Vanda Valente, la pittura in difesa della natura, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Al Museo Crocetti, dal 1° al 14 aprile 2015, la mostra “La pittura nel grido della natura. Il viaggio artistico di Vanda Valente” espone  80 dipinti  nei quali l’impegno ambientalista e animalista si esprime con intensità di accenti specchio di una sensibilità che trova eloquenti manifestazioni anche in opere dedicate ai drammi dell’umanità e ai valori più intimi e personali. A cura di Lorenzo Canova , Catalogo della Fondazione Venanzo Crocetti,  lo scultore abruzzese che ha saputo esprimere del mondo animale la sofferenza e anche la nobiltà in opere-simbolo. 

Inconsueta una mostra pittorica le cui sezioni partono dagli attacchi che la natura subisce per l’azione devastante dell’uomo –  deforestazione e bracconaggio, rischio  eliminazione specie viventi e crudeltà sconfessate –  e si concludono in positivo con la speranza nella ricerca della Cultura,  dell’Arte e del Bello e nella difesa della quotidianità intesa come valorizzazione dell’essere,  fino alla materializzazione di tutto questo nella sezione finale, ritmi  e corpi e la ricerca dell’essere.

Sembrerebbe il contenuto di un manifesto ambientalista nella sua forma culturalmente più elevata, invece è l’indice dei temi che trovano la loro rappresentazione nei dipinti in acrilico su tela.

La personalità dell’artista, il suo impegno civile

L’artefice di questo sorprendente percorso non può essere soltanto contemplativa e dedita all’arte, troppo forte è la matrice ideale e l’impegno politico nel senso più nobile del termine, quale difesa della polis, riferita alla tutela della natura che è parte integrante del villaggio globale.

Vanda Valente è organizzatrice di incontri culturali, oltre che mostre d’arte, in particolare a Palazzo Tanzarella che il Comune di Ostuni ha affidato alla sua direzione; è impegnata nell’affermazione dei diritti delle biodiversità e di chi non ha voce, gli indifesi, gli animali, l’ambiente in una visione planetaria. Ha fatto parte del movimento femminista e ha disegnato nel 1984 il manifesto per la ricorrenza degli ex Confinati politici a Ventotene,  il cui sindaco e l’AMPI di Roma, le fecero realizzare, con lo scultore Carmine Cecola, suo professore, una medaglia in ricordo di Terracini.

Questo come impegno civile; sul piano artistico è stata allieva di Emilio Notte e dopo la sua scomparsa nel 1982 ha dato vita a un’Associazione culturale che ha istituito premi in nome del maestro, il Premio Over 40 E. Notte e il premio Concorso E. Notte aperto ai giovani talenti delle Accademie di Belle Arti. La sua attività artistica è intensa, partecipa all’Expo di Milano con una ceramica; nel 2014 la troviamo in una collettiva ad Ostuni, alla 3^ Biennale del Salento a Lecce e alla Mostra internazionale della ceramica a Grottaglie; nel 2012 all’Expo Bari oltre a una  personale di pittura a Brindisi, e alla 2^ Biennale del Salento a Lecce, quindi al Padiglione Italia della Puglia a Lecce nel quadro della Biennale di Venezia curata da Vittorio Sgarbi; quindi alla Triennale d’Arte sacra all’Arcivescovado di Lecce: negli anni precedenti una serie di mostre personali.

La sua è una pittura di denuncia, con alla base ricerche di tipo scientifico e indagini a livello sociale, che si pone come mezzo di comunicazione per rendere palesi, tramite la pittura, “le molte sopraffazioni che si perpetrano impunemente nella nostra odierna società” – scrive lei stessa – e sconfiggere l’indifferenza, che definisce “il male peggiore”. Per questo non esita a fare delle rinunce sul piano stilistico: “Ho sacrificato alcune mie ultime tecniche  pittoriche in funzione di un’immagine più riconoscibile e più comunicativa, per rappresentare con più chiarezza alcune delle tematiche da me affrontate”,  che sono quelle  evocate  nelle sezioni della mostra.

 Non è soltanto una sensibilità animalista che, nel respingere le sofferenze arrecate spesso per scopi futili e aberranti insieme al cieco profitto,  proclama con forza il “diritto di ogni essere vivente: vivere nella dignità e nel rispetto delle proprie peculiarità”.  Sembra riecheggiare l’accorata constatazione di Pasolini sulla scomparsa delle lucciole la sua sconsolata osservazione: “Già ora nel nostro quotidiano,  passeggiando per la campagna, avverti la desolazione del silenzio assordante, non più cinguettii, sempre meno si vedono volare le farfalle” . Termina con un allarme: “Perderemo la bellezza di questo pianeta, che sarà sempre più grigio e senza colore?”; e una speranza: “Credo ancora nel riscatto dell’essere umano in funzione di ricerca della cultura e dell’arte, intesa come progresso di conquiste civili”.

L’espressione artistica di Vanda Valente 

Come si traduce tutto questo in espressione artistica rappresenta l’interesse della mostra: il confronto tra le tematiche dichiarate nei titoli delle sezioni e le opere in esse esposte  è intrigante.

M prima  occorre inquadrarne la cifra stilistica partendo dalla formazione iniziale con il maestro Emilio Notte su cui si sono innestati i tanti influssi che con la sua cultura artistica e apertura mentale è riuscita a cogliere ed assimilare in un linguaggio autonomo  personale.

Lorenzo Canova  afferma al riguardo: “Così, in una messe rigogliosa e fiorente di informazioni e sollecitazioni, si sovrappongono in modo del tutto creativo e lontano da ogni possibile subalternità, Cézanne e Boccioni,  le scansioni geometrizzanti del cubismo e la dirompente deformazione espressionista,  le scansioni aniconiche, dinamiche e geometrizzanti del futurismo, il mistero del realismo magico, l’arcaismo postcubista e una lontana ed evocativa anima simbolista, con la sua grazia enigmatica e il suo mondo dove la natura viene riletta da uno sguardo esoterico e profondo”.

Quale il risultato di simili contaminazioni  a largo raggio su una forte base creativa?  L’artista in un suo scritto sottolinea “la ricerca della geometria, del gioco dei volumi, e del segno particolarmente scarno”; il critico aggiunge alle “finezze disegnative e coloristiche”  i contrasti e le deformazioni, le velature e le cromie  di una pittura tracciata  “con potenza primitiva” e nel contempo  con “la saldezza di un mestiere rigorosamente e duramente acquisito”.  Sono “elementi solo apparentemente divergenti, che si completano invece in un discorso aperto su più piani intrecciati”. 

Ciò perché l’artista riesce “a modulare  la pittura a seconda delle esigenze e del messaggio che informa l’opera”: così abbiamo i dipinti più intimi intrisi di lirismo sottile dove “la poesia del colore si trasforma in armonia cromatica” ; e quelli più duri dove la violenza subita dai soggetti più deboli, esseri umani o ambiente, viene resa con “uno stile aggressivo, dolente e impetuoso, in cui la geometria può essere usata come un’ascia tagliente, uno strumento di lotta e di denuncia”..

Nella sua forma espressiva il disegno ha un ruolo fondamentale, Canova lo definisce “un  filo di Arianna fatto di grafite” e sottolinea che il “virtuosismo disegnativo” su cui si basa la sua arte , tipicamente italiano, da Michelangelo in poi, sta diventando sempre più raro. Nella nostra artista vi è stata  un’evoluzione:  dalla “qualità realistica, descrittiva, e di analisi del soggetto” di qualche anno fa, a “un furor grafico  fatto di una rete rapida e dinamica di tratti, memoria di un futurismo mediato dal Rinascimento”. 

Da questo “tessuto intrecciato dalla matita” le immagini dei suoi animali nascono tanto veloci  e insieme forti e potenti, da far esclamare a Canova, al termine della sua analisi critica: “In questa foresta di grafite che si anima di segni, la natura grida così il suo dolore e la sua forza vitale, la veemenza della matita annuncia la forza della pittura e il suo ordito complesso, la mano traccia il suo viaggio sul foglio concludendo il percorso passato e annunciando il viaggio futuro dell’opera multiforme e unitaria di Vanda Valente”.

Tra passato e futuro  percorriamo le diverse sezioni della mostra, presi dagli ambienti esotici  che l’attrice rappresenta  nei quali occhieggiano immagini dolenti e quanto mai struggenti in contrasto con l’esuberanza spesso lussureggiante della natura.

Ecco gli 8 acrilici  della sezione “Deforestazione”, in tinte pastello con prevalenza degli scuri, comunque non brillanti, alcuni di grandi dimensioni articolati in più tele. Ci sono  immagini idilliache,  ben percepibili anche se schematizzate in una modernità stilistica lontana dal figurativo, in tre tele dal titolo “I cavalli selvatici correvano liberi nelle immense praterie, poi…”, 2013.

Il “poi” è nella “Deforestazione” , si vede la zebra che crolla al suolo laddove i cavalli correvano liberi, e nella “Cementificazione”, opere del 2014,   che sconvolgono “Interi habitat”, I e II, 2013 e 2014. “Madre natura creò gli alberi, i mammiferi, i volatili, ma l’uomo incurante…”,  è una composizione delicata, quasi sospesa, come se incombesse l’angoscia resa da “Petrolio”,    agghiaccianti i volti atterriti sotto la terribile pioggia di olio distruttivo, entrambi del 2012.

Nella sezione “Bracconaggio” , stesse tonalità della precedente, è altrettanto agghiacciante “La mattanza delle foche”, 2014, un primo piano con gli occhi che implorano aiuto, mentre occhi che interrogano spuntano in “Dedicata a Dian Fossey”, 2010;  con “La tartaruga gigante”, 2014 si entra nel campo dell’astrazione:  come con “La gabbia”, 2009.

Le figure umane irrompono in “La donna e l’ermellino” e “Traffico di organi”, 2010, “La fine dei prati, del bisonte… e del popolo indiano”, 2009, e “L’avorio”, 2013, mentre un dipinto pone l’interrogativo “Quali sono i veri elefanti?”, 2009.

Nella sezione “Rischio eliminazione esseri viventi” sono esposte una ventina di opere, alcune delle quali in un cromatismo molto più vivo. Spiccano “Volo dell’ibis scarlatto”, 2007, “Fenicotteri” dalla dominante rossa, soprattutto il primo; e “L’ara di Giacinto”, 2009, immerso nel verde brillante, che è invece appena accennato in “Balenottera azzurra” e “Capodoglio”, 2010.

Sinfonia di colori in “Il volo delle farfalle”, 2008,  “Anche gli ultimi hanno le ali”, 2009, e “La farfalla azzurra”, 2010, mentre hanno tonalità chiarissime e delicate “Cavallucci marini”, 2009, “La disintegrazione dei ghiacciai”, 2010, e “La terra, la danza, il volo”, 2012. 

Gli altri sono una vera galleria di specie a rischio: “L’orso della Malesia” e “Bisonti”, “I pellicani  e “L’urlo dello scimpanzé”, 2009,  “Delfini” 2008,  con due dipinti  sul  “Plancton”,  “La manta gigante” e “Caccia alle balene”, 2010, fino a “Il panda”, 2010, con visi umani atterriti insieme ai volti dei teneri animali divenuti il simbolo delle specie da salvare dall’estinzione.

Le “Crudeltà sconfessate” mostrano addensamenti di forte presa pittorica  in dipinti, tutti del 2012, che evocano  “La vivisezione” e “La corrida”, “Lo sgozzamento degli agnellini” e “La caccia al lupo”.

Così siamo giunti alla penultima sezione, “La speranza dell’uomo è nella ricerca della Cultura, dell’Arte e del bello e nella difesa della quotidianità  intesa come valorizzazione dell’essere”.   Sono concetti che è arduo esprimere in pittura, l’artista lo fa  ricorrendo a un cromatismo molto più accentuato, con forti contrasti e utilizzando immagini vegetali, canne e steli  nelle più varie configurazioni e negli intrecci, ma sempre rivolte verso l’alto per esprimere lo slancio della ricerca.

Sono tutti del 2006, eccone i titoli,  così eloquenti  da illustrare di per sé i dipinti: “Scheletri di alberi” e “Giochi nel vento”,  “Rose, la ricerca del bello” e “La danza dei cigni”, “Prato con fiori blu”  e “Metamorfosi”,  “Fiore cactus” e “Il giallo dominò”,  “Campo verde” e “Campo blu”.

Dalla ricerca della Cultura alla ricerca dell’essere: siamo all’ultima sezione della mostra, quella che forse  più delle altre, che pure presentano la natura minacciata, porta l’osservatore ad interrogarsi con una punta di inquietudine ancora maggiore. Si intitola “Ritmi e corpi alla ricerca dell’essere” e, a differenza della gran parte di dipinti delle sezioni precedenti a parte quelli sul bracconaggio,  protagonisti questa volta sono esseri viventi  della specie umana e animale e non più vegetale.

Gli esseri umani sono ripresi in termini drammatici: si va dalle mani protese in alto  in “Dedicato a Borsellino”, 2008, ai due dipinti “Ritmo e corpi”, 2009,  un viluppo di membra, a “L’uomo  e loro”, 2010 e “Ancora oggi”, 2014, in cui appaiono solo i volti, dagli occhi chiusi o attoniti; senza speranza in “L’inizio della fine”.

Irrompe la figura intera in composizioni  che, nel segno scuro di un suggestivo arcaismo,  disegnano figure dolenti: “Le tre guerre” presenta una serie di immagini, una con un bambino stretto al petto nella disperazione, in una sorta di nuova “Pietà”ancora più struggente, quasi fosse il Bambin Gesù, e poi volti e figure di bimbi soli con gli occhi sbarrati per il terrore. Con “L’esodo”sono le madri protagoniste con i loro piccoli, mentre  “La difesa della diversità” presenta un’interessante immagine evoluzionista, il bambino sulla schiena del presunto progenitore, piccolo come lui, in una identificazione ideale.

Poi il campo è preso dal mondo animale con “Il diritto alla diversità nella propria peculiarità”, vediamo elefanti e scimmie, queste ultime riprese in espressioni umane nei volti protesi, e con i due dipinti “La diversità come ricerca dei valori affettivi”: si riconosce l’essenza della vita che accomuna questi esseri viventi alle persone umane. L’artista ha voluto creare anche una galleria artistica molto particolare al riguardo: i piatti ceramici con le teste di varie specie animali.

Nel descrivere le opere del periodo più recente, fortemente impegnate sul piano della denuncia in difesa dell’ambiente gravemente minacciato, non possiamo non citare i suggestivi dipinti del passato con forte senso pittorico nel cromatismo acceso e nelle forme deformate da influssi cubisti e simili. Sono del 1980, “La parità”, vista come ardente abbraccio, e “Maternità” , un viluppo umano, fino a “Crocifissione. Maternità”; temi ripresi nel 2008 con “L’abbraccio” e “Nascita”, fino al “Punto di riferimento”, un forte abbraccio anche qui.

Nelle ultime tre opere citate, dopo 28 anni, insieme alla pittura di denuncia  e impegno civile,  torna quella intima  e personale legata a motivazioni  forti, come l’amore e la maternità. Non si può rivolgere all’artista l’accusa che si fa agli ambientalisti e animalisti, di dimenticare l’essere umano.

Vanda Valente non solo non lo dimentica ma dimostra di viverne nella sua pittura i sentimenti più nobili. Proprio per questo riesce a infondere alle sue composizioni un’autentica sincerità.

Info

Museo Crocetti, via Cassia 192, Roma. Da lunedì a venerdì ore 11,00-13,00, 15,00-19,00; sabato 11,00-19,.00, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Catalogo  “La pittura nel grido della natura. Il viaggio artistico di Vanda vVlente”, a cura di Lorenzo Canova,  Fondazione Venanzo Crocetti, aprile 2015, pp,  96, formato 21 x 21, dal catalogo sono tartte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nel Museo Crocetti, si ringrazia per l’opportunità offerta la Fondazione Crocetti con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Vanda Valente, anche per avere cortesemente accettato di essere ripresa davanti a una sua operaIn apertura,  l’artista davanti a “I cavalli selvatici correvano liberi nelle immense praterie, poi…“, 2013, sulla “Deforestazione”; seguono, sempre  sulla Deforestazione, “Madre natura creò gli alberi, i mammiferi, ma l’uomo incurante...”, 2912, e  due opere sul “Bracconaggio”, “Dedicata a Dian Fossey”, 2010, e “La mattanza delle foche”, 2014; poi, sul “Rischio eliminazione specie viventi”, dall’alto “Volo dell’ibis scarlatto”, “Fenicotteri”, “I pellicani”, 2009, e “La farfalla azzurra”, 2010; quindi, sulla “Speranza nella ricerca della Cultura, dell’Arte e del bello e sulla difesa della quotidianità”,  “Fiore cactus”, 2008, e  “La danza dei cigni”, 2014; infine, su “Ritmi e corpi alla ricerca dell’essere”, “Il diritto alla diversità nella propria peculiarità”,  “La difesa della diversitò” e “La ricerca della diversità intesa come difesa dei valori affettivi II”; in chiusura,  a sin. “Ritmi e corpi I”, 2009, a dx “Campo”, 2008.

Accessible Art, i timbri di Badelita e le “mappe dell’anima” di Blanco, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

La RvB Arts in via delle Zoccolette 28 presso ponte  Garibaldi, con l’Antiquariato Valligiano nella vicina  via Giulia, espone dal  26 marzo al 18 aprile 2015  le opere di Cornelia Badelita basate sull’uso di timbri a inchiostro con parole che creano forme e  chiaroscuri; e di Lorenzo Blanco  con forti segni materici su sfondi scuri  a specchio che creano  immagini suggestive ed intriganti. Come le precedenti di RvB Arts, la mostra, realizzata e curata da Michele von Buren,  si inquadra nel programma “Accessible Art” , da lei portato avanti con passione e costanza, nell’intento meritorio di far entrare l’arte nella quotidianità delle famiglie con prezzi accessibili e scelte oculate, e nel contempo di promuovere giovani artisti.

Iniziamo  questo servizio chiedendoci  “dove eravamo rimasti”, perché da qualche tempo non diamo conto delle mostre che la RVB Arts ha continuato a presentare con impegno costante.

Le mostre precedenti

Ricordiamo la successione di quelle di cui abbiamo parlato diffusamente,  sono 10 dal 2012 ad oggi.

Nel 2012 dai 2 artisti presentati a maggio ai 6 artisti di novembre, alla” Christmas Collection” di fine anno con 13 artisti; nel  2013  in cinque mostre abbiamo visto a febbraio la “City Life” con 3 artisti, tra marzo e aprile”Looking Back” di Christina Thwaites, e Re-Cycle” di Alessio Deli,  a giugno il “Full Circle” di Nicola Pucci, e a luglio la “Summer Collection” con 6 artisti, a novembre “Qualcosa di importante”  di Lucianella Cafagna, a dicembre “A Christmas Tale”, con 15 artisti; e siamo arrivati al 2014, a marzo “Self-Shaping Paintings” di Lorenzo Bruschini,  e a giugno, prima parte del mese, “Capricci” di Luca Zarattini.   

Fin qui i  nostri resoconti. Le altre mostre, soprattutto successive,  le abbiamo viste con interesse, perché andare alle esposizioni della RVB Arts  è  come ritrovarsi con gli amici, che non sono persone fisiche, sebbene lo spirito di accoglienza  di Michele von Buren sia pari alla sua grazia e al suo dinamismo; sono  le  espressioni artistiche dei precedenti espositori divenute familiari.

Non ne abbiamo fatto i resoconti per lo più  trattandosi di artisti che avevamo descritto raccontando  le mostre precedenti, quindi già noti ai  lettori anche se venivano presentati in modo più completo. Sono le mostre da metà del  2014, a maggio “Delta of Venus” con 3 artisti tra cui Lucianella Cafagna, nella seconda parte di giugno “Past Times” di Christina Thwaites, a luglio “Incontro” di Andrea Silicati; mentre a ottobre con “Encounters” abbiamo visto  Francesco Spirito e Alessio Deli, il secondo con temi diversi dai suoi consueti, anche se i materiali usati sono sempre quelli di risulta, nello spirito del riciclo: alle grandi figure scultoree delle “Summer” , ai gabbiani e ai piccoli soggetti  come il nido si sono aggiunte grandi composizioni floreali con piante e fiori di lamiera riciclata, un ardito utilizzo di materiale “hard” per esprimere un tema “soft”, diremmo..

Ci sono state poi  la mostra natalizia “Beauty and the Beast (La Bella e la Bestia)”, con 13 artisti, e, nel febbraio 2015, “Head Box” di Roberto Fantini, con le sue figurette di bambini  nelle più diverse espressioni, un bagno di innocenza e di delicatezza che riempiva l’animo di indicibile tenerezza; abbinata a una estrazione a sorte tra i visitatori per aggiudicarsi  il box artistico offerto dall’autore.

Opere divenute familiari anche perché una caratteristica della galleria  RvB Arts è la permanenza, nella parte retrostante lo spazio espositivo, di opere degli artisti non in mostra, ma visibili,  che fanno parte della “scuderia” di Michele von Buren, accresciutasi nel tempo: ora è composta di circa 40 artisti, 21 pittori, 5 scultori, 13 fotografi, con un ricco stock di opere.

 Il saluto agli “amici” non è mancato neppure questa volta,  abbiamo ritrovato le composizioni vegetali metalliche di Deli che hanno preso il posto delle imponenti sculture con materiali di risulta, le piccole figurette infantili di Fantini, l'”album di famiglia” della Thwites, i cani di Maiti, ecc..

Fanno parte del “corpus” artistico della galleria, un insieme organico di opere d’arte selezionate con accortezza  nell’ambito di un progetto innovativo di indubbia rilevanza culturale. 

L’Accessible Art

E’ appena il caso di ricordare che si tratta dell’ “Accessibile Art”, l’iniziativa coraggiosa di  Michele von Buren  volta a far entrare l’arte nelle normali abitazioni come componenti di un arredo di qualità alla portata di tutti. Un’accessibilità economica per i prezzi contenuti indicati  nelle etichette delle opere esposte, in concreto assicurata dalla scelta oculata di opere che possono convivere con i comuni arredi, escludendo  tante forme d’arte contemporanea che sono inadatte.

La  prova tangibile è data dalla presentazione delle opere in due spazi espositivi, la RvB Art di via delle Zoccolette e l’Artigianato Valligiano nella vicina Via Giulia, nei quali sono inseriti tra gli arredi di un antiquariato ugualmente  accessibile, anch’esso in esposizione. Si può vedere così, praticamente, l’effetto dell’opera presentata congiunto  ai mobili tra i quali è inserita,  e se del caso  anche l’acquisto può essere congiunto, ma si tratta solo di un’opportunità in più.

Non è di poco conto questa impostazione che differenzia positivamente le mostre di RvB Arts : è uno dei motivi che fanno sentire il calore della casa e della famiglia nel visitarle, l’altro è la presenza permanente di opere già conosciute che restano in secondo piano ma danno il senso della familiarità e della confidenza. Come non è di poco conto voler diffondere l’arte al di fuori dei confini consueti, creando le condizioni perché possa entrare nelle case di tutti, e non con multipli o altri surrogati, bensì con opere originali di artisti contemporanei ai quali va il riconoscimento  per la loro dedizione e la loro disponibilità a  dare forma concreta all’impostazione di Michele von Buren  che resterebbe un sogno visionario se non vi fosse anche la loro passione per  l’arte ad unirsi alla sua in un’intesa che si rivela sempre più promettente.

 Inquadrata doverosamente la nuova mostra nell'”Accessible Art” di cui non  ci stanchiamo mai di sottolineare il carattere meritorio, dobbiamo sottolineare che le opere  presentate costituiscono una novità nel panorama stilisticamente già molto variegato degli artisti della scuderia di Michele. 

Dei due artisti che espongono, Cornelia Badelita  utilizza dei timbri al posto dei pennelli, della tavolozza e degli altri strumenti pittorici, creando ombre e chiaroscuri con le loro impronte più o meno addensate;  Leonardo Blanco impiega alluminio e resine  ottenendo un effetto luminoso  a specchio pur da fondi molto  scuri.

Un cenno  alla loro storia personale, e poi uno sguardo alle opere esposte.

Le forme con le parole  timbrate di Cornelia Badelita

Cornelia Badelita, nata in Romania nel  1982 e laureata in Grafica d’Arte all’Accademia Albertina delle Belle Arti di Torino, dove per due anni è stata “tutor”. Presente in un gran numero di mostre collettive, dal 2005 al 2014 ne abbiamo contate 40, tra cui l’esposizione nel Padiglione Accademie della  Biennale di Venezia del 2011; 7 mostre personali in Italia e all’estero, 2 premi  a Torino, le sue opere sono in alcune collezioni permanenti e private.

Parte dall’incisione e dal disegno, ce lo dice lei stessa,  guardando l’opera da lontano si ha l’effetto  incisione, mentre avvicinandosi si può vedere il meticoloso lavoro di “timbratura” nel creare le forme e dare ad esse ombreggiature e chiaroscuri  con maestria tecnica unita a  genialità artistica.

I timbri recano in genere parole scelte come sigillo del soggetto raffigurato, ed è intrigante pensare che vengono impresse in modo infinitamente ripetitivo  incarnandosi come più non si potrebbe nel soggetto rappresentato formato da tali parole.  Il pensiero va – e lo abbiamo detto all’artista – alle Parolibere del futurismo, ma soltanto come associazione di idee a un uso delle parole nella pittura peraltro molto diverso, in quanto venivano immesse per un irridente “non sense”. Le parole costitutive della forma le troviamo nel dipinto di Cangiullo, “Grande folla in Piazza del Popolo”, esposto di recente alla mostra “Secessione” alla Gnam, al posto della persone che diventano verbo. In Badelita, invece, alla parola reiterata si aggiunge il timbro, usato come spatola e pennello.

L’artista ci spiega come sceglie la parola o la frase che diventa timbro e poi forma, ombra e chiaroscuro:  deve essere una sintesi estrema di quanto vuol esprimere nell’opera. Guardiamo insieme il grande quadro con la Deposizione e in primo piano un grosso cane, con una contaminazione tra due artisti, Pontormo e Rubens, la parola usata nei timbri che formano l’immagine è “High Fidelity”, alta fedeltà nel cane, il fedele amico dell’uomo, come nella fede, fedeltà al Cristo della nostra religione nel Premi  aTorinotmomento finale e più toccante della sua avventura  terrena, tutto ciò accomunato; stessa considerazione per “Wanna Be Your Dog”.

Con questi due temi sembra di essere dinanzi a singolari “d’aprés” da Pontormo e Rubens , e la mente  torna ai “d’aprés” di Giorgio de Chirico presentati nella mostra romana del 2009 “De Chirico e il Museo”.

Non finisce qui, la mostra della Badelita  prosegue nell’altra sede espositiva, l’Antiquariato Valligiano di Via Giulia, dove a differenza dello spazio di RvB Arts  sono prevalenti i mobili e gli arredi, ma i suoi 4 quadri realizzati a colpi di timbri spiccano ugualmente. Li guardiamo da vicino, “Keep Meat” è il titolo  per una figura animale, realizzata con timbri che recano proprio queste parole; mentre i due quadri intitolati “Autore sconosciuto”  sono ottenuti usando timbri senza parole. Ecco perché l’autore è sconosciuto.

Un’ironia da parolibere futuriste? Non sappiamo. A questo punto ci soccorre un’altra associazione di idee, questa volta interna a RvB Arts, dove vedemmo nella mostra del  maggio 2013 un’altra forma di uso delle parole per realizzare un’opera d’arte: si tratta  delle composizioni di Tindàr, nodose radici di alberi disegnate sopra fitte riproduzioni a stampa di parole di libri epocali, dalla “Divina Commedia” di Dante  al “Canzoniere” di Petrarca fino all'”Iliade” omerica.

 Michele von Buren non ha bisogno di consigli, però ci permettiamo di suggerire una mostra con abbinati i due artisti, la Badelita con un campionario più ampio, e  Tindàrcon i suoi alberi verbali.

Ci piace concludere con le parole usate da  Viviana Quattrini,  nella sua costante cura critica delle mostre di RvB Arts: “Attraverso la ritualità del gesto ripetitivo e freddo dello stampare, l’artista arriva a creare immagini di grande forza espressiva ed evocativa… Tutto appare scosso da un dinamismo che pervade forma  e contenuto in composizioni ricche, complesse e teatrali”.  

Le “mappe dell’anima” di Lorenzo Blanco

E’  Lorenzo Blanco l’altro espositore, di San Marino, che ha iniziato la sua vicenda artistica partendo dalle tradizioni locali per poi spingersi verso l’approfondimento della condizione contemporanea in un’arte che si muove  nell’alternativa tra l’addensamento e la rarefazione.

Ha partecipato a molte mostre collettive dal 1998, le principali sono 25, e ha esposto in 10 mostre personali, vincitore di 6 concorsi artistici, le sue opere sono in alcune collezioni permanenti.

Appare particolarmente complesso decifrare le sue espressioni artistiche, realizzate con dei segni calligrafici o spessi, neri o cromatici, che irrompono in un fondo scuro reso vivido dalla superficie  a specchio: l’effetto di addensamento e rarefazione nasce da questi elementi contrastanti.

Così  Viviana Quattrini : “E’ attraverso un continuo processo di addizione e sottrazione che nascono, come l’artista stesso le definisce, ‘mappe geografiche dell’anima’. Si tratta di mondi al limite tra reale e immaginario, universi dove l’armonia della composizione è pervasa da una poesia che si intensifica nell’iperbole del gesto. Lo scorrere costante del segno calligrafico è traccia del vissuto, narrazione muta”.

Cerchiamo di penetrare in questi mondi partendo da ciò che l’artista ha scritto in occasione della mostra “Without” del settembre 2014, del cui titolo è stata sottolineata la compresenza degli opposti, una sorta di ossimoro nella parola inglese, “con” unito  a”fuori” per formare “senza”. Per l’artista ciò vuol dire “cercare le parole per dire cose che non riguardano le parole”. E come?

Qui nasce l’addensamento quando le parole degli scrittori si affollano alla sua  mente, quindi  la rarefazione allorché “si confondono dentro di me, si impastano, si nascondono dietro una quinta, dietro un’ombra, non so. Poi riaffiorano stratificate nelle attese”.  Ma non è finita, “le parole si ri-mettono in fila, poi la pioggia le cancella, perdi di nuovo il senso, il filo del discorso, ti accorgi che ‘‘non hai niente da dire'”; e l’alternanza continua perché “improvvisamente ritornano sotto altre forme, dentro a un segno, un’immagine”.

Così si crea l’opera d’arte  che esprime questo inquieto processo interiore: “E allora giù  a testa bassa ad accostare campiture piene, geometriche e buie, a zone più leggere, acquose e trasparenti: ecco, cerco asimmetrie, lavoro sul confine, sul passaggio, sul rimo, una danza. Luoghi luminosi, spazi neri, pertugi e poi materia affiorante, superficie e sfondo”.

E’ una descrizione quanto mai efficace delle sue opere, non solo l’interpretazione autentica del processo creativo, lo vediamo dai quadri esposti nei quali si ritrovano “sovrapposizioni di materia e di colore, residui calligrafici, temperature, strati di esistenza”, lo dice lui stesso.

Quanto ai contenuti si ricavano anche loro dalle sue parole: “Un lavoro fatto di attese, di sguardi obliqui  e lontani, sguardi quasi rubati ma soprattutto passaggi di tempo. L’idea di poter svelare luoghi muti, inviolati, percepire in quei centri vuoti l’energia giusta per un pieno”.

La compresenza dei contrari lo pone sempre al limite, sulla linea di confine tra il nulla e il tutto, del resto la sua mostra dell’ottobre 2012 si intitolava “Limen”, e così veniva presentata da Alessandro Masi:”Vivere ai bordi di uno spazio, sul limite di un territorio sospeso tra assenze e presenze, sentire la pittura come un codice dell’esistente che scorre e scivola via contrapposto ad un altro che sta e che si fa contrappunto  e voce dell’Altrove, è per Leonardo Blanco la sua condizione prima del suo agire di pittore e scultore”. 

E sulla manifestazione pittorica aggiunge: “Pittura di confine, quella di Blanco si presenta come un crocevia di segni  che transitano dall’una verso l’altra parte dello spazio, che si infrangono in una liquida tumefazione di materie bituminose, carnali, acquose, più o meno leggere a seconda delle trasparenze che le leggi dell’opera richiedono”.  Fino a precisare: “Sono transiti provvisori di codici grafici  che fronteggiano inspiegabili muri, che li oltrepassano, che li scavalcano, nell’ansia sempre eterna del movimento”.

Questa la descrizione della Quattrini: “Flussi di luce, macchie informi, masse mutanti si animano e si dissolvono in atmosfere sospese e silenti. Lo spazio diventa il luogo dell’azione e della riflessione in cui un sentimento lieve ed intenso, intimo ed universale, sembra coesistere allo stesso tempo”.

La sinfonia degli opposti, l’ossimoro nell’arte, non c’è nulla da aggiungere. Ma molto da vedere e da decifrare nella galleria intrigante di Lorenzo Blanco all’RvB Arts di Michele von Buren.

Info

RvB Arts, via delle Zoccolette 28, e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193. Orario negozio, domenica  e lunedì chiuso. Tel. 335.1633518. info@rvbarts.com; http://www.rvbarts.com/. Cfr. in questo sito, i nostri precedenti articoli sulle mostre di “Accessible Art” alla galleria RvB Arts: nel 2014,   14 marzo, 17 e  27 giugno, nel 2013,  27 febbraio e 26 aprile, 21 giugno, 5 luglio e 5 novembre, nel 2012,  21 novembre e 10 dicembre. I cataloghi delle mostre di Leonardo Blanco,  da cui abbiamo tratto le citazioni del testo, escluse quelle di Viviana Quattrini, sono: “Leonardo Blanco. Without”, presentazione di Alessandro Masi, Casa Moretti, Cesenatico, giugno 2014, pp. 66, formato 24 x 28, e “Leonardo Blanco. Limen”, a cura di Alessandro Masi, giugno 2013, pp. 78, formato 28,5 x 24, e “Leonardo Blanco. Open End”, testo critico di Luigi Meneghelli, maggio 2009, pp. 50, formato  28,5 x 24. Per le altre mostre citate cfr,. in questo sito, i nostri articoli sulla mostra “Secessione”  12 e 21 gennaio 2015,e sul “Padiglione Italia” alla Biennale di Venezia 8 e  9 ottobre 2013; infine i nostri articoli in “cultura.inabruzzo.it”,  per la mostra “De Chirico e il Museo” 22 dicembre 2009, per  le  mostre sul Futurismo a Roma 30 aprile 2009, a Giulianova (Teramo) 1° settembre 2009.    

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla RvB   Arts e all’Antiquariato Valligiano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, in particolare gli artisti Cornelia Badelita e Leonardo Bianco per l’opportunità offerta. In apertura, Cornelia Badelita, “High Fidelity”, seguono  “Wanna Be Your Dog” e “Keep Meat”, poi due affiancate intitolate “Autore sconosciuto”; in successione opere di Lorenzo Bianco, “WO-23” e “HM-5”,  quindi “WO-25” e “WO-22”, in chiusura, “WO-32”.

Food Art, coltura e cultura cibo di corpo, intelletto e anima, allo Studio 5

di Romano Maria Levante

Allo Studio S Arte contemporanea,  in via della Penna,   un’installazione molto  particolare,   “Food Art”,  coltura/cultura: una tavola imbandita recante 10 piatti decorati da artisti, più 2 bottiglie, 2 contenitori e un cestino anch’essi artistici, 15 gli artisti impegnati. La tavola è esposta dal 27 marzo al 10 aprile 2015, con i primi 15 artisti, poi ne verrà imbandita una seconda, dal 13 al 29 aprile, con altri 15 artisti.

Il cibo nell’Arte

Richiama il cibo esteriore,  all’Expo di Milano all’insegna del  motto “Nutrire il Pianeta – Energia per la vita”, e quello interiore della  cultura, di cui il nostro paese è ricco. Coltura  e cultura per nutrire fisicamente e mentalmente  il Pianeta con il cibo del corpo  e il cibo dell’intelletto; in più vi è abbinata una mostra  benefica per la  Comunità Sant’Egidio, così c’è anche il cibo dell’anima.

Dobbiamo all’invito di Lina Passalacqua, autrice di uno dei 10 piatti  dell’installazione,  se abbiamo conosciuto  questa bella iniziativa  che celebra l’Expo e non solo in chiave artistica. 

L’arte sarà presente all’Expo, Vittorio Sgarbi ha già scatenato la sua creatività a tale riguardo, e forse anche la trasgressione; dopo avere invano cercato di portare a Milano i Bronzi di Riace certamente ci sorprenderà con qualche invenzione delle sue, una di queste è la riproduzione dell’Ultima Cena di Leonardo in aggiunta a quella originale per consentirne la visione a un maggior numero di visitatori.  E Achille Bonitoliva ha parlato della celebrazione del  cibo nell’arte, per l’Expo, dalle Ultime cene agli “alberi della cuccagna” di artisti contemporanei lungo lo Stivale.

E’ stata  imperniata sull’arte la presentazione dell’Estonia  svoltasi  al Vittoriano nell’ambito del programma “Roma verso Expo”, che ha visto nel complesso monumentale le mostre di una serie di paesi:  oltre all’Estonia, l’Egitto e la Slovenia,  l’Albania e la Serbia,, il Vietnam e  la Tunisia, anch’essa con presenze artistiche, la Grecia e la Germania, fino alla Repubblica Dominicana e al Congo; altri paesi  presentati all’Aeroporto di Fiumicino.  Una mostra sul cibo di tipo fotografico e divulgativo c’è stata al Palazzo Esposizioni, con le immagini dei fotografi di National Geographic.

Allo studio S abbiamo avuto la bella sorpresa di qualcosa di diverso, l’arte che celebra il cibo e insieme la cultura restando aderente all’immagine e alla funzione che il cibo  ha nella vita di tutti, legato com’è all’alimentazione e alla tavola; cui non è estranea neppure la cultura.  E allora ecco celebrarle insieme con una tavola imbandita dove l’arte ha impreziosito i piatti con il proprio sigillo.

I piatti nella tavola di Food Art e nella serie  In piatto/ Nutrimento ed Arte

Ci sono 10 piatti su un tavolo nero molto basso, così da essere come una piccola installazione vista dall’alto, sono  decorati da  pitture artistiche, ognuno dei 10 autori ha interpretato a suo modo. Ecco i nomi degli  artisti che hanno realizzato la tavola da noi ammirata nella visita alla “vernice” della mostra, esposta dal 27 marzo al 10 aprile , sono chiamati “ospiti”, come si addice a una vera cena: Rosetta Acerbi e Anna Addamiano, Giovanni Baldieri e Valeria Catania, Isabella Collodi e Anna Maria Laurent, Stefania Lubrani e Flavia Mantovan,  Piero Macetti e Lina Passalacqua, Alessandra Porfidia ed Elio Rizzo, Sinisca, Siscia e Isabella Tirelli. L’ordine è alfabetico, abbiamo abbinato i nomi come se gli ospiti fossero venuti a coppie per sedersi vicini nella tavola imbandita.

Nella parete di fronte c’è una serie di piatti fissati al muro, come pendant della tavola posta in basso.  Si tratta  di opere presentate nel 2014 nella mostra “In piatto/Nutrimenti ed Arte”, dello Studio Arte Fuori Centro, che rispondono alla stessa logica dell’installazione attuale: erano 42 opere, di cui 22 degli artisti associati. Di fronte alla tavola ne sono esposti 12, ecco gli autori: Minou Amirsoleimani e Francesco Calia, Elettra Cipriani e Raffaele Della Rovere, Gabriella Di Trani e Silvana Leonardi, Giuliano Mammoli e Rita Mele, Franco Nuti e Luciano Puzzo, Fernando Rea e Alba Savoi, che indichiamo con lo stesso criterio alfabetico e a coppie di ospiti.

Un’Arte per la Vita

L’altra mostra, in significativa coincidenza con questa sul cibo, ripropone opere che nel 2012 erano state presentate al Museo Venanzo Crocetti  nel quadro del progetto A.R.G.A.M. (Associazione Romana Gallerie d’Arte Moderna), “Un’Arte per la Vita”  volto  a raccogliere fondi per la Comunità di Sant’Egidio tramite eventi realizzati con opere date in comodato da artisti e gallerie. Ecco come viene presentata tale iniziativa benefica: “A queste opere lo studio S riserverà a rotazione in questa stagione di mostre una sala della galleria, offrendo ai suoi visitatori l’opportunità di arricchire la propria collezione, o di iniziarne una, a particolari condizioni d’acquisto senza alcuna commissione per la galleria,  e contribuire allo stesso tempo al finanziamento dei programmi umanitari della Comunità”.

Guardiamo le opere esposte,   una è della stessa Lina Passalacqua, “Il cibo è vita”, 2015, si aggiunge alla serie dedicata alle 4 Stagioni presentata  in una bella mostra al Vittoriano nel 2014; è un collage, al riguardo  ricordiamo anche la sua mostra proprio nello Studio S con i  collage preparatori dei dipinti, esposti insieme ai collage di Terlizzi.

Riconosciamo inoltre un dipinto di Danilo Maestosi, pure  lui protagonista di una mostra al Vittoriano con i suoi dipinti dal forte spessore materico espressione di contenuti profondi legati alla musica, c’è anche un’opera di Solveig Cogliani, di cui ricordiamo la personale in corso al Vittoriano.

Ecco le opere esposte attualmente nella prima sala, altre saranno esposte in seguito: Lina Passalacqua, “Ombre”, 1997, e Danilo Maestosi, “Internet City”, 2011, Sinisca, “Emisfero nello spazio”, 1999, e Solveig Cogliani, “Paesaggio meccanico”, 2011, Flavia Mantovan, “Saint Beckam”, 2006, Maria Murgia, “Alba”, 2011, e Mario Padovan, “Angelo 2”, 1998.

Aver celebrato in modo artistico e innovativo il cibo dell’Expo milanese, e insieme la cultura e la solidarietà  con le altre opere di artisti a finalità benefica, è come aver unito il cibo del corpo a quello dell’intelletto e al cibo dell’anima.

E’ stata una bella sorpresa la meritoria iniziativa, che fa entrare ancora di  più nello spirito della Pasqua imminente, e di cui va il merito  al direttore della galleria Carmine Siniscalco, instancabile organizzatore di mostre ed eventi . 

Info:

Studio S, Via della Penna 59, nei pressi di Piazza del Popolo,  lato caffè Rosati. Dal lunedì al venerdì ore 15,30-19,30, mattina su appuntamento; sabato 11,00-13,00; domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.3612086.  Per le  citazioni del testo cfr. i nostri articoli:  in questo sito, sulle mostre di Lina Passalacqua, “Collage-pittura, Passalacqua e Terlizzi allo Studio S di Roma”  28 aprile 2014, e “Lina Passalacqua, le Quattro stagioni al Vittoriano”   28 aprile 2013 e  sulla mostra di “Solveig Cogliani, Roma, La Grande Guerra”  20 marzo 2015, nonché sulle mostre di presentazione dei singoli paesi  al Vittoriano nel programma “Roma verso Expo”, nel 2014,  8 novembre e  9 dicembre, nel 2015,  14 gennaio, 7 e 25 febbraio, infine  sulle mostre “Cibo, 90 foto di National Geographic al Palazzo Esposizioni” 1° febbraio 2015  e  “Alla mensa del Signore” alla Mole Vanvitelliana di Ancona 25 dicembre 2013; in cultura.inabruzzo.it per la mostra di “Danilo Maestosi, al Vittoriano nel suo Concerto-Sconcerto, tra musica e memoria” il 31 marzo 2010.                               

Foto

Le immagini sono state riprese nello Studio S all’inaugurazione della mostra da Romano Maria Levante,  si ringrazia il direttore Carmine Siniscalco, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, la tavola artisticamente imbandita “Food Art”,  seguono i primi piani dei 4 piatti posti agli angoli della tavola,  il primo è quello di Lina Passalacqua; poi le opere della serie “In piatto/ Nutrimento e vita” nella parete di fronte; quindi  le bottiglie artistiche e il cestino artistico;  in chiusura,  la tavola imbandita di “Food Art” e le opere “In piatto/ Nutrimento ed Arte”  nella parete di fondo, a dx si vede la bottiglia artistica. 

Tunisia e Dominicana, tradizioni, arte e natura, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, nel programma “Roma verso Expo” è il turno della Tunisia, in mostra dal 19 marzo al 1° aprile 2015  nella Sala Zanardelli, lato Ara Coeli; in precedenza, in una sorta di staffetta, la Repubblica Dominicana, dal 26 febbraio al 23 marzo nell”Ala Brasini, lato Fori Imperiali.Due paesi dalle caratteristiche peculiari evidenziate da parte della Tunisia  con oggetti di artigianato artistico e vere opere d’arte; da parte della Repubblica Dominicana con  fotografie ambientali altamente spettacolari.

 Tunisia, “naturalmente generosa”

La Tunisia si presenta come terra “naturalmente generosa” per l’ospitalità del suo popolo e le bellezze naturali, spiagge  e uliveti, palme e foreste, le  preesistenze storiche e le leggende, come quella di Ulisse e dei lotofagi con i loro frutti dolcissimi, forse i datteri, le arance e i melograni. 

E’ una storia millenaria, con l’incrocio di varie culture, araba e africana, berbera ed europea, e sebbene la popolazione sia mussulmana, convivono le varie fedi, come la cristiana e l’ebraica.

L’immagine che viene data è di una terra ospitale, con attrattive turistiche per i pregi ambientali e storici,   i luoghi pittoreschi come i suk in cui le tradizioni convivono con la modernità; ma anche di un popolo che sa raggiungere livelli di eccellenza nell’artigianato fino all’arte pittorica.

Il primo nome che richiama l’attenzione, a parte la capitale Tunisi, è Cartagine, per il suo retaggio di storia, con le guerre puniche  e l’imperativo ciceroniano “Cartago delenda est” .  Aveva mille anni di storia quando dopo la terza guerra punica fu distrutta dai romani nel 146 a. C., poi dal 29 a. C. la sua “riabilitazione”. Nel  698 fu presa dagli Arabi, che poi conquistarono  l’intera Tunisia. 

Ci sono i resti ell’Anfiteatro e del Teatro romano, questi ultimi spettacolari, e i ruderi delle basiliche cristiane di Damus Caritas e San Cipriano, nonché  reperti romani del quartiere di Byrsa, incendiato nella distruzione del 146 a.C. raccolti nel locale  museo.

Anche a Sbeitla dei ruderi romani e un Museo, ma  la preesistenza più imponente e spettacolare è il grande anfiteatro di El Jem  del 230 d. C., una ellissi lunga 140 metri  e larga 120 metri con un perimetro di oltre 400 metri, minore di quello del  Colosseo, ma maggiore dell’Arena di Verona.

Abbiamo accennato soltanto alle preesistenze romane, ma  grandi attrattive si trovano nella Medina, dalle mura agli edifici, alle moschee, citiamo Kairouan, città santa,  e Sfax , nelle isole Kerkennah; .

La mostra si concentra sull’artigianato artistico, presentato in una serie di vetrinette al centro del percorso espositivo, e sulle opere d’arte pittorica,  una  galleria di dipinti spettacolare.

Il paese è celebre per i tappeti di Kairouan  e Gabés, il vasellame e le ceramiche di Nabeul e Djerba, gli oggetti di rame cesellato, smaltato o inciso di Tunisi, i gioielli berberi in oro e gli articoli di cuoio: campioni sono esposti nelle vetrine al centro del percorso espositivo.

I quadri  alle pareti rivelano influenze delle diverse correnti pittoriche, ma anche la ricerca di un linguaggio autonomo che conserva i segni di una antica tradizione.

Repubblica Dominicana, “finestra sui Caraibi”

La   Repubblica Dominicana  ha circa 20 milioni di abitanti, nel suo territorio ci sono monti, valli e spiagge favolose, è  “la finestra sui Caraibi”, splendidi paesaggi, clima mite, perfetta accoglienza.

Cristoforo Colombo  approdò nell’isola, che fu chiamata Espanola, ai primi di dicembre del 1492, lasciandovi una piccola guarnigione, vi tornò nel secondo viaggio  spostando l’insediamento nella parte orientale, dov’è ora la Repubblica Dominicana, fu la prima presenza stabile in mano spagnola.

Segue una storia tormentata di sfruttamento delle risorse naturali e di schiavitù,  compresa la tratta di neri dall’Africa, mentre gli indigeni tendevano ad estinguersi anche per i maltrattamenti.

Nell’isola ci sono storie eroiche alla Spartaco, di ribellioni di schiavi nel 1791 che conquistarono l’indipendenza, come fu per la colonia francese di Haiti, nella parte occidentale,  fino all’intervento di Napoleone nel 1801 con una spedizione, ma nel 1804 fu di nuovo indipendente.

La parte orientale, intorno a San Domingo, restò sotto i francesi per il rifiuto degli spagnoli di sottomettersi agli schiavi liberati, poi nel 1808 ci fu un breve dominio spagnolo, e una fase di indipendenza fino all’invasione da parte di Haiti della terra divenuta la Repubblica Dominicana.

Nel 1844 la sollevazione del popolo guidato da Duarte  portò all’indipendenza all’insegna dell’uguaglianza degli uomini senza discriminazioni; seguì un breve periodo di sottomissione alla Spagna nel 1861, finché con la guerra di restaurazione nel 1863  si ebbe di nuovo l’indipendenza. 

Dopo Francia e Spagna anche l’America mise le mani sul’isola, con un’occupazione militare cui seguì fino al 1961 la dittatura  sanguinaria di  Trujillo  che giunse perfino a dare il proprio nome alla capitale chiamandola Ciudad Trujillo. Con la sua caduta non ci fu l’assetto definitivo, ma ancora l’occupazione americana, poi nuovi regimi autoritari: la presidenza di  Belanguer ha avuto fasi  alterne e interruzioni  per un trentennio, fino alla rinuncia  a ricandidarsi nel 1996.

Abbiamo ricordato queste fasi tormentate che la mostra non evoca perché servono ad apprezzare ancora di più la presentazione del paese all’insegna dell’accoglienza amichevole, del sorriso, di tutto quanto si possa desiderare se si è alla ricerca di bellezze naturali e tradizioni pittoresche.

E’ un’isola dei Caraibi, la più grande dopo Cuba, e tornando a Colombo con il quale abbiamo iniziato veniamo a sapere che – si legge nel suo diario – all’approdo si chiese se era giunto nel “paradiso del racconto biblico”. Ecco altre sue parole:  “Acque trasparenti/ i più bei colori del mondo/ valli, pianure e spiagge meravigliose/ Una persona non vorrebbe mai andare via di qui/ Il luogo più bello che occhi umani abbiano mai visto”.

Quale il modo scelto per esprimere tutto questo nella mostra ?  La scelta è caduta su 40 fotografie di 40  fotografi,  che presentano scorci tali da far sentire immersi in quei luoghi meravigliosi.

A questo punto non resta che guardare le immagini pensando alle sensazioni che dovette provare Colombo quando  vide per la prima volta le isole dei Caraibi dopo l’approdo nel nuovo mondo.

Info

Complesso del Vittoriano, lato piazza Ara Coeli per la mostra sulla Tunisia; lato Fori Imperiali, via san Pietro in carcere, per la mostra sulla Repubblica Dominicana. Lunedì-giovedì ore 9,30-18,30, sabato e domenica 9,30-19,30. Ingresso gratuito; l’ingresso è consentito fino a 30 minuti prima della chiusura. Cfr., in questo sito, i nostri precedenti articoli sulle mostre al Vittoriano della serie “Roma verso Expo”: nel 2014, su “Egitto e Slovenia” l’8 novembre,su “Albania e Serbia” il 9 dicembre, nel 2015 sul “Vietnam” il 14 gennaio, sull’“Estonia” il 7 febbraio, su “Grecia e Germania”  il 22 febbraio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due mostre al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 6 immagini sono della mostra sulla Tunisia, riproducono, alternate, opere di artigianato di qualità e opere d’arte pittoriche; le successive 6 immagini sono della mostra sulla Repubblica Dominicana, riproducono  foto esposte con suggestivi scorci ambientali 

Solveig Cogliani, Roma e l’identità, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, dal  17 al 29 marzo 2015 la mostra “Roma, la Grande Guerra, di Solveig Cogliani” espone 17 opere, di cui 10 inedite del 2015, nelle  quali il forte cromatismo mediterraneo dell’artista di origini siciliane si salda con l’evocazione delle architetture della città eterna  no disgiunta dalla salda presa sulla realtà attuale, in un realismo  che è insieme ricerca dell’essenziale e superamento della dimensione attuale con forme che si dissolvono perdendo la pur forte identità. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia,, a cura di Fabio Cozzi, responsabile della mostra Maria Cristina Bettini. Catalogo Gangemi  Editore.  

La personalità dell’artista

Claudio Strinati ha presentato la mostra iniziando con la personalità dell’artista: magistrato , la madre altrettanto,  non sono rari nella storia dell’arte  gli artisti con questa caratura professionale. Giustizia e legalità si riflettono nell’opera della Cogliani, attenta alle manomissioni dell’ambiente che richiedono  la massima attenzione, quindi anche la trasposizione artistica. Lo fa quando raffigura la “città giusta”, in particolare con la sopraelevata romana che si trasforma in guardino con una grande albero che sale al cielo.

 Dalla professione al nome, che come in Vasco Rossi unisce a un cognome normale un nome  inusuale, nel caso della Cogliani, Solveig ha origini svedesi, altro particolare intrigante.

E poi il suo quartiere, San Lorenzo, dov’è il Pastificio Cerere divenuto una fucina di artisti, a Via dei Volsci , come ad altre zone di Roma, la sua  città, ha dedicato i suoi dipinti prendendo lo spunto dalle proprie esperienze quotidiane. Lo facevano gli impressionisti, si ispiravano a  Parigi e a Montmartre, lo ha fatto anche Warhol  ispirandosi ai prodotti di massa della società dei consumi;  la nostra artista lo fa  con riguardo alla tradizione ma nello stesso tempo libera nella forma espressiva come è giusto per un pittore dei nostri tempi.  

Sono “passeggiate romane” nel senso oraziano, che mostrano una Roma spesso in dissolvenza, non solo nella forma espressiva ma anche nei contenuti. In tal modo, ha affermato Strinati, l’artista mostra come “si può esercitare il mestiere del pittore con molto impegno ed autorevolezza,  tipico dell’arte al femminile”.

E’ un impegno, il suo,  scandito da un’intensa partecipazione a mostre collettive, ben 54 dal 2004, di cui 10 nel 2014, ; e da 13 mostre personali dal 2009, soprattutto a Roma ma anche a Napoli e Istanbul, con esperienze anche di performance e installazioni.

Inizia il suo percorso artistico sperimentando diversi materiali e forme espressive, dalla scrittura al teatro, e promuove iniziative su tematiche sociali e culturali; laureata alla RUFA di Roma, città natale, matura  il “ritorno” alla pittura.  Da dieci anni torna spesso in Sicilia, sua terra di origine, dove collabora con laboratori di ceramica, inaugura a Palermo “U triunfu” con Emmanuele F. M. Emanuele, nel catanese e messinese partecipa a performance con Danilo Maestosi.

Collabora con diverse gallerie romane, come la galleria Lombardi e lo Studio S, la Tartaruga, la Babylon Gallery e la Michelangelo, e con gallerie di Palermo e Napoli, Cosenza e  Brescia. Dedica proprie opere alla poesia, come nella mostra su Garcia Lorca a cura di Otello Lottini, e ai grandi pittori del passato,  alla moda e al teatro,  in un’esposizione presentata da Claudio Strinati, alle nuove opere musicali e al confronto con la fotografia di Ruggero Passeri.

All’estero è stata impegnata in Cina, nel progetto “Seguendo il cammino di Marco Polo, e in Turchia, con la galleria  Duruk, in Svizzera con la KPK e a Londra con la Imago Art Gallery.

E’ presente in vari musei, tra cui il Museo della Fondazione Roma Mediterraneo, nel 2011 partecipa alla Biennale di Venezia, nel 2014  ottiene il premio Spoleto Festival.  Partecipa a diversi progetti, da “Imago mundi”  a cura di Luca Beatrice, a “Unicum” dopo l’incontro con  Gallo Mazzeo.

 I giudizi dei critici

Gli insigni critici che abbiamo visto vicini a lei in importanti manifestazioni,  vedono così, in estrema sintesi, la sua arte: Secondo Claudio Strinati è “animata da “tumultuosi fervori e, nel contempo, pacate meditazioni”  da cui trapela la sua testa di giurista: “Merito dell’artista è quello di farci vedere la realtà con i suoi occhi, che sono occhi di riscatto, pacificazione, quiete interiore e, per ricordare un passo celeberrimo della Tosca di Puccini, di ‘recondita armonia’”.

Per Francesco Gallo Mazzeo le sue  “modalità d’espressione sconfinano con  l’espressionismo”, e si manifestano “col procedere di un viaggio nel tempo, a ritroso nella memoria oppure una proiezione d’impossibile futuro”  rispondendo  “a un  bisogno radicale d’andare ‘oltre’, d’avere ‘altro'”, in modo peculiare, “facendo salti, proprio come vuole il desiderante e il narcisistico”.

Per questo, secondo Otello Lottini,  l’artista ha “un’altra concezione della realtà, di ascendenza greca, che intende per realtà tutto il contrario”. E lo precisa: “Reale è l’essenziale, il profondo e il latente: non l’apparenza, ma le fonti vive di ogni apparenza.  Su questi crinali si svolge la complessa dimensione del realismo della Cogliani”. 

Così Luca Beatrice: “Solveig Cogliani si lascia suggestionare da una traduzione mai vista di uso, non solo prospettico, delle architetture e soprattutto del colore”. Per concludere: “La sua è una pittura visionaria, selvaggia, espressiva, disordinata”.

Dal rigore della traduzione pittorica del senso di legalità e giustizia fino alla recondita armonia di Strinati, si arriva al disordine visionario e selvaggio di Beatrice passando per l’andare oltre di Mazzeo e la ricerca dell’essenziale di Lottini.

Ce n’è quanto basta per stimolare l’interesse per le opere di un’artista così  intrigante e misteriosa. Iniziamo così quello che Strinati chiama “una sorta di viaggio nel passato catapultato, però, su un presente che grava e preme sulle nostre coscienze costringendoci a meditare, a ricordare, a prospettarci un futuro”.   

Le opere in mostra

La prima meditazione è suscitata dal l titolo della mostra:  nell’anno del centenario e nel Complesso del Vittoriano con l’altare della Patria e il sacello del Milite Ignoto la Grande Guerra richiama il primo conflitto mondiale, infatti le opere esposte nella prima sala dovrebbero essere direttamente riferite a tale evento.

Noi crediamo di dover interpretare il titolo in senso più ampio, esteso soprattutto all’oggi, alla grande guerra in corso a Roma, nei suoi quartieri e nelle sue strade,  nei suoi monumenti, nella difficile quotidianità, in tal modo ricordare il passato fa prospettare il futuro.

I primi dipinti esposti, “Vigiliae” 1 e 2, sono enigmatici e allusivi, con delle presenze tutte da interpretare:  mentre nel primo c’è un groviglio di tratti scuri su fondo chiaro, il secondo è lineare e luminoso, due figure in una strada di un blu intenso, l’una segue l’altra in uno sfondo sul  giallo.

L’attualità incombe, “Migranti” è una rappresentazione forte i n cui la ricerca dell’essenza si traduce  nelle figure che spiccano come altrettante statue sul vascello dal forte cromatismo. E il volto di “Irene” di un dipinto vicino sembra un primo piano di migranti fortemente cromatico.

Poi c’è subito la dimensione urbana, in “Angelo sulla città” si vedono due grandi ali che dovrebbero essere protettive, ma la realtà ha in sé anche qualcosa di inquietante, e il dipinto lo fa sentire.

La serie “Pini”, da 1 a 4,  mostra  due opere  con  i viali – tra cui  “Pini 2″   immagine evocatrice e suggestiva – e due con gli archi, sempre nei forti contrasti cromatici, in cui l’artista proietta i propri sentimenti di romana che medita sulla realtà della sua città. In tal modo crea – scrive Strinati – “un’atmosfera peculiare fatta di descrizione e suggestione insieme, una sorta di ‘stato d’animo’ che si trasfonde nella costruzione delle immagini delle antiche statue e degli antichi monumenti trasformati in quadri”.

Per il Colosseo c’è qualcosa di più, il massimo della romanità richiede il diapason, e allora non solo è trasformato in quadro, ma in “Popstar”, tale è il titolo dato dall’artista all’icastica rappresentazione dei fornici con cromatismi diversi, sulla strada di un colore viola che più intenso non potrebbe essere. 

E’ lo stesso viola della strada di “Pini 2”, tra alberi infiniti, lo stesso viola  della strada di  “La città giusta” , del 2014, di poco precedente alle  altre opere fin qui citate, tutte dell’anno in corso 2015; un’opera che rappresenta il riscatto, il raggiungimento della quiete interiore fino alla ‘”recondita armonia” di cui parla Strinati e insieme l’impossibile futuro e il desiderante di Mazzeo, la pittura essenziale di Lottini e quella visionaria di Beatrice. 

Si tratta di una visione onirica che trasforma la devastante tangenziale sopraelevata del quartiere romano di San Lorenzo, in un giardino con il rigoglioso albero che spunta dal viola intenso della strada  tra pareti colorate: quasi “il cielo in una stanza”  della celebre canzone dove è viola il pavimento e non il soffitto, ma c’è  l’albero che si innalza verso il cielo, come gli “alberi infiniti” di “Pini 2”

U n altro dipinto è dedicato al suo quartiere, “Via dei Volsci”,  2013, il viola della strada si incupisce, spiccano i blocchi degli edifici in un  giallo luminoso sul cielo blu scuro.

Né strada né cielo in “La lupa”, 2012, a forti tratti rossi in contrasto cromatico con un fondo giallo intenso, un preciso marchio identitario; mentre “Il rito”, 2012, e “Occidente”, 2011, presentano figure immerse in intense composizioni, nella prima sembra di riconoscere i fornici del Colosseo, nella seconda i sampietrini delle strade romane, anche qui il marchio identitario. 

Identità e perdita nei dipinti dell’artista

Così  Strinati interpreta la costante identitaria: “C’è , nella pittura della Cogliani, il costante quesito inerente alla identificazione e all’identità. L’artista rappresenta con viva icasticità le cose e le persone ma tende a incuneare nella mente di chi guarda la dimensione pressoché opposta della sparizione e della perdita di quella identità che pure di fatto ci qualifica in questo mondo”. 

Questa dimensione si attaglia perfettamente ai migranti del dipinto citato in precedenza, “un popolo di persone in qualche modo evanescenti, che hanno perso la propria identità, cancellate dal proprio sé”. Ma viene  riferita  anche  a figure precise, come le statue del Marc’Aurelio e dei Dioscuri in cima alla scalinata del Campidoglio, in cui “la componente materica e dinamica e quella tersa e come immobile convivono nello spazio della stessa tela”, e pertanto “si manifestano a noi non tanto descritti quanto evocati da un flusso di energia pittorica peraltro molto personale e interessante”.

Diventa “tensione emotiva” nelle opere ispirate ai poemi sinfonici di Ottorino Respighi,  in cui le fontane riflettono i diversi stati d’animo,  mediante “una tempesta cromatica che spazia dall’azzurro al giallo”, nella dimensione della “festa figurativa”.

C’è un ultimo dipinto,“Le età della vita”, 2014, su cui riflettere, oggetti personali, come forme di scarpe, volteggiano in un luminoso fondo giallo con striature di bianco e rosa mentre in alto c’è una macchia di azzurro; si sente il dinamismo, il cambiamento, la vita, ma tutto è evanescente.  Anche qui l’identificazione e l’identità insieme alla sparizione e .perdita dell’identità di cui parla Strinati.

E’, in fondo, il senso dell’esistenza, e non si possono non vedere questi motivi contrastanti nel dipinto che interpreta le età della vita immergendole in una dimensione fascinosa e sognante.

Info

Complesso del Vittoriano,Via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo – Ala BrasiniTutti i giorni ore 9,30-19,30, compresi domenica e lunedì, l’accesso è consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito.  Tel. 06.6780664. cogliani.itam@gmail.com tel. 329.8346593. Catalogo “Roma, la Grande Guerra. Solveig Cogliani”, introduzione di Roberto Politi, testo di Claudio Strinati, Gangemi Editore, marzo 2015,  pp. 32, formato 21,00 x 29,50. Per le citazioni del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito sulla mostra di  “Warhol”  alla Fondazione Roma 15 e 22 settembre 2014, sul premio 6Artista del Pastificio Cerere al Macro 3 gennaio 2013;  in “cultura.inabruzzo.it” per gli impressionisti “Da Corot a Monet” al Vittoriano 27 e 29 giugno 2010 e per Danilo Maestosi sempre al Vittoriano 31 marzo 2010; infine “Al Quirino la poesia di Emanuele diventa teatro” 24 ottobre 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, in particolare l’artista S”olveig Cogliani, per l’opportunità offerta. In apertura, “La città giusta”, 2014; seguono, “La Grande Guerra”, 2014, e del 2015, “Vigiliae 2″, e “Migranti”; poi “Irene”“Pini 2”;  quindi  ” Via dei Volsci”,  2013,  “Il rito”, 2012,  e “Pop Star”, 2015; in chiusura”La lupa”, 2012.

Gianni Testa, il tour di un anno negli Emirati Arabi

di  Romano Maria Levante

Un pomeriggio molto romano e insieme internazionale quello di giovedì 12 marzo  in via della Greca  7  a Roma, per la presentazione del “Tour negli Emirati Arabi Uniti” di Gianni Testa con  i suoi dipinti di intenso realismo in un’atmosfera di sogno che li eleva in una sublimazione onirica.  L’evento è eccezionale, si tratta del’esposizione delle opere del Maestro in tre capoluoghi degli Emirati, Sharjah, Dubai e Abu Dhabi, dall’aprile 2015 all’aprile 2016, inaugurazione il 7 aprile.

Pomeriggio romano perché l’incontro si è svolto nella vasta sala consiliare del  1° Municipio,ricavata magistralmente nel cortile interno coperto da una piccola piramide da  Louvre, con 7 composizioni metalliche non identificate,  forse i 7 Re di Roma,  ma non vorremmo ripetere il gustoso episodio dell’equivoco nella visita alla mostra del film “Le vacanze intelligenti”; inoltre la sede è al termine dello spettacolare anello del Circo Massimo con il suo sfondo incomparabile.

Un pomeriggio anche internazionale, la suggestione degli Emirati Arabi è stata sempre presente, anche se non sono stati forniti particolari di un’iniziativa certo non semplice ma esaltante.

L’incontro con l’artista nell’assenza delle istituzioni culturali

Ne ha parlato uno degli intervenuti, conoscitore degli Emirati, affermando che pur se altri artisti vi hanno presentato le loro opere, sono stati sempre momenti fugaci, è la prima volta che ciò avviene per un intero anno in tre importanti località, all’interno di grandi alberghi internazionali.

Va  considerato che gli Emirati sono la nuova frontiera del business e dei grandi eventi,  si pensi alla Formula Uno automobilistica e alla penetrazione  del calcio, che vede nostri campioni chiamati in quei paesi e remunerati a peso d’oro;  il calcio è ai primi passi, e così l’arte, ma si vuole riguadagnare il tempo e perduto, e i mezzi finanziari non mancano nel paese dei petrodollari.  

E’ stato ricordato come siano state stanziate cifre astronomiche – dell’ordine dei 5 miliardi di dollari – per tre musei uniti da un tunnel, un progetto avveniristico. Perciò, il fatto che un artista italiano della caratura di Gianni Testa entri in questo mondo che ha del favoloso non può che rallegrare coloro che amano la cultura e la sua diffusione per le prospettive che apre.

Ma le Istituzioni non possono limitarsi a dare un sostegno morale e un incoraggiamento, per di più solo in sede locale,  a un’iniziativa non facile, tante sono le difficoltà e le insidie; sostegno morale e incoraggiamento sono venuti dal 1° Municipio, il Presidente del Consiglio municipale Yuri Trombetti ha aperto l’incontro nella sede conciliare lodando l’iniziativa anche perché, ha detto tra l’altro, “il fanatismo si combatte con la cultura”. Sembra che sia tutto qui, le Istituzioni  culturali, di ogni livello e competenza,  non si sono fatte sentire, eppure è l’arte italiana che sbarca negli Emirati in un’avventura che, se supportata, può fare da valida apripista. Anche questo è un “made in Italy”, è stato detto,  per di più di natura artistica e culturale, radicato nella grande arte classica che Testa ben conosce per merito della sua assidua e appassionata attività di restauratore. 

Nell’incontro si è appena accennato alla scarsa lungimiranza delle nostre autorità culturali,  il clima è stato familiare, con letture di poesie e uno straordinario intermezzo musicale,  l’Ave Maria di Schubert e una sinfonia di  Bach suonate all’armonica a bocca con vero talento.

La sua opera, ne  parlano Vittorio Esposito e Mara Ferloni

Il compito di illustrare l’opera del Maestro è toccato a due illustri giornalisti critici d’arte: Esposito consigliere dell’Ordine e Mara Ferloni, direttore di Ages.

Vittorio Esposito, nei panni del “cronista d’arte”  come ama definirsi, ha fatto un’analisi approfondita da vero critico d’arte ma partendo dall’osservazione personale diretta da giornalista che segue l’insegnamento di Montanelli: guardare senza preconcetti e raccontare ciò che si è visto.

E ha raccontato le  opere del Maestro cogliendone la capacità di “tradurre in emozione quello che vede e ritrae”,  attitudine  acquisita nell’attività di restauratore. Il suo non è mero realismo, anche se viene accostato al Caravaggio per l’intensità cromatica e  il taglio delle composizioni – è esposto all’ingresso un suo “omaggio a Caravaggio”, la personale interpretazione in stile caravaggesco dei “Bari” –  ma una trasposizione della realtà filtrata da sogno e immaginazione che suscita emozioni.

Esposito ha parlato dei cavalli, che pur nella loro irruente presenza non sono reali né nella conformazione né nei colori, “vengono dai ricordi dell’infanzia, dalla giostra della fantasia”, per questo non hanno solo i colori tipici dell’animale, ma  colorazioni assolutamente innaturali, come quelli bianchi, rosa e celesti. Forse – ci dirà  in una folgorazione improvvisa mentre costeggiavamo  il Circo Massimo dopo l’incontro – “sono i colori di Roma, dei suoi marmi, delle albe e  tramonti”.

I  colori che nelle piazze monumentali della capitale “ci danno lo spirito della città in un momento ben preciso, la fanno vivere sotto i nostri occhi nella sua atmosfera barocca  e insieme moderna”, anche qui  sulle ali del sogno.  

Nelle nature morte, insieme al senso caravaggesco c’è l’impronta personale per cui  “il miscuglio di colori e di forme fa perdere alle singole componenti  la loro individualità per far risaltare l’insieme, l’intera composizione”.

Mara Ferloni ha parlato anche lei a lungo, con un’accurata analisi critica insieme a notazioni e ricordi personali molto sentiti. Ci limitiamo ad accennare a quanto ha detto sulla cura del Maestro per le tecniche pittoriche, “che ha approfondito facendole sue e reinterpretando la realtà in una visione di sogno”:  la dimensione onirica appunto, che dà emozione al di là di ogni valutazione tecnica. 

E ha sottolineato il magistrale cromatismo, con “il bianco che diviene trasparente”.  Poi ha parlato dell’interpretazione da parte del maestro della Divina Commedia in modo personale, emozionale e dell’ambientazione delle  chiese e delle piazze romane – “nei suoi dipinti le forme si perdono nello spazio dilatandosi” – e  infine dei cavalli di Testa, onnipresenti, e non potrebbe essere altrimenti.  

Ha concluso sull’importanza del fatto che un artista autentico come lui trasmetta questo alto messaggio culturale agli Emirati Arabi Uniti tanto più in un’epoca così inquieta e contraddittoria.

Potremmo terminare  qui il nostro resoconto, sommario e incompleto, di un pomeriggio romano e insieme internazionale all’insegna dell’arte di un Maestro come Gianni Testa. Ma non possiamo esimerci dal trasmettere qualcosa che ci è rimasto dentro delle emozioni provate nella sua mostra svoltasi tra il 12 settembre e il 12 ottobre 2014 al Vittoriano.  Anche se non sappiamo quali e quanti suoi quadri saranno esposti nel corso di un intero anno nelle tre  importanti città degli Emirati – in un anno sabatico all’incontrario –  cerchiamo di immedesimarci nelle sensazioni che proveranno i visitatori di quei lontani paesi.

Dalla materia, il colore e la luce verso il sogno e la fantasia.

Il forte impasto materico e il cromatismo altrettanto intenso  sono le prime impressioni che colpiscono.  La massa cromatica è il magma informe dal quale  il pittore “estrae” le sue forme come lo scultore dal blocco di marmo nell’accezione michelangiolesca, e Testa è anche  scultore oltre che restauratore delle opere dell’arte classica che gli hanno insegnato ad essere interprete del suo tempo.

Il  colore gli serve o a sfumare o a definire,  assume toni brillanti oppure cupi, in una variabilità che trasmette visivamente l’alternanza tra l’inquietudine della quotidianità e il superamento nella fantasia: è stato definito “vento cromatico” che porta le pennellate a “coagularsi in forma di figure”.

Nella dicotomia tra  materia e luce è stata vista l’espressione del “dualismo tra il corpo e l’anima, la materia e lo spirito, tra l’immanente e il Trascendente”, e la chiave per trovare ” un varco sensoriale tra il reale e il fantastico” , e per esprimere la sensibilità moderna. Nobilita il “quotidiano”  fatto di timori e ansie, speranze e attese, sublimandolo con la tensione emotiva verso il ricordo e la memoria mediante il sogno e la fantasia. Così, con le sue forme spesso sfuggenti e quasi inafferrabili che rendono dinamica la materia pur trattata con criteri scultorei,  trasmette quel che di interiore c’è dietro il realismo e dà  stimoli sensoriali e intellettivi che suscitano emozione nell’osservatore.

Si è parlato al riguardo di “spiritualità dell’essere”  che eleva al di sopra della fisicità portando  nel dominio dei sogni dove la realtà diviene immaginazione e il colore diventa protagonista dando di volta in volta energia e vibrazione, serenità e dolcezza. E  la luce più che marcare il realismo delle composizioni rende partecipe ogni elemento dell’intima  tensione dell’insieme, come ha sottolineato   Vittorio Esposito nell’incontro riferendosi in particolare alle nature morte.

Cavalli e nature morte, marine  e vedute di Roma

Nell’incontro in via della Greca  erano esposte 4 opere, “I bari”, che abbiamo citato, e tre espressive di suoi filoni pittorici, i cavalli, le piazze romane, e tra gli altri  temi  Marylin. Sullo schermo scorrevano ininterrottamente, anzi correvano,  le figure dei suoi amati cavalli, ai quali auguriamo il massimo successo negli Emirati: sono abitati da arabi che per i cavalli hanno una storica travolgente passione, e quelli di Testa sono trascinanti anche per noi, figurarsi come lo saranno per loro.

Questi cavalli  hanno un dinamismo febbrile,  sono  scalpitanti o rampanti, con le criniere al vento,  le teste  e i corpi  si affollano con arditi cromatismi in turbinose galoppate; tutto ciò  non si limita ad esprimere gli scatti del nobile destriero, ma è la sublimazione dell’indole umana con l’anelito alla libertà, quello  definito dalla critica “l’eroico furore che diventa metafora ed allegoria della vita”.

C’è tutta l’inquietudine esistenziale e la ribellione nel moltiplicarsi di composizioni equine sempre diverse come sono diverse le manifestazioni delle energie  interiori; frutto di un’inquietudine che non genera depressione o attesa e neppure rassegnazione, ma una reazione vista come “furente, appassionata, agitata da forze saettanti”. Reazione mai domata, energia mai indebolita.

Non sono solo i cavalli le possibili attrattive per i visitatori degli Emirati. Proviamo a immaginare quali dei molteplici temi dell’arte del Maestro possono essere più vicini alle loro aspettative, e allora due filoni pittorici ci vengono subito in mente: le nature morte e i paesaggi.

Le  nature morte sono dei veri ritratti,  quasi animati, all’insegna di un realismo che diventa iperrealismo nelle rappresentazioni dei grappoli d’uva, dei pomi e dei pesci; quanto mai vive nella brillantezza dei singoli elementi della “vita silente”  che  de Chirico attribuiva loro, non voleva chiamare “morta” la natura, e Testa intitola  “vita silente” una natura morta. Sono immersi in un bagno cromatico,  dal verde al blu, ed è una sinfonia vegetale dopo la sinfonia animale dei cavalli.

Fino alla sinfonia naturale dei paesaggi, nei quali troviamo le fulgide marine dal potente cromatismo, qui sono  le vele a dare vita e vitalità all’ambiente rendendolo animato; il mare per gli Emirati è un elemento primario, e pensiamo che vederlo sublimato negli spettacolari dipinti del Maestro possa risultare uno dei fattori per conquistare la loro sensibilità alla vera arte.   

E troviamo le vedute di Roma, con le sue piazze monumentali imbevute di una luce crepuscolare e notturna che vira al blu creando ombre quasi fossero apparizioni fino allo svanire dei contorni che porta dal realismo all’astrazione. Gli impulsi emotivi si stemperano nella serenità che suscita tale spettacolo,  silente anch’esso ma quanto mai vivo e coinvolgente come le sue nature morte

Gli altri temi, il diapason dell’inferno delle Torri Gemelle

A questo punto ci vengono in mente gli altri suoi temi, in primo luogo i ritratti, che il quadro all’ingresso con Marylin evoca con la sua potenza espressiva e la sua forza cromatica. Sono l’opposto dei cavalli, soggetti animati ripresi nel loro esuberante dinamismo; qui abbiamo invece un “fermo immagine” del soggetto animato che ora è la figura umana, e non sappiamo se abbia libero accesso dove tradizioni e credenze possono presentare più di un ostacolo per questi soggetti. Come per i soggetti sacri legati alla religione dell’artista, che è la religione della vecchia Europa.

Per lo stesso motivo neppure il filone sulla Divina Commedia crediamo si presti a un’esportazione nel mondo islamico, ed è una grande perdita per la sua intensità sconvolgente nel pesante spessore materico e nel cromatismo violento che rende appieno la diversa dimensione dell’al di là.

Ma se le fiamme dell’inferno dantesco non sembrano esportabili, dovrebbero esserlo senz’altro le fiamme dell’inferno terreno, quello dell’attentato dell’11 settembre alle Torri Gemelle.

Ricordiamo bene quel dipinto al centro della mostra al Vittoriano,  inserito tra i “paesaggi” nell’iconografia del Maestro,  per noi rappresenta il diapason in cui culmina l’intera sinfonia.

Le fiamme sono il cuore della drammatica composizione, mentre avvolgono le bianche torri appena delineate  in un clima di tregenda dove anche il mare e gli edifici minori diventano un magma cupo che contorna il tragico evento epocale. Ebbene, le fiamme nell’inferno terreno non ci sono state, le Torri sono  implose su se stesse scomparendo senza essere divorate dal fuoco;  ma averle rappresentate così ha il significato di aver fatto  prevalere “il verosimile sul vero”, come ha sottolineato Claudio Strinati, che ha visto  “le fiamme come metafora di energia, distruttiva in questo caso, vitale come nei cavalli che sembrano animati dal fuoco”.

E’ un’altra prova che il  Maestro va ben oltre l’apparente realismo,  vuole esprimere ciò che c’è dietro e dentro la realtà al di là della superficie, e in questa tragedia senza pari solo le fiamme dell’inferno hanno potuto rendere tutta la drammaticità e lo sconvolgimento di una simile tragedia.

Non sappiamo se questo quadro straordinario sarà tra quelli selezionati per lo sbarco negli Emirati. Sarebbe bello che lo fosse,  dovrebbe esserci sempre in ogni esposizione come memoria e ammonimento, anche se gli orrori continuano, ormai sono storia di tutti i giorni: ma la forza dirompente della rappresentazione nel linguaggio dell’arte è più eloquente dei moniti verbali.

Il nostro appello alle Istituzioni

Cavalli e nature morte, marine e vedute di Roma, dunque,  alla conquista degli Emirati; in più, l'”incendio” delle Torri Gemelle  come metafora di un inferno terreno al quale la cultura può opporre la capacità di suscitare emozioni che sono  altrettanti anticorpi al contagio distruttivo. 

Anche questo può nascere da un incontro così promettente dell’arte del Maestro con le nuove frontiere della modernità, che risiedono in quegli Emirati ancora misteriosi per molti versi. 

Un anno a Sharjah, Dubai e Abu Dhabi servirà non solo a trasmettere i valori della nostra arte ma anche a penetrare nella sensibilità di un popolo che merita di essere conosciuto al di là delle apparenze alquanto effimere che finora siamo riusciti  a percepire. Se ne avvantaggeranno tutti, e per questo le Istituzioni non possono e non devono restare assenti da un impegno con tali valenze positive. E’ un appello che rivolgiamo alle Istituzioni culturali per un loro fattivo intervento.

Info

Per la mostra al Vittoriano del maestro Testa,  cfr. il nostro articolo in questo sito “ Testa, l’espressionismo onirico al Vittoriano”  il 14 settembre 2014, e il Catalogo: “Gianni Testa – Antologica”, a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, pp, 112.

Foto

Le foto di apertura e chiusura sono state riprese da Romano Maria Levante all’incontro nel 1° Municipio in Via della Greca 7; le altre immagini sono tratte dal Catalogo sopra citato, si ringrazia l’Editore con il Maestro Testa e i titolari dei diritti. Le immagini riproducono 9 sue opere inserite alternando i 4 filoni ricordati, cavalli, marine, visioni di Roma, nature morte;  altre 10 immagini, con i restanti temi ricordati nel testo, sono comprese nell’articolo sopra citato sulla mostra al Vittoriano, tra esse “Undici settembre 2001”, di cui abbiamo sottolineato il particolare significato e valore. In apertura, un momento dell’incontro al 1° Municipio, sulla destra il maestro Gianni Testa  nell’intervento conclusivo,  al centro il presidente del Consiglio municipale Yuri Trombetti,  a sinistra Chiara Testa, organizzatrice della manifestazione; seguono “Bradi liberi”, 1976, e “Velieri”, 1970; poi “Sintesi di Roma”, 1967, e  “Natura nel blu”, 1984; quindi “Bufera nella città”, 2000 , e  “Venezia d’estate”, 2009;  inoltre “Piazza Navona”, 2000, e “Natura silente”, 2000,  infine “Piazza del Popolo”, 2012, e  “Uva”, 2012;  in chiusura,  il poster del “Tour negli Emirati Arabi di Gianni  Testa” , aprile 2015-aprile 2016..   

Africa, Italia, una mostra evocativa, al Museo di Roma

di Romano Maria Levante

Al Museo di Roma a Piazza Navona, Palazzo Braschi, il Festival della Letteratura di viaggio  organizzato dalla Società Geografica Italiana presenta, dal 28 febbraio al 24 marzo 2015,  “Africa, Italia”, mostra fotografica, multimediale e documentaria. Nei diversi settori espositivi si trovano evocate l’Eritrea, da Asmara a Massaua vista con un occhio appassionato; l’Etiopia, dalla terribile Dankalia alla capitale Addis Abeba, la Libia in un duetto fotografico nonno-nipote 70 anni dopo, la Somalia in una ricca documentazione;  fino al “ieri e oggi” della presenza dell’ENI   in spirito di  cooperazione in campo energetico e di integrazione. Esposti cimeli e reperti. che creano l’atmosfera e fanno sentire il “mal d’Africa”. 

Le letteratura di viaggio si esprime in vari modi, dalla scrittura alla fotografia, alle riprese video. La Società Geografica italiana, nella sua periodica celebrazione di un genere che unisce cultura ad avventura, approda in Africa con una serie di visioni molto diverse che compongono un quadro composito di quello che veniva chiamato il “continente nero”, pervaso da un percettibile “mal d’Africa”.

Nelle sale di Palazzo Braschi, molto affollate all’inaugurazione, si snodano questi racconti di viaggio visivi con descrizioni scritte, oltre a mappe antiche, taccuini di viaggio, dipinti.

All’ingresso creano l’atmosfera i simboli delle esplorazioni africane,  il casco e la sahariana, lo zaino e la borraccia,. Poi fotografie a colori e in bianco e nero, installazioni multimediali con video che trasmettono  interviste, suoni e  immagini raccolte in luoghi suggestivi del territorio africano.

La Società Geografica Italiana

La Società Geografica Italiana ha “una storia lunga quanto la storia d’Italia”,  e oltre a darsi questa definizione, mette in rilievo il fatto che dalla terrazza della sua sede nel Palazzetto Mattei all’interno del  parco di Villa Celimontana, “si possono cogliere, in un colpo d’occhio, i simboli più significativi delle tre età di Roma: il Campidoglio dell’età antica, la Basilica di San Pietro della Roma papale, il Vittoriano della nuova capitale del regno d’Italia”.

Basta questo per dimostrarne l’attaccamento alle tradizioni nazionali, e si spiega l’attenzione per l’Africa,  non più  “quarta sponda” ma pur sempre dirimpettaio naturale della penisola protesa sul Mediterraneo. Nel 1869-70 la società organizzò la prima esplorazione in questo continente, seguita da una seconda in Tunisia nel 1875 e da una terza nel 1876 nei Grandi laghi equatoriali;  ne seguirono  molte sempre in Africa, poi anche in Asia centrale, i Sudamerica e in Papuasia. 

Era la fase delle grandi esplorazioni scientifiche, fondamentali per il progresso della geografia, così furono disegnate le prime carte geografiche affidabili e furono raccolte notizie inedite sui popoli “nuovi”.  Con la fine del periodo coloniale, dalla geografia esplorativa si passò alla geografia scientifica dedicandosi alla ricerca e producendo pubblicazioni nei vari  campi della disciplina.

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Molti studi anche sull’emigrazione, su di essi si basò il Servizio statale  di tutela degli emigranti  e fumesso molto impegno nell’aggiornamento della produzione cartografica italiana nonché nel rendere più moderno l’insegnamento della geografia nelle scuole.

A questa attività si è unita a una costante attenzione ai collegamenti tra geografi, con grandi congressi  internazionali. E’ attualmente sede di Eugeo, rete di collegamento tra le società geografiche di tutto il mondo, e della Casa della Geografia, segretariato permanente dell’Unione geografica internazionale dell’ONU. .

L’attività svolta ha prodotto una massa di reperti e cimeli, distribuiti in molti Musei italiani, tra cui il Museo Nazionale Preistorico Luigi Pigorini di Roma. Ha  una Biblioteca specializzata, la maggiore d’Europa con  400.000 volumi  e 2000 periodici e  una Cartoteca con 100.000 carte geografiche moderne. Inoltre dispone di un Archivio storico con 450 faldoni  nei quali sono raccolti documenti d’epoca di geografici e cartografi, esploratori e viaggiatori di grande interesse per ricostruire la storia del progresso della conoscenza  nell’800-‘900; e di un  Archivio Fotografico con 120.000 fotografie dalla metà dell’800 che spaziano nel pianeta con una documentazione suggestiva. Non manca una Cineteca con un piccolo fondo di documentari. L’ultima notazione sulla dotazione della Società riguarda i fondi privati che si aggiungono alle proprie raccolte storiche. Tutto è accessibile non solo ai soci ma anche al pubblico dietro apposita richiesta.

Danno conto delle sue attività scientifiche e culturali le pubblicazioni, a partire dal “Bollettino della Società Geografica Italiana”,  con cadenza trimestrale ininterrottamente dal 1868, accompagnato dalle monografie scientifiche della serie “Memorie della Società Geografica Italiana”, e dal “Rapporto” annuale. Tra le manifestazioni culturali citiamo il “Forum del Libro geografico e di Viaggio”, e il “Festival della Letteratura di Viaggio”, che organizza incontri con autori, spettacoli teatrali e musicali,  la proiezione di film di viaggio e mostre di fotografie storiche e contemporanee.

Siamo tornati così, alla mostra di Palazzo Braschi dopo averla inquadrata nell’attività della Società Geografica che l’ha organizzata.

L’Eritrea, immagini di un “paese giovane” 

“A passage to Eritrea” di Antonio Politano fa entrare nel mondo africano con immagini che vengono da lontano. L’autore fin dall’Università aveva stretto amicizia con un eritreo del Fronte di Liberazione Popolare, al punto di fare la tesi sulla liberazione dell’Eritrea. Nel 23° anniversario dell’indipendenza ha potuto realizzare il sogno, a lungo coltivato, di visitare il paese per “capire, fermare, restituire qualcosa”, dice lui stesso, “L’Eritrea era un vecchio amore, dai tempi dell’università”.   

Così ci presenta “alcune facce di un paese giovane, uscito con grandi speranze da una guerra di liberazione durata trent’anni (la più lunga del continente), che vive oggi un tempo sospeso, tra l’emergenza permanente per un conflitto mai finito con l’Etiopia, l’orgoglio del proprio percorso, la voglia di modernità, la lotta per inserirsi in un mondo globale, le fughe alla ricerca di libertà e opportunità, gli approdi drammatici alle porte della Fortress Europe”.

In questa interpretazione autentica dell’autore c’è tutto,  il drammatico passato, l’inquieto presente, l’incerto futuro. Le immagini danno conto del suo viaggio da Asmara a Massaua, tra l’altopiano e il Mar Rosso, tra architetture e rovine, visioni marine suggestive con gli arcipelaghi di corallo fossile, i tradizionali mercati di cammelli  e le moderne sfilate di moda. Si conclude con la visione di barche abbandonate: a questi precari natanti  si affidano  le speranze di una vita migliore per una massa crescente di disperati.

L’Etiopia, della Dankalia ad Addis Abeba

Dall’Eritrea all’Etiopia, con “Crossing Ethiopia Today”,nei due reportage di Andrea Semplici, con “Danakil”, e di Alice Falco e Romina Marani con“Across Addis”.  

“In Etiopia oggi” si intitola il progetto in corso da parte della  Società Geografica Italiana, per realizzare un “Centro di Studi e Ricerche sulla Biodiversità degli Ambienti Montani d’Etiopia”, che ospiterà ricercatori europei e stranieri interessati allo studio dell’ambiente alpino etiopico, inserito di recente nella  lista dei “Punti Caldi Mondiali della Biodiversità”. Il centro è dedicato ad Orazio Antinori, che compì le prime tre esplorazioni della Società Geografica e nel 1877 fondò in Etiopia la Stazione Geografica ed Ospitaliera di Let Marefià;  morì in Etiopia.

“Danakil” è  uno straordinario reportage filmato di un territorio estremo, la Dancalia, regione tra Etiopia, Eritrea e Gibuti, sul crinale del conflitto  senza fine tra eritrei ed etiopici,  abitata dagli Afar in villaggi isolati, anche mobili, perché la popolazione pratica un nomadismo circolare, seguendo l’andamento delle piogge e la formazione di pascoli. 

Fu esplorata per la prima volta da un italiano ai primi del ‘900, il giovane Tullio Pastori raggiunse la desolata Piana del sale, formatasi con il ritiro delle acque marine e riuscì a sopravvivere in quella terra ospitale con gli Afar locali, con i quali restò sempre in contatto. Poi fu la volta di Raimondo Franchetti e Ludovico Nesbitt ,concorrenti in libri con cui si contesero notorietà e gloria.

 La Dankalia si estende per 50 mila chilometri quadrati aspri e tormentati,  10 mila sotto il livello del mare: è un territorio desertico tra distese di sale e distese di lava.

Le immagini che scorrono sullo schermo ripercorrendo il cammino degli esploratori ne rendono il terribile fascino, quello che una volta qualcuno chiamava il “bello orrido”.

Sono visioni di fuoco per le eruzioni vulcaniche, panoramiche di plaghe calcinate dal sale, sembra di essere all’altro mondo, “qui si vede la terra pulsare, arrabbiarsi, creare una tremenda bellezza”, così la descrive  l’autore Andrea Semplici. E aggiunge: “Qui si assiste ancora alla Genesi del pianeta .La Dancalia è un antidoto contro ogni stereotipo occidentale attorno all’Africa”.

Tutt’altre immagini quelle di “Across Addis”, Alice Falco e Romina Marani presentano la capitale, tra grattacieli e strade polverose, preghiere e litanie liturgiche, sfilate  e festeggiamenti: sono i giorni del Timkat, l’Epifania copta etiope. Un mondo festoso e colorato, dopo le asprezze della Dankalia.

La Libia, ieri e oggi di nonno e nipote

E siamo a “Libya, the Captain and me”, non solo un reportage ma una testimonianza toccante. Francesco Fossa, l’autore, aggiunge “sulle tracce del Paziente Inglese” al titolo che ricorda “Capitano, mio capitano” dell'”Attimo fuggente”;  ma qui sono generazioni diverse,  e spiega questo singolare riferimento confidando  la storia che sta dietro al suo viaggio appassionato.

Le foto dell’album di famiglia, scattate nel 1933 dal nonno giovane ufficiale degli alpini in una zona contesa tra italiani e inglesi compresa tra l’oasi di Cufra e i contrafforti dell’Auena’t, hanno stimolato la sua ricerca di quei luoghi, ed eccolo in Africa, ma una tempesta di sabbia lo porta al confine algerino,  nell’Ubari e Meridhet, fino alla città dei Tuareg, e  alle rovine della città romana Sabrata.

Ill riferimento al nonno resta, e troviamo nella mostra le rispettive foto accostate:  quelle da album di famiglia del nonno con i segni del tempo e quelle attuali del nipote in formato esposizione. Un ieri e oggi suggestivo, con il riferimento al “Paziente Inglese”.

Nei diari di viaggio di colui che è divenuto famoso con questa denominazione, l’esploratore ungherese Laszlo Almèsy, è citato il giovane ufficiale Manfredo Tarabini Castellani, nome che ricorre anche nei rapporti segreti del generale Graziani, proconsole in Africa.  Per questo, scrive l’autore, “spionaggio militare, scoperte archeologiche, gesti cavallereschi danno luce a una figura morta troppo presto, in combattimento sui monti d’Albania nel 1940”. E conclude: “Ora nonno  e nipote sono molto più vicini di un tempo. Con le loro visioni, diverse ma parallele”.

Chi scrive ha provato la stessa emozione ripercorrendo le tracce del proprio nonno emigrato nelle lontane Americhe nel 1906,  anche se non ha potuto visitare personalmente in quei luoghi, come l’autore del reportage, e può comprendere appieno i sentimenti provati al momento dell'”agnitio”.

La Somalia, parole, documenti e reperti

L’emozione di questo incontro nonno-nipote che annulla le distanze di tempo e di spazio conclude le  esposizioni di autori che hanno una storia da raccontare in immagini. Ma la mostra non è finita,  né poteva mancare un paese importante per l’Africa e per l’Italia:, “Somalia, Time Ago” .

Ne dà conto la videointervista a due scrittrici nate in Italia da genitori somali, Ubah Cristina Alì Farah di Verona, e Igiaba Scego di Roma.  Parlano dell’identità del popolo e delle migrazioni, di famiglie e di architetture, in un  affresco della situazione e dei problemi in una prospettiva storica.

Poi una serie di  documenti cartografici e reperti introducono alla conoscenza degli archivi della Società geografica, dalla Biblioteca e Cartoteca di cui abbiamo parlato all’inizio, alle collezioni: vediamo le carte della collezione Filonardi del 1891 e le fotografie di Citerni e Ferrandi  sul Giuba nella spedizione Bottego del 1895-97, le testimonianze della missione Stefanini-Puccioni del 1924; e le  2000 foto di Dainelli in Africa Orientale nel 1938-39 con la missione geologica dell’Agip.

L’Africa come partner dell’Eni

Qui s’innesca una “enclave” della mostra, la documentazione della presenza dell’Agip, ora Eni, in Africa, dalle prime prospezioni allo sviluppo di una produzione molto importate che fa dell’Ente energetico italiano il primo produttore internazionale del continente; dall’Africa viene la metà della produzione totale di petrolio greggio e di gas dell’Eni, con il lavoro di oltre 12.000 persone.  

Un interessante “ieri e oggi” anche qui,  con affiancate le immagini del lontano passato in tutto il loro fascino e quelle dell’importante presenza odierna. Sono immagini di lavoro, anche qui nessun stereotipo dell’Africa, ma documentazione e testimonianza visiva di una storia vera: quella del nostro approvvigionamento energetico in un continente  molto ricco di risorse di petrolio e gas che all’inizio degli anni ’50 era divenuto politicamente indipendente ma era rimasto poverissimo.

L’Agip, mediante la cosiddetta “formula Mattei”,  riuscì a penetrare nei paesi petroliferi facendoli  beneficiare maggiormente della valorizzazione delle loro risorse con l’aggiunta alla ripartizione “fifty-fifty” degli utili imposta dalle grandi  multinazionali, la compartecipazione paritetica in u na società comune, quindi con piena condivisione di know how e risorse sul piano tecnico e il 75% dei proventi al paese.  Inoltre si è prestata molta attenzione al tessuto sociale con una politica di cooperazione e integrazione.

Il “mal d’Africa”

Si conclude così la nostra visita alla mostra “Africa, Italia”, inserita nel programma della “letteratura da viaggio” con una  serie di reportage e documenti che testimoniano l’antico e profondo legame del nostro paese con il vicino continente.

La stessa avventura coloniale a partire dagli inizi del ‘900  rispondeva alla spinta dei tempi, essendo il nostro l’unico grande paese  europeo senza colonie. Non sono mancate le atroci violenze  insite nelle conquista territoriali, ma non è stata una presenza di rapina come in altre storie coloniali.

Per questo l’atteggiamento nei riguardi dell’Italia, terminata la presenza coloniale, è apparso amichevole e aperto alla cooperazione,  come è avvenuto nel settore  energetico  e non solo, pur con ricorrenti momenti di intolleranza.

Oggi nei paesi africani i conflitti sembrano aggravarsi per la  preoccupante penetrazione del terrorismo e del fondamentalismo islamico, con l’efferatezza dell’Isis, un pericolo per tali paesi prima ancora che per l’Occidente. 

L’attenzione dell’Italia è massima, come ha detto anche il Ministro degli Esteri,  sia perché si trova direttamente esposta sia soprattutto per i legami storici.

Vengono sottolineati dalla mostra  con immagini e documenti , reperti e testimonianze che fanno pensare al “mal d’Africa”:  forse mai sopito. E’ meritorio aver evocato in modo così suggestivo il fascino del continente nei contatti mai interrotti.

E’ un continente dalle solide radici nella tradizione, ma proiettato nel futuro pur nelle difficoltà epocali che portano alle migrazioni di massa. L’immagine simbolo dei bambini festosi con le mani protese in alto che chiude la nostra galleria fotografica la colleghiamo a un’immagine con la stessa tensione ideale con cui abbiamo aperto a suo tempo il nostro servizio sulla mostra fotografica nella chiesa romana dei Martiri dell’Uganda.   E questo vuol essere anche il nostro fermo auspicio.

Info

Museo di Roma  Palazzo Braschi, Piazza Navona 2, Piazza San Pantaleo 10, Roma. Dal martedì alla domenica, ore 10,00-19,00, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero 11 euro, ridotto 9 euro, gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente. Tel. 060608; http://www.museodiroma.it/; http://www.societageografica.it/: http://www.festivalletteratiradiviaggio.it/  Per un precedente “Festival della letteratura di viaggio” cfr.  in “cultura.inabruzzo.it” il nostro articolo “Viaggio in Italia, premiati Rumiz e Arbasino”, il 29 settembre 2009, il sito non è più raggiungibiloe, l’articolo sarà trasferito su questo sito prossimamente. Per l’ultima citazione del testo cfr., in questo sito,  il nostro articolo “Uganda, nella chiesa dei martiri fotostory di fede e vita” , 20 luglio 2013.     .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Braschi alla presentazione della mostra,  si ringraziano gli organizzatori, in particolare la Società geografica Italiana e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, un’immagine simbolo dell’Africa tradizionale, un vecchio dall’espressione severa; seguono una scena pittoresca e  una serie di immagini suggestive, due di Antonio Politano sull’Eritrea, due di Andrea Semplici sulla Dankalia; quindi un’immagine  sull’Etiopia e due di Francesco Fossa sulla Libia; infine due immagini d’epoca del capitano Castellani; in chiusura un’immagine simbolo proiettata al futuro, con i bimbi festosi dalle mani protese.

De Chirico, la gioiosa Neometafisica, a Campobasso

di Romano Maria Levante

A Campobasso, dal 20 dicembre 2014 al 6 aprile 2015,  la mostra “Giorgio de Chirico. Gioco e gioia della Neomatafisica” espone  circa 70 opere, di cui 34  dipinti, 10 litografie e 24 disegni, che costituiscono la più completa rassegna presentata in  Italia del periodo Neometafisico, in cui negli ultimi dieci anni di vita, oltre gli 80 anni, l’artista rilanciò la visione metafisica con uno spirito nuovo improntato a una straordinaria vitalità. Realizzata dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico che ha fornito le opere, con la Fondazione Molise Cultura. Curatore Lorenzo Canova che ha curato anche il Catalogo della Regia Edizioni di Campobasso.

La presentazione della mostra nella Casa Museo

La presentazione della mostra di Campobasso si è svolta il 18 dicembre 2014 nella Casa Museo di Giorgio De Chirico a Piazza di Spagna, dove ha  sede  la sua Fondazione  che l’ha organizzata, con la Fondazione  culturale molisana,  fornendo le opere esposte: un evento nell’evento data la sede prestigiosa.

E’ un luogo suggestivo dove si respira l’aria in cui è vissuto il Maestro: da una sala all’altra tutto parla di lui, gli ambienti e i mobili, gli arredi e i soprammobili, come se il tempo si fosse fermato, fino all’atelier al piano superiore nel quale volle schermare le finestre perché la luce piovesse dall’alto creando le migliori condizioni per la sua pittura. E poi le pareti coperte dai quadri delle sue opere, una mostra permanente di grande fascino in cui si ritrovano i motivi della sua produzione artistica, con il fascino dato dal luogo in cui sono state concepite e realizzate.

Il Presidente Paolo Picozza ha ricordato che ricorre il centenario della Metafisica ferrarese, datata 1915, precisando che l’effettivo inizio della metafisica è a Firenze nel  1910.  Una “mostra selezionatissima” per una “città metafisica”, così ha chiamato Campobasso, definizione cui i rappresentanti  della Fondazione Molise Cultura  hanno fornito precisi riferimenti. 

Al riguardo il direttore di tale Fondazione, Sandro Arco,  ha citato “il paesaggio e il contesto storico molisano, tra antichità e modernità, dall’archeologia, ad esempio, dei siti molisani che dialogano con gli archeologi, i gladiatori e le rovine dipinte dal maestro, fino alle volute che compaiono spesso nelle opere della Neometafisica, simili a quelli delle chiese della regione . I legami giungono poi alla modernità della ex Gil, capolavoro di quel razionalismo architettonico italiano che trovò una fondamentale fonte di ispirazione nella pittura metafisica, divenendo in parte quella ‘metafisica costruita’ che si diffuse nell’architettura dell’epoca”. La ex Gil è proprio la sede dell’esposizione.

La mostra della Fondazione de Chirico segue, in effetti, quella del 2013  su “Il Ritratto, figura e forma”, confermando la meritoria scelta di ricercare per le proprie mostre tematiche luoghi raccolti e particolarmente suggestivi della provincia italiana, per il paesaggio e il contesto storico-culturale, come fu Montepulciano per il “Ritratto” ed ora Campobasso per la “Neometafisica”.

L’affermazione della Neometafisica

Una prima notazione viene spontanea nell’introdurre la mostra, il “felix error” della critica  che, come  non comprese tempestivamente la Metafisica alla fine della prima Guerra mondiale,  così non ha capito la Neometafisica degli anni ’70, confondendola con le repliche  della prima Metafisica che suscitarono, per di più, polemiche per le retrodatazioni:  in tal modo  le opere della Neometafisica,  non  richieste dal mercato,  sono rimaste nella sua collezione privata costituendo un importante e cospicuo nucleo  nella raccolta della Fondazione. 

Il resto è venuto da scelte appropriate  che il presidente Picozza ha  riconosciuto alla moglie-musa del Maestro, Isabella Pakswer Far: svincolarlo a fine anni ’60 da committenze  ripetitive dei soggetti classici della sua pittura dalle  Piazze ai Trovatori ai Cavalli, in modo da liberare la sua ricerca approdata nella Neometafisica;  costituire la Fondazione; diffondere tali opere anche con donazioni mirate.

Come per la Metafisica, che ebbe la prima forte affermazione a Parigi, anche per la Neometafisica – rilanciata nella mostra di San Marino del 1995 – il riconoscimento internazionale è venuto dalla mostra del 2009 “La fabbrica dei sogni” nella capitale francese,  in cui furono esposte 168 opere dal 1909 al 1975, un’antologica della totalità della sua produzione con uno spazio importante riservato all’ultimo periodo.

La ricorda così Picozza: “La nutrita sezione di quadri Neometafisici esposti nelle ultime due grandi sale del percorso museale ha avuto un effetto simile ai fuochi d’artificio alla fine di una straordinaria passeggiata tra i mondi visionari dell’artista”.   Perché ha confermato “come, anche in tarda età, un  artista che già aveva contribuito a formare diverse generazioni, si posiziona come contemporaneo agli occhi di una giovane generazione di arte straniera  e italiana”. Dopo Parigi si sono svolte con successo mostre sulla Neometafisica di De Chirico ad Atene e  Francoforte, Tokio  e New York, fino a San Paolo del Brasile

Tutto questo accresce la curiosità, che diviene vivo interesse, per la Neometafisica prodotta dal grande artista ottantenne che riesce  così ad entrare in sintonia con la giovane generazione, in un autentico miracolo  di vitalità e di energia.

Cos’è, dunque, la Neometafisica e come si colloca nell’universo artistico del Maestro?

Cos’è la Neometafisica

Una prima risposta viene da Maurizio Calvesi, il ben noto critico che ha studiato più a fondo l’artista: nella Neometafisica “i suoi personaggi, i suoi manichini, i suoi oggetti, le sue architetture sono in realtà divenuti giocattoli e il senso del gioco – che pure era già segretamente latente in qualche angolo della prima Metafisica – trionfa ora come una chiave creativa del tutto nuova, vitalizzata da un’assoluta coscienza di libertà e di dominio sul proprio mondo poetico, e persino psichico; da cui non è più sopraffatto, ma di cui diviene il disincantato regista; o se si vuole il burattinaio di una recita di sorprese; il prestidigitatore di segreti ben conosciuti”. E, precisa, “nel gioco di prestigio, il mistero è soltanto simulato, né la sua ipotesi inquieta lo spettatore, che anzi è indotto, dalla sorpresa, a una reazione di vitale e gioiosa energia. L’autenticità, prima negata, della vita, nella ‘nuova’ Metafisica si riafferma”.

Ed ora la parola al curatore della mostra, Lorenzo Canova, che con il libro “Nelle ombre lucenti di de Chirico” ha compiuto un viaggio avventuroso quanto appassionato nei percorsi pittorici del Maestro rivivendo nella realtà le emozioni trasmesse dai suoi dipinti: “La Neometafisica di Giorgio de Chirico è segnata da un viaggio a ritroso che vede l’artista ricomporre la sua storia assemblandola in modo nuovo, liberandolo dalle ombre nere della melanconia e dalla premonizione di un futuro angosciante della prima Metafisica”; futuro  realizzato tragicamente con due guerre “in uno stravolgimento che lo stesso assetto inquietante dei suoi capolavori aveva intuito e profetizzato”. Negli ultimi anni “confortato dalla sicurezza e dall’immortalità della propria opera e dell’eternità, Giorgio de Chirico riapre invece le sue prospettive, ribaltandole”, cosicché i soggetti tradizionali dei suoi quadri “si aprono in un gioco infinito che ripercorre tutto il tempo esistenziale di de Chirico, illuminando alcuni misteri e ricomponendone alltri”.

Katherine Robinson, che cura il coordinamento scientifico di “Metafisica”, Quaderni della Fondazione de Chirico, precisa: “Rispetto al clima severo ed inquietante dei quadri della prima Metafisica, la pittura Neometafisica è caratterizzata da colori accesi e atmosfere serene. La prima è enigmatica, profonda, potente e buia; la tarda è invece leggera, giocosa e luminosa. Entrambe arrivano in modo inaspettato sull’orizzonte della tela cariche  di significati inediti. La Metafisica degli anni Dieci (1910-1918) e la Neometafisica dell’ultimo periodo (1968-1976)  risultano avere  curiosamente  la stessa durata temporale di otto anni. Disegno armonico del destino? Ritornello della circolarità del tempo? Oppure congegno straordinariamente enigmatico, la cui lettura potrebbe essere quella di rilevare una strana sincronicità nell’opera dell’artista con la teoria dell’armonia degli opposti di Eraclito?”.

Sono ai limiti opposti della vita i 22 anni di età allorché creò l’“Enigma di un pomeriggio d’autunno” nell’ispirazione avuta nel 1910 da Piazza Santa Croce a Firenze e gli 87 anni di “Visione metafisica a New York”, dipinto nel 1975.  Ma la Robinson non si ferma a questa constatazione, mette a confronto le due fasi, “un’alba imponente piena di promessa e un tramonto ridente dalle mille pienezze colorate”. Dove, aggiungiamo noi, il paradosso è nell’alba  offuscata da  malinconia e inquietudine, mentre il tramonto brilla di gioia e di giocosità, l’opposto di quanto è dato attendersi.

Prima Metafisica e Neometafisica, l’armonia degli opposti

Il  confronto viene operato dalla Robinson raffrontando gli scritti del Maestro sulla prima Metafisica, precisamente i “Testi teorici e lirici” del 1911-15,  con la versione finale del suo romanzo “Il Signor Dudron”, sulla cui identità è rivelatore il documentario  del 1974 “Il mistero dell’infinito”  in cui a Franco Simongini che gli chiedeva “Il signor Dudron è lo stesso Giorgio de Chirico?” rispose sorridendo “E’ probabile”. Si tratta di una sorta di “testamento scritto della sua arte”  basato su racconti precedenti ma aggiornati tra gli anni ‘60 e ’70 alla sua visione del momento con parole su cui si deve riflettere per interpretare  il nuovo corso artistico.

Ebbene, nel  1911-15 scrisse che la “rivelazione” da cui nacque la Metafisica gli permise “di vedere tutto per la prima volta”;  il signor Dudron , cioè de Chirico anni ’70,  parlando a se stesso, dice: “Bisognerebbe rievocare un passato che, secondo ogni apparenza, non avrebbe dovuto più riapparire sulla scena della sua memoria”.  A questo punto la Robinson si chiede: “Quale passato? E se fosse proprio il primo periodo Metafisico suscettibile di essere  ‘rievocato’?”.

Il passato, quindi la Metafisica, non  avrebbe dovuto ripresentarsi, forse perché considerata “come un cerchio vitale integro e compiuto”, anche se repliche e varianti non sono mancate nell’intero percorso artistico;  il passato che riappare deve essere dunque “qualcos’altro, di meno immediato e prevedibile, qualcosa che ha a che fare con il suo personale rapporto con il periodo giovanile”.  Cioè  con l’età del gioco e della gioia che è stata invece nella pittura Metafisica  quella della malinconia e dell’angoscia,  dell’inquietudine e del mistero.

La polemica con il Surrealismo lo porta alla nuova immersione  nella Metafisica “entrandoci questa volta proprio dalla porta oscura lasciata aperta dai Surrealisti per recuperare il lato solare e consolatore di quella visione”. Comunque,  per la Robinson, “le ombre inquietanti della prima Metafisica non oltrepassano il solco degli anni venti, quando una nuova luce  si disegna sulla tavolozza, una nuova profondità ottica e materiale si riverbera sulla tela”; inoltre  “il lirismo della consolazione è parte integrante della prima Metafisica che si esprime in tutta la sua pienezza nelle prime poesie di de Chirico, dove questo motivo di gioia e di conforto viene ‘cantato’ più che spiegato. Nella pittura Neometafisica si esprime direttamente sulla tela”.

La rivoluzione della Neometafisica

A questo approfondimento dei motivi reconditi del suo apparente “ritorno al passato”, aggiungiamo qualcosa di più  sui contenuti.  Elena Pontiggia sottolinea che anche con la prima Metafisica “quando de Chirico, nell’età delle avanguardie, dà vita alle Piazze d’Italia non crea un nuovo stile, ma un nuovo modo di vedere”. Le architetture, le statue e le rare figure sono neoquattrocentesche, dall’evidenza immediata: “Tutto è chiaro, ma incomprensibile. Anche un bambino può descrivere un quadro metafisico, ma nemmeno il più grande filosofo sa spiegare cosa vuol dire”. E’ il mistero, l’enigma che suscita un’indicibile emozione.

“La rivoluzione della Neometafisica è analoga: anche questa volta de Chirico non muta le forme delle sue Piazze d’Italia (e dei manichini, dei monumenti, del sole sul cavalletto, delle torri, dei templi, dei biscotti, delle squadre, dei triangoli, degli archi), ma ne capovolge il significato”. Ed ecco come: “Se la Metafisica degli anni Dieci era drammatica, allarmante, ispirata alla profondità di Nietzsche, la Neometafisica degli anni Settanta – o, per essere più precisi, del decennio che va dal 1968 al 1978, quando l’artista scompare – è giocosa, sorniona, ispirata alla leggerezza che il pictor-philosophus ha ormai raggiunto”. Per concludere: “E se la prima Metafisica, come scriveva de Chirico stesso, è ‘quanto all’aspetto  serena, ma dà l’impressione che qualcosa di nuovo debba accadere’, la Neometafisica è serena e basta”. Ciò vuol dire che “sentimenti di attesa, trasalimenti, presentimenti le sono estranei. Nulla accade nel teatro luminoso e ironico dell’artista”.

La mostra è appunto un teatro, con il ritorno di tutti i protagonisti evocati dalla Pontiggia, in un’atmosfera molto diversa, dove le luci si sostituiscono alle ombre, il gioco e la gioia all’inquietudine. Non resta che  descrivere il grande spettacolo messo in scena,  in tale teatro, dalla Neometafisica  di  de Chirico a Campobasso.

Temi e soggetti metafisici in una diversa luce

Cominciamo dall’opera anticipatrice del nuovo corso anche nel titolo, “Il ritorno di Ulisse”, 1968, seguita da un’altra con lo stesso titolo del 1973: sembra di riconoscere  Ebdòmero in barca nella camera in veste umana e come statua, con aperture all’esterno  su ampi panorami marini e collinari, e la volontà di  riunire  diversi temi, dai mobili ai templi,  in un’atmosfera serena  senza ansie né costrizioni, anche se sono presenti richiami al mistero. 

“La Torre” , dello stesso  1968,  non ha l’imponenza oppressiva  sulle figure minuscole della “Grande Tour”, né dà un senso di soffocamento come “La Torre”, entrambe del 1913;  il dipinto neometafisico  invece ha clori squillanti e, scrive la Pontiggia, “con la sua forma che sembra una gabbia di grilli, fa pensare a un’installazione decorativa, se non a un’attrazione di un Luna Park. Ha tonalità troppo allegre e affabili per suscitare angoscia”. E il celebre tema di “Ettore ed Andromaca”,  reso nel 1917 con manichini angolosi e stretti tra quinte rigide, e ammorbidito nel 1923 con un tendaggio e uno sfondo mentre Andromeda diventa una statua, nel 1974 si apre ad una piazza assolata con la figura femminile nella sua carne rosa e un mantello che le avvolge le forme umane.  Non sono presenti in mostra, ma sono troppo significativi per non citarli.

Vediamo invece altri noti soggetti: “Il figliol prodigo” nel 1975 mostra l’abbraccio solitario con il padre in una piazza metafisica assolata e luminosa mentre nel 1919  l’incontro avveniva in un ambiente cupo con molte figure misteriose;  nel 1973 il  giovane ritornato è ritratto nudo in piedi, come un efebo, con il padre seduto sotto il peso dell’accumulo di templi e colonne, in un interno che ha un’apertura sul mare.  Il confronto tra le interpretazioni del 1973 e de 1975, oltre che con quella del 1919, è molto significativo.

“Il Pittore”, 1958,  ricorda “Il Vaticinatore”, 1914-15, ma anche qui c’è una finestra aperta su un esterno luminoso prima inesistente, e  sulla lavagna dinanzi al manichino al posto dei segni inquietanti delle profezie ci sono due assi cartesiani, forse ad indicare l’incrocio tra passato e futuro in un prospettiva rassicurante di eternità.

Ben più luminoso in un interno con finestra, Il pittore di cavalli”, 1974, dove  il manichino, prendendo a modello  una scultura,  ritrae  la testa dell’animale al centro del dipinto “Interno metafisico con testa di cavallo”, 1968,  in entrambi “il quadro nel quadro”. 

Vediamo anche “Il Meditatore”, 1971, cui le gambe corte e le braccia lunghe, con la straripante  barba polimaterica, danno un aspetto che suscita il sorriso piuttosto che la meditazione;  l’artista lo ritrae con affettuosa ironia in un interno ristretto ma nel qaule da una finestra entra il cielo azzurro, nulla da invidiare al Dadaismo e alla Pop art.

Scrive Canova: “Le figure solitarie dei meditatori, dei poeti, dei vaticinatori si concentrano ancora nella loro riflessiva malinconia, che, tuttavia, non è più la malinconia angosciante e nera della giovinezza di de Chirico, ma quello stato di dolce consolazione che diviene uno dei motivi principali della Neometafisica”. 

Nello stesso modo, sempre per il curatore, “le Muse non inquietano più nello smarrimento della profezia, ma si addolciscono nel canto d’amore di Apollo, nume non più solo della profezia ma di nuovo della musica”: dalle “Muse inquietanti”, 1918, si passa così a “Il segreto delle Muse”, 1972, e alle “Muse della lirica”, 1973, con i manichini e la piazza che non danno soggezione, e i  simboli affastellati, dalla lira alla testa di Apollo, con le teste così schiacciate da venire paragonate a delle spalliere, a noi ricordano le racchette lignee da spiaggia.

L’umanizzazione dei manichini, compare la carne rosa

E siamo alla trasmutazione dalle sagome  inanimate con le teste ad uovo e i corpi come burattini meccanici a figure  umanizzate in cui solo la testa resta del manichino, le braccia e il corpo sono in carne rosa. Calvesi scrive: “Nella seconda metafisica anche i manichini perdono il loro aspetto  totalmente artificiale, tendendo a trasformarsi in figure più umanamente atteggiate e quasi dotate di una  loro vita naturale, di una loro psicologia”.

Lo vediamo negli “Archeologi”, 1968, che ritroviamo nel 1975 in tono chiaroscurale;  nei due dipinti su Oreste, “Pilade trattiene Oreste”, 1973, su  uno sfondo con una tenda e la falce di luna, e  “Oreste ed Elettra”, 1975, dove solo il primo  è “in carne”, lei è ritratta con il corpo a colonna di marmo; fino a “La  musa del silenzio”, 1973, il corpo muscoloso senza testa seduto,  con un vaso, una testa  di statua e delle squadre.

“I gladiatori sono persone in carne ed ossa – è sempre Calvesi –  come lo sono i frequentatori dei ‘bagni misteriosi’, e così sono vive  creature i cavalli in riva al mare, a metà strada tra Metafisica, natura e richiamo all’Ellade”.  

In questo modo  il critico, profondo studioso di de Chirico, ha descritto una serie di opere presenti nell’esposizione: prima tra tutte il “Gladiatore nell’arena”, 1975,  testimonial della mostra, con il manichino dalla testa ad uovo “umanizzato” nella sua carne con le gambe muscolose, avente come sfondo una prospettiva curvilinea di arcate che richiama il palazzo della Civiltà e del Lavoro all’Eur, esemplare dell’architettura razionalista ispirata alla prima Metafisica.

Ancora  più umanizzate le figure di Combattimento di gladiatori”, 1969,  che duellano come in un bassorilievo classico ma sono in carne ed ossa; come lo sono  “I gladiatori dopo il combattimento”, 1968, con le teste ricciolute e gli occhi languidi, e “Il nuotatore nel bagno misterioso”; mentre in “Figure sulla città”, 1970, si stagliano giganteschi due ragazzi riccioluti  su un agglomerato di case in una piazza metafisica con la statua al centro, e le piccole figure dalle lunghe ombre.

Dai cavalli agli interni metafisici  solari e luminosi

Sono esposti anche i cavalli in riva al mare, in due dipinti intitolati “Cavalli con aigrettes e mercurio”, 1965, e “La spiaggia rosa”, 1973, elemento comune oltre al mare i ruderi di colonne e il tempietto classico su un monte. 

“Animale misterioso”, 1970, a differenza di quelli ora citati rappresentati nella loro vitalità, è invece una testa di cavallo  costituita da un assemblaggio polimaterico di templi affastellati,  un “profilo visionario e quasi ‘fantasy'” secondo Canova, che si ritrova simile  nel “Cavallo di Bellerofonte, 1977.  Mentre in “Ritorno al castello”, 1969, cavallo e cavaliere sono tratteggiati in nero in primo piano, con la falce di luna in cielo, in una composizione che ricorda il profilo del celebre “Guidoriccio da Fogliano” di Simone Martini. 

Sono sfrangiature in nero intenso che troviamo anche in “Il rimorso di Oreste”, 1969, e nel “Sole sul cavalletto”, 1972, con l’astro luminoso in primo piano  i cui raggi diventano neri sullo sfondo,  mentre in due dipinti del 1971, “Tempio del sole”, e “Interno metafisico con sole spento”  c’è  il sole nero in primo piano ma l’ambiente resta  luminoso.

Gli interni metafisici sono ampiamente rappresentati nella mostra, vi  sono esposti  “Interno metafisico con nudo anatomico”, 1968, e “Mobili  e rocce in una stanza”, 1973, entrambi con aperture luminose sull’esterno, con un nudo muscoloso ciascuno: nel primo,  Canova  vede  il “cosiddetto ‘spellato’ sulla riva del mare  con un telo rosso, come se la ‘spellatura’ fosse dovuta al troppo sole, magari della spiaggia di Ostia dove amava spesso recarsi”; più umano  di così…  Inoltre abbiamo “Interno metafisico con officina”, 1969,  e  “Interno metafisico con palla e biscotti”, 1971.

Le nuove visioni metafisiche, dai triangoli e ovali a New York; le incisioni

In queste composizioni – è sempre Canova – “le statue anatomiche  e i mobili negli interni creano poi ‘un’emozione nuova’, nel gioco di spostamenti e delocazioni degli oggetti, mescolandosi montagne e a templi nelle stanze, riprendendo iconografie precedenti”: vi ritroviamo le squadre assemblate in gran numero e i biscotti, come i “quadri nel quadro”. 

Altri due dipinti,  del 1968, “Triangolo metafisico (guanto)”, e “Interno con ovale nero”,  richiamano i motivi e le composizioni di “L’enigma della fatalità”, 1914, e “Il saluto all’amico lontano”, 1916;  però nel “triangolo”  la ciminiera si assottiglia  e non è più oppressiva mentre la parte superiore si apre di più al cielo, e nell’ “interno con ovale” la losanga nera non è più dominante, i biscotti, le squadre e la superficie bianca la sovrastano.

Per ultimi abbiamo lasciato Il mistero di Manhattan”, 1973, e “Visione metafisica di New York”, 1975, due interni nei quali  la testa di Mercurio in un tendaggio tra la pioggia d’oro del primo, l’accumulo acrobatico  di righe e squadre del secondo hanno uno sfondo favoloso: la finestra aperta sulla fungaia di grattacieli.

Terminano qui i dipinti, ma non la mostra. C’è una sezione grafica con 10 litografie che realizzò per illustrare “Mythologie” di Jean Cocteau, un sequenza di “bagni misteriosi” in chiave mitologica;  e 24 disegni per le litografie  dell’edizione del suo “Hebdòmeros”,   con molti motivi, dalla barca nella stanza ai gladiatori, dai cavalli a figure mitiche ed allegoriche, tra cui Ebdòmero, in matita e carboncino dai chiaroscuri delicati.

Nella Neometafisica il fascino dell’eterno ritorno

Vogliamo concludere “buttandola in filosofia”, per così dire, e ci sembra di doverlo al “pictor-philosophus”. Per questo ci riferiamo all’ “eterno ritorno” di Nietzsche, da non considerare, però, come  “eterno ritorno dell’identico”.

Lo spiega Flavia Mongeri: “Con la Nuova Metafisica, de Chirico sembra imboccare la strada giusta, quella di un’accettazione gioconda, se non gioiosa, del fatto  dell’eterno ritorno, come il ritorno di qualcosa che si diverte ad andare avanti e indietro nel tempo, ma che proprio perciò  –  perché ha viaggiato, viaggia  e viaggerà – non è mai qualcosa di identico”.

In fondo, nel “gioco e gioia della Neometafisica” c’è tutto  il fascino  dell'”eterno ritorno” espresso in termini pittorici da uno straordinario artista come  de Chirico che  la mostra di Campobasso ha il grande merito di riproporre sotto una  luce  particolarmente intrigante. Anche queste sono “le ombre lucenti di de Chirico” che Lorenzo Canova ha  proiettato con il suo libro e con  il curare magistralmente l’esposizione.

Info

Palazzo Ex Gil, via Gorizia, Campobasso. Da martedì a domenica, ore 10,00-13,00, 17,00-20,00, lunedì chiuso. Ingresso euro 10, ridotto euro 5. dechiricocampobasso@gmail.com. Tel.  0874.314807. www.fondazionedechirico.org. tel. 335.8096558 Catalogo  “Giorgio de Chirico. Gioco e gioia della Neometafisica”, a cura di Lorenzo Canova, Regia Edizioni, Campobasso, dicembre 2014, pp. 202, formato  23 x 28, euro 30. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, meno quelle relative alla presentazione a Roma. Per le mostre precedenti di de Chirico cfr. i nostri articoli: in questo sito, sulla mostra di Montepulciano nel 2013 “L’enigma del ritratto” il 20 giugno, “I Ritratti classici” il 26 giugno, i “Ritratti fantastici” il 1° luglio; in “cultura.inabruzzo.it: nel 2009 sulla mostra “I disegni di de Chirico e la magia della linea” il 27 agosto, sulla mostra a Teramo “De Chirico e altri grandi artisti del ‘900 italiano” il 23 settembre, sulla mostra “De Chirico e il Museo” il 22 dicembre; nel 2010 sulla mostra “De Chirico e la natura”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio; infine, in “Metafisica”, “Quaderni della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico”, n. 11/13 del 2013, cfr. il nostro articolo a stampa “De Chirico e la natura. O l’esistenza? Palazzo Esposizioni di Roma 2010”, pp. 403-418,  riprodotto anche nell’edizione inglese dei “Quaderni”, “Metaphysical Art”.

Foto

Le immagini sono state fornite dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico che si ringrazia, con l’organizzazione della mostra e i titolari dei diritti, tranne la foto di chiusura ripresa da Romano Maria Levante alla presentazione del 18 dicembre 2014 nella Casa-Museo; sono riportate non in ordine cronologico ma nell’ordine con cui vengono citate nel testo. In apertura, “Gladiatore nell’arena”, 1975; seguono “Ritorno di Ulisse”, 1968, e “Il figliuol prodigo”, 1975, poi “Il Pittore”, 1958, e “Muse della lirica”, 1973,; quindi “Archeologi”, 1968, e “Oreste e Elettra”, 1975; inoltre “La musa del silenzio “, 1973, e “Il nuotatore nel bagno misterioso”, 1974; ancora, “Interno metafisico con nudo anatomico”, 1968, e ” Mobili e rocce in una stanza”, 1973; infine Giorgio de Chirico nel suo studio,e un primo piano del Maestro; in chiusura, un momento della presentazione della mostra nella Casa Museo, a destra  il curatore Lorenzo Canova durante il suo interventoa sinistra il presidente della Fondazione de Chirico Paolo Picozza, al centroseduti la coordinatrice scientifica  di “Metafisica”, Quaderni della Fondazione,  Katherine Robinson, e il direttore di Molise Cultura Sandro Arco.

Grecia e Germania verso l’Expo, accoppiata al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano si presentano la Grecia dal 16 al 26 febbraio, la Germania dal 18 febbraio al 4 marzo 2015,  con due mostre realizzate come le altre del programma “Roma verso Expo” – da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Nelle due  mostre parallele vediamo una metafora della sfida per le concessioni in materia finanziaria richieste dalla Grecia per superare la crisi e restare nell’Euro, negate con rigidità dalla Germania, perciò la definiamo  un’accoppiata che appare significativa.  La mostra della Grecia è nel  lato  Fori Imperiali, quella della Germania nel lato Piazza Ara Coeli.

Quali aspetti  dei due paesi sono messi in evidenza,  per qualificarne l’immagine? Per la Grecia saremmo indotti a pensare ai grandi capolavori della classicità, dalle sculture alle architetture dei templi, per non parlare della letteratura,  e la presenza tra i visitatori del consigliere del Presidente della Repubblica per la conservazione del patrimonio artistico Louis Godart ci ricorda la sua appassionata perorazione per questo paese alla mostra al Quirinale sulla classicità di Grecia e Italia celebrativa della loro presidenza europea; per la Germania  pensiamo che possa venire esibita la sua potenza industriale ed economica. Invece sia la  lassicità della prima, che la forza della seconda sono soltanto sfiorate, e vedremo come.

La Grecia presenta le sue origini attraverso preziosi reperti  che documentano la formazione dell’arcipelago nell’Egeo in remote ere geologiche: diversi fossili con centinaia di milioni di anni sono esposti in  mostra insieme ai pannelli fotografici che spiegano l’origine delle singole isole. La classicità  invece fu esibita nella mostra al Quirinale per il semestre di presidenza dell’UE.

Mentre la Germania  presenta a sua volta i 39 siti Unesco sul suo territorio che fanno parte del Patrimonio dell’umanità, attraverso gigantografie fotografiche che costituiscono una spettacolare galleria evocativa di una serie di percorsi con le attrazioni del paese. E’ un richiamo alle basi culturali che non manca di dare il senso della solidità e dell’equilibrio unito alla presenza dell’arte.

Le mostre sono all’interno del programma “Roma verso Expo”, promosso dalle principali istituzioni romane, dal Comune alla Regione:  una vetrina che la Capitale offre nel  prestigioso Complesso monumentale del Vittoriano, oltre che all’Aeroporto Leonardo da Vinci, ai paesi presenti all’evento milanese che vogliono  farsi conoscere meglio; già ci sono state parecchie mostre, al  Vittoriano quelle di Egitto e Slovenia,  Albania e  Serbia, Vietnam ed  Estonia.

Ora Grecia e Germania, le visitiamo in successione come tappe importanti di un programma ancora lungo e stimolante, il prossimo paese sarà la Tunisia. Le mostre sono state inaugurate alla presenza dei rispettivi ambasciatori in Italia, Themistoklis Demiris per la Grecia e Reinhard Schafers per la Germania, sempre con la partecipazione dell’Assessore a Roma produttiva Marta Leonori

La Grecia si presenta: l’Egeo e le isole, storia geologica e culturale

Grandi pannelli esplicativi sulla “nascita di un arcipelago”, con le affascinanti storie geologiche delle Isole dell’Egeo,  e i preziosi reperti fossili esposti nelle vetrinette e a terra: ecco la mostra.

I reperti provengono dal Museo della foresta fossilizzata dell’Isola di Lesbos, alcuni hanno oltre 200 milioni di anni, sono fossili di sequoie e di palme, e di una fauna preistorica scomparsa, nonché conchiglie che sembrano attuali,  invece sono millenarie.

Sconvolgimenti geodinamici, uniti ad eruzioni vulcaniche e a terremoti, intervenuti in milioni di anni, hanno prodotto  la nascita delle più belle isole del Mar Egeo,  come Rodi e  Santorini, Lesbo e  Milos, Lemnos e Nisyros, dalla straordinaria biodiversità.

La storia di queste isole viene collegata alla cultura, oltre che alla natura, mediante le credenze e  le leggende di una mitologia ricca di fascino e con il riferimento ai grandi pensatori greci.

Nella sezione “Ricordi di Gaia: da Tetide all’Egeo”, si risale alla preistoria per narrare una storia più che millenaria; la sezione “Nelle isole di Efesto e Poseidone”  approfondisce le attività vulcaniche; la sezione “Gaia: dal mito alla scienza”, racconta la biodiversità in 150 milioni di anni.

Entriamo sia pure per pochi accenni in questa storia geologica che incrocia la storia culturale.

Si inizia con “Le memorie di Gea”: “Ci sono voluti milioni di anni per formare il Mare Egeo come oggi lo conosciamo”, risale a 150 milioni di anni fa quando c’erano i dinosauri  e l’attuale Grecia faceva parte dell’Oceano della Tetide che separava l’emisfero nord dall’emisfero sud;  poi l’oceano si prosciugò  tra terremoti e formazioni vulcaniche , con il ritiro delle acque e la formazione di nuove montagne e la prima area terrestre, l’Egeide, 22 milioni di anni fa. Quindi l’acqua è tornata e i processi geologici hanno portato all”assetto attuale della linea costiera e dei rilievi, come testimonia l’abbondanza di fossili dell’età di milioni di anni, alcuni esposti in mostra.

Le singole isole vengono presentate con poche immagini e molte notizie. Creta era l’isola di Zeus e di Minosse: secondo la leggenda  Zeus, nato in un grotta,   fu nascosto dalla madre in un’altra grotta per salvarlo dal padre Crono. Ci sono 6000 grotte nell’isola per lo più accessibili solo dagli speleologi, alcune sono aperte al pubblico, come la grotta degli elefanti con fossili di elefanti nani. La grotta di Samarria, con le pareti a strapiombo e una vasta varietà di formazioni rocciose, è una sfida per gli scalatori. Il  monte Psiloritis, detto Ida dalla parola dorica alberi, in una delle più  belle catene montuose di Creta,  ha caratteristiche geomorfologiche tali da farne un simbolo dell’isola;  nel 2001 per valorizzarne la biodiversità e il valore paesaggistico è stato fondato il Parco naturale, subito inserito nella rete dei geoparchi europei e di quelli mondiali dell’Unesco.  L’ambiente naturale presenta giacimenti fossiliferi e particolari conformazioni, anche  carsiche, e segni della più antica presenza dell’uomo fin da epoca preistorica.

Dopo la maggiore isola, eccone  alcune con precisi riferimenti culturali oltre ai pregi ambientali.

Lesvos è l’isola di Teofrasto, il discepolo di Aristotele, che descrisse la varietà di formazioni geologiche; ricca di ecosistemi, è la terra della varietà e dei contrasti, e per la sua struttura, per la foresta pietrificata e le altre peculiarità è inserita nella rete mondiale dei geoparchi dell’Unesco. Il monte Olympus che sovrasta l’isola ha la struttura di una finestra tettonica  con rocce formatesi sul fondo dell’oceano  della Tetide poi consolidatesi sulla crosta terrestre.

Chios è l’isola di Omero, e non occorre aggiungere altro a tanto nome. Vi sono stati scoperti importanti giacimenti di fossili, i più antichi risalgono al Siluriano,  500 milioni di anni fa,   inoltre  rocce del Triassico, quelle di Maraithovouno, di 200 milioni di anni, provenienti dall’Oceano della Tetide; straordinari i fossili di mammiferi con 17 milioni di anni nelle cave di argilla di Thimiana. Nella parte nord occidentale la grotta di Aghilogalousena è  un labirinto di cunicoli e camere con decorazioni preistoriche e reperti dal mesolitico al neolitico, che risalgono al VI-V millennio a. C.

Kos  è l’isola di Ippocrate, nell’arco vulcanico di Kos-Nisyros dell’Egeo meridionale, costituito da rocce vulcaniche, con sorgenti calde per l’attività vulcanica ancora in corso. Vi è stata trovata una serie di fossili di ossa di  mammiferi, ippopotami  e cervidi, elefanti e mastodonti,  macirodonti e suini presenti nella zona un milione di anni fa. Sotto le rocce vulcaniche vi  sono le rocce più antiche con fossili del periodo Ordoviciano, di 450 milioni di anni fa.

Nisyros, l’isola di Polibio, secondo la leggenda si formò dallo spezzone roccioso di Kos scagliato da Poseidone contro il gigante Polibote durante la Gigantomachia; ne è derivata  l’antica credenza che il gigante,  rimasto imprigionato nelle viscere della terra,  continua ad agitarsi scatenando l’energia la quale si scarica con il magma e i gas caldi. In effetti,  è il più grande vulcano attivo recente dell’Egeo, ricco di sorgenti idrotermali e di cristalli di zolfo. Al centro dell’isola una grande caldera con fumarole di vapori caldi e crateri idrotermali,  il maggiore dei quali è il cratere Stefanos. Sopra a dei “cuscini di lava”  si trova addirittura un monastero.

C’è anche Samos, l’isola di Pitagora, e altre isole sono riferite alle risorse naturali che hanno alimentato fiorenti attività. Così Milos, l’isola dell’ossidiana, Kimolos, l’isola del gesso, Naxos, l’isola dello smeriglio e del marmo, Tinos,  l’isola dei marmisti e soprattutto Paros,  l’isola del marmo:  un marmo trasparente molto pregiato detto “lychnitis” perché estratto alla luce delle lanterne nelle grotte al centro dell’isola, materia prima di capolavori dell’architettura ellenica, come il tempio di Zeus ad Olimpia, il tempio di Efeso ad Artemide, il Mausoleo di Alicarnasso, e della scultura classica, nientemeno che la Venere di Milo, l’Ermes di Prassitele e la Nike di Samotracia. Il marmo si estraeva dalle miniere sotterranee sin dal periodo protocicladico, mentre la pietra bianca veniva presa a cielo aperto. C’è una spiaggia divenuta famosa per le rocce di granito alle quali l’erosione  ha dato l’aspetto di sculture naturali di forma astratta.

E poi Tilos, l’ultimo rifugio degli elefanti europei., e Amorgos, l’isola dei contrasti,  sopra una faglia tellurica tra le più attive d’Europa.  Le isole di Thira, Thirasia e Aspeonissi sono ciò che resta dell’immenso vulcano preistorico collassato nell’eruzione in età minoica che ha fatto decadere quella civiltà; la caldera di Santorini,  “un monumento di geologia di interesse mondiale”, formatasi per l’attività vulcanica iniziata un milione e mezzo di anni fa, ha  pareti interne a  strapiombo di 100-350 metri con stratificazioni rocciose di grande interesse. E’ un paesaggio straordinario con spiagge multicolori, e l’insieme è un vero museo all’aperto dell’attività vulcanica nell”Egeo.

Termina così la nostra immersione nel mondo favoloso delle isole greche seguendo il percorso della mostra, che evoca una storia geologica di milioni di anni testimoniata dalla ricchezza di fossili e formazioni rocciose, ma non manca di incrociare l’esaltante storia culturale della Grecia.

Per concludere,  un accenno alla partecipazione all’Expo:  la Grecia fa parte del Cluster Bio-Mediterraneo, quattro strutture distribuiscono i prodotti tipici di quest’area nel segno della cucina mediterranea, ma anche dell’incontro e dell’integrazione con una grande piazza semicoperta pavimentata in azzurro per richiamare il colore del mare, il pensiero va all’agorà ateniese, anche se questa piazza si riferisce a tutti i paesi mediterranei.  

La Germania si presenta: i 39 siti dell’Unesco, patrimonio dell’umanità

La presentazione della Germania è  un percorso  tra  splendidi esempi di architettura e ‘urbanistica insieme a scorci naturali e bellezze ambientali, compresi centri industriali che evocano le foni e le origini della potenza economica ma sono soltanto piccoli accenni. Vediamo soprattutto chiese gotiche, case caratteristiche  a graticcio, facciate spettacolari e interni di castelli e fortezze, parchi e giardini, sono 39 i siti tedeschi  patrimonio dell’Unesco, e nella mostra sono rappresentati in gran numero. Dietro queste immagini si sente la forza delle tradizioni e dei costumi, espressa anche attraverso un artigianato sapiente che confina con l’arte.

E’ un “viaggio nel tempo” quello offerto dalla mostra al Vittoriano come premessa  e invito ad un viaggio effettivo per turismo e interesse culturale attraverso i 39 siti, in un circuito che ci fa ricordare la “Romantische Strasse”.  Qui il riferimento non è al romanticismo ma ad una serie di aree tematiche quali centri storici e architettura, natura e paesaggi, giardini e chiese, cultura industriale e castelli, inquadrati e collegati in itinerari organizzati. Eccoli in sintesi, con le principali attrattive e i riferimenti alle immagini fotografiche che li presentano in mostra in grandi pannelli.   .

L’itinerario “Meraviglie della natura e orgogliose città” alterna monumenti naturali come le  foreste  primordiali di faggi, riprese dall’alto in una spettacolare gigantografia,  a città dal passato anseatico, come Brema  e Lubecca. A Brema spiccano il Municipio e la statua di Orlando alta 5 metri, simbolo dello spirito di libertà, li vediamo  nella grande fotografia esposta. Il Wattenmeer tedesco è un grande paesaggio naturale con spiagge e isole, alcune delle quali raggiungibili a piedi con la bassa marea,  una gigantografia ne mostra l’estensione. All’estremo Nord c’è Amburgo con le sue attrazioni.

Due  grandi foto  sono dedicate ai centri storici di Stralsund e Wismar e  alla città anseatica di Lubecca, con la porta monumentale, i sette campanili delle grandi chiese e la chiesa Mafrienkirche considerata la madre del gotico; e un’altra bella immagine  all’Isola dei musei a Berlino. 

Con “Visionari e  precursori“si va sulle orme dei tedeschi che hanno rivoluzionato la società, tra loro Martin Lutero:  a Wittenberg c’è la sua casa, la chiesa in cui predicava e quella in cui affisse le sue tesi, a Eisleben la sua casa natale  e quella in cui morì. A questi luoghi commemorativi nella mostra sono dedicate due gigantografie, un’altra è una veduta di  Wartburg. Poi si passa a Weimar e  Dessau con i luoghi della scuola d’arte del Bauhaus, e a Berlino con gli insediamenti del modernismo, a loro sono riservate  due immagini.

 “Tesori del sottosuolo e  architettura”  è il percorso che mette insieme storia naturale, storia industriale e arte. Ci sono  la miniera del Rammelsberg, il sistema idrico dell’Oberharz, che si vedono nella grande fotografia esposta;  e le officine Fagus ad Alfeld, dove nel 1911 Gropius realizzò la prima architettura industriale moderna con  molte finestre e tanta luce, anche loro presentate da un’immagine spettacolare. Quindi  il Duomo e la basilica di San Michele ad Hildesheim,  li vediamo in gigantografia, come la collegiata, il castello e il centro storico di  Quedilinburg; c’è anche il centro storico di Goslar con il Municipio gotico e il Palazzo delle Corporazioni. Il parco collinare di Wilhenlshohe, con l’omonimo castello, viene definito “perfetto connubio di architettura, non solo di giardini, e natura”, lo dinostra la grande fotografia esposta. Un’altra immagine presenta il sito fossillifero Grube Messel. .

Con “Vivacità e cultura” si percorre un itinerario, anche per nave,  di grande bellezza da Francoforte lungo la valle del Reno. Dopo la rupe di Lorely  scorrono borghi, fortezze e castelli, questi ultimi sono ben 40. A Coblenza si può andare in cabinovia alla fortezza Ehrenbreitstein. Si incontra quella che fu la capitale della Germania federale, Bonn, e poi i grandi castelli di Augustusburg e Falkenlust a Bruhl, di cui è esposta una splendida panoramica. Fino alle due vette, il capolavoro gotico del Duomo di Colonia, ultimato nel 1988 quando era il più alto edificio del mondo, e il Duomo di Aquisgrana, la città di Carlo Magno  con il suo tesoro fatto di  preziosi reperti storici carolingi; ai due duomi sono dedicate  suggestive riprese da lontano del loro impianto architettonico. Altre  gigantografie ritraggono il complesso minerario Zollverein ad Essen e la  valle del Medio Reno vista dall’alto, con un castello incastonato nel verde a strapiombo.

Un diverso percorso riguarda i  “Castelli e giardini”, comprende il “Regno dei giardini” di Dessau-Worlitz e il Parco di Muskau, il “paradiso personale” creato dal principe Oucker-Muskau; entrambi presentati in fotografia nella mostra. Inoltre una serie di castelli  e parchi, come quello di Babelsberg, il castello e parco Sansoooucci, e  il castello Glienicke; poi i castelli e parchi di Potsdam, la ex capitale della Germania Est,  e di Berlino, anche a loro sono dedicate due delle grandi fotografie esposte. A  Weimar i luoghi legati a Schiller e Goethe, in particolare la sua casa con giardino, vediamo in mostra un’immagine della Weimar classica.   

Nella Germania meridionale l’itinerario “Epoca romana e stile di vita”, che inizia  a Francoforte, con la casa questa volta natale di Goethe trasformata in museo. Al confine i romani eressero il Limes alto germanico-retico per difendersi dai barbari, era la più lunga fortificazione romana, a Saalsburg c’è un’antica fortezza ricostruita, la grande fotografia esposta ne mostra l’imponenza. A Wurzburg  la Residenza e giardino di corte, un grande complesso architettonico dove lavorarono i più qualificati maestri, anche Tiepolo, cui è dedicata una bella fotografia; un’altra immagine ritrae  il Teatro margraviale dell’opera a Bayreuth. Abbiamo poi il centro storico di Bamberga, con il municipio  e l’antica corte, e una struttura a 4 collegiate alla cui intersezione sorge il Duomo con i suoi quattro campanili,  e il centro storico di Ratisbona con la Stadtamthof, dove si respira l’atmosfera di 2000 anni di storia cittadina. Tali centri sono ritratti  in due pannelli della mostra.

L’itinerario “Conventi, chiese e cattedrali”, si sviluppa nella parte occidentale, con il Palatinato, Baden e Wurttenbeg dove troviamo non solo campanili ma anche ciminiere, cultura religiosa e cultura industriale. A Treviri il duomo e la chiesa di Nostra Signora e architetture romane, come l’Anfiteatro, le Terme imperiali e la Basilica di Costantino, li vediamo nella bella fotografia esposta; a Saarbruken la ferriera Voklinger Hutte, che era l’unica quando fiorì l’industria metallifera ed è stata conservata con i suoi altiforni alti come campanili, ne è esposta un’immagine spettacolare. In Assia c’è la Konigshalle, della metà dell’XI secolo, ancora più antico il monastero di Lorsch, del 764 divenuto abbazia benedettina con una delle maggiori biblioteche del Medioevo. A questo e al monastero di Maulbronn sono dedicate  due gigantografie della mostra.

Con l’ultimo  l’itinerario,  “Tra le Alpi e il lago di Costanza” , si torna indietro nel tempo fino all’età della pietra, con le palafitte preistoriche ai piedi delle Alpi a Stoccarda, cui sono dedicati il “percorso del paleolitico” e ben tre musei, il Museo delle palafitte  a Unterhuldigen, il Museo Federsee a Bad Buckhau e il Museo archeologico statale di Costanza: nella fotografia esposta si vedono dei sub al lavoro. Sul lago di Costanza l’isola monastica Reichenau, presentata in fotografia; e le tre chiese, dedicati ai santissimi Pietro e Paolo, Maria e, Marco, San Giorgio. A Steingaden, dinanzi alle Alpi, il santuario “Die Weis”, una chiesa barocca simbolo del rococò bavarese, sobria all’esterno, ma ricca di stucchi, dorature e affreschi all’interno, è presentata da una gigantografia dell’esterno, mentre un’altra mostra l’interno del duomo di Spira. Infine il castello da fiaba di Neuschwanstein, non è tra i siti Unesco, ma ci riporta al favoloso re di Baviera Ludwig. .

Fin qui la mostra. All’Expo la Germania è presente con i “Campi di Idee”,  sono due itinerari, questa volta artificiali, che il visitatore è invitato a percorrere: uno all’esterno in un pianoro paesaggistico con le specialità culinarie, culturali e turistiche dei 16 Lander federali, l’altro all’interno del padiglione con le fonti dell’alimentazione – dal suolo all’acqua, dal clima alla  biodiversità – la produzione alimentare e il consumo. Col  motto  stimolante “Be active” rivolto ai visitatori, e non solo.

Una riflessione conclusiva

E’ un motto che ritrasmettiamo perché sia applicato in tutti i campi. Anche nelle trattative in sede europea dove essere attivi vuol dire anche promuovere la crescita eliminando gli ostacoli che l’hanno bloccata così a lungo in molti paesi dell’area Euro, senza arroccarsi in un immobilismo pervicace e distruttivo della fiducia dei popoli nell’Europa.

Anche la fiducia del popolo greco va mantenuta, anzi recuperata, per non perdere quella degli altri paesi dell’Europa mediterranea. Il richiamo alle radici primordiali nel Mediterraneo della mostra della Grecia, un radicamento che affonda in milioni di secoli, deve far riflettere; come il richiamo ai valori culturali e della tradizione della Germania con i propri siti Unesco. Sono tutti patrimoni dell’umanità, non debbono contrapporsi ma operare in una virtuosa sinergia.

Ci sembra sia questo il significato più profondo dell’Unione Europea.   Dove la crescita che la solidarietà continentale può garantire, deve  prevalere sulla paralisi generata dalle chiusure finanziarie che fanno venir meno le risorse necessarie allo sviluppo dell’economia; che vuol dire reddito lavoro, qualità della vita. A questo dovrebbero tendere i governanti europei, oltre i miopi, anzi ciechi egoismi.

Info

Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali per la  mostra sulla Grecia;  lato piazza Ara Coeli per la mostra sulla Germania. Lunedì-giovedì  ore 9,30-18,30, sabato e domenica 9,30-19,30. Ingresso gratuito; l’ingresso è consentito fino a 30  minuti prima della chiusura. Catalogo per la Germania “Viaggio nel tempo. Patrimoni dell’umanità Unesco in Germania”, pp. 82,  formato 17 x 27 cm, dal quale sono state tratte le notizie riportate nel testo. Cfr. in questo sito i nostri precedenti articoli sulle mostre al Vittoriano della serie “Roma verso Expo”: nel 2014,  su “Egitto e Slovenia” l’8 novembre,su “Albania e Serbia”  il 9 dicembre, nel 2015 sul “Vietnam”  il 14 gennaio, sull’“Estonia” il 7 febbraio.  Per la mostra citata all’inizio, cfr. in “http://www.antika.it/” il nostro articolo “Roma. La classicità di Grecia e Italia per l’Europa”,  maggio 2014.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione delle due  mostre al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Per la Grecia:   in apertura, uno dei pannelli  illustrativi delle isole greche, quello di Nisyros, l’isola di Polibio, con video, foto e descrizione; seguono  rocce e  fossilicon molti milioni di anni di età;  per la Germania,  in apertura, una delle gigantografie dei siti Unesco tedeschi, quella dell’Isola dei musei a Berlino;in chiusura,  scorcio della galleria delle gigantografie dei siti Unesco tedeschi, patrimonio dell’umanità..

Kerim Incedayi, 50 miraggi tra Roma e Istanbul, al Macro

di Romano Maria Levante

La mostra “Timiu Kerim Incedayi. Roma e Istanbul, sulle orme della storia”, espone al Macro di Via Nizza a Roma, dal 30 gennaio al 1° marzo, 50 dipinti  improntati  a una suggestiva classicità, un terzo dei quali con visioni, come miraggi, di Roma, un terzo di Istanbul insieme ad antiche  sculture romane,  reperti e  simboli islamici, in un sincretismo delle due civiltà all’insegna dell’arte, in un’atmosfera tra il sogno  e il ricordo. Promossa dall’Assessorato alla cultura di Roma Capitale e dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali, con il Ministero della cultura e del Turismo della Turchia e la collaborazione dell’Ambasciata turca a Roma. Catalogo  con note critiche di  Maurizio Calvesi e Maurizio Marini.

La mostra  è molto di più di un’esposizione di opere raffinate  e suggestive, è una dimostrazione, sul versante dell’arte, di come siano temerarie e lontane dalla realtà le concezioni sulla guerra di civiltà, che vorrebbero contrapporre, in un insanabile conflitto, la civiltà islamica a quella occidentale.

Il percorso artistico e di vita dell’autore

E’ una dimostrazione di come siano infondate  tali concezioni  anche la vita dell’autore, prima che le sue opere.  Nato nel 1942 a Istanbul, dove compie gli studi fino alle superiori,  per l’Università si iscrive a 19 anni a Milano alla facoltà di architettura, ma l’anno dopo sente l’attrazione irresistibile di Roma dove si iscrive all’Accademia delle Belle Arti, frequentata anche da turchi e iraniani, siamo nel 1962. Si  avvicina alla pittura, anche in contatto con Guttuso, Maccari e Montanarini. Il suo impegno è tale da meritare una medaglia d’oro nel 1966 al termine degli studi. Il matrimonio del 1968 lo lega definitivamente a Roma, dove si trasferisce stabilmente.

Vive la temperie artistica della città, tra pittura e cinema, letteratura e teatro, collabora con Zeffirelli per i costumi  e le scenografie dei “Pagliacci” e “Cavalleria Rusticana” al Metropolitan di New York e con i registi Agosti, Ponzi e Triana Arenas per la parte artistica dei loro film “N.P. Il segreto”, “Equinozio”, “Giovanna 7”. Partecipa a mostre collettive a Roma, Milano e Ginevra, in Turchia e negli Stati Uniti, è presente alle Quadriennali di Roma del 1965 e 1969, nel suo studio romano si incontrano artisti italiani e stranieri.  Tra il 1973 e il 1975 le prime mostre personali  a Milano, Roma e Bologna.  

I soggetti dei suoi quadri  in questo periodo si ispirano all’industrializzazione, operai e macchinari, telai e ingranaggi da “Tempi moderni”,  c’è il senso di oppressione dello sfruttamento del  lavoro e anche la grandiosità incombente della tecnologia e dell’industrialismo. 

Questa pittura, commenta Maurizio Calvesi, “già lasciava trasparire un desiderio di bellezza attraverso le maglie del ?mostruoso’ meccanico e soprattutto del fantastico”.  E cita l’interrogativo che si poneva  De Micheli : “Perché  non è possibile che una tale bellezza cessi di essere paurosa e una tale efficienza di essere oppressiva? E’ questa la domanda che sembra si debba intuire nelle forme urbane, nelle strutture, negli strumenti che Incedayi disegna e dipinge con tanta evidenza”.

 E’ l’evoluzione degli anni ’80, in cui cerca di realizzare l’ideale di bellezza, sono parole di Calvesi, “nella rivisitazione del  passato, invertendo la prospettiva già indirizzata verso il futuribile, ovvero proiettando nel futuro la necessità di un recupero umanistico e classico”.

Nel  1987 fonda il  movimento “Metropolismo”, con Paladini, Sciacca e Grippo,  sostenuto dal  critico Bonito Oliva, come anello di congiunzione tra la fase precedente  e quella successiva, “citazioni di quadri e di sculture del passato convivono con altre di griffe di prodotti correnti”, ha scritto Bonito Oliva. Ma  presto invece delle griffe prese dalla contemporaneità alle citazioni classiche occidentali affiancherà l’Oriente, “in un accostamento che elimina ogni contrasto  per suggerire, piuttosto, una magica simbiosi della memoria”, sospesa “tra sogno e ricordo”.

Sono parole di Calvesi  che descrive così la sua evoluzione artistica: “Allora l’incubo può serenamente rovesciarsi in sogno, sostituendo allo spasimo del presente la dimensione della nostalgia, del ricordo, della contemplazione; attivando la lontananza del tempo e dello spazio, ovvero delle proprie origini tanto storiche quanto geografiche, in una vicinanza di cui la pittura si fa tramite e strumento; contrapponendo all’Occidente l’Oriente ma anche fondendo Oriente ed Occidente in un  leggendario ideale di bellezza”.

Non ci può essere migliore descrizione di quanto emerge  dalla mostra, in cui circa 50 opere esprimono la fusione tra Oriente ed Occidente nel segno della bellezza. Una fusione che ha rappresentato anche la cifra della vita dell’artista, trapiantato a Roma ma con frequenti ritorni a Istanbul,  la città cerniera tra Oriente ed Occidente con il suo “Corno d’oro”. Per questo l’artista ha rappresentato un ponte tra Roma e Istanbul, tra Oriente e Occidente, come il Corno d’oro.

Le opere in mostra

Una visione d’insieme dà la sensazione che i monumenti di Roma e le moschee di Istanbul siano come dei miraggi galleggianti in una lontananza dai connotati del sogno e della memoria.  Non sono le uniche immagini nei dipinti  e neppure quelle in primo piano, anzi appaiono come in dissolvenza,  ma ciononostante acquistano un rilievo assoluto.

I primi piani sono statue classiche, capitelli e reperti di vario tipo, in grande evidenza, segni di una classicità in cui Oriente ed Occidente si uniscono e si fondono. L’artista riesce a creare un’atmosfera onirica e contemplativa, con le sue composizioni, dai cromatismi delicati imbevuti nel grigio degli sfondi.

Delle 50 opere esposte, tutte tra il 2013 e il 2014,  un terzo presenta  monumenti di Roma, un terzo moschee di Istanbul e l’altro terzo figurazioni senza richiami monumentali. Cominciamo da queste ultime, con figure orientali e della classicità romana.

Senza richiami monumentali

Tra le opere con figure orientali  “Solimano il Magnifico”, una sorta di polittico islamico con al centro la figura del profeta, e “Ermafrodito”, il nudo disteso  a terra è sovrastato da una forma orientale con al centro un’aquila.

La ritroviamo in “Il nido dell’aquila“, iscritto in un portale orientale.  In “Alessandro il grande”  un altro animale , una tigre appoggiata a un rudere con un bassorilievo; mentre “Alexander” presenta la testa scultorea dell’imperatore con un  ramoscello dalle bacche rosse su una sorta di capitello con iscrizioni orientali e rilievi occidentali.

Anche “Eros” è  una composizione in cui spicca il rilievo scultoreo, sopra al quale un ventaglio di ali, forse ancora l’aquila; e “L’approdo di Enea”,  con il vascello sballottato dal mare in tempesta e il busto scultoreo in primo piano quasi un nume protettivo; il busto, questa volta acefalo, non manca neppure in “L’Atelier”, quasi una composizione metafisica con “il quadro nel quadro”.; mentre “Melograno nel segno della continuità” colloca tre frutti  su una base scultorea a forma di cavallo tipicamente romano ma con un motivo orientale che spicca nel cromatismo celeste e blu.

Un cavallo, disteso, è la figura compresa in una sorta di teca in ” 1453 d. C. Bisanzio”.   Mentre “Uno sguardo nell’Harem” presenta sulla destra un nudo realistico, anche se atteggiato a scultura, vicino a una sorta di totem con iscrizioni orientali. “Ricordo di Efeso”  mostra una Madonna  con Bambino  inserita quasi fosse un ex voto, su una pietra che fa da piedistallo a un torso scultoreo. 

Descritte per sommi capi le opere senza le immagini in dissolvenza dei templi, passiamo a quelle con i monumenti dall’antica Roma, sempre con la caratteristica, che è un sigillo dell’artista,  delle sculture in grande evidenza.

Le opere con i monumenti di Roma

In “La prima Roma”, a sinistra del torso scultoreo ci sono i ruderi di un colonnato e dietro si intravedono edifici monumentali in dissolvenza , forse il Colosseo.”Il Grifo” e “Quo vadis” presentano le cupole di Roma sullo sfondo e le solite forme scultoree in primo piano, con l’animale alato  nel primo e la mano di Costantino con il dito indice verso l’alto nel secondo.

“Castel Sant’Angelo I e II” presentano l’edificio monumentale dalla forma circolare in uno sfondo corrusco e una scultura acefala sulla sinistra il primo, una composizione scultorea sulla destra con ampio basamento dalla superficie coperta da rilievi il secondo.  Lo stesso edificio in lontananza sullo sfondo di “Tauromachia”, in primo piano la scultura con la figura alata che agguanta il toro.

Lo ritroviamo in “Roma.Composizione I”, su due livelli, in quello inferiore l’edificio monumentale circolare sulla destra e la Basilica di San Pietro a sinistra, mentre nel livello superiore  una Madonna bizantina e una scultura con uno scorcio laterale appena riconoscibile del Colosseo. Quest’ultimo è invece in bell’evidenza in “Roma. Composizione II”,  sempre su due livelli, sopra due busti scultorei e un altro tempio.  

Una scultura dominante sulla sinistra anche in “Il discobolo”, infatti è la ben nota immagine dell’opera di Mirone, a destra c’è il Pantheon; “Pantheon” è una composizione molto particolare, il tempio è meno evidente che nell’opera precedente, a fianco una grande ciotola circolare rivestita di  piccole forme scultoree, sotto una tigre, tornano gli animali; mentre viè una base scultorea sulla destra di “Il tempio di Vesta”.

“Roma , l’Arco di Trionfo”, si differenzia dagli altri, in primo piano l’Arco, dal quale si vede in lontananza la cupola, sembra la visione di San Pietro che si ha da  un ben noto osservatorio della capitale. Con “Il Ponte rotto” l’artista ci presenta il tratto di ponte sullo sfondo con un rilievo scultoreo in primo piano e un capitello. In “La luna nascente”, addirittura, la piccola cupola si trova ai piedi della grande statua femminile acefala del tutto dominante.

Le opere con le moschee di Istanbul

E siamo giunti alla opere nelle quali sono inserite le moschee di Istanbul, che appaiono come in un miraggio in un clima onirico e trasognato,  quasi sempre in sfondi lontani.

“Dai tesori di Bisanzio”, inserisce l’immagine della moschea in un piccolo quadro appoggiato al piedistallo della testa scultorea di un cavallo. “Sulle rive del Corno d’oro” è una composizione in cui ai due lati di un capitello che si staglia in primo piano con ruderi e fiere, due moschee si intravvedono molto in lontananza quasi inghiottite dalla nebbia.

Anche in “Istanbul. Il Corno d’oro” e  “Istanbul. Sulle rive del Corno d’oro”, le cupole sono molto lontane, si distinguono appena, inserite in composizioni con capitelli e animali, la tigre nella prima, il cavallo nella seconda; così in “Civiltà sul Corno d’oro”, pur essendo la moschea ben visibile, è come se galleggi nella nebbia, mentre in primo piano il pesante capitello con antiche scritte in un mescolanza di simboli orientali e occidentali..

Lo stesso per “Torre di Galata” e “Moschea di Solimano”, anche queste ben visibili nello sfondo, sculture e capitelli in primo piano. In “Moschea Ortokoy” sopra al consueto capitello invece delle sculture  c’è del vasellame.

 “Uno sguardo dall’harem” ha una struttura analoga  a”Roma composizione”, nel livello inferiore ora ci sono le moschee ben visibili, sopra un capitello, una scritta orientale, e lo stesso nudo statuario di “Uno sguardo nell’harem”. ‘Anche in “Tramonto sul Corno d’oro”, al livello inferiore ci sono le moschee, sopra motivi orientali.

Nelle due composizioni “Istanbul nel mare della storia I e II”, sempre  capitelli e sculture in primo piano, qui anche una flottiglia di barche, le moschee sono ben visibili.

E siamo giunti alle ultime visioni delle moschee, sempre più vicine. “Istanbul XVII secolo” presenta la moschea incorniciata in una scritta orientale,  “Dal ponte di Galata”  sembra  una inquadratura presa sul posto. Ora  tutto è nitido e ben definito, scomparsi capitelli e sculture, ècome se dai ricordi si passasse alla realtà.

Alcuni giudizi

Dopo questa carrellata delle opere esposte qualche autorevole giudizio critico. Così Calvesi: “Nelle atmosfere venate di dissolvenze, ora nel grigio ora nell’oro i folgoranti tramonti, le forme delle statue, delle anfore e dei vasi, delle maioliche e dei vetri si calano come animate da un soffio di magia”.  Ed ecco perché: “La densità culturale dei riferimenti si scioglie morbidamente nella naturalezza di questo flusso di ricordi che affiorano dal sentimento.  Tutto rivive, con il mito, in quel soffio di  magia  che al mito è congeniale e che è anche un trasporto d’amore”.

E Maurizio Marini: “Scultura nella pittura, pittura nella pittura, astrazione di cose non dette, momento al limite dell’onirismo, che si scopre come iconologia della realtà  di un immaginario, tutto questo ed altro ancora; è il ?cantico visivo’, l’ ?ekphrasis’ che Timur dedica alle sue radici”. Per concludere: “La pittura odierna di Timur Incedayi è quindi preziosa e misteriosa, reale e metafisica, fissa e dinamica come le stelle, avendo egli riallacciato quella corda armonica che da sempre, senza dissolvenze,  unisce il vicino Oriente all’Europa più raffinata: Roma e Costantinopoli, Bisanzio e Istanbul”.

Ci sembra la migliore conclusione del viaggio ideale che ci ha portati dalle rive del Tevere al Bosforo,  da Roma a quella che fu chiamata “La nuova Roma”,  perché sottolinea l’aspetto che ci è sembrato più importante, con cui abbiamo iniziato questo resoconto. Il sincretismo delle civiltà, la loro compresenza resa con un’efficacia straordinaria dalle immagini oniriche dei monumenti i Roma e delle moschee di Istanbul compresenti nell’artista come dovrebbero esserlo in tutti coloro che sentono il portato della cultura, dove non vi sono steccati e tanto meno contrapposizioni.

Mai come in questa occasione abbiamo avuto modo di toccarlo con mano, anzi di vederlo con gli occhi, cosa ancora più importante nel momento che stiamo attraversando un periodo storico percorso da tensioni e anche da orrori con il rischio di una escalation per una visione falsa dal lato religioso, civile, umano, che va contrastata con decisione. E questa mostra lo fa con la voce dell’arte.

Info

Macro, Via Nizza 138, Roma. Da martedì a domenica, ore 11,00-19,00; sabato ore 11,00-22,00m(la biglietteria chiude un’ora prima), lunedì chiuso. Ingresso intero 14,50 non residenti e 13,50 residenti, ridotto 2 euro in meno. Tel. 06.671070400, http://www.museomacro.org/. Catalogo: Timur Kerim Incedayi, “Roma e Istanbul, sulle orme della storia”, Edizioni CieRre”, gennaio 2015, pp. 128, formato 28 x 24, bilingue italiano e inglese, tra gli altri testi di maurizio Calvesi. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. in questo sito i nostri articoli sulle mostre di artisti turchi all’Ufficio culturale della Turchia in Piazza della Repubblica a Roma, in particolare: “Tulay Gurses  e la mistica di Rumi”   21 marzo  2013, “Ilkay Samli e i versetti del Corano” 2 ottobre 2013, “Permanenze. Ricordi di viaggio di nove artisti italiani”  9 novembre 2013,Yildiz Doyran e lo ‘slancio vitale di Bergson”‘  29 gennaio 2014, sul Festival  del film Turco a Roma 27 settembre 2013; inoltre i nostri articoli su “Istanbul, la nuova Roma, alla ricerca di Costantinopoli” 10,13, 15 marzo 2013. 

Foto

Le immagini sono state riprese nel Macro di via Nizza alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare il Macro, le organizzazioni capitoline e  l’Ambasciata turca, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.   In aperura, “Melograno nel segno della continuità”, 2014; seguono 3 immagini con i monumenti di Roma, poi 3 immagini con le moschee di Istanbul; in chiusura, alcune opere in mostra lungo una parete..