Giorgio Morandi, visita alle 150 opere esposte, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “Giorgio Morandi 1890-1964”  aperta al Vittoriano dal   28 febbraio al 21 giugno 2015, con circa 100  dipinti e  60 disegni e acqueforti, incisioni e litografie, che provengono dal  Museo Morandi, dalla Fondazione Longhi e  da altri grandi musei. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e curata da Maria Cristina Bandera, che dirige la Fondazione Longhi,  è la prima antologica esauriente presentata a Roma dopo l’esposizione del 1973 alla Gnam. Catalogo Skirà  con testo della Bandera e schede di Stella Seitun.

 Abbiamo cercato in precedenza di descrivere i caratteri salienti dell’arte di un grande del  ‘900,  la cui mostra segue quelle su Guttuso e Modigliani, Cézanne e Sironi, realizzate negli ultimi anni al Vittoriano in un importante ciclo sull’arte moderna molto curato.

Si può sintetizzare dicendo che la sua è stata una ricerca dell’essenza nella semplicità e nella sincerità, dopo un percorso formativo nel quale è stato attratto dai grandi innovatori, Giotto tra gli antichi, Cézanne tra i moderni, con vivo interesse per tendenze quali  il futurismo e la metafisica, senza però seguire alcuna scuola o corrente stilistica, restando la sua un’arte del tutto personale.

La base è stata la realtà, ma  lontano da ogni naturalismo, perché la continua ricerca dell’essenza lo ha portato  a distinguere l’essere dall’apparire; per questo ha scelto  soggetti semplificati al massimo, senza presenza umana, riassumibili nei temi soprattutto dei “Paesaggi”, “Nature morte”; anche  “Fiori” sia pure  in tono minore, in piccoli dipinti di cui faceva dono.

Per tendere alla semplificazione nella ricerca dell’essenza eliminava ombre e prospettive in composizioni dominate da un ordine geometrico studiato di volta in volta cambiando la disposizione spesso degli stessi oggetti.  Anche Mondrian ha ricercato l’essenza pur se in modo molto diverso, con la mera geometria senza oggetti e un cromatismo particolare, per raggiungere “perfetta armonia”.  

Nel raccontare la visita alla mostra cercheremo di rendere la galleria di dipinti e di acqueforti-incisioni, i cui titoli fissano invariabilmente uno dei suoi temi, distinti soltanto dall’anno di realizzazione. Anche in questo l’artista ha raggiunto la massima semplicità; l’essenza, appunto.

I paesaggi

Sono 25  i dipinti esposti in mostra sul tema  “Paesaggio”, del quarantennio dal 1922 al 1963, e  6 le  acqueforti  sullo stesso tema in matrici di rame e zinco,. realizzate tra il 1922 e il 1936, .con le caratteristiche dei dipinti ma una maggiore definizione data dal bianco e nero molto marcato.

In tutti i paesaggi c’è – aspetto che va sottolineato –  la dominante dell’abitazione, salvo nel primo, del 1922, in cui il primo piano è dedicato  alla vegetazione, ma  si erge ugualmente un edificio con un traliccio di ferro definito “la piccola Tour Eiffel dei bolognesi”.

Riprendono località di campagna della provincia da lui frequentate o dove si era rifugiato negli anni di guerra e dove tornava d’estate per villeggiare, come Grizzana,  e riproducono volumi abitativi inseriti nel verde  con vera maestria nell’accostamento cromatico; paesaggi “intorno ai quali si chiudeva l’orizzonte”, secondo l’allusione leopardiana di Roberto Longhi che li definì “inameni” aggiungendo però: “Morandi cresceva instancabilmente e io lo vidi salire fino al culmine che mi pare fosse il più alto da lui raggiunto, dei paesaggi del 1943”.

Negli anni della guerra, secondo la curatrice Maria Cristina Bandera, “ricompaiono le mute strutture geometriche delle case, blocchi di pietra ridotti a solidi essenziali, talora parzialmente celate da quinte frondose”, o “una sequenza concitata di alberi sfibrati dal vento, quinte per una casa che appena s’intravvede” come in due  “Paesaggi” del 1942; “oppure distribuite sulla tela con spazi e interspazi calcolati, quasi fossero semplici parallelepipedi, moduli di proporzione, così  “Strada bianca”, 1941,anch’esso esposto.  

Il naturalismo è del tutto assente, c’è invece interesse alle forme e ai volumi, come disse l’artista nell’intervista radiofonica del 1955 a Magravite citando Galileo: “Il libro della natura è scritto in caratteri estranei al nostro alfabeto. Questi caratteri sono triangoli, quadrati, cerchi, sfere, piramidi, coni e altre figure geometriche”. Di qui  la radicata convinzione che “le immagini e i sentimenti suscitati dal mondo visibile, che è un mondo formale, sono esprimibili solo con grande difficoltà, in quanto sono determinati appunto dalle forme, dallo spazio e dalla luce”; e in questo riecheggiava analoga affermazione di Cézanne.

Sono  paesaggi  ben definiti, mentre quelli successivi tendono a dissolvere la forma nel colore, senza più la struttura compositiva e il riferimento descrittivo ai luoghi;  nell’estrema semplificazione è l’impasto cromatico del verde il vero soggetto.

Negli ultimi 5 “Paesaggi” esposti, realizzati tra il 1959  e il 1963,  sono i volumi delle  abitazioni i soggetti, con le loro facciate bianche prive di prospettiva, solo in quello del 1963 schermate dal verde. Si ispira alla località di Grizzana, dove torna dopo molti anni di assenza –  nei quali per i paesaggi si era ispirato a quanto vedeva dalla finestra della casa bolognese, di qui la serie “Cortili di via Fondazza” degli anni ’30 –  e si fa costruire una casa a forma di cubo in un ambiente disadorno.  I dipinti rendono la scena,  si sente  vuoto e silenzio, e perdono la consistenza materiale, i luoghi sono  assimilati alle nature morte, tanto che la Bandera scrive: “Le case di pietra, muri senza porta e finestre, nella loro struttura ridotta all’essenzialità, sono ormai apparentate alle bottiglie”, ne vedremo un esempio concreto.

Le nature  morte

E siamo giunti così al principale soggetto della sua arte,  la “Natura morta”, la mostra espone 60 dipinti del quarantennio tra il 1924 e il 1963, e  30 incisioni all’acquaforte su basi di rame e zinco, con 8 matrici di rame inciso tra il 1921 e il 1956, dove i motivi dei dipinti sono espressi con la diversa tecnica ma cercando di mantenersi in linea con le varianti anche notevoli inserite nelle opere ad olio nel segno dell’inesausta ricerca che ha accompagnato l’intera sua produzione.

Preparava le composizioni  nel suo piccolo studio utilizzando oggetti semplici di uso comune: . “Li selezionava – nota la Bandera –  li raggruppava, li aggiustava tra loro, li riaccostava, li scalava in profondità e in alzato, li trasformava in figure distribuite su un palcoscenico in combinazioni che variano con il procedere degli anni”; e in questo consiste il suo processo evolutivo, oltre che nella rappresentazione grafica che diventa prima sempre più precisa, poi sempre più evanescente. “Come un architetto che studia la pianta di un edificio, delimitava la base degli oggetti circoscrivendoli con una matita su fogli di carta. Li avrebbe poi guardati da vicino, ad altezza d’occhio, con il  suo guardo penetrante e riflessivo”.  Abbiamo già ricordato che per non mutare il punto di vista segnava sul pavimento la sagoma dei propri piedi, e per allontanare gli oggetti dall’uso quotidiano aspettava che la polvere li velasse, così diventavano forme e volumi nella pura espressione geometrica.

La definizione di architetto viene da Ragghianti, che coniò il termine di  ” pittore di architetture”, l’artista gli rispose condividendo questa sua interpretazione.

Nella sua visione di “architetto”,  gli oggetti consueti, dalle bottiglie alle caraffe, dai lumi alle tazze, sono disposti in vario  modo in base alla loro altezza e ai diversi piani prospettici;  nella sua visione pittorica la luce e il colore modulano con tonalità differenti le diverse composizioni..

Seguiamo la sua evoluzione nella composizione e nello stile mediante la sequenza di opere esposte.

Le prime dieci Nature morte, degli anni ’20 e ’30,  si differenziano dalle successive per la dominante cromatica scura.

Nelle  tre  realizzate tra il 1924 e il 1929,  gli oggetti sono pochi, in più ci sono panni che cadono dal bordo del piano dando il senso della profondità; nelle  7  dal 1929 al 1937  gli oggetti sono numerosi,  posti su un piano orizzontale e   hanno una composizione architettonica e un cromatismo  deciso.  Fa eccezione  una “Natura morta” del 1929,  definita dalla Bandera “tragica, con poche forme contorte e sfaldate”, ma  contemporanea  a una ben diversa  presentazione di 5 oggetti su diversi piani prospettici e in differente cromia; e seguita pochi mesi dopo  da un’opera monumentale per l’imponenza della composizione  posta su due piani,  come sfondo  una quinta scura di brocche e altri oggetti più alti, in primo piano bottiglie più basse ma evidenziate dal colore chiaro, come quella gialla al centro e la bottiglia bianca sulla destra, prima di successive versioni.

Con gli anni ’30  abbiamo una verticalità scossa da “tensione emotiva”, la curatrice dice che le due “Nature morte”  del 1932 e 1936 “colpiscono per lo smagliarsi della composizione e per l’agitarsi delle forme inquiete e allungate che paiono sfaldarsi, come colte da un fremito, con un crescendo della tensione emotiva sottolineato dall’ispessirsi della pasta cromatica degli oggetti sovrapposti”

Tra il 1940 e il 1943, gli anni della guerra,  nella “Natura morta” entrano le conchiglie, diventando gli “oggetti” esclusivi di piccole  composizioni in cui non compaiono bottiglie, caraffe e lumi. E’ come se l’artista cercasse un guscio protettivo, ed aveva ragione se consideriamo che il 23 maggio del 1943 provò l’angoscia del carcere, pur se solo una settimana, come abbiamo già ricordato;  per questo fece ricorso ai  gusci con le volute  cui aveva dedicato già disegni e acqueforti negli anni ’20, stimolato da un’incisione di Rembrandt. I gusci, però, sono contorti e irregolari,  rappresentati in modo  monocromatico e spento, sono stati definiti  “ossi di seppia abbandonati su un litorale deserto”  da  Pasquali e  sfiorati da una “luce come lontana, filtrata, misteriosa affatto” da  Vitali.

Bottiglie, caraffe e lumi restano pur sempre nelle opere del periodo, assumendo di volta in volta una luce dorata o un grigiore di fondo. La luce dorata,  “come in uno specchio ustorio” nelle parole di Cesare Brandi, avvolge una “Natura morta” del 1941, con gli oggetti su diversi piani prospettici,  il bianco della bottiglia  a torciglione e della base del lume al centro e il blu della bottiglie e della boccetta di profumo agli estremi, il critico dice che così “il colore acquista la materia dura e lucida del minerale”.

Il grigiore di fondo è in altre “Nature morte” dello stesso 1941, su un tavolo tondo e non rettangolare, con le bottiglie allineate come soldatini su un unico piano, illuminate frontalmente  in modo da ridursi a mera espressione geometrica senza spessore e volume, con le bottiglie ridotte ad etichette rettangolari e due sole forme tondeggianti, una luce che,  nelle parole di  Brandi, “per la nostra vista diviene indistinta, ma non evanescente”.

Nell’anno successivo, il 1942, allorché realizzò oltre 60 opere, troviamo una diversa scelta compositiva, le altezze vengono azzerate, come nella “Natura morta” che donò a Ragghianti il quale racconta che la tagliò  materialmente con le forbici dinanzi a lui. In tal modo, eliminata la variabilità delle altezze, la composizione si può inquadrare in un rettangolo.

Così nelle due “Nature morte” del 1952 esposte,  esemplari per la leggera variazione dello stesso assetto compositivo di 7 oggetti, caraffe  e parallelepipedi iscrivibili nel rettangolo, con l’aggiunta nella seconda di una piccola sfera; nella “Natura morta” del 1953,  con tre bottiglie dinanzi  a tre parallelepipedi, Luigi Magnani  vede “la solennità ieratica di un’apparizione”. In due “Nature morte”  del 1953-54,  l’altezza delle bottiglie non supera quella delle tazzine e delle forme a parallelepipedo o cubiche allineate con esse; mentre le  forme cubiche accompagnano la classica bottiglia a tortiglione anche in due “Nature morte” del 1954 senza allineamento verticale.

E’ questo uno dei momenti evolutivi, ma lungi da noi  considerarlo un punto fermo. La verticalità è compresente a questa sperimentazione, e riprende di volta in volta il sopravvento, come il cromatismo.

Lo vediamo in altre due “Nature morte” del  1942 che, a differenza di quelle dello stesso anno prima citate, la verticalità è particolarmente accentuata, in un cromatismo cupo, mentre una terza “Natura morta”  del 1943 ha le altezze parificate ma con gli oggetti alquanto distanziati e dal cromatismo brillante che pur nella “spazialità disorientata e a tratti convulsa” evidenziata da D’Amico,  indicano che lo sguardo dell’artista “si è disteso di nuovo, avvolgente e inquietante, per ridurre nuovamente i toni, per addolcire le forme”, nelle parole di Gnudi.In una  “Natura morta” del 1946  la caraffa e gli alti recipienti cilindrici dominanti i sono allineati armoniosamente in un equilibrio volumetrico e cromatico giungendo – è sempre Gnudi –  a “un più ricco, pieno, placato accordo”, esprimendo il senso “di una grandiosità contenuta, di una sedata drammaticità”: la guerra è finita, in quell’anno dipinge 45 nature morte.

 Dell’anno successivo, il 1947,  abbiamo una “Natura morta” che ha in comune con la precedente solo gli oggetti meno vistosi,  il vasetto verticale rigato di azzurro e  la piccola ciotola,  mentre è composta da 4 bottiglie, con al centro quella a tortiglione, di un biancore diafano sul grigio dello sfondo.  Scrive Stella Seitun  che il dipinto “proietta la ricerca di Morandi nei suoi più tardi sviluppi per la perfezione tonale  della materia pittorica, per l’articolazione spaziale più nitida e per l’equilibrio dell’immagine, governata non più da una geometrizzazione interna alle forme, ma  da un rapporto più aperto con lo spazio circostante”.

Le due “Nature morte” del 1948 e le due  del 1950-52 confermano queste tendenze all’equilibrio compositivo , con delle varianti negli oggetti utilizzati, casseruole e imbuti rovesciati, recipienti cilindrici, alla ricerca di forme sempre più elementari, espressive dell’essenza geometrica delle cose.  Nei dipinti del 1948 mancano le bottiglie, Briganti  parla di  “una forma perfettamente pierfrancescana nella sua semplice geometria solida”;  nei due successivi si va, secondo Arcangeli, verso “un’ampia dosatura degli spazi intorno alle cose”, la Seitun parla di “rinnovata chiarezza nella visione rigorosamente frontale”, aggiungendo che “la luce diffusa riduce quasi del tutto le ombre, lasciando a pochi ma arditi accostamenti cromatici il rilievo plastico dei volumi”.

Il processo evolutivo procede, dalla moltiplicazione degli oggetti si passa alla ricerca di quella che Arcangeli definisce “semplificazione del comporre, ormai concentrato su poche forme  d’oggetto inesauribilmente, sapientemente, variate”.   Lo vediamo nelle “Nature morte” del 1956 e del 1958, in cui, dice la Bandera, “lo schema compositivo è rigoroso e gli oggetti ‘astratti’ e geometrici”.

Inizia la tendenza a una sempre maggiore evanescenza del tratto, che troviamo nelle altre dieci “Nature morte” dal 1957 al 1959.  Tre con le bottiglie, ma solo nella prima numerose e allungate, nelle altre due c’è soltanto la bianca a tortiglione; quattro nature morte  con altri oggetti in una orizzontalità più mossa e meno vistosa di quella espressa  dall’inquadramento nel rettangolo  di cui si è detto.

Continuano, nelle parole della Bandera, le “calibratissime e talora impercettibili ‘variazioni’ tematiche che si accompagnano a sottilissime differenze di orchestrazione cromatica e di valori tonali, comunque sempre estranee a qualunque ripetitività. ‘Variazioni’ che comprovano come per Morandi il soggetto fosse esclusivamente un pretesto per ricercare l’essenza”. La sua non è una parabola discendente nell’ultima fase, bensì continua “una costante innovazione pur nell’iterazione dei modelli”; diventa “una pittura priva di toni acuti, più chiara e variata, smagrita di consistenza, soffice e quasi impalpabile, che tende sempre più a sublimarsi in gamme cromatiche raffinate con combinazioni e stacchi di colore e di stesure che tendono a smaterializzarsi nella luce”.Queste parole della curatrice possono essere assunte a  descrizione delle ultime otto “Nature morte”due del 1960, tre del 1961-62 e due  del 1963, l’anno prima della morte; e anche dei disegni e  acquerelli presentati in mostra, mentre le incisioni restano ben definite.  C’è una  “tendenza all’astrazione”, secondo “un processo di rarefazione e di spoliazione dei dati del visibile”, tanto che una “Natura morta” del 1963 viene accostata a un “Paesaggio” dello stesso anno dal quale si distingue  a mala pena come dalla citazione fatta a suo tempo dell’osservazione della Bandera secondo cui “le case sono apparentate alle bottiglie”.  E non potrebbe essere altrimenti in questa ricerca spasmodica dell’essenza che porta ad assimilare anche i dipinti agli acquerelli nella massima rarefazione.

In chiusura, i “Fiori”  

La mostra non finisce qui, al secondo piano c’è la sezione dedicata ai “Fiori”, che Vitali definì “nature morte di fiori”, sono 15 dipinti di piccole dimensioni realizzati tra il 1940 e il 1962, che occupano un posto particolare nella sua produzione, perché li dipingeva per donarli agli amici, per lo più  intellettuali, primo tra tutti Roberto Longhi. Niente a che vedere con le rutilanti fioriture alla Brueghel, sono “bouquet” compatti sulla sommità di vasi che sembrano colonne. Del resto si serviva di fiori secchi, di carta e di seta, non freschi,  per marcare anche in questo caso il suo distacco dalla realtà e dalla funzione dell’oggetto di uso comune rappresentato, come avveniva per le bottiglie che faceva velare dalla polvere rendendole  pura forma e volume; cosa che conferma la definizione di Vitali che li assimila alle nature morte. 

Anche in questo caso  piccole varianti sia nel cromatismo, sempre su tinte pastello,  del “bouquet” floreale, sia nel  vaso ripreso per lo più intero ma anche limitandolo alla sommità.

La ricerca dell’essenza, che ha percorso l’intera sua produzione lungo l’arco della sua vita,  passa anche di qui, da questa compresenza di contrari che è  parte integrante della nostra esistenza. “E’ un artista – osserva la Bandera –  che per l’ambiguità della sua visione, per la lacerazione tra l’essere e l’apparenza, la rappresentazione e l’evocazione, riflette un’inquietudine moderna, la stessa che ammanta di mistero e di enigma le sue opere e che, per questo, sentiamo più vicino ai nostri giorni senza certezze”.   

E se qualcuno, aggiungiamo noi,  lo ha identificato come “il pittore delle bottiglie”, non ha capito quanto di misterioso e di fantastico può esservi nella bottiglia lanciata in mare con un messaggio da interpretare; ed è un osservatore che, è sempre la Bandera, “non ha occhi per ‘vedere’, che non sa indugiare sulle sue opere ed entrare in un dialogo ravvicinato e prolungato con esse”.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00, ridotto 9,00. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it. Catalogo, “Morandi 1890-1964”, Skira, 2015, pp.272, formato  24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il 17 maggio u.s. con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre dal 2009: in questo sito, Guttuso il 15 e 30 gennaio 2013, Cézanne il 24 e 31 dicembre 2013, Modigliani il 22 febbraio e 7 marzo 2014, Sironi il 1°, 14, 29 dicembre 2914 e il 7 gennaio 2015, Mondrian il  13 e 18 novembre 2012,  Brueghel il 5 maggio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nelle Scuderie del Quirinale, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Natura morta” 1953, seguono “Paesaggi” 1963, e “Natura morta” 1946, poi “Natura morta” 1947 e ” Natura morta” 1948, quindi “Natura morta” 1950, e “Natura morta” 1957 V. 1027, inoltre  “Natura morta” 1957 V. 1060 e “Natura morta” 1960 V. 1188;  infine, “Natura morta” 1960  V. 1205 e, in chiusura, “Fiori” 1951.

Matisse, arabesque, la sua rivoluzione, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La grande mostra “Matisse, arabesque”, al Palazzo Esposizionidal 5 marzo al 21 giugno 2015, espone oltre 100 opere dell’artista, tra  dipinti, incisioni e disegni,  insieme a un’altrettanto vasta esposizione di tappeti e stampe, ceramiche e oggetti orientali che hanno avuto un ruolo importante nella sua svolta pittorica. La mostra è realizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo in coproduzione con MondoMostre, curatrice Ester Coen, con un comitato scientifico formato da Elderfield, Berggruen e Labrusse, autore del testo”Arabeschi. Una storia occidentale”, inserito nel Catalogo Skira, curato dalla Coen, che contiene la sua introduzione critica “Matisse arabesque”, e altri contributi insieme al ricco repertorio iconografico.

Un vero evento la mostra di Matisse,  l’impegno realizzativo è stato notevole,  come sottolinea il presidente dell’Azienda speciale Palaexpo e della Quadriennale di Roma Franco Bernabè, ricordando i 40 prestatori tra i quali alcuni grandi musei: dai musei russi Puskin e l’Ermitage  ai parigini Centre Pompidou e l’Orangerie, dai londinesi Tate e Victoria, Albert Museum ai newyorkesi MoMA e Guggenheim, e poi musei di Washington e Filadelfia, New Haven e Gerusalemme, Nizza e Grenoble, fino a quelli di Roma e Torino, Firenze e Faenza; oltre ai musei e istituzioni dedicati a Matisse, a Nizza, Cateau-Cambrésis e a New York nonché a preziose collezioni private.  Oltre 100 gli operatori dei musei impegnati, cui si aggiungono altri 225 nomi che hanno dato dei contributi.

Durante la mostra è stato effettuato il ciclo di proiezioni “Matisse.doc”,  5 documentari sull’artista, e si sono volti 7  “Incontri con Matisse”, tra marzo e maggio, sui diversi aspetti  della sua arte.

Uno spiegamento di forze straordinario, per un’esposizione fuori dal comune nella struttura e nell’impostazione:  è l’evocazione di un mondo esotico presentato nella sua sfolgorante spettacolarità   nei vasti ambienti  della storica sede romana di via Nazionale.

Eppure manca  l’opera più celebre, “La danza”, come le altre aventi la stessa conformazione, con campiture di colori nettamente distinte e dalla gamma limitata al verde del prato, all’azzurro del cielo e al rosso dei corpi  dai confini delineati con precisione calligrafica: ci riferiamo a “La Musica”  e a  “Ninfa e satiro”, a “Giocatori di bocce” e “Il lusso”, che con la danza compongono una  straordinaria cinquina. Non c’è, dunque, il Matisse calligrafico nei dipinti, sfarzosi ed elaborati, anche se il suo segno sottile e incisivo emerge evidente dai molti disegni esposti.

Ma non si resta delusi perché si è subito presi dalla magia, del resto enunciata nel titolo, che Baudelaire aveva sintetizzato nelle parole “lusso, calma, voluttà”,  come espressione di un contesto che così viene evocato dal poeta: “I mobili lucidi, i più rari fiori, i ricchi drappi, gli specchi profondi, lo splendore orientale”. Tutto questo si trova nella mostra, perciò al nome dell’artista è unita  la parola magica “arabesque”, come sigillo identificativo di un contenuto e di uno stile.

Le opere di  Matisse inquadrate in tale contesto sono presentate insieme a quanto può evocare i motivi e gli influssi che ne hanno orientato  il percorso artistico, accuratamente documentati in modo  quanto mai spettacolare: trattandosi dell’Oriente con le sue tradizioni e i suoi costumi, il suo artigianato pittoresco e i suoi impulsi spirituali, si può immaginare l’effetto altamente suggestivo.

I prestatori non sono soltanto i grandi  musei  che detengono le opere del Maestro, i cui prestiti si devono alla rilevanza e all’elevata qualità del progetto espositivo oltre che delle istituzioni coinvolte; ma anche musei etnografici e sedi di varia natura dove è stata raccolto un gran numero di reperti di arte e artigianato orientale per ricreare l’ambiente che ha affascinato e ispirato Matisse.

Un artista innovativo non solo rispetto ai classici ma anche alle avanguardie,  diverso nello stile e nei contenuti, e anche nell’approccio alla realtà e quindi all’arte:  nessun tormento  esistenziale e nessuna volontà dissacrante,  nessuna inquietudine  e nessuna polemica.

E’ riuscito a isolarsi anche dagli sconvolgimenti di due guerre mondiali per immergersi nel mondo delle raffinatezze e degli splendori dell’Oriente, in una visione serena e contemplativa che troviamo idealmente espressa anche nel titolo, nel dipinto “Gioia di vivere” del 1906 quando,  dopo le suggestioni pointillisme e fauviste,  supera “l’eterno conflitto del disegno e del colore”: una scena idilliaca di matrice bucolica, ma pur nei riferimenti ai classici e  a Gauguin già si può percepire una linea chiaramente decorativa, che si sviluppa nella sua peculiare forma espressiva.

“Il motivo della decorazione e dell’orientalismo – afferma la curatrice Ester Coen –  è per Matisse la ragione prima di una radicale indagine sulla pittura, di un’estetica fondata sulla sublimazione del colore, della linea. Sull’identificazione di una purezza attraverso la semplificazione della forma”

Cerchiamo di analizzare i vari momenti di questa indagine, che vengono ricostruiti con cura in un’analisi dall’interno delle motivazioni e degli impulsi dell’artista e della loro traduzione in termini di contenuti e stile in cui si esprime il distacco dalle inquietudini e la sua gioia di vivere.

Una prima osservazione: nato l’ultimo giorno dell’anno nel 1869 a Le Cateau Cambrésis, già nella vita quotidiana prende  familiarità con tecniche e motivi decorativi, venendo da una famiglia di tessitori. Inizia a dipingere nel 1990, dopo una malattia a seguito della quale lascia gli studi giuridici per quelli  artistici: prima all’Académie Julian con Boughereau, poi all’Ecole des Beaux-Arts con Moreau dal 1895 al 1899 e ai corsi serali dell’Ecole des Arts decoratifs con Marquet

Ha già incontrato Derain nel 1899, nel 1907 conosce Picasso e  fa un viaggio di studio  in Italia. Nel 1910-11  altre significative coincidenze:  negli anni della “Danza” visita  l’esposizione d’arte maomettana a Monaco di Baviera, poi si reca a Mosca in casa dei S’cukin per curare l’installazione della “Danza”  –  che il collezionista russo gli aveva commissionato,  ispirata alle sei danzatrici  in circolo appena visibili sul fondo della “Gioia di vivere” – e scopre le icone russe. Nel 1912-13 va in Marocco, nel 1930-31  in America e in Polinesia, a Tahiti nel 1930.

La sua fama è dilagata, con mostre a Berlino e New York, Parigi e Basilea, nel 1920 ha  progettato costumi teatrali e ha iniziato la serie di “Odalische”, crea l’atmosfera orientale anche nel suo studio.

Ma cosa ha scoperto nelle sue visite alle esposizioni citate e nei suoi viaggi?  A Monaco le 80 sale di tappeti e tessuti ricamati, cui è interessato per la tradizione familiare, gli fanno conoscere una forma ornamentale diversa da quella tradizionale,  perché apre lo spazio invece di racchiuderlo; a Mosca si rafforza la visione di un impianto compositivo dall’essenza spirituale, non solo decorativa; in Marocco oltre all’ornato arabo e all’arte primitiva assorbe la luminosità mediterranea; a Tahiti, dove si reca più volte,  rivive l’esotismo  di Gauguin cui si è ispirato fin dalla “Gioia di vivere”.

Altri momenti del suo percorso artistico e di vita: una nuova versione della “Danza” nel 1931-33, le illustrazioni di Mallarmè in 30 acqueforti nel 1932, la scenografia e costumi per i balletti russi di “Rouge et noir” nel 1937,  altre illustrazioni e cicli di litografie nel 1946-50, fino alla decorazione della Cappella di Vence nel 1951, cui segue l’inaugurazione del Museo a lui dedicato a Le Cateau Cambrésis, nel 1952, prima dell’ultima mostra con i suoi “papiers découpés” nel 1953, avvenuta l’anno prima della morte. Sono solo momenti  particolari che ricordiamo perché costituiscono precisi riferimenti per comprendere le radici prime della sua originalissima forma espressiva.

Si inizia con i classici, di  cui  parlò espressamente in un’intervista  a un anno dalla morte, allorché gli fu chiesto:  “Che influenza ha segnato maggiormente la vostra arte: Giotto?  Fra Angelico?  I mosaici  bizantini? Le miniature persiane?”.  Rispose:  “Tutte queste che avete detto e sopra ogni altra Cézanne”.

Da Giotto e dal Beato Angelico prese gli azzurri puri e profondi, il blu di lapislazzulo che vira nel cobalto, una certa frontalità primitiva nella rappresentazione della natura; dai mosaici bizantini  viene la raffinatezza cromatica e la brillantezza,  l’uniformità della superficie;  dalle miniature persiane gli ornamenti eleganti in un fluire di figure, segni e colori  su un piano senza rilevi e senza ordini precostituiti; da Cézanne  prese la costruzione della forma nella materia con la pennellata attraverso il puro colore.

Furono lezioni basilari sulla creazione dell’immagine pittorica, che  assimilò pronto a recepire gli influssi di altre culture, in un percorso del tutto personale lontano da ogni tendenza  nello stile e nei contenuti, fosse essa classica o di avanguardia.

Sui classici, dei quali aveva studiato a lungo tecnica, spazi e prospettive, diceva che “è nell’eccesso di preziosismo e maestria che si è attenuato lo spirito dell’arte classica”. Il tutto si risolveva in un virtuosismo esteriore, in un’imitazione di maniera che non stimolava né apriva nuove strade.

Dai contemporanei e dalle avanguardie, di cui fu fiero oppositore, si è allontanato dopo brevi accostamenti iniziali al pointellismo e al cubismo, mentre fece parte dei “fauvisti”  con una  ribellione ai residui accademici e l’introduzione tanto innovativa da provocare scalpore, di colori puri e squillanti, di superfici appiattite e linee sinuose. Non ci sono più le antiche regole della prospettiva e neppure le nuove regole della scomposizione dei volumi o dell’impressionismo luminoso, diviene dominante l’accostamento emotivo di linea e colore, come quello dell’artista con la sua opera, fino al rapporto dell’artista con l’osservatore.

I capolavori del passato li considerava un patrimonio da conservare e consultare, ma senza alcun condizionamento, mentre si doveva  rappresentare la natura con la propria esperienza e le proprie  sensazioni.  Per lui “bisognava osservare ed esaltare la sensazione, la più pura delle cose, la più impermeabile alla ricercatezza, la più istintiva e primordiale, la più commovente in assoluto, per non dire la più emozionante di tutte”. E ha spiegato come: “Decisi allora di lasciare da parte qualsiasi preoccupazione di verosimiglianza. Copiare un oggetto non m’interessava. Perché avrei dovuto dipingere l’aspetto esteriore di una mela, sia pure con la maggior precisione possibile? Quale interesse c’era a copiare un oggetto che la natura offriva  in quantità illimitate e che si può sempre concepire più bello? Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista,la potenza che questo ha di organizzare sensazioni ed emozioni”.

Quindi è la pittura al centro, come rapporto tra l’artista e l’oggetto, non quest’ultimo per la sua forma e il suo contenuto; una pittura che scandisce  i ritmi della natura come uno spartito musicale, vista nella superficie piana di uno spazio da creare senza riprodurne o simulare uno preesistente. Così lo sguardo di Matisse, osserva la curatrice Coen, si indirizza “verso la realtà della pittura stessa, verso il piano pittorico come luogo dell’accadere, verso la superficie come spazio della creazione”.

Il “principio di superficie – prosegue – con assoluta devozione e mirabile costanza, rimarrà la ragione esclusiva della ricerca di una vita”.  E come?  “Ridurre gli elementi visivi, giocare con la linea forzando la potenza del colore alla massima saturazione timbrica, esaltare la natura piana della tela o dell’area da dipingere, senza mai rinnegare l’epidermide del supporto, la sola materia vitale per cui la pittura può esistere, in funzione di una unità dell’insieme”.

Tutto questo si traduce in quattro direttrici spesso interconnesse, così sintetizzabili: primitivismo istintivo e  cromatismo mediterraneo,  linearismo giapponese e orientalismo decorativo.

Il primitivismo nasce dalla condivisione con Picasso  di una piccola testa lignea africana notata in una vetrina ed acquistata; ne derivò un esotismo che non si trasferì nella scultura. “E’ piuttosto la dimensione mnemonica a incidersi sulla tela – osserva la curatrice – nel segno di una deformazione mossa da grafismi saldamente intonati a un ritmo modulato su analogie e contrasti. Secondo una logica tesa ad escludere ogni indicazione di profondità o di costrutto architettonico”.

Le linee entrano nel suo spazio figurativo in armonia con l’insieme “modulato su rapporti di forza ed equilibri tra forti opposizioni cromatiche”, e questo è un aspetto fondamentale della sua pittura per il quale è debitore all’arte primitiva di cui raccoglie molti esemplari. Intanto approfondisce i principi elementari della linea nelle sue forme grammaticali e sintattiche, cioè nei singoli  elementi e nella composizione, restando sempre “in rapporto all’ordinamento e alla complessità della raffigurazione, all’assialità dell’impianto, alla contrapposizione tra toni chiari e scuri”.

Per lui non si tratta di un fatto tecnico,pur se importante: “Il  primitivismo – sono sue parole – è il frutto di uno stato primordiale dello spirito che non si può rigenerare artificialmente”.  Per questo è ben lungi dalla scomposizione cubista derivata dalla statuaria africana; non sposta l’oggetto dalla sua matrice, al contrario è affascinato dall’antichissima civiltà di cui è espressione, trasfusa in una diversa idea di classicità. Una classicità, secondo la  Coen, “intesa dunque come armonia dettata da una nuova e composita totalità, in uno spazio senza artifici, esclusivamente concertato dagli elementi stessi della pittura. Uno spazio pittorico inseguito anche nella xilografia, nella netta opposizione tra bianco del foglio e nero dai pochi tratti, larghi, diffusi sulla pagina come l’onda che si ripercuote nell’illimitata estensione oceanica”.

Dal bianco e nero delle xilografie al cromatismo mediterraneo, assorbito soprattutto dopo il viaggio in Marocco del 1912-13. Le atmosfere del Maghreb si imprimono in lui, anche perché sono riflesse nei tessuti, in cui trova forti riferimenti alle proprie tradizioni familiari tenendo conto che la produzione della sua regione tendeva ad utilizzare motivi orientali. Il tessuto con la sua trama compatta e l’ordito articolato faceva risaltare il motivo di fondo e  i contorni ornamentali su un piano bidimensionale, con l'”ibridazione di elementi incantevoli, per segno o tonalità” dai quali traeva “la giusta ispirazione in un amalgama sorprendente di flussi e correnti di energia e sintesi”.

Il trasferimento dell’ispirazione al dipinto viene così descritto dalla Coen con riferimento al “trittico marocchino”  con “Zorah” esposto in mostra: “I diversi livelli di intervento delle pennellate, pur segnando spesso con tratti forti parti dei profili di oggetti e figure, fanno contemporaneamente affiorare i singoli passaggi in un gioco di trasparenze ben distanti dall’idea di ‘pentimento’. Nello slittamento e nel differire dei piani, il senso di una durata, intesa come persistenza spazio-temporale, si dispiega  con assoluta chiarezza come se Matisse volesse far risaltare o non togliere comunque peso al vari stadi della costruzione di un’immagine”. 

La curatrice  sottolinea il ruolo fondamentale del colore con riferimento specifico all’azzurro del cielo usato anche per altre parti della composizione: “Azzurri amati e dipinti per il loro intrinseco valore cromatico, non per pura sensibilità estetica, ancor meno per una scelta puramente decorativa. L’elemento ornamentale alimentato da Matisse nelle sue diverse declinazioni assume la stessa funzione di ogni singola parte dell’opera; è motivo nel senso musicale più stretto di una frase che partecipa allo sviluppo del tema nella sua più ampia costruzione”. Che avviene così: “Motivo e fondo, figura e dettaglio, come nell’insieme delle trame di tessuti dalla compatta e uniforme superficie, formano l’immagine nella sua pienezza”.

Più in generale,  l’artista parla così del colore: “Tutto, anche il colore, non può che essere creazione. Comincio a descrivere il mio sentimento prima di arrivare a quello che ne è l’oggetto. Allora si deve creare tutto daccapo, tanto l’oggetto come il colore. Il colore contribuisce a esprimere la luce, non in quanto fenomeno fisico, ma la sola luce che effettivamente esiste, quella del cervello dell’artista. Ogni epoca porta con sé una luce sua propria, il suo sentimento particolare dello spazio, come un suo bisogno”. La sua  epoca “ha portato una nuova comprensione del cielo, dell’estensione, dello spazio. Oggi si arriva ad esigere un possesso totale di questo spazio”.

In termini  più precisi, aggiunge: “Mi sono servito del colore come mezzo d’espressione della mia emozione e non di trascrizione della natura. Uso i colori semplici. Non sono io a trasformarli. Se ne incaricano i rapporti. Si tratta soltanto di far valere le differenze, di farle risaltare. Nulla vieta di comporre con pochi colori, come la musica che è costruita unicamente su sette note. E’ sufficiente inventare dei segni”.

L’evocazione dei segni ci porta al linearismo giapponese, anche perché nei paesaggi del periodo 1912-17 , osserva la curatrice, “gli influssi del giapponesismo, in un sorprendente eclettismo, si amalgamavano alle volute più mediterranee nella logica di una luce misurata su affinità e armonie”. Ne scoprì .la raffinatezza stilistica attraverso le stampe: “Che lezione di purezza, di armonia, ne ricevetti”, ebbe a confidare.  La definisce “una rivelazione” che fece strada in lui: “Solo con lentezza giunsi a scoprire il segreto della mia arte. Consiste nel meditare in contatto con la natura, esprimere un sogno sempre ispirato alla realtà. Con maggiore accanimento e regolarità, imparai  a spingere ogni mio studio in un certo senso”.

Non fu  una svolta da poco, la Coen la riassume così: “Fissità e semplificazione rappresentavano una diversa analisi sui linguaggi della pittura, sulle nuove ipotesi interpretative del moderno. L’idea della virtualità del piano e dell’oggetto, ibridata ora dalla prospettiva delle stampe orientali e di altri idiomi formali ancora, disloca definitivamente l’immagine in una dimensione senza rilievo. E l’innesto di suggestioni si chiarifica e decanta nella bellezza di note e ritmi temprati  a un energico accordo melodico”.

Tutto questo si traduce nel suo orientalismo decorativo, la quarta e forse maggiore sua direttrice, che rappresenta il sigillo stesso della mostra, all’insegna di “arabesque”. Ne parleremo prossimamente, come premessa al racconto della visita alla galleria sfolgorante delle sue opere e  dei tanti materiali orientali altrettanto spettacolari.

Info

 Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica a giovedì 10,00 – 20,00, venerdì e sabato 10,00 – 22,30, nessuna chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500, http://www.scuderiedelquirinale.it  Catalogo  “Matisse, arabesque”, a cura di Ester Coen,  Skira, pp. 628, formato 24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo conclusivo sarà pubblicato in questo sito il prossimo 26 maggio  con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli per le rispettive mostre, in questo sito  su Cezanne  24 e 31 dicembre 2013, i cubisti 16 maggio 2013; in “cultura.inabruzzo.it”  su Picasso 4 febbraio 2009,   Giotto 7 marzo 2009, Beato Angelico 30 giugno 2009.  

Foto

Le immagini delle opere di Matisse, riportate in ordine cronologico tranne l’apertura,  sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, “Il paravento moresco”, 1921; seguono “Pesci”, 1911 e “Angolo dello studio”, 1912; poi “Zorah in piedi”, 1912, e  “Rifano in piedi” o “Marocchino in verde”, 1912; quindi,  “Zorah sulla terrazza”, 1912-13, e “Calle, iris e mimosa”, 1913; inoltre, “Ritratto di Yvovve Landsberg”, 1914, e  “L’italiana”, 1916; infine, “Lo stagno a Trivaux”, 1916-17, e, in chiusura, “Costumi per Le Chant du rossignol”, “Guerriero” a sin., “Mandarino”, a dx.

Giorgio Morandi, 1890-1964 nella mostra al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

Nel complesso del Vittoriano, dal    28 febbraio al 21 giugno 2015,  la  mostra  “Giorgio Morandi 1890-1964” espone circa 100  dipinti e  60 disegni e acqueforti, incisioni e litografie, alcune con le inedite matrici in rame, provenienti dalle collezioni del  Museo Morandi e della Fondazione Longhi, oltre che da altri grandi musei, e una raccolta di documenti d’archivio. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, curata da Maria Cristina Bandera , che dirige la Fondazione Longhi e  ha  curato le mostre sull’artista a New York nel 2008 e a Bologna nel 2009, a Lugano nel 2012 e a Bruxelles nel 2013.  Catalogo Skirà  con testo critico della Bandera e interventi di Giulio Paolini e  Ferzan Ozpetek, schede delle opere di Stella Seitun e una ricca bibliografia.

E’ una grande mostra, che segue più di quarant’anni dopo quella alla Galleria Nazionale di Arte Moderna del 1973, e si inserisce nel percorso espositivo del Vittoriano che ha visto sugli artisti italiani le mostre di Guttuso  nel 2012 e di Cézanne nel 2013, di Modigliani e di Sironi nel 2014.

La ricerca dell’essenza del reale nella sincerità e semplicità

La mostra di Giorgio Morandi va  oltre  l’evento artistico, pur  di straordinanza rilevanza per la sua vastità e articolazione, e penetra in profondità nell’umanità più intima che s’interroga sul significato del reale al di là delle apparenze  alla ricerca dell’essenza ultima delle cose.

Di questa instancabile ricerca ci fa partecipi un artista che,  pur vivendo un’esistenza attiva e non contemplativa, è riuscito ad astrarsi dal contingente per andare al di là della realtà visibile. In tal modo le sue opere, non legate al momento  storico né alle vicende umane, hanno assunto il carattere dell’universalità. Fuori del suo tempo e del tempo,  in una dimensione che lo trascende e  va oltre.

Nella sua linea del tutto personale  è rimasto in uno splendido isolamento  sottraendosi alle lusinghe delle avanguardie nel perseguire  il proprio ideale pittorico con assoluta coerenza e rigore.  

I temi prescelti hanno la caratteristica di essere permanenti, non mutare con le stagioni, rappresentare degli archetipi;  su di essi si è esercitata la sua ricerca svolta con meticolosità e perseveranza, attraverso modifiche apparentemente  di poca entità ma frutto di un’evoluzione che non si è mai  fermata, dopo che, assorbiti gli iniziali influssi, ha definito una linea pittorica cui è restato  fedele.  Sono paesaggi senza figure umane e nature morte, poi fiori, solo all’inizio qualche ritratto subito abbandonato;  la vita la trasfonde nei soggetti rappresentati perché si sente la sua presenza, l’occhio penetrante con cui li guarda cercando di scavarvi dentro alla ricerca dell’essenza.

Per i paesaggi si avvaleva di una  finestrella di cartone ritagliata a guisa di mirino ottico, oppure di un cannocchiale, per guardarli da vicino come le nature morte che componeva con pazienza meticolosa nel suo studio del quale aveva schermato la finestra per stemperare la luce, li faceva velare dalla polvere perché si allontanassero dalla loro funzione  e dalla consistenza reale per diventare pure forme e volumi. 

La  curatrice Maria Cristina  Bandera  precisa: “Con un lento processo creativo, in un susseguirsi di soluzioni sempre nuove, ma consequenziali, li distribuiva  variamente su uno dei tre piani di posa che aveva approntato. Li selezionava, li raggruppava, li aggiustava tra loro, li riaccostava, li scalava in profondità e in alzato, li trasformava in figure distribuite su un palcoscenico di combinazioni che variano con oil procedere degli anni”.  

Ne delineava i contorni come fossero architetture, ricorda la curatrice citando  Ragghianti, il quale ha svelato che  “‘fissava la sua posizione di attore’ tracciando per terra le sagome dei piedi, così da avere ‘un riferimento per poter ritrovare  il punto di vista’ quando si sarebbe nuovamente messo al lavoro. L’ideazione era compiuta”. Poi la fase propriamente pittorica: “Sarebbe seguita la stesura del colore sulla tela con modalità che variano negli anni e con pennellate che di volta in volta determinano o annullano la costruzione volumetrica, assecondano o appiattiscono le forme, aggiungono o sottraggono colore, sottolineano o elidono gli spazi”. 

 Giulio Paolini parla di “essenzialità e perfezione” e  afferma: “Pur osservando l’ostinata  imperturbabile ripetizione della sua opera, non un quadro, non una sola pennellata risultano di troppo”; perché  attraverso le apparenti “ripetizioni”  si sviluppa la ricerca che progredisce in modo  continuo, fino a porre  “un ‘interrogativo categorico al quale è impossibile sottrarci: cosa c’è di più vero, dove sta la ‘verità’? Nei suoi quadri o in questo  mondo?”.   

E, da acuto osservatore del tempo cui ha dedicato  lui stesso una  attenta ricerca espressa in opere d’arte molto particolari, rileva che l’artista se ne distacca: “Un quadro di Morandi è piuttosto un ‘quadrante’ che registra e riferisce le ore, la luce e le ombre,  di ogni giorno, posate sugli oggetti che di quel tal giorno si fanno muti ma sapienti testimoni tra le pereti silenziose del suo studio”.

La  Bandera dà questa chiave interpretativa della mostra: “Non vuole essere una retrospettiva, un guardare al passato. Piuttosto l’occasione per ‘vedere’ le opere di Morandi, per riguardarle, per gettare su di esse uno sguardo nuovo”. E ancora: “Soprattutto l’opportunità per intendere il ‘maestrevole percorso’ dell’artista nella sua presa di distanza  dal reale alla ricerca dell’essenza”. E infine: “Per comprenderne il processo creativo: come egli osservi il luogo che ha individuato e di  interroghi, li ricomponga, li ricrei”.  

Un “maestrevole percorso” che riassumeremo intrecciandolo con il suo itinerario di vita, non prima di aver citato alcune delle sue rare ma eloquenti affermazioni sulla propria visione dalla quale si alimenta la trasposizione artistica.

 “Ciò che vale in pittura è il modo individuale di vedere le cose: tutto il resto non conta”, d’altra parte “è sempre l’uomo che guarda, dispone, medita”, e ciò “è qualche cosa propria della pittura”. Questo il suo “modo individuale”: “Credo che nulla possa essere più astratto, irreale, di quello che effettivamente vediamo. Sappiamo che tutto quello che riusciamo a vedere nel mondo oggettivo, come esseri umani, in realtà non esiste così come noi lo vediamo e lo percepiamo”.  E ancora: “Ritengo che ciò che noi vediamo sia una creazione, un’invenzione dell’artista qualora egli sia capace di far cadere quei diaframmi, cioè quelle immagini convenzionali che si frappongono fra lui e le cose”.  

Con questa precisazione: “Quello che importa è toccare il fondo, l’essenza delle cose”.Anche Mondrian puntava all’essenza delle cose, .e ritenne di averla raggiunta con l’astrazione geometrica  che inglobava forti cromatismi, identificandola con la “perfetta armonia”; Morandi la raggiunge con i volumi puri che rappresentano il distacco tra l’essere e l’apparire.

E’ un’antinomia che riflette l’inquietudine moderna alla quale lui cerca di sottrarsi riservandosi un mondo quieto e contemplativo. Si lamentava degli impegni connessi alla fama raggiunta dichiarando: “La mia unica aspirazione è godere la pace e la quiete di cui ho bisogno per lavorare”; si riferiva al  suo studio  di Via Fondazza, caratteristica strada porticata bolognese, con vista su un cortile, divenuto il soggetto della serie di dipinti “Cortili di via Fondazza”.

Ne scrive così la Bandera: “I rami degli alberi che riempiono lo spazio prospiciente delle case piatte come fondali di scena che delimitano il cortile, nel corso delle stagioni, fioriti, frondosi o spogli, diventano per il pittore l’occasione per un’indagine sulla materia cromatica e sul tono”. E precisa: “Di volta in volta ravvicinati e variamente intessuti di luce, non sono altro che sublimi brani di poesia pura, meri pretesti di stesure di colore, variate nell’andamento della pennellata, con una maestria di materia cromatica e una padronanza di toni che non ha eguali”.

A questo punto, prima della visita alle sezioni della sua arte, con i paesaggi e le nature morte,  l’evocazione dei principali momenti del  suo itinerario di vita ci farà entrare nel suo mondo così sereno e contemplativo ma con l’inesausta ansia data dalla ricerca costante di andare sempre oltre nel penetrare i soggetti rappresentati al di là dell’apparenza per  raggiungere la loro intima essenza.

La fase formativa, le mostre  e i riconoscimenti

Non è un percorso distaccato dalla vita del suo tempo – è vissuto tra il 1890 e il 1964 –  e pur essendo sempre rimasto a Bologna concentrandosi sul lavoro, la sua è stata una solitudine apparente, dato che è stato in continuo contatto e si è confrontato con gli altri artisti, soprattutto nella fase formativa della sua pittura.  

Criticò l’arretratezza culturale dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna, che frequentò dal 1907 senza apprezzarne gli insegnamenti, concentrati sul simbolismo e lo storicismo ottocentesco,  tanto che nella sua breve “Autobiografia” del 1928 scrisse: “Ben poco di ciò che ora serva alla mia arte vi appresi”. Sentiva il bisogno di un netto cambiamento, tanto che partecipò alla mostra estemporanea della notte tra il 21 e il 22 marzo 1914 all’Hotel Baglioni di Bologna, e alla “Prima Esposizione libera futurista” alla Galleria Sprovieri di Roma,  e scrisse che ascoltava “con entusiasmo e interesse il verbo demolitore dei futuristi”.

Ma non fu un iconoclasta, nello stesso tempo scriveva che “solo la comprensione di ciò che la pittura aveva prodotto di più vitale nei secoli passati avrebbe potuto essermi di guida  a trovare la mia via”; precisando che il suo interesse andava soprattutto ai “vecchi maestri che costantemente alla realtà si ispirarono”, e lo facevano con “sincerità e semplicità”.

Così poneva le basi per la propria arte, ispirata alla realtà con sincerità e semplicità: i suoi ispiratori  furono “Giotto e Masaccio sopra tutti”,  lo  interessarono  Paolo Uccello e Piero della Francesca. Non solo i classici, anche gli impressionisti lo attrassero, in particolare Renoir, Courbet e Corot,“Cézanne sopra tutti”, potremmo dire per i moderni usando la sua espressione sui classici, fino a Picasso e Braque e gli altri cubisti.

Fu attirato anche dalla metafisica di De Chirico e Carrà, che frequentò aderendo al movimento di “Valori Plastici” , e  presentando sue opere con quelle del gruppo  in mostre organizzate dalla rivista a Berlino e in altre città tedesche tra il 1918 e il 1921. Era stato  congedato presto per malattia dopo essere stato arruolato come granatiere nel richiamo alle armi del 1915, per cui gli anni della Grande Guerra li trascorse  attento alle avanguardie da cui traeva spunti.

Gli anni della Seconda guerra mondiale lo vedono impegnato nel lavoro e  lontano dalla politica, ciononostante  viene arrestato e rinchiuso nel carcere bolognese di San Giovanni in Monte per una settimana, a seguito della sua amicizia con Carlo Ludovico Ragghianti e con Cesare Gnudi, esponenti del CLN,  viene liberato dopo una settimana per l’intervento su Giuseppe Bottai di Roberto Longhi che, giovane insegnante di liceo a Roma, aveva avuto come allievo il futuro Ministro dell’Educazione nazionale al quale potette rivolgersi con successo; sarà il critico più legato a lui, la sua Fondazione ha fornito una serie di opere dell’artista.   

 Vediamo  esposti una “Natura morta”, 1914, di ispirazione cubista, e due  “Paesaggi”, del 1916 e 1917,  ispirati a Cézanne, nel senso della bidimensionalità e assenza di prospettiva, il primo incentrato sul geometrismo, il secondo su un cromatismo delicato. Di immediata derivazione da Cézanne , come un omaggio,  “Bagnanti”, 1918, forse l’unica rappresentazione di figura umana intorno al tema cézanniano su cui si cimentavano le avanguardie; dello stesso anno una “Natura morta” in atmosfera metafisica, che si dissolve nella “Natura morta” del 1919, e  anche nella “Natura morta” dello stesso anno, dove tornano i volumi delle “cose”. 

Del resto,  anche in queste opere manteneva la propria spiccata personalità, così che de Chirico ebbe a definire la sua “la metafisica degli oggetti comuni”, con la purezza geometrica ma senza l’atmosfera enigmatica. Mentre con un’altra  “Natura morta”, sempre del 1919, si chiude la fase metafisica, gli oggetti spiccano come torri in un controluce cupo, che ritroviamo negli oggetti allineati nella “Natura morta” del  1920. L’acquerello e l’olio  con “Fiori”, del 1918 e 1920, sono invece chiari e lineari, né clima metafisico né controluce cupo. In questa fase l’“Autoritratto”, 1924, uno dei sette  da lui dipinti, e uno dei 30 dipinti con figure umane, numero di certo esiguo rispetto al suo vastissimo corpus di opere.

“A partire dal 1920 – scrive la Bandera – avendo compreso che avanguardia non voleva dire futuro, abbandonando gli sperimentalismi legarti alla transitorietà dei primi movimenti artistici del secolo, Morandi decide di rifarsi alla realtà, o più precisamente, secondo una sua importante sottolineatura, al ‘mondo visibile'”.

Inizia così il proprio percorso di ricerca, che seguirà fino all’ultimo, nell’autonomia raggiunta dopo la fase formativa. “Questo mi fece comprendere – ha scritto nell’“Autobiografia” – la necessità di abbandonarmi interamente al mio istinto, fidando nelle mie forze e dimenticando nell’operare ogni concetto stilistico preformato”.  Dal 1914 al 1930  insegna  disegno nelle scuole di piccoli paesi del modenese, dove diviene  “ispettore locale per il disegno”, nel 1930  ottiene la cattedra di tecnica dell’incisione all’Accademia delle Belle Arti di Bologna, incarico che terrà fino al 1956 assegnatogli “per chiara fama”.

Oltre ad esporre con il gruppo di “Valori Plastici” a Berlino nel 1921 ha partecipato ad altre mostre fino alla XVI Biennale di Venezia nel 1928 e alla  seconda mostra del Novecento a Milano nel 1929.    

Roberto Longhi nel 1934, nella prolusione all’Università di Bologna  lo proclama “uno dei maggiori pittori viventi in Italia” e inizia un lungo sodalizio tra i due, nello stesso anno Lamberto Vitali ne sottolinea il valore da acquafortista. Intanto è tornato nel 1930 alla Biennale di Venezia, ed ha esposto alla Quadriennale d’Arte Nazionale a Roma nel 1931. Negli anni successivi le partecipazioni alle più  prestigiose mostre di caratura internazionali si susseguono: di nuovo alla Biennale di Venezia nel 1934 e alla Quadriennale d’Arte Nazionale a Roma nel 1935 e nel 1939 in una sala personale con 42 dipinti e 14 incisioni e disegni,  nel 1943  e 1955; nel 1939  il primo scritto su di lui di Cesare Brandi che sarà un suo grande estimatore, e la prima monografia di Arnaldo Beccaria, allievo di Ungaretti.  All’estero espone alle Mostre d’Arte italiana a Parigi e Berna, Berlino e Zurigo tra il 1935 e il 1940;  e in mostre a Parigi e Londra, New York e San Paolo del Brasile tra il 1949 e il 1960.

Non mancano i riconoscimenti, dalla nomina a membro dell’antica Accademia delle Arti e del Disegno, a quella a membro della Commissione della Arti Figurative che organizzò  la prima Biennale di Venezia del dopoguerra nel 1948, anno in cui è nominato anche membro dell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma; nel 1952 diviene membro dell’Accademia svedese e l’anno dopo ottiene il Gran Premio per l’incisione a San Paolo del Brasile, dove avrà il Premio internazionale per la pittura nel 1957 precedendo Marc Chagall; nel 1962 è nominato Accademico onorario dell’Accademia delle Arti e del Disegno a Firenze e ottiene in Germania il Rubenspreis per la pittura; infine nel 1963 il Comune di Bologna gli conferisce l’Archiginnasio d’oro e Ginevra gli dedica una personale con 41 dipinti, 72 acqueforti e incisioni L’ultima sua opera è una “Natura morta”  del febbraio 1964, muore il 18 giugno dello stesso anno.

Il suo “corpus”  di opere è imponente, con infinite variazioni sul tema, anzi  sui due temi principali, “Paesaggio” e “Natura morta”, in un’evoluzione  continua alla ricerca dell’essenza delle cose.

L’artista confidò a Roditi, che ha scritto un libro su di lui: “Io mi sono sempre concentrato su una gamma di soggetti  molto più ristretta rispetto  a gran parte degli altri pittori e quindi il pericolo di ripetermi è sempre stato molto maggiore. ” E aggiunse: “Penso di essere riuscito ad evitare questo pericolo dedicando più tempo a progettare ciascuno dei miei dipinti come una variazione sull’uno o sull’altro di questi pochi temi”.  Per questo, pur se quasi monotematico è estremamente variegato, sarà un ossimoro ma nella ricerca dell’essenza forse anche la compresenza di contrari è illuminante.

Nel preannunciare il racconto della visita alla mostra, concludiamo con le impressioni di un  visitatore  come il regista Ferzan Ozpetek,  precedute dalle parole che  Federico Fellini mise in bocca a un protagonista della “Dolce vita”: “Ah, sì: è il pittore che amo di più. Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno eh? Eppure sono dipinti con uno stacco, una precisione, un rigore che li rende quasi tangibili. Si può dire che è un’arte in cui niente accade per caso”.

Ozpetek  parla della “sensazione di appartenenza, di riconoscimento, di condivisione” che si prova,  e lo spiega così: “L’immagine pittorica di Morandi propone degli elementi che sono sotto i nostri occhi con una naturalezza quotidiana: penso alle sue nature morte, alle bottiglie, ai paesaggi. Ma la luce in cui sono immerse, l’interpretazione che l’occhio del pittore ne dà, li rendono assolutamente straordinari”. Ed ecco perché: “Sono oggetti e luoghi che appartengono alla creazione personale di un artista, eppure non solo li riconosciamo, ma li comprendiamo con il cuore, come succede di fronte all’arte vera”. 

Con un finale felliniano, che ci riporta anche ad una constatazione fatta all’inizio: “E’ il miracolo della condivisione di un sogno, quel momento in cui osserviamo l’invenzione particolare di un artista e questa diventa universale, si trasforma in una cosa nostra”.  E’  il distacco dal naturalismo contingente, di cui abbiamo parlato, che dà all’opera un valore universale e fa superare ad essa  i limiti del tempo e i confini dello spazio.

Lo vedremo prossimamente  nella carrellata sulle opere esposte nella mostra al Vittoriano.  

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Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-22,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00, ridotto 9,00. Tel. 06.6780664, www.comunicareorganizzando.it. Catalogo,  “Morandi 1890-1964”,  Skira, 2015, pp.272, formato  24 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il secondo articolo conclusivo sarà pubblicato in questo sito il prossimo 25 maggio con altre 11 immagini delle opere esposte. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli sulle rispettive mostre dal 2009: in questo sito, Guttuso il 15 e 30 gennaio 2013, Cézanne il 24 e 31 dicembre 2013, Modigliani il 22 febbraio e 7 marzo 2014, Sironi il 1°, 14, 29 dicembre 2914 e il 7 gennaio 2015, Mondrian il  13 e 18 novembre 2012, De Chirico il  20, 26 giugno, 1° luglio 2013 e il 1° marzo 2015; in “cultura.inabruzzo.it”,  Picasso il 4 febbraio 2009, Giotto il 7 marzo 2009, Corot, Monet e gli impressionisti il 27 e 29 giugno 2010, Paolini il 10 luglio 2010, De Chirico  il 27 agosto, 23 settembre e 22 dicembre 2009, l’8, 10 e 11 luglio 2010; per De Chirico cfr. anche “Metafisica” e “Metaphisical Art”, Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, n. 11 del 2013.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, “Natura morta” 1929-30;  seguono “Natura morta” 1918, e “Natura morta” 1919, poi “Natura morta” 1924, e “Natura morta” 1929, quindi “Natura morta” 1932, e  “Natura morta” 1937, inoltre “Paesaggio” 1927 e “Paesaggio” 1934; infine, “Paesaggio” 1930  e, in chiusura, “Fiori” 1941. 

Yilmaz, i piatti cinematografici all’ Ufficio di cultura turco

di Romano Maria Levante

All’Ufficio cultura e informazioni dell’Ambasciata di Turchia a Roma, dal 15 maggio al 12 giugno 2015 la mostra “Ciak, si gira!” espone l’intera produzione dell’artista turco Ersoy Yilmaz negli ultimo due anni, già presentata parzialmente a Londra. Si tratta di una serie di Piatti in ceramica con i volti di divi cinematografici internazionali e scene di film spesso rivisitati con abiti orientali, in una inusuale quanto eloquente contaminazione. Curatrice della mostra e del catalogo digitale Adelinda Allegretti.

Una sorpresa ci ha riservato l’Ufficio di cultura turco con questo tuffo nella cinematografia dopo le mostre pittoriche con riferimenti al Corano e ad altri richiami colti, e la mostra di arte varia evocatrice di viaggi in Turchia di artisti italiani. Questa volta nessuna trasposizione di motivi spirituali  e mistici né speciali memorie di viaggi, bensì l’evocazione di scene cinematografiche che costituisce  un richiamo alla memoria di tutti.

E’ una galleria spettacolare nella quale sfilano divi e personaggi che sono state delle vere e proprie icone, e il visitatore si cimenta con la propria memoria nel riconoscere e identificare per poi ricordare soggetti e situazioni. Si avverte la passione cinematografica dell’artista e anche l’elevato livello tecnico delle sue trasposizioni in ceramica mediante l’ “underglaze”. La curatrice Allegretti parla di “incredibile virtuosismo tecnico” sottolineando “la capacità di trattare la superficie ceramica come fosse una tela”; il che vuol dire far coincidere l’ispirazione con la realizzazione senza pause né ripensamenti, non essendo possibile effettuare correzioni.  La nettezza delle figure e la brillantezza dei colori rendono vive le immagini.

L’altro aspetto che viene sottolineato è quello, cui abbiamo già accennato, della contaminazione delle scene e dei soggetti con immagini orientali, quasi che nella sua mente avvenisse una trasposizione tanto intensa da non poterla frenare nell’immediatezza della realizzazione su ceramica.  Così vediamo Monica Bellucci calata nell’atmosfera orientale ” in a Turkish Tent” , nel “Mar adentro” e in “Ottoman Ring” dove, come dice il titolo, si limita all’anello; con vesti o accessori orientali, la nostra Sophia in “Loren as a Traditional Turkish Girl” con una texture decorativa turca, e Ornella in “Muti with fez”. I titoli dicono tutto, c’è una vera  e propria sostituzione di nostre dive alle attrici orientali, in altri casi si contamina l’ambiente.

A queste contaminazioni possono essere dati significati che superano l’episodio occasionale e giungono fino all’avvicinamento e all’incontro tra diverse culture; cosa non sorprendente considerando che Istanbul è la porta tra Oriente ed Occidente, oltre ad essere stata definita “la nuova Roma”.  Per parte nostra ci piace riferire le contaminazioni allo spontaneo impulso creativo in cui c’è stata tale feconda sovrapposizione.

Ma del cinema internazionale quali divi e personaggi lo hanno colpito e sono stati immortalati nei suoi rutilanti piatti artistici in ceramica? Sono occidentali, anzi europei, soprattutto degli anni ’60 e ’70, quelli dove il divismo è stato più forte e non contrastato da altre suggestioni mediatiche.

Ed ecco che oltre alle già citate Sophia Loren e Ornella Miuti, forse la prediletta, troviamo Claudia Cardinale e Monica Bellucci,  Grace Kelly e Romy Schnider, fino alla diva più recente Nicole Kidman; tra gli attori vediamo Alain Delon e Leonardo Di Caprio, ma c’è anche il nostro Roberto Benigni, Premio Oscar per “La vita è bella”.

Qualche notizia sull’artista di queste opere che creano un clima evocativo carico di suggestione.

Nato ad Ankara, si  è  laureato al Ceramic Department of Fine Arts Faculty dell’Anatolian University of Eskisehir, e ha conseguito un  Master in arti ceramiche nella Hacettepe University  di Ankara. Ora è  a capo del Ceramic Deparment e Direttore del Fine Arts Institution della Karatekin University in Cankiri.

Nel 2011 la prima mostra a d Ankara intitolata “Underglaze Dreams”, i sogni espressi nella speciale tecnica ceramica di cui è maestro; poi mostre personali e collettive in Turchia, in città europee  e negli Stati Uniti. Nell’anno in corso ha tenuto mostre a Londra e in Umbria, nel 2013 a Los Angeles e a Milano.

Ed ora ci presenta un viaggio visivo nel mondo del cinema evocato dai suoi artistici piatti ceramici..

Info

Ufficio culturale della Turchia, piazza della Repubblica, Roma. Orario di ufficio, ingresso gratuito. Per le precedenti mostre all’Ufficio culturale turco cfr. in questo sito i nostri articoli: “Tulay Gurses e la mistica di Rumi”  21marzo  2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano”  2 ottobre 2013, “Permanenze, Ricordi di viaggio di nove artisti italiani”   9 novembre 2013,  “Yildiz Doyran e lo slancio vitale di Bergson” 29 gennaio 2014; inoltre per la mostra al Macro di Kerim Incendayi, “Roma e Istanbul sulle orme della storia” 5 febbraio 2015; infine su un viaggio a  “Istanbul, la nuova Roma,  alla ricerca di Costantinopoli”   10, 13, 15 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese nell’Ufficio culturale della Turchia da Romano Maria Levante, si ringrazia l’ufficio con i titolari dei diritti, in particolare l’artista, per l’opportunità offerta.  In apertura,  Sophia Loren; seguono,  Ornella Muti e   Monica Bellucci , poi  Claudia Cardinale-Alain Delon e Roberto Benigni, quindi Ingrid Bergman e 3 piatti con Alain Delon da solo; in chiusura, 4 piatti su “Lo squalo”

Ottieri e altri 16 artisti, tra il Museo Bilotti e la Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Due mostre, curate da Marco di Capua e organizzate dalla Galleria Russo  nello stesso periodo, esplorano un tema intrigante, anzi tre temi strettamente legati: “Linea di confine – La natura, il corpo, le città”, al Museo Bilotti dal 24 aprile al 21 giugno 2015, e “Tommaso Ottieri – La funzione del nero” alla Galleria Russo dall’8 al 30 maggio 2015,   che rappresenta in un certo senso un “ingrandimento” di una parte della prima mostra, cui partecipa lo stesso Ottieri con due opere, mentre nella personale ne espone 45 sugli esterni cittadini visti nel nero della notte. Alla “linea di confine”  altri 16 artisti ne presentano un paio ciascuno, salvo dei plurimi, soprattutto sulle città, ma anche su corpo umano e natura. I due cataloghi delle mostre sono di  Palombi Editore

Il curatore Marco Di Capua definisce così la collettiva al Museo Bilotti, per la quale ha selezionato opere di 17 artisti collegate tematicamente: “Linea di confine è una mostra-periscopio: affiora e lentamente si guarda intorno. Ciò che vede e ci fa vedere sono le città e i nostri corpi, i nostri volti. Ciò che vede e ci indica, ancora, con un gesto quasi sproporzionato nella sua apparente, così necessaria, inattualità, è la natura”. E precisa che il confine è la linea che “divide cosa da cosa, e nella separazione le illumina, ma anche la linea che unisce”. In questo caso i tre soggetti dell’esposizione, corpi e volti, natura, città.

Sulla personale alla Galleria Russo, Capua scrive: “Qualsiasi idea uno si possa fare della pittura che va in città, seguendo lo sguardo di  Ottieri la strada presa diventa fluente e ogni luogo è percepito come peripezia mobilissima, fornace avventurosa, viaggio planetario turbolento…  Così, anche l’architettura nei suoi dipinti cessa di presentarsi come un’immobilità di forme certe e appare come un brulichio di particelle preziose, un’agitazione tutta flash, urti e rimbalzi di molecole”.

La “linea di confine” tra corpi e volti, natura e città

“Una casa, una faccia, un albero? Stessa sostanza, lo sappiamo bene…”, afferma Di Capua nel collegare i tre temi della mostra collettiva in cui presenta opere che definisce “importanti, imponenti”, alcune lo sono anche per le dimensioni;  ha evitato i linguaggi incomprensibili per “un massimalismo figurativo che in assetto anche spettacolare superi il mood  ormai universalmente diffuso di ‘sensazioni’, stimolazioni ottiche” con un intento preciso: “Che invece susciti, con chiarezza di rappresentazione e di narrazione l’impatto con temi non necessariamente circoscrivibili al nostro dannato ombelico, con scene maggiori e immagini e simboli che campeggiano e lampeggiano qui, e ora”.  Descrizione coraggiosa del rifiuto di un modernismo esasperato autoreferenziale per una scelta aperta alla comprensione  più vasta.

Cominciamo dalle Persone, per poi passare alla Natura e quindi alla Città.

 Roberta Comi  presenta i primi piani dei suoi volti  esotici di grandi dimensioni, gigantografie pittoriche quanto mai intense curate nei dettagli in un realismo coinvolgente :  “L’uomo e la città” e “Osessere”, appartengono ad uno dei filoni prediletti della artista di cui ricordiamo le intense rappresentazioni dell’Inferno dantesco.

Dopo i grandi volti dipinti,  le piccole teste di gesso di Christian Leperino, “The other myself”, autore anche della grande pittura murale di 10 metri per 7, “Landscape of Memory” , l’artista di recente ha coniugato la ricerca sul corpo ai luoghi in cui si manifesta la condizione umana.

Corpi filiformi scuri sono invece nel “Muro del pianto” di Massimo Giannoni, mentre nella “Biblioteca di Mantova” non si vedono persone ma si intuiscono, la scala di legno appoggiata agli scaffali attende di vedervi salire un addetto, il tavolo di accogliere i lettori; è uno stile molto personale di denso impasto materico.

La scena torna all’esterno in una serie di fotografie di Sandro Maddalena che documentano la crisi ucraina, con civili e soldati in spazi desolati teatro di guerra.

Desolazione, di altra natura, e soprattutto solitudine, anche nelle “Attese” di Alice Pavese Fiori, fotografie analogiche di figure  immerse nell’alienazione urbana, resa da ambienti spettrali. .

La Natura la troviamo nel grande pannello di 4 metri per 3 “Alberi”, con 121 riquadri che sembrano moltiplicarli all’infinito, cui si contrappone, in un certo senso, “Fabbrica”,  in 40 riquadri  in dimensioni minori.

Alberi  con i tronchi in primo piano e non più il fogliame in Giovanni Frangi, “Dauntsey Park”. 2012.

Stessa atmosfera nella “Crocifissione” di Bernardo Siciliano, che Di Capua definisce “la medesima solitudine dei calchi dei volti degli immigrati morti in mare”.

Volti dell’umanità ridotti a maschere quelli di Stefania Fabrizi, in “Il disegno nella mia mente”.

Concludiamo questa rassegna sulla natura con “la meravigliosa indomita Montagna di Paolo Picozza – sono parole del curatore –  la sua presenza massiccia come preludio, o custodia, di un’assenza, la sua calma distante”; suo anche “Piazza Augusto Imperatore”, nel quale la natura è presente con il folto gruppo di alberi che si riflettono sul selciato. Dell’artista, scomparso prematuramente a quarant’anni,  ricordiamo la grande mostra retrospettiva curata da Achille Bonito Oliva nel dicembre 2013, sempre a Roma,  al Macro Testaccio.

E siamo alle rappresentazioni della  Città, iniziando dalle 25 stampe di Adelaide di Nunzio, “La città nascosta”, 2014-15, tra desolazione e immagine iconiche.

La città visibile è quella delle vaste panoramiche dipinte da Giorgio Ortona, “Cantieri a Torrevecchia” e “Roma nord”, 2014,  e da Bernardo Siciliano in “Dumbo”;  e delle imponenti visione prospettiche dipinte da  Marco Petrus, “Upside down”, 2003, che ci ricorda le riprese fotografiche oblique di Rodcenko, e “Palazzina San Maurizio”, 2010, con i forti chiaroscuri  dati dalle strutture architettoniche.

Avvicinandoci ancora abbiamo lo scorcio di una strada in “Bipantheon”, 2009, di Thomas Gillespie, di cui è esposto anche “Unsound (Safe of Houses”), esterno ripreso da vicino che ci ricorda a sua volta le immagini fotografiche di Wender.

E poi ci sono le vedute spettacolari di Tommaso Ottieri, “New York Stabat Mater”, 2015, e “Istanbul”, 2014, che Di Capua vede “come sorvolata da un drone curioso, magneticamente attratto da sciami luminosi, costellazioni radenti il suolo, spettacoli notturni”.. Ma su questo artista c’è molto altro da dire nel commentare la sua mostra personale alla galleria Russo.

Ottieri e “la funzione del nero”.

Sull’artista vanno innanzitutto  spiegati due ossimori, uno visivo, l’altro concettuale.

Quello visivo riguarda “la funzione del nero”, e quella che Di Capua definisce “lucente nerezza”: perché “l’oscurità è attraversata, sfidata e vinta ma per un pelo, per una manciata di punti luminosi, in un incendio che arrossa il cielo e che se si spegne buonanotte, finisce tutto “. Quindi il nero della notte e le luci dell’illuminazione in un'”unica scintillante trama dove tutto è connesso. E’ un  po’ come guardare la terra al modo in cui l’uomo delle origini osservava il cosmo: una spruzzata di costellazioni per orientarsi meglio, prendere decisioni, direzioni. Ottieri lo fa con il nostro sguardo: lo muove”.

L’ossimoro concettuale lo troviamo nel fatto che nelle sue spettacolari immagini notturne delle città non c’è gente, neppure un passante, a differenza dei dipinti dell’inizio ‘900 molto affollati. “La città 2.0, dice Di Capua, è invece quasi sempre un deserto, un pianeta metallico, petroso, un po’ ostile, forse pericoloso”. E’ dov’è l’ossimoro? In questa visione in contrasto con le affermazioni dell’artista: “La vita dell’uomo, con la sua forza per tenersi in piedi, è l’unico argomento che tratto da sempre”.  Così il curatore spiega l’apparente contraddizione: “Qui  l’uomo è lontanissimo, o proprio non c’è. Come se, crediamo tuttavia a Tommaso, per raccontarlo meglio fosse necessaria la sua omissione, coglierlo per assenza, incastonarlo in una metafora gigantesca: ciò che ha costruito”.

Di tutto questo l’artista  dà  una rappresentazione spettacolare: vasti panorami da lontano e imponenti visioni da vicino, con il brulichio delle luci dalle strade alle finestre,in un’atmosfera che dal nero vira al celeste al giallo a seconda dei casi.  Nella composizione, una meticolosa attenzione  ai dettagli, che fa concludere così Di Capua: “E quanti particolari puoi contare, profusi dalla mano di uno che evidentemente non si stanca mai del numero, non di quello delle tantissime finestre di un’intera città, né di quello delle sedie che servono a riempire la navata di una chiesa, forse perché inconsapevolmente convinto che, per dirla alla Kundera, davvero ‘la felicità è ripetizione'”.

Il curatore si riferisce evidentemente alla chiesa del “Gesù”, 2015, vuota ma con tutte le sue sedie allineate pronte ad accogliere il popolo dei fedeli, mentre gli altri interni sono teatri con le loro poltrone, sempre vuote, dipinte con precisione. Anche queste immagini sono spettacolari per sontuosità ed eleganza, illuminate da una luce calda dorata con toni rosseggianti: del 2015  “Opera Vienna” e  “Lisbon Opera”, “Opera Garnier” e “San Carlo”,  quest’ultimo con l’eccezione che i palchi sono affollati mentre la platea è vuota, analogamente a due dipinti sullo stesso tema del 2013 e 2014, anno nel quale in un altro dipinto ha escluso gli spettatori anche dai palchi; mentre la “Scala” è ripresa  completamente senza spettatori –  a parte il dipinto che mostra in primo piano il grande lampadario e ne fa intravvedere un gruppetto in platea – come “Celeste Fenice” e “Cagli”

Toni gialli dorati anche in alcuni panorami cittadini del 2015, da “London Bridges” a “New York Q Bridge”,  da “Paris Garnier” a “Paris SG”, fino a “Medusa” ; e del 2014,  da “Paris Plages”  a “Paris night”, da “London” a “Montecarlo”, da “Prague night” a “Istanbul”. .

Visioni dorate più ravvicinate sono quelle di “Paris Notre Dame”, 2013,  e , ancora di più in crescendo, “Metropolis”, 2015,  “Atlas” e “London Canary Warf”, 2014, “Genova”, 2011, fino a “Interno oro”, 2014.

Poi si vira al celeste-blu nei vasti panorami del 2015  di “Paris Hotel de Ville Blue”, e “Paris night” con il grande incrocio abbacinato di luce, e nei più ravvicinati “Swan Lake”, 2014,  e “Madrid”, 2011,  fino alle visioni frontali di “Gerolomini”, 2015, e “Giudizio Universale”, 2011.

Infine il nero prende il sopravvento nelle  visioni “New York Stabat Mater”, 2015, con il grattacielo che svetta con la punta verso il cielo del Waldorf Astoria illuminato nell’oscurità della foresta pietrificata che si profila tutt’intorno, e “New York”, 2014,  grattacieli  parallelepipedo fortemente radicati alla terra senza il senso di elevazione che dà l’altro appena citato. “Donnanna Prima Notte”, 2015,  “Atlas” e “Parigi”, 2013,  rendono visivamente la “funzione del nero”, interrotto soltanto da un leggero chiarore che rischiara appena alcuni contorni, mentre in “Venezia Stabat Mater”, 2015, il Ponte dei Sospiri spicca come un faro al centro dell’immagine.

C’è  anche un dipinto, l’unico, in un tonalità rosa intenso, le finestre scure e non più illuminate:  è “Corso”, 2011, sarà l’aurora che arrossa le facciate  e i tetti della città dopo le ombre notturne?

 E’ un’eccezione rispetto all’ampia  galleria che abbiamo citato, della quale Di Capua dice: “Non c’è sensazione stabile, ma un ombroso cocktail di energie convergenti, un raccogliersi sparso di frammenti attorno a quei fulcri e incroci di diagonali e di vie iridescenti che li possano strappare alla loro deriva, dopo (ma quando era stato?) un silenzioso big bang di luci.

Tutta luce, ma il nero non è meno importante, anzi la precede nella creazione, come dice l’artista osservando che all’inizio della vita sul pianeta “la luce non c’era. O meglio, non c’era la visione di essa”. C’era il buio, l’oscurità, il nero, ma ora “occorre che il nero venga lasciato indietro, e resti soltanto tutto attorno perché si possa cercare la luce. Ma senza nero non la definiremmo mai”. Ne esistono “tantissimi tipi”, con tonalità caldo-rossastre o bluastre, come abbiamo visto. “esistono tanti modi per rappresentare l’oscurità, ma ogni buio è solo uno strumento”. E per la luce aggiunge: “La verità della luce che cerchiamo di dipingere resterà un mistero per noi. Ed un mistero cercheremo sempre di rappresentare”.

Eloquenti le sue affermazioni strettamente personali, confidenze intime pari a confessioni: “Quando dipingo le città mi sembra di avere dei modelli in carne ed ossa che posino di fronte al mio cavalletto. Le guardo cambiare posa, assumere atteggiamenti, prendersi delle pause. Ho imparato a conoscere gli umori, gli effluvi e quanto di organico le città possono produrre”.  Perché sono state costruite da operai, per cui l’elemento umano è fondamentale, ne è alla base, ed è quello che interessa l’artista: “La vita dell’uomo, con la sua forza per tenersi in piedi, è l’unico argomento che tratto da sempre. E, per quel che ho capito, è l’unica cosa che mantiene in vita una città”.

Ma perché  gli piace dipingere la città notturna?  “Di  notte tutto cambia: il nero non è più ombra ma diventa di nuovo il contorno che ci è servito per definire la luce”. E qui una riflessione filosofica che fa pensare: Al buio attribuiamo il mistero e l’ignoto, ma esso non è che la realtà principale delle cose. Il mistero che portiamo dentro è invece nella luce che fin da bambini dobbiamo costruire. I nostri occhi devono impararla, e poi imparare  difendersi da essa”.

L’effetto della luce sulla città è descritto in modo suggestivo da Di Capua: “E poi l’avete vista una città di notte mentre si sta per atterrare: migliaia di lucine, una rotante galassia non più stagliata in cielo ma sdraiata sulla terra. La rivedete adesso nei quadri di Ottieri, o è un’immagine che le va molto vicino. Insomma, dico, una meraviglia così, ma dove altrimenti?”. E conclude: “A pensarci bene la città, oltre che un mucchio di altre cose, è il più vasto, mutevole e spettacolare congegno estetico che la specie umana abbia inventato. Senza paragoni”. D’altra parte,  “se Dio ha creato il cielo e la terra, l’uomo ha creato le città… Esistono, stanno lì a fronteggiare timidamente il nulla, l’inumano”.

Alle immagini pittoriche di Ottieri, che indica anche i pigmenti e gli antichi procedimenti utilizzati, avviciniamo le immagini fotografiche di  Bergamini realizzate con accorgimenti tecnici innovativi, per analogia di temi e affinità di effetto visivo per l’osservatore.  Alle une e alle altre si possono applicare le parole conclusive dell’artista: “Quello che si impara dipingendo queste scene è che se una bellezza esiste, essa è sempre nell’insieme delle cose. Le belle e le brutte, le chiare e le scure. Non è vero che ne conosco dieci. Non si arriva mai a capire la bellezza”.

E’ un pensiero filosofico che ci sembra il migliore coronamento del viaggio fantastico in lungo  e largo per il mondo tra le ombre  e le luci di tante città e i fulgori dei più celebri teatri. Dalla funzione del nero al senso della vita, nella sua espressione più elevata, legata alla bellezza. Dobbiamo essere grati agli organizzatori della mostra per queste riflessioni così edificanti.  

Info

Mostra  “Linee di confine”,  Museo Carlo Bilotti, Arancera di Villa Borghese, viale Fiorello La Guardia. Da martedì a venerdì ore 10,00-16,00,  sabato e domenica 10,00-19,00, ingresso gratuito, ammesso fino a mezz’ora dalla chiusura. Catalogo “Linee di confine”, a cura di Marco Di Capua, Palombi Editori, pp. 110, formato 22 x 22. Mostra “Tommaso Ottieri, la funzione del nero”, Galleria Russo via Alibert 20, Roma, Catalogo “Tommaso Ottieri, la funzione del nero”, a cura di Marco Di Capua, Palombi Editori, aprile 2015, pp. 80 formato 22 x 22.Tutti  i giorni dalle 10,00 alle 19,30 esclusi il lunedì dalle 16,30 alle 19,30 e la domenica chiuso,  ingresso gratuito. Dai cataloghi sono tratte le citazioni del testo. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli: in questo sito “Bergamini, il digitale pittorico al Museo Crocetti”  6 dicembre 2013; “Rodin, disegni dell’Inferno; Roberta Comi, dipinti sul I Canto”  20 febbraio 2013;  in “www.fotografarefacile.it” “Roma. Le foto di Wim Wenders sulla solitudine urbana” giugno 2014, “Roma. In mostra le fotografie di Aleksand Rodcenko”  e “L’altro Rodcenko al Palazzo delle Esposizioni” entrambi il 27 dicembre 2011;   in cultura.inabruzzo.it “Mitografie al Museo Carlo Bilotti di Roma” 16 giugno 2009, e  “I disegni di De Chirico e la magia della linea” 27 agosto 2009. I due ultimi  siti non sono più raggiungibili, gli articoli saranno trasferiti su questo sito prossimamente.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Museo Bilotti e alla Galleria Russo, si ringrazia la Galleria e la direzione del museo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Roberta Comi, “L’uomo e la città”, 2015; seguono Massimo Giannoni, “Muro del pianto” , 2012, e Alice Pavese Fiori, “Attese”, 2012; poi “Manueo Felisi, “Alberi”, 2015, e Giovanni Frangi, “Dauntsey Park“, 2012;  quindi, Paolo Picozza, “Senza titolo”, 2010, e Marco Petrus, “Upsite down”,  inoltre, Thomas Gillespie, “Unsound (Safe of Houses)”, 2010; infine,  di Tommaso Ottieri, “Paris Hotel de Ville Blu”, “Gesù”, “Opera Vienna”  e, in chiusura,  “Venezia Stabat Mater”, tutte 2015.

Congo e Polonia, verso l’Expo, dall’esotismo alla favola, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Due mostre in successione al Vittoriano nella sala Giubileo dell’ala Brasini,  lato Fori Imperiali per presentare la Repubblica democratica del Congo dal 2 al 16 aprile 2015 e la Polonia dal 24 aprile al 3 maggio. Prosegue il programma “Roma  verso Expo”, che ha visto finora una serie di mostre  con la presentazione di molti paesi nel  Vittoriano e  all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino. Per le mostre al Vittoriano ricordiamo nel 2014  Egitto e Slovenia, Albania e Serbia, nel 2015  Vietnam ed Estonia, Grecia e Germania, Tunisia e Dominicana.  Diverse le forme prescelte, per lo più fotografie delle bellezze naturali o urbane e oggetti tipici dell’ artigianato, in qualche caso anche antichi reperti come per Egitto e Grecia, fino alla vera  e propria mostra d’arte dell’Estonia.

Il Congo

Il Congo ha presentato l’immagine tradizionale dei villaggi e delle presenze pittoresche in forma artistica e non fotografica, mediante quadri di stile  figurativo., ma la modernità non è mancata con quadri  di stile quasi astratto. Ci ha ricordato la mostra, sempre al Vittoriano, sull’arte africana in cui veniva effettuata una  spettacolare ricognizione di stili e tendenze.

Nella seconda sala gli oggetti  di artigianato in legno, cioè figure caratteristiche di animali e di sagome. Con l’elemento dominante costituito dal grande schermo nel quale scorrevano le immagini di  località dalla vegetazione lussureggiante, acque tumultuose, o edifici urbani  particolarmente significativi.

Va considerato che la popolazione è costituita da 250 etnie in 450 tribù, il sostentamento è dato dalle risorse naturali del territorio, con un’altissima biodiversità e piogge abbondanti, fattori questi che danno al paese un elevato potenziale agricolo-

 Per valorizzare tale potenziale e tradurlo in sviluppo effettivo sviluppo, è stata predisposta una serie di progetti nei settori strategici: dall’agricoltura e itticoltura alla sicurezza alimentare e protezione ambientale, dall’acqua e l’ energia alle infrastrutture; seguono i trasporti, la sanità e la scuola.

Sono necessari investimenti dell’ordine di centinaia di milioni di euro,  con  l’intervento, oltre che del governo del Congo, delle istituzioni internazionali dalla Banca mondiale alla Banca africana di sviluppo, dalla Banca Europea degli investimenti alla stessa Commissione Europea.

Il presidente della Camera di Commercio  ItalAfrica centrale Alfredo Cestari  all’inaugurazione della mostra ha affermato che già a maggio saranno aperte le gare e, riferendosi in generale alla manifestazione milanese, ha aggiunto che “L’Expo dovrà rappresentare una rara occasione sia per i governi con progetti di sviluppo immediatamente cantierabili, che per le aziende occidentali in cerca di vie nuove e concrete per il proprio business”.  E ha dichiarato che la sua organizzazione è pronta ad organizzare in sede Expo  incontri tra istituzioni pubbliche e private, mondo produttivo e istituti sovranazionali.

La valorizzazione della produzione agricola  in modo innovativo è essenziale anche per non dover ricorrere all’estensione della superficie coltivata a scapito della superficie boschiva, che costituisce il secondo bacino forestale del pianeta per estensione, ed è quindi  uno dei “polmoni” vitali. 

All’Expo il Congo è presente con uno spazio espositivo di 125 metri quadrati nel cluster “Frutta e legumi”  in cui sono evocate  le caratteristiche e le peculiarità della propria produzione agricola, che nella mostra al Vittoriano sono sintetizzate in un cesto di frutta di aspetto caravaggesco.

La  Polonia

Se la frutta è stata posta a simbolo delle risorse agricole del Congo con la semplicità del cesto esposto in mostra e l’esibizione nel relativo “cluster” all’Expo, nel  caso della  Polonia si può dire la stessa  cosa per la manifestazione milanese.

Al Vittoriano la frutta non è assente; tra gli opuscoli e  i depliant turistici distribuiti, c’è un volume di Eliza Mòrawska, “On Polish Apples,  40 recipes for breakfast, lunch, dinner and dessert”, 142 pagine a colori di grande formato con 40 ricette  sui molteplici usi del pomo di Venere  corredate da illustrazioni oltre che succulente, artistiche, quasi altrettante nature morte. 

Viene fornito inoltre un corposo vademecum,  “Polska”, sulle maggiori attrazioni,  con le città, da Varsavia a Katowice, a Cracovia con la Cattedrale e la collina artificiale in onore degli eroi della nazione; e con la natura, dalle dune e le coste del Baltico  ai monti del Tatra e alle  colline della Slesia.  L”immagine data del paese, con la promozione  “Polonia – Vieni e vivi la tua favola”, é una visione fiabesca di località urbane e agresti, montane e lacustri  in cui gli  scenari ambientali fanno da sfondo a scene edificanti con  persone felici, quasi personaggi di una favola moderna.

Sono 16 fotografie artistiche corrispondenti alle regioni  polacche con altrettante attrazioni che fanno rivivere situazioni fiabesche in cui il visitatore può identificarsi. Il messaggio è che quei luoghi restano nel cuore come favolosi ricordi nello stesso modo delle fiabe infantili  che riemergono  in tutta la loro magia.  “E’ un invito – si afferma –  a raccontare e a raccontarsi, a viaggiare e vivere la propria favola in quel paese nel cuore dell’Europa che è un concentrato di bellezza artistica e scorci naturalistici”.

In effetti ci si sente portati in un mondo fiabesco, ma proprio per questo ci si chiede quale sia la  realtà del  paese che la mostra vuol presentare. La risposta si ha nella sala successiva, quella che per il Congo esibiva oggetti di artigianato tradizionale, oltre alle immagini sul grande schermo.

La  realtà è quella dell’alta tecnologia,  rappresentata in modo multimediale e interattivo  dai prodotti di 4 società  polacche, leader nell’innovazione e nello sviluppo tecnologico, di cui vediamo nelle vetrinette degli esemplari.  Si tratta del  processore industriale più veloce del mondo della Digital Core, del cubo interattivo della Game Technologie3s, delle schede di memoria e dei dispositivi di archiviazione UBS avanzati della Goodram, di un sistema costruttivo complesso di “intelligence wireless”   di protezione domestica della Fibaro.

Questa scelta espositiva riflette l’impegno del paese nello sviluppo delle alte tecnologie mediante programmi governativi a supporto delle attività dei centri di ricerca e dei parchi industriali e tecnologici, delle zone economiche speciali e degli investimenti innovativi,  come viene sottolineato precisando gli obiettivi perseguiti: “Il Paese punta allo sviluppo delle nuove tecnologie, al trasferimento dei risultati della ricerca nei processi produttivi e alla creazione di una giovane imprenditoria tecnologica”.  Può essere un esempio  da non sottovalutare.

E la frutta evocata appena dai depliant e dalle mele  offerte ai visitatori,  come balza alla ribalta nell’Expo? Alla grande, anzi in forma colossale, il padiglione polacco ha una parete modulare traforata che si rivela come  un  accumulo di innumerevoli cassette di mele, quelle usate per l’imballaggio e il trasporto che si vedono in tutti i mercati.  Tutto qui? Certamente no, il senso  della favola torna nel giardino segreto  che si apre dietro la scatola traforata con i filari di alberi di mele caratteristici del paesaggio polacco.  Perché è un giardino infinito per l’immagine moltiplicata dagli specchi  e gli elementi metallici che rivestono le pareti interne moltiplicandone i riflessi ; un giardino che diventa una piazza italiana, luogo di incontro e di socializzazione, piena di luce come se si materializzasse magicamente nel bel mezzo di un “meleto” in una regione polacca.

Anche nell’Expo dalla favola si passa alla realtà, si possono fare passeggiate virtuali  e  seguire i processi di maturazione delle mele nel periodo della mostra, tra maggio e ottobre, e persino raccogliere i frutti dagli alberi di mele. Tutto questo mediante la tecnologia avanzata presente nei vari elementi dell’allestimento,  in un abbinamento  natura-tecnologia del tipo di quello appema accennato nella mostra romana in un clima da favola.  Il logo, rappresentato da una cassetta di mele disegnata con gli “hashtag” telematici, riassume il messaggio “di un’economia polacca efficiente, basata su soluzioni moderne e innovative, che rispetta la natura ed è in armonia con l’ambiente”.

La mela, dunque, come testimonial di un paese, dopo essere stata testimonial di una città, la “grande mela newyorkese”; ed essere al centro di una favola antica, quella di Biancaneve. 

Ora è al centro di una nuova favola, quella di un paese presentato  in un clima di magia, dove natura e tecnologia si uniscono per dare la felicità, quella espressa dalle fotografie del Vittoriano illuminate dalla gioia di vivere.  Dall’ intervento dell’Ambasciatore si è avuto lo stesso messaggio positivo e invitante, e crediamo non sia solo un fatto promozionale ma  rifletta un’effettiva convinzione; anche da questo si può  trarre un insegnamento da non trascurare.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, ala Brasini. Da lunedì a giovedì ore 9,30-18,30, sabato e domenica 9,30-19,30. Ingresso gratuito; l’ingresso è consentito fino a 30 minuti prima della chiusura. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti articoli sulle mostre al Vittoriano della serie “Roma verso Expo”: nel 2014, su “Egitto e Slovenia” l’8 novembre,su “Albania e Serbia” il 9 dicembre, nel 2015 sul “Vietnam” il 14 gennaio, sull’“Estonia” il 7 febbraio, su “Grecia e Germania” il 22 febbraio, su “Tunisia e Dominicana”  il 25 marzo.  Per la mostra citata nel testo cfr. i nostri 2 articoli in “cultura.inabruzzo.it”  su “Africa, una nuova storia, al Vittoriano”  il 15 e 17 gennaio 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, e le ambascite di Congo e Polonia, per l’opportunità offerta. Le prime 5 immagini inserite nel testo sono sul Congo, riproducono dipinti  e oggetti di artigianato caratteristico; le successive 5 immagini sono sulla Polonia, riproducono foto esposte con suggestivi scorci ambientali.

Numeri, conferme e sorprese, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude la  nostra visita alla mostra  “Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito”,  al Palazzo Esposizioni  dal 16 ottobre 2014 al 31 maggio 2015, un viaggio nel quale abbiamo trovato conferme e sorprese su un mondo nel quale tutti hanno fatto le loro esperienze scolastiche e di vita. Dopo aver descritto i  5 “moduli”  e  i  6 “crocevia”  della mostra ci siamo soffermati soprattutto sul significato e il valore dei numeri, sulle misure del tempo, della ricchezza e della vita con i relativi strumenti, fino ai numeri naturali, per descrivere infine le installazioni interattive. Ora entriamo nei numeri da  zero a infinito,  “p greco” e  “quadratura del cerchio”, ” radice di 2″ e “numero aureo”,  numeri irrazionali e immaginari con “i”, logaritmi ed “e”, fino ai “numeri primi”. La mostra è realizzata  dall’Azienda speciale PalaExpo con Codice, Idee per la Cultura,  curatore Claudio Bartocci, coordinatore scientifico Luigi Civalleri:  hanno curato anche il Catalogo  di  PalaExpo -Codice Edizioni, che tratta tali aspetti  specialistici in una forma chiara e coinvolgente.

Zero  e infinito

Entriamo subito nel vivo della matematica vissuta “come un romanzo”  con lo zero:  ha il fascino dell’Oriente, dato che le sue origini  risalgono alla più antica civiltà indiana, con riferimento anche  a testi filosofici in cui si trovano i concetti di “vuoto” e “nulla”  portati poi in campo matematico. 

La mostra delinea “le tappe dello zero”: da Bhinmal in  Rajasthan,  nel capolavoro di Brahmagupta in cui compare come simbolo e come elemento algebrico risultante da somme di numeri positivi e negativi, a Sind  regione nell’attuale Pakistan, quindi a Toledo, nel Liber Alchorismi; fino a Pisa nel “Liber baci” di Leonardo Fibonacci, cui si deve la sequenza dei numeri con le rispettive somme.

Dallo zero al 10 come base di numerazione riferita alle dita delle mani fatta risalire, dal matematico Nicomaco di Gerasa, I-II sec. d.C., al “Dio creatore” perché “il numero dieci è in effetti il più perfetto di tutti”.  Vengono descritte anche numerazioni su basi diverse, come la base 5 di popoli delle Nuove Ebridi,  la base 20 di antichi popoli del Mesoamerica e dell’Africa occidentale, la base 12 di antiche civiltà mesopotamiche, e la base 2  illustrata da Leibniz nel “De progressione Dyadica” del 15 marzo 1679;  ebbene, incredibile ma vero, si tratta  del metodo binario, con la sequenza 1 e 0 che riporta i valori logici di vero e falso, su cui si basa la rivoluzione dell’informatica.

La nozione di infinito è anch’essa antichissima e legata alla filosofia, la troviamo 2500 anni fa in Zenone di Elea, mentre Aristotele distingue l’infinito attuale e l’infinito potenziale, ammettendo solo il secondo; a sua volta sant’Agostino ammette il primo riferendolo all’onniscienza di Dio,  e i filosofi della scolastica parlano di infiniti disuguali perché gli infiniti attuali sono diversi.

Queste concezioni sono sull’orlo del paradosso e diventano intriganti perché la mente  giunge al confine delle proprie capacità intuitive. Infatti gli infiniti disuguali postulano il concetto che alcuni sono più grandi di altri che ne farebbero parte: come i numeri pari, un insieme infinito  ma meno grande dell’insieme  dei numeri naturali che lo comprende ed è altrettanto infinito.  

Galileo Galilei nei “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze” si esprime così rispetto al paradosso degli “infiniti disuguali”: “Io non veggo che altra decisione si possa venire, che a dire, infiniti essere tutti i numeri, infiniti i quadrati, infinite le loro radici, né la moltitudine de’ quadrati  esser minore  di quella di tutti i numeri, né questa maggior di quella, ed in ultima conclusione gli attributi di eguale maggiore e minore non aver luogo ne gli infiniti, ma solo nelle quantità terminate”.  E a proposito dell'”indivisibilità del continuo”, ammoniva: “Ricordiamoci che siamo tra gl’infiniti e gl’indivisibili, quelli incomprensibili dal nostro intelletto finito per la lor grandezza,  e questi per lor piccolezza”.

Tutti si sentono rinfrancati da questa ammissione di Galilei sulla scienza, come da quella di Einstein sulla matematica: e anche se la scienza ha fatto enormi passi in avanti, non è venuta meno la consapevolezza dell’inadeguatezza delle nostre conoscenze perché la spiegazione dei misteri e la soluzione dei problemi ne apre sempre altri  ancora più complessi.

Dai paradossi sugli infiniti si passa all’ipotesi del continuo e alla teoria degli insiemi, agli indefiniti e agli infinitesimi;  il simbolo dell’infinito è  l’8 orizzontale; introdotto da Wallis nel 1655 è presente nelle attuali espressioni algebriche dei limiti  di un “numero n tendente all’infinito”.

Nella matematica antica compaiono “i  numeri che danno le vertigini”, superiori anche alla nostra immaginazione, come  nel calcolo del tempo universale degli indiani e del “numero dei granelli di sabbia nella sfera delle stelle fisse” di Aristotele.

“P greco” e  quadratura del cerchio, radice di 2 e “numero aureo”,  numeri irrazionali

Il numero più famoso  non è lo zero, ma il misterioso “p greco” , riferito al rapporto  tra area e quadrato del raggio di una circonferenza conosciuto sin dall’epoca babilonese, come si legge nel “Secondo libro delle cronache” riguardo agli arredi del tempio di Salomone, e  usato nei calcoli dell’agrimensura egizia. Molte sono state le formule per calcolare il “p greco” con errori di approssimazione sempre più piccoli, tutti ricordano che a scuola viene identificato con 3,14.

Partendo dal “p greco”  la mostra conduce a una girandola di operazioni matematiche in  cui geometria ed aritmetica si sono sfidate a risolvere problemi legati al cerchio nei suoi rapporti con altre figure piane. Con Euclide troviamo la problematica dei poligoni inscritti e circoscritti,  ma è la “quadratura del cerchio”  la sfida che ha appassionato i matematici,  sin dai sofisti che la ritenevano possibile mentre Aristotele  non accettava la loro soluzione, e affermava che non è legittimo “dimostrare una proposizione geometrica mediante l’aritmetica” . I  tentativi successivi hanno invece usato proprio l’aritmetica scontrandosi con il “p greco”,  considerato prima numero “irrazionale”, quindi traducibile in forma geometrica,  poi però molto diverso dagli irrazionali come la radice di 2, e “trascendente”, per questo non traducibile in segmenti.

La sfida è proseguita, così concludono i curatori nel Catalogo: “Il problema della quadratura del cerchio –  con buona pace dei matematici dilettanti che si ostinano in sforzi inutili -. non è risolvibile con gli strumenti della geometria euclidea”.

Con la “radice di 2″  dal cerchio si passa al quadrato, i cui rapporti tra lati e diagonale hanno intrigato i matematici: infatti la radice di 2 corrisponde alla diagonale di un quadrato i cui lati sono uguali ad uno in base al celeberrimo teorema di Pitagora secondo cui la somma dei quadrati dei lati-cateti è uguale al quadrato della diagonale-ipotenusa. Si tratta del numero irrazionale per eccellenza, che non può essere espresso dal rapporto tra due numeri interi, cioè una frazione con numeratore e denominatore interi. Al teorema di Pitagora è dedicata una rappresentazione solida con i celebri quadrati costruiti sull’ipotenusa e sui cateti come vasi comunicanti riempiti di un liquido verde che consente di verificarne visivamente l’equivalenza muovendo i vasi suddetti.

Dal quadrato al pentagono si giunge alla “sezione aurea”, la cui diagonale è  incommensurabile rispetto al lato per cui il loro rapporto è un  numero irrazionale chiamato “numero aureo”,indicato con il “f greco”  maiuscolo, e definito  “il rapporto tra due grandezze che siano in  ‘estrema  e media ragione’, cioè tali che il rapporto tra la maggiore e la minore sia uguale al rapporto tra la somma delle due grandezze e la maggiore”.  Per chi  ritiene astrusa tale spiegazione tutto diventa chiaro con  la rappresentazione di una “spirale logaritmica”  dalla forma di una conchiglia,  disegnata ed esposta in mostra anche materialmente: è un  Nautilus  dalla forma sinuosa ed armoniosa.

Del resto,  il numero aureo è stato adottato  come supremo canone estetico-matematico da architetti e scultori dell’antichità e del Rinascimento,  Leonardo da Vinci lo ha citato nel “De divina  proporzione”, lo troviamo nella “Section d’Or” di Duchamp e Villon, in Leger e Picabia  che voleva ricostruire il cubismo su quelle basi, fino a Le Corbusier che vi basò il sistema di proporzioni universali “Modulor” per i suoi progetti architettonici e urbanistici, vediamo esposto il grande grafico  con una figura umana,  le sue misure e a lato la progressione delle proporzioni.

I “numeri irrazionali”  non rientravano nella matematica greca, ma già nel IV-V sec. a. C. fu fatta la  distinzione tra “grandezze commensurabili”, cioè “misurate da una stessa misura”,  e “grandezze incommensurabili”,  che non hanno alcuna misura comune, come diagonale e lati del quadrato; poi Euclide  ne fece una trattazione dettagliata ma astrusa nei suoi “Elementi”, libro che  nel XVI sec. fu definito “troppo duro da digerire”, al punto da essere considerato “la croce dei matematici”.

I  numeri immaginari  con “i”

Dai numeri irrazionali, capofila la radice quadrata di 2,  ai “numeri immaginari”,  capofila  la “radice quadrata di -1″:  solo con l’immaginario si può concepire un numero il cui quadrato è un numero negativo come  – 1,  mentre il quadrato è  positivo sia se  nasce da numeri negativi che positivi, perché il prodotto di un numero negativo per se stesso, tale è il quadrato, è sempre positivo.

Ma le equazioni possono dare radici negative quando hanno tre radici reali,  è il caso detto irriducibile, e perciò non avrebbero senso se non si escogitasse una qualche soluzione.  Ci provò Cardano, nell’ “Ars magna”, ma riteneva i nuovi numeri escogitati come artificio matematico “tanto sottile quanto inutile”; mentre nel 1572  Bombelli, con  “L’algebra”, trattò in modo sistematico le radici dei numeri negativi , precedute o no dal segno meno, e fissò le regole  di moltiplicazione.

Fu Descartes nel 1637, con  “La geometrie”, a chiamare “numeri immaginari” le radici quadrate dei numeri negativi, che divennero nei secoli seguenti uno strumento fondamentale dell’algebra, dopo  molte resistenze essendo per certi versi paradossali o comunque non intuitivi. Al punto che Leibniz  arrivò a definire la “radice immaginaria” come un “miracolo dell’analisi, mostro del mondo ideale, quasi anfibio tra ente e non ente”.  Fu Euler a introdurre il simbolo “i”  per l’unità immaginaria rappresentata dalla radice quadrata di -1, per cui  il quadrato di i è uguale a -1; ne consegue che la radice quadrata di ogni numero negativo può essere espressa dal prodotto tra un numero reale ed “i”, e così si arriva ai numeri complessi” la cui espressione è del tipo “a + ib”: ogni numero ha 2 radici quadrate, quelle di 1 sono 1 e -1, quelle di -1 sono “i” e “- i”.

Una rivoluzione per le equazioni, per cui ogni equazione di grado “n”  veniva ad avere “n”  soluzioni o radici con la particolarità, divenuto “teorema fondamentale dell’algebra”, che ogni equazione polinomiale ha almeno una radice complessa. Con l’elevarsi del grado delle equazioni cresce la difficoltà di trovare delle soluzioni, perché oltre il quarto grado non sono risolvibili per radicali.

Dai numeri complessi si va alle geometrie complesse”  fino ai quaternioni,   numeri ipercomplessi  derivati dalla soluzione trovata da Hamilton il 16 ottobre 1843,  mediante una struttura algebrica quadridimensionale, che vede oggi applicazioni perfino nella robotica per i modelli dei movimenti di giunti e bracci meccanici.

I logaritmi con il numero “e”, e i “numeri primi”

E qui ci fermiamo, non prima di aver  ricordato un altro grande protagonista della matematica cui la mostra, come per gli altri  fin qui citati, dedica un pannello illustrativo. Si tratta del numero “e”, definito dai curatori “dalle mirifiche proprietà”, corrispondente  al valore di x, per cui log (x) uguale ad 1.  Il numero “e” , che corrisponde a 2, 718281828459045….  è la base dei “logaritmi naturali”, detti iperboliciperché riferiti all’area sottesa in un’iperbole studiata da Mercator; i logaritmi, cui si avvicinò già Leibniz, furono descritti con esempi da Euler in “Introductio in analisi infinitorum ” del 1748, e sono diventati uno strumento fondamentale  con lo sviluppo del calcolo infinitesimale.

La tavola dei logaritmi dei primi 1000 numeri fu pubblicata  da  Briggs nel suo “Logarithmorum chilias prima”, pubblicato nel 1617, l’anno in cui morì Napier (Nepero) che aveva introdotto il termine “logaritmo” con il suo “Mirifici logarithmorum canonis descriptio” del 1614. I logaritmi  hanno trovato largo impiego nella scienza e nell’ingegneria, quando si devono trattare grandi numeri, e l’uso delle tavole ha semplificato il calcolo, fino all’avvento dei computer.   

Cosa sono dunque i logaritmi?  Il logaritmo  di un numero in una data base è l’esponente al quale la base deve essere elevata per ottenere il numero, detto “argomento”.  Quindi il logaritmo in base 10 di 1000 è 3 perché bisogna elevare 10  alla terza potenza per ottenere 1000; è la funzione inversa dell’elevamento a potenza della base. Il logaritmo naturale è di grande importanza, avendo come base “e”, che come si è visto corrisponde a 2,718…  circa, inverso della relativa funzione esponenziale. Il logaritmo del prodotto di due numeri è la somma dei loro logaritmi,  il logaritmo del loro quoziente è la differenza dei loro logaritmi, la  mostra lo richiama alla nostra attenzione, stimolando i ricordi dei banchi di scuola  che non si fermano alle  formule matematiche.

Se “Elementi”  di Euclide è stato definito “la croce dei matematici”, vi assimiliamo i logarirmi – nella loro versione moderna senza risalire al libro di Nepero – nel definirli “la croce degli studenti”.  Per questo è affascinante ritrovarli, insieme agli altri numeri magici ed alle altre  espressioni algebriche, nel percorso della mostra che diventa anche un viaggio nella memoria.

Concludiamo tornando  ai fondamenti dopo che la mostra ci ha fatto viaggiare  tra numeri irrazionali e immaginari, complessi  e logaritmi, portandoci da zero all’infinito attraverso simboli misteriosi come “p greco” ed “e”, passaggi intriganti come la radice di 2 e di -1, numero negativo, la quadratura del cerchio e il numero o sezione aurea.

 Alla base ci sono i “numeri primi”, cioè quelli che hanno “due divisori distinti” , definiti già negli “Elementi” di Euclide, secondo cui esiste sempre un numero primo maggiore di qualunque numero, che porta all’attuale  concetto di infinito pur se estraneo alla visione euclidea. Da loro si formano tutti gli altri numeri naturali per moltiplicazione; mentre i numeri primi non si creano per moltiplicazione ma  con dei processi,  per la loro generazione gli antichi usavano la procedura logaritmica detta “crivello di Ersatostene”, e in mostra è visualizzata la “spirale di Ulam” con tutti i numeri primi minori di 2015 ; altre famiglie di numeri primi sono quelli di Mersenne e di Fermat.  

I numeri primi hanno portato a una rivoluzione nella crittografia, superando i vecchi metodi basati su cifratura e decifratura in base a una chiave segreta , con il sistema RSA (dagli ideatori Rivest, Shamir e Adleman), fondato su un teorema di Euler-Fermat secondo cui è facile generare numeri primi grandi ma estremamente difficile  “determinare almeno  un fattore di interi grandi accuratamente scelti”. Il teorema è della prima metà del ‘700, ma la sostanziale impossibilità di “fattorizzare tali interi grandi”   rende sicure le attuali transazioni elettroniche , firma digitale compresa; anche questa utilizzazione pratica è possibile per le proprietà dei numeri primi. Non aggiungiamo altro sul  tema che ha dato il titolo al romanzo di Paolo Giordano, “La solitudine dei numeri primi”, vincitore del Premio Strega 2008.  

 Il viaggio nella scienza, un itinerario affascinante

Termina il  nostro viaggio nel quale  all’approfondimento delle tematiche scientifiche, intriganti quanto complesse, si unisce l’ aspetto ludico  da segnalare soprattutto per le scolaresche: le abbiamo viste nelle installazioni che riproducono i fenomeni con la partecipazione del visitatore,   momenti di curiosità unita al divertimento che rendono la visita distensiva e  non solo fonte di riflessione. Ciascuno vi ha potuto trovare conferme di conoscenze già acquisite e sorprese di nuove conoscenze.

“Da zero all’infinito”  recita il sottotitolo della mostra attuale per il  viaggio tra i “numeri”, “Fra il nulla e l’infinito”  abbiamo definito a suo tempo  il viaggio tra “Astri e particelle”  della mostra del 2009; il percorso dell’umanità è stato esplorato,  dall’“Homo sapiens” a “Darwin”  alla “Via della Seta”  fino ai “Meteoriti”,  con il  Pianeta visto dallo spazio,  e  al “Cibo”.

Tutti viaggi compiuti nel Palazzo Esposizioni con pari attenzione al lato spettacolare ed all’accuratezza e rigore della ricerca storica e scientifica. Attendiamo le prossime tappe di un itinerario sempre più  affascinante.  

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Domenica, martedì, mercoledì, giovedì ore 10,00-20,00; venerdì e sabato 10,00-22,00, lunedì chiuso; entrata consentita fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso:  intero euro 12,50, ridotto euro 10,00 , da 7 a 18 anni euro 6, gratuito fino a 6 anni, gruppi euro 10 a persona e scuole euro 4 a studente (sabato, domenica e festivi, intero). Il biglietto permette di visitare anche le altre mostre in corso al Palazzo Esposizioni.  Tel. 06.39967500, http://www.palaexpo.it/.  Catalogo: “Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito”, di Claudio Bartocci e Luigi Civalleri, PalaExpo e Codice Edizioni, pp. 202, formato 20 x 24, dal Catalogo oltre che dai pannelli della mostra sono state tratte le notizie del testo.  Il nostro primo articolo sulla mostra è in questo sito,  “Numeri, da zero a infinito a Palazzo Esposizioni”   23 aprile 2015. Per le precedenti mostre sulla scienza al Palazzo Esposizioni citate cfr. i nostri articoli: in questo sito  “Sulla Via della Seta. Le prime tappe al Palazzo Esposizioni”  e “Sulla Via della Seta. Baghdad e Istanbul”  21 e 23 febbraio 2013, “Meteoriti e la terra vista dallo spazio al Palazzo Esposizioni”  5 ottobre 2014, “Cibo. 90 fotografie di National Geographic”   1° febbraio 2015 ;  in http://www.antika.it/  “Roma. La mostra “Homo sapiens’ al Palazzo Esposizioni”  7 gennaio 2012;  in “cultura.inabruzzo.it”  “Astri e particelle in mostra a Roma” 12 febbraio 2010, “Una mostra su Darwin a Roma”, 28 aprile  2009.  La definizione  “Fra il nulla e l’infinito” posta nella nostra conclusione con riferimento alla mostra “Astri e particelle”   è il titolo di un libro sull’infinitamente grande unito all’infinitamente piccolo,  di Eduardo Ioele, “Tra il nulla e l’infinito. Lo spazio di Dio”, Edizioni  Ripostes, 2008, pp. 190.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “il senso dei numeri”, seguono nell’ordine di citazione nel testo, il numero zero, e “p greco”, poi la radice di 2 e la rappresentazione solida del teorema di Pitagora, quindi “i” con i numeri immaginari e la base “e”, inoltre i nmeri primi; in chiusura, un pannello che evoca il “Modulor” di Le Corbusier.

Carabinieri TPC, recuperati un Picasso e altre due opere d’arte

di Romano Maria Levante

Affollato ancora più del solito l’annuale incontro con la stampa per la presentazione del Rapporto annuale sull’attività del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale,  che  non si è svolto nella sede di via Anicia a Trastevere, ma nel Salone al Collegio romano del Ministero per i Beni, le Attività Culturali e il Turismo, quasi per dare maggiore solennità. Ha partecipato,  con il comandante del corpo gen. Mariano Mossa e i collaboratori, il ministro Dario Franceschini.

Anche quest’anno il Rapporto è stato accompagnato dalla presentazione dei risultati di operazioni di successo nel contrasto  e repressione della vendita illecita dei beni di rilevante interesse storico e dei beni archeologici  risultanti da scavi clandestini per i quali è incessante la vigilanza con diversi metodi investigativi. Sono tre le operazioni che hanno portato al recupero di tre opere di rilevante valore artistico, il cui valore economico è valutato in oltre 30 milioni di euro: un complesso scultoreo di Mitra tauroctono, una tela di Pablo Picasso  scomparsa , un dipinto del Carlevarijs.

 Come sempre il recupero è legato ad attività investigative complesse, che configurano ogni volta trame intriganti degne della fantasia di un autore di romanzi polizieschi, cosa che ci ha indotto a riproporre l’idea di un serial televisivo  del tipo di quello trasmesso dalla Rai negli anni ’80, alcune puntate di “Caccia al ladro d’autore. Ne parlò in un incontro del tipo di quello attuale l’allora sottosegretario al MIBAC  Francesco M. Giro, rilanciammo l’idea più volte documentandoci su quel ciclo di trasmissioni, lo facciamo ancora certi che un nuovo ciclo trent’anni dopo abbia una ragion d’essere e un interesse anche maggiori. Le vicende legate alle tre operazioni di successo presentate ne sono un’ulteriore prova.

Il recupero del Mitra tauroctono del II-III sec. d. C.

Abbiamo accennato i metodi investigativi per il contrasto agli scavi clandestini, tra questi c’è il continuo monitoraggio sulle aree archeologiche maggiormente indiziate, come quelle di Roma e dell’Etruria meridionale, per le quali la zona di Fiumicino si è rivelata un crocevia del traffico dei beni scavati clandestinamente; monitoraggio fatto di vigilanza investigativa con il supporto delle informazioni disponibili in collaborazione con le Soprintendenze archeologiche competenti.

Ebbene, durante questi servizi di vigilanza,  l’attenzione dei carabinieri è stata attirata da un furgone che trasportava piante ed altro materiale coperto da un telone, dall’aspetto anonimo ma preceduto da  un motociclo con una Smart, quasi si trattasse del battistrada e della copertura di un trasporto speciale, una sorta di staffetta dal tratto autostradale  che è stata bloccata nei pressi del Museo delle Navi di Fiumicino. La “scorta” si è data alla fuga, mentre sotto il telone del furgone è stato trovato un complesso marmoreo,  una figura maschile che abbatte un toro, e intorno dei piccoli animali. Subito la statua è stata sequestrata e l’autista del furgone noleggiato arrestato per ricettazione.

 La Soprintendenza speciale dei Beni Archeologici di Roma, subito interessata, ha considerato l’opera come un “Mitra tauroctono”  tipica iconografia del dio Mitra di straordinario valore storico ed archeologico. Il complesso marmoreo era destinato alla Svizzera per essere messo sul mercato illecito  internazionale, come è emerso dalle perquisizioni in cui sono state trovate mappe della Confederazione elvetica con indicazione di itinerari ed altri elementi su cui sono in corso indagini.

Non finisce qui l’impegno investigativo, a questo punto interessava individuare la zona di provenienza. Sulla base dei dati storici e artistici si è risaliti alle aree archeologiche di Tarquinia e Volsci, mentre i dati scientifici ricavabili dall’opera, tra cui la data presumibile dello scavo,  incrociati con la mappatura degli scavi clandestini  monitorati, hanno consentito di restringere l’area indiziata. 

Così una campagna di scavo di urgenza avviata dall’articolazione territoriale del Mibact ha portato ad individuare il luogo esatto dove è stato trafugato il complesso marmoreo; e a recuperare parti staccatesi dal complesso nel trafugamento, in particolare un cane rampante e una testa di serpente combaciante con il resto della scultura.  Ma c’è di più, oltre all’ambiente che ospitava la statua, di evidenti funzioni sacre, sono stati rinvenuti altri 8 ambienti, con reperti importanti: tra cui pavimentazioni a forme floreali in materiale fittile, pavimentazione mosaicata ed altri frammenti in marmo.  Quasi il botto finale nei fuochi pirotecnici di un operazione di successo.

Il sequestro del dipinto di Pablo Picasso e il recupero di quello seicentesco di Luca Carlevarijs

Due vicende diverse con il risultato comune dell’individuazione e recupero di opere di alto valore.

Per il “Violin e bouteille de bass” di Picasso, di cm 54 x 45, presente nell’edizione 1961 del catalogo Zervos, sono in corso accertamenti sulla provenienza originaria, dato che le circostanze  tanto sorprendenti da apparire incredibili anche se gli accertamenti del CNR hanno fugato i dubbi sull”autenticità dell’opera che avevano fatto scattare le indagini.

Tutto è nato dalla richiesta avanzata dalla casa d’aste Sotheby’s all’Ufficio Esportazioni di Venezia dell’attestato di libera circolazione del dipinto attribuito a Picasso, per un valore dichiarato di 1,4 milioni di euro ritenuto troppo esiguo al punto di farlo ritenere un falso attivando la sezione Falsificazioni ed Arte Contemporanea del reparto Investigativo del Comando. Carabinier TPC.

Ed ecco la storia su cui sono in corso  ulteriori accertamenti. L’incarico a Sotheby di vendere l’opera era stato dato da un corniciaio in pensione, che l’aveva ricevuta nel 1978 come compenso volontario per una riparazione di un portafotografie della moglie scomparsa al vetro rotto da una domestica effettuata gratuitamente data la sua semplicità.

Aveva tenuto il quadro senza cautele per 36 anni credendolo senza valore fino a quando per caso ha conosciuto la possibile attribuzione,  di qui la richiesta di vendita a Sotheby. Una storia che ha dell’incredibile, ricorda la “realtà romanzesca”,  anche qui c’è materia per una fiction di successo.

Per il recupero dell’opera di Luca Carlevarijs,  artista vissuto tra il 1665 e il 1731,  “Veduta di Piazza San Marco dall’attracco delle gondole”, di cm 122 x 59, tutt’altra storia. Ne è stata accertata la provenienza furtiva, essendo stata sottratta dalla casa di un privato collezionista il 28 aprile 1984; ed inserita nel “Bollettino delle ricerche delle opere d’arte rubate” dei Carabinieri.

Il dipinto è stato trovato presso un mediatore d’arte, insieme a 190 foto di opere pittoriche compresa quella del quadro in questione,  durante una perquisizione nella sua abitazione essendo indiziato di ricettazione ed esportazione illecita di un importante dipinto individuato negli USA; gli indizi hanno trovato conferma con l’acquisizione di prove di un vasto traffico illecito diopere d’arte con la Svizzera, avendo per destinazione finale gli appassionati d’arte americani. Dal mediatore si è avuto il nominativo del collezionista che gli aveva fornito l’opera, indagato per ricettazione.

Sono solo le ultime operazioni delle tante svolte con successo di cui dà conto il Rapporto 2014.

Dai titoli di stampa la sequenza mensile di una fiction vera

L’elegante fascicolo con cui sono presentati i risultati contiene, oltre alle tabelle e al testo, la riproduzione di articoli di quotidiani del 2014 su una serie di successi mese per mese..

Citiamo questi  titoli, più eloquenti di una ponderosa relazione, formano un canovaccio intrigante, quasi puntate mensili di una fiction appassionante che è realtà tangibile di tutti i giorni.

Gennaio, “Papà e figlia trovati con le mani nel tesoro”, “Dopo un buon restauro il violino tornerà a splendere” (Il Resto del Carlino).

Febbraio, “Oltre 3 mila reperti d’arte ritrovati dai Carabinieri” (Il Tempo).

Marzo, “L’alleanza preti-carabinieri riduce i furti di opere d’arte” (La Nuova).

Aprile, “Torna a casa il quadro trafugato 80 anni fa” (La Stampa).

Maggio, “Tela d’autore rubata in villa. Mercante d’arte finisce a processo” (Corriere Mercantile).

Giugno,  “Trafugata dai nazisti la Vergine torna a casa” (Il Giorno), “Carabinieri TPC recuperano pere d’arte sparite: nei guai restauratore” /(La Nazione).

Luglio, “Scoperto il mago del metal detector. S’impossessava dei reperti archeologici” (Il Resto del Carlino), “Il ‘San Luca’ di Bellotti torna alla Cini” (La Nuova).

Agosto, “Il reliquario di san Teobaldo torna al Duomo dopo 31 anni” (La Stampa), “Quadro rubato dai nazisti, ritrovato  e restituito alla Brigata Bersaglieri ‘Garibaldi’” ((Il Mattino).

Settembre, “A Villa Margherita i tesori salvati dall’Arma” (La Stampa), “Chiese saccheggiate, due arresti dei carabinieri” (Il Resto del Carlino).

Ottobre, “Lasciano il Museo, 9 preziosi pannelli lignei trafugati” (Il Gazzettino di Bassano-Vicenza), “Carabinieri TPC ritrovano un antico quadro rubato 13 anni fa” (Corriere dell’Umbria).

Novembre, “Furti d’arte sacra, la pista porta in Romania” (Bresciaoggi.it), “Quadro rubato a Roma ritrovato dai Carabinieri del TPC a Perugia: vale un milione” (Romacorriere.it), “I ladri fermati dai Carabinieri del nucleo TPC” (La Sicilia).

Dicembre, Pronti  a piazzare le opere d’arte rubate al ‘signor Rolex'” (Corriere dell’Umbria)..  

Il Rapporto 2014 sull’attività dei Carabinieri del Comando TPC

E’ difficile a questo punto passare al  freddo linguaggio delle cifre dell’attività di contrasto e di tutela che sono il cuore del Rapporto, insieme all’esposizione dei compiti assegnati. Ma alcune vanno citate per documentare i successi ottenuti non solo rispetto ad operazioni di particolare rilievo, ma anche rispetto alla tendenza generale dell’attività criminosa.

Il Comandante. Gen. Mariano Mossa ha sottolineato l’ulteriore diminuzione dei furti di opere d’arte (- 10% circa), l’aumento delle scoperte di scavi clandestini ( +20%) e del numero di opere false sequestrate (+ 52% circa)”, l’aumento dei deferimenti all’Autorità Giudiziaria (+ 3%).

Nel 2014 i furti di opere d’arte sono stati 609, di cui 105 nel Lazio, :concentrati soprattutto nelle chiese (267)  e presso i privati (242) mentre, nota positiva, nei musei sono stati solo 23, tra cui 4 statali e 15 comunali. I furti nelle chiese, pur se rilevanti, sono diminuiti del 20% circa per l’opera di prevenzione, anche se il numero di oggetti trafugati è aumentato del 2,4%. E’ un settore che continua a destare preoccupazione per la difficoltà di tutelare un patrimonio importante sotto il profilo non solo storico e artistico ma anche religioso e umano, molto diffuso sul territorio e poco protetto. Con la  pubblicazione delle “Linee guida per la tutela dei beni culturali ecclesiastici” richieste dalla CEI si è dato un importante contributo alla loro migliore protezione e inventario.

Gli scavi clandestini scoperti sono 59, rispetto ai 49 del 2013, e 127 persone denunciate all’Autorità Giudiziaria. I reperti di minor valore  e le monete sono destinati al mercato interno, quelli più importanti al mercato estero. E’ un crimine disposto lungo una filiera, dai tombaroli che scavano clandestinamente, al ricettatore locale al quel vendono a poco prezzo  i materiali frutto degli scavi,  ai ricettatori di maggiore livello organizzati in associazioni a delinquere che inseriscono i reperti sui mercati nei momenti propizi simulando la liceità della provenienza con una serie di artifici.

L’aumento dei sequestri di opere d’arte falsificate è reso da cifre inequivocabili, dai 112 falsi sequestrati nel 2013 per un valore di 32 milioni di euro, nel 2014 si è passati al sequestro di  1687  falsi  per un valore di ben 427 milioni di euro: un successo, sì, ma il rovescio della medaglia è la recrudescenza del fenomeno della falsificazione,  che si avvale di tecniche raffinate e riguarda sia l’arte contemporanea, sia l’arte antica anche con false certificazioni che spesso gonfiano il valore.  L’azione di contrasto utilizza anche il controllo dei mercati e dei soggetti a rischio, nonché il monitoraggio delle piattaforme digitali delle case d’aste e delle altre vendite anche  televisive.

Per la tutela del paesaggio i dati documentano l’azione svolta attraverso controlli sistematici che  hanno portato al deferimento di 307 persone (273 nel 2013) e al sequestro di 15 immobili  e 3 aree protette., per un valore di 22 milioni di euro.

L’attività svolta complessivamente dal Comando carabinieri TPC parte dai riscontri attraverso la Banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti: sono stati riscontrati 183.857 oggetti nei controlli presso esercizi privati, Musei e gallerie, inseriti 2600 eventi e 11.000 beni culturali, individuati per tale via 592 beni trafugati. Sono stati sequestrati beni culturali per 80 milioni di euro, non comprendendo i beni archeologici restituiti da soggetti stranieri e i falsi, recuperati 38.488 beni culturali, ai quali vanno aggiunti circa 18.000 reperti archeologici, e 7.000 beni di numismanza archeologica; sequestrati 79.214 beni di natura paleontologica e riscontrati 93 illeciti di natura amministrativa.  All’Autorità Giudiziaria sono state deferite 1.301 persone con un aumento del 3,3% rispetto alle 1.260 nel 2013, tra loro 10 con restrizione della libertà personale.

Il Rapporto 2014 fornisce anche un quadro dell’attività di prevenzione, che ha visto operare 3.453 controlli agli esercizi interessati, 1686 alle aree archeologiche e 1.74 alle aree paesaggistiche anche con gli elicotteri; e di monitoraggio degli esercizi antiquariali con vari sistemi e strumenti. E indica le linee evolutive dell’attività di contrasto, anche rispetto all’evoluzione del mercato illecito dei beni culturali, in campo internazionale e via Web. Si conclude con un excursus sulle altre attività, dalla

formazione alla cooperazione, fino alla mostra al Quirinale sui Tesori recuperati e al secondo Corso universitario di perfezionamento sugli elementi storici e scientifici per l’azione di contrasto.

Non poteva mancare il plauso del Ministro Franceschini, assediato al termine da una selva di microfoni , ulteriore prova dell’interesse verso questo settore cruciale per il nostro paese impegnato a custodire, e valorizzare, l’alta quota di beni culturali patrimonio dell’umanità di cui dispone.

E’ un impegno delicato e difficile,  perché proprio la  presenza ampia e diffusa di beni culturali, unita alla forza di attrazione esercitata su collezionisti e investitori internazionali e all’elevata rimuneratività costituisce, come ha detto  il gen. Mossa nell’introdurre il  rapporto denso di numeri,  “un substrato altamente fertile per lo sviluppo dei traffici illeciti”.

‘Sono numeri – ha osservato il ministro Franceschini – che dimostrano il lavoro enorme compiuto dai Carabinieri, ma anche quanto ancora dobbiamo difenderci, ad esempio, dalle opere di scavo clandestino”. E ha citato i riconoscimenti internazionali, sottolineando in particolare i corsi organizzati dal Comando, oltre che per i paesi dell’U.E., anche per Russia e Spagna, Macedonia e Palestina, Equador e Salvador. Infine, sui “caschi blu”  dell’ONU a protezione del patrimonio culturale internazionale, ha detto che ”anche su questo fronte l’Italia deve tenere un ruolo guida”.’

La dissennata distruzioni di reperti millenari ad opera dei fondamentalisti islamici, come avvenne ad opera dei talebani anni orsono, rende questo tema un’emergenza di importanza sempre maggiore e di  stingente attualità.

Info

Cfr. i nostri precedenti servizi sulle presentazioni di importanti recuperi, nel 2015 in questo sito  “Carabinieri TPC, recuperati 5000 reperti archeologici” 25 gennaio; per gli anni precedenti su http://www.antika.it/ . Inoltre cfr. i nostri servizi in questo sito e in quello appena citato sulle mostre organizzate dal Centro Europeo per il Turismo a Castel Sant’Angelo con le opere recuperate dalle forze dell’ordine.

Foto

Le immagini sono state fornite dal Comando Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, che si ringrazia. In apertura, i due dipinti recuperati  affiancati; seguono  il “Mitra tauroctono”, II-III sec. d. C., e il dipinto di Pablo Picasso, “Violin et bouteille de bass”, quindi il dipinto di Luca Carlevarijs, “Veduta di Piazza San Marco dall’attracco delle gondole”, e un primo piano del “Mitra tauroctono”; in chiusura, un precedente recupero dell’agosto 2013, del tipo di quello presentato, di due dipinti di Paul Gauguin e Pierre Bonnard, con il ministro Franceschini a sin. e il comandante Mossa a dx.

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Numeri, da zero a infinito, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni, dal 16 ottobre 2014 al 31 maggio 2015, la mostra “Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito”, presenta un viaggio nel mondo dei numeri in 5  “moduli”  e  6 “crocevia” nei quali ne vengono esplorati i diversi aspetti:  dal significato al valore dei numeri, dagli strumenti di  misura agli enigmi in essi racchiusi o con essi risolti, dai numeri naturali a quelli irrazionali, immaginari e complessi fino ai misteri della quadratura del cerchio e del numero aureo, con i grandi matematici e le installazioni dimostrative di tono ludico. In programma, sperimentazioni e visite guidate per la scuola secondaria, attività e laboratori per famiglie, scuole per l’infanzia e primarie, oltre a  speciali iniziative e manifestazioni per tutti gli interessati.  La mostra, organizzata dall’Azienda speciale PalaExpo con Codice, Idee per la Cultura,  è curata da Claudio Bartocci, coordinatore scientifico Luigi Civalleri, entrambi curatori del catalogo PalaExpo – Codice Edizioni, nel quale la carrellata visiva della mostra è tradotta in un altrettanto affascinante iter specialistico.

Il Palazzo Esposizioni prosegue nel suo impegno di seguire il cammino della scienza, impostazione inconsueta per sedi espositive dedicate all’arte, e per questo meritoria data  l’importanza  della scienza nella storia dell’umanità e nella vita di tutti.  E  affronta i problemi della divulgazione  in forme consone alla spettacolarizzazione espositiva, per mantenere viva l’attenzione del visitatore.

Il senso di una mostra insolita e intrigante

Vittorio Bo, presidente di “Codice Idee per la Cultura”, nel ricordare le precedenti esposizioni “Darwin”, “Homo Sapiens” e “Sulla Via della Seta”, ha affermato: “Sono ‘storie di storie’, in cui il cosiddetto storytelling era aiutato dai personaggi, dalle loro vite, dai popoli delle grandi migrazioni e dalle molteplici forme cui potevamo ispirarci  per rendere vivo il cammino del visitatore, accompagnandolo verso sorprendenti traguardi”.  Ci si è messi “nei panni di un visitatore, grande o piccolo che fosse, per raccontare  le origini dell’uomo, i suoi grandi viaggi, i mutamenti sociali, tecnologici, linguistici”, temi vicini ai suoi interessi e alla sua sensibilità. “Con ‘Numeri’  la scommessa è più ardita perché partiamo da concetti, da astrazioni, per cercare di rendere altrettanto vivo il cammino e l’esperienza di chi vorrà seguirci”.

La soluzione, in realtà, è stata quella di partire ugualmente dall’uomo per giungere ai concetti e alle astrazioni: l’uomo con le sue esigenze e i suoi problemi risolti dai numeri, l’uomo con le sue ricerche e scoperte che hanno rivelato a poco a poco, lungo una storia infinita, i segreti della natura racchiusi nei numeri. E la mostra è punteggiata di citazioni dei grandi ricercatori, fino a costituire sezioni dedicate;  soprattutto il Catalogo ne è costellato in ogni sua parte, tanto che prima di essere una galleria di concetti e di astrazioni è una galleria dei personaggi dai quali sono state elaborati i teoremi e le teorie, oppure studiati i metodi e gli strumenti per penetrare con i numeri tali segreti.

Il presidente dell’Azienda Speciale PalaExpo e della Quadriennale di Roma,  Franco Bernabè, la considera “quasi una sfida” raccolta per il “successo di critica e di pubblico delle mostre a carattere scientifico” precedenti, e cita,  oltre a quelle  prima ricordate, anche “Astri e particelle. Le parole dell’Universo” dove non vi era il fattore umano; e, aggiungiamo noi, non vi era possibilità di evocarlo come in “Cibo”  con la presenza dominante delle persone al lavoro nei diversi continenti, sui campi e nei laboratori scientifici, o nelle città con le suggestive foto di National Geographic; o come in “Meteoriti”  in cui lo stupore per i corpi piovuti dall’alto era il cuore delle testimonianze.  Ma l’umanità non resta estranea perché i numeri, “nonostante un pregiudizio infondato che li vuole distanti, inaccessibili e freddi,  sono infatti il disegno nascosto che governa, in misura tanto misteriosa quanto affascinante, l’armonia del mondo. Rappresentano il vocabolario e la grammatica in cui si esprime non solo la descrizione dei fenomeni naturali, ma anche, non di rado, la speculazione filosofica e artistica”.  Così Bernabè ne riassume  le molteplici valenze.  

Anche qui ci sono personaggi, come Pitagora e Archimede, Euclide e sant’Agostino,  Gauss e Cantor, Nepero e Fibonacci, Catalan e Lucas, Leclerc e Pascal, Eulero e Leibniz, per non parlare di Aristotele e Platone e dei tanti  altri  protagonisti che vengono citati per  ogni avanzamento del sapere matematico;  Einstein  figura solo con una citazione e una foto all’ingresso.

Viene data una risposta  all’intrigante interrogativo su “quanto l’uomo, dagli albori della sua storia sino al nostro secolo conti”, considerando –  osserva sempre Bernabè – che “i numeri, tuttavia, non sono solo gli elementi fondanti del discorso scientifico, essi esercitano anche un fascino profondo sulle arti, la letteratura, l’architettura e la musica”. 

Esercitano  un fascino anche sul pubblico, aggiungiamo, se a distanza di poco tempo, di  recente, sono apparse nelle edicole due collane dedicate appunto ai misteri e al fascino dei numeri e dei loro cultori, una di “Mondo matematico” con oltre 15 titoli, l’altra del “Corriere della sera” con oltre 35 titoli  dall’intestazione eloquente  “La matematica come un romanzo”.   

Come avvicinare ai numeri, “distanti, inaccessibili e freddi”?

Il sindaco di Roma Ignazio Marino  ha osservato che ” il sottotitolo della mostra ‘Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito’, gioca volutamente con il celebre aforisma di Einstein ‘Non tutto ciò che conta può essere contato’, e  introduce al senso di questa iniziativa: “Avvicinare tutti a un tema senza la cui conoscenza difficilmente potremmo capire ciò che ci circonda, dalla  più piccola particella della materia all’Universo”.

Come avvicinare al tema dei numeri dal quale dipende la conoscenza dell’infinitamente piccolo e dell’infinitamente grande, mondi  retti da equilibri rigorosamente numerici, tali da farne escludere la fonte da un evento causale e farli ricondurre ad una somma intelligenza di natura trascendente?

La mostra lo fa con un percorso, insieme  didattico  e spettacolare, che di volta in volta propone e svela i grandi misteri della matematica mediante rappresentazioni visive e reperti, semplici illustrazioni e incroci spazio-temporali,  fino alle installazioni interattive che fanno  la gioia delle scolaresche, e non solo,  in quanto  rendono accessibili  i complessi labirinti del sapere.

Il percorso si snoda in 5 moduli che riguardano il senso dei numeri con il loro significato  e l’atto  del contare, fatto di gesti, segni e cifre diversi secondo i tempi e i luoghi; poi gli strumenti per calcolare utilizzati dall’uomo nelle varie epoche e i modi di misurare con i diversi tipi di numeri e le  applicazioni, dalla vita quotidiana all’universo,  per terminare con gli enigmi  dei numeri primi.

Lungo  l’itinerario vi sono  6 crocevia  dedicati ai numeri più significativi e ai grandi matematici – la galleria di personaggi di cui abbiamo parlato –  con delle  “finestre” tematiche: I numeri naturali, 1, 2 ecc.,  con una finestra sulla loro “mistica”, poi la radice di 2 e il numero aureo  con  Pitagora, la “divina proporzione dell’arte”;  quindi una vera cavalcata, il “p greco” e Archimede, il numero “e”  con Eulero, i logaritmi  e la matematica applicata alla musica, il numero immaginario “i”  con Gauss e i frattali,  “0”  e l’ “infinito” e i matematici al-Khwarizmi, e Cantor.

Il viaggio nel mondo dei numeri

E’ un viaggio affascinante  quello  che la mostra offre al visitatore, con la successione di pannelli esplicativi e installazioni, reperti e strumenti – 20 prestatori tra istituzioni di Italia, Francia e Belgio, Germania e Usa –  schemi e immagini, in una spettacolare quanto  stimolante galleria.

Come è intrigante la frase, che domina all’ingresso come un ammonimento dantesco al contrario:  “Non preoccuparti delle tue difficoltà in matematica; posso assicurarti che le mie sono ancora maggiori”. Bernabè nella Presentazione ha ricordato che  “la matematica la studiamo sui banchi di scuola, la approfondiamo all’università, la ascoltiamo nei festival della scienza e nelle conferenze”,   mentre dei numeri non si può ignorare  “la diffidenza che suscitano in molti di  noi”.

Ebbene, le parole appena citate di Albert Einstein  servono a dissiparla, per questo la sua figura domina l’ingresso ed è preso a “testimonial” della mostra, anche se poi non si parla più di lui. Il motivo  lo sottolinea  un giovane professore impegnato nell’illustrare praticamente l’uso dei Bastoni di Nepero a una folta classe di studenti per passare poi alle altre sezioni della mostra: “Einstein era un fisico, non un matematico,  quindi non rientra nel mondo nei numeri, ma le sue parole rivolte a una bambina di nove anni sono un incoraggiamento soprattutto per gli studenti”.

Infatti li vediamo affollarsi alle postazioni, ascoltare il professore, abbandonarsi con interesse alle sperimentazioni che popolano la mostra dove il gioco si unisce all’apprendimento. Il viaggio  inizia con la domanda se “calcolare è umano”,  dal Filebo di Platone secondo cui nel calcolo, che è  estraneo al mondo animale,  si riassume l’umanità. In realtà  alcune operazioni  elementari sono accessibili anche ad alcune specie, come i cani, mentre  per  i calcoli più complessi  la mente umana non basta, quindi si è cercato il  supporto di metodi e strumenti di misura.

La mostra risale agli Egiziani con l'”ostracon ieratico” del 1100 a.C.,  e  ai Babilonesi, con la tavoletta dell’Esagila del 229 a. C.,  per progredire con la “misura del tempo” e i calendari,  come quelli  evocati dai due bassorilievi dei Maya, 600-800 e degli Atzechi, 1350-1521; e con gli strumenti di calcolo  a partire dall’abaco del VI sec. d.C  e dai più antichi pallottolieri: troviamo i  Bastoni di Nepero  e i regoli di Genaille-Lucas  di fine XIX sec.,la “Pascalina” di Pascal e il “tamburo differenziato” di Leibniz del XVII sec., gli “aghi di Buffon” del 1777  tra le prime misure probabilistiche e le prime macchine calcolatrici, con la “Difference Engine”, macchina differenziale  di Babbage  del 1823 che anticipa i computer.  Infine  le calcolatrici del ‘900,  dalle prime addizionatrici alla Divisumma fino alle macchine da calcolo elettroniche degli anni ’60  e ai regoli calcolatori, dai più antichi a quelli  di uso in epoca relativamente recente.

Le macchine moderne sono esposte insieme ai reperti e alle  ricostruzioni degli strumenti più antichi già citati ed  evocano   i  progressi lenti ma continui prima dell’irruzione dei computer, cui la mostra non arriva.  E’ esposto anche  il meccanismo crittografico per le comunicazioni cifrate dell’ultima guerra, “Enigma”, una sorta di macchina da scrivere con dei rotori, ne fu però decifrato il codice segreto con ripercussioni sull’andamento di importanti operazioni belliche.

Tra le applicazioni pratiche dei numeri vengono evidenziati i “numeri della ricchezza”  nelle monete e banconote, e i “numeri della vita” nella statistica; nonché i “numeri della realtà” cioè i modelli che simulano i fenomeni trasformandoli in espressioni numeriche, la curva “gaussiana” ne esprime la distribuzione statistica ; fino ai “numeri dello spazio” che definiscono le posizioni dei corpi celesti secondo regole ben precise, anche qui si utilizza la “gaussiana”, e ai “numeri della musica”, con  il “temperamento equabile” degli accordatori,  l’ottava divisa in dodici parti uguali.  

L’esigenza di “misurare il mondo”  ha portato alla definizione di standard  universalmente riconosciuti.  Nella mostra non ci si limita a presentare le unità di misura ben note;  c’è un video particolarmente suggestivo con la visualizzazione delle potenze del 10  utilizzate come incredibili strumenti di misura  dall’infinitamente grande della visione cosmica all’infinitamente piccolo della struttura interna dell’atomo fino al nucleo, penetrando con il video nella pelle fino alle cellule e addirittura al Dna di cui vengono filmate le caratteristiche strutture a doppia elica.

Abbiamo accennato a metodi e  strumenti, alle applicazioni e alla visualizzazione più spettacolare,  la mostra fa poi entrare nel mondo dei numeri fino agli “enigmi dei numeri primi” nei “crocevia”  in cui  vengono posti in primo piano i capisaldi significativi, cominciando dai “numeri naturali” .

Troviamo i numeri pari e dispari di Pitagora e Aristotele, i  numeri quadrati e oblunghi di Platone e i numeri piani e solidi di Euclide, i “quadrati magici” e le famiglie di numeri,  i numeri figurati a forma triangolare, fino al ben noto Triangolo di Tartaglia  preceduto da forme numeriche indiane e islamiche,  come il triangolo numerico di Yang Hui del XIII sec. citato nel trattato di Zhu Shìjié  dal titolo suggestivo . “Lo specchio di giada delle quattro incognite”.

Poi, da questi scenari da “Mille e una notte” , si passa a temi apparentemente astrusi ma presentati in una forma divulgativa gradevole: lo  zero e  l’infinito, il “p greco” e  la radice di 2,  i numeri irrazionali e il numero aureo,  il fatidico “e”   con i logaritmi, e i” con i numeri immaginari, stimolano  l’interesse e la memoria secondo gli studi di provenienza del visitatore.

Le installazioni interattive

Prima di dare  conto dei temi matematici vogliamo citare una serie di installazioni che consentono al visitatore di entrare virtualmente e in modo interattivo nella problematica che viene evocata .

Una postazione visualizza le sezioni  del cervello e si attiva  premendo i sei settori deputati a distinguere le immagini e  i suoni,  a comprendere il linguaggio e le parole, a coordinare i movimenti  e infine a contare.

Poi la sfida a calcolare il numero dei fagioli o delle spugnette, mediante operatori elettronici attivati manualmente, il pensiero torna al giuoco televisivo  che divenne molto popolare per il quiz sul numero dei fagioli in un barattolo, qui i fagioli, e non solo, sono in un grande contenitore posto sulla parete dietro le manopole per il calcolo.

Il livello culturale si innalza , mentre quello scientifico e spettacolare è sempre elevato, con le  due postazioni  che collegano alla grande storia e alla musica:  nella prima il visitatore può agire con una sorta di orologio universale per rintracciare nel tempo gli eventi con le date che appaiono in una grande proiezione circolare sulla parete; nella seconda spostando dei blocchetti  in senso longitudinale posti su un’apposita installazione, cambiano le note e gli accordi  musicali,  come se si rappresentasse  il “temperamento equabile”, con la divisione di un’ottava in dodici parti uguali per avere i semitoni,  tuttora impiegato dagli accordatori.  La matematica vera e propria irrompe con il Triangolo di Tartaglia, croce e delizia per generazioni di studenti, che  si materializza in alto nella penombra assumendo colorazioni, e numerazioni sempre diverse, in un’altra sfida intrigante e spettacolare.

Poi i Bastoni  di Nepero con un parete magnetizzata su cui applicarli secondo le regole del calcolo, abbiamo seguito un professore mentre ne mostrava l’applicazione pratica ai suoi studenti; così per i Regoli di Genaille-Lucas, delle lunghe bacchette numerate da usare opportunamente.

Un postazione  fa calcolare il “p greco”  in modo per così dire personalizzato,  ponendosi su una pedana;  in un’altra postazione salendo su una pedana si calcolano le proprie misure, tiene anche al contabilità dei visitatori con le relative misure aggregate.

E ancora l'”insieme di Julia” con un grande cilindro verde per arrivare ai “frattali”,  fino all’albergo di Hilbert, entrando tra due specchi  altissimi la propria immagine viene moltiplicata all’infinito: è il paradosso del Grand Hotel con infinite camere tutte occupate,  in cui si può sempre trovare posto per nuovi ospiti singoli o infiniti spostando i presenti ogni volta su nuove stanze.  

Per finire con la saletta della statistica,  dove una serie di video trasmette valori continuamente aggiornati di molteplici fenomeni della vita reale.  

Le installazioni  le abbiamo riprese e anche provate personalmente, mentre intere scolaresche facevano a gara nel cimentarsi nella simulazione di problemi e fenomeni spesso complessi. E’ anche questo il segreto della mostra, alla base del suo successo dimostrato dall’apertura per sette mesi e mezzo e dal continuo afflusso di visitatori. I momenti apparentemente ludici  sono in realtà  una forma pratica e coinvolgente per entrare nella materia, fino ai suoi aspetti specialistici.  

Ma ora va seguito il percorso della mostra nei suoi moduli e nei crocevia insieme didascalici e spettacolari:  racconteremo presto questo viaggio intrigante nel mondo dei numeri. 

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma. Domenica, martedì, mercoledì, giovedì ore 10,00-20,00; venerdì e sabato 10,00-22,00, lunedì chiuso; entrata consentita fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso:  intero euro 12,50, ridotto euro 10,00 , da 7 a 18 anni euro 6, gratuito fino a 6 anni, gruppi euro 10 a persona e scuole euro 4 a studente (sabato, domenica e festivi, intero). Il biglietto permette di visitare anche le altre mostre in corso al Palazzo Esposizioni.  Tel. 06.39967500, http://www.palaexpo.it/.  Catalogo: “Numeri. Tutto quello che conta da zero a infinito”, di Claudio Bartocci e Luigi Civalleri, PalaExpo e Codice Edizioni, pp. 202, formato 20 x 24, dal Catalogo oltre che dai pannelli della mostra sono state tratte le notizie del testo.  Il secondo e ultimo articolo, “Numeri, conferme e sorprese a Palazzo Esposizioni”,  è previsto in questo sito il prossimo  26  aprile. Per le precedenti mostre sulla scienza al Palazzo Esposizioni citate,  cfr. i nostri articoli: in questo sito,  “Sulla Via della Seta. Le prime tappe al Palazzo Esposizioni”  e “Sulla Via della Seta. Baghdad e Istanbul”  21 e 23 febbraio 2013, “Meteoriti e la terra vista dallo spazio al Palazzo Esposizioni”  5 ottobre 2014, “Cibo. 90 fotografie di National Geographic”  1° febbraio 2015 ;  in http://www.antika.it/“Roma. La mostra “Homo sapiens’ al Palazzo Esposizioni” 7 gennaio 2012;  in “cultura.inabruzzo.it”,  “Astri e particelle in mostra a Roma” 12 febbraio 2010, “Una mostra su Darwin a Roma”, 28 aprile  2009.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Einstein, testimonial della mostra, all’ingresso; seguono due antiche testimonianze di misura del tempo, un bassorilievo maya  del 600-900, e un bassorilievo atzeco del 1350-1521, poi  due installazioni interattive, la prima per il calcolo di grandi quantità incognite, fagioli e spugnette, la seconda per muoversi sulla scala musicale con il “temperamento equabile”; quindi il triangolo di Tartaglia e i bastoni di Nepero, inoltre il calcolo interattivo personalizzato del “p greco” e l’insieme di Julia con i frattali; in chiusura, l’installazione con visualizzate le zone del cervello con le rispettive funzioni.  

Treccani, i 90 anni dell’Enciclopedia Italiana al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, nella Gipsoteca, lato Ara Coeli, dal 1 ° aprile al 20 maggio 2015 la mostra “Treccani 1925-2015. La Cultura degli Italiani”  celebra i novant’anni dell’Istituto creato da Giovanni Treccani nel 1915, che ha pubblicato oltre ai 35 volumi dell’Enciclopedia Italiana con 24 volumi di aggiornamento, e ad 81 volumi del Dizionario Biografico degli Italiani del programma iniziale,  altre prestigiose realizzazioni, ciascuna in più volumi: il Dizionario Enciclopedico Italiano,  il Lessico Universale Italiano e una serie di enciclopedie:  tematica,  l’Enciclopedia dell’Arte antica, classica e orientale; e specialistiche, Enciclopedia Giuridica  ed Enciclopedia delle Scienze Sociali, Enciclopedia dell’Arte Medievale ed Enciclopedia delle Scienze Fisiche, Enciclopedia dei Papi ed Enciclopedia Archeologica, Enciclopedia del Cinema ed Enciclopedia della Moda, fino all’Enciclopedia dei  Ragazzi, e ai più recenti Fridericiana e Scienza e Tecnica. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Catalogo dell’Istituto Treccani.

Dopo  i 90 anni della Radio, e dell’Istituto Luce,  al Vittoriano si celebrano i 90 anni di un’altra istituzione,  l’Enciclopedia Treccani. Forse chiamarle istituzioni, la Radio e la Treccani, può sembrare retorico,  invece è addirittura riduttivo: perché non  sono rimaste al di fuori, come avviene per le istituzioni paludate, ma sono entrate nella vita degli italiani, anche se in modo molto diverso. La radio come compagna quotidiana e palestra di sogni, la Treccani come sogno proibito  presente nello sfondo, è stato per decenni il trenino elettrico della cultura  irraggiungibile ai più come quello dei giochi.

Il pensiero va alla Treccani storica, prima degli aggiornamenti che ne hanno dilatato le dimensioni facendola restare al passo dei tempi;  alla Treccani contenuta nel mobiletto compatto, che abbiamo rivisto nell’esposizione, con i volumi stretti come le quadrate legioni di una formazione invincibile.

La Treccani nelle parole del presidente Mattarella

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel suo messaggio di saluto, ha affermato che “l’attività dell’Istituto si è sempre intrecciata indissolubilmente con la storia culturale del nostro paese”, e ne ha riassunto con efficacia la storia, il ruolo e l’importanza.

“Per la prima volta si ebbe l’intuizione di coniugare la storia della cultura con l’evoluzione linguistica, in un momento cruciale per il processo di alfabetizzazione del paese”, e lo si è fatto con “un grande progetto teso a conferire unità alla molteplicità dei saperi scientifici e umanistici insieme”, alla cui realizzazione hanno dato il loro apporto i più autorevoli docenti e scienziati, intellettuali ed esperti delle diverse discipline.

L’Enciclopedia nazionale nello stesso tempo è stata “in grado di favorire la diffusione a tutti i livelli del grande patrimonio culturale italiano nel mondo. E capace di soddisfare un lettore attento ed esigente, animato dalla volontà di conosce e dal desiderio di crescere con la cultura”.

Novant’anni sono tanti, ma “Treccani ha sempre creato opere al passo dei tempi attente a cogliere i nuovi ambiti del sapere e della conoscenza”.  E non è stata un’attività di ordinaria amministrazione, limitata al programma iniziale: “Negli anni il catalogo dell’Istituto  si è arricchito di contributi divenuti delle pietre miliari nelle rispettive discipline”. Ma c’è di più:, lo ha fatto “indicando  allo stesso tempo un percorso metodologico di ricerca e presentandosi non solo come un  punto di arrivo ma soprattutto un punto di partenza per nuovi aggiornamenti, in una visione aperta al nuovo e alle moderne acquisizioni dei nuovi saperi”.

La storia della Treccani nelle realizzazioni editoriali

A testimonianza di tutto ciò c’è la storia della Treccani, una storia di novant’anni:  molti nella vita personale, un piccolo percorso nella prospettiva storica. Un percorso tracciato dall’istituto con le innumerevoli voci dell’Enciclopedia nelle quali viene riassunta la vita in tutte le sue espressioni, storiche e geografiche, scientifiche e umane con un filo sottile che unisce il presente al passato e prepara il futuro. Le migliaia e migliaia di voci,  approfondite fino all’inverosimile; fanno penetrare nei recessi dell’evoluzione e del progresso, analizzano tutti i comparti dell’agire umano nel tempo e nello spazio,: sono la storia.

Ma com’è la storia della Treccani? Diamo soltanto qualche elemento sottolineando che il fondatore Giovanni Treccani degli Alfieri (1867-1961) ne fu presidente dal 1925 al 1933. All’atto della costituzione  dell'”Istituto dell’Enciclopedia italiana” come società di importanza nazionale nel giugno 1933, ne divenne presidente Guglielmo Marconi, che curava il settore delle Radiocomunicazioni, con Treccani e Giovanni Gentile vice Presidenti. Tra i nomi  noti che hanno collaborato alle voci di competenza citiamo Enrico Fermi per la fisica e Nicola Parravano per la chimica, Roberto Almagià per la geografia e Ugo Ojetti per l’arte; per la linguistica Bruno Migliorini.

Dalle realizzazioni del passato alle sfide del futuro

Del “nostro futuro” ha parlato  Massimo Bray, che dopo la breve esperienza di Ministro per i Beni e le Attività Culturali ha scelto di dimettersi dal Parlamento per dedicarsi interamente alla Treccani, bell’esempio che deve significare qualcosa.  Ha illustrato, in particolare, la funzione che può continuare ad esercitare la Treccani quando molte antichissime istituzioni enciclopediche non reggono dinanzi alla rivoluzione segnata da Internet e dal digitale.

Ne parliamo prima di descrivere la mostra per superare l’impressione che sia la  commemorazione di qualcosa di storico ma superato e non un momento di riflessione sul cammino compiuto non disgiunto dalla consapevolezza del cammino da compiere in una riaffermata legittimazione al passo dei tempi. Consapevolezza riassunta in due esigenze  pressanti che Bray riassume così: “Metodo critico, dunque, e memoria del passato: sono questi, i due compiti essenziali di un’enciclopedia, sia essa composta da decine di volumi cartacei di grande formato, sia essa consultabile on-line in formato digitale”.

A questi compiti  fa fronte la Treccani con l’autorevolezza del suo passato e la prontezza nel raccogliere le sfide del futuro.

Il metodo critico, affinato nel corso dell’intera sua storia, serve a dominare  lo tsunami di informazioni, notizie e commenti, esigenza questa che si è accresciuta con quello che Bray chiama il “mosaico impazzito” del web,  richiedendo qualcosa di certo e attendibile in quanto certificato da chi ha le carte in regola per dare delle garanzie.

Di questo si ha assoluto bisogno “proprio nel momento in cui il mondo digitale fornisce l’illusione di un accesso illimitato alla conoscenza che spesso non è altro, in realtà, che accesso a una serie di notizie e informazioni non controllate, e comunque non strutturate in un sistema che aiuti a comprenderle nella loro complessità”. Le false conoscenze molto diffuse oggi nel web sono altrettanto dannose, se non di più, della mancanza di conoscenza  di ieri, e la Treccani può fornire garanzie di completezza e correttezza. Questo avviene anche in formato digitale, rivolgendosi a un pubblico molto più vasto e differenziato forte dell’esperienza accumulata nella sintesi e nella divulgazione, come si vede consultando il sito.

Lo tsunami di informazioni ha un altro effetto dannoso,  si rischia – è sempre Bray – che “finisca di travolgere il passato: quel passato  la cui conoscenza è il primo fondamento della nostra identità di individui e di membri di una comunità”.  Di qui la cura di affiancare all’Enciclopedia realizzazioni editoriali dedicate  al grande patrimonio culturale, dai  testi della tradizione letteraria ai documenti.

Il filo rosso della memoria nel fiume di nuove parole

Ed ora la visita alla mostra, dove veniamo attratti dalla parete di destra nella quale, lungo  l’intero percorso espositivo  scorre il fiume delle nuove parole sorte anno dopo anno per quasi 90 anni.

Un  filo rosso di un vocabolario in continua evoluzione come lo è la vita.  La mostra riesce a rendere questa magia che sembra inafferrabile  in modo magistrale. Vediamo subito come.

Vi sono nove grandi comparti, ciascuno relativo a un decennio,  con 7 postazioni interattive  che consentono la navigazione multimediale nei contenuti della Treccani, anche con schermi “touchscreen”,  secondo le aree tematiche L’Italia e la sua Arte, l’Italia e la sua Storia, La cucina italiana come cultura e Il tesoro della lingua italiana, Le scienze e Il dibattito enciclopedico, fino alla Musica con  Giuseppe Verdi.  E’ possibile la ricerca approfondita  per scavare all’interno di questi temi nei quali si scolpisce l’identità del paese e la sua costante evoluzione. Il patrimonio di cultura e di sapienza del paese riversatosi sulla Treccani nei novant’anni di vita è disponibile anche attraverso libri e documenti, facsimili di preziosi codici miniati e fotografie, disegni e  incisioni.

Ma  dov’è la magia, trattandosi di una ricerca aperta e accessibile, che non può far vedere come il filo rosso del tempo  unisce i vari momenti facendo dei novant’anni anni un ciclo ininterrotto? E’ nelle parole, più che nei contenuti, d’altra parte le parole sono i capisaldi delle enciclopedie,  come i titoli dei film riassuntivi delle trame divenuti protagonisti, si imprimono nella memoria per la loro semplicità.

Vediamo in grande evidenza il fiume di parole che scorre come spinto dalla corrente formando raggruppamenti, ciascuno per un decennio, come quadri che ricordano il dipinto futurista di Cangiulo, “Grande folla in Piazza del Popolo”  dove la gente era rappresentata dalle  parole assiepate.

Le “10 parole del decennio”  rappresentano le nuove parole introdotte nell’Enciclopedia in ognuno degli anni che lo compongono dando il senso del rispettivo anno e insieme del cambiamento, a partire dalla prima parola del 1925 “cruciverba” , allora avveniristica.  Non sono le “parolibere” del futurismo sganciate dal quotidiano e dalla logica per proiettarsi nell’avveniristico progresso, sono al contrario organiche e  ancorate alla realtà di cui esprimono l’evoluzione già manifestata. In un gioco esaltante si va alla riscoperta di queste parole, che danno la misura del tempo e del cammino compiuto perché ciascuna di esse richiama alla memoria di ognuno vicende personali e storie collettive.

E’ il  filo rosso della continuità nel cambiamento della nostra vita che attraverso le parole crea la magia  della memoria evocata e alimentata dalla cultura.

Seguendo questa parete “magica” abbiamo percorso tutta la mostra ma ora, come nel gioco dell’oca, dobbiamo tornare all’inizio perché c’è tanto altro da vedere in una ricostruzione peraltro all’insegna della sobrietà come del rigore.

Le tre sezioni della mostra

Mette soggezione all’ingresso la figura di Alberto Treccani con l’imponente barba bianca, ma il suo aspetto ottocentesco non deve far pensare che l’istituzione da lui creata sia qualcosa di sorpassato o almeno passatista.  

Potrebbero essere considerati tali i volumi visti come qualcosa di consegnato agli archivi, monumenti culturali che è possibile ignorare perché espressione di un mondo che non c’è più.

Ha cominciato Emilio Isgrò nel 1970  prendendo di mira la Treccani per le sue “cancellature”, che non hanno risparmiato neppure la Costituzione italiana, nella mostra alla Gnam del 2013  vi erano dei box di legno con i volumi aperti su pagine con le righe cancellate.  Questo pensiero è poi alla base dell’installazione “Treccani sott’olio”  di Benedetto Marcucci, che dopo l’esordio al Macro nel dicembre 2010 e poi a New York, è stata a Palazzo Venezia alla mostra del “Padiglione Italia – Regione Lazio”  nella creativa e per certi versi trasgressiva impostazione di Vittorio Sgarbi della mostra celebrativa del 150°  dell’Unità d’Italia: su lunghe assi di legno, 54 volumi  immersi nell’olio entro barattoli sigillati con ceralacca,  lettura impossibile ma conservazione garantita in cantina.  L’autore l’ha definita “glorificazione e riduzione a reliquia” aggiungendo che è sul “crinale tra conservazione, annullamento e feticismo”.  L’opera non è esposta né citata in questa mostra, le si potrebbero contrapporre gli sviluppi multimediali del sito della Treccani: altro che volumi sott’olio, nella forma “on line” è quanto di più avanzato possa esservi in questo campo.

Ma torniamo al percorso della mostra dopo l’austera figura del suo fondatore che appoggiato da Giovanni Gentile riuscì a dare, con l’Enciclopedia, “la maggior prova intellettuale dell’Italia nuova”, come disse allora; infatti parteciparono all’impresa i maggiori studiosi italiani e molti stranieri di fama internazionale, che hanno redatto le voci di loro competenza creando un vero e proprio giacimento culturale: sono esposti anche dei documenti sulle collaborazioni più prestigiose, come il contratto firmato da Enrico Fermi per la stesura della voce “atomo”, e l’autografo della voce Umberto Boccioni a firma di Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo.

I novant’anni di vita vengono divisi in tre grandi periodi,  ciascuno con una peculiare messa in scena, a parte l’articolazione per decenni ciascuno con le 10 parole  magiche della sequenza sulla parete destra di cui si è già detto.

Sono queste le tre sezioni in cui si articola la mostra:  i 90 anni non sono stati divisi in tre trentenni, ma in tre grandi periodi. Per ognuno di essi è stata realizzata una  sobria ricostruzione ambientale di uno studio con scrivania e poltrona nello stile della singola epoca – si tratta di mobili e suppellettili originali –  con fotografie evocatrici  del periodo alla parete,  il tutto cambia da un periodo all’altro procedendo verso al modernità.  In ogni sezione la fila dei volumi speciali della Treccani del relativo periodo, non solo l’Enciclopedia,  apparentemente uguali a se stessi ma dai contenuti diversi secondo l’evoluzione dei fatti e degli interessi avutasi in tale momento storico.

 Dopo un prologo con la nascita dell’Enciclopedia correlata a realtà analoghe come la celebre “Encyclopédie” di Diderot e D’Alembert, la prima sezione va dal 1925 al 1945,  con i dibattiti nel mondo culturale e scientifico sulla funzione dell’Enciclopedia allorché fu progettata e poi realizzata, testimoniati anche da documenti autografi quali le lettere di Giovanni Gentile  e Benedetto Croce, e le carte vaticane che documentano i rilievi del  Sant’Uffizio per gli errori sul cattolicesimo contenuti nella Treccani. Nell’esibizione di questi documenti, come della lettera di Starace sul carattere “non fascista”  della redazione dell’Enciclopedia qualcuno potrebbe vedere un’ “excusatio non petita”. Comunque fotografie di Mussolini non mancano, e non poteva essere altrimenti, come non mancavano nella mostra, sempre al Vittoriano, sull’Istituto Luce, per ovvi motivi; anzi in quella mostra si prendeva il toro per le corna affrontando il problema del contenuto propagandistico dei film Luce dinanzi a una realtà che non poteva nascondere stimolando così lo spirito critico.

Anche per la seconda sezione, dal 1945-70 ci si affretta a precisare che “protagonisti sono l’Italia della Liberazione e il ruolo dell’istituto come luogo di un’erudizione anti-ideologica”, anche qui sembrerebbe un'”excusatio non petita”, essendo quello un requisito primario della cultura. Di certo è una fase in cui allo sbandamento del dopoguerra, dopo il crollo del fascismo, la guerra perduta, il sussulto della Resistenza fino alla Liberazione, segue la ricostruzione,  il miracolo economico, fino alla contestazione del 1968. In questo periodo all’Enciclopedia si affianca il “Dizionario Biografico degli Italiani” . Veniamo a sapere che il metodo di lavoro dell’Enciclopedia prevedeva otto tempi, vediamo presentate le fasi di stesura  e redazione definitiva delle voci. Sono esposti anche alcuni  disegni e acquerelli originali di artisti in base ai quali sono state  realizzate le tavole delle  Treccani, tra cui Carlo Lorenzetti e Mimmo Paladino.

La terza sezione, dal 1970 ad oggi,  comprende un periodo molto tormentato, si pensi agli “anni di piombo” con il loro carico di lutti, ma anche molto significativo per le scienze e per la comunicazione, che pone in primo piano la rivoluzione digitale, seguita dalla Treccani in tutte le fasi; come viene seguito il collegamento sempre più stretto tra arte e paesaggio. Ma nel documentare il nuovo con spirito critico non si dimentica di valorizzare il passato, secondo le due funzioni di cui abbiamo parlato: vediamo esposta la prima versione a stampa del “Dialogo di Galileo Galilei ” del 1632 , con un’installazione multimediale per confrontare le immagini scattate dai microscopi a scansione con quelle dei satelliti. L’innovazione più avanzata oggi, con quella che era la visione più avanzata ieri, per fortuna senza rischiare i fulmini dell’Inquisizione che allora perseguitò Galileo  E’ puramente casuale ogni riferimento  alla spettacolare galleria di 20 acquerelli sulla Divina Commedia  di Mimmo Paladino posta a conclusione, ma non neghiamo la malizia nel collegarli. .  

Al termine del percorso espositivo sono esposti i materiali artigianali dei tipografi e legatori, dal loro lavoro nascevano i volumi della Treccani, molto curati nell’aspetto oltre che nel contenuto. E un video fa seguire visivamente questo lavoro; che continua oggi per i volumi speciali dedicati a codici miniati, manoscritti, riedizioni di classici in vesti molto pregiate.

E’ significativo questo riconoscimento del lavoro artigianale altamente specializzato che si somma a quello intellettuale di assoluta eccellenza: è il “made in Italy” di cui si deve essere orgogliosi e a cui ci si può aggrappare per non perdere la fiducia dinanzi a tanti aspetti deteriori. “Il  bene non fa notizia”, si intitolava l’ultimo articolo di fondo di Aldo Moro, ebbene in questo caso fa notizia eccome. 

Info

Complesso del Vittoriano, Piazza Ara Coeli 1, Roma, Gipsoteca. Tutti i giorni, compresa domenica e lunedì, dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30,  da venerdì a domenica 9,30-19,30, si entra fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito.  Segreteria mostra  tel. 06.6780664-06.6780363. Organizzazione tel. 06.3225380.  http://www.comunicareorganizzando.it/info@comunicareorganizzando.it , www.treccani.it  Catalogo “Treccani 1925-2015. La Cultura degli italiani. 90 anni di cultura italiana”,  Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015, pp. 284, formato 24 x 24  Per le citazioni delle opere artistiche sulla Treccani  cfr. in questo sito  i nostri articoli: “Isgrò, il modello Italia nelle cancellature alla Gnam”  16 settembre 2013,  “Padiglione   Italia,  Sgarbi e la creatività contemporanea” 8 ottobre 2013,  con seguito in“Padiglione Italia, artisti contemporanei nel Lazio”,  9 ottobre 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese alla presentazione della mostra nel Vittoriano da Romano Maria Levante, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia  con i  titolari dei diritti, in particolare l’Istituto della Enciclopedia Italiana,  per l’opportunità offerta. In apertura, la classica “Enciclopedia Treccani”  nell’altrettanto classico mobiletto, al centro, i grandi Volumi monografici sulle città, in chiusura, il gran numero di altri Volumi editi nel periodo, con le Enciclopedie tematiche e le edizioni speciali. Tra queste tre visioni riassuntive dell’evoluzione editoriale nel 90 anni,  una serie di immagini del percorso espositivo, dall’antica fotografia  di Alberto Treccani, a uno studio d’epoca con alla parete foto del periodo, dal “fiume di parole” evocato visivamente , a  vetrinette e postazioni con reperti, quadri e fotografie, che portano altri elementi e testimonianze sulla storia della Treccani.