Gelasio Giardetti, l’uomo e Dio nel corpo universale

di Romano Maria Levante

i conclude l’appassionante viaggio nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo, dal cosmo ai “virus”, fino all’essere umano,  con la lettura del  nuovo libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”,  che completa il precedente “Dio, fede e inganno”, dove denunciava che alla fede nelle Sacre Scritture corrisponda l'”inganno” dei passi biblici contraddetti da realtà e logica, e dalla vita dell’uomo, come individuo e collettività, in antitesi ai precetti di fede.   Verrà presentato, come il primo libro, a Roma, nella sede dell’UNAR, via Aldrovandi 16, il 21 giugno 2015.

Del nuovo libro abbiamo già seguito la prima parte del percorso, premessa per  giungere fino a Dio.  Ma prima di passare ai temi conclusivi, nei quali si spazia dalla scienza alla metafisica,   completiamo la carrellata sull’analogia, sorretta da una logica stringente quanto ardita, tra il corpo umano  e il “corpo universale” , nelle loro azioni e reazioni  vicendevoli e speculari.  Abbiamo lasciato il lettore con le aggressioni dei “virus” al corpo umano e del “virus- uomo” al “corpo universale”. Passiamo ora alle difese, trovando ancora delle sorprese avvincenti.

La difesa del “corpo universale” dal “virus-uomo”

Incalza l’analogia, si passa dall’attacco alla difesa: come l’uomo deve difendersi dai “virus”  che minacciano la sua esistenza, altrettanto deve fare il “corpo universale” rispetto al “virus-uomo”.

E  lo fa con il proprio “sistema immunitario”, analogo a quello umano, la “difesa immunologica” avviene attraverso fenomeni naturali che reagiscono alle azioni distruttive del “virus-uomo”.

Si comincia con gli uragani, come conseguenza e reazione all’aumento della temperatura dell'”effetto serra”; sono analizzati  in dettaglio, viene  descritto con dovizia di particolari uno dei più rovinosi, “Katrina”, che nel 2005 devastò diversi stati americani, e si cita come esempio degli uragani più recenti quello chiamato “Haiyan”, che ha seminato distruzioni nelle Filippine nel novembre 2013.  Viene ricordato che dal 1940 il numero degli uragani atlantici è raddoppiato fino a 30 uragani nel solo 2005, effetto  punitivo contro l’uomo che si sta estendendo dagli oceani ai mari più piccoli, come il Mediterraneo, sede di nubifragi rovinosi , come quello di  Venezia nel 2011.

Ma non sono queste le conseguenze più gravi dell’azione distruttiva dell’uomo sull’ambiente, hanno il senso di  azioni dimostrative, di avvertimenti sempre più ultimativi. L’evento più grave, non solo incombente ma in corso, è lo scioglimento dei ghiacciai dovuto anch’esso, secondo precisi meccanismi di fisica cosmica, all'”effetto serra” e non solo. Nell’Antartide masse  ghiacciate della dimensione della Svizzera si stanno staccando, nell’Artico 3-4 gradi  di innalzamento di temperatura hanno fatto diminuire in poco tempo del 40% la consistenza dei ghiacci. I grandi ghiacciai, vere riserve di ghiaccio del pianeta, si sciolgono a ritmo accelerato, e anche quelli piccoli seguono la stessa sorte, viene citato il più meridionale d’Europa, il ghiacciaio del Calderone sul Gran Sasso d’Italia, il cui spessore in 70 anni si è ridotto di 80 metri. La prosecuzione di tale fenomeno stravolgerebbe l’equilibrio dei mari e dell’intero ambiente con un calo di temperatura, in paradossale contrasto con l’aumento dell'”effetto serra”, che porterebbe una terrificante glaciazione nell’intera Europa, oltre all’ aumento del livello dei mari che spazzerebbe via intere zone costiere.

Non è tutto, la reazione del “corpo universale” alle ferite causate dall’aggressione del “virus-uomo” si manifesta anche rispetto alle radiazioni nucleari diffuse dai test atomici, di cui  le maggiori potenze hanno abusato : l’Urss con 715 test, alcuni di devastante potenza, e gli USA  con 1030; la Francia con 132  e l’Inghilterra 45, la  Cina e l’India con 50: per un totale, comprese altre nazioni, di 2055 esplosioni di ordigni nucleari con una potenza complessiva di 440 megatonnellate. Ciò avviene per gli effetti della dispersione nell’ambiente,  attraverso le stesse esplosioni, di particelle radioattive pari a 4000 Kg di plutonio 239 e 500 kg di uranio 235, oltre a molte centinaia di Kg di elementi altamente tossici, come lo stronzio, il cesio e lo iodio: con la loro tossicità provocano una lenta contaminazione  che avvelena  l’ambiente provocando gravi malattie nella specie umana.

Ben più violenta e risolutiva la reazione cosmica a una eventuale guerra nucleare che il “virus-uomo”  potrebbe scatenare per i contrasti economico-finanziari e politici tra le grandi potenze, e per l’esasperarsi dei fondamentalismi nelle aree che detengono la gran parte delle risorse energetiche del pianeta. Lo scenario è apocalittico: il pianeta in fiamme, 2 miliardi di persone sterminati dall’onda d’urto e dal calore, altrettanti destinati a morire presto  per le radiazioni;  ma è solo l’effetto immediato, le polveri radioattive e il “fall out ” sulla terra non solo la contaminerebbero irrimediabilmente, ma la coprirebbero con una cappa che fermerebbe i raggi del sole dando luogo ad uno spaventoso inverno nucleare, facendo tornare all’era glaciale un’umanità sull’orlo dell’estinzione. 

Fantapolitica terroristica? No, sono le conseguenze preconizzate dagli scienziati di un evento non impossibile, dato che lo stesso trattato New Start, che ha messo al bando l’80% degli ordigni nucleari, ne ha consentito 800 per parte, più che sufficienti a provocare tali spaventosi effetti, il conflitto si può scatenare anche per errori di valutazione già corretti più volte in extremis dinanzi ad errate segnalazioni di missili in arrivo.

Dopo  questa “escalation” di violenze della natura come reazione del “corpo universale” alle dissennate aggressioni del “virus-uomo”, un nuovo “cambio di passo”:  dell’uomo viene visto il lato opposto. Ora è l’essere fornito di intelligenza messa al servizio della scienza che, nelle parole di Umberto Veronesi, “lavora sempre per il bene dell’uomo, per il progresso”, al punto da riuscire a creare perfino  la vita in laboratorio, come ha fatto Crayg Venter con il Dna sintetico; e soprattutto l’essere capace di stati d’animo positivi, come le sensazioni di felicità, di amore, di gioia.

La prima considerazione serve all’autore per argomentare analogicamente che, se vi è riuscito l’uomo,  anche il “corpo universale”  è stato in grado di creare la vita: e lo ha fatto  attraverso un processo di “inseminazione cosmica”, al quale in campo scientifico è stato dato il nome inequivocabile di “Panspermia”,  che si è avvalso di materiali organici diffusi, poi elaborati e assemblati negli spazi siderali, “mattoni della vita” catturati per la forza gravitazionale dal pianeta terra come ipotizzato anche da  Francis Crik, scopritore con James Watson della forma elicoidale del Dna, entrambi Premio Nobel 1953 per la medicina, e teorizzato fin dall’inizio del secolo dal Nobel per la chimica Svante Arrhenius, per non parlare dell’astronomo Fred Hoyle nel 1961, e di altri ancora. Scienziati di prima grandezza, anche se gli oppositori sono  numerosi. Ma vi sono prove tangibili nei meteoriti caduti a più riprese dagli spazi cosmici nei quali sono stati rinvenuti questi “mattoni della vita”, tra  cui amminoacidi che non esistono sul pianeta terra, segno di altre forme di vita negli spazi cosmici.

Gli amminoacidi non bastano alla vita, occorre l’acqua, ne viene data ampia spiegazione. Oltre all’acqua endogena, la presenza di isotopi ha provato l’esistenza di acqua esogena, per le violente precipitazioni derivate dalla condensazione del vapore acqueo sprigionatosi  nella formazione della terra per effetto dei violenti fenomeni vulcanici con immissione di gas nell’atmosfera, a seguito della  solidificazione della crosta terrestre e la conseguente pressione che ne fratturò la superficie:  con il raffreddamento si formarono i mari e gli oceani, cui contribuirono meteoriti contenenti ghiaccio.

Nemmeno l’aggiunta dell’acqua basterebbe a spiegare la continuità della vita più elementare se non vi fosse la fotosintesi clorofilliana  che combinando l’acqua all’anidride carbonica e all’energia solare produce zuccheri e ossigeno permettendo la formazione  da sostanze inorganiche di prodotti organici  ad alto contenuto energetico in grado di attivare processi nutritivi e metabolici degli organismi unicellulari.  Così si sviluppò la vita vegetale, e attraverso i protozoi, organismi  unicellulari consumatori di glucosio, si crearono le condizioni per la vita animale. Lo studio dei fossili ha dato delle conferme sulle prime forme di vita autonoma, cioè in grado di riprodursi, apparse 3 milioni di anni fa  dalle cellule “procariote”  da cui derivarono i “mitocondri” che diedero vita alle cellule “eucariote animali” e i cloroplasti delle cellule “eucariote vegetali”.

Il  Dio immanente sovrannaturale di un’alta religiosità

Finora il “corpo universale” e l’uomo sono stati i protagonisti assoluti, e non abbiamo mai citato Dio, sebbene sia il convitato di pietra dell’intera esposizione. A questo punto  va ricordato che si tratta della prosecuzione e chiusura del discorso iniziato nel volume precedente “Dio, fede e inganno” nel quale si contesta l’esistenza del Dio trascendente della Bibbia sottolineando le gravi  incongruenze delle Sacre Scritture rispetto alla realtà verificabile e soprattutto la stridente contraddizione del disegno illuminato di Dio onnipotente, onnisciente e somma bontà, con la realtà umana in cui il male, nelle  forme più violente e spietate, domina contro la presunta volontà divina.

In questo volume si passa dalla critica alla costruzione teologica basata sulla fede, che per l’autore si traduce in inganno  perché irragionevole, alla costruzione di una teoria alternativa, la cosiddetta D.C.A., che usa il metodo analogico come il meno lontano dal metodo sperimentale galileiano non applicabile per ovvi motivi, dato che si basa sulla sperimentazione in un campo analogo dal quale si possono trasferire i risultati nel campo che interessa. E quanto si è esposto fin qui, sintetizzando un percorso complesso e articolato,  riassume  le basi del ragionamento con cui  l’autore  cerca di dare una risposta più credibile del Dio trascendente,  agli  interrogativi  che l’uomo si pone da sempre.

Qual  è questa risposta? L’autore identifica il Dio alternativo a quello trascendente nel “corpo universale” e lo chiama “Dio immanente sovrannaturale”. Questo passaggio cruciale viene motivato con il fatto che un sistema così evoluto come quello cosmico, che arriva ad elaborare strategie di difesa e di reazione rispetto agli attacchi del “virus-uomo”, non può non essere prodotto da un’intelligenza superiore. Anche a questo riguardo si ricorre all’analogia: se la società umana riesce ad organizzarsi come sappiamo nel modo più avanzato e produttivo, così ha saputo fare la società cosmica, in base a  processi e criteri  inimmaginabili per la mente umana confinata negli angusti confini terrestri. L’autore parla di  “società multiversale” perché il cosmo è un “Multiverso” con miliardi di universi come quello cui appartiene la terra, e argomenta che se l’uomo è riuscito a creare la vita artificiale,  non c’è dubbio che la società Multiversale può fare questo e molto di più.

Il “di più” consiste nella qualità di questa vita, che deve creare le condizioni di benessere per il “Dio immanente sovrannaturale” insito, come detto sopra, nel “corpo universale”: e queste risiedono nel flusso di stati d’animo positivi, cioè, nelle parole dell’autore, “sensazioni di felicità, di amore, di gioia, utili a curare la salute psichica del nostro giovane Dio immanente sovrannaturale”.  La sorpresa nella sorpresa la troviamo nel soggetto al quale è demandato questo compito, nel “corpo universale” al quale appartiene la terra: ebbene è l’uomo, capace di tutte le nequizie in ogni epoca e latitudine, ma anche in grado di esprimere questi flussi positivi con la sua intelligenza e sensibilità, che non sono esclusivi, in quanto presenti anche nei miliardi di altri pianeti, ma a lui demandati sulla terra.

E perché muore, allora, si chiede l’autore, se ha una missione così alta e benefica? Proprio per questo, una volta che l’ha assolta per il tempo nel quale gli è stato possibile, la sua esistenza non ha più ragion d’essere. L’analogia paragona questo farmaco del “corpo universale”  al farmaco dell’uomo, e scade nello stesso modo quando cessa la sua capacità benefica: per le medicine dopo un certo tempo che le fa deteriorare, qui quando con l’invecchiamento il prodotto curativo perde efficacia. L’uomo non è più il “virus”  da combattere fino all’eliminazione, ma il farmaco benefico da utilizzare finché conserva la sua efficacia in termini di benessere diffuso nel “corpo universale”.

Non è una contraddizione, perché l'”uomo-virus” è il rovescio della medaglia dell'”uomo-farmaco”:  del resto ci sembra sia un modo diverso, ma equivalente, di vedere la compresenza di bene e male  nella concezione del Dio trascendente rispetto alla quale quella del Dio immanente sarebbe alternativa.

Allo stesso modo ci sembra collimi con la visione del Dio creatore dell’Universo l’attribuzione alla Società multiversale di un’intelligenza assoluta in grado di attivare la vita in miliardi di pianeti, con i processi cosmologici descritti dall’autore; e di finalizzare la vita dell’uomo sulla terra alla produzione di stati d’animo positivi come la gioia e l’amore, la fratellanza e la solidarietà nel nostro pianeta,  analogamente, peraltro, al Dio trascendente nell’insegnamento della Chiesa,  pur se nella “teologia”  analogica c’è in più la convinzione che ciò avvenga anche negli altri mondi galattici.

Resta il problema dei problemi, quello  dell’origine della vita e della sua evoluzione , dalle forme unicellulari più elementari alla più complessa espressione umana dotata di intelligenza. A questo punto entra in campo l’evoluzionismo darwiniano, basato sulle varianti casuali  nell’ambito della stessa specie e sulla selezione naturale che premia quelle “favorevoli” e “vantaggiose” rispetto alle altre che nei confronti dell’ambiente possono essere “sfavorevoli” o addirittura “nocive”.

La forza della teoria darwiniana è stata tale che anche la Chiesa ha dovuto riconoscere validità all’evoluzionismo, però limitandola alla proliferazione delle specie e all’ulteriore differenziazione rispetto a quella biblica; altrimenti  sarebbe errato quanto le Sacre Scritture dicono rispetto, ad esempio, alle  specie salvate nell’Arca di Noè, come evidenziato nel primo libro dell’autore, molto minori di quelle attuali perché aumentate per l’evoluzione naturale; concessione tra molte ambiguità e sempre cercando di ostacolare la conoscenza del pensiero del grande esploratore e scienziato.

E’ tassativa l’attribuzione da parte della Chiesa dell’origine delle specie al “disegno divino”, non ammettendo il “caso” dell’origine darwiniana.  Il disegno divino sarebbe supportato scientificamente dalla teoria della “complessità irriducibile”  del biochimico Michael Behe, secondo cui sistemi come il corpo umano e l’Universo hanno un’estrema complessità, che non può essere dovuta al caso, ma a un disegno intelligente opera di un”divino progettista”: il Dio trascendente.

La teoria D.C.A, che l’autore basa sull’analogia con realtà note, colma la lacuna darwiniana  su cui  fanno leva i creazionisti per far prevalere la loro impostazione,  sostituendo al “caso” dei darwinisti e al “disegno intelligente” di Dio dei creazionisti  un altro disegno intelligente: quello della Società multiversale che avrebbe predisposto i  “mattoni della vita”, cioè gli amminoacidi originari,   e i programmi per passare dalle cellule vegetali a quelle animali, e dagli organismi viventi unicellulari a quelli cellulari più complessi con un solo obiettivo che nelle parole dell’autore è il seguente: “L’avvento della vita intelligente sulla terra  e sugli altri pianeti finalizzata a produrre stati d’animo positivi come la gioia, l’amore, la fratellanza, la solidarietà, cioè stati d’animo capaci di curare la salute mentale dei singoli universi” e, in ultima analisi, come abbiamo già accennato, del “Dio immanente sovrannaturale”.

Avendo questa sola ma primaria funzione, senza il dualismo corpo-anima, la vita intelligente può aver termine quando la funzione si esaurisce per consunzione, cosa che toglierebbe ogni drammaticità alla morte caricata dal  Cristianesimo  di motivi fortemente ansiogeni, come il giudizio sulla vita e le eventuali punizioni da scontare nell’al di là.

E il “Dio immanente sovrannaturale”  nella teoria  elaborata dall’autore?  Lo descriviamo con le sue parole: “La teoria D.C.A., pur escludendo qualsiasi intervento creativo di un  Dio trascendente esterno all’universo ed ogni dualismo tendente a separare, nella natura umana, l’anima immateriale e immortale dal corpo materiale, concreto e corruttibile, concepisce tuttavia l’esistenza di un Dio universo umanizzato, dotato di intelligenza e volontà superiori che ha dato origine all’uomo per un tornaconto personale, per una specifica esigenza: curare lo stato della propria salute mentale”.

Trattandosi di un Dio nell’Universo, anzi nel “corpo universale”, l’autore chiarisce le differenze rispetto al panteismo secondo cui Dio è compenetrato  nella natura  e quindi “tutto è Dio”, e lo fa anche con riferimenti a Giordano Bruno e Spinoza. La D.C.A, pur promuovendo come il panteismo “un connubio indissolubile fra intelligenza e materia, non concepisce tuttavia questa intelligenza cosmica come il prodotto di un afflato divino che possa dare ragione alla formula panteistica ‘Tutto è Dio'”.

Continua l’autore: “In essa, infatti, tutto è umanizzato ad un livello infinitamente superiore alla realtà umana; si potrebbe dire che tutto è umanizzato ad un  livello cosmico, poiché si postula che il nostro Dio universo non è stato creato né dal puro caso né, tanto meno,  per volontà di un qualsiasi principio divino, ma è stato concepito per mezzo di una compenetrazione materiale fisica, si potrebbe dire sessuale, fra due immensi universi paralleli contigui; esso poi è nato, vive, si espande, cresce e sicuramente avrà una fine”.

Si basa sulla cosmologia esplorata in precedenza. “La vita intelligente, a sua volta, è stata formulata e programmata alla stessa stregua di un farmaco per un’esigenza materiale del nostro Dio immanente sovrannaturale”. Ma poi, aggiungiamo noi, è degenerata nel “virus di Dio”.

Il Dio  immanente e il Dio trascendente 

Tornano per altra via le contraddizioni del creazionismo, “l’uomo a immagine e somiglianza di Dio”, mentre d’altra parte ci sembra che la conclusione sia ispirata a una profonda, alta  religiosità, e non di tipo panico, per l’umanizzazione su cui l’autore insiste precisando che il Dio è sì, immanente, ma anche “sovrannaturale”, quindi sovraordinato alla natura.  E allora la vera alternativa è rispetto all’ateismo, alla negazione di ogni intelligenza superiore, all’attribuzione al “caso” o comunque a forze cieche di quanto avviene nell’universo. Mentre  è molto minore la differenza del “Dio immanente sovrannaturale” rispetto al “Dio trascendente” del creazionismo: l’autore lo porta su un piano cosmico peraltro non alternativo alla concezione fideistica che lo vede “nell’alto dei cieli”, quindi in una posizione altrettanto sovrannaturale; e anche  l’immanenza del Dio sovrannaturale concepito dall’autore è presente nella visione cristina, secondo cui è “in ogni luogo”. 

E’ una religiosità non più in chiave antropomorfa e neppure panica quella che vede  il “corpo universale” e la “Società multiversale”  animati da un Dio che è sovrannaturale  e insieme è insito in loro;  ma è umanizzato al punto che  lo sentiamo quanto mai vicino e coerente con il Dio che hanno tutte le anime “nativamente religiose” nell’accezione dannunziana: quella dell’autore, Gelasio Giardetti,  che viene dalla terra  d’Abruzzo, lo è certamente.

Il suo Dio immanente non è meno vicino all’uomo del Dio trascendente – la cui “distanza” è colmata da Cristo, il figlio mandato sulla terra per neutralizzare, con il sacrificio volto alla redenzione,  il “virus-uomo”, per usare il termine creato dall’autore in ben altro contesto  – compenetrato com’è nel “corpo universale” e non immaginato lontano nell’irraggiungibile empireo.  E l’intelligenza dell’uomo in entrambi  risponde a una missione positiva, di benessere e, diremmo, beatitudine.

Non è “a immagine e somiglianza di Dio”  come l’uomo per i creazionisti, ma gli estremi si toccano, verrebbe da dire, forse è più appropriato dire che le distanze anche siderali si annullano. C’è l’entità intelligente, incommensurabilmente superiore ma umanizzata, c’è la missione data all’uomo nel segno dell’amore, c’è la trasgressione del male.

Ma nell’una e nell’altra concezione, immanente o trascendente, l’uomo deviante dalla sua missione resta sempre il “virus di Dio”: nel primo caso combattuto con la forza della natura, nell’altro prima redento con il sacrificio della Croce, poi dissuaso con un’al di là di punizioni e premi.

Inoltre per entrambi l’uomo è anche il “farmaco di Dio”. E così il grande mistero dell’esistenza mantiene il suo fascino mentre si esplora questa nuova strada.  Una via non divergente, ci sembra, come quella dell’ateismo, ma al contrario convergente nella figura di un Dio sovrannaturale, trascendente o immanente che sia, ma sempre con una particolare attenzione all’uomo e una attenzione costante alla sua vita sulla terra.

Info

Il libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”, Arduino Sacco Editore, novembre 2014, pp. 184, euro 19,90, sarà presentato a Roma il 21 giugno 2015 alle ore 17,30 in via Mercadante 16 alla sede della UNAR come è stato per  il libro dello stesso autore – di cui l’attuale rappresenta la continuazione e conclusione – “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, settembre 2013, pp.240, euro 19,90.  Sempre di Gelasio Giardetti, “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, giugno 2008,  pp. 320, euro 18,00. Cfr. i nostri articoli:  in questo sito il  primo articolo sul libro attuale Gelasio Giardetti, il nuovo libro, l’uomo il virus di  Dio”, il 10 giugno 2015,  e l’articolo sul  libro precedente “Dio, mistero senza fine in un libro di Gelasio Giardetti” , 2 febbraio 2014; sui fenomeni cosmici, in questo sito l’articolo sulla mostra  “ Meteoriti  e il pianeta visto dallo spazio”, 5 ottobre 2014 e  in “cultura.inabruzzo.it”, su  ” Astri e particelle” , 12 febbraio 2010, “Visioni celesti”,  26 e 27 maggio 2010.

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Le immagini  si riferiscono  all’altro  termine dell’analogia su cui si impernia l’impostazione dell’autore,  il primo sulla  parte umana è visualizzato nell’articolo precedente; è la volta della parte cosmica visualizzata alternando  immagini del cosmo e dei corpi celesti con quelle degli effetti devastanti delle catastrofi cosmiche. In apertura, la locandina per la presentazione del libro; seguomo una visione cosmica e un terremoto distruttivo, poi il cosmo con visibili dei corpi celesti e la minaccia terrificante di uno tzunami-maremoto, quindi corpi celesti ravvicinati e il devastante scioglimento dei ghiacciai; in chiusura lacopertina di “Gesù, l’uomo”, dello stesso autore, che ha preceduto i due libri su su Dio.  Le immagini cosmiche sono tratte dai siti, nell’ordine, laviadiuscita.net, cetraroinrete.it, ilquotidianoinclasse.quotidiano.net; le immagini degli eventi catastrofici, rispettivamente da meteoweb.eu, youtube.com, notizie.it.  Si ringraziano i titolari dei siti citati e delle immagini utilizzate per l’opportunità offerta,  e si precisa che il loro inserimento nell’articolo ha mere finalità illustrative senza alcuna  necessità e soprattutto senza alcun risvolto economico; ci si impegna, pertanto, a rimuoverle immediatamente su richiesta se la loro pubblicazione  non fosse gradita

Chagall, dalle favole agli innamorati, al Chiostro del Bramante

di Romano Maria Levante

Abbiamo già ripercorso la vita e l’arte dell’artista cui è dedicata la grande mostra  “Marc Chagall. Love and Life. Opere dell’Israel Museum di Gerusalemme” ,  al Chiostro del Bramante, dal   16 marzo  al 26 luglio  2015. Ora diamo conto della visita alle opere esposte che riguardano i temi salienti del suo mondo immaginifico: i  ritratti di personaggi  e i luoghi a lui familiari, le illustrazioni dei  libri della moglie Bella  e di Gogol e quelle delle favole di La Fontaine, il suo straordinario bestiario, fino al culmine degli innamorati, con gli splendidi dipinti in cui spicca il suo grande amore. La mostra è realizzata da Dart e Arthemisia Group con  The Israel Museum di Gerusalemme, e curata da  Ronit Sorek.. Catalogo Skira .

Prima di immergerci nella visione delle opere esposte, che spaziano dai dipinti alle illustrazioni per libri e alle scenografie teatrali, ricapitoliamo per brevi tratti quanto abbiamo più diffusamente ricordato sulla sua arte, strettamente collegata alla vita in una poetica espressiva fatta di realtà e ricordi,  sogni e memoria in cui sono presenti i motivi salienti della propria esistenza, come la madre Russia,  rivissuta da lontano nelle sue lunghe permanenze in Francia e in America, le figure familiari e i personaggi tipici della sua terra, fino all’immagine più amata, la donna di cui si innamorò e poi sposò, Bella, divenuta la personificazione stessa dell’amore inteso in senso universale.

Chagall  attraversa le correnti artistiche del ‘900  traendone gli spunti che ritiene utili per la sua peculiare forma espressiva, ma non aderisce a nessuna di esse, anche se è stato definito “fauvista”, ma essenzialmente per renderne la ribellione rispetto ad ogni visione limitata: la liberà espressiva è stato il suo imperativo.

In tal modo ha potuto rendere le proprie emozioni, in un figurativo che non è realismo né stretta aderenza a quanto rappresenta,  ma non ha neppure l’automatismo psichico dell’espressionismo né la provocatoria illogicità del surrealismo, anche se la sua libertà espressiva si traduce in immagini volanti fuori dal comune.

La sua inconfondibile cifra stilistica si manifesta in un molteplicità di forme d’arte, i dipinti dal forte cromatismo sono la più spettacolare, ma ci sono anche i cicli illustrativi di libri e di opere teatrali, le scenografie e le vetrine, fino alle sculture. La mostra dà conto della sua pittura attraverso pochi  ma fondamentali dipinti, e soprattutto attraverso le multiformi opere grafiche, anch’esse spettacolari nel narrare delle storie in modo di volta in volta arguto, nostalgico, ispirato.

Cominciamo con i “Ritratti“, di “Baa ‘I Makshoves” e “Ala Elishev”, 1918, un “pensatore” e un ragazzo, con un tratteggio chiaroscurale sottile e delicato, cui accostiamo “Autoritratto con sorriso”, 1924-25, che portò con sé in diverse copie nel 1931 nel viaggio in Palestina,, evidentemente si identificava con quest’immagine sorridente. Ben diversa dal grottesco “Autoritratto con smorfia”, 1924-25, .che peraltro fu utilizzato come copertina dell’edizione francese dell’autobiografia “Ma Vie”, segno che si riconosceva anche in questa figura dissacrante: la bocca è distorta, l’occhio è asimmetrico, la selva di capelli sembra quasi un vello, è al limite della deformazione cubista.

Invece un precedente “Autoritratto”, 1923, è calligrafico  e preciso, il viso appena delineato è sovrastato da una casetta sopra i capelli, quasi ad evocare il ricordo dell’abitazione natale in Russia da cui si era allontanato per lungo tempo, precede la visualizzazione analoga del pensiero di Frida Kahlo che espresse la fissazione amorosa dipingendo l’immagine di Rivera sulla propria fronte nell’autoritratto, Qui ci sono anche le due famiglie della sua vita, quella dei genitori e la propria, riprodotte in  piccolo ma con precisione alla base della sua testa, davanti al collo.

La vita familiare è rappresentata nei suoi tanti momenti, con particolare riguardo alle cerimonie rituali della religione ebraica, nelle illustrazioni per  l’autobiografia, “Ma vie”  e per i libri di Bella, “Burning Light”, “First Encounter”: nel Catalogo le immagini sono corredate dai brani del testo che intendono rappresentare, in una sequenza che richiama le trasposizione di romanzi in film.

Dell’Autobiografia sono esposte 15 opere a puntasecca. Le sue parole: “Il mio mondo, la  mia vita, tutte le cose che amavo, tutte le cose che sognavo, tutte le cose che non ho saputo dire a parole, le ho dipinte”. Indica anche quali sono: “Ho dipinto la mia amata Russia, la mia città Vitebsk, la comunità ebraica nella quale sono cresciuto, il modo in cui vedevo ogni cosa quando ero bambino”.

Fa questo con lo stile che gli è proprio in quel periodo, inizio anni ’20,  dalla linearità assoluta alle composizioni più complesse. Rievoca gli anni dell’infanzia con lo spirito del “figliol prodigo”, ha detto Mayer, che ritrova la sua terra con le emozioni della riscoperta di se stesso e insieme con  la sorpresa che si prova dinanzi a un mondo nuovo dopo tante esperienze diverse, nuovo e antico.

Vediamo  celebrati gli affetti familiari in “Nascita” e “Madre e figlio”, “Mio padre” e “Accanto alla tomba di mia madre”,  “La nonna” e “La casa del nonno”;  i luoghi della sua infanzia in “Casa  Podrovska a Svibek” e “Casa a Pescovatik”; i personaggi pittoreschi in “Il rabbino” e il  “Musicista”, mentre l’ “Automobilista” ha in testa il veicolo con la stessa scelta figurativa del pensiero fisso del suo Autoritratto con la casa sul capo.

E l’amore? Non manca in questa galleria, lo vediamo in “Innamorati sulla riva del fiume” con le figure maschile e femminile giustapposte,  una è rovesciata, e “Il Cancello”, con due piccole figure schiacciate nel momento del bacio. La più straordinaria è “La passeggiata”, dove la figura maschile in piedi con il braccio alzato e tiene per mano la figura femminile in volo, un’icona: è una puntasecca che ritroveremo in un dipinto ad olio con una sorpresa finale per il visitatore.

Non mancano neppure opere che, a differenza di quelle ora citate, per lo più calligrafiche, hanno un forte impatto cromatico: sono  le acqueforti “Studio per il mercante di bestiame”, dove troviamo gli animali da lui tanto amati, la mucca sul carretto, il vitello sulle spalle della donna, addirittura un puledro in grembo alla giumenta che traina il carro; e  “La caduta dell’angelo”, dove l’artista raffigura se stesso evocando dei sogni ricorrenti;  un tema analogo in “L’apparizione”, anche qui si rappresenta nella veste di un pittore sorpreso dalla comparsa dell’angelo, in una sorta di annunciazione laica.

La vita familiare nel clima tradizionale attraversato dai rituali religiosi dell’ebraismo è al centro pure delle illustrazioni per i libri di Bella, di cui la mostra presenta un vasto campionario, circa 40,  la maggior parte in china in tratto calligrafico, e alcune con ombreggiature in acquatinta e gouache.

I libri sono “Burning Lights” e “First Encounter”, dai titoli si evince il contenuto, tenendo conto che  le candele accese richiamano i rituali ebraici,  e il primo incontro evoca immagini dell’adolescenza.

Nel primo, dopo la figura di “Bella” e “Il bagno”,  “Il negozio” e “Ora di pranzo”, che presentano l’autrice e momenti di quotidianità,  abbiamo la sfilata di immagini su feste rituali: le due di “Shabbat” e le tre dello “Yom Kippur, il giorno dell’espiazione“, le cinque di “La quinta luce di Chanukkah” con l’accensione progressiva delle candeline, “Capodanno ebraico” e  le due sulla “Festa delle Capanne o dei tabernacoli”, con la capanna in cui le famiglie consumano il pranzo rituale, una in forti colori; “I commedianti di Purin” e “I dolci di Purin”, riferiti a una festa gioiosa, “Il libro di Ester” e “Vigilia del Pesach”, la Pasqua ebraica, e la “Cena rituale pasquale”, fino al “Profeta Elia”.

In “Primo incontro”, invece,  tutte le illustrazioni riguardano la vira familiare senza riferimenti religiosi: vediamo “A spasso con il babbo” e “Le nozze di Aaron”, fratello di Bella, le due di “Visite” ed  “Estate  in campagna”, “L’orologiaio” che evoca il negozio del padre al quale si riferiscono le quattro su “La collana di perle”, una vera sequenza cinematografica dell’acquisto di una signora elegante ripresa prima fuori dal negozio, poi al banco, infine in volo su un animale mitico, non il Pegaso, come sulle ali della felicità.

L’evocazione diventa più personale in “Il treno” e “La barca”, entrambi con l’immagine di Bella in alto, che vola sopra ai mezzi di tarsporto, nel secondo è abbracciata dall’innamorato; come lo è in “Regali di nozze”. La sequenza inizia idealmente in “Il ponte”, la prima volta che lei lo vide, poi “Primo incontro” mostra i volti congiunti in modo del tutto particolare, tema sviluppato nelle quattro di “Il compleanno” in cui compare anche la posizione acrobatica con la testa rovesciata all’indietro per cercare il bacio, torna in mente “Il cancello” dell’autobiografia in cui invece l’attrazione irresistibile era resa dalle figure schiacciate.

Le illustrazioni per “Le anime morte” di Gogol, seguono quelle per “Ma vie” e per i libri di Bella , ci lavorò dal 1923 al 1927, si tratta di 96 incisioni realizzate per l’editore francese Vollard, ma furono pubblicate solo nel 1948 dall’editore Tériade. Definita da Gogol  “poema epico in prosa” e “romanzo in versi”, l’opera è una visione satirica della società russa portata fino all’assurdo. E’ imperniata sul paradosso della ricerca di agiatezza con l’acquisto delle “anime morte” dei  servi della gleba, sulla cui presenza in vita  venivano tassati i proprietari terrieri.  Per questo la rappresentazione di Chagall è caricaturale, ma soffusa di nostalgia condivisa con Gogol perché i due artisti russi erano entrambi lontani dal loro paese, dopo il 1840 Gogol,  dopo il 1920 Chagall.

Il segno resta abbastanza sottile, anche se meno che nelle illustrazioni precedentemente commentate, ma le figure  sono evidenziate da forti macchie scure che danno loro grande rilievo. Questo per  le acqueforti in bianco  e nero intenso, con i diversi personaggi: “L’arrivo di Cicikov” e “Manilov e Cicikov sulla soglia”, “Il cocchiere Selifan” e “Nazdrev”, “Sobakevic” e “Sobakevic a tavola”, “La signora Sobakevic” “la signora Korobocka”, fino a “Petrucka”; “La piccola città” crea l’ambiente in cui si svolge la vicenda, “Una folla di contadini” e “Gli imbianchini” popolano in modo  pittoresco la scena, “Chiedendo la strada”,  “Le carte da gioco”  e “La tavola scricchiolante” fotografano momenti particolari. E’ un campionario delle 96 illustrazioni, esposto nelle vetrine in una penombra che fa risaltare le tonalità scure delle acqueforti.

Ci sono anche delle esplosioni di colore, sono 3 stupende “gouache” e pastello su carta, con una dominante verde e blu brillante che illumina la scena: “Fisarmonica” e “Acrobata disteso su un ramo” , con due figure, la prima raccolta in un interno, la seconda quasi in volo all’esterno; “La chiesa di Chambon-sur-Lac” dietro un granaio cadente, con una donna e un bambino vicini alla scala  a pioli, è l’ambiente dove si era recato per preparare le illustrazioni di La Fontaine.

Nelle acqueforti per le Favole di La Fontaine si esprime in modo fantasioso, in composizioni più dense di quelle ora descritte, in una ulteriore escalation di ombre e macchie scure dopo la linearità calligrafica  delle illustrazioni per “Ma vie” e la maggiore  intensità grafica di quelle per “Le anime morte”. Dai disegni leggeri alle acqueforti con macchie scure a una impostazione grafica più pesante e netta, con colori solo accennati, quando ci sono., sovrastati dal nero della forma grafica..

Il mondo degli animali è per l’artista insieme favolistico e reale, perché lo riporta alla sua infanzia nella campagna russa e all’attrazione che ha avuto per loro, spesso presenti nei suoi dipinti. 

Ha scritto nell’autobiografia: “Spesso dicevo: io non sono un artista. Piuttosto una vacca o cos’altro?”. Rafael Alberti ricorda: “Quando, col poeta Jules Supervielle, entrammo nella casa del pittore Marc Chagall, vedemmo che era una vacca quella che ci aveva aperto la porta. Una volta dentro, vacche da  tutte le parti: su armadi, tavoli, sedie, libri. ‘Chagall, ma il suo atelier è una stalla”. E prosegue in una visione immaginifica dell’incontro in cui l’artista dice: “Bisogna amare le vacche. Bisogna amarle molto. Per me l’universo intero è popolato di vacche. Mi perseguitano anche in sogno. Sì, vacche da tutte le parti. Non esistono persone al mondo. Solo vacche”.

Nelle  favole  di La Fontaine “la scena è l’universo”, con  gli animali di ogni specie, e un campionario umano pittoresco ed espressivo.  Chagall è come se rappresentasse la commedia umana, il serraglio in cui uomini e bestie sono rinchiusi in un clima tra la realtà e l’immaginazione.

Erano state già illustrate da  Gustave Dorè, ma l’editore Vollard volle affidarne l’illustrazione all’artista russo: “Perché Chagall? Disse. La mia risposta è: ‘Semplicemente perché la sua estetica mi pare in certo modo affine a quella di La Fontaine, solida ma al contempo delicata, realistica ma anche fantastica”. Del resto la Fontaine era anche lui un emigrato a Parigi,  e condivideva con Chagall la visione serena e distaccata, all’insegna della fantasia e dell’umorismo.

L’artista per meglio immedesimarsi in quel mondo, che pure ben conosceva, nel 1926 si spostò da Parigi nei paesi di campagna, e nel 1928 aveva realizzato un centinaio di illustrazioni a colori.  Poi, per superare le difficoltà editoriali, passò alle acqueforti in bianco e nero che sarebbero state colorate  successivamente a mano, fino a formare dei veri originali; usò bulino  e pennello per ottenere un maggiore chiaroscuro. Furono pubblicate in un’edizione di 200 cartelle solo nel 1952.

Chagall  vi trova l’ideale per le sue metafore immaginifiche e la personificazione degli animali nei soggetti umani, lo fa con amore e arguzia, più interessato a questo che alla morale della favola. Vediamo esposte circa venti grandi tavole. 5 coinvolgono solo gli animali a coppie: “Il Corvo e la Volpe” e “La Volpe e la Cicogna”, “L’Aquila e lo Scarabeo” con “I due Galli” e “I due Muli”; altre  5 tavole,  animali con figure umane o altro: “Il Cigno e il Cuoco” e “Il Contadino e il Serpente”,  “Il Pavone e Giunone” e “La Gallina e la Perla”;  altre ancora con il campionario umano, “Il Ragazzo e il Maestro di scuola” e  “La Vecchia padrona e le due Serve”, “Il Contadino e il Banchiere” e “Il Ciarlatano”; fino alle penetranti “La Morte e il Disgraziato” e “L’Uomo e la sua Immagine”,  “Il Vaso di terra” e il “Vaso di Ferro”, e alle personificazioni più esplicite, “La Gatta cambiata in Donna”  e “Il Leone innamorato”.

I colori sono utilizzati per sottolineare l’aspetto saliente del soggetto rappresentato, semplici macchie cromatiche  in un impasto compositivo molto denso, che dà una particolare profondità alla rappresentazione con il senso onirico dato dall’emergere spesso da un fondo oscuro.

C’è il trionfo del colore, invece, nelle illustrazioni della Bibbia, che gli furono commissionate dallo stesso editore Vollard prima che ultimasse quelle della favole di La Fontaine, ne realizzòe 66, poi l’interruzione della  Seconda guerra mondiale e nel 1952 le altre 39., per un totale di 105 acqueforti che saranno pubblicate nel 1956 dall’editore Tériade. 

Superfluo sottolineare l’attrazione esercitata in lui dalla Bibbia in  termini religiosi, abbiamo visto nelle illustrazioni per “Ma Vie”  quanti fossero i riti ebraici seguiti e rappresentati con amorevole trasporto.  Inoltre considerava l’artista non solo portatore del messaggio da trasmettere, bensì anche una sorta di “creatore”  dell’opera artistica.

Ma c’è di più: “Sono stato affascinato dalla Bibbia sin dalla prima infanzia – ha detto l’artista – Mi è sempre sembrata la più grande fonte di poesia di tutti i tempi. Da allora ho sempre cercato di trovarne il riflesso nella vita e nell’arte. La Bibbia è come un’eco della natura e questo è il segreto che ho cercato di trasmettere”. E per meglio immedesimarsi si recò in Palestina, come abbiamo ricordato,  nei luoghi della rivelazione biblica che lo colpirono con il loro fascino ambientale, così da divenire una parte fondamentale della sua rappresentazione. Le tragiche vicende della persecuzione nazista degli ebrei e della guerra che sconvolgeva l’Europa trovano un’eco nella sua rappresentazione dell’odissea del popolo di Israele, fino alla definitiva liberazione.

Sono esposte acqueforti da diversi capitoli della Bibbia:  “Il sacrificio di Noè” e “Sara e Abmelek”,  “Il sacrificio di Isacco” e “La tomba di Rachele”; “Daniele” e “”Davide”,  “Davide e Samuele” e “Davide e Betsabea”,  “Mosè” e “Mosè riceve le tavole della legge”,  “Il passaggio del Mar Rosso” e “Sansone solleva le porte di Gaza”, fino a  “Il canto dell’arco”.

Quelle su Mosè, Davide e  Davide e Betsabea hanno il cromatismo più intenso, ma la maggiore efficacia drammatica l’abbiamo vista plasticamente in due acquerelli del 1944: “Crocifissione” con una selva di crocifissi e cartelli sulla loro origine ebraica,  corpi a terra,  una figura inerme in alto su una paesaggio di stragi in una strada innevata; “La cavalcata”, come un Cristo in alto benedicente una folla attonita, con tre destrieri bianchi dietro di lui e figure in volo nel cielo.

E così siamo giunti a quello che per noi è il “clou” dell’esposizione e, in un cero senso, la cifra peculiare dell’universo artistico e ideale di Chagall. Ai dipinti sugli innamorati, posti nella vasta sala al piano superiore del Chiostro  del Bramante, a conclusione del percorso espositivo che si snoda tra i numerosi ambienti piccoli e raccolti tra i quadri alle pareti e le illustrazioni nelle vetrine.

Il sentimento d’amore viene espresso attraverso immagini in un intenso cromatismo, con la dominante blu del cielo e il verde e il rosso, il giallo e il bianco dei fiori, spesso presenti.  Due dipinti esposti presentano soltanto fiori, sono “Albza (i fiori”, e “Natura morta con fiori  e frutta”.

E’ solo la premessa, i fiori  circondano  le immagini degli “Innamorati”, due figure piccolissime al centro della composizione costituita da una imponente fioritura, in alto un angelo in  volo, in basso una scena agreste, tutto quasi in miniatura rispetto ai fiori. In “Coppia di innamorati con i fiori” le due figure in volo abbracciate nel cielo blu sopra i tetti cittadini sono affiancate da un gigantesco mazzo di fiori che sembra poggiato sulla campagna sovrastando di gran lunga il campanile della chiesa. 

C’è anche  “Coppia di innamorati con gallo”, immagine onirica, come un’altra immagine di “Innamorati”, due volti sognanti accostati con un contorno di fronde e di bacche.

Sono immagini dal forte effetto cromatico che carica di una luce speciale le figure dolcemente abbracciate oppure librate in volo.

Non è finita, ritroviamo “La passeggiata”, già  descritta nel disegno per “Ma vie”, qui c’è il dipinto su fondo giallo, con la figura maschile in piedi, il braccio sinistro proteso in alto, la mano stringe quella della sua donna librata nel cielo. E’ di piccole dimensioni, ma la mostra regala la sorpresa di un’installazione speciale, che proietta alla parete l’immagine a grandezza naturale, con un particolare accorgimento che permette al visitatore di fotografarsi al posto del soggetto in piedi, in modo da essere lui a tenere per mano la figura librata in cielo.

“Quest’immagine dell’innamorata che vola – scrive Efrat Aharon – è  un simbolo perfetto della felicità condivisa, esprimendo sia l’estasi dell’appagamento fisico sia una percezione cosmica di unione con la natura”.   Il volo è la figurazione maggiormente espressiva dello stato d’animo di estasi vissuto nel suo grande amore per Bella che resterà anche dopo la morte della moglie trasformandosi in una idealizzazione che la vede continuamente presente nelle sue opere.

Fu un vero colpo di fulmine, lo descrive nell’Autobiografia: “Sebbene questa sia stata la prima volta che l’ho vista, io sento che è lei la mia donna”. E lo spiega: “Il suo silenzio è il mio. I suoi occhi i miei. Sento che mi conosce da sempre, che conosce la mia infanzia, la mia vita di oggi, il mio futuro. Come se avesse sempre vegliato su di me, intuendo il mio più intimo essere”.

Poi a Parigi per quattro anni, torna in Russia, la sposa, hanno la figlia Ida, vi resta otto anni quindi di nuovo in Francia, dopo un anno a Berlino, è il periodo più bello in cui percorrono la Francia in lungo in largo, vivono il loro amore in paesaggi e atmosfere suggestive.

 “Quei viaggi – prosegue la Aharon – non mancarono di influire sul suo modo di trattare il tema dell’amore. L’artista eseguì  dipinti dai colori intensi e dalle forme liriche che esprimevano il rinnovato spirito amoroso  e giovanile che lui e Bella avvertivano nella terra che li ospitava”. E ancora: “Il suo interesse per l’amore non si limitò più al forte sentimento per Bella, ma si dilatò ad abbracciare un sentimento universale”.

E’ questa universalità che riesce ad esprimere rendendo il trasporto estatico sulle ali dell’amore. Farne partecipe il visitatore al punto di farlo entrare all’interno del dipinto con l’installazione descritta è una vera magia che la mostra regala al visitatore, con altri segni di attenzione come i timbri e le calcomanie chagalliane  a disposizione i tutti. Così ognuno può portare con sé dei segni tangibili, quasi testimonianze della sua immersione nel mondo incantato di Chagall, che resta nel cuore per la sua straordinaria carica suggestiva ed evocativa nel suo stile personalissimo di straordinario livello  artistico.

Info

Chiostro del Bramante, Via Arco della Pace, 5, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì ore 10,00-20,00; sabato e domenica  ore 10,00-21,00, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso,  intero euro 13, ridotto  euro 11  (aani 11-18 e oltre 65, studenti oltre 26 anni), euro 5 (anni 4-11, e nei lunedì di “promo” per studenti universitari). Tel. 06.68809035, www.chiostrodelbramante.it , www.ticket.it/chagall.  Catalogo: “Chagall. Love and Life. Opere dall’Israel Museum di Gerusalemme”, Skira, marzo 2015, pp. 190, formato 24 x 28. Cfr. anche  “Chagall”, collana “I Classici dell’arte, il Novecento”, Rizzoli-Skira 2004,  pp. 190, formato 17 x 21.  Il primo articolo,  “Chagall, amore e vita al Chiostro del Bramante”,  è uscito in questo sito il 30 maggio 2015 con 11 immagini. Cfr., per la citazione di  Frida Kahlo, gli articoli sulla mostra a Roma 24 marzo, 12, 16 aprile 2014; inoltre, per l’arte contemporanea, l’articolo “Israel now, 24 artisti israeliani al Macro Testaccio”  6 febbraio 2013. Per altre citazioni cfr. il nostro primo articolo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Chiostro del Bramante alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare  Arthemisia Group e Dart, con i titolari dei diritti, in particolare l’Israel Museum, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Gli innamorati”, 1954-55; seguono,  “Nazdrev”, 1948 da “Le anime morte”, e “Crocefissione”, 1944;  poi,  “Coppia di innamorati con gallo”, 1951, e  “La cavalcata”, 1944″; quindi, “Natura morta con frutta e fiori”, 1956-57, e “Sobakevic a tavola”, 1948 da “Le anime morte”; inoltre “Davide e Betsabea”, 1955 dalla “Bibbia”, e “La vecchia padrona e le due serve” , 1927-30 dalle “Favole” di La Fontaine; infine, “Sara e Abmelek”, 1960 alla “Bibbia” e, in chiusura, la proiezione con l’immagine della “Passeggiata” in cui si può inserire il visitatore ( me stesso) al termine del percorso, nella sala con i dipinti degli “innamorati” posta   al secondo piano dell’esposizione.

Gelasio Giardetti, l’uomo e Dio nel corpo universale

di Romano Maria Levante

Si conclude l’appassionante viaggio nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo, dal cosmo ai “virus”, fino all’essere umano,  con la lettura del  nuovo libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”,  che completa il precedente “Dio, fede e inganno”, dove denunciava che alla fede nelle Sacre Scritture corrisponda l'”inganno” dei passi biblici contraddetti da realtà e logica, e dalla vita dell’uomo, come individuo e collettività, in antitesi ai precetti di fede.   Verrà presentato, come il primo libro, a Roma, nella sede dell’UNAR, via Aldrovandi 16, il 21 giugno 2015.

Del nuovo libro abbiamo già seguito la prima parte del percorso, premessa per  giungere fino a Dio.  Ma prima di passare ai temi conclusivi, nei quali si spazia dalla scienza alla metafisica,   completiamo la carrellata sull’analogia, sorretta da una logica stringente quanto ardita, tra il corpo umano  e il “corpo universale” , nelle loro azioni e reazioni  vicendevoli e speculari.  Abbiamo lasciato il lettore con le aggressioni dei “virus” al corpo umano e del “virus- uomo” al “corpo universale”. Passiamo ora alle difese, trovando ancora delle sorprese avvincenti.

La difesa del “corpo universale” dal “virus-uomo”

Incalza l’analogia, si passa dall’attacco alla difesa: come l’uomo deve difendersi dai “virus”  che minacciano la sua esistenza, altrettanto deve fare il “corpo universale” rispetto al “virus-uomo”.

E  lo fa con il proprio “sistema immunitario”, analogo a quello umano, la “difesa immunologica” avviene attraverso fenomeni naturali che reagiscono alle azioni distruttive del “virus-uomo”.

Si comincia con gli uragani, come conseguenza e reazione all’aumento della temperatura dell'”effetto serra”; sono analizzati  in dettaglio, viene  descritto con dovizia di particolari uno dei più rovinosi, “Katrina”, che nel 2005 devastò diversi stati americani, e si cita come esempio degli uragani più recenti quello chiamato “Haiyan”, che ha seminato distruzioni nelle Filippine nel novembre 2013.  Viene ricordato che dal 1940 il numero degli uragani atlantici è raddoppiato fino a 30 uragani nel solo 2005, effetto  punitivo contro l’uomo che si sta estendendo dagli oceani ai mari più piccoli, come il Mediterraneo, sede di nubifragi rovinosi , come quello di  Venezia nel 2011.

Ma non sono queste le conseguenze più gravi dell’azione distruttiva dell’uomo sull’ambiente, hanno il senso di  azioni dimostrative, di avvertimenti sempre più ultimativi. L’evento più grave, non solo incombente ma in corso, è lo scioglimento dei ghiacciai dovuto anch’esso, secondo precisi meccanismi di fisica cosmica, all'”effetto serra” e non solo. Nell’Antartide masse  ghiacciate della dimensione della Svizzera si stanno staccando, nell’Artico 3-4 gradi  di innalzamento di temperatura hanno fatto diminuire in poco tempo del 40% la consistenza dei ghiacci. I grandi ghiacciai, vere riserve di ghiaccio del pianeta, si sciolgono a ritmo accelerato, e anche quelli piccoli seguono la stessa sorte, viene citato il più meridionale d’Europa, il ghiacciaio del Calderone sul Gran Sasso d’Italia, il cui spessore in 70 anni si è ridotto di 80 metri. La prosecuzione di tale fenomeno stravolgerebbe l’equilibrio dei mari e dell’intero ambiente con un calo di temperatura, in paradossale contrasto con l’aumento dell'”effetto serra”, che porterebbe una terrificante glaciazione nell’intera Europa, oltre all’ aumento del livello dei mari che spazzerebbe via intere zone costiere.

Non è tutto, la reazione del “corpo universale” alle ferite causate dall’aggressione del “virus-uomo” si manifesta anche rispetto alle radiazioni nucleari diffuse dai test atomici, di cui  le maggiori potenze hanno abusato : l’Urss con 715 test, alcuni di devastante potenza, e gli USA  con 1030; la Francia con 132  e l’Inghilterra 45, la  Cina e l’India con 50: per un totale, comprese altre nazioni, di 2055 esplosioni di ordigni nucleari con una potenza complessiva di 440 megatonnellate. Ciò avviene per gli effetti della dispersione nell’ambiente,  attraverso le stesse esplosioni, di particelle radioattive pari a 4000 Kg di plutonio 239 e 500 kg di uranio 235, oltre a molte centinaia di Kg di elementi altamente tossici, come lo stronzio, il cesio e lo iodio: con la loro tossicità provocano una lenta contaminazione  che avvelena  l’ambiente provocando gravi malattie nella specie umana.

Ben più violenta e risolutiva la reazione cosmica a una eventuale guerra nucleare che il “virus-uomo”  potrebbe scatenare per i contrasti economico-finanziari e politici tra le grandi potenze, e per l’esasperarsi dei fondamentalismi nelle aree che detengono la gran parte delle risorse energetiche del pianeta. Lo scenario è apocalittico: il pianeta in fiamme, 2 miliardi di persone sterminati dall’onda d’urto e dal calore, altrettanti destinati a morire presto  per le radiazioni;  ma è solo l’effetto immediato, le polveri radioattive e il “fall out ” sulla terra non solo la contaminerebbero irrimediabilmente, ma la coprirebbero con una cappa che fermerebbe i raggi del sole dando luogo ad uno spaventoso inverno nucleare, facendo tornare all’era glaciale un’umanità sull’orlo dell’estinzione. 

Fantapolitica terroristica? No, sono le conseguenze preconizzate dagli scienziati di un evento non impossibile, dato che lo stesso trattato New Start, che ha messo al bando l’80% degli ordigni nucleari, ne ha consentito 800 per parte, più che sufficienti a provocare tali spaventosi effetti, il conflitto si può scatenare anche per errori di valutazione già corretti più volte in extremis dinanzi ad errate segnalazioni di missili in arrivo.

Dopo  questa “escalation” di violenze della natura come reazione del “corpo universale” alle dissennate aggressioni del “virus-uomo”, un nuovo “cambio di passo”:  dell’uomo viene visto il lato opposto. Ora è l’essere fornito di intelligenza messa al servizio della scienza che, nelle parole di Umberto Veronesi, “lavora sempre per il bene dell’uomo, per il progresso”, al punto da riuscire a creare perfino  la vita in laboratorio, come ha fatto Crayg Venter con il Dna sintetico; e soprattutto l’essere capace di stati d’animo positivi, come le sensazioni di felicità, di amore, di gioia.

La prima considerazione serve all’autore per argomentare analogicamente che, se vi è riuscito l’uomo,  anche il “corpo universale”  è stato in grado di creare la vita: e lo ha fatto  attraverso un processo di “inseminazione cosmica”, al quale in campo scientifico è stato dato il nome inequivocabile di “Panspermia”,  che si è avvalso di materiali organici diffusi, poi elaborati e assemblati negli spazi siderali, “mattoni della vita” catturati per la forza gravitazionale dal pianeta terra come ipotizzato anche da  Francis Crik, scopritore con James Watson della forma elicoidale del Dna, entrambi Premio Nobel 1953 per la medicina, e teorizzato fin dall’inizio del secolo dal Nobel per la chimica Svante Arrhenius, per non parlare dell’astronomo Fred Hoyle nel 1961, e di altri ancora. Scienziati di prima grandezza, anche se gli oppositori sono  numerosi. Ma vi sono prove tangibili nei meteoriti caduti a più riprese dagli spazi cosmici nei quali sono stati rinvenuti questi “mattoni della vita”, tra  cui amminoacidi che non esistono sul pianeta terra, segno di altre forme di vita negli spazi cosmici.

Gli amminoacidi non bastano alla vita, occorre l’acqua, ne viene data ampia spiegazione. Oltre all’acqua endogena, la presenza di isotopi ha provato l’esistenza di acqua esogena, per le violente precipitazioni derivate dalla condensazione del vapore acqueo sprigionatosi  nella formazione della terra per effetto dei violenti fenomeni vulcanici con immissione di gas nell’atmosfera, a seguito della  solidificazione della crosta terrestre e la conseguente pressione che ne fratturò la superficie:  con il raffreddamento si formarono i mari e gli oceani, cui contribuirono meteoriti contenenti ghiaccio.

Nemmeno l’aggiunta dell’acqua basterebbe a spiegare la continuità della vita più elementare se non vi fosse la fotosintesi clorofilliana  che combinando l’acqua all’anidride carbonica e all’energia solare produce zuccheri e ossigeno permettendo la formazione  da sostanze inorganiche di prodotti organici  ad alto contenuto energetico in grado di attivare processi nutritivi e metabolici degli organismi unicellulari.  Così si sviluppò la vita vegetale, e attraverso i protozoi, organismi  unicellulari consumatori di glucosio, si crearono le condizioni per la vita animale. Lo studio dei fossili ha dato delle conferme sulle prime forme di vita autonoma, cioè in grado di riprodursi, apparse 3 milioni di anni fa  dalle cellule “procariote”  da cui derivarono i “mitocondri” che diedero vita alle cellule “eucariote animali” e i cloroplasti delle cellule “eucariote vegetali”.

Il  Dio immanente sovrannaturale di un’alta religiosità

Finora il “corpo universale” e l’uomo sono stati i protagonisti assoluti, e non abbiamo mai citato Dio, sebbene sia il convitato di pietra dell’intera esposizione. A questo punto  va ricordato che si tratta della prosecuzione e chiusura del discorso iniziato nel volume precedente “Dio, fede e inganno” nel quale si contesta l’esistenza del Dio trascendente della Bibbia sottolineando le gravi  incongruenze delle Sacre Scritture rispetto alla realtà verificabile e soprattutto la stridente contraddizione del disegno illuminato di Dio onnipotente, onnisciente e somma bontà, con la realtà umana in cui il male, nelle  forme più violente e spietate, domina contro la presunta volontà divina.

In questo volume si passa dalla critica alla costruzione teologica basata sulla fede, che per l’autore si traduce in inganno  perché irragionevole, alla costruzione di una teoria alternativa, la cosiddetta D.C.A., che usa il metodo analogico come il meno lontano dal metodo sperimentale galileiano non applicabile per ovvi motivi, dato che si basa sulla sperimentazione in un campo analogo dal quale si possono trasferire i risultati nel campo che interessa. E quanto si è esposto fin qui, sintetizzando un percorso complesso e articolato,  riassume  le basi del ragionamento con cui  l’autore  cerca di dare una risposta più credibile del Dio trascendente,  agli  interrogativi  che l’uomo si pone da sempre.

Qual  è questa risposta? L’autore identifica il Dio alternativo a quello trascendente nel “corpo universale” e lo chiama “Dio immanente sovrannaturale”. Questo passaggio cruciale viene motivato con il fatto che un sistema così evoluto come quello cosmico, che arriva ad elaborare strategie di difesa e di reazione rispetto agli attacchi del “virus-uomo”, non può non essere prodotto da un’intelligenza superiore. Anche a questo riguardo si ricorre all’analogia: se la società umana riesce ad organizzarsi come sappiamo nel modo più avanzato e produttivo, così ha saputo fare la società cosmica, in base a  processi e criteri  inimmaginabili per la mente umana confinata negli angusti confini terrestri. L’autore parla di  “società multiversale” perché il cosmo è un “Multiverso” con miliardi di universi come quello cui appartiene la terra, e argomenta che se l’uomo è riuscito a creare la vita artificiale,  non c’è dubbio che la società Multiversale può fare questo e molto di più.

Il “di più” consiste nella qualità di questa vita, che deve creare le condizioni di benessere per il “Dio immanente sovrannaturale” insito, come detto sopra, nel “corpo universale”: e queste risiedono nel flusso di stati d’animo positivi, cioè, nelle parole dell’autore, “sensazioni di felicità, di amore, di gioia, utili a curare la salute psichica del nostro giovane Dio immanente sovrannaturale”.  La sorpresa nella sorpresa la troviamo nel soggetto al quale è demandato questo compito, nel “corpo universale” al quale appartiene la terra: ebbene è l’uomo, capace di tutte le nequizie in ogni epoca e latitudine, ma anche in grado di esprimere questi flussi positivi con la sua intelligenza e sensibilità, che non sono esclusivi, in quanto presenti anche nei miliardi di altri pianeti, ma a lui demandati sulla terra.

E perché muore, allora, si chiede l’autore, se ha una missione così alta e benefica? Proprio per questo, una volta che l’ha assolta per il tempo nel quale gli è stato possibile, la sua esistenza non ha più ragion d’essere. L’analogia paragona questo farmaco del “corpo universale”  al farmaco dell’uomo, e scade nello stesso modo quando cessa la sua capacità benefica: per le medicine dopo un certo tempo che le fa deteriorare, qui quando con l’invecchiamento il prodotto curativo perde efficacia. L’uomo non è più il “virus”  da combattere fino all’eliminazione, ma il farmaco benefico da utilizzare finché conserva la sua efficacia in termini di benessere diffuso nel “corpo universale”.

Non è una contraddizione, perché l'”uomo-virus” è il rovescio della medaglia dell'”uomo-farmaco”:  del resto ci sembra sia un modo diverso, ma equivalente, di vedere la compresenza di bene e male  nella concezione del Dio trascendente rispetto alla quale quella del Dio immanente sarebbe alternativa.

Allo stesso modo ci sembra collimi con la visione del Dio creatore dell’Universo l’attribuzione alla Società multiversale di un’intelligenza assoluta in grado di attivare la vita in miliardi di pianeti, con i processi cosmologici descritti dall’autore; e di finalizzare la vita dell’uomo sulla terra alla produzione di stati d’animo positivi come la gioia e l’amore, la fratellanza e la solidarietà nel nostro pianeta,  analogamente, peraltro, al Dio trascendente nell’insegnamento della Chiesa,  pur se nella “teologia”  analogica c’è in più la convinzione che ciò avvenga anche negli altri mondi galattici.

Resta il problema dei problemi, quello  dell’origine della vita e della sua evoluzione , dalle forme unicellulari più elementari alla più complessa espressione umana dotata di intelligenza. A questo punto entra in campo l’evoluzionismo darwiniano, basato sulle varianti casuali  nell’ambito della stessa specie e sulla selezione naturale che premia quelle “favorevoli” e “vantaggiose” rispetto alle altre che nei confronti dell’ambiente possono essere “sfavorevoli” o addirittura “nocive”.

La forza della teoria darwiniana è stata tale che anche la Chiesa ha dovuto riconoscere validità all’evoluzionismo, però limitandola alla proliferazione delle specie e all’ulteriore differenziazione rispetto a quella biblica; altrimenti  sarebbe errato quanto le Sacre Scritture dicono rispetto, ad esempio, alle  specie salvate nell’Arca di Noè, come evidenziato nel primo libro dell’autore, molto minori di quelle attuali perché aumentate per l’evoluzione naturale; concessione tra molte ambiguità e sempre cercando di ostacolare la conoscenza del pensiero del grande esploratore e scienziato.

E’ tassativa l’attribuzione da parte della Chiesa dell’origine delle specie al “disegno divino”, non ammettendo il “caso” dell’origine darwiniana.  Il disegno divino sarebbe supportato scientificamente dalla teoria della “complessità irriducibile”  del biochimico Michael Behe, secondo cui sistemi come il corpo umano e l’Universo hanno un’estrema complessità, che non può essere dovuta al caso, ma a un disegno intelligente opera di un”divino progettista”: il Dio trascendente.

La teoria D.C.A, che l’autore basa sull’analogia con realtà note, colma la lacuna darwiniana  su cui  fanno leva i creazionisti per far prevalere la loro impostazione,  sostituendo al “caso” dei darwinisti e al “disegno intelligente” di Dio dei creazionisti  un altro disegno intelligente: quello della Società multiversale che avrebbe predisposto i  “mattoni della vita”, cioè gli amminoacidi originari,   e i programmi per passare dalle cellule vegetali a quelle animali, e dagli organismi viventi unicellulari a quelli cellulari più complessi con un solo obiettivo che nelle parole dell’autore è il seguente: “L’avvento della vita intelligente sulla terra  e sugli altri pianeti finalizzata a produrre stati d’animo positivi come la gioia, l’amore, la fratellanza, la solidarietà, cioè stati d’animo capaci di curare la salute mentale dei singoli universi” e, in ultima analisi, come abbiamo già accennato, del “Dio immanente sovrannaturale”.

Avendo questa sola ma primaria funzione, senza il dualismo corpo-anima, la vita intelligente può aver termine quando la funzione si esaurisce per consunzione, cosa che toglierebbe ogni drammaticità alla morte caricata dal  Cristianesimo  di motivi fortemente ansiogeni, come il giudizio sulla vita e le eventuali punizioni da scontare nell’al di là.

E il “Dio immanente sovrannaturale”  nella teoria  elaborata dall’autore?  Lo descriviamo con le sue parole: “La teoria D.C.A., pur escludendo qualsiasi intervento creativo di un  Dio trascendente esterno all’universo ed ogni dualismo tendente a separare, nella natura umana, l’anima immateriale e immortale dal corpo materiale, concreto e corruttibile, concepisce tuttavia l’esistenza di un Dio universo umanizzato, dotato di intelligenza e volontà superiori che ha dato origine all’uomo per un tornaconto personale, per una specifica esigenza: curare lo stato della propria salute mentale”.

Trattandosi di un Dio nell’Universo, anzi nel “corpo universale”, l’autore chiarisce le differenze rispetto al panteismo secondo cui Dio è compenetrato  nella natura  e quindi “tutto è Dio”, e lo fa anche con riferimenti a Giordano Bruno e Spinoza. La D.C.A, pur promuovendo come il panteismo “un connubio indissolubile fra intelligenza e materia, non concepisce tuttavia questa intelligenza cosmica come il prodotto di un afflato divino che possa dare ragione alla formula panteistica ‘Tutto è Dio'”.

Continua l’autore: “In essa, infatti, tutto è umanizzato ad un livello infinitamente superiore alla realtà umana; si potrebbe dire che tutto è umanizzato ad un  livello cosmico, poiché si postula che il nostro Dio universo non è stato creato né dal puro caso né, tanto meno,  per volontà di un qualsiasi principio divino, ma è stato concepito per mezzo di una compenetrazione materiale fisica, si potrebbe dire sessuale, fra due immensi universi paralleli contigui; esso poi è nato, vive, si espande, cresce e sicuramente avrà una fine”.

Si basa sulla cosmologia esplorata in precedenza. “La vita intelligente, a sua volta, è stata formulata e programmata alla stessa stregua di un farmaco per un’esigenza materiale del nostro Dio immanente sovrannaturale”. Ma poi, aggiungiamo noi, è degenerata nel “virus di Dio”.

Il Dio  immanente e il Dio trascendente 

Tornano per altra via le contraddizioni del creazionismo, “l’uomo a immagine e somiglianza di Dio”, mentre d’altra parte ci sembra che la conclusione sia ispirata a una profonda, alta  religiosità, e non di tipo panico, per l’umanizzazione su cui l’autore insiste precisando che il Dio è sì, immanente, ma anche “sovrannaturale”, quindi sovraordinato alla natura.  E allora la vera alternativa è rispetto all’ateismo, alla negazione di ogni intelligenza superiore, all’attribuzione al “caso” o comunque a forze cieche di quanto avviene nell’universo. Mentre  è molto minore la differenza del “Dio immanente sovrannaturale” rispetto al “Dio trascendente” del creazionismo: l’autore lo porta su un piano cosmico peraltro non alternativo alla concezione fideistica che lo vede “nell’alto dei cieli”, quindi in una posizione altrettanto sovrannaturale; e anche  l’immanenza del Dio sovrannaturale concepito dall’autore è presente nella visione cristina, secondo cui è “in ogni luogo”. 

E’ una religiosità non più in chiave antropomorfa e neppure panica quella che vede  il “corpo universale” e la “Società multiversale”  animati da un Dio che è sovrannaturale  e insieme è insito in loro;  ma è umanizzato al punto che  lo sentiamo quanto mai vicino e coerente con il Dio che hanno tutte le anime “nativamente religiose” nell’accezione dannunziana: quella dell’autore, Gelasio Giardetti,  che viene dalla terra  d’Abruzzo, lo è certamente.

Il suo Dio immanente non è meno vicino all’uomo del Dio trascendente – la cui “distanza” è colmata da Cristo, il figlio mandato sulla terra per neutralizzare, con il sacrificio volto alla redenzione,  il “virus-uomo”, per usare il termine creato dall’autore in ben altro contesto  – compenetrato com’è nel “corpo universale” e non immaginato lontano nell’irraggiungibile empireo.  E l’intelligenza dell’uomo in entrambi  risponde a una missione positiva, di benessere e, diremmo, beatitudine.

Non è “a immagine e somiglianza di Dio”  come l’uomo per i creazionisti, ma gli estremi si toccano, verrebbe da dire, forse è più appropriato dire che le distanze anche siderali si annullano. C’è l’entità intelligente, incommensurabilmente superiore ma umanizzata, c’è la missione data all’uomo nel segno dell’amore, c’è la trasgressione del male.

Ma nell’una e nell’altra concezione, immanente o trascendente, l’uomo deviante dalla sua missione resta sempre il “virus di Dio”: nel primo caso combattuto con la forza della natura, nell’altro prima redento con il sacrificio della Croce, poi dissuaso con un’al di là di punizioni e premi.

Inoltre per entrambi l’uomo è anche il “farmaco di Dio”. E così il grande mistero dell’esistenza mantiene il suo fascino mentre si esplora questa nuova strada.  Una via non divergente, ci sembra, come quella dell’ateismo, ma al contrario convergente nella figura di un Dio sovrannaturale, trascendente o immanente che sia, ma sempre con una particolare attenzione all’uomo e una attenzione costante alla sua vita sulla terra.

Info

Il libro di Gelasio Giardetti, “L’uomo, il virus di Dio”, Arduino Sacco Editore, novembre 2014, pp. 184, euro 19,90, sarà presentato a Roma il 21 giugno 2015 alle ore 17,30 in via Mercadante 16 alla sede della UNAR come è stato per  il libro dello stesso autore – di cui l’attuale rappresenta la continuazione e conclusione – “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, settembre 2013, pp.240, euro 19,90.  Sempre di Gelasio Giardetti, “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, giugno 2008,  pp. 320, euro 18,00. Cfr. i nostri articoli:  in questo sito il  primo articolo sul libro attuale Gelasio Giardetti, il nuovo libro, l’uomo il virus di  Dio”, il 10 giugno 2015,  e l’articolo sul  libro precedente “Dio, mistero senza fine in un libro di Gelasio Giardetti” , 2 febbraio 2014; sui fenomeni cosmici, in questo sito l’articolo sulla mostra  “ Meteoriti  e il pianeta visto dallo spazio”, 5 ottobre 2014 e  in “cultura.inabruzzo.it”, su  ” Astri e particelle” , 12 febbraio 2010, “Visioni celesti”,  26 e 27 maggio 2010.

Foto

Le immagini  si riferiscono  all’altro  termine dell’analogia su cui si impernia l’impostazione dell’autore,  il primo sulla  parte umana è visualizzato nell’articolo precedente; è la volta della parte cosmica visualizzata alternando  immagini del cosmo e dei corpi celesti con quelle degli effetti devastanti delle catastrofi cosmiche. In apertura, la locandina per la presentazione del libro; seguomo una visione cosmica e un terremoto distruttivo, poi il cosmo con visibili dei corpi celesti e la minaccia terrificante di uno tzunami-maremoto, quindi corpi celesti ravvicinati e il devastante scioglimento dei ghiacciai; in chiusura lacopertina di “Gesù, l’uomo”, dello stesso autore, che ha preceduto i due libri su su Dio.  Le immagini cosmiche sono tratte dai siti, nell’ordine, laviadiuscita.net, cetraroinrete.it, ilquotidianoinclasse.quotidiano.net; le immagini degli eventi catastrofici, rispettivamente da meteoweb.eu, youtube.com, notizie.it.  Si ringraziano i titolari dei siti citati e delle immagini utilizzate per l’opportunità offerta,  e si precisa che il loro inserimento nell’articolo ha mere finalità illustrative senza alcuna  necessità e soprattutto senza alcun risvolto economico; ci si impegna, pertanto, a rimuoverle immediatamente su richiesta se la loro pubblicazione  non fosse gradita

Chagall, amore e vita, al Chiostro del Bramante

di Romano Maria Levante

La  mostra “Marc Chagall. Love and Life. Opere dell’Israel Museum di Gerusalemme” , presenta al Chiostro del Bramante, dal   16 marzo  al 26 luglio  2015, un’ampia selezione della raccolta del  museo, che l’artista ha  sostenuto sin dalla creazione, sui suoi  temi peculiari: dai ritratti ai luoghi della sua vita, dai libri della moglie Bella  e di Gogol alle favole, fino al “clou”  rappresentato dagli innamorati. Realizzata da Dart e Arthemisia Group in collaborazione con  The Israel Museum di Gerusalemme, di cui fa parte la curatrice  Ronit Sorek.. Catalogo Skira , con testi di Sivan Eran-Levian, Efrat Aharon e Meira Perry-Lehmann.

Dopo Mirò, al Chiostro del Bramante un altro grande del ‘900. Provenienza da un’unica sede museale, come per le  mostre al Palazzo Esposizioni  di opere dello Stadhael Museum di Berlino o  del Guggenheim di New York, con la differenza che allora sono stati presentati molti  artisti.

Nel caso odierno abbiamo un museo e un artista, il museo è The Israel Museum di Gerusalemme, l’artista è Marc Chagall, e la mostra viene realizzata  nell’anno in cui si festeggia il  50° anniversario dalla sua istituzione, che fa dire al direttore James S. Snyder: “Qual modo migliore di celebrare quest’evento di una mostra dedicata a Chagall, un artista che sin dai tempi della sua fondazione, è stato uno dei pilastri della nostra istituzione?”.. 

La mostra non è antologica né tematica in senso stretto, ma   realizza gli obiettivi delle due impostazioni per  l’ampiezza della raccolta presso The Israel Museum, che ha sostenuto con cospicue donazioni di proprie opere, come ha fatto la figlia nel 1990, dopo la sua scomparsa, donando i disegni con cui furono illustrati i libri della moglie Bella, esposti in mostra.

Un artista versatile, nelle forme  utilizzate: pittura e disegno in primo piano, ma anche incisione e scultura, arazzo e mosaico, fino alla scenografia teatrale; e  nei contenuti, dato che ha spaziato, molto più dei suoi contemporanei, su  una vasta gamma di temi  legati alla sua particolare visione dell’arte.

Lionello Venturi ha scritto: “La sua opera si identifica con la sua personalità artistica, è una metafora poetica della propria biografia”. Ripercorriamo, quindi, i momenti salienti di una vita movimentata e feconda, molto lunga: nato il 7 luglio 1887, scompare il 28 marzo 1985 a 97 anni.

Ha attraversato tutto il ‘900, un secolo quanto mai ricco di tendenze artistiche, dall’impressionismo al futurismo, dall’espressionismo al surrealismo, dal cubismo al fauvismo, vi è stato inquadrato di volta in volta ma ne è rimasto sempre estraneo. Ha scritto nell’Autobiografia: “Abbasso il Naturalismo, l’Impressionismo, il Cubismo realista”, dei  cubisti diceva: “Che mangino, quando hanno fame, le loro pere quadrate sulle loro tavole triangolari”; rispetto all’automatismo psichico e al riferimento all’inconscio dei surrealisti, era mosso da emozioni e  ricordi, ispirato dalla  memoria, dalla nostalgia, dal  sogno. Sono tutti movimenti dai quali ha tratto di volta in volta motivi per arricchire la sua  linea stilistica e di contenuti senza rinunciare mai alla sua spiccata individualità.

Prima che dalle correnti artistiche,  ha ricevuto sollecitazioni molteplici dai crocevia di culture  in cui si è trovato  in una vita attraversata da radicali mutamenti nelle sue vicende esistenziali.

La biografia di cui l’opera è la metafora poetica: la formazione  

La sua formazione iniziale è all’insegna della cultura ebraica della sua famiglia, i genitori e otto fratelli e sorelle, i nonni e gli zii. Trascorse l’infanzia  nel chiuso mondo dello shtetl ebraico,  tra casa, scuola e sinagoga, considerata la vera patria del popolo eletto in cui gli ebrei sono costretti a muoversi. Ma presto si apre alla cultura della Russia, dove è nato e risiede a Vitebesk, in quanto la madre  dopo la scuola primaria ebraica riesce ad iscriverlo in una scuola russa che gli apre orizzonti nuovi non più ristretti alla visione identitaria e confessionale della piccola cerchia ebraica.

Questa maggiore libertà  gli consente di seguire la propria vocazione pittorica concentrandosi sui ritratti dei familiari e sui panorami, mentre la religione ebraica si opponeva a queste manifestazioni di arte figurativa. I familiari, dopo una iniziale resistenza, lo assecondano, anzi la madre lo porta nell’atelier di Jehuda Pen, dove entra  nel 1906 a 19 anni “inebriato , esaltato dall’odore dei colori e dei quadri”.

Per un anno studia  i rudimenti del figurativo e del cromatismo, poi nel 1907 si trasferisce a San Pietroburgo ed entra in contatto con l’ambiente artistico, senza aderire ad alcuna corrente ma maturando un proprio stile. Vi  resta fino al 1910, i temi dei primi  dipinti di questo periodo sono ritratti e paesaggi, cioè i soggetti a lui vicini che ne colpiscono la sensibilità e l’immaginazione. Quindi parenti e amici, rabbini e mendicanti, oltre alle casette di legno e alla chiesetta di Vitebsk, nel salto dal paese natale alla grande San Pietroburgo resta il ricordo della sua immagine evocativa.  

In primo piano  spesso c’è il suonatore di violino, solista nell’orchestra “klezmer” delle feste  popolari ebraiche, e  personaggio delle favole  russe, tra la vita errabonda e il potere divino dello strumento musicale: diventa un tema ricorrente dei propri cicli artistici, che torna  come un ritornello musicale.

Entra il nudo nelle sue tematiche, modella è Thea  Brachman,  che nel 2009 gli presenta Bella Rosenfeld:  fu amore a prima vista, la sposerà nel 1915, sarà una presenza ricorrente nei dipinti.

A Parigi 

Nel 1910 da San Pietroburgo a  Parigi, con una borsa di studio  offertagli dal mecenate Max Vinaver, il salto è molto grande perché nella capitale dell’arte  vive nel quartiere bohemienne della “Ruche”, a Montparnasse, con molti artisti ebrei provenienti dall’Est europeo.

Entra  in contatto con artisti affermati ed emergenti, da Modigliani a Soutine, da De Chirico a Picasso, recepisce gli stimoli del cubismo di Delaunay e del fauvismo di Matisse, ma senza farsi distogliere dai  motivi  che lo fanno restare legato al suo mondo: “Lo sperimentalismo del pittore – scrive  Federica Tammarazio – muove verso una direzione coerente con il messaggio pittorico insito nelle sue tele: non un’arte dell’intelletto e dell’analisi, ma un’arte dell’animo e della sfera emotiva”.

Nel periodo parigino, dal 1910 al 1914, mentre il suo stile evolve per gli influssi ricevuti, i soggetti  restano legati ai sentimenti verso la donna  amata,  ai  ricordi del paese natale, ai personaggi, presenti nella vita e nella memoria dell’artista, tra il reale e l’immaginario.

Sono quattro anni di attività intensa, nei quali – sempre secondo la Tammarazio – “l’inventiva del pittore concepisce un linguaggio figurativo e poetico sublime e incantatore”: tra i tanti soggetti ritratti di sé e della sua donna, e di figure caratteristiche come il Violinista dell’orchestra “klezmer” e l’Acrobata del circo, un tema che lo attira come metafora del mondo circostante; mentre la metafora del rapporto tra la dimensione interiore e la realtà esteriore la trova evocando i ricordi della terra natale insieme alla presenza parigina, “creando una nuova geografia, quella dei sentimenti e della nostalgia, in cui le distanze non devono più essere misurate e confrontate, ma si colmano attraverso le rive di un fiume, la Senna o la Dvina”. La sua visione dello spazio esula dalla sua reale posizione.

Del resto lo spazio in cui si svolge la sua vita continua a mutare.  A Parigi partecipa a mostre collettive con grandi nomi al Salon d’Autonme nel 2012 e al Salon des Indépendants nello stesso anno e nei due anni successivi; Apollinaire lo presentò al mecenate e mercante Walden che gli organizzò la prima mostra personale a Berlino nel 2014  presso la galleria Der Sturm; verrà a sapere presto che tutti i dipinti esposti erano andati perduti.

Il ritorno nella madre Russia

La notizie lo raggiunse  in Russia dove tornò, sempre nel 1914, per il matrimonio della sorella e anche per rivedere Bella dopo quattro anni,  “ancora un anno e tutto, forse, sarebbe finito tra noi” era il suo timore. Ma lo sorprese un evento sconvolgente,  lo scoppio della 1^ guerra mondiale.

Il suo programma era di trattenersi solo tre mesi, ma la Grande guerra e  la  Rivoluzione dell’ottobre 1917  gli impediranno di ripartire e per otto anni rimarrà a Vitebsk  dopo il lungo soggiorno all’estero in cui poteva vederlo solo  con gli occhi della nostalgia: può disegnare dal vero e dipingere ritratti, paesaggi e panorami della sua terra.

Riesce ad evitare la leva obbligatoria che lo avrebbe portato a combattere al fronte, e trova lavoro al Ministero della Guerra,  Nel 1915, il 25 luglio, sposa Bella, vanno a vivere nella campagna russa:  l’ambiente bucolico e l’amore per la sua sposa si traducono in dipinti dalle tonalità delicate che esprimono l’atmosfera dell’ambiente e lo stato d’animo interiore improntato al sentimento. 

Nel 1916 espone a San Pietroburgo. Mantiene il figurativo respingendo qualsiasi tentazione astratta, mentre il soggetto – gli amanti, la città, i personaggi –  al centro della composizione è reso nei particolari, in una forma  extra-dimensionale che sarà la sua peculiare cifra artistica: il volo è una visione onirica e soprannaturale dell’amore, che fa librare nell’aria gli innamorati al di sopra della realtà con la sua forza soprannaturale, come motore della creazione. Una concezione quasi religiosa.

La  Rivoluzione d’Ottobre non è solo un impedimento al ritorno a Parigi, sconvolge l’assetto sociale e culturale, oltre che politico, dà maggiori diritti e libertà agli ebrei ma introduce  condizionamenti nel mondo dell’arte, che diventeranno controlli su stili e correnti da mettere al servizio dell’ideologia. Il “Realismo socialista”  sarà il verbo cui gli artisti dovranno aderire.

Chagall, per la notorietà acquisita, viene nominato nel 1918 Commissario per le Belle Arti nella regione di Vitebsk , con il compito di organizzare musei e mostre e creare un’Accademia delle Belle Arti;  lo  fa con ottimi risultati raggiungendo 600 iscritti con insegnanti prestigiosi, dal suo maestro Jehuda Pen a Malevic; ma quest’ultimo fa abbracciare il Suprematismo all’Accademia,  e lui, non accettando la perdita della libertà artistica, si dimette da Direttore e da Commissario.

Intanto si è dedicato al teatro –  che lo interessa perché  vi convergono diverse forme d’arte,  letteratura e recitazione, musica e pittura –  in particolare nel  disegnare  scenografie teatrali e nell’ideare costumi di scena nell’atmosfera multidisciplinare del teatro “yiddish”, che si impegna a promuovere. Già nel 1919 realizza studi e disegni per le scene di opere di Gogol, nel 1920  altre tre scenografie e la decorazione del teatro ebraico da Camera,  7 pannelli con la personificazione di Musica e  Teatro,  Danza e  Letteratura,  personaggi tradizionali ebraici, le nozze  e  l’amore.

Raggiunto da Bella e dalla loro figlia Ida, intanto scrive l’autobiografia “La mia vita”, con una serie di disegni per illustrarla, Paul Cassirer è pronto a pubblicarla.

Di nuovo in Francia 

Nel 1923, al termine dell’estate, rientra in Francia dopo otto anni, accolto felicemente nell’ambiente artistico e culturale; la sua produzione riprende i temi legati alla capitale francese, coniugandoli con il tema dell’amore che domina ormai la sua ispirazione, con una parte  riservata al teatro e a  personaggi letterari. Mostra un’evoluzione stilistica, che assorbe elementi cubisti, fauvisti e suprematisti, ma c’è sempre più la dominante  dell’amore, rappresentata da Bella,  unita alla sua terra, alle icone parigine, e  ai personaggi ebraici caratteristici, immersi in uno spazio del tutto particolare: “La concezione dello spazio – secondo la Tammarazio – come un unico universo in cui l’atmosfera è l’insieme delle sensazioni e delle emozioni, e l’idea dell’esistere come un continuo dialogo con l’interiorità  e con i sentimenti, sono tutti retaggio del credo religioso in cui Chagall è stato cresciuto e allenato,  la fede ebraica hassidica, fondata sulla gioia e sull’espressione di questa nella sfera divina attraverso canti e danze”: è l ‘atmosfera mistica, ludica e sognante dei suoi quadri.

Esprime visivamente i propri sentimenti interiori, tendendo sempre di più alla visione onirica fino all’inconscio, e questo suscita l’interesse di André Breton che gli chiede di sottoscrivere il Manifesto  del Surrealismo nel segno degli stati d’animo interiori, ma rifiuta per non vincolare la propria libertà espressiva; del resto, come abbiamo accennato, non collimavano, essendo il Surrealismo legato allo stato psichico mentre Chagall era mosso da sentimenti ed emozioni, ricordi e sogni. Entra nella sua pittura anche l’elemento floreale, ispirato da frequenti visite alla campagna.

Nel 1926-27 si dedica anche all’incisione, con le illustrazioni delle “Anime morte” di Gogol, dopo le scenografie teatrali del 1919, delle “Favole”  di La Fontaine e del “Cirque Vollard”, dal nome dell’editore con il quale aveva assistito agli spettacolo serali del Cirque d’Hiver, tema che lo aveva già interessato nei primi anni come metafora del mondo intorno a lui, ora vi vede un mondo a parte con la fusione de corpi di uomini e animali in movimenti morbidi e sinuosi, in un clima magico e favolistico in cui entrano figure caratteristiche come il violinista, e la folla russa. 

La sua attrazione per gli animali risale alle esperienze dell’infanzia, allorché dipingeva “per notti intere” le vacche che muggivano, tanto che  Sebastiano Grasso, in “Chagall, Parigi e le vacche”  vi ha imperniato  le sue considerazioni intorno all’artista che vede personificato nell’animale e cita i ricordi al riguardo di Rafael Alberti esclamando: “Ma Chagall non è solo una vacca. E’ anche una capra, un pesce, un gallo, un asino, una volpe, un violinista,  parte dei sogni che hanno popolato l’infanzia. Una pittura che si respira nell’attimo in cui si coglie il respiro della vita di tutti i giorni”.

Nel 1931 – l’anno in cui viene pubblicata la sua autobiografia “Ma vie”, tradotta in francese da Bella e con 37 sue illustrazioni –  riceve  un’altra commissione dell’editore Vollard, per illustrare la Bibbia;  così la religione ebraica, sottesa alla sua visione interiore, adesso prende il primo piano;  va in  Palestina con Bella sui luoghi dell’Antico Testamento, Gerusalemme lo ispira, si concentra  più che sulle scene bibliche, sul panorama e sui luoghi sacri per gli ebrei riportandoli alla sacralità delle origini, tornato a Parigi realizza le acqueforti. E’ solo l’inizio, tornerà sui temi biblici con i dipinti.

La  vita per gli ebrei in Europa si fa sempre più difficile,  nel 1933  mentre a Basilea si apre una sua grande retrospettiva, in Germania vengono bruciate le sue opere; tra il 1933 e il 1935 compie una serie di viaggi, in Spagna e Olanda, Gran Bretagna e Italia, fino alla Polonia che gli ispira dipinti  angosciosi perché sente che sul mondo ebraico sta per abbattersi la tragedia. 

Negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali

Da Parigi si trasferisce nella regione della Loira, poi allo scoppio della Seconda guerra mondiale  nel sud della Francia, finché le persecuzioni razziali lo costringono  alla fuga negli Stati Uniti, dove  le antiche amicizie lo aiutano a inserirsi;  nel 1941 viene  organizzata una mostra  delle sue opere e gli viene chiesto di realizzare scenografia e costumi di un  balletto con musiche di Cajkovskij e coreografie di Massine per il Metropolitan Opera di New York, con 4 grandi tele, la prima avviene in Messico nel 1942, la luminosità solare del paese sudamericano aggiunge colori caldi alla sua pittura che si popola anche di animali e figure zoomorfe inedite.

Le notizie dell’invasione nazista della Russia  e dello sterminio degli ebrei si traducono in una serie di dipinti  dai toni cupi dai quali traspare il suo stato d’animo  angosciato per la sorte del suo popolo.  Poi la tragedia personale, l’improvvisa morte di Bella  a cui era così legato, nel 1944, ne soffre  a tal punto da abbandonare la pittura e isolarsi dal mondo per un intero anno; poi, aiutato dagli amici e dalla figlia Ida, riprende  a dipingere quadri dedicati all’amata scomparsa, entrando in “una nuova dimensione pittorica”, nota la Tammarazio: “Ora il passato e il ricordo fanno spazio a una realtà parallela, una terra interiore  in cui trova posto tutto ciò che non è più nel mondo: la sua terra devastata e distrutta, la sua donna scomparsa, qui tutto ritrova il suo posto, intatto, illeso, salvo per sempre”.

Gli ultini quarant’anni, i  motivi della sua arte

E’ il 1945, Chagall si riapre così alla vita,  ancora scenografie e costumi per un balletto, l'”Uccello di fuoco” con musiche di Stravinskij, sempre per il grande teatro newyorkese, ambientato in Russia. Anche il mondo torna  respirare con la fine della guerra, per lui un’altra grande retrospettiva a New York e l’unione con Virginia Haggart McNeil da cui ha un figlio, vivrà con lei per sette anni.

Nelle sue opere della seconda metà degli anni ’40, tuttavia, ricorre la figura di Bella  eternata con le immagini luminose della veste nuziale circonfusa di bianco e di colori come un’apparizione; termina anche dipinti incompiuti dell’inizio degli anni ’20, sempre con la moglie. Alla guerra dedica un trittico in cui sviluppa il tema precedente della Rivoluzione in tre tavole dedicate alla Resistenza, alla Resurrezione e alla Liberazione, in cui il popolo ebraico festeggia con Mosè.

La sua fama in Europa è cresciuta a dismisura, è impegnato in eventi e mostre in Olanda e Svizzera, Gran Bretagna e Italia dove viene premiato per le sue incisioni alla Biennale di Venezia del 1948; anno in cui vengono pubblicate le illustrazioni di Gogol, seguite nel 1952 da quelle di La Fontaine. Inoltre torna sui temi biblici che aveva già rappresentato nelle acqueforti del 1931 che saranno ripubblicate nel 1957,  con un ciclo pittorico molto intenso, che proseguirà fino al 1975: un viaggio all’interno dell’Antico testamento, con i grandi patriarchi, per mostrare il cammino del popolo ebraico nella fede, una metafora anche del proprio viaggio interiore.   Le  grandi tele, con disegni e schizzi preparatori, saranno raccolte nel Musée National Message Biblique Marc Chagall, istituito appositamente nel 1973 a Nizza,  seguendo le sue indicazioni per rendere anche lo spazio partecipe del messaggio religioso e umano dei suoi dipinti biblici.

La visione è teatrale, del resto si dedica anche al teatro in America con le scenografie per “Dafne” e “Cloe” di Ravel e il “Flauto magico” di Mozart, oltre al ciclo sul “Cantico dei.Cntici”, definito “un inno all’amore e alla vita”.

Nei primi anni ’60  realizza un’opera monumentale, la decorazione del soffitto dell’Opera di Parigi, dipingendo  un Olimpo musicale così  descritto dalla Tammarazio: “Quattordici compositori e altrettante opere della musica classica contemporanea  convivono in uno spazio in cui la fantasia, il sogno, l’universo favolistico e mitologico prendono vita dai colori liquidi stesi da Chagall e dall’atmosfera, che più che d’aria sembra tessuta nella musica stessa”.    Poi si dedica anche alle vetrate per chiese e cattedrali fino al termine degli anni ’70.

Continua a dipingere con l’amore che diviene il “collante universale”  che unisce i suoi temi, dalla sua terra alle sue donne. Nel 1950 è  terminata la relazione con Virginia, e  inizia quella con Valentine Brodskij, cui è legato anche da origini ebraiche e russe comuni, la sposa il 12 luglio 1952.

Muore 33 anni dopo, il 28 marzo 1985 e dopo questa lunga cavalcata nella sua vita e nella sua arte, ci piace concludere con le parole della  Tammarazio: “Marc Chagall lascia questo mondo, attraversando l’esile confine  tra la realtà e l’universo del sogno, già tante volte sfiorato sulla tela, raggiungendo finalmente il proprio immaginario”.

Lo conosceremo da vicino, con questa suggestiva premessa, nella visita alle sue opere che racconteremo  prossimamente.

Info

Chiostro del Bramante, Via Arco della Pace 5, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al venerdì ore 10,00-20,00; sabato e domenica  ore 10,00-21,00, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso,  intero euro 13, ridotto  euro 11  (aani 11-18 e oltre 65, studenti oltre 26 anni), euro 5 anni 4-11, e nei lunedì di “promo” per studenti universitari). Tel. 06.68809035, http://www.chiostrodelbramante.it www.ticket.it/chagall.  Catalogo: “Chagall. Love and Life. Opere dall’Israel Museum di Gerusalemme”, Skira, marzo 2015, pp. 190, formato 24 x 28.  Cfr. anche  “Chagall”, collana “I Classici dell’arte, il Novecento”, Rizzoli-Skira 2004,  pp. 190, formato 17 x 21, dal quale sono tratte le citazioni del testo.  Il secondo articolo conclusivo “Chagall, dalle favole agli innamorati al Chiostro del Bramante”, uscirà in questo sito il  12 giugno 2015,  con  11 immagini. Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli  sulle rispettive mostre: in questo sito, su Mirò  15 ottobre 2012, De Chirico  6, 26 giugno, 1° luglio 2013,  Guggenheim il 22 e 29 novembre, 11 dicembre 2012, Deineka 26 novembre, 1° e 16 dicembre 2012,  Cubisti 16 maggio 2013, Modigliani, Soutine e gli “artisti maledetti” 22 febbraio, 5 e 27 marzo 2014; in “cultura.inabruzzo.it” su Picasso 4 febbraio 2009, De Chirico 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009,  l’8, 10, 11 luglio 2010, “Impressionisti” 27, 29  giugno 2010, “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, i capolavori dello Stadhael Museum 3 articoli il 13 luglio 2011, Breton, Dada  e i surrealisti 6, 7 febbraio 2010, infine su Gogol nel bicentenario il 16 e 25  novembre 2009. Infine, in questo sito il nostro “Israel now, 24 artisti israeliani al Macro Testaccio”  6 febbraio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Chiostro del Bramante alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare  Arthemisia Group e Dart, con i titolari dei diritti, in particolare l’Israel Museum, per l’opportunità offerta. In apertura, “La passeggiata”, 1919; seguono, “Innamorati sulla riva del fiume”, 1922  da “La
mia vita”, e “Sopra Vitebsk”, s.d.; poi  “Al cavalletto”, 1923 da “La mia vita”,  e  “Sukkot, festa dei Tabernacoli o delle
Capanne” 
 da “Burning Lights”; quindi, “Acrobata disteso su un ramo”, 1925, e  “La caduta dell’angelo”, 1924 da “La mia vita”; inoltre “La chiesa di Chambon-sur-lac”,  1926, e “Apparizione”, 1924-25 da “La mia vita”; infne “Gli innamorati”, 1937 e, in chiusura, la proiezione mutevole in movimento“Giochi di luce”, al primo piano dell’esposizione.

Matisse, arabesque, l’orientalismo al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Visitiamo le opere esposte nella mostra “Matisse, arabesque”, aperta al Palazzo Esposizioni dal 5 marzo al 21 giugno 2015 –  oltre 100  tra  dipinti, incisioni e disegni – intervallate da un’ampia selezione di tappeti e ceramiche, stampe e oggetti orientali, sulle fonti della sua ispirazione, che  ne fanno rivivere il clima. Realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo e coprodotta da MondoMostre, con circa 40 prestatori tra cui grandi musei europei ed americani, e le iniziative “Matisse doc.”, 5 documentari e “Incontri con Matisse”, 7 conversazioni. A cura di Ester Coen, che ha curato anche il Catalogo Skira.

I caratteri della sua arte già ricordati

Abbiamo delineato  in precedenza alcuni dei  caratteri salienti di un artista che ha saputo mantenere la “gioia di vivere” pur nei periodi turbolenti in cui è vissuto,  che comprendono le due guerre mondiali  del ‘900, ed esprimerla con una rivoluzione pittorica che ha sconvolto i criteri classici senza iscriversi nel solco dei contemporanei e delle avanguardie, da lui conosciuti da vicino e contrastati: considerava il Realismo una “copia della natura” e l’Impressionismo un “pullulare di sensazioni contraddittorie”, mentre con la sua pittura ricercava la “serenità attraverso la semplificazione delle idee e delle forme”.

La sua ribellione lo fa iscrivere tra i “fauvisti”,  ma la sua cifra artistica è molto personale, basata su colori puri e squillanti, linee sinuose, superfici appiattite. Né la prospettiva dei classici né la scomposizione dei volumi dei cubisti,  l’accostamento emotivo di linea e colore insieme al “principio di superficie” sono l’espressione stilistica di un modo di porsi rivoluzionario: non si propone di rappresentare la natura ma di dar corso alle proprie sensazioni, ponendo al centro non l’oggetto rappresentato ma la sua  relazione con  la personalità dell’artista, quindi la pittura stessa nella sua  capacità di “organizzare sensazioni ed emozioni”, come disse lui stesso.

In questa visione  lo “spazio della creazione” è la superficie piana in cui gli elementi visivi sono evidenziati forzando la linea e il colore, secondo le direttrici:del primitivismo istintivo e del cromatismo mediterraneo, del linearismo giapponese e dell’orientalismo decorativo. Le prime tre direttrici le abbiamo già delineate, è il momento dell’orientalismo decorativo che è anche la cifra distintiva dell’impostazione della mostra attuale, resa esplicita ponendo “arabesque” nel suo titolo.

Non è una semplice antologica della sua produzione, come furono ad esempio le mostre che presentarono nell’ultimo trimestre del 1991 a Roma nell’Accademia di Francia e nel primo trimestre del 1992 a Milano nel Palazzo Reale, i “Capolavori del Museo Matisse”, organizzati in 6  sezioni:  dipinti e sculture, disegni, tempere intagliate e incisioni, la “Danza”  e  la “Cappella di Vence”.  E’ una interpretazione molto precisa della sua arte pittorica tradotta in una forma espositiva coerente nella scelta delle opere e nell’affiancamento ad esse dei materiali dell’artigianato caratteristico che ne hanno alimentato l’ispirazione e orientato la forma espressiva: legata al primitivismo istintivo,  al cromatismo mediterraneo e al linearismo giapponese di cui abbiamo già parlato, e soprattutto all’orientalismo decorativo cui accenniamo di seguito come premessa alla visita.

L’orientalismo decorativo, gli accostamenti e le variazioni

La centralità della decorazione,  mutuata  dagli arabeschi orientali, fu ispirata e alimentata dai viaggi che abbiamo citato in precedenza ricordandone la vita; e non si è risolta in un elemento ornamentale, ma ha consentito di liberare la concezione dello spazio dalle regole della prospettiva..

“I dipinti – osserva la curatrice Coen – si riempiono di segni che sottolineano la planarità del supporto; sono segni che alludono  a motivi vegetali, al mondo della natura che penetra e si imprime a fondo intrecciandosi con figure e oggetti in un inestricabile viluppo lineare. L’ornamento, la decorazione, l’arabesco diventano lo splendido pretesto per rovesciare la visione sulla superficie e schiacciare la virtuale successione di piani alterando rapporti e proporzioni”. Non basta: “L’amore per le sinuosità, le volute, i fregi, gli elementi puramente ornamentali, cromatici o calligrafici, diviene il presupposto per una meditazione sulla ragione dell’arte”.

Disse l’artista:  “La preziosità o gli arabeschi non sovraccaricano mai i miei disegni, perché quei preziosismi e quegli arabeschi fanno parte della mia orchestrazione. Ben collocati, suggeriscono la forma o l’accento di valori necessari  alla composizione del disegno”. L’orientalismo decorativo lo porta all’allargamento della visione, al contrario dei comuni fregi ornamentali posti come mero contorno volto a limitarla alla parte centrale; infatti diventa come una spirale che si allarga  invece di restringersi e determina quella libertà espressiva tipica dell’artista.

Xavier Girard,  Direttore del Museo Matisse, nella presentazione delle mostre del 1991 e 1992  sopra citate, ebbe a sottolineare “i matrimoni di oggetti”, nelle parole dell’artista, definiti come fossero “invitati a partecipare allo spazio-tempo presentato dal dipinto”. Di qui  “la propensione del pittore a percepire – più che gli oggetti e i modelli – le situazioni, gli accostamenti, spesso in rapporto dialettico”.   Con questa conseguenza: “Tutto accade come se non ci fosse mai un tema solo, ma un’entità sempre doppia che sin dall’inizio si armonizza in un movimento che la trascinerà in una suite di variazioni, come se Matisse percepisse, di primo acchito, nella posa di un modello, la possibilità della sua variazione”.

In altre parole, l’artista vede “nel Tema la vibrazione delle ornamentazioni, in un gesto la coreografia  di una serie di riflessioni. Accade così che il tema non sia un  atteggiamento o una configurazione di oggetti, bensì una forza di generalizzazione, una prospettiva di espansione”, che diventa la sua “prospettiva del sentimento”, queste sono su parole.

L ‘impostazione è musicale, del resto lui stesso parla di “orchestrazione”; Girard  ha aggiunto che Matisse “non cesserà di far riapparire l’esposizione del tema sotto la stretta dei disegni; non concepirà variazione se non in forma di fuga, di ripresa perpetua, come se si preoccupasse, prima di tutto, di captare l’inizio del disegno, laddove la mano, non ancora appesantita dall’immagine che ha fatto nascere, sembra agire con facilità, superare le forme della rassomiglianza, per raggiungere, come un movimento di danza,  quell’altra figura che è il disegno”.

A questo punto passiamo alla galleria delle opere esposte nelle quali trovano espressione artistica al livello più elevato le ispirazioni e le forme stilistiche che abbiamo cercato di delineare.

La sfolgorante galleria espositiva 

Si inizia nella 1^ sala con la spettacolare natura morta “Gigli, Iris e Mimose”, 1913, dal museo Puskin di Mosca, nella quale domina la decorazione orientale con l’accostamento del blu e del verde, che deriva dalla ceramica ottomana, come vedremo. Questi elementi sono contenuti nel precedente “Angolo dello studio”, 1912, e ancora prima nel più piccolo “Angolo di tavolo”, 1903; stesse luminose tonalità cromatiche e assonanze nel successivo “Scultura e vaso con edera”, 1916-17.

Dalle fantasie floreali si passa alle figure umane: nessun arabesco decorativo o elemento ornamentale, ma tonalità scure con il linearismo nei segni semplici di tipo geometrico e il primitivismo nel rigore espressivo evocato da maschere  arcaiche e reliquari, tessuti africani e scudi esposti in mostra, provenienti dal Congo e dal Gabon, dalla Costa d’Avorio e dalla Polinesia.

Lo vediamo in quattro opere di notevole potenza visiva, il “Ritratto di Yvonne”, 1914, dal Philadelphia Museum of Arts,, che è stato paragonato al celeberrimo “Demoiselles d’Avignon” di Picasso,  e la “Giovane con copricapo persiano”, 1915-16, dall’Israel Museum; ,  l’“Italiana”, 1916, dal Guggenheim di New York, e “Le Tre Sorelle”, dal museo parigino de L’Orangerie.

Vi accostiamo, all’insegna del primitivismo, i tre nudi abbozzati con forti contorni neri e forme grigie, 20-30 anni dopo:  i  2 carboncini, “Nudo accovacciato”, 1936,  e “Studio di nudo”, 1942,  e  l’olio  “Nudo seduto di schiena”, 1946.

Torna l’elemento floreale e decorativo nella 3^ sala, in tonalità ancora più luminose e con un cromatismo più brillante. Più che in “Edera in fiore”, 1941,  rigoroso nella disposizione del vaso con fiori,  della tazza e dei frutti  ben ordinati su un piano giallo, lo vediamo in “Ramo di pruno, fondo verde”, 1948: la decorazione è nel fondo verde e nei lunghi rametti di mandorlo, mentre il rosso del pavimento e della casacca della figura accentua fortemente la resa coloristica dell’insieme. L’ambientazione e l’atmosfera è giapponese, come le ceramiche che recano  gli elementi floreali.

Dalla eleganza decorativa giapponese, nella 4^ sala si passa ai colori mediterranei, in 5 dipinti  tutti del 1912, con altrettante figure singole, riprese sempre frontalmente:  continua l’alternanza tra immagini floreali e naturali e figure umane. Anche qui con l’influsso del primitivismo ma in un clima ben più luminoso in cui il cromatismo basato sul blu e sul verde – che abbiamo visto nella 1^ sala utilizzato per le rappresentazioni floreali ed ornamentali – viene applicato al ritratto,  con l’aggiunta in qualche caso di  altri colori, giallo e soprattutto rosso.

In “Zorah sulla terrazza”,  dal museo Puskin di  Mosca, il blu è nel pavimento e nei decori della veste,  il resto è verde, mentre in  “La Piccola Mulatta”  sul  blu intenso dello sfondo spicca il rosso dell’abito decorato, il verde è quasi scomparso; la stessa struttura compositiva e la stessa posizione accovacciata la troviamo nel disegno a inchiostro dello stesso anno, “Fanciullo arabo”. 

Il verde torna ad occupare l’intera figura  in “Marocchino in verde”,  salvo metà sfondo celeste e qualche ornamento colorato, ed è il colore della lunga veste su fondo rosso  in  “Zorah in piedi”; in “Zorah in giallo” è lo sfondo ad essere in tonalità verde pastello molto sfumato, mentre la veste è in una tinta neutra con la presenza di un rosso arancio.

Nella sala sono  esposte maioliche di Iznik del XV-XVI secolo, espressione della cultura islamica, di matrice turca e ottomana, siriana e persiana che  l’artista aveva conosciuto nei suoi viaggi, ne parleremo tra poco con riferimento a un’opera che si ispira in modo eclatante a tali prodotti di  artigianato artistico pittoresco e spettacolare.

Prima  si torna alle raffigurazioni della natura – l’alternanza continua –  secondo la particolare concezione dell’artista, che non ha alcuna “preoccupazione di verosimiglianza” nel riprodurne l'”aspetto esteriore”,  anzi non ha interesse a “copiare un oggetto”, ma intende esprimere ciò che gli ispira “la potenza che questo ha d’organizzare sensazioni ed emozioni”, sono parole sue che abbiamo già citato. 

Siamo nella 5^ sala, colpiscono tre raffigurazioni arboree, due realizzate nello stesso 1912 di cui abbiamo appena descritto i 5 dipinti mediterranei della sala precedente,   “La Palma”, dalla National Gallery di Washington e  “Pervinche o Giardino marocchino” dal MoMA di New York, il terzo, “L’albero presso il laghetto di Trivaux”, del 1916, dal Tate di Londra. 

I primi due sono legati alle atmosfere mediterranee vissute personalmente nel viaggio in Marocco, rese nell’intarsio cromatico tra il  verde dominante, il rosa e il giallo che vira nell’arancio. Nel terzo, invece, il colore esclusivo è il verde nelle diverse gradazioni, con l’eccezione dei tronchi e dei rami dell’albero di colore marrone scuro che svettano formando un vero reticolo.

Con un accostamento molto appropriato nella stessa sala vediamo esposti una serie di disegni  a matita su carta, “Studi per il poema di Mallarmé  ‘L’Aprèe Midi d’un faune'”,uno di essi addirittura riproduce lo stesso reticolo arboreo ora citato, sebbene questi fossero del 1932, 16 anni dopo l’albero del “laghetto di Triveaux”. Meno sottile e  stilizzato l’impianto dello “Studio per l’Ulisse di Joice”, ugualmente a matita su carta, del 1940. In queste  illustrazioni, l’artista diceva di aver risolto  il problema dell’equilibrio tra il bianco dell’acquaforte e lo scuro della scrittura  tipografica,  “modificando il mio arabesco in modo che l’attenzione di chi guarda sia attirata allo stesso modo dal foglio bianco e dalla promessa di lettura del testo”.

Ed  eccoci alla 6^ sala, si torna alle figure umane in un’atmosfera ancora più orientale, da  Mille e una notte. Siamo nello studio di Matisse, dove  tra tessuti arabescati e vasi istoriati che entrano nella composizione l’artista dipingeva  le modelle, discinte in un’atmosfera diafana come l‘”Odalisca blu”, 1921-23, o vestite distese  tra tende, anfora e scacchiera in un intenso cromatismo, come “Due modelle in riposo”, 1928, dal Philadelphia Museum of Art. 

Insieme ai dipinti sono esposti disegni a matita su carta delicati e raffinati realizzati in un quindicennio, con figure femminili finemente delineate riprese sedute o abbandonate in atteggiamenti languidi: si tratta di “Donna seduta” e “Donna in riposo”, entrambi del 1919,  di “Odalisca in una sedia moresca”, 1928, “Abito di lamé”, 1932, “Donna con velo orientale”, 1934. A inchiostro su carta velina “Odalisca distesa , pantalone turco”, 1920-21, fa entrare ancora di più nell’atmosfera orientale, con gli elementi ornamentali, dalla parete istoriata al cuscino e l’abbigliamento, dalla cuffia alla camicia che lascia scoperto il petto, fino al pantalone caratteristico.

Non è  il massimo di orientalismo rilevabile nelle opere di questo periodo. Il massimo lo troviamo nel dipinto  “Il paravento moresco”, 1921,  dal Philadelphia Museum of Arts, almeno come ricchezza decorativa e intensità cromatica.  Ci sono due figure femminili al centro che conversano, vestite da lunghi abiti bianchi che lasciano scoperte le braccia, una è seduta  in una poltrona, l’altra in piedi con il gomito destro appoggiato a una mensola, poi soprammobili, vasi, il pavimento coperto da due tappeti, una parete decorata e soprattutto il paravento viola con i due archi in stile moresco che dà il titolo all’opera.

A questo paravento possiamo accostare la ricca esposizione di materiali di alto artigianato orientale, c’è addirittura una “Grata per finestra” dal Marocco, precisamente da Fez, come il “Modellino architettonico di un arco”, dalla Spagna, Alhambra Granada, fino al “Prospetto di un muro moresco” del XIX secolo dalla Gran Bretagna; e una “Mattonella con decorazione  a stampo a forma di mihrab”  del 1305, dall’Iran, la forma è molto vicina al paravento moresco. Poi tende e tessuti marocchini,da Fez e Rabat, Rif  e Tétouan,  del XIX secolo, stoffe dall’India, Uzbekistan e Iran; fino al “Pettorale di armatura in acciaio” con simboli islamici intarsiati in oro del XVIII-XIX sec.

Particolarmente spettacolare l’esposizione di pannelli e mattonelle con decori policromi, da Iznik, risalenti al XVI secolo, sono arabeschi di grande eleganza e raffinatezza con la celebre dominante blu, gli intarsi di verde, e in qualche caso,  rosso e arancio; ai motivi ornamentali si aggiungono spesso riproduzioni floreali vere e proprie.  Non solo ceramiche turche, anche iraniane e siriane, per lo più blu con motivi floreali verdi; e poi pannelli di ceramica  in terracotta smaltata spagnoli. Concludono l’esposizione di artigianato  islamico una serie di piatti in ceramica invetriata con decorazione policroma, da Iznik, XVI secolo,  delle coppe iraniane, e 2 ciotole  coreane.

Ma torniamo ai dipinti, nella 7^sala prosegue la galleria di figure femminili, in un ampio arco temporale: si va dalla “Spagnola con tamburello”, 1909, dal museo Puskin, a “Katia in abito giallo”, 1951, dalla Fondazione Matisse di New York. Sono opere molto diverse, la prima dai dettagli figurativi con intensi colori che, pur nella dominante scura, esprimono un forte cromatismo; la seconda dalla forma semplificata, quasi metafisica, il corpo abbozzato in giallo, su sfondo verde-azzurro con ornamenti blu; tra i due poniamo “Donna seduta con blusa rumena con motivi ricamati”, 1938, carboncino su carta più schematico del primo, più figurativo del secondo.

C’è anche una serie di nudi, a partire dal dipinto “Nudo in poltrona, pianta verde”, 1937,  un corpo mollemente abbandonato sovrastato dalla pianta con la parete di fondo che nel rosa e verde reitera i colori dei soggetti centrali della composizione. Nella stessa posizione il “Nudo seduto”, 1944, matita e carboncino dai contorni netti con un chiaroscuro intenso, stessa cifra stilistica del precedente “Donna senza volto”, 1942, dove ritroviamo il primitivismo totemico con le forme abbozzate di “Nudo disteso di schiena”, e degli altri citati all’inizio.

Ma ci sono figure femminili molto diverse, in uno stile ben diverso da quello ora descritto, disegni  calligrafici a inchiostro su carta estremamente raffinati e delicati: solo contorni dal segno sottilissimo, nessun chiaroscuro né ombreggiatura, gli stessi temi espressi in modo del tutto originale nel decennio 1928-38: Si tratta dei due disegni “Donna in riposo”, 1935-36, dei  ritratti di volti con gli occhi  in basso di  “La blusa rumena” e “Figura che guarda da sopra la spalla”,  1938-39;  di “Le tre amiche”, 1928,  e “Due donne”, 1938.

E’ uno stile che, nella delicatezza delle linee e nella foggia ornamentale delle forme richiama la raffinatezza giapponese evocata nella mostra da alcune preziose xilografie di Hiroshige. A questo sono collegati i costumi che Matisse disegnò nel 1920 per il “Chant du Rossignol”,  e furono utilizzati nel balletto coreografico di Léonide Massine, in una sinergia tra ballo, musica e pittura .

Siamo nell’8^ sala, sono presentati i piccolissimi disegni dei bozzetti per il Guerriero e il Ministro, l’Usignolo, la Morte e i Dolenti. Ma soprattutto c’è l’esposizione spettacolare dei costumi realizzati, le preziose stoffe confezionate dipinte a mano, con applicazioni: in seta, feltro e perfino ottone per il Guerriero, in tessuto giallo squillante per il Mandarino, in fondo chiaro translucido con applicazioni per Cortigiano e Cortigiana, caratteristiche presenti anche nel costume per il Ciambellano, che invece delle decorazioni ha per motivi una serie di fregi lineari rossi e gialli; fino al costume per il Dolente, in bianco con motivi geometrici neri. E’ una galleria teatrale spettacolare che anima la grande sala.

Dalla scenografia teatrale, ravvivata dal video con le scene del balletto in cui sono ripresi dal vivo della rappresentazione i costumi esposti, si passa nella 9^ sala alla dimensione raccolta, anzi intima, di “Interno a Etrat”, 1920, e “Interno con fonografo”, 1934: il primo dalla dominante verde rappresenta l’interno di una cameretta dove una fanciulla dorme nel suo letto, una finestra apre la visuale su una marina con delle barche sulla riva; anche nel secondo c’è una finestra, aperta su un panorama urbano, ma è molto diverso, il cromatismo è variopinto, un vassoio con frutta è al centro, quasi una natura morta nel quadro, poi un tendaggio con motivi orientali.

Questo ci porta alla 10^ e ultima sala, con il  rutilante “I pesci rossi”, un dipinto di grandi dimensioni  dal museo Puskin , che pur essendo del 1912 è visto come culmine pittorico, per il suo forte cromatismo in una composizione che riassume i motivi floreali e decorativi della sua arte.

Ma vogliamo concludere l’affascinante galleria della mostra di Matisse con dei veri e propri Studi sulla vegetazione nelle sue varie forme, sono disegni calligrafici in inchiostro su carta: vediamo “Mazzo di fiori” e “Studio di fiore”, “Studio di motivi floreali” e “Studio di foglie e fiori”,  “Fiori e foglie d’acanto” e “Cinque fiori”; si passa alle foglie con “Fiori e foglie d’acanto in un vaso di peltro” e “Due studi di rami in un vaso”,  e “Due figure addossate a un platano”; fino ai più compiuti e definiti “Studio per platano”, “L’arbusto” e “Albero”. Una ricerca progressiva continua, soprattutto negli anni ’40.

Anche qui non s’è solo l’osservazione della natura, anche l’influsso di materiali tradizionali, vediamo esposti tessuti con riprodotte piante e arbusti, dal Giappone e  dall’India e dallo Sri Lanka e dall’Asia Centrale. Nella serie di disegni si ricostruisce la progressione della sua “scoperta” di come rappresentare le foglie dell’albero. Mondrian trovò nella schematizzazione progressiva dei rami una chiave per la sua ricerca dell’essenza per raggiungere la “perfetta armonia”; anche Matisse ha svolto la sua ricerca su u n sogegtto simile,m rami, foglie, alberi.

Dall’essenza dell’albero e delle foglie alla forma più essenziale:  il disegno a inchiostro “Arabesque”, 1944-47; una forma pura di cui sono sottilmente delineati solo i contorni con un segno ornamentale, già ripetuta innumerevoli volte in “Studio di fiori decorativi”, 1943. . All’interno nulla, ma possiamo vederci tutto il suo mondo  che si colora e si anima, mantenendo sempre la sua forma decorativa,  espressione di quella che  è stata la sua cifra peculiare;  la “gioia di vivere”, che non è solo il titolo del suo dipinto, ma il messaggio che ci trasmette con le sue opere.

La mostra è riuscita a rendere tutto ciò con  un allestimento che riflette l’accurata ricerca compiuta e  il grande lavoro svolto per radunare le opere  che ne fossero la più fedele ed autentica espressione.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì 10,00 – 20,00, venerdì e sabato 10,00 – 22,30, nessuna chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500, www.scuderiedelquirinale.it Catalogo  “Matisse, arabesque”, a cura di Ester Coen,  Skira, pp. 628, formato 24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, tranne quelle prese dal catalogo della mostra citata del 1991-92 “Capolavori del Museo Matisse di Nizza”,  United Technologies Corporation, 1991, pp. 222, formato 25 x 33.  Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il  23 maggio u.s., con altre 11 immagini delle opere esposte.  Per gli artisti citati, cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre, in questo sito sui cubisti 16 maggio 2013,  su Mondrian 13 e 18 novembre 2012in “cultura.inabruzzo.it” su Picasso 6 febbraio 2009.  

Foto

Le immagini delle opere di Matisse, riportate in ordine cronologico tranne l’apertura, sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, “Due modelle in riposo”, 1928; seguono, “Scultura e vaso con edera”, 1916-17, e “Le tre sorelle”, 1916-17;  poi “Interno a Etretat”, 1920, e “Nudo in poltrona, pianta verde”, 1937; quindi, “Edera in fiore”, 1941, e “Nudo disteso di schiena”, circa 1946; inoltre, “Ramo di pruno, fondo verde”, 1948, e “Katia in abito giallo”, 1951; infine,  “Studio per platano”, 1950 e,  in chiusura, “Pannello per la lunetta di una finestra” al centro con una serie di “Mattonelle e piatti in pasta islamica” policromi, da Iznik, Turchia, 1550-1600 circa, tra le fonti di ispirazione del suo orientalismo decorativo .

Giorgio Morandi, visita alle 150 opere esposte, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Giorgio Morandi 1890-1964”  aperta al Vittoriano dal   28 febbraio al 21 giugno 2015, con circa 100  dipinti e  60 disegni e acqueforti, incisioni e litografie, che provengono dal  Museo Morandi, dalla Fondazione Longhi e  da altri grandi musei. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e curata da Maria Cristina Bandera, che dirige la Fondazione Longhi,  è la prima antologica esauriente presentata a Roma dopo l’esposizione del 1973 alla Gnam. Catalogo Skirà  con testo della Bandera e schede di Stella Seitun.

 Abbiamo cercato in precedenza di descrivere i caratteri salienti dell’arte di un grande del  ‘900,  la cui mostra segue quelle su Guttuso e Modigliani, Cézanne e Sironi, realizzate negli ultimi anni al Vittoriano in un importante ciclo sull’arte moderna molto curato.

Si può sintetizzare dicendo che la sua è stata una ricerca dell’essenza nella semplicità e nella sincerità, dopo un percorso formativo nel quale è stato attratto dai grandi innovatori, Giotto tra gli antichi, Cézanne tra i moderni, con vivo interesse per tendenze quali  il futurismo e la metafisica, senza però seguire alcuna scuola o corrente stilistica, restando la sua un’arte del tutto personale.

La base è stata la realtà, ma  lontano da ogni naturalismo, perché la continua ricerca dell’essenza lo ha portato  a distinguere l’essere dall’apparire; per questo ha scelto  soggetti semplificati al massimo, senza presenza umana, riassumibili nei temi soprattutto dei “Paesaggi”, “Nature morte”; anche  “Fiori” sia pure  in tono minore, in piccoli dipinti di cui faceva dono.

Per tendere alla semplificazione nella ricerca dell’essenza eliminava ombre e prospettive in composizioni dominate da un ordine geometrico studiato di volta in volta cambiando la disposizione spesso degli stessi oggetti.  Anche Mondrian ha ricercato l’essenza pur se in modo molto diverso, con la mera geometria senza oggetti e un cromatismo particolare, per raggiungere “perfetta armonia”.  

Nel raccontare la visita alla mostra cercheremo di rendere la galleria di dipinti e di acqueforti-incisioni, i cui titoli fissano invariabilmente uno dei suoi temi, distinti soltanto dall’anno di realizzazione. Anche in questo l’artista ha raggiunto la massima semplicità; l’essenza, appunto.

I paesaggi

Sono 25  i dipinti esposti in mostra sul tema  “Paesaggio”, del quarantennio dal 1922 al 1963, e  6 le  acqueforti  sullo stesso tema in matrici di rame e zinco,. realizzate tra il 1922 e il 1936, .con le caratteristiche dei dipinti ma una maggiore definizione data dal bianco e nero molto marcato.

In tutti i paesaggi c’è – aspetto che va sottolineato –  la dominante dell’abitazione, salvo nel primo, del 1922, in cui il primo piano è dedicato  alla vegetazione, ma  si erge ugualmente un edificio con un traliccio di ferro definito “la piccola Tour Eiffel dei bolognesi”.

Riprendono località di campagna della provincia da lui frequentate o dove si era rifugiato negli anni di guerra e dove tornava d’estate per villeggiare, come Grizzana,  e riproducono volumi abitativi inseriti nel verde  con vera maestria nell’accostamento cromatico; paesaggi “intorno ai quali si chiudeva l’orizzonte”, secondo l’allusione leopardiana di Roberto Longhi che li definì “inameni” aggiungendo però: “Morandi cresceva instancabilmente e io lo vidi salire fino al culmine che mi pare fosse il più alto da lui raggiunto, dei paesaggi del 1943”.

Negli anni della guerra, secondo la curatrice Maria Cristina Bandera, “ricompaiono le mute strutture geometriche delle case, blocchi di pietra ridotti a solidi essenziali, talora parzialmente celate da quinte frondose”, o “una sequenza concitata di alberi sfibrati dal vento, quinte per una casa che appena s’intravvede” come in due  “Paesaggi” del 1942; “oppure distribuite sulla tela con spazi e interspazi calcolati, quasi fossero semplici parallelepipedi, moduli di proporzione, così  “Strada bianca”, 1941,anch’esso esposto.  

Il naturalismo è del tutto assente, c’è invece interesse alle forme e ai volumi, come disse l’artista nell’intervista radiofonica del 1955 a Magravite citando Galileo: “Il libro della natura è scritto in caratteri estranei al nostro alfabeto. Questi caratteri sono triangoli, quadrati, cerchi, sfere, piramidi, coni e altre figure geometriche”. Di qui  la radicata convinzione che “le immagini e i sentimenti suscitati dal mondo visibile, che è un mondo formale, sono esprimibili solo con grande difficoltà, in quanto sono determinati appunto dalle forme, dallo spazio e dalla luce”; e in questo riecheggiava analoga affermazione di Cézanne.

Sono  paesaggi  ben definiti, mentre quelli successivi tendono a dissolvere la forma nel colore, senza più la struttura compositiva e il riferimento descrittivo ai luoghi;  nell’estrema semplificazione è l’impasto cromatico del verde il vero soggetto.

Negli ultimi 5 “Paesaggi” esposti, realizzati tra il 1959  e il 1963,  sono i volumi delle  abitazioni i soggetti, con le loro facciate bianche prive di prospettiva, solo in quello del 1963 schermate dal verde. Si ispira alla località di Grizzana, dove torna dopo molti anni di assenza –  nei quali per i paesaggi si era ispirato a quanto vedeva dalla finestra della casa bolognese, di qui la serie “Cortili di via Fondazza” degli anni ’30 –  e si fa costruire una casa a forma di cubo in un ambiente disadorno.  I dipinti rendono la scena,  si sente  vuoto e silenzio, e perdono la consistenza materiale, i luoghi sono  assimilati alle nature morte, tanto che la Bandera scrive: “Le case di pietra, muri senza porta e finestre, nella loro struttura ridotta all’essenzialità, sono ormai apparentate alle bottiglie”, ne vedremo un esempio concreto.

Le nature  morte

E siamo giunti così al principale soggetto della sua arte,  la “Natura morta”, la mostra espone 60 dipinti del quarantennio tra il 1924 e il 1963, e  30 incisioni all’acquaforte su basi di rame e zinco, con 8 matrici di rame inciso tra il 1921 e il 1956, dove i motivi dei dipinti sono espressi con la diversa tecnica ma cercando di mantenersi in linea con le varianti anche notevoli inserite nelle opere ad olio nel segno dell’inesausta ricerca che ha accompagnato l’intera sua produzione.

Preparava le composizioni  nel suo piccolo studio utilizzando oggetti semplici di uso comune: . “Li selezionava – nota la Bandera –  li raggruppava, li aggiustava tra loro, li riaccostava, li scalava in profondità e in alzato, li trasformava in figure distribuite su un palcoscenico in combinazioni che variano con il procedere degli anni”; e in questo consiste il suo processo evolutivo, oltre che nella rappresentazione grafica che diventa prima sempre più precisa, poi sempre più evanescente. “Come un architetto che studia la pianta di un edificio, delimitava la base degli oggetti circoscrivendoli con una matita su fogli di carta. Li avrebbe poi guardati da vicino, ad altezza d’occhio, con il  suo guardo penetrante e riflessivo”.  Abbiamo già ricordato che per non mutare il punto di vista segnava sul pavimento la sagoma dei propri piedi, e per allontanare gli oggetti dall’uso quotidiano aspettava che la polvere li velasse, così diventavano forme e volumi nella pura espressione geometrica.

La definizione di architetto viene da Ragghianti, che coniò il termine di  ” pittore di architetture”, l’artista gli rispose condividendo questa sua interpretazione.

Nella sua visione di “architetto”,  gli oggetti consueti, dalle bottiglie alle caraffe, dai lumi alle tazze, sono disposti in vario  modo in base alla loro altezza e ai diversi piani prospettici;  nella sua visione pittorica la luce e il colore modulano con tonalità differenti le diverse composizioni..

Seguiamo la sua evoluzione nella composizione e nello stile mediante la sequenza di opere esposte.

Le prime dieci Nature morte, degli anni ’20 e ’30,  si differenziano dalle successive per la dominante cromatica scura.

Nelle  tre  realizzate tra il 1924 e il 1929,  gli oggetti sono pochi, in più ci sono panni che cadono dal bordo del piano dando il senso della profondità; nelle  7  dal 1929 al 1937  gli oggetti sono numerosi,  posti su un piano orizzontale e   hanno una composizione architettonica e un cromatismo  deciso.  Fa eccezione  una “Natura morta” del 1929,  definita dalla Bandera “tragica, con poche forme contorte e sfaldate”, ma  contemporanea  a una ben diversa  presentazione di 5 oggetti su diversi piani prospettici e in differente cromia; e seguita pochi mesi dopo  da un’opera monumentale per l’imponenza della composizione  posta su due piani,  come sfondo  una quinta scura di brocche e altri oggetti più alti, in primo piano bottiglie più basse ma evidenziate dal colore chiaro, come quella gialla al centro e la bottiglia bianca sulla destra, prima di successive versioni.

Con gli anni ’30  abbiamo una verticalità scossa da “tensione emotiva”, la curatrice dice che le due “Nature morte”  del 1932 e 1936 “colpiscono per lo smagliarsi della composizione e per l’agitarsi delle forme inquiete e allungate che paiono sfaldarsi, come colte da un fremito, con un crescendo della tensione emotiva sottolineato dall’ispessirsi della pasta cromatica degli oggetti sovrapposti”

Tra il 1940 e il 1943, gli anni della guerra,  nella “Natura morta” entrano le conchiglie, diventando gli “oggetti” esclusivi di piccole  composizioni in cui non compaiono bottiglie, caraffe e lumi. E’ come se l’artista cercasse un guscio protettivo, ed aveva ragione se consideriamo che il 23 maggio del 1943 provò l’angoscia del carcere, pur se solo una settimana, come abbiamo già ricordato;  per questo fece ricorso ai  gusci con le volute  cui aveva dedicato già disegni e acqueforti negli anni ’20, stimolato da un’incisione di Rembrandt. I gusci, però, sono contorti e irregolari,  rappresentati in modo  monocromatico e spento, sono stati definiti  “ossi di seppia abbandonati su un litorale deserto”  da  Pasquali e  sfiorati da una “luce come lontana, filtrata, misteriosa affatto” da  Vitali.

Bottiglie, caraffe e lumi restano pur sempre nelle opere del periodo, assumendo di volta in volta una luce dorata o un grigiore di fondo. La luce dorata,  “come in uno specchio ustorio” nelle parole di Cesare Brandi, avvolge una “Natura morta” del 1941, con gli oggetti su diversi piani prospettici,  il bianco della bottiglia  a torciglione e della base del lume al centro e il blu della bottiglie e della boccetta di profumo agli estremi, il critico dice che così “il colore acquista la materia dura e lucida del minerale”.

Il grigiore di fondo è in altre “Nature morte” dello stesso 1941, su un tavolo tondo e non rettangolare, con le bottiglie allineate come soldatini su un unico piano, illuminate frontalmente  in modo da ridursi a mera espressione geometrica senza spessore e volume, con le bottiglie ridotte ad etichette rettangolari e due sole forme tondeggianti, una luce che,  nelle parole di  Brandi, “per la nostra vista diviene indistinta, ma non evanescente”.

Nell’anno successivo, il 1942, allorché realizzò oltre 60 opere, troviamo una diversa scelta compositiva, le altezze vengono azzerate, come nella “Natura morta” che donò a Ragghianti il quale racconta che la tagliò  materialmente con le forbici dinanzi a lui. In tal modo, eliminata la variabilità delle altezze, la composizione si può inquadrare in un rettangolo.

Così nelle due “Nature morte” del 1952 esposte,  esemplari per la leggera variazione dello stesso assetto compositivo di 7 oggetti, caraffe  e parallelepipedi iscrivibili nel rettangolo, con l’aggiunta nella seconda di una piccola sfera; nella “Natura morta” del 1953,  con tre bottiglie dinanzi  a tre parallelepipedi, Luigi Magnani  vede “la solennità ieratica di un’apparizione”. In due “Nature morte”  del 1953-54,  l’altezza delle bottiglie non supera quella delle tazzine e delle forme a parallelepipedo o cubiche allineate con esse; mentre le  forme cubiche accompagnano la classica bottiglia a tortiglione anche in due “Nature morte” del 1954 senza allineamento verticale.

E’ questo uno dei momenti evolutivi, ma lungi da noi  considerarlo un punto fermo. La verticalità è compresente a questa sperimentazione, e riprende di volta in volta il sopravvento, come il cromatismo.

Lo vediamo in altre due “Nature morte” del  1942 che, a differenza di quelle dello stesso anno prima citate, la verticalità è particolarmente accentuata, in un cromatismo cupo, mentre una terza “Natura morta”  del 1943 ha le altezze parificate ma con gli oggetti alquanto distanziati e dal cromatismo brillante che pur nella “spazialità disorientata e a tratti convulsa” evidenziata da D’Amico,  indicano che lo sguardo dell’artista “si è disteso di nuovo, avvolgente e inquietante, per ridurre nuovamente i toni, per addolcire le forme”, nelle parole di Gnudi.In una  “Natura morta” del 1946  la caraffa e gli alti recipienti cilindrici dominanti i sono allineati armoniosamente in un equilibrio volumetrico e cromatico giungendo – è sempre Gnudi –  a “un più ricco, pieno, placato accordo”, esprimendo il senso “di una grandiosità contenuta, di una sedata drammaticità”: la guerra è finita, in quell’anno dipinge 45 nature morte.

 Dell’anno successivo, il 1947,  abbiamo una “Natura morta” che ha in comune con la precedente solo gli oggetti meno vistosi,  il vasetto verticale rigato di azzurro e  la piccola ciotola,  mentre è composta da 4 bottiglie, con al centro quella a tortiglione, di un biancore diafano sul grigio dello sfondo.  Scrive Stella Seitun  che il dipinto “proietta la ricerca di Morandi nei suoi più tardi sviluppi per la perfezione tonale  della materia pittorica, per l’articolazione spaziale più nitida e per l’equilibrio dell’immagine, governata non più da una geometrizzazione interna alle forme, ma  da un rapporto più aperto con lo spazio circostante”.

Le due “Nature morte” del 1948 e le due  del 1950-52 confermano queste tendenze all’equilibrio compositivo , con delle varianti negli oggetti utilizzati, casseruole e imbuti rovesciati, recipienti cilindrici, alla ricerca di forme sempre più elementari, espressive dell’essenza geometrica delle cose.  Nei dipinti del 1948 mancano le bottiglie, Briganti  parla di  “una forma perfettamente pierfrancescana nella sua semplice geometria solida”;  nei due successivi si va, secondo Arcangeli, verso “un’ampia dosatura degli spazi intorno alle cose”, la Seitun parla di “rinnovata chiarezza nella visione rigorosamente frontale”, aggiungendo che “la luce diffusa riduce quasi del tutto le ombre, lasciando a pochi ma arditi accostamenti cromatici il rilievo plastico dei volumi”.

Il processo evolutivo procede, dalla moltiplicazione degli oggetti si passa alla ricerca di quella che Arcangeli definisce “semplificazione del comporre, ormai concentrato su poche forme  d’oggetto inesauribilmente, sapientemente, variate”.   Lo vediamo nelle “Nature morte” del 1956 e del 1958, in cui, dice la Bandera, “lo schema compositivo è rigoroso e gli oggetti ‘astratti’ e geometrici”.

Inizia la tendenza a una sempre maggiore evanescenza del tratto, che troviamo nelle altre dieci “Nature morte” dal 1957 al 1959.  Tre con le bottiglie, ma solo nella prima numerose e allungate, nelle altre due c’è soltanto la bianca a tortiglione; quattro nature morte  con altri oggetti in una orizzontalità più mossa e meno vistosa di quella espressa  dall’inquadramento nel rettangolo  di cui si è detto.

Continuano, nelle parole della Bandera, le “calibratissime e talora impercettibili ‘variazioni’ tematiche che si accompagnano a sottilissime differenze di orchestrazione cromatica e di valori tonali, comunque sempre estranee a qualunque ripetitività. ‘Variazioni’ che comprovano come per Morandi il soggetto fosse esclusivamente un pretesto per ricercare l’essenza”. La sua non è una parabola discendente nell’ultima fase, bensì continua “una costante innovazione pur nell’iterazione dei modelli”; diventa “una pittura priva di toni acuti, più chiara e variata, smagrita di consistenza, soffice e quasi impalpabile, che tende sempre più a sublimarsi in gamme cromatiche raffinate con combinazioni e stacchi di colore e di stesure che tendono a smaterializzarsi nella luce”.Queste parole della curatrice possono essere assunte a  descrizione delle ultime otto “Nature morte”due del 1960, tre del 1961-62 e due  del 1963, l’anno prima della morte; e anche dei disegni e  acquerelli presentati in mostra, mentre le incisioni restano ben definite.  C’è una  “tendenza all’astrazione”, secondo “un processo di rarefazione e di spoliazione dei dati del visibile”, tanto che una “Natura morta” del 1963 viene accostata a un “Paesaggio” dello stesso anno dal quale si distingue  a mala pena come dalla citazione fatta a suo tempo dell’osservazione della Bandera secondo cui “le case sono apparentate alle bottiglie”.  E non potrebbe essere altrimenti in questa ricerca spasmodica dell’essenza che porta ad assimilare anche i dipinti agli acquerelli nella massima rarefazione.

In chiusura, i “Fiori”  

La mostra non finisce qui, al secondo piano c’è la sezione dedicata ai “Fiori”, che Vitali definì “nature morte di fiori”, sono 15 dipinti di piccole dimensioni realizzati tra il 1940 e il 1962, che occupano un posto particolare nella sua produzione, perché li dipingeva per donarli agli amici, per lo più  intellettuali, primo tra tutti Roberto Longhi. Niente a che vedere con le rutilanti fioriture alla Brueghel, sono “bouquet” compatti sulla sommità di vasi che sembrano colonne. Del resto si serviva di fiori secchi, di carta e di seta, non freschi,  per marcare anche in questo caso il suo distacco dalla realtà e dalla funzione dell’oggetto di uso comune rappresentato, come avveniva per le bottiglie che faceva velare dalla polvere rendendole  pura forma e volume; cosa che conferma la definizione di Vitali che li assimila alle nature morte. 

Anche in questo caso  piccole varianti sia nel cromatismo, sempre su tinte pastello,  del “bouquet” floreale, sia nel  vaso ripreso per lo più intero ma anche limitandolo alla sommità.

La ricerca dell’essenza, che ha percorso l’intera sua produzione lungo l’arco della sua vita,  passa anche di qui, da questa compresenza di contrari che è  parte integrante della nostra esistenza. “E’ un artista – osserva la Bandera –  che per l’ambiguità della sua visione, per la lacerazione tra l’essere e l’apparenza, la rappresentazione e l’evocazione, riflette un’inquietudine moderna, la stessa che ammanta di mistero e di enigma le sue opere e che, per questo, sentiamo più vicino ai nostri giorni senza certezze”.   

E se qualcuno, aggiungiamo noi,  lo ha identificato come “il pittore delle bottiglie”, non ha capito quanto di misterioso e di fantastico può esservi nella bottiglia lanciata in mare con un messaggio da interpretare; ed è un osservatore che, è sempre la Bandera, “non ha occhi per ‘vedere’, che non sa indugiare sulle sue opere ed entrare in un dialogo ravvicinato e prolungato con esse”.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00, ridotto 9,00. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it. Catalogo, “Morandi 1890-1964”, Skira, 2015, pp.272, formato  24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il 17 maggio u.s. con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre dal 2009: in questo sito, Guttuso il 15 e 30 gennaio 2013, Cézanne il 24 e 31 dicembre 2013, Modigliani il 22 febbraio e 7 marzo 2014, Sironi il 1°, 14, 29 dicembre 2914 e il 7 gennaio 2015, Mondrian il  13 e 18 novembre 2012,  Brueghel il 5 maggio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Natura morta” 1953, seguono “Paesaggi” 1963, e “Natura morta” 1946, poi “Natura morta” 1947 e ” Natura morta” 1948, quindi “Natura morta” 1950, e “Natura morta” 1957 V. 1027, inoltre  “Natura morta” 1957 V. 1060 e “Natura morta” 1960 V. 1188;  infine, “Natura morta” 1960  V. 1205 e, in chiusura, “Fiori” 1951.

Matisse, arabesque, la sua rivoluzione, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La grande mostra “Matisse, arabesque”, al Palazzo Esposizionidal 5 marzo al 21 giugno 2015, espone oltre 100 opere dell’artista, tra  dipinti, incisioni e disegni,  insieme a un’altrettanto vasta esposizione di tappeti e stampe, ceramiche e oggetti orientali che hanno avuto un ruolo importante nella sua svolta pittorica. La mostra è realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre, curatrice Ester Coen, con un comitato scientifico formato da Elderfield, Berggruen e Labrusse, autore del testo”Arabeschi. Una storia occidentale”, inserito nel Catalogo Skira, curato dalla Coen, che contiene la sua introduzione critica “Matisse arabesque”, e altri contributi insieme al ricco repertorio iconografico.

Un vero evento la mostra di Matisse,  l’impegno realizzativo è stato notevole,  come sottolinea il presidente dell’Azienda speciale Palaexpo e della Quadriennale di Roma Franco Bernabè, ricordando i 40 prestatori tra i quali alcuni grandi musei: dai musei russi Puskin e l’Ermitage  ai parigini Centre Pompidou e l’Orangerie, dai londinesi Tate e Victoria, Albert Museum ai newyorkesi MoMA e Guggenheim, e poi musei di Washington e Filadelfia, New Haven e Gerusalemme, Nizza e Grenoble, fino a quelli di Roma e Torino, Firenze e Faenza; oltre ai musei e istituzioni dedicati a Matisse, a Nizza, Cateau-Cambrésis e a New York nonché a preziose collezioni private.  Oltre 100 gli operatori dei musei impegnati, cui si aggiungono altri 225 nomi che hanno dato dei contributi.

Durante la mostra è stato effettuato il ciclo di proiezioni “Matisse.doc”,  5 documentari sull’artista, e si sono volti 7  “Incontri con Matisse”, tra marzo e maggio, sui diversi aspetti  della sua arte.

Uno spiegamento di forze straordinario, per un’esposizione fuori dal comune nella struttura e nell’impostazione:  è l’evocazione di un mondo esotico presentato nella sua sfolgorante spettacolarità   nei vasti ambienti  della storica sede romana di via Nazionale.

Eppure manca  l’opera più celebre, “La danza”, come le altre aventi la stessa conformazione, con campiture di colori nettamente distinte e dalla gamma limitata al verde del prato, all’azzurro del cielo e al rosso dei corpi  dai confini delineati con precisione calligrafica: ci riferiamo a “La Musica”  e a  “Ninfa e satiro”, a “Giocatori di bocce” e “Il lusso”, che con la danza compongono una  straordinaria cinquina. Non c’è, dunque, il Matisse calligrafico nei dipinti, sfarzosi ed elaborati, anche se il suo segno sottile e incisivo emerge evidente dai molti disegni esposti.

Ma non si resta delusi perché si è subito presi dalla magia, del resto enunciata nel titolo, che Baudelaire aveva sintetizzato nelle parole “lusso, calma, voluttà”,  come espressione di un contesto che così viene evocato dal poeta: “I mobili lucidi, i più rari fiori, i ricchi drappi, gli specchi profondi, lo splendore orientale”. Tutto questo si trova nella mostra, perciò al nome dell’artista è unita  la parola magica “arabesque”, come sigillo identificativo di un contenuto e di uno stile.

Le opere di  Matisse inquadrate in tale contesto sono presentate insieme a quanto può evocare i motivi e gli influssi che ne hanno orientato  il percorso artistico, accuratamente documentati in modo  quanto mai spettacolare: trattandosi dell’Oriente con le sue tradizioni e i suoi costumi, il suo artigianato pittoresco e i suoi impulsi spirituali, si può immaginare l’effetto altamente suggestivo.

I prestatori non sono soltanto i grandi  musei  che detengono le opere del Maestro, i cui prestiti si devono alla rilevanza e all’elevata qualità del progetto espositivo oltre che delle istituzioni coinvolte; ma anche musei etnografici e sedi di varia natura dove è stata raccolto un gran numero di reperti di arte e artigianato orientale per ricreare l’ambiente che ha affascinato e ispirato Matisse.

Un artista innovativo non solo rispetto ai classici ma anche alle avanguardie,  diverso nello stile e nei contenuti, e anche nell’approccio alla realtà e quindi all’arte:  nessun tormento  esistenziale e nessuna volontà dissacrante,  nessuna inquietudine  e nessuna polemica.

E’ riuscito a isolarsi anche dagli sconvolgimenti di due guerre mondiali per immergersi nel mondo delle raffinatezze e degli splendori dell’Oriente, in una visione serena e contemplativa che troviamo idealmente espressa anche nel titolo, nel dipinto “Gioia di vivere” del 1906 quando,  dopo le suggestioni pointillisme e fauviste,  supera “l’eterno conflitto del disegno e del colore”: una scena idilliaca di matrice bucolica, ma pur nei riferimenti ai classici e  a Gauguin già si può percepire una linea chiaramente decorativa, che si sviluppa nella sua peculiare forma espressiva.

“Il motivo della decorazione e dell’orientalismo – afferma la curatrice Ester Coen –  è per Matisse la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura, di un’estetica fondata sulla sublimazione del colore, della linea. Sull’identificazione di una purezza attraverso la semplificazione della forma”

Cerchiamo di analizzare i vari momenti di questa indagine, che vengono ricostruiti con cura in un’analisi dall’interno delle motivazioni e degli impulsi dell’artista e della loro traduzione in termini di contenuti e stile in cui si esprime il distacco dalle inquietudini e la sua gioia di vivere.

Una prima osservazione: nato l’ultimo giorno dell’anno nel 1869 a Le Cateau Cambrésis, già nella vita quotidiana prende  familiarità con tecniche e motivi decorativi, venendo da una famiglia di tessitori. Inizia a dipingere nel 1990, dopo una malattia a seguito della quale lascia gli studi giuridici per quelli  artistici: prima all’Académie Julian con Boughereau, poi all’Ecole des Beaux-Arts con Moreau dal 1895 al 1899 e ai corsi serali dell’Ecole des Arts decoratifs con Marquet

Ha già incontrato Derain nel 1899, nel 1907 conosce Picasso e  fa un viaggio di studio  in Italia. Nel 1910-11  altre significative coincidenze:  negli anni della “Danza” visita  l’esposizione d’arte maomettana a Monaco di Baviera, poi si reca a Mosca in casa dei S’cukin per curare l’installazione della “Danza”  –  che il collezionista russo gli aveva commissionato,  ispirata alle sei danzatrici  in circolo appena visibili sul fondo della “Gioia di vivere” – e scopre le icone russe. Nel 1912-13 va in Marocco, nel 1930-31  in America e in Polinesia, a Tahiti nel 1930.

La sua fama è dilagata, con mostre a Berlino e New York, Parigi e Basilea, nel 1920 ha  progettato costumi teatrali e ha iniziato la serie di “Odalische”, crea l’atmosfera orientale anche nel suo studio.

Ma cosa ha scoperto nelle sue visite alle esposizioni citate e nei suoi viaggi?  A Monaco le 80 sale di tappeti e tessuti ricamati, cui è interessato per la tradizione familiare, gli fanno conoscere una forma ornamentale diversa da quella tradizionale,  perché apre lo spazio invece di racchiuderlo; a Mosca si rafforza la visione di un impianto compositivo dall’essenza spirituale, non solo decorativa; in Marocco oltre all’ornato arabo e all’arte primitiva assorbe la luminosità mediterranea; a Tahiti, dove si reca più volte,  rivive l’esotismo  di Gauguin cui si è ispirato fin dalla “Gioia di vivere”.

Altri momenti del suo percorso artistico e di vita: una nuova versione della “Danza” nel 1931-33, le illustrazioni di Mallarmè in 30 acqueforti nel 1932, la scenografia e costumi per i balletti russi di “Rouge et noir” nel 1937,  altre illustrazioni e cicli di litografie nel 1946-50, fino alla decorazione della Cappella di Vence nel 1951, cui segue l’inaugurazione del Museo a lui dedicato a Le Cateau Cambrésis, nel 1952, prima dell’ultima mostra con i suoi “papiers découpés” nel 1953, avvenuta l’anno prima della morte. Sono solo momenti  particolari che ricordiamo perché costituiscono precisi riferimenti per comprendere le radici prime della sua originalissima forma espressiva.

Si inizia con i classici, di  cui  parlò espressamente in un’intervista  a un anno dalla morte, allorché gli fu chiesto:  “Che influenza ha segnato maggiormente la vostra arte: Giotto?  Fra Angelico?  I mosaici  bizantini? Le miniature persiane?”.  Rispose:  “Tutte queste che avete detto e sopra ogni altra Cézanne”.

Da Giotto e dal Beato Angelico prese gli azzurri puri e profondi, il blu di lapislazzulo che vira nel cobalto, una certa frontalità primitiva nella rappresentazione della natura; dai mosaici bizantini  viene la raffinatezza cromatica e la brillantezza,  l’uniformità della superficie;  dalle miniature persiane gli ornamenti eleganti in un fluire di figure, segni e colori  su un piano senza rilevi e senza ordini precostituiti; da Cézanne  prese la costruzione della forma nella materia con la pennellata attraverso il puro colore.

Furono lezioni basilari sulla creazione dell’immagine pittorica, che  assimilò pronto a recepire gli influssi di altre culture, in un percorso del tutto personale lontano da ogni tendenza  nello stile e nei contenuti, fosse essa classica o di avanguardia.

Sui classici, dei quali aveva studiato a lungo tecnica, spazi e prospettive, diceva che “è nell’eccesso di preziosismo e maestria che si è attenuato lo spirito dell’arte classica”. Il tutto si risolveva in un virtuosismo esteriore, in un’imitazione di maniera che non stimolava né apriva nuove strade.

Dai contemporanei e dalle avanguardie, di cui fu fiero oppositore, si è allontanato dopo brevi accostamenti iniziali al pointellismo e al cubismo, mentre fece parte dei “fauvisti”  con una  ribellione ai residui accademici e l’introduzione tanto innovativa da provocare scalpore, di colori puri e squillanti, di superfici appiattite e linee sinuose. Non ci sono più le antiche regole della prospettiva e neppure le nuove regole della scomposizione dei volumi o dell’impressionismo luminoso, diviene dominante l’accostamento emotivo di linea e colore, come quello dell’artista con la sua opera, fino al rapporto dell’artista con l’osservatore.

I capolavori del passato li considerava un patrimonio da conservare e consultare, ma senza alcun condizionamento, mentre si doveva  rappresentare la natura con la propria esperienza e le proprie  sensazioni.  Per lui “bisognava osservare ed esaltare la sensazione, la più pura delle cose, la più impermeabile alla ricercatezza, la più istintiva e primordiale, la più commovente in assoluto, per non dire la più emozionante di tutte”. E ha spiegato come: “Decisi allora di lasciare da parte qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza. Copiare un oggetto non m’interessava. Perché avrei dovuto dipingere l’aspetto esteriore di una mela, sia pure con la maggior precisione possibile? Quale interesse c’era a copiare un oggetto che la natura offriva  in quantità illimitate e che si può sempre concepire più bello? Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista,la potenza che questo ha di organizzare sensazioni ed emozioni”.

Quindi è la pittura al centro, come rapporto tra l’artista e l’oggetto, non quest’ultimo per la sua forma e il suo contenuto; una pittura che scandisce  i ritmi della natura come uno spartito musicale, vista nella superficie piana di uno spazio da creare senza riprodurne o simulare uno preesistente. Così lo sguardo di Matisse, osserva la curatrice Coen, si indirizza “verso la realtà della pittura stessa, verso il piano pittorico come luogo dell’accadere, verso la superficie come spazio della creazione”.

Il “principio di superficie – prosegue – con assoluta devozione e mirabile costanza, rimarrà la ragione esclusiva della ricerca di una vita”.  E come?  “Ridurre gli elementi visivi, giocare con la linea forzando la potenza del colore alla massima saturazione timbrica, esaltare la natura piana della tela o dell’area da dipingere, senza mai rinnegare l’epidermide del supporto, la sola materia vitale per cui la pittura può esistere, in funzione di una unità dell’insieme”.

Tutto questo si traduce in quattro direttrici spesso interconnesse, così sintetizzabili: primitivismo istintivo e  cromatismo mediterraneo,  linearismo giapponese e orientalismo decorativo.

Il primitivismo nasce dalla condivisione con Picasso  di una piccola testa lignea africana notata in una vetrina ed acquistata; ne derivò un esotismo che non si trasferì nella scultura. “E’ piuttosto la dimensione mnemonica a incidersi sulla tela – osserva la curatrice – nel segno di una deformazione mossa da grafismi saldamente intonati a un ritmo modulato su analogie e contrasti. Secondo una logica tesa ad escludere ogni indicazione di profondità o di costrutto architettonico”.

Le linee entrano nel suo spazio figurativo in armonia con l’insieme “modulato su rapporti di forza ed equilibri tra forti opposizioni cromatiche”, e questo è un aspetto fondamentale della sua pittura per il quale è debitore all’arte primitiva di cui raccoglie molti esemplari. Intanto approfondisce i principi elementari della linea nelle sue forme grammaticali e sintattiche, cioè nei singoli  elementi e nella composizione, restando sempre “in rapporto all’ordinamento e alla complessità della raffigurazione, all’assialità dell’impianto, alla contrapposizione tra toni chiari e scuri”.

Per lui non si tratta di un fatto tecnico,pur se importante: “Il  primitivismo – sono sue parole – è il frutto di uno stato primordiale dello spirito che non si può rigenerare artificialmente”.  Per questo è ben lungi dalla scomposizione cubista derivata dalla statuaria africana; non sposta l’oggetto dalla sua matrice, al contrario è affascinato dall’antichissima civiltà di cui è espressione, trasfusa in una diversa idea di classicità. Una classicità, secondo la  Coen, “intesa dunque come armonia dettata da una nuova e composita totalità, in uno spazio senza artifici, esclusivamente concertato dagli elementi stessi della pittura. Uno spazio pittorico inseguito anche nella xilografia, nella netta opposizione tra bianco del foglio e nero dai pochi tratti, larghi, diffusi sulla pagina come l’onda che si ripercuote nell’illimitata estensione oceanica”.

Dal bianco e nero delle xilografie al cromatismo mediterraneo, assorbito soprattutto dopo il viaggio in Marocco del 1912-13. Le atmosfere del Maghreb si imprimono in lui, anche perché sono riflesse nei tessuti, in cui trova forti riferimenti alle proprie tradizioni familiari tenendo conto che la produzione della sua regione tendeva ad utilizzare motivi orientali. Il tessuto con la sua trama compatta e l’ordito articolato faceva risaltare il motivo di fondo e  i contorni ornamentali su un piano bidimensionale, con l'”ibridazione di elementi incantevoli, per segno o tonalità” dai quali traeva “la giusta ispirazione in un amalgama sorprendente di flussi e correnti di energia e sintesi”.

Il trasferimento dell’ispirazione al dipinto viene così descritto dalla Coen con riferimento al “trittico marocchino”  con “Zorah” esposto in mostra: “I diversi livelli di intervento delle pennellate, pur segnando spesso con tratti forti parti dei profili di oggetti e figure, fanno contemporaneamente affiorare i singoli passaggi in un gioco di trasparenze ben distanti dall’idea di ‘pentimento’. Nello slittamento e nel differire dei piani, il senso di una durata, intesa come persistenza spazio-temporale, si dispiega  con assoluta chiarezza come se Matisse volesse far risaltare o non togliere comunque peso al vari stadi della costruzione di un’immagine”. 

La curatrice  sottolinea il ruolo fondamentale del colore con riferimento specifico all’azzurro del cielo usato anche per altre parti della composizione: “Azzurri amati e dipinti per il loro intrinseco valore cromatico, non per pura sensibilità estetica, ancor meno per una scelta puramente decorativa. L’elemento ornamentale alimentato da Matisse nelle sue diverse declinazioni assume la stessa funzione di ogni singola parte dell’opera; è motivo nel senso musicale più stretto di una frase che partecipa allo sviluppo del tema nella sua più ampia costruzione”. Che avviene così: “Motivo e fondo, figura e dettaglio, come nell’insieme delle trame di tessuti dalla compatta e uniforme superficie, formano l’immagine nella sua pienezza”.

Più in generale,  l’artista parla così del colore: “Tutto, anche il colore, non può che essere creazione. Comincio a descrivere il mio sentimento prima di arrivare a quello che ne è l’oggetto. Allora si deve creare tutto daccapo, tanto l’oggetto come il colore. Il colore contribuisce a esprimere la luce, non in quanto fenomeno fisico, ma la sola luce che effettivamente esiste, quella del cervello dell’artista. Ogni epoca porta con sé una luce sua propria, il suo sentimento particolare dello spazio, come un suo bisogno”. La sua  epoca “ha portato una nuova comprensione del cielo, dell’estensione, dello spazio. Oggi si arriva ad esigere un possesso totale di questo spazio”.

In termini  più precisi, aggiunge: “Mi sono servito del colore come mezzo d’espressione della mia emozione e non di trascrizione della natura. Uso i colori semplici. Non sono io a trasformarli. Se ne incaricano i rapporti. Si tratta soltanto di far valere le differenze, di farle risaltare. Nulla vieta di comporre con pochi colori, come la musica che è costruita unicamente su sette note. E’ sufficiente inventare dei segni”.

L’evocazione dei segni ci porta al linearismo giapponese, anche perché nei paesaggi del periodo 1912-17 , osserva la curatrice, “gli influssi del giapponesismo, in un sorprendente eclettismo, si amalgamavano alle volute più mediterranee nella logica di una luce misurata su affinità e armonie”. Ne scoprì .la raffinatezza stilistica attraverso le stampe: “Che lezione di purezza, di armonia, ne ricevetti”, ebbe a confidare.  La definisce “una rivelazione” che fece strada in lui: “Solo con lentezza giunsi a scoprire il segreto della mia arte. Consiste nel meditare in contatto con la natura, esprimere un sogno sempre ispirato alla realtà. Con maggiore accanimento e regolarità, imparai  a spingere ogni mio studio in un certo senso”.

Non fu  una svolta da poco, la Coen la riassume così: “Fissità e semplificazione rappresentavano una diversa analisi sui linguaggi della pittura, sulle nuove ipotesi interpretative del moderno. L’idea della virtualità del piano e dell’oggetto, ibridata ora dalla prospettiva delle stampe orientali e di altri idiomi formali ancora, disloca definitivamente l’immagine in una dimensione senza rilievo. E l’innesto di suggestioni si chiarifica e decanta nella bellezza di note e ritmi temprati  a un energico accordo melodico”.

Tutto questo si traduce nel suo orientalismo decorativo, la quarta e forse maggiore sua direttrice, che rappresenta il sigillo stesso della mostra, all’insegna di “arabesque”. Ne parleremo prossimamente, come premessa al racconto della visita alla galleria sfolgorante delle sue opere e  dei tanti materiali orientali altrettanto spettacolari.

Info

 Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì 10,00 – 20,00, venerdì e sabato 10,00 – 22,30, nessuna chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500, http://www.scuderiedelquirinale.it  Catalogo  “Matisse, arabesque”, a cura di Ester Coen,  Skira, pp. 628, formato 24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo conclusivo sarà pubblicato in questo sito il prossimo 26 maggio  con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli per le rispettive mostre, in questo sito  su Cezanne  24 e 31 dicembre 2013, i cubisti 16 maggio 2013; in “cultura.inabruzzo.it”  su Picasso 4 febbraio 2009,   Giotto 7 marzo 2009, Beato Angelico 30 giugno 2009.  

Foto

Le immagini delle opere di Matisse, riportate in ordine cronologico tranne l’apertura,  sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, “Il paravento moresco”, 1921; seguono “Pesci”, 1911 e “Angolo dello studio”, 1912; poi “Zorah in piedi”, 1912, e  “Rifano in piedi” o “Marocchino in verde”, 1912; quindi,  “Zorah sulla terrazza”, 1912-13, e “Calle, iris e mimosa”, 1913; inoltre, “Ritratto di Yvovve Landsberg”, 1914, e  “L’italiana”, 1916; infine, “Lo stagno a Trivaux”, 1916-17, e, in chiusura, “Costumi per Le Chant du rossignol”, “Guerriero” a sin., “Mandarino”, a dx.

Giorgio Morandi, 1890-1964 nella mostra al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Nel complesso del Vittoriano, dal    28 febbraio al 21 giugno 2015,  la  mostra  “Giorgio Morandi 1890-1964” espone circa 100  dipinti e  60 disegni e acqueforti, incisioni e litografie, alcune con le inedite matrici in rame, provenienti dalle collezioni del  Museo Morandi e della Fondazione Longhi, oltre che da altri grandi musei, e una raccolta di documenti d’archivio. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, curata da Maria Cristina Bandera , che dirige la Fondazione Longhi e  ha  curato le mostre sull’artista a New York nel 2008 e a Bologna nel 2009, a Lugano nel 2012 e a Bruxelles nel 2013.  Catalogo Skirà  con testo critico della Bandera e interventi di Giulio Paolini e  Ferzan Ozpetek, schede delle opere di Stella Seitun e una ricca bibliografia.

E’ una grande mostra, che segue più di quarant’anni dopo quella alla Galleria Nazionale di Arte Moderna del 1973, e si inserisce nel percorso espositivo del Vittoriano che ha visto sugli artisti italiani le mostre di Guttuso  nel 2012 e di Cézanne nel 2013, di Modigliani e di Sironi nel 2014.

La ricerca dell’essenza del reale nella sincerità e semplicità

La mostra di Giorgio Morandi va  oltre  l’evento artistico, pur  di straordinanza rilevanza per la sua vastità e articolazione, e penetra in profondità nell’umanità più intima che s’interroga sul significato del reale al di là delle apparenze  alla ricerca dell’essenza ultima delle cose.

Di questa instancabile ricerca ci fa partecipi un artista che,  pur vivendo un’esistenza attiva e non contemplativa, è riuscito ad astrarsi dal contingente per andare al di là della realtà visibile. In tal modo le sue opere, non legate al momento  storico né alle vicende umane, hanno assunto il carattere dell’universalità. Fuori del suo tempo e del tempo,  in una dimensione che lo trascende e  va oltre.

Nella sua linea del tutto personale  è rimasto in uno splendido isolamento  sottraendosi alle lusinghe delle avanguardie nel perseguire  il proprio ideale pittorico con assoluta coerenza e rigore.  

I temi prescelti hanno la caratteristica di essere permanenti, non mutare con le stagioni, rappresentare degli archetipi;  su di essi si è esercitata la sua ricerca svolta con meticolosità e perseveranza, attraverso modifiche apparentemente  di poca entità ma frutto di un’evoluzione che non si è mai  fermata, dopo che, assorbiti gli iniziali influssi, ha definito una linea pittorica cui è restato  fedele.  Sono paesaggi senza figure umane e nature morte, poi fiori, solo all’inizio qualche ritratto subito abbandonato;  la vita la trasfonde nei soggetti rappresentati perché si sente la sua presenza, l’occhio penetrante con cui li guarda cercando di scavarvi dentro alla ricerca dell’essenza.

Per i paesaggi si avvaleva di una  finestrella di cartone ritagliata a guisa di mirino ottico, oppure di un cannocchiale, per guardarli da vicino come le nature morte che componeva con pazienza meticolosa nel suo studio del quale aveva schermato la finestra per stemperare la luce, li faceva velare dalla polvere perché si allontanassero dalla loro funzione  e dalla consistenza reale per diventare pure forme e volumi. 

La  curatrice Maria Cristina  Bandera  precisa: “Con un lento processo creativo, in un susseguirsi di soluzioni sempre nuove, ma consequenziali, li distribuiva  variamente su uno dei tre piani di posa che aveva approntato. Li selezionava, li raggruppava, li aggiustava tra loro, li riaccostava, li scalava in profondità e in alzato, li trasformava in figure distribuite su un palcoscenico di combinazioni che variano con oil procedere degli anni”.  

Ne delineava i contorni come fossero architetture, ricorda la curatrice citando  Ragghianti, il quale ha svelato che  “‘fissava la sua posizione di attore’ tracciando per terra le sagome dei piedi, così da avere ‘un riferimento per poter ritrovare  il punto di vista’ quando si sarebbe nuovamente messo al lavoro. L’ideazione era compiuta”. Poi la fase propriamente pittorica: “Sarebbe seguita la stesura del colore sulla tela con modalità che variano negli anni e con pennellate che di volta in volta determinano o annullano la costruzione volumetrica, assecondano o appiattiscono le forme, aggiungono o sottraggono colore, sottolineano o elidono gli spazi”. 

 Giulio Paolini parla di “essenzialità e perfezione” e  afferma: “Pur osservando l’ostinata  imperturbabile ripetizione della sua opera, non un quadro, non una sola pennellata risultano di troppo”; perché  attraverso le apparenti “ripetizioni”  si sviluppa la ricerca che progredisce in modo  continuo, fino a porre  “un ‘interrogativo categorico al quale è impossibile sottrarci: cosa c’è di più vero, dove sta la ‘verità’? Nei suoi quadri o in questo  mondo?”.   

E, da acuto osservatore del tempo cui ha dedicato  lui stesso una  attenta ricerca espressa in opere d’arte molto particolari, rileva che l’artista se ne distacca: “Un quadro di Morandi è piuttosto un ‘quadrante’ che registra e riferisce le ore, la luce e le ombre,  di ogni giorno, posate sugli oggetti che di quel tal giorno si fanno muti ma sapienti testimoni tra le pereti silenziose del suo studio”.

La  Bandera dà questa chiave interpretativa della mostra: “Non vuole essere una retrospettiva, un guardare al passato. Piuttosto l’occasione per ‘vedere’ le opere di Morandi, per riguardarle, per gettare su di esse uno sguardo nuovo”. E ancora: “Soprattutto l’opportunità per intendere il ‘maestrevole percorso’ dell’artista nella sua presa di distanza  dal reale alla ricerca dell’essenza”. E infine: “Per comprenderne il processo creativo: come egli osservi il luogo che ha individuato e di  interroghi, li ricomponga, li ricrei”.  

Un “maestrevole percorso” che riassumeremo intrecciandolo con il suo itinerario di vita, non prima di aver citato alcune delle sue rare ma eloquenti affermazioni sulla propria visione dalla quale si alimenta la trasposizione artistica.

 “Ciò che vale in pittura è il modo individuale di vedere le cose: tutto il resto non conta”, d’altra parte “è sempre l’uomo che guarda, dispone, medita”, e ciò “è qualche cosa propria della pittura”. Questo il suo “modo individuale”: “Credo che nulla possa essere più astratto, irreale, di quello che effettivamente vediamo. Sappiamo che tutto quello che riusciamo a vedere nel mondo oggettivo, come esseri umani, in realtà non esiste così come noi lo vediamo e lo percepiamo”.  E ancora: “Ritengo che ciò che noi vediamo sia una creazione, un’invenzione dell’artista qualora egli sia capace di far cadere quei diaframmi, cioè quelle immagini convenzionali che si frappongono fra lui e le cose”.  

Con questa precisazione: “Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose”.Anche Mondrian puntava all’essenza delle cose, .e ritenne di averla raggiunta con l’astrazione geometrica  che inglobava forti cromatismi, identificandola con la “perfetta armonia”; Morandi la raggiunge con i volumi puri che rappresentano il distacco tra l’essere e l’apparire.

E’ un’antinomia che riflette l’inquietudine moderna alla quale lui cerca di sottrarsi riservandosi un mondo quieto e contemplativo. Si lamentava degli impegni connessi alla fama raggiunta dichiarando: “La mia unica aspirazione è godere la pace e la quiete di cui ho bisogno per lavorare”; si riferiva al  suo studio  di Via Fondazza, caratteristica strada porticata bolognese, con vista su un cortile, divenuto il soggetto della serie di dipinti “Cortili di via Fondazza”.

Ne scrive così la Bandera: “I rami degli alberi che riempiono lo spazio prospiciente delle case piatte come fondali di scena che delimitano il cortile, nel corso delle stagioni, fioriti, frondosi o spogli, diventano per il pittore l’occasione per un’indagine sulla materia cromatica e sul tono”. E precisa: “Di volta in volta ravvicinati e variamente intessuti di luce, non sono altro che sublimi brani di poesia pura, meri pretesti di stesure di colore, variate nell’andamento della pennellata, con una maestria di materia cromatica e una padronanza di toni che non ha eguali”.

A questo punto, prima della visita alle sezioni della sua arte, con i paesaggi e le nature morte,  l’evocazione dei principali momenti del  suo itinerario di vita ci farà entrare nel suo mondo così sereno e contemplativo ma con l’inesausta ansia data dalla ricerca costante di andare sempre oltre nel penetrare i soggetti rappresentati al di là dell’apparenza per  raggiungere la loro intima essenza.

La fase formativa, le mostre  e i riconoscimenti

Non è un percorso distaccato dalla vita del suo tempo – è vissuto tra il 1890 e il 1964 –  e pur essendo sempre rimasto a Bologna concentrandosi sul lavoro, la sua è stata una solitudine apparente, dato che è stato in continuo contatto e si è confrontato con gli altri artisti, soprattutto nella fase formativa della sua pittura.  

Criticò l’arretratezza culturale dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna, che frequentò dal 1907 senza apprezzarne gli insegnamenti, concentrati sul simbolismo e lo storicismo ottocentesco,  tanto che nella sua breve “Autobiografia” del 1928 scrisse: “Ben poco di ciò che ora serva alla mia arte vi appresi”. Sentiva il bisogno di un netto cambiamento, tanto che partecipò alla mostra estemporanea della notte tra il 21 e il 22 marzo 1914 all’Hotel Baglioni di Bologna, e alla “Prima Esposizione libera futurista” alla Galleria Sprovieri di Roma,  e scrisse che ascoltava “con entusiasmo e interesse il verbo demolitore dei futuristi”.

Ma non fu un iconoclasta, nello stesso tempo scriveva che “solo la comprensione di ciò che la pittura aveva prodotto di più vitale nei secoli passati avrebbe potuto essermi di guida  a trovare la mia via”; precisando che il suo interesse andava soprattutto ai “vecchi maestri che costantemente alla realtà si ispirarono”, e lo facevano con “sincerità e semplicità”.

Così poneva le basi per la propria arte, ispirata alla realtà con sincerità e semplicità: i suoi ispiratori  furono “Giotto e Masaccio sopra tutti”,  lo  interessarono  Paolo Uccello e Piero della Francesca. Non solo i classici, anche gli impressionisti lo attrassero, in particolare Renoir, Courbet e Corot,“Cézanne sopra tutti”, potremmo dire per i moderni usando la sua espressione sui classici, fino a Picasso e Braque e gli altri cubisti.

Fu attirato anche dalla metafisica di De Chirico e Carrà, che frequentò aderendo al movimento di “Valori Plastici” , e  presentando sue opere con quelle del gruppo  in mostre organizzate dalla rivista a Berlino e in altre città tedesche tra il 1918 e il 1921. Era stato  congedato presto per malattia dopo essere stato arruolato come granatiere nel richiamo alle armi del 1915, per cui gli anni della Grande Guerra li trascorse  attento alle avanguardie da cui traeva spunti.

Gli anni della Seconda guerra mondiale lo vedono impegnato nel lavoro e  lontano dalla politica, ciononostante  viene arrestato e rinchiuso nel carcere bolognese di San Giovanni in Monte per una settimana, a seguito della sua amicizia con Carlo Ludovico Ragghianti e con Cesare Gnudi, esponenti del CLN,  viene liberato dopo una settimana per l’intervento su Giuseppe Bottai di Roberto Longhi che, giovane insegnante di liceo a Roma, aveva avuto come allievo il futuro Ministro dell’Educazione nazionale al quale potette rivolgersi con successo; sarà il critico più legato a lui, la sua Fondazione ha fornito una serie di opere dell’artista.   

 Vediamo  esposti una “Natura morta”, 1914, di ispirazione cubista, e due  “Paesaggi”, del 1916 e 1917,  ispirati a Cézanne, nel senso della bidimensionalità e assenza di prospettiva, il primo incentrato sul geometrismo, il secondo su un cromatismo delicato. Di immediata derivazione da Cézanne , come un omaggio,  “Bagnanti”, 1918, forse l’unica rappresentazione di figura umana intorno al tema cézanniano su cui si cimentavano le avanguardie; dello stesso anno una “Natura morta” in atmosfera metafisica, che si dissolve nella “Natura morta” del 1919, e  anche nella “Natura morta” dello stesso anno, dove tornano i volumi delle “cose”. 

Del resto,  anche in queste opere manteneva la propria spiccata personalità, così che de Chirico ebbe a definire la sua “la metafisica degli oggetti comuni”, con la purezza geometrica ma senza l’atmosfera enigmatica. Mentre con un’altra  “Natura morta”, sempre del 1919, si chiude la fase metafisica, gli oggetti spiccano come torri in un controluce cupo, che ritroviamo negli oggetti allineati nella “Natura morta” del  1920. L’acquerello e l’olio  con “Fiori”, del 1918 e 1920, sono invece chiari e lineari, né clima metafisico né controluce cupo. In questa fase l’“Autoritratto”, 1924, uno dei sette  da lui dipinti, e uno dei 30 dipinti con figure umane, numero di certo esiguo rispetto al suo vastissimo corpus di opere.

“A partire dal 1920 – scrive la Bandera – avendo compreso che avanguardia non voleva dire futuro, abbandonando gli sperimentalismi legarti alla transitorietà dei primi movimenti artistici del secolo, Morandi decide di rifarsi alla realtà, o più precisamente, secondo una sua importante sottolineatura, al ‘mondo visibile'”.

Inizia così il proprio percorso di ricerca, che seguirà fino all’ultimo, nell’autonomia raggiunta dopo la fase formativa. “Questo mi fece comprendere – ha scritto nell’“Autobiografia” – la necessità di abbandonarmi interamente al mio istinto, fidando nelle mie forze e dimenticando nell’operare ogni concetto stilistico preformato”.  Dal 1914 al 1930  insegna  disegno nelle scuole di piccoli paesi del modenese, dove diviene  “ispettore locale per il disegno”, nel 1930  ottiene la cattedra di tecnica dell’incisione all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, incarico che terrà fino al 1956 assegnatogli “per chiara fama”.

Oltre ad esporre con il gruppo di “Valori Plastici” a Berlino nel 1921 ha partecipato ad altre mostre fino alla XVI Biennale di Venezia nel 1928 e alla  seconda mostra del Novecento a Milano nel 1929.    

Roberto Longhi nel 1934, nella prolusione all’Università di Bologna  lo proclama “uno dei maggiori pittori viventi in Italia” e inizia un lungo sodalizio tra i due, nello stesso anno Lamberto Vitali ne sottolinea il valore da acquafortista. Intanto è tornato nel 1930 alla Biennale di Venezia, ed ha esposto alla Quadriennale d’Arte Nazionale a Roma nel 1931. Negli anni successivi le partecipazioni alle più  prestigiose mostre di caratura internazionali si susseguono: di nuovo alla Biennale di Venezia nel 1934 e alla Quadriennale d’Arte Nazionale a Roma nel 1935 e nel 1939 in una sala personale con 42 dipinti e 14 incisioni e disegni,  nel 1943  e 1955; nel 1939  il primo scritto su di lui di Cesare Brandi che sarà un suo grande estimatore, e la prima monografia di Arnaldo Beccaria, allievo di Ungaretti.  All’estero espone alle Mostre d’Arte italiana a Parigi e Berna, Berlino e Zurigo tra il 1935 e il 1940;  e in mostre a Parigi e Londra, New York e San Paolo del Brasile tra il 1949 e il 1960.

Non mancano i riconoscimenti, dalla nomina a membro dell’antica Accademia delle Arti e del Disegno, a quella a membro della Commissione della Arti Figurative che organizzò  la prima Biennale di Venezia del dopoguerra nel 1948, anno in cui è nominato anche membro dell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma; nel 1952 diviene membro dell’Accademia svedese e l’anno dopo ottiene il Gran Premio per l’incisione a San Paolo del Brasile, dove avrà il Premio internazionale per la pittura nel 1957 precedendo Marc Chagall; nel 1962 è nominato Accademico onorario dell’Accademia delle Arti e del Disegno a Firenze e ottiene in Germania il Rubenspreis per la pittura; infine nel 1963 il Comune di Bologna gli conferisce l’Archiginnasio d’oro e Ginevra gli dedica una personale con 41 dipinti, 72 acqueforti e incisioni L’ultima sua opera è una “Natura morta”  del febbraio 1964, muore il 18 giugno dello stesso anno.

Il suo “corpus”  di opere è imponente, con infinite variazioni sul tema, anzi  sui due temi principali, “Paesaggio” e “Natura morta”, in un’evoluzione  continua alla ricerca dell’essenza delle cose.

L’artista confidò a Roditi, che ha scritto un libro su di lui: “Io mi sono sempre concentrato su una gamma di soggetti  molto più ristretta rispetto  a gran parte degli altri pittori e quindi il pericolo di ripetermi è sempre stato molto maggiore. ” E aggiunse: “Penso di essere riuscito ad evitare questo pericolo dedicando più tempo a progettare ciascuno dei miei dipinti come una variazione sull’uno o sull’altro di questi pochi temi”.  Per questo, pur se quasi monotematico è estremamente variegato, sarà un ossimoro ma nella ricerca dell’essenza forse anche la compresenza di contrari è illuminante.

Nel preannunciare il racconto della visita alla mostra, concludiamo con le impressioni di un  visitatore  come il regista Ferzan Ozpetek,  precedute dalle parole che  Federico Fellini mise in bocca a un protagonista della “Dolce vita”: “Ah, sì: è il pittore che amo di più. Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno eh? Eppure sono dipinti con uno stacco, una precisione, un rigore che li rende quasi tangibili. Si può dire che è un’arte in cui niente accade per caso”.

Ozpetek  parla della “sensazione di appartenenza, di riconoscimento, di condivisione” che si prova,  e lo spiega così: “L’immagine pittorica di Morandi propone degli elementi che sono sotto i nostri occhi con una naturalezza quotidiana: penso alle sue nature morte, alle bottiglie, ai paesaggi. Ma la luce in cui sono immerse, l’interpretazione che l’occhio del pittore ne dà, li rendono assolutamente straordinari”. Ed ecco perché: “Sono oggetti e luoghi che appartengono alla creazione personale di un artista, eppure non solo li riconosciamo, ma li comprendiamo con il cuore, come succede di fronte all’arte vera”. 

Con un finale felliniano, che ci riporta anche ad una constatazione fatta all’inizio: “E’ il miracolo della condivisione di un sogno, quel momento in cui osserviamo l’invenzione particolare di un artista e questa diventa universale, si trasforma in una cosa nostra”.  E’  il distacco dal naturalismo contingente, di cui abbiamo parlato, che dà all’opera un valore universale e fa superare ad essa  i limiti del tempo e i confini dello spazio.

Lo vedremo prossimamente  nella carrellata sulle opere esposte nella mostra al Vittoriano.  

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00, ridotto 9,00. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it. Catalogo,  “Morandi 1890-1964”,  Skira, 2015, pp.272, formato  24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il secondo articolo conclusivo sarà pubblicato in questo sito il prossimo 25 maggio con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre dal 2009: in questo sito, Guttuso il 15 e 30 gennaio 2013, Cézanne il 24 e 31 dicembre 2013, Modigliani il 22 febbraio e 7 marzo 2014, Sironi il 1°, 14, 29 dicembre 2914 e il 7 gennaio 2015, Mondrian il  13 e 18 novembre 2012, De Chirico il  20, 26 giugno, 1° luglio 2013 e il 1° marzo 2015; in “cultura.inabruzzo.it”,  Picasso il 4 febbraio 2009, Giotto il 7 marzo 2009, Corot, Monet e gli impressionisti il 27 e 29 giugno 2010, Paolini il 10 luglio 2010, De Chirico  il 27 agosto, 23 settembre e 22 dicembre 2009, l’8, 10 e 11 luglio 2010; per De Chirico cfr. anche “Metafisica” e “Metaphisical Art”, Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, n. 11 del 2013.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Natura morta” 1929-30;  seguono “Natura morta” 1918, e “Natura morta” 1919, poi “Natura morta” 1924, e “Natura morta” 1929, quindi “Natura morta” 1932, e  “Natura morta” 1937, inoltre “Paesaggio” 1927 e “Paesaggio” 1934; infine, “Paesaggio” 1930  e, in chiusura, “Fiori” 1941. 

Yilmaz, i piatti cinematografici all’ Ufficio di cultura turco

di Romano Maria Levante

All’Ufficio cultura e informazioni dell’Ambasciata di Turchia a Roma, dal 15 maggio al 12 giugno 2015 la mostra “Ciak, si gira!” espone l’intera produzione dell’artista turco Ersoy Yilmaz negli ultimo due anni, già presentata parzialmente a Londra. Si tratta di una serie di Piatti in ceramica con i volti di divi cinematografici internazionali e scene di film spesso rivisitati con abiti orientali, in una inusuale quanto eloquente contaminazione. Curatrice della mostra e del catalogo digitale Adelinda Allegretti.

Una sorpresa ci ha riservato l’Ufficio di cultura turco con questo tuffo nella cinematografia dopo le mostre pittoriche con riferimenti al Corano e ad altri richiami colti, e la mostra di arte varia evocatrice di viaggi in Turchia di artisti italiani. Questa volta nessuna trasposizione di motivi spirituali  e mistici né speciali memorie di viaggi, bensì l’evocazione di scene cinematografiche che costituisce  un richiamo alla memoria di tutti.

E’ una galleria spettacolare nella quale sfilano divi e personaggi che sono state delle vere e proprie icone, e il visitatore si cimenta con la propria memoria nel riconoscere e identificare per poi ricordare soggetti e situazioni. Si avverte la passione cinematografica dell’artista e anche l’elevato livello tecnico delle sue trasposizioni in ceramica mediante l’ “underglaze”. La curatrice Allegretti parla di “incredibile virtuosismo tecnico” sottolineando “la capacità di trattare la superficie ceramica come fosse una tela”; il che vuol dire far coincidere l’ispirazione con la realizzazione senza pause né ripensamenti, non essendo possibile effettuare correzioni.  La nettezza delle figure e la brillantezza dei colori rendono vive le immagini.

L’altro aspetto che viene sottolineato è quello, cui abbiamo già accennato, della contaminazione delle scene e dei soggetti con immagini orientali, quasi che nella sua mente avvenisse una trasposizione tanto intensa da non poterla frenare nell’immediatezza della realizzazione su ceramica.  Così vediamo Monica Bellucci calata nell’atmosfera orientale ” in a Turkish Tent” , nel “Mar adentro” e in “Ottoman Ring” dove, come dice il titolo, si limita all’anello; con vesti o accessori orientali, la nostra Sophia in “Loren as a Traditional Turkish Girl” con una texture decorativa turca, e Ornella in “Muti with fez”. I titoli dicono tutto, c’è una vera  e propria sostituzione di nostre dive alle attrici orientali, in altri casi si contamina l’ambiente.

A queste contaminazioni possono essere dati significati che superano l’episodio occasionale e giungono fino all’avvicinamento e all’incontro tra diverse culture; cosa non sorprendente considerando che Istanbul è la porta tra Oriente ed Occidente, oltre ad essere stata definita “la nuova Roma”.  Per parte nostra ci piace riferire le contaminazioni allo spontaneo impulso creativo in cui c’è stata tale feconda sovrapposizione.

Ma del cinema internazionale quali divi e personaggi lo hanno colpito e sono stati immortalati nei suoi rutilanti piatti artistici in ceramica? Sono occidentali, anzi europei, soprattutto degli anni ’60 e ’70, quelli dove il divismo è stato più forte e non contrastato da altre suggestioni mediatiche.

Ed ecco che oltre alle già citate Sophia Loren e Ornella Miuti, forse la prediletta, troviamo Claudia Cardinale e Monica Bellucci,  Grace Kelly e Romy Schnider, fino alla diva più recente Nicole Kidman; tra gli attori vediamo Alain Delon e Leonardo Di Caprio, ma c’è anche il nostro Roberto Benigni, Premio Oscar per “La vita è bella”.

Qualche notizia sull’artista di queste opere che creano un clima evocativo carico di suggestione.

Nato ad Ankara, si  è  laureato al Ceramic Department of Fine Arts Faculty dell’Anatolian University of Eskisehir, e ha conseguito un  Master in arti ceramiche nella Hacettepe University  di Ankara. Ora è  a capo del Ceramic Deparment e Direttore del Fine Arts Institution della Karatekin University in Cankiri.

Nel 2011 la prima mostra a d Ankara intitolata “Underglaze Dreams”, i sogni espressi nella speciale tecnica ceramica di cui è maestro; poi mostre personali e collettive in Turchia, in città europee  e negli Stati Uniti. Nell’anno in corso ha tenuto mostre a Londra e in Umbria, nel 2013 a Los Angeles e a Milano.

Ed ora ci presenta un viaggio visivo nel mondo del cinema evocato dai suoi artistici piatti ceramici..

Info

Ufficio culturale della Turchia, piazza della Repubblica, Roma. Orario di ufficio, ingresso gratuito. Per le precedenti mostre all’Ufficio culturale turco cfr. in questo sito i nostri articoli: “Tulay Gurses e la mistica di Rumi”  21marzo  2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano”  2 ottobre 2013, “Permanenze, Ricordi di viaggio di nove artisti italiani”   9 novembre 2013,  “Yildiz Doyran e lo slancio vitale di Bergson” 29 gennaio 2014; inoltre per la mostra al Macro di Kerim Incendayi, “Roma e Istanbul sulle orme della storia” 5 febbraio 2015; infine su un viaggio a  “Istanbul, la nuova Roma,  alla ricerca di Costantinopoli”   10, 13, 15 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese nell’Ufficio culturale della Turchia da Romano Maria Levante, si ringrazia l’ufficio con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta.  In apertura,  Sophia Loren; seguono,  Ornella Muti e   Monica Bellucci , poi  Claudia Cardinale-Alain Delon e Roberto Benigni, quindi Ingrid Bergman e 3 piatti con Alain Delon da solo; in chiusura, 4 piatti su “Lo squalo”

Ottieri e altri 16 artisti, tra il Museo Bilotti e la Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Due mostre, curate da Marco di Capua e organizzate dalla Galleria Russo  nello stesso periodo, esplorano un tema intrigante, anzi tre temi strettamente legati: “Linea di confine – La natura, il corpo, le città”, al Museo Bilotti dal 24 aprile al 21 giugno 2015, e “Tommaso Ottieri – La funzione del nero” alla Galleria Russo dall’8 al 30 maggio 2015,   che rappresenta in un certo senso un “ingrandimento” di una parte della prima mostra, cui partecipa lo stesso Ottieri con due opere, mentre nella personale ne espone 45 sugli esterni cittadini visti nel nero della notte. Alla “linea di confine”  altri 16 artisti ne presentano un paio ciascuno, salvo dei plurimi, soprattutto sulle città, ma anche su corpo umano e natura. I due cataloghi delle mostre sono di  Palombi Editore

Il curatore Marco Di Capua definisce così la collettiva al Museo Bilotti, per la quale ha selezionato opere di 17 artisti collegate tematicamente: “Linea di confine è una mostra-periscopio: affiora e lentamente si guarda intorno. Ciò che vede e ci fa vedere sono le città e i nostri corpi, i nostri volti. Ciò che vede e ci indica, ancora, con un gesto quasi sproporzionato nella sua apparente, così necessaria, inattualità, è la natura”. E precisa che il confine è la linea che “divide cosa da cosa, e nella separazione le illumina, ma anche la linea che unisce”. In questo caso i tre soggetti dell’esposizione, corpi e volti, natura, città.

Sulla personale alla Galleria Russo, Capua scrive: “Qualsiasi idea uno si possa fare della pittura che va in città, seguendo lo sguardo di  Ottieri la strada presa diventa fluente e ogni luogo è percepito come peripezia mobilissima, fornace avventurosa, viaggio planetario turbolento…  Così, anche l’architettura nei suoi dipinti cessa di presentarsi come un’immobilità di forme certe e appare come un brulichio di particelle preziose, un’agitazione tutta flash, urti e rimbalzi di molecole”.

La “linea di confine” tra corpi e volti, natura e città

“Una casa, una faccia, un albero? Stessa sostanza, lo sappiamo bene…”, afferma Di Capua nel collegare i tre temi della mostra collettiva in cui presenta opere che definisce “importanti, imponenti”, alcune lo sono anche per le dimensioni;  ha evitato i linguaggi incomprensibili per “un massimalismo figurativo che in assetto anche spettacolare superi il mood  ormai universalmente diffuso di ‘sensazioni’, stimolazioni ottiche” con un intento preciso: “Che invece susciti, con chiarezza di rappresentazione e di narrazione l’impatto con temi non necessariamente circoscrivibili al nostro dannato ombelico, con scene maggiori e immagini e simboli che campeggiano e lampeggiano qui, e ora”.  Descrizione coraggiosa del rifiuto di un modernismo esasperato autoreferenziale per una scelta aperta alla comprensione  più vasta.

Cominciamo dalle Persone, per poi passare alla Natura e quindi alla Città.

 Roberta Comi  presenta i primi piani dei suoi volti  esotici di grandi dimensioni, gigantografie pittoriche quanto mai intense curate nei dettagli in un realismo coinvolgente :  “L’uomo e la città” e “Osessere”, appartengono ad uno dei filoni prediletti della artista di cui ricordiamo le intense rappresentazioni dell’Inferno dantesco.

Dopo i grandi volti dipinti,  le piccole teste di gesso di Christian Leperino, “The other myself”, autore anche della grande pittura murale di 10 metri per 7, “Landscape of Memory” , l’artista di recente ha coniugato la ricerca sul corpo ai luoghi in cui si manifesta la condizione umana.

Corpi filiformi scuri sono invece nel “Muro del pianto” di Massimo Giannoni, mentre nella “Biblioteca di Mantova” non si vedono persone ma si intuiscono, la scala di legno appoggiata agli scaffali attende di vedervi salire un addetto, il tavolo di accogliere i lettori; è uno stile molto personale di denso impasto materico.

La scena torna all’esterno in una serie di fotografie di Sandro Maddalena che documentano la crisi ucraina, con civili e soldati in spazi desolati teatro di guerra.

Desolazione, di altra natura, e soprattutto solitudine, anche nelle “Attese” di Alice Pavese Fiori, fotografie analogiche di figure  immerse nell’alienazione urbana, resa da ambienti spettrali. .

La Natura la troviamo nel grande pannello di 4 metri per 3 “Alberi”, con 121 riquadri che sembrano moltiplicarli all’infinito, cui si contrappone, in un certo senso, “Fabbrica”,  in 40 riquadri  in dimensioni minori.

Alberi  con i tronchi in primo piano e non più il fogliame in Giovanni Frangi, “Dauntsey Park”. 2012.

Stessa atmosfera nella “Crocifissione” di Bernardo Siciliano, che Di Capua definisce “la medesima solitudine dei calchi dei volti degli immigrati morti in mare”.

Volti dell’umanità ridotti a maschere quelli di Stefania Fabrizi, in “Il disegno nella mia mente”.

Concludiamo questa rassegna sulla natura con “la meravigliosa indomita Montagna di Paolo Picozza – sono parole del curatore –  la sua presenza massiccia come preludio, o custodia, di un’assenza, la sua calma distante”; suo anche “Piazza Augusto Imperatore”, nel quale la natura è presente con il folto gruppo di alberi che si riflettono sul selciato. Dell’artista, scomparso prematuramente a quarant’anni,  ricordiamo la grande mostra retrospettiva curata da Achille Bonito Oliva nel dicembre 2013, sempre a Roma,  al Macro Testaccio.

E siamo alle rappresentazioni della  Città, iniziando dalle 25 stampe di Adelaide di Nunzio, “La città nascosta”, 2014-15, tra desolazione e immagine iconiche.

La città visibile è quella delle vaste panoramiche dipinte da Giorgio Ortona, “Cantieri a Torrevecchia” e “Roma nord”, 2014,  e da Bernardo Siciliano in “Dumbo”;  e delle imponenti visione prospettiche dipinte da  Marco Petrus, “Upside down”, 2003, che ci ricorda le riprese fotografiche oblique di Rodcenko, e “Palazzina San Maurizio”, 2010, con i forti chiaroscuri  dati dalle strutture architettoniche.

Avvicinandoci ancora abbiamo lo scorcio di una strada in “Bipantheon”, 2009, di Thomas Gillespie, di cui è esposto anche “Unsound (Safe of Houses”), esterno ripreso da vicino che ci ricorda a sua volta le immagini fotografiche di Wender.

E poi ci sono le vedute spettacolari di Tommaso Ottieri, “New York Stabat Mater”, 2015, e “Istanbul”, 2014, che Di Capua vede “come sorvolata da un drone curioso, magneticamente attratto da sciami luminosi, costellazioni radenti il suolo, spettacoli notturni”.. Ma su questo artista c’è molto altro da dire nel commentare la sua mostra personale alla galleria Russo.

Ottieri e “la funzione del nero”.

Sull’artista vanno innanzitutto  spiegati due ossimori, uno visivo, l’altro concettuale.

Quello visivo riguarda “la funzione del nero”, e quella che Di Capua definisce “lucente nerezza”: perché “l’oscurità è attraversata, sfidata e vinta ma per un pelo, per una manciata di punti luminosi, in un incendio che arrossa il cielo e che se si spegne buonanotte, finisce tutto “. Quindi il nero della notte e le luci dell’illuminazione in un'”unica scintillante trama dove tutto è connesso. E’ un  po’ come guardare la terra al modo in cui l’uomo delle origini osservava il cosmo: una spruzzata di costellazioni per orientarsi meglio, prendere decisioni, direzioni. Ottieri lo fa con il nostro sguardo: lo muove”.

L’ossimoro concettuale lo troviamo nel fatto che nelle sue spettacolari immagini notturne delle città non c’è gente, neppure un passante, a differenza dei dipinti dell’inizio ‘900 molto affollati. “La città 2.0, dice Di Capua, è invece quasi sempre un deserto, un pianeta metallico, petroso, un po’ ostile, forse pericoloso”. E’ dov’è l’ossimoro? In questa visione in contrasto con le affermazioni dell’artista: “La vita dell’uomo, con la sua forza per tenersi in piedi, è l’unico argomento che tratto da sempre”.  Così il curatore spiega l’apparente contraddizione: “Qui  l’uomo è lontanissimo, o proprio non c’è. Come se, crediamo tuttavia a Tommaso, per raccontarlo meglio fosse necessaria la sua omissione, coglierlo per assenza, incastonarlo in una metafora gigantesca: ciò che ha costruito”.

Di tutto questo l’artista  dà  una rappresentazione spettacolare: vasti panorami da lontano e imponenti visioni da vicino, con il brulichio delle luci dalle strade alle finestre,in un’atmosfera che dal nero vira al celeste al giallo a seconda dei casi.  Nella composizione, una meticolosa attenzione  ai dettagli, che fa concludere così Di Capua: “E quanti particolari puoi contare, profusi dalla mano di uno che evidentemente non si stanca mai del numero, non di quello delle tantissime finestre di un’intera città, né di quello delle sedie che servono a riempire la navata di una chiesa, forse perché inconsapevolmente convinto che, per dirla alla Kundera, davvero ‘la felicità è ripetizione'”.

Il curatore si riferisce evidentemente alla chiesa del “Gesù”, 2015, vuota ma con tutte le sue sedie allineate pronte ad accogliere il popolo dei fedeli, mentre gli altri interni sono teatri con le loro poltrone, sempre vuote, dipinte con precisione. Anche queste immagini sono spettacolari per sontuosità ed eleganza, illuminate da una luce calda dorata con toni rosseggianti: del 2015  “Opera Vienna” e  “Lisbon Opera”, “Opera Garnier” e “San Carlo”,  quest’ultimo con l’eccezione che i palchi sono affollati mentre la platea è vuota, analogamente a due dipinti sullo stesso tema del 2013 e 2014, anno nel quale in un altro dipinto ha escluso gli spettatori anche dai palchi; mentre la “Scala” è ripresa  completamente senza spettatori –  a parte il dipinto che mostra in primo piano il grande lampadario e ne fa intravvedere un gruppetto in platea – come “Celeste Fenice” e “Cagli”

Toni gialli dorati anche in alcuni panorami cittadini del 2015, da “London Bridges” a “New York Q Bridge”,  da “Paris Garnier” a “Paris SG”, fino a “Medusa” ; e del 2014,  da “Paris Plages”  a “Paris night”, da “London” a “Montecarlo”, da “Prague night” a “Istanbul”. .

Visioni dorate più ravvicinate sono quelle di “Paris Notre Dame”, 2013,  e , ancora di più in crescendo, “Metropolis”, 2015,  “Atlas” e “London Canary Warf”, 2014, “Genova”, 2011, fino a “Interno oro”, 2014.

Poi si vira al celeste-blu nei vasti panorami del 2015  di “Paris Hotel de Ville Blue”, e “Paris night” con il grande incrocio abbacinato di luce, e nei più ravvicinati “Swan Lake”, 2014,  e “Madrid”, 2011,  fino alle visioni frontali di “Gerolomini”, 2015, e “Giudizio Universale”, 2011.

Infine il nero prende il sopravvento nelle  visioni “New York Stabat Mater”, 2015, con il grattacielo che svetta con la punta verso il cielo del Waldorf Astoria illuminato nell’oscurità della foresta pietrificata che si profila tutt’intorno, e “New York”, 2014,  grattacieli  parallelepipedo fortemente radicati alla terra senza il senso di elevazione che dà l’altro appena citato. “Donnanna Prima Notte”, 2015,  “Atlas” e “Parigi”, 2013,  rendono visivamente la “funzione del nero”, interrotto soltanto da un leggero chiarore che rischiara appena alcuni contorni, mentre in “Venezia Stabat Mater”, 2015, il Ponte dei Sospiri spicca come un faro al centro dell’immagine.

C’è  anche un dipinto, l’unico, in un tonalità rosa intenso, le finestre scure e non più illuminate:  è “Corso”, 2011, sarà l’aurora che arrossa le facciate  e i tetti della città dopo le ombre notturne?

 E’ un’eccezione rispetto all’ampia  galleria che abbiamo citato, della quale Di Capua dice: “Non c’è sensazione stabile, ma un ombroso cocktail di energie convergenti, un raccogliersi sparso di frammenti attorno a quei fulcri e incroci di diagonali e di vie iridescenti che li possano strappare alla loro deriva, dopo (ma quando era stato?) un silenzioso big bang di luci.

Tutta luce, ma il nero non è meno importante, anzi la precede nella creazione, come dice l’artista osservando che all’inizio della vita sul pianeta “la luce non c’era. O meglio, non c’era la visione di essa”. C’era il buio, l’oscurità, il nero, ma ora “occorre che il nero venga lasciato indietro, e resti soltanto tutto attorno perché si possa cercare la luce. Ma senza nero non la definiremmo mai”. Ne esistono “tantissimi tipi”, con tonalità caldo-rossastre o bluastre, come abbiamo visto. “esistono tanti modi per rappresentare l’oscurità, ma ogni buio è solo uno strumento”. E per la luce aggiunge: “La verità della luce che cerchiamo di dipingere resterà un mistero per noi. Ed un mistero cercheremo sempre di rappresentare”.

Eloquenti le sue affermazioni strettamente personali, confidenze intime pari a confessioni: “Quando dipingo le città mi sembra di avere dei modelli in carne ed ossa che posino di fronte al mio cavalletto. Le guardo cambiare posa, assumere atteggiamenti, prendersi delle pause. Ho imparato a conoscere gli umori, gli effluvi e quanto di organico le città possono produrre”.  Perché sono state costruite da operai, per cui l’elemento umano è fondamentale, ne è alla base, ed è quello che interessa l’artista: “La vita dell’uomo, con la sua forza per tenersi in piedi, è l’unico argomento che tratto da sempre. E, per quel che ho capito, è l’unica cosa che mantiene in vita una città”.

Ma perché  gli piace dipingere la città notturna?  “Di  notte tutto cambia: il nero non è più ombra ma diventa di nuovo il contorno che ci è servito per definire la luce”. E qui una riflessione filosofica che fa pensare: Al buio attribuiamo il mistero e l’ignoto, ma esso non è che la realtà principale delle cose. Il mistero che portiamo dentro è invece nella luce che fin da bambini dobbiamo costruire. I nostri occhi devono impararla, e poi imparare  difendersi da essa”.

L’effetto della luce sulla città è descritto in modo suggestivo da Di Capua: “E poi l’avete vista una città di notte mentre si sta per atterrare: migliaia di lucine, una rotante galassia non più stagliata in cielo ma sdraiata sulla terra. La rivedete adesso nei quadri di Ottieri, o è un’immagine che le va molto vicino. Insomma, dico, una meraviglia così, ma dove altrimenti?”. E conclude: “A pensarci bene la città, oltre che un mucchio di altre cose, è il più vasto, mutevole e spettacolare congegno estetico che la specie umana abbia inventato. Senza paragoni”. D’altra parte,  “se Dio ha creato il cielo e la terra, l’uomo ha creato le città… Esistono, stanno lì a fronteggiare timidamente il nulla, l’inumano”.

Alle immagini pittoriche di Ottieri, che indica anche i pigmenti e gli antichi procedimenti utilizzati, avviciniamo le immagini fotografiche di  Bergamini realizzate con accorgimenti tecnici innovativi, per analogia di temi e affinità di effetto visivo per l’osservatore.  Alle une e alle altre si possono applicare le parole conclusive dell’artista: “Quello che si impara dipingendo queste scene è che se una bellezza esiste, essa è sempre nell’insieme delle cose. Le belle e le brutte, le chiare e le scure. Non è vero che ne conosco dieci. Non si arriva mai a capire la bellezza”.

E’ un pensiero filosofico che ci sembra il migliore coronamento del viaggio fantastico in lungo  e largo per il mondo tra le ombre  e le luci di tante città e i fulgori dei più celebri teatri. Dalla funzione del nero al senso della vita, nella sua espressione più elevata, legata alla bellezza. Dobbiamo essere grati agli organizzatori della mostra per queste riflessioni così edificanti.  

Info

Mostra  “Linee di confine”,  Museo Carlo Bilotti, Arancera di Villa Borghese, viale Fiorello La Guardia. Da martedì a venerdì ore 10,00-16,00,  sabato e domenica 10,00-19,00, ingresso gratuito, ammesso fino a mezz’ora dalla chiusura. Catalogo “Linee di confine”, a cura di Marco Di Capua, Palombi Editori, pp. 110, formato 22 x 22. Mostra “Tommaso Ottieri, la funzione del nero”, Galleria Russo via Alibert 20, Roma, Catalogo “Tommaso Ottieri, la funzione del nero”, a cura di Marco Di Capua, Palombi Editori, aprile 2015, pp. 80 formato 22 x 22.Tutti  i giorni dalle 10,00 alle 19,30 esclusi il lunedì dalle 16,30 alle 19,30 e la domenica chiuso,  ingresso gratuito. Dai cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito “Bergamini, il digitale pittorico al Museo Crocetti”  6 dicembre 2013; “Rodin, disegni dell’Inferno; Roberta Comi, dipinti sul I Canto”  20 febbraio 2013;  in “www.fotografarefacile.it” “Roma. Le foto di Wim Wenders sulla solitudine urbana” giugno 2014, “Roma. In mostra le fotografie di Aleksand Rodcenko”  e “L’altro Rodcenko al Palazzo delle Esposizioni” entrambi il 27 dicembre 2011;   in cultura.inabruzzo.it “Mitografie al Museo Carlo Bilotti di Roma” 16 giugno 2009, e  “I disegni di De Chirico e la magia della linea” 27 agosto 2009. I due ultimi  siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su questo sito prossimamente.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo Bilotti e alla Galleria Russo, si ringrazia la Galleria e la direzione del museo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Roberta Comi, “L’uomo e la città”, 2015; seguono Massimo Giannoni, “Muro del pianto” , 2012, e Alice Pavese Fiori, “Attese”, 2012; poi “Manueo Felisi, “Alberi”, 2015, e Giovanni Frangi, “Dauntsey Park“, 2012;  quindi, Paolo Picozza, “Senza titolo”, 2010, e Marco Petrus, “Upsite down”,  inoltre, Thomas Gillespie, “Unsound (Safe of Houses)”, 2010; infine,  di Tommaso Ottieri, “Paris Hotel de Ville Blu”, “Gesù”, “Opera Vienna”  e, in chiusura,  “Venezia Stabat Mater”, tutte 2015.