La mostra “Il Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Broonzino”, espone a Firenze, nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio, dal 15 settembre 2015 al 15 febbraio 2016, i 20 preziosi arazzi fiorentini sulle storie di Giuseppe Ebreo, con un’iniziativa della Presidenza della Repubblica e del Comune di Firenze insieme al Comune di Milano. Il ritorno nella sede originaria per cinque mesi rappresenta il culmine del tour espositivo iniziato a Roma, Palazzo del Quirinale, Salone dei Corazzieri dal 12 febbraio al 12 aprile; con lo spostamento a Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi dal 29 aprile al 23 agosto, mesi centrali dell’Expo. La mostra, organizzata e realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è curata da Louis Godart, Consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico, Catalogo Skira con 9 accurati saggi critici, schede dettagliate e immagini raffinate.
Abbiamo già rievocato le tormentate vicende degli arazzi, dalla separazione tra Firenze e il Quirinale ai restauri nelle due sedi dove sono stati collocati prima dell’attuale ricomposizione per la mostra; inquadrandoli nell’arazzeria fiorentina e nella magnificenza di Cosimo de’ Medici.
Furono separati in due raccolte fin dal 1865 allorché 10 di essi furono spostati da Palazzo Chigi a Palazzo Pitti come dotazione della corona e successivamente portati a Roma al Quirinale allora reggia dei Savoia; la delicatezza della trama e dell’ordito in cui figura e supporto coincidono hanno richiesto il lungo restauro dei 430 metri quadri di arazzi, con l’uso solo dell’ago e filo svolto per trent’anni nel Laboratorio fiorentino dell’Opificio delle Pietre Dure per 129.000 ore e, in parallelo, presso l‘apposito Laboratorio specializzato istituito al Quirinale con l’intervento specialistico fiorentino.
Questi arazzi si inquadrano nello sviluppo delle arti a Firenze, che non poteva più ammettere di essere dipendente per gli arazzi dal Nord Europa con le sue raffigurazioni gotiche ben diverse da quelle rinascimentali; a tal fine vennero reclutati tessitori fiamminghi per produrre arazzi con disegni fiorentini, per i 20 arazzi medicei Nicolas Karcher e Jan Rost, su cartoni di Pontormo e Bronzino, con un ruolo minore di Salviati.
Va ricordata anche la volontà del reggitore di Firenze Cosimo de’ Medici di dare forte sviluppo alle arti anche in funzione celebrativa della sua figura; a tal fine le storie di Giuseppe Ebreo fornivano l’immagine ideale dell’uomo di stato illuminato che sentiva di essere e voleva diffondere anche con questi mezzi fortemente evocativi.
A questo punto riteniamo opportuno delineare gli aspetti principali del testo da cui è liberamente tratta l’intera storia trasferita in immagini quanto mai elaborate e suggestive: è la migliore preparazione alla visione degli arazzi per apprezzarne meglio il contenuto narrativo.
Origine e significato delle storie di Giuseppe Ebreo
E’ la Bibbia la base delle storie di Giuseppe, che nascono dall’esigenza di dare una spiegazione alla presenza degli ebrei nel XIII sec. a. C. come schiavi in terra d’Egitto lontani dalla terra promessa di Canaan, e soprattutto di “tessere la grande epopea della loro liberazione”. Precisamente il Libro della Genesi, passi dal 37° al 49°.
Louis Godart cita la tesi avanzata dello studioso Graham Smith, il quale nel 1982 formulò l’ipotesi che, oltre alla fonte biblica, gli autori degli arazzi possano aver utilizzato anche il “De Josepho” di Filone d’Alessandria, ben noto a Firenze fin dal Medioevo, per le allegorie relative alla vita del patriarca come uomo politico e perfetto amministratore della cosa pubblica; ma aggiunge che queste “non spiegano del tutto il complicato sovrapporsi dei messaggi talvolta oscuri contenuti negli arazzi, che effettivamente rimandano a un orizzonte culturale assai più vasto e complesso”.
Nella figura di Giuseppe Ebreo, a quegli aspetti agiografici se ne aggiungono altri più penetranti in carattere con i tempi. “Il primo è indubbiamente l’oniromanzia, la capacità di decifrare e interpretare i sogni. Il sapiente, come scrive Ravasi, è colui che sa capire non soltanto ciò che è oggetto dell’esperienza sensoriale ma anche ciò che va al di là della pellicola misteriosa del sonno in cui l’uomo vive una sorta di esperienza di morte. Giuseppe capace di interpretare i sogni ricorda la sacerdotessa di Apollo” cui si rivolgevano come “l’interprete di Dio”. Per questo è definito, nel titolo della mostra, “il principe dei sogni”, che nella sua storia sono elementi decisivi.
Il secondo aspetto evidenziato da Godart è la politica: ” Il sapiente deve essere capace di governare e di tenere saldamente in pugno le redini dello Stato”, e nelle storie di Giuseppe Ebreo ci sono decisioni provvidenziali per il suo paese; poi la capacità di sfuggire alle seduzioni e la magnanimità.
“Giuseppe seppe trionfare su tutte le insidie poste sulla sua strada, farsi valere agli occhi dei potenti, recitare un ruolo di primo piano nella gerarchia dell’impero faraonico”. Per questo la sua “immagine di un uomo mite e probo, capace di sfuggire agli invidiosi, di conquistare una posizione importante partendo dal nulla e contando solo sulle sue qualità intellettuali, era una vera propria metafora delle alterne fortune della grande famiglia fiorentina”.
Per concludere, con Godart: “Attraverso la realizzazione di questi venti arazzi la Corte dei Medici volle quindi che fosse raccontata la storia dell’eroe biblico, le cui vicissitudini tanto somigliavano alla loro saga dinastica”.
La vicenda segue i passi biblici della Genesi dove la tormentata epopea degli Ebrei, dalla schiavitù in Egitto al riscatto, viene riflessa nelle storie di Giuseppe, da schiavo a Vicerè ‘d’Egitto.
Non ci resta che dare conto della visita alla mostra, avvenuta al Quirinale il giorno della presentazione, mentre Louis Godart illustrava ad uno ad uno gli affreschi, nelle scene raffigurate e negli aspetti stilistici, nel Salone dei Corazzieri. La penombra era squarciata dai fiotti di luce degli affreschi illuminati, dando la sensazione che poteva esservi alle origini “soprattutto accogliendo l’ipotesi recente – scrive Loretta Dolcini – che il ciclo tessile dovesse avvolgere tutte le pareti senza soluzione di continuità, sovrapporsi alle finestre, sovrastare le porte, inghiottire i presenti in una vertigine di corpi giganteschi in movimento, di bagliori d’oro e d’argento, di cromie accese”.
Lungi da noi la presunzione di far sentire il fascino e far apprezzare i contenuti della sfilata dei 20 arazzi, cercheremo solo di raccontarli basandoci sulla colta e approfondita analisi di Godart ascoltata dalla sua viva voce e rivissuta nell’ampio capitolo inserito nel monumentale Catalogo.
La narrazione biblica delle storie di Giuseppe Ebreo
Una sintesi della narrazione biblica aiuta a seguire meglio la raffigurazione scenografica, che ne fissa i momenti salienti nella ricchezza degli arazzi in cui sono impresse le singole scene.
Giuseppe, prediletto del padre Giacobbe, suscita la gelosia degli 11 fratelli che si tramuta in odio quando racconta un sogno nel quale i loro 11 covoni si prostrano davanti al suo covone e un altro sogno nel quale si prostrano dinanzi a lui sole, luna e stelle. I fratelli vorrebbero ucciderlo, poi il maggiore Ruben convince gli altri a gettarlo in una cisterna, e pensano di venderlo a degli Ismaeliti, ma lo fanno alcuni Medianiti, mercanti di passaggio. Ruben non trovandolo più nella cisterna, d’accordo con gli altri fratelli porta una sua tunica macchiata di sangue al padre Giacobbe che lo piange come morto.
Dai Medianiti viene venduto al consigliere e capo delle guardie del Faraone, Putifarre che, conosciutone il valore, lo nomina suo servitore e gestore dei suoi beni. Poi, come in una telenovela moderna, la moglie di Putifarre se ne innamora e gli dice “unisciti a me”, ma lui la respinge per non mancare alla fiducia di Putifarre e per non peccare. Nel fuggire alla presa di lei, le lascia la tunica nelle mani e la donna, con questa prova, si vendica accusandolo ingiustamente davanti al marito.
Putifarre lo fa imprigionare, ma per le sue capacità il comandante gli affida la gestione del carcere, dove erano rinchiusi il coppiere capo e il panettiere del Faraone, caduti in disgrazia, che gli vengono assegnati come domestici. Qui Giuseppe fa il suo capolavoro, interpreta i sogni del coppiere e del panettiere decifrandone le profezie poi avverate; e quando loro convincono il Faraone a convocarlo per interpretare il suo sogno con le 7 vacche magre che divorano le 7 grasse, e lo stesso fanno le 7 spighe vuote con le 7 piene, predice che dopo 7 anni di abbondanza sarebbero seguiti 7 di carestia.
Il Faraone salva il suo popolo dalla fame accumulando provviste per gli anni di magra e in segno di gratitudine e come riconoscimento delle sue capacità lo nomina Vicerè d’Egitto. La carestia colpisce anche la terra di origine di Giuseppe, allora il padre Giacobbe manda i figli in Egitto, tranne il giovane Beniamino, a comprare grano. Giuseppe li riconosce senza essere riconosciuto, e li accusa di essere venuti per spiare, quindi con finalità ostili; loro cercano di impietosirlo dicendo di essere dei fratelli e che uno di loro era rimasto con il padre. Il grano viene dato loro trattenendo in ostaggio Simone incatenato finché non avranno portato Beniamino, il più piccolo.
Con i sacchi di grano dove Giuseppe ha fatto mettere anche il denaro speso per l’acquisto, tornano dal padre Giacobbe che piange la perdita di Simone dopo quella di Giuseppe; e temendo di perdere anche Beniamino non vuole farlo partire, sebbene Ruben abbia offerto di scambiarlo con i propri due figli. Ma deve cedere quando per la carestia devono tornare in Egitto per chiedere altro grano; Giuseppe lo fornisce aggiungendovi la restituzione dei soldi spesi per acquistarli, e fa mettere una coppa d’argento insieme al denaro nel sacco di Beniamino.
Altro colpo di scena, sulla via del ritorno Giuseppe li fa raggiungere dalle guardie e perquisire, poi accusando Beniamino di aver preso la coppa minaccia di farlo suo schiavo; e qui l’amore fraterno porta Giuda ad offrirsi lui come schiavo al posto di Beniamino per non far soffrire il padre.
Finalmente l'”agnitio”, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli, dice loro di averli perdonati e chiede di portare il padre per farlo vivere con lui, che Dio ha voluto diventasse “signore di tutto l’Egitto”. Giacobbe, superata l’incredulità che il figlio sia vivo, gioisce e manda Giuda per preparare il suo arrivo, Giuseppe gli va incontro e appena lo vede lo abbraccia piangendo.
Il Faraone dice a Giuseppe che l’Egitto è a sua disposizione, possono stabilirsi dove vogliono e divenire suoi sovrintendenti. Giacobbe benedice il Faraone e benedice i due figli di Giuseppe.
Un happy end corale, come in una favola vissero tutti felici e contenti.
Scorrono i titoli di coda, Giacobbe visse 17 anni in Egitto ma volle essere sepolto vicino ai suoi avi ad Ebron nella terra di Canaan; per questo Giuseppe lo accompagnò con un grande corteo funebre, poi tornò in Egitto, divenuto la sua patria per sempre.
Che dire, si resta senza fiato, in questa narrazione biblica c’è tutto, vicende familiari unite alla storia di due popoli, esposti in modo diverso alla catastrofe alimentare, figure straordinarie come Giuseppe, deteriori come i fratelli che si riscattano nel finale, in cui la gioia si unisce alla commozione in un contesto molto solenne e nel contempo molto umano.
Un capolavoro narrativo diventa un capolavoro pittorico in 20 arazzi spettacolari. Ecco tale galleria d’arte, di storia e di vita.
I primi arazzi, dal sogno alla schiavitù in un’emozionante alternanza
Come la narrazione biblica, la sequenza figurativa degli arazzi inizia con “Il sogno dei maniipoli”: nel 1° arazzo Giuseppe dorme appoggiato a un albero carico di frutti, tiene un braccio su un ramo secco, allegoria delle due dinastie dei Medici; intorno a lui i fratelli al lavoro, mentre una falce è a terra, simbolo del dio Crono con cui viene identificato il committente, Cosimo. Cominciamo a conoscere la squisita fattura, il disegno della scena è molto elaborato, le figure curate nei dettagli in varie posizioni diverse e conespressioni differenti. La figura di Giuseppe viene già nobilitata dall’eleganza del gesto e dalla luminosità della veste, mentre nel fregio sul bordo continua la raffigurazione.
E’ solo l’inizio, nel 2° arazzo, “Giuseppe racconta il sogno del sole, della luna e delle stelle”, la scena non solo si anima ma si sdoppia, cambiando radicalmente registro. Non più l’immagine bucolica dell’albero con i frutti, ma un’immagine celeste: Giuseppe ancora sognante, ma senza vesti terrene, bensì su una nuvola rivolto verso il padre-Sole, il dio Apollo, che irraggia la luce e la madre-Luna, la dea Diana entro un cerchio, che sembrano inchinarsi a lui. Sulla destra, 11 putti in adorazione, ciascuno con in mano una stella, è il numero dei fratelli visti come subalterni a lui. Nella parte inferiore Giuseppe è circondato dai fratelli perplessi per il suo racconto, ricordiamo il rimprovero biblico di Giacobbe al suo peccato d’orgoglio verso di loro e i suoi timori per la possibile reazione. E’ uno degli arazzi parziali sagomati, le due parti sono molto diverse, quella superiore evanescente, come del resto la deificazione, quella inferiore ben definita ed elaborata.
Dal sogno celestiale all’incubo, il tema del 3° arazzo è la “Vendita di Giuseppe” , anche qui su piani sovrapposti. L’immagine di Giuseppe trasferisce a livello esteriore, con la bellezza in un fisico di adolescente e le vesti luminose, le sue doti interiori, come la rettitudine morale; i fratelli, al contrario, vengono raffigurati con la pelle opaca, le vesti comuni e i gesti rustici. Nella prima scena è isolato rispetto ai fratelli che complottano, poi il dramma: lo aggrediscono, sgozzano una pecora per simulare la sua morte con il sangue sparso sulla tunica, e lo gettano nel pozzo; nel piano inferiore prima il confronto di Giuda che propone la vendita invece dell’uccisione, poi la contrattazione con i Medianiti, i mercanti del deserto, la cui carovana coi i cavalli e le merci trasportate è resa in modo spettacolare, infine Giovanni verso il destino di schiavo.
Dalla schiavitù al rifiuto virtuoso fino al carcere, poi di nuovo il riscatto
Il 4° arazzo,“Lamento di Giacobbe”, si sviluppa in verticale, con tre grandi figure in piedi che dominano la scena, nel cromatismo acceso dei loro abiti, mentre piccole figure si intravedono sullo sfondo tra alberi e fregi ricchi di elementi. In primo piano il padre con la barba bianca da patriarca e le braccia in alto per la disperazione alla vista della camicia insanguinata del figlio presentatagli dall’altro figlio Ruben e tenuta per un lembo da una donna identificata con Bilia, che lo aveva allevato come un figlio; le piccole figure di sfondo sono le teste degli altri fratelli che assistono da lontano alla scena altamente drammatica, l’albero con l’edera e il castagno hanno contenuti simbolici, come le due piccole salamandre simbolo del male al pari del serpente di Eva.
La scena cambia radicalmente, come nei montaggi cinematografici, i due arazzi successivi ci portano nella magnificenza della reggia, ne sono protagonisti nel 5° arazzo “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, il dignitario regale capo delle guardie del Faraone che lo aveva acquistato dai mercanti Medianiti. In verticale le due figure vicine in posa statica, lei a seno nudo ma senza particolare trasporto, cosa che sembra abbia indotto Cosimo ad affidare il secondo arazzo dedicato ai due non più al Pontormo, autore del primo, ma al Bronzino.
Ecco il 6° arazzo, “Giuseppe fugge dalla moglie di Putifarre”, si vede subito la diversa mano e il mandato preciso, la donna è raffigurata con prorompente sensualità in una scena dal forte contenuto erotico, Giuseppe è ripreso nella sua avvenenza mentre si divincola lasciando la tunica blu nelle mani di lei, nel segno delle virtù morali in cui si impersona Cosimo, e sono tanto più elevate quanto più è irresistibile l’invito da lui rifiutato.
Il clima da telenovela viene rotto bruscamente, del resto anche in altre storie antiche la donna si vendicava di chi l’aveva rifiutata accusandolo di aver tentato di farle violenza, Godard cita un testo egizio addirittura del XIII sec. a. C. e i miti di Bellerofonte e Stenebea e di Fedra e Ippolito. Ma non si ripiomba nell’incubo iniziale, la scena descritta nel 7° arazzo, “Giuseppe in prigione e il banchetto del Faraone”, nella parte superiore lo ritrae sotto un’arcata con ai lati due figure in catene: sono il capo coppiere e il panettiere del re che raccontano i loro sogni a lui che ha assunto per i propri meriti una posizione di preminenza nel carcere in cui è rinchiuso, simboleggiata dalla grossa chiave che ha in mano.
Sappiamo che interpreta i loro sogni, il coppiere tornerà a corte, il panettiere morirà, ed è ritratto sotto l’arcata destra impiccato a un albero. E’ come un fondale rispetto al primo piano con il sontuoso banchetto del Faraone al quale il coppiere riabilitato versa del vino, l’ambientazione è la corte medicea e il Faraone ha le fattezze di Cosimo, così gli arredi opulenti e le vesti sontuose; nella storia portata al presente ci sono anche due eruditi vicini al duca.
Si conclude così il racconto dei primi 7 arazzi, in un’alternanza di vicende e di emozioni dal forte contenuto drammatico e anche sentimentale.
Dalle ali del sogno quanto mai aulico e rassicurante dell’inizio con i covoni, il Sole e la Luna che rendono omaggio a Giuseppe, all’incubo, con la violenza dei fratelli che lo gettano nella cisterna da cui viene estratto e venduto come schiavo.
Poi il pendolo torna a salire nella Corte reale con l”attenzione della moglie di Putifarre, presa dalla sua avvenenza, per precipitare di nuovo con la vendetta per il virtuoso rifiuto alle allettanti profferte sensuali, e la prigionia di lunghi anni.
Ma le sue doti straordinarie, in cui si rispecchia il Duca Cosimo, gli fanno interpretare i sogni premonitori dei dignitari in disgrazia in carcere, e lo riporteranno sulla cresta dell’onda nella Corte reale di cui il 7^ arazzo dà un prima immagine.
Non solo, ma acquisirà una posizione preminente nel regno d’Egitto, dalla quale la saga familiare con i fratelli, che si svilupperà tra emozionanti colpi di scena prenderà tutt’altra piega rispetto all’incubo iniziale tra la morte scampata e la schiavitù subita.
Come nelle vicende a “suspence” rimandiamo al seguito della raffigurazione delle storie di Giuseppe per sciogliere le curiosità che una successione di fatti così intrigante suscita; e per ammirarne la trasposizione artistica nel delicato ordito degli arazzi. Ne parleremo prossimamente.
Info
Palazzo Vecchio, Firenze, Piazza della Signoria, Sala dei Duecento. .Fino al 30 settembre tutti i giorni escluso il giovedì ore 9-23, giovedì ore 9-14; dal 1° ottobre chiusura alle 19 invece che alle 23, giovedì orario invariato. Ingresso 2 euro. Catalogo “Il principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bron. Skira,, febbraio 2015, pp. 366, formato 24,5 x 31, con saggi di Godart, Acidini, Natali, Risaliti, Dolcini, Ciatti, Innocenzi, schede tecniche e galleria iconografica della collezione fiorentina e del Quirinale. Dal Catalogo, fornito con squisita cortesia dal Consigliere Godart, che si ringrazia sentitamente, sono tratte le citazioni del testo. Cfr., in questo sito, il nostro primo articolo sulla mostra il 13 settembre 2015 con riprodotti i primi 7 arazzi; il terzo e ultimo il prossimo 16 settembre, con i restanti 6 arazzi.
Foto
Le immagini degli arazzi sono state fornite dall’organizzazione della mostra, in particolare da “Comunicare Organizzando”, che si ringrazia; l’immagine della mostra milanese alla Sala delle Cariatidi di Milano è tratta dal sito web www.eimag.it/, al titolare va il nostro ringraziamento. Dei singoli arazzi – riprodotti in sequenza nei tre articoli secondo la successione della storia, e commentati uno per uno in questo articolo e nel successivo – vengono riportati il titolo che ne riassume il contenuto e l’anno, l’artista autore del disegno e cartone (Bronzino, Pontormo, Salviati), l’atelier del tessitore (Karcher, Rost), e la serie di appartenenza (Firenze, Quirinale ). In apertura, la Sala delle Cariatidi del Palazzo Reale durante l’esposizione milanese svoltasi dal 29 aprile al 23 agosto 2015; seguono, 8. “Giuseppe spiega il sogno del Faraone delle vacche grasse e magre”, 1548, Salviati, Karcher, Firenze, e 9. “Vendita del grano ai fratelli”, 1547, Bronzino, Rost, Firenze; poi 10. “Giuseppe prende in ostaggio Simeone”, 1547, Bronzino, Karcher, Quirinale, e 11. “Beniamino ricevuto da Giuseppe”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Firenze; quindi 12. “Convito di Giuseppe con i fratelli”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Quirinale, e 13. “La coppa di Giuseppe ritrovata nel sacco di Beniamino”, 1550-1553, Bronzino, Karcher, Quirinale; in chiusura, 14. “Giuseppe trattiene Beniamino”, 1546-1547, Pontormo, Rost, Quirinale.
Un evento senza precedenti può essere definita la mostra “Giuseppe, il Principe dei Sogni, negli arazzi medicei di Pontormo e Broonzino”, che espone a Firenze, Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento, dal 15 settembre 2015 al 15 febbraio 2016, i 20 preziosi arazzi fiorentini del ‘500, iniziativa della Presidenza della Repubblica e del Comune di Firenze con Milano per l’Expo. Si conclude il tour espositivo che rende omaggio all’unità d’Italia con Roma e Firenze, la capitale attuale e la precedente , insieme a Milano, a suo tempo definita “la capitale morale” per la sua valenza economica. La mostra è organizzata e realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, regista e prestigioso curatore Louis Godart, Consigliere del presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico, in un evento in cui alla conservazione si unisce la valorizzazione. Catalogo Skira, con 9 accurati saggi critici sugli aspetti storici e artistici, culturali e tecnici, e una raffinata galleria iconografica dei 20 arazzi anche con straordinari ingrandimenti dei particolari.
Dopo l’esposizione a Roma, Palazzo del Quirinale, nel Salone dei Corazzieri dal 12 febbraio al 12 aprile, e a Milano, Palazzo Reale, nella Sala delle Cariatidi dal 29 aprile al 23 agosto, i 20 arazzi tornano a Firenze, nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio, normalmente adibita a sede del Consiglio comunale .che, nel periodo della mostra, si trasferisce a Palazzo Medici Ricciardi; alla presentazione il sindaco Dario Nardella e Louis Godart. E’ la fase culminante dell’intero anno espositivo – 2 mesi a Roma, 4 mesi a Milano, 5 mesi a Firenze – il ritorno nella sede iniziale per la quale furono concepiti e realizzati i preziosi tessuti fiorentini assurti a simbolo dell’italianità in sedi simboliche, compresa la Milano dell”Expo..
Oltre a Firenze, dove l’arazzeria artistica è particolarmente ricca, per il Quirinale si potrebbe usare l’antico detto che “si portano vasi a Samo”, dato che dispone di una dotazione di oltre 260 arazzi; ma non per questo l’esposizione non è stata un evento, tutt’altro, data la peculiarità dei 20 preziosi arazzi, la cui storia incrocia i granducati con la Roma unitaria e le vicissitudini di questa, nel trasferimento della Capitale da Firenze a Roma.
Nel momento in cui la mostra da Milano si trasferisce a Firenze, e gli arazzi ritornano tutti a casa, ne diamo conto con riferimento alla mostra romana nel Salone dei Corazzieri al Quirinale, dove è iniziato il tour espositivo così denso di significati storici e artistici e fonte di emozioni.
La ricomposizione e il restauro dei 20 arazzi, una storia travagliata
Alle vicende storiche si deve anche la singolare sorte dei 20 preziosi tessuti , di venire divisi in due gruppi pur “narrando” per immagini delle storie in sequenza convergenti su un’unica figura, quella di Giuseppe Ebreo: 10 arazzi rimasti a Firenze, rinvenuti nel 1872 agli Uffizi e prontamente ricollocati nella sede originaria della Sala dei Duecento dopo il passaggio dell’edificio al Comune con il trasferimento della capitale a Roma; gli altri 10, che erano stati spostati da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti nel 1865 come dotazione della Corona, furono portati al Quirinale, allora reggia dai Savoia, nel 1892, poi nel 1948 sono entrati nella dotazione del Presidente della Repubblica. Un’inconcepibile separazione, che rivaleggia per irrazionalità e insensibilità con l’asportazione britannica dei fregi del Partenone.
I paesi deprivati delle loro opere d‘arte cercano legittimamente di averle in restituzione dai paesi che ne sono detentori per le vicende della storia, nel nome della ricomposizione dell’unitarietà artistica e della ricollocazione nel contesto originario. Non si vede, dunque, perché questo non possa, anzi non debba avvenire per gli arazzi, in cui detentore è lo stesso paese e la separazione non è tra soggetti privati con i diritti acquisiti, ma soggetti pubblici, addirittura la Presidenza della Repubblica e il Comune di Firenze. Tanto più che la separazione dei 20 arazzi in due lotti da 10 non è in due parti della storia, quasi si trattasse del primo e del secondo tempo di un film proiettati in due luoghi diversi, quindi unitarie al loro interno con una sostanziale completezza. Non c’è stata neppure quest’accortezza nel portare a Roma 10 dei 20 arazzi, sembrano presi casualmente, evitando quelli sagomati, forse in base a una preferenza momentanea.
Nella serie fiorentina, dopo il 2° arazzo si passa al 6° della storia, poi all’8° e 9°, segue l’11° e si salta al 15°, 16° e 17°, fino al 19°, l’ultimo; nella serie del Quirinale abbiamo due sequenze di tre arazzi consecutivi, dal 3° al 5° e dal 12° al 14°, più quattro isolati il 7°, 10°, 18° e 20°. “Non s’interrompe un’emozione” fu l’invocazione contro gli “spot” televisivi nei film; qui è molto peggio, non c’è solo interruzione poi superata, ma arresto e ripresa in altri luoghi, ambienti e situazioni. E bene ha fatto Godart nel percorrere in continuità la galleria degli affreschi, mentre le spettacolari riproduzioni del Catalogo si susseguono nelle due serie, fiorentina e quirinalizia, rendendo visivamente l’assurdità di una separazione che almeno per l’anno espositivo viene superata. Con l’auspicio che possa esservi un ripensamento: come per l’area archeologica del Colosseo si è giunti a un accordo permanente tra MiBACT e Comune di Roma per superare l’assurdo dualismo, non si può pensare a qualcosa di analogo per i 20 arazzi e riunirli per sempre?
Il sindaco di Firenze Dario Nardella, nella presentazione al Quirinale, maliziosamente faceva osservare la sagomatura di due arazzi che inquadravano due porte della Sala dei Duecento, per sottolinearne visivamente l’evidente legame con la provenienza; anche se poi aggiungeva che la ricollocazione permanente nella sede originaria non potrebbe avvenire per la delicatezza degli arazzi che non ammette una troppo lunga esposizione al pubblico, di qui nessuna rivendicazione.
Intanto è stata possibile la felice e inedita ricomposizione per il periodo della mostra itinerante, che approda ora nella Sala fiorentina dei Duecento, secondo la disposizione originaria così ricostruita da Carlo Francini: “Nel progetto gli arazzi dovevano coprire tutte le pareti della sala, quindi anche le porte e le finestre, inoltre dovevano essere collocati con il bordo inferiore al pavimento”, e cita a conforto la posizione in tal senso assunta da Adelson nel 1985 e quelle ripetute di Meoni nel 1998, 2010 e 2013.
Al contrario, nel 1875, dinanzi a un numero di arazzi quasi doppio rispetto alla superficie delle pareti, Conti nell’escludere per una logica elementare le otto finestre e le porte, concludeva: “Il pensiero che più naturalmente ricorre alla mente è che per sfoggio di magnificenza si cambiasse la decorazione”, pertanto integrò gli arazzi per le pareti con panni posti intorno ai bordi delle finestre.
La presentazione in due puntate delle storie di Giuseppe andava contro la logica elementare, perché se si fosse trattato di cambiare la decorazione si sarebbero fatti due cicli di 10 arazzi con storie diverse, è impensabile lasciare la “suspence” con il seguito della storia dopo la rotazione.
Dunque gli arazzi sono stati divisi tra Firenze e Roma, dove, peraltro, il numero di arazzi pregiati negli edifici storici fiorentini e al Quirinale è stato sempre molto elevato.
I 10 arazzi con le Storie di Giuseppe Ebreo rimasti a Firenze sono stati esposti nel salone dei Duecento ininterrottamente dal 1872, con l’uscita degli uffici statali della Capitale portata a Roma e il passaggio di Palazzo Vecchio al Comune, fino al 1983 allorché dopo una grande mostra delle collezioni medicee con il gran numero di arazzi della manifattura granducale del XVI secolo, si decise di rimuoverli dalle sedi espositive per tutelarli, prima immagazzinandoli, poi dando corso ad una vasta opera di restauro per il precario stato di conservazione, in particolare di questi 10 arazzi.
L’intervento iniziò nel 1985 e si svolse nei Laboratori di Restauro degli Arazzi dell’Opificio delle Pietre Dure prima agli Uffizi, poi a Palazzo Vecchio; ebbe termine nel 2009, con un seguito fino al 2012.
Clarice Innocenti fa un’accurata contabilità dell’immane lavoro sui 220 metri quadri circa dei 10 arazzi fiorentini: 119.000 ore di lavoro totali, con solo ago e filo, mentre si succedevano 9 soprintendenti dell’Opificio delle Pietre Dure e 2 direttori del Laboratorio.
Per restaurare i circa 210 metri quadri del 10 arazzi portati a Roma è stato costituito un apposito Laboratorio all’interno del Quirinale, che ha lavorato ininterrottamente in parallelo con il laboratorio fiorentino. Marco Ciatti ricorda che “a impostare tale laboratorio, a formare gli addetti e a progettare l’intervento fu chiamata Loretta Dolcini , che nell’Opificio delle Pietre Dure aveva portato avanti lo stesso lavoro per la serie fiorentina. Tale lavoro è stato in seguito così stretto che alla fine è stata del tutto assorbita dall’impegno romano, abbandonando l’istituto fiorentino”. L’omogeneità nelle metodologie usate garantisce la continuità delle due serie esposte insieme.
Il risultato di trent’anni di accuratissimo lavoro di restauro è nello splendore dell’ordito riportato all’antica perfezione, con il quale si dipana una storia altrettanto straordinaria, quella di Giuseppe Ebreo. Come è straordinaria la storia degli arazzi che si inquadra nella magnificenza della Firenze medicea.
I 20 arazzi e l’arazzeria fiorentina
Quella medicea è stata una stagione d’oro in cui oltre a questa forma d’arte se ne sono sviluppate altre, in particolare la lavorazione dei marmi policromi a cui si deve la facciata di Santa Maria del Fiore.
Cristina Acidini, già soprintendente museale a Firenze, ne ricostruisce l’evoluzione sottolineando che i 20 arazzi sono “tra i primi risultati (e certo in assoluto tra i più splendidi) dell’attività dell’arazzeria fondata da Cosimo de’ Medici”.
Era divenuto duca di Firenze dopo la vittoria sugli oppositori a Montemurlo, con il passaggio dalla Repubblica al Principato e la magnificenza a livello pubblico e privato, per le sedi locali e per i doni diplomatici, con impegno personale e con la disponibilità di notevoli risorse pur in anni difficili.
Lo favoriva l’ambiente locale, dove si erano sviluppate dal 1200 al 1500 le botteghe di un artigianato a livello artistico nel segno dei grandissimi Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti. E, relativamente all’arazzeria, ne indicavano le direttrici gli esempi delle antiche corti settentrionali, da Ferrara a Mantova fino a Milano, che avevano costituito da un secolo centri autonomi di produzione perché gli arazzi tradizionalmente importati dalle aree fiamminghe specializzate, con la loro impostazione gotica, non rispondevano alla visione rinascimentale che si era diffusa sull’abbrivio delle opere di grandi maestri.
Il duca promosse un’arazzeria sostenuta da un sistema misto in cui alle risorse pubbliche si associavano investimenti privati e l’assunzione di responsabilità degli operatori, che dovevano pagare gli aiutanti. La parte artistica imperniata sul disegno fiorentino, fu affidata ai più celebri artisti del tempo, dal 1545 a Jacopo Pontormo cui il duca, non del tutto soddisfatto, volle aggiungere il pittore di corte Agnolo Bronzino che ne era stato allievo, un ruolo minore ebbe il Salviati. Per le lavorazioni dei tessuti fino alla trasposizione negli arazzi dei disegni su cartoni degli artisti servivano gli specialisti fiamminghi, la cui reperibilità era favorita dal fatto che erano presenti in Italia come riparatori di arazzi e come tessitori, in particolare nelle corti settentrionali.
Cosimo riuscì a portare a Firenze Nicolas Karcher, che dal 1517 era nell’arazzeria della Corte estense a Ferrara, e nel 1539 si era spostato a Mantova; e Jan Rost, uno degli otto tessitori di Bruxelles al seguito di Karcher. “Prendeva così avvio nel 1545 l’arazzeria medicea che, arrivata ultima tra quelle delle corti rinascimentali italiane, si rivelò la più longeva, restando attiva per due secoli e sopravvivendo anche all’estinzione della dinastia fondatrice”.
Questo risultato fu ottenuto con “una visione lungimirante, che puntava alla formazione di addetti locali. Se dall’unione tra il sofisticato disegno fiorentino e l’ingegnosa abilità fiamminga ebbero origine arazzi di qualità superba (la cui fattura originale e complessa è stata, per la serie di Giuseppe, rilevata e commentata nel corso dei restauri condotti dall’Opificio delle Pietre Dure), tra i compiti assegnati ai tessitori fiamminghi vi era anche quello di trasferire il loro sapere istruendo giovani e fanciulli che, da garzoni con ruoli di mera assistenza, apprendessero il mestiere di tessitori”.
La Acidini conclude così: “E furono appunto i ‘creati’ fiorentini che assicurarono la continuità , da Bronzino raggiunti dalla primissima produzione – in cui erano stati profusi con dispendio vertiginoso materiali preziosi e tecniche laboriose – restassero, per quelle successive generazioni, inarrivabili”.
Il pensiero va all’elemento prevalente, quello descrittivo, anzi per meglio dire narrativo. Sono storie, quelle di Giuseppe Ebreo, che si dipanano in 20 stazioni, quasi una Via Crucis all’incontrario dato che l’escalation non è nella passione e nella tragedia, ma nella esaltazione di doti preclare dell’individuo che vengono premiate dalla fortuna amica, che “aiuta gli audaci”, in questo caso i virtuosi e saggi.
Ma non va trascurata l’importanza delle bordure degli arazzi, che fanno da cornice alle scene descritte all’interno e occupano una parte non trascurabile dell’intera superficie, negli arazzi più piccoli da un terzo a un quinto dell’intero tessuto. Ne parla ampiamente Loretta Dolcini, sottolineando che “ebbero un ruolo compositivo di grande monumentalità”, ma non solo: . “Ebbero anche la funzione di vivificare visivamente e stilisticamente pagine figurate, differenziate fra loro non solo per il soggetto e le dimensioni, ma anche talvolta per incongruenze formali dovute alla presenza di artisti che si esprimevano con cifre stilistiche diverse in un periodo assai lungo di realizzazione complessiva”
Oltre a questa funzione ornamentale unificante, ne ebbero un’altra di contenuto: “A esse fu affidato dal duca e dal suo gruppo di fedelissimi intellettuali un complesso significato simbolico, parzialmente ermetico, venato di simbologia ed ermetismo, la cui decrittazione qualifica iconograficamente questi fregi come il vero e proprio spregiudicato manifesto concettuale e politico di tutta l’impresa”.
La magnificenza celebrativa di Cosimo de’ Medici
Ma torniamo all’origine di quest’opera. Gli arazzi sulle storie di Giuseppe Ebreo, come primo massimo momento dell’arazzeria fiorentina basata sui disegni rinascimentali con i maestri tessitori fiamminghi, furono una delle tante espressioni della magnificenza cheCosimo de’ Medici concepì da mecenate utilizzando il potere delle immagini, dei simboli e dei miti in senso celebrativo.
Ha scritto Morolli che Cosimo voleva “dare un segno visibilissimo ed eloquentissimo del drastico cambiamento di regime, quasi a proporsi come nuovo e assoluto ed eterno e unico ‘priore’ non più eletto per un semestre, ma consacrato a vita alla guida della città”. Per questo, commenta Pietro Risaliti, “ordinò un nuovo allestimento per l’antica aula repubblicana che diventò una ‘maiestatica sala del trono'”.
Si circondò dei migliori artefici, impiegò ingenti risorse, si mosse con rapidità ed efficienza nel mutare l’assetto di Firenze con opere come gli Uffizi e il Ponte di Santa Trinità, sotto il profilo urbanistico, e promuovendo non solo le accademie artistiche, letterarie e scientifiche a Firenze e Pisa, ma anche lo sviluppo di fabbriche e laboratori in veri distretti tecnologici artigianali.
Sul piano dell’arte, oltre che collezionista e mecenate come tutti i Medici, fu promotore di opere in emulazione con la Roma cinquecentesca.
Ne sono espressione i cicli pittorici di Palazzo Vecchio, la sua reggia principesca, che, secondo Risaliti, “sono la dimostrazione superba, quasi titanica, del piano ideologico del mecenate, che crede modernamente in una combinazione di retorica figurativa e propaganda politica, dove l’icona del granduca s’incastona come sole folgorante in una costellazione di epoche, eventi, personaggi che storicizza ed eternizza passato, presente e futuro della dinastia medicea fiorentina”.
Così anche gli affreschi di Castello che lo celebrano come rifondatore di Firenze e i dipinti della Cappella d’Eleonora sempre in Palazzo Vecchio con il messaggio politico nelle storie di Cristo. “Mosè non era soltanto figura di Cristo – scrive Antonio Natali – ma anche (e forse segnatamente) immagine del duca: in lui si dovevano vedere incarnate le virtù di condottiero ch’erano necessarie al governo d’una città orgogliosa e fiera della sua storia, ma bisognosa d’una guida sicura”.
Con gli arazzi, quasi contemporanei, commissionati per la sala dei Duecento, sempre a Palazzo Vecchio, “di nuovo si ricorre a un personaggio eminente del Vecchio Testamento, lui pure caro alla tradizione fiorentina quale modello di virtù alte: Giuseppe Ebreo. La sua vicenda umana lo consegna alla storia come esempio specialmente di lealtà, di giustizia e di magnanimità. Tutte doti reputate prerogative indispensabili degli uomini chiamati a guidare uno Stato”. Di qui il messaggio volto a identificare il personaggio biblico con il reggitore illuminato di Firenze.
Le storie di Giovanni Ebreo si trovano anche in opere fiorentine di poco precedenti, come le tavole lignee per la camera nuziale di Pierfrancesco Bogherini, quale modello di castità: autori i maestri della “maniera moderna” del tempo, fra i quali Andrea del Sarto e Pontormo a cui fu dato l’incarico iniziale per i disegni degli arazzi, per i quali la scelta del soggetto ebbe invece risvolti politici; finché, come si è detto, intervenne il Bronzino e si aggiunse, in minore misura, il Salviati.
Queste tavole interessarono il figlio di Cosimo, Francesco, che nel 1584 volle acquisirle per le sue raccolte, dopo che la moglie di Bogherini nel 1529 si era opposta al trasferimento in Francia, respingendo la richiesta del re Francesco I. . Il suo era un interesse artistico, ma il padre “dominus” di Firenze aveva scelto Giuseppe Ebreo come soggetto della trasposizione simbolica della propria figura di reggitore saggio e illuminato, che poteva rispecchiarsi in una storia biblica edificante. E aveva fatto immortalare la storia negli oltre 400 metri quadrati di arazzi si elevato livello artistico..
Di questa storia parleremo prossimamente con riferimento al Libro della Genesi. Poi descriveremo ad uno ad uno i 20 arazzi seguendo la continuità della storia, quindi passando di volta in volta da quelli della collezione fiorentina a quelli della collezione del Quirinale. L’assurdità della separazione risulta evidente proprio per la mancanza di continuità narrativa nelle due collezioni, e speriamo che, lo ripetiamo,questa possa essere l’occasione per un ripensamento. In questo caso l’evento della mostra itinerante diventerebbe epocale, farebbe rimuovere lo strascico insensato di una storia travagliata per cui perseverare, “absit iniuria verbis”, sarebbe veramente diabolico. .
Info
Palazzo Vecchio, Firenze, Piazza della Signoria, Sala dei Duecento. Fino al 30 settembre tutti i giorni escluso il giovedì ore 9-23, giovedì ore 9-14; dal 1° ottobre chiusura alle 19 invece che alle 23, giovedì orario invariato. Ingresso 2 euro. Catalogo “Il principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino”, Skira, febbraio 2015, pp. 366, formato 24,5 x 31, con saggi di Godart, Acidini, Natali, Risaliti, Dolcini, Ciatti, Innocenzi, schede tecniche e raffinata galleria iconografica della collezione di Firenze e del Quirinale. Dal Catalogo, fornito con squisita cortesia dal Consigliere Godart, che si ringrazia sentitamente, sono tratte le citazioni del testo. Cfr. in questo sito, il 15 e 16 settembre 2015, i nostri due articoli successivi sulla mostra con riprodotti gli altri arazzi della storia di Giuseppe, dall’8° al 20°.
Foto
Le immagini degli arazzi sono state fornite dall’organizzazione della mostra, in particolare da “Comunicare Organizzando”, che si ringrazia, l’immagine della presentazione della mostra a Firenze nella Sala dei Duecento è tratta dal sito web www.lanazione.it, al titolare va il nostro ringraziamento. Dei singoli arazzi – riprodotti in sequenza nei tre articoli secondo la successione della storia, e commentati uno per uno nei due ultimi articoli – vengono riportati il titolo che ne riassume il contenuto e l’anno, l’artista autore del disegno e cartone (Bronzino, Pontormo, Salviati), l’atelier del tessitore (Karcher, Rost), e la serie di appartenenza (Firenze, Quirinale). In apertura, uno scorcio della Sala dei Duecento a Palazzo Vecchio alla presentazione della mostra; seguono, 1. “Il sogno dei manipoli”, 1549, Bronzino, Karcher, Firenze, e 2. “Giuseppe racconta il sogno del sole, della luna e delle stelle”, 1549, Bronzino, Rost, Firenze; poi 3. “Vendita di Giuseppe”, 1549, Bronzino, Rost, Quirinale, e 4. “Lamento di Giacobbe”, 1553, Pontormo, Rost, Quirinale; quindi, 5. “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1546-1547, Pontormo, Rost, Quirinale, e 6. “Giuseppe fugge dalla moglie di Putifarre”, 1549, Bronzino, Karcher, Firenze; in chiusura, 7. “Giuseppe in prigione e il banchetto del Faraone”, 1546-1547, Bronzino, Rost, Quirinale.
Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, dal 26 giugno all’11 ottobre 2015 la mostra “L’Azienda oggetto d’arte” espone oltre 70 opere di artisti italiani ed internazionali ed opere “storiche” dedicate alla pubblicità di prodotti e società in una galleria di grande varietà ed originalità, con pitture, disegni, packaging di prodotti,, fino a bici, moto ed auto personalizzate. Curata da Luca Desiata della pptArt.
La mostra è organizzata dalla pptArt, nata nel 2011 su iniziativa di manager con Master in Business Administration e di esperti d’arte. Non ha l’intento, come il corso di formazione della Luiss, di introdurre la managerialità nell’organizzazione di mostre ed eventi artistici; bensì di dare, con il linguaggio universale dell’arte, un’immagine positiva del mondo aziendale, considerato freddo e impersonale utilizzando, i più moderni strumenti di comunicazione nel settore dell’arte su commissione, in particolare il “crowdsourcing” per commissionare un’opera a largo raggio.
“L’azienda come oggetto d’arte” è nel suo manifesto on-line, ben più di uno slogan se ha avuto la capacità di raccogliere l’adesione di oltre 2000 artisti di 70 paesi. Dopo un anno da tale manifesto, del marzo 2014, la mostra ne mette in atto il principio, che richiama l’affermazione provocatoria contenuta nel manifesto Dada degli anni ’20 di Tristan Tzara, secondo cui “anche la pubblicità e gli affari sono elementi poetici”. Non si arriva a questo, ma è indubbio che la pubblicità raggiunge i livelli dell’arte se fatta da veri artisti.
Di queste meritorie realizzazioni dà conto la mostra con un’esposizione quanto mai istruttiva.
La selezione delle opere in mostra
Non si tratta della “Pop Art” declinata da Andy Warhol che si ispira ai prodotti della società dei consumi facendone icone della contemporaneità, e neppure delle immagini visionarie di David Lachapelle, bensì della creatività artistica applicata al business. Diciamo creatività applicata al business e non posta al suo servizio perché l’artista è sempre autonomo nell’espressione, anche se il risultato deve collimare con la “mission” del committente.
Merito della mostra è raccogliere queste espressioni pubblicitarie senza che vada disperso il loro contenuto artistico considerando che la diffusione dei messaggi ha portato l’arte a contatto con il pubblico più vasto. Utilizzare l’arte nella comunicazione aziendale non è soltanto un fatto di marketing, investe anche la responsabilità sociale dell’impresa, quindi non può che essere apprezzato sotto ogni aspetto.
La selezione ha considerato le opere aventi valore artistico rispondenti alla fisionomia dell’impresa e dei suoi prodotti, commissionate per la valorizzazione commerciale e per l’immagine; e non quelle rispondenti a una funzione di mecenatismo che meritoriamente troviamo in grandi società: citiamo la Rai per averne viste esposte molte nella mostra celebrativa, rispondenti alle due logiche, mecenatismo e promozione.
Rientrano nella valorizzazione dell’azienda le opere d’arte, esposte anch’esse, che celebrano momenti particolari della vita aziendale, ricordiamo l’opera di Ugo Nespolo nella recente celebrazione da parte della Rai dei 70 anni di televisione e 90 anni di radio, l’artista è presente in questa mostra.
Non sempre gli artisti inseriscono prodotti commerciali nelle loro opere con finalità promozionali, ci sono i casi in cui i prodotti fanno parte spontaneamente della composizione, ed anche questo aspetto particolare è considerato nella selezione. Così si entra nella Pop Art con gli oggetti della società dei consumi che diventano soggetti dell’opera d’arte, come la scatoletta di zuppa in Warhol.
Alcuni nomi di imprese evocano subito i prodotti, dalla Martini & Rossi alla Piaggio, dalla Strega Alberti alle Poltrone Frau, dall’American Express alla Montblanc, dalle Poste alla Telecom; scorrendo i nomi degli artisti, indipendentemente dai prodotti promossi, spiccanoRenato Guttuso con “Il Gobbo Beneficato”, 1949, eLorenzo Vespignani con “Notturno”, 1951, Mimmo Paladino con “La Strega”, 2004 e Ugo Nespolo con “150 Anniversario del Gianduiotto”, per citare alcuni tra i più noti al grande pubblico.
Le opere esposte, fior da fiore
Il recentissimo contributo di Ugo Nespolo alla Caffarel appena citato per il Gianduiotto, è non solo un quadro ma anche un package colorato e ironico disegnato con il suo stile inconfondibile di pittore e scultore, per la Limited Edition: un incarto in vari formati anche per gli Usa. Mentre a “La Strega” di Paladino associamo “La danza delle Streghe” di Beppe Guzzi.
Analoghi interventi direttamente sul prodotto per società come l’American Express, le cui “Gift Cards” nel 2009 sono state disegnate da Peter Max, noto per i ritratti presidenziali e per la Cosmic Art, per la Absolut Vodka, precisamente le etichette disegnate da Romero Britto, nel suo stile fumettistico, sin dal 1998, sono esposte quelle del 2014, l’artista ha avuto commissioni da multinazionali, come Disney ed Evian, per loghi. murales e sculture.
Viene direttamente dalla scuola di fumetto e illustrazione Willow, di cui vediamo l’intervento sul prodotto in “Fashion Ballons”, in smalto su cappello realizzato nel 2011 per Borsalino, successivamente interverrà con il “Panettone d’autore” per la Mott Art del 2012 e con altri lavori per i Diari della Panini nel 2013-15.
Gli interventi sul prodotto acquistano una speciale evidenza nelle Macchine per caffè della Marzocco, con le scene di vita africana realizzate dallo “street artist” Fabrizio Folco Zambelli, in arte Bicio, tre modelli-custom di cui vediamo “Zebra” del 2011, sono legati anche a un progetto aziendale in territorio africano.
Diverso è il rapporto con il prodotto di Marcello Reboani, che associa i più disparati elementi, come vediamo in “Ritratto di manager”, una composizione pittorica con telefono e aereo, fili e altro, e in “Vespa” del 2012: si ispira alla Pop Art nel rappresentare le icone della contemporaneità ricreandole con l’assemblaggio di materiali eterogenei facenti parte del quotidiano, dal vetro alla plastica, dal metallo al plexiglas, dai tessuti e pelli al materiale di recupero, è come se riprendesse vita la materia rifiutata. Per mera associazione di idee ci tornano in mente le sculture dell’artista libico Wak Wak e del giovane Alessio Deli, che con modalità e intenti diversi utilizzano materiali recuperati, il primo dai residui di guerra in Libia, il secondo dalle discariche.
Altri tipi di interventi li vediamo nel cubo del 2013 di Lobulo per Telecom Italia Sparkle, “Sparkle’ World . No Boundaries” che evoca un mondo senza confini con le varie aree interconnesse, come vorrebbero essere i prodotti dell’impresa sempre aderenti alle esigenze mutevoli dei clienti. E nel “D’Apres Fabbri”, 2014, di Marco Lodola, il cui lavoro si ispira ai fauvisti e a Matisse; l’opera esposta è di carattere notturno e metropolitano.
Con David Harber, le cui opere sono nelle case e sedi aziendali di diversi paesi, entrano in campo matematica, astronomia e scienza in “un’interazione tra elementi di luce e ombra, paesaggio e acqua, con un disegno tridimensionale che celebra l’imprevedibilità e l’illusione del passare del tempo”. Utilizza i materiali metallici e pietra in opere destinate a durare nel tempo, vediamo esposta “The Turbine”, 2015.
La sua modernità espressiva la associamo a quella di Mimmo Iacopino,“Misure a colori”, 2015, e di Salvatore Vaccaluzzo, “Tessere di storia”, con la chiocciola delel e mail entrata prepotentemente nella vita di tutti con Internet.
Oltre al prodotto, in diversi casi si promuove un’iniziativa benefica, lo vediamo con “Doggy Bag – Se avanzo mangiatemi”, di Olimpia Zagnoli per Comieco, 2015, contro lo spreco alimentare, il messaggio è impresso direttamente sul packaging cellulosico, con un’immagine dal forte impatto.
E il quadro tradizionale con l’arte pittorica ispirata all’industria e come tale utilizzata per la “mission” aziendale? C’è anche questa, citiamo le 4 opere premiate nel “Premio Pittura Esso”, come “Raffineria”, uno scorcio di un grande impianto, forse Porto Marghera, con depositi, serbatoi e tubi. Siamo nel 1951, Il dipinto ci suscita l’associazione di idee con le recentissime opere di Lachapelle, in una mostra contemporanea al Palazzo Esposizioni, dove grandi impianti come le raffinerie sono offerti nella spettacolare ricostruzione e ripresa del fotografo artistico americano.
Sempre in campo petrolifero, citiamo il cane a 6 zampe “scolpito” in ferro di Antonio Pio Sarracino, “Trofeo Eni 2010”.
Con il 1951 siamo tornati indietro nel tempo, ma lo facciamo ancora di più con la collezione storica della Martini & Rossi, una vera chicca dell’esposizione: sono i manifesti di Giuseppe Riccobaldi su “Martini Vermouth – Exijalo siempre bien heldo”, risalgono al 1938, come quelli di Leonetto Cappiello; in una teca sono esposti alcuni esemplari delle edizioni limitate n“Art Gallery” sulle radici culturali e artistiche della casa, realizzate nel 2000 per celebrare l’entrata del nuovo millennio.
Una carrellata non solo interessante ma anche suggestiva, perché la sfilata di ditte e prodotti evocata dalle opere esposte è un forte stimolo alla memoria personale che può suscitare autentiche emozioni.
Info
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 8,30-19,15, lunedì chiuso. Ingresso euro 8 (mostra + museo), ridotto 4 euro e gratis per le categorie previste. http://www.gnam.beniculturali.it/ Tel. 06.3229832115. Per le citazioni del testo, crf. i nostri articoli in questo sito: nel 2015 sulle mostre di David Lachapelle il 12 luglio e di Henri Matisse il 23 e 26 maggio, nel 2014 su Andy Warhol il 15 e 22 settembre e sulla Rai il 13 marzo, nel 2013 su Wak Wak il 27 gennaio e nel 2012 su Alessio Deli e l’ “Accessible Art”il 21 novembre, sulla Pop Art il 29 novembre, è il secondo dei tre articoli sulla mostra del Guggenheim, gli altri due il 22 novembre e l’11 dicembre; in “cultura.inabruzzo.it” nel 2010 per il “Luiss master of Art” il 3 maggio, per Dada e i surrealisti il 6 e 7 febbraio, tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito prossimamente.
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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, che si ringrazia, con pptt Arts e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Renato Guttuso, “Il Gobbo Benificato”, 1949; seguono, Lorenzo Vespignani, “Notturno”, 1951, e Ugo Nespolo, “150° Anniversario del Gianduiotto”, 2015; poi, Mimmo Paladino, “La Strega”, 2004, e Marco Veronese, “Nuovo Rinascimento”, 2012; quindi, Marcello Reboani, “Ritratto di manager”, e Beppe Guzzi, “La danza delle stregae”, 1949; inoltre, Antonio Pio Sarracino, “Trofeo Eni 2010”, e David Harber, “The Turbine”, 2015; infine, Mimmo Iacopino, “Misure a colori”, 2015, e, in chiusura, Salvatore Vaccaluzzo, “Tessere di storia”.
Al Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, dal 1° luglio al 27 settembre 2015, la mostra di Fan Zeng, “La sinfonia delle civiltà” espone 80 opere del grande maestro cinese, un’eccellenza assoluta nei campi della pittura, poesia e calligrafia. Nelle civiltà della Cina e dell’Italia c’è un’impronta indelebile che sfida i millenni nel segno dell’ “immensa civiltà della pace”, per usare le parole di Plinio il Giovane citate da Louis Godart, Consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico, curatore della mostra. Catalogo Nankai University Press.
Questa mostra, un evento per il livello dell’artista e l’ampiezza della gamma espositiva, si svolge nel 45° anniversario dell’apertura delle relazioni diplomatiche tra la Repubblica Popolare Cinese e l’Italia e ne rappresenta in un certo senso la celebrazione in nome dell’incontro di civiltà, nel segno degli antichissimi traffici sulla Via della Seta, di cui ricordiamo la grande mostra al Palazzo Esposizioni, e dei grandi viaggiatori, da Marco. Polo, 1254-1324, a Matteo Ricci, 1552-1610.
Ad entrambi, e a Paganini, sono dedicati dipinti del Maestro, ma l’icona della mostra è un ritratto di Michelangelo, anche lui, come Zeng, poeta, scrittore e pittore; ci torna in mente l’altro gemellaggio, tra il famoso pittore Qi Baishi e Leonardo da Vinci espresso in due grandi statue che dialogano, opera dello scultore cinese Weishan che ha esposto a Palazzo Venezia ricercando anch’egli la “sinfonia di civiltà”. Altre mostre sull’arte cinese hanno presentato il “Realismo figurativo contemporaneo” e “I maestri della pittura moderna cinese” a Palazzo Venezia, dove con “L’Aquila e il Dragone” sono state poste a confronto le civiltà romana e cinese.
Zeng è figlio d’arte, la sua famiglia per 13 generazioni, lungo quattro secoli e mezzo, ha dato alla Cina poeti e letterati; per avere un’idea della sua grandezza si consideri che ha scritto 125 libri, di letteratura e storia, filosofia ed arte, conservati nella Biblioteca Nazionale della Cina; mentre le sue opere d’arte, in particolare pittoriche, sono nelle collezioni della Città Proibita di Pechino, nei Musei Nazionali della Cina; nel museo Guimet di Parigi, nel Museo Rodin e in altri ancora. Insegna all’Università di Pechino dove dirige il Dipartimento di Pittura cinese, e all’Università Nankai.
Alcune concezioni di Zeng sull’arte
Per meglio interpretare le sue opere va ricordato che la pittura cinese non va verso il realismo, la logica, la divisione tra divino e umano come in Occidente, ma è legata ai sentimenti pur partendo dall’esperienza con un metodo induttivo; alla base c’è il sapere e una tradizione antichissima di 2500 anni, la fusione tra metodologia terrena e ontologia trascendente.
La tradizione è la grande memoria collettiva dell’umanità, include tutto. Secondo il nostro artista, la bellezza risiede nella natura, che non si può frenare e non si cambia con le parole, è il più grande dei maestri. Si può dire che l’artista sia figlio della natura che lo stringe in un abbraccio nella semplicità e nell’innocenza, svelando i propri segreti con generosità; così può abbandonarsi fiducioso ad essa.
Nell’arte non ci si può limitare ad esprimere il dolore ma lo si deve superare dando consolazione all’anima; i dipinti sono simbolici ed essenziali, senza particolari non necessari, pervasi da uno “spirito scolastico” brillante e liberatorio. In pittura conta lo stato soggettivo, è come sciogliere le briglie a un cavallo perché cavalchi libero verso orizzonti lontani.
La mano del pittore può far apparire o sparire le creazioni della natura, l’artista la definisce con termini quanto mai forti ed espressivi: è come “una freccia scagliata, un’aquila affamata, un purosangue assetato, un fulmine accecante”. Ne deriva una pittura tutt’altro che quieta e timida, in essa c’è tanta foga e intensità.
Afferma inoltre quello che per lui è un principio fondamentale: occorre “prendere la poesia come anima e la letteratura come ossa”, vanno sempre insieme, si possono annullare ma mai separare. L’anima non può essere serena in un corpo stanco, come il corpo non può stare bene se l’anima non è in pace. E collega strettamente, citando il maestro Li Keran, la calligrafia con la pittura.
Le due antichissime civiltà di Italia e Cina hanno “un che di grandioso e di spirituale che le farà sopravvivere nei secoli”, al riguardo cita le parole di Mencio: “La virtù che riempie il corpo è detta bellezza; dalla ricchezza di virtù scaturisce uno splendore detto grandiosità; la virtù che trasforma le persone del mondo è detta sacralità; la sacralità con i suoi enigmi è detta divinità”. Umanità, cultura e letteratura “non solo sono fine primario degli Stati, ma anche un grande evento eterno”.
Aspetti della sua poliedrica personalità artistica
Fan Zeng ha la straordinaria peculiarità di essere anche scrittore, poeta e calligrafico. Così ne parla Godart: “La sua arte poetica si materializza attraverso la calligrafia capace di esprimere tutta l’eleganza e la forza del pensiero”. Mentre “la scrittura, meglio di qualsiasi monumento lasciato dagli uomini, è il solo strumento in grado di vincere la sfida con l’oblio e la morte”. Inoltre “disciplinare la scrittura, rendere attraenti i manoscritti grazie all’introduzione dell’arte della miniatura è stato a sua volta e per secoli una preoccupazione dell’Occidente”. Per questo “la sintonia tra le nostre due civiltà si esprime anche attraverso l’amore per la bellezza da conferire al testo scritto”. E della calligrafia Zeng ha fatto un’arte, come si vede nell’apposita sezione della mostra con gigantografie dei testi calligrafici, vere tele pittoriche.
La sua pittura viene descritta da David Gosset, direttore dell’Accademia Sinica Europea, con queste parole: “Nel mondo del pennello del Maestro le linee sono purissime, e le sfumature, gli stati d’animo e le emozioni più complesse sono espresse nelle forme più semplici, ma il suo stile è caratterizzato anche da una rara sprezzatura”.
Andando oltre l’apparenza, prosegue: “Mentre l’artista comune si limita ad esibire il suo talento, Fan Zeng non esibisce la sua arte, perché la sua arte, in un certo senso, è una non-arte proprio come la più perfetta azione del Tao è la non-azione”. C’è molta umiltà, dunque: “Il Maestro non è nella posizione di un creatore trascendente, non emula Dio e la genesi, il suo ego si è ritirato al mondo così che l’inchiostro nero si muove sulla carta bianca esprimendo il ritmo di trasformazioni immanenti”, con l’armonia “del vuoto e del pieno, della terra e del Cielo”.
Per questo “nei capolavori presentati al Vittoriano, la ricca biografia di Fan Zeng, la sua immensa erudizione, il suo senso dell’ironia, la sua forte presenza fisica scompaiono; i ‘Quattro tesori dello Studio’ svaniscono e resta solo il Qi, l’energia vitale che circola tra il visibile e l’invisibile”.
Con questa particolarità: “Uomo anziano con l’animo di un bambino, Fan Zeng non oppone il passato al futuro, l’Occidente all’Oriente, la permanenza ai cambiamenti, ma proietta la loro eterna armonia”. E’ una conquista l'”eterna armonia” per lui, come è stata la “perfetta armonia” per Mondrian; ma qui siamo nell’Oriente, si va ancora oltre: “La sua visualizzazione dell’invisibile, che riconcilia gli opposti, è la rappresentazione della saggezza”.
Non ci resta che verificarlo, le 80 opere esposte sono un libro aperto, spettacolari nella loro dimensione e nello stesso tempo di una leggerezza eterea, pur nella ferma definizione del segno. La conciliazione dei contrari nell’eterna armonia della natura opera anche sotto questo aspetto.
Le opere esposte, le visioni simboliche
Entriamo in una galleria coinvolgente, fatta di grandi affreschi in punta di penna con qualche macchia di colore, lo stile calligrafico è evidente come l’alta ispirazione che anima le composizioni, dominate per lo più da una figura, evocatrice di un concetto, di una visione.
Subito colpiscono le grandi raffigurazioni in orizzontale, lunghe anche otto metri, alcune con immagini femminili in abito rosso oppure evanescenti, di una delicatezza e trasparenza straordinaria difficili da descrivere, tanto sono aeree e incorporee, pur se delineate con precisione e raffinatezza di segno. E’ una successione di pannelli che si estendono sulle pareti e fanno entrare il visitatore in un mondo etereo di indicibile fascino.
Poi ci sono i dipinti di dimensioni minori, per lo più verticali, con poco colore, molto calligrafici: si incontra subito dopo l’ingresso nella mostra una galleria di personaggi affiancati molto espressiva.
Tra la vastissima gamma di dipinti esposti, ci soffermiamo su quelli ai quali vengono attribuiti i significati maggiormente simbolici ed evocativi.
Vediamo in “Qi – Yiqiu insegna le sue discipline” , un vasto affresco orizzontale con il filosofo che spiega a un bambino un gioco di pietre bianche e nere, metafora dell’arte della guerra e delle strategie di governo; e in “Qin – Alte montagne e Acqua fluente” un suonatore che strimpella il suo strumento a corde mentre un saggio in piedi ascoltandone la musica riesce a interpretare i pensieri, rivolti a un alto monte o a un grande fiume: metafora per esaltare chi sa riconoscere il talento.
Poi altri temi, “Calligrafia – Huaisu crea lavori calligrafici”, ancora un saggio che insegna a un bambino l’arte tradizionale cinese, considerata “la poesia senza parole, la danza invisibile, la pittura senza schema e la musica silenziosa”; e “Pittura. Danzi realizza un dipinto a mano”, il “santo della pittura” incarna i motivi della pittura cinese, insieme fantastica e realistica, espressione di sentimenti ed emozioni in una somiglianza estetica e insieme spirituale,
Dall’arte alla fantasia in “Zhuangzi sogna di diventare una farfalla”, gli occhi socchiusi l’atteggiamento estatico, una piccola farfalla in alto; solo un uccellino senza figura umana in “Imitazione di Bada Sharen”, il “grande saggio” che usa un linguaggio simbolico per esprimere la non-azione nella composizione essenziale senza particolari superflui, caratteristica della pittura cinese. In “Bada Shanren (Zhu Da)”, la figura del pittore e calligrafo seduto con il cappello a larghe falde.
Un altro personaggio che vediamo due volte è “Laozi attraversa il Passo di Hangu”, figura fantasmatica su un bufalo nero, che evoca lo spirito lanciato in una cavalcata fantastica; mentre in “Laozi e un ragazzo” alla figura sul bufalo, questa volta ben delineata, è affiancata quella di un bambino, quanto mai tenera e delicata.
Anche nel “Dipinto di Zhong Kui” il personaggio è in groppa a un quadrupede, ora è un cavallo nero lanciato al galoppo; c’è invece un cavallo bianco in primo piano in “Bo Le”, il grande intenditore di cavalli che viene ritratto come metafora della caccia ai talenti.
Dopo Bo Le, “Ji Gong”, una figura energica che si muove a piedi con determinazione, e incarna sentimenti contrastanti, “sia l’aspetto folle che il lato saggio”, mentre“Li Bai”, il poeta romantico cinese, è ritratto anche lui in piedi ma fermo con a lato un cigno.
“La meditazione del Bodhidharma” mpstra “il suo sguardo limpido e tranquillo, espressione del suo vasto e comprensivo cuore”, così lo definisce lo stesso autore che prosegue: “Quando questo cuore smisurato e sconfinato abbraccia l’universo, allora i legami e gli affetti vengono eliminati, le preoccupazioni soppresse. Questa è la luce del Cielo”, espressione applicabile all’intera sua opera.
Altri dipinti non recano nomi di saggi e filosofi ma titoli evocativi come “Ritorno dal pascolo” con un bambino e tratti calligrafici definiti “tracce del punteruolo sulla sabbia” o “traccia di perdite sui muri”; questo il messaggio dell’artista: “Si può indugiare ma non si deve stare fermi; ci si può muovere rapidamente, ma non si dovrebbe correre”, con un “avvicendamento tra lento e veloce”.
Mentre “La grande libertà” raffigura un eminente monaco con la ciotola per l’elemosina che esprime questo concetto: “Esternamente tieniti lontano da tutte le relazioni, internamente non avere dipinti nel tuo cuore; quando la mente è simile a un muro dritto, puoi entrare nel Cammino”. Con il “risveglio della Fede” si ha “l’abbandono di tutte le parole e le immagini, al fine di raggiungere l’origine del cuore e della mente, superando ostacoli in tutti i loro aspetti, comprendendo tutte le cose, il cuore sempre più luminoso”.
“Lo stagno estivo” riporta l’artista alla sua infanzia felice anche se povera, illuminata dalla fantasia che gli faceva immaginare uno stagno dei loti e una rana: “Il mio cuore di bambino, esclama, sembra essere proprio quello della pittura”. E’ un bambino felice in groppa a un bufalo nero in “La foglia di loto sulla testa”, sfida la pioggia scrosciante coprendosi. “Uno stagno di acqua trasparente” raffigura un leggiadro animale che domina l’ambiente con un’espressione umana.
La scena si allarga in “Le nuvole si allontanano controvoglia dalle montagne” e in “Non so altro di questi monti se non le nuvole”, ma tutto questo è solo nei titoli: nel primo la figura di un saggio che guarda in alto, si tratta di Tao Yuanming che “trova la più grande consolazione nella grande bellezza e abnegazione della natura comprendendo che i suoi sacrifici sono finalmente contraccambiati”, esistono nei suoi desideri le nuvole e le montagne, espressi dalla sua gioia; nel secondo dipinto c’è anche un bambino al quale il saggio impartisce gli insegnamenti.
I ritratti e le opere calligrafiche
Fin qui l’immersione è stata nel mondo fantastico ed altamente simbolico dell’arte e della spiritualità orientale, proprio della pittura cinese nelle sue espressioni tradizionali e moderne.
Ma c’è dell’altro nell’arte di Fan Zeng, che ne fa a buon diritto interprete della “sinfonia di civiltà” celebrata nella mostra: i ritratti di personaggi dell’Occidente, scelti per i significati che incarnano. “Albert Einstein” simbolo della scienza e “Mark Twain”, scrittore molto conosciuto in Cina, “Martin Luther King” con il suo “I have a dream”: “Io sogno che ogni valle sarà elevata ed ogni collina e montagna sarà spianata, i luoghi impervi saranno piani e i luoghi tortuosi saranno dritti; e la gloria del Signore sarà rivelata a tutte le persone riunite”, vi ritroviamo temi delle sue opere; e poi “Rodin e Balzac”, lo scultore e il drammaturgo fino a “Victor Hugo”, definito “Il ruggito del leone”, dall’espressione decisa e pensosa accentuata dalla barba che gli dà autorevolezza.
Al culmine di questi ritratti, quelli di grandi italiani, come si è già accennato all’inizio, primo tra essi “Michelangelo”, assurto a simbolo per incarnare pittura, scrittura e poesia, come Fan Zeng, e poi “Marco Polo” con un copricapo rosso su uno sfondo di uccelli in volo in uno spazio sterminato, quello dei suoi viaggi, e “Xu Guangqi e Matteo Ricci“, l’astronomo italiano missionario in Cina con il matematico agronomo cinese, in vista gli strumenti delle loro osservazioni; fino a “Niccolò Paganini”, seduto con il iolino in un ambiente che fa sentire “La brezza di Genova” evocata nel titolo del dipinto.
Tutto Occidente, dunque? Qui sì, però si torna in pieno Oriente nelle ultime sale al piano superiore, con una serie di pannelli calligrafici che contengono poesie e iscrizioni: citiamo tra i grandi pannello quello per una sua Poesia con l’elogio degli imperatori Yan e Huang, e uno piccolo con un Distico espirato agli esempi degli antenati. Sono in colore arancio intenso, mentre è nero con lettere bianche il pannello per l’Iscrizione su pietra “La torre di Yueyang”, saggio di Fan Zhongyuan.
Alcuni giudizi sull’artista
In questa compresenza tra l’Occidente nelle sue figure rappresentative, e l’Oriente nell’espressione calligrafica oltre che nelle raffigurazioni pittoriche citate, si può sentire la “Sinfonia di civiltà” che ha trovato il suo interprete sommo in un artista pittore, calligrafo, e poeta, nel contempo pittore, scrittore e pensatore, “maestro in tutti e tre questi campi”, dice Ji Xianlin, esperto di cultura cinese.
Va considerato che, secondo Chen.-Ning Yang, premio Nobel per la fisica, “il più alto livello di arte è l’integrazione tra poesia, elligrafia e pittura”.
“E’ quel profondo spirito poetico nel suo cuore che arricchisce i suoi dipinti. Ogni linea del suo pennello sembra echeggiare quello spirito”, afferma Yeh Chia-ying, membro della Royal Society canadese.
Lo conferma Chin Shunshin, critico e scrittore giapponese, ricordando che “la pittura cinese più rispettata è la cosiddetta ‘risonanza dello spirito’, che si riferisce soprattutto allo stile della pittura, che deve essere vitale. I ritratti di Fan Zeng rappresentano il giusto equilibrio pittorico, dalle sue opere possiamo avere un sentimento di ‘bellezza totale'”.
Infine, secondo Indira Samarasekera, rettore dell’Università di Alberta, l’opera di Fan Zeng “incarna la connessione spirituale tra la natura e la cultura attraverso i soggetti dei suoi dipinti”. E lo spiega: “Attraverso la pittura, la poesia e la calligrafia, il Professor Fan fonde elementi di figure storiche, fiori, uccelli, paesaggi stupendi con la natura al fine di mostrare la bellezza e la profondità delle pitture cinesi ed occidentali”.
Anche in questo si può vedere la “sinfonia di civiltà” che l’artista incarna con la sua visione profondamente ancorata alle concezioni artistiche orientali, ma nel contempo protesa verso i grandi dell’Occidente in un ideale abbraccio..
Info
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, ala Brasini, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresa la domenica, ore 7,30-19,30 (ultimo ingresso un’ora prima della chiusura). Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664, 06.69923801; fax 06.69200634.. Catalogo “Fan Zeng – La sinfonia delle civiltà”, Nankai University Press, 2015, trilingue, italiano-cinese-inglese, pp. 94, formato 24 x 28, dal Catalogo è tratta la gran parte delle citazioni del testo. Per le mostre citate, cfr. i nostri articoli: in questo sito per “Visual China. Realismo figurativo contemporaneo” il 17 settembre 2013; per “Oltre la tradizione. I Maestri della pittura moderna cinese” il 15 giugno 2013; per lo scultore “Weishan” e l’abbinamento Qi Baishi -Leonardo il 24 novembre 2012; per la “Via della Seta” il 19,21 e 23 febbraio 2014; per l’arte e la cultura cinese in “notizie.antika.it” sulla mostra “L’Aquila e il Dragone”, il 4 e 7 febbraio 2011; in “cultura.inabruzzo.it sull'”Anno culturale cinese” il 26 ottobre 2010 e i 2 articoli sulla “Settimana del Tibet” il 21 luglio 2011, poiché tale sito non è più accessibile saranno trasferiti su questo sito; infine in questo sito, l”Incontro all’Ambasciata cinese e sul Tibet il 1° aprile 2013, e sulla mostra di “Mondrian“, citato nel testo, il 13 e 18 novembre 2012.
Foto
Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nell’ala Brasini del Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta Sono alternate immagini di singoli dipinti ad immagini di pareti ed angoli della mostra con più dipinti, per dare un’idea della vastità dell’esposizione. Nell’immagine di chiusura, sullo schermo in alto l’artista mentre dipinge il ritratto di Michelangelo.
Nell’ambito delle manifestazioni legate alla Via Francigena, in primo luogo il Festival presentato nel mese di maggio, l’8 luglio 2015 sono stati presentati nella sede di Civita che è tra gli organizzatori due prodotti editoriali: la pubblicazione a stampa “La bisaccia del pellegrino, Camminare di gusto lungo la via Francigena”, e l’e-book “Cammin scrivendo: scrittori sulla Via Francigena”, editi da Marsilio Editore e Associazione Civita. Del libro a stampa diremo in seguito; nell’e-book – che si aggiunge agli altri strumenti di conoscenza della Francigena realizzati utilizzando le tecnologie più avanzate per l’apertura ai giovani e si scarica gratis dai portali della Regione Lazio e di Civita e altri “store”- gli scrittori Caterina Bonvicini, Francesco Longo e Antonio Pascale descrivono la loro esperienza di camminatori nella Via Francigena fino a Roma nel maggio-giugno 2014 insieme a Valzaina e agli altri giornalisti delle emittenti radiofoniche europee.
La presentazione si è svolta nel corso di un incontro al quale hanno partecipato, oltre a Nicola Maccanico, vice presidente di Civita,Massimo Tedeschi, presidente Associazione Europea Vie Francigene e Serena Ghisalberti della Fondazione Roma, i promotori, i rappresentanti di due regioni interessate, l’assessore alla Cultura e Politiche Giovanili del Lazio,Lidia Ravera, e il dirigente Settore Turismo della Toscana Giovanni D’Agliano; inoltre Sergio Valzaina, vice direttore di Radio Rai 1 e saggista,Toni De Amicis, direttore generale Fondazione Campagna Amica e Carlo Hausmann direttore generale Azienda Romana Mercati, autori di due saggi contenuti nel libro. Gli intervenuti appena citati sono esponenti degli organismi direttamente impegnati nel progetto da loro sostenuto con autentica passione.
In tal modo viene ulteriormente promossa l’iniziativa in corso da alcuni anni volta a rilanciare la Via Francigena per la valorizzazione del territorio nelle sue valenze ambientali e artistiche, storiche e culturali, agroalimentari/enogastronomiche e artigianali, il tutto legato anche al profilo religioso del pellegrinaggio che è stata la matrice prima dell’itinerario che collegava l’Europa con Gerusalemme passando per Roma, come fondamentale meta intermedia.
Aspetto particolarmente importante è che l’iniziativa viene nell’anno dell’Expo di Milano “Come nutrire il pianeta. Energia per la vita” con due sottotemi, “Cibo e cultura” e “Alimentazione e stili di vita”, “mens sana in corpore sano”, che il cammino nella Via Francigena mette in pratica.
L’accurata ricostruzione che si fa nella pubblicazione a stampa e nell’e-book delle eccellenze incontrate lungo il percorso, segue i reportage del programma radiofonico itinerante trasmesso tra maggio e giugno 2014 a cura di Sergio Valzaina con 10 emittenti europee in 9 lingue.
E riguarda il tratto italiano della Francigena più a nord, da Aosta a Roma, che attraversa 7 regioni, nelle loro peculiarità storico-ambientali e nelle loro biodiversità; in particolare vengono presentati i primi 57 prodotti tipici di qualità entrati a far parte, con i rispettivi produttori, del marchio “La bisaccia del pellegrino/Pilgrim’s pouch”, che offre la possibilità di ulteriori prestigiosi inserimenti.
Il libro descrive le produzioni alimentari, con le relative ricette gastronomiche, nelle testimonianze dei giornalisti-camminatori che hanno percorso la Via Francigena, i quali danno le informazioni utili al viaggiatore; e fornisce un quadro molto stimolante dei notevoli pregi del territorio, nella compresenza di elementi culturali e naturali, storico-artistici e ambientali, alimentari e artigianali. Saggi introduttivi consentono di approfondire il significato della Via Francigena partendo dalle origini che risalgono all’anno mille, fino ai giorni nostri, in una serie di aspetti di grande interesse anche sul piano esistenziale, perché il camminare lentamente porta a riflettere e conoscersi meglio, c’è anche un risultato di miglioramento della propria autostima che non può lasciare indifferenti.
Ne parleremo diffusamente di seguito, ritenendo importante non lasciar cadere messaggi utili per tutti, riportando le impressioni nell’attraversare un territorio ricco di pregi ambientali e culturali, che offre altresì eccellenze agroalimentari/enogastrologiche raccontate dai “Narratori del gusto”.
Le introduzioni dei tre presidenti
Il presidente dell’Associazione CivitaGianni Letta, nel ricordare che “la storia dell’umanità è cammino”, afferma che per “riscoprire i valori di un rapporto con il mondo intorno a noi e con gli altri” la Via Francigena offre uno strumento: “Il camminare lento appunto, perché è il cammino che ci mette in contatto nuovo, come scrive Le Breton, con l’universo e con un’altra dimensione della vita e del mondo”. E introduce il libro con queste parole: “Quello che racconta questo volume mette insieme il camminare, il cibarsi e la narrazione, tre degli elementi che caratterizzano l’esperienza del viandante lungo l’itinerario della Via Francigena. Non solo arte e natura: la bisaccia del pellegrino contiene prodotti alimentari che si caratterizzano per leggerezza, conservabilità, alto valore nutrizionale ed energetico, caratteristiche indispensabili del cibo per chi viaggia a piedi.
Emmanuele F.M. Emanuele, presidente della Fondazione Roma, tra i maggiori sostenitori dell’iniziativa, da imprenditore sottolinea il lavoro compiuto, con le Regioni e le amministrazioni locali, per valorizzare la Via Francigena rendendo più chiare le segnalazioni e più efficaci i punti di pernottamento e ristoro, e anche recuperando edifici storici lungo il percorso: “Non più solo percorso di fede e pellegrinaggio, che pur sempre resta il suo tratto caratteristico, ma vero e proprio itinerario di una forma di turismo fortemente innovativo: quel camminare lentamente alla scoperta del paesaggio, dei luoghi d’arte solo apparentemente minori, delle tradizioni, fra queste ultime il cibo,quello semplice del viandante, che trova posto nella bisaccia del pellegrino”.
Il presidente dell’Associazione Europea Vie Francigene, Massimo Tedeschi, definisce la Via Francigena “via di culture”, che fa scoprire “la cultura nella sua accezione più ampia, declinata anche come cultura del cibo, del modo di produrre, della terra che fornisce gli elementi di base”. E aggiunge: “Dentro la Bisaccia del pellegrino c’è dunque qualcosa di più che buone cose da mangiare; dentro la Bisaccia del pellegrino e nei prodotti eccellenti dell’enogastronomia della campagna e dei paesi francigeni, c’è la storia, il carattere, il modo di vivere delle persone e delle comunità che lì abitano e che lì hanno abitato nei secondi addietro, legate da questo filo che le unisce a Roma”.
Il quadro d’insieme dei pregi della Via Francigena
L”intreccio tra il godimento delle meraviglie ambientali e l’ammirazione delle bellezze artistiche, la riscoperta delle tradizioni e il gustare le eccellenze gastronomiche che anima il “camminare lento” porta Silvia Boria dell’Associazione Civita a definire la Va Francigena “un percorso emozionante tra cultura, natura e sapori”, questo il titolo del suo contributo al volume. Fa parte della cultura la rievocazione delle origini di questo itinerario, che risalgono all’anno 990, quando l’Arcivescovo di Canterbury, Segerico, si recò in visita al Papa Giovanni XV, percorrendo i 2000 chilometri per arrivare a Roma, e aprendo la strada ai pellegrinaggi che si sarebbero moltiplicati nel tempo, attraversando quattro nazioni, Inghilterra e Francia, Svizzera e Italia prima dell’imbarco in Puglia per Gerusalemme, una delle tre mete del pellegrinaggio religioso, con Santiago de Compostela per la tomba di S, Giacomo, e Roma per i martiri Pietro e Paolo e per il centro della cristianità.
E’ stimolante cercare di immaginare come si svolgessero nei tempi antichi questi viaggi della fede e non solo, tra mille difficoltà oggi tutte superate dalla rete di punti di ristoro e di sosta, e tra tante sorprese, oltre che per la varietà ambientale e i retaggi di arte e storia, per le diverse abitudini alimentari, vere e proprie culture legate alle tradizioni e alle variabili risorse agricole locali.
Gli elementi comuni tra ieri e oggi sono numerosi, e non sono legati solo al fascino naturale incorruttibile dei luoghi attraversati, ma anche agli incontri più vari e inaspettati con compagni di viaggio delle più diverse estrazioni, uniti dall’essere europei. Per questo conoscere la Via Fancigena “significa conoscere un itinerario della storia, una via maestra sulla quale si è costruita la storia dell’Europa, e per questo di fondamentale importanza perché ‘un’Europa senza storia sarebbe orfana e infelice'”, ammonisce Silvia Boria con le parole del grande medievalista francese Le Goff.
Il direttore dell’Azienda Romana Mercati Carlo Hausmanncerca di immedesimarsi nel viaggiatore dei tempi antichi, iniziando dal suo equipaggiamento, un bastone e un corto mantello detto “la pellegrina”, un cappello detto “petoso” e una bisaccia di pelle di animale con la scorta alimentare fatta di cibi poveri,quelli più elaborati li consumavano nelle hostarie soprattutto i più abbienti.
Poi passa a descrivere ciò che il viaggiatore antico incontrava nei mille chilometri di percorso italiano constatando che, difficoltà superate a parte, anche oggi si ammirano “quattro grandi sezioni di paesaggio: la discesa dalle Alpi nel cammino in valle, la grande pianura del bacino padano occidentale, l’Appennino, la collina toscana e laziale che porta infine all’ingresso nella città di Roma. In ciascuno dei quattro grandi ambienti, il paesaggio, le attività agricole, l’artigianato alimentare e la gamma gastronomica costituiscono un insieme integrato e armonico”.
Davanti agli occhi passano “i vasti campi e le risaie del Piemonte e della Lombardia, le pianure dell’Emilia, i castagneti dell’Appennino, le colline e le crete della Toscana, i laghi del Lazio e la campagna romana”; e anche le “otto tipologie di bisacce” con una selezione della gamma di prodotti delle zone attraversate effettuata con criteri analoghi a quelli del passato: “leggeri, economici, nutrienti e non deteriorabili”, ai quali si aggiunge un requisito oggi irrinunciabile, “il gusto”. Quindi i prodotti locali della moderna bisaccia del pellegrino sono “locali e tradizionali, ma anche eccellenti qualitativamente e con ottime caratteristiche sensoriali”, la loro provenienza dai singoli territori attraversati introduce il viaggiatore “alla conoscenza dell’identità del luogo e alla sua storia millenaria”.
“Una bisaccia piena di paesaggio, biodiversità e storia”, dunque, come intitola il suo saggio il direttore generale Fondazione Campagna Amica Toni De Amicis il quale, del “mosaico fantastico”di significati della Via Francigena, evidenzia tre parole chiave.
La prima evoca “il paesaggio” la cui protezione si traduce nella tutela anche di coloro che hanno contribuito a plasmarlo con le loro attività, come i piccoli e medi produttori agricoli, molti dei quali da semplici lavoratori si sono trasformati in imprenditori che portano nel mondo, con le loro produzioni, i valori del territorio.
Al paesaggio è collegata anche la seconda parola, la “biodiversità”, alla cui conservazione concorrono coloro che operano nel territorio permettendo la sopravvivenza delle specie e delle colture minacciate dall’urbanizzazione e cementificazione e dal degrado del territorio che, comunque sia antropizzato, deve essere curato: “I nostri agricoltori fanno anche questo. Puliscono gli alvei dei torrenti,terrazzano le colline per produrre uva e vino, fanno rimboschimenti produttivi per il legname e per la produzione di frutti Il pellegrino della Via Francigena può osservare il lavoro prezioso di questi custodi del territorio”.
Tutto ciò è riassunto nella terza parola, “la storia”, perché “ci sono voluti centinaia, a volte migliaia di anni per arrivare alla perfezione di sapore e caratteristiche organolettiche e questi cibi sono stati accompagnati nella loro creazione e affermazione da tantissimi avvenimenti storici”. E troviamo rievocate le circostanze che hanno dato origine a prodotti tipici, dal formaggi al pane ai salumi, con personaggi quali Isabella d’Aragona e Leonardo da Vinci, fino ad Ambrogio Lorenzetti.
E’ una storia di prodotti ma anche di produttori, di aziende per lo più a conduzione familiare, attive da generazioni, gestite sempre più da giovani in forme sempre più moderne: “Nascono infatti nuovi canali di vendita, turismo enogastronomico e naturalistico e un’offerta in linea con la multifunzionalità dell’agricoltura”. In particolare vengono citati “tracciabilità, chilometro zero, innovazione, rispetto dell’ambiente, tradizione e cultura, il no secco agli OGM (organismi geneticamente modificati), attenzione al sociale”, con l’impiego delle nuove tecnologie.
“La bisaccia del pellegrino: un marchio per una gamma di prodotti francigeni” è lo sbocco dell’impegno profuso sul fronte della qualità e della tutela delle denominazioni di origine sulla Via Francigena. Giovanna Castelli, direttore dell’Associazione Civita, intitola così il suo contributo al volume. E ricorda che “arte, natura, qualità e gusto, le nostre tradizioni agroalimentari, unite alla straordinaria bellezza del nostro paesaggio e del nostro patrimonio culturale rappresentano un nuovo modo di fare turismo legato al percorso francigeno, reale opportunità per l’economia del nostro territorio”. Le produzioni alimentari tipiche non sono un aspetto secondario: “Il turismo del cibo da fenomeno di nicchia è divenuto ormai una realtà consolidata. La componente food della proposta turistica è sempre più fondamentale nella percezione della qualità di un territorio da parte del visitatore, turista o pellegrino. Nelle analisi delle preferenze dei clienti internazionali verso l’offerta turistica italiana la gastronomia è sempre nelle primissime posizioni e il patrimonio enogastronomico è considerato una parte essenziale dell’esperienza turistica autentica, intrinsecamente connessa all’identità socioculturale dei luoghi”.
La consapevolezza di questo ha portato al programma radiofonico itinerante del 2014 di Sergio Valzaina con i giornalisti di 10 emittenti estere in 9 lingue, ai quali sono state distribuite le “bisacce del pellegrino” per ciascuna delle 7 regioni attraversate, con una scelta di formaggi e salumi, dolci e vini dei singoli territori, tra i primi 58 prodotti di qualità inseriti nella lista dal marchio francigeno, che ne garantisce l’assoluta autenticità dell’origine e la genuinità del gusto. “Cene pellegrine” si sono aggiunte in Toscana e nel Lazio con ricette tradizionali su prodotti locali presentate dai “Narratori del gusto” che hanno guidato nella scoperta dei sapori autentici e genuini.
I 7 percorsi regionali della Via Franchigena, da Aosta a Roma
Abbiamo dato conto sommariamente delle introduzioni e presentazioni di quello che è il contenuto sostanziale del volume, una cavalcata, pardon una “camminata”…, nelle 7 regioni raccontata da 7 giornalisti che hanno percorso l’itinerario della Via Francigena.
Non tentiamo l’impossibile sintesi, questa che è la “magna pars” del volume è tutta da leggere nei brillanti resoconti giornalistici ed è da vedere nelle splendide illustrazioni con i primi piani delle produzioni agroalimentari tipiche, introdotte da una planimetria all’antica e da un’evidenza artistica con schede accurate delle une e delle altre attrazioni, unite addirittura a vere ricette culinarie.
Diamo solo un assaggio dei 7 pasti luculliani che possono essere gustati scorrendo le pagine del volume con le belle immagini, appassionandosi alle cronache giornalistiche e soffermandosi sulle schede analitiche. Basta citare i titoli dei “reportage”, già significativi e qualche altro particolare.
Si comincia dalla Valle d’Aosta, “Un cammino all’insegna della convivialità e della condivisione”, con i suoi segreti, “Acqua, aria ed erba”, che Michele Ferrario ripercorre confidando “è stato il mio battesimo francigeno”, nel quale ha scoperto che, pur senza allenamento, “lo sforzo può essere dosato adottando un passo più o meno spedito”. Per i cibi, “antichi piatti e prodotti culinari gustosissimi”, alcuni dei quali descritti, che “regalano sensazioni gustative e olfattive prelibate”.
Il “Piemonte: una splendida scoperta!” per Loredana Cornero, che va “Dalle Alpi alla pianura con i prodotti piemontesi”, in “un intrigo di acqua e terra, ingegno umano e natura fiorente, campi allagati tra pioppeti e risaie”. Si va dalle cime di oltre 3000 metri alla pianura, con varietà climatiche e ambientali da cui trae origine “un mosaico di prodotti tipici d’eccellenza”. Di qui la conclusione: “Non ci resta che scoprire storia, tradizioni e curiosità dei prodotti tipici di una regione eclettica come il Piemonte”.
Nella “Lombardia: sulle orme della storia!”,Rosario Tronnolone si muove “Tra i fiumi, i sapori e i gusti della pianura Padana“, con le attrazioni ambientali dei corsi d’acqua che scendono dalle Alpi e si gettano nel Po e delle zone boscose. Note pittoresche, due pani, giallo e bianco in onore dei colori del Vaticano, e la deviazione dalla Via Francigena per gustare il grana padano, fino alle dolcezze dei “Baci del Signore” lasciati malvolentieri, con l’esclamazione finale “Non temere, pellegrino, ti rifarai più avanti”.
In “Emilia Romagna: la trama del cammino”, Lorenzo Sganzinitrova“Tra pianura e Appennini, l’eden del gusto”: il sapore dell’ambiente, “più che un percorso, nel ricordo, è uno spazio. Un grande affresco con la superficie segnata dal tempo” cui si aggiunge il sapore del cibo: “…offre prodotti tipici per tutti i gusti”, perché “a cavallo tra la pianura Padana e il versante settentrionale dell’Appennino, e la variabilità di paesaggi ed ecosistemi si riscontra anche nella offerta diversificata di piatti tipici”.
“Il cammino in Toscana e in Liguria: un’esperienza straordinaria” per Yva Yancheva, che lo riassume così: “Alta Toscana e Liguria:dal territorio del marmo, monumenti alla bontà”. Il marmo è quello delle cave di Avenza, poi le mura nel centro storico di Lucca, ma “monumenti alla bontà” sono i cibi descritti nelle “cene pellegrine” a Pontremoli e Gambasso Terme, fanno dire alla giornalista bulgara che ne ha parlato nelle sue trasmissioni: “La mia speranza è poterci tornare anche il prossimo anno… e, a voi che leggete, chissà che non ci si incontri lungo il cammino!”
Nella “Bassa Toscana,culla del Rinascimento, eden del buongustaio”, Petru Mari vede “Il bello e il buono della Via Francigena”, in particolare “durante la visita all’orto dei religiosi, il bello e il buono si sposavano perfettamente in un’armoniosa atmosfera tipicamente toscana”. I fiori rossi nei roseti mescolati con le zucchine, i pomodori e le insalate “in un equilibrio , emanando una piacevole sensazione di felicità. Il bello e il buono sono la stessa cosa”. Si apprende “l’arte di saper bilanciare il necessario e il superfluo” fino ad esclamare: “E’ dunque questo lo spirito pellegrino?”.
“La Via Francigena del Lazio: un nuovo incontro”, così Iuliana Anghel definisce il suo terzo “cammino” dopo quelli del 2012 e 2013, con arrivo a Monte Mario da cui si apre il grande spettacolo di San Pietro, la meta del viaggio. “Dalla Tuscia viterbese a Roma con i sapori laziali” è il tratto finale che “oltre a custodire straordinarie emergenze archeologiche, rivela un paesaggio rurale dalla spiccata vocazione agricola e agropastorale, tuttora viva nei piccoli borghi medievali”. Pertanto non poteva che venire “viziato il palato con prelibatezze del posto semplici e saporite”.
Di tutte le prelibatezze che si incontrano nei 7 percorsi regionali, dà conto nei dettagli il volume con schede e ricette, immagini e descrizioni, anche per le eccellenze ambientali e storico-artistiche.
Non resta che scorrerlo e si sarà invogliati a vivere le stesse esperienze fatte di comunione e condivisione culturale e umana, nel segno della storia millenaria che la Via Francigena fa rivivere per merito degli appassionati promotori e sostenitori di iniziative che l’hanno rilanciata alla grande.
La mostra “L’Età dell’Angoscia”. Da Commodo a Diocleziano” espone dal 28 gennaio al 4 ottobre 2015 una galleria di 240 reperti, del periodo dal 180 al 305 d. C., che vide 35 imperatori dei quali sono esposti 92 tra busti e statue, comprese mogli e personaggi; inoltre affreschi e vasellame, sarcofaghi e rilievi funerari, iscrizioni e plastici di edifici romani. Realizzazione dei Musei Capitolini, insieme a Mondo Mostre e Zètema Progetto Cultura. La mostra è a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco che hanno curato anche il Catalogo con 135 pagine di 11 accurati saggi, 180 di riproduzioni e 140 di schede tecniche.
Abbiamo presentato la mostra iniziando con il significato del titolo: perché l’età dell’angoscia e non dell’ansietà nell’ambivalenza dell’espressione inglese“An Age of Anxiety” cui si richiama? Quindi ne abbiamo descritto i contenuti rievocando la situazione dell’Impero romano del III sec. d. C: una forte instabilità politica e un’incertezza diffusa, la minaccia dei barbari ai confini e un intenso sforzo bellico che squilibrò il bilancio a danno del tenore di vita della popolazione.
Di qui i timori e l’ansia mista ad angoscia, con il ricorso consolatorio a religioni meno rigide e istituzionali che mettevano in rapporto diretto con la divinità, magari attraverso carismatici mediatori, dal Cristianesimo ai culti orientali. L’assetto cittadino e le dimore dei grandi personaggi, con le loro decorazioni statuarie e pittoriche, completano il quadro della vita a Roma nel periodo, che si conclude con i costumi funerari, venendo considerata la tomba “il luogo che libera dagli affanni” come si legge in un’iscrizione.
Dopo questa doverosa preparazione, necessaria per la vastità e complessità dei temi sviluppati, inizia la visita ai 240 reperti esposti: daremo conto delle prime tre sezioni, i protagonisti, cioè gli imperatori, l’esercito e la città di Roma, rinviando a un momento successivo il resoconto delle altre quattro sezioni, la religione e le dimore private , vita e morte nell’Impero e i costumi funerari.
I protagonisti, gli imperatori
La 1^ sezione, “I protagonisti”, contiene 92 reperti scultorei, soprattutto busti e qualche statua, dedicati agli imperatori e a personaggi maschili e femminili di notevole importanza. E’ una galleria, collocata nel lungo salone dei Musei Capitolini, che consente di seguire le rappresentazioni del potere imperiale nel periodo considerato, che va dal 180 al 305 d. C., nel quale si sono succeduti ben 35 imperatori, largamente rappresentati nella mostra, con mogli ed eredi al trono..
Una carrellata storica e artistica insieme, attraverso la quale si può penetrare nella logica con cui i sovrani presentavano la propria figura, valorizzando gli aspetti che ritenevano utile sottolineare dinanzi al popolo, in relazione alla situazione politica e sociale peraltro molto mutevole.
“Le numerose statue degli imperatori esposte in contesti pubblici – esordisce Marianne Bergmann nell’accurato saggio che ricostruisce il percorso storico e stilistico del periodo – erano senza eccezioni dedicate a loro come onori. Solo per gli imperatori esistevano funzioni speciali. I ritratti potevano sostituire l’imperatore in funzioni ufficiali o servire come immagini di culto imperiale, che esisteva però sempre fuori Roma”.
Del resto, anche le statue e i busti per altri personaggi del ceto altolocato, come magistrati e militari, benefattori e patrizi, erano considerate “rappresentazioni di status”, cioè onorificenze prestigiose da esporre in modo visibile come celebrazione pubblica degli onori legati alla loro posizione.
Per questo motivo i ritratti imperiali seguivano regole ben precise dettate dagli imperatori per sottolineare determinati aspetti del proprio “imperium”; addirittura sembra vi fossero esemplari di gesso come modelli per una riproduzione fedele di quanto si aveva interesse a mostrare. Questo riguardava anche le persone altolocate che emulavano i modelli imperiali quando il sovrano era il primo dei senatori, quindi vicino alla gente comune. Si agiva sui caratteri fisiognomici con l’omologazione nelle acconciature e dei segni dell’età, tanto che si può parlare di “volto d’epoca”.
Non fu più così quando all’insegna di un realismo sempre maggiore, si accentuarono i segni espressivi; mentre la figura degli imperatori con il consolidarsi del potere assoluto assunse connotazioni divine trasmesse nei ritratti scultorei ma non più applicabili alla gente comune.
L’evoluzione in termini generali vede il passaggio da immagini rilassate senza i segni dell’età, con capelli in morbidi boccoli e lunghe barbe per esprimere uno stile di vita colto e tranquillo, a nuove forme rappresentative: “Le minacce crescenti all’impero già nel II secolo d.C. accrebbero presso le elites al potere il bisogno di nuove forme di auto-rappresentazione: con capelli e barbe corti che da sobri diventano di una durezza provocatoria, con rughe ed espressioni energiche che promettevano efficienza operativa”; e non fu soltanto opera degli imperatori-soldato nominati dalle legioni che operavano ai confini dell’impero. Nei ritratti delle mogli degli imperatori nessuna trasposizione di questo tipo, non si dovevano trasmettere contenuti diversi dalla grazia e bellezza muliebre.
Anche nelle statue, oltre agli aspetti concernenti il ritratto del viso, vi erano delle regole che riguardavano la veste e le calzature, in relazione alla funzione svolta e alla classe sociale. Per gli imperatori la toga purpurea, per i militari la toga loricata, in generale la toga contabulata con fasce ripiegate e, prima, il mantello greco, per esprimere gli interessi culturali e filosofici del personaggio.
La galleria iniziale, da Marco Aurelio ai Severi
La galleria imperiale inizia con Marco Aurelio, di cui vediamo un busto da giovane e uno con il mantello militare ma poco marziale, in entrambi i capelli sono ondulati a boccoli per sottolinearne la serenità e lo stile di vita aperto alla cultura. Segue il busto di Commodo come Ercole con torsi di Tritoni, l’espressione è assorta, l’atmosfera è mitologica. Poi Commodo venne ucciso e divenne imperatore Pertinace, per le qualità di amministratore e di militare, espresse dal volto segnato e riflessivo, capelli corti e barba, raffigurazione ben diversa dalle precedenti degli Antonini.
Dopo tre mesi anche Pertinace fu ucciso e gli successe Settimio Severo: con lui un ritorno alla rappresentazione in voga sotto gli Antonini, con i capelli ondulati, in due busti, quello “tipo dell’Adozione” che ha la stessa corazza e atteggiamento del busto di Claudio Albino, suo rivale alla carica imperiale, e il “busto tipo Serapide”, con una tunica dalle morbide pieghe annodata sulla destra. C’è anche un ritratto e una intera statua della moglie, Giulia Domna, avvolta fino ai piedi in una tunica con molte pieghe e il copricapo.
Il suo omaggio agli Antonini non si limitò a questo, chiamò il figlio Marco Aurelio Antonino, e lo fece raffigurare da fanciullo come il giovane Marco Aurelio, nel confronto tra delle opere esposte i due ritratti quasi non si distinguono; c’è anche il ritratto da adolescente dell’altro figlio Geta.
Quando Antonino divenne imperatore con il nome più noto di Caracalla, si fece ritrarre da “imperatore unico” con la stessa immagine giovanile, capelli arricciati corti, espressione decisa, è possibile confrontare anche queste figure; il “busto tipo Tivoli”, invece, mostra un’espressione più distesa. Fu ucciso nel 217 d.C. non in una congiura di palazzo ma nella guerra contro i Parti. Sono esposte anche raffigurazioni di familiari, come il Ritratto di Geta, con gli stessi caratteri.
Per le circostanze della sua morte il successore fu eletto sul campo di battaglia: la scelta cadde su Opellio Macrino, prefetto del pretorio, anch’egli volle richiamarsi agli Antonini dando a sé il soprannome di Severo e al figlio il nome di Antonino; inoltre cercò di emulare Marco Aurelio negli atteggiamenti e nello stile di vita, nonché nell’interesse per la filosofia. Lo testimoniano i tre ritratti esposti, nei quali i capelli restano corti, mentre la barba si allunga fino a diventare folta, secondo le raffigurazioni dei filosofi e intellettuali presenti in mostra con quattro busti.
Tornò la dinastia dei Severi con M. Aurelio Antonino, il nome da giovane era Elagabalo, ne vediamo un ritratto quasi coincidente con quello di Caracalla, suo presunto padre naturale, e un altro ritratto invece molto diverso, con una differenziazione quasi ostentata..
Morte violenta anche per lui dopo quattro anni di impero , e successione a un cugino , che prese il nome di Severo Alessandro, e avendo 13 anni regnò con la madre Giulia Mamea di cui è esposto un ritratto dall’espressione volitiva; di lui vediamo un ritratto da giovane e uno colossale da adulto.
Gli imperatori senatorii e gli imperatori-soldato
Ucciso dalle truppe ribelli nel 235 d. C., a Severo Alessandro successe il primo nella lista degli imperatori-soldato, Giulio Vero Masssimino, detto Trace dalla sua Tracia, era un militare e non stette mai a Roma nei tre anni di regno troncato dalla sua uccisione; il ritratto si distacca dai precedenti per i tratti irregolari del volto senza barba, l’espressione decisa, una grinta da militare.
I quattro imperatori successivi furono invece di origine senatoria e i loro ritratti non potevano che essere di tipo aristocratico,nella barba e nell’ espressione benevola: in Pupieno la barba lunga da filosofo, di Gordiano III vediamo un busto giovanile dall’espressione mite anche se con corazza.
Siamo giunti al 244 d.C., si torna agli imperatori-soldato con Filippo l’Arabo, originario della Siria, fino al 248 d. C., e il successore Traiano Decio fino al 251, che essendo morto in battaglia e non ucciso in una cospirazione, ebbe grandi onori. I loro ritratti sono molto diversi, quello di Filippo esprime calma fermezza, il ritratto di Decio, invece, ha i tratti più duri e, per usare le parole della Bergmann, “esprime direttamente o a un meta-livello angoscia e disperazione”. La studiosa si chiede se “rispecchiano il sentimento della vita dell’epoca” oppure se “la sua esecuzione scultorea, come intagliata, è un segno dell’incipiente declino dell’arte”; e se “entrambi sono espressioni della crisi del III secolo d. C.”, fino all’ultima alternativa: “O dobbiamo vedere l’espressione di un gusto grezzo di soldati ascesi dalla provincia, in contrasto con quello tradizionale delle classi più alte?” Di certo si può dire solo che la forma usata è intenzionale e, trattandosi di imperatori-soldato, il ritratto vuol dare la garanzia della forza unita all’esperienza e alla volontà di agire con energia.
Anche due ritratti femminili, di Otacilia Severa e di Erennia Etruscilla mostrano qualcosa di diverso delle rappresentazioni muliebri ispirate alla grazia,soprattutto nel secondo ritratto una piega amara della bocca rende l’espressione del viso contrariata.
Gli imperatori della seconda metà del III sec. d. C.
Siamo alla seconda metà del III sec. d. C., l’impero è minacciato da più parti, occorre rassicurare il popolo con forme espressive ancora più efficaci. Esercitano la potestà imperiale Valeriano e Gallieno, padre e figlio, che governano insieme dal 253 al 259 d. C.; poi, catturato il primo dai Sassanidi, resta imperatore da solo Gallieno fino al 268 d.C. Vediamo un ritratto di Valeriano del tipo severiano, con l’espressione tranquilla come nel primo dei 3 ritratti di Gallieno, mentre gli altri due mostrano diverse tipologie espressive tanto da non sembrare riferiti allo stesso soggetto, con delle astrazioni formali di tipo geometrico su linee orizzontali e verticali.
Analoga particolarità stilistica nei ritratti dei tre successori di Gallieno, ucciso nel 268 in una cospirazione di militari, Claudio Gotico (268-270 d. C.), Aureliano (270-275 d. C.) e Probo (276-282 d. c.) che hanno governato con la breve interruzione di due imperatori di transizione. Le linee orizzontali delle sopracciglia e quelle verticali dei contorni di capelli e barba nel viso costituiscono una forma di base quasi astratta che fa assomigliare i ritratti le cui particolarità fisiognomiche sono dei dettagli, del resto i tre provenivano dalla stessa regione. Probo aveva interesse ad essere assimilato ai due predecessori, perché Claudio Gotico, morto di peste, era stato divinizzato e Aureliano aveva acquisito il grande merito di aver unito all’impero la Gallia e l’Oriente.
I ritratti del successore Carino segnano il ritorno alle figure precedenti, con i riccioli e la corta barba, le linee del volto sono armoniose e l’espressione tranquilla tanto che, osserva la Bergmann, “non conoscendo il personaggio rappresentato, si potrebbe datare il, ritratto a 50 anni prima”.
La tetrarchia di Diocleziano
E siamo giunti alla tetrarchia di Diocleziano, con i ritratti preparati per lui nel 285 d. C., e per i Tetrarchi dal 293 d. C. in poi. Anche qui si agisce sull’espressività ma non più mediante stilizzazioni astratte bensì con vere e proprie deformazioni dei visi solcati da rughe e con una mimica accentuata che ne sottolinea i tratti individuali: in Costanzo Cloro la bocca,il mento e lo zigomo sono molto particolari, si ritrovano nei ritratti del figlio Costantino. Sono esposti sei ritratti singoli di tetrarchi e due a coppie, tra questi il ritratto in porfido di Galieno.
Un aspetto caratteristico è la somiglianza tra il tetrarca e il Cesare più giovane designato per la successione, espressione visiva della stretta intesa che doveva esservi; un altro aspetto è la diversità di stile tra i ritratti prodotti in Oriente e quelli in Occidente, tanto che per lo stesso imperatore si trovano fattezze molto diverse; questo avveniva sebbene si ricercasse l’omogeneità attraverso modelli precostituiti dovendo governare insieme, sia pure ai due estremi dell’impero; soprattutto quando le statue onorarie dei quattro tetrarchi venivano realizzate ed esposte insieme.
Ma ci sono due elementi di portata più generale. Il primo è il raggiungimento, attraverso “guerre condotte felicemente”, di quello che veniva definito uno “stato del mondo indisturbato, adagiato nella quiete di una pace profonda”; il secondo, che ne è la logica conseguenza, il definitivo affermarsi nell’iconografia ritrattistica di una rappresentazione scopertamente monarchica, non più velata dal rispetto formale per il Senato, con un particolare abbigliamento e le insegne imperiali. A questo fine fu adottato largamente il porfido rosso, di provenienza egiziana, così l’imperatore sembrava fosse impregnato di porpora. Venivano usate pietre preziose e si impiegava la pittura sul porfido per far risaltare sul rosso della pietra componenti del viso come occhi e barba.
La galleria si conclude con il ritratto colossale di Massenzio, dall’espressione tranquilla. Seguirà la rivoluzione di Costantino nel 310 d. C., con la fine della Tetrarchia e l’adozione di un ritratto carismatico con il ritorno alla classicità nei capelli riccioluti lunghi e nell’espressione placida e solenne; inoltre il volto del sovrano resterà sempre giovane, come quello di Augusto, scelta che verrà seguita fino al Medioevo.
Conclude la Bergmann: “Presto le persone comuni ritennero che l’iconografia di questo ritratto non potesse più essere adottata, e quindi si giunse alla separazione tra il ritratto imperiale carismatico, immobile e senza età, e quello dei ritratti privati ‘realistici’, di età tardo-antica”.
I ritratti privati e la statuaria nuda
Sono esposti soprattutto busti e ritratti femminili e maschili, ma non mancano le statue. Nei 7 Ritratti femminili notiamo la folta capigliatura, in genere ondulata, l’espressione assorta e, nei busti, le vesti modellate in pieghe; in un busto, l’espressione e l’abbigliamento richiamano l’immagine istituzionale dell’Italia turrita, anche se i capelli annodati su due livelli non recano le torri dell’iconografia nazionale.
Dei 25 Ritratti maschili, 6 raffigurano filosofi e intellettuali dalle lunghe barbe, 10 sono per lo più generici, 1 di auriga, 3 di personaggi togati di cui una statua in armi, e infine 5 statue di nudi, di cui 2 cacciatori e 2 armati.
Riguardo alla tendenza verso la statuaria nuda, presente sin dall’età adrianea, Matteo Cadario afferma: “Essa interpretava al meglio l’esigenza di illustrare le qualità individuali (virtus) degli onorati, qualità che trovavano del resto uno spazio sempre maggiore anche nelle epigrafi dedicatorie contemporanee, a discapito proprio dei meriti civici e del rango illustrati invece dai tipi statuari tradizionali”. Anche gli imperatori richiesero statue nude accanto a quelle equestri, in una “imitatio Alexandri” evidente in Settimio Severo e Caracalla, in mostra è esposta la statua-ritratto di Triboniano Gallo, che nella possanza e nell’ampio gesto ricorda i bronzi di Riace.
L’esercito imperiale e la città di Roma
“Imperatori e l’esercito” si intitola la 2^ Sezione, ma per gli imperatori, dopo il profluvio di ritratti e statue imperiali della 1^ sezione, è esposto soltanto il rilievo raffigurante una Quadriga con Settimio Severo e i figli Caracalla e Geta; a parte 2 busti maschili loricati, abbiamo5 stele con soldati dotati di lancia e scudo.
La questione dell’esercito, poco rappresentato in mostra, è sviscerata da Alexandra Busch nel saggio in Catalogo, del quale ci limitiamo a segnalare una notazione che può sembrare paradossale nella fase in cui l’angoscia era per la minaccia esterna: “Negli scritti di Cassio Dione ed Erodiano è chiaro come i membri dell’èlite senatoria abbiano registrato l’aumento della forza militare e ne abbiano osservato gli sviluppi con grande preoccupazione, poiché la loro stessa posizione ne poteva risultare compromessa. Da ultimo Settimio Severo aveva persino eletto a senatori alcuni dei militari. La crescente presenza militare nella capitale fu perciò percepita come una minaccia”..
E siamo alla 3^ sezione,“La città di Roma”, anche qui pochi reperti esposti i quali servono più a ricordare il tema che ad illustrarlo. Sono alcuni frammenti che evocano la “Forma urbis Romae”, dal Porticus Liviae e dal tempio di Diana, vi sono delle iscrizioni e delle planimetrie. Poi 4 modelli, tre riproducono l’Arco di Costantino, la Porta Asinaria e quella degli Argentari, il quarto un’aula a pianta ottagonale delle Terme di Caracalla.
Si tratta di rapide citazioni di un tema, a cui è dedicato nel Catalogo il saggio “Roma nel III secolo d. C.: la città al tempo della crisi”, di Domenico Palombi. Viene ricordato che dopo la saturazione monumentale e infrastrutturale da Domiziano ad Adriano e “l’età dell’oro” di Antonino Pio iniziò il periodo di crisi che pose fine all’impero “umanistico” degli imperatori filosofi i quali crearono centri di cultura, scuole e biblioteche, in una concezione di “urbanitas” di tipo ellenistico.
Nella nuova fase, osserva lo studioso, “accanto alle nuove costruzioni dettate da specifiche motivazioni ideologiche e politiche, emerge una particolare attenzione alla conservazione e al restauro dell’immenso patrimonio monumentale preesistente, consapevolmente riconosciuto come testimone della storia e dell’identità di Roma quale caput imperi e sede legittima (e legittimante) del potere imperiale. Si osserva, altresì , un incremento costante delle infrastrutture utilitarie al servizio della popolazione, con particolare attenzione a quelle idriche e annonarie”.
Dopo “I protagonisti”, cioè gli Imperatori, “Gli Imperatori e l’esercito” con particolare riguardo a quest’ultimo, e “La città di Roma”, siamo giunti alle successive 4 sezioni della mostra, su “La Religione” e “Le Dimore private”, “Vivere e morire nell’impero” e “I costumi funerari”. Le racconteremo prossimamente.
Info
Musei Capitolini, Piazza del Campidoglio 1, Roma. Tutti i giorni ore 9,30-19,30. Ingresso intero euro 15,00, ridotto euro 13,00, per i residenti 2 euro in meno, gratis minori di 6 anni e portatori di handicap e un accompagnatore. Tel. 060608; http://www.museicapitolini.org/. Catalogo “L’Età dell’angoscia. Da Commodo a Dioleziano (180-305 d. C.)”, a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, 205, pp. 469, formato 24 x 28,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 31 luglio 2015, il terzo e ultimo articolo uscirà il 22 agosto. Cfr. per la precedente mostra citata su “L’Età dell’equilibrio” i nostri due articoli: in questo sito il 26 aprile 2013 e in http://www.antika.it/ nell’aprile 2013 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).
Foto
Le immagini sono state riprese ai Musei capitolini da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Zétema Progetto Cultura e MondoMostre, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono immagini rappresentative dei reperti esposti nelle prime sezioni della mostra relative, in particolare, ai Protagonisti (foto da 1 a 7), agli Imperatori e l’esercito (foto 8 e 9); in chiusura uno scorcio della Galleria dei Busti (foto 10).
Si conclude il nostro resoconto della visita alla mostra “L’Età dell’Angoscia”. Da Commodo a Diocleziano”, dal 28 gennaio al 4 ottobre 2015 aiMusei Capitolini, con 240 reperti dell’antica Roma, del III sec. d. C., dal 180 al 305 d. C. Sono busti e statue, rilievi e sarcofaghi, affreschi e vasellame, divisi in 7 sezioni tematiche che vanno dagli imperatori alla dimore urbane, dalla religione ai costumi funerari. La mostra è stata realizzata dai Musei Capitolini con Mondo Mostre e Zètema Progetto Cultura, curata da Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco ai quali si deve anche il monumentale Catalogo che approfondisce tali temi con 11 saggi in 135 pagine, 180 pagine di riproduzioni iconografiche, e 140 pagine di schede tecniche.
Dopo la presentazione della mostra con l’intrigante questione del titolo – perché età dell’angoscia e non dell’ansietà nella versione di “The Age of Anziety”? – ne abbiamo descritto i contenuti partendo dalla situazione dell’Impero romano nel III sec. d. C., afflitto da instabilità politica e incertezza diffusa per la minaccia dei barbari ai confini e la crisi economica generata dalle spese militari a scapito della popolazione. Le diverse tematiche che si pongono le abbiamo evocate con riferimento ai reperti esposti nelle diverse sezioni della mostra che ne sono la testimonianza visiva. Precisamente abbiamo descritto “I protagonisti”, cioè gli imperatori, della 1^ Sezione, poi un cenno alla 2^ Sezione, “Gli imperatori e l’esercito”; ci siamo soffermati su “La Città di Roma”, la 3^ Sezione. Tratteremo ora le ultime quattro sezioni, la 4^ su “La Religione” e la 5° su “Le dimore private”, la 6^ su “Vivere e morire nell’Impero”e la 7^ e ultima su “I Costumi funerari”.
La Religione, le posizioni oscillanti degli imperatori
Gli imperatori, oltre che protagonisti nelle sorti civili e militari di Roma, svolgono un ruolo di primo piano anche nelle questioni relative alla “Religione”, il grande tema cui è dedicata la 5^ Sezione della mostra: nel III sec. d. C. hanno avuto un atteggiamento oscillante verso il Cristianesimo, la cui penetrazione era crescente nei confronti della religione pagana tradizionale.
Il paganesimo è evocato dal Rilievo con scena di sacrificio e dalla Lastra con Sacrificio a Poseidon ed Ercole, dalla Statua di Ercole Victor e di Artemide e Ifigenia, di Silvanus e Onfale, e da Rilievi su monumenti funerari e su Sarcofaghi e lastre di loculi con Pastore crioforo e orante.
Ricordiamo le posizioni degli imperatori che abbiamo citato nel descrivere la galleria dei loro ritratti e busti scultorei: l’editto di Gallieno fece terminare le persecuzioni e quello di Aureliano ne riconobbe l’organizzazione ecclesiastica, Carino e poi Costantino e Massenzio concessero la libertà religiosa; ma, di converso, nel secolo non cessarono le persecuzioni, Aureliano le progettò senza poterle attuare a causa della morte, mentre Probo, Numeriano e Decio le scatenarono, e si giunse agli editti di Decio, Valeriano e Diocleziano che imponevano, pena la reclusione e la morte, i sacrifici agli dei tradizionali. Solo nel 341 d. C. le leggi operarono stabilmente in senso opposto: vietarono i sacrifici pagani , poi progressivamente chiusero i templi agli dei fino all’esclusione dei non cristiani dalle cariche pubbliche con Teodosio II, siamo nel 416 d.C. è trascorso un secolo.
Il superamento della religione tradizionale fu un processo lento perché – osserva Annalisa Lo Monaco che ha curato la mostra con Parisi Presicce e La Rocca – “per tutto il corso della vita repubblicana e nei primi due secoli dell’Impero, il tempo della vita collettiva era posto sotto la tutela del potere religioso”. Successivamente questo cessò, e fu abolita la distinzione tra giorni fasti, nefasti e comitiales, ma il radicamento era così forte che il calendario cristiano con le feste cittadine, i ludi, l’entrata dei magistrati nelle loro funzioni, era molto simile al preesistente pagano.
Non solo, ma nel III sec. d. C. i sacerdozi tradizionali potevano essere rivestiti insieme a sacerdozi dei culti anche iniziatici, vediamo esposti 3 Ritratti di sacerdoti, dall’espressione assorta. Inoltre nel primo trentennio del secolo gli imperatori Severi, oltre a restaurare edifici del culto tradizionale, si impegnarono nella costruzione di nuovi e costosi templi dedicati a divinità orientali, come il tempio a Serapide e quello al dio Sole da parte di Eliogabalo, che, nelle oscillazioni dell’epoca, dopo pochi anni fu ridedicato da Severo Alessandro a Juppiter Ultor. Nel trentennio che seguì, i 13 imperatori si disinteressarono dell’edilizia sacra, sia quella dedicata agli dei tradizionali che quella per i nuovi culti, fino all’avvento di Aureliano che nel 272 fece erigere un Tempio del Sole come ex voto per la vittoria militare di Palmira, e raccolse i tesori di guerra nel tempio dove si organizzavano anche feste, con vino e corse nel circo, “l’agon Solis”.
“Non un antagonismo religioso, ma un forte sincretismo sembra dunque caratterizzare gli esiti della religione in età tardo-antica”, commenta la curatrice, sottolineando comunque che la divinizzazione dell’imperatore restò immodificata, anche perché “essere inseriti nell’alveo dei divi era dunque ancora sentito come l’unico strumento giuridico in grado di garantire la legittimità del potere imperiale”.
I nuovi culti, soprattutto orientali, oltre al Cristianesimo
I reperti esposti in mostra evocano in vario modo il progressivo diffondersi di nuovi culti, nel tessuto civile e religioso impregnato di paganesimo, dal Cristianesimo alle religioni orientali. Tale processo è riassunto così da Massimiliano Papini: “Al cospetto del culto ancestrale degli déi, sobrio sì ma scaduto a freddo dovere civico, le ‘religioni orientali’ compiacevano di più le aspirazioni e il bisogno di protezione di uomini colti e semplici, in vita e dopo la morte; e, secondo uno schema teleologico, rappresentarono come un anello di transizione tra politeismo e cristianesimo”. Venivano dall’Egitto Iside e Osiride, Sarapide ed Attis, dalla Siria Giove Dolicheno e gli dei di Heliopolis, dalla Tracia Sabazio e dalla Persia Mithra.
Il culto mitralico fu particolarmente diffuso, si stima che a Roma ci fossero tra 600 e 800 mitrei, e 14 ad Ostia, “grotte” nelle quali si svolgeva il culto, definite “accampamenti delle tenebre”: c’erano podi e tavole per i banchetti, e l’immagine del dio in tunica corta, i calzoni lunghi e berretto frigio, raffigurato nell’atto di uccidere in combattimento un toro – ci ricorda il cristiano san Giorgio che trafigge il drago – un rito sacrificale salvifico che ne sancisce il trionfo ed è fonte di fecondità. Abbiamo uno statuario Gruppo di Mitra Tauroctono e un Rilievo di Mitra Tautoroctono, un Rilievo con Mitra bambino e un Rilievo mitraico con policromia e doratura.
Tra gli altri culti evocati nei reperti esposti, ricordiamo quelli “isiaci” per Iside, antichissimi e precristiani, e per Sarapide: vediamo una Statuetta di Osiride e una Statua di Iside, una Brocca con testa di Iside, una Statuetta di Attis e un Busto di sarerdote di Atargatis. Si diffusero poi nel secolo considerato, il culto di Giove Dolicheno e il culto del Sole.
Giove Dolicheno era un dio della tempesta garante della salvezza, il suo culto era prevalente tra i militari nel primo ventennio del III sec. d. C. . Vediamo esposto un Gruppo di Iuppiter Dolichenus in piedi sul toro, e due rilievi, Iuno Dolichena in piedi su una cerva e Iuppiter e Iuno Dolicheni sui rispettivi animali; una prova di “enoteismo” nel Rilievo a più figure su due livelli con Iuppiter e Iuno Dolicheni, sempre su toro e cerva, Iside, Serapide, Sol e Luna.
Il culto del Sole fu promosso soprattutto dall’imperatore Antonino, per questo chiamato Elagabalo, che impose ai magistrati e ai sacerdoti di invocarlo nelle cerimonie prima di tutti gli altri dei e fece erigere un tempio dedicato al Sole sul Palatino vicino alla residenza imperiale, tempio che il successore Severo Alessandro fece “riconsacrare” a Giove vendicatore, cancellando anche il nome di Antonino. Mentre Aureliano, la cui madre era sacerdotessa del dio Sole in Pannonia, creò il “collegio dei Pontefici del Sole”: al suo potere venivano ricondotte tutte le altre divinità, pagane e orientali. Sono esposti due Altari con il dio Sole e la dea Luna, riprodotti in rilievo al centro della stele con iscrizioni sopra e sotto, e un Ritratto di sacerdote di Helios-Sol, un Rilievo con Sol Invictus e un Pannello in opus sectile con testa di Sol.
Arnaldo Momigliano considera il dio Sole “un predecessore monoteistico o enoteistico della Cristianità”, tesi che non viene largamente condivisa. Al Cristianesimo riferiamo due reperti in mostra, il Buon Pastore e l’originalissimo graffito del Crocifisso con testa d’asino.
Concludiamo questo rapido excursus su un tema affascinante con un commento riassuntivo di Massimiliano Papini: “Una genuina crisi dell’impianto religioso tradizionale in funzione della utilitas publica non si verificò, tanto meno per colpa dei ‘culti orientali’, oltretutto non maggiormente esercitati rispetto al secolo precedente. Tra le tante alternative (comprese le esperienze molto intense e personali a fronte di rivelazioni divine in grado di instillare paura e speranza…), si stava però facendo sempre più universale il messaggio cristiano di assoluto esclusivismo”.
La vita nelle dimore private
Dopo l’immersione nella dimensione religiosa, ci immettiamo nella vita che si svolgeva nelle “Dimore private”, di cui la 5^ Sezione della mostra presenta 39 reperti di varia natura.
In primo luogo viene rilevato come la “Forma Urbis” includesse l’edilizia popolare e le residenze imperiali, quelle dei senatori e dei cittadini benestanti. I senatori che dovevano risiedere a Roma, anche se provenivano da province lontane, si dotavano di residenze adeguate al loro rango, Spesso si risiedeva nelle domus per intere generazioni, ma i cambi di proprietà erano comunque frequenti.
Alla continuità topografica dell’età antoniniana seguì la discontinuità per i complessi pubblici costruiti da Settimio Severo previa acquisizione delle residenze private. Le dimore signorili tendono a concentrarsi in settori residenziali appositi pur se con diverse tipologie edilizie, per lo più lontane dal centro politico e monumentale, salvo qualche eccezione; le residenze più fastose si concentravano sui colli Celio ed Esquilino, Quirinale e Aventino, e a Trastevere sotto il Gianicolo.
Laura Buccino, nel suo saggio sulle domus a Roma nel III sec. d.C., nel descriverne proprietà e distribuzione topografica, cita il gustoso episodio del favoloso banchetto raccontato nella Storia diElagabalo, che si svolse in modo itinerante tra le residenze degli amici, al Campidoglio e al Palatino, al Celio e a Trastevere, nell’agro romano e ancora oltre, in ognuna delle quali si trovava una portata da consumare sul luogo. “andando successivamente a casa di tutti quanti”.
A questo proposito ci viene da citare il prezioso vasellame in argento del Tesoro di Graincourt-les-Avrincourt esposto in mostra: 10 pezzi preziosi, 4 piatti, anche con rilievi scultorei, 3 coppe, 2 attingitoi; e le raffinate Anse di piatto in argento con scene di caccia e trionfo di Dioniso in due ariosi bassorilievi. Per ultimi, 2 bottiglie e una brocchetta di vetro, 3 unguentari troncoconici in vetroe un Vaso con immagini delle Stagioni.
Alla fine del secolo la localizzazione abitativa si invertì, con la concentrazione delle residenze di livello elevato, in particolare senatoriali, nel tessuto urbano entro le mura Aureliane che offrivano sicurezza, e la rarefazione delle residenze suburbane. D’altra parte, il decentramento politico-amministrativo dell’impero liberava l’aristocrazia urbana dal controllo imperiale e ne accresceva il ruolo cittadino, per cui la nuova ubicazione centrale rispondeva anche ad esigenze di potere.
Pur se non si conosce nei dettagli la planimetria di queste dimore, si può dire che la zona di rappresentanza era rettangolare e fino alla fine del III sec. d. C. non era stata introdotta la forma absidata, pertanto le dimensioni dovevano essere considerevoli e sconfinavano nei giardini.
Questi ambienti, e quelli di ingresso e termali con i peristili, avevano arredi scultorei, statue e busti anche imperiali singoli e per cicli dinastici, come prova del potere e della fedeltà all’imperatore . Le onorificenze private non potevano più essere conferite in luoghi pubblici, per cui abbondano le iscrizioni dedicatorie nelle statue e nelle lastre marmoree.
Altra preziosa forma di arredamento soprattutto delle ville erano i mosaici geometrici e figurati, i cui temi oltre che al valore ornamentale, erano riferiti alla cultura e alla posizione del proprietario nonché alla destinazione del relativo ambiente: molto diffusi i temi dionisiaci, poi quelli di giochi, spettacoli circensi e di cacciagione.
Le pitture parietali, nelle sale di rappresentanza e negli ambienti termali, erano legate alle forme architettoniche, e iniziavano al di sopra degli zoccoli marmorei: i soggetti erano figure impegnate in attività quotidiane in rapporto con la destinazione della stanza, animali e scene dionisiache.
Osserva la Buccino: “La semplificazione di questi schemi architettonici portò alla definizione dello schema decorativo parietale che viene definito convenzionalmente ‘stile lineare’: le superfici a fondo bianco sono suddivise in una serie di pannelli rettangolari, inquadrati da fasce prevalentemente di colore rosso. Giallo o verde, che tendono a divenire sempre più sottili e sono riprese talora da cornici interne”. Ecco i soggetti: “All’interno dei campi riquadrati sono dipinti motivi di repertorio, come figure volanti, animali, rosette, maschere, teste di putto e di medusa, cesti, vasi, patere, raramente scene più complesse”. Ma c’è dell’altro: “Non solo i motivi figurativi, ma anche le cornici sono eseguite per lo più con rapide pennellature a macchia e in uno stile ‘impressionistico’, a volte poco accurato”.
I 7 splendidi Affreschi parietali esposti in mostra, definiti “da via Nazionale” ne sono la dimostrazione: vi è riprodotta una dinamica scena di caccia e una scena campestre, Il dio Pan che scopre una menade e una Pecora (o vitello) davanti a un recinto, nonché una splendida Figura femminile in seminudità, in piedi con la testa appoggiata alla mano destra, 4 Busti dentro un medaglione circolare, due maschili e due femminili.
Alla fine del secolo, con l’inversione della tendenza all’ubicazione suburbana per la concentrazione nel centro cittadino delle abitazioni di rappresentanza, si svilupperà la decorazione con gli intarsi di marmi colorati dell’opus sectile, mentre le sale di ricevimento diventeranno absidate e le corti porticate raccorderanno i vari ambienti con sculture e giochi d’acqua di ninfei e fontane.
Il culto funerario
La 6^ Sezione, dal titolo “Vivere e morire nell’impero”, comprende solo 7 reperti nel quali il vivere è testimoniato da Ritratti maschili e Rilievi con scene di insegnamento e Scene di canto e di viaggio su carro, il morire da un Rilievo funerario con scena di “prova del tessuto”, una Stele funeraria con coniugi e figlio e un Mosaico ornamentale con iscrizione di Victorius.
Ma è la 7^ e ultima Sezione, dedicata ai “Costumi funerari”, quella in cui sono esposti i reperti di sarcofaghi, lastre funerarie e decorazioni, dai quali si può risalire al culto dei defunti.
Nel III sec. d. C. già si trovavano tombe monumentali, divenute più frequenti nel secolo successivo, in cui alla cripta con il sarcofago del defunto era sovrapposta una sorta di edificio di culto del tipo del Pantheon. Sono tombe di epoca severiana, come il Sepolcro del Monte del Grano sulla Tuscolana, a forma di tamburo con due sale sovrapposte, la superiore a cupola, il cui aspetto monumentale lo fa riferire proprio all’imperatore Severo Alessandro; mentre a Gallieno viene riferito il Sepolcro al IX miglio della via Appia, con una sostruzione a sostegno della cella superiore destinata ai riti coperta da cupola; così il Mausoleo XII al terzo miglio della via Labicana, stessa struttura monumentale, descritto da Stefano Tortorella: “Le pareti sono affrescate secondo un sistema di riquadri geometrici rossi e verdi – il cosiddetto stile lineare – popolati di motivi vegetali; il pavimento, con l’eccezione della nicchia ospitante il sarcofago, era costituito da un mosaico bianco e nero con cespi d’acanto da cui nasce un decoro a fogliame popolato da uccelli che circondava un motivo centrale quasi completamente scomparso. Una decorazione musiva del tutto simile costituiva la pavimentazione del vestibolo d’accesso”.
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La descrizione che si è riportata dà un’idea della ricchezza decorativa dei monumenti funerari, in aggiunta ai pregi architettonici. Un altro aspetto rilevante è il legame del sepolcro con la villa, vicino alla quale spesso veniva realizzato: vengono citate al riguardo la Villa romana all’interno del Cimitero Flaminio e la Tomba dei Pancrazi al terzo miglio della via Latina; e, connessa a tale vicinanza, la continuità di uso anche nei cambi di proprietà della villa.
C’erano poi i grandi complessi funerari come quello sotto S. Sebastiano, tra il II e III miglio della via Appia e la grande necropoli dell’Isola sacra, la necropoli vaticana di Santa Rosa nella via Trionfale e quella sotto la Basilica di S. Pietro i cui tre sepolcri dell’età severiana sono corredati da pavimenti in opus sectile e affreschi.
Sempre in questo periodo, tornano i monumenti funebri individuali lungo le strade consolari, per la celebrazione pubblica del defunto nei percorsi molto frequentati.
A fronte di questi costumi funerari dell’aristocrazia, nel sottosuolo del suburbio si sviluppano sepolcri collettivi nelle cavità naturali, lungo corridoi con loculi alle pareti, “vere e proprie ragnatele sotterranee su più piani, spesso incorporando ricchi ipogei pagani più antichi”.
Nei sarcofaghi, al posto dei temi mitologici si moltiplicano quelli bucolici o legati alla filosofia e alla cultura. Mosaici ai pavimenti e alle pareti e pitture parientali completano le decorazioni.
In mostra è sposto un Sarcofago con mito di Prometeo, insieme a quattro sarcofaghi recanti: Thiasos marino ed Eroi vendemmianti, Caccia al leone e Leone ed antilope, Clipeo e Sarcofago di bambino. Insieme a questi, dei Rilievi funerari di Souper. Per Flavio Valeriano, una Lastra di chiusura con ritratto clipeato. Infine vediamo 7 affreschi:con Pavoni e Paesaggio acquatico, con Scena teatrale e scena di banchetto, Orfeo ed Euridice, Ratto di Proserpina eCampi Elisi.
Termina nella dimensione funeraria il lungo viaggio nel III sec. d. C. con 35 imperatori e tante minacce e sconvolgimenti. Nell’iscrizione greca in un pavimento musivo nella necropoli dell’Isola sacra si legge “Ode pausdylipos”, cioè “Questo è il luogo che libera dagli affanni”, con raffigurate due navi dalle vele gonfie e ai loro lati due barchette intorno ad un faro centrale. Tortorella, nel riportare questa citazione commenta: “L’iconografia e l’iscrizione musiva suggeriscono un’allusione allegorica alla navigazione della vita che si conclude nella pace del sereno approdo”. Ed è il migliore approdo dell’immersione nella convulsa e tormentata “Età dell’Angoscia”.
Info
Musei Capitolini, Piazza del Campidoglio 1, Roma. Tutti i giorni ore 9,30-19,30. Ingresso intero euro 15,00, ridotto euro 13,00, per i residenti 2 euro in meno, gratis minori di 6 anni e portatori di handicap e un accompagnatore. Tel. 060608; http://www.museicapitolini.org/. Catalogo “L’Età dell’angoscia. Da Commodo a Dioleziano (180-305 d. C.)”, a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, 205, pp. 469, formato 24 x 28,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo e il secondo articolo sono usciti in questo sito il 31 luglio e 3 agosto 2015. Cfr. per la precedente mostra citata su “L’Età dell’equilibrio” i nostri due articoli: in questo sito il 26 aprile 2013 e in http://www.antika.it/ nell’aprile 2013 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).
Foto
Le immagini sono state riprese ai Musei Capitolini da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l”organizzazione, in particolare Zétema Progetto Cultura e MondoMostre, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono riportate immagini rappresentative dei reperti esposti nelle ultime sezioni della mostra relative, in particolare, alla Religione (foto da 1 a 4), alle Dimore private (foto 5 e 6) e al Culto funerario (foto da 7 a 9), in chiusura la Visione d’insieme di una stanza (foto 10), tra le innumerevoli sale e grandi spazi che culminano nell’Esedra con il Marc’Aurelio . .
Si conclude la nostra visita alla mostra “Arte della civiltà islamica. La Collezione al-Sabah, Kuwait” che espone, dal 25 luglio al 20 settembre 2015, alle Scuderie del Quirinale, oltre 360 oggetti con i quali si ripercorrono 1400 anni di una civiltà la cui evoluzione si è avuta in un vastissimo territorio nel quale ha assorbito influssi e motivi unificandoli in un linguaggio autonomo. La mostra è organizzata dall’Azienda speciale Expo con Dar al-Athar al-Islamiyyah, National Council for Culture, Arts & Letters, Kuwait, è a cura di Giovanni Curatola. che ha curato il Catalogo Skira , con i suoi saggi e le schede di Manuel Keene e Salam Kaoukij.
Abbiamo già rievocato le vicende della straordinaria raccolta, messa insieme dallo Sceicco Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah e dalla moglie, la Sceicca Hussah Sabah al-Salim al-Sabah, ricca di 35.000 oggetti, tra i quali ne sono stati selezionati 360 per la mostra, tra pietre e legni, vetri e ceramiche, bronzi e ottoni, codici miniati e tessuti. Il prestito permanente al Museo del Kuwait nel 1983 e il saccheggio all’invasione del 1990 da cui se ne salvarono un centinaio miracolosamente usciti per una mostra itinerante, fino al recupero quasi totale danno un tocco particolare a una storia che ha dell’incredibile e si colora delle tinte fantasiose dell’Oriente.
Prima di immergerci in questo mondo affascinante abbiamo delineato alcuni caratteri salienti della civiltà e dell’arte islamica, descrivendo poi le 4 sezioni iniziali della mostra, di tipo cronologico, dagli inizia all’apogeo dei quattro imperatori. La visita prosegue con le ultime 6 sezioni, le prime tre dedicate ai capisaldi dell’arte islamica, la calligrafia, il disegno e l’arabesco, le altre tre alla figura, alle arti preziose della gioielleria fino alle monete.
La calligrafia
“L’arte islamica e la calligrafia araba sono spesso un tutt’uno – afferma Giovanni Curatola – Non è infatti esagerato affermare che ove dovessimo scegliere un solo elemento per caratterizzare l’insieme del sentire ed operare nel campo dell’arte, in una parola dovessimo scegliere la sua iconografia ultima, questa sarebbe una iscrizione, certamente contenente il nome di Dio: Allah”. Come si è visto, troviamo la scrittura in tante manifestazioni artistiche, dai tessuti agli oggetti.
In tema di scrittura si dovrebbe parlare al plurale perché tante sono le varianti della calligrafia, come risultato di un’evoluzione nel tempo. Abbiamo lo stile arrotondato e quello triangolare, e le due tendenze che ne rappresentano l’evoluzione e la sintesi, il corsivo “muqawwar” e il carattere dritto e angoloso “mabsut”; insieme a questi la form estesa “masq”, e quella allungata “ma’il”, il corsivo arrotondato “naskhi”, e quello rigido e angoloso “cufico”. Non finisce qui, le varianti con cui sono rese le aste portano ad una serie di stili, da foliato a fiorito, da annodato ad animato con volti umani ed animali sulle aste per le quali ci sono delle regole sull’altezza rispetto alle lettere in orizzontale. L’importanza della calligrafia è tale che gli scrivani e i copisti firmano i loro scritti apponendovi anche la data, mentre gli artisti spesso restano anonimi.
Le epigrafi si incontrano innanzitutto in architettura e nell’arte funeraria , e al riguardo vediamo esposti reperti con le iscrizioni scolpite con strumenti da scalpellino: un “Elemento di marmo, forse parte di un’iscrizione di fondazione di una scuola religiosa o di un mausoleo, decorato con un’elaborata e ‘arcaizzante’ iscrizione di stile epigrafico cufico: ‘il grande, il nobile'”, fine XI, inizi XII sec., proveniente dall’Iran orientale; e due “Lastre tombali di marmo con iscrizione in stile epigrafico cufico col nome e patronimico” del defunto e la data della sua scomparsa; in una c’è scritto il versetto del Corano “Ogni anima dovrà provare la morte, e poi ritornerete a Dio”.
In ceramica una “Piccola lastra tombale con corpo in ‘pasta fritta’ e iscrizioni negli stili naskhi (corsivo) e nasta’liq, con brani del Corano, un’invocazione alla benedizione per i 12 iman sciiti e versi in persiano con il nome del defunto; e un “Pannello in mosaico ceramico” con il versetto 286 della Sura II del Corano su uno sfondo di spirali e palmette.
Tra i frammenti di Tessuti di seta esposti, uno reca le parole “la ripetizione del nome di Dio (Allah)”, scritte in modo speculare in modo da formare un’arcata”, un altro tessuto la scritta in stile epigrafico cufico “L’eminente sultano Ghiyath ad-Din”: provengono dall’Iran, sono del XII-XIII sec. In un Frammento di tessuto di lino e lana si legge l’iscrizione nello stile ora citato, “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso”.
Dai tessuti alla “Veste talismatica decorata con medaglioni circolari, scudi e cartigli con pie iscrizioni negli stili epigrafici naskhi (corsivo) e unthuluth ridotto”, nei comparti quadrati l’intero testo del Corano (o almeno tutte le 114 Sure) e i 99 ‘Bei Nomi’ di Dio nelle bordure.
Il Corano lo vediamo integrale su carta colorata in un Manoscritto firmato da un calligrafo. Entrambi i reperti provengono dall’India, risalgono al XV sec. E’ esposta anche la pagina di un manoscritto del “Libro della conoscenza degli artifici meccanici”, in corsivo naskhi, firmato dal calligrafo, con l’illustrazione di un meccanismo ad acqua per alimentare un ‘”flauto perpetuo”.
E siano alle iscrizioni su coppe e altri oggetti. Su una Coppa di terracotta decorata con pittura a lastra metallica con motivi di foglie e arbusti una pseudo iscrizione, Iraq IX sec.,mentre una Coppa in ceramica con corpo in terracotta reca scritto il proverbio “La generosità è la virtù di chi ha dimora in Paradiso”, un’altra Coppa in ceramica e terracotta reca fra tralci, uccelli e palmette , scritte benauguranti per il possessore, versi d’amore in persiano e versi in arabo sull’importanza della conoscenza, In ceramica una Giara proveniente dall’Egitto, XII sec. alta 40 cm, decorata con iscrizione benaugurale. Mentre è in vetro smaltato e decorato un Vaso in stile cinese con l’iscrizione in stile epigrafico “thuluth” “Gloria al nostro Signore il Sultano, il re, il Sapiente”.
Ci sono oggetti in bronzo, con iscrizioni, in particolare una “Lampada a olio” con coperchio a forma di cupola lavorato a traforo con la scritta “Benedizione e felicità” per il possessore, e una “Piccola bottiglia” per profumi e cosmetici con la scritta “Gloria e favore divino a colui il quale aspira all’integrità spirituale”. Nonché un “Piatto di ottone” decorato con iscrizione in stile “animato” con lettere che terminano in teste umane e animali per formare espressioni augurali della benedizione divina al possessore..
Questa galleria termina con due oggetti in legno: una grande Scatola in legno scolpito che reca scritte, in particolare sul committente e sull’artista, destinata a contenere un manoscritto in 30 volumi del Corano negli stili thuluth e naskhi, viene dall’Iran; un “Cenotafio ligneo iscritto con brani pii religiosi” di contenuto consolatorio in stile thuluth, con un brano del Corano, viene dalla Turchia, entrambi del XIV-XV sec.
La geometria
Il secondo motivo ricorrente nell’arte islamica è la geometria, talmente ricco da potervi dedicare, come dichiara il curatore, un’intera mostra, “confortati dall’intima sicurezza che questa risulterebbe esaltante e niente affatto ripetitiva”. Questa peculiarità è dovuta alla ricerca di un’alternativa all’antropomorfismo precluso per motivi religiosi, trovata nella rappresentazione astratta che aveva nella matematica e nella geometria le discipline basilari, in una infinita varietà di espressioni.
Spostando l’asse di osservazione, le variazioni diventano infinite, ed è all’infinito che si richiama l’unico modo di evocare il Dio dell’Islam, oltre a quello dato dalla scrittura di cui si è detto, essendone preclusa ogni forma di rappresentazione; per cui l’infinito si può definire “il fine ultimo dell’arte islamica”. E’ l’attributo divino che si coniuga con l’infinitesimo umano, soltanto una piccola porzione della creazione per sua stessa natura infinita.
La geometria nell’arte islamica si manifesta sia nelle superfici piane, attraverso intrecci e schematismi visivi, sia negli oggetti la cui forma e il cui volume si ispirano alla geometria solida.
In superfici piane vediamo pagine miniate di un Manoscritto del Corano decorate con un motivo ripetibile all’infinito di pentagoni e altri poligoni nonché un Frontespizio e le pagine finali decorati con semicerchi sovrapposti che formano medaglioni stellari ottagonali. Inoltre due Rilegature in pelle, una con scudi e lobi rettangolari finemente disegnati, l’altra con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a dodici punte su una base di reiterazione di triangoli equilateri e con piccole stelle pentagonali negli interstizi. Un vero ricamo estetico, dal significato fortemente allusivo.
Su un Tessuto di lana vediamo disegni a bande orizzontali alternate a motivi blu e la scritta epigrafica “Sovranità [è un attributo dell’unico Dio]”.
Altre superfici piane con disegni geometrici sono offerte alla nostra vista in diversi materiali. In legno il Frammento a un timpano o una nicchia, anche qui con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a 12 punte, triangoli equilateri e disegni foliati; e la Coppia di scuri lignei intarsiati con gli stessi motivi reiterati ora descritti; fino a dei Paraventi in legno decorato al centro con una stella o un quadrato o dei rettangoli, e un fondo di “elementi mortasati e giunti a tenone”. In pietra arenaria un Tramezzo decorato in pietra arenaria, in stucco un Pannello da zoccolatura architettonica, in terracotta una Mattonella invetriata: sempre l’impianto geometrico dei motivi ripetibili all’infinito anche se cambiano il numero delle punte delle stelle e dei lati dei poligoni.
Le superfici curve le troviamo in un Incensiere in bronzo con corpo e coperchio traforati come la cupola di un tempio, i piedi di un quadrupede e l’iscrizione “Benedizione, possa Do prolungare la sua Gloria”, con il nome del possessore. E poi un Bacino quadrato per fontana di marmo, Coppe di terracotta e ceramica, sempre con motivi geometrici che includono stelle poligonali. Tralci spiraliformi, intrecci di petali e di archi, con motivi floreali e foliati negli intestizi, un vero ricamo.
Anche nelle Bottiglie di vetro delle più varie forme e dimensioni vediamo imprese sfaccettature geometriche, concave ed ellittiche; e in una Bottiglia di bronzo sono incastonati vetri turchesi.
L’arabesco
E siamo all’elemento forse più caratteristico dell’arte islamica, almeno agli occhi degli Occidentali: l’arabesco è “il tralcio fogliato e biforcato ad andamento in genere orizzontale e ripetuto”, il cui nome non richiama il mondo arabo ma la natura decorativa del disegno, “a rabesco”, che nella definizione in uso dal Rinascimento evoca tralci, rami e foglie più o meno stilizzate.
L’arabesco, quindi, è di origine classica, risale all’antichità e proviene dal Mediterraneo, anche se attraverso l’impero romano si diffuse nell’Oriente, ed è diventato un sigillo dell’Islam: “L’artista musulmano, afferma Curatola, non cristallizza la natura in un preciso istante con realismo (perché ogni cosa – voluta e creata da Dio nell’infinita e instancabile sua opera – ha un suo fluire, ripreso mirabilmente negli arabeschi, e una sua vita temporale che non può e non deve essere interrotta), ma lo astrae, fornendone una visione che in qualche modo è archetipale e, appunto, sovratemporale”.
In quanto tale è perfettamente connaturato alla visione islamica, che tende all’anonimato dell’artista e si esprime in un’infinità di variazioni possibili intorno al motivo dominante; e si trova come elemento trasversale in tutte le manifestazioni dell’arte nell’Islam, nella sua estrema varietà territoriale, dalla Spagna alla Cina, rappresentandone il fattore unificante più evidente e riconosciuto. Tutto ciò è stato possibile perché il rischio insito nell’estrema stilizzazione dei motivi vegetali di base, che si allontana dalla realtà fino a poter alludere a una creazione del tutto proibita, è stato superato. Questo perché, spiega Curatola, “in ogni caso tutto è opera divina, niente avvenendo senza la Sua volontà e il Suo permesso”; quindi “anche l’arabesco, nella fattispecie esiste perché così è stato comunque stabilito”.
La galleria dell’arabesco in mostra segue la logica della calligrafia e della geometria, lo troviamo negli oggetti piani e curvi dello stesso tipo di quelli già descritti, ma con questa peculiare decorazione.
Tra gli oggetti piani vediamo le Pagine miniate di manoscritti del Corano un Tessuto di seta e un Fazzoletto di cotone, i Pannelli di legno e le Mattonelle di ceramica, una Mattonella angolare di una zoccolatura architettonica, della quale è esposto anche un altro Frammento, Mattonelle a forma di stella o rettangolare. Gli arabeschi sono motivi geometrici radiali di piante e foglie, palmette e altre formazioni simmetriche e armoniose.
Negli oggetti curvi ritroviamo Vasi, Brocche e Bottiglie, di vetro, ceramica e perfino di bronzo, una serie di Coppe di ceramica dal corpo “a pasta fritta”, sempre con motivi vegetali spiraliformi e composizioni radiali; in modo diverso ma convergente rispetto alle decorazioni geometriche, anche qui vi è una ripetibilità reiterata che porta all’infinito.
La figura
Nel dar conto dei tre capisaldi dell’arte islamica, calligrafia, geometria e arabesco, indirettamente abbiamo escluso la figura, secondo alcuni proibita in qualunque rappresentazione artistica per motivi religiosi che non ammettono immagini di persone e animali; ciò è invalso dopo l’iconoclastia bizantina dell’VIII sec., e vale soprattutto per le espressioni classiche, perché dopo il XVIII sec. la situazione è mutata a seguito dei continui contatti con l’Europa.
Curatola afferma che se questo è vero per le sedi religiose, come le moschee, dove non troviamo assolutamente raffigurazioni non solo umane ma neppure animali e vegetali di tipo realistico, non c’è la preclusione nelle sedi laiche, come l’ “hammam”, le terme pubbliche, “dove si entra impuri e se ne esce puri, vero luogo di confine, in molti sensi, nel quale le immagini se non incoraggiate sono quanto meno tollerate”; e neppure vi è preclusione nella sfera privata nella quale, non essendo prevista la pedagogia e responsabilità della unmah, ognuno è ricondotto alla propria responsabilità individuale”. Che viene così definita: “Il rapporto che il musulmano instaura con Dio è sempre personale, perché a Lui prima che a ogni altro essere umano deve rispondere, anche se fra gli obblighi imposti ci sono quelli della solidarietà collettiva”, che si manifesta nella famiglia, clan, tribù, “ma tutte in subordine alla potenza della chiamata di Dio”.
Pur con il riferimento al Dio unico, nella religione cristiana invece l’arte si è concentrata nelle raffigurazioni di Cristo, la Madonna e i Santi che rappresentano una galleria sconfinata di figure umane evocatrici del divino, di straordinaria suggestione; in esse c’è il cuore stesso dell’arte occidentale, la palestra in cui si sono esercitati i più grandi artisti, il retaggio della nostra civiltà.
La figura nell’arte islamica la troviamo riferita agli animali, come si vede nella apposita sezione della mostra: ecco Rilegature in pelle decorata con scene di scimmie e cervi, lepri ed uccelli, Frammenti di tessuto di lino decorati con immagini di uccelli o di quadrupedi; zebù e tori su Bicchieri in vetro, un leone in rilievo su una Mattonella di terracotta invetriata e una figure di capra in altre tre Mattonelle di terracotta decorata policrome, mentre su un Piatto di terracotta c’è una colomba, in due grandi Mattonelle di stucco stellate a 10 punte vediamo un leogrifo quasi rampante e un elefante. Sono a forma di felino e di uccello due Incensieri di bronzo, il corpo è traforato con motivi floreali in una griglia geometrica con elementi poligonali.
E la figura umana? Compare in modo appena percepibile in una Fibbia di cintura o finimento di cavallo di bronzo e in una Ciotola di ottone, mentre è più evidente in un Bicchiere di vetro con due uomini a caccia e in una Bottiglia porta profumi con una figura principesca che ha l’aureola. L’immagine a grandi dimensioni di un principe, sempre con aureola, è al centro di un Piatto di ceramica “a pasta fritta” con piedini; altrettanto evidente la figura di un principe con attendente sui Frammenti di un tessuto di seta.
Non più una, ma diverse figure nelle Pagine miniate di manoscritti, con scene in cui viene rivolta una supplica o scene di caccia in un ricco cromatismo. Mentre miniature su seta e pagine staccate di un Album miniato mostrano dei primi piani di una coppia principesca, di un pittore vestito in modo sontuoso ripreso mentre dipinge, e di un giovane elegante che beve vino. La scena diviene corale con molte figure umane su diversi piani prospettici nella pagina miniata della “Preparazione per la fuga di Iraj dal suo accampamento, un monumentale manoscritto in 14 volumi; e nel manoscritto del “Libro dei re” con la regina e una compagna dinanzi al re, vi sono tante figure su più piani.
Le arti preziose e le monete
Anche nei gioielli e negli oggetti preziosi la collezione spicca per la sua unicità e il suo valore, considerando che raccoglie soprattutto opere provenienti dall’India dell’epoca della dinastia Moghul nella quale questa forma di arte raggiunse il livello più alto. Viene spesso considerata “arte minore”, mentre invece soprattutto in India è stata l’espressione artistica che, a parte l’architettura che spicca incontrastata, si pone al livello dell’arte nella tessitura e nella miniatura.
In queste produzioni assume particolare rilievo la preziosità dei materiali, oro e diamanti, rubini e smeraldi, zaffiri e perle la cui selezione è direttamente riferita alla destinazione dell’oggetto; e anche la tecnica altamente specializzata messa in atto degli artefici per lo più anonimi.
L’esposizione della mostra è sfolgorante. Vediamo le impugnature preziose d’oro con pietre preziose di un’ampia e spettacolare serie di Pugnali e Spade, compresi i Foderi, il pensiero torna al pugnale immortalato nel film Topkapi; poi la galleria presenta gioielli di abbigliamento, dagli Anelli ai Bracciali e alle Collane di varia foggia e valore, a più fili oppure a girocollo, in queste ultime le perle si aggiungono a smeraldi e zaffiri, così gli Ornamenti d’oro e i Pendenti. Scatole e Coppe preziose, Scrigni ed altri oggetti preziosi completano l’esposizione da Mille e una notte.
Sono esposte anche 20 monete, dei 12 mila esemplari della parte numismatica della collezione al-Sabah: 16 d’oro, tra cui alcune con le epigrafi in cerchi concentrici e una con l’effige di un imperatore moghul; 3 d’argento fra cui una di forma quadrata, e una di rame, del tipo “califfo stante” che risale al 693-697, con l’effige del sovrano che successivamente ritirò tutte le monete per eliminare la raffigurazione sostituendola con l’iscrizione coranica, “Egli, Dio è uno – Dio, l’Eterno – Non generò né fu generato – e Nessuno Gli è pari”.
E con questa massima, valida per tutte le religioni monoteiste ma coniata per quella islamica, chiudiamo il nostro racconto della mostra tornando al misticismo dopo lo scintillio delle gemme e delle pietre preziose dei pugnali e delle collane che ci hanno portato nel mondo affascinante che evoca le immagini seducenti delle Mille e una notte e quelle misteriose del Topkapi. Un volo di fantasia che si aggiunge all’immersione nel mondo della cultura e della spiritualità islamica espresso nella dovizia di preziosi oggetti e reperti presentati in una mostra che non si dimentica.
Info
Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a venerdì ore 12,00-20,00, sabato fino alle 23, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso 8 euro, ridotto 6 euro. Tel. 06.39967500, http://www.scuderiequirinale.it/ Catalogo “Arte della civiltà islamica. La Collezione al Sabah, Kuwait”, a cura di Giovanni Curatola, schede di Manuel Keene e Salam Kaoukji, giugno 2015, pp.344, formato 24 x 28. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 3 agosto 2015. Per alcune espressioni di arte contemporanea su temi islamici e non solo, cfr,. in questo sito, i nostri articoli: sulla mostra al Macro di Kerim Incendayi, “Roma e Istanbul sulle orme della storia” 5 febbraio 2015; sulle mostre dell’Ufficio culturale della Turchia a Roma, “Tulay Gurses e la mistica di Rumi” 21marzo 2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano” 2 ottobre 2013, “Permanenze, Ricordi di viaggio di nove artisti italiani” 9 novembre 2013, “Yildiz Doyran e lo slancio vitale di Bergson” 29 gennaio 2014, e “Yilmaz, i divi del cinema nei piatti in ceramica” 16 maggio 2015; su un viaggio a “Istanbul, la nuova Roma, alla ricerca di Costantinopoli” 10, 13, 15 marzo 2013.
Foto
Le immagini sono state riprese nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare gli sceicchi Naser e Hussah al Sabah Kuwait, per l’opportunità offerta. Sono esemplari con le caratteristiche dell’arte islamica, come la geometria e l’arabesco, fino ad esempi dell'”arte preziosa”, per lo più tra il XVI e il XVIII sec.. In apertura, “Tramezzo traforato di pietra arenaria”; seguono “Coppia di scuri” (o ante di armadio)” lignei, e “Pannello di stucco da zoccolatura architettonica”, tutti con motivi geometrici ripetibili all’infinito; poi, “Bacino di ottone con iscrizione laudatoria” e “Lastra di marmo per cascata d’acqua con conchigliette vegetali”; quindi, “Piatto di ceramica con corpo in pasta fritta con palmette ornamentali”, e “Collana girocollo con perle, diamanti e smeraldi“; infine, “Spinello (rubino balascio) con iscrizioni imnperiali”, più due ornamenti preziosi e “Pugnali e foderi”; in chiusura,“Cenotafio di pietra (scisto)del principe Shams al-Milla”, 1523-1524..
Si conclude la nostra visita alla mostra “Arte della civiltà islamica. La Collezione al-Sabah, Kuwait” che espone, dal 25 luglio al 20 settembre 2015, alle Scuderie del Quirinale, oltre 360 oggetti con i quali si ripercorrono 1400 anni di una civiltà la cui evoluzione si è avuta in un vastissimo territorio nel quale ha assorbito influssi e motivi unificandoli in un linguaggio autonomo. La mostra è organizzata dall’Azienda speciale Expo con Dar al-Athar al-Islamiyyah, National Council for Culture, Arts & Letters, Kuwait, è a cura di Giovanni Curatola. che ha curato il Catalogo Skira , con i suoi saggi e le schede di Manuel Keene e Salam Kaoukij.
Abbiamo già rievocato le vicende della straordinaria raccolta, messa insieme dallo Sceicco Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah e dalla moglie, la Sceicca Hussah Sabah al-Salim al-Sabah, ricca di 35.000 oggetti, tra i quali ne sono stati selezionati 360 per la mostra, tra pietre e legni, vetri e ceramiche, bronzi e ottoni, codici miniati e tessuti. Il prestito permanente al Museo del Kuwait nel 1983 e il saccheggio all’invasione del 1990 da cui se ne salvarono un centinaio miracolosamente usciti per una mostra itinerante, fino al recupero quasi totale danno un tocco particolare a una storia che ha dell’incredibile e si colora delle tinte fantasiose dell’Oriente.
Prima di immergerci in questo mondo affascinante abbiamo delineato alcuni caratteri salienti della civiltà e dell’arte islamica, descrivendo poi le 4 sezioni iniziali della mostra, di tipo cronologico, dagli inizia all’apogeo dei quattro imperatori. La visita prosegue con le ultime 6 sezioni, le prime tre dedicate ai capisaldi dell’arte islamica, la calligrafia, il disegno e l’arabesco, le altre tre alla figura, alle arti preziose della gioielleria fino alle monete.
La calligrafia
“L’arte islamica e la calligrafia araba sono spesso un tutt’uno – afferma Giovanni Curatola – Non è infatti esagerato affermare che ove dovessimo scegliere un solo elemento per caratterizzare l’insieme del sentire ed operare nel campo dell’arte, in una parola dovessimo scegliere la sua iconografia ultima, questa sarebbe una iscrizione, certamente contenente il nome di Dio: Allah”. Come si è visto, troviamo la scrittura in tante manifestazioni artistiche, dai tessuti agli oggetti.
In tema di scrittura si dovrebbe parlare al plurale perché tante sono le varianti della calligrafia, come risultato di un’evoluzione nel tempo. Abbiamo lo stile arrotondato e quello triangolare, e le due tendenze che ne rappresentano l’evoluzione e la sintesi, il corsivo “muqawwar” e il carattere dritto e angoloso “mabsut”; insieme a questi la form estesa “masq”, e quella allungata “ma’il”, il corsivo arrotondato “naskhi”, e quello rigido e angoloso “cufico”. Non finisce qui, le varianti con cui sono rese le aste portano ad una serie di stili, da foliato a fiorito, da annodato ad animato con volti umani ed animali sulle aste per le quali ci sono delle regole sull’altezza rispetto alle lettere in orizzontale. L’importanza della calligrafia è tale che gli scrivani e i copisti firmano i loro scritti apponendovi anche la data, mentre gli artisti spesso restano anonimi.
Le epigrafi si incontrano innanzitutto in architettura e nell’arte funeraria , e al riguardo vediamo esposti reperti con le iscrizioni scolpite con strumenti da scalpellino: un “Elemento di marmo, forse parte di un’iscrizione di fondazione di una scuola religiosa o di un mausoleo, decorato con un’elaborata e ‘arcaizzante’ iscrizione di stile epigrafico cufico: ‘il grande, il nobile'”, fine XI, inizi XII sec., proveniente dall’Iran orientale; e due “Lastre tombali di marmo con iscrizione in stile epigrafico cufico col nome e patronimico” del defunto e la data della sua scomparsa; in una c’è scritto il versetto del Corano “Ogni anima dovrà provare la morte, e poi ritornerete a Dio”.
In ceramica una “Piccola lastra tombale con corpo in ‘pasta fritta’ e iscrizioni negli stili naskhi (corsivo) e nasta’liq, con brani del Corano, un’invocazione alla benedizione per i 12 iman sciiti e versi in persiano con il nome del defunto; e un “Pannello in mosaico ceramico” con il versetto 286 della Sura II del Corano su uno sfondo di spirali e palmette.
Tra i frammenti di Tessuti di seta esposti, uno reca le parole “la ripetizione del nome di Dio (Allah)”, scritte in modo speculare in modo da formare un’arcata”, un altro tessuto la scritta in stile epigrafico cufico “L’eminente sultano Ghiyath ad-Din”: provengono dall’Iran, sono del XII-XIII sec. In un Frammento di tessuto di lino e lana si legge l’iscrizione nello stile ora citato, “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso”.
Dai tessuti alla “Veste talismatica decorata con medaglioni circolari, scudi e cartigli con pie iscrizioni negli stili epigrafici naskhi (corsivo) e unthuluth ridotto”, nei comparti quadrati l’intero testo del Corano (o almeno tutte le 114 Sure) e i 99 ‘Bei Nomi’ di Dio nelle bordure.
Il Corano lo vediamo integrale su carta colorata in un Manoscritto firmato da un calligrafo. Entrambi i reperti provengono dall’India, risalgono al XV sec. E’ esposta anche la pagina di un manoscritto del “Libro della conoscenza degli artifici meccanici”, in corsivo naskhi, firmato dal calligrafo, con l’illustrazione di un meccanismo ad acqua per alimentare un ‘”flauto perpetuo”.
E siano alle iscrizioni su coppe e altri oggetti. Su una Coppa di terracotta decorata con pittura a lastra metallica con motivi di foglie e arbusti una pseudo iscrizione, Iraq IX sec.,mentre una Coppa in ceramica con corpo in terracotta reca scritto il proverbio “La generosità è la virtù di chi ha dimora in Paradiso”, un’altra Coppa in ceramica e terracotta reca fra tralci, uccelli e palmette , scritte benauguranti per il possessore, versi d’amore in persiano e versi in arabo sull’importanza della conoscenza, In ceramica una Giara proveniente dall’Egitto, XII sec. alta 40 cm, decorata con iscrizione benaugurale. Mentre è in vetro smaltato e decorato un Vaso in stile cinese con l’iscrizione in stile epigrafico “thuluth” “Gloria al nostro Signore il Sultano, il re, il Sapiente”.
Ci sono oggetti in bronzo, con iscrizioni, in particolare una “Lampada a olio” con coperchio a forma di cupola lavorato a traforo con la scritta “Benedizione e felicità” per il possessore, e una “Piccola bottiglia” per profumi e cosmetici con la scritta “Gloria e favore divino a colui il quale aspira all’integrità spirituale”. Nonché un “Piatto di ottone” decorato con iscrizione in stile “animato” con lettere che terminano in teste umane e animali per formare espressioni augurali della benedizione divina al possessore..
Questa galleria termina con due oggetti in legno: una grande Scatola in legno scolpito che reca scritte, in particolare sul committente e sull’artista, destinata a contenere un manoscritto in 30 volumi del Corano negli stili thuluth e naskhi, viene dall’Iran; un “Cenotafio ligneo iscritto con brani pii religiosi” di contenuto consolatorio in stile thuluth, con un brano del Corano, viene dalla Turchia, entrambi del XIV-XV sec.
La geometria
Il secondo motivo ricorrente nell’arte islamica è la geometria, talmente ricco da potervi dedicare, come dichiara il curatore, un’intera mostra, “confortati dall’intima sicurezza che questa risulterebbe esaltante e niente affatto ripetitiva”. Questa peculiarità è dovuta alla ricerca di un’alternativa all’antropomorfismo precluso per motivi religiosi, trovata nella rappresentazione astratta che aveva nella matematica e nella geometria le discipline basilari, in una infinita varietà di espressioni.
Spostando l’asse di osservazione, le variazioni diventano infinite, ed è all’infinito che si richiama l’unico modo di evocare il Dio dell’Islam, oltre a quello dato dalla scrittura di cui si è detto, essendone preclusa ogni forma di rappresentazione; per cui l’infinito si può definire “il fine ultimo dell’arte islamica”. E’ l’attributo divino che si coniuga con l’infinitesimo umano, soltanto una piccola porzione della creazione per sua stessa natura infinita.
La geometria nell’arte islamica si manifesta sia nelle superfici piane, attraverso intrecci e schematismi visivi, sia negli oggetti la cui forma e il cui volume si ispirano alla geometria solida.
In superfici piane vediamo pagine miniate di un Manoscritto del Corano decorate con un motivo ripetibile all’infinito di pentagoni e altri poligoni nonché un Frontespizio e le pagine finali decorati con semicerchi sovrapposti che formano medaglioni stellari ottagonali. Inoltre due Rilegature in pelle, una con scudi e lobi rettangolari finemente disegnati, l’altra con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a dodici punte su una base di reiterazione di triangoli equilateri e con piccole stelle pentagonali negli interstizi. Un vero ricamo estetico, dal significato fortemente allusivo.
Su un Tessuto di lana vediamo disegni a bande orizzontali alternate a motivi blu e la scritta epigrafica “Sovranità [è un attributo dell’unico Dio]”.
Altre superfici piane con disegni geometrici sono offerte alla nostra vista in diversi materiali. In legno il Frammento a un timpano o una nicchia, anche qui con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a 12 punte, triangoli equilateri e disegni foliati; e la Coppia di scuri lignei intarsiati con gli stessi motivi reiterati ora descritti; fino a dei Paraventi in legno decorato al centro con una stella o un quadrato o dei rettangoli, e un fondo di “elementi mortasati e giunti a tenone”. In pietra arenaria un Tramezzo decorato in pietra arenaria, in stucco un Pannello da zoccolatura architettonica, in terracotta una Mattonella invetriata: sempre l’impianto geometrico dei motivi ripetibili all’infinito anche se cambiano il numero delle punte delle stelle e dei lati dei poligoni.
Le superfici curve le troviamo in un Incensiere in bronzo con corpo e coperchio traforati come la cupola di un tempio, i piedi di un quadrupede e l’iscrizione “Benedizione, possa Do prolungare la sua Gloria”, con il nome del possessore. E poi un Bacino quadrato per fontana di marmo, Coppe di terracotta e ceramica, sempre con motivi geometrici che includono stelle poligonali. Tralci spiraliformi, intrecci di petali e di archi, con motivi floreali e foliati negli intestizi, un vero ricamo.
Anche nelle Bottiglie di vetro delle più varie forme e dimensioni vediamo imprese sfaccettature geometriche, concave ed ellittiche; e in una Bottiglia di bronzo sono incastonati vetri turchesi.
L’arabesco
E siamo all’elemento forse più caratteristico dell’arte islamica, almeno agli occhi degli Occidentali: l’arabesco è “il tralcio fogliato e biforcato ad andamento in genere orizzontale e ripetuto”, il cui nome non richiama il mondo arabo ma la natura decorativa del disegno, “a rabesco”, che nella definizione in uso dal Rinascimento evoca tralci, rami e foglie più o meno stilizzate.
L’arabesco, quindi, è di origine classica, risale all’antichità e proviene dal Mediterraneo, anche se attraverso l’impero romano si diffuse nell’Oriente, ed è diventato un sigillo dell’Islam: “L’artista musulmano, afferma Curatola, non cristallizza la natura in un preciso istante con realismo (perché ogni cosa – voluta e creata da Dio nell’infinita e instancabile sua opera – ha un suo fluire, ripreso mirabilmente negli arabeschi, e una sua vita temporale che non può e non deve essere interrotta), ma lo astrae, fornendone una visione che in qualche modo è archetipale e, appunto, sovratemporale”.
In quanto tale è perfettamente connaturato alla visione islamica, che tende all’anonimato dell’artista e si esprime in un’infinità di variazioni possibili intorno al motivo dominante; e si trova come elemento trasversale in tutte le manifestazioni dell’arte nell’Islam, nella sua estrema varietà territoriale, dalla Spagna alla Cina, rappresentandone il fattore unificante più evidente e riconosciuto. Tutto ciò è stato possibile perché il rischio insito nell’estrema stilizzazione dei motivi vegetali di base, che si allontana dalla realtà fino a poter alludere a una creazione del tutto proibita, è stato superato. Questo perché, spiega Curatola, “in ogni caso tutto è opera divina, niente avvenendo senza la Sua volontà e il Suo permesso”; quindi “anche l’arabesco, nella fattispecie esiste perché così è stato comunque stabilito”.
La galleria dell’arabesco in mostra segue la logica della calligrafia e della geometria, lo troviamo negli oggetti piani e curvi dello stesso tipo di quelli già descritti, ma con questa peculiare decorazione.
Tra gli oggetti piani vediamo le Pagine miniate di manoscritti del Corano un Tessuto di seta e un Fazzoletto di cotone, i Pannelli di legno e le Mattonelle di ceramica, una Mattonella angolare di una zoccolatura architettonica, della quale è esposto anche un altro Frammento, Mattonelle a forma di stella o rettangolare. Gli arabeschi sono motivi geometrici radiali di piante e foglie, palmette e altre formazioni simmetriche e armoniose.
Negli oggetti curvi ritroviamo Vasi, Brocche e Bottiglie, di vetro, ceramica e perfino di bronzo, una serie di Coppe di ceramica dal corpo “a pasta fritta”, sempre con motivi vegetali spiraliformi e composizioni radiali; in modo diverso ma convergente rispetto alle decorazioni geometriche, anche qui vi è una ripetibilità reiterata che porta all’infinito.
La figura
Nel dar conto dei tre capisaldi dell’arte islamica, calligrafia, geometria e arabesco, indirettamente abbiamo escluso la figura, secondo alcuni proibita in qualunque rappresentazione artistica per motivi religiosi che non ammettono immagini di persone e animali; ciò è invalso dopo l’iconoclastia bizantina dell’VIII sec., e vale soprattutto per le espressioni classiche, perché dopo il XVIII sec. la situazione è mutata a seguito dei continui contatti con l’Europa.
Curatola afferma che se questo è vero per le sedi religiose, come le moschee, dove non troviamo assolutamente raffigurazioni non solo umane ma neppure animali e vegetali di tipo realistico, non c’è la preclusione nelle sedi laiche, come l’ “hammam”, le terme pubbliche, “dove si entra impuri e se ne esce puri, vero luogo di confine, in molti sensi, nel quale le immagini se non incoraggiate sono quanto meno tollerate”; e neppure vi è preclusione nella sfera privata nella quale, non essendo prevista la pedagogia e responsabilità della unmah, ognuno è ricondotto alla propria responsabilità individuale”. Che viene così definita: “Il rapporto che il musulmano instaura con Dio è sempre personale, perché a Lui prima che a ogni altro essere umano deve rispondere, anche se fra gli obblighi imposti ci sono quelli della solidarietà collettiva”, che si manifesta nella famiglia, clan, tribù, “ma tutte in subordine alla potenza della chiamata di Dio”.
Pur con il riferimento al Dio unico, nella religione cristiana invece l’arte si è concentrata nelle raffigurazioni di Cristo, la Madonna e i Santi che rappresentano una galleria sconfinata di figure umane evocatrici del divino, di straordinaria suggestione; in esse c’è il cuore stesso dell’arte occidentale, la palestra in cui si sono esercitati i più grandi artisti, il retaggio della nostra civiltà.
La figura nell’arte islamica la troviamo riferita agli animali, come si vede nella apposita sezione della mostra: ecco Rilegature in pelle decorata con scene di scimmie e cervi, lepri ed uccelli, Frammenti di tessuto di lino decorati con immagini di uccelli o di quadrupedi; zebù e tori su Bicchieri in vetro, un leone in rilievo su una Mattonella di terracotta invetriata e una figure di capra in altre tre Mattonelle di terracotta decorata policrome, mentre su un Piatto di terracotta c’è una colomba, in due grandi Mattonelle di stucco stellate a 10 punte vediamo un leogrifo quasi rampante e un elefante. Sono a forma di felino e di uccello due Incensieri di bronzo, il corpo è traforato con motivi floreali in una griglia geometrica con elementi poligonali.
E la figura umana? Compare in modo appena percepibile in una Fibbia di cintura o finimento di cavallo di bronzo e in una Ciotola di ottone, mentre è più evidente in un Bicchiere di vetro con due uomini a caccia e in una Bottiglia porta profumi con una figura principesca che ha l’aureola. L’immagine a grandi dimensioni di un principe, sempre con aureola, è al centro di un Piatto di ceramica “a pasta fritta” con piedini; altrettanto evidente la figura di un principe con attendente sui Frammenti di un tessuto di seta.
Non più una, ma diverse figure nelle Pagine miniate di manoscritti, con scene in cui viene rivolta una supplica o scene di caccia in un ricco cromatismo. Mentre miniature su seta e pagine staccate di un Album miniato mostrano dei primi piani di una coppia principesca, di un pittore vestito in modo sontuoso ripreso mentre dipinge, e di un giovane elegante che beve vino. La scena diviene corale con molte figure umane su diversi piani prospettici nella pagina miniata della “Preparazione per la fuga di Iraj dal suo accampamento, un monumentale manoscritto in 14 volumi; e nel manoscritto del “Libro dei re” con la regina e una compagna dinanzi al re, vi sono tante figure su più piani.
Le arti preziose e le monete
Anche nei gioielli e negli oggetti preziosi la collezione spicca per la sua unicità e il suo valore, considerando che raccoglie soprattutto opere provenienti dall’India dell’epoca della dinastia Moghul nella quale questa forma di arte raggiunse il livello più alto. Viene spesso considerata “arte minore”, mentre invece soprattutto in India è stata l’espressione artistica che, a parte l’architettura che spicca incontrastata, si pone al livello dell’arte nella tessitura e nella miniatura.
In queste produzioni assume particolare rilievo la preziosità dei materiali, oro e diamanti, rubini e smeraldi, zaffiri e perle la cui selezione è direttamente riferita alla destinazione dell’oggetto; e anche la tecnica altamente specializzata messa in atto degli artefici per lo più anonimi.
L’esposizione della mostra è sfolgorante. Vediamo le impugnature preziose d’oro con pietre preziose di un’ampia e spettacolare serie di Pugnali e Spade, compresi i Foderi, il pensiero torna al pugnale immortalato nel film Topkapi; poi la galleria presenta gioielli di abbigliamento, dagli Anelli ai Bracciali e alle Collane di varia foggia e valore, a più fili oppure a girocollo, in queste ultime le perle si aggiungono a smeraldi e zaffiri, così gli Ornamenti d’oro e i Pendenti. Scatole e Coppe preziose, Scrigni ed altri oggetti preziosi completano l’esposizione da Mille e una notte.
Sono esposte anche 20 monete, dei 12 mila esemplari della parte numismatica della collezione al-Sabah: 16 d’oro, tra cui alcune con le epigrafi in cerchi concentrici e una con l’effige di un imperatore moghul; 3 d’argento fra cui una di forma quadrata, e una di rame, del tipo “califfo stante” che risale al 693-697, con l’effige del sovrano che successivamente ritirò tutte le monete per eliminare la raffigurazione sostituendola con l’iscrizione coranica, “Egli, Dio è uno – Dio, l’Eterno – Non generò né fu generato – e Nessuno Gli è pari”.
E con questa massima, valida per tutte le religioni monoteiste ma coniata per quella islamica, chiudiamo il nostro racconto della mostra tornando al misticismo dopo lo scintillio delle gemme e delle pietre preziose dei pugnali e delle collane che ci hanno portato nel mondo affascinante che evoca le immagini seducenti delle Mille e una notte e quelle misteriose del Topkapi. Un volo di fantasia che si aggiunge all’immersione nel mondo della cultura e della spiritualità islamica espresso nella dovizia di preziosi oggetti e reperti presentati in una mostra che non si dimentica.
Info
Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a venerdì ore 12,00-20,00, sabato fino alle 23, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso 8 euro, ridotto 6 euro. Tel. 06.39967500, http://www.scuderiequirinale.it/ Catalogo “Arte della civiltà islamica. La Collezione al Sabah, Kuwait”, a cura di Giovanni Curatola, schede di Manuel Keene e Salam Kaoukji, giugno 2015, pp.344, formato 24 x 28. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 3 agosto 2015. Per alcune espressioni di arte contemporanea su temi islamici e non solo, cfr,. in questo sito, i nostri articoli: sulla mostra al Macro di Kerim Incendayi, “Roma e Istanbul sulle orme della storia” 5 febbraio 2015; sulle mostre dell’Ufficio culturale della Turchia a Roma, “Tulay Gurses e la mistica di Rumi” 21marzo 2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano” 2 ottobre 2013, “Permanenze, Ricordi di viaggio di nove artisti italiani” 9 novembre 2013, “Yildiz Doyran e lo slancio vitale di Bergson” 29 gennaio 2014, e “Yilmaz, i divi del cinema nei piatti in ceramica” 16 maggio 2015; su un viaggio a “Istanbul, la nuova Roma, alla ricerca di Costantinopoli” 10, 13, 15 marzo 2013.
Foto
Le immagini sono state riprese nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare gli sceicchi Naser e Hussah al Sabah Kuwait, per l’opportunità offerta. Sono esemplari con le caratteristiche dell’arte islamica, come la geometria e l’arabesco, fino ad esempi dell'”arte preziosa”, per lo più tra il XVI e il XVIII sec.. In apertura, “Tramezzo traforato di pietra arenaria”; seguono “Coppia di scuri” (o ante di armadio)” lignei, e “Pannello di stucco da zoccolatura architettonica”, tutti con motivi geometrici ripetibili all’infinito; poi, “Bacino di ottone con iscrizione laudatoria” e “Lastra di marmo per cascata d’acqua con conchigliette vegetali”; quindi, “Piatto di ceramica con corpo in pasta fritta con palmette ornamentali”, e “Collana girocollo con perle, diamanti e smeraldi“; infine, “Spinello (rubino balascio) con iscrizioni imnperiali”, più due ornamenti preziosi e “Pugnali e foderi”; in chiusura,“Cenotafio di pietra (scisto)del principe Shams al-Milla”, 1523-1524..
di Romano Maria Levante
Si conclude la nostra visita alla mostra “Arte della civiltà islamica. La Collezione al-Sabah, Kuwait” che espone, dal 25 luglio al 20 settembre 2015, alle Scuderie del Quirinale, oltre 360 oggetti con i quali si ripercorrono 1400 anni di una civiltà la cui evoluzione si è avuta in un vastissimo territorio nel quale ha assorbito influssi e motivi unificandoli in un linguaggio autonomo. La mostra è organizzata dall’Azienda speciale Expo con Dar al-Athar al-Islamiyyah, National Council for Culture, Arts & Letters, Kuwait, è a cura di Giovanni Curatola. che ha curato il Catalogo Skira , con i suoi saggi e le schede di Manuel Keene e Salam Kaoukij.
Abbiamo già rievocato le vicende della straordinaria raccolta, messa insieme dallo Sceicco Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah e dalla moglie, la Sceicca Hussah Sabah al-Salim al-Sabah, ricca di 35.000 oggetti, tra i quali ne sono stati selezionati 360 per la mostra, tra pietre e legni, vetri e ceramiche, bronzi e ottoni, codici miniati e tessuti. Il prestito permanente al Museo del Kuwait nel 1983 e il saccheggio all’invasione del 1990 da cui se ne salvarono un centinaio miracolosamente usciti per una mostra itinerante, fino al recupero quasi totale danno un tocco particolare a una storia che ha dell’incredibile e si colora delle tinte fantasiose dell’Oriente.
Prima di immergerci in questo mondo affascinante abbiamo delineato alcuni caratteri salienti della civiltà e dell’arte islamica, descrivendo poi le 4 sezioni iniziali della mostra, di tipo cronologico, dagli inizia all’apogeo dei quattro imperatori. La visita prosegue con le ultime 6 sezioni, le prime tre dedicate ai capisaldi dell’arte islamica, la calligrafia, il disegno e l’arabesco, le altre tre alla figura, alle arti preziose della gioielleria fino alle monete.
La calligrafia
“L’arte islamica e la calligrafia araba sono spesso un tutt’uno – afferma Giovanni Curatola – Non è infatti esagerato affermare che ove dovessimo scegliere un solo elemento per caratterizzare l’insieme del sentire ed operare nel campo dell’arte, in una parola dovessimo scegliere la sua iconografia ultima, questa sarebbe una iscrizione, certamente contenente il nome di Dio: Allah”. Come si è visto, troviamo la scrittura in tante manifestazioni artistiche, dai tessuti agli oggetti.
In tema di scrittura si dovrebbe parlare al plurale perché tante sono le varianti della calligrafia, come risultato di un’evoluzione nel tempo. Abbiamo lo stile arrotondato e quello triangolare, e le due tendenze che ne rappresentano l’evoluzione e la sintesi, il corsivo “muqawwar” e il carattere dritto e angoloso “mabsut”; insieme a questi la form estesa “masq”, e quella allungata “ma’il”, il corsivo arrotondato “naskhi”, e quello rigido e angoloso “cufico”. Non finisce qui, le varianti con cui sono rese le aste portano ad una serie di stili, da foliato a fiorito, da annodato ad animato con volti umani ed animali sulle aste per le quali ci sono delle regole sull’altezza rispetto alle lettere in orizzontale. L’importanza della calligrafia è tale che gli scrivani e i copisti firmano i loro scritti apponendovi anche la data, mentre gli artisti spesso restano anonimi.
Le epigrafi si incontrano innanzitutto in architettura e nell’arte funeraria , e al riguardo vediamo esposti reperti con le iscrizioni scolpite con strumenti da scalpellino: un “Elemento di marmo, forse parte di un’iscrizione di fondazione di una scuola religiosa o di un mausoleo, decorato con un’elaborata e ‘arcaizzante’ iscrizione di stile epigrafico cufico: ‘il grande, il nobile'”, fine XI, inizi XII sec., proveniente dall’Iran orientale; e due “Lastre tombali di marmo con iscrizione in stile epigrafico cufico col nome e patronimico” del defunto e la data della sua scomparsa; in una c’è scritto il versetto del Corano “Ogni anima dovrà provare la morte, e poi ritornerete a Dio”.
In ceramica una “Piccola lastra tombale con corpo in ‘pasta fritta’ e iscrizioni negli stili naskhi (corsivo) e nasta’liq, con brani del Corano, un’invocazione alla benedizione per i 12 iman sciiti e versi in persiano con il nome del defunto; e un “Pannello in mosaico ceramico” con il versetto 286 della Sura II del Corano su uno sfondo di spirali e palmette.
Tra i frammenti di Tessuti di seta esposti, uno reca le parole “la ripetizione del nome di Dio (Allah)”, scritte in modo speculare in modo da formare un’arcata”, un altro tessuto la scritta in stile epigrafico cufico “L’eminente sultano Ghiyath ad-Din”: provengono dall’Iran, sono del XII-XIII sec. In un Frammento di tessuto di lino e lana si legge l’iscrizione nello stile ora citato, “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso”.
Dai tessuti alla “Veste talismatica decorata con medaglioni circolari, scudi e cartigli con pie iscrizioni negli stili epigrafici naskhi (corsivo) e unthuluth ridotto”, nei comparti quadrati l’intero testo del Corano (o almeno tutte le 114 Sure) e i 99 ‘Bei Nomi’ di Dio nelle bordure.
Il Corano lo vediamo integrale su carta colorata in un Manoscritto firmato da un calligrafo. Entrambi i reperti provengono dall’India, risalgono al XV sec. E’ esposta anche la pagina di un manoscritto del “Libro della conoscenza degli artifici meccanici”, in corsivo naskhi, firmato dal calligrafo, con l’illustrazione di un meccanismo ad acqua per alimentare un ‘”flauto perpetuo”.
E siano alle iscrizioni su coppe e altri oggetti. Su una Coppa di terracotta decorata con pittura a lastra metallica con motivi di foglie e arbusti una pseudo iscrizione, Iraq IX sec.,mentre una Coppa in ceramica con corpo in terracotta reca scritto il proverbio “La generosità è la virtù di chi ha dimora in Paradiso”, un’altra Coppa in ceramica e terracotta reca fra tralci, uccelli e palmette , scritte benauguranti per il possessore, versi d’amore in persiano e versi in arabo sull’importanza della conoscenza, In ceramica una Giara proveniente dall’Egitto, XII sec. alta 40 cm, decorata con iscrizione benaugurale. Mentre è in vetro smaltato e decorato un Vaso in stile cinese con l’iscrizione in stile epigrafico “thuluth” “Gloria al nostro Signore il Sultano, il re, il Sapiente”.
Ci sono oggetti in bronzo, con iscrizioni, in particolare una “Lampada a olio” con coperchio a forma di cupola lavorato a traforo con la scritta “Benedizione e felicità” per il possessore, e una “Piccola bottiglia” per profumi e cosmetici con la scritta “Gloria e favore divino a colui il quale aspira all’integrità spirituale”. Nonché un “Piatto di ottone” decorato con iscrizione in stile “animato” con lettere che terminano in teste umane e animali per formare espressioni augurali della benedizione divina al possessore..
Questa galleria termina con due oggetti in legno: una grande Scatola in legno scolpito che reca scritte, in particolare sul committente e sull’artista, destinata a contenere un manoscritto in 30 volumi del Corano negli stili thuluth e naskhi, viene dall’Iran; un “Cenotafio ligneo iscritto con brani pii religiosi” di contenuto consolatorio in stile thuluth, con un brano del Corano, viene dalla Turchia, entrambi del XIV-XV sec.
La geometria
Il secondo motivo ricorrente nell’arte islamica è la geometria, talmente ricco da potervi dedicare, come dichiara il curatore, un’intera mostra, “confortati dall’intima sicurezza che questa risulterebbe esaltante e niente affatto ripetitiva”. Questa peculiarità è dovuta alla ricerca di un’alternativa all’antropomorfismo precluso per motivi religiosi, trovata nella rappresentazione astratta che aveva nella matematica e nella geometria le discipline basilari, in una infinita varietà di espressioni.
Spostando l’asse di osservazione, le variazioni diventano infinite, ed è all’infinito che si richiama l’unico modo di evocare il Dio dell’Islam, oltre a quello dato dalla scrittura di cui si è detto, essendone preclusa ogni forma di rappresentazione; per cui l’infinito si può definire “il fine ultimo dell’arte islamica”. E’ l’attributo divino che si coniuga con l’infinitesimo umano, soltanto una piccola porzione della creazione per sua stessa natura infinita.
La geometria nell’arte islamica si manifesta sia nelle superfici piane, attraverso intrecci e schematismi visivi, sia negli oggetti la cui forma e il cui volume si ispirano alla geometria solida.
In superfici piane vediamo pagine miniate di un Manoscritto del Corano decorate con un motivo ripetibile all’infinito di pentagoni e altri poligoni nonché un Frontespizio e le pagine finali decorati con semicerchi sovrapposti che formano medaglioni stellari ottagonali. Inoltre due Rilegature in pelle, una con scudi e lobi rettangolari finemente disegnati, l’altra con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a dodici punte su una base di reiterazione di triangoli equilateri e con piccole stelle pentagonali negli interstizi. Un vero ricamo estetico, dal significato fortemente allusivo.
Su un Tessuto di lana vediamo disegni a bande orizzontali alternate a motivi blu e la scritta epigrafica “Sovranità [è un attributo dell’unico Dio]”.
Altre superfici piane con disegni geometrici sono offerte alla nostra vista in diversi materiali. In legno il Frammento a un timpano o una nicchia, anche qui con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a 12 punte, triangoli equilateri e disegni foliati; e la Coppia di scuri lignei intarsiati con gli stessi motivi reiterati ora descritti; fino a dei Paraventi in legno decorato al centro con una stella o un quadrato o dei rettangoli, e un fondo di “elementi mortasati e giunti a tenone”. In pietra arenaria un Tramezzo decorato in pietra arenaria, in stucco un Pannello da zoccolatura architettonica, in terracotta una Mattonella invetriata: sempre l’impianto geometrico dei motivi ripetibili all’infinito anche se cambiano il numero delle punte delle stelle e dei lati dei poligoni.
Le superfici curve le troviamo in un Incensiere in bronzo con corpo e coperchio traforati come la cupola di un tempio, i piedi di un quadrupede e l’iscrizione “Benedizione, possa Do prolungare la sua Gloria”, con il nome del possessore. E poi un Bacino quadrato per fontana di marmo, Coppe di terracotta e ceramica, sempre con motivi geometrici che includono stelle poligonali. Tralci spiraliformi, intrecci di petali e di archi, con motivi floreali e foliati negli intestizi, un vero ricamo.
Anche nelle Bottiglie di vetro delle più varie forme e dimensioni vediamo imprese sfaccettature geometriche, concave ed ellittiche; e in una Bottiglia di bronzo sono incastonati vetri turchesi.
L’arabesco
E siamo all’elemento forse più caratteristico dell’arte islamica, almeno agli occhi degli Occidentali: l’arabesco è “il tralcio fogliato e biforcato ad andamento in genere orizzontale e ripetuto”, il cui nome non richiama il mondo arabo ma la natura decorativa del disegno, “a rabesco”, che nella definizione in uso dal Rinascimento evoca tralci, rami e foglie più o meno stilizzate.
L’arabesco, quindi, è di origine classica, risale all’antichità e proviene dal Mediterraneo, anche se attraverso l’impero romano si diffuse nell’Oriente, ed è diventato un sigillo dell’Islam: “L’artista musulmano, afferma Curatola, non cristallizza la natura in un preciso istante con realismo (perché ogni cosa – voluta e creata da Dio nell’infinita e instancabile sua opera – ha un suo fluire, ripreso mirabilmente negli arabeschi, e una sua vita temporale che non può e non deve essere interrotta), ma lo astrae, fornendone una visione che in qualche modo è archetipale e, appunto, sovratemporale”.
In quanto tale è perfettamente connaturato alla visione islamica, che tende all’anonimato dell’artista e si esprime in un’infinità di variazioni possibili intorno al motivo dominante; e si trova come elemento trasversale in tutte le manifestazioni dell’arte nell’Islam, nella sua estrema varietà territoriale, dalla Spagna alla Cina, rappresentandone il fattore unificante più evidente e riconosciuto. Tutto ciò è stato possibile perché il rischio insito nell’estrema stilizzazione dei motivi vegetali di base, che si allontana dalla realtà fino a poter alludere a una creazione del tutto proibita, è stato superato. Questo perché, spiega Curatola, “in ogni caso tutto è opera divina, niente avvenendo senza la Sua volontà e il Suo permesso”; quindi “anche l’arabesco, nella fattispecie esiste perché così è stato comunque stabilito”.
La galleria dell’arabesco in mostra segue la logica della calligrafia e della geometria, lo troviamo negli oggetti piani e curvi dello stesso tipo di quelli già descritti, ma con questa peculiare decorazione.
Tra gli oggetti piani vediamo le Pagine miniate di manoscritti del Corano un Tessuto di seta e un Fazzoletto di cotone, i Pannelli di legno e le Mattonelle di ceramica, una Mattonella angolare di una zoccolatura architettonica, della quale è esposto anche un altro Frammento, Mattonelle a forma di stella o rettangolare. Gli arabeschi sono motivi geometrici radiali di piante e foglie, palmette e altre formazioni simmetriche e armoniose.
Negli oggetti curvi ritroviamo Vasi, Brocche e Bottiglie, di vetro, ceramica e perfino di bronzo, una serie di Coppe di ceramica dal corpo “a pasta fritta”, sempre con motivi vegetali spiraliformi e composizioni radiali; in modo diverso ma convergente rispetto alle decorazioni geometriche, anche qui vi è una ripetibilità reiterata che porta all’infinito.
La figura
Nel dar conto dei tre capisaldi dell’arte islamica, calligrafia, geometria e arabesco, indirettamente abbiamo escluso la figura, secondo alcuni proibita in qualunque rappresentazione artistica per motivi religiosi che non ammettono immagini di persone e animali; ciò è invalso dopo l’iconoclastia bizantina dell’VIII sec., e vale soprattutto per le espressioni classiche, perché dopo il XVIII sec. la situazione è mutata a seguito dei continui contatti con l’Europa.
Curatola afferma che se questo è vero per le sedi religiose, come le moschee, dove non troviamo assolutamente raffigurazioni non solo umane ma neppure animali e vegetali di tipo realistico, non c’è la preclusione nelle sedi laiche, come l’ “hammam”, le terme pubbliche, “dove si entra impuri e se ne esce puri, vero luogo di confine, in molti sensi, nel quale le immagini se non incoraggiate sono quanto meno tollerate”; e neppure vi è preclusione nella sfera privata nella quale, non essendo prevista la pedagogia e responsabilità della unmah, ognuno è ricondotto alla propria responsabilità individuale”. Che viene così definita: “Il rapporto che il musulmano instaura con Dio è sempre personale, perché a Lui prima che a ogni altro essere umano deve rispondere, anche se fra gli obblighi imposti ci sono quelli della solidarietà collettiva”, che si manifesta nella famiglia, clan, tribù, “ma tutte in subordine alla potenza della chiamata di Dio”.
Pur con il riferimento al Dio unico, nella religione cristiana invece l’arte si è concentrata nelle raffigurazioni di Cristo, la Madonna e i Santi che rappresentano una galleria sconfinata di figure umane evocatrici del divino, di straordinaria suggestione; in esse c’è il cuore stesso dell’arte occidentale, la palestra in cui si sono esercitati i più grandi artisti, il retaggio della nostra civiltà.
La figura nell’arte islamica la troviamo riferita agli animali, come si vede nella apposita sezione della mostra: ecco Rilegature in pelle decorata con scene di scimmie e cervi, lepri ed uccelli, Frammenti di tessuto di lino decorati con immagini di uccelli o di quadrupedi; zebù e tori su Bicchieri in vetro, un leone in rilievo su una Mattonella di terracotta invetriata e una figure di capra in altre tre Mattonelle di terracotta decorata policrome, mentre su un Piatto di terracotta c’è una colomba, in due grandi Mattonelle di stucco stellate a 10 punte vediamo un leogrifo quasi rampante e un elefante. Sono a forma di felino e di uccello due Incensieri di bronzo, il corpo è traforato con motivi floreali in una griglia geometrica con elementi poligonali.
E la figura umana? Compare in modo appena percepibile in una Fibbia di cintura o finimento di cavallo di bronzo e in una Ciotola di ottone, mentre è più evidente in un Bicchiere di vetro con due uomini a caccia e in una Bottiglia porta profumi con una figura principesca che ha l’aureola. L’immagine a grandi dimensioni di un principe, sempre con aureola, è al centro di un Piatto di ceramica “a pasta fritta” con piedini; altrettanto evidente la figura di un principe con attendente sui Frammenti di un tessuto di seta.
Non più una, ma diverse figure nelle Pagine miniate di manoscritti, con scene in cui viene rivolta una supplica o scene di caccia in un ricco cromatismo. Mentre miniature su seta e pagine staccate di un Album miniato mostrano dei primi piani di una coppia principesca, di un pittore vestito in modo sontuoso ripreso mentre dipinge, e di un giovane elegante che beve vino. La scena diviene corale con molte figure umane su diversi piani prospettici nella pagina miniata della “Preparazione per la fuga di Iraj dal suo accampamento, un monumentale manoscritto in 14 volumi; e nel manoscritto del “Libro dei re” con la regina e una compagna dinanzi al re, vi sono tante figure su più piani.
Le arti preziose e le monete
Anche nei gioielli e negli oggetti preziosi la collezione spicca per la sua unicità e il suo valore, considerando che raccoglie soprattutto opere provenienti dall’India dell’epoca della dinastia Moghul nella quale questa forma di arte raggiunse il livello più alto. Viene spesso considerata “arte minore”, mentre invece soprattutto in India è stata l’espressione artistica che, a parte l’architettura che spicca incontrastata, si pone al livello dell’arte nella tessitura e nella miniatura.
In queste produzioni assume particolare rilievo la preziosità dei materiali, oro e diamanti, rubini e smeraldi, zaffiri e perle la cui selezione è direttamente riferita alla destinazione dell’oggetto; e anche la tecnica altamente specializzata messa in atto degli artefici per lo più anonimi.
L’esposizione della mostra è sfolgorante. Vediamo le impugnature preziose d’oro con pietre preziose di un’ampia e spettacolare serie di Pugnali e Spade, compresi i Foderi, il pensiero torna al pugnale immortalato nel film Topkapi; poi la galleria presenta gioielli di abbigliamento, dagli Anelli ai Bracciali e alle Collane di varia foggia e valore, a più fili oppure a girocollo, in queste ultime le perle si aggiungono a smeraldi e zaffiri, così gli Ornamenti d’oro e i Pendenti. Scatole e Coppe preziose, Scrigni ed altri oggetti preziosi completano l’esposizione da Mille e una notte.
Sono esposte anche 20 monete, dei 12 mila esemplari della parte numismatica della collezione al-Sabah: 16 d’oro, tra cui alcune con le epigrafi in cerchi concentrici e una con l’effige di un imperatore moghul; 3 d’argento fra cui una di forma quadrata, e una di rame, del tipo “califfo stante” che risale al 693-697, con l’effige del sovrano che successivamente ritirò tutte le monete per eliminare la raffigurazione sostituendola con l’iscrizione coranica, “Egli, Dio è uno – Dio, l’Eterno – Non generò né fu generato – e Nessuno Gli è pari”.
E con questa massima, valida per tutte le religioni monoteiste ma coniata per quella islamica, chiudiamo il nostro racconto della mostra tornando al misticismo dopo lo scintillio delle gemme e delle pietre preziose dei pugnali e delle collane che ci hanno portato nel mondo affascinante che evoca le immagini seducenti delle Mille e una notte e quelle misteriose del Topkapi. Un volo di fantasia che si aggiunge all’immersione nel mondo della cultura e della spiritualità islamica espresso nella dovizia di preziosi oggetti e reperti presentati in una mostra che non si dimentica.
Info
Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a venerdì ore 12,00-20,00, sabato fino alle 23, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso 8 euro, ridotto 6 euro. Tel. 06.39967500, http://www.scuderiequirinale.it/ Catalogo “Arte della civiltà islamica. La Collezione al Sabah, Kuwait”, a cura di Giovanni Curatola, schede di Manuel Keene e Salam Kaoukji, giugno 2015, pp.344, formato 24 x 28. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 3 agosto 2015. Per alcune espressioni di arte contemporanea su temi islamici e non solo, cfr,. in questo sito, i nostri articoli: sulla mostra al Macro di Kerim Incendayi, “Roma e Istanbul sulle orme della storia” 5 febbraio 2015; sulle mostre dell’Ufficio culturale della Turchia a Roma, “Tulay Gurses e la mistica di Rumi” 21marzo 2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano” 2 ottobre 2013, “Permanenze, Ricordi di viaggio di nove artisti italiani” 9 novembre 2013, “Yildiz Doyran e lo slancio vitale di Bergson” 29 gennaio 2014, e “Yilmaz, i divi del cinema nei piatti in ceramica” 16 maggio 2015; su un viaggio a “Istanbul, la nuova Roma, alla ricerca di Costantinopoli” 10, 13, 15 marzo 2013.
Foto
Le immagini sono state riprese nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare gli sceicchi Naser e Hussah al Sabah Kuwait, per l’opportunità offerta. Sono esemplari con le caratteristiche dell’arte islamica, come la geometria e l’arabesco, fino ad esempi dell'”arte preziosa”, per lo più tra il XVI e il XVIII sec.. In apertura, “Tramezzo traforato di pietra arenaria”; seguono “Coppia di scuri” (o ante di armadio)” lignei, e “Pannello di stucco da zoccolatura architettonica”, tutti con motivi geometrici ripetibili all’infinito; poi, “Bacino di ottone con iscrizione laudatoria” e “Lastra di marmo per cascata d’acqua con conchigliette vegetali”; quindi, “Piatto di ceramica con corpo in pasta fritta con palmette ornamentali”, e “Collana girocollo con perle, diamanti e smeraldi“; infine, “Spinello (rubino balascio) con iscrizioni imnperiali”, più due ornamenti preziosi e “Pugnali e foderi”; in chiusura,“Cenotafio di pietra (scisto)del principe Shams al-Milla”, 1523-1524..
Si conclude la nostra visita alla mostra “Arte della civiltà islamica. La Collezione al-Sabah, Kuwait” che espone, dal 25 luglio al 20 settembre 2015, alle Scuderie del Quirinale, oltre 360 oggetti con i quali si ripercorrono 1400 anni di una civiltà la cui evoluzione si è avuta in un vastissimo territorio nel quale ha assorbito influssi e motivi unificandoli in un linguaggio autonomo. La mostra è organizzata dall’Azienda speciale Expo con Dar al-Athar al-Islamiyyah, National Council for Culture, Arts & Letters, Kuwait, è a cura di Giovanni Curatola. che ha curato il Catalogo Skira , con i suoi saggi e le schede di Manuel Keene e Salam Kaoukij.
Abbiamo già rievocato le vicende della straordinaria raccolta, messa insieme dallo Sceicco Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah e dalla moglie, la Sceicca Hussah Sabah al-Salim al-Sabah, ricca di 35.000 oggetti, tra i quali ne sono stati selezionati 360 per la mostra, tra pietre e legni, vetri e ceramiche, bronzi e ottoni, codici miniati e tessuti. Il prestito permanente al Museo del Kuwait nel 1983 e il saccheggio all’invasione del 1990 da cui se ne salvarono un centinaio miracolosamente usciti per una mostra itinerante, fino al recupero quasi totale danno un tocco particolare a una storia che ha dell’incredibile e si colora delle tinte fantasiose dell’Oriente.
Prima di immergerci in questo mondo affascinante abbiamo delineato alcuni caratteri salienti della civiltà e dell’arte islamica, descrivendo poi le 4 sezioni iniziali della mostra, di tipo cronologico, dagli inizia all’apogeo dei quattro imperatori. La visita prosegue con le ultime 6 sezioni, le prime tre dedicate ai capisaldi dell’arte islamica, la calligrafia, il disegno e l’arabesco, le altre tre alla figura, alle arti preziose della gioielleria fino alle monete.
La calligrafia
“L’arte islamica e la calligrafia araba sono spesso un tutt’uno – afferma Giovanni Curatola – Non è infatti esagerato affermare che ove dovessimo scegliere un solo elemento per caratterizzare l’insieme del sentire ed operare nel campo dell’arte, in una parola dovessimo scegliere la sua iconografia ultima, questa sarebbe una iscrizione, certamente contenente il nome di Dio: Allah”. Come si è visto, troviamo la scrittura in tante manifestazioni artistiche, dai tessuti agli oggetti.
In tema di scrittura si dovrebbe parlare al plurale perché tante sono le varianti della calligrafia, come risultato di un’evoluzione nel tempo. Abbiamo lo stile arrotondato e quello triangolare, e le due tendenze che ne rappresentano l’evoluzione e la sintesi, il corsivo “muqawwar” e il carattere dritto e angoloso “mabsut”; insieme a questi la form estesa “masq”, e quella allungata “ma’il”, il corsivo arrotondato “naskhi”, e quello rigido e angoloso “cufico”. Non finisce qui, le varianti con cui sono rese le aste portano ad una serie di stili, da foliato a fiorito, da annodato ad animato con volti umani ed animali sulle aste per le quali ci sono delle regole sull’altezza rispetto alle lettere in orizzontale. L’importanza della calligrafia è tale che gli scrivani e i copisti firmano i loro scritti apponendovi anche la data, mentre gli artisti spesso restano anonimi.
Le epigrafi si incontrano innanzitutto in architettura e nell’arte funeraria , e al riguardo vediamo esposti reperti con le iscrizioni scolpite con strumenti da scalpellino: un “Elemento di marmo, forse parte di un’iscrizione di fondazione di una scuola religiosa o di un mausoleo, decorato con un’elaborata e ‘arcaizzante’ iscrizione di stile epigrafico cufico: ‘il grande, il nobile'”, fine XI, inizi XII sec., proveniente dall’Iran orientale; e due “Lastre tombali di marmo con iscrizione in stile epigrafico cufico col nome e patronimico” del defunto e la data della sua scomparsa; in una c’è scritto il versetto del Corano “Ogni anima dovrà provare la morte, e poi ritornerete a Dio”.
In ceramica una “Piccola lastra tombale con corpo in ‘pasta fritta’ e iscrizioni negli stili naskhi (corsivo) e nasta’liq, con brani del Corano, un’invocazione alla benedizione per i 12 iman sciiti e versi in persiano con il nome del defunto; e un “Pannello in mosaico ceramico” con il versetto 286 della Sura II del Corano su uno sfondo di spirali e palmette.
Tra i frammenti di Tessuti di seta esposti, uno reca le parole “la ripetizione del nome di Dio (Allah)”, scritte in modo speculare in modo da formare un’arcata”, un altro tessuto la scritta in stile epigrafico cufico “L’eminente sultano Ghiyath ad-Din”: provengono dall’Iran, sono del XII-XIII sec. In un Frammento di tessuto di lino e lana si legge l’iscrizione nello stile ora citato, “Nel nome di Dio, il Clemente, il Misericordioso”.
Dai tessuti alla “Veste talismatica decorata con medaglioni circolari, scudi e cartigli con pie iscrizioni negli stili epigrafici naskhi (corsivo) e unthuluth ridotto”, nei comparti quadrati l’intero testo del Corano (o almeno tutte le 114 Sure) e i 99 ‘Bei Nomi’ di Dio nelle bordure.
Il Corano lo vediamo integrale su carta colorata in un Manoscritto firmato da un calligrafo. Entrambi i reperti provengono dall’India, risalgono al XV sec. E’ esposta anche la pagina di un manoscritto del “Libro della conoscenza degli artifici meccanici”, in corsivo naskhi, firmato dal calligrafo, con l’illustrazione di un meccanismo ad acqua per alimentare un ‘”flauto perpetuo”.
E siano alle iscrizioni su coppe e altri oggetti. Su una Coppa di terracotta decorata con pittura a lastra metallica con motivi di foglie e arbusti una pseudo iscrizione, Iraq IX sec.,mentre una Coppa in ceramica con corpo in terracotta reca scritto il proverbio “La generosità è la virtù di chi ha dimora in Paradiso”, un’altra Coppa in ceramica e terracotta reca fra tralci, uccelli e palmette , scritte benauguranti per il possessore, versi d’amore in persiano e versi in arabo sull’importanza della conoscenza, In ceramica una Giara proveniente dall’Egitto, XII sec. alta 40 cm, decorata con iscrizione benaugurale. Mentre è in vetro smaltato e decorato un Vaso in stile cinese con l’iscrizione in stile epigrafico “thuluth” “Gloria al nostro Signore il Sultano, il re, il Sapiente”.
Ci sono oggetti in bronzo, con iscrizioni, in particolare una “Lampada a olio” con coperchio a forma di cupola lavorato a traforo con la scritta “Benedizione e felicità” per il possessore, e una “Piccola bottiglia” per profumi e cosmetici con la scritta “Gloria e favore divino a colui il quale aspira all’integrità spirituale”. Nonché un “Piatto di ottone” decorato con iscrizione in stile “animato” con lettere che terminano in teste umane e animali per formare espressioni augurali della benedizione divina al possessore..
Questa galleria termina con due oggetti in legno: una grande Scatola in legno scolpito che reca scritte, in particolare sul committente e sull’artista, destinata a contenere un manoscritto in 30 volumi del Corano negli stili thuluth e naskhi, viene dall’Iran; un “Cenotafio ligneo iscritto con brani pii religiosi” di contenuto consolatorio in stile thuluth, con un brano del Corano, viene dalla Turchia, entrambi del XIV-XV sec.
La geometria
Il secondo motivo ricorrente nell’arte islamica è la geometria, talmente ricco da potervi dedicare, come dichiara il curatore, un’intera mostra, “confortati dall’intima sicurezza che questa risulterebbe esaltante e niente affatto ripetitiva”. Questa peculiarità è dovuta alla ricerca di un’alternativa all’antropomorfismo precluso per motivi religiosi, trovata nella rappresentazione astratta che aveva nella matematica e nella geometria le discipline basilari, in una infinita varietà di espressioni.
Spostando l’asse di osservazione, le variazioni diventano infinite, ed è all’infinito che si richiama l’unico modo di evocare il Dio dell’Islam, oltre a quello dato dalla scrittura di cui si è detto, essendone preclusa ogni forma di rappresentazione; per cui l’infinito si può definire “il fine ultimo dell’arte islamica”. E’ l’attributo divino che si coniuga con l’infinitesimo umano, soltanto una piccola porzione della creazione per sua stessa natura infinita.
La geometria nell’arte islamica si manifesta sia nelle superfici piane, attraverso intrecci e schematismi visivi, sia negli oggetti la cui forma e il cui volume si ispirano alla geometria solida.
In superfici piane vediamo pagine miniate di un Manoscritto del Corano decorate con un motivo ripetibile all’infinito di pentagoni e altri poligoni nonché un Frontespizio e le pagine finali decorati con semicerchi sovrapposti che formano medaglioni stellari ottagonali. Inoltre due Rilegature in pelle, una con scudi e lobi rettangolari finemente disegnati, l’altra con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a dodici punte su una base di reiterazione di triangoli equilateri e con piccole stelle pentagonali negli interstizi. Un vero ricamo estetico, dal significato fortemente allusivo.
Su un Tessuto di lana vediamo disegni a bande orizzontali alternate a motivi blu e la scritta epigrafica “Sovranità [è un attributo dell’unico Dio]”.
Altre superfici piane con disegni geometrici sono offerte alla nostra vista in diversi materiali. In legno il Frammento a un timpano o una nicchia, anche qui con un motivo ripetibile all’infinito di stelle a 12 punte, triangoli equilateri e disegni foliati; e la Coppia di scuri lignei intarsiati con gli stessi motivi reiterati ora descritti; fino a dei Paraventi in legno decorato al centro con una stella o un quadrato o dei rettangoli, e un fondo di “elementi mortasati e giunti a tenone”. In pietra arenaria un Tramezzo decorato in pietra arenaria, in stucco un Pannello da zoccolatura architettonica, in terracotta una Mattonella invetriata: sempre l’impianto geometrico dei motivi ripetibili all’infinito anche se cambiano il numero delle punte delle stelle e dei lati dei poligoni.
Le superfici curve le troviamo in un Incensiere in bronzo con corpo e coperchio traforati come la cupola di un tempio, i piedi di un quadrupede e l’iscrizione “Benedizione, possa Do prolungare la sua Gloria”, con il nome del possessore. E poi un Bacino quadrato per fontana di marmo, Coppe di terracotta e ceramica, sempre con motivi geometrici che includono stelle poligonali. Tralci spiraliformi, intrecci di petali e di archi, con motivi floreali e foliati negli intestizi, un vero ricamo.
Anche nelle Bottiglie di vetro delle più varie forme e dimensioni vediamo imprese sfaccettature geometriche, concave ed ellittiche; e in una Bottiglia di bronzo sono incastonati vetri turchesi.
L’arabesco
E siamo all’elemento forse più caratteristico dell’arte islamica, almeno agli occhi degli Occidentali: l’arabesco è “il tralcio fogliato e biforcato ad andamento in genere orizzontale e ripetuto”, il cui nome non richiama il mondo arabo ma la natura decorativa del disegno, “a rabesco”, che nella definizione in uso dal Rinascimento evoca tralci, rami e foglie più o meno stilizzate.
L’arabesco, quindi, è di origine classica, risale all’antichità e proviene dal Mediterraneo, anche se attraverso l’impero romano si diffuse nell’Oriente, ed è diventato un sigillo dell’Islam: “L’artista musulmano, afferma Curatola, non cristallizza la natura in un preciso istante con realismo (perché ogni cosa – voluta e creata da Dio nell’infinita e instancabile sua opera – ha un suo fluire, ripreso mirabilmente negli arabeschi, e una sua vita temporale che non può e non deve essere interrotta), ma lo astrae, fornendone una visione che in qualche modo è archetipale e, appunto, sovratemporale”.
In quanto tale è perfettamente connaturato alla visione islamica, che tende all’anonimato dell’artista e si esprime in un’infinità di variazioni possibili intorno al motivo dominante; e si trova come elemento trasversale in tutte le manifestazioni dell’arte nell’Islam, nella sua estrema varietà territoriale, dalla Spagna alla Cina, rappresentandone il fattore unificante più evidente e riconosciuto. Tutto ciò è stato possibile perché il rischio insito nell’estrema stilizzazione dei motivi vegetali di base, che si allontana dalla realtà fino a poter alludere a una creazione del tutto proibita, è stato superato. Questo perché, spiega Curatola, “in ogni caso tutto è opera divina, niente avvenendo senza la Sua volontà e il Suo permesso”; quindi “anche l’arabesco, nella fattispecie esiste perché così è stato comunque stabilito”.
La galleria dell’arabesco in mostra segue la logica della calligrafia e della geometria, lo troviamo negli oggetti piani e curvi dello stesso tipo di quelli già descritti, ma con questa peculiare decorazione.
Tra gli oggetti piani vediamo le Pagine miniate di manoscritti del Corano un Tessuto di seta e un Fazzoletto di cotone, i Pannelli di legno e le Mattonelle di ceramica, una Mattonella angolare di una zoccolatura architettonica, della quale è esposto anche un altro Frammento, Mattonelle a forma di stella o rettangolare. Gli arabeschi sono motivi geometrici radiali di piante e foglie, palmette e altre formazioni simmetriche e armoniose.
Negli oggetti curvi ritroviamo Vasi, Brocche e Bottiglie, di vetro, ceramica e perfino di bronzo, una serie di Coppe di ceramica dal corpo “a pasta fritta”, sempre con motivi vegetali spiraliformi e composizioni radiali; in modo diverso ma convergente rispetto alle decorazioni geometriche, anche qui vi è una ripetibilità reiterata che porta all’infinito.
La figura
Nel dar conto dei tre capisaldi dell’arte islamica, calligrafia, geometria e arabesco, indirettamente abbiamo escluso la figura, secondo alcuni proibita in qualunque rappresentazione artistica per motivi religiosi che non ammettono immagini di persone e animali; ciò è invalso dopo l’iconoclastia bizantina dell’VIII sec., e vale soprattutto per le espressioni classiche, perché dopo il XVIII sec. la situazione è mutata a seguito dei continui contatti con l’Europa.
Curatola afferma che se questo è vero per le sedi religiose, come le moschee, dove non troviamo assolutamente raffigurazioni non solo umane ma neppure animali e vegetali di tipo realistico, non c’è la preclusione nelle sedi laiche, come l’ “hammam”, le terme pubbliche, “dove si entra impuri e se ne esce puri, vero luogo di confine, in molti sensi, nel quale le immagini se non incoraggiate sono quanto meno tollerate”; e neppure vi è preclusione nella sfera privata nella quale, non essendo prevista la pedagogia e responsabilità della unmah, ognuno è ricondotto alla propria responsabilità individuale”. Che viene così definita: “Il rapporto che il musulmano instaura con Dio è sempre personale, perché a Lui prima che a ogni altro essere umano deve rispondere, anche se fra gli obblighi imposti ci sono quelli della solidarietà collettiva”, che si manifesta nella famiglia, clan, tribù, “ma tutte in subordine alla potenza della chiamata di Dio”.
Pur con il riferimento al Dio unico, nella religione cristiana invece l’arte si è concentrata nelle raffigurazioni di Cristo, la Madonna e i Santi che rappresentano una galleria sconfinata di figure umane evocatrici del divino, di straordinaria suggestione; in esse c’è il cuore stesso dell’arte occidentale, la palestra in cui si sono esercitati i più grandi artisti, il retaggio della nostra civiltà.
La figura nell’arte islamica la troviamo riferita agli animali, come si vede nella apposita sezione della mostra: ecco Rilegature in pelle decorata con scene di scimmie e cervi, lepri ed uccelli, Frammenti di tessuto di lino decorati con immagini di uccelli o di quadrupedi; zebù e tori su Bicchieri in vetro, un leone in rilievo su una Mattonella di terracotta invetriata e una figure di capra in altre tre Mattonelle di terracotta decorata policrome, mentre su un Piatto di terracotta c’è una colomba, in due grandi Mattonelle di stucco stellate a 10 punte vediamo un leogrifo quasi rampante e un elefante. Sono a forma di felino e di uccello due Incensieri di bronzo, il corpo è traforato con motivi floreali in una griglia geometrica con elementi poligonali.
E la figura umana? Compare in modo appena percepibile in una Fibbia di cintura o finimento di cavallo di bronzo e in una Ciotola di ottone, mentre è più evidente in un Bicchiere di vetro con due uomini a caccia e in una Bottiglia porta profumi con una figura principesca che ha l’aureola. L’immagine a grandi dimensioni di un principe, sempre con aureola, è al centro di un Piatto di ceramica “a pasta fritta” con piedini; altrettanto evidente la figura di un principe con attendente sui Frammenti di un tessuto di seta.
Non più una, ma diverse figure nelle Pagine miniate di manoscritti, con scene in cui viene rivolta una supplica o scene di caccia in un ricco cromatismo. Mentre miniature su seta e pagine staccate di un Album miniato mostrano dei primi piani di una coppia principesca, di un pittore vestito in modo sontuoso ripreso mentre dipinge, e di un giovane elegante che beve vino. La scena diviene corale con molte figure umane su diversi piani prospettici nella pagina miniata della “Preparazione per la fuga di Iraj dal suo accampamento, un monumentale manoscritto in 14 volumi; e nel manoscritto del “Libro dei re” con la regina e una compagna dinanzi al re, vi sono tante figure su più piani.
Le arti preziose e le monete
Anche nei gioielli e negli oggetti preziosi la collezione spicca per la sua unicità e il suo valore, considerando che raccoglie soprattutto opere provenienti dall’India dell’epoca della dinastia Moghul nella quale questa forma di arte raggiunse il livello più alto. Viene spesso considerata “arte minore”, mentre invece soprattutto in India è stata l’espressione artistica che, a parte l’architettura che spicca incontrastata, si pone al livello dell’arte nella tessitura e nella miniatura.
In queste produzioni assume particolare rilievo la preziosità dei materiali, oro e diamanti, rubini e smeraldi, zaffiri e perle la cui selezione è direttamente riferita alla destinazione dell’oggetto; e anche la tecnica altamente specializzata messa in atto degli artefici per lo più anonimi.
L’esposizione della mostra è sfolgorante. Vediamo le impugnature preziose d’oro con pietre preziose di un’ampia e spettacolare serie di Pugnali e Spade, compresi i Foderi, il pensiero torna al pugnale immortalato nel film Topkapi; poi la galleria presenta gioielli di abbigliamento, dagli Anelli ai Bracciali e alle Collane di varia foggia e valore, a più fili oppure a girocollo, in queste ultime le perle si aggiungono a smeraldi e zaffiri, così gli Ornamenti d’oro e i Pendenti. Scatole e Coppe preziose, Scrigni ed altri oggetti preziosi completano l’esposizione da Mille e una notte.
Sono esposte anche 20 monete, dei 12 mila esemplari della parte numismatica della collezione al-Sabah: 16 d’oro, tra cui alcune con le epigrafi in cerchi concentrici e una con l’effige di un imperatore moghul; 3 d’argento fra cui una di forma quadrata, e una di rame, del tipo “califfo stante” che risale al 693-697, con l’effige del sovrano che successivamente ritirò tutte le monete per eliminare la raffigurazione sostituendola con l’iscrizione coranica, “Egli, Dio è uno – Dio, l’Eterno – Non generò né fu generato – e Nessuno Gli è pari”.
E con questa massima, valida per tutte le religioni monoteiste ma coniata per quella islamica, chiudiamo il nostro racconto della mostra tornando al misticismo dopo lo scintillio delle gemme e delle pietre preziose dei pugnali e delle collane che ci hanno portato nel mondo affascinante che evoca le immagini seducenti delle Mille e una notte e quelle misteriose del Topkapi. Un volo di fantasia che si aggiunge all’immersione nel mondo della cultura e della spiritualità islamica espresso nella dovizia di preziosi oggetti e reperti presentati in una mostra che non si dimentica.
Info
Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a venerdì ore 12,00-20,00, sabato fino alle 23, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso 8 euro, ridotto 6 euro. Tel. 06.39967500, http://www.scuderiequirinale.it/ Catalogo “Arte della civiltà islamica. La Collezione al Sabah, Kuwait”, a cura di Giovanni Curatola, schede di Manuel Keene e Salam Kaoukji, giugno 2015, pp.344, formato 24 x 28. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 3 agosto 2015. Per alcune espressioni di arte contemporanea su temi islamici e non solo, cfr,. in questo sito, i nostri articoli: sulla mostra al Macro di Kerim Incendayi, “Roma e Istanbul sulle orme della storia” 5 febbraio 2015; sulle mostre dell’Ufficio culturale della Turchia a Roma, “Tulay Gurses e la mistica di Rumi” 21marzo 2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano” 2 ottobre 2013, “Permanenze, Ricordi di viaggio di nove artisti italiani” 9 novembre 2013, “Yildiz Doyran e lo slancio vitale di Bergson” 29 gennaio 2014, e “Yilmaz, i divi del cinema nei piatti in ceramica” 16 maggio 2015; su un viaggio a “Istanbul, la nuova Roma, alla ricerca di Costantinopoli” 10, 13, 15 marzo 2013.
Foto
Le immagini sono state riprese nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare gli sceicchi Naser e Hussah al Sabah Kuwait, per l’opportunità offerta. Sono esemplari con le caratteristiche dell’arte islamica, come la geometria e l’arabesco, fino ad esempi dell'”arte preziosa”, per lo più tra il XVI e il XVIII sec.. In apertura, “Tramezzo traforato di pietra arenaria”; seguono “Coppia di scuri” (o ante di armadio)” lignei, e “Pannello di stucco da zoccolatura architettonica”, tutti con motivi geometrici ripetibili all’infinito; poi, “Bacino di ottone con iscrizione laudatoria” e “Lastra di marmo per cascata d’acqua con conchigliette vegetali”; quindi, “Piatto di ceramica con corpo in pasta fritta con palmette ornamentali”, e “Collana girocollo con perle, diamanti e smeraldi“; infine, “Spinello (rubino balascio) con iscrizioni imnperiali”, più due ornamenti preziosi e “Pugnali e foderi”; in chiusura,“Cenotafio di pietra (scisto)del principe Shams al-Milla”, 1523-1524..
La mostra “L’Età dell’Angoscia”. Da Commodo a Diocleziano” espone dal 28 gennaio al 4 ottobre 2015 una galleria di 240 reperti, del periodo dal 180 al 305 d. C., che vide 35 imperatori dei quali sono esposti 92 tra busti e statue, comprese mogli e personaggi; inoltre affreschi e vasellame, sarcofaghi e rilievi funerari, iscrizioni e plastici di edifici romani. Realizzazione dei Musei Capitolini, insieme a Mondo Mostre e Zètema Progetto Cultura. La mostra è a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco che hanno curato anche il Catalogo con 135 pagine di 11 accurati saggi, 180 di riproduzioni e 140 di schede tecniche.
Abbiamo presentato la mostra iniziando con il significato del titolo: perché l’età dell’angoscia e non dell’ansietà nell’ambivalenza dell’espressione inglese“An Age of Anxiety” cui si richiama? Quindi ne abbiamo descritto i contenuti rievocando la situazione dell’Impero romano del III sec. d. C: una forte instabilità politica e un’incertezza diffusa, la minaccia dei barbari ai confini e un intenso sforzo bellico che squilibrò il bilancio a danno del tenore di vita della popolazione.
Di qui i timori e l’ansia mista ad angoscia, con il ricorso consolatorio a religioni meno rigide e istituzionali che mettevano in rapporto diretto con la divinità, magari attraverso carismatici mediatori, dal Cristianesimo ai culti orientali. L’assetto cittadino e le dimore dei grandi personaggi, con le loro decorazioni statuarie e pittoriche, completano il quadro della vita a Roma nel periodo, che si conclude con i costumi funerari, venendo considerata la tomba “il luogo che libera dagli affanni” come si legge in un’iscrizione.
Dopo questa doverosa preparazione, necessaria per la vastità e complessità dei temi sviluppati, inizia la visita ai 240 reperti esposti: daremo conto delle prime tre sezioni, i protagonisti, cioè gli imperatori, l’esercito e la città di Roma, rinviando a un momento successivo il resoconto delle altre quattro sezioni, la religione e le dimore private , vita e morte nell’Impero e i costumi funerari.
I protagonisti, gli imperatori
La 1^ sezione, “I protagonisti”, contiene 92 reperti scultorei, soprattutto busti e qualche statua, dedicati agli imperatori e a personaggi maschili e femminili di notevole importanza. E’ una galleria, collocata nel lungo salone dei Musei Capitolini, che consente di seguire le rappresentazioni del potere imperiale nel periodo considerato, che va dal 180 al 305 d. C., nel quale si sono succeduti ben 35 imperatori, largamente rappresentati nella mostra, con mogli ed eredi al trono..
Una carrellata storica e artistica insieme, attraverso la quale si può penetrare nella logica con cui i sovrani presentavano la propria figura, valorizzando gli aspetti che ritenevano utile sottolineare dinanzi al popolo, in relazione alla situazione politica e sociale peraltro molto mutevole.
“Le numerose statue degli imperatori esposte in contesti pubblici – esordisce Marianne Bergmann nell’accurato saggio che ricostruisce il percorso storico e stilistico del periodo – erano senza eccezioni dedicate a loro come onori. Solo per gli imperatori esistevano funzioni speciali. I ritratti potevano sostituire l’imperatore in funzioni ufficiali o servire come immagini di culto imperiale, che esisteva però sempre fuori Roma”.
Del resto, anche le statue e i busti per altri personaggi del ceto altolocato, come magistrati e militari, benefattori e patrizi, erano considerate “rappresentazioni di status”, cioè onorificenze prestigiose da esporre in modo visibile come celebrazione pubblica degli onori legati alla loro posizione.
Per questo motivo i ritratti imperiali seguivano regole ben precise dettate dagli imperatori per sottolineare determinati aspetti del proprio “imperium”; addirittura sembra vi fossero esemplari di gesso come modelli per una riproduzione fedele di quanto si aveva interesse a mostrare. Questo riguardava anche le persone altolocate che emulavano i modelli imperiali quando il sovrano era il primo dei senatori, quindi vicino alla gente comune. Si agiva sui caratteri fisiognomici con l’omologazione nelle acconciature e dei segni dell’età, tanto che si può parlare di “volto d’epoca”.
Non fu più così quando all’insegna di un realismo sempre maggiore, si accentuarono i segni espressivi; mentre la figura degli imperatori con il consolidarsi del potere assoluto assunse connotazioni divine trasmesse nei ritratti scultorei ma non più applicabili alla gente comune.
L’evoluzione in termini generali vede il passaggio da immagini rilassate senza i segni dell’età, con capelli in morbidi boccoli e lunghe barbe per esprimere uno stile di vita colto e tranquillo, a nuove forme rappresentative: “Le minacce crescenti all’impero già nel II secolo d.C. accrebbero presso le elites al potere il bisogno di nuove forme di auto-rappresentazione: con capelli e barbe corti che da sobri diventano di una durezza provocatoria, con rughe ed espressioni energiche che promettevano efficienza operativa”; e non fu soltanto opera degli imperatori-soldato nominati dalle legioni che operavano ai confini dell’impero. Nei ritratti delle mogli degli imperatori nessuna trasposizione di questo tipo, non si dovevano trasmettere contenuti diversi dalla grazia e bellezza muliebre.
Anche nelle statue, oltre agli aspetti concernenti il ritratto del viso, vi erano delle regole che riguardavano la veste e le calzature, in relazione alla funzione svolta e alla classe sociale. Per gli imperatori la toga purpurea, per i militari la toga loricata, in generale la toga contabulata con fasce ripiegate e, prima, il mantello greco, per esprimere gli interessi culturali e filosofici del personaggio.
La galleria iniziale, da Marco Aurelio ai Severi
La galleria imperiale inizia con Marco Aurelio, di cui vediamo un busto da giovane e uno con il mantello militare ma poco marziale, in entrambi i capelli sono ondulati a boccoli per sottolinearne la serenità e lo stile di vita aperto alla cultura. Segue il busto di Commodo come Ercole con torsi di Tritoni, l’espressione è assorta, l’atmosfera è mitologica. Poi Commodo venne ucciso e divenne imperatore Pertinace, per le qualità di amministratore e di militare, espresse dal volto segnato e riflessivo, capelli corti e barba, raffigurazione ben diversa dalle precedenti degli Antonini.
Dopo tre mesi anche Pertinace fu ucciso e gli successe Settimio Severo: con lui un ritorno alla rappresentazione in voga sotto gli Antonini, con i capelli ondulati, in due busti, quello “tipo dell’Adozione” che ha la stessa corazza e atteggiamento del busto di Claudio Albino, suo rivale alla carica imperiale, e il “busto tipo Serapide”, con una tunica dalle morbide pieghe annodata sulla destra. C’è anche un ritratto e una intera statua della moglie, Giulia Domna, avvolta fino ai piedi in una tunica con molte pieghe e il copricapo.
Il suo omaggio agli Antonini non si limitò a questo, chiamò il figlio Marco Aurelio Antonino, e lo fece raffigurare da fanciullo come il giovane Marco Aurelio, nel confronto tra delle opere esposte i due ritratti quasi non si distinguono; c’è anche il ritratto da adolescente dell’altro figlio Geta.
Quando Antonino divenne imperatore con il nome più noto di Caracalla, si fece ritrarre da “imperatore unico” con la stessa immagine giovanile, capelli arricciati corti, espressione decisa, è possibile confrontare anche queste figure; il “busto tipo Tivoli”, invece, mostra un’espressione più distesa. Fu ucciso nel 217 d.C. non in una congiura di palazzo ma nella guerra contro i Parti. Sono esposte anche raffigurazioni di familiari, come il Ritratto di Geta, con gli stessi caratteri.
Per le circostanze della sua morte il successore fu eletto sul campo di battaglia: la scelta cadde su Opellio Macrino, prefetto del pretorio, anch’egli volle richiamarsi agli Antonini dando a sé il soprannome di Severo e al figlio il nome di Antonino; inoltre cercò di emulare Marco Aurelio negli atteggiamenti e nello stile di vita, nonché nell’interesse per la filosofia. Lo testimoniano i tre ritratti esposti, nei quali i capelli restano corti, mentre la barba si allunga fino a diventare folta, secondo le raffigurazioni dei filosofi e intellettuali presenti in mostra con quattro busti.
Tornò la dinastia dei Severi con M. Aurelio Antonino, il nome da giovane era Elagabalo, ne vediamo un ritratto quasi coincidente con quello di Caracalla, suo presunto padre naturale, e un altro ritratto invece molto diverso, con una differenziazione quasi ostentata..
Morte violenta anche per lui dopo quattro anni di impero , e successione a un cugino , che prese il nome di Severo Alessandro, e avendo 13 anni regnò con la madre Giulia Mamea di cui è esposto un ritratto dall’espressione volitiva; di lui vediamo un ritratto da giovane e uno colossale da adulto.
Gli imperatori senatorii e gli imperatori-soldato
Ucciso dalle truppe ribelli nel 235 d. C., a Severo Alessandro successe il primo nella lista degli imperatori-soldato, Giulio Vero Masssimino, detto Trace dalla sua Tracia, era un militare e non stette mai a Roma nei tre anni di regno troncato dalla sua uccisione; il ritratto si distacca dai precedenti per i tratti irregolari del volto senza barba, l’espressione decisa, una grinta da militare.
I quattro imperatori successivi furono invece di origine senatoria e i loro ritratti non potevano che essere di tipo aristocratico,nella barba e nell’ espressione benevola: in Pupieno la barba lunga da filosofo, di Gordiano III vediamo un busto giovanile dall’espressione mite anche se con corazza.
Siamo giunti al 244 d.C., si torna agli imperatori-soldato con Filippo l’Arabo, originario della Siria, fino al 248 d. C., e il successore Traiano Decio fino al 251, che essendo morto in battaglia e non ucciso in una cospirazione, ebbe grandi onori. I loro ritratti sono molto diversi, quello di Filippo esprime calma fermezza, il ritratto di Decio, invece, ha i tratti più duri e, per usare le parole della Bergmann, “esprime direttamente o a un meta-livello angoscia e disperazione”. La studiosa si chiede se “rispecchiano il sentimento della vita dell’epoca” oppure se “la sua esecuzione scultorea, come intagliata, è un segno dell’incipiente declino dell’arte”; e se “entrambi sono espressioni della crisi del III secolo d. C.”, fino all’ultima alternativa: “O dobbiamo vedere l’espressione di un gusto grezzo di soldati ascesi dalla provincia, in contrasto con quello tradizionale delle classi più alte?” Di certo si può dire solo che la forma usata è intenzionale e, trattandosi di imperatori-soldato, il ritratto vuol dare la garanzia della forza unita all’esperienza e alla volontà di agire con energia.
Anche due ritratti femminili, di Otacilia Severa e di Erennia Etruscilla mostrano qualcosa di diverso delle rappresentazioni muliebri ispirate alla grazia,soprattutto nel secondo ritratto una piega amara della bocca rende l’espressione del viso contrariata.
Gli imperatori della seconda metà del III sec. d. C.
Siamo alla seconda metà del III sec. d. C., l’impero è minacciato da più parti, occorre rassicurare il popolo con forme espressive ancora più efficaci. Esercitano la potestà imperiale Valeriano e Gallieno, padre e figlio, che governano insieme dal 253 al 259 d. C.; poi, catturato il primo dai Sassanidi, resta imperatore da solo Gallieno fino al 268 d.C. Vediamo un ritratto di Valeriano del tipo severiano, con l’espressione tranquilla come nel primo dei 3 ritratti di Gallieno, mentre gli altri due mostrano diverse tipologie espressive tanto da non sembrare riferiti allo stesso soggetto, con delle astrazioni formali di tipo geometrico su linee orizzontali e verticali.
Analoga particolarità stilistica nei ritratti dei tre successori di Gallieno, ucciso nel 268 in una cospirazione di militari, Claudio Gotico (268-270 d. C.), Aureliano (270-275 d. C.) e Probo (276-282 d. c.) che hanno governato con la breve interruzione di due imperatori di transizione. Le linee orizzontali delle sopracciglia e quelle verticali dei contorni di capelli e barba nel viso costituiscono una forma di base quasi astratta che fa assomigliare i ritratti le cui particolarità fisiognomiche sono dei dettagli, del resto i tre provenivano dalla stessa regione. Probo aveva interesse ad essere assimilato ai due predecessori, perché Claudio Gotico, morto di peste, era stato divinizzato e Aureliano aveva acquisito il grande merito di aver unito all’impero la Gallia e l’Oriente.
I ritratti del successore Carino segnano il ritorno alle figure precedenti, con i riccioli e la corta barba, le linee del volto sono armoniose e l’espressione tranquilla tanto che, osserva la Bergmann, “non conoscendo il personaggio rappresentato, si potrebbe datare il, ritratto a 50 anni prima”.
La tetrarchia di Diocleziano
E siamo giunti alla tetrarchia di Diocleziano, con i ritratti preparati per lui nel 285 d. C., e per i Tetrarchi dal 293 d. C. in poi. Anche qui si agisce sull’espressività ma non più mediante stilizzazioni astratte bensì con vere e proprie deformazioni dei visi solcati da rughe e con una mimica accentuata che ne sottolinea i tratti individuali: in Costanzo Cloro la bocca,il mento e lo zigomo sono molto particolari, si ritrovano nei ritratti del figlio Costantino. Sono esposti sei ritratti singoli di tetrarchi e due a coppie, tra questi il ritratto in porfido di Galieno.
Un aspetto caratteristico è la somiglianza tra il tetrarca e il Cesare più giovane designato per la successione, espressione visiva della stretta intesa che doveva esservi; un altro aspetto è la diversità di stile tra i ritratti prodotti in Oriente e quelli in Occidente, tanto che per lo stesso imperatore si trovano fattezze molto diverse; questo avveniva sebbene si ricercasse l’omogeneità attraverso modelli precostituiti dovendo governare insieme, sia pure ai due estremi dell’impero; soprattutto quando le statue onorarie dei quattro tetrarchi venivano realizzate ed esposte insieme.
Ma ci sono due elementi di portata più generale. Il primo è il raggiungimento, attraverso “guerre condotte felicemente”, di quello che veniva definito uno “stato del mondo indisturbato, adagiato nella quiete di una pace profonda”; il secondo, che ne è la logica conseguenza, il definitivo affermarsi nell’iconografia ritrattistica di una rappresentazione scopertamente monarchica, non più velata dal rispetto formale per il Senato, con un particolare abbigliamento e le insegne imperiali. A questo fine fu adottato largamente il porfido rosso, di provenienza egiziana, così l’imperatore sembrava fosse impregnato di porpora. Venivano usate pietre preziose e si impiegava la pittura sul porfido per far risaltare sul rosso della pietra componenti del viso come occhi e barba.
La galleria si conclude con il ritratto colossale di Massenzio, dall’espressione tranquilla. Seguirà la rivoluzione di Costantino nel 310 d. C., con la fine della Tetrarchia e l’adozione di un ritratto carismatico con il ritorno alla classicità nei capelli riccioluti lunghi e nell’espressione placida e solenne; inoltre il volto del sovrano resterà sempre giovane, come quello di Augusto, scelta che verrà seguita fino al Medioevo.
Conclude la Bergmann: “Presto le persone comuni ritennero che l’iconografia di questo ritratto non potesse più essere adottata, e quindi si giunse alla separazione tra il ritratto imperiale carismatico, immobile e senza età, e quello dei ritratti privati ‘realistici’, di età tardo-antica”.
I ritratti privati e la statuaria nuda
Sono esposti soprattutto busti e ritratti femminili e maschili, ma non mancano le statue. Nei 7 Ritratti femminili notiamo la folta capigliatura, in genere ondulata, l’espressione assorta e, nei busti, le vesti modellate in pieghe; in un busto, l’espressione e l’abbigliamento richiamano l’immagine istituzionale dell’Italia turrita, anche se i capelli annodati su due livelli non recano le torri dell’iconografia nazionale.
Dei 25 Ritratti maschili, 6 raffigurano filosofi e intellettuali dalle lunghe barbe, 10 sono per lo più generici, 1 di auriga, 3 di personaggi togati di cui una statua in armi, e infine 5 statue di nudi, di cui 2 cacciatori e 2 armati.
Riguardo alla tendenza verso la statuaria nuda, presente sin dall’età adrianea, Matteo Cadario afferma: “Essa interpretava al meglio l’esigenza di illustrare le qualità individuali (virtus) degli onorati, qualità che trovavano del resto uno spazio sempre maggiore anche nelle epigrafi dedicatorie contemporanee, a discapito proprio dei meriti civici e del rango illustrati invece dai tipi statuari tradizionali”. Anche gli imperatori richiesero statue nude accanto a quelle equestri, in una “imitatio Alexandri” evidente in Settimio Severo e Caracalla, in mostra è esposta la statua-ritratto di Triboniano Gallo, che nella possanza e nell’ampio gesto ricorda i bronzi di Riace.
L’esercito imperiale e la città di Roma
“Imperatori e l’esercito” si intitola la 2^ Sezione, ma per gli imperatori, dopo il profluvio di ritratti e statue imperiali della 1^ sezione, è esposto soltanto il rilievo raffigurante una Quadriga con Settimio Severo e i figli Caracalla e Geta; a parte 2 busti maschili loricati, abbiamo5 stele con soldati dotati di lancia e scudo.
La questione dell’esercito, poco rappresentato in mostra, è sviscerata da Alexandra Busch nel saggio in Catalogo, del quale ci limitiamo a segnalare una notazione che può sembrare paradossale nella fase in cui l’angoscia era per la minaccia esterna: “Negli scritti di Cassio Dione ed Erodiano è chiaro come i membri dell’èlite senatoria abbiano registrato l’aumento della forza militare e ne abbiano osservato gli sviluppi con grande preoccupazione, poiché la loro stessa posizione ne poteva risultare compromessa. Da ultimo Settimio Severo aveva persino eletto a senatori alcuni dei militari. La crescente presenza militare nella capitale fu perciò percepita come una minaccia”..
E siamo alla 3^ sezione,“La città di Roma”, anche qui pochi reperti esposti i quali servono più a ricordare il tema che ad illustrarlo. Sono alcuni frammenti che evocano la “Forma urbis Romae”, dal Porticus Liviae e dal tempio di Diana, vi sono delle iscrizioni e delle planimetrie. Poi 4 modelli, tre riproducono l’Arco di Costantino, la Porta Asinaria e quella degli Argentari, il quarto un’aula a pianta ottagonale delle Terme di Caracalla.
Si tratta di rapide citazioni di un tema, a cui è dedicato nel Catalogo il saggio “Roma nel III secolo d. C.: la città al tempo della crisi”, di Domenico Palombi. Viene ricordato che dopo la saturazione monumentale e infrastrutturale da Domiziano ad Adriano e “l’età dell’oro” di Antonino Pio iniziò il periodo di crisi che pose fine all’impero “umanistico” degli imperatori filosofi i quali crearono centri di cultura, scuole e biblioteche, in una concezione di “urbanitas” di tipo ellenistico.
Nella nuova fase, osserva lo studioso, “accanto alle nuove costruzioni dettate da specifiche motivazioni ideologiche e politiche, emerge una particolare attenzione alla conservazione e al restauro dell’immenso patrimonio monumentale preesistente, consapevolmente riconosciuto come testimone della storia e dell’identità di Roma quale caput imperi e sede legittima (e legittimante) del potere imperiale. Si osserva, altresì , un incremento costante delle infrastrutture utilitarie al servizio della popolazione, con particolare attenzione a quelle idriche e annonarie”.
Dopo “I protagonisti”, cioè gli Imperatori, “Gli Imperatori e l’esercito” con particolare riguardo a quest’ultimo, e “La città di Roma”, siamo giunti alle successive 4 sezioni della mostra, su “La Religione” e “Le Dimore private”, “Vivere e morire nell’impero” e “I costumi funerari”. Le racconteremo prossimamente.
Info
Musei Capitolini, Piazza del Campidoglio 1, Roma. Tutti i giorni ore 9,30-19,30. Ingresso intero euro 15,00, ridotto euro 13,00, per i residenti 2 euro in meno, gratis minori di 6 anni e portatori di handicap e un accompagnatore. Tel. 060608; http://www.museicapitolini.org/. Catalogo “L’Età dell’angoscia. Da Commodo a Dioleziano (180-305 d. C.)”, a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, 205, pp. 469, formato 24 x 28,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito in questo sito il 31 luglio 2015, il terzo e ultimo articolo uscirà il 22 agosto. Cfr. per la precedente mostra citata su “L’Età dell’equilibrio” i nostri due articoli: in questo sito il 26 aprile 2013 e in http://www.antika.it/ nell’aprile 2013 (tale sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).
Foto
Le immagini sono state riprese ai Musei capitolini da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Zétema Progetto Cultura e MondoMostre, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Sono immagini rappresentative dei reperti esposti nelle prime sezioni della mostra relative, in particolare, ai Protagonisti (foto da 1 a 7), agli Imperatori e l’esercito (foto 8 e 9); in chiusura uno scorcio della Galleria dei Busti (foto 10).