Carabinieri TPC, recuperati 25 reperti negli USA

di Romano Maria Levante

A poco  più di un mese dalla presentazione di tre opere d’arte di grande valore recuperate, tra cui un Picasso, al Ministero per i Beni,  le Attività  Culturali e il Turismo, il 26 maggio 2015 nuovo incontro con il Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, questa volta nella caserma La Marmora. Con il comandante gen. Adriano Mossa, e il Ministro Dario Franceschini,  l’ambasciatore degli Stati Uniti d’America John  R. Phillips ha sancito in modo solenne la consegna a titolo definitivo  dalle autorità americane a quelle italiane di 25 preziosi reperti trasferiti i in modo illegale negli USA  e recuperati dopo complesse indagini svolte dai Carabinieri in collaborazione con l’Homeland Security Investigations – Immigration and Customs Enforcement (ICE) americano.

L’azione di vigilanza del Comando Carabinieri a tutela del patrimonio culturale e  di contrasto ai trafficanti, si svolge anche mediante indagini all’estero nelle sedi di destinazione dei reperti trafugati, in contatto con i servizi locali,  e con l’intervento presso le autorità per il successivo recupero dopo la scoperta dei traffici illeciti.

Fondamentale è la sinergia con le sedi americane dell’ICE basata sul MOU – Memorandum of Understanding – l’intesa tra Italia e Stati Uniti per regolare le importazioni di materiale archeologico  –  con cui si è sviluppata una stretta ed efficace collaborazione. Abbiamo già illustrato l’attività  del Comando Carabinieri per la Tutela, di recente alla presentazione dei recuperi ricordati con il bilancio per il 2014. E’ stata così ricca la presentazione dei nuovi recuperi negli Stati Uniti che passiamo subito alla loro descrizione, rinviando ai nostri resoconti precedenti per  gli aspetti generali della tutela.

I crateri e i vasi  dal c.d. Archivio Medici, dal VI al II sec. a. C.

Sono 10  i reperti archeologici costituiti da crateri, vasi,  oinochoai e simili, soprattutto delV-VI sec. a. C., per ognuno una storia intrigante di successi investigativi sfociati nel recupero. Cominciamo con alcuni  vasi  che risalgono al 450-500 a. C, appartenenti al c.d. Archivio Medici, il cui titolare, ben noto al Comando, è stato sottoposto a procedimento penale presso la Procura di Roma.

I primi due vasi sono un  Kalpis etrusco a figure nere con scene di delfini, del pittore di Micali, venduto  nel 1982 al Toledo Museum of Art sito in Ohio, e un  Cratere attico a figure rosse, del pittore di Methyse, venduto nel 1983 al Minneapolis Institute of Arts: si è accertato che i reperti erano stati venduti da Giacomo Medici con false attestazioni di provenienza. Investite del problema dal  Comando carabinieri per la Tutela,  le sedi dell’ICE  hanno ottenuto dai musei la restituzione all’Italia, con la stesura di appositi accordi,  attraverso l’Homeland Security Investigation,   con la ratifica delle rispettive sedi giudiziarie.

Stessa provenienza per l’ Oinochoe configurato a testa maschile, del V- IV sec. a.C. con una Nubia, recuperato dopo un controllo della Sezione Elaborazione Dati del Comando sul  sito web della galleria Griffin Gallery di Boca Raton , in Florida, con la quale

c’è stata una lunga battaglia giudiziaria; così per l’Askos configurato a forma di cane, IV-II sec. a.C.

Le provenienze dal c.d. Archivio Becchina, dal V sec. a. C. al II d.C.

Dopo il c.d. Archivio Medici, entra in scena il c.d. Archivio Becchina, dal nome di un altro trafficante:  vi appartenevano  vasi a figure rosse, provenienti da scavi clandestini in Puglia negli anni ’70-’80, e destinati alla vendita all’asta da Christie’s, e un grande coperchio di sarcofago.

Il Cratere attico a campana, del V sec. a.C., e lo  Skyphos attico del  pittore di Penelope, V sec. a.C. sono stati  individuati tra i beni archeologici di un noto ricettatore di Montreal su segnalazione dell’ICE di New York al Comando Carabinieri per la Tutela; le indagini del Comando ne hanno accertato l’illecita acquisizione in Italia nel 1992 e 1979, e si sono trovate foto “polaroid”  scattate dopo gli scavi abusivi e i restauri, comprese false “expertise”  di provenienza. Sulla base delle  relazioni tecniche degli archeologi del MiBACT sono stati smascherati i falsi attestati  prodotti all’ICE dal collezionista canadese, compreso un certificato di libera circolazione rilasciato dal Ministero  della Cultura francese e false fatture d’acquisto da collezioni private, e si è provato il collegamento tra il collezionista operante in modo illecito e  i ricettatori italiani.

Poi vediamo il Cratere lucano a campana, attribuibile al pittore di Amykos,  440-410 a.C., individuato mediante gli  accertamenti con la Banca Dati, e l’invio di una sua foto  dal Comando Carabinieri per la Tutela all’’ICE di NY; e uno Stamnos apulo peuceta, VI secolo a.C.,  .

Del II sec. d.C. lo spettacolare  Coperchio di sarcofago in marmo stilizzato, con una matrona sdraiata, di epoca romana, che nella presentazione alla Caserma Lamarmora è stato collocato dinanzi al tavolo delle autorità, Ministro,  Comandante e Ambasciatore USA. Il reperto, posto in vendita da una galleria newyorkese per 4,5 milioni di dollari, non è sfuggito all’ICE di New York che ne ha trasmesso le foto al Reparto Operativo del Comando Carabinieri per la Tutela,   la cui Sezione Elaborazione Dati ha accertato l’acquisto da una ditta romana operante nella lavorazione di marmi, ma la provenienza irregolare dal c.d.  Archivio Becchina, con una parte del sarcofago  venduta nel luglio del 1986 a un collezionista e ricettatore elvetico. L’ICE ha verificato che il sarcofago era di proprietà di un collezionista giapponese, noto per aver  già restituito all’Italia migliaia di reperti sequestratigli dal  Reparto Operativo del Comando Carabinieri,perché del c.d. Archivio Becchina; il collezionista coerentemente non si è opposto alla confisca anche di questa opera per cui nel 2014 ne ha concordato la restituzione con la Procura distrettuale di New York.

Altri reperti archeologici dal IV sec. a. C. al II d.C.

Dal grande coperchio appena illustrato passiamo alla Cuspide di sarcofago pestano, con Auleta, IV-III secolo a.C. L’ufficio ICE di N.Y.  ne ha trasmesso le foto con la notizia che veniva dalla Svizzera come  provenienza macedone e proprietà di una società del Liechtenstein, l’importatore  un noto collezionista americano già noto al Comando che gli aveva sequestrato preziosi reperti come la bellissima fiale d’oro da Morgantina, stimata 1,6 milioni di dollari, e un bronzetto sottratto al museo di Taranto.  Nonostante le apparenze sembrassero regolari, si sono svolti approfondimenti investigativi con “expertise” da parte di studiosi del  MiBACT che ne hanno accertato la provenienza furtiva dall’area archeologica di Paestum – da cui era stata asportata con scavi clandestini all’inizio degli anni ’70 – nel cui museo, tra l’altro, c’è una cuspide analoga. Di qui la positiva conclusione, con la confisca da parte dell’ICE di N. Y. e successiva restituzione all’Italia.

Vediamo anche  una  Pelike apula a figure rosse,  e una  coppia di Oinochoai apuli trilobati in stile Gnathia, tra il 340 e il 300  a.C. e una Testa votiva in terracotta con volto maschile, III sec. a.C., recuperata a seguito del controllo al sito web della galleria Griffin Gallery di Boca Raton in Florida, che ha portato al recupero dell’oinochoai con testa maschile, già citata. La Sezione Elaborazione Dati l’ha riconosciuta come proveniente da un furto del giugno 1982  in un castello di Pratica di Mare, vicino   Roma, e attraverso l’ICE di  Miami ha ottenuto confisca e restituzione.

Poi un Bronzetto romano raffigurante “Marte”,  II sec. d.C., anch’esso individuato dalla Sezione Elaborazione Dati su un catalogo d’asta Christie’s New York , dove era stato posto in vendita come proveniente da una collezione privata degli anni ’80. Le indagini del Comando Carabinieri per la Tutela hanno provato che il bene era stato venduto nel 1991 alla Merrin Galleries di New York con false attestazioni di provenienza, dando modo all’ICE di N.Y,  di chiederne la confisca per la successiva restituzione. C’è anche un Medaglione con un busto di giovane donna e un amorino sulle spalle, I sec. a.C.

Dopo i vasi,  gli affreschi di epoca romana di cm 70 x 60 circa, del I sec. a. C.,  preziosi per la loro rarità. Vediamo un Affresco con figura maschile,  e un Affresco con figura femminile dal lungo mantello rosso e una piccola Oinochoe nella mano destra.  

Anche questo recupero è merito della stretta collaborazione tra il Comando Carabinieri per la Tutela e le sedi americane dell’ICE. I Carabinieri del Comndo, presenti a New York per recuperare altre opere d’arte, furono informati dall’ICE della metropoli che stava per essere messa all’asta la collezione privata di un magnate americano, e un primo esame faceva sospettare la presenza di reperti  di provenienza illegale dall’Italia. La Sezione specializzata del Comando in base alle foto fornite dall’ICE accertò che  tre affreschi della collezione  provenivano da un furto avvenuto il 26 giugno 1957 nell’ufficio Scavi della Soprintendenza Archeologica di Pompei; gli affreschi, la cui scomparsa era stata denunciata all’Interpol, erano segnalati sul Bollettino del Servizio per le Ricerche delle Opere d’Arte Rubate dei  Carabinieri. A queste prove inconfutabili è seguita la confisca e restituzione all’Italia.La storia non finisce qui, perché  nel furto  erano stati trafugati sei affreschi:  ebbene,  oltre a quelli ora citati, sono stati recuperati anche gli altri, precisamente in Svizzera nel  2000 un affresco con  figure, in Gran Bretagna nel 2008 uno con Dioniso, negli USA nel  2009 uno con la Ministra officiante.

Sempre in campo figurativo, del periodo romano,  vediamo un   Frammento di pittura murale con Cristo Benedicente, di  1,25 x 1 metro, sec. XII. Anche qui il recupero è stato possibile per il controllo sui beni in vendita all’asta, questa volta da Sotheby’s , eseguito utilizzando la Banca Dati del Comando, sui beni culturali illecitamente sottratti: ne è stata individuata la provenienza da un furto del 1987 in un Cripta di Guidonia Montecelio, provincia di Roma,  che era stata dichiarata di particolare interesse culturale con D.M. del 26.5.1978. Dopo l’individuazione è scattata la procedura, con la consueta collaborazione dell’ICE americano, per  localizzare il frammento segnalato  a  New York, metterlo in sicurezza e identificare il proprietario/possessore con la documentazione sulla provenienza; tutto è andato liscio, le prove presentate sulla provenienza illecita sono state tali da  indurre i proprietari alla restituzione all’Italia senza resistenza.

Altri reperti, dal cannone  al cammeo, dal Manoscritto alle Historiae

L’esposizione dei 25 reperti recuperati negli USA è quanto mai varia, comprende anche oggetti diversi dai reperti archeologici, si spazia in diversi campi.

Tra loro un Cannone veneziano a retrocarica in ferro, XVII secolo, che nel 1914 è stato trovato dal personale del Custom and Border Protection di Boston nascosto all’interno di un escavatore, nell’ambito di una spedizione proveniente dall’Egitto e diretta nel Massachusetts. Anche qui, sebbene le verifiche sulla Banca Dati non avessero fornito risultati, ulteriori accertamenti  sui fregi rilevati nel cannone, ne hanno provato l’appartenenza al patrimonio culturale italiano. Tali prove presentate dal Comando Carabinieri per la Tutela,  hanno portato alla confisca da parte del citato ufficio di Boston per illecito tentativo di importazione e alla successiva restituzione all’Italia.

C’è poi un Frammento di ceramica, con una figura mitica, tipo Minerva, armatura ed elmo,  il cui recupero è stato reso possibile anch’esso a partire dalle foto trasmesse dall’ICE di N.Y., al Comando Carabinieri per la Tutela nell’ambito della stretta collaborazione in atto, di beni sospetti, trovati in un controllo passeggeri all’aeroporto newyorkese JFK, al   titolare di una galleria di N. Y. al suo rientro  da Monaco di Baviera. Anche se dai primi accertamenti sulla Banca Dati non erano emerse irregolarità, il  Reparto Operativo ha richiesto  una “expertise”  da parte degli specialisti del MiBACT dalla quale è risultata l’appartenenza dei beni al patrimonio culturale italiano.  Immediata conseguenza la confisca da parte dell’ICE e la successiva restituzione all’Italia. Abbiamo anche un  Cammeo di tipologia antica con iscrizione riferibile alle cosiddette gemme gnostiche o a carattere scaramantico. Ma passiamo ora a un’altra tipologia di opere recuperate, esposte in bell’evidenza.

Oltre ai preziosi reperti archeologici, un Manoscritto del XV  sec., sottratto dagli Archivi dell’Arcidiocesi di Torino nel 1990, contiene una delle pagine mancanti dell’opera lombarda “Messale di Ludovico da Romagno”. Il controllo sul sito web della University of South Florida, Special Collections ha consentito al Comando Carabinieri di individuare la pagina miniata, e, con la collaborazione dell’università, l’ICE  di  Tampa ne ha accertato il riferimento a due coniugi della Florida che lo avevano acquistato legalmente ignorandone la provenienza illecita. I coniugi  lo hanno riconsegnato spontaneamente allo United States Attorney’s Office del Middle District of Florida, per la  restituzione all’Italia.

Ed ecco l’“Historia natural”, anno 1672,  di Ferrante Imperato, sulla “diversa conditione di Minere pietre pretiose e speciale altre curiosità” , lo  “Stirpium Historiae pemptades sex sive libri XXX Varie ad Autore Paullo ante mortem”, anno 1616, di Dodoens Rembert,e il “Rarum Plantarum Historia”, anno 1601, di Ecluse Charles.Anche qui una storia investigativa intrigante, legata alle indagini seguite  a quella che viene chiamata “spoliazione della Biblioteca annessa al Monumento Nazionale dei Girolamini di Napoli”. Il sospettato, De Caro Marino Massimo, in stato di arresto ha confessato  di aver sottratto numerosi volumi di botanica dalla Biblioteca Storica Nazionale dell’Agricoltura nel Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, e di averli dati per la vendita a una Casa d’Aste fiorentina; la Procura di Roma ha ordinato  la perquisizione, e sono state individuate le tracce di 17 volumi, gran parte recuperati e riconsegnati alla Biblioteca. Tre in Usa,  e sono quelli restituiti ed ora esposti insieme ai beni archeologici e di altro tipo: i primi due già venduti a un collezionista americano per 7.000 dollari, il terzo a una libreria per 4.320 dollari. L’ICE li ha localizzati da un privato e nella John Hopkins University di Baltimora, provata la provenienza illecita, sono stati riconsegnati dai possessori  senza strascichi legali per la restituzione.

Alcuni reperti, in particolare quelli archeologici, dopo la confisca e prima di completare la restituzione, sono stati esposti al Consolato Generale d’Italia di  New York nell’ambito  dell’Anno della Cultura Italiana negli USA che ha coinciso con la loro disponibilità in attesa del rimpatrio.

Riproponiamo una fiction tipo “Caccia al ladro d’autore” 

Una riflessione conclusiva riguarda i metodi di indagine e i protagonisti. Uno strumento efficace è la Banca Dati dei beni illegalmente sottratti, ma non è risolutiva perché in molti casi, come si è visto,  non vi figurano i reperti  che solo in base ad ulteriori indagini si rivelano di provenienza furtiva o irregolare. A tal fine sono essenziali gli approfondimenti degli esperti del MiBACT che individuano le provenienze,  e le successive indagini che consentono di risalire alle circostanze del  trasferimento all’estero. Negli USA sono risultati decisivi gli stretti rapporti di collaborazione basati  sul Memorandum d’intesa, il MOU, con l’ICE, Immigration and Customs Enforcement , nelle diverse sedi americane: è l’organismo che procede, quando occorre in collegamento con gli organi giudiziari, alla confisca e alla successiva restituzione all’Italia.

Una rete internazionale del bene, dunque – con le sezioni del Comando Carabinieri per la Tutela e gli organi specializzati del MiBACT in Italia e, per gli USA, con le sezioni locali dell’ICE – impegnata nel contrasto della rete internazionale del male, che comprende trafugatori e ricettatori, importatori e falsari fino ai collezionisti irregolari, giungendo ad inquinare anche destinatari inconsapevoli, dalle grandi case di aste ai singoli acquirenti.

In questo quadro, le vicende delle opere d’arte trafugate ed esportate illegalmente assumono contorni interessanti anche  sotto l’aspetto poliziesco con l’atmosfera di “suspence” tipica delle azioni investigative, che si svolgono negli ambienti più vari, dai luoghi degli scavi clandestini ai musei e case d’aste, fino alle gallerie e ai depositi dei ricettatori. Perciò ci sentiamo di insistere nel riproporre una  fiction del  tipo di “Caccia al ladro d’autore” trasmessa dalla RAI nei primi anni ’80, che al fascino del giallo in un clima da “Codice da Vinci”, ggiungerebbe il  coinvolgimento del pubblico in questa lotta senza quartiere a chi,  per spregevoli e illeciti interessi personali, depaupera le nostre ricchezze culturali. Sono patrimonio dell’umanità, e vanno difese con la mobilitazione dei cittadini, da sollecitare avvalendosi della sensibilizzazione mediatica.

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Info

Cfr. i nostri precedenti servizi sulle presentazioni di importanti recuperi, nel 2015 in questo sito  “Carabinieri TPC, recuperati 5000 reperti archeologici” 25 gennaio, e “Carabinieri TPC, recuperati un Picasso e altre due opere d’arte” 25 aprile; per gli anni precedenti  su www.antika.it . Inoltre cfr. i nostri servizi in questo sito e in quello appena citato sulle mostre organizzate dal Centro Europeo per il Turismo a Castel Sant’Angelo con le opere recuperate dalle forze dell’ordine.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella caserma Lamarmora alla presentazione, si ringrazia il opere d’arteComando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale per l’opportunità offerta. In apertura,  il “Coperchio di sarcofago in marmo stilizzato” del II sec. d. C., seguono 2 visioni d’insieme e 4 primi piani di alcune opere citate nel testo; in chiusura la presentazione, al centro dopo il Comandante gen. Mossal’ambasciatore Phillips e il ministro Franceschini.   

Civita di Bagnoregio, appelli e azioni per “la città che muore”

di Romano Maria Levante

 Il 19 maggio 2015 nella sede di Piazza Venezia a Roma dell’associazione Civita –  che prende il nome dal borgo cui si ispirò il fondatore Gianfranco Imperatori  –  è stato lanciato l’appello di eminenti personalità aperto alla sottoscrizione di tutti per “Salvare Civita di Bagnoregio e la Valle dei Calanchi;  il 19 giugno, a Civita,  “Incontro con l’arte, la cultura, la musica, il cibo. Per salvare Civita di Bagnoregio e la Valle dei Calanchi”. Nelle due circostanze il Presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il sindaco di Civita Francesco Bigiotti hanno  fatto sentire la voce delle istituzioni locai, cui si è unita quella di noti personaggi, come Giuseppe Tornatore,  affezionati al borgo. Per le istituzioni nazionali, l’unica voce è stata quella del Ministro per i Beni e le Attività Culturali e  il Turismo Dario Franceschini,  che ha condiviso l’appello per salvare Civita in una nobile lettera a Zingaretti, con tante belle parole ma nessun impegno effettivo; posizione apprezzabile, ma inconsueta per un ministro i cui messaggi oltre ai richiami culturali contengono di solito misure e impegni concreti.

Il salto di qualità, la mobilitazione

Un salto di qualità per la salvaguardia di quella meraviglia della natura e dell’opera dell’uomo che è Civita di Bagnoregio. Dall’avvio il 19 maggio  nella sede di Civita  per iniziativa del presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, con il lancio della sottoscrizione con le  prime 37  firme illustri,  in testa Zingaretti e il presidente emerito Giorgio Napolitano; alla manifestazione del 19 giugno con una mobilitazione  dopo le adesioni all’appello di oltre 20.000 firme  di cittadini.

Non si è trattato del   “solito” manifesto di intellettuali e  Vip, c’è stata una vera e propria partecipazione popolare, e il flusso di sottoscrizioni continua.  Qualche stralcio dell’appello da sottoscrivere è illuminante. Inizia ricordando che Civita “è rimasta impermeabile al moderno e alla civiltà industriale. Sola. A difendersi dall’assalto delle calamità naturali e dei suoi agenti”.  Lo spopolamento e il “precario equilibrio della rupe su cui poggia e dalla quale si eleva” l’hanno fatta definire “la città che muore”, ma evoca qualcosa di più vasto: “Sollecita ogni giorno al mondo intero l’interrogativo del suo destino e del rapporto che noi stessi abbiamo con la natura e la cultura dei luoghi, del territorio e della sua memoria, se non se ne ha cura”. Per questo va considerata “Civita quale metafora di un territorio nazionale che necessita di continua manutenzione”. Viene anche definita “metafora dell’immaginario, città invisibile, essenza dell’urbanità – civitas – racchiude e riassume in sé e nel suo destino la storia dell’umano agire”.   

Il  presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco, Giovanni Puglisi,  ha affermato che “è solida ed ha tutte le carte in regola” la candidatura,  lanciata da Zingaretti,  di Civita a sito del patrimonio universale Unesco, sarebbe un riconoscimento meritato e una sicura garanzia.

E il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini  ha condiviso lo spirito dell’appello per salvare Civita definendola un “simbolo”, per la sua storia e la sua bellezza, “capace di riassumere parte importante dell’evoluzione civile, culturale e religiosa dell’Occidente”.  Il ministro ne fa un caso emblematico di una realtà più vasta: “E come Civita, tantissimi sono i borghi italiani ricchi di storia, arte e tradizione”.  Ha aggiunto: “E’ nostro preciso dovere difendere e valorizzare questo patrimonio diffuso, parte integrante della nostra identità e possibile volano dello sviluppo sostenibile della comunità”. Tornando a Civita: “Ognuno di noi, nel pieno rispetto  delle proprie prerogative e competenze, è chiamato a impegnarsi per far sì che questo luogo carico di storia non solo venga preservato, ma sia occasione di crescita e benessere per tutti”.

Prendiamo in parola questo proclama, ma dovrà seguire l’individuazione delle prerogative e competenze con i conseguenti impegni, in particolare per i Ministeri responsabili, tra cui c’è senza dubbio quello dei Beni, attività  culturali e turismo..

Una sottoscrizione internazionale, una legge speciale come per la rupe di Orvieto

Nella piazza di Civita, dove si è svolta la manifstazione, davanti alla Cattedrale gremita per la  “performance” musicale, il presidente Zingaretti,  dopo aver ricordato lo stanziamento di 800 mila euro dopo la recente frana, ha ribadito la necessità di un  “salto di  scala”:  interventi risolutivi con mezzi finanziari adeguati per salvaguardarne a delicata struttura. Dopo l’estate sarà lanciata una grande raccolta fondi a livello internazionale con la ricerca di mecenati.  Non si è fermato qui, ha delineato una strategia di valorizzazione con l’obiettivo di “utilizzare Civita come  hub di promozione artistica, culturale e musicale che può, nella sua bellezza,  ospitare e diventare  centro di produzione culturale della modernità”. 

Oltre al sindaco Bigiotti, che ha espresso i sentimenti della popolazione locale, ha parlato il regista premio Oscar Giuseppe Tornatore definendo il suo primo incontro con il borgo 20 anni fa “più che un amore, una folgorazione”; nel manifestare la propria asia per le sorti del borgo, a cui è rimasto sempre legato dopo la folgorazione del primo incontro, ha assicurato  tutto il proprio sostegno fattivo al  “progetto per salvaguardare e far conoscere Civita che deve essere di tutti”.

C’è un’altra possibilità  su cui vorremmo soffermarci, oltre all’auspicabile inserimento tra i patrimoni dell’umanità dell’Unesco richiesto da Zingaretti: una legge del tipo di quella già sperimentata per la salvaguardia della rupe di Orvieto e del colle di Todi.

A parte il colle di Todi, la rupe di Orvieto presenta caratteristiche assimilabili a quella di Civita per il materiale tufaceo detheriorato dai letti fluviali alla base e dagli agenti atmosferici. Ebbene, ci sono state tre leggi speciali a finanziare interventi di salvaguardia; la prima esplorativa è stata la legge 230 del 1978, che ha stanziato 30 miliardi, di cui 22 per Orvieto e 8 per Todi, poi la legge 545 del 1987 ha stanziato 180 miliardi di lire per gli interventi di consolidamento del terreno, 115 per Orvieto e 65 per Todi, e  120 miliardi per le opere di restauro, conservazione e valorizzazione  del patrimonio storico-architettonico;  infine, con la legge 242 del 1997  sono stati conferiti altri  80 miliardi di lire. Finora la  spesa complessiva è stata dell’ordine dei 500 miliardi di lire. E’ stato chiesto di recente dai sindaci delle due località un nuovo rifinanziamento di 30 milioni di euro.

E’ un impegno trentennale sacrosanto, con stanziamenti nazionali e realizzazione degli interventi con relativo monitoraggio da parte  della Regione e dei due comuni e la possibilità di rivolgersi ad istituti specializzati, università e quant’altro necessario. Questa via  sarebbe praticabile anche per Civita, e ci si sorprende che finora non sia stato seguito un precedente così calzante.  Meglio tardi che mai, il Parlamento dovrebbe essere chiamato a emanare la necessaria legge speciale, e non c’è tempo da perdere; questa volta non servirà la mozione di fiducia per la pronta approvazione, sarà voto unanime.

Il riferimento a Orvieto riguardo alla legge speciale che sarebbe necessaria anche per Civita evoca lo stretto collegamento  tra i due prestigiosi centri attraverso la figura di San Bonaventura da Bagnoregio, il grande teologo e filosofo francescano nato nel borgo intorno al 1220,  priore del convento S. Francesco di Orvieto che ristrutturò, autore della Vita di San Francesco cui si ispirò Giotto per i suoi affreschi nella Basilica di Assisi;  docente nello Studium orvietano, fu chiamato “doctor  seraphicus”, mentre San Tommaso d’Aquino, contemporaneo, era definito  ” doctor angelicus”. In questo  contesto storico  e religioso una legge speciale per Civita  con riferimento a quella su Orvieto, sarebbe la legge San Bonaventura. .

I segni premonitori non vanno trascurati

Sui rischi di possibili  dissesti con conseguenze gravissime  chi scrive ha vissuto una situazione del tipo di quella che va assolutamente scongiurata per Civita nel proprio paese natale Pietracamela,  nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso, che dal 2005 fa parte del club “i borghi più belli d’Italia”, nel 2007 “borgo dell’anno”; ebbene, le minacce e gli allarmi per il rischio di crollo nel contrafforte panoramico che sovrasta il paese,  il “Grottone”,  non furono presi sul serio, non si intervenne per il necessario consolidamento, magari con pilastri a “zampa di elefante” come i più avveduti suggerivano, e così avvenne il crollo rovinoso che ha dissestato il territorio a valle, interrotto i sentieri, sfregiato l’ambiente  distruggendo parte delle “pitture rupestri”  del pittore di vaglio nativo del borgo, Guido Montauti.  Ebbene, si è dovuto comunque intervenire per rimuovere uno spuntone di roccia incombente che minacciava una parte dell’abitato, ripristinare i sentieri, rabberciare il territorio ferito, con un onere non più evitabile ben più elevato di quello per prevenire.

A Civita le minacce e gli allarmi  non sono mancati, basterebbe ricordare le frane ricorrenti che hanno distrutto la vecchia strada di accesso sostituita da una passerella a mo’ di ponte levatoio di un borgo che sembra un castello; persino l’abitazione storica di San Nicola da Bagnoregio non c’è più, inghiottita da uno smottamento del terreno. Da dicembre al maggio di quest’anno  si sono registrate tre nuove frane che hanno ridotto la larghezza della carreggiata della strada che porta al ponte, per cui è stata chiusa al traffico dei veicoli.  La criticità è dovuta al fatto che il borgo è su un colle tufaceo dalle basi di argilla, per di più lambite  dai due fossi sottostanti che determinano una continua erosione accentuata dagli effetti negativi prodotti dal vento e dalle piogge.

La vitalità della “città che muore”

Una “città che muore”, dunque? Sembra più corretto dire “che potrebbe morire”  per una catastrofe naturale purtroppo annunciata se non si interviene. Per il resto è quanto mai viva, la sua attrattiva sul turismo internazionale è crescente, ne fa fede l’aumento esponenziale delle presenze decuplicate dal 2008 ad oggi che ne fa il borgo europeo con il maggiore incremento turistico. Gli effetti positivi sulle attività locali appaiono altrettanto evidenti, sono state aperte 47 nuove attività commerciali comprendendo Civita e Bagnoregio, ed altre 20 sono in fase di apertura. Civita è al secondo posto tra le località consultate dagli italiani sul web, dopo San Giminiano, e attualmente è presente  alla mostra “Discover the other Italy” in corso negli Emirati Arabi, ad Abu Dhavi,

Dunque non va perso tempo per salvare tutto questo; dalla mobilitazione spinta dall’affetto che  Civita riesce a suscitare, si deve passare all’azione;  alle alate parole dell’appello devono seguire le aride ma decisive elaborazioni progettuali, la tecnologia moderna fornisce quanto occorre per il consolidamento della massa tufacea su cui si erge il borgo con  procedimenti chimici  rispettosi dell’ambiente.  Attendiamo che questo avvenga molto presto e si passi agli interventi risolutivi.

Dalla  “città che muore”, appellativo che la marchia da molto tempo per le condizioni precarie della base su cui poggia,  si può e si deve passare alla “città che vive” senza che vi sia più l’incubo di  cedimenti irrimediabili.  Il borgo, comunque, è più che mai vitale,  la sua forza di attrazione è sempre maggiore, e fa bene il sindaco a sottolineare come il numero dei turisti sia passato, da 44 mila a 400 mila; e a rilevare con orgoglio come a Pasqua e nel lunedì dell’Angelo l’afflusso turistico a Civita abbia superato quello al Colosseo, nonostante un  ticket all’ingresso che aveva suscitato forti polemiche nel timore di un effetto frenante sulle presenze che non c’è stato, tutt’altro.

Dopo Bagnoregio,  dei pulmini portano al Belvedere di San Francesco, una terrazza naturale sulla vallata nella quale svetta il borgo di Civita, raggiungibile  a piedi lungo la passerella di cui si è detto, lunga  400 metri, oggi chiamato “Il ponte dei sonagli” perché vi sono stati posti dei  campanelli e volani su scope di bambù con saggina scosse dal vento per dare il senso della vitalità oltre che per un richiamo ad antiche tradizioni: è  una realizzazione di Bruna Esposito, un’artista con lavori polimaterici e sensoriali in varie forme che coinvolgono tutti i sensi,  concepita per stimolare forze positive e allontanare le negatività, come negli antichi rituali. “Un percorso antico, quasi favolistico, per convogliare energie e proiettare Civita nel futuro”, così viene descritto nell’omaggio all’artista che lo ha ideato. 

Lo abbiamo percorso immergendoci nel meraviglioso borgo-castello, con austeri muri perimetrali, edifici antichi ben conservati, fino alla piazza di San Donato dove, dopo gli interventi del presidente Nicola, del sindaco Bigiotti,  e di personaggi popolari come Tornatore, si è svolto – nella Cattedrale su un lato della piazza – il  concerto “Suoni per Civita”, “per piano solo”,  di  Danilo Rea, seguito da  degustazione dei prodotti genuini, in una colazione rustica come nei tempi antichi.  Perché l’enogastronomia è parte integrante di un contesto territoriale che a Civita raggiunge l’eccellenza.

Una storia millenaria

E’ riuscita a restare isolata dalla modernità conservando intatta la testimonianza di un antico passato. I primi abitanti risalgono all’era villanoviana, IX-VIII sec. a. C., poi vennero gli etruschi che, facendo leva sulla  posizione favorevole lungo le vie del commercio diedero alla cittadina un notevole sviluppo e  non mancarono di fare le prime opere di consolidamento e di canalizzazione delle acque piovane. I romani le rafforzarono  in modo imponente e valorizzarono la sua vocazione commerciale per la facilità dei collegamenti da Bolsena alla valle del Tevere.

Con l’aumento della popolazione si accentuò lo sfruttamento agricolo dei terreni e la conseguente deforestazione ha ridotto notevolmente la copertura di boschi nella zona dei calanchi, facendo venir meno l’armatura protettiva rappresentata dalle radici degli alberi.

E’ stata anche libero comune nel XII sec. prima di entrare a far parte dello Stato Pontificio. A quell’epoca l’attuale Bagnoregio, il più ampio abitato  a valle della piccola Civita arroccata, era un piccolo quartiere, chiamato Rota,  della Bagnoregio storica. Lo stesso capovolgimento tra preesistenza antica e sviluppo urbano moderno l’abbiamo constatato in Abruzzo tra Castiglion della Valle e Colledara, il primo in passato un importante centro locale è rimasto un piccolo borgo medioevale intatto quasi disabitato, mentre Colledara si è estesa sempre più, l’opposto del passato.

Per Bagnoregio la situazione precipitò nel 1695, con un terremoto disastroso che fece franare le parti tufacee più esposte e la strada di accesso che lo collegava al sobborgo di Rota; altro crollo disastroso di parti dell’abitato nel 1764.  Lo popolamento si è accentuato  fino al completo isolamento con il venir meno della strada di accesso. Soltanto nel 1965 è stata installata l’attuale passerella in cemento, ora chiamata   “Ponte a sonagli” per l’installazione  di Bruna Esposito.

La necessità di un programma di interventi, intanto sottoscrivere l’appello

Avviandoci alla conclusione,  è il caso di sottolineare che occorre promuovere senza indugio l’auspicata legge speciale per la rupe di Civita, come fu fatto per la rupe di Orvieto, oltre alla raccolta fondi su scala internazionale annunciata da Zingaretti . Ma per valutare l’entità degli stanziamenti da conferire con la legge speciale e per dare avvio sollecitamente ai lavori anche con i fondi raccolti privatamente,  occorre definire un preciso programma di interventi che impegni ciascuno “nel pieno rispetto delle proprie prerogative e competenze”, per ripetere le parole del ministro Franceschini. 

La sottoscrizione in atto riguarda direttamente Civita ma è anche un segnale per i tanti borghi italiani, carichi di storia e di tradizioni, veri e propri musei a cielo aperto di un’arte urbana unica al mondo. Anche dove non ci sono minacce incombenti, la loro ubicazione li espone al dissesto idrogeologico  che andrebbe controllato e contenuto con apposite misure preventive, come si richiede per Civita nella sua specificità per la rupe tufacea su cui si erge la rocca con l’abitato; inoltre lo spopolamento andrebbe affrontato con misure idonee per contrastarne gli effetti negativi sulla manutenzione territoriale e urbana, e sulle stesse attrattive turistiche, oscurate dall’abbandono. 

Pensiamo al borgo montano citato prima,  Pietracamela,  al quale lo spopolamento ha creato anche problemi amministrativi e non solo, nella delicata fase in cui  dovrebbero svolgersi i lavori di ristrutturazione per i danni del terremoto del 2009, per poi realizzare un deciso rilancio turistico.

L’appello per Civita riguarda dunque anche la salvaguardia e valorizzazione dei tanti  borghi del nostro Bel paese,  come ha sottolineato Dario Franceschini.  Le parole del ministro le abbiamo riportate, con quelle conclusive dell’appello vogliamo terminare questa nostra cronaca appassionata: “Borgo per eccellenza, per noi Civita vuol dire difendere i borghi italiani. Non solo il passato, la memoria. Soprattutto il suo e loro futuro”. Intanto sottoscriviamo tutti con entusiasmo l’appello per Civita!

Info

L’appello si può sottoscrivere nella sezione apposita sul sito della Regione Lazio, oppure su www.change.org/p/salviamo-civita-di-bagnoregio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Civita di Bagnoregio il 19 giugno 2015.   In apertura, una panoramica  di Civita dal Belvedere San Francesco; seguono due imponenti edifici; poi due immagini dell’ingresso nella rocca; quindi un edificio antico e due angoli suggestivi; inoltre due immagini della piazza San Donato a sera, alla fine della manifestazione, il lungo edificio su un lato, la Cattedrale sull’altro lato; in chiusura, una visione ravvicinata della rocca di Civita dal “Ponte a  sonagli”, resa evanescente dalle ombre serali, quasi una metafora della “città che muore” da salvare. 

Storie di Giuseppe, 1. Arazzi preziosi a Roma, Milano, Firenze

di Romano Maria Levante

Un evento senza precedenti può essere definita la mostra “Giuseppe, il Principe dei Sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Broonzino”,  che esponei  20  preziosi arazzi fiorentini  del ‘500, iniziativa congiunta della Presidenza della Repubblica e del Comune di Firenze in occasione dell’Expo, che rende omaggio all’unità d’Italia con Roma e Firenze, la capitale attuale e  la precedente , unite a Milano, definita “capitale morale” per la  valenza economica. Protagonisti  il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente emerito  Giorgio Napolitano, il sindaco di Firenze Dario Nardella, con il sindaco di Milano Giuliano Pisapia. Grande regista e curatore Louis Godart,  Consigliere del presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio culturale.  

A Roma, Palazzo del Quirinale, nel  Salone dei Corazzieri dal 12 febbraio al 12 aprile, a Milano, al Palazzo Reale, nella  Sala delle Cariatidi dal 29 aprile al 23 agosto, a Firenze, Palazzo Vecchio, nella Sala dei Duecento dal 15 settembre 2015 al 15 febbraio 2016. Un intero anno espositivo, due mesi a Roma, quattro mesi a Milano, cinque mesi a Firenze, dove tornano a casa, nella sede iniziale. Questa la  straordinaria mostra itinerante dei preziosi tessuti fiorentini assurti a simbolo dell’italianità in sedi altamente simboliche, e nella Milano cosmopolita nei mesi dell”Expo.

Per il Quirinale si potrebbe usare l’antico detto  che “si portano vasi a Samo”, dato che dispone di una dotazione di oltre 260 arazzi,  ma non per questo l’esposizione non è stata un evento,  tutt’altro, data la peculiarità di questi 20 preziosi arazzi, la cui storia incrocia i granducati con la  Roma unitaria e le vicissitudini di questa, nel trasferimento della Capitale da Firenze a Roma.

La ricomposizione e il restauro dei 20 arazzi, una storia travagliata

A queste vicende si deve anche la singolare sorte dei 20 preziosi tessuti , quella di venire divisi in due gruppi  pur “narrando” per immagini un’unica storia, quella di Giuseppe Ebreo:  10 arazzi  rimasti a Firenze,  rinvenuti nel 1872 agli Uffizi e prontamente ricollocati nella sede originaria della Sala dei Duecento dopo il passaggio dell’edificio al Comune con il trasferimento della capitale a Roma; gli altri 10, che erano stati spostati da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti nel 1965 come dotazione della Corona, furono portati al Quirinale, allora reggia  dai Savoia,  nel 1892, poi nel 1948 sono entrati nella dotazione del Presidente della Repubblica. Un’inconcepibile separazione,  che rivaleggia per irrazionalità e insensibilità con l’asportazione britannica dei fregi del Partenone.

Il sindaco di Firenze Dario Nardella, nella presentazione al Quirinale, maliziosamente faceva osservare la sagomatura di due arazzi che  inquadravano due porte della Sala dei Duecento, per sottolinearne visivamente l’evidente legame con la provenienza; anche se poi aggiungeva che la ricollocazione permanente nella sede originaria non potrebbe avvenire per la delicatezza degli arazzi che non ammette una troppo lunga esposizione al pubblico, di qui nessuna rivendicazione.

Invece è stata possibile la felice e inedita ricomposizione per il periodo della mostra itinerante, da Roma a Milano fino a Firenze nella sede della sala dei Duecento, si pensa secondo la disposizione originaria così ricostruita da Carlo Francini: “Nel progetto gli arazzi dovevano coprire tutte le pareti della sala, quindi anche le porte  e le finestre, inoltre dovevano essere collocati con il bordo inferiore al pavimento”, e cita a conforto la posizione in tal senso assunta da  Adelson nel  1985 e quelle ripetute di  Meoni  nel 1998, 2010 e 2013.

Al contrario,  nel 1875, dinanzi a un numero di arazzi quasi doppio rispetto alla superficie delle pareti, Conti nell’escludere per una  logica elementare  le otto finestre e le porte,  concludeva: “Il pensiero che più naturalmente ricorre alla mente è che per sfoggio di magnificenza si cambiasse la decorazione”,  pertanto integrò gli arazzi per le pareti con panni posti intorno ai bordi delle finestre.

La presentazione in due puntate delle storie di Giuseppe va contro la logica elementare, perché se si fosse trattato  di cambiare la decorazione si sarebbero fatti due cicli di 10 arazzi con storie diverse, è impensabile lasciare la “suspence” perché  il seguito della storia sarebbe venuto  dopo la rotazione.

Dunque gli arazzi sono stati divisi tra Firenze e Roma,  dove  il numero di arazzi pregiati negli edifici storici fiorentini e al Quirinale è stato sempre molto elevato.

I 10  arazzi con le Storie di Giuseppe Ebreo rimasti a Firenze sono stati esposti nel salone dei Duecento ininterrottamente dal 1872,  con l’uscita degli uffici statali della Capitale portata a Roma e il passaggio di Palazzo Vecchio al Comune, fino al 1983 allorché dopo una grande mostra delle collezioni medicee con il gran numero di arazzi della manifattura granducale del XVI secolo, si decise di rimuoverli dalle sedi espositive per tutelarli: prima immagazzinandoli, poi dando corso ad una vasta opera di restauro per il precario stato di conservazione, in particolare dei 10 arazzi citati.

Ebbe inizio nel 1985  e si svolse nei Laboratori di Restauro degli Arazzi dell’Opificio delle Pietre Dure prima agli Uffizi, poi a Palazzo Vecchio, è terminata  nel 2009, con un seguito fino al 2012. Clarice Innocenti fa un’accurata contabilità dell’immane lavoro sui 220 metri quadri circa dei 10 arazzi fiorentini: 119.000 ore di lavoro totali, con solo ago e filo, mentre si succedevano  9 soprintendenti dell’Opificio delle Pietre Dure e 2 direttori del Laboratorio.

Per restaurare i circa 210 metri quadri del 10 arazzi portati a Roma è stato costituito un apposito Laboratorio all’interno del Quirinale, che ha lavorato ininterrottamente in parallelo con il laboratorio fiorentino. Marco Ciatti ricorda che “a impostare tale laboratorio, a formare gli addetti e a progettare l’intervento fu chiamata Loretta Dolcini , che nell’Opificio delle  Pietre Dure aveva portato avanti lo stesso lavoro per la serie fiorentina. Tale lavoro è stato in seguito così stretto che alla fine è stata del tutto assorbita dall’impegno romano, abbandonando l’istituto fiorentino”.. L’omogeneità nelle metodologie usate garantisce la continuità delle due serie esposte insieme.

Il risultato di trent’anni di accuratissimo lavoro di restauro è nello splendore dell’ordito riportato all’antica perfezione, con il quale si dipana una storia altrettanto straordinaria, quella di Giuseppe. Come è straordinaria la storia degli arazzi che si inquadra nella magnificenza della Firenze medicea.    

I  20 arazzi e l’arazzeria fiorentina

E’ stata  una stagione d’oro in cui oltre a questa forma d’arte se ne sono sviluppate altre, in particolare la lavorazione dei marmi policromi a cui si deve la facciata di Santa Maria del Fiore.

Cristina Acidini, che è stata soprintendente museale a Firenze,  ne ricostruisce l’evoluzione sottolineando che i 20 arazzi sono “tra i primi risultati (e certo in assoluto tra i più splendidi) dell’attività dell’arazzeria fondata da Cosimo de’ Medici”. 

Era divenuto duca di Firenze dopo la vittoria sugli  oppositori a Montemurlo,  con il passaggio dalla Repubblica al Principato e la conseguente magnificenza a livello pubblico e privato, per le sedi locali e per i doni diplomatici, con impegno personale diretto e la disponibilità di notevoli risorse pur in anni difficili.

Lo favoriva l’ambiente locale, dove si erano sviluppate dal 1200 al 1500 botteghe di artigianato  a livello artistico nel segno dei grandissimi Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti. E, relativamente all’arazzeria, ne indicavano le direttrici gli esempi delle antiche corti settentrionali, da Ferrara a Mantova fino a Milano, che avevano costituito da un secolo centri autonomi di produzione  perché gli arazzi tradizionalmente importati dalle aree fiamminghe specializzate, con la loro impostazione gotica, non rispondevano alla visione rinascimentale che si era diffusa  sull’abbrivio delle opere di grandi maestri.

Il duca promosse un’arazzeria sostenuta da un sistema in cui alle risorse pubbliche si associavano investimenti privati e l’assunzione di responsabilità degli operatori, che dovevano pagare gli aiutanti.  La parte artistica, imperniata sul disegno fiorentino, fu affidata ai più celebri artisti del tempo, dal 1545 a Jacopo Pontormo cui il duca, non del tutto soddisfatto, volle aggiungere il pittore di corte Agnolo Bronzino che ne era stato allievo, un ruolo minore ebbe il Salviati. Per le lavorazioni dei tessuti fino alla trasposizione negli arazzi dei disegni su cartoni degli artisti servivano gli specialisti fiamminghi, la cui reperibilità era favorita dal fatto che erano presenti in Italia come riparatori di arazzi e come tessitori, in particolare  nelle corti settentrionali.

Cosimo riuscì a portare  a Firenze  Nicolas Karcher, che dal  1517  era nell’arazzeria della Corte estense a Ferrara, e nel 1539 si era spostato a Mantova; e Jan Rost, uno degli otto tessitori di Bruxelles  al seguito di Karcher.  “Prendeva così avvio nel 1545 l’arazzeria medicea che, arrivata ultima tra quelle delle corti rinascimentali italiane, si rivelò la più longeva, restando attiva per due secoli e sopravvivendo anche all’estinzione della dinastia fondatrice”.

Questo risultato fu ottenuto con “una visione lungimirante, che puntava alla formazione di addetti locali. Se dall’unione tra il sofisticato disegno fiorentino e l’ingegnosa abilità fiamminga ebbero origine arazzi di qualità superba (la cui fattura originale e  complessa è stata, per la serie di Giuseppe, rilevata e commentata nel corso dei restauri condotti dall’Opificio delle Pietre Dure), tra i compiti assegnati ai tessitori fiamminghi vi era anche quello di trasferire il loro sapere istruendo giovani e fanciulli che, da garzoni con ruoli di mera assistenza, apprendessero il mestiere di tessitori”.

La Acidini conclude così: “E furono appunto i ‘creati fiorentini che assicurarono la continuità dell’arazzeria quando Karcher tornò a Mantova (1554) e Rost morì (1564), sebbene gli splendori raggiunti  dalla primissima produzione – in cui erano stati profusi con dispendio vertiginoso materiali preziosi e tecniche laboriose restassero, per  quelle successive generazioni, inarrivabili”.

Il pensiero va all’elemento prevalente, quello descrittivo, anzi per meglio dire,  narrativo. E’ una storia, quella di Giuseppe, che si dipana in 20 stazioni, quasi una Via Crucis all’incontrario dato che l’escalation non è nella passione e nella tragedia, ma nella esaltazione di doti preclare dell’individuo premiate dalla fortuna amica, che “aiuta gli audaci”, in questo caso i buoni d’animo.

Ma non va trascurata l’importanza delle bordure degli arazzi, che fanno da cornice alle scene descritte all’interno e occupano una parte non trascurabile dell’intera superficie, negli arazzi più piccoli da un terzo a un quinto. Ne parla ampiamente Loretta Dolcini, sottolineando che ebbero “un ruolo compositivo di grande monumentalità”, ma non solo. “Ebbero anche la funzione di vivificare visivamente e stilisticamente pagine figurate, differenziate fra loro non solo per il soggetto e le dimensioni, ma anche talvolta per incongruenze formali dovute alla presenza di artisti che si esprimevano con cifre stilistiche diverse in un periodo assai lungo di realizzazione complessiva”.

.Oltre a questa funzione  ornamentale unificante, ne ebbero un’altra di contenuto: “A esse fu affidato dal duca e dal suo gruppo di fedelissimi intellettuali un complesso significato simbolico, parzialmente ermetico, venato di simbologia ed ermetismo, la cui decrittazione qualifica iconograficamente questi fregi come il vero e proprio spregiudicato manifesto concettuale e politico di tutta l’impresa”.

La magnificenza celebrativa di Cosimo de’  Medici

Ma torniamo all’origine di quest’opera. Gli arazzi sulle storie di Giuseppe, come primo massimo momento dell’arazzeria fiorentina basata sui disegni rinascimentali con i maestri tessitori fiamminghi, furono una delle tante espressioni della magnificenza che Cosimo de’ Medici concepì da mecenate utilizzando il potere delle immagini, dei simboli e dei miti in senso celebrativo.

Ha scritto Morolli che Cosimo  voleva “dare un segno visibilissimo ed eloquentissimo del drastico cambiamento di regime, quasi a proporsi come nuovo e assoluto ed eterno e unico ‘priore’ non più eletto per un semestre, ma consacrato a vita alla guida della città”. Per questo, commenta Pietro Risaliti, “ordinò un nuovo allestimento per l’antica aula repubblicana che diventò una ‘maiestatica sala del trono'”.

Si circondò dei migliori artefici, impiegò ingenti risorse, si mosse con rapidità ed efficienza nel mutare l’assetto  di Firenze con opere come gli Uffizi e il Ponte di Santa Trinità, sotto il profilo urbanistico; e promuovendo non solo le accademie artistiche, letterarie e scientifiche a Firenze e Pisa, ma anche lo sviluppo di fabbriche e laboratori in veri distretti tecnologici artigianali.

Sul piano dell’arte, oltre che collezionista e mecenate come tutti i Medici, fu promotore di opere in emulazione con la Roma cinquecentesca, con grandi artisti. Ne sono espressione i cicli pittorici di Palazzo Vecchio, la sua reggia principesca, che, secondo Risaliti, “sono la dimostrazione superba, quasi titanica, del piano ideologico del mecenate, che crede modernamente in una combinazione di retorica figurativa e propaganda politica, dove l’icona del granduca s’incastona come sole folgorante in una costellazione di epoche, eventi, personaggi che storicizza ed eternizza passato, presente e futuro della dinastia medicea fiorentina”.

Così anche  gli affreschi  di Castello che lo celebrano come rifondatore di Firenze e  i dipinti della  Cappella d’Eleonora sempre in Palazzo Vecchio con il messaggio  politico nelle storie di Cristo. “Mosè non era soltanto figura di Cristo – scrive Antonio Natali – ma anche (e forse segnatamente) immagine del duca: in lui si dovevano vedere incarnate le virtù di condottiero ch’erano necessarie al governo d’una città orgogliosa e fiera della sua storia, ma bisognosa d’una guida sicura”.

Con gli arazzi, quasi contemporanei, commissionati per la sala dei Duecento, sempre a Palazzo Vecchio,  “di nuovo si ricorre a un personaggio eminente  del Vecchio Testamento, lui pure caro alla tradizione fiorentina quale modello di virtù alte: Giuseppe Ebreo. La sua vicenda  umana lo consegna alla storia come esempio specialmente di lealtà, di giustizia e di magnanimità. Tutte doti reputate prerogative indispensabili degli uomini chiamati a guidare uno Stato”.  Di qui il messaggio volto a  identificare il personaggio biblico con il reggitore illuminato di Firenze.

Le storie di Giovanni si trovano anche in altre opere fiorentine di poco precedenti, in particolare le tavole lignee per la camera nuziale di Pierfrancesco Bogherini, dove fu scelto come modello di castità,  autori i maestri della “maniera moderna” del tempo, tra i quali Andrea del Sarto e Pontormo  a cui fu dato l’incarico iniziale per i disegni degli arazzi, per i quali la scelta del soggetto ebbe invece risvolti politici;  finché si aggiunse il Bronzino e in minore misura il Salviati.

Queste tavole interessarono il figlio di Cosimo, Francesco, che nel 1584 volle acquisirle per le sue raccolte, dopo che la moglie di Bogherini nel 1529 si era opposta al loro trasferimento in Francia, respingendo la richiesta del re  Francesco I.

Il suo fu un interesse essenzialmente artistico, ma  il padre “dominus” di Firenze  aveva scelto Giuseppe Ebreo come soggetto della trasposizione artistica e simbolica della propria figura di reggitore saggio e illuminato, che poteva rispecchiarsi in una storia biblica così edificante. E aveva fatto immortalare questa storia negli oltre 400 metri quadrati di arazzi di elevato livello artistico..

Origine e significato della storia di Giuseppe

E’ la  Bibbia  la base dell’intera storia, che  trae origine dall’esigenza di dare una spiegazione alla presenza degli ebrei nel XIII sec. a. C. come schiavi in terra d’Egitto,  lontani dalla terra promessa di Canaan,  e soprattutto di “tessere la grande  epopea della loro liberazione”.

Louis Godart  cita la tesi avanzata dello studioso Graham Smith, che nel 1982 avanzò l’ipotesi che, oltre alla fonte biblica, gli autori degli arazzi possano aver utilizzato anche  il “De Josepho” di Filone d’Alessandria, ben noto a Firenze fin dal Medioevo, per le allegorie relative alla vita del patriarca come uomo politico e perfetto amministratore della cosa pubblica; ma aggiunge che queste “non spiegano del tutto il complicato sovrapporsi dei messaggi talvolta oscuri contenuti negli arazzi, che effettivamente rimandano a un orizzonte culturale assai più vasto e complesso”.

Nella figura di Giuseppe a quegli aspetti agiografici se ne aggiungono altri più penetranti in carattere con i tempi. “Il primo è indubbiamente l’oniromanzia, la capacità di decifrare e interpretare i sogni. Il sapiente, come scrive Ravasi, è colui che sa capire non soltanto ciò che è oggetto dell’esperienza sensoriale ma anche ciò che va al di là della pellicola misteriosa del sonno in cui l’uomo vive una sorta di esperienza di morte. Giuseppe capace di interpretare i sogni ricorda la sacerdotessa di Apollo” cui si rivolgevano come “l’interprete di Dio”. Per questo Giuseppe è definito, nel titolo della mostra, “il principe dei sogni”, che nella sua storia sono elementi decisivi.

Il secondo aspetto evidenziato da Godart è “la politica. Il sapiente deve essere capace di governare e di tenere saldamente in pugno le redini dello Stato”, e nella storia di Giuseppe ci sono decisioni provvidenziali per il suo paese; poi la capacità di sfuggire alle seduzioni e la magnanimità”.

Sulle seduzioni  c’è un terzo aspetto, “la capacità di saper evitare la seduzione della donna straniera”, metafora di “un’altra religione incompatibile con la religione ebraica”. Mentre la magnanimità è legata alle altre doti, “la persona sapiente è anche magnanima”.

C’è poi un’ulteriore dote  che valorizza le altre: “Giuseppe seppe trionfare su tutte le insidie poste sulla sua strada, farsi valere agli occhi dei potenti, recitare un ruolo di primo piano nella gerarchia dell’impero faraonico”.

Per questo la sua “immagine di un uomo mite e probo, capace di sfuggire agli invidiosi, di conquistare una posizione importante partendo dal nulla e contando solo sulle sue qualità intellettuali, era una vera  e propria metafora delle alterne fortune della grande famiglia fiorentina”.  Conclusione: “Attraverso la realizzazione di questi venti arazzi la Corte dei Medici volle quindi che fosse raccontata la storia dell’eroe biblico, le cui vicissitudini tanto somigliavano alla loro saga dinastica”.

La racconteremo prossimamente, dando conto della nostra visita alla mostra. 

Info

Gli arazzi con le “Storie di Giuseppe” vengono presentati in tre mostre nel 2015-2016, a Roma, Palazzo del Quirinale, Salone dei Corazzieri dal 12 febbraio al 12 aprile;  a Milano, Palazzo Reale, Sala delle Cariatidi dal 29 aprile al 23 agosto; infine a Firenze, Palazzo Vecchio, Sala dei Duecento  dal 15 settembre 2015 al 15 febbraio 2016. .Il nostro resoconto viene pubblicato in questo sito in 3 articoli, alle date del  13, 15, 16 settembre 2015.                               .

Foto 

Le fotografie di tutti gli arazzi sono riportate nei 3 articoli del resoconto sopra citati, ciascuno con l’immagine di 7 affreschi più una visione della sala espositiva,  rispttivamente delle mostre di Firenze, Milano e Roma. 

Gelasio Giardetti, l’uomo e Dio nel corpo universale

di Romano Maria Levante

i conclude l’appassionante viaggio nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo, dal cosmo ai “virus”, fino all’essere umano,  con la lettura del  nuovo libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”,  che completa il precedente “Dio, fede e inganno”, dove denunciava che alla fede nelle Sacre Scritture corrisponda l'”inganno” dei passi biblici contraddetti da realtà e logica, e dalla vita dell’uomo, come individuo e collettività, in antitesi ai precetti di fede.   Verrà presentato, come il primo libro, a Roma, nella sede dell’UNAR, via Aldrovandi 16, il 21 giugno 2015.

Del nuovo libro abbiamo già seguito la prima parte del percorso, premessa per  giungere fino a Dio.  Ma prima di passare ai temi conclusivi, nei quali si spazia dalla scienza alla metafisica,   completiamo la carrellata sull’analogia, sorretta da una logica stringente quanto ardita, tra il corpo umano  e il “corpo universale” , nelle loro azioni e reazioni  vicendevoli e speculari.  Abbiamo lasciato il lettore con le aggressioni dei “virus” al corpo umano e del “virus- uomo” al “corpo universale”. Passiamo ora alle difese, trovando ancora delle sorprese avvincenti.

La difesa del “corpo universale” dal “virus-uomo”

Incalza l’analogia, si passa dall’attacco alla difesa: come l’uomo deve difendersi dai “virus”  che minacciano la sua esistenza, altrettanto deve fare il “corpo universale” rispetto al “virus-uomo”.

E  lo fa con il proprio “sistema immunitario”, analogo a quello umano, la “difesa immunologica” avviene attraverso fenomeni naturali che reagiscono alle azioni distruttive del “virus-uomo”.

Si comincia con gli uragani, come conseguenza e reazione all’aumento della temperatura dell'”effetto serra”; sono analizzati  in dettaglio, viene  descritto con dovizia di particolari uno dei più rovinosi, “Katrina”, che nel 2005 devastò diversi stati americani, e si cita come esempio degli uragani più recenti quello chiamato “Haiyan”, che ha seminato distruzioni nelle Filippine nel novembre 2013.  Viene ricordato che dal 1940 il numero degli uragani atlantici è raddoppiato fino a 30 uragani nel solo 2005, effetto  punitivo contro l’uomo che si sta estendendo dagli oceani ai mari più piccoli, come il Mediterraneo, sede di nubifragi rovinosi , come quello di  Venezia nel 2011.

Ma non sono queste le conseguenze più gravi dell’azione distruttiva dell’uomo sull’ambiente, hanno il senso di  azioni dimostrative, di avvertimenti sempre più ultimativi. L’evento più grave, non solo incombente ma in corso, è lo scioglimento dei ghiacciai dovuto anch’esso, secondo precisi meccanismi di fisica cosmica, all'”effetto serra” e non solo. Nell’Antartide masse  ghiacciate della dimensione della Svizzera si stanno staccando, nell’Artico 3-4 gradi  di innalzamento di temperatura hanno fatto diminuire in poco tempo del 40% la consistenza dei ghiacci. I grandi ghiacciai, vere riserve di ghiaccio del pianeta, si sciolgono a ritmo accelerato, e anche quelli piccoli seguono la stessa sorte, viene citato il più meridionale d’Europa, il ghiacciaio del Calderone sul Gran Sasso d’Italia, il cui spessore in 70 anni si è ridotto di 80 metri. La prosecuzione di tale fenomeno stravolgerebbe l’equilibrio dei mari e dell’intero ambiente con un calo di temperatura, in paradossale contrasto con l’aumento dell'”effetto serra”, che porterebbe una terrificante glaciazione nell’intera Europa, oltre all’ aumento del livello dei mari che spazzerebbe via intere zone costiere.

Non è tutto, la reazione del “corpo universale” alle ferite causate dall’aggressione del “virus-uomo” si manifesta anche rispetto alle radiazioni nucleari diffuse dai test atomici, di cui  le maggiori potenze hanno abusato : l’Urss con 715 test, alcuni di devastante potenza, e gli USA  con 1030; la Francia con 132  e l’Inghilterra 45, la  Cina e l’India con 50: per un totale, comprese altre nazioni, di 2055 esplosioni di ordigni nucleari con una potenza complessiva di 440 megatonnellate. Ciò avviene per gli effetti della dispersione nell’ambiente,  attraverso le stesse esplosioni, di particelle radioattive pari a 4000 Kg di plutonio 239 e 500 kg di uranio 235, oltre a molte centinaia di Kg di elementi altamente tossici, come lo stronzio, il cesio e lo iodio: con la loro tossicità provocano una lenta contaminazione  che avvelena  l’ambiente provocando gravi malattie nella specie umana.

Ben più violenta e risolutiva la reazione cosmica a una eventuale guerra nucleare che il “virus-uomo”  potrebbe scatenare per i contrasti economico-finanziari e politici tra le grandi potenze, e per l’esasperarsi dei fondamentalismi nelle aree che detengono la gran parte delle risorse energetiche del pianeta. Lo scenario è apocalittico: il pianeta in fiamme, 2 miliardi di persone sterminati dall’onda d’urto e dal calore, altrettanti destinati a morire presto  per le radiazioni;  ma è solo l’effetto immediato, le polveri radioattive e il “fall out ” sulla terra non solo la contaminerebbero irrimediabilmente, ma la coprirebbero con una cappa che fermerebbe i raggi del sole dando luogo ad uno spaventoso inverno nucleare, facendo tornare all’era glaciale un’umanità sull’orlo dell’estinzione. 

Fantapolitica terroristica? No, sono le conseguenze preconizzate dagli scienziati di un evento non impossibile, dato che lo stesso trattato New Start, che ha messo al bando l’80% degli ordigni nucleari, ne ha consentito 800 per parte, più che sufficienti a provocare tali spaventosi effetti, il conflitto si può scatenare anche per errori di valutazione già corretti più volte in extremis dinanzi ad errate segnalazioni di missili in arrivo.

Dopo  questa “escalation” di violenze della natura come reazione del “corpo universale” alle dissennate aggressioni del “virus-uomo”, un nuovo “cambio di passo”:  dell’uomo viene visto il lato opposto. Ora è l’essere fornito di intelligenza messa al servizio della scienza che, nelle parole di Umberto Veronesi, “lavora sempre per il bene dell’uomo, per il progresso”, al punto da riuscire a creare perfino  la vita in laboratorio, come ha fatto Crayg Venter con il Dna sintetico; e soprattutto l’essere capace di stati d’animo positivi, come le sensazioni di felicità, di amore, di gioia.

La prima considerazione serve all’autore per argomentare analogicamente che, se vi è riuscito l’uomo,  anche il “corpo universale”  è stato in grado di creare la vita: e lo ha fatto  attraverso un processo di “inseminazione cosmica”, al quale in campo scientifico è stato dato il nome inequivocabile di “Panspermia”,  che si è avvalso di materiali organici diffusi, poi elaborati e assemblati negli spazi siderali, “mattoni della vita” catturati per la forza gravitazionale dal pianeta terra come ipotizzato anche da  Francis Crik, scopritore con James Watson della forma elicoidale del Dna, entrambi Premio Nobel 1953 per la medicina, e teorizzato fin dall’inizio del secolo dal Nobel per la chimica Svante Arrhenius, per non parlare dell’astronomo Fred Hoyle nel 1961, e di altri ancora. Scienziati di prima grandezza, anche se gli oppositori sono  numerosi. Ma vi sono prove tangibili nei meteoriti caduti a più riprese dagli spazi cosmici nei quali sono stati rinvenuti questi “mattoni della vita”, tra  cui amminoacidi che non esistono sul pianeta terra, segno di altre forme di vita negli spazi cosmici.

Gli amminoacidi non bastano alla vita, occorre l’acqua, ne viene data ampia spiegazione. Oltre all’acqua endogena, la presenza di isotopi ha provato l’esistenza di acqua esogena, per le violente precipitazioni derivate dalla condensazione del vapore acqueo sprigionatosi  nella formazione della terra per effetto dei violenti fenomeni vulcanici con immissione di gas nell’atmosfera, a seguito della  solidificazione della crosta terrestre e la conseguente pressione che ne fratturò la superficie:  con il raffreddamento si formarono i mari e gli oceani, cui contribuirono meteoriti contenenti ghiaccio.

Nemmeno l’aggiunta dell’acqua basterebbe a spiegare la continuità della vita più elementare se non vi fosse la fotosintesi clorofilliana  che combinando l’acqua all’anidride carbonica e all’energia solare produce zuccheri e ossigeno permettendo la formazione  da sostanze inorganiche di prodotti organici  ad alto contenuto energetico in grado di attivare processi nutritivi e metabolici degli organismi unicellulari.  Così si sviluppò la vita vegetale, e attraverso i protozoi, organismi  unicellulari consumatori di glucosio, si crearono le condizioni per la vita animale. Lo studio dei fossili ha dato delle conferme sulle prime forme di vita autonoma, cioè in grado di riprodursi, apparse 3 milioni di anni fa  dalle cellule “procariote”  da cui derivarono i “mitocondri” che diedero vita alle cellule “eucariote animali” e i cloroplasti delle cellule “eucariote vegetali”.

Il  Dio immanente sovrannaturale di un’alta religiosità

Finora il “corpo universale” e l’uomo sono stati i protagonisti assoluti, e non abbiamo mai citato Dio, sebbene sia il convitato di pietra dell’intera esposizione. A questo punto  va ricordato che si tratta della prosecuzione e chiusura del discorso iniziato nel volume precedente “Dio, fede e inganno” nel quale si contesta l’esistenza del Dio trascendente della Bibbia sottolineando le gravi  incongruenze delle Sacre Scritture rispetto alla realtà verificabile e soprattutto la stridente contraddizione del disegno illuminato di Dio onnipotente, onnisciente e somma bontà, con la realtà umana in cui il male, nelle  forme più violente e spietate, domina contro la presunta volontà divina.

In questo volume si passa dalla critica alla costruzione teologica basata sulla fede, che per l’autore si traduce in inganno  perché irragionevole, alla costruzione di una teoria alternativa, la cosiddetta D.C.A., che usa il metodo analogico come il meno lontano dal metodo sperimentale galileiano non applicabile per ovvi motivi, dato che si basa sulla sperimentazione in un campo analogo dal quale si possono trasferire i risultati nel campo che interessa. E quanto si è esposto fin qui, sintetizzando un percorso complesso e articolato,  riassume  le basi del ragionamento con cui  l’autore  cerca di dare una risposta più credibile del Dio trascendente,  agli  interrogativi  che l’uomo si pone da sempre.

Qual  è questa risposta? L’autore identifica il Dio alternativo a quello trascendente nel “corpo universale” e lo chiama “Dio immanente sovrannaturale”. Questo passaggio cruciale viene motivato con il fatto che un sistema così evoluto come quello cosmico, che arriva ad elaborare strategie di difesa e di reazione rispetto agli attacchi del “virus-uomo”, non può non essere prodotto da un’intelligenza superiore. Anche a questo riguardo si ricorre all’analogia: se la società umana riesce ad organizzarsi come sappiamo nel modo più avanzato e produttivo, così ha saputo fare la società cosmica, in base a  processi e criteri  inimmaginabili per la mente umana confinata negli angusti confini terrestri. L’autore parla di  “società multiversale” perché il cosmo è un “Multiverso” con miliardi di universi come quello cui appartiene la terra, e argomenta che se l’uomo è riuscito a creare la vita artificiale,  non c’è dubbio che la società Multiversale può fare questo e molto di più.

Il “di più” consiste nella qualità di questa vita, che deve creare le condizioni di benessere per il “Dio immanente sovrannaturale” insito, come detto sopra, nel “corpo universale”: e queste risiedono nel flusso di stati d’animo positivi, cioè, nelle parole dell’autore, “sensazioni di felicità, di amore, di gioia, utili a curare la salute psichica del nostro giovane Dio immanente sovrannaturale”.  La sorpresa nella sorpresa la troviamo nel soggetto al quale è demandato questo compito, nel “corpo universale” al quale appartiene la terra: ebbene è l’uomo, capace di tutte le nequizie in ogni epoca e latitudine, ma anche in grado di esprimere questi flussi positivi con la sua intelligenza e sensibilità, che non sono esclusivi, in quanto presenti anche nei miliardi di altri pianeti, ma a lui demandati sulla terra.

E perché muore, allora, si chiede l’autore, se ha una missione così alta e benefica? Proprio per questo, una volta che l’ha assolta per il tempo nel quale gli è stato possibile, la sua esistenza non ha più ragion d’essere. L’analogia paragona questo farmaco del “corpo universale”  al farmaco dell’uomo, e scade nello stesso modo quando cessa la sua capacità benefica: per le medicine dopo un certo tempo che le fa deteriorare, qui quando con l’invecchiamento il prodotto curativo perde efficacia. L’uomo non è più il “virus”  da combattere fino all’eliminazione, ma il farmaco benefico da utilizzare finché conserva la sua efficacia in termini di benessere diffuso nel “corpo universale”.

Non è una contraddizione, perché l'”uomo-virus” è il rovescio della medaglia dell'”uomo-farmaco”:  del resto ci sembra sia un modo diverso, ma equivalente, di vedere la compresenza di bene e male  nella concezione del Dio trascendente rispetto alla quale quella del Dio immanente sarebbe alternativa.

Allo stesso modo ci sembra collimi con la visione del Dio creatore dell’Universo l’attribuzione alla Società multiversale di un’intelligenza assoluta in grado di attivare la vita in miliardi di pianeti, con i processi cosmologici descritti dall’autore; e di finalizzare la vita dell’uomo sulla terra alla produzione di stati d’animo positivi come la gioia e l’amore, la fratellanza e la solidarietà nel nostro pianeta,  analogamente, peraltro, al Dio trascendente nell’insegnamento della Chiesa,  pur se nella “teologia”  analogica c’è in più la convinzione che ciò avvenga anche negli altri mondi galattici.

Resta il problema dei problemi, quello  dell’origine della vita e della sua evoluzione , dalle forme unicellulari più elementari alla più complessa espressione umana dotata di intelligenza. A questo punto entra in campo l’evoluzionismo darwiniano, basato sulle varianti casuali  nell’ambito della stessa specie e sulla selezione naturale che premia quelle “favorevoli” e “vantaggiose” rispetto alle altre che nei confronti dell’ambiente possono essere “sfavorevoli” o addirittura “nocive”.

La forza della teoria darwiniana è stata tale che anche la Chiesa ha dovuto riconoscere validità all’evoluzionismo, però limitandola alla proliferazione delle specie e all’ulteriore differenziazione rispetto a quella biblica; altrimenti  sarebbe errato quanto le Sacre Scritture dicono rispetto, ad esempio, alle  specie salvate nell’Arca di Noè, come evidenziato nel primo libro dell’autore, molto minori di quelle attuali perché aumentate per l’evoluzione naturale; concessione tra molte ambiguità e sempre cercando di ostacolare la conoscenza del pensiero del grande esploratore e scienziato.

E’ tassativa l’attribuzione da parte della Chiesa dell’origine delle specie al “disegno divino”, non ammettendo il “caso” dell’origine darwiniana.  Il disegno divino sarebbe supportato scientificamente dalla teoria della “complessità irriducibile”  del biochimico Michael Behe, secondo cui sistemi come il corpo umano e l’Universo hanno un’estrema complessità, che non può essere dovuta al caso, ma a un disegno intelligente opera di un”divino progettista”: il Dio trascendente.

La teoria D.C.A, che l’autore basa sull’analogia con realtà note, colma la lacuna darwiniana  su cui  fanno leva i creazionisti per far prevalere la loro impostazione,  sostituendo al “caso” dei darwinisti e al “disegno intelligente” di Dio dei creazionisti  un altro disegno intelligente: quello della Società multiversale che avrebbe predisposto i  “mattoni della vita”, cioè gli amminoacidi originari,   e i programmi per passare dalle cellule vegetali a quelle animali, e dagli organismi viventi unicellulari a quelli cellulari più complessi con un solo obiettivo che nelle parole dell’autore è il seguente: “L’avvento della vita intelligente sulla terra  e sugli altri pianeti finalizzata a produrre stati d’animo positivi come la gioia, l’amore, la fratellanza, la solidarietà, cioè stati d’animo capaci di curare la salute mentale dei singoli universi” e, in ultima analisi, come abbiamo già accennato, del “Dio immanente sovrannaturale”.

Avendo questa sola ma primaria funzione, senza il dualismo corpo-anima, la vita intelligente può aver termine quando la funzione si esaurisce per consunzione, cosa che toglierebbe ogni drammaticità alla morte caricata dal  Cristianesimo  di motivi fortemente ansiogeni, come il giudizio sulla vita e le eventuali punizioni da scontare nell’al di là.

E il “Dio immanente sovrannaturale”  nella teoria  elaborata dall’autore?  Lo descriviamo con le sue parole: “La teoria D.C.A., pur escludendo qualsiasi intervento creativo di un  Dio trascendente esterno all’universo ed ogni dualismo tendente a separare, nella natura umana, l’anima immateriale e immortale dal corpo materiale, concreto e corruttibile, concepisce tuttavia l’esistenza di un Dio universo umanizzato, dotato di intelligenza e volontà superiori che ha dato origine all’uomo per un tornaconto personale, per una specifica esigenza: curare lo stato della propria salute mentale”.

Trattandosi di un Dio nell’Universo, anzi nel “corpo universale”, l’autore chiarisce le differenze rispetto al panteismo secondo cui Dio è compenetrato  nella natura  e quindi “tutto è Dio”, e lo fa anche con riferimenti a Giordano Bruno e Spinoza. La D.C.A, pur promuovendo come il panteismo “un connubio indissolubile fra intelligenza e materia, non concepisce tuttavia questa intelligenza cosmica come il prodotto di un afflato divino che possa dare ragione alla formula panteistica ‘Tutto è Dio'”.

Continua l’autore: “In essa, infatti, tutto è umanizzato ad un livello infinitamente superiore alla realtà umana; si potrebbe dire che tutto è umanizzato ad un  livello cosmico, poiché si postula che il nostro Dio universo non è stato creato né dal puro caso né, tanto meno,  per volontà di un qualsiasi principio divino, ma è stato concepito per mezzo di una compenetrazione materiale fisica, si potrebbe dire sessuale, fra due immensi universi paralleli contigui; esso poi è nato, vive, si espande, cresce e sicuramente avrà una fine”.

Si basa sulla cosmologia esplorata in precedenza. “La vita intelligente, a sua volta, è stata formulata e programmata alla stessa stregua di un farmaco per un’esigenza materiale del nostro Dio immanente sovrannaturale”. Ma poi, aggiungiamo noi, è degenerata nel “virus di Dio”.

Il Dio  immanente e il Dio trascendente 

Tornano per altra via le contraddizioni del creazionismo, “l’uomo a immagine e somiglianza di Dio”, mentre d’altra parte ci sembra che la conclusione sia ispirata a una profonda, alta  religiosità, e non di tipo panico, per l’umanizzazione su cui l’autore insiste precisando che il Dio è sì, immanente, ma anche “sovrannaturale”, quindi sovraordinato alla natura.  E allora la vera alternativa è rispetto all’ateismo, alla negazione di ogni intelligenza superiore, all’attribuzione al “caso” o comunque a forze cieche di quanto avviene nell’universo. Mentre  è molto minore la differenza del “Dio immanente sovrannaturale” rispetto al “Dio trascendente” del creazionismo: l’autore lo porta su un piano cosmico peraltro non alternativo alla concezione fideistica che lo vede “nell’alto dei cieli”, quindi in una posizione altrettanto sovrannaturale; e anche  l’immanenza del Dio sovrannaturale concepito dall’autore è presente nella visione cristina, secondo cui è “in ogni luogo”. 

E’ una religiosità non più in chiave antropomorfa e neppure panica quella che vede  il “corpo universale” e la “Società multiversale”  animati da un Dio che è sovrannaturale  e insieme è insito in loro;  ma è umanizzato al punto che  lo sentiamo quanto mai vicino e coerente con il Dio che hanno tutte le anime “nativamente religiose” nell’accezione dannunziana: quella dell’autore, Gelasio Giardetti,  che viene dalla terra  d’Abruzzo, lo è certamente.

Il suo Dio immanente non è meno vicino all’uomo del Dio trascendente – la cui “distanza” è colmata da Cristo, il figlio mandato sulla terra per neutralizzare, con il sacrificio volto alla redenzione,  il “virus-uomo”, per usare il termine creato dall’autore in ben altro contesto  – compenetrato com’è nel “corpo universale” e non immaginato lontano nell’irraggiungibile empireo.  E l’intelligenza dell’uomo in entrambi  risponde a una missione positiva, di benessere e, diremmo, beatitudine.

Non è “a immagine e somiglianza di Dio”  come l’uomo per i creazionisti, ma gli estremi si toccano, verrebbe da dire, forse è più appropriato dire che le distanze anche siderali si annullano. C’è l’entità intelligente, incommensurabilmente superiore ma umanizzata, c’è la missione data all’uomo nel segno dell’amore, c’è la trasgressione del male.

Ma nell’una e nell’altra concezione, immanente o trascendente, l’uomo deviante dalla sua missione resta sempre il “virus di Dio”: nel primo caso combattuto con la forza della natura, nell’altro prima redento con il sacrificio della Croce, poi dissuaso con un’al di là di punizioni e premi.

Inoltre per entrambi l’uomo è anche il “farmaco di Dio”. E così il grande mistero dell’esistenza mantiene il suo fascino mentre si esplora questa nuova strada.  Una via non divergente, ci sembra, come quella dell’ateismo, ma al contrario convergente nella figura di un Dio sovrannaturale, trascendente o immanente che sia, ma sempre con una particolare attenzione all’uomo e una attenzione costante alla sua vita sulla terra.

Info

Il libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”, Arduino Sacco Editore, novembre 2014, pp. 184, euro 19,90, sarà presentato a Roma il 21 giugno 2015 alle ore 17,30 in via Mercadante 16 alla sede della UNAR come è stato per  il libro dello stesso autore – di cui l’attuale rappresenta la continuazione e conclusione – “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, settembre 2013, pp.240, euro 19,90.  Sempre di Gelasio Giardetti, “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, giugno 2008,  pp. 320, euro 18,00. Cfr. i nostri articoli:  in questo sito il  primo articolo sul libro attuale Gelasio Giardetti, il nuovo libro, l’uomo il virus di  Dio”, il 10 giugno 2015,  e l’articolo sul  libro precedente “Dio, mistero senza fine in un libro di Gelasio Giardetti” , 2 febbraio 2014; sui fenomeni cosmici, in questo sito l’articolo sulla mostra  “ Meteoriti  e il pianeta visto dallo spazio”, 5 ottobre 2014 e  in “cultura.inabruzzo.it”, su  ” Astri e particelle” , 12 febbraio 2010, “Visioni celesti”,  26 e 27 maggio 2010.

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Le immagini  si riferiscono  all’altro  termine dell’analogia su cui si impernia l’impostazione dell’autore,  il primo sulla  parte umana è visualizzato nell’articolo precedente; è la volta della parte cosmica visualizzata alternando  immagini del cosmo e dei corpi celesti con quelle degli effetti devastanti delle catastrofi cosmiche. In apertura, la locandina per la presentazione del libro; seguomo una visione cosmica e un terremoto distruttivo, poi il cosmo con visibili dei corpi celesti e la minaccia terrificante di uno tzunami-maremoto, quindi corpi celesti ravvicinati e il devastante scioglimento dei ghiacciai; in chiusura lacopertina di “Gesù, l’uomo”, dello stesso autore, che ha preceduto i due libri su su Dio.  Le immagini cosmiche sono tratte dai siti, nell’ordine, laviadiuscita.net, cetraroinrete.it, ilquotidianoinclasse.quotidiano.net; le immagini degli eventi catastrofici, rispettivamente da meteoweb.eu, youtube.com, notizie.it.  Si ringraziano i titolari dei siti citati e delle immagini utilizzate per l’opportunità offerta,  e si precisa che il loro inserimento nell’articolo ha mere finalità illustrative senza alcuna  necessità e soprattutto senza alcun risvolto economico; ci si impegna, pertanto, a rimuoverle immediatamente su richiesta se la loro pubblicazione  non fosse gradita

Chagall, dalle favole agli innamorati, al Chiostro del Bramante

di Romano Maria Levante

Abbiamo già ripercorso la vita e l’arte dell’artista cui è dedicata la grande mostra  “Marc Chagall. Love and Life. Opere dell’Israel Museum di Gerusalemme” ,  al Chiostro del Bramante, dal   16 marzo  al 26 luglio  2015. Ora diamo conto della visita alle opere esposte che riguardano i temi salienti del suo mondo immaginifico: i  ritratti di personaggi  e i luoghi a lui familiari, le illustrazioni dei  libri della moglie Bella  e di Gogol e quelle delle favole di La Fontaine, il suo straordinario bestiario, fino al culmine degli innamorati, con gli splendidi dipinti in cui spicca il suo grande amore. La mostra è realizzata da Dart e Arthemisia Group con  The Israel Museum di Gerusalemme, e curata da  Ronit Sorek.. Catalogo Skira .

Prima di immergerci nella visione delle opere esposte, che spaziano dai dipinti alle illustrazioni per libri e alle scenografie teatrali, ricapitoliamo per brevi tratti quanto abbiamo più diffusamente ricordato sulla sua arte, strettamente collegata alla vita in una poetica espressiva fatta di realtà e ricordi,  sogni e memoria in cui sono presenti i motivi salienti della propria esistenza, come la madre Russia,  rivissuta da lontano nelle sue lunghe permanenze in Francia e in America, le figure familiari e i personaggi tipici della sua terra, fino all’immagine più amata, la donna di cui si innamorò e poi sposò, Bella, divenuta la personificazione stessa dell’amore inteso in senso universale.

Chagall  attraversa le correnti artistiche del ‘900  traendone gli spunti che ritiene utili per la sua peculiare forma espressiva, ma non aderisce a nessuna di esse, anche se è stato definito “fauvista”, ma essenzialmente per renderne la ribellione rispetto ad ogni visione limitata: la liberà espressiva è stato il suo imperativo.

In tal modo ha potuto rendere le proprie emozioni, in un figurativo che non è realismo né stretta aderenza a quanto rappresenta,  ma non ha neppure l’automatismo psichico dell’espressionismo né la provocatoria illogicità del surrealismo, anche se la sua libertà espressiva si traduce in immagini volanti fuori dal comune.

La sua inconfondibile cifra stilistica si manifesta in un molteplicità di forme d’arte, i dipinti dal forte cromatismo sono la più spettacolare, ma ci sono anche i cicli illustrativi di libri e di opere teatrali, le scenografie e le vetrine, fino alle sculture. La mostra dà conto della sua pittura attraverso pochi  ma fondamentali dipinti, e soprattutto attraverso le multiformi opere grafiche, anch’esse spettacolari nel narrare delle storie in modo di volta in volta arguto, nostalgico, ispirato.

Cominciamo con i “Ritratti“, di “Baa ‘I Makshoves” e “Ala Elishev”, 1918, un “pensatore” e un ragazzo, con un tratteggio chiaroscurale sottile e delicato, cui accostiamo “Autoritratto con sorriso”, 1924-25, che portò con sé in diverse copie nel 1931 nel viaggio in Palestina,, evidentemente si identificava con quest’immagine sorridente. Ben diversa dal grottesco “Autoritratto con smorfia”, 1924-25, .che peraltro fu utilizzato come copertina dell’edizione francese dell’autobiografia “Ma Vie”, segno che si riconosceva anche in questa figura dissacrante: la bocca è distorta, l’occhio è asimmetrico, la selva di capelli sembra quasi un vello, è al limite della deformazione cubista.

Invece un precedente “Autoritratto”, 1923, è calligrafico  e preciso, il viso appena delineato è sovrastato da una casetta sopra i capelli, quasi ad evocare il ricordo dell’abitazione natale in Russia da cui si era allontanato per lungo tempo, precede la visualizzazione analoga del pensiero di Frida Kahlo che espresse la fissazione amorosa dipingendo l’immagine di Rivera sulla propria fronte nell’autoritratto, Qui ci sono anche le due famiglie della sua vita, quella dei genitori e la propria, riprodotte in  piccolo ma con precisione alla base della sua testa, davanti al collo.

La vita familiare è rappresentata nei suoi tanti momenti, con particolare riguardo alle cerimonie rituali della religione ebraica, nelle illustrazioni per  l’autobiografia, “Ma vie”  e per i libri di Bella, “Burning Light”, “First Encounter”: nel Catalogo le immagini sono corredate dai brani del testo che intendono rappresentare, in una sequenza che richiama le trasposizione di romanzi in film.

Dell’Autobiografia sono esposte 15 opere a puntasecca. Le sue parole: “Il mio mondo, la  mia vita, tutte le cose che amavo, tutte le cose che sognavo, tutte le cose che non ho saputo dire a parole, le ho dipinte”. Indica anche quali sono: “Ho dipinto la mia amata Russia, la mia città Vitebsk, la comunità ebraica nella quale sono cresciuto, il modo in cui vedevo ogni cosa quando ero bambino”.

Fa questo con lo stile che gli è proprio in quel periodo, inizio anni ’20,  dalla linearità assoluta alle composizioni più complesse. Rievoca gli anni dell’infanzia con lo spirito del “figliol prodigo”, ha detto Mayer, che ritrova la sua terra con le emozioni della riscoperta di se stesso e insieme con  la sorpresa che si prova dinanzi a un mondo nuovo dopo tante esperienze diverse, nuovo e antico.

Vediamo  celebrati gli affetti familiari in “Nascita” e “Madre e figlio”, “Mio padre” e “Accanto alla tomba di mia madre”,  “La nonna” e “La casa del nonno”;  i luoghi della sua infanzia in “Casa  Podrovska a Svibek” e “Casa a Pescovatik”; i personaggi pittoreschi in “Il rabbino” e il  “Musicista”, mentre l’ “Automobilista” ha in testa il veicolo con la stessa scelta figurativa del pensiero fisso del suo Autoritratto con la casa sul capo.

E l’amore? Non manca in questa galleria, lo vediamo in “Innamorati sulla riva del fiume” con le figure maschile e femminile giustapposte,  una è rovesciata, e “Il Cancello”, con due piccole figure schiacciate nel momento del bacio. La più straordinaria è “La passeggiata”, dove la figura maschile in piedi con il braccio alzato e tiene per mano la figura femminile in volo, un’icona: è una puntasecca che ritroveremo in un dipinto ad olio con una sorpresa finale per il visitatore.

Non mancano neppure opere che, a differenza di quelle ora citate, per lo più calligrafiche, hanno un forte impatto cromatico: sono  le acqueforti “Studio per il mercante di bestiame”, dove troviamo gli animali da lui tanto amati, la mucca sul carretto, il vitello sulle spalle della donna, addirittura un puledro in grembo alla giumenta che traina il carro; e  “La caduta dell’angelo”, dove l’artista raffigura se stesso evocando dei sogni ricorrenti;  un tema analogo in “L’apparizione”, anche qui si rappresenta nella veste di un pittore sorpreso dalla comparsa dell’angelo, in una sorta di annunciazione laica.

La vita familiare nel clima tradizionale attraversato dai rituali religiosi dell’ebraismo è al centro pure delle illustrazioni per i libri di Bella, di cui la mostra presenta un vasto campionario, circa 40,  la maggior parte in china in tratto calligrafico, e alcune con ombreggiature in acquatinta e gouache.

I libri sono “Burning Lights” e “First Encounter”, dai titoli si evince il contenuto, tenendo conto che  le candele accese richiamano i rituali ebraici,  e il primo incontro evoca immagini dell’adolescenza.

Nel primo, dopo la figura di “Bella” e “Il bagno”,  “Il negozio” e “Ora di pranzo”, che presentano l’autrice e momenti di quotidianità,  abbiamo la sfilata di immagini su feste rituali: le due di “Shabbat” e le tre dello “Yom Kippur, il giorno dell’espiazione“, le cinque di “La quinta luce di Chanukkah” con l’accensione progressiva delle candeline, “Capodanno ebraico” e  le due sulla “Festa delle Capanne o dei tabernacoli”, con la capanna in cui le famiglie consumano il pranzo rituale, una in forti colori; “I commedianti di Purin” e “I dolci di Purin”, riferiti a una festa gioiosa, “Il libro di Ester” e “Vigilia del Pesach”, la Pasqua ebraica, e la “Cena rituale pasquale”, fino al “Profeta Elia”.

In “Primo incontro”, invece,  tutte le illustrazioni riguardano la vira familiare senza riferimenti religiosi: vediamo “A spasso con il babbo” e “Le nozze di Aaron”, fratello di Bella, le due di “Visite” ed  “Estate  in campagna”, “L’orologiaio” che evoca il negozio del padre al quale si riferiscono le quattro su “La collana di perle”, una vera sequenza cinematografica dell’acquisto di una signora elegante ripresa prima fuori dal negozio, poi al banco, infine in volo su un animale mitico, non il Pegaso, come sulle ali della felicità.

L’evocazione diventa più personale in “Il treno” e “La barca”, entrambi con l’immagine di Bella in alto, che vola sopra ai mezzi di tarsporto, nel secondo è abbracciata dall’innamorato; come lo è in “Regali di nozze”. La sequenza inizia idealmente in “Il ponte”, la prima volta che lei lo vide, poi “Primo incontro” mostra i volti congiunti in modo del tutto particolare, tema sviluppato nelle quattro di “Il compleanno” in cui compare anche la posizione acrobatica con la testa rovesciata all’indietro per cercare il bacio, torna in mente “Il cancello” dell’autobiografia in cui invece l’attrazione irresistibile era resa dalle figure schiacciate.

Le illustrazioni per “Le anime morte” di Gogol, seguono quelle per “Ma vie” e per i libri di Bella , ci lavorò dal 1923 al 1927, si tratta di 96 incisioni realizzate per l’editore francese Vollard, ma furono pubblicate solo nel 1948 dall’editore Tériade. Definita da Gogol  “poema epico in prosa” e “romanzo in versi”, l’opera è una visione satirica della società russa portata fino all’assurdo. E’ imperniata sul paradosso della ricerca di agiatezza con l’acquisto delle “anime morte” dei  servi della gleba, sulla cui presenza in vita  venivano tassati i proprietari terrieri.  Per questo la rappresentazione di Chagall è caricaturale, ma soffusa di nostalgia condivisa con Gogol perché i due artisti russi erano entrambi lontani dal loro paese, dopo il 1840 Gogol,  dopo il 1920 Chagall.

Il segno resta abbastanza sottile, anche se meno che nelle illustrazioni precedentemente commentate, ma le figure  sono evidenziate da forti macchie scure che danno loro grande rilievo. Questo per  le acqueforti in bianco  e nero intenso, con i diversi personaggi: “L’arrivo di Cicikov” e “Manilov e Cicikov sulla soglia”, “Il cocchiere Selifan” e “Nazdrev”, “Sobakevic” e “Sobakevic a tavola”, “La signora Sobakevic” “la signora Korobocka”, fino a “Petrucka”; “La piccola città” crea l’ambiente in cui si svolge la vicenda, “Una folla di contadini” e “Gli imbianchini” popolano in modo  pittoresco la scena, “Chiedendo la strada”,  “Le carte da gioco”  e “La tavola scricchiolante” fotografano momenti particolari. E’ un campionario delle 96 illustrazioni, esposto nelle vetrine in una penombra che fa risaltare le tonalità scure delle acqueforti.

Ci sono anche delle esplosioni di colore, sono 3 stupende “gouache” e pastello su carta, con una dominante verde e blu brillante che illumina la scena: “Fisarmonica” e “Acrobata disteso su un ramo” , con due figure, la prima raccolta in un interno, la seconda quasi in volo all’esterno; “La chiesa di Chambon-sur-Lac” dietro un granaio cadente, con una donna e un bambino vicini alla scala  a pioli, è l’ambiente dove si era recato per preparare le illustrazioni di La Fontaine.

Nelle acqueforti per le Favole di La Fontaine si esprime in modo fantasioso, in composizioni più dense di quelle ora descritte, in una ulteriore escalation di ombre e macchie scure dopo la linearità calligrafica  delle illustrazioni per “Ma vie” e la maggiore  intensità grafica di quelle per “Le anime morte”. Dai disegni leggeri alle acqueforti con macchie scure a una impostazione grafica più pesante e netta, con colori solo accennati, quando ci sono., sovrastati dal nero della forma grafica..

Il mondo degli animali è per l’artista insieme favolistico e reale, perché lo riporta alla sua infanzia nella campagna russa e all’attrazione che ha avuto per loro, spesso presenti nei suoi dipinti. 

Ha scritto nell’autobiografia: “Spesso dicevo: io non sono un artista. Piuttosto una vacca o cos’altro?”. Rafael Alberti ricorda: “Quando, col poeta Jules Supervielle, entrammo nella casa del pittore Marc Chagall, vedemmo che era una vacca quella che ci aveva aperto la porta. Una volta dentro, vacche da  tutte le parti: su armadi, tavoli, sedie, libri. ‘Chagall, ma il suo atelier è una stalla”. E prosegue in una visione immaginifica dell’incontro in cui l’artista dice: “Bisogna amare le vacche. Bisogna amarle molto. Per me l’universo intero è popolato di vacche. Mi perseguitano anche in sogno. Sì, vacche da tutte le parti. Non esistono persone al mondo. Solo vacche”.

Nelle  favole  di La Fontaine “la scena è l’universo”, con  gli animali di ogni specie, e un campionario umano pittoresco ed espressivo.  Chagall è come se rappresentasse la commedia umana, il serraglio in cui uomini e bestie sono rinchiusi in un clima tra la realtà e l’immaginazione.

Erano state già illustrate da  Gustave Dorè, ma l’editore Vollard volle affidarne l’illustrazione all’artista russo: “Perché Chagall? Disse. La mia risposta è: ‘Semplicemente perché la sua estetica mi pare in certo modo affine a quella di La Fontaine, solida ma al contempo delicata, realistica ma anche fantastica”. Del resto la Fontaine era anche lui un emigrato a Parigi,  e condivideva con Chagall la visione serena e distaccata, all’insegna della fantasia e dell’umorismo.

L’artista per meglio immedesimarsi in quel mondo, che pure ben conosceva, nel 1926 si spostò da Parigi nei paesi di campagna, e nel 1928 aveva realizzato un centinaio di illustrazioni a colori.  Poi, per superare le difficoltà editoriali, passò alle acqueforti in bianco e nero che sarebbero state colorate  successivamente a mano, fino a formare dei veri originali; usò bulino  e pennello per ottenere un maggiore chiaroscuro. Furono pubblicate in un’edizione di 200 cartelle solo nel 1952.

Chagall  vi trova l’ideale per le sue metafore immaginifiche e la personificazione degli animali nei soggetti umani, lo fa con amore e arguzia, più interessato a questo che alla morale della favola. Vediamo esposte circa venti grandi tavole. 5 coinvolgono solo gli animali a coppie: “Il Corvo e la Volpe” e “La Volpe e la Cicogna”, “L’Aquila e lo Scarabeo” con “I due Galli” e “I due Muli”; altre  5 tavole,  animali con figure umane o altro: “Il Cigno e il Cuoco” e “Il Contadino e il Serpente”,  “Il Pavone e Giunone” e “La Gallina e la Perla”;  altre ancora con il campionario umano, “Il Ragazzo e il Maestro di scuola” e  “La Vecchia padrona e le due Serve”, “Il Contadino e il Banchiere” e “Il Ciarlatano”; fino alle penetranti “La Morte e il Disgraziato” e “L’Uomo e la sua Immagine”,  “Il Vaso di terra” e il “Vaso di Ferro”, e alle personificazioni più esplicite, “La Gatta cambiata in Donna”  e “Il Leone innamorato”.

I colori sono utilizzati per sottolineare l’aspetto saliente del soggetto rappresentato, semplici macchie cromatiche  in un impasto compositivo molto denso, che dà una particolare profondità alla rappresentazione con il senso onirico dato dall’emergere spesso da un fondo oscuro.

C’è il trionfo del colore, invece, nelle illustrazioni della Bibbia, che gli furono commissionate dallo stesso editore Vollard prima che ultimasse quelle della favole di La Fontaine, ne realizzòe 66, poi l’interruzione della  Seconda guerra mondiale e nel 1952 le altre 39., per un totale di 105 acqueforti che saranno pubblicate nel 1956 dall’editore Tériade. 

Superfluo sottolineare l’attrazione esercitata in lui dalla Bibbia in  termini religiosi, abbiamo visto nelle illustrazioni per “Ma Vie”  quanti fossero i riti ebraici seguiti e rappresentati con amorevole trasporto.  Inoltre considerava l’artista non solo portatore del messaggio da trasmettere, bensì anche una sorta di “creatore”  dell’opera artistica.

Ma c’è di più: “Sono stato affascinato dalla Bibbia sin dalla prima infanzia – ha detto l’artista – Mi è sempre sembrata la più grande fonte di poesia di tutti i tempi. Da allora ho sempre cercato di trovarne il riflesso nella vita e nell’arte. La Bibbia è come un’eco della natura e questo è il segreto che ho cercato di trasmettere”. E per meglio immedesimarsi si recò in Palestina, come abbiamo ricordato,  nei luoghi della rivelazione biblica che lo colpirono con il loro fascino ambientale, così da divenire una parte fondamentale della sua rappresentazione. Le tragiche vicende della persecuzione nazista degli ebrei e della guerra che sconvolgeva l’Europa trovano un’eco nella sua rappresentazione dell’odissea del popolo di Israele, fino alla definitiva liberazione.

Sono esposte acqueforti da diversi capitoli della Bibbia:  “Il sacrificio di Noè” e “Sara e Abmelek”,  “Il sacrificio di Isacco” e “La tomba di Rachele”; “Daniele” e “”Davide”,  “Davide e Samuele” e “Davide e Betsabea”,  “Mosè” e “Mosè riceve le tavole della legge”,  “Il passaggio del Mar Rosso” e “Sansone solleva le porte di Gaza”, fino a  “Il canto dell’arco”.

Quelle su Mosè, Davide e  Davide e Betsabea hanno il cromatismo più intenso, ma la maggiore efficacia drammatica l’abbiamo vista plasticamente in due acquerelli del 1944: “Crocifissione” con una selva di crocifissi e cartelli sulla loro origine ebraica,  corpi a terra,  una figura inerme in alto su una paesaggio di stragi in una strada innevata; “La cavalcata”, come un Cristo in alto benedicente una folla attonita, con tre destrieri bianchi dietro di lui e figure in volo nel cielo.

E così siamo giunti a quello che per noi è il “clou” dell’esposizione e, in un cero senso, la cifra peculiare dell’universo artistico e ideale di Chagall. Ai dipinti sugli innamorati, posti nella vasta sala al piano superiore del Chiostro  del Bramante, a conclusione del percorso espositivo che si snoda tra i numerosi ambienti piccoli e raccolti tra i quadri alle pareti e le illustrazioni nelle vetrine.

Il sentimento d’amore viene espresso attraverso immagini in un intenso cromatismo, con la dominante blu del cielo e il verde e il rosso, il giallo e il bianco dei fiori, spesso presenti.  Due dipinti esposti presentano soltanto fiori, sono “Albza (i fiori”, e “Natura morta con fiori  e frutta”.

E’ solo la premessa, i fiori  circondano  le immagini degli “Innamorati”, due figure piccolissime al centro della composizione costituita da una imponente fioritura, in alto un angelo in  volo, in basso una scena agreste, tutto quasi in miniatura rispetto ai fiori. In “Coppia di innamorati con i fiori” le due figure in volo abbracciate nel cielo blu sopra i tetti cittadini sono affiancate da un gigantesco mazzo di fiori che sembra poggiato sulla campagna sovrastando di gran lunga il campanile della chiesa. 

C’è anche  “Coppia di innamorati con gallo”, immagine onirica, come un’altra immagine di “Innamorati”, due volti sognanti accostati con un contorno di fronde e di bacche.

Sono immagini dal forte effetto cromatico che carica di una luce speciale le figure dolcemente abbracciate oppure librate in volo.

Non è finita, ritroviamo “La passeggiata”, già  descritta nel disegno per “Ma vie”, qui c’è il dipinto su fondo giallo, con la figura maschile in piedi, il braccio sinistro proteso in alto, la mano stringe quella della sua donna librata nel cielo. E’ di piccole dimensioni, ma la mostra regala la sorpresa di un’installazione speciale, che proietta alla parete l’immagine a grandezza naturale, con un particolare accorgimento che permette al visitatore di fotografarsi al posto del soggetto in piedi, in modo da essere lui a tenere per mano la figura librata in cielo.

“Quest’immagine dell’innamorata che vola – scrive Efrat Aharon – è  un simbolo perfetto della felicità condivisa, esprimendo sia l’estasi dell’appagamento fisico sia una percezione cosmica di unione con la natura”.   Il volo è la figurazione maggiormente espressiva dello stato d’animo di estasi vissuto nel suo grande amore per Bella che resterà anche dopo la morte della moglie trasformandosi in una idealizzazione che la vede continuamente presente nelle sue opere.

Fu un vero colpo di fulmine, lo descrive nell’Autobiografia: “Sebbene questa sia stata la prima volta che l’ho vista, io sento che è lei la mia donna”. E lo spiega: “Il suo silenzio è il mio. I suoi occhi i miei. Sento che mi conosce da sempre, che conosce la mia infanzia, la mia vita di oggi, il mio futuro. Come se avesse sempre vegliato su di me, intuendo il mio più intimo essere”.

Poi a Parigi per quattro anni, torna in Russia, la sposa, hanno la figlia Ida, vi resta otto anni quindi di nuovo in Francia, dopo un anno a Berlino, è il periodo più bello in cui percorrono la Francia in lungo in largo, vivono il loro amore in paesaggi e atmosfere suggestive.

 “Quei viaggi – prosegue la Aharon – non mancarono di influire sul suo modo di trattare il tema dell’amore. L’artista eseguì  dipinti dai colori intensi e dalle forme liriche che esprimevano il rinnovato spirito amoroso  e giovanile che lui e Bella avvertivano nella terra che li ospitava”. E ancora: “Il suo interesse per l’amore non si limitò più al forte sentimento per Bella, ma si dilatò ad abbracciare un sentimento universale”.

E’ questa universalità che riesce ad esprimere rendendo il trasporto estatico sulle ali dell’amore. Farne partecipe il visitatore al punto di farlo entrare all’interno del dipinto con l’installazione descritta è una vera magia che la mostra regala al visitatore, con altri segni di attenzione come i timbri e le calcomanie chagalliane  a disposizione i tutti. Così ognuno può portare con sé dei segni tangibili, quasi testimonianze della sua immersione nel mondo incantato di Chagall, che resta nel cuore per la sua straordinaria carica suggestiva ed evocativa nel suo stile personalissimo di straordinario livello  artistico.

Info

Chiostro del Bramante, Via Arco della Pace, 5, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì ore 10,00-20,00; sabato e domenica  ore 10,00-21,00, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso,  intero euro 13, ridotto  euro 11  (aani 11-18 e oltre 65, studenti oltre 26 anni), euro 5 (anni 4-11, e nei lunedì di “promo” per studenti universitari). Tel. 06.68809035, www.chiostrodelbramante.it , www.ticket.it/chagall.  Catalogo: “Chagall. Love and Life. Opere dall’Israel Museum di Gerusalemme”, Skira, marzo 2015, pp. 190, formato 24 x 28. Cfr. anche  “Chagall”, collana “I Classici dell’arte, il Novecento”, Rizzoli-Skira 2004,  pp. 190, formato 17 x 21.  Il primo articolo,  “Chagall, amore e vita al Chiostro del Bramante”,  è uscito in questo sito il 30 maggio 2015 con 11 immagini. Cfr., per la citazione di  Frida Kahlo, gli articoli sulla mostra a Roma 24 marzo, 12, 16 aprile 2014; inoltre, per l’arte contemporanea, l’articolo “Israel now, 24 artisti israeliani al Macro Testaccio”  6 febbraio 2013. Per altre citazioni cfr. il nostro primo articolo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Chiostro del Bramante alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare  Arthemisia Group e Dart, con i titolari dei diritti, in particolare l’Israel Museum, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Gli innamorati”, 1954-55; seguono,  “Nazdrev”, 1948 da “Le anime morte”, e “Crocefissione”, 1944;  poi,  “Coppia di innamorati con gallo”, 1951, e  “La cavalcata”, 1944″; quindi, “Natura morta con frutta e fiori”, 1956-57, e “Sobakevic a tavola”, 1948 da “Le anime morte”; inoltre “Davide e Betsabea”, 1955 dalla “Bibbia”, e “La vecchia padrona e le due serve” , 1927-30 dalle “Favole” di La Fontaine; infine, “Sara e Abmelek”, 1960 alla “Bibbia” e, in chiusura, la proiezione con l’immagine della “Passeggiata” in cui si può inserire il visitatore ( me stesso) al termine del percorso, nella sala con i dipinti degli “innamorati” posta   al secondo piano dell’esposizione.

Gelasio Giardetti, l’uomo e Dio nel corpo universale

di Romano Maria Levante

Si conclude l’appassionante viaggio nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo, dal cosmo ai “virus”, fino all’essere umano,  con la lettura del  nuovo libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”,  che completa il precedente “Dio, fede e inganno”, dove denunciava che alla fede nelle Sacre Scritture corrisponda l'”inganno” dei passi biblici contraddetti da realtà e logica, e dalla vita dell’uomo, come individuo e collettività, in antitesi ai precetti di fede.   Verrà presentato, come il primo libro, a Roma, nella sede dell’UNAR, via Aldrovandi 16, il 21 giugno 2015.

Del nuovo libro abbiamo già seguito la prima parte del percorso, premessa per  giungere fino a Dio.  Ma prima di passare ai temi conclusivi, nei quali si spazia dalla scienza alla metafisica,   completiamo la carrellata sull’analogia, sorretta da una logica stringente quanto ardita, tra il corpo umano  e il “corpo universale” , nelle loro azioni e reazioni  vicendevoli e speculari.  Abbiamo lasciato il lettore con le aggressioni dei “virus” al corpo umano e del “virus- uomo” al “corpo universale”. Passiamo ora alle difese, trovando ancora delle sorprese avvincenti.

La difesa del “corpo universale” dal “virus-uomo”

Incalza l’analogia, si passa dall’attacco alla difesa: come l’uomo deve difendersi dai “virus”  che minacciano la sua esistenza, altrettanto deve fare il “corpo universale” rispetto al “virus-uomo”.

E  lo fa con il proprio “sistema immunitario”, analogo a quello umano, la “difesa immunologica” avviene attraverso fenomeni naturali che reagiscono alle azioni distruttive del “virus-uomo”.

Si comincia con gli uragani, come conseguenza e reazione all’aumento della temperatura dell'”effetto serra”; sono analizzati  in dettaglio, viene  descritto con dovizia di particolari uno dei più rovinosi, “Katrina”, che nel 2005 devastò diversi stati americani, e si cita come esempio degli uragani più recenti quello chiamato “Haiyan”, che ha seminato distruzioni nelle Filippine nel novembre 2013.  Viene ricordato che dal 1940 il numero degli uragani atlantici è raddoppiato fino a 30 uragani nel solo 2005, effetto  punitivo contro l’uomo che si sta estendendo dagli oceani ai mari più piccoli, come il Mediterraneo, sede di nubifragi rovinosi , come quello di  Venezia nel 2011.

Ma non sono queste le conseguenze più gravi dell’azione distruttiva dell’uomo sull’ambiente, hanno il senso di  azioni dimostrative, di avvertimenti sempre più ultimativi. L’evento più grave, non solo incombente ma in corso, è lo scioglimento dei ghiacciai dovuto anch’esso, secondo precisi meccanismi di fisica cosmica, all'”effetto serra” e non solo. Nell’Antartide masse  ghiacciate della dimensione della Svizzera si stanno staccando, nell’Artico 3-4 gradi  di innalzamento di temperatura hanno fatto diminuire in poco tempo del 40% la consistenza dei ghiacci. I grandi ghiacciai, vere riserve di ghiaccio del pianeta, si sciolgono a ritmo accelerato, e anche quelli piccoli seguono la stessa sorte, viene citato il più meridionale d’Europa, il ghiacciaio del Calderone sul Gran Sasso d’Italia, il cui spessore in 70 anni si è ridotto di 80 metri. La prosecuzione di tale fenomeno stravolgerebbe l’equilibrio dei mari e dell’intero ambiente con un calo di temperatura, in paradossale contrasto con l’aumento dell'”effetto serra”, che porterebbe una terrificante glaciazione nell’intera Europa, oltre all’ aumento del livello dei mari che spazzerebbe via intere zone costiere.

Non è tutto, la reazione del “corpo universale” alle ferite causate dall’aggressione del “virus-uomo” si manifesta anche rispetto alle radiazioni nucleari diffuse dai test atomici, di cui  le maggiori potenze hanno abusato : l’Urss con 715 test, alcuni di devastante potenza, e gli USA  con 1030; la Francia con 132  e l’Inghilterra 45, la  Cina e l’India con 50: per un totale, comprese altre nazioni, di 2055 esplosioni di ordigni nucleari con una potenza complessiva di 440 megatonnellate. Ciò avviene per gli effetti della dispersione nell’ambiente,  attraverso le stesse esplosioni, di particelle radioattive pari a 4000 Kg di plutonio 239 e 500 kg di uranio 235, oltre a molte centinaia di Kg di elementi altamente tossici, come lo stronzio, il cesio e lo iodio: con la loro tossicità provocano una lenta contaminazione  che avvelena  l’ambiente provocando gravi malattie nella specie umana.

Ben più violenta e risolutiva la reazione cosmica a una eventuale guerra nucleare che il “virus-uomo”  potrebbe scatenare per i contrasti economico-finanziari e politici tra le grandi potenze, e per l’esasperarsi dei fondamentalismi nelle aree che detengono la gran parte delle risorse energetiche del pianeta. Lo scenario è apocalittico: il pianeta in fiamme, 2 miliardi di persone sterminati dall’onda d’urto e dal calore, altrettanti destinati a morire presto  per le radiazioni;  ma è solo l’effetto immediato, le polveri radioattive e il “fall out ” sulla terra non solo la contaminerebbero irrimediabilmente, ma la coprirebbero con una cappa che fermerebbe i raggi del sole dando luogo ad uno spaventoso inverno nucleare, facendo tornare all’era glaciale un’umanità sull’orlo dell’estinzione. 

Fantapolitica terroristica? No, sono le conseguenze preconizzate dagli scienziati di un evento non impossibile, dato che lo stesso trattato New Start, che ha messo al bando l’80% degli ordigni nucleari, ne ha consentito 800 per parte, più che sufficienti a provocare tali spaventosi effetti, il conflitto si può scatenare anche per errori di valutazione già corretti più volte in extremis dinanzi ad errate segnalazioni di missili in arrivo.

Dopo  questa “escalation” di violenze della natura come reazione del “corpo universale” alle dissennate aggressioni del “virus-uomo”, un nuovo “cambio di passo”:  dell’uomo viene visto il lato opposto. Ora è l’essere fornito di intelligenza messa al servizio della scienza che, nelle parole di Umberto Veronesi, “lavora sempre per il bene dell’uomo, per il progresso”, al punto da riuscire a creare perfino  la vita in laboratorio, come ha fatto Crayg Venter con il Dna sintetico; e soprattutto l’essere capace di stati d’animo positivi, come le sensazioni di felicità, di amore, di gioia.

La prima considerazione serve all’autore per argomentare analogicamente che, se vi è riuscito l’uomo,  anche il “corpo universale”  è stato in grado di creare la vita: e lo ha fatto  attraverso un processo di “inseminazione cosmica”, al quale in campo scientifico è stato dato il nome inequivocabile di “Panspermia”,  che si è avvalso di materiali organici diffusi, poi elaborati e assemblati negli spazi siderali, “mattoni della vita” catturati per la forza gravitazionale dal pianeta terra come ipotizzato anche da  Francis Crik, scopritore con James Watson della forma elicoidale del Dna, entrambi Premio Nobel 1953 per la medicina, e teorizzato fin dall’inizio del secolo dal Nobel per la chimica Svante Arrhenius, per non parlare dell’astronomo Fred Hoyle nel 1961, e di altri ancora. Scienziati di prima grandezza, anche se gli oppositori sono  numerosi. Ma vi sono prove tangibili nei meteoriti caduti a più riprese dagli spazi cosmici nei quali sono stati rinvenuti questi “mattoni della vita”, tra  cui amminoacidi che non esistono sul pianeta terra, segno di altre forme di vita negli spazi cosmici.

Gli amminoacidi non bastano alla vita, occorre l’acqua, ne viene data ampia spiegazione. Oltre all’acqua endogena, la presenza di isotopi ha provato l’esistenza di acqua esogena, per le violente precipitazioni derivate dalla condensazione del vapore acqueo sprigionatosi  nella formazione della terra per effetto dei violenti fenomeni vulcanici con immissione di gas nell’atmosfera, a seguito della  solidificazione della crosta terrestre e la conseguente pressione che ne fratturò la superficie:  con il raffreddamento si formarono i mari e gli oceani, cui contribuirono meteoriti contenenti ghiaccio.

Nemmeno l’aggiunta dell’acqua basterebbe a spiegare la continuità della vita più elementare se non vi fosse la fotosintesi clorofilliana  che combinando l’acqua all’anidride carbonica e all’energia solare produce zuccheri e ossigeno permettendo la formazione  da sostanze inorganiche di prodotti organici  ad alto contenuto energetico in grado di attivare processi nutritivi e metabolici degli organismi unicellulari.  Così si sviluppò la vita vegetale, e attraverso i protozoi, organismi  unicellulari consumatori di glucosio, si crearono le condizioni per la vita animale. Lo studio dei fossili ha dato delle conferme sulle prime forme di vita autonoma, cioè in grado di riprodursi, apparse 3 milioni di anni fa  dalle cellule “procariote”  da cui derivarono i “mitocondri” che diedero vita alle cellule “eucariote animali” e i cloroplasti delle cellule “eucariote vegetali”.

Il  Dio immanente sovrannaturale di un’alta religiosità

Finora il “corpo universale” e l’uomo sono stati i protagonisti assoluti, e non abbiamo mai citato Dio, sebbene sia il convitato di pietra dell’intera esposizione. A questo punto  va ricordato che si tratta della prosecuzione e chiusura del discorso iniziato nel volume precedente “Dio, fede e inganno” nel quale si contesta l’esistenza del Dio trascendente della Bibbia sottolineando le gravi  incongruenze delle Sacre Scritture rispetto alla realtà verificabile e soprattutto la stridente contraddizione del disegno illuminato di Dio onnipotente, onnisciente e somma bontà, con la realtà umana in cui il male, nelle  forme più violente e spietate, domina contro la presunta volontà divina.

In questo volume si passa dalla critica alla costruzione teologica basata sulla fede, che per l’autore si traduce in inganno  perché irragionevole, alla costruzione di una teoria alternativa, la cosiddetta D.C.A., che usa il metodo analogico come il meno lontano dal metodo sperimentale galileiano non applicabile per ovvi motivi, dato che si basa sulla sperimentazione in un campo analogo dal quale si possono trasferire i risultati nel campo che interessa. E quanto si è esposto fin qui, sintetizzando un percorso complesso e articolato,  riassume  le basi del ragionamento con cui  l’autore  cerca di dare una risposta più credibile del Dio trascendente,  agli  interrogativi  che l’uomo si pone da sempre.

Qual  è questa risposta? L’autore identifica il Dio alternativo a quello trascendente nel “corpo universale” e lo chiama “Dio immanente sovrannaturale”. Questo passaggio cruciale viene motivato con il fatto che un sistema così evoluto come quello cosmico, che arriva ad elaborare strategie di difesa e di reazione rispetto agli attacchi del “virus-uomo”, non può non essere prodotto da un’intelligenza superiore. Anche a questo riguardo si ricorre all’analogia: se la società umana riesce ad organizzarsi come sappiamo nel modo più avanzato e produttivo, così ha saputo fare la società cosmica, in base a  processi e criteri  inimmaginabili per la mente umana confinata negli angusti confini terrestri. L’autore parla di  “società multiversale” perché il cosmo è un “Multiverso” con miliardi di universi come quello cui appartiene la terra, e argomenta che se l’uomo è riuscito a creare la vita artificiale,  non c’è dubbio che la società Multiversale può fare questo e molto di più.

Il “di più” consiste nella qualità di questa vita, che deve creare le condizioni di benessere per il “Dio immanente sovrannaturale” insito, come detto sopra, nel “corpo universale”: e queste risiedono nel flusso di stati d’animo positivi, cioè, nelle parole dell’autore, “sensazioni di felicità, di amore, di gioia, utili a curare la salute psichica del nostro giovane Dio immanente sovrannaturale”.  La sorpresa nella sorpresa la troviamo nel soggetto al quale è demandato questo compito, nel “corpo universale” al quale appartiene la terra: ebbene è l’uomo, capace di tutte le nequizie in ogni epoca e latitudine, ma anche in grado di esprimere questi flussi positivi con la sua intelligenza e sensibilità, che non sono esclusivi, in quanto presenti anche nei miliardi di altri pianeti, ma a lui demandati sulla terra.

E perché muore, allora, si chiede l’autore, se ha una missione così alta e benefica? Proprio per questo, una volta che l’ha assolta per il tempo nel quale gli è stato possibile, la sua esistenza non ha più ragion d’essere. L’analogia paragona questo farmaco del “corpo universale”  al farmaco dell’uomo, e scade nello stesso modo quando cessa la sua capacità benefica: per le medicine dopo un certo tempo che le fa deteriorare, qui quando con l’invecchiamento il prodotto curativo perde efficacia. L’uomo non è più il “virus”  da combattere fino all’eliminazione, ma il farmaco benefico da utilizzare finché conserva la sua efficacia in termini di benessere diffuso nel “corpo universale”.

Non è una contraddizione, perché l'”uomo-virus” è il rovescio della medaglia dell'”uomo-farmaco”:  del resto ci sembra sia un modo diverso, ma equivalente, di vedere la compresenza di bene e male  nella concezione del Dio trascendente rispetto alla quale quella del Dio immanente sarebbe alternativa.

Allo stesso modo ci sembra collimi con la visione del Dio creatore dell’Universo l’attribuzione alla Società multiversale di un’intelligenza assoluta in grado di attivare la vita in miliardi di pianeti, con i processi cosmologici descritti dall’autore; e di finalizzare la vita dell’uomo sulla terra alla produzione di stati d’animo positivi come la gioia e l’amore, la fratellanza e la solidarietà nel nostro pianeta,  analogamente, peraltro, al Dio trascendente nell’insegnamento della Chiesa,  pur se nella “teologia”  analogica c’è in più la convinzione che ciò avvenga anche negli altri mondi galattici.

Resta il problema dei problemi, quello  dell’origine della vita e della sua evoluzione , dalle forme unicellulari più elementari alla più complessa espressione umana dotata di intelligenza. A questo punto entra in campo l’evoluzionismo darwiniano, basato sulle varianti casuali  nell’ambito della stessa specie e sulla selezione naturale che premia quelle “favorevoli” e “vantaggiose” rispetto alle altre che nei confronti dell’ambiente possono essere “sfavorevoli” o addirittura “nocive”.

La forza della teoria darwiniana è stata tale che anche la Chiesa ha dovuto riconoscere validità all’evoluzionismo, però limitandola alla proliferazione delle specie e all’ulteriore differenziazione rispetto a quella biblica; altrimenti  sarebbe errato quanto le Sacre Scritture dicono rispetto, ad esempio, alle  specie salvate nell’Arca di Noè, come evidenziato nel primo libro dell’autore, molto minori di quelle attuali perché aumentate per l’evoluzione naturale; concessione tra molte ambiguità e sempre cercando di ostacolare la conoscenza del pensiero del grande esploratore e scienziato.

E’ tassativa l’attribuzione da parte della Chiesa dell’origine delle specie al “disegno divino”, non ammettendo il “caso” dell’origine darwiniana.  Il disegno divino sarebbe supportato scientificamente dalla teoria della “complessità irriducibile”  del biochimico Michael Behe, secondo cui sistemi come il corpo umano e l’Universo hanno un’estrema complessità, che non può essere dovuta al caso, ma a un disegno intelligente opera di un”divino progettista”: il Dio trascendente.

La teoria D.C.A, che l’autore basa sull’analogia con realtà note, colma la lacuna darwiniana  su cui  fanno leva i creazionisti per far prevalere la loro impostazione,  sostituendo al “caso” dei darwinisti e al “disegno intelligente” di Dio dei creazionisti  un altro disegno intelligente: quello della Società multiversale che avrebbe predisposto i  “mattoni della vita”, cioè gli amminoacidi originari,   e i programmi per passare dalle cellule vegetali a quelle animali, e dagli organismi viventi unicellulari a quelli cellulari più complessi con un solo obiettivo che nelle parole dell’autore è il seguente: “L’avvento della vita intelligente sulla terra  e sugli altri pianeti finalizzata a produrre stati d’animo positivi come la gioia, l’amore, la fratellanza, la solidarietà, cioè stati d’animo capaci di curare la salute mentale dei singoli universi” e, in ultima analisi, come abbiamo già accennato, del “Dio immanente sovrannaturale”.

Avendo questa sola ma primaria funzione, senza il dualismo corpo-anima, la vita intelligente può aver termine quando la funzione si esaurisce per consunzione, cosa che toglierebbe ogni drammaticità alla morte caricata dal  Cristianesimo  di motivi fortemente ansiogeni, come il giudizio sulla vita e le eventuali punizioni da scontare nell’al di là.

E il “Dio immanente sovrannaturale”  nella teoria  elaborata dall’autore?  Lo descriviamo con le sue parole: “La teoria D.C.A., pur escludendo qualsiasi intervento creativo di un  Dio trascendente esterno all’universo ed ogni dualismo tendente a separare, nella natura umana, l’anima immateriale e immortale dal corpo materiale, concreto e corruttibile, concepisce tuttavia l’esistenza di un Dio universo umanizzato, dotato di intelligenza e volontà superiori che ha dato origine all’uomo per un tornaconto personale, per una specifica esigenza: curare lo stato della propria salute mentale”.

Trattandosi di un Dio nell’Universo, anzi nel “corpo universale”, l’autore chiarisce le differenze rispetto al panteismo secondo cui Dio è compenetrato  nella natura  e quindi “tutto è Dio”, e lo fa anche con riferimenti a Giordano Bruno e Spinoza. La D.C.A, pur promuovendo come il panteismo “un connubio indissolubile fra intelligenza e materia, non concepisce tuttavia questa intelligenza cosmica come il prodotto di un afflato divino che possa dare ragione alla formula panteistica ‘Tutto è Dio'”.

Continua l’autore: “In essa, infatti, tutto è umanizzato ad un livello infinitamente superiore alla realtà umana; si potrebbe dire che tutto è umanizzato ad un  livello cosmico, poiché si postula che il nostro Dio universo non è stato creato né dal puro caso né, tanto meno,  per volontà di un qualsiasi principio divino, ma è stato concepito per mezzo di una compenetrazione materiale fisica, si potrebbe dire sessuale, fra due immensi universi paralleli contigui; esso poi è nato, vive, si espande, cresce e sicuramente avrà una fine”.

Si basa sulla cosmologia esplorata in precedenza. “La vita intelligente, a sua volta, è stata formulata e programmata alla stessa stregua di un farmaco per un’esigenza materiale del nostro Dio immanente sovrannaturale”. Ma poi, aggiungiamo noi, è degenerata nel “virus di Dio”.

Il Dio  immanente e il Dio trascendente 

Tornano per altra via le contraddizioni del creazionismo, “l’uomo a immagine e somiglianza di Dio”, mentre d’altra parte ci sembra che la conclusione sia ispirata a una profonda, alta  religiosità, e non di tipo panico, per l’umanizzazione su cui l’autore insiste precisando che il Dio è sì, immanente, ma anche “sovrannaturale”, quindi sovraordinato alla natura.  E allora la vera alternativa è rispetto all’ateismo, alla negazione di ogni intelligenza superiore, all’attribuzione al “caso” o comunque a forze cieche di quanto avviene nell’universo. Mentre  è molto minore la differenza del “Dio immanente sovrannaturale” rispetto al “Dio trascendente” del creazionismo: l’autore lo porta su un piano cosmico peraltro non alternativo alla concezione fideistica che lo vede “nell’alto dei cieli”, quindi in una posizione altrettanto sovrannaturale; e anche  l’immanenza del Dio sovrannaturale concepito dall’autore è presente nella visione cristina, secondo cui è “in ogni luogo”. 

E’ una religiosità non più in chiave antropomorfa e neppure panica quella che vede  il “corpo universale” e la “Società multiversale”  animati da un Dio che è sovrannaturale  e insieme è insito in loro;  ma è umanizzato al punto che  lo sentiamo quanto mai vicino e coerente con il Dio che hanno tutte le anime “nativamente religiose” nell’accezione dannunziana: quella dell’autore, Gelasio Giardetti,  che viene dalla terra  d’Abruzzo, lo è certamente.

Il suo Dio immanente non è meno vicino all’uomo del Dio trascendente – la cui “distanza” è colmata da Cristo, il figlio mandato sulla terra per neutralizzare, con il sacrificio volto alla redenzione,  il “virus-uomo”, per usare il termine creato dall’autore in ben altro contesto  – compenetrato com’è nel “corpo universale” e non immaginato lontano nell’irraggiungibile empireo.  E l’intelligenza dell’uomo in entrambi  risponde a una missione positiva, di benessere e, diremmo, beatitudine.

Non è “a immagine e somiglianza di Dio”  come l’uomo per i creazionisti, ma gli estremi si toccano, verrebbe da dire, forse è più appropriato dire che le distanze anche siderali si annullano. C’è l’entità intelligente, incommensurabilmente superiore ma umanizzata, c’è la missione data all’uomo nel segno dell’amore, c’è la trasgressione del male.

Ma nell’una e nell’altra concezione, immanente o trascendente, l’uomo deviante dalla sua missione resta sempre il “virus di Dio”: nel primo caso combattuto con la forza della natura, nell’altro prima redento con il sacrificio della Croce, poi dissuaso con un’al di là di punizioni e premi.

Inoltre per entrambi l’uomo è anche il “farmaco di Dio”. E così il grande mistero dell’esistenza mantiene il suo fascino mentre si esplora questa nuova strada.  Una via non divergente, ci sembra, come quella dell’ateismo, ma al contrario convergente nella figura di un Dio sovrannaturale, trascendente o immanente che sia, ma sempre con una particolare attenzione all’uomo e una attenzione costante alla sua vita sulla terra.

Info

Il libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”, Arduino Sacco Editore, novembre 2014, pp. 184, euro 19,90, sarà presentato a Roma il 21 giugno 2015 alle ore 17,30 in via Mercadante 16 alla sede della UNAR come è stato per  il libro dello stesso autore – di cui l’attuale rappresenta la continuazione e conclusione – “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, settembre 2013, pp.240, euro 19,90.  Sempre di Gelasio Giardetti, “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, giugno 2008,  pp. 320, euro 18,00. Cfr. i nostri articoli:  in questo sito il  primo articolo sul libro attuale Gelasio Giardetti, il nuovo libro, l’uomo il virus di  Dio”, il 10 giugno 2015,  e l’articolo sul  libro precedente “Dio, mistero senza fine in un libro di Gelasio Giardetti” , 2 febbraio 2014; sui fenomeni cosmici, in questo sito l’articolo sulla mostra  “ Meteoriti  e il pianeta visto dallo spazio”, 5 ottobre 2014 e  in “cultura.inabruzzo.it”, su  ” Astri e particelle” , 12 febbraio 2010, “Visioni celesti”,  26 e 27 maggio 2010.

Foto

Le immagini  si riferiscono  all’altro  termine dell’analogia su cui si impernia l’impostazione dell’autore,  il primo sulla  parte umana è visualizzato nell’articolo precedente; è la volta della parte cosmica visualizzata alternando  immagini del cosmo e dei corpi celesti con quelle degli effetti devastanti delle catastrofi cosmiche. In apertura, la locandina per la presentazione del libro; seguomo una visione cosmica e un terremoto distruttivo, poi il cosmo con visibili dei corpi celesti e la minaccia terrificante di uno tzunami-maremoto, quindi corpi celesti ravvicinati e il devastante scioglimento dei ghiacciai; in chiusura lacopertina di “Gesù, l’uomo”, dello stesso autore, che ha preceduto i due libri su su Dio.  Le immagini cosmiche sono tratte dai siti, nell’ordine, laviadiuscita.net, cetraroinrete.it, ilquotidianoinclasse.quotidiano.net; le immagini degli eventi catastrofici, rispettivamente da meteoweb.eu, youtube.com, notizie.it.  Si ringraziano i titolari dei siti citati e delle immagini utilizzate per l’opportunità offerta,  e si precisa che il loro inserimento nell’articolo ha mere finalità illustrative senza alcuna  necessità e soprattutto senza alcun risvolto economico; ci si impegna, pertanto, a rimuoverle immediatamente su richiesta se la loro pubblicazione  non fosse gradita

Chagall, amore e vita, al Chiostro del Bramante

di Romano Maria Levante

La  mostra “Marc Chagall. Love and Life. Opere dell’Israel Museum di Gerusalemme” , presenta al Chiostro del Bramante, dal   16 marzo  al 26 luglio  2015, un’ampia selezione della raccolta del  museo, che l’artista ha  sostenuto sin dalla creazione, sui suoi  temi peculiari: dai ritratti ai luoghi della sua vita, dai libri della moglie Bella  e di Gogol alle favole, fino al “clou”  rappresentato dagli innamorati. Realizzata da Dart e Arthemisia Group in collaborazione con  The Israel Museum di Gerusalemme, di cui fa parte la curatrice  Ronit Sorek.. Catalogo Skira , con testi di Sivan Eran-Levian, Efrat Aharon e Meira Perry-Lehmann.

Dopo Mirò, al Chiostro del Bramante un altro grande del ‘900. Provenienza da un’unica sede museale, come per le  mostre al Palazzo Esposizioni  di opere dello Stadhael Museum di Berlino o  del Guggenheim di New York, con la differenza che allora sono stati presentati molti  artisti.

Nel caso odierno abbiamo un museo e un artista, il museo è The Israel Museum di Gerusalemme, l’artista è Marc Chagall, e la mostra viene realizzata  nell’anno in cui si festeggia il  50° anniversario dalla sua istituzione, che fa dire al direttore James S. Snyder: “Qual modo migliore di celebrare quest’evento di una mostra dedicata a Chagall, un artista che sin dai tempi della sua fondazione, è stato uno dei pilastri della nostra istituzione?”.. 

La mostra non è antologica né tematica in senso stretto, ma   realizza gli obiettivi delle due impostazioni per  l’ampiezza della raccolta presso The Israel Museum, che ha sostenuto con cospicue donazioni di proprie opere, come ha fatto la figlia nel 1990, dopo la sua scomparsa, donando i disegni con cui furono illustrati i libri della moglie Bella, esposti in mostra.

Un artista versatile, nelle forme  utilizzate: pittura e disegno in primo piano, ma anche incisione e scultura, arazzo e mosaico, fino alla scenografia teatrale; e  nei contenuti, dato che ha spaziato, molto più dei suoi contemporanei, su  una vasta gamma di temi  legati alla sua particolare visione dell’arte.

Lionello Venturi ha scritto: “La sua opera si identifica con la sua personalità artistica, è una metafora poetica della propria biografia”. Ripercorriamo, quindi, i momenti salienti di una vita movimentata e feconda, molto lunga: nato il 7 luglio 1887, scompare il 28 marzo 1985 a 97 anni.

Ha attraversato tutto il ‘900, un secolo quanto mai ricco di tendenze artistiche, dall’impressionismo al futurismo, dall’espressionismo al surrealismo, dal cubismo al fauvismo, vi è stato inquadrato di volta in volta ma ne è rimasto sempre estraneo. Ha scritto nell’Autobiografia: “Abbasso il Naturalismo, l’Impressionismo, il Cubismo realista”, dei  cubisti diceva: “Che mangino, quando hanno fame, le loro pere quadrate sulle loro tavole triangolari”; rispetto all’automatismo psichico e al riferimento all’inconscio dei surrealisti, era mosso da emozioni e  ricordi, ispirato dalla  memoria, dalla nostalgia, dal  sogno. Sono tutti movimenti dai quali ha tratto di volta in volta motivi per arricchire la sua  linea stilistica e di contenuti senza rinunciare mai alla sua spiccata individualità.

Prima che dalle correnti artistiche,  ha ricevuto sollecitazioni molteplici dai crocevia di culture  in cui si è trovato  in una vita attraversata da radicali mutamenti nelle sue vicende esistenziali.

La biografia di cui l’opera è la metafora poetica: la formazione  

La sua formazione iniziale è all’insegna della cultura ebraica della sua famiglia, i genitori e otto fratelli e sorelle, i nonni e gli zii. Trascorse l’infanzia  nel chiuso mondo dello shtetl ebraico,  tra casa, scuola e sinagoga, considerata la vera patria del popolo eletto in cui gli ebrei sono costretti a muoversi. Ma presto si apre alla cultura della Russia, dove è nato e risiede a Vitebesk, in quanto la madre  dopo la scuola primaria ebraica riesce ad iscriverlo in una scuola russa che gli apre orizzonti nuovi non più ristretti alla visione identitaria e confessionale della piccola cerchia ebraica.

Questa maggiore libertà  gli consente di seguire la propria vocazione pittorica concentrandosi sui ritratti dei familiari e sui panorami, mentre la religione ebraica si opponeva a queste manifestazioni di arte figurativa. I familiari, dopo una iniziale resistenza, lo assecondano, anzi la madre lo porta nell’atelier di Jehuda Pen, dove entra  nel 1906 a 19 anni “inebriato , esaltato dall’odore dei colori e dei quadri”.

Per un anno studia  i rudimenti del figurativo e del cromatismo, poi nel 1907 si trasferisce a San Pietroburgo ed entra in contatto con l’ambiente artistico, senza aderire ad alcuna corrente ma maturando un proprio stile. Vi  resta fino al 1910, i temi dei primi  dipinti di questo periodo sono ritratti e paesaggi, cioè i soggetti a lui vicini che ne colpiscono la sensibilità e l’immaginazione. Quindi parenti e amici, rabbini e mendicanti, oltre alle casette di legno e alla chiesetta di Vitebsk, nel salto dal paese natale alla grande San Pietroburgo resta il ricordo della sua immagine evocativa.  

In primo piano  spesso c’è il suonatore di violino, solista nell’orchestra “klezmer” delle feste  popolari ebraiche, e  personaggio delle favole  russe, tra la vita errabonda e il potere divino dello strumento musicale: diventa un tema ricorrente dei propri cicli artistici, che torna  come un ritornello musicale.

Entra il nudo nelle sue tematiche, modella è Thea  Brachman,  che nel 2009 gli presenta Bella Rosenfeld:  fu amore a prima vista, la sposerà nel 1915, sarà una presenza ricorrente nei dipinti.

A Parigi 

Nel 1910 da San Pietroburgo a  Parigi, con una borsa di studio  offertagli dal mecenate Max Vinaver, il salto è molto grande perché nella capitale dell’arte  vive nel quartiere bohemienne della “Ruche”, a Montparnasse, con molti artisti ebrei provenienti dall’Est europeo.

Entra  in contatto con artisti affermati ed emergenti, da Modigliani a Soutine, da De Chirico a Picasso, recepisce gli stimoli del cubismo di Delaunay e del fauvismo di Matisse, ma senza farsi distogliere dai  motivi  che lo fanno restare legato al suo mondo: “Lo sperimentalismo del pittore – scrive  Federica Tammarazio – muove verso una direzione coerente con il messaggio pittorico insito nelle sue tele: non un’arte dell’intelletto e dell’analisi, ma un’arte dell’animo e della sfera emotiva”.

Nel periodo parigino, dal 1910 al 1914, mentre il suo stile evolve per gli influssi ricevuti, i soggetti  restano legati ai sentimenti verso la donna  amata,  ai  ricordi del paese natale, ai personaggi, presenti nella vita e nella memoria dell’artista, tra il reale e l’immaginario.

Sono quattro anni di attività intensa, nei quali – sempre secondo la Tammarazio – “l’inventiva del pittore concepisce un linguaggio figurativo e poetico sublime e incantatore”: tra i tanti soggetti ritratti di sé e della sua donna, e di figure caratteristiche come il Violinista dell’orchestra “klezmer” e l’Acrobata del circo, un tema che lo attira come metafora del mondo circostante; mentre la metafora del rapporto tra la dimensione interiore e la realtà esteriore la trova evocando i ricordi della terra natale insieme alla presenza parigina, “creando una nuova geografia, quella dei sentimenti e della nostalgia, in cui le distanze non devono più essere misurate e confrontate, ma si colmano attraverso le rive di un fiume, la Senna o la Dvina”. La sua visione dello spazio esula dalla sua reale posizione.

Del resto lo spazio in cui si svolge la sua vita continua a mutare.  A Parigi partecipa a mostre collettive con grandi nomi al Salon d’Autonme nel 2012 e al Salon des Indépendants nello stesso anno e nei due anni successivi; Apollinaire lo presentò al mecenate e mercante Walden che gli organizzò la prima mostra personale a Berlino nel 2014  presso la galleria Der Sturm; verrà a sapere presto che tutti i dipinti esposti erano andati perduti.

Il ritorno nella madre Russia

La notizie lo raggiunse  in Russia dove tornò, sempre nel 1914, per il matrimonio della sorella e anche per rivedere Bella dopo quattro anni,  “ancora un anno e tutto, forse, sarebbe finito tra noi” era il suo timore. Ma lo sorprese un evento sconvolgente,  lo scoppio della 1^ guerra mondiale.

Il suo programma era di trattenersi solo tre mesi, ma la Grande guerra e  la  Rivoluzione dell’ottobre 1917  gli impediranno di ripartire e per otto anni rimarrà a Vitebsk  dopo il lungo soggiorno all’estero in cui poteva vederlo solo  con gli occhi della nostalgia: può disegnare dal vero e dipingere ritratti, paesaggi e panorami della sua terra.

Riesce ad evitare la leva obbligatoria che lo avrebbe portato a combattere al fronte, e trova lavoro al Ministero della Guerra,  Nel 1915, il 25 luglio, sposa Bella, vanno a vivere nella campagna russa:  l’ambiente bucolico e l’amore per la sua sposa si traducono in dipinti dalle tonalità delicate che esprimono l’atmosfera dell’ambiente e lo stato d’animo interiore improntato al sentimento. 

Nel 1916 espone a San Pietroburgo. Mantiene il figurativo respingendo qualsiasi tentazione astratta, mentre il soggetto – gli amanti, la città, i personaggi –  al centro della composizione è reso nei particolari, in una forma  extra-dimensionale che sarà la sua peculiare cifra artistica: il volo è una visione onirica e soprannaturale dell’amore, che fa librare nell’aria gli innamorati al di sopra della realtà con la sua forza soprannaturale, come motore della creazione. Una concezione quasi religiosa.

La  Rivoluzione d’Ottobre non è solo un impedimento al ritorno a Parigi, sconvolge l’assetto sociale e culturale, oltre che politico, dà maggiori diritti e libertà agli ebrei ma introduce  condizionamenti nel mondo dell’arte, che diventeranno controlli su stili e correnti da mettere al servizio dell’ideologia. Il “Realismo socialista”  sarà il verbo cui gli artisti dovranno aderire.

Chagall, per la notorietà acquisita, viene nominato nel 1918 Commissario per le Belle Arti nella regione di Vitebsk , con il compito di organizzare musei e mostre e creare un’Accademia delle Belle Arti;  lo  fa con ottimi risultati raggiungendo 600 iscritti con insegnanti prestigiosi, dal suo maestro Jehuda Pen a Malevic; ma quest’ultimo fa abbracciare il Suprematismo all’Accademia,  e lui, non accettando la perdita della libertà artistica, si dimette da Direttore e da Commissario.

Intanto si è dedicato al teatro –  che lo interessa perché  vi convergono diverse forme d’arte,  letteratura e recitazione, musica e pittura –  in particolare nel  disegnare  scenografie teatrali e nell’ideare costumi di scena nell’atmosfera multidisciplinare del teatro “yiddish”, che si impegna a promuovere. Già nel 1919 realizza studi e disegni per le scene di opere di Gogol, nel 1920  altre tre scenografie e la decorazione del teatro ebraico da Camera,  7 pannelli con la personificazione di Musica e  Teatro,  Danza e  Letteratura,  personaggi tradizionali ebraici, le nozze  e  l’amore.

Raggiunto da Bella e dalla loro figlia Ida, intanto scrive l’autobiografia “La mia vita”, con una serie di disegni per illustrarla, Paul Cassirer è pronto a pubblicarla.

Di nuovo in Francia 

Nel 1923, al termine dell’estate, rientra in Francia dopo otto anni, accolto felicemente nell’ambiente artistico e culturale; la sua produzione riprende i temi legati alla capitale francese, coniugandoli con il tema dell’amore che domina ormai la sua ispirazione, con una parte  riservata al teatro e a  personaggi letterari. Mostra un’evoluzione stilistica, che assorbe elementi cubisti, fauvisti e suprematisti, ma c’è sempre più la dominante  dell’amore, rappresentata da Bella,  unita alla sua terra, alle icone parigine, e  ai personaggi ebraici caratteristici, immersi in uno spazio del tutto particolare: “La concezione dello spazio – secondo la Tammarazio – come un unico universo in cui l’atmosfera è l’insieme delle sensazioni e delle emozioni, e l’idea dell’esistere come un continuo dialogo con l’interiorità  e con i sentimenti, sono tutti retaggio del credo religioso in cui Chagall è stato cresciuto e allenato,  la fede ebraica hassidica, fondata sulla gioia e sull’espressione di questa nella sfera divina attraverso canti e danze”: è l ‘atmosfera mistica, ludica e sognante dei suoi quadri.

Esprime visivamente i propri sentimenti interiori, tendendo sempre di più alla visione onirica fino all’inconscio, e questo suscita l’interesse di André Breton che gli chiede di sottoscrivere il Manifesto  del Surrealismo nel segno degli stati d’animo interiori, ma rifiuta per non vincolare la propria libertà espressiva; del resto, come abbiamo accennato, non collimavano, essendo il Surrealismo legato allo stato psichico mentre Chagall era mosso da sentimenti ed emozioni, ricordi e sogni. Entra nella sua pittura anche l’elemento floreale, ispirato da frequenti visite alla campagna.

Nel 1926-27 si dedica anche all’incisione, con le illustrazioni delle “Anime morte” di Gogol, dopo le scenografie teatrali del 1919, delle “Favole”  di La Fontaine e del “Cirque Vollard”, dal nome dell’editore con il quale aveva assistito agli spettacolo serali del Cirque d’Hiver, tema che lo aveva già interessato nei primi anni come metafora del mondo intorno a lui, ora vi vede un mondo a parte con la fusione de corpi di uomini e animali in movimenti morbidi e sinuosi, in un clima magico e favolistico in cui entrano figure caratteristiche come il violinista, e la folla russa. 

La sua attrazione per gli animali risale alle esperienze dell’infanzia, allorché dipingeva “per notti intere” le vacche che muggivano, tanto che  Sebastiano Grasso, in “Chagall, Parigi e le vacche”  vi ha imperniato  le sue considerazioni intorno all’artista che vede personificato nell’animale e cita i ricordi al riguardo di Rafael Alberti esclamando: “Ma Chagall non è solo una vacca. E’ anche una capra, un pesce, un gallo, un asino, una volpe, un violinista,  parte dei sogni che hanno popolato l’infanzia. Una pittura che si respira nell’attimo in cui si coglie il respiro della vita di tutti i giorni”.

Nel 1931 – l’anno in cui viene pubblicata la sua autobiografia “Ma vie”, tradotta in francese da Bella e con 37 sue illustrazioni –  riceve  un’altra commissione dell’editore Vollard, per illustrare la Bibbia;  così la religione ebraica, sottesa alla sua visione interiore, adesso prende il primo piano;  va in  Palestina con Bella sui luoghi dell’Antico Testamento, Gerusalemme lo ispira, si concentra  più che sulle scene bibliche, sul panorama e sui luoghi sacri per gli ebrei riportandoli alla sacralità delle origini, tornato a Parigi realizza le acqueforti. E’ solo l’inizio, tornerà sui temi biblici con i dipinti.

La  vita per gli ebrei in Europa si fa sempre più difficile,  nel 1933  mentre a Basilea si apre una sua grande retrospettiva, in Germania vengono bruciate le sue opere; tra il 1933 e il 1935 compie una serie di viaggi, in Spagna e Olanda, Gran Bretagna e Italia, fino alla Polonia che gli ispira dipinti  angosciosi perché sente che sul mondo ebraico sta per abbattersi la tragedia. 

Negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali

Da Parigi si trasferisce nella regione della Loira, poi allo scoppio della Seconda guerra mondiale  nel sud della Francia, finché le persecuzioni razziali lo costringono  alla fuga negli Stati Uniti, dove  le antiche amicizie lo aiutano a inserirsi;  nel 1941 viene  organizzata una mostra  delle sue opere e gli viene chiesto di realizzare scenografia e costumi di un  balletto con musiche di Cajkovskij e coreografie di Massine per il Metropolitan Opera di New York, con 4 grandi tele, la prima avviene in Messico nel 1942, la luminosità solare del paese sudamericano aggiunge colori caldi alla sua pittura che si popola anche di animali e figure zoomorfe inedite.

Le notizie dell’invasione nazista della Russia  e dello sterminio degli ebrei si traducono in una serie di dipinti  dai toni cupi dai quali traspare il suo stato d’animo  angosciato per la sorte del suo popolo.  Poi la tragedia personale, l’improvvisa morte di Bella  a cui era così legato, nel 1944, ne soffre  a tal punto da abbandonare la pittura e isolarsi dal mondo per un intero anno; poi, aiutato dagli amici e dalla figlia Ida, riprende  a dipingere quadri dedicati all’amata scomparsa, entrando in “una nuova dimensione pittorica”, nota la Tammarazio: “Ora il passato e il ricordo fanno spazio a una realtà parallela, una terra interiore  in cui trova posto tutto ciò che non è più nel mondo: la sua terra devastata e distrutta, la sua donna scomparsa, qui tutto ritrova il suo posto, intatto, illeso, salvo per sempre”.

Gli ultini quarant’anni, i  motivi della sua arte

E’ il 1945, Chagall si riapre così alla vita,  ancora scenografie e costumi per un balletto, l'”Uccello di fuoco” con musiche di Stravinskij, sempre per il grande teatro newyorkese, ambientato in Russia. Anche il mondo torna  respirare con la fine della guerra, per lui un’altra grande retrospettiva a New York e l’unione con Virginia Haggart McNeil da cui ha un figlio, vivrà con lei per sette anni.

Nelle sue opere della seconda metà degli anni ’40, tuttavia, ricorre la figura di Bella  eternata con le immagini luminose della veste nuziale circonfusa di bianco e di colori come un’apparizione; termina anche dipinti incompiuti dell’inizio degli anni ’20, sempre con la moglie. Alla guerra dedica un trittico in cui sviluppa il tema precedente della Rivoluzione in tre tavole dedicate alla Resistenza, alla Resurrezione e alla Liberazione, in cui il popolo ebraico festeggia con Mosè.

La sua fama in Europa è cresciuta a dismisura, è impegnato in eventi e mostre in Olanda e Svizzera, Gran Bretagna e Italia dove viene premiato per le sue incisioni alla Biennale di Venezia del 1948; anno in cui vengono pubblicate le illustrazioni di Gogol, seguite nel 1952 da quelle di La Fontaine. Inoltre torna sui temi biblici che aveva già rappresentato nelle acqueforti del 1931 che saranno ripubblicate nel 1957,  con un ciclo pittorico molto intenso, che proseguirà fino al 1975: un viaggio all’interno dell’Antico testamento, con i grandi patriarchi, per mostrare il cammino del popolo ebraico nella fede, una metafora anche del proprio viaggio interiore.   Le  grandi tele, con disegni e schizzi preparatori, saranno raccolte nel Musée National Message Biblique Marc Chagall, istituito appositamente nel 1973 a Nizza,  seguendo le sue indicazioni per rendere anche lo spazio partecipe del messaggio religioso e umano dei suoi dipinti biblici.

La visione è teatrale, del resto si dedica anche al teatro in America con le scenografie per “Dafne” e “Cloe” di Ravel e il “Flauto magico” di Mozart, oltre al ciclo sul “Cantico dei.Cntici”, definito “un inno all’amore e alla vita”.

Nei primi anni ’60  realizza un’opera monumentale, la decorazione del soffitto dell’Opera di Parigi, dipingendo  un Olimpo musicale così  descritto dalla Tammarazio: “Quattordici compositori e altrettante opere della musica classica contemporanea  convivono in uno spazio in cui la fantasia, il sogno, l’universo favolistico e mitologico prendono vita dai colori liquidi stesi da Chagall e dall’atmosfera, che più che d’aria sembra tessuta nella musica stessa”.    Poi si dedica anche alle vetrate per chiese e cattedrali fino al termine degli anni ’70.

Continua a dipingere con l’amore che diviene il “collante universale”  che unisce i suoi temi, dalla sua terra alle sue donne. Nel 1950 è  terminata la relazione con Virginia, e  inizia quella con Valentine Brodskij, cui è legato anche da origini ebraiche e russe comuni, la sposa il 12 luglio 1952.

Muore 33 anni dopo, il 28 marzo 1985 e dopo questa lunga cavalcata nella sua vita e nella sua arte, ci piace concludere con le parole della  Tammarazio: “Marc Chagall lascia questo mondo, attraversando l’esile confine  tra la realtà e l’universo del sogno, già tante volte sfiorato sulla tela, raggiungendo finalmente il proprio immaginario”.

Lo conosceremo da vicino, con questa suggestiva premessa, nella visita alle sue opere che racconteremo  prossimamente.

Info

Chiostro del Bramante, Via Arco della Pace 5, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì ore 10,00-20,00; sabato e domenica  ore 10,00-21,00, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso,  intero euro 13, ridotto  euro 11  (aani 11-18 e oltre 65, studenti oltre 26 anni), euro 5 anni 4-11, e nei lunedì di “promo” per studenti universitari). Tel. 06.68809035, http://www.chiostrodelbramante.it www.ticket.it/chagall.  Catalogo: “Chagall. Love and Life. Opere dall’Israel Museum di Gerusalemme”, Skira, marzo 2015, pp. 190, formato 24 x 28.  Cfr. anche  “Chagall”, collana “I Classici dell’arte, il Novecento”, Rizzoli-Skira 2004,  pp. 190, formato 17 x 21, dal quale sono tratte le citazioni del testo.  Il secondo articolo conclusivo “Chagall, dalle favole agli innamorati al Chiostro del Bramante”, uscirà in questo sito il  12 giugno 2015,  con  11 immagini. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli  sulle rispettive mostre: in questo sito, su Mirò  15 ottobre 2012, De Chirico  6, 26 giugno, 1° luglio 2013,  Guggenheim il 22 e 29 novembre, 11 dicembre 2012, Deineka 26 novembre, 1° e 16 dicembre 2012,  Cubisti 16 maggio 2013, Modigliani, Soutine e gli “artisti maledetti” 22 febbraio, 5 e 27 marzo 2014; in “cultura.inabruzzo.it” su Picasso 4 febbraio 2009, De Chirico 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009,  l’8, 10, 11 luglio 2010, “Impressionisti” 27, 29  giugno 2010, “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, i capolavori dello Stadhael Museum 3 articoli il 13 luglio 2011, Breton, Dada  e i surrealisti 6, 7 febbraio 2010, infine su Gogol nel bicentenario il 16 e 25  novembre 2009. Infine, in questo sito il nostro “Israel now, 24 artisti israeliani al Macro Testaccio”  6 febbraio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Chiostro del Bramante alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare  Arthemisia Group e Dart, con i titolari dei diritti, in particolare l’Israel Museum, per l’opportunità offerta. In apertura, “La passeggiata”, 1919; seguono, “Innamorati sulla riva del fiume”, 1922  da “La
mia vita”, e “Sopra Vitebsk”, s.d.; poi  “Al cavalletto”, 1923 da “La mia vita”,  e  “Sukkot, festa dei Tabernacoli o delle
Capanne” 
 da “Burning Lights”; quindi, “Acrobata disteso su un ramo”, 1925, e  “La caduta dell’angelo”, 1924 da “La mia vita”; inoltre “La chiesa di Chambon-sur-lac”,  1926, e “Apparizione”, 1924-25 da “La mia vita”; infne “Gli innamorati”, 1937 e, in chiusura, la proiezione mutevole in movimento“Giochi di luce”, al primo piano dell’esposizione.

Matisse, arabesque, l’orientalismo al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Visitiamo le opere esposte nella mostra “Matisse, arabesque”, aperta al Palazzo Esposizioni dal 5 marzo al 21 giugno 2015 –  oltre 100  tra  dipinti, incisioni e disegni – intervallate da un’ampia selezione di tappeti e ceramiche, stampe e oggetti orientali, sulle fonti della sua ispirazione, che  ne fanno rivivere il clima. Realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo e coprodotta da MondoMostre, con circa 40 prestatori tra cui grandi musei europei ed americani, e le iniziative “Matisse doc.”, 5 documentari e “Incontri con Matisse”, 7 conversazioni. A cura di Ester Coen, che ha curato anche il Catalogo Skira.

I caratteri della sua arte già ricordati

Abbiamo delineato  in precedenza alcuni dei  caratteri salienti di un artista che ha saputo mantenere la “gioia di vivere” pur nei periodi turbolenti in cui è vissuto,  che comprendono le due guerre mondiali  del ‘900, ed esprimerla con una rivoluzione pittorica che ha sconvolto i criteri classici senza iscriversi nel solco dei contemporanei e delle avanguardie, da lui conosciuti da vicino e contrastati: considerava il Realismo una “copia della natura” e l’Impressionismo un “pullulare di sensazioni contraddittorie”, mentre con la sua pittura ricercava la “serenità attraverso la semplificazione delle idee e delle forme”.

La sua ribellione lo fa iscrivere tra i “fauvisti”,  ma la sua cifra artistica è molto personale, basata su colori puri e squillanti, linee sinuose, superfici appiattite. Né la prospettiva dei classici né la scomposizione dei volumi dei cubisti,  l’accostamento emotivo di linea e colore insieme al “principio di superficie” sono l’espressione stilistica di un modo di porsi rivoluzionario: non si propone di rappresentare la natura ma di dar corso alle proprie sensazioni, ponendo al centro non l’oggetto rappresentato ma la sua  relazione con  la personalità dell’artista, quindi la pittura stessa nella sua  capacità di “organizzare sensazioni ed emozioni”, come disse lui stesso.

In questa visione  lo “spazio della creazione” è la superficie piana in cui gli elementi visivi sono evidenziati forzando la linea e il colore, secondo le direttrici:del primitivismo istintivo e del cromatismo mediterraneo, del linearismo giapponese e dell’orientalismo decorativo. Le prime tre direttrici le abbiamo già delineate, è il momento dell’orientalismo decorativo che è anche la cifra distintiva dell’impostazione della mostra attuale, resa esplicita ponendo “arabesque” nel suo titolo.

Non è una semplice antologica della sua produzione, come furono ad esempio le mostre che presentarono nell’ultimo trimestre del 1991 a Roma nell’Accademia di Francia e nel primo trimestre del 1992 a Milano nel Palazzo Reale, i “Capolavori del Museo Matisse”, organizzati in 6  sezioni:  dipinti e sculture, disegni, tempere intagliate e incisioni, la “Danza”  e  la “Cappella di Vence”.  E’ una interpretazione molto precisa della sua arte pittorica tradotta in una forma espositiva coerente nella scelta delle opere e nell’affiancamento ad esse dei materiali dell’artigianato caratteristico che ne hanno alimentato l’ispirazione e orientato la forma espressiva: legata al primitivismo istintivo,  al cromatismo mediterraneo e al linearismo giapponese di cui abbiamo già parlato, e soprattutto all’orientalismo decorativo cui accenniamo di seguito come premessa alla visita.

L’orientalismo decorativo, gli accostamenti e le variazioni

La centralità della decorazione,  mutuata  dagli arabeschi orientali, fu ispirata e alimentata dai viaggi che abbiamo citato in precedenza ricordandone la vita; e non si è risolta in un elemento ornamentale, ma ha consentito di liberare la concezione dello spazio dalle regole della prospettiva..

“I dipinti – osserva la curatrice Coen – si riempiono di segni che sottolineano la planarità del supporto; sono segni che alludono  a motivi vegetali, al mondo della natura che penetra e si imprime a fondo intrecciandosi con figure e oggetti in un inestricabile viluppo lineare. L’ornamento, la decorazione, l’arabesco diventano lo splendido pretesto per rovesciare la visione sulla superficie e schiacciare la virtuale successione di piani alterando rapporti e proporzioni”. Non basta: “L’amore per le sinuosità, le volute, i fregi, gli elementi puramente ornamentali, cromatici o calligrafici, diviene il presupposto per una meditazione sulla ragione dell’arte”.

Disse l’artista:  “La preziosità o gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, perché quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione. Ben collocati, suggeriscono la forma o l’accento di valori necessari  alla composizione del disegno”. L’orientalismo decorativo lo porta all’allargamento della visione, al contrario dei comuni fregi ornamentali posti come mero contorno volto a limitarla alla parte centrale; infatti diventa come una spirale che si allarga  invece di restringersi e determina quella libertà espressiva tipica dell’artista.

Xavier Girard,  Direttore del Museo Matisse, nella presentazione delle mostre del 1991 e 1992  sopra citate, ebbe a sottolineare “i matrimoni di oggetti”, nelle parole dell’artista, definiti come fossero “invitati a partecipare allo spazio-tempo presentato dal dipinto”. Di qui  “la propensione del pittore a percepire – più che gli oggetti e i modelli – le situazioni, gli accostamenti, spesso in rapporto dialettico”.   Con questa conseguenza: “Tutto accade come se non ci fosse mai un tema solo, ma un’entità sempre doppia che sin dall’inizio si armonizza in un movimento che la trascinerà in una suite di variazioni, come se Matisse percepisse, di primo acchito, nella posa di un modello, la possibilità della sua variazione”.

In altre parole, l’artista vede “nel Tema la vibrazione delle ornamentazioni, in un gesto la coreografia  di una serie di riflessioni. Accade così che il tema non sia un  atteggiamento o una configurazione di oggetti, bensì una forza di generalizzazione, una prospettiva di espansione”, che diventa la sua “prospettiva del sentimento”, queste sono su parole.

L ‘impostazione è musicale, del resto lui stesso parla di “orchestrazione”; Girard  ha aggiunto che Matisse “non cesserà di far riapparire l’esposizione del tema sotto la stretta dei disegni; non concepirà variazione se non in forma di fuga, di ripresa perpetua, come se si preoccupasse, prima di tutto, di captare l’inizio del disegno, laddove la mano, non ancora appesantita dall’immagine che ha fatto nascere, sembra agire con facilità, superare le forme della rassomiglianza, per raggiungere, come un movimento di danza,  quell’altra figura che è il disegno”.

A questo punto passiamo alla galleria delle opere esposte nelle quali trovano espressione artistica al livello più elevato le ispirazioni e le forme stilistiche che abbiamo cercato di delineare.

La sfolgorante galleria espositiva 

Si inizia nella 1^ sala con la spettacolare natura morta “Gigli, Iris e Mimose”, 1913, dal museo Puskin di Mosca, nella quale domina la decorazione orientale con l’accostamento del blu e del verde, che deriva dalla ceramica ottomana, come vedremo. Questi elementi sono contenuti nel precedente “Angolo dello studio”, 1912, e ancora prima nel più piccolo “Angolo di tavolo”, 1903; stesse luminose tonalità cromatiche e assonanze nel successivo “Scultura e vaso con edera”, 1916-17.

Dalle fantasie floreali si passa alle figure umane: nessun arabesco decorativo o elemento ornamentale, ma tonalità scure con il linearismo nei segni semplici di tipo geometrico e il primitivismo nel rigore espressivo evocato da maschere  arcaiche e reliquari, tessuti africani e scudi esposti in mostra, provenienti dal Congo e dal Gabon, dalla Costa d’Avorio e dalla Polinesia.

Lo vediamo in quattro opere di notevole potenza visiva, il “Ritratto di Yvonne”, 1914, dal Philadelphia Museum of Arts,, che è stato paragonato al celeberrimo “Demoiselles d’Avignon” di Picasso,  e la “Giovane con copricapo persiano”, 1915-16, dall’Israel Museum; ,  l’“Italiana”, 1916, dal Guggenheim di New York, e “Le Tre Sorelle”, dal museo parigino de L’Orangerie.

Vi accostiamo, all’insegna del primitivismo, i tre nudi abbozzati con forti contorni neri e forme grigie, 20-30 anni dopo:  i  2 carboncini, “Nudo accovacciato”, 1936,  e “Studio di nudo”, 1942,  e  l’olio  “Nudo seduto di schiena”, 1946.

Torna l’elemento floreale e decorativo nella 3^ sala, in tonalità ancora più luminose e con un cromatismo più brillante. Più che in “Edera in fiore”, 1941,  rigoroso nella disposizione del vaso con fiori,  della tazza e dei frutti  ben ordinati su un piano giallo, lo vediamo in “Ramo di pruno, fondo verde”, 1948: la decorazione è nel fondo verde e nei lunghi rametti di mandorlo, mentre il rosso del pavimento e della casacca della figura accentua fortemente la resa coloristica dell’insieme. L’ambientazione e l’atmosfera è giapponese, come le ceramiche che recano  gli elementi floreali.

Dalla eleganza decorativa giapponese, nella 4^ sala si passa ai colori mediterranei, in 5 dipinti  tutti del 1912, con altrettante figure singole, riprese sempre frontalmente:  continua l’alternanza tra immagini floreali e naturali e figure umane. Anche qui con l’influsso del primitivismo ma in un clima ben più luminoso in cui il cromatismo basato sul blu e sul verde – che abbiamo visto nella 1^ sala utilizzato per le rappresentazioni floreali ed ornamentali – viene applicato al ritratto,  con l’aggiunta in qualche caso di  altri colori, giallo e soprattutto rosso.

In “Zorah sulla terrazza”,  dal museo Puskin di  Mosca, il blu è nel pavimento e nei decori della veste,  il resto è verde, mentre in  “La Piccola Mulatta”  sul  blu intenso dello sfondo spicca il rosso dell’abito decorato, il verde è quasi scomparso; la stessa struttura compositiva e la stessa posizione accovacciata la troviamo nel disegno a inchiostro dello stesso anno, “Fanciullo arabo”. 

Il verde torna ad occupare l’intera figura  in “Marocchino in verde”,  salvo metà sfondo celeste e qualche ornamento colorato, ed è il colore della lunga veste su fondo rosso  in  “Zorah in piedi”; in “Zorah in giallo” è lo sfondo ad essere in tonalità verde pastello molto sfumato, mentre la veste è in una tinta neutra con la presenza di un rosso arancio.

Nella sala sono  esposte maioliche di Iznik del XV-XVI secolo, espressione della cultura islamica, di matrice turca e ottomana, siriana e persiana che  l’artista aveva conosciuto nei suoi viaggi, ne parleremo tra poco con riferimento a un’opera che si ispira in modo eclatante a tali prodotti di  artigianato artistico pittoresco e spettacolare.

Prima  si torna alle raffigurazioni della natura – l’alternanza continua –  secondo la particolare concezione dell’artista, che non ha alcuna “preoccupazione di verosimiglianza” nel riprodurne l'”aspetto esteriore”,  anzi non ha interesse a “copiare un oggetto”, ma intende esprimere ciò che gli ispira “la potenza che questo ha d’organizzare sensazioni ed emozioni”, sono parole sue che abbiamo già citato. 

Siamo nella 5^ sala, colpiscono tre raffigurazioni arboree, due realizzate nello stesso 1912 di cui abbiamo appena descritto i 5 dipinti mediterranei della sala precedente,   “La Palma”, dalla National Gallery di Washington e  “Pervinche o Giardino marocchino” dal MoMA di New York, il terzo, “L’albero presso il laghetto di Trivaux”, del 1916, dal Tate di Londra. 

I primi due sono legati alle atmosfere mediterranee vissute personalmente nel viaggio in Marocco, rese nell’intarsio cromatico tra il  verde dominante, il rosa e il giallo che vira nell’arancio. Nel terzo, invece, il colore esclusivo è il verde nelle diverse gradazioni, con l’eccezione dei tronchi e dei rami dell’albero di colore marrone scuro che svettano formando un vero reticolo.

Con un accostamento molto appropriato nella stessa sala vediamo esposti una serie di disegni  a matita su carta, “Studi per il poema di Mallarmé  ‘L’Aprèe Midi d’un faune'”,uno di essi addirittura riproduce lo stesso reticolo arboreo ora citato, sebbene questi fossero del 1932, 16 anni dopo l’albero del “laghetto di Triveaux”. Meno sottile e  stilizzato l’impianto dello “Studio per l’Ulisse di Joice”, ugualmente a matita su carta, del 1940. In queste  illustrazioni, l’artista diceva di aver risolto  il problema dell’equilibrio tra il bianco dell’acquaforte e lo scuro della scrittura  tipografica,  “modificando il mio arabesco in modo che l’attenzione di chi guarda sia attirata allo stesso modo dal foglio bianco e dalla promessa di lettura del testo”.

Ed  eccoci alla 6^ sala, si torna alle figure umane in un’atmosfera ancora più orientale, da  Mille e una notte. Siamo nello studio di Matisse, dove  tra tessuti arabescati e vasi istoriati che entrano nella composizione l’artista dipingeva  le modelle, discinte in un’atmosfera diafana come l‘”Odalisca blu”, 1921-23, o vestite distese  tra tende, anfora e scacchiera in un intenso cromatismo, come “Due modelle in riposo”, 1928, dal Philadelphia Museum of Art. 

Insieme ai dipinti sono esposti disegni a matita su carta delicati e raffinati realizzati in un quindicennio, con figure femminili finemente delineate riprese sedute o abbandonate in atteggiamenti languidi: si tratta di “Donna seduta” e “Donna in riposo”, entrambi del 1919,  di “Odalisca in una sedia moresca”, 1928, “Abito di lamé”, 1932, “Donna con velo orientale”, 1934. A inchiostro su carta velina “Odalisca distesa , pantalone turco”, 1920-21, fa entrare ancora di più nell’atmosfera orientale, con gli elementi ornamentali, dalla parete istoriata al cuscino e l’abbigliamento, dalla cuffia alla camicia che lascia scoperto il petto, fino al pantalone caratteristico.

Non è  il massimo di orientalismo rilevabile nelle opere di questo periodo. Il massimo lo troviamo nel dipinto  “Il paravento moresco”, 1921,  dal Philadelphia Museum of Arts, almeno come ricchezza decorativa e intensità cromatica.  Ci sono due figure femminili al centro che conversano, vestite da lunghi abiti bianchi che lasciano scoperte le braccia, una è seduta  in una poltrona, l’altra in piedi con il gomito destro appoggiato a una mensola, poi soprammobili, vasi, il pavimento coperto da due tappeti, una parete decorata e soprattutto il paravento viola con i due archi in stile moresco che dà il titolo all’opera.

A questo paravento possiamo accostare la ricca esposizione di materiali di alto artigianato orientale, c’è addirittura una “Grata per finestra” dal Marocco, precisamente da Fez, come il “Modellino architettonico di un arco”, dalla Spagna, Alhambra Granada, fino al “Prospetto di un muro moresco” del XIX secolo dalla Gran Bretagna; e una “Mattonella con decorazione  a stampo a forma di mihrab”  del 1305, dall’Iran, la forma è molto vicina al paravento moresco. Poi tende e tessuti marocchini,da Fez e Rabat, Rif  e Tétouan,  del XIX secolo, stoffe dall’India, Uzbekistan e Iran; fino al “Pettorale di armatura in acciaio” con simboli islamici intarsiati in oro del XVIII-XIX sec.

Particolarmente spettacolare l’esposizione di pannelli e mattonelle con decori policromi, da Iznik, risalenti al XVI secolo, sono arabeschi di grande eleganza e raffinatezza con la celebre dominante blu, gli intarsi di verde, e in qualche caso,  rosso e arancio; ai motivi ornamentali si aggiungono spesso riproduzioni floreali vere e proprie.  Non solo ceramiche turche, anche iraniane e siriane, per lo più blu con motivi floreali verdi; e poi pannelli di ceramica  in terracotta smaltata spagnoli. Concludono l’esposizione di artigianato  islamico una serie di piatti in ceramica invetriata con decorazione policroma, da Iznik, XVI secolo,  delle coppe iraniane, e 2 ciotole  coreane.

Ma torniamo ai dipinti, nella 7^sala prosegue la galleria di figure femminili, in un ampio arco temporale: si va dalla “Spagnola con tamburello”, 1909, dal museo Puskin, a “Katia in abito giallo”, 1951, dalla Fondazione Matisse di New York. Sono opere molto diverse, la prima dai dettagli figurativi con intensi colori che, pur nella dominante scura, esprimono un forte cromatismo; la seconda dalla forma semplificata, quasi metafisica, il corpo abbozzato in giallo, su sfondo verde-azzurro con ornamenti blu; tra i due poniamo “Donna seduta con blusa rumena con motivi ricamati”, 1938, carboncino su carta più schematico del primo, più figurativo del secondo.

C’è anche una serie di nudi, a partire dal dipinto “Nudo in poltrona, pianta verde”, 1937,  un corpo mollemente abbandonato sovrastato dalla pianta con la parete di fondo che nel rosa e verde reitera i colori dei soggetti centrali della composizione. Nella stessa posizione il “Nudo seduto”, 1944, matita e carboncino dai contorni netti con un chiaroscuro intenso, stessa cifra stilistica del precedente “Donna senza volto”, 1942, dove ritroviamo il primitivismo totemico con le forme abbozzate di “Nudo disteso di schiena”, e degli altri citati all’inizio.

Ma ci sono figure femminili molto diverse, in uno stile ben diverso da quello ora descritto, disegni  calligrafici a inchiostro su carta estremamente raffinati e delicati: solo contorni dal segno sottilissimo, nessun chiaroscuro né ombreggiatura, gli stessi temi espressi in modo del tutto originale nel decennio 1928-38: Si tratta dei due disegni “Donna in riposo”, 1935-36, dei  ritratti di volti con gli occhi  in basso di  “La blusa rumena” e “Figura che guarda da sopra la spalla”,  1938-39;  di “Le tre amiche”, 1928,  e “Due donne”, 1938.

E’ uno stile che, nella delicatezza delle linee e nella foggia ornamentale delle forme richiama la raffinatezza giapponese evocata nella mostra da alcune preziose xilografie di Hiroshige. A questo sono collegati i costumi che Matisse disegnò nel 1920 per il “Chant du Rossignol”,  e furono utilizzati nel balletto coreografico di Léonide Massine, in una sinergia tra ballo, musica e pittura .

Siamo nell’8^ sala, sono presentati i piccolissimi disegni dei bozzetti per il Guerriero e il Ministro, l’Usignolo, la Morte e i Dolenti. Ma soprattutto c’è l’esposizione spettacolare dei costumi realizzati, le preziose stoffe confezionate dipinte a mano, con applicazioni: in seta, feltro e perfino ottone per il Guerriero, in tessuto giallo squillante per il Mandarino, in fondo chiaro translucido con applicazioni per Cortigiano e Cortigiana, caratteristiche presenti anche nel costume per il Ciambellano, che invece delle decorazioni ha per motivi una serie di fregi lineari rossi e gialli; fino al costume per il Dolente, in bianco con motivi geometrici neri. E’ una galleria teatrale spettacolare che anima la grande sala.

Dalla scenografia teatrale, ravvivata dal video con le scene del balletto in cui sono ripresi dal vivo della rappresentazione i costumi esposti, si passa nella 9^ sala alla dimensione raccolta, anzi intima, di “Interno a Etrat”, 1920, e “Interno con fonografo”, 1934: il primo dalla dominante verde rappresenta l’interno di una cameretta dove una fanciulla dorme nel suo letto, una finestra apre la visuale su una marina con delle barche sulla riva; anche nel secondo c’è una finestra, aperta su un panorama urbano, ma è molto diverso, il cromatismo è variopinto, un vassoio con frutta è al centro, quasi una natura morta nel quadro, poi un tendaggio con motivi orientali.

Questo ci porta alla 10^ e ultima sala, con il  rutilante “I pesci rossi”, un dipinto di grandi dimensioni  dal museo Puskin , che pur essendo del 1912 è visto come culmine pittorico, per il suo forte cromatismo in una composizione che riassume i motivi floreali e decorativi della sua arte.

Ma vogliamo concludere l’affascinante galleria della mostra di Matisse con dei veri e propri Studi sulla vegetazione nelle sue varie forme, sono disegni calligrafici in inchiostro su carta: vediamo “Mazzo di fiori” e “Studio di fiore”, “Studio di motivi floreali” e “Studio di foglie e fiori”,  “Fiori e foglie d’acanto” e “Cinque fiori”; si passa alle foglie con “Fiori e foglie d’acanto in un vaso di peltro” e “Due studi di rami in un vaso”,  e “Due figure addossate a un platano”; fino ai più compiuti e definiti “Studio per platano”, “L’arbusto” e “Albero”. Una ricerca progressiva continua, soprattutto negli anni ’40.

Anche qui non s’è solo l’osservazione della natura, anche l’influsso di materiali tradizionali, vediamo esposti tessuti con riprodotte piante e arbusti, dal Giappone e  dall’India e dallo Sri Lanka e dall’Asia Centrale. Nella serie di disegni si ricostruisce la progressione della sua “scoperta” di come rappresentare le foglie dell’albero. Mondrian trovò nella schematizzazione progressiva dei rami una chiave per la sua ricerca dell’essenza per raggiungere la “perfetta armonia”; anche Matisse ha svolto la sua ricerca su u n sogegtto simile,m rami, foglie, alberi.

Dall’essenza dell’albero e delle foglie alla forma più essenziale:  il disegno a inchiostro “Arabesque”, 1944-47; una forma pura di cui sono sottilmente delineati solo i contorni con un segno ornamentale, già ripetuta innumerevoli volte in “Studio di fiori decorativi”, 1943. . All’interno nulla, ma possiamo vederci tutto il suo mondo  che si colora e si anima, mantenendo sempre la sua forma decorativa,  espressione di quella che  è stata la sua cifra peculiare;  la “gioia di vivere”, che non è solo il titolo del suo dipinto, ma il messaggio che ci trasmette con le sue opere.

La mostra è riuscita a rendere tutto ciò con  un allestimento che riflette l’accurata ricerca compiuta e  il grande lavoro svolto per radunare le opere  che ne fossero la più fedele ed autentica espressione.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì 10,00 – 20,00, venerdì e sabato 10,00 – 22,30, nessuna chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500, www.scuderiedelquirinale.it Catalogo  “Matisse, arabesque”, a cura di Ester Coen,  Skira, pp. 628, formato 24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, tranne quelle prese dal catalogo della mostra citata del 1991-92 “Capolavori del Museo Matisse di Nizza”,  United Technologies Corporation, 1991, pp. 222, formato 25 x 33.  Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il  23 maggio u.s., con altre 11 immagini delle opere esposte.  Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre, in questo sito sui cubisti 16 maggio 2013,  su Mondrian 13 e 18 novembre 2012in “cultura.inabruzzo.it” su Picasso 6 febbraio 2009.  

Foto

Le immagini delle opere di Matisse, riportate in ordine cronologico tranne l’apertura, sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, “Due modelle in riposo”, 1928; seguono, “Scultura e vaso con edera”, 1916-17, e “Le tre sorelle”, 1916-17;  poi “Interno a Etretat”, 1920, e “Nudo in poltrona, pianta verde”, 1937; quindi, “Edera in fiore”, 1941, e “Nudo disteso di schiena”, circa 1946; inoltre, “Ramo di pruno, fondo verde”, 1948, e “Katia in abito giallo”, 1951; infine,  “Studio per platano”, 1950 e,  in chiusura, “Pannello per la lunetta di una finestra” al centro con una serie di “Mattonelle e piatti in pasta islamica” policromi, da Iznik, Turchia, 1550-1600 circa, tra le fonti di ispirazione del suo orientalismo decorativo .

Giorgio Morandi, visita alle 150 opere esposte, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Giorgio Morandi 1890-1964”  aperta al Vittoriano dal   28 febbraio al 21 giugno 2015, con circa 100  dipinti e  60 disegni e acqueforti, incisioni e litografie, che provengono dal  Museo Morandi, dalla Fondazione Longhi e  da altri grandi musei. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e curata da Maria Cristina Bandera, che dirige la Fondazione Longhi,  è la prima antologica esauriente presentata a Roma dopo l’esposizione del 1973 alla Gnam. Catalogo Skirà  con testo della Bandera e schede di Stella Seitun.

 Abbiamo cercato in precedenza di descrivere i caratteri salienti dell’arte di un grande del  ‘900,  la cui mostra segue quelle su Guttuso e Modigliani, Cézanne e Sironi, realizzate negli ultimi anni al Vittoriano in un importante ciclo sull’arte moderna molto curato.

Si può sintetizzare dicendo che la sua è stata una ricerca dell’essenza nella semplicità e nella sincerità, dopo un percorso formativo nel quale è stato attratto dai grandi innovatori, Giotto tra gli antichi, Cézanne tra i moderni, con vivo interesse per tendenze quali  il futurismo e la metafisica, senza però seguire alcuna scuola o corrente stilistica, restando la sua un’arte del tutto personale.

La base è stata la realtà, ma  lontano da ogni naturalismo, perché la continua ricerca dell’essenza lo ha portato  a distinguere l’essere dall’apparire; per questo ha scelto  soggetti semplificati al massimo, senza presenza umana, riassumibili nei temi soprattutto dei “Paesaggi”, “Nature morte”; anche  “Fiori” sia pure  in tono minore, in piccoli dipinti di cui faceva dono.

Per tendere alla semplificazione nella ricerca dell’essenza eliminava ombre e prospettive in composizioni dominate da un ordine geometrico studiato di volta in volta cambiando la disposizione spesso degli stessi oggetti.  Anche Mondrian ha ricercato l’essenza pur se in modo molto diverso, con la mera geometria senza oggetti e un cromatismo particolare, per raggiungere “perfetta armonia”.  

Nel raccontare la visita alla mostra cercheremo di rendere la galleria di dipinti e di acqueforti-incisioni, i cui titoli fissano invariabilmente uno dei suoi temi, distinti soltanto dall’anno di realizzazione. Anche in questo l’artista ha raggiunto la massima semplicità; l’essenza, appunto.

I paesaggi

Sono 25  i dipinti esposti in mostra sul tema  “Paesaggio”, del quarantennio dal 1922 al 1963, e  6 le  acqueforti  sullo stesso tema in matrici di rame e zinco,. realizzate tra il 1922 e il 1936, .con le caratteristiche dei dipinti ma una maggiore definizione data dal bianco e nero molto marcato.

In tutti i paesaggi c’è – aspetto che va sottolineato –  la dominante dell’abitazione, salvo nel primo, del 1922, in cui il primo piano è dedicato  alla vegetazione, ma  si erge ugualmente un edificio con un traliccio di ferro definito “la piccola Tour Eiffel dei bolognesi”.

Riprendono località di campagna della provincia da lui frequentate o dove si era rifugiato negli anni di guerra e dove tornava d’estate per villeggiare, come Grizzana,  e riproducono volumi abitativi inseriti nel verde  con vera maestria nell’accostamento cromatico; paesaggi “intorno ai quali si chiudeva l’orizzonte”, secondo l’allusione leopardiana di Roberto Longhi che li definì “inameni” aggiungendo però: “Morandi cresceva instancabilmente e io lo vidi salire fino al culmine che mi pare fosse il più alto da lui raggiunto, dei paesaggi del 1943”.

Negli anni della guerra, secondo la curatrice Maria Cristina Bandera, “ricompaiono le mute strutture geometriche delle case, blocchi di pietra ridotti a solidi essenziali, talora parzialmente celate da quinte frondose”, o “una sequenza concitata di alberi sfibrati dal vento, quinte per una casa che appena s’intravvede” come in due  “Paesaggi” del 1942; “oppure distribuite sulla tela con spazi e interspazi calcolati, quasi fossero semplici parallelepipedi, moduli di proporzione, così  “Strada bianca”, 1941,anch’esso esposto.  

Il naturalismo è del tutto assente, c’è invece interesse alle forme e ai volumi, come disse l’artista nell’intervista radiofonica del 1955 a Magravite citando Galileo: “Il libro della natura è scritto in caratteri estranei al nostro alfabeto. Questi caratteri sono triangoli, quadrati, cerchi, sfere, piramidi, coni e altre figure geometriche”. Di qui  la radicata convinzione che “le immagini e i sentimenti suscitati dal mondo visibile, che è un mondo formale, sono esprimibili solo con grande difficoltà, in quanto sono determinati appunto dalle forme, dallo spazio e dalla luce”; e in questo riecheggiava analoga affermazione di Cézanne.

Sono  paesaggi  ben definiti, mentre quelli successivi tendono a dissolvere la forma nel colore, senza più la struttura compositiva e il riferimento descrittivo ai luoghi;  nell’estrema semplificazione è l’impasto cromatico del verde il vero soggetto.

Negli ultimi 5 “Paesaggi” esposti, realizzati tra il 1959  e il 1963,  sono i volumi delle  abitazioni i soggetti, con le loro facciate bianche prive di prospettiva, solo in quello del 1963 schermate dal verde. Si ispira alla località di Grizzana, dove torna dopo molti anni di assenza –  nei quali per i paesaggi si era ispirato a quanto vedeva dalla finestra della casa bolognese, di qui la serie “Cortili di via Fondazza” degli anni ’30 –  e si fa costruire una casa a forma di cubo in un ambiente disadorno.  I dipinti rendono la scena,  si sente  vuoto e silenzio, e perdono la consistenza materiale, i luoghi sono  assimilati alle nature morte, tanto che la Bandera scrive: “Le case di pietra, muri senza porta e finestre, nella loro struttura ridotta all’essenzialità, sono ormai apparentate alle bottiglie”, ne vedremo un esempio concreto.

Le nature  morte

E siamo giunti così al principale soggetto della sua arte,  la “Natura morta”, la mostra espone 60 dipinti del quarantennio tra il 1924 e il 1963, e  30 incisioni all’acquaforte su basi di rame e zinco, con 8 matrici di rame inciso tra il 1921 e il 1956, dove i motivi dei dipinti sono espressi con la diversa tecnica ma cercando di mantenersi in linea con le varianti anche notevoli inserite nelle opere ad olio nel segno dell’inesausta ricerca che ha accompagnato l’intera sua produzione.

Preparava le composizioni  nel suo piccolo studio utilizzando oggetti semplici di uso comune: . “Li selezionava – nota la Bandera –  li raggruppava, li aggiustava tra loro, li riaccostava, li scalava in profondità e in alzato, li trasformava in figure distribuite su un palcoscenico in combinazioni che variano con il procedere degli anni”; e in questo consiste il suo processo evolutivo, oltre che nella rappresentazione grafica che diventa prima sempre più precisa, poi sempre più evanescente. “Come un architetto che studia la pianta di un edificio, delimitava la base degli oggetti circoscrivendoli con una matita su fogli di carta. Li avrebbe poi guardati da vicino, ad altezza d’occhio, con il  suo guardo penetrante e riflessivo”.  Abbiamo già ricordato che per non mutare il punto di vista segnava sul pavimento la sagoma dei propri piedi, e per allontanare gli oggetti dall’uso quotidiano aspettava che la polvere li velasse, così diventavano forme e volumi nella pura espressione geometrica.

La definizione di architetto viene da Ragghianti, che coniò il termine di  ” pittore di architetture”, l’artista gli rispose condividendo questa sua interpretazione.

Nella sua visione di “architetto”,  gli oggetti consueti, dalle bottiglie alle caraffe, dai lumi alle tazze, sono disposti in vario  modo in base alla loro altezza e ai diversi piani prospettici;  nella sua visione pittorica la luce e il colore modulano con tonalità differenti le diverse composizioni..

Seguiamo la sua evoluzione nella composizione e nello stile mediante la sequenza di opere esposte.

Le prime dieci Nature morte, degli anni ’20 e ’30,  si differenziano dalle successive per la dominante cromatica scura.

Nelle  tre  realizzate tra il 1924 e il 1929,  gli oggetti sono pochi, in più ci sono panni che cadono dal bordo del piano dando il senso della profondità; nelle  7  dal 1929 al 1937  gli oggetti sono numerosi,  posti su un piano orizzontale e   hanno una composizione architettonica e un cromatismo  deciso.  Fa eccezione  una “Natura morta” del 1929,  definita dalla Bandera “tragica, con poche forme contorte e sfaldate”, ma  contemporanea  a una ben diversa  presentazione di 5 oggetti su diversi piani prospettici e in differente cromia; e seguita pochi mesi dopo  da un’opera monumentale per l’imponenza della composizione  posta su due piani,  come sfondo  una quinta scura di brocche e altri oggetti più alti, in primo piano bottiglie più basse ma evidenziate dal colore chiaro, come quella gialla al centro e la bottiglia bianca sulla destra, prima di successive versioni.

Con gli anni ’30  abbiamo una verticalità scossa da “tensione emotiva”, la curatrice dice che le due “Nature morte”  del 1932 e 1936 “colpiscono per lo smagliarsi della composizione e per l’agitarsi delle forme inquiete e allungate che paiono sfaldarsi, come colte da un fremito, con un crescendo della tensione emotiva sottolineato dall’ispessirsi della pasta cromatica degli oggetti sovrapposti”

Tra il 1940 e il 1943, gli anni della guerra,  nella “Natura morta” entrano le conchiglie, diventando gli “oggetti” esclusivi di piccole  composizioni in cui non compaiono bottiglie, caraffe e lumi. E’ come se l’artista cercasse un guscio protettivo, ed aveva ragione se consideriamo che il 23 maggio del 1943 provò l’angoscia del carcere, pur se solo una settimana, come abbiamo già ricordato;  per questo fece ricorso ai  gusci con le volute  cui aveva dedicato già disegni e acqueforti negli anni ’20, stimolato da un’incisione di Rembrandt. I gusci, però, sono contorti e irregolari,  rappresentati in modo  monocromatico e spento, sono stati definiti  “ossi di seppia abbandonati su un litorale deserto”  da  Pasquali e  sfiorati da una “luce come lontana, filtrata, misteriosa affatto” da  Vitali.

Bottiglie, caraffe e lumi restano pur sempre nelle opere del periodo, assumendo di volta in volta una luce dorata o un grigiore di fondo. La luce dorata,  “come in uno specchio ustorio” nelle parole di Cesare Brandi, avvolge una “Natura morta” del 1941, con gli oggetti su diversi piani prospettici,  il bianco della bottiglia  a torciglione e della base del lume al centro e il blu della bottiglie e della boccetta di profumo agli estremi, il critico dice che così “il colore acquista la materia dura e lucida del minerale”.

Il grigiore di fondo è in altre “Nature morte” dello stesso 1941, su un tavolo tondo e non rettangolare, con le bottiglie allineate come soldatini su un unico piano, illuminate frontalmente  in modo da ridursi a mera espressione geometrica senza spessore e volume, con le bottiglie ridotte ad etichette rettangolari e due sole forme tondeggianti, una luce che,  nelle parole di  Brandi, “per la nostra vista diviene indistinta, ma non evanescente”.

Nell’anno successivo, il 1942, allorché realizzò oltre 60 opere, troviamo una diversa scelta compositiva, le altezze vengono azzerate, come nella “Natura morta” che donò a Ragghianti il quale racconta che la tagliò  materialmente con le forbici dinanzi a lui. In tal modo, eliminata la variabilità delle altezze, la composizione si può inquadrare in un rettangolo.

Così nelle due “Nature morte” del 1952 esposte,  esemplari per la leggera variazione dello stesso assetto compositivo di 7 oggetti, caraffe  e parallelepipedi iscrivibili nel rettangolo, con l’aggiunta nella seconda di una piccola sfera; nella “Natura morta” del 1953,  con tre bottiglie dinanzi  a tre parallelepipedi, Luigi Magnani  vede “la solennità ieratica di un’apparizione”. In due “Nature morte”  del 1953-54,  l’altezza delle bottiglie non supera quella delle tazzine e delle forme a parallelepipedo o cubiche allineate con esse; mentre le  forme cubiche accompagnano la classica bottiglia a tortiglione anche in due “Nature morte” del 1954 senza allineamento verticale.

E’ questo uno dei momenti evolutivi, ma lungi da noi  considerarlo un punto fermo. La verticalità è compresente a questa sperimentazione, e riprende di volta in volta il sopravvento, come il cromatismo.

Lo vediamo in altre due “Nature morte” del  1942 che, a differenza di quelle dello stesso anno prima citate, la verticalità è particolarmente accentuata, in un cromatismo cupo, mentre una terza “Natura morta”  del 1943 ha le altezze parificate ma con gli oggetti alquanto distanziati e dal cromatismo brillante che pur nella “spazialità disorientata e a tratti convulsa” evidenziata da D’Amico,  indicano che lo sguardo dell’artista “si è disteso di nuovo, avvolgente e inquietante, per ridurre nuovamente i toni, per addolcire le forme”, nelle parole di Gnudi.In una  “Natura morta” del 1946  la caraffa e gli alti recipienti cilindrici dominanti i sono allineati armoniosamente in un equilibrio volumetrico e cromatico giungendo – è sempre Gnudi –  a “un più ricco, pieno, placato accordo”, esprimendo il senso “di una grandiosità contenuta, di una sedata drammaticità”: la guerra è finita, in quell’anno dipinge 45 nature morte.

 Dell’anno successivo, il 1947,  abbiamo una “Natura morta” che ha in comune con la precedente solo gli oggetti meno vistosi,  il vasetto verticale rigato di azzurro e  la piccola ciotola,  mentre è composta da 4 bottiglie, con al centro quella a tortiglione, di un biancore diafano sul grigio dello sfondo.  Scrive Stella Seitun  che il dipinto “proietta la ricerca di Morandi nei suoi più tardi sviluppi per la perfezione tonale  della materia pittorica, per l’articolazione spaziale più nitida e per l’equilibrio dell’immagine, governata non più da una geometrizzazione interna alle forme, ma  da un rapporto più aperto con lo spazio circostante”.

Le due “Nature morte” del 1948 e le due  del 1950-52 confermano queste tendenze all’equilibrio compositivo , con delle varianti negli oggetti utilizzati, casseruole e imbuti rovesciati, recipienti cilindrici, alla ricerca di forme sempre più elementari, espressive dell’essenza geometrica delle cose.  Nei dipinti del 1948 mancano le bottiglie, Briganti  parla di  “una forma perfettamente pierfrancescana nella sua semplice geometria solida”;  nei due successivi si va, secondo Arcangeli, verso “un’ampia dosatura degli spazi intorno alle cose”, la Seitun parla di “rinnovata chiarezza nella visione rigorosamente frontale”, aggiungendo che “la luce diffusa riduce quasi del tutto le ombre, lasciando a pochi ma arditi accostamenti cromatici il rilievo plastico dei volumi”.

Il processo evolutivo procede, dalla moltiplicazione degli oggetti si passa alla ricerca di quella che Arcangeli definisce “semplificazione del comporre, ormai concentrato su poche forme  d’oggetto inesauribilmente, sapientemente, variate”.   Lo vediamo nelle “Nature morte” del 1956 e del 1958, in cui, dice la Bandera, “lo schema compositivo è rigoroso e gli oggetti ‘astratti’ e geometrici”.

Inizia la tendenza a una sempre maggiore evanescenza del tratto, che troviamo nelle altre dieci “Nature morte” dal 1957 al 1959.  Tre con le bottiglie, ma solo nella prima numerose e allungate, nelle altre due c’è soltanto la bianca a tortiglione; quattro nature morte  con altri oggetti in una orizzontalità più mossa e meno vistosa di quella espressa  dall’inquadramento nel rettangolo  di cui si è detto.

Continuano, nelle parole della Bandera, le “calibratissime e talora impercettibili ‘variazioni’ tematiche che si accompagnano a sottilissime differenze di orchestrazione cromatica e di valori tonali, comunque sempre estranee a qualunque ripetitività. ‘Variazioni’ che comprovano come per Morandi il soggetto fosse esclusivamente un pretesto per ricercare l’essenza”. La sua non è una parabola discendente nell’ultima fase, bensì continua “una costante innovazione pur nell’iterazione dei modelli”; diventa “una pittura priva di toni acuti, più chiara e variata, smagrita di consistenza, soffice e quasi impalpabile, che tende sempre più a sublimarsi in gamme cromatiche raffinate con combinazioni e stacchi di colore e di stesure che tendono a smaterializzarsi nella luce”.Queste parole della curatrice possono essere assunte a  descrizione delle ultime otto “Nature morte”due del 1960, tre del 1961-62 e due  del 1963, l’anno prima della morte; e anche dei disegni e  acquerelli presentati in mostra, mentre le incisioni restano ben definite.  C’è una  “tendenza all’astrazione”, secondo “un processo di rarefazione e di spoliazione dei dati del visibile”, tanto che una “Natura morta” del 1963 viene accostata a un “Paesaggio” dello stesso anno dal quale si distingue  a mala pena come dalla citazione fatta a suo tempo dell’osservazione della Bandera secondo cui “le case sono apparentate alle bottiglie”.  E non potrebbe essere altrimenti in questa ricerca spasmodica dell’essenza che porta ad assimilare anche i dipinti agli acquerelli nella massima rarefazione.

In chiusura, i “Fiori”  

La mostra non finisce qui, al secondo piano c’è la sezione dedicata ai “Fiori”, che Vitali definì “nature morte di fiori”, sono 15 dipinti di piccole dimensioni realizzati tra il 1940 e il 1962, che occupano un posto particolare nella sua produzione, perché li dipingeva per donarli agli amici, per lo più  intellettuali, primo tra tutti Roberto Longhi. Niente a che vedere con le rutilanti fioriture alla Brueghel, sono “bouquet” compatti sulla sommità di vasi che sembrano colonne. Del resto si serviva di fiori secchi, di carta e di seta, non freschi,  per marcare anche in questo caso il suo distacco dalla realtà e dalla funzione dell’oggetto di uso comune rappresentato, come avveniva per le bottiglie che faceva velare dalla polvere rendendole  pura forma e volume; cosa che conferma la definizione di Vitali che li assimila alle nature morte. 

Anche in questo caso  piccole varianti sia nel cromatismo, sempre su tinte pastello,  del “bouquet” floreale, sia nel  vaso ripreso per lo più intero ma anche limitandolo alla sommità.

La ricerca dell’essenza, che ha percorso l’intera sua produzione lungo l’arco della sua vita,  passa anche di qui, da questa compresenza di contrari che è  parte integrante della nostra esistenza. “E’ un artista – osserva la Bandera –  che per l’ambiguità della sua visione, per la lacerazione tra l’essere e l’apparenza, la rappresentazione e l’evocazione, riflette un’inquietudine moderna, la stessa che ammanta di mistero e di enigma le sue opere e che, per questo, sentiamo più vicino ai nostri giorni senza certezze”.   

E se qualcuno, aggiungiamo noi,  lo ha identificato come “il pittore delle bottiglie”, non ha capito quanto di misterioso e di fantastico può esservi nella bottiglia lanciata in mare con un messaggio da interpretare; ed è un osservatore che, è sempre la Bandera, “non ha occhi per ‘vedere’, che non sa indugiare sulle sue opere ed entrare in un dialogo ravvicinato e prolungato con esse”.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00, ridotto 9,00. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it. Catalogo, “Morandi 1890-1964”, Skira, 2015, pp.272, formato  24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il 17 maggio u.s. con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre dal 2009: in questo sito, Guttuso il 15 e 30 gennaio 2013, Cézanne il 24 e 31 dicembre 2013, Modigliani il 22 febbraio e 7 marzo 2014, Sironi il 1°, 14, 29 dicembre 2914 e il 7 gennaio 2015, Mondrian il  13 e 18 novembre 2012,  Brueghel il 5 maggio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Natura morta” 1953, seguono “Paesaggi” 1963, e “Natura morta” 1946, poi “Natura morta” 1947 e ” Natura morta” 1948, quindi “Natura morta” 1950, e “Natura morta” 1957 V. 1027, inoltre  “Natura morta” 1957 V. 1060 e “Natura morta” 1960 V. 1188;  infine, “Natura morta” 1960  V. 1205 e, in chiusura, “Fiori” 1951.

Matisse, arabesque, la sua rivoluzione, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La grande mostra “Matisse, arabesque”, al Palazzo Esposizionidal 5 marzo al 21 giugno 2015, espone oltre 100 opere dell’artista, tra  dipinti, incisioni e disegni,  insieme a un’altrettanto vasta esposizione di tappeti e stampe, ceramiche e oggetti orientali che hanno avuto un ruolo importante nella sua svolta pittorica. La mostra è realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre, curatrice Ester Coen, con un comitato scientifico formato da Elderfield, Berggruen e Labrusse, autore del testo”Arabeschi. Una storia occidentale”, inserito nel Catalogo Skira, curato dalla Coen, che contiene la sua introduzione critica “Matisse arabesque”, e altri contributi insieme al ricco repertorio iconografico.

Un vero evento la mostra di Matisse,  l’impegno realizzativo è stato notevole,  come sottolinea il presidente dell’Azienda speciale Palaexpo e della Quadriennale di Roma Franco Bernabè, ricordando i 40 prestatori tra i quali alcuni grandi musei: dai musei russi Puskin e l’Ermitage  ai parigini Centre Pompidou e l’Orangerie, dai londinesi Tate e Victoria, Albert Museum ai newyorkesi MoMA e Guggenheim, e poi musei di Washington e Filadelfia, New Haven e Gerusalemme, Nizza e Grenoble, fino a quelli di Roma e Torino, Firenze e Faenza; oltre ai musei e istituzioni dedicati a Matisse, a Nizza, Cateau-Cambrésis e a New York nonché a preziose collezioni private.  Oltre 100 gli operatori dei musei impegnati, cui si aggiungono altri 225 nomi che hanno dato dei contributi.

Durante la mostra è stato effettuato il ciclo di proiezioni “Matisse.doc”,  5 documentari sull’artista, e si sono volti 7  “Incontri con Matisse”, tra marzo e maggio, sui diversi aspetti  della sua arte.

Uno spiegamento di forze straordinario, per un’esposizione fuori dal comune nella struttura e nell’impostazione:  è l’evocazione di un mondo esotico presentato nella sua sfolgorante spettacolarità   nei vasti ambienti  della storica sede romana di via Nazionale.

Eppure manca  l’opera più celebre, “La danza”, come le altre aventi la stessa conformazione, con campiture di colori nettamente distinte e dalla gamma limitata al verde del prato, all’azzurro del cielo e al rosso dei corpi  dai confini delineati con precisione calligrafica: ci riferiamo a “La Musica”  e a  “Ninfa e satiro”, a “Giocatori di bocce” e “Il lusso”, che con la danza compongono una  straordinaria cinquina. Non c’è, dunque, il Matisse calligrafico nei dipinti, sfarzosi ed elaborati, anche se il suo segno sottile e incisivo emerge evidente dai molti disegni esposti.

Ma non si resta delusi perché si è subito presi dalla magia, del resto enunciata nel titolo, che Baudelaire aveva sintetizzato nelle parole “lusso, calma, voluttà”,  come espressione di un contesto che così viene evocato dal poeta: “I mobili lucidi, i più rari fiori, i ricchi drappi, gli specchi profondi, lo splendore orientale”. Tutto questo si trova nella mostra, perciò al nome dell’artista è unita  la parola magica “arabesque”, come sigillo identificativo di un contenuto e di uno stile.

Le opere di  Matisse inquadrate in tale contesto sono presentate insieme a quanto può evocare i motivi e gli influssi che ne hanno orientato  il percorso artistico, accuratamente documentati in modo  quanto mai spettacolare: trattandosi dell’Oriente con le sue tradizioni e i suoi costumi, il suo artigianato pittoresco e i suoi impulsi spirituali, si può immaginare l’effetto altamente suggestivo.

I prestatori non sono soltanto i grandi  musei  che detengono le opere del Maestro, i cui prestiti si devono alla rilevanza e all’elevata qualità del progetto espositivo oltre che delle istituzioni coinvolte; ma anche musei etnografici e sedi di varia natura dove è stata raccolto un gran numero di reperti di arte e artigianato orientale per ricreare l’ambiente che ha affascinato e ispirato Matisse.

Un artista innovativo non solo rispetto ai classici ma anche alle avanguardie,  diverso nello stile e nei contenuti, e anche nell’approccio alla realtà e quindi all’arte:  nessun tormento  esistenziale e nessuna volontà dissacrante,  nessuna inquietudine  e nessuna polemica.

E’ riuscito a isolarsi anche dagli sconvolgimenti di due guerre mondiali per immergersi nel mondo delle raffinatezze e degli splendori dell’Oriente, in una visione serena e contemplativa che troviamo idealmente espressa anche nel titolo, nel dipinto “Gioia di vivere” del 1906 quando,  dopo le suggestioni pointillisme e fauviste,  supera “l’eterno conflitto del disegno e del colore”: una scena idilliaca di matrice bucolica, ma pur nei riferimenti ai classici e  a Gauguin già si può percepire una linea chiaramente decorativa, che si sviluppa nella sua peculiare forma espressiva.

“Il motivo della decorazione e dell’orientalismo – afferma la curatrice Ester Coen –  è per Matisse la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura, di un’estetica fondata sulla sublimazione del colore, della linea. Sull’identificazione di una purezza attraverso la semplificazione della forma”

Cerchiamo di analizzare i vari momenti di questa indagine, che vengono ricostruiti con cura in un’analisi dall’interno delle motivazioni e degli impulsi dell’artista e della loro traduzione in termini di contenuti e stile in cui si esprime il distacco dalle inquietudini e la sua gioia di vivere.

Una prima osservazione: nato l’ultimo giorno dell’anno nel 1869 a Le Cateau Cambrésis, già nella vita quotidiana prende  familiarità con tecniche e motivi decorativi, venendo da una famiglia di tessitori. Inizia a dipingere nel 1990, dopo una malattia a seguito della quale lascia gli studi giuridici per quelli  artistici: prima all’Académie Julian con Boughereau, poi all’Ecole des Beaux-Arts con Moreau dal 1895 al 1899 e ai corsi serali dell’Ecole des Arts decoratifs con Marquet

Ha già incontrato Derain nel 1899, nel 1907 conosce Picasso e  fa un viaggio di studio  in Italia. Nel 1910-11  altre significative coincidenze:  negli anni della “Danza” visita  l’esposizione d’arte maomettana a Monaco di Baviera, poi si reca a Mosca in casa dei S’cukin per curare l’installazione della “Danza”  –  che il collezionista russo gli aveva commissionato,  ispirata alle sei danzatrici  in circolo appena visibili sul fondo della “Gioia di vivere” – e scopre le icone russe. Nel 1912-13 va in Marocco, nel 1930-31  in America e in Polinesia, a Tahiti nel 1930.

La sua fama è dilagata, con mostre a Berlino e New York, Parigi e Basilea, nel 1920 ha  progettato costumi teatrali e ha iniziato la serie di “Odalische”, crea l’atmosfera orientale anche nel suo studio.

Ma cosa ha scoperto nelle sue visite alle esposizioni citate e nei suoi viaggi?  A Monaco le 80 sale di tappeti e tessuti ricamati, cui è interessato per la tradizione familiare, gli fanno conoscere una forma ornamentale diversa da quella tradizionale,  perché apre lo spazio invece di racchiuderlo; a Mosca si rafforza la visione di un impianto compositivo dall’essenza spirituale, non solo decorativa; in Marocco oltre all’ornato arabo e all’arte primitiva assorbe la luminosità mediterranea; a Tahiti, dove si reca più volte,  rivive l’esotismo  di Gauguin cui si è ispirato fin dalla “Gioia di vivere”.

Altri momenti del suo percorso artistico e di vita: una nuova versione della “Danza” nel 1931-33, le illustrazioni di Mallarmè in 30 acqueforti nel 1932, la scenografia e costumi per i balletti russi di “Rouge et noir” nel 1937,  altre illustrazioni e cicli di litografie nel 1946-50, fino alla decorazione della Cappella di Vence nel 1951, cui segue l’inaugurazione del Museo a lui dedicato a Le Cateau Cambrésis, nel 1952, prima dell’ultima mostra con i suoi “papiers découpés” nel 1953, avvenuta l’anno prima della morte. Sono solo momenti  particolari che ricordiamo perché costituiscono precisi riferimenti per comprendere le radici prime della sua originalissima forma espressiva.

Si inizia con i classici, di  cui  parlò espressamente in un’intervista  a un anno dalla morte, allorché gli fu chiesto:  “Che influenza ha segnato maggiormente la vostra arte: Giotto?  Fra Angelico?  I mosaici  bizantini? Le miniature persiane?”.  Rispose:  “Tutte queste che avete detto e sopra ogni altra Cézanne”.

Da Giotto e dal Beato Angelico prese gli azzurri puri e profondi, il blu di lapislazzulo che vira nel cobalto, una certa frontalità primitiva nella rappresentazione della natura; dai mosaici bizantini  viene la raffinatezza cromatica e la brillantezza,  l’uniformità della superficie;  dalle miniature persiane gli ornamenti eleganti in un fluire di figure, segni e colori  su un piano senza rilevi e senza ordini precostituiti; da Cézanne  prese la costruzione della forma nella materia con la pennellata attraverso il puro colore.

Furono lezioni basilari sulla creazione dell’immagine pittorica, che  assimilò pronto a recepire gli influssi di altre culture, in un percorso del tutto personale lontano da ogni tendenza  nello stile e nei contenuti, fosse essa classica o di avanguardia.

Sui classici, dei quali aveva studiato a lungo tecnica, spazi e prospettive, diceva che “è nell’eccesso di preziosismo e maestria che si è attenuato lo spirito dell’arte classica”. Il tutto si risolveva in un virtuosismo esteriore, in un’imitazione di maniera che non stimolava né apriva nuove strade.

Dai contemporanei e dalle avanguardie, di cui fu fiero oppositore, si è allontanato dopo brevi accostamenti iniziali al pointellismo e al cubismo, mentre fece parte dei “fauvisti”  con una  ribellione ai residui accademici e l’introduzione tanto innovativa da provocare scalpore, di colori puri e squillanti, di superfici appiattite e linee sinuose. Non ci sono più le antiche regole della prospettiva e neppure le nuove regole della scomposizione dei volumi o dell’impressionismo luminoso, diviene dominante l’accostamento emotivo di linea e colore, come quello dell’artista con la sua opera, fino al rapporto dell’artista con l’osservatore.

I capolavori del passato li considerava un patrimonio da conservare e consultare, ma senza alcun condizionamento, mentre si doveva  rappresentare la natura con la propria esperienza e le proprie  sensazioni.  Per lui “bisognava osservare ed esaltare la sensazione, la più pura delle cose, la più impermeabile alla ricercatezza, la più istintiva e primordiale, la più commovente in assoluto, per non dire la più emozionante di tutte”. E ha spiegato come: “Decisi allora di lasciare da parte qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza. Copiare un oggetto non m’interessava. Perché avrei dovuto dipingere l’aspetto esteriore di una mela, sia pure con la maggior precisione possibile? Quale interesse c’era a copiare un oggetto che la natura offriva  in quantità illimitate e che si può sempre concepire più bello? Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista,la potenza che questo ha di organizzare sensazioni ed emozioni”.

Quindi è la pittura al centro, come rapporto tra l’artista e l’oggetto, non quest’ultimo per la sua forma e il suo contenuto; una pittura che scandisce  i ritmi della natura come uno spartito musicale, vista nella superficie piana di uno spazio da creare senza riprodurne o simulare uno preesistente. Così lo sguardo di Matisse, osserva la curatrice Coen, si indirizza “verso la realtà della pittura stessa, verso il piano pittorico come luogo dell’accadere, verso la superficie come spazio della creazione”.

Il “principio di superficie – prosegue – con assoluta devozione e mirabile costanza, rimarrà la ragione esclusiva della ricerca di una vita”.  E come?  “Ridurre gli elementi visivi, giocare con la linea forzando la potenza del colore alla massima saturazione timbrica, esaltare la natura piana della tela o dell’area da dipingere, senza mai rinnegare l’epidermide del supporto, la sola materia vitale per cui la pittura può esistere, in funzione di una unità dell’insieme”.

Tutto questo si traduce in quattro direttrici spesso interconnesse, così sintetizzabili: primitivismo istintivo e  cromatismo mediterraneo,  linearismo giapponese e orientalismo decorativo.

Il primitivismo nasce dalla condivisione con Picasso  di una piccola testa lignea africana notata in una vetrina ed acquistata; ne derivò un esotismo che non si trasferì nella scultura. “E’ piuttosto la dimensione mnemonica a incidersi sulla tela – osserva la curatrice – nel segno di una deformazione mossa da grafismi saldamente intonati a un ritmo modulato su analogie e contrasti. Secondo una logica tesa ad escludere ogni indicazione di profondità o di costrutto architettonico”.

Le linee entrano nel suo spazio figurativo in armonia con l’insieme “modulato su rapporti di forza ed equilibri tra forti opposizioni cromatiche”, e questo è un aspetto fondamentale della sua pittura per il quale è debitore all’arte primitiva di cui raccoglie molti esemplari. Intanto approfondisce i principi elementari della linea nelle sue forme grammaticali e sintattiche, cioè nei singoli  elementi e nella composizione, restando sempre “in rapporto all’ordinamento e alla complessità della raffigurazione, all’assialità dell’impianto, alla contrapposizione tra toni chiari e scuri”.

Per lui non si tratta di un fatto tecnico,pur se importante: “Il  primitivismo – sono sue parole – è il frutto di uno stato primordiale dello spirito che non si può rigenerare artificialmente”.  Per questo è ben lungi dalla scomposizione cubista derivata dalla statuaria africana; non sposta l’oggetto dalla sua matrice, al contrario è affascinato dall’antichissima civiltà di cui è espressione, trasfusa in una diversa idea di classicità. Una classicità, secondo la  Coen, “intesa dunque come armonia dettata da una nuova e composita totalità, in uno spazio senza artifici, esclusivamente concertato dagli elementi stessi della pittura. Uno spazio pittorico inseguito anche nella xilografia, nella netta opposizione tra bianco del foglio e nero dai pochi tratti, larghi, diffusi sulla pagina come l’onda che si ripercuote nell’illimitata estensione oceanica”.

Dal bianco e nero delle xilografie al cromatismo mediterraneo, assorbito soprattutto dopo il viaggio in Marocco del 1912-13. Le atmosfere del Maghreb si imprimono in lui, anche perché sono riflesse nei tessuti, in cui trova forti riferimenti alle proprie tradizioni familiari tenendo conto che la produzione della sua regione tendeva ad utilizzare motivi orientali. Il tessuto con la sua trama compatta e l’ordito articolato faceva risaltare il motivo di fondo e  i contorni ornamentali su un piano bidimensionale, con l'”ibridazione di elementi incantevoli, per segno o tonalità” dai quali traeva “la giusta ispirazione in un amalgama sorprendente di flussi e correnti di energia e sintesi”.

Il trasferimento dell’ispirazione al dipinto viene così descritto dalla Coen con riferimento al “trittico marocchino”  con “Zorah” esposto in mostra: “I diversi livelli di intervento delle pennellate, pur segnando spesso con tratti forti parti dei profili di oggetti e figure, fanno contemporaneamente affiorare i singoli passaggi in un gioco di trasparenze ben distanti dall’idea di ‘pentimento’. Nello slittamento e nel differire dei piani, il senso di una durata, intesa come persistenza spazio-temporale, si dispiega  con assoluta chiarezza come se Matisse volesse far risaltare o non togliere comunque peso al vari stadi della costruzione di un’immagine”. 

La curatrice  sottolinea il ruolo fondamentale del colore con riferimento specifico all’azzurro del cielo usato anche per altre parti della composizione: “Azzurri amati e dipinti per il loro intrinseco valore cromatico, non per pura sensibilità estetica, ancor meno per una scelta puramente decorativa. L’elemento ornamentale alimentato da Matisse nelle sue diverse declinazioni assume la stessa funzione di ogni singola parte dell’opera; è motivo nel senso musicale più stretto di una frase che partecipa allo sviluppo del tema nella sua più ampia costruzione”. Che avviene così: “Motivo e fondo, figura e dettaglio, come nell’insieme delle trame di tessuti dalla compatta e uniforme superficie, formano l’immagine nella sua pienezza”.

Più in generale,  l’artista parla così del colore: “Tutto, anche il colore, non può che essere creazione. Comincio a descrivere il mio sentimento prima di arrivare a quello che ne è l’oggetto. Allora si deve creare tutto daccapo, tanto l’oggetto come il colore. Il colore contribuisce a esprimere la luce, non in quanto fenomeno fisico, ma la sola luce che effettivamente esiste, quella del cervello dell’artista. Ogni epoca porta con sé una luce sua propria, il suo sentimento particolare dello spazio, come un suo bisogno”. La sua  epoca “ha portato una nuova comprensione del cielo, dell’estensione, dello spazio. Oggi si arriva ad esigere un possesso totale di questo spazio”.

In termini  più precisi, aggiunge: “Mi sono servito del colore come mezzo d’espressione della mia emozione e non di trascrizione della natura. Uso i colori semplici. Non sono io a trasformarli. Se ne incaricano i rapporti. Si tratta soltanto di far valere le differenze, di farle risaltare. Nulla vieta di comporre con pochi colori, come la musica che è costruita unicamente su sette note. E’ sufficiente inventare dei segni”.

L’evocazione dei segni ci porta al linearismo giapponese, anche perché nei paesaggi del periodo 1912-17 , osserva la curatrice, “gli influssi del giapponesismo, in un sorprendente eclettismo, si amalgamavano alle volute più mediterranee nella logica di una luce misurata su affinità e armonie”. Ne scoprì .la raffinatezza stilistica attraverso le stampe: “Che lezione di purezza, di armonia, ne ricevetti”, ebbe a confidare.  La definisce “una rivelazione” che fece strada in lui: “Solo con lentezza giunsi a scoprire il segreto della mia arte. Consiste nel meditare in contatto con la natura, esprimere un sogno sempre ispirato alla realtà. Con maggiore accanimento e regolarità, imparai  a spingere ogni mio studio in un certo senso”.

Non fu  una svolta da poco, la Coen la riassume così: “Fissità e semplificazione rappresentavano una diversa analisi sui linguaggi della pittura, sulle nuove ipotesi interpretative del moderno. L’idea della virtualità del piano e dell’oggetto, ibridata ora dalla prospettiva delle stampe orientali e di altri idiomi formali ancora, disloca definitivamente l’immagine in una dimensione senza rilievo. E l’innesto di suggestioni si chiarifica e decanta nella bellezza di note e ritmi temprati  a un energico accordo melodico”.

Tutto questo si traduce nel suo orientalismo decorativo, la quarta e forse maggiore sua direttrice, che rappresenta il sigillo stesso della mostra, all’insegna di “arabesque”. Ne parleremo prossimamente, come premessa al racconto della visita alla galleria sfolgorante delle sue opere e  dei tanti materiali orientali altrettanto spettacolari.

Info

 Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì 10,00 – 20,00, venerdì e sabato 10,00 – 22,30, nessuna chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500, http://www.scuderiedelquirinale.it  Catalogo  “Matisse, arabesque”, a cura di Ester Coen,  Skira, pp. 628, formato 24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo conclusivo sarà pubblicato in questo sito il prossimo 26 maggio  con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli per le rispettive mostre, in questo sito  su Cezanne  24 e 31 dicembre 2013, i cubisti 16 maggio 2013; in “cultura.inabruzzo.it”  su Picasso 4 febbraio 2009,   Giotto 7 marzo 2009, Beato Angelico 30 giugno 2009.  

Foto

Le immagini delle opere di Matisse, riportate in ordine cronologico tranne l’apertura,  sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, “Il paravento moresco”, 1921; seguono “Pesci”, 1911 e “Angolo dello studio”, 1912; poi “Zorah in piedi”, 1912, e  “Rifano in piedi” o “Marocchino in verde”, 1912; quindi,  “Zorah sulla terrazza”, 1912-13, e “Calle, iris e mimosa”, 1913; inoltre, “Ritratto di Yvovve Landsberg”, 1914, e  “L’italiana”, 1916; infine, “Lo stagno a Trivaux”, 1916-17, e, in chiusura, “Costumi per Le Chant du rossignol”, “Guerriero” a sin., “Mandarino”, a dx.