sua formazione sul campo, dopo il restauro la scultura con il maestro Bartolini, che sarà fondamentale nel passaggio alla pittura non solo come passione ma  come definitiva sua espressione artistica con l’approccio dello scultore unito a quello del restauratore.

Ha approfondito l’arte degli antichi maestri, ora entra in contatto con i suoi contemporanei,  Guttuso e Calabria, Quaglia e Levi, e ne diventa amico. Carlo Levi nel 1962  lo spinge  a partecipare ad una collettiva di pittura con Renato Guttuso e Quaglia, Mazzacurati e Purificato, conoscerà anche Pericle Fazzini.  La sua arte, pittura e scultura,  viene apprezzata sempre di più dalla critica.

Partecipa regolarmente alle più prestigiose rassegne collettive d’arte, dalla Biennale di Roma sin dal 1968, alla Triennale di Milano e Quadriennale di Roma dal 1975,  premiato in concorsi d’arte,    dal primo  premio al “Brandy italiano” del 1970  al Premio alla carriera ottenuto di recente. Mostre personali in Italia e all’estero, Germania e Svizzera, Stati Uniti e Giappone fino al tour artistico negli Emirati arabi dall’aprile 2015 all’aprile 2016 con il patrocinio della Presidenza del Consiglio.

Le sua formazione si riflette in uno stile molto personale, una densità materica che rimanda al restauro e un modo di estrarre le forme dalla materia pittorica che rimanda alla scultura..

E quali forme! I  cavalli scalpitanti sono la sua espressione più celebre e spettacolare, con la loro straripante vitalità,  come fossero onde che si formano incessantemente senza tregua. Possiamo vedervi un richiamo al mare, del resto non sono chiamate “cavalloni”  le onde del mare agitato?  Forse anche con riferimento al mare si può interpretare l’insistenza con cui li ritrae, “Gli stalloni” e “Bradi liberi”, “Bradi festosi” e “Bradi nella notte”, “Lotta di bradi” e “Battaglia”, in composizioni  dinamiche  con  cromatismi che riflettono le atmosfere più variate e suggestive.

Come le vele sul mare, presentate quale sigillo della sua attenzione alla Marina, dove traspaiono alcuni motivi ricorrenti nella sua arte. Dei cavalli abbiamo detto, ma ci sono anche i paesaggi, “Sintesi di Roma” e “Ruderi di notte”, “Piazza del Popolo”,” Piazza Navona”,  e “Piazza di Spagna”  con facciate e monumenti in particolari condizioni di luce: si vedono le cupole  dietro le “Vele a Venezia”, come un miraggio; e i paesaggi,  in “Gara velica”  la montagna, dal profilo del Vesuvio, con  un cielo corrusco. In “Vele”, e soprattutto “Vela rossa”,  spicca la  densità materica.

Nella mostra antologica a lui dedicata al Vittoriano nel 2014  abbiamo potuto vedere  non solo quelle ora accennate, ma anche altre espressioni artistiche, dalle Nature morte alla galleria di figure umane: i ritratti femminili,  “Maria Grazia” e “Lidia Ceccarelli“, “Ragazza peruviana” e “Marilyn Monroe”,  i grandi personaggi, “Anita  e Garibaldi” e  “S. S. Giovanni Paolo II”, le composizioni dinamiche,  “Balletto notturno” e “Danza”,  quelle con forte cromatismo “Danzatrici” e “Danza orientale. e le scene intense, “Pace”“Inquisizione “,  il sacro di “La caduta  di Paolo” e “Mana Hata”, “Crocifissione” e “Il Calvario”. Fino alla “Divina Commedia”, con il verde del “Paradiso”, che nel “Purgatorio” si mescola al rosso, dominante nell'”Inferno” insieme al nero; un inferno che “Undici settembre” porta nella realtà, con le fiamme infernali che divorano le Torri Gemelle, un’immagine definita da Claudio Strinati  più verosimile di quella vera.

Una straripante polifonia di soggetti e temi in una rigorosa coerenza stilistica manifestata nella estrema complessità materica in una  varietà di colori che va dal blu diffuso delle ambientazioni notturne al magmatico tripudio coloristico delle altre composizioni. 

La massa cromatica è la materia informe dalla quale, afferma Strinati, l’artista “tira fuori la forma”  come Tiziano nelle ultime opere, al pari di Michelangelo dal marmo: “Talvolta Testa sbozza l’immagine con grandi campi di colore per cui sembra di vedere alternarsi sulla tela una tendenza a sfumare e una a definire, contigue ma inseparabili”. Nelle sue composizioni “il colore appare come un vento cromatico che spinge delle foglie, che sono le pennellate stesse, a coagularsi in forme di figure, mentre altre volte si nota un sorprendente contrasto tra una potente accensione della cromia e un altrettanto esplicito incupimento della materia pittorica”. 

E’ una definizione che si attaglia alla perfezione alle sue “Vele”, non solo formate ma addirittura spinte dal “vento cromatico”, che le definisce e le accende,ma anche, come in “Vela rossa”, tende a sfumarle e incupirle.

Se la forma è così intrigante, il contenuto che esprime lo è altrettanto: non rappresenta la realtà  fattuale ma la realtà virtuale come viene percepita dall’artista con le sue pulsioni interiori e rivissuta dall’osservatore che vi trasferisce le sue visioni, i suoi sentimenti, i suoi sogni. Perciò la definizione  “espressionismo onirico” ci sembra possa rendere il senso delle suggestioni provate e suscitate.

Le vele e il mare hanno sempre alimentato i sogni di tutti, per il senso di libertà che trasmettono con la dimensione indefinibile dell’infinito non disgiunta dalla sottile inquietudine legata all’ignoto che affascina mentre sgomenta portando alla riflessione, all’autoanalisi, alla meditazione.  In definitiva  chiamano a raccolta i sentimenti più autentici e profondi, anche quelli sedimentati nella memoria. 

E’  confortante, dunque,  vedere che tra le opere mostrate come rappresentative dei “Pittori di Marina”, oltre alle imponenti sagome delle grandi navi che ricordano le missioni militari sui mari, ci siano anche le piccole vele che evocano una dimensione magica, coinvolgente, quella dell’infinito: nella misteriosa realtà dell’ambiente marino e in quella ancora più insondabile dell’animo umano.

Info

La manifestazione si è svolta il 20 gennaio 2016  alla Biblioteca Centrale di Palazzo Marina, Piazza della Marina, 4, Roma. Tel. 06.3680.3870,  http://www.marina.difesa.it/   Cfr., in questo sito, i nostri articoli:  sull’opera di uno dei sei nuovi “Pittori di Marina”,  “Gianni Testa, l’espressionismo onirico al Vittoriano”, 14 settembre 2014, e “Gianni Testa, il tour negli emirati arabi”, 14 marzo 2015; sugli artisti riferiti a Testa,  Carlo Levi e la mostra alla Galleria Russo,  28 novembre e 3 dicembre 2014,   Renato Guttuso e la mostra al Vittoriano, 25 e 30 gennaio 2013. Inoltre, in “cultura.inabruzzo.it” , cfr. i nostri 3 articoli sulla mostra citata nel testo “Pittori del Risorgimento” alle Scuderie del Quirinale,  “L’epica” il 29 dicembre 2010, “Il popolo in armi” e  “Il popolo in ansia” l’8 gennaio 2011 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).   Per Gianni Testa v. il Catalogo, dal quale abbiamo tratto le immagini appositamente aggiunte nel commento, “Gianni Testa, antologica”, a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, settembre 2014, pp. 112, formato  21 x 28.

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Le immagini dei sei artisti e del conferimento del titolo di “Pittore di Marina” sono state riprese da Romano Maria Levante nel corso della manifestazione al Palazzo Marina, mentre le riproduzioni dei loro dipinti marinari sono tratte dal “depliant” dell’Ufficio Informazione e Comunicazione della Marina Militare che si ringrazia.  I titoli, con consegna del diploma,  sono stati conferiti in ordine alfabetico, mantenuto nel nostro resoconto salvo una posposizione dovuta al nostro raggruppamento tematico. Per ogni artista l’immagine della premiazione, seguita immediatamente dai  suoi dipinti presentati nel “depliant”, precede il relativo resoconto  del testo. In apertura, gli artisti ripresi insieme prima della cerimonia, da sinistra il figlio di Orler, Testa, Frascaroli, Munerotto, Feruglio, Magnatti;  poi la consegna dei diplomi di “Pittori di Marina” effettuata dal capitano di vascello Conti (a sin) con il comandante Allegrini (a dx) e i loro dipinti del “depliant”,  secondo l”ordine in cui i singoli artisti sono citati nel testo:  Alessandro Feruglio, Mario Magnatti, Gianfranco Munerotto; Giuseppe Frascaroli, Davide Orler (nella premiazione il figlio); Gianni Testa; poi, inseriti nel commento su Testa,  i dipinti  del “depliant” ripresi dal Catalogo, “Vele a Venezia”, 2009, “Gara velica”, 2000, e “Vela rossa”, 1988, infine  “Velieri”, 1970 in chiusura, il maestro Testa  dopo la  cerimonia.