Accessible Art,, le “Dfferent Views” di 5 artisti

di Romano Maria Levante 

La nuova mostra della galleria RvB Arts di via delle Zoccolette a Roma, con l’Antiquariato Valligiano dell’adiacente Via Giulia, presenta le “Different Views” di cinque artisti,  Fabio Imperiale  e  Annalisa Fulvi,  Arianna Matta, Charlie Manson e Bato. La mostra è aperta dal 14 gennaio al 2 febbraio 2016, organizzata e  curata da Michele Von Buren, nell’ambito del programma “Accessible Art”  che attraverso frequenti  mostre-mercato mira a diffondere l’arte in ambiti familiari con opere valide artisticamente, accessibili economicamente e adatte all’ambiente domestico.

“L’Epifania tutte le feste si porta via”, è l’antico motto ben noto, e si è portata via anche la mostra natalizia “Alice in Wonderland” che ha allietato le feste con l’immagine deliziosa della fanciulla coinvolta in avventure quanto mai fantasiose e intriganti cui si sono ispirati gli artisti espositori.  

Ma finita una mostra se ne fa un’altra, ha pensato l’infaticabile animatrice di RvB Arts,  Michele von Buren, ed ecco che dopo meno di un settimana di intervallo apre una nuova mostra con i percorsi stilistici e di contenuto,  le “Different views”  di cinque artisti che presentano le rispettive visioni e percezioni di una realtà con tante facce e con stili personalissimi.

Sono raffigurazioni di ambienti visti con occhi che vanno oltre l’apparenza, alla ricerca dell’essenza più profonda da rivelare usando le tecniche e le forme più adeguate alla propria visione: si va così dal figurativo precisionista a simbolismi ed astrazioni che creano una scenografia ricca e mutevole.

Prima di fare una rapida rassegna dei cinque artisti e delle loro “Different views” non si può non sottolineare ancora il programma, meritorio quanto ambizioso, che Michele von Buren persegue da anni nella galleria all’insegna dell’ “Accessible Art” impegnandosi per far entrare nelle famiglie l’arte contemporanea. Per fare ciò seleziona tra le opere di artisti attuali quelle compatibili con l’ambiente domestico – e sappiamo come l’arte spesso si esprima oggi in forme incompatibili – e quelle  accessibili sotto il profilo economico, di autori di sicura qualità e caratura artistica.

In tal modo ha creato una squadra di 20 pittori, 5 scultori e 13 fotografi d’arte  che, insieme ai frequenti nuovi arrivi, riesce a dar vita a cicli espositivi ravvicinati. Artisti con contenuti e stili diversi per un percorso comune,  coerente con le finalità del programma: la formula della galleria, al di là della mostra contingente, è di presentare tante “different views” convergenti su finalità in cui l’interesse collettivo si aggiunge alla valorizzazione di giovani emergenti e di artisti affermati.

Così nelle mostre che si succedono, le nuove opere in esposizione convivono con significative persistenze e permanenze di opere precedenti, creando un clima familiare, perché si ritrovano ogni volta opere divenute amiche cui si è affezionati, in  un’atmosfera resa ancora più confidenziale dai mobili dell’Antiquariato Valligiano che rendono l’dea del loro inserimento in un arredamento domestico raffinato,  e anch’esso accessibile, che viene ugualmente proposto  ai visitatori.

Abbiamo descritto ripetutamente questo programma e il suo valore, lo ricordiamo ancora  per l’importanza che si deve attribuire a un’iniziativa  ben oltre l’aspetto meramente espositivo.

Ed ora percorriamo le “Different views” presentate dalla mostra attuale con cinque artisti attraverso le opere esposte nelle due accoglienti sale della galleria  RvB Arts, quasi tutte realizzate nel 2015.

Imperiale, Matta e Fulvi;: solitudine, alienazione, sospensione

Il primo espositore che incontriamo è Fabio Imperiale, un artista romano il cui percorso va dalle lontane prospettive urbane alle visioni ravvicinate di  strade bianche rese ancora più desolate e solitarie da alcuni animali, fa pensare al cavallo che passa nella desolazione per sottolineare la solitudine di Gelsomina nella “Strada” di Fellini.  Solitudine che si trasferisce alla figura femminile nel primo piano della testa vista dal retro “Da sola”,  quasi priva di personalizzazione per renderla emblematica: rimane impressa la sequenza dei tre volti  su una piccola scala in una ascesa ideale.

Gli esterni urbani sono un soggetto che abbiamo visto in diverse mostre recenti, dalle “Periferie” di Sironi alle immagini notturne illuminati da fasci di luce di Bergamini, fino alle spettacolari panoramiche di  Ottieri. Imperiale con le sue opere entra in questa galleria con le diverse facce della realtà che dall’esterno entra in noi; come restano impresse le immagini di solitudine umana.

La solitudine, collegata all’assenza di integrazione nel contesto urbano e sociale, che resta estraneo e quasi ostile al soggetto che ci vive e vi si dovrebbe inserire organicamente, porta all’alienazione. Forse  hanno portato l’artista a evocare questo tema nelle sue opere gli iniziali studi di grafico  pubblicitario nei quali  ha conosciuto direttamente la manipolazione dei comportamenti con la creazione di bisogni indotti lontani dalle reali esigenze umane al solo scopo di sostenere la produzione in un inseguimento senza fine, che Warhol ha trasferito nell’arte in una consacrazione del consumismo rivelatrice.

I titoli sono  criptici,  e non  solo per la lingua, abbiamo gli allusivi “Come in un sottotetto” e “Non per colpa ma per vento”.

In fondo alla sala,  le opere di Arianna Matta riflettono anch’esse l’alienazione  in una forma pittorica i cui i luoghi abbandonati e desolati sono resi in una densità materica e un cromatismo che rispecchia lo stato d’animo dinanzi a una realtà sempre più frammentata e straniante. E’ un’artista romana, laureata al Dams che ha frequentato i corsi  della “Rome University of Fine Arts” , dal 2009 ha effettuato 4 mostre personali e 9 collettive, finalista nel 2011 di tre premi, di cui uno a Los Angeles. I titoli delle opere esposte parlano di “assenza”, in fondo è questa la fonte e l’effetto dell’alienazione.

Sempre nella prima sala fronteggiano, per così dire, le visioni urbane di Imperiale, quelle ravvicinate di Annalisa Fulvi, le quali riprendono da vicino strutture architettoniche  percorse e sostenute da trame che le attraversano come delle nervature o degli orpelli, e viste nella fase realizzativa danno l’idea della provvisorietà e della sospensione.

In effetti, viviamo in una realtà dove  l’architettura non ha più i caratteri di stabilità stilistica e persistenza del passato che ci ha tramandato i più imponenti e spettacolari edifici e templi dai quali veniva il carattere identitario di un’epoca o di una forma costruttiva.  Per tutti valgano i rifacimenti in corso di grandi edifici pur recenti dell’Eur a Roma, ben più radicali degli interventi  che avvenivano in omaggio ai nuovi stili, come per il barocco spesso sovrapposto alla semplicità francescana di facciate ed interni delle chiese.

Diciamo questo solo per sottolineare  che l’evidenziare,  da parte dell’artista, l’instabilità e il cambiamento delle forme architettoniche  riflette una realtà sotto gli occhi di tutti per cui le sue opere suscitano un interesse particolare come un invito all’osservatore a cercare riferimenti e affinità con la propria esperienza diretta.

Milanese, si è laureata all’Accademia delle Belle Arti di Brera, con specializzazione in pittura, nel 2011 vincitrice del premio Ghiggini Arte Giovani di Varese e finalista in altri 4 premi, nel 2012 finalista al Premio Lissone, in questi due anni 4 mostre personali in Lombardia; dal 2007  al 2013 ha partecipato a 23 mostre collettive, una in Belgio nel 2010, una in Turchia nel 2012.

Masson e  Bato:  luminosità ambientale e leggerezza calligrafica

 Molto diverse le opere degli altri due artisti,  sono vedute ambientali dove non si avverte alienazione e frammentarietà nelle forme e nella densità cromatica, bensì serenità  e leggerezza nelle tinte delicate e nella purezza compositiva.

Charlie Masson utilizza linee al posto di strati materici,  tracce sottili in un contesto luminoso bianco e celeste, le sue vedute rurali e urbane sono state  accostate alle rappresentazioni solari delle tranquille residenze della provincia americana nella serenità del vivere quotidiano di Edward Hopper. D’altra parte,  Masson è nato a New York, quindi l’influsso americano è pertinente, si è laureato nella School of the Art Institute di Chicago e ha conseguito il Master al Camberwell College of Arts di Londra; nel 2010 ha ottenuto una borsa di studio alla Royal Drawing School. E’ un artista internazionale, dal 2007,  20 mostre collettive, di cui 10 a Londra e 4 a New York, e 2  personali, a  Parigi nel 2013 e a Miami nel 2015.

Il quinto artista, che espone nella seconda sala dello spazio espositivo, è Daniele Battocchi, in arte Bato,  romano, con formazione umanistica oltre che artistica, da dieci anni realizza originali  performance pittoriche  con musicisti jazz allo Smoker’S Hot Club di Roma. Ha compiuto viaggi in Europa e in Sud America, che hanno contribuito al suo stile  basato sull’improvvisazione in una immediatezza documentaria resa con la china e l’acquerello. Vediamo ampie superfici bianche in un approccio calligrafico che a volte viene interrotto da grandi macchie per l’impulso del momento, sono opere “Senza titolo” aperte all’interpretazione e alla fantasia dell’osservatore.

La sua appare una visione espressionista in quanto manifesta all’esterno le pulsioni interiori, ma la leggerezza, la forma stilistica delicata e rarefatta, è molto diversa da quella  degli espressionisti in senso stretto.

Con Bato si concludono le “differenti vie”  della mostra, in una convergenza sul tema esistenziale  nell’attuale  contesto urbano e ambientale, dove le differenze maggiori, oltre a quelle stilistiche e di contenuto, risiedono nelle visioni contrastanti dell’alienazione e della serenità, compresenti nella vita. Sono,  in fondo,  gli opposti moti dell’animo che la realtà odierna suscita in noi a seconda di come vediamo ciò che è fuori di noi per le motivazioni  profonde  che sono dentro di noi.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 13 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 25 dicembre, 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Per la citazioni del testo cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di Sironi  2 novembre e 7 gennaio 2015, 1, 14 e 29 dicembre 2014,  Ottieri 11 maggio 2015,  Bergamini 6 dicembre 2013,  Warhol 15 e 22 settembre 2914,  sul Barocco 23, 30 giugno e 4 luglio 2015; in “cultura.inabruzzo.it”  per Hopper  12 e 13 giugno 2010    (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, e in particolare Michele von Buren, con gli artisti titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, un’opera di Fabio Imperiale; seguono un’altra sua opera e due opere di Annalisa Fulvi; poi, due opere di Arianna Matta; quindi, due affiancate di Charlie Masson; inoltre due opere di Bato; in chiusura due affiancate di Fabio Imperiale.

Pittori di Marina, sei artisti premiati e un libro celebrativo

di Romano Maria Levante

Il 20 gennaio 2016 nella Biblioteca centrale del Palazzo della Marina a Roma è stato conferito il  titolo “Pittore di Marina” a sei artisti che si sono segnalati per i loro dipinti di soggetto marinaro: Alessandro Feruglio e Giuseppe Frascaroli, Mario Magnatti e Gianfranco Munerotto, Davide Orler e Gianni Testa. Inoltre è stato presentato il libro “La storia della Marina attraverso i dipinti“, dell’ammiraglio Paolo Bembo Vice presidente dell’Associazione “Pittori di Marina”, dal comandante Giosuè Allegrini  Capo Ufficio Storico della Marina Militare, che lo ha curato con  l’editore Carlo Rodorigo intervenuto alla manifestazione insieme allo storico Enrico Cernuschi. Ha presieduto il capitano di vascello Luca Conti, Capo Ufficio Immagine e Promozione,  in chiusura il saluto dell’ammiraglio Raffaele Caruso in rappresentanza del Capo di Stato Maggiore della Marina.

Una vera immersione, è il caso di dirlo, nel mondo della Marina, si è svolta nella Biblioteca dello storico palazzo con i  pittori che hanno realizzato opere artistiche sulle navi e sull’ambiente marino.

I diplomi  ai sei “Pittori di Marina” e il libro sulla storia della Marina in pittura

Non si è trattato di una mostra, come per le opere dei “Pittori del Risorgimento” presentate alle Scuderie del Quirinale alla fine del  2010, ma delle due originali iniziative citate: il conferimento del titolo di “Pittore di Marina” , con apposito diploma, ai sei artisti  dei quali sono state mostrate significative riproduzioni di dipinti marinari; e la presentazione del libro “La storia della Marina attraverso i dipinti” dell’ammiraglio Paolo Bembo. C’è uno stretto collegamento tra i due momenti, perché questi pittori hanno anche alimentato con le loro opere la galleria iconografica del volume. 

L’Associazione Pittori di Marina, di cui l’autore è Vicepresidente, istituita nel 1998,  conferisce  periodicamente questo riconoscimento collegato a un’antica tradizione, addirittura preunitaria  e mantenuta fino all’ultimo dopoguerra,  rinverdita con la costituzione dell’associazione.

Abbiamo parlato di immersione nel mondo della Marina perché si è andati ben oltre la cerimonia del conferimento dei diplomi da parte del capitano di vascello Conti e del comandante Allegrini,  e la presentazione del libro sulla storia della Marina attraverso i dipinti,  donato anch’esso ai premiati.

I valori e la storia della Marina sono stati illustrati nel lungo e appassionato intervento del presidente dell’Associazione  comandante Allegrini, che ha introdotto anche il libro dell’amm. Bembo,  con il commento altrettanto appassionato dello storico della Marina Cernuschi

Nulla di burocratico né militaresco, ha prevalso la cultura nelle rievocazioni marinare e l’arte nelle pur indirette visioni delle opere dei pittori insigniti del riconoscimento. Il capitano di vascello Luca Conti,  nel presiedere la manifestazione, ci ha tenuto a sottolineare   l’importanza che la Marina attribuisce alla cultura e all’arte nella diffusione e divulgazione dei propri valori.

Ampio spazio anche alla storia, la lunga storia della Marina che aleggiava  nel grande palazzo illustrato nell’apposito intervento del sottotenente di vascello Desireé Tommaselli:  costruzione iniziata nel 1912 su un progetto Liberty, ripresa dopo la prima guerra mondiale su diverse basi stilistiche e con inserimento nel 1929  alla base della facciata dei “manufatti della vittoria navale”, le due gigantesche ancore delle  corazzate  affondate “Lissa”, quasi una rivincita sulla storica battaglia, e la  poderosa  “Viribus Unitis”, che hanno reso il Palazzo un “unicum” immediatamente riconoscibile.  La stessa Biblioteca, nella quale si è svolta la manifestazione, reca i simboli marinari nelle ringhiere e nello spettacolare  lampadario, oltre che, naturalmente, nei preziosi volumi allineati negli antichi scaffali che fasciano interamente il vasto salone.

L’attività militare della Marina è stata imponente anche nella Grande guerra che invece nell’immaginario collettivo è ricordata come guerra di trincea, da Caporetto a Vittorio Veneto, dal Carso a Montegrappa, lo dimostrano i numeri forniti, citiamo solo le  86 mila missioni, corrispondono a molte volte il giro del mondo; altrettanto imponente la documentazione, ben 10 milioni di documenti e 1 milione di fotografie.  Ma non si deve considerare solo l’aspetto militare, quanto quello economico: la sicurezza dei mari è la base degli scambi commerciali che nella storia dell’umanità hanno  avuto grande sviluppo  per il fondamentale apporto delle attività marinare.

Nella presentazione del proprio libro,  l’ammiraglio Bembo ha ricordato che l’idea di una storia della Marina attraverso i dipinti gli era stata data dal Capo di stato maggiore in anni lontani, cui sono seguite lunghe ricerche.  Ha poi precisato che ci sono i “pittori illustratori navali” in senso anglosassone, non uomini di mare ma osservatori spesso tanto attenti da riuscire a rendere la vita marinara non vissuta direttamente, tra loro ha citato Bucci; e “pittori uomini di mare” che a parità di talento artistico hanno “una marcia in più”.  Tanto altro è stato detto sul libro anche dallo storico Cernuschi, ma dobbiamo tornare sull’altro evento della giornata, il conferimento dei diplomi.

Al riguardo presentiamo ciascuno dei sei artisti riconosciuti “Pittori di Marina”, in base alle immagini fornite e ai dati biografici, che aiutano a conoscere il loro rapporto con il mondo del mare.

Di tre artisti vediamo dipinti di navi della Marina Militare in navigazione nella loro imponenza.

Le navi di Alessandro Feruglio sono quasi in dissolvenza, in un’atmosfera rarefatta:  due oli con una nave portaerei  nel Centenario dell’Aviazione di Marina, e il “Sommergibile  Emo” mentre emerge tra le onde, e due acquerelli, la “Nave Impavido” e le  “Vespucci”  e “Palinuro”, la celebre nave scuola in primo piano mentre dietro si vede la sagoma simile dell’altra, quasi il suo riflesso.

Appassionato di mare fin da bambino, studi nautici a Venezia, diplomato nell’Istituto nautico di Trieste, guardiamarina dopo un corso nell’Accademia navale di Livorno, anche se dopo aver terminato il servizio militare in Marina lavorerà in banca; ma resterà sempre appassionato di mare.   Si imbarca su varie unità  a vela negli anni ‘80 e partecipa ai raduni e alle regate di barche d’epoca.

Comincia a ritrarre navi e barche a vela soprattutto nel mare in burrasca finché l’entusiasmo per la Coppa America non lo porta negli anni ’90 a dipingerne le regate esponendo i suoi lavori fino  a partecipare nel 1998 al concorso “Pittori di Marina” indetto dall’Ufficio storico della Marina Militare; ha poi dipinto immagini delle unità della Marina Militare, da quelle storiche alle più recenti, come quelle citate. Uomo di mare, ha tradotto nell’arte la sua autentica passione, appartiene alla categoria che ha vissuto nell’ambiente marinaro e ne conosce motivazioni  e atmosfere.  .

Di Mario Magnatti vediamo tre “digital paint” della “Nave Cavour”, ripresa di coda, che ne riduce l’imponenza, e la “Nave Gaeta”, con fumi neri che escono dai fumaioli, oltre all’ “Incrociatore classe Zara”, nello sfondo  un cielo nuvoloso; si vede ritratto anche l’ammiraglio De Giorgi.

Nella sua biografia non ci sono riferimenti marinari ma  molti riconoscimenti artistici per le  opere in cui utilizza varie tecniche impegnandosi anche nella ricerca.  I primi successi dal 1994 al 1997, in cinque concorsi nazionali due volte primo e tre volte terzo; dopo cinque anni di interruzione, dal 2002 al 2013,  primo in quattro concorsi internazionali  e in uno nazionale, secondo in tre concorsi internazionali e terzo in un concorso nazionale. A questi si aggiunge un gran numero di altri premi internazionali. Lo consideriamo tra i cosiddetti “illustratori”, non uomini di mare ma profondi conoscitori delle navi e dell’ambiente marino per passione.

Ugualmente nella biografia di Gianfranco Munerotto non ci sono precedenti di vita marinara vissuta di persona, il suo interesse per il mare è di natura storica, studioso com’è della marineria antica e tradizionale non solo attraverso i documenti ma anche mediante l’iconografia artistica come verifica, in particolare dei materiali da lui ricostruiti per le imbarcazioni venete. Ha pubblicato illustrazioni e ricostruzioni grafiche, ha catalogato e valutato sotto il profilo storico  i reperti di barche e collabora con il Museo storico navale di Venezia, ha  realizzato dipinti anche per conto della Marina Militare. Un impegno di studioso il suo che nasce dalla passione per la marineria antica e si è trasferito nella pittura di Marina, con l’aderenza alla realtà e la precisione nel ritrarre le navi data dalla sua conoscenza specifica, e l’aggiunta di un ambiente marino fatto di luci e di colori, non convenzionale ma personale,  dagli effetti suggestivi.

Lo vediamo nei quattro oli presentati,  due sulla “Nave Luigi Rizzo” e “Nave Perseo“, due sul “Sommergibile Toti” e  sulla nave portaerei per il Centenario Aviazione Navale. Sono immagini  con forte evidenza cromatica, scene movimentate dai marosi nella superficie del mare e dagli aerei ed elicotteri in volo, a parte il sommergibile qui visto in completa immersione nella sua imponenza.

Frascaroli, Orler: ammiragli e barche da favola

Di Giuseppe Frascaroli vengono presentati tre oli con i ritratti di ammiragli; due  a mezzo busto di Giuseppe De Giorgi e Paolo Thaon De Revel, concentrati sull’espressione del volto; uno di grandi dimensioni, a figura intera, Paolo Thaon De Revel  in piedi tra simboli patriottici e sfondo marino.

Anche per lui non si forniscono precedenti marinari, ma la storia artistica che lo pone “tra i più talentuosi e autorevoli pittori figurativi classici”, come “il pittore neoclassicista italiano di maggiore rilievo a livello istituzionale”, studioso anche di arte pittorica.  Si è segnalato nella pittura di matrice religiosa e colta, è noto come il “Pittore dei Papi”,  ed è ritrattista e paesaggista, con preferenza per la pittura di soggetto marinaro, ed ecco spiegati i ritratti di ammiragli in cui unisce le due inclinazioni, per il ritratto e per la marina. Il lungo elenco delle sedi istituzionali italiane ed estere  dove sono collocate le sue opere, degli ambiti museali nazionali e internazionali con testimonianze bibliografiche ed iconografiche e delle onorificenze  dà un’idea dell’unanime riconoscimento alla sua elevata caratura artistica.

E siamo a uno dei due pittori che abbiamo lasciato per ultimi non solo per l’ordine alfabetico, ma anche per il differenziarsi dai quattro artisti precedenti, sotto il profilo dei soggetti marinari presentati:  non moderne e imponenti  navi da combattimento, né ammiragli in alta uniforme,  ma scene pittoresche ed evocative  in un ambiente suggestivo che crea una magica atmosfera.

E’  Davide Orler, al quale è stato conferito il riconoscimento di “Pittore di Marina” alla memoria, essendo scomparso il 7 dicembre 2010, il diploma è stato ritirato dal figlio.  Conosceva per esperienza diretta la vita marinara, essendosi arruolato volontario a 18 anni in Marina per il suo attaccamento al mare, non volendo andare negli alpini cui era destinato come trentino.  Resta in Marina per l’intero periodo di ferma di otto anni, imbarcato sui dragamine e su altre navi nel servizio di pattuglia nei mari italiani.

Si dedica fin da giovanissimo all’arte e alla pittura, traendo ispirazione dall’amore per la sua terra nei  paesaggi montani e dalla passione per il mare nei dipinti con visioni mediterranee e immagini ambientali di località marine.  A questi temi unisce  una forte sensibilità per i motivi spirituali, che lo porta all’arte sacra, ritrae  la figura tragica dell’Ecce Homo e del Cristo morto. Dalle immagini sacre a quelle marine, domina nelle sue raffigurazioni  il senso del pathos.

A 26 anni,  con la prima personale ha in premio la collocazione per quattro anni in uno studio di artisti veneziani, l’anno dopo in una nuova personale al Museo Picasso di Antibes conosce il grande Pablo Picasso, e con lui protagonisti della cultura e dell’arte, come Germaine Richter, Jean Cocteau,  Jaques Prévert. Presente alla Biennale d’Arte sacra di Bologna, alla Biennale  di Milano e alla Quadriennale di Roma, nel 1963  ottiene il primo premio di pittura ex aequo all’Opera Bevilacqua La Masa;  oltre quarant’anni dopo, nel 2007, il premio alla carriera alla Biennale internazionale di Firenze. Nel mezzo,  tante mostre personali e tanti riconoscimenti che fanno di lui “uno dei più rilevanti figurativi italiani della seconda metà del Novecento”. Degli anni ’90 va ricordato il suo ciclo pittorico della Bibbia, un centinaio di dipinti sul Vecchio e Nuovo testamento.  

I quattro dipinti a olio presentati parlano per lui, “A Palermo 2” e “Porto Carbone a Palermo 2” mostrano barche tratteggiate con straordinaria evidenza materica, in un figurativo all’opposto del  precisionismo, con lo spessore del tratto e la forte colorazione riesce a far sentire ciò che anima l’ambiente riprodotto; “Barca a vela” e “Le sirene” sono immagini  con altrettanta intensità materica e cromatica, rendono mirabilmente l’aspetto favolistico e onirico dei soggetti raffigurati.

Gianni Testa: le vele marine nell’espressionismo onirico

Ed eccoci infine a Gianni Testa, l’ultimo dei premiati in ordine alfabetico,  il primo nei nostri pensieri  avendone conosciuto a fondo e commentato con sincero apprezzamento la pittura ricca di motivi e di suggestioni, che abbiamo definito a suo tempo “espressionismo onirico” per la forza delle sue composizioni. Esse spaziano su una gamma quanto mai vasta, dai celebri cavalli alle nature morte, dalle piazze romane alle persone, ritratti e non solo, dai temi sacri alla Divina Commedia, fino ai paesaggi e alle marine.

Un eclettismo tematico il suo, associato a una unitarietà stilistica che deriva da un iter formativo artistico particolarmente ricco innestato su una passione per la pittura che lo portò a lasciare gli studi di architettura intrapresi con risultati di eccellenza dopo due anni.  Nella scuola di restauro della Galleria Borghese guidata dalla direttrice prof.ssa Della Pergola approfondisce i metodi e le tecniche con cui i Maestri del passato davano vita ai soggetti delle loro opere trasmettendo emozioni e sensazioni, e vi trova ulteriori motivazioni, tanto che si dedica  al restauro per dieci anni.

Poi un’ulteriore tappa della sua formazione sul campo, dopo il restauro la scultura con il maestro Bartolini, che sarà fondamentale nel passaggio alla pittura non solo come passione ma  come definitiva sua espressione artistica con l’approccio dello scultore unito a quello del restauratore.

Ha approfondito l’arte degli antichi maestri, ora entra in contatto con i suoi contemporanei,  Guttuso e Calabria, Quaglia e Levi, e ne diventa amico. Carlo Levi nel 1962  lo spinge  a partecipare ad una collettiva di pittura con Renato Guttuso e Quaglia, Mazzacurati e Purificato, conoscerà anche Pericle Fazzini.  La sua arte, pittura e scultura,  viene apprezzata sempre di più dalla critica.

Partecipa regolarmente alle più prestigiose rassegne collettive d’arte, dalla Biennale di Roma sin dal 1968, alla Triennale di Milano e Quadriennale di Roma dal 1975,  premiato in concorsi d’arte,    dal primo  premio al “Brandy italiano” del 1970  al Premio alla carriera ottenuto di recente. Mostre personali in Italia e all’estero, Germania e Svizzera, Stati Uniti e Giappone fino al tour artistico negli Emirati arabi dall’aprile 2015 all’aprile 2016 con il patrocinio della Presidenza del Consiglio.

Le sua formazione si riflette in uno stile molto personale, una densità materica che rimanda al restauro e un modo di estrarre le forme dalla materia pittorica che rimanda alla scultura..

E quali forme! I  cavalli scalpitanti sono la sua espressione più celebre e spettacolare, con la loro straripante vitalità,  come fossero onde che si formano incessantemente senza tregua. Possiamo vedervi un richiamo al mare, del resto non sono chiamate “cavalloni”  le onde del mare agitato?  Forse anche con riferimento al mare si può interpretare l’insistenza con cui li ritrae, “Gli stalloni” e “Bradi liberi”, “Bradi festosi” e “Bradi nella notte”, “Lotta di bradi” e “Battaglia”, in composizioni  dinamiche  con  cromatismi che riflettono le atmosfere più variate e suggestive.

Come le vele sul mare, presentate quale sigillo della sua attenzione alla Marina, dove traspaiono alcuni motivi ricorrenti nella sua arte. Dei cavalli abbiamo detto, ma ci sono anche i paesaggi, “Sintesi di Roma” e “Ruderi di notte”, “Piazza del Popolo”,” Piazza Navona”,  e “Piazza di Spagna”  con facciate e monumenti in particolari condizioni di luce: si vedono le cupole  dietro le “Vele a Venezia”, come un miraggio; e i paesaggi,  in “Gara velica”  la montagna, dal profilo del Vesuvio, con  un cielo corrusco. In “Vele”, e soprattutto “Vela rossa”,  spicca la  densità materica.

Nella mostra antologica a lui dedicata al Vittoriano nel 2014  abbiamo potuto vedere  non solo quelle ora accennate, ma anche altre espressioni artistiche, dalle Nature morte alla galleria di figure umane: i ritratti femminili,  “Maria Grazia” e “Lidia Ceccarelli“, “Ragazza peruviana” e “Marilyn Monroe”,  i grandi personaggi, “Anita  e Garibaldi” e  “S. S. Giovanni Paolo II”, le composizioni dinamiche,  “Balletto notturno” e “Danza”,  quelle con forte cromatismo “Danzatrici” e “Danza orientale. e le scene intense, “Pace”“Inquisizione “,  il sacro di “La caduta  di Paolo” e “Mana Hata”, “Crocifissione” e “Il Calvario”. Fino alla “Divina Commedia”, con il verde del “Paradiso”, che nel “Purgatorio” si mescola al rosso, dominante nell'”Inferno” insieme al nero; un inferno che “Undici settembre” porta nella realtà, con le fiamme infernali che divorano le Torri Gemelle, un’immagine definita da Claudio Strinati  più verosimile di quella vera.

Una straripante polifonia di soggetti e temi in una rigorosa coerenza stilistica manifestata nella estrema complessità materica in una  varietà di colori che va dal blu diffuso delle ambientazioni notturne al magmatico tripudio coloristico delle altre composizioni. 

La massa cromatica è la materia informe dalla quale, afferma Strinati, l’artista “tira fuori la forma”  come Tiziano nelle ultime opere, al pari di Michelangelo dal marmo: “Talvolta Testa sbozza l’immagine con grandi campi di colore per cui sembra di vedere alternarsi sulla tela una tendenza a sfumare e una a definire, contigue ma inseparabili”. Nelle sue composizioni “il colore appare come un vento cromatico che spinge delle foglie, che sono le pennellate stesse, a coagularsi in forme di figure, mentre altre volte si nota un sorprendente contrasto tra una potente accensione della cromia e un altrettanto esplicito incupimento della materia pittorica”. 

E’ una definizione che si attaglia alla perfezione alle sue “Vele”, non solo formate ma addirittura spinte dal “vento cromatico”, che le definisce e le accende,ma anche, come in “Vela rossa”, tende a sfumarle e incupirle.

Se la forma è così intrigante, il contenuto che esprime lo è altrettanto: non rappresenta la realtà  fattuale ma la realtà virtuale come viene percepita dall’artista con le sue pulsioni interiori e rivissuta dall’osservatore che vi trasferisce le sue visioni, i suoi sentimenti, i suoi sogni. Perciò la definizione  “espressionismo onirico” ci sembra possa rendere il senso delle suggestioni provate e suscitate.

Le vele e il mare hanno sempre alimentato i sogni di tutti, per il senso di libertà che trasmettono con la dimensione indefinibile dell’infinito non disgiunta dalla sottile inquietudine legata all’ignoto che affascina mentre sgomenta portando alla riflessione, all’autoanalisi, alla meditazione.  In definitiva  chiamano a raccolta i sentimenti più autentici e profondi, anche quelli sedimentati nella memoria. 

E’  confortante, dunque,  vedere che tra le opere mostrate come rappresentative dei “Pittori di Marina”, oltre alle imponenti sagome delle grandi navi che ricordano le missioni militari sui mari, ci siano anche le piccole vele che evocano una dimensione magica, coinvolgente, quella dell’infinito: nella misteriosa realtà dell’ambiente marino e in quella ancora più insondabile dell’animo umano.

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La manifestazione si è svolta il 20 gennaio 2016  alla Biblioteca Centrale di Palazzo Marina, Piazza della Marina, 4, Roma. Tel. 06.3680.3870,  http://www.marina.difesa.it/   Cfr., in questo sito, i nostri articoli:  sull’opera di uno dei sei nuovi “Pittori di Marina”,  “Gianni Testa, l’espressionismo onirico al Vittoriano”, 14 settembre 2014, e “Gianni Testa, il tour negli emirati arabi”, 14 marzo 2015; sugli artisti riferiti a Testa,  Carlo Levi e la mostra alla Galleria Russo,  28 novembre e 3 dicembre 2014,   Renato Guttuso e la mostra al Vittoriano, 25 e 30 gennaio 2013. Inoltre, in “cultura.inabruzzo.it” , cfr. i nostri 3 articoli sulla mostra citata nel testo “Pittori del Risorgimento” alle Scuderie del Quirinale,  “L’epica” il 29 dicembre 2010, “Il popolo in armi” e  “Il popolo in ansia” l’8 gennaio 2011 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).   Per Gianni Testa v. il Catalogo, dal quale abbiamo tratto le immagini appositamente aggiunte nel commento, “Gianni Testa, antologica”, a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, settembre 2014, pp. 112, formato  21 x 28.

Foto

Le immagini dei sei artisti e del conferimento del titolo di “Pittore di Marina” sono state riprese da Romano Maria Levante nel corso della manifestazione al Palazzo Marina, mentre le riproduzioni dei loro dipinti marinari sono tratte dal “depliant” dell’Ufficio Informazione e Comunicazione della Marina Militare che si ringrazia.  I titoli, con consegna del diploma,  sono stati conferiti in ordine alfabetico, mantenuto nel nostro resoconto salvo una posposizione dovuta al nostro raggruppamento tematico. Per ogni artista l’immagine della premiazione, seguita immediatamente dai  suoi dipinti presentati nel “depliant”, precede il relativo resoconto  del testo. In apertura, gli artisti ripresi insieme prima della cerimonia, da sinistra il figlio di Orler, Testa, Frascaroli, Munerotto, Feruglio, Magnatti;  poi la consegna dei diplomi di “Pittori di Marina” effettuata dal capitano di vascello Conti (a sin) con il comandante Allegrini (a dx) e i loro dipinti del “depliant”,  secondo l”ordine in cui i singoli artisti sono citati nel testo:  Alessandro Feruglio, Mario Magnatti, Gianfranco Munerotto; Giuseppe Frascaroli, Davide Orler (nella premiazione il figlio); Gianni Testa; poi, inseriti nel commento su Testa,  i dipinti  del “depliant” ripresi dal Catalogo, “Vele a Venezia”, 2009, “Gara velica”, 2000, e “Vela rossa”, 1988, infine  “Velieri”, 1970 in chiusura, il maestro Testa  dopo la  cerimonia. 

Impressionisti e moderni, fino ai cubisti, continua la Phillip Collection

di Romano Maria Levante

Continua la nostra visita alla  mostra “Impressionisti e moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”, al Palazzo Esposizioni  che dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio2016  espone 60 opere dei maggiori maestri dell’800 e ‘900  raccolte da Duncan Phillip,  il quale nel 1921 aprì la Phillip Memorial Gallery di Washington e continuò per quarant’anni ad arricchire la collezione iniziale di 300 opere fino a raggiungere 2000 opere, ora 3000,  affiancando alle opere degli artisti americani contemporanei, da lui sostenuti, quelle delle  maggiori correnti pittoriche europee stimolando confronti quanto mai fecondi negli artisti e nei visitatori.  Organizzata dalla Phillip Collection con l’Azienda Speciale Palaexpo, a  cura di Susan Behrends Frank, curatrice della Collezione di Washington, Catalogo  Silvana Editoriale  con Palazzo delle Esposizioni.

Abbiamo già ricordato il percorso di Phillip nel dare uno sbocco meritorio alla sua visione dell’arte con acquisizioni mirate durate quarantacinque  seguendo la propria apertura e sensibilità e precorrendo così le altre istituzioni museali americane, legate per lungo tempo alle convenzioni accademiche dalle quali nasceva il rifiuto delle forme espressive europee non figurative e delle avanguardie  americane.

Per questo Phillip  ha avuto un ruolo fondamentale nel dare alla  propria istituzione privata una valenza di interesse collettivo come laboratorio sperimentale, vera  fucina e valorizzazione di talenti. E, in  termini più generali, come occasione per il visitatore di operare confronti a tutto campo nel mondo dell’arte, europea e americana, mediante allestimenti in cui le opere venivano esposte accostate “per contrasto e analogia”, mentre nei  musei di allora c’erano rigide ripartizioni per autore, nazionalità, cronologia, innovazione in cui ha precorso le moderne strutture museali.  

Poi abbiamo raccontato la visita alla  1^  sezione della mostra,  “Classicismo, romanticismo e realismo”,  tre visioni diverse che si sono confrontate nell’800 e hanno trovato diverse forme di  conciliazione e compresenza nei grandi artisti aperti alla modernità.  Passiamo alle sezioni successive, continuando la cavalcata appassionante tra grandi artisti di due secoli così vivi.

.Impressionismo e post impressionismo:  da Monet e  Sisley a Cézanne e Van Gogh

Con l’ “Impressionismo e Postimpressionismo” della 2^ sezione,  continua la sfilata di capolavori,  senza dimenticare il ruolo di Corot, Courbet e Constable, presentati nella 1^ sezione,   nella nascita dell’impressionismo.

Fu una  rivoluzione, nell’universo creativo della pittura, cui ne seguirono altre,  nei contenuti e nello stile pittorico.  Non più temi storici e religiosi, mitologici e simbolici, ma la vita contemporanea portata sulla tela:  paesaggi veri e non arcadici,  con o senza l’intervento dell’uomo, vedute cittadine con sobborghi pittoreschi,  quotidianità  nei momenti della giornata di donne e persone comuni.

Il soggetto dominante è la natura protagonista assoluta del quadro, il fine ultimo dell’artista  è rappresentarla  nell’immediatezza, rendendo visivamente  l’impressione che ne ha ricevuto. 

Se questi sono i nuovi contenuti, altrettanto innovative le modalità espressive: il pittore dipinge non più nel chiuso dell’atelier ma nei luoghi raffigurati, “en plein air”, così  può  catturare e rendere in modo subitaneo l'”impressione” ricevuta.  La sua sensibilità non viene attratta soltanto dal soggetto, ma dall’intero ambiente in cui si trova a dipingere, del quale è portato a cogliere i mutamenti atmosferici, durante la giornata e nel corso dell’anno. 

Gli effetti di luce si riflettono sul dipinto che nasce dal  vivo senza disegni preparatori, richiedendo un altro radicale mutamento rispetto alla forma pittorica precedente. Dalle “pennellate invisibili” tra  contrasti di luce chiaroscurali, in particolare nei paesaggi italiani degli artisti precedenti, si passa alle pennellate visibili  con la scomposizione dei colori in colori puri affiancati come vibrazioni  luminose. Anche l’aria è percorsa da onde cromatiche come in una rifrazione.

C’è dell’altro, viene abbandonata la convenzione accademica dei diversi piani in cui era presentato il paesaggio, con la rigorosa prospettiva che distanziava primo piano, orizzonte e sfondo; ora ciò che è lontano può essere accostato a ciò che è vicino, quando è questa l’impressione dell’artista.

Gli impressionisti sono presenti con due quadri di Monet e Sisley, che furono  i primi con Manet, Pissarro e Renoir, a  dedicarsi a immagini di vita quotidiana nella natura ripresa “en plein air”  nella sua luminosità ambientale resa da colori brillanti, e soprattutto da pennellate che rendevano la vibrazione della luce con tonalità separate. All’ordine e all’equilibrio nei paesaggi classici, in parte riflesso anche nei precisi schizzi di Corot, si sostituisce un’immediatezza che sconvolge le regole compositive creando insolite contrapposizioni  prospettiche.

Vediamo “La strada per Vétheuil”, 1879, di Jean Monet,  un paesaggio rurale in colori pastello caldi e freddi accoppiati  a macchie che ne rendono con evidenza  l’impressionismo;  del resto questa denominazione nacque dall’osservazione di un critico a un quadro di Monet considerato una prima “impressione”  provvisoria da completare per giungere all’opera definitiva.

Anche in “Neve a Louvecennies”, 1874, di Alfred Sisley, macchie impressionistiche dove il bianco predomina dato il soggetto.

Con Cézanne tutto questo viene superato, il “Postimpressionismo” segna la modernità. La rappresentazione della natura non è più lo scopo dell’opera, né un dato della realtà da trasporre nel dipinto, bensì l’elemento da cui partire per esprimere  sentimenti individuali, attraverso un modo diverso di concepire soggetto e contenuto, forma  e colore.

Alla base di questa vera svolta  c’è la constatazione che la natura è solo il mondo esteriore, del quale gli impressionisti catturavano l’apparenza,  mentre la realtà esterna deve essere subordinata alla propria visione interiore.  Non ci sono soltanto i sensi, colpiti dalla luce e dai colori, nei paesaggi e nella quotidianità, c’è anche e soprattutto la mente nella quale albergano i sentimenti universali che l’arte è chiamata a rappresentare oltre gli angusti limiti dei fatti esistenziali. Il soggetto rappresentato diventa secondario rispetto ai sentimenti che suscita, e questi vanno oltre l’apparenza, perciò  non si possono rendere con l’immediatezza effimera dell’impressionismo ma vanno rivelati  attraverso l’introspezione, con un  procedimento opposto a quello impressionistico.

La natura resta in primo piano,  Cézanne a tre mesi dalla morte scriveva “studio ogni giorno la natura”, ma secondo questa impostazione  che aveva così  enunciato: “Ascoltare con dedizione la voce della natura e con altrettanta dedizione trascriverla nelle forme della più eletta meditazione interiore”; un processo che, sempre nelle sue parole, si traduce “in una continua e ardua metamorfosi che si basa sul reale inteso come osservazione diretta delle persone e delle cose e mira al  vero inteso come scoperta di una essenza che vige nel mutevole mondo dell’esistenza”.

Soggetti e contenuti degli impressionisti sono visti ora in modo speculare, dall’interno e non dall’esterno, ciò che in termini stilistici  si manifesta con il rilievo dato alla forma, che gli impressionisti scomponevano, espressa con un “nitore geometrico  e una prospettiva studiata in modo che “ogni lato di un oggetto, di un piano, si orienti verso un punto centrale”.  Con questa impostazione apre la strada alla modernità, l’attenzione ai volumi prelude addirittura al cubismo.

In “La montagna Sainte-Victoire”, 1886-87,  Paul Cézanne non esprime impressioni momentanee quindi fugaci, ma la  visione meditata di un paesaggio familiare, vicino alla sua abitazione in  Provenza lontana da Parigi,  reso con accuratezza per mantenere validità nel tempo. Mentre  “Autoritratto”, 1878-80, uno dei tanti da lui dipinti,  molto apprezzato da Phillip. lo presenta come trasandato e impacciato con profondità psicologica nello sguardo acuto.

Di Hilaire-Germain-Edgar  Degas  viene data testimonianza con le figure femminili predilette. Vediamo  “Ballerine alla sbarra”, 1900,  la danza tanto presente nelle sue opere gli permetteva di esplorare il corpo umano, qui alla posizione particolare con la gamba sollevata si associa la fusione dei gonnellini  per cui è stato osservato che vengono viste come gemelle siamesi, nell’immobilità. E “Malinconia”, 1865-69, un corpo proteso con espressione sofferta in un omogeneo colore scuro.

Berthe Morisot ritrae “Due ragazze”, 1894, nell’intimità domestica, tinte pastello ben contrastate.

Molo diverso Odil Redon, che addirittura si allontana dalla realtà, oltre che dalla natura  sebbene fosse contemporaneo agli impressionisti, per concentrasi sul proprio inconscio che lo porta a raffigurare soggetti fantastici. Vediamo esposto “Mistero”, 1910,  una donna scura con il viso da Cristo che spunta tra i fiori a colori vivaci, un’ambiguità che lascia all’osservatore l’interpretazione.

E siamo a Vincent Van Gogh, il sommo artista che usa il colore come mezzo per esprimere emozioni forti e stati psicologici esasperati con una straordinaria intensità, il dipinto esposto “Casa ad Anvers”, 1890, è stato realizzato un mese e mezzo primo della tragica fine nella località vicina a Parigi , dopo la permanenza nell’ospedale psichiatrico di Saint-Remy in Provenza.  Lui lo definì “nient’altro che un campo di grano che si estende verso una casa colonica bianca circondata da un muro bianco, con un unico albero”, descrizione perfetta che rende anche lo stato d’animo.

Parigi non è solo la patria dell’impressionismo e, poi, del postimpressionismo quando le “impressioni” diventarono la partenza e non più l’arrivo della rappresentazione pittorica e tornano la linea e la forma in una visione nuova che darà il via alla modernità. Nella capitale francese all’inizio del ‘900 un’altra svolta, anche linea e forma non sono più un dato della realtà da non modificare, anzi  parte dal loro stravolgimento una nuova tendenza artistica,  quella del cubismo.

Il cubismo a Parigi, Picasso e Braque, fino a Utrillo e Modigliani

La 3^ sezione si intitola “Parigi e il cubismo” per sottolineare il ruolo della capitale francese in questa ulteriore rivoluzione.  Il cubismo nasce dalla constatazione che  vengono riprodotti più lati della stessa figura,  in movimento oppure vista da angolature diverse, quindi questi lati si spostano e nel momento in cui vengono fissati sulla tela hanno cambiato posizione. Le nuove posizioni diventano quelle reali e vengono tradotte nell’immagine, apparentemente surreale, ma in effetti aderente a una realtà dinamica che si sostituisce alla visione statica.

Una concezione rivoluzionaria tradotta in opere che hanno dato avvio alle successive trasgressioni sempre più avanzate all’archetipo figurativo, declinato dal classicismo al romanticismo, dal realismo all’impressionismo e postimpressionismo in varia misura ma sempre con il rispetto dell’intangibilità della figura nei suoi contorni riconoscibili.  Con il cubismo sono stravolti ma restano percepibili, l’astrattismo li cancellerà sostituendo alle emozioni suscitate dalla realtà quelle indefinibili della propria interiorità.

Phillip, con la sua sensibilità artistica e il suo spirito aperto, colse al volo il valore di una novità così sconvolgente, e acquistò le nature morte di Braque, il primo a colpirlo, poi venne il grande Picasso.

L’opera di  George Braque esposta in mostra è “Natura morta con clarinetto”, 1927,  uno dei 13 quadri dell’artista nella Collezione, sono di una fase matura dell’esperienza cubista avviata all’inizio del secolo, con elementi vicini al realismo figurativo, come la frutta,  ed altri verso l’astrazione con superfici che danno il senso tattile da lui perseguito, il tutto in un cromatismo essenziale  in bianco-nero, ocra-verde.

Di Pablo Picasso tre capolavori, espressioni di  fasi distinte e distanti del proprio percorso artistico e di vita. “La camera blu”, 1901,  risale all’inizio della sua vita a Parigi, dove si trasferì stabilmente da Barcellona nel 1904 dopo averla visitata a meno di vent’anni  nel 1900 tornandoci nei due anni successivi. Anche lui, come il  mondo artistico europeo, aveva trovato in  Parigi una forte calamita per il fervore delle idee sviluppate dai talenti che accorrevano nella città concentrandosi in determinati quartieri, come il bohemienne Montmartre,  gravitando nella Ville Lumiere. La “camera blu” è il suo primo alloggio parigino, quando ancora non vi si era trasferito, quindi esprime la solitudine e insieme il trasporto romantico nel simbolismo del colore che caratterizza la sua prima fase ancora figurativa, il “periodo blu”. Per la  rivoluzione cubista dovrà passare più di un decennio, dopo aver visitato con Braque una mostra di Cézanne i cui orientamenti innovativi nella forma e nelle linee di contorno innescarono le sue riflessioni radicali.

Nella “Tauromachia” , 1934, il cubismo dell’artista mostra tutte le sue capacità espressive, con le forme scomposte del  toro e del cavallo del picador che lo ha ferito scagliate l’una contro l’altra in  colori altrettanto violenti e contrapposti;  spettatori e arena sono solo un macchia cromatica, il centro è nello scontro simbolico tra gli estremi compresenti e in lotta, vita e morte, bene e male.

L’altro Picasso esposto è “Donna con cappello verde”, 1939, un cubismo moderato che si incrocia con l’arte tribale, nella deformazione del viso poco marcata, è la sua donna, Dora Maar,  forse una forma di rispetto.

Cronologicamente tra  questi ultimi due dipinti, vediamo “Cristo e il sommo sacerdote”, 1937, di Georges Rouault,  l’artista  sensibile alla sofferenza umana che trasferisce la sua visione del dolore del mondo in immagini religiose come questa in cui i contorni neri delle sue forme drammatiche richiamano la particolare forma espressiva delle vetrate delle chiese cui si dedicava con la sua fervente fede cattolica. 

Solo due anni prima è datato “Lo studio dell’artista”, 1937, di Raoul Dufy, solare nel colori e  arioso nella composizione, ispirato al proprio atelier e alla stanza adiacente con dei quadri,  l’esterno entra nello studio attraverso l’architettura della finestra che inquadra gli edifici simili alla forma del cavalletto privo del dipinto in preparazione, nell’altro c’è un nudo sdraiato di bagnante.

Andiamo venti anni indietro con “Natura morta con giornale”, 1916, di Juan Gris, un cubismo freddo fatto di contrasti luminosi tra bianco accecante e ombre cupe, tra il collage e la proiezione deformata dei volumi.

Quasi contemporaneo il quadro “Elena Povolozsky”,  1917, di Amedeo Modigliani  in cui ritrae l’artista francese che aiutava lui e gli altri  “pittori maledetti”  negli anni difficili a Parigi: il cubismo è appena percepibile nel viso che sembra marmoreo, con zigomi larghi e spigolosi, diversi dalle  sue forme allungate ben più addolcite, è l’unica “deformazione” visibile; lo accostiamo alla “donna con il  cappello verde”  picassiana.

Indietro di alcuni anni, ecco “Place du Tertre”, 1911, di Maurice Utrillo, un altro “pittore maledetto”, ritrae la piazzetta con i luoghi da lui frequentati, la “patisserie” e i “vini, liquori e tabacchi”,  c’è solitudine nella raffigurazione luminosa e chiara.  

Ancora più nitida “Notre Dame”, 1909, di  Henri Rousseau, il doganiere artista, il quale si ritrae nella piccola figura vestita di nero con bastone e cappello a larghe tese, che dal parapetto della strada guarda le chiare sagome della cattedrale.

La nostra marcia all’indietro nel tempo attraverso le opere esposte in questa sezione  approda a due dipinti di  Pierre Bonnard,  “Movimento sulla strada (Scene di strada)”,  1907,  e “Cavallerizza del circo”, 1894:  si tratta di ambienti particolari nei quali, pur in esterni, troviamo l’atmosfera raccolta caratteristica dei suoi interni  all’insegna dell’intimismo cui è dedicata la sezione successiva.

Ne parleremo prossimamente,  nella visita alle ultime tre sezioni dedicate all’“Intimismo e modernismo”, “Espressionismo della natura” ed  “Espressionismo astratto”.

Info 

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Impressionisti e moderni”, “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, fino al 15 dicembre è stato possibile vedere anche “Russia on the Road” (cfr. i nostri articoli, in questo sito, su “Una dolce vita?” 1°, 14 e 23 novembre, su “Russia on the Road” 18 e 26 novembre 2015). Catalogo “Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillip Collection di Washington”,  Silvana Editoriale, 2015, pp. 166, formato 24,5 x 28,5.dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 12 gennaio, il terzo uscirà il 27 gennaio 2016, con 12 immagini ciascuno.  Per gli artisti e movimenti citati nel testo, cfr. in questo sito i nostri articoli su Utrillo, Modigliani e i ‘pittori maledetti”   12 febbraio, 5 e 7 marzo 2014, i “Cubisti”  16 maggio 2013, Cézanne  24 e 31 dicembre 2013; in “cultura.inabruzzo.it”, sugli impressionisti “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”  27 e 29 giugno 2010, su Van Gogh  17 e 18 febbraio 2011, Picasso 4 febbraio 2009 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, la Phillip Collection e i singoli artisti,  per l’opportunità offerta. Sono  riportate le immagini della 3^ sezione della mostra commentata in questo articolo con la  2^ sezione, le cui immagini sono nell’articolo precedente; poi quattro immagini della 4^ sezione commentata nell’articolo successivo. In apertura,  Pablo Picasso, “La camera blu”, 1901;  seguono, Maurice Utrillo, “Place du Tertre”, 1909, e Amedeo Modigliani, “Elena Povolozsky”,  1917; poi, Georges Braque, “Natura morta con uva e clarinetto”, 1927, e Georges Rouault, “Cristo e il sommo sacerdote”, 1937;  quindi,  Pablo Picasso, “Tauromachia”,  1934, e “Donna con cappello verde“, 1939; inoltre, Raoul Dufy, “Lo studio dell’artista” , 1935, ed Edouard Vuillard,  “Il giornale”,  1896-98; infine, Pierre Bonnard, “Bambini con gatto”, 1909, e  “Nudo in un interno”, 1935; in chiusura, Giorgio Morandi, “Natura morta”, 1950.

Atchugarry, 40 “eterni marmi” ai Mercati di Traiano

di Romano Maria Levante

Ai Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali,  dal 22 maggio 2015 al 7 febbraio 2016,  la mostra “Pablo Atchugarry. Città eterna, eterni marmi”, espone 40 opere in marmo, una diecina delle quali monumentali, nella cornice unica del complesso archeologico-museale dei Fori imperiali in cui le composizioni scultoree sono inserite organicamente, in esterni e anche in interni, tra ruderi e arcate in una simbiosi carica di richiami e di significati. Promossa dalla Fundaciòn Pablo Atchugarry con l‘ILA, IstitutoIitalo-Latino Americano, l‘Assessorato a Cultura  e Turismo e la Soprintendenza Capitolina ai beni Culturali, organizzata da Visiva, servizi museali di Zétema Progetto Cultura.

La cornice dei Mercati di Traiano  è straordinaria per gli “eterni marmi” di Atchugarry abbinati alla “città eterna”, abbiamo visto il Foro  romano teatro ideale per le “genesi” di Deredia,  la magia si  ripete.

Nel caso attuale l’abbinamento  va oltre l’aspetto coreografico per entrare in profondità nella concezione stessa di scultura dell’artista di grande livello internazionale, molto legato all’Italia.

Il  percorso artistico

Consideriamo intanto il suo percorso, iniziato precocemente  quando i genitori, appassionati d’arte, ne scoprirono il talento. Iniziò con la pittura, passando  poi a materiali quali legno, ferro e cemento, materiale quest’ultimo nel quale  a 17 anni crea la prima scultura, un cavallo, passando a 20 anni a “Maternitad” e “Metamorfosis  femenina”e  a temi che precorrono la sua visione futura,  come “Metamorfosis prehistòrica”, “Escritura simbòlica” ed “Estractura còsmica”,  tutte del 1974, è nato a Montevideo nel 1954.

Dopo quattro anni mostre in Uruguay e in altri paesi sudamericani, Argentina e Brasile, e viaggi in Europa:  Spagna, Francia e Italia. A Lecco a 24 anni  la sua prima personale  cui seguono mostre in varie città europee, da Milano a Parigi, Copenaghen, Stoccolma.

L’anno dopo, nel 1979, a 25 anni, la “scoperta” del marmo, che avviene nella patria di questo materiale, a Carrara, dove crea “La Lumière”, la sua prima scultura marmorea;  tre anni dopo elabora il primo progetto monumentale in quel marmo pregiato e crea su un blocco di marmo di 12 tonnellate, “La Pietà”.   Da quell’anno, 1982, si stabilisce a Lecco,  dove resterà sempre dividendosi con Manantiales dove ha sede la sua Fondazione instituita nel 2007 come luogo di incontro tra  artisti di tutte le discipline. Ma torniamo alla prima fase della sua “escalation” artistica, è del 1987 la sua prima mostra personale  di scultura, a Milano nella Cripta di Bramantino,   la presenta il grande critico Raffaele de Grada.

Meno di dieci anni dopo , nel 1996, la sua scultura “Semilla de la Esperanza” viene collocata nel parco del Palazzo del Governo uruguayano, e  la sua produzione ha raggiunto un livello tale che viene istituito il Museo Pablo Atchugarry, che raccoglie le opere e l’intera documentazione.

In Italia vengono celebrati i 20 anni  trascorsi dall’arrivo  nel nostro paese con una mostra a Milano intitolata “Le infinite evoluzioni del marmo”,   mentre l’artista dà l’avvio alla prima opera monumentale per una cittadina in provincia di Udine, Manzano: si tratta dell’ “Obelisco del Terzo Millennio”, in marmo di Carrara alto 6 metri. , e  gli viene commissionato, dopo un concorso in cui risulta vincitore, il monumento della stessa altezza di 30 tonnellate, , in marmo bianco Bernini, “Civiltà e cultura del lavoro lecchese”. Negli stessi anni, è il 2002, realizza l’opera “Ideali”  per Monaco, nel cinquantenario di Ranieri a Montecarlo.

E’ contemporaneo il premio “Michelangelo” a Carrara, la realizzazione di nuove opere ormai si alterna ai riconoscimenti e alla partecipazione a grandi mostre.

Opere, mostre, riconoscimenti

Con il complesso scultoreo “Sognando la Pace”, in 8 pezzi tra marmo di Carrara e marmo della Garfagnana, partecipa alla Biennale di Venezia del 2003, realizza  l’opera “Ascensione” per una fondazione di Barcellona, nel 2004  “Energia vitale” in marmo rosa del Portogallo per il Beilinson Center di Israele. Nel 2007, l’anno della Fondazione a lui intitolata, termina l’opera monumentale “Nella luce”, 8 metri in un blocco di 48 tonnellate per la raccolta Fontana, nel 2009 per il centenario della città realizza  “Lux y Energia de Punta del  Este”, un’opera alta 5 metri in marmo di Carrara. Ancora, nel 2011 il suo “Abbraccio cosmico” è terminato, un’opera alta 8,5 metri  da un blocco di 56 tonnellate. Stessa altezza “Movimento nel mondo” per  Kallo-Bergen in Belgio.

Per le grandi mostre abbiamo citato la Biennale di Venezia del 2003, poi nel 2005  la sua mostra al Museo delle Belle Arti di Buenos Aires e nel 2006 al Museum di Brugge in Belgio, viene acquistata l’opera “Camino Vital” dalla collezione Berardo, in Portogallo; nel 2007 in Brasile retrospettiva a Brasilia, poi a San Paolo e a Curitiba, dal titolo “Lo spazio plastico della luce” con nota critica di Luca Massimo Barbero, a San Paolo un’altra grande retrospettiva nel 2014, questa volta intitolata “A Viagem pela materia”. Nel 2008  a cura del Museo Nazionale di Arti Visive una retrospettiva delle opere realizzate negli ultimi quindici anni a Montevideo, la sua  città,

Nel 2011 prima personale a New York alle Hollis Taggart Galleries, l’anno successivo la sua opera “Dreaming New York” viene selezionata dalla Times Square Alliance ed esposta durante la manifestazione newyorkese The Armory Show Art Fair.

Con la mostra romana che si svolge per un periodo di ben otto mesi, questa intensa attività trova un momento di grande rilevanza pratica e simbolica: gli “eterni marmi” nella “città eterna”, tra ruderi antichi e di arcate, con la prospettiva dei Fori Imperiali in uno scenario unico al mondo, un set teatrale degno per opere molto particolari da interpretare con attenzione.

Nel 2013 è stato pubblicato il “Catalogo Generale della Scultura”, due volumi a cura di Carlo Pirovano, con tutte le sculture realizzate nell’intero percorso artistico lungo l’arco di un trentennio.

Le 40 sculture ai Mercati  di Traiano

Tratteggiato sommariamente questo percorso,  passaimo in rassegna le 40 sculture quasi tutte in marmo bianco di Carrara,con qualche marmo colorato e alcuni bronzi, esposte  nell’ampia superficie dei  Mercati Traianei con attenzione alle inquadrature e agli scorci; le più grandi tutte “en plein air”, alcune più piccole negli interni degli antichi mercati.

Diciamo subito che poche sono figurative, per così dire.  In particolare, “Le tre Grazie”, 1999, armonia, leggerezza, anzi lievità in un gruppo statuario di quasi 3 metri, con le tre figure che si protendono verso l’alto, stesse dimensioni e medesima sensazione in “Cariatide”, 1994, sebbene il titolo evochi qualcosa di schiacciato, l’opposto forse in omaggio a quelle del Partenone, cv’è anche una “Cariatide” in bronzo, 2006, alta più di 2 metri.

Sembrano scaturire dalla terra per protendersi in alto  “Fiore”, 1994, “Vita”, 1996, e “Natura in fiore”, 2002, quest’ultimo alto 3 metri e largo 2, come “Pomona”, 1994, e soprattutto “Vertunno”, 1997,  più ancorate al suolo anche per la loro maggiore larghezza con in Vertunnno supera i 2 metri, poco meno dell’altezza di 2,60, un’eccezione che conferma la regola della tensione verticale.

Tensione realizzata appieno in “Il grande angelo”, 2006, che vibra di forza ascensionale. Sono queste le opere di maggiori dimensioni, dei veri monumento marmorei che con le loro forme marmoree allungate proiettano lame di  luce nel loro  biancore abbagliante, uno spettacolo!

Oltre ad essere le più maestose,  sono le uniche con un titolo, tutte le altre sono “Senza titolo”, quindi l’interpretazione è lasciata all’osservatore, c’è da scoprire l’intendo recondito dell’artista che si è espresso nella forma marmorea. Le più grandi tra queste sono una composizione a forma di croce in marmo rosa del Portogallo, del 2003, alta quasi 3 metri, e alcune del 2015 di cui una in marmo di Carrara alta circa 2,5  metri, tre  in bronzo, marmo rosa del Portogallo e marmo di Carrara alte circa 2 metri. Segue una serie tra 1 metro e 1 metro e mezzo, di otto sculture. di cui 2 in bronzo, una in marmo rosa del Portogallo  e 5 in marmo di Carrara. Tutte protese verso l’alto con larghezza per lo più di 30 cm, poche di 50-60.

Infine le opere  più piccole, alte meno di un metro, le vediamo  negli spazi interni, sono una diecina,  di cui 4 in bronzo e una in marmo rosa del Portogallo, le altre in marmo di Carrara.

Significato e valore dell’opera di Atchugarry

L’impressione non cambia, la proiezione verso l’alto è evidente, e per approfondirne il significato ci affidiamo ai commenti colti di grandi esperti di un’arte come la scultura di cui ci sono giunte le maggiori testimonianze dalla notte dei tempi, per la sua resistenza all’usura del tempo. Reperti numerosissimi a Roma molto diversi dall’espressione contemporanea del nostro artista, nella quale comunque vengono trovati riferimenti storici proprio a quell’arte antichissima di trovare nella pietra “in nuce” ciò che si vuole esprimere e rivelarla lavorandola con la tecnica alimentata dalla passione.

“A quegli eterni marmi sembra ispirarsi Pablo Atchugarry – afferma Claudio Parisi Presicce –  a quelle icone riprese per linee essenziali e di cui basta un particolare minimo, un minimo frammento, un accenno di panneggio, per richiamare alla memoria un classico peplo greco o un abito romano Che ben si sposa e si ricongiunge all’aura mitica del Foro di Traiano.”. Le parole del Soprintendente capitolino ai beni culturali rendono l’atmosfera e aiutano a individuare i richiami delle opere “alla sua storia e alla bellezza eterna. Espressa nella materia. In forme nuove”.

Cerchiamo di capire come nascono queste “forme nuove” di un artista contemporaneo che va oltre la visione michelangiolesca dell’opera finita nel blocco di marmo per cui l’opera dello scultore consiste nel liberarla e rivelarla  traducendo  in una forma tangibile l’ispirazione fino a porre a confronto, ad opera compiuta, l’idea e la sua concretizzazione.

“Pablo Atchugarry fa molto di più, nell’inseguimento di tale utopia, dal punto di vista strettamente concettuale – scrive Luciano Caprile – parte da una ipotetica immagine mentale, la spoglia  di ogni identificazione concreta e ne ricerca le tracce nel marmo che sta scalpellando in quel momento. Non ha bisogno di un progetto: gli basta seguire la linea dell’ispirazione suggerita dalla materia  nel divenire del gesto, nel processo del togliere”.  Non ricerca, dunque, una figura concreta,  definita e stabile nel tempo,  ma un’impressione astratta e momentanea, che evolve con i “suggerimenti di una materia duttile” in un disvelamento progressivo che trova conferme nella stessa materia. A differenza del marmo di Carrara con altri marmi, come quello rosa del Portogallo,  le impurità e le vene cromatiche lungi dall’ostacolare tale processo,  imprimono svolte e percorsi inattesi, in tutti i casi, comunque, il rapporto con la materia è creativo e si conclude con “la felice liberazione da quell’involucro evocato dal concetto michelangiolesco”.

Questo avviene sia quanto l’artista è alle prese con opere monumentali e la materia è un blocco di marmo di diecine di tonnellate, quindi i livelli da seguire e interpretare sono molteplici, sia quando si tratta di piccole sculture nelle quali sembrerebbe  trattarsi soltanto di mera realizzazione pratica.

Il riferimento alla “città eterna” degli “eterni marmi” non è soltanto dovuto alla circostanza dell’esposizione nel set prestigioso dei Mercati Traianei.  Il marmo di Carrara della maggior parte delle opere è lo stesso che dalla statuaria classica dell’antica Roma attraversa il  Rinascimento fino al Barocco e approda ora ai giorni nostri con questo artista intriso di classicità se, come abbiamo potuto verificare, le tracce di panneggio e peplo romano sono come un sigillo nelle sue opere.

Se  poche opere sono propriamente figurative, l'”aggancio figurale”  resta come  punto di partenza ideale da cui l’artista si libra spinto dalla forza del proprio pensiero verso un sublime sempre più alto che per questo tende all’astrazione. L’altezza non va intesa sempre come verticalizzazione anche se, come abbiamo visto, è questa l’elevazione di gran lunga prevalente, nei già citati “Pomona” e “Vertunno” la forza si sprigiona in senso laterale per esprimere germoglio e fioritura. E non viene percepita solo nelle opere monumentali, ma anche nelle opere più piccole. “Come si può  constatare, conclude Caprile, il concetto di equilibrio e di armonia non viene condizionato dalle dimensioni, dagli argomenti trattati o dalla sostanza su cui viene sollecitata l’invenzione”. Sono tutti “eterni marmi” perché alimentano e insieme rappresentano “l’eternità creativa”.

Alle tante manifestazioni a Roma di questa forza potente che proviene dalla scultura classica e moderna  la mostra di Atchugarry ai Mercati di Traiano pone la sua scultura contemporanea su un livello di assoluta eccellenza nel coniugare le scelte innovative con il respiro classico dell’eternità.

Info 

Mercati di Traiano, Roma, via Quattro Novembre 94. Da martedì a domenica ore 9,30-19,30, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso ai Mercati di Traiano – Museo Fori Imperiali e alla mostra:  intero euro 14,00, ridotto euro 12,00, residenti in Roma 2 euro in meno, gratuito per le categorie legittimate. Tel. 060608, http://www.mercatiditraiano/http://www.zetema.it/.  Per le altre mostre di scultura classica, cfr. i nostri articoli, in questo sito, ai Musei Capitolini  “L’Età dell’Angoscia” 31 luglio, 3 e 22 agosto 2015, e “L’Età dell’Equilibrio”  26 aprile 2013, “Augusto nel bimillenario alle Scuderie del Quirinale” 9 gennaio 2014, “Caligola al Vittoriano” 8 giugno 2014,“Le collezioni Zevi-Santarelli alla Fondazione Roma”  15 ottobre 2012; in www.antika.it , “L’Età dell’Equilibrio ai Musei Capitolini”  aprile 2013, “Nerone in mostra ai Fori Imperiali e al  Colosseo” 23 ottobre 2011; in  “cultura.inabruzzo.it”  “Deredia, genesi e simbolismo cosmico al Palazzo Esposizioni, Fori e Colosseo” 12 agosto 2009 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. In apertura, una vista d’insieme con “Vertunno” e “Le tre Grazie”, sullo sfondo  l’angolo sinistro del Vittoriano; seguono, “Le tre grazie” , 1999, h 260, in primo piano, e “Cariatide”, 1994, h 230; poi, “Fiore” , 1994, h 200,  e “Vita”, 1996, h 250; quindi, “Natura in fiore”, 2002, h 300, e “Pomona”, 1994, h 260; inoltre “Vertunno”,  1997,h 260,in primo piano, e “Il grande Angelo“, 2006, h 325; infine, 4  “Senza titolo”, 2 in marmo di Carrara alternate a 2 in bronzo, alte circa 2 metri, l’ultima del 2015;  in chiusura, la vista panoramica dai Mercati di Traiano verso il Vittoriano, i Fori Imperiali sono sulla sinistra. 

Impressionisti e moderni, la Phillip Collection al Palazzo Esposizioni

 di Romano Maria Levante

La mostra “Impressionisti e moderni”, al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio 2016,  presenta i “Capolavori della Phillip Collection di Washington”. La collezione è una raccolta mirata di opere dell’800 e ‘900  che riunisce in una sequenza resa dalle sei sezioni della mostra le multiformi correnti artistiche rappresentate da 60 opere dal classicismo all’espressionismo astratto, selezionate tra le 3000 opere della collezione, di cui 2000 acquistate direttamente da Duncan Phillip, fondatore della Phillip Memorial Gallery di Washington. Organizzata dalla Phillip Collection con l’Azienda Speciale Palaexpo, a  cura di Susan Behrends Frank, curatrice della Collezione di Washington, Catalogo Silvana Editoriale con Palazzo delle Esposizioni.

Si  completa l’autentico  “triplete”, nel gergo calcistico,  realizzato dal commissario Innocenzo Cipolletta con le altre due grandi esposizioni aperte contemporaneamente il 16 ottobre 2015, “Russia on the Road”, con chiusura anticipata a dicembre per trasferirsi a Mosca, e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano”.

Questo risultato straordinario è tanto più rimarchevole dopo i timori insorti con le  dimissioni del Consiglio di Amministrazione presieduto da Franco Bernabè per il mancato rispetto da parte delle istituzioni preposte degli impegni presi sui finanziamenti necessari alla gestione delle sedi espositive,  dato che non sono sufficienti le pur consistenti risorse che l’Azienda speciale Palaexpo riesce ad acquisire autonomamente. Va dato merito al Commissario di essere riuscito a realizzare quanto programmato nonostante le difficoltà determinate da tale critica situazione, finora risultate superabili. Del resto è noto che in Italia nell’emergenza si riesce a compiere autentici miracoli.

L’importanza della mostra va oltre il valore intrinseco dei capolavori presentati, per il notevole valore educativo che assume con la presentazione  di una “summa”  così qualificata dell’arte pittorica nell’800 e ‘900. Ne danno testimonianza le scolaresche che la affollano con i professori ai quali riesce agevole raccontare la storia dell’arte  con la parata spettacolare dei capolavori dei diversi movimenti artistici, e in più con l’esempio del giovane Phillip appassionato al punto di fondare un Museo e dedicarvi la propria vita con l’intento di avvicinare  il pubblico facendo del bene alla comunità in cui viveva  nella concezione che aveva della funzione sociale dell’arte.

La mostra si inserisce nel filone delle esposizioni legate alle collezioni, ricordiamo al Palazzo Esposizioni quella sull’arte americana del  Guggenheim esui capolavori dello Stadel Museum, alle Scuderie del Quirinale sulla civiltà islamica nella collezione di Al-Sabah Kuwait,  al Vittoriano sui capolavori del Museo d’Orsay, alla Fondazione Roma sulle collezioni Zeri e Santarelli.  Viene aggiunta la personalizzazione sulla figura del collezionista e sulla sua attività pionieristica nell’avvicinare il pubblico all’arte europea e americana contemporanea, quando i musei americani erano rimasti legati al figurativo e all’arte accademica. E dovevano trascorrere  dieci anni dopo la Phillip Memorial Gallery di Washington prima che si aprisse il Museum of Modern Art  di New York.

E’ un merito notevole perché seguendo la propria ispirazione e sensibilità artistica è riuscito a precorrere i tempi  aprendo il suo paese alle più avanzate forme d’arte europea e sostenendo i nuovi talenti dell’arte americana. In questo modo ha seguito la propria vocazione a creare, con il Museo,  “una forza benefica” per la propria comunità ritenendo che “l’arte ha una funzione benefica nel mondo”. Dall’apertura nel 1921,  alla sua scomparsa nel 1966,  è passato dalle 300 opere iniziali a 2000 opere, in tutte l’impronta della sua scelta personale; oggi il Museo ha raggiunto le 3000 opere.

Phillip con la Memorial Gallery antesignano dei musei moderni

Questo personaggio è Duncan Phillip, nato a Pittsburgh da famiglia benestante, trasferito da ragazzo a Washington, giovanissimo fu attratto dall’arte, voleva diventare critico e frequentava i musei con il fratello più grande  James facendo acquisti per uso personale e consigliando i genitori  che raccoglievano opere di artisti americani. La morte ravvicinata del fratello e del padre segnò la svolta, nel mettere ordine alla raccolta familiare pensò di onorare la memoria dei suoi cari creando la Phillip Memorial Gallery, un “museo intimo e raccolto”, nelle sue parole, con l’arte eternatrice anche dei sentimenti strettamente personali.

Modificò l’impronta conservatrice iniziale dopo il matrimonio del 1921 con un pittrice e la lettura di testi avanzati dei critici Bell e Fry, i suoi nuovi orientamenti si rafforzarono dopo l’incontro con Stieglitz, il fotografo gallerista che lanciò Georgia O’ Keeffe, la grande artista,  in un rapporto di vita tormentato.

Era molto personale il suo intento di promuovere  confronti tra i diversi artisti e le correnti rappresentate, un modo innovativo di stimolare l’interesse del pubblico verso una visione approfondita dell’arte. Questo risultato veniva perseguito con l’allestimento del Museo basato, sono sempre sue parole, “sul contrasto e l’analogia, in modo da riunire gli spiriti congeniali di artisti provenienti da diverse parti del mondo e da epoche diverse, rintracciando la loro comune discendenza da antichi maestri che anticiparono le idee della modernità”. Un’impostazione lontana mille miglia da quella mercantile, legata alla sua vocazione iniziale di critico e alla sua innata passione per l’arte, che lo portava a “costruire”  continui collegamenti e relazioni nel tempo e nello spazio e ad operare di conseguenza traducendo le intuizioni artistiche in acquisti mirati.

Oggi questa scelta sembra obbligata, dato che si trova nei musei attuali, ma Phillip fu innovatore e rivoluzionario allorché le esposizioni erano ordinate in base alla classificazione per autore, paese e cronologia , senza commistioni. Ecco la sua impostazione: “Epoche e nazionalità si mescolano nella nostra galleria in modo tale che i dipinti antichi e moderni acquistano rilevanza e significato grazie al loro accostamento in un contesto nuovo, in virtù di contrasti e analogie inedite”. Non è solo un aspetto classificatorio, mettendo insieme antichi e moderni, americani ed europei, ruppe le barriere che frenavano le opere contemporanee ponendole sullo stesso livello e valore delle altre rinomate.   

Phillip non mirava a costruire raccolte il più possibile complete di stili e correnti, ma  “fiumi di espressione artistica”, cioè opere con dei contenuti tali da diventare archetipi per i confronti. Cercava  “i prodigi della personalità, non ciò che può essere contenuto in un quadro, ma ciò che non può essere lasciato fuori”, proprio per il suo valore paradigmatico e personale; si impegnava nella scoperta dell'”eccellenza individuale”, scegliendo artisti che non seguivano le correnti ma si esprimevano  in modo personale.  Metteva insieme, così, “una raccolta di immagini diverse che ci dà l’impressione di incontrare e conoscere gli artisti come persone, di fare nuovi amici”.  A questo fine preferiva acquistare “numerosi esempi del lavoro di artisti che ammiro particolarmente e mi diletto a onorare, anziché un solo dipinto di una celebrità riconosciuta”. Ma la sua intuizione era tale che diventavano presto celebrità  anche loro.

Da questa apertura personale nasce un altro aspetto della sua azione meritoria nel campo dell’arte. Oltre a raccogliere le opere delle avanguardie americane e ad avvicinarle a quelle dei maestri europei, sin dall’inizio si impegnò, anche queste sono sue parole, “a incoraggiare gli artisti contemporanei , stabilendo contatti personali e relazioni amichevoli, per conquistare la loro fiducia”. 

Fu così che il Museo divenne sin dall’inizio un “centro di sperimentazione” ,  con la ricerca dei talenti  che venivano  formati nel confronto con i grandi artisti della collezione e valorizzati: “Un protettore delle arti, diceva, ha il dovere di essere vigile e aperto, e di incoraggiare l’avventura creativa attraverso n’utile collaborazione con i suoi artefici”. A questo fine svolgevano un ruolo importante le mostre.

Il percorso di Phillip nelle acquisizioni per il suo museo

Dalla  scelte concrete nelle acquisizioni di opere emergono gli orientamenti maturati nel tempo. All’inizio Daumier con la sua “Rivolta” e le sue caricature,  Puvis de Chavennet con la sua rivolta, Monet con il suo impressionismo lontano dai luoghi consueti erano tra quelli che riteneva le fonti dell’arte moderna. Seguono Courbet e Sisley, Manet e Morisot, poi le opere simboliste di Redon, Vuillard e Bonnard, da lui prediletto in modo particolare.

Le sue idee si evolvono, dopo la metà degli anni ’20 all’impressionismo segue il post impressionismo con gli antesignani della modernità iniziando da  Cèzanne che si era distaccato dalla dipendenza sensoriale e Rousseau, poi  Braque e Picasso; la strada è aperta, entrano nella collezione del Museo Ingres e Delacroix, Gris e Corot.

Ha cercato finora di  mantenere l’equilibrio tra il classicismo della forma e il romanticismo del colore, ora si sposta verso il secondo:  con il passar del tempo acquista Dufy e Rouault, poi  Degas e  Van Gogh, Kokoschka e Soutine, Klee e Kandinskij, Matisse e Morandi, De Stael e Modigliani.  

Abbiamo citato finora artisti europei, e gli americani? Sono il cuore della raccolta, attraverso  Stieglitz che nella sua “Intimate Gallery”  promuoveva cinque artisti stabili, oltre se stesso,  e un settimo che cambiava di volta in volta, entra in contatto con Dove, di cui in vent’anni acquisterà 60 dipinti sostenendolo e valorizzandone l’attività artistica; sempre attraverso Stiglitz,  Marin, altro suo preferito, e Georgia O’ Keeffe. Con questi artisti, soprattutto Dove,  si avvicina all’astrazione, che entrerà con prepotenza nella sua collezione. Definiva Marin, con Bonnard, “i due temperamenti più affascinanti dell’arte contemporanea”, le loro opere erano esposte vicine, insieme a Matisse e Utrillo nell’accostamento di  temperamenti artistici che sentiva vicini superando tutte le barriere.  Entrano poi altri americani tra cui Avery e Graham, Hartley e Lawson, Prendergast e Pollock.

 Diebenkorn fu colpito nel Museo da un’opera di Matisse – oltre che da quelle di  Bonnard, Vuillard e Dove – al punto di dire che gli era “rimasto in mente fin da quando lo vidi lì per la prima volta”, e se ne nota l’influsso nelle sue opere acquistate da Phillip, creando così un circuito virtuoso tra l’aspetto formativo e quello realizzativo del suo “centro di sperimentazione”.  Mentre per Rotchko va fatto un discorso a parte, nella sua ricerca dell’astrazione attraverso forma e colore puro  vedeva la sintesi tra l’estetica occidentale e orientale espressa con spiritualismo e trascendenza, il suo ideale. Gli dedicò una mostra nel 1960 e le sue opere le espose in modo permanente in uno spazio  a lui dedicato, rinunciando per lui agli accostamenti e alle mescolanze ma dando corpo all’altra idea, di costituire sale riservate ai “geni” come momenti di approfondimento  dei maggiori artisti.

La mostra del Palazzo Esposizioni presenta una selezione delle opere della Collezione Phillip, 60 capolavori nelle sei sale del principale percorso espositivo, quello intorno alla grande rotonda, ciascuna dedicata a specifiche  correnti pittoriche: Classicismo, Romanticismo e Realismo;, Impressionismo e Postimpressionismo;Parigi e il cubismo; Intimismo e Modernismo; Espressionismo e la natura, Espressionismo astratto.  

Nella visita si passano in rassegna le correnti pittoriche dell’800 e ‘900, una carrellata, anzi una cavalcata tra capolavori  senza tempo visti nel percorso acquisitivo di Phillip, che accresce interesse a quello insito in una sintesi artistica di così alto livello. Un’occasione imperdibile.

Classicismo, romanticismo e realismo

Con la 1^ sezione si entra nel vivo dell’arte nell’800 tra “Classicismo, romanticismo e realismo”. La ricerca dell’ideale  senza tempo dei classici era volta all’equilibrio e all’armonia, con la chiarezza compositiva data dallo stile accademico che conciliava gli opposti seguendo regole precise. Il romanticismo, invece, rompeva l’equilibrio con l’irruzione dei sentimenti e della fantasia, rifiutando le regole e le certezze per esplorare le novità, senza curare forma né rifiniture. Con il realismo una visione diversa dalle due ora riassunte,  né l’equilibrio ideale dei classicisti né la trasgressione ostentata dei romantici, ma ancoraggio  alla realtà naturale da non idealizzare né trasgredire.

La visione moderna della pittura superava queste antinomie per la compresenza dei diversi elementi, ed è la scoperta delle loro modulazioni uno dei motivi di interesse di questa sezione.

Significativo al riguardo il “San Pietro penitente”, 1820-24,  di Francisco De Goya, non c’è classicismo ma forte  realismo nella figura di contadino con una tensione emotiva di tipo romantico. 

Lo troviamo accostato a un altro “San Pietro penitente”, 1605, quello di El Greco, di due secoli anteriore,  nel segno della ricerca degli antichi maestri, anche qui realismo e drammaticità, Phillip lo considerava “il primo grande espressionista”.

Anche   “La rivolta”, 1848, di Honoré Daumier, ha una  forte tensione drammatica in un movimento popolare reso con realismo. Phillip  lo poneva al livello di Michelangelo e considerava questo “il quadro più importante della collezione”; di Daumier vediamo anche “Tre avvocati”, in cui passa dal dramma alla satira restando nel realismo compositivo poco incline alle rifiniture.

La visione romantica in Eugéne Delacroix si discosta dal realismo, non temi di attualità o sacri, ma mitologici o letterari, quindi fuori del tempo; alla ricerca di equilibrio dei classici contrappone il movimento, non ci sono contorni ma pennellate dal forte cromatismo, lo vediamo nei “Cavalli che escono dal mare”, 1860 , tra loro un cavaliere dalla tunica rossa in posa quanto mai instabile.

Espressione massima della classicità “La piccola bagnante”, 1826, di Jean-Auguste-Dominique Ingres, un vero archetipo con la figura immobile  e levigata da sembrare una statua di marmo del Canova,  statica ed armoniosa: nulla di romantico, il realismo forse è nei contorni.

Altrettanta classicità in “La pigiatura dell’uva”  di Pierre Puvis de Chavannes, 1865, in una composizione con realismo da vita quotidiana tuttavia  ispirata a soggetti dell’antichità, l’artista si era formato sull’affresco classico, i corpi pur nella diversità richiamano l’incarnato di Ingres.

Il realismo prevale nel “Balletto spagnolo”, 1862, di Edouard Manet, i danzatori posarono nel suo studio, ci sono aspetti che lo collegano a stereotipi romantici nella sua personale modernità.

Gli altri dipinti della sezione sono nature morte e paesaggi, anche in questi si possono ricercare i segni delle tre espressioni artistiche cui è dedicata la sezione.

Nei paesaggi al classicismo dell’equilibrio ambientale si unisce il realismo della rappresentazione della natura com’è,  al di là delle idealizzazioni.  Lo vediamo nei paesaggi italiani di  Jean.Baptiste-Camille Corot, “Veduta degli Orti Farnesiani, Roma”, 1826, e “Genzano”, 1843, l’artista si è formato sui classici e in questi piccoli quadri  rende la natura con precisione come si presenta nei contorni e negli effetti luminosi  dipingendo già allora all’aria aperta e non nel chiuso dell’atelier.

Invece Gustave Courbet dipinge “Rocce a Mouthier”, 1855, e “Il Mediterraneo”, 1857,  senza la serenità aprica di Corot, la sua natura è aspra e tormentata, nelle  rocce del primo dipinto come nelle onde del secondo,  con colpi di spatola che accentuano drammaticamente i contrasti. Il suo realismo romantico piaceva molto a Phillip. 

Di Antoine-Felix Boisselier “Veduta del lago di Nemi”, 1811, con l’equilibrio immobile dei classici e il realismo della visione diretta.

Accostiamo a Courbet  “Sul fiume Stour”, 1834-37 dell’inglese John Constable, i colpi di spatola sono più accentuati, con macchie di bianco che accentuano i contrasti, nessuna idealizzazione bensì rappresentazione realistica della natura con gli agenti atmosferici, frutto dei suoi studi scientifici.

La sezione di chiude con “Pesche”, 1869,  di Henri-Fantin Latour e “Vaso di fiori”. 1875,  di Adolphe Monticelli, anche queste espressioni della natura viste con equilibrato realismo.

E’ solo l’inizio,  le sezioni seguenti vanno dagli Impressionisti ai cubisti, dall’intimità dei modernisti fino agli espressionisti astratti, racconteremo la nostra visita prossimamente.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Impressionisti e moderni”,   “La Dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, fino al 15 dicembre è stato possibile vedere anche “Russia on the Road” (cfr. i nostri articoli, in questo sito, su  “Una dolce vita?” 1°, 14 e 23 novembre, “Russia on the Road” 18 e 26 novembre 2015). Catalogo “Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillip Collection di Washington”,  Silvana Editoriale, 2015, pp. 166, formato 24,5 x 28,5, .dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Gli altri due articoli usciranno in questo sito il 18 e 27 gennaio 2016, con 12 immagini ciascuno. Per le collezioni e artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli, in questo sito: per i musei “Orsay”, 11 maggio 2014,  “Guggenheim”  22 e 29 novembre 2012, eper “Al-Sabah  Kuwait “ 3 e 10 agosto 2015, “Zevi-Santarelli” 15 ottobre 2012:in “cultura.inabruzzo.it”  per “Stadel Museum” 3 articoli nel luglio 2011, inoltre per gli impressionisti “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura” 27 e 29 giugno 2010 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito). 

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, la Phillip Collection e i singoli artisti,  per l’opportunità offerta. Sono riportate le immagini della 1^ sezione della mostra, commentata in questo articolo, e quelle della 2^ sezione, commentata nell’articolo successivo.  In apertura,   Honoré Daumier, “La rivolta”, 1848; seguono,  Pierre Puvis De Chavannes, “La pigiatura dell’uva”, 1865, e Gustave Courbet, “Rocce a Mouthier”;  1855,  poi, Francisco José Goya, “San Pietro penitente”, 1820-24, ed  Edouard Manet, “Balletto spagnolo”, 1862; quindi, Ferdinand-Victor-Eugène Delocroix, “Cavalli che escono dal mare”,  1860, e Claude Monet, “La strada per Vétheuil”, 1879; inoltre, Paul Cézanne,  “Autoritratto”, 1878-80,e “La montagna Sainte Victoire”, 1886-87; infine, Hilaire-Germain-Edgar Degas,  “Ballerine alla sbarra”,  1900, e Vincent Van Gogh, “Casa ad Auvers”, 1890; in chiusura, la presentazione delle tre mostre “2’015. Autunno al Palazzo delle Esposizioni”, al centro il Commissario Innocenzo Cipolletta e il Direttore generale Mario De Simoni.

Cina oggi, il crocevia di 12 artisti, al Vittoriano

Romano Maria Levante

 Al Vittoriano, Ala Brasini, lato Fori Imperiali, dal 18 dicembre 2015 al 12 gennaio 2016 la mostra “Crocevia – Arte cinese contemporanea” espone 70 opere di 12 artisti  d’avanguardia la cui impronta personale si innesta sulla tradizione artistica cinese. Con il patrocinio dell’Ambasciata di Cina, della Regione Lazio e di Roma Capitale, su un progetto di Maurizio Fallace, già Direttore generale del MiBact,  di Nicolina Bianchi per “Segni d’Arte”,  e Zhui Shouli (ZhuoShuango), che hanno curato la mostra e il Catalogo, e dell’artista Ma Lin; hanno collaborato istituzioni cinesi. Responsabile della mostra Cristina Bettini, Comitato scientifico con Claudio Strinati, Maurizio Fallace e Alessandro Nicosia.

E’ una mostra inconsueta per l’arte cinese, della quale vengono esposte in genere opere tradizionali, per non parlare dei reperti di una civiltà millenaria, dalla mostra “L’Aquila  e l’Impero”  alle “Tombe cinesi del 2° sec. a. C. di Awangdui”;       ;  al Vittoriano troviamo artisti contemporanei, dopo la precedente “Visual China” con artisti moderni diversi dai 12 odierni.

La mostra è molto istruttiva,  in quanto presenta un panorama significativo e poco conosciuto delle tendenze dell’arte cinese contemporanea. Sono 12 artisti, presenti all’inaugurazione, la cui creatività si esprime in forme e stili differenti lungo percorsi anche divergenti che si intrecciano come in un “crocevia”, di qui il titolo dato alla mostra e lo speciale allestimento, strutturato come un ponte tra personalità e forme artistiche così da costituire una sorta di “labirinto” creativo.

Gli artisti sono impegnati in quello che la curatrice della mostra, Nicolina Bianchi, definisce “un coraggioso processo di reinterpretazione della loro millenaria tradizione culturale visiva”. E lo fanno con “un atteggiamento di decostruzione e ricostruzione i cui esiti convergono in questo immaginario crossover, cioè in una concreta e reale sovrapposizione di segni, forme e colori, per armonizzarli in un completo e straordinario happening espositivo”.  Per questo la curatrice, nel presentare il “racconto-performance” di “percorsi diversificati, a volte trasversali”, paragona il “Crocevia”a “un’affollata hall di una grande stazione”, dove è bello trovarsi “per cercare, tutti insieme, d’incontrarsi là dove arrivano e partono idee e creazioni”.

Entriamo in questa virtuale hall ferroviaria, veramente affollata nella presentazione della mostra, e immergiamoci nei percorsi creativi che vi convergono,  espressivi delle tendenze più avanzate, anche per l’uso di supporti tecnologici.  “Esperienze diversissime – commenta Alessandro Riva – ma attraversate tutte da un comune sentire di sperimentazione e di grande interesse per l’innovazione linguistica, pur all’interno di una grande tradizione linguistica quale quella cinese”.

Il “labirinto” espositivo che divide le piccole “mostre personali”  dei 12 artisti presenta dei varchi   che consentono di gettare lo sguardo oltre il singolo espositore, sono i “ponti” visivi di un “crocevia” fonte di continue sorprese per la varietà di stili e forme, cromatismi e contenuti.

Per meglio cogliere le differenze e le innovazioni stilistiche dei diversi artisti ci siamo mossi nel “labirinto”  seguendo il filo d’Arianna dei contenuti  assimilabili,  espressi in modi diversi: in particolare il paesaggio e la figura umana, oltre a questi soggetti altri non definibili o astratti.

Il paesaggio dalla grigia astrazione al cromatismo acceso

Sono cinque gli artisti le cui opere si ispirano al paesaggio espresso in una gamma di forme e colori.

La mostra è introdotta dai grandi pannelli di  Liu Yiyuan,  docente di pittura cinese nell’Istituto Belle Arti di  Hubei,  che si è formato sugli antichi dipinti  per sviluppare una tecnica dell’uso dell’inchiostro su carta di riso che. pur  partendo dalla tradizione Tang,  è fortemente innovativa.  

Sono intrecci di linee  e di macchie, forme e segni,  ombre e luci, strati  chiaroscurali e passaggi cromatici,  in un misto di figurazione e di astrattismo, che fanno definire le sue rappresentazioni  “Paesaggi della mente”; e come nella mente ci sono angosce e sofferenze, così le sue superfici dipinte sono percorse da interruzioni e strappi, metafora delle angosce e  sofferenze della realtà.

Le opere sono tutte sul grigio tendenti all’astrazione. Tra le più recenti  “La Via lattea”, “Occhi nel cielo” e “Scena notturna”,  del 2015,  prima troviamo “La luce del sole al mattino” e “Surpass” del 2012, “Il fiume stellato” e  “Crak”, del 2011, e la serie “Vocabolario di Jie  Zi ” del 2009.

Un cromatismo intenso è invece nei paesaggi di  Ke Dou, che inizia come architetto, poi si dedica all’arte a tempo pieno. Viene definito “maestro del segno, che sulla tela diventa quasi magicamente un magico gesto del colore”,  in composizioni dove crea architetture naturali  viste nelle diverse ore del giorno e nelle più varie situazioni atmosferiche animate dall’energia dei colori. Riva scrive che “le pennellate sembrano lingue di fuoco e il colore sembra animarsi sotto l’effetto di un incantesimo”, è la sensazione che suscitano “Il sole del tramonto”, 2015,  e “Nella vasca di loto con Tipsy”, 2014,  “La vallata” e  “L’erba selvatica nella palude”, 2013; mentre “La notte di luna”  fa brillare i filamenti nel blu dello sfondo.

I colori diventano un vero incendio cromatico cui si aggiungono  i verdi e i blu ai rossi in Xuru Kui, in arte Charei. Mentre Ke Dou è architetto, la Charei è ingegnere senior e pratica anche l’arte fotografica. In “Montagna”   e “L’ombra dell’autunno”, 2014, . le forme possono richiamare in qualche modo, anche se alla lontana, il tema del dipinto, ma il vero soggetto è  il trionfo del colore.

Non solo paesaggio, la sua sensibilità emerge dalle altre due opere esposte, “Danza secondo lo stile della dinastia Tang” e “Dietro le quinte”, 2014, che riportano ad antichi archetipi femminili, divenute vere icone della tradizione, come il murale sulla danza cui si è ispirata.

Il quarto artista ispirato al paesaggio è Liu Shangying, nato in Mongolia, nella “città dell’eterna primavera” , dove la natura è rigogliosa, vive a Pechino e insegna presso il dipartimento di pittura ad olio.  La sua pittura è molto intensa nel cromatismo e molto particolare nella forma, espressione di una ricerca personale e di una ritualità che la rende unica nel panorama delle sperimentazioni.

L’artista dipinge dinanzi ai suoi soggetti, immerso nell’atmosfera ambientale; ma la sua non è la semplice pittura “en plein air” degli impressionisti, anche se l’atteggiamento è conforme, perché si reca nelle montagne del Tibet e monta il suo cavalletto con le grandi tele in luoghi battuti dal vento e dalle intemperie ricevendo dalla natura spesso inclemente, le ispirazioni e suggestioni più intense..

 “Il suo lavoro pittorico – commenta Riva – diventa così una ricerca non solo sulla materia, sul colore, sulla luce, sulla gestualità e sul difficile rapporto  tra astrazione e rappresentazione del reale, ma anche sul rito di passaggio rappresentato dal viaggio stesso, dalla difficoltà di dipingere en plein air tra le montagne del Tibet, dalla sfida continua che si erge tra l’uomo e la natura, e tra l’uomo e l’opera d’arte”.

Sono esposte 5 opere, tutte del 2014, intitolate al “Lago Manasarovar”,  di grandi dimensioni,  m. 2,5  x 1,5 circa,  contrassegnate da numeri d’ordine: l’immagine è inquadrata come in un video,   c’è molto nero ma rischiarato da sciabolate di colori in uno spettacolare  cromatismo di contrasto.

E’ un paesaggio molto particolare quello di Xu Dongsheng,  artista presente in importanti mostre e riviste specializzate, nonché docente  a Guangzhou. “La grande impresa artistica che il grande pittore cinese compie – scrive Riva – è permettere di ‘vedere’ i propri interiori paesaggi e di proiettarli nel fluire dell’esistenza”. 

L’uso di tonalità grigie che diventano scure fino al blu e al nero, con pochi elementi che vi galleggiano sopra, crea un’atmosfera onirica alle sue opere  nel confine tra visibile e invisibile, tra  visione personale ed evidenza oggettiva.  Sempre secondo Riva”il luogo dipinto perde pian piano qualsiasi connotazione verista e di similitudine con il paesaggio reale, per trasformarsi in qualcosa d’altro”.  Ed ecco dove ci porta e come si esprime l’artista: “In un nonluogo che sfiora a tratti l’astrazione, avvolto di una luce irreale, straordinariamente seducente, , fatta di bagliori improvvisi, di luci, di squarci nel buio, di lampi di folgoranti azzurri, rossi, o blu oltremare, luci e colori che si insinuano sottopelle, mescolati a misteriose figure che sembrano danzare nell’aria come se non ci fosse più differenza tra la realtà, il sogno e la loro rappresentazione pittorica”.

Non si potrebbero descrivere meglio le opere esposte,  tutte del 2015: “Il grido interiore” e “Le trasformazioni dell’atmosfera”, “Il rosso della manica non copre la luce” e “Doppio serpente dell’antica Cina”;  c’è anche “Omaggio a Klein“, una rete sospesa con in primo piano il blu oltremare o “blu Klein”.

Non  sono immagini di paesaggio, tanto meno interiore,  ma della fauna che lo popola le due opere di  Xiangbin Liang, “Scimmia che guarda la montagna”, n. 1 e 2, 2014, lo sguardo è così intenso da rivelare una profonda umanità, d’altra parte la scimmia  occupa nell’evoluzione il gradino prima  dell’uomo per cui lo riteniamo un passaggio appropriato alle opere con figure umane.  

L’artista è anche scrittore e la sua pittura è intimamente legata alla natura con cui vive a contatto e intende portare nelle sue opere: i due primi piani dei volti di scimmia, assorti nell’ammirare la meraviglia delle montagne che si riflettono chiaramente nei loro occhi si inseriscono in una produzione  in cui si trovano  foreste abitate da scimmie e paesaggi innevati, nella celebrazione della bellezza della natura. Il suo è un mondo primordiale incontaminato,  con un cromatismo brillante e luminoso  per esprimere i colori della vita, del resto mette in opera la propria  “teoria della pittura selvaggia”. Può  sembrare l’idealizzazione di un  mondo sparito, invece  è una realtà presente che va a scovare, fotografandola per  renderla in forma pittorica:  non è un “paradiso perduto” ma che si può perdere.  Aggiunge Riva: “La pittura di Xiangbin Liang, apparentemente semplice  e immediata, è allora anche un mezzo per farci ragionare su ciò che è  vero e ciò che non lo è più nell’era della comunicazione diffusa , sul valore del mezzo pittorico come medium illusionistico, capace di far librare l’immaginazione oltre il reale , pur restando con i piedi perfettamente piantati nella realtà”.  Non ci sono solo le montagne  negli occhi delle scimmie!

 Vediamo infine un paesaggio montano, di stile figurativo, opera di Meng Bin, ma questo artista espone soprattutto dipinti di figure umane, e sono questi che intendiamo commentare.

La figura umana in pittura e scultura

Con Meng Bin, dunque, troviamo nell’esposizione la figura umana, soprattutto femminile ma anche maschile in  una serie di dipinti del 2014: sono 3 composizioni  con diverse figure intere e 2 dipinti con figure a mezzo busto. “Le studentesse”  sono 5 figure di donne in pantaloni e gonna,  “I coetanei” 2 figure,  “La famiglia” una coppia con un bambino. “Ritratto di Lao He” e “Ritratto di Lao Xe”  rappresentano i due soggetti, maschile e femminile, ripresi da soli.

Sono dipinti di notevole densità materica con le figure viste dall’alto, “come se il loro presentarsi dal basso – commenta Riva – fosse una spia della crisi di un’intera generazione. La sua pittura non riproduce, comunica”.  Le “studentesse” e i “coetanei”  esprimono le ansie e le attese della loto generazione, nella “famiglia” sembra di intravedere una maggiore serenità, come un approdo sicuro.  Questa  è solo una componente, si nota anche la cura nel soffermarsi su aspetti esteriori, come l’abbigliamento e la positura,  quali espressioni della personalità dei soggetti come singoli e come collettività generazionale. 

L’artista, laureato all’Accademia Belle Arti di Guangzhou, dove ha conseguito il Master, fa parte del Comitato di pittura a Olio dell’Associazione Artisti di Henan, ha viaggiato in Europa per studiare l’arte europea, e lo si vede da quello che viene definito “espressionismo estatico”.

Figure umane e allegoriche anche nelle opere di Xie Heng Qiang, ma in forma di piccole sculture in ceramica colorata, quasi icone rituali di archetipi primordiali ma con un tocco di modernità, in un connubio tradizione-innovazione  espressione della sua intensa creatività.

E’ come se l’artista volesse comunicare qualcosa che viene da lontano ma che tocca da vicino, in un’atmosfera di mistero con un senso quasi religioso: “I suoi piccoli antieroi – osserva Riva – che sembrano saltare fuori da un scavo archeologico di un paese a noi sconosciuto,  conservano l’intensità degli eroi tragici antichi, con le loro espressioni a volte dolenti, a volte felici, a volte perse in sogni che non conosciamo”.  E cita “gli occhi sproporzionati come quelli dei moderni personaggi dei cartoon”,  nei quali  aleggia “un aspetto inquieto e sarcastico”.

Lo si nota nella  opere  meno recenti, come “Gemello n. 2”, 2007 , “Il paese degli Angeli”, 2010, e “L’Angelo sulla nuvola”, 2011,  mentre le più recenti, “La canzone di Samaria”, 2014, e “L’illusione”, 2015, mostrano un ripiegamento interiore  intenso e sofferto.

Pure  questo artista  ha una formazione accademica, e insegna Arte della Ceramica nella locale Università, le sue opere in ceramica sono presenti nelle mostre e nelle riviste specializzate.

Sono sculture anche quelle di Huang Yong, che insegna all’Accademia delle Belle Arti della sua città nel cui museo, oltre che in molte collezioni private, sono esposte le sue opere.  Non sono in  ceramica, come per l’artista precedente, ma  in resina e legno, e rappresentano il corpo umano pur se con titoli psicanalitici, come le 2 intitolate “L’incubo del sogno”, 2015, e le 3 “La voce sul legno”, 2014: sono nudi  improntati alla classicità come antichi bassorilievi,  anche qui con un tocco di modernità.  “Il corpo stesso, è ancora Riva,  diviene così un inesausto labirinto  di segni e di linee che si rincorrono sulla superficie dell’opera , quasi a rappresentare, con il loro intrico di segni, un simbolo della complessità della stessa natura umana”.

Le altre  ispirazioni e forme espressive

E siamo giunti agli artisti la cui ispirazione e forma espressiva è lontana da quelle fin qui considerate: si va dai riferimenti tangibili a realtà presenti alle sperimentazioni più varie.

Sono reali e tangibili le immagini urbane di Fan Feng, come “Cavalcavia” e “Si affacciano sulla città”, 2014, in inchiostro su carta: addensamenti che evocano gli agglomerati cittadini in una visione scenografica, dall’alto, non priva di inquietudine per la loro invadenza senza freni  L’artista, infatti, non si pone come osservatore neutrale, ma si immerge nello spazio che rappresenta quasi fosse sull’ideale palcoscenico di una delle moderne megalopoli orientali, “vere e propri simboli del presente tecnologico e urbano iperaccelerato della Cina di oggi” che, nelle parole di Riva, “vanno a formare le silhouettes di grandi paesaggi urbani caotici e strabordanti, pieni di palazzi, di insegne, di strade, di pali, di fili e di sopraelevate che si intrecciano e si sovrappongono una sull’altra”.

Ha un “cursus honorum” prestigioso, oltre ai titoli accademici e alle cariche nelle istituzioni artistiche ha conseguito il livello più elevato della Certificazione nazionale per l’arte fino a ricevere un sussidio permanente speciale del governo  per il suo contributo al mondo dell’arte.

Colleghiamo all’alienazione urbana le opere di Li Xiangyang, “Il volo”, sono 4 dipinti del 2013-14   con delle automobili in fila con autista, in ogni dipinto una  delle vetture  è sollevata, mentre ancora più in alto è sospesa, in orizzontale, una persona,  una è nuda con le braccia aperte come un crocifisso; sopra, nel cielo azzurro, si staglia una struttura viaria, sotto c’è uno spaccato del sottosuolo con le radici. Come interpretare questa immagine ripetuta quattro volte con delle varianti? L’artista, che vive a Pechino dove insegna alla scuola del cinema, si è laureto al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, e indubbiamente c’è un chiaro taglio cinematografico nelle sue composizioni, sembrano sequenze di un film. La persona sospesa non riflette il volo onirico ed estatico alla Chagall, ma nella sua rigidità rende l’angoscia di una condanna; mentre i due livelli della composizione sembrano marcare il distacco tra le solide tradizioni espresse nelle radici in bianco e nero e la caotica realtà odierna resa con i colori intensi di un’invasione violenta.  Del resto,  è esposta un’altra opera, dal titolo eloquente “Il vuoto”, forse come seguito sconsolato del “volo”.

Vogliamo concludere con  Ma Lin,  la cui figura si distacca dalle altre:ha studiato  in Italia, frequentando la “Scuola libera di nudo” e diplomandosi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, vive e lavora nel nostro paese,  e ha collaborato attivamente alla mostra  attuale come ad altri eventi artistico-culturali tra Italia e Cina, ha esposto anche alla  mostra al Vittoriano “Virtual China”.

Infine 5 installazioni pittoriche realizzate inserendo i dipinti in supporti di ferro e legno asiatico, nelle quali una mano, dei corpi e dei volti, questi ultimi in miniatura, sono inseriti in composizioni  iconiche con l’aggiunta di piccole farfalle come metafora di libertà e rigenerazione dinanzi all’oppressione  dei frammenti di parvenza umana compressi e isolati nei suoi istogrammi scuri:  è l’alienazione della vita moderna che riduce le possibilità di dialogo e alimenta i conflitti, ma nonostante  ciò la spinta al dialogo tra identità culturali diverse è portata dalle  componenti antropologiche e spirituali che sono alla radice della storia dei popoli.  Per questo, “Dialogo” e “Voglio parlare” si intitolano  3 sue opere del 2014 e 2015;  dell’ultimo anno abbiamo anche 2 installazioni intitolate “Rivelazione e anti-rivelazione”.

Titoli che sembrano un sigillo della mostra, come occasione di dialogo tra diverse culture e forme espressive, e volontà di parlare nel senso di comunicare, esprimersi. La mostra è stata una rivelazione di  aspetti ignorati dell’arte cinese, dove la contemporaneità si salda alla tradizione in una  sperimentazione  che si nutre di apporti occidentali innestati sull’antico e affascinante linguaggio del lontano Oriente. 

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresa la domenica, ore 7,30-19,30, entrata fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, 06.69923801; fax 06.69200634. www.comunicareorganizzando.it.  Catalogo “Crocevia. Arte cinese contemporane”, dicembre 2015, pp. 122, formato 22 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre sull’arte e la tradizione cinese, cfr. i nostri articoli: in questo sito “Awangdui, tombe cinesi del 2° sec. a. C. a Palazzo Venezia” 17 gennaio 2015, “Visual China. Realismo figurativo contemporaneo”17 settembre 2013; “Oltre la tradizione. I Maestri della pittura moderna cinese”  15 giugno 2013;  lo scultore “Weishan” e l’abbinamento Qi Baishi -Leonardo 24 novembre 2012; la “Via della Seta” il 19,21 e 23 febbraio 2014; per l’arte e la cultura cinese in “notizie.antika.it” sulla mostra “L’Aquila e il Dragone”  4 e 7 febbraio 2011; in “cultura.inabruzzo.it  sull'”Anno culturale cinese”  26 ottobre 2010,  e  2 articoli sulla “Settimana del Tibet”  21 luglio 2011 (tale sito non è più accessibile  gli articoli saranno trasferiti in altro sito); infine in questo sito, “‘Incontro all’Ambasciata cinese”  1° aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state ripreseda Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare l’organizzazione cinese e i singoli artisti, per l’opportunità offerta. Viene riportata una immagine per ciascuno dei 12 artisti nell’ordine in cui sono citati nel testo. In apertura,  Liu Yiyuan, “Vocabolario di Jie Zi”, 2009; seguono, Ke Dou, “La notte di luna”, 2014, e Xuru Kui, “Montagna”, 2014; poi, Liu Shangying, “Il lago Manasarovar”, 2014, e Xu Dongsheng, “Doppio serpente dll’antica Cina”, 2015; quindi, Xiangbin Liang, “Scimmia che guarda la montagna”, 2014, e  Meng Bin, “La famiglia”, a sin, con una “Studentessa”, a dx; inoltre, Li  Xiangyang, “Il volo 3”, 2014, e Xie Heng Oiang, “L’illusione”; 2015; infine, Huang Yong, “L’incubo del sogno”, 2015, sulla parete “Occhi nel cielo”, 2015, di Liu Yiyuan, e Ma Lin, “Voglio parlare”, 2014; infine, Fan Feng,  “Si affacciano sulla città”,a sin., “Cavalcavua”, a dx, 2014;  in chiusura, la presentazione della mostra, con il rappresentante cinese  (al microfono  l’interprete) e  Alessandro Nicosia (dietro). 

Franchi, l’orma del cerchio, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, dal 20 novenbre 2015 al 7 febbraio 2016,  la mostra “L’Orma del Cerchio. Fausto Maria Franchi orafo artista”, espone  i suoi gioielli artistici, vere “sculture per il corpo” , gli argenti  con cui ha realizzato soprattutto vasellame pregiato, e le sculture vere e proprie in cui non ha mancato di cimentarsi. E’ una mostra antologica, le opere coprono un ampio arco temporale,  dall’inizio degli anni ’70 fino al 2015. La mostra è a cura di Mariastella Margozzi, come il Catalogo bilingue Gangemi Editore, curato con Lucia Sabatini Scalmati

Una mostra particolare, con i gioielli realizzati da un orefice che è anche scultore, quindi non sono assimilabili a quelli, ad esempio di Bulgari e neppure di Buccellati, perché le sue sono “sculture per il corpo”, quindi si differenziano nettamente dai preziosi ornamenti che hanno resi celebri i due gioiellieri.

Non solo gioielli, ma anche argenterie e sculture vere e proprie, però dai gioielli si deve partire per conoscere un artista che, a differenza degli scultori in senso stretto, attribuisce al materiale usato un valore primario: non cerca di estrarne la forma che vi vede imprigionata considerandoli un ostacolo da rimuovere, ma al contrario si propone di valorizzarne ulteriormente la nobiltà aggiungendoci la sua arte senza sottrarre nulla della preziosità del materiale, anzi accrescendola.

Il richiamo alla natura  e alla cultura

Un approccio materico, sembrerebbe il suo, anche se utilizzando un materiale nobile e prezioso. Tutt’altro, come sottolinea Mirella Cisotto Nalon nella sua attenta riflessione sul “gioiello come evento plastico”. Perché un evento e non un oggetto di abbigliamento per quanto prestigioso e di valore?  “Ogni opera di Fausto Maria Franchi sembra scaturire dalla relazione tra la sfera della natura e quella della cultura”, relazione che  va analizzata. 

Il richiamo alla natura viene dalle forme che rimandano a quelle primarie, curve e avvolgenti, di origine organica; la cultura è insita nei saperi sedimentati che sono alla base della sua maestria creativa oltre che nei continui riferimenti colti nelle intitolazioni, in particolare delle sculture.

La rotondità delle linee rimanda al barocco, in cui è stato immerso vivendo a Roma dove si è formato frequentando il Museo artistico, ramo oreficeria, con la guida dei professori Orlandini e Gerardi, e ampliando la sua visione con viaggi in diversi paesi europei e negli Stati Uniti. L’oreficeria di Mario Masenza in via del Corso era frequentata da artisti dell’informale, tra cui il grande Capogrossi, si trasferivano nei gioielli le suggestioni delle tendenze più avanzate.  Così nella forma sostanzialmente circolare, ma tendente ad aprirsi, entrano segni e filamenti, trame e intrecci per cui nel momento in cui sembra conchiusa, appare potenzialmente protesa all’infinito.

Natura e cultura, dunque, alla base delle sue forme in un rapporto costante con lo spazio soprattutto nelle sculture, oltre che con la luce, e non solo.  Perché, aggiunge la Cisotto Nalom, “è lecito vedere nel tempo la dimensione a cui esse in definitiva appartengono e nella quale, idealmente, si protende la loro forma”.

Il cerchio nell’arte di Franchi

Detto questo, ulteriori motivazioni di grande interesse sono fornite da Mariastella Margozzi, che chiarisce anche le origini del  titolo dato alla mostra. Abbiamo già parlato delle forme tendenzialmente circolari del richiamo primordiale, ma c’è di più. Il titolo lo ha voluto l’autore per la sua ricerca costante, fin dall’inizio della sua vita artistica, svolta intorno al cerchio, figura geometrica  e naturale generata dal vortice cosmico primordiale generatrice a sua volta delle forme più semplici come di quelle più complesse, in primis degli anelli, dal forte valore simbolico a livello cosmico con le orbite dei pianeti e a livello umano, come segno di decoro ornamentale e anche di valori ideali come il legame sentimentale fino a quello matrimoniale

In passato, in una mostra sempre alla Gnam, quella delle copertine di “Mass Media”, ci siamo appassionati alla genesi e al significato attribuito a un’altra figura geometrica basilare, il quadrato, e ne abbiamo esplorato le molteplici interpretazioni. La Margozzi ci aiuta ora a fare la stessa cosa con il cerchio. 

Oltre ai contenuti primordiali e ideali cui abbiamo accennato, si consideri che fin dall’uomo preistorico la visione della luna ha proiettato l’immagine del cerchio, poi divenuto ruota, la scoperta più rivoluzionaria dopo il fuoco, quindi il cerchio è stata la matrice dei vasi in cui si sono raccolti e custoditi gli elementi essenziali per la vita, dall’acqua agli oli, dalle derrate al grano;. I piatti della vita quotidiana sin dalla preistoria sono circolari, e sono rimasti tali, gli scudi erano circolari e così la campana, che propaga onde sonore circolari come sono circolari i cerchi che si formano quando si getta in acqua un sasso.

In senso figurato circolarità sta per apertura, nell’informazione e nelle relazioni umane in generale. Anche per questo l’attrazione che l’artista ha provato istintivamente per la forma circolare lo ha portato a “superare l’opportunità dell’oggetto e a spaziare nell’universo misterioso e misterico dei segni e dei simboli”.  Ha potuto farlo scegliendo la materia adatta ad esprimere questi contenuti e nobilitare la forma.

I materiali preziosi e i contenuti moderni

Nel suo approccio di orafo scultore non poteva che essere un materiale prezioso, oro e argento; nei contenuti che intendeva dare alla sua opera l’informale e le altre correnti avanguardia che crescevano intorno a lui nell’ambiente artistico romano degli anni ’50 e ’60, erano  la via naturale. E’ riuscito a conciliare e a valorizzare insieme queste due direttrici, apparentemente divergenti perché c’era anche l’arte povera tra le avanguardie mentre la sua era un’arte ricca, che cozzava con le concezioni correnti; tanto che si tendeva a sostituire il gioiello di materiali preziosi con il monile di acciaio, ferro e pietre dure, per rendere democratico l’ornamento mettendolo a disposizione di tutti e non solo del censo privilegiato.

L’artista si è rifiutato di degradare il gioiello a semplice “scultura per il corpo”  di  materiale povero, è stato sempre legato alla sua preziosità e purezza  per arricchirne la nobiltà con il valore aggiunto dell’arte. In lui è il materiale prezioso a suggerire il contenuto dell’opera, non l’inverso come avviene nella scultura.  Masenza, nella cui gioielleria nascevano i lavori di Franchi, riceveva anche l’apporto creativo di artisti come Afro e Mastroianni, Novelli e Consagra della vivace avanguardia romana, in una sinergia vincente tra le idee più avanzate e le realizzazioni più preziose.

I gioielli di Masenza in via del Corso assurgevano a vera arte, tanto che i “gioielli d’artista” furono esposti in un’apposita vetrina  allestita con l’opera e il contributo di Umberto Matroianni nella stessa Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove ora si svolge la mostra dopo che  nel 1967  la direttrice Palma Bucarelli, li presentò nel padiglione italiano dell’Expo d Montreal insieme alle grandi sculture.  Un certo numero furono donati alla Bucarelli dagli autori e seguirono la direttrice al termine della sua attività nella Galleria nel 1975, ma una dozzina circa sono restati nel Museo.

“Questo passato di attenzione istituzionale al ‘gioiello’ d’artista e l’intenzione di rinnovare l’interesse sul genere – afferma la Margozzi – è il motivo che sta alla base della mostra  dedicata oggi a Fausto Maria Franchi, artista nobile come le opere che prendono vita dalle sue mani, dalla sua fantasia, dalla sua cultura, ed esecutore esemplare di oggetti che testimoniano la trasversalità delle forme così come della immutabile identità di gioiello e materia preziosa”.

Non c’è solo l’arte ad aggiungersi alla preziosità della materia,  ci sono le  “tecniche di trasformazione ‘amorevole’ del metallo” che vanno dallo sbalzo al cesello, dal niello alla doratura al mercurio. A queste “egli aggiunge anche la sapienza della smaltatura, altra tecnica antica, che spesso pone a coronamento di quel processo alchemico che è la motivazione prima di ogni sua scelta operativa”. E non è un aspetto secondario, anzi diventa qualificante: “L’alchimia, come necessità di trasformare la materia fino alla sua sublimazione e di renderla unica nella sua forma compiuta è sicuramente la scienza umanistica che più si adatta a descrivere il processo creativo dell’artista orafo”.

La Margozzi precisa: “Fausto Maria Franchi a questo processo di trasformazione aggiunge e ribadisce la necessità del recupero del significato e della simbologia dell’oggetto prezioso, il suo continuare a corrispondere a precise categorie espressive”. Conclude così: “E così il cerchio diventa anello, collana, campana, figura onnicomprensiva di forma e spazio, di materia e idea”.  Anche di luce e di tempo.

E’ proprio il caso di dire che il cerchio si chiude, si può passare a una rapida rassegna delle opere esposte cominciando dai gioielli, nei quali si concretizza quanto osservato fin qui. Ma prima qualche altro dato biografico con le sue benemerenze.

Nel 1964 ottiene il 1° premio al Concorso nazionale d’Oreficeria del Ministero Industria e Commercio, diviene presidente degli Orafi e membro della Presidenza Nazionale dell’Artistico alla Camera di Commercio, nel 1993 promuove, dirigendola fino al 2008, la mostra annuale “Desideri preziosi” indetta dalla Camera di Commercio di Roma al Tempio di Adriano”,  membro permanente della sua Commissione periti ed esperti. Nel 2003 riceve l’onorificenza “Maestro dell’artigianato”,  nel 2011 viene invitato a partecipare all'”Omaggio degli artisti a Benedetto XVI nel 60 esimo di sacerdozio, nel 2012 progetta il concorso internazionale “Gioielloinarte” a scadenza triennale.

Interminabile la serie delle esposizioni  a cui ha partecipato, 110 dal 1964 al 2015, di cui un terzo all’estero,  in vari paesi europei, nell’America del Nord e del Sud, in Giappone.

Dopo questi semplici accenni di un “cursus honorum” prestigioso, la parola alle opere esposte.

I gioielli, le “sculture per il corpo” 

La più recente è “Girotondo”, un bracciale in argento del 2015 con la tecnica delle coppette strozzate e cesellate, e varie da banchetto. Le tecniche da banchetto,  insieme al traforo,  sono anche alla base della realizzazione della serie  “Affinità elettive 2“, del 2014, il titolo si riallaccia al tema culturale, richiama la celebre opera di Goethe: è una parure di anello-collana-bracciale in oro-argento-argento ossidato nero, con un secondo anello e bracciale, a strati sovrapposti con la contrapposizione cromatico del giallo, bianco e nero in uno stile omogeneo dalle linee moderne. Nello stesso anno orecchini di forma diversa, molto frastagliati, come l’anello in argento del 2013 in argento e smalto, e le “Affinità elettive” del 2010, due spille una in oro  e l’altra in argento, e un anello d’argento con rame e acciaio acmonital; nel 2009 troviamo un anello d’oro, stesso titolo.

Gli altri titoli sono fantasiosi, nel 2014 il ciondolo “Strano concetto”, nel 2013 le collane “Stante” e “Dove vai”, gli anelli  “Allegro” e “Mare”, il pendente “Trasgressione” e il ciondolo “Positivo-negativo”, oltre ad oro e argento troviamo rame e corniola, acciaio e legno. Nel 2011 la spilla “Carrara” e nel 2010, oltre alle spille e all’anello delle “Affinità elettive” già citati, “L’ospite”  bracciale in oro con l’aggiunta di diamanti, che troviamo anche nel ciondolo “Ebla” del 2006, negli anelli “Elisabetta” del 2004, e  “Porta dei ricordi” del 2002; di quest’ultimo anno due anelli d’oro in fusione a cera persa, “Inizio”, “Inizio della storia”, e soprattutto “Omaggio a Fontana”, anello d’oro con una fessura centrale in metacrilato verde in omaggio al sigillo inconfondibile dell’artista.

la galleria di gioielli risale agli anni ’80, con la spilla “Moderato“, 1985, e il girocollo”Andante”, 1980,  e agli anni ’70, con gli anelli “Struttura”, 1975, “Scultura”, 1972, anno nel quale realizza anche il girocollo “Gioco antropomorfo”, in fusione  a cera persa con l’aggiunta di smeraldi e diamanti nelle punte frastagliate di una  composizione spettacolare.

Gli argenti e le sculture

Con gli argenti ha modo di esprimersi compiutamente la sua passione per il cerchio trattandosi di articoli di questa forma, ma alle forme arrotondate aggiunge dei terminali molto caratteristici. Lo vediamo nella serie “Pesce rosso”, del 2011, una caffettiera, zuccheriera  e tazzina la cui superficie è in sbalzo e cesello, con smalto a fuoco, Lo stesso nel vaso “Sto-colma“, 2009,e nella brocca “Fontanabianca 2”, 2008, titolo che troviamo anche in una brocca del 2002; sempre del 2008 anche i vasi “Birichinata” e “Sombrero” , del 2007  il vaso  “Gallo” , mentre nel 2004 troviamo la ciotola “Martello matto” e il piatto “La smorfia”, testimonial della mostra, che esprime la centralità del cerchio; mentre la teiera “La via del te”, del 2000, aggiunge alla sfera centrale un viluppo di tentacoli alla Laocoonte. Piatti molto lavorati sempre a sbalzo e cesello negli anni ’90, da “Occhi memori”, 1994, a “Dolci lacrime”, 1992, a  “Gioco primitivo”, 1990.

Orafo scultore in materiali preziosi abbiamo detto essere la sua attività artistica prevalente, ma vediamo esposte anche sculture in bronzo fino  a70 cm di altezza. I riferimenti culturali sono ancora più espliciti, le intitolazioni esprimono in modo diretto i contenuti e motivi ispiratori.

Vale per la serie del 2014, “Studio da Guernica”, 5 piccole sculture che richiamano le forme picassiane, mentre altrettanto evocativa la serie di 5 sculture più grandi  “Una campana per Erasmo da Rotterdam”, del 2009, anche con il cuoio,  entrambe richiamano alla memoria echi lontani. Tra queste due serie le 2 sculture del 2013, “Il trionfo di Adriano”,  che si dispiega anche in orizzontale, con un riferimento al passato altrettanto esplicito; andando più indietro, “Battaglia ungherese”, 1985, in bronzo patinato verde, le 2 in bronzo “Lettura dell’Angelo di S. Andrea della Valle”, 1980,  e le 3 “Forme” del 1977  con cui si conclude l’intera mostra. Con queste forme e rimandi, secondo la  Cinotto Nalon, “il suo scopo non sembra essere quello di recuperare un repertorio di pur seducenti archeologie formali, quanto piuttosto di portare in superficie memorie vive ed operanti”.

Il commento più appropriato a commento delle immagini che abbiamo sommariamente descritto ci è sembrato quello del figlio Enrico, che ricorda come il padre da bambino  gli scrisse queste parole dedicandogli una decorazione pittorica: “Sorridi, sorridi, sorridi sempre perché quando sorridi sei più vicino a me”.  Ecco come Enrico Franchi parla del padre artista: “Un turbine di idee tangibili, volanti, sorridenti, cupe, colorate, musicali, fantasiose; parole che bisogna saper ascoltare; reali e irreali, come il suo essere sempre giocoso, la sua giovinezza nell’anima, i suoi argenti tirati a martello; martello che sembra colpire   caso una lastra, ma con ritmo preciso, meditato, magico”. 

Ebbene, dopo aver visto le opere esposte, nella loro intrigante originalità,  sembra anche a noi di vedere l’artista  nel suo impeto creativo. Alle prese con metalli preziosi per aggiungervi qualcosa di ancora più prezioso, la sua arte scultorea. 

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 8,30-19,30, entrata fino  a 45 minuti prima della chiusura; lunedì chiuso. Ingresso euro 8 (mostra + museo), ridotto 4 euro per i giovani UE 18-25 anni, gratuito per i minori di 18 anni e altre categorie previste. http://www.gnam.beniculturali.it/ Tel. 06.32298221. Catalogo “L’orma del cerchio. Fausto Maria Franchi orafo artista”,  a cura di Mariastella Margozzi e Lucia Sabatini Scalmati,  Gangeni Editore, novembre 2015,pp. 96, bilingue italiano-inglese, formato15 x 21, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per il “quadrato” cfr. il nostro articolo in questo sito “Mass media, 27 artisti sul quadrato alla Gnam”  23 marzo 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Gnam, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura, la vetrina con i gioielli; seguono, “Affinità elettive n. 2”, collana oro-argento-acciio,  2014, e “Ironia della storia”, anello oro, 2002;  poi, “Carrara”, spilla  argento-acciaio, 2011, e “La via del te”, teiera argento, 2000; quindi,  “Fontanabianca”, brocca argento, 2002, a sin., con “La smorfia“, piatto argento, 2004, a dx, e “Sombrero”, vaso argento, 2008; inoltre, “Pesce rosso”, caffettiera argento, 2011, e “Battaglia ungherese”, scltura bronzo, 1985; infine, “Lettura dell’Angelo di S. Andrea della Valle“, scultura bronzo, 1980, e “Il trionfo di Adriano”, scultura bronzo 2013; in chiusura, “Studio di testa”, scultura bronzo, 1980.

Alice, le meraviglie della favola, nella galleria RvB Arts

di Romano Maria Levante

Un’altra “Christmas Collection”, questa volta tematica, è la sorpresa natalizia di Michele von Buren ai visitatori della galleria  RvB Arts, sempre più affezionati alla scuderia di artisti le cui opere su “Alice in Wonderland” sono esposte dal 6 dicembre 2015 al 9 gennaio 2016  nello spazio di Via delle Zoccolette con l’appendice della sede dell’Artigianato Valligiano nell’adiacente Via Giulia.  E’ un caleidoscopio di interpretazioni della celebre favola,  che lascia incantati  grandi e piccoli per la ricchezza figurativa e cromatica delle immagini evocative del mondo fiabesco. Il programma “Accessible Art”  aggiunge così una nuova tessera al mosaico di mostre con le quali cerca di far entrare  l’arte contemporanea nell’ambiente familiare  come complemento pregiato dell’arredo domestico a un costo moderato. Ecco gli 11 artisti espositori, i quali fanno parte della squadra di 20 pittori, 5 scultori e 13 fotografi che fa capo stabilmente alla galleria RvB Arts: Evita Andùjar, Tania Brassesco con Lazlo Passi Norberto, Lorenzo Bruschini e Lucianella Cafagna, Roberto Fantini e Clara Maffei, Maiti e Arianna Matta, Alvaro Petritoli, Giulio Rigoni  e Vera Rossi.

Anche quest’anno, come già avvenuto in passato, per le festività  Michele Von Buren ha regalato ai visitatori della galleria romana RvB Arts di via delle Zoccolette  una splendida mostra natalizia: in precedenza c’è stata la Christmas Collection, ora abbiamo “Alice in Wonderland”, con 4 opere donate dagli artisti messe in palio nell’annessa lotteria a libera contribuzione il cui ricavato è destinato ad AfrikaSi Onlus per l’istruzione dei bimbi della baraccopoli Deap Sea a Nairobi. 

La folla di visitatori presente all’inaugurazione ha dato ragione all’iniziativa della von Buren e  all’impegno degli artisti che hanno esposto le opere con cui interpretano il tema. Molti bambini hanno partecipato alla  festa d’avvio della mostra, allietata anche dai dolci personalizzati sulla figura di Alice preparati con maestria da  Caterina.  Non è mancato il libro di favole, che risale al 1885,  nell’originale inglese, “Alice’s Adventures  in Wonderland”,  tutto è stato curato alla perfezione.

Sono una diecina gli artisti che si sono cimentati nella rievocazione di “Alice nel paese delle meravigliee”, ognuno con la propria  cifra artistica e  forma interpretativa. Alcuni si  sono concentrati sulla figura della protagonista, vista leggiadra e spontanea nei suoi atteggiamenti infantili da Roberto Fantini, tenera e malinconica nelle immagini trasognate di Lucianella
Cafagna,
come una bambola nell’originale forma creativa di Maiti al centro della parete con le sue originali creazioni in filo di ferro, questa volta non in scultura;  il mondo degli animali intorno alla protagonista si trova nelle opere di Lorenzo Bruschini e Andrea Silicati; in altri l’ambiente, con l’atmosfera creata dall’azzurro  misterioso di Arianna Matta, dal verde intrigante  di Alvaro Pietritoli e dalle trasparenze di Vera Rossi; singoli personaggi sono stati evocati da Evita Andùjar e da Giulio Rigoni;fino all’accurata ricostruzione fotografica di una scena della vicenda di Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto, che ci ricorda le scenografie realizzate e fotografate da  David Lachapelle, viste nella recente mostra a Roma.

Ogni opera, come di consueto nelle mostre di RvB Arts, è contrassegnata dal relativo prezzo,   comunque molto contenuto secondo il programma “Accessible Art” che Michele Von Buren persegue da anni nella galleria impegnandosi nel meritorio intento di  rendere le opere d’arte accessibili alla gente comune  sotto l’aspetto economico e come componenti di prestigio dell’arredo domestico: quindi azione di “scouting” nella scelta degli autori, giovani emergenti ma anche artisti affermati, e nella selezione delle opere.  Vengono presentate nell’ambiente familiare creato dall’arredamento della galleria, ben curato per il binomio con l’Artigianato Valligiano della vicina via Giulia, lo spazio espositivo che si aggiunge al principale di via delle Zoccolette.

Non ci soffermiamo sul programma di “Accessible Art” avendone illustrato  ripetutamente obiettivi e modalità nel commentare le mostre organizzate negli ultimi anni da Michele von Buren nella galleria. Ricordiamo solo un elemento che concorre al clima  confidenziale dell’ambiente: la presenza  di opere di artisti che non partecipano alla mostra in atto ma hanno esposto in mostre precedenti, che  fa sentire in famiglia, come se si ritrovassero parenti o amici cui si è affezionati.

Più che interpretare e commentare le opere,  ci limitiamo a darne testimonianza visiva mostrandone alcune che ci hanno colpito maggiormente anche se non è possibile rendere l’atmosfera che tutte insieme creano nell’accogliente spazio espositivo di RvB Arts in via delle Zoccolette che prosegue in via Giulia.Vediamo rappresentata amorevolmente Alice, con ampio spazio anche agli ineffabili personaggi della favola e all’ambiente magico in cui si svolge. Per entrare nel clima e accompagnare la visione delle opere presentate,  rievochiamo per sommi capi la favola di Alice nel paese delle meraviglie.

Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie

Il fortunato capolavoro di Lewis Carrol inizia con una sorta di verifica ex ante – la storia narrata a tre bambine –  ed ecco come si dipanano le avventure,  nella favola nordica non mancano mai momenti di timore, anzi di incubo per l’intento pedagogico di mattere in guardia i piccoli dai pericoli, ma in un contesto quanto mai fantasioso.

La curiosità di Alice, che è quella di tutti i bambini, espone a  rischi inattesi, il suo è la caduta in un pozzo profondo per inseguire un Coniglio bianco, annoiata di stare con la sorella che legge un libro senza figure.  Dopo l’incubo della caduta la sorpresa delle molte porte  e della chiave minuscola con cui apre la serratura di una porticina, ma lei è troppo grande per potervi passare finché non beve il contenuto della bottiglia con scritto “drink me” dopo essersi accertata che non c’è scritta la parola “veleno”, anche qui l’intento pedagogico.  Ma essendo divenuta piccola non può più prendere la chiave rimasta sul tavolinetto troppo alto per lei, e allora l’altra magia, c’è la scatola di pasticcini con scritto “eat me” e ne mangia uno, che la fa crescere in modo che può prendere la chiave.

Però la porticina rimane piccola, è tornata al punto di partenza e non può raggiungere il giardino meraviglioso che si intravede al di là della porta. La delusione la fa piangere e riflettere, cosa è cambiato in lei, è diventata un’altra, ha perso la memoria? Nel mentre si dà la risposta confortante che  è sempre la stessa Alice,  passa il Coniglio bianco e, spaventato per la sua statura,  perde un guanto;  lei se lo infila inavvertitamente e inizia a rimpicciolirsi, se lo toglie al momento giusto, ora è su misura per passare nella porticina, ma la chiave è di nuovo irraggiungibile sopra al tavolino.

Il motivo delle dimensioni abnormi è ricorrente fino alla fine. Per le trasformazioni magiche ci torna in mente il vecchio film del 1940, “Dr. Cyclops”, con i ricercatori miniaturizzati e imprigionati dalla scienziato pazzo, è del regista che qualche hanno prima aveva diretto “King Kong”, dalle dimensioni gigantesche, come il ciclope Polifemo dell’Odissea; nei “Viaggi di Gulliver” si confrontano le dimensioni naturali del viaggiatore con quelle minuscole dei lillipuziani che lo immobilizzano con mille legami, la creazione di Jonathan Swift è del 1726, più di un secolo prima delle Avventure di Alice.

Torniamo alla favola. Non potendo raggiungere la chiave ecco di nuovo lo sconforto, e sorge un altro problema: le lacrime di quando era gigantesca hanno formato un laghetto in cui deve nuotare, lei così rimpicciolita, c’è anche un topo che le nuota vicino, con altri animaletti, lei fa una “gaffe” citando la sua gatta, insieme raggiungono la riva e cercano di asciugarsi. Per questo il Topo racconta una lunga storia e organizza una “corsa elettorale”, o corsa “confusa”, dove si ferma prima chi parte dopo, comunque tutti si asciugano; mentre una nuova “gaffe” di Alice  fa fuggire gli animali spaventati, così lei resta sola.

Passa di nuovo il Coniglio bianco che, scambiandola per la governante, la manda a casa sua a prendere guanti e ventaglio, lei esegue ma di nuovo la curiosità le fa bere il contenuto di una nuova bottiglietta con scritto “drink me”. E cosa avviene? Diventa di nuovo gigantesca e non può uscire dalla casa del Coniglio, si ripete il motivo delle dimensioni abnormi, quello alla base di una vecchia storia  a fumetti tradotta in film, su Mister Ciclops, per non parlare delle Avventure di Gulliver. Il Coniglio cerca di entrare nella propria casa ma lei blocca l’ingresso, la lucertola Bill scende dal  camino e ad Alice questo non piace e la respinge, gli animali radunatisi fuori vogliono appiccare l’incendio.  Non si perde d’animo, mangia un altro pasticcino portentoso e risolve la situazione, la fa rimpicciolire e lei può uscire dalla casa entrando nel bosco;  piccola com’è potrebbe essere mangiata da un cucciolo di cane, enorme rispetto a lei, ma lo distrae con un rametto e per evitare pericoli sale su un fungo con sopra un bruco azzurro che fuma il narghilè. Intrattengono una conversazione  sulle trasformazioni e il cambio di personalità, sui giovani e le mentalità dei vecchi (lei recita la poesia “Sei vecchio, papà Guglielmo”), ma quel che più conta per il prosieguo della storia è la preziosa indicazione del bruco: mangiando due parti diverse del fungo si può crescere e rimpicciolire nel modo voluto.  Alice ci prova e cresce come voleva ma con un collo così lungo che la fa sembrare un serpente e spaventa un piccione che teme di essere ingoiato,  altro problema presto superato.

Tornata alla sua statura normale può attraversare il bosco finché giunge alla casa della Duchessa quando due messaggeri, un pesce e un ranocchio, scambiano gli inviti con la Regina di cuori per una partita di croquet. L’inesauribile fantasia dell’autore, fin qui esercitatasi tra animali e statura, entra nella quotidianità, e la stravolge: la Duchessa culla uno strano neonato che urla e lancia starnuti, la cuoca mescola la zuppa e scaglia lontano pentole e stoviglie, il bimbo in fasce finisce ad Alice perché la duchessa deve andare a giocare, ma si trasforma in maialetto e scappa nel bosco.  Inseguendolo, Alice arriva alla casa della lepre marzolina intenta a prendere il tè con il Cappellaio matto, in compagnia del ghiro:  di nuovo la quotidianità unita alla fantasia  fa cambiare posto e tazza, con un orologio che non segna l’ora e un  indovinello da risolvere.

La fantasia si dispiega ancora quando Alice,  trovata  la via per raggiungere il castello della Regina, vede sei soldati dal corpo fatto di carte da ramino, con semi di picche,  i quali dipingono di rosso le rose che per sbaglio sono state piantate bianche. Del corteo della regina fanno parte le carte da ramino, in cui, nel significato inglese,  le picche sono le spade  e le vanghe dei giardinieri, i quadri sono i cortigiani, i fiori sono i bastoni impugnati dalle guardie, i cuori sono i  principi. 

Iniziano a giocare a croquet, era questo l’invito prima ricordato, ma si tratta di un  gioco impossibile.  La Regina, aggressiva come una furia, invita Alice a giocare a croquet, ma il campo è pieno di buche, si utilizzano le carte come porte, istrici come palle e fenicotteri come mazze. Vi è tanta confusione  con i giocatori che urlano e giocano nel disordine. Le porte, cioè le carte, decapitano chi capita a tiro alla Regina che ne sentenzia la morte. Riappare la Duchessa, uscita dalla prigione in cui la regina l’aveva rinchiusa, e presenta ad Alice il grifone, che con fare autoritario le fa conoscere la “finta tartaruga” la quale le mostra la quadriglia delle aragoste. 

E’ l’ultima eruzione fantasmagorica di sorprese stralunate e surreali, come il botto finale dei fuochi di artificio,  perchè il seguito e la fine tornano alla quotidianità anche se stravolta dalla fantasia con evidenti trasposizioni e allusioni simboliche.  

Viene processato il fante di cuori, per aver rubato le tartine pepate, l’araldo è il Coniglio  bianco dell’inizio della favola,  i giurati gli animali, i testimoni  i personaggi della favola tra cui  Alice. Una prova inconsistente, una lettera non firmata  e una poesia insensata, lo farebbero condannare,  “Sentenza prima, verdetto poi”  ordina la Regina, ma Alice dinanzi a tale decisione errata e ingiusta testimonia a favore smontando le accuse e con il movimento della gonna fa cadere tutti i giurati perché nel frattempo è diventata di nuovo gigantesca, e in modo smisurato, per poi rimetterli in piedi. 

In tal modo non teme più nessuno, “non siete altro che un mazzo di carte” dice rivolgendosi a tutti i personaggi, e soprattutto alle Regina che intanto aveva condannata a morte anche lei per punirla dell’opposizione. Acquisita piena consapevolezza di sé, e si risveglia. Era un sogno, si era addormentata  tra le braccia della sorella. Non le resta che andare verso casa per prendere il tè, senza altre sorprese, il viaggio avventuroso è terminato. In fondo, è la favola che racconterà ai propri figli.

I significati delle avventure di Alice

L’opera ha avuto un’enorme fortuna, sono innumerevoli le traduzioni in tutte le lingue e le trasposizioni in tutti i mezzi espressivi e in tutte le forme di spettacolo. Nel suo testo ci sono anche giochi di parole e giochi matematici, nonché messaggi subliminali e significati profondi.

Vi si può vedere riflesso il processo di formazione e di crescita nel quale le esperienze precedenti vengono superate e vanno in crisi tante certezze, compreso il concetto di normalità. Il viaggio di Alice è l’emancipazione in cui vi sono dubbi e timori, c’è una parte dell’essere che si oppone, ed è rappresentata dai personaggi che ostacolano la bambina nella sua avventura  alla base della quale c’è la ricerca della propria vera identità. Per questo viene dato rilievo alla curiosità che è spirito di ricerca, ansia di conoscere gli altri e se stessi, che fa aprire tutte le porte, anche quelle apparentemente inaccessibili, perché fa crescere con il cibo della conoscenza,  quei pasticcini della favola che alla mostra erano presenti come se potessero far rivivere veramente la favola di Alice. Anche l’incubo della caduta nel pozzo e il seguito movimentato, pur con la sua valenza di ammonimento alla prudenza nel muoversi e  nel parlare,  è un invito ad abbandonarsi alla fantasia, ci saranno sorprese, ma benefiche dopo il primo impatto e i conseguenti problemi  trovano subito le soluzioni.

Del resto, il giardino meraviglioso è nei desideri di tutti ed è bravo chi come Alice riesce a trovare le chiavi giuste per aprire tutte le porte adeguandosi con flessibilità alle situazioni senza mai perdere la propria identità e dirittura. Le dimensioni della statura  sono allegoriche, oltre ai significati personali stanno ad indicare che nulla è immutabile e nulla è insolubile,  anche se nella favola le soluzioni passano per la pozione e il pasticcino miracolosi, il guanto e il fungo portentosi.  

Non c’è solo esaltazione dello spirito di ricerca, anche crisi di identità che porta Alice a riflettere su sé ed il mondo; non tutto è liliale, anzi c’è aggressività e incubo, del resto la vita è anche questo. Vanno accettati i cambiamenti, da prendere come punti di forza per superare le proprie debolezze che vengono fuori nei momenti critici, sono le diverse stature, ma devono restare ferme le intenzioni positive. In questo modo si possono controllare le proprie emozioni, e non arrendersi dinanzi a situazioni apparentemente senza via d’uscita, né abbandonarsi allo sterile immobilismo.

Ci sono anche altri messaggi, che restano nella mente e nella memoria, come resta nella bocca il sapore dei pasticcini di Caterina, li abbiamo gustati senza temere le fantastiche metamorfosi nella statura che provocano nella storia di Alice.

Non fosse altro che per aver richiamato all’attenzione questa storia fantasiosa e insieme istruttiva l’iniziativa di Michele von Buren ci appare altamente meritoria, a parte l’altrettanto meritoria finalità benefica. Tanto più che è collegata alla trasposizione artistica che consente ai visitatori interessati – oltre ai quattro fortunati vincitori della lotteria – di accogliere nella propria casa, nel quadro del programma”Accessible Art”, le opere prescelte così da rivivere con i loro  familiari il viaggio fantastico di Alice che ha incantato generazioni su generazioni per più di un secolo.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 13 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Per la citazioni del testo cfr., in questo sito, il nostro articolo sulla  mostra di  David Lachapelle 12 luglio 2015.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, e in particolare Michele von Buren, con gli artisti titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Nelle due immagini iniziali e nelle due finali Alice vista da Roberto Fantini e da Lucianella Cafagna, tra queste quattro immagini, la favola nelle opere di Lorenzo Bruschini e Arianna Matta,  Evita Andùjar e Giulio Rigoni,  Tania Brassesco e Lazlo Passi Norberto.  

Giubilei nei secoli, tra Mappe e Medaglie, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, Ala  Brasini, lato Fori Imperiali,dal 4 dicembre 2015 al 17 gennaio 2016  la mostra “Roma tra Mappe e Medaglie, Memorie degli Anni Santi”  presenta   mappe urbane, coni per medaglie e monete che documentano l’evento giubilare  e la sua incidenza  sull’assetto cittadino nei  secoli, per celebrare all’insegna della memoria storica e religiosa il Giubileo della Misericordia  voluto da Papa Francesco.   Con il patrocinio del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione  e dell’Opera Romana Pellegrinaggi,  è stato promosso dall’Agenzia delle Entrate e dall’Istituto Poligrafico e  Zecca dello Stato, nonché dal Consiglio nazionale geometri e Geometri laureati e da “Modus”, in collaborazione con la Regione Lazio e con  enti e  istituzioni, tra i quali citiamo l’Istituto Luce e la Rai. Realizzata da Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, la mostra è a cura di Silvana Balbi de Caro, che ha curato anche il Catalogo, e di Flavio Celestino Ferrante, autori dei testi in catalogo, insieme ad Andre Cantile e Simone Boccardi.  

Inconsueta e sorprendente questa mostra molto particolare, patrocinata da un Consiglio Pontificio e dall’Opera pellegrinaggi e promossa dall’Agenzia delle Entrate e  dall’Ordine dei Geometri,  Geometri, protagonisti inattesi di un’esposizione in cui spicca l’originalità e l’accuratezza.

Il miracolo, se così  lo possiamo chiamare per restare in tema, lo ha compiuto il Giubileo della Misericordia di Papa Francesco, in omaggio al quale è venuta l’idea di una testimonianza inconsueta dei precedenti Giubilei,  ripercorrendo la storia dei Papi  e del loro impegno giubilare unitamente alla storia urbanistica di Roma che ne è stata investita. Dall’idea brillante all’iniziativa coraggiosa:  non era scontata la resa spettacolare di una documentazione sulle trasformazioni che hanno accompagnato i 700 anni di eventi giubilari tradotta in testimonianze tangibili.

Quali testimonianze? viene di chiedersi a questo punto: sono di due tipi, le “Mappe e Medaglie” cui si intitola la mostra, le prime fanno mostra di sé sulle pareti, le seconde  in una serie di vetrinette che consentono di visionarle in successione cronologica in modo da apprezzarne l’evoluzione.

La sede non poteva che essere la sala “Giubileo” del Vittoriano che, come ricorda Alessandro Nicosia – il presidente di “Comunicare Organizzando” che gestisce lo spazio del Complesso monumentale con un’incessante attività espositiva animata da forti motivazioni artistiche e celebrative – ospitò nel 2000 uno spazio informativo dedicato al Giubileo di Papa Giovanni Paolo II che diede poi il nome definitivo alla sala. Questa volta, precisa Nicosia,  l’intento è di documentare “quanto i Giubilei nel corso dei secoli abbiano contribuito ai mutamenti e all’evoluzione della Città e quanto siano stati determinanti per l’assetto contemporaneo urbanistico e architettonico”. 

Viene  ripercorre la storia  di ieri della Capitale della cristianità per capire meglio la realtà di oggi.

Sono recenti le discussioni inerenti la mobilitazione delle autorità cittadine con il contributo del governo nazionale al fine di porre  Roma nelle migliori condizioni per accogliere i nuovi flussi di pellegrini, e rimediare a insufficienze e arretratezze a livello di servizi e decoro cittadino. Figurarsi cosa è avvenuto nei secoli per questi appuntamenti epocali,  quando i Pontefici che ne erano i protagonisti dominavano la città Eterna  e potevano compiere le trasformazioni per i Giubilei!

Tutto questo è sintetizzato visivamente nelle mappe urbanistiche con l’eleganza cartografica di livello calligrafico,  e nelle figure riprodotte sulle medaglie giubilari, volte a sottolineare  l’elemento dominante legato al Giubileo: le Porte sante innanzitutto, con scene delle loro aperture; ma anche le Basiliche  e le Piazze, i palazzi e, nturalmente, i Pontefici ripresi all’opera nei Giubilei o celebrati nelle medaglie.

La mostra ne è lo specchio fedele, nella sua estrema capacità di sintesi cui si accompagna una forza evocativa che va molto al di là delle evidenze esposte, dando luogo a una “total immersion” storica e religiosa insieme; nelle presentazioni dei titolari degli organismi promotori sono evidenti i due approcci,  scaro e profano, nella compresenza connaturata al ruolo e alla natura della Città eterna.

Il loro impegno non si è esaurito nella selezione e presentazione del materiale di documentazione, ma ha portato ad un’approfondita ricerca di cui viene dato conto nel prezioso catalogo.  Così è stata documentata la “La cartografia di Roma: dalle mappe urbane al disegno del mondo” da Andrea Cantile  e “La rappresentazione cartografica della città dei Giubilei” da Francesco Celestino Ferrante; è stata ricostruita “La storia metallica dei Romani Pontefici” da Silvana Balbi De Caro; inoltre è stato compilato un  “Atlante” su “Apertura e chiusura della Porta Santa” e “La grandi opere per i Giubilei’, “L’accoglienza ai pellegrini” e  “Le monete dei papi” da Simone Boccardi.

Sono analisi accurate e precisa di cui daremo soltanto qualche piccolo scampolo nel raccontare rapidamente le impressioni e le emozioni provate nel breve ma sostanzioso percorso espositivo.

Le mappe cartografiche di Roma nei sei secoli dei Giubilei

Vengono riportate le parole di mons. Frutaz, che dopo aver individuato oltre 500° piante di Roma, nel 1962  affermò: “Nessuna città può vantare di possedere una serie così ricca di fonti cartografiche antiche e di descrizioni moderne come Roma”,  a partire dalla monumentale “Forma Urbis Roma” realizzata dall’imperatore  Settimio Severo tra il 203 e il 2011,  nel Templum Pacis. .

Si può ben comprendere la difficoltà della selezione, nella quale sono state prescelte cartografie di insigni autori, vere e proprie realizzazioni artistiche che partono dal secolo XVI, con i primi Giubilei.  Già nel XV sec., Leon Battista Alberti con la sua “Descriptio Urbis Romae” aveva innovato radicalmente  in questo campo introducendo la forma  geometrica obiettiva al posto della precedente diagrammatica soggettiva, servendosi anche di tabelle numeriche e coordinate polari, senza giungere ancora alla rappresentazione planimetrica dettagliata di cui alla “Lettera a Leone X”.

Vediamo esposta la “Nova Urbis Romae Descriptio”, litografia in 4 fogli di E. Du Perac-A. Lafréry,  dedicata ad “Enrico III, Cristianissimo re di Gallia e di Polonia”,  siamo nel 1577, si distinguono chiaramente nella grafica minuta, il Vaticano e Città Sant’Angelo, San Giovanni in Laterano e il Colosseo.  Gli stessi autori  due anni prima avevano realizzato l’incisione su rame “Le sette chiese di Roma”, 1575, una suggestiva  immagine panoramica e non solo planimetrica, in cui oltre alle basiliche monumentali  sono visualizzate le colonne di pellegrini e i fedeli in ginocchio

Un secolo dopo la “Nuova pianta et alzata della città di Roma”, incisione all’acquaforte di  G. B. Falda, è il 1676,  la visione è “a volo d’uccello” con precisione  dei dettagli, l’intento più che documentario è celebrativo delle trasformazioni urbanistiche e dei pregi monumentali. Ecco bene in vista il colonnato di Piazza San Pietro, la basilica con la cupola michelangiolesca e i blocchi urbani tutt’intorno; c’è anche il particolare delle nove Basiliche in vista prospettica,  riprodotte al di fuori della planimetria  urbana ed espressamente citate nell’iscrizione:  “Con l’aggiunta delle nove fabriche di chiese et altri edifici fatti sin al’anno presente MDCCLVI”.

Dopo tre quarti di secolo abbiamo la “Nuova Topografia di Roma del 1748”,  acquaforte e bulino-incisione  di G. B. Nolli,  nota anche come “Pianta grande di Roma”, dedicata a Benedetto XIV, realizzata con la nuova tecnica del “rilevamento diretto con catena agrimensoria, canna e tavoletta pretoriana”, estesa anche al contado,  con maggiore precisione planimetrica  e ricchezza di dettagli nonché figure simboliche di Roma,  del Tevere e della Chiesa, di sfondo il Campidoglio.

Ancora un secolo ed ecco la “Pianta dell’antica città di Roma con i suoi boschi sacri ed i principali edifici restituiti nella loro integrità”, di G. B. Agretti, è il 1840, con i 44 boschi sacri, i maggiori monumenti, e con i rovesci delle medaglie aventi il rilievo dei maggiori palazzi e della Basilica di  San Pietro.  In tal modo, come sottolinea Andrea Cantile, la mappa prefigura in un certo senso l’impostazione della mostra che alle planimetrie unisce le medaglie  in un unico contesto.

Siamo agli inizi del ‘900, di Reina, Barbieri e Cassinis “Media pars Urbis – Rilievo planimetrico ed altimetrico”, 1903-10, fotozincografia in cromo, 14 fogli  curati dall’Istituto geografico militare per l’Accademia dei Lincei, definito da Flavio Celestino Ferrante “mirabile esempio di precisione geometrica”  che iniziò con la mappa del Palatino cui seguirono le zone monumentali adiacenti.

E’ la vigilia del terzo millennio,  il cartografo Tommasi Ferroni con gli incisori Di Sciullo e Greco realizza l’incisione su rame ad acquaforte e bulino e stampa cartografica “Forma Urbis Romae. Pianta monumentale di Roma per il grande Giubileo del 2000”  la tecnica calcografica è antica e il linguaggio tradizionale, ma la tecnica è moderna, la città entro le mura è stata ripresa sempre “a volo d’uccello”, ma  con rilevamento aerofotogrammetrico, si distinguono chiaramente gli insediamenti recenti, sia religiosi, come la Sinagoga e la Moschea, sia civili come l’Aeroporto di Fiumicino e lo Stadio Olimpico, di San Pietro abbiamo un suggestivo ingrandimento “anticato”.

La mappa più recente esposta è l’“Ortofoto digitale a colori ad alta risoluzione della città di Roma”, una “ripresa aerofotogrammetria e ortorettificazione”  effettuata nel 2014 dal Consorzio Rilevamento Agricoltura  che occupa la parete all’ingresso alla mostra. Viene utilizzata per i controlli in agricoltura e l’Agenzia delle Entrate se ne avvale per individuare i fabbricati sconosciuti al catasto; siamo fuori dall’ottica giubilare ma, lo abbiamo detto, il sacro è unito al profano e non c’è nulla di più profano di controlli antievasione fiscale, anche se certamente  sono sacrosanti.

Nei coni per medaglie del Museo della Zecca la storia metallica dei Pontefici

Mentre nelle pareti spiccano le planimetrie che abbiamo sommariamente illustrato, le vetrinette espongono in successione i coni utilizzati nei secoli per le monete celebrative dei Giubilei. C’è una storia intrigante dietro questa preziosa raccolta del Museo della Zecca il cui primo nucleo si formò  nel 1796  con l’acquisto dai possessori Hamerari, da parte della Camera Apostolica,  della serie di coni realizzata fino ad allora con l’intento di realizzare una “storia metallica” dei Pontefici attraverso la serie di medaglie da coniare e vendere ad amatori e collezionisti per trarne utili. 

Il progetto non fu realizzato subito per le difficoltà insorte nel periodo napoleonico, finché intorno al 1920 il direttore della Zecca  di Roma Francesco Mazio sollecitò la creazione di un Gabinetto delle Medaglie a questo fine, e riuscì ad integrare la raccolta con  l’acquisto nel 1823 della collezione di altri 200 coni della Biblioteca Barberini operata dal proprio figlio  Giuseppe.  Nel 1824 le prima serie di medaglie, ciascuna di 572 pezzi,venivano immesse sul mercato accompagnate  da un Catalogo di 162 pagine con l’introduzione del direttore Francesco Mazio; era papa Leone XII succeduto l’anno prima a Pio VII che aveva favorito la realizzazione del progetto.

Dopo 25 anni, nel 1849 Giuseppe Mazio,  divenuto Direttore delle Zecche pontificie, nella relazione per il pro-ministro delle Finanze  poteva affermare che il Gabinetto numismatico era molto attivo e la vendita delle medaglie “era divenuta gradatamente un oggetto di grande entrata”.

Silvana Barbi De Caro ricorda i problemi generati dalle lacune nella successione di monete, spesso colmate in modi che rendevano sospettosi gli antiquari, già perplessi per i materiali diversi dagli originali utilizzati per i nuovo coni. Ma sottolinea giustamente quello che spesso  sfuggiva agli antiquari  alla ricerca del pezzo unico rigorosamente originale: “La valenza storica di un documento che, con le sue 572 medaglie iniziali e con i suoi successivi aggiornamenti fino al 1870, rappresentava una sintesi  straordinaria di cinquecento anni di vita della Chiesa di Roma”.

Questa sintesi straordinaria è sotto i nostri occhi, nella successione cronologica delle vetrinette che contengono non le medaglie ma proprio i coni originari. Vediamo così, da un Giubileo all’altro,  le raffigurazioni delle Porte Sante  chiuse e aperte, e  anche le scene del rito dell’apertura ,  “iusti intrabunt per eam”, con i Pontefici,  lo stuolo di dignitari e di fedeli inginocchiati dinanzi alle immagini sacre. L’apertura  avveniva con l’abbattimento del muro di mattoni, considerati  preziose reliquie dai fedeli  che si accalcavano per prenderli fino  a creare problemi di ordine pubblico.

E’ una galleria di grande significato storico e  valore religioso che riveste, con  la testimonianza tangibile,  per così dire, di dodici Anni Santi, da quello di Sisto V nel 1450, ai tre del XVI secolo, di Sisto IV, Alessandro VI, Giulio III,  ai quattro del XVII secolo, di Urbano VIII,  Innocenzo XII, e due volte Clemente X, ai tre del XVIII secolo, di Benedetto XIII, Benedetto XIV e Pio VI, fino all’Anno Santo del 1900 di Leone XIII.

Ma la “storia metallica” non si ferma qui, dalle Porte Sante e le scene liturgiche alle medaglie con le grandi opere per i Giubilei con le quali, osserva la Barbi de Caro, “la Roma dei papi cambia volto”.

La carrellata inizia con la medaglia di Innocenzo XII raffigurante San Pietro mentre guarda dall’alto Roma sullo sfondo con bene in vista la  Basilica a lui dedicata.  Una veduta di Roma quasi come una “guida tascabile” per i pellegrini è nella medaglia di Paolo III nella prima metà del XVI secolo., mentre di Sisto V vediamo una medaglia con la Vergine e quattro strade verso le basiliche. Un  secolo prima,  una medaglia di Callisto III con le mura di Roma fortificate

Del XVII secolo vediamo medaglie di Paolo V con la nuova porta vaticana “dell’Orologio” e   di  Alessandro VII  con Piazza del Popolo all’ingresso della regina Cristina di Svezia;  di Clemente IX con Ponte Sant’Angelo, in vista  le statue dei Santi del Bernini,  e  di Innocenzo X con la Fontana dei Quattro Fiumi, sempre del Bernini.

Prosegue la “storia metallica” attraverso medaglie con l’effigie dei Papi  sul recto e quella  di luoghi e monumenti sul verso, vediamo i busti di Pio IV con la chiesa di Santa Caterina de’ Funari e di  Innocenzo X con la chiesa di Sant’Agnese;  di Alessandro VI con la chiesa di Santa Maria della Pace di Pietro da Cortona, e  di Giulio II con Via Giulia;  di Innocenzo XII con il Palazzo della Dogana di Terra e  di Clemente X con lo scorcio di Palazzo Altieri;  di Clemente XI con la basilica di san Clemente e di Pio IX con la basilica di San Lorenzo fuori le mura. 

E poi i rovesci realizzati con i coni  raffiguranti le basiliche,   Santa Maria Maggiore nella medaglia di Leone XIII,  San Pietro in quella di Pio X, San Paolo nella medaglia di Pio IX, San Giovanni in Laterano in quella di Leone XIII.

Da ultimo le medaglie che raffigurano  le provvidenze predisposte per l’accoglienza dei pellegrini negli Anni Santi: con Urbano VIII il Palazzo dell’Annona e con Clemente XI i Granai di Termini; con Innocenzo XII e Clemente XI l’ospizio di San Michele a Ripa e l’Aula Clementina per il carcere minorile; l’Ospedale Santo Spirito con Alessandro VII, Leone XII,  Pio IX, e il San Gallicano con Benedetto XIII; l’ospedale San Giacomo degli incurabili  con Gregorio XVI.

L’attualità del Giubileo della Misericordia

Un panorama vasto ed articolato che dalla “storia metallica” ci riporta all’attualità del Giubileo della Misericordia che ha costituito l’occasione per questa inusitata rassegna retrospettiva.

Mons. Libero Andreatta, vis presidente e Amministratore Delegato dell’Opera Romana Pellegrinaggi,  nel presentare la mostra sottolinea l’unicità  del  presente Giubileo, “straordinario  perché indetto per richiamare la Chiesa alla sua missione prioritaria di essere esempio e testimone della Misericordia del Padre”.   E’ questo “un sentimento da vivere per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre”, e se verrà tradotto in azioni concrete “riuscirà a travolgere , come lava incandescente, la percezione che ogni uomo ha dell’altro da sé”.

Il prelato  concludere così: “Il Giubileo che ci apprestiamo a vivere, diversamente da quelli precedentemente indetti e magistralmente raccontati da questa mostra, forse non trasformerà il tessuto urbano di questa eterna città, ma darà muova forma a quella pregiata stoffa che è l’umanità. In ciò risiede la forza pervasiva che sarà capace di segnare la nostra storia”. 

Nell’Enciclica “Evangelii gaudiun” si legge: “La Chiesa vive un desiderio inesauribile di offrire Misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’inesauribile Misericordia  del Padre e la sua forza diffusiva”. Il Giubileo straordinario è l’occasione di metterlo in pratica per contrastare la “globalizzazione dell’indifferenza” in un mondo sempre più chiuso, tormentato e smarrito.

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresa la domenica, ore 7,30-19,30, entrata fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, 06.69923801; fax 06.69200634.. www.comunicareorganizzando.it. Catalogo “Roma tra Mappe e Medaglie. Memorie degli Anni Santi”, a cura di Silvana Balbi de Caro, novembre 2015, pp. 128, formato 21 x 29,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni  del testo. 

Foto

Le immagini sono state ripreseda Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, una veduta d’insieme delle vetrine con i coni per le medaglie; seguono,  le prime tre vetrine con i coni per le medaglie, e di E. Du Pétrac-A Lafréry, “Le sette chiese di Roma”, 1975, incisione su rame; poi, la vetrina con i coni per le medaglie sulle Basiliche papali, e la speciale Mappa all’ingresso della mostra; quindi, la vetrina con i coni per le medaglie sulle chiese di Roma, e  una serie di immagini e Mappe di Roma; inoltre, la vetrina con i coni per le medaglie sui palazzi del potere, e una vetrina con le monete dell”800 “; in chiusura, una veduta finale delle vetrine con i coni per le medaglie

Bagliori di Hanji, capolavori di carta tra le luci, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano dal 22 novembre 2015 al 17 gennaio 2016, lato Ara Coeli,  la mostra “Bagliori di Hanji – installazioni luminose e altri capolavori in carta tradizionale coreana Hanji”.  E’promossa dall’Ambasciata della Repubblica della Corea del Sud a Roma, con il patrocinio della Provincia coreana di Gyeonggi, il contributo della Yewon Arts University, dove si tengono corsi sulla fabbricazione a mano della carta, e del Laboratorio artigiano Jangjibang.  Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con un allestimento nella Sala Zanardelli. All’inaugurazione una performance  di musica tradizionale coreana con strumenti caratteristici. Dopo la sfilata di 20 paesi per “Roma verso Expo” con questa mostra ci viene presentato un altro paese, la Corea del Sud, attraverso la sua carta tradizionale che diventa arte.   

Confessiamo di aver letto il titolo in un primo momento come “bagliori di Hanoi”,  e di essere stati sopraffatti da altre immagini impresse nella memoria della nostra generazione:  quelle della sanguinosa guerra tra le due Coree con l’intervento degli Stati Uniti, i Vietcong contro i Vietminh, oltre il 38° parallelo, il sentiero di Ho Chi Min, il  comandante il cui nome è stato dato a Saigon, conquistata dopo  un conflitto epocale.

Nulla di tutto ciò nella mostra il cui titolo è assonante, peraltro si tratta della Corea del Sud,  si riferisce alla pregiata carta “Hanaj”, che evoca proprio l’opposto:  la delicatezza invece della violenza, l’eleganza invece della brutalità, la cultura invece delle armi, la pace invece della guerra.

E non possiamo negare di essere rimasti colpiti da una immagine della Corea così diversa da quella sedimentata nella memoria, diffusa anche da film crudi e coinvolgenti come “Il cacciatore”. La violenza inumana contro i prigionieri di guerra e la drammatica fine di Saigon sono impressi  nella memoria  e nell’inconscio dello spettatore e questa mostra ha il merito di diffondere un’altra immagine, che è quella della tradizione coreana, laboriosa e pacifica, senza i bagliori di guerra, anche se l’atomica della Corea del Nord, fino alla bomba all’idrogeno alimenta nuovi timori.

Con questo spirito partecipiamo alla serata coreana nella quale l’inaugurazione della mostra viene accompagnata da un programma musicale di melodie tradizionali e danza che fa entrare nell’atmosfera. Con il “Sanjo”  la combinazione di melodia e ritmo avviene nelle modulazioni  dettate dal maestro Han Gapduk che ne rappresentano la reinterpretazione creativa .

La performance di musiche tradizionali coreane

Il  “Cheon-nyun Manse”  viene presentato come “tradizionalmente eseguito dagli Aristocratici della dinastia Chosun sperando nella longevità di centinaia e migliaia di anni”, una speranza che accomuna qualsiasi civiltà  nello sguardo verso il futuro.

Dal  suono degli aristocratici alle tre canzoni popolari, Jindo Arirang, SeonjjuPulyi e Namwon Sanseong che esprimono  sentimenti nei quali si riflettono le emozioni della gente comune.

Le modulazioni e i suoni sono diversi da quelli che siamo soliti ascoltare, perché vengono da strumenti speciali portati dalla tradizione.

C’è lo strumento a corda ritenuto il più adatto a rendere i costumi tradizionali coreani,  inusuale nell’altezza dei  ponti che reggono le corde e nella forma del peltro, si tratta del  “Geomungo”; a corda anche l’Haegeum, utilizzato per i riti regali ancestrali, con due sole corde ha una vasta gamma di tonalità, dal malinconico e triste all’armonioso e  allegro.

A fiato il. Dageum, un flauto traverso di bambù marini dell’Est, che ha un tono unico chiaro e un timbro dinamico, la leggenda vuole che al suono si ritirasse il nemico e si arrestassero le calamità.

Completa l’orchestra il tamburo, lo Janggo, a forma di clessidra, il più utilizzato per la musica tradizionale con la caratteristica che i due lati danno suoni diversi nella tonalità e nel timbro; la raffinatezza orientale li fa suonare insieme per riprodurre l’armonia tra l’uomo e la donna.

Nella sala del Vittoriano sono risuonate queste melodie preparando a  un’esposizione molto particolare, anche rispetto alle tante mostre etniche viste nel  programma  “Roma verso Expo”.

Le opere con la carta Hanji nel corridoio di luci

Protagonista assoluta è la carta coreana Hanji, fabbricata a  mano secondo i dettami di una tradizione millenaria, lavorando la corteccia del dak, detto il “gelso della carta”; una carta morbida e resistente, malleabile e permeabile, igroscopica e resistente alle tarme.

Le sue caratteristiche  la rendono molto adatta ai delicati lavori di restauro di antichi testi, ai quali era destinata nell’antichità per lavori riservati alla  classe nobile e ai monaci dei templi buddisti.  Gli scarti di carta non venivano dispersi essendo materiale pregiato,  le strisce erano utilizzate per i manufatti definiti Jiseung, dal metodo di lavoro considerato anche una disciplina mentale perché richiedeva concentrazione per un periodo prolungato.. Con l’estensione dell’impiego alla gente comune e i procedimenti di laccatura che rinforzavano  la carta furono realizzati oggetti di uso quotidiano: oggetti e piccoli manufatti artigianali, articoli di abbigliamento ed elementi di arredo,.

Nel lungo salone del primo livello vediamo  oggetti molto particolari  al centro,  mentre nelle pareti ci sono le carte finemente elaborate  tra installazioni luminose che creano un corridoio di luci. La formula è “convergenza e coesistenza”, carta tradizionale in forma contemporanea.

Gli oggetti rappresentano soprattutto cavalli per lo più bianchi di diverse dimensioni e in varie pose, bambole di cui è autrice Ryu Kwi Hwa. La  “parete artistica”  è formata da elaborazioni geometriche ispirate a motivi tradizionali e a decorazioni moderne sulla carta Hanij,  intervallate dalle colonne di luce, l’artista è Cha Jong Son, che intende  trasmettere il bisogno di comunicazione tra la natura e l’essere umano, per questo ha dato alla parete-installazione il titolo “riposo”.  

Così  anche la  serie di piccole sculture dalla superficie dorata è  all’insegna della “convivenza-unità”, sono dell’artista coreano tradizionale  Lee Choul Gyu il quale afferma: “Nelle mie opere risulta evidente che la scelta dell’oro come materia prima è principalmente dovuta  alla capacità di tale materiale di conferire un senso di luminosità che simboleggia la relazione di ‘coesistenza’ e ‘coabitazione’ tra l’artista  e la gente comune, i soggetti e gli oggetti, l’uomo e la natura”.  Infatti nelle sue opere si trovano esseri umani e animali, fiori e uccelli, le montagne e il sole.  

In fondo al salone l’area degli Hanaji-soban, recipienti circolari con disegni geometrici sul coperchio che sono considerati tavolini portatili da pranzo simili ai vassoi. E’ una tradizione di 5000 anni, sono utilizzati per ricevere ospiti importanti come manifestazione della  posizione sociale.

Dagli oggetti di uso comune al clou della dimostrazione visiva

Al  livello superiore del percorso espositivo colpisce subito la lunga tavolata coperta di sacchetti sospesi anche in alto, una sorta di installazione virtuale molto spettacolare.

Nelle vetrine sono esposti sciarpe e casacche traforate,  otri e vassoi, mentre a terra vediamo deipezzi di  mobilio realizzati con strati sovrapposti di carta, anche dieci, e cerniere di ferro,  ornati da linee tradizionali  che riportano alla storia del paese: in particolare due cassettiere, a due e tre  cassetti, decorate con motivi di rami e piante rampicanti, con sportelli a cerniera, e una cassapanca rossa: sono indicati i nomi delle artiste artigiane, Kim Mi-jin, e Song Mi Ryong.

La mostra non finisce nel lungo corridoio del livello superiore, che da un lato termina con una sorta di installazione luminosa. Perché dall’altro lato si intravvede un telaio in legno nel quale un artigiano coreano è impegnato nel produrre carta Hanaji, processo spiegato nel pannello illustrativo ma che  abbiamo il privilegio di vedere messo in atto dal figlio d’arte di un protagonista.

Si tratta di Jang Seong, il cui padre lasciò la terra natale per Gapyong, nel Gyeoggi , ideale per coltivare l’albero da cui si trae la materia prima, dove aprì un laboratorio chiamato Jangibang, nel quale produceva  carta utilizzata inizialmente per riparare antichi libri, poi per realizzare oggetti di uso comune nell’estensione dell’impiego  cui abbiamo già accennato.

Lo vediamo compiere sotto i nostri occhi gesti antichi di una tradizione millenaria sul telaio d’epoca senza supporti elettrici o ergonomici di alcun tipo; la carta Hanaji si ottiene partendo da una soluzione alcalina stabilizzata per alcune ore, passando attraverso il coagulo cellulosico cui segue la compressione in strati fino alla distesa su un piano ligneo e l’essiccazione finale.

E’  una bella dimostrazione dell’antica produzione di questa carta speciale che mantiene ancora oggi un proprio spazio come corollario di un’altrettanto bella esposizione dei prodotti che si ottengono, dalle fini decorazioni, ai recipienti e sacchetti, fino ai sorprendenti pezzi di mobilio. La Cina è vicina, si diceva una volta;  oggi, al Vittoriano, è la Corea ad essere vicina: non le ombre inquietanti dell’atomica della Corea del nord,  ma le luci e i decori delicati della carta della Corea del sud.

Info

Complesso del Vittoriano, sala Zanardelli, piazza Ara Coeli.  Tutti i giorni apertura ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 18,30, da venerdì a domenica ore 19,30, entrata fino  a 45 minuti dalla chiusra. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it   Per le mostre citate di presentazioni dei 20 paesi nel programma “Roma verso Expo”  cfr., in questo sito,  i nostri articoli: nel 2015, 16  ottobre, 22 settembre, 3 e 7 luglio, 28 aprile, 25 marzo, 7 e 22 febbraio, 14 gennaio;  2014, 9 dicembre e 8 novembre.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il laboratorio Jangjibang e  Jang Seong che ha accettato di farsi ritrarre.  In apertura, di  Ryu Kwi Hwa, cavallini neri di carta hanji; seguono, la prima galleria con al centro le bambole e i cavallini di Ryu Kwi Hwa incarta hanji, e un particolare della “parete artistica”  di Cha Jong Son in carta hanji; poi, Lee Choul Gyw, statuette dorate in carta hanji, e “Hanaji-soban”,  vassoi tradizionaliin carta hanji; quindi, la galleria  al piano superiore, con i caratteristici sacchetti in carta hanji, e, di Kim Mi-jin e Song Mi Ryong, due cassettiere a 2 e 3 cassetti in carta hanji a più strati; infine, Jang Seong al telaio mentre mostra come nasce la carta hanji; in chiusura, la galleria  iniziale con le “colonne luminose”  nelle “pareti artistiche” con i decori in carta hanji.