Ciro Soria, 40° di matrimonio con il sostegno a Ibby

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.it – 19 luglio 2010 – Postato in: Culturalia, Letteratura

Facciamo seguito ai due articoli pubblicati nei due giorni scorsi, 21 e 22 aprile 2023 per ripubblicare un terzo articolo nel Trigesimo della scomparsa di Ciro Soria, l’amico da un quarto di secolo che se n’è andato il 21marzo. Il primo dei due articoli contiene il nostro saluto prima del funerale e l’orazione funebre dell’amico Aldo Visco Giraldi al termine della funzione religiosa; il secondo articolo rievoca il viaggio sulla sua barca “Luna” di uomo di mare appassionato per Ischia alla festa di Sant’Anna del 2009 con il Palio del mare e i Carri di Tespi, scene di vita e di navigazione. L’articolo di oggi è sulla festa del 40° di matrimonio nel 2010 e illumina su uno dei suoi pregi, la generosità, qui manifestata nell’appoggio concreto all’attività benefica dell’associazione internazionale dove è impegnata la figlia Deborah e della quale descriviamo l’impegno meritorio. Al termine dell’articolo c’è il commento che Ciro “postò” allora, come sempre generoso, lo ringraziamo oggi, certi che lo ripeterà da Lassù. Si conclude così il nostro triduo celebrativo nel Trigesimo, con il saluto memore e commosso che rinnoviamo: Ciao, Ciro, amico carissimo, buona navigazione lassù, nell’alto dei cieli!

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Non sappiamo quanti conoscano l’Ibby, e non la confondano con un’organizzazione che vende apparecchi per la casa con il “network marketing”. A quelli che sanno di cosa si occupa questa meritoria associazione vale la pena rinfrescare la memoria; ai tanti altri, quasi tutti, che non ne hanno mai sentito parlare è bene dare la notizia della sua attività, e una rivista culturale come la nostra è orgogliosa di farlo rivolgendo un appello perché la si sostenga.

Per il nostro 40° anniversario di matrimonio vorremmo invitare tutti i nostri amici a festeggiare con noi”, così l’inizio dell’invito in un elegante corsivo, accompagnato da una piantina sulla località nei pressi di Nettuno, vicino al campo dei paracadutisti, dove si sarebbe svolta la serata conviviale di sabato 19 giugno 2010.

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Ma quello che ha suscitato subito una forte curiosità, oltre alla festa dei coniugi amici, Ciro Soria e Dilys, è stato il seguito dell’invito: “Per favore niente regali! Apprezzeremmo molto al posto di un regalo una piccola donazione all’Ibby (International Board on Books for Young People”), della quale nostra figlia Deborah è rappresentante per l’Italia. La donazione andrà a sostegno dei loro progetti per fornire libri ai bambini di paesi sconvolti da guerre e altre catastrofi quali Haiti, Afghanistan, Colombia. Alla festa saranno disponibili ulteriori informazioni sull’Ibby e se volete potrete dare il vostro contributo direttamente durante la serata o tramite il conto corrente bancario Iban: II 46 Q 01030 02400 00000 4685 463 Ibby Italia. Grazie mille”.

L’uomo che morde il cane

Ci vuol poco a capire come sia scattato l’interesse giornalistico. In un “mondo di ladri”, come ama cantare Antonello Venditti, dove spiccano le appropriazioni indebite di denaro pubblico e privato a fini esclusivamente personali, nelle forme più fantasiose e invereconde come lo sono le destinazioni, questa sì che è una notizia! E’ l“uomo che morde il cane”, il “sogno all’incontrario”, direbbe Paolo Rossi, il graffiante cabarettista non il campione calcistico della Coppa del mondo vinta dall’Italia che abbiamo rievocato nel nostro recente “Rebus dell’estate 1982”.

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Si rinuncia a ricevere omaggi personali all’altezza della ricca serata conviviale, un vero pranzo di nozze in un locale all’aperto accogliente, con il cantante e tutte le delizie fino alla torta conclusiva, brindisi e hip hip urrah alla marinara, per dirottare i tanti pensieri e riconoscimenti, provenienti dalla platea dei sessanta amici distribuiti in cinque tavoli da dodici, all’Ibby Italia, organizzazione che opera nel sociale troppo spesso depredato e qui invece aiutato da questa generosa iniziativa.

Da giornalisti culturali attenti anche al sociale ci andiamo a nozze, è il caso di dire, tanto più che intendiamo sottrarci alla consuetudine fin troppo diffusa secondo cui “il bene non fa notizia”, lo abbiamo detto altre volte citando l’ultimo articolo di Aldo Moro su “Il Giorno” poco prima del tragico sequestro. Qui la notizia c’è eccome, e va data tanto più in quanto riguarda il “bene”, nella speranza che altri seguano l’esempio.

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Lo facemmo anche per la serata culturale di un compagno di scuola teramano, Fabrizio Iacovoni, già primario cardiologo, che riunisce parenti e amici ogni anno a novembre a Forca di Valle accompagnando la serata conviviale con un incontro nel quale vengono illustrati e discussi dei temi: nel 2009 ci furono il Futurismo e Benedetto Croce, per quest’anno è stata già preannunciata la tragica odissea degli Armeni. Lì è la cultura a dominare, qui è un sociale nella cultura di respiro internazionale, una bella accoppiata le due serate che proponiamo come esemplari per tutti. Perciò questa attuale merita non solo la citazione, ma anche un servizio come fu per quella ora ricordata.

Facciamo conoscenza dell’Ibby

Si entra nel mondo dell’Ibby scorrendo il materiale disponibile a lato della cassetta dove gli invitati inseriscono le buste come si fa ai matrimoni americani, anche se senza i fregi in uso oltre oceano.

Più che “un” mondo è “il” mondo, l’International Board for Young People opera in settanta nazioni, è una rete volta alla promozione della lettura infantile nei paesi nei quali maggiore è il disagio e l’arretratezza oppure colpiti da sciagure e calamità.

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Esiste da oltre cinquant’anni, è nata a Zurigo nel 1953, pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, come reazione della cultura ai suoi orrori. Ricordiamo con piacere l’ideatrice, la giornalista Jella Lepman che fa dimenticare l’infelice assonanza italica del nome rendendo onore alla categoria: ha saputo guardare negli occhi spauriti dei ragazzi tedeschi dove si rispecchiavano ancora gli orrori della guerra e capire che occorreva dare loro altre immagini positive per farli aprire alla vita che riprendeva; e come poterlo fare se non con quanto rappresentato dai libri?

Ricordiamo una suggestiva lettura di Alessandro Baricco che evocava come i più bei tramonti e le albe meravigliose, i panorami e i paesaggi, le scene di vita fossero contenuti nelle descrizioni dei libri come in magiche scatolette che si aprivano per magia rivelando le bellezze contenute. Tale dovette essere l’effetto sugli occhi dei bambini tedeschi che avevano visto solo morte e rovine.

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L’origine come reazione agli orrori della guerra fa capire come attraverso la diffusione di libri per ragazzi in paesi dove hanno difficoltà a penetrare si persegue anche una maggiore comprensione internazionale, senza scomodare il valore supremo della pace che pure è un traguardo. Con diffusione non si intende distribuzione di materiale librario qualsiasi, ma di libri di qualità; e non ci si limita a distribuire quelli esistenti resi disponibili ma si promuove la pubblicazione di nuovi e all’altezza; e si promuovono ricerca e lavori scientifici nella letteratura per l’infanzia e i ragazzi.

Oltre al “pesce” si fornisce anche la “canna per pescare”: trattandosi per lo più di paesi in via di sviluppo si pone l’annoso problema dell’assistenza e della formazione, che viene fornita per mobilitare le energie locali e far sì che non abbiano sempre bisogno di tali supporti esterni.

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Come opera l’organizzazione? Svolge un’attività concreta di promozione anche di letture e non solo di libri; organizza convegni internazionali per promuovere ricerca, formazione, e diffusione di libri di qualità, rende pubblica una “Honour List” per evidenziare le eccellenze fino all’assegnazione dell’“H.C. Andersen Award”, ritenuto il Nobel dei libri per ragazzi, l’Oscar dell’immaginazione.

E’ così vasta da riprodurre le più diverse situazioni nazionali: dai paesi dove alfabetizzazione e libri sono a buoni livelli, ai paesi dove il lavoro organizzativo è allo stato pionieristico. Non solo, ma non occorre che vi sia una sezione nazionale per attivarsi secondo la sua missione e i suoi obiettivi, è ammessa anche l’adesione individuale all’organizzazione; anche perché esistono altri livelli oltre quello nazionale, ci sono le aree regionali e l’intera rete internazionale a cui fare riferimento.

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La sezione italiana dell’Ibby.

Siamo andati molto lontano, torniamo in Italia: come in tutte le sezioni nazionali ne fanno parte le più diverse categorie, dagli autori agli editori, dagli illustratori ai traduttori, dagli insegnanti delle scuole primarie e secondarie a quelli dell’università, dagli operatori sociali ai giornalisti, dagli studenti ai genitori; in quanto rientranti in tali categorie ne fanno parte le associazioni di editori e librai, biblioteche e Fiera del libro. Ma chiunque, in pratica, può rivestire una delle qualifiche coinvolte, se non come attività professionale o qualità personale almeno come interesse al tema al quale è impossibile restare indifferenti: si tratta del libro e della lettura, formazione e cultura riferiti ai fanciulli.

Non serve scomodare la Convenzione Internazionale sui Diritti del Fanciullo ratificata dall’Onu venti anni fa, nel 1990; anche se va sottolineato che l’Ibby ha un ruolo, riconosciuto dall’Unesco e dall’Unicef, che si può definire di “avvocato di libri per bambini”, nel senso della produzione e diffusione per una loro formazione qualificata e l’accesso alla cultura.

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Conosciamo bene quali sono i problemi che si incontrano nel nostro paese riguardo alla diffusione della lettura: ne abbiamo parlato sulla rivista a proposito del rilancio del Centro per il Libro e la Lettura affidato al grande manager dell’editoria Gian Arturo Ferrari, illustrandone il programma e le principali iniziative; come abbiamo parlato degli ulteriori problemi che crea la diffusione presso le categorie diversamente abili con problemi di accesso alla lettura a seguito del convegno organizzato dal direttore generale Maurizio Fallace della direzione dl MiBAC competente in materia, con particolare riguardo al diritto d’autore.

Il tema dei disabili sta particolarmente a cuore all’Ibby, per l’Italia è stato tradotto il catalogo “Outstanding Books for Young People with Disabilities 2007”, con le più varie forme di accesso in modo da consentirne la fruizione a tutti.

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Un’operatrice dell’Ibby nella sua meritoria attività educativa

Rinviamo a tali servizi degli ultimi mesi, qui ci concentriamo sull’attività e sui programmi dell’Ibby per il nostro paese. Ebbene, oltre al prevalente significato umanitario e solidaristico c’è quello più direttamente culturale collegato con la promozione dei nostri autori all’estero, che serve a segnare anche l’identità nazionale italiana. A questo mira la proposta dell’Ibby Italia di un albo che riesca a descriverla al meglio, avanzata alla mostra bibliografica di “picture books” a Parigi, e anche la segnalazione al Festival di Berlino e al Festival in Corea di alcuni tra i maggiori autori italiani per la fascia di età tra l’infanzia e l’adolescenza, anche ai fini della loro traduzione.

Alla qualità mira l’attività dell’Ibby, con una diffusione di livello qualitativo sicuro, non mediocre, ed è un compito fondamentale per far emergere opere che uniscano qualità intrinseche letterarie ed estetiche all’adattamento alla psicologia infantile, all’immaginazione. Questa selezione serve anche all’interno, e deve essere seguita dalla promozione, difficile per la scarsa attenzione della stampa italiana ai libri per bambini, a parte l’interesse nelle feste natalizie come libri strenna o in particolari eventi, ma difficilmente a seguito di un’impostazione sistematica lungimirante e moderna.

Deborah Soria, in una intervista sull’attività dell’Ibby

Nella modernità bisogna tener conto anche dello spazio sconfinato del web che Emy Beseghi, Presidente dell’Ibby Italia., ha così definito in una recente intervista sul sito www.ibby.org: “Internet, per usare una metafora fiabesca, può presentarsi come una sorta di foresta multimediale dove perdersi… nel bosco dei mille link”. Di questo rapporto, che “ha alzato la posta in gioco con risposte originali e controcorrente” tratta il libro di Marigliano, “Immaginare l’infanzia”.

Il presidente Beseghi ha accennato anche al futuro: “Puntiamo su un progetto di ampio respiro. E cioè di farci portavoce e promotori, nel dialogo con le istituzioni governative, di una lista di libri eccellenti. Insomma di un strumento prezioso di orientamento e di conoscenza nel mare magnum della produzione editoriale per ragazzi come già fatto in Europa, in particolare in Francia e in Inghilterra. Si tratta di un programma per salvare ‘la qualità’ del libro per bambini sempre più sommerso dalla commercializzazione.” L’espressione “mare magnum”, aggiungiamo per inciso, ci richiama il sito di una straordinaria miniera romana di libri anche rari raggiungibile on-line.

Ibby Camp a Lampedusa, Deborah Soria la seconda da sin.

Dai paradossi italiani all’appello finale

Potevano mancare i paradossi tipici della realtà italiana? Certamente no, e non li omettiamo.

Il primo è che il maggiore problema non è una presunta scarsa notorietà dei nostri autori all’estero: “I migliori sono stati tradotti (dalla Pitzorno alla Silvani alla De Mari eccetera). E molti passi si stanno facendo. L’assurdo – denuncia chiaramente Emy Beseghi – è proprio il contrario. Innocenti, conosciuto in tutto il mondo, è arrivato in Italia con un grave, incomprensibile, imbarazzante ritardo. Lo stesso vale per Beatrice Alemagna, che si è affermata prima in Francia poi in Italia”. Chi conosceva da noi il cognome di Beatrice prima dei successi francesi se non per il famoso panettone? E chi quello di Innocenti se non per l’intervistatrice di “Anno Zero” a fianco di Santoro, prima autocandidatasi con coraggio ma nell’indifferenza dei media alla segreteria giovanile del PD?

Eppure Roberto Innocenti è addirittura il vincitore dell’“H.C. Andersen Award”, che abbiano citato come Nobel della letteratura per l’infanzia, Oscar dell’immaginazione infantile, il culmine.

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L’Ibby a Lampedusa, le operatrici si preparano

Torniamo ora alla festa conviviale dei 40 anni di nozze, che ci ha aperto il mondo dell’Ibby, dipanatasi tra le portate nei grandi piatti assortiti delle “Grugnole” e le musiche del bravo cantante al quale si è aggiunta la voce sorprendente di un’invitata speciale che l’anfitrione ci ha fatto trovare vicina di posto alla cena: è Giulietta Cavallo, conosciuta lo scorso Natale alla mostra dei presepi di San Carlo al Corso a Roma. Nel servizio sulla mostra parlammo della sua arte di Maestro del presepe siciliano, qui dobbiamo parlare della sua arte canora, non solo nel siciliano “Sciuri, sciuri…”, ma nel personalissimo “Uomo in frack”, fino ai classici napoletani interpretati con sobria maestria e raffinate quanto originali modulazioni vocali da Dicitencello vuje” a “O surdato nnammurato”.

Non è mancato il ballo della mattonella aperto dagli sposi raggianti Dilys e Ciro – Nino per determinati parenti e amici – e divenuto subito corale, e le melodie ci hanno fatto dimenticare per un po’ la traccia su cui lo spirito giornalistico ci aveva portato. Ma non potevamo andare via senza cercare di parlare con l’indaffarata Deborah Soria, la figlia degli “sposi”, riferimento per l’Ibby Italia del cui Consiglio direttivo fa parte.

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L’Ibby a Lampedusa, in piena attività con i piccoli migranti

Sono bastate poche parole, ci ha raccontato quando nel settembre 2008 accompagnò Roberto Innocenti a Copenaghen, per l’Award, la felicità nel vederlo sommerso dai festeggiamenti all’estero di persone commosse, vere fan che lo conoscevano bene; poi la delusione del rientro in Italia nel deserto dell’indifferenza e dell’anonimato. Eppure l’alto riconoscimento a Innocenti veniva dopo 40 anni quello a Gianni Rodari e senza l’ombra di favoritismi, non c’erano italiani nella giuria. Nel ricevere il premio ricordò questo isolamento dal suo paese in aggiunta a quello dell’impegno artistico: “Il mio è un mestiere solitario, quasi monastico – disse – Per molte ore al giorno, quando lavoro, mi faccio domande, proposte, ipotesi e mi rispondo da solo, ottenendo fra i molti dubbi, piccole certezze”. Ma dopo il tormento l’estasi di aprire il mondo agli occhi dei lettori.

La ciliegina sulla torta – dopo quella degli “sposi” con brindisi e confetti – è stata la notizia che Deborah ci ha dato: mentre all’estero le varie Ibby nazionali godono di contributi pubblici, in Italia neppure un euro, è un’organizzazione non governativa che vive di volontariato e contributi dei soli soci privati. Per questo invitiamo a unire idealmente ma concretamente la propria “busta” a quella degli invitati alla festa con un contributo che può essere trasmesso all’Iban bancario indicato all’inizio, oppure con l’iscrizione che richiede una modesta quota annuale. Partecipando così a un’opera meritevole si darebbe uno schiaffo morale alla latitanza delle risposte pubbliche alle iniziative per la cultura. Latitanza scandalosa dinanzi all’invereconda dispersione di risorse da parte della “casta” che privilegia i giornali e giornaletti, politici e più o meno fantasmi, gettando al vento contributi miliardari per centinaia di milioni di euro che potrebbero avere ben diversa destinazione.

L’Ibby a Lampedusa, un lato della struttura con le parole di Nelson Mandela

Ne abbiamo pubblicato per la terza volta la lista in occasione della recente manifestazione di Piazza Navona contro i tagli alla cultura e agli organismi culturali decretati dalla manovra economica a senso unico. Invece di ripubblicarla una quarta volta invitiamo i lettori a consultarla tenendo a mente i nomi dei giornali. Adriano Celentano ha scritto del grande potere nelle mani del pubblico dinanzi ai soprusi cui deve ribellarsi, questo è uno dei più odiosi: “fare lo sciopero del video”, diceva, qui è il caso dello “sciopero della lettura”: non leggere quei giornali che in modo inverecondo sottraggono risorse alla cultura incamerandole senza merito. Ce ne sono altri più degni, così capiranno: purtroppo resteranno in vita con i contributi ma almeno avranno una bella lezione.

Eppoi, il risparmio della rinuncia al loro acquisto si potrà impiegare nel sostegno dell’Ibby, per la promozione della lettura dei “young people” soprattutto nei paesi disagiati; e nella diffusione .dei nostri più validi narratori. Si potranno rinverdire i fasti del Gianni Rodari che tutti abbiamo amato. Intanto c’è Roberto Innocenti, il campione del mondo degli Awards. Può essere solo l’inizio.

Photo

Le immagini delle festa sono state perdute nel trasferimento dal sito originario, chiuso da anni, al sito attuale. Nel presenbte articolo sono state inserite immagini recentissime della Ibby, cui è dedicata la maggior parte del testo, tratte dal sito dell’Associazione, che si ringrazia; in chiusura una foto di Ciro Soria, sorpreso in un momento di relax

Ciro, sostenitore di Ibby dove “milita” la figlia Deborah .

Tag: Ibby

1 Commento

  1. Ciro Soria

Postato luglio 21, 2010 alle 10:04 AM

SEI VERAMENTE BRAVO ANZI BRAVISSIMO

Ischia, festa di Sant’Anna, il Palio dei Carri di Tespi 2009

di Romano Maria Levante

cultura.inabruzzo.ir, 18 agosto 2009 Autore: Romano Maria Levante Tradizioni

Oggi, nell’indomani della pubblicazione del ricordo di Ciro Soria, anico carissimo e “uomo di mare” che ci ha lasciato un mese fa, ripubblichiamo la cronaca del viaggio indimenticabile del 2009 sulla sua imbarcazione “Luna” , meta l’annuale festa di Sant’Anna con il Palio dei Carri di Tespi sul mare di Ischia. Un viaggio il cui ricordo è ancora vivo per le qualità di Ciro il capitano, squisito nella sua ospitalità,, la bellezza della traversata e la manifestazione suggestiva vissuta molto da vicino; dell'”equipaggio” di due amici faceva parte Aldo Visco che ha tenuto l’orazione funebre al funerale nella chiesa di Santa Maria Regina Pacis. Lo rievochiamo in omaggio al carissimo Ciro con emozione mista ad autentica commozione sublimata nel segno della festa da lui sempre prediletta.

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Ciro, il “capitano”, sale sulla sua “Luna” per il viaggio verso Ischia

Sotto il Castello Aragonese la 77ema Festa a mare agli scogli di Sant’Anna

Tra le tante Giornate “dedicate” di questi ultimi mesi – dalla Musica popolare a quella senza aggettivi, dalle diversità culturali alla cultura ebraica, dalle tante tematiche artistiche a quelle socio-economiche – ci mancava una giornata vissuta anche dall’interno e non solo come attenti cronisti. Un assaggio è stata la giornata della pastorizia, nell’annuale Fiera sulla montagna teramana della Laga, con un tempo da tregenda tra acquazzoni rovinosi e squarci di sole. Abbiamo voluto viverne un’altra, questa volta sul mare, la festa di Sant’Anna nell’isola d’Ischia; e viverla dall’interno per noi ha significato raggiungerla in barca a vela, per coglierne interamente lo spirito marino.

Partenza da Nettuno

Non si tratta di una semplice festa per un santo patrono, ma della Festa a mare agli scogli di Sant’Anna, che culmina nel palio marino di barche allegoriche e si conclude con l’esplosione di fuochi d’artificio fino all’“incendio” del Castello Aragonese, lo splendido maniero in cima all’isoletta-promontorio che domina lo specchio d’acqua nel quale si svolge la manifestazione.

Ve la raccontiamo tutta, compresa la navigazione su un bialbero di dodici metri dal nome “Luna”, insieme a tre esperti navigatori, Ciro il “comandante” con la moglie inglese Dilys a dare il tocco internazionale, e due amici ben assortiti, Aldo e Beppe, il cui imbarazzante cognome di Grillo dà il tocco dell’imprevedibilità e della fantasia, benché sia un “vice-comandante” metodico e riflessivo.

Il promontorio del Monte Circeo

La navigazione da Nettuno a Ischia

Partenza da Nettuno a motore perché il mare è “forza quattro” e sarebbe più lungo bordeggiare di bolina con il vento contrario. Però viene issata anche una vela, rende la barca più stabile; la velocità è minima, quasi da jogging, sembra di andare sulle montagne russe. Si resiste al mal di mare, basta non scendere sottocoperta e mettere sotto i denti una galletta ai primi fastidi. D’altra parte, se si va in mare non dispiace sentirlo accanirsi sui fianchi dell’imbarcazione mentre la prua fende le onde tagliandole come una spada. E’ bello spostarsi nella parte anteriore, non si ha dinanzi la sagoma delle sartie con l’imponente albero maestro, pur nelle dimensioni contenute di un tredici metri; sembra di essere su una canoa, e allora non si sente più lo scuotimento dei cavalloni, prevale la lama che penetra nel burro dell’acqua marina.

Ponza

Il sole non si sente affatto, la brezza neutralizza il calore ma non la forza dei suoi raggi. Ovviamente abbiamo dimenticato la crema solare protezione 30 che avevamo acquistato con inutile preveggenza, Aldo sopperisce con la sua, però è a protezione 4, ma è meglio di niente. Fa comunque il suo dovere, a sera non dobbiamo cospargerci di limone per rinfrescare le scottature, anche perché al momento opportuno una provvidenziale maglietta ha aiutato la crema solare.

Il Monte Circeo si staglia tra mare e cielo, sembra un’isola, per noi è familiare, non pensiamo affatto ad Ulisse e alla Maga Circe. Però una spontanea associazione di idee da appassionati dannunziani ci fa ripensare alla crociera che il Poeta fece sul veliero “Fantasia” di Edoardo Scarfoglio, “dalle immense vele”, per sbarcare in Grecia e raggiungere il Pireo a cavallo. Non abbiamo “immense vele” né c’è l’immaginifico, e noi cinque non somigliamo neppure al cenacolo dannunziano di Francavilla a mare, non ci sono artisti. Però come il “porfiriogenito” innamorato del mare al punto di immaginarsi nato su una barca dalle vele color porpora, si interrogava poeticamente “perché non sono anch’io coi miei pastori?”, chi scrive ha portato sull’imbarcazione il cappellino bianco con la figurina verde della pecora nella visiera della Fiera della pastorizia. Un modo per sentire riunite la testa di Camoscio e la coda di Sirena che sono il sigillo d’Abruzzo, “la regione verde d’Europa” che ora richiama anche le acque marine oltre ai boschi secolari.

Palmarola

La prima tappa è l’isola di Ponza, ed ecco comparire Palmarola alla sua destra, poi anche Zannone a sinistra. Ponza sta al centro, dall’avvistamento all’attracco il tempo è lunghissimo, non passa mai, i contorni dell’isola sono sempre più definiti finché entriamo nella cala Feola. La natura vulcanica è evidente nelle coste scoscese di pomice e altro materiale lavico. Si squaderna dinanzi a noi un fondale di villette arrampicate sulla collina a picco sul mare, ma senza eccessivi addensamenti, sono raggruppate in piccole strisce edificate, in orizzontale e in verticale, poi tanto verde. Sembrano le note di un pentagramma quando cala la notte e si accendono le luci.

La cena sottocoperta nel piccolo cabinato è un’esperienza da vivere. Nella tavola imbandita spicca un casuale tricolore, il verde dei peperoni arrosto, il bianco della bufala campana, il rosso dei pomidoro, sembra che il vano ristretto si allarghi e diventi un salone. Sarà l’appetito o le traveggole dopo una giornata di mare mosso?

Zannone

Presto l’ambiente si trasforma in un dormitorio ben organizzato, due camere doppie a prua e a poppa, una al centro più due letti a castello. Ci sono otto posti, noi siamo cinque, la cortesia del comandante Ciro mi assegna l’intera cabina di prua, la “suite imperiale” dice. Non sa di farmi un regalo maggiore di quello che pensa, perché c’è un lucernario dal quale si vede il cielo. Anche questa volta chi scrive pensa in grande, l’associazione di idee è addirittura con il viaggio di Darwin intorno al mondo, quando dalla sua cuccetta, in realtà un’amaca sospesa sopra al tavolo del vano soggiorno dell’imbarcazione, ammirava il cielo notturno dal lucernario. Certo l’alloggio qui è migliore, una piccola cabina, ma non si può sperare di vedere la Croce del Sud. Neppure il cielo trapunto di .stelle di Pietracamela – il pensiero torna ancora alla montagna – qui è lattiginoso con una timida falce di luna. Per immaginare le stelle basta socchiudere gli occhi e guardare le luci delle abitazioni inerpicate sulla costa e quelle in cima agli alberi delle barche nella rada. Dipende dal “cappello delle isole”, la cappa di umidità genera una foschia attraverso la quale le stelle si intravedono sbiadite.

Sosta notturna della “Luna”

Risveglio all’alba, partenza di buon’ora dopo la ricca colazione a base di un’ottima marmellata portata da Beppe, è di sua produzione. La foschia si è stesa sul mare, l’orizzonte non “s’imporpora”, il mare traslucido come l’argento assorbe i raggi del sole sempre più luminosi. Costeggiamo l’isoletta Gavia, ieri era un puntino ora sembra grandissima, per l’effetto della prospettiva sul mare si moltiplica. Nessun’isola all’orizzonte, non ci sono più i riferimenti visivi di ieri, ma il Gps oltre all’esperienza del comandante Ciro non crea problemi. Lo si vede anche quando il motore si arresta all’improvviso. Nella bonaccia in cui ci troviamo oggi, al contrario di ieri, si riaffacciano i fantasmi dei romanzi di navigazione con il veliero bloccato per giorni interi. E la nostra meta? Nessun timore, basta spurgare l’aria dal condotto del gasolio, si elimina la bolla e la navigazione riprende; pensiamo che purtroppo non è così facile per gli esseri umani colpiti dall’embolia.

Ventotene

Scacciamo il pensiero fastidioso, senza un alito di vento il mare è una tavola che però si muove trasversalmente, un’onda lunga parallela alla rotta, ma il leggero moto ondulatorio è ben più sopportabile del violento moto sussultorio di ieri. Dovremmo essere presso Ventotene, anche se non si vede per la foschia, il visore del quadro comandi non può sbagliare; infatti appare una sagoma sfumata appena percettibile dalla forma caratteristica dell’isola. E’ tutto semplice, Ciro che si è alternato al timone con Beppe e Aldo, lo lascia alla signora Dilys, anche lei esperta, l’unico incompetente è chi scrive, del resto il reporter non è protagonista diretto degli eventi, li registra.

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La “Luna” si avicina a Procida

E così navighiamo verso Procida, Ischia è a un tiro di schioppo. La costa è molto più estesa di quanto pensavamo, e lo vedremo ancora di più quando la circumnavigheremo. Appare come un fondale teatrale il maestoso Castello Aragonese, su un’isoletta-promontorio unita da un ponte. Ma vi torneremo. Ci sorprende la vicina Vivara, una piccola isola collegata a Procida con un vecchio ponte ora non agibile, parco naturale incontaminato tutto verde e rocce a picco sul mare.

Ecco Procida con il promontorio e il carcere, la cupola e un addensarsi di abitazioni che non disturbano, sono le antiche case dei pescatori, l’insediamento umano è ormai incorporato nella natura che trionfa tutt’intorno. Per oggi le emozioni sono bastate, si getta l’ancora, il capitano e i due secondi, per così dire, sono impegnati nell’operazione.

Procida

Scendiamo a terra, ecco finalmente la crema protezione 30, ma ormai non serve più. Tuttavia “melius abundare quam deficere”, servirà quando riprenderemo la navigazione. Le melanzane ed altri cibi compaiono sulla tavola, Ciro è un impareggiabile anfitrione, aiutato da Beppe e Aldo. I due veri passeggeri sono chi scrive e la signora Dilys. Con Ciro, tutto preso dal ruolo di comandante, si parla della navigazione e dei luoghi che ben conosce, con Aldo e Beppe si spazia anche su altri temi, dall’attualità alla cultura, il tempo non passa mai e quando la barca oscilla non si può leggere, si rischierebbe il mal di mare, è possibile soltanto parlare, e neppure troppo.

Ischia Porto

La visita al Castello Aragonese

Nuovo risveglio di buonora, si va ad Ischia, la nostra meta. Giriamo di nuovo intorno all’isoletta-promontorio del Castello Aragonese, questa volta lo circumnavighiamo completamente, siamo impressionati dalla maestosità, è un tutt’uno con la rupe rocciosa in una fantasmagorica simbiosi nella natura. Mura imponenti circondano il promontorio, non sono megalitiche date le minori dimensioni delle pietre rispetto alle opere millenarie, ma l’effetto è il medesimo; spiccano nel verde mediterraneo su più livelli. E anche le costruzioni, che spesso si confondono con loro, si inerpicano su più ripiani fino a identificarsi anche con la rupe su cui sono state edificate, la incorporano o ne sono incorporate nelle forme, nei volumi e nei colori perfettamente integrati. E poi il Castello è uno spettacolo, i segni del tempo si intravedono nelle aperture buie, ma da lontano sembra intatto.

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La “Luna” alla fonda, si scende a terra

Siamo alla fonda nella rada dove ci sarà la manifestazione, occorre calare l’ancora alla giusta distanza dalle altre imbarcazioni, viene “ammainato” un canotto a motore, altra operazione attenta e meticolosa che impegna l’intero “equipaggio”, cioè i tre prima nominati. I due “passeggeri” assistono, e chi scrive lo fa con gratitudine perché il canotto è tutto per sbarcarlo a terra, precisamente ai piedi del Castello dov’è la tribuna della stampa per assistere al Palio marino.

La giornata è ancora lunga, niente di meglio che visitare il Castello dopo averlo tanto ammirato girandoci intorno lungo la costa. Dall’interno l’imponenza è confermata nella cinta di mura, che si percorrono lungo vialetti perfettamente tenuti tra il verde mediterraneo con belvedere mozzafiato da ogni lato della piccola isola: c’è il lato a picco su verde e mare incontaminato senza neppure una barca, e i lati che pullulano di barche alla fonda o in transito. Riconosciamo la barca di Ciro con gli occupanti, dall’alto sembra un modellino per la prospettiva. La fotografiamo, sarà un bel ricordo.

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Il Castello Aragonese

Quanto entusiasma l’esterno del Castello, tanto delude l’interno, per il semplice motivo che non c’è. Nel lungo elenco di siti indicati all’ingresso manca la residenza degli Aragonesi, il maschio del Castello, che ne è il cuore, che è tutto. Sapremo soltanto dopo che non è agibile, gli arredi e le opere d’arte furono portati al museo di Napoli, i due fratelli che lo acquistarono in un’asta dei primi del Novecento indetta dal Demanio che l’aveva lasciato in abbandono, hanno fatto già molto a restaurarne una parte. Che sono le “dependance”, pregevoli soltanto per la vista altrettanto mozzafiato che dalle mura; mentre la chiesa semidiroccata con la cupola ancora riconoscibile è senza dubbio suggestiva, come lo sono gli angoli merlati per la difesa.

La delusione viene superata dalla “scoperta”, sulla via dell’uscita, della grande cripta gentilizia costituita da un ambiente centrale con volte a crociera circondato da sette cappelle con volte a botte, e decorato da una serie di affreschi trecenteschi di scuola giottesca, deteriorati ma di notevole pregio, con immagini di santi; uno dei quali da prendere a simbolo dell’ignoranza umana, anzi disumana, reca incisi i nomi dei giovani che hanno voluto imprimervi la propria abissale incultura e insensibilità. La cripta fu individuata per caso dietro un muro di mattoni e aperta dieci anni fa. Suggestione opposta rispetto a quella dei panorami, ma non minore; la semioscurità, le volte a crociera e ciò che si vede fanno sentire tutto il fascino dell’antico, arte e storia ancora unite.

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L’interno del Castello, la Cripta

E quando usciamo “a riveder le stelle” ci troviamo di nuovo nel buio, in un tunnel scavato nella roccia; un’altra suggestione trovarsi all’improvviso nell’oscurità in un luogo rutilante di luce. Un buio che segue quello della ragione evocato dall’esposizione degli strumenti di tortura, una vera mostra tematica dell’orrore così completa e documentata nei particolari da far rabbrividire. Però, a parte i luoghi appena citati nelle opposte configurazioni di luce e di oscurità, la visita al Castello delude non per il suo contenuto effettivo, ma per le aspettative. Basterebbe precisarlo all’ingresso che la parte più consistente, la residenza aragonese, non è accessibile oppure, e sarebbe la cosa ovviamente migliore, fare uno sforzo in più: restaurare anche quella parte, ovviamente con l’intervento dello Stato che potrebbe poi rivalersi sulla gestione.

La miopia del Demanio privatizzò un secolo fa questo bene culturale di valore inestimabile; ma il concorso e l’associazione dei privati è il fulcro della nuova strategia di valorizzazione dei beni culturali presentata con grande rilievo dal presidente del Consiglio e dal nuovo Direttore Generale Mario Resca, che proprio nel settore privato ha dato prova di grandi capacità manageriali. E’ una sfida da lanciare, convinti come siamo della validità di questa strategia e delle capacità di realizzarla in chi ne ha avuto l’onore e l’onere con una così solenne investitura. L’identificazione con l’isoletta- promontorio ne fa l’equivalente di un “Palazzo Ducale” di Urbino, purtroppo questo di Ischia ha perduto la ricchezza e la magnificenza, riacquistasse almeno l’agibilità e la visibilità, passando da rudere pur interessante e significativo a testimonianza viva ed eloquente.

Gli affreschi del Castello

Il parallelo è meno ardito di quanto possa sembrare, anche il Castello Aragonese per lungo tempo è stato un palazzo-città. Nella rocca si rifugiavano in migliaia, soprattutto dopo l’eruzione del Monte Trippodi del 1331; ancora di più dopo che Alfonso d’Aragona ricostruì il vecchio maschio angioino e realizzò le poderose mura e fortificazioni entro le quali il popolo di Ischia trovò rifugio e protezione dalle scorrerie dei pirati. Alla fine del XVI secolo la rocca arrivò ad ospitare circa 1900 famiglie, l’intera popolazione dell’isola, e solo dopo il 1750, cessato il pericolo, la gente cominciò a scendere nella piana e a formare gli abitati sulle coste in prossimità delle bellissime insenature con accesso al mare. Fu una scelta oculata, nel 1809 gli inglesi assediarono la rocca tenuta dai francesi e la distrussero a cannonate. Poi fu sede di luoghi di pena dei Borboni. Nel 1912 la vendita.

Si è fatta sera, ci affrettiamo a occupare il nostro posto in tribuna, dopo una rapida pizza in uno dei tanti locali caratteristici di questo lato dell’Isola, il comune Ischia Ponte. Ridente, come gli altri numerosi approdi – elegante quello di Sant’Angelo, caratteristico quello di Forio – questo, però, si colloca nella dimensione creata dal Castello Aragonese, dove la storia è in simbiosi con la natura.

Il Palio dei Carri di Tespi, “Storia della Sambuca” di Casamicciola

Il Palio sul mare della festa di Sant’Anna

E’ un’antica festa propiziatoria per le partorienti, che dura da 77 anni, prima le barche raggiungevano la chiesetta di Cartaromana addobbate con ghirlande di fiori e festoni di frutta, ora si presentano all’insegna della fantasia e si misurano in una gara d’arte e di bellezza per conquistare il palio, uno stendardo simbolico dipinto da un pittore locale. “E’una delle manifestazioni più importanti sotto il profilo culturale e storico della nostra isola, le cui origini sono antichissime – ha scritto il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino.- uno spettacolo di quelli che forse oggi diventano sempre più rari, che non teme di far uscire dal ‘cilindro magico’ di tutto, colori, suoni, forme, per incantare il pubblico”.

La cornice d’eccezione è data dal Castello, un fondale che dà un’incredibile suggestione, è indescrivibile. Viene tenuto sgombro lo specchio d’acqua antistante, delimitato dal ponte, un insolito palcoscenico dove si esibiranno le straordinarie protagoniste di una vera e propria rappresentazione teatrale: le barche allegoriche realizzate in mesi di prove e di lavoro sulla spinta di un’antica tradizione e delle rivalità di campanile che porta con sé, in realtà piattaforme galleggianti sopra le quali è stata costruita una scenografia completa. Più tardi ci sarà la gara, si animeranno.

“La Nuova Assunta” di Serrara Fontana,

Una platea di natanti e motoscafi, yacht e panfili , con qualche barchetta, è assiepata ai bordi del “palcoscenico”. Avremmo voluto restare sulla barca come i compagni di navigazione, per immedesimarci meglio, ma la visuale sarebbe stata incerta, niente a che fare rispetto alla tribuna, per questo siamo scesi a terra. E già abbiamo avuto un vantaggio, abbiamo visitato il Castello, altri ne verranno con gli incontri che faremo, e ne daremo conto.

Ora il Castello è illuminato da una luce discreta, che rimbalza sulla severa facciata con le finestre che disegnano dei grandi buchi neri, avvolge le mura sempre più simili a una cintura protettiva, mentre il verde mediterraneo rimane come macchia scura appena lambita dal chiarore. Spicca come un Castello d’If inaccessibile, una Torre di Babele che si alza verso il cielo alla pari di un vulcano.

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“Il matrimonio diVittoria Colonna e Ferante di Avalos“, Ischia Ponte

A bordo vasca, per così dire, un palco da dove un cantante isolano, Nick Pantalone, aiuta a ingannare l’attesa con le sue melodie, affiancato da una volenterosa cabarettista locale. E poi la presentatrice che farà un’appassionata radiocronaca della serata. Tutto ben organizzato.

Il nostro posto di osservazione è davvero privilegiato, siamo nell’area della stampa dietro la Giuria. Però ci spostiamo in avanti e prendiamo posto alla destra dell’artista autore del Palio, il giovane pittore Massimo Venia, che ci mostra il dipinto sul suo telefonino, lo vediamo anche nello stendardo poco lontano. Rappresenta una cascata di fuochi d’artificio che si solleva dal mare, come in effetti avverrà, ha voluto raffigurare il “clou” della festa, i fuochi; noi vi troviamo qualcosa di più, la delicatezza del tratto delinea forme delicate, stellari, quasi simboli religiosi che rimandano alla cupola diroccata in alto nel Castello, una sintesi di valori, dunque, anche spirituali. Accoglie compiaciuto la nostra interpretazione e insieme attendiamo l’inizio della sfilata delle barche in gara.

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“Bar internazionale Maria” di Forio

In realtà è una sfilata di carri su enormi zattere, in passato hanno partecipato anche i maestri d’ascia del Carnevale di Viareggio, fuori concorso. Ma è riduttivo definirli così, sono altrettanti Carri di Tespi che si presentano uno dopo l’altro sul proscenio di un set di sogno per mostrare le loro coreografie in una rappresentazione teatrale muta, in un confronto a distanza serrato. La componente artistica non viene trascurata, i bozzetti sono stati esposti nell’isola, il migliore avrà il premio Funiciello, la scenografia prescelta avrà il premio Nerone, l’arguto soprannome di un personaggio locale entrato con Funiciello nella storia della festa di Sant’Anna, furono i primi a passare dalle barche con frasche e ghirlande a zattere con figurazioni, poi a fare le gare.

I carri sono cinque, manca solo Barano tra i comuni dell’Isola, in passato c’è stata anche Procida, fortissima; quest’anno problemi e dissidi vari ne hanno impedito la partecipazione. Assistiamo alla sfilata, lentissima e tuttavia avvincente; nel giro intorno ai bordi dello specchio d’acqua che fa il set in movimento sul mare si attende che si avvicini al massimo per coglierne tutti i particolari.

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la sfilata del Carro di Forio vincitore

L’inizio è in sordina, con la “Storia della Sambuca” di Casamicciola, il comune rimasto nell’immaginario collettivo per il catastrofico terremoto nel quale rimase sepolto ma per fortuna si salvò, anche Benedetto Croce. Il soggetto presentato non fa nulla per allontanare il brutto ricordo, anche se richiama la Dolce vita; infatti la Sambuca, evocata visivamente da una gigantesca bottiglia galleggiante con due grandi bicchieri ai lati e davanti scene di vita mondana, non è fatta per suscitare particolari entusiasmi, anche se ideata e prodotta da un personaggio del luogo, quindi è stato giusto ricordarla, pur se la resa scenica è modesta. Il pubblico rimane freddo, nonostante la calda serata.

Viene accolta meglio “La storia del pesce Filippo” di Lacco Ameno, una fiaba animata, di quelle fatte per spaventare i bambini affinché non siano avventati, una sorta di Cappuccetto rosso che viene preso da un pesce invece che da un lupo, fino all’arrivo provvidenziale del cacciatore, pardon, dell’angelo salvatore, con il lieto fine assicurato. Le piccole mongolfiere rosse che si innalzano, a sorpresa, dal carro, ne sollevano, ma non più di tanto, le sorti, che sembrano segnate, un buon piazzamento e nulla più.

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uno scorcio della tribuna e delle barche alla fonda

Con “La Nuova Assunta” di Serrara Fontana, comune arrampicato sulla scogliera che vede il mare dall’alto, sembra realizzarsi il miracolo della Svizzera di Alinghi nella Coppa America, l’unica nazione non bagnata dalle acque che ha vinto il trofeo marinaro per eccellenza, un ossimoro mondiale. Qui l’ossimoro si preannuncia isolano; questo carro, che fa pensare all’audacia di un varo dalla montagna, sembra non avere rivali. Il veliero è un capolavoro, perfetta la riproduzione delle sartie, suggestiva la scenografia con la vedetta in coffa, la ciurma che fa “ammuina” in un’esplosione di vitalità napoletana coinvolgente, tra un teatro di marionette e un Masaniello marittimo. Anche l’autore del Palio al nostro fianco lo vede virtualmente issato su quel pennone. Il successo è travolgente.

Ma non si deve precipitare il giudizio, le vie per toccare il cuore sono infinite, e le due barche successive propongono scenografie che puntano sull’emozione piuttosto che sulla tecnica.

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Le luci della manifestazione

Scivola verso di noi il carro di Ischia Ponte, la località in cui ci troviamo, gioca in casa ma va dato onore al merito. E’ come se la chiesa diroccata del Castello sopra di noi si specchiasse sul mare miracolosamente ricostruita con la sua cupola. Questo per celebrare, con la cornice di pubblico che merita, “Il matrimonio di Vittoria Colonna e Ferrante di Avalos”, avvenuto 500 anni prima, una delle storie edificanti e torbide del castello. Gli sposi sono davanti all’altare, dietro l’officiante nella solennità degli abiti talari e della mitria, intorno i dignitari in costume e il popolo. La scena incute soggezione per la sua compostezza, fino all’irrompere dei giullari e dei saltimbanchi che intrecciano le loro acrobazie nello scatenarsi della festa rinascimentale.

Non c’è tempo di riprendersi dalla sorpresa che arriva l’ultimo carro, mentre quello precedente termina lentamente il suo lungo giro seguito ancora dagli sguardi degli spettatori. E’ il “Bar internazionale Maria” di Forio, “un angolo di Paradiso”, due modeste casette da pensione estiva, una di colore rosa; avventori, e scene di vita dignitosa, quanto ha assicurato per decenni il Bar Maria nel comune di Forio. E’ la proprietaria l’invisibile artefice e protagonista della magnifica accoglienza e del delizioso soggiorno ad artisti, pittori, e a tanti altri personaggi. Generale è il rimpianto, la sua scomparsa si intuisce dai grandi ventagli che scendono avanti alle casette; c’è malinconia e non oblio, la memoria è nella grande fotografia di Maria che una mongolfiera porta in alto nel cielo.

Un’esistenza semplice e virtuosa, evocativa di un tempo trascorso si contrappone alla ritualità sacrale e nobiliare di personaggi d’antico lignaggio, entrambe competono con la vitalità di una Piedigrotta sul mare a bordo del veliero così acclamato. Prevarrà il sentimento, la storia o la vita?

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L'”incendio” del Castello Aragonese

Lina Sastri, seduta dinanzi a noi, non ha dubbi, è per il sentimento. Raffinata e sensibile come sempre, ha toccato gli animi con il breve intermezzo di “’O surdato ‘nnamurato”; mentre il cantante lo intonava dal palco un intervistatore in tribuna le ha porto il microfono e dopo molte insistenze l’ha convinta, mentre la canzone scorreva; è entrata in contrappunto con il cantante, poche note accorate che sono andate dritte al cuore, come quelle della Magnani nella “Sciantosa”, un sigillo di arte e di napoletanità. Vorrebbe dire la sua preferenza nel giro di opinioni finale sulla festa, non può, non deve. Si è schierata e attende il verdetto senza speranze, il veliero sembra imbattibile.

I risultati della gara, il Palio è andato al sentimento

Ma ecco i risultati cominciando dall’ultima, la Sanbuca, e non poteva essere altrimenti. E’ una sorpresa che la storia di Tommaso abbia sopravanzato il matrimonio al Castello, ma ora l’interesse è sui primi due. Viene proclamato il secondo, è il veliero, la Sastri capisce a volo chi è il vincitore ed esulta, la sua è un’esplosione di entusiasmo mentre la giuria viene coperta di fischi. Ha vinto il sentimento che si legge negli occhi febbrili della delicata attrice, l’allegria nella vita può attendere. Certamente la fotografia di Maria portata in cielo dalla mongolfiera ha avuto il suo peso, i voti di differenza sono stati solo due, 42 a 40, un battito di ciglia forse inumidite dall’evocazione celeste.

L’avvampare dell'”incendio” del Castello dal cielo al mare

Il contrasto tra pubblico e giuria è stato rumoroso – anche se al veliero viene assegnato uno dei premi- satellite, il “Premio Nerone” – ma non quanto i fuochi artificiali a chiusura di ognuna delle cinque esibizioni per scatenarsi al termine nell’apoteosi finale. Dopo i fuochi verso il cielo dai carri, questi vanno insolitamente in orizzontale, verso la tribuna, come ventagli monocromatici a forma di corolle e di piante che si aprono, di stelle e di delicati arabeschi, quasi che il Palio dipinto si fosse acceso di luci; alternati con esplosioni a grappolo nel tripudio di colori di una Piedigrotta spumeggiante sul mare. I cui riflessi moltiplicavano l’effetto mentre il Castello si incendiava di rosso, quasi a rivaleggiare con Nerone evocato dal premio di consolazione, avvampando dal cielo al mare. Quando tutto è finito lo spettacolo del Castello che si staglia superbo su un proscenio di barche anch’esse illuminate su un mare tornato d’argento, non ha eguali, tanto più in una serata in cui arte e cultura hanno attinto alla tradizione.

Questo vuol dire valorizzare ambiente naturale e storia locale mantenendo viva una memoria popolare che è insieme identità di un nobile passato e garanzia per il futuro. C’è anche Giampiero Mughini, in un settore alla nostra destra, non resistiamo a chiedergli un commento, l’indomani presenterà a Lacco Ameno il suo “Gli anni della peggio gioventù”. Non si smentisce, ha l’inconfondibile verve che conosciamo: “Uno spettacolo vivace e raffinato in un posto straordinario, si è spremuto dalla natura e dalla storia, dalla cultura e dalla serata, tutto quello che si è potuto spremere”.

Anche a Lina Sastri chiediamo un commento, la risposta è in carattere con la sua sensibilità: “Una manifestazione popolare, tanta gente che partecipa significa che vuol essere coinvolta con la propria terra, con le proprie radici”.

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I fuochi d’artisficio di chiusura

Queste parole fanno pensare, ed allora avanziamo una modesta proposta, nata dalla profonda impressione provata per quanto abbiamo visto. Perché non farne uno spettacolo itinerante- tale era il Carro di Tespi – per non bruciare in una sola serata, per quanto indimenticabile, tanto impegno ed energia, tanta inventiva e tanta arte? Le isole partenopee, e perché no, la costa campana, potrebbero moltiplicare le serate, farne momenti significativi di quella “circolazione delle attività culturali” che è uno degli strumenti della politica di valorizzazione del patrimonio artistico del paese. E abbiamo già detto come il bene culturale del Castello Aragonese potrebbe essere a sua volta valorizzato, con l’effetto moltiplicativo della sinergia con la natura, la storia e la tradizione.

Lina Sastri dovrebbe esserne l’ineguagliabile madrina, e siamo certi ne sarebbe entusiasta, come lo è stata all’annuncio del risultato dopo aver seguito l’intero spettacolo con totale immedesimazione.

I Carri di Tespi del mare potrebbero essere quelli di Ischia, nei suoi sei comuni, che hanno l’antica tradizione di Sant’Anna. Ma pensiamo a cosa potrebbe nascere se si aggiungessero quelli delle altre isole, Procida già ha partecipato in passato, ma poi ci sono Capri e Ponza, Ventotene e le altre isole, per non parlare delle perle della costa napoletana. Non solo “piazze” estive per gli spettacoli turistici, ma possibili protagoniste di grandi rappresentazioni sul mare con i loro scenari naturali tanto suggestivi. In un campionato estivo, come le coppe calcistiche; con eliminatorie e finali.

Crediamo che a Lina Sastri anche questa prospettiva piacerebbe senz’altro.

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Sulla via del ritorno (in un viaggio successivo)

Photo

Le immagini delle località incontrate lungo il viaggio e del Palio dei Carri di Tespi alla Festa di Sant’Anna ad Ischia del 2009 – andate perdute quelle originarie nel trasferimento dell’articolo dal sito chiuso a quello attuale – sono tratte dai siti web seguenti, di cui si ringraziano i titolari, precisando che sono inserite a puro scopo illustrativo senza alcun intento di natura commerciale o pubblicitaria, e se la pubblicazione di alcune di esse non fosse gradita dai titolari dei diritti basta comunicarlo che saranno immediatamente eliminate. I siti web sono i seguenti in ordine di tema e di inserimento: per le località lungo la traversata: Nettuno e-borghi.com, Monte Circeo nauticareport.it, Ponza visitgaeta.it, Palmarola tripadvisor.it , Zannone planetmountain.com, Ventotene latitudeslife.com, Procida italia.it, Ischia Porto ischialike.com; per il Castello Aragonese, turismo.it, ischialike.com, castelloaragoneseischia.com; per le 7 immagini della festa, tutte ischiasky.it, cui va il merito di rendere disponibili le immagini del 2009; per l’incendio del Castello Aragonese, ischiablog.it, ischia.it, ischianews.it. Di nuovo grazie a tutti. Le foto delle località attraversate sono intervallate da alcune immagini della barca “Luna” nei diversi momenti descritti. In apertura, Ciro, il “capitano”, sale sulla sua “Luna” per il viaggio verso Ischia, seguono, la Partenza da Nettuno e Il promontorio del Monte Circeo, quindi Ponza e Palmarola, inoltre Zannone e Ventotene, continua, Procida e Porto d’Ischia, prosegue, Il Castello Aragonese; con ‘L’nterno del Castello, la Cripta e Gli affreschi del Castello; poi, Il Palio dei Carri di Tespi, “Storia della Sambuca” di Casamicciola, e “La Nuova Assunta” di Serrara Fontana, “Il matrimonio di Vittoria Colonna e Ferrante di Avalos” di Ischia Ponte, e “Bar internazionale Maria, un angolo di Paradiso” di Forio; prosegue, La sfilata del Carro di Forio vincitore e Uno scorcio della tribuna e delle barche alla fonda; poi, Le luci della manifestazione e L'”incendio” del Castello Aragonese; qundi, L’avvampare dell'”incendio” del Castello dal cielo al mare; inoltre, I fuochi pirotecnici di chiusura; infine, Sulla via del ritorno (in un viaggio successivo) e , in chiusura, Ciro, il “capitano”, al timone della sua “Luna”.

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Ciro, il “capitano”, al timone della sua “Luna”

2 Responses to Ischia, festa di Sant’Anna, il palio dei Carri di Tespi

  1. Romano Maria Levante 29 settembre 2009 a 17:28

Grazie, ma è tutto vero, è la cronaca fedele di un bel viaggio e di una bella festa sul mare, Mughini e Lina Sastri compresi.

Romano

  • CIRO SORIA 28 settembre 2009 a 20:34

Bravo Romano certo che ne hai di fantasia

Ciro Soria, buona navigazione Lassù, nell’alto dei cieli!

di Romano Maria Levante

Il 21 marzo Ciro Soria, per gli amici anche Nino, ha lasciato il nostro mondo, dopo un improvviso aggravarsi che ha colto di sorpresa chi lo aveva visto di recente in condizioni apparentemente buone. Da allora è trascorso un mese, è il trigesimo nel quale si tiene una cerimonia di ricordo; il nostro è un ricordo laico, legato però alla sua fede. Ecco il messaggio che da amico affezionato ho trasmesso al suo indirizzo e mail destinatario dell’infinità dei nostri contatti assidui e intensi, prima di uscire per recarmi al suo funerale al termine della mattina del 23 marzo scorso; nel quale l’amico di una vita Aldo Visco Gilardi ha tenuto l’orazione funebre che segue il mio messaggio.

Ciro nel suo elemento, il mare!

Inviato a Ciro…..———- Messaggio originale ———-Da: romanolevante@libero.itA: “ciro.soria@gmail.com” <ciro.soria@gmail.com>Data: 23/03/2023 13:48 Oggetto: Ciao, Ciro, amico indimenticabile  

Ciro carissimo,

tra due ore e mezza verrò a darti l’ultimo saluto con i tuoi familiari e amici che ti circonderanno di tutto il loro e nostro affetto; anche se  non potranno venire Rosemary e Alberto e neppure Salvatore, ma sarò io a porgere il loro saluto memore e riconoscente, come lo è il mio. 

Nella mia memoria una infinità di momenti anche molto diversi, ma sempre con la tua genuinità ed autenticità nei sentimenti e comportamenti, il tuo ardore negli impegni, il tuo coraggio nell’affrontare situazioni anche molto difficili e le inevitabili incomprensioni. Esserti stato di aiuto per quasi un quarto di secolo è per me una soddisfazione indicibile, perchè hai meritato tutta l’attenzione e considerazione  possibile. E anche tu mi sei stato di aiuto quando occorreva la tua esperienza e competenza concreta in cose anche piccole ma significative per essere un punto di riferimento prezioso all’occorrenza, come per te io  da semplice scrivano. Cercavo di moderare i tuoi sfoghi focosi in cui si esprimeva tutto il tuo essere, che non cercava compromessi ma il rispetto della verità e della giustizia.

Sono stati tanti i fronti in cui hai e abbiamo combattuto insieme, anche quelli più impensabili. Ricordo i tanti momenti distensivi, quando parlavi della tua passione per il mare, indimenticabili le due traversate con la tua “Luna” per Ventotene e Ischia, nel 2009 e 2010, ne diedi conto in due articoli sul mio sito on line; come  la festa dei 40 anni del tuo matrimonio, oggetto di un altro mio articolo in cui parlavo dell’iniziativa benefica di tua figlia Deborah che vi era collegata come destinataria dei pensieri degli amici. Molti anni dopo mi dicesri con giustificato orgoglio che veniva intervistata e la sentii anch’io, parlava dell ‘iniziativa dei libri per i piccoli migranti di Lampedusa, veramente meritoria come lo è la destinazione benefica dell’ultimo omaggio alla tua persona.  

Non posso nasconderti che mi sono  sentito smarrito – oltre che addolorato anzi sconvolto per la perdita dell’amico di un quarto di secolo – e  non solo per la riflessione anche personale sulla caducità della vita, date le circostanze in cui la notizia del tutto inattesa mi ha colpito come un fulmine a ciel sereno: un mese fa mi avevi telefonato in videochiamata insistendo perchè la attivassi e non rispondessi solo vocalmente come volevo fare non riuscendo a farla funzionare, finchè ci siamo parlati e soprattutto visti, anche con Rosemary, tu veramente florido in grande forma, ti abbiamo detto; avevi promesso che saresti venuto presto a trovarci, ora lo facciamo noi, Rosemary mio tramite sarà anch’essa in chiesa tra poco. 

Lo smarrimento per la perdita del riferimento sicuro ad un amico sincero e generoso mi ha preso l’animo stringendomi il cuore. Poi ho visto il tuo ultimo saluto su Facebook: “A tutti gli amici dico: divertitevi il più possibile su questa terra e quando vi sarete stufati venitemi pure a trovare quassù, vi aspetto”. Non puoi immaginare quanto risultino consolatorie queste tue parole così sincere e genuine, ora che sei “lassù”!

E poi la poesia al nonno  che “postasti” nel febbraio 2017 iin cui si descrive l'”uomo di mare”  come se fossi tu ad essere descritto  fino al saluto finale del viaggio estremo verso l’orizzonte. Ebbene, queste due “cose” veramente “tue” mi hanno ispirato il “post” che ti ho rivolto su Facebook dopo tanti tuoi “post”  ai miei articoli con condivisioni entusiaste ed elogi da me immeritati frutto della tua generosità.

La sua imbarcazione “dal nome fatidico ‘Luna’”

Ti trascrivo di seguito il mio “post” di saluto:    “Era il 9 febbraio 2017, Ciro condivideva, inserendola in questa sua pagina, la poesia di una nipote al nonno Fausto ‘grande appassionato e uomo di mare’ ricordando l’amico ‘con tanto affetto’. Una poesia che descrive Ciro nella sua nobiltà di ‘uomo di mare’, e nelle conclusioni che riportiamo inserendovi solo il suo nome al posto del ‘nonno’: ‘E ora Ciro ha levato l’ancora da questo mondo/ E come uomo di mare che si rispetti/ solca i cieli senza più limiti/ Adesso, libero da quei confini di umana natura/ è in rotta verso l’orizzonte/ E con il sorriso sulle labbra lo varcherà/ sospinto dalle onde verso un’altra avventura’: con la sua imbarcazione dal nome fatidico ‘Luna’ raggiungerà le stelle, e non soltanto le 5 alle quali era legato, ma tutte le stelle del firmamento. Così è bello ricordarlo, del resto il suo ultimo messaggio lo ha mandato da ‘quassù, con la serenità espressa dal suo sorriso che non dimenticheremo mai. Ciao, Ciro!”  

Mi sento soltanto di aggiungere con tanta emozione, Ciao, Ciro, amico indimenticabile, ti immagino in un’altra dimensione, lassù in alto, con il tuo sorriso, la tua energia, la tua attività instancabile e generosa, la tua fiducia sconfinata. Sarai sempre presente nei nostri pensieri.  

Romano con Rosemary, Alberto e anche Salvatore.  

L’abside della chiesa Santa Maria Regina Pacis a Monteverde

Roma, 23 marzo 2023, ore 13,45, alle ore 15 l’inizio della funzione funebre.

Ore 15, la grande chiesa di Santa Maria Regina Pacis nel quartiere romano di Monteverde gremita, tanti hanno voluto dare a Ciro l’ultimo saluto. Al termine della messa, l’orazione funebre di uno degli amici più cari, un’amicizia che risale a 40 anni fa, è tra quelli che lo chiamano Nino: dall’alto del pulpito le parole che ne rievocano la figura nei suoi aspetti profondamente umani con la visione intimamente religiosa di Aldo Visco Gilardi, diacono in emeritazione della Chiesa valdese (Unione delle chiese metodiste e valdesi), che si è occupato dei rapporti con lo Stato e delle relazioni internazionali con Paesi di vari continenti, come Africa e America Latina.  

NINO (Ciro Soria 17.06.1941 – 21.03.2023)

di   Aldo Visco Gilardi

Dal Salmo 145:
8 Il SIGNORE è misericordioso e pieno di compassione,
14 Il SIGNORE sostiene tutti quelli che cadono
e rialza tutti quelli che sono curvi.
15 Gli occhi di tutti sono rivolti a te,
e tu dai loro il cibo a suo tempo.
16 Tu apri la tua mano,
e dai cibo a volontà a tutti i viventi.
17 Il SIGNORE è giusto in tutte le sue vie
e benevolo in tutte le sue opere.
18 Il SIGNORE è vicino a tutti quelli che lo invocano,
a tutti quelli che lo invocano in verità.
Salmo 23:
1 Salmo di Davide.
Il SIGNORE è il mio pastore: nulla mi manca.
2 Egli mi fa riposare in verdeggianti pascoli,
mi guida lungo le acque calme.
3 Egli mi ristora l’anima,
mi conduce per sentieri di giustizia,
per amore del suo nome.
4 Quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte,
io non temerei alcun male,
perché tu sei con me;
il tuo bastone e la tua verga mi danno sicurezza.
5 Per me tu imbandisci la tavola,
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo;
la mia coppa trabocca.
6 Certo, beni e bontà m’accompagneranno
tutti i giorni della mia vita;
e io abiterò nella casa del SIGNORE
per lunghi giorni.

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La facciata della chiesa del funerale

Nino non era un santo. Nino era generoso.

Appoggiava volentieri iniziative ambientali (cfr. la destinazione di offerte in sua memoria a Legambiente) e umanitarie: a me, per esempio, mise a disposizione la sua esperienza di spedizioniere e il magazzino per l’organizzazione di alcuni container da mandare in Africa per la chiesa valdese.
Era stato provato dalla vita: avviato dal padre autoritario ad un lavoro pesante da ragazzo, lavoro che l’ha reso robusto. La sofferenza per la perdita del fratello Paolo…
Si lega da bambino a Lucione e alla sua famiglia Sabbadini. Lucio è l’amico fraterno con cui condivide molte esperienze di vita fino alla sua morte, avvenuta 13 anni fa, proprio in marzo.
Nino ha avuto qualche disavventura sul piano lavorativo, non voluta, ma anche grandi soddisfazioni e consolazioni, tra le quali ha goduto l’affetto di una paziente moglie, Dilys,  delle figlie Debora e Susanna e della nipote Elena.
A modo suo era spiritoso, prova ne sia l’annuncio che lui dà della sua morte, che parafraso così: “Amici miei, godetevi la vita come ho fatto io, poi ci rivedremo!”

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In uno dei suoi viaggi

Era un edonista. Amava la vita, il ballo, i viaggi per conoscere il mondo. Amava la compagnia di amici, familiari e conoscenti con cui non perdeva occasione di festeggiare in grande stile anniversari in luoghi pubblici, o la tradizionale festa di fine-inizio anno a casa propria, con un luculliano cenone, con l’enorme tacchino, sovrabbondante anche per la trentina di ospiti presenti, seguito dalla tombola e giochi a carte…
La partecipazione di tanti amici, qui oggi, è dimostrazione dell’affetto che ha seminato.
Il mare in tutte le sue manifestazioni era ed è il suo elemento, dove desidera siano sparse le sue ceneri, come avvenuto con Lucio. Amava la barca a vela, che fosse la Pacioccona o la Luna, le immersioni, la pesca, la buona ed essenziale cucina, che in barca doveva sporcare il minor numero di tegami possibile, e l’immancabile siesta pomeridiana sottocoperta, sdraiato sul pavimento su cui poggiava un giornale, per non sudare sulla moquette.

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La “buona ed essenziale cucina” in barca

Aveva un’abilità manuale e meccanica straordinaria, per riparare da sé la barca.
Curioso di natura, non perdeva occasione per cimentarsi in nuove avventure, come fare il vino o distillare le grappe, con l’aiuto di amici e collaboratori più recenti.

Non era un santo, ho detto. Chi può essere definito tale? 
Era anche tignoso, alquanto maschilista, a volte impietoso, il che non gli impediva di essere gentiluomo con il gentil sesso. Di due donne ha avuto rispetto costante: la madre e la sorella Ada, oltre che della moglie Dilys. Forse, il carattere contraddittorio era dovuto al suo segno zodiacale: Gemelli?
Era combattivo, ma anche animoso, tenace e testardo, poco propenso alla mediazione e alla rinuncia. Purtroppo, questioni di interessi gli hanno fatto guastare i rapporti con amici di una vita e con familiari, mentre altre volte si è dovuto difendere da quelle che sentiva come prevaricazioni e ingiustizie. 

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Sulla “sua” barca, nel “suo” mare

Negli Evangeli, Gesù ci invita a risolvere le diatribe terrene finché siamo in vita sulla Terra, Matteo 18.18: “Io vi dico in verità che tutte le cose che legherete sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che scioglierete sulla terra, saranno sciolte nel cielo.”
Mi dispiace che Nino non abbia colto questa opportunità, pur volendolo, pare, tanto che aveva preparato una lettera risolutrice di una annosa questione familiare, ma la morte lo ha colto prima che potesse  trasmetterla. In tal caso, mi sarebbe piaciuto leggere in questa occasione l’incontro di Gesù con Zaccheo (Luca 19, 1-10), il quale, ospitando Gesù, si redime riconoscendo e riparando ai suoi torti fatti. Ora, se ci sono ancora questioni in sospeso, il compito di risolverle sarà responsabilità di chi rimane.
La morte segna un passaggio che può sembrare definitivo, ineluttabile… Ma non è l’ultimo atto, né l’ultima parola-
Gesù è morto, ma è anche risorto.
Il Signore, Dio di Amore, è misericordioso: a lui spetta la magnanimità e il giudizio!

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Un piccolo impegno che è anche un momento di raccoglimento

Siamo fiduciosi, come il salmista, nella Sua clemenza (Salmo 25. 1, 6-11,16-18):
1 A te, o Eterno, io elevo l’anima mia.
2 Dio mio, in te mi confido;
6 Ricordati, o Eterno, delle tue compassioni
e della tua bontà; perché sono eterne.
7 Non ricordarti dei peccati della mia gioventù,
né delle mie trasgressioni;
ricordati di me nella tua clemenza,
per amore della tua bontà, o Eterno.
8 L’Eterno è buono e giusto;
perciò insegnerà la via ai peccatori.
9 Guiderà i mansueti nella giustizia,
insegnerà ai mansueti la sua via.
10 Tutti i sentieri dell’Eterno sono bontà e verità
per quelli che osservano il suo patto e le sue testimonianze.
11 Per amor del tuo nome, o Eterno,
perdona la mia iniquità, perché essa è grande.
16 Volgiti a me, e abbi pietà di me,
perché io sono solo e afflitto.
17 Le angosce del mio cuore sono aumentate; tirami fuori delle mie angustie.
18 Vedi la mia afflizione e il mio affanno,
e perdona tutti i miei peccati.
Chi è in vita e si sia sentito da lui offeso, può ancora fare la sua parte perdonando, non portando rancore: il suo carattere impetuoso, talvolta, lo faceva reagire con degli eccessi a quelle che sentiva come ingiustizie.
Facciamo noi ammenda, presso il Signore, delle sue mancanze (che non sono maggiori di quelle di tutti noi peccatori) e, per lui, chiediamo perdono a Dio!
Rimaniamo con la certezza del messaggio del Cristo. che ci ha trasmesso Giovanni, l’Evangelista, in 14. 1-6:
1 “Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me!
2 Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, ve l’avrei detto; io vado a
prepararvi un luogo;
3 E quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi;
4 e del dove io vado sapete anche la via”.
5 Tommaso gli disse: “Signore, non sappiamo dove vai, come possiamo sapere la via?”.
6 Gesù gli disse: “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me”.

Concludo con la preghiera al Signore che vi consoli, vi guidi e vi benedica, carissime Dilys, Debora, Susanna, Elena, e quanti tra noi soffra questo distacco!
Vi voglio bene!

Aldo Visco Gilardi

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Il saluto di Ciro con un sorriso


Musica e Folklore per l’Abruzzo a Piazza di Spagna, 17 maggio 2009

di Romano Maria Levante

Nel 14° anniversario del terremoto che ha colpito l’Abruzzo il 6 aprile 2009 avanti ieri e ieri abbiamo ripubblicato due articoli che scrivemmo dopo il tragico tragico evento, il “Requiem da Gabriele d’Annunzio” pochi giorni dopo e ” Cinque registi tra le macerie” un mese dopo; la ripubblicazione ha coinciso con il giovedì e venerdì di poassione dell’attuale settimana pasquale. Concludiamo la rievocazione con un terzo articolo, anch’esso ripubblicato, che uscì a metà maggio 2009, con la simbolica ripresa attraverso la musica dei complessi popolari abruzzesi a Roma, a Piazza di Spagna. Nella passione, oggi è il Sabato santo, vigilia della Resurrezione….

cultura.inabruzzo.it, scritto il 18 maggio 2009 Autore: Romano Maria Levante Tradizioni

E’ stato inconsueto vedere la scalinata di Trinità dei Monti e l’area intorno alla Barcaccia deserte in una calda mattinata domenicale; c’era una transenna che impediva alla folla di romani e di turisti di transitarvi e di sostare. Poi, nel primo pomeriggio la scena si è animata, gruppi musicali e folkloristici hanno cominciato ad affluirvi, la gente si è accalcata, lo spettacolo è iniziato.

E’ domenica 17 maggio 2009, la Giornata nazionale della musica popolare organizzata dal Ministero dei Beni culturali, una novità che assume da subito un significato del tutto particolare.

La simbiosi tra le Corali abruzzesi dell’Aquila e l’Orchestra di Cesenatico di Mirko Casadei

I primi gruppi che si schierano alla base della scalinata sono quattro complessi abruzzesi, precisamente dell’Aquila, vengono da alcune delle località più colpite dal terremoto. Si tratta di corali nei pittoreschi costumi tradizionali, che hanno nomi familiari: Coro della Portella di Paganica, Schola cantorum di Barisciano, Associazione polifonica di Tempera, Associazione corale “Gran Sasso” di L’Aquila. Intonano i loro canti popolari, il folklore abruzzese fa vibrare di emozione la piazza, per quello che significa cantare di nuovo dopo essere stati toccati dalla tragedia.

Ma il calore dell’accoglienza della gente, le parole della presentatrice Silvia hanno rincuorato i componenti dei gruppi, li hanno fatti sentire ospiti d’onore oltre che partecipanti di una festa collettiva nel segno della musica popolare: che vuol dire tradizioni e memoria, identità e appartenenza dove si esprimono le più riposte virtù di un popolo, la sua autentica anima. Ed è nel ritorno alle proprie radici che si può trovare la forza per ricominciare, riprendersi, andare avanti.

A fianco dei primi quattro gruppi si è subito schierata in una simbiosi altamente simbolica l’Orchestra Casadei, un nome che ha fatto la storia della musica popolare italiana, rappresentata da Mirko Casadei, dalla terza generazione dopo Secondo Casadei e il successore, anch’egli ormai mitico, Raul Casadei. Mirko, come il padre Raul, è insieme cantante e presentatore, direttore e animatore e con la sua simpatia e bravura ha aiutato a rompere il ghiaccio, se si può usare questo termine in una giornata così calda, e non solo in termini meteorologici. Il suo arguto cappellino e la sua voce festosa hanno punteggiato l’intero pomeriggio come la sua musica popolare, che è italiana e non solo romagnola anche se viene da Forlì-Cesena, precisamente Cesenatico.
E’ stata una simbiosi simbolica, abbiamo detto, con la musica abruzzese, perché entrambe vanno alle radici della sensibilità popolare, toccano il cuore, fanno vibrare le corde del sentimento. E ascoltarle insieme così vicine e così da vicino è stata un’emozione tradottasi in applausi scroscianti. Ma c’è un altro motivo perché l’accoppiata sia risultata così indovinata: l’intensa partecipazione di Casadei a questa emozione, espressa in una vicinanza intima, evidente nelle sue parole e nell’atteggiamento avuto per l’intero pomeriggio.

Abbiamo voluto verificarlo parlandogli direttamente: “Non potevamo mancare- ci ha detto – non solo perché ci sentiamo di rappresentare le radici della musica popolare, ma soprattutto per essere vicini alla gente d’Abruzzo così duramente colpita”. Le parole successive fanno capire che c’è molto di più di un generico anche se sincero sentimento: “L’Abruzzo è una regione alla quale siamo legati in modo particolare, e non solo per la vicinanza geografica quanto perché ci ha dimostrato sempre molto affetto, conosciamo bene la sua gente avendo suonato in tutte le località, grandi e piccole, ci hanno chiamato e ci hanno accolto con grande simpatia e calore”. Mirko ricorda l’accoglienza che ebbe il loro spettacolo a Paganica e aggiunge: “Per questo ci sentiamo in debito con l’Abruzzo e il 29 maggio, nel nostro tour partito il 15 da Cuneo che attraverserà l’Italia fino alla Sicilia, ci sarà la serata benefica a L’Aquila tra i colpiti dal terremoto per portare un po’ di allegria tra tanta tristezza”. E in conclusione dedica espressamente all’Abruzzo il loro motto: “Si scrive Casadei e si legge festa”. In effetti, anche per suo merito, in Piazza di Spagna c’è stata festa.

Il gemellaggio virtuale tra Abruzzo e Lazio

I complessi abruzzesi presenti in Piazza di Spagna non sono stati soltanto questi. Altri quattro, sempre della provincia dell’Aquila, si sono aggiunti alle Corali, dopo aver sfilato da Piazza Augusto Imperatore risalendo Via Condotti. Tra i primi ad unirsi a quelli ai piedi della scalinata, ecco due gruppi folk: il “Sirente” di Castelvecchio Subequo e il “Luigi Venturini” di Tagliacozzo, Più tardi hanno completato la nutrita rappresentanza regionale il Corpo bandistico città di Paganica, preceduto da un grande cartello retto da due deliziose bambine; il clarinettista ci ha detto che avevano avuto distrutta la sede, molti strumenti e sopratutto l’atroce perdita della madre di uno di loro per il terremoto, la gente ha capito il loro sforzo per riprendersi e li ha applauditi. E il Complesso bandistico città di Tagliacozzo.

E’ stata una prova straordinaria di vitalità della gente aquilana e della sua anima popolare questa ricostituzione e rinascita di otto gruppi musicali e folkloristici che hanno onorato la giornata nazionale; della quale si deve rendere merito al Ministero Beni Culturali che ha promosso l’iniziativa con il supporto del sindaco di Roma e della Presidenza del Consiglio. Berlusconi non ha fatto mancare il suo saluto con una lettera per nulla rituale letta dalla presentatrice Silvia.

Ma torniamo alla festa, i gruppi che sfilano lungo Via Condotti affluiscono a ritmo incalzante, è il caso di dirlo, perché entrano in Piazza di Spagna e si collocano lungo la scalinata facendo vibrare l’aria con le loro musiche, spesso fatte di forti percussioni, e sciorinando i colori dei loro abiti e divise e delle loro bandiere. E a proposito di bandiere c’è l’ingresso spettacolare di quaranta vessilli di paesi esteri, e la loro collocazione alla sommità della scalinata a rappresentare simbolicamente il significato internazionale della musica che supera le barriere e unisce storie e tradizioni.

Notiamo che dopo e tra i gruppi abruzzesi la rappresentanza più nutrita è dei gruppi laziali. Alla fine ne contiamo otto, lo stesso numero di quelli d’Abruzzo: due sono romani (la Banda musicale “Corbium” di Roccapriora e il Corpo folklorisico musicale “Compatrium” di Montecompatri) due di Viterbo (il Gruppo musicale folk “La sbandata” di Chia, e le Sbandieratici e il gruppo storico musicale città di Viterbo), tre di Frosinone (l’Associazione bandistica musicale città di Sgurgola, la Banda musicale “Massimo Pagliei” di Villa Santo Stefano, l’Amaseno harmony show band di Amareno; e per finire uno di Rieti, l’Associazione musicale città di Pescorocchiano.

E allora ci piace immaginare che nella magica Piazza di Spagna sia avvenuto un gemellaggio non dichiarato ma vissuto nella fusione della musica e del folklore popolare, nei loro suoni e nei loro colori, tra Abruzzo e Lazio, così vicine e unite anche per altri versi e oggi più che mai.

La presenza corale delle altre regioni

A questo gemellaggio fanno corona le altre regioni, del Centro, Nord e Sud pur esse presenti. Dal Nord, e precisamente da Bergamo, è venuto il Gruppo folkloristico “La Garibaldina” di Terno d’Isola, che rende onore al suo nome con sfavillanti camicie rosse, una bella macchia di colore sulla scalinata; da Torino il Turinstars Majorettes, con le loro gambe tornite e le bandiere; da Trento il Corpo musicale “Giuseppe Verdi” di Condino.

Dal Centro, ad Abruzzo e Lazio si sono unite le vicine Marche, è venuto da Ascoli Piceno il Complesso bandistico città di Falerone.
Dal Sud, dopo l’apertura del corteo con il Gruppo majorettes Città di Rapone, i primi a sfilare sono stati il Complesso bandistico “Leonardo da Vinci” città di Pallagorio venuto da Crotone e il Complesso bandistico città di Ordona, venuto da Foggia; infine la Banda civica città di Sarno venuta da Salerno.

                                                                                   Mirko Casadei

Non è mancata, a completamento di una partecipazione già così nutrita, una colorata delegazione di gruppi folkloristici provenienti da varie regioni.

A conclusione della sfilata, prima del momento culminante finale, c’è stata la parte cerimoniale con la consegna degli attestati di partecipazione ai singoli complessi, nonché dei premi a due istituti scolastici di Campobasso e Cannara presenti alla manifestazione con i dirigenti e gli alunni autori degli elaborati migliori; e sono stati un parterre colorito ed animato.

I momenti culminanti della manifestazione

Ma è stato ancora l’Abruzzo protagonista con le commosse parole di Vincenzo Vivio, delegato a rappresentare i gruppi abruzzesi presenti alla manifestazione di Roma e nei comuni della regione: “Non è stato facile venire a cantare qui – ha detto -Potete immaginare le condizioni in cui si vive nelle zone del terremoto, in tenda, con tante famiglie nel dolore. Ma abbiamo voluto fare lo sforzo di esserci, perché vogliamo continuare, vogliamo agire, vogliamo andare avanti. La musica ci salverà”.

Subito dopo si è levato, quasi per magia, il canto di “Vola, vola”, mai apparso così profondo e intenso, così carico di significati. E quella musica che “ci salverà” ha fatto volare davvero tutti.

E dato che siamo tornati alla musica non possiamo dimenticare gli altri canti. Abbiamo dovuto distaccarcene con dispiacere per seguire la sfilata dei tanti complessi, non potevamo ometterli perché al di là della lista che può apparire tediosa ci sono stati i suoni, i colori. Abbiamo citato soltanto il rosso delle camicie garibaldine, ma ce n’era una sinfonia, tutte le gradazioni dell’iride, dalle tinte fredde riscaldate dal sole e dalla passione a quelle calde, in tutti gli accostamenti; e poi cappelli e pennacchi, vessilli e costumi d’epoca, e altro ancora.

Ma ora i canti. Il folk abruzzese lo conosciamo, di “Vola vola” abbiamo detto. Non c’è stato “Tutte le fontanelle” e neppure “Il lamento della vedova”, sarebbe stato forse troppo triste, si doveva ricordare con il folk della tradizione e poi volare sulle ali della speranza. Lo si è fatto.

C’era sempre Mirko Casadei – protagonista della manifestazione con gli abruzzesi ai quali pubblicamente ha detto più volte di essere vicino, e alle Corali lo era anche fisicamente – a riportare l’allegria con la sua musica popolare italiana, tiene a precisare, e non solo romagnola. Ed ecco “Simpatia” e “Romagna e sangiovese”, “Ciao mare” e “Romagna mia”, quest’ultima con “Vola vola” vera colonna sonora della manifestazione. Fino alla “Musica del mondo” conclusa da Mirko con il grido “Viva la musica, viva l’Abruzzo, viva L’Aquila!” E poi, ancora, “Romagna mia”.

E’ stata un’apoteosi, ma il “clou” è venuto poco dopo, con i gruppi sulla scalinata in un turbinio di colori e di bagliori inconsueto anche per una “location” così prestigiosa. Il suono e il canto corale prima dell’“Inno alla gioia” poi dell’“Inno di Mameli”. Una sorta di consacrazione dell’unità nazionale, anzi dell’unità europea dopo l’esibizione delle identità territoriali del nostro bel paese. Sapere che nello stesso momento questi due inni venivano cantati nelle manifestazioni di tutt’Italia e anche nelle zone terremotate, in particolare ad Onna, Tempera, L’Aquila, ha dato vera emozione.

Al termine, lo “sventolio” degli strumenti musicali sulla scalinata, prima del rompete le righe. Ma no, si fa per dire, i gruppi sono rimasti compatti e ordinati, è iniziata una nuova sfilata in senso contrario lungo via Condotti. Si sono sentite tante altre musiche, veramente spontanee e liberatorie, l’abbraccio della folla è stato ancora più vicino e intenso. Le luci del tramonto completavano lo spettacolo di una festa che proseguiva vivace e partecipata.

Ci sembra di poter dire che abbiamo vissuto qualcosa di più della Giornata nazionale della musica popolare. Abbiamo partecipato a una festa di popolo che ha consacrato l’amore per le tradizioni regionali e insieme per l’identità nazionale. E anche l’amore per l’Abruzzo.

[tutte le foto sono: ph. Romano Maria Levante

corali abruzzesi, L’Aquila, Roma

One Response to Musica e Folklore per l’Abruzzo a Piazza di Spagna

  1. Catharina 31 maggio 2009 a 07:35

Io che sono Tedesca e non Abruzzese. Alla mia famiglia piace che siete andati a
Roma a cantare.

Tanti saluti da Catharina.

L’Aquila, cinque registi tra le macerie per ricostruire il Conservatorio, 6 maggio 2009

di Romano Maria Levante

Nel 14° anniversario del terremoto che colpì l’Abruzzo la notte del 6 aprile 2009 ci siamo uniti ieri alle celebrazioni con l’articolo pubblicato in quei giorni riportando le parole del grande abruzzese D’Annunzio sulla sua gente e su altre tragiche situazioni; oggi ripubblichiamo l’articolo del maggio 2009 sulla manifestazione un mese dopo con l’interpretazione filmata di 5 registi tra le macerie.

da cultura.inabruzzo.it – 10 maggio 2009 – Postato in: Storia

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La locandina della manifestazione

Mercoledì 6 maggio 2009 al Teatro Capranica di Roma: una sala di mille posti gremita al di là delle aspettative, come ha detto Corrado Augias nella presentazione, sessantacinque sindaci romani presenti alla manifestazione organizzata dal quotidiano “Repubblica” e dalla provincia di Roma, un parterre di attori famosi, giornalisti, pubblico. Tutto “per non dimenticare” e lanciare le basi della ricostruzione di un’istituzione benemerita per la cultura musicale, il Conservatorio che è la punta di diamante.

Il presidente della provincia di L’Aquila, Stefania Pezzopane chiamata da Augias sul palcoscenico, non è stata tenera parlando di “fuochi artificiali” ai quali non seguono ancora atti concludenti adeguati; dopo un mese ci sono ancora migliaia di attendati, i ritardi sono evidenti. Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, ha detto che si sono uniti all’iniziativa “per non dimenticare ed essere coerenti”, nella convinzione che è necessario superare presto l’emergenza e “far rivivere il territorio nel suo tessuto civile e sociale”, del quale la ricostruzione del Conservatorio “A. Casella” rappresenta un aspetto particolarmente significativo.

Ma non si è trattato di una passerella di personalità. Dopo i due presidenti delle province di L’Aquila e Roma, Augias ha introdotto il direttore di “Repubblica” Ezio Mauro che ha raccontato come è nata l’iniziativa. C’è stata l’immediata mobilitazione degli inviati giunti per primi nelle località colpite all’insegna dell’“andare, guardare, cercare di capire e raccontare”, dove il “cercare di capire” va inteso a 360 gradi, responsabilità comprese. Ai loro occhi sono apparse subito case sventrate, per metà distrutte e per metà rimaste in piedi rivelando il loro contenuto di quotidianità, è stato un impietoso anche se inevitabile guardare dentro le vite altrui. Poi ha parlato di quello che ha funzionato, il pronto intervento della Protezione civile, la presenza dello Stato, l’impegno del governo; e ha aggiunto che diverse cose non hanno funzionato, si può e si deve fare di più. Nessuna polemica, comunque, Mauro ha presentato l’iniziativa, che è stata di aggiungere al racconto giornalistico una visione artistica: “cinque registi tra le macerie” con la loro “capacità di guardare e cogliere il senso delle cose viste” raccontandole in un cortometraggio. Poi è venuta l’idea di collegare il tutto all’iniziativa di solidarietà per ricostruire il Conservatorio “A. Casella” a L’Aquila.

Dopo un applauso corale al personale della Protezione civile, ai Vigili del fuoco e ai volontari per l’impegno e l’abnegazione profusi, Augias può dare inizio allo spettacolo, perché tale è stato, curato da un noto regista, Piero Maccarinelli, con la tensione ideale che le circostanze comportano.

I cinque filmati sono stati preceduti ciascuno da un breve scambio di parole dell’autore con Augias, e seguiti dalla lettura da parte di personaggi dello spettacolo di brani dei “reportage” ad essi collegati.

Paolo Sorrentino

Il racconto dei cinque registi

Si inizia con Paolo Sorrentino, è lui a ringraziare rispondendo ad Augias: “Noi cercavamo un modo per renderci utili, voi ce l’avete consentito”. E’ stato come se “un’infrastruttura civile” fosse scesa in campo. Il suo cortometraggio si intitola “L’assegnazione delle tende”. La prima immagine è di una lunga strada deserta, con edifici ai lati che sembrano intatti, poi un’altra strada, una piazzetta deserta, quel silenzio spettrale che è stato detto essere la cosa che ha colpito di più al primo contatto con i luoghi del disastro. A questo punto nel filmato il silenzio è rotto da rumori sinistri: un elicottero, delle ruspe, dell’acqua tumultuosa. Quindi ancora macerie, vigili al lavoro, secchi avvertimenti. Le immagini delle rovine si susseguono, è un panorama di distruzione come dopo un bombardamento. A un certo punto una voce insistente scandisce dei nomi, alcuni di intere famiglie, seguiti dall’ossessiva ripetizione: “Non sono state assegnate”. Nelle catastrofi c’è anche questo, una parte quasi burocratica, fatta di disposizioni, di annunci, di elenchi. Ma questa volta è diverso, lo si vede chiaramente quando si passa dalle macerie alle tende, dove un pannello con un assemblaggio di fotografie di persone scomparse dà la triste chiave interpretativa della litania che percorre l’intero cortometraggio. Si capisce perché, purtroppo, all’interminabile elenco di nomi le tende “non sono state assegnate”.

Michele Placido

Segue il lavoro di Michele Placido con la collaborazione di Antonello Caporale, “Le mani di Osmai”. Volti pensosi e rudi di lavoratori, un viso delicato di ragazza, poi Placido parla con loro. E’ una comunità macedone molto unita, come dice il primo, si è prodigata nel salvataggio. Il regista, con chioma e barba bianca, rivela che il nonno e lo zio sono emigrati, poi hanno chiamato gli altri. “Per noi è uguale”, rispondono. Ma è Osmai il protagonista, mentre scorrono immagini di macerie racconta di aver estratto dalla casa distrutta la moglie e una figlia vive, ma non è riuscito a salvare la figlia più piccola al piano di sopra. L’ha recuperata senza vita ma non si è fermato a piangere sul suo corpo, ha continuato a scavare a mani nude, era l’unico che lo potesse fare perché il più forte. Ora ha mani e piedi massacrati, avvolti da grossi bendaggi, ma ha salvato undici persone. “Questa è la nostra terra, dice, qui stiamo benissimo, siamo paesani, ci hanno dato tutti di tutto. Non ci scordiamo l’accoglienza di questa gente” e scoppia a piangere. Una donna aquilana lo abbraccia, e parla dell’accoglienza che è stata doverosa per gente che lo meritava, e lo ha dimostrato ancora. Avrà ora il problema di riportare la figlia morta in Macedonia, ma tornerà, sente questa terra come la sua terra, e così la colonia di macedoni che è con lui. Non si dimenticano facilmente quei visi segnati da un dolore che è anche il loro dolore.

Mimmo Calopresti

Mimmo Calopresti ha firmato “Perfect day”, dal titolo della canzone di Nicola Piovani che ne è la colonna sonora. Si sarebbe potuto intitolare come il famoso film “Le vite degli altri”, qui non le mette a nudo la “Stasi” della Germania Est, ma una violenza ben più spietata, quella del sisma che ha squarciato le case, come aveva detto Ezio Mauro, distruggendole per metà e aprendo il resto alla vista di tutti. Inizia con il recupero di povere cose, vestiti e altro, infilate nelle automobili, portate nei sacchetti in un andirivieni con i vigili del fuoco e gli uomini della Protezione civile onnipresenti. “In quei momenti prendi cose inutili che non servono a niente” dice un giovane. La macchina da presa percorre le case squarciate, si sofferma sui comò semiaperti e i soprammobili, i televisori rotti e le sedie con damasco, gli specchi e le suppellettili; non c’è un clima gozzaniano, purtroppo, ma un inventario di intimità violata, non dall’operatore, ma dalla crudeltà del sisma. Un graffito rosso su un muro, con “Non mi arrendo. Ti amo”, mostra un’intimità gridata quanto l’altra era riposta e privata. Poi il viso sereno di un’anziana signora che riesce a dire “Siamo nella disperazione” con un amaro sorriso. Grande dignità, come nella ragazza che esclama: “Abbiamo provato terrore, stavamo dormendo, siamo fuggiti, ora siamo felici perché siamo qui, purtroppo c’è gente che non lo può raccontare”. Prima è passato due volte un gatto nero, ora in questi due volti si accende un raggio di speranza.

Ferzan Ozpetek

“Nonostante tutto è Pasqua” di Ferzan Ozpetek, è “dedicato ad Alessandra Cora, Capri 8-1-86, L’Aquila 12.4.2009”, preceduto dalla scritta “ad Alessandra… per sempre”, è la ragazza con le cuffie che canta su una musica molto ritmata, colonna sonora e visiva del cortometraggio le cui immagini si susseguono incalzanti al ritmo accelerato della canzone. Il regista dice di aver trovato Alessandra in Internet, su “you tube”, non altro. Inizia il filmato, prima in bianco e nero con le immagini capovolte, scosse dal sisma; poi si aprono al colore, è un susseguirsi così frenetico di macerie che sembrano fotogrammi, quasi istantanee dopo un bombardamento, poi carrellate su esterni e interni, sulle povere cose private che il sisma ha reso pubbliche con una violenza nella violenza. C’è anche un crocifisso che sembra guardare tanta desolazione, quasi una crocifissione corale. A questo punto le immagini dei palazzi tremano e con loro anche quella della giovane cantante, sovrapposta quasi in dissolvenza, travolta anch’essa. Infine la tendopoli, come se tornasse la quiete dopo la tempesta; e la vita torna nel modo più eclatante, un gigantesco uovo di Pasqua di cioccolato con su scritto a grandi caratteri “Nonostante tutto è Pasqua”. Le macerie portate al diapason, poi il Crocifisso: questa Pasqua non è la festa tradizionale, è la Resurrezione dalle macerie di una terra martoriata.

Francesca Comencini

L’ultimo cortometraggio è sulle “Donne di San Gregorio” di Francesca Comencini. Un racconto sereno, anch’esso inframmezzato di immagini delle macerie, ma dominato dalle figure di sei donne intervistate, che ha reso l’atmosfera perché due di loro hanno interrotto il racconto per dire “Oddio, che scossa, l’avete sentita?”, l’altra “C’è stata, l’ho sentita” e per un po’ la paura è tornata nei loro visi. Ma per poco, i racconti sono proseguiti pacati e sereni con un denominatore comune, l’amore per la propria terra vista nei suoi elementi fondamentali: “La chiesa, la piazza, il bar, gli alimentari, sono la nostra vita; un paese diverso non sarebbe più il nostro paese”; e ancora “La piazza con la chiesa nello stesso posto, il bar vicino”. E’ un amore che ha portato il padre del marito, tornato dall’America, a mettere tutti i risparmi nell’acquisto di una campana donata alla chiesa, ora è a terra spezzata; un amore che fa lavorare da commessa la giovane geologa per restare nel suo paese; e ugualmente per restarvi fa lavorare come cameriera, sacrificando anni di studio, la ragazza che ha fatto la tesi su un manoscritto della chiesa di S. Maria in Paganica, scelto come opera preziosa del proprio territorio. E’ un amore che ha fatto ritornare una paesana, trasferita a Milano da dieci anni, perché “non ho voluto lasciarli soli, sono cresciuta con loro, come potevo restare lontana?”.

Nucola Piovani

La conclusione, con l’appello di Nicola Piovani

I cortometraggi dei “cinque registi tra le macerie” sono stati seguiti ciascuno dalla lettura del testo del relativo reportage mentre sullo schermo scorreva un “loop” di immagini scelte. Così Piera degli Esposti ha letto il testo che accompagna il film di Sorrentino, Fabrizio Gifuni quello del film di Placido, Giorgio Pasotti quello di Calopresti, Valeria Golino di Ozpetek, Margherita Buy della Comencini. Ci sembrerebbe riduttivo chiamarli “reading”, è stato un vero oratorio, momenti ispirati per i toni intensi di queste letture, un concerto di parole dopo quello di immagini.

Crediamo di non dover aggiungere altro alla nostra cronaca se non due notazioni. La prima è che in due interviste nei filmati troviamo la percezione dell’imminenza di una scossa più forte delle altre: una ragazza dice che dormiva vestita tenendo a portata di mano “il giubbotto, le medicine, il cellulare, la tessera per gli sci e la piscina, e le scarpe posizionate” in modo da poter fuggire prontamente; due giovani dicono che tenevano “a portata di mano il violino e il violoncello”, pronti a mettere in salvo con la propria vita i loro preziosi strumenti.

La seconda notazione, al di là di tante analisi sociologiche, viene dalle “donne di San Gregorio” e riguarda l’attaccamento alla propria terra. Già ne abbiamo dato conto, ma c’è dell’altro: “Siamo abruzzesi, l’abbiamo sempre fatto, abbiamo lavorato i campi e dai campi siamo riusciti a fare quello che vedete, che c’era, anche se non c’è più”; per dire che ci si riuscirà ancora, perché “il paese, l’Aquila, l’Abruzzo è tutto”. E ancora, dalla donna partita e ritornata per stare vicina ai paesani: “Il nostro popolo è duro, forte e gentile, tutto questo non ci sarà più, ma lo rifaremo di nuovo più bello, ritorneremo quello che eravamo, ne sono quasi certa, anzi ne sono sicura”.

Ed ora il clou di Nicola Piovani, non perché ha suonato al pianoforte, gli sarebbe stato messo a disposizione ma ha preferito di no, e vedremo perché. Ha parlato dell’importanza della musica, ha detto di essere rimasto sorpreso leggendo che, a parte l’emergenza e le necessità vitali, “il resto è poesia” nel senso che si può trascurare se non ignorare. Si è ribellato a questo, anche la musica è poesia e in nome della musica e della poesia ha chiesto l’impegno solidale alla ricostruzione di quanto fa parte della cultura di un popolo. Nello specifico l’oggetto, anzi il soggetto della manifestazione è il Conservatorio “A Casella” di L’Aquila, da ricostruire con il contributo di tutti.

Ha ricordato i due giovani che, temendo venisse il terremoto, si erano preparati a fuggire tenendo in vista il violino e il violoncello, come le cose più preziose da salvare. Ebbene, ha concluso, “dobbiamo permettere a questi giovani di tornare nel loro Conservatorio, per questo lo dobbiamo ricostruire. E nel giorno dell’inaugurazione io sarò là, con il mio pianoforte, e suonerò con loro e con gli studenti e i docenti. Per questo motivo non suonerò questa sera”.

Migliore conclusione non poteva esserci, all’insegna della musica e della poesia, della ricostruzione e della rinascita. Il conto al quale trasmettere il bonifico bancario per i contributi alla ricostruzione del Conservatorio ha campeggiato nei titoli dei cinque cortometraggi, Piovani e Augias lo hanno riproposto nella conclusione: ecco il codice Iban: IT 37E 03002 03379 000401059955.
Anche noi pensiamo che il modo migliore di chiudere questo resoconto sia di esortare i nostri lettori perché si uniscano allo sforzo solidale di tante donne ed uomini dello spettacolo e della cultura. Abruzzocultura, che è stato ed è in prima linea sulla frontiera del terremoto, è con loro.

L’ora del terremoto

Tag: L’Aquila, Terremoto

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Terremoto in Abruzzo, 6 aprile 2009, Requiem da Gabriele d’Annunzio

di Romano Maria Levante

Nel 14° anniversario del terremoto che colpì l’Abruzzo la notte del 6 aprile 2009 ci uniamo alle celebrazioni con l’articolo pubblicato in quei giorni riportando le parole del grande abruzzese D’Annunzio sulla sua gente e su altre tragiche situazioni.

da cultura.inabruzzo.it – 10 aprile 2009 – Postato in: Storia

D’Annunzio idealmente vicino agli abruzzesi

Manlio Barilli, legionario di Fiume, così descrive la partecipazione del Poeta a una tragedia che ricorda l’immane ferita di questi giorni, il colpo al cuore dell’Abruzzo: “La sua partecipazione all’altrui dolore è così forte, così sincera, ch’egli ne patisce assai più di quanto farebbe se si trattasse di cosa sua propria. La sua generosità è immensa, ed io ricordo quel che fece quando, in Val di Scalve, la diga di Gleno ruinò, seminando morte e distruzione a Darfo e nei paesi circonvicini. Il Poeta visitò subito tutti i paesi colpiti dall’immane sventura, portando ai feriti, raccolti negli ospedali, ed ai superstiti, la sua parola efficace e calda di conforto ed il suo aiuto materiale, veramente notevole. E tornò a Gardone pallido, stravolto e turbatissimo, tale era stata l’impressione provata dinanzi alle ruine di fiorenti borgatelle montane, dinanzi a morti e feriti, di fronte agli scampati ancora istupiditi per i terrificanti momenti vissuti e disperati per la perdita di parenti, di tutti i loro beni, della loro casa. Per alcun tempo non fu più lui: non volle vedere nessuno, e non toccò quasi cibo”. Lo stesso Poeta scrive: “Il mio vero male è d’anima. E non posso né debbo parlare della mia anima. Sono tornato da Darfo con la morte in me, con una morte operaia che dentro mi lavora incessantemente”.

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La religiosità dannunziana

Quindi partecipazione sofferta alla tragedia e al dolore, ma anche preghiera. Giorgio Nicodemi, nelle testimonianze sulla vita del Poeta, così riporta la sua risposta alla domanda se pregasse: “Sempre, quando l’anima è in pena e in solitudine. L’invocazione a Dio è nel mio spirito stesso. Forse, non so pentirmi del male che faccio a me stesso, e penso che da me stesso venga il bene che spero di fare agli altri. Ma – è sempre il Poeta che parla – in me è la fede, quella fede stessa che fu di mia Madre. Ella ebbe la santità vera, le virtù che fanno corona alla fede: io ebbi con la fede il potere di dominare il male con l’Arte, e tutto quello che toccai divenne virtù”.

Sulla partecipazione ai riti funebri Eugenio Coselschi, che è stato vicino a D’Annunzio a Fiume, ricorda: “Il Comandante pallido, con gli occhi reclinati, assorto in una meditazione profonda o in una chiusa preghiera, è anch’egli in ginocchio… Ed ecco che, accompagnata dal ritmo breve della pioggia, risuonò, sui vivi e sui morti, sui compagni giacenti e su noi che eravamo la loro guardia in ginocchio, la voce accorata ma ferma, del Comandante: ‘Inginocchiamoci e segniamoci. Segniamoci. Crediamo e promettiamo’”.
Ugo Ojetti – che lo chiama amico, maestro, soldato – racconta: “Genuflesso ha seguito la messa sopra un messale, sulla messa dei morti che… è la più semplice e la più bella e la più antica delle nostre messe”.

Ed ecco la testimonianza di Antonio Bruers, il bibliotecario del Vittoriale: “Seguendo la salma, Gabriele d’Annunzio entrò nella basilica. Subito si fece il segno della croce, come fa sempre quando è in chiesa. Coprì nuovamente il feretro con la bandiera e con fiori. Volle far tutto da sé. Poi si inginocchiò. Tutti erano a posto nei banchi. Lui inginocchiato nel mezzo della chiesa. Rimase così per due ore quanto durò la messa”.

Questa la sua intensa partecipazione, mossa da una religiosità autentica che arrivava fino alla fede, nelle tragedie che avvenivano intorno a lui, e soprattutto in quelle della sua terra. Diceva: “Ho un’anima nativamente religiosa, carica del retaggio di fede tramandato dalla mia gente che di secolo in secolo va peregrinando ai suoi Santuari… Vi sono dunque luoghi di culto annoverati, vi sono luoghi di preghiera prefissi. Ma il nostro dio è sempre davanti a noi come l’orizzonte, o come la colonna invisibile di fiamma”.

I luoghi di culto, dunque, il loro valore incommensurabile per l’Abruzzo, ne parla nella “Lauda dell’illaudato” contenuta nel “Libro ascetico”: “Ben fu la Chiesa abruzzese, già fondata nel primo secolo del Cristianesimo, la custode vigilante del nostro patrimonio ideale. Nelle sue basiliche e nelle sue abbazie ella non conservò soltanto le ossa dei Martiri, ma puranco le testimonianze della nostra nobiltà, i vestigi dell’opera secolare compiuta dal nostro genio; e fu promotrice e propagatrice delle nostre arti belle”.

Le basiliche e le abbazie dell’aquilano colpite dal sisma sono ora mutilate e devastate – prima tra esse Santa Maria di Collemaggio con la tomba di Celestino V, sede della suggestiva “Perdonanza” – alcune distrutte, e Giovanni Lattanzi ne ha fatto un’impressionante galleria, più eloquente di mille parole. Dinanzi alle immagini della loro inagibilità non si può che seguire ancora una volta il Poeta: “Quando l’anima è nello stato di grazia può inginocchiarsi alla ventura, nell’erba o sul sasso, nell’oratorio o nella palestra, nel trivio o nel deserto”; è quello che sta facendo la gente aquilana rimasta senza chiesa e senza casa.

Ma non vogliamo aggiungere altre parole, intendevamo soltanto dare il giusto significato alle espressioni dolenti di D’Annunzio dinanzi alle tragedie, soprattutto della guerra, nelle quali ha saputo rendere in modo toccante sensibilità e sofferenza. Del resto, anche questa che si è abbattuta sulla nostra terra è una guerra, con le devastazioni e le vittime, le sofferenze e gli eroismi.

Le parole di D’Annunzio, tratte dai suoi scritti, spesso rivolte agli abruzzesi, sono dunque un Requiem verso questa terra, la sua terra. Ascoltiamole con raccoglimento, in queste giornate di lutto e di memoria, lo dobbiamo alle vittime della catastrofe alle quali è dedicato il Requiem dannunziano, preceduto da un commosso pensiero per i feriti e sopravvissuti e per tutta la gente d’Abruzzo. Le “testimonianze della nostra nobiltà”, che abbiamo citato dal “Libro ascetico”, si sono ripetute in queste drammatiche giornate, allorché è emersa la dignità degli abruzzesi così dolorosamente colpiti, pur tra sofferenze indicibili e ferite profonde: forza nell’animo e fierezza nel cuore, “vestigi dell’opera secolare” e “nostro patrimonio ideale”, antico retaggio di uno spirito indomito e di una tenacia incrollabile che, nonostante tutto, non sono andati dispersi.

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La vicinanza alla gente d’Abruzzo

“Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà… C’è chi piange e prega nella mia casa abbandonata, nelle mie capanne d’Abruzzo, nel rifugi della mia montagna, nelle chiese, negli ospedali, nelle officine.” (dal “Libro ascetico”).

“Con una commozione profonda, come se udissi la voce medesima di mio fratello partitosi giovine dalla casa paterna e non più ritornato, riconosco l’accento del mio paese, l’idioma della terra d’Abruzzi… Rattengo le parole del suo linguaggio, del nostro caro linguaggio che mi salgono alle labbra.” (dalla “Licenza” della “Leda”).

“Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento… La mia stirpe ha una faccia che io riconosco, una voce che io distinguo, un gesto che io interpreto… Odo alla mia sinistra un accento d’Abruzzo, un suono di terra natale. Il linguaggio natale mi riaffluisce alla gola, alle labbra. Chiamo, grido, interrogo. M’è risposto. M’è dato il rude e fiero ‘tu’ paesano e romano”… Non fui dunque sempre rifatto da mia madre, col medesimo viso, col medesimo cuore, cento volte? Non fui cento volte ritagliato e rifoggiato nella sostanza della stirpe? Cento volte, chi mi vide partire non fu certo di non rivedermi più? Tutti i miei ritorni non sono rinascite?” (dal “Libro Ascetico”).

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L’ansia per i feriti e i sopravvissuti

“.. è ferito all’addome, è ferito alle reni, è ferito al costato. E da che banda lo poseremo noi? Se lo mettiamo bocconi non grida. Se lo mettiamo supino, non grida. Eppure il suo strazio fende anche la tavola morta. Sono inginocchiato nel fango. E nello spasimo silenzioso egli punta i piedi contro la mia coscia. E io serro le mascelle. Ha i piedi nudi. E’ mezzo denudato. Ritorna alla culla. Ritorna alla razza. Sono della sua razza; e soffro il suo dolore con una vastità smisurata che non so dire, da tutta quanta l’infanzia a tutta quanta la vecchiezza, e per tutti i fiumi dalle sorgenti alle foci, e per tutte le montagne dalle radici ai vertici. La sua povera carne è la mia povera carne. La sua costanza nel patire è la costanza di mia madre e della mia gente. E’ là bocconi. E’ stroncato. Ha vent’anni.” (dal “Notturno”).

“Ha la faccia imberbe rivolta dalla mia parte, e da me non distoglie mai lo sguardo. Mi beve. Beve da me una pietà che gli torna dall’altare della chiesa dove fu battezzato e cresimato. Mia madre per la mia bocca gli parla come gli parlava sua madre. E il più lieve dei sorrisi infantili appare all’estremità del suo strazio.” (dal “Notturno”).

Vidi le loro labbra muoversi, vidi nelle loro labbra smorte formarsi la preghiera: la preghiera del tugurio lontano, la preghiera dell’oratorio lontano, del santuario lontano, della lontana madre, dei lontani vecchi… Al ricordo, il cuore mi trema, mi tremerà sempre. Saliva dal cuore della terra quel canto?… Giungeva dall’imo della miseria umana? Dal fondo delle generazioni? Dalla lontananza dei secoli?… La preghiera muta… s’era fatta voce, s’era fatta coro, s’era fatta clamore dal profondo: lamentazione, invocazione, implorazione senza carne, pentimento senza figura, giuramento senza segno, come nelle latomie, come nelle solfatare, come in tutti i luoghi della fatica umana, della pena umana.” (dal “Libro ascetico”).

“… incominciò a cantare un canto sommesso, una melodia senza parole o forse di parole sconosciute, una infinita e tenue musica ch’io non percepii coi miei orecchi ma col sommo dell’anima: un aereo canto, non modulato dalle bianche labbra, simile forse a quello non mai udito dagli uomini ma sol dalle stelle, simile a quello dei cigni iperborei su i fiumi senza sponde. E quel suono era certo ‘al di là della vita’ ma non nella morte. Ed io, pieno di meraviglia sacra e di speranza sovrumana, mi inginocchiai. Non so se in atto io piegassi le ossa dei miei ginocchi sul pavimento, perché avevo smarrito il senso del mio corpo, divenuto anch’io un puro spirito, congiunto a quella improvvisa bellezza. Né altro so. E però dissi io: ciò che io ho avuto da Me medesimo, io ho manifestato a voi. D’ogni cosa n’è cagione l’Amore.” (da “Solus ad solam” e “Le Faville del maglio”).

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Il Requiem per le vittime

“Vado a inginocchiarmi solo, a fianco della cassa, presso il luogo dove il suo capo riposa… Ho nelle ossa un freddo orribile! Toccare la morte, imprimersi nella morte, avendo un cuore vivo! Eppure siamo anche una volta soli… Tutti gli altri mi sembrano estranei, anche il fratello. Siamo soli. Il prete dice la messa funebre. Dal fondo della cappella sale una preghiera mormorata, un coro sommesso e roco. Sento l’immobilità del mio corpo, le ginocchia mi dolgono, e non posso muovermi. Il prete or s’accosta alla cassa, con un libro, tra due ceri; e legge le preghiere dei morti.”(dal “Notturno”).

“Il mio amore non basta, per l’amore dei vivi straniato o falsato, basta solo a togliere dalle loro ossa anche il gelo dell’alpe… Invisibili a quei vivi, sono visibili a me. Senza voce per quei vivi, hanno una voce per me. Hanno per me la salutazione del mattino e la salutazione della sera, come io ho per loro la salutazione della vigilia costante. E tutto quel che di me non può perire, a essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine.” (dal “Libro ascetico”).

“Credo che oggi potrei dentro di me chiamarmi il primogenito dei morti. Io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro; o mi levo sul gomito per scrutarli e per rimirarli; o li tengo abbracciati, come mi tenevano abbracciato per terra i miei primi compagni… quando non avevo ancora fatto in me il voto forse orgoglioso di rimanere in piedi sempre e di non abbassare mai la fronte. Talvolta, nelle notti della mia agonia immota, mi pareva udire nel foco taluno dei miei morti crollarsi mormorando. E io parlavo per lui; e mi facevo interprete de’ suoi sogni sotterranei… Io non piangevo, né piangevano i miei compagni supini. Il suono dei singhiozzi non traeva a noi le lacrime. Ora sappiate che i morti non piangono. Ma cantano. E chi ha udito quel canto, quegli sa che c’è un cielo sotto i nostri piedi come ce n’è uno sopra la nostra fronte.” (dal “Libro ascetico”).

Tag: Gabriele d’Annunzio, Terremoto

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Dufy, il “pittore della gioia”, 2. Decorazione e moda, Sicilia e fiori, a Roma, Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra narrazione della mostra di “Raul Dufy, ll pittore della gioia”, a Roma dal 14 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023 a Palazzo Cipolla, promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele , realizzata da “Poema” con il supporto organizzativo di  “Comediarting” e Arthemisia. A cura  di Sophie Krebs con Nadia Chalbi,  del Musèe d’Art  moderne di Parigi, che hanno curato anche il Catalogo Skira.

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Autoritratto”, 1935.

Abbiamo già cercato di evidenziare le peculiarità di un artista definito “pittore della gioia” per la sua inesausta ricerca di quanto possa sollevare lo spirito nei più diversi ambienti e del modo migliore per rappresentarlo. E’ stata definita una “estetica nuova” e lo si è chiamato pittore “moderno-classico”, impegnato nell’approfondire il rapporto luce-colore, anche con soggiorni nelle località più adatte, e nel mettere in pratica le proprie  scoperte.

La vasta galleria espositiva delle sue opere, articolata in 13 sezioni, ci ha portato prima in quelle realizzate sulle orme di Cézanne,  soprattutto paesaggi urbani e rurali, poi  nell’intimità delle  bagnanti e delle modelle nel loro atelier, quindi  nei paesaggi marittimi e nelle corse di cavalli, dove può registrare le scene di vita nel suo dichiarato interesse per questo motivo fondamentale. Ora passiamo alle sezioni successive dalla decorazione e la moda all’illustrazione dei libri e alla Fata elettricità, alla musica e al viaggio in Italia, con particolare riguardo alla Sicilia, al grano e ai fiori in uno straordinario eclettismo contenutistico ed espressivo.

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DECORAZIONE: “Trent’anni o La vie en rose”, 1931

Le opere di natura decorativa-ornamentale

La “Decorazione” è un motivo peculiare dell’artista, da lui curato in quello che viene definito “un edonismo decorativo” da Stephane Laurent la quale precisa che a quel tempo non era ritenuta più un’”arte minore” come in passato, le avanguardie vi si dedicavano come reazione  alle gerarchie accademiche dalle quali la decorazione era penalizzata.  E Dufy, a posteriori, “sosterrà addirittura che la  pittura fauve non è niente altro che  ornamento, colore e arabeschi orientaleggianti”, e su questo concorda uno dei maestri, Matisse.

Alla decorazione fu introdotto dallo stilista Paul Poiret, che aveva una “maison” di moda, con  il quale  nel 1910 aprì un laboratorio di stampa su tessuto, la “Petit Usine”, che produsse per un anno soltanto, ma poi fu ingaggiato dalla seteria di Lione Bianchini-Férier dal 1912 al  1928 e si trasferì, dopo essersi sposato,  a Montmartre nelle vicinanze della fabbrica in cui si svolgeva la produzione di tessuti da decorare in un atelier dove resterà  fino alla fine. Erano tessuti presentati nelle sfilate di moda, di qui un altro lato.della sua attività artistica, la moda per la quale ideò una vastissima serie di costumi con le decorazioni in cui era maestro.  

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“La pesca (bozzetto per un tessuto”, 1919

Vi era un’ispirazione comune tra pitture su tela e su tessuti, con l’orientamento a una diffusione ampia in una sorta di “arte sociale”. Nei contenuti si ispirava alle scene di vita negli ambienti più frequentati, dalle sale da ballo agli ippodromi, dalle regate alla vita nelle località di villeggiatura, ai campi da tennis, le decorazioni erano disegni arabescati con forte cromatismi. Dal punto di vista tecnico si impegnava con le tecnologie più avanzate, dalla antica xilografia alla serigrafia  e l’aerografo, alle schede perforate  per riportare le decorazioni sui tessuti.  “Alla fine – commenta la Laurent – è l’unico pittore della sua generazione  a collaborare con l’industria, a vestire i panni di un vero e proprio designer”. Dal 1925 si immerse nel design dell’art decò  sempre più diffusa, lavorando su decorazioni di oggetti di vari materiali, anche e soprattutto in maiolica smaltata, abbiamo piastrelle e vasi decorati con disegni di animali. Non mancano decorazioni monumentali come quella di 16 metri per una villa ispirate al “De rerum natura” di Lucrezio.

Sono esposte in mostra 26 opere ornamentali, “La pastorella”1912 su lino, “Studio per il parato Baccara” 1925 su carta, “Trent’anni o La vie en rose” 1931 su tela , altre 7 su tessuti intitolati alla Maison Bianchini- Férier dall’ocra e marrone molto tenui al blu e al rosso molto intensi, e 16 pergamene “gouache su carta”, di una straordinaria eleganza e varietà  nel cromatismo molto intenso e nelle forme  variegate, geometriche o arabescate, con tanti motivi: da “Il tennis” 1918  alle “Forme a zig zag” 1918-19  dai vegetali di diverse specie – come le “Zucche e i frutti” 1920 –  alle “Conchiglie” 1924, dai  “Vasi  cinesi” 1925 ai “Motivi cinesi”,  i “Triangoli”,  le “Rose e fiori stilizzati” 1925-30,  dai “Cerchi” 1928,  ai “Monumenti di Parigi” 1929,  agli “Uccelli” 1930. 

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Il tennis”, 1918

Con gli anni ’20, la sua attività si estese  alla “Moda” , con i costumi e la scenografia, sulla scia della decorazione. Tutto parte dalle illustrazioni del “Bestiario” di Apollinaire, che piacquero allo stilista Poiret – e meno all’autore del testo illustrato – dando avvio alla trasposizione per la propria Maison di moda. Nadia Chalbi  – che ha curato la mostra con Sophie Krebs – ricorda: “Trasponendo  la tecnica della xilografia in ambito tessile, scolpisce nel legno motivi figurativi stilizzati  nello spirito del Bestiaire e studia con l’aiuto di un chimico tutte le fasi del processo produttivo, dalla scelta dei colori alla stampa”. Con questo procedimento “realizza parati ispirati a immagini popolari come La pastorella,  disegna motivi floreali su sontuosi  tessuti di seta, raso e velluto per la confezione di abiti e cappotti,  e collabora all’organizzazione della festa ‘persiana’ ispirata alle Mille e una notte  organizzata nell’abitazione privata dello stilista”. Viene descritta così un’altra delle tante vite artistiche di Dufy.

Sono esposti 8 Bozzetti di moda  per la Maison Bianchini- Férier con “Abiti scuri per l’inverno” su eleganti siluette femminili, e una “Panoramica di abiti per l’estate“, alcuni  di color rosso sfumato, sono 10 modelli allineati  in un’unica “sfilata”, siamo nel 1920.  Oltre ai modelli  sono esposte 18 Fotografe di abiti indossati da modelle in diversi ambienti – in interni e all’esterno – realizzati su suoi disegni sempre per lo stilista Poiret su tessuti della Maison Bianchini-Férier, negli anni dal 1919 al 1926. Sono in bianco e nero con molte ombre che rendono scuro l’insieme, il contrario dei 7 disegni  a inchiostro su carta,  con i contorni di abiti appena delineati, quasi evanescenti, di un’indossatrice della Maison Poiret, sono “Studi per il  parato. Le indossatrici alle corse” 1926. Vediamo anche “7 fogli di carta da lettere intestata alla maison Paul Poiret” nel 1911, quando inizia la collaborazione.  

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MODA:”Bozzetti di moda, sete di Bianchini Férier disegnate da Raoul Dufy”, 1920

Della decorazione fa parte l’”Illustrazione dei libri”  alla quale si dedicò con altrettanto impegno che nell’ornamento dei  tessuti. Sembrava un campo poco adatto per chi voleva valorizzare la propria espressione pittorica, lo spiega Laurence Campa: “Il libro  non è certo l’ambiente naturale dei pittori: scrigno di parole e immagini mentali organizzate da un altro,  volume chiuso nelle biblioteche, non si offre con la stessa immediatezza di una tela o di un disegno incastonato nella sua cornice”. Ma divenne adatto a lui  perché “offre mille combinazioni felici a chi ama la  tipografia, l’incisione, la decorazione e la poesia. Come Raul Dufy”.

Il nostro artista, infatti, aveva una concezione diversa da quella  comune,  appena ricordata, secondo cui le illustrazioni sono in secondo piano rispetto alle parole scritte che devono evocare: “L’illustrazione non deve seguire il testo – disse nel 1948 – deve insinuarsi nella mente del lettore. L’illustrazione è un’analogia”.  Ne  ebbe una speciale predilezione nel suo eclettismo appassionato, ricorrendo soprattutto alla xilografia su legno.

ILLUSTRAZIONE DI LIBRI: “Le Paon”,
illustrazione di Raoul Dufy di ‘Le Bestiaire’ di Guillaume Apollinaire

Non ripercorriamo le sue numerose esperienze illustrative e i relativi stretti contatti con i grandi scrittori e poeti dell’epoca, ci limitiamo a sottolineare come inizialmente troviamo delle xilografie del 2010, “La pesca” e “La caccia”, che preludono al “Bestiario” di Guillaume Apollinaire, illustrato nel 1911, dopo il rifiuto di Picasso,  con figure di animali poi tradotte con grande successo sui tessuti di moda, come abbiamo detto sopra,  e sui vasi di ceramica in una sinergia coinvolgente, vediamo esposta la grafica del “Pavone”.

 Per Apollinaire quindici anni dopo il “Bestiario” abbiamo  le illustrazioni di “”Le Poéte assassiné”  1926, è esposta la copertina rossa e 3 disegni molto scuri e addensati con dei velieri e dei campi.  A metà nel tempo tra queste due illustrazioni quella per “Stephane Mallarmé, Madrigaux” 1920,  vediamo 7 figure  molto nitide e colorate sui singoli temi descritti nel testo.  

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FATA ELETTRICITA’ “Studio per ‘Centrale elettrica’”, 1936

Un posto a sé spetta alla“Fata elettricità”, una pittura murale di 600 metri realizzata in tempo record, tra il 1936 e il 1937, per l’Esposizione internazionale delle arti e delle tecniche applicate alla vita moderna, per  la quale fece una apposita ricerca sulle fonti e gli impieghi dell’elettricità e sugli scienziati e ricercatori, vi inserì un centinaio di figure. Realizzò 250 pannelli di 2 x 1,20 m. dagli schizzi e  disegni in scala minore, veramente tantissimi, fece anche un dipinto in scala 1 a 10. Vediamo una spettacolare riproduzione lunga 6 metri a olio su tela della “Fata elettricità” in un cromatismo variegato con le  tante figure che si muovono tra le installazioni, e 2 studi anch’essi colorati, gouache su carta per  “Centrale elettrica” e “Paesaggio”;  e anche 13 Bozzetti a inchiostro su carta per i personaggi. Siamo nel 1936, lo fermerà solo un’artrite reumatoide che inizia proprio allora  a tormentarlo.

La gioia in altre espressioni, dalla  Musica a viaggio in Italia, fino ai Fiori

Dopo tante immagini di vita spensierata e operosa nei più diversi ambienti, che esprimono la sua volontà di ricercare la gioia nelle diverse situazioni, vogliamo concludere con le sezioni in cui la gioia si esprime in modo diverso, cominciando con la “Musica”  di cui era appassionato, veniva da una famiglia di musicisti.

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MUSICA: Omaggio a Mozart”, 1945

Nei suoi inizi pittorici di stampo impressionista rappresenta l’”Orchestra di Le Havre”  nel 1902 e un “Omaggio a Mozart” nel 1915, il primo di una serie; ma anche molto più avanti, negli anni ’40, sono suoi soggetti orchestre e compositori, balletti e strumenti musicali. Fino al 1952, un anno dalla morte, quando realizzò altri omaggi a grandi compositori in modo molto diverso dall’ultimo “Omaggio a Mozart”  del 1945  che vediamo esposto,  evocato con immagini  dagli strumenti musicali alla partitura, alla casa natale, come osserva la Chalbi: “Questi motivi svaniscono  negli ultimi omaggi a Bach e Debussy (1952) per lasciare spazio  a un lirismo in cui i ritmi musicali della linea  e le armonie cromatiche occupano interamente la scena”.  Diceva: “Un quadro è una partitura orchestrale e l’osservatore stesso marca il ritmo della musica  con l’ampiezza e la rapidità del suo sguardo”.

Spicca nlle sue evocazioni la figura di Arlecchino come simbolo dell’incontro tra musica  e teatro nella Commedia dell’arte, è una maschera prediletta anche da Cézanne e Picasso. In mostra sono esposti 3 dipinti degli anni ’40: “Arlecchino e orchestra” 1940 in cui lo ritrae disteso addormentato  con la mano sul violino, “Arlecchino con violino e ritratto di Berthe  Reysz”1941-42, “L’Arlecchino” 1943 in piedi a braccia conserte su uno sfondo dal cromatismo molto intenso tra il pavimento rosso, la campagna verde e il cielo azzurro.

VIAGGIO IN ITALIA: “Paesaggio siciliano. Taormina”, 1923

Ma  è “Il viaggio in Italia” , in particolare nel Sud – con l’immersione vitale nel sole mediterraneo e quella culturale nelle antichità – che ci sembra possa esprimere la gioia di trovarsi nell’ambiente preferito.  Tra maggio e giugno  del 2022 visitò Roma e Napoli – come Picasso –  e soprattutto la Sicilia,  da Catania e Caltagirone a Taormina. Non è stata solo vacanza, ecco cosa osserva la curatrice Krebs: “La luce densa e costante del Mediterraneo gli permette di  semplificare la gamma cromatica e di  studiare i rapporti tra i colori, ciò che chiama ‘colore-luce’.

Questo soprattutto in Sicilia, dove  oltre al sole mediterraneo c’è l’antichità vivente nel mito di Ulisse che lo affascina.  Tanto che dichiara: “Sono a Porto Ulisse, penso a Omero”. La Krebs aggiunge: “L’Etna gli richiama il frastuono della folgore di Zeus e il biancore dei marmi greci nella Valle dei Templi,  di fronte all’azzurro del cielo e del mare, lo spinge all’allegoria. Quei panorami bucolici sembrano abitati da ninfe  e divinità, mentre le piccole città aggrappate alle colline sono cariche di storia”.

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“Il lavoro nei campi in Sicilia”, 1923

Lo vediamo nei dipinti sulla Sicilia realizzati dopo il viaggio, “Il teatro di Taormina” 1922 e “Paesaggio siciliano. Taormina” 1923  con in primo piano antiche colonne  che fanno pensare anche a reminiscenze del Foro romano; e “Caltagirone. Paesaggio, veduta di un borgo siciliano” 1922-23,  una delle “piccole città cariche di storia” citate  dalla Krebs.  Ma anche i “panorami bucolici”,  come “Il lavoro dei campi in Sicilia” 1923 con una visione dall’alto invece della prospettiva orizzontale. Oltre a questi dipinti sono esposti 16 “Schizzi del Taccuino siciliano”, con pochi tratti a fissare luoghi e persone incontrate; il  taccuino lo riprese  23 anni dopo, nel 1946,  per illustrare la traduzione  di Paul Valery delle “Bucoliche di Virgilio”, ma rimase allo stadio di progetto non realizzato.

“Il lavoro dei campi in Sicilia” sopra citato non è il solo dipinto esposto con questo soggetto,  vediamo anche “Paesaggio meridionale con fichi d’India”  del 1920, anteriore al viaggio, che ci prepara a un altro aspetto della sua pittura: l’attenzione alla campagna, con l’opera dell’uomo e la vita rurale, di un artista che abbiamo visto molto attratto da ambienti ben diversi, come le marine e i loro frequentatori, i luoghi e le occazioni della vita mondana.

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“Caltagirone. Paesaggio. veduta di un borgo siciliano”, 1922-23

Questa attenzione si traduce in particolare  nelle sue rappresentazioni aventi come soggetto “Il grano”,che vediamo in due opere con tale titolo , un Disegno punteggiato a penna su carta del 1922-23, e un Acquerello a due colori ocra-oro  e verde del 1930 e addirittura in una Piastrella di ceramica intitolata “Spighe” del 1926.  Ma a parte queste premesse, la sua attenzione si concentrò in particolare su campi di grano di Langres ai quali dedicò circa 50 vedute  nelle estati 1933-36, in cui  soggiornò in Normandia e nell’altipiano dilangres, ispirandosi anche a Van Gogh.

Vediamo “La mietitura a Langres” in 2 dipinti dallo stesso titolo e anno, il 1935, il primo schematico ed equilibrato con al centro la mietitrice  a cavalli, a destra una verde quinta di alberi,  sullo sfondo azzurro la città lontana,  il grano dorato risplende; il secondo, più mosso ma altrettanto eloquente nella sua luce dorata,  mostra in primo piano l’immagine della dea Cerere  distesa nuda. Cerere diventerà soggetto esclusivo in “Ninfa distesa nel grano” 1938, nella stessa posa languida del quadro precedente,  ad esprimere la condivisione della dea protettrice nella fatica del lavoro dei campi e nel meritato riposo.

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IL GRANO: “La mietitura a Langres”, 1935

Del 1938 vediamo anche “La Senna, l’Oise e la Marna”,  facente parte di un trittico della “Fata elettricità”, fiumi impersonati dalle Tre Grazie davanti a una distesa di spighe di grano con sullo sfondo un paesaggio con ponti  e tralicci. Seguirà dal 1945 al 1953 la serie delle “Trebbiature”,  dipinti, acquerelli, disegni. Così la Chaibi: “Questo ciclo, comprendente scene che descrivono la battitura del grano,  l’azione dell’uomo e delle macchine integrata nel paesaggio, esalta le semplici gioie del lavoro nei campi e le ricchezze della natura fino a un ultimo quadro rimasto incompiuto alla morte del pittore”.

Dall’interesse per la vita nei campi e per il grano ai “Fiori e bouquet”,  cui si è dedicato sin dalla fase iniziale del suo percorso artistico, nel periodo fauve e impressionista, pur se il loro impiego decorativo si è avuto quando lavorava per la Maison di Paul Poiret e l’impresa di tessuti Bianchini-Fèrier di cui abbiamo già parlato; e non solo, anche nell’illustrazione di libri. Vediamo 8 Acqueforti senza colore del 1930 delle 93 per il libro di Eugene Montfort, 8 Acquerelli molto colorati dei 12 per il libro di André Gide, 19 Incisioni  su legno sulle 24 del libro di Roland Dorgalés uscito nel 1956, tre anni dopo la sua morte. Ma, come per il grano,  il massimo impegno su questo soggetto si è avuto in occasione del lungo soggiorno  presso un amico prima a Perpignan, poi a Vernet-les-Bains, nella campagna del Midi. E’ il 1941, sebbene l’artrite reumatoide lo tormenti sempre più, nel giardino d’inverno della residenza si immerge nella pittura dei fiori, ricorrendo per lo più all’acquerello in modo da seguite l’ispirazione senza disegni preparatori.

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La Senna, l’Oise e la Marna”, 1938

Diceva  che “i fiori portano naturalmente i colori”, e “l’acquerello è forse la maniera  di dipingere che lascia più libertà all’improvvisazione, è quasi immateriale”; per questo “è perfetto per le annotazioni rapide dal vero”. Lo vediamo dipingere fiori, nature morte  e lavoro nei campi  nei due anni successivi quando soggiorna presso un amico scrittore  in un villaggio agricolo dell’alta Garonna, Montsaunés. Così la Chaibi: “…eccelle in questo esercizio in cui  fioriture, arabeschi ed ellissi  giocano da pari a pari con una tavolozza dalle sfumature infinite. Sa bene come ridurre all’essenziale i motivi vegetali, che si tratti delle fronde di una palma,  del fogliame di un albero, di una spiga di grano o dei petali di una rosa”.  La rosa è uno dei fiori preferiti, ma in generale prediligeva tutti i fiori di campo. Vediamo esposti 6 dipinti,  2 del 1942, “Le rose” e “Anemoni  e tulipani”, poi  “Le margherite” 1943, “Mazzi di iris e papaveri” 1948,  “Fiori di campo” 1950, e“Bouquet campestre” del 1953, l’anno della morte.  

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FIORI: “Anemoni e tulipani” , 1942

Così termina il nostro viaggio ideale nell’”estetica nuova” dell’artista “moderno-classico” espressa in forme molteplici – di cui abbiamo cercato di dare conto – accomunate da uno speciale cromatismo frutto della ricerca del rapporto luce-colore anche con soggiorni appositi negli ambienti più adatti, e il Sud Italia è stato uno di questi. 

Nella sua esplosione floreale possiamo sentire l’espressione autentica del “pittore della gioia” . La consideriamo una sorta di “inno alla gioia”, e come tale ci resta negli occhi mentre sentiamo echeggiare dinanzi alla visione di queste e delle altre sue opere esposte in mostra  le note del pezzo di Beethowen, ripensando agli omaggi pittorici di Dufy per i grandi musicisti dell’epoca.  

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“Le margherite”, 1943

Info

Palazzo Cipolla, Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, via del Corso 320, Roma.  Orario, tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, dalle ore 10 alle 20, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 10, ridotti euro 8 per under 26,  over 65  e le categorie agevolate. Tel. 06.9837051, e mail: biglietteriapalazzocipolla@gmail.com.Catalogo  “Dufy. Il pittore della gioia”,  a cura di Sophie Krebs con Nadia Chalbi, Skira, ottobre 2022, pp.  250, bilingue italiano-inglese, formato 24,5 x 28,5. Il primo articolo è uscito in questo sito il  18 febbraio 2023. Cfr. i nostri articoli in questo sito per gli artisti citati: su Picasso 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Cézanne 22, 31 dicembre 2013.

Photo

Le immagini delle opere di Dufy sono inserite nell’ordine in cui vengono commentate nel testo le sezioni della mostra che le espongono; esse sono tratte dal Catalogo della mostra, si ringrazia l’Editore Skira con i titolari dei diritti. Alle 16 immagini riportate nel precedente articolo relative alle sezioni ivi commentate seguono altre 16 immagini delle sezioni commentate in questo articolo. In apertura, “Autoritratto” 1935; seguono, DECORAZIONE: “Trent’anni o La vie en rose” 1931, “La pesca (bozzetto per un tessuto” 1919 e “Il tennis” 1918 ; quindi, MODA:“Bozzetti di moda, sete di Bianchini Férier disegnate da Raoul Dufy” 1920, e ILLUSTRAZIONE DI LIBRI: “Le Paon, illustrazione di Raoul Dufy di ‘Le Bestiaire’ di Guillaume Apollinaire; inoltre, FATA ELETTRICITA’: “Studio per ‘Centrale elettrica’” “ 1936, e MUSICA: “Omaggio a Mozart” 1945; ancora, VIAGGIO IN ITALIA: “Paesaggio siciliano. Taormina” 1923, “Il lavoro nei campi in Sicilia” 1923 e “Caltagirone.Paesaggio. veduta di un borgo siciliano” 1922-23; continua, IL GRANO: “La mietitura a Langres” 1935 e “La Senna, l’Oise e la Marna” 1938; infine, FIORI: “Anemoni e tulipani” 1942, “Le margherite” 1943 e, in chiusura, “Bouquet campestre” 1953.

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“Bouquet campestre”, 1953

Dufy, il “pittore della gioia”, 1. Paesaggi e scene di vita, a Roma, Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

La  mostra di “Raul Dufy, ll pittore della gioia”, in corso a Roma dal 14 ottobre 2022 al 26 febbraio 2023 a Palazzo Cipolla,  espone  circa 100 dipinti  e una sessantina di disegni, bozzetti e modelli, in 13 sezioni che ne documentano l’estrema versatilità nei contenuti all’interno di una rigorosa ricerca su luce e colore.  La mostra è promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele , realizzata da “Poema” con il  supporto organizzativo di “Comediarting” e Arthemisia. A cura  di Sophie Krebs curatore generale  del Musée d’Art moderne di Parigi, con Nadia Chalbi, responsabile delle mostre,  hanno curato anche il Catalogo Skira.

Auroritratto”, 1898 .

La vastissima  esposizione di opere di Dufy  è spettacolare: si passano in rassegna dipinti a forte impatto per la loro vivacità cromatica, uniti a disegni  variamente colorati di decorazioni quanto mai raffinate ed elaborate fino a  modelli di costumi variegati  e rifiniti, a colori o in bianco e nero, nelle tecniche più diverse, olio e acquerello, xilografie e gouache, su carta e tessuto.“Il pittore della gioia” è stato chiamato, si arriva a tale definizione da questo caleidoscopio di colori e forme. 

Torna a Roma dopo 40 anni  dalla mostra che ci fu a Villa Medici, una delle tante “riscoperte” di Emmanuele F. M.  Emanuele, citiamo tra gli altri, nell’ultimo decennio,  per l’Italia Corrado Cagli ed Ennio  Calabria, per l’Europa i CoBrA, per l’Est sovietico i Realismi Socialisti e Deineka.  Ha promosso la mostra con il suo entusiasmo e la sua lungimiranza e  ci dà subito  segnali molto interessanti sui criteri artistici alla base di un itinerario pittorico così invitante. Intanto, anche per spiegare l’insufficiente  considerazione  per questo grande artista, osserva: “Spesso non compreso a fondo, a causa dell’apparente semplicità del suo tratto pittorico, che gli ha fatto non di rado attribuire la patente di superficialità e mondanità, Raoul Dufy in realtà ebbe una formazione articolata e complessa: fu inizialmente influenzato dall’impressionismo. Successivamente si accostò al fauvismo”.

DUFY E I MAESTRI: “Ballo del Moulin de la Galette”, 1939

Ed ecco il risultato: “La particolarità di Dufy consiste nel dissociare gradualmente nel corso della sua maturazione artistica il colore dal disegno, semplificando il più possibile: egli eludeva il soggetto dell’opera per una specie di propensione al principio dell’indeterminatezza, facendo sì che il segno si posasse sul colore con disinvoltura, mosso dalla pura gioia  del dipingere”. Ancora più addentro alla sua espressione artistica: “Si può affermare che nell’estetica dell’artista francese la forma venisse prima del contenuto, e questa caratteristica probabilmente lo relegò a un ruolo di secondo piano in un periodo in cui l’impegno dichiarato … era un imperativo”.  Con questa importante precisazione: “In realtà, sotto  l’apparente semplicità delle forme di Dufy, vi erano un’elaborazione minuziosa, un’attenzione  e una sensibilità fuori del comune,  soprattutto la sua teoria che il colore servisse ai pittori per captare la luce”.

L’”estetica nuova” dell’artista “moderno-classico”

Nella  sua ricerca  artistica Dufy  si trova nel bel mezzo della contrapposizione tra roubenisti e poussinisti, come ricorda la curatrice della mostra Sophie Krebs:  per i primi – che si rifacevano a Roubens. Tiziano  e Veronese – “il colore era altrettanto importante del disegno e della composizione in quanto capace di conferire verità ed emozione al soggetto rappresentato”;  mentre i secondi, legati all’Accademia, “rivendicavano il primato del disegno e della composizione alla base dell’insegnamento accademico e ritenevano il contributo del colore puramente decorativo”. Un conflitto acceso, con implicazioni non solo tecniche ma anche filosofiche e sociologiche.

SULLE ORME DI CEZANNE: “Le regate”, 1907-08

Dufy  risolve il conflitto tra colore da un lato e disegno-composizione dall’altro in modo pragmatico, basandosi sull’esperienza oltre le enunciazioni teoriche. Ecco le sue parole: “Quando parlo del colore, non parlo del colore della natura, ma dei colori della pittura, che sono le parole con cui formiamo il nostro linguaggio di pittori … Non pensiate che io confonda il colore con la pittura, ma dato che faccio del colore l’elemento creatore della luce, cosa che non va mai dimenticata, esso è, insieme al disegno, il grande fondatore della pittura, l’elemento chiave”.

Il colore, “insieme al disegno”, dunque: , così  viene superata la contrapposizione tra due “elementi chiave” della pittura, e lo dimostra praticamente con una evoluzione  che parte dall’impressionismo di Monet  lasciato dopo  l’emozione suscitata in lui da un quadro di Matisse,  passando per le opere di Lorrain,  fino a far suo l’insegnamento di Cèzanne: “il colore-luce costruisce la forma”; e “quando la ricchezza del colore è massima, la forma è al massimo della pienezza”.

“La terrazza sulla spiaggia”, 1907

Da Cézanne prende la “pennellata direzionale” che collega gli oggetti con il colore in modo da tenere insieme il soggetto principale del quadro e ciò che lo circonda: “Abbiamo l’albero, la panchina, la casa, ma ciò che mi interessa, la cosa più difficile, è ciò che sta intorno a questi oggetti. Come riuscire a tenere tutto insieme”. In altre parole la composizione che si aggiunge al colore e al disegno.

E’ un percorso il suo che, come Cézanne,  lo ha visto ritrarre dal vero i soggetti ma non più come impressionista che coglie l’attimo  fuggente bensì  come osservatore attento che interpreta le forme rendendole geometriche e i colori riducendo la gamma cromatica, ricercando la sintesi tra colore e disegno in un estremo rigore compositivo.

“Paesaggio a Hyéres”, 1913

Non è solo – anche Braque dopo il cubismo si muove in questa direzione – ma soprrttutto si ispira agli antichi maestri, da Tiziano a Botticelli, a Renoir; e anche all’arte antica che conosce direttamente nel suo viaggio in Italia. “La cultura classica si insinuerà a poco a poco nella sua pittura – commenta la Krebs –  I suoi  ‘Omaggi a Lorrain’, una vasta serie inaugurata nel 1926, riuniscono diversi elementi : l’antichità, l’arte classica e la questione  del colore-luce”,  abbinamento che nasce dalla forte impressione suscitata in lui dalla  luce mediterranea, che diventa la vera luce, “cruda e violenta”.

Ma Dufy, pur avendo queste fonti di ispirazione,  mantiene una spiccata personalità e una peculiarità  nell’associare disegno, colore e composizione, con un’ulteriore singolarità.  E’ stato definito “cacciatore di immagini” per essersi dedicato alla rappresentazione delle più disparate situazioni, come specchio dei tempi da lui vissuti,  dalle scene di vita alle decorazioni, dai paesaggi alle corse ippiche,  dai bozzetti ai costumi teatrali, dalle bagnanti alle modelle. Ma non in una pedissequa riproduzione del reale, sia pure con l’associazione disegno-colore-composizione, bensì  con forme spesso abbozzate e sproporzionate, lontane dalla prospettiva classica.

La Jetée promenade a Nizza”, 1924-26

La sua viene definita “esplorazione lirica del mondo” da Brigitte Léal  secondo la quale “in tutti i suoi quadri si ritrova invariabilmente un certo ritmo cadenzato , che struttura con dolcezza le composizioni. Abile arrangiatore, Dufy si preoccupa di bilanciare  le linee rigorose della natura e delle strutture destinate allo svago … con il  gioco abbagliante dei riflessi  nell’acqua  e nel cielo … Il talento gli permette di mettere insieme intere serie di vedute urbane e paesaggi brillantemente eseguiti, utilizzando  inquadrature sempre più sofisticate in cui l’influenza della fotografia e del cinema gioca probabilmente un ruolo importante”.

In che modo avviene tutto questo?  Seguendo le fonti di ispirazione pur in un approccio del tutto personale: “Nella  grande tradizione della pittura en plein air praticata dagli artisti dell’Ottocento , esse gli permettono di coniugare l’occhio e la mano, il lavoro dal vero destinato a definire l’ambientazione topografica e quello realizzato in studio sul colore … ormai affrancato dai codici impressionisti  il colore si distende in ampie campiture  opache dalle tinte vivide e uniformi che donano alla tela l’aspetto di un affresco”.  Ci si riferisce ad opere del 1906 quando “l’estetica fauve, che attiva le funzioni spaziali e decorative del colore, inizia a corrodere la granitica adesione di Dufy alla trascrizione figurativa della realtà”, comunque deformata.  Successivamente le “apparenze figurative” restano limitate alla parte costruttiva della composizione, seguendo anche in questo Cézanne, verso una sempre maggiore astrazione  basata sulla geometria.

BAGNANTI: “La grande bagnante”, 1914

L’evoluzione pittorica, mantenendo  precisi riferimenti  a Cézanne e non solo, è evidente. Per le opere del 1909-10  la Lèal osserva a conclusione del suo commento: “In quell’epoca,  in coincidenza con l’avvento del cubismo di Braque e  Picasso, Dufy  ritorna ad un’estetica  più decorativa ed elegante, satura di colore,  che preannuncia il suo lavoro sui tessuti.”. Con questo spirito: “Senza mai rinunciare alla propria libertà, esplorerà fino in fondo l’estetica nuova, animato dal puro piacere di dipingere”. Tutto questo  non solo in quadri con paesaggi e scene di vita rutilanti di colori, ma anche in decorazioni – specialmente quelle su tessuti – e illustrazioni di libri che rappresentano altre espressioni quanto mai  spettacolari della sua intensa attività artistica.

La galleria espositiva: i dipinti  di paesaggi e scene di vita

Ripercorriamo l’itinerario dell’artista attingendo,  per le notizie e le citazioni, ai saggi e alle schede del ricco Catalogo da cui sono tratte anche le citazioni precedenti.  Facciamo  la sua conoscenza attraverso  4 “Autoritratti”,  che  lo ritraggono nel corso della vita, dalla giovinezza dei 21 anni,  alla maturità di 43 e  58 anni, all’età anziana di 71 anni, a  5 anni dalla morte: sono immagini di un viso sempre pensoso, assorto, che non esprimono gioia ma riflessione. La gioia la troveremo nei suoi dipinti paesaggistici e ambientali, oltre che in quelli ornamentali. Intanto ecco i suoi omaggi  ai Maestri del passato, da Claude Lorrain  nel “Porto con veliero” 1935, a Toulouse Lautrec  con il “Ballo del Moulin de la Galette” 1939,  fino a Botticelli con “La nascita di Venere” 1940, aveva dai  58 ai 63 anni, a riprova di quanto continuasse ad essere profonda la loro influenza su di lui.

Due bagnanti”, 1943-45

Ma immergiamoci nello speciale  cromatismo dei suoi dipinti  iniziando da quelli  della sezione “Sulle orme di Cézanne¸ soprattutto paesaggi che iniziano con il “Paesaggio provenzale” 1905 –  ancora  linee morbide; con influsso impressionista –  e si sviluppano nei paesaggi successivi alla morte di Cézanne, il  grande maestro “padre di tutti noi” secondo cui  si doveva “trattare la natura  attraverso il cilindro e la sfera, il cono”, di qui le forme e i volumi diventano palesemente geometrici. Seguendo questo criterio  dipinse gli stessi suoi soggetti, alberi dalle linee spezzate, case dalle forme cubiche e fabbriche stilizzate; e da aprile a  novembre 2008, due anni dopo la morte di Cézanne, soggiornò anche lui  nell’Estaque, analogamente a Braque che vi stette  4 mesi, da giugno a settembre.

Vediamo  “Funivia all’Estaque”“Alberi, case, statua”, “Battelli ormeggiati nel porto di Marsiglia”, tutti del 1908. Successivamente   “Paesaggio  dell’Estaque”e “L’Estaque” , del 1910, con lo stesso scorcio panoramico; un cromatismo molto più intenso nei due colori ocra e verde in “Veduta da una finestra aperta” 1908  e “Paesaggio a Hyéres” 1913. Invece unica dominante  verde cupo con figurazioni geometrico-architettoniche  bianche in “Il giardino abbandonato” 1913  e “”Case e giardino”1915, con tendenza all’astrazione. Alcuni anni dopo più figurativi e con cromatismo variegato, come “Vence” 1919-20 . Tornano i  volumi geometrici  nelle “Nature morte”, altro genere caro a Cézanne, questa volta tondeggianti, con forti contrasti cromatici pur nell’armonizzazione di colori molto intensi.

ATELIER E MODELLE: “La modella”, 1933

Dalle nature morte passiamo alle scene di vita, nella “Terrazza nella spiaggia” 1907 e “Al caffe’” 1908, figure appena delineate ma che sprizzano vivacità in una atmosfera coinvolgente; diversa  “La Jetée promenade a Nizza ”  1924-26, dove le figure viste da lontano sono composte in un ambiente austero. Ma la figura umana in primo piano è “La grande bagnante” 1914, un corpo statuario con  forme che richiamano quelle cubiste  ma sono alquanto arrotondate.

Ritroviamo le “Bagnanti” – tra le quali rientra di diritto “la grande bagnante” del 1914 – quasi venti anni dopo nel  “Nudo con conchiglia” 1933, una figura con linee morbide in una sorta di monocromia ocra,  a parte la  conchiglia che tiene sollevata con la mano destra e il lenzuolo su cui è seduta di colore bianco-nero.

“Atelier di Perpignan, rue Jeanne d’Arc” , 1942

Dopo altri dieci anni la figura sembra addirittura sciogliersi nel mare verde con accennate  onde bianche in cui le “Due bagnanti”  1943-45 fluttuano, per poi ricomporsi nei “Due nudi”, dello stesso anno, chiari su fondo scuro, di cui è sia pur vagamente ben definita la forma. Con “Nuotatrice rossa” 1925 e “Naiade” 1926 le forme femminili tornano tra le onde, meglio definite e addirittura leggiadre. Immagini dello stesso tipo nei “Vasi con bagnanti”, rispettivamente “su fondo giallo” nel 1926 e “su sfondo rosa” nel 1935, fino a “La coppa blu” del 1935.

Dopo le bagnanti troviamo  altre figure femminili conturbanti  nella sezione “Atelier e modelle”,  allorché dalla pittura in “open air” era passato a prediligere la pittura in studio,  nell’’intimità, come del resto è quella “rubata” alle bagnanti. 

PAESAGGI MARITTIMI: “Festa nautica a Le Havre”, 1925

Sono figure  a se stanti, come “Nudo su sfondo azzurro”  e “Nudo disteso”, entrambi del 1930,  dai contorni ben delineati, oppure inserite nell’ambiente  come  “La modella” 1933,  seduta su un divano con mobili e quadri alle pareti. In “Atelier di Perpignan, rue Jeanne d’Arc” 1942, la modella è  al centro dello studio del pittore con i cavalletti per le tele, mentre in ’”Atelier  di Perpignan, ‘La freddolosa’” 1942, è evocata da una figura statuaria sulla sinistra; in altri 3 dipinti sono in grande evidenza le finestre, “Atelier con finestra” e “Atelier con torso”, entrambi del 1942 e con un manichino acefalo su un tavolo, mentre in “La consolle gialla con due finestre” queste sono addirittura il soggetto, siamo nel 1948, dello stesso anno “Coppa di frutta” su fondo rosso: l’artista ha 71 anni, morirà cinque anni dopo.  

Le scene di vita collettiva tornano nei “Paesaggi marittimi”,  a partire da “Festa nautica a Le Havre” 1925, in cui si distinguono appena le minuscole figure umane allineate in basso a destra in una composizione dominata dalla tante barche dei tipi più diversi che affollano il vasto mare. Invece spiccano in “Il molo di Honfleur” 1928, e “Case a Trouville”1932, nella tranquillità con cui passeggiano.

“Il molo di Honfleur”, 1928

Molto  diversa la presenza di figure umane in due dipinti sulle regate: in “Regata con gabbiani” 1930 e  “Henley, Regata a bandiere” 1935-52 si intravvedono appena sulle barche, a vela nel primo,  a remi nel fondale imbandierato nel secondo, mentre in “Regata a Henley. I vogatori” sono in primo  piano e occupano quasi l’intero dipinto 11 grandi figure nerborute  ognuna con un remo in mano poggiato a terra, dietro di loro molto in piccolo si intravede una barca con i rematori. Vediamo anche solo le barche nel mare,“Velieri nel porto di Le Havre” 1925 e “Regate” 1935, mentre per l’ambiente a terra sono esposti “”Honfleur. Il molo o il faro” 1935 e “La spiaggia a Saint Adresse”, entrambi senza figure umane, ma si immaginano popolare rispettivamente la struttura portuale e quella balneare.

Regata con gabbiani”, 1930

La sezione “Corse e cavalli”  conferma l’interesse alle scene di vita nei vari ambienti pur nella specificità dei luoghi rappresentati: frequentava gli ippodromi interessato all’umanità di chi li affollava più che alle corse che vi si svolgevano. E non solo gli ippodromi francesi, che vediamo rappresentati nel suoi dipinti del 1923-24, ma anche quelli inglesi nei periodi in cui soggiornò in Gran Bretagna dal 1930 al 1932.  Vi fu introdotto dallo stilista Paul Poiret perché erano frequentati dall’élite, quindi si potevano trarre spunti interessanti dal pubblico in tribuna oltre che dall’animazione dell’insieme. E non solo, vi trovò l’ambiente ideale per i suoi esperimenti sul rapporto colore-luce. e colore, tanto che trovò il modo di illuminare i soggetti da entrambi i lati perché, affermò, “ogni oggetto ha il suo centro di luce”. In tal modo,  precisava, “mi libero dal vincolo  dell’imitazione e lascio campo libero all’immaginazione del colore”.

Dei 6 quadri esposti, 3 rappresentano l’insieme: in “La pesa” 1930, si vede e si sente l’animazione febbrile per tale operazione, “Corse a Epson” 1934, è una panoramica da molta distanza dell’intero complesso sportivo-mondano,  “Ippodromo di Ascot” 1937-38 mostra in primo piano anche se quasi in dissolvenza, la società che lo frequentava.  Altre 3 quadri rappresentano  in primo piano i cavalli: “Il paddok” 1913, una sorta di scuderia  con due cavalli, del 1930 “Cavalli da corsa” con 5 cavalli, di cui  3 visti di fronte e 2 di lato con in groppa i cavalieri, come se si preparassero ad allinearsi per la partenza, e infine “Cavalli al galoppo”  con 2 cavalli lanciati in corsa sfrenata.

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“La spiaggia a Saint Adresse, Le Havre”, s.d

Stephane Krebs racconta che questi quadri ebbero tanto successo tra i collezionisti che  smise di produrli  perché, diceva “non conta la storia ma il modo con cui viene raccontata”, cioè “la meccanica del mio metodo e la finalità della mia pittura  piuttosto che l’aneddoto da cui traggono spunto i miei dipinti”.  Nulla di semplicistico e di improvvisato, dunque, in Dufy, ma di molto elaborato e sentito.

La nostra carrellata delle sue opere è a metà strada, descriveremo prossimamente le opere decorative, quelle per la moda e le illustrazioni di libri, i quadri sulla Sicilia e sui campi di grano, infine i fiori. Sempre nella “gioia” di dipingere.

CORSE E CAVALLI: “Cavalli da corsa”, 1930

Info

Palazzo Cipolla, Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, via del Corso 320, Roma.  Orario, tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, dalle ore 10 alle 20, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 10, ridotti euro 8 per under 26, over 65  e le categorie agevolate. Tel. 06.9837051, e mail: biglietteriapalazzocipolla@gmail.com. Catalogo  “Dufy. Il pittore della gioia”,  a cura di Sophie Krebs con Nadia Chalbi, Skira, ottobre 2022, pp.  250, bilingue italiano-inglese, formato 24,5 x 28,5. Il secondo articolo uscirà in questo sito il  22 febbraio 2023. Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le mostre citate, su Corrado Cagli 5, 7, 9 dicembre 2019, Ennio  Calabria 31 dicembre 2018, 4  e 10 gennaio 2019, CoBrA  17 e 24 marzo 2016,   “Realismi socialisti” 25, 28, 31 dicembre 2011,  Deineka,  26 novembre, 1°  e 16 dicembre 2012; per gli artisti citati, su Matisse 23, 26 maggio 2015. Cézanne 22, 31 dicembre 2013, Tiziano 10, 15 maggio 2013, Impressionisti 5 febbraio 2016, Impressionisti e moderni 12, 18, 27 gennaio 2016, Cubisti 16 maggio 2013, Da Corot a Monet 27, 29 giugno 2010.

Photo

Le immagini delle opere di Dufy sono inserite nell’ordine in cui vengono commentate nel testo le sezioni della mostra che le espongono; esse sono tratte dal Catalogo della mostra, si ringrazia l’Editore Skira con i titolari dei diritti. Alle 16 immagini riportate in questo articolo relative alle sezioni in esso commentate seguiranno nel prossimo articolo altre 16 immagini delle sezioni che vi saranno commentate. In apertura, “Auroritratto” 1898; segue DUFY E I MAESTRI: “Ballo del Moulin de la Galette” 1939; poi, SULLE ORME DI CEZANNE: “Le reegate” 1907-08 e “La terrazza sulla spiaggia” 1907; quindi, “Paesaggio a Hyéres” 1913 e “La Jetée promenade a Nizza” 1924-26; inoltre, BAGNANTI: “La grande bagnante” 1914 e “Due bagnanti” 1943-45; ancora, ATELIER E MODELLE: “La modella” 1933 e “Atelier di Perpignan, rue Jeanne d’Arc” 1942; continua, PAESAGGI MARITTIMI: “Festa nautica a Le Havre” 1925 e “Il molo di Honfleur” 1928; prosegue, “Regata con gabbiani” 1930 e “La spiaggia a Saint Adresse, Le Havre” s.d; infine, CORSE E CAVALLI: “Cavalli da corsa” 1930 e, in chiusura, : “Due cavalli al galoppo” 1930.

“Due cavalli al galoppo” ,1930

Gina Lollobrigida, 2. Fotografa, al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 2009

di Romano Maria Levante

Ecco il secondo articolo che ripubblichiamo tal quale oggi 16 gennaio 2023 il giorno della scomparsa di Gina Lollobrigida, per rendere omaggio al suo percorso artistico che ha seguito l’itinerario al massimo livello nel mondo del cinema da grande diva e protagonista indimenticabile di film di grande successo. Dopo aver rievocato nel precedente articolo le sue realizzazioni nella scultura, ora ricordiamo quelle nella fotografia con la recensione alla sua mostra a Roma nel 2009 la cui lettura, come ebbe a telefonarci, l’aveva resa “felice”.. Lo ricordiamo con commozione ripetendo il nostro saluto memore e grato: buon viaggio, Gina.

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Catalogo della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, 2009

Con riferimento all’articolo pubblicato in data odierna su questo sito, dal titolo “Gina Lollobrigida, con Stefano Massini per l””utilità’ dell’arte, le sue sculture”, riproduciamo di seguito – con il medesimo titolo e l’identico testo, compreso un “post” di allora – la nostra recensione alla mostra del 2009 al Palazzo delle Esposizioni uscita sul sito giornalistico non più raggiungibile cultura.inabruzzo.it, di cui siamo stati corrispondenti da Roma fino alla sua chiusura nell’ottobre 2012 . Alla recensione seguìrono i contatti con la Lollobrigida che abbiamo rievocato nell’articolo e la sua testimonianza della voluta e pervicace omissione dei conduttori TV, in particolare in Rai, della sua attività artistica, cui reagiva invano. Dopo aver rievocato la sua arte di scultrice, per ricordare la sua arte fotografica abbiamo ritenuto – a parte i brevi cenni introduttivi al termine dell’articolo contestuale a questo – di rifarci alla mostra fotografica del 2009 al Palazzo delle Esposizioni che dava conto dei “50 anni” di fotografie, in un’attività iniziata nel 1959 nel pieno del successo nel cinema che lei volle lasciare all’inizio degli anni ’70 per dedicarsi totalmente all’arte, ma intanto poteva pubblicare nel 1972 il volume fotografico “Italia mia”, libro dell’anno e bestseller a livello mondiale. Illustriamo la recensione con qualche immagine di suoi servizi in Italia e all’estero e con molte fotografie in cui è ripresa con l’inseparabile macchina fotografica che punta verso i suoi soggetti; è la dimostrazione che anche da giovanissima la fotografia è stata la sua grande passione, oltre alla scultura della quale abbiamo dato una galleria di opere anche monumentali presentate nelle mostre in Italia e all’estero; al disegno e alla pittura propedeutici alle altre forme artistiche sono dedicate le immagini finali dalla mostra di Pietrasanta poste verso il termine del pòresente articolo.

– 10 agosto 2009 – Postato in: Eventi

Il giro del mondo in 250 scatti di un’artista poliedrica, genialità italica in una personalità ferrea

Non ce ne voglia Philippe Daverio, che ha curato la mostra “Gina Lollobrigida fotografa”, al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 25 giugno al 13 settembre 2009, se non collochiamo l’artista nella categoria dei “geniacci”, cioè di coloro che non solo hanno talento “per affrontare bene, anzi talvolta facilmente, l’opera che intendono intraprendere”, ma “affrontano tante imprese con talenti di volta in volta rinnovati”. Non chiameremmo “geniaccio” Leonardo, non chiameremo così la Lollobrigida, fatte le debite proporzioni naturalmente, anzi siamo tentati di utilizzare l’affettuosa abbreviazione che ne ha scandito la carriera cinematografica piuttosto che l’attributo dal suono sgradevole non confacente all’immagine che almeno la nostra generazione ha della diva nazionale; ma potremmo farlo se parlassimo solo della diva, non oggi che parliamo dell’artista a 360 gradi.

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Gina Lollobrigida fotografa tra alcuni dei suoi scatti nel mondo

Il fuoco dell’arte e il mito della bellezza nella grande diva

In lei troviamo molto di più e di diverso dell’improvvisazione tutta italiana alimentata dal talento, della sbrigativa disinvoltura nel trovare soluzioni brillanti, della capacità di avere colpi d’ala impensati. Troviamo una professionalità caparbia che riesce a incanalare gli impulsi artistici in molteplici discipline lasciandovi il segno con una costanza e una metodicità non riscontrabile, non solo nel variegato ed effimero mondo dello spettacolo, ma neppure nel “geniaccio”, bensì nell’artista il cui fuoco creativo non conosce steccati di genere ma si manifesta a vasto raggio.

Avviene così anche nelle aziende di talento, se ci è consentito un ardito parallelo, quando nell’esercizio della normale attività, che resterà la principale, scoprono filoni di competenze e capacità, sono chiamati “la filiera del valore”, e li sviluppano portandoli ad un elevato livello come qualità intrinseca e competitività; e solo così sono vincenti, se la diversificazione è occasionale, frutto dell’improvvisazione di un “geniaccio” qualsiasi, è destinata ad essere transitoria e perdente. Da quanto detto fin qui si comprende che la mostra ci ha impressionato, e prima dell’esposizione fotografica il filmato che ripercorre l’attività principale e i filoni nei quali poi si è diversificata.

Non è solo la fotografia, e sarebbe già molto per una diva che ha avuto per sé più di seimila copertine di periodici nel mondo; c’è anche il disegno e soprattutto la scultura, l’arte nella quale ha raggiunto livelli e riconoscimenti di eccellenza, dalla Francia alla Russia, con mostre e premi prestigiosi; è l’amore più recente, nato da una sua posa per una scultura di Manzù e sviluppatosi lungo la “filiera del valore” che ha come denominatore comune l’arte e la passione.

E non la chiameremmo “passionaccia” – altro quasi dispregiativo che non ci piace, anche se gergale – ci perdoni Enrico Mentana che ha intitolato così la sua autobiografia – bensì applicazione costante illuminata dalla scintilla della genialità, metodica e non come un occasionale “colpo d’ala” se le sue sculture raggiungono anche i cinque metri di altezza, quindi non sono estemporanee. Del resto, fanno un tutt’uno con il talento di artista, a quel mondo si ispirano, alla leggiadria e alla bellezza.

Gina Lollobrigida, India, Bambini che giocano,

Ecco, forse è la bellezza l’elemento unificante della sua arte, un mito che ha saputo declinare in multiformi espressioni, dal cinema dove ne è stato il simbolo al disegno, i ritratti sono l’immagine del bello maschile e muliebre, alla scultura, nella quale lei stessa si libra in un’altra dimensione quasi volesse concedersi ancora al suo pubblico nel pieno della giovinezza e dell’espressione artistica e lasciare un’immagine imperitura nella materia oltre che nella pellicola e nella fantasia. Ultima e non ultima, anzi prima passione dopo l’arte cinematografica, la fotografia, anch’essa un filone della “catena del valore” nato dai suoi viaggi nel mondo e poi divenuto fondamentale.

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Per fare tutto questo occorre essere, come viene presentata nella mostra, dalla ”personalità ferrea, viaggiatrice instancabile, vera e propria ‘femme forte’ della nostra epoca”; ed avere capacità non comuni di apprendimento e di espressione. Daverio ricorda, e nel filmato della mostra si può verificare direttamente, come i suoi grandi successi in film inglesi e francesi non fossero doppiati, si era impadronita delle due lingue alla perfezione, perdendo qualsiasi cadenza romanesca; e che la sua arte pittorica, soprattutto scultorea, ha una lontana origine negli studi all’Accademia delle Belle Arti di Roma, alla quale fu strappata dal cinema, prima della spinta decisiva di Manzù, anche questo un segno della capacità di apprendimento di un’arte che la Lollobrigida non ha mai messo da parte. E’ l’opposto dell’imprevedibilità e dell’incostanza che accompagna la versatilità del “geniaccio”.

Si tratta del fuoco dell’arte, alimentato da una genialità istintiva tutta italica in una personalità ferrea e illuminato dalla bellezza, che si esprime nelle forme più diverse, e la Lollobrigida ha saputo crearne di molteplici nelle quali ha continuato, in fondo, a esprimere quanto ha rappresentato nell’immaginario collettivo di più di una generazione, in Italia e nel mondo.

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Gina Lollobrigida, reportage a Linosa tra i mafiosi,, una scena d’ambiente, estate 1971

L’arte della fotografia vista come immediata espressione di sentimenti

Parlando ora della Lollobrigida fotografa ci sentiamo di dire che interpreta se stessa, come nella scultura e nel disegno, si appropria della macchina da presa, per così dire, andando dall’altra parte dell’obiettivo. Non deve più sottostare alle scelte del regista, è lei a “dirigere” e neppure su tempi obbligati quanto prolungati una volta fatta la scelta del soggetto, come avviene per gli attori che diventano registi, spesso di altissimo valore, l’ultimo più grande è Clint Eastwood.

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Certo, come dice Daverio, nella fotografia di ieri, ben diversa da quella digitale di oggi dove tutto è automatico, c’era una tecnica da imparare, fatta di tempi e di apertura del diaframma, di sensibilità delle pellicole e di esposizione del soggetto; ma per questo la personalità ferrea e la capacità di apprendimento della Lollobrigida non incontrava ostacoli, è stato il primo filone dove si è incanalata la sua genialità artistica fuori dal cinema, perché dal cinema derivava: “Un mestiere nato – è sempre Daverio, lo citiamo ancora e non per una riparazione – per chi viveva con la pellicola in movimento giocando con la pellicola ferma”. E ancora: “Il mestiere di ieri e quello d’oggi mantengono in comune lo stesso coinvolgimento dell’occhio che intuisce e del dito che scatta. La fotografia non è da vedere: é vedere. E vede solo chi guarda con attenzione, ponendo nello sguardo tutta la complessità del proprio carattere. E lei, che fu guardata moltissimo, ha guardato tanto”.

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Gina Lollobrigida, 4 dei 16 mafiosi al confino, Linosa, estate 1971

Come ha guardato lo scrive lei stessa, sembra una confessione: “E’ un attimo che ci coglie di sorpresa; un attimo che si deve afferrare all’istante altrimenti è perduto per sempre. Si scopre così bellezza e desolazione. Si rubano sentimenti che non ci appartengono, si scopre un mondo sconosciuto”. E lo precisa: “Momenti di vita, di dolore, di amore, di serenità o di complicità. Vediamo ciò che altri non vedono, entriamo in un mondo che non è nostro, ma che subito ci appartiene”. E c’è anche del sentimento: “Uno scatto sarà sufficiente a far nascere un ricordo che ci illuminerà come una lezione di vita vissuta… in un solo istante nasce un’immagine, un’emozione che non ci abbandonerà mai più e che rimarrà fissata nell’eternità”.

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Ed ecco come la vede ancora Daverio, facendo quasi una sintesi dei contenuti delle 250 fotografie allineate nelle molte sale e corridoi della mostra: “Ha guardato con un occhio carico d’affetto un mondo italiano che c’era una volta e che non c’è più… ha guardato un mondo più lontano ancora, quello che allora era oggettivamente esotico”.

Percorriamo questo mondo attraverso i 250 scatti cercando di “raccontarlo” come una storia, senza soluzione di continuità tra uno scatto e l’altro, senza diaframmi di tempo e di spazio, guardandolo attraverso gli occhi sgranati di un’artista innamorata della bellezza, intenerita dall’umanità.

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Gina Lollobrigida, Angelo La Basrbera in un incnontro “ravvicinato” con un carabiniere, istatanea eccezionale, Linosa, estate 1971

Il mondo italiano che non c’è più

Questo, per la nostra artista, è “un mondo di allegrie povere, di vite minute cariche di densità, come quelle che il cinema del dopoguerra tentava di raccontare”. E al tempo delle foto c’erano ancora le propaggini di quel periodo, l’eco lontana ma più vicina al mondo del cinema che la rifletteva.

Una fotografia neorealista, come il cinema che ha preceduto quello aperto e spensierato della Lollobrigida, ma senza la ricerca forzata del “colore locale” inteso come situazioni limite. Siamo in una sala tra cinquanta ingrandimenti, la maggior parte d’epoca, con immagini scanzonate come la famiglia Brambilla che sfila sulle due ruote di una “Vespa”, quattro persone a bordo; e il gatto a colori in un grande primo piano che mangia un piatto di pastasciutta con lo sfondo del Colosseo, e sotto altri gatti, questa volta in bianco e nero, all’interno dell’Anfiteatro Flavio. E due scatti veneziani a colori, l’opera d’arte della ricamatrice dei merletti di Burano e il casto nudo di una modella d’eccezione, Marisa Solinas sullo sfondo del canale e del ponte veneziano.

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Di Roma, nelle foto d’epoca, c’è Trinità dei Monti dietro un de Chirico che innaffia i fiori sul suo balcone superpanoramico, e sullo sfondo della conturbante passeggiata di una “pin up” a Piazza di Spagna; Mister OK nel suo tuffo di Capodanno dal ponte sul Tevere; e anche il neorealismo, quello aperto alla speranza impersonato da De Sica con i suoi sciuscià fotografati sorridenti, il gesto disperato del disoccupato che minaccia di buttarsi e la drammatica congestione di ombrelli e ai lati di macchine nello “sciopero giornaliero”, un’immagine angosciosa. A questa, che è una delle poche scene di massa, fa da contraltare l’altra, il popolo di Subbiaco, autorità e bambini in prima fila, in posa davanti alla propria concittadina più illustre con l’orgoglio dipinto nei visi sorridenti.

Il ritratto di un Fellini pensoso ci ricorda il profilo di un Visconti quasi aggrondato, che abbiamo visto in un’altra stanza, ma per poco; subito ci colpisce un’immagine felliniana vicina, lo svolazzare di tonache rosse di preti sul ponte davanti a Castel Sant’Angelo, cui fa da “pendant” la foto in bianco e nero, più felliniana ancora, dei preti che si tirano palle di neve in piazza San Pietro, una doppia rarità, la neve a Roma quando arriva, come nel 1956, ispira canzoni tanto è eccezionale.

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Gina Lollobrigida, il boss La Barbera con due mafiosi al confino, Linosa, estate 971

Neorealismo in due immagini opposte. Il bacio dei giovani innamorati al crepuscolo dietro una colonna sull’Appia Antica, “una volta la strada dell’amore” quando non era “impraticabile e pericolosa“. E il bimbo disperso tra le macerie del terremoto, chissà se ha perduto i genitori, l’interrogativo resta, immagine tremendamente attuale dopo il rovinoso sisma aquilano. C’è anche un controluce da “Ladri di biciclette”, il bambino ritrovato dal padre “appena in tempo”.

Con altri due suggestivi controluce in bianco e nero vogliamo concludere il racconto di questa sala dedicata all’Italia. L’immagine di Venezia nel ponte sospeso in secondo piano con un fascino tutto particolare, l’immagine di “Roma, il mio amore”, presa rasoterra con l’acciottolato della strada romana in primo piano, i due giovani che tenendosi per mano vanno verso l’antico arco, con i raggi del tramonto all’orizzonte di un’immagine sfiorata dalla luce e scolpita dal chiaroscuro. Un sigillo d’autore nella rappresentazione di due città in cui si riassume tanta Italia: Venezia e Roma.

Ma c’è anche il “reportage” inatteso, addirittura nell’isola di Linosa sui mafiosi al confino, con il boss La Barbera. Si presentà camuffata con un giaccone hippy, una parrucca e dei grossi occhiali da vista dalle lenti spesse, le guance rigonfie per dei posticci all’interno. Così irriconoscibile scatta il servizio, tra scene di desolazione ambientale le figure dei mafiosi, pericolosi anche se apparentemente acacttivanti. Siamo nell’estate 1971, il servizio entrerà l’anno dopo nel volume “Italia mia”.

Il mondo più lontano, dall’India alla Cina e al Giappone

La diva come la fotografa esce dal guscio, il giro del mondo protrattosi per decenni diventa più intenso con il diradarsi degli impegni cinematografici, intensissimi nella prima metà degli anni ’50 in Italia, poi estesi a livello internazionale e divenuti episodici dall’inizio degli anni ’70, sostituiti in qualche modo dagli scatti fotografici. Forse anche in questa compensazione può trovarsi la molla che ha spinto la diva a compiere la scelta opposta della Garbo per resistere all’offuscarsi del mito della bellezza e della fama. Non si è nascosta appartandosi in un anonimato voluto e forse sofferto; al contrario si è esposta al mondo continuando a curare la bellezza ma trasmutandola nell’arte.

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Il volume fotografico sull’ìItalia, best seller mondiale, 1973

Perché è proprio la dimensione mondiale del “reportage” fotografico a dare la misura del suo valore, al di là delle singole opere, e Daverio ne dà una definizione appropriata: “Ci restituisce una documentazione vastissima, una sorta di archivio antropologico culturale della terra, vista con costante benevolenza, senza arroganza, con simpatia perenne”. Vogliamo raccontarlo.

I temi prediletti continuano ad essere quelli “italiani”, quasi una proiezione a livello mondiale di un neorealismo fotografico, la miseria e la solitudine, l’umanità e la semplicità. Il “colossal” era lontano dall’animo della fotografa, il “Salomone e la regina di Saba” dell’attrice è del lontano 1959.

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L’India della Lollobrigida, siamo nel 1974-77, non è fatta di immagini corali, di scene di massa; ne dà una visione intimista, dall’interno, fatta di primi piani. Anche se si apre con il bel controluce dei raggi dietro le cupole di Nuova Delhi, prosegue con i poveri che dormono sui marciapiedi e stazionano ai margini delle strade, con le vacche sacre. Poi, dopo i volti del rude indiano e delle bimbe delicate, la scena si anima, siamo a Calcutta, con i bambini sui marciapiedi, i templi. Nelle rive del Gange, quelli che lei stessa chiama “gli ingressi dei templi affollati di umanità, i poveri”, ma sempre senza scene di massa. Il venditore d’acqua è carico di ombre, come Benares di notte, sembra una natura morta con figura umana. C’è una sorta di madonna indiana, in piedi con il bambino in braccio e il lungo velo che dalla testa scende sulle spalle, i colori pastello sono trafitti dai loro occhi spalancati, cosa guardano? Anche in questo mistero sta la bellezza. Segue il ritratto di due Sick sorridenti e dell’indiano aggrondato davanti a un elefante.

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I colori esplodono nella bellissima sagoma di donna in rosso con lungo mantello giallo e un fondo bicolore, in un verde e un giallo alla Van Gogh, con un sottile tronco d’albero al centro; è un cromatismo violento con la donna ripresa di spalle, chissà qual è il suo viso? In primo piano frontale, invece, con pari resa cromatica, la ragazza del Taj Mahal, il tempio che troviamo in un altro scatto, visto da un’apertura nella grande vetrata. E poi il lavoro nei campi, un grande quadro a colori di un piccolo gruppo di donne con leggeri canestri sotto il braccio e pesanti mantelli.

Torna il bianco e nero nel tenero ritratto a mezzo busto della fanciulla con le treccine e soprattutto nelle tristi immagini della famiglia Gandhi, come quella in cui “Indira gioca con i nipotini nel giardino in cui sarà uccisa”. E poi Raijv con Sonia, l’unica sopravvissuta.

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Foitografa tra un nugolo di fotografi

“L’ultimo scatto prima di lasciare Benares, un’immagine che non dimenticherò mai” congeda dall’India con un interrogativo: i poveri che si affollano al di fuori dei vetri dell’auto nell’immagine presa dall’interno sono mendicanti, addirittura lebbrosi, o sono soltanto persone che salutano? L’immagine è del 1976, non la dimenticheremo mai neppure noi.

Ma cosa ci fa vedere di quella parte del mondo asiatico dai tratti somatici così diversi, la Cina e il Giappone? Non c’è la ricchezza di immagini che attendevamo, vista l’India e vista l’estensione e l’esotismo, ma non è questo che cerca la fotografa, forse non è terra di intimità e introspezione. Tuttavia sono pur sempre cospicue, prendono l’intera parete di un lungo corridoio, l’altra è dedicata alle Filippine.

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Fotografata da un nugolo di fotografi

C’è la Shangai operosa e artistica con le sue strade animate e le sale di danza, due ballerine che volteggiano parallele; qualche scatto a Pechino e Canton, un vecchio molto espressivo con gli occhiali inforcati che sobbalza sorpreso. Prevale ancora l’intimo e il personale senza scene di massa anche se, come in India, siamo nell’alveare umano, quindi con tante occasioni spettacolari che non vengono colte perché l’interesse di fondo è la persona nella sua più intima umanità.

Così anche per Tokio, a parte la sfilata di una banda musicale, ma anche lì l’attenzione è sul bambino che ha eluso i controlli e si è infilato tra lo striscione e il corteo; in un altro scatto un bimbo ancora più piccolo si appoggia a una ringhiera in un angolo di marciapiede, una sorta di neorealismo in chiave nipponica. Mentre si sorride dinanzi ai lunghi capelli maschili sciorinati in un interno come tutti gli altri semplice e disadorno. E non mancano i lottatori, lo sport nazionale, curiosamente impalati sotto i loro ritratti.

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Lontani sulle isole, le Filippine, il paradiso di Cotabato

Il verde della laguna di Alaminos nella Hidden Valley e le figure di fanciulli colpiscono con la loro forza cromatica, la fotografa sembra immergersi in questo mondo coloratissimo, quasi una vacanza dopo le tante immagini neorealiste spesso grigie, tuttavia ravvivate da particolari carichi di vitalità.

Ma ci sono anche immagini che riportano alla realtà, il guaritore sotto le cui mani sgorga il sangue dell’uomo disteso, il viso cotto dal sole del pescatore di Quezon, specchio di una vita semplice e dura, il mercato del pesce direttamente sull’acqua con una distesa di barche nello sfondo. E un bianco e nero aspro e drammatico nella processione del venerdì santo, una delle pochissime scene di massa, sembra la piazza del Campo del Palio di Siena, tanto è ricolma nella sua forma semicircolare. Dalla massa al tragico primo piano, il viso di Cristo sotto il peso della croce nella sacra rappresentazione, poi la crocifissione simulata della persona che impersona il figlio di Dio.

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Gina Lollobrigida, “Paul Newman”

Vediamo subito un capolavoro in bianco e nero, la gigantesca foglia di noce di cocco, a terra come un labirinto vegetale, con in fondo un bimbo minuscolo al confronto. E un capolavoro a colori, nella Hidden Valley due bimbi nudi mentre entrano nell’acqua tra le foglie acquatiche in un verde abbagliante da paradiso terrestre; eguaglia in bellezza e splendore gli smeraldi nell’adiacente mostra dei gioielli di Bulgari, quelli di Liz Taylor e della stessa Lollobrigida, alla quale è dedicata, “noblesse oblige”, una vetrina nella spettacolare sezione “glamour” della “Dolce vita”. Più avanti, nella stessa laguna, un bambino minuscolo galleggia su una foglia gigantesca in un verde intenso.

L’alternanza cromatica continua, torna il bianco e nero con il viso di vecchia che sorride tra le rughe e le due radiose donne della laguna che ridono sotto i loro cappellini intrecciati; incalza il colore nel verde smeraldo delle terrazze di riso di Banaue, l’ottava meraviglia del mondo”, e nella piantagione di tabacco a nord di Luzon, con la macchia rossa del vestito della giovane donna che sta raccogliendo le foglie verdi e ne è sommersa; il verde domina ancora nel pittore con la modella.

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Quindi il mercato del pesce, la gente entra nell’acqua fino alle caviglie e va verso le barche schierate sul fondo; in un altro scatto, al contrario, un nugolo di papere in primo piano che escono dall’acqua. Un grande quadro esprime il movimento in una tricromia tra cielo, terreno e le masse dei bufali in corsa sfrenata. Tante forme di vita in azione, a diversi livelli e dimensioni.

E poi, primi piani di bambini filippini, di Cotabato, sorridenti e pensosi, fino a due bimbi Tasaday “che vivono nell’età della pietra”, come altri più grandi dei quali tutti sono addirittura indicati i nomi, al pari dei grandi del cinema, dell’arte e della politica ritratti dalla Lollobrigida. C’è anche un’immagine corale di vita primitiva, calma e serena.

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Gina Lollobrigida mentre fotografa il regista Luchino Visconti

Il resto del mondo e i grandi personaggi, fino al mondo dei bambini

Nella parete opposta si affacciano due immagini dell’Irak, anch’esse quiete e serene, due interni, uno di vita artigiana l’altro di vita religiosa. Sono del 1988, c’era stata la guerra con l’Iran, nel 1990 comincerà quella con gli Usa e il mondo, una parentesi di pace colta con grande tempismo.

Il resto del mondo è sparso nelle sale, c’è l’Australia con due immagini di un concerto rock; poi la Svizzera e l’Argentina, con una figura somigliante a Margherita Hack, l’Egitto, il Quatar e Panama.

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In Brasile esplode il carnevale di Rio, saltiamo al 1993, cinque scatti a colori, in due di essi il viso femminile è quasi inghiottito da un nugolo di penne variopinte; è una bella sintesi della frenesia collettiva, espressa da un viso femminile in estasi e dal corpo nudo di una ballerina visto dal lato B.

Sono coloratissime anche le immagini dell’Honduras, un primo piano di giovane madre con il bambino sulle spalle, un filatoio all’aperto in costumi tipici, riccamente variopinti. E anche il Perù è rappresentato da una donna in rosso e nero davanti a un muro graffiato, sembra un quadro d’autore.

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Gina Lollobrigida mentre fotografa un Corazziere

Del Marocco colpiscono i visi, due scatti alle donne con il proprio bambino, e poi l’immagine delle lunghe vesti rosa e verde davanti a una vecchia casa color ocra. Nel Kenia, di pari bellezza i vigorosi bianco e nero e i solari scatti a colori.

Al Sudafrica la chiusura di questa carrellata, per il grande vigore artistico del minatore con il viso teso nel buio della miniera d’oro, ci si chiede come abbia fatto la fotografa ad entrarvi riuscendo a scattare un bianco e nero così suggestivo; e anche per il colore delicato e rasserenante delle due ragazze in parallelo, quasi in scala, e dei ragazzi meno simmetrici ma assortiti nelle diverse età.

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Ed ora l’Europa, di cui abbiamo visto finora solo l’Italia. Ecco la Spagna, in un forte cromatismo espressivo di un clima e di un ambiente: lo troviamo nelle scene della corrida, con Ordonez ed El Cordobes alle prese con il toro nell’arena, e in un ritratto del secondo.

Ce n’è anche uno in bianco e nero, come le immagini del flamenco, vissuto nei volti intensi delle ballerine e nella loro vibrante energia in un’immagine di movimento vorticoso; inoltre nel volto severo e nella “siluette” di Antonio Gades. Ma non manca il colore, una statuaria ballerina con un abito rosa arricciato che sembra pronta a rotearlo come fa il pavone.

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Gina Lollobrigida mentre fotografa, a fianco dell”attore David Niven

Gran Bretagna e Russia sono in bianco e nero. Di Londra desolate immagini di periferia; di Mosca tre fotografie espressive, l’anziana donna seduta curva, una forma quasi circolare, il Cremlino in una orizzontalità data dalla strada in primo piano, la Piazza rossa con la verticalità delle sue cupole.

Non c’è particolare interesse per l’America opulenta, i pochi scatti dedicati a New York e a San Francisco sono desolati, forse dipende dall’alienazione e dalla solitudine nelle metropoli; ed è struggente il sorriso della bambina con la testa stretta in una morsa d’acciaio in un ospedale di New York.

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Gina Lollobrigida fotografa, Autoritratto

Un inedito Paul Newman che fa il bagno dopo la sauna tra i ghiacci nello specchio d’acqua davanti al suo “chalet” immerso nel bosco si aggiunge al bel ritratto del suo sorriso radioso, ad essere serio c’è Henry Kissinger ritratto al telefono; scuro e serioso anche Fidel Castro, mentre Marcos è ripreso sulla spiaggia dove corre per il “footing”, piccola figura di un dittatore spietato.

Soltanto qui, e poi nella sala a loro dedicata, affiora il privilegio del rango, tutti i grandi personaggi, del cinema come della politica, della cultura come delle istituzioni diligentemente fotografati. Quasi fosse un dovere – sia per loro che per la fotografa – e lo si avverte in molti ritratti convenzionali e in posa. Vogliamo ricordare tra i tanti, ne abbiamo contati quasi quaranta, per la resa artistica, una Liz Taylor avvolta in un lungo vestito e scialle rosso, in posizione reclinata, con il nero corvino dei capelli e gli occhi sgranati che ricorda la Lollo di allora; e Liv Ullman, immagine quasi monocromatica di delicata fattura.

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Il Catalogo delle fotografie risultato della ricerca sui bambini , 1993

Orson Welles tenebroso anche se quasi in posa, come Grace Kelly vestita di verde e Farah Diba impalata, completano la nostra citazione. Che si chiude con l’immagine dell’amata Callas in bianco e nero, e con uno scorcio della figura di Bette Davis, in un colore che sembra grigio per la tristezza di una vecchia diva di cui si immagina il viso scavato.

Dal mondo dei grandi vogliamo arrivare a quello dei bambini ai quali l’attrice ha dedicato un’attività umanitaria nell’ambito dell’Unicef, oltre a quella svolta per la FAO contro la fame. E’ un terreno d’avanguardia sperimentato dall’inizio degli anni ’80, del resto anche nelle sue fotografie tradizionali la Lollobrigida mette la propria visione del tutto particolare alimentata dalla fantasia. “Nell’immagine è fissata una rappresentazione della realtà fissata dal nostro inconscio – ha scritto – una rappresentazione trasformata, talora irreale, racchiusa in un’inquadratura che taglia, esclude o addirittura annulla ciò che può disturbare: quello che non interessa e che lascia unicamente spazio a ciò che vogliamo vedere, proprio come un regista che sceglie e confeziona le scene di un film”. Così fa nelle composizioni per i bambini, le immagini le crea e le costruisce, poi le fissa sulla pellicola. Le tecniche sono inedite e innovative per quegli anni, quando i sistemi computerizzati non avevano preso piede con la loro attuale invadenza, e si doveva lavorare artigianalmente.

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Sui tetti di Roma mentre fotografa una modella

E’ una rappresentazione fotografica che sconfina con la scultura, essendo fatta di forme e colori virtuali, quasi tridimensionali nel loro impatto visivo, forse è stato il “trait- d’union” tra le due forme espressive. Sono macchie cromatiche e accostamenti arditi con figurazioni fantastiche, a volte sembrano giochi di prestigio e di equilibrismo: delfini, struzzi e altri animali ripresi in simbiosi con i bambini. Fiabe solari ben lontane dalle oscurità di certe favole nordiche fatte per incutere nei piccoli il senso del pericolo, ma che scavano nell’animo solchi di paura.

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Il francobolo di San Marino sulla sua arte fotografica

I successi editoriali e quelli artistici

L’incursione nella fotografia per bambini ad elevato livello di qualità e innovazione, la felice sinergia tra genialità italica e personalità ferrea che predilige l’apprendimento accelerato e l’applicazione, nel 1994, dopo 14 anni si è tradotta in un libro per l’Unicef, “The Wonder of Innocence”. E’ solo una parte del più ampio lavoro che le ha visto pubblicare otto volumi di fotografie nel corso del tempo, uno dei quali, nel 1973, dal titolo “Italia mia” ebbe il Premio “Nadar” come miglior libro fotografico dell’anno e vendette più di 300.000 copie nel mondo.

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Sala del Capitolo, Pietrasanta, panoramica di suoi dipinti e disegni

Fu Vittorio De Sica a suggerire questo titolo al posto di quello da lei pensato “La mia Italia”, titolo del libro fotografico di Tony Vaccaro contemporaneamente in mostra alle Scuderie del Quirinale. Una bella coincidenza di due italiani dilettanti fotografi divenuti presto eccezionali professionisti.

I riconoscimenti artistici non sono mancati. Nel 1992 rappresentò l’Italia all’Expo di Siviglia con la scultura “Vivere insieme”, un bambino che cavalca un’aquila. Chirac le diede la Medaglia d’oro della Città di Parigi di cui era sindaco nel 1980 per la mostra di fotografie al Museo Carnavalet. Le sue sculture sono state esposte in affollate mostre al Museo Puskin di Mosca nel 2003, anno nel quale ha partecipato all’Open di Venezia.

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Sala dei Putti, Pietrasanta, suoi ritratti di personaggi

Nel 2008, nella città di Pietrasanta, meta di artisti europei ed americani, dove le piace lavorare come scultrice, si è tenuta una grande retrospettiva delle sue opere. Alcune rappresentano la sua gioventù e la sua bellezza in statue colorate molto grandi, di una leggerezza e leggiadria che le fa apparire come visioni oniriche; nel filmato che si può vedere nella mostra ci sono queste sculture come ci sono anche spezzoni dei suoi film più famosi con la sua disinvolta dizione in francese e in inglese, un portento.

Per l’insieme della sua opera di attrice e artista ha ricevuto nel 1992 la “Legion d’Onore” in Francia dal presidente della Repubblica Francois Mitterand. Ma non vogliamo indugiare oltre su questi riconoscimenti ufficiali, ci piace concludere con alcuni giudizi sulla sua poliedrica personalità e sulle sue doti da parte di personaggi, soprattutto attori e registi che hanno lavorato con lei iniziando con i giudizi più lontani dai campi da lei coltivati.

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Sala dei Putti, Pietrasanta, suoi dipinti

André Cayatte:”Ha un autentico talento da cantante, una voce carezzevole. Se non si fosse ormai votata alla carriera cinematografica, Gina avrebbe potuto percorrere la carriera di cantante con altrettanto brillanti risultati di quelli raggiunti come attrice”; Cocò Chanel: “Gina è nata per indossare i miei tailleur, è meglio delle mie mannequin”. Ed ora gli attori e registi più famosi: Humphrey Bogart: “In quanto a sex appeal fa apparire Marilyn come una scolaretta”; Sean Connery: “Ho lavorato con molte artiste, di tutte Gina è quella che scelgo”; poi i registi, Renè Clair: “Gi-na-Lol-lo-bri-gi-da, sono le sette sillabe oggi più famose in Europa; Fellini: “Gina non finisce mai di sorprendermi; è straordinaria”.

Fellini parlava di lei come attrice cinematografica, ma il suo potrebbe essere benissimo il sigillo della mostra che ne rivela i tanti profili d’artista: non finisce mai di sorprendere, è straordinaria.

1 Commento

  1. Rossi Vittorio

Postato settembre 18, 2009 alle 9:55 PM

molto bello e chiaro

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Il francobollo di San Marino, su lei ambasciatrice FAO

Info

la mostra si è svolta a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, dal 25 giugno al 13 settembre 2009. L’articolo è stato pubblicato in culturainabruzzo.it (non più raggiungibile) il 10 agosto 2009. Catalogo “Gina Lollobrigida fotografa”, Damiani Editore, giugno 2009, pp 320. Il precedente articolo “Gina Lollobrigida, 1. Con Stefano Massini per l’ “utilità” dell’arte, le sue sculture” . è uscito in questo sito nella stessa data del 5 maggio 2020.

Foto

Le immagini si riferiscono alla Lollobrigida fotografa, le tre che precedono le due di chiusra mostrano i suoi disegni e dipinti esposti alle pareti di due sale della mostra a Pietrasanta con al centro sue sculture, alle quali è dedicato l’ articolo appena citato, pubblicato contestualmente. Esse sono tratte dai siti web,  che saranno indicati nell’ordine di inserimento delle immagini, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, precisando che hanno scopo eminentemente illustrativo senza alcun intento economico, nè commerciale, nè pubblicitario; qualora la pubblicazione non fosse gradita le immagini verranno rimosse immediatamente su semplice richiesta dei titolari dei siti. In apertura,  il Catalogo della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, 2009; segue, Gina Lollobrigida fotografa tra alcuni dei suoi scatti nel mondo, poi, intervallate da immagini in cui è ritratta mentre è impegnata a fotografare che qui non vengono citate, Gina Lollobrigida, India, Bambini che giocano; quindi, Gina Lollobrigida, Reportage sui mafiosi al confino, Linosa, estate 1971 in 4 immagini, la 1^ è una scena d’ambiente, la 2^ riprende 4 mafiosi al confino, la 3^ mostra Angelo La Basrbera in un incontro “ravvicinato” con un carabiniere, istantanea eccezionale, nella 4^ il boss La Barbera con due mafiosi al confino; inoltre, il libro fotografico “Italia mia”, edizione inglese 1973 , in tedesco, “Mein Italen” 1978; poi, dopo 5 immagini della Lollobrigida con il libro “Italia mia” come fotografa e anche come fotografata, il suo ritratto fotografico di “Paul Newman” ; ancora, mentre fotografa il regista Luchino Visconti, poi un Corazziere, e mentre fotografa a fianco dell’attore David Niven; continua, Il Catalogo delle fotografie risultato della ricerca sui bambini 1993, e lei sui tetti di Roma mentre fotografa una modella; poi il francobollo di San Marino sulla sua arte fotografica, e 3 immagini dei suoi dipinti e disegni della mostra di Pietrasanta, una dalla Sala del Capitolo, 2 dalla Sala dei Putti; infine, il francobollo di San Marino, su lei ambasciatrice FAO; in chiuusra, il Catalogo delle mostre fotografiche all’estero 2010. Sono tratte dai siti web: diamianieditore.it, 06foto.it, pinterest.it, nikoland.it, humusdremawidth.com, 4 reportagesicilia.blogspot.com, intervallati da fotoimesite.net, picclic e profilodidonna.com, poi marieclaire.it, amazon.com, nikoland.it, chi-e.com, gettyimages, fotoalamy.it, 2 nikoland.it, fotografiamoderna.it, 2 fotoalamy.it, intervallati da repubblica.it, 2 nikoland.it, reportagesicilia.blogspot.com, amazon.it archiviopizzi.formiche.net, 2 riminibeach.it intervallati da 3 museodeibozzetti.it, amazon.com.

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Catalogo dellemostre fotografiche all’estero, 2010

Gina Lollobrigida, 1. Con Stefano Massini per l’“utilità” di arte e terza età, le sue sculture

di Romano Maria Levante

Oggi, 16 gennaio 2023, a 95 anni, come la Regina d’Inghilterra, se n’è andata un’altra Regina, anche se non è stata chiamata così, ma “icona della bellezza italiana” e con altre espressioni simili in omaggio alla sua immagine di diva del cinema restata impressa nei ricordi di tutti. Le rievocazioni seguite alla sua scomparsa sono state sulla diva indimenticabile, ma noi vogliamo ricordare la sua seconda vita dopo quella di diva del cinema, terminata presto perchè il talento che voleva esprimere riguardava altre forme di arte, in particolare l’arte scultorea e l’arte fotografica. E lo ha espresso in una fervente attività artistica, testimoniata da mostre con Cataloghi e premi, molto apprezzata all’estero, mentre in Italia l’imamgine della diva ha sovrastato quella dell’artista per lo più ignorata anche nelle sue apparizioni televisive sebbene lei volesse invece parlarne, e lo ha detto chiaramente ma invano. Per ricordare questa sua seconda vita, che la rende unica nel mondo del cinema e non solo, ripubblichiamo oggi 2 articoli – usciti entrambi il 5 mqaggio 2020 – che ora hanno un valore particolare perchè servono a colmare il vuoto che anche nelle celebrazioni si avverte rispetto alla sua vita post cinema che ha aggiunto una caratura artistica nelle altre arti figurative impensabile in una diva del cinema. Sono due articoli – nati in circostanze diverse non più attuali – nel primo, sulla sua arte scultorea, il primo paragrafo del testo riguarda il motivo occasionale, lo abbiamo lasciato perchè ci sono immagini delle sue sculture. A parte il secondo articolo dedicato alla sua arte fotografica, pubblicato nel 2009 sulla sua mostra a Roma. al Palazzo delle Esposizioni, doopo averlo letto ci telefonò dicendo che l’aveva resa “felice”. Grazie ancora, Gina, per questo apprezzamento e per la tua vita per l’arte, buon viaggio di tutto cuore. ..

Abbiamo introdotto il nostro recente articolo “Coronavirus, la prima linea e le retrovie di una guerra asimmetrica” con delle brevi notizie sulle iniziative prese da diversi organismi operanti nel campo della cultura – in primis il Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo – per fornire  ai cittadini #tuttincasa  accessi  telematici “on line” a patrimoni culturali in grado  di alleggerirne  la costrizione e alleviarne ‘il lungo isolamento  aprendo i vasti  orizzonti dell’arte e della cultura.

Gina Lollobrigida, attrice, scultrice, fotografa

Abbiamo introdotto il nostro recente articolo “Coronavirus, la prima linea e le retrovie di una guerra asimmetrica” con delle brevi notizie sulle iniziative prese da diversi organismi operanti nel campo della cultura – in primis il Ministero per i beni e le attività culturali e il turismo – per fornire  ai cittadini #tuttincasa  accessi  telematici “on line” a patrimoni culturali in grado  di alleggerirne  la costrizione e alleviarne ‘il lungo isolamento  aprendo i vasti  orizzonti dell’arte e della cultura.

Sono state iniziative meritorie ma tardive, come ha sottolineato il commento di Giuseppe Maria Sfligiotti, che da anni si è adoperato in tal senso per i concerti di Santa Cecilia, e vi ha visto  un modo duraturo, oltre l’emergenza,  per diffondere l’arte e la cultura “con un semplice clic”: non lo si è fatto finora, forse in mancanza dello stimolo del profitto ma anche di una passione civile e sociale autentica che avrebbe fatto prendere in considerazione  strumenti da molto tempo alla portata di tutti per la crescita dell’individuo e della società.

Stefano Massini, scrittore

Stefano Massini contro l’ “inutilità” dell’arte e della cultura, e della  terza età

Il monologo televisivo del giovedì di Pasqua di Stefano Massini iin “Piazza pulita“ su “La 7 ”  è stato rivelatore, lo scrittore si è lanciato in un’orazione appassionata  contro la visione distruttiva dei valori superiori della nostra civiltà, l’arte e la cultura che sono il fondamento della bellezza. Perché è distruttiva la sottovalutazione che porta a colpevoli trascuratezze nella loro tutela e diffusione. E non solo per essere  un sito culturale ci sentiamo di aderire con altrettanta passione all’appello  dello scrittore: Massini ha parlato in nome della civiltà e della società, non di una cerchia di idealisti appassionati, non si è rivolto alla “setta dei poeti estinti” dell'”Attimo fuggente”, ma a tutti. Con la foga di un Savonarola, del quale ha riscritto e pubblicato le veementi “prediche” con il titolo “Io non taccio!”, non ha taciuto nemmeno lui adesso, onore al merito!

La scultrice con il bozzetto di “Esmeralda”

Ha preso l’avvio da una semplice notizia, anzi un’ipotesi secondo cui gli ultimi luoghi ad essere riaperti sarebbero i luoghi di cultura, dai teatri ai cinema, dai concerti ai musei.  E non per i maggiori rischi di assembramenti, quanto perché  “maiora premunt”, c’è ben altro di più importante e urgente, altro di “utile”:  i luoghi di lavoro e di produzione, come se i luoghi di cultura non ne facessero parte. Ferma restando l’esigenza di garantire la sicurezza dai contagi – riaffermata con forza in premessa –  Massini ha approfondito i motivi per questa quasi istintiva “retrocessione” nella scala di priorità per il Paese, e li ha  ha riassunti efficacemente in una parola: “inutilità”, venuta allo scoperto con il coronavirus.

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Gina Lollobrigida, “Esmeralda”, 2002, bronzo

Ad essa va attribuita  la sottolineatura che le vittime riguardano essenzialmente la classe di età avanzata, in particolare gli “ottantenni, soprattutto se  con patologie”, “leit motiv” ripetuto ossessivamente  nei  quotidiani  “bollettini di guerra” delle ore 18  attesi  dai  cittadini #tuttiin casa come del resto facevano con Radio Londra  gli ottantenni  succitati ancora bambini, e lo ricordiamo benissimo noi che apparteniamo a tale classe di età.  Quindi siamo tra gli “inutili”, perché è tale il non confessabile sottofondo che sta dietro questa spontanea, ineffabile, freudiana insistenza:  non vi preoccupate, muoiono i vecchi, per di più se con altre malattie, il coronavisus è solo la goccia che fa traboccare il vaso, del resto sono ormai “inutili”, quindi nessun problema reale; anche se non mancano mai  le “lacrime di coccodrillo” sul doveroso cordoglio per ogni vita perduta, quanto mai rituale e subito derubricato per rassicurare quelli che invece sono “utili”.

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La scultrice con il bozzetto del Gruppo di bambini

Ma c’è di più, non è estranea a tutto questo la considerazione del peso delle classi anziane sul Sistema sanitario nazionale e sul sistema pensionistico, addirittura qualche anno fa Christine Lagarde ebbe a definrla una “minaccia immanente”  che costringeva a rivedere   i sistemi  previdenziali, ovviamente a danno di tutti, mentre l’alleggerimento di tale “peso” lo eviterebbe:  tutto  non confessato anche perché inconfessabile,  ma di certo percepito e non contrastato.  Del resto, un analista consulente di Direzione dall’elevata caratura, Piercarlo Ceccarelli, ha ammonito di recente in base a una fredda constatazione, non a una propria adesione: “Dobbiamo accettare che ci siano criteri, anche moralmente eccepibili, per dosare le risorse in modo da privilegiare le categorie più ‘utili’ al Paese (dove l’utilità può avere numerose facce)” avvertendo che “se si abbandona l’utilità si entra nel mondo ideale”. Ha aggiungendo in modo altrettanto pragmatico che i criteri “moralmente eccepibili” – eufemismo  dovuto alla loro inconfessabilità –  possono rivelarsi necessari nelle destinazione delle risorse anche indipendentemente dal volere dei governanti dei singoli stati,  perché la competizione internazionale le renderebbe inevitabili penalizzando i paesi che volessero sottrarsi  a tale scelta divenendo meno competitivi a livello internazionale, quindi emarginati nel mercato globale.

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Gina Lollobrigida, Gruppo di bambini

Le citazioni  della  Lagarde e dell’analista direzionale Ceccarelli, vengono da due commenti nel dibattito  sul coronavirus aperto dal nostro articolo sopra ricordato, il tutto è soltanto lo spunto per introdurre  il tema dell’ “inutilità” lanciato da Mssini, riferendolo  innanzitutto agli anziani “vittime sacrificali”. E lo abbiamo visto nell’indegno  “massacro nelle Case di riposo” – come lo ha definito il vice presidente italiano dell’OMS –   e in generale, nella “strage di una generazione”, quella del ’40 , per la quale il rimpianto nasce essenzialmente dal fatto che sono gli unici testimoni  rimasti dei  momenti cruciali nella storia del paese,  la guerra e la ricostruzione, i mutamenti nel costume e le tante vicende vissute. Quasi che in essi valga soltanto   la memoria storica da mantenere in vita,  come se  fossero reperti archeologici, ruderi da conservare che il coronavirus ha la colpa di demolire sistematicamente, in quanto tali non  provvisti di una “utilità” attuale, diretta e non derivata. Mentre la loro esistenza ha un valore, e quindi una “utilità”,  di per sè, mantenendo tutta la forza intellettuale, morale e spirituale della loro esistenza. Peraltro, sotto il profilo economico e sociale i “nonni” sono quanto mai “utili” nel “welfare” familiare e non solo, ma non è questo che deve contare qunato il valore della loro vita in sé e per sé.

Anche il pur accorato e nobile ricordo dello scrittore Antonio Scurati, “Il nostro epitaffio ai figli del ’40”, la generazione “falciata in queste settimane dal virus”, ci sembra abbia la pecca di ghettizzarla nel passato, in cui “ha visto la guerra, ne ha sentito l’odore e le privazioni”, sono “gli uomini della ricostruzione, i vecchi della delusione”; e anche il presente evocato è un presente storico, per di più riferito alla propria realtà, “essi sono i compagni di una vita, essi sono i padri della nostra gioventù, essi sono i nonni dell’infanzia dei nostri figli”. E’ vero che non manca un riconoscimento meno “derivato” – “se ne va l’esperienza, la comprensione, la pazienza, la resilienza, il rispetto, pregi ormai dimenticati” – ma sembra che in queste doti si ricerchi una “utilità” implicitamente non riconoscendola alla vita e al suo valore esistenziale, senza bisogno di qualificazioni, quasi che si potesse negarle l'”utilità” in sé e per sé che con Massini reclamiamo, anche come parte in causa.

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La scultrice con la sua opera “Vivere insieme”

Massini si è soffermato soprattutto  sul ruolo subordinato dato nella “fase due” ai  luoghi dell’arte e della cultura come espressione del  fatto che vengono sottovalutate e retrocesse l’arte e la cultura in se stesse a prescindere dalle sedi.   La  sua orazione è stata appassionata, le sue motivazioni quanto mai convincenti.

C’è anche una sottovalutazione del valore economico  che non è accettabile per il contributo che viene dalle attività culturali in varia forma: Gigi D’Alessio ne ha dato una definizione icastica, “uno canta e 400 mangiano”, riferendosi al gran numero di lavoratori coinvolti, le maestranze impegnate nell’allestimento dei concerti per le attività collaterali ma basilari a partire dalla realizzazione, trasporto e montaggio dei grandi palchi e strutture connesse, in una lunga filiera; e Paolo Bonolis nella serata finale di “Ciao, Darwin”, fece sfilare le 250 persone operanti “dietro al conduttore che ci mette la faccia, loro lavorano restando invisibili”.

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Gina Lollobrigida, “Vivere insieme”, 1992

Ma soprattutto  Massini ha parlato dell’altissimo valore sociale di arte  e cultura,  tra l’altro riaffermato in queste settimane di  isolamento forzato  domiciliare dove soltanto le creazioni culturali, dalle opere teatrali a  quelle cinematografiche e musicali,  da quelle delle arti visive, pittura e scultura in primis,  a quelle letterarie, ecc. hanno potuto dare sollievo alle persone relegate in casa,  rendendo sopportabile la situazione anomala di isolamento che altrimenti avrebbe potuto anche deflagrare.

Al di sopra di tutto, però, ha espresso con tono appassionato la considerazione che arte e cultura fanno parte del Dna della nostra civiltà, sono la base che precede e presiede alla nostra vita.  Massini ha concluso  con un grido di ribellione collettivo a cui ha aggiunto il proprio individuale di scrittore: “Non mi sento inutile”, e nel  nostro piccolo ci associamo con la medesima  passione.

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Gina Lollobrigida, “Marylin”

Gina Lollobrigida e la sua arte scultorea e fotografica ignorata come  “inutile”

Se a   qualcuno potrà sembrare eccessiva  questa sottolineatura del concetto di “inutilità”  dell’arte e della cultura, oltre che dell’età avanzata – che sta dietro la sottovalutazione di cui si è detto – si  dovrà ricredere. Perché  tre giorni dopo, precisamente nel  giorno di Pasqua, se n’è avuta una conferma plateale nella  trasmissione televisiva “Domenica In”,  il cui  carattere nazional-popolare con la conduttrice autodefinitasi  “la zia”  di tutti  ne accentua  il valore dimostrativo.

Dunque, la conduttrice intervista Gina Lollobrigida, sempre splendida e determinata, ma  di fatto ritenuta doppiamente “inutile”: come persona considerata non per quanto è e vale oggi, ma soltanto come memoria storica del costume italiano, oltre che di se stessa; e come artista ugualmente  confinata nel passato cinematografico,  visto nella luce divistica e non  nel valore interpretativo,  ignorando o peggio  il presente ancora più valido. “Inutilità” odierna, al pari di un reperto archeologico tenuto per memoria storica.

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Gina Lollobrigida, “Petite Dancesuse”, 1994, bronzo, al centro la scultrice

Ma andiamo ai fatti. La conduttrice, peraltro premurosa e affettuosa, ha dimostrato tutto questo  con una carrellata sul passato divistico della Gina nazionale, mostrando fotogrammi di tanti film,  risalendo fino alle sfilate di Miss Italia 1946  in cui fu seconda preceduta da Lucia Bosè, di recente scomparsa.  La Lollobrigida  ha commentato quelle immagini dicendo all’incirca: “Non partecipavo per convinzione, ero iscritta all’Accademia di Belle Arti e volevo seguire la mia vocazione artistica”. Anche sul  cinema in due occasioni, rispondendo a domande  sempre in chiave divistica, ha aggiunto: “Per me era soltanto una parentesi passeggera che mi dava i mezzi per poter coltivare la mia vocazione”. 

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Gina Lollobrigida, “Paolina Bonaparte”

Ogni volta che  l’intervistatrice la riportava sul divismo, replicava alludendo ai suoi interessi artistici, e anche quando ha parlato di ciò che le è rimasto più impresso del passato di successi, ha deluso l’anima  nazional-popolare che le alitava intorno parlando soltanto dei suoi viaggi nel mondo  motivati dalla  ricerca di luoghi e persone cui ispirarsi per la  sua passione fotografica: tanto fotografata voleva esprimere la sua arte fotografando. Finché  la conduttrice le ha chiesto, freudianamente: “Ma perché anche in passato  quando vieni intervistata  parli sempre della fotografia  e della scultura…?”, domanda inequivocabile nell’attribuire le sue risposte precedenti  ad una fissazione: ma ancora una volta si è sentita  replicare che  l’arte fotografica e  la scultura sono state la  sua vocazione e il suo impegno appassionato di sempre.

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Gina Lollobrigida, statua di bellezza muliebre con motivi vegetali

Finché, riguardo al libro autobiografico che sta scrivendo ha dato un ‘altra lezione, anzi due: alle parole che  il confinamento in casa è ideale  per completare il lavoro – contattando al telefono il giornalista che ha sostituito lo scomparso Paolo Limiti per aiutarla nella stesura –  ha replicato che non ha la necessaria serenità di spirito in questo momento drammatico; poi la seconda lezione – non solo all’intervistatrice, ma alla “vulgata”  comune – secondo cui ci tiene a che il libro sia scritto come lei vede la propria vita e non come la vedono gli altri. Sottintendendo che è vista distorta  dal divismo  quasi fosse l’unica cosa che conta nella sua esistenza, mentre la propria scultura e fotografia d’arte  fossero le cose  “inutili” di cui ha parlato Massini.

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La scultrice dietro una propria statua, con Gian Luigi Rondi

Nell’intervista non c’è stato il gossip più becero, perché  estraneo alla  vita della Lollobrigida, che sposò un oscuro medico jugoslavo e non ha avuto produttori  alle spalle, come le altre maggiori dive del cinema, né  le storie eclatanti che tanto appassionano la “press du coer”. Ma  l’armamentario nazional-popolare ha impedito di dare voce alla vocazione per l’arte che lei ha cercato di reclamare invano; e nelle sue parole  abbiamo letto una perorazione accorata, sia pure  manifestata sommessamente, da noi accostata a quella gridata platealmente da Massini, con una testimonianza  vissuta, offerta ma rifiutata in modo reiterato.

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Gina Lollobrigida, con la statua di Madre con bambino

Del resto, pur con i suoi   ripetuti richiami,  non una –  dicasi una – delle sue opere scultoree e fotografiche è stata presentata e neppure citata, mentre per  la parte divistica, l’unica,   c’è stato un profluvio di immagini, peraltro quanto mai vacue e  lei  non lo meritava. Anche perché la stessa parte cinematografica è stata sacrificata, nessuna scena di quelle intense di suoi film d’autore e non  divistici,  ricordiamo “La provinciale” e  “La Romana”,  e non solo  “Pane amore  e fantasia”, “Trapezio”,  e “La donna più bella del mondo “. Si potrebbe   dire che  nessuna scena  è stata mostrata,  ci si è limitati alle immagini divistiche fisse, invece le scene filmate sono stati stralci   di programmi televisivi del periodo  divistico,   banalissimi duetti con i  conduttori nazional-popolari dell’epoca,  ma allora poteva esser giustificata la limitazione al divismo, non adesso, decenni dopo la fine della carriera cinematografica nei quali lei ha svolto un’attività artistica molto intensa. Non  nascondendosi per sparire come Greta Garbo, nè oscurandosi eppure proseguire come Mina, ma voltando pagina rispetto al passato, girando il mondo per le sue fotografie e facendolo girare alle sue sculture, le ricordiamo fino in Abu Dhabi, impersonando l’ “utilità” dell’arte e della vita, dandone personale testimonianza.

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La scultrice si immedesima nella Madre con bambino, particolare

Un ricordo personale della Lollobrigida dalla  mostra fotografica a Roma  

Il nostro ricordo risale ad oltre dieci anni fa, allorchè le immagini da lei riprese in tanti paesi del mondo  furono esposte a Roma nella mostra “Gina Lollobrifgda fotografa” al Palazzo delle Esposizioni presentata da Philippe Daverio, la visitammo e pubblicammo un’ampia  recensione. Qaalche tempo dopo ricevemmo una telefonata in cui una voce profonda ci diceva: “Sono la signora Lollobrigida…”, pensammo a uno scherzo, per ricrederci subito quando divenne chiaro che era lei. Precisò che stava entrando in automobile  a Montecarlo  ed era ferma in un ingorgo, aveva voluto ringraziare personalmente sentendosi “molto felice” per l’apprezzamento manifestato verso la sua arte fotografica e  per averne compreso l’impegno costante non episodico.

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Gina Lollobrigida, “Andrea Bocelli“, la scultrice con il soggetto della sua statua

Seguirono altre  telefonate,  poi la sua richiesta di avere la recensione tradotta in inglese,  provvedemmo subito trasmettendola  al suo indirizzo e mail, ma   successivamente ci disse che non aveva dimestichezza con Internet  e  forse per questo l’avevano vista solo i collaboratori. Non potemmo intervistarla, come volevamo, perché  aveva dei problemi  con le sue sculture  spedite in  Abu Dahbi

Ma  non è di questo che interessa parlare, quanto di una successiva telefonata dopo  una sua partecipazione a un’altra trasmissione nazional-popolare con il  celebre conduttore maggiore esponente del genere. La chiamammo esprimendo stupore per il fatto che  non le fosse stata rivolta nessuna domanda sulla sua arte fotografica e scultorea né era stata presentata alcuna sua opera. Ci rispose in modo veemente convenendo con noi, anzi lamentando che nell’intervallo  pubblicitario si  era addirittura arrabbiata con il conduttore proprio per questo  fatto inaccettabile  alzando anche la voce, ma non c’era stato niente da fare.

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Gina Lollobrigida, Ragazzo dalle braccia conserte, con la scultrice

Parecchi anni dopo la cosa si è ripetuta in una trasmissione dello stesso tipo, con la differenza che questa volta, come abbiamo detto, la conduttrice ha citato le “fotografie e le sculture” ma sorprendendosi che ne parlasse sempre – quasi fosse una fissazione, ripetiamo noi  interpretandone il senso – e ciononostante nessuna  indicazione su tale attività,  nessuna immagine presentata.   Ed è ancora più sorprendente considerando che Wilkipedia la definisce “attrice, scultrice e fotografa”, e così il corriere.it ed altri, mentre la TV, in particolare la Rai, continua a mutilarne l’immagine della parte più propriamente artistica per relegarla nel divismo; qunado sarebbe stato spettacolare mostrare le fotografie dei suoi “reportage” nel mondo e le sculture di grandi dimensioni che inneggiano alla  bellezza in forma artistica.

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La scultrice al lavoro nel laboratorio su una statua

Ricordiamo la sua prima scultura, del 1992, che ha avuto notorietà, dal titolo “Vivere insieme”, un ragazzo felice che protende le braccia verso l’alto in groppa a una grande aquila dalle ali aperte, la proponemmo come simbolo della rinascita dell’Aquila dopo il terremoto dell’aprile 2009, in 5 articoli, rivolgendoci al Presidente della regione Abruzzo Gianni Chiodi e all’assessore alla Cultura del capoluogo abruzzese, Stefania Pezzopane,  prima che fosse colpita dalla freccia di Cupido in una “love story” di cui si è molto occupata la televisione; invece nessun seguito ci fu alla nostra pur insistente proposta che rinnoviamo con forza oggi. 

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La scultrice al lavoro nel suo laboratorio su un busto

Dopo il cinema,  la Lollobrigida   scultrice 

Rievochiamo ora per sommi capi la sua attività artistica al di là del cinema – in cui peraltro ha dato  anche intense interpretazioni, al di là del divismo in cui è stata etichettata –  cominciando dalle sue sculture. Ci limitiamo a  brevi citazioni, a  partire dalla mostra “Vissi d’arte”  inaugurata alla fine del  2008  a  Pietrasanta,  dopo che per dieci anni aveva avuto il suo atelier di scultrice in quel luogo, terra  di scultori,  ideale per creazioni artistiche  nell’atmosfera più idonea e ispiratrice; nella circostanza le fu  conferita la cittadinanza onoraria, e nel  locale “Museo virtuale di scultura e architettura”  sono presenti sue opere. Ma  ben 16 anni prima, nel 1992, aveva   rappresentato l’Italia all’Expò di Siviglia con la scultura “Vivere insieme” che abbiamo prima citato nel nostro ricordo personale, per la quale ebbe le congratulazioni del presidente francese François Mitterrand con il conferimento della “Legion d’Onore”  riferita alle sue doti artistiche, e la definizione di “artista di valore”; quattro anni dopo un altro riconoscimento artistico,  Accademica onoraria  dell’antica Accademia delle Arti del Disegno di Firenze, solo altre due celebri donne hanno avuto tale privilegio.

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Una visione d’insieme del laboratorio della scultrice

La scultura è stata sempre la sua passione, prima trascurata per gli impegni cinematografici, poi fotografici, ma ripresa dal 1990. Sessanta sculture testimoniano questa sua attività artistica,  alcune di grandi dimensioni, come i due bronzi monumentali  alti 5 metri che aprivano l’esposizione a Pietrasanta in Piazza Duomo, con 11 sculture in marmo e bronzo ed opere plastiche, disegni e pitture nelle sale interne.  In alcune ha voluto rappresentare icone del cinema creando una sorta di celebrazione della bellezza, tanto più significativa perché concepita da chi, come lei, ne è stata considerata l’incarnazione più autentica. Tra esse “Esmeralda”, ispirata a questo personaggio da lei interpretato nel film “Notre Dame de Paris”, come la “Regina di Saba” e “La Fatina di Pinocchio”, la “Venere imperiale” e “Paolina Borghese”, nella nuova chiave artistica; fino a “Marylin Monroee” , la statua la raffigura distesa in posa sexy, forse una riparazione rispetto al paragone di Humphrey Bogart tra lei e l’americana: “In quanto a sex appeal fa apparire Marilyn come una scolaretta”.

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Il Catalogo in inglese per le mostre di scultura all’estero

Al riguardo ha detto lei stessa: “Mi esprimo con le esperienze e i ricordi della mia vita. L’arte è comunicazione. Alcune sculture rappresentano me che interpreto i vari personaggi, c’è allegria, sono piene d’oro e di colori”. Ha iniziato con sculture sulla maternità e sul mondo dei bambini, le opere ispirate ai personaggi cinematografici esprimono lo slancio  di quegli anni, “un cinema – ha esclamato –  dove avevamo bisogno di sognare, di vedere tutto dorato, in positivo, di vedere la bellezza”. Ma si è ispirata anche a grandi protagonisti della politica, dell’arte e dello spettacolo, molti dei quali suoi ammiratori, incontrati direttamente; e fotografati incurante di intaccare il mito “glamour” della “diva”.

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Interno della Chiesa di Sant’Agostino, Pietrasanta, con sue sculture

Abbiamo ricordato, oltre a questa mostra del 2008, l’Expo di Siviglia del 1992, aggiungiamo che  tra questi due momenti così significativi vi sono state esposizioni di sue sculture all’estero in sedi prestigiose, come nel 2003 al Museo Puskin di Mosca con 38 sculture –  4.000 visitatori giornalieri e 6.000 il sabato  e la domenica –  nel corso della quale ha avuto i complimenti di Vladimir Putin; nell’autunno dello  stesso anno esposizione al Lido di Venezia, poi al Museo de la Monnaie di Parigi, aperta fino al 2004, con 40 sculture, conseguendo un successo tale da meritare il conferimento del  massimo riconoscimento artistico internazionale, il “Commandeur de l’Odre des arts e des lettres” dal Ministro francese della cultura. La sua prima scultura sul mondo dei bambini l’ha donata alla FAO, di cui è stata ambasciatrice, ruolo immortalato anche in un francobollo della Repubblica di San Marino, in una serie filatelica con esemplari riferiti specificamente alla sua arte scultorea e a quella fotografica. oltre che alla diva del cinema.

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Particolare delle sue sculture all’interno della Chieesa di Sant’Agostino

L’aspetto forse inatteso, e tanto più straordinario, è che il suo impegno non si è limitato all’idea e al disegno dell’opera, lei  ha lavorato direttamente alla realizzazione nel suo atelier di Pietrasanta dove nel periodo di maggiore attività trascorreva gran parte del suo tempo, seguendo le varie fasi: cioè modellando la creta  e ritoccando le cere e il gesso, fino alla fusione in bronzo nelle locali fonderie, compresa la doratura  di molte di esse, e alla finitura con frese  e carte abrasive; anche in un materiale difficile come il marmo. Il disegno e la pittura fanno parte dei suoi interessi artistici, in preparazione alle altre forme espressiive; la mostra di Pietrasanta, dedicata direttamente alla scultura, aveva anche una parte di disegni e pitture esposte nelle pareti di sale con al centro alcune opere scultoree.

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Sala delle Grasce, Pietrasanta, 3 sue sculture

Ha confidato  di aver tratto insegnamenti dai grandi  artisti che ha frequentato, come Giorgio de Chirico e Salvador Dalì, e da scultori come Francesco Messina e Giacomo Manzù.  Mentre posava da modella  cercava di cogliere i segni inespressi della loro arte finchè in uno di tali momenti decise di riprendere la scultura che aveva lasciato: “Guardando il maestro Giacomo Manzù, mio amico, che mi ritraeva per la seconda volta, proprio vedendo lavorare lui, quest’amore per l’arte che avevo compresso in tanti anni della carriera cinematografica è riesploso, non potevo più resistere… E’  lui che mi ha comunicato l’umiltà e la passione indispensabili per scolpire”, ebbe a dire nel 2003 rispetto alla mostra “Open” a Venezia, la prima personale dopo le anticipazioni,  intervistata da Diane Barrow.

Sala delle Grasce, Pietrasanta, 5 sue sculture

E aggiunse: “Io amo la scultura, la amo talmente, questa è una cosa certa… Ho aspettato, ho compresso questa voglia in tutti gli anni della mia carriera cinematografica che però è arrivata dopo… Ho studiato all’Accademia di Belle Arti, il mio primo disegno è stato pubblicato su Topolino quando  avevo dieci anni”.  Andò ancora oltre, nel suo sfogo sincero:  ”Finalmente posso anche in Italia, dare qualcosa di me, qualcosa di più profondo, rispetto alla carriera cinematografica perché le sculture sono una ‘creazione completa’, una creazione dove non esiste lo sceneggiatore, non c’è il regista, non c’è il produttore (ridendo), perché purtroppo tutte queste sculture mi costano… Però investo volentieri tutto quello che ho guadagnato nella vita cinematografica nelle sculture, perché ci credo, e spero che quest’amore che io ho per questo lavoro, sia anche capito da voi e sia capito da tutte le persone che mi vogliono bene”. Evidentemente,  non lo ha capito – pur volendole bene a stare alle sue  ripetute profferte di affettuosa amicizia –  la conduttrice nazional-popolare di cui abbiamo ricordato la penosa incomprensione in “Domenica in” di Pasqua 2020. 

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Sala dei Putti, Pietrasanta, sua scultura a sin., alle pareti suoi dipinti e disegni

Ha concluso l’intervista del 2003 con queste parole eloquenti in cui c’è forse una chiave interpretativa di ciò che sembra incomprensibile, riferendosi alla mostra al museo Puskin di Mosca: “Il successo è stato talmente enorme che mi sono sorpresa perché purtroppo nella vita il successo dà fastidio, dà fastidio a tanti. Io sono sempre circondata dalla perplessità di gente che dice: ma le avrà fatte lei? Anche quando ho cominciato la fotografia, ricevevo la stessa critica: ma avrà scattato lei le foto? E così il successo pieno a Mosca mi ha molto sorpreso, poi ho accettato con gioia l’invito di Paolo De Grandis per dare un’anticipazione in Italia delle mie opere, sono 11 qui esposte al Lido di Venezia. La prossima sarà una mostra più completa a Parigi al Museo Monnet, con più di 40 sculture”. Per concludere con le parole: “Sono felice finalmente di potermi esprimere con quello che amo di più, spero che il pubblico condivida il mio amore per le opere che faccio perché è la cosa alla quale tengo di più”. Sono parole di 17 anni fa, nella Pasqua del 2020 ha mostrato la stessa passione e ha ricevuto un’incomprensione ancora maggiore.

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Sala del Capitolo di Pietrasanta, sua scultura al centro, alle pareti suoi dipinti e disegni

Andiamo avanti. Da un’intervista  di Cinzia Donati – pubblicata su Paspartu il 16 dicembre 2008, poi nel proprio sito “La Stanza delle Torture” in occasione della  mostra di Pietrasanta – riportiamo alcune risposte rivelatrici sulla spinta interiore della sua passione artistica.  Alla domanda se l’avesse soddisfatta più l’arte o il cinema ha risposto: “L’arte è andata bene, ma per il resto lasciamo andare. A Mosca  e Parigi mi hanno detto: ‘Pensavamo di conoscere Gina Lollobrigida attraverso i suoi film, ma dopo aver visto la mostra ci siamo ricreduti’”.  Sulla scelta di Pietrasanta: “E’ un posto molto importante per l’arte: ci sono laboratori e artisti da tutto il mondo. Io che amo le sfide ho pensato di venire proprio qui, dove la critica e il giudizio sono più appropriati e dove lavorare è più difficile, perché in casa propria è sempre più difficile farsi apprezzare. A Pietrasanta gli artisti sanno apprezzare il bello e il brutto, ci sono abituati. Poi veramente mi sento a casa mia: posso uscire in pantofole o con la polvere di marmo in viso e nessuno ci fa caso… Qui si respira un’aria di tranquillità: quando l’ho vista ho capito che valeva la pena fare una mostra qua. Il giudizio degli artisti competenti è molto importante. È una specie di “anteprima”.  Umiltà, dopo l’Expò di Siviglia del 1992 e il Museo Puskin  del 2003, ma è anche questa la sua caratura di diva suo malgrado, etichettata e ghettizzata nel divismo d’epoca mentre ha da offrire tanto di nuovo oggi.   

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Catalogo mostra “Vissi d’arte” a Pietrasanta, 2008

La  fotografia  nel talento artistico della Lollobrigida ignorato dalla TV

Questo per ricordare la Lollobrigida scultrice. Ma c’è anche la Lollobrigida fotografa, ancora più dominante e costante nella sua figura artistica, perché  già la mostra del 2009 al Vittoriano – che abbiamo ricordato – significativamente nell’anno la mostra di sculture a Pietrasanta celebrava 50 anni di fotografie. Un’attività incessante e appassionata  sulle  vicende umane nei più diversi ambienti  culturali e antropologici, dall’Occidente sviluppato e ricco al Terzo mondo arretrato e povero, dai potenti della terra agli umili ed emarginati ai quali va la sua personale predilezione espressa nel linguaggio dell’arte fotografica, oltre che nell’impegno diretto nelle organizzazioni umanitarie, come Unicef e FAO.

Gina Lollobrigida, “Primavera”, 2002, marmo, nella Chiesa di Sant’Agostino lei a sin.

Una galleria di popoli e di paesi dei diversi continenti, fissati nell’obiettivo della sua macchina fotografica fin dal 1959, come di celebrità della politica, dell’arte  e del costume,  quali Indira Gandhi,  Fidel Castro ed Henry Kissinger, Yuri Gagarin e Neil Armstrong, Salvador Dalì ed Ella Fitzgerald, Maria Callas e Liza Minnelli, Grace Kelly e Audrey Hepburn, Paul Newman, Sean Connery  e tanti altri.  Ha pubblicato otto libri fotografici, nel 1973 il volume “Italia mia” ha vinto il premio “Nadar” al miglior libro fotografico dell’anno con oltre 300.000 copie vendute nel mondo; venti anni dopo nel volume “The Wonder of Innocence” ha pubblicato celebri composizioni fotografiche di bambini e animali risultato di 14 anni di lavoro con tecniche di composizione che hanno anticipato addirittura  quelle poi utilizzate nei computer. Spettacolari i cataloghi delle sue mostre in più lingue. 

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Gina Lollobrigida, “Primavera”, partiolare

Tra fotografia e scultura, cosa preferisce? le è stato chiesto: nella stessa intervista di Cinzia Donati:  “La fotografia ce l’ho nel sangue, l’ho fatta per quaranta anni.  La scultura mi si addice molto perché si è padroni di se stessi. Non c’è il regista come al cinema”. E “Le Monde” nel 1980,  in occasione di una sua mostra al  Museo Camevalet di Parigi, quando le fu conferita  la medaglia d’oro della città, così commentò le sue fotografie: “Ha l’occhio di un Cartier Bresson, ha talento, è piena di energia e le sue foto hanno una forza sconvolgente. E’ veramente una grande artista”.

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Gina Lollobrigida, “La Fata turchina” , 2003, bronzo, a sin., con lei il sindaco di Pietrasanta Massimo Mallegni

Su  questo versante della sua  arte saremo ancora più espliciti  ripubblicando, in un articolo contestuale a parte, la nostra recensione – che uscì in un altro sito, non più raggiungibile – sulla sua mostra al Palazzo delle Eposizioni nella quale si riconobbe e volle attestarcelo.  L’anno successivo seguì la mostra fotografica negli Stati Uniti al Santa Barbara Museum of Art  e un “tour”  mondiale in sedi espositive prestigiose.

Philippe Daverio  è il critico d’arte di grande livello che ha presentato sia la mostra di scultura a Pietrasanta nel 2008 che quella di fotografie al Palazzo delle Esposizioni nel 2009.   L’americano Robert C. Morgan, curatore della  mostra “Open 2003” – l’esposizione internazionale di sculture e installazioni, parallela alla mostra del Cinema di Venezia  – mise in risalto l’attenzione ai dettagli delle sue sculture esposte all’Excelsior, “come un ritorno al barocco in un ‘new rococò’”.

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La scultrice dinanzi alla sua “Esmeralda” a Pietrasanta

I direttori della Biennale d’Arte di Venezia, Maurizio Calvesi e Francesco Bonanni, ne elogiarono  l’attività artistica, il secondo la invitò a una visita speciale ai Giardini. “Con  la fotografia e la scultura sono tornata ad interessarmi agli altri, a cercare di capire come va il mondo, come viviamo, quali sono i problemi della quotidianità”, è il sigillo artistico e umano di un’artista che ha preso le distanze dal divismo e dal gossip in cui cercano di confinarla, in un’inaccettabile censura alle sue espresisoni nell’arte. 

Una storia artistica la sua, che ha tenuto  riservata e nascosta per decenni, anche quando – lasciato il cinema che non sentiva più suo  – all’inizio degli anni ’70 è tornata alla sua vera vocazione, l’arte. «Finché, a un certo punto della vita, mi sono resa conto che quel ruolo di primo piano mi stava stretto. Grazie ad altri interessi, la fotografia, la scultura, ho imparato a mettermi da parte e osservare gli altri». Non in modo passivo ma con un intenso impegno artistico venuto allo scoperto nei momenti esaltanti, in presenza di mostre in tutto il mondo, di scultura e fotografia, libri e critici illustri. Soprattutto dall’iniizo del secondo millennio in poi.

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Il popolo di Pietrasanta festeggia Gina Lollobrigida all’inaugurazione della sua mostra

Ripercorrendo questa storia pur molto sommariamente appare incredibile come sia del tutto ignorata  nella televisione nazional-popolare, nonostante i suoi espliciti richiami di cui abbiamo riportato qualche momento, quasi si volesse censurare  l’arte per non oscurare il divismo e il gossip. Scandaloso e vergognoso voler relegare  la Lollobrigida di oggi, e dei decenni scorsi, soltanto alla memoria storica di se stessa e del divismo cinematografico; come se per il resto sia “inutile” come viene ritenuta “inutile” l’arte e la terza età  nei fatti  denunciati con l’oratoria appassionata da Stefano Massini.

Perciò dalla  citazione dello scrittore siamo  passati a Gina Lollobrigida, che ci sembra esserne  il “testimonial” ideale. Anche lei si unisce al suo grido “non sono inutile”, ad  entrambi  ci uniamo nel nostro piccolo, con slancio altrettanto appassionato unito a una incontenibile voglia di continuare a dimostrarlo.

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Il francobollo di San Marino sulla Lollobrigida scultrice

Info

Cfr. il nostro articolo citato “Coronavirus, la prima linea e le retrovie di una guerra asimmetrica”, in questo sito 26 marzo 2020; in particolare il commento di Giuseppe Maria Sfligiotti e i due commenti di Piercarlo Ceccarelli con le nostre risposte. I conduttori delle due trasmissioni televisive Rai, nell’ordine di citazione, sono Mara Venier e Pippo Baudo. La nostra recensione alla mostra del 2009 “Gina Lollobrigida fotografa”, già  pubblicata in cultura.inabruzzo.it dell’agosto 2009,  non più raggiungibile, viene ripubblicata in questo sito contestualmente al presente articolo  nella stessa data. La citazione di Savonarola si riferisce al libro di Stefano Massini, “Io non taccio”, Corvino Meda Editore, pp. 112, con le veementi “prediche” del frate fiorentino “riscritte” da Massini e recitate nell’unito DVD da don Andrea Gallo. Le interviste citate sono nei siti gazzettadisondrio.it per quella di Diane Barrow, lastanzadelletorture.it per quella di Cinzia Donati. I 5 articoli con la nostra proposta di fare della scultura “Vivere insieme” il simbolo della rinascita dell’Aquila sono usciti il 20 gennaio 2013 e il 28 ottobre 2012 in www.arteculturaoggi.com, il 18 gennaio 2013, 27 ottobre 2012 e 3 settembre 2009 in cultura.abruzzo.world.com, con l’immagine della scultura.

Foto

Le immagini si riferiscono alla Lollobrigida scultrice, due di esse mostrano i suoi disegni e dipinti alle pareti di sale con al centro sue sculture, e l’ultima introduce alla Lollobrigida fotografa, le cui immagini sono inserite nell’apposito articolo sulla mostra del 2009 al Palazzo delle Esposizioni pubblicato contestualmente. In apertura Gina Lollobrigida, attrice, scultrice, fotografa, e Stefano Massini, scrittore; seguono la scultrice con il bozzetto di “Esmeralda” , e Gina Lollobrigida, “Esmeralda” 2002, bronzo; poi, la scultrice con il bozzetto del Gruppo di bambini e Gina Lollobrigida, Gruppo di bambini; quindi, la scultrice con la sua opera “Vivere insieme” , e Gina Lollobrigida, “Vivere insieme” 1992; inoltre, Gina Lollobrigida, “Marylin” , e la scultrice con “Petite Dancesuse”, 1994, bronzo; ancora, Gina Lollobrigida, “Paolina Bonaparte” , e Gina Lollobrigida, statua di bellezza muliebre con motivi vegetali; continua, la scultrice dietro una propria statua con Gian Luigi Rondi e Gina Lollobrigida, statua di Madre con bambino; prosegue, la scultrice si immedesima nella Madre con bambino, particolare, e Gina Lollobrigida, “Andrea Bocelli“, la scultrice con il soggetto della sua statua; poi, Gina Lollobrigida, Ragazzo dalle braccia conserte, con la scultrice; quindi, 3 immagini nel suo laboratorio di scultrice, al lavoro su una statua, poi su un busto e una visione d’inieme del suo laboratorio; inoltre Catalogo in inglese per le mostre di scultura all’estero, e 7 immagini sulla mostra di Pietrasanta del 2008, 2 nell’interno della Chiesa di Sant’Agostino, con sue sculture, una visione d’insieme e una particolare, 2 nella Sala delle Grasce, rispettivamente con 3 e 5 sue sculture, 2 nella Sala dei Putti e nella Sala del Capitolo, rispettivamente una sua scultura a sin. e al centro, alle pareti suoi dipinti e disegni, completa il Catalogo della mostra “Vissi d’arte” 2008; ancora, Gina Lollobrigida, “Primavera” 2002, marmo, nella Chiesa di sant’Agostino, lei a sin., e Gina Lollobrigida, “Primavera”, particolare; continua, Gina Lollobrigida, “La Fata turchina” 2003, bronzo, a sin. con lei il sindaco di Pietrasanta Massimo Mallegni; poi, la scultrice dinanzi alla sua “Esmeralda” , e il popolo di Pietrasanta festeggia Gina Lollobrigida all’inaugurazione della sua mostra; infine, il francobollo di San Marino sulla Lollobrigida scultrice e, in chiusura, Gina Lollobrigida sui tetti di Roma fotografa una modella, che introduce all’articolo contestuale sulla Lollobrigida fotografa Le immagini sono tratte dai siti di seguito indicati nell’ordine in cui sono inserite nel testo, si ringraziano i loro titolari per l’opportunità offerta, precisando che hanno solo scopo illustrativo e culturale senza alcun intento economico, nè commerciale, nè pubblicitario; qualora la pubblicazione non fosse gradita, le immagini verranno rimosse subito su semplice richiesta dei titolari dei siti. Sono tratte dai siti web: biografieonline.it, trentino.cultura.it, musapietrasanta.it, pinterest.it, vsuete.com, museodeibzzetti.it, style.corriere.it, arteculturaoggi.com, getty images, cicinatuttacronaca.wordpress.com, fotoalamy.it, alainelkaninterviews, corriere.it, loschermo.it, lavoce.it, museodeibozzetti.it, repubblica.it, alainelkaninterviews, caffeinamagazine.it amazon.it, 3 tutte del sito web musapietrasanta.it, 4 tutte museodeibizzetti.it, amazon.it, lastanzadelletorture.it, iltirreno.gelocal.it, 3 tutte del sito web lastanzadelletorture.it, riminibeach.it, archiviopizzi leformiche.net.

Gina Lollobrigida sui tetti di Roma fotografa una modella