Arte e Stato, la galleria di acquisizioni, a Castel Sant’Angelo

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Lo Stato dell’Arte, l’Arte dello Stato”, che espone dal 26 maggio al 29 novembre 2015,  a Castel Sant’Angelo, una vasta serie di “Acquisizioni del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per colmare le lacune e ricucire la storia”, sottotitolo della mostra.  Organizzata dal Centro europeo per il  Turismo, Cultura e Spettacolo, presidente Giuseppe Lepore,   è a cura di  Maria Grazia Bernardini e Mario Lolli Ghetti che hanno curato anche il catalogo della Gangemi Editore in cui ci sono numerosi  saggi sugli aspetti generali e le schede delle opere esposte .

Abbiamo già ricordato i motivi e i contenuti della mostra  che porta all’attenzione del pubblico, con la forza espressiva delle opere d’arte, il tema della ricostituzione di opere smembrate o di reintegro delle collezioni  che hanno subito perdite di parti rilevanti per le vicende della storia; nonché di completamento di percorsi artistici nei musei colmando le più vistose lacune.

Tutto questo comporta un’azione assidua di verifica sia del patrimonio artistico sia delle possibilità offerte dal mercato, e di vigilanza su possibili  dispersioni anche a seguito di alienazioni che è possibile scongiurare avvalendosi,  nei casi ammessi, del diritto di prelazione dello Stato.

Naturalmente  vi è un costo spesso notevole per le acquisizioni mediante acquisti sul mercato, anche perché, a differenza di altri paesi, in Italia le donazioni di privati sono modeste; ma viene dimostrato come sia un costo necessario, e  si respinge la tesi secondo cui  abbiamo un patrimonio così vasto che non deve essere incrementato, tanto più che le risorse non bastano neppure alla conservazione. Strinati afferma che perché è un patrimonio va aggiornato continuamente,  altrimenti decade.

Dopo questa breve sintesi di quanto esposto in precedenza con maggiore ampiezza, riferendoci ai saggi contenuti nel Catalogo, passiamo a raccontare la visita alla mostra della quale ci piace sottolineare la dovizia espositiva. Passeremo in rapida rassegna le opere senza poter corredare la loro citazione con le vicende che sottostanno alla presentazione in mostra, come la dispersione  in passato e la felice circostanza che ha consentito il recupero e il reintegro. Sono vicende intriganti,  scorrendo le quali si resta appassionati dalla storia di ieri mescolata all’azione di oggi, tra burocrazia e impegno meritorio.

Le 13 sezioni della mostra

Innanzitutto una visione d’insieme delle 13 sezioni, cominciando dalle 2 iniziali, “Tornare a casa”  e “Restare a casa”:  la prima con le opere recuperate, la seconda con quelle salvaguardate per l’esercizio di una prelazione; e non possiamo non ricordare la meritoria attività del Centro Europeo del Turismo, Cultura e Spettacolo che a  Castel Sant’Angelo presenta sistematicamente un’ampia selezione di opere recuperate dalle forze dell’ordine: un appuntamento abituale, quest’anno  declinato in una forma particolare perchè aggiunge l’altra azione svolta sul piano dell’integrazione delle collezioni. 

A questo tema sono dedicate le altre sezioni, “Colmare le lacune”  e “Ricomporre un insieme”, “Ricongiungere le collezioni storiche” e “Onorare le glorie locali”, in particolare il “Rinascimento a Napoli”, “Rinvenire l’archeologia” e “Raccontare una storia”.  Insieme raccontano esse stesse una storia, quella della cura che si deve avere del patrimonio artistico intesa in modo dinamico e non  soltanto come conservazione.

Ma non finisce qui, le sezioni “Tornare a Corte” e  “Continuare la tradizione”  approfondiscono esempi significativi di come si proceda nell’integrazione delle collezioni; mentre con “Andare in Oriente” e “I viaggi di Giuseppe Tucci” lo sguardo si allarga all’esotismo artistico con riferimento al grande “Museo di arte orientale” romano.  La ciliegina sulla torta è  “Una donazione esemplare”, sui disegni  d Gino Chierici.

Cominciamo la visita della mostra con le prime 7 sezioni,  incentrate sul recupero, la salvaguardia,  e l’integrazione delle collezioni.

Gli acquisti per far tornare o far restare a casa le opere

Le due sezioni iniziali esemplificano, con la forza dell’evidenza visiva di capolavori, due tipi di acquisti speculari:  quelli che hanno consentito di ricollocare le opere d’arte nelle località per le quali erano state create o di inserirle  in contesti idonei; quelli che hanno evitato il trasloco di collezioni storiche. 

Della I sezione, “Tornare a casa”,  vengono indicati come casi esemplari la ” Statua di Menade,”  dispersa nel collezionismo del Gran Tour inglese e ora ricollocata nel  Museo di Palazzo Altemps; i marmi della collezione Ruspoli riacquistati nel 2003 all’atto della messa in vendita e ora collocati nel museo delle navi romane di Nemi,  il Piatto in ceramica Deruta del 500 riportato a Siena.

La statua e il Piatto sono esposti all’inizio della galleria,  la Statua di Menade, I sec. a. C., in stile classico raffigura una giovane donna in movimento  con una veste  molto elaborata; i marmi della collezione Ruspoli  sono opere di grande impatto:  per l’eleganza e fermezza la Statua marmorea di Athena, per l’armonia della figura efebica la Statua acefala di Apollo,  entrambe ad altezza quasi naturale, e un’Iscrizione di Iside del I sec. d.C.. ll Piatto in ceramica Deruta del ‘500 reca uno stemma con leone rampante e decorazioni floreali.. 

Vi è anche la tempera di Felice Giani, “Il console Marcello trainato dai destrieri al galoppo”, primi dell’800, donata alla Pinacoteca di Bologna per la sua origine emiliana, esposta in modo spettacolare insieme a 5 opere dello stesso artista, “Natività della Vergine” e “Riposo durante la fuga in Egitto”, “Strage degli innocenti” e “Iride incita Priamo a chiedere ad Achille il corpo di Ettore”, fino a “Il primo navigatore scopre come costruire i remi, vedendo i cigni nuotare”, affascinante già nel titolo oltre che nelle due figure in primo piano con i cigni sullo sfondo..

Per la II sezione, “Restare a casa”, altrettanto esemplare è la collezione archeologica formata nella prima metà dell”800 dalla famiglia Jatta a Ruvo di Puglia, per la quale è stato esercitato il diritto di prelazione del palazzo la cui vendita ne comportava l’uscita dal contesto storico originario con un grave danno di tipo culturale. Vediamo esposti due Crateri a figure rosse che risalgono al 400 a. C., uno con Ercole prima di un combattimento, l’altro con la pacifica scena di un simposio.

Gli acquisti per integrare o ricomporre le collezioni

Ma è l’Integrazione delle collezioni il campo in cui hanno operato maggiormente le acquisizioni mirate. A questo riguardo vengono documentate, sempre con la doviziosa esposizione delle opere d’arte interessate, situazioni diverse, a seconda della finalità specifica dell’acquisizione.

Si inizia, nella III sezione,  con “Colmare le lacune”,   cioè i vuoti nell’itinerario artistico-culturale delineato dalle opere esposte,  spesso molto evidenti sia nei musei di origine ottocenteschi sia in quelli di nuova istituzione,  quando potrebbero presentare  un quadro esauriente di determinate scuole pittoriche senza quelle vistose assenze. Quindi non solo opere di primaria importanza,  ma anche lavori relativamente minori per completare il percorso artistico del museo.

E’ un’esigenza e insieme un’opportunità postasi anche per gli Uffizi, pur nella loro ricchezza, ma proprio per la cura con cui si è proceduto è un museo dell’arte italiana cronologicamente ben ordinato; viene presentato il “Ritratto di Alessandro Achillini”, di Amico Aspertini, acquistato a questo fine. Vediamo inoltre opere di artisti di periodi molto diversi, da Carracci a Tiepolo, sempre per il completamento cronologico di itinerari storico-artistici dei musei cui vanno le acquisizioni.

Attribuito a Ludovico Carracci , “Studio per san Giovanni Battista inginocchiato e studio di mani”, 1580-90, una grande figura inginocchiata in matita rossa di 2 metri e 30 per 1 metro e 60; di Gianbattista Tiepolo, “Madonna in gloria con i santi Giorgio e Romualdo”, 1733 circa, una pala spettacolare con la Vergine in volo sopra ai due santi, il vecchio Romualdo con il bastone e il giovane Giorgio con la spada. In matita rossa anche “Annunciazione” di Maria Teresa Muratori, tra il XVII e il XVIII sec., e “Li cinque sentimenti alla moda”, di Giuseppe Maria Mitelli, 1710. Un’altra “Annunciazione”, 1634-38, di Matthias Stomer, a olio, con effetti di luce e ombra caravaggeschi dati da una candela con le due figure su sfondo scuro.

Vediamo poi la piccola tavola con il nudo “Allegoria della Fortuna”, diGiovanni di Lorenzo Larciani, 1520, e la grande tela 2 metri per 2, “Susanna e i vecchioni”, l’ultima opera documentata di Artemisia Gentileschi, 1652. Del XVIII secolo, dipinti di Gaspare Traversi, con il severo e tenebroso “San Girolamo”, di Giuseppe Angeli, con il gaudente e luminoso “Il solletico” , di Domenico Corvi.con i mitologici e naturalistici “Sacrificio di Polissena”, “Sacrificio di Isacco” e “Mosè abbandonato sulla riva del Nilo”.

Non solo pitture, sono esposte anche due sculture di Alessandro Algardi ” su “Il Battesimo di Cristo”, una in bronzo, l’altra in terracotta dorata, e una “Testa di Vescovo”  in legno di uno Scultore fiorentino del ‘500; inoltre la “Stele Checchi”, preromana tra il III e il IV sec. a. C. e un “Vaso egizio in pietra” ancora più antico, che risale addirittura all’epoca proto dinastica, intorno  al 2500-300 a. C.. Poi un Piatto con stemma al centro, della Manifattura di Cafaggiolo, intorno al 1570.

Riguarda non le collezioni museali ma singole opere la IV sezione,  “Ricomporre un insieme”,   smembrato nel tempo, si tratta in particolare dei polittici  del ‘300 e del ‘400.  Sono vicende appassionanti quelle attraverso le quali si giunge alla ricomposizione, perché fanno rivivere il clima di tempi passati; vengono illustrate nei dettagli in Catalogo, anche se qui non possiamo dare neppure dei brevi accenni.

Viene presentato il  “Trittico di Vincigliata” di Niccolò di Pietro Gerini,  1390 circa, la Madonna col Bambino in trono al centro e 4 santi più piccoli ai suoi lati, san Nicola di Bari e san Lorenzo, san Bartolomeo e santo Vescovo, composizione armoniosa di ispirazione giottesca, che era stata privata  delle tavole dei santi, poi reintegrate.  E  il polittico “Gli Zavattari” stesso soggetto, questa volta con 6 santi   della stessa altezza della Madonna, tra cui san Pietro e sant’Antonio abate, due dei 7 pannelli sono stati recuperati per cui ora si può ammirare l’opera intera e non più la sola ricostruzione fotografica delle parti mancanti come in passato.

Oltre ai due polittici, due straordinari dipinti di Giorgio Vasari, “Allegoria della Fede”, lungo quasi 2 metri,e “Putto con Tabella”, 1542, lo stesso putto che figura alla destra della figura del primo dipinto: è  un’opera di grande valore ricomposta, si tratta delle due tavole lignee per il soffitto del Palazzo Corner Spinelli sul Canal  Grande. La Fede è raffigurata come una matrona con le braccia larghe, nella sinistra regge la croce, nella destra una ciotola con cui versa acqua sul putto. 

Vediamo un’altrettanto straordinaria tavoletta, queta volta del Beato Angelico, “Beato Domenicano”, con in mano un libro dalla copertina grigia, collegata a un’altra tavoletta dello stesso soggetto, la differenza è che il libro ha la copertina rossa. E poi dipinti di Francesco Granacci, “Battesimo di sant’Apollonia”, 1530 circa, e di Bartolomeo Bimbi, “Vasi di fiori”, 1722: si tratta dell’integrazione nelle”Storie di Apollonia” per il primo, della riunione di coppie disperse per il secondo nel museo della Natura morta di Poggio a Cajano, ci tornano  alla mente i grandi dipinti floreali Brueghel. Il “Coro dei cappuccini”, 1823, di Vincenzo Chialli, raffigura un ambiente catacombale di grande fascino, tanto che la scena del dipinto fu  incisa in rame, composta in mosaico e riprodotta da altri artisti tra cu Aglietti e Rustichelli. 

La ricomposizione appare particolarmente impegnativa e importante quando si tratta di “Ricongiungere collezioni storiche”,tema della V sezione della mostra, siano esse di  dinastie o di famiglie nobiliari. Nel tempo le vicende storiche e quelle personali e familiari hanno portato a dispersioni e alienazioni parziali ed è molto difficile seguirne le deviazioni e rintracciare le parti disperse per riacquistarle spesso a prezzi elevati. 

Della grande collezione Barberini, mutilata  e dispersa, non può essere presentato il “Bozzetto” di Andrea Sacchi riacquistato di recente, ma viene esposta un’ulteriore versione a titolo indicativo “Sant’Antonio da Padova resuscita un morto”, 1630-35: raffigura l’uscita dalla tomba del miracolato con la lapide recante una croce dinanzi al santo benedicente, si svolge dentro un edificio dall’architettura elaborata con un’arcata che apre la vista su un cielo azzurro percorso da nubi.

Non viene presentata  neppure la serie degli “Apostoli” del Martorana che proviene da Colonna Barberini; mentre vediamo il dipinto in tempera e olio su lapislazzuli di Antonio Tempesta, “Perseo e Andromeda, Venere e Adone”,  recto e verso, tra il XVI  e il XVII sec.,due lastre ovali  con scene tratte dalle “Metamorfosi” di Ovidio. La concomitanza con l’Expo ha impedito di presentare i beni di provenienza sabauda acquisiti per completare le collezioni, rimasti esposti a Milano.

Gli acquisti legati alle  esigenze del  territorio

Abbiamo detto che ai  musei periferici, soprattutto di nuova istituzione,  viene dedicata la dovuta attenzione, e questo risulta evidente nella VI sezione,“Onorare le glorie locali” , sulla rivalutazione delle personalità e del patrimonio artistico del territorio.  Vediamo esposti due  suggestivi dipinti  del XVII sec., uno di Mattia Preti, “Cristo risorto appare alla Maddalena in vesti di giardiniere”,  due figure caravaggesche che bucano le tenebre, l’altro di  Francesco Cozza, “San Francesco d’Assissi confortato dall’Angelo”, una visione naturalistica. Sono stati  prestati dalla  Galleria nazionale di Cosenza.

Lolli Ghetti, nel suo quadro accurato delle scelte espositive, si rammarica che non è stato possibile disporre di due grandi polittici lignei della pinacoteca di Cagliari e di un’opera di Pompeo Baroni, una gloria di Lucca. Anche questo testimonia l’accuratezza della  ricerca svolta in preparazione della mostra.

L’arricchimento dei musei campani con opere  rappresentative è il tema della VII sezione,“Rinascimento a Napoli”: vengono vengono presentate 4 sculture e 2 grandi tavole dipinte,  provenienti dalla regione..

Le sculture sono in marmo bianco di Carrara. Vediamo  due statue gemelle, “Fede” e “Virtù”,  di Jacopo della Pila  da Milano, 1473, che vengono collegate alle statue della “Prudenza” e della “Temperanza” del monumento irpino  nel Museo di san Martino, la cui formula figurativa unisce, nella scheda di Fabio Speranza, “ad un solido impianto rinascimentale di matrice romana un  elaborato ed elegante linearismo di ascendenza ancora tardogotica”.  Un’altra statua, “Carità” ,  di Annibale Caccavello, 1550,   è un nudo “classicheggiante, monumentale e all’antica”  con il fascino, osserviamo noi, dell’edonismo e dell’eleganza.

Vediamo inoltre il “Ritratto virile” di Girolamo Santacroce, 1520-25, un busto che mette in rilievo non solo le caratteristiche fisiche, ma anche la psicologia del personaggio con le labbra appena serrate e le ciglia leggermente aggrottate.

Le tavole, lunghe oltre 2 metri,  di Cesare da Sesto, raffigurano la “Madonna col Bambino in trono fra i santi Matteo e Giovanni Evangelista”, e “Adorazione del Bambino” o “Natività”, 1514-15. L’attribuzione è stata incerta, Longhi le riferiva ad Andrea Sabatini da Salerno,  erano ritenuti suoi lavori giovanili in contatto o in collaborazione con  Cesare da Sesto cui vengono ora attribuite. Mentre la prima tavola è una composizione semplice su un solo piano prospettico, la seconda mostra dietro alle figure della Natività, bue e asinello compresi, l’arcata di un rudere romano con due piccole figure in secondo piano e addirittura un terzo piano più lontano con il profilo di un abitato lontano e sullo sfondo dei monti.  

Si concludono così le prime 7 sezioni  tematiche inerenti ad alcune delle principali esigenze cui rispondono gli acquisti mirati. Ma ce ne sono altre 6, ne parleremo prossimamente.

Info 

Castel Sant’Angelo, Lungotevere Castello 50. Tel 06.6819111. Da martedì a domenica ore 9,00-19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima), lunedì chiuso. Ingresso a Castel Sant’Angelo: intero euro 10,50, ridotto euro 7,50 (tra 18 e 25 anni, insegnanti Ue scuole statali); gratuito minori di 18 anni e maggiori di 65 anni, oltre ad una serie di categorie.  Catalogo: “Lo Stato dell’Arte, l’Arte dello Stato”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Mario Lolli Ghetti, maggio 2015, Gangemi Editore, pp. 318, formato 21×30, le citazioni del testo sono tratte del Catalogo. Cfr., in questo sito,  il nostro primo articolo sulla mostra il 20 ottobre, l’ultimo è previsto il 30 ottobre 2015, con altre 20 immagini. Per i nostri servizi sulle precedenti mostre del Centro Europeo per il Turismo, Cultura e Spettacolo,  cfr., in questo sito, “Papi della memoria”,  15 ottobre 2012,   “Arte salvata nel 150°“,  1° giugno 2013, e “Archeologia, capolavori recuperati a Castel Sant’Angelo”, 22 luglio 2013 ; in “cultura.inabruzzo.it”, “Tesori invisibili”,  10 luglio 2009 . Per i recuperi dei Carabinieri cfr. in questo sito, i  nostri servizi:  nel 2015 il 22 giugno, 25 aprile e 25 gennaio, nel 2013  il 21 luglio; inoltre  in “www.antika.it”: il 12, 15 febbraio e 9 maggio 2010, il 12, 21 gennaio e 12 giugno 2012, e il 30 giugno 2013 (i siti “cultura.inabruzzo.it” e  “www.antika.it” non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su questo sito). 

Info

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia il Centro Europeo per il Turismo,  Cultura e Spettacolo di Giuseppe Lepore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, da sin. a dx, Annibale Caccavello (ambito di), “Carità”, 1550, Jacopo della Pila da MIlano, “Fede” e “Virtù”, 1473; seguono “Statua marmorea di togato”, I sec. a. C., e Niccolò di Pietro Gerini, “Madonna col Bambino in trono”, 1390; poi  Giorgio Vasari, “Allegoria della Fede”, e “Putto con Tabella”, 1542; quindi, Vincenzo Chialli, “Coro di cappuccini”, 1823, e Cesare da Sesto (officina meridionale), “Madonna con il Bambino in trono fra i santi Matteo e Giovanni evangelista”, 1520-30; inoltre, Cesare da Sesto (e collaboratore merdionale), “Adorazione del Bambino” o “Nativitò”, 1514-15, e “Statua marmorea di Athena”; in chiusura, la Locandina della mostra all’ingresso delle antiche stanze di Castel Sant’Angelo.

Uganda, un viaggio dell’anima per immagini

di Romano Maria Levante

Una mostra fotografica, a sostegno dei progetti della Parrocchia Santi Martiri dell’Uganda della diocesi ugandese di Lira, dall’11 ottobre al 30 novembre 2015, all’interno della Chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda, a Roma, quartiere Ardeatino, dall’eloquente  titolo “God is Working”, autori Don Ivan, Francesca, Marco, Muffin, del gruppo missionario della parrocchia.E’un reportage appassionato della visita-pellegrinaggio svoltasi nella seconda quindicina del  luglio 2015 su iniziativa del parroco don Luigi D’Errico, in Uganda, nella diocesi di Lira, dov’è il santuario dei Santi Martiri ugandesi sacrificatisi per la  fede voluto da Paolo VI dopo un viaggio sui luoghi del martirio. I martiri  sono Carlo Lwanda e 21 giovani ai quali Paolo VI volle dedicare  anche la nuova chiesa romana nel quartiere Ardeatino; la consacrazione fu  opera di Giovanni Paolo II, fu la prima del suo pontificato. 

Ne abbiamo raccontato la storia commentando la mostra dell’estate 2013 nella  stessa chiesa, dopo la precedente visita-pellegrinaggio con  don Davide Lees. Abbiamo citato le parole di padre Torquato Paolucci, missionario in Uganda,, richiamato in Italia dopo trent’anni, tornato malvolentieri a Roma con il cuore rimasto tra  i parrocchiani ugandesi, un “mal d’Africa” religioso il suo.

Le mostre religiose

Questa mostra è un nuovo esempio di come il mezzo fotografico sia idoneo a rendere anche quei concetti e valori  di natura religiosa attinenti alla spiritualità  interiore piuttosto che alla realtà esteriore che è possibile catturare con l’obiettivo;  la forza dello spirito è tale da trasmettersi  anche mediante immagini che restano impresse per la loro immediatezza.  E’ avvenuto con le mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II,  a Piazza Esedra,  a Palazzo Valentini e a “Spazio 5”, avviene anche con la mostra attuale.

Pertanto ci soffermeremo sui  contenuti spirituali e sui messaggi tramessi senza parlare degli aspetti estetici delle fotografie esposte, delle quali ci limitiamo a sottolineare la qualità: alcune di esse sono di tono pittorico fino a toccare un vero livello artistico.  Sono stati bravi gli autori, che le hanno corredate di didascalie utili ad approfondirne i contenuti.  C’è un’unità di tempo, oltre che di spazio, nel reportage fotografico, le fotografie sono state scattate tutte nell’ultima decade di luglio 2015, nella diocesi ugandese di Lira. 

E’ anche un nuovo esempio di mostre presentate all’interno della chiesa, cosa che avviene in circostanze eccezionali come fu per la mostra “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in omaggio ai terremotati d’Abruzzo nella basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila dissestata dal sisma; e come è stato  per la mostra fotografica di due anni fa in questa stessa chiesa.

La religione è strettamente legata all’arte, essendone il soggetto prevalente soprattutto nell’epoca d’oro della creazione artistica, da Giotto al Rinascimento, dal ‘600 all’ ‘800 e ‘900, per cui le opere ispirate alla religione sono di gran lunga prevalenti nelle mostre d’arte, non considerando l’arte contemporanea che si sbizzarrisce altrimenti. Ma sono poche le mostre dichiaratamente a tema religioso, tra queste vogliamo ricordare le esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona  nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena, “Alla mensa del Signore”; e, prima,  a Palazzo Venezia a Roma , su “Il Potere e la Grazia”, imponentemostra tematica sui protagonisti della fede: eremiti e martiri, sovrani cristiani e missionari.

La vicenda eroica dei Santi Martiri ugandesi

Questa mostra fotografica, come la precedente, rimanda ai missionari anche se non è più l’epoca dell’evangelizzazione in continenti inesplorati, ma è altrettanto eroica per i  sacerdoti che fanno opera di carità in zone spesso tormentate da guerre tribali, e anche per gli stessi  convertiti, come dimostra la storia dell’Uganda che ha avuto martiri cristiani tra i suoi giovani.

Abbiamo già raccontato la loro vicenda eroica, ricordiamo solo i momenti salienti. ‘Nel 1877 le prime predicazioni, poi la penetrazione della parola di Dio al sud con i Padri bianchi, al nord con i Comboniani; quindi il martirio,  nel 1885-87 nel sud  uccisi Carlo Lwanga e 21 compagni; nel 1918 nel nord i catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa, tutti giovanissimi.

A loro è dedicata la chiesa romana  dove si svolge mostra; Carlo Lwanga, il cui nome è stato dato al teatro annesso alla chiesa,  era molto vicino al re, e tanti suoi coetanei di  famiglie nobili frequentavano la corte. Ma la fede lo portò a respingere il ruolo di efebo sottomesso ai piaceri del sovrano, e anche i suoi compagni si ribellarono, per questo furono arsi vivi. Pure  i due giovani catechisti del nord  furono uccisi con protestanti e islamici, in un tragico sincretismo del martirio per fede.

Furono canonizzati nel 1964  da Paolo VI  che nel 1969 andò sul luogo del martirio in Uganda, ne fu così impressionato da farvi erigere un Santuario e disporre  di dedicare ai Martiri ugandesi la prima delle nuove chiese da costruire a Roma.  Il 20 giugno 1970 fu posta la prima pietra al quartiere Ardeatino, nell’11° Municipio, ora 8°, dove si trova il Santuario delle tre Fontane e il sacrario dei Caduti della Montagnola, martiri laici e  martiri cristiani celebrati in luoghi vicini; il 26 aprile 1980  la chiesa, con le reliquie dei martiri ugandesi sotto l’altare,  fu la prima ad essere consacrata da Giovanni Paolo II  succeduto a Paolo VI.

La peculiarità della mostra, un viaggio dell’anima

La mostra di quest’anno non è ripetitiva di quella che abbiamo commentato due anni fa;  è la seconda parte di un racconto che ci auguriamo continui nei prossimi anni con immagini e storie altrettanto appassionanti, penetrando sempre di più nella comunità della diocesi ugandese per continuare a comporre un libro della fede e dell’umanità che non può avere mai fine.

Non ci sono questa volta le immagini del santuario ugandese realizzato per volere di Paolo VI sul luogo del massacro, un tempio circolare a capanna con immagini impressionanti delle reliquie; nè le altre istantanee di testimonianza immediata presentate allora il cui valore resta immutato nel tempo. Ma c’è  la foto della chiesa della parrocchia africana dei Santi Martiri dell’Uganda,  definita la “Casa”.     

La nuova mostra –  con gli ingrandimenti fotografici collocati, come nell’altra, sulle  pareti della chiesa dove sono le stazioni della Via Crucis e davanti all’altare – non è solo la testimonianza della visita in una terra con bellezze naturali straordinarie e un’umanità sorprendente; è un viaggio dell’anima alla scoperta non solo di un altro mondo ma soprattutto del proprio mondo interiore sfrondando gli orpelli fuorvianti del consumismo e andando alla radice dei pensieri, dei sentimenti e dei valori.

E’ stato un modo per entrare in contatto diretto con la povertà, quella vera, non quella che si traduce in una limitazione a certi consumi  indotti dai meccanismi economici più che da bisogni effettivi.  Così, dicono gli autori, “vi racconteremo come l’estrema povertà si trasforma in uno strumento per conquistare una libertà  e una gioia così rare a noi sconosciute da considerarle un mistero”. Nell’estrema povertà, dunque, si può essere liberi e provare una gioia che nessuna società dei consumi può arrecare; questo hanno scoperto i visitatori-pellegrini, e ci raccontano il percorso che li ha tanto coinvolti. 

Si sono talmente immedesimati in questo mondo povero ma libero, da offrire come regalo una coppa di termiti, cibo molto apprezzato dalla comunità ugandese, ma quanto mai lontano dal nostro mondo: la foto  “Dono” ne dà testimonianza.  

Naturalmente l’ottica è religiosa, come rivelano le loro parole: “Nei poveri si incontra Gesù, quello vero, presente, tanto che lo puoi toccare: gli altri intorno si fanno prossimo, e non possiamo più smettere di pensare che ciò che accade ad un nostro fratello ci riguarda”. I laici non credenti incontrano la propria coscienza che dovrebbe sentire vicino il prossimo non meno dei credenti.

Certo, è un altro mondo quello che scorre nella galleria fotografica, la sua alterità è tale da scuotere le coscienze e indurre a profonde riflessioni sull’essere in generale e sul proprio essere in particolare. Le didascalie alle fotografie esposte spiegano cosa c’è sotto le immagini riprese dall’obiettivo, spesso un iceberg tutto da esplorare.

I bambini,  e i loro insegnamenti

Innanzitutto i bambini, ne vediamo  ripresi due che raccolgono l’acqua per le esigenze della loro famiglia, nella foto intitilata “Sete”. Sono mobilitati per la sopravvivenza laddove nel nostro mondo si dividono tra scuola di nuoto e di  tennis, di danza e di ginnastica artistica secondo il sesso e le preferenze, impegnati già da piccoli in una corsa al consumismo sfrenato. .

molto

Nonostante tutto i bambini ugandesi sorridono nella loro innocenza , anzi “bastava guardarli per farli sorridere, una faccia buffa, un gesto semplice e i loro occhi si illuminavano”, è questa “la ricchezza delle piccole cose”. La  foto intitolata “Sorridi” con le due bambine unite nel sorriso ne è una manifestazione visibile.

Ma c’e una bambina molto piccola che non sono riusciti a far sorridere: “Teneva il muso osservandoci attentamente come può fare un capo”, per questo la foto è intitolata  “Il  boss”:lei non ha ceduto come gli altri bambini, i quali dopo la diffidenza iniziale che li faceva scappare dinanzi agli insoliti intrusi, non hanno resistito all’offerta di caramelle che è stata la chiave per conquistare la loro fiducia. Torna in mente l’immagine della mostra precedente in cui una piramide di mani si protendeva verso le caramelle offerte da don Davide, la cui statura lo faceva apparire un albero della cuccagna.

Ne nasce una lezione per i visitatori-pellegrini e per tutti: “E’ stato importante per noi imparare  a rispettare la paura dell’altro quando fuggiva e a gioire quando tornava”.  Di qui l’esortazione: “Non abbiate paura”, è il titolo della sequenza di immagini che mostra il lento avvicinamento al piccolo per conquistarne la fiducia, sono tre foto collocate nella postazione a lato dell’Altare dove si leggono le scritture e il Vangelo e il sacerdote  tiene l’omelia nelle funzioni religiose.

Particolarmente toccanti le immagini dei bambini ciechi. L’apposita struttura scolastica dove imparavano l’alfabeto braille per comunicare è stata dissestata dalle violenti piogge, si raccolgono offerte per ripristinarla, mancano solo 2000 euro per i pavimenti, il tetto è stato già riparato. Sorridono con una letizia che è senza dubbio interiore e riesce a sconfiggere la cecità.

“Ora ci vedo” si intitola l’immagine di uno studente cieco della scuola primaria di Ngetta che, “quando ha sentito le nostre voci, si è subito avvicinato a noi facendosi largo con una canna di bambù utilizzata da bastone guida”. Una nuova riflessione: “Forse è vero che non si vede solo con gli occhi”.

D’altra parte, la foto scattata durante una lezione di educazione fisica nella sezione per non vedenti della scuola primaria di Ngetta reca questa didascalia che non richiede commenti: “Una delle due bambine è cieca e l’altra è la sua guida: sapreste distinguerle? Noi abbiamo fatto fatica perché gli studenti ciechi sono perfettamente integrati ed aiutati dagli altri”.  Un altro insegnamento, “Affidarsi”, il titolo dato all’immagine edificante.

Ecco  il commento: “L’entusiasmo degli studenti di ‘Ngetta Girls’ ha coinvolto tutti noi. La scuola cerca di dare a questi ragazzi una possibilità di studiare e di vivere un’infanzia spensierata e serena”.Nell’immagine “Si vola solo da leggeri”   colpiscono i salti di gioia sincronizzati in una sorta di grande girotondo di donne festanti nell’ampia radura intorno ai ragazzi.

C?è anche un bambino che accudisce stabilmente uno più piccolo cieco e ipoudente, Steven Emmanuel, abbandonato dai genitori,  lo vediamo piegato su di lui mentre lo lava alla fontana, è un’immagine così eloquente da essere stata scelta come testimonial della mostra, e sigillo della visita, è nel  Manifesto  posto a lato dell’altare vicino al Crocifisso, oltre che all’ingresso della chiesa. Un piccolo è in primo piano nella foto intitolata “Gesù Bambino”,  è sempre Steven Emmanuel,  lo incontreremo ancora.    

Poi i  piccoli invalidi nell’orfanotrofio, di Ngetta, “Babies home”, ce ne sono 16 seguiti da suor Gertrude, suor Francis, suor Mary. Vediamo una bambina con la paresi agli arti, calza due scarpe sinistre, sorride nell’abbraccio, la foto è intitolata “Tienimi con te”.

Un’altra immagine mostra  il disabile in carrozzina che si allontana da solo nella campagna, il titolo è “Guardami”. Leggiamo questa riflessione: “Abbiamo avuto l’occasione di incontrare molte persone disabili, ognuna mite nella propria condizione e gioiosa nello stare con noi in semplicità. L’estrema povertà trasforma la condizione delle persone disabili  da difficile a drammatica. Rimane esemplare comunque il modo con cui la affrontano”. Un altro esempio, gli insegnamenti proseguono.

Ai bambini viene data una piccola croce e una madonnina ” che li accompagna nella vita e di cui loro  vanno fierissimi”, è il commento della foto intitolata “Fede” con un bambino che viene da Ichema.  Vediamo anche l’immagine  suggestiva del bambino ugandese al’interno della chiesa di Ichema dedicata a Maria, dove i comboniani  padre John e padre Ferdinando Moroni: sono dediti all’assistenza dei bambini: il titolo “Rifugio”  esprime la protezione offerta dalla fede tramite l’opera dei missionari.

Il bambino crescerà, come cresceranno  i bambini i cui volti si affollano festosi e richiamano il grappolo di mani protese verso le caramelle di don Davide nella foto che abbiamo già citato della mostra precedente. “Apwayo” il titolo, nella lingua locale significa “grazie” ed è usato anche per salutare: sono i bambini della parrocchia Santi Martiri dell’Uganda della diocesi di Lira fuori dalla chiesa nella quale hanno cantato la vecchia canzone che il parroco precedente, il compianto don Alfio, faceva cantare ai bambini italiani nella chiesa Santi Martiri dell’Uganda di Roma, dov’è la mostra. Il gemellaggio così diventa canoro.

I volti si affollano festosi anche nell’immagine intitolata “Semi”, per esprimere la fiducia riposta in queste risorse del futuro così vitali e promettenti: “Durante la nostra visita nei villaggi l’accoglienza è stata la protagonista. Questi bambini ci hanno accompagnato fino a quando siamo andati via, mostrandoci la gioia che viene dall’incontro”.  

Vediamo una fotografia che riprende un momento della cerimonia religiosa con la presenza dei sacerdoti, sono celebrazioni  che durano tre ore, è intitolata “Festa”:ecco “la processione tra canti e balli che accompagna l’uscita del Vangelo”, con le ragazze felici nei loro abiti bianchi. 

Immagini festose anche con gli adulti, viene ripreso un folto gruppo di diocesani locali e componenti del gruppo missionario  nella foto intitolata “Urrah” , spicca  il bianco delle camicie e dei camici.

La testimonianza di  padre Torquato, il sacrificio del dott. Matthew

L’elemento religioso torna nella esaltazione dei catechisti, che “in Uganda sono i pilastri della Chiesa”, una  vera garanzia. Per questo l’immagine che ritrae riuniti tutti i catechisti del Centro pastorale di Ngetta come in una foto di famiglia, anzi di una squadra di calcio, è intitolata “Chiesa”;e quella che ne ritrae alcuni in un suggestivo controluce si intitola “Futuro”

Sono  “una figura più che preziosa, fondamentale” per il  funzionamento delle parrocchie ugandesi dove la dispersione in grandi spazi non consentirebbe un’assistenza costante da parte dei pochi sacerdoti se non fosse delegata ai catechisti dopo una preparazione che li tiene per ben tre anni lontani da casa. E’ intitolata “Coraggio”  un’immagine della preparazione al Centro pastorale catechistico diretto da  padre Cosimo, mentre gli aspiranti catechisti seguono attenti il docente che tiene la lezione dinanzi alla lavagna.  

Ricordiamo la bella storia che ci raccontò padre Torquato Paolucci – tra gli officianti delle attuali messe domenicali nella chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda – durante una lunga intervista sulla sua esperienza missionaria di trent’anni nel paese africano, che abbiamo riferito a suo tempo nel commentare la mostra precedente.

Quando un parrocchiano gli chiese di ammetterlo alla formazione dei catechisti, avendo saputo che aveva moglie e quattro figli, volle verificare con lei l’assenso a  lasciare la famiglia per i tre anni previsti, credendo che lo negasse, ma ebbe questa risposta: “Se Dio ha chiamato a sè mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?”. Ebbene, padre Torquato, quando ci fu il suo richiamo a Roma per la fine della missione trentennale,  dopo una prima reazione negativa perché voleva restare in Uganda, lo collegò al volere di Dio e ripensando a quell’episodio si disse: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Sentiamo un’assonanza con quanto ha detto di recente  Papa Francesco interrogato sull’omosessualità:: “Chi sono io per giudicare?”. Un insegnamento che viene da lontano, dalla sua Argentina ma anche dall’Uganda della moglie del giovane aspirante catechista con quattro  figli e dal  missionario che ne ha dato testimonianza.

Vengono evocate storie come quella del dottor Matthew Lukwiya nell’Holy Mary Lazar Hospital – l’ospedale realizzato dal chirurgo Piero Corti, il primo nel Centro Africa – che nel 2000 si battè strenuamente contro l’epidemia di Ebola e riuscì a debellarne il focolaio in quattro mesi con un numero limitato di morti, tra cui alcuni tra il personale sanitario. Diceva al riguardo: “Se guardiamo alla morte del nostro personale vediamo lo spiegarsi di un mistero, un mistero di luce, davanti a noi c’è il martirio e la santità”. E aggiungeva: “Ora capisco chiaramente che la professione di medico è piuttosto una vocazione a cui il Signore chiama per fare vita”.  Di qui la sua totale dedizione: “Ho fatto la mia scelta. Ti chiedo solo, Signore, ch’io sia l’ultimo  a morire, per aiutare e curare prima gli altri”. E fu proprio l’ultimo  a morire nel suo ospedale, “un missionario nella sua stessa terra”. Le sue parole sono incise in inglese nella lapide commemorativa la cui fotografia è intitolata “Vocazione”.

Il lavoro  e l’Eden della natura

Non solo storie eccezionali o storie di bambini, troviamo nella mostra anche la normalità del lavoro.

L’agricoltura è l’attività prevalente, di sussistenza, serve a ricavare il necessario per vivere, si conta sull’aiuto reciproco: per questo è intitoilata  “A vicenda”  la foto che mostra il lavoro comune tra sacchi di derrate agricole. A questa accostiamo l’immagine della donna che offre la merce al mercato, è sorridente e assisa come una matrona, il titolo è “Mitezza”

Un istituto tecnico fondato e diretto dal comboniano Gilberto Bettini, che ha fatto dell’Uganda la sua terra, è impegnato nelle formazione di muratori, falegnami, operai; li vediamo mentre lavorano con i mattoni in un muro nella foto intitolata “Costruire” , e con delle assi di legno nella foto dal titolo “Opportunità“.

E la natura?  L’Uganda è “la perla dell’Africa”, immersa in “una natura quasi ancestrale, incontaminata che non è possibile non amare”, afferma una didascalia; e prosegue: “Quando siamo partiti per il safari Padre Cosimo – direttore del Centro pastorale catechistico a Ngetta – ci ha salutato dicendoci:: ‘Vedrete il Creato come ai tempi di Adamo ed Eva’. Questo ne è un piccolo esempio”.

Infatti sembra un miraggio,  nella foto “Eden”,  la giraffa che si erge al lato di un albero in un’atmosfera suggestiva; e nella foto “Bellezza”, l’antilope che ci guarda trepida e armoniosa. Poi  un gruppo di elefanti, che la più grande tribù degli Acholi, uno dei maggiori gruppi etnici dell’Uganda del nord,   ha preso come simbolo rassicurante, perché quando si spostano mettono al centro i più piccoli: il titolo dato all’immagine è dunque “Proteggimi”, foto scattata al Murchinson Falls National Park.

La solidarietà attiva e il legame profondo

Un’altra bella immagine ci riporta dalla natura all’umanità, è  intitolata  “Attesa”: mostra una giovane donna  incinta ricoverata nel reparto maternità del dispensario di Minakulu; i servizi  sono carenti, ma “il più delle volte dove possibile l’impegno e la dedizione del personale sanitario migliorano questo stato di cose”. 

E’ ripreso anche un gruppo di operatori del Centro dispensario medico di Ngetta, con Suor Gabriella che lo dirige, davanti ai  bagni realizzati con le donazioni della chiesa romana,  prima c’erano soltanto buche per terra come servizi igienici, per questo la foto è stata intitolata “Dignità”.  Bene in vista è la targa che ricorda la donazione, il titolo dato alla foto è  “Presente”,  parola  usata nelle commemorazioni eroiche, qui per marcare un segno concreto della solidarietà  tra la parrocchia romana e quella ugandese.

Dinanzi all’altare e alla sua destra sono poste due immagini che rendono visivamente il legame sorto tra i visitatori e la comunità locale, la loro collocazione sotolinea la centralità del messaggio.

La prima mostra don Ivan tra una folla di bambini, uno dei quali gioiosamente sulle spalle di una componente del gruppo, il titolo è “Promessa” con questa didascalia: “Il legame che abbiamo stretto con la diocesi di Lira e con tutti gli amici giù in Uganda è il cuore della nostra missione che permane anche qui a casa. Abbiamo l’ardire di credere che sia per sempre”.

Nel commento della seconda immagine, intitolata “Eraestate” – anche qui un bimbo tenuto amorevolmente tra la folla di bambini festanti – si legge: “Durante l’ora di educazione fisica il privilegio di giocare anche noi.  Diventiamo parte della squadra e ci sembra  di essere in parrocchia con i nostri bambini. Aver cura anche di uno solo di questi piccoli può sembrare poco, in realtà è tutto”.  

Dalla comunità ugandese alla famiglia di profughi eritrei, fuggiti dalla guerra, vorrebbero venire a Roma per motivi di studio il prossimo anno, il padre Ghebrè, i figli Abigail, Ezrom e Karmen: “Ci accolgono a  braccia aperte e ci mostrano le loro tradizioni. Il cibo mangiato con le mani e offerto vicendevolmente. Il caffè fatto al momento, il lavaggio delle mani prima e dopo il pasto”.. 

Poi la condivisione di quello che hanno sofferto: “Deve essere molto pesante non poter tornare nel proprio paese, restare senza terra, sperduti. Dover ricostruire la propria vita in un posto dove parlano lingue diverse, hanno usanze diverse, e non trovi accoglienza”.  Nasce la necessità di dare accoglienza ” a chi viene per cercare pace, sicurezza e ristoro”. 

Basta immedesimarsi, e a noi italiani non deve essere difficile per il nostro passato di emigrazione, soprattutto transoceanica: “Perché ciò che vive un altro potresti sentirlo sulla tua stessa pelle un giorno”, e lo puoi sentire subito “se ti fermi a guardare negli occhi un fratello straniero”. In termini religiosi è “vedere Gesù nell’altro”, in termini laici l’incontro è espressione di profonda umanità.

L’abbraccio affettuoso ai tre figli di Ghebrè profughi in Uganda ne è la sintesi toccante, la foto intitolata “Accoglimi”  reca nella didascalia le parole che abbiamo appena riportato.

Al culmine della visita-pellegrinaggio in Uganda troviamo dunque il messaggio “Accoglimi”. Trova immediato riscontro nel messaggio espresso mirabilmente nell’immagine intitolata “Eccomi”: “Questa è la manina di Steven Emmanuel che con la dolcezza connaturale ai bambini si affida” ad una grande mano bianca che le si accosta con altrettanta dolcezza.   Incontriamo di nuovo il piccolo Steven Emmanuel che viene ad impersonare i  valori fondanti dell’umanità più autentica.

Il continuo, accorato invito di Papa Francesco all’accoglienza ha la stessa delicatezza e umiltà. Le due mani non si stringono nel senso di una protezione che può divenire prevaricazione se non sopraffazione, si accostano quasi timidamente, per conoscersi. C’è parità tra il bambino e l’adulto oltre che la parità degli esseri umani al di là del colore della pelle, delle storie personali e collettive e di tutte le differenze vere o presunte.

Quello che conta è la volontà comune di proseguire affiancati nel cammino della vita. E’  l’insegnamento della mostra.  

Il parroco don Luigi D’Errico  lo mette in pratica da tempo nella parrocchia  dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda.. La sua iniziativa “Un rifugio per Agar”  accoglie, in una struttura idonea, donne in difficoltà con i loro figli.  “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” dice un proverbio africano. Questo villaggio è la parrocchia di don Luigi con i suoi dodicimila mila abitanti, che ne asseconda le iniziative benefiche; e dopo questa mostra sente ancora più vicini i fratelli ugandesi. 

Info

Chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda,  Roma, Via Adolfo Ravà 31, Quartiere Ardeatino, 8° Municipio, Poggio Ameno nei pressi di Piazza Caduti della Montagnola. Da lunedì a venerdì, ore 8,00-12,30  e 16,30-19,00; domenica 8,00-19,00  esclusi gli orari delle Messe. Ingresso gratuito. La mostra è a sostegno dei progetti della Parrocchia Santi Martiri dell’Uganda nella diocesi di Lira in Uganda, per questo si accettano offerte e si possono avere dei pannelli della mostra ad offerta libera.  Per la mostra precedente cfr. il nostro articolo “Uganda, nella chiesa dei Martiri, fotostory di fede e vita”  20 luglio  2013, con  9 immagini, in questo sito, e l’articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it”.  Sulle mostre citate e altri temi religiosi cft. i nostri servizi seguenti. Per le recenti beatificazioni di due papi. in questo sito,“Esposito, Carlo e Maurizio Riccardi ricordano i due papi santi” 4 luglio 2014, “Spazio 5” e “Papi della memoria” 15 ottobre 2012, Castel Sant’Angelo., in “fotografia.guidaconsumatore.it” “I due papi santi nelle foto dei Riccardi” giugno 2014,  e “Giovanni Paolo II ‘tutto nostro’ nelle foto di Maurizio Riccardi” 24  maggio 2012, “Spazio 5”; “Una mostra fotografica celebra la beatificazione di Papa Wojtyla” 1° maggio 2011, Piazza Esedra, “Beatus, Mostra fotografica dopo 150 giorni” 4 settembre 2011,  Palazzo Valentini. Per gli altri temi religiosi, in questo sito, “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, Madonna del Divino Amore,  “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” 29 giugno 2013, Mole Vanvitelliana di Ancona, “Preghiere per l’Italia” 19 luglio 2013, al Vittoriano; in “cultura.inabruzzo.it”, “Arché”  9 dicembre 2011, L’Aquila, “Il Potere e la Grazia”  28 e 29 gennaio 2010, Palazzo Venezia,  “Apocrifi nell’arte ”  29 settembre  e 3 ottobre 2009, a Illegio, “Perdonanza 2009″  3 settembre 2009, L’Aquila. In materia di archeologia cristiana in “notizie.antika.it”: sulla mostra “L’archeologia del colore”  23, 30 aprile e 7 maggio 2010, Assisi,  sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo”  29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo”  10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore”  5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma”  16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.inabruzzo.it” “Africa? Una nuova storia” 15 e 17 gennaio 2010; sui singoli paesi del progetto “Roma verso Expo”, nel 2015 Mozambico 7 luglio, Congo 28 aprile, Tunisia 25 marzo,   2014 Egitto 8 novembre.  I tre siti sopra citati,  “fotografia.guidaconsumatore.it”, www. antika.it,  cultura.inabruzzo.it”, non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti in questo sito.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella chiesa della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, si ringrazia il parroco don Luigi D’Errico con i visitatori-pellegrini autori delle fotografie, in particolare don Ivan,  e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, il Manifesto della mostra all’ingresso della chiesa, seguono, nell’ordine con cui sono citate  nel testo, tutte le fotografie esposte nella mostra, con i relativi titoli: “Casa” e  “Dono”, “Sete” e “Il boss” ,”Non abbiate paura” e “Ora ci vedo”,  “Affidarsi” e “Vola solo chi è leggero” , il Manifesto vicino al Crocifisso e “Gesù Bambino”,  “Tienimi con te” e “Guardami”, “Fede” e “Rifugio” , “Apwayo” e “Semi”, “Festa” e “Urrah”, “Chiesa” e “Futuro”, “Coraggio” e “Vocazione”, “A vicenda” e “Mitezza”,  Costruire” e “Opportunità”, “Eden” e “Bellezza”, “Proteggimi” e “Riparo”, “Attesa” e “Dignità” , “Presente” e “Promessa”, “Eraestate” e “Accoglienza” , infine “Eccomi” ;in chiusura, l‘Altare della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda con il sacerdote officiante una messa  domenicale, nella parete  posteriore e davanti all’altare si intravedono le fotografie.

Cafagna e Thwaites, Accessible Art a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Alla galleria romana RvB Arts, Artigianato Valligiano,  in  via delle Zoccolette  28 e via Giulia 193, Lucianella Cafagna e Christina Thwaites presentano, dal 20 al 31 ottobre 2015,  le loro opere più recenti ispirate,  per la prima all’infanzia e non solo, per la seconda agli album di famiglia: un’accoppiata  magistrale  perché, pur nella totale diversità stilistica e di contenuto,  vi è una continuità logica nel sollecitare memorie e nostalgie evocando motivi presenti nella vita di ognuno che suscitano forti emozioni. La mostra è organizzata e curata da  Michele von Buren nel quadro del programma “Accessible Art” che si propone  di far entrare negli ambiti familiari le opere degli artisti facendo leva sulla loro accessibilità sul piano economica e sull’adattabilità ambientale.  

Nella mostra contemporanea, sempre a Roma,  alla Galleria Russo, “Match 2015.  Critici a confronto”,  Chiara Casarin e Lea Mattarella hanno presentato ciascuna due artisti, la prima li ha accoppiati per similitudine, la seconda per diversità. Non sappiamo quale di questi due termini di confronto abbia prevalso nell’accoppiamento tra Lucianella Cafagna e  Christina Thwaites nel giudizio di Michele von Buren la titolare curatrice assistita da Viviana Quattrini, la critica d’arte; di certo sono state abbinate in modo appropriato perché entrambe prediligono la figura umana, ed ecco la similitudine, ma con un approccio completamente differente, di qui la diversità.

Artiste a confronto

E’ un “Match 2015. Artiste a confronto”, per restare nel riferimento all’altra mostra?  Non lo crediamo, pensiamo piuttosto che sia una staffetta nella stessa direzione,  quella di “Accessible Art”:  il progetto che Michele von Buren porta avanti da anni organizzando frequenti mostre con tutta la sua energia e creatività nell’intento di far penetrare l’arte negli ambiti familiari mediante opere accessibili economicamente e adatte a nobilitare l’arredo delle comuni abitazioni. Ne è una prova la stessa esposizione nella galleria RvB Arts in cui le opere formano dei  veri e propri arredi  con i mobili presentati dall’Antiquariato Valligiano  negli accostamenti che vengono mostrati.

Abbiamo già illustrato ripetutamente l’iniziativa per cui ci limitiamo a un rapido accenno, che riteniamo tuttavia doveroso perché il programma di “Accessible Art”  è meritevole di ogni sostegno per la sua valenza artistica e la sua apertura sociale. La familiarità che ne è la caratteristica è accentuata dal fatto che le continue mostre organizzate da Michele von Buren in RvB Arts hanno portato alla formazione di una scuderia stabile di artisti, 21 pittori, 5 scultori e 10 fotografi che ritroviamo spesso in esposizioni successive, le cui opere, comunque, spesso restano in mostra, più o meno defilate, insieme a quelle degli artisti presentati di nuovo, completando l’effetto d’insieme.

Così nella mostra attuale insieme ai dipinti della Cafagna e della Thwaites ritroviamo le piante metalliche di Alessio Deli, quasi fossero i vasi ornamentali presenti nelle abitazioni, gli animali, cani in particolare, nelle originali forme sculturee  di Maiti, le bianche sculture filiformi di Gasperini, le composizioni materiche di Zarattini e le “mappe dell’anima” di Blanco: un contorno di valore che concorre a creare l’atmosfera familiare in chiave artistica, cosa inimmaginabile con certa arte contemporanea: Michele von Buren ci riesce benissimo con la sua “Accessible Art”.

Staffetta e non match tra le due artiste

Perché non è un match ma una staffetta tra artiste? Vediamo una continuità tra le loro opere, quasi una complementarità narrativa, ponendole in una successione logica che inizia con la Thwaites.

Christina Thwaites sembra sfogliare l’album di famiglia con i gruppi schierati quasi per una posa fotografica; un album ingiallito che reca spesso immagini sfuocate, tali sono quelle dei volti appena abbozzati  con espressioni attonite e assorte come se fossero sorpresi dall’istantanea. Sono gruppi con diverse generazioni o della stessa classe di età, adulti e bambini, come le foto di famiglia.

Lucianella Cafagna  ne segue la crescita, raffigura l’infanzia con le sue emozioni e le prime relazioni, e poi l’adolescenza; con qualche spettacolare puntata più in alto, culminata in “Lady Jane” presentata alla Biennale di Venezia e ulteriormente sviluppata nelle opere più recenti.

E’ come se dall’album di famiglia della Thwaites,  con la  Cafagna  si passasse alla vita reale dei ragazzi ripresi nel gioco e nei loro atteggiamenti teneri e intensi. Le due artiste sono state in mostra già in passato a RvB Arts, abbiamo commentato la presenza della Thwaites cinque  volte dal 2012 in collettive, una volta con la Cafagna,; della  Cafagna anche una personale nel novembre 2013.

Nulla di nuovo, dunque, sotto il sole di “Accessible Art”? Tutt’altro, troviamo delle sorprese nell’evoluzione percepibile nelle opere più recenti delle due artiste, sono del 2013 quelle della Thwaites, del 2015 quelle della  Cafagna.

L’album di famiglia della Thwaites presentato ora è meno ingiallito, i volti meno abbozzati,  le espressioni meno assorte e più personali, fino all’uscita dal gruppo compatto per due figure  infantili che si muovono come liberate, ragazzi che lustrano le scarpe o ragazze che giocano con l’altalena. Forse  segnali di un’evoluzione che potrà darci altre sorprese, e Michele von Buren non mancherà di mostrarle quando verrà il momento.

Per la Cafagna la sorpresa è l’ulteriore manifestarsi della sua eclettica varietà espressiva, declinata in figurazioni suggestive che aggiungono forme e temi inconsueti alla sua poliedrica  galleria.

L’album di famiglia di Christina Thwaites

Ricordiamo alcuni dati sull’iter artistico e il percorso di vita di un’artista nata in Inghilterra a Sheffield, che vive in Australia dopo la laurea a Edimburgo ed  esperienze di lavoro ad  Amsterdam e a Roma; nel 2011ha partecipato a un workshop internazionale in Palestina con la Al.Mahatta Gallery, selezionata dopo una mostra a Roma e si è esibita anche in un campo profughi.

Le sue opere sono state esposte in mostre collettive al Palazzo Esposizioni e al Macro di Roma, oltre che a RvB Arts, in Olanda ad Amsterdam e in  Australia a Sydney, Camberra e Melbourne;  e in mostre personali a Roma alla RvB Arts, Rieti, Napoli e dintorni,  e in Australia a Hobart in Tasmania,  Melbourne, Braidwood e Murrurundi. 

A questa mostra viene dato il titolo “Past Times” per sottolineare la nostalgia legata alle vecchie immagini da album di famiglia, e anche, in termini ironici,  il risvolto di passatempo riferendosi all’assoluta normalità delle raffigurazioni che non  trasmettono messaggi anche se fanno pensare.

Infatti  proprio questa normalità le rende intriganti per l’osservatore. Ci si trova a scrutare quei volti abbozzati, quegli schieramenti frontali, a cercare di percepire ciò che può esservi nell’interno al di là dell’apparente vacuità: in fondo è esperienza comune aver fatto parte di gruppi scolastici o familiari con la mente che vagava tra un pensiero e l’altro in attesa dello scatto sempre tardivo.

Delle volte c’erano delle trasgressioni o asimmetrie in quelle foto di gruppo, nulla di tutto questo nelle composizioni dell’artista, composte e ordinate. Se non fossero di ordinaria quotidianità e dall’apparenza modesta potrebbero sembrare immagini istituzionali rassicuranti. Non sempre sono rassicuranti le espressioni, ma quando appaiono allucinate è l’effetto virtuale dello “scatto” tardivo.

Sono  tutte del 2013, i titoli espressivi: “Uncertain Identity” e “State Children”, presentata per la prima volta,  “Restricted Movements” e “Reconciliation”,  “At the Show” e “Aristocracy” – curiosamente il titolo che David Lachapelle ha dato a una propria “aeropittura”,  come si è visto nella recente mostra al Palazzo Esposizioni  – con un’ironia che ritroviamo in  “The Salvation Army”,   la banda musicale  infantile dell’Esercito della salvezza..

Escono dalla foto di famiglia i due bimbi che sono seduti a terra in  “Boys cleaning shoes”, e in quelli sull’altalena in “Waiting for the Swing”,  è proprio il testimone che l’artista passa alla Cafagna  che lo porterà fino al traguardo dell’adolescenza e oltre.

L’infanzia e non solo di Lucianella Cafagna

Gli album di famiglia sono testimonianza nostalgica e passatempo, nella visione non priva di ironia della Thwaites. L’infanzia,  e non solo,  è una realtà da rappresentare con una ricerca attenta che ne esplora le  angolazioni nella visione appassionata con una grande varietà espressiva della Cafagna.

Si va dal bianco e nero –  a prima vista dei controluce  fotografici, ma in effetti frutto di un lavoro raffinato e preciso in una filigrana che dà alle ombre una particolare suggestione – al cromatismo fortemente contrastato di piccoli ritratti  fino a divagazioni sempre figurative di tono classico.

La formazione di questa artista romana avviene particolarmente in Francia, all’Ecole National Supérieure des Beaux Arts di Parigi,  e presso lo studio di un pupillo di Balthus, Pierre Carron.  Risultato: non si è lasciata attrarre dalle avanguardie, operando in controtendenza in modo coraggioso avendo rifiutato la via facile delle mode del momento. Il suo è un “realismo magico”  da scuola romana anni ?50  con influssi di  Balthus  e della pittura francese di fine ?800- primi ?900.

Una lunga serie di mostre collettive dal 1994, all’estero Parigi e Los Angeles, in Italia Roma, tra cui RvB Arts, e Firenze, Milano e Venezia alla Biennale del 2011 nel Padiglione Italia curato da Vittorio Sgarbi; e mostre personali a Roma, alle gallerie RvB Arts e Macro,  Zadig e Stella.

L’infanzia è, dunque, il tema ricorrente, trattato con estrema delicatezza fino ad apparire sfuggente, come del resto è quell’età che muta connotati di continuo mantenendoli solo nella memoria; e in questo si può cogliere la continuità con le immagini infantili degli “album di famiglia” della Thwaites  su un piano ideale, essendo le forme espressive tanto diverse da non essere confrontabili.

Il piano ideale è nei riferimenti diretti al proprio vissuto che diventano condizione universale , come se partisse dal proprio album di famiglia per esprimere valori che appartengono ad ognuno.

La Cafagna esplora l’infanzia nella solitudine e nelle  relazioni cercando di decifrarne le intime pulsioni, prendendo molto sul serio questo mondo tanto da dare alla personale del 2013 il titolo “Qualcosa di importante”: e non si riferiva a “Lady Jane” presentata alla Biennale di  Venezia,  figura eretta di grandi dimensioni, raffinata e  carismatica, bensì a ciò che percepiva dall'”ascolto” dei dialoghi muti espressi nei visi infantili, nelle loro espressioni ludiche e in quelle pensose, tanto da intitolare “Ascolto ” una piccola scultura, in ciò ha anticipato il recente film di Walter Veltroni.

Ascolto degli altri ma soprattutto di se stessa. “Di mio c’è tutto, sia per cosa racconto, sia per come lo racconto”,  ha affermato in occasione della personale appena citata, aggiungendo: “L’infanzia è un momento della vita in cui si formano tutti i valori, i sentimenti, l’identità stessa”, e per questo “tutto è fondamentale e amplificato: l’amicizia, la sessualità, le emozioni, le rabbie. Accanto al gioco e alla leggerezza c’è questo senso profondo delle cose”.

Come cifra stilistica abbiamo accennato ai due moduli espressivi, cerchiamo ora di penetrarne il significato. Il bianco e nero in filigrana è utilizzato nell’introspezione dei momenti pensosi, le ombre ne  accentuano il mistero con una speciale suggestione; mentre il cromatismo netto e contrastato rende i momenti ludici, ma anche in questi più che spensieratezza c’è sospensione, equilibrio precario. E’ lo specchio di un tempo che passa rapidamente e lascia nostalgia e ricordi, trasmessi emotivamente all’osservatore.

Abbiamo detto delle sorprese nella nuova mostra rispetto a quelle precedenti nella stessa galleria. Sono quasi tutte  opere del 2015, nelle quali tornano le figure nette dal forte cromatismo riferite all’infanzia, ma anche opere di forma e contenuto del tutto nuove, innovative.   Lei stessa dichiara che il suo lavoro “è un continuo divenire, anche da un punto di vista tecnico, perché scopro continuamente nuovi materiali e c’è sempre un miglioramento”: un’evoluzione stilistica e anche nei contenuti, vediamo esposte opere che sorprendono per come si allontanano da quelle consuete  assumendo significati misteriosi e accenti magici..

Per le opere del filone consueto citiamo tra i dipinti con intenso cromatismo ” Carmen con poncho rosso”, “Nora” e “Giogiò”,  con la dominante rossa, “Cherubino” e “San Sebastiano” , misteriosa nel titolo dato che la figura eretta non evoca il santo, se non nella posizione che offre il petto alle invisibili frecce; tra le immagini  bianco-nere  quasi in filigrana, “Ballerine”, “Sorelle” e “Figli”, immagini dell’intimità dalle espressioni pensose.

Delle  opere di nuova impostazione che avviciniamo idealmente a “Lady Jane” ricordiamo :  “Ultimo bagno”,  una grande campitura cromatica celeste con piccole figure quasi in dissolvenza, “Il pomeriggio di una ninfa (omaggio a Balthus)”, ed “Enigma della gioia”,   una straordinaria composizione tutta da decifrare,  mistero e magia nella  classicità che esalta la bellezza.

L’atmosfera della mostra

Un’ultima considerazione sull’atmosfera che si respira nella mostra, con il clima familiare creato dalla compresenza di opere di altri artisti ben conosciuti che fanno sentire a casa propria.  Anche perché, come si è detto, i mobili e gli arredi ai quali sono abbinati i quadri esposti rendono il clima domestico, e anche le opere scultoree, in particolare di Deli  e Maiti, contribuiscono con le piante metalliche e i cani a far sentire a casa.

I soggetti trattati dalle due artiste sono figure umane, soprattutto di gruppo quelle della Thwaites,  individuali quelle della Cafagna: immagini del passato le prime, del presente le seconde, entrambe tuttavia immerse in un sospensione che dà per ragioni diverse il senso della nostalgia e della memoria. Ebbene, il visitatore si sente al centro della commedia umana recitata dai gruppi e degli individui, che è la storia della vita di tutti, nelle varie età e situazioni; con tanti occhi puntati addosso c’è un rapporto biunivoco tra l’esplorazione che si intende fare cercando di penetrare all’interno delle espressioni e degli sguardi, e il riflesso opposto, i muti interrogativi che vengono da quegli sguardi e catturano l’osservatore.

Nel mentre ci si propone di indagare,  ci si sente indagati nei reconditi pensieri suscitati dalla memoria che le immagini  evocano sul piano personale di ciascuno, si ripercorre la propria infanzia,  ci si proietta oltre.

E se tutto questo si prova nella serata inaugurale particolarmente affollata crediamo che l’effetto sia ancora più intenso ed emozionante in una visita più raccolta e personale che vale senz’altro la pena di fare presto, dato che la mostra resta aperta solo per dieci giorni.

Info

Galleria RvB Arts, via delle Zoccolette 28 e Antiquario Valligiano, via Giulia 193, Roma, orario di negozio, domenica e lunedì chiuso, ingresso gratuito.  Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518,  http://www.rvbarts.com/. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti 11 articoli sulle mostre di “Accessible Art” organizzate da Michele von Buren in RvB Arts: nel 2015 il 26 giugno e 3 aprile,  nel 2014 il 17, 27 giugno e 14 marzo, nel 2013  il 5 novembre, 5 luglio e 21 giugno, 26 aprile e  27 febbraio; nel 2012 il 10 dicembre e 21 novembre. L’articolo  del 5 novembre 2013 è sulla mostra personale della Cafagna, quello del 21 novembre  2012 su due mostre, di cui una con Cafagna-Thwaites insieme a Tindar;  gli altri su mostre collettive con la Thwaites il 5 luglio e 27 febbraio 2013, e il 10 dicembre 2012.  Per la citazione di David Lachapelle cfr. il nostro articolo, in questo sito, il 12 luglio 2015.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante , 27 nella galleria di RVB Arts alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, le artiste Lucianella Cafagna e Christina Thwaites  per l’opportunità offerta. In apertura, Lucianella Cafagna, “Ultimo bagno”, 2014; seguono,  Christina Thwaites, “State Children” e “At the Show”,   poi “Aristocracy”,  “Boys Cleaning Shoes” e “Waiting for the Swing””, 2013; quindi,  Lucianella Cafagna, “Piccola Carmen con poncho rosso”, “Ballerine”  e “Nora”, infine  “Il pomeriggio di una ninfa” ed “Enigma della gioia”, 2015; in chiusura, Christina Thwaites, “Restricted Movements”, 2013.

Arte e Stato, le acquisizioni mirate, a Castel Sant’Angelo

di Romano Maria Levante

A Castel Sant’Angelo, dal 26 maggio al 29 novembre 2015,  la mostra “Lo Stato dell’Arte, l’Arte dello Stato”, espone un gran numero di opere d’arte relative alle “Acquisizioni del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo per colmare le lacune e ricucire la storia”, sottotitolo della mostra.  E’  organizzata, come le altre mostre che si svolgono a Castel Sant’Angelo per la presentazione delle opere recuperate dalle Forze dell’ordine, dal Centro europeo per il Turismo, Cultura e Spettacolo, presidente Giuseppe Lepore. La mostra è a cura di  Maria Grazia Bernardini  e Mario Lolli Ghetti che hanno curato anche il catalogo della Gangemi Editore.

Il titolo della mostra gioca con le parole Stato e Arte in un’approfondita ricognizione dei rapporti inscindibili tra l’Arte e le istituzioni pubbliche cui va il compito di preservare e valorizzare il patrimonio artistico e culturale del Paese. 

Lo “Stato dell’Arte”, reca la maiuscola  quasi per sottolineare l’idenificazione del nostro Stato con l’Arte, ma è anche la “stato” dell’Arte con la minuscola, quando fa il punto sulla situazione delle collezioni museali e statali, la cui dotazione di opere anche se cospicua  va monitorata con cura per accertare le possibilità di  ulteriore arricchimento. Con “Arte dello Stato” si fa riferimento all’azione svolta per  tutelare e accrescere le collezioni che sono un prezioso patrimonio statale.

Tutto questo si articola in una serie di sezioni nelle quali all’enunciazione del problema affrontato e dei mezzi utilizzati segue il ricco corredo espositivo delle opere d’arte che rientrano nelle specifiche tipologie. L’integrazione delle collezioni è il leit motiv declinato in una serie di iniziative che rispondono all’esigenza di colmare le lacune o di ricomporre un insieme, fino a quella di  raccontare una storia; con la sorpresa finale, un tuffo nell’Arte Orientale tra le collezioni di Giuseppe Tucci e i suoi viaggi in Tibet. L’obiettivo è migliorare in modo mirato la dotazione dei musei per valorizzarli in modo mirato.       

Motivazioni e contenuto della mostra

La questione museale è di attualità dopo la svolta operata dal Ministro dei Beni, Attività culturali e Turismo  Dario Franceschini che ha effettuato le nuove nomine dei 20 direttori dei maggiori musei non più secondo criteri burocratici ma sulla base di una selezione meritocratica con il supporto di un concorso internazionale, per questo la scelta è potuta cadere anche su nomi stranieri, del resto permeati di cultura artistica italiana, che danno garanzie di managerialità e dinamismo.

C’è stata anche una deriva inattesa con l’intenzione manifestata dal sindaco di Venezia di vendere alcune opere di grande valore custodite nei musei veneziani per far fronte alle difficoltà di bilancio; e anche se  ha precisato che la scelta sarebbe caduta su opere estranee alla tradizione veneziana  le polemiche non sono mancate.

Una risposta a tale sorprendente iniziativa la troviamo nella presentazione di questa mostra da parte del Direttore generale dei musei nel MiBact, Ugo Soragni: “E’ stata avanzata in più circostanze la proposta di vendere oggetti d’arte o di archeologia custoditi nei depositi dei musei, sostenuta da valutazioni basate su di un approssimativo calcolo economico, senza valutare adeguatamente le conseguenze di una simile operazione. Se tale strategia fosse adottata in modo sistematico, infatti, risulterebbero compromesse, in disparte ogni altra valutazione di ordine etico o morale, le attività di ricerca, di confronto, di proposizione periodica di nuove collezioni, di studi inerenti a periodi poco conosciuti, di organizzazione di mostre a tema”.  E qui si tratta di opere dei depositi, non di quelle principali esposte al pubblico di cui all’intenzione esternata dal sindaco di Venezia, che sono un richiamo oltre che parte di un patrimonio inalienabile, come il Ministro ha  replicato con forza mostrando la sua opposizione.

Ma anche le opere dei depositi sono fondamentali, come afferma  Mario Lolli Ghetti : “Un museo senza depositi è un  luogo privo sia di storia sia di futuro. Senza depositi, non si avrà mai la possibilità di fare ricerca, istituire confronti, alternare le collezioni, fare luce su periodi oscuri o trascurati della storia, organizzare mostre a tema e via dicendo”. E al riguardo ci piace ricordare la grande mostra a tema sulle “Nature morte” presentata di recente alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma con centinaia di opere tratte dai depositi che documentavano con dovizia di esempi questo particolare genere artistico.

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Non mancano quelli che Lolli Ghetti chiama “tragici esempi”, anche in tempi abbastanza recenti, di vendita di storiche collezioni d’arte e di raccolte pregiate, tra gli “errori del passato” vengono citate la Collezione Barberini di Roma e la raccolta Contini Bonacossa di Firenze; ci sono, per fortuna, anche “sciagure evitate”, come quella che incombeva sull’eredità Bandini, preservata per l’intervento dell’allora ministro per i Beni culturali Antonio Paolucci, lo studioso di fama che ora dirige i Muse Vaticani, in una complessa operazione dalla quale viene la dimostrazione che quando c’è la volontà si possono risolvere positivamente  anche vicende molto intricate ed è possibile  mobilitare le risorse necessarie.

Sulla situazione in atto viene respinta l’affermazione secondo cui il nostro patrimonio artistico è talmente vasto da porre seri problemi di tutela e manutenzione per cui non si dovrebbe cercare di ampliarlo con il rischio di compromettere la conservazione di quello esistente.  Al contrario va riaffermata “l’importanza del patrimonio culturale come esempio e stimolo per l’educazione di noi cittadini, per la nostra formazione etica, morale e civile e per il riconoscimento delle nostre radici, e agire di conseguenza”.

Non si tratta di perseguire genericamente un incremento del patrimonio artistico, ma di coltivare attivamente le nostre radici storiche e culturali e cercare di acquisire tutto ciò che ne è parte integrante e quindi non va disperso.  Viene dato atto che le istituzioni, spesso silenziosamente, si muovono in questa direzione nei modi più diversi: dall’esercizio della prelazione sulle vendite all’iscrizione  dei beni archeologici rinvenuti, dagli acquisti agli uffici esportazioni alla  trattativa diretta, dai sequestri di opere trafugate ai recuperi di opere esportate illegalmente all’estero, dal pagamento in beni artistici delle tasse di successione alle donazioni. Queste due ultime forme, tuttavia, sono di entità molto inferiore rispetto a quanto avviene all’estero mentre potrebbero contribuire di più all’accrescimento del patrimonio artistico. Viene citata come esempio negativo l’assenza di potenziale donatori italiani all’asta che ha aggiudicato il Codice di Leonardo, Leicester prima, Hammer poi, a Bill Gates per 30 milioni di dollari; come pratica positiva l’iniziativa meritoria delle Fondazioni bancarie di depositare nei musei pubblici, in particolari circostanze,  opere di loro proprietà per ricomporre insiemi dispersi e colmare lacune; .

“Integrare le collezioni” è il messaggio che viene dalla mostra mediante una dovizia di esempi, che rappresentano una preziosa ricostruzione di vicende storiche e nel contempo una ricca documentazione sull’opera  svolta dagli apparati dello Stato, pur nella cronica carenza di risorse, in questa direzione utilizzando una serie di strumenti ai quali sono dedicate le diverse sezioni della mostra. Più che ai casi eclatanti di opere di maggiore fama, nelle acquisizioni come nelle donazioni si vuole dare voce all’attività silenziosa, su cui non sono stati accesi i riflettori, ma che ha permesso di ricostituire un tessuto connettivo lacerato dalle lacune, quindi di riannodare con l’arte i fili della storia e della cultura.

Al fine di rendere evidente questo aspetto primario, in molto casi  a fianco delle opere acquisite  sono esposte quelle di cui costituiscono integrazione o completamento, come per i polittici ricomposti; si è operato in modo analogo  quando si sono colmati dei vuoti in periodi artistici esponendo, oltre all’opera acquisita, anche altre opere della cronologia completata.

Come in precedenti mostre del Centro  Europeo del Turismo a Castel Sant’Angelo l’evento espositivo è stata l’occasione di una  ricerca sul tema espressa, oltre che dalla selezione delle opere presentate e documentate nelle singole sezioni, in una serie di saggi, riportati in Catalogo, nei quali vengono approfonditi alcuni aspetti generali e delle situazioni particolari.

Le ragioni inequivocabili a favore delle acquisizioni

Claudio Strinati ha dimostrato la validità e necessità delle acquisizioni a sostegno di quanto affermato in termini generali  da Lolli Ghetti,  con un’analisi  che delinea gli obiettivi e la strategia per raggiungerli.

Le “acquisizioni mirate” dovrebbero essere effettuate in “due filoni altrettanto indispensabili”; non solo portando nei musei opere che in passato hanno fatto parte di collezioni pubbliche o riconosciute di rilevanza pubblica in atti privati o per la loro validità artistica; ma anche acquisendo opere espressive di altre culture in una visione transnazionale che si rivela sempre più importante, e qui viene citata l’arte Orientale,  ben rappresentata in due sezioni a conclusione della mostra.

Non si tratta, tuttavia, di un generico invito all’accrescimento del patrimonio artistico, ma si pongono due precise condizioni.

“La prima condizione è che l’acquisizione avvenga per opere artisticamente valide, necessarie sul serio all’incremento del nostro patrimonio artistico, pagate il giusto e secondo procedure trasparenti e impeccabili”; a questo riguardo il Ministero per i Beni, le Attività Culturali e il Turismo ha operato con “saggezza e oculatezza”, tanto che  “rarissimi sono stati gli scandali o le contestazioni per acquisizioni errate o condotte in mala fede “,  rappresentando così un raro esempio di correttezza  dinanzi al dilagare degli episodi di corruzione in tanti campi dell’azione pubblica.

C’è poi una “seconda condizione” non meno importante: “Stabilito questo indispensabile  presupposto, occorre andare ben più a fondo e comprendere la bontà e la vera necessità dell’acquisizione di un Bene Culturale in una Nazione come l’Italia che detiene il più importante patrimonio artistico del mondo e che è talmente ricca di beni culturali da non riuscire talvolta, e con il più grande rammarico degli amministratori, a garantire anche solo una costante manutenzione, date le oggettive difficoltà di bilancio”.

Strinati  affronta così direttamente il problema cui abbiamo accennato all’inizio non ignorando i due argomenti che vengono contrapposti alle acquisizioni, anzi ponendoli come presupposto delle acquisizioni e insieme come deterrente a un’azione poco oculata: “Se il patrimonio, infatti, è tale, lo è perché  esprime un valore economico effettivo proprio  in quanto veicolo di valori etici ed estetici. In tale significato il patrimonio è un patrimonio ‘vero’. E il patrimonio non è tale se non è passibile di incremento. Se non fosse costantemente incrementato, allora, perderebbe proprio la sua specificità, coerente e costruttiva, di ‘patrimonio’, appunto, per diventare sempre più metafora di se stesso”. Magistrale utilizzazione in senso favorevole alle acquisizioni degli argomenti che vengono usati  contro,  dall’imponenza del nostro patrimonio culturale ai problemi sul piano economico.

Una carrellata di acquisizioni dal 2009 al 2012

Con l’illustrazione da parte di Daniela Porro degli acquisti di opere d’arte dal 2009 al 2012 si entra direttamente nell’attività svolta in base ai criteri indicati e con gli strumenti disponibili; è una carrellata di dati e citazioni che prepara alla vera carrellata artistica presentata nella mostra.

Nel 2009 si sono avute soprattutto acquisizioni a trattativa privata;  nel 2010 sono prevalse le acquisizioni coattive all’esportazione, 22 invece delle 6  avutesi nell’anno precedente, mentre le prelazioni sono state di numero inferiore, 7 rispetto a 10, ed è stato impiegato l’intero stanziamento disponibile, pari a 3 milioni e 800 mila euro. 

Più che queste aride cifre interessano le opere acquisite e destinate a una serie di musei secondo una politica attenta alle specifiche esigenze  del territorio. Nel 2009 e 2010  si va dai “78 Tarocchi” settecenteschi e dall'”Ascensione” di Ludovico Brea, a opere come  “Il Ratto delle Sabine” di Luca Giordano, la “Madonna in gloria con Bambino e santi “ di  Officina meridionale. 

Le disponibilità finanziarie  sono diminuite nel 2011,  ma questo non ha impedito di effettuare importanti acquisizioni., come  “La Madonna di Chiarino”, del XV sec.,  di scuola abruzzese,  e un “Autoritratto” di Cristoforo Terzi del XVII sec. L’anno  si è chiuso con due importanti acquisizioni in extremis, l’“Adorazione del Bambino”, di Cesare da Sesto e il “Cofanetto nuziale” in alabastro e pietre dure con gli stemmi di Guidobaldo Della Rovere e Vittorio Farnese.

Nel 2012 spicca l’acquisto  della serie di 7 opere settecentesche  di Gregorio de Ferrari, 4 tele sul “Mito di Ercole” e  3 dipinti monumentali,  di m 2,50 x 3,80  con soggetti tratti dalle “Metamorfosi” di Ovidio; è stato possibile per l’esercizio della prelazione al momento della vendita all’incanto, essendo state dichiarate di interesse storico-artistico da un decreto ministeriale del 1989.

I  musei a cui queste opere sono state destinate sono tra i più prestigiosi, dalla Pinacoteca di Brera a Milano  alla Pinacoteca di Lucca, dalla Galleria nazionale di Palazzo Barberini  a Roma  agli Uffizi di Firenze, dalla galleria di Palazzo Spinola  a Genova alle gallerie  dell’Accademia di Venezia,   dal Museo di Capodimonte alla Galleria nazionale delle Marche.

Le ricerche e analisi a latere della mostra

Ad alcune di queste prestigiose strutture sono dedicate accurate ricerche e analisi compiute in occasione della mostra.

Maria Grazia Bernardini  ripercorre i momenti in cui a Roma dopo  il fatidico 1971  lo Stato ha acquistato una serie di palazzi prestigiosi e di preziose collezioni. Ed ecco descritta la creazione della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini  e  di Palazzo Barberini,  il secondo acquistato appositamente  quando il primo si era rivelato insufficiente ad accogliere le opere vie via  affluite per acquisti e donazioni, di grandi artisti, tra cui Caravaggio e Bernini, Pietro da Cortona  e Lanfranco, Pussin e Romanelli. Poi la Galleria Borghese, sul cui acquisto da parte dello Stato viene rivelato un particolare intrigante: si sarebbe potuta avere a costo zero se si fosse rinunciato all’ “Amor sacro e amore profano” di Tiziano per il quale i Rothschild avevano offerto nel 1899 4 milioni di lire, cifra superiore ai 3 milioni 600 mila concordati con lo Stato italiano per l’acquisto  della villa e dell’intera collezione  che comprendeva, oltre ai super quotati  Tiziano,  Raffaello e Correggio, anche Caravaggio, con “La Madonna dei palafranieri” e “Il canestro di frutta”,  e  Bernini,  con “Apollo e Dafne”,  tre opere stimate meno di  300 mila lire. Per fortuna non si accettò l’offerta dei banchieri svizzeri, si versò la cifra richiesta dal venditore, ma il capolavoro di Tiziano restò nella collezione acquistata dallo Stato.

Poi la storia di palazzo Althemps con la collezione Boncompagni-Ludovisi, del  Museo nazionale di Villa Giulia  e Villa Poniatowski,  fino al Museo nazionale di strumenti musicali, che si aggiungono alle acquisizioni  finora citate da parte dello Stato che hanno fatto sì che Roma  capitale d’Italia divenisse  anche “capitale dell’arte”.

Un’analisi specifica è stata fatta su “premesse e destino delle acquisizioni degli Uffizi”,  i cui depositi contengono un numero così elevato di opere da far ipotizzare la creazione di nuovi musei, di cui Antonio Natali però nega la fattibilità, sostenendo l’importanza che dietro il patrimonio espositivo di maggior valore ci siano riserve adeguate come quelle  disponibili per aprirsi soprattutto al territorio con mostre mirate, ne vengono ricordate 17, e per rotazioni. E’ intrigante la storia  dell’acquisizione dopo il 2000 di oltre 300 autoritratti quando  se ne dispone di circa 1600 di cui solo 500 esposti:  la maggiore collezione al mondo resta aperta a nuovi ingressi per restare aggiornata, anche qui risiede la forza di un museo.

Vengono parimenti analizzate la politica di acquisizioni per il polo museale di Venezia e i recenti acquisti per la Galleria nazionale delle Marche,  i nuovi tesori per i musei napoletani e le collezioni orientali della raccolta Tucci;  fino alle acquisizioni di beni archeologici e alla problematica sull’architettura, nel crinale tra “dono o abbandono”.  Anche la legislazione di tutela, con le diverse forme di acquisizione dei beni culturali è oggetto di attenta analisi.

E’ questa la premessa, in cui la ricostruzione storica delle vicende è abbinata a un’attenta  documentazione  che fa comprendere meglio e apprezzare l’azione meritoria compiuta in questo campo, con tutte le difficoltà che si incontrano, ma anche con le soddisfazioni per i successi ottenuti.

La ricca esposizione a Castel Sant’Angelo,  di cui racconteremo prossimamente la visita,  ne dà una dimostrazione  spettacolare, mediante  l’evidenza visiva  dell’integrazione  delle collezioni e della ricomposizione di  singole opere vche rappresentano veri capolavori:  l’arte unita alla storia e alla cultura.

Info

Castel Sant’Angelo, Lungotevere Castello 50. Tel 06.6819111. Da martedì a domenica ore 9,00-19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima), lunedì chiuso. Ingresso a Castel Sant’Angelo: intero euro 10,50, ridotto euro 7,50 (tra 18 e 25 anni, insegnanti Ue scuole statali); gratuito minori di 18 anni e maggiori di 65 anni, oltre ad una serie di categorie.  Catalogo:   “Lo Stato dell’Arte, l’Arte dello Stato”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Mario Lolli Ghetti, maggio 2015, Gangemi Editore, pp. 318, formato 21×30, le citazioni del testo sono tratte del Catalogo. Cfr., in questo sito,  i nostri due articoli sulla visita alla mostra, il 25 e 30 ottobre 2015, con  altre 20 immagini. Per i nostri servizi su mostre precedenti del Centro Europeo per il Turismo, Cultura e Spettacolo cfr., in questo sito, “Papi della memoria”,  15 ottobre 2012,   “Arte salvata nel 150°“,  1° giugno 2013, e “Archeologia, capolavori recuperati a Castel Sant’Angelo”, 22 luglio 2013 ; in cultura.inabruzzo, “Tesori invisibili”,  10 luglio 2009 . Per i recuperi dei Carabinieri cfr. in questo sito, i  nostri servizi:  nel 2015 il 22 giugno, 25 aprile e 25 gennaio, nel 2013  il 21 luglio; inoltre  in “www.antika.it”: il 12, 15 febbraio e 9 maggio 2010, il 12, 21 gennaio e 12 giugno 2012, e il 30 giugno 2013 (i siti cultura.inabruzzo.it e www.antika.it non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).  

Info

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia il Centro Europeo del Turismo, Cultura e Spettacolo di Giuseppe Lepore, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, da sin. a dx, “Statua acefala di Apollo”, “Statua marmorea di Athena”, “Statua marmorea di togato”, I sec. a. C.; seguono, “Statua di Menade”, I sec. a. C., e Felice Giani, “Iride incita Priamo a chiedere ad Achille il corpo di Ettore” 1810-20; poi,  Amico Aspertini, “Ritratto di Alessandro Achillini”, 1515-21, ,e Matthias Stomer, “Annunciazione”, 1634-38; quindi, , Artemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni”, 1652, e Giambattista Tiepolo, “Madonna in gloria con i santi Giorgio e Romualdo”, 1773; inoltre, Gaspare Traversi, “San Girolamo”, 1750-53, e Giuseppe Angeli, “Il solletico”, fine XVIII sec.; in chiusura, il Tevere e il cupolone di San Pietro  dalla sommità di Castel Sant’Angelo dov’è la mostra.

Macedonia, icone e ornamenti lignei intagliati, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Alla chiusura del programma “Roma verso Expo”,  di cui abbiamo dato conto puntualmente,  torniamo su una mostra speciale esterna a questo programma, di un paese, la Macedonia, che non partecipa alla grande manifestazione milanese ma è stato presente al Vittoriano nel mese di maggio 2015 con la mostra “L’arte dell’intaglio del legno macedone. Tradizione e continuità”. E’ stata organizzata per celebrare la festività dei santi slavi Cirillo e Metodio, tra i protettori d’Europa;  come l’Armenia, assente all’Expo, ma presente al Vittoriano con una mostra nel centenario del genocidio. La Macedonia espone  35 opere lignee del Ni Institute for Protection of the Monuments of Culture and Museum – Ohrid”, diretto da Tanja Paskall Buntashesk, promotore della mostra con il Ministero della Cultura della Repubblica di Macedonia; realizzata da “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia,  curata da Olivera Misheva e da Milcho Georgievski.

L’intaglio è’ una  rara forma d’arte  in cui il paese eccelle fin da epoca antica, espressa mediante pannelli  ornamentali e bassorilievi lignei. All’inaugurazione si è tenuto il concerto “Dream, Faith, Love” di Duke Bojadziev, con la voce di Tanja Tzar accompagnata al violino da Vladimir Krstev.

Una breve presentazione di quest’arte che nelle opere ornamentali riesce ad addolcire il materiale ligneo fino ad evocare ricami delicati, e nei bassorilievi con figure sacre è al livello delle celebri raffigurazioni iconiche, lo vediamo nelle figure di santi e prelati, fino all’Ultima cena.

Trova il suo centro in Ohrid e non a caso:  questa città è la madre dell’alfabeto cirillico e in generale della cultura slava, la patria di due discepoli di san Cirillo e Medodio, i santi Clemente e Naum, perciò divenne uno dei più importanti centri dell’arte dell’intaglio macedone con una scuola che perpetua e mantiene viva tuttora l’antica tradizione di un artigianato assurto a valore artistico.

Non sono note le prime opere a causa della deperibilità del legno che non le ha fatte preservare,  per cui non se ne ricorda neppure la data; vi sono, comunque, opere accertate del XIII secolo, come l’icona in rilievo del XIII sec. di san Clemente, il portale a un’anta della chiesa di san Nicola Bolnichki del XIV sec., l’iconostasi della  basilica minore dei Santi Medici del XV sec. 

Tra il XV e il XVIII sec. abbiamo un’ampia serie di opere per le chiese di Ohrid, con troni dei vescovi e sarcofaghi, iconostasi  e porte sante.

Successivamente all’arte sacra si aggiunge  quella profana, le famiglie benestanti di Ohrid  sono committenti dei maestri intagliatori di porte e armadi, credenze ed altro mobilio per le abitazioni.  

Nel secolo scorso, nel 1928, nel refettorio della chiesa della Santa Madre di Dio Peribleptos  di Ohrid  è stata aperta una scuola dì intaglio in legno riconosciuta nel 1932 come “Scuola statale di mestieri maschile”, che ha formato i maestri intagliatori fino al 1962. Anche dopo la chiusura della scuola l’arte dell’intaglio continua a trasmettersi da questi maestri e dai loro allievi ai giovani: attualmente a Ohrid sono  in attività  una trentina di  intagliatori.

La mostra  presenta una parte importante della collezione dell’Istituto  statale con un percorso cronologico,  partendo dalle opere più antiche del  XIV sec., fino a quelle del XX secolo e agli intagliatori contemporanei di 4 generazioni, eccone i nomi: Petar Kalajdzhi e Dimke Jankov, Slave Atanasovski-Krstanche e Cvetan Nicolovski, Ljuben Dzambazov e Stefan Grozdanoski, Ivancho Trenev e Dragan Neloski, Sasho Jankoski, Aleksandar Shishkoski e Goce Gjoreski.

Così conclude la presentazione:  “Questo testimonia come questa tradizione secolare, che coniuga il mestiere con l’arte, il talento e l’amore per il bello, sia tuttora viva e fiorente, volta a creare il nuovo nostro patrimonio culturale”.

Le immagini che accompagnano questo breve testo, pannelli ornamentali e icone sacre, non richiedono altri commenti, è stato un vero spettacolo la visita all’esposizione, la lunga galleria con ai lati i preziosi intagli  ci ha lasciati ammirati. Cerchiamo di trasmettere un po’ di quell’ emozione.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Ni Institute for Protection of the Monuments of Culture and Museum – Ohrid” diretto da Tanja Paskall Buntashesk, per l’opportunità offerta. Nel testo sono inserite 6 immagini sacre ad intaglio, vere icone lignee; al termine,  altre 6 opere lignee ornamentali ad intaglio.

Colombia, chiude “Roma verso Expo”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Chiusura in bellezza del programma “Roma verso Expo” al Complesso del Vittoriano. Dal 12 al 26 ottobre 2015 “La Colombia si presenta”  con la mostra “Jaime Arango Correa e gli erranti“, a cura di Bianca Laura Petretto, realizzata da “Comunicare Organizzando”  di Alessandro Nicosia, con la collaborazione di B & B Art Museo di Arte Contemporanea Italia Colombia e Casa d’Aste Arte in Net Repubblica di San Marino,  responsabile  mostra Cristina Bettini e  Federica Nicosia. Oltre alle opere del maestro Arango Correa quelle del suo movimento artistico degli “Erranti”,  in particolare di  Baraya e Becerril, Castro e Gòmez, Piedrahita e Restrepo, Vaca e Zuccardi Hernàndez, riprodotte nel depliant-catalogo.

Un’apertura in tono minore per l’ultima mostra al Vittoriano di Roma verso Expo”  che in un anno ha presentato molti paesi dell’Expo nel Complesso monumentale; all’Aeroporto Leonardo da Vinci conclusione con il Kenya.

Ha introdotto il presidente di “Comunicare Organizzando” Alessandro Nicosia, sottolineando che dall’ottobre 2014 si sono svolte ben 40 mostre di presentazione di altrettanti paesi tra il Vittoriano e il Leonardo da Vinci, vetrine  prestigiose. La curatrice Bianca Laura Petretto ne ha riassunto i contenuti e l’ambasciatore Juan Sebastian Betancur Escobar ha rivolto un indirizzo di saluto.

Le opere del maestro Arango Correa e la nostra maliziosa metafora artistica

E’ mancata la presenza annunciata del sindaco Ignazio Marino e dei due assessori Marta Leonori, sempre intervenuta alle altre mostre per l’Expo, e Alessandra Cattoi, la loro assenza era inevitabile per  le dimissioni del sindaco formalizzate in mattinata dopo quelle di altri tre Assessori.  

Ma per uno degli scherzi del destino un’opera del maestro Jaime Arango Correa ci è apparsa la metafora della vicenda capitolina:  “Tre sedie”, collage in arte povera  che le raffigura affiancate, quella centrale irta di chiodi nella spalliera e nel sedile: è venuto spontaneo pensare alla sedia del sindaco Marino, le altre due, che sembrano voler schiacciare quella centrale,  lisce e accoglienti per gli angeli custodi del PD, vice sindaco e assessore dimessisi entrambi per vincere la sua  resistenza.

Una licenza giornalistica troppo ardita la nostra? Forse, ma l’opera non figura, a differenza di tutte le altre, nel depliant-catalogo, quasi fosse un effetto speciale dell’ultim’ora, cosa che non è ma ci piace fantasticare. Che il motivo delle sedie su cui si concentra l’opera del Maestro sia allegorico lo ha detto anche la curatrice Petretto pur senza fare riferimenti: le sedie viste come potere, dialogo e anche il contrario, per cui la nostra maliziosa interpretazione ci sembra in linea con tali significati.

E così siamo entrati subito nel vivo della mostra, che continuiamo ad illustrare prima di presentare lo splendido Padiglione della Colombia all’Expo. C’è anche “La poltrona”, altrettanto irta di chiodi come la sedia sopra descritta, quasi a tormentare anche nel riposo, per proseguire nella nostra maliziosa metafora;  e “Les Papitres”, dei sedili con appoggio. Delle cinque opere selezionate per l’esposizione solo due con figure umane “Uomo” e “Donna”, ne esiste una terza con la “Coppia”, le altre sono sedie senza persone, tale è il significato allegorico che l’artista attribuisce a questo oggetto della quotidianità.  Sono di materiali poveri, cartone compresso con fibra e metallo (i chiodi) su un fondo bruno, come terra e sabbia, che dà alla raffigurazione un che di bassorilievo.

Nella sala con le 5 opere del maestro Arango Correa in un parete spicca la serie di 18 piccoli dipinti ad olio di tema erotico, con una tecnica che conferisce odori diversi a seconda del soggetto; ci siamo chiesti, con altrettanta malizia, se vengono utilizzati anche degli afrodisiaci. Ma non c’è da scherzare, il cromatismo è intenso e l’impasto materico pesante, sono molte forme associate in un insieme dal quale emerge, oltre al talento dell’artista, il suo sforzo di ricerca e  sperimentazione.

Così la Petretto: “Arango è un raffinato costruttore di macchine che creano parole, suggeriscono un pensiero traducibile. Un viaggio, dove la forma è sostanza, dove l’arte dell’essenza, della semplicità, è bellezza”, alla ricerca della perfezione “togliendo e non aggiungendo” per giungere alla radice.

Il maestro Arango Correa viene dalla scuola di Antoni Tapies  e fa parte della Fondazione Joan Mirò, lavora tra Spagna e Italia, le sue opere sono diffuse in Europa e in America Latina. Ha creato il movimento artistico degli Erranti, insieme a Bianca Laura Petretto,  una scuderia di giovani artisti le cui opere rappresentano l’altro momento della mostra, dopo quelle del Maestro fin qui citate.

Le opere esposte degli “Erranti” del maestro Arango Correa

Di Juan Manuel Baraya vengono presentate due immagini ravvicinate di Ruote di treno, una immagine grigia e l’altra rossa, motivo ricorrente sia come mezzo di trasporto di cose e movimento di persone, sia anche come veicolo di pensiero e azione artistica: anche qui il tema del viaggio.

Con le opere intitolate “Trama” e “Ossido”, Paola Becerril presenta immagini molto dense dal punto di vista materico e intriganti nel significato recondito,  poste al centro della prima sala in un’intelaiatura lignea, una è un intreccio raffinato, le altre sono percorse da larghe fenditure.

L’opposto in Andrea Castro, con le immagini leggere del lenzuolo disfatto e degli oggetti appesi a dei fili.

Con Maria Victoria Gòmez entra in campo la quotidianità ripresa nella fotopittura su tela della serie “Tensiones”, con immagini fotografiche ravvicinate di momenti intimi, come il primo piano di una mano, un dito  e altri particolari spesso indecifrabili per l’ingrandimento dell’assoluta “normalità”.

Una sorpresa la fornisce Maria Clara Piedrahìta con “No te puedes esconder”, tre quadrati con piccoli cerchi su un rosso granata intenso, e davanti una sedia per l’osservatore invitato a sedersi e guardarli con tre diversi supporti visivi – telai rettangolari con e senza delle grate – metafora di come la stessa realtà può cambiare a seconda di come la si guardi per “vederla” veramente.

Torniamo alla pittura con le “Casitas” di Julia Restrepo, sono 6 dipinti nel cromatismo intenso dei rossi e gialli su sfondo scuro, con delle schematizzazioni estreme di case che  ci ricordano quelle cui pervenne Giorgio Morandi assimilandole nella semplificazione alle sue celebri essenziali bottiglie.

Case anche  nelle opere di Lucìa Vaca, ma molto diverse, con Sedie e Porte di case, ben definite, in una serie di miniature con tante tessere, su ognuna si può costruire una storia, dice la curatrice.

L’ultima artista che citiamo è Liliana Zuccardi, vediamo le sue opere all’uscita dalla mostra, sono dipinti  in grafica e olio su carta in un grande album, della serie “Exudar”, tenui immagini floreali.

La varietà dei temi e delle forme espressive degli “Erranti” si inserisce nel  progetto e nella visione comune di “far dialogare l’estetica e la poetica con la necessità di dare un valore globale all’artista e alla sua opera, inserendo il concetto di valore economico come valore estetico. Essere artista significa anche produrre beni di natura intellettuale e materiale”, così la  Petretto.

Il Padiglione della Colombia all’Expo

Dopo questa immersione nel movimento degli “Erranti” e nelle opere del maestro Arango Correa, la presentazione della Colombia si sposta sul suo Padiglione all’Expo, che evidenzia l’impegno del paese nel campo dell’alimentazione facendo leva sulle diverse realtà climatiche ed ambientali.

Colpisce innanzitutto l’estensione del Padiglione, oltre 1900 mq, ma soprattutto la divisione nei 5 piani termici del paese che ne segnano il clima e le peculiarità naturali, geografiche ed economiche:  si va dal clima caldo a quello freddo con nevi perenni attraverso il clima temperato, condizioni variabili offerte in un “viaggio multisensoriale” nella struttura realizzata con maestria architettonica.

La diversità climatica fa della Colombia “una potenziale dispensa agricola per il pianeta”  e un’attrazione turistica potendovi trovare i paesaggi e le presenze naturali di un intero continente. Queste caratteristiche sono alla base del successo del Padiglione, incluso tra i “top10” dell’Expo.

In 24 giornate 900 imprenditori dei più diversi settori hanno presentato le eccellenze in campo industriale, commerciale e turistico della Colombia, che in un sondaggio è risultata il primo paese da visitare dopo l’Expo.

Un milione e mezzo di visitatori del Padiglione hanno conosciuto  le specialità gastronomiche colombiane, tra cui l’arepa di mais, le empanadas e il paiacòn, con 1000 coperti al giorno nel ristorante, 100.000 piatti tipici, 150.000 tazze di caffè vendute nella caffetteria e 9000 prodotti di artigianato.

L’arte e il pubblico, dagli “Erranti” ad “Accessible Art”

Con la  Colombia scende il sipario sulla meritoria iniziativa “Roma verso Expo” che ha fatto delle mostre al Complesso del Vittoriano e al Leonardo da Vinci – dove si chiuderà con il Kenya – una vetrina di alto prestigio ed efficacia promozionale della grande manifestazione di Milano il cui successo risulta innegabile per la spettacolarità dei padiglioni e l’alta qualità degli allestimenti, l’elevato numero di incontri di approfondimento delle tematiche vitali collegate alla nutrizione del pianeta e le prestigiose presenze, che hanno portato a visitatori record da tutto il mondo.

Abbiamo seguito direttamente la vetrina del Vittoriano che si conclude in questa mostra il cui valore artistico, con il significato simbolico per l’arte rispetto al pubblico, va ancora sottolineato.

Gli “Erranti” con il loro  “nomadismo intellettuale”, da “cittadini del mondo” e quindi “osservatori di mutamenti” svolgono la funzione primaria degli artisti, così espressa dalla Pedretto: “Trasportano nel viaggio creativo il valore della memoria, dell’appartenenza e della quotidianità, per uno scambio e una diffusione del pensiero e del gesto che è in continua evoluzione”.  C’è la necessità dell’artista “di trasportare significati che possono lasciare traccia”,  per questo va ricercato il contatto con il pubblico.

Viene da collegare questa impostazione con l’“Accessible Art” di Michele von Buren alla RvB Arts di Roma, impegnata a promuovere opere di giovani artisti perché possano penetrare nel pubblico con la loro accessibilità economica e la possibilità di inserimento negli ambienti familiari.

Del resto,  sugli “Erranti” la curatrice afferma: “Le opere degli artisti si propongono, senza perseguire mercati collaudati, in forma diretta a un pubblico che può stabilire un dialogo reale con l’artista per scoprire che ‘l’arte forma e informa, stimola e insegna a sentire'”. Il pubblico attraverso il contatto con l’artista viene a scoprire  “che l’arte produce non solamente idee, ma forme, oggetti, cose che portano e trasportano memoria, significati necessari”,  e che gli artisti percorrono “strade comuni, reali e virtuali e riconoscibili. Non celebrità irraggiungibili, ma persone che vivono praticando un mestiere speciale, quello dell’arte”. Questo oltre che per gli “Erranti”, vale per “Accessible Art”, gli artisti sono di casa a RvB Arts nell’abbattere ogni barriera con il pubblico.

E’ quanto si è fatto al Vittoriano con le mostre tematiche di presentazione dei paesi dell’Expo, che li hanno avvicinati al pubblico di visitatori nel complesso monumentale a Roma, in preparazione alla visita all’Expo a Milano; ed  è quanto continua a fare chi  cerca di promuovere l’arte presso il grande pubblico con  forme innovative e coraggiose meritevoli di essere valorizzate.

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini,  lato Fori Imperiali,via San Pietro in carcere. . Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica compresa, ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito fino a 45 minuti dalla chiusura.  Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le mostre precedenti al Vittoriano del progetto “Roma verso Expo”, nel 2015,  Slovacchia e Moldova  22 settembre , Mozambico e Sao Tomé7 luglio, Usa, Haiti e Cuba 3 luglio, Congo e Polonia 28 aprile, Tunisia e Dominicana  25 marzo, Grecia e Germania  22 febbraio,  Estonia  7 febbraio,  Vietnam  14 gennaio; nel 2014, Albania e Serbia  9 dicembre, Egitto e Slovenia 8 novembre ; per gli artisti citati, Mirò  15 ottobre 2012 e Morandi  17 e 25 maggio 2015; per il progetto e le  mostre di “Accessible Art”  la serie di 11 articoli: nel 2015,  3 aprile; nel 2014,  14 marzo e 17 giugno, nel 2013   27 febbraio e 26 aprile,  21 giugno, 5 luglio e 5 novembre, nel 2012,  21 novembre e 10 dicembre.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Vittoriano alla presentazione della  mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e il maestro Arango Correa con i suoi “Erranti”, gli altri artisti espositori. In apertura, Jaime Arango Correa, “Le tre sedie”, seguono, Arango Correa, “Uomo”,  e Juan Manuel Baraja, Ruote di treno; poi, Paola Becerril, “Ossido”, e Maria Victoria Gòmez, “Tensiones”; quindi Maria Clara Piedrahìta, “Nos te puedes escondere”,  eJulia Restrepo, “Casitas”; infine, Lucia Vaca, Miniature, e Arango Correa, “Donna” ;  in chiusura, Arango Correa, “La poltrona”.

Slovacchia e Moldova, l’Est europeo al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, nel quadro del programma di presentazione dei paesi presenti all’Expo, le mostre in successione sulla Slovacchia, dal  17 al 30 giugno 2015 e sulla Moldova dal  10 al 22 settembre. Dopo l’Africa e l’America si torna in Europa, e c’è subito l’impronta dell’arte, entrambi i paesi espongono opere di artisti che utilizzano diversi materiali  e forme espressive. Piuttosto che sulle caratteristiche locali è su questi artisti che si incentrano le due mostre, pur richiamando le principali  peculiarità anche con riferimento ai rispettivi padiglioni all’Expo.

 Slovacchia , piccolo grande paese senza mare

“La Slovacchia si presenta artisticamente”, si intitola significativamente la mostra richiamando il significato simbolico del  Vittoriano che “per gli slovacchi è un ritorno alle origini della propria storia”.  Infatti sulle sue scalinate i rappresentanti del governo italiano nel 1918 consegnarono a Milan Rastislav Stefanik, diplomatico, soldato e statista slovacco, la bandiera con la quale la legione cecoslovacca combatté sul Piave; ne seguì, da parte dell’Italia, come primo paese, il riconoscimento del diritto di slovacchi e cechi all’indipendenza nazionale.

E’  “un paese senza mare”, ma  “ricco di energia positiva, un luogo dove poter ‘ricaricare le batterie’. Una natura incontaminata, una cultura poliedrica, tradizioni e innovazioni”.

“Top Slovacchia” descrive il “piccolo grande paese”, le sue cime maestose e le pianure fertili, i grandi fiumi  e i piccoli torrenti, con dighe  e bacini che costituiscono “il mare slovacco” nel paese al centro dell’Europa; il tour delle attrazioni va dalla capitale Bratislava alle fortezze e castelli, dalla catena montuosa  del Tatra ai massicci più piccoli e alle altre attrazioni della natura, dalla via Gotica alla via del vino, dai luoghi dell’oro e dell’argento ai musei e alle gallerie dell’arte moderna.

La mostra raffigura  natura, città, persone nelle forme artistiche della scultura, pittura e fotografia.

Dinanzi al meritorio impegno di presentare una nazione attraverso la visione che danno i propri artisti, qualcosa va premesso sull’arte in Slovacchia. Come per altri paesi – ricordiamo l’Estonia, l’unico finora tra quelli visti al Vittoriano che si è presentato solo con i propri artisti-  gli influssi artistici dall’esterno sono stati filtrati e rielaborati in contaminazioni frutto di incroci e di unioni tra stili diversi, anche perché sono stati percepiti in ritardo e non direttamente, ma con sovrapposizioni; pertanto gli artisti slovacchi non si sono trovati dinanzi a correnti da seguire, ma a stimoli eterogenei provenienti da contesti storici e geografici differenti e spesso contraddittori, recepiti singolarmente senza gruppi organizzati.

Tutto questo – afferma Katarina Bajcurovà, della Galleria Nazionale Slovacca curatrice della mostra – “ha provocato nell’arte figurativa slovacca degli slittamenti nell’accezione e nella forma di correnti, tendenze e programmi con un carattere originario definito, portando più volte a una ‘colorazione’  autoctona, a una variante’diversa’… talvolta giungendo persino  a una ‘riscrittura’ eretica dei modelli europei”.

Vengono sottolineati gli ingredienti di tutto questo, in un fecondo incrocio di aspetti contraddittori: l’empirismo del substrato arcaico slovacco, in un mondo contadino cristallizzato seppure geniale, incrocia la sensibilità bizantina e la spiritualità cristiana; la razionalità e il concettualismo incrociano la visionarietà e i sentimenti;  l’apertura mentale e la speculazione intellettuale incrociano la giocosità;  l’introversione incrocia l’estroversione. “E potremmo aggiungere, è sempre la Bajcurova, il senso dell’assurdo, dell’ironia e del  grottesco, peculiarità dello status spirituale dell’Europa centrale, della quale la Slovacchia fa naturalmente parte”.

Quanto si è sottolineato va considerato storicamente nelle due fasi, prima  e dopo il raggiungimento della vera indipendenza con la Rivoluzione di velluto del 1989 e anni seguenti. Prima anche l’arte era ingabbiata in uno spazio politico chiuso dominato da un’ideologia non certo aperta alla creatività, si pensi al “Realismo socialista”  come pensiero unico obbligato nell’arte in Unione Sovietica e non solo; i giovani si erano già ribellati, ma solo con l’affermarsi della libertà potevano conoscere appieno e seguire le nuove tendenze e gli stimoli provenienti dal mondo esterno.

A questa apertura sul piano politico si è aggiunta quella nelle comunicazioni: “Il mondo globale, collegato attraverso i computer in una rete autostradale di informazioni, ha generato il fenomeno di un’arte senza confini,  e insieme ha fatto vacillare, nelle società dell’Europa orientale e centrale, fino a poco tempo fa chiuse, i concetti di espressività figurativa ‘nazionale’ e ‘locale'”.

Risultato: un’arte che rinuncia all’impegno politico e anche alla celebrazione dei valori, ma si concentra sulla quotidianità, dai grandi temi alle piccole vicende personali. Le tre espressioni artistiche della scultura, pittura e fotografia non sono chiuse in se stesse e concorrono a questa nuova poetica del reale.

I tre artisti, poco più che trentenni, esprimono questa visione moderna con forti radici nel passato.

Il pittore Jurai Kollàr, con molte esperienze all’estero, in particolare  a Parigi, fa entrare direttamente la vita che lo circonda nelle sue opere. Afferma lui stesso: “La pittura, per sua natura, è uno strumento sostitutivo della realtà che evoca un’atmosfera viva, realmente vissuta… è come un reportage giornalistico, che deve rendere eccezionale la realtà quotidiana  conservandone al tempo stesso l’autenticità. Lo fa con una pittura gestuale, geometrica, astratta, figurativa e ‘realistica’”, che fa pensare a immagini fotografiche viste anche attraverso degli spessi vetri, quindi come sfuocate, frammentate in reticoli, “come se osservassimo il mondo a occhi socchiusi oppure come se  ci avvicinassimo troppo alla superficie dell’oggetto che stiamo guardando”.  Per questo il figurativo, pur con particolari e dettagli, confina talvolta  con l’astratto.

Abbiamo i tre temi. La  Natura con “Rosa blu”, 2014,  “Giardino d’inverno”, 2009  e  “Chioma d’albero”, 2003; poi “Danubio. Lungo fiume”, 2011, e “Paesaggio rosa”, 2006. Sono dipinti molto diversi, nei primi tre un reticolo, tipo vetrata,  è posto a mo’ di schermo; i due successivi sono sfumati ed evanescenti, sul bianco e sul rosa.

Alla Città sono dedicati “Bratislava., via Raiskaa”, 2014, e “Bratislava, Petrzalka”, 2012, qui il cromatismo è invece intenso in composizioni senza persone, dove aleggia la solitudine.

L’elemento Umano nel suggestivo “Pony”, 2014, con la bambina in blu, dal cromatismo insieme forte e sfumato,  che evoca altre immagini ma nell’autonomia dell’artista; ancora più sfumato “Cani”,  2014.

Dalla pittura alla scultura con Stefan Papco,  che trova motivi di ispirazione nella  sua grande passione, l’alpinismo considerato come metafora  per istanze umanistiche e sociali. E’ assolutamente unica la sua espressione creativa, con il progetto “Bivacco”:  dopo aver scolpito in legno con criteri tradizionali la statua di un alpino a grandezza naturale, l’ha portata in alta quota ed esposta per tre anni su un parete in Norvegia e sugli Alti Tatra in Slovacchia mantenendola in collegamento telematico; la montagna slovacca con le sue vette assume per lui un significato altamente simbolico e fonte di nuove forme espressive.   

Il suo ultimo progetto, “I Cittadini” –  titolo che sembra una citazione dei “Borghesi di Calais”  di Rodin –  riguarda un gruppo scultoreo dedicato ai cinque protagonisti dell’alpinismo ceco e slovacco, che negli anni del totalitarismo erano simbolo dell’autorealizzazione con conquista della libertà personale dalla gabbia della cortina di ferro; anche i loro originali in legno, dai quali vengono tratti calchi in bronzo, vengono trasferiti in un ambiente alpino per costituirvi dei monumenti permanenti. “Nell’opera di Papco – commenta  la Baikurova – si osserva una curiosa inversione: la natura, il paesaggio spesso inaccessibile per i mortali, diviene una scena artistica personale, una galleria”. Va considerato che usa portare nelle gallerie anche “composizioni spaziali e nuove creazioni di conglomerati alpini”.

Questa volta la galleria diventa il Vittoriale, dove sono  collocate alcune di queste sculture a grandezza naturale al centro di una sala in modo altamente  suggestivo, sembra una sacra rappresentazione.

L’artista fotografico Jàn Kekeli si dedica al paesaggio in modo innovativo, arricchendolo  di elementi concettuali  in diverse forme espressive. I dittici di grande formato della serie “Immagini di paesaggio” – pur se le riprese dei monti Tatra e delle pianure sottostanti possono sembrare tradizionali – hanno la particolarità della divisione in due come da una fessura che li trasforma in visioni cubistiche o varianti stroboscopiche per gli scarti nella ripresa fotografica.  L’artista afferma: “Traggo ispirazione dalla pittura di paesaggio classica del XIX secolo, ma anche dai pionieri della fotografia di paesaggio slovacchi, come Karol Divald e Jindrich Eckert”, e, per il ciclo citato, da Fridich.

Una fotografia pittorica, dunque, con la ricerca compositiva e la cura dei particolari in forma di dittico. Ma non è classicista anche nei contenuti, c’è un moderno senso documentario,”le sue fotografie sono uno specifico, benché impercettibile, rapporto sullo stato di un paesaggio che nella sua essenza non è più romantico, ma modificato e contaminato dagli interventi dell’uomo, che per loro natura lo danneggiano, lo trasformano a propria immagine non sempre positiva”, conclude la curatrice. Lo vediamo soprattutto in “Mulino”, 2011con dei detriti in primo piano tra il corso d’acqua e l’edificio, mentre in “Il nero fiume Vah” spicca la ringhiera che rompe un paesaggio altrimenti incontaminato tra i monti e il fiume. In “Lago di montagna verde”, 2012,  vediamo il dittico con significative varianti, mentre “Sopra la cava”, 2012, è una straordinaria visione compositiva lunga 4 metri, con delle persone riprese in bivacco al limiti del bosco e nello sfondo sottostante edifici industriali visti attraverso dei rami leggeri, in un pittoricismo che è vera arte.

Moldova,  agricoltura e arte  

Anche la Moldova mostra alcune opere d’arte di tre propri artisti, quasi in parallelo con la Slovacchia, in una presentazione volta a far conoscere un paese anch’esso affrancato dai vincoli della cortina di ferro.

Ha  3,6 milioni di abitanti,  confina con Romania  e Ucraina ed è associato all’Unione Europea, dei filmati proiettati nella mostra realizzati con il progetto “Il Cuore della Moldova” illustrano le bellezze del territorio e presentano la cultura e il popolo moldavo.

Ha il suolo fertile e il clima temperato, per questo fin dall’antichità è stato gran produttore agricolo e fornitore di prodotti per l”Europa meridionale e orientale. Eccelle nella produzione  di vino,  e figura al 7° posto nella produzione di noci e frutta secca, prodotti che figurano in bella vista nelle vetrine al Vittoriano ; inoltre produce grano e derivati, frutta e verdura e carne da allevamento.  

Il simbolo prescelto per l’Expo è la mela, come colore del Padiglione progettato dall’artista Pavel traila e con altri richiami a una mela affettata, dal colore verde mela alle travi colorate, all’intera struttura che ne ha la forma. Una “grande mela”, non quella di New York, per un “piccolo paese”.

Se il simbolo è la mela, il tema prescelto, nell’ambito della “mission” dell’Expo è il sole, che con il suo calore è fonte di luce e di energia e nutre corpo e anima. Al di là del sole, anche la produzione di energia e la sua utilizzazione devono seguire l’approccio ecologico, come tutte le attività umane.

 I tre artisti della mostra al Vittoriano sono molto diversi per estrazione e forma espressiva, e concorrono a fornire una visione variegata dell’arte moldava.

Il primo è Vasile Botnaru, giornalista che dirige il canale moldavo dal nome eloquente, “Radio Free Europe”, ha studiato a Mosca e si è impegnato nel rinnovamento  giornalistico e mediatico del paese.  Il motivo centrale cui si ispira è il “Villaggio moldavo” come fonte di energia vitale.   Le sue grafiche utilizzano una tecnica che lui stesso definisce “enografica”, perché utilizza il vino, sono vivaci ed espressive; i soggetti rimandano alla vita quotidiana dei contadini e alle  loro tradizioni pittoresche, vi sono paesaggi della campagna moldava e volti, con le emozioni che sottendono e che suscitano.

Gli altri due artisti hanno entrambi stretti rapporti con l’Italia. Venceslav Codreanu, nato in Moldova ma trasferitosi a Roma dove lavora, si è accostato all’arte non frequentando scuole artistiche ma spinto dalla  passione per il legno con il quale realizza veri e propri mosaici scolpiti. Vediamo una serie suggestiva di immagini sacre, come la figura di Dio in trionfo nei cieli e il volto dell Madonna, scolpiti nel legno, si ispira anche a San Francesco, del quale viene citata un’espressione che sintetizza la visione dell’artista: “Chi lavora con le mani è un operaio, chi lavora con le mani e la testa è un artigiano, chi lavora con le mani, la testa e il cuore è un artista”.  Un crescendo di coinvolgimento personale, nel rispetto di ogni lavoro.

Mihail Ungurenau è giovanissimo, nato in Moldova nel giugno 1991, che a differenza di Codreanu  ha frequentato l’Accademia Belle Arti di Venezia dal 2012 ad oggi, ma al pari di lui continua nel  percorso artistico in Italia. La sua pittura rappresenta gli elementi tradizionali in uno stile moderno molto personale con una tecnica innovativa. Vediamo una sua composizione in cui affianca alberi e spighe  ben armonizzata nei suoi contrasti cromatici che la rendono vivida e brillante.

In definitiva, anche per la Moldova l’arte è l’interprete della fisionomia e delle tradizioni di un paese mediate la creatività dei suoi artisti. Ci sentiamo ancora di più di magnificare il programma delle presentazioni al Vittoriano, non solo come vetrina dell’Expo milanese sull’alimentazione, ma anche come vetrina ben più vasta dei paesi nelle loro risorse e nella loro cultura.

Info23, bilinghe italiano-inglese.

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini,  lato Fori Imperiali,via San Pietro in carcere. . Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica compresa, ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito fino a 45 minuti dalla chiusura.  Per la Slovacchia,  Catalogo “La Slovacchia si presnta. Roma verso Expo. Artisticamente…”, a cura di Katarina Bajcurovà, giugno 2015, pp 40, formato 23 x 23, dal catalogo sono tratte le citazioni dal testo. Per le mostre precedenti al Vittoriano del progetto “Roma verso Expo” cfr. , in questo sito, i nostri articoli:  nel 2015,  Mozambico e Sao Tomé7 luglio, Usa, Haiti e Cuba 3 luglio, Congo e Polonia 28 aprile, Tunisia e Dominicana  25 marzo, Grecia e Germania  22 febbraio,  Estonia  7 febbraio,  Vietnam  14 gennaio; nel 2014, Albania e Serbia  9 dicembre, Egitto e Slovenia 8 novembre.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Vittoriano alla presentazione delle due  mostre da Romano Maria Levante, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti e le ambasciate dei due paesi, per l’opportunità offerta .Per la Slovacchia, in apertura, “Stefan Papko, “Bivacco”, 2008-11; seguono, Juraj Kollàr, “Chioma d’albero”, 2012, e “Pony”, 2014; poi, Papko, “Cittadini, Stanislav”, 2014, e Jàn Kekeli, “Lago di montagna verde”, 2012; inoltre, per la Moldova, la nostra galleria presenta in apertura e chiusura una serie di quadri del “Villaggio moldavo”  di Vasile Botnaru;  tra queste due visioni panoramiche,  opere di altri due autori, Venceslav Codreau,  e Mihail Ungurenau.

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Giuseppe Ebreo, 4. La saga a lieto fine negli arazzi medicei

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della  nostra visita alla mostra “Il Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei  di Pontormo e Bronzino”,  che espone a Firenze, nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio, dal 15 settembre 2015 al 15 febbraio 2016, i 20 preziosi arazzi fiorentini sulle storie di Giuseppe Ebreo. E’ la fase conclusiva del tour espositivo  iniziato a  Roma, Palazzo del Quirinale,  Salone dei Corazzieri dal 12 febbraio al 12 aprile; proseguito a Milano, Palazzo Reale,  Sala delle Cariatidi dal 29 aprile al 23 agosto, mesi centrali dell’Expo. La mostra, organizzata e  realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è su iniziativa della Presidenza della Repubblica e del Comune di Firenze con il Comune di Milano, regista e curatore   Louis Godart, Consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico. Catalogo Skira, con 9 saggi critici, schede tecniche e  suggestive raffinate riproduzioni  dei 20 arazzi.  

il Salone dei Corazzieri durante la mostra al Quirinale

Come in ogni racconto a puntate che prosegue,  è d’obbligo iniziare con il riassunto delle puntate precedenti, cioè il contenuto dei primi 7 arazzi. Si inizia con “il sogno dei manipoli”, in cui Giuseppe si autogratifica con una visione che lo vede, attraverso le figure allegoriche dei covoni, in posizione di preminenza rispetto agli 11 fratelli; mette il “carico da undici”, per usare un termine popolare, nel raccontare ai fratelli, già risentiti con lui, analoga sua preminenza rispetto al Padre Sole e alla Madre Luna che gli si inchinano dinanzi.  Si scatena la loro violenza, lo gettano in una cisterna dalla quale viene estratto vivo da dei mercanti Medianiti passaggio per essere venduto come schiavo. Il lamento del padre Giacobbe, al quale i fratelli mostrano la veste insanguinata come prova che è stato ucciso da una fiera, si eleva in questa tremenda tragedia familiare. Dalla schiavitù lo liberano  i sogni, non quelli suoi che lo avevano esposto alla violenza dei fratelli, ma quelli di due dignitari in disgrazia incontrati nel carcere dove era stato gettato per sette anni a seguito della falsa accusa della moglie di Putifarre di averla insidiata, mentre al contrario lui aveva resistito, con la sua intemerata virtù, alle sue seducenti profferte. Interpreta correttamente la premonizione onirica, a Corte si festeggia il ritorno del coppiere miracolato, è la premessa dell’appassionante seguito della storia.

L’escalation del nostro eroe inizia con l”8°  arazzo, “Giuseppe spiega il sogno del Faraone delle vacche grasse  e magre”, l’ambientazione è stabilmente nella Corte reale simile a quella medicea, il Faraone ha le sembianze di Cosimo, mentre Giuseppe, giovane e avvenente in ginocchio davanti a lui, gli spiega il sogno che si vede in una  finestra con le fatidiche vacche. Le 7 grasse e le 7 magre che le divorano, con le 7 spighe piene e le 7 spighe vuote che fanno altrettanto, premonizione della carestia che seguirà gli anni di abbondanza. Di qui la decisione di dar credito alla predizione di Giuseppe e seguire il suo consiglio di accumulare le provviste per la carestia, cosa possibile  data l’opulenza dei raccolti nei primi 7 anni; il Faraone per gratitudine e fiducia lo nomina viceré d’Egitto e gli affida l’amministrazione.

I primi momenti con i fratelli, nell’alternanza di atteggiamenti

A questo punto negli arazzi che seguono si dipana una saga familiare, pur se l’ambientazione resta quella della Corte del Faraone in cui è impersonato il Ducato mediceo e Cosimo stesso. Si comincia con  il 9° arazzo, “Vendita del grano ai fratelli”, nel livello superiore c’è Giuseppe vicerè, con una barba che lo rende più autorevole, mentre accusa di spionaggio ai danni dell’Egitto i fratelli che ha riconosciuto senza essere riconosciuto da loro;  ma poi concede il grano che chiedono, come si vede nel livello inferiore dove sono ritratti mentre caricano grandi sacchi di grano sui muli. Manca un terzo della superficie dell’arazzo perché è sagomato per ricavarvi lo spazio della porta che non poteva essere coperta dal tessuto, per cui rimane un vuoto.

Le scene proseguono nei termini biblici nel 10° arazzo,  “Giuseppe prende in ostaggio Simone”. Non si limita a consegnare il grano perché  prosegue nel suo disegno recondito, che sarà chiaro solo alla fine e, come nelle storie a “suspence”,  qui non viene anticipato. Per attuare tale disegno occorre che uno dei fratelli  resti come ostaggio;  secondo la storia biblica sarebbe stato restituito solo in cambio del minore Beniamino. Viene scelto il secondogenito Simeone, la scena occupa l’arazzo verticale, con Giuseppe nella consueta veste rossa e celeste che domina la scena dall’alto indicando  l’ostaggio che viene trascinato  in catene sulla destra; mentre in primo piano sulla sinistra il fratello Giuda si dispera con le braccia alzate ripreso di spalle in un’inquadratura quanto mai moderna. E’ terribilmente spaventato da quella che sarà la reazione del padre Giacobbe che dopo aver perduto il primogenito Giuseppe teme di aver perduto  un altro figlio e non vuole consegnare Beniamino, prediletto perché è il minore, che sarebbe il terzo ad essergli portato via.

Ma la forza degli eventi piega anche la sua strenua resistenza. La carestia si aggrava, serve altro grano, i fratelli sono costretti alla nuova missione in Egitto, il padre deve rassegnarsi alla partenza di Beniamino. Nell’11° arazzo, “Beniamino ricevuto da  Giuseppe”, di andamento verticale, nella parte superiore gli inservienti trasportano il vasellame in preparazione del pranzo, ma la parte centrale è dominante, Giuseppe negli abiti che conosciamo abbraccia amorevolmente il giovane Beniamino a lato di una colonna su un podio sotto al quale gli altri fratelli si sbracciano nel presentargli i doni che hanno portato per ingraziarsi la sua benevolenza dovendo richiedergli nuovamente del grano dopo la prima visita conclusa lasciando  in ostaggio il secondogenito.

15. “Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli
e congeda gli Egiziani”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze

Continua l’alternanza, protagonista il minore Beniamino

Il clima è festoso e culmina nel 12° arazzo,  “Convito di Giuseppe con i fratelli“,  un grande simposio raffigurato in modo scenografico, con evidenti richiami alla reggia medicea. E’ un’architettura solida e armoniosa, c’è una lunga scalinata centrale, la sala ha tre tavoli:  in quello rotondo al centro c’è Giuseppe, ormai inconfondibile per fattezze, posa statuaria e cromatismo della veste, nel tavolo anch’esso tondo alla sinistra i dignitari egizi, nel lungo tavolo rettangolare a destra i fratelli, in  ordine di età,  a capo tavola il maggiore, Ruben, con le fattezze di Cosimo, poi Simeone e Levi, Giuda e Zebulon, Isaccar e Dan, Gad e Asher, Naftali e, in fondo,  il minore,  Beniamino, che  guarda amorevolmente Giuseppe anche se siede lontano da lui. In alto, al primo livello altri dignitari che non partecipano al pranzo, una donna con bambino che scende lungo la scalinata e un mendicante appena visibile sulla destra, simboli delle virtù caritatevoli attribuite al duca Cosimo.

Tutto risolto, dunque, con questa celebrazione festosa e il successivo ritorno dei fratelli dal padre Giacobbe con i loro cavalli carichi del grano avuto di nuovo da Giuseppe? Lo narrazione biblica indica le complicazioni che puntualmente il 13° arazzo raffigura, rappresentando “La coppa di Giuseppe ritrovata nel sacco di Beniamino”. Ne abbiamo accennato, è un altro tassello per la realizzazione del progetto che Giuseppe ha in mente: ha fatto mettere di nascosto la propria Coppa d’argento alla quale erano riferite le sue doti divinatorie nel sacco di Beniamino, e ha fatto sì che  il Faraone mandasse delle guardie a perquisire la carovana rimessasi in viaggio per la terra di Canaan. “Avete rubato la coppa più bella  e più preziosa del nostro padrone”, l’accusa a Beniamino da parte dell’araldo. Giuseppe invece non appare, è l’unico arazzo in cui manca il protagonista, presente in tutti gli altri in posizione dominante e c’è un motivo: viene fatta marcare così un’estraneità allo stratagemma di accusare un innocente con prove false prefabbricate, che non farebbe onore alla sua rettitudine, ma viene considerato ispirato da Dio e messo in atto dall’araldo, non da Giuseppe.

E’ come ricominciare da capo, perché Beniamino è imputato di un grave reato e viene ricondotto a Corte:  cosa farà Giuseppe per punire il reprobo cui pure aveva elargito il suo affetto, oltre al grano per i fratelli? Il racconto biblico rassicura, il 14° arazzo lo mostra, “Giuseppe trattiene Beniamino” ,il tessuto è molto deteriorato e alquanto sbiadito, la composizione in verticale è ardita con quattro figure che si innalzano l’una sull’altra: in vetta la moglie di Giuseppe, rara presenza la sua, che riceve la Coppa, che sembra d’oro e non d’argento, dall’araldo, poi la figura imponente di Giuseppe che con la destra trattiene Beniamino e con la sinistra indica il carcere mentre alla base la quarta figura è del fratello Giuda che ancora una volta, come al momento della presa in ostaggio del fratello Simone, viene ripreso di spalle a torso nudo mentre si dispera cercando di impietosire Giuseppe proclamando l’innocenza del fratello e prefigurando il dolore del padre che crede di aver già perduto un figlio molto amato della cui morte loro stessi si sentono colpevoli.

16.”Giuseppe perdona i fratelli”, 1550-1553,
Bronzino, Karcher, Firenze

Dall'”agnitio” all’apoteosi familiare  

Siamo alla “agnitio”, nel 15° arazzo”, “Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli, e congeda gli egiziani”, la premessa è che Ruben e Giuda, presi da parte gli altri fratelli, con l’angoscia di dover perdere Beniamino, ricordano loro il crimine commesso contro il fratello Giuseppe,  una vera catarsi, dunque. La scena è commovente, Giuseppe si asciuga le lacrime mentre Beniamino gli bacia le mani, ha rivelato la sua identità che il fratello minore aveva forse già immaginato, quindi si dà pieno sfogo all’amore fraterno; vengono allontanati i dignitari egizi per non farli assistere a una scena familiare e poi perché del tutto estranei a un momento intimo, ricco di valori e significati. In primo piano due figure in grande rilievo, mentre Giuseppe è in alto in secondo piano, potrebbero essere Giuda e Beniamino e rappresentare, come di consueto in questo ciclo di arazzi,  la prima parte della vicenda che si conclude in alto con l’ “agnitio”; forse per questo motivo l’arazzo era stato intitolato “Giuda chiede la libertà di Beniamino”.

Il diapason della commozione si raggiunge con il 16° arazzo, “Giuseppe perdona i fratelli”, in un’ambientazione imponente, la scena si allarga rispetto all’arazzo precedente, sempre nel palazzo mediceo con le sue colonne, gli archi e le lunette con scene allegoriche, come la primogenitura biblica. Ma Giuseppe non è sul trono né in posizione dominante, è tra i fratelli che prende per mano mentre si gettano ai suoi piedi con le espressioni stravolte dal dolore per il male compiuto di cui ora si rendono pienamente conto dinanzi al perdono del fratello che si è rivelato a loro facendosi riconoscere. In alto, da una finestrella, alcuni egiziani assistono alla scena, sembra che lo stesso Faraone avvertì dalle grida che qualcosa di insolito stava avvenendo.  Godart riporta le parole che Filone attribuisce a Giuseppe:  “Il fratello che avete venduto sono io, non abbattetevi, io perdono”, e quelle che ne descrivono gli effetti: “I fratelli sbigottiti per la paura stavano con gli occhi rivolti a terra come sotto la spinta di una forza irresistibile”, il Bronzino ha reso la scena con straordinario dinamismo. Del resto la Bibbia non dà troppe responsabilità ai fratelli, sono stati strumento del disegno divino che si va attuando. Abbiamo già descritto molte tessere del mosaico del disegno, ci avviciniamo al termine quando potremo descriverne il completamento.

17. “Incontro di Giuseppe con Giacobbe in Egitto”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze

Ormai si procede speditamente, nel 17° arazzo vediamo l’“Incontro di Giuseppe con Giacobbe in Egitto”, era questo l’obiettivo finale del disegno divino di cui Giuseppe è stato lo strumento, e per ottenerlo sono stati necessari tutti i passaggi della storia, anche quelli apparentemente perversi. Senza la violenza dei fratelli Giuseppe non sarebbe mai andato in Egitto e non vi avrebbe ricoperto una posizione di spicco per volontà del Faraone; senza prendere in ostaggio prima Simone poi il minore prediletto Beniamino con lo stratagemma della Coppa d’argento nel suo sacco non avrebbe dato corso all'”agnitio” e convinto il padre a raggiungerlo. Siamo al “clou”, il momento dell’incontro con il padre nella reggia. In prima fila, ma senza la consueta posizione dominante, Giuseppe si inginocchia davanti al padre sorretto dal fratello Giuda, mentre l‘altro fratello, forse Ruben, dalla folta barba e in tunica rosa,  li sovrasta. Nessun segno distintivo dell’alta posizione ricoperta nella Corte del Faraone per Giuseppe, forse per valorizzarne l’attività di amministratore oculato al servizio della gente, rappresentata nel livello superiore dal movimento di popolo  visualizzato nel carro con diverse donne e un bambino, “E’ il popolo di Israele che si sposta in Egitto”, commenta Godart, anticipazione dell’arazzo successivo  in cui questo diventa più evidente.

Protagonista il patriarca Giacobbe, da Canaan all’Egitto e ritorno

Il 18°arazzo si intitola infatti “Il Faraone accetta Giacobbe nel suo regno”, che vuol dire accettare la sua gente cui viene concesso di sistemarsi vicino al delta del Nilo dove potrà praticare la pastorizia. E’ il disegno divino che si compie, e riguarda la sorte di un popolo, per la quale valeva la pena sottoporre a vicende così tormentate Giuseppe e i suoi fratelli, con il padre Giacobbe. Il Faraone in persona nella parte superiore dell’arazzo indica la terra assegnata, dicendo che è “la parte migliore del paese”: si apre un orizzonte vastissimo, un paesaggio marino con una pianura solcata da un fiume,  si intravedono ruderi romani, ricordano il Colosseo, la Colonna Traiana e l’acquedotto cui rimandano le discendenze addirittura da Noè del popolo fiorentino e toscano. Il Faraone con le fattezze di Cosimo è al centro vicino al robusto tronco che simboleggia la sua dinastia. Non è tutto, in primo piano un gruppo di donne dalle forme floride, a sinistra Tamar, la moglie di Giuda, destinato alla primogenitura delle tribù di Israele, a destra Dina, l’unica figlia di Giacobbe tra i 70 discendenti del patriarca trasferitosi in Egitto; la sua figlia si identificherebbe con la moglie egiziana di Giuseppe, che per questa provenienza non sarebbe “infedele”.

18. “Il Faraone accetta Giacobbe nel regno”, 1553,  
Bronzino, Rost, Quirinale

Dopo aver benedetto addirittura il Faraone, nel 19° arazzo “Giacobbe benedice i figli di Giuseppe”, scena drammatica con il patriarca morente su un letto monumentale dal baldacchino azzurro. E’ molto affollata, le figure sono in piedi con un vivo cromatismo nelle vesti, solo i figli sono in ginocchio ed in fila in ordine di età: si tratta dello scambio di benedizione della primogenitura. E qui  la lettura della scena di Godart  rivela un significato ben più profondo del momento rituale: la mano destra di Giacobbe è poggiata sulla testa del più giovane Efraim, e non del più grande, Manasse, come sarebbe stato normale, e per questo incrocia le braccia mentre lo stesso Giuseppe cerca di indirizzargli la mano verso Manasse, e così la  moglie Asenet. Manasse rappresenta gli Ebrei,  mentre Efraim i Gentili, quindi in tale scelta c’è la predestinazione sul futuro del popolo. Vi si attaglia al riferimento alla dinastia medicea, Cosimo era divenuto duca pur essendo ultimogenito come Giuseppe e di un ramo cadetto; anche la sua successione darà il governo di Firenze al terzogenito Francesco, e non al primo Francesco che sembrava predestinato dagli astri.

Siamo giunti così al termine delle storie di Giuseppe, il 20° arazzo raffigura la “Sepoltura di Giacobbe”, è verticale con il motivo stilistico moderno che abbiamo già sottolineato delle due figure in primo piano riprese di schiena. L’ambientazione cambia radicalmente, non più la grandiosa architettura e gli arredi sontuosi della Corte del Faraone in stile mediceo, ma la caverna con la tomba di Abramo, nella sua terra,  dove il patriarca aveva chiesto di essere sepolto; anche qui il riferimento alle tombe medicee è d’obbligo. La Bibbia descrive la solenne traslazione della salma dall’Egitto con tutti gli anziani del regno in un imponente corteo funebre scortato dalla cavalleria  del Faraone; l’arazzo ritrae il momento finale  nel ristretto spazio della caverna dove si accalcano diverse figure con al centro l’officiante dal copricapo a due cuspidi, come una mitria vescovile, le fattezze sono di Giuseppe anche se non era sacerdote. Tra i fratelli addolorati si distingue il minore, Beniamino, sempre lui, che porge  al celebrante la cosiddetta “coppa dell’aruspicina, della divinazione” , con gli organi di Giacobbe imbalsamato; e due personaggi, Filone e Cosimo, neppure loro sacerdoti.  Sullo sfondo delle donne, una con il bambino in braccio. Un finale in cui dopo la solennità e il grandioso  c’è il momento del raccoglimento e della meditazione, come in tutte le esequie.

19. “Giacobbe benedice i figli di Giuseppe”, 1550-1553,
Bronzino,  Karcher, Firenze

Conclusione

Termina così la carrellata dei 20 arazzi sulle Storie di Giuseppe, come un fotoromanzo: immagini  figurative in una sostanziale omogeneità stilistica nonostante il passaggio da Pontormo a Bronzino con l’intervento anche di Salviati.  Tutti sottoposti ad interventi di restauro, alcuni ultimati nel 2009.

Il Catalogo della mostra ne dà conto in  dettaglio in schede tecniche molto particolareggiate, con la spettacolare galleria dei 20 arazzi che accompagna le otto note critiche introduttive tra le quali “Cosimo I de’ Medici e le Storie di Giuseppe”, di Louis Godart, dal quale  abbiamo tratto gli elementi per la nostra carrellata. Che è stata quanto mai rapida e sommaria rispetto alla dovizia di  notizie e di colti  riferimenti anche alle altre raffigurazioni sullo stesso tema presenti nel suo scritto. . Intendiamo anche sottolineare l’estrema ricchezza e raffinatezza delle riproduzioni contenute nel Catalogo: non solo gli arazzi ad uno ad uno nella loro magnificenza visiva, ma particolari ingranditi per sottolinearne gli aspetti salienti.

Viene dato conto con un’analisi quanto mai approfondita, delle  modalità con le quali si è proceduto nel tempo ai successivi restauri, su un materiale così delicato come quello degli arazzi; nei quali, a differenza dei restauri delle  pitture su tela o su tavola, non è possibile distinguere gli interventi sull’immagine da quelli sul supporto di base in quanto struttura e figurazione coincidono essendo date dai fili colorati nelle trame che compongono al contempo figura e  tessuto.  Alle lacune per il deterioramento si è sopperito consolidando la struttura e creando con la componente cromatica  il collegamento tra le zone integre come compensazione delle figure mancanti non ricostruite.  

Il rapporto tra i cartoni con la figurazione pittorica e la trasposizione negli arazzi è di notevole interesse perché spesso in questo campo i vincoli tecnici del tessuto prevalgono sul lato artistico, nel senso che le esigenze tecniche della tessitura condizionano il modello pittorico. Quando l’arazzo venne utilizzato in Europa per celebrare la potenza dei sovrani, invece il pittore prevalse sul’arazziere.

“Nella Firenze di Cosimo I – osserva Clarice Innocenti –  dove l’arazzeria nacque con il principale scopo di competere con la magnificenza della pittura parietale e con il suo portato celebrativo, la sostanziale indifferenza alle esigenze della tecnica condusse infatti alla creazione di cartoni che costituirono una vera  e propria sfida per gli arazzieri, chiamati a trasferire nella tessitura chiaroscuri, sfumature, dettagli di tipo squisitamente pittorico”.

Entrando nello specifico, aggiunge: “La visione ravvicinata nelle Storie di Giuseppe  lascia increduli davanti alla resa minuta e perfetta, vera  e propria trasposizione virtuosistica dei movimenti del pennello in mano al pittore”; per di più su una vicenda biblica appassionante che Godart ci ha fatto ripercorrere arazzo per arazzo. E’ altamente meritevole aver consentito di vivere queste emozioni ai visitatori di Roma e Milano ed ora, per cinque mesi, ai visitatori di Firenze.

Non solo emozioni, ma anche riflessioni indotte dai numerosissimi richiami simbolici, a riprova di una intensa elaborazione culturale su cui Godart così si esprime: “Le numerose allegorie elaborate relativamente alla vita del patriarca, inteso come uomo politico e perfetto amministratore della cosa pubblica, offrivano supporti ideali alle istanze celebrative di Cosimo, ma non spiegano del tutto il complicato sovrapporsi dei messaggi talvolta oscuri contenuti negli arazzi, che effettivamente rimandano a un orizzonte culturale assai più vasto e complesso”.

Ci sembra una degna conclusione che associa la cultura all’arte e aggiunge il mistero alla magnificenza.

20. “Sepoltura di Giacobbe, 1553, Bronzino, Rost, Quirinale

Info

Palazzo Vecchio, Firenze, Piazza della Signoria, Sala dei Duecento. Fino al 30 settembre tutti i giorni escluso il giovedì ore 9-23,  giovedì ore 9-14; dal 1° ottobre chiusura alle 19 invece che alle 23, giovedì orario invariato. Ingresso 2 euro.  Catalogo “Il principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino”, Skira, febbraio 2015, pp. 366, formato 24,5 x 31, con saggi di Godart, Acidini, Natali, Risaliti, Dolcini, Ciatti, Innocenzi, schede tecniche e galleria iconografica della collezione fiorentina e del Quirinale. Dal Catalogo, fornito con squisita cortesia dal Consigliere Godart, che  si ringrazia sentitamente, sono tratte le citazioni del testo. Cfr. in questo sito, i nostri primi due articoli sulla mostra il  13  e 15 settembre  2015, con riprodotti i primi 14 arazzi delle storie di Giuseppe.

Foto

Le immagini degli arazzi sono state fornite dall’organizzazione della mostra, in particolare da “Comunicare Organizzando”, che si ringrazia;  l’immagine  di apertura del Salone dei Corazzieri al Quirinale, durante l’esposizione romana dal  12 febbraio al 12 aprile 2015, è stata tratta dal sito web roma.fanpage.it, al titolare  va il nostro ringraziamento; l’immagine di chiusura dello stesso Salone dei Corazzieri è stata ripresa da Romano Maria Levante la mattina della presentazione della mostra a Roma.  Dei singoli arazzi –  riprodotti in sequenza nei tre articoli secondo la successione della storia, e commentati uno per uno in questo articolo e nel precedente – vengono riportati il titolo che ne riassume il contenuto e l’anno, l’artista autore del disegno e cartone (Bronzino, Pontormo, Salviati), l’atelier del tessitore (Karcher, Rost),  e la serie di appartenenza (Firenze, Quirinale). In apertura, il Salone dei Corazzieri durante la mostra al Quirinale; seguono, 15. “Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli e congeda gli Egiziani”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze, e 16. “Giuseppe perdona i fratelli”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze poi 17. “Incontro di Giuseppe con Giacobbe in Egitto”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze, e 18. “Il Faraone accetta Giacobbe nel regno”, 1553,  Bronzino, Rost, Quirinale; quindi 19. “Giacobbe benedice i figli di Giuseppe”, 1550-1553, Bronzino,  Karcher, Firenze e  20. “Sepoltura di Giacobbe, 1553, Bronzino, Rost, Quirinale; in chiusura, la nostra ripresa del Salone dei Corazzieri alla presentazione della mostra con il consigliere Godart e il sindaco di Firenze Nardella, in una suggestiva dissolvenza con cui ci accommiatiamo dai lettori. 

La nostra ripresa del Salone dei Corazzieri alla presentazione della mostra con il consigliere Godart e il sindaco di Firenze Nardella, in una suggestiva dissolvenza

Giuseppe Ebreo, 3. Il Principe dei sogni negli arazzi medicei

di Romano Maria Levante

La mostra “Il Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei  di Pontormo e Broonzino”,  espone a Firenze, nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio, dal 15 settembre 2015 al 15 febbraio 2016, i 20 preziosi arazzi fiorentini sulle storie di Giuseppe Ebreo,  con un’iniziativa della Presidenza della Repubblica e del Comune di Firenze insieme al Comune di Milano. Il ritorno nella sede originaria per cinque mesi rappresenta il culmine del tour espositivo iniziato a  Roma, Palazzo del Quirinale,  Salone dei Corazzieri dal 12 febbraio al 12 aprile; con lo spostamento a Milano, Palazzo Reale,  Sala delle Cariatidi dal 29 aprile al 23 agosto, mesi centrali dell’Expo. La mostra, organizzata e realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è curata da Louis Godart, Consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico, Catalogo Skira con 9 accurati saggi critici, schede dettagliate e  immagini raffinate.

La  Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale
durante l’esposizione milanese svoltasi dal 29 aprile al 23 agosto  2015

Abbiamo già rievocato le tormentate vicende degli arazzi, dalla separazione tra Firenze e il Quirinale ai restauri nelle due sedi dove sono stati collocati prima dell’attuale ricomposizione per la mostra;  inquadrandoli nell’arazzeria fiorentina e nella magnificenza di Cosimo de’ Medici.

Furono separati in due raccolte  fin dal 1865 allorché 10 di essi furono spostati da Palazzo Chigi a Palazzo Pitti  come dotazione della corona e successivamente portati a Roma al Quirinale allora reggia dei Savoia; la delicatezza della trama e dell’ordito in cui figura e supporto coincidono hanno richiesto il lungo  restauro dei  430 metri quadri di arazzi, con l’uso solo dell’ago e filo svolto per trent’anni nel Laboratorio fiorentino dell’Opificio delle Pietre Dure per 129.000 ore e, in parallelo, presso l‘apposito Laboratorio specializzato istituito al Quirinale con l’intervento specialistico fiorentino.

Questi arazzi si inquadrano nello sviluppo delle arti a Firenze, che non poteva più ammettere di essere dipendente per gli arazzi dal Nord Europa con le sue raffigurazioni gotiche ben diverse da quelle rinascimentali; a tal fine vennero reclutati tessitori fiamminghi per produrre arazzi con disegni fiorentini,  per i 20 arazzi medicei Nicolas Karcher e  Jan Rost, su cartoni di Pontormo e Bronzino, con un ruolo minore di  Salviati.

Va ricordata anche  la volontà del reggitore di Firenze Cosimo de’  Medici  di dare forte sviluppo alle arti anche in funzione celebrativa della sua figura;  a tal fine le storie di Giuseppe Ebreo fornivano l’immagine ideale dell’uomo di stato illuminato che sentiva di essere e voleva diffondere anche con questi mezzi fortemente evocativi.

A questo punto riteniamo opportuno delineare gli aspetti principali del testo da cui è liberamente tratta  l’intera storia trasferita in immagini quanto mai elaborate e suggestive: è la migliore preparazione alla visione degli arazzi per apprezzarne  meglio il contenuto narrativo.

8. “Giuseppe spiega il sogno del Faraone delle vacche grasse e magre 1548, Salviati,  Karcher, Firenze

Origine e significato delle storie di Giuseppe Ebreo

E’ la  Bibbia  la base delle storie di Giuseppe, che  nascono dall’esigenza di dare una spiegazione alla presenza degli ebrei nel XIII sec. a. C. come schiavi in terra d’Egitto  lontani dalla terra promessa di Canaan,  e soprattutto di “tessere la grande  epopea della loro liberazione”. Precisamente il Libro della Genesi, passi dal 37° al 49°.

Louis Godart  cita la tesi avanzata dello studioso Graham Smith, il quale nel 1982 formulò l’ipotesi che, oltre alla fonte biblica, gli autori degli arazzi possano aver utilizzato anche  il “De Josepho” di Filone d’Alessandria, ben noto a Firenze fin dal Medioevo, per le allegorie relative alla vita del patriarca come uomo politico e perfetto amministratore della cosa pubblica; ma aggiunge che queste “non spiegano del tutto il complicato sovrapporsi dei messaggi talvolta oscuri contenuti negli arazzi, che effettivamente rimandano a un orizzonte culturale assai più vasto e complesso”.

Nella figura di Giuseppe Ebreo, a quegli aspetti agiografici se ne aggiungono altri più penetranti in carattere con i tempi. “Il primo è indubbiamente l’oniromanzia, la capacità di decifrare e interpretare i sogni. Il sapiente, come scrive Ravasi, è colui che sa capire non soltanto ciò che è oggetto dell’esperienza sensoriale ma anche ciò che va al di là della pellicola misteriosa del sonno in cui l’uomo vive una sorta di esperienza di morte. Giuseppe capace di interpretare i sogni ricorda la sacerdotessa di Apollo” cui si rivolgevano come “l’interprete di Dio”. Per questo  è definito, nel titolo della mostra, “il principe dei sogni”, che nella sua storia sono elementi decisivi.

Il secondo aspetto evidenziato da Godart è la politica: ” Il sapiente deve essere capace di governare e di tenere saldamente in pugno le redini dello Stato”, e nelle storie di Giuseppe Ebreo ci sono decisioni provvidenziali per il suo paese; poi la capacità di sfuggire alle seduzioni e la magnanimità.

“Giuseppe seppe trionfare su tutte le insidie poste sulla sua strada, farsi valere agli occhi dei potenti, recitare un ruolo di primo piano nella gerarchia dell’impero faraonico”. Per questo la sua “immagine di un uomo mite e probo, capace di sfuggire agli invidiosi, di conquistare una posizione importante partendo dal nulla e contando solo sulle sue qualità intellettuali, era una vera  propria metafora delle alterne fortune della grande famiglia fiorentina”.  

Per concludere, con Godart:  “Attraverso la realizzazione di questi venti arazzi la Corte dei Medici volle quindi che fosse raccontata la storia dell’eroe biblico, le cui vicissitudini tanto somigliavano alla loro saga dinastica”.

La vicenda segue  i passi biblici della Genesi dove la tormentata epopea degli Ebrei, dalla schiavitù in Egitto al riscatto, viene riflessa nelle storie di Giuseppe, da schiavo a Vicerè ‘d’Egitto.

Non  ci resta che dare conto della visita alla mostra, avvenuta al Quirinale il giorno della presentazione, mentre Louis Godart  illustrava  ad uno ad uno gli affreschi, nelle scene raffigurate e negli aspetti stilistici, nel Salone dei Corazzieri. La penombra era squarciata dai fiotti di luce degli affreschi  illuminati, dando la sensazione che poteva esservi alle origini “soprattutto accogliendo l’ipotesi recente – scrive  Loretta Dolcini – che il ciclo tessile dovesse avvolgere tutte le pareti senza soluzione di continuità, sovrapporsi alle finestre, sovrastare le porte, inghiottire i presenti in una vertigine di corpi giganteschi in movimento, di bagliori d’oro e d’argento, di cromie accese”.

Lungi da noi la presunzione di  far sentire il fascino e far apprezzare i contenuti della sfilata dei 20 arazzi, cercheremo solo di raccontarli basandoci sulla colta e approfondita analisi di Godart ascoltata dalla sua viva voce e rivissuta nell’ampio capitolo inserito nel monumentale Catalogo.

9. “Vendita del grano ai fratelli”, 1547, Bronzino, Rost, Firenze

La narrazione biblica delle storie di Giuseppe Ebreo

Una sintesi della narrazione biblica aiuta a seguire meglio la raffigurazione scenografica, che ne fissa i momenti salienti nella ricchezza degli arazzi in cui sono impresse le singole scene.

Giuseppe, prediletto del padre Giacobbe, suscita la gelosia degli 11 fratelli che si tramuta in odio quando racconta un sogno nel quale i loro 11 covoni si prostrano davanti al suo covone e un altro sogno nel quale si prostrano dinanzi a lui  sole, luna e stelle. I fratelli vorrebbero ucciderlo, poi il maggiore Ruben convince gli altri a gettarlo  in una cisterna, e pensano di venderlo a degli Ismaeliti, ma lo fanno alcuni Medianiti, mercanti di passaggio.  Ruben non trovandolo più nella cisterna, d’accordo con gli altri fratelli porta una sua tunica macchiata di sangue al padre Giacobbe che lo piange come morto.

Dai Medianiti viene venduto  al consigliere e capo delle guardie del Faraone, Putifarre  che, conosciutone il valore, lo nomina suo servitore e gestore dei suoi beni. Poi, come in una telenovela moderna,  la moglie di Putifarre se ne innamora e gli dice “unisciti a me”, ma lui la respinge per non mancare alla fiducia di Putifarre e per non peccare. Nel fuggire alla  presa di lei, le lascia la tunica nelle mani e la donna, con questa prova, si vendica accusandolo ingiustamente davanti al marito.

Putifarre lo fa imprigionare, ma per le sue capacità il comandante gli affida la gestione del carcere, dove erano rinchiusi il coppiere capo e il panettiere del Faraone, caduti in disgrazia, che gli vengono assegnati come domestici. Qui Giuseppe  fa il suo capolavoro, interpreta i sogni del coppiere e del panettiere decifrandone le profezie poi avverate; e quando loro  convincono il Faraone a convocarlo per interpretare il suo sogno con  le 7 vacche magre che divorano le 7 grasse, e lo stesso fanno le 7 spighe vuote con le 7 piene, predice che dopo 7 anni di abbondanza sarebbero seguiti 7 di  carestia.

Il Faraone salva il suo popolo dalla fame accumulando provviste per gli anni di magra e in segno di  gratitudine e come riconoscimento delle sue capacità lo nomina Vicerè d’Egitto. La carestia colpisce anche la terra di origine di Giuseppe, allora il padre Giacobbe manda i figli in Egitto, tranne il giovane Beniamino, a comprare grano. Giuseppe li riconosce senza essere riconosciuto, e li accusa di essere venuti per spiare, quindi con finalità ostili;  loro cercano di impietosirlo dicendo  di essere dei fratelli e che uno di loro era rimasto con il padre. Il grano viene dato  loro trattenendo in ostaggio Simone incatenato finché non avranno portato Beniamino, il più piccolo.

Con i sacchi di grano dove Giuseppe ha fatto mettere  anche il denaro speso per l’acquisto, tornano dal padre Giacobbe che piange la perdita di Simone dopo quella di Giuseppe;  e temendo di perdere anche  Beniamino non vuole farlo partire, sebbene Ruben abbia offerto di scambiarlo con i propri due figli. Ma deve cedere  quando per la carestia devono tornare in Egitto per chiedere altro grano; Giuseppe lo fornisce aggiungendovi la restituzione dei soldi spesi per acquistarli, e fa mettere  una coppa d’argento insieme al denaro nel sacco di Beniamino.

Altro colpo di scena, sulla via del ritorno Giuseppe li fa raggiungere dalle guardie e perquisire, poi accusando  Beniamino di aver preso la coppa minaccia di farlo suo schiavo; e qui l’amore fraterno porta Giuda ad offrirsi lui come schiavo al  posto di Beniamino per non far soffrire il padre.

Finalmente l'”agnitio”, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli, dice loro di averli perdonati e chiede  di portare il padre per farlo vivere con lui, che Dio ha voluto diventasse  “signore di tutto l’Egitto”. Giacobbe, superata l’incredulità che il figlio sia vivo, gioisce e manda Giuda per preparare il suo arrivo, Giuseppe gli va incontro e appena lo vede lo abbraccia piangendo.

Il Faraone dice a Giuseppe che l’Egitto è a sua disposizione, possono stabilirsi dove vogliono e divenire suoi sovrintendenti. Giacobbe benedice il Faraone e benedice i due figli di Giuseppe.

Un happy end corale, come in una favola vissero tutti felici e contenti.

Scorrono  i titoli di coda,  Giacobbe  visse 17 anni in Egitto ma volle essere sepolto vicino ai suoi avi ad Ebron nella terra di Canaan; per questo Giuseppe lo accompagnò con un grande corteo funebre, poi tornò in Egitto, divenuto la sua patria per sempre.

Che dire, si resta senza fiato, in questa narrazione biblica c’è tutto, vicende familiari unite alla storia di due popoli, esposti in modo diverso alla catastrofe alimentare, figure straordinarie come Giuseppe, deteriori come i fratelli che si riscattano nel finale, in cui la gioia si unisce alla commozione in un contesto molto solenne e nel contempo molto umano.

Un capolavoro narrativo diventa un capolavoro pittorico in 20 arazzi spettacolari. Ecco tale galleria d’arte, di storia e di vita.

10. “Giuseppe prende in ostaggio Simeone”, 1547, Bronzino,  Karcher, Quirinale

I primi arazzi, dal sogno alla schiavitù in un’emozionante alternanza

Come la  narrazione biblica,  la sequenza figurativa degli arazzi  inizia con “Il sogno dei maniipoli”: nel 1° arazzo  Giuseppe dorme appoggiato a un albero carico di frutti, tiene un braccio su un ramo secco, allegoria delle due dinastie dei Medici; intorno a lui i fratelli al lavoro, mentre una falce è a terra, simbolo del dio Crono con cui viene identificato il committente, Cosimo. Cominciamo a conoscere la squisita fattura, il disegno della scena è molto elaborato, le figure curate nei dettagli in varie posizioni diverse e conespressioni differenti. La figura di Giuseppe viene già nobilitata dall’eleganza del gesto e dalla luminosità della veste, mentre nel fregio sul bordo continua la raffigurazione.

E’ solo l’inizio, nel 2° arazzo,  “Giuseppe racconta il sogno del sole, della luna e delle stelle”, la scena non solo si anima ma si sdoppia, cambiando radicalmente registro. Non più l’immagine bucolica dell’albero con i frutti, ma un’immagine celeste: Giuseppe ancora sognante, ma senza vesti terrene, bensì su una nuvola rivolto verso il padre-Sole, il dio Apollo, che irraggia la luce  e la madre-Luna, la dea Diana entro un cerchio, che sembrano inchinarsi  a lui. Sulla destra, 11 putti in adorazione, ciascuno con in mano una stella, è  il numero dei fratelli visti come subalterni a lui. Nella parte inferiore Giuseppe è circondato dai fratelli perplessi per il suo racconto, ricordiamo il rimprovero biblico di Giacobbe al suo peccato d’orgoglio verso di loro e i suoi timori per la possibile reazione. E’ uno degli arazzi parziali sagomati, le due parti sono molto diverse,  quella superiore evanescente, come del resto la deificazione, quella inferiore ben definita ed elaborata.

Dal sogno celestiale all’incubo, il tema del 3° arazzo è la “Vendita di Giuseppe” , anche qui su piani sovrapposti. L’immagine di Giuseppe trasferisce a livello esteriore, con la bellezza in un fisico di adolescente e le vesti luminose, le sue doti interiori, come la rettitudine morale; i fratelli, al contrario, vengono raffigurati con la pelle opaca,  le vesti comuni e i gesti rustici. Nella prima scena è isolato rispetto ai fratelli che complottano, poi  il dramma: lo aggrediscono, sgozzano una pecora per  simulare la sua morte con il sangue sparso sulla tunica, e  lo gettano nel pozzo; nel piano inferiore prima il confronto di Giuda che propone la vendita invece dell’uccisione, poi la contrattazione con i Medianiti, i mercanti del deserto, la cui carovana coi i cavalli e le merci  trasportate è resa in modo spettacolare, infine Giovanni verso il destino di schiavo.

11. “Beniamino ricevuto da Giuseppe”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze

Dalla schiavitù al rifiuto virtuoso  fino al carcere, poi di nuovo il riscatto

Il 4° arazzo, “Lamento di Giacobbe”, si sviluppa in verticale, con tre grandi figure in piedi che dominano la scena, nel cromatismo acceso dei loro abiti, mentre piccole figure si intravedono sullo sfondo tra alberi e fregi ricchi di elementi.  In primo piano il padre con la barba bianca da patriarca e le braccia in alto per la disperazione alla vista della camicia insanguinata del figlio presentatagli dall’altro figlio Ruben e tenuta per un lembo da una donna  identificata con  Bilia, che lo aveva allevato come un figlio;  le piccole figure di sfondo  sono le teste degli altri fratelli che assistono da lontano alla scena altamente drammatica, l’albero con l’edera e il castagno hanno contenuti simbolici, come le due piccole salamandre simbolo del male al pari del serpente di Eva.

La scena cambia radicalmente, come nei montaggi cinematografici, i due arazzi successivi ci portano nella magnificenza della reggia, ne sono  protagonisti  nel 5° arazzo “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, il dignitario regale capo delle guardie del Faraone che lo aveva acquistato dai mercanti Medianiti. In verticale le due figure vicine in posa statica, lei a seno nudo ma senza particolare trasporto, cosa che sembra abbia indotto Cosimo ad affidare il secondo arazzo dedicato ai due non più al Pontormo, autore del primo, ma al Bronzino.

Ecco  il 6° arazzo,  “Giuseppe fugge dalla moglie di Putifarre”,  si vede subito la diversa mano e il mandato preciso, la donna è raffigurata con prorompente sensualità in una scena dal  forte contenuto erotico, Giuseppe è ripreso nella sua avvenenza mentre si divincola  lasciando la tunica blu nelle mani di lei, nel segno delle virtù morali in cui si impersona Cosimo, e sono tanto più elevate quanto più è irresistibile l’invito da lui rifiutato.

Il clima da telenovela viene rotto  bruscamente, del resto anche in altre storie antiche la donna si vendicava di chi l’aveva rifiutata accusandolo di aver tentato di farle violenza, Godard cita un testo egizio addirittura del XIII sec. a. C. e i miti di Bellerofonte e Stenebea e di Fedra e Ippolito. Ma non  si ripiomba nell’incubo iniziale, la scena descritta nel 7° arazzo, “Giuseppe in prigione e il banchetto del  Faraone”, nella parte superiore lo ritrae sotto un’arcata  con ai lati due figure in catene: sono il capo coppiere e il panettiere del re che raccontano i loro sogni  a lui che ha assunto per i propri meriti una posizione di preminenza nel carcere in cui è rinchiuso, simboleggiata dalla  grossa chiave che ha in mano.

12. “Convito di Giuseppe con i fratelli”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Quirinale

Sappiamo che interpreta i loro sogni, il coppiere tornerà a corte, il panettiere morirà, ed è ritratto  sotto l’arcata destra impiccato a un albero. E’ come un fondale rispetto al primo piano con il sontuoso banchetto del Faraone al quale il coppiere riabilitato versa del vino, l’ambientazione è la corte medicea e il Faraone ha le fattezze di Cosimo, così gli arredi opulenti e le vesti sontuose; nella storia portata  al presente ci sono anche due eruditi vicini al duca.

Si conclude così il racconto dei primi 7 arazzi,  in un’alternanza di vicende e di emozioni dal forte contenuto drammatico e anche sentimentale.

Dalle ali del sogno quanto mai aulico e rassicurante dell’inizio con i covoni, il Sole e la Luna che rendono omaggio a Giuseppe, all’incubo, con la violenza dei fratelli che lo gettano nella cisterna da cui viene estratto e venduto come schiavo.

Poi il pendolo torna a salire nella Corte reale con l”attenzione della moglie di Putifarre, presa dalla sua avvenenza, per precipitare di nuovo con la vendetta per il virtuoso rifiuto alle allettanti profferte sensuali, e la prigionia di lunghi anni.

Ma le sue doti straordinarie, in cui si rispecchia il Duca Cosimo, gli fanno interpretare i sogni premonitori dei dignitari in disgrazia in carcere, e  lo riporteranno sulla cresta dell’onda  nella  Corte reale di cui il 7^ arazzo dà un prima immagine.

Non solo, ma acquisirà una posizione preminente nel regno d’Egitto, dalla quale la saga familiare con i fratelli, che si svilupperà tra emozionanti colpi di scena  prenderà tutt’altra piega rispetto all’incubo iniziale tra la morte scampata e la schiavitù subita.

Come nelle vicende a “suspence”  rimandiamo al seguito della raffigurazione delle storie di Giuseppe per sciogliere le curiosità che una successione di fatti così intrigante suscita; e per ammirarne la trasposizione artistica nel delicato ordito degli arazzi. Ne parleremo prossimamente.

13. “La coppa di Giuseppe ritrovata nel sacco di Beniamino”, 1550-1553,  Bronzino, Karcher, Quirinale

Info

Palazzo Vecchio, Firenze, Piazza della Signoria, Sala dei Duecento. .Fino al 30 settembre tutti i giorni escluso il giovedì ore 9-23,  giovedì ore 9-14; dal 1° ottobre chiusura alle 19 invece che alle 23, giovedì orario invariato. Ingresso 2 euro.  Catalogo “Il principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bron.  Skira,, febbraio 2015, pp. 366, formato 24,5 x 31, con saggi di Godart, Acidini, Natali, Risaliti, Dolcini, Ciatti, Innocenzi, schede tecniche e galleria iconografica della collezione fiorentina e del Quirinale. Dal Catalogo, fornito con squisita cortesia dal Consigliere Godart, che si ringrazia sentitamente, sono tratte le citazioni del testo. Cfr., in questo sito, il nostro primo articolo sulla mostra il 13 settembre 2015 con riprodotti i primi 7 arazzi; il terzo  e ultimo il prossimo 16 settembre, con i restanti 6 arazzi.

Foto

Le immagini degli arazzi sono state fornite dall’organizzazione della mostra, in particolare da “Comunicare Organizzando”, che si ringrazia; l’immagine della mostra milanese alla Sala delle Cariatidi di Milano è tratta dal sito web www.eimag.it/, al titolare va il nostro ringraziamento.  Dei singoli arazzi –  riprodotti in sequenza nei tre articoli secondo la successione della storia, e commentati uno per uno in questo articolo e nel successivo – vengono riportati il titolo che ne riassume il contenuto e l’anno, l’artista autore del disegno e cartone (Bronzino, Pontormo, Salviati), l’atelier del tessitore (Karcher, Rost),  e la serie di appartenenza (Firenze, Quirinale ). In apertura, la  Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale durante l’esposizione milanese svoltasi dal 29 aprile al 23 agosto  2015; seguono, 8. “Giuseppe spiega il sogno del Faraone delle vacche grasse e magre”, 1548, Salviati,  Karcher, Firenze, e  9. “Vendita del grano ai fratelli”, 1547, Bronzino, Rost, Firenze; poi 10. “Giuseppe prende in ostaggio Simeone”, 1547, Bronzino,  Karcher, Quirinale, e 11. “Beniamino ricevuto da Giuseppe”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze; quindi 12. “Convito di Giuseppe con i fratelli”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Quirinale, e 13. “La coppa di Giuseppe ritrovata nel sacco di Beniamino”, 1550-1553,  Bronzino, Karcher, Quirinale; in chiusura, 14. “Giuseppe trattiene Beniamino”, 1546-1547,  Pontormo, Rost, Quirinale.

14. “Giuseppe trattiene Beniamino”, 1546-1547,  Pontormo, Rost, Quirinale

Giuseppe Ebreo, 2. I 20 arazzi medicei tornano a Firenze

di Romano Maria Levante

Un evento senza precedenti può essere definita la mostra “Giuseppe, il Principe dei Sogni,  negli arazzi medicei di Pontormo e Broonzino”,  che espone a Firenze, Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento, dal 15 settembre 2015 al 15 febbraio 2016,  i  20  preziosi arazzi fiorentini  del ‘500, iniziativa della Presidenza della Repubblica e del Comune di Firenze con Milano per l’Expo.  Si conclude il  tour espositivo che rende omaggio all’unità d’Italia con Roma e Firenze, la capitale attuale e  la precedente , insieme a Milano, a suo tempo definita “la capitale morale” per la sua valenza economica. La mostra è organizzata e realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, regista e prestigioso curatore Louis Godart,  Consigliere del presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico,  in un evento in cui alla conservazione si unisce la valorizzazione.  Catalogo Skira, con 9 accurati saggi critici sugli aspetti storici e artistici, culturali e tecnici, e una raffinata galleria iconografica dei 20 arazzi anche con straordinari ingrandimenti dei particolari.   

Uno scorcio della Sala dei Duecento a  Palazzo Vecchio alla presentazione della mostra

Dopo l’esposizione a RomaPalazzo del Quirinale, nel Salone dei Corazzieri dal 12 febbraio al 12 aprile, e a Milano,  Palazzo Reale, nella  Sala delle Cariatidi dal 29 aprile al 23 agosto, i 20 arazzi tornano a Firenze, nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio, normalmente adibita a sede del Consiglio comunale .che, nel periodo della mostra, si trasferisce a Palazzo Medici Ricciardi; alla presentazione il sindaco Dario Nardella e Louis Godart. E’ la fase culminante dell’intero anno espositivo – 2 mesi a Roma, 4 mesi a Milano, 5 mesi a Firenze – il ritorno nella sede iniziale per la quale furono concepiti e realizzati i preziosi tessuti fiorentini assurti a simbolo dell’italianità in sedi  simboliche, compresa la Milano dell”Expo..

Oltre a Firenze, dove  l’arazzeria artistica è particolarmente ricca, per il Quirinale si potrebbe usare l’antico detto  che “si portano vasi a Samo”, dato che dispone di una dotazione di oltre 260 arazzi;  ma non per questo l’esposizione non è stata un evento,  tutt’altro, data la peculiarità dei 20 preziosi arazzi, la cui storia incrocia i granducati con la  Roma unitaria e le vicissitudini di questa, nel trasferimento della Capitale da Firenze a Roma.

Nel momento in cui la mostra da Milano si trasferisce a Firenze, e gli arazzi ritornano tutti a casa, ne diamo conto con riferimento alla mostra romana nel Salone dei Corazzieri al Quirinale, dove è iniziato il tour espositivo così denso di significati storici e artistici e fonte di emozioni.

La ricomposizione e il restauro dei 20 arazzi, una storia travagliata

Alle vicende storiche si deve anche la singolare sorte dei 20 preziosi tessuti , di venire divisi in due gruppi  pur “narrando” per immagini delle storie in sequenza convergenti su un’unica figura, quella di Giuseppe Ebreo:  10 arazzi  rimasti a Firenze,  rinvenuti nel 1872 agli Uffizi e prontamente ricollocati nella sede originaria della Sala dei Duecento dopo il passaggio dell’edificio al Comune con il trasferimento della capitale a Roma; gli altri 10, che  erano stati spostati da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti nel 1865 come dotazione della Corona, furono portati al Quirinale, allora reggia  dai Savoia,  nel 1892, poi nel 1948 sono entrati nella dotazione del Presidente della Repubblica. Un’inconcepibile separazione,  che rivaleggia per irrazionalità e insensibilità con l’asportazione britannica dei fregi del Partenone.

I paesi deprivati delle loro opere d‘arte  cercano legittimamente di averle in restituzione dai paesi che ne sono detentori  per le vicende della storia, nel nome della ricomposizione dell’unitarietà artistica e della ricollocazione nel contesto originario. Non si vede, dunque, perché questo non possa, anzi non debba avvenire per gli arazzi, in cui detentore è lo stesso paese e la separazione non è tra soggetti privati con i diritti acquisiti, ma soggetti pubblici, addirittura la Presidenza della Repubblica e il Comune di Firenze. Tanto più che la separazione dei 20 arazzi in due lotti da 10 non è in due parti della storia, quasi si trattasse del primo e del secondo tempo di un film proiettati in due luoghi diversi, quindi unitarie al loro interno con una sostanziale completezza. Non c’è stata neppure quest’accortezza nel portare a Roma 10 dei 20 arazzi, sembrano presi casualmente, evitando quelli sagomati, forse in base a una preferenza momentanea. 

Nella serie fiorentina, dopo il 2° arazzo si passa al 6° della storia, poi all’8° e 9°,  segue l’11° e si salta al 15°, 16° e 17°, fino al 19°, l’ultimo; nella serie del Quirinale abbiamo due sequenze di tre arazzi consecutivi, dal 3° al 5° e dal 12° al 14°, più quattro isolati il 7°, 10°, 18° e 20°.  “Non s’interrompe un’emozione” fu l’invocazione contro gli “spot” televisivi nei film; qui è molto peggio, non c’è solo interruzione poi superata, ma arresto e ripresa in altri luoghi, ambienti e situazioni. E bene ha fatto Godart  nel  percorrere in continuità la galleria degli affreschi, mentre le spettacolari riproduzioni del Catalogo si susseguono nelle due serie, fiorentina e quirinalizia, rendendo visivamente l’assurdità di una separazione che almeno per l’anno espositivo viene superata. Con l’auspicio che possa esservi un ripensamento: come per l’area archeologica del Colosseo si è giunti a un accordo permanente tra MiBACT e Comune di Roma per superare l’assurdo dualismo, non si può pensare a qualcosa di analogo per i 20 arazzi e riunirli per sempre?

Il sindaco di Firenze Dario Nardella, nella presentazione al Quirinale, maliziosamente faceva osservare la sagomatura di due arazzi che  inquadravano due porte della Sala dei Duecento, per sottolinearne visivamente l’evidente legame con la provenienza; anche se poi aggiungeva che la ricollocazione permanente nella sede originaria non potrebbe  avvenire per la delicatezza degli arazzi che non ammette una troppo lunga esposizione al pubblico, di qui nessuna rivendicazione.

Intanto è stata possibile la felice e inedita ricomposizione per il periodo della mostra itinerante, che approda ora  nella Sala fiorentina dei Duecento, secondo la disposizione originaria così ricostruita da Carlo Francini: “Nel progetto gli arazzi dovevano coprire tutte le pareti della sala, quindi anche le porte  e le finestre, inoltre dovevano essere collocati con il bordo inferiore al pavimento”, e cita a conforto la posizione in tal senso assunta da  Adelson nel  1985 e quelle ripetute di  Meoni nel 1998, 2010 e 2013.

Al contrario,  nel 1875, dinanzi a un numero di arazzi quasi doppio rispetto alla superficie delle pareti, Conti nell’escludere per una  logica elementare  le otto finestre e le porte,  concludeva: “Il pensiero che più naturalmente ricorre alla mente è che per sfoggio di magnificenza si cambiasse la decorazione”,  pertanto integrò gli arazzi per le pareti con panni posti intorno ai bordi delle finestre.

1. Il sogno dei manipoli”, 1549,
Bronzino, Karcher, Firenze

La presentazione in due puntate delle storie di Giuseppe andava contro la logica elementare, perché se si fosse trattato  di cambiare la decorazione si sarebbero fatti due cicli di 10 arazzi con storie diverse, è impensabile lasciare la “suspence” con il seguito della storia dopo la rotazione.

Dunque gli arazzi sono stati divisi tra Firenze e Roma,  dove, peraltro,  il numero di arazzi pregiati negli edifici storici fiorentini e al Quirinale è stato sempre molto elevato.

I 10  arazzi con le Storie di Giuseppe Ebreo rimasti a Firenze sono stati esposti nel salone dei Duecento ininterrottamente dal 1872,  con l’uscita degli uffici statali della Capitale portata a Roma e il passaggio di Palazzo Vecchio al Comune, fino al 1983 allorché dopo una grande mostra delle collezioni medicee con il gran numero di arazzi della manifattura granducale del XVI secolo, si decise di rimuoverli dalle sedi espositive per tutelarli, prima immagazzinandoli, poi dando corso ad una vasta opera di restauro per il precario stato di conservazione, in particolare di questi 10 arazzi.

L’intervento iniziò nel 1985  e si svolse nei Laboratori di Restauro degli Arazzi dell’Opificio delle Pietre Dure prima agli Uffizi, poi a Palazzo Vecchio; ebbe termine  nel 2009, con un seguito fino al 2012.

Clarice Innocenti fa un’accurata contabilità dell’immane lavoro sui 220 metri quadri circa dei 10 arazzi fiorentini: 119.000 ore di lavoro totali, con solo ago e filo, mentre si succedevano  9 soprintendenti dell’Opificio delle Pietre Dure e 2 direttori del Laboratorio.

Per restaurare i circa 210 metri quadri del 10 arazzi portati a Roma è stato costituito un apposito Laboratorio all’interno del Quirinale, che ha lavorato ininterrottamente in parallelo con il laboratorio fiorentino. Marco Ciatti ricorda che “a impostare tale laboratorio, a formare gli addetti e a progettare l’intervento fu chiamata Loretta Dolcini , che nell’Opificio delle  Pietre Dure aveva portato avanti lo stesso lavoro per la serie fiorentina. Tale lavoro è stato in seguito così stretto che alla fine è stata del tutto assorbita dall’impegno romano, abbandonando l’istituto fiorentino”. L’omogeneità nelle metodologie usate garantisce la continuità delle due serie esposte insieme.

Il risultato di trent’anni di accuratissimo lavoro di restauro è nello splendore dell’ordito riportato all’antica perfezione, con il quale si dipana una storia altrettanto straordinaria, quella di Giuseppe Ebreo. Come è straordinaria la storia degli arazzi che si inquadra nella magnificenza della Firenze medicea.    

2. “Giuseppe racconta il sogno del sole, della luna e delle stelle”, 1549, Bronzino, Rost, Firenze

I  20 arazzi e l’arazzeria fiorentina

Quella medicea è  stata  una stagione d’oro in cui oltre a questa forma d’arte se ne sono sviluppate altre, in particolare la lavorazione dei marmi policromi a cui si deve la facciata di Santa Maria del Fiore.

Cristina Acidini, già soprintendente museale a Firenze,  ne ricostruisce l’evoluzione sottolineando che i 20 arazzi sono “tra i primi risultati (e certo in assoluto tra i più splendidi) dell’attività dell’arazzeria fondata da Cosimo de’ Medici”. 

Era divenuto duca di Firenze dopo la vittoria sugli  oppositori a Montemurlo,  con il passaggio dalla Repubblica al Principato e la magnificenza a livello pubblico e privato, per le sedi locali e per i doni diplomatici, con impegno personale e con la disponibilità di notevoli risorse pur in anni difficili.

Lo favoriva l’ambiente locale, dove si erano sviluppate dal 1200 al 1500 le botteghe di un artigianato  a livello artistico nel segno dei grandissimi Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti. E, relativamente all’arazzeria, ne indicavano le direttrici gli esempi delle antiche corti settentrionali, da Ferrara a Mantova fino a Milano,  che avevano  costituito da un secolo centri autonomi di produzione  perché gli arazzi tradizionalmente importati dalle aree fiamminghe specializzate, con la loro impostazione gotica, non rispondevano alla visione rinascimentale che si era diffusa  sull’abbrivio delle opere di grandi maestri.

Il duca promosse un’arazzeria  sostenuta da un sistema misto in cui alle risorse pubbliche si associavano investimenti privati e l’assunzione di responsabilità degli operatori, che dovevano pagare gli aiutanti.  La parte artistica imperniata sul disegno fiorentino, fu affidata ai più celebri artisti del tempo, dal 1545 a Jacopo Pontormo cui il duca, non del tutto soddisfatto, volle aggiungere il pittore di corte Agnolo Bronzino che ne era stato allievo, un ruolo minore ebbe il Salviati. Per le lavorazioni dei tessuti fino alla trasposizione negli arazzi dei disegni su cartoni degli artisti servivano gli specialisti fiamminghi, la cui reperibilità era favorita dal fatto che erano presenti in Italia come riparatori di arazzi e come tessitori, in particolare  nelle corti settentrionali.

Cosimo riuscì a portare  a Firenze  Nicolas Karcher, che dal  1517  era nell’arazzeria della Corte estense a Ferrara, e nel 1539 si era spostato a Mantova; e Jan Rost, uno degli otto tessitori di Bruxelles  al seguito di Karcher.  “Prendeva così avvio nel 1545 l’arazzeria medicea che, arrivata ultima tra quelle delle corti rinascimentali italiane, si rivelò la più longeva, restando attiva per due secoli e sopravvivendo anche all’estinzione della dinastia fondatrice”.

3. “Vendita di Giuseppe”, 1549, Bronzino, Rost, Quirinale

Questo risultato fu ottenuto con “una visione lungimirante, che puntava alla formazione di addetti locali. Se dall’unione tra il sofisticato disegno fiorentino e l’ingegnosa abilità fiamminga ebbero origine arazzi di qualità superba (la cui fattura originale e  complessa è stata, per la serie di Giuseppe, rilevata e commentata nel corso dei restauri condotti dall’Opificio delle Pietre Dure), tra i compiti assegnati ai tessitori fiamminghi vi era anche quello di trasferire il loro sapere istruendo giovani e fanciulli che, da garzoni con ruoli di mera assistenza, apprendessero il mestiere di tessitori”.  

La Acidini conclude così: “E furono appunto i ‘creati’ fiorentini che assicurarono la continuità , da Bronzino raggiunti dalla primissima produzione – in cui erano stati profusi con dispendio vertiginoso materiali preziosi e tecniche laboriose – restassero, per quelle successive generazioni, inarrivabili”.

Il pensiero va all’elemento prevalente, quello descrittivo, anzi per meglio dire narrativo. Sono storie, quelle di Giuseppe Ebreo, che si dipanano in 20 stazioni, quasi una Via Crucis all’incontrario dato che l’escalation non è nella passione e nella tragedia, ma nella esaltazione di doti preclare dell’individuo che vengono premiate dalla fortuna amica, che “aiuta gli audaci”, in questo caso i virtuosi e saggi.

Ma non va trascurata l’importanza delle bordure degli arazzi, che fanno da cornice alle scene descritte all’interno e occupano una parte non trascurabile dell’intera superficie, negli arazzi più piccoli da un terzo a un quinto dell’intero tessuto. Ne parla ampiamente Loretta Dolcini, sottolineando che “ebbero un ruolo compositivo di grande monumentalità”, ma non solo: . “Ebbero anche la funzione di vivificare visivamente e stilisticamente pagine figurate, differenziate fra loro non solo per il soggetto e le dimensioni, ma anche talvolta per incongruenze formali dovute alla presenza di artisti che si esprimevano con cifre stilistiche diverse in un periodo assai lungo di realizzazione complessiva”

Oltre a questa funzione  ornamentale unificante, ne ebbero un’altra di contenuto: “A esse fu affidato dal duca e dal suo gruppo di fedelissimi intellettuali un complesso significato simbolico, parzialmente ermetico, venato di simbologia ed ermetismo, la cui decrittazione qualifica iconograficamente questi fregi come il vero e proprio spregiudicato manifesto concettuale e politico di tutta l’impresa”.

4. “Lamento di Giacobbe”, 1553,
Pontormo, Rost, Quirinale

La magnificenza celebrativa di Cosimo de’  Medici

Ma torniamo all’origine di quest’opera. Gli arazzi sulle storie di Giuseppe Ebreo, come primo massimo momento dell’arazzeria fiorentina basata sui disegni rinascimentali con i maestri tessitori fiamminghi, furono una delle tante espressioni della magnificenza cheCosimo de’ Medici concepì da mecenate utilizzando il potere delle immagini, dei simboli e dei miti in senso celebrativo.

Ha scritto Morolli che Cosimo  voleva “dare un segno visibilissimo ed eloquentissimo del drastico cambiamento di regime, quasi a proporsi come nuovo e assoluto ed eterno e unico ‘priore’ non più eletto per un semestre, ma consacrato a vita alla guida della città”. Per questo, commenta Pietro Risaliti, “ordinò un nuovo allestimento per l’antica aula repubblicana che diventò una ‘maiestatica sala del trono'”.

Si circondò dei migliori artefici, impiegò ingenti risorse, si mosse con rapidità ed efficienza nel mutare l’assetto  di Firenze con opere come gli Uffizi e il Ponte di Santa Trinità, sotto il profilo urbanistico, e promuovendo non solo le accademie artistiche, letterarie e scientifiche a Firenze e Pisa, ma anche lo sviluppo di fabbriche e laboratori in veri distretti tecnologici artigianali.

Sul piano dell’arte, oltre che collezionista e mecenate come tutti i Medici, fu promotore di opere in emulazione con la Roma cinquecentesca.

Ne sono espressione i cicli pittorici di Palazzo Vecchio, la sua reggia principesca, che, secondo Risaliti, “sono la dimostrazione superba, quasi titanica, del piano ideologico del mecenate, che crede modernamente in una combinazione di retorica figurativa e propaganda politica, dove l’icona del granduca s’incastona come sole folgorante in una costellazione di epoche, eventi, personaggi che storicizza ed eternizza passato, presente e futuro della dinastia medicea fiorentina”.

Così anche  gli affreschi  di Castello che lo celebrano come rifondatore di Firenze e  i dipinti della  Cappella d’Eleonora sempre in Palazzo Vecchio con il messaggio  politico nelle storie di Cristo. “Mosè non era soltanto figura di Cristo – scrive Antonio Natali – ma anche (e forse segnatamente) immagine del duca: in lui si dovevano vedere incarnate le virtù di condottiero ch’erano necessarie al governo d’una città orgogliosa e fiera della sua storia, ma bisognosa d’una guida sicura”.

5. “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1546-1547, Pontormo, Rost, Quirinale

Con gli arazzi, quasi contemporanei, commissionati per la sala dei Duecento, sempre a Palazzo Vecchio,  “di nuovo si ricorre a un personaggio eminente  del Vecchio Testamento, lui pure caro alla tradizione fiorentina quale modello di virtù alte: Giuseppe Ebreo. La sua vicenda  umana lo consegna alla storia come esempio specialmente di lealtà, di giustizia e di magnanimità. Tutte doti reputate prerogative indispensabili degli uomini chiamati a guidare uno Stato”.  Di qui il messaggio volto a  identificare il personaggio biblico con il reggitore illuminato di Firenze.

Le storie di Giovanni Ebreo si trovano anche in opere fiorentine di poco precedenti, come le tavole lignee per la camera nuziale di Pierfrancesco Bogherini, quale modello di castità:  autori i maestri della “maniera moderna” del tempo, fra i quali Andrea del Sarto e Pontormo a cui fu dato l’incarico iniziale per i disegni degli arazzi, per i quali la scelta del soggetto ebbe invece risvolti politici;  finché, come si è detto,  intervenne il Bronzino e si aggiunse, in minore misura, il Salviati.

Queste tavole interessarono il figlio di Cosimo, Francesco, che nel 1584 volle acquisirle per le sue raccolte, dopo che la moglie di Bogherini nel 1529 si era opposta al trasferimento in Francia, respingendo la richiesta del re  Francesco I. . Il suo era un interesse artistico, ma  il padre “dominus” di Firenze   aveva scelto Giuseppe Ebreo come soggetto della trasposizione simbolica della propria figura di reggitore saggio e illuminato, che poteva rispecchiarsi in una storia biblica edificante. E aveva fatto immortalare la storia negli oltre 400 metri quadrati di arazzi si elevato livello artistico..

Di questa storia parleremo prossimamente con riferimento al Libro della Genesi. Poi descriveremo ad uno ad  uno i 20 arazzi seguendo la continuità della storia, quindi passando di volta in volta da quelli della collezione fiorentina a quelli della collezione del Quirinale. L’assurdità della separazione risulta evidente proprio per la mancanza di continuità narrativa nelle due collezioni, e speriamo che, lo ripetiamo,questa possa essere l’occasione per un ripensamento. In questo caso l’evento della mostra itinerante diventerebbe epocale, farebbe rimuovere lo strascico insensato di una storia travagliata per cui perseverare, “absit iniuria verbis”,  sarebbe veramente diabolico. .

6. “Giuseppe fugge dalla moglie di Putifarre”, 1549,
Bronzino, Karcher, Firenze

Info

Palazzo Vecchio, Firenze, Piazza della Signoria, Sala dei Duecento. Fino al 30 settembre tutti i giorni escluso il giovedì ore 9-23,  giovedì ore 9-14; dal 1° ottobre chiusura alle 19 invece che alle 23, giovedì orario invariato. Ingresso 2 euro.   Catalogo “Il principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino”, Skira, febbraio 2015, pp. 366, formato 24,5 x 31, con saggi di Godart, Acidini, Natali, Risaliti, Dolcini, Ciatti, Innocenzi, schede tecniche e raffinata galleria iconografica della collezione di Firenze e del Quirinale. Dal Catalogo, fornito con squisita cortesia dal Consigliere Godart, che si ringrazia sentitamente, sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. in questo sito, il 15 e 16 settembre 2015, i nostri due articoli successivi sulla mostra con riprodotti gli altri arazzi della storia di Giuseppe, dall’8° al 20°.

Foto

Le immagini degli arazzi sono state fornite dall’organizzazione della mostra, in particolare da “Comunicare Organizzando”, che si ringrazia, l’immagine della presentazione della mostra a Firenze nella Sala dei Duecento è tratta dal  sito web   www.lanazione.it, al titolare va il nostro ringraziamento. Dei singoli arazzi – riprodotti in sequenza nei tre articoli secondo la successione della storia, e commentati uno per uno nei due ultimi articoli – vengono riportati il titolo che ne riassume il contenuto e l’anno, l’artista autore del disegno e cartone (Bronzino, Pontormo, Salviati), l’atelier del tessitore (Karcher, Rost),  e la serie di appartenenza (Firenze, Quirinale). In apertura, uno scorcio della Sala dei Duecento a  Palazzo Vecchio alla presentazione della mostra; seguono, 1.Il sogno dei manipoli”, 1549, Bronzino, Karcher, Firenze, e  2. “Giuseppe racconta il sogno del sole, della luna e delle stelle”, 1549, Bronzino, Rost, Firenze; poi  3. “Vendita di Giuseppe”, 1549, Bronzino, Rost, Quirinale, e  4. “Lamento di Giacobbe”, 1553, Pontormo, Rost, Quirinale; quindi,  5. “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1546-1547, Pontormo, Rost, Quirinale, e 6. “Giuseppe fugge dalla moglie di Putifarre”, 1549, Bronzino, Karcher, Firenze; in chiusura,  7. “Giuseppe in prigione e il banchetto del Faraone”, 1546-1547, Bronzino, Rost, Quirinale.

7. “Giuseppe in prigione e il banchetto del Faraone”, 1546-1547, Bronzino, Rost, Quirinale