Civiltà islamica, 1. La collezione al-Sabah Kuwait, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale la mostra “Arte della civiltà islamica.  La Collezione al-Sabah, Kuwait” espone,  dal 25 luglio al 20 settembre 2015, oltre 360 oggetti  tra vetri e ceramiche, bronzi e legni intagliati, tessuti e tappeti, miniature e grafiche, delle aree geografiche più diverse , dalla Spagna alla Cina:  1400 anni di una civiltà fiorita su un territorio sconfinato che ha assimilato tanti influssi creando un proprio linguaggio. Organizzata dall’Azienda speciale Expo con Dar al-Athar al-Islamiyyah, National Council for Culture, Arts & Letters, Kuwait, a cura di Giovanni Curatola. che ha curato il Catalogo Skira , con suoi saggi e schede di Manuel Keene e Salam Kaoukij.

E’ una raccolta straordinaria, frutto della ricerca appassionata  dello Sceicco Nasser Sabah al-Ahmad al-Sabah  con la moglie la Sceicca Hussah Sabah al-Salim al-Sabah, che è intervenuta alla presentazione della mostra e  ha illustrato genesi e contenuti della sua collezione. I 360 oggetti esposti sono una selezione dei 35.000 oggetti che la compongono,  la maggior parte dei quali  raccolti  in 8 anni a partire dal 1975, e ne fanno una delle più importanti esistenti al mondo, per ampiezza e ricchezza. Altrettanto straordinarie le vicende, fu data in prestito permanente al Museo Nazionale del Kuwait il 23 febbraio 1983 , ma con l’invasione irachena del 1990 fu saccheggiata, si salvarono solo circa 107 opere perché pochi giorni prima dell’invasione  erano state prelevate per una provvidenziale mostra itinerante dal titolo “Islamic Art & Patronage” , presentata in 20 musei mondiali, e approdata a Firenze nel 1994 a Palazzo Vecchio; straordinario anche il recupero successivo a Baghdad  della quasi totalità delle opere sottratte, riportate nel museo del Kuwait.

Il  significato della mostra sovrasta la pur fondamentale scena artistica, come ha sottolineato Franco Bernabè, presidente dell’Azienda speciale Expo all’epoca della sua organizzazione, anche se alla  presentazione c’era il commissario Innocenzo Cipolletta, subentratogli dopo le sue dimissioni. 

“La mostra – sono le parole di Bernabè – è anche una occasione di incontro tra culture che fanno parte di una medesima storia, ma che mai come in questo momento sono apparse così distanti, per effetto di pressioni politiche e sociali che operano per scavare fossati invece di promuovere il dialogo”.  Ciò perché  “l’arte è l’unico vero linguaggio universale e Roma è la città che più di ogni altra è in grado di valorizzarne le potenzialità”.  E’ uno dei principali motivi per cui  “l’arte va protetta, apprezzata, divulgata, perché solo in questo modo può prevalere, nella legittima e auspicata diversità di ogni espressione, il comune appartenere al genere umano e può affermarsi quello sviluppo spirituale al quale ogni religione ci chiama”.

L’arte come “ambasciatrice di civiltà” ha la capacità di “unire in suo nome” ciò che per altri versi potrebbe sembrare diviso, anzi contrapposto. Come avviene per l’islamismo  del quale viene evocato troppo spesso soltanto il lato fondamentalista – che pure è presente e in grande evidenza – trascurando le sue radici e la vasta base culturale e sociale che lo avvicina a noi invece di allontanarlo in una luce ostile e minacciosa.

Alcuni tratti salenti dell’islamismo

Dall’ampia analisi di Giovanni Curatola sulle origini e i principi basilari dell’Islamismo emergono tanti punti di contatto a livello religioso con le fedi monoteistiche consorelle ebraica e cristiana che gli fanno affermare: “Se l’atteggiamento generale – di tutti incondizionatamente – fosse quello di approfondire i molti punti che accomunano e uniscono, piuttosto che non quelli che dividono e separano, si sentirebbero circolare meno banalità e sciocchezze relative a ipotetiche  e mai dimostrate impossibilità di convivenza (secoli di storia, semmai, documentano il contrario), e di derive da ‘scontro di civiltà'”. 

Un motivo alla base di tanti fraintendimenti si può trovare nella “duplicità” del sistema islamico con le dicotomie che si trovano al suo interno, nonché nella intrinseca pluralità che lo caratterizza, e che riguarda anche la fede nelle sue articolazioni interne;  lo stesso libro sacro, il Corano, comporta  diversi piani di lettura, nella sua articolazione in “versetti solidi” con i precetti e “versetti allegorici”  da interpretare, come fanno le scuole coraniche, spesso in modo divergente.

Motivo ulteriore  si può trovare nell’estrema semplificazione che viene fatta di una civiltà la quale nella storia ha avuto un’estensione geografica sconfinata, dalla Spagna alla Cina, considerando anche le propaggini in  Sicilia e Ungheria, e ha avuto influssi anche in America Latina. L’impero ottomano è stato presente in Europa e nell’Oriente, in Mesopotamia e nel Nordafrica, le sue minoranze sono state sempre largamente sparse in  territori vastissimi, fino all’Asia centrale. 

Anche a livello linguistico troviamo una pluralità, tra l’arabo per la religione e la filosofia nonché la scienza, il persiano per la poesia e i commerci, il turco per l’arte, la cultura e le armi.

Sono diversità che non hanno indebolito la civiltà islamica, perché il substrato di fondo è rimasto unitario: “Caratterizzare il mondo islamico scrivendo di ‘unità nella diversità’ non è solo uno slogan. E’ il senso autentico dell’islamismo in molte sue espressioni”, scrive Curatola ricordando la divisione tra i tradizionalisti sunniti e i seguaci dell’Iman Alì, nonché le divergenze “notevoli, perfino drammatiche” sullo stesso piano dottrinario.  E aggiunge: “A queste divisioni corrispondono sensibilità diverse, anche forti, ma che vanno pur sempre declinate all’interno del mondo mussulmano”.

Ecco la sua conclusione: “Le civiltà islamiche hanno attraversato fasi diverse; la comune fede non è stata di ostacolo ad avventure e conquiste militari a scapito di correligionari (e paradossalmente, di nuovo,  non lo è stata nessuna religione umana), ma per certo è stata un cemento straordinario che ha tenuto insieme genti lontane per tradizioni, costumi, abitudini e modi di vita, i quali sono stati scanditi da ritmi propri (e comuni), come il richiamo alla preghiera del muezzin cinque volte al giorno, canto armonico che evoca lo scorrere del tempo tutt’altro che immutabile”.

Con un finale ottimistico, una visione irenica che non ci sembra però del mondo reale: “Essere musulmano vuol dire sottomettersi alla volontà di Dio e questa non può che essere legata al concetto di bello ed essere una volontà di pace”; lo stesso si può dire per “essere cristiano”, ma la storia passata e la vita presente ci insegnano  che spesso in nome di Dio si commettono massacri, da quelli delle Crociate ai crimini dell’Isis.

L’arte nella civiltà islamica

La vasta estensione dei territori dove si è diffusa la civiltà dell’Islam, anche con lo sconfinato l’Impero Ottomano, è alla base del particolare connotato che ha l’arte  islamica, innestata sulle espressioni artistiche locali esistenti, in Oriente e Occidente prima della conquista musulmana.

Considerando il ruolo primario della religione negli stati islamici e l’affermazione dell’unicità assoluta del Dio creatore con cui non può essere messa in competizione  nessuna attività umana, l’arte come creazione dell’uomo molto simile al reale poteva essere minacciata da una concezione fortemente dogmatica. Invece  il  pragmatismo del Profeta, continuato nei suoi seguaci,  ha portato all’accettazione delle forme d’arte incontrate durante le conquiste, d’altro canto senza contraddire il Corano che non ne parla; in definitiva,  anche l’artista si muove secondo la volontà di Dio, quindi l’imperativo religioso è salvo.

Tutto ciò porta all’assenza di indicazioni sul comportamento artistico e sullo stile, mentre si avverte un forte spirito di adattamento alle espressioni locali con cui l’Islam si è imbattuto nelle sue conquiste.  “Questo non vuol dire – afferma Curatola – che quella islamica (nelle sue numerose varianti regionali e fasi temporali) sia un’arte priva di personalità o semplicemente costituisca  un puzzle di elementi pescati qua e là e in vario modo riproposti”. E lo spiega: “Semplicemente si vuole enfatizzare la caratteristica islamica tendente all’armonizzazione degli spunti disparati che vengono riorganizzati attraverso un percorso di trasformazione ed amalgama tutt’affatto nuovo”.

Questo percorso evolutivo si è dipanato nel tempo, dopo un inizio, che si fa risalire al IX secolo,  nel quale “i musulmani, paradossalmente, giungono sulla scena artistica dotati di un proprio linguaggio, ma privi di un proprio alfabeto per esprimerlo”.  Poi intervengono elementi unificanti nella molteplicità di influssi diretti delle varie aree nel mondo dell’espansione islamica che si è estesa nei vastissimi continenti conquistati.

Ma la caratteristica saliente è l’estrema varietà di forme espressive che non devono far pensare che una vera arte islamica non esista. Una varietà che è una ricchezza, dovuta agli influssi diretti delle terre di conquista ai quali si aggiungono quelli altrettanto penetranti dei pellegrinaggi, che muovono grandi masse da tante provenienze,  e del nomadismo, ulteriore fattore dinamico che moltiplica i contatti e le contaminazioni. “Se l’Islam va visto come fenomeno plurale, altrettanto bisogna fare con la sua arte”, precisa Curatola, e lo spiega: “Le acquisizioni legate al dinamismo di questa società e dalle vicende politiche e storiche come le grandi pressioni provenienti da Oriente, dall’inquieta Asia Centrale, sono il patrimonio artistico dell’Islam. Tutto questo accanto o sovrapposto a solide tradizioni locali che non spariranno del tutto”. Le conseguenze? “L’arte islamica  è un’arte basata su un repertorio classico con innesti diversi: è un’arte di sintesi”.  Di qui una grande varietà di espressioni anche molto diverse, per generi e forme, materiali e stili, che concorrono a configurare l’arte islamica nelle sue molteplici manifestazioni.

Abbiamo accennato agli elementi unificanti con i quali il processo di amalgama e assimilazione degli elementi disparati acquisito localmente trova una sua unitarietà che è il sigillo dell’arte islamica. Sono le basi su cui poggia il repertorio islamico, una sorta di sigillo inconfondibile: la calligrafia, la geometria, l’arabesco; la figura non è assente, e si può smentire il pregiudizio  – valido solo riguardo ai fondamentalisti –  che gli islamici vietano sempre l’immagine umana e non soltanto le  raffigurazioni della divinità che sono proibite. L’elemento costante è il rapporto con la natura.

Alla calligrafia, geometria ed arabesco, ed anche alla figura, sono dedicate  apposite sezioni della mostra; insieme alle arti preziose e a un percorso storico dagli inizi dell’arte islamica nell’VIII-IX sec. alla sua evoluzione nella varietà nell’XI-XIII sec., alla maturità espressiva del XIV-XV sec. fino all’apogeo dei grandi imperi nel XVI-XVIII sec.

E’ una cavalcata nella storia e nell’arte  documentata dal materiale espositivo di estrema varietà e straordinario fascino, un’immersione coinvolgente in un mondo delle Mille e una notte. La visita inizia dalle quattro sezioni “storiche”, poi passeremo alle quattro monografiche sull’arte.

Le prime due sezioni, dall’VIII al XIII secolo

L’inizio, nell’VIII-IX sec., cui si riferisce la 1^ sezione della mostra, è contrassegnato dagli incontri con le grandi civiltà tardo antiche, l’impero Bizantino che porta l’eredità di Roma quindi dell’Occidente, in Egitto, in Siria e in altri territori del Mediterraneo, e l’impero iraniano sassanide con la civiltà dell’Oriente.  Nasce un’arte islamica in continuità con le esperienze che preesistevano nei territori conquistati.

Nella mostra si trova documentato tutto questo con una serie di oggetti, ne citiamo solo alcuni dei numerosissimi, a titolo esemplificativo.

Per l’arte vetraria, di derivazione occidentale; vediamo una “Piccola caraffa di vetro con bocca trilobata”, e due  “Piccole coppe di vetro”,  una intagliata, l’atra stampata con la tecnica millefiori; inoltre Bottiglie, Bicchieri e Lampade di vetro con motivi geometrici. Alcune bottiglie esposte sono in cristallo di rocca, materiale di cui sono fatti anche i pezzi del gioco degli scacchi, ben in vista nell’esposizione.

Mentre per le provenienze dall’arte orientale troviamo oggetti di metallo con una tendenza all’astrazione: come le “Brocche di bronzo con corpo a scanalature verticali o spiraliformi”. ;  ma anche una “Brocca di bronzo con la superficie interamente coperta da un grande albero” da cui partono tralci di vite con boccioli e frutti. E una serie di “Spargiprofumi”  bronzei  di forme particolari  e con epigrafi e rilievi lungo la superficie curva.

Non mancano le produzioni in ceramica e terracotta, Piatti e Coppe  decorate con motivi geometrici o vegetali stilizzati; e intagli in legno, come il Pannello con decorazioni simmetriche e speculari di arabeschi e palmette.

Il marchio islamico lo troviamo  in tutta evidenza nelle Iscrizioni apposte  su tessuti e pannelli lignei che vediamo esposti insieme a Manoscritti, in particolare uno relativo all’uso dell’Astrolabio, pure esso esposto.  Iscrizioni anche su una Lastra tombale e  un Capitello scolpito di tipo corinzio.

I due filoni artistici, orientale ed occidentale tendono a fondersi in un alfabeto artistico originale. L’assimilazione e integrazione di stili anche molto diversi, come diversi in tutti i sensi sono i territori interessati, avviene sempre più all’insegna dell’islamicità, quindi con elementi caratterizzanti, nell’XI-XIII sec., cui è dedicata la 2^ sezione della mostra; nota saliente è la varietà, per l’emergere di vere e proprie scuole regionali.

Troviamo esposti molti oggetti del tipo di quelli della 1^ sezione, ma con una maggiore elaborazione, complessità e pregio artistico.  Così per le Caraffe di vetro e le Coppe e soprattutto per le Bottiglie e Brocche di bronzo,  dalla superficie non più semplicemente scanalata ma spesso con doppia parete, di cui quella esterna artisticamente traforata anche con tralci di palmette o scene di caccia. Straordinarie le decorazioni traforate o in rilievo su Calici e Candelieri di varia foggia, è esposto anche un Vassoio di bronzo a forma di pesce. Ugualmente decorate  con motivi vegetali in rilievo Bottiglie, Caraffe e Brocche di ceramica,  con ben maggiore ricchezza e pregio artistico; e con un’innovazione, l’inserimento nella pasta di argilla di una “pasta fritta” di silice e quarzo. Infine  una Porta lignea, con pannelli scolpiti  che recano motivi vegetali, tra cui le ben note palmette.

La maturità del XIV-XV e l’apogeo nel XVI-XVIII sec.

Un salto di qualità  si verifica nel periodo dei Mamelucchi, tra il 1250 e il 1517, dinastia di origini turche  senza successione dinastica, con una composizione sociale molto particolare, che diede vita  in Egitto e Siria già ad una civiltà islamica  prima di essere sconfitta dagli ottomani nel 1517. Ci fu anche l’invasione dei Mongoli con grandi distruzioni ma anche apporti artistici di motivi orientali che si innestano sui motivi già consolidati.

E’ una vera escalation artistica nell’esposizione, i Fregi lignei esposti hanno un  cromatismo intenso che sottolinea decorazioni di chiara impronta islamica, con uno stile epigrafico che vi riporta la parola “felicità”; in una Coppia di scuri invece vediamo losanghe ed altri  motivi  geometrici.

Un Pannello ligneo tratto da una porta reca un motivo a griglia con delle stelle che si ripete all’infinito. La decorazione reiterata la troviamo anche in una Scatola d’avorio con motivo geometrici, mentre in un Mortaio d’avorio ci sono disegni circolari su uno sfondo di palmette. 

Stile epigrafico nei Tessuti esposti, in cui alle iscrizioni che inneggiano alla felicità sono alternate bande  con figure animali e motivi geometrici; le iscrizioni decorano anche tre oggetti spettacolari, un Bacino, una Ciotola e un Candelabro di ottone,  con una ricchezza di intagli stupefacente;

Lo stile islamico, che ha raggiunto la maturità, e ha un carattere internazionale al di là della differenze locali, si  sviluppa  nei tre grandi imperi successivi, degli Ottomani, dei Safavidi e dei Moghul, tra il XVI e il XVIII sec., tutti  aperti ad influssi esterni  cosmopoliti e anche di provenienza occidentale.  Qui si raggiunge il culmine dell’arte islamica.

E’ un’escalation artistica che tocca un livello ancora più alto, e lo si può verificare da quanto esposto nella 4^ sezione: oggetti dello stesso tipo di quelli delle sezioni precedenti, ma ancora più elaborati e artisticamente maggiormente evoluti.  In più vediamo un Cenotafio di pietra con iscrizioni in  stile epigrafico e decorazioni floreali incise con grande maestria; e un Braciere di bronzo traforato e decorato con arabeschi e palmette.

Così ritroviamo nella loro versione più evoluta Brocche  e Bottiglie di vetro,  Scatole e Candelieri di ottone,  Ceramiche con il corpo in “pasta fritta”  e i disegni ornamentali molto vistosi. I tessuti esposti sono per lo più Velluti di seta con motivi geometrici, anche “alla cinese” o decorazioni floreali alternate alle palmette, con forti effetti cromatici; così i Tappeti di lana con decorazioni a tralci floreali di tipo islamico, alcuni particolarmente elaborati come quello che rappresenta un giardino di quattro parti con alberi e aiuole di fiori, canali di acqua e una fontana  al centro.

La ricchezza espositiva della sezione è notevole, presenta anche  Rilegature in pelle e Manoscritti, con pagine miniate di squisita fattura, nonché una serie di Scatole di legno  con intarsi molto raffinati e un altro Astrolabio in ottone del XVII sec.

Termina qui la carrellata storica offerta dalle prime 4 sezioni della mostra, che  mostra l’evoluzione artistica con una vasta serie di oggetti direttamente comparabili. Ma l’esposizione non finisce, seguono 4 sezioni dedicate ai motivi fondamentali dell’arte islamica, calligrafia, geometria e arabeschi, più la figura, con il finale dedicato alle arti preziose, i tesori della gioielleria islamica e le monete.

Sono temi di grande interesse artistico e culturale, che sollecitano anche la curiosità,  parleremo prossimamente della nostra visita a queste ultime sei sezioni della mostra.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a venerdì ore 12,00-20,00, sabato fino alle 23, ingresso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso 8 euro, ridotto 6 euro.  Tel. 06.39967500, http://www.scuderiequirinale.it/ Catalogo  “Arte della civiltà islamica. La Collezione al Sabah, Kuwait”,  a cura di Giovanni Curatola, schede di Manuel Keene e Salam Kaoukji, giugno 2015, pp.344, formato 24 x 28. Il secondo articolo  sulla mostra uscirà in questo sito il prossimo 10 agosto.  Per alcune espressioni di arte contemporanea su temi islamici e non solo cfr. in questo sito i nostri articoli:  sulla mostra al Macro di Kerim Incendayi, “Roma e Istanbul sulle orme della storia” 5 febbraio 2015; sulle mostre dell’Ufficio culturale della Turchia  a Roma, “Tulay Gurses e la mistica di Rumi”  21marzo  2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano”  2 ottobre 2013, “Permanenze, Ricordi di viaggio di nove artisti italiani”   9 novembre 2013,  “Yildiz Doyran e lo slancio vitale di Bergson” 29 gennaio 2014, e “Yilmaz, i divi del cinema nei piatti in ceramica” 16 maggio 2015;   su un viaggio a  “Istanbul, la nuova Roma,  alla ricerca di Costantinopoli”   10, 13, 15 marzo 2013..

Foto

Le immagini sono state riprese nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra da Romano Maria levante, si ringrazia l’Azienda speciale Palaexpo con i titolari dei diritti, in particolare gli sceicchi Naser e Hussah al Sabah Kuwait, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Frammento di tappeto da preghiera a nicchie multiple”, XVI sec.; seguono “Pannello in mosaico ceramico in ‘pasta fritta’ su gesso”, 1251, con un “Elemento architettonico di marmo” e “Lastra tombale di marmo con iscrizione” ,  1152; poi  “Mattonella di stucco stellata a cinque punte con leogrifo“, XII sec., e “Frammento di pannello di marmo da zoccolatura architettonica”, XI sec; quindi,  “Brocche di bronzo”,  VIII sec., e  “Piatti in ceramica a motivi blu”; inoltre, “Pannello tessile di lino ricamato con tulipani e bocci di loto”, XVII sec., con  a dx “Frammento di velluto di seta decorato a macchia di leopardo e strisce di tigre“, XVI sec., e  “Braciere esagonale di bronzo decorato da arabeschi e palmette”, XVI sec. e, in alto, “Mattonella ottagonale in ceramica con corpo in pasta fritta”, 1620;  infine, un “Codice con motivi geometrici reiterati” e una “Veste talismatica”.

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L’Età dell’Angoscia, da Commodo a Diocleziano, ai Musei Capitolini

di Romano Maria Levante

Ai Musei Capitolini,  la mostra “L’Età dell’Angoscia”. Da Commodo a Diocleziano”  espone dal 28 gennaio al 4 ottobre 2015  ben 240 reperti dell’antica Roma, dal 180 al 305 d. C.:  busti e statue, rilievi e sarcofaghi, affreschi e vasellame,  una galleria di straordinario valore storico, culturale e artistico, in un percorso espositivo che si snoda in ambienti di per sé di grande attrattiva che ne accrescono la resa spettacolare. Realizzata dai Musei Capitolini con Mondo Mostre e Zètema Progetto Cultura, è a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco che hanno curato anche  il monumentale Catalogo con 11 approfonditi saggi per 137 pagine, 180 pagine di riproduzioni iconografiche, e 140 pagine di accurate schede tecniche delle singole opere.

Una mostra colossale, com’è anche  il Catalogo che ne fissa e perpetua il valore  conoscitivo e  la resa spettacolare. La parte conoscitiva è preziosa perché prosegue nella ricostruzione della storia antica – dopo l’Età della conquista  e l‘Età dell’Equilibrio  – con l’Età dell’Angoscia, un periodo di poco superiore a un secolo (180 -305 d. C.), con 35 imperatori, del quale vengono approfonditi i molteplici aspetti; la resa spettacolare è data dalla dovizia espositiva, 240 opere  che nel Catalogo si traducono nella vasta sezione iconografica corredata da saggi  storico-artistici e da schede tecniche.

La permanenza per ben dieci mesi nell’incomparabile cornice dei Musei Capitolini è giustificata dal suo valore culturale e artistico al quale ha corrisposto un impegno molto rilevante: non ci si è limitati ad ordinare secondo lo schema prescelto i pur numerosi reperti disponibili nei musei e nelle collezioni romane, il numero dei prestatori italiani ed esteri è cospicuo a riprova che si sono ricercati i reperti più rappresentativi della ricostruzione storica compiuta,ovunque fossero collocati.

Angoscia e mutamento nel III secolo d. C.

Una mostra approfondita a partire dal titolo, ispirato a un libro del 1965 di un grecista, Dodds, che nel rievocare la presenza di pagani e cristiani nel periodo storico ora considerato dalla mostra,  lo chiamava “Age of Anxiety”, riprendendo l’espressione con cui il  poeta Auden definiva nel 1947 l’insicurezza seguita alla seconda guerra mondiale. Ma l’inglese “anxiety” sta per ansia o angoscia , allora perché scegliere angoscia?

Lo spiega uno dei tre curatori, Claudio Parisi Presicce, soffermandosi  sulla differenza tra i due stati d’animo, l’ansia riferita a un pericolo  in qualche modo identificato di cui si ha paura, l’angoscia invece suscitata da uno stato di oppressione per qualcosa di indefinibile che non si conosce ma si teme come minaccia oscura e incombente.

Nello  stato di crisi dell’impero del III secolo d.C., venivano meno tante certezze con la rottura degli equilibri politici tra il potere reale dell’imperatore e il ruolo istituzionale fittizio del Senato, e soprattutto la minaccia delle invasioni barbariche ai confini che richiedeva costi così elevati da sbilanciare il rapporto tra spese militari e spese civili con aggravi tributari e inflazione galoppante. Le conseguenze furono i pesanti contraccolpi sulla vita civile, le categorie più colpite erano quelle rurali e borghesi nelle province, oppresse dal potere centrale e spesso penalizzate dalle confische dei terreni di confine per la protezione dell’Impero, fino alla paralisi dei commerci.

L’allargamento dell’Impero, con la rottura dell’identità culturale e spirituale, artistica  e finanche militare,  favoriva le spinte disgregatrici determinando la perdita progressiva della centralità di Roma.

Ne furono manifestazioni evidenti le nuove sedi imperiali istituite nelle province fino alla creazione di vere  e proprie “capitali” separate con la tetrarchia di Diocleziano, in Oriente e in Occidente: due Augusti al vertice del potere, affiancati da due Cesari giovani che dovevano assicurare la successione, con il  superamento anche formale del ruolo del Senato espressione dell’aristocrazia,  dopo  il suo  svuotamento di poteri a vantaggio della borghesia rurale italica e provinciale dalla quale provenivano i vertici militari e gli stessi Imperatori. Le loro figure erano  enfatizzate  finché si giunse  all’ereditarietà della successione imperiale con Costantino che portò alle logiche conseguenze il processo avviato da Diocleziano.

“Un tale sovvertimento sociale ed economico –  commenta Parisi Presicce produce incertezza nel futuro, angoscia, disperazione, ma anche senso  di rivolta, attesa di un mutamento per talune classi, mentre per altre il desiderio di evasione , di isolamento, di fuga dalla realtà tramite l’astrazione nel pensiero metafisico, irrazionale”.

Al mutamento,  piuttosto che all’angoscia,  si riferisce l’altro curatore, Eugenio La Rocca, il quale nel riportare le interpretazioni, da Dodds a Bianchi Bandinelli, incentrate sull’angoscia, osserva che comunque l’impero seppe resistere alle difficoltà, l’esercito fu in grado di respingere  gli attacchi ai confini,  e comunque le situazioni di crisi locali non si ripercuotevano nella vita quotidiana dei cittadini romani non esposti ai pericoli delle invasioni. 

Il mutamento fu un processo che vide in primo piano la crescita del potere imperiale rispetto alle altre istituzioni, al punto che La Rocca suggerisce un’altra definizione del periodo,  “l’età dell’ambizione”. E considera il crescente ricorso alle religioni monoteistiche non tanto come rimedio all’angoscia ma come fenomeno collegato ai mutamenti istituzionali: viene meno la fiducia nelle religioni pagane basate su rituali pubblici collettivi e si allarga il ricorso alle religioni monoteistiche passando attraverso la fase dell'”enoteismo”  che vedeva la compresenza di diverse divinità con la preminenza di una di esse. Il rapporto dell’individuo con il “potere divino” avviene senza le ritualità istituzionali, ma spesso per  tramite di personalità carismatiche in un clima messianico di elevata spiritualità. 

Naturalmente,  il quadro evolutivo è molto più complesso di queste  brevi note, vaconsiderata anche la concessione della cittadinanza romana  a tutti gli abitanti dell’Impero, con la nascita dell’Impero universale,  l’estensione alle province dei diritti  civili del “cives romanus” metropolitano, e la fine di tante situazioni di privilegio.

Sul piano religioso la domanda di sacro ha in comune il  problema della vita ultraterrena e della salvezza individuale, pur nelle differenze tra i vari credi: primo tra tutti il Cristianesimo in diverse versioni, con l’Ebraismo, poi il Mitraismo e lo Zoroastrismo, il Manicheismo e il Neoplatonismo. “Il discorso religioso – osserva Marco Maiuro – conquista centralità e rilevanza in ogni sfera e domina l’immaginario  del periodo. All’interno di questa tendenza l’escalation inarrestabile del Cristianesimo ideologia “comunitaria e non civica, comporta un deciso allontanamento da quel complesso di valori, da quel senso di appartenenza, infine da quel discorso sull’identità individuale e collettiva che era stata alla base della storia del Mediterraneo per più di un millennio”. In definitiva, “universalismo dei diritti, comunitarismo e scelta del destino individuale furono le tre forze che erosero i fondamenti ideologici di una costruzione culturale millenaria al cui centro era stato il senso di appartenenza civica”.

La  svolta sul piano artistico, i sarcofaghi

Tutto questo si è tradotto in una svolta radicale in campo artistico, come sottolinea Parisi Presicce: “All’inizio del III secolo d. C. il graduale allontanamento dagli stilemi dell’arte greca (norme sulle proporzioni, sull’equilibrio organico naturalistico, sulla coesione formale delle figure, sulla prospettiva, sul colore)  coincise con l’abbandono vero  e proprio, realizzatosi nel giro di poco meno di cento anni”.

Tra le cause viene indicata la situazione politica, economica e sociale con la spinta ad una visione ben diversa da quella estetizzante e contemplativa del classicismo, basata sulla rappresentazione della bellezza, dell’equilibrio e dell’armonia, spazzati via dai tormenti dell’angoscia imperante.

“La nuova arte dominante – prosegue il curatore –  comportò autentiche rivoluzioni: le proporzioni tra le figure o tra le parti di esse, non più secondo natura ma secondo una gerarchia ‘morale’; la perdita della coesione organica tra le parti  di  una figura; la percezione slegata dei singoli elementi, che assumono forme autonome  e acquistano significati astratti; la preferenza della posizione frontale dei personaggi principali, legata  ad ascendenze religiose; la caduta degli indugi nel ridurre la rappresentazione della figura umana (‘nobile’ per i Greci) a mera decorazione riempitiva, contorta e distorta; il ribaltamento di tutte le prospettive su un unico piano; l’uso del trapano per creare ombre scavando solchi in negativo, piuttosto che per modellare un volume a somiglianza dell’originale”.

Lo si vede nei sarcofaghi, la cui vastissima produzione è legata alla visione ultraterrena nei riti funerari: “La plasticità del rilievo si va dissolvendo a favore di effetti ottici e illusionistici, mentre si tende a una nuova disposizione delle masse e a un’accentuazione dell’espressività soprattutto nelle teste e nei movimenti”:  vi sono raffigurate scene di caccia al leone – soggetto tipicamente romano e non di derivazione ellenistica –   e scene di battaglia, scene mitologiche e figure di Muse;  dopo la metà del III sec. d. C. diventano frequenti le rappresentazioni del defunto come filosofo, con il carisma dell'”homo spiritualis” .

I ritratti dell’imperatore e l’esercito

Elemento centrale della svolta nell’arte sono i ritratti dell’ imperatore: ne trasmettono la figura  non più di primo tra i senatori, ma di “dominus” assoluto con  il carattere agiografico di uomo di cultura che pratica la filosofia ed ha la saggezza di perseguire nel suo governo  equilibrio e moderazione.

Da Marco Aurelio il volto è reso più riflessivo da una lunga barba alla moda dei filosofi, lo sguardo ch spazia lontano o verso l’alto. La Rocca  vi vede anche un’assimilazione alla divinità, come appare dal confronto con l’immagine di Mercurio  anziano, con la stessa lunga barba “come se sulla rappresentazione del dio si riflettesse quella dell’Imperatore e viceversa”.

In questa sublimazione ci si allontana dai particolari fisiognomici  personali, dai dettagli individualizzanti, per un’astrazione che assimila l’imperatore alle divinità olimpiche, seguendo l’esempio di Alessandro Magno , nei cui ritratti erano inseriti attributi divini, come i fulmini e l’egida di Giove,  e l’identificazione con Eracle e con Dioniso. Questo avveniva superando  la tradizione romana che dal tempo di Augusto  rifuggiva da un’iconografia di tipo autocratico e  al culto verso la persona dell’imperatore  preferiva il culto verso il suo “genius” e il suo “numen”.

E’ un processo con notevoli differenze tra un imperatore e l’altro, evidenziate da La Rocca nella sua approfondita analisi del ritratto imperiale nel secolo considerato. Citiamo Settimio Severo che prosegue nella  strada tracciata da Marco Aurelio con l’identificazione divina nella capigliatura; Caracalla, invece, si ispira all’immagine eroica di Alessandro Magno, nell’abbigliamento e nei comportamenti, fino  ad imitarne atteggiamenti e sguardi, e così nelle raffigurazioni; mentre i suoi successori tornarono all’immagine con la lunga barba da filosofo di Marco Aurelio. 

In generale, si può notare la tendenza all’astrazione verso un’immagine dell’imperatore non più come uomo magari dagli attributi eroici, ma come rappresentazione simbolica del potere assoluto e come incarnazione della divinità, in una visione religiosa del culto imperiale; tendenza che si rileva anche dal confronto tra le raffigurazioni dello stesso imperatore verso una crescente astrattezza.  .

Questo non  porta, però, al ritorno alla  figurazione ellenistica di cui abbiamo  indicato il superamento all’insegna di un maggiore realismo fisiognomico rispetto ai canoni dell’equilibrio plastico. In molti casi “la drammaticità dei volti è accentuata dalla presenza di profonde rughe tracciate con lineare semplicità; una mimica vigorosa, a tratti brutale, ottenuta con effetti di ombre e luci talvolta stridenti, subentra a una sensibile costruzione dei piani facciali a impianto organico”.

E non solo: “Si  nota un passaggio sensibile verso una strutturazione delle teste sempre più semplificata, ormai lontana da un autentica impostazione secondo la tradizione classica”. In definitiva: “Nei ritratti si accentua nel tempo una componente lineare e geometrizzante, sia nella costruzione dei volti, sia nella realizzazione dei dettagli, come le rughe, gli occhi e le palpebre, eseguiti spesso con un tracciato schematico poco naturale”.

La Rocca descrive così  l’effetto visivo: “Il gioco di ombre e luci ottenuto attraverso questi strumenti riesce tuttavia a rendere i volti espressivi e vitali, anche se l’effetto migliore può essere colto allontanandosi dall’immagine, perché da vicino ci si rende immediatamente conto del modo sì efficace, ma semplificato con cui le teste sono state realizzate”.

Dagli imperatori si passa all’esercito, che spesso li  nominava tra i condottieri vittoriosi nelle grandi campagne ai confini dell’impero, quindi esercitava un potere reale oltre ad essere il garante della sicurezza e lo strumento per la continua espansione.

Ma proprio per questo, dall’età repubblicana  nessun militare poteva accedere al pomerio, il cuore della città, in una netta separazione tra “imperium  domi”, esercitato dal potere civile,  e “imperium militiae” esercitato dai generali fuori da quel limite; facevano eccezione i cortei trionfali che proprio per questo acquistavano rilevanza ancora maggiore. Ci fu un allentamento con il principato di Augusto, allorché vennero istituite unità militari in servizio all’interno della città.

A parte questo aspetto, nel  III sec. d. C. con Settimio Severo ci fu un potenziamento dell’esercito, con l’abolizione della guardia pretoriana che aveva assassinato l’imperatore Pertinace, e l’aumento delle unità militari di stanza nell’Urbe, con la creazione di nuovi edifici e di accampamenti; furono create tre nuove legioni e migliorato lo status dei militari.

La città e la religione

E i cambiamenti nella città di Roma? In realtà nel III sec. d. C, dopo le grandi opere monumentali realizzate in precedenza, ci si dedicò soprattutto a un’attività di ristrutturazione e restauro, di particolare rilievo a seguito di incendi che devastavano importanti quartieri cittadini. Con Settimio Severo abbiamo anche lo sviluppo di una serie di servizi per la cosiddetta “plebe media”, che svolgeva attività artigianali, commerciali e finanziarie e si intendeva fidelizzare sempre più all’imperatore: così vengono create nuove terme e si potenzia l’approvvigionamento alimentare.

Un discorso a parte riguarda la religione della popolazione,  che pur essendo di regola un fattore tendenzialmente stabile, in quel periodo  fu soggetta a profondi cambiamenti per la penetrazione sempre maggiore di culti orientali, oltre al Cristianesimo, da alcuni attribuita all’esigenza di avere un aiuto psicologico e morale durante le gravi crisi attraversate, che non veniva assicurato dal  paganesimo, troppo freddo e distaccato, rigido e istituzionalizzato.  

Si cercava un rapporto personale con la divinità, al di fuori dei riti collettivi, magari attraverso intermediari carismatici, e questo fece aderire fasce sempre più ampie di popolo ai culti che lo assicuravano. Fu possibile anche la coesistenza e il sincretismo di più culti, e con l’ “enoteismo”   si giunse alla compresenza di fedi tra le quali una era prevalente.

Ciò non impedì che si registrassero persecuzioni contro  i cristiani, alternate a fasi di tolleranza. Decio, Valeriano e Diocleziano, nell’estrema difesa del paganesimo,  comminavano la pena capitale a chi rifiutava di eseguire sacrifici agli dei tradizionali; ; si doveva arrivare al 341 d. C. con Costanzo II e Costante per le leggi che, al contrario,  vietavano tali sacrifici.

Tra le religioni orientali, le più diffuse erano quelle di Iside e Osiride, di Giove Dolicheno e del dio Mitria che fu particolarmente venerati a Roma, dove sorsero tra 600 e 800 luoghi dedicati a questo culto, con le immagini del dio tauroctono  e tavoli per banchetti rituali. Non si deve dimenticare la divinizzazione degli imperatori, che si affermò senza trovare ostacoli nei culti riconosciuti.

Le dimore private e i costumi funerari

Vita e morte nel III sec. d. C. portano a parlare delle dimore private e dei costumi funerari, All’inizio del secolo fu realizzata la cosiddetta “Forma Urbis”, la grande pianta marmorea con le strutture abitative, dall’edilizia popolare alle residenze degli imperatori, dei senatori e delle classi abbienti.

Queste erano soprattutto decentrate sui colli, al di fuori  della cerchia urbana, ma un certo numero era anche all’interno, fino a quando, alla fine del secolo,  non si rovesciò la tendenza e furono realizzate entro le Mura Aureliane che assicuravano la necessaria protezione; per converso, con la divisione politico-amministrativa che tolse centralità a Roma, si diffusero le residenze decentrate in provincia delle autorità istituzionali.

Le dimore di personaggi altolocati avevano grandi ambienti di rappresentanza e strutture architettoniche armoniose,  anche con trabeazioni e colonne, e dipinte figure umane insieme ad animali e altri soggetti, secondo uno stile decorativo parietale definito “stile lineare” ; erano ornate da sculture, che non solo raffiguravano i proprietari, ma spesso anche l’imperatore per affermare la propria fedeltà alla massima autorità. 

Per i personaggi, i sepolcri funerari erano monumentali, e dalla fine del III sec.  d. C. oltre alla cripta con il sarcofago comprendevano una sala sovrastante, quasi un tempio  per i riti; ma anche nel coso del secolo ci sono parecchi esempi di questa struttura a due livelli.

Le tombe spesso venivano poste nelle vicinanze della villa del defunto, quasi a marcare la continuità dopo la morte, e venivano utilizzate  non solo dai discendenti ma  dagli  acquirenti l’abitazione. Nelle tombe c’erano  sarcofaghi scolpiti, affreschi e pavimenti musivi, anche qui in continuità con la vita.

Le sette sezioni della mostra

I temi che abbiamo ora riassunto sono sviluppati nelle 7 sezioni della mostra, una per ogni tema. La  1^ sezione, “I Protagonisti”, con ben 92  busti e statue, è una galleria  sconfinata collocata nel primo lungo salone dei Musei Capitolini; seguino la 2^ sezione, “Gli imperatori e l’esercito”,  con 20 opere, rilievi di quadrighe e soldati, e la 3^ sezione, “La città di Roma”, 14 opere con frammenti e plastici; poi la 4^ sezione, “La religione”, con 42 opere, ritratti di sacerdoti e statue di divinità,  rilievi in sarcofaghi e monumenti funerari, scene di sacrifici rituali e  altari,  e la 5^ sezione,  “Dimore private”, con 30 opere tra affreschi e piatti d’argento, vasi dipinti e brocche; infine la 6^ sezione, “Vivere e morire nell’Impero”,  7 opere con ritratti, e scene di vita quotidiana, e l’ultima, la 7^ sezione, “I costumi funerari”,  con 24 reperti, sarcofaghi scolpiti e rilievi, affreschi e lastre.

E’ una galleria iconografica di straordinaria ricchezza che si dipana da un ambiente all’altro nel vastissimo spazio dei Musei Capitolini, fino ad approdare nel grandioso salone dell’Esedra con la statua equestre  di Marc’Aurelio e quella di Costantino, oltre agli altri reperti ed alle Mura antiche.

L’immersione nell’antichità è  emozionante, il massimo che si possa attendere da una mostra. Dopo averla inquadrata storicamente, racconteremo  la nostra visita prossimamente.

Info

Musei Capitolini,  Piazza del Campidoglio 1, Roma. Tutti i giorni ore 9,30-19,30. Ingresso intero euro 15,00, ridotto euro 13,00, per i residenti 2 euro in meno, gratis minori di 6 anni e portatori di handicap e un accompagnatore. Tel. 060608; http://www.museicapitolini.org/. Catalogo  “L’Età dell’angoscia. Da Commodo a Dioleziano (180-305 d. C.)”, a cura di Eugenio La Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, 205, pp.  469, formato   24 x 28,5, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo.  In questo sito usciranno due ulteriori articoli sulla visita alla mostra il 3 e 22 agosto 2015.  Cfr. per la precedente mostra citata su “L’Età dell’equilibrio” i nostri due articoli:  in questo sito il 26 aprile 2013 e in http://www.antika.it/ nell’aprile 2013 (tale sito non è più raggiungibile,  gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese ai Musei capitolini da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Zétema Progetto Cultura e MondoMostre, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta.   Sono alcuni esemplari del vastissimo corpo espositivo delle sette sezioni della mostra che va dai busti alle statue, dai rilievi agli affreschi, dai cippi ai sarcofaghi funerari, tutti appartenemti all'”Età dell’angoscia”, dal 180 al 305 d. C.: dai “Protagonisti” (foto da 1 a 5) alla “Religione” (foto 6 e 7) alle “Dimore private” (foto 8) ai “Culti funerari “ (foto 9 e 10)..  

Kalyuta, la pittura “Rosso su rosso”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, Ala Brasini, lato Fori Imperiali, dal 23 luglio al 15 settembre 2015,  la mostra “Yuri Kalyuta. Rosso su rosso”, espone 60 dipinti dell’artista russo, Accademico delle Belle Arti, Artista Onorario di Russia per il 2009, per la prima volta in  Italia dopo mostre in Russia, Germania e Cina. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia,  responsabile Cristina Bettini, è curata dell’Accademia  delle Arti di San Pietroburgo con il Rettore dell’Accademia  Semyon Mikhailovsky  e il vicedirettore Jurij Bobrow, che sono autori di due  saggi sull’artista contenuti nel Catalogo Skira  con quelli di Tair Salakhov e  Vittorio Sgarbi.  

“Formidabile, Yuri Kalyuta, a vivere nel nostro tempo”, così Vittorio Sgarbi conclude la sua analisi critica dell’opera dell’artista russo, nella quale entra in polemica con coloro che bollano di tradizionalismo passatista ogni artista che non fa parte delle avanguardie, liquidato  con le parole, “formidabile, fosse nato un secolo prima” con cui si apre, provocatoriamente, il suo saggio. . 

Lo stile di Yuri Kalyuta, non contro la tradizione ma oltre

Sgarbi respinge l’idea che Kalyuta sarebbe tra gli artisti retrogradi, avendo l’handicap di essere stato allievo dell’Accademia di San Pietroburgo, dove ora è docente, e di non averne rinnegato gli insegnamenti e la formazione ricevuta, in particolare dal suo maestro Andrei Mylnikov.   

D’altra parte, l’Accademia pur se si piegò all’arte di regime aderendo al  “grande buio del Realismo Socialista”, ne mitigò gli eccessi  con una “via russa del colore”  rispetto al predominio del disegno illustrativo. E Kalyuta è aperto agli influssi di artisti come Velasquez, a cui si rifà il suo intenso cromatismo, e Matisse, dal quale ha preso la visione consolatrice della pittura. Quindi, il non appartenere alle avanguardie non rende la sua pittura anacronistica né nello stile, né nei contenuti.

Per lo stile Kalyuta non è rimasto confinato agli insegnamenti dell’Accademia di San Pietroburgo volti alla corretta rappresentazione della realtà, ma richiama  l’impostazione della scuola di Monaco a cui si rivolgevano gli allievi dell’Accademia insoddisfatti dello studio dei modelli accademici.

Ne parla Jurij Bobrov in questi termini: “La principale differenza di metodo della scuola di Monaco rispetto a quella dell’Accademia consisteva nell’insegnare e trasmettere la natura così come viene vista dal pittore, con i suoi strumenti artistici atti a riprodurre sensazioni,  impressioni”. Di qui l’esortazione dei maestri Holloshi e Ashbe “al disegno ‘integrale’ in quanto l’occhio del pittore coglie immediatamente l’oggetto nel suo insieme e non i singoli elementi: il gesto del braccio, innanzitutto l’ampiezza del movimento, il significato emotivo, le proporzioni, i contorni, le ombre, non già le articolazioni delle ossa e dello scheletro, le vene e i nervi”. In questo modo si cerca di unire “l’approccio classico della rappresentazione della natura con la percezione intuitiva della stessa, basata su una consapevolezza ‘totale'”.

Questo si riscontra nella pittura di Kalyuta il cui stile viene definito di “realismo intuitivo”: “‘Realismo’ perché la rappresentazione non è mai staccata dalla forma dell’oggetto, e ‘intuitivo’ in quanto le sue forme corroborano la definizione contemporanea di percezione artistica”. 

L’osservatore è preso non dalla rappresentazione pura e semplice, ma dalla forma intuitiva che stimola a coglierne i significati nascosti. In altri termini, “l’artista costringe lo spettatore non semplicemente a vedere, ma a penetrare nelle rappresentazioni e comprendere quanto viene sensibilmente percepito, e a sentire la ‘rivelazione’, ovvero quel ‘piano posteriore'” che, nelle parole di Hartmann, è “irreale, ma esiste per quell’essere pronto a percepire, comprendendo in questo se stesso”. 

Una conferma di ciò si trova nel modo con cui l’artista ha commentato nel 2005 un ritratto fatto alla moglie: “L’importante, nel ritratto, è ciò che non si può trasmettere con le parole. Per questo, forse, esiste il linguaggio della plastica, del tono e del colore”.

Tutto ciò dà modernità allo stile di Kalyuta, pur se impiega, come dice Sgarbi, “linguaggi certamente storicizzati, peraltro senza alcun compiacimento nell’esibirli ma ancora in grado di esprimere piena attualità”.

Né angoscia né gioia di vivere, ma assorta contemplazione 

Per i contenuti, non si deve ritenere che debbano esprimere il rapporto dell’uomo con la modernità nel senso largamente invalso nel Novecento, del tormento e dell’angoscia,  in antitesi alla serenità classica che vedeva l’arte come contemplazione del bello nel bisogno atavico del godimento.

Al riguardo Sgarbi fa riferimento a Matisse, del quale non si può negare la modernità, che ha rappresentato la “gioia di vivere”, pur se mentre la dipingeva il mondo era sconvolto da due devastanti guerre mondiali,  “Era un idiota, Matisse, talmente narciso e individualista da non accorgersi del dramma cosmico in cui era immerso? No, Matisse ribadiva semplicemente la fiducia in una funzione che nel corso dei secoli ha assicurato all’arte uno straordinario successo, ponendola su un piano quasi paritario con la religione e la filosofia: la consolazione”.

E  prosegue con una citazione: “‘Il y a des fleurs partout pour qui veut bien les voir”, ‘ci sono fiori ovunque per chi riesce a vederli’. Diceva Matisse, facendoci capire che l’arte non è affatto una fuga dalla vita, è un modo di viverla cercando di sfruttare al massimo le sue potenzialità emotive e spirituali, anche  a costo di trasfigurarla, facendocela immaginare per quello che non è”. 

Conclude così: “In ciò, del resto, consiste l’incomparabile, irrinunciabile verità della finzione, alla base di ogni sensata idea dell’arte: che tristezza, il mondo, se l’arte non cercasse di farcelo vedere in maniera diversa, fornendo un formidabile antidoto alla disperazione”.

Queste espressioni, che abbiamo riportato integralmente per il loro significato su un piano generale, si attagliano solo in parte a Kalyuta, nel quale non troviamo una realtà edulcorata ma, come afferma lo stesso Sgarbi, ma “atmosfere assorte nella contemplazione di sé stesse, dove il vivo tende, vanamente, al fisso concentrato, iconico, immunizzato da ogni fremito di umanità. Se c’è una serenità, in Kalyuta, è nel momento supremo del conseguimento dell’intuizione, nella sospensione della contingenza temporale con cui traduce la percezione in invenzione artistica”.

I dipinti esposti appartengono sostanzialmente a due categorie: i ritratti e i paesaggi urbani, in entrambe si realizzano le atmosfere di cui parla Sgarbi. Ma non vengono rese con toni dimessi, tinte pastello in composizioni oleografiche, tutt’altro. I toni sono molto decisi, il colore usato con straordinaria intensità in forti pennellate come veicolo di forti emozioni, con i rossi predominanti  accostati al bianco e al nero in un vigoroso cromatismo. .

Eppure nulla di più discreto dei ritratti soprattutto a familiari e della visione di scorci monumentali Nei primi c’è però la forte penetrazione psicologica attraverso gli atteggiamenti che aprono alla ricerca di contenuti interiori , mentre la forma non è meramente figurativa in quanto segnata dal colore piuttosto che dal disegno;  e nel colore nato dalla percezione, c’è l’espressione, in tutti i suoi significati, piuttosto che la semplice rappresentazione della realtà nella sua apparenza. Gli scorci monumentali sono imponenti,  non  c’è la figura umana, la loro classicità li rende solenni.   

La galleria della mostra, cominciando dai dipinti sulla famiglia

Nella galleria della mostra, ad una visione d’insieme, colpiscono i rossi intensi che riguardano soprattutto le figure singole, i ritratti femminili con abiti di questo colore squillante, ma li troviamo  anche in molti contorni e particolari. Fino alla sinfonia di rossi del “Ritratto di famiglia nell’atelier”, 2014,  di “Marina e il drago“, 2011,  e del “Conclave”, 2013, con i  relativi bozzetti.

Al rosso dominante si può contrapporre il nero di fondo con bagliori caravaggeschi in “Strada”, anche qui un dipinto su tela preparato da una serie di bozzetti.  L’associazione del rosso con il nero e il bianco o chiaro è evidente anche in questi dipinti, con il  nero di fondo, il chiaro delle braccia e dei volti; ma si riscontra soprattutto nelle composizioni.

A questa prima osservazione di carattere cromatico facciamo seguire una semplice constatazione :i dipinti esposti sono distribuiti equamente tra quattro tipi di soggetti: scene familiari e ritratti soprattutto femminili, con qualche figura maschile, composizioni con più figure e visioni monumentali di celebri città, Roma e Parigi, Firenze e Venezia  con qualche scena ambientale.  E’ una conferma di quanto rilevato in precedenza sull’assenza dell’inquietudine che pervade il mondo moderno per una  visione contemplativa intima e raccolta. Che però trova nell’intensità dei tratti e dei contrasti cromatici una sua forza inconfondibile  che prende l’osservatore e lo spinge a scavare nelle immagini, e soprattutto in quei volti, alla ricerca dell’intimo contenuto.

I dipinti di argomento familiare si aprono con il dittico “Famiglia”, 1981, dal carattere quasi iconico, in una sorta di deificazione, seguono ritratti di singoli componenti, come il figlio ritratto più volte. Vediamo il bambino in una ardita composizione quasi simbolica, “La vestaglia della mamma”, 2010, dopo che in “Il marinaio non piange”, 2007, è ritratto in un  ambiente crepuscolare di bianchi e neri; in  atteggiamenti pensierosi nei dipinti “Domenica di Pasqua”, 2012, e “Ritratto del figlio. Riflessioni”, 2013, sorprendente titolo per un bambino; mentre la sua espressione è serena in “Misa. Vacanze italiane”, 2013,  e “Ritratto del figlio,Vacanze italiane”, 2014;  sembra che sia lui il bambino  a lato della madre in rosso in “Roma. Caffè Greco”, nel caffè degli artisti frequentato alla sua epoca da De Chirico che aveva l’abitazione nella vicina Piazza di Spagna.   

Alla famiglia rimandano il dolce “Maternità”, 2014, e due dipinti in controluce, senza colore, “Una giornata di sole”, 2005, la madre con il bambino in braccio, e “La calda estate del 2001”, 2001, il ragazzo dorme stremato. Stessa atmosfera in “Caldo”, 1996, con due figure avvolte in asciugamani.

Ci sono quattro “Autoritratti”, tutti con copricapo  diversi, quello del 2009 sembra un casco da lavoro, nel 2011  ha una coppola nera, è pensieroso e allusivo, nel 2014 è più aperto con un cappello  a larghe falde come il cappello di paglia di Van Gogh; è del 2011 anche “Autoritratto. Sogno nella notte di Capodanno”,  si ritrae addormentato vestito da Babbo Natale immerso in rosso acceso con qualche magistrale contrasto cromatico. .

Una scena collettiva è “Sera di Natale in via Bol’saja Morkaja”, 2011, tre bambini davanti a un Babbo Natale  ieratico e misterioso. Soltanto “Ragazze. Ricordi di Aleksandr Samokhvalov”, 2015, presenta quattro figure in posa. Nei due pastelli “Ritratto della moglie con il cappello”, 1998, la figura è vista di fronte e di profilo, il cappello nella prima è rosso, nella seconda giallo.

A interrompere l’agiografia familiare vediamo “Tragedie italiane. Triangolo amoroso”, 2013, tre figure sconsolate intorno a un tavolino, due sono maschere di Carnevale, c’è Pierrot cui è dedicato anche il dipinto “Arlecchino e Pierrot. Autoritratto con la moglie”,  lui seduto, lei in piedi in una espressione  enigmatica che rimanda agli interrogativi che pone la percezione degli atteggiamenti; “Arlecchino. Fratello 2”, 2012,  non pone interrogativi, è disarmante nella sua innocenza.

Le prevalenti figure femminili e i nudi

Passando alle figure femminili, il rosso invade l’intera superficie in due dipinti distanti nel tempo, “Melissa”, 1997, ed  “Eugenia. Dalla serie dei ritratti dell’Atelier”, 2014:  lo sfondo è tutt’uno con ma maglia, soltanto viso e braccia sul bianco-rosa, nel primo anche la sedia,  e gli stivali neri nel secondo spiccano nel tipico contrasto ricercato dall’artista. Si potrebbero  intitolare “Rosso su rosso”,  titolo che  viene dato al “Ritratto di Aljona” nel quale gli stacchi cromatici rispetto al fondo rosso sono più marcati, anche le spalle nude oltre al volto se ne distaccano. Sfondi rossi con silhouette scure in “Spagnola”, 2015, e “Vej Tze. Dalla serie di ritratti ‘Atelier'”; l’inverso, sfondo scuro o meglio nero con silhouette rossa in “Lera”, 2011, e “Russia, avanti”, 2012,  forse il titolo è un’incitazione calcistica riferita al pallone davanti ai piedi della donna, entrambe le donne dei due dipinti sono in posa da indossatrici nelle sfilate di moda.

Non solo rosso, viene da dire a questo punto. Ci sono ritratti scuri come “La ragazza con il berretto nero”, 2010, e “Ritratto di ragazza in abito nero”, con qualche striatura di rosso nello sfondo, “Jaroslava, dalla serie di ritratti ‘Atelier'”, 2014, e “Ragazza”, 1998, mentre “Zenja nell’atelier bianco” ha un insolito abito verde su sfondo chiaro;  vi sono poi ritratti pastello come il “Ritratto della studentessa coreana”, 2011, e “Dasha. Dalla serie dei ritratti ‘Atelier'”, 2014; “Suzanna con il vestito bianco”, in due dipinti entrambi del  2013,  con prevalenza di un bianco virginale. .

I ritratti femminili comprendono anche una serie di nudi: di intensa sensualità è “Davanti allo specchio”, 2004, con la figura eretta vista da dietro nella sua provocante bellezza; ugualmente erette, con vista frontale, “Nudo con la vestaglia cinese”, 2011, e “Valerija”, 2014, più fredde e distaccate.  Altri nudi da seduta di posa sono “Nudo nell’atelier”, 2013, e “Nudo”, 2014, molto simili, mentre“Spazio” e “Olimpia da Poles’e”, 2015, presentano due posizioni diverse, seduta e distesa, la seconda con una maggiore carica sensuale. C’è poi un nudo sullo sfondo in ““Ritratto di Vej Tze”, 2013, con una giovane donna in nero in primo piano.

Fuori dalla figura, altre composizioni e visioni cittadine

Completa   la gamma di figure umane in cui prevalgono di gran lunga quelle femminili, a parte le immagini familiari con il figlio e gli Autoritratti, il “Ritratto di un giovane in frac”, 2014, in pastello su carta e poi olio su tela di maggiori dimensioni, che spicca  come rara figura maschile, insieme a “Pirata del XXI secolo”, 2011, singolare immagine sorridente in una sinfonia di rossi. E due figure appena percettibili in “Natura morta bianca 2”, 2001, e “Pittore e modello. Natura morta bianca”, 2011: bottiglie e bicchieri, nella seconda anche pennelli, tele e un catalogo di Goya.

Non sono nature morte e neppure paesaggi ameni ““Gruzino. Acqua nera”, 2008, e “Tra poco arriverà la primavera”, 2011, entrambi scuri e tenebrosi, il secondo in contrasto con il titolo.

Luminose invece le rappresentazioni delle città nei loro monumenti. Nelle vacanze italiane l’artista ritrae una serie di monumenti in dipinti datati 2014: a Roma il “Mercato di Traiano”,  il “Colosseo”, il “Foro”,  poi il panorama con la cupola del Brunelleschi di “Firenze”; fino al “Miracolo pisano” con la torre pendente che spicca nel suo biancore con piccoli alberi alla base sullo sfondi di  un cielo sereno ; a Venezia  la Basilica di San Marco in “Sole di gennaio”,  2012, e, datati 2013,  “Canal Grande”,  “Sera d’argento”, e “Casa rossa”che rende onore al titolo, la facciata è di un rosso intenso, con i caratteristici balconi dalle finestre come dei merletti traforati.  in una visione paesaggistica. La ritroviamo in “Parigi, Notre Dame”, 2013 e “Senna”, 2014, mentre “Notte a Monmartre”, 2014, mostra il tempio nell’oscurità.

Vogliamo concludere con il dipinto più enigmatico, nel titolo e nella composizione, che a differenza degli altri ha dei passaggi cubisti, pennelli in primo piano, un bambino, fotografie e un volto in scomposizione: “Il taglio di capelli è solo all’inizio, ovvero 10 anni di CSI”, 2002, che segue un dipinto dello stesso soggetto del 1997 intitolato “Taglio di capelli nel laboratorio rosso”.  Così lo spiega l’autore: “E’ chiaro che non sono interessato alla rappresentazione di questo processo, sebbene quest’azione contenga un significato recondito. In un certo senso rappresenta l’atto di fare i conti con la vita  e nello stesso tempo l’inizio di un nuovo percorso”. E aggiunge: “Ho vissuto tutto questo in prima persona, e cerco di dare una risonanza completamente diversa, filosofica, universale”.

Ecco, in queste parole, se collegate a quanto detto all’inizio sulla sua arte, si può trovare forse la chiave per comprenderne meglio i contenuti; o per continuare a interrogarsi sul mondo dell’artista, così circoscritto e nello stesso tempo così aperto a significati che ciascuno può percepire con la propria sensibilità, lo spirito di osservazione e l’interpretazione di espressioni ed atteggiamenti.

Info

Complesso del Vittoriano, ala Brasini, Salone centrale, lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere. Tutti i giorni  ore 9,30-19,30, ingresso fino a 45 minuti dalla chiusura . Tel. 06.6780664. Ingresso gratuito.  Catalogo “Yuri Kalyuta. Rosso su rosso”, Skira, luglio 2015, pp.  152, formato  24 x 28., dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre e gli artisti citati cfr. i nostri articoli:  in questo sito,  per Matisse  23 e 25 maggio 2015,  De Chirico  20, 26 giugno e 1° luglio 2013;  in “cultura.inabruzzo.it”  per i “Realismi socialisti”  tre articoli tutti 31 dicembre 2011, per De Chirico nel 2009  27 agosto, 23 settembre e 22 ottobre, nel 2010  tre articoli 8, 10 e 11 luglio  (il sito “cultura.inabruzzo.it” non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, il particolare l’artista  Yuri Kalyuta, anche per avere accettato di farsi riprendere da noi davanti  a una sua opera. In  apertura, “Roma. Colosseo”, 2014, con dinanzi l’autore, l’artista Kalyuta; seguono, “Sera di Natale in via bol’saja Morskaja”, e “Marina e il drago”, 2011,poi  “Lera”, 2011″, e  “Russia, avanti”, 2012; quindi, “Valerija con il berretto nero”, 2012,  e “Tragedie italiane. Triangolo amoroso”, 2013; infine, “Conclave”, 2013, e “Maternità”, 2014;   in chiusura,  “Veej Tze. Della serie dei ritratti ‘Atelier'”, 2014.

Lachapelle, la fotografia da set teatrale, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo delle  Esposizioni  a Roma, dal 30 aprile al 13 settembre 2015 la mostra “David Lachapelle. Dopo il diluvio” espone 150 opere, per lo più di grandi dimensioni, alcune presentate per la prima volta,  del grande fotografo d’arte americano che torna dopo 15  anni  con i suoi set teatrali di eventi memorabili ricostruiti nella contemporaneità per fissarli  a titolo di messaggi non sempre univoci e per questo intriganti.  La mostra  è realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo, con Madeinart e D. L.  studio Lachapelle, curata da Gianni Mercurio.

L’artista e la svolta del 2006

Sono diversi i motivi di interesse per la mostra di un artista molto particolare, e attengono non solo alla forma espressiva e ai contenuti,  ma anche alla tecnica realizzativa; tuttavia l’elemento saliente ci sembra di poterlo trovare nella  svolta avvenuta nel 2006, allorché si ritirò su un’isola selvaggia del Pacifico e abbandonò il mondo della moda e della pubblicità che era stato il suo campo di azione di grande fotografo impegnato a  impressionare con la forza delle immagini. Lavorava per testate di prestigio, come “Vanity Fair” e “Vogue”,  e per alcune delle più importanti campagne pubblicitarie, tra i suoi primi committenti troviamo Andy Warhol , e lui lo ricambiò con foto simboliche ispirate alle sue originali creazioni.

Non solo fotografia ad alto livello, anche regia di video musicali, documentari  ed eventi teatrali dal vivo, e vedremo come quest’ultima attività abbia inciso profondamente su di lui: tra i documentari il celebre “Krumped”  da cui è nato il film “Rize”, diffuso in molti paesi nel 2006  e lodato dalla critica; tra gli eventi teatrali “The Red Piano” di Elton John al Caesars Palace nel 2004, ed è indubbio che la regia teatrale abbia lasciato dei segni evidenti nell’impostazione delle sue opere.

 Dunque, lanciatissimo nella mondanità glamour e del mondo dei Vip, abbandona tutto. Perché?  Sembra una parabola evangelica. mentre è una realtà americana, possibile in un grande paese che non cessa mai di stupirci, e insieme una realtà italiana. Perché fu la vista della Cappella Sistina, con l’arte  e la bellezza unita alla capacità evocativa  delle immagini straordinarie del Giudizio universale, nel silenzio assoluto che lo avvolgeva trattandosi di una visita privata,  a folgorarlo  sulla via di Damasco. Alla svolta nella vita  si accompagna  la svolta nell’arte. Cambia il mondo di riferimento e cambiano i soggetti, muta la forma espressiva  e mutano i contenuti: non più superficiali e vacui, ma profondi e intensi, o comunque fonte di riflessioni per l’osservatore .

La prima produzione della svolta è la serie “Deluge”, quasi a sottolineare il nuovo inizio con un ritorno alle origini, il Diluvio è l’evento che ha segnato la sopravvivenza delle specie viventi dal cataclisma universale.  Siamo nel 2006,  l’artista ha già un ventennio di attività di altro genere alle spalle, gli ha dato fortuna e celebrità, ma è il capolavoro michelangiolesco che lo ha scosso nella Cappella Sistina l’impegnativo riferimento nella  prima sfida della sua nuova vita artistica.

Da “Deluge” inizia la mostra con dei pannelli spettacolari, alcuni lunghi 7 metri, per proseguire con le opere del suo “nuovo corso”; ma non manca una carrellata sulle opere precedenti, come elemento di confronto della rivoluzione operata, in particolare i ritratti di personaggi celebri del “jet set”, cantanti e musicisti, attori  e icone della moda, e altri temi resi con toni surrealisti. Sono esposti in fila, c’è l’interesse nel riconoscere il personaggio, ma svaniscono di fronte alla potenza esplosiva delle altre raffigurazioni, in sostanza è come se il Diluvio avesse  travolto anche loro.

“Deluge”  ha la caratteristica di essere la prima opera del nuovo corso e segnare lo spartiacque tra la forma rappresentativa con la figura umana e quella del tutto priva, affidata alle cose per lo più ricostruite come in laboratorio.

Senza figura umana le serie “Car Crash” e “Negative Cuttencies”, ispirate  a Warhol nella crisi capitalistica,” Gas Stations” e “Land Scape”, sulla decadente civiltà del petrolio e dell’atomo, “Hearth Laughs in Flowers” e “Aristocracy”, la più recente, sulle contaminazioni in terra e in cielo.

Nella mostra torna la figura umana al termine, addirittura nella suggestiva sequenza di “Il mio Gesù privato”, del 2003: del resto lui stesso ha detto “Federico Fellini, Andy Warhol e Gesù, ognuno a suo modo ha cambiato la mia vita”; Fellini di certo con le sue rappresentazioni teatrali della decadenza della società in atmosfere oniriche,  e  Lachapelle ha detto “la mia espressione artistica è la traduzione in immagini dei miei sogni”, Warhol lo ha proiettato nel mondo della Pop Art, sia pure vissuta in modo diverso, nella consunzione e non nel dominio, e su Gesù non occorre aggiungere nulla alla folgorazione nella Cappella Sistina che lo ha portato a rivivere, attualizzandole,  le vicende prima bibliche e poi evangeliche.

Aspetto comune delle opere dell’artista è la straordinaria cura per i particolari e per le luci, che danno effetti pittorici molto ricercati, mentre sono il risultato della costruzione di veri e propri set teatrali con protagonisti e comparse; a questo è giunta la sua evoluzione dopo la lunga fase iniziale in cui invece era un fotografo per così dire, tradizionale, che riprende i soggetti della realtà e non li costruisce. Ora ricostruisce scene simboliche con i modelli, e poi le fotografa.

Lo vediamo documentato nella mostra in un lungo filmato sulla preparazione del “set” per un’opera della serie “Land Scape”,  dalla realizzazione in miniatura del modello di centrale atomica alla sua ambientazione in modo che la ripresa ravvicinata la faccia apparire come reale, alle luci e agli altri effetti speciali fino all’opera terminata, pronta per l’esposizione. Un modo di rendere pittorica la fotografia  e di dare ad essa significati allegorici in un iperrealismo brillante e luminoso.

Le grandi dimensioni di queste rappresentazioni ne accrescono la resa spettacolare. Guardiamole, dunque, cominciando dal “nuovo inizio” di ” Deluge”, il diluvio universale.

Dal “Diluvio” al disfacimento e alla caducità

Il racconto biblico del “Diluvio” è la metafora delle tempeste politiche  e religiose e della crisi morale della società; la trasposizione scenica mostra una serie di soggetti che si aggrappano gli uni agli altri mentre intorno a loro crollano i simboli dell’economia e del benessere.  E’ un affresco umano con pose plastiche della forza di una composizione scultorea nel quale non c’è solo  pericolo e paura, catastrofe e morte, ma anche l’anelito per la salvezza, nella compresenza di motivi  opposti che troveremo ancora.  Sembra una  sacra rappresentazione, l’ispirazione michelangiolesca è evidente, d’altra parte viene subito dopo la “folgorazione”  dinanzi alla Cappella Sistina.  

Al “Diluvio” accostiamo “Awakened”, anche qui il tema dell’acqua nell’ambivalenza di distruttrice e purificatrice, di rovina e rinascita: tutto galleggia e affonda, in una metafora della fragilità umana collegata alla dissoluzione della società dei consumi che assegna primati fuggevoli a cose futili. La rigenerazione si può vedere nell’immersione delle persone come in un liquido amniotico che riporta alla purezza della nascita, in un auspicato ritorno alle origini, al pari del “Diluvio”.

Le serie  “Negative currency”e “Crash”  riportano all’attualità di quegli anni, che ha prodotto tanti guasti  e diffuso un’autentica angoscia  per il futuro dell’economia e della società globale.

Siamo nel 2008, la finanza americana è sconvolta dalle crisi dei “subprime” e del fallimento della “Lehmann Brothers”, l’ondata destabilizzante si è diffusa nel mondo, dalla finanza la crisi  si è trasferita all’economia con la recessione e il suo portato di disoccupazione e miseria diffusa.

Con “Negative currency” l’artista si ispira a Warhol nel riprodurre le banconote, ma mentre l’icona della Pop Art con “One dollar bills” aveva espresso l’invadenza della moneta fino a coprire l’intero spazio con una moltiplicazione all’infinito del biglietto verde, lui oscura il dollaro e non lo moltiplica, lo riproduce in negativo; del resto la sua è una metafora opposta rispetto all’altra.

Uguale ispirazione in “Crash”, questa volta sono le immagini di “Death and Disaster ” di Warhol il riferimento, ma anche qui è diverso il messaggio: mentre in Warhol si avvertiva l’angoscia dinanzi all’incidente mortale, qui all’avvertimento si unisce una forma di seduzione pubblicitaria.

Altre immagini di violenza sono quelle della serie “Still Life”, 2012, un’originale galleria di ritratti famosi, le teste e i corpi di un museo delle cere che era stato distrutto dai vandali, e lui riuscì a fotografare. I pezzi ripresi dopo  la razzia, smembrati e stravolti,  sono la metafora del disfacimento della carne e, trattandosi di personaggi famosi – tra cui i Vip  che riprendeva nei suoi richiestissimi ritratti fotograficii e i  “Politicians anonimous” – diventano metafora della caducità del successo. E’ un magazzino dell’umanità più ammirata  in disfacimento, alla commiserazione per la triste sorte delle icone celebrative si associa il fascino perverso che ha sempre accompagnato la caduta degli dei, quasi un contrappasso.

Al mondo dell'”upper class”  è rivolta la recentissima serie “Aristocracy”, del 2015, voli di aeroplani ad alta quota come uccelli impazziti si avvitano nel cielo percorso da vortici cromatici come i fumogeni nelle manifestazioni aeree. Il titolo richiama i passatempi estremi dei Vip per vincere la noia, mentre nella composizione ancora una volta coesistono due motivi opposti, la banalità e caducità da un lato, la seduzione dall’altro: una seduzione non diversa da quella dell’Aeropittura  futurista. Vi è stato visto anche un richiamo alle tempeste di Turner.

Sulla stessa lunghezza d’onda “Hearth Laughs in Flowers”, titolo di una poesia del poeta americano del XV secolo Emerson, la terra ride nei fiori rappresentati  in composizioni con oggetti del consumismo, futili e stravaganti, dai cellulari ai giochi sex, dalle maschere alle clessidre,  dalle bambole alle protesi al silicone: anche qui una metafora della pretesa umana  di dominare la natura piegandola alle proprie aberrazioni, con un certo compiacimento nella consueta ambivalenza.

Le spettacolari immagini sulla civiltà del petrolio e dell’atomo

E siamo alle immagini spettacolari di “Gas Stations”  e “Land Scape”, che si riferiscono ad  impianti  petroliferi e centrali nucleari, ricostruite in miniatura e fotografate ingrandite.

In “Gas Stations”, del 2012,   sono protagoniste le stazioni di rifornimento di combustibile, che hanno trasformato la vita accelerando la mobilità in un processo sempre più accelerato e coinvolgente che ha inciso profondamente sull’economia e sulla società diventando anche il fattore dominante della politica internazionale, e il motivo di conflitti e guerre per assicurarsi l “oro nero”.  Le stazioni vengono ambientate in una foresta pluviale, come reperti archeologici di un lontano futuro,  in un ritorno ai primordi, forse per marcarne il contrasto con la natura: una constatazione e una denuncia insieme. Una sorta di “altra America” contrapposta alle ridenti rappresentazioni  di Edward Hopper della vita americana attraverso le ridenti abitazioni con le persone viste nella serena quotidianità. Dipinge anche “Scism Shift“, lo sconquasso del sisma .

Nell”anno successivo, il 2013, ecco le centrali di “Land Scape” :   sembrano cattedrali della modernità,  imponenti e scintillanti, e si fa fatica a credere che siano quei modellini costruiti in modo del tutto  artigianale assemblando lattine e plastiche di uso comune e ripresi nell’ambiente naturale accuratamente scelto per accrescere l’effetto, come documenta il filmato che vede l’artista con i suoi aiutanti all’opera come su un set teatrale o cinematografico.  Sono isole nel deserto di un nuovo mondo allucinato, ma fanno pensare più alle luci del Luna park che allo squallore del Day after nucleare; anche qui forse l’artista gioca sulla ambivalenza;  comunque  è un misto di reale  immaginario, di evocazioni e di astrazioni.

Il 2013 è anche l’anno dell’ “Self Portrait as an House”, lo straordinario “autoritratto” di un’abitazione il cui spaccato è popolato di immagini surreali con nudi singoli e di gruppo nelle più diverse posizioni: un forte dinamismo caratterizza la composizione che evoca quanto si nasconde dietro le pareti domestiche portato alla ribalta di un virtuale spettacolo teatrale. 

Le immagini di ispirazione religiosa

La mostra termina nella spettacolare galleria superiore con una serie di immagini ispirate a una religiosità calata nella contemporaneità  in un linguaggio Pop.  Si  comincia con “Last Supper”,  mentre il  “Diluvio” aveva l’ispirazione michelangiolesca, qui l’ispirazione è leonardesca: sono 13 fotografie, l’Ultima cena è resa attraverso una serie di teste e di mani  che si incrociano come alla ricerca di un dialogo e di un’intesa.

Ma è “Jesus is my Homeboy”, “Il mio Gesù privato” , dl 2003, che colpisce  con la sua spettacolarità; sono  grandi composizioni riferite ai fatti evangelici in cui Gesù ha un’ immagine che collima con quella tradizionale pur se in abiti moderni, nei luoghi  pop come “fast food” e simili, e con giovani del nostro tempo. Questo non attenua il senso del divino, espresso dagli atteggiamenti ieratici e dalla sua figura carismatica, e  vi aggiunge il messaggio di denuncia delle disuguaglianze e dell’emarginazione.  Nelle opere si nota un uso magistrale della luce per rendere il soprannaturale, per questo hanno parlato di Rembrandt;  vediamo  in particolare  Gesù nel lavaggio dei piedi della Maddalena e Gesù nella Resurrezione.

Poi abbiamo le due “Pietà”, “Courtney Love” del 2006,  in cui Gesù è riverso tra le braccia di una donna dai capelli biondi;  “American Jesus”  è di alcuni anni dopo,  questa volta è Gesù che tiene in grembo il corpo riverso di Michael Jackson, è ambientato in una foresta, il dramma della perdita è rischiarato dalla luce del nuovo giorno, forse il riscatto dalla macchia della pedofilia del divo pop.

Che dire al termine della visita alla mostra? E’ un tour spettacolare, tra rappresentazioni molto diverse tra loro, alcune animate da un’umanità  inquieta  e tormentata, ma non inerte né rassegnata; altre che pongono al centro il mondo disumano in cui l’umanità si trova immersa, che va dai piccoli e futili oggetti quotidiani alle stazioni di servizio e alle grandi centrali atomiche, in cui comunque si può vedere qualcosa che va oltre ciò che causa l’alienazione e  il pessimismo esistenziale.

Le sacre rappresentazioni di matrice religiosa sono quelle che restano impresse per la loro forza evocativa, del resto lo “shock emotivo” era alla base della fotografia dell’artista anche nella prima fase “glamour”  e pubblicitaria. Non si dimentica  la convulsa composizione del “Diluvio”, né la sequenza di scene della vita di Cristo in salsa pop ma non per questo prive di senso del divino.

E’ quanto basta perché la mostra  lasci un segno nel visitatore, comunque la pensi.

Info

Palazzo delle Esposizioni,via Nazionale. 194, Roma. Da domenica a giovedì, tranne il lunedì chiuso, ore 10,00-20,00; venerdì e sabato apertura fino alle 22,30; ingresso fino a un’ora dalla chiusura.  Biglietto intero 12,50 euro, ridotto 10,00;  7/18 anni  6 euro, gratuito fino a 6 anni, scuole 4 euro per studente tra 10 e 25 studenti dal martedì al  venerdì con prenotazione obbligatoria.  Tel. 0639967500 e 848082408 (per le scuole). http://www.palazzoesposizioni.it/.  Catalogo “David Lachapelle, Dopo il Diluvio/ after the Deluge”, a cura di Gianni Mercurio, in collaborazione con Ida Parlavecchio, aprile 2015, pp. 240, formato 26 x 28,5. Per le citazioni del testo cfr. i nostri articoli:  in questo sito  su Warhol  il 15 e 22 settembre 2014, su  Turner  e la pittura inglese del ‘700 il 18 maggio 2014,  per l’aeropittura  e il futurismo,  “Tato, la spettacolare aeropittura alla Galleria Russo” 19 febbraio 2015 e “Marinetti, disegni e quadri futuristi alla Galleria Russo”  il 2 marzo 2013; in “cultura.inabruzzo.it”,  su Hopper 12 e 13 giugno 2010, sul Futurismo il 30 aprile, 1° settembre e 2 novembre 2009 (cultura.inbruzzo,it  non è più  raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti prossimamente  in questo sito).

Foto

Le immagini sono state riprese nel Palazzo delle Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo,  con i titolari dei diritti, in particolare Lachapelle, per l’opportunità offerta. In apertura, “Diluvio”, 2006; seguono, “Negative  currency”, 2008, e “Scism Scift”, 2012; poi  “Politicians anonimous”   “Gas stations”, 2012,quindi “Land Scape” e “Self Portrait as an House”, 2013; infine  “Aristocracy”, 2015 e  il “Lavaggio dei piedi della Maddalena” della serie “Il mio Gesù privato”, 2003;di questa serie,in chiusura, una delle immagini corali di“Last Supper” .

Civita di Bagnoregio, tre giorni di “animazione” nella “città incantata”

di Romano Maria Levante

A Civita di Bagnoregio,  “la città che muore” per la fragilità geologica, “la città incantata” per il suo straordinario fascino, il 10, 11, e 12 luglio 2015 si svolgerà  il “Meeting internazionale dei disegnatori che salvano il mondo”, con la partecipazione di artisti del cinema di animazione e vignettisti, illustratori e artisti visivi, compresi gli “street artists”. Daranno “spettacolo” con mostre  e proiezioni, incontri e workshop nei palazzi e nelle strade, fino alle osterie e alle case private in un happening che si annuncia stupefacente.

 Gli incontri su Civita  con il presidente Zingaretti e il sindaco Biagiotti

L’ incontro del 9 luglio nella sede della Regione Lazio è stato  ben diverso da quello del 19 maggio 2015,  sempre a Roma, nella sede dell’associazione Civita  che prende il nome dal borgo, seguito da una apposita giornata nel borgo il 19 giugno.    . Protagonisti ancora il presidente Nicola Zingaretti e il sindaco Francesco Bigiotti,  con oggetto e intenti differenti rispetto all’altra manifestazione, seppure convergenti. 

Allora si trattava di lanciare un appello per la salvezza della “città che muore” e della valle dei calanchi minacciate dalle frane, lo fece Zingaretti seguito da un gruppo di illustri firmatari con in testa Giorgio Napolitano, poi si sono aggiunti ventimila cittadini che lo hanno sottoscritto; il tema era porre rimedio al deperimento della massa tufacea su cui il borgo poggia, con interventi urgenti di consolidamento, all’appello dei Vip seguì la cerimonia popolare “in loco”.

Questa volta, sempre per Civita, è stata lanciata una “tre giorni” che più festosa non potrebbe essere, così la “città che muore” lascia il posto alla “città incantata”, nel senso che incanta il visitatore, come avvenne per il maestro giapponese Hayao Miyazaki che mise questo titolo al suo film ispirato al borgo. Vi hanno girato scene anche  Fellini per “La strada”,  Sironi per “Pinocchio”, Garrone per “Il racconto dei racconti”.

Dal 10 al 12 luglio 2015 il borgo avrà una “total immersion” nel  cinema di animazione e nel disegno satirico, nell’arte visiva e nella “street art”. Non solo nei palazzi come sedi espositive, ma all’esterno, per far penetrare in profondità nel  borgo la ventata di vitalità e di ottimismo anche irridente diffusa a piene mani dagli artisti di questo genere di espressione.

La presentazione dell’evento alla Regione Lazio

Introdotti da Giovanna Pugliese, coordinatrice del progetto ABC, ne hanno parlato il sindaco Francesco Bigiotti e il direttore artistico Luca Raffaelli, ha concluso il presidente Nicola Zingaretti inquadrando la manifestazione nel progetto  “ABC, Arte, bellezza, cultura” per l’intera regione Lazio: in  particolare per Montecassino dove il 2 luglio è stato riaperto il “Percorso della Battaglia”, per l'”isola ponziana” tra Formia e Ventotene, per Rieti e il cammino di San Francesco.

Il sindaco Bigiotti ha confermato il suo atteggiamento positivo, già manifestato nell’incontro presso la sede dell’associazione  Civita, dove, pur nell’apprensione per la minaccia delle frane da scongiurare con opere di consolidamento, sottolineò l’impetuosa crescita turistica, che in pochi anni ha decuplicato le presenze. Nell’incontro alla Regione ha fornito i dati più aggiornati di un trend fortemente ascendente: tra giugno 2014 con 16 mila ingressi nel borgo, e giugno 2015, con circa 32 mila ingressi,  la frequenza è raddoppiata, facendo registrare la  maggiore crescita turistica a livello europeo.

Altro che “città che muore”, è  viva e vitale, lo vogliamo ribadire.  Mentre l’altro appellativo, “città incantata”, conferma tutta la sua attualità per i tre giorni che preannunciano un  autentico incanto.

Il direttore artistico curatore Luca Raffaelliha illustrato il programma, ma prima di citare le principali manifestazioni, vogliamo evidenziare ciò che ha detto Zingaretti, a conferma che non si tratta di un evento occasionale o isolato, ma si inquadra nella strategia adottata a livello regionale per valorizzare il territorio mettendo a frutto le sue potenzialità che spaziano in diversi campi che vanno collegati in una visione unica.

Il 2 luglio a Montecassino Zingaretti aveva posto in primo piano i valori della storia e della religione, oltre che della cultura, con l’aggiunta dell’enogastronomia; per Civita di Bagnoregio  la cultura è al centro, unita anche qui all’enogastronomia, il luogo è ideale per manifestazioni culturali di livello internazionale.

La strategia per l’intera regione punta alla valorizzazione del territorio  facendo leva su eventi di grande qualità, come quello  per Civita, in luoghi suggestivi: “Un luogo meraviglioso richiede un grande evento culturale”, ha detto; si devono valorizzare insieme tutte le sue potenzialità, compresa quella enogastronomica. Ha parlato di “unicità”, impostazione che viene seguita in modo coerente e deciso cogliendo tutte le occasioni, in particolare la vetrina mondiale dell’Expo, che consente di presentare i prodotti tipici in una valorizzazione a 360 gradi del territorio, appunto  nella sua “unicità”.

Per Civita di Bagnoregio la “tre giorni” risponde all’esigenza di “riempire i luoghi  di contenuti” all’altezza del loro valore ambientale e storico. Nello stesso tempo viene portata avanti l’iniziativa volta alla tutela del borgo minacciato dalle frane, mediante un tavolo tecnico previsto per il 14 luglio con la partecipazione delle istituzioni interessate, Regione, Provincia, Comune e Ministero dei Beni culturali e Turismo.

Abbiamo chiesto se viene considerata la possibilità di una legge speciale come quella del 1978 per la rupe di Orvieto e la collina di Todi, rifinanziata negli anni fino a investire 500 miliardi di lire nel consolidamento della massa tufacea e in altre iniziative di recupero: “Nel tavolo tecnico saranno considerate tutte le 1978 possibilità,  anche se sembra non sia più il tempo di leggi speciali”, è stata la risposta.

Ci sentiamo tuttavia di osservare che, essendo stato richiesto l’inserimento di Civita di Bagnoregio tra i siti dell’Unesco patrimonio dell’umanità, non  sembra eccessivo pretendere un intervento decisivo delle istituzioni nazionali per il consolidamento che eviti crolli rovinosi e irrimediabili. Il problema supera i limiti regionali, come la qualifica di sito Unesco è un riconoscimento per l’intero paese, e se a livello nazionale non si ritenesse di dover investire quanto è necessario per salvare una perla della natura e della storia, tale scarsa considerazione potrebbe compromettere la stessa domanda che meritoriamente è stata avanzata all’Unesco. Nè sarebbe giustificato l’alibi ormai consueto della “legge di stabilità”.

La “tre giorni” di Civita sull’animazione artistica

Siamo giunti così alla “tre giorni”  di Civita,  50 artisti di tante nazioni  per “La città incantata. Meeting internazionale dei disegnatori che salvano il mondo”. Ecco come lo ha presentato il direttore artistico Luca Raffaelli: “Civita di Bagnoregio è un simbolo del mondo da salvare. Così, all’interno di questo paesaggio unico e straordinario, vogliamo far vivere e scoprire l’incanto della realizzazione dei disegni e dei film  animati per creare l’energia dell’arte vissuta e condivisa”. Ne ha dato il profilo  etico: “Gli  eroi del cinema di animazione lottano per i più deboli”, come altri storici eroi dei fumetti, primo tra tutti l’Uomo mascherato, aggiungiamo noi; viene presentata anche l’intervista ad una ragazza siriana, schermata, è stata torturata ma è indomita nella sua denuncia.   

Disegno e cinema di animazione in una caleidoscopica varietà di stili, contenuti e forme, nello stretto contatto tra autori e pubblico, con molte creazioni concepite e realizzate all’aperto sotto gli occhi di tutti. Sarà una interazione feconda, perché in questo modo diventano  “street art”  anche altre forme artistiche.

Palcoscenico della rappresentazione corale teatrale saranno la piazza  e i vicoli, i palazzi e le osterie, fino alle case private nel coinvolgimento totale in un’arte così popolare e divertente.  Lo spettacolo sarà quanto mai vario, non solo anteprime e proiezioni, mostre e incontri, anche workshop ed altri eventi, tutti a ingresso libero, una vera festa popolare innestata nello show artistico al più alto livello qualitativo e rappresentativo.

Gli  spettacoli di animazione  presentati e  i film  proiettati

Un’anteprima assoluta è in programma con la mostra interattiva ed itinerante del film-maker  Ram Devinemi, il “giovane supereroe indiano”  celebre per i suoi fumetti ispirati ai racconti mitologici contro la violenza sulle donne.  Di riscontro una mostra antologica sull’artista  e regista d’animazione Manfredo Manfredi, premio Oscar 1977 per il cortometraggio d’animazione, viene ricordato anche come autore dei disegni della sigla di “Carosello”, il popolare contenitore di spot pubblicitari artistici di un’epoca divenuta mitica della  TV .

Sempre nell’animazione, uno dei fumettisti italiani più seguiti sui social network, Sio, con le sue “vignette virali” sul canale  Youtube  Scottecs; e Gipi che presenterà la “graphic novel” dal titolo “Una storia”, romanzo a fumetti candidato al Premio Strega 2014, un riconoscimento che ne sottolinea il valore. E poi Lola Airaghi con il nuovo personaggio “Morgan Lost”, Leo Ortolani con il suo eroe giallo-blu Rat-Man, Maurizio Forestieri, che ha fondatolo storico studio di animazione Graphilm, premiato per gli “inserti manga” nel film di Marco Pontecorvo “Tempo instabile con probabili schiarite”,  Donato Sansone aka Milky Eyes, con il suo universo surreale di animazione, autore dell’immagine ufficiale del meeting nel quale presenta alcune suggestive creazioni video. E poi i fumettisti Ausonia, Davide De Cubellis e Andrea Ferraris. Tutti incontreranno il pubblico nei tre giorni, in uno scambio fecondo di impressioni e di emozioni.

Dagli autori delle animazioni ai film dei quali verrà proiettata un’accurata selezione a Bagnoregio, che dista pochi minuti di passeggiata in uno scenario panoramico incomparabile. Citiamo il recente vincitore al festival Annecy 2015, “We Can’t Live Without Cosmos”, del russo Konstantin Bronzit, una storia di amicizia di due cosmonauti uniti dal sogno  di volare nello spazio; “Bambini senza paura”, dell’italo-francese Michel Fuzelklier, con Babak Payami, sul bambino pakistano Iqbal Masih, simbolo eroico  della lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile; un momento di alto valore etico come lo è “Suselma” di Jalal Maghout’, presentato allo stesso festival, con l’intervista alla donna siriana di cui ha parlato Raffaelli,  incarcerata  e torturata, ripudiata dalla famiglia per la sua lotta contro il governo siriano e le sue rivendicazioni femministe.

Il pubblico coinvolto,  incontri e workshop fino all’enogastronomia

Non saranno come i  “dibattiti” di famigerata memoria gli incontri e i workshop nei tre giorni di Civita, nulla di noioso e ideologico,  suscitano interesse anche gli aspetti tecnici della creazione artistica 

Gli “incontri” riguardano la costruzione di uno “storyboard”, dall’idea alla realizzazione, il rapporto tra la musica e le immagini, il doppiaggio; ci sarà il regista spagnolo Damiàn Perea, che ha prodotto e diretto Aninayo, con effetti speciali e video giochi;  Valentina Amico, di Digital Video all’avanguardia nei software per il cinema di animazione, per la prima volta nel nostro paese illustrerà i procedimenti con cui lo Studio Ghibli realizza i suoi film, e al riguardo è d’obbligo la citazione della “Città incantata” del maestro giapponese Hayao Miyazaki, con al centro Civita, come  ricordato all’inizio.

Nei “workshop” gli  artisti rivelano al pubblico i propri segreti, dall’ispirazione alle tecniche utilizzate, comprese quelle più avanzate, si va dallo “stop motion” all’animazione 3D , dal disegno graffiato sulla pellicola all’animazione con pupazzi di plastilina, fino al disegno pittorico su carta.

Citiamo infine un evento nell’evento, la squadra di artisti della Sergio Bonelli Editore, partner della manifestazione con l’Officina Bonelli: basti dire che il pubblico potrà incontrare i suoi disegnatori, grafici e sceneggiatori, e discutere con loro; inoltre potrà  assistere alla creazione dal vivo delle tavole di personaggi amati come Tex e Dylan Dog, Zagor e Mystère. Ecco gli artisti dell’Officina Bonelli che lavoreranno dinanzi al  pubblico e  ne soddisferanno le curiosità: Airaghi e Bigliardo, Caluri e Campana, De Cubellis e Di Vincenzo, Laurenti e Mammucari, Mangiantini e Pontrelli, Recchioni e Rotundo, Santucci, Soldi e Uzzeo.

Non mancherà l’enogastronomia, cui Zingaretti si è richiamato:  come fruizione diretta,  la degustazione nei tre giorni del meeting dei cibi tipici negli stand di Expo 2015; come trasposizione artistica, le tavole originali che gli artisti realizzeranno sui temi dell’Expo e, altro coinvolgimento diretto della gente, il pubblico le potrà acquisire con una donazione, il cui ricavato andrà a “Save the Children” la benemerita Onlus che tutti conoscono per la meritoria attività scolta dal 1919 in difesa dei bambini anche con le adozioni a distanza.

Il palcoscenico e il set della  rappresentazione di Civita

Abbiamo detto che palcoscenico e set della rappresentazione saranno piazze e vicoli, fino alle osterie, palazzi e case private.  Perciò cerchiamo di descrivere il programma come un film: abbiamo dato la sceneggiatura, passiamo alla scenografia.

A Civita, a Palazzo Alemanni, dov’è il Museo geologico, nella sala grande al primo piano gli “incontri con gli ospiti”, e sono previsti i grandi nomi che abbiamo citato, da Manfredo Manfredi sulla propria vita tra pittura e animazione a Valentina Amico sul film “La città incantata”, da Devineni sulla storia dell’indiano contro la violenza sulle donne a Maghout sulla violenza contro l’indomita donna siriana, da De Cubellis sulla traduzione in film di una storia a Sio, “dall’idea buffa alla cosa buffa”, da Ortolani su Rat-Man  a Gipi & Uzzeo, Mammucari e tanti  altri. La mostra di Manfredo Manfredi che “racconterà l’irraccontabile” a Palazzo Colesanti;  all’ingresso del borgo la mostra di Devineni.

Nella Sala Medori altri “incontri con gli ospiti”, dopo quelli del Palazzo Alemanni, saranno ben quindici, tra loro citiamo  Filippi sull’animazione per adolescenti e  Fuzellier contro lo sfruttamento del lavoro minorile, e poi Cannarsi sul doppiaggio e su “La città incantata”, e Uzzeo sulle differenze tra cinema e cartoni animati, “un’unica arte”, la Mori sui monologhi animati  e Forestieri sulle animazioni inserite nel film di Pontecorvo, la Ferrario sulla plastilina , Kramer & Spinelli su “tra cerchi e rotoli lo scorrere della creazione”.

Dai palazzi si passa all’aperto:  gli incontri con gli artisti al lavoro nella piazza di san Donato: i workshop nella piazza del Vescovado, ci saranno  la Airaghi e Soldi sul disegno  a fumetti, Perea sulla “pixillation”, e ancora la Ferrario sulla plasitilina; e nella Corte della Maestà  Carrano su come animare graffiando al pellicola. Nello Spazio Panorama gliincontri con Ausonia & Andrea Ferraris e con Gipi, nella Casa Pinocchio la mostra di Villoresi, nello Spazio Cenciarelli la folta troupe di artisti, già citati,  dell’Officina Bonelli. Di scenaanche l’osteria “Al forno di Agnese” con MPS.

Non finisce qui, sarà coinvolto l’abitato di Bagnoregio, nella piana a pochi minuti da Civita. Nell’Auditorium Vittorio Taborra la mostra di Manfredo Manfredi e le proiezioni, l’esecuzione di “Cantanimando” del  coro polifonico “Città di Anagni”;  nella piazza dell’Auditorium  altre proiezioni e il concerto “Lemuri” di  Centrone,  con Tedeschi alla chitarra e De Vita ai disegni, originalissima composizione del complesso; sempre nella piazza la lista dello stand Editoria per l’iniziativa  rivolta a Save the Children.

Lo spazio per video giochi nei tre piani della Casa del Vento e l’Info point a pianterreno completano il set.

Tutti a Civita dal 10 al 12 luglio

Abbiamo cercato di rendere lo sforzo organizzativo e l’impegno artistico della “tre giorni” di Civita. Non resta che recarsi nel borgo per vivere la manifestazione che è un inno alla vita, espressione di una gioia di vivere che non dimentica i drammi e le ingiustizie del mondo, e si impegna anche in una solidarietà attiva.

Sono i valori etici di cui ha parlato il curatore Raffaelli,  inseriti nel disegno culturale e socio-economico di promozione del territorio delineato dal presidente  Zingaretti

Il sindaco Biagiotti potrà trarne nuovi motivi per il suo ottimismo contagioso, che può essere di esempio, e ha dato i risultati di eccellenza che sono sotto gli occhi di tutti: con la trasformazione della ” città che muore” nella destinazione turistica più dinamica d’Europa, perché è “la città incantata” che la sensibilità orientale ha mostrato al mondo e tocca a noi difendere dalle minacce  alla fragilità geologica  e valorizzare  con promozioni culturali come questa “tre giorni” da favola.

Info

Il meeting si svolgerà nell’abitato di Civita di Bagnoregio e a Bagnoregio, tutte le manifestazioni all’interno e all’esterno sono aperte al pubblico a ingresso libero. Cfr. i nostri articoli: in questo sito, per la precedente manifestazione, “Civita  di Bagnoregio, appelli e azioni per ‘la città che muore”  20 giugno 2015  con altre 11 immagini del borgo; e per  i luoghi citati del progetto ABC “Montecassino, il ‘Percorso della Battaglia’ simbolo di pace”  6 luglio 2015; in www.antika.it  per le isole ponziane, “Villa Giulia a Ventotene, e la capacità umana di far soffrire anche in Paradiso”  24 ottobre 2010, “Santo Stefano, archeologia carceraria del penitenziario-teatro” in due parti il 2 e 8 ottobre 2010; in cultura.inabruzzo .it  “Il bombardamento di Montecassino” 15 febbraio 2009 nel 65° anno della distruzione, in “Realtà del Mezzogiorno” “Dal paradiso all’inferno e ritorno” febbraio 1984 nel quarantennale.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante, quelle di Civita di Bagnoregio  il 19 giugno nel borgo in occasione della manifestazione-appello per la sua salvezza dalla minaccia delle frane;  l’immagine della presentazione è stata ripresa nella sede della Regione Lazio. In apertura, una veduta di Civita con la Valle dei calanchi, segue la presentazione alla Regione Lazio, parla il presidente Zingaretti, alla sua destra Giovanna Pugliese del progetto ABC, alla sua sinistra il sindaco Biagiotti e il curatore del meeting Raffaelli; poi  una serie di 5 immagini del borgo concluse da un’altra veduta di Civita; infine il logo del meeting e, in chiusura, il logo del Progetto “ABC Arte, bellezza, cultura” della Regione Lazio.

Mozambico e Sao Tomè , il fascino dell’Africa, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Nel Vittoriano, nell’ala Brasini, lato Fori Imperiali, nel programma “Roma verso Expo” torna l’Africa con due mostre, per un grande paese in una particolare ricorrenza nazionale, “Mozambico 40 anni d’indipendenza: unità, pace e progresso”,  dal 25 giugno al 9 luglio 2015, e per due piccole isole-stato,  con  “Sao Tomé e Principe si presenta”, dal 22 luglio al 4 agosto. La vetrinaromana dell’Expo si arricchisce di nuove presenze, dopo le tante presentazioni di paesi che si sono succedute dall’ottobre 2014 e le tante che seguiranno con un ritmo incessante che vede “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia mobilitata senza ridurre l’impegno nelle altre attività, in particolare la realizzazione delle importanti mostre d’arte nel complesso monumentale. 

Mozambico, un’oasi di pace e di sviluppo

Il Mozambico è  un  paese situato nella costa sud orientale dell’Africa, l’apertura della mostra al Vittoriano avviene nel  40° anniversario dell’indipendenza dal Portogallo, avvenuta il 25 giugno 1975. E per questo è stata preceduta da un Simposio nella Sala Verdi con autorevoli interventi che hanno rievocato quella data fatidica.  L’Italia ha dato il suo contributo per favorire la fine del conflitto e la città di Reggio Emilia  ha dato prove di solidarietà attiva con il popolo del Mozambico durante la lotta per la liberazione nazionale, iniziata il 35 settembre 1964 ad opera del Fronte di liberazione del Mozambico. A Roma il 4 ottobre 1992 è stato firmato l’Accordo Generale di Pace tra il Governo e la RENAMO (Resistência Nacional Moçambicana) con l’appoggio del governo italiano e la mediazione della Comunità di Sant’Egidio..

E’ una delle economie più promettenti dell’Africa, in forte crescita economica da 15 anni, con tassi di sviluppo del 7-8% annui.  Indubbiamente la pace  e la stabilità hanno creato le condizioni favorevoli, che mancano nelle regioni dell’Africa sconvolte da endemici conflitti locali; le riforme economiche del governo hanno fatto il resto. Un’oasi di pace e di sviluppo nell’Africa inquieta.

Le risorse naturali sono alla base dello sviluppo, in particolare quelle minerarie ed energetiche che attirano rilevanti investimenti nella ricerca e trasformazione. I grandi giacimenti di gas naturale e carbone scoperti offrono prospettive sempre più promettenti tanto che il paese si avvia ad essere uno tra i principali esportatori di risorse energetiche; si estrae anche oro e titanio, marmo e zircone. A queste risorse minerarie si  aggiungono  quelle naturali dell”agricoltura e delle foreste con l’agroindustria soprattutto per il fabbisogno alimentare del paese, ma anche con esportazioni di cereali e tuberi, ortaggi e frutta; la pesca e l’acquacultura concorrono allo sviluppo esportando  sui mercati europei ed asiatici. Tre importanti porti, Nacala, Beira e Maputo, sono utilizzati anche a servizio dei paesi vicini senza accesso al mare. 

Ha un ruolo importante l’industria, con iniziative in atto e opportunità di investimenti futuri non solo nei settori di trasformazione delle risorse agricole ed energetiche citate, ma anche nel tessile e nei metalli.

Spicca il ruolo del turismo, per la bellezza dell’ambiente con i 2500 chilometri di costa marittima, le  spiagge incontaminate,  le isole, gli arcipelaghi e i parchi marittimi, come il Parco nazionale dell’Arcipelago di Barazzuto, le isole Querimbas e l’isola di Inhaca di fronte alla capitale Maputu; all’interno  si possono visitare le riserve naturali,  e le riserve di caccia faunistiche, in particolare il Parco di Gorongosa e il Parco del Grande Limpopo. L’Ihle de Mocambique, collegata alla terraferma da un ponte di 3 chilometri,  è stata dichiarata Patrimonio dell’Umanità dell’Unesco nel 1991. Vengono potenziate le infrastrutture viarie ed energetiche in collaborazione tra lo Stato e il settore privato.

I rapporti con l’Italia sono proficui a livello economico, sociale e culturale, Si segnalano gli accordi per favorire gli investimenti e quelli per evitare la doppia imposizione, come l’assistenza fornita dalla cooperazione nei settori dell’educazione e salute, sviluppo rurale e  potabilizzazione dell’acqua. Sul piano culturale, il Mozambico partecipa con i suoi artisti alla Biennale di Architettura e alla Biennale d’arte di Venezia, nonchè al Salone del Libro di Torino.

E, dulcis in fundo, partecipa all’Expo di Milano, nel cluster “Cereali e tuberi”, le sue produzioni leader, con il titolo “Dalla tradizione all’innovazione: nutrire la vita, coltivare i sogni”.  Protagonisti i suoi prodotti tipici, patate e manioca, mais e miglio, dei quali vengono illustrate le caratteristiche e narrata la storia, collegandola alle usanze delle popolazioni. Due percorsi sviluppano la tematica, “Il ruolo delle donne in agricoltura” e “Biodiversità e conservazione dell’ecosistema”.  Va sottolineata  l’estrema varietà delle produzioni alimentari  e insieme l’impegno a ricercare tecniche sempre più efficaci per lo sviluppo produttivo in una presentazione visiva che riproduce la mappa del Mozambico con l’articolazione del suo territorio.

Alla presentazione della mostra in grande rilievo  la figura dell’ambasciatore, Carla Elisa Luis Mucavi. , sfolgorante nel costume tradizionale rilucente oro, ha parlato a lungo della ricorrenza celebrativa  e dei rapporti con l’Italia, non sono mancati gli inni nazionali. 

L’esposizione unisce opere pittoriche sul tipico ambiente africano, e prodotti dell’artigianato artistico, in particolare  sculture di arte makonde, batik, conchiglie, capulane, teli colorati, maschere tipiche e  i caratteristici oggetti in legno. Autori gli artisti del paese Bertina Lopes, Malangatana Valente Ngwcaya e Miguel Rodrigues, e l’artista italiano Angelo Savarese con un’opera sulla bandiera del Mozambico. .

Infine sono esposte opere letterarie di mozambicani residenti in Italia, precisamente Amilca Ismael (La casa dei ricordi, Il racconto di Nadia, Effimera Libertá), Celestino Victor Mussomar (Lo sviluppo integrale endogeno per l’Africa Sub-Sahariana) e Amarildo Ajasse (Conversazioni impossibili – C’era una volta).

La msotra è  a cura di Velia Littera di Pavart in collaborazione con Miguel Rodrigues

Va sottolineato l’impegno profuso nella mostra e nella presentazione, la storica ricorrenza del quarantennale dell’indipendenza si unisce al ruolo avuto dall’Italia, due fattori che ne hanno fatto un evento di notevole portata tanto più che si è svolto in un luogo altamente simbolico come il Complesso monumentale del Vittoriano.  


 Sao  Tomè e Principe, due isole di sogno

Dal Mozambico esteso 800.000 Kmq a due isole, che distano 140 km l’una dall’altra, con isolotti e scogli  per  complessivi 1000 Kmq: 860 circa nell’isola Sao Tomè lunga 65 Km e larga 35,  e 140 circa nell’isola di Principe  lunga 16 km e larga 8.  Siamo nel Golfo di Guinea, a 300 km dalla costa occidentale dell’Africa, l’ambiente è tropicale, la vegetazione  lussureggiante, tra valli, fiumi e torrenti, ci sono anche rilievi montuosi fino a 2000 metri nell’isola di Sao Tomè. 

E’ un paradiso della natura meta di correnti turistiche, ma non solo, per la posizione strategica delle due isole: è posto nelle correnti di traffico verso i mercati emergenti dell’Africa, come Nigeria e Senegal, Costa d’Avorio e Camerun,  Ghana e Angola. Per questo è integrato nella rete  dei mercati dell’Africa occidentale e centrale, oltre a fruire di trattamenti preferenziali con UE e Stati Uniti.

Le riforme politiche e istituzionali, economiche e sociali sono volte a creare l’ambiente più favorevole per gli investimenti nazionali ed esteri. Viene sottolineata la liberalizzazione dell’economia  con le privatizzazioni,  e la sua modernità, tanto che i due terzi del Pil vengono dal settore dei servizi.  Sono  ridotti ai minimi termini i tempi per le autorizzazioni ad aprire un’impresa o iniziare un’attività  nelle costruzioni; inoltre una serie di accordi e garanzie, esplicitamente  richiamati,  rendono gli investimenti sicuri, assicurando la  protezione  e la parità di trattamento nonché la possibilità di trasferire i profitti all’estero seguendo semplici regole e condizioni.

Ma quello su cui si fa leva soprattutto è l’assenza assoluta delle tensioni e dei conflitti che travagliano molti paesi africani e creano per gli investitori notevoli rischi, qui del tutto assenti: non ci sono conflitti sociali, rivalità religiose  né criminalità, è questo “uno dei suoi beni più importanti”.  E viene apprezzato, tanto che il paese è in ascesa nelle graduatorie internazionali.

Questo l’appello: “Il governo lancia una sfida d’internazionalizzazione dell’economia  sao-tomese, invitando a tal fine gli investitori stranieri, per trarre vantaggio dagli attivi strategici che il Paese offre, per farli partecipare a grandi progetti infrastrutturali annunciati e in corso, come l’ampliamento e ammodernamento di porti e aeroporti, la costruzione di porti di trasbordo in acque profonde,  l’esplorazione energetica ed altri.

Una posizione pragmatica e concreta questa, come la sua partecipazione all’Expo nel “cluster” del cacao. Viene presentato un progetto pilota che concilia biodiversità e sfruttamento del cacao nel miglioramento della qualità della vita della popolazione; e indica le nuove forme associative nella produzione del cacao mediante le quali si può creare un nuovo ciclo di economia agricola. Questa la sua risposta alla missione dell’Expo: “Nutrire il Pianeta in modo sostenibile”.

E’ un  messaggio declinato nel padiglione in tre tematiche: l’ambiente naturale, il cacao e la biodiversità; l’ambiente umano,  le piantagioni e l’agricoltura; la biosfera, l’Obo Natural Park,  in relazione con la cultura della felicità in un allestimento architettonico ispirato a cacao e biosfera.

Viene presentato inoltre  il popolo delle isole e il territorio nella sua bellezza, attraverso l’arte in musica  e teatro, danza e arti plastiche, fotografie e video.

InfoComplesso del Vittoriano, Ala Brasini,  lato Fori Imperiali,via San Pietro in carcere.  Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica compresa, ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito, accesso  fino a 45 minuti dalla chiusura.  Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le mostre precedenti al Vittoriano del progetto “Roma verso Expo”, nel 2015, Usa, Haiti e Cuba 3 luglio, Congo e Polonia 28 aprile, Tunisia e Dominicana  25 marzo, Grecia e Germania  22 febbraio,  Estonia  7 febbraio,  Vietnam  14 gennaio; nel 2014, Albania e Serbia  9 dicembre, Egitto e Slovenia 8 novembre.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel complesso delVittoriano il giorno dell’inaugurazione delle due mostre, si ringrazoa Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia , con i titolari dei diritti, e le ambasciate dei due paesi, òper l’opportunità offerta.. Le 5 immagini iniziali sono della mostra del Mozambico, in apertura, un’opera di Bertina Lopes, conclude un’opera di Malangatana Ngwenya Valente; le 5 immagini successive sono della mostra di Sao Tomè, in apertura e chiusura oggetti caratteristici dell’artigianato tipico, al centro raffigurazioni artistiche di vita nelle due isole.  

Montecassino, il “Percorso della Battaglia” simbolo di pace

di Romano Maria Levante

A Montecassino il 2 luglio 2015, nel 70° anniversario della fine della Seconda guerra mondiale,  è stato riaperto il “Percorso della Battaglia”   in quello che fu tra il 1943 e il 1944 l’epicentro del conflitto , culminato con il bombardamento dell’abbazia cui seguirono altri mesi di duri combattimenti sul pendio del costone, fino al Monte Calvario, “quota 593”  dove si è svolta la cerimonia con il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, il sindaco di Cassino Giuseppe Golini Petrarcone, l’ambasciatore  straordinario e plenipotenziario di Polonia Tomasz Orlowski e l’Abate di Montecassino Dom Donato Ogliari. Il percorso che viene riaperto al pubblico inizia nei pressi del Cimitero polacco,  vicino all’abbazia, dov’è il Museo Memoriale del 2° Corpo d’Armata polacco,  e si conclude più in alto presso la grande Stele di pietra posta dai polacchi per celebrare la conquista della cima dopo una battaglia lunga e sanguinosa con più di 1050 caduti. .

Nel Museo Memoriale – inaugurato il  17 maggio 2014 nel 70° anniversario della fine della battaglia,  allorchè la bandiera polacca fu issata sulle rovine dell’abbazia –  è visualizzata l’odissea del 2° Corpo d’Armata polacco, che fu costituito con i sopravvissuti dalle deportazioni in Siberia, dopo le peripezie nel Medio Oriente, fino alla spedizione in Italia, sempre alla guida del generale Anders, che ha voluto essere  sepolto lì con i commilitoni; la sua tomba è posta all’inizio del cimitero monumentale che nella struttura a gradoni richiama Redipuglia,  e molte tra le oltre 1000 croci recano  nastri con la bandiera polacca, a testimonianza del continuo afflusso di parenti e compatrioti per rendere omaggio al loro sacrificio. 

Dal Museo si è passati alla stele commemorativa di “quota 593”,  per la  cerimonia sobria  e intensa che ha accompagnato la riapertura del “Percorso della Battaglia” a Montecassino.  Sobria perché non vi è stato nulla di retorico, intensa perché si sono affollati i ricordi degli scontri sanguinosi intorno all’abbazia benedettina nel più aspro contrasto immaginabile tra la più spaventosa violenza bellica e il più pacifico simbolo di fede religiosa e di concordia umana.

 La violenza bellica si è scatenata dalla terra e dal cielo,  con il bombardamento distruttivo del monastero preceduto e seguito da una cruenta guerra di posizione con migliaia di caduti nel costone di Cassino e nei ruderi dell’abbazia divenuti campo trincerato fino alla cima del Monte Calvario, la “quota 593”  di allora.

Gli interventi del sindaco di Cassino e del presidente  Zingaretti

Proprio sulla “quota 593”, davanti alla grande stele in memoria dei caduti,  si è svolta la manifestazione aperta dagli interventi non rituali delle autorità intervenute, in testa il presidente della Regione Lazio Zingaretti che ne è stato il promotore.

Il sindaco di Cassino Petrarcone ha reso omaggio in particolare al sacrificio dei 1052 giovani polacchi che vi lasciarono la vita e ha ricordato che la sua è divenuta la “città della pace” dopo essere stata teatro della guerra più sanguinosa.

Mentre  il presidente della regione Zingaretti   ha definito Cassino uno dei “luoghi del mondo” assurti a simbolo: dall’odio e dalla distruzione segna il passaggio alla liberazione e alla rinascita, dalla sconfitta dell’umanità al  trionfo dei valori più elevati. Dopo la follia del bombardamento distruttivo il miracolo della ricostruzione “com’era”, e forse anche da qui  ha preso impulso il percorso dell’Europa verso la condivisione pacifica che ha portato alle istituzioni europee;  e una diversa sensibilità a livello mondiale che la guerra non può essere  lo strumento per risolvere le divergenze internazionali . Ha citato l’immagine della bandiera polacca tra le rovine,  un simbolo dell’Europa “che ce la fa”  con i valori della democrazia, del dialogo, della convivenza.

Ha anche riferito  l’evento al momento attuale, con l’Expo milanese che rappresenta  una grande vetrina internazionale per l’Italia. Ebbene, il “Percorso della Battaglia”  cassinese diventa  “un appuntamento che parla al mondo”, invita a meditare sulla storia, su ciò che siamo stati e siamo tuttora, sul fatto che la guerra è solo morte e distruzione. La storia si studia, ma deve essere accompagnata dalla memoria in modo da far sentire come presenti i valori che ne derivano: qui rinascita e pace, dopo distruzione e morte.

Zingaretti  ha concluso inquadrando la riapertura del “Percorso della Battaglia”  nella valorizzazione del territorio facendo leva, oltre che  sulle bellezze naturalistiche e ambientali di cui la regione è ricca, anche su altri elementi come la storia, la religione, la gastronomia: elementi qui presenti tutti a livello di eccellenza. Il “turismo della memoria” è una grande opportunità, non solo alimenta le virtù civili ma anche l’economia.

Al di fuori della cerimonia ha dichiarato che “la Regione Lazio sta rinascendo, ha posto le condizioni per la fine del commissariamento della Sanità”, sta recuperando le  pesanti perdite del passato in modo da poter invertire la tendenza che ha portato alla tassazione più gravosa, è tra le regioni europee in maggiore crescita.

Le opere d’arte inaugurate e le parole dell’Abate di Montecassino 

E’ stata inaugurata nel luogo della memoria la mostra curata da Claudio Libero Pisano,  che ha dato il titolo alla manifestazione, “L’Arte contemporanea lungo il Percorso della battaglia”, con due opere di artisti romani ispirate agli eventi di allora trasformati in metafore.

“Favi di miele”  di Simone Cametti, presenta un’arnia trasparente da cui si segue il ciclo vitale delle api, il più vicino a quello operoso dell’uomo: un richiamo ai valori della vita espressi dai cicli naturali e biologici, in un’armonia e un ordine che l’uomo può smarrire, ma che poi si impongono sulle convulsioni inumane di guerre sanguinose come a Montecassino.

L’altra opera, un’installazione in tre lastre orizzontali, ingloba dei petali la cui fragilità è resa dal colore, è “Un petalo viola su un pavimento di cemento”, di Alessandro Piangiamore, che ha voluto in questo modo semplice evitare di essere intrappolato nelle suggestioni retoriche di un luogo così pieno di storia, ma non ha rinunciato ad un messaggio profondo.  

A quest’opera si è riferito direttamente l’abate di Montecassino Dom Donato Ogliari – presente a tutti i momenti della manifestazione, compreso l’intrattenimento finale – nel suo intervento iniziale, breve ma quanto mai intenso espresso con un tono e una voce dalla quale traspariva la perfetta letizia: “La scultura con i petali di rosa nella colata di cemento è metafora della pace,  delicata ma persistente” –  ha detto –  ricordando che nella totale distruzione dell’abbazia sopravvisse la scritta “Pax”,  un simbolo indistruttibile che ha avuto la forza di resistere al  terrificante bombardamento.

Ne abbiamo parlato con l’abate attuale, trent’anni dopo aver incontrato nel febbraio 1984 l’abate Martino Matronola, che era stato segretario dell’ottantenne abate Diamare  nei momenti tremendi della guerra in cui i frati furono chiamati a decisioni estreme, e lui, che parlava anche tedesco, fu determinante nei contatti con gli occupanti. 

L’abate Matronola non condannò le istituzioni che avevano lasciato i frati soli e abbandonati a se stessi: “Lo Stato italiano era allo stremo – ci disse – e il Vaticano si fidava delle assicurazioni ricevute, della lezione comunque si fece tesoro per altre gravi situazioni”. Rievocò quei momenti senza  risentimento verso gli americani per l’inqualificabile  bombardamento dell’abbazia, disse che la colpa era di Hitler, non solo per avere scatenato la guerra, ma per avere scelto come caposaldo proprio Cassino, esponendo a un rischio mortale l’abbazia benedettina svettante dall’alto sull’epicentro del conflitto con i suoi tesori d’arte e di fede.  Il generale Clark lo chiamò “rischio calcolato”  in una imbarazzata auto giustificazione di un’azione bellica rimasta come macchia indelebile. Anche i tedeschi ne furono sorpresi, come si legge in “La guerra in Europa” di Frido von Senger und Etterlin: “La distruzione dell’abbazia sembrò priva di significato tattico. Restava così solo la delusa constatazione che il tentativo di conservare integra l’abbazia nel bel mezzo del campo di battaglia era fallito. La veneranda casa madre dei benedettini, simbolo di tutti gli Ordini religiosi occidentali, era un cumulo di macerie”.

Va considerato, comunque, che gli americani subirono le pressioni degli alleati bloccati per mesi nella stretta valle di Cassino, che vedevano nell’abbazia in alto l’osservatorio dal quale i tedeschi potevano dirigere il micidiale fuoco delle artiglierie, ossessione rivelatasi poi senza fondamento; furono i neozelandesi a pretendere il bombardamento dagli americani riluttanti, minacciando in caso contrario di abbandonare il fronte, i polacchi non erano ancora arrivati.  Nel mezzo di questi ricordi, volgendosi verso l’abbazia di fronte a noi,  l’abate ci indica gli angoli dell’edificio  dove erano rifugiati i frati sopravvissuti,  pietre angolari della struttura architettonica  che resistettero al crollo rovinoso dell’imponente costruzione.

Dal paradiso all’inferno e ritorno

 Di quell’immane tragedia,  nel segno della memoria cui ha fatto appello con forza Zingaretti, vogliamo rievocare i momenti salienti: il passaggio dal paradiso di pace e serenità dell’abbazia benedettina svettante tra il verde lussureggiante della natura, all’inferno della distruzione sotto le bombe; il  ritorno in paradiso  con la ricostruzione  dell’edificio e del suo contenuto, dal coro ligneo ai marmi intarsiati e ai mosaici, fino ai grandi dipinti  di Annigoni collocati al posto di quelli di Luca Giordano distrutti.

Ecco lo drammatica cadenza dei fatti scandita dagli appunti dello studente Carotenuto che vi assistette dalla collina di San Michele:  “15 febbraio 1944, bombardamento di Montecassino, ore 9,20 – 9,35 – 9,50 – 10,50 – 11,10 – 13,10 – 13,20 (a formazioni di 36)  fortezze volanti 142 e bombardieri medi 112”.  Dopo un mese, il 15 marzo, sul  bombardamento di Cassino,  annota:  “Un ufficiale inglese, amico, mi conferma  che hanno partecipato al bombardamento 1500 aerei sganciando oltre 2500 tonnellate di esplosivo. Subito dopo la fine del bombardamento inizia un terrificante fuoco d’artiglieria che investe la città, la montagna di Montecassino e le zone circostanti”.  L’abbazia  sotto le bombe sembrava   un vulcano in eruzione, dopo il bombardamento  sembrava uno scheletro umano proteso verso il cielo; l’intero abitato di Cassino fu raso al suolo.

L’abbazia aveva subito altre distruzioni, anche se parziali, per opera dei Longobardi nel 577  che si accanirono sul preesistente oratorio di San Giovanni Battista, e  dei Saraceni nell’883  allorché l’oratorio era stato trasformato in una chiesa a tre navate, fino al terremoto del 1349  seguito dalla ricostruzione sei-settecentesca che ha portato all’imponente struttura definitiva.

E’ diventata così un paradiso, non solo di pace e serenità nel verde della natura e nell’abbraccio della fede; ma anche di cultura e di arte, perché il cenobio benedettino ha svolto un ruolo culturale.  

L’ “Inferno a Cassino”, per citare il titolo di un  libro scritto da un ufficiale americano dopo essere tornato sui luoghi della battaglia, è sintetizzato nelle parole dello studente Carotenuto che abbiamo riportato; il ritorno al paradiso è nella pronta ricostruzione per opera dello Stato italiano, senza quei contributi internazionali che sarebbero stati doverosi come riparazioni di un vero crimine di guerra.

 Detto questo, l’opera “Un petalo viola su un pavimento di cemento”  ci porta a rievocare quello che ci viene da definire un “Fiore di roccia” citando il titolo di un premio letterario dell’Associazione Manna: un evento altamente positivo spuntato nel mare di aberrazioni da tutte le parti in campo: perché così vanno qualificate scelte  come il fronte a Cassino e il bombardamento dell’abbazia.

Il fiore di roccia, cioè “Un petalo viola su un pavimento di cemento”,  è stato il salvataggio dei tesori d’arte  e di cultura  ad opera dei tedeschi,  prima del bombardamento ad opera degli americani. Una storia vera  alla rovescia:   i “cattivi”  sono diventati i “buoni”,  nel ruolo dei  benefici salvatori; i “buoni”  sono diventati i “cattivi”, nel ruolo degli spietati distruttori; tra questi  i  frati di Montecassino, inermi e lasciati soli, che da “vasi di coccio” si sono rivelati più resistenti dei “vasi di ferro”  intorno a loro.

E’ una vicenda appassionante, raccontata nel “diario di guerra” di quei giorni, di don Eusebio Grossetti – giovane frate morto alla vigilia del bombardamento – ritrovato quasi integro tra le macerie come furono trovate intatte la cella e la tomba di San Benedetto, eventi miracolosi culminati nel salvataggio dei monaci usciti  illesi; e dal diario  di un protagonista,  don Martino Matronola,  pubblicato dai monaci di Montecassino nel 1980, alle sue nozze d’oro con il sacerdozio.

“Un petalo viola sul pavimento di cemento”:  il salvataggio dei tesori d’arte e cultura

Queste testimonianze vive di cinque mesi drammatici  consentono di ricostruire la mutazione dei “cattivi” in “buoni” , e dei “vasi di coccio” in “vasi di ferro”:  “buoni”  diventarono i  tedeschi che chiesero di evacuare il patrimonio d’arte e cultura  per salvarlo da  eventuali bombardamenti, che però erano ritenuti così improbabili per le assicurazioni fornite dai belligeranti, da far sospettare intenti predatori;  “vasi di ferro” diventarono i frati cassinesi che, superando i gravi dubbi sulle vere intenzioni  dei “salvatori”  – erano della famigerata brigata Goering, specialista nel portare a Berlino le opere d’arte rastrellate -. decisero di assecondare l’evacuazione, controllando  il materiale prezioso nella lunga fase di imballaggio, e  imponendo due monaci di scorta per ogni  autocarro  che lo portava  a Roma. E quando ci fu la sospetta deviazione verso Spoleto del materiale dello Stato italiano nonostante l’opposizione dei frati, questi  riuscirono a mobilitare  l’opinione pubblica internazionale costringendo i  tedeschi  a riprendere la via per Roma  vestendo gli abiti dei salvatori.

La registrazione del materiale fu minuziosa,  si vede dalla precisione della lista fornita da don Matronola a don Leccisotti  mandato a Roma per controllare l’arrivo del materiale in Vaticano. Le  casse della Biblioteca monumentale dello Stato italiano erano 240, quelle dell’Archivio nazionale 154, della biblioteca privata del  Monastero 275,  più diecine di capsule e codici, corali e pergamene, quadri e reliquie; inoltre 187 casse del Museo di Napoli con il Tesoro di San Gennaro, e la preziosa raccolta del Museo numismatico di Siracusa,  che erano state nascoste nell’abbazia per proteggerle dai tedeschi e dai rifugiati all’interno, senza che nessuno  sapesse il contenuto degli imballi. Ha scritto don Matronola:  “Due o tre monaci diversi furono messi al corrente dell’uno o dell’altro ripostiglio, ma nessuno sapeva ciò che vi era riposto; io solo ne avevo l’elenco completo”.

Sulla reale intenzione dei tedeschi restano molti dubbi, avvalorati anche dalla “deviazione” verso Spoleto, dove erano stati inviati da Goering degli esperti per scegliere le opere più pregiate; il  colonnello Schlegel, che ne fu protagonista, nel suo memoriale “Il mio rischio a Montecassino” , se ne attribuisce il merito per amore dell’arte e della cultura, ma l’appartenenza alla divisione Goering lo rende sospetto; mentre l’altro protagonista,  il capitano Becker, si attribuisce il merito di aver vigilato su Schlegel  e anche sui vertici della divisione Goering –  Bobrowski, Jacobi fino al generale Conrad –  dei quali temeva gli intendi predatori, per  scongiurare che  le opere d’arte fossero asportate o  trattenute con il pretesto di  compensare l’opera di salvataggio.

I tedeschi fecero buon viso al cattivo gioco dell’amplificazione mediatica che, se chiudeva ogni possibilità di appropriarsi dei tesori di Montecassino, dava loro agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, l’immagine dei salvatori dell’arte e della cultura dalle dissennate distruzioni del nemico.

Il diario di don Leccisotti,  che trovò la strada giusta nei  palazzi vaticani e nei ministeri italiani per trovare un rifugio sicuro alla massa di prezioso materiale in arrivo da Montecassino, contiene parole risolutive al riguardo: ” Lo Schlegel successivamente attribuì a sé tutta l’iniziativa di questo sgombero e quindi del salvataggio dell’Archivio e della Biblioteca. Pare invece più verosimile quanto sostiene il capitano Becker”.  Più che di una conversione  dei tedeschi ai valori dell’arte e della cultura, si trattò di fare di necessità virtù, a parte il comportamento esemplare  di Becker.

L’epilogo tragico ed eroico

Il 12 novembre 1943 terminò lo sgombero delle opere d’arte e della cultura, e  il maggior numero di frati e suore lasciarono l’abbazia.  Rimasero  dodici religiosi di cui vogliamo ricordare i nomi, in questa giornata  di riapertura del “Percorso della battaglia”  nella quale oltre all’eroismo delle tante vittime va evocato l’eroismo pacifico della pattuglia di monaci che vollero restare nell’abbazia.  Sono l’abate Diamare e fra Pelagalli di 80 anni,; don Matronola, don Graziosi e don Tardone di 40 anni; don Grossetti e don Saccomanno  di 33anni; fra Zaccaria e fra Ciaraldi di 30 anni; fra Colella di 24 anni;  don Falconio del clero secolare e Cianci, oblato.

La loro permanenza ebbe una importante funzione: preservare l’abbazia dall’utilizzazione militare con una fascia  di salvaguardia di 300 metri del tutto smilitarizzata, ed evitare che fossero  presa come postazione di avvistamento nel punto più alto  come volevano i tedeschi. Il clima instaurato con le autorità tedesche consentì ai frati questo miracolo, anche se tutto fu inutile.

Il 13 febbraio 1044 morì don Eusebio Grossetti per una malattia provocata dagli stenti; la quinta armata americana lancia dei volantini, in un ultimatum così commentato  nel diario di don Matronola: “Il nostro cuore è pieno di sgomento nel leggere tale volantino lanciato dai… Liberatori. Anch’essi hanno gettato giù la maschera”. Il giorno dopo, all’inizio del bombardamento,  scrive:   “E’ un inferno. Il più crudele generale non si sarebbe accanito con tanto furore contro la più formidabile fortezza, quanto si sono accaniti in questi giorni gli anglo-americani contro un luogo così santo… moriremo avvinghiati all’altare”.

Termina il bombardamento, mentre crepitano ancora le raffiche di  artiglieria, i nove monaci e i due secolari sopravvissuti escono  tra le rovine in processione con in testa il grande Crocefisso di legno della Stanza dei vescovi;  e i soldati, scrive ancora  Matronola nel suo diario,  “a vedere questo strano corteo preceduto dalla Croce di Cristo sulla linea del fuoco rimangono stupiti e forse commossi”.  Il pensiero torna al Cristianesimo delle origini,  con le profanazioni dei barbari e gli eroismi dei martiri,   fino ai trionfi della fede, come quello vissuto a Montecassino.

Da quel 15 febbraio 1944  sono trascorsi 66 anni. Nella  cronaca della riapertura del “Percorso della Battaglia” abbiamo voluto rievocare anche questo percorso di fede concluso nel trionfo della pace . Perché la conoscenza della storia, come ha detto Zingaretti, non basta: deve essere accompagnata dalla memoria. E nella memoria sono scolpite  in modo indelebile queste immagini, che aiutano a non dimenticare.

Info

Montecassino,  il “Percorso della Battaglia”, dal Cimitero polacco alla Stele in pietra  sul Monte Calvario a “quota 583”,  è riaperto al pubblico da luglio a ottobre, la seconda e quarta domenica del mese, dietro prenotazione di visita gratuita con  le guide di Cassino turismo (www.cassinoturismo.com, info@cassinoturismo.com, tel. 0776.26766) e dell’associazione “Linea Gustav” (www.gustavline.it, info@gustavline.it, tel. 06.23320715).  Sul bombardamento e sulle vicende  che hanno portato al salvataggio delle opere d’arte e di cultura prima della distruzione dell’abbazia, e sul Tesoro di Napoli salvato con l’evacuazione dall’abbazia,  cfr. i nostri articoli:  in cultura.inabruzzo.it, “Il bombardamento di Montecassino” , 15 febbraio 2009, nel 65° anniversario; nel mensile  “Realtà del Mezzogiorno”, “Dal paradiso all’inferno e ritorno”, febbraio 1984, nel 40° anniversario;  in questo sito, “San Gennaro, la mostra del Tesoro alla Fondazione Roma”,  20 gennaio 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese a Montecassino da Romano Maria Levante nel giorno di riapertura del “Percorso della Battaglia”, ad eccezione di quella dell’abbazia dopo il bombardamento, tratta da “blog.ilgiornale.it”, che si ringrazia.  In apertura, l’abbazia di Montecassino vista dal Cimitero polacco; seguono, la visita delle autorità al Museo Memoriale polacco, e un particolare della parete circolare del  Museo  rievocativa della battaglia del 2° Corpo d’Armata; poi due immagini del Cimitero polacco; quindi, particolari delle due opere d’arte inaugurate, “Favi di miele” di Simone Cametti, e “Un petalo viola su un pavimento di cemento” di Alessandro Piangiatore; inoltre, l’immagine terrificante dell’abbazia dopo il bombardamento distruttivo del 15 febbraio 1944 e  l’immagine spettacolare dell’abbazia ricostruita com’era,  ripresa come le altre il 2 luglio 2015 dal Monte Calvario; in chiusura la grande Stele commemorativa in pietra dei Caduti polacchi a “quota 593” sul Monte Calvario, dove termina il “Percorso della Battaglia” e dove si è conclusa la cerimonia del 2 luglio.

Barocco, paesaggio, arredi e feste, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro resoconto della mostra promossa dalla Fondazione Roma“Barocco a Roma. La meraviglia delle arti”, aperta dal 1°  aprile al 26 luglio 2015, con  200 opere, tra disegni e dipinti, sculture e oggetti, e una serie di eventi e percorsi cittadini per una visione estesa anche alle grandi realizzazioni architettoniche. Abbiamo  descritto i protagonisti, artisti e Pontefici, e  i caratteri salienti della “meraviglia delle arti”, passando poi alle prime due sezioni, le “radici del Barocco” e “l’estetica barocca  con Urbano VIII”; successivamente  “la teatralità sacra e civile del Barocco; concludiamo con il Paesaggio barocco, il Barocco domestico, e le Feste barocche. La  mostra, organizzata dalla Fondazione-Roma-Arte-Musei,  è a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli che hanno curato anche  il monumentale catalogo Skira, che contiene 20 saggi .

Il Paesaggio  barocco, lo spettacolo della natura

Passiamo ora al  paesaggio, un  genere di rappresentazione artistica  dominio di artisti nordici, in particolare fiamminghi,  che fu oggetto di importanti innovazioni di artisti locali all’inizio del ‘600. Nel tradizionale “paesaggio con figure piccole” vengono inseriti, osserva Francesca Cappelletti, “elementi naturali e architettonici per definire uno spazio equilibrato, solenne e maestoso adatto allo svolgimento narrativo della storia sacra o della storia antica”.  Il “teatro di Roma” offre motivi unici, con il fascino naturalistico della campagna romana e quello classico dei resti archeologici, reperti della sua antica civiltà: una miscela esplosiva nella rappresentazione come nell’ispirazione.

Così il  paesaggio si afferma, anzi il “nuovo paesaggio” nasce a Roma,  meta dei viaggi di formazione degli artisti stranieri, che al periplo della città facevano seguire quello della campagna  restandone affascinati. Ricordiamo al riguardo la mostra  del Vittoriano  alla fine del 2010 dedicata alle interpretazioni della “Campagna romana”  ad opera di questi artisti.

La 4^ sezione della mostra si intitola appunto, “il paesaggio e il grande spettacolo della natura: un’altra teatralità del Barocco dopo quella urbana delle maestose architetture scenografiche e quella scultorea, con le pose e le pieghe dei panneggi anch’esse da rappresentazione teatrale.

Il paesaggio diventa una forma d’arte con proprie regole e una propria indipendenza, con la base nelle nuove scoperte scientifiche sullo spazio di Keplero e nella concezione filosofica del panteismo di Tommaso Campanella; e con il  riferimento reale costituito dallo scenario naturale. visto nella sua naturalezza classica “in una formula nuova, di commento allo spirito della storia rappresentata e pronta al confronto con le descrizioni  poetiche”, osserva la Cappelletti. Viene applicato il classicismo alla pittura del paesaggio, come rappresentazione di uno “spazio ideale”.

 Gli specialisti nordici continuano a lavorare a fianco degli artisti italiani, e, inizialmente sono gli affreschi nei grandi palazzi la sede di elezione della pittura di paesaggio: vengono dipinte le parti superiori delle pareti fino al soffitto, in fregi di tradizione cinquecentesca ora ispirati al paesaggio con scene di caccia  e pesca ed antichità romane riprodotte con precisione ma assemblate in modo fantasioso. I temi ricorrenti sono scenari boscosi con piccole figure di cacciatori e cavalieri nelle radure del bosco, vedute costiere con acque agitate, ruderi e anche scorci di abitati medioevali. Oltre  alla sommità delle pareti come fregi,  i paesaggi vengono utilizzati per ampliare visivamente  sale e corridoi dando  ad essi un’apertura e una prospettiva da quinta illusionistica..

Dai palazzi alle chiese,  dove i muri vengono decorati  con paesaggi, e così nelle cappelle, in quella di Santa Cecilia nell’omonima chiesa in Trastevere nel paesaggio ci sono gli eremiti; i paesaggi sono lo scenario  di martirii di santi o di meditazioni spirituali, ispiratrice la campagna romana.

 Non solo affreschi, ovviamente,  ma anche dipinti mobili da cavalletto con immagini di castelli e borghi a celebrazione dei casati:  si ricordano le sette grandi tele realizzate nel 1601 da Paul Bril per Asdrubale Mattei con i “Feudi” di famiglia, con piccole figure al lavoro nei campi e altre scene di vita agreste, ci sono vedute, da Rocca Sinibalda a Villa Sacchetti,  aTolfa, che anticipano il genere su cui si distinguerà in seguito Pietro da Cortona.; alcuni particolari come le variazioni luminose nei vari momenti della giornata anticipano la formule di Lorrain di riprodurre gli stessi luoghi a coppie, ripresi all’alba e al tramonto,  con un cromatismo ben diverso.

Il paesaggio per lo più viene idealizzato, ma non mancano le rappresentazioni realistiche della vita quotidiane nelle strade popolate  anche da mendicanti e ladri con scene di violenze e agguati: sono le miserie associate agli splendori, ad opera dei cosiddetti “pittori bamboccianti” con cui fu in contatto lo stesso Lorraine, i cui paesaggi erano invece idealizzati.

La tendenza paesaggistica  si articola nel genere pastorale puro , nel paesaggio storico e in quello romantico, nella veduta di documentazione e in quella fantastica.   “Il paesaggio  di ascendenza classicista è completamente integrato con lo spazio barocco”, osserva la Cappelletti analizzandone  l’evoluzione con riferimento ai singoli artisti.

Poussin e Lorrain sono i massimi  esponenti del paesaggio storico, ma mentre nel primo la natura si coniuga alla storia così strettamente che  il paesaggio ne diventa l’immagine, nel secondo prevale l’abbandono alla natura come ideale classico “in cui si avverte il sentimento bucolico d’ispirazione virgiliana, la serenità oraziana dell’infinito orizzonte”: di Nicolas Poussin è esposto “Paesaggio con Agar e l’Angelo”, 1660-64, immerso nell’ombra, di Claude Lorrain “”Porto con il Campidoglio”, 1736, in cui l’immersione nella natura è tale da inserire un porto, con le barche  e l’acqua, addirittura nella piazza del  Campidoglio.

Il campione dell’evocazione dell’antichità è ” Paesaggio con Dioscuri in un tempio ruinato e il Colosseo nel fondale”,  1630, di Jean Lemaire,  l’abbandono alla romanità è espresso dalle statue e dai ruderi in primo piano con lo scorcio del Colosseo. I resti di un tempio antico dominano  le figure umane nella “Lapidazione di Santo Stefano”, 1620-25, di Cornelio Satiro.  

 Immerso nell’ombra anche il “bello orrido”   del corso d’acqua, con le costruzioni in cima che si stagliano nell’azzurro del cielo  delle “Cascate di Tivoli“, 1660-65, di Gaspard Dughet, tra i più grandi paesaggisti di cui, “en passant”,  ricordiamo l”opera trafugata e rinvenuta negli anni scorsi da parte del Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Artistico. Cognato di Poussin, i suoi personaggi bucolici con pochi elementi danno il senso della vita agreste e sono inseriti in un contesto in cui la natura si esprime in tutte le sue forme, placida e serena, ventosa e in tempesta.

L’oscurità nel primo piano, rotta da bagliori di luce, che poi esplode nella luminosità del cielo azzurro e dello sfondo lontano sono le caratteristiche di altre opere, come “Paesaggio con Silvia e satiro”, 1615-20, del Domenichino,   “Scene di caccia”, 1636-37, attribuito  ad Agostino Tassi, e  “Paesaggio con Galatea”, 1676, di Filippo Lauri.

Impressionante la grande rupe che sovrasta le piccole figure umane, in “Latrona e i pastori della Licia”, 1643-45, di Salvator Rosa, seguace di Poussin, che “concepì la natura come specchio degli stati d’animo dell’uomo “. Altrettanto spettacolare “Il sacrificio di Abramo”, 1599-600 con le due figure, il personaggio biblico  e l’angelo, sospese su uno scenario naturale  vastissimo, autore Annibale Carracci,  cronologicamente siamo ancora alle radici del barocco.

Con  due prospettive marine chiudiamo questa sezione , “Paesaggio con pescatori”, 1678, di Giovanni Francesco Grimaldi. e “Veduta di Nettuno da Porto d’Anzio”, 1686, di Pandolfo Reschi.

Il  Barocco domestico, gli Arredi

L’influenza  del Barocco  non si misura soltanto attraverso la grandiosità delle opere urbane e sacre in cui il “Gran Teatro” esprime i suoi valori  civili e religiosi, e la particolare visione del paesaggio.. Entrò  nella vita quotidiana delle persone, oltre che  con il coinvolgimento nella rappresentazione scenica  delle piazze e del monumenti, delle chiese e dei palazzi,  con oggetti della vita quotidiana ispirati a tale forma d’arte.

Si tratta degli del  “Barocco da casa. Gli Arredi”, cui è dedicata la 5^ e ultima sezione della mostra. Gli arredi delle case nobiliari venivano plasmati in questo  stile, perché il  decoro dei saloni dei palazzi andava adeguato alla loro grandiosità, in modo da essere sontuoso e insieme gradevole. La trasposizione del Barocco negli Arredi si afferma soprattutto nella seconda metà del secolo, e si traduce in linee sinuose,  con  materiali  molto pregiati, che comprendono anche pietre e metalli preziosi,  dorature diffuse. 

Anche  Bernini si impegnò nel progettare articoli per la vita quotidiana, come letti e carrozze, fino alle piccole statue ornamentali.  Venivano realizzati in stile barocco candelabri inginocchiatoi in campo religioso,   armi e orologi,  apparecchi scientifici e  strumenti musicali in campo civile. 

Così termina la scheda dei curatori su questo aspetto conclusivo del barocco: “Per questo il barocco esprime una completezza e una modernità impressionanti, tanto da definire la concezione artistica dei suoi componenti con al celebre frase di Le Corbusier: ‘Dal cucchiaio alla città'”. E ci sembra una sintesi quanto mai efficace che dice tutto su questa forma d’arte onnicomprensiva, dal  religioso al civile, dalla grandiosità urbanistica alla quotidianità più raccolta.

Apre la galleria del “Barocco da casa” l’“Arpa Barberini” , della prima metà del ‘600, la colonna che regge le corde è  in legno scolpito con figure sovrapposte dorate; è esposto anche un “Modello di cembalo con rappresentazione scultorea di Polifemo e Galatea”,in legno e terracotta dorata con le figure che reggono la cassa armonica.

Strumenti musicali, dunque, ma addirittura anche attrezzi agricoli come la “Coppia di falcioni“, 1605-20, in ferro con agemine di argento e oro, e velluto rosso;  tre disegni di Johann Paul Schorr presentano la “Galleria con loggia” e due progetti,  “Carrozza”  e “Letto di parata per la nascita dell’erede Colonna”, dove troviamo tutta la pomposità del barocco.

In due vassoi sono riprodotte le immagini pittoriche della “Fuga in Egitto“, del Domenichino, e del “Battesimo di Cristo” di Filippo Lauri, ci sono anche  tre “Mute di cartagloria”,  preziosi  oggetti espositivi di minute pergamene, in argento e bronzo dorato, lapislazzuli e pietre vitree.

Dopo i piccoli oggetti, i più grandi: un “Inginocchiatoio con la deposizione di Cristo”, 1670-80, di Domenikus e Franz Stainhart,  in ebano, avorio e argento con un grande bassorilievo, e   un monumentale “Orologio notturno”, 1682, alto 140 cm, di Pietro Tommaso Campani, in rame, bronzo dorato e pietre dure, con una scena  di angeli e altre figure riprodotta sul quadrante.

Gli ultimi oggetti esposti del “Barocco da casa” sono un “Tavolo parietale”, 1650-75, e un  “Faldistorio“, 1675-1700, entrambi in legno intagliato, scolpito e dorato.

Gli eventi  e percorsi collegati alla mostra

Così si conclude il grande spettacolo presentato al Palazzo Cipolla  del Barocco racchiuso nello spazio di un ambiente espositivo:  sembrerebbero minimali il tavolo e lo sgabello, mentre esprimono la pervasività del nuovo stile dalle grandi architetture agli oggetti di uso comune sia pure negli ambienti nobiliari.  Per il resto ci sono  le destinazioni indicate nelle irradiazioni della mostra verso diverse direzioni cittadine a completare il vasto affresco che viene fornito: anzi, per restare nella  teatralità di cui si è detto, per seguire i successivi atti della grande rappresentazione teatrale a cielo aperto che è il Barocco a Roma,

Il percorso del Vaticano è il più spettacolare,  comprende i Musei Vaticani, il Palazzo Apostolico e la Basilica di San Pietrocon  il monumentale Baldacchino, e il maestoso Colonnatodella piazza.

Di grande interesse i siti barocchi  della città che, anche se già conosciuti, possono essere rivisitati con maggiore consapevolezza dopo aver approfondito con la mostra gli aspetti salienti di questo stile aulico e teatrale. Entra in campo il Borromini  nell’Oratorio dei Filippini e nella Cappella dei Re Magi nel Palazzo di Propaganda Fide, fino al complesso di Sant’Ivo alla Sapienza. 

Palazzo Barberini, con le due scalinate monumentali di Bernini e Borromini, è una delle espressioni più significative, e ne abbiamo già parlato rispetto ai disegni in mostra, ci sono oltre 30 sale della Galleria nazionale di Arte Antica che espone un gran numero di dipinti di epoca barocca.

La visita ai Musei Capitolini consente di vedere i monumenti per  Urbano VIII e Innocenzo X, di Bernini e Algardi, e la “Medusa” di Bernini, nonché alcuni capolavori di Carracci e Domenichino, Guido Reni e Guercino, Salvatore Rosa e Van Dyck, e la grande sala dedicata a Pietro da Cortona.

Poi le mostre organizzate  in ambienti barocchi, come ad Ariccia nel Palazzo Chigi  la  mostra su “Ritratto e figura da Rubens a Giaquinto” nel periodo barocco, e quella presso  l’Archivio di Stato che presenta la Biblioteca Alessandrina con il titolo “La fabbrica della sapienza”.

Un discorso a sé merita la mostra a Palazzo Braschi  sulle “Feste barocche”, perché rappresentano un’altra manifestazione della pervasività del Barocco nella vita dell’epoca,  e questo crea un parallelo con l’altro movimento italianissimo, radicalmente diverso, che fu il futurismo, anche lì furono coinvolte non solo le arti, ma anche la vita quotidiana con le serate e feste futuriste.

Le feste barocche

Abbiamo visto la mostra di Palazzo Braschi, con incisioni dell’epoca molto espressive: ricordiamo le acqueforti di Claude Lorraine con le macchine pirotecniche realizzate in Piazza di Spagna per festeggiare l’elezione di Ferdinando III “Re dei Romani”, 1637,  raffigurate come vulcani in eruzione, e l’incisione con la visione teatrale dell’Interno della basilica di San Pietro per la canonizzazione di Elisabella del Portogallo, 1625, di autore anonimo.  

L’analisi di Silvia Carandini consente di cogliere “le relazioni, i passaggi, i nessi delle tipologie del cosiddetto ‘effimero’  (che poi tanto effimero non è risultato) allo ‘stabile’ (le opere, i luoghi, le istituzioni e viceversa”.  Erano le “feste”  un effimero così radicato da venire definito “il tessuto connettivo”  del  Barocco, la cornice immancabile degli eventi  religiosi, politici e culturali: “Una condizione imprescindibile per comprendere le articolazioni di quel fenomeno, un contenitore inesauribile di invenzioni formali, di soluzioni urbanistiche e architettoniche, una matrice sperimentale di pratiche, di comportamenti, di modalità e di tecniche dello spettacolo”.

In campo religioso le Feste barocche  si inquadrano nella ripresa del culto dei santi e nella qualifica di   Roma come “città santuario”  nella quale i Giubilei e gli altri eventi  del culto venivano celebrati abbinando al fascino dei luoghi la forza emotiva  di pratiche devozionali volte al coinvolgimento emotivo dei pellegrini accorsi in massa in quella che per il lusso venne definita “nuova Babilonia”.

Le opere architettoniche promosse  dai pontefici che si sono succeduti nel XVII secolo creavano l’ambiente ideale per il moltiplicarsi  delle “realizzazioni dell’arte effimera del teatro e della festa che, a ritmo serrato, quasi quotidianamente, coinvolge parti diverse del tessuto urbano”;  vi erano impegnati “oltre ai grandi operatori del Barocco romano, cantanti e musicisti, attori, letterati e scenografi esperti di feste nelle corti settentrionali”  accorsi al richiamo della “città eterna”.

I due centri di irradiazione delle “Feste barocche” erano la Chiesa e il Campidoglio, ma erano attivi committenti anche i nuovi ordini religiosi e le congregazioni, i seminari e i collegi,  l’aristocrazia pontificia, e in particolare i cardinali, sul versante religioso; le ambasciate straniere e le accademie, le istituzioni e le organizzazioni della vita civile sul versante laico. Queste feste  si svolgevano non solo nelle grandi occasioni, come all’avvento di un nuovo Pontefice, ma anche nelle cerimonie ristrette, nelle chiese, oratori e  collegi, sedi di manifestazioni spettacolari con addobbi sontuosi.

Nella città si diffondono “i centri di potere della vecchia e della nuova aristocrazia, le rappresentanze straniere. Ogni palazzo, cortile, giardino, ogni via e piazza di Roma si fanno scena, a volte esclusiva, per eventi che riguardano la vita (nascita, matrimonio, guarigione, morte), i passatempi (spettacoli teatrali, giochi cavallereschi), le celebrazioni (ingressi in città, vittorie, conversioni, fatti eclatanti) dei grandi signori di Roma nonché dei sovrani dell’Europa intera”, precisa  la Carandini.

E con questa evocazione delle Feste barocche  attraverso un evento satellite alla mostra si conclude in modo pirotecnico, come nelle incisioni di Lorraine prima citate, la rassegna della “meraviglia delle arti”   nel XVII secolo di cui alla grande esposizione e ai percorsi connessi. Per tutto quanto abbiamo visto e conosciuto,  la definizione finale  che Emanuele dà del Barocco ci sembra  un sigillo appropriato: “Un movimento inesauribile ed esemplare che tutto il mondo ci invidia”.

Info

Fondazione Roma Museo, Palazzo Cipolla,  via del Corso 320. Lunedì ore 15,00-20,00, da martedì a giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-21,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso, intero  euro  12,00, ridotto euro 10,00 (fino a 26 anni e oltre 65, e per militari, studenti convenzionati,  e gruppi), scuole euro 5 ad alunno, altre riduzioni in giorni speciali e per famiglie. Tel. 06.22761260, http://www.mostrabaroccoroma.it/ e www.fondazioneromamuseo.it, . Catalogo “Barocco a Roma. La meraviglia delle arti”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, Skira, marzo 2015, pp. 447, formato 24 x 28, dal quale sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra attuale cfr. in questo sito i  primi due  articoli  il    Per le precedenti mostre citate nel testo,  cfr. i nostri articoli:   in questo sito   su “Il Rinascimento a Roma. Nel segno di  Michelangelo e Raffaello” il   12, 14, 16 febbraio 2013, su “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”  il 5, 7, 9 febbraio 2013, sul “Guercino”  il 15 ottobre 2012;  in http://www.antika.it/  su “Roma e l’antico. Realtà e visione  nel ‘700”, il  3, 4, 5  marzo 2011;  in “cultura.inabruzzo.it” i due articoli  per la mostra sulla “Campagna romana” l’11 febbraio 2010.    

Foto

Le immagini in parte sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Palazzo Cipolla, in parte fornite dalla  Fondazione-Roma-Arte-Musei che si ringrazia, In apertura, Salvator Rosa, “Latrona e i pastori della Licia”, 1643-1645; seguono, Johann Adolg Gaap, “Muta di cartegloria”, 1699, e Giacinto Brandi, “Lot e le figlie”, 1684-1685; poi “Arpa Barberini”, prima metà XVII sec., e Giovanni Battista Beinaschi, “Chronos”, 1675-1680; quindi, Gian Lorenzo Bernini, “Ritratto di papa Alessandro VII Chigi”, 1657, e Pietro Tommaso Campani, “Orologio notturno”, 1682; inoltre Baciccio, “Giustizia, Pace e Verità”, 1667-1672, e Dominikus-Franz Stainhart, “Inginocchiatoio con la deposizione di Cristo”, 1670-1680; in chiusura, un angolo della mostra con Francois du Quesnoy, “Busto di Santa Susanna”, post 1633 a sin, fusione d’epoca da modello di Alessandro Algardi, “Madonna con il Bambino (Vergine del Rosario)”, 1650, ia dx, terracotta di Alessandro Algardi, “Riposo durante la fuga in Egitto”, 1636, al centro.  

Stati Uniti e Cuba, con Haiti, al Vittoriano per l’Expo

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, tra la fine di maggio e l’intero mese di giugno  2015 una sfilata di stati americani nel programma di presentazione dei paesi presenti all’Expo di Milano nella vetrina romana: tra Haiti dal 22 maggio al 5 giugno 2015, e Cuba, dal 10 al 23 giugno, gli Stati Uniti dal 27 maggio al 9 giugno. La staffetta con Cuba ha anticipato, in senso opposto, quella che ci sarà alla visita del Papa in settembre, con lo storico passaggio da Cuba agli USA dopo l’altrettanto storica ripresa dei rapporti diplomatici tra loro resa possibile dall’intervento decisivo di Papa Francesco.

Haiti ha fatto da apripista alla staffetta del Vittoriano, che conferma l’importanza dell’iniziativa di presentare nella Città eterna, e nel suo prestigioso monumento-simbolo, i paesi presenti all’Expo che partecipano alla grande esposizione mondiale sull’alimentazione e le molteplici declinazioni a livello di risorse e di iniziative, di peculiarità e di tecnologie, nonché di problematiche.

Continua la nostra rassegna, dopo aver dato conto degli altri paesi che si sono presentati al Vittoriano, a partire dal settembre 2015, mentre altri hanno si sono avvalsi dell’appositi spazio all’Aeroporto Leonardo da Vinci: una proficua collaborazione tra le due maggiori città italiane per un evento di rilevanza nazionale sul piano organizzativo ed economico, e risonanza mondiale sul piano dell’immagine e attrattiva: dei 30 milioni di turisti previsti, una parte rilevante è di stranieri.

Haiti, dalla terra al tavolo

La mostra di Haiti si intitola “Dal suolo al tavolo Haiti si rialza”, con riferimento al sisma distruttivo che cinque anni fa ha devastato la splendida isola delle Antille, la seconda dopo Cuba, scoperta da Cristoforo Colombo che chiamò l’approdo “Molo Saint Nicholas”, dove è stato rinvenuto il relitto  della terza caravella, la Santa Maria. Per l’epoca attuale viene ricordato l’impegno profuso nella ricostruzione con grandi risultati, ottenuti anche con l’aiuto della comunità internazionale;  per il passato si sottolineano con orgoglio gli aiuti prestati ai paesi in lotta per l’indipendenza e la libertà, come la  Colombia di Bolivar e gli stessi Stati Uniti.

Nell’immaginario collettivo restano le leggende del tesoro dei pirati dell’isola di Tortuga e tante storie avventurose; nella realtà c’è una nazione di 10 milioni di abitanti che produce i frutti della sua terra rigogliosa per il consumo interno e le esportazioni, portati appunto “dalla terra alla tavola”: i tuberi e i cereali, le radici e i frutti esotici, il caffè  e il rhum  sono tra le principali produzioni.

Oltre a queste specialità locali della terra, ne vengono presentate altre della cultura: l’artigianato e l’arte naif di Haiti sono noti dagli anni ’40, si sono aggiunti artisti contemporanei che utilizzano materiali di riciclo, per i quali è sorta la scuola del maestro Jolimeau, altri che impiegano le perle e i tessuti con ricami raffinati, gli scultori e gli stilisti.  Infine letteratura e musica, per quest’ultima va segnalata la musica kompa, che unifica, in un sound divenuto tipico per Haiti, musica e ritmi africani e indiani, francesi, spagnoli e americani. Un sincretismo che si ritrova sul piano linguistico, religioso e infine gastronomico.

All’Expo la gastronomia haitiana è valorizzata, nella mostra al Vittoriano sono presentate delle testimonianze visive che fanno vedere alcuni aspetti significativi della loro cultura e gastronomia.

Cuba e la cultura nei rapporti con l’Italia

Da Haiti a Cuba: dista 70 Km dalla seconda isola del meraviglioso arcipelago, si presenta con le parole di Cristoforo Colombo: “Questa è la terra più bella che occhio umano abbia mai visto”. A cui gli organizzatori aggiungono questa descrizione che ne magnifica le componenti: “Autentica, come la sua gente; affascinante, come le sue spiagge; sorprendente, come le sue città; contrastante, come la sua natura; e ammirevole, come la sua cultura. Cuba è sintesi di ricchezze” E ancora: “Eterogeneo miscuglio di razze e conoscenze, di stili e ritmi, di profumi e sapori, questo arcipelago magico impone il suo fascino e sparge per il mondo quel sussurro provocante che, ogni giorno, attira sempre più visitatori avidi di viverlo pienamente e intensamente”.

Ma nella presentazione al Vittoriano, alla presenza dell’Ambasciatore di Cuba Alba Beatrix Soto Pimentel,  più che questi aspetti esotici della “perla delle Antille”, vengono sottolineati gli aspetti culturali, tanto che la mostra si intitola “Iniziative di cultura, architettura e società”,  con particolare riguardo ai  legami con l’Italia: da vent’anni l’Arci e l’Unione degli Scrittori e Artisti di Cuba organizza un Premio letterario dedicato a Italo Calvino, nato a Santiago Las Vegas, e nel 2013, nei 90 anni dalla nascita, è stato pubblicato in spagnolo il suo libro “Le città invisibili”, inedito per Cuba, illustrato dall’artista cubano Sàndor Gonzàles Vilar; insieme una raccolta di saggi critici anch’essi inediti.

Dal 1993 vengono realizzate rassegne del cinema italiano con la partecipazione dei registi più famosi, ed eventi musicali, come quello del maestro Claudio Abbado, definito memorabile.

Altra espressione che viene citata ampiamente per sottolineare i legami con l’Italia riguarda le Scuole d’Arte progettate dagli architetti italiani Roberto Garatti e Vittorio Gottardi con l’architetto cubano Ricardo Porro, all’insegna delle parole chiave degli anni sessanta: utopia  e fantasia, progetto e rivoluzione.  Nella mostra  grandi pannelli rievocano questa iniziativa che ha creato l’Istituto Superiore d’Arte dal grande valore non solo architettonico e artistico ma culturale e sociale per il ruolo nella formazione di artisti contemporanei.

Gli Stati Uniti con l’arte culinaria di Pollock

E siamo giunti agli Stati Uniti, ci passiamo da Cuba, come farà Papa Francesco a settembre.

Anche questa presentazione è sorprendente,  per altro verso,  rispetto a quella di Cuba. Nessuna illustrazione del grande paese, non ce n’è bisogno, ma l’impegno ad “accettare la sfida della sicurezza globale del cibo e a cercare un modo sostenibile affinché tutti prosperino nel futuro, generazione dopo generazione”.  Questo non poteva mancare, come la valorizzazione del grande padiglione al’Expo, 3000 metri quadri con una delle più vaste “fattorie verticali” del mondo, che “mette in risalto l’industria, i prodotti e l’imprenditoria americani nell’ambito di sostenibilità, nutrizione e salute”.

In aggiunta viene  rivendicata su un piano ancora più generale l’ estrema sensibilità al problema dell’alimentazione, al punto che la stessa First Lady Michelle Obama si è impegnata  in una campagna volta a migliorare le abitudini alimentari dei giovani americani per una vita più sana; nello stesso tempo si puntualizza che è sbagliato identificare il cibo americano con il famigerato “fast food”: la cucina americana è invece molto ricca e genuina, e non potrebbe essere altrimenti considerando le radici etniche del paese e il “melting polt” dell’immigrazione che ha unito alle tradizioni dei nativi quelle degli immigrati da ogni parte del mondo.

A questo punto il colpo di teatro, la mostra “Dinner with Jackson Pollock. Ricette, Arte & Natura”. E’ una straordinaria sfilata di 50 immagini di piatti culinari prediletti dal grande artista, dalla rivoluzionaria pittura gocciolante, che alla passione per la pittura univa quella per la cucina in cui si impegnava personalmente; nonchè immagini della natura rigogliosa..

Nella residenza di Springs, a Long Island, dove si ritirò con la moglie Lee Krasner nel 1945, offriva agli ospiti pane e torte di mele, da lui cucinati al forno, e una vasta serie di altri  piatti ricavati dalle ricette  più diverse, dalle zuppe ai budini, oltre un centinaio, che utilizzava la madre Stella, e lo avevano affascinato in gioventù.  La famiglia della moglie, emigrata in Usa, all’inizio gestiva una bancarella di frutta e verdura  a Brooklyn. Aveva portato le ricette dei cibi ebraico-ucraini della nativa Odessa, ma presto Lee se ne affrancò adottando la cucina del Mid Est e del New England con in più dei piatti francesi; però restò sempre nel loro menu  il “bling”, un focaccina senza te,ievito, dell”usanza ebraica, da mangiare con formaggio e pesce fritto.

Il libro da cui deriva la mostra ripercorre la quotidianità di Pollock in cui il cibo occupa un ruolo importante, non solo come preparazione dei paitti ma anche come approvvigionamento di prodotti e ingredienti natutrali genuini presi direttamente.  Non solo questo, viene rievocato il viaggio che fece attraverso l’America nel periodo della Grande depressione, a diretto contatto con la miseria e la fame prodotte dalla crisi finanziaria ed economiva.

Il ricettario, trascritto da lui e dalla moglie, è stato trovato dalla fotografa internazionale Robyn Lea, che ha iniziato la sua attività a Milano nel 1990 per poi esporre in dieci mostre personali e numerose collettive. 

E allora le ricette sono diventati piatti cucinati come avrebbe fatto Pollock e fotografati per dare un’immagine visiva quanto mai aderente alla realtà vissuta dall’artista e ricostruita nel suo manoscritto; e anche per riaffermare la genuinità e la tipicità del cibo americano.

In questa prospettiva viene sottolineato come Pollock ricavava direttamente dalla natura gli ingredienti per i suoi piatti, coltivando l’orto e prendendoli dai campi, dai boschi e dalle acque che costituivano l’ambiente ancora incontaminato in cui viveva.

Tutto questo viene espresso nella mostra al Vittoriano con 50 immagini che formano un vero caleidoscopio di colori e fanno avvertire i sapori di quei piatti cucinati con le ricette originali descritte puntualmente. Ci sono anche immagini dei suoi pennelli, le sue pitture sono celebri, la considerazione del suo valore artistico è unanime;  ma ora protagonisti sono non i dipinti ma i cibi di Pollock e l’ambiente  da cui ricavava gli ingredienti, c’è anche un’immagine del suo cottage nella natura.

Laa cucina può diventare un’arte, la mostra e il libro dimostrano che anche in quest’arte eccelleva, come in quella pittorica..

Info

Complesso del Vittoriano, Ala Brasini,  lato Fori Imperiali,via San Pietro in carcere. . Tutti i giorni, dal lunedì alla domenica compresa, ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito fino a 45 minuti dalla chiusura.  Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le mostre precedenti al Vittoriano del progetto “Roma verso Expo”, nel 2015,  Congo e Polonia 28 aprile, Tunisia e Dominicana  25 marzo, Grecia e Germania  22 febbraio,  Estonia  7 febbraio,  Vietnam  14 gennaio; nel 2014, Albania e Serbia  9 dicembre, Egitto e Slovenia 8 novembre ; per Pollock, cfr.,  in questo sito, i nostri articoli per la mostra sui capolavori del Guggenheim, il 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Vittoriano alla presentazione delle tre mostre da Romano Maria Levante, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare le ambasciate dei tre paesi  e Robyn Lea per Pollock.  In apertura, un’immagine con i pennelli di Pollock; seguono, per Cuba, 2 immagini delle scuole d’arte progettate dagli architetti italiani Garatti e Gottardi con il cubano Porro alternate a due  illustrazioni di Sàndor Gonzales Vidàl del libro di Calvino “Le città invisibili”; quindi per gli Usa, pentole e  ingredienti per la cucina di Pollock seguiti da  4  foto dei piatti  basati sulle ricette da lui utilizzate; in chiusura, il suo cottage nella natura lussureggiante

Barocco, la teatralità sacra e civile, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Prosegue il nostro resoconto della mostra al Palazzo Cipolla al Corso, promossa dalla Fondazione Roma“Barocco a Roma. La meraviglia delle arti”, aperta dal 1°  aprile al 26 luglio 2015, con circa 200 opere, tra disegni e dipinti, sculture e oggetti, ed eventi e percorsi associati per completarne la visione nelle grandi realizzazioni architettoniche che ne sono l’aspetto dominante. Abbiamo già presentato la mostra con i protagonisti, artisti e Pontefici, i caratteri della “meraviglia delle arti” e le due prime sezioni, le radici del Barocco e l’estetica barocca sotto Urbano VIII; ora la grande teatralità religiosa e civile, in un momento successivo il paesaggio barocco e il barocco da casa fino alle feste barocche. La  mostra, organizzata dalla Fondazione-Roma-Arte-Musei,  è a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli come  il monumentale catalogo Skira con  20 saggi.

Fu un’azione mediatica quella volta  a trasformare i monumenti romani in “modelli universali”. Così Sebastian Schutze  parla delle “strategie mediali” con i loro effetti moltiplicativi:  “Una miriade di Apes Urbanae, artisti e artigiani, scienziati, antiquari e storiografi, musicisti, letterati e poeti raccolti alla corte di Roma, che vantavano le glorie del papa poeta e delle sue imprese artistiche” , produssero anche un ricco corredo di tavole “diffondendo non solo l’immagine della reggia  barberiniana nelle corti d’Europa, ma creando anche un modello di rappresentazione che venne presto imitato a Firenze e a Torino, così come a Parigi e a Vienna”.

La  visione teatraledei nuovi  complessi architettoniciaveva un fondale unico: i monumenti e i reperti della Roma antica che davano alla scenografia complessiva un fascino incomparabile.

La teatralità sacra e civile del Barocco

Due citazioni  di critici contemporanei  aprono il saggio di Marcello Fagiolo sul “‘Gran Teatro’ della Roma di Bernini”. Charpentrat nel 1964 ha definito il primo Barocco “l’arte di una Roma pacifica in mezzo a un’Europa sconvolta, in una Roma coscientemente legata alla sua storia”; nel 1985  Maravall:  “Il Barocco  è tragico… ma il Barocco è anche l’opera della festa e dello splendore. Il carattere di festa non elimina il fondo di acredine e di malinconia, di pessimismo e disinganno. Il Barocco  vive questa contraddizione, rapportandola alla non meno contraddittoria  sua esperienza del mondo sotto la forma di un’estrema polarizzazione di riso e pianto”.

Questa è la polarità della vita  e la peculiarità del teatro come “luogo d’incontro tra arte e vita”;  il teatro era una forma di spettacolo molto diffusa nelle città del  Barocco e soprattutto a Roma che, ha scritto Portoghesi, “era essa stessa un teatro vivente: “Una sorta di gigantesco spettacolo storico in cui una popolazione eterogenea recitava la sua commedia quotidiana”.

Di tale teatro  Gian Lorenzo Bernini fu la figura più rappresentativa:  uomo di spettacolo oltre che architetto, scultore, e pittore tanto che, ricorda  Fagiolo  con una citazione d’epoca, “intorno al 1644 rappresentò un’opera ‘in cui  dipinse le Scene,  scolpì le Statue, inventò le Macchine, compose la Musica, scrisse la Commedia e costruì il Teatro, tutto lui stesso”.

Il teatro incarna “il maraviglioso composto delle arti, la sua concezione incentrata sull’ ‘unità delle arti visive'”, e Bernini  diventa l’interprete ideale dell’arte  barocca che ne è il compendio, divenendo “il coordinatore e regista di vaste équipe di pittori, scultori, fonditori, stuccatori, scalpellini”: la basilica di San Pietro  viene allestita dal “dio del Barocco” come un Teatro sacro.

Ed  ecco le componenti della vasta rappresentazione teatrale del Barocco , identificate da Fagiolo nelle opere del Bernini. “L’arcoscenico, cioè la cornice architettonica che inquadra la scena teatrale è presente in filigrana in tanti ‘teatri’ sacri o civili: dalle cappelle berniniane fino agli  archi trionfali effimeri, attraversati dai cortei e dalle processioni”.   Mentre il “drappo”, da lui spesso inserito, rappresenta non solo un motivo celebrativo, ma anche un “sipario festoso”. Dalla sua concezione dello spazio al servizio della rappresentazione nasce un’altra componente: “La candida architettura marmorea è un palcoscenico votato alla valorizzazione delle tre arti. Gli accenti  più forti emergono nei risalti delle pareti, con funzione di quinte sceniche, e nell’intensa luminosità a effetto”.

 Bernini mette in scena quella che viene definita “una straordinaria fenomenologia della luce” plasmandola artificialmente:  nelle sue realizzazioni troviamo la “luce-riflettore”  e la “luce dall’alto”, la “luce laterale” e il “controluce”. “La luce, protagonista assoluta della recita divina, si manifesta in tutte le forme possibili”, arricchendo la rappresentazione teatrale di effetti suggestivi.

“La  chiesa diventa teatro”, dunque, “teatro totale”, e non manca il “teatro  nel teatro”; in questo contesto, nel suo culmine “la rappresentazione sacra è concepita come una ‘pala d’altare teatralizzata’”.

Alla “teatralità sacra e civile del Barocco”,  la mostra dedica la 3^ Sezione, ricca di opere che spaziano dall’architettura alla scultura alla stessa pittura, anche se questa forma d’arte appare quasi  sovrastata dalle imponenti  evidenze architettoniche e dalle sculture.

Vediamo raffigurati i vasti spazi scenografici della basilica i San Pietro, nel dipinto ad  olio  “Processione del Corpus Domini in Piazza San Pietro”, 1641-46, e nell’acquaforte “Cerimonia per la canonizzazione in San Pietro di san Francesco di Sales”, 1665, di Giovanni Battista Faida; il “Modello del terzo braccio del colonnato di San Pietro”, 1720, dell’architetto Specchi e del falegname Borioni è esposto nella sua consistenza lignea.  

Non solo San Pietro, sono esposte  anche due acqueforti del XVIII secolo altrettanto teatrali: “Piazza Santa Maria della Pace”, di Giuseppe Vasi, e “Santa Maria Maggiore”, di Filippo Vasconi;  la “Pianta del pavimento di Sant’Andrea al Quirinale” completa questa testimonianza artistica della teatralità nell’architettura religiosa.

C’è poi la teatralità civile, in parallelo con quella sacra.  E  qui entra in scena il “Gran Teatro della Roma di Alessandro VI” Chigi, 1635-67, descritto da Fagiolo con la stessa accuratezza partendo dalla sua “opera di ri-fondazione della città, nella continuità tra Roma antica e Roma moderna”, così vasta e profonda da farlo accostare al fondatore Romolo: “La ‘ri-fondazione’ della città si poneva nel segno di un autoritratto del pontefice edificatore: Roma, in omaggio al papa, diventava una novella ‘Alessandria’ città ecumenica e capitale di un mondo di cultura e di religione, superiore alla stessa Alessandria d’Egitto fondata da Alessandro Magno”.  In quest’opera il Pontefice era impegnato al punto di partecipare tutte le fasi, dalla progettazione, anche con propri disegni, alla realizzazione incontrando gli artisti e gli altri esecutori e verificando l’effetto complessivo sull'”imago urbis”  mediante un modello in legno  che teneva  addirittura in camera da letto.

Il suo pontificato veniva esaltato come “solare”: in questa visione, “il Papa, Sol Pacifer, avrebbe visto la congiunzione di Iustitia e Pietas”  Non era mera esaltazione di  cortigiani, lo stesso Bernini  lo  definì un “Principe assomigliato al Sole che con i raggi illumina e riscalda”. Con la sua opera Roma diveniva il “Gran Teatro dl mondo” con le qualificazioni encomiastiche di “Gran teatro delle meraviglie” e “favoloso Campidoglio del Teatro delli stupori”.  Ancora teatro, e non più sacro.

L’intento era di procedere alla “renovatio o instauratio Romae”, restaurando l'”imago urbis” in continuità con l’antico. In questo grande progetto rientra il rinnovamento di Piazza del Popolo terminale delle due vie consolari principali che portavano nella città, Flaminia e Cassia, mediante la realizzazione di due chiese gemelle, viste come “propilei” “ad ornato della città e della piazza”; la sistemazione dell’antico asse viario che vi si innesta  con il “Nuovo Corso alessandrino” , fino a Piazza Colonna divenuta “Foro chigiano” , “ippodromo cittadino nei giorni di festa”. Vediamo esposti un “Progetto per piazza del Popolo e le due chiese”, 1660-61 di Carlo Rinaldi,  e  “Piazza del Popolo verso il 1640“, di Johannes Lingelbach.  .

Si pensava di intervenire anche sui grandi monumenti antichi, addirittura si progettò di decorare l’interno della cupola del Pantheon con gli “elementi chigiani” inseriti nei cassettoni intorno all’oculo centrale visto come il sole, circondato di stelle;  e   Bernini progettò di portare la Colonna Traiana a Piazza Chigi  a fianco della Colonna Antonina  come due “colonne d’Ercole”, “e di farvi due fontane che avrebbero allagato tutta  la piazza che, in tal modo, sarebbe diventata la più bella di Roma”. Vediamo esposti, entrambi di Bernini intorno al 1648,  il “Primo disegno per la Fontana dei Quattro Fiumi”, con  il relativo “Modello ligneo”, e il “Disegno preparatorio per la volta della cappella Cornaro”. Progetti in parte non realizzati che provano il fervore creativo.

Fu realizzato, invece, il “teatro di tutti i teatri”, vero  e proprio “Theatrum mundi” perché concepito in funzione di una “conciliazione universale”, il Colonnato di Piazza San Pietro: un”Teatro del Sole” con la visione eliocentrica, che diventa cristocentrica, dell’obelisco solare al centro, un  “Theatrum Ecclesiae” con la processione  delle statue dei santi. 

Altra scena teatrale, ovviamente in tono minore, nelle Statue degli Angeli su ponte Sant’Angelo con i segni della passione di Cristo. Così ne parla Fagiolo: “La recita immobile del ‘coro della passione’ avvolge il viandante che passa sul ponte: nella passerella finale, come nelle commedie berniniane, attori e pubblico si trovano uniti, così come sono legati allo stesso filo il peccato e la salvezza”.

Bernini ebbe un ruolo dominante, si pensi al maestoso Colonnato opera sua, ma non fu l’unico,  Pietro da Cortona (al secolo Piero Berrettini) per la pittura e Francesco Borromini  (al secolo Francesco Castelli) per l’architettura, ebbero un ruolo fondamentale in questa straordinaria temperie artistica che fece di Roma il “Teatro del mondo”   con il Barocco sacro e il Barocco civile, tanto che sono definiti “i tre protagonisti”: il nuovo linguaggio in architettura  negli anni ’30 del 1600 nacque “grazie all’opera di Francesco Borromini e al suo intenso dialogo con Gian Lorenzo Bernini e Pietro da Cortona”, sottolinea “Christof Luitpold  Frommel.

Di Francesco Borromini  vediamo esposti  tre progetti dei  primi anni ‘60 del 1600, per il collegio di Propaganda Fide,  cioè la “Pianta per la cappella  dei Re Magi del collegio di Propaganda Fide”, e due studi, per l’ “Alzata della cappella”, e  per un “Camino”; inoltre un “Rilievo del perduto affresco con la finta galleria di Palazzo Spada”  e un “Progetto per la memoria di papa Alessandro III in San Giovanni in Laterano”, fino alla spettacolare “Versione idealizzata della facciata dell’oratorio dei Filippini dell’Opus architectonicum” , 1662;  è esposta anche un’ “Acquaforte del Collegio”  di Giovanni Battista Faida..

 Di Bernini, oltre ai progetti citati, è esposta una ricca galleria di bozzetti in terracotta alti poco meno di mezzo metro,  per statue e busti  che  nell’espressività e nel panneggio incarnano pienamente il Barocco nella scultura.  

In merito all’espressività di particolare interesse sono i bozzetti   per  “L’Estasi di santa Teresa”, 1647, una  composizione con una figura alata sulla sinistra e la santa sulla destra dal volto sognante rivolto in alto, e quello  per la “Beata Ludovica Albertoni”,  1674, qui la figura è distesa con le pieghe della veste accentuate e il volto intensamente proteso; mentre  “Abacuc e l’Angelo”, 1655,  mostra  un Mosè quasi michelangiolesco che guarda il piccolo angelo appoggiato alla  sua spalla. Invece  il bozzetto  per “Sant’Ambrogio  della Cattedra in San Pietro”  è una figura contorta dal volto sofferente, per questo la sua attribuzione è incerta; non è sofferente  il “Crocifisso morto per uno degli altari della basilica vaticana”, 1658, dal volto dolcemente reclinato,  senza corona di spine, per  l’assenza di drammaticità propria del barocco.

Riguardo al panneggio sono eloquenti i due bozzetti per “L’Angelo con il cartiglio”, il secondo acefalo, e i due per “L’Angelo con la corona di spine” e “L’Angelo con la Croce” tra il 1668 e il 1670, le pieghe sono avvolgenti e danno il senso del movimento alle figure alate. C’è anche il bozzetto per “Costantino il Grande a cavallo”, 1662, con un effetto analogo a quello delle pieghe,  mentre il   “Ritratto d papa Alessandro III” , 1667, è molto composto, senza pieghe nella mantella,   dal viso sorridente;  come è sorridente “Innocenzo X Pamphili”, 1650, nella terracotta di Alessandro Algardi, del quale sono esposte anche due fusioni, “San Michele sconfigge il demonio”,  1647, in bronzo,  e “Madonna con il Bambino (Vergine del Rosario)”, in  bronzo dorato e argento.

Citiamo infine gli ultimi due bozzetti in terracotta esposti, quello attribuito a Melchiorre Cafà, per la statua del “Beato Andrea Avellino”, 1663-64  nella facciata della chiesa romana di Sant’Andrea della Valle, dove verrà ambientata una scena della Tosca, e quello di Domenico Guidi, per “San Filippo Neri e l’Angelo”, 1691. Termina così la galleria della scultura e inizia quella della pittura.

Sono esposte 18 opere, tra loro le più rappresentative della teatralità del  Barocco ci sono sembrati  i due bozzetti, lunghi due metri per un metro in media, “Il Trionfo del Nome di Gesù”, 1678-79, del Bacicco (al secolo Giovan Battista Gaulli)  per l’affresco della chiesa romana del Gesù,  e “L’allegoria della Clemenza”, 1673-74, di Carlo Maratti, per l’affresco sulla volta della Sala dell’Udienza di palazzo Altieri, sempre  a Roma: il primo è il più scenografico, un’apoteosi corale  in una sorta di empireo culminante  nel sole che irraggia sugli angeli e i fedeli; nel  secondo con meno enfasi  un altro trionfo, questa volta di un valore laico. Anche  “Gli angeli segnano la fronte a coloro che devono essere difesi dai flagelli”, 1652, di Pietro da Cortona, ha una resa  spettacolare con un angelo luminoso come la croce che ha in mano al centro di una composizione molto mossa e animata   Di Baciccio è esposto pure “Giustizia, Pace e Verità”, 1667-72, modello per gli affreschi della chiesa romana di Sant’Agnese in Agone, rispetto ai quali il chiaroscuro è più contrastato e i colori sono più intensi.

Si alternano temi sacri, con alcune visioni bibliche,  a  temi mitologici. Tra i primi  “Morte di sant’Anna”, 1645, attribuito ad Andrea Sacchi, bozzetto per la pala della chiesa di San Carlo, con espressioni di mestizia e di devozione, in un clima assorto e rassegnato,  e “Incontro di Cristo con Veronica lungo la via del Calvario”, 1655-56, di Carlo Maratti,  con la Veronica ripresa di spalle mentre viene allontanata da un braccio proteso, con un notevole effetto dinamico;  “Madonna con il Bambino in gloria e i santi Tommaso da Villanova e Guglielmo d’Aquitania”,  tra il 1650 e il 1675, di Ciro Ferri, di cui viene colpisce la luminosità e la gamma cromatica, e “Gloria di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi”, 1669, di Lazzaro Baldi,  in una dimensione celeste, la santa è sorretta dagli angeli, lo stesso autore replicherà la visione in un successivo dipinto per Santa Rosa da Lima;  “Santa Maria Maddalena de’ Pazzi che libera dal demonio un sacerdote”, 1670, di Ludovico Gimignani, composizione molto dinamica con uno squarcio di azzurro e un paesaggio che spunta da sotto un’arcata e  i due dipinti di Guillaume Courtois, “Martirio di Sant’Andrea”, e “Sanguis Christi“, “da un’invenzione di Gian Lorenzo Bernini”, entrambi del 1670.

A quest’ultimo tema è dedicato il saggio di Irving Lavin, il quale ricorda la particolare sensibilità di Bernini  per il sangue che usciva dalle piaghe di Cristo sulla Croce, rappresentato circondato dagli angeli con la Vergine che lo raccoglie tra le mani per offrirlo all’Altissimo che domina la scena. 

In tre delle opere citate c’è la Croce, ma senza drammaticità; nelle altre, a parte la morte di Sant’Anna dove l’emozione prevale sul dramma, c’è soprattutto gloria e adorazione.

Di impostazione teatrale i dipinti con scene  bibliche e  mitologiche. Tra le prime vediamo esposti  “Incontro tra Giacobbe e Rachele”, 1659, di Pier Francesco Mola, con l’immagine di Rachele che ricorda quella di Erminia di altri dipinti, e “Lot e le figlie”, 1664-65, di Giacinto Brandi, di grande vigore plastico con le tre figure in primo piano e nessuno sfondo; tra le seconde  “Trionfo di Sileno”, 1637-40, di Mattia Preti,  olio di 3 metri per quasi 1,50,   una scena bacchica che si sviluppa in orizzontale,  con ninfe e satiri nel bosco, un cielo tempestoso come sfondo, ed  “Erminia e Vafrino curano le ferite di Tancredi dopo il combattimento con Argante”,  1660, ancora di Pier Francesco Mola,  con una composizione romantica  in  primo piano su uno sfondo paesaggistico elaborato, e l’immagine simbolica del cavallo bianco spunta dietro l’albero,.

“Apollo e la Sibilla”, 1662-65, di Salvator Rosa, esprime la predilezione dell’artista per pose monumentali auliche e classiciste, come sono quelle delle due figure in primo piano mentre il paesaggio è appena accennato,  e “Chronos”, 1675-80, di Giovanni Battista Bernaschi, mostra un potente vigore nell’anatomia in un’atmosfera tenebrosa.  

Le due opere di Mola ed altre  su tema mitologico, a parte quella di Salvator Rosa,  hanno in comune un  paesaggio con come sfondo ma parte integrante della scena.

Concludiamo con il “Disegno della volta della galleria di palazzo Pamphilj in piazza Navona a Roma”, 1661, di Ciro Ferri,  il discepolo più fedele di Pietro da Cortona,  in grafite, carboncino e inchiostro,: è composto da 63 fogli assemblati,  in un corpo unico, che riproducono ogni dettaglio della volta progettata da Borromini e affrescata da Pietro da Corona su incarico e supervisione di papa Innocenzo X, tra il 1651 e il 1664, con le storie di Enea celebrative della famiglia Pamphilj.

E’ una spettacolare visione d’insieme che riproduce minuziosamente le figure scultoree e michelangiolesche dell’affresco, e ci sembra la più adeguata  a concludere questa rassegna degli aspetti più eclatanti del Barocco. Seguiranno prossimamente le ultime manifestazioni, cioè il paesaggio barocco e il Barocco da casa con le Feste barocche come botto pirotecnico finale..

Info

Fondazione Roma Museo, Palazzo Cipolla,  via del Corso 320. Lunedì ore 15,00-20,00, da martedì a giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato ore 10,00-21,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso, intero  euro  12,00, ridotto euro 10,00 (fino a 26 anni e oltre 65, e per militari, studenti convenzionati,  e gruppi), scuole euro 5 ad alunno, altre riduzioni in giorni speciali e per famiglie. Tel. 06.22761260, http://www.mostrabaroccoroma.it/ e www.fondazioneromamuseo.it, . Catalogo “Barocco a Roma. La meraviglia delle arti”, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, Skira, marzo 2015, pp. 447, formato 24 x 28, dal quale sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra attuale cfr. in questo sito il primo articolo  il     e l’ultimo che uscirà prossimamente.  Per le precedenti mostre citate nel testo,  cfr. i nostri articoli:   in questo sito   su “Il Rinascimento a Roma. Nel segno di  Michelangelo e Raffaello” il   12, 14, 16 febbraio 2013, su “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”  il 5, 7, 9 febbraio 2013, sul “Guercino”  il 15 ottobre 2012;  in http://www.antika.it/  su “Roma e l’antico. Realtà e visione  nel ‘700”, il  3, 4, 5  marzo 2011;  in “cultura.inabruzzo.it” i due articoli  per la mostra sulla “Campagna romana” l’11 febbraio 2010.    

Foto

Le immagini sono state in parte riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Palazzo Cipolla, in parte fornite dalla Fondazione-Roma-Arte-Musei che si ringrazia.  .