Impressionisti, “Téte a Téte”, ritratti dipinti e scolpiti, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, dal 15 ottobre 2015 al 21 febbraio 2016,  la mostra “Impressionisti dal Musée d’Orsay. Téte a Tète”, espone quasi 70 opere del Musée d’Orsay e de l’Orangerie,   51 dipinti e 16 sculture collocati in 5 sezioni tematiche: “Un nuovo ritratto d’artista” e “L’intimità”, “Ritrarre l’infanzia”, “Mondanità” e “Modernità”. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura dei vertici del museo francese, Guy Cogeval, Ophélie Ferlier, Xavier Rey, che hanno curato pure il Catalogo Skira.  La chiusura inizialmente prevista per il  7 febbraio, per il notevole  afflusso di visitatori è stata prolungata di due settimane.

 Dopo “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”,  del 2010 al Vittoriano, e la contemporanea “Impressionisti e Moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”,  stesse date di apertura e chiusura al Palazzo Esposizioni ma con pochi dipinti impressionisti, viene presentato un aspetto del grande movimento pittorico diverso da quello con il fascino ineguagliabile dei paesaggi dipinti  “en plein air”, quindi ritenuto meno attraente.

La mostra, forse anche per questo, accompagna il titolo “Impressionisti”  in grande evidenza, con  due sottotitoli. Il primo rimanda al Musée d’Orsay, del quale al Vittoriano sono stati già presentati di recente altri capolavori, con la storia del museo; questo si inserisce nel filone delle mostre alimentate da singole collezioni come le precedenti alle Scuderie del Quirinale sulle collezioni di “Al-Sabah Kuwait. Arte islamica”, al Palazzo Esposizioni sul “Guggenheim” “I capolavori dello Stadel Museum”, alla Fondazione Roma sulla collezione “Zevi-Santarelli“, per citarne alcune importanti. 

Il secondo sottotitolo, il piccolo quanto ermetico corsivo “Tète a Tète”, indica che sono “Ritratti”, ma non è reso esplicito. 

L’innovazione  impressionista rispetto al ritratto tradizionale

Il perché lo dice Guy Cogeval presentando la mostra che ha curato parlando del ritratto:”Il genere in sé non ha mai suscitato grande attenzione. Sembra quasi che gli storici dell’arte abbiano trascurato il fatto che la ritrattistica è stata il veicolo privilegiato di quell’avanguardia pittorica che si impose sulla scena artistica a partire dagli anni sessanta dell’Ottocento”.

L’attenzione per la vita moderna e l’evoluzione sociale, mentre entrava con prepotenza la fotografia, “fanno del ritratto un passaggio obbligato della stagione impressionista, al quale è stimolante associare la scultura”. Il “téte a téte” della mostra  avviene non solo con le figure dipinte  ma anche con i busti scolpiti, inseriti nelle varie sezioni tematiche in una compresenza pittura-scultura stimolante, tanto più che nel caso di Degas lo stesso artista opera nei due settori.

Il presidente del Musée d’Orsay spiega poi che il ritratto impressionista non va confuso con la ritrattistica consueta per la sua carica innovativa: “Il ritratto si confonde così con la pittura di genere, e assume un’importanza cruciale una volta abbandonati i grandi soggetti accademici. Partecipa inoltre a pieno titolo a un movimento che rivoluzionerà il modo di dipingere”.  Dinanzi ad alcune figure che rendono appieno ceto sociale e ambiente  Cogeval  esclama: “Si può ancora parlare di ritratto? E’ del tutto legittimo porsi questa domanda e cercare di individuare le ragioni profonde di questo tipo di rappresentazione”.

Una risposta la dà Louis Godart, il Consigliere per la Conservazione del Patrimonio Artistico del Presidente della Repubblica Italiana”  che pone l’accento sull’interesse a rendere l’evoluzione del costume come indicatore della modernità: “Le norme del ritratto si allargano fino ad autorizzare la resa di figure tipiche e di scene d’insieme, nelle quali l’individuazione dei personaggi vale come garanzia di veridicità”. Perciò “scompaiono le distinzioni tra i generi, tanto che diviene difficile distinguere il ritratto di un individuo da quello di un modello professionale, assunto per definire un tema pittorico o una figura della vita dell’epoca”.  Ed ecco come si configura il nuovo ritratto: “Non si tratta più della riproduzione di una fisionomia o dell’analisi di un carattere, ma dell’istantanea di un essere umano in un contesto familiare o sociale, magari circondato da quelli che incidono sulla sua vita. Il modello, non più fissato in una convenzione fuori dal tempo, è vivo nel mondo”.

Con una premessa così illuminante si può passare alla visita alla mostra, per cogliere direttamente  questi motivi, che riportano alla società e al mondo culturale francese resi attraverso soggetti della vita comune  immersi nel fervore del loro tempo, al posto dei personaggi studiati per se stessi e ripresi dalla storia, quindi in un’aura accademica e celebrativa lontana dalla realtà quotidiana..

Il ritratto impressionista in pittura e scultura

La 1^ sezione, “Un nuovo ritratto d’artista”, presenta subito una galleria particolarmente ricca di dipinti e sculture in un inconsueto raffronto tra due forme espressive così diverse su soggetti interpretati  con lo spirito nuovo di cui si è detto,  tradotto in visioni e tecniche innovative.

I pittori  si cimentano in “Autoritratti”, vediamo esposti  quelli  giovanili di Léon Bonnat ed Edgar   Degas, entrambi del 1855,  quando frequentavano insieme l’Ecole des Beaux Arts, nel primo c’è un lontano paesaggio rinascimentale, il secondo è concentrato nell’espressione pensosa.

L’ “Autoritratto”  di Paul  Cézanne, 1875,  è uno dei numerosissimi che dipinse nelle sue varie età,  portando il ritratto in una nuova dimensione psicologica, è  impressionante l’intensità del viso corrucciato, mentre  un quadro con alberi dipinti occupa lo sfondo della parete dietro la testa.

Addirittura  l’autoritratto di Charles Durant  è da“Convalescente”,1860, abbandonato sulla poltrona a lato di un tavolino a occhi chiusi con la testa appoggiata a un cuscino.

Fréderic Bazile  si rappresenta non da solo, ma in un momento di vita quotidiana  nell’“Atelier di Bazile”, 1870,  con sei pittori nel vasto ambiente con una poltrona e una stufa,  una scala in legno a sinistra con due di loro, mentre tre al centro discutono e uno a destra suona seduto al pianoforte;  il tutto con la presenza dominante dei quadri alle pareti e a terra, se ne contano una quindicina, almeno sei di grandi dimensioni, una scena spettacolare. Pur se ripresi da lontano sono ben riconoscibili  Monet e Renoir, Sisley e Manet, oltre a Bazille, si rivelerà un vero poker d’assi.

Dello stesso Bazille vediamo anche “Pierre Auguste Renoir”, 1867, che introduce ai ritratti  di artisti colleghi, in questo modo il genere diventa, a differenza del passato, un elemento della quotidianità e della resa dell’ambiente in cui vivevano. Veniamo così a conoscere aspetti della vita di allora all’interno del mondo artistico, ma vedremo poi che si allarga alla  società. Il ritratto di Renoir è confidenziale, è seduto  sulla sedia con le braccia nelle ginocchia che sono sollevate.

Pierre Auguste Renoir, a sua volta, ritrae “Claude Monet”, 1975, .mentre si appresta a dipingere, con il camice, la tavolozza nella sinistra e il pennello nella destra, nel vano di una finestra con delle piante e una tenda semiaperta, immagine che rende il rapporto amichevole e confidenziale.

Negli stessi anni Edgar Degas, di cui abbiamo visto l’Autoritratto giovanile di venti anni prima, presenta il “Ritratto degli incisori Desboutin e Lepic”, 1876-77,  mentre lavorano su una lastra per la stampa con un unico esemplare di cui lui si serviva, espressione intensa in ambiente oscuro.

“Degas e la sua modella”, 1906,  sono ripresi da Maurice Denis  trent’anni dopo, in atteggiamento disinvolto, visti di profilo mentre lui sembra darle delle indicazioni con in mano un taccuino, entrambi vestono  pesanti abiti scuri e hanno il cappello, lo sfondo è illuminato da un suo quadro.

Ritroviamo Charles Durant, dopo il “Convalescente”, con “Edouard Monet”,  1880, lo ritrae con cappello e abito chiaro all’esterno in uno sfondo indistinto spiccatamente impressionista.

A sua volta Edouard Manet   è autore del ritratto di “Stéphane Mallarmè”, molto confidenziale anche questo, una vera istantanea, il poeta seduto in modo disinvolto sembra gesticolare con la mano destra sopra alcuni fogli evidentemente delle sue poesie.

Dal poeta al musicista, dopo i pittori ,  Marcel Baschet  ritrae “Claude Debussy”, 1884, lo sguardo fermo e determinato, nessuna indulgenza  all’ambientazione, fondo scuro nel ritratto d’altri tempi.

Non sono d’altri tempi i 5 ritratti in bronzo esposti, segnano anch’essi una svolta perché viene colto l’attimo, diremmo l'”impressione”  invece del paludato atteggiamento della tradizione, per cui appaiono volti molto marcati su busti anch’essi  inattesi pur nei limiti dati dalla rigidità del genere.

Ritratti ancora dei “colleghi” nell’arte, di Paul Paulin  con il busto “Edgar Degas a 72 anni“,  1907, austero e dignitoso ma certamente non convenzionale, caratteristica ancora più spiccata in Rodin. Del grande Auguste Rodin, di cui troveremo  altre sculture nelle sezioni successive, “Pierre Pavis de Chevennes”,  1890-1901, è in qualche misura assimilabile al precedente nella posa austera, anche se gli abiti che si intravvedono nel busto sono moderni per volontà del rappresentato.  Molto diverso  “Alphonse Legros”, 1881-82,  solo la testa con il viso colto in una smorfia drammatica. E “Victor Hugo“, 1897, un busto senza abiti con la testa reclinata che conferisce al viso una maestosità al di fuori da ogni confronto, è l’opera che per Louis Godard spicca su tutte le altre.

Troviamo Rodin  come soggetto del ritratto di uno scultore di cui vedremo altre opere:  di   Paolo Troubetzkoy, “Auguste Rodin”, 1906, un bronzo a figura intera della stessa altezza dei busti,  in posa disinvolta con le mani in tasca, anche se austera, confidenza tra colleghi ma altrettanto rispetto.

Intimità e infanzia

Nella  2^ sezione, “L’intimità”, la nuova concezione del ritratto si alimenta di ulteriori motivi, come il ruolo dominante assunto con la rivoluzione industriale dalla borghesia rispetto alle classi nobiliari e quindi l’interesse ad esplorarne la personalità non soltanto attraverso i caratteri del volto ma entrando nella sua sfera intima, fatta di atteggiamenti e di atmosfera che ne renda il privato.

“Abito rosa”, 1864, di Frédéric Bazile ne dà una dimostrazione evidente, riprende la cugina Thérese des Hours  mentre guarda il panorama assolato della località presso Montpellier dove abitava la famiglia, è girata di spalle e il volto non si vede, ma l’intimità  psicologica è notevole.  “L’ortensia e le due sorelle”, 1894, di Berthe Morisot rende l’intimità  nel gesto della seconda sorella di sistemare l’acconciatura alla prima,  in un ambiente lussureggiante con la grande ortensia.

Si tratta di due esterni, ma sono gli interni il connotato fondamentale del nuovo ritratto perché di lì nasce l’intimità.. Lo vediamo in due ritratti pur molto diversi, “Madame Proudhom”, 1865 , di Georges Courbet,  in  una posa rilassata e amichevole, con un’espressione compiaciuta, e  “Charlotte Dueburg”, 1882, di Henry Fantin-Latour,  in una posa rigida e sostenuta con un’espressione altera, la stessa che ha in un  dipinto precedente dello stesso autore in cui è ripresa con altri tre membri della “Famiglia Duesburg“, 1878. Per entrambi gli artisti c’è un rapporto speciale  con i soggetti,  Proudhom  era il celebre filosofo evidentemente amico, i Dueburg  stretti familiari della moglie di Fantin-Layour, Charlotte.  Intimità domestica ancora maggiore in “La famiglia Haléry”, 1903, di Jacques Emile Blanche, rispetto alla “Famiglia Duesburg” in posa quasi dinastica, qui le tre figure sono  sorprese nell’intimità domestica, due alzano gli occhi come se il pittore fosse un fotografo entrato all’improvviso nella stanza, la terza donna  non se n’è accorta.

Un altro modo  di rendere l’intimità lo vediamo in “Alice Maréchal”, 1892, di Georges Lemmen, con la figura seduta su una sedia di cui si vede la spalliera modesta, dietro una scansia con delle ampolle, e in “Donna con fazzoletto verde”, 1893, di Camille Pizzarro, anche qui un arredo domestico, sedia  e tavolino, in più il particolare dell’abbigliamento, entrambe viste  di tre quarti.

E siano a Edgar Degas, presente nella sezione con  tre dipinti: due figure singole,“Hilaire de Gas”, 1857, la posa del personaggio è austera ma l’intimità è resa dal  bastone sulle ginocchia e dal divano, e “Ritratto di donna con vaso di porcellana”, 1872,  oltre al vaso domina il grande fiore rosso alla sommità, vent’anni prima dell’ortensia della Morisot; tre commilitoni, “Jeantaud, LIonet, Lainé”, 1871, sorpresi in pose confidenziali, come  gli Halery di Emile Blanche trent’anni dopo.

Di Degas sono esposte anche tre sculture in bronzo: “Ritratto, testa poggiata sulla mano”, 1882-95, l’impressionismo nei lineamenti solo abbozzati, l’intimità nella malinconia; e “Testa, studio per  il ritratto di Madame S.” in due versioni, “piccolo” di 14,5 cm, come coperto da un velo, “grande” di 24 cm, più definito. L’artista nella sua esplorazione della figura umana non si limita alla pittura.

Un’altra sorpresa, un busto in malta policroma di Auguste Renoir, “Madame Renoir”, 1916, il colore rosa e il cappellino con fiori rendono l’intimità affettuosa. Come nel dipinto  “Donna con jabot bianco”, 1880,  con il particolare vezzoso dell’abbigliamento,  mentre “William Sisley”, 1964, sempre di Renoir, rientra nella moda sorta di ritratti tra artisti in atteggiamento confidenziale.

Con Renoir passiamo alla sezione “Ritrarre l’infanzia”, una sua piccola personale  molto suggestiva, i caratteri impressionisti sono ben più valorizzati che nelle opere fin qui commentate. Va premesso che l’attenzione all’infanzia è un’altra svolta nel costume colta dall’impressionismo: prima i bambini apparivano solo in gruppi familiari, non erano concepiti nella società come entità con diritti autonomi, come quello all’educazione invece del lavoro minorile dell’epoca precedente.

La galleria di Auguste Renoir inizia con Fernand Halphen bambino”, 1880, vestito alla marinara, e “Julie Manet”, 1887, con il micino in braccio che fa le fusa, tendenzialmente precisionisti. Mentre  “Bambina con cappello di paglia”, 1908, e” Geneviéve Bernheim de Villiers“, 1910,   presentano i caratteri dell’impressionismo  più suggestivo, con figure infantili  dalla forte personalità; lo stesso nel “Ritratto della signora  Bernheim-Jeune e del figlio Henry”, 1910, con il fratello di Geneviéve. Un  terzo bambino della famiglia “Claude Bernheim de Villers”, 1905-06,  ritratto  da Edouard Villard,  è altrettanto impressionistico, il bimbo quasi si confonde con il divano a macchie di colore.

Abbiamo poi due scene di vita familiare.“Ogni felicità”, 1880, di Alfred Stevens, resa con la  fusione tra madre e bambino nell’abito che sembra unico, il padre di spalle allo scrittoio; “Bambino e donna in un interno”, 1890, di Paul Mathey, mostrano il bimbo in primo piano, mentre nella stanza retrostante si vedono due figure impegnate nel lavoro domestico indubbiamente secondarie.

C’è  anche una scultura in bronzo di Medardo Rosso del 1906, e che scultura!  Doveva essere il “Ritratto di Alfred William Mond a sei anni” commissionatogli dal ricco industriale Emil Mond, ma lo scultore ne vide il viso dietro una cortina e lo rappresentò come con un velo che ne copriva i tratti trasfigurandone i lineamenti fino a distaccarsi dal soggetto per diventare, come disse l’artista, “una visione di purezza in un mondo banale”, Divenuta una rappresentazione dell’infanzia senza nome, prese il nome di  “Impressione di bambino”, poi, nel 1909, di “Ecce puer” come “Ecce Homo”.

Mondanità e Modernità

Dall’infanzia all’espressione meno intima ma altrettanto  personale dell’epoca nella sezione “Mondanità” che ci fa entrare ulteriormente nella vita di società di un tempo vivo e vivace. .

Lo vediamo soprattutto negli abiti, la piccola personale di Auguste Renoir continua con due donne sedute, “Colonna Romano”, 1913,  in interno e “Ritratto di Madame Bernheim de Villers”, questa volta senza il figlio Henry, in giardino;  e delle figure in piedi, “Charles de Coeur”, 1874, e “L’altalena”, 1876,  due esterni con vere esibizioni di moda maschile e femminile; in “Madame Dorras”, 1868, un primo piano del volto con la veletta che scende da un vistoso cappello nero.

 Esibizioni di moda anche in “Giovane donna in abito da ballo”, 1894, ritroviamo Berthe Morisot; in “La viscontessa del Poilloie di Saint-Périer”,1883, di John Singer Sargent, e “Nella serra”, 1881, di Albert Barttholomé. Ma soprattutto in “Ritratto della signora Jourdain”, 1886, di Albert Besnard, e in “Ritratto della signora Max”, 1996, di Giovanni Boldini, due giovani donne in piedi con  movenze addirittura da mannequin nel valorizzare i loro lunghi abiti da sera molto eleganti. Invece è seduta, altrettanto elegante,  “La contessa di Keller”, 1873, di Alexandre Cabanel.  A questo dipinto accostiamo “Madame Vicuna”, 1882, scultura in marmo di Auguste Rodin, dopo i visi bronzei scavati visti in precedenza, qui un busto delicatissimo e levigato molto elegante.

L’eleganza nella figura intera in scultura è espressa dai due bronzi imponenti,  “Madame Adelaide Aurnheimer“,1897-98, e “Il conte Roberto di Montesquieu”, 1907,  di Paolo Troubetzkoy, 1997-98 e nella lastra di bronzo di stile classico “Anna Lyman Gray”, 1902, di Augustus Saint Gaudens..

Nella sezione anche due dipinti di Edouard Manet, “Angelina, o donna alla finestra”, 1865, e “Il balcone”, 1868-89″,  nel primo ritrae una spagnola, nel secondo tre figure che non comunicano, sono artisti, un pittore, un violinista e la pittrice Berthe Morisot di cui abbiamo visto delle opere. L’estraneità tra loro, fatto inedito nei gruppi che provocò polemiche, fa entrare nella modernità.

Proprio  alla “Modernità” è dedicata l’ultima sezione della mostra,  con tre dipinti del grande Paul Cézanne, simbolo della modernità post impressionista, con il rovesciamento dato dalla costruzione dello spazio con la ricerca dei volumi e delle forme al posto degli effetti di luce e dei colori scomposti. Vediamo “Ritratto di Madame Cézanne”, 1885-90,   “I giocatori di carte”, 1890-92,  e “Donna  con caffettiera”, 1890-95,  senza dubbio una  lavoratrice, non amica o familiare. Anche qui una scultura, alta e sottile, “Studio di nudo per la ballerina vestita” 1921-31, di Edgar Degas.

Chiude  la ricca ritrattistica della mostra un dipinto dl 1899, nitido ed essenziale, che viene così presentato alla fine del Catalogo: “Féliz Vallotton con il ‘Ritratto di Monsieur Alexandre Natanson’ apre un’altra strada. L’artista esplora infatti la via di un iperrealismo semplificato che rende omaggio, da un lato ai maestri del Rinascimento, dall’altro alla modernità pittorica che ormai, alle soglie del XX secolo, si sta imponendo. Un’ambizione dall’avvenire fecondo, soprattutto con il ritorno all’ordine e alle fonti classiche che domina in pittura e in scultura tra le due guerre”.

Ci sembra che questa proiezione al futuro con il richiamo al glorioso passato, possa essere la migliore conclusione del nostro racconto di una mostra  insolita e rivelatrice.

Info

Complesso del Vittoriano,  Ala Brasini, lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere. Tutti i giorni apertura 9,30, chiusura dal lunedì al giovedì ore 19,30, venerdì e sabato 22,00, domenica 20,30, ultimo ingresso un’ora prima della chiusura. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00, gratuito ai soggetti legittimati.  Tel. 06.6780664, prevendite 06.32810811. www.comunicareorganizzando.it.  Catalogo “Impressionisti dal Musée d’Orsay. Téte à Téte”, a cura di Guy Cogeval, Ophélie Ferlier, Xavier Rey,  Skira, ottobre 2015, pp. 128, formato 22 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per le collezioni e gli artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli: in questo sito, per  le collezioni “Impressionisti e moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”  12, 18 e 27 gennaio 2015,  “Musée d’Orsay.Capolavori”, 11 maggio 2014, del  “Guggenheim”  22 e 29 novembre 2012, “Al-Sabah  Kuwait. Arte islamica “  3 e 10 agosto 2015, “Zevi-Santarelli” 15 ottobre 2012, per gli artisti, Cézanne 24 e 31 dicembre 2013,   Rodin  20 febbraio 2013; in”cultura.inabruzzo.it” per “I capolavori dello “Stadel Museum” 3 articoli nel luglio 2011; “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”, 27 e 29 giugno 2010  (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Musée d’Orsay, per l’opportunità offerta. In apertura, Paul Cézanne, “Autoritratto”, 1875; seguono, Edouard Manet, “Stéphane Mallarmé”,  1876,  ePierre Auguste Renoir, “Claude Monet”, 1875; poi, Charles Durant, “Convalescente”, 1860, e Fréderic Bazille,  “Pierre Auguste Renoir”, 1867; quindi, Auguste Rodin, “Victor Hugo”, 1897,  e Berthe Morisot, “L’ortensia”  o “Le due  sorelle”, 1894;inoltre,  Pierre Auguste Renoir, “Bambina con cappello di paglia”,  1908, e Auguste Rodin,  “Madame Vicuna”, 1888;  infine, Pierre Auguste Renoir, “Ritratto di Madame Bernheim de Villers”, 1901,  Albert Besnard, “Ritratto della signora  Jourdain”, 1886, e Paul Cézanne, “I giocatori di carte”, 1890-92; in chiusura, un salone dello spazio espositivo con due gruppi scultorei in bronzo di Paolo Troubetzkoi, “ Il conte Robert de Montesquieu”, 1907, al centro, e “Madame Adelaide Auenheimer”, 1897-98, a sin., nella parete si distinguono,  a dx,  Edouard Manet, “Il balcone“, 1868-69, al centro,  Pierre Auguste Renoir, “L’altalena”, 1876, a sin., Berthe Morisot,  “Giovane donna in abito da ballo”, 1879.  

Israele, nove porte sulla vita e sul futuro, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, ala Brasini, lato Fori Imperiali, dal 21 gennaio all’11 febbraio 2016, la mostra “Open a door to Israel – Discover/ Experience/  Connect”  fa entrare nella realtà di Israele attraverso  9 porte supertecnologiche e interattive aprendo le quali il visitatore scopre aspetti sconosciuti della vita civile di un popolo crogiolo di etnie  lanciato verso il progresso nell’innovazione in molti campi fondamentali della vita civile. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con il patrocinio del Ministero degli Affari Esteri di Israele e dell’Ambasciata di Israele in Italia.

La porta è una calamita di riflessioni, ci si chiede spesso cosa c’è “dietro quella porta”, La struggente immagine manzoniana della madre della piccola Cecilia che “scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci” è rimasta nel cuore di tutti;  come  le porte ben diverse di tanti film del passato, dei telefoni bianchi  e non solo. Ai giorni nostri ricordiamo le vecchie porte dipinte da Rosanna Borzelli dove dei grandi volti,  immaginati nell’abitazione, sembrano uscire all’esterno.

L’epopea di un popolo lanciato nella modernità

Trovare “tutte le porte chiuse” è una sconsolata constatazione, come al contrario trovare “le porte aperte” è sinonimo di  riuscita. Nella mostra le porte sono chiuse, ma basta tirare la maniglia che si aprono, e rivelano un mondo quanto mai edificante, la vita di un popolo espressa visivamente.

Una vita dinamica volta all’impegno e all’innovazione, con risultati di eccellenza che pongono il paese ai primi posti nella corsa alla modernità. Né c’è da meravigliarsi, è un crogiolo di etnie ciascuna delle quali dà il meglio di sé, risultato com’è di una speciale selezione, quella degli immigrati in Israele da ogni parte soprattutto dell’Europa inseguendo un’aspirazione,  ideale, un sogno, il sogno della terra promessa in cui riunirsi con il proprio popolo, il mitico popolo di Israele le cui radici sono nella Bibbia.

Ogni tentativo di sradicarle è stato sconfitto dalla reazione orgogliosa e vittoriosa di gente temprata a tutto, che da remissiva è diventata fortemente reattiva, dopo l’olocausto, la vergogna dell’Europa, si è ribellata al ruolo di vittima sacrificale cui il mondo arabo voleva condannarla e ha potuto iniziare una nuova storia esaltante.

C’è voluta una lotta aspra senza quartiere, una popolazione di poco superiore a due volte la città di Roma ha saputo resistere a un insieme di nazioni con cento milioni di abitanti votate alla sua eliminazione, con delle guerre di difesa vittoriose che hanno imposto alla comunità internazionale il nuovo stato sorto con la storica delibera dell’Onu dopo il 1948, ma che aveva già respinto il tentativo iniziale di distruggerlo.  L’epopea di “Exodus” è proseguita con un’emigrazione continua, fonte di nuovi apporti e stimoli.

Di tutto questo nella mostra non ci sono segni, come se si volesse spostare lo sguardo dalle immagini consuete, legate alle drammatiche vicende della sicurezza, da un’Intifada all’altra, da un attacco missilistico e un attentato all’altro, alla realtà di un popolo dalla vita pacifica il cui impegno   porta il paese a posizioni di eccellenza in tanti settori nei quali è notevole il suo apporto alla soluzione dei problemi di tutti.

Israele come caposaldo di innovazione ed efficienza in un continente, come quello africano, che ne ha tanto bisogno, appendice di eccellenza di un’Europa che mostra invece segni di stanchezza e di rallentamento.  Anche nella mostra del 2013 al Macro, ” Israel now” il sottotitolo “Reinventare il futuro”  dava il messaggio di innovazione e dinamismo, espresso artisticamente in installazioni e sequenze fotografiche, video e pitture con grafiche di 24 artisti israeliani contemporanei.

Le porte chiuse che il visitatore apre

La porte inizialmente chiuse della mostra attuale esprimono visivamente la scarsa conoscenza che si ha di Israele dinamica e lanciata in un progresso incessante sovrastata dall’immagine della nazione sotto assedio che rimbalza continuamente nei media con l’evidenza delle minacce continue e degli attacchi frequenti.

Basta aprirle per vedere la vera Israele: il culto della famiglia in un paese giovane ma con un’eredità culturale antica, l’economia lanciata dalla forte spinta tecnologica che si basa anche sull’importanza data all’apprendimento e sulla capacità di mettere in una relazione feconda il crogiolo di culture, fino al gusto dell’avventura, e infine la speranza verso qualcosa di positivo accompagnata sempre dal coraggio.

Nella presentazione, resa viva dalla  padronanza e dalla comunicativa di Alessandro Cecchi Paone, l’ambasciatore di Israele in Italia Naor Gilon ha dato all’apertura delle porte il significato della scoperta di valori condivisi, aventi il retaggio della storia e della cultura, che si esprimono attraverso temi al centro della vita di tutti, non solo in Israele ma nel mondo.  E ha sottolineato, come espressione delle “strette relazioni  tra i nostri paesi e i nostri popoli, il privilegio dato all’Italia di essere la prima ad ospitare, nel Complesso museale del Vittoriano, la mostra che nel 2016  toccherà anche Francia, Polonia  e Russia, Corea del Sud, Giappone e Cina, Argentina, Brasile e Stati Uniti. 

E Alessandro Nicosia, nel ricordare mostre del passato, ha detto che con Israele ci sono “sempre novità e c’è sempre da imparare, ci sono tante eccellenze non conosciute, la tecnologia al servizio dell’intelligenza”.

Ne è la dimostrazione la mostra con installazioni interattive che utilizzano tecnologie molto avanzate e design innovativi  al servizio della comunicazione. Perché non si era mai visto, in queste mostre, uno schermo di straordinaria lunghezza, con uno speciale robot  che movimenta un video per evidenziare le immagini prescelte tra quelle che scorrono: tutte immagini di esaltazione dei risultati di eccellenza nei diversi campi, con particolare riguardo a quelli legati all’alimentazione e alla salute, con il paese che mostra quale importante contributo può dare alla soluzione dei problemi di tutti, anche dei paesi ostili e nemici. E sopratutto non si è mai vista una tecnologia  avanzata così  accattivante al servizio della comunicazione per far entrare  quasi materialmente oltre che idealmente il visitatore all’interno di una realtà così complessa.

“Ogni singola porta che si apre – sono ancora parole dell’ambasciatore Gilon – presenta un aspetto e un settore diverso della società israeliana e di ciò che lo Stato di Israele ha da offrire. I visitatori potranno conoscere e fare esperienza con modalità uniche delle iniziative e dei progressi israeliani, della cultura, dei sapori, delle persone, e ovviamente dei luoghi di Israele”.   Le nove porte interattive “consentono ai visitatori di incontrare Israele con delle esperienze originali, e con modalità indimenticabili che sono certo susciteranno ispirazione ammirazione nei riguardi dello Stato di Israele e della gente che ci vive”.  L’intento è dichiarato con esemplare sincerità, nessun messaggio subliminale salvo forse quello di dimenticare le immagini ben diverse che i media diffondono ogni giorno, la vera Israele è questa, un popolo che vive una vita di pace proiettata al futuro con uno straordinario  impegno nella modernità dai risultati di eccellenza.

All’inaugurazione hanno  partecipato l’ambasciatore Gilon e  il Vice Ministro degli esteri di Israele Tzipi Hotovely, il ministro italiano dell’Istruzione e dell’Università Stefania Giannini e la direttrice del polo museale del Lazio Edith Gabriele, la responsabile della comunità ebraica di Roma Ruth Dureghello  e Riccardo Pacifici, Gianni Letta e Cecchi Paone che aveva moderato la presentazione, Significative le presenze degli ambasciatori del Canada Peter Mc Govern e della Repubblica Ellenica Demiris Themistoklis, Israele ha bisogno della vicinanza attiva delle nazioni democratiche.

Il significato delle nove porte  che si aprono su Israele

La prima porta blu è dedicata alla “Famiglia”.  Viene ricordato che gli 8 milioni di cittadini israeliani sono “un mosaico affascinante di gruppi etnici, culture e religioni e fanno parte di una variegata storia sociale”. E’  il crogiolo di etnie di cui parlavamo all’inizio, che combina valori dell’oriente  e dell’occidente, del passato e del presente, di tradizioni secolari e di avanguardie, e crea “una cultura della famiglia unica in Israele”.  Cultura basata “sul desiderio condiviso di una vita democratica, del rispetto reciproco e della fede nei valori  della famiglia”. Si sente Il riferimento alla pace, come aspirazione massima, pur se resta implicito.

I valori della famiglia risalgono all’ “Eredità culturale”, la seconda porta amaranto che si apre. Come patria delle tre religioni monoteiste e “terra promessa” della Bibbia  è “una terra di fede e speranza per i credenti di tutto il mondo”. Questi valori di portata universale non vengono solo custoditi ma messi in pratica nel presente, viene usata la bella espressione che “hanno fatto sbocciare fiori nel deserto”, diffondendo a beneficio di tutti i vantaggi del progresso. E’ un luogo “che invita tutti coloro che lo amano a vivere fraternamente uno accanto all’altro”, messaggio nel quale traspare  l’aspirazione alla pace con i propri vicini così ostili.  .

“Fare in modo che accada” è il tema della terza porta viola aperta sul futuro: “Siamo sempre stati spinti dalla convinzione che per raggiungere condizioni migliori di esistenza siano necessarie azioni pratiche e positive oggi”: di nuovo il messaggio di modernità di un paese “tra i più dinamici al mondo”, che rifiuta di essere confinato non solo nella cronaca inquieta ma neppure nella storia sia pure esaltante che ha basi antiche di grande forza e valenza. I risultati si vedono nell’espansione dell’economia di cui viene sottolineato il tasso di innovazione “uno dei più rapidi nel mondo”, e soprattutto spinto dal settore delle economie eco-sostenibili, una garanzia per l’ambiente a vantaggio di tutti. 

Anche la quarta porta verde contiene un messaggio volitivo, è dedicata all'”Avventura”  che va affrontata con uno spirito che va oltre il gusto dell’esplorazione, e diventa “audace, ingegnoso e pionieristico”, nel quale vale il principio “volere è potere”, in Israele “più forte che in tutto il resto del mondo”, ne sono testimonianza concreta i “fiori nel deserto” emblema di una nazione che è tutta una sfida vittoriosa all’impossibile.

La quinta porta arancione è espressamente dedicata all'”Impegno”, c’è anche dietro le porte precedenti ma qui non viene evidenziato il dinamismo e l’efficienza ma un altro aspetto:  “E’ consuetudine per noi essere socialmente :impegnati, dedicarci a una causa che ha lo scopo di migliorare le condizioni di esistenza di individui e comunità”. La presentazione aggiunge: “Siamo anche naturalmente estroversi, ci piace lo spirito di cameratismo, la condivisione del sapere e il coinvolgimento della gente”; per finire: “Ci piace impegnarci e coinvolgere gli altri”.  Tutto l’opposto dell’isolamento nel bunker blindato che è l’immagine consueta.

E’ di un rosso vivo la sesta porta sul tema “Esprimersi”,  che vuole forse sfatare un’altra convinzione diffusa, nata con i kibbuz e le comuni della fase eroica della costituzione dello Stato di Israele, e ribadita dall’impegno vitale per la difesa comune. La spinta verso al comunità nell’impegno c’è, ma  on a scapito della persona: “Lo Stato di Israele ritiene che l’individuo sia sovrano. L’individuo è l’unico proprietario della propria vita”, un’affermazione che pone Israele tra i paesi che hanno la più alta concezione : “Le libertà civili sono protette dalla legge, quindi siamo liberi di credere a ciò che vogliamo ed esprimerci senza paure o restrizioni”. E’ una enclave della migliore Europa in un continente dominato dagli assolutismi e dalle dittature, dove anche le speranze aperte dalla cosiddetta “primavera araba” sono andate presto deluse.

La settima porta è dedicata all’ “Apprendimento”, è verde intenso, forse per evocare l’età in cui  si comincia ad apprendere per raggiungere la conoscenza, “prerequisito di ogni traguardo in qualsiasi campo”.  Ma la conoscenza “un diritto democratico di ciascun individuo”, viene intesa oltre l’accezione più elementare, come capacitò di “mettere in discussione, valutare utilizzare le informazioni” e quindi viene incoraggiato “attivamente lo spirito di indagine nelle persone di qualsiasi età e ambiente”.  Sembrerebbe un diritto acquisito in modo universale ma non è così, a stare alla battaglia condotta dai radicali di Marco Pannella anche in sede Onu per “L’affermazione del diritto umano alla conoscenza”  molto meno rispettato di quanto si pensi, anche nei paesi democratici, al di là delle apparenze ingannevoli.

Rosa intenso tendente al rosso l’ottava porta, “Relazionarsi”, è istruttivo vedere come il crogiolo di etnie dia i risultati di eccellenza cui si è accennato per il modo con cui viene affrontata la realtà non solo nel mondo fisico ma nella vita sociale: “Si esprime nelle nostra abilità di mescolare tecnologie, idee, invenzioni, modi di lavorare e perfino di cucinare a prima vista non collegati tra di loro”. E questo al fine di “creare qualcosa di originale, stimolante, che cambi la vita”.  Tutto questo c’è insito “nella nostra naturale socievolezza e nel nostro candore emotivo, nella forza dell’amicizia e nell’impegno verso la famiglia”.

Un visione così positiva non può che essere alimentata dalla “Speranza”, è la nona e ultima porta, celeste come il cielo. “La speranza di Israele non è un ottimismo passivo, ma si costruisce sul coraggio, sulla fede e sull’azione allo scopo di  migliorare la status quo”. E ha le basi nella sofferta esperienza di un popolo: “Ci accomuna la convinzione che nulla sia inevitabile nelle faccende umane e che, insieme, possiamo migliorare al situazione”. Per concludere: “Perfino l’inno nazionale è chiamato ‘Hatikvah’ – la Speranza”.

Cosa si vede all’apertura delle porte

Tutto quanto di didascalico può apparire dall’esplicitazione dei contenuti che sottostanno alle singole installazioni non figura minimamente nello spettacolo offerto al visitatore che passa da una porta all’altra aprendole senza alcuna sollecitazione pedagogica. Le immagini della famiglia israeliana sono festose e piene di gioventù, come quelle della lezione scolastica in cui si è coinvolti interattivamente nell’interrogazione avente come tema ovviamente Israele spingendo uno dei punti interrogativi che si aprono sopra le mani alzate degli scolari.

Si partecipa anche a uno scherzoso palleggio tennistico impugnando l’apposita racchetta mentre nello schermo si alternano gli inviti allo scambio e vola al pallina, come a feste spettacolari con danze collettive  diventando veri dj  che scelgono le musiche sulla consolle.

C’è anche molto di più, come la scoperta delle tecnologie più avanzate a beneficio dell’umanità, prima tra tutte quelle alimentari e sanitarie, basta premere l’apposito tasto della porta che si apre per entrare  in questi aspetti cruciali per la vita di tutti.

L’immersione nella storia di Israele, anch’essa regolabile dal visitatore girando l’apposita manopola come in una macchina del tempo,  fa ritrovare radici comuni nelle immagini bibliche di re e profeti.

Sono innovazioni supertecnologiche,  queste della mostra, per comunicare l’immagine di un popolo lanciato con innovazioni di eccellenza nella modernità, che nelle sue radici millenarie storiche e religiose trova la forza e le motivazioni incrollabili per progredire in una visione altamente positiva.

Una lezione e un invito per tutti viene  dalla possibilità di “incontrare Israele con delle esperienze originali, e con modalità indimenticabili che sono certo susciteranno ispirazione e ammirazione nei riguardi dello Stato di Israele e della gente che ci vive”.  Sono parole dell’ambasciatore Gilon che facciamo nostre, l’epopea di Exodus, perpetuata nelle esaltanti anche se drammatiche vicende successive  è incancellabile. Ad essa si aggiunge, perpetuandola ancora, questa nuova immagine di impegno indefesso e solidale del suo crogiolo di etnie, nell’innovazione  di eccellenza volta al progresso che il suo popolo offre per la soluzione di tanti problemi che assillano il mondo. 

E’  il Cincinnato che l’immagine guerriera non deve più offuscare. Dedito alla pace dopo il duro “apprendimento” di tante guerre, per godere delle gioie della “famiglia”, nel costante “impegno”  per il progresso alimentato dai suoi valori basati su un’antica “eredità culturale”- Spinto dal suo spirito di ‘”avventura” verso nuove scoperte e nuovi traguardi, desideroso di “esprimersi” nel modo più convincente per “relazionarsi” anche verso i popoli ostili a cui apre le sue porte, sorretto dalla “speranza” di essere ascoltato. “Fare in modo che accada” è il suo imperativo categorico.

Ci sembra sia questo il messaggio che Israele voglia lanciare con la mostra che apre le porte al mondo, al quale è destinata l’esposizione itinerante dopo la prima tappa di Roma.  E’ un messaggio di pace e di progresso nell’apertura fiduciosa verso un futuro di cooperazione che cade in un momento molto difficile per le minacce del terrorismo, frutto dell’intolleranza più abietta e del  fanatismo.più cieco.

Tutto ciò rende meritoria la mostra che lancia un raggio di luce in un orizzonte internazionale quanto mai fosco e inquietante.

Info

Complesso del Vittoriano, ala Brasini, lato Fori Imperiali, via San Pietro in Carcere. www.comunicareorganizzando.it , tel. 06.6780664. Tutti i giorni dalle ore 9,30 alle 19,30, entrata fino a 45 minuti dalla chiusura, ingresso gratuito.  Per le mostre citate cfr., in questo sito, i nostri articoli,  “Israel now, 24 artisti israeliani al Macro Testaccio” 6 febbraio 2013, e “Borzelli, le sue porte manzoniane al Fondaco” 17 aprile  2014.   

Foto

Le immagini, tranne la 2^ e la 4^ trasmesse dall’organizzazione, sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Otganizzando” per l’opportunità offerta e per le due foto fornite. In apertura, la prima porta da aprire su Israele; seguono, la porta aperta sullo sport con il tennis interattivo, e due porte chiuse nella suggestiva penombra; poi la porta aperta sulla famiglia, e la porta aperta sul passato, con i pionieri di Exodus; quindi, una porta aperta su una festa familiare e una porta aperta su una scolaresca con partecipazione interattiva a domande e risposte; inoltre, la porta aperta sulla musica e una visione panoramica delle porte pronte per essere aperte; in chiusura, la presentazione della mostra, al centro Alessandro Cecchi Paone moderatore, seduto alla sua destra Naor Gilon,  ambasciatore di Israele in Italia, alla sua sinistra Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando”. 

Impressionisti e moderni, fino all’espressionismo astratto, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra al Palazzo Esposizioni,  dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio 2016,  “Impressionisti e moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”, 60 opere  dell’800 e del ‘900, selezionate dalla raccolta messa insieme da Duncan Phillip in quarantacinque  anni di intensa attività di collezionista: creò nel 1921 la Phillip Memorial Gallery all’avanguardia negli Stati Uniti nell’affiancare artisti europei a talenti emergenti americani  con allestimenti atti a stimolare confronti proficui da parte di artisti e visitatori. La mostra è organizzata dalla Phillip Collection con l’Azienda Speciale Palaexpo, curata da Susan Behrends Frank, curatrice della Collezione di Washington, Catalogo Silvana Editoriale  con Palazzo delle Esposizioni.

Abbiamo rievocato in precedenza l’appassionata attività di Duncan Phillip che lo portò a raggiungere 2000 opere, dalle 300 iniziali della raccolta di famiglia con cui aprì il Museo,  diventate 3000 con la prosecuzione dopo la sua morte nel 1966.  Poi abbiamo raccontato la nostra visita alle prime tre sezioni della mostra, “Classicismo, romanticismo, realismo”, “Impressionismo e postimpressionismo”, “Parigi e il cubismo“. Passiamo ora alla visita alle ultime tre sezioni,  “Intimismo e modernismo”, “L’espressionismo e la natura” ed “Espressionismo astratto”.  

Intimismo e modernismo, Bonnard e Vuillard,  fino a Matisse e Morandi

Il titolo della  4^ sezione “Intimismo e modernismo”, abbina due termini che sembrerebbero  un ossimoro per certe trasgressioni visive, ma sono un accostamento naturale per la svolta moderna di trasmettere nel dipinto l’intimità fatta di meditazioni e sentimenti, immaginazioni e fantasie.

Si tratta di scene della vita privata e degli interni abitativi da cui traspare lo stato psicologico,  analizzato in modo rivoluzionario dalla psicanalisi che stava nascendo in quel periodo. Non è la realtà di per se stessa che ispira l’artista, ma come si imprime nella memoria, e muove i sentimenti.

Di Pierre Bonnard vediamo due opere espressive  di questo atteggiamento. La prima in ordine cronologico è  “Bambini con gatto” , 1909, un primo piano tenerissimo nel rosa  delle figure in un cromatismo denso. Poi abbiamo  “Nudo in un interno”, 1935,   uno dei tanti dipinti in cui riprende al bagno  la donna della sua vita, Marthe Boursin,  cinquant’anni di vita insieme, qui  all’età di sessant’anni mentre si strofina la gamba con un guanto, in un ambiente spoglio e irreale perché riprodotto come lo ricorda, non come lo vede.

 Suo anche “La Riviera”, 1923,  una veduta del sud della Francia, nella zona di Cannes dove andava a dipingere dal 1922,  con tocchi di colore impressionisti ma linea compositiva alla Cézanne, i colori creano la forma in una giustapposizione tra il primo piano e l’orizzonte vicino e  lontano che fa sentire in questa sequenza l’onda dei ricordi.

Phillip predilesse Bonnard che definiva “poeta dell’intimità di ogni aspetto della vita”,  trovava in lui il sensualismo di Tiziano e Renoir, ne acquistò 17 dipinti, la maggiore raccolta in America, ma apprezzava anche l’intimismo di Vuillard che con Bonnard e altri artisti faceva parte del gruppo “Nabis”, profeta. Ritraevano interni domestici con familiari e amici  nel rifiuto dell’impressionismo per una nuova concezione pittorica dello spazio e del colore, orientato su tinte luminose.

Di Edmond Vuillard acquistò 4 opere  tra cui le due esposte, diceva che  “riconosce l’anima della casa, di ogni stanza, e degli oggetti di cui si circonda, e verso cui prova affetto”. “Il giornale” risale al 1896-98 e rende appieno tutto questo, ci sono il  tavolo apparecchiato e le sedie, i quadretti e la carta da parati, la tenda e la finestra tagliata in alto, importante nei suoi interni, con  l’albero all’esterno che entra nel quadro. La figura che legge in poltrona  ha il volto quasi completamente coperto dal giornale, non è il lettore il protagonista ma il foglio tenuto aperto dinanzi agli occhi.

“Bambinaia con bimbo vestito alla marinara”, 1895,  anche se è un esterno ha la stessa intimità degli interni,  dipinto a macchie cromatiche con figure appena abbozzate ma molto espressive, come il bimbo alle spalle della donna che si stringe alla sua gonna teneramente, quell’abbigliamento  è rimasto a lungo,  ripensiamo al “Vestivamo alla marinara” di Susanna  Agnelli, e all’abito della nostra prima comunione.

Un salto in avanti di oltre quarant’anni con “Joinville”, 1938, di Raoul Dufy, ne abbiamo apprezzato nella sezione precedente la linearità e luminosità solare del suo studio d’artista sul celeste, qui la dominante è verde, anche se in primo piano questo colore è dell’acqua, tanto  intenso da sembrare erba,  alcune barchette con rematori navigano verso le arcate di un ponte con lo sfondo di alberi, una scena che esprime gioia di vivere.

La gioia di vivere è stato il motivo ispiratore della pittura di  Henri Matisse , basta ricordare per tutte la sua opera del 1906 con questo titolo nella quale presentava  una scena bucolica con uno stile chiaramente decorativo, di ispirazione orientale, che sarà il motivo della sua pittura serena, basata sulla semplificazione della forma con linee e colori puri.  E’ stato innovativo sia rispetto ai classici sia rispetto alle avanguardie, ed è riuscito a mantenere la sua visione  contemplativa anche negli anni sconvolgenti  di due guerre mondiali, senza mostrare  inquietudini né  entrare nelle polemiche.   

 Phillip acquistò la sua prima opera  nel 1927, qui ne è esposta una del secondo dopoguerra, “Interno con tenda egiziana”, 1948, l’artista aveva quasi ottant’anni, il nero del fondo evoca l’età e le forme rosse e verdi la sua vitalità, con la palma che irrompe dalla finestra come segno di longevità;  in primo piano, il melograno con i  semi segno di fertilità, la lancia segno di virilità,  la gioia di vivere è ancora intatta. 

Fondo nero anche in “Il filodendro”, 1952, di Georges Braque, ritroviamo l’artista le cui natura morte avevano catturato Phillip venticinque anni prima, e lo affascinavano ancora mentre Braque continuava a farne la sua massima espressione pittorica, ne acquisterà 13, l’ultima è questa presa nel 1953, poco dopo la sua realizzazione. Si ispira a ciò che vedeva nel giardino della sua casa in Normandia, dove tornò a guerra finita, non c’è gioia di vivere ma un senso nostalgico, del filodendro si intravede la sagoma, protagonista è il tavolino tondo in primo piano evidenziato dal colore arancio con sopra caraffa, bicchiere  e mela, che sembra in rilievo, tale è il suo effetto volumetrico: fra il ricordo e il sogno, la realtà e la fantasia.

Tra le due ultime opere si collocano, cronologicamente, le nature morte del 1950  con cui chiudiamo la sezione, ricordando che  per gli artisti moderni questo genere è sempre stato un modo per sperimentare nuove forme espressive senza significati simbolici, ma con il gusto di selezionare e ordinare gli oggetti in base ai sentimenti personali che ispirano.  Questo si trova al massimo livello in Morandi, che con limitate eccezioni ha dedicato  la parte di gran lunga prevalente, e comunque la più rilevante, della propria attività artistica alle nature morte: non frutta ma oggetti, bottiglie e ciotole, brocche e vasi, che teneva nello studio impolverate studiandone le diverse disposizioni e assortimenti con un’attenzione ai volumi levigati e luminosi. Di Giorgio Morandi è esposta “Natura morta”. 1950, caraffa, brocche e bottiglie nella sua tipica tonalità delicata.

Vediamo inoltre “Natura morta, 17 marzo 1950”, dello stesso 1950, di Ben Nicholson. artista che ha avuto molti riconoscimenti e come Morandi teneva tanti oggetti nello studio per scegliere di volta in volta le composizioni, ma si esprime in modo radicalmente diverso:  non in modo figurativo ma con  l’ispirazione cubista che nell’opera citata sfocia in piani sovrapposti con geometrie bidimensionali.

L’espressionismo, dalla natura all’astrazione, Kokoshhka e  Kandinskij, Pollock e Rothko

Una  mostra tematica come questa presenta continui salti cronologici, perché i temi possono essere  compresenti negli stessi anni anche se vengono tenuti distinti, per cui si torna indietro nel tempo.

Nella 5^ sezione, “L’espressionismo e la natura”, torniamo di nuovo indietro di vent’anni  per una tendenza artistica che accentua i motivi personali e intimisti che al contrario  dell’impressionismo trovavano nella natura il punto di partenza e non di arrivo, il mondo non veniva visto nella sua realtà esteriore ma nella visione personale dell’artista che esprimeva le proprie emozioni attraverso il colore con forme e linee sempre più lontane da quelle  della realtà.  Il collegamento con la natura in questa sezione ne fa mantenere ancora la percezione visiva e non trasfigurata dall’interiorità. 

Lo vediamo nella rappresentazione panoramica “Courmayeur e la Dent du Géant”, 1927, di Oskar Kokoshka,  che lo dipinse con altre due opere in occasione di un viaggio in quella località. Il paese è incastonato nei monti,  dal cromatismo intenso con macchie di colore in un equilibrio compositivo che rende tutto chiaramente percettibile in una notevole profondità  prospettica. Fa parte della serie “Mondo dipinto” di cui Phillip acquistò 4 opere con molte altre dell’artista.

Più indistinti, con i soggetti  delineati  in modo appena percepibile,  due dipinti con intense tonalità, tra il marrone e il rosso con striature e forme verde scuro.Con “Ultimo bagliore, Galilea”, 1930, ritroviamo  Georges Rouault. l’artista della sofferenza umana  che trae dalla visione della natura il modo di collegare con la realtà la propria immaginazione di artista, si intravvede la barca di Pietro in un ambiente corrusco che si riflette nel titolo.

Mentre “Chiatta rossa”, 1931,  ci fa conoscere Arthur Dove, che con il gruppo di pittori intorno a Stieglitz esprimeva le proprie sensazioni dinanzi alla natura, e fu tra i primi ad arrivare all’astrazione. Il dipinto  raffigura la chiatta con volumi in movimento,  era il periodo in cui dormiva su una barca, la caratteristica saliente è data dalla visione raddoppiata dal riflesso sull’acqua,  da non considerare soltanto elemento visivo ma un appello all’immaginazione. Dove fu prediletto da Phillip che lo sostenne, acquistandone addirittura  60 dipinti tra il 1926 e il 1966..

“Il fagiano”, di Chaim Soutine, 1926-27, lo assimiliamo a questa modalità espressiva, forza  compositiva e cromatismo intenso, qui unito a contrapposizioni chiaro-scuro, immobilità e movimento. Nato in Russia e vissuto a Parigi tra i “pittori maledetti” , usa il colore in modo violento con pennellate dense, le sue nature morte sono popolate da animali, dai volatili ai conigli, fino al bue.  Phillip acquistò 4 suoi quadri e fu il primo  a presentarlo  negli Stati Uniti.

Il soggetto è ben percepibile, come in  Georgia O’ Keefe, che faceva parte con Dove del gruppo di Stiglitz:   lei si concentrava invece sui fiori visti molto da vicino nella loro composizione interna, con i pistilli ingranditi in modo che fu ritenuto allusivo. L’opera esposta “Motivi di foglie”, 1936, presenta una lunga frattura, le inseriva nelle sue figurazioni floreali come segno delle lacerazioni  che la attraversavano, anche per il tempestoso rapporto con Stiglitz. Phillip  acquistò 6 sue tele.

Un lungo salto indietro e troviamo  Vasilij Kandinskij,  il quale dal 1910 aveva già pensato che non occorreva un soggetto per l’espressione artistica, poteva anche essere astratta per il contenuto spirituale da lui attribuito all’arte,  tuttavia continuava a riferirsi alla realtà, come in  “Autunno II”, 1912, esposto in mostra. Mentre dei dipinti precedenti  abbiamo sottolineato  la percettibilità, maggiore o minore ma pur sempre presente del soggetto, qui notiamo l’astrazione:  la giornata autunnale è resa dai colori cui si assegnano significati simbolici, e non dalle forme assolutamente indistinte.  Del resto l’artista riteneva che la linea “liberata dal fine di disegnare una cosa funge essa stessa da cosa”. Un  astrattismo  in senso stretto,  pensiamo che siamo all’inizio del secondo decennio del secolo scorso.

La 6^ e ultima sezione, “L’espressionismo astratto” ci proietta nel secondo dopoguerra allorché negli Stati Uniti, anche per opera di artisti fuorusciti,  si sviluppò un movimento che assunse presto un valore internazionale, con gli artisti americani all’avanguardia in un espressionismo di tipo nuovo che, pur con riferimento ai maestri europei –  Klee, Mirò e Mondrian, oltre a quelli già citati – attingeva ad altre culture esotiche come i nativi americani e lo sciamanesimo per affrontare quella che chiamavano “crisi del soggetto”. 

I fuorusciti ci sembrano mantenere un legame debole ma percepibile con la cultura europea e le sue fonti di ispirazione. Il russo Nicholas De Stael lo mostra con “La fuga”,  1951-52, una serie di blocchi modulari nei quali  è riconoscibile l’origine naturale pur se non sono figurativi ma trasfigurati;  del resto l’artista, che ammirava Courbet e Braque, non si ritenne mai pittore astratto. Fu la prima delle 8 sue opere acquistate da Phillip,  che gli diede questo titolo trovandovi il ritmo e la ripetizione caratteristiche delle fughe musicali.  

Della portoghese Maria Elena Viera Da Silva, “Cavalletti da pittore“, 1960,  un’opera in cui l’intelaiatura verticale dà la sensazione di sbarre che creano angoscia.  E’ nel suo stile presentare una visione spaziale dalla percezione labile pur se non è antifigurativa. Tende a creare un’atmosfera piuttosto che  a rappresentare una scena o un soggetto, lo vediamo in questi  suoi “cavalletti”

Sono gli americani a distaccarsi del tutto dalla realtà  affidandosi all’atto del dipingere in sé e per sé per esprimere le proprie sensazioni ed emozioni del momento, di qui le diverse tecniche utilizzate.

A  Jackson Pollock  viene ricondotto l’espressionismo astratto, anche con lo sgocciolamento puro e semplice del colore. Non sono esposte opere di questo tipo,  quindi non ci soffermiamo su questa sua peculiarità artistica,  ma  “Composizione”, 1938-41,  del periodo precedente nel quale si ispirava all’arte dei nativi; infatti le figure richiamano maschere tribali rimaste nel suo inconscio.

“Numero 182”, di Morris Louis  rende bene, invece, la propria tecnica innovativa: faceva scendere il colore dall’alto sulla tela fissata nel telaio senza l’intermediazione della pennellata, e senza distinzione tra alto e basso dopo che il colore si era rappreso compenetrato nel tessuto. Le strisce dell’opera esposta sono  in colori forti e brillanti, un’iride verticale  di forte impatto cromatico.

Di Adolph Gottlieb,  “Equinozio, 1963, formato da quattro elementi circolari sfrangiati,bianco e nero, rosso  e blu,  uno sopra  e tre allineati che galleggiano su  fondo rosa in colori puri, un modo di evocare il fenomeno cosmico non del tutto astratto.

Mentre di Mark Rothko  è  esposta un’opera visibilmente assimilabile a questa. “Senza titolo”, 1968,  mostra al posto dei cerchi un rettangolo orizzontale sfrangiato che galleggia su un analogo fondo a tinta unita, arancio invece che rosa. Come già ricordato all’inizio, oltre ad acquistare 4 dipinti di questo artista, gli dedicò una sala apposita nel museo,  dedicata all’approfondimento. 

Ricordano i cerchi di Gottlieb alcuni elementi circolari in “La lezione”, 1975, di Philip Guston, che su un  paesaggio immaginario era solito inserire oggetti tangibili:  qui degli abbozzi di teste calve,  suole di scarpe e una bolla, forse la contrapposizione tra la caducità e la realtà della vita,  nell’indecifrabile astrazione.

Concludiamo con Richard Diebenkorn, marine di stanza a Washington che visitando il museo di Phillip si era appassionato ai grandi europei e agli americani Dove e Hopper, quest’ultimo non rappresentato in mostra.  Nel contrasto tra figurazione e astrazione, la luce e il colore hanno grande rilievo, lo vediamo in “Berkeley n. 1″, 1953, con macchie cromatiche luminose, mentre l’opera di quasi vent’ anni dopo, “Ocean Park n. 38“,  fa parte della serie così intitolata nella quale l’astrazione rende in modo visibile la luce della California dove si era trasferito a Santa Monica. In quest’opera i gialli  di varie intensità con l’azzurro del cielo su piani allineati o sovrapposti sono parte dell’astrazione stilistica, ma non si differenziano,  pur in una forma così diversa, da una contemplazione di tipo classico.

Termina la cavalcata nell’arte dell’800 e ‘900 iniziata con il classicismo;  l’espressionismo astratto raggiunge il suo culmine quando l’osservatore riesce a cogliere i sentimenti dell’artista come in questo caso.  Analogamente per le altre correnti ricordate nelle quali  è il soggetto a dominare.  Tutto converge nell’autentica  manifestazione artistica senza tempo e senza nazionalità perché universale. E la mostra ne dà una dimostrazione visiva fonte di continue emozioni per il visitatore.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Impressionisti e moderni”,”Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940″ e, fino al 15 dicembre è stato possibile vedere anche “Russia on the Road” (cfr. i nostri articoli, in questo sito, su “Una dolce vita?” 1°, 14 e 23 novembre, “Russia on the Road” 18 e 26 novembre 2015).  Catalogo “Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillip Collection di Washington”,  Silvana Editoriale, 2015, pp. 166, formato 24,5 x 28,5.dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sono usciti in questo sito il 12 e 18 gennaio 2016, con 12 immagini ciascuno.  Per gli artisti e movimenti citati nel testo, cfr. in questo sito i nostri articoli su  Matisse  23 e 26 maggio 2015,  Morandi, 17 e 25 maggio 2015, per Pollock, Rothko e gli altri artisti americani i due articoli sul Guggenheim  22 e 29 novembre 2012, per l’arte culinaria di Pollock l’articolo del 3 luglio 2015 sulla mostra di presentazione degli Usa all’Expo; in “cultura.inabruzzo.it”, su Georgia O ‘Keeffe due articoli del febbraio 2012 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, la Phillip C   ollection e i singoli artisti,  per l’opportunità offerta. Sono riportate prima tre immagini della 4^  sezione della mostra commentata in questo articolo, mentre le altre quattro immagini sono nell’articolo precedente; poi le immagini delle sezioni 5^ e 6^ qui commentate. In apertura, Henri Matisse,  “Interno con tenda egiziana”, 1948; seguono,  Raoul Dufy, “Joinville”, 1938, e Georges Braque, “Il filodendro”, 1952; poi, Oskar Kokoschka,  “Courmayeur e la Dent du Géant”, 1927,  e  Georgia O’ Keeffe,  “Motivo di foglie”, 1926;  quindi,  Georges Rouault, “Ultimo bagliore, Galilea”, 1930,  e Vasilij Kandinskij, “Autunno II”,  1912;  inoltre, Jackson Pollock,  “Composizione”,  1938-41, e Richard Diebenkorn, “Berkeley n. 1”, 1953; infine, Mark Rothko, “Senza titolo”,  1968, e Philip Guston, “La lezione'”, 1975; in chiusura, Adolph Gottlieb, “Equinozio”, 1963, si intravede sulla dx la parte finale di “Numero 182” di Morris Louis, in primo piano l’ombra di una visitatrice.

Accessible Art,, le “Dfferent Views” di 5 artisti

di Romano Maria Levante 

La nuova mostra della galleria RvB Arts di via delle Zoccolette a Roma, con l’Antiquariato Valligiano dell’adiacente Via Giulia, presenta le “Different Views” di cinque artisti,  Fabio Imperiale  e  Annalisa Fulvi,  Arianna Matta, Charlie Manson e Bato. La mostra è aperta dal 14 gennaio al 2 febbraio 2016, organizzata e  curata da Michele Von Buren, nell’ambito del programma “Accessible Art”  che attraverso frequenti  mostre-mercato mira a diffondere l’arte in ambiti familiari con opere valide artisticamente, accessibili economicamente e adatte all’ambiente domestico.

“L’Epifania tutte le feste si porta via”, è l’antico motto ben noto, e si è portata via anche la mostra natalizia “Alice in Wonderland” che ha allietato le feste con l’immagine deliziosa della fanciulla coinvolta in avventure quanto mai fantasiose e intriganti cui si sono ispirati gli artisti espositori.  

Ma finita una mostra se ne fa un’altra, ha pensato l’infaticabile animatrice di RvB Arts,  Michele von Buren, ed ecco che dopo meno di un settimana di intervallo apre una nuova mostra con i percorsi stilistici e di contenuto,  le “Different views”  di cinque artisti che presentano le rispettive visioni e percezioni di una realtà con tante facce e con stili personalissimi.

Sono raffigurazioni di ambienti visti con occhi che vanno oltre l’apparenza, alla ricerca dell’essenza più profonda da rivelare usando le tecniche e le forme più adeguate alla propria visione: si va così dal figurativo precisionista a simbolismi ed astrazioni che creano una scenografia ricca e mutevole.

Prima di fare una rapida rassegna dei cinque artisti e delle loro “Different views” non si può non sottolineare ancora il programma, meritorio quanto ambizioso, che Michele von Buren persegue da anni nella galleria all’insegna dell’ “Accessible Art” impegnandosi per far entrare nelle famiglie l’arte contemporanea. Per fare ciò seleziona tra le opere di artisti attuali quelle compatibili con l’ambiente domestico – e sappiamo come l’arte spesso si esprima oggi in forme incompatibili – e quelle  accessibili sotto il profilo economico, di autori di sicura qualità e caratura artistica.

In tal modo ha creato una squadra di 20 pittori, 5 scultori e 13 fotografi d’arte  che, insieme ai frequenti nuovi arrivi, riesce a dar vita a cicli espositivi ravvicinati. Artisti con contenuti e stili diversi per un percorso comune,  coerente con le finalità del programma: la formula della galleria, al di là della mostra contingente, è di presentare tante “different views” convergenti su finalità in cui l’interesse collettivo si aggiunge alla valorizzazione di giovani emergenti e di artisti affermati.

Così nelle mostre che si succedono, le nuove opere in esposizione convivono con significative persistenze e permanenze di opere precedenti, creando un clima familiare, perché si ritrovano ogni volta opere divenute amiche cui si è affezionati, in  un’atmosfera resa ancora più confidenziale dai mobili dell’Antiquariato Valligiano che rendono l’dea del loro inserimento in un arredamento domestico raffinato,  e anch’esso accessibile, che viene ugualmente proposto  ai visitatori.

Abbiamo descritto ripetutamente questo programma e il suo valore, lo ricordiamo ancora  per l’importanza che si deve attribuire a un’iniziativa  ben oltre l’aspetto meramente espositivo.

Ed ora percorriamo le “Different views” presentate dalla mostra attuale con cinque artisti attraverso le opere esposte nelle due accoglienti sale della galleria  RvB Arts, quasi tutte realizzate nel 2015.

Imperiale, Matta e Fulvi;: solitudine, alienazione, sospensione

Il primo espositore che incontriamo è Fabio Imperiale, un artista romano il cui percorso va dalle lontane prospettive urbane alle visioni ravvicinate di  strade bianche rese ancora più desolate e solitarie da alcuni animali, fa pensare al cavallo che passa nella desolazione per sottolineare la solitudine di Gelsomina nella “Strada” di Fellini.  Solitudine che si trasferisce alla figura femminile nel primo piano della testa vista dal retro “Da sola”,  quasi priva di personalizzazione per renderla emblematica: rimane impressa la sequenza dei tre volti  su una piccola scala in una ascesa ideale.

Gli esterni urbani sono un soggetto che abbiamo visto in diverse mostre recenti, dalle “Periferie” di Sironi alle immagini notturne illuminati da fasci di luce di Bergamini, fino alle spettacolari panoramiche di  Ottieri. Imperiale con le sue opere entra in questa galleria con le diverse facce della realtà che dall’esterno entra in noi; come restano impresse le immagini di solitudine umana.

La solitudine, collegata all’assenza di integrazione nel contesto urbano e sociale, che resta estraneo e quasi ostile al soggetto che ci vive e vi si dovrebbe inserire organicamente, porta all’alienazione. Forse  hanno portato l’artista a evocare questo tema nelle sue opere gli iniziali studi di grafico  pubblicitario nei quali  ha conosciuto direttamente la manipolazione dei comportamenti con la creazione di bisogni indotti lontani dalle reali esigenze umane al solo scopo di sostenere la produzione in un inseguimento senza fine, che Warhol ha trasferito nell’arte in una consacrazione del consumismo rivelatrice.

I titoli sono  criptici,  e non  solo per la lingua, abbiamo gli allusivi “Come in un sottotetto” e “Non per colpa ma per vento”.

In fondo alla sala,  le opere di Arianna Matta riflettono anch’esse l’alienazione  in una forma pittorica i cui i luoghi abbandonati e desolati sono resi in una densità materica e un cromatismo che rispecchia lo stato d’animo dinanzi a una realtà sempre più frammentata e straniante. E’ un’artista romana, laureata al Dams che ha frequentato i corsi  della “Rome University of Fine Arts” , dal 2009 ha effettuato 4 mostre personali e 9 collettive, finalista nel 2011 di tre premi, di cui uno a Los Angeles. I titoli delle opere esposte parlano di “assenza”, in fondo è questa la fonte e l’effetto dell’alienazione.

Sempre nella prima sala fronteggiano, per così dire, le visioni urbane di Imperiale, quelle ravvicinate di Annalisa Fulvi, le quali riprendono da vicino strutture architettoniche  percorse e sostenute da trame che le attraversano come delle nervature o degli orpelli, e viste nella fase realizzativa danno l’idea della provvisorietà e della sospensione.

In effetti, viviamo in una realtà dove  l’architettura non ha più i caratteri di stabilità stilistica e persistenza del passato che ci ha tramandato i più imponenti e spettacolari edifici e templi dai quali veniva il carattere identitario di un’epoca o di una forma costruttiva.  Per tutti valgano i rifacimenti in corso di grandi edifici pur recenti dell’Eur a Roma, ben più radicali degli interventi  che avvenivano in omaggio ai nuovi stili, come per il barocco spesso sovrapposto alla semplicità francescana di facciate ed interni delle chiese.

Diciamo questo solo per sottolineare  che l’evidenziare,  da parte dell’artista, l’instabilità e il cambiamento delle forme architettoniche  riflette una realtà sotto gli occhi di tutti per cui le sue opere suscitano un interesse particolare come un invito all’osservatore a cercare riferimenti e affinità con la propria esperienza diretta.

Milanese, si è laureata all’Accademia delle Belle Arti di Brera, con specializzazione in pittura, nel 2011 vincitrice del premio Ghiggini Arte Giovani di Varese e finalista in altri 4 premi, nel 2012 finalista al Premio Lissone, in questi due anni 4 mostre personali in Lombardia; dal 2007  al 2013 ha partecipato a 23 mostre collettive, una in Belgio nel 2010, una in Turchia nel 2012.

Masson e  Bato:  luminosità ambientale e leggerezza calligrafica

 Molto diverse le opere degli altri due artisti,  sono vedute ambientali dove non si avverte alienazione e frammentarietà nelle forme e nella densità cromatica, bensì serenità  e leggerezza nelle tinte delicate e nella purezza compositiva.

Charlie Masson utilizza linee al posto di strati materici,  tracce sottili in un contesto luminoso bianco e celeste, le sue vedute rurali e urbane sono state  accostate alle rappresentazioni solari delle tranquille residenze della provincia americana nella serenità del vivere quotidiano di Edward Hopper. D’altra parte,  Masson è nato a New York, quindi l’influsso americano è pertinente, si è laureato nella School of the Art Institute di Chicago e ha conseguito il Master al Camberwell College of Arts di Londra; nel 2010 ha ottenuto una borsa di studio alla Royal Drawing School. E’ un artista internazionale, dal 2007,  20 mostre collettive, di cui 10 a Londra e 4 a New York, e 2  personali, a  Parigi nel 2013 e a Miami nel 2015.

Il quinto artista, che espone nella seconda sala dello spazio espositivo, è Daniele Battocchi, in arte Bato,  romano, con formazione umanistica oltre che artistica, da dieci anni realizza originali  performance pittoriche  con musicisti jazz allo Smoker’S Hot Club di Roma. Ha compiuto viaggi in Europa e in Sud America, che hanno contribuito al suo stile  basato sull’improvvisazione in una immediatezza documentaria resa con la china e l’acquerello. Vediamo ampie superfici bianche in un approccio calligrafico che a volte viene interrotto da grandi macchie per l’impulso del momento, sono opere “Senza titolo” aperte all’interpretazione e alla fantasia dell’osservatore.

La sua appare una visione espressionista in quanto manifesta all’esterno le pulsioni interiori, ma la leggerezza, la forma stilistica delicata e rarefatta, è molto diversa da quella  degli espressionisti in senso stretto.

Con Bato si concludono le “differenti vie”  della mostra, in una convergenza sul tema esistenziale  nell’attuale  contesto urbano e ambientale, dove le differenze maggiori, oltre a quelle stilistiche e di contenuto, risiedono nelle visioni contrastanti dell’alienazione e della serenità, compresenti nella vita. Sono,  in fondo,  gli opposti moti dell’animo che la realtà odierna suscita in noi a seconda di come vediamo ciò che è fuori di noi per le motivazioni  profonde  che sono dentro di noi.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 13 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 25 dicembre, 9 novembre, 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Per la citazioni del testo cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di Sironi  2 novembre e 7 gennaio 2015, 1, 14 e 29 dicembre 2014,  Ottieri 11 maggio 2015,  Bergamini 6 dicembre 2013,  Warhol 15 e 22 settembre 2914,  sul Barocco 23, 30 giugno e 4 luglio 2015; in “cultura.inabruzzo.it”  per Hopper  12 e 13 giugno 2010    (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, e in particolare Michele von Buren, con gli artisti titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, un’opera di Fabio Imperiale; seguono un’altra sua opera e due opere di Annalisa Fulvi; poi, due opere di Arianna Matta; quindi, due affiancate di Charlie Masson; inoltre due opere di Bato; in chiusura due affiancate di Fabio Imperiale.

Pittori di Marina, sei artisti premiati e un libro celebrativo

di Romano Maria Levante

Il 20 gennaio 2016 nella Biblioteca centrale del Palazzo della Marina a Roma è stato conferito il  titolo “Pittore di Marina” a sei artisti che si sono segnalati per i loro dipinti di soggetto marinaro: Alessandro Feruglio e Giuseppe Frascaroli, Mario Magnatti e Gianfranco Munerotto, Davide Orler e Gianni Testa. Inoltre è stato presentato il libro “La storia della Marina attraverso i dipinti“, dell’ammiraglio Paolo Bembo Vice presidente dell’Associazione “Pittori di Marina”, dal comandante Giosuè Allegrini  Capo Ufficio Storico della Marina Militare, che lo ha curato con  l’editore Carlo Rodorigo intervenuto alla manifestazione insieme allo storico Enrico Cernuschi. Ha presieduto il capitano di vascello Luca Conti, Capo Ufficio Immagine e Promozione,  in chiusura il saluto dell’ammiraglio Raffaele Caruso in rappresentanza del Capo di Stato Maggiore della Marina.

Una vera immersione, è il caso di dirlo, nel mondo della Marina, si è svolta nella Biblioteca dello storico palazzo con i  pittori che hanno realizzato opere artistiche sulle navi e sull’ambiente marino.

I diplomi  ai sei “Pittori di Marina” e il libro sulla storia della Marina in pittura

Non si è trattato di una mostra, come per le opere dei “Pittori del Risorgimento” presentate alle Scuderie del Quirinale alla fine del  2010, ma delle due originali iniziative citate: il conferimento del titolo di “Pittore di Marina” , con apposito diploma, ai sei artisti  dei quali sono state mostrate significative riproduzioni di dipinti marinari; e la presentazione del libro “La storia della Marina attraverso i dipinti” dell’ammiraglio Paolo Bembo. C’è uno stretto collegamento tra i due momenti, perché questi pittori hanno anche alimentato con le loro opere la galleria iconografica del volume. 

L’Associazione Pittori di Marina, di cui l’autore è Vicepresidente, istituita nel 1998,  conferisce  periodicamente questo riconoscimento collegato a un’antica tradizione, addirittura preunitaria  e mantenuta fino all’ultimo dopoguerra,  rinverdita con la costituzione dell’associazione.

Abbiamo parlato di immersione nel mondo della Marina perché si è andati ben oltre la cerimonia del conferimento dei diplomi da parte del capitano di vascello Conti e del comandante Allegrini,  e la presentazione del libro sulla storia della Marina attraverso i dipinti,  donato anch’esso ai premiati.

I valori e la storia della Marina sono stati illustrati nel lungo e appassionato intervento del presidente dell’Associazione  comandante Allegrini, che ha introdotto anche il libro dell’amm. Bembo,  con il commento altrettanto appassionato dello storico della Marina Cernuschi

Nulla di burocratico né militaresco, ha prevalso la cultura nelle rievocazioni marinare e l’arte nelle pur indirette visioni delle opere dei pittori insigniti del riconoscimento. Il capitano di vascello Luca Conti,  nel presiedere la manifestazione, ci ha tenuto a sottolineare   l’importanza che la Marina attribuisce alla cultura e all’arte nella diffusione e divulgazione dei propri valori.

Ampio spazio anche alla storia, la lunga storia della Marina che aleggiava  nel grande palazzo illustrato nell’apposito intervento del sottotenente di vascello Desireé Tommaselli:  costruzione iniziata nel 1912 su un progetto Liberty, ripresa dopo la prima guerra mondiale su diverse basi stilistiche e con inserimento nel 1929  alla base della facciata dei “manufatti della vittoria navale”, le due gigantesche ancore delle  corazzate  affondate “Lissa”, quasi una rivincita sulla storica battaglia, e la  poderosa  “Viribus Unitis”, che hanno reso il Palazzo un “unicum” immediatamente riconoscibile.  La stessa Biblioteca, nella quale si è svolta la manifestazione, reca i simboli marinari nelle ringhiere e nello spettacolare  lampadario, oltre che, naturalmente, nei preziosi volumi allineati negli antichi scaffali che fasciano interamente il vasto salone.

L’attività militare della Marina è stata imponente anche nella Grande guerra che invece nell’immaginario collettivo è ricordata come guerra di trincea, da Caporetto a Vittorio Veneto, dal Carso a Montegrappa, lo dimostrano i numeri forniti, citiamo solo le  86 mila missioni, corrispondono a molte volte il giro del mondo; altrettanto imponente la documentazione, ben 10 milioni di documenti e 1 milione di fotografie.  Ma non si deve considerare solo l’aspetto militare, quanto quello economico: la sicurezza dei mari è la base degli scambi commerciali che nella storia dell’umanità hanno  avuto grande sviluppo  per il fondamentale apporto delle attività marinare.

Nella presentazione del proprio libro,  l’ammiraglio Bembo ha ricordato che l’idea di una storia della Marina attraverso i dipinti gli era stata data dal Capo di stato maggiore in anni lontani, cui sono seguite lunghe ricerche.  Ha poi precisato che ci sono i “pittori illustratori navali” in senso anglosassone, non uomini di mare ma osservatori spesso tanto attenti da riuscire a rendere la vita marinara non vissuta direttamente, tra loro ha citato Bucci; e “pittori uomini di mare” che a parità di talento artistico hanno “una marcia in più”.  Tanto altro è stato detto sul libro anche dallo storico Cernuschi, ma dobbiamo tornare sull’altro evento della giornata, il conferimento dei diplomi.

Al riguardo presentiamo ciascuno dei sei artisti riconosciuti “Pittori di Marina”, in base alle immagini fornite e ai dati biografici, che aiutano a conoscere il loro rapporto con il mondo del mare.

Di tre artisti vediamo dipinti di navi della Marina Militare in navigazione nella loro imponenza.

Le navi di Alessandro Feruglio sono quasi in dissolvenza, in un’atmosfera rarefatta:  due oli con una nave portaerei  nel Centenario dell’Aviazione di Marina, e il “Sommergibile  Emo” mentre emerge tra le onde, e due acquerelli, la “Nave Impavido” e le  “Vespucci”  e “Palinuro”, la celebre nave scuola in primo piano mentre dietro si vede la sagoma simile dell’altra, quasi il suo riflesso.

Appassionato di mare fin da bambino, studi nautici a Venezia, diplomato nell’Istituto nautico di Trieste, guardiamarina dopo un corso nell’Accademia navale di Livorno, anche se dopo aver terminato il servizio militare in Marina lavorerà in banca; ma resterà sempre appassionato di mare.   Si imbarca su varie unità  a vela negli anni ‘80 e partecipa ai raduni e alle regate di barche d’epoca.

Comincia a ritrarre navi e barche a vela soprattutto nel mare in burrasca finché l’entusiasmo per la Coppa America non lo porta negli anni ’90 a dipingerne le regate esponendo i suoi lavori fino  a partecipare nel 1998 al concorso “Pittori di Marina” indetto dall’Ufficio storico della Marina Militare; ha poi dipinto immagini delle unità della Marina Militare, da quelle storiche alle più recenti, come quelle citate. Uomo di mare, ha tradotto nell’arte la sua autentica passione, appartiene alla categoria che ha vissuto nell’ambiente marinaro e ne conosce motivazioni  e atmosfere.  .

Di Mario Magnatti vediamo tre “digital paint” della “Nave Cavour”, ripresa di coda, che ne riduce l’imponenza, e la “Nave Gaeta”, con fumi neri che escono dai fumaioli, oltre all’ “Incrociatore classe Zara”, nello sfondo  un cielo nuvoloso; si vede ritratto anche l’ammiraglio De Giorgi.

Nella sua biografia non ci sono riferimenti marinari ma  molti riconoscimenti artistici per le  opere in cui utilizza varie tecniche impegnandosi anche nella ricerca.  I primi successi dal 1994 al 1997, in cinque concorsi nazionali due volte primo e tre volte terzo; dopo cinque anni di interruzione, dal 2002 al 2013,  primo in quattro concorsi internazionali  e in uno nazionale, secondo in tre concorsi internazionali e terzo in un concorso nazionale. A questi si aggiunge un gran numero di altri premi internazionali. Lo consideriamo tra i cosiddetti “illustratori”, non uomini di mare ma profondi conoscitori delle navi e dell’ambiente marino per passione.

Ugualmente nella biografia di Gianfranco Munerotto non ci sono precedenti di vita marinara vissuta di persona, il suo interesse per il mare è di natura storica, studioso com’è della marineria antica e tradizionale non solo attraverso i documenti ma anche mediante l’iconografia artistica come verifica, in particolare dei materiali da lui ricostruiti per le imbarcazioni venete. Ha pubblicato illustrazioni e ricostruzioni grafiche, ha catalogato e valutato sotto il profilo storico  i reperti di barche e collabora con il Museo storico navale di Venezia, ha  realizzato dipinti anche per conto della Marina Militare. Un impegno di studioso il suo che nasce dalla passione per la marineria antica e si è trasferito nella pittura di Marina, con l’aderenza alla realtà e la precisione nel ritrarre le navi data dalla sua conoscenza specifica, e l’aggiunta di un ambiente marino fatto di luci e di colori, non convenzionale ma personale,  dagli effetti suggestivi.

Lo vediamo nei quattro oli presentati,  due sulla “Nave Luigi Rizzo” e “Nave Perseo“, due sul “Sommergibile Toti” e  sulla nave portaerei per il Centenario Aviazione Navale. Sono immagini  con forte evidenza cromatica, scene movimentate dai marosi nella superficie del mare e dagli aerei ed elicotteri in volo, a parte il sommergibile qui visto in completa immersione nella sua imponenza.

Frascaroli, Orler: ammiragli e barche da favola

Di Giuseppe Frascaroli vengono presentati tre oli con i ritratti di ammiragli; due  a mezzo busto di Giuseppe De Giorgi e Paolo Thaon De Revel, concentrati sull’espressione del volto; uno di grandi dimensioni, a figura intera, Paolo Thaon De Revel  in piedi tra simboli patriottici e sfondo marino.

Anche per lui non si forniscono precedenti marinari, ma la storia artistica che lo pone “tra i più talentuosi e autorevoli pittori figurativi classici”, come “il pittore neoclassicista italiano di maggiore rilievo a livello istituzionale”, studioso anche di arte pittorica.  Si è segnalato nella pittura di matrice religiosa e colta, è noto come il “Pittore dei Papi”,  ed è ritrattista e paesaggista, con preferenza per la pittura di soggetto marinaro, ed ecco spiegati i ritratti di ammiragli in cui unisce le due inclinazioni, per il ritratto e per la marina. Il lungo elenco delle sedi istituzionali italiane ed estere  dove sono collocate le sue opere, degli ambiti museali nazionali e internazionali con testimonianze bibliografiche ed iconografiche e delle onorificenze  dà un’idea dell’unanime riconoscimento alla sua elevata caratura artistica.

E siamo a uno dei due pittori che abbiamo lasciato per ultimi non solo per l’ordine alfabetico, ma anche per il differenziarsi dai quattro artisti precedenti, sotto il profilo dei soggetti marinari presentati:  non moderne e imponenti  navi da combattimento, né ammiragli in alta uniforme,  ma scene pittoresche ed evocative  in un ambiente suggestivo che crea una magica atmosfera.

E’  Davide Orler, al quale è stato conferito il riconoscimento di “Pittore di Marina” alla memoria, essendo scomparso il 7 dicembre 2010, il diploma è stato ritirato dal figlio.  Conosceva per esperienza diretta la vita marinara, essendosi arruolato volontario a 18 anni in Marina per il suo attaccamento al mare, non volendo andare negli alpini cui era destinato come trentino.  Resta in Marina per l’intero periodo di ferma di otto anni, imbarcato sui dragamine e su altre navi nel servizio di pattuglia nei mari italiani.

Si dedica fin da giovanissimo all’arte e alla pittura, traendo ispirazione dall’amore per la sua terra nei  paesaggi montani e dalla passione per il mare nei dipinti con visioni mediterranee e immagini ambientali di località marine.  A questi temi unisce  una forte sensibilità per i motivi spirituali, che lo porta all’arte sacra, ritrae  la figura tragica dell’Ecce Homo e del Cristo morto. Dalle immagini sacre a quelle marine, domina nelle sue raffigurazioni  il senso del pathos.

A 26 anni,  con la prima personale ha in premio la collocazione per quattro anni in uno studio di artisti veneziani, l’anno dopo in una nuova personale al Museo Picasso di Antibes conosce il grande Pablo Picasso, e con lui protagonisti della cultura e dell’arte, come Germaine Richter, Jean Cocteau,  Jaques Prévert. Presente alla Biennale d’Arte sacra di Bologna, alla Biennale  di Milano e alla Quadriennale di Roma, nel 1963  ottiene il primo premio di pittura ex aequo all’Opera Bevilacqua La Masa;  oltre quarant’anni dopo, nel 2007, il premio alla carriera alla Biennale internazionale di Firenze. Nel mezzo,  tante mostre personali e tanti riconoscimenti che fanno di lui “uno dei più rilevanti figurativi italiani della seconda metà del Novecento”. Degli anni ’90 va ricordato il suo ciclo pittorico della Bibbia, un centinaio di dipinti sul Vecchio e Nuovo testamento.  

I quattro dipinti a olio presentati parlano per lui, “A Palermo 2” e “Porto Carbone a Palermo 2” mostrano barche tratteggiate con straordinaria evidenza materica, in un figurativo all’opposto del  precisionismo, con lo spessore del tratto e la forte colorazione riesce a far sentire ciò che anima l’ambiente riprodotto; “Barca a vela” e “Le sirene” sono immagini  con altrettanta intensità materica e cromatica, rendono mirabilmente l’aspetto favolistico e onirico dei soggetti raffigurati.

Gianni Testa: le vele marine nell’espressionismo onirico

Ed eccoci infine a Gianni Testa, l’ultimo dei premiati in ordine alfabetico,  il primo nei nostri pensieri  avendone conosciuto a fondo e commentato con sincero apprezzamento la pittura ricca di motivi e di suggestioni, che abbiamo definito a suo tempo “espressionismo onirico” per la forza delle sue composizioni. Esse spaziano su una gamma quanto mai vasta, dai celebri cavalli alle nature morte, dalle piazze romane alle persone, ritratti e non solo, dai temi sacri alla Divina Commedia, fino ai paesaggi e alle marine.

Un eclettismo tematico il suo, associato a una unitarietà stilistica che deriva da un iter formativo artistico particolarmente ricco innestato su una passione per la pittura che lo portò a lasciare gli studi di architettura intrapresi con risultati di eccellenza dopo due anni.  Nella scuola di restauro della Galleria Borghese guidata dalla direttrice prof.ssa Della Pergola approfondisce i metodi e le tecniche con cui i Maestri del passato davano vita ai soggetti delle loro opere trasmettendo emozioni e sensazioni, e vi trova ulteriori motivazioni, tanto che si dedica  al restauro per dieci anni.

Poi un’ulteriore tappa della sua formazione sul campo, dopo il restauro la scultura con il maestro Bartolini, che sarà fondamentale nel passaggio alla pittura non solo come passione ma  come definitiva sua espressione artistica con l’approccio dello scultore unito a quello del restauratore.

Ha approfondito l’arte degli antichi maestri, ora entra in contatto con i suoi contemporanei,  Guttuso e Calabria, Quaglia e Levi, e ne diventa amico. Carlo Levi nel 1962  lo spinge  a partecipare ad una collettiva di pittura con Renato Guttuso e Quaglia, Mazzacurati e Purificato, conoscerà anche Pericle Fazzini.  La sua arte, pittura e scultura,  viene apprezzata sempre di più dalla critica.

Partecipa regolarmente alle più prestigiose rassegne collettive d’arte, dalla Biennale di Roma sin dal 1968, alla Triennale di Milano e Quadriennale di Roma dal 1975,  premiato in concorsi d’arte,    dal primo  premio al “Brandy italiano” del 1970  al Premio alla carriera ottenuto di recente. Mostre personali in Italia e all’estero, Germania e Svizzera, Stati Uniti e Giappone fino al tour artistico negli Emirati arabi dall’aprile 2015 all’aprile 2016 con il patrocinio della Presidenza del Consiglio.

Le sua formazione si riflette in uno stile molto personale, una densità materica che rimanda al restauro e un modo di estrarre le forme dalla materia pittorica che rimanda alla scultura..

E quali forme! I  cavalli scalpitanti sono la sua espressione più celebre e spettacolare, con la loro straripante vitalità,  come fossero onde che si formano incessantemente senza tregua. Possiamo vedervi un richiamo al mare, del resto non sono chiamate “cavalloni”  le onde del mare agitato?  Forse anche con riferimento al mare si può interpretare l’insistenza con cui li ritrae, “Gli stalloni” e “Bradi liberi”, “Bradi festosi” e “Bradi nella notte”, “Lotta di bradi” e “Battaglia”, in composizioni  dinamiche  con  cromatismi che riflettono le atmosfere più variate e suggestive.

Come le vele sul mare, presentate quale sigillo della sua attenzione alla Marina, dove traspaiono alcuni motivi ricorrenti nella sua arte. Dei cavalli abbiamo detto, ma ci sono anche i paesaggi, “Sintesi di Roma” e “Ruderi di notte”, “Piazza del Popolo”,” Piazza Navona”,  e “Piazza di Spagna”  con facciate e monumenti in particolari condizioni di luce: si vedono le cupole  dietro le “Vele a Venezia”, come un miraggio; e i paesaggi,  in “Gara velica”  la montagna, dal profilo del Vesuvio, con  un cielo corrusco. In “Vele”, e soprattutto “Vela rossa”,  spicca la  densità materica.

Nella mostra antologica a lui dedicata al Vittoriano nel 2014  abbiamo potuto vedere  non solo quelle ora accennate, ma anche altre espressioni artistiche, dalle Nature morte alla galleria di figure umane: i ritratti femminili,  “Maria Grazia” e “Lidia Ceccarelli“, “Ragazza peruviana” e “Marilyn Monroe”,  i grandi personaggi, “Anita  e Garibaldi” e  “S. S. Giovanni Paolo II”, le composizioni dinamiche,  “Balletto notturno” e “Danza”,  quelle con forte cromatismo “Danzatrici” e “Danza orientale. e le scene intense, “Pace”“Inquisizione “,  il sacro di “La caduta  di Paolo” e “Mana Hata”, “Crocifissione” e “Il Calvario”. Fino alla “Divina Commedia”, con il verde del “Paradiso”, che nel “Purgatorio” si mescola al rosso, dominante nell'”Inferno” insieme al nero; un inferno che “Undici settembre” porta nella realtà, con le fiamme infernali che divorano le Torri Gemelle, un’immagine definita da Claudio Strinati  più verosimile di quella vera.

Una straripante polifonia di soggetti e temi in una rigorosa coerenza stilistica manifestata nella estrema complessità materica in una  varietà di colori che va dal blu diffuso delle ambientazioni notturne al magmatico tripudio coloristico delle altre composizioni. 

La massa cromatica è la materia informe dalla quale, afferma Strinati, l’artista “tira fuori la forma”  come Tiziano nelle ultime opere, al pari di Michelangelo dal marmo: “Talvolta Testa sbozza l’immagine con grandi campi di colore per cui sembra di vedere alternarsi sulla tela una tendenza a sfumare e una a definire, contigue ma inseparabili”. Nelle sue composizioni “il colore appare come un vento cromatico che spinge delle foglie, che sono le pennellate stesse, a coagularsi in forme di figure, mentre altre volte si nota un sorprendente contrasto tra una potente accensione della cromia e un altrettanto esplicito incupimento della materia pittorica”. 

E’ una definizione che si attaglia alla perfezione alle sue “Vele”, non solo formate ma addirittura spinte dal “vento cromatico”, che le definisce e le accende,ma anche, come in “Vela rossa”, tende a sfumarle e incupirle.

Se la forma è così intrigante, il contenuto che esprime lo è altrettanto: non rappresenta la realtà  fattuale ma la realtà virtuale come viene percepita dall’artista con le sue pulsioni interiori e rivissuta dall’osservatore che vi trasferisce le sue visioni, i suoi sentimenti, i suoi sogni. Perciò la definizione  “espressionismo onirico” ci sembra possa rendere il senso delle suggestioni provate e suscitate.

Le vele e il mare hanno sempre alimentato i sogni di tutti, per il senso di libertà che trasmettono con la dimensione indefinibile dell’infinito non disgiunta dalla sottile inquietudine legata all’ignoto che affascina mentre sgomenta portando alla riflessione, all’autoanalisi, alla meditazione.  In definitiva  chiamano a raccolta i sentimenti più autentici e profondi, anche quelli sedimentati nella memoria. 

E’  confortante, dunque,  vedere che tra le opere mostrate come rappresentative dei “Pittori di Marina”, oltre alle imponenti sagome delle grandi navi che ricordano le missioni militari sui mari, ci siano anche le piccole vele che evocano una dimensione magica, coinvolgente, quella dell’infinito: nella misteriosa realtà dell’ambiente marino e in quella ancora più insondabile dell’animo umano.

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La manifestazione si è svolta il 20 gennaio 2016  alla Biblioteca Centrale di Palazzo Marina, Piazza della Marina, 4, Roma. Tel. 06.3680.3870,  http://www.marina.difesa.it/   Cfr., in questo sito, i nostri articoli:  sull’opera di uno dei sei nuovi “Pittori di Marina”,  “Gianni Testa, l’espressionismo onirico al Vittoriano”, 14 settembre 2014, e “Gianni Testa, il tour negli emirati arabi”, 14 marzo 2015; sugli artisti riferiti a Testa,  Carlo Levi e la mostra alla Galleria Russo,  28 novembre e 3 dicembre 2014,   Renato Guttuso e la mostra al Vittoriano, 25 e 30 gennaio 2013. Inoltre, in “cultura.inabruzzo.it” , cfr. i nostri 3 articoli sulla mostra citata nel testo “Pittori del Risorgimento” alle Scuderie del Quirinale,  “L’epica” il 29 dicembre 2010, “Il popolo in armi” e  “Il popolo in ansia” l’8 gennaio 2011 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).   Per Gianni Testa v. il Catalogo, dal quale abbiamo tratto le immagini appositamente aggiunte nel commento, “Gianni Testa, antologica”, a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, settembre 2014, pp. 112, formato  21 x 28.

Foto

Le immagini dei sei artisti e del conferimento del titolo di “Pittore di Marina” sono state riprese da Romano Maria Levante nel corso della manifestazione al Palazzo Marina, mentre le riproduzioni dei loro dipinti marinari sono tratte dal “depliant” dell’Ufficio Informazione e Comunicazione della Marina Militare che si ringrazia.  I titoli, con consegna del diploma,  sono stati conferiti in ordine alfabetico, mantenuto nel nostro resoconto salvo una posposizione dovuta al nostro raggruppamento tematico. Per ogni artista l’immagine della premiazione, seguita immediatamente dai  suoi dipinti presentati nel “depliant”, precede il relativo resoconto  del testo. In apertura, gli artisti ripresi insieme prima della cerimonia, da sinistra il figlio di Orler, Testa, Frascaroli, Munerotto, Feruglio, Magnatti;  poi la consegna dei diplomi di “Pittori di Marina” effettuata dal capitano di vascello Conti (a sin) con il comandante Allegrini (a dx) e i loro dipinti del “depliant”,  secondo l”ordine in cui i singoli artisti sono citati nel testo:  Alessandro Feruglio, Mario Magnatti, Gianfranco Munerotto; Giuseppe Frascaroli, Davide Orler (nella premiazione il figlio); Gianni Testa; poi, inseriti nel commento su Testa,  i dipinti  del “depliant” ripresi dal Catalogo, “Vele a Venezia”, 2009, “Gara velica”, 2000, e “Vela rossa”, 1988, infine  “Velieri”, 1970 in chiusura, il maestro Testa  dopo la  cerimonia. 

Impressionisti e moderni, fino ai cubisti, continua la Phillip Collection

di Romano Maria Levante

Continua la nostra visita alla  mostra “Impressionisti e moderni. Capolavori della Phillip Collection di Washington”, al Palazzo Esposizioni  che dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio2016  espone 60 opere dei maggiori maestri dell’800 e ‘900  raccolte da Duncan Phillip,  il quale nel 1921 aprì la Phillip Memorial Gallery di Washington e continuò per quarant’anni ad arricchire la collezione iniziale di 300 opere fino a raggiungere 2000 opere, ora 3000,  affiancando alle opere degli artisti americani contemporanei, da lui sostenuti, quelle delle  maggiori correnti pittoriche europee stimolando confronti quanto mai fecondi negli artisti e nei visitatori.  Organizzata dalla Phillip Collection con l’Azienda Speciale Palaexpo, a  cura di Susan Behrends Frank, curatrice della Collezione di Washington, Catalogo  Silvana Editoriale  con Palazzo delle Esposizioni.

Abbiamo già ricordato il percorso di Phillip nel dare uno sbocco meritorio alla sua visione dell’arte con acquisizioni mirate durate quarantacinque  seguendo la propria apertura e sensibilità e precorrendo così le altre istituzioni museali americane, legate per lungo tempo alle convenzioni accademiche dalle quali nasceva il rifiuto delle forme espressive europee non figurative e delle avanguardie  americane.

Per questo Phillip  ha avuto un ruolo fondamentale nel dare alla  propria istituzione privata una valenza di interesse collettivo come laboratorio sperimentale, vera  fucina e valorizzazione di talenti. E, in  termini più generali, come occasione per il visitatore di operare confronti a tutto campo nel mondo dell’arte, europea e americana, mediante allestimenti in cui le opere venivano esposte accostate “per contrasto e analogia”, mentre nei  musei di allora c’erano rigide ripartizioni per autore, nazionalità, cronologia, innovazione in cui ha precorso le moderne strutture museali.  

Poi abbiamo raccontato la visita alla  1^  sezione della mostra,  “Classicismo, romanticismo e realismo”,  tre visioni diverse che si sono confrontate nell’800 e hanno trovato diverse forme di  conciliazione e compresenza nei grandi artisti aperti alla modernità.  Passiamo alle sezioni successive, continuando la cavalcata appassionante tra grandi artisti di due secoli così vivi.

.Impressionismo e post impressionismo:  da Monet e  Sisley a Cézanne e Van Gogh

Con l’ “Impressionismo e Postimpressionismo” della 2^ sezione,  continua la sfilata di capolavori,  senza dimenticare il ruolo di Corot, Courbet e Constable, presentati nella 1^ sezione,   nella nascita dell’impressionismo.

Fu una  rivoluzione, nell’universo creativo della pittura, cui ne seguirono altre,  nei contenuti e nello stile pittorico.  Non più temi storici e religiosi, mitologici e simbolici, ma la vita contemporanea portata sulla tela:  paesaggi veri e non arcadici,  con o senza l’intervento dell’uomo, vedute cittadine con sobborghi pittoreschi,  quotidianità  nei momenti della giornata di donne e persone comuni.

Il soggetto dominante è la natura protagonista assoluta del quadro, il fine ultimo dell’artista  è rappresentarla  nell’immediatezza, rendendo visivamente  l’impressione che ne ha ricevuto. 

Se questi sono i nuovi contenuti, altrettanto innovative le modalità espressive: il pittore dipinge non più nel chiuso dell’atelier ma nei luoghi raffigurati, “en plein air”, così  può  catturare e rendere in modo subitaneo l'”impressione” ricevuta.  La sua sensibilità non viene attratta soltanto dal soggetto, ma dall’intero ambiente in cui si trova a dipingere, del quale è portato a cogliere i mutamenti atmosferici, durante la giornata e nel corso dell’anno. 

Gli effetti di luce si riflettono sul dipinto che nasce dal  vivo senza disegni preparatori, richiedendo un altro radicale mutamento rispetto alla forma pittorica precedente. Dalle “pennellate invisibili” tra  contrasti di luce chiaroscurali, in particolare nei paesaggi italiani degli artisti precedenti, si passa alle pennellate visibili  con la scomposizione dei colori in colori puri affiancati come vibrazioni  luminose. Anche l’aria è percorsa da onde cromatiche come in una rifrazione.

C’è dell’altro, viene abbandonata la convenzione accademica dei diversi piani in cui era presentato il paesaggio, con la rigorosa prospettiva che distanziava primo piano, orizzonte e sfondo; ora ciò che è lontano può essere accostato a ciò che è vicino, quando è questa l’impressione dell’artista.

Gli impressionisti sono presenti con due quadri di Monet e Sisley, che furono  i primi con Manet, Pissarro e Renoir, a  dedicarsi a immagini di vita quotidiana nella natura ripresa “en plein air”  nella sua luminosità ambientale resa da colori brillanti, e soprattutto da pennellate che rendevano la vibrazione della luce con tonalità separate. All’ordine e all’equilibrio nei paesaggi classici, in parte riflesso anche nei precisi schizzi di Corot, si sostituisce un’immediatezza che sconvolge le regole compositive creando insolite contrapposizioni  prospettiche.

Vediamo “La strada per Vétheuil”, 1879, di Jean Monet,  un paesaggio rurale in colori pastello caldi e freddi accoppiati  a macchie che ne rendono con evidenza  l’impressionismo;  del resto questa denominazione nacque dall’osservazione di un critico a un quadro di Monet considerato una prima “impressione”  provvisoria da completare per giungere all’opera definitiva.

Anche in “Neve a Louvecennies”, 1874, di Alfred Sisley, macchie impressionistiche dove il bianco predomina dato il soggetto.

Con Cézanne tutto questo viene superato, il “Postimpressionismo” segna la modernità. La rappresentazione della natura non è più lo scopo dell’opera, né un dato della realtà da trasporre nel dipinto, bensì l’elemento da cui partire per esprimere  sentimenti individuali, attraverso un modo diverso di concepire soggetto e contenuto, forma  e colore.

Alla base di questa vera svolta  c’è la constatazione che la natura è solo il mondo esteriore, del quale gli impressionisti catturavano l’apparenza,  mentre la realtà esterna deve essere subordinata alla propria visione interiore.  Non ci sono soltanto i sensi, colpiti dalla luce e dai colori, nei paesaggi e nella quotidianità, c’è anche e soprattutto la mente nella quale albergano i sentimenti universali che l’arte è chiamata a rappresentare oltre gli angusti limiti dei fatti esistenziali. Il soggetto rappresentato diventa secondario rispetto ai sentimenti che suscita, e questi vanno oltre l’apparenza, perciò  non si possono rendere con l’immediatezza effimera dell’impressionismo ma vanno rivelati  attraverso l’introspezione, con un  procedimento opposto a quello impressionistico.

La natura resta in primo piano,  Cézanne a tre mesi dalla morte scriveva “studio ogni giorno la natura”, ma secondo questa impostazione  che aveva così  enunciato: “Ascoltare con dedizione la voce della natura e con altrettanta dedizione trascriverla nelle forme della più eletta meditazione interiore”; un processo che, sempre nelle sue parole, si traduce “in una continua e ardua metamorfosi che si basa sul reale inteso come osservazione diretta delle persone e delle cose e mira al  vero inteso come scoperta di una essenza che vige nel mutevole mondo dell’esistenza”.

Soggetti e contenuti degli impressionisti sono visti ora in modo speculare, dall’interno e non dall’esterno, ciò che in termini stilistici  si manifesta con il rilievo dato alla forma, che gli impressionisti scomponevano, espressa con un “nitore geometrico  e una prospettiva studiata in modo che “ogni lato di un oggetto, di un piano, si orienti verso un punto centrale”.  Con questa impostazione apre la strada alla modernità, l’attenzione ai volumi prelude addirittura al cubismo.

In “La montagna Sainte-Victoire”, 1886-87,  Paul Cézanne non esprime impressioni momentanee quindi fugaci, ma la  visione meditata di un paesaggio familiare, vicino alla sua abitazione in  Provenza lontana da Parigi,  reso con accuratezza per mantenere validità nel tempo. Mentre  “Autoritratto”, 1878-80, uno dei tanti da lui dipinti,  molto apprezzato da Phillip. lo presenta come trasandato e impacciato con profondità psicologica nello sguardo acuto.

Di Hilaire-Germain-Edgar  Degas  viene data testimonianza con le figure femminili predilette. Vediamo  “Ballerine alla sbarra”, 1900,  la danza tanto presente nelle sue opere gli permetteva di esplorare il corpo umano, qui alla posizione particolare con la gamba sollevata si associa la fusione dei gonnellini  per cui è stato osservato che vengono viste come gemelle siamesi, nell’immobilità. E “Malinconia”, 1865-69, un corpo proteso con espressione sofferta in un omogeneo colore scuro.

Berthe Morisot ritrae “Due ragazze”, 1894, nell’intimità domestica, tinte pastello ben contrastate.

Molo diverso Odil Redon, che addirittura si allontana dalla realtà, oltre che dalla natura  sebbene fosse contemporaneo agli impressionisti, per concentrasi sul proprio inconscio che lo porta a raffigurare soggetti fantastici. Vediamo esposto “Mistero”, 1910,  una donna scura con il viso da Cristo che spunta tra i fiori a colori vivaci, un’ambiguità che lascia all’osservatore l’interpretazione.

E siamo a Vincent Van Gogh, il sommo artista che usa il colore come mezzo per esprimere emozioni forti e stati psicologici esasperati con una straordinaria intensità, il dipinto esposto “Casa ad Anvers”, 1890, è stato realizzato un mese e mezzo primo della tragica fine nella località vicina a Parigi , dopo la permanenza nell’ospedale psichiatrico di Saint-Remy in Provenza.  Lui lo definì “nient’altro che un campo di grano che si estende verso una casa colonica bianca circondata da un muro bianco, con un unico albero”, descrizione perfetta che rende anche lo stato d’animo.

Parigi non è solo la patria dell’impressionismo e, poi, del postimpressionismo quando le “impressioni” diventarono la partenza e non più l’arrivo della rappresentazione pittorica e tornano la linea e la forma in una visione nuova che darà il via alla modernità. Nella capitale francese all’inizio del ‘900 un’altra svolta, anche linea e forma non sono più un dato della realtà da non modificare, anzi  parte dal loro stravolgimento una nuova tendenza artistica,  quella del cubismo.

Il cubismo a Parigi, Picasso e Braque, fino a Utrillo e Modigliani

La 3^ sezione si intitola “Parigi e il cubismo” per sottolineare il ruolo della capitale francese in questa ulteriore rivoluzione.  Il cubismo nasce dalla constatazione che  vengono riprodotti più lati della stessa figura,  in movimento oppure vista da angolature diverse, quindi questi lati si spostano e nel momento in cui vengono fissati sulla tela hanno cambiato posizione. Le nuove posizioni diventano quelle reali e vengono tradotte nell’immagine, apparentemente surreale, ma in effetti aderente a una realtà dinamica che si sostituisce alla visione statica.

Una concezione rivoluzionaria tradotta in opere che hanno dato avvio alle successive trasgressioni sempre più avanzate all’archetipo figurativo, declinato dal classicismo al romanticismo, dal realismo all’impressionismo e postimpressionismo in varia misura ma sempre con il rispetto dell’intangibilità della figura nei suoi contorni riconoscibili.  Con il cubismo sono stravolti ma restano percepibili, l’astrattismo li cancellerà sostituendo alle emozioni suscitate dalla realtà quelle indefinibili della propria interiorità.

Phillip, con la sua sensibilità artistica e il suo spirito aperto, colse al volo il valore di una novità così sconvolgente, e acquistò le nature morte di Braque, il primo a colpirlo, poi venne il grande Picasso.

L’opera di  George Braque esposta in mostra è “Natura morta con clarinetto”, 1927,  uno dei 13 quadri dell’artista nella Collezione, sono di una fase matura dell’esperienza cubista avviata all’inizio del secolo, con elementi vicini al realismo figurativo, come la frutta,  ed altri verso l’astrazione con superfici che danno il senso tattile da lui perseguito, il tutto in un cromatismo essenziale  in bianco-nero, ocra-verde.

Di Pablo Picasso tre capolavori, espressioni di  fasi distinte e distanti del proprio percorso artistico e di vita. “La camera blu”, 1901,  risale all’inizio della sua vita a Parigi, dove si trasferì stabilmente da Barcellona nel 1904 dopo averla visitata a meno di vent’anni  nel 1900 tornandoci nei due anni successivi. Anche lui, come il  mondo artistico europeo, aveva trovato in  Parigi una forte calamita per il fervore delle idee sviluppate dai talenti che accorrevano nella città concentrandosi in determinati quartieri, come il bohemienne Montmartre,  gravitando nella Ville Lumiere. La “camera blu” è il suo primo alloggio parigino, quando ancora non vi si era trasferito, quindi esprime la solitudine e insieme il trasporto romantico nel simbolismo del colore che caratterizza la sua prima fase ancora figurativa, il “periodo blu”. Per la  rivoluzione cubista dovrà passare più di un decennio, dopo aver visitato con Braque una mostra di Cézanne i cui orientamenti innovativi nella forma e nelle linee di contorno innescarono le sue riflessioni radicali.

Nella “Tauromachia” , 1934, il cubismo dell’artista mostra tutte le sue capacità espressive, con le forme scomposte del  toro e del cavallo del picador che lo ha ferito scagliate l’una contro l’altra in  colori altrettanto violenti e contrapposti;  spettatori e arena sono solo un macchia cromatica, il centro è nello scontro simbolico tra gli estremi compresenti e in lotta, vita e morte, bene e male.

L’altro Picasso esposto è “Donna con cappello verde”, 1939, un cubismo moderato che si incrocia con l’arte tribale, nella deformazione del viso poco marcata, è la sua donna, Dora Maar,  forse una forma di rispetto.

Cronologicamente tra  questi ultimi due dipinti, vediamo “Cristo e il sommo sacerdote”, 1937, di Georges Rouault,  l’artista  sensibile alla sofferenza umana che trasferisce la sua visione del dolore del mondo in immagini religiose come questa in cui i contorni neri delle sue forme drammatiche richiamano la particolare forma espressiva delle vetrate delle chiese cui si dedicava con la sua fervente fede cattolica. 

Solo due anni prima è datato “Lo studio dell’artista”, 1937, di Raoul Dufy, solare nel colori e  arioso nella composizione, ispirato al proprio atelier e alla stanza adiacente con dei quadri,  l’esterno entra nello studio attraverso l’architettura della finestra che inquadra gli edifici simili alla forma del cavalletto privo del dipinto in preparazione, nell’altro c’è un nudo sdraiato di bagnante.

Andiamo venti anni indietro con “Natura morta con giornale”, 1916, di Juan Gris, un cubismo freddo fatto di contrasti luminosi tra bianco accecante e ombre cupe, tra il collage e la proiezione deformata dei volumi.

Quasi contemporaneo il quadro “Elena Povolozsky”,  1917, di Amedeo Modigliani  in cui ritrae l’artista francese che aiutava lui e gli altri  “pittori maledetti”  negli anni difficili a Parigi: il cubismo è appena percepibile nel viso che sembra marmoreo, con zigomi larghi e spigolosi, diversi dalle  sue forme allungate ben più addolcite, è l’unica “deformazione” visibile; lo accostiamo alla “donna con il  cappello verde”  picassiana.

Indietro di alcuni anni, ecco “Place du Tertre”, 1911, di Maurice Utrillo, un altro “pittore maledetto”, ritrae la piazzetta con i luoghi da lui frequentati, la “patisserie” e i “vini, liquori e tabacchi”,  c’è solitudine nella raffigurazione luminosa e chiara.  

Ancora più nitida “Notre Dame”, 1909, di  Henri Rousseau, il doganiere artista, il quale si ritrae nella piccola figura vestita di nero con bastone e cappello a larghe tese, che dal parapetto della strada guarda le chiare sagome della cattedrale.

La nostra marcia all’indietro nel tempo attraverso le opere esposte in questa sezione  approda a due dipinti di  Pierre Bonnard,  “Movimento sulla strada (Scene di strada)”,  1907,  e “Cavallerizza del circo”, 1894:  si tratta di ambienti particolari nei quali, pur in esterni, troviamo l’atmosfera raccolta caratteristica dei suoi interni  all’insegna dell’intimismo cui è dedicata la sezione successiva.

Ne parleremo prossimamente,  nella visita alle ultime tre sezioni dedicate all’“Intimismo e modernismo”, “Espressionismo della natura” ed  “Espressionismo astratto”.

Info 

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Impressionisti e moderni”, “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, fino al 15 dicembre è stato possibile vedere anche “Russia on the Road” (cfr. i nostri articoli, in questo sito, su “Una dolce vita?” 1°, 14 e 23 novembre, su “Russia on the Road” 18 e 26 novembre 2015). Catalogo “Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillip Collection di Washington”,  Silvana Editoriale, 2015, pp. 166, formato 24,5 x 28,5.dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 12 gennaio, il terzo uscirà il 27 gennaio 2016, con 12 immagini ciascuno.  Per gli artisti e movimenti citati nel testo, cfr. in questo sito i nostri articoli su Utrillo, Modigliani e i ‘pittori maledetti”   12 febbraio, 5 e 7 marzo 2014, i “Cubisti”  16 maggio 2013, Cézanne  24 e 31 dicembre 2013; in “cultura.inabruzzo.it”, sugli impressionisti “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura”  27 e 29 giugno 2010, su Van Gogh  17 e 18 febbraio 2011, Picasso 4 febbraio 2009 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, la Phillip Collection e i singoli artisti,  per l’opportunità offerta. Sono  riportate le immagini della 3^ sezione della mostra commentata in questo articolo con la  2^ sezione, le cui immagini sono nell’articolo precedente; poi quattro immagini della 4^ sezione commentata nell’articolo successivo. In apertura,  Pablo Picasso, “La camera blu”, 1901;  seguono, Maurice Utrillo, “Place du Tertre”, 1909, e Amedeo Modigliani, “Elena Povolozsky”,  1917; poi, Georges Braque, “Natura morta con uva e clarinetto”, 1927, e Georges Rouault, “Cristo e il sommo sacerdote”, 1937;  quindi,  Pablo Picasso, “Tauromachia”,  1934, e “Donna con cappello verde“, 1939; inoltre, Raoul Dufy, “Lo studio dell’artista” , 1935, ed Edouard Vuillard,  “Il giornale”,  1896-98; infine, Pierre Bonnard, “Bambini con gatto”, 1909, e  “Nudo in un interno”, 1935; in chiusura, Giorgio Morandi, “Natura morta”, 1950.

Atchugarry, 40 “eterni marmi” ai Mercati di Traiano

di Romano Maria Levante

Ai Mercati di Traiano, Museo dei Fori Imperiali,  dal 22 maggio 2015 al 7 febbraio 2016,  la mostra “Pablo Atchugarry. Città eterna, eterni marmi”, espone 40 opere in marmo, una diecina delle quali monumentali, nella cornice unica del complesso archeologico-museale dei Fori imperiali in cui le composizioni scultoree sono inserite organicamente, in esterni e anche in interni, tra ruderi e arcate in una simbiosi carica di richiami e di significati. Promossa dalla Fundaciòn Pablo Atchugarry con l‘ILA, IstitutoIitalo-Latino Americano, l‘Assessorato a Cultura  e Turismo e la Soprintendenza Capitolina ai beni Culturali, organizzata da Visiva, servizi museali di Zétema Progetto Cultura.

La cornice dei Mercati di Traiano  è straordinaria per gli “eterni marmi” di Atchugarry abbinati alla “città eterna”, abbiamo visto il Foro  romano teatro ideale per le “genesi” di Deredia,  la magia si  ripete.

Nel caso attuale l’abbinamento  va oltre l’aspetto coreografico per entrare in profondità nella concezione stessa di scultura dell’artista di grande livello internazionale, molto legato all’Italia.

Il  percorso artistico

Consideriamo intanto il suo percorso, iniziato precocemente  quando i genitori, appassionati d’arte, ne scoprirono il talento. Iniziò con la pittura, passando  poi a materiali quali legno, ferro e cemento, materiale quest’ultimo nel quale  a 17 anni crea la prima scultura, un cavallo, passando a 20 anni a “Maternitad” e “Metamorfosis  femenina”e  a temi che precorrono la sua visione futura,  come “Metamorfosis prehistòrica”, “Escritura simbòlica” ed “Estractura còsmica”,  tutte del 1974, è nato a Montevideo nel 1954.

Dopo quattro anni mostre in Uruguay e in altri paesi sudamericani, Argentina e Brasile, e viaggi in Europa:  Spagna, Francia e Italia. A Lecco a 24 anni  la sua prima personale  cui seguono mostre in varie città europee, da Milano a Parigi, Copenaghen, Stoccolma.

L’anno dopo, nel 1979, a 25 anni, la “scoperta” del marmo, che avviene nella patria di questo materiale, a Carrara, dove crea “La Lumière”, la sua prima scultura marmorea;  tre anni dopo elabora il primo progetto monumentale in quel marmo pregiato e crea su un blocco di marmo di 12 tonnellate, “La Pietà”.   Da quell’anno, 1982, si stabilisce a Lecco,  dove resterà sempre dividendosi con Manantiales dove ha sede la sua Fondazione instituita nel 2007 come luogo di incontro tra  artisti di tutte le discipline. Ma torniamo alla prima fase della sua “escalation” artistica, è del 1987 la sua prima mostra personale  di scultura, a Milano nella Cripta di Bramantino,   la presenta il grande critico Raffaele de Grada.

Meno di dieci anni dopo , nel 1996, la sua scultura “Semilla de la Esperanza” viene collocata nel parco del Palazzo del Governo uruguayano, e  la sua produzione ha raggiunto un livello tale che viene istituito il Museo Pablo Atchugarry, che raccoglie le opere e l’intera documentazione.

In Italia vengono celebrati i 20 anni  trascorsi dall’arrivo  nel nostro paese con una mostra a Milano intitolata “Le infinite evoluzioni del marmo”,   mentre l’artista dà l’avvio alla prima opera monumentale per una cittadina in provincia di Udine, Manzano: si tratta dell’ “Obelisco del Terzo Millennio”, in marmo di Carrara alto 6 metri. , e  gli viene commissionato, dopo un concorso in cui risulta vincitore, il monumento della stessa altezza di 30 tonnellate, , in marmo bianco Bernini, “Civiltà e cultura del lavoro lecchese”. Negli stessi anni, è il 2002, realizza l’opera “Ideali”  per Monaco, nel cinquantenario di Ranieri a Montecarlo.

E’ contemporaneo il premio “Michelangelo” a Carrara, la realizzazione di nuove opere ormai si alterna ai riconoscimenti e alla partecipazione a grandi mostre.

Opere, mostre, riconoscimenti

Con il complesso scultoreo “Sognando la Pace”, in 8 pezzi tra marmo di Carrara e marmo della Garfagnana, partecipa alla Biennale di Venezia del 2003, realizza  l’opera “Ascensione” per una fondazione di Barcellona, nel 2004  “Energia vitale” in marmo rosa del Portogallo per il Beilinson Center di Israele. Nel 2007, l’anno della Fondazione a lui intitolata, termina l’opera monumentale “Nella luce”, 8 metri in un blocco di 48 tonnellate per la raccolta Fontana, nel 2009 per il centenario della città realizza  “Lux y Energia de Punta del  Este”, un’opera alta 5 metri in marmo di Carrara. Ancora, nel 2011 il suo “Abbraccio cosmico” è terminato, un’opera alta 8,5 metri  da un blocco di 56 tonnellate. Stessa altezza “Movimento nel mondo” per  Kallo-Bergen in Belgio.

Per le grandi mostre abbiamo citato la Biennale di Venezia del 2003, poi nel 2005  la sua mostra al Museo delle Belle Arti di Buenos Aires e nel 2006 al Museum di Brugge in Belgio, viene acquistata l’opera “Camino Vital” dalla collezione Berardo, in Portogallo; nel 2007 in Brasile retrospettiva a Brasilia, poi a San Paolo e a Curitiba, dal titolo “Lo spazio plastico della luce” con nota critica di Luca Massimo Barbero, a San Paolo un’altra grande retrospettiva nel 2014, questa volta intitolata “A Viagem pela materia”. Nel 2008  a cura del Museo Nazionale di Arti Visive una retrospettiva delle opere realizzate negli ultimi quindici anni a Montevideo, la sua  città,

Nel 2011 prima personale a New York alle Hollis Taggart Galleries, l’anno successivo la sua opera “Dreaming New York” viene selezionata dalla Times Square Alliance ed esposta durante la manifestazione newyorkese The Armory Show Art Fair.

Con la mostra romana che si svolge per un periodo di ben otto mesi, questa intensa attività trova un momento di grande rilevanza pratica e simbolica: gli “eterni marmi” nella “città eterna”, tra ruderi antichi e di arcate, con la prospettiva dei Fori Imperiali in uno scenario unico al mondo, un set teatrale degno per opere molto particolari da interpretare con attenzione.

Nel 2013 è stato pubblicato il “Catalogo Generale della Scultura”, due volumi a cura di Carlo Pirovano, con tutte le sculture realizzate nell’intero percorso artistico lungo l’arco di un trentennio.

Le 40 sculture ai Mercati  di Traiano

Tratteggiato sommariamente questo percorso,  passaimo in rassegna le 40 sculture quasi tutte in marmo bianco di Carrara,con qualche marmo colorato e alcuni bronzi, esposte  nell’ampia superficie dei  Mercati Traianei con attenzione alle inquadrature e agli scorci; le più grandi tutte “en plein air”, alcune più piccole negli interni degli antichi mercati.

Diciamo subito che poche sono figurative, per così dire.  In particolare, “Le tre Grazie”, 1999, armonia, leggerezza, anzi lievità in un gruppo statuario di quasi 3 metri, con le tre figure che si protendono verso l’alto, stesse dimensioni e medesima sensazione in “Cariatide”, 1994, sebbene il titolo evochi qualcosa di schiacciato, l’opposto forse in omaggio a quelle del Partenone, cv’è anche una “Cariatide” in bronzo, 2006, alta più di 2 metri.

Sembrano scaturire dalla terra per protendersi in alto  “Fiore”, 1994, “Vita”, 1996, e “Natura in fiore”, 2002, quest’ultimo alto 3 metri e largo 2, come “Pomona”, 1994, e soprattutto “Vertunno”, 1997,  più ancorate al suolo anche per la loro maggiore larghezza con in Vertunnno supera i 2 metri, poco meno dell’altezza di 2,60, un’eccezione che conferma la regola della tensione verticale.

Tensione realizzata appieno in “Il grande angelo”, 2006, che vibra di forza ascensionale. Sono queste le opere di maggiori dimensioni, dei veri monumento marmorei che con le loro forme marmoree allungate proiettano lame di  luce nel loro  biancore abbagliante, uno spettacolo!

Oltre ad essere le più maestose,  sono le uniche con un titolo, tutte le altre sono “Senza titolo”, quindi l’interpretazione è lasciata all’osservatore, c’è da scoprire l’intendo recondito dell’artista che si è espresso nella forma marmorea. Le più grandi tra queste sono una composizione a forma di croce in marmo rosa del Portogallo, del 2003, alta quasi 3 metri, e alcune del 2015 di cui una in marmo di Carrara alta circa 2,5  metri, tre  in bronzo, marmo rosa del Portogallo e marmo di Carrara alte circa 2 metri. Segue una serie tra 1 metro e 1 metro e mezzo, di otto sculture. di cui 2 in bronzo, una in marmo rosa del Portogallo  e 5 in marmo di Carrara. Tutte protese verso l’alto con larghezza per lo più di 30 cm, poche di 50-60.

Infine le opere  più piccole, alte meno di un metro, le vediamo  negli spazi interni, sono una diecina,  di cui 4 in bronzo e una in marmo rosa del Portogallo, le altre in marmo di Carrara.

Significato e valore dell’opera di Atchugarry

L’impressione non cambia, la proiezione verso l’alto è evidente, e per approfondirne il significato ci affidiamo ai commenti colti di grandi esperti di un’arte come la scultura di cui ci sono giunte le maggiori testimonianze dalla notte dei tempi, per la sua resistenza all’usura del tempo. Reperti numerosissimi a Roma molto diversi dall’espressione contemporanea del nostro artista, nella quale comunque vengono trovati riferimenti storici proprio a quell’arte antichissima di trovare nella pietra “in nuce” ciò che si vuole esprimere e rivelarla lavorandola con la tecnica alimentata dalla passione.

“A quegli eterni marmi sembra ispirarsi Pablo Atchugarry – afferma Claudio Parisi Presicce –  a quelle icone riprese per linee essenziali e di cui basta un particolare minimo, un minimo frammento, un accenno di panneggio, per richiamare alla memoria un classico peplo greco o un abito romano Che ben si sposa e si ricongiunge all’aura mitica del Foro di Traiano.”. Le parole del Soprintendente capitolino ai beni culturali rendono l’atmosfera e aiutano a individuare i richiami delle opere “alla sua storia e alla bellezza eterna. Espressa nella materia. In forme nuove”.

Cerchiamo di capire come nascono queste “forme nuove” di un artista contemporaneo che va oltre la visione michelangiolesca dell’opera finita nel blocco di marmo per cui l’opera dello scultore consiste nel liberarla e rivelarla  traducendo  in una forma tangibile l’ispirazione fino a porre a confronto, ad opera compiuta, l’idea e la sua concretizzazione.

“Pablo Atchugarry fa molto di più, nell’inseguimento di tale utopia, dal punto di vista strettamente concettuale – scrive Luciano Caprile – parte da una ipotetica immagine mentale, la spoglia  di ogni identificazione concreta e ne ricerca le tracce nel marmo che sta scalpellando in quel momento. Non ha bisogno di un progetto: gli basta seguire la linea dell’ispirazione suggerita dalla materia  nel divenire del gesto, nel processo del togliere”.  Non ricerca, dunque, una figura concreta,  definita e stabile nel tempo,  ma un’impressione astratta e momentanea, che evolve con i “suggerimenti di una materia duttile” in un disvelamento progressivo che trova conferme nella stessa materia. A differenza del marmo di Carrara con altri marmi, come quello rosa del Portogallo,  le impurità e le vene cromatiche lungi dall’ostacolare tale processo,  imprimono svolte e percorsi inattesi, in tutti i casi, comunque, il rapporto con la materia è creativo e si conclude con “la felice liberazione da quell’involucro evocato dal concetto michelangiolesco”.

Questo avviene sia quanto l’artista è alle prese con opere monumentali e la materia è un blocco di marmo di diecine di tonnellate, quindi i livelli da seguire e interpretare sono molteplici, sia quando si tratta di piccole sculture nelle quali sembrerebbe  trattarsi soltanto di mera realizzazione pratica.

Il riferimento alla “città eterna” degli “eterni marmi” non è soltanto dovuto alla circostanza dell’esposizione nel set prestigioso dei Mercati Traianei.  Il marmo di Carrara della maggior parte delle opere è lo stesso che dalla statuaria classica dell’antica Roma attraversa il  Rinascimento fino al Barocco e approda ora ai giorni nostri con questo artista intriso di classicità se, come abbiamo potuto verificare, le tracce di panneggio e peplo romano sono come un sigillo nelle sue opere.

Se  poche opere sono propriamente figurative, l'”aggancio figurale”  resta come  punto di partenza ideale da cui l’artista si libra spinto dalla forza del proprio pensiero verso un sublime sempre più alto che per questo tende all’astrazione. L’altezza non va intesa sempre come verticalizzazione anche se, come abbiamo visto, è questa l’elevazione di gran lunga prevalente, nei già citati “Pomona” e “Vertunno” la forza si sprigiona in senso laterale per esprimere germoglio e fioritura. E non viene percepita solo nelle opere monumentali, ma anche nelle opere più piccole. “Come si può  constatare, conclude Caprile, il concetto di equilibrio e di armonia non viene condizionato dalle dimensioni, dagli argomenti trattati o dalla sostanza su cui viene sollecitata l’invenzione”. Sono tutti “eterni marmi” perché alimentano e insieme rappresentano “l’eternità creativa”.

Alle tante manifestazioni a Roma di questa forza potente che proviene dalla scultura classica e moderna  la mostra di Atchugarry ai Mercati di Traiano pone la sua scultura contemporanea su un livello di assoluta eccellenza nel coniugare le scelte innovative con il respiro classico dell’eternità.

Info 

Mercati di Traiano, Roma, via Quattro Novembre 94. Da martedì a domenica ore 9,30-19,30, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso ai Mercati di Traiano – Museo Fori Imperiali e alla mostra:  intero euro 14,00, ridotto euro 12,00, residenti in Roma 2 euro in meno, gratuito per le categorie legittimate. Tel. 060608, http://www.mercatiditraiano/http://www.zetema.it/.  Per le altre mostre di scultura classica, cfr. i nostri articoli, in questo sito, ai Musei Capitolini  “L’Età dell’Angoscia” 31 luglio, 3 e 22 agosto 2015, e “L’Età dell’Equilibrio”  26 aprile 2013, “Augusto nel bimillenario alle Scuderie del Quirinale” 9 gennaio 2014, “Caligola al Vittoriano” 8 giugno 2014,“Le collezioni Zevi-Santarelli alla Fondazione Roma”  15 ottobre 2012; in www.antika.it , “L’Età dell’Equilibrio ai Musei Capitolini”  aprile 2013, “Nerone in mostra ai Fori Imperiali e al  Colosseo” 23 ottobre 2011; in  “cultura.inabruzzo.it”  “Deredia, genesi e simbolismo cosmico al Palazzo Esposizioni, Fori e Colosseo” 12 agosto 2009 (gli ultimi due siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta. In apertura, una vista d’insieme con “Vertunno” e “Le tre Grazie”, sullo sfondo  l’angolo sinistro del Vittoriano; seguono, “Le tre grazie” , 1999, h 260, in primo piano, e “Cariatide”, 1994, h 230; poi, “Fiore” , 1994, h 200,  e “Vita”, 1996, h 250; quindi, “Natura in fiore”, 2002, h 300, e “Pomona”, 1994, h 260; inoltre “Vertunno”,  1997,h 260,in primo piano, e “Il grande Angelo“, 2006, h 325; infine, 4  “Senza titolo”, 2 in marmo di Carrara alternate a 2 in bronzo, alte circa 2 metri, l’ultima del 2015;  in chiusura, la vista panoramica dai Mercati di Traiano verso il Vittoriano, i Fori Imperiali sono sulla sinistra. 

Impressionisti e moderni, la Phillip Collection al Palazzo Esposizioni

 di Romano Maria Levante

La mostra “Impressionisti e moderni”, al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre 2015 al 14 febbraio 2016,  presenta i “Capolavori della Phillip Collection di Washington”. La collezione è una raccolta mirata di opere dell’800 e ‘900  che riunisce in una sequenza resa dalle sei sezioni della mostra le multiformi correnti artistiche rappresentate da 60 opere dal classicismo all’espressionismo astratto, selezionate tra le 3000 opere della collezione, di cui 2000 acquistate direttamente da Duncan Phillip, fondatore della Phillip Memorial Gallery di Washington. Organizzata dalla Phillip Collection con l’Azienda Speciale Palaexpo, a  cura di Susan Behrends Frank, curatrice della Collezione di Washington, Catalogo Silvana Editoriale con Palazzo delle Esposizioni.

Si  completa l’autentico  “triplete”, nel gergo calcistico,  realizzato dal commissario Innocenzo Cipolletta con le altre due grandi esposizioni aperte contemporaneamente il 16 ottobre 2015, “Russia on the Road”, con chiusura anticipata a dicembre per trasferirsi a Mosca, e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano”.

Questo risultato straordinario è tanto più rimarchevole dopo i timori insorti con le  dimissioni del Consiglio di Amministrazione presieduto da Franco Bernabè per il mancato rispetto da parte delle istituzioni preposte degli impegni presi sui finanziamenti necessari alla gestione delle sedi espositive,  dato che non sono sufficienti le pur consistenti risorse che l’Azienda speciale Palaexpo riesce ad acquisire autonomamente. Va dato merito al Commissario di essere riuscito a realizzare quanto programmato nonostante le difficoltà determinate da tale critica situazione, finora risultate superabili. Del resto è noto che in Italia nell’emergenza si riesce a compiere autentici miracoli.

L’importanza della mostra va oltre il valore intrinseco dei capolavori presentati, per il notevole valore educativo che assume con la presentazione  di una “summa”  così qualificata dell’arte pittorica nell’800 e ‘900. Ne danno testimonianza le scolaresche che la affollano con i professori ai quali riesce agevole raccontare la storia dell’arte  con la parata spettacolare dei capolavori dei diversi movimenti artistici, e in più con l’esempio del giovane Phillip appassionato al punto di fondare un Museo e dedicarvi la propria vita con l’intento di avvicinare  il pubblico facendo del bene alla comunità in cui viveva  nella concezione che aveva della funzione sociale dell’arte.

La mostra si inserisce nel filone delle esposizioni legate alle collezioni, ricordiamo al Palazzo Esposizioni quella sull’arte americana del  Guggenheim esui capolavori dello Stadel Museum, alle Scuderie del Quirinale sulla civiltà islamica nella collezione di Al-Sabah Kuwait,  al Vittoriano sui capolavori del Museo d’Orsay, alla Fondazione Roma sulle collezioni Zeri e Santarelli.  Viene aggiunta la personalizzazione sulla figura del collezionista e sulla sua attività pionieristica nell’avvicinare il pubblico all’arte europea e americana contemporanea, quando i musei americani erano rimasti legati al figurativo e all’arte accademica. E dovevano trascorrere  dieci anni dopo la Phillip Memorial Gallery di Washington prima che si aprisse il Museum of Modern Art  di New York.

E’ un merito notevole perché seguendo la propria ispirazione e sensibilità artistica è riuscito a precorrere i tempi  aprendo il suo paese alle più avanzate forme d’arte europea e sostenendo i nuovi talenti dell’arte americana. In questo modo ha seguito la propria vocazione a creare, con il Museo,  “una forza benefica” per la propria comunità ritenendo che “l’arte ha una funzione benefica nel mondo”. Dall’apertura nel 1921,  alla sua scomparsa nel 1966,  è passato dalle 300 opere iniziali a 2000 opere, in tutte l’impronta della sua scelta personale; oggi il Museo ha raggiunto le 3000 opere.

Phillip con la Memorial Gallery antesignano dei musei moderni

Questo personaggio è Duncan Phillip, nato a Pittsburgh da famiglia benestante, trasferito da ragazzo a Washington, giovanissimo fu attratto dall’arte, voleva diventare critico e frequentava i musei con il fratello più grande  James facendo acquisti per uso personale e consigliando i genitori  che raccoglievano opere di artisti americani. La morte ravvicinata del fratello e del padre segnò la svolta, nel mettere ordine alla raccolta familiare pensò di onorare la memoria dei suoi cari creando la Phillip Memorial Gallery, un “museo intimo e raccolto”, nelle sue parole, con l’arte eternatrice anche dei sentimenti strettamente personali.

Modificò l’impronta conservatrice iniziale dopo il matrimonio del 1921 con un pittrice e la lettura di testi avanzati dei critici Bell e Fry, i suoi nuovi orientamenti si rafforzarono dopo l’incontro con Stieglitz, il fotografo gallerista che lanciò Georgia O’ Keeffe, la grande artista,  in un rapporto di vita tormentato.

Era molto personale il suo intento di promuovere  confronti tra i diversi artisti e le correnti rappresentate, un modo innovativo di stimolare l’interesse del pubblico verso una visione approfondita dell’arte. Questo risultato veniva perseguito con l’allestimento del Museo basato, sono sempre sue parole, “sul contrasto e l’analogia, in modo da riunire gli spiriti congeniali di artisti provenienti da diverse parti del mondo e da epoche diverse, rintracciando la loro comune discendenza da antichi maestri che anticiparono le idee della modernità”. Un’impostazione lontana mille miglia da quella mercantile, legata alla sua vocazione iniziale di critico e alla sua innata passione per l’arte, che lo portava a “costruire”  continui collegamenti e relazioni nel tempo e nello spazio e ad operare di conseguenza traducendo le intuizioni artistiche in acquisti mirati.

Oggi questa scelta sembra obbligata, dato che si trova nei musei attuali, ma Phillip fu innovatore e rivoluzionario allorché le esposizioni erano ordinate in base alla classificazione per autore, paese e cronologia , senza commistioni. Ecco la sua impostazione: “Epoche e nazionalità si mescolano nella nostra galleria in modo tale che i dipinti antichi e moderni acquistano rilevanza e significato grazie al loro accostamento in un contesto nuovo, in virtù di contrasti e analogie inedite”. Non è solo un aspetto classificatorio, mettendo insieme antichi e moderni, americani ed europei, ruppe le barriere che frenavano le opere contemporanee ponendole sullo stesso livello e valore delle altre rinomate.   

Phillip non mirava a costruire raccolte il più possibile complete di stili e correnti, ma  “fiumi di espressione artistica”, cioè opere con dei contenuti tali da diventare archetipi per i confronti. Cercava  “i prodigi della personalità, non ciò che può essere contenuto in un quadro, ma ciò che non può essere lasciato fuori”, proprio per il suo valore paradigmatico e personale; si impegnava nella scoperta dell'”eccellenza individuale”, scegliendo artisti che non seguivano le correnti ma si esprimevano  in modo personale.  Metteva insieme, così, “una raccolta di immagini diverse che ci dà l’impressione di incontrare e conoscere gli artisti come persone, di fare nuovi amici”.  A questo fine preferiva acquistare “numerosi esempi del lavoro di artisti che ammiro particolarmente e mi diletto a onorare, anziché un solo dipinto di una celebrità riconosciuta”. Ma la sua intuizione era tale che diventavano presto celebrità  anche loro.

Da questa apertura personale nasce un altro aspetto della sua azione meritoria nel campo dell’arte. Oltre a raccogliere le opere delle avanguardie americane e ad avvicinarle a quelle dei maestri europei, sin dall’inizio si impegnò, anche queste sono sue parole, “a incoraggiare gli artisti contemporanei , stabilendo contatti personali e relazioni amichevoli, per conquistare la loro fiducia”. 

Fu così che il Museo divenne sin dall’inizio un “centro di sperimentazione” ,  con la ricerca dei talenti  che venivano  formati nel confronto con i grandi artisti della collezione e valorizzati: “Un protettore delle arti, diceva, ha il dovere di essere vigile e aperto, e di incoraggiare l’avventura creativa attraverso n’utile collaborazione con i suoi artefici”. A questo fine svolgevano un ruolo importante le mostre.

Il percorso di Phillip nelle acquisizioni per il suo museo

Dalla  scelte concrete nelle acquisizioni di opere emergono gli orientamenti maturati nel tempo. All’inizio Daumier con la sua “Rivolta” e le sue caricature,  Puvis de Chavennet con la sua rivolta, Monet con il suo impressionismo lontano dai luoghi consueti erano tra quelli che riteneva le fonti dell’arte moderna. Seguono Courbet e Sisley, Manet e Morisot, poi le opere simboliste di Redon, Vuillard e Bonnard, da lui prediletto in modo particolare.

Le sue idee si evolvono, dopo la metà degli anni ’20 all’impressionismo segue il post impressionismo con gli antesignani della modernità iniziando da  Cèzanne che si era distaccato dalla dipendenza sensoriale e Rousseau, poi  Braque e Picasso; la strada è aperta, entrano nella collezione del Museo Ingres e Delacroix, Gris e Corot.

Ha cercato finora di  mantenere l’equilibrio tra il classicismo della forma e il romanticismo del colore, ora si sposta verso il secondo:  con il passar del tempo acquista Dufy e Rouault, poi  Degas e  Van Gogh, Kokoschka e Soutine, Klee e Kandinskij, Matisse e Morandi, De Stael e Modigliani.  

Abbiamo citato finora artisti europei, e gli americani? Sono il cuore della raccolta, attraverso  Stieglitz che nella sua “Intimate Gallery”  promuoveva cinque artisti stabili, oltre se stesso,  e un settimo che cambiava di volta in volta, entra in contatto con Dove, di cui in vent’anni acquisterà 60 dipinti sostenendolo e valorizzandone l’attività artistica; sempre attraverso Stiglitz,  Marin, altro suo preferito, e Georgia O’ Keeffe. Con questi artisti, soprattutto Dove,  si avvicina all’astrazione, che entrerà con prepotenza nella sua collezione. Definiva Marin, con Bonnard, “i due temperamenti più affascinanti dell’arte contemporanea”, le loro opere erano esposte vicine, insieme a Matisse e Utrillo nell’accostamento di  temperamenti artistici che sentiva vicini superando tutte le barriere.  Entrano poi altri americani tra cui Avery e Graham, Hartley e Lawson, Prendergast e Pollock.

 Diebenkorn fu colpito nel Museo da un’opera di Matisse – oltre che da quelle di  Bonnard, Vuillard e Dove – al punto di dire che gli era “rimasto in mente fin da quando lo vidi lì per la prima volta”, e se ne nota l’influsso nelle sue opere acquistate da Phillip, creando così un circuito virtuoso tra l’aspetto formativo e quello realizzativo del suo “centro di sperimentazione”.  Mentre per Rotchko va fatto un discorso a parte, nella sua ricerca dell’astrazione attraverso forma e colore puro  vedeva la sintesi tra l’estetica occidentale e orientale espressa con spiritualismo e trascendenza, il suo ideale. Gli dedicò una mostra nel 1960 e le sue opere le espose in modo permanente in uno spazio  a lui dedicato, rinunciando per lui agli accostamenti e alle mescolanze ma dando corpo all’altra idea, di costituire sale riservate ai “geni” come momenti di approfondimento  dei maggiori artisti.

La mostra del Palazzo Esposizioni presenta una selezione delle opere della Collezione Phillip, 60 capolavori nelle sei sale del principale percorso espositivo, quello intorno alla grande rotonda, ciascuna dedicata a specifiche  correnti pittoriche: Classicismo, Romanticismo e Realismo;, Impressionismo e Postimpressionismo;Parigi e il cubismo; Intimismo e Modernismo; Espressionismo e la natura, Espressionismo astratto.  

Nella visita si passano in rassegna le correnti pittoriche dell’800 e ‘900, una carrellata, anzi una cavalcata tra capolavori  senza tempo visti nel percorso acquisitivo di Phillip, che accresce interesse a quello insito in una sintesi artistica di così alto livello. Un’occasione imperdibile.

Classicismo, romanticismo e realismo

Con la 1^ sezione si entra nel vivo dell’arte nell’800 tra “Classicismo, romanticismo e realismo”. La ricerca dell’ideale  senza tempo dei classici era volta all’equilibrio e all’armonia, con la chiarezza compositiva data dallo stile accademico che conciliava gli opposti seguendo regole precise. Il romanticismo, invece, rompeva l’equilibrio con l’irruzione dei sentimenti e della fantasia, rifiutando le regole e le certezze per esplorare le novità, senza curare forma né rifiniture. Con il realismo una visione diversa dalle due ora riassunte,  né l’equilibrio ideale dei classicisti né la trasgressione ostentata dei romantici, ma ancoraggio  alla realtà naturale da non idealizzare né trasgredire.

La visione moderna della pittura superava queste antinomie per la compresenza dei diversi elementi, ed è la scoperta delle loro modulazioni uno dei motivi di interesse di questa sezione.

Significativo al riguardo il “San Pietro penitente”, 1820-24,  di Francisco De Goya, non c’è classicismo ma forte  realismo nella figura di contadino con una tensione emotiva di tipo romantico. 

Lo troviamo accostato a un altro “San Pietro penitente”, 1605, quello di El Greco, di due secoli anteriore,  nel segno della ricerca degli antichi maestri, anche qui realismo e drammaticità, Phillip lo considerava “il primo grande espressionista”.

Anche   “La rivolta”, 1848, di Honoré Daumier, ha una  forte tensione drammatica in un movimento popolare reso con realismo. Phillip  lo poneva al livello di Michelangelo e considerava questo “il quadro più importante della collezione”; di Daumier vediamo anche “Tre avvocati”, in cui passa dal dramma alla satira restando nel realismo compositivo poco incline alle rifiniture.

La visione romantica in Eugéne Delacroix si discosta dal realismo, non temi di attualità o sacri, ma mitologici o letterari, quindi fuori del tempo; alla ricerca di equilibrio dei classici contrappone il movimento, non ci sono contorni ma pennellate dal forte cromatismo, lo vediamo nei “Cavalli che escono dal mare”, 1860 , tra loro un cavaliere dalla tunica rossa in posa quanto mai instabile.

Espressione massima della classicità “La piccola bagnante”, 1826, di Jean-Auguste-Dominique Ingres, un vero archetipo con la figura immobile  e levigata da sembrare una statua di marmo del Canova,  statica ed armoniosa: nulla di romantico, il realismo forse è nei contorni.

Altrettanta classicità in “La pigiatura dell’uva”  di Pierre Puvis de Chavannes, 1865, in una composizione con realismo da vita quotidiana tuttavia  ispirata a soggetti dell’antichità, l’artista si era formato sull’affresco classico, i corpi pur nella diversità richiamano l’incarnato di Ingres.

Il realismo prevale nel “Balletto spagnolo”, 1862, di Edouard Manet, i danzatori posarono nel suo studio, ci sono aspetti che lo collegano a stereotipi romantici nella sua personale modernità.

Gli altri dipinti della sezione sono nature morte e paesaggi, anche in questi si possono ricercare i segni delle tre espressioni artistiche cui è dedicata la sezione.

Nei paesaggi al classicismo dell’equilibrio ambientale si unisce il realismo della rappresentazione della natura com’è,  al di là delle idealizzazioni.  Lo vediamo nei paesaggi italiani di  Jean.Baptiste-Camille Corot, “Veduta degli Orti Farnesiani, Roma”, 1826, e “Genzano”, 1843, l’artista si è formato sui classici e in questi piccoli quadri  rende la natura con precisione come si presenta nei contorni e negli effetti luminosi  dipingendo già allora all’aria aperta e non nel chiuso dell’atelier.

Invece Gustave Courbet dipinge “Rocce a Mouthier”, 1855, e “Il Mediterraneo”, 1857,  senza la serenità aprica di Corot, la sua natura è aspra e tormentata, nelle  rocce del primo dipinto come nelle onde del secondo,  con colpi di spatola che accentuano drammaticamente i contrasti. Il suo realismo romantico piaceva molto a Phillip. 

Di Antoine-Felix Boisselier “Veduta del lago di Nemi”, 1811, con l’equilibrio immobile dei classici e il realismo della visione diretta.

Accostiamo a Courbet  “Sul fiume Stour”, 1834-37 dell’inglese John Constable, i colpi di spatola sono più accentuati, con macchie di bianco che accentuano i contrasti, nessuna idealizzazione bensì rappresentazione realistica della natura con gli agenti atmosferici, frutto dei suoi studi scientifici.

La sezione di chiude con “Pesche”, 1869,  di Henri-Fantin Latour e “Vaso di fiori”. 1875,  di Adolphe Monticelli, anche queste espressioni della natura viste con equilibrato realismo.

E’ solo l’inizio,  le sezioni seguenti vanno dagli Impressionisti ai cubisti, dall’intimità dei modernisti fino agli espressionisti astratti, racconteremo la nostra visita prossimamente.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Impressionisti e moderni”,   “La Dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, fino al 15 dicembre è stato possibile vedere anche “Russia on the Road” (cfr. i nostri articoli, in questo sito, su  “Una dolce vita?” 1°, 14 e 23 novembre, “Russia on the Road” 18 e 26 novembre 2015). Catalogo “Impressionisti e moderni. Capolavori dalla Phillip Collection di Washington”,  Silvana Editoriale, 2015, pp. 166, formato 24,5 x 28,5, .dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Gli altri due articoli usciranno in questo sito il 18 e 27 gennaio 2016, con 12 immagini ciascuno. Per le collezioni e artisti citati nel testo, cfr. i nostri articoli, in questo sito: per i musei “Orsay”, 11 maggio 2014,  “Guggenheim”  22 e 29 novembre 2012, eper “Al-Sabah  Kuwait “ 3 e 10 agosto 2015, “Zevi-Santarelli” 15 ottobre 2012:in “cultura.inabruzzo.it”  per “Stadel Museum” 3 articoli nel luglio 2011, inoltre per gli impressionisti “Da Corot a Monet, la sinfonia della natura” 27 e 29 giugno 2010 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito). 

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, la Phillip Collection e i singoli artisti,  per l’opportunità offerta. Sono riportate le immagini della 1^ sezione della mostra, commentata in questo articolo, e quelle della 2^ sezione, commentata nell’articolo successivo.  In apertura,   Honoré Daumier, “La rivolta”, 1848; seguono,  Pierre Puvis De Chavannes, “La pigiatura dell’uva”, 1865, e Gustave Courbet, “Rocce a Mouthier”;  1855,  poi, Francisco José Goya, “San Pietro penitente”, 1820-24, ed  Edouard Manet, “Balletto spagnolo”, 1862; quindi, Ferdinand-Victor-Eugène Delocroix, “Cavalli che escono dal mare”,  1860, e Claude Monet, “La strada per Vétheuil”, 1879; inoltre, Paul Cézanne,  “Autoritratto”, 1878-80,e “La montagna Sainte Victoire”, 1886-87; infine, Hilaire-Germain-Edgar Degas,  “Ballerine alla sbarra”,  1900, e Vincent Van Gogh, “Casa ad Auvers”, 1890; in chiusura, la presentazione delle tre mostre “2’015. Autunno al Palazzo delle Esposizioni”, al centro il Commissario Innocenzo Cipolletta e il Direttore generale Mario De Simoni.

Cina oggi, il crocevia di 12 artisti, al Vittoriano

Romano Maria Levante

 Al Vittoriano, Ala Brasini, lato Fori Imperiali, dal 18 dicembre 2015 al 12 gennaio 2016 la mostra “Crocevia – Arte cinese contemporanea” espone 70 opere di 12 artisti  d’avanguardia la cui impronta personale si innesta sulla tradizione artistica cinese. Con il patrocinio dell’Ambasciata di Cina, della Regione Lazio e di Roma Capitale, su un progetto di Maurizio Fallace, già Direttore generale del MiBact,  di Nicolina Bianchi per “Segni d’Arte”,  e Zhui Shouli (ZhuoShuango), che hanno curato la mostra e il Catalogo, e dell’artista Ma Lin; hanno collaborato istituzioni cinesi. Responsabile della mostra Cristina Bettini, Comitato scientifico con Claudio Strinati, Maurizio Fallace e Alessandro Nicosia.

E’ una mostra inconsueta per l’arte cinese, della quale vengono esposte in genere opere tradizionali, per non parlare dei reperti di una civiltà millenaria, dalla mostra “L’Aquila  e l’Impero”  alle “Tombe cinesi del 2° sec. a. C. di Awangdui”;       ;  al Vittoriano troviamo artisti contemporanei, dopo la precedente “Visual China” con artisti moderni diversi dai 12 odierni.

La mostra è molto istruttiva,  in quanto presenta un panorama significativo e poco conosciuto delle tendenze dell’arte cinese contemporanea. Sono 12 artisti, presenti all’inaugurazione, la cui creatività si esprime in forme e stili differenti lungo percorsi anche divergenti che si intrecciano come in un “crocevia”, di qui il titolo dato alla mostra e lo speciale allestimento, strutturato come un ponte tra personalità e forme artistiche così da costituire una sorta di “labirinto” creativo.

Gli artisti sono impegnati in quello che la curatrice della mostra, Nicolina Bianchi, definisce “un coraggioso processo di reinterpretazione della loro millenaria tradizione culturale visiva”. E lo fanno con “un atteggiamento di decostruzione e ricostruzione i cui esiti convergono in questo immaginario crossover, cioè in una concreta e reale sovrapposizione di segni, forme e colori, per armonizzarli in un completo e straordinario happening espositivo”.  Per questo la curatrice, nel presentare il “racconto-performance” di “percorsi diversificati, a volte trasversali”, paragona il “Crocevia”a “un’affollata hall di una grande stazione”, dove è bello trovarsi “per cercare, tutti insieme, d’incontrarsi là dove arrivano e partono idee e creazioni”.

Entriamo in questa virtuale hall ferroviaria, veramente affollata nella presentazione della mostra, e immergiamoci nei percorsi creativi che vi convergono,  espressivi delle tendenze più avanzate, anche per l’uso di supporti tecnologici.  “Esperienze diversissime – commenta Alessandro Riva – ma attraversate tutte da un comune sentire di sperimentazione e di grande interesse per l’innovazione linguistica, pur all’interno di una grande tradizione linguistica quale quella cinese”.

Il “labirinto” espositivo che divide le piccole “mostre personali”  dei 12 artisti presenta dei varchi   che consentono di gettare lo sguardo oltre il singolo espositore, sono i “ponti” visivi di un “crocevia” fonte di continue sorprese per la varietà di stili e forme, cromatismi e contenuti.

Per meglio cogliere le differenze e le innovazioni stilistiche dei diversi artisti ci siamo mossi nel “labirinto”  seguendo il filo d’Arianna dei contenuti  assimilabili,  espressi in modi diversi: in particolare il paesaggio e la figura umana, oltre a questi soggetti altri non definibili o astratti.

Il paesaggio dalla grigia astrazione al cromatismo acceso

Sono cinque gli artisti le cui opere si ispirano al paesaggio espresso in una gamma di forme e colori.

La mostra è introdotta dai grandi pannelli di  Liu Yiyuan,  docente di pittura cinese nell’Istituto Belle Arti di  Hubei,  che si è formato sugli antichi dipinti  per sviluppare una tecnica dell’uso dell’inchiostro su carta di riso che. pur  partendo dalla tradizione Tang,  è fortemente innovativa.  

Sono intrecci di linee  e di macchie, forme e segni,  ombre e luci, strati  chiaroscurali e passaggi cromatici,  in un misto di figurazione e di astrattismo, che fanno definire le sue rappresentazioni  “Paesaggi della mente”; e come nella mente ci sono angosce e sofferenze, così le sue superfici dipinte sono percorse da interruzioni e strappi, metafora delle angosce e  sofferenze della realtà.

Le opere sono tutte sul grigio tendenti all’astrazione. Tra le più recenti  “La Via lattea”, “Occhi nel cielo” e “Scena notturna”,  del 2015,  prima troviamo “La luce del sole al mattino” e “Surpass” del 2012, “Il fiume stellato” e  “Crak”, del 2011, e la serie “Vocabolario di Jie  Zi ” del 2009.

Un cromatismo intenso è invece nei paesaggi di  Ke Dou, che inizia come architetto, poi si dedica all’arte a tempo pieno. Viene definito “maestro del segno, che sulla tela diventa quasi magicamente un magico gesto del colore”,  in composizioni dove crea architetture naturali  viste nelle diverse ore del giorno e nelle più varie situazioni atmosferiche animate dall’energia dei colori. Riva scrive che “le pennellate sembrano lingue di fuoco e il colore sembra animarsi sotto l’effetto di un incantesimo”, è la sensazione che suscitano “Il sole del tramonto”, 2015,  e “Nella vasca di loto con Tipsy”, 2014,  “La vallata” e  “L’erba selvatica nella palude”, 2013; mentre “La notte di luna”  fa brillare i filamenti nel blu dello sfondo.

I colori diventano un vero incendio cromatico cui si aggiungono  i verdi e i blu ai rossi in Xuru Kui, in arte Charei. Mentre Ke Dou è architetto, la Charei è ingegnere senior e pratica anche l’arte fotografica. In “Montagna”   e “L’ombra dell’autunno”, 2014, . le forme possono richiamare in qualche modo, anche se alla lontana, il tema del dipinto, ma il vero soggetto è  il trionfo del colore.

Non solo paesaggio, la sua sensibilità emerge dalle altre due opere esposte, “Danza secondo lo stile della dinastia Tang” e “Dietro le quinte”, 2014, che riportano ad antichi archetipi femminili, divenute vere icone della tradizione, come il murale sulla danza cui si è ispirata.

Il quarto artista ispirato al paesaggio è Liu Shangying, nato in Mongolia, nella “città dell’eterna primavera” , dove la natura è rigogliosa, vive a Pechino e insegna presso il dipartimento di pittura ad olio.  La sua pittura è molto intensa nel cromatismo e molto particolare nella forma, espressione di una ricerca personale e di una ritualità che la rende unica nel panorama delle sperimentazioni.

L’artista dipinge dinanzi ai suoi soggetti, immerso nell’atmosfera ambientale; ma la sua non è la semplice pittura “en plein air” degli impressionisti, anche se l’atteggiamento è conforme, perché si reca nelle montagne del Tibet e monta il suo cavalletto con le grandi tele in luoghi battuti dal vento e dalle intemperie ricevendo dalla natura spesso inclemente, le ispirazioni e suggestioni più intense..

 “Il suo lavoro pittorico – commenta Riva – diventa così una ricerca non solo sulla materia, sul colore, sulla luce, sulla gestualità e sul difficile rapporto  tra astrazione e rappresentazione del reale, ma anche sul rito di passaggio rappresentato dal viaggio stesso, dalla difficoltà di dipingere en plein air tra le montagne del Tibet, dalla sfida continua che si erge tra l’uomo e la natura, e tra l’uomo e l’opera d’arte”.

Sono esposte 5 opere, tutte del 2014, intitolate al “Lago Manasarovar”,  di grandi dimensioni,  m. 2,5  x 1,5 circa,  contrassegnate da numeri d’ordine: l’immagine è inquadrata come in un video,   c’è molto nero ma rischiarato da sciabolate di colori in uno spettacolare  cromatismo di contrasto.

E’ un paesaggio molto particolare quello di Xu Dongsheng,  artista presente in importanti mostre e riviste specializzate, nonché docente  a Guangzhou. “La grande impresa artistica che il grande pittore cinese compie – scrive Riva – è permettere di ‘vedere’ i propri interiori paesaggi e di proiettarli nel fluire dell’esistenza”. 

L’uso di tonalità grigie che diventano scure fino al blu e al nero, con pochi elementi che vi galleggiano sopra, crea un’atmosfera onirica alle sue opere  nel confine tra visibile e invisibile, tra  visione personale ed evidenza oggettiva.  Sempre secondo Riva”il luogo dipinto perde pian piano qualsiasi connotazione verista e di similitudine con il paesaggio reale, per trasformarsi in qualcosa d’altro”.  Ed ecco dove ci porta e come si esprime l’artista: “In un nonluogo che sfiora a tratti l’astrazione, avvolto di una luce irreale, straordinariamente seducente, , fatta di bagliori improvvisi, di luci, di squarci nel buio, di lampi di folgoranti azzurri, rossi, o blu oltremare, luci e colori che si insinuano sottopelle, mescolati a misteriose figure che sembrano danzare nell’aria come se non ci fosse più differenza tra la realtà, il sogno e la loro rappresentazione pittorica”.

Non si potrebbero descrivere meglio le opere esposte,  tutte del 2015: “Il grido interiore” e “Le trasformazioni dell’atmosfera”, “Il rosso della manica non copre la luce” e “Doppio serpente dell’antica Cina”;  c’è anche “Omaggio a Klein“, una rete sospesa con in primo piano il blu oltremare o “blu Klein”.

Non  sono immagini di paesaggio, tanto meno interiore,  ma della fauna che lo popola le due opere di  Xiangbin Liang, “Scimmia che guarda la montagna”, n. 1 e 2, 2014, lo sguardo è così intenso da rivelare una profonda umanità, d’altra parte la scimmia  occupa nell’evoluzione il gradino prima  dell’uomo per cui lo riteniamo un passaggio appropriato alle opere con figure umane.  

L’artista è anche scrittore e la sua pittura è intimamente legata alla natura con cui vive a contatto e intende portare nelle sue opere: i due primi piani dei volti di scimmia, assorti nell’ammirare la meraviglia delle montagne che si riflettono chiaramente nei loro occhi si inseriscono in una produzione  in cui si trovano  foreste abitate da scimmie e paesaggi innevati, nella celebrazione della bellezza della natura. Il suo è un mondo primordiale incontaminato,  con un cromatismo brillante e luminoso  per esprimere i colori della vita, del resto mette in opera la propria  “teoria della pittura selvaggia”. Può  sembrare l’idealizzazione di un  mondo sparito, invece  è una realtà presente che va a scovare, fotografandola per  renderla in forma pittorica:  non è un “paradiso perduto” ma che si può perdere.  Aggiunge Riva: “La pittura di Xiangbin Liang, apparentemente semplice  e immediata, è allora anche un mezzo per farci ragionare su ciò che è  vero e ciò che non lo è più nell’era della comunicazione diffusa , sul valore del mezzo pittorico come medium illusionistico, capace di far librare l’immaginazione oltre il reale , pur restando con i piedi perfettamente piantati nella realtà”.  Non ci sono solo le montagne  negli occhi delle scimmie!

 Vediamo infine un paesaggio montano, di stile figurativo, opera di Meng Bin, ma questo artista espone soprattutto dipinti di figure umane, e sono questi che intendiamo commentare.

La figura umana in pittura e scultura

Con Meng Bin, dunque, troviamo nell’esposizione la figura umana, soprattutto femminile ma anche maschile in  una serie di dipinti del 2014: sono 3 composizioni  con diverse figure intere e 2 dipinti con figure a mezzo busto. “Le studentesse”  sono 5 figure di donne in pantaloni e gonna,  “I coetanei” 2 figure,  “La famiglia” una coppia con un bambino. “Ritratto di Lao He” e “Ritratto di Lao Xe”  rappresentano i due soggetti, maschile e femminile, ripresi da soli.

Sono dipinti di notevole densità materica con le figure viste dall’alto, “come se il loro presentarsi dal basso – commenta Riva – fosse una spia della crisi di un’intera generazione. La sua pittura non riproduce, comunica”.  Le “studentesse” e i “coetanei”  esprimono le ansie e le attese della loto generazione, nella “famiglia” sembra di intravedere una maggiore serenità, come un approdo sicuro.  Questa  è solo una componente, si nota anche la cura nel soffermarsi su aspetti esteriori, come l’abbigliamento e la positura,  quali espressioni della personalità dei soggetti come singoli e come collettività generazionale. 

L’artista, laureato all’Accademia Belle Arti di Guangzhou, dove ha conseguito il Master, fa parte del Comitato di pittura a Olio dell’Associazione Artisti di Henan, ha viaggiato in Europa per studiare l’arte europea, e lo si vede da quello che viene definito “espressionismo estatico”.

Figure umane e allegoriche anche nelle opere di Xie Heng Qiang, ma in forma di piccole sculture in ceramica colorata, quasi icone rituali di archetipi primordiali ma con un tocco di modernità, in un connubio tradizione-innovazione  espressione della sua intensa creatività.

E’ come se l’artista volesse comunicare qualcosa che viene da lontano ma che tocca da vicino, in un’atmosfera di mistero con un senso quasi religioso: “I suoi piccoli antieroi – osserva Riva – che sembrano saltare fuori da un scavo archeologico di un paese a noi sconosciuto,  conservano l’intensità degli eroi tragici antichi, con le loro espressioni a volte dolenti, a volte felici, a volte perse in sogni che non conosciamo”.  E cita “gli occhi sproporzionati come quelli dei moderni personaggi dei cartoon”,  nei quali  aleggia “un aspetto inquieto e sarcastico”.

Lo si nota nella  opere  meno recenti, come “Gemello n. 2”, 2007 , “Il paese degli Angeli”, 2010, e “L’Angelo sulla nuvola”, 2011,  mentre le più recenti, “La canzone di Samaria”, 2014, e “L’illusione”, 2015, mostrano un ripiegamento interiore  intenso e sofferto.

Pure  questo artista  ha una formazione accademica, e insegna Arte della Ceramica nella locale Università, le sue opere in ceramica sono presenti nelle mostre e nelle riviste specializzate.

Sono sculture anche quelle di Huang Yong, che insegna all’Accademia delle Belle Arti della sua città nel cui museo, oltre che in molte collezioni private, sono esposte le sue opere.  Non sono in  ceramica, come per l’artista precedente, ma  in resina e legno, e rappresentano il corpo umano pur se con titoli psicanalitici, come le 2 intitolate “L’incubo del sogno”, 2015, e le 3 “La voce sul legno”, 2014: sono nudi  improntati alla classicità come antichi bassorilievi,  anche qui con un tocco di modernità.  “Il corpo stesso, è ancora Riva,  diviene così un inesausto labirinto  di segni e di linee che si rincorrono sulla superficie dell’opera , quasi a rappresentare, con il loro intrico di segni, un simbolo della complessità della stessa natura umana”.

Le altre  ispirazioni e forme espressive

E siamo giunti agli artisti la cui ispirazione e forma espressiva è lontana da quelle fin qui considerate: si va dai riferimenti tangibili a realtà presenti alle sperimentazioni più varie.

Sono reali e tangibili le immagini urbane di Fan Feng, come “Cavalcavia” e “Si affacciano sulla città”, 2014, in inchiostro su carta: addensamenti che evocano gli agglomerati cittadini in una visione scenografica, dall’alto, non priva di inquietudine per la loro invadenza senza freni  L’artista, infatti, non si pone come osservatore neutrale, ma si immerge nello spazio che rappresenta quasi fosse sull’ideale palcoscenico di una delle moderne megalopoli orientali, “vere e propri simboli del presente tecnologico e urbano iperaccelerato della Cina di oggi” che, nelle parole di Riva, “vanno a formare le silhouettes di grandi paesaggi urbani caotici e strabordanti, pieni di palazzi, di insegne, di strade, di pali, di fili e di sopraelevate che si intrecciano e si sovrappongono una sull’altra”.

Ha un “cursus honorum” prestigioso, oltre ai titoli accademici e alle cariche nelle istituzioni artistiche ha conseguito il livello più elevato della Certificazione nazionale per l’arte fino a ricevere un sussidio permanente speciale del governo  per il suo contributo al mondo dell’arte.

Colleghiamo all’alienazione urbana le opere di Li Xiangyang, “Il volo”, sono 4 dipinti del 2013-14   con delle automobili in fila con autista, in ogni dipinto una  delle vetture  è sollevata, mentre ancora più in alto è sospesa, in orizzontale, una persona,  una è nuda con le braccia aperte come un crocifisso; sopra, nel cielo azzurro, si staglia una struttura viaria, sotto c’è uno spaccato del sottosuolo con le radici. Come interpretare questa immagine ripetuta quattro volte con delle varianti? L’artista, che vive a Pechino dove insegna alla scuola del cinema, si è laureto al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, e indubbiamente c’è un chiaro taglio cinematografico nelle sue composizioni, sembrano sequenze di un film. La persona sospesa non riflette il volo onirico ed estatico alla Chagall, ma nella sua rigidità rende l’angoscia di una condanna; mentre i due livelli della composizione sembrano marcare il distacco tra le solide tradizioni espresse nelle radici in bianco e nero e la caotica realtà odierna resa con i colori intensi di un’invasione violenta.  Del resto,  è esposta un’altra opera, dal titolo eloquente “Il vuoto”, forse come seguito sconsolato del “volo”.

Vogliamo concludere con  Ma Lin,  la cui figura si distacca dalle altre:ha studiato  in Italia, frequentando la “Scuola libera di nudo” e diplomandosi all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, vive e lavora nel nostro paese,  e ha collaborato attivamente alla mostra  attuale come ad altri eventi artistico-culturali tra Italia e Cina, ha esposto anche alla  mostra al Vittoriano “Virtual China”.

Infine 5 installazioni pittoriche realizzate inserendo i dipinti in supporti di ferro e legno asiatico, nelle quali una mano, dei corpi e dei volti, questi ultimi in miniatura, sono inseriti in composizioni  iconiche con l’aggiunta di piccole farfalle come metafora di libertà e rigenerazione dinanzi all’oppressione  dei frammenti di parvenza umana compressi e isolati nei suoi istogrammi scuri:  è l’alienazione della vita moderna che riduce le possibilità di dialogo e alimenta i conflitti, ma nonostante  ciò la spinta al dialogo tra identità culturali diverse è portata dalle  componenti antropologiche e spirituali che sono alla radice della storia dei popoli.  Per questo, “Dialogo” e “Voglio parlare” si intitolano  3 sue opere del 2014 e 2015;  dell’ultimo anno abbiamo anche 2 installazioni intitolate “Rivelazione e anti-rivelazione”.

Titoli che sembrano un sigillo della mostra, come occasione di dialogo tra diverse culture e forme espressive, e volontà di parlare nel senso di comunicare, esprimersi. La mostra è stata una rivelazione di  aspetti ignorati dell’arte cinese, dove la contemporaneità si salda alla tradizione in una  sperimentazione  che si nutre di apporti occidentali innestati sull’antico e affascinante linguaggio del lontano Oriente. 

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresa la domenica, ore 7,30-19,30, entrata fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, 06.69923801; fax 06.69200634. www.comunicareorganizzando.it.  Catalogo “Crocevia. Arte cinese contemporane”, dicembre 2015, pp. 122, formato 22 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre sull’arte e la tradizione cinese, cfr. i nostri articoli: in questo sito “Awangdui, tombe cinesi del 2° sec. a. C. a Palazzo Venezia” 17 gennaio 2015, “Visual China. Realismo figurativo contemporaneo”17 settembre 2013; “Oltre la tradizione. I Maestri della pittura moderna cinese”  15 giugno 2013;  lo scultore “Weishan” e l’abbinamento Qi Baishi -Leonardo 24 novembre 2012; la “Via della Seta” il 19,21 e 23 febbraio 2014; per l’arte e la cultura cinese in “notizie.antika.it” sulla mostra “L’Aquila e il Dragone”  4 e 7 febbraio 2011; in “cultura.inabruzzo.it  sull'”Anno culturale cinese”  26 ottobre 2010,  e  2 articoli sulla “Settimana del Tibet”  21 luglio 2011 (tale sito non è più accessibile  gli articoli saranno trasferiti in altro sito); infine in questo sito, “‘Incontro all’Ambasciata cinese”  1° aprile 2013.

Foto

Le immagini sono state ripreseda Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare l’organizzazione cinese e i singoli artisti, per l’opportunità offerta. Viene riportata una immagine per ciascuno dei 12 artisti nell’ordine in cui sono citati nel testo. In apertura,  Liu Yiyuan, “Vocabolario di Jie Zi”, 2009; seguono, Ke Dou, “La notte di luna”, 2014, e Xuru Kui, “Montagna”, 2014; poi, Liu Shangying, “Il lago Manasarovar”, 2014, e Xu Dongsheng, “Doppio serpente dll’antica Cina”, 2015; quindi, Xiangbin Liang, “Scimmia che guarda la montagna”, 2014, e  Meng Bin, “La famiglia”, a sin, con una “Studentessa”, a dx; inoltre, Li  Xiangyang, “Il volo 3”, 2014, e Xie Heng Oiang, “L’illusione”; 2015; infine, Huang Yong, “L’incubo del sogno”, 2015, sulla parete “Occhi nel cielo”, 2015, di Liu Yiyuan, e Ma Lin, “Voglio parlare”, 2014; infine, Fan Feng,  “Si affacciano sulla città”,a sin., “Cavalcavua”, a dx, 2014;  in chiusura, la presentazione della mostra, con il rappresentante cinese  (al microfono  l’interprete) e  Alessandro Nicosia (dietro). 

Franchi, l’orma del cerchio, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, dal 20 novenbre 2015 al 7 febbraio 2016,  la mostra “L’Orma del Cerchio. Fausto Maria Franchi orafo artista”, espone  i suoi gioielli artistici, vere “sculture per il corpo” , gli argenti  con cui ha realizzato soprattutto vasellame pregiato, e le sculture vere e proprie in cui non ha mancato di cimentarsi. E’ una mostra antologica, le opere coprono un ampio arco temporale,  dall’inizio degli anni ’70 fino al 2015. La mostra è a cura di Mariastella Margozzi, come il Catalogo bilingue Gangemi Editore, curato con Lucia Sabatini Scalmati

Una mostra particolare, con i gioielli realizzati da un orefice che è anche scultore, quindi non sono assimilabili a quelli, ad esempio di Bulgari e neppure di Buccellati, perché le sue sono “sculture per il corpo”, quindi si differenziano nettamente dai preziosi ornamenti che hanno resi celebri i due gioiellieri.

Non solo gioielli, ma anche argenterie e sculture vere e proprie, però dai gioielli si deve partire per conoscere un artista che, a differenza degli scultori in senso stretto, attribuisce al materiale usato un valore primario: non cerca di estrarne la forma che vi vede imprigionata considerandoli un ostacolo da rimuovere, ma al contrario si propone di valorizzarne ulteriormente la nobiltà aggiungendoci la sua arte senza sottrarre nulla della preziosità del materiale, anzi accrescendola.

Il richiamo alla natura  e alla cultura

Un approccio materico, sembrerebbe il suo, anche se utilizzando un materiale nobile e prezioso. Tutt’altro, come sottolinea Mirella Cisotto Nalon nella sua attenta riflessione sul “gioiello come evento plastico”. Perché un evento e non un oggetto di abbigliamento per quanto prestigioso e di valore?  “Ogni opera di Fausto Maria Franchi sembra scaturire dalla relazione tra la sfera della natura e quella della cultura”, relazione che  va analizzata. 

Il richiamo alla natura viene dalle forme che rimandano a quelle primarie, curve e avvolgenti, di origine organica; la cultura è insita nei saperi sedimentati che sono alla base della sua maestria creativa oltre che nei continui riferimenti colti nelle intitolazioni, in particolare delle sculture.

La rotondità delle linee rimanda al barocco, in cui è stato immerso vivendo a Roma dove si è formato frequentando il Museo artistico, ramo oreficeria, con la guida dei professori Orlandini e Gerardi, e ampliando la sua visione con viaggi in diversi paesi europei e negli Stati Uniti. L’oreficeria di Mario Masenza in via del Corso era frequentata da artisti dell’informale, tra cui il grande Capogrossi, si trasferivano nei gioielli le suggestioni delle tendenze più avanzate.  Così nella forma sostanzialmente circolare, ma tendente ad aprirsi, entrano segni e filamenti, trame e intrecci per cui nel momento in cui sembra conchiusa, appare potenzialmente protesa all’infinito.

Natura e cultura, dunque, alla base delle sue forme in un rapporto costante con lo spazio soprattutto nelle sculture, oltre che con la luce, e non solo.  Perché, aggiunge la Cisotto Nalom, “è lecito vedere nel tempo la dimensione a cui esse in definitiva appartengono e nella quale, idealmente, si protende la loro forma”.

Il cerchio nell’arte di Franchi

Detto questo, ulteriori motivazioni di grande interesse sono fornite da Mariastella Margozzi, che chiarisce anche le origini del  titolo dato alla mostra. Abbiamo già parlato delle forme tendenzialmente circolari del richiamo primordiale, ma c’è di più. Il titolo lo ha voluto l’autore per la sua ricerca costante, fin dall’inizio della sua vita artistica, svolta intorno al cerchio, figura geometrica  e naturale generata dal vortice cosmico primordiale generatrice a sua volta delle forme più semplici come di quelle più complesse, in primis degli anelli, dal forte valore simbolico a livello cosmico con le orbite dei pianeti e a livello umano, come segno di decoro ornamentale e anche di valori ideali come il legame sentimentale fino a quello matrimoniale

In passato, in una mostra sempre alla Gnam, quella delle copertine di “Mass Media”, ci siamo appassionati alla genesi e al significato attribuito a un’altra figura geometrica basilare, il quadrato, e ne abbiamo esplorato le molteplici interpretazioni. La Margozzi ci aiuta ora a fare la stessa cosa con il cerchio. 

Oltre ai contenuti primordiali e ideali cui abbiamo accennato, si consideri che fin dall’uomo preistorico la visione della luna ha proiettato l’immagine del cerchio, poi divenuto ruota, la scoperta più rivoluzionaria dopo il fuoco, quindi il cerchio è stata la matrice dei vasi in cui si sono raccolti e custoditi gli elementi essenziali per la vita, dall’acqua agli oli, dalle derrate al grano;. I piatti della vita quotidiana sin dalla preistoria sono circolari, e sono rimasti tali, gli scudi erano circolari e così la campana, che propaga onde sonore circolari come sono circolari i cerchi che si formano quando si getta in acqua un sasso.

In senso figurato circolarità sta per apertura, nell’informazione e nelle relazioni umane in generale. Anche per questo l’attrazione che l’artista ha provato istintivamente per la forma circolare lo ha portato a “superare l’opportunità dell’oggetto e a spaziare nell’universo misterioso e misterico dei segni e dei simboli”.  Ha potuto farlo scegliendo la materia adatta ad esprimere questi contenuti e nobilitare la forma.

I materiali preziosi e i contenuti moderni

Nel suo approccio di orafo scultore non poteva che essere un materiale prezioso, oro e argento; nei contenuti che intendeva dare alla sua opera l’informale e le altre correnti avanguardia che crescevano intorno a lui nell’ambiente artistico romano degli anni ’50 e ’60, erano  la via naturale. E’ riuscito a conciliare e a valorizzare insieme queste due direttrici, apparentemente divergenti perché c’era anche l’arte povera tra le avanguardie mentre la sua era un’arte ricca, che cozzava con le concezioni correnti; tanto che si tendeva a sostituire il gioiello di materiali preziosi con il monile di acciaio, ferro e pietre dure, per rendere democratico l’ornamento mettendolo a disposizione di tutti e non solo del censo privilegiato.

L’artista si è rifiutato di degradare il gioiello a semplice “scultura per il corpo”  di  materiale povero, è stato sempre legato alla sua preziosità e purezza  per arricchirne la nobiltà con il valore aggiunto dell’arte. In lui è il materiale prezioso a suggerire il contenuto dell’opera, non l’inverso come avviene nella scultura.  Masenza, nella cui gioielleria nascevano i lavori di Franchi, riceveva anche l’apporto creativo di artisti come Afro e Mastroianni, Novelli e Consagra della vivace avanguardia romana, in una sinergia vincente tra le idee più avanzate e le realizzazioni più preziose.

I gioielli di Masenza in via del Corso assurgevano a vera arte, tanto che i “gioielli d’artista” furono esposti in un’apposita vetrina  allestita con l’opera e il contributo di Umberto Matroianni nella stessa Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove ora si svolge la mostra dopo che  nel 1967  la direttrice Palma Bucarelli, li presentò nel padiglione italiano dell’Expo d Montreal insieme alle grandi sculture.  Un certo numero furono donati alla Bucarelli dagli autori e seguirono la direttrice al termine della sua attività nella Galleria nel 1975, ma una dozzina circa sono restati nel Museo.

“Questo passato di attenzione istituzionale al ‘gioiello’ d’artista e l’intenzione di rinnovare l’interesse sul genere – afferma la Margozzi – è il motivo che sta alla base della mostra  dedicata oggi a Fausto Maria Franchi, artista nobile come le opere che prendono vita dalle sue mani, dalla sua fantasia, dalla sua cultura, ed esecutore esemplare di oggetti che testimoniano la trasversalità delle forme così come della immutabile identità di gioiello e materia preziosa”.

Non c’è solo l’arte ad aggiungersi alla preziosità della materia,  ci sono le  “tecniche di trasformazione ‘amorevole’ del metallo” che vanno dallo sbalzo al cesello, dal niello alla doratura al mercurio. A queste “egli aggiunge anche la sapienza della smaltatura, altra tecnica antica, che spesso pone a coronamento di quel processo alchemico che è la motivazione prima di ogni sua scelta operativa”. E non è un aspetto secondario, anzi diventa qualificante: “L’alchimia, come necessità di trasformare la materia fino alla sua sublimazione e di renderla unica nella sua forma compiuta è sicuramente la scienza umanistica che più si adatta a descrivere il processo creativo dell’artista orafo”.

La Margozzi precisa: “Fausto Maria Franchi a questo processo di trasformazione aggiunge e ribadisce la necessità del recupero del significato e della simbologia dell’oggetto prezioso, il suo continuare a corrispondere a precise categorie espressive”. Conclude così: “E così il cerchio diventa anello, collana, campana, figura onnicomprensiva di forma e spazio, di materia e idea”.  Anche di luce e di tempo.

E’ proprio il caso di dire che il cerchio si chiude, si può passare a una rapida rassegna delle opere esposte cominciando dai gioielli, nei quali si concretizza quanto osservato fin qui. Ma prima qualche altro dato biografico con le sue benemerenze.

Nel 1964 ottiene il 1° premio al Concorso nazionale d’Oreficeria del Ministero Industria e Commercio, diviene presidente degli Orafi e membro della Presidenza Nazionale dell’Artistico alla Camera di Commercio, nel 1993 promuove, dirigendola fino al 2008, la mostra annuale “Desideri preziosi” indetta dalla Camera di Commercio di Roma al Tempio di Adriano”,  membro permanente della sua Commissione periti ed esperti. Nel 2003 riceve l’onorificenza “Maestro dell’artigianato”,  nel 2011 viene invitato a partecipare all'”Omaggio degli artisti a Benedetto XVI nel 60 esimo di sacerdozio, nel 2012 progetta il concorso internazionale “Gioielloinarte” a scadenza triennale.

Interminabile la serie delle esposizioni  a cui ha partecipato, 110 dal 1964 al 2015, di cui un terzo all’estero,  in vari paesi europei, nell’America del Nord e del Sud, in Giappone.

Dopo questi semplici accenni di un “cursus honorum” prestigioso, la parola alle opere esposte.

I gioielli, le “sculture per il corpo” 

La più recente è “Girotondo”, un bracciale in argento del 2015 con la tecnica delle coppette strozzate e cesellate, e varie da banchetto. Le tecniche da banchetto,  insieme al traforo,  sono anche alla base della realizzazione della serie  “Affinità elettive 2“, del 2014, il titolo si riallaccia al tema culturale, richiama la celebre opera di Goethe: è una parure di anello-collana-bracciale in oro-argento-argento ossidato nero, con un secondo anello e bracciale, a strati sovrapposti con la contrapposizione cromatico del giallo, bianco e nero in uno stile omogeneo dalle linee moderne. Nello stesso anno orecchini di forma diversa, molto frastagliati, come l’anello in argento del 2013 in argento e smalto, e le “Affinità elettive” del 2010, due spille una in oro  e l’altra in argento, e un anello d’argento con rame e acciaio acmonital; nel 2009 troviamo un anello d’oro, stesso titolo.

Gli altri titoli sono fantasiosi, nel 2014 il ciondolo “Strano concetto”, nel 2013 le collane “Stante” e “Dove vai”, gli anelli  “Allegro” e “Mare”, il pendente “Trasgressione” e il ciondolo “Positivo-negativo”, oltre ad oro e argento troviamo rame e corniola, acciaio e legno. Nel 2011 la spilla “Carrara” e nel 2010, oltre alle spille e all’anello delle “Affinità elettive” già citati, “L’ospite”  bracciale in oro con l’aggiunta di diamanti, che troviamo anche nel ciondolo “Ebla” del 2006, negli anelli “Elisabetta” del 2004, e  “Porta dei ricordi” del 2002; di quest’ultimo anno due anelli d’oro in fusione a cera persa, “Inizio”, “Inizio della storia”, e soprattutto “Omaggio a Fontana”, anello d’oro con una fessura centrale in metacrilato verde in omaggio al sigillo inconfondibile dell’artista.

la galleria di gioielli risale agli anni ’80, con la spilla “Moderato“, 1985, e il girocollo”Andante”, 1980,  e agli anni ’70, con gli anelli “Struttura”, 1975, “Scultura”, 1972, anno nel quale realizza anche il girocollo “Gioco antropomorfo”, in fusione  a cera persa con l’aggiunta di smeraldi e diamanti nelle punte frastagliate di una  composizione spettacolare.

Gli argenti e le sculture

Con gli argenti ha modo di esprimersi compiutamente la sua passione per il cerchio trattandosi di articoli di questa forma, ma alle forme arrotondate aggiunge dei terminali molto caratteristici. Lo vediamo nella serie “Pesce rosso”, del 2011, una caffettiera, zuccheriera  e tazzina la cui superficie è in sbalzo e cesello, con smalto a fuoco, Lo stesso nel vaso “Sto-colma“, 2009,e nella brocca “Fontanabianca 2”, 2008, titolo che troviamo anche in una brocca del 2002; sempre del 2008 anche i vasi “Birichinata” e “Sombrero” , del 2007  il vaso  “Gallo” , mentre nel 2004 troviamo la ciotola “Martello matto” e il piatto “La smorfia”, testimonial della mostra, che esprime la centralità del cerchio; mentre la teiera “La via del te”, del 2000, aggiunge alla sfera centrale un viluppo di tentacoli alla Laocoonte. Piatti molto lavorati sempre a sbalzo e cesello negli anni ’90, da “Occhi memori”, 1994, a “Dolci lacrime”, 1992, a  “Gioco primitivo”, 1990.

Orafo scultore in materiali preziosi abbiamo detto essere la sua attività artistica prevalente, ma vediamo esposte anche sculture in bronzo fino  a70 cm di altezza. I riferimenti culturali sono ancora più espliciti, le intitolazioni esprimono in modo diretto i contenuti e motivi ispiratori.

Vale per la serie del 2014, “Studio da Guernica”, 5 piccole sculture che richiamano le forme picassiane, mentre altrettanto evocativa la serie di 5 sculture più grandi  “Una campana per Erasmo da Rotterdam”, del 2009, anche con il cuoio,  entrambe richiamano alla memoria echi lontani. Tra queste due serie le 2 sculture del 2013, “Il trionfo di Adriano”,  che si dispiega anche in orizzontale, con un riferimento al passato altrettanto esplicito; andando più indietro, “Battaglia ungherese”, 1985, in bronzo patinato verde, le 2 in bronzo “Lettura dell’Angelo di S. Andrea della Valle”, 1980,  e le 3 “Forme” del 1977  con cui si conclude l’intera mostra. Con queste forme e rimandi, secondo la  Cinotto Nalon, “il suo scopo non sembra essere quello di recuperare un repertorio di pur seducenti archeologie formali, quanto piuttosto di portare in superficie memorie vive ed operanti”.

Il commento più appropriato a commento delle immagini che abbiamo sommariamente descritto ci è sembrato quello del figlio Enrico, che ricorda come il padre da bambino  gli scrisse queste parole dedicandogli una decorazione pittorica: “Sorridi, sorridi, sorridi sempre perché quando sorridi sei più vicino a me”.  Ecco come Enrico Franchi parla del padre artista: “Un turbine di idee tangibili, volanti, sorridenti, cupe, colorate, musicali, fantasiose; parole che bisogna saper ascoltare; reali e irreali, come il suo essere sempre giocoso, la sua giovinezza nell’anima, i suoi argenti tirati a martello; martello che sembra colpire   caso una lastra, ma con ritmo preciso, meditato, magico”. 

Ebbene, dopo aver visto le opere esposte, nella loro intrigante originalità,  sembra anche a noi di vedere l’artista  nel suo impeto creativo. Alle prese con metalli preziosi per aggiungervi qualcosa di ancora più prezioso, la sua arte scultorea. 

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 8,30-19,30, entrata fino  a 45 minuti prima della chiusura; lunedì chiuso. Ingresso euro 8 (mostra + museo), ridotto 4 euro per i giovani UE 18-25 anni, gratuito per i minori di 18 anni e altre categorie previste. http://www.gnam.beniculturali.it/ Tel. 06.32298221. Catalogo “L’orma del cerchio. Fausto Maria Franchi orafo artista”,  a cura di Mariastella Margozzi e Lucia Sabatini Scalmati,  Gangeni Editore, novembre 2015,pp. 96, bilingue italiano-inglese, formato15 x 21, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per il “quadrato” cfr. il nostro articolo in questo sito “Mass media, 27 artisti sul quadrato alla Gnam”  23 marzo 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Gnam, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura, la vetrina con i gioielli; seguono, “Affinità elettive n. 2”, collana oro-argento-acciio,  2014, e “Ironia della storia”, anello oro, 2002;  poi, “Carrara”, spilla  argento-acciaio, 2011, e “La via del te”, teiera argento, 2000; quindi,  “Fontanabianca”, brocca argento, 2002, a sin., con “La smorfia“, piatto argento, 2004, a dx, e “Sombrero”, vaso argento, 2008; inoltre, “Pesce rosso”, caffettiera argento, 2011, e “Battaglia ungherese”, scltura bronzo, 1985; infine, “Lettura dell’Angelo di S. Andrea della Valle“, scultura bronzo, 1980, e “Il trionfo di Adriano”, scultura bronzo 2013; in chiusura, “Studio di testa”, scultura bronzo, 1980.