I lager nazisti, dallo sterminio alla liberazione, al Vittoriano

di  Romano Maria Levante

“La liberazione dai campi nazisti”, dal 28 gennaio al 15 marzo 2015, al Vittoriano, rievoca la tragedia dei campi di concentramento nazisti, divenuti campi di sterminio, ricostruendone tutti i passaggi, dall’istituzione alla destinazione, fino agli ultimi convulsi spostamenti con le “marce della morte” e la liberazione da parte delle forze alleate; la rievocazione prosegue con le vicende successive, il difficile rientro degli internati nei propri paesi e la ricerca degli scomparsi. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Marcello Pezzetti, Direttore scientifico della Fondazione Museo della Shoah, che ha curato anche il Catalogo Gangemi. 

Con questa nuova iniziativa l’organizzazione del Vittoriano conferma la capacità di evitare quella che Giovanni Maria Flick, Presidente onorario della Fondazione Museo della Shoah di Roma chiama “trappole della memoria”: si va “dalla memoria a comando al dovere burocratico della memoria; alla memoria falsa; a quella burocratica; a quella ufficiale; a quella rancorosa, fonte di risentimenti; all’eccesso di memoria”, infine “alla memoria come alibi”.  Proprio per questo, conclude,  è necessario “riflettere sul perché, sul cosa,  sul come ricordiamo”.

Perché, cosa e come ricordare

Il “perché”,  in questo caso è di un’evidenza solare, è un dovere imprescindibile mantenere la memoria di eventi terribili che potrebbero venire dimenticati con la naturale sparizione dei  sopravvissuti mentre devono restare presenti alla memoria delle nuove generazioni come ammonimento e monito affinché l’umanità non debba più provare una simile barbarie; e tanti fatti gravissimi odierni mostrano come di questo si abbia sempre più bisogno, eloquenti al riguardo  le parole di Primo Levi: “E’ avvenuto, quindi può accadere di nuovo… può accadere e dappertutto”.

Il “cosa”, riguarda non solo gli eventi nella loro tremenda concatenazione  legata ad una logica inumana oltre che criminale e perversa; ma anche le persone identificate nella loro identità e umanità  perché  i precisi riferimenti ai nomi, ai volti e alle storie personali sono più eloquenti di tante descrizioni.

Sul “come”,  nasce il problema della memoria selettiva,  del criterio con il quale si effettuano le scelte tra il vastissimo materiale documentario a disposizione, ancora più importante nel caso di una esposizione necessariamente limitata negli spazi e nei contenuti.

Ebbene, nella mostra del Vittoriano abbiamo potuto riscontrare che il “cosa” l’esposizione contiene  e il “come”  lo presenta sono all’altezza del “perché” è stata organizzata.  Un perché legato all’esigenza di non dimenticare e di ammonire, mentre cosa è stato selezionato e come viene presentato fa sentire la tragedia immane quale  è  stato il genocidio nei campi di sterminio.

Il clima della mostra, sgomento e raccoglimento

Il clima che si respira nel lungo percorso espositivo al Vittoriano è di sgomento e insieme di raccoglimento mentre si rivivono situazioni  al di fuori dalle dimensioni dell’umanità:  per di più è una tragedia relativamente recente che ci coinvolge geograficamente, nel cuore della nostra Europa.

Tutto questo senza drammatizzazioni né ricerca di effetti speciali, ma con la forza di una testimonianza visiva e informativa, ricca di fotografie, cimeli, scritti,  così serrata che lascia senza respiro dinanzi all’evidenza di  atrocità inimmaginabili ma documentate in modo inequivocabile..

Si vive il consumarsi di un dramma senza fine, una sacra rappresentazione dai toni tragici di una messa da requiem: scandita non da enfasi volute bensì dalla meticolosa esposizione di  un meccanismo ancora più aberrante in quanto  nato da calcoli politici  allucinati tradotti in strumenti organizzativi perversi e consapevoli, non frutto bacato di esplosioni episodiche di follia criminale.

Ancora più precisa e documentata delle precedenti mostre nelle quali sono stati approfonditi altri aspetti della terribile storia delle aberrazioni naziste: la trilogia da “Auschwitz-Birchenau” nel 2010 ai “Ghetti nazisti” nel 2012, alla “Razzia degli ebrei” nel 2013; insieme a queste anchemostre “liberatorie”, da “Lo sbarco di Anzio”  alla “Liberazione di Roma” nel 2014.  Tutte al Vittoriano, nel luogo simbolo dell’Unità d’Italia con l’altare della Patria, dove ci sono state anche mostre celebrative del  “Milite Ignoto” nel 2011, della “Grande Guerra” nel 2012 e 2014, della “Bandiera”  nel 2014 all’interno del Sacrario.

La documentazione dei campi di sterminio è tanto accurata quanto serrata, i cartelli illustrativi lungo il percorso espositivo contengono una quantità di informazioni che consentono di dare una dimensione alle atrocità ricordate attraverso  fotografie quanto mai eloquenti, cimeli e documenti.

La macabra contabilità dei campi di sterminio

Nel percorso espositivo le vicende dei principali campi scorrono in tutta la loro drammaticità,  punteggiate dalle testimonianze di deportati italiani sopravvissuti con schede, immagini, documenti e cimeli: una personalizzazione che, come si è detto,  fa immergere ancora di più nella tragedia. Abbiamo contato oltre  200 fotografie, 13 video dove scorrono le immagini e  un grande schermo.

All’ingresso alla mostra è stato posto un reticolato, al termine  il cancello  di Auschwitz con la scritta “Arbeit Macht Frei”, “Il lavoro rende liberi”, versione nazista all’incontrario delle  parole infernali “Lasciate ogni speranza voi ch’entrate” ,del resto è  un viaggio nell’inferno quello che  si prepara.

Nelle prime fasi, dal 1933, i “lager”, cioè i campi di detenzione, cominciarono a sorgere all’interno della Germania per internarvi gli oppositori politici, per “motivi di sicurezza”. Dal 1936  la Germania si riarma e il sistema di detenzione viene adeguato alle nuove esigenze, si smantellano i piccoli campi e si creano nuovi campi principali  e sottocampi vicino a fabbriche o cave per utilizzare i detenuti nei lavori per l’industria della guerra. Ancora politici e “asociali”, termine sinistro nel quale sono comprese categorie da  perseguitare, dagli omosessuali agli zingari.

Nel 1939 nuova escalation, altri lager vengono costruiti nelle terre occupate per rinchiudervi prigionieri di guerra e oppositori politici, gli ebrei vengono deportati e messi a morte, almeno un milione nel solo campo di Birkenau associato ad Auschwitz.  Per tutti i detenuti le condizioni disumane di vita nei lager  determinano un’elevatissima mortalità, di dimensioni incalcolabili,  si pensi che sono più di 1000 i campi e sottocampi di detenzione.

La mostra presenta i campi principali con notizie dettagliate per ciascuno oltre ai dati su caratteristiche e struttura, comandanti  e categorie di prigionieri, il numero delle vittime e le cause della mortalità, i trasferimenti fino alla liberazione, e l’indicazione anche dei deportati italiani nel singolo campo e della loro sorte.  I dati sono agghiaccianti, citiamo i campi i cui nomi sono già tristemente noti: a Buchenwald su 250.000 internati 56.000 vittime, a Dachau su 200.000 internati  41.000 vittime, a Mathausen su 200.000 internati 100.000 vittime, a Bergen-Belsen su 120.000 internati 52.000 vittime, fino all’ecatombe di Auschwitz-Birkenau, su 1.300.000 internati 1.100.000 vittime, di cui quasi 1.000.000 ebrei, soprattutto sterminati nella camere a gas o con altri mezzi.

Altri campi meno noti hanno cifre altrettanto agghiaccianti: a Sachsenhausen su 200.000 internati tra 40.000 e 50.000 vittime,  a Majdanek su 150.000 internati 80.000 vittime, di cui 60.000 ebrei, a Stutthof su 110.000 internati 65.000 vittime, e l’elenco potrebbe continuare con gli altri dati forniti.  

I massacri e gli scheletri umani nei campi,  le “marce della morte”

Le immagini dei campi e dei cimeli dei deportati documentano inizialmente la situazione ambientale, si vedono i deportati inquadrati o al lavoro, le autorità in visita ai campi. Poi l’orrore  con le immagini riprese dalle forze alleate, sovietici e anglo-americani, che avanzando mentre l’esercito nazista ripiegava, hanno liberato ad uno ad uno i campi, trovandosi di fronte a un qualcosa di inimmaginabile anche per chi nella tragedia della guerra ha visto le scene più raccapriccianti.

Primo Levi, nel libro “La tregua”,  racconta quando i primi soldati russi trasecolarono alla vista che si presentò loro dinanzi al reticolato di Auschwitz. Uno di loro, l’allora 19 enne Yakov Vincenko, nel 2005 ha dichiarato: “Io ho  incontrato solo spettri…: La verità è che nessuno di noi soldati si era reso conto di aver varcato un confine da cui non si rientra… Pensai a qualche migliaio di morti, non alla fine dell’umanità”. A Bruno Vespa, che ha curato la mostra “Auschwitz-Birkenau”, chiedemmo una definizione sintetica, ci disse  “la morte dell’uomo” e ne facemmo il titolo del nostro servizio, corrisponde alla “fine dell’umanità” di cui ha parlato il soldato russo dopo 60 anni. Un altro soldato, Vasily Yeremenko, sulla liberazione del campo di Majdanek, ha detto: “Quando abbiamo visto che cosa il campo conteneva, ci siamo sentiti pericolosamente vicini ad impazzire”.

Sono montagne di corpi scheletriti accatastati per essere portati ai forni crematori o seppelliti in gigantesche fosse comuni, e anche montagne di scarpe e perfino di protesi ortopediche: immagini di morte, ma non meno drammatiche le immagini di vita, scheletri umani rivestiti di pelle che pure riescono a sorridere alla riconquistata libertà.

La ricostruzione degli eventi nell’ultima drammatica fase è altrettanto accurata. Con l’avanzata dell’Armata rossa si impone la chiusura dei campi all’Est, siamo nel 1944, la parola d’ordine è “evacuazione” per spostare gli internati nel cuore della Germania e impiegarli nel lavoro bellico nella fase finale. Diventa un massacro: subito vengono eliminati gli inabili al trasferimento che avveniva spesso a piedi, nelle lunghe marce,  in cui morivano a migliaia per la fatica e la fame, il freddo e le violenze, si pensi che di 11.000 evacuati da Stutthof  morirono  9.500, per lo più ebrei.

Questa fase tragica viene documentata con cartine geografiche nelle quali sono segnate le direttrici delle “marce della morte”  e dei “trasferimenti in treno” su vagoni merci scoperti, come quello fotografato; sono esposti disegni di internati, uno ritrae la lunga fila di deportati in marcia e i corpi dei caduti nella neve lasciati  morire, o eliminati dalle guardie perché troppo lenti  I trasferimenti erano anche per 250 chilometri da percorrere in 11-12 giorni a piedi nell’inverno.

Prima dell’evacuazione spesso venivano compiuti autentici massacri, come quello scoperto dagli americani il 14 aprile 1945 a Gardelegen, con mille corpi bruciati vivi dai tedeschi il giorno prima allorché era stato evacuato il campo di Mittelbau-Dora; in queste fasi convulse aveva modo di manifestarsi in tutte le perverse espressioni il violento sadismo criminale dei sorveglianti locali.

La liberazione dei campi, la sindrome di ri-alimentazione

Dopo la liberazione di Auschwitz  nel gennaio 1945, nella Polonia occupata dai tedeschi,  e di Gross-Rosen a febbraio, nel mese di maggio i sovietici entrati a Berlino liberano i campi di Sachsenhausen e Ravensbruck; gli americani i campi di Flossenburg a Norimberga, di  Dachau presso Monaco e di Mathausen in Austria,  i britannici liberano Bergen-Belsen e a maggio entrano nel campo di Neunengamme che trovano vuoto, i 9.000 internati sono stati evacuati su una nave affondata dall’aviazione britannica, evento provocato dai tedeschi, alla perfidia non c’è mai fine.

Come non c’è fine al dramma, se a Bergen-Belsen in aggiunta all’ecatombe precedente, ben 5.000 internati morirono nei dieci giorni successivi alla liberazione:  ironia della sorte, dopo la fine dell’incubo si continua a morire. Si tratta, in questo e in molti altri casi, della “sindrome di ri-alimentazione”,  perché la mancanza di nutrizione ha impoverito di fosfati e sali minerali l’interno delle cellule, per cui tornando all’alimentazione normale si crea uno scompenso neuromuscolare che compromette la contrazione muscolare e cardiaca e può portare alla morte entro pochi giorni.

La documentazione dell’orrore dei campi di sterminio

Sovietici, americani e britannici documentarono fotograficamente gli eccidi; in particolare  a Bergen-Belsen furono scattate dai britannici 200 fotografie e girato un filmato di 33 bobine con immagini considerate tra le più terribili dei massacri e delle denutrizioni, e anche immagini sull’opera di recupero e di assistenza.

Dopo la guerra gli americani produssero il cortometraggio “Death Mills” con il regista divenuto celebre  Billy Wilder, mentre il regista britannico Sidney Bernstein, assistito da Alfred Hitchock ebbe il compito di selezionare e montare decine di ore di materiale di ripresa dei  diversi eserciti. Il risultato fu così sconvolgente che lo produzione fu interrotta, la bobina di Auschwitz e Majdanek fu  restituita ai sovietici, le altre cinque, tre su Bergen-Belsen e le altre  su  Dachau, Buchenwald e Mathausen furono depositate nell’Imperial War Museum di Londra dove sono restate 40 anni. Finché nel 1985 sono state montate dalla Frontline, che ha acquisito i diritti,  nel  documentario “Memory of the camps” trasmesso e distribuito in DVD. Nel 2014  l’Imperial War Museum ha restaurato interamente il premontato aggiungendo la sesta bobina dei sovietici e realizzando il nuovo documentario completo cui è stato dato  il titolo originario “German concentration camp factual service”. Un’opera di testimonianza, prova e documentazione per mantenere la memoria.

Nell’immediato fu fatto qualcosa per far conoscere e, in un certo senso, espiare ai tedeschi civili ciò che era avvenuto: furono obbligati a  vedere i cumuli di cadaveri e anche ad aiutare a rimuoverli, in questo lavoro le immagini riprendono soprattutto le guardie del campo costrette a seppellire i morti. Sono eloquenti le fotografie con  alcune donne  tedesche, e perfino un bambino di 7 anni, che guardano i corpi delle le vittime del “treno della morte”, proveniente da  Buchenwald e diretto a Flosseenburg, restato fermo per una settimana nel loro paese prima di proseguire per Dachau. Ed è particolarmente espressiva l’immagine del rabbino in piedi sull’attenti che recita la preghiera dei defunti dinanzi a una spaventosa fossa comune, come tante altre che restano nella memoria.

La gioia della liberazione, l’odissea del ritorno a casa

Le  immagini non sono solo di morte ma anche di vita, riprendono la gioia nei volti dei liberati, la fotografia di otto di essi su una panchina li mostra scheletriti, sono alcuni sopravvissuti di Mathausen. Anche scene di massa con i liberati festanti che si accalcano e salutano i liberatori.

Non è tutto finito, però, si tratta di organizzare il rientro dei milioni di deportati dal territorio liberato  nei loro paesi di origine, e  con lo scenario di distruzione  non si poteva contare su una rete di trasporti funzionante in Europa. Primo Levi ne “La tregua” ne ha dato una testimonianza diretta.

A queste persone, internati nei campi di lavoro e di sterminio, prigionieri di guerra, lavoratori civili, fu dato lo status di “Displaced persons”  e per loro furono allestiti 227  campi dall’UNRRA. Si pensi che in questi campi nell’estate del 1947, due anni dopo la fine del conflitto, erano presenti ancora in 600.000, di cui 170.000 ebrei; l’ultimo campo fu chiuso dieci anni dopo, nel 1957, e anche se la maggior parte di essi fu chiusa prima del 1952, sono dati eloquenti di queste difficoltà.

Viaggi ed attese interminabili, spesso con direttrici opposte rispetto alla destinazione, secondo le linee disponibili, mesi e mesi di disagi inenarrabili anche nella gioia della libertà riacquisita, con l’impossibilità di far avere notizie. Si costituirono comitati appositi intorno alla Croce rossa, come il Comitato ricerche deportati ebrei, si mobilitò per le ricerche anche il Vaticano.

La situazione in Italia, i campi della Risiera di San Saba e di Bolzano-Greis

Nella mostra un’apposita sezione è riservata alla situazione in Italia. C’erano due zone sottoposte all’amministrazione tedesca, di cui vengono indicati i nomi in tedesco e in italiano.

La  prima è  la “Zona di operazioni del Litorale Adriatico” dove fu istituito il Campo di detenzione di polizia della Risiera di San Saba; vi transitarono 20.000 prigionieri, ne morirono 2000-3000, molti uccisi con il gas o con fucilazioni e colpi alla nuca.  Poi la “Zona di operazioni delle Prealpi”  dove venne  istituito il Campo di smistamento e transito di Bolzano-Greis, gli internati  furono 10.000. Nei due campi varie categorie di perseguitati, compresi ebrei e zingari.  

Si crearono in molte province piccoli campi di concentramento presso carceri e caserme, ville requisite e altri locali, finché nel 1943 a Fossoli di Carpi fu istituito un campo nazionale anche per detenuti politici. Alcune brutte macchie:  il 26 gennaio il primo trasporto di ebrei libici deportati, anche se organizzato dalle SS;  il 22 febbraio  il convoglio per Auschwitz-Birkenau con più di 600 ebrei italiani, finché il 15 marzo il campo passò sotto il controllo dei tedeschi.

Agli italiani ricordati nella mostra la nostra dedica

Tiriamo un sospiro di sollievo al termine di una ricostruzione che non esitiamo a definire sofferta  e concludiamo con quanto di più evocativo e positivo possa esserci: gli  italiani deportati e sopravvissuti, le cui  fotografie e cimeli punteggiano, come già detto, l’intero percorso espositivo.

Vogliamo ricordarne i nomi, per ciascuno di essi c’è una storia toccante ricostruita nella mostra con ampiezza di documentazione originale: Mario Limentani e Sion Burbea, Shlomo Venezia e Giuseppe Di Porto, Primo Levi e Sami Modiano, Isacco Sermoneta, Amalia e Lina Navarro, Liliana Segra  e Nedo Fiano, Franco Schonheit e Luciana Nissim, Rosa Hanan,  Ida e  Stella Macheria, Nathan Cassuto e Anna Di Gioacchino, Arminio Wachsberger e Alberto Sed, Liliana (Tatiana) e Alessandra (Andra) Bucci . Oltre agli ebrei, i deportati politici:  Lidia Beccaria Rolfi e Max Boris, Aurelio Carpinteri e Angelo Adam. Infine gli IMI, gli Internati Militari Italiani, su 600.000 oltre 50.000 morirono, sono ricordati con la storia di Enrico Blasi, che come gli altri rifiutò di combattere a fianco dei taprile 1945edeschi.

A  questi fulgidi esempi di sacrificio e di resistenza vittoriosa dedichiamo questo nostro resoconto di una mostra che evoca sgomento e orrore,  ma suscita anche un senso di liberazione.

Info

Complesso del Vittoriano, lato piazza Ara Coeli, tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30, da venerdì a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito.  http://www.comunicareorganizzando.it/; . Tel. 06.6780664. Catalogo “La liberazione dei campi nazisti”, Gangemi editore, gennaio 2015, pp. 208, formato 21×29,5, dal catalogo sono tratte le notizie del testo. Cfr. i nostri articoli: per le altre mostre sul tema, in questo sito, “Ebrei romani, 70 anni dopo l’ ‘infamia tedesca’”  24 novembre 2013, e “Roma, la liberazione del 1944 dopo 70 anni”   5 giugno 2014; in www.visualia.it , “Roma. I ghetti nazisti, fotografie shock  al Vittoriano”  27 gennaio 2014, “Roma. Ombre di guerra all’Ara Pacis”  2 febbraio 2012; “Roma. In mostra le fotografie dello sbarco di Anzio”, 22 giugno 2014″  21 gennaio 2012in “cultura.inabruzzo.it”  “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010, e “Scatti di guerra alle Scuderie”  8 agosto 2009; per le altre mostre celebrative, in questo sito: “Grande Guerra, immagini, cimeli e documenti, al Vittoriano”  15 dicembre 2012, e  “Grande Guerra, il Centenario al Vittoriano”  2 giugno 2014, “Bandiera, 90 artisti in mostra al Vittoriano” 14 gennaio 2014, e “Bandiera, 90 opere di artisti sul tema, al Vittoriano” 15 gennaio 2014; in www.visualia.it“Roma. Il treno del Milite Ignoto nelle foto d’epoca” 2 novembre 2011,  e “Roma. Al Vittoriano le fotografie del primo ‘900 verso la Grande Guerra” dicembre 2012.

Foto

Le immagini  sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Museo della Shoah,  per l’opportunità offerta. In apertura, l’ingresso della mostra con il reticolato;  seguono,  Flossenburg,  il rancio dei  prigionieri al lavoro in una cava nel 1942 e  Auschwitz-Mauthausen, la “marcia della morte” nel disegno “Evacuazione”, di David Olére, ebreo polacco assegnato a Birkenau, sopravvissuto, poi  Auschwitz-Birkenau, i liberatori russi davanti a una fossa comune, e Mauthausen, un’immagine scattata da un prigioniero spagnolo nel 1945, presentata come prova al processo per i crimini di guerra nazisti, quindi Bergen-Belsen, il rabbino dell’esercito britannico  Leslie Hardman recita la preghiera dei defunti davanti a una fossa comune nel 1946, e Dachau, sottocampo Allach, gli internati salutano i liberatori americani il 30 aprile 1945; quindi,  Bergen-Belsen, guardie femminili del campo costrette a seppellire i morti il 18 aprile 1945, e Mauthausen, sopravvissuti ischeletriti su una panchina, maggio 1945; inoltre, Auschwitz-Birkenau, bambini liberati, 1945, e  Bergen.Belsen, distribuzione del pane alle donne sopravvissute il 24 aprile 1945; infine, un sopravvissuto russo liberato dagli americani denuncia un aguzzino il 14 aprile 1945  nell’immagine simbolo della mostra,  e uno dei blocchi fotografici dell’esposizione, coni civili tedeschi obbligati a vedere i cadaveri del ‘treno della morte’ riesumati a Nammering, a destra in alto anche un bambino di 7 anni; a destra in basso, Dachau, sottocampo Landsberg, soldati americani davanti a centinaia di cadaveri il 30 aprile 1945;  in chiusura, la ricostruzione al termine della mostra, dell’ingresso di Auschwitz.con la famigerata scritta “Arbeit Macht Rei”, “Il lavoro rende liberi”. 

Tato, la spettacolare Aeropittura, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

La Galleria Russo prosegue nell’opera meritoria di portare alla ribalta l’arte futurista, altrimenti trascurata dopo le celebrazioni del centenario.  Dopo “Chez Marinetti” e l’Aeropittura di  “Dottori”  con  la “Serata futuriste”, ecco  ora la mostra “Tato. Sessanta opere del Maestro delì’Aeropittura”,  dal 5 al 28 febbraio 2015, accompagnata dal Catalogo della Palombi Editori, con un’ampia presentazione di Salvatore Ventura, che lo ha curato insieme a Maria Fede Caproni,  e note critiche di  Mariastella Margozzi Beatrice Buscaroli.

Viene ricordato il rilievo dato alle opere di Tato alla mostra sul Futurismo al “Guggenheim Museum” di New York, “Italian Futurism 1909-1944. Recostructing the Universe”, curata da Vivien Green con 300 opere esposte; nella guida del museo americano è riprodotto “Sorvolando in spirale il Colosseo”, esposto in questa mostra e rientrato a tal fine dagli Stati Uniti. 

Salvatore Ventura apre un prospettiva di grande  interesse, c’è ancora tanto da scoprire su questo artista che è stato non solo fondatore dell’Aeropittura futurista ma anche  fotografo futurista e arredatore, scenografo e affreschista, ceramista e scultore, scrittore e saggista.  Afferma che c’è un vastissimo materiale da sistemare su questa multiforme attività alla quale accenna nell’autobiografia del 1941 “Tato racconTato da Tato”; poliedrica al punto che fu definito “un uomo con sette anime”.

Ripercorriamola rapidamente per inquadrare la mostra attuale, incentrata sull’Aeropittura, l’aspetto centrale della sua  espressione artistica, con momenti significativi anche delle fasi iniziali e finali.

Il futurismo di Tato prima dell’Aeropittura

La sua attività si è svolta nel solco del futurismo, alla data del Manifesto di Marinetti aveva 13 anni, – era nato a Bologna il 29 dicembre nel 1896 – ma lo troviamo ben presto volontario nella guerra 1915-18 allorché stringe amicizia con Boccioni, Russolo e Sironi. Il 15 settembre 1920, a 24 anni, il  “finto funerale”,  che descrive nel suo libro: non solo il necrologio sulla stampa quotidiana, ma perfino il corteo funebre  tra la “costernazione degli amici, fiori, corone ed, infine,  sorpresa”:  sul carro c’è lui vivo e vitale. Fu fermato e denunciato dalle guardie regie, poi tutto venen chiarito. Aveva voluto  le esequie di Guglielmo Sansoni, il suo nome, per far nascere il pittore Tato futurista.

Già  nel 1919 la sua prima iniziativa futurista, un Manifesto con l “Autoritratto ombreggiante”, provocazione sfociata in una vertenza cavalleresca che fu molto apprezzata da Marinetti. Due mesi dopo il finto funerale, la sua mostra personale al Teatro Verdi di Bologna;  verso la fine dell’anno conosce Marinetti con cui resterà sempre in contatto.  Insieme al fondatore del Futurismo organizza nel gennaio 1922, sempre a Bologna, la prima mostra futurista al Teatro Modernissimo con una trentina di espositori tra i quali lui figura anche con vari pseudonimi per accrescerne il numero, cosa che gli consentì repliche sarcastiche ai critici che discettavano senza accorgersi di questo trucco.

Di questi primissimi anni vediamo esposti in mostra i dipinti “Natura morta” e “Simultaneità di figura con paesaggio”, entrambi del 1921, e un ritratto, “Don Sturzo”, 1920-22..

Nel 1922 un’altra attività, restauro e decorazione a Salsomaggiore abbinata all’organizzazione di mostre futuriste in questa città, a Parma e Torino. 

La stravaganza futurista torna nel 1923 con una singolare mostra sul direttissimo Bologna-Milano, anche qui, come nel finto funerale, viene sanzionato  dal controllore ferroviario ma riesce a coinvolgere comunque  i viaggiatori; nel 1925 iniziativa analoga, la mostra, che definisce “unica al mondo”,  è su una barca affittata a Riccione, le vele dipinte, i quadri tra  reti e corde, cesti e remi.

Intanto nel 1924 aveva partecipato all’Esposizione d’Arte futurista presentata da Marinetti al Modernissimo di Bologna, e al Teatro futurista al Salone Margherita di Roma: in questa città si trasferisce stabilmente e si inserisce nell’ambiente futurista romano con una mostra personale  nella Casa d’arte Bragaglia.

E’ del 1922-24  “Maschere (Fantasia decorativa)”, mentre del 1926  “Conquista spaziale (Dinamismo tropicale)”, con forme in movimento nello spazio, quasi un’anticipazione degli sviluppi futuri, entrambi in mostra; movimento e forte cromatismo in “Coppa Schneider”, 1927; li vediamo esposti in mostra.

Nel 1926 con i futuristi partecipa alla Biennale di Venezia, lo farà per le 6 edizioni successive fino al 1941, ed è presente a mostre internazionali a Parigi, New York e Roma; lo troviamo in mostre futuriste  nel 1927, 1928 e 1929 in Emilia, nelle Marche e a Roma al Palazzo delle Esposizioni.

Il 1930 è un anno particolare, il 16 aprile firma con Marinetti il “Manifesto della fotografia futurista” ispirato alla “fotografia dell’avvenire” di alcune sue esperienze  e gli dà un seguito immediato  con un sezione per i futuristi romani al Primo concorso fotografico nazionale. Viene premiato con medaglia d’oro,  la fotografia futurista ha successo per il suo carattere innovativo e per la capacità di mettere in pratica gli assiomi del manifesto. In un articolo  su “La fotografia futurista e la trasparenza dei corpi opachi” illustra l’arte futurista del “camuffamento”, che rivela oggetti inesistenti dando l’illusione della realtà, oltre a nascondere la realtà che si vuole occultare. 

Realizza il “camuffamento” con oggetti  che messi insieme formano composizioni impensate: una fruttiera con candele e limone assemblati rende  l’idea della “Ballerina”, come una giacca appesa a un attaccapanni è il “Perfetto borghese”, mentre  martello, imbuto e uovo formano un “Somarello con pastore”; così la trasparenza dei corpi opachi nelle sbarre trasparenti di una prigione fissa il “Galeotto” che sta per essere liberato, mentre  il “Ritratto meccanico”  divide in due la testa di un uomo in un cronometro, una parte ha l’espressione triste, l’altra l’espressione lieta; con  metodi analoghi evidenzia gli stati d’animo utilizzando deformazioni dinamiche e polifisiognomiche.

C’è dell’umorismo e della satira nelle sue rappresentazioni, un gusto ironico e caricaturale. Al riguardo citiamo i carboncini e grafite su carta del 1942 esposti in mostra, quanto mai arguti, “Un appunto volante” e “Saltando in corsa su un taxi libero”, il “Medico in camiciotto bianco”, “Bazar” e“Volava in direzione della porta”. Segno che anche dopo la stagione folgorante dell”Aeropittura  non aveva perduto il gusto dell’irrisione e dello scherzo.

Tornando al “camuffamento”, nella testa di un letterato inserisce in trasparenza i suoi libri e nel proprio “Autoritratto”  l’elica e il motore dell’aeroplano. L’immagine ci introduce all’Aeropittura, il cui Manifesto pubblicato l’1-2 febbraio 1931, viene seguito dalla prima mostra sul tema, a Roma, nella camerata degli Artisti a Piazza di Spagna, alla quale partecipano con lui i maggiori pittori futuristi, da Balla a Dottori, a Prampolini. 

L’Aeropittura nella vita e nell’arte di Tato

Dall’aeropittura venne un nuovo e forte slancio all’arte futurista, prima imperniata sulla velocità terrestre evocata da automobili, tram e veicoli che, nel caso di Sironi, erano lenti e spesso bloccati, ma la fase futurista di Sironi fa storia a sé. Fino al 1944 ogni anno Tato è stato presente in mostre futuriste, quasi sempre di Aeropittura ma non solo,  oltre che alla Biennale di Venezia; ha esposto opere  originali quanto geniali alle Mostre di Plastica murale del 1934 e del 1936, come la grande vetrata policroma di 40  metri quadri sulle “comunicazioni ferroviarie”  ai Mercati Traianei  con grande uso di materiali, dall’alluminio al rame, dal vetro alla ceramica, dal sughero al marmo.  parlò di un’ “arte coloniale”, essendo “l’Africa una miniera inesauribile di realtà ispiratrici”.

La realtà e l’azione hanno sempre preceduto le sue manifestazioni artistiche: si era appassionato al volo, fece viaggi in Europa e Africa, fino all’America;  Balbo con la sua trasvolata diventò un mito, fu Tato a dare il battesimo dell’aria al grande futurista Giacomo Balla.

Dietro l’Aeropittura c’era una visione tutta particolare dello spazio e del tempo,  “drogata” dalla velocità che nel volo andava ben oltre la rapidità del movimento attribuita all’automobile dal primo futurismo.  Così Mariastella Margozzi:  “L’Aeropittura non è la descrizione di un volo , né dell’ebbrezza che il volo procura. Ma piuttosto il tentativo di tradurre l’esperienza della deformazione  che lo spazio subisce e registra nel momento in cui, sollevati dalla gravità, una meccanica poderosa permette di navigare in tanti spazi possibili, di trasformare il basso in alto,  la destra e la sinistra: di scardinare le gerarchie che, sulla terra, siamo  costretti ad ammettere”. Per concludere: “Lo spazio è una percezione. Così come il tempo è una finzione. Così ogni artista è consegnato al progresso. Al futuro”.

In fondo la teoria della relatività ha insegnato che ciò che conta è la posizione dell’osservatore, e questo è valido non soltanto per le estreme concezioni della fisica, come ricorda Beatrice Buscaroli: “L’esito della nostra esperienza non può che essere commisurato e certificato sui parametri imposti dalle energie che scaturiscono dal progresso, dalla velocità, dalla vittoria del pesante sul leggero, del meccanico sull’aria, dell’ingegno sul pregiudizio”. E il volo aereo ne era la sintesi ideale perché a tutto questo aggiungeva  l’idea di libertà; l’arte non poteva restarne estranea, di qui l’Aeropittura.

Nessuna introspezione, apparentemente, e nessun motivo dichiaratamente espressionista, non è l’aviatore il protagonista, ma l’aereo per quello che provoca nella dimensione spazio-temporale irrompendo  con la sua forza meccanica e la sua velocità.  Ma pur se non vuol rendere le proprie sensazioni bensì l’effetto cosmico dell’aereo nello spazio, sappiamo che gli piaceva provare l’emozione del volo, s’innalzò anche con Mario De Bernardi, come Marinetti e Mino Delle Site.

Il suo volo su Roma con  Balla su un potente trimotore Caproni da bombardamento fu descritto dal poeta futurista Giovanni Rotiroti ne “L’impero” con parole inequivocabili: “Avevamo tutti sete  di altezza, desiderio di superare lo spazio, sogno di raggiungere culmini sconfinati”. Ecco l’aereo, un Caproni, “enorme mole d’argento dalle grandi ali tese… S’intuiva nel suo corpo un terribile respiro ora silenzioso. Dai tubi di scappamento, paragonati da Balla a costole meccaniche, si delineava la febbre turbinosa dell’infinito. Tutta la civiltà meccanica era racchiusa in quelle potenti architetture d’acciaio!  La luce carezzava le grandi ali d’argento e si innalzava dal corpo degli apparecchi mettendo a nudo il loro apparato nervoso, la colonna vertebrale, le costole, le vene, tutta la scheletrica forza motrice che sembrava invocasse libertà di volo”.

E’ “l’angelo meccanico moderno” – così lo definisce Tato –  un’identificazione antropomorfa dell’apparecchio esaltata dall’entusiasmo irrefrenabile dei passeggeri. La Margozzi osserva che mentre gli altri artisti dell’Aeropittura davano immagini  metafisiche o surrealiste, “Tato, invece, è estremamente realistico; a lui interessano gli scorci di paesaggio e, allo stesso modo, l’aereo in sé, l’oggetto volante, la carlinga e la fusoliera, i motori,  le ali, le eliche, tutti gli elementi che ne fanno una sorta di moderno destriero, capace di librarsi in aria e di solcare le nuvole, con il suo altrettanto moderno cavaliere  all’interno dell’abitacolo, intento  a manovrare, soprattutto spericolatamente, la cloche”.      

La sua esperienza diretta riusciva gli consentiva di  rendere le straordinarie visioni aeree nel sorvolare abitati e campagne, dando corpo a forme e colori, prospettive e angolazioni di grande suggestione nella deformazione data dall’altezza e dalle manovre spesso acrobatiche del velivolo. E anche se più che le proprie sensazioni voleva rendere l’azione dell’aereo nell’atmosfera,  queste emergevano  dalla sua anima che aveva un fondo  espressionista.

Va considerato  che non era solo il volo  interessarlo, ma l’intera “vita” dell’aeroplano, come ricorda Maria Fede Caproni. “Amava volare sia all’aeroclub che su aerei  di linea dell’Ala Littoria”, inoltre  “seguiva l’aereo sin dal suo nascere negli hangar e sul tecnigrafo dei disegnatori”.  Carrello e fusoliera, elica e ala monoplana, longherone metallico e vetri in rodolit non avevano segreti per lui; era presente all’aeroporto del Littorio, e raffigurava anche le personalità di passaggio, Italo Balbo apprezzava queste sue caricature.

Il suo era quindi un aerofuturismo militante, come era stato futurismo militante quello di Marinetti, Boccioni e altri che si erano arruolati volontari per dare un seguito pratico all’esaltazione della guerra come “igiene del mondo”,  salvo restarne delusi.

Le opere di Aeropittura in mostra

Nel visitare la mostra abbiamo conferma che la sua Aeropittura precede il manifesto del 1931, nel quale vede coronato un impegno che  lo vede su questo tema almeno dal 1927 allorché realizza a Ferrara  il grande affresco “La Madonna dell’Aria”  nel palazzo del giornale locale.

Vediamo esposti  lavori preparatori di dipinti con aeroplani, tre del 1928, “Rovesciata”, “Passeggiata a testa in giù” e “Caproni 100 acrobazia”, uno del 1929, “Sensazioni di volo – Terzo tempo”, altri del 1930: “Avvitamento” e “Idro-rosso”, “Passaggio in velocità – Scivolamento d’alta”, e “Aeroplani +  Metropoli”,  fino al più celebre,  “Spiralata”, cioè “Sorvolando in spirale il Colosseo”.

Le visioni dall’alto sono rese come le vedeva nei suoi voli non senza qualche nota caricaturale che rientrava nel suo spirito sapido. Così le descrive Ventura: “Le case a sghembo, le torri straziate, le ciminiere pendolanti, le strade che si dilatano come alvei di un fiume alla foce per diventare una cruna d’ago o gli uomini che punteggiano il piano di una piazza come mosche sul vetro. Un mondo che si accorcia e si stringe  a vista, e sembra che cammini con le gambe in aria”.

Quelle citate sono le opere esposte anteriori al manifesto. La galleria  continua in forme esaltanti con i dipinti degli  anni successivi. Del 1931 vediamo “Lancio con il paracadute (Sensazione di volo)”, “Idrovelocità. Folgore rossa pilotata da De Bernardi” nel record dei 500 km/h,  e “Lo stormo”; del 1932 “Aeropittura n. 1” e “Aeropittura n. 3”;del 1933 “Me ne frego vado in  su” e “Sorvolando Sabaudia”; del 1934 “Me ne frego e vado in su con Savoia Marchetti S 74” e “Splendore meccanico”, fino a “Canta motore va”.

In tutte queste visioni, a differenza di quelle iniziali, soggetto esclusivo è l’aeroplano, visto in primissimo piano particolarmente aggressivo nel movimento e nel cromatismo, mentre  quasi scompare la visione del suolo, e quando c’è un abitato, come Sabaudia, non si notano deformazioni.  Che tornano imperiose in “Spiralata”, 1936, e “Dinamismo di una autocolonna attraversando Firenze”, sono autoveicoli non aerei ma la Cupola del Brunelleschi e il Campanile di Giotto sono ripresi dall’alto quasi in una rotatoria; l’aereo è  di nuovo  in primo piano in “Diavolerie di eliche”.

E’ divenuto il nuovo simbolo del Futurismo, alcuni manifesti di Marinetti del 1934 lo hanno inserito in varie discipline artistiche: dal “Manifesto dell’Architettura aerea” in un supplemento intitolato Aerovita al “Manifesto dell’Aeroplastica futurista”,  fino al “Manifesto dell’Aeromusica sintetica”; è l’anno in cui alla Biennale di Venezia , dove ha una sala tutta per lui, Tato vedrà illustri acquirenti, Mussolini comprerà “Splendore meccanico”, il conte Volpi di  Misurata “Spiralata”, mentre  molti dipinti saranno acquistati dalla provincia di Venezia per  il locale aeroporto e lui ebbe l’incarico di decorare altri aeroporti tra cui quello di Guidonia.

Nel Catalogo della Biennale si legge questo giudizio di Marinetti su Tato: “Egli assolve uno dei compiti dell’aeropittura, quello di far vivere macchinosamente l’aeroplano nell’aria con la sua massa che sembra assolutamente inadatta all’ambiente leggerissimo di aria riflessi luci nuvole”. In effetti, come vediamo nelle opere esposte, riesce a dare una straordinaria leggerezza all’aereo che si libra con le ali aperte come un uccello leggiadro piuttosto che come una macchina pesante.

L’Aeropittura di guerra e da bombardamento

L’escalation continua, all’Aeropittura come ebbrezza di volo libero segue una visione estrema, drammatica: il “Manifesto dell’Aeropittura da bombardamento” e  il “Manifesto d’Aeropittura Maringuerra” pubblicati da Marinetti nel 1940 e nel 1942  ne delineano i contenuti, calando l’arte nella storia  e rinverdendo gli entusiasmi iniziali che portarono agli arruolamenti volontari.  La Margozzi  ricorda quest’escalation riportando alcune parole chiave: all’inizio c’erano la “velocità rivelatrice” e gli “espliciti rumorismi”, negli anni ’30  la “vita metallica  e geometrica del cielo” e la “moltiplicazione all’infinito  di apparecchi e stati d’animo aerei”; ora il diapason  con “un quotidianismo di zuffe  aeree e di sistematici bombardamenti a ripetizione”.

Lo vediamo nelle opere in mostra, con degli antecedenti del 1936,   “Volo notturno”, in un  ambiente corrusco, che troviamo anche in “Legione alata”:  è  l’“Aeropittura di guerra”. Nel 1940 si esprime in modo più esplicito in “Caproni  602 in picchiata su Predappio”   e “Aerosilurante italiana a caccia di torpediniere”, gli aerei sono in un’atmosfera cupa e turbinosa, nel secondo con le striature rosse delle esplosioni; in “Fiat CR 42 in ricognizione” e “Junker Ju 87 su Malta”  siamo ai bombardamenti, nel primo da parte di una squadriglia schierata, con le esplosioni al suolo.

Nel 1940-41 torna la visione pacifica dall’alto con “Aeropittura di Lavagna” e “Aeropittura di Cattaro”,   per quest’ultima località ricordiamo il volo di D’Annunzio affidato alla protezione di San Francesco, allorché il vate si sentì nel “terzo luogo” al di là della vita e della morte. Ma anche le immagini belliche, fino ai bombardamenti, vanno considerate tenendo presente il giudizio di Marinetti, cui si collega il commento della Margozzi: “La partecipazione intellettuale ed emotiva di Tato  non andava tanto alla guerra in sé quanto alle ludiche battaglie aeree che questa poteva far immaginare  a un appassionato dell’aviazione, alla stessa stregua di certi moderni videogames”.

L’ “atterraggio” a Comacchio e l’impennata dell’atomicopittura

Forse pure per questo  non ha subito la “damnatio memoriae”  inflitta  fino al 1955 a Mario Sironi Sironi, che con la Grande decorazione aveva realizzato la trasposizione artistica delle parole d’ordine del regime, anche se  metteva nelle sue opere  apologetiche un senso di tragicità in contrasto con il trionfalismo dei gerarchi cui era inviso. Oltre alla concezione non bellicista della stessa Aeropittura di guerra, i futuristi  si opposero alle leggi razziali del 1938, e  nel 1934  contestarono a Berlino la crociata nazista contro l’ “arte degenerata”. Nessun coinvolgimento nel regime, e la dedica  autografa di Italo Balbo “A Tato, pittore dell’Italia fascista con vivissima simpatia”  è interna all’Aeropittura, venendo dal trasvolatore oceanico più che dal gerarca.

 Nel  1942 le Edizioni futuriste  di “Poesia” pubblicarono “Eroi Macchine Ali contro Nature Morte” mentre si svolgeva la penultima Biennale di Venezia con larga partecipazione futurista, l’ultima quella del 1943.  Il nostro artista pubblicò “Tato racconTATO da Tato. 20 anni di Futurismo”, sentiva che quella esaltante stagione era al termine.

Ma anche se nel dopoguerra si è dedicato ai paesaggi, sono stati “Aeropaesaggi”:  vediamo alcuni oli su tavola del 1948 e 1949,  “Verona periferica” e “Paesaggio in velocità della campagna marchigiana”; così  il “Lago di Penna”, 1959, e “Cremona”, anni ’50,  per “atterrare”  in “Marina” e “Nella valle di Comacchio”, 1959,  i luoghi della sua adolescenza dopo cinquant’anni, c’è  anche un delizioso carboncino e acquerello su carta  “Paesaggio di Comacchio”, del 1960. . 

In questo periodo entra anche l’arte sacra nella sua produzione, con una scenografia della “Natività”  e un’“Ultima cena”  che Ventura commenta così: “Sembra che egli abbia dimenticato rancori e battaglie, ed i motivi polemici che avevano vitalizzato tutta la sua produzione, quasi un’offerta di ex voto di un’anima salvata dalla disperazione”.

Non c’è più il velivolo come protagonista ma il suo punto di osservazione resta in alto,  anche con arditissime prospettive. Scrive la Margozzi: “Tato si accorge che avere perso il suo apparecchio da guerra non significa necessariamente aver perso le ali.; anche se il suo volo , ora, sarà più basso”.

Ha avuto anche un’impennata neofuturista al passo con i tempi,   vediamo “Lampo di esplosione atomica”, presentato alla Prima mostra di atomicopittura nel mondo del 1955.  E’ uno dei motivi per i quali si è detto di lui “è un uomo con sette anime”, e quanto abbiamo ricordato all’inizio sulla vastità del materiale ancora da esaminare lascia pensare che non mancheranno le sorprese.

Giustamente Ventura ritiene necessaria un’antologica completa di dipinti e tempere, acquerelli e ceramiche, disegni e fotografie futuriste con un preciso obiettivo su cui concordiamo: “Illuminare, finalmente, di una luce nuova e ?definitiva’, la complessa personalità del Maestro”.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo. Lunedì,  ore 16,30-19,30; da martedì a sabato 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, tel. e fax 06.69920692. www.galleriarusso.com, info@galleriarusso.com.  Catalogo: “Tato. Sessanta opere del Maestro dell’Aeropittura”, a cura di Salvatore Ventura, con la consulenza e collaborazione di Maria Fede Caproni,  Palombi Editori,  pp. 168, formato 22×22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli per il  Futurismo,  in questo sito su “Dottori” il 2 marzo 2014, e “Chez Marinetti”  il 2 marzo 2013,  in “cultura.inabruzzo.it” nel 2009 su “La mostra del Futurismo a Roma”  il 30 aprile, “A Giulianova un ferragosto futurista”  il 1° settembre, “Futurismo presente” il 2 dicembre; inoltre, in questo sito, i nostri 4 articoli per  la mostra di Mario Sironi al Vittoriano  il  1°, 14, 21 dicembre 2014 e 7 gennaio 2015; e  i nostri 3 articoli per la mostra sul Guggenheim al Palazzo Esposizioni il 21 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, che si ringrazia, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura   “Sorvolando in spirale il Colosseo (Spiralata)”, 1930; seguono  “Rovesciata”, 1928, e “Avvitamento”, 1930; poi “Passeggiata a testa in giù”, 1928-30, e “Aeroplani + Metropoli”, 1930; quindi “Lancio con il paracadute (Sensazioni di volo)”, 1931, e “Aeropittura n. 3”, 1932; inoltre “Me ne frego vado in su”, 1933, e “Sorvolando Sabaudia”, 1934; infine Aeropittura di guerra, “Caproni 602 in picchiata su Predappio”, 1940,  e “Aerosilurante italiana a caccia di torpediniere”, 1940; in chiusura, “Aeropittura di Junker Ju 87 su Malta”, 1940.

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Awangdui, le tombe cinesi del 2° sec. a. C., a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

La mostra “Le leggendarie tombe di Mawangdui. Arte e vita nella Cina del II secolo a. C.” espone a Palazzo Venezia, dal 3 luglio 2014 al  16 febbraio 2015,  76 reperti , del 2° secolo a. C., rinvenuti nel 1972 in tre tombe, insieme al corpo  ben conservato della marchesa di Dai, tra i più antichi pervenuti integri.  Sono oggetti in legno laccato, tessuti dipinti e con scritte, confezioni, con la ricostruzione fotografica dell’eccezionale  ritrovamento. All’allestimento ha partecipato il Museo provinciale dello Hunan, uno dei più importanti della Cina dove sono esposti in permanenza  gli oltre 3000 oggetti rinvenuti,  tra i quali sono stati selezionati i 76 presentati a Roma. La mostra è a cura di Zhen Shubin, del museo citato, che ha compilato anche il Catalogo,  Edizioni Zhonghua Book Company;  ha il patrocinio dei Ministeri della cultura di Italia e Cina, che hanno concorso all’organizzazione, con la Soprintendenza speciale di Roma; è coordinata da MondoMostre.

E’ la 2^ Mostra sulla civiltà cinese, la 1^ è stata “La Cina arcaica”, ne seguiranno altre tre previste dal Memorandum d’intesa dei Ministri della cultura nell’ambito di  intensi scambi culturali che comprendono la presenza rispettivamente a  Palazzo Venezia per l’arte cinese e nel Museo Nazionale di Pechino a Piazza Tian’ an men. per l’arte italiana.

Oltre alla mostra “La Cina arcaica”,  a Palazzo Venezia ci sono state  le mostre “I due Imperi. L’Aquila e il Dragone”,
sullo scultore “Weishan” e su “Cina. La pittura moderna oltre la tradizione”; ricordiamo anche le altre mostre sulla civiltà cinese, sempre a Roma, al Palazzo Esposizioni  “La via della seta” e al Vittoriano  “Visual China”.  Nel Museo Nazionale di Pechino a  piazza Tian’ an men  si svolge la mostra “Roma/Seicento: verso il barocco”, dopo la mostra del  2012  “Il Rinascimento a Firenze: Capolavori e protagonisti”. Un gran numero di  manifestazioni e incontri culturali si sono avuti in diverse città italiane nel 2010, “Anno della Cina in Italia”.

L’interesse della mostra 

La storia del  ritrovamento delle tombe con lo sterminato corredo funerario di 3000 oggetti in esse contenuto è di per sé appassionante. Proprio per questo le vicende della scoperta sono il contenuto della 2^ sezione della mostra, mentre la 1^  sezione è sulle antiche leggende, in  preparazione alla 3^ sezione, in cui sono esposti i preziosi reperti, corredati da riferimenti alla storia e alla scoperta.

Nel nostro resoconto seguiremo questo stesso ordine, studiato per accrescere l’interesse del visitatore, si pensi che l’allestimento permanente delle tombe di Mawangdui al Museo provinciale dello Huan è stato ritenuto uno dei dieci migliori allestimenti museali del paese, e che questi reperti sono stati selezionati di volta in volta per almeno 30 mostre temporanee incentrate su tematiche diverse in Cina e all’estero, con 30 milioni di visitatori; in Italia alcuni oggetti sono stati presentati nelle mostre “I due Imperi” e  “La via della seta”, qui vi è un campionario di 86 pezzi pregiati che consente di delineare il quadro della vita e della civiltà nel periodo storico considerato.

I pezzi esposti sono stati selezionati per testimoniare, abbinati ai cartelli esplicativi e con l’ausilio di proiezioni video, la storia e la civiltà che riflettono, oltre alle vicende degli scavi e ai risultati ottenuti dall’archeologia cinese con il rinvenimento e gli studi successivi. In tal modo la visita fa rivivere i momenti delle scoperte, oltre a presentare i preziosi reperti.

Vennero alla luce 3 tombe, con un corredo funerario di oltre 3000 oggetti, tessuti e legni laccati, sete dipinte e manoscrittr, bronzi e porcellane, nella 1^ tomba un sarcofago quadruplo con la salma della Marchesa di Dai integra,  non del tutto disidratata e dai tessuti non completamente irrigiditi.

E’ stata la più antica rinvenuta in tali condizioni, per cui si sono potuti fare studi di patologia medica;  e sui materiali del corredo funerario studi sulla disidratazione delle lacche e sui processi di conservazione.  L’importanza del rinvenimento è stata tale da essere paragonato a quello della tomba di Tutankamon in Egitto, forse la più famosa al mondo.

Sono stati scritti oltre 300 libri e 4000 articoli sulle ricerche effettuate sui materiali rinvenuti da più di 2600 ricercatori Viene affermato con orgoglio da Zheng Stubin, il curatore del Museo Provinciale dello Huan, che “ad oggi non c’è stata nessun’altra scoperta archeologica  in grado di attirare un numero così grande di esperti  affrontata in maniera così multidisciplinare”. Ha fatto luce sulla civiltà del primo periodo della dinastia Han, così importante che “alcuni studiosi sono arrivati perfino a ipotizzare la formulazione di una disciplina scientifica focalizzata unicamente sullo studio delle tombe  di Mawangdui chiamata appunto “Studio di Mawangdui” (Mawangduixue)”. .

A questo punto l’interesse aumenta, se ne vuole sapere di più, e l’allestimento soddisfa  la curiosità perché il filo conduttore  è, lo ripetiamo, la storia sottesa alla mostra, le antiche leggende e i segreti millenari svelati, insieme alle vicende di un ritrovamento così straordinario, come premessa ai preziosi oggetti esposti nelle apposite vetrine e loro corredo.

I 76 pezzi esposti sono  tra i più pregiati dei 3000 rinvenuti, e consentono di delineare visivamente la vita nella lontana epoca, il grado di civiltà e  gli usi funerari

Identificazione della  tomba e dell’epoca storica

Iniziamo  con le “Antiche leggende su Mawangdui”, raccontate nella 1^ sezione, una storia di 2000 anni, avvolta nel  mistero.  Nella “Geografia universale dell’era Taiping”, testo dell’epoca Song  intorno all’anno 1000, Mawangdui è chiamata “Tomba delle due donne”   perché il re di Changsha, il capoluogo, all’epoca della dinastia degli Han  occidentali (dal 206 a. C. al 25 d. C.), vi aveva fatto seppellire due delle concubine del padre, una delle quali la propria madre naturale. 

Negli  “Annali del distretto di Changsha”  scritti nel periodo della dinastia dei Qing (1644-1911), Mawangdui è indicata come tomba della famiglia del  Re di Chu, Ma Yin (853-930), con il nome di “tumulo del re Wang”.  Due datazioni molto diverse che accentuano il clima di mistero.

Si conclude che siamo nell’epoca Han, e  nelle tombe di Mawangdui  c’erano le sepolture della famiglia del Marchese di Dai, quindi il primo della stirpe, Li Cang,  la moglie Xin Zhui e uno dei figli. La salma trovata nella tomba n. 1 è stata identificata recando un sigillo con il nome, Xin Zui e uno stampo con scritto “consorte del Marchese di Dai”, morta intorno al 163 a. C. all’inizio del regno dell’imperatore Wen dell’era Houyuan; il Marchese  era stato primo ministro dello stato di Changsha, carica conferitagli per benemerenze militari alla fondazione della dinastia degli Han occidentali.  Era lui l’occupante della tomba n. 2, ma essendo stata profanata, vi sono stati trovati pochi reperti tra cui un sigillo che ha consentito l’identificazione. In uno stendardo trovato nella tomba c’è l’immagine della donna sepolta,  Nella tomba n. 3 c’era il figlio, morto all’età di 30 anni, nel 168 a. C., era stato ufficiale nella repressione delle insurrezioni, ne sono stati rinvenuti i resti del corpo in decomposizione..

I primi scavi,  la tomba n. 1

Gli scavi furono essi stessi un evento, per le circostanze che li originarono e la mobilitazione nazionale che ne seguì.  Nella 2^ sezione, prima dei “Segreti millenari disvelati da antiche tombe”, si rievocano le fasi dei lavori, che spaziano per vent’anni , dai primi indizi agli scavi effettivi.

Siamo nel 1952, un celebre archeologo, Xia Nai, con gli studiosi dell’Istituto di archeologia appena istituito nell’Accademia cinese delle scienze sociali, fece degli scavi a Chaungsha, capitale dell’attuale  provincia del Huan, nella Cina meridionale, attirato dall’esistenza di due tumuli la cui forma richiamava la sella di cavallo,  denominati Mawangdui, come la località dove si trovavano; ipotizzò che potessero esservi tombe del secondo secolo a. C., ma tutto si fermò  al livello di ipotesi.

Vent’anni dopo, come nei romanzi d’appendice: 1972,  è in atto la Rivoluzione culturale cinese,   l’ossessione della  difesa dalla guerra che avrebbero scatenato i paesi capitalisti portava a scavare  rifugi sotterranei e accumulare  viveri, a Pechino ne furono realizzati molte migliaia. Uno di questi scavi per il rifugio di un ospedale e alcuni fuochi fatui, fiammelle blu per la fuoruscita di gas,  rivelarono  l’esistenza  delle tombe.  

I lavori  per la prima tomba furono effettuati dagli archeologi che stavano “rieducandosi” con il lavoro manuale nelle campagne, secondo l’imperativo della rivoluzione culturale, richiamati dal  Museo provinciale dello Huan, e si può presumere che accorsero entusiasti di tornare al loro lavoro;  vennero mobilitati gli studenti di ogni classe e i reparti dell’esercito Popolare di Liberazione stanziati nella città, capoluogo della provincia; le miniere e le imprese locali fornirono strumenti e attrezzature per gli scavi, l’inizio quindi fu in sede locale. Per  liberare la tomba furono rimossi 6000 metri cubi di terra, che andarono a formare un tumulo alto 16 metri e dal diametro di  30.

Le  immagini fotografiche danno un’idea di questa prima fase dei lavori, si vede il grande scavo a gradoni per la tomba n. 1, trovata intatta,  poi le casse contenenti il corredo funerario ai lati della struttura lignea, quindi i diversi strati di sarcofago fino alla salma  avvolta in tessuti di seta dopo l’apertura del sarcofago interno, un bianco e nero che rende immediatezza e spontaneità. .

Le tombe n. 2 e 3  e la mobilitazione

Dopo quattro mesi,   nei quali venneto  alla luce manoscritti che fecero parlare di “Biblioteca sotterranea”, furono investite le autorità centrali e si impegnò personalmente anche il primo ministro Zhou Enlai; mobilitati i massimi  archeologi e studiosi  della Cina,  gli scavi proseguirono con criteri scientifici. La mobilitazione  fu tale da far dire che erano state impiegate “le forze dell’intera nazione”,  l’evento non ha precedenti  nell’archeologia di quello sconfinato continente.

L’importanza dei ritrovamenti diede impulso ad ulteriori ricerche archeologiche. Il  ruolo degli studiosi è stato fondamentale perché ne sono derivate importanti conoscenze sul recupero di reperti delicati e sulla loro salvaguardia, sulla ricerca multidisciplinare, la diffusione e organizzazione delle conoscenze scientifiche nonché  sulla sistemazione della documentazione archeologica.

Anche per le  tombe n. 2 e n. 3 , per le quali la mobilitazione è stata generale, c’è una vasta documentazione fotografica, che attesta anche il ritrovamento delle vanghe di ferro utilizzate per la costruzione delle tombe e di idoli rudimentali posti a guardia delle stesse.  Le fotografie sono anche a colori, mostrano la presa di coscienza dell’importanza dell’evento:  si vede la rimozione della copertura esterna e il lavoro di recupero e schedatura nonché l’attività degli studiosi nei prelievi di materiale da analizzare;   fu costituita una squadra specializzata sulla cui attività non mancano le immagini.

Sono anche fotografati i sigilli che hanno consentito di identificare con certezza soggetti ed epoca, e le tavolette lignee con resoconti storici  trovate nella tomba n. 3. L’epoca è alla fine del 2° secolo a. C., in Cina la dinastia degli Han, il territorio diviso  in Stati feudali e la capitale nell’odierna Changsha, il primo ministro era l’occupante della tomba Li Cang, con il compito di difendere i territori meridionali.

Gli oggetti in legno laccato

E ora, dopo questa preparazione sulle vicende del ritrovamento e la ricostruzione del periodo storico , finalmente i reperti, per ognuno dei quali è indicata la tomba di provenienza:  una balestra in bronzo intarsiato d’oro, una spada, una lancia e un’ascia in  corno di bue aprono .la carrellata. Ma è solo l’inizio, spettacolari gli oggetti in legno laccato e i tessuti decorati, miracolosamente pervenuti  in buono stato di conservazione dopo altre 2000 anni. Sono quelli selezionati dal vastissimo materiale rinvenuto che comprende anche ceramiche e strumenti musicali, strutture lignee e sarcofaghi, oltre a resti di cibo 

I manufatti in lacca policroma rinvenuti sono oltre 700, testimoniano l’età d’oro di queste produzioni in Cina, il primo paese ad adottarle 8000 anni fa; si svilupparono tra il declino del bronzo  e l’avvento della ceramica, riservati alle classi agiate dati gli alti costi.  Quelli rinvenuti nelle tombe sono di squisita fattura e rappresentano il livello più alto raggiunto, hanno decorazioni eleganti e raffinate anche  di tipo nuovo.  Vediamo oggetti in legno laccato decorati con motivi “a nuvola”: 2 contenitori per vivande e 2 fiasche per alcolici del tipo  fang e zhong, un vassoio  del tipo yi , un vassoio e 5 piatti.

Troviamo anche scritte augurali sugli oggetti usati a tavola:  “Vino della fortuna per il principe” considerato l’equivalente del nostro “Alla salute”   è  in una coppa ovale e in un bicchiere cilindrico; “Cibo della fortuna per il principe”, cioè il nostro “Buon appetito” in 2 coppe ovali con manico ad orecchio. C’è anche un contenitore di coppe e un piatto decorato con  figure di gatti  e una  tartaruga.

La serie degli oggetti laccati per il pasto è completata dall’immagine del ritrovamento di piatti e bicchieri nel vassoio, vediamo sia la fotografia sia tale collocazione degli oggetti esposti. Il calco di un bassorilievo di pietra dell’epoca, fotografato, ci dà l’immagine di un banchetto di allora.

Non solo oggetti in legno laccato per il pasto, anche per la cura della persona: tali sono il contenitore rotondo per cosmetici a due livelli, e decorazioni a spirale, rinvenuto con dentro uno specchio di bronzo; e un astuccio per cosmetici con decoro dipinto a piccoli coni.

I tessuti  in seta  e lo stendardo funerario

Terminata la carrellata dei legni laccati, risplendenti nei loro lucidi contrasti cromatici, inizia la sfilata  degli straordinari tessuti decorati e  confezionati, con scritte dipinte.

A coppie citiamo i tessuti decorati: quelli di mussola con decorazioni “a fiammelle” e  motivi fitomorfo; quelli in seta damascata con decorazioni di losanghe vermiglie e del motivo  della “rondine migratrice”; i tessuti in  seta finissima ricamata “a nuvole cavalcate da fenici” e con il “fiore di corniolo”,

Le confezioni presentano un paio di guanti in seta damascata e un paio di calzini foderati in seta, una gonna in seta finissima e una veste imbottita in seta damascata con decorazioni sulla longevità.

Siamo ad oltre 2000 anni fa e sembra una cronaca mondana di attualità. La meraviglia continua con i tessuti in seta recanti scritte, chiamati “manoscritti su seta”: omettendo i termini di derivazione cinese, diciamo che un tessuto reca la scritta del “classico dei mutamenti”, interpretati secondo i principi dell’universo e un altro la scritta dei “Quattro classici dell’Imperatore Giulio”, testo filosofico dell’antica Cina che si pensava fosse perduto; il terzo tessuto “Aneddoti e discorsi del periodo Primavere e Autunni”, il quarto riguarda il “Classico sull’identificazione dei purosangue”, il quinto “La divinazione attraverso l’interpretazione dei fenomeni astrologici e atmosferici”.

Sono di piccole dimensioni, 30 x 20 cm, ma fitti di iscrizioni preziose per ricostruire la vita e le credenze di allora. Imponenti sono invece le dimensioni dello “Stendardo funerario in seta dipinta  a forma di T” lungo oltre 2 metri.  E’ in seta, vi è rappresentato il viaggio nel mondo dei morti verso l’immortalità. Nella parte superiore larga 90 cm, una visione cosmica con figure mitologiche e la divinità,  nelle parti inferiori, larghe circa 50 cm, al centro il mondo terreno con l’immagine della defunta tra le ancelle e riverita d personaggi,più in basso il mondo sotterraneo, un’immagine ossessiva con animali da incubo. E’  la visione cosmogonica dei cinesi con l’anima che sopravvive al corpo  e accede al regno celeste in un viaggio che lo stendardo  mostra tra la realtà, il mito e la fantasia, da un sottosuolo allucinante a un empireo luminoso.

La figura della marchesa di Dai

E siamo al clou della mostra, abbiamo  ripercorso alcuni aspetti della vita quotidiana degli occupanti il sito funerario, una famiglia nobile e potente, quindi con l’uso dei preziosi oggetti di legno  laccato decorato per il pranzo e per la cura della persona, oltre ad alcune armi primitive; e le credenze e i principi nelle sete manoscritte, fino allo stendardo che riassume la credenza nell’immortalità dell’anima e nel viaggio nell’oltretomba verso la divinità.

Ora la figura della marchesa di Dai, Zin Zhui: ci si presenta nella ricostruzione del corpo basandosi sul ritrovamento, così  quanto abbiamo visto come reperto archeologico prende vita.  La ricostruzione si è avvalsa delle tecniche più avanzate  per dare sembianze umane a quanto rilevabile dallo scheletro e dai tessuti nonché dalla figura dipinta sullo stendardo funerario. Lo stato di conservazione della salma è  il risultato del perfetto isolamento delle tombe dagli agenti esterni:  la struttura di legno  di protezione  era coperta da carbone vegetale e da uno strato di argilla bianca di un metro,  coperto  da terra pressata. Un ambiente senza ossigeno,  con temperatura e umidità mantenute stabile. E’ stata trovata intatta anche per un metodo di conservazione diverso dagli altri conosciuti, né mummificazione né saponificazione: così i  tessuti erano ancora molli, le articolazioni in parte mobili, i peli attaccati alla  pelle, anche il timpano intatto e le vene delle mani e dei piedi visibili. La mostra  riporta questi dati e le immagini del sarcofago al rinvenimento, chiuso e poi aperto, fotografie storiche.  

Ma noi siamo calamitati dalla statua della marchesa in piedi in tutto il suo splendore:  alta 1,58, dall’aspetto dignitoso, il volto delicato con grandi occhi, le vesti decorate con ricchezza. E’ come se avessimo visitato la sua casa e ora stiamo per prendere commiato da lei. Lo facciamo con una qualche emozione, aver percorso duemila anni sulla macchina del tempo non è poco. Grande è, quindi, il merito della mostra, per il suo contenuto valorizzato dal magistrale allestimento.

Info 

Palazzo Venezia, Via del Plebiscito 118, Roma. Da martedì a domenica, ore 10,00-19,00, lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 4,00, ridotto euro 2,00. mTel.  06.69994218. http://www.museopalazzovenezia.beniculturali.it  Catalogo: “Le leggendarie Tombe di Mawangdui. Arte e vita nella Cina del II secolo A. C.”, Edizioni Zhonghua Book Company, maggio 2014, pp. 176, formato 22 x 28, bilingue, italiano e cinese. Per le altre mostre sull’arte cinese cfr. i nostri articoli: in questo sito  sulle mostre al Vittoriamo  “Visual China” il 17 settembre 2013,  a Palazzo Venezia “Oltre la tradizione. I Maestri della pittura moderna cinese”  il 15 giugno 2013 e sullo scultore “Weishan”   il 24 novembre 2012,  a Palazzo Esposizioni sulla “Via della seta” il  19, 21 e 23 febbraio 2013, inoltre sull”incontro all’Ambasciata cinese il 1° aprile 2013;  in “notizie.antika.it”  su “L’Aquila e il Dragone” il   4 e 7 febbraio 2011; in “cultura.abruzzoworld.com” sull'”Anno culturale cinese” il  26 ottobre 2010  e 2 articoli sulla “Settimana del Tibet” il  21 luglio 2011.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Venezia, si ringraziano gli organizzatori, in particolare Mondomostre e il Museo provinciale di Hunan, con i titolri dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Fiasca per alcolici”  in legno laccato con motivi “a nuvola”, seguono “Contenitori” in legno laccato e dipinto e un “Vassoio e “Piatti” sempre in legno laccato con motivi “a nuvola”; poi un “Tesuto in seta” decorato e una “Lanterna in bronzo a forma di bufalo,  infine lo “Stendardo funerario in seta dipinta a forma di T” e, in chiusura, la “Statua che ricostruisce l’aspetto di Xin Zhui”.

Viet Nam, si presenta per l’Expo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Dal 12 al 26 gennaio 2015  al Vittoriano “Il Viet Nam si presenta – Lo spazio culturale del Viet Nam”, la mostra allestita nell’ambito del progetto “Roma verso l’Expo”, che “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e Zétema-Progetto Cultura realizzano da ottobre con mostre sui vari paesi nella prospettiva della grande esposizione milanese. Presentati finora San Marino, Slovenia ed Egitto, Albania e Serbia al Vittoriano, Kuwait, Israele, e Principato di Monaco a Fiumicino. Nei giorni della mostra le “Giornate culturali Vietnamite a Roma”, con due seminari sulla Cooperazione tra Italia e Viet Nam in campo turistico ed economico, una Tavola rotonda sul settore del cinema, e un Festival del film vietnamita alla Casa del cinema..

Roma è una  vetrina straordinaria, è la città Capitale, meta di imponenti flussi turistici per il suo eccezionale patrimonio archeologico e artistico, è la sede delle Ambasciate e degli Istituti di cultura di tutti i paesi. L’iniziativa “Roma verso l’Expo” associa i due poli principali, non dimentichiamo che Milano è stata chiamata la capitale morale: mostre, conferenze e incontri preparano a Roma la kermesse milanese presentando i singoli paesi con sullo sfondo il panorama mondiale dei 140 partecipanti. Perciò è stato allestito e presentato in modo adeguato un apposito spazio all’Aeroporto Internazionale di Fiumicino con i plastici dei principali padiglioni, una forma di accoglienza dei turisti nella Capitale con un invito allettante a ritornare per l’Expo milanese.

Un’occasione perduta dal Comune di Roma

Una visione mondiale, quindi, per questo avevamo considerato lungimirante l’annuale addobbo natalizio  del Comune lungo il Corso di Roma, la direttrice più frequentata da piazza Venezia a piazza del Popolo.  Nel 2011 erano festoni luminosi con i colori della nostra bandiera per celebrare visivamente in una forma luminosa e festosa l’anniversario dell’Unità d’Italia; quest’anno la successione delle bandiere di tutto il mondo in un rutilante splendore cromatico lungo tutto l’itinerario.

Ma se lungimirante è stato l’allestimento, non è stata tale l’eliminazione di tale addobbo il giorno dopo l’Epifania: è vero che “tutte le feste si porta via”, secondo l’adagio popolare, ma non porta via di certo la mobilitazione romana per l’Expo milanese, anzi questa si svilupperà nei prossimi mesi e proseguirà anche durante la manifestazione nella seconda metà dell’anno.

E allora perché eliminare questa forma festosa che avrebbe ricordato quotdianamente la manifestazione, italiana e non solo milanese a tutti, romani e turisti, nella via più centrale e frequentata della Capitale, oltre agli allestimenti del Vittoriano o di Fiumicino di volta in volta concentrati sui singoli paesi? Un’occasione perduta, ed è sorprendente perché Roma Capitale è il primo promotore, con la regione Lazio, Unioncamere e i ministeri interessati; e il sindaco Marino aveva partecipato attivamente all’inaugurazione dello spazio Expo a Fiumicino, con il commissario Sala, il sindaco di Fiumiciono e il presidente dells società che gestisce l’Aeroporto; peccato che non abbia coronato l’impegno di Roma Capitale per l’Expo mantenendo i festoni luminosi.

La presentazione della mostra vietnamita

Merita un’attenzione particolare la presentazione della mostra al Vittoriano, tutt’altro che rituale perché sono state delineate le prospettive della cooperazione tra Italia e Viet Nam nei vari campi, anche se per accenni; ascinado l’approfondimento agli appositi seminari e alla tavola rotonda organizzati nelle Giornate culturali vietnamite che si svolgono contestualmente alla mostra. .

Del campo economico ha parlato il vice presidente della Confindustria Daniel Kraus, soffermandosi sulle favorevoli possibilità di collaborazione soprattutto nelle infrastrutture di trasporto, compresi porti e aeroporti, e nel settore energetico, in particolare le centrali elettriche, dove il Viet Nam ha in programma investimenti dell’ordine di 15 miliardi di dollari; alle disponibilità economiche si associa una manodopera giovane, di alta scolarizzazione e di qualità., a costi molto competitivi, in un’apertura all’economia di mercato che rende possibili interventi in partnership pubblico-privato. 

Oltre al campo infrastrutturale, sono state citate le macchine per l’industria tessile e delle calzature con l’iniziativa apripista di creare centri di formazione nell’ambito dell’ammodernamento in corso; opportunità anche nel settore ospedaliero e della medicina a distanza.

L’alto tasso di crescita dell’economia del paese garantisce che molte opportunità diventino concrete, d’altra parte la presenza degli imprenditori italiani e la loro attenzione è già rilevante; lo documenta con dati molto significativi l’opuscolo che contiene un vademecum su come fare affari in Vietnam preparato nel 2013 l’anno del Vietnam. .

Della collaborazione in campo culturale e turistico ha parlato Antonio Barreca, direttore generale di Federturismo: sarà favorita dal dinamismo economico del paese e dalla crescita della classe media che comporta un aumento dei flussi turistici. Al riguardo è importante il potenziamento dei collegamenti aerei diretti, in particolare sulla direttrice dal Viet Nam a Roma – Venezia – Firenze. .

Sulla collaborazione nella moda si è soffermato Dominella, della Maison Gattinoni, come rappresentante degli stilisti italiani nel Consiglio per la moda Italia-Vietnam, ricordando le iniziative già effettuate e quelle in programma, con interscambi fecondi, come visite in Vietnam, l’ospitalità a giovani stilisti e presentazioni della moda vietnamita in Italia. La moda  è associata anche al cinema, come nelle iniziative  “Hollywood sul Tevere” e “Cinema e moda” ad Hanoi, con film italiani ed abiti per il cinema.

Anche Stabile ha parlato del cinema come veicolo della moda e più in generale come promozione della cultura, ora il cinema vietnamita è autonomo mentre prima era nell’area francese, sono già in programma delle iniziative nel paese asiatico.

E’ d’obbligo a questo punto precisare il programma del Festival del Film Vietnamita: i 4 film presentati sono “La Guerriera cieca” e “Huang Ga”, I figli del villaggio” e “Vivere con la storia”, vengono proiettati in 3 sale della Casa del cinema a Villa Borghese dal 15 al 18 gennaio in due spettacoli alle 20 e alle 22, ogni film viene proposto cinque volte. Un’occasione per conoscere un cinema giovane e lanciato; alla tavola rotonda la presenza di produttori e attori vietnamiti.

Infine Corrado Ruggeri ha parlato con l’ammirazione di un viaggiatore che ha visitato tanti paesi nel mondo ed è stato colpito in particolare dal Viet Nam. “Un paese con una natura straordinaria, cultura e arte, ha fatto passi da gigante nella lotta alla povertà ed è progredito sotto il profilo problematico del rispetto dei diritti umani”, ha detto. Per concludere: “Un paese di cui posso dire che forse non è il più bello che ho visto ma quello che ho amato di più; un paese dalla forte determinazione dove sorridono agli occidentali”. Detto da lui è un importante riconoscimento.

Determinazione e sorriso sono incarnati nella figura dell’ambasciatore Nguyen Hoang Kong, che ha diretto la presentazione aggiungendo di volta in volta le proprie valutazioni con uno spirito di iniziativa e di operatività palpabile insieme a un atteggiamento più che accattivante, entusiasta. E’ stato Il miglior biglietto da visita per un paese giovane e determinato, e la migliore premessa per lo sviluppo della collaborazione con l’Italia: il suo perfetto italiano è già una elemento positivo perché dimostra  l’attenzione per il nostro paese e la  conoscenza della nostra storia e della nostra cultura.

Gli intervenuti hanno sottolineato questi pregi, e la simpatia per l’Italia come sicura  garanzia per trasformare in iniziative concrete le prospettive di collaborazione e di attività nei vari campi.

La mostra al Vittoriano

Ed ora la mostra al Vittoriano, che presenta il paese: cartelli illustrativi con dati che ne rendono l’importanza, 90 milioni di abitanti, la metà dei quali inferiori a 35 anni, un popolo in maggioranza di giovani laboriosi, ben istruiti e cordiali,  con un’economia e una società in rapida trasformazione, uno dei paesi più dinamici del Sud Est asiatico.

L’immagine del passato era del paese diviso in due, dilaniato dalla guerra interminabile, un dramma senza fine per gran parte della seconda metà del  secolo scorso rimasto nella memoria di tutti; è stato difficile  rimarginare le ferite, in Oriente e Occidente. Dopo la riunificazione del paese oggi si ha un’immagine di pace. E’ una Repubblica socialista stabile, aperta all’economia di mercato, popolazione in aumento, crescita del benessere, . Oltre alle opportunità del proprio vasto mercato,  costituisce un ponte verso il mercato ben più vasto di 600 milioni di consumatori dell’intero Sud Est asiatico..

Ma questo solo per un inquadramento generale: la presentazione del paese è  mirata alle bellezze paesaggistiche, e ai segni di una civiltà millenaria, nonché alle ricchezze culturali e artistiche in cui la tradizione si sposa con la modernità. Tutto è reso da  grandi cartelli illustrativi sulle “10 migliori attrazioni turistiche del Vietnam”: le montagne a nord con i boschi,  e le risaie a terrazze, le spiagge lungo la  costa centrale e la Baia di Ha Long, le attrazioni avventurose degli altipiani centrali e i viaggi alla ricerca del patrimonio tradizionale, Hoi An  e il santuario di My Son: splendide riprese fotografiche completano la presentazione .

Nelle vetrine e nelle pareti sono esposte produzioni locali, dai tessuti e tappeti ai broccati, dalle ceramiche ai prodotti laccati,  fino a piccole figure tradizionali. Inoltre c’è uno spettacolare plastico del padiglione per l’Expo milanese “Water and Lotus”,  in una sezione dedicata all’impegno del Vietnam su temi come l’agricoltura e la gestione dell’acqua, sviluppo sostenibile e  tecnologie.

Un complesso musicale in costumi caratteristici e con strumenti della tradizione ha accompagnato presentazione e inaugurazione della mostra con melodie orientali e  l’omaggio di melodie italiane.  Non c’è che dire, una bella presentazione culminata a sera nell’inaugurazione dove musica e specialità vietnamite si sono mescolate al panorama di Roma dalla terrazza del Vitttoriano. .

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali. Tutti i giorni, compresi i festivi e il lunedì,  dalle 9,30 alle 19,30, entrata consentita fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06. 6780664.  Cfr. in questo sito i nostri precedenti articoli sul programma “Roma verso Expo”, in particolare per “Egitto e Slovenia”  l’8 novembre e  per “Albania e Serbia” il   9 dicembre 2014; e i successivi, è previsto un articolo su  “Estonia” all’inizio di  febbraio 2015. .         

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Complesso del Vittoriano, alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” e Zétema, con l’Ambasciata del Vietnam e  i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura il plastico del Padiglione vietnamita all’Expo di Milano “Acqua e Loto”, seguono un abito e dei tappeti, poi  dei gong tradizionali  e 3 foto di prodotti tipici dell’artigianato, infine un cartello su una delle 10 migliori attrazioni turistiche; in chiusura una componente del complesso musicale vietnamita mentre suona il suo caratteristico strumento all’ingresso della mostra.

Secessione, l’arte in Italia nel 1905-15, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale di Arte Moderna, dal 31 ottobre 2014 al 15 febbraio 2015,  la mostra “Secessione e Avanguardia  – L’arte in Italia prima della Grande Guerra 1905-1915” presenta in 15 sale ben  170 opere non solo di artisti italiani ma anche di  artisti delle “secessioni” estere, in particolare a Monaco e Vienna:  francesi e spagnoli, che hanno influito sulla “secessione” italiana,   a Venezia e Roma, poi a Firenze, Napoli, Milano. A cura di Stefania Frezzotti, Catalogo Electa.


Abbiamo visitato la mostra con la guida colta e competente di Matteo Piccioni,  che ha illustrato le 15 sale espositive  soffermandosi sugli influssi tra gli artisti e sulle derivazioni stilistiche delle opere esposte,  collegamenti che danno il senso della mostra delineando il percorso culturale della ricerca, reso esplicito e trasparente dalla sua narrazione. Gli siamo grati per aver potuto fruire di una lettura così approfondita e rivelatrice da costituire un  valore aggiunto rispetto ai cartelli
illustrativi che accompagnano il percorso tra gli artisti della “secessione” sala per sala.

E’ una mostra sorprendente per ricchezza espositiva e interesse culturale,  espressione di una ricerca accurata sul primo
quindicennio del ‘900, tormentato  dal punto di vista politico e sociale – sfociò nella Grande Guerra – e movimentato dal punto di vista artistico perché   la “Secessione” intendeva superare  la tradizione senza  fare piazza pulita dell’esistente
come volevano fare le avanguardie.

La linea anti tradizionalista è contro i criteri delle Accademie alla base delle scelte operate nelle esposizioni della Biennale di Venezia e delle Mostre degli “Amatori e Cultori”, che rifiutavano le opere più innovative.  Di qui la “secessione” dall’arte ufficiale e le contro-manifestazioni con le “Mostre dei rifiutati”.  I centri della reazione anti accademica erano Venezia e Roma, poi la reazione si estese a Firenze, Napoli e Milano. Storia, arte e cultura ebbero profondi mutamenti nel periodo considerato, 1905-15, si pensi al passaggio dalle tematiche sociali a quelle nazionalistiche con un linguaggio in cui le suggestioni venute dall’oltralpe si incrociavano con i sentimenti
nazionali, di qui l’interventismo.

Inizia la mostra  con l’evocazione di un momento storico identitario: fu inaugurato il Vittoriano, il grande edificio monumentale dedicato a Vittorio Emanuele II, dove fu posto l’altare della Patria e il sacello del Milite ignoto;  nello stesso
anno  ci fu l’Esposizione internazionale di Arte a Valle Giulia, altro luogo divenuto simbolo per l’arte italiana. Siamo
nel 1911, si celebra il cinquantenario con la guerra coloniale in Libia, oggetto di forti polemiche tra interventisti e neutralisti.

Sul piano dell’arte particolarmente espressivo il fregio di Eduardo Gioia per l’atrio del Padiglione delle Feste di Piacentini, grandi immagini celebrative dell’“Italia vittoriosa con la Forza e l’Intelligenza”, una figura femminile giovane e determinata, circondata da statue di bronzo della Vittoria  e intorno le Muse, è protettrice delle Arti: Più che una figura retorica  è un’immagine classica del senso patriottico di italianità. Il fregio è in alto sulle pareti nella 1^ sala della mostra dove vi sono cartelli che ripercorrono i principali eventi artistici e storici del periodo considerato.

Boccioni e Severini con Balla divisionista,  Pellizza da Volpedo e l’impegno sociale

La mostra fa poi un passo indietro, nella 2^ sala si torna all’inizio del secolo, allorché Boccioni e Severini giunti a Roma nel
1901  frequentano lo studio di Balla, in quel periodo divisionista.  Si manifesta presto la loro personalità artistica e la loro vitalità: nel marzo 1905, non essendo state accettate le loro opere all’Esposizione della Società Amatori e Cultori, nonostante
Balla facesse parte della Giuria,  le presentano in un’esposizione alternativa nel foyer del Teatro Costanzi, la “Mostra dei Rifiutati”  e per protesta si trasferiscono a Parigi in contatto con le avanguardie. Tra le opere ivi esposte l’“Autoritratto”, 1905,  di Severini,  vediamo in mostra il “Ritratto della madre”, 1901, di Giacomo Balla, e “Il Chiostro”, 1904, di  Boccioni,   con gamme cromatiche in stile divisionista.

Divisionista anche  Carrà che realizza su commissione della Cooperativa  Pittori e Imbiancatori di Milano, “L’Allegoria
del Lavoro”
, 1899,  lo vediamo esposto con la figura simbolica dell’operaio che spicca  come un eroe vittorioso con i suoi strumenti come l’incudine e il martello; è il periodo delle istanze sociali in presenza di intense agitazioni sindacali.

Queste istanze sono espresse nella massima evidenza nella 3^ sala, con lo “Studio per il ‘Quarto Stato”, 1899, esposto fin dal 1902 a Torino e nel 1907 a Roma, archetipo dell’arte di impronta sociale, simbolo della classe operaia in marcia nel progresso economico e nella giustizia sociale. L’autore, Pellizza da Volpedo,  diceva che non ci si poteva più limitare a fare l’Arte per l’Arte, si doveva fare l’Arte perl’Umanità.  Questa ed altre opere del periodo incarnano gli ideali umanitari basati sull’egualitarismo  e il solidarismo, su cui sono impegnati molti artisti tra cui Balla. 

I testi di scrittori tedeschi e russi venivano seguiti dal gruppo di letterati tra cui Sibilla Aleramo e di artisti  tra cui Cambellotti, Cena e Prini, oltre a Balla. L’interesse si era accentuato con la traduzione in italiano, nel 1899, del
saggio di Leone Tolstoi “Che cosa è l’arte”, dove le si davano connotati morali, non solo estetici, e la funzione
pedagogica di migliorare le condizioni di vita della società. Vediamo  esposti un “Ritratto di Tolstoi”, in veste contadina con un aratro,  opera di Balla, in omaggio allo scrittore russo che aveva creato le prime scuole per contadini, lui di origini aristocratiche;  e la  grande scultura di Cambellotti, “La fonte della palude”, 1912-13, che evoca la Paludi Pontine, restaurata per la mostra. Entrambi  ispirati alle idee dello scrittore russo.

I secessionisti stranieri, gli italiani Previati e Segantini,  Medardo Rosso e Casorati

L’influenza  reciproca di artisti stranieri  e italiani viene approfondita  nella 4^ sala ricordando come vi fosse una comunicazione diretta tra loro nelle esposizioni internazionali di secessionisti e indipendenti rispetto alle tendenze correnti
dell’arte. Vediamo “Madonna dei gigli”, 1893-94, un’opera delicatissima di Previati, divisionista, che espose con successo nelle mostre secessioniste di Monaco e Berlino  e fu seguito dal primo  Boccioni non ancora futurista. Poi “L’amore alle fonti della vita”, 1899, di  Segantini, simbolista e non ancora agreste, che fu invitato alla mostra della secessione a Vienna nel 1898 con ben 29 opere, seguita dalla retrospettiva dedicatagli dagli stessi secessionisti dopo la morte nel 1901; era influenzato dall’arte giapponese e lo si vede nel dipinto esposto.

Quindi,  di Van Stuck, Il peccato”, 1908, Eva  con il serpente ne è simbolo,  il suo è un erotismo da seduttrice moderna,
l’artista è  tra quelli della  secessione di Monaco, unisce classicismo a naturalismo e simbolismo nello spirito di innovare senza distruggere l’esistente.

Non solo pittura, si afferma Medardo Rosso, i secessionisti austriaci lo invitano a Vienna per la mostra del 1903
sull’Impressionismo organizzata da  Klimt e Carl Moll; il suo stile di scultore è impressionista, lo si vede dagli effetti di luce sulla superficie scabra che fanno vibrare  la materia, ,  come in “Bambini al sole”, 1891-92. Nel 1910  partecipa alla mostra italiana sull’Impressionismo, organizzata a Firenze da Ardengo Soffici, critico e pittore.

Oltre alla secessione viennese è importantissima quella di Monaco con Van Stuckche la fondò e con lo scultore  Wildt di cultura tedesca  che partendo da una base classica di matrice italiana approda all’espressionismo: di lui vediamo “Autoritratto”, “Maschera del dolore”, 1909, e“Vis temporis acti”, 1913, in cui i marcati tratti  michelangioleschi sono deformati. Anche  molti  dipinti sono  orientati all’espressionismo, come le figure verdi di Kolo Moser, grafico e pittore influenzato dal simbolismo di Hodler in “Tre donne”, 1911-12, ancora simboli e allegorie, contorni  quasi da soffocamento entro una sorta di utero, i colori sono acidi, non naturali, le figure deformi e muscolose con braccia tronche. Schiele, il maggiore espressionista austriaco,  ritrae bambini nelle stesse composizioni angosciose, mentre  di Hodler, il simbolista maestro,  è esposto “Le quattro stagioni”,  un’opera allegorica sui  ritmi della natura e delle età della donna: la composizione è ariosa, le quattro figure in rosa, verticali, si muovono in uno spazio orizzontale.

Altri secessionisti stranieri che influenzarono gli artisti italiani esposero alle Biennali di Venezia.  Nella 5^ sala opere di artisti delle più diverse nazionalità, come  lo spagnolo  Zuloaga, ben noto a Roma e a Venezia, con il nudo “Irene”, 1910;  di grandi dimensioni, 4 metri per 2, la cui posa e atteggiamento richiamano la “Maya desnuda” che Goya aveva dipinto più di  un secolo prima.

Tornano le deformazioni espressioniste con Bonzagni, lo vediamo nelle  ballerine di “Moti del ventre”, 1912, ispirate
a “Salomè”  di Van Stuck ma senza il senso del peccato, c’è la deformazione e la vitalità data anche dalla musica, si vedono gli strumenti; e nel“San Sebastiano”, ispirato all’opera drammatica con musica  di Debussy, “Le Martyre de Saint Sebastien”, rappresentata  a Parigi nel 1911 e posta all’indice  dalla Chiesa al solo annuncio, vi sono ritratti
in un’ardita composizione  a destra l’efebica interprete, la ballerina Rubinstein,  e a sinistra l’autore D’Annunzio.

La sfida secessionista di Ca’ Pesaro alla Biennale di Venezia 

Nella 6^ sala  è di scena la Ca’ Pesaro, niente a che fare con la città delle Marche, si tratta del palazzo nobiliare che donna
Bevilacqua La Masa
lasciò nel 1898 al Comune di Venezia per organizzarvi mostre di giovani artisti e artigiani veneti esclusi dalla Biennale. Dopo dieci anni il suo desiderio fu esaudito, nel 1908 iniziarono le mostre annuali dirette dal critico Barbantini, di giovani che si ispiravano ai secessionisti tedeschi e austriaci e anche ai francesi.

Condividevano il gusto del primitivo, alla Gauguin, e univano alla modernità  la tradizione. Ne fu promotore Gino Rossi, di cui vediamo esposta“Maternità”, 1913, e  Arturo Martini, non mancano le sue sculture  Altri esponenti  furono  Garbari e Marussig, impegnati nell’approfondire le nuove tendenze secessioniste, Marussig per il paesaggio, anche loro presenti in mostra.

Alla Ca’ Pesaro c’erano contatti tra avanguardia e secessione, e nel 1910 vi espose anche Boccioni, che ebbe un’intera sala in
cui presentò pitture divisioniste, ma era alla vigilia della svolta futurista. Di lui vediamo “Ritratto della madre”, 1909,  in cui rinnova i filamenti di Prediati con  un colore artificiale non naturale. E’ esposto anche un dipinto sulla Città moderna 
che si trasforma, con rifrazioni di luce, “Officine a Porta Romana”, 1919. pennellate da divisio nisti ma già futuristi nell’anima. Sono presentati, uno dietro l’altro,  due “Autoritratti” di Boccioni, quello  tradizionale e quello d’avanguardia del 1908, anno in cui firma il “Manifesto tecnico della pittura futurista”.

Siamo alla 7^ sala, la scena si apre su Roma con le mostre della Secessione del 1913. Gli artisti non sono  uniti da uno stile comune ma dal bisogno di modernizzare e seguire le tendenze internazionali svecchiando  le esposizioni,in alternativa alla Biennale di Venezia. La Secessione ha carattere evolutivo, non è di rottura come le Avanguardie: gli artisti partecipano spesso agli allestimenti e presentano con i dipinti anche altre forme di arte applicata come vasi  e mobili.

Alla mostra romana il livornese Nomellini, figura di primo piano nella Secessione, presentò in una sala a lui riservata, addirittura 22 dipinti di stile divisionista caratterizzati dal colore brillante e luminoso, senza simbolismi ma di vita quotidiana pur con senso allegorico: vediamo esposti “Sera di primavera”, 1912,  “Bambine al mare”, 1913,e “”La casa fiorita”, 1915. Nella mostra di allora  c’erano anche mobili di una ditta  a lui vicina, che si inserivano nel dibattito secessionista sui rapporti tra le varie forme d’arte. 

Nomellini organizzò altre mostre a Roma per conto della Secessione romana,  dedicate alla Giovane Etruria, gruppo che aveva esordito all’Esposizione delle Belle Arti di Milano nel 1906:  nella mostra attuale  sono presenti i principali esponenti, come  Chini, Lloyd e Chaplin.

Di  Chini è esposto  un pannello decorato con un ramo, inoltre “Canale a Bangkok”, 1913,  sul verde intenso, e Danzatrice”, 1914.  L’artista, le cui doti di decoratore erano emerse alla Biennale di Venezia del 1907 nella “Sala del Sogno” veniva dall’esperienza  di due anni in Thailandia dove aveva realizzato  tra il 2011 e il 2013 gli affreschi della  Sala del trono” a Bangkok.

Tra le altre opere esposte nella sala ci sono restati impressi due ritratti:  “Ritratto di famiglia in un interno”, 1910, titolo che ritroviamo nel celebre film con Burt Lancaster, e “Ritratto di mia sorella”.

Dopo le prime 7 sale,  il giro di boa della mostra, ce ne sono altrettante con molti artisti stranieri che influenzarono la Secessione italiana; e soprattutto con l’ondata travolgente del futurismo. La visita alle ultime 8  sale la racconteremo
prossimamente, lo spettacolo continua.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, Viale delle Belle Arti, 131. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30,
la biglietteria chiude alle 18,45, lunedì chiuso. Tel. 06.32298221. Catalogo Electa. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli sulle mostre sul  “Futurismo”:  in questo sito il 2 marzo 2014 ;   in cultura.inabruzzo.it  il 30 aprile e 1° settembre 2009.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, i ringrazia la Gnam con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Nomellini,  “Bambine al mare”, 1913; seguono Boccioni, “Il Chiostro”, 1904, e  Carrà,“L’Allegoria del Lavoro”, 1899; poi Cambellotti, “La fonte della palude”1912-13, e Previati, “Madonna
dei gigli”
, 1893-94; quindi Wildt, “Vis temporis acti”, 1913,  e Kolo Moser, “Tre donne”, 1911-12, inoltre Hodler, “Le quattro stagioni”, e Bonzagni,  “Moti del ventre”, 1912,  in chiusura Boccioni, “Ritratto della madre”, 1909.

Sironi, gli anni ’40 fino all’Apocalisse, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Termina il racconto della nostra visita alla mostra antologica aperta al Vittoriano dal  4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015, dedicata a  Mario Sironi. 1885-1961″  con  140 opere dai primi anni del ‘900  all’inizio degli anni ’60, realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, insieme all’Archivio Sironi di Romana Sironi. Delineata la sua figura di uomo e di artista nel segno della tragicità e della grandezza, abbiamo ripercorso la sua vicenda commentando le opere esposte dagli inizi agli annni ’20 fino alla fase esaltante degli anni ’30.  Ora concludiamo con  la drammaticità degli anni ’40 e l’isolamento del dopoguerra,  una “damnatio memoriae”  frutto di faziosità e miope incomprensione fino alla metà degli anni ’50. 

E’ una storia umana e artistica di forte suggestione quella che abbiamo potuto rivivere finora attraverso la figura di Mario Sironi. Tragicità e grandezza compresenti nelle sue opere anche quando l’intento era celebrativo se non propagandistico, espressione di una sensibilità inquieta,  in una visione pessimistica della vita accompagnata da una ripresa volitiva frutto a sua volta nella fiducia nelle capacità realizzatrici dell'”Uomo nuovo”, costruttore ed edificatore del proprio futuro. A questa concezione risponde anche la cifra stilistica dei diversi periodi, di un artista che ha attraversato molteplici tendenze senza farsene fagocitare ma imponendo sempre il proprio sigillo. Così per il simbolismo e il divisionismo, poi il futurismo e la metafisica, fino alla Pittura murale e la Grande decorazione che diventa protagonista dell’intensa stagione  degli anni ’30 riportando in vigore un’antica forma d’arte.

Questo percorso artistico si è innestato in un itinerario di vita e di impegno che per oltre due decenni ha coinciso con la parabola del regime nella cui ideologia vedeva riaffermati i suoi principi sulla dignità del lavoratore e sulla nobiltà dell’uomo degni di essere celebrati; anzi nell’esaltare tali valori superava il suo pessimismo esistenziale celebrando gli aspetti positivi e volitivi dell’umanità.

E’ illuminante tutto questo se correttamente valutato, mentre un’interpretazione cieca e distorta ha portato alla  “damnatio memoriae” del dopoguerra, interrottà a metà degli anni ’50 per alcune iniziative coraggiose cui è seguito l’unanime riconoscimento del grande valore dell’artista.

Con il crollo del regime e la cessazione della Pittura murale, la Grande decorazione su cui aveva riversato il suo talento, crollò la sua  utopia dei valori, e ci fu un ripiegamento sui temi del passato ma con  in primo piano il pessimismo esistenziale: restò solo la tragicità perché la grandezza  era rimasta sepolta tra le rovine della guerra, e non si attenuò neppure dopo la svolta del 1955. Di tutto questo parleremo nel racconto dell’ultima parte della nostra visita alla mostra, dalle opere degli anni ’40 al canto del cigno, “L’Apocalisse” del 1961, l’anno della morte.

Gli anni ’40: la fine dell’utopia

La Pittura decorativa, con i forti significati ideali piuttosto che ideologici dati da Sironi, unita al rifiuto del quadro come forma d’arte e delle mostre come rapporto con la parte interessata della società, sembra un punto di non ritorno; gli anni ’30, inoltre, oltre che esaltanti, sono quanto di più burrascoso si possa immaginare, il lavoro è incalzante, le scadenze stringenti, le polemiche violente.

Con gli anni ’40 cambia tutto: la guerra rallenta gli incarichi decorativi,  e quando l’andamento del conflitto diviene negativo si rarefanno fino ad arrestarsi del tutto nel 1943 allorché cade il fascismo:  il 25 luglio crolla il contesto in cui era collocata la sua concezione dell’arte e la sua produzione. 

L’artista come reagisce?  Non si arrende subito all’evidenza, nel maggio 1942 dopo tanti rifiuti  di partecipare a qualsiasi mostra, comprese Biennali e Quadriennali, accetta che i nuovi mercanti Ghiringhelli gli organizzino una personale, ma vi espone soltanto progetti  per opere monumentali; e nel Catalogo presentato da Bontempelli  sostiene ancora che l’arte è nella Grande decorazione; nel 1943 e nel marzo 1944 dinanzi all’offerta di insegnargli l’utilizzo dell’encausto esprime gratitudine e manifesta ansia e speranza per questa tecnica di pittura murale.

Si rende conto tuttavia di quanto accade intorno  a lui,  non abbandona la Pittura murale ma riprende a dipingere al cavalletto, soprattutto  paesaggi urbani tenebrosi e densamente materici, con i contorni che tendono a disfarsi, espressione visiva di quei tempi cupi. Presenta i pochi quadri alle rare mostre, venendo meno al netto rifiuto degli anni ’30: “Periferia” è esposta  in una collettiva dell’aprile  1941 a Milano, un “Paesaggio urbano”  dipinto in quell’anno,  a Roma all’inizio del 1942, diverse opere tra cui “Gazometro” dipinte in quell’inverno, nella collettiva dei Ghiringhelli  a Milano presso la nuova sede del Milione nel 1944. 

In mostra sono esposti “Periferia”, 1942-43, e  “Paesaggio urbano”,  1943: dei dipinti della fase futurista  resta una traccia nel tram e nella bicicletta, ma questa volta i veicoli, simboli di modernità e velocità, non occupano più la scena; sono di dimensioni microscopiche rispetto  ai grandi volumi degli edifici, nel primo due enormi blocchi disabitati, nel secondo una massa di volumi di case con gazometro, come un fondale.

Vediamo “Montagne”, 1943, dove riprende anche questo tema,  ma ora ancor più senza indulgenze paesaggistiche, neppure le sagome delle Dolomiti come nelle “Vette” degli anni ’30:  i volumi dominano per esprimerne la maestosità e la forza, con una solennità di marca teatrale.  Lui stesso disse, trovandosi a Cortina: “Io le montagne le reinvento. E le sfido. C’è una corrente elettrica tra me e loro. Poi sopra esiste il cielo, spesso drammatico, con le sue strisce temporalesche e i suoi azzurri, o i suoi bianchi. Sono un solitario, e anche le montagne lo sono, si innalzano oltre la realtà abitudinaria, consueta. Mai inerti, esse vibrano di anima, di fantasia. Le sento come personaggi ai quali mi accosto come a divinità”.  In esse, conclude, “la natura è ancora vitale, esprime la sua forza, si avverte l’eternità”.  Parole di un’intensità straordinaria. 

Di questo periodo anche “Il pastore”, 1940-42, e “Figura seduta”, 1942, che associamo in quanto esprimono entrambi la solidità scultorea delle forme con un arcaismo evidente: “Sono uomini e donne che appaiono pietrificati in luoghi altrettanto pietrosi e inospitali”,  si legge nella scheda della Pontiggia.  Nel primo c’è  una visione claustrofobica essendo la figura umana seduta compressa nello scomparto inferiore, in quello superiore una sorta di villaggio scolpito nella roccia, “una Pompei del Medioevo dove tutti, forse, sono morti senza saperlo”, commenta la curatrice; nel secondo una figura totemica  che sembra pietrificata come la parete a cui si appoggia, assorta in un clima di attesa senza tempo. In “Figure (il giudice)”, 1942-43,  la stessa solitudine anche se le figure sono tre, ma senza alcuna comunicazione in una sorta di incomunicabilità: la forma è meno scultorea e abbozzata, risulta finemente disegnata con chiare reminiscenze classiche. 

E’ un ritorno alla pittura con accenti metafisici, la “neometafisica di Sironi”:  c’era stata una grande mostra di Carrà a Brera, visitata dall’artista,  sentiva l’influenza di Bontempelli e del suo realismo magico, e così ebbe un ritorno di fiamma. “L’eclisse”, 1943, ritenuta tra le migliori opere di questa stagione, ne è un’espressione evidente: c’è la casa a più piani chiaramente ispirata a Carrà, il manichino, una squadra, lo spazio e la prospettiva caratteristica del genere.  Era uscito quell’anno il romanzo di Angioletti “L’Eclisse di luna”, e in effetti nel 1942 c’era stato tale fenomeno cosmico: nel dipinto la sfera lunare che copre  il sole con un disco nero dà drammaticità a  un’ambiente senza vita:  è una metafisica che – scrive la Pontiggia –  “‘non è oltre le cose fisiche’, ma è immersa nella tragicità del reale, che negli anni della guerra mostra tutta la sua mancanza di senso”.

Mentre i paesaggi urbani si incupiscono e si sfarinano,  e le immagini metafisiche  sembrano dissolversi, le sue figure non sono più incantate e vitali ma inerti, in un’immobilità spettrale tra edifici o lande desolate.

In “Paesaggio urbano con manichino”, 1944-45,  convivono i due motivi: è molto diverso dai suoi paesaggi urbani del passato, nessun contrasto tradizione-modernità, il veicolo futurista è praticamente invisibile, confuso nel nero dello sfondo, e la grande sagoma del manichino in primo piano sembra un automa; i grandi caseggiati scuri con i vani delle finestre ciechi senza aperture sembrano case per fantasmi, ci sono solo due ciminiere a ricordare le precedenti composizioni aperte alla modernità cittadina. Una “città morta”, con l’eco dell’incubo dei bombardamenti.

Abbiamo poi “Composizione”, 1944,  in cui il disfacimento colpisce le architetture, confuse e frammentate, unite a una grande forma totemica antropomorfa, che incombono su due piccole figure umane di chiara ispirazione metafisica, la cui presenza non sottolinea l’attesa nei grandi spazi ma la loro  inadeguatezza dinanzi al dissolversi nella confusione di ciò che prima appariva solido e ordinato: ricordiamo che c’era stato già, con il 25 luglio 1943, il crollo del regime fascista. “In un ambiente indecifrabile che potrebbe essere sia una piazza che una stanza perché spazio interno e spazio esterno si confondono – commenta la Pontiggia – è soprattutto una metafisica delle macerie, un mondo di architetture che non stanno più insieme”.

Ci sono anche novità assolute in questo pur tormentato periodo. La principale è la composizione in riquadri  indipendenti ma collegati, eco nostalgica nella Pittura murale in cui aveva riversato tutto il suo talento  mentre ora è divenuta definitivamente improponibile; ma nello stesso tempo segna la sua negazione trattandosi di comparti compressi, imprigionati rispetto agli ampi spazi di allora.

In queste che chiama “Moltiplicazioni”, al disfacimento del paesaggio e all’inerzia delle figure si aggiunge la frammentazione, come se il suo mondo pittorico solido e compatto si fosse frantumato, allo stesso modo del regime in cui credeva. Non è una fase transitoria di un periodo convulso, troviamo il titolo “Moltiplicazioni”  anche  in una composizione del 1955 che sembra uno studio per una pittura parietale,  essendovi incorporato il vano nero di una porta;  anche se sa bene che non si tradurrà mai più in una pittura murale, e forse per questo le varie scene sono appena abbozzate.  

In  “Composizione murale”, 1944, vediamo oltre al titolo la struttura della pittura murale,  con tre parti senza un rapporto visibile: una figura solida di donna sulla sinistra, due riquadri a destra, persone plaudenti a lato di un  grande albero in alto, un paese in basso, senza alcuna proporzione. Sembra uno studio preparatorio di una grande pittura murale che non ci sarà più, quasi che voglia coltivare l’illusione di proseguire in quello che ha definito “un viaggio continuo, rinnovato, che finisce per tornare su se stesso dopo aver compiuto ogni variazione”.

Entrano i  temi sacri  espressi in modo angoscioso, come il “Crocifisso”  bombardato con la croce spezzata e il Cristo proiettato in avanti, è del 1943, l’anno in cui la sede del “Milione” a Brera fu distrutta dai bombardamenti costringendo il suo gallerista a spostarsi in via Manzoni; e “L’apologo”, 1944, con figure che si affidano alla parola di Cristo.  Non  sono esposti in mostra.

Così la Pontiggia riassume questa fase particolarmente inquieta: “Sironi, come si vede, modifica continuamente il suo stile: al realismo doloroso dei paesaggi urbani accosta l’atmosfera onirica della neometafisica, alla scena unitaria lo spazio policentrico, al soggetto tradizionale la moltiplicazione degli scenari, in un’incontentabile ricerca di nuove possibilità espressive”.

Ma la guerra si avvicina all’epilogo, Sironi aderisce alla Repubblica di Salò, coerente fino all’ultimo, e il 25 aprile 1945  nel giorno della liberazione a Milano rischia la fucilazione: come si è detto lo salva Gianni Rodari che fa parte del gruppo di partigiani, ha riconosciuto l’artista che stima.

Il dopoguerra:  pessimismo senza illusioni

Nel dopoguerra viene assolto nel processo di epurazione ai personaggi del regime. “L’epurazione maggiore, però, osserva la Pontiggia, la subisce dal mondo dell’arte che attua verso di lui una completa rimozione”. Viene escluso dai repertori critici e nelle rassegne sull’arte italiana all’estero gli viene assegnata una posizione secondaria tra i futuristi, peraltro anch’essi alquanto boicottati.

E’ “la tempesta dopo la tempesta”, nelle parole della curatrice: riprende a dipingere opere cariche di angoscia e di pessimismo nelle quali tuttavia manca la ripresa volitiva che ne attenuava la tragicità.

Lo si vede nei temi religiosi che diventano consueti: “La penitente”, 1945,  è  un’immagine angosciosa con il senso di colpa espresso dal capo chino e il volto coperto dal cappuccio, nell’isolamento e nell’indifferenza delle due donne che la guardano con curiosità distaccata senza comprensione umana.  Va ricordato che la cifra artistica di Sironi negli anni ruggenti era stata l’immagine eroica carica di valori positivi, nella sua drammaticità c’era sempre la spinta volitiva; questa figura ripiegata su se stessa racchiude in sé l’umiliazione e la depressione da cui è preso.

Ugualmente due opere non in mostra: “Lazzaro“, 1946,  raffigurato sepolto sotto le rocce ben lungi dal risorgere, la “Fustigazione”, 1947, che non prevede il perdono ma solo il castigo, mentre “La Grande chiesa”, che nel dipinto esposto vediamo monumentale e imponente, vista dall’abside è come  un monolite senza aperture per i fedeli che cercano conforto, solo il campanile appare un’immagine familiare.

Nel dopoguerra dipinge anche composizioni con figure come in “La siesta”, 1946, dove il riposo diventa impossibilità di agire, come se la donna ritratta fosse imprigionata nella roccia, mentre l’albero sopra di lei è tutt’altro che bucolico. E quando torna a un tema “futurista” con “Aereo e case”, 1948,  non lo fa all’insegna della modernità, ma raffigura un gigantesco veicolo alato che sembra stia per abbattersi sull’abitazione sotto gli occhi terrorizzati di due figurine inermi sul tetto, forse evocando l’incubo dei bombardamenti.

In “Composizione con cavaliere”, 1949,  torna la formula della pittura murale, riquadri senza collegamento con una serie di segni e immagini primordiali;  l’unico che si distingue è il cavaliere stilizzato. E “Il lavoro”  è una composizione analogamente in più riquadri, ma tematica: lo scalpellino a sinistra è umile e dimesso, chino con il suo martello, l’opposto delle figure monumentali statuarie dai lineamenti perfetti per i valori che esprimevano; un uomo con ruota dentata a destra sembra esprimere l’industria meccanica, in basso un’arcaica scena familiare.

Gli anni ’50: temi del passato in una visione sconsolata

Un sussulto dell’antica nobiltà si trova in “Donna con velo” , 1952-53,  scultorea e fiera come una statua di Afrodite, e nel precedente “Donna con bambino”, 1952, in cui la Pontiggia vede, “archetipi ideali di una vita domestica senza tempo”  in una pittura densamente materica che rende le immagini senza volto con le forme appena abbozzate. Ancora più abbozzate fino ad apparire sfatte e informi, “Due figure”, 1954, completano questa sorta di trilogia compositiva: in esse, però, nessuna nobiltà né archetipo di valori, è tutto un viluppo di linee cromatiche irregolari.

La parte della mostra dedicata agli anni ’50 è aperta da due opere anteriori a quelle ora citate,  entrambe a dominante blu.  “Periferia”,  1950, è un ritorno ai “Paesaggi urbani”, ma  è profondamente mutato: anche se c’è il tram al centro con i caseggiati, questi sono scuri e opprimenti e le finestre cieche sembrano disfarsi, come le due ciminiere in fondo, viene ritenuto ispirato dal Rouault  della banlieu parigina. In  “Composizione blu”, 1951, gli scomparti richiamano l’amata pittura murale, dal contenuto indecifrabile, forse c’è la ricerca di una nuova armonia tra frammenti  senza nome.

Mentre “Composizione sacra”, 1953-54, richiama “Composizione murale” di dieci anni prima, con la donna non più in piedi in posa statuaria ma seduta, in posa raccolta, sembra la Madonna, anche per il titolo; alla sua destra motivi ornamentali che diventano segni senza significato.

C’è di nuovo la montagna, precisamente “Paesaggio (le tre cime di Lavaredo)”,  1952,ma assomigliava di più alle cime dolomitiche “Le vette”, di venti anni prima, sebbene ora ne sia diventato frequentatore e non si ispiri più ai ricordi di guerra. Sono due masse nere, e non tre, con una fenditura fatta di bagliori: “Il loro profilo – commenta la Pontiggia – doveva sembrare troppo analitico per la sua sensibilità masaccesca”; materia e luce in un ambiente maestoso e cupo, “teatro di un dramma” come lui stesso lo ha definito, nulla di paesaggistico.  “Paesaggio invernale”, 1956, è altrettanto maestoso ma più sereno,  con la luminosità della neve unita ai volumi non più cupi della montagna: questa volta la drammaticità è di natura altamente spirituale. 

Siamo ancora vicini agli orrori della guerra, tuttavia non ci sono stati altri mutamenti neppure quando nel 1955 è cessato l’ostracismo con l’uscita della grande monografia su di lui  di Agnoldomenico Pica, e con l’inserimento alla pari di altri maestri della sua generazione in una grande mostra in Giappone sugli artisti italiani contemporanei. Inoltre gli viene conferito il Premio Einaudi nel 1954 e viene eletto Accademico di San Luca nel 1956.

Permane una “consapevolezza dolorosa, un pessimismo cosmico”, per usare le parole della Pontiggia, non solo per motivi psicologici ed esistenziali – una sua figlia muore tragicamente –  ma anche per ragioni filosofiche.

Tra i temi del passato torna anche “La casa”, 1955, tempera su carta, un edificio bianco di quattro piani che si erge in verticale, ma ora le solite finestre cieche  nei due piani inferiori si chiudono ancora di più fino a scomparire, quasi a voler esprimere la perdita di fiducia nella capacità di costruire un qualcosa di stabile e duraturo: ancora scotta il crollo dell’ideologia in cui credeva.

Le ultime due opere esposte, quelle terminali della sua lunga vita artistica, sono sconvolgenti per coloro che si appassionano alla sua storia rivissuta attraverso le sue opere,  e noi tra questi. 

L’epilogo all’inizio degli anni ’60

“Il mio funerale”, 1960, precede di un anno la sua morte, quasi una premonizione di un’intensità che non ha precedenti. Il piccolo carro seguito da pochi intimi passa dinanzi a un muro altissimo, quasi un fondale teatrale, con incise figure da pittura murale, come un compendio della sua amata arte decorativa e delle raffigurazioni futuriste con il veicolo che passa, carro o tram, bicicletta o auto, questa volta un carro funebre. L’arte monumentale domina sovrana, come un testamento.

Ma il suo canto del cigno è “L’Apocalisse”,  1961, si entra negli “irripetibili anni ’60”, connotazione positiva di una stagione di ottimismo e benessere. “Il maggiore pittore-architetto del XX secolo termina la sua vicenda artistica, e la sua vicenda umana – sono ancora parole della Pontiggia – con la visione di un terremoto universale che seppellisce  la malvagia stirpe degli uomini. Dalla rovina si salva solo la materia: rocce ciclopiche, arroventate dal fuoco, che conservano una primordiale imponenza. Lo sfacelo  ancora una volta convive con una dimensione di monumentalità, ma è la natura, non la storia, ad esprimerla”.  Sono esposti due dipinti dello stesso anno con tale titolo, entrambi su uno sfondo corrusco in cui si muovono piccole figure umane tra grandi lastre di roccia nel primo, entro cavità come grotte di un formicaio nel secondo.

Così conclude la curatrice:  “La fede di Sironi nella capacità dell’uomo di costruire si è infranta per sempre. E forse non poteva essere diversamente per un artista che ha incarnato come pochi i sogni, le illusioni e le tragedie del secolo breve”.

Conclusioni, l’artista e il fascismo

Si è cercato di approfondire il significato della sua adesione al fascismo fino a diventare il protagonista delle maggiori creazioni con la Grande decorazione in cui pittura, architettura e scultura si fondevano per celebrare i valori del regime, peraltro secondo la sua concezione dell’arte senza steccati.  Nicola Tranfaglia, nel  saggio “Il fascismo e l’esperienza di Mario Sironi”  nel Catalogo della mostra alla Gnam del 1993,  non ne restringe l’orizzonte artistico ad una presunta “Arte fascista” che non ci sarebbe stata, limitandosi il regime e propugnare i valori nazionali e la funzione sociale ed educativa dell’arte senza delineare criteri e canoni stilistici o di contenuto.   Per  lui, “Sironi perseguiva in una sua ricerca ed era sensibile a una trasformazione epocale in atto, che avveniva proprio con la crescita dei grandi complessi urbani e lo spostamento di masse popolari dalle campagne alle città, malgrado le leggi antiurbanistiche volute dal regime negli anni Venti e Trenta”, di qui i suoi tristi “Paesaggi urbani”  e le sue espressioni definite di  “umanità plebea”.

E anche per gli altri temi si può parlare “semmai di una presenza di motivi per così dire ‘culturali’ in cui si incontrano le speranze nella ‘rivoluzione fascista’ da parte del pittore, e i suoi interessi di ricerca formale, costruttiva, ed espressiva”.  In queste “speranze” vedeva realizzati i propri valori, come la fiducia nella capacità dell'”Uomo nuovo” costruttore di ribaltare aspetti degradati della realtà su cui si incentrava la sua attenzione alimentando il pessimismo, e che non nascondeva neppure nelle opere celebrative, mentre la retorica del regime avrebbe voluto minimizzarli. “L’umanità ritratta da Sironi è sempre dolente, e quasi schiacciata dalla modernità, e di frequente riemerge l’ambivalenza di fronte al moderno che ancora oggi costituisce forse una delle maggiori ragioni del fascino di quel tormentato artista”.

Sul piano artistico era stimolato dalla valorizzazione dell’identità e dell’arte nazionale fino al classicismo e all’arcaismo propugnata dal regime, in una ricerca approdata, come ha scritto  Rossana Bossaglia, a una “cultura figurativa che faceva tesoro dell’esperienza metafisica, adattandola a un naturalismo non descrittivo e non impressionistico” che univa il gruppo del “Novecento”.

Tutto questo dà il segno dell’intensità dei motivi umani e artistici che sottendono le opere di Sironi nel loro legame con le vicende della vita e del mondo nel quale aveva riposto tante speranze per un rinnovamento dell’uomo artefice della sua fortuna, in nome del quale riusciva a risollevarsi dalla sua visione di fondo pessimistica e stemperare la tragicità in un anelito di grandezza.

Abbiamo cercato di ripercorrerne l’odissea umana e la parabola artistica avvalendoci dell’accurata ricostruzione operata dalla Pontiggia,  oltre che delle sue preziose schede sulle singole opere: un materiale prezioso da cui abbiamo tratto gli elementi che abbiamo ritenuto  essenziali per corredare la nostra cronaca della mostra dei riferimenti necessari alla migliore comprensione dell’artista.

L’afflato umano e il valore artistico di Sironi, nel grande respiro della storia, della nostra storia, sono tali da meritare il massimo approfondimento. E’ anche una riparazione dovuta ai tanti torti che sono stati fatti a un artista così sensibile e  così grande.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 9,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito i nostri tre articoli precedenti  sulla “grandezza e la tragicità” di Sironi il 1° dicembre 2014, gli “anni 20” il 14 dicembre, gli “anni ’30” il 29 dicembre 2014, ciascuno con 10 immagini. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su  “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo”  il 2 marzo 2014 ;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009,  su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo”  il 30 aprile e 1° settembre 2009, sugli “Irripetibili anni 60”  3 articoli il 28 luglio 2011. .  

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “La penitente”, 1945; seguono “L’eclisse”, 1943, e “Paesaggio urbano”, 1943, poi  “Paesaggio urbano con manichino”, 1944-15“, e  “Composizione’, 1944; quindi  “La grande chiesa”, 1947-48,  e Periferia”, 1950; infine “Sacro”, 1953, e “Paesaggio invernale”, 1956; in chiusura, “Apocalisse”, 1961.

Estonia, “I colori del Nord” verso l’Expo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, nel programma “Roma verso Expo”  l’Estonia mette a segno un colpo magistrale con una mostra pittorica del “periodo d’oro”, prima metà del secolo scorso. Al posto delle vedute fotografiche e dei reperti storici  di gran parte degli altri paesi, una galleria di 50 quadri  con il titolo “I colori del Nord. L’arte estone tra il 1910 ed il 1945”, esposti dal 30 gennaio al 12 febbraio 2015. Sono tratti dalla collezione  ricca di 200 opere, messa insieme negli ultimi 20 anni da  Enn Kunila, intervenuto personalmente, con l’ambasciatore Celia Kuningas -Saagpakk, all’inaugurazione della mostra. La mostra è a cura di Eero Epner, che ha curato anche il Catalogo  edito nella capitale estone Tallinn.

Ricordiamosommariamente che “Roma verso Expo”  è una meritoria iniziativa realizzata da “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia con Zétema e il patrocinio delle Istituzioni Capitoline, di tre Ministeri, Affari Esteri, Beni Culturali e Turismo e Risorse agricole e  forestali. Si traduce in mostre al Vittoriano e all’Aeroporto Leonardo da Vinci di presentazione di singoli paesi, che si succedono dal mese di novembre 2014  e proseguiranno nella prospettiva dall’apertura dell’Expo di Milano, il 1°  maggio 2015,  la cui chiusura è prevista il 31 ottobre dello stesso 2015. Al Vittoriano ci sono già state le mostre di presentazione di Egitto e Slovenia, Albania e Serbia, Vietnam.

La collezione di Enn Kunila

Interessante la figura del collezionista, che è un grande industriale, la sua azienda – una delle maggiori holding private dell’Estonia – ha 4100 addetti; il suo è un mecenatismo diverso da quello dei tempi antichi incentrato sulle commissioni agli artisti e il loro mantenimento. Kunila ha effettuato acquisti  mirati in aste pubbliche in Estonia e in altri paesi europei, ed ha potuto ricostruire la storia delle opere risalendo ai  precedenti proprietari, spesso cittadini  estoni trasferitisi all’estero con il loro bagaglio di ricordi tra cui i quadri del loro paese.

Il suo mecenatismo consiste nell’impegno generoso per la diffusione dell’amore per l’arte, con frequenti mostre, non solo  regolarmente nella capitale Tallinn, sua città natale, ma  anche in zone rurali emarginate che possono essere così inserite nel circuito culturale; inoltre ha pubblicato cataloghi di mostre e monografie di singoli artisti.  Opere della sua raccolta vengono prese in prestito dal Museo d’Arte della capitale per le proprie mostre e sono state portate  a Helsinky e a Bruxelles, al Parlamento Europeo, quale biglietto da visita, come ora in Italia per l’Expo.

La raccolta è legata a un’idea centrale, come avviene nei grandi collezionisti: per Kunila  il criterio comune è quello del colore, mentre nei contenuti è prevalente il paesaggio e, più in generale, la natura; come stile soprattutto il post impressionismo, con esempi anche di realismo ed astrattismo.  Sono le caratteristiche salienti della pittura estone nel “periodo d’oro”, tra il 1910 e il 1945.

Valore e significato della pittura estone

Può sorprendere la visione idilliaca della vita in un paese e in un periodo così tormentato da includere due sanguinosi conflitti mondiali, dato che l’Estonia si è trovata “tra due cortine di ferro”  con l’occupazione alternata subita da Unione Sovietica, Germania,  poi ancora Unione Sovietica:  di qui la perdita dell’indipendenza  con gli eccidi della guerra e anche le deportazioni in massa nel 1941.  Questo non si riflette nella produzione artistica di quegli anni  perché i temi sociali erano assenti nella produzione precedente, e perché l’occupazione impediva un libero esercizio dell’arte; infine per la cristallizzazione in un mondo idilliaco nella fuga onirica da una realtà lacerante.

Con questi contenuti, il valore artistico è indiscutibile: “La storia dell’arte estone – scrive  il curatore Eero Epner – non è un mero ‘dettaglio interessante’ nel mosaico della storia dell’arte europea, piuttosto è un crogiolo nel quale si sono amalgamate  differenti influenze”. E  la precisazione: “Non è meramente un particolare genere d’interpretazione di tendenze artistiche consolidate, osservabile nel lavoro degli artisti più conosciuti, bensì è un insieme autonomo  che viene creato, nel quale si riflettono simultaneamente sia tendenze internazionali che locali così come le condizioni sociali”.

Nel formare il “crogiolo”, nel creare l'”insieme autonomo”,  c’è  la ricerca di una propria  via nazionale pur recependo gli stimoli e gli apporti provenienti dai continui contatti a livello europeo..

Siamo nel primo decennio del XX secolo, si formano circoli di artisti e scrittori nei quali è forte l’aspirazione a un’arte nazionalista, nella ricerca dei valori dell’arte in se stessa. Valori identificati nel colore, tra post impressionismo, puntinismo ed espressionismo, che nella visione degli artisti estoni andava al di là dei vari stili per assumere un significato particolare; anche i diversi modi di usare il pennello da parte dei singoli pittori veniva visto nei suoi effetti sulla associazione dei colori.

Una vera scuola nazionale di pittura in senso stretto non sembra si sia formata, ma ugualmente c’è stata la trasmissione di valori comuni della tradizione da rinverdire con nuovi apporti, lungo fili sottili  che collegano le differenti generazioni della pittura estone. “Se tiriamo questi fili – scrive Epner – noi vediamo che questo ritrovare un armonioso bilanciamento tra colore, composizione e tema ha sempre occupato un posto importante nella pittura estone. Questo in aggiunta al’inestinguibile interesse alla ricerca di differenti co-effetti di superfici di colore”.

Viene vista nelle opere di questo periodo l’espressione del bisogno di felicità e di pace, anche attraverso i ricordi dell’infanzia  e l’immersione nella natura.  “Per questo – è sempre Epner – lo spazio dei dipinti è spesso aperto ed alto, con un’abbondanza di aria  e luce. Invece di angolazioni drammatiche noi troviamo visuali di angoli considerevolmente più poetici e al posto di ritmi taglienti, bengono preferiti passaggi più morbidi e soffici”.  Come ispira la natura estone, con l’effetto di un’atmosfera sognante: “Un tempo eterno e forse quasi astratto viene spesso preferito a qualsiasi altro tempo specifico”.

 Dopo l’indipendenza del 1918 viene fondata la nuova Scuola d’Arte di Pallas, e i pittori estoni cercano di liberarsi dal provincialismo anche risiedendo lunghi periodi all’estero, in particolare a Parigi, sensibili al post impressionismo perché molto legato al colore di cui erano appassionati.

Con le seconda guerra mondiale avviene il ripiegamento degli artisti su se stessi ma non  a livello individuale bensì dalla parte di un popolo che si rifugia negli idilli pastorali dei paesaggi e nella natura per sfuggire alla terribile realtà quotidiana, come abbiamo già accennato.  La stessa fuga dalla realtà per il sogno idilliaco prosegue anche dopo la fine della guerra, pur essendo cessati i vincoli precedenti, a voler dimostrare la persistenza della natura che sovrasta la vita umana.

Infatti, “partendo dal presupposto  che tradizionalmente il modo di vivere degli estoni era sempre stato strettamente legato alla natura, tutti i riferimenti ad una natura pura ed inviolata non solo avevano un effetto di sospensione del tempo, ma anche un riferimento retrospettivo a un periodo in cui  un modo di vivere armonioso generava sempre armoniosi dipinti”.

Come quello esposti in   mostra, che andiamo a passare rapidamente in rassegna, premettendo che ce ne sono alcuni  con soggetti italiani, come le bellezze di Capri, Venezia e Roma: a loro ha fatto riferimento l’ambasciatore Celia  Kuningas- Saagpaak nel citare l’influenza dell’arte italiana sui migliori pittori estoni  che all’inizio del XX secolo  hanno vissuto e lavorato in Italia.Laikmaa e Magi, dall’Estonia all’Italia.

Andiamo subito a vedere queste opere, cominciando con “Visita a Capri”, 1911-12, di Ants Laikmaa che inizialmente andò a Roma,  poi si recò nell’isola per un paio di giorni ma ne fu così preso da fermarvisi un intero anno producendo un centinaio di quadri, un quarto di quelli da lui dipinti. Il quadro ritrae i Bagni di Tiberio, un’alta scogliera scura sul mare traslucido.

E’ esposto anche il suo “Paesaggio a Taebla”, 1936, località dove si era trasferito, una distesa di neve con piccoli abeti: si ricorda che li aveva piantati lui per trasformare il pascolo intorno alla sua casa in  un parco ed erano stati portati via come alberi di Natale, poi ritrovati nelle fattorie vicine ma non più utilizzabili, la violazione della natura non viene sanata dal loro impiego natalizio..

Dello stesso autore sono esposti due dei rari Ritratti in mostra, “Selma”, 1922,  una fanciulla nel costume tradizionale della regione natale di Laikmaa, e “Autoritratto”,  1925, uno dei tanti del’artista, questo è  austero e severo mentre viene descritto come personaggio allegro e creativo.

Laikmaa visse in Italia e anche in Finlandia, quando fu costretto ad abbandonare l’Estonia, in cui era docente attivo nella vita artistica, per motivi politici; sosteneva la necessitò di “trovare l’arte estone” e di valorizzare il ruolo della cultura nello stato nazionale, abbandonando lo stile accademico per dare all’approccio nazionalistico il senso della modernità cosmopolita.

Tornando all’Italia, è  Konrad Magi l’artista che ci dà, con 5 dipinti del 1922-23, una piccola carrellata: 2 visioni di Capri, 2 di Venezia e  una di Roma. I due  “Paesaggio a Capri”  sono come delle composizioni a mosaico, quasi avesse voluto condensare le variegate sollecitazioni di un ambiente che gli fece scrivere “L’isola è divina”; vi restò un mese, fece 10 dipinti.

Mentre nei due quadri intitolati  “Venezia”, città dove  si fermò da giugno ad agosto 1922,  domina incontrastato il blu del mare, con sopra gondole e barche in diverse prospettive, il blu si estende anche al cielo con la stessa tonalità e le stesse variazioni sul viola. Con “Paesaggio italiano. Roma”, non si ha lo stesso effetto del mosaico ma pur sempre la sensazione che ha voluto immettere molti elementi, le case sulla collina, il tempietto al centro, la vegetazione, una fontana, una scultura. Tornano le molte sollecitazioni racchiuse in un quadro, quasi premessero in modo irresistibile.

A questo quadro accostiamo “Paesaggi del Sud Estonia”, 1916-17, quindi cinque anni prima, quando  dipinse la campagna dove aveva trascorso l’infanzia ed era tornato per l’estate; c’è serenità con la compresenza delle immagini bucoliche; del sud del paese anche “Paesaggio con campi rosa”, 1915, dai forti contrasti cromatici in vaste campiture di colore.  

Altri paesaggi dello stesso Magi esposti riguardano “Saaremaa”, una località termale ispiratrice di scene distese,  di cui vediamo 3 quadri: viene definito “periodo di Saarema” questo momento felice della pittura estone perché ispirato all’ambiente naturale dell’isola  reso non nell’uniformità ma accentuandone la varietà cromatica, in”Saarema. Studio”  i colori sono in dense macchie, diverse dalle campiture citate.

Concludono la piccola “personale” di Magi 2 Ritratti,  “Ritratto di Alvina Kappa”, 1919, forse una benefattrice che forse lui non conosceva neppure, uno dei suoi rari ritratti frontali con una tenda sullo sfondo e una notevole definizione dell’abito e della figura; e “Ritratto di donna”, 1922-24, a tre quarti, posizione più frequente nei suoi ritratti, su uno sfondo blu con il quale si confonde l’abito ma spicca il chiarore del volto e delle mani mentre la figura è quasi evanescente. Due modi diversi.

Magi è considerato il massimo pittore estone di tutti i tempi, che riesce a tradurre in uno stile proprio le tendenze pittoriche del momento, dall’impressionismo al puntinismo, dall’espressionismo all’art noveau; spostandosi in lungo e in largo nel suo paese e all’estero, tanto che questi spostamenti, dovuti a un temperamento sensibile e instabile, segnavano la sua produzione,  identificata con tali periodi. E’  considerato il primo pittore modernista dell’Estonia.

Gli altri artisti paesaggisti

Come evidenza cromatica spicca August Jansen con “La Casa rossa”, 1910, mentre nel “Paesaggio finlandese” di Nikolai Triik il rosso è nel tramonto del cielo su alberi dalle forme misteriose; di Triik c’è anche “Vista di una piccola città”, 1905-09, originale inquadratura con un tetto in primo piano e la campagna con piccole case di sfondo,  e un austero “Ritratto di Aino Suits”, 1914,  finlandese moglie  del poeta Gustav Suits. Trik faceva parte del circolo culturale “Giovane Estonia”, che  si riprometteva di recepire  valori europei all’interno della cultura estone, nella prospettiva già citata di arte nazionale ma modernista e aperta.

Di un altro importante artista estone, Elman Kits, vediamo 2 opere, entrambe a contatto con la natura in località di vacanza: “Motivo di Valgemetsa”, 1942, e “Motivo di Suislepa”, 1943. Sono ampie visioni panoramiche in cui l’interesse è rivolto alle sfumature del colore dominante, anzi esclusivo, il verde, e alla luce. Kits  adottò vari stili nei diversi periodi in cui è divisa la sua versatile vita artistica: di volta in volta  il colore serviva a creare effetti ottici in piccole macchie, oppure ad essere addensato con pennellate di molti colori, fino all’astrattismo nell’ultima fase che ne fece un ponte tra la tradizione e le nuove generazioni.

Degli  altri paesaggi esposti ricordiamo  i rispettivi autori, i caratteri sono quelli che abbiamo delineato all’inizio, come anche le motivazioni che ne sono alla base.   Sono Paul Raud  e Jigorov, Herbert-Jochim Lukk e Johannes  Voerahansu,  Richard Uutmaa,  Kaarel Liimand ed  Eerik Haamer.  Si consideri che i paesaggi di Voerahansu e Uutmaa sono del 1944, l’anno terribile della guerra mondiale, eppure esprimono pace e serenità; come “Sulle sponde del lago” di Ado Vabbe, del 1945, l’artista era depresso anche perché divenuto vedovo, ma la fine della guerra lo risollevò.

I  contenuti diversi dal paesaggio, scene tradizionali e  teatro

Vabbe ha dipinto anche “Rifugiati di guerra”, 1944-50, l’artista stesso dovette fuggire spostandosi con il figlio, il quadro riproduce  un gruppo di soldati, forse tedeschi, cosa che gli impedì a lungo di esporlo. Anche Voerahansu  ha dipinto nel 1941 immagini diverse dai paesaggi, ma sono ugualmente idilliache, vediamo “Donne del villaggio che chiacchierano”,  un peana all’identità nazionale nell’isola felice di Saaremaa.  Viene accostato a “Rammendatori di reti da pesca” di Uutmaa, anche lui ai paesaggi non ha aggiunto scene drammatiche ma di vita estone tradizionale. Così per “Il lavaggio delle pecore”, 1944-45, di Eerik Haamer, che con “Porto” ha tradotto la visione nostalgica degli espatriati come lui in esilio dal 1944.

Avviandoci al termine della nostra carrellata citiamo i 2 dipinti del 1924 di Villem Ormisson, “Ritratto d’uomo” e “Natura morta con statua”, e i 2 del 1939 di Endel Koks sul mondo dei pittori, “Nello Studio” e “Pittori”; nonché “L’abazia di Pirita”, di Paul Burman, “Notre Dame de Paris”, 1937, di Aleksander Vardi, e “Nudo con mano bendata”, 1946, di Valdemar Vali., con l’originalità rispetto ai nudi perfetti della fasciatura e il volto girato coperto dai capelli..

E concludiamo  con le due opere di Johannes Greenberg sul mondo del teatro, “Palco del Teatro”, 1940-44,  e “Prima dello Spettacolo”,  1950: viene vista in queste opere una certa tristezza, la stessa in due periodi ben diversi, durante la guerra e cinque anni dopo la fine del conflitto; ma a questo atteggiamento che suscita malinconia è stata data anche  una diversa spiegazione, si tratterebbe di concentrazione dinanzi a un momento ritenuto dall’artista speciale perché nel teatro realtà ed illusioni non sempre coincidono. 

Il messaggio di Enn Kunila

Con questo tocco di mistero e anche di magia che la mostra ci regala chiudiamo il nostro racconto di un mondo del quale abbiamo scoperto aspetti suggestivi seguendo il percorso artistico delle opere raccolte in 20 anni di appassionato collezionismo da  Enn Kunila.

Lo ripetiamo, è un imprenditore di successo, insignito nel 2006 dell’Ordine della Stella Bianca per la sua attività imprenditoriale e premiato per i suoi meriti artistici nel 2009, 2010 e 2012, fondatore del Consiglio degli Sponsor dell’Arte che ha sponsorizzato un importante museo estone.    

Ecco come termina il suo messaggio di presentazione per la mostra al Vittoriano rivolto ai “Gentili appassionati d’arte italiani e visitatori di Roma”:”Il linguaggio universale dell’arte parla a tutti e ci tocca tutti. Auguro a tutti di godere del piacere dell’arte”.  Sono parole eloquenti, Kunila  è entrato  nel mondo dell’arte per plasmare  la memoria e i ricordi e avvicinare ad essa il grande pubblico.   

Info

Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Salone centrale, Ala Brasini. Tutti i giorni ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito; l’ingresso è consentito fino a 45 minuti prima della chiusura.  http://www.kunilaart.ee/.  Catalogo: “I colori del Nord. L’arte estone tra il 1910 e il 1945. Dalla collezione di Enn Kunila. Mostra al Complesso del Vittoriani a Roma. 30 Gennaio – 12 Febbraio 2015”, a cura di Eero Epner.  Tallinn, gennaio 2015, pp. 136, formato 14×20, bilingue italiano e inglese.  Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr. in questo sito i nostri precedenti articoli sulle mostre al Vittoriano della serie “Roma verso Expo”: precisamente su “Egitto e Slovenia” l’8 novembre 2014,su “Albania e Serbia” il 9 dicembre 2014, sul   “Vietnam”. il 14 gennaio 2015. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, in particolare Enn Kunila – il grande collezionista dalla cui raccolta sono tratte le opere esposte – per l’opportunità offerta.In apertura,  Konrad Magi, “Paesaggio italiano. Roma”, 1922-23, seguono  Ants Laikmaa, “Selma”, 1922, e  Johannes Voerahansu, “Donne del Villaggio che chiacchierano”, 1941; poi  Andrei Jegorov, “Sobborgo invernale”, 1928-30, e Kaarel  Liimand, “Motivo di Tartu”, 1939; quindi Richard  Uutmaa, “Rammendatori di reti da pesca”, 1941, e Eerik Haamer, “Il lavaggio delle pecore”, 1944-45; inoltre August Jansen, “La Casa rossa”, 1910, e Ado Vabbe, “Sulle sponde del lago”, 1945; infine  Endel Koks, “Pittori”, 1939, e Jahannes Greenberg, “Prima dello Spettacolo”, 1950,; in chiusura, Konrad Magi, “Paesaggio a Capri”, 1922-23.

Zaza, il corpo confine del mondo, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  dal 6 dicembre 2014 al 15 febbraio 2015, la  mostra “Michele Zaza. Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo”,   24 sequenze fotografiche e una serie di cartoni con 6 disegni e 16 progetti: un uso molto particolare del mezzo fotografico insieme alla scultura e ai disegni di un artista presente da oltre quarant’anni
con continuità sulla scena artistica in Italia e all’estero.  La mostra è curata da Angelandreina Rorro,  catalogo di  Maretti Editore. 

Le mostre personali e collettive

Nella biografia di Michele Zaza colpisce la successione di mostre personali e collettive a cadenza annuale quasi senza interruzioni dal 1972  al 2014. Le personali, dalla mostra a Milano del 1972,  intitolata “Cristologia”, a 24 anni,  all’ultima, nel 1014, a Parigi, nella Galerie Bernard Bouche; le collettive  da Rio de Janeiro e Filadelfia nel 1973, fino alle più recenti a  Livorno e Firenze nel 2014.

Nel quarantennio una presenza continua, anno dopo anno, nelle mostre collettive, mentre sue mostre personali  mancano soltanto nel  1984, 1986-87, 1989-90, 2002, negli altri 36 anni è sempre presente.

Le mostre personali lo vedono, negli anni ’70, dopo Milano a Bari e Napoli, Roma e Genova, Brescia e Torino, all’estero a Zurigo e Basilea,  Parigi, New York e Monaco.

Negli anni ’80 ancora mostre a New York e Parigi, Milano e Bari,  Roma e Genova, inoltre espone a Venezia, Troyes e Berna.

Anni ’90, espone  a Mosca nel 1996, e oltre alle città italiane già citate, è all’Aquila e Andria. 

Con gli anni 2000 alle presenze italiane aggiunge Strasburgo, torna a Parigi nel 2006 e nel principato di Monaco nel 2008; fino alla mostra parigina del 2014 e a quella attuale a Roma.

La cavalcata artistica nelle mostre collettive è ininterrotta, dopo Rio e Filadelfia nel 1973  è presente a Colonia e New York l’anno successivo, poi  a Parigi e Basilea, Nizza e Zurigo, Belgrado e San Paolo, Stoccarda e Gand, con ritorni a New York
e Parigi; per l’Italia lo troviamo a Firenze e Bologna, Roma e Genova,  Venezia e Torino,  e siamo solo negli anni ’70. 

Nel decennio successivo torna a New York e Parigi e va a Londra e Berlino, Amburgo e Stoccarda, Ginevra e Monaco, oltre a Roma  e Acireale, Bologna e Ravenna. 

Con gli anni ’90, oltre a tornare a Parigi e Ginevra, va a Los Angeles, per l’Italia a Bari e Napoli, Genova e Firenze,
Modena e Milano.

Negli anni ‘2000 di nuovo a Parigi e Ginevra, Roma e Milano, in  più va a Berlino, Bruxelles  e Bordeaux, in Italia va a
Rimini e  Treviso, Napoli e Todi. 

Dal 2010 lo troviamo all’estero a Lugano, Parigi e Mosca, in Italia  a Milano e Bari,  Ravello e Verona, Roma e Torino, Brescia e Saronno, infine a Livorno e  Firenze nel 2014.

Abbiamo ripercorso analiticamente l’itinerario espositivo, cosa per noi inconsueta anzi inedita, sorpresi da questa presenza
ininterrotta sulla scena artistica nazionale e  internazionale, in un così ampio arco temporale;  perché non si tratta di un
artista “facile”, nel senso dell’immediata comprensibilità della sua espressione artistica, tutt’altro. Ma il fatto che la sua specificità non nelimita la diffusione stimola ancora di più l’interesse di questa mostra e  ne accresce il valore tanto più che citroviamo dinanzi a un uso della fotografia molto particolare associato a una scultura anch’essa del tutto personale.

Qualche nota biografica, la descrizione dei soggetti  prevalenti insieme all’autoanalisi dell’autore precedono la descrizione delle opere che a un’apparente semplicità uniscono significati reconditi.


 La sua formazione e l’ispirazione familiare

Nella biografia spicca l’incontro con l’arte delconterraneo Pino Pascali, artista affermato che studiò
per la tesi del  diploma da “maestro d’arte in decorazione pittorica”, conseguito  a Bari nel 1971. Pascali ebbe una prima profonda influenza su di lui, che così ne parla:  “La sua opera nella sua totalità mi fece capire che l’uomo non abita nel paesaggio ma è il paesaggio che abita nell’uomo. Il rapporto relazionare è direttissimo nel senso che la terra d’origine viaggia con l’uomo”, con riferimento alla  Puglia e al suo mare, comune ai due artisti, Zaza è nato a Molfetta in provincia di Bari nel 1948.

Segue  il corso di scultura di Marino Marini all’Accademia di Brera, seguendo la sua vocazione sin dall’infanzia di  “manipolare la materia”, da ragazzo  costruiva giocattoli rudimentali e le sue prime opere sono  sculture razionali e
minimali; a Milano  frequenta l’ambiente artistico,  conosce Giacometti, Moore e Brancusi, la percezione visiva e la forma plastica come modularità e interazione lo colpiscono in modo particolare. Quindi torna a Bari da Assistente  di Amerigo Tot alla cattedra di scultura dell’Accademia.

Troviamo, quindi, pittura e scultura nella sua formazione, ma c’è un’altra forma espressiva che lo interessa ancora prima di
diplomarsi. Già nel 1970  fotografa  le situazioni da lui stesso create: chiama “Simulazione d’incendio” la ripresa
fotografica di un fuoco da lui appiccato a legni scolpiti nella villa comunale di Molfetta per muovere l’apatia dei passanti e registrarne le reazioni. E’ una prima prova della sua creatività mediante un fatto esistenziale in cui la realtà diventa arte con  l’immagine smaterializzata; poi oltre alla realtà esterna registra con il mezzo fotografico la propria vita  familiare,
ma non per mera documentazione, bensì per superare il vissuto. 

Dal 1972 riprende  i genitori e se stesso, sulla base di un’idea creativa organizza un vero  e proprio “set”:   la fotografia è il momento finale di una composizione elaborata.  Presenta le immagini nello stesso anno alla  prima mostra personale nella Galleria Diaframma di Milano, con il titolo impegnativo “Cristologia “.  

I genitori  diventano “protagonisti di una nuova vita, di una nuova identità, di una ritrovata identità”, e la famiglia, secondo il suo intendimento, viene riunita “intorno a un unico corpo di padre-madre-figlio”. E’ il tema della personale alla Galleria Marilena Bonomo di Bari nel 1973,intitolata “Dissidenza ignota”.    

Alla fine degli anni ’80, scomparsi i genitori,, diventano  protagonisti con lui la moglie Teresa e la figlia Ileana: per il loro vissuto gli consentono di  costruire rappresentazioni sulla base di idee e pensieri.

Perché ritrae i membri della propria famiglia? L’artista lo spiega così: “Tramite l’uso della fotografia esprimevo un atto di rivolta teso a trasfigurare il quotidiano omologato . Le azioni, che venivano fotografate non erano performance impropriamente dette teatrali, ma proposte di vita alternativa, tentativi di modificare in positivo e creativo, nel cuore della propria casa, l’opaca interazione del loto vissuto quotidiano”. Per lui è “una sorta di arte dell’esistenza capace di traguardare i limiti della conformità e della ripetizione infinita”: come nella “Simulazione d’incendio” per scuotere  l’apatia dei conterranei ora vuole scuotere il tran tran all’interno della propria famiglia facendo diventare i genitori “protagonisti di una nuova vita, di una nuova identità, di una ritrovata identità”.

E’ vero che è il vissuto personale, ma non limita la visione rinchiudendola nell’ambito familiare. Lo afferma la direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Maria Vittoria Clarelli:”L’io, il tu, il noi, si pongono in relazione secondo gli
assi dei legami madre-figlio, figlio-padre, padre-figlia, marito-moglie, che però trascendono l’accidentalità autobiografica per risalire all’universale del mito”. Del resto, prosegue, “tutte le cosmogonie sono basate sui rapporti parentali. Il mondo, l’universo, il deserto, evocati nei titoli dei suoi lavori, sono per Zaza sia orizzonti sentimentali sia recinti semantici”.

Le persone e le cose, il corpo e il volto

La curatrice della mostra Angelandreina Rorro spiega così questa sua visione artistica: “Le persone della sua vita sono fondamentali, partire da esse significa cercare una verità nel proprio lavoro, significa avere materiale reale e vissuto attraverso cui elaborare pensieri e fornire idee e rappresentazioni”. E lo sono ancora di più quando fanno parte della sua famiglia, la maggiore fonte di ispirazione come si è visto.

Ma ci sono anche le cose per le quali mostra interesse, fino agli anni ’80 piatti vuoti e molliche di pane, zolle di terra e piccole sculture di cartapesta, sveglie e lampadine, poi si aggiungono cuscini e ovatta: anche qui siamo nell’ambito del vissuto familiare.  Per la Clarelli “sono cose che conservano la memoria delle relazioni personali e sociali alle quali era destinato il loro uso, anche quando diventano materiali con i quali comporre altre immagini”. L’artista ne dà conferma così: “Il pane  è l’archetipo dell’alimentazione e per me, nato e cresciuto nella povertà e nell’essenzialità, aveva il sapore di una conquista necessaria per l’esistenza. Il mio cuscino compariva in funzione di supporto sia a briciole di pane che a piccole sculture di cartapesta dipinte in vari colori, come simbolo onirico della lotta  tra la dura realtà e i molteplici dischiudimenti
dell’immaginazione”, mentre “l’ovatta diveniva nuvola, simbolo di lievitazione”, e la ricorda usata dal padre  per medicare le ferite alle mani provocate dal freddo e dal lavoro.

Come per le  persone, anche per le cose, gli oggetti, c’è una valenza che trascende il vissuto personale: “Attraverso di
essi –  afferma –  siamo nel mondo e allo stesso tempo attraverso  di essi il mondo è rappresentato in noi”. Le cose   sono al
centro della parte scultorea della sua arte,  iniziata dopo il 1985,  che allarga ancora di più la sua visuale oltre il proprio mondo: “Questi elementi plastici e tattili – è sempre l’artista –  hanno una valenza archetipa con richiami al cielo, al sole,  alla terra e al corpo. Essi proiettano infiniti significati, aperture dell’immaginazione in una visione oniric-cosmologica”. C’è un maggiore impegno compositivo, con il colore e la tridimensionalità, la fotografia è collegata alla scultura: “Gli elementi lignei vengono ripetutamente relazionati con volti che appaiono  e scompaiono mediante l’apertura e la chiusura delle mani, in caso di maschile e femminile, attraverso occultamento alternato dell’uno o dell’altro”. L’autoanalisi dell’artista aggiunge: “Sia le sculture che i volti ripetono gli stessi movimenti per offrire alla fruizione una visione cosmica unitaria”.

La visione unitaria passa dalla bidimensionalità alla plasticità delle forme, e alle persone e alle cose si aggiunge un nuovo
soggetto protagonista: “Il corpo – è sempre l’artista – rende esistente il mondo nel senso che è l’unica figurazione concreta della coscienza  e della conoscenza della storia del mondo”.  Lo raffigura  immobile e ieratico, e afferma:  “L’arte non offre possibilità alternative alla condizione umana, ma è al contrario la risultante di questa condizione”.

 “Abitare il corpo”  è intitolato il commento della curatrice della Rorro, che scrive: “Michele, il ‘pensatore di immagini’, il ‘pittore plastico’ ha lavorato e lavora molto sul corpo come elemento di sintesi tra persone e cose, tra persone paesaggio, tra
stato fisico e psichico dell’uomo”. In definitiva,  “il corpo è l’istante significativo della scultura di Zaza, nel senso che lui lo elegge a sintesi e centro della sua poetica”.

L’altro fondamentale soggetto dell’arte di Zaza, dopo le persone, le cose e il corpo, è il volto, che lo ha attirato in modo particolare negli ultimi anni. Per lui “il volto è il luogo specifico delle mutazioni fisiche e psichiche.  Il volto è lo spazio della rivelazione assoluta, la zona dove si concentrano i segni del tempo vissuto e della verità”. Viene presentato nelle  più
diverse angolazioni, frontalmente e di profilo, in bianco e nero e a colori, in senso fisico e metafisico, e collegato, come gli altri soggetti, ad una visione più alta: “La trascendenza trasforma il volto in una sorta di axis mundi capace di collegare il mondo reale con il mondo ideale, l’invisibile con il visibile. Insomma il volto diviene il contenuto umano fondamentale”. Altre sue parole: “Dipingo il volto affinché, attraverso la verità dei colori, si configuri come cielo, terra, presenza cosmica”; nel dire questo si riferisce non solo al pennello ma anche alla macchina fotografica.

Le opere in mostra, soprattutto fotografie  

Troviamo questi motivi nelle 23 sequenze e nelle altre opere in mostra, cioè i cartoni con 6 disegni e 16 progetti nei quali sono scritte delle riflessioni meritevoli di essere approfondite, come faremo più avanti. 

Molte immagini in  bianco-nero, tra le quali le prime del 1972, dalla” Simulazione d’incendio”,  di cui  abbiamo parlato come inizio creativo di un’arte volta a scuotere le inerzie e le normalità, a “Tre immagini  per un deserto mentale volontario”, 1972, una figura china a terra con sveglia e lampadina, oggetto che torna in “Eterno presente”,  in una sedia d’epoca su  uno scoglio nel mare.

Del 1974  “Dissoluzione, mito e stile”, una serie di immagini con una persona di spalle, tra vedute desolate  di una spiaggia deserta”; e  “Naufragio euforico. La felicità e il dovere nella ripetizione omologata”, una sequenza di 18 immagini di vita quotidianità di una persona nel buio con la luce sul volto. In  “Dissoluzione e mimesi”, 1975,  la persona è seduta alla tavola imbandita, vista in 5 posizioni con differenze impercettibili; mentre in “Mimesi” le immagini sono 10, un corpo visto di fronte in 5 di esse, una scala nelle altre 5, in un’oscurità rotta da un fiotto di luce; che vediamo nell’immagine dallo stesso titolo in due riprese, in una c’è anche la persona, nell’altra  soltanto la lampada accesa. Medesimo tema in  “Anamnesi”, 1975, persona e lampadina con un tenue colore rosato.  

Anche in“Ritratto celeste”, 1978, il colore è appena accennato, c’è una testa che in due opere intitolate “Neoterrestre”,  1979,  è tra forme imprecisate in  sequenze rispettivamente di 21 e 10 immagini. 

In ambito cosmico ancora di più Cielo abitato”, 1985,  34 immagini su fondo nero oppure ocra scuro con uno o più volti alternati oppure insieme a corpi celesti, esprime il rapporto tra il volto umano e  il mondo.

Siamo agli anni ’90, vediamo figurazioni geometriche quali “Iperione”, 1990, e “Icona”, 1994, e forme scultoree quali le
3 immagini di “Corpo centrale” ,1996, e “Cercatemi altrove”, 1997-98.

Con gli anni ‘2000 esplode il colore, in“Ritratto magico”, 2005, è raffigurato un viso verde, mani intrecciate bianche e rosse appoggiate  a un cuscino che le separa dal volto e completa la bandiera; sempre un viso, ma coperto dalle mani aperte in “Viaggiatore assoluto”, 2009, e “Viaggiatore magico”, 2010, mentre in  “Paesaggio magico”, 2011,  due visi molto piccoli dentro un portale misterioso, un arco con delle figure alate su un fondo blu.

Gli ultimi titoli aprono un nuovo fronte interpretativo: “L’uso frequente della parola ‘magico’ – commenta la Clarelli – si direbbe alluda non tanto a una prassi quanto a una dimensione, a uno spazio altro, a un’atmosfera al tempo stesso familiare e straniante”. C’è qualcosa di misterioso, l’arco a sesto acuto in cui sono inseriti i due volti con le immagini che lo punteggiano ne è un esempio, e questo dà importanza alla sezione della mostra in cui troviamo scritte rivelatrici in una serie di cartoni con schizzi enigmatici.

I disegni e i progetti

In questa sezione sono esposti anche 6  disegni del ciclo “Paesaggio”, né persone, corpi, volti, ma cose, in formazioni
nebulose o geometriche, tra giochi infantili  e visioni cosmiche, creatività e fantasia indecifrabile. Ma l’attenzione è attratta dai 16  progetti datati  1998-2010 con le scritte cui si è accennato.

Nei primi 7 cartoni cerca di penetrare nei misteri dell’origine, l’espressione “il confine del mio corpo è il confine del mio mondo” la traduce nel primo progetto in una figura archetipa, che ripete in quello seguente con l’iscrizione: “L’utero celeste è la radice dell’universo; io sono l’alba e il tramonto”. Poi è ancora più esplicito: “Estraneo, là dove mi trovo, l’indifferenza rende vuoto lo spazio, nel vuoto dello spazio si sviluppa l’idea del corpo”.

I 3 cartoni seguenti recano le scritte  “Centro rivelatore”, “La radice del corpo”, “La visione segreta”, sempre con l’immagine archetipa sovrastata da un piccolo volto che  scompare nel settimo cartone dove  scrive: “Cercatemi altrove.
Cercatemi  nell’essenza, cercatemi accanto agli angeli. Cercatemi nella dimensione del saluto. Cercatemi là dove abitano ancora i messaggeri dell’assolutezza”.

Nei 9 cartoni successivi è protagonista “il viandante che arriva a casa, è diventato già esperto riguardo all’essenza degli dei e dei gioiosi”, diventa “il viaggiatore azzurro”.  A questo punto tra forme geometriche scure contornate di luce, queste altre scritte: “L’universo guarda l’uomo. L’uomo guarda l’universo. L’universo guarda se stesso . L’uomo guarda se stesso. Il tempo guarda l’universo e l’uomo”.

Filosofia o fantasia? In un altro cartone scrive: “Sul sentiero dell’immagine mi trovo (si ritrova)  la via dell’immaginario”, e siamo nel campo cosmico, parla di costellazioni. Poi ecco “Il viaggiatore ascetico”, le immagini sono plurime , sempre spuntano dei piccoli volti,  si legge “L’arte è l’invisibile nel visibile. Il misticismo fa coincidere visibile e invisibile: tutte  le cose sono trasparenti”.

E’ un misticismo ricco di umanità: “L’anima non può dimenticare la sua propria vocazione divina, si sente esule sulla terra e respira, respira, respira, respira, respira”.

Nel penultimo cartone esposto, al centro ci sono i simboli del “rinoceronte alato” – anche Salvador Dalì attribuiva al rinoceronte significati straordinari – con la scritta: “Le immagini e le metafore sono la lingua madre, innata, la stessa che costituisce la base poetica della mente e rende possibile la comunicazione con tutti gli uomini e tutte le cose”.

L’ultimo cartone “Visione segreta”,  mostra in alto il volto coperto dalla mano. 

Sono simboli,  quelli delineati nei cartoni, forme elementari pur nella complessità dei concetti evocati. La Clarelli osserva: “Il mistero, sembra dirci Zaza, risiede nella semplicità dei simboli, che si svelano come tali solo a chi ha dedicato l’attenzione necessaria, ma che sussistono comunque come elementi visivi capaci di liberare l’immagine dalla contingenza, di renderla in qualche modo classica”. L’artista raggiunge questo risultato con “la concentrazione sui temi essenziali e la straordinaria economia dei mezzi espressivi. La narrazione è scarnificata ma sopravvive, anche quando l’esito è del tutto metaforico”. 

Metafore da decifrare, dunque, ed è questa una sfida intrigante che accresce l’interesse per il visitatore.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45) , il venerdì fino alle ore 22,00 (biglietti fino alle 21,15), lunedì chiuso. Ingresso museo-mostra intero 13 euro, ridotto 10,50 euro, prima domenica del mese accesso gratuito. Tel. 06.32298221; www.gnam.beniculturali.it. Catalogo “Michele Zaza. Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo”, Marietti Editore, novembre 2014, pp. 96, formato 21 x 21, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per questa mostra cfr. anche il nostro articolo in http://www.fotografarefacile.it. del febbraio 2015; per Salvador Dalì e il rinoceronte, citato nel testo, cfr. i nostri articoli sulla mostra al Vittoriano usciti in questo sito il 28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012.        . 
 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la Gnam con i titolari
dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, due delle immagini di “Dissoluzione e mimesi”, 1975; seguono “Neoterrestre”, 1979, e “Viaggiatore assoluto”, 2009, poi “Viaggiatore magico”, 2020, e  due serie di cartoni di “Progetti”, 1998-2010, il primo cartone con il rinoceronte; in chiusura la sequenza di “Naufragio euforico. La felicità e il dovere nella ripetizione omologata”, 1974. 

Cartier Bresson, l””occhio del secolo”, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Si conclude la  nostra visita alla mostra “Henri Cartier Bresson”, aperta nel  Museo dell’Ara Pacis dal  26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015, con 350 fotografie e 150 documenti sul percorso artistico e di vita del celebre fotografo che ha lasciato la più vasta ed efficace testimonianza per immagini dei grandi eventi come della vita quotidiana nel secolo scorso. La mostra,  organizzatada Zetema e da Contrasto,  editore del  Catalogo, con la  Fondazione Henri Cartier Bresson, è stata prodotta dal Centre Pompidou che l’ha già esposta a Parigi, e curata da  Clément Chéroux, Abbiamo descritto gli aspetti principali della grande mostra che la differenziano notevolmente e la qualificano rispetto alle mostre precedenti sul grande fotografo rivolte a sottolineare l’unitarietà della sua produzione, mentre la mostra attuale presenta i diversi volti dell’artista. E questo isolandone i diversi momenti sia sul piano cronologico che su quello dei contenuti, in 9 sezioni alle quali corrispondono altrettante  visioni dei soggetti evidenziati. Una  accurato lavoro di ricerca e di  interpretazione che ci ha dato un’immagine complessa di un testimone che diventa protagonista.

In precedenza abbiamo ripercorso la prima fase della sua vita, quella della formazione, fino alla vicinanza con i surrealisti e all’influenza che questi hanno avuto su di lui. Ma è stato solo l’inizio.  

Le altre due fasi del  percorso artistico e di vita

Dall’orientamento artistico  in chiave surrealista, si passa all’impegno politico rivoluzionario su posizioni di sinistra, peraltro  degli stessi surrealisti,  per un nuovo corso anticolonialista e contro il pericolo della vittoria delle destre a livello interno e internazionale.  Firma manifesti per l'”unità d’azione” delle forze di sinistra e l’esigenza della lotta rivoluzionaria, nel 1936 a Parigi partecipa all’Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari, lavora nella stampa comunista; nel  1934 e 1935 aveva visitato  Messico e Stati Uniti in contatto con persone impegnate politicamente in senso rivoluzionario. Va in Spagna a fotografare la guerra civile tra franchisti e brigate internazionali, farà un film documentario che viene proiettato in mostra .  

La sua visione ideologica rivoluzionaria lo ha portato a prediligere le folle, come incarnazione del potere popolare. Ne era stimolato fortemente, si confondeva nella moltitudine con la macchina fotografica che fissava i movimenti  delle masse attraverso i volti, le espressioni, le bandiere. Nei lunghi periodi di lotte sociali e rivendicazioni popolari cercava di essere sempre presente nelle manifestazioni per fissarne i momenti più espressivi, lo farà  per soddisfazione personale anche dopo aver abbandonato i reportage.

Il risvolto di questo interesse per le masse è la sua rappresentazione di quelle che vengono chiamate “icone del potere”: ritratti di dittatori  o comunque esponenti di potere politico, nazionalista, religioso visti come ostentazione di un qualcosa che è disgiunto dalla realtà, e dalla vita, come fotomontaggi visivi.

Siamo negli anni ’40, milita nella resistenza francese continuando a svolgere il lavoro di fotografo, viene preso dai nazisti ma riesce a fuggire dal carcere, quando rientrerà in Francia assisterà i prigionieri evasi, alla liberazione di Parigi nel 1945 è presente con la sua macchina fotografica per immortalare quel momento glorioso.

Nel 1944 fa i primi ritratti per un editore.  Sarà questo un importante settore della sua attività, su commissione di editori e riviste. Diceva: “Fare un ritratto è per me la cosa più difficile.  E’ un punto interrogativo poggiato su qualcuno. Devi provare a mettere la macchina fotografica tra la pelle di una persona e la sua camicia”. E lo ha fatto con tanti grandi personaggi come quelli che abbiamo citato in precedenza. Cercava di far dimenticare la sua presenza al soggetto da ritrarre, fotografandolo a distanza e mai in primo piano, dando rilievo agli sfondi e all’ambiente. Continuerà a fare ritratti anche negli ultimi anni, dopo aver abbandonato l’attività.

Termina la guerra,  dirige  Le Retour, un documentario sul ritorno in patria dei prigionieri di guerra e dei deportati, mentre il Moma di New York  vorrebbe  dedicargli una mostra , credendolo morto in guerra;  per mostrare le sue foto ai curatori  prepara un album divenuto celebre, lo “Scrap Book”, con 346 foto. Dopo la mostra  l’album fu dimenticato, molte foto deperirono finché dopo sessant’anni, nel 2007, furono restaurate e pubblicate dalla Fondazione.

Dopo la guerra soggiorna negli Stati Uniti, impegnato in servizi fotografici per Harper’s Bazar, nel 1947 con gli  amici Seymor e Robert Capa, George Rodger  e William Vandivert fonda l’Agenzia Magnum e inizia un lunga serie di viaggi per il mondo, dal Canada al Messico, dall’India alla Cina, dal Giappone all’Unione Sovietica nei quali farà reportage che gli daranno una grande celebrità, in Urss fu il primo occidentale a fotografare liberamente. Viene anche in Italia, la prima volta nel 1951, e in Sardegna come inviato di Vogue nel 1962,

Fotografa anche la danza, dopo aver sposato  la ballerina giavanese Carolina Jeanne de Souza- Like,  in occidente danzava con il nome di Ratna Mohini;  ritrae nel 1949 le danzatrici di Bali e nel  1954 pubblica le immagini nel libro “Danses a Bali”, nella cui introduzione Antonin Artaud definisce il ballerino un “geroglifico animato”. Farà fotografie definite di “scrittura corporea”,  che esaltano il carattere ideografico del corpo in movimento; poi  applicherà tale formula alla sua visione delle città, ritraendo nello spazio urbano sagome viste come segni associati, come frasi scritte.

Tornato in  Francia,  nel 1950  trova un altro mondo, l’ “American way of  Life” ha dato avvio alla società dei consumi, diviene il suo tema fisso, lo rende con immagini che rivelano il desiderio dei consumatori attraverso i loro occhi non solo in Francia ma anche in altri paesi dove fotografa i compratori nei grandi magazzini. Ne nasce una galleria cosmopolita del consumismo  nei volti di tante nazionalità.

Ma non è solo il consumismo che lo attira, anche il mondo del lavoro nel momento in cui è in atto la ristrutturazione dell’industria europea. Data la sua posizione ideologica e il suo impegno politico si potrebbe pensare che ha voluto denunciare lo sfruttamento del lavoratore nelle catene di montaggio sempre più esasperate; non è così, lo interessava il rapporto fisico tra uomo e macchina, con l’operaio che ne diventa parte. Riflette le posizioni sociologiche sul predominio dell’uno o dell’altra che portavano i dadaisti e i costruttivisti a immagini fantasiose di ibridi con il rapporto di dominio biunivoco tra i due soggetti.

Diventa celebre a livello mondiale, ma ha l’interesse sempre concentrato sul suo paese, come si vede nel famoso reportage sulla sei giorni ciclistica di Parigi del 1957; e anche sull’Europa, come dimostrano le inchieste fotografiche in Germania e Italia, Inghilterra, Svezia e Svizzera, particolarmente studiate nelle inquadrature e nelle luci; si aggiungono  a quelle più eclatanti in India, Cina, Unione Sovietica.

Nel 1963 si trova a Cuba per la rivista “Life”, c’è la crisi dei missili che ha portato sull’orlo della guerra mondiale, le sue immagini rendono il clima di tensione e militarismo con i soldati armati nelle strade, la propaganda  da un lato, le bellezze dell’isola dall’altro.

Un  lungo soggiorno in Giappone nel 1965 lo porta ad una calma contemplativa che si vede nel suo stile di ripresa, tempi più lunghi, non ricerca come in passato l’istante da non perdere, le immagini potrebbero essere state riprese prima o dopo,  non c’è più\ il momento  decisivo.  Si avvicina al buddhismo e lo Zen diventa per lui filosofia di vita e modo di concepire la fotografia e l’arte.

Negli anni ’70  lascia il reportage, che ha la concitazione della attualità e lo obbliga a temi e situazioni prefissate, per dedicarsi a foto contemplative che rispondono sempre più a una propria esigenza interiore. Riduce  progressivamente l’impegno nella fotografia per tornare alla pittura, continuerà però a fare ritratti fino al 1980 e oltre, forse perché è una realtà che ancora lo interessa. Dice infatti:  “La fotografia di per sé non mi interessa proprio; l’unica cosa che voglio è fissare una frazione di secondo di realtà”.

Riprende la passione dell’infanzia, il disegno, con schizzi realizzati dal vero, aderenti alla realtà  ma senza colore. Addirittura al Louvre copia i capolavori e al Museo di storia naturale i reperti preistorici, ama soffermarsi alla finestra e allo specchio  nel rimirare le rughe del suo viso. . Espone  i disegni da soli o in occasione di mostre fotografiche .dando alle due forme espressive queste definizioni: “La fotografia è per me l’impulso spontaneo di una attenzione visiva perpetua che coglie istante ed eternità. Il disegno con la sua grafologia elabora quello che la nostra coscienza ha colto di quell’istante. La fotografia è un gesto immediato, il disegno una meditazione”..

Si  ritira dall’agenzia Magnum,  ritenendo che si fosse allontanata  dallo spirito iniziale, in realtà è  lui stesso ad aver mutato atteggiamento. Ha sempre la Leica per scelte personali, situazioni contemplative, per il resto si dedica all’organizzazione del suo sterminato archivio, di mostre e libri;  anche, e soprattutto, a visitare musei e mostre d-arte dove si impegna assiduamente nel disegno.

Nel 1979 grande mostra celebrativa a New York, nel 2000 con moglie e figlia crea  la Fondazione Henri Cartier-Bresson, per raccogliere la sua sterminata produzione e fornire uno spazio espositivo ad altri artisti; avrà nel 2002 il riconoscimento dello Stato come ente di pubblica utilità. La tutela della proprietà intellettuale delle sue opere per evitarne l’incontrollato sfruttamento commerciale ha portato la Fondazione a non autorizzare più nuove stampe salvo autenticare quelle di sicura origine.

La sua arte fotografica è descritta da lui stesso nel 1952 nel libro  The Decisive Moment (Il momento decisivo), pubblicato a New York, nella traduzione francese è intitolato Images à la sauvette. In particolare analizza il  reportage fotografico e la scelta del soggetto, la composizione e il colore, la tecnica e i clienti.

Il suo pensiero sulla fotografia e sulla vita

Dopo aver visto le 350 immagini e scorso gli altri 150 documenti il desiderio di saperne di più cresce, la ricerca di ciò che c’è dietro quella rappresentazione della realtà così spontanea e immediata ma nello stesso tempo specchio di una personalità creativa e motivata.

Per questo siamo andati a cercare le sue dichiarazioni, che compongono un mosaico dell’artista nello stesso modo in cui le sue fotografie hanno composto un mosaico del secolo.

Cominciamo con quelle di carattere pratico, semplici ma non  banali : “Il mestiere di reporter ha solo trent’anni, si è perfezionato grazie alle macchine piccole e maneggevoli, agli obiettivi molto luminosi e alle pellicole a grana fine molto sensibili realizzate per soddisfare l’esigenza del cinema. L’apparecchio è per noi uno strumento, non un giocattolino meccanico”. Di qui una preziosa indicazione: “ È sufficiente trovarsi bene con l’apparecchio più adatto a quello che vogliamo fare. Le regolazioni, il diaframma, i tempi ecc, devono diventare un riflesso, come cambiare marcia in automobile. In realtà la fotografia di reportage ha bisogno di un occhio, un dito, due gambe».

Poi un commento: La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell’intuito e della spontaneità. E un precisazione:Ho scoperto la Leica; è diventata il prolungamento del mio occhio e non mi lascia più”, che ribadisce più volte:  “La mia Leica mi ha detto che la vita è immediata e folgorante. Non ho mai abbondato la Leica, qualunque altro tentativo mi ha sempre fatto tornare da lei.  Per me è LA macchina fotografica

Ma come definisce la fotografia? Abbiamo già riportato la sua definizione rapportata al disegno, aggiungiamo che per lui  “la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento” e “ho capito all’improvviso che la fotografia poteva fissare l’eternità in un attimo; le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento“. E aggiunge: ” Non è la mera fotografia che mi interessa. Quel che voglio è catturare quel minuto, parte della realtà”.

Entra nel momento decisivo:  “Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l’immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale”. 

Non è una mera  improvvisazione, qualcosa di più e di diverso:  ” Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere”.  Alla base di tutto una  visione poetica: “Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni”..

C’è  la ricerca di una qualità quasi di tipo pittorico, pur nella spontaneità: “A volte c’è un’unica immagine la cui struttura compositiva ha un tale vigore e una tale ricchezza e il cui contenuto irradia a tal punto al di fuori di essa che questa singola immagine è in sé un’intera narrazione”.

Le sue parole ci  sembrano la migliore conclusione del racconto di una storia straordinaria: quella  di un artista della fotografia testimone e interprete di un secolo travagliato i cui eventi grandi e piccoli  fissati dal suo obiettivo,  restano nitidamente scolpiti nella nostra mente e nei nostri cuori.

Info

Museo dell’Ara Pacis, Nuovo spazio espositivo Ara Pacis, Via Ripetta, Roma.      Da martedì a domenica ore  9.00-19.00, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima; il venerdì e sabato per l’intera durata della mostra, prolungamento dell’orario di apertura, del solo spazio espositivo (Via di Ripetta), fino alle 22.00 (ultimo ingresso ore 21.00). Ingresso  solo mostra “Henri Cartier-Bresson” (ingresso da Via di Ripetta)  Intero € 11,00, ridotto € 9,00 (meno di 26 anni e oltre 65 anni e particolari categorie).  Per le mostre citate di grandi fotografi cfr. i nostri articoli in questo sito e in http://www.visualia.it

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara pacis all’inaugurazionbe della mostra, si ringraziano gli organizzatori con il Center Pompidou e  i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Henri Cartier Bresson per l’opportunità offerta.  Sono immagini di vita quotidiana e anche immagini insolite, in chiusura una fotografia della serie eventi con una carrellata di ritratti di personaggi, in primo piano un ritratto di Breznev.

Sironi, gli anni ’30 e la Grande decorazione, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Continua il racconto della nostra visita alla mostra antologica aperta al Vittoriano dal  4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015, dedicata a “Mario Sironi. 1885-1961”  con  140 opere dal’inizio del ‘900  all’inizio degli anni ’60, realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, con l’Archivio Sironi di Romana Sironi. Abbiamo in precedenza ricordato  la grandezza e la tragicità nelle sue opere, con riferimento alla sua figura di uomo e di artista in un periodo storico particolare, commentando le opere dagli esordi alla fine degli anni ’20. Ora passiamo alla fase esaltante delle pitture murali degli anni ’30.

La Pittura murale celebrativa degli anni ‘30

Con gli anni ’30 cambia tutto,  dai quadri passa alla pittura murale, affreschi e mosaici, rilievi monumentali e vetrate  con cui si immerge nell’amata classicità. Si avvale dell’esperienza acquisita fin dagli inizi con l’attività di illustratore anche a fini politici, e la traduce in una grandiosità compositiva che occupa interamente le pareti decorate, di qui il nome di “Grande decorazione”.

La pittura murale la sente complementare all’architettura, che ne amplifica l’effetto scenografico, ed è il mezzo più adatto a diffondere il messaggio politico che per lui, più che propaganda, è trasmissione di valori dell’uomo in cui crede, indipendentemente dall’ideologia che li diffonde con enfasi interessata. Analoga fu, nello stesso periodo,  la posizione di Deineka, il grande pittore russo tra i massimi esponenti del “Realismo socialista”  al di là dell’adesione ideologica per la fede nei valori dell’uomo, nel lavoro e nello sport, su cui faceva leva il regime comunista.

Sironi utilizza gigantografie stampate o affrescate, spesso con scritte a caratteri cubitali, nella gamma cromatica preferisce tinte discrete  e qualche colore rosso  nell’accostamento più adatto a  renderne massima la visibilità e l’effetto sull’osservatore.  

Alterna pitture murali per eventi  temporanei a pitture per destinazioni definitive usando le prime anche come  dei test per soluzioni scenografiche da utilizzare in via permanente. Mariastella Margozzi, nel saggio in Catalogo “Potenza dell’immagine. La grande decorazione di Sironi” afferma: “Non c’è soluzione di continuità tra le due tipologie, piuttosto un’evoluzione continua di impostazioni generali e soluzioni iconografiche e una trasformazione delle immagini, che da epiche diventano ieratiche, passando dalla narrazione della storia in atto alla celebrazione del mito”.

Le immagini riguardano ambienti, come le periferie urbane da lui rappresentate anche nei quadri, e le fabbriche, le campagne e i porti; e soprattutto personaggi, per lo più lavoratori, per esprimere i valori – dal lavoro alla casa e alla famiglia – della tradizione italiana, in una narrazione allora moderna e attuale. Soggetto prevalente nella prima metà del decennio “Il lavoro”, nella seconda metà “L’Italia fascista”; ci sono due mosaici su altri temi, la “Giustizia” e “L’Annunciazione”, con dei riferimenti impliciti all’ideologia del regime.

I grandi cartoni  murali, “clou” della mostra

Il “clou” della mostra sono proprio le grandi  pitture murali evocate con gigantografie per lo più di circa 3 metri per 2 cui è stato dato il posto d’onore nella rotonda centrale, l’effetto scenografico è notevole.

“L’allegoria del lavoro”, 1933,  comprende un insieme di figure maschili nude e una femminile con il peplo, è l’unico esposto con parecchie immagini, era un cartone preparatorio per la Triennale di Milano di quell’anno: nella pittura definitiva di cui è una piccola parte  fu eliminato il soldato posto all’estrema destra , perché servire la patria in armi non poteva essere considerato lavoro.

L’affresco finale, di ben 11 metri per 10,  era collocato a sua volta nella “Galleria della Pittura Murale”, che Sironi volle fortemente per lanciare il ritorno della Grande decorazione, dopo i fasti del  passato:  una successione di affreschi e di opere di artisti da de Chirico a Severini, Campigli e Funi,  nel Salone d’onore del Palazzo dell’Arte. La Galleria rappresentava l’Italia nelle sue varie espressioni, dal lavoro alla vita familiare, dallo studio allo sport.

Hanno un protagonista unico gli altri grandi cartoni preparatori. Per “L’Italia tra le Arti e le Scienze” , fu realizzato dall’artista nel 1935 un affresco monumentale collocato nell’Aula magna dell’Università di Roma dell’architetto Piacentini, cui l’artista fu molto legato; al riguardo c’è nel Catalogo l’accurata ricostruzione dei loro rapporti di Roberto Dulio. Ecco i due cartoni esposti.

Il primo,  “L’Astronomia”  è un’imponente e statuaria figura femminile dai tratti angolosi che guarda in basso, la tunica alla vita, le braccia piegate dinanzi al seno nudo, ben diversa dalle raffigurazioni classiche in cui la figura allegorica era serena e guardava il cielo; la visione drammatica dell’artista che dà l’impronta al cartone preparatorio non si trasferì sull’affresco finale in cui guarda in alto con le braccia levate verso il cielo. 

Nell’altro cartone, “Condottiero a cavallo”, l’immagine equestre è imponente,  lo si vede dalle minuscole dimensioni del codazzo di gerarchi e militi che non arriva alle ginocchia del gigantesco cavallo il quale, peraltro, pur essendo altissimo è esile come un ronzino, il contrario dei poderosi destrieri delle statue equestri. Se ne comprende subito il motivo, così spicca maggiormente il cavaliere, che tiene le redini senza baldanza ma con sicurezza, con stivali ed elmo, dal volto ingentilito e la fisionomia inconfondibile del condottiero per antonomasia: il Duce del fascismo.

Era l’anno della spedizione d’Africa, l’anno successivo sarà proclamato l’impero. Nel 1936 l’artista è impegnato in due grandi affreschi per il sacrario della Casa Madre dei Mutilati di guerra di Piacentini, “Rex Inperator” e “Dux”.  Vediamo esposto “L’Impero” , preparatorio del primo dei due affreschi citati, rappresenta l’Italia imperiale che scortava Umberto I: una figura di adolescente, con una tunica dal panneggio classico, nella mano sinistra il globo senza alcun trionfalismo, l’atteggiamento sereno; il lato bellico era nell’altra figura che fa da scorta, un soldato.

Non sono figure astrattamente allegoriche ma identificative, quelle dei cartoni preparatori di manifestazioni celebrative del 1936, che vediamo in mostra.  “Il lavoratore”  (o “Agricoltore”),  realizzato per il mosaico monumentale “L’Italia corporativa”, che lui chiamava “costruttrice” , è una figura maschile imponente e statuaria: la struttura geometrica la rende rigida, il volto di profilo dal mento volitivo secondo Emily Brown potrebbe ricondurre ancora al Duce, ma la Pontiggia la considera ipotesi suggestiva però priva di adeguate verifiche. Era la figura centrale, intorno le figure di contorno del costruttore  e degli agricoltori, della madre e della casa, fino  alla Legge e alla Giustizia.

Mentre “Lo studente” , per l’affresco “Venezia, l’Italia e gli studi” destinato all’Aula magna della Ca’ Foscari a Venezia, è altrettanto imponente  e geometrico, l’artista ha cercato di dargli  movimento con il ginocchio sinistro piegato, in aggiunta alla stabilità del ginocchio destro visto frontalmente. Però, anche se c’è il libro in un riquadro in alto, ciò che spicca è il fucile tenuto dal braccio destro, secondo il mussoliniano “libro e moschetto”, e il corpo nudo da atleta pronto a scattare.  “Il connubio, di ascendenza nietzscheana, osserva la Pontiggia, esprime una svalutazione della cultura libresca non accompagnata dalla cultura fisica, atletica, militare”. L’artista lo sente  come il russo Deineka che del “Realismo socialista”  condivideva proprio questo orientamento.

E siamo al cartone allegorico per eccellenza,  il più grande, esteso per oltre 5 metri, si tratta dello “Studio preparatorio per la Giustizia tra la Legge e la Forza”,   per il mosaico al Palazzo di Giustizia di Milano realizzato nel 1938. Oltre alle 3 figure allegoriche indicate nel titolo, c’è quella che rappresenta la verità, che l’artista definisce “come suprema aspirazione”, considerandola “simbolo della vita e delle forze che naturalmente si combattono per degli ideali umani”. Vi sono tanti simboli, dalla bilancia al capitello espressione della romanità imperiale, scritte e motti,  ma ciò che colpisce di più è l’immobilità delle figure femminili che impersonano le allegorie, viste frontalmente senza che i loro sguardi si incrocino, in una ieraticità che è anche un monito.

Dopo questo maxi cartone, due mini del 1940,  “Studio di affresco, Figura”, una delle 12 temperedi una raccolta del 1943 presentata da Massimo Bontempelli,  forse autonoma e non collegata a un preciso affresco, la donna con la tunica dal panneggio essenziale richiama in forma di bassorilievo la statuaria classica femminile; e“Composizione (Pegaso)” con Bellerofonte che lancia al galoppo il cavallo alato, l’artista si ispira al mito eroico, la disillusione che gli farà abbandonare tali temi è vicina, ma ancora si sente di volare pur nel suo animo  pessimista facile alla depressione.

Il ciclo di Pitture murali

Abbiamo citato soltanto i cartoni preparatori esposti in mostra, il ciclo di pitture murali dell’artista è molto nutrito ed è interessante ripercorrerlo, anche perché legato ad eventi emblematici su cui il regime faceva leva per diffondere i suoi messaggi nel modo più efficace.

Mariastella Mangozzi nel Catalogo ne fa un’ampia ricostruzione illustrando le singole iniziative, e ne dà questo giudizio di sintesi: “Sironi ne è stato certamente il massimo esponente, proprio perché il suo stile non è stato decorativo in senso stretto, ma ha conferito alla decorazione una nuova dignità, quella di rappresentare la storia in fieri, con tutta la forza delle sue azioni e dei suoi messaggi. Egli non ha messo a punto una decorazione come narrazione (come quasi tutti i suoi colleghi), bensì come attuazione del dramma, nel senso greco del termine”.

Ed ecco una rapida carrellata sulle  tante scene della sua liturgia drammatica ed epica insieme, ricavata dalla precisa elencazione della Pontiggia e dall’illustrazione dettagliata della Margozzi. .

Il preludio della grande rappresentazione si trova nel 1928-29, con l’allestimento di tre padiglioni fieristici  dedicati alla stampa insieme all’architetto Muzio: alla fiera di Milano, alla mostra internazionale di Colonia  e all’esposizione internazionale di Barcellona.  Importanti nella creazione di un linguaggio nuovo per dominare le grandi superfici e trasmettere significati simbolici.

Lo spettacolo inizia a Monza, alla Triennale di arti decorative del 1930, dove realizza la Galleria delle Arti Grafiche, con vetrate dipinte ed elementi architettonici.

Poi nel 1931 e 1932 a Roma, al Ministero delle Corporazioni,  è di scena la “Carta del lavoro”, anche qui una grande vetrata, questa volta su progetto dell’architetto Piacentini. L’artista raffigura l’Italia turrita,  liberata dalle catene, che consegna al popolo la Carta del lavoro promulgata nel 1927: in alto i luoghi in  cui si lavora, moderni come fabbriche e aeroporti, antichi come la campagna, ai lati figure allegoriche dei mestieri tutelati dalla Carta del lavoro in campo agricolo e industriale e delle discipline come architettura e scultura, per edificare la nuova Italia che risorgeva sui valori sociali di lavoro, patria  e famiglia.

Sempre nel 1932 a Bergamo  due pannelli decorativi  di 3 metri  e mezzo per il Palazzo delle Poste, con l’allegoria del lavoro nei campi, l’Agricoltura, e del lavoro in città, l’Architettura.  Prosegue così la “narrazione” dell’economia nuova e dell’umanità nuova,  con figure allegoriche simbolo dell’operosità italiana in una visione di grandezza proiettata nel futuro.

Nello stesso anno di nuovo a Roma  per allestire nel Palazzo delle Esposizioni una mostra rimasta aperta per due anni, celebrativa del  decennale della Rivoluzione fascista: una successione di ambienti in ognuno dei quali un fatto storico particolare con l’inevitabile contorno  propagandistico.

Siamo nel 1933, a Milano c’è la V Triennale, l’artista è nel direttorio e  dedica  la manifestazione alla Grande decorazione, secondo le sue concezioni esposte l’anno precedente nel “Manifesto sulla pittura murale”: con il titolo esiodeo “Le opere e i giorni” realizza un affresco  sul mito del lavoro di oltre cento metri quadri di parete, a decorare il salone d’onore chiama grandi artisti, de Chirico e Campigli, Severini e Funi. Con la “Galleria della pittura murale” crea un laboratorio creativo della Grande decorazione all’insegna della sua concezione dell’unicità dell’arte:  pittori, scultori e architetti sono messi a lavorare insieme e anche a più mani, dall’affresco al rilievo, fino  al mosaico.

Ancora Roma, nel 1934,  nell’aula magna della Città Universitaria sviluppa il tema decorativo “L’Italia tra le arti e le scienze”, affidatogli da Piacentini, con allegorie delle discipline storiche, artistico-letterarie e scientifiche  che si insegnavano nei padiglioni intorno al Rettorato; e allegorie della grandezza dell’Italia, una Vittoria alata a sinistra e un arco di trionfo a destra.

Nel 1935 si inaugura a Roma la Città universitaria e nel 1936  la scena si sposta a Milano, alla VI Triennale dove realizza un mosaico, da lui ritenuto una scelta di modernità, sull’Italia corporativa,  volto a delineare l’assetto politico-organizzativo che il regime ha dato al lavoro: l’Italia  raffigurata sul trono viene sostenuta da coloro che ne sono protagonisti, lavoratori e contadini, costruttori  e militari; l’opera per i ritardi dei mosaicisti veneziani fu completata solo l’anno dopo.

Sempre a Milano, nel 1936, una decorazione ancora a mosaico, per un’aula del Palazzo di Giustizia progettato da Piacentini, sulla “Giustizia e la Legge tra la Forza e la Verità”.  L’abbiamo già descritta commentando il cartone preparatorio esposto in mostra, aggiungiamo solo che si vuol evidenziare la discendenza dalla giustizia e dalla legge di Roma di cui sarebbe erede il fascismo.

Il set torna ancora a Roma, tra il 1936 e il 1939, nel sacrario della Casa madre dei Mutilati della Prima Guerra mondiale, vicino Castel Sant’Angelo,  ai lati delle porte di accesso gli affreschi con le figure equestri di “Rex Imperator” e “Dux”,  come pilastri del regime; mentre ai lati delle altre porte le allegorie dell’esercito e dell’impero, del fascismo e della cultura”, anche a questo abbiamo accennato nel commento dei cartoni.

Nel 1936-37 è di scena a Venezia, all’università “Ca’ Foscari”,  l'”Italia e gli studi”, abbiamo visto la figura dello studente con il fucile imbracciato nel segno del motto  “libro e moschetto”, nel 1937  a Parigi, all’Expo, due bassorilievi in gesso sull'”Italia colonizzatrice”,  e sull’ “Impero italiano d’Etiopia”  proclamato l’anno prima.

Siamo nel 1938, a Milano cala il sipario sulle grandi decorazioni murali, il set è il Palazzo del Popolo d’Italia, l’artista con l’architetto Muzio progetta l’intervento che consiste in un grande rilievo sull'”Impero”  dello scultore Sessa, una figura di donna questa volta armata, con intorno il popolo italiano, uomini e donne in difesa della patria nel duro periodo delle “inique sanzioni”. Molti altri rilievi ed elementi decorativi  e un lussuoso salone d’onore mai ultimato, perché i lavori cessano nel 1941. “L’Italia era già in guerra – conclude la Margozzi – e il mondo sironiano, fatto di epicità e grandezza, di grande fede nell’ideologia fascista, stava già andando in frantumi”.

Gli allestimenti  e i progetti non realizzati

Faceva anche allestimenti per manifestazioni in cui lavorava strenuamente in contatto con l’architetto, sempre coerente con la sua concezione, e il suo sogno, di un’unità di tutte le arti.

Numerosi anche questi allestimenti: le sale centrali del Palazzo Esposizioni di Roma, per la mostra sulla Rivoluzione fascista nel 1932; la sala dell’aviazione nella Grande guerra per la mostra sull’Aeronautica italiana nel 1934  e il salone d’onore nel palazzo della Triennale per la mostra nazionale dello Sport nel 1935; il Padiglione Fiat alla Fiera campionaria di Milano nel 1936 e della sala Italia oltremare all’Expo di Parigi nel 1937; il salone Fiat al Lingotto per la mostra di Torino sull’Autarchia e la mostra nazionale del Dopolavoro al Circo Massimo nel 1938, fino a un nuovo Padiglione Fiat alla Fiera di Milano nel 1941.

E poi progetti non realizzati: per il Palazzo del Littorio, con Terragni rilievi e pitture murali nel 1934: per la colonia marina dei fasci all’estero a Cattolica due affreschi con la vela, la nave e il faro tra muri e architetture nel 1935, abbiamo già visto sul tema “Il molo” dipinto nel 1921; per l’atrio del Livanium a Padova con l’architetto Giò  Ponti nel 1938; infine per il Danteum  con il gruppo Terragni progetti di sculture nel 1939.

Si può capire come il suo impegno fosse frenetico, senza soste e potesse nuocere alla sua salute.  E quando con il crollo del regime tutto questo ebbe termine, prima dell’abbandono dei temi celebrati con tanta forza espressiva,  il lavoro torna ad essere sofferto e opprimente, i cavalieri appaiono come imprigionati: si vede nei dipinti degli anni ’40.

Il significato della Grande decorazione murale

Questa forma d’arte riflette, oltre al suo impegno ad alto livello nel regime,  una concezione per lui vitale secondo cui quando si devono esprimere grandi concetti la misura piccola del quadro è inadeguata: serve l’affresco della Grande decorazione che metteva fuori gioco mostre e gallerie, quindi gli strumenti di cui si serve l’arte moderna da lui detestati, le esposizioni e il mercato.

Non è soltanto una concezione artistica, ha anche un valore sociale e politico. Così la Pontiggia: “L’affresco, sostiene Sironi, è l’arte stilisticamente più alta per la grandiosità delle forme  e l’epicità dei soggetti che necessariamente comporta… Soprattutto, però, è un’arte per il popolo, non per i facoltosi collezionisti, ed è l’arte fascista per eccellenza per la sua dimensione popolare e sociale”. Il pensiero va alla monumentale “Metropolitana” di Mosca, ricca di opere d’arte  con cui la Rivoluzione comunista voleva offrire al popolo l’equivalente dei grandi e lussuosi palazzi  e della reggia di Zar e sovrani.  

Un altro dei suoi sogni utopici? Certo è che fu coerente con questa impostazione rifiutando non solo di partecipare alle mostre ma anche di dare suoi quadri alle gallerie tanto che nel maggio 1934 Barbaroux, titolare della Galleria Milano, lo citò in giudizio  per questi due rifiuti che  danneggiavano economicamente lui gallerista, oltre all’artista mosso da motivi ideali. Dovette  venire a patti impegnandosi a risarcirlo, a dargli entro un anno 6 quadri e a partecipare nei tre anni successivi ad almeno 4  mostre. Sei anni dopo vorrebbe citare lo stesso Barbaroux in giudizio per avere inviato ad una mostra di Zurigo 9 sue vecchie opere mentre lui non si sente rappresentato né dalla mostra né dai quadri, ma deve desistere, il contratto dava al gallerista questa facoltà.

Torna, in termini ancora più radicali, il rifiuto a partecipare alle mostre: non presenta opere alla Biennale di Venezia del 1934 né alle successive, e così per Quadriennale di Roma dal 1935 in poi; è bene precisare che il rifiuto si protrarrà anche nel dopoguerra, anzi nel 1952 diffiderà formalmente la galleria “Il Cavallino”  di organizzare una sua mostra personale parallela alla Biennale.

Come interpretare questo suo intransigente radicalismo? La Pontiggia si chiede se il suo è un “Realismo fascista” come c’era un “Realismo socialista” e, secondo Moravia, un “Realismo cattolico”, cioè se la sua sia “un’arte di propaganda e di Stato”. In effetti nel celebrare il lavoro e la patria dava enfasi alla dottrina sociale del regime e al suo nazionalismo patriottico, tanto che nel “Manifesto della pittura murale”  aveva auspicato un'”Arte fascista”, andando oltre la stessa volontà di Mussolini che l’aveva esclusa. Ma in pratica, argomenta la curatrice, non poteva nascere un “Realismo fascista”  sia perché  la sua visione dell’arte era affidata allo stile piuttosto che ai contenuti, sia perché “la sua concezione tragica della vita era intimamente e, per così dire, ontologicamente, in contrasto con le esigenze della propaganda e urtava contro qualsiasi annuncio di ‘magnifiche sorti e progressive'”. Lo si vede nella vetrata del Palazzo delle Corporazioni, in cui le monumentali immagini dei lavoratori hanno un sapore antico e  una “solennità dolorosa”, ben lontane dall’intento celebrativo legato alla contingenza propagandistica del regime.

Il fascismo se ne rese conto, perciò le sue opere non furono apprezzate dai gerarchi per il loro contenuto ideologico, tanto che Farinacci lo combatté con forza.  Anche in questo troviamo lo stesso paradosso di D’Annunzio, boicottato dall’antifascismo dopo esserlo stato dal fascismo.

Solo nelle realizzazioni effimere come gli allestimenti, nei quali non era in discussione l’arte, creava con un linguaggio teatrale un clima liturgico all’insegna dei dettami della mistica fascista. Ne è stata sopravvalutata la valenza dai suoi detrattori, dimenticando che erano progetti commissionati con precise direttive politiche alle quali non poteva sottrarsi; mentre allorché aveva l’autonomia dell’artista come nelle opere permanenti, faceva valere la sua visione non certo trionfalistica, anzi ripiegata nel pessimismo esistenziale che rendeva drammatica la sua grandiosità.

E così siamo arrivati all’ultima fase, dagli anni ’40 al dopoguerra fino a tutti gli anni ’50. Il percorso artistico segue la sua vicenda umana, certamente dolorosa se si pensa alle ripercussioni psicologiche del crollo dell’utopia in cui aveva creduto: un’utopia più umana che politica, l'”Uomo costruttore” che aveva trovato la cornice ideologica e, per parte sua, artistica in cui esprimersi e realizzarsi.

Vicenda umana di cui è eloquente l’episodio già ricordato, la condanna a morte da parte del gruppo di partigiani che lo fermò a Milano nel fatidico 25 aprile 1945; e il salvataggio ad opera di un componente del gruppo, Gianni Rodari che, pur dalla parte politica opposta, seppe riconoscere la visione artistica delle sue opere legata alla propria concezione  fornendogli il provvidenziale salvacondotto che lo sottrasse all’esecuzione sommaria già decretata. 

Ma prima di questo momento altamente drammatico le opere dell’inizio degli  anni ’40, nelle quali si vede il modo radicalmente diverso con cui rappresenta il lavoro, non più esaltazione ma sofferenza, anzi angoscia; nel dopoguerra la faticosa  ricostruzione di una propria cifra artistica fino a tutti gli anni ’50.  E’ il seguito della storia artistica e la conclusione della vicenda umana di Sironi, ne parleremo prossimamente.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito i due nostri articoli precedenti sulla “grandezza e la tragicità” di Sironi il 1° dicembre, e sugli “anni ’20” della sua pitturail  14 dicembre 2014, il quarto e ultimo sugli “anni ’40 e oltre” è previsto per i primi di gennaio 2015, ogni articolo ha 10 immagini.  Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su “Deineka”  il    26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012,   su “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, su  “D’Annunzio”  il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, sui  “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011,   su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Lo studente”,  1936; seguono  “Allegoria del Lavoro”, 1933 e  “Astronomia”, 1935,  poi  “Condottiero a cavallo”, 1935, e  “Figure (Il giudice)”, 1938;  quindi ” Cavallo e cavaliere”, 1943-44, e  “Composizione con cavaliere”, 1949; , infine“Il pastore (Uomo e case)”, 1940-42, e “Il Lavoro”, 1949;  in chiusura,  una sala della mostra con la Grande decorazione, vista dall’alto, il pannello orizzontale lungo e stretto è “La Giustizia tra la Legge  e la Forza”, gli altri due sono  “Condottiero a cavallo” e “Lo studente”, riprodotti separatamente all’inizio.