Russia on the Road, il lavoro e la vita quotidiana, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Termina il racconto della nostra visita alla mostra “Russia on the Road- 1920-1990”,  che presenta  nel Palazzo Esposizioni a Roma dal 15 ottobre al 15 dicembre 2015 circa 60 opere di artisti russi espressive della spinta creativa del loro talento artistico tra i vincoli e i messaggi propagandistici del “Realismo socialista”. E’ stata realizzata in collaborazione  soprattutto con l’Istituto d’Arte Realista di Mosca, su un’idea di Aleksej Ananjev,  a cura di Nadeshda Stepanova e Matteo Lanfranconi.  Il Catalogo curato dall’Istituto contiene saggi di Lanfranconi, Leonid Lerner e Gian Piero Piretto.

Abbiamo commentato in precedenza il contenuto generale della mostra soffermandoci poi, in particolare, sulla prima sezione, quella relativa all’irruzione dei mezzi di trasporto nella realtà di un territorio sterminato dove le comunicazioni sono vitali. La velocità e rapidità delle nuove linee ferroviarie e degli aerei, insieme all’introduzione dell’automobile nel primo ‘900, sono stati eventi epocali che gli artisti hanno celebrato con le loro opere. Sia perché ne hanno tratto ispirazione, sia per la spinta del regime che ne ha fatto uno strumento di propaganda sul progresso nella nuova Russia.

Nei dipinti che abbiamo già commentato prevalgono le macchine e, anche quando vi sono figure umane, spesso sono degli addetti e comunque sono sovrastate dall’imponenza e dall’mportanza prevalente dei mezzi raffigurati. Le persone, quando riprese,  in genere sono viste da lontano, come nei due quadri di Labas del treno “in corsa” con i passeggeri nel vagone o nella “Metro”, allineati sui gradini della scala mobile, senza poterne osservare atteggiamenti ed espressioni; anche la figura ravvicinata di donna emancipata al volante del quadro di Pimenov “La nuova Mosca” è vista di spalle, strumentale rispetto alla circolazione moderna nell’arteria cittadina in un contesto di accelerata crescita urbana.

Le tre sezioni successive,“Road movie sovietico”, “Amore e macchine” e “Russia selvaggia”,  entrano, invece, nella vita delle persone, consentono di valutarne atteggiamenti ed espressioni, a livello individuale e collettivo, delineando un affresco quanto mai colorato e colorito di una realtà nella quale il regime ha imposto regole rigide condizionando fortemente anche l’attività degli artisti per sottoporla alle esigenze della propaganda.

Le limitazioni e l’impronta dell’arte nel “Realismo socialista”

Nonostante tali vincoli, tuttavia, non si può negare validità a un periodo che troppo sommariamente è stato ritenuto non illuminato dall’arte intesa come espressione di una libera ispirazione unita al talento; anche il “Realismo socialista” ha prodotto veri capolavori e sarebbe semplicistico liquidare la produzione artistica di mezzo secolo nel ‘900  come manifestazione di mera propaganda asservita agli interessi del regime. Per cui vi sarebbe stato un nuovo Medioevo, il realismo celebrativo imposto negli interminabili anni bui compresi tra le avanguardie degli anni ’10 e  il ritorno alla libera manifestazione artistica iniziato a fine anni ’60 ma espresso a livello internazionale solo a partire dagli anni ’90.  Niente di più sbagliato, e la rivalutazione in atto di questo periodo, dovuta anche alla presenza di grandi artisti – citiamo per tutti Alecsandr Dejneka – risponde all’esigenza di “sdoganamento” che ha riguardato in genere gli artisti ritenuti compromessi con i regimi imperanti, anche di segno opposto al comunismo: si pensi a Mario Sironi e a Gabriele d’Annunzio.

In questo contesto, Matteo Lanfranconi sottolinea i motivi autentici alla base dell’ispirazione degli artisti di maggiore talento, che mantenevano la loro spinta spontanea pur venendo a coincidere con la mistica di regime. Perché era autentica l’enfasi sulla moltiplicazione delle possibilità di azione e  movimento in un territorio sconfinato e in una megalopoli come Mosca, al punto di configurare l’Uomo nuovo la cui accresciuta potenza ben si coniugava con quella del regime sovietico.

Alla base dell’impostazione del regime c’era la visione che l’arte doveva contribuire alla creazione di un mondo nuovo, un “realismo idealista” divenuto “realismo socialista”, e anche per questo doveva essere “comprensibile alle masse”, secondo il pensiero di Lenin  che voleva arrivare al popolo.  Questo criterio non si affermò subito dopo la Rivoluzione di ottobre:  nel primo decennio,  pur ponendo l’arte al servizio dello stato proletario, rimase un pluralismo in cui trovò spazio la sperimentazione  sia pure entro la conciliazione tra realismo ottocentesco e linguaggio moderno;  e convissero l’Associazione dei pittori della Russia Rivoluzionaria , legata al realismo celebrativo,  e l’Associazione dei pittori del cavalletto, che cercava di rispondere alle nuove esigenze senza sacrificare lo slancio modernista, alla quale era vicina l’Ost che prediligeva lo “stile del presente”.

Poi l’Associazione rivoluzionaria  ebbe il sopravvento sulle altre due che sparirono,  e anche la sua linea realista e documentarista degradò nel “più spiccato asservimento dell’arte alle funzioni educative e formative del popolo – osserva Lanfranconi –  con un progressivo abbandono del piccolo formato in favore della scala monumentale meglio accessibile alle grandi masse popolari”.  Così nacque e si sviluppò il “Realismo socialista”, “incardinato sui principi della lealtà al partito e del contenuto ideologico  e radicato in una matrice intrinsecamente romantica, orientato a un ideale, il  ‘ radioso avvenire’ come sorta di succedaneo del “paradiso in terra”.

Dopo gli anni ’20,  le forme espressive  della nuova realtà dinamica lasciarono  il modernismo retrocedendo all’accademismo ottocentesco.  Anzi, dopo il 1936,  furono aspramente combattute le nuove tendenze impressioniste e il formalismo e venne bandito tutto quanto era al di fuori del “Realismo socialista”, anche di artisti importanti. Si affermò la “Teoria del riflesso”  per cui l’arte doveva essere lo specchio della realtà, anche se rifletteva l’utopia idealista della fede nel “radioso avvenire”.   Doveva essere “a prova di popolo” come evidenza narrativa e contenere i valori  del regime, essere cioè “socialista nel  contenuto e realista nella forma”, senza possibili alternative.

Con la fine della seconda guerra mondiale alla “Teoria del riflesso” si aggiunse quella del “Non conflitto”,  assumendo che la società sovietica aveva cancellato ogni contrasto sociale; ciò diede il via ad immagini improntate all’ottimismo con il popolo appagato della condizione sociale e lavorativa in una natura essa stessa metafora della felicità goduta dalle persone; il tutto  in uno stile sempre più precisionista quasi per fotografare una realtà, nel momento in cui si evocava l’utopia.

Alla morte di Stalin nel 1953 la destalinizzazione determinò il “disgelo” anche nell’arte, gli artisti a poco a poco si liberarono dai rigidi schemi celebrativi dell’utopia collettivista per rappresentare la realtà partendo dai valori semplici dell’esistenza: ci fu al riguardo quello che Lanfranconi definisce una “sorta di revival impressionista”. Si afferma la corrente dello “Stile severo”- che riuniva elementi di varia provenienza tra cui il realismo politico di Guttuso – e senza ripudiare il “Realismo socialista”  introduce “una dimensione morale ed etica rispetto alla rappresentazione della condizione umana via via più lontana dalla radiosità trionfalista della pittura staliniana”.

Dieci anni dopo Khruscev cerca di chiudere le aperture  che con il pluralismo avevano portato al distacco dell’arte dalle esigenze dello stato sovietico,  e così farà il successore Breznev, ma gli artisti non tornarono nell’alveo celebrativo, molti restarono lontani dalla visione rassicurante del regime e mantennero lo spirito anticonformista e  libertario  proprio dell’arte.

Convissero quindi, nel panorama artistico russo,  nei trentacinque anni dopo la morte di Stalin. “tendenze progressiste, una serie di ‘ritorni all’ordine’ più o meno acconciati alle aggiornate esigenze, proposte non allineate e, infine, movimenti sotterranei o clandestini di  rottura”.

La fine degli anni ’80 segna la dissoluzione del regime, e con essa termina ogni limitazione e ogni condizionamento alla libertà espressiva degli artisti. Per cui il periodo precedente, dopo la fase di oscuramento e declassamento,  diventa un terreno di studio e di analisi per scoprire il valore artistico che nessuna imposizione esterna ha potuto cancellare.

Proseguiamo, quindi, la visita commentando le opere che, esprimendo gli atteggiamenti e i volti della  gente comune colta nella quotidianità, rendono a seconda delle fasi in cui sono state realizzate, dagli anni ’20 agli anni ’80, le diverse  situazioni  degli artisti sovietici  rispetto ai vincoli alla loro creatività e i modi con cui  hanno potuto manifestare il proprio talento.

Dai mezzi di trasporto alle persone nella loro umanità

Anche nella sezione “Road movie sovietico”  come nella precedente, ci si riferisce ai  mezzi di trasporto ma ripresi non più da  protagonisti dell’irrefrenabile sviluppo, bensì  come veicoli sui quali  le persone sono viste nei volti e nelle espressioni, protagoniste assolute della nuova vita.

“Assistente di volo”, 1973, di Jurij Pimenov rende la personalità della hostess che percorre con le sue borse una via di Mosca con le cupole del Cremlino sullo sfondo, gli aerei non ci sono affatto, è una scena di vita urbana  con l’elegante silhouette della giovane donna, moderna e determinata come quella al volante nel suo celebre quadro  “La nuova Mosca”   della sezione precedente che abbiamo citato ricordando la donna sportiva  di Tamara de Lempicka sulla Bugatti verde.  

La gente della Metropolitana è un tema prediletto dagli artisti, considerando il significato che veniva dato dal regime alla monumentale realizzazione con la quale si intendeva  fare del luogo più frequentato dalla popolazione moscovita  una “dimora”  per il popolo lussuosa  come la reggia degli Zar. Ma non viene celebrato il lusso quanto l’umanità dei frequentatori. “Sulla scala mobile. Metropolitana di Mosca”, 1941-43, di Grigorij Segal,  dà una immagine ravvicinata  rispetto a quella da lontano di Labas di “Metro” nel 1935, vediamo persone dei più diversi ceti, professioni ed età, anche un neonato in braccio e l’intellettuale che sbircia il giornale.  “Due donne di città. Bozzetto per il quadro ‘In metro'”, 1962,  sono viste ancora più da vicino, sedute in attesa con lo sguardo assente. Invece sono molto vigili “Le impiegate della metropolitana Nadezda Alekseeva e Faina Tjaguseva”, 1971-72, di Semen Rotnitskij, efficienti e pronte nella loro divisa blu con il basco rosso.  Il quadro più recente, “Città. Ora di punta”, 1982, di Marija Dreznina, mostra l’uscita dalla stazione sulle scale della Metro di un gruppo di persone riprese nell’oscurità per sottolinearne la solitudine, l’atmosfera è mutata, non c’è più l’enfasi modernista, tutt’altro.

Naturalmente non mancano i due mezzi urbani per eccellenza, tram e autobus, anche se a Mosca è la Metro il fiore all’occhiello. “In tram”, anni ’30, di Julija Razumovskaja, fa vivere il clima delle ore di punta, con  in primo piano due donne dentro il veicolo che guardano la gente affollarsi all’esterno per salire.  Mentre “Autobus di provincia”,  1970-71, di Boris Rjanzov, è una ripresa da lontano della fila di gente alla fermata che sale sul pullman in uno scenario  nevoso.

Della fine degli anni ’70 il trittico “Il mattino”, 1978,  formato di tre parti che, come in una sequenza cinematografica, presentano  la fabbrica,  la casa e al centro il filobus con una persona stretta nel suo soprabito in fila per salirvi, lo stesso pittore Andrej Volkov, l’atmosfera è quanto mai triste,  è un quartiere dormitorio con l’aria stagnante, sono gli anni grigi di Breznev senza slanci. Anche qui la persona si vede da lontano, la psicologia è resa di riflesso dallo squallore ambientale.

In primo piano, invece, la persona ripresa in “Mikad, Raccordo anulare di Mosca (parte del ciclo Autobus di linea”), di Semen Fajbisovic:  siamo nel 1984, è vista da dietro mentre guarda fuori dal finestrino ma, a differenza del quadro con le due donne  “In tram”, fuori non c’è gente in fila per salire, l’autobus corre nella campagna che si vede in una inquadratura  il cui precisionismo richiama il “fotorealismo” americano, basato su appositi  scatti fotografici. Ci ricorda, per la vista posteriore e la sua ampiezza,  il quadro di Pimenov, con il bus invece dell’auto.

Un’inquadratura per molti versi analoga è quella  ferroviaria di Eduard Bragovskij, “In viaggio”, 1961,  due persone sono viste di profilo sedute l’una di fronte all’altra davanti al finestrino che dà su un paesaggio innevato,  i colori  dei loro abiti contrastano con il biancore della neve, sono vicine ma estranee,  diverse nell’atteggiamento e forse nella destinazione, rendono  lo spirito del viaggio.

C’è un altro tipo di viaggio con uno scopo e una destinazione comune, quello degli studenti, il clima è molto vivace. E’ gioioso in “Andando a studiare”, 1953, di Anatolij Papjan, in piedi guardano con interesse fuori dal finestrino dello scompartimento, indicando qualcosa. Altrettanto vivace in “I versi di Majakpovskij”, 1955, del grande Alecsandr Deineka,  anche qui studenti , maschi e femmine, che li declamano, altre persone li ascoltano con il paesaggio che scorre dal finestrino. Scena idilliaca, come i versi del Poema di ottobre ” e la vita è proprio bella, e si vive proprio bene”.

Gioiosa anche “La brigata della locomotiva”, 1957, di Andrej Kurnakov, questa volta sono i macchinisti  a essere ripresi sorridenti; mentre in Tajset”, 1959, di Viktor  Popkov,  due lavoratrici del cantiere ferroviario con alle loro spalle un treno in corsa,  sono viste nella dura quotidianità.

Nella “Stazione Kazanskij”, 1081, di Alecsandr Petrov, domina la vista degli scambi dei binari, sembra che manchi la presenza umana, invece si intravede nello specchio retrovisore della locomotiva appena delineata il viso del macchinista, modello  è stato il padre dell’artista.

Ci sono anche due visioni marine molto diverse: “Sulla zattera”, 1949, di Jakov Romas, riprende la tranquilla discesa del fiume  di una famiglia di lavoratori fluviali con una tavola apparecchiata; “Porto di Leningrado”, 1964, di Petr Korostelev,  mostra una grande nave, le automobili sul molo e i passeggeri, particolari resi con un precisionismo fotografico.

I lavoratori con le macchine  e nell’ambiente

Ancora più  espressive della psicologia individuale le immagini dei quadri esposti nella sezione “Amore e macchine”,  che riguardano non gli utilizzatori dei mezzi ma i lavoratori, spesso donne a porre in rilievo l’emancipazione femminile e il ruolo paritario attribuito dal regime. Vediamo così due lavoratrici nelle ferrovie, in “Viaggi-strade”, 1954, di Mikhail Anikeev e “Sulla tratta. Addetta allo scambio dei binari”, 1959, di Gennadij Dar’in,  l’atmosfera ferroviaria è resa dal vapore e dal vento del treno in arrivo, l’atteggiamento di entrambe è fermo e deciso; e  “Mar’jam Vasil’kova, camionista della fabbrica Kamaz”, 1970, di Viktor Kudel’kin,  dall’espressione ancora più determinata nel reggere il volante in abiti da lavoro ma con un fazzoletto rosso sgargiante che ne mette in rilievo la femminilità in un’occupazione considerata fino ad allora maschile.

La sua posizione di profilo con le braccia tese la accostiamo a quella  di “L’escavatorista”, 1969, di Michail Anikeev di cui abbiamo citato “Viaggi-strade”, anche se la figura maschile esprime tensione e potenza, come la statua di un atleta greco.

C’è anche l’abbinamento uomo-donna in due situazioni molto diverse. “Nelle steppe del pre-Volga”, 1934, di Alecsandr  Samokhvalov, mostra  la donna sul cingolo del trattore con le braccia larghe che sembra volare verso le conquiste dell’emancipazione, mentre l’uomo più in basso le tende il braccio in un movimento  che è “al tempo stesso attrazione e opposizione”. Invece in “Camion in panne. Studio per il quadro ‘In viaggio'”, anni ’50-’60, di Gelij Korzev, mentre il camionista è disteso sotto il veicolo impegnato nella riparazione, la donna con il bambino in  braccio è seduta in attesa sul parafango interiore, non è la donna emancipata e lavoratrice ma la mamma. Viene ricordato che questo abbinamento ricorda la scultura simbolica “L’operaio e la colcosiana” di Vera Mukhina , e anche la falce e martello univa il lavoro femminile in agricoltura a quello maschile nelle fabbriche. E’ stato accostato addirittura  alla celebre composizione di Caravaggio “Il riposo durante la fuga in Egitto”, considerandolo un’anticipazione del successivo ciclo biblico in cui si impegnò l’artista.

Biblica pure nel titolo, oltre che nella composizione, “La creazione del mondo”, 1973, di Jurij Pimenon, l’autore del citato “La nuova Mosca”, con la donna emancipata al volante della decappotatbile; qui le due figure nude evocano Adamo ed Eva, tra l’acqua e il verde di un giardino terrestre con una grande ruota di camion. Mentre riporta agli atleti dell’antica Grecia “Azovstal'”, anni ’70, di Anatollij Sipov, l’aitante lavoratore novello Atlante davanti alla locomotiva sbuffante.

Oltre a queste immagini individuali o con due persone vi sono anche scene collettive: “Di ritorno dal turno in mare”, 1957, di Tair Salakhov, mostra un gruppo di lavoratori, uomini e donne, su una passerella in cui resistono alle folate di vento contrario, forse una metafora; nessuna spinta  contraria; mentre nel  “Ritratto di gruppo della brigata dei tagliatori di metallo Nakipov della fabbrica Kamaz”, 1978-80, cinque lavoratori in una pausa di lavorio visti in diversi atteggiamenti.

Lavoratori anche nella sezione “Russia selvaggia” in  varie situazioni.  Anatolij Sipov presenta  due opere in sequenza logica, anche se non cronologica: “Gabbiani”, 1971,  con tre uomini sulla barca impegnati nel tirare le reti mentre gli uccelli marini volteggiano intorno, in un celeste e blu dominante di tipo impressionistico; “La stagione della pesca”, 1969 , con tre donne in primo piano che portano ceste colme di pesce scaricato dalle barche per mano dei pescatori dietro di loro.

Mentre “Pionieri”, 1975,  di Oleg Ponomarenko,  e “La Brigata Zakharov. Fabbrica Kirovskij”, 1984-85,di Nicolaj Baskalov mostrano  due  scene molto diverse, che tuttavia possono considerarsi anch’esse in sequenza logica: la prima ritrae tre uomini al bivacco con gli stivali stesi ad asciugare al fuoco, nell’ambiente inclemente e sconosciuto; la seconda cinque operai  davanti a trattori monumentali, tra la neve nella quotidianità del lavoro, in una scena teatrale. In fondo,  si deve al coraggio dei “pionieri”  nel territorio sconfinato se il lavoro può dispiegarsi in modo così spettacolare.

In questo contesto si collocano “Le notti bianche”, 1966-67, di Aleksei Michajlov e “Il villaggio di Polascel. Addio”, 1996, di Evgenij Kravtsovisa, che concludono la nostra rassegna:  l’ambiente polare si riflette nel primo dipinto nell’uomo  che torna a casa tra la neve e il gelo con in mano la pagnotta di pane; nel secondo  nella scena dei saluti in partenza su una barca nella pittoresca campagna russa del nord, ci sono amici ospitati dall’artista, la moglie e lui stesso ripreso di spalle. Due immagini che rendono la profonda umanità e il duro sacrificio nel resistere alle difficoltà  della vita e del lavoro.

In fondo, sono i motivi profondamente umani che si  innestano su quelli di esaltazione celebrativa. L’insieme, con i relativi  contrasti e sinergie,  rappresenta i contenuti e la cifra artistica dell’importante stagione pittorica  del ‘900 artistico russo. E’ un arco temporale di 70 anni, in larga parte dominato dal “Realismo socialista”, in cui le forme espressive hanno  il grande merito di descrivere una società e un periodo storico così tormentato con il linguaggio universale e coinvolgente  dell’arte.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Russia on the Road” anche “Impressionisti e Moderni” e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, per quest’ultima cfr., in questo sito, i nostri articoli il 1°, 14 e 23 novembre 2015. Catalogo “Russia on the Road 1920-1990”, Istituto dell’Arte Realista Russa, 2015, pp. 192, formato  20 x 25,5, note e 3introduttive di  Matteo Lanfranconi, Leonid Lerner, Gian Piero Piretto, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 18  novembre scorso, con 13 immagini sulla 1^ sezione  e sulla 2^ sezione, “Road movie sovietico” qui commentata. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli, in questo sito su Deineka 1°e 16 dicembre 2012, su  Guttuso  25, 30 gennaio 2013 ; in “cultura.inabruzzo.it” ,su  Tamara  de Lempicka 3 articolinelgiugno 2011,  Realismi socialisti 3 nel dicembre 2011 in “fotografia.guidaconsumatore.it”  su Rodcenko 2 articoli  nel dicembre 2011 e su Tamara de  Lempicka 5 luglio 2011  (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare l’Istituto dell’Arte Realista Russa, per l’opportunità offerta. Le 13 immagini sono di opere della 2^ sezione, “Road movie sovietico”,  3^ sezione, “Amore e macchine”, 4^ sezione, “Russia selvaggia”.  In apertura,   Jurij Pimenov, “Assistente di volo“, 1973; seguono,  Semen Fajbisovic, “Raccordo anulare di Mosca”, 1984, e Mikhail Anikeev, “Viaggi-strade”, 1954; poi, Anikeev, “L’escavatorista”, 1935, e Tair Salakhov, “Di ritorno dal turno di mare, 1957; quindi, Aleksandr Dejneka,  “In aria”, 1932, e Victor Kudel’kin,  “Mar’jam Vasil’kova, camionista della fabbrica Kamaz”, 1979; inoltre, Kudel’kin, “Ritratto di gruppo della brigata dei tagliatori di metallo Nakipov della fabbrica Kamaz”, 1978-80, e  Anatolij Sipov, “Azovstal“, anni ’70; ancora, Aleksej Mikhajlov, “Le notti bianche”, 1066-67, e  Anatolij Sipov, “La stagione della pesca”, 1969; infine,  Sopov, “Gabbiani”, 1971, e Oleg Ponomarenko, “Pionieri”,  1975; in chiusura, Evgenij Kravtsov, “Il villaggio di Polascel’e. Addio”, 1996.

Dolce vita? Classicismo e modernismo nel design del ‘900, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude  la nostra visita alla mostra “La dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”  che presenta  al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre 2015 al 17 gennaio 2016,  soprattutto oggetti di uso quotidiano  realizzati con la cosiddetta arte applicata usufruendo di maggiore libertà rispetto all’arte maggiore che il fascismo sottopose  ai vincoli del regime. Si succedono diversi stili in una galleria espositiva che mostra anche capolavori pittorici del periodo, dal futurismo alla metafisica. E’ stata realizzata in collaborazione con il Museo Museo d’Orsay e de l’Orangerie, e curata, come il Catalogo Skirà, da Guy Cogeval, presidente delmuseo parigino, con Beatrice Avanzi.

In precedenza ci siamo soffermati in primo luogo sui contenuti della mostra, con un excursus sull’evoluzione artistica del periodo considerato, i primi quarant’anni del secolo scorso,  nel campo delle arti applicate al vivere quotidiano, inquadrandola nel contesto politico e sociale che ha reso questo periodo particolarmente inquieto, per usare un eufemismo: c’è stata la Grande Guerra, poi l’avvento del fascismo, ci sarà la Seconda guerra mondiale.

Abbiamo quindi raccontato le prime sezioni della mostra descrivendo gli oggetti e le opere  rientranti nelle correnti del Liberty e del Futurismo, delle quali abbiamo ricordato i motivi fondamentali: dal richiamo all’armonia della natura nelle volute e negli elementi ornamentali del primo, alla velocità e movimento, essenzialità e dissacrazione del secondo. E’ stata ricordata anche la metafisica, con la sua atmosfera di sospensione e di mistero resa dalle piazze assolate con le piccole figure umane, le lunghe ombre degli edifici a più arcate, i monumenti e il treno sbuffante; e la metafisica degli archeologi con l’omaggio alla classicità reso visivamente dagli antichi monumenti e ruderi, dopo le teste ad uovo e le altre creazioni.

Con il ritorno alla classicità, o per meglio dire con la rifondazione di un nuovo classicismo, entriamo nella sezione del percorso espositivo che segue immediatamente e logicamente la Metafisica. Il neoclassicismo è seguito a sua volta dal razionalismo e dall’astrattismo, nella corsa alla modernità che trova compiuta manifestazione nel processo formativo del mderno “design” del quale cercheremo di dare le coordinate stilistiche e produttive con le  espressioni concrete nel descrivere gli oggetti esposti di autori tra i quali troviamo anche artisti divenuti protagonisti del mondo dell’industria .

Il nuovo classicismo di “Novecento”

Le diverse forme del nuovo Classicismo convergono nel movimento  “Novecento”, guidato da Margherita Sarfatti,  con Malerba e Marussig, Oppi e Sironi,  che nel 1929 contava oltre un centinaio di artisti. Si voleva riportare la pittura, nelle parole della Sarfatti, “al concreto, al semplice, al definitivo”, in particolare “alla “limpidità nelle forma e compostezza nella concezione, nulla di alambiccato e nulla di eccentrico, esclusione sempre maggiore dell’arbitario e dell’oscuro”.  I temi sono quelli classici,  natura morta e allegoria, maternità e nudo, in varie interpretazioni.  

Mario Sironi dalle desolate “Periferie” andrà alle decorazioni sui fasti del regime, in mostra è esposto “Paesaggio urbano con taxi”,  1920, con il motivo futurista dell’automobile in un ambiente metafisico immobile, senza velocità nè movimento.

Di Felice Casorati  tre dipinti molto espressivi, “L’attesa”, 1918-19, e “Silvana Cenni”, 1922,  due intense figure femminili, “Ritratto di Renato Gualino”, 1923-24, un giovane assorto con due donne in piedi sullo sfondo. Figure femminili anche nei dipinti di Ubaldo Oppi, “Ritratto della moglie sullo sfondo di Venezia”, 1921, e   Achille Funi, “Saffo”,  1924, di   Massimo Campigli, “Ritratto di signora  (Donna con le braccia conserte)”, 1924,  e Antonio Donghi, “Cocottina”, 1927, suo anche “Giocoliere”, 1936, scelto come “testimonial” della mostra per la forma compositiva essenziale in un soggetto inusitato. 

Ma le opere pittoriche sono una parentesi nel contesto espositivo dedicato soprattutto agli oggetti del vivere quotidiano. Così vediamo, dopo le tre figure dei suoi dipinti appena ricordati, tavolo e sedie della “Sala da pranzo di casa Casorati a Torino”,  disegno di Casorati, ebanista Cometti. 

Il classicismo e il formarsi del “design” nella prima metà del ‘900

Un interesse particolare presenta la storia della nascita del “Design”  moderno in Italia, che passa per la crisi della grande industria  su cui si erano concentrati gli investimenti anche bellici, e lo sviluppo su base artigiana nei settori dei beni di consumo corrente, dove con l’inventiva si sopperiva alla carenza di risorse.

Le condizioni del paese facevano mancare le spinte del mercato che avvenivano nei paesi più ricchi, quindi si potevano sperimentare forme nuove, archetipi industriali veri “oggetti primi”  con la creatività individuale libera da vincoli alimentata dalla cultura scientifico-tecnica diffusa dai nostri Politecnici, soprattutto di Milano e Torino.

Così si affermano progettisti che diventano imprenditori e si pongono dinanzi all’oggetto da creare – scrive Gianpiero Bosoni  – “con l’atteggiamento di un artista che si avvale spregiudicatamente delle tecniche più diverse per la realizzazione di un’idea”, atteggiamento che “non era sostanzialmente diverso nel settore delle arti applicate o, come allora venivano chiamate, delle industrie artistiche”.

Il clima dell’epoca era tale che la presenza dei vincoli del regime portava a classificare i risultati secondo le posizioni culturali sottese, dal conservatorismo al  razionalismo fino alle avanguardie.  Il ritorno al classicismo era generale, nelle due forme di “classicismo modernizzato”  o di “modernità classicista”, a seconda della prevalenza dell’uno o dell’altro dei due caratteri compresenti; come era comune il recupero dell’italianità, intesa anche qui in due accezioni, come rivalutazione delle tradizioni locali o come stile nazionale. 

 Sotto “il grande ombrello della classicità” si raccolse una nuova generazione di artisti che formarono il movimento del “Novecento”, ed esposero a Monza nella Biennale del 1927 e nella Triennale del 1930. 

Tra loro  viene ricordato Gio Ponti, che fondò la rivista “Domus” con cui vennero diffuse le nuove idee e, scrive Bosoni, “prima e più di ogni altro in Italia, inventò e interpretò la figura del designer, almeno quindici o venti anni prima che questa parola comparisse nel linguaggio degli addetti ai lavori”. E lo fece nella pratica, con le realizzazioni,  da direttore artistico alla Richard Ginori inaugurò la figura del progettista non ristretto nella cultura della fabbrica di porcellane, ma con capacità progettuali fino alle posate e ai mobili, agli aerei e alle ville.

Vediamo esposte una serie di queste realizzazioni di Gio Ponti per la Richard Ginori, in cui è evidente l’ispirazione classicista, a partire dal piatto “Le attività gentili. I progenitori”, siamo intorno al 1925.  Così la  coppa “Emerenziana”, il piatto “Fabrizia” e l’orcio “Le mie donne sui fiori” della serie “Le mie donne”, raffigurate in immagini mitologiche con volute liberty e tratti moderni. Il classicismo è esplicito nelle tre urne “La passeggiata archeologica”, “La conversazione classica”,  “Grottesca”, e nella cista “La conversazione classica”, con piccole figure sulla superficie; fino  al “Trionfo da tavola per le ambasciate d’Italia”, con lo scultore Tomaso Buzzi,  una serie di pezzi  del 1927 di prorompente classicismo.

Classicista, ma in forma stilizzata,  anche lo specchio “Il ratto d’Europa”,  realizzato da Ponti per FontanaArte  nel 1933, tema al quale è intitolata anche la scultura di Alfredo Biagini, 1930,  un nudo femminile sul toro con la morbidezza classica delle forme. L’eclettismo stilistico e progettuale di Ponti è  evocato dal vaso “Prospettica”, 1925,  non il classicismo mitologico ma impostazione geometrica, tante piccole finestre quadrate nere con dentro ciascuna dei piccoli solidi, e dalla lampada “Billia”, 1930, per FontanaArte, una sfera su un cono,  da tre porcellane dipinte  “Mano fiorita”, 1935, e  dalla “Panca”, 1930,  ebanista Magnoni. Un piccola  mostra personale!

Dalla ceramica al vetro, in vetro semplice  “Due vasi blu azzurro”  e il vaso “Libellula” di un blu intenso, entrambi di Vittorio Zecchin; in “vetro soffiato” i “Due vasi sferici con piede tronco-conico”,   1926,  di Carlo Scarpa, in “vetro pulegoso”  l’“Anfora”, 1925-27   di Napoleone Martinuzzi, di un verde intenso, seguita da  tre “Piante grasse” blu, 1929-33; anche in color verde intenso il “Vaso” e il “Vaso dei cavalli marini”, 1932-33, di Tomaso Buzzi, in “vetro alga”. Infine il vaso “Marcia su Roma” 1930-31, di Corrardo Cagli e Dante Baldelli, con immagini epiche, e il “Vaso con arcieri”, 1933.34,  del solo Baldelli , anch’esso evocativo nella sua linearità.

Infine delle vere e proprie sculture ceramiche e in altri materiali: in ceramica il “Vaso con colonna”, 1927-28, di Guido Andlovitz, in legno, metallo e cristallo  la “Lampada da terra ‘Eva’”, 1929, di Giacomo Manzù e Giuseppe Pizzigoni,  in terracotta la  “Donna alla finestra”, 1930,  e in bronzo il “Bozzetto per Athena”, 1934, entrambe di Arturo Martini, in terracotta smaltata la “Coppa sorretta da Pegaso”, di Ercole Drei e Pietro Melandri con cui si arriva al 1940.

Dopo le ceramiche e gli oggetti scultorei, ecco i mobili di uso domestico creati in unico esemplare per destinazioni specifiche come la casa dell’autore o per personalità e ambienti particolari. Vediamo,  realizzati tra il 1927  e il 1931,  il “Mobile-vetrina per la ‘Sala del gabinetto di prova di una sartoria moderna”, 1930, di Pietro Lingeri,  e una serie di poltrone. “Poltrona” e “Dormeuse di casa Pizzigoni a Bergamo, di Giuseppe Pizzigoni, e le “Poltrone del palazzo uffici Gualino”, di Giuseppe Pagano e Gino Levi Montalcini, le “Poltrone”  di Franco Albini, insieme a un originalissimo “Mobile bar con tavolini a nido per la casa Ferrarin a Milano”,  e di Marcello Piascentini, del quale sono esposti anche il “Mobile con inserti scultorei per lo studio del presidente Casa madre dei mutilati e invalidi di guerra”, destinazione anche della poltrona precedente, e “Mobile e due sedie per la casa di Margherita Sarfatti a Milano” in un rosso intenso;infine la “Consolle e panca per casa Corbellini-Wasserman a Milano”, di Piero Portaluppi, cui si deve pure una “Applique”; e la “Panca per la sala d’aspetto del Palazzo uffici dell’E 42”, di Guglielmo Ulrich,siamo al 1939.

Tra razionalismo e astrazione

L’evoluzione artistica non finisce qui, il ritorno all’antico sia pure con intenti moderni  provoca una nuova reazione, che porta alla rivoluzione  dell’astrattismo, e fa piazza pulita delle evocazioni classiche come delle suggestioni futuriste.  Il modernismo ebbe forme geometriche con un razionalismo basato su “metodo, calcolo e disciplina”; era contro “ogni arbitrario sconfinamento nella fantasia creativa”, che poi ebbe il sopravvento liberandosi di qualunque vincolo e riferimento.

E’ esposta una serie di opere, tra razionalismo ed astrazione, per esemplificare anche queste tendenze sempre più evidenti con l’avvicinarsi della fine del quarantennio considerato.

Vediamo quattro dipinti che evidenziano l’impronta geometrica in una prospettiva  astratta, sono “Ritratto di uno stato d’animo”, di Manlio Rho,  1938-39, due “Composizioni”, di Manlio Radice, 1932-36, e “Pittura” di Atanasio Soldati, 1935. Poi tre “Sedie”, tra il 1932 e il 1940,   di Marcello Piacentini, Giuseppe Terragni, e Carlo Mollino, e la singolare “Poltroncina a dondolo detta ‘Seggiovia’”, sospesa,tutte con struttura in tubolari metallici, utilizzati in altre realizzazioni per uso domestico,  la “Lampada da terra ‘Lunimator'” di Luciano Baldassarri, 1929, e il “Portaoggetti” di Giuseppe Pagano e Gono Levi Montalcini, 1930.

La nostra rassegna dell’esposizione termina con  il “Mobile radio” in cristallo di Franco Albini,   il “Vaso e coppa in vetro rosso e nero”,  e tre vasi ‘Tessuto'” con rigature verticali colore verde pastello, di Carlo Scarpa, 1940.

Considerazioni conclusive

Alcune riflessioni  finali per meglio interpretare l’evoluzione nel primo quarantennio del ‘900, di cui abbiamo citato una serie di opere dei generi più diversi, rappresentative dell’eclettismo degli autori e della varietà delle tendenze emerse.

I vncoli crescenti verso la celebrazione dei fasti dell’impero in forme retoriche e monumentali, fortissimi per Roma,  erano meno stringenti per il triangolo industriale Milano-Torino-Genova dove i rapporti  tra la cultura artistica, che andava evolvendo rapidamente verso forme nuove,  e il mondo produttivo restarono aperti agli influssi innovatori nordeuropei.

La “tradizione del moderno” di Gropius e Le Corbusier potè fare strada, anche se in un compromesso con lo “spirito delle tradizioni” italiane, fattore non del tutto limitativo in quanto espressione della “volontà di ricerca autonoma rispetto alle varie ortodossie, nella speranza progettuale di andare oltre il principio degli schemi contrapposti, come quello di antico e moderno”, afferma Bosoni: “Una chiave di lettura, complessa e sperimentale, che sarà alla base delle più interessanti ricerche dell’architettura e del design italiano”.

Del “Gruppo 7” che nel 1926 pubblicò il manifesto culturale della scuola milanese del razionalismo, facevano parte Giuseppe Terragni, Luigi Figini e Luigi Pollini, che con Baldassarri e Pagano, Persico e Lingeri, furono precursori dei “designer” milanesi, di alcuni di loro abbiamo visto le opere.

Vengono individuate tre fasi nel progresso verso la modernità, la prima con l’inserimento nella corrente del razionalismo internazionale; la seconda con la rinuncia ad alcune posizioni avanzate sotto la pressione crescente del regime ma nel mantenimento della tensione creativa verso una via italiana; la terza con il ripensamento dello stesso razionalismo.

Il crogiolo dal quale ha tratto alimento il design italiano è fatto di tutto questo, con le correnti che abbiamo citato, il classicismo di “Novecento” e, ancora prima, il Futurismo e la Metafisica.. Ricordiamo alcuni nomi, il razionalista Terragni e il neoclassico Muzio, i futuristi Depero e Prampolini  non dimenticando le ricerche di Balla sui rapporti tra arte, arredo e ambiente sin dagli anni ’20, e poi Fillia e Pannaggi, Munari e Mosso, Dulgheroff e D’Albissola. Oltre a queste personalità milanesi, il veneziano Scarpa e il torinese Molino, il fiorentino Michelucci e i romani Moretti, Ridolfi e Quaroni.  Di  qui una miriade di spunti in un fecondo confronto dialettico, il confronto visivo si può fare  tra le opere che abbiamo commentato di alcuni tra questi autori.

Era un confronto tra la cultura di artisti e architetti protesa verso la modernità e la cultura industriale in senso stretto, rimaste separate nella gran parte delle imprese produttive, tranne esempi positivi come in Olivetti, che per la razionalizzazione produttiva chiamò artisti ed architetti.  Due mondi diversi che non si comprendevano perché la cultura di fabbrica considerava il razionalismo solo un modo di minimizzare i costi, la cultura architettonica lo vedeva come uno stile di vita.

“La nozione di ‘design’ – conclude Bosoni – .compare verso la fine degli anni trenta nel dibattito culturale, proprio perché fu in quegli anni che in Italia si rese manifesta la separatezza tra le due diverse culture, a cui il disegno industriale avrebbe voluto porre rimedio. La VII Triennale (1940) fu il palcoscenico di questa aspirazione alla riconciliazione tra arte e industria”.

E’ la giusta conclusione del nostro racconto, il 1940  chiude il primo quarantennio del ‘900 che la mostra fa rivivere con la spettacolare  esposizione di ambienti e oggetti dell’arte applicata, ‘”arte minore” ma pur sempre arte, oltre che di dipinti che portano nell’olimpo artistico senza limitazioni.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Dolce vita?”” anche “Russia on the Road” e “Impressionisti e Moderni”. Catalogo “Dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, a cura di Guy Cogeval e Beatrice Avanzi, con Irene de Guttry,  Maria Paola Maino, Skira,  ottobre 2015, pp. 252, formato 22 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo e il secondo articolo sono usciti in questo sito il 1° e  il 14 novermbre, con altre 12 immagini ciascuno.  Per gli artisti e movimenti citati nel testo, cfr. in questo sito i nostri articoli su Sironi  1°, 14, 29 dicembre 2014, 7 gennaio 2015 e, per le vignette satiriche, 2 novembre 2015;  su “Astrattismo”, 5, 6 novembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, dal Museo d’Orsay ai singoli artisti,  per l’opportunità offerta. In questo secondo articolo sono riportate le immagini della 4^ e 5^  Sezione della mostra.  In apertura,   Gio Ponti (e Tommaso Buzzi), “Trionfo da tavola per le ambasciate d’Italia”, 1926-27; seguono,  Felice Casorati, “Silvana Cenni”, 1922, e Achille Funi, “Saffo”, 1924, con  “Poltrona e tavolino da salotto”, 1930, di Franco Albini; poi, Gio Ponti,  “Coppa ‘Emerenziana’”, a sin., “Piatto ‘Fabrizia’”, a dx,1925, della serie “Le mie donne”, e 32; e Alfredo Biagini, “Ratto d’Europa”, 1930;  quindi,  Ubaldo Oppi, “Ritratto della moglie sullo sfondo di Venezia”, 1921, con “Panca“, 1930, di Gio Ponti (e Angelo Magnoni, ebanista), e Marcello Piacentini (e Publio Morbiducci), “Mobile con inserti scultorei per lo studio del presidente, Casa madre dei mutilati e invalidi di guerra, Roma”,  con “Poltroncina”  stesso autore e destinazione, 1927-28; inoltre, Marcello Piacentini, “Mobile e sedie per la casa di Fiammetta Sarfatti”,  1933, a sin., con Antonio Donghi, ““Piccoli saltimbanchi”, 1938,  a dx, e Antonio Donghi, “Cocottina”, 1927, con   “Panca per la sala d’apertura del  Palazzo degli Uffici dell’E42”, 1939; infine,  Corrado Cagli e Dante Baldelli, “Vaso ‘Marcia su Roma’”, 1930-31, a sin., Dante Baldelli, “Vaso con arcieri“, 1933-34, a dx, e Mario Radice, “Composizione R1”, 1932, a sin., e “Composizione CFA”, 1935-36, a dx; in chiusura, Antonio Donghi, “Giocoliere”, 1936.

Russia on the Road, il progresso nel ‘900, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La  mostra “Russia on the Road, 1920-90” presenta  al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre al 15 dicembre 2015 circa 60 dipinti di notevole valore artistico e anche storico in quanto documentano l’irruzione del progresso nella vita sovietica che ha scosso una società tradizionale con la spinta aggiuntiva della propaganda di regime sul miracolistico “balzo in avanti”. Realizzata in collaborazione con l’Istituto d’Arte Realista Russa di Mosca, la fondazione internazionale “Accademia Arco” e la compagnia assicurativa “Ingosstrahk”, dopo Roma la mostra andrà a Mosca dove le opere saranno esposte nell’Istituto promotore dal 22 gennaio al 22 maggio 2016,  questo spiega la durata dell’esposizione romana, troppo breve rispetto alla elevata caratura artistica,  all’ampiezza della mostra e all’interesse delle sue opere di grandi dimensioni, spettacolari e coinvolgenti.  Ideata da Aleksej Ananjev, che ha partecipato alla presentazione, e curata da Nadeshda Stepanova e Matteo LanfranconiCatalogo dell’Istituto d’Arte Realista Russa, con note introduttive di Lanfranconi, Lerner e Piretto.

Delle tre mostre aperte contemporaneamente al Palazzo delle Esposizioni in un impressionante impegno espositivo – le altre sono “Una dolce vita?  Dal Liberty al design italiano nel 1900-1940”  e “Impressionisti e moderni. I capolavori della Phillip Collection di Washington” – questa prosegue il discorso sull”’arte russa del ‘900 avviato con gli artisti del “Realismo socialista“, proseguito con  Aleksandr Deineka, e con il fotografo d’arte  Rodcenko.  Si aggiunge alla trilogia l’attuale mostra nella quale viene approfondito ulteriormente il tema con opere che nell’arco di un secolo documentano la visione di un paese illuso di poter  trasformare “l’utopia in realtà e la realtà in mito”, come  è scritto efficacemente nella Presentazione.

Significato e contenuto della mostra

Le 60 opere esposte provengono dai principali musei russi, da collezioni private   e dall’Istituto dell’Arte Realista Russa, un organismo privato creato dieci anni fa per promuovere l’arte e la conoscenza con il collezionismo: dal 2011, su 4500 mq di una vecchia fabbrica di tessuti  di Mosca modernamente attrezzati, sono conservate e in parte esposte circa 500 opere dalla fine del periodo zarista ai giorni nostri.

Si tratta di una fase storica nella quale dalla tradizione ottocentesca si è passati alle prime avanguardie fino alle sperimentazioni contemporanee attraversando il lungo periodo seguito alla Rivoluzione d’ottobre nel quale l’arte veniva sottomessa alla politica nel diffondere le immagini di regime. Lo abbiamo visto con le opere del “Realismo socialista”, con particolare riguardo a Deineka, nel quale la considerazione della forza dell’uomo, del quale esaltava anche la fisicità nello sport oltre che l’impegno nel lavoro,  era autentica e spontanea, anche se veniva a coincidere con la propaganda di regime.

A differenza delle altre mostre citate, di tipo antologico, questa è tematica:  la potente spinta al  progresso viene evocata attraverso i suoi simboli, in particolare i  mezzi di trasporto, automobili e treni, aeroplani e navi , che consentivano di dominare l’immenso territorio e acquistavano un ruolo crescente nella vita della popolazione.  Alle opere con valenza simbolica del progresso si aggiungono quelle più intime e personali.

D’altra parte, come ha detto l’Ambasciatore della Federazione russa Sergej Razov, citando Romain Roland, “l’arte non può staccarsi dalle aspirazioni dei suoi tempi”, per questo “osservando i lavori dei maestri del Rinascimento sentiamo l’attrazione insuperabile al bello, alla bellezza fisica e spirituale, alla perfezione celeste di tutto quello che appartiene alla terra”, la reazione al Medioevo in un nuovo “approccio all’uomo come al centro dell’universo, alla sublime creatura di Dio, fatta a sua immagine”.  Pertanto, “le opere del periodo sovietico ci possono raccontare molto del periodo, della società e del paese in cui sono state realizzate”. E questo proprio per i loro contenuti, quanto mai espressivi di quel periodo, società e paese.

Al riguardo bastano i titoli delle sezioni della mostra per evidenziarne il contenuto e l’interesse che suscita: “Treni, aeroplani, automobili” e  “Road movie sovietico”, “Amore e macchine” e “Russia selvaggia”, fino alla conclusione con la “Corsa allo spazio”.  Le immagini, rutilanti di colori e di entusiasmo,  non recano traccia dell’ombra oppressiva del regime, ma questo è un altro intrigante motivo di interesse per il visitatore che vuol leggere tra le righe, o meglio le pennellate, nel mentre ripercorre mentalmente le diverse fasi della storia del periodo sovietico.  Ma il ‘900 russo non è solo regime, si arriva ai giorni nostri con l’arte finalmente libera da vincoli.

Il saggio di Lanfranconi istituisce colte correlazioni tra le singole opere e tali fasi, considerando il mondo artistico e quello politico,  è un excursus appassionante ma lo è altrettanto la semplice visione delle opere perché sono quanto mai eloquenti nei loro significati espliciti e anche reconditi.

L’irruzione dei moderni mezzi di trasporto nel mondo sovietica  

E’ un tema che si inserisce nella cosiddetta “paesaggistica industriale”,  ricorda Leonid Lerner, che con la tematica sportiva, dalla forte valenza ideologica,   consentiva agli artisti, “sotto la maschera della ‘linea ufficiale’, di introdurre alcune novità plastiche”. Così vennero a formarsi due tendenze, un “filone dinamico-realistico”  con la potenza delle macchine che cambia la vita delle persone, e uno “in buona parte lirico, fantastico, a volte ideologico  ma non propagandistico e sempre umano”.

L’indirizzo era di  esprimere “l’unità della vita e del lavoro, della vita e dell’arte, il rapporto e l’interdipendenza tra l’uomo e la macchina”, portati anche dall’entusiasmo per il progresso e dagli slanci utopistici dell’ideologia; anche i voli lirici dovevano spingere a compiere imprese e combattere le ingiustizie, in una sorta di chiamata dell’arte alla mobilitazione nazionale.  La simbiosi tra l’uomo e la macchina diventava vitale e fonte di eroismo negli anni della guerra.

Diversi sono i mezzi di trasporto e la loro funzione nella società russa, tuttavia comune alle interpretazioni artistiche è l’intento di rendere insieme alle macchine l’atmosfera che le circondava, l’impegno nel lavoro degli addetti, lo stato d’animo degli utilizzatori, il clima generale.

Gian Piero Piretto ne fa un’analisi precisa partendo dalla fase immediatamente successiva alla Rivoluzione di ottobre del 1917,  allorché veniva privilegiata l’attenzione al particolare delle macchine che avrebbero rivoluzionato la  vita russa;  ingranaggi e dadi, bulloni e ruote dentate prevalevano sulla macchina, come nelle celebri fotografie di Rodcenko: “Il ‘come’ aveva la meglio sul ‘cosa’. Si tendeva ad indagare il sistema di funzionamento, sia in senso reale che metaforico”.

Era un radicale mutamento, in senso volitivo,  rispetto alla visione precedente in cui prevaleva l’inquietudine rispetto al rapporto con un ambiente inclemente, difficile da gestire nel territorio sconfinato; la civiltà delle macchine, con la scienza e la tecnica, dava una risposta positiva.  A ciò si aggiungeva l’entusiasmo per la ventata di dinamismo data dalle nuove possibilità  che si aprivano.

Poi, aggiunge Piretto, “con gli anni successivi proprio  al 1928, inizio del primo piano quinquennale staliniano, il risultato avrebbe prevalso sul procedimento. Nessuno si sarebbe più soffermato  a interrogarsi su ‘come’ certi esiti si fossero potuti ottenere. Avrebbe vinto il ‘cosa’, l’idea di miracolo realizzato senza supporti religiosi, di costante e fremente sviluppo del paese, nonostante la realtà effettuale segnalasse carestie, difficoltà di sostentamento e, soprattutto, il famigerato terrore in crescita”. Il  “paradiso dei lavoratori” veniva propagandato all’estero e generava proseliti nei partiti comunisti  degli altri paesi, prima che si conoscesse la vera realtà del comunismo reale.

In più, dopo  il rigore spartano della Rivoluzione d’Ottobre, irrompe nella società russa la visione  staliniana della “vita felice” proclamata nel discorso del 1935 in cui disse: “Vivere  è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro”. Le opere esposte, nella  successione cronologica e nella  comparazione dei contenuti rendono visivamente tale evoluzione e l’illusoria apertura.  

Si passa, da una sezione all’altra della mostra, dalle macchine  all’uomo, prima nell’enfasi dell’artefice-conduttore e dell’eroe del lavoro, poi con attenzione crescente all’aspetto umano.

Con il “disgelo” del periodo  krusheviano e l’ambizioso programma di dissodamento delle terre vergini i mezzi di trasporto divennero parte di un’epopea collettiva,  in cui tornò con prepotenza il mito del treno abbinato a quello della natura selvaggia nello sterminato territorio russo.  La quotidianità operosa ma personale, quindi umana,  si sostituiva alle visioni simboliche stereotipate.

E’ emozionante, nei saloni della mostra, vedersi circondati da spettacolari riproduzioni dei mezzi di trasporto che fanno parte della vita di ognuno, come apparivano nella visione utopica venata di propaganda ma animata da sincera condivisione di un’esaltazione collettiva; del resto il Futurismo in Italia è stato frutto della stessa esaltazione applicata alle macchine e alla velocità.

I mezzi di trasporto nei dipinti esposti

I quadri esposti nella mostra testimoniano questo insieme di motivi per i diversi mezzi di trasporto, “Treni, aeroplani, automobili”, come si intitola la 1^ sezione, insieme a tram, autobus e alla metropolitana monumentale.  

Alecsandr Labas ci mostra due visioni quasi parallele di un vagone del treno con i viaggiatori in movimento (“In corsa”, 1928)  e di una scala mobile della metropolitana  che porta i viaggiatori in alto, quasi nella metafora del progresso in corso nel paese o, più in generale nella vita dell’uomo (“Metro”, 1935). Entrambe le immagini sono sfumate, quasi un’atmosfera onirica o un miraggio.

Sul primo viaggio in treno ricordiamo le impressioni del pittore Il’ya Repin: “… Balenarono rapidamente chiese, case, villaggi di campagna, strade,  da qualche parte gente che camminava o se ne andava su qualche mezzo di tarsporto. Sicuramente anche qui tutto cambia molto velocemente, a mala pena riesci a dare un’occhiata e il treno vola, vola…”.

Di Konstantin Vjalov abbiamo due immagini molto diverse: la prima statica,  (“Il vigile”, 1923), presenta l’imponente figura del piantone  che occupa l’intero dipinto rispetto alla minuscola automobile, siamo ancora nel periodo spartano dove il rigore prevale sull’evasione; nella seconda (“Baku. Ferrovia”, 1933)  non c’è il treno ma un nodo ferroviario reso dai fasci di binari con sullo sfondo  serbatoi e opifici, è la rapida industrializzazione il soggetto, le piccole sagome umane tra le rotaie sono insignificanti rispetto al fervore del lavoro, ancora non irrompe la “felicità della vita”.

Il terzo artista del quale sono esposte opere su due mezzi di trasporto è Georgij Nisskij: all’aereosono dedicate due sue opere in paesaggio nordico: “Aerei sulle montagne”, 1934,  del periodo più duro del “Realismo socialista”, che esprime l’ardimento dei piloti  in condizioni estreme con gli aerei a terra, “Sopra le nevi“, 1964,  dal quale emerge la perfezione tecnologica dell’aereo affusolato che sfreccia sopra la superficie innevata con  la manifestazione concreta della conquista da parte dell’uomo non solo dello spazio ma anche del tempo con la velocità.

Al treno e dedicato “In viaggio”, una composizione di linee convergenti, i binari e le diagonali del palazzo della stazione. L’artista si ispira ai ricordi della stazione ferroviaria del suo paese natio e scrive: “Ancora oggi con lo stesso amore dell’infanzia amo il mio paesaggio, il semaforo, i binari, il bosco dagli alti pini che scompare dietro la curva e  l’infinità della campagna bielorussia cosparsa di brina…”. E aggiunge: “La prima e più vivida impressione che ho avuto è legata alla vista del treno. Cin trepidazione osservavo le locomotive nere e fischianti. Correvano in qualche direzione, lontano. Mi hanno letteralmente rapito, riempiendomi di un entusiasmo mai provato prima”. Sono le prime emozioni che tutti hanno provato all’inizio con questo mezzo di trasporto collettivo;  poi l’emozione  si è estesa guardando lo scorrere dei viaggiatori nei vagoni e ai finestrini, ciascuno con la sua provenienza e destinazione, con la sua storia personale e la sua psicologia. 

Di tutti gli altri artisti è esposta un’opera su un solo mezzo di trasporto. Sempre sul treno, vediamo una locomotiva in arrivo con un  traliccio, è “L’ultima tappa”, 1961, di Mikhail Anikeev.

Sull’automobile  vediamo una delle opere più rappresentative  della mostra, è di Jutij Pimekov, il celebre dipinto “La nuova Mosca”, 1937. Siamo nell’anno successivo alla dichiarazione di Stalin  sulla “vita felice” che,  sia detto per inciso, richiama quasi come una beffa considerando le abissali differenze dei sistemi, il “diritto alla felicità” della Costituzione americana, e il dipinto vuol essere  la fotografia di quanto di più evoluto sia entrato nella vita dei moscoviti:  una grande strada popolata di automobili e di persone, nell’originale visione dal sedile posteriore dell’autovettura decapottabile con al volante dinanzi a un cruscotto sofisticato  una giovane bionda  dalla pettinatura moderna e l’aria emancipata, sullo sfondo il nuovo albergo Moskva e il teatro Bolscioi. Il massimo! Nel 1925 Tamara de Lempicka aveva dipinto “La ragazza sulla Bugatti verde”,  vista di profilo con atteggiamento disinvolto,  la giovane di Pimekov forse è meno sportiva ma altrettanto emancipata.

Sempre di ambiente cittadino  il dipinto di Boris Rybeenkov, “Viale Leningrado”,  1935, una serie di filobus, appena introdotti a Mosca, tra filari di alberi e la gente che affolla la strada, una composizione dal suggestivo contrasto cromatico.

Ma sono gli aeroplani il mezzo di trasporto a cui è dedicato  il maggior numero di opere esposte, oltre alle due già citate.  Vediamo innanzitutto “In aria”, 1932, di Aleksandr Deineka, di cui ricordiamo altre opere su questo soggetto della sua mostra precedente, con il piccolo aereo vicino alla grande montagna,  e “Idroviazione”, 1933, di Boris Tsvetkov,  che invece mostra la visione da un altro aereo, una ripresa dall’alto quindi, della formazione di velivoli , con la terra in basso, in una inquadratura che ricorda l’aerofuturismo, la fase evoluta in cui il pittore ha già provato l’emozione del volo, ci torna in mente la mostra dello scorso anno alla Galleria Russo su Tato,  con una ricca serie di immagini aerofuturiste. 

Deineka ha raccontato così le prime impressioni di volo su “un vecchio aereo che mi è apparso davvero meraviglioso”; “Ho visto la  mia città e i campi illuminati dal sole. E’ stata una sensazione nuova e difficile da  trasmettere, la prima volta che una persona si alza in aria e osserva la sua città in modo assolutamente nuovo… Solo alcuni anni dopo ho visto un nesso tra la mia opera e questo primo volo”.

Vediamo anche “Idrovolanti“, di Vladislav Levant, sebbene sia del 1970 celebra il coraggio e il sacrificio, il velivolo è a terra tra le rocce innevate con le punte delle ali congelate, mentre i piloti  a terra si allontanano nella tormenta di neve.

Gli altri dipinti sono anch’essi celebrativi ma non presentano i velivoli, bensì il “Ritratto di pilota“, 1933, di Aleksandr Samokhvalov, di cui vediamo esposto anche “Bambino con l’aeroplano”, e “L’aviatrice. Ritratto di Katja Mel’nikova”,  1934, di Samuil Adlivankin.

Lo spazio, dall’aerostato alla navicella spaziale

E’ del 1935  il  grande dipinto di Georgij Bibikov, “L’aerostato stratosferico Osoaviakhim”,  con i navigatori in piedi sulla capsula sopra al pallone mentre i soldati trattengono le funi.  Ma già nel 1928  Georgij Ktutilov aveva progettato, nella tesi di laurea “La città volante“,  cabine per gli spostamenti  in superficie,  aria, acqua e abitazioni avveniristiche  in un’ottica spaziale, nella mostra vediamo alcune grafiche.  

Il dipinto-simbolo della “Corsa allo spazio” –  così si intitola l’apposita sezione della mostra – è “Gloria agli eroi della cosmonautica!”, di Mikhail Kuznetov-Volzskij, del 1964, che riproduce il monumento elevato a Mosca nello stesso anno, a celebrazione del primato allora acquisito, è nel vasto piazzale dinanzi all’Hotel Cosmos. Al culmine dell’alta installazione c’è il razzo in volo verso l’infinito lasciandosi dietro la scia che ne costituisce il supporto, il dipinto lo ritrae in atmosfera notturna con la luna che si profila dietro al razzo.

Nel 1982  abbiamo “Vostok 1 si prepara al lancio”,  del tandem  Aleksej Leonov e Andrej Sokolov, Leonov è stato il primo uomo a compiere la “passeggiata nello spazio”, alla passione per la cosmonautica univa quella per l’arte e ha realizzato centinaia di dipinti in tema spaziale;  questo con Sokolov oltre all’imponente struttura della navicella rappresenta gli uomini che ne sono artefici. Il solo Sokolov, il maggiore artista impegnato su temi spaziali,  con “Attraversando un cratere“, dieci anni prima, nel 1972, aveva rappresentato un robot  lunare esplorativo con sullo sfondo il pianeta terra come veniva descritto nei racconti dei cosmonauti e nelle fotografie dallo spazio.

Dopo la navicella, ecco  la base spaziale in  “Un giorno di sole a Bajkonur”, di Aleksandr Petrov, siamo nel 1986-87,  è imminente il lancio del razzo che si vede in fondo, in primo piano dei fitti pilastri “dispersori” in caso di incidenti,  l’ambiente è asettico, l’atmosfera di ansiosa attesa. 

Molta attenzione viene prestata all’elemento umano, come evidenziano due dipinti, “La terra in ascolto”, 1965, di Vladimir Nesterov, e “Costruttori“, 1967, di Ivan Stepanov.  Nel primo si vedono i tecnici in camice bianco assorti nel captare i messaggi con una ragazza davanti a loro che non riesce a trattenere l’emozione, l’artista si era documentato accuratamente; nel secondo dipinto c’è la progettazione per modificare l’ambiente dove si vive e costruire anche così un futuro migliore.

La conclusione non può che essere il dipinto di  Andrej Plotnov,  “Arrivederci, terrestri!”, del 1979, l’artista  celebra  il primo astronauta andato in orbita  con un ritratto fatto a  Yuri Gagarin nel proprio  studio riprendendolo nel gesto di saluto dentro lo scafandro, con il volto illuminato dal sorriso per il  successo ottenuto.

Termina così la prima parte del nostro racconto della mostra, quella dedicata alle opere sui mezzi di trasporto che avevano modificato profondamente la vita dell’immenso territorio sovietico facilitando la mobilità e gli spostamenti, fino alle imprese spaziali viste come sfida al futuro.

Sono opere nelle quali solo indirettamente si percepiscono gli effetti sulla società e sugli individui, anche se non mancano alcuni importanti riferimenti che rientrano nella mistica del regime basata sull’uomo come creatore di progresso. Le opere che commenteremo prossimamente sono invece dedicate essenzialmente all’aspetto umano e sociale di queste trasformazioni.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Russia on the Road” anche “Impressionisti e Moderni” e “Una dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”. Catalogo “Russia on the Road 1920-1990”, Istituto dell’Arte Realista Russa, 2015, pp. 192, formato  20 x 25,5, note introduttive di  Matteo Lanfranconi, Leonid Lerner, Gian Piero Piretto, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo uscirà in questo sito il 26 novembre p.v., con 13 immagini sulle altre sezioni. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli, in questo sito su Dejneka 1°e 16 dicembre 2012,  su Tato 19 febbraio 2015; in “cultura.inabruzzo.it”, su  Tamara de Lempicka 3 articolinelgiugno 2011,  Realismi socialisti 3 articoli nel dicembre 2011 in “fotografia.guidaconsumatore.it”  su Rodcenko 2 articoli  nel dicembre 2011 e su Tamara de  Lempicka 5 luglio 2011  (i due ultimi siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare l’Istituto dell’Arte Realista Russa, per l’opportunità offerta. Dopo le prime 6 immagini, relative ad opere della 1^ sezione “Treni, aeroplani, automobili” citate nell’articolo, 6 immagini della 2^ sezione “Road movie sovietico” che saranno citate nel prossimo articolo e l’ultima immagine della sezione finale  “Corsa allo spazio”. In apertura,   Jurij Pimenov, La nuova Mosca, 1937; seguono,  Boris Rybcenko, “Viale Lenigrado”, 1935, e Aleksandr Labas, “Metro”, 1935; poi Georgij Nisskij,  “In viaggio”, 1958-64, e Aleksandr Deineka,  “In aria”, 1932; quindi, Aleksandr Samokhvalov, “Ritratto di pilota”, 1933, e Julija Razumovskaja, “In tram”, anni ’30; inoltre, Grigorij Segal, “Sulla scala mobile“, 1941-43, e Anatolij Papjan, “Andando a studiare”, 1053;  infine, Aleksandr Deineka, “I versi di Majakovskij”, 1955,  Eduard Bragovskij, “In viaggio, Kotlas”, 1961, e Aleksandr Petrov, “Stazione Kazanskij”, 1981; in chiusura, Mikhail Kuznetsov Volzskij, “Gloria agli eroi della cosmonautica!”,  1964.  

Anghelopoulos e Pinchi, astratto e concreto, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, dal 12 al 25 novembre 2015, la mostra “Tra materia e anima, tra memoria e tempo” espone le opere di A. T. Anghelopoulos e di Andrea Pinchi, apparentemente molto diverse ma  tra le quali non mancano i collegamenti se viene approfondita  l’analisi, come fa Claudio Strinati, curatore della mostra e del Catalogo di Gangemi Editore. Sono esposte circa 50 opere, dipinti in acrilico e tecnica mista su tela per il primo, in materiali vari come catrame, gesso, multistrato come supporto,  legno  e pelle  negli elementi della composizione, regolarmente datati perché spesso di epoca antica, con i segni del tempo. Anche questo un messaggio da decifrare.  Le differenze? Viene da osservare nell’immediato che il primo è astratto nelle sue immagini cosmiche, pur se le superfici sono rugose e tangibili, quindi concrete;  il secondo è concreto nei materiali impiegati, di uso comune e datati come vini d’annata, pur se con intitolazioni criptiche, quindi astratte. 

E’ un’altra mostra con due artisti, ricordiamo,  tra quelle recenti, la mostra al  Vittoriano con la Romano e la Del Monaco nel 2014 sotto il titolo eloquente “Similitudine & contrasto”,  la mostra in atto  alla RVB Arts con Marco Spaggiari e Luca Zarattini,  “Interno 108”, e prima, nella stessa galleria, la mostra della Cafagna con la Thwaites, e la mostra alla galleria Russo “Match 2015. Critici a confronto” ,  ognuno dei due critici preentava due artisti scelti  per l’analogia o la diversità.

In questo caso Claudio Strinati spiega il collegamento possibile tra due visioni molto diverse, quasi opposte: le astrazioni dal cromatismo omogeneo e moderato di Anghelopulos e i quasi  collage dalle tinte vivaci di Pinchi. Li collega premettendo che “dal punto di vista dello stile  e dell’espressione Anghelopoulos e Pinchi non hanno molto in comune”  prospettando “una comunità di intenti non implicante una somiglianza esteriore ma una sintonia profonda di risultati creativi”.

Seguiamo il percorso del critico, che dalle sue stesse parole si rivela arduo perché “la vicenda di Anghelopoulos è più lineare e consequenziale, quella di Pinchi apparentemente anomala e alquanto insolita, eppure altrettanto seria e determinata”.

Che cosa li unisce, dunque, a parte la serietà e la determinazione? Anghelopoulos si è interessato alla musica, di casa nella sua famiglia, anche prendendo lezioni di chitarra classica,  la sua formazione è figurativa anche se approda nell’astrazione. Pinchi è un musicista di organo, da tradizione familiare, come artista figurativo trae ispirazione dagli strumenti musicali, i cui pezzi avulsi dal contesto compongono uno spazio immaginario pur se con basi reali. Di qui le “analogie profonde” delle mentalità di due amici i cui riflessi nell’espressione artistica si possono cogliere soltanto “quando si entri realmente nel concreto dell’opera”,  cosa che genera “pensieri, riflessioni, commenti”.

Il “disimpegno” di Anghelopoulos

La prima riflessione riguarda  Anghelopoulos, e il suo “disimpegno”  espresso esplicitamente nell’opera “Disengagement”, il Dio disimpegnato, che  va in direzione opposta rispetto al concetto di “arte impegnata”  diffuso dopo l’impressionismo fino ad assumere un valore politico. Così Strinati lo definisce: “E’ quel luogo dell’arte posto al confine tra un territorio e l’altro, il territorio dell’evidenza e della forza espressiva e quello del mistero e della sparizione”.

La sparizione riguarda non solo l’oggetto raffigurato, ma la volontà dell’artista di rappresentarlo. E qui l’analisi di Strinati si addentra nel territorio dell’essere e non essere, un “to be or not to be” artistico ed esistenziale. Per l’artista il “non esserci” corrisponde “all’ingresso in una dimensione analoga a quella che in matematica si rintraccia nei numeri ‘negativi’, nel ‘meno uno’ e così via”;  Anghelopoulos, in particolare, “si sottrae, e lo mostra in visione, al confronto con l’impegno esistenziale per sprofondare in un’altra dimensione che retrocede rispetto all’ingresso in quello che viene percepito come reale e quotidiano”.

Una dimensione, non fantastica né onirica, ma meditata, che evoca le scoperte e i problemi insoluti della ricerca scientifica sull’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, dall’antimateria ai buchi neri, dai neutrini alle altre particelle nell’alternanza o compresenza di massa ed energia. “Sono quesiti innumerevoli e traumatici – osserva  Strinati –  tendenti tutti a farci pensare che esista un altrove che è la vera realtà e quello che percepiamo sia apparenza al di là della quale c’è, appunto, l’‘oltre'” . Un  “oltre”  evocato dagli equilibri rigorosi che regolano il mondo degli astri come quello degli atomi, mentre nella nostra percezione non si avverte l’ordine che regna nell’immensità dell”universo e nella microscopica composizione della materia.

“L’arte di Anghelopoulos sembra mossa da tale istanza”, afferma il critico,  le sue opere fanno pensare a “crateri lunari, visioni satellitari, filamenti celesti, viaggi in mezzo a cieli densi di nuvole pesanti e tempestose”, e cita Klee e Rothko; e parla anche di  “visioni in cui non si riesce a scorgere più nulla, una specie di ritorno al futuro”.

Lauretta Colonnelli aggiunge un riferimento a Dalì, Magritte e Schifano e, dinanzi alla molteplicità dei suoi interessi culturali, dalla musica alla letteratura fino alla fotografia e alla pittura, cita il Rinascimento, “quando un artista era anche scienziato, letterato, filosofo, musicista” e il grande Michelangelo. 

E riporta un’affermazione dello stesso Anghelopoulos:  “L’arte non deve copiare la realtà ma tornare ad amare l’uomo, provocarne l’intelligenza, portare l’osservatore in una dimensione che trascenda il reale, nella quale proprio l’uomo sia il centro di tutto, di ogni pensiero, di ogni progetto, di ogni fine”.

Viene evidenziata  la difficoltà di andare oltre l’apparenza con le superfici tormentate da scaglie e rugosità tra le quali traspare soltanto qualche piccolo lembo di azzurro nelle sue opere ispirate ai cieli. In quelle più recenti la tendenza all’astrazione prevale  con un cromatismo che utilizza anche l’oro giottesco e bizantino, pur con squarci evanescenti.

L’oro lo vediamo nei rilievi rugosi longitudinali di “God Disengagement”, 2013, alternato a rilievi bianchi, e nei piccoli mosaici  su parti limitate dell’ampia superficie grigia di “Weave”; mentre è grigia la “Superficie fratturata bianca”, 2012, la cui conformazione è analoga a  quella di “God Disengagement”; da questa superficie fratturata omogenea , in un’opera del  2011 spuntava una mano, è come se l’anno successivo questo varco si fosse richiuso, lasciando solo una piccola fenditura blu. In “Inner Sky”, 2012, il  cielo di un azzurro intenso  sembra un planimetria urbana vista dall’alto, con tracciate le linee e gli agglomerati bianchi. La serie “(Under The) Dense Sky”, 2013,  invece, mostra fratture  quadrangolari  dalle quali si intravede l’azzurro-blu sottostante.

Un  cromatismo cangiante dall’ocra al marrone nelle serie  “Passages” e “Untitled”, 2014 e 2015, senza rilevi rugosi  né fratture  sulla superficie a disvelare la parte sottostante:  si va sempre più verso l’astrazione. L’abbinamento in un trittico di tre opere,  “Untitled” in biacca grigia, “Passages”  in ocra-oro compatto  e “God Disengagement”in  biacca e oro segnano il passaggio dall’Inferno al Purgatorio, quindi al Paradiso: una lucertolina esce dalla superficie compatta di “Untitled”, come aspirazione alla  rinascita, l’Inferno non viene demonizzato perché, secondo l’artista, “se esiste un inferno questo è sulla terra”, e l’oro non trionfa nel Paradiso ma piuttosto nel Purgatorio, “perfino nell’aldilà c’è disordine”, commenta la Colonnelli.  Ricordiamo  l’Inferno nei disegni di Rodin,  nei dipinti di Roberta Comi, e le tre cantiche in quelli di Testa.

Andando  indietro nel tempo nella produzione dell’artista, “The Storm”, 2009, con le ondate blu  e bianche che sembrano abbattersi, evoca effettivamente la rappresentazione realistica di una  tempesta, e anche “Flowers” , 2010,  ha del figurativo nel suo intenso cromatismo rosso con macchie bianche e nella forma  compositiva.

Nella serie “Flying Houses”, 2012, sulla  superficie rugosa grigia si intravvedono, appena percettibili, casette infantili su ruote; mentre cambia tutto con gli antecedenti “Me Shooting”, 2009,  e “The Camera Man”, 2010:  domina il figurativo, si distingue chiaramente il fotografo che punta la camera verso l’obiettivo.

Proseguendo la rassegna all’indietro, i due disegni  a matita “Vita Interiore – Inner Life. Androide” sembrano in perfetto stile figurativo, raffigurano due volti con i lineamenti delicati, con e senza occhiali scuri. Ma c’è qualcosa di più e di diverso, anzi di anomalo per il ritratto nell’accezione corrente. L’orecchio destro di uno dei due volti e la fronte dell’altro sono occupati, diremmo deturpati da un vistoso quanto misterioso meccanismo applicato come una protesi.

Siamo nel 2007, potrebbe sembrare un tentativo sperimentale d’avanguardia poi abbandonato.  Invece nel 2014  una nuova “Vita Interiore – Inner Life” senza la qualifica di “Androide”: questa volta  mostra il delicatissimo profilo della “Bella Principessa” – attribuita  a Leonardo a parte la notizia odierna dell”autodenuncia  di un presunto falsario – con un ingranaggio come negli orologi che inizia nell’orecchio destro e poi si prolunga con un sottile collegamento sulla spalla.

Le parole dell’artista ci aiutano a penetrare il mistero di questa inattesa protesi, come della protesi ai due volti raffigurati nelle due opere citate del 2007: “Ho voluto raffigurare il suo lato nascosto, il lato sottratto per sempre agli sguardi del mondo e per ciò stesso metafora  del mistero che circonda la vita interiore del soggetto ritratto”.   E  più chiaramente: “Quel personaggio è realmente esistito nella sua unicità, anzi è vivo, come è vivo il mistero che, attraverso i secoli, ella, come ciascuno di noi, porta con sé”.

Secondo la Colonnelli è il mistero della vita interiore, “sempre più misera e inaccessibile” nell’uomo che “non è più la magnifica creatura celebrata da Leonardo e dai pensatori suoi contemporanei, ma una macchina vivente totalmente manipolabile”.  E non si deve dimenticare, aggiungiamo noi, che Leonardo da Vinci allo studio e alla rappresentazione dell’anatomia umana univa l’invenzione e la rappresentazione delle macchine più diverse, per cui l’associazione di idee nella “Bella Principessa” appare logico. Ma questa invenzione non nasce con l’opera attribuita a Leonardo, bensì l’abbiamo vista applicata nel 2007 a volti fotografici legati all’attualità.

Sono gli anni, dal 2007 al 2010, delle “Tiny Town”, la serie di plastici di precisione assimilabili ai circuiti stampati di  apparecchiature con transistor, che vediamo in piccoli riquadri alle pareti e in una grande vetrina orizzontale di 1 metro e 30 cm per 1 metro; con la sua estensione sembra il plastico planimetrico di una città, in smalto e legno, in colore bronzeo, preparato con maestria artigiana e senso artistico.

“Una curiosa perplessità transita in tutte le sue immagini – commenta Strinati – e ci restituisce la figura di un artista che sa essere serio e ironico nel contempo lasciandoci la più ampia libertà di apprezzamento del suo lavoro”. Concordiamo con questa valutazione del critico che interpreta in tal modo – cosa inusuale nelle criptiche considerazioni di certa critica contemporanea –  il nostro pensiero, che è quello  del visitatore.

Le “macchine inutili” di Pinchi

Strinati definisce  Andrea Pinchi “stralunato fabbricatore di oggetti fatti di elementi creati per funzionare, come le canne d’organo ed altri componenti degli antichi strumenti, e che egli smonta e rimonta per costruire quella sorta di ‘macchine inutili’  che ci riportano verso remote esperienze di marca dadaista e surrealista “.

Ma sono davvero inutili? Certo non più idonee alla funzione per la quale sono state ideate e realizzate nella loro integrità originaria; bensì lavorano, sempre secondo Strinati, “per  fare ordine e pulizia nella nostra percezione  e per indurci dunque a cogliere quel momento determinante, anche questa una sorta di crinale in cui un motto scherzoso può diventare la quintessenza di una scoperta della mente”.

A questo discorso serio e impegnato si aggiunge una considerazione più leggera: “Tutta l’arte divertita e divertente di Pinchi è una provocazione. Ma una provocazione buona che non deride l’osservatore ma  anzi lo attira in una sorta di ‘simpatia’ esistenziale che anzi lo incita a entrare in un universo espressivo confinante col mondo della favola e dell’infanzia”.

Il  riferimento “serio” è al “Reattore di idee pulite”, 2011, in due versioni, vediamo le canne da organo rivolte verso l’alto di altezza crescente, le più piccole nella “Prima generazione” sono cilindriche, nella “Seconda generazione” a tronco di cono; è costruito con  “legni del XVII-XVIII secolo”. Sembrerebbe un assemblaggio volto a ricostituire alla bell’e meglio l’organo musicale, invece – nota Strinati – “qui tutto interessa meno la funzione, l’oggetto è stravolto rispetto a quello che forse avrebbe potuto essere e l’artista lo ha trasformato in una sorta di giocattolo metafisico con cui esplora le nostre percezioni”. E si chiede: “Che cosa riconosciamo o crediamo di riconoscere?”.

Una  trasmissione nella  prima fase della nostra televisione, più di mezzo secolo fa, sfidava i concorrenti a riconoscere “l’oggetto misterioso”, ma in quel caso corrispondeva a un oggetto reale anche se ripreso parzialmente, quindi indecifrabile; questa invece è una ricostruzione provocatoria, quindi non può richiamare nulla di reale ma qualcosa che la nostra fantasia associa a percezioni indistinte.

“Pinchi mette ordine in un materiale che ci è pervenuto logoro e dissestato da un tempo impreciso ma remoto e lo assembla nel contesto artistico che ci porta lontano le mille miglia da quelle origini  eppure ce le ricorda sempre”, è ancora Strinati che si chiede “per arrivare a cosa?” e dà questa risposta: “Alla pulizia della mente, come recita il suggestivo titolo di quelle opere, alla chiarezza mentale”. Del resto, quello presentato dall’artista è un ordine “irrazionale probabilmente ma non certo irragionevole”.

Non c’è in lui la “meditata sparizione” che si rileva in Anghelopoulos, ma l’opposto, “una altrettanto meditata messa in evidenza”; però il fatto che il significato degli elementi presentati  “si è perso nei meandri della storia” fa sì che venga riaffermata “una immagine di libertà creativa componendo e scomponendo gli elementi” senza il vincolo della realtà anche se sono dei veri oggetti. Questo “nel nome di una idea di armonia e bellezza che apprese fin dalla prima giovinezza nel campo della musica a lui così congeniale”. E tutti sappiamo come la musica apra gli orizzonti più vasti legata com’è allo spirito non alla materia.

Sono in legno, questa volta del XV secolo,  al pari del “Reattore di idee pulite”, “Fiera Fiera” e “Fulginia perpetua fulgens?”, due sculture alte 80-90 cm poste al centro della sala alle cui pareti spiccano i colori brillanti dei suoi collage materici, e il cromatismo più tenue, a parte “Inner Sky”, di Anghelopoulos  che tuttavia, con le sue “Tiny Town” si pone visivamente su una lunghezza d’onda assimilabile a quella dell’amico Pinchi.

Alle due sculture associamo, per la verticalità, due opere del 2011. La prima  è  “Stessa forza del Bis”, in “acrilico, pelle del 1846 e stagno del 1867 su multistrato”, la pelle del 1846 torna in altre opere e la meticolosa precisazione dimostra il valore attribuito dall’artista all’utilizzazione di vecchi materiali estraniati nel contesto del tutto nuovo, del resto è il segno del tempo impresso nella materia. l titolo ci fa pensare alle performance musicali reiterate a richiesta insistente del pubblico, a questo forse alludono le punte di diversa altezza che si protendono verso l’alto, come nelle ovazioni per il bis.  Altra opera in verticale è “Geist # 1“, su fondo verde scuro tre livelli diversi, dal pesante blocco alla base ai grossi filamenti fino alla pioggia di elementi, quasi dei proiettili che cadono dall’alto.

Molto diverso “Geist # 3”, che alla pelle, questa volta del 1833 e 1922,  aggiunge piombo del 1922: vediamo un vessillo triangolare sopra a 5 apparenti bersagli, come in un poligono di tiro, su un fondo rosso intenso. L’opera  è del 1912,  è esposta un’opera con lo stesso soggetto e forma compositiva, in legno del XX secolo, diverso è il fondo  nero invece che rosso, molto diverso anche il titolo, “Marcia libera mesotonica“.

Notiamo il fondo di un rosso intenso in altre 4 opere. La prima, del 2010, “Anima in fiamme”, con tre elementi verticali in “pelle del XVIII secolo” su un compensato lamellare; le tre restanti, del 2012, sono “Well, it’s a real big mess!”, la grande mensa è resa con un agglomerato di elementi non identificabili in una confusione creativa; “Shack Jack forever # 1”,  titolo misterioso per 9 quadrati chiari con un ampio foro al centro nel quale spicca il  fondo rosso , sembrano dei bersagli, l’elemento di maggiori dimensioni nel bel mezzo; “Tertium datur (the Outsider # 2”,  tre elementi circolari aventi un foro al centro collocati a triangolo con alcuni elementi lineari di collegamento tra i due superiori, sono ritagliati in una pelle del XVIII-XX secolo; presumibilmente si contesta l’antico adagio presentando un terzo elemento parte della composizione pur non essendo collegato agli altri due.

Il rosso è presente non come fondo ma come elemento della composizione in 2 opere del 2011, “Le estati di San Martino”, 6 strisce verticali disposte a quadrato, con l’acrilico c’è anche il gesso e la pelle del 1768 su multistrato; e “Onan il barbaro”,  su fondo nero, oltre al rosso centrale c’è un filamento verde verso l’alto e un piccolo riquadro chiaro.

Su fondo nero lo stesso rosso brillante  in 3 opere del 2014: “Gala tra anime e cuori”,  in cui  l’elemento del’opera precedente ripetuto due volte come dei gradi, è tra  elementi con punti neri e due scritte “Tutto si concede” e “A chi porta luce”;  in “Villa Borghese” e “Nanà sweet harmony”, la pelle è rispettivamente del 1881 e 1775, c’è il medesimo elemento con cerchi rossi, nel primo due in un riquadro con scritte, nel secondo uno con filamenti e scritte che cadono dall’alto.

Il nero domina in 4 opere del 2011,  due intitolate alla luna, “Walking on the empty Moon”  e “Walking on the Moon”, nella prima  al fondo nero si aggiunge, nel rettangolo centrale,  il nero delle 4 colonne ciascuna di 6  cerchi con un’ultima fila in alto di 7 cerchietti, mentre nella seconda gli stessi elementi geometrici sono di tinta chiara; in “Toxic”, dello stesso anno, i 12 cerchietti delle 3 colonne centrali sono rossi, il resto è simile.  Sempre del 1911 vediamo “Dito intatto”, un quadrato con gli angoli superiori di stagno del 1867  staccati dal multistrato di base e ripiegati verso il basso.

Lo sfondo è nero anche in “Piume di stelle”, 2010, oltre al gesso il catrame e la pelle del  XVIII secolo su multistrato, in questo caso il titolo rende ciò che mostra la composizione; così “She had a good flight (Mercurius says)”,  sembrano delle sigarette che evocano un volo tranquillo. Con “Closer Nr. 3 (I wanna ride you”,  il  titolo torna criptico, sono lembi di pelle del 1938 allineati e volti verso l’alto, con parti scure in catrame.

Infine  due opere del 2015, “Talis et claris” su fondo nero  una sorta di scacchiera con 20 piccoli quadrati con le diagonali evidenziate, uniti in un rettangolo, è stata utilizzata questa volta la tela del 1848; e “Agnettomio”, su fondo bianco, acrilico e legno del XVIII secolo. Due titoli in cui spicca lo humor dell’artista.

Conclusione

Le opere di Pinchi e di Anghelopoulos, esposte nelle pareti opposte delle due sale al Vittoriano, per motivi diversi suscitano stimoli e pongono interrogativi per il visitatore. Non sempre l’astrazione è incomprensibile  e non sempre il realismo di materiali ed elementi di uso comune è comprensibile. Il mistero della creazione artistica si ripropone ed è meritorio che ci siano questi momenti di riflessione unita al divertimento, vuol dire che la provocazione degli artisti ha colto nel segno.

Per questo si può convenire con la conclusione di Strinati che è anche la nostra conclusione: “C’è un bellissima  e serrata dialettica in questa mostra, dove l’evidenza dell’espressione e la complessità dei contenuti si guardano reciprocamente per darci un momento di vero interesse e meditazione sui meccanismi stessi di funzionamento della creazione artistica”.

Info

Complesso del Vittoriano, ala Brasini, Salone centrale, lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere. Tutti i giorni ore 9,30-19,30, ingresso fino a 45 minuti dalla chiusura . Tel. 06.6780664. Ingresso gratuito. Catalogo “Tra materia e anima, tra memoria e tempo. A. T. Anghelopoulos, Andrea Pinchi”,  Gangemi Editore, novembre 2015,  pp. 112, formato 24 x 28, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti e i temi citati cfr., in questo sito,  i nostri articoli sulle rispettive mostre:  Klee  1° e 5 gennaio 2013,  Dalì  28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012,  Rothko, nella Collezione del Guggenheim  22 e 29 novembre, 11 dicembre 2012, Michelangelo (e Raffaello)  12, 14 e 16 febbraio 2012;  per le mostre con 2 artisti,  al Vittoriano   Romano e Del Monaco  26 aprile 2014, alla galleria RvB Arts, Cafagna e  Thwaites  22 ottobre 2015, Spaggiari e Zarattini  9 novembre 2015; per le rappresentazioni dell’Inferno,  Rodin e Roberta Comi  20 febbraio 2013   e Gianni Testa  14 settembre 2014; per “Meteoriti”  5 ottobre 2014 , “Numeri” il 23 e 26 aprile 2015.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare i due artisti Anghelopoulos e Pinchi, per l’opportunità offerta. In apertura, A. T. Anghelopoulos, “Vita Interiore – Inner Life”, 2014; seguono, dello stesso autore, “God Disengagement”, 2013, e “Untitled”, 2014; poi, “Under the Dense Sky”, e “Inner Sky”, 2012; quindi, “Sulle orme di Dante (Trittico)”, particolare di Paradiso e Purgatorio, da sin, l’Inferno segue a dx , “Tiny Town” ,2010; .inoltre, di Andrea Pinchi, “Tertium datur (The Outsider # 2)”, 2012, e, dello stesso autore, “Nanè sweet harmony”, 2014, ancora, “Geist # 3”, 2012, e “Walking on the empty moon”, a sin,, “Toxic”, a dx, entrambi 2011; infine, “She had a good flight (Mercurius says)”, 2012, e “Gala tra anime e cuori”, 2014; in chiusura, “Well, it’s a real big mess!”, 2011.

Spadolini, la figura e le memorie che suscita, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, ala Brasini, lato Ara Coeli, dal 6 novembre al 15 dicembre 2015 la mostra “Giovanni Spadolini – Giornalista, storico e uomo delle istituzioni” presenta una ricca documentazione visiva sul’itinerario umano, civile,  istituzionale di un protagonista della storia del ‘900, per i ruoli che ha ricoperto e per lo spessore e l’alta qualità  di uomo di cultura che con la sua stessa figura esprimeva autorevolezza e valore civile.  Fotografie e quadri d’autore, documenti e cimeli si susseguono a ritmo incalzante in un percorso espositivo particolarmente ricco data la natura poliedrica del personaggio. La mostra è realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, catalogo Gangemi Editore.

Con la mostra su Spadolini prosegue l’opera di testimonianza degli eventi nazionali attraverso mostre tematiche nel Complesso del Vittoriano realizzate da Comunicare Organizzando, e ricordate dal Presidente, insieme alle esposizioni su artisti celebri o emergenti ad un ritmo incessante: Alessandro Nicosia cita le mostre nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia e quelle su istituzioni come Corte Costituzionale e  Treccani,  Istituto Luce e Rai.

L’impostazione della mostra

I 90 anni dalla nascita di Spadolini sono un evento nazionale perché la loro celebrazione consente di ripercorrere un tratto della storia d’Italia seguendo l’impronta lasciata da un personaggio che ha riassunto nella sua persona autorevole e altamente rappresentativa  alcune figure centrali nella vita nazionale, lo storico  e il giornalista, il politico e l’uomo delle istituzioni. E lo ha fatto ai più alti livelli, da scrittore sulla storia nazionale a direttore di quotidiano, da segretario di partito a ministro, da presidente del Consiglio a presidente del Senato,  lasciando tutto alla sua Fondazione.

L’interesse va oltre questa pur fondamentale figura che tutti ricordano, la mostra ripercorre la storia del nostro paese in un arco di tempo denso di eventi, per questo è  sollecitata la memoria collettiva e individuale nel tornare indietro nel tempo e guardare allo specchio “come eravamo”. Poiché l’epoca è recente, riguarda la nostra generazione, non è solo immedesimazione storica come avviene per fatti più lontani, ma è una identificazione personale che viene sentita con interesse ed emozione.

A questo porta la ricca documentazione fotografica che presenta l’intensa attività del personaggio nelle diverse fasi della vita, cui corrispondono fasi della vita nazionale soprattutto allorché sono immagini della sua attività istituzionale. Che dire dinanzi a una fotografia del G8, con tanti capi di governo di allora scomparsi, ripresi sorridenti schierati con Spadolini tra Reagan e Mitterand!

Le immagini naturalmente non sono solo istituzionali, ci sono quelle da giornalista vicino alla rotativa e persino una fotografia giovanile arrampicato su un albero, certo una rarità rispetto alla sua figura autorevole, comunque in giacca e cravatta anche lì. Ma la mostra rivela come sotto questa apparenza seria e il suo “aplomb” ci fosse in lui un autentico senso di humor, non lo infastidivano le vignette dissacranti sulla sua figura, anzi le raccoglieva, quella preferita era esposta bene in vista.

Il  rigore dello storico è testimoniato dalle raccolte di cimeli risorgimentali, quadri e oggetti, mentre l’ uomo delle istituzioni oltre che dalle fotografie appare dalle onorificenze esposte nelle apposite vetrine  come i cimeli; ci sono anche i doni istituzionali, dai vasi cinesi alle sculture indiane, perfino  un  kalashnikov.  Per il giornalista e lo scrittore testimoniano fotografie, giornali e libri. 

E’ ricostruito un angolo con sedie e quadri risorgimentali da lui raccolti che, insieme ai cimeli  creano il clima dell’epoca da lui tanto studiata e amata.  Mentre  l’aria della sua Firenze è portata dai  dipinti  sul paesaggio toscano del padre Guido che, con i cimeli e i quadri risorgimentali, in vari punti del lungo spazio espositivo tornano a ricordare al visitatore le sue origini e le sue passioni.

L’esposizione è cronologica, testimonia  le diverse tappe della sua vita personale  e pubblica. Percorriamo l’itinerario espositivo evidenziando ciò che ci ha maggiormente colpito.

La formazione

Si inizia con “Gli anni della sua formazione”, un’accurata galleria fotografica  che mostra il piccolo Spadolini e i suoi disegni infantili dei soldatini,  poi il ragazzo vestito alla marinara e lo  studente con le pagelle, fino al ventenne con gli amici in Piazza Duomo a Firenze. Lo vediamo ritratto  a tre anni  a matita e pastello dal padre Guido, pittore di cui è esposto pure un “Autoritratto” e scene d’ambiente, come un suggestivo “Il silenzio”  nel  chiostro  di un convento fiorentino.

Manifesta presto la predilezione per gli studi storici  e a soli dieci anni scrive nel quaderno un testo, definito “il suo primo libro”, sugli “Avvenimenti e personaggi importanti della storia d’Italia”. Una volta laureatosi,  fa parte dell’ambiente culturale intorno a Giovanni Papini  e scrive i primi testi storici in cui analizza caratteri e limiti del Risorgimento e degli eventi tra l’800 e il ‘900.

Il giornalista

Dopo questa introduzione la mostra passa ad evidenziare le “tre anime” di Spadolini, in sezioni apposite, iniziando con la prima anima, “Il giornalista”.  Nel 1948, a 23 anni, è chiamato da Missiroli  al Messaggero, dal 1949 al 1952 scrive sul “Mondo” di Pannunzio, dal 1950 su “Epoca”, è l’anno in cui, a 25 anni,  è chiamato da Giuseppe Maranini  nell’Università di Firenze, alla cattedra di Storia Moderna.  Giornalismo unito alla ricerca storica a livello universitario, come componenti inscindibili di un impegno ad analizzare la realtà contemporanea per e i suoi problemi.

Poi una vera cavalcata, nel 1953 è al “Corriere della sera” chiamato ancora una volta da Missiroli e  nel 1955, a 30 anni,  assume la direzione del “Resto del Carlino” ,  quando riprende il suo nome originario lasciando quello di “Giornale dell’Emilia”  dopo un referendum tra i lettori; ci resterà  13 anni fino al 1968 allorché diventa direttore del “Corriere della sera”  e lo sarà per  quattro anni tormentati,   quelli della contestazione e del terrorismo rosso e nero, tra gli opposti estremismi.

La documentazione  di questa sua “anima” è straordinariamente ricca, comincia con  le lettere dei direttori  ed editori, Missiroli e Pannunzio, Longanesi e Mondadori,  poi passa alle fotografie con personaggi, quali Bargellini, Papini e Soffici, La Pira e De Chirico, Einaudi e Segni.  Naturalmente spiccano i suoi articoli sui giornali, da quelli sul “Mondo”  con titoli eloquenti dell’originalità e dello spessore della sua analisi “Mazzini senza Mazzini” e “Con, senza, contro Garibaldi”, agli articoli di fondo dei giornali diretti, “Resto del Carlino” e “Corriere della sera” negli eventi epocali: rivediamo le prime pagine con la crisi di Cuba del 1962 e la destituzione di Kruscev nel 1964, l’assassinio di Kenendy e la guerra in Vietnam, la primavera di Praga e l’uomo sulla luna nel  1969.

Non solo documenti e foto, anche un quadro fortemente allegorico dipinto per lui da Dino Buzzati, “La stanza” irraggiungibile per gli invidiosi, e una “Natura morta” che Giorgio Morandi volle donargli quando prese casa a Bologna alla direzione del “Resto del Carlino”;  e poi dipinti di Ardengo  Soffici e un “Paesaggio toscano” di Ottone Rosai.

Lo storico

L’anima del giornalista è abbinata alla seconda anima, “Lo storico”, evocata dai suoi numerosi volumi di ricerche storiche, esposti nelle vetrine, e dai cimeli d’epoca, che amava esibire nella sua abitazione  e nella mostra spiccano come reperti preziosi creando la giusta atmosfera. Riguardano soprattutto Napoleone e Garibaldi, sue passioni fin dall’infanzia, a dieci anni ne aveva letto già diverse biografie.  Ritratti e tele ricamate, foulard e cammei insieme a elmi  e berretti garibaldini fino all’astuccio chirurgico con i ferri per estrarre il proiettile  dal quale Garibaldi fu ferito ad Aspromonte utilizzati dal medico Ferdinando Zannetti di cui c’è pure la cassetta delle medaglie.

Due sculture in marmo bianco di Carrara e un angolo con sedie risorgimentali completano questa sezione: le sculture sono di Auguato Rivalta, “Camillo Benso di Cavour” , 1860,  seduto in posa meditativa in poltrona, e di Luigi Bistolfi, “Busto di Giuseppe Garibaldi”, 1885-95; le sedie risorgimentali con sedile in paglia di Vienna hanno nella spalliera figure risorgimentali.

Ma c’è anche il lato leggero in questo autorevole contesto storico, e sono le testimonianze della sua passione per i carabinieri: una fotografia lo ritrae tra il Comandante dell’Arma  e il presidente dell’Associazione Carabinieri in congedo con in testa il berretto e con  le mostrine di “appuntato onorario”, e una statuina di terracotta lo raffigura in modo bonario in divisa da carabiniere, oltre a statuette in  miniatura della fanfara dei  carabinieri con il tricolore e a un dipinto di Ottone Rosai che acquistò a Cortina, “La perlustrazione (strada con Carabinieri)”.  Un’altra chicca sono i suoi disegni infantili colorati  a lapis a 7 anni di carabinieri in alta uniforme, li raccolse nel volumetto “I soldatini della mia infanzia”  donato agli amici per il  Natale 1983 e il Capodanno  1984; e la medaglia con il suo profilo realizzata da Mario Valeriani, ufficiale dei Carabinieri in congedo.

Il politico e l’uomo delle istituzioni

La terza sua anima, dopo il giornalista  e lo storico, è quella dell’uomo delle istituzioni, in un percorso che nel 1972 lo ha visto,  eletto per la prima volta al Senato nelle liste del Partito Repubblicano Italiano,  lasciare la direzione del “Corriere della Sera”, ha passato il Rubicone.

Chiamato al governo nel 1974 per organizzare il nuovo Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, ne fa uno strumento di denuncia delle carenze  e delle minacce, nei pochi mesi in cui è  Ministro della Pubblica Istruzione nel 1979 riapre i concorsi e crea il Consiglio Nazionale Universitario.

Nel settembre di questo stesso anno diviene segretario nazionale del PRI, un piccolo partito ricco di idee con grandi segretari, basti pensare a Ugo La Malfa prima di Spadolini.  Dal 1981 al 1987 direttore politico della “Voce Repubblicana” che riporta in vita, direttore responsabile Stefano Folli. Dà al partito una linea europeista, e nel 1981 Pertini lo incarica di formare il primo governo a guida non democristiana:  lotta contro inflazione e terrorismo e svolge un’attiva azione internazionale.

I  continui contrasti politici tra i partiti del centrosinistra  rendono tormentata la sua presidenza, nel 1982 supera la crisi con un “governo fotocopia”, è l’anno della vittoria ai mondiali di calcio, ma dura poco. Nel governo successivo è Ministro della Difesa,  organizza il primo intervento all’estero dell’Italia a difesa della pace in Libano, crea un coordinamento più stretto fra le tre armi.

Dall’istituzione governo all’istituzione Parlamento,  nel 1987 diventa presidente del Senato della Repubblica, ci resterà fino al 1994  allorché fu battuto sul filo di lana e ne risentì notevolmente. A lui si deve la sede della biblioteca senatoriale nel palazzo della Minerva.

Molte immagini illustrano il percorso politico e istituzionale , aperto dal primo numero della “Voce Repubblicana”  a direzione Spadolini:  “Un giornale povero per una battaglia difficile” è l’occhiello dell’articolo di apertura “Torna la voce dei Repubblicani” con il fondo del direttore “Una certa idea dell’Italia”. Fotografie del congresso: l’ultimo con Spadolini segretario  a Firenze il 22-26 aprile 1987 lo vede sul podio degli oratori con la grande edera dinanzi e il grande emiciclo di congressisti. E poi foto della sua attività di Ministro per i Beni culturali, con visite a siti archeologici e mostre  d’arte, lo vediamo a quella con i disegni di Guttuso su Michelangelo.  Non solo foto, ancora opere dedicate a lui, come la serigrafia  “Lumache su una foglia d’edera” che Guttuso gli donò alludendo alla lenta crescita elettorale dei repubblicani; e poi, “Tartaruga”, dello stesso autore, in omaggio allo stile coriaceo e mansueto di Ugo La Malfa.

Come Presidente del Consiglio le immagini si moltiplicano, vediamo quelle del giuramento e della compagine governativa con Pertini al centro al suo fianco,  una riunione del Consiglio dei ministri per le misure contro i fenomeni mafiosi e un bilaterale anglo-italiano.

E poi  una lunga serie di fotografie istituzionali con gli altri capi di Stato e di governo in occasione di incontri ufficiali: eccolo con Indira Gandhi e Reagan, Margaret Thatcher e Mitterand,  Caramanlis e Patricio Aylwin, il primo presidente cileno eletto democraticamente dopo la dittatura di  Pinochet, Soarez e Mubarak, Li Peng primo ministro cinese ed Helmut Kohl, Shamir e Jacques Delors. Numerose le immagini con altri personaggi, da Carlo d’Inghilterra al rabbino Toaff,  da Nelson Mandela a Dubcek, da Mario Cuomo a Valery Giscard d’Estaing.

Naturalmente numerose le immagini con i personaggi della politica italiana, anche nella sua qualità di presidente del Senato: lo vediamo con Scalfaro, presidente della Repubblica e con Ciampi, allora presidente del Consiglio, con  Forlani e Craxi nella stessa fotografia insieme ad Eltsin, con Andreotti presidente del Consiglio e con Nilde Jotti presidente della Camera. Fino all’immagine clou, riportata su un grande schermo, del G7 di Ottawa, del 20-21 luglio 1982,  lui è all’estrema destra con la Thatcher e Mitterand, al centro Reagan e Scmidt.

Questa galleria è arricchita da  altri cimeli, dopo quelli risorgimentali, sono i “doni istituzionali” ricevuti dai capi di stato e di governo: si va dalla statuina in avorio da  elefante indiano, dono di Indira Gandhi a ai vasi cinesi in metallo dorato e ceramica a rilievo donatigli nel viaggio in Cina dal primo ministro Li Peng, dalla scatola di legno laccato con una veduta del Cremlino dono di Gorbaciov al vaso in vetro blu con decori di tulipani dono di Margaret Thatcher al vaso antico  raffigurante Dioniso tra Menadi e Satiri, dono di Karamanlis. Fino a due doni americani,  la chiave della città di Los Angeles donatagli dal sindaco Tom Bradley e il barattolo in vetro contenente gelatine di frutta dono di Reagan con il suo sigillo nella visita alla Casa Bianca, entrambi  del 1982.

Ma il dono più sorprendente ci è sembrato  il kalashnikov esposto nella vetrinetta con la  sua custodia verde, donatogli  dal principe  Sultan bin Abdulaziz , ministro della Difesa dell’Arabia Saudita nella visita a Ryad del novembre  1986 allorché era  Ministro della Difesa. Del resto tra le foto esposte c’è quella della sua visita al contingente italiano in Libano, nel Capodanno 1984, che lo ritrae tra due militari in tuta mimetica con il mitra imbracciato, dietro di lui il generale Angioni, ma lui non veste l’uniforme come avviene ormai da anni nelle visite dei politici ai militari all’estero, il rigore dell’abito scuro con giacca e cravatta sulla camicia bianca non manca in nessuna situazione.

L'”aplomb” istituzionale e le caricature

Non manca neppure nei momenti della  vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio del 1982, lo vediamo ritratto mentre assiste in  Tv la finale con la Germania, poi mentre stringe tra le mani la coppa a fianco di Bearzot e Zoff in giacca bianca, lui il solito abito scuro con cravatta regimental.

Ci sia consentita al riguardo una nota personale: a lui presidente del Consiglio facemmo avere, con cortese lettera di accompagnamento,  un “rebus”  di 60 parole con relativo articolo sui rapporti tra calcio e politica in quell’estate calda su entrambi i fronti,  nel “rebus” il suo nome era evocato dalla città belga Spa e dai lini, quello del presidente della Repubblica Pertini, riportato due volte, la prima con dei colli erti, l’altra con dei tini. Ebbene, Pertini ci fece avere il suo apprezzamento,  Spadolini non rispose, lo attribuimmo all'”aplomb” istituzionale che poteva renderlo allergico all’ironia.

Per questo siamo stati piacevolmente sorpresi nel vedere che raccoglieva le caricature, considerando che fu “bersaglio” soprattutto di Forattini, il quale  forzava in modo impietoso, ma sostanzialmente affettuoso, la sua fisicità corporea rappresentandola come straripante. Spadolini gli chiedeva gli originali, la caricatura prediletta la espose  nella “Stanza Rosai” della villa di Pian dei Giullari, di cui parleremo al termine,  è quella  che lo ritrae nudo e roseo su un cavallo verde mentre impugna il tricolore con al centro 60, i suoi sessant’anni, ne fece anche una cartolina per gli amici; addirittura fu ospite  con Forattini della trasmissione televisiva di Raffaella Carrà “Pronto Raffaella” il 20 gennaio 1984, allora era Ministro della Difesa. Oltre alle tante vignette di Forattini nelle pose e forme più strane, il disegno in pennarello colorato di Alfredo Chiappori che lo ritrae  come “Novello Napoleone”, il suo idolo con Garibaldi. Fu anche “bersaglio” amichevole di Walter Chiari, in uno sketch scherzava sulla gravità dei nomi Brandt e Mitterand, rispetto alla fragilità del nome Spadolini. .

La Fondazione Nuova Antologia

Torniamo all’ “aplomb”, questa volta culturale.  L’attenzione alla cultura è stata la costante della sua vita insieme al forte senso delle istituzioni,  e  lo portò a dar vita alla “Fondazione Nuova Antologia”, dal titolo della rivista che diresse per quarant’anni dopo averla rilevata salvandola dalla chiusura; il 23 luglio 1980 la fondazione fu istituita con decreto del presidente Pertini ed ebbe sede a Pian de’ Giullari, nella collina fiorentina, nella villa “Il tondo dei cipressi”, un rustico  ristrutturato  messo a disposizione dalla Cassa di Risparmio di Firenze. 

Fu la sua dimora abituale dal 1978 al 1994,  vi accorreva sempre nei momenti liberi dagli impegni istituzionali, vi riceveva capi di Stato in visita a Firenze e personalità politiche e culturali.  Tutti i suoi beni, mobili e immobili, i suoi libri e i cimeli, la biblioteca, sono entrati nel patrimonio della fondazione che con disposizione testamentaria ha nominato sua erede universale.

E’  una testimonianza quanto mai elevata dell’amore per la cultura fino a dedicarle con questa donazione tutto quanto realizzato nella propria vita e la memoria di un’esistenza così intensa.

Questa memoria è evocata in modo magistrale con una “total immersion” nel percorso espositivo che diventa un viaggio a ritroso anche nella storia personale dei visitatori. Nella cronologia di Spadolini, con tutti i personaggi che sfilano nella ricca galleria fotografica , tutti ritrovano  il proprio vissuto.

Il giornalista e lo storico, il politico e l’uomo delle istituzioni diventa così un prezioso riferimento non solo culturale, con il suo altissimo profilo personale,  ma anche umano. Il suo insegnamento che è anche un monito viene dalle  tre anime inscindibili nella sua figura: “La cultura come patrimonio indispensabile per affrontare le sfide della politica, mai concepita come esercizio del potere ma come attività di governo, come quotidiano impegno per la soluzione dei problemi nazionali, nell’interesse generale della comunità”. Sono parole del presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia  Cosimo Ceccuti che derivano dal suo ultimo discorso al Senato allorché  disse: “Non si va al potere ma si va al governo e sempre con le valige pronte”.

Un merito che va riconosciuto alla mostra è avere reso quanto mai umana  una figura che non è più confinata in un olimpo irraggiungibile ma si è positivamente avvicinata alla gente comune. 

Info

Complesso del Vittoriano, piazza Ara Coeli,  tutti i giorni apertura  ore 9,30, chiusura da lunedì a giovedì ore 18,30, da venerdì a domenica 19,30,  entrata fino a 45 minuti dalla chiusura.  Ingresso gratuito.  www.comunicareorganizzando.it , Tel. 06.6780664. Catalogo “Giovanni Spadolini. Giornalista, storico e uomo delle istituzioni”, Gangemi Editore, novembre 2015, pp. 128, formato 22 x 24, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre citate, cfr., in questo sito, i nostri articoli, sulla Treccani  20 aprile 2015,  l’Istituto Luce  24 agosto 2014,  la Rai  13 marzo 2014.Per “Il  Rebus dell’estate 1982”  citato nel testo, cfr. il nostro articolo con questo titolo nel mensile  “Realtà del Mezzogiorno”, settembre 1982. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Nuova Antologia,  per l’opportunità offerta. In apertura, Spadolini  dinanzi agli scaffali della Biblioteca donata alla Fondazione; seguono immagini giovanili, e a Nizza  su un albero con il prof. Biondi, aprile 1954;  poi, da direttore del “Resto del Carlino in tipografia 1955, e immagini istituzionali, tra cui la visita in Libano,1984; quindi,  l’incontro a Roma con Dubcek ,l’eroe della Primavera di Praga presidente dell’Assemblea nazionale, 1991, come Presidente del Senato, e altri incontri istituzionali, tra cui con Papa Giovanni Paolo II e Gorbaciov; inoltre, una  delle vetrine con un’onorificenza e doni ricevuti, e quadri della sua collezione di cimeli napoleonici e risorgimentali; ancora,  una delle vetrine con libri e disegni e una caricatura di Forattini; infine, la caricatura  prediletta “Sessant’anni”, sempre di Forattini, 1985, e un’altra galleria di immagini istituzionali tra cui con Brandt (che Walter Chiari gli contrapponeva scherzosamente nello sketch citato nel testo); in chiusura, in un angolo della mostra una vetrina con dei cimeli e, nella parete, foto serie e disegni scherzosi.

Dolce vita? Liberty, futurismo e metafisica, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Raccontiamo  la nostra visita alla mostra “La dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940” aperta al Palazzo Esposizioni dal 16 ottobre 2015 al 17 gennaio 2016,  con un gran numero di opere di arte applicata alla vita quotidiana, del primo quarantennio del secolo scorso, un periodo molto tormentato. Gli oggetti esposti mostrano l’evoluzione artistica tra le varie correnti e tendenze stilistiche, mentre  i vincoli del regime, ben presenti, condizionavano soprattutto le arti maggiori; gli ambienti ricostruiti con cura fanno immergere nel clima dell’epoca. Realizzata con il Museo d’Orsay e de l’Orangerie, curata da Guy Cogeval, presidente delmuseo parigino che con Beatrice Avanzi ha curato anche il Catalogo Skirà.

Abbiamo descritto in precedenza i contenuti  di una mostra speciale, insolita e coinvolgente, con cui si ripercorrono i primi quarant’anni del secolo scorso dei quali abbiamo evocato il clima politico e sociale. La mostra presenta molti oggetti e arredi, ambientazioni  e anche dipinti  che  riportano ai   fermenti culturali e alle aperture creative verso la modernità, nello stile di vita oltre che nell’espressione artistica, espressione di vitalità e dinamismo e anche di contraddizioni e contrasti .

Con il Liberty l’armonia della natura

Si comincia con il  Liberty che si diffuse in Europa partendo dal Belgio come reazione allo stile accademico e classicheggiante. Adottò uno stile floreale, tanto che “Floreale” fu il nome iniziale in Italia finché non prese quello di “Liberty” dal nome di un commerciante londinese di oggetti orientali.  In Francia si chiamò “Art noveaux”, in Gran Bretagna “Modern Style”, in Austria “Secessione” in linea con il movimento pittorico di reazione al passato. 

Veniva considerata  la natura come un universo armonioso da cui trarre ispirazione, in particolare i motivi vegetali,  piante e rami, nervature  e viticci, ambienti boschivi e forme floreali; e anche le creature animali di piccole dimensioni per la loro delicatezza, come insetti e molluschi acquatici. Tutto ciò in forme curve ed armoniose, in un linearismo decorativo elegante con riflessi orientali.

Sembrerebbe un’evasione dalla realtà nell’utopia di  un ambiente bucolico, era tutt’altro, aveva una motivazione pratica:  la coerenza  tra forma e funzione. Così vennero usati materiali quali vetro, ferro e cemento, dando avvio a una nuova linea progettuale legata alla quotidianità definita “industrial design”. Non era isolato, si collegava al movimento filosofico legato al positivismo della ragione, quindi della scienza,  nella ricerca delle leggi della natura, posta al centro dell’attenzione. 

In pittura il divisionismo, con la scomposizione  della luce in linee filamentose, sulla scia del neo-impressionismo,  si muoveva nella stessa direzione.   Si segnalarono Previati e Segantini, poi Boldini e Casorati, Chini e Zecchin, Nomellini e Benvenuti, Kiernek e Caminetti, fino ai futuristi Balla e Boccioni. 

In Italia il Liberty si diffuse dopo l’Esposizione di Torino del 1902 per iniziativa di una “minoranza modernista”  che,  sulla scia delle affermazioni europee del nuovo stile, cercava di rompere la staticità dello stile tradizionale basato su motivi classici.

Tra i primi troviamo lo scultore torinese Leonardo Bistolfi  e l’architetto  Raimondo d’Aronco a Torino e Udine,  per l’arredamento il milanese Carlo Bugatti,  Eugenio Quarti, Carlo Zen e l’architetto Ernesto Basile che operava a Roma e a Palermo; gli architetti che progettarono in stile Liberty sono numerosi, citiamo Fenoglio e Vandone, Premoli e Gribodo, Rigotti e Betta, Gussoni e Sommaruga a  Milano, Campanini e Brogi, Bossi e Michelazzi a Firenze.

Le opere in stile Liberty esposte nella mostra

Molti di questi artisti sono presentati nella mostra con loro realizzazioni significative del clima e dello stile dell’epoca. Siamo all’inizio del 1900, vediamo  oggetti di uso quotidiano ma di forma insolita: di  Carlo Bugatti, sedia e scrivania, poltrona e  paravento , panchetto con tamburo pluricorde , di forma arrotondata;  anche nello scrittoio, sedia e tavolino di Eugenio Quarti troviamo le linee curve, sua è pure una “Vetrina” molto elaborata con vetri colorati e ampi vuoti.  Di Ernesto Basileil “Secretaire a due ante“, 1902, con l’intervento, oltre che dell’ebanista Ducrot, dello scultore Ugo e del pittore De Maria Bergler per le finiture. E’ datato 1925 lo stipo “La notte”  di Duilio Cambelotti, del quale vediamo esposte anche due coppe “La conca dei bufali”, 1910, “Coppa delle violette”, 1925, e il pastello “Campagna arata”, 1912, quasi un manifesto rurale.

Tornando ai primi del secolo, troviamo le opere in ferro battuto di Alessandro Mazzucotelli, “Le serpi” e il “Lampadario”, sobrie volute metalliche sempre con l’impronta circolare come segno di armonia; così il “Portafiori” di Alberto Gerardi, che ha un’armoniosa spinta verso l’alto, è il 1920.  

Nei sei “Vasi”  di Galileo Chini,  tra il 1900 e il 1910 ,  i motivi floreali e animali vengono trasferiti sulla ceramica, insieme ad elementi geometrici sempre arrotondati, colori pastello di grande effetto; sue anche due “Formelle con putti”, 1925, quasi bassorilievi classici ma nelle forme armoniose e arrotondate del nuovo stile. Umberto Bellotto,  nei suoi due “Vasi” e nel “Flacone”, 1914-22,  inserisce il “vetro mosaico” in una struttura in ferro  con effetti policromi molto eleganti.

Gli effetti diventano spettacolari, nello stesso periodo,  nei due “Vasi” di Vittorio Zecchin, con le murrine , realizzati nella vetreria Barovier, è esposto anche il “Vaso a murrine (Compostiera)di Benvenuto Barovier.  Di Zecchin pure due coppe “Gli aironi” e “Vestali”, e una “Credenza”, intorno al 1920, sembrano la trasposizione  delle sue spettacolari pitture in stile orientale, come “Le Mille e una notte”, 1914, e “I Re magi”, 1920, anch’esse esposte in mostra, che lasciano incantati per l’originalità stilistica, quasi iconica, e la forza cromatica.

Sembra in volo la conturbante “Sirena”, di Giulio Aristide Sartorio, è ancora il 1893 ma c’è già  l’atmosfera  e lo stile del Liberty. Aereo e più evanescente  “La danza delle ore”, di Gaetano Previati, 1899, liliale e romantico “Il suono del ruscello”, di Emilio Longoni, 1904,  con una sorpresa, un’opera dell’autore  del celebre “Quarto Stato”,  Giuseppe Pellizza da Volpedo, di lui è esposto “Tramonto”, 1904, come un reticolo quasi puntiforme.

Una scena di ambiente bucolico anche se in atteggiamenti moderni in “Le signorine” di Felice Casorati, 1912, una sorta di “dèjeuner sur l’erbe”  con la figura nuda tra altre vestite, ma sono tutte donne e in piedi, a terra un gran numero di oggetti per un improbabile picnic nel bosco. Anche in “La leggenda di Orfeo”, di Luigi Bonazza, 1905, troviamo la figura nuda con alberi e a terra segni della sosta, è il terzo elemento di un trittico con scene mitologiche in chiave moderna.

Nel concludere la rassegna dell’esposizione di opere in stile Liberty non possiamo ignorare il manifesto “Cabiria” di Leopoldo Metlicovitz, le braccia tese che innalzano il leggiadro nudo femminile tra fiamme ardenti con due pugnali in primo piano è la sintesi artistica di un’epoca.

Ci siamo soffermati sul Liberty, lo stile floreale ispirato alla natura come portatrice della magia dell’universo con le sue volute armoniose e delicate ornate di leggiadre figure vegetali e animali in un clima  orientale di grande fascino. E abbiamo descritto i numerosi oggetti esposti nella  sezione della mostra dedicata a questo stile, dal mobilio al vssellame, fino alle pitture. L’ultimo dipinto,  “Ritmo plastico del 14 luglio”, 1913,  di Gino Severini,  è l’ideale apertura della sezione dedicata alle opere ispirate al Futurismo che si inseriscono nella spinta alla  “ricostruzione futurista dell’universo”, velleitaria quanto si vuole, ma dalla forza prorompente, che ha investito  gli aspetti del vivere quotidiano oltre che di forma e contenuto in ogni campo dell’arte.

Il Futurismo negli oggetti quotidiani, dagli arredi al vasellame

Con le opere del Futurismo  si compie un viaggio nell’immaginario, si è trascinati in un turbine creativo che sembra quasi  incredibile, pensando che si tratta di oggetti della vita quotidiana di un secolo fa.

In questi oggetti, tradizionalmente artigianali, irrompono gli artisti in base alla “progettazione globale” e alla caduta delle barriere tra le arti;  ma non nel senso dato dall’ “Art noveaux” che vi vedeva uno stile per la nuova borgesia facoltosa, bensì come espressione individuale di artisti, che realizzavano le opere per proprio uso, per  amici o per venderle, in ogni caso sempre pezzi unici.

L’arte veniva concepita come azione, gli artisti davano l’esempio nell’applicazione  dei dettami del Futurismo:  dalle opere ispirate al mito del movimento e della velocità, con l’automobile in primo piano seguita dall’aeroplano nell’ “aerofuturismo”,  al radicale rinnovamento nei comportamenti e negli atteggiamenti, nonché nell’abbigliamento e negli arredi, fino all’arruolamento da volontari nel conflitto mondiale, dopo aver definito la “guerra igiene del mondo”.

Alla  declamazione teorica seguì, dunque, l’applicazione pratica nei campi più diversi della vita e dell’arte:  per la vita basta ricordare l’appartamento di  Giacomo Balla, trasformato in “Casa d’Arte futurista”  dove qualunque oggetto quotidiano è trasfigurato nella forma e nel cromatismo brillante; per l’arte, le scenografie di Fortunato Depero  per “Le Chant du rossignol” di Stravinski.  Di questi due artisti il maggior numero di opere esposte nella mostra.

I “Particolari della sala da pranzo” di Giacomo Balla, un tavolo, due sedie e una credenza, del 1919, colpiscono per il verde acceso mentre nel “Servizio da caffè”, 1929, spiccano  le colorazioni intense di motivi  geometrici molto particolari. Stesso effetto cromatico e decorativo nella “Brocca futurista”, “Tazza con piattino” e “Versatoio ‘Fobia anti-imitativa’”, dello stesso anno, di Tullio d’Albisola, con in più allusioni come quella del titolo. Mentre nessun cromatismo né decorazione nel “Servizio da te”, 1930, di Nicolai Diulgheroff, solo il colore del  cotto, l’artista si rifà, per così dire, nel “Vaso”, 1932, con linee, forme geometriche e cromatismi delicati, in stile d’epoca.

Tornando a Balla, vediamo il “Panciotto futurista”, 1924-25,  che con il “Panciotto per Fedele Azari”, di Fortunato Depero, 1923,  ci fa pensare alla mostra contemporanea  di Renzo Arbore al “Macro Testaccio” , sempre a  Roma, con un’intera parete di veri panciotti  ancora più futuristi di quelli autenticamente tali dei due artisti. Di Balla non potevano mancare dipinti futuristi,  come “Linee-forza del pugno di Boccioni”, 1915, e  “Linea forza di paesaggio + sensazione”, 1918,  il secondo con qualche rotondità  che poi prevale in “Primaverilis”, 1919,  di tono quasi liberty.

Ma è Depero a sorprenderci maggiormente con due opere in legno del 1925,  “Il gobbo e la sua ombra”, e “Pupazzo Campari”, una pubblicità quasi irridente cui accostiamo il “Manifesto pubblicitario per il Mandorlato” e il collage su carta colorata “Doppio ritratto di Marinetti”, 1923,   gustoso e graffiante come un disegno satirico di Mario Sironi, che l’anno prima aveva iniziato a collaborare  come vignettista al “Popolo d’Italia”. Troviamo dello humor anche nelle due tarsie di panni colorati, sempre  di Depero, “Quattro serpenti” e “Cavalieri”, dello stesso periodo.

Di un futurista altrettanto noto, Enrico Prampolini, vediamo un “Tavolino per la casa dell’artista”, 1925,  dove al normale piano rotondo aggiunge due larghe basi di sostegno,  una delle quali supera il livello del piano, e il dipinto “Analogie cosmiche”, con la comparazione di forme umane e volumi spaziali, è già il 1932.

Altre sorprese della mostra: un “Tavolo in legno dipinto”, 1920-25, di Julius Evola,l’ideologo di estrema destra stende sul piano di  un tavolinetto nero  dalla foggia moderna giochi cromatici e forme  molto vivaci; il dipinto  “Vite orizzontale”, 1923, di Tullio Crati, in realtà evoca l’opposto, la verticalità di un volo sulla città di cui si vedono i caseggiati in una visione da aerofuturismo; e il “Profilo continuo Duce”, 1935, di Renato Bertelli, sembra un vaso al tornio mentre gira per essere modellato, si ispira a Giano bifronte ma ha  l’impostazione avveniristica della cronofotografia, fu  riprodotto in varie forme e approvato da Mussolini sebbene fosse assente il senso apologetico che invece appariva  nella scultura di Adolfo Wildt di dodici anni prima,  un’icona del potere del Duce.  

Concludono questa sezione un inatteso “Vaso veronese”, 1921, di Vittorio Zecchin, e  due oggetti molto particolari di Thayaht (Ernesto Michahelles), “Scrivania blu”, 1923, e “Lampada-tavolo futurista”, 1930.

La  parentesi metafisica

La sbornia futurista vive una seconda stagione ma  alcuni suoi protagonisti se ne distaccano per riscoprire i valori della tradizione, in un “Ritorno all’ordine”; intanto c’è stata l’intensa ventata  della Metafisica di Giorgio de Chirico,  alla quale la mostra dedica un’apposita sezione.

Il senso del mistero si unisce a una visione della realtà molto particolare, creando atmosfere  di straordinaria suggestione.

Ci sono le piazze, immerse in un clima sospeso e indefinibile, con l’abbagliante solarità unita alle lunghe ombre penetranti che  con le architetture  e le arcate accentuano la solitudine delle minuscole figure umane, mentre un monumento o un treno all’orizzonte completano la magia della composizione, quasi un miraggio.

E gli archeologi,  con il patrimonio di classicità interiorizzato visibilmente nel loro stesso corpo, le enigmatiche figure dalle teste ad uovo che popolano i suoi dipinti insieme a squadre e ad altri  oggetti inusitati, come i biscotti ferraresi, creano rapporti inconsueti e associazioni inattese tra oggetti tra i quali non esistono relazioni evidenti. Ma è il senso nascosto delle cose, l’approfondimento  di ciò che si può intravedere al di là della realtà ad alimentare la ricerca dell’artista il cui compito è  rivelare tutto questo.

Lo ha scritto lo stesso De Chirico: “L’arte è la rete fatale che coglie  a volo, come farfalloni misteriosi, questi strani momenti, sfuggenti all’innocenza e alla distrazione degli uomini comuni”.  

Oltre a De Chirico, Alberto Savinio  si è mosso seguendo il richiamo alla classicità, i due fratelli sono chiamti i “dioscuri” della pittura italiana per le assonanze stilistiche e ideali, pur nella diversità che fa di Giorgio de Chirico  un “unicum” nella pittura metafisica,  cui aderirono inizialmente nel 1910 anche De Pisis e Carrà, poi per un breve periodo Giorgio Morandi.

Il primo dipinto di Giorgio de Chirico è il suggestivo “Mèlanconie d’un après midi”, 1913,  seguono “Autoritratto  con busto di Euripide”, 1923,e “Gli Archeologi”, 1927,  originali omaggi alla classicità dopo la furia iconoclasta del futurismo; c’è anche la modernità di “Mobili nella valle”, 1927.

Questo motivo è riflesso nelle opere, ugualmente esposte, di Alberto Savinio, “Objects abandonnès dans le forét”, 1928, e “Paesaggio con giocattoli”, 1929; di Savinio vediamo anche “Bataille de Centuries”, e “I genitori”, 1930-31, visioni altrettanto dechirichiane.

L’atmosfera al di fuori del tempo, che avrà influenza anche su Felice Casorati,  dà alla quotidianità, resa in un silenzio assorto, il fascino del mistero. E’ tornata l’ispirazione classica, e anche quando la parabola metafisica sarà esaurita, “lascia in eredità alle nuove ricerche figurative –  scrive Beatrice Avanzi – la sua poetica di enigmatica inquietudine e di visionaria percezione della realtà”.

Nel primo dopoguerra nasce il Realismo magico”, che per De Chirico doveva rendere “il senso di melanconia dei segni”, per Massimo Bontempelli  doveva avere “precisione realistica di contorni, solidità di materia ben appoggiata sul suolo; e intorno un’atmosfera di magia che faccia sentire, traverso un’inquietudine intensa, quasi un’altra dimensione in cui la vita nostra si proietta”. Vi aderisce  anche Casorati.

Il racconto della mostra continuerà prossimamente con il nuovo classicismo di “Novecento”, e si concluderà con la modernità del “design” italiano.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. tel. 06.39967500, www.palazzoesposizioni.it. Da martedì a domenica  ore 10,00-20,00, chiusura prolungata alle ore  22,30 venerdì e sabato, lunedì chiuso. La biglietteria chiude 45 minuti prima della chiuusura serale. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 10,00, che permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni,  in particolare oltre a “Dolce vita?”” anche “Russia on the Road” e “Impressionisti e Moderni”. Catalogo “Dolce vita? Dal Liberty al design italiano 1900-1940”, a cura di Guy Cogeval e Beatrice Avanzi, con Irene de Guttry Maria Paola Maino, Skira,  ottobre 2015, pp. 252, formato 22 x 28,5, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 1° novembre, il terzo e ultimo uscirà il 23 novembre p.v., ci sono altre 12 immagini ciascuno.  Per i movimenti e gli artisti citati, cfr. i nostri articoli, in questo sito sui futuristi  Dottori 2 marzo 2014, Marinetti 2 marzo 2013,sull’aerofuturista Tato 19 febbraio 2015, su De Chirico 1° marzo 2015, e 20, 26 giugno, 1° luglio 2013. In “cultura.inabruzzo.it” su “Futurismo”  30 aprile 2009 esu “Aerofuturismo”   1°  settembre 2009, su De Chirico 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009, 8, 10, 11 luglio 2010 (sito non più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti, dal Museo d’Orsay ai singoli artisti,  per l’opportunità offerta. In questo secondo articolo sono riportate le immagini della 2^ e 3^  Sezione della mostra,  quelle della 1^ sezione, qui commentate, sono nel primo articolo.  In apertura,  Fortunato Depero, “Cavalieri”, 1925-27;   seguono,  Giacomo Balla, “Sala da pranzo, credenza e sedie”, 1918, e “Primaverilis”, 1918; poi Fortunato Depero,  “Panciotto futurista”, 1923, a sin., Giacomo Balla, “Panciotto per Fedele Azari”, 1923, a dx, e “Linea forza di paesaggio + sensazione di ametista“, 1918;  quindi, Fortunato Depero, “Manifesto pubblicitario per il Mandorlato ‘Vido'”, 1924,  e “Pupazzo Campari”, 1925; inoltre,  Julius Evola, “Tavolino in legno dipinto“, 1920-25, ed Enrico Prampolini,  “Analogie cosmiche”, 1932;  infine, Giorgio de Chirico, “Mobili nella valle”, 1927,  e Alberto Savinio, “Bataille des Centaures”, 1930, “I genitori, 1931; ; in chiusura, Giorgio de Chirico,  “Gli archeologi”, 1927, a sin. e Alberto Savinio, “Paesaggio con giocattoli”, 1929, a dx. 

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Spaggiari e Zarattini, i loro interni alla galleria RvB Arts

di Romano Maria Levante

Alla galleria romana RvB Arts,  diviadelle  Zoccolette 28 e all’Antiquariato Valligiano di via Giulia 193, la mostra “Interno 109” presenta, dal 5 al 28 novembre 2015,  i dipinti di Marco Spaggiari e di Luca Zarattini che raffigurano ambienti speciali: il primo,  luoghi dell’intimità domestica resi con colori brillanti  e contrastati;  il secondo,  luoghi di lavoro da tempo dismessi su tonalità tenui e smorzate. La mostra è realizzata e curata da Michele von Buren, titolare e animatrice della galleria e instancabile promotrice del programma “Accessible Art” con il quale fa entrare l’arte negli ambiti familiari selezionando opere accessibili economicamente e adatte ad inserirsi armoniosamente nell’arredamento domestico .   

Una nuova accoppiata artistica, dopo la recente mostra con Christina Thwaites e Lucianella Cafagna, nella quale le due artiste erano accomunate dalla figura umana ricorrente nelle loro opere: i ritratti in gruppo da album fotografico nella Thwaites, i primi piani con introspezione psicologica nella Cafagna, un campionario di umanità che portava alla riflessione.

Erano due artiste protagoniste di precedenti mostre nella galleria RvB  Arts, come Luca Zarattini  che nella mostra attuale è associato a Marco Spaggiari, una “new entry” della scuderia artistica di Michele von Buren che comprende una ventina di pittori, alcuni scultori e una diecina di fotografi. Questa volta il soggetto comune ai due artisti è l’“Interno”, cui nel titolo della mostra è unito 109, senza la figura umana ma suo logico complemento in quanto vi si svolge la vita delle persone.

Il percorso artistico tracciato da  Michele von Buren si arricchisce di un ulteriore motivo di interesse. Le mostre che si susseguono  a un ritmo intenso  non sono più soltanto presentazioni di artisti senza collegamenti particolari, al di là della partecipazione al programma “Accessible Art”,  ma esprimono visioni diverse riferite a un tema  comune o almeno assimilabile: l’umanità singola e collettiva nella mostra precedente, gli “interni”, cioè i luoghi della convivenza di questa umanità, dove si sente il suo vissuto, e nel contempo l’assenza, nella mostra attuale.

Questo dal lato artistico, mentre per l'”accessibilità” si conferma la selezione di artisti ed opere per la diffusione tra la gente comune facendole entrare negli ambiti familiari, operazione favorita dal costo contenuto e dall’adattabilità agli ambienti domestici per nobilitarne gli arredi. Una pratica dimostrazione si ha nella galleria in cui le opere sono coordinate con i mobili del rinomato e vicino   “Antiquariato valligiano”, anch’essi offerti alla vendita oltre che alla visione del pubblico.

Abbiamo già analizzato  questo programma, ci limitiamo a sottolinearne ancora il valore  artistico, per il lancio di giovani artisti e la promozione di artisti già affermati inserendo tutti in una scuderia la cui presenza stabile nella galleria RvB Arts li rende familiari ai visitatori che, oltre alle nuove opere in mostra, vi trovano opere in grado di mantenere viva la memoria delle mostre precedenti.  Sono tanti gli artisti che abbiamo “ritrovato”  con uno o più quadri, ed è stato come rivedere dei cari amici, questo lo spirito della galleria dove l’arte si coniuga con il clima familiare, citiamo Deli e Schifano, Calò e Gasperini, Maiti e Geraci, oltre alla Thwaites e alla Cafagna. .

Di  Luca Zarattini conoscevamo i volti intensi  e le nature morte in  impasti con vari materiali densi  su tinte neutre, ora questa sua cifra stilistica la troviamo applicata agli interni. Marco Spaggiari lo scopriamo adesso, i suoi interni sono di un cromatismo intenso con tinte brillanti e fortemente contrastate. Per entrambi l’intitolazione delle opere è all’intera serie, “Interno” per Zarattini, “Senza titolo” per Spaggiari, mentre i singoli dipinti sono contrassegnati da un semplice numero.

Avviciniamoci ai due artisti e alle opere esposte nelle pareti della galleria RvB Arts che abbiamo trovato completamente rinnovata negli arredi, per cui si possono vedere nuovi esempi di abbinamento opere d’arte-mobili d’antiquariato, questa volta accomunati dal legno chiaro che crea un ambiente ridente nel quale si inseriscono perfettamente i dipinti.

L’intimità di Marco Spaggiari

L’interno fa pensare a un qualcosa protetto dalla luce più vivida, quindi dai colori neutri per non dire smorti. Ebbene, per Marco Spaggiari è vero il contrario, i  rossi e i  verdi brillanti colpiscono di primo acchito alla vista delle sue opere. Ci sono le fiamme del focolare, ma anche altri elementi tipici dell’intimità domestica, come il gatto  e la pianta;  il quadro nel quale è raffigurata una pianta sulla destra è esposto tra due piante scultoree di Alessio Deli, uno degli artisti più presenti in RvB Arts, è una delle belle sorprese e insieme delle conferme che si incontrano nella visita alla galleria.

Non è figurativa la rappresentazione degli interni domestici,  non vi è realismo ma trasfigurazione,  come afferma Viviana Quattrini:  “L’artista stabilisce una relazione empatica con la realtà per cui viene a cadere ogni norma che ne regola e imita la costruzione prospettica e formale”. Nessun astrattismo, però, si distinguono gli elementi costitutivi degli ambienti, ma con sovrapposizioni e dissolvenze  corrispondenti all’evocazione  visiva e anche onirica di luoghi vissuti nella quotidianità ma rivissuti nella memoria con la sensibilità e lo stato d’animo del momento. Di qui l’importanza della luce e del colore, che la Quattrini definisce “la più diretta fonte di energia”.

L’artista proviene dall’Accademia delle Belle Arti di Bologna, diploma in pittura e laurea specialistica con tesi in estetica, oltre alla pittura  si esprime nel disegno e nella fotografia.

All’espressione fotografica che raggiunge livelli artistici appartengono la sua tesi del 2012,  “L’atto fotografico”, pubblicata nel 2015 con due saggi del prof. Farulli, e due reportage fotografici di tipo paesaggistico anch’essi pubblicati. Mentre per la pittura lo troviamo nel 2010 vincitore del 6° Biennale Concorso di pittura Contemporanea  Pierpaolo Germano Tassi, Vignola e finalista alla XXIV edizione del Premio Morandi di incisione a Bologna; nel 2015 finalista al premio Ars Mirabilis.  Ha tenuto 13 mostre personali dal 2004 e ha partecipato a 13 mostre collettive dal 2008.

In questo percorso artistico possiamo trovare nell’interesse alla fotografia una delle chiavi interpretative  del suo modo così particolare di evocare la realtà, come se al momento dello scatto la fotocamera venisse mossa rendendo le immagini nel contempo percepibili ma confuse, immerse in un mare cromatico di forte impatto con le  violente  sciabolate di luce e di colore. I suoi rossi ricorrenti ci hanno ricordato la recente mostra al Vittoriano “Rosso su rosso”, con cui Yuri Kalyuta  veste le proprie immagini femminili e non solo, Spaggiari ci veste parti degli interni riprodotti per dare ad essi calore e intimità.

La magia di Luca Zarattini

Anche Luca Zarattini, che conosciamo bene per averne seguito le precedenti mostre a RvB Arts – ne ricordiamo cinque tra il 2012 e il 2014 –  si è diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna ed è stato vincitore di diversi premi:  nel 2011 il premio “Un’opera d’arte per il 150° Anniversario dell’ Unità d’Italia” a Ferrara e il Premio della critica al Premio Basilio Cascella di Ortona, e nel 2010 il Premio Sasyr, Castellina in Chianti,  oltre a cinque premi-selezione. La sua prima mostra personale a vent’anni, nel 2005,  ne sono seguite  18, e 20 mostre collettive dal 2007.  E’ presente in collezioni private, a Roma  in quelle di APS Engineering Company e di  Riccardo Donna, a Los Angeles nella collezione di Gabriele Muccino.

Abbiamo accennato alle sue opere esposte nelle precedenti mostre a RvB Arts, volti e nature morte, sempre con un peculiare impasto materico in cui la pittura viene data su diversi e inconsueti materiali, dal legno alla plastica, dal cemento all’intonaco.

Dei volti ricordiamo quelli privi di occhi e dai lineamenti appena abbozzati, ma con una tale intensità espressiva da porre intriganti interrogativi sui sentimenti che nascondevano, misteriosi come il titolo della serie, “# 1”, mentre erano  ben delineati ma altrettanto intensi e misteriosi i volti di  “Mohammed” e “Carl”, “Pablo” e “Claude”.  

Non abbiamo dimenticato neppure le forme appena profilate, di “Flesso” e “Riflesso”, fino alla serie di  “Natura storta”,  una variante della natura morta  tradizionale, che a suo tempo abbiamo contrapposto all’iperrealismo di fiori e frutta di Orlando Ricci. Zarattini colloca  i suoi vasi di fiori, alti e stretti, su piani instabili, quindi in apparente squilibrio, ma con il gioco di ombre e luci  riescono a trovare stabilità ed equilbrio in una composizione di contrari: equilibrio e squilibrio, stabilità e instabilità, preludio alla presenza-assenza della nuova serie pittorica; come è stato un preludio la serie “Barche”, materiali pesanti per natanti quasi incagliati, l’opposto dell’agilità nella navigazione, altra composizione di contrasti.

Da quelle barche i pescatori passavano agli “interni” raffigurati da  Zarattini, che quindi  non sono elaborazioni di fantasia, ma evocano le modeste costruzioni delle  vecchie Stazioni da pesca delle Valli di Comacchio, da tempo abbandonate,  vera archeologia fluviale; e sembra archeologia senza aggettivi quella del dipinto con arcate da antico acquedotto romano.

Proprio per questo, nel mentre se ne distinguono i contorni con alcuni oggetti quotidiani ben in evidenza,  si dissolvono trattandosi di realtà estinte anche se presenti nella memoria.

La magia con cui nelle nature morte l’artista rendeva compresenti gli opposti spaziali, stabilità ed equilibrio con instabilità e squilibrio, si ripete con questo nuovo soggetto negli opposti temporali, presenza e assenza, entrambi percepibili. Sono ambienti vuoti con gli elementi fondamentali, porte e tavoli, sedie e sgabelli, vi regna la solitudine e il silenzio ma proprio questo richiama l’eco delle presenze che in passato davano a tali ambienti la vita pulsante del lavoro dei pescatori.

Zarattini ha trovato  il modo di raffigurare l’azione del tempo mediante un trattamento pittorico che  rende evanescenti i contorni con un cromatismo neutro e delicato nella densità materica, anche qui  la conciliazione degli opposti in un’alchimia  artistica magistrale.

L’artista, secondo la Quattrini, “stabilisce un rapporto concreto con ciò che vede e con quanto ormai non c’è più. Il tempo si impossessa delle cose e corrode gli oggetti. Ciò che manca non è assenza, è presenza viva dell’azione, ricordo di un vissuto”.

Una citazione a parte merita l’opera di maggiori dimensioni, 3 metri per 2, “Tapis lapis”,  titolo di una serie di disegni di varie misure, che occupa la parete di fondo della galleria, nella cui composizione si distinguono delle membra staccate: il nostro pensiero va, a parte ben note scomposizioni picassiane, ad alcuni frammenti della serie “Still Life” di David Lachapelle che mostra parti di corpi scomposti fotografati dall’artista in un museo delle cere dopo la distruzione. Naturalmente è una associazione di idee di opere del tutto diverse nella forma espressiva e nel contenuto ma con un elemento che ci è apparso comune e ci piace segnalarlo.  

Nel dare conto delle sue precedenti esposizioni nella galleria RvB Arts sottolineavamo le assonanze classiche emergenti pur nella modernità di materiali inattesi in una composizione pittorica. Anche negli interni che vengono ora presentati osserviamo un’assonanza che ricorda, pur nella totale diversità del dipinto – con una sedia e l’angolo del tavolino al posto del letto dell’immagine evocata –  la visione prospettica della celebre “Cameretta” di Van Gogh.

Anche questa, come la precedente, è’ un mera  notazione giornalistica, da cronisti d’arte, al di fuori di ogni presunzione ed ortodossia critica: esterniamo spontaneamente le sensazioni immediate suscitate in noi nelle vesti di visitatori attenti.

In questo caso diventano autentiche emozioni.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito.  Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 12 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Negli articoli  del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio e 5 luglio 2013, 27 giugno 2014 (quest’ultimo con l’iperrealismo di Orlando Ricci), si commentano le precedenti mostre collettive con Luca Zarattini. Per le citazioni del testo cfr., in questo sito, i nostri articoli del 2015: sulla mostra di  David Lachapelle il 12 luglio, su quella di Yuri Kalyuta il 27 luglio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella galleria di RVB Arts alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, gli artisti Marco Spaggiari e Luca Zarattini,  per l’opportunità offerta. In apertura, e nelle 5 immagini successive, dipinti di Marco Spaggiari, della serie “Senza titolo”, numeri vari; seguono 5 immagini di dipinti di Luca Zarattini, della serie “Interno”, numeri vari, e in chiusura, sempre di Zarattini, “Tapis lapis”.

Spaggiari e Zarattini, i loro interni, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Alla galleria romana RvB Arts,  diviadelle  Zoccolette 28 e all’Antiquariato Valligiano di via Giulia 193, la mostra “Interno 109” presenta, dal 5 al 28 novembre 2015,  i dipinti di Marco Spaggiari e di Luca Zarattini che raffigurano ambienti speciali: il primo,  luoghi dell’intimità domestica resi con colori brillanti  e contrastati;  il secondo,  luoghi di lavoro da tempo dismessi su tonalità tenui e smorzate. La mostra è realizzata e curata da Michele von Buren, titolare e animatrice della galleria e instancabile promotrice del programma “Accessible Art” con il quale fa entrare l’arte negli ambiti familiari selezionando opere accessibili economicamente e adatte ad inserirsi armoniosamente nell’arredamento domestico .   

Una nuova accoppiata artistica, dopo la recente mostra con Christina Thwaites e Lucianella Cafagna, nella quale le due artiste erano accomunate dalla figura umana ricorrente nelle loro opere: i ritratti in gruppo da album fotografico nella Thwaites, i primi piani con introspezione psicologica nella Cafagna, un campionario di umanità che portava alla riflessione.

Erano due artiste protagoniste di precedenti mostre nella galleria RvB  Arts, come Luca Zarattini  che nella mostra attuale è associato a Marco Spaggiari, una “new entry” della scuderia artistica di Michele von Buren che comprende una ventina di pittori, alcuni scultori e una diecina di fotografi. Questa volta il soggetto comune ai due artisti è l’“Interno”, cui nel titolo della mostra è unito 109, senza la figura umana ma suo logico complemento in quanto vi si svolge la vita delle persone.

Il percorso artistico tracciato da  Michele von Buren si arricchisce di un ulteriore motivo di interesse. Le mostre che si susseguono  a un ritmo intenso  non sono più soltanto presentazioni di artisti senza collegamenti particolari, al di là della partecipazione al programma “Accessible Art”,  ma esprimono visioni diverse riferite a un tema  comune o almeno assimilabile: l’umanità singola e collettiva nella mostra precedente, gli “interni”, cioè i luoghi della convivenza di questa umanità, dove si sente il suo vissuto, e nel contempo l’assenza, nella mostra attuale.

Questo dal lato artistico, mentre per l'”accessibilità” si conferma la selezione di artisti ed opere per la diffusione tra la gente comune facendole entrare negli ambiti familiari, operazione favorita dal costo contenuto e dall’adattabilità agli ambienti domestici per nobilitarne gli arredi. Una pratica dimostrazione si ha nella galleria in cui le opere sono coordinate con i mobili del rinomato e vicino   “Antiquariato valligiano”, anch’essi offerti alla vendita oltre che alla visione del pubblico.

Abbiamo già analizzato  questo programma, ci limitiamo a sottolinearne ancora il valore  artistico, per il lancio di giovani artisti e la promozione di artisti già affermati inserendo tutti in una scuderia la cui presenza stabile nella galleria RvB Arts li rende familiari ai visitatori che, oltre alle nuove opere in mostra, vi trovano opere in grado di mantenere viva la memoria delle mostre precedenti.  Sono tanti gli artisti che abbiamo “ritrovato”  con uno o più quadri, ed è stato come rivedere dei cari amici, questo lo spirito della galleria dove l’arte si coniuga con il clima familiare, citiamo Deli e Schifano, Calò e Gasperini, Maiti e Geraci, oltre alla Thwaites e alla Cafagna. .

Di  Luca Zarattini conoscevamo i volti intensi  e le nature morte in  impasti con vari materiali densi  su tinte neutre, ora questa sua cifra stilistica la troviamo applicata agli interni. Marco Spaggiari lo scopriamo adesso, i suoi interni sono di un cromatismo intenso con tinte brillanti e fortemente contrastate. Per entrambi l’intitolazione delle opere è all’intera serie, “Interno” per Zarattini, “Senza titolo” per Spaggiari, mentre i singoli dipinti sono contrassegnati da un semplice numero.

Avviciniamoci ai due artisti e alle opere esposte nelle pareti della galleria RvB Arts che abbiamo trovato completamente rinnovata negli arredi, per cui si possono vedere nuovi esempi di abbinamento opere d’arte-mobili d’antiquariato, questa volta accomunati dal legno chiaro che crea un ambiente ridente nel quale si inseriscono perfettamente i dipinti.

L’intimità di Marco Spaggiari

L’interno fa pensare a un qualcosa protetto dalla luce più vivida, quindi dai colori neutri per non dire smorti. Ebbene, per Marco Spaggiari è vero il contrario, i  rossi e i  verdi brillanti colpiscono di primo acchito alla vista delle sue opere. Ci sono le fiamme del focolare, ma anche altri elementi tipici dell’intimità domestica, come il gatto  e la pianta;  il quadro nel quale è raffigurata una pianta sulla destra è esposto tra due piante scultoree di Alessio Deli, uno degli artisti più presenti in RvB Arts, è una delle belle sorprese e insieme delle conferme che si incontrano nella visita alla galleria.

Non è figurativa la rappresentazione degli interni domestici,  non vi è realismo ma trasfigurazione,  come afferma Viviana Quattrini:  “L’artista stabilisce una relazione empatica con la realtà per cui viene a cadere ogni norma che ne regola e imita la costruzione prospettica e formale”. Nessun astrattismo, però, si distinguono gli elementi costitutivi degli ambienti, ma con sovrapposizioni e dissolvenze  corrispondenti all’evocazione  visiva e anche onirica di luoghi vissuti nella quotidianità ma rivissuti nella memoria con la sensibilità e lo stato d’animo del momento. Di qui l’importanza della luce e del colore, che la Quattrini definisce “la più diretta fonte di energia”.

L’artista proviene dall’Accademia delle Belle Arti di Bologna, diploma in pittura e laurea specialistica con tesi in estetica, oltre alla pittura  si esprime nel disegno e nella fotografia.

All’espressione fotografica che raggiunge livelli artistici appartengono la sua tesi del 2012,  “L’atto fotografico”, pubblicata nel 2015 con due saggi del prof. Farulli, e due reportage fotografici di tipo paesaggistico anch’essi pubblicati. Mentre per la pittura lo troviamo nel 2010 vincitore del 6° Biennale Concorso di pittura Contemporanea  Pierpaolo Germano Tassi, Vignola e finalista alla XXIV edizione del Premio Morandi di incisione a Bologna; nel 2015 finalista al premio Ars Mirabilis.  Ha tenuto 13 mostre personali dal 2004 e ha partecipato a 13 mostre collettive dal 2008.

In questo percorso artistico possiamo trovare nell’interesse alla fotografia una delle chiavi interpretative  del suo modo così particolare di evocare la realtà, come se al momento dello scatto la fotocamera venisse mossa rendendo le immagini nel contempo percepibili ma confuse, immerse in un mare cromatico di forte impatto con le  violente  sciabolate di luce e di colore. I suoi rossi ricorrenti ci hanno ricordato la recente mostra al Vittoriano “Rosso su rosso”, con cui Yuri Kalyuta  veste le proprie immagini femminili e non solo, Spaggiari ci veste parti degli interni riprodotti per dare ad essi calore e intimità.

La magia di Luca Zarattini

Anche Luca Zarattini, che conosciamo bene per averne seguito le precedenti mostre a RvB Arts – ne ricordiamo cinque tra il 2012 e il 2014 –  si è diplomato all’Accademia delle Belle Arti di Bologna ed è stato vincitore di diversi premi:  nel 2011 il premio “Un’opera d’arte per il 150° Anniversario dell’ Unità d’Italia” a Ferrara e il Premio della critica al Premio Basilio Cascella di Ortona, e nel 2010 il Premio Sasyr, Castellina in Chianti,  oltre a cinque premi-selezione. La sua prima mostra personale a vent’anni, nel 2005,  ne sono seguite  18, e 20 mostre collettive dal 2007.  E’ presente in collezioni private, a Roma  in quelle di APS Engineering Company e di  Riccardo Donna, a Los Angeles nella collezione di Gabriele Muccino.

Abbiamo accennato alle sue opere esposte nelle precedenti mostre a RvB Arts, volti e nature morte, sempre con un peculiare impasto materico in cui la pittura viene data su diversi e inconsueti materiali, dal legno alla plastica, dal cemento all’intonaco.

Dei volti ricordiamo quelli privi di occhi e dai lineamenti appena abbozzati, ma con una tale intensità espressiva da porre intriganti interrogativi sui sentimenti che nascondevano, misteriosi come il titolo della serie, “# 1”, mentre erano  ben delineati ma altrettanto intensi e misteriosi i volti di  “Mohammed” e “Carl”, “Pablo” e “Claude”.  

Non abbiamo dimenticato neppure le forme appena profilate, di “Flesso” e “Riflesso”, fino alla serie di  “Natura storta”,  una variante della natura morta  tradizionale, che a suo tempo abbiamo contrapposto all’iperrealismo di fiori e frutta di Orlando Ricci. Zarattini colloca  i suoi vasi di fiori, alti e stretti, su piani instabili, quindi in apparente squilibrio, ma con il gioco di ombre e luci  riescono a trovare stabilità ed equilbrio in una composizione di contrari: equilibrio e squilibrio, stabilità e instabilità, preludio alla presenza-assenza della nuova serie pittorica; come è stato un preludio la serie “Barche”, materiali pesanti per natanti quasi incagliati, l’opposto dell’agilità nella navigazione, altra composizione di contrasti.

Da quelle barche i pescatori passavano agli “interni” raffigurati da  Zarattini, che quindi  non sono elaborazioni di fantasia, ma evocano le modeste costruzioni delle  vecchie Stazioni da pesca delle Valli di Comacchio, da tempo abbandonate,  vera archeologia fluviale; e sembra archeologia senza aggettivi quella del dipinto con arcate da antico acquedotto romano.

Proprio per questo, nel mentre se ne distinguono i contorni con alcuni oggetti quotidiani ben in evidenza,  si dissolvono trattandosi di realtà estinte anche se presenti nella memoria.

La magia con cui nelle nature morte l’artista rendeva compresenti gli opposti spaziali, stabilità ed equilibrio con instabilità e squilibrio, si ripete con questo nuovo soggetto negli opposti temporali, presenza e assenza, entrambi percepibili. Sono ambienti vuoti con gli elementi fondamentali, porte e tavoli, sedie e sgabelli, vi regna la solitudine e il silenzio ma proprio questo richiama l’eco delle presenze che in passato davano a tali ambienti la vita pulsante del lavoro dei pescatori.

Zarattini ha trovato  il modo di raffigurare l’azione del tempo mediante un trattamento pittorico che  rende evanescenti i contorni con un cromatismo neutro e delicato nella densità materica, anche qui  la conciliazione degli opposti in un’alchimia  artistica magistrale.

L’artista, secondo la Quattrini, “stabilisce un rapporto concreto con ciò che vede e con quanto ormai non c’è più. Il tempo si impossessa delle cose e corrode gli oggetti. Ciò che manca non è assenza, è presenza viva dell’azione, ricordo di un vissuto”.

Una citazione a parte merita l’opera di maggiori dimensioni, 3 metri per 2, “Tapis lapis”,  titolo di una serie di disegni di varie misure, che occupa la parete di fondo della galleria, nella cui composizione si distinguono delle membra staccate: il nostro pensiero va, a parte ben note scomposizioni picassiane, ad alcuni frammenti della serie “Still Life” di David Lachapelle che mostra parti di corpi scomposti fotografati dall’artista in un museo delle cere dopo la distruzione. Naturalmente è una associazione di idee di opere del tutto diverse nella forma espressiva e nel contenuto ma con un elemento che ci è apparso comune e ci piace segnalarlo.  

Nel dare conto delle sue precedenti esposizioni nella galleria RvB Arts sottolineavamo le assonanze classiche emergenti pur nella modernità di materiali inattesi in una composizione pittorica. Anche negli interni che vengono ora presentati osserviamo un’assonanza che ricorda, pur nella totale diversità del dipinto – con una sedia e l’angolo del tavolino al posto del letto dell’immagine evocata –  la visione prospettica della celebre “Cameretta” di Van Gogh.

Anche questa, come la precedente, è’ un mera  notazione giornalistica, da cronisti d’arte, al di fuori di ogni presunzione ed ortodossia critica: esterniamo spontaneamente le sensazioni immediate suscitate in noi nelle vesti di visitatori attenti.

In questo caso diventano autentiche emozioni.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito.  Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 12 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. Negli articoli  del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio e 5 luglio 2013, 27 giugno 2014 (quest’ultimo con l’iperrealismo di Orlando Ricci), si commentano le precedenti mostre collettive con Luca Zarattini. Per le citazioni del testo cfr., in questo sito, i nostri articoli del 2015: sulla mostra di  David Lachapelle il 12 luglio, su quella di Yuri Kalyuta il 27 luglio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella galleria di RVB Arts alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, gli artisti Marco Spaggiari e Luca Zarattini,  per l’opportunità offerta. In apertura, e nelle 5 immagini successive, dipinti di Marco Spaggiari, della serie “Senza titolo”, numeri vari; seguono 5 immagini di dipinti di Luca Zarattini, della serie “Interno”, numeri vari, e in chiusura, sempre di Zarattini, “Tapis lapis”.

Sironi, le graffianti vignette satiriche, a Villa Torlonia

di Romano Maria Levante

Una mostra inattesa quanto benvenuta, a Villa Torlonia,  su “Mario Sironi e le illustrazioni per il Popolo d’Italia 1921-1940” , dal 24 ottobre 2015 al 10 gennaio 2016,  riporta alla ribalta, dopo la recente grande  mostra al Vittoriano, un artista di cui viene riscoperta la grandezza dopo la “damnatio memoriae”  per la sua adesione al fascismo, espressa nelle grandi pitture decorative delle esposizioni che celebravano i fasti del regime con l’esaltazione del genio e lavoro  italico e nei disegni satirici delle vignette per il “Popolo d’Italia”,  l’organo del partito fascista e personale di Mussolini al quale collaborò quasi ininterrottamente mettendo alla  berlina, con  potente stile pittorico e sarcasmo graffiante, l’opposizione interna ed estera. La mostra è organizzata dalla Galleria Russo nella sua meritoria attività di ricordare artisti come Tato e Carlo Erba, DottoriMarinetti,  oltre a Carlo Levi, in collaborazione con l’Associazione Mario Sironi, con il sostegno della  Fondazione Roma attraverso  la Fondazione Roma-Arte-Musei. Curatore Fabio Benzi, che ha curato anche il Catalogo di Palombi Editore,  consulenza storica di Monica Cioli, con un intervento di Giuseppe Vacca.

La figura e l’arte di  Mario Sironi sono oggetto di una sacrosanta rivalutazione dopo la colpevole “damnatio memoriae” che nel dopoguerra ha colpito gli artisti ritenuti compromessi con i regimi dittatoriali del ‘900, D’Annunzio  in letteratura per la sua contiguità con il fascismo, e gli stessi artisti russi del “Realismo socialista” ignorati e oscurati finché la rivalutazione è giunta anche per loro, lo testimoniano le mostre romane del Palazzo Esposizioni.   Qualche analogia con questi artisti si può trovare nell’adesione alla mistica del regime e ai valori  da diffondere tra la popolazione facendo leva sul linguaggio dell’arte. Tuttavia, come per Alecsandr Deineka, sul versante opposto per Sironi si deve dire che la sua adesione non era opportunistica e di convenienza e neppure imposta, bensì frutto della corrispondenza di visioni nella forza dell’uomo e del progresso e della convinzione che l’arte potesse avere una funzione importante nel diffondere i valori positivi di  quella rivoluzione civile e sociale che doveva mutare  in meglio il volto dello Stato.

Ma come per D’Annunzio, anche per Sironi si deve riconoscere che al di là di questa coincidenza di visioni veniva mantenuta la distanza che nel poeta si tradusse nel suo isolamento nella “gabbia d’oro” del Vittoriale, e per Sironi  in un certo boicottaggio operato dalla gerarchia fascista nei suoi confronti.  Perché nonostante accedesse alle spettacolari rappresentazioni dei risultati della mobilitazione di sforzi ed energie nei diversi campi propagandata dal regime in un’immagine di grandezza, non mancava di conservare quel senso di tragicità  insito nella sua visione personale che dava molto fastidio ai corifei interessati. E quando il regime cadde e con esso finirono le grandi pitture murali mantenne quella coerenza che è stata il sigillo della sua vita, pagandone il prezzo.

Contenuto e valore della mostra

Non di questo si tratta nella mostra che si svolge nella cornice grandiosa di Villa Torlonia, non sono esposti i suoi dipinti e neppure gli spettacolari pannelli celebrativi dell’impegno rivoluzionario, bensì le sue vignette satiriche pubblicate sul “Popolo d’Italia” nell’arco del ventennio 1920-40 che coincide con il regime del quale il giornale era l’organo ufficiale, fondatore e primo direttore ne era stato Benito Mussolini.

E’ stato geniale collocare a Villa Torlonia, la storica residenza del Duce, una mostra così evocativa che fa compiere un vero tuffo nel passato, le vignette di Sironisono state definite  “la storia che diventa segno” da Emmanuele F. M. Emanuele, sostenitore della mostra con la Fondazione Roma. Emanuele ha così spiegato “quest’atto di omaggio tutto romano a Mario Sironi”: “La monumentalità di Roma dagli albori dell’impero e i capolavori dei massimi esponenti  del Rinascimento sono stati i pilastri fondanti della grandiosa pittura celebrativa sironiana”. E ha citato il murale “L’Italia fra le arti e le scienze”  realizzato ottant’anni fa per l’inaugurazione della città universitaria di Roma.

Tutto ciò ha portato a dare alla mostra un valore documentario sul piano artistico oltre che storico togliendo dall’imbarazzo per il lato celebrativo di un  artista di regime per di più nella residenza di allora del capo del fascismo. Il sovrintendente capitolino ai beni Culturali Claudio Parisi Presicce ha affermato senza infingimenti, con il coraggio di chi sa di essere nel giusto, che la mostra in questo luogo “costituisce a nostro avviso il giusto tributo  dovuto all’uomo e alla forza di quella sua coerenza  a sostegno di un ideale politico in cui profondamente, intensamente, lealmente credeva  e per il quale totalmente si è speso. Senza mai un ripensamento alcuno. Anche quando avrebbe potuto trarne generoso vantaggio”.  Aggiunge che Mario Sironi è “riconosciuto oggi, pur se tardivamente, come uno dei maggiori artisti italiani del ventesimo secolo” citando le parole di Pablo Picasso: “Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto” perché, precisa il sovrintendente, “il pensiero critico sull’artista è stato  per lungo tempo condizionato, in modo pressoché unanime, dal credo politico dell’uomo” , condannato alla “damnatio Memoriae”.

L’arco temporale delle vignette satiriche e il loro numero, oltre 340, sono tali da rappresentare un ampio excursus su un ventennio  tra gravi crisi e contrasti feroci e nello stesso tempo agitato da velleitarismi di ogni tipo, culminati nell’avventura bellica, con la farsa finita in tragedia epocale.

Oggi le vignette satiriche più riuscite dei maggiori caricaturisti vengono considerate alla stregua di articoli di fondo di spessore politico in quanto riescono a sintetizzare in forma visiva con la forza deformante della satira, concetti, posizioni, denunce. Ebbene, tutto questo si trova già in Sironi, da considerare un antesignano, i suoi disegni dissacranti sono una declinazione della  politica e dell’ideologia operata mettendo alla berlina,  partendo dai fatti di cronaca o dalle enunciazioni,  concetti e personaggi, con l’evidenza fulminante assicurata dalle esagerazioni paradossali.

In questo c’è il valore della mostra, che porta al sorriso e anche al riso, non disgiunto però da uno stimolo alla  riflessione perché ci si sente calati in un periodo storico cruciale per il nostro paese con il punto di osservazione privilegiato dato dalle immagini di un grande artista. Che attraverso le vignette satiriche, illuminate dal  suo talento,  ci fa rivivere vicende che sappiamo finite tragicamente, e per questo il sorriso suscitato dalla sua ironia  graffiante, diventa alla fine amaro.

Il Popolo d’Italia e lo stile dei disegni satirici

Va sottolineato che “Il Popolo d’Italia” era  non solo l’organo ufficiale del partito fascista, ma il giornale personale  di Mussolini, che lo aveva fondato nel 1914 e lo diresse fino al 1922, poi con la sua andata al potere ne divenne direttore Arnaldo Mussolini fino all’improvvisa morte nel 1931, e  Vito Mussolini fino al 1943.  La collaborazione di Sironi, dal 28 agosto 1921 al 28 ottobre 1942  fu particolarmente fitta  dal 1921 al 1927, con interruzioni negli anni 1931-34. Aveva la sua indipendenza, anche se i temi spesso li suggeriva Mussolini con il quale aveva un rapporto diretto, era un lavoro faticoso spesso notturno e  forniva una rosa di vignette tra cui la redazione sceglieva di volta in volta quella da pubblicare, delle 344 esposte circa ottanta non furono pubblicate.

Margherita Sarfatti  nel 1930 osservava che “nei suoi disegni satirici del Popolo d’Italia, la stilizzazione, rude e squadrata, procede per masse apodittiche, quasi tipografiche, di bianco e di nero”. E Paolo Sighinolfi  nel 1933scriveva su “Augustea”, rispetto alla tragicità unita alla grandiosità nelle sue opere pittoriche anche celebrative: “Se Mario Sironi nella pittura a olio è spesso tormentato o tragico, nel disegno è soltanto potentemente realizzatore. Con il colore fa vivere un mondo uscito dalla sua fantasia; con la matita, invece, esprime la realtà densa di tutto il pensiero che l’anima, che in esso vibra”. Ed ecco come la esprime: “Con pochi tratti egli crea un gioco di volumi, una plasticità scultorea di figure o di simboli improntati ad una maestà di espressioni, che mai nessun disegnatore, e politico in ispecie, ha raggiunta… Sironi ha creato una nuova via al disegno politico”.  Senza togliere nulla ai grandi vignettisti che lo hanno seguito, compresi i contemporanei,  si può dire che questi giudizi mantengono la loro validità anche oggi.

Viene detto ancora che “le sue chiazze cupe e pesanti hanno un linguaggio che assurge a declamazione epica”; ma questo avviene “senza mai incorrere nell’enfatico o nel grottesco… la semplicità lineare di Sironi consegnata entro pochi piani ci riconduce alla pura fonte della emozione, senza sovraccarico retorico”.

Una semplicità che tuttavia ricorre a figure scultoree, quasi monumentali, e a composizioni con prospettive  molto particolari che definiscono spazialità originali con visioni dall’alto e dal basso e creano un’atmosfera in molti casi di tipo metafisico, per i forti contrasti di luci e ombre, con un  senso di sospensione, quasi per segnare il passaggio dalla cronaca quotidiana alla storia. Arnaldo Mussolini nel 1931 aveva scritto che “è facile fare la storia di un giornale. E’ difficile fare un giornale per la Storia”, ebbene Sironi pur nello spazio apparentemente effimero del disegno satirico si muoveva in una prospettiva storica, le sue vignette non si rivolgevano a un’elite politica, ma al vasto pubblico di lettori, come le sue decorazioni murali alla massa di visitatori delle esposizioni..

Per i contenuti vale l’accurata analisi di Andrea Sironi che ha classificato i suoi temi prevalenti.

I bersagli prima dell’avvento del fascismo erano i partiti contrari, soprattutto i socialisti, presentati  come disonesti,  e i popolari come approfittatori, nonché i personaggi del liberalismo e il governo in carica; dopo la presa del potere anche i giornali, derisi nella vignetta del 1924, il “circolo vizioso”come palloni gonfiati in combutta con don Sturzo, i socialisti e la “demoidiozia sociale”.   All’estero, le “potenze plutocratiche”, America, Inghilterra e Francia, nonché la Russia bolscevica. I motivi ricorrenti erano le angherie subite dal nostro paese ad opera delle nazioni ricche per le quali aveva versato  il sangue nella Grande guerra culminata con la “vittoria mutilata”,  e la natura tirannica del comunismo.  La formula, che abbiamo visto permanere anche ai giorni nostri,è la personalizzazione della satira: , per i socialisti un miserabile in berretto frigio, poi Treves e Turati, per i popolari don Sturzo, per i governi i presidenti Nitti, e poi Facta, per l’Inghilterra John Bull, l’America lo Zio Sam,  per il comunismo inizialmente bersaglio dei suoi strali era Lenin.

“Tuttavia – osserva Monica Cioli – è difficile ridurre la satira di Sironi ad una polemica aggressiva e demolitrice, una parte ‘destruens’ che è propria indubbiamente del disegno satirico; nel demolire  e aggredire gli avversari l’artista ha un chiaro obiettivo: la costruzione dello Stato fascista: Forse, in nessuna delle sue altre forme artistiche Sironi ha potuto esprimere come nella satira il proprio credo politico e coadiuvare il fascismo nella costruzione del regime”.

Ma attenzione, non si trattava di acquiescenza né di supina sottomissione, bensì di credenza in determinati valori, riguardanti l’Italia e il suo popolo, che coincidevano con ideali astrattamente portati avanti dal fascismo ma caduti miseramente dinanzi alla realtà, come è avvenuto per il comunismo reale rispetto alle utopie.  Tanto che la stessa Cioli  afferma: “Seguire la produzione satirica di questo straordinario artista  attraverso il ‘Popolo d’Italia’ consente  di ricostruire la storia del quotidiano e del fascismo a partire dagli esordi ma anche di comprendere l’ideologia  e la battaglia politica che Sironi ha svolto in modo tutto suo, talvolta quasi anticipando quella del regime”. Fino alla disillusione finale  che lo fece ripiombare in quella tragicità che la grandiosità e monumentalità celebrativa mascherava a stento.

Riconosce che ha svolto un ruolo autonomo e positivo nel filone futurista dell’epoca Giuseppe Vacca, filosofo marxista, presidente della Fondazione Gramsci, per vent’anni membro del Comitato centrale del Partito comunista italiano. Dalla sua posizione di sinistra ricorda  le argomentazioni di Sironi sulla monumentalità in architettura e “la decorazione plastica e pittorica” nella quale si è manifestata, oltre che nei disegni satirici, la sua adesione alla mistica di regime: “Le considerazioni di Gramsci sul ruolo d’avanguardia dell’architettura ‘razionalistica’ nel rinnovamento delle arti figurative, sul valore estetico della ‘decorazione’ ed espressivo della ‘tecnica’ sembrano convenire con le sue argomentazioni”.

Vacca non si ferma a questo riconoscimento, ma aggiunge: “La poetica di Sironi si fondava su una opzione esplicita, plastica e riflessiva per il ‘nazional popolare. Che questa si coniugasse alle forme cogenti e autoritarie del fascismo non cancella il fatto che il modo con cui Sironi concepiva la funzione delle arti figurative rappresentasse un elemento caratteristico di quella che è per Gramsci la funzione dell’intellettuale moderno: l’unità del ‘comprendere’ e del ‘sentire’, la ‘connessione sentimentale’ del ‘popolo-nazione'”.

Tornando alla forma espressiva dei disegni satirici, che va vista in questa ottica, Fabio Benzi, il grande studioso di Sironi che ha introdotto i suoi cataloghi di illustratore e pittore, ne sottolinea una caratteristica: “Nelle illustrazioni per il ‘Popolo d’Italia’ colpisce in effetti la varietà infinita dei tempi compositivi ed iconografici, mai ripetuti ma invece reinventati quotidianamente, con una ricchezza di spessore visionario  e simbolico, trasfigurante la realtà ma profondamente radicato in essa, così da costituire un ‘unicum’ assolutamente straordinario nella storia dell’illustrazione”. 

Vi è un’altra considerazione, ancora più pregnante: “La passione politica è inscindibile da quella artistica ed estetica, in una simbiosi che sfugge dall’episodico e dall’occasionale, come suggerirebbe la natura effimera di una vignetta  a commento di un fatto quotidiano: tutto rientra in una mossa politica superiore, in un’idea sofferta di arte come di vita”. Torna così, per altro verso, la tragicità associata alla grandezza.

Forse anche per questo  Benzi conclude il suo saggio con una notazione per la quale i disegni satirici di Sironi assumono un valore che supera quello  storico: “In definitiva, l’enorme produzione per il ‘Popolo d’Italia’ fu non solo la sua più grande officina di idee formali, ma anche l’humus da cui nacque gran parte del suo immaginario artistico della maturità”.

Una cavalcata tra le vignette satiriche di Sironi

La prima vignetta della galleria, del 28 ottobre 1921, il “pugno di mosche”  dei socialisti, è già espressiva della monumentalità delle sue raffigurazioni.  Il  1922  è un anno di intensa attività vignettistica, notiamo la statuaria figura del lavoratore  delle Corporazioni sindacali fasciste e  “la granitica chiave di volta della politica italiana”, il  “loro eterno ricatto” con l’Italia turrita nelle fauci aperte  e l'”impotenza” della pur gigantesca Società delle  Nazioni, che vediamo anche appollaiata sulla scure dell’imperialismo in una vignetta dell’anno successivo, “il santo  e la preghiera della democrazia” e il “duello oratorio” con due grandi  palloni gonfiati e la scritta “si tratta di sgonfiarsi a vicenda”,, la “superconferenza di Genova”   con le potenze che rimescolano il grande paiolo  e “il nuovo apostolo della pace europea”  identificato nel teschio bolscevico,  fino al “proletariato” che appare  come un grande osso conteso tra comunisti e bonomiani .  

Nel 1923   “si spegne  e non si spegne” la candela dell’Intesa  e “perché la pace sia rispettata”  la figura alata sopra alla baionetta protegge la minuscola figura in basso, è l’Italia paciere tra Francia e Inghilterra; vediamo  “la fune d’oro” e “chi scende e chi sale” la lira e il franco francese, la grande scopa “che fa pulizia” e l’Italia turrita parte civile a un processo politico. Passando al 1924,   vediamo la grande matita della piccola intesa sulle spalle della Francia, e la gigantesca falce del Partito comunista italiano in un mare di sangue, fino al grande scorpione dell’ “opposizione”.

Siamo al 1925 con “la livrea dell’odiata borghesia”, il grande gallo francese e i macigni del terrorismo comunista, nel 1926 “la scure sui parassiti” e “la vittoria della democrazia”, “senza memoria” e “libertà vo cercando”, la grande mano del burattinaio  su minuscole figure dal titolo “la pena di morte non solo per quelli che hanno compiuto il gesto ma anche per quelli che li hanno spinti”, poi la mano altrettanto grande che innalza l’elmo carico di contributi per la sottoscrizione del Prestito del Littorio.  Nel 1927 la grande figura sospesa in alto in “come sa di sale lo scendere e il salire… per le proprie scale”.

Saltiamo al 1937 con la vignetta che non fu pubblicata, uno dei pochi casi di “censura”, perché le due grandi navi italiana e tedesca affiancate potevano offuscare l’immagine della Marina italiana sola dominatrice del Mediterraneo

Notevole spazio alle vignette con bersagli personali, alla berlina i leader espressivi di una politica, di un’ideologia e i simboli  di una nazione.  Vediamo,  a partire dal  1922,  “le fatiche di S. E. Ercole Facta”  mentre trascina a fatica il carro della maggioranza, poi  numerose  caricature di don Sturzo, tre con la satira sulla  collaborazione con i socialisti in senso antifascista, in una il prelato leader del Partito popolare  deve ingoiare un rospo,  ancora don Sturzo sull’altalena  dell’ambiguità per la collaborazione tra Partito popolare e fascismo e con lo scudo crociato dietro al quale “giungono un po’ tutti”, poi incerottato con le stampelle avendo lasciato i trampoli perché la vittoria al Congresso dei popolari era stata vanificata dall’accordo tra Mussolini e il presidente dell’Azione cattolica Luigi Colombo e come uno struzzo che deve ingoiare le indigeste istanze socialiste anticattoliche, fino alla gustosa “lu  paraninfu”  con don Sturzo e Turati sposati da Albertini del “Corriere della sera”, altro bersaglio preferito che troviamo in molte vignette, per la loro sintonia  sul caso Matteotti, c’è anche la satira religiosa su don Sturzo che salta sopra alla cupola di san Pietro come reazione al richiamo del Papa ai doveri dei sacerdoti rispetto alla politica o mentre sale sulla scala della speculazione contro il delitto Matteotti e viene richiamato alla carità cristiana.  

Alla berlina Giolitti,  raffigurato come cameriere mentre sparecchia dopo l’Aventino una tavolata sotto gli occhi di Sturzo, Turati e Amendola, in un’altra vignetta legati strettamente insieme,  e come generale dalla figura imponente alla quale si genuflettono gli omuncoli  parlamentari dell’opposizione; Turati lo vediamo anche mentre perde il treno, lascia i trampoli per le stampelle e si muove a fatica con i piedi ingessati, poi con De Gasperi che è diretto in Austria, quindi  l’andata all’estero con gli altri socialisti è un grande pugno dal treno all’Italia. Ecco Amendola che lascia la Camera trattenuto dal cane  fedele, un noto giornalista,  e  Treves, mentre sale una scala con al piede la palla di ferro “il marchese di Caporetto”,  e mentre inneggia alla libertà sopra  a una mitragliatrice russa, Nitti con il dispregiativo dannunziano Cagoja, una pelle squartata e il socialista Modigliani come guardia regia,  il direttore dell’Avanti Serrati in carcere.

Tra i  bersagli stranieri,  l’Inghilterra di John Bull che afferra il globo da Amleto moderno col motto “to have or not to have”,  un perfido  Lenin che decapita con una gigantesca falce una lunga teoria di persone minuscole e la scritta “alla larga!”,  Lloyd George e Clemenceau sulla questione di Fiume, l’americano Zio Sam seduto sulla montagna dei profitti di guerra, e intento con la Marianna francese nel dividersi il mondo; vediamo anche  lo Zio Sam e John Bull insieme e il ministro degli esteri francese Briand. Questi ed altri personaggi in una serie di situazioni sapide e grottesche.

Sono soltanto scampoli di una galleria sterminata di immagini ironiche e graffianti che riportano alle vicende dell’epoca nella politica interna  e internazionale, animate da autentica vis satirica in un chiaro scuro intenso, fatto di forme e volumi piuttosto che di linee e contorni:  si sente l’impronta  del pittore e anche del decoratore monumentale, l’impronta del grande artista Mario Sironi.

Info

Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi e Casino Nobile, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso euro 7,50 intero, euro 6,50 ridotto, per i residenti  a Roma 1 euro in meno. Gratuità e riduzioni ai soggetti legittimati. Tel. 060808. Catalogo “Mario Sironi, e le illustrazioni per il Popolo d’Italia 1921-1940”, a cura di Fabio Benzi, consulenza storica di Monica Cioli con un contributo di Giuseppe Vacca, Palombi Editori, pp. 280, formato 20 x 28. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti articoli su “Mario Sironi, la grandezza e la tragicità, al Vittoriano”, 1° dicembre 2014 e i due successivi  14 e 29 dicembre 2014; su Deineka, del “Realismo socialista”,  26 novembre, 1° e  16 dicembre 2012, su D’Annunzio, 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, sulle precedenti mostre alla Galleria Russo di valorizzazione di artisti italiani del periodo, per Tato 19 febbraio 2015, Carlo Levi, 28 novembre e 3 dicembre 2014, Dottori  2  marzo 2014, Erba  1° dicembre 2013, Marinetti  2 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese a Villa Torlonia all’inaugurazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in modo speciale la Galleria Russo, con i titolari dei diritti, in particolare l’Associazione Mario Sironi, per l’opportunità offerta.  Le abbiamo inserite senza attenzione alla cronologia, sono soprattutto del 1922, ma in un crescendo di toni drammatici, fino alle ultime due con l’Italia che dopo essere stata nel pantano spazza via con la ramamzza il ragno della massoneria in agguato. In apertura, “Abbonamento annuo 1,75”, 29 dicembre 1926, seguono, “Nitti prepara una ripresa”, 24 marzo 1923, e “Prima e dopo la battaglia“, 25 luglio 1923; poi, “La sagra dei motori“,  3 setembre 1922, e “Duello oratorio“, 3 ottobre 1922; quindi, “Il capolavoro del PUS”, 2 luglio 1922, e “San Pietro, ma che vacanza, è ora di lavorare!”, 29 giugno 1922; inoltre, “Le glorie del PUS”, 12 agosto 1922, e “La serie gloriosa”, 20 agosto 1922; infine, “Dio che pantano!”,  11 agosto 1922, e “Pulizia”, 16 febbraio 1923; in chiusura, una visione parziale di una parete della mostra.

Sironi, le graffianti vignette satiriche, a Villa Torlonia

di Romano Maria Levante

Una mostra inattesa quanto benvenuta, a Villa Torlonia,  su “Mario Sironi e le illustrazioni per il Popolo d’Italia 1921-1940” , dal 24 ottobre 2015 al 10 gennaio 2016,  riporta alla ribalta, dopo la recente grande  mostra al Vittoriano, un artista di cui viene riscoperta la grandezza dopo la “damnatio memoriae”  per la sua adesione al fascismo, espressa nelle grandi pitture decorative delle esposizioni che celebravano i fasti del regime con l’esaltazione del genio e lavoro  italico e nei disegni satirici delle vignette per il “Popolo d’Italia”,  l’organo del partito fascista e personale di Mussolini al quale collaborò quasi ininterrottamente mettendo alla  berlina, con  potente stile pittorico e sarcasmo graffiante, l’opposizione interna ed estera. La mostra è organizzata dalla Galleria Russo nella sua meritoria attività di ricordare artisti come Tato e Carlo Erba, DottoriMarinetti,  oltre a Carlo Levi, in collaborazione con l’Associazione Mario Sironi, con il sostegno della  Fondazione Roma attraverso  la Fondazione Roma-Arte-Musei. Curatore Fabio Benzi, che ha curato anche il Catalogo di Palombi Editore,  consulenza storica di Monica Cioli, con un intervento di Giuseppe Vacca.

La figura e l’arte di  Mario Sironi sono oggetto di una sacrosanta rivalutazione dopo la colpevole “damnatio memoriae” che nel dopoguerra ha colpito gli artisti ritenuti compromessi con i regimi dittatoriali del ‘900, D’Annunzio  in letteratura per la sua contiguità con il fascismo, e gli stessi artisti russi del “Realismo socialista” ignorati e oscurati finché la rivalutazione è giunta anche per loro, lo testimoniano le mostre romane del Palazzo Esposizioni.   Qualche analogia con questi artisti si può trovare nell’adesione alla mistica del regime e ai valori  da diffondere tra la popolazione facendo leva sul linguaggio dell’arte. Tuttavia, come per Alecsandr Deineka, sul versante opposto per Sironi si deve dire che la sua adesione non era opportunistica e di convenienza e neppure imposta, bensì frutto della corrispondenza di visioni nella forza dell’uomo e del progresso e della convinzione che l’arte potesse avere una funzione importante nel diffondere i valori positivi di  quella rivoluzione civile e sociale che doveva mutare  in meglio il volto dello Stato.

Ma come per D’Annunzio, anche per Sironi si deve riconoscere che al di là di questa coincidenza di visioni veniva mantenuta la distanza che nel poeta si tradusse nel suo isolamento nella “gabbia d’oro” del Vittoriale, e per Sironi  in un certo boicottaggio operato dalla gerarchia fascista nei suoi confronti.  Perché nonostante accedesse alle spettacolari rappresentazioni dei risultati della mobilitazione di sforzi ed energie nei diversi campi propagandata dal regime in un’immagine di grandezza, non mancava di conservare quel senso di tragicità  insito nella sua visione personale che dava molto fastidio ai corifei interessati. E quando il regime cadde e con esso finirono le grandi pitture murali mantenne quella coerenza che è stata il sigillo della sua vita, pagandone il prezzo.

Contenuto e valore della mostra

Non di questo si tratta nella mostra che si svolge nella cornice grandiosa di Villa Torlonia, non sono esposti i suoi dipinti e neppure gli spettacolari pannelli celebrativi dell’impegno rivoluzionario, bensì le sue vignette satiriche pubblicate sul “Popolo d’Italia” nell’arco del ventennio 1920-40 che coincide con il regime del quale il giornale era l’organo ufficiale, fondatore e primo direttore ne era stato Benito Mussolini.

E’ stato geniale collocare a Villa Torlonia, la storica residenza del Duce, una mostra così evocativa che fa compiere un vero tuffo nel passato, le vignette di Sironisono state definite  “la storia che diventa segno” da Emmanuele F. M. Emanuele, sostenitore della mostra con la Fondazione Roma. Emanuele ha così spiegato “quest’atto di omaggio tutto romano a Mario Sironi”: “La monumentalità di Roma dagli albori dell’impero e i capolavori dei massimi esponenti  del Rinascimento sono stati i pilastri fondanti della grandiosa pittura celebrativa sironiana”. E ha citato il murale “L’Italia fra le arti e le scienze”  realizzato ottant’anni fa per l’inaugurazione della città universitaria di Roma.

Tutto ciò ha portato a dare alla mostra un valore documentario sul piano artistico oltre che storico togliendo dall’imbarazzo per il lato celebrativo di un  artista di regime per di più nella residenza di allora del capo del fascismo. Il sovrintendente capitolino ai beni Culturali Claudio Parisi Presicce ha affermato senza infingimenti, con il coraggio di chi sa di essere nel giusto, che la mostra in questo luogo “costituisce a nostro avviso il giusto tributo  dovuto all’uomo e alla forza di quella sua coerenza  a sostegno di un ideale politico in cui profondamente, intensamente, lealmente credeva  e per il quale totalmente si è speso. Senza mai un ripensamento alcuno. Anche quando avrebbe potuto trarne generoso vantaggio”.  Aggiunge che Mario Sironi è “riconosciuto oggi, pur se tardivamente, come uno dei maggiori artisti italiani del ventesimo secolo” citando le parole di Pablo Picasso: “Avete un grande artista, forse il più grande del momento e non ve ne rendete conto” perché, precisa il sovrintendente, “il pensiero critico sull’artista è stato  per lungo tempo condizionato, in modo pressoché unanime, dal credo politico dell’uomo” , condannato alla “damnatio Memoriae”.

L’arco temporale delle vignette satiriche e il loro numero, oltre 340, sono tali da rappresentare un ampio excursus su un ventennio  tra gravi crisi e contrasti feroci e nello stesso tempo agitato da velleitarismi di ogni tipo, culminati nell’avventura bellica, con la farsa finita in tragedia epocale.

Oggi le vignette satiriche più riuscite dei maggiori caricaturisti vengono considerate alla stregua di articoli di fondo di spessore politico in quanto riescono a sintetizzare in forma visiva con la forza deformante della satira, concetti, posizioni, denunce. Ebbene, tutto questo si trova già in Sironi, da considerare un antesignano, i suoi disegni dissacranti sono una declinazione della  politica e dell’ideologia operata mettendo alla berlina,  partendo dai fatti di cronaca o dalle enunciazioni,  concetti e personaggi, con l’evidenza fulminante assicurata dalle esagerazioni paradossali.

In questo c’è il valore della mostra, che porta al sorriso e anche al riso, non disgiunto però da uno stimolo alla  riflessione perché ci si sente calati in un periodo storico cruciale per il nostro paese con il punto di osservazione privilegiato dato dalle immagini di un grande artista. Che attraverso le vignette satiriche, illuminate dal  suo talento,  ci fa rivivere vicende che sappiamo finite tragicamente, e per questo il sorriso suscitato dalla sua ironia  graffiante, diventa alla fine amaro.

Il Popolo d’Italia e lo stile dei disegni satirici

Va sottolineato che “Il Popolo d’Italia” era  non solo l’organo ufficiale del partito fascista, ma il giornale personale  di Mussolini, che lo aveva fondato nel 1914 e lo diresse fino al 1922, poi con la sua andata al potere ne divenne direttore Arnaldo Mussolini fino all’improvvisa morte nel 1931, e  Vito Mussolini fino al 1943.  La collaborazione di Sironi, dal 28 agosto 1921 al 28 ottobre 1942  fu particolarmente fitta  dal 1921 al 1927, con interruzioni negli anni 1931-34. Aveva la sua indipendenza, anche se i temi spesso li suggeriva Mussolini con il quale aveva un rapporto diretto, era un lavoro faticoso spesso notturno e  forniva una rosa di vignette tra cui la redazione sceglieva di volta in volta quella da pubblicare, delle 344 esposte circa ottanta non furono pubblicate.

Margherita Sarfatti  nel 1930 osservava che “nei suoi disegni satirici del Popolo d’Italia, la stilizzazione, rude e squadrata, procede per masse apodittiche, quasi tipografiche, di bianco e di nero”. E Paolo Sighinolfi  nel 1933scriveva su “Augustea”, rispetto alla tragicità unita alla grandiosità nelle sue opere pittoriche anche celebrative: “Se Mario Sironi nella pittura a olio è spesso tormentato o tragico, nel disegno è soltanto potentemente realizzatore. Con il colore fa vivere un mondo uscito dalla sua fantasia; con la matita, invece, esprime la realtà densa di tutto il pensiero che l’anima, che in esso vibra”. Ed ecco come la esprime: “Con pochi tratti egli crea un gioco di volumi, una plasticità scultorea di figure o di simboli improntati ad una maestà di espressioni, che mai nessun disegnatore, e politico in ispecie, ha raggiunta… Sironi ha creato una nuova via al disegno politico”.  Senza togliere nulla ai grandi vignettisti che lo hanno seguito, compresi i contemporanei,  si può dire che questi giudizi mantengono la loro validità anche oggi.

Viene detto ancora che “le sue chiazze cupe e pesanti hanno un linguaggio che assurge a declamazione epica”; ma questo avviene “senza mai incorrere nell’enfatico o nel grottesco… la semplicità lineare di Sironi consegnata entro pochi piani ci riconduce alla pura fonte della emozione, senza sovraccarico retorico”.

Una semplicità che tuttavia ricorre a figure scultoree, quasi monumentali, e a composizioni con prospettive  molto particolari che definiscono spazialità originali con visioni dall’alto e dal basso e creano un’atmosfera in molti casi di tipo metafisico, per i forti contrasti di luci e ombre, con un  senso di sospensione, quasi per segnare il passaggio dalla cronaca quotidiana alla storia. Arnaldo Mussolini nel 1931 aveva scritto che “è facile fare la storia di un giornale. E’ difficile fare un giornale per la Storia”, ebbene Sironi pur nello spazio apparentemente effimero del disegno satirico si muoveva in una prospettiva storica, le sue vignette non si rivolgevano a un’elite politica, ma al vasto pubblico di lettori, come le sue decorazioni murali alla massa di visitatori delle esposizioni..

Per i contenuti vale l’accurata analisi di Andrea Sironi che ha classificato i suoi temi prevalenti.

I bersagli prima dell’avvento del fascismo erano i partiti contrari, soprattutto i socialisti, presentati  come disonesti,  e i popolari come approfittatori, nonché i personaggi del liberalismo e il governo in carica; dopo la presa del potere anche i giornali, derisi nella vignetta del 1924, il “circolo vizioso”come palloni gonfiati in combutta con don Sturzo, i socialisti e la “demoidiozia sociale”.   All’estero, le “potenze plutocratiche”, America, Inghilterra e Francia, nonché la Russia bolscevica. I motivi ricorrenti erano le angherie subite dal nostro paese ad opera delle nazioni ricche per le quali aveva versato  il sangue nella Grande guerra culminata con la “vittoria mutilata”,  e la natura tirannica del comunismo.  La formula, che abbiamo visto permanere anche ai giorni nostri,è la personalizzazione della satira: , per i socialisti un miserabile in berretto frigio, poi Treves e Turati, per i popolari don Sturzo, per i governi i presidenti Nitti, e poi Facta, per l’Inghilterra John Bull, l’America lo Zio Sam,  per il comunismo inizialmente bersaglio dei suoi strali era Lenin.

“Tuttavia – osserva Monica Cioli – è difficile ridurre la satira di Sironi ad una polemica aggressiva e demolitrice, una parte ‘destruens’ che è propria indubbiamente del disegno satirico; nel demolire  e aggredire gli avversari l’artista ha un chiaro obiettivo: la costruzione dello Stato fascista: Forse, in nessuna delle sue altre forme artistiche Sironi ha potuto esprimere come nella satira il proprio credo politico e coadiuvare il fascismo nella costruzione del regime”.

Ma attenzione, non si trattava di acquiescenza né di supina sottomissione, bensì di credenza in determinati valori, riguardanti l’Italia e il suo popolo, che coincidevano con ideali astrattamente portati avanti dal fascismo ma caduti miseramente dinanzi alla realtà, come è avvenuto per il comunismo reale rispetto alle utopie.  Tanto che la stessa Cioli  afferma: “Seguire la produzione satirica di questo straordinario artista  attraverso il ‘Popolo d’Italia’ consente  di ricostruire la storia del quotidiano e del fascismo a partire dagli esordi ma anche di comprendere l’ideologia  e la battaglia politica che Sironi ha svolto in modo tutto suo, talvolta quasi anticipando quella del regime”. Fino alla disillusione finale  che lo fece ripiombare in quella tragicità che la grandiosità e monumentalità celebrativa mascherava a stento.

Riconosce che ha svolto un ruolo autonomo e positivo nel filone futurista dell’epoca Giuseppe Vacca, filosofo marxista, presidente della Fondazione Gramsci, per vent’anni membro del Comitato centrale del Partito comunista italiano. Dalla sua posizione di sinistra ricorda  le argomentazioni di Sironi sulla monumentalità in architettura e “la decorazione plastica e pittorica” nella quale si è manifestata, oltre che nei disegni satirici, la sua adesione alla mistica di regime: “Le considerazioni di Gramsci sul ruolo d’avanguardia dell’architettura ‘razionalistica’ nel rinnovamento delle arti figurative, sul valore estetico della ‘decorazione’ ed espressivo della ‘tecnica’ sembrano convenire con le sue argomentazioni”.

Vacca non si ferma a questo riconoscimento, ma aggiunge: “La poetica di Sironi si fondava su una opzione esplicita, plastica e riflessiva per il ‘nazional popolare. Che questa si coniugasse alle forme cogenti e autoritarie del fascismo non cancella il fatto che il modo con cui Sironi concepiva la funzione delle arti figurative rappresentasse un elemento caratteristico di quella che è per Gramsci la funzione dell’intellettuale moderno: l’unità del ‘comprendere’ e del ‘sentire’, la ‘connessione sentimentale’ del ‘popolo-nazione'”.

Tornando alla forma espressiva dei disegni satirici, che va vista in questa ottica, Fabio Benzi, il grande studioso di Sironi che ha introdotto i suoi cataloghi di illustratore e pittore, ne sottolinea una caratteristica: “Nelle illustrazioni per il ‘Popolo d’Italia’ colpisce in effetti la varietà infinita dei tempi compositivi ed iconografici, mai ripetuti ma invece reinventati quotidianamente, con una ricchezza di spessore visionario  e simbolico, trasfigurante la realtà ma profondamente radicato in essa, così da costituire un ‘unicum’ assolutamente straordinario nella storia dell’illustrazione”. 

Vi è un’altra considerazione, ancora più pregnante: “La passione politica è inscindibile da quella artistica ed estetica, in una simbiosi che sfugge dall’episodico e dall’occasionale, come suggerirebbe la natura effimera di una vignetta  a commento di un fatto quotidiano: tutto rientra in una mossa politica superiore, in un’idea sofferta di arte come di vita”. Torna così, per altro verso, la tragicità associata alla grandezza.

Forse anche per questo  Benzi conclude il suo saggio con una notazione per la quale i disegni satirici di Sironi assumono un valore che supera quello  storico: “In definitiva, l’enorme produzione per il ‘Popolo d’Italia’ fu non solo la sua più grande officina di idee formali, ma anche l’humus da cui nacque gran parte del suo immaginario artistico della maturità”.

Una cavalcata tra le vignette satiriche di Sironi

La prima vignetta della galleria, del 28 ottobre 1921, il “pugno di mosche”  dei socialisti, è già espressiva della monumentalità delle sue raffigurazioni.  Il  1922  è un anno di intensa attività vignettistica, notiamo la statuaria figura del lavoratore  delle Corporazioni sindacali fasciste e  “la granitica chiave di volta della politica italiana”, il  “loro eterno ricatto” con l’Italia turrita nelle fauci aperte  e l'”impotenza” della pur gigantesca Società delle  Nazioni, che vediamo anche appollaiata sulla scure dell’imperialismo in una vignetta dell’anno successivo, “il santo  e la preghiera della democrazia” e il “duello oratorio” con due grandi  palloni gonfiati e la scritta “si tratta di sgonfiarsi a vicenda”,, la “superconferenza di Genova”   con le potenze che rimescolano il grande paiolo  e “il nuovo apostolo della pace europea”  identificato nel teschio bolscevico,  fino al “proletariato” che appare  come un grande osso conteso tra comunisti e bonomiani .  

Nel 1923   “si spegne  e non si spegne” la candela dell’Intesa  e “perché la pace sia rispettata”  la figura alata sopra alla baionetta protegge la minuscola figura in basso, è l’Italia paciere tra Francia e Inghilterra; vediamo  “la fune d’oro” e “chi scende e chi sale” la lira e il franco francese, la grande scopa “che fa pulizia” e l’Italia turrita parte civile a un processo politico. Passando al 1924,   vediamo la grande matita della piccola intesa sulle spalle della Francia, e la gigantesca falce del Partito comunista italiano in un mare di sangue, fino al grande scorpione dell’ “opposizione”.

Siamo al 1925 con “la livrea dell’odiata borghesia”, il grande gallo francese e i macigni del terrorismo comunista, nel 1926 “la scure sui parassiti” e “la vittoria della democrazia”, “senza memoria” e “libertà vo cercando”, la grande mano del burattinaio  su minuscole figure dal titolo “la pena di morte non solo per quelli che hanno compiuto il gesto ma anche per quelli che li hanno spinti”, poi la mano altrettanto grande che innalza l’elmo carico di contributi per la sottoscrizione del Prestito del Littorio.  Nel 1927 la grande figura sospesa in alto in “come sa di sale lo scendere e il salire… per le proprie scale”.

Saltiamo al 1937 con la vignetta che non fu pubblicata, uno dei pochi casi di “censura”, perché le due grandi navi italiana e tedesca affiancate potevano offuscare l’immagine della Marina italiana sola dominatrice del Mediterraneo

Notevole spazio alle vignette con bersagli personali, alla berlina i leader espressivi di una politica, di un’ideologia e i simboli  di una nazione.  Vediamo,  a partire dal  1922,  “le fatiche di S. E. Ercole Facta”  mentre trascina a fatica il carro della maggioranza, poi  numerose  caricature di don Sturzo, tre con la satira sulla  collaborazione con i socialisti in senso antifascista, in una il prelato leader del Partito popolare  deve ingoiare un rospo,  ancora don Sturzo sull’altalena  dell’ambiguità per la collaborazione tra Partito popolare e fascismo e con lo scudo crociato dietro al quale “giungono un po’ tutti”, poi incerottato con le stampelle avendo lasciato i trampoli perché la vittoria al Congresso dei popolari era stata vanificata dall’accordo tra Mussolini e il presidente dell’Azione cattolica Luigi Colombo e come uno struzzo che deve ingoiare le indigeste istanze socialiste anticattoliche, fino alla gustosa “lu  paraninfu”  con don Sturzo e Turati sposati da Albertini del “Corriere della sera”, altro bersaglio preferito che troviamo in molte vignette, per la loro sintonia  sul caso Matteotti, c’è anche la satira religiosa su don Sturzo che salta sopra alla cupola di san Pietro come reazione al richiamo del Papa ai doveri dei sacerdoti rispetto alla politica o mentre sale sulla scala della speculazione contro il delitto Matteotti e viene richiamato alla carità cristiana.  

Alla berlina Giolitti,  raffigurato come cameriere mentre sparecchia dopo l’Aventino una tavolata sotto gli occhi di Sturzo, Turati e Amendola, in un’altra vignetta legati strettamente insieme,  e come generale dalla figura imponente alla quale si genuflettono gli omuncoli  parlamentari dell’opposizione; Turati lo vediamo anche mentre perde il treno, lascia i trampoli per le stampelle e si muove a fatica con i piedi ingessati, poi con De Gasperi che è diretto in Austria, quindi  l’andata all’estero con gli altri socialisti è un grande pugno dal treno all’Italia. Ecco Amendola che lascia la Camera trattenuto dal cane  fedele, un noto giornalista,  e  Treves, mentre sale una scala con al piede la palla di ferro “il marchese di Caporetto”,  e mentre inneggia alla libertà sopra  a una mitragliatrice russa, Nitti con il dispregiativo dannunziano Cagoja, una pelle squartata e il socialista Modigliani come guardia regia,  il direttore dell’Avanti Serrati in carcere.

Tra i  bersagli stranieri,  l’Inghilterra di John Bull che afferra il globo da Amleto moderno col motto “to have or not to have”,  un perfido  Lenin che decapita con una gigantesca falce una lunga teoria di persone minuscole e la scritta “alla larga!”,  Lloyd George e Clemenceau sulla questione di Fiume, l’americano Zio Sam seduto sulla montagna dei profitti di guerra, e intento con la Marianna francese nel dividersi il mondo; vediamo anche  lo Zio Sam e John Bull insieme e il ministro degli esteri francese Briand. Questi ed altri personaggi in una serie di situazioni sapide e grottesche.

Sono soltanto scampoli di una galleria sterminata di immagini ironiche e graffianti che riportano alle vicende dell’epoca nella politica interna  e internazionale, animate da autentica vis satirica in un chiaro scuro intenso, fatto di forme e volumi piuttosto che di linee e contorni:  si sente l’impronta  del pittore e anche del decoratore monumentale, l’impronta del grande artista Mario Sironi.

Info

Musei di Villa Torlonia, Casino dei Principi e Casino Nobile, Via Nomentana 70, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, la biglietteria chiude 45 minuti prima. Ingresso euro 7,50 intero, euro 6,50 ridotto, per i residenti  a Roma 1 euro in meno. Gratuità e riduzioni ai soggetti legittimati. Tel. 060808. Catalogo “Mario Sironi, e le illustrazioni per il Popolo d’Italia 1921-1940”, a cura di Fabio Benzi, consulenza storica di Monica Cioli con un contributo di Giuseppe Vacca, Palombi Editori, pp. 280, formato 20 x 28. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti articoli su “Mario Sironi, la grandezza e la tragicità, al Vittoriano”, 1° dicembre 2014 e i due successivi  14 e 29 dicembre 2014; su Deineka, del “Realismo socialista”,  26 novembre, 1° e  16 dicembre 2012, su D’Annunzio, 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, sulle precedenti mostre alla Galleria Russo di valorizzazione di artisti italiani del periodo, per Tato 19 febbraio 2015, Carlo Levi, 28 novembre e 3 dicembre 2014, Dottori  2  marzo 2014, Erba  1° dicembre 2013, Marinetti  2 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese a Villa Torlonia all’inaugurazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in modo speciale la Galleria Russo, con i titolari dei diritti, in particolare l’Associazione Mario Sironi, per l’opportunità offerta.  Le abbiamo inserite senza attenzione alla cronologia, sono soprattutto del 1922, ma in un crescendo di toni drammatici, fino alle ultime due con l’Italia che dopo essere stata nel pantano spazza via con la ramamzza il ragno della massoneria in agguato. In apertura, “Abbonamento annuo 1,75”, 29 dicembre 1926, seguono, “Nitti prepara una ripresa”, 24 marzo 1923, e “Prima e dopo la battaglia“, 25 luglio 1923; poi, “La sagra dei motori“,  3 setembre 1922, e “Duello oratorio“, 3 ottobre 1922; quindi, “Il capolavoro del PUS”, 2 luglio 1922, e “San Pietro, ma che vacanza, è ora di lavorare!”, 29 giugno 1922; inoltre, “Le glorie del PUS”, 12 agosto 1922, e “La serie gloriosa”, 20 agosto 1922; infine, “Dio che pantano!”,  11 agosto 1922, e “Pulizia”, 16 febbraio 1923; in chiusura, una visione parziale di una parete della mostra.