Zaza, il corpo confine del mondo, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  dal 6 dicembre 2014 al 15 febbraio 2015, la  mostra “Michele Zaza. Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo”,   24 sequenze fotografiche e una serie di cartoni con 6 disegni e 16 progetti: un uso molto particolare del mezzo fotografico insieme alla scultura e ai disegni di un artista presente da oltre quarant’anni
con continuità sulla scena artistica in Italia e all’estero.  La mostra è curata da Angelandreina Rorro,  catalogo di  Maretti Editore. 

Le mostre personali e collettive

Nella biografia di Michele Zaza colpisce la successione di mostre personali e collettive a cadenza annuale quasi senza interruzioni dal 1972  al 2014. Le personali, dalla mostra a Milano del 1972,  intitolata “Cristologia”, a 24 anni,  all’ultima, nel 1014, a Parigi, nella Galerie Bernard Bouche; le collettive  da Rio de Janeiro e Filadelfia nel 1973, fino alle più recenti a  Livorno e Firenze nel 2014.

Nel quarantennio una presenza continua, anno dopo anno, nelle mostre collettive, mentre sue mostre personali  mancano soltanto nel  1984, 1986-87, 1989-90, 2002, negli altri 36 anni è sempre presente.

Le mostre personali lo vedono, negli anni ’70, dopo Milano a Bari e Napoli, Roma e Genova, Brescia e Torino, all’estero a Zurigo e Basilea,  Parigi, New York e Monaco.

Negli anni ’80 ancora mostre a New York e Parigi, Milano e Bari,  Roma e Genova, inoltre espone a Venezia, Troyes e Berna.

Anni ’90, espone  a Mosca nel 1996, e oltre alle città italiane già citate, è all’Aquila e Andria. 

Con gli anni 2000 alle presenze italiane aggiunge Strasburgo, torna a Parigi nel 2006 e nel principato di Monaco nel 2008; fino alla mostra parigina del 2014 e a quella attuale a Roma.

La cavalcata artistica nelle mostre collettive è ininterrotta, dopo Rio e Filadelfia nel 1973  è presente a Colonia e New York l’anno successivo, poi  a Parigi e Basilea, Nizza e Zurigo, Belgrado e San Paolo, Stoccarda e Gand, con ritorni a New York
e Parigi; per l’Italia lo troviamo a Firenze e Bologna, Roma e Genova,  Venezia e Torino,  e siamo solo negli anni ’70. 

Nel decennio successivo torna a New York e Parigi e va a Londra e Berlino, Amburgo e Stoccarda, Ginevra e Monaco, oltre a Roma  e Acireale, Bologna e Ravenna. 

Con gli anni ’90, oltre a tornare a Parigi e Ginevra, va a Los Angeles, per l’Italia a Bari e Napoli, Genova e Firenze,
Modena e Milano.

Negli anni ‘2000 di nuovo a Parigi e Ginevra, Roma e Milano, in  più va a Berlino, Bruxelles  e Bordeaux, in Italia va a
Rimini e  Treviso, Napoli e Todi. 

Dal 2010 lo troviamo all’estero a Lugano, Parigi e Mosca, in Italia  a Milano e Bari,  Ravello e Verona, Roma e Torino, Brescia e Saronno, infine a Livorno e  Firenze nel 2014.

Abbiamo ripercorso analiticamente l’itinerario espositivo, cosa per noi inconsueta anzi inedita, sorpresi da questa presenza
ininterrotta sulla scena artistica nazionale e  internazionale, in un così ampio arco temporale;  perché non si tratta di un
artista “facile”, nel senso dell’immediata comprensibilità della sua espressione artistica, tutt’altro. Ma il fatto che la sua specificità non nelimita la diffusione stimola ancora di più l’interesse di questa mostra e  ne accresce il valore tanto più che citroviamo dinanzi a un uso della fotografia molto particolare associato a una scultura anch’essa del tutto personale.

Qualche nota biografica, la descrizione dei soggetti  prevalenti insieme all’autoanalisi dell’autore precedono la descrizione delle opere che a un’apparente semplicità uniscono significati reconditi.


 La sua formazione e l’ispirazione familiare

Nella biografia spicca l’incontro con l’arte delconterraneo Pino Pascali, artista affermato che studiò
per la tesi del  diploma da “maestro d’arte in decorazione pittorica”, conseguito  a Bari nel 1971. Pascali ebbe una prima profonda influenza su di lui, che così ne parla:  “La sua opera nella sua totalità mi fece capire che l’uomo non abita nel paesaggio ma è il paesaggio che abita nell’uomo. Il rapporto relazionare è direttissimo nel senso che la terra d’origine viaggia con l’uomo”, con riferimento alla  Puglia e al suo mare, comune ai due artisti, Zaza è nato a Molfetta in provincia di Bari nel 1948.

Segue  il corso di scultura di Marino Marini all’Accademia di Brera, seguendo la sua vocazione sin dall’infanzia di  “manipolare la materia”, da ragazzo  costruiva giocattoli rudimentali e le sue prime opere sono  sculture razionali e
minimali; a Milano  frequenta l’ambiente artistico,  conosce Giacometti, Moore e Brancusi, la percezione visiva e la forma plastica come modularità e interazione lo colpiscono in modo particolare. Quindi torna a Bari da Assistente  di Amerigo Tot alla cattedra di scultura dell’Accademia.

Troviamo, quindi, pittura e scultura nella sua formazione, ma c’è un’altra forma espressiva che lo interessa ancora prima di
diplomarsi. Già nel 1970  fotografa  le situazioni da lui stesso create: chiama “Simulazione d’incendio” la ripresa
fotografica di un fuoco da lui appiccato a legni scolpiti nella villa comunale di Molfetta per muovere l’apatia dei passanti e registrarne le reazioni. E’ una prima prova della sua creatività mediante un fatto esistenziale in cui la realtà diventa arte con  l’immagine smaterializzata; poi oltre alla realtà esterna registra con il mezzo fotografico la propria vita  familiare,
ma non per mera documentazione, bensì per superare il vissuto. 

Dal 1972 riprende  i genitori e se stesso, sulla base di un’idea creativa organizza un vero  e proprio “set”:   la fotografia è il momento finale di una composizione elaborata.  Presenta le immagini nello stesso anno alla  prima mostra personale nella Galleria Diaframma di Milano, con il titolo impegnativo “Cristologia “.  

I genitori  diventano “protagonisti di una nuova vita, di una nuova identità, di una ritrovata identità”, e la famiglia, secondo il suo intendimento, viene riunita “intorno a un unico corpo di padre-madre-figlio”. E’ il tema della personale alla Galleria Marilena Bonomo di Bari nel 1973,intitolata “Dissidenza ignota”.    

Alla fine degli anni ’80, scomparsi i genitori,, diventano  protagonisti con lui la moglie Teresa e la figlia Ileana: per il loro vissuto gli consentono di  costruire rappresentazioni sulla base di idee e pensieri.

Perché ritrae i membri della propria famiglia? L’artista lo spiega così: “Tramite l’uso della fotografia esprimevo un atto di rivolta teso a trasfigurare il quotidiano omologato . Le azioni, che venivano fotografate non erano performance impropriamente dette teatrali, ma proposte di vita alternativa, tentativi di modificare in positivo e creativo, nel cuore della propria casa, l’opaca interazione del loto vissuto quotidiano”. Per lui è “una sorta di arte dell’esistenza capace di traguardare i limiti della conformità e della ripetizione infinita”: come nella “Simulazione d’incendio” per scuotere  l’apatia dei conterranei ora vuole scuotere il tran tran all’interno della propria famiglia facendo diventare i genitori “protagonisti di una nuova vita, di una nuova identità, di una ritrovata identità”.

E’ vero che è il vissuto personale, ma non limita la visione rinchiudendola nell’ambito familiare. Lo afferma la direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Maria Vittoria Clarelli:”L’io, il tu, il noi, si pongono in relazione secondo gli
assi dei legami madre-figlio, figlio-padre, padre-figlia, marito-moglie, che però trascendono l’accidentalità autobiografica per risalire all’universale del mito”. Del resto, prosegue, “tutte le cosmogonie sono basate sui rapporti parentali. Il mondo, l’universo, il deserto, evocati nei titoli dei suoi lavori, sono per Zaza sia orizzonti sentimentali sia recinti semantici”.

Le persone e le cose, il corpo e il volto

La curatrice della mostra Angelandreina Rorro spiega così questa sua visione artistica: “Le persone della sua vita sono fondamentali, partire da esse significa cercare una verità nel proprio lavoro, significa avere materiale reale e vissuto attraverso cui elaborare pensieri e fornire idee e rappresentazioni”. E lo sono ancora di più quando fanno parte della sua famiglia, la maggiore fonte di ispirazione come si è visto.

Ma ci sono anche le cose per le quali mostra interesse, fino agli anni ’80 piatti vuoti e molliche di pane, zolle di terra e piccole sculture di cartapesta, sveglie e lampadine, poi si aggiungono cuscini e ovatta: anche qui siamo nell’ambito del vissuto familiare.  Per la Clarelli “sono cose che conservano la memoria delle relazioni personali e sociali alle quali era destinato il loro uso, anche quando diventano materiali con i quali comporre altre immagini”. L’artista ne dà conferma così: “Il pane  è l’archetipo dell’alimentazione e per me, nato e cresciuto nella povertà e nell’essenzialità, aveva il sapore di una conquista necessaria per l’esistenza. Il mio cuscino compariva in funzione di supporto sia a briciole di pane che a piccole sculture di cartapesta dipinte in vari colori, come simbolo onirico della lotta  tra la dura realtà e i molteplici dischiudimenti
dell’immaginazione”, mentre “l’ovatta diveniva nuvola, simbolo di lievitazione”, e la ricorda usata dal padre  per medicare le ferite alle mani provocate dal freddo e dal lavoro.

Come per le  persone, anche per le cose, gli oggetti, c’è una valenza che trascende il vissuto personale: “Attraverso di
essi –  afferma –  siamo nel mondo e allo stesso tempo attraverso  di essi il mondo è rappresentato in noi”. Le cose   sono al
centro della parte scultorea della sua arte,  iniziata dopo il 1985,  che allarga ancora di più la sua visuale oltre il proprio mondo: “Questi elementi plastici e tattili – è sempre l’artista –  hanno una valenza archetipa con richiami al cielo, al sole,  alla terra e al corpo. Essi proiettano infiniti significati, aperture dell’immaginazione in una visione oniric-cosmologica”. C’è un maggiore impegno compositivo, con il colore e la tridimensionalità, la fotografia è collegata alla scultura: “Gli elementi lignei vengono ripetutamente relazionati con volti che appaiono  e scompaiono mediante l’apertura e la chiusura delle mani, in caso di maschile e femminile, attraverso occultamento alternato dell’uno o dell’altro”. L’autoanalisi dell’artista aggiunge: “Sia le sculture che i volti ripetono gli stessi movimenti per offrire alla fruizione una visione cosmica unitaria”.

La visione unitaria passa dalla bidimensionalità alla plasticità delle forme, e alle persone e alle cose si aggiunge un nuovo
soggetto protagonista: “Il corpo – è sempre l’artista – rende esistente il mondo nel senso che è l’unica figurazione concreta della coscienza  e della conoscenza della storia del mondo”.  Lo raffigura  immobile e ieratico, e afferma:  “L’arte non offre possibilità alternative alla condizione umana, ma è al contrario la risultante di questa condizione”.

 “Abitare il corpo”  è intitolato il commento della curatrice della Rorro, che scrive: “Michele, il ‘pensatore di immagini’, il ‘pittore plastico’ ha lavorato e lavora molto sul corpo come elemento di sintesi tra persone e cose, tra persone paesaggio, tra
stato fisico e psichico dell’uomo”. In definitiva,  “il corpo è l’istante significativo della scultura di Zaza, nel senso che lui lo elegge a sintesi e centro della sua poetica”.

L’altro fondamentale soggetto dell’arte di Zaza, dopo le persone, le cose e il corpo, è il volto, che lo ha attirato in modo particolare negli ultimi anni. Per lui “il volto è il luogo specifico delle mutazioni fisiche e psichiche.  Il volto è lo spazio della rivelazione assoluta, la zona dove si concentrano i segni del tempo vissuto e della verità”. Viene presentato nelle  più
diverse angolazioni, frontalmente e di profilo, in bianco e nero e a colori, in senso fisico e metafisico, e collegato, come gli altri soggetti, ad una visione più alta: “La trascendenza trasforma il volto in una sorta di axis mundi capace di collegare il mondo reale con il mondo ideale, l’invisibile con il visibile. Insomma il volto diviene il contenuto umano fondamentale”. Altre sue parole: “Dipingo il volto affinché, attraverso la verità dei colori, si configuri come cielo, terra, presenza cosmica”; nel dire questo si riferisce non solo al pennello ma anche alla macchina fotografica.

Le opere in mostra, soprattutto fotografie  

Troviamo questi motivi nelle 23 sequenze e nelle altre opere in mostra, cioè i cartoni con 6 disegni e 16 progetti nei quali sono scritte delle riflessioni meritevoli di essere approfondite, come faremo più avanti. 

Molte immagini in  bianco-nero, tra le quali le prime del 1972, dalla” Simulazione d’incendio”,  di cui  abbiamo parlato come inizio creativo di un’arte volta a scuotere le inerzie e le normalità, a “Tre immagini  per un deserto mentale volontario”, 1972, una figura china a terra con sveglia e lampadina, oggetto che torna in “Eterno presente”,  in una sedia d’epoca su  uno scoglio nel mare.

Del 1974  “Dissoluzione, mito e stile”, una serie di immagini con una persona di spalle, tra vedute desolate  di una spiaggia deserta”; e  “Naufragio euforico. La felicità e il dovere nella ripetizione omologata”, una sequenza di 18 immagini di vita quotidianità di una persona nel buio con la luce sul volto. In  “Dissoluzione e mimesi”, 1975,  la persona è seduta alla tavola imbandita, vista in 5 posizioni con differenze impercettibili; mentre in “Mimesi” le immagini sono 10, un corpo visto di fronte in 5 di esse, una scala nelle altre 5, in un’oscurità rotta da un fiotto di luce; che vediamo nell’immagine dallo stesso titolo in due riprese, in una c’è anche la persona, nell’altra  soltanto la lampada accesa. Medesimo tema in  “Anamnesi”, 1975, persona e lampadina con un tenue colore rosato.  

Anche in“Ritratto celeste”, 1978, il colore è appena accennato, c’è una testa che in due opere intitolate “Neoterrestre”,  1979,  è tra forme imprecisate in  sequenze rispettivamente di 21 e 10 immagini. 

In ambito cosmico ancora di più Cielo abitato”, 1985,  34 immagini su fondo nero oppure ocra scuro con uno o più volti alternati oppure insieme a corpi celesti, esprime il rapporto tra il volto umano e  il mondo.

Siamo agli anni ’90, vediamo figurazioni geometriche quali “Iperione”, 1990, e “Icona”, 1994, e forme scultoree quali le
3 immagini di “Corpo centrale” ,1996, e “Cercatemi altrove”, 1997-98.

Con gli anni ‘2000 esplode il colore, in“Ritratto magico”, 2005, è raffigurato un viso verde, mani intrecciate bianche e rosse appoggiate  a un cuscino che le separa dal volto e completa la bandiera; sempre un viso, ma coperto dalle mani aperte in “Viaggiatore assoluto”, 2009, e “Viaggiatore magico”, 2010, mentre in  “Paesaggio magico”, 2011,  due visi molto piccoli dentro un portale misterioso, un arco con delle figure alate su un fondo blu.

Gli ultimi titoli aprono un nuovo fronte interpretativo: “L’uso frequente della parola ‘magico’ – commenta la Clarelli – si direbbe alluda non tanto a una prassi quanto a una dimensione, a uno spazio altro, a un’atmosfera al tempo stesso familiare e straniante”. C’è qualcosa di misterioso, l’arco a sesto acuto in cui sono inseriti i due volti con le immagini che lo punteggiano ne è un esempio, e questo dà importanza alla sezione della mostra in cui troviamo scritte rivelatrici in una serie di cartoni con schizzi enigmatici.

I disegni e i progetti

In questa sezione sono esposti anche 6  disegni del ciclo “Paesaggio”, né persone, corpi, volti, ma cose, in formazioni
nebulose o geometriche, tra giochi infantili  e visioni cosmiche, creatività e fantasia indecifrabile. Ma l’attenzione è attratta dai 16  progetti datati  1998-2010 con le scritte cui si è accennato.

Nei primi 7 cartoni cerca di penetrare nei misteri dell’origine, l’espressione “il confine del mio corpo è il confine del mio mondo” la traduce nel primo progetto in una figura archetipa, che ripete in quello seguente con l’iscrizione: “L’utero celeste è la radice dell’universo; io sono l’alba e il tramonto”. Poi è ancora più esplicito: “Estraneo, là dove mi trovo, l’indifferenza rende vuoto lo spazio, nel vuoto dello spazio si sviluppa l’idea del corpo”.

I 3 cartoni seguenti recano le scritte  “Centro rivelatore”, “La radice del corpo”, “La visione segreta”, sempre con l’immagine archetipa sovrastata da un piccolo volto che  scompare nel settimo cartone dove  scrive: “Cercatemi altrove.
Cercatemi  nell’essenza, cercatemi accanto agli angeli. Cercatemi nella dimensione del saluto. Cercatemi là dove abitano ancora i messaggeri dell’assolutezza”.

Nei 9 cartoni successivi è protagonista “il viandante che arriva a casa, è diventato già esperto riguardo all’essenza degli dei e dei gioiosi”, diventa “il viaggiatore azzurro”.  A questo punto tra forme geometriche scure contornate di luce, queste altre scritte: “L’universo guarda l’uomo. L’uomo guarda l’universo. L’universo guarda se stesso . L’uomo guarda se stesso. Il tempo guarda l’universo e l’uomo”.

Filosofia o fantasia? In un altro cartone scrive: “Sul sentiero dell’immagine mi trovo (si ritrova)  la via dell’immaginario”, e siamo nel campo cosmico, parla di costellazioni. Poi ecco “Il viaggiatore ascetico”, le immagini sono plurime , sempre spuntano dei piccoli volti,  si legge “L’arte è l’invisibile nel visibile. Il misticismo fa coincidere visibile e invisibile: tutte  le cose sono trasparenti”.

E’ un misticismo ricco di umanità: “L’anima non può dimenticare la sua propria vocazione divina, si sente esule sulla terra e respira, respira, respira, respira, respira”.

Nel penultimo cartone esposto, al centro ci sono i simboli del “rinoceronte alato” – anche Salvador Dalì attribuiva al rinoceronte significati straordinari – con la scritta: “Le immagini e le metafore sono la lingua madre, innata, la stessa che costituisce la base poetica della mente e rende possibile la comunicazione con tutti gli uomini e tutte le cose”.

L’ultimo cartone “Visione segreta”,  mostra in alto il volto coperto dalla mano. 

Sono simboli,  quelli delineati nei cartoni, forme elementari pur nella complessità dei concetti evocati. La Clarelli osserva: “Il mistero, sembra dirci Zaza, risiede nella semplicità dei simboli, che si svelano come tali solo a chi ha dedicato l’attenzione necessaria, ma che sussistono comunque come elementi visivi capaci di liberare l’immagine dalla contingenza, di renderla in qualche modo classica”. L’artista raggiunge questo risultato con “la concentrazione sui temi essenziali e la straordinaria economia dei mezzi espressivi. La narrazione è scarnificata ma sopravvive, anche quando l’esito è del tutto metaforico”. 

Metafore da decifrare, dunque, ed è questa una sfida intrigante che accresce l’interesse per il visitatore.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Roma. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45) , il venerdì fino alle ore 22,00 (biglietti fino alle 21,15), lunedì chiuso. Ingresso museo-mostra intero 13 euro, ridotto 10,50 euro, prima domenica del mese accesso gratuito. Tel. 06.32298221; www.gnam.beniculturali.it. Catalogo “Michele Zaza. Il confine del mio corpo è il confine del mio mondo”, Marietti Editore, novembre 2014, pp. 96, formato 21 x 21, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per questa mostra cfr. anche il nostro articolo in http://www.fotografarefacile.it. del febbraio 2015; per Salvador Dalì e il rinoceronte, citato nel testo, cfr. i nostri articoli sulla mostra al Vittoriano usciti in questo sito il 28 novembre, 2 e 24 dicembre 2012.        . 
 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la Gnam con i titolari
dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, due delle immagini di “Dissoluzione e mimesi”, 1975; seguono “Neoterrestre”, 1979, e “Viaggiatore assoluto”, 2009, poi “Viaggiatore magico”, 2020, e  due serie di cartoni di “Progetti”, 1998-2010, il primo cartone con il rinoceronte; in chiusura la sequenza di “Naufragio euforico. La felicità e il dovere nella ripetizione omologata”, 1974. 

Cartier Bresson, l””occhio del secolo”, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Si conclude la  nostra visita alla mostra “Henri Cartier Bresson”, aperta nel  Museo dell’Ara Pacis dal  26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015, con 350 fotografie e 150 documenti sul percorso artistico e di vita del celebre fotografo che ha lasciato la più vasta ed efficace testimonianza per immagini dei grandi eventi come della vita quotidiana nel secolo scorso. La mostra,  organizzatada Zetema e da Contrasto,  editore del  Catalogo, con la  Fondazione Henri Cartier Bresson, è stata prodotta dal Centre Pompidou che l’ha già esposta a Parigi, e curata da  Clément Chéroux, Abbiamo descritto gli aspetti principali della grande mostra che la differenziano notevolmente e la qualificano rispetto alle mostre precedenti sul grande fotografo rivolte a sottolineare l’unitarietà della sua produzione, mentre la mostra attuale presenta i diversi volti dell’artista. E questo isolandone i diversi momenti sia sul piano cronologico che su quello dei contenuti, in 9 sezioni alle quali corrispondono altrettante  visioni dei soggetti evidenziati. Una  accurato lavoro di ricerca e di  interpretazione che ci ha dato un’immagine complessa di un testimone che diventa protagonista.

In precedenza abbiamo ripercorso la prima fase della sua vita, quella della formazione, fino alla vicinanza con i surrealisti e all’influenza che questi hanno avuto su di lui. Ma è stato solo l’inizio.  

Le altre due fasi del  percorso artistico e di vita

Dall’orientamento artistico  in chiave surrealista, si passa all’impegno politico rivoluzionario su posizioni di sinistra, peraltro  degli stessi surrealisti,  per un nuovo corso anticolonialista e contro il pericolo della vittoria delle destre a livello interno e internazionale.  Firma manifesti per l'”unità d’azione” delle forze di sinistra e l’esigenza della lotta rivoluzionaria, nel 1936 a Parigi partecipa all’Associazione degli scrittori e artisti rivoluzionari, lavora nella stampa comunista; nel  1934 e 1935 aveva visitato  Messico e Stati Uniti in contatto con persone impegnate politicamente in senso rivoluzionario. Va in Spagna a fotografare la guerra civile tra franchisti e brigate internazionali, farà un film documentario che viene proiettato in mostra .  

La sua visione ideologica rivoluzionaria lo ha portato a prediligere le folle, come incarnazione del potere popolare. Ne era stimolato fortemente, si confondeva nella moltitudine con la macchina fotografica che fissava i movimenti  delle masse attraverso i volti, le espressioni, le bandiere. Nei lunghi periodi di lotte sociali e rivendicazioni popolari cercava di essere sempre presente nelle manifestazioni per fissarne i momenti più espressivi, lo farà  per soddisfazione personale anche dopo aver abbandonato i reportage.

Il risvolto di questo interesse per le masse è la sua rappresentazione di quelle che vengono chiamate “icone del potere”: ritratti di dittatori  o comunque esponenti di potere politico, nazionalista, religioso visti come ostentazione di un qualcosa che è disgiunto dalla realtà, e dalla vita, come fotomontaggi visivi.

Siamo negli anni ’40, milita nella resistenza francese continuando a svolgere il lavoro di fotografo, viene preso dai nazisti ma riesce a fuggire dal carcere, quando rientrerà in Francia assisterà i prigionieri evasi, alla liberazione di Parigi nel 1945 è presente con la sua macchina fotografica per immortalare quel momento glorioso.

Nel 1944 fa i primi ritratti per un editore.  Sarà questo un importante settore della sua attività, su commissione di editori e riviste. Diceva: “Fare un ritratto è per me la cosa più difficile.  E’ un punto interrogativo poggiato su qualcuno. Devi provare a mettere la macchina fotografica tra la pelle di una persona e la sua camicia”. E lo ha fatto con tanti grandi personaggi come quelli che abbiamo citato in precedenza. Cercava di far dimenticare la sua presenza al soggetto da ritrarre, fotografandolo a distanza e mai in primo piano, dando rilievo agli sfondi e all’ambiente. Continuerà a fare ritratti anche negli ultimi anni, dopo aver abbandonato l’attività.

Termina la guerra,  dirige  Le Retour, un documentario sul ritorno in patria dei prigionieri di guerra e dei deportati, mentre il Moma di New York  vorrebbe  dedicargli una mostra , credendolo morto in guerra;  per mostrare le sue foto ai curatori  prepara un album divenuto celebre, lo “Scrap Book”, con 346 foto. Dopo la mostra  l’album fu dimenticato, molte foto deperirono finché dopo sessant’anni, nel 2007, furono restaurate e pubblicate dalla Fondazione.

Dopo la guerra soggiorna negli Stati Uniti, impegnato in servizi fotografici per Harper’s Bazar, nel 1947 con gli  amici Seymor e Robert Capa, George Rodger  e William Vandivert fonda l’Agenzia Magnum e inizia un lunga serie di viaggi per il mondo, dal Canada al Messico, dall’India alla Cina, dal Giappone all’Unione Sovietica nei quali farà reportage che gli daranno una grande celebrità, in Urss fu il primo occidentale a fotografare liberamente. Viene anche in Italia, la prima volta nel 1951, e in Sardegna come inviato di Vogue nel 1962,

Fotografa anche la danza, dopo aver sposato  la ballerina giavanese Carolina Jeanne de Souza- Like,  in occidente danzava con il nome di Ratna Mohini;  ritrae nel 1949 le danzatrici di Bali e nel  1954 pubblica le immagini nel libro “Danses a Bali”, nella cui introduzione Antonin Artaud definisce il ballerino un “geroglifico animato”. Farà fotografie definite di “scrittura corporea”,  che esaltano il carattere ideografico del corpo in movimento; poi  applicherà tale formula alla sua visione delle città, ritraendo nello spazio urbano sagome viste come segni associati, come frasi scritte.

Tornato in  Francia,  nel 1950  trova un altro mondo, l’ “American way of  Life” ha dato avvio alla società dei consumi, diviene il suo tema fisso, lo rende con immagini che rivelano il desiderio dei consumatori attraverso i loro occhi non solo in Francia ma anche in altri paesi dove fotografa i compratori nei grandi magazzini. Ne nasce una galleria cosmopolita del consumismo  nei volti di tante nazionalità.

Ma non è solo il consumismo che lo attira, anche il mondo del lavoro nel momento in cui è in atto la ristrutturazione dell’industria europea. Data la sua posizione ideologica e il suo impegno politico si potrebbe pensare che ha voluto denunciare lo sfruttamento del lavoratore nelle catene di montaggio sempre più esasperate; non è così, lo interessava il rapporto fisico tra uomo e macchina, con l’operaio che ne diventa parte. Riflette le posizioni sociologiche sul predominio dell’uno o dell’altra che portavano i dadaisti e i costruttivisti a immagini fantasiose di ibridi con il rapporto di dominio biunivoco tra i due soggetti.

Diventa celebre a livello mondiale, ma ha l’interesse sempre concentrato sul suo paese, come si vede nel famoso reportage sulla sei giorni ciclistica di Parigi del 1957; e anche sull’Europa, come dimostrano le inchieste fotografiche in Germania e Italia, Inghilterra, Svezia e Svizzera, particolarmente studiate nelle inquadrature e nelle luci; si aggiungono  a quelle più eclatanti in India, Cina, Unione Sovietica.

Nel 1963 si trova a Cuba per la rivista “Life”, c’è la crisi dei missili che ha portato sull’orlo della guerra mondiale, le sue immagini rendono il clima di tensione e militarismo con i soldati armati nelle strade, la propaganda  da un lato, le bellezze dell’isola dall’altro.

Un  lungo soggiorno in Giappone nel 1965 lo porta ad una calma contemplativa che si vede nel suo stile di ripresa, tempi più lunghi, non ricerca come in passato l’istante da non perdere, le immagini potrebbero essere state riprese prima o dopo,  non c’è più\ il momento  decisivo.  Si avvicina al buddhismo e lo Zen diventa per lui filosofia di vita e modo di concepire la fotografia e l’arte.

Negli anni ’70  lascia il reportage, che ha la concitazione della attualità e lo obbliga a temi e situazioni prefissate, per dedicarsi a foto contemplative che rispondono sempre più a una propria esigenza interiore. Riduce  progressivamente l’impegno nella fotografia per tornare alla pittura, continuerà però a fare ritratti fino al 1980 e oltre, forse perché è una realtà che ancora lo interessa. Dice infatti:  “La fotografia di per sé non mi interessa proprio; l’unica cosa che voglio è fissare una frazione di secondo di realtà”.

Riprende la passione dell’infanzia, il disegno, con schizzi realizzati dal vero, aderenti alla realtà  ma senza colore. Addirittura al Louvre copia i capolavori e al Museo di storia naturale i reperti preistorici, ama soffermarsi alla finestra e allo specchio  nel rimirare le rughe del suo viso. . Espone  i disegni da soli o in occasione di mostre fotografiche .dando alle due forme espressive queste definizioni: “La fotografia è per me l’impulso spontaneo di una attenzione visiva perpetua che coglie istante ed eternità. Il disegno con la sua grafologia elabora quello che la nostra coscienza ha colto di quell’istante. La fotografia è un gesto immediato, il disegno una meditazione”..

Si  ritira dall’agenzia Magnum,  ritenendo che si fosse allontanata  dallo spirito iniziale, in realtà è  lui stesso ad aver mutato atteggiamento. Ha sempre la Leica per scelte personali, situazioni contemplative, per il resto si dedica all’organizzazione del suo sterminato archivio, di mostre e libri;  anche, e soprattutto, a visitare musei e mostre d-arte dove si impegna assiduamente nel disegno.

Nel 1979 grande mostra celebrativa a New York, nel 2000 con moglie e figlia crea  la Fondazione Henri Cartier-Bresson, per raccogliere la sua sterminata produzione e fornire uno spazio espositivo ad altri artisti; avrà nel 2002 il riconoscimento dello Stato come ente di pubblica utilità. La tutela della proprietà intellettuale delle sue opere per evitarne l’incontrollato sfruttamento commerciale ha portato la Fondazione a non autorizzare più nuove stampe salvo autenticare quelle di sicura origine.

La sua arte fotografica è descritta da lui stesso nel 1952 nel libro  The Decisive Moment (Il momento decisivo), pubblicato a New York, nella traduzione francese è intitolato Images à la sauvette. In particolare analizza il  reportage fotografico e la scelta del soggetto, la composizione e il colore, la tecnica e i clienti.

Il suo pensiero sulla fotografia e sulla vita

Dopo aver visto le 350 immagini e scorso gli altri 150 documenti il desiderio di saperne di più cresce, la ricerca di ciò che c’è dietro quella rappresentazione della realtà così spontanea e immediata ma nello stesso tempo specchio di una personalità creativa e motivata.

Per questo siamo andati a cercare le sue dichiarazioni, che compongono un mosaico dell’artista nello stesso modo in cui le sue fotografie hanno composto un mosaico del secolo.

Cominciamo con quelle di carattere pratico, semplici ma non  banali : “Il mestiere di reporter ha solo trent’anni, si è perfezionato grazie alle macchine piccole e maneggevoli, agli obiettivi molto luminosi e alle pellicole a grana fine molto sensibili realizzate per soddisfare l’esigenza del cinema. L’apparecchio è per noi uno strumento, non un giocattolino meccanico”. Di qui una preziosa indicazione: “ È sufficiente trovarsi bene con l’apparecchio più adatto a quello che vogliamo fare. Le regolazioni, il diaframma, i tempi ecc, devono diventare un riflesso, come cambiare marcia in automobile. In realtà la fotografia di reportage ha bisogno di un occhio, un dito, due gambe».

Poi un commento: La macchina fotografica è per me un blocco di schizzi, lo strumento dell’intuito e della spontaneità. E un precisazione:Ho scoperto la Leica; è diventata il prolungamento del mio occhio e non mi lascia più”, che ribadisce più volte:  “La mia Leica mi ha detto che la vita è immediata e folgorante. Non ho mai abbondato la Leica, qualunque altro tentativo mi ha sempre fatto tornare da lei.  Per me è LA macchina fotografica

Ma come definisce la fotografia? Abbiamo già riportato la sua definizione rapportata al disegno, aggiungiamo che per lui  “la fotografia è il riconoscimento simultaneo, in una frazione di secondo, del significato di un evento” e “ho capito all’improvviso che la fotografia poteva fissare l’eternità in un attimo; le fotografie possono raggiungere l’eternità attraverso il momento“. E aggiunge: ” Non è la mera fotografia che mi interessa. Quel che voglio è catturare quel minuto, parte della realtà”.

Entra nel momento decisivo:  “Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l’immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale”. 

Non è una mera  improvvisazione, qualcosa di più e di diverso:  ” Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere”.  Alla base di tutto una  visione poetica: “Si muore tutte le sere, si rinasce tutte le mattine: è così. E tra le due cose c’è il mondo dei sogni”..

C’è  la ricerca di una qualità quasi di tipo pittorico, pur nella spontaneità: “A volte c’è un’unica immagine la cui struttura compositiva ha un tale vigore e una tale ricchezza e il cui contenuto irradia a tal punto al di fuori di essa che questa singola immagine è in sé un’intera narrazione”.

Le sue parole ci  sembrano la migliore conclusione del racconto di una storia straordinaria: quella  di un artista della fotografia testimone e interprete di un secolo travagliato i cui eventi grandi e piccoli  fissati dal suo obiettivo,  restano nitidamente scolpiti nella nostra mente e nei nostri cuori.

Info

Museo dell’Ara Pacis, Nuovo spazio espositivo Ara Pacis, Via Ripetta, Roma.      Da martedì a domenica ore  9.00-19.00, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima; il venerdì e sabato per l’intera durata della mostra, prolungamento dell’orario di apertura, del solo spazio espositivo (Via di Ripetta), fino alle 22.00 (ultimo ingresso ore 21.00). Ingresso  solo mostra “Henri Cartier-Bresson” (ingresso da Via di Ripetta)  Intero € 11,00, ridotto € 9,00 (meno di 26 anni e oltre 65 anni e particolari categorie).  Per le mostre citate di grandi fotografi cfr. i nostri articoli in questo sito e in http://www.visualia.it

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara pacis all’inaugurazionbe della mostra, si ringraziano gli organizzatori con il Center Pompidou e  i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Henri Cartier Bresson per l’opportunità offerta.  Sono immagini di vita quotidiana e anche immagini insolite, in chiusura una fotografia della serie eventi con una carrellata di ritratti di personaggi, in primo piano un ritratto di Breznev.

Sironi, gli anni ’30 e la Grande decorazione, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Continua il racconto della nostra visita alla mostra antologica aperta al Vittoriano dal  4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015, dedicata a “Mario Sironi. 1885-1961”  con  140 opere dal’inizio del ‘900  all’inizio degli anni ’60, realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, con l’Archivio Sironi di Romana Sironi. Abbiamo in precedenza ricordato  la grandezza e la tragicità nelle sue opere, con riferimento alla sua figura di uomo e di artista in un periodo storico particolare, commentando le opere dagli esordi alla fine degli anni ’20. Ora passiamo alla fase esaltante delle pitture murali degli anni ’30.

La Pittura murale celebrativa degli anni ‘30

Con gli anni ’30 cambia tutto,  dai quadri passa alla pittura murale, affreschi e mosaici, rilievi monumentali e vetrate  con cui si immerge nell’amata classicità. Si avvale dell’esperienza acquisita fin dagli inizi con l’attività di illustratore anche a fini politici, e la traduce in una grandiosità compositiva che occupa interamente le pareti decorate, di qui il nome di “Grande decorazione”.

La pittura murale la sente complementare all’architettura, che ne amplifica l’effetto scenografico, ed è il mezzo più adatto a diffondere il messaggio politico che per lui, più che propaganda, è trasmissione di valori dell’uomo in cui crede, indipendentemente dall’ideologia che li diffonde con enfasi interessata. Analoga fu, nello stesso periodo,  la posizione di Deineka, il grande pittore russo tra i massimi esponenti del “Realismo socialista”  al di là dell’adesione ideologica per la fede nei valori dell’uomo, nel lavoro e nello sport, su cui faceva leva il regime comunista.

Sironi utilizza gigantografie stampate o affrescate, spesso con scritte a caratteri cubitali, nella gamma cromatica preferisce tinte discrete  e qualche colore rosso  nell’accostamento più adatto a  renderne massima la visibilità e l’effetto sull’osservatore.  

Alterna pitture murali per eventi  temporanei a pitture per destinazioni definitive usando le prime anche come  dei test per soluzioni scenografiche da utilizzare in via permanente. Mariastella Margozzi, nel saggio in Catalogo “Potenza dell’immagine. La grande decorazione di Sironi” afferma: “Non c’è soluzione di continuità tra le due tipologie, piuttosto un’evoluzione continua di impostazioni generali e soluzioni iconografiche e una trasformazione delle immagini, che da epiche diventano ieratiche, passando dalla narrazione della storia in atto alla celebrazione del mito”.

Le immagini riguardano ambienti, come le periferie urbane da lui rappresentate anche nei quadri, e le fabbriche, le campagne e i porti; e soprattutto personaggi, per lo più lavoratori, per esprimere i valori – dal lavoro alla casa e alla famiglia – della tradizione italiana, in una narrazione allora moderna e attuale. Soggetto prevalente nella prima metà del decennio “Il lavoro”, nella seconda metà “L’Italia fascista”; ci sono due mosaici su altri temi, la “Giustizia” e “L’Annunciazione”, con dei riferimenti impliciti all’ideologia del regime.

I grandi cartoni  murali, “clou” della mostra

Il “clou” della mostra sono proprio le grandi  pitture murali evocate con gigantografie per lo più di circa 3 metri per 2 cui è stato dato il posto d’onore nella rotonda centrale, l’effetto scenografico è notevole.

“L’allegoria del lavoro”, 1933,  comprende un insieme di figure maschili nude e una femminile con il peplo, è l’unico esposto con parecchie immagini, era un cartone preparatorio per la Triennale di Milano di quell’anno: nella pittura definitiva di cui è una piccola parte  fu eliminato il soldato posto all’estrema destra , perché servire la patria in armi non poteva essere considerato lavoro.

L’affresco finale, di ben 11 metri per 10,  era collocato a sua volta nella “Galleria della Pittura Murale”, che Sironi volle fortemente per lanciare il ritorno della Grande decorazione, dopo i fasti del  passato:  una successione di affreschi e di opere di artisti da de Chirico a Severini, Campigli e Funi,  nel Salone d’onore del Palazzo dell’Arte. La Galleria rappresentava l’Italia nelle sue varie espressioni, dal lavoro alla vita familiare, dallo studio allo sport.

Hanno un protagonista unico gli altri grandi cartoni preparatori. Per “L’Italia tra le Arti e le Scienze” , fu realizzato dall’artista nel 1935 un affresco monumentale collocato nell’Aula magna dell’Università di Roma dell’architetto Piacentini, cui l’artista fu molto legato; al riguardo c’è nel Catalogo l’accurata ricostruzione dei loro rapporti di Roberto Dulio. Ecco i due cartoni esposti.

Il primo,  “L’Astronomia”  è un’imponente e statuaria figura femminile dai tratti angolosi che guarda in basso, la tunica alla vita, le braccia piegate dinanzi al seno nudo, ben diversa dalle raffigurazioni classiche in cui la figura allegorica era serena e guardava il cielo; la visione drammatica dell’artista che dà l’impronta al cartone preparatorio non si trasferì sull’affresco finale in cui guarda in alto con le braccia levate verso il cielo. 

Nell’altro cartone, “Condottiero a cavallo”, l’immagine equestre è imponente,  lo si vede dalle minuscole dimensioni del codazzo di gerarchi e militi che non arriva alle ginocchia del gigantesco cavallo il quale, peraltro, pur essendo altissimo è esile come un ronzino, il contrario dei poderosi destrieri delle statue equestri. Se ne comprende subito il motivo, così spicca maggiormente il cavaliere, che tiene le redini senza baldanza ma con sicurezza, con stivali ed elmo, dal volto ingentilito e la fisionomia inconfondibile del condottiero per antonomasia: il Duce del fascismo.

Era l’anno della spedizione d’Africa, l’anno successivo sarà proclamato l’impero. Nel 1936 l’artista è impegnato in due grandi affreschi per il sacrario della Casa Madre dei Mutilati di guerra di Piacentini, “Rex Inperator” e “Dux”.  Vediamo esposto “L’Impero” , preparatorio del primo dei due affreschi citati, rappresenta l’Italia imperiale che scortava Umberto I: una figura di adolescente, con una tunica dal panneggio classico, nella mano sinistra il globo senza alcun trionfalismo, l’atteggiamento sereno; il lato bellico era nell’altra figura che fa da scorta, un soldato.

Non sono figure astrattamente allegoriche ma identificative, quelle dei cartoni preparatori di manifestazioni celebrative del 1936, che vediamo in mostra.  “Il lavoratore”  (o “Agricoltore”),  realizzato per il mosaico monumentale “L’Italia corporativa”, che lui chiamava “costruttrice” , è una figura maschile imponente e statuaria: la struttura geometrica la rende rigida, il volto di profilo dal mento volitivo secondo Emily Brown potrebbe ricondurre ancora al Duce, ma la Pontiggia la considera ipotesi suggestiva però priva di adeguate verifiche. Era la figura centrale, intorno le figure di contorno del costruttore  e degli agricoltori, della madre e della casa, fino  alla Legge e alla Giustizia.

Mentre “Lo studente” , per l’affresco “Venezia, l’Italia e gli studi” destinato all’Aula magna della Ca’ Foscari a Venezia, è altrettanto imponente  e geometrico, l’artista ha cercato di dargli  movimento con il ginocchio sinistro piegato, in aggiunta alla stabilità del ginocchio destro visto frontalmente. Però, anche se c’è il libro in un riquadro in alto, ciò che spicca è il fucile tenuto dal braccio destro, secondo il mussoliniano “libro e moschetto”, e il corpo nudo da atleta pronto a scattare.  “Il connubio, di ascendenza nietzscheana, osserva la Pontiggia, esprime una svalutazione della cultura libresca non accompagnata dalla cultura fisica, atletica, militare”. L’artista lo sente  come il russo Deineka che del “Realismo socialista”  condivideva proprio questo orientamento.

E siamo al cartone allegorico per eccellenza,  il più grande, esteso per oltre 5 metri, si tratta dello “Studio preparatorio per la Giustizia tra la Legge e la Forza”,   per il mosaico al Palazzo di Giustizia di Milano realizzato nel 1938. Oltre alle 3 figure allegoriche indicate nel titolo, c’è quella che rappresenta la verità, che l’artista definisce “come suprema aspirazione”, considerandola “simbolo della vita e delle forze che naturalmente si combattono per degli ideali umani”. Vi sono tanti simboli, dalla bilancia al capitello espressione della romanità imperiale, scritte e motti,  ma ciò che colpisce di più è l’immobilità delle figure femminili che impersonano le allegorie, viste frontalmente senza che i loro sguardi si incrocino, in una ieraticità che è anche un monito.

Dopo questo maxi cartone, due mini del 1940,  “Studio di affresco, Figura”, una delle 12 temperedi una raccolta del 1943 presentata da Massimo Bontempelli,  forse autonoma e non collegata a un preciso affresco, la donna con la tunica dal panneggio essenziale richiama in forma di bassorilievo la statuaria classica femminile; e“Composizione (Pegaso)” con Bellerofonte che lancia al galoppo il cavallo alato, l’artista si ispira al mito eroico, la disillusione che gli farà abbandonare tali temi è vicina, ma ancora si sente di volare pur nel suo animo  pessimista facile alla depressione.

Il ciclo di Pitture murali

Abbiamo citato soltanto i cartoni preparatori esposti in mostra, il ciclo di pitture murali dell’artista è molto nutrito ed è interessante ripercorrerlo, anche perché legato ad eventi emblematici su cui il regime faceva leva per diffondere i suoi messaggi nel modo più efficace.

Mariastella Mangozzi nel Catalogo ne fa un’ampia ricostruzione illustrando le singole iniziative, e ne dà questo giudizio di sintesi: “Sironi ne è stato certamente il massimo esponente, proprio perché il suo stile non è stato decorativo in senso stretto, ma ha conferito alla decorazione una nuova dignità, quella di rappresentare la storia in fieri, con tutta la forza delle sue azioni e dei suoi messaggi. Egli non ha messo a punto una decorazione come narrazione (come quasi tutti i suoi colleghi), bensì come attuazione del dramma, nel senso greco del termine”.

Ed ecco una rapida carrellata sulle  tante scene della sua liturgia drammatica ed epica insieme, ricavata dalla precisa elencazione della Pontiggia e dall’illustrazione dettagliata della Margozzi. .

Il preludio della grande rappresentazione si trova nel 1928-29, con l’allestimento di tre padiglioni fieristici  dedicati alla stampa insieme all’architetto Muzio: alla fiera di Milano, alla mostra internazionale di Colonia  e all’esposizione internazionale di Barcellona.  Importanti nella creazione di un linguaggio nuovo per dominare le grandi superfici e trasmettere significati simbolici.

Lo spettacolo inizia a Monza, alla Triennale di arti decorative del 1930, dove realizza la Galleria delle Arti Grafiche, con vetrate dipinte ed elementi architettonici.

Poi nel 1931 e 1932 a Roma, al Ministero delle Corporazioni,  è di scena la “Carta del lavoro”, anche qui una grande vetrata, questa volta su progetto dell’architetto Piacentini. L’artista raffigura l’Italia turrita,  liberata dalle catene, che consegna al popolo la Carta del lavoro promulgata nel 1927: in alto i luoghi in  cui si lavora, moderni come fabbriche e aeroporti, antichi come la campagna, ai lati figure allegoriche dei mestieri tutelati dalla Carta del lavoro in campo agricolo e industriale e delle discipline come architettura e scultura, per edificare la nuova Italia che risorgeva sui valori sociali di lavoro, patria  e famiglia.

Sempre nel 1932 a Bergamo  due pannelli decorativi  di 3 metri  e mezzo per il Palazzo delle Poste, con l’allegoria del lavoro nei campi, l’Agricoltura, e del lavoro in città, l’Architettura.  Prosegue così la “narrazione” dell’economia nuova e dell’umanità nuova,  con figure allegoriche simbolo dell’operosità italiana in una visione di grandezza proiettata nel futuro.

Nello stesso anno di nuovo a Roma  per allestire nel Palazzo delle Esposizioni una mostra rimasta aperta per due anni, celebrativa del  decennale della Rivoluzione fascista: una successione di ambienti in ognuno dei quali un fatto storico particolare con l’inevitabile contorno  propagandistico.

Siamo nel 1933, a Milano c’è la V Triennale, l’artista è nel direttorio e  dedica  la manifestazione alla Grande decorazione, secondo le sue concezioni esposte l’anno precedente nel “Manifesto sulla pittura murale”: con il titolo esiodeo “Le opere e i giorni” realizza un affresco  sul mito del lavoro di oltre cento metri quadri di parete, a decorare il salone d’onore chiama grandi artisti, de Chirico e Campigli, Severini e Funi. Con la “Galleria della pittura murale” crea un laboratorio creativo della Grande decorazione all’insegna della sua concezione dell’unicità dell’arte:  pittori, scultori e architetti sono messi a lavorare insieme e anche a più mani, dall’affresco al rilievo, fino  al mosaico.

Ancora Roma, nel 1934,  nell’aula magna della Città Universitaria sviluppa il tema decorativo “L’Italia tra le arti e le scienze”, affidatogli da Piacentini, con allegorie delle discipline storiche, artistico-letterarie e scientifiche  che si insegnavano nei padiglioni intorno al Rettorato; e allegorie della grandezza dell’Italia, una Vittoria alata a sinistra e un arco di trionfo a destra.

Nel 1935 si inaugura a Roma la Città universitaria e nel 1936  la scena si sposta a Milano, alla VI Triennale dove realizza un mosaico, da lui ritenuto una scelta di modernità, sull’Italia corporativa,  volto a delineare l’assetto politico-organizzativo che il regime ha dato al lavoro: l’Italia  raffigurata sul trono viene sostenuta da coloro che ne sono protagonisti, lavoratori e contadini, costruttori  e militari; l’opera per i ritardi dei mosaicisti veneziani fu completata solo l’anno dopo.

Sempre a Milano, nel 1936, una decorazione ancora a mosaico, per un’aula del Palazzo di Giustizia progettato da Piacentini, sulla “Giustizia e la Legge tra la Forza e la Verità”.  L’abbiamo già descritta commentando il cartone preparatorio esposto in mostra, aggiungiamo solo che si vuol evidenziare la discendenza dalla giustizia e dalla legge di Roma di cui sarebbe erede il fascismo.

Il set torna ancora a Roma, tra il 1936 e il 1939, nel sacrario della Casa madre dei Mutilati della Prima Guerra mondiale, vicino Castel Sant’Angelo,  ai lati delle porte di accesso gli affreschi con le figure equestri di “Rex Imperator” e “Dux”,  come pilastri del regime; mentre ai lati delle altre porte le allegorie dell’esercito e dell’impero, del fascismo e della cultura”, anche a questo abbiamo accennato nel commento dei cartoni.

Nel 1936-37 è di scena a Venezia, all’università “Ca’ Foscari”,  l'”Italia e gli studi”, abbiamo visto la figura dello studente con il fucile imbracciato nel segno del motto  “libro e moschetto”, nel 1937  a Parigi, all’Expo, due bassorilievi in gesso sull'”Italia colonizzatrice”,  e sull’ “Impero italiano d’Etiopia”  proclamato l’anno prima.

Siamo nel 1938, a Milano cala il sipario sulle grandi decorazioni murali, il set è il Palazzo del Popolo d’Italia, l’artista con l’architetto Muzio progetta l’intervento che consiste in un grande rilievo sull'”Impero”  dello scultore Sessa, una figura di donna questa volta armata, con intorno il popolo italiano, uomini e donne in difesa della patria nel duro periodo delle “inique sanzioni”. Molti altri rilievi ed elementi decorativi  e un lussuoso salone d’onore mai ultimato, perché i lavori cessano nel 1941. “L’Italia era già in guerra – conclude la Margozzi – e il mondo sironiano, fatto di epicità e grandezza, di grande fede nell’ideologia fascista, stava già andando in frantumi”.

Gli allestimenti  e i progetti non realizzati

Faceva anche allestimenti per manifestazioni in cui lavorava strenuamente in contatto con l’architetto, sempre coerente con la sua concezione, e il suo sogno, di un’unità di tutte le arti.

Numerosi anche questi allestimenti: le sale centrali del Palazzo Esposizioni di Roma, per la mostra sulla Rivoluzione fascista nel 1932; la sala dell’aviazione nella Grande guerra per la mostra sull’Aeronautica italiana nel 1934  e il salone d’onore nel palazzo della Triennale per la mostra nazionale dello Sport nel 1935; il Padiglione Fiat alla Fiera campionaria di Milano nel 1936 e della sala Italia oltremare all’Expo di Parigi nel 1937; il salone Fiat al Lingotto per la mostra di Torino sull’Autarchia e la mostra nazionale del Dopolavoro al Circo Massimo nel 1938, fino a un nuovo Padiglione Fiat alla Fiera di Milano nel 1941.

E poi progetti non realizzati: per il Palazzo del Littorio, con Terragni rilievi e pitture murali nel 1934: per la colonia marina dei fasci all’estero a Cattolica due affreschi con la vela, la nave e il faro tra muri e architetture nel 1935, abbiamo già visto sul tema “Il molo” dipinto nel 1921; per l’atrio del Livanium a Padova con l’architetto Giò  Ponti nel 1938; infine per il Danteum  con il gruppo Terragni progetti di sculture nel 1939.

Si può capire come il suo impegno fosse frenetico, senza soste e potesse nuocere alla sua salute.  E quando con il crollo del regime tutto questo ebbe termine, prima dell’abbandono dei temi celebrati con tanta forza espressiva,  il lavoro torna ad essere sofferto e opprimente, i cavalieri appaiono come imprigionati: si vede nei dipinti degli anni ’40.

Il significato della Grande decorazione murale

Questa forma d’arte riflette, oltre al suo impegno ad alto livello nel regime,  una concezione per lui vitale secondo cui quando si devono esprimere grandi concetti la misura piccola del quadro è inadeguata: serve l’affresco della Grande decorazione che metteva fuori gioco mostre e gallerie, quindi gli strumenti di cui si serve l’arte moderna da lui detestati, le esposizioni e il mercato.

Non è soltanto una concezione artistica, ha anche un valore sociale e politico. Così la Pontiggia: “L’affresco, sostiene Sironi, è l’arte stilisticamente più alta per la grandiosità delle forme  e l’epicità dei soggetti che necessariamente comporta… Soprattutto, però, è un’arte per il popolo, non per i facoltosi collezionisti, ed è l’arte fascista per eccellenza per la sua dimensione popolare e sociale”. Il pensiero va alla monumentale “Metropolitana” di Mosca, ricca di opere d’arte  con cui la Rivoluzione comunista voleva offrire al popolo l’equivalente dei grandi e lussuosi palazzi  e della reggia di Zar e sovrani.  

Un altro dei suoi sogni utopici? Certo è che fu coerente con questa impostazione rifiutando non solo di partecipare alle mostre ma anche di dare suoi quadri alle gallerie tanto che nel maggio 1934 Barbaroux, titolare della Galleria Milano, lo citò in giudizio  per questi due rifiuti che  danneggiavano economicamente lui gallerista, oltre all’artista mosso da motivi ideali. Dovette  venire a patti impegnandosi a risarcirlo, a dargli entro un anno 6 quadri e a partecipare nei tre anni successivi ad almeno 4  mostre. Sei anni dopo vorrebbe citare lo stesso Barbaroux in giudizio per avere inviato ad una mostra di Zurigo 9 sue vecchie opere mentre lui non si sente rappresentato né dalla mostra né dai quadri, ma deve desistere, il contratto dava al gallerista questa facoltà.

Torna, in termini ancora più radicali, il rifiuto a partecipare alle mostre: non presenta opere alla Biennale di Venezia del 1934 né alle successive, e così per Quadriennale di Roma dal 1935 in poi; è bene precisare che il rifiuto si protrarrà anche nel dopoguerra, anzi nel 1952 diffiderà formalmente la galleria “Il Cavallino”  di organizzare una sua mostra personale parallela alla Biennale.

Come interpretare questo suo intransigente radicalismo? La Pontiggia si chiede se il suo è un “Realismo fascista” come c’era un “Realismo socialista” e, secondo Moravia, un “Realismo cattolico”, cioè se la sua sia “un’arte di propaganda e di Stato”. In effetti nel celebrare il lavoro e la patria dava enfasi alla dottrina sociale del regime e al suo nazionalismo patriottico, tanto che nel “Manifesto della pittura murale”  aveva auspicato un'”Arte fascista”, andando oltre la stessa volontà di Mussolini che l’aveva esclusa. Ma in pratica, argomenta la curatrice, non poteva nascere un “Realismo fascista”  sia perché  la sua visione dell’arte era affidata allo stile piuttosto che ai contenuti, sia perché “la sua concezione tragica della vita era intimamente e, per così dire, ontologicamente, in contrasto con le esigenze della propaganda e urtava contro qualsiasi annuncio di ‘magnifiche sorti e progressive'”. Lo si vede nella vetrata del Palazzo delle Corporazioni, in cui le monumentali immagini dei lavoratori hanno un sapore antico e  una “solennità dolorosa”, ben lontane dall’intento celebrativo legato alla contingenza propagandistica del regime.

Il fascismo se ne rese conto, perciò le sue opere non furono apprezzate dai gerarchi per il loro contenuto ideologico, tanto che Farinacci lo combatté con forza.  Anche in questo troviamo lo stesso paradosso di D’Annunzio, boicottato dall’antifascismo dopo esserlo stato dal fascismo.

Solo nelle realizzazioni effimere come gli allestimenti, nei quali non era in discussione l’arte, creava con un linguaggio teatrale un clima liturgico all’insegna dei dettami della mistica fascista. Ne è stata sopravvalutata la valenza dai suoi detrattori, dimenticando che erano progetti commissionati con precise direttive politiche alle quali non poteva sottrarsi; mentre allorché aveva l’autonomia dell’artista come nelle opere permanenti, faceva valere la sua visione non certo trionfalistica, anzi ripiegata nel pessimismo esistenziale che rendeva drammatica la sua grandiosità.

E così siamo arrivati all’ultima fase, dagli anni ’40 al dopoguerra fino a tutti gli anni ’50. Il percorso artistico segue la sua vicenda umana, certamente dolorosa se si pensa alle ripercussioni psicologiche del crollo dell’utopia in cui aveva creduto: un’utopia più umana che politica, l'”Uomo costruttore” che aveva trovato la cornice ideologica e, per parte sua, artistica in cui esprimersi e realizzarsi.

Vicenda umana di cui è eloquente l’episodio già ricordato, la condanna a morte da parte del gruppo di partigiani che lo fermò a Milano nel fatidico 25 aprile 1945; e il salvataggio ad opera di un componente del gruppo, Gianni Rodari che, pur dalla parte politica opposta, seppe riconoscere la visione artistica delle sue opere legata alla propria concezione  fornendogli il provvidenziale salvacondotto che lo sottrasse all’esecuzione sommaria già decretata. 

Ma prima di questo momento altamente drammatico le opere dell’inizio degli  anni ’40, nelle quali si vede il modo radicalmente diverso con cui rappresenta il lavoro, non più esaltazione ma sofferenza, anzi angoscia; nel dopoguerra la faticosa  ricostruzione di una propria cifra artistica fino a tutti gli anni ’50.  E’ il seguito della storia artistica e la conclusione della vicenda umana di Sironi, ne parleremo prossimamente.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito i due nostri articoli precedenti sulla “grandezza e la tragicità” di Sironi il 1° dicembre, e sugli “anni ’20” della sua pitturail  14 dicembre 2014, il quarto e ultimo sugli “anni ’40 e oltre” è previsto per i primi di gennaio 2015, ogni articolo ha 10 immagini.  Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su “Deineka”  il    26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012,   su “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, su  “D’Annunzio”  il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, sui  “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011,   su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Lo studente”,  1936; seguono  “Allegoria del Lavoro”, 1933 e  “Astronomia”, 1935,  poi  “Condottiero a cavallo”, 1935, e  “Figure (Il giudice)”, 1938;  quindi ” Cavallo e cavaliere”, 1943-44, e  “Composizione con cavaliere”, 1949; , infine“Il pastore (Uomo e case)”, 1940-42, e “Il Lavoro”, 1949;  in chiusura,  una sala della mostra con la Grande decorazione, vista dall’alto, il pannello orizzontale lungo e stretto è “La Giustizia tra la Legge  e la Forza”, gli altri due sono  “Condottiero a cavallo” e “Lo studente”, riprodotti separatamente all’inizio.

Cartier Bresson, 350 foto del ‘900, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Nel Museo dell’Ara Pacis, dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015 la mostra “Henri Cartier Bresson” presenta 500 documenti della vita e dell’arte del celebre fotografo parigino, di cui 350 immagini scattate nei suoi viaggi per il mondo a testimonianza di eventi epocali del ‘900, come di scene di vita quotidiana. Prodotta dal Centre Pompidou che ha già presentato l’esposizione a Parigi, e curata dallo storico della fotografia Clément Chéroux, è organizzatacon la Fondazione Henri Cartier Bresson da Zetema e da Contrasto,  editore del  Catalogo..  

Nel decennale della morte di Henry Cartier Bresson, è prodotta dal Centre Pompidou di Parigi e curata dallo storico della fotografia Clément Chéroux, segue molto in grande la piccola ma significativa mostra a lui dedicata, tenuta al Palazzo Incontro  nel 2010, con 60 immagini. Coincide con il decennale della morte di Helmut Newton al quale il Palazzo Esposizioni ha già dedicato una grande mostra lo scorso anno con le sue immagini soprattutto sull’universo femminile. , .

Sembra di tornare indietro nel tempo, tanto questa mostra è diversa dalle altre sui maggiori fotografi, da Steve Mc Curry a Helmut Newton, da  Doisneau a Salgado, dove venivano presentati ingrandimenti spettacolari. Qui le immagini sono di piccola dimensione, quasi si trattasse di un album di famiglia esposto al pubblico. E sono ben 350 oltre a 150 tra disegni  e dipinti, manoscritti e altro materiale prezioso di documentazione del ‘900, il “secolo breve” così denso di avvenimenti.

Sono pochissime le fotografie  a colori, che  non amava anche perché quando il colore fu introdotto non consentiva una gradazione cromatica ricca come quella dei  grigi e richiedeva tempi di esposizione più lunghi quindi inadatti alla sua visione di foto istantanea, inoltre  appariva troppo vicina alla pittura con il particolare che  per lui era un “mezzo di documentazione non di espressione artistica” . Però dal 1946 agli anni ’70 ha fotografato anche a colori ritenendola “una necessità professionale, non un compromesso ma una concessione”.

Caratteristiche  della mostra

 Le altre mostre hanno celebrato in Bresson “l’occhio del secolo” mettendo in evidenza la sua capacità di fermare l’attimo in istantanee eloquenti con il sottinteso dell’unitarietà della sua opera con questo denominatore comune. Invece “all’opposto degli approcci unificatori – si afferma nella presentazione – questa esposizione vuol dimostrare che non c’è stato un solo Cartier-Bresson, ma tanti”. Anche per questo motivo perché le immagini riflettano  al meglio i momenti in cui sono state scattate, nel lungo periodo dagli anni ’20 al 2000,  sono nel formato delle varie epoche che ne esalta le differenze anche stilistiche rispetto ad una uniformità fittizia e forzata

Il percorso espositivo si articola in 9 sezioni, e una introduttiva, e si snoda come un labirinto senza fine negli ampi spazi del Museo dell’Ara Pacis. Visitare la mostra è come fare un viaggio nel secolo scorso sulla macchina del tempo. Ad ogni sezione corrisponde una fase di attività professionale e un periodo storico, gli eventi che sono rimasti nella memoria di tutti scolpiti nell’immediatezza del loro verificarsi: vediamo immagini o alla guerra civile spagnola e alla seconda guerra mondiale, alla decolonizzazione e alla  guerra freddai e di dittatori, in una successione incalzante sala per sala.

Si inizia dalle fotografie negli anni della formazione, con le influenze degli amici americani a Parigi,  il primo viaggio che fece in Africa e quelli successivi in tutto il mondo, America e Messico,  Spagna e Italia, Germania e  Polonia.  e Messico; i reportage di guerra, dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale;  è documentato il suo impegno politico a: New York con Paul Strand e il Nykino group, a Parigi con Jean Renoir e l’Associazione degli artisti e scrittori rivoluzionari (Aear); la collaborazione alla  stampa comunista con Robert Capa e Louis Aragon; le guerre, da quella civile spagnola resa in un film alla seconda guerra mondiale, ai documenti sulla resistenza e sul ritorno dei prigionieri come prigionieri, il lavoro per l’Agenzia Magnum, con i reportage in Cina e in India, con la morte di Gandhi, in Urss dopo la morte di Stalin, a Cuba nella crisi dei missili .  

Le sezioni, oltre a seguire la cronologia degli eventi, isolano aspetti peculiari della sua arte fotografica, come scelta dei soggetti e modalità espressive, citiamo  i temi “L’uomo e la macchina” e la serie “Vive la France”, fino alla “Fotografia contemplativa”..Raccontiamo la mostra ripercorrendo la sua vita e soffermandoci su questi aspetti: ogni fase da noi rievocata è documentata da un ricco campionario di immagini, che non possiamo citare dato il gran numero, oltre 350,  ma basta evocare gli eventi per immaginare la puntuale documentazione  nell’immediatezza del “momento decisivo”. C’è anche una galleria di grandi personaggi,  a livello politico come Gandhi e Nixon, letterario come William Faulkner e Truman Capote, Jean Paul Sartre ed Ezra Pound, artistico come Marcel Duchamp e Henry Matisse, John Huston e Marilyn Monroe, Igor Stravinsky,  mondano come Coco Chanel, fino allo scienziato dell’atomica Robert Oppenheimer..

Sono stati previsti anche dei percorsi storico-iconografici nel periodo della mostra, sulla fotografia come racconto del quotidiano e la fotografia di guerra, la fotografia e il ritartto, la fotografia del viaggio. , 

 Il percorso di vita e  l’arte fotografica nella prima fase 

Nato in Francia e fotografo francese a tutti gli effetti, è diventato “cittadino del mondo”, antesignano del  foto-giornalismo, testimone e interprete del novecento, tanto da essere chiamato “l’occhio del secolo”. Usava una Leica, leggera e maneggevole, per mescolarsi tra la gente e poter cogliere l‘”istante decisivo”, l’attimo fuggente da fissare sulla pellicola, si trattasse di un evento o di un fatto senza alcun valore in sé ma che lo acquista con lo scatto creativo del fotografo. Per questo viene ritenuto il precursore della “street photography” con una tecnica definita “snap shooting”, la spontaneità prevale sulla tecnica.. Non si esaurì in questa caratteristica, sarà suo anche un tipo di fotografia detto “contemplativo”; inoltre anche negli scatti “casuali”  la sua non era improvvisazione, lo vedremo ripercorrendo la sua formazione e la sua tecnica fotografica.

Nel rievocare i  principali momenti della sua lunga attività  ad altissimo livello va considerando che in aggiunta a quella professionale imperniata su reportage, ritratti e servizi su commissione, vi è quella che viene chiamata “antropologia visiva”, fatta di “combinazione di reportage, filosofia e analisi (sociale, psicologica e altro)”: un’attività personale, a latere di quella ufficiale,  che nasce dagli stimoli ricevuti nel corso del suo lavoro a   fotografare soggetti particolari fino a compiere vere e proprie inchieste suggeritegli dalle circostanze, quale che fosse il suo impegno del momento. “Sono visivo – diceva –  Osservo, osservo, osservo. E’ con gli occhi che capisco”. ,

In tal modo la galleria di immagini esposte, in una cronologia ricca  e stimolante  che si associa alla organizzazione tematica, nel fare la storia del grande fotografo fa anche la storia del secolo che ha rappresentato e documentato in modo così penetrante.

“L’opera fotografica di Cartier-Bressom – così viene presentata la mostra – è il prodotto di un insieme di fattori combinati: una certa inclinazione artistica, un assiduo apprendistato, un po’ di atmosfera del periodo, aspirazioni personali, molti incontri”. Ne daremo  qualche indicazione, dopo aver precisato che nella sua attività si possono evidenziare tre periodi fondamentali: il primo, negli anni della formazione, tra il 1926  e il 1935,  con l’influenza dei surrealisti francesi, l’inizio dell’attività fotografica e i primi grandi viaggi; il secondo negli  anni intorno alla seconda guerra mondiale, dal 1936 al 1946 con il suo impegno politgico, anche con la stampa comunista,  el’esperienza del cinema; il terzo, dal 1947 al 1970 con la creazione dell’Agenzia Magnum fino al termine dell’attività.

Ha iniziato con la pittura per la quale ha sempre avuto una vera passione; “Da bambino. Ha scritto, la facevo il giovedì e la domenica, ma la sognavo tutti gli altri giorni”. Adornava le sue lettere con disegni e si dilettava a fare schizzi fino a riempirne interi album. I più vecchi suoi dipinti sono del 1924, a 16 anni – era nato nel 1908 – lo stile si ispira a Cèzanne. Dipinge presso Jacque-Emile Blanche, poi entra nell’Accademia di Andrè  Lhote,  la geometria è al centro dei suoi  insegnamenti e lo affascina; i suoi dipinti del 1926 e 1928 ne sono influenzati. Applica i principi del “numero d’oro” nel 1931 legge il libro di Matila Ghyka diviene molto attento alla composizione.

Quindi grande amore per l’arte e amici artisti, anche americani, Julien Levy lo interessa alla composizione, con Caresse e Crosby, Gretchen e Powel scopre  la Nuova visione e le fotografie di Eugene Atget, pubblicate sulla rivista dei surrealisti, che erano colpiti daL loro carattere enigmatico, l’intera collezione fu acquistata da Levy alla morte di Atget nel . 1927. Le prime foto di Cartier Bresson si ispirano ai soggetti di Atget, come  manichini, vetrine, insegne, mucchi di merci.

E’ il 1930, ha terminato il servizio militare, va in nave in Africa, prima in Costa d’Avorio ma ancora non è attratto dalla fotografia pur se è fornito di  macchina fotografica; al ritorno da quel viaggio scatta l’attrazione fatale dopo aver visto una fotografia di Martin Munkacsi che gli fece “venir voglia – sono le sue parole – di guardare la realtà attraverso l’obiettivo”.. Visita anche  Cameron, Togo e Sudan, va lungo il Niger. Scatta molte immagini senza indulgere all’esotismo  che disprezza come “detestabile colore locale”, riprende i bambini che giocano e gli uomini che lavorano, remando o scaricando le navi, vuole rappresentare la vita quotidiana e va a caccia, raccoglie maschere e feticci, legge libri sull’Africa, vuole vivere la vita del continente.

L’esperienza è stata determinante per  farlo dedicare alla fotografia, nell’estate del 1931 raccoglie le immagini scattate in Africa con  le migliori  degli anni ’20 in un raccoglitore rudimentale, il “First album”. Poi con un amico si mette in viaggio per l’Europa, Germania, Polonia, Ungheria, quindi  Francia meridionale, Italia, Spagna.

La sua prima macchina fotografica impegnativa è  una Leica 35 mm con lente di 50 mm che manterrà a lungo, preferirà sempre la leggerezza e la maneggevolezza rispetto alle macchine più ingombranti per mescolarsi tra la gente

Ha anche un’importante esperienza  nel cinema,  assistente del celebre regista francese Jean Renoir in due film nel 1936 (“La vie est à nous” e “Una partie de campagne”), dopo i quali nel 1937 è lui stesso regista del film “Return to life”; tornerà nel 1939 ad assistere Renoir in “La régle du Jeu”. Anche qui il suo impegno nella rappresentazione della realtà con forte sensibilità politica.  .

Ha conosciuto nel 1934 un intellettuale polacco, fotografo anch’egli, David Szmin che cambierà il nome in Sevmour, con cui ha una forte sintonia culturale, l’amico gli presenterà Robert Capa, un fotografo ungherese allora sconosciuto il cui nome era Endré Friedmann.

Fotografa ispirandosi alla “Nuova visione” , sorta con il costruttivismo russo, con attenzione alle inquadrature dall’alto o dal basso . Spesso individuava lo sfondo più adatto sulla base  della sua struttura geometrica, e di quanto lo rendeva già interessante, ciò che Lhote  chiamava “schermo”,  a volte un semplice muro, e attendeva  che  la scena si animasse con  persone interessanti in modo che si formasse quella che chiamava “coalizione istantanea”,  da lui ripresa prontamente:  ne derivava una composizione in parte casuale ma in parte attentamente studiata secondo leggi geometriche e sceniche ben precise.

E’ un periodo, fino al 1935, in cui frequenta i surrealisti, tra cui l’amico  Max Ernst e realizza collage. Viene affascinato da Bréton, che suggeriva di chiudersi  alle sollecitazioni esterne in modo da poter  far emergere l’inconscio, il “modello interiore”. Per questo nelle sue fotografie di allora i soggetti hanno sempre gli occhio chiusi, secondo l’iconografia surrealista che voleva le palpebre abbassate, visi dormienti e sognanti, c’è una sua immagine del 1926 molto significativa. Aggiungeva elementi contestuali che proiettassero all’esterno i moti interiori dei soggetti.

I surrealisti facevano ben altro nella pittura, sfiguravano  le sembianze umane con deformazioni esasperate, distorsioni, frantumazioni, raddoppi. Lo fa anche lui con la fotografia  mediante  deformazioni prospettiche dall’alto o dal basso, appiattimenti, e altri accorgimenti;  su ogni soggetto, anche negli autoritratti, come visti attraverso uno specchio deformante.

Vedremo prossimamente come da questo inizio prende avvio una vita professionale che ne farà l'”occhio del secolo”  per la sua capacità di rendere i “momenti decisivi”, si tratti di eventi di portata storica come di momenti semplici ma non per questo banali, con l’immediatezza di uno scatto fotografico tale da fissare la realtà nel momento in cui avviene ma non senza una visione di natura compositiva e contenutistica che la mostra cerca di rendere con un’attenta ricostruzione.  

Info

Museo dell’Ara Pacis, Nuovo spazio espositivo Ara Pacis, Via Ripetta, Roma.    Da martedì a domenica ore  9.00-19.00, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima; il venerdì e sabato per l’intera durata della mostra, prolungamento dell’orario di apertura, del solo spazio espositivo (Via di Ripetta), fino alle 22.00 (ultimo ingresso ore 21.00). Ingresso  solo mostra “Henri Cartier-Bresson” (ingresso da Via di Ripetta)  Intero € 11,00, ridotto € 9,00 (meno di 26 anni e oltre 65 anni e particolari categorie).  Il secondo articolo sarà pubblicato in questo sito prossimamente. Per le mostre dei grandi fotografi citati, Rodcenko e McCurry, Salgado e Doisneau, cfr. i nostri articoli in www.visualia.it., dove abbiamo pubblicato anche un articolo sulla precedente mostra di Cartier Bresson al Palazzo Incontro, con un gruppo di  circa 50 fotografie accompagnate dal commento dell’autore.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis all’inaugurazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori con il Center Pompidou e  i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Henri Cartier Bresson per l’opportunità offerta. Le immagini sono riportate in ordine alterno tra eventi, come la pira con il corpo di Gandhi, le grandi sfilate, e i personaggi, come Giacometti e  Sartre; e le scene di vita quotidiana con persone sconosciute colte sul momento.  

Sironi, gli anni ’20 e la maturità artistica, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, dal  4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015,  la mostra  antologica “Mario Sironi. 1885-1961”  espone  140 opere dei vari periodi della sua vita artistica. Abbiamo già ripercorso la parte iniziale fino al 1920, dopo averne delineato la figura di uomo e di artista nel segno della tragicità e della grandezza. Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, con l’Archivio Sironi di Romana Sironi.

L’itinerario artistico e umano dell’artista lo ha visto nella prima gioventù con alcune opere presentate per la prima volta in mostra, a partire da quella che dipinse sedicenne. Poi l’excursus tra simbolismo e divisionismo, e un primo approdo al futurismo per l’amicizia nata con Boccioni e Severini  e i contatti con Balla, impegnandosi sui suoi motivi tipici, come la città moderna e i mezzi di trasporto senza peraltro recepire i temi del movimento e della velocità in contrasto con la staticità e solidità dei suoi volumi; caratteri questi che trovò nella metafisica alla quale si ispirò nei suoi paesaggi urbani dove, oltre alle costruzioni dechirichiane, aleggia anche l’atmosfera sospesa.

E’ peraltro tipicamente novecentista la solidità costruttiva e architettonica che  troviamo anche nelle opere di matrice futurista, e lo vediamo ancora di più nelle numerose opere esposte degli anni ’20.

Il “Novecento” e le opere classiciste

Negli anni ’20, scrive Elena Pontiggia,  “è un artista che crea continuamente nuove immagini, ma al tempo stesso rielabora ostinatamente le precedenti  accostando ricerche stilistiche anche molto diverse”. Per cui  insieme ad opere di stile classico sono compresenti opere di stile futurista e anche espressionista; neppure i temi raffigurati sono univoci, anche qui una compresenza di soggetti.  Si alternano figure solenni e figure pensose,  figure allegoriche e figure realistiche che esprimono dolore e sofferenza.

In questo periodo c’è il “ritorno all’ordine”,  il classicismo bandisce ogni improvvisazione e rifugge dall’immediatezza per lo studio e l’applicazione; l’ispirazione viene dai modelli classici, ma vi sono anche elementi metafisici, pur se con diversi significati, che diventano simboli pure platonici.

Del 1920-21 l’antologica presenta una ricca serie di “Paesaggi urbani”.  Ricordiamo che questo tema coincide con il suo trasferimento definitivo a Milano nel  1919, città industriosa e dinamica, così diversa dalla  Roma  classica e tranquilla, per di più in quel periodo agitata dalle tensioni sociali del primo dopoguerra, che sfociavano in tumulti sociali. La periferia lo colpisce con la sua solitudine e desolazione, ed è questa la Milano da lui rappresentata, così diversa dalla Roma umbertina che si trova in alcuni suoi dipinti giovanili. 

Il paesaggio urbano non fa più da sfondo ai soggetti in primo piano, ma diventa protagonista, e che protagonista!  La Pontiggia si esprime così: “Dal trauma della realtà milanese, e di una Milano che non è più la città euforica del 1915 ma la capitale di un dopoguerra senza pace, nasce una delle pagine più alte della pittura italiana, e non solo italiana, dell’epoca”.  

Sono paesaggi di desolazione e solitudine, che esprimono la propria visione pessimistica, pur temperata dalla volontà di reagire. Abbiamo già ricordato che Margherita Sarfatti vi vede la trasposizione dello squallore delle periferie in forza e grandiosità, ordine e armonia, quasi non fosse la visione pessimistica dell’artista a rendere cupa la scena, ma la realtà urbana che lui poi illumina.

Dal punto di vista stilistico con queste opere riafferma il prevalere delle sue concezioni volumetriche ed architettoniche sulle spinte alla scomposizione e al dinamismo delle correnti che lo hanno influenzato, dal divisionismo al futurismo con i passaggi metafisici, facendogli introdurre nuovi elementi ma senza sconfessare la matrice prima del suo stile.

I “Paesaggi urbani”

Vediamo, del 1920, 4 paesaggiurbani con i tipici veicoli della vita cittadina.  “Paesaggio (Paesaggio urbano con camion)” è uno dei primi e l’unico datato con certezza. Sono grandi caseggiati senza tracce di vita, strade senza alberi né passanti, una ciminiera, la composizione è immersa nella più assoluta staticità in un clima metafisico sospeso di chiara ispirazione dechirichiana, ma con l’impronta della propria solidità architettonica.  E il futurismo? E’ nella sagoma del camion che attraversa l’incrocio e nel fumo che esce dalla ciminiera, espressioni della frenetica attività cittadina; ma il fumo sia pure dalle locomotive era un “imprinting” delle piazze di de Chirico ben conosciute da Sironi.

Analogamente il “Paesaggio urbano con taxi, qui come in “Il camion giallo” il taxi occupa trasversalmente la strada quasi bloccandola ed è bloccato a sua volta in una staticità forzata dove non c’è più il dinamismo del movimento; il veicolo è semplificato per accentuarne la solidità geometrica, mentre gli edifici pur in secondo piano, si impongono per la loro solidità nella loro primitiva collocazione prospettica: è la costruttività cara a Sironi,  anche qui strutture e atmosfera sospesa di tipo metafisico.

In un secondo “Paesaggio urbano con camion” le forme degli edifici, pur nella loro solidità, si rarefanno e si rimpiccioliscono nello sfondo lontano dove il dinamismo operoso è riassunto da una gru, c’è un camion che passa su una strada ma questa volta senza bloccarla, tutt’altro, si perde nella vastità  della scena, schematica e geometrica: è “la compostezza e sobrietà squadrata e semplice”  apprezzata dalla Sarfatti come lascito dell’antica classicità.

Con “Il tram” la compresenza di motivi futuristi e metafisici è evidente, il tram elettrico era la modernità dopo quelli a vapore, c’è anche l’autovettura, cosa si vuole di più per esprimere il motivo futurista? Ma il tram che blocca l’auto e gli edifici sul fondo riportano alla staticità e alla solidità in una composizione in cui aleggia l’atmosfera metafisica.

A queste opere dalla forte analogia tematica e compositiva ne seguono 3 anch’esse esposte in mostra, riferite al 1921,  che raffigurano visioni urbane molto diverse: non ci sono più veicoli e neppure caseggiati con i riquadri delle finestre.

Sintesi di paesaggio urbano” è privo di qualsiasi elemento riconducibile alla realtà, sono forme architettoniche semplificate e ridotte all’essenziale fino a perdere il senso della loro funzione, pareti senza aperture come in un’acropoli inaccessibile, gli angoli netti e senza curve: ci sono le ombre nette e anche “la preziosità del mezzi toni dorati” di cui ha parlato la Sarfatti.  E’ lontano dai paesaggi urbani, per cui è centrato il titolo in cui si sottolinea il concetto di sintesi, il dipinto esprime con efficacia l’impianto costruttivistico novecentista senza interferenze figurative.

Invece “Il molo” presenta tutti elementi reali, ma realizza ugualmente una sintesi essenziale senza  particolari descrittivi incentrata su pochi elementi, nella semplificazione novecentista.  C’è una lunga costruzione con quattro piccolissime finestre, e in alto sullo sfondo un normale caseggiato, poi la direttrice del molo “dove un cavaliere senza nome procede solitario – scrive la Pontiggia nella scheda del Catalogo – come un Guidoriccio da Fogliano metafisico, verso un luogo misterioso e un misterioso destino”.

La terza opera del 1921 esposta è “La cattedrale”, ugualmente  c’è la semplificazione, nessun orpello nella chiesa come nel piccolo campanile e battistero di piccole dimensioni visibilmente sproporzionate rispetto alla grande cupola di cui vuol far risaltare l’imponenza come espressione della forza del sacro. Richiama quella di Santa Maria del Fiore a Firenze nella sua essenzialità costruttiva, che aveva visto in un viaggio nella città del 1908; la Pontiggia riporta le parole eloquenti  su Brunelleschi scritte dall’artista quasi  30 anni dopo, nel 1950: “La sua legge è l’armonia; una musicalità dello spirito costruttivo – edifica su rapporti armonici su astratte invenzioni di spazialità geometrizzata”.

Le figure solide e armoniose

Siamo al 1922, anno chiave per l’avvento del fascismo:  il 7 dicembre, festa di Sant’Ambrogio, viene fondato a Milano il “Novecento italiano”, appoggiato da Margherita Sarfatti, Sironi vi partecipa subito come caposcuola nel segno di una  “classicità moderna” basata su volume e peso, proporzioni e prospettiva, nonché sulla prevalenza della figura umana sugli altri soggetti e del disegno sul colore. “L’estetica platonica, ellenica – scriverà poi – è fatta soprattutto di compostezza e di equilibrio”.

Troviamo figure solide nelle sue opere del periodo, come in quelle di Carrà e De Chirico, ma le sue non hanno più matrice metafisica bensì esprimono questa ricerca di compostezza ed equilibrio, in definitiva di armonia, per riflettere i ritmi naturali: studia la sezione aurea e le proporzioni ritmiche.

Le sue sono “misure istintive”, per dare ordine ed equilibrio.  “Anche per questo – secondo la Pontiggia – la pittura sironiana non è mai completamente espressionista nemmeno nei momenti di maggiore pathos: perché la sua tensione drammatica non esclude un presentimento di armonia” . Ma c’è anche il risvolto: “Il suo sarà sempre un pitagorismo doloroso,  dove i ritmi armonici non escludono una dimensione tragica, anzi si caricano di presentimenti allarmanti”.

La maturità espressiva e compositiva si manifesta con uno dei suoi capolavori, “L’architetto”, 1922-23, raffigurato nel suo studio ricco di numerosi elementi simbolici: dalla colonna col capitello corinzio al pilastro, dalla porta al vaso; lo sguardo non è rivolto alle carte davanti  a lui ma a un orizzonte lontano, per il significato che l’artista gli attribuiva, non solo progettista di edifici, ma costruttore di città e della stessa Nazione.

Altrettanto espressiva “Venere”,  1923-24,  in cui rifulge la sintesi compositiva nelle linee nette e nel rilievo della figura con il seno nudo tratta dal mito ma attualizzata in un’ambientazione moderna in cui invece della mela c’è un fruttiera con diversi frutti, un pomo ma anche un grappolo d’uva. Di classico c’è una testa scolpita su un pilastro, con cui sembra confrontarsi la figura in una posa statuaria. “Corpo vivo e scultura allora si confondono –  commenta la Pontiggia – in una metamorfosi di ascendenza metafisica che preannuncia già il realismo magico”.

Scultorea anche “Solitudine”, 1925,  stesso seno sinistro nudo, sembra la Venere disposta di profilo, la veste bianca invece che nera, l’espressione non è assorta ma severa, riflette l’isolamento quasi claustrofobico come in un maniero con uno stretto arco dechirichiano dal quale guarda fuori in attesa di qualcosa o di qualcuno. Più che il lato psicologico viene apprezzato il lato compositivo,  la forma architettonica dell’ambiente, la solidità e compattezza dei volumi.

Nello stesso anno un’altra figura di “Architetto”, 1925,  meno intensa della precedente ma con una  sua nobiltà che richiama il “ritorno all’ordine”  nella nuova centralità della figura umana dopo le deformazioni delle avanguardie. Ad essere deformata è l’architettura con l’accostamento anomalo di una colonna sotto a un arco senza alcun motivo, vi viene vista l’espressione del “realismo magico”. La figura e l’ambiente hanno comunque un che di metafisico.

Con “Il pescivendolo”, 1925-26, nobilita il lavoratore di un mestiere ritenuto umile, in una straordinaria finezza di lineamenti nel profilo da scultura greca. Il corpo nudo fino alla cintola è statuario,  spicca sul vano chiaro della finestra, sul banco dove appoggia le mani si vedono delle forme confuse, il pesce. E’ un’evoluzione del precedente “Il povero pescatore”, 1925, non in mostra:  stessa figura statuaria a torso nudo forse più imponente, in basso si intravede la rete dei pesci,  lo sfondo questa volta è nero.

Partecipa ad una serie di mostre con gli altri “Novecentisti”, dalla Biennale di Venezia del 1924 alla Biennale romana del 1925 con “Il povero pescatore”,  nel 1026 mostre a New York e a Parigi con gli altri artisti italiani contemporanei, poi il rifiuto ad altre esposizioni, tanto che nella mostra dei “quindici artisti del Novecento”  a Milano nel 1927 furono presentati solo “quattordici artisti” per la sua defezione all’ultimo momento; ma partecipa alle mostre di Ginevra con 9 opere e di Amsterdam con 2 quadri. Nel 1928 partecipa  a due mostre collettive a Milano ma rinuncia alle mostre del “Novecento” ad Amburgo, Lipsia e Madrid.

Motivo di queste rinunce? Crisi depressive ed eccesso di impegni legati al ruolo assunto da  “Novecento”  di cui è il massimo esponente, con la Sarfatti: entra nel direttorio del Sindacato artisti e nelle giurie,  scrive critiche d’arte  sul “Popolo d’Italia”, cura gli allestimenti di esposizioni e i padiglioni per mostre internazionali, lavora per il teatro, fa l’illustratore e il grafico, mentre continua ad impegnarsi per “Novecento”.  Realizza così – commenta la Pontiggia – “il sogno dell’artista completo che è insieme pittore, scultore, architetto, decoratore e scenografo”.

Il nuovo paesaggio urbano e  il paesaggio  montano

Tra il 1926 e il 1928 torna il paesaggio urbano, con temi legati al lavoro. “Paesaggio urbano”, 1926, presenta la consueta solidità volumetrica nelle case contadine non allineate come nelle altre raffigurazioni, ma sfalsate, in una semioscurità rischiarata da due fonti luminose: il mantello del cavallo che sulla sinistra traina un carretto immerso nel buio e la facciata di una casetta in lontananza, sotto un’alta ciminiera all’estrema destra. E’ come se fossero i poli di due realtà opposte, la civiltà contadina che si allontana e la modernità industriale che resta padrona del campo. In  “Paesaggio urbano con ciclista, 1928-30, non in mostra, l’ antinomia sarà tra carretto e ciclista.

Prima di questa diversa raffigurazione della contrapposizione tra tradizione e modernità ci sono opere sul tema in cui sembra passare il Rubicone della modernità per sposarla senza riserve, cosa che può sorprendere in un artista così legato alla classicità e refrattario alle avanguardie.

In un altro “Paesaggio urbano”, 1927, occupano gran parte del quadro 4 gigantesche ciminiere che si stagliano come delle torri su 2 volumi scuri e squadrati; al loro fianco un caseggiato bianco in forma prospettica che richiama la casetta dell’opera del 1926, anche in quel quadro sovrastata dalla ciminiera. A questo dipinto viene accostata una tavola del 1925 per la pubblicità e una dello stesso anno per “Il Popolo d’Italia” ad esaltazione del modernismo incalzante. L’attenzione volumetrica e architettonica dell’artista è evidente nelle linee ortogonali e nella vertiginosa verticalità delle ciminiere contrapposta alla struttura del caseggiato che si sviluppa in orizzontale: anche questo può essere un modo per esaltare la modernità della civiltà industriale.

Due ciminiere  si vedono anche nel terzo “Paesaggio urbano”  di questo periodo (1925-28) esposto in mostra; ma sono appena percepibili in un addensamento di edifici di gran lunga prevalente sui simboli della modernità, anche se questa si avvale dell’immagine del tram giallo che risale la strada deserta in una visione dall’alto che lo fa sembrare miniscolo rispetto alle case la cui facciata ha solo una o due finestre su cui batte la luce e l’altra facciata con il tetto immersi nel buio. Colpisce la netta diversità tra la parte destra, precisa nell’architettura degli edifici e nitida nei giochi di luce, e la parte sinistra più confusa di tipo espressionista.

Dalle periferie urbane alla montagna il passo sembrerebbe lungo, ma la sua famiglia ne era appassionata e lui stesso, oltre ad andarci per la villeggiatura estiva sin dalla giovinezza, vi era stato a lungo in trincea da volontario alla Grande guerra. In “Paesaggio montano”, 1927,  vediamo una rappresentazione con i monti viola sullo sfondo, delle case, una chiesa e relativo campanile in primo piano, in mezzo un laghetto di montagna dalle acque scure  con macchie luminose.  Anche se si è creduto di trovarvi le caratteristiche delle località di montagna lombarde, è tutt’altro che una rappresentazione realistica della natura: nessuna cura dei particolari, si vuole magnificare la maestosità della vallata con una forza drammatica che sovrasta ogni presunta apparenza idilliaca.

Ben diverso é “Vette”, 1931, la nuda roccia nell’imponenza dei volumi segnati da ombre cupe, “la montagna non è giardino ma tragedia”, diceva l’artista, sono quattro guglie, ricordano vagamente le tre cime di Lavaredo sdoppiate, come il quadro “Rocce cadenti” del 1854, che Sironi forse conosceva, avendo citato come “splendido esempio, Courbet, nei suoi romantici paesaggi alpestri”.

I richiami arcaici, dalla famiglia al lavoro

Nessuna visione idilliaca in “La famiglia”, 1927-28,  che, scrive la Pontiggia, “rappresenta un’umanità delle origini, un gruppo di famiglia senza tempo ritratto sulla sfondo di un paesaggio primordiale”.  Si vede la madre seduta che prende in braccio il piccolo, il padre in piedi a torso nudo guarda la scena interrompendo il faticoso lavoro, le loro figure vengono accostate a Masaccio e anche a Picasso; l’ambiente in cui si trovano si apre su uno sfondo montano imponente, si intravede un pilastro e uno scalino sulla sinistra, tutto sembra scolpito nella roccia. La Pontiggia aggiunge: “Da tutta la composizione si sprigiona un senso di arcaica energia e insieme di biblica solennità, le figure si stagliano immobili davanti ai millenni”.

Arcaico, rispetto al modernismo di tante opere precedenti, sembra essere anche “L’aratro“, 1928, che fa parte di una serie di opere dedicate al tema, dal 1925 al 1944, al quale si era interessato anche in gioventù copiando “L’Aratura” di Segantini. Ma questa considerazione è sovrastata dalla presenza ammonitrice, dietro il contadino chino sull’attrezzo trainato da un bue rischiarato dalla luce, di un’erma con la testa a forma di teschio, che sembra contrapporre alla fertilità dei campi l’evocazione della morte. Ma questo  non sembra avere un significato negativo, viene visto come la riaffermazione dei valori della vita come missione da compiere pur se il destino dell’umanità è espresso nell’erma, tra l’altro utilizzata  dagli antichi, e forse anche qui, come segno beneaugurante.

Un richiamo arcaico alle origini dell’uomo viene trovato anche nel “Contadino”, 1928: in “L’Aratro”  spingeva a fatica l’attrezzo curvo in avanti, qui si appoggia alla vanga per riposarsi, ma non appare fragile e contratto come in tante raffigurazioni, né schiacciato dalla pesantezza del lavoro:  è una figura monumentale e composta, domina l’albero al suo fianco e la casa dietro di lui. Viene assimilato a un’opera sullo stesso tema, “La vanga”, 1928,  in entrambe le opere la luce batte sull’attrezzo. Così si espresse la Sarfatti: “Grandiosa come un frammento di pittura antica, religiosa e solenne con patriarcale semplicità’, si riferiva a “La vanga”, ma concordiamo con il commento della Pontiggia: “Sono parole che si possono riferire anche al ‘Contadino’, che della ‘Vanga’ è contemporaneo”.

I paesaggi, dunque, non sono più urbani ma di ambiente contadino, senza intenti descrittivi e tanto meno pittoreschi; e hanno un riflesso lirico come  retaggi di un mondo arcaico, solido ed armonioso, e un respiro teatrale.

Nel 1929  partecipa a tre mostre con il gruppo del “Novecento”: a Nizza, a Ginevra-Berlino, a Parigi; nel 1930  ad altre due rassegne “novecentiste”, a Basilea-Berna e Buonos Aires; nel 1931 a una mostra itinerante da Stoccolma agli altri paesi nordici. Nel frattempo è presente alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma che gli dedica una intera sala: “Entrambe, segnano l’acme di una crisi espressionista” dovuta alla sua concezione tragica dell’uomo.

La “crisi espressionista” e il nuovo classicismo

Il segno diventa via via meno stilizzato, si ispessisce ed è più materico, sia nei nudi che negli altri soggetti; alla classicità subentra “una tensione romantica, un pathos concitato” che fece definire “neoromantici” lui e gli altri del “Novecento” lombardo. Alla fine del decennio la sua pittura si sofferma sui lavoratori di ogni attività, visti senza la retorica del lavoro o il realismo della fatica ma in chiave mitica come simboli di nobiltà; diventa mitico pure il paesaggio, mentre dipinge anche alcuni personaggi della mitologia antica. 

Abbiamo visto i lavoratori del mondo agricolo, troviamo ancora un “Pescatore”, 1930, ma ben diverso dal “Povero pescatore” che abbiamo associato al“Pescivendolo”, entrambi idealizzati nella nobiltà e nella bellezza dei lineamenti come del corpo nudo da statua greca, mentre i pesci erano poco visibili e comunque ordinati. Qui invece occupano il primo piano come una massa informe si cui si cala una mano rossa altrettanto informe, del lavoratore spiccano le braccia nude, il resto del corpo emerge da uno sfondo corrusco; il viso è segnato come una maschera drammatica, si fa fatica ad attribuire questi dipinti allo stesso autore.  E’ un segno alla Rouault e non disdegna le sgocciolature del pennello. “‘Insieme monumentale ed approssimativa la figura acquista una ‘bellezza sensibile, per usare le parole della Sarfatti”, commenta la Pontiggia.

Dei nudi,  maschili e  femminili, spiccano in alcuni dipinti del 1929-33 ispirati  a temi classici.

In “Composizione (Architettura con vestale e atleta)”, 1929, è evidente la derivazione dal “Doriforo” di Policleto, ma senza estetismo classicheggiante né vitalismo futurista, bensì con una tensione verso un qualcosa di elevato, che va ben oltre l’aspetto fisico: la missione dell’uomo che sovrasta l’individuo. La figura femminile di vestale sulla destra con la veste bianca è una fonte di luce, il tutto in un ambiente classico con le consuete incongruenze architettoniche.

Un torso maschile nudo in “Busto virile”, 1931-33,  la cui straordinaria monumentalità fa pensare che fosse uno studio preparatorio per un lavoratore della  pittura murale sulla “Carta del lavoro”, oppure per l’affresco “Il lavoro”; ricorda soprattutto nel braccio sinistro la positura di “Il pescivendolo”.Ha chiare ascendenze classiche nella statuaria degli atleti, ma è propria dell’artista la fierezza e la nobiltà della figura in cui si incarna il valore fondamentale  del lavoro: il busto eretto, i muscoli tesi in un’anatomia perfettamente modellata ne sono l’espressione visiva.

Il nudo femminile “Nudo e albero”, 1929-30, si ispira alla “Niobide” degli Horti Sallustiani, la statua classica sulla vendetta degli dei che la trafissero con i quattordici figli. E’ una figura potente e drammatica, le braccia levate per strapparsi la freccia dalla schiena, invisibile come nella Niobide, la disperazione nel viso. Il suo urlo, scrive la Pontiggia, ” esprime un dolore universale, che sembra riecheggiare  silenziosamente nel tronco mutilato  e nelle scabre montagne sullo sfondo”. C’è tutto Sironi in questo dipinto, l’ispirazione classica, la monumentalità della figura e la cura dei volumi, la drammaticità per la condizione umana; lo stile pittorico è quello del periodo, non più nitidezza ma pesantezza del segno quasi volesse accompagnare l’accentuarsi della visione drammatica.

La stessa posizione delle braccia in un’altra figura anch’essa mitica,  “La vergine delle rocce”,  1932,  un nudo dall’espressione altrettanto sofferente, anche se c’è minore solennità e il segno è più greve e materico. Domina le rocce in cui è come incastonata, l’albero e la casupola sulla vetta sono minuscoli rispetto alla sua monumentalità  che rimanda alle coeve pitture murali.

La “Composizione (San Martino)”, 1930, segna l’accentuazione dell’addensamento materico dal tratto espressionista nella pittura a macchie pesanti che tendono al rosso con bagliori luminosi che conferiscono una forte drammaticità alla scena. Sono “personaggi deformati e dolorosi che sembrano dipinti col sangue” fu il commento di Costantini  allorché fu esposto alla Quadriennale di Roma del 1931. La Pontiggia, nel riportare questo giudizio e quello di Marziano Bernardi secondo cui Sironi, per l’influenza di Rouault, “rifiuta ogni umanità”, replica: “In realtà quest’opera non rifiuta affatto ‘ogni umanità’, ma è anzi umanissima nel colloquio muto fra il santo e il povero (supplice  ma imponente perché, pur accennando a  inginocchiarsi, è ben più alto del cavaliere)”. E nota come San Martino non si limita  a donare parte del mantello ma se ne priva del tutto e resta nudo anche lui per condividere la condizione del povero. In fondo,  la stessa condizione umana.

Concludiamo l’excursus nelle opere degli anni ’20 esposte in mostra con “Natura morta“, 1926, l’abbiamo isolato perché è uno dei pochi dipinti di un genere da lui non prediletto, tanto che lo riteneva espressione dell'”impotenza immaginativa della pittura contemporanea”. Il carattere intimo e quotidiano, che toglie ogni tensione a questo genere, era in contrasto con la sua pittura, ma in questo dipinto si impegna nella “missione impossibile” di rendere la natura morta congeniale con i suoi contenuti di artista.  Ci riesce evidenziandone  i volumi con tre vasi accostati  e accentuando le ombre che anneriscono i contorni dei frutti, ottenendo un risultato di forte drammaticità.

Termina così la rassegna delle opere degli anni ’20 e dei primissimi anni ’30 in cui si esprime compiutamente la sua maturità con un’evoluzione stilistica e compositiva pur nella persistenza dei suoi motivi fondamentali. Prossimamente le pitture murali degli  anni ’30, il riflusso nei quadri degli anni ’40 e l’epilogo con la “damnatio memoriae” del primo dopoguerra.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito l’articolo precedente sulla “grandezza e la tragicità”, il 1° dicembre 2014, ne seguiranno due, tra dicembre e i primi di gennaio 2015, sempre con 10 immagini ciascuno. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su  “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo”  il 2 marzo 2014 ;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009,  su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo”  il 30 aprile e 1° settembre 2009.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Venere”,  1923.24;  seguono “Il tram”, 1920 e “Il molo”,  1921;  poi “L’architetto’, 1922-23, e “”Solitudine”, 1923-24; quindi  “Paesaggio urbano”, 1925-28 e “La famiglia”, 1927-28; infine “L’aratro”, 1938,  e “La vanga”,1928; in chiusura “Le vette”, 1931.

Memling, 2. Ritratti e dipinti devozionali, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale, dall’11 ottobre 2014 al 18 gennaio 2015, la mostra “Memling. Rinascimento fiammingo” espone le opere di Hans Memling, dedicate alla ritrattistica e sulla pittura devozionale per uso pubblico e privato. Le mostra, organizzata dall’Azienda Speciale Expo con Arthemisia, è curata da Till-Holger Borchert;  lo splendido Catalogo, a cura dello stesso, è edito da Skira, sono in programma incontri sull’arte fiamminga e visite guidate a tre importanti opere. Si inserisce nel ciclo delle mostre sugli “Old Masters”, come Antonello da Messina, Bellini e Lippi.

Delle iniziative di contorno alla mostra abbiamo dato conto in precedenza, come abbiamo cercato di inquadrare l’arte di Memling nel contesto in cui si è manifestata: il Rinascimento fiammingo, di cui è stato un protagonista, che ha preceduto e influenzato per molti versi il Rinascimento italiano.

Abbiamo già ricordato alcuni aspetti della vita di Memling approdato a Bruges, centro commerciale e finanziario con filiali di banche fiorentine e una classe agiata con una comunità italiana aperta alla committenza verso un artista di cui sentiva l'”appeal” per la sua particolare produzione pittorica a olio su tavola: con  grande impiego della paesaggistica negli sfondi delle opere devozionali e dei ritratti, questi ultimi nell’originale posizione a tre quarti rispetto alla posizione di profilo degli artisti italiani. C’è una verisimiglianza particolarmente spiccata nel suo realismo anche per l’estrema precisione e nitidezza dei dettagli, con una luminosità tutta speciale. E poi le innovazioni compositive come nella “narrazione”, e quelle relative all’impiego delle opere devozionali per uso personale anche in viaggio con piccoli  polittici portatili o tondi da tenere in mano.

Una mostra diversa dalle tante altre con pale d’altare e opere a soggetto religioso che colpiscono per la loro imponenza. Qui colpisce l’opposto, la nitidezza e precisione nelle piccole dimensioni fino alle miniature, che l’allestimento valorizza con l’uso della luce moltiplicandone l’effetto.

Emerge l’intimità di una pratica devozionale interiore e discreta, se ne resta  profondamente colpiti. per la “rara bellezza e l’alta qualità”, sono le parole dal presidente dell’Azienda Expo Franco Bernabè. Non si può che sottoscriverle, bellezza e qualità le troviamo nei due piani della mostra. 

I due ritratti emblematici, “testimonial” della mostra

All’ingresso accolgono i visitatori due ritratti emblematici, i “testimonial” dell’esposizione: “Ritratto di donna”, 1480-85 e “Ritratto d’uomo con una moneta romana” , 1473-74.

Il primo è un  delicato ritratto femminile, lo sfondo neutro fa risaltare  il viso e  la scollatura,  manca la parte inferiore con le mani e non si conosce l’identità;  la si conosce invece per il ritratto di “Sibylla Sambetha”, il volto e gli occhi che guardano altrove presentano  analogie, a noi richiama “La dama dell’Ermellino”,  la nostra è solo un’associazione visiva, non un riferimento critico.

L’altro ritratto-simbolo  sembra raffiguri Bembo, ambasciatore veneziano alla corte di Borgogna che nel  1473-74 soggiornò nelle Fiandre e nel 1475 fu ambasciatore a Firenze dove  portò con sé questo quadro con la moneta, che  può aver ispirato Botticelli nel “Ritratto d’uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio”. e Leonardo nel “Ritratto di Ginevra de’ Benci” . E’ l’unico con lo sguardo verso l’osservatore e non altrove e con la testa non rivolta sulla sinistra come negli altri ritratti.

Dopo questo inizio folgorante, l’esposizione  ripercorre la vita e la carriera di Memling in una carrellata di storia pittorica e personale illustrata dalle opere appartenenti ai diversi periodi o ai diversi temi analizzati.

Dai  trittici degli esordi alla “ritrattistica”, fino alla “narrazione”

Nella sezione sugli “Esordi” è interessante il riferimento al più celebre pittore di allora, Roger van der Weiden, del quale è esposto il “Compianto del Cristo morto”, 1460-65,  accostato al celebre “Trittico di Jan  Crabbe”, che  fu commissionato a Memling  poco dopo il suo arrivo a Bruges per il 15° anniversario del prelato Crabbe. Si avverte l’influenza di van der Weiden nello stile e nell’iconografia, mentre nei due pannelli esterni sull’Annunciazione c’è tutto il realismo di Memling, con immagini “in carne e ossa”, e non  idealizzate, dell’incarnazione di Cristo.

Dagli esordi a “Un incarico ambizioso”  il passo è breve  in termini cronologici e in termini espositivi,  l’incarico è per Il Giudizio Universale”, siamo nel 1467-72, poco dopo il suo arrivo a Bruges. L’opera è’ riprodotta in video perché  dichiarata non trasportabile a causa della sua delicatezza,  quasi un contrappasso nella vita tormentata del dipinto, rubato dai pirati anseatici nel trasporto in Italia, e finito a Danzica. Committente Antonio Tani, il banchiere fiorentino direttore della filiale di Bruges del Banco Mediceo  che lo volle per la sua cappella privata della Badia di Fiesole, dove il quadro non arrivò mai.

E’ una composizione molto ricca con tante figure quasi filiformi di stile nordico, richiamano visivamente Cranach, protagonista dell’algido Rinascimento tedesco;  pur nell’assenza giustificata dell’originale, si può analizzare per lo scorrere sul video di un gran numero di ingrandimenti dei sottili corpi nudi  delle anime nell’al di là. Spicca al centro la grande figura di san Michele Arcangelo  con la spada, che colpì la fantasia al punto di essere riprodotta in modo pressoché identico in un dipinto anch’esso di grandi dimensioni  opera  di un Anonimo napoletano del 1490-500, esposto vicino al video del “Giudizio Universale”. .

Dopo  questi  grandi Trittici la mostra cambia passo, torna ai piccoli ritratti presentati in apertura. La sezione “Maestro ritrattista” ne presenta  8, rappresentativi di un filone fortunato, dato che i banchieri e il ceto facoltoso di Bruges, e non sole le élite aristocratiche, ne commissionavano anche in dittici  e trittici devozionali. Sono piccoli,  per lo più 30 x 40 cm,  tutti con la testa a tre quarti e lo sguardo verso sinistra, l’eccezione è stato il ritratto di apertura che ha anche il fondo neutro.

Lo stesso  fondo  neutro  si nota in “Ritratto d’uomo”, 1475-80, e “Ritratto di giovane uomo in preghiera”, 1485-1490,  mentre gli altri ritratti esposti hanno  uno sfondo paesaggistico. In “Ritratto d’uomo”,1470-75, il personaggio non è stato identificato,  lo sfondo è un paesaggio idilliaco, con alberi e costruzioni, la figura a mezzo busto è divisa dalla sfondo da una cornice, come una finestra, che fa spiccare ancora di più il primo piano; mentre in “Ritratto di ignoto in un paesaggio”, 1475, invece della cornice c’è una balaustra dietro la testa all’altezza del collo e una più in basso dove si appoggia. Quasi immerso nel paesaggio è “Ritratto di giovane”, 1480, dove non ci sono elementi di separazione, anche se la mano è appoggiata su una balaustra invisibile.

I “Ritratti di William Moreel e Barbara von Vlanderbergh”, 1480, dovevano essere gli scomparti laterali di un piccolo trittico omonimo, essendo di 30-40 cm, ben più piccoli delle componenti del grande “Trittico Moreel”: a differenza degli altri sono all’interno di una loggia, ciononostante il paesaggio sullo sfondo è molto ampio, su due livelli, uno vicino alla loggia e l’altro più lontano.

Segue logicamente il grande “Trittico Moreel”, che in mostra è collocato al centro del lungo ambiente espositivo all’interno di una apposita vetrina protettiva. Fu commissionato da una delle famiglie più ricche di Bruges per l’altare della famiglia nella chiesa cittadina di San Giacomo: era una famiglia di origini italiane che aveva fatto fortuna con il commercio delle spezie e l’attività bancaria. .Il grande pannello centrale, di 140 x 170,  raffigura San Cristoforo che porta  Gesù Bambino sulle spalle con a lato i santi  Mauro ed Egidio.

Nei due pannelli laterali i committenti in ginocchio con i rispettivi santi protettori la cui mano è sulla loro spalla e i figli allineati dietro, Willem Moreel con il santo Guglielmo di Malavalle e i 5 figli maschi, la moglie Barbara con santa Barbara e le 11 figlie femmine; nel verso san Giovanni Battista e san Giorgio come fossero statue nelle nicchie. Anche le dimensioni dei pannelli laterali sono ragguardevoli, 140 x 86 cm, nell’insieme è il suo più grande dipinto esposto. E’fondamentale nell’arte fiamminga  per la paesaggistica, molto curata con verde, alberi e costruzioni, e per la ritrattistica di gruppo a diversi piani prospettici.

La mostra prosegue in crescendo con “Memling narratore”, non solo ritratti di gruppo ma composizioni molto elaborate in cui più eventi sono raffigurati simultaneamente in una rappresentazione panoramica di tipo teatrale; le immagini si sviluppano in una sequenza che  pone gli eventi  in successione logica e temporale  presentandoli insieme nella stessa sede pittorica.

Lo vediamo nella “Passione di Cristo”, 1470, ritenuta una delle prime sue opere a carattere  “narrativo”, esposta in mostra vicino al dipinto del 1500 sullo stesso tema di un seguace che ne riprende forma e contenuto in un trittico che non ha né può avere la continuità narrativa di Memling. Gli fu commissionata  da Tommaso Portinari, che dirigeva la filiale di Bruges del Banco Mediceo, il quale la portò a Firenze dove fece scuola: al riguardo  è esposto un dipinto di Gaspare Sacchi, “Scene della vita di Cristo”, 1520-30, dalla composizione affine nell’ambientazione  in nicchie e comparti, sebbene si dia più spazio alla campagna rispetto al complesso urbano abitativo.

E’  un’opera permeata di religiosità medioevale, come se si svolgesse un pellegrinaggio sulla salita del Calvario ripercorrendo i vari momenti della Passione, da riscoprire con una lettura attenta e meditata, muovendo lo sguardo da sinistra a destra e spostandolo dal primo piano allo sfondo; l’intento era farli rivivere nel raccoglimento interiore, e non sappiamo se vi fossero collegate le indulgenze come avveniva qualche volta in quel periodo.  

Per presentare contemporaneamente i  momenti molto diversi della Passione, come luogo e come tempo,  l’artista ha scelto la prospettiva dall’alto e un gioco di luci che rende il giorno e la notte  compresenti nel quadro. Il percorso spirituale che culmina con il Golgota e l’immagine delle tre croci è inserito in una sorta di complesso monumentale con le  figure umane collocate all’interno di enclave abitative o in esterni urbani molto raccolti;  al culmine di architetture elaborate con torri e cupole spicca la collina del Calvario con il Cristo a terra inchiodato sulla croce, poi i tre crocifissi eretti, fino alla deposizione dalla croce. Pur nelle dimensioni molto contenute, 50 x 90 cm circa, le figure sono numerosissime,  brulicano tra le torri e le cupole, gli archi  e le guglie di Gerusalemme.

Il “Trittico della Crocifissione”, 1480-85,  sviluppa in primo piano il tema che nella “Passione di Cristo” è quasi sullo sfondo sebbene al culmine, quasi visto in una lontananza siderale. Anche qui le figure si affollano, e la sequenza narrativa si realizza non in modo unitario come nel grande complesso urbano della “Passione”, ma in  tre comparti: dal laterale sinistro con Cristo sotto il peso della croce nella salita del Calvario, al grande pannello centrale con i tre crocifissi intorno ai quali si accalca la folla, fino alla Resurrezione nel pannello destro con Cristo fuori dal sepolcro.

La prima galleria della mostra è terminata, si sale al piano superiore dove prosegue la “narrazione”. Con altre sorprese in una continuità di motivi e di temi che contiene sempre elementi di novità.

Dai  piccoli polittici devozionali ai confronti con artisti italiani e fiamminghi

 “Il rinnovamento dell’immagine devozionale” si intitola la sezione dove è esposta una serie di piccoli dipinti; il rinnovamento viene collegato alla nascita  della “devotio moderna”, con il culto popolare legato alla natura umana di Cristo e quindi portato a emularne l’umiltà nella vita e la sofferenza nella passione, in attesa del giorno del Giudizio.

Si tratta di dittici e trittici, una sorta di  piccoli polittici di uso privato, meno legati alla liturgia curiale e più aderenti alla religiosità del proprietario, che accompagnavano anche in viaggio, venivano aperti per poter toccare e baciare le sacre immagini, poi richiusi. Le piccole dimensioni, in uno stile pittorico orientato al realismo, impegnavano l’artista in un precisione quasi da miniatura, e il suo virtuosismo si spingeva fino ad evidenziare dettagli anche insignificanti. Mentre l’uso privato, e intimo, faceva personalizzare l’iconografia secondo le preferenze devozionali del committente.

Si inizia con il “Trittico di Adriaan Reins”, 1480, il cui pannello centrale, di 44 x 36 cm., reca la deposizione dl Cristo dalla croce, nel pannello di sinistra il committente in ginocchio in adorazione con il protettore nella sua armatura in piedi, la mano sulla spalla, nel pannello di destra santa Barbara, il tutto con uno straordinario paesaggio  sullo sfondo:  al centro le cupole e i templi di Gerusalemme, ai lati gli alberi e la campagna; sul retro degli “sportelli” laterali  due immagini di sante, una martire e una eremita, entro arcate traforate che richiamano la struttura della cappella.

Nel “Trittico della Resurrezione”  torna  sul pannello centrale la figura di Cristo, dentro una cornice circolare, mentre esce dal sepolcro aiutato dagli angeli con le guardie addormentate, sullo sfondo il Golgota con le tre croci;  nel pannello di destra la scena prosegue con la Santa Madre e gli Apostoli che guardano in alto Cristo  ascendere in cielo se ne vedono sono i piedi, mentre  la figura di san Giovanni di spalle chiude il cerchio, nel pannello sinistro il corpo nudo di  san Sebastiano,

Cristo  trionfante non nella Resurrezione ma in trono come “Salvator mundi” è al centro di un’opera molto particolare, il “Trittico della vanità terrena e della salvezza divina”, 1485: è circondato da 4 angeli, ma è l’unica immagine religiosa in una composizione allegorica – una delle tre pervenute di Memling – che per i suoi insoliti contenuti si è dubitato a lungo fosse riconducibile a lui: Il Salvatore  rappresenta la salvezza rispetto alla dannazione dell’inferno per la vanità, per alcuni la lussuria, raffigurata sul retro nel corpo nudo di una donna che si guarda allo specchio, collegata al teschio che ricorda la morte, mentre i cartigli contengono ammonizioni sulla fine del mondo e sulla redenzione dell’umanità. Anche quest’opera ha un committente italiano, di famiglia bolognese, il mercante Giacomo di Giovanni d’Antonio Loiani..

Ci sono poi i due laterali esterni raffiguranti “Santo Stefano e San Cristoforo”, 1480, con uno sfondo molto elaborato e monumentale. Facevano parte del  “Trittico del riposo durante la fuga in Egitto”, conservato al Louvre e non esposto in mostra, nel pannello centrale  la Madonna col Bambino in piedi dinanzi a uno sfondo roccioso, mentre san Giuseppe lontano coglie i frutti da un albero, un santo e una santa nei pannelli laterali in cui continua il paesaggio del pannello centrale,

Di piccole dimensioni anche i tondi  devozionali, potevano essere girati tra le mani dal devoto in preghiera avendo un diametro di soli 18 cm. Ne sono esposti due con che raffigurano la “Madonna col Bambino (Maria lactans)”, 1475-80, uno di Memling, l’altro della sua scuola che ne ricalca la forma senza avere la stessa straordinaria luminosità e trasparenza dell’incarnato nel tenero momento dell’allattamento.

Con la sezione “L’affermazione artistica”,  prosegue  la galleria di opere devozionali. Particolare rilievo ha l’iconografia della Vergine, tra le altre la  “Madonna col Bambino”, 1485,  in piccole dimensioni, poco più di 40 x 30 cm. E’ un tema prediletto da Memling che doveva avere schemi precostituiti  cui apportava di volta in volta varianti in funzione delle committenze. Ritroviamo la mela data al Bambino come ammonimento del peccato originale con l’innovazione della balaustra coperta da  un prezioso tappeto su cui appoggia il Bambino. Sono esposte a confronto due opere:dallo stesso titolo: quella successiva di Bernardino Luini, 1500, con molte assonanze stilistiche e il motivo della balaustra sviluppato in un parapetto su cui è disteso il Bambino; quella precedente di Hugo van der Goess, 1475-80,in cui ritroviamo la posizione e le fattezze dei soggetti, ma non la delicatezza del dipinto di Memling.

Rivediamo i comparti di un trittico, sono incompleti e  raffigurano “San Pietro (recto) e San Francesco d’Assisi (verso), Santa Elisabetta d’Ungheria  (recto) e San Bernardino da Siena (verso)“, 1485-1490:  austere figure nei loro sai, due in nicchie senza sfondo, quasi delle statue, due  in logge con sfondo paesaggistico.

Nelle sezioni “Un Rinascimento fiammingo”  e “Memling in Italia” viene evidenziata soprattutto  l’influenza dell’arte fiamminga, e in particolare di Memling, su quella italiana del periodo, e viene anche ricordata l’influenza indiretta sull’artista tramite la committenza le cui preferenze erano da lui recepite puntualmente e a poco a poco entravano nel suo stile, come si è visto per il paesaggio.

E’ esposto il “Trittico Pagagnotti”, 1480,  di piccole dimensioni perché per la devozione privata,  nel pannello centrale c’è Cristo bambino tra le braccia materne della Madonna con ai lati due angeli musicanti, su un trono sotto un sontuoso baldacchino con dei putti che sorreggono dei festoni in alto: è l’innovazione che troviamo dal 1480, su ispirazione degli antichi e forse di Donatello. Nei pannelli laterali due santi, nello sfondo un paesaggio agricolo con case di campagna e gli alberi dalla caratteristica forma cilindrica. A differenza del Trittico di Reins, il committente non è riprodotto nel pannello laterale, inoltre è  italiano, Benedetto Pagagnotti, vescovo di Firenze e poi di una diocesi francese.

E’ molto simile per soggetto e composizione al pannello centrale del “Trittico Pagagnotti” la “Madonna col Bambino e angeli”, 1480-85, di nuovo gli Angeli musicanti e il sontuoso baldacchino con dietro un paesaggio più monumentale;  e il particolare che l’angelo di sinistra offre al Bambino una mela, l’immagine simbolo del peccato e della redenzione. Viene evidenziata l’influenza sulla pittura italiana esponendo  il “Trittico della trasfigurazione” di Sandro Botticelli.

Un altro confronto diretto viene operato per il “Cristo benedicente”, 1485,  con il dipinto dello stesso titolo del Ghirlandaio, 1490: la somiglianza è tale da essere una copia vera e propria anche nei dettagli, come le gocce di sangue che scendono sulla fronte dalla corona di spine, sono state aggiunte solo due colonne in porfido quasi indistinguibili sullo sfondo scuro. L’opera di Memling, 50 x 30 cm,  è parte di un dittico con la “Mater dolorosa”, raffigurata quasi come una suora.

Ritroviamo un “Cristo benedicente (Salvator Mundi)”, 1480-85, ancora più piccolo, 35 x 25 cm, il busto è raffigurato in una cornice dorata  con nuvole scure, l’atteggiamento è ben diverso, assorto e protettivo. Mentre torna il “Cristo dolente”, 1490, in una specie di  miniatura di circa 10 cm.

I confronti con dipinti di altri pittori non riguardano soltanto gli artisti italiani fin qui citati. Nella sezione “Rivali e concorrenti” sono esposti i quadri, alcuni di grandi dimensioni, di artisti restati anonimi cui è stato attribuito un nome inerente i soggetti rappresentati. Si tratta del “Maestro della leggenda di sant’Orsola” con due opere del 1480:  il “Trittico di Paolo Pagagnotti”,  lo stesso committente italiano di Memling, la Madonna col Bambino nel pannello centrale, il committente in ginocchio con il protettore in piedi nel pannello sinistro, Cristo in quello destro; e  la “Madonna  con Bambino e quattro santi”,  originale composizione che vede i santi schierati ai due lati frontalmente.

Due opere sono del “Maestro della leggenda di santa Lucia”:  il monumentale, rispetto agli altri, “Santa Caterina d’Alessandria”, un’immagine regale alta 2 metri e “Madonna col Bambino”, 1485, altrettanto regale in trono con gli Angeli musicanti ai lati.  Vediamo poi una “Annunciazione e presentazione al tempio”  del “Maestro della leggenda di santa Caterina” e il “Trittico di sant’Andrea” del “Maestro di Andrea della Costa”.

Vogliamo concludere con il “Trittico di Clemente VII”  del “Maestro del fogliame ricamato” perché ci sembra possa assumere un valore di alto contenuto simbolico nei rapporti tra il Rinascimento fiamminga e l’Italia. Il trittico reca nel pannello centrale Cristo dolente con la corona di spine – che abbiamo già visto in Memling –  e la Madonna addolorata, nei pannelli laterali sant’Anna e santa Margherita, le dimensioni degli scomparti sono di circa 60 cm, con la sommità smussata.

Non fu commissionato, ma acquistato direttamente dal cardinale Giovanni di Lorenzo de’ Medici in un viaggio in  Europa nel 1499, dopo la cacciata dei Medici da Firenze, con lui viaggiò il nipote, cardinale Giulio de’ Medici. Il dipinto  dovette  portare loro fortuna, Giovanni divenne papa  Leone X  dal 1513 al 1521,  Giulio ne fu il successore come papa Clemente VII;  poi la fortuna sembrò cessare, nel 1527 ci fu il Sacco di Roma, il dipinto fu trafugato in Vaticano da un soldato spagnolo; ma mostrò di nuovo la sua forza perché il soldato temendo di incorrere nella dannazione per il sacrilegio lo consegnò nientemeno che ai frati agostiniani di Cagliari. Clemente VII  non lo riprese, anche lui scosso dal prodigio lo donò al Duomo di Cagliari con una prescrizione: l’obbligo di  esposizione ai fedeli ogni anno nella festa dell’Ascensione “ac honorifice ac devote”.

E’ una vicenda per noi emblematica nei rapporti del Rinascimento fiammingo con l’Italia: la “devotio moderna” fu un movimento popolare, e cosa c’è di più popolare dell’esposizione per la devozione dei fedeli a cadenza annuale nel mezzo secolo trascorso e nei secoli a venire?

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20.00; venerdì e sabato 2 ore e mezza in più, fino alle 22,30; entrata ammessa fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 12,00, ridotto per le categorie ammesse euro 9,50, tra 7 e 18 anni euro 6,00, riduzioni speciali per scuole e gruppi. Tel. 06.39967500 e 848082408.  Catalogo “Memling. Rinascimento fiammingo”, a cura di Till-Holger Berchet,  Skira, 2014, pp. 248,  formato 24 x 31. Il primo articolo, con altre 10 immagini, è uscito in questo sito l’8 dicembre 2014.  Per le mostre precedenti citate nel testo cfr. i nostri articoli: in questo sito su Filippino Lippi il 26 giugno 2013; in “cultura.inabruzzo.it” su Giovanni Bellini il  4 febbraio 2009, sui Pittori fiamminghi e olandesi alla Fondazione Roma il  9 febbraio 2009,  su “Cranach, l’altro Rinascimento”  alla Galleria Borgese il  10 e 11 febbraio 2011. 

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Azienda speciale Expo, il cui Ufficio stampa ringraziamo per la cortesia, tranne l’ultima ripresa dal catalogo dell’editore Skira, che si ringrazia per la concessione, Di Memling, in apertura, “Ritratto d’uomo con una moneta romana (Bernardo Bembo?)”, 1473-74 (?), Anversa,  seguono “Trittico di Jan Crabb”: Anna Willemzoon con sant’Anna (recto dello scomparto sinistro,  Willem de Winter con san Guglielmo di Malavalle (recto dello scomparto destro), New York, e “Ritratto d’uomo“, 1475-80, Londra, poi “Trittico Pagagnotti”: Madonna in trono col Bambino e due angeli (pannello centrale), 1480, Firenze, e  San Giovanni Battista (scomparto sinistro); quindi  “Trittico Moreel”, I santi Cristoforo, Egidio, Mauro (recto ),  San Giovanni Battista e San Giorgio (verso), 1484, Bruges e “Madonna col Bambino e angeli”, 1480-85, Washington; infine “Trittico della Resurrezione”: Martirio di San Sebastiano (scomparto sinistro), Ascensione (scomparto destro), Resurrezione (pannello centrale), 1480-85, Parigi, e “Trittico della vanità terrena e della salvezza divina”, 1485, Strasburgo; in chiusura, del Maestro del fogliame ricamato, “Trittico di Clemente VII”, sant’Anna, la Madonna e il Bambino, l’Addolorata con il Cristo dolente, Santa Margherita, 1500, Cagliari.

Albania e Serbia, verso l’Expo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Sono di scena Albania e Serbia, due paesi a noi vicini al Vittoriano, nel programma “Roma verso Expo”, con la presentazione  in due mostre quasi in contemporanea, dal 9 novembre al 9 dicembre 2014 . l’Albania nella Sala Zanardelli, ingresso piazza Ara Coeli, dal 5 al 16 dicembre sempre 2014 la Serbia nella Sala Giubileo  Ala Brasini ingresso Fori Imperiali. L’intero  programma è promosso da Roma Capitale, con la Regione Lazio, l’Unioncamere e i ministeri interessati, realizzato da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e da Zétema -Progetto Cultura.

Il progetto “Roma verso Expo”

Nel complesso monumentale le due esposizioni seguono le due precedenti, dello stesso programma “Roma verso Expo”, su Egitto e Slovenia, che a loro volta sono state precedute dalla mostra su San Marino, mentre il 2015 inizierà con la mostra sul Vietnam.  All’aeroporto di Fiumicino la presentazione di Kuwait e Israele negli stessi mesi del 2014 e del principato di Monaco  all’inizio del 2015.  Un programma molto fitto come si deve a una manifestazione di risonanza mondiale quale è l’Expo, con 140 paesi partecipanti e oltre 60 milioni di visitatori

La partecipazione di Roma all’evento che si svolge a Milano è ritenuta fondamentale per il suo ruolo di capitale, con la presenza delle ambasciate di tutti i paesi e degli Istituti di cultura, e per la forte attrazione della città eterna con il suo immenso patrimonio storico, archeologico e artistico.

Il complesso del Vittoriano è molto di più di una sede espositiva, anche se la sua struttura monumentale ha spazi quanto mai adeguati; è il simbolo dell’italianità, l’altare della patria, quindi quanto di meglio per la presentazione di  nazioni e  culture, in un ideale confronto; l’aeroporto di Fiumicino, dove si svolgono altre presentazioni, per  motivi ben evidenti è anch’esso molto adatto nella sua funzione di collegamento con il transito di milioni di viaggiatori di ogni nazionalità.

L’Albania                                

“L’Albania del cielo e del profondo blu” è il titolo della mostra che presenta il paese al di là dell’Adriatico, “fotografandone” le bellezze naturali. Abbianmo usato questo verbo perchè è una mostra di splendide fotografie, una galleria di visioni suggestive.

Sono spiagge della costa jonica e montagne, le Alpi albanesi con la vetta di Jezerca; valli fluviali e canyon, colline  e pianure, laghi e isole,  flora e fauna;  monumenti bizantini e post bizantini, chiese e monasteri, tesori archeologici. Tutto questo in foto artistiche che fanno pensare a quadri d’autore  Sono state pubblicate in due volumi dal titolo eloquente: “Archeologia albanese dal cielo”. .

L’antichità è il cuore della storia di questo piccolo paese posto in un importante crocevia internazionale, nel quale si sono incontrate diverse civiltà, l’ellenica  e l’illirica, la bizantina e l’ottomana oltre a quella romana. 

Il sito archeologico di Butrinti, che troviamo in diverse fotografie, posto sul lato meridionale del lago dallo stesso nome, che gli antichi chiamavano Pelodes, reca importanti testimonianze di una storia millenaria, ricostruita seguendo Apollodoro, che fa derivare il nome dal greco “bous”, cioè bue, e Dionigi di Alicarnasso secondo il quale il bue sarebbe stato offerto in sacrificio agli dei da Enea in transito verso il tempio di Dodona dopo aver lasciato Troia espugnata e distrutta dagli Achei; ne dà conferma Virgilio nel terzo libro dell’Eneide.

Nel quarto secolo a.C. Butrinti ebbe il massimo sviluppo, poi fu colonizzato da Roma nel 228 e un secolo dopo entrò nella provincia dell’Illiria, nel sesto secolo d.C. infine divenne centro religioso. La sua attrazione non deriva soltanto da questa lunga storia ma dalle sue bellezze naturali, è immerso nel verde lussureggiante e le fotografie esposte ne mostrano tutto lo splendore.

Bellezze naturali e testimonianza storica anche nel Cimitero degli eroi della 2^ guerra mondiale a sud ovest di Tirana, un Memorial posto in un luogo panoramico meta di turisti. Nel Museo storico nazionale della capitale si trovano i reperti del grande conflitto mondiale.

La Serbia

“Itinerarium Serbiae” si intitola invece la mostra di un altro paese a noi vicino, che non punta sulla natura ma sulla storia amtica., e in particolare sulla romanità.

Le attrazioni ambientali non mancano, nella cartina che è stata distribuita  si trova l’invito “scoprite la Serbia!” con esortazioni accompagnate da immagini eloquenti: “Scoprite la Serbia verde con una vacanza dinamica” e “navigate sul Danubio visitando le città”, “immergetevi nell’atmosfera dei villaggi tradizionali” e “gustate le specialità enogastronomiche”  fino all’invito  “scoprite il patrimonio storico-artistico”. Mentre le città, in particolare la capitale Belgrado, secondo l’invito, promettono una vita  notturna “vibrante e animata, in contrasto con la rilassante tranquillità delle province, dove la natura e l’ambiente offrono numerose occasioni di fuga dalla vita metropolitana”.

E’ stata ricostruita da tempo l’immagine di un paese e di un popolo sfregiata negli anni non lontani della dissoluzione della Jugoslavia dagli orribili episodi di “pulizia etnica”; ricordiamo il “mese della Serbia” all’inizio del 2012, con la mostra fotografica al Vittoriano su arte e cultura.

Il fulcro dell’attuale  presentazione è invece il richiamo alle antiche radici di una storia millenaria, alle civiltà scomparse di cui restano tracce nei siti archeologici e nei monumenti, nelle chiese e nei monasteri.  La loro ubicazione nei luoghi più remoti tra le catene montuose,  o nelle valli e alle foci dei fiumi fa sì che l’itinerario culturale si intrecci con quello paesaggistico, la storia con la natura.

Gli imperatori romani ne diventano protagonisti, d’altra parte furono 18 quelli nati nel territorio dell’attuale Serbia, un quinto del totale, più di quelli  nati fuori dell’Italia messi insieme; e il territorio serbo con il Danubio rappresentava il “limes”, il confine dell’impero di valore strategico.

Il titolo della mostra richiama l’iniziativa culturale che collega i luoghi storici e i siti archeologici dell’antica storia romana come erano collegati all’epoca delle legioni sulle rive del Danubio. Non è solo un fatto logistico, sono stati portate alla luce antiche rovine, si sono recuperati reperti, si è ridata vita ad ambiti di grande valore storico, con l’obiettivo di realizzare un percorso di 600 chilometri  come patrimonio culturale per l’Europa e per il mondo.

Al centro della sala, con i busti degli imperatori alle pareti, c’è il grande plastico di una città antica. La mostra presenta “Vinacium”, ne è anche il sottotitolo, capitale della Mesia superiore dov’era la VII legio Claudia, una città che aveva oltre 28 mila abitanti,  di cui gli scavi archeologici hanno portato alla luce i resti, tra cui una necropoli romana con più di 14 mila tombe tra il I e il V secolo, con relativi corredi funerari e affreschi della tarda antichità. Le terme, le porte della città e il mausoleo dell’imperatore Ostiliano sono visibili nel Parco archeologico con l’antico Anfiteatro.

Ci guardiamo intorno, i busti degli imperatori che evocano secoli di storia antica sembrano invitarci,  come prima ci invitavano i richiami alle bellezze naturali e ambientali. Quando storia e natura si uniscono l’attrazione diventa irresistibile, e nel dire questo ripensiamo anche alle splendide immagini dell’Albania, che alla natura della splendida galleria fotografica unisce storia e cultura.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, compresi i festivi e il lunedì,  dalle 9,30 alle 19,30, entrata consentita fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06. 6780664.  Cfr. in questo sito i nostri  articoli sul programma “Roma verso Expo”,  per “Egitto e Slovenia”  l’8 novembre 2014; nel 2015 le ulteriori presentazioni, sono previsti il “Vietnam”  a metà gennaio 2015 e l’ “Estonia” all’inizio di febbraio; sull’archeologia albanese il nostro articolo del 12 dicembre 2012 sulla mostra a Roma.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Complesso del Vittoriano, alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” e Zétema, con le Ambasciate di Albania e Serbia, e  i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Per l’Albania, in apertura un anfiteatro antico a Butrinti, seguono immagini fotografiche delle bellezze ambientali, dai monti al mare; per la Serbia  busti di imperatori di Roma e, in chiusura, un grande plastico di città romana.

Memling, 1. Il Rinascimento fiammingo, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale, dall’11 ottobre 2014 al 18 gennaio 2015 la mostra “Memling. Rinascimento fiammingo” espone per la prima volta in Italia le opere del maestro olandese  ricomposte con i prestiti dei più grandi musei, e compie un prezioso lavoro di approfondimento sugli influssi del Rinascimento fiammingo sul Rinascimento italiano. La mostra, organizzata dall’Azienda speciale Expo con Arthemisia e la collaborazione di Flemish Art Collection of Fine Arts, è curata da  Till-Holger Borchert, curatore del Memling Museum di Bruges, che ha curato anche il Catalogo Skira nel quale sono riportati saggi sui rapporti con l’Italia del Rinascimento fiammingo. Dal 22 ottobre al 10 dicembre sono in programma  6 incontri, a cadenza settimanale, il primo con il curatore, sui temi della mostra, come i rapporti con la pittura  italiana,  la committenza,  e il paesaggio dipinto; inoltre gli “Spot! 20 minuti un’opera”, il 14, 19 novembre, 20 gennaio 2015.

La mostra nella presentazione di Franco Bernabè

“Una mostra di rara bellezza e di grande qualità” l’ha definita il presidente dell’Azienda speciale Expo da cui dipendono le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, Franco Bernabè,  il 10 ottobre 2014 nel presentare l’esposizione, consigliando di vederla due volte per poter apprezzarne meglio i particolari e la qualità delle opere. A prima vista sembra fuori dai binari delle mostre delle Scuderie, sugli “Old Masters”, maestri italiani e  maestri stranieri vissuti in Italia. Messling non è mai stato nel nostro paese ma la sua pittura ha una notevole vicinanza con la nostra, il Rinascimento fiammingo ha anticipato il Rinascimento italiano, influenzandolo notevolmente. Si è avuta anche l’azione decisiva dell’alta borghesia italiana, in testa i grandi banchieri, come committenti del maestro di Bruges, dove si trovava una vasta e ricca comunità originaria dell’Italia.

Bernabè ha indicato anche altre motivazioni della mostra, in primis “la grande qualità e l’alto impatto culturale” che ha fatto accettare il rischio di presentare per la prima volta l’artista nel nostro paese, in coerenza con la programmazione pluriennale delle “Scuderie”. E al riguardo ha ricordato  le mostre alle Scuderie dal 2006 su Antonello da Messina, Giovanni Bellini e Filippino Lippi.

Infine la presidenza semestrale dell’Unione Europea affidata all’Italia: cosa di meglio che celebrarla con un artista che esprime  “la contaminazione tra l’arte italiana e l ‘arte europea”  fonte di tanti grandi capolavori? Nella prima parte della mattinata c’era stata la visita del Presidente della Repubblica a dare maggiore solennità all’evento e a sottolinearne questo particolare aspetto.

La mostra ha consentito di ricostituire l’unicità dei famosi Trittici le cui componenti sono in diverse sedi museali, come di effettuare 10 importanti interventi di restauro su opere delicatissime e di approfondire il tema dei collegamenti e degli influssi tra le scuole artistiche in campo europeo: motivi permanenti di interesse e di validità che vanno ben oltre il tempo espositivo. 

Fin qui il presidente Bernabè, da parte nostra possiamo dire che  nel visitare la mostra ci è parso del tutto appropriata la definizione di “rara bellezza e grande qualità”: il tratto pittorico e cromatico dell’artista è tale da dare alle composizioni una precisione, chiarezza e espressività notevoli, sia nei piccoli ritratti sia negli spettacolari Trittici. E ci siamo trovati a visitarla veramente due volte, per soffermarci meglio sui particolari delle opere, alcune delle quali di portata narrativa coinvolgente. 

L’allestimento valorizza queste positive caratteristiche, la penombra dell’ambiente espositivo è rischiarata dai fasci di luce sui dipinti come l’occhio di bue sulle “star”, le opere sono distribuite in ampi spazi nelle 7 Sezioni che scandiscono il percorso artistico e umano con appositi cartelli illustrativi: è come se si dipanasse una storia narrata da opere di forte impatto visivo, con didascalie luminose e con discrete quanto documentate schede per le più importanti. Allestimento magistrale !

Il contesto ambientale e artistico  

Sembrerà strano che un simile artista ancora nel 1953 fosse definito “grande maestro minore” da Erwin Panofsky, un ossimoro apparente perché l’accento è sul “minore” piuttosto che sul “grande maestro”, in quanto ritenuto mediocre discepolo del famoso Rogier van der Weisen, il più importante artista di Bruxelles, cosa peraltro rimasta incerta; eppure nel 1540 un dotto di Bruges lo aveva  definito “il più dotato ed eccellente pittore dell’intero mondo cristiano”.  Soltanto nel 1994, nel 500° anniversario della morte, la grande mostra della sua città Bruges che espose metà di tutti i dipinti  pervenuti consentì la totale rivalutazione della sua arte, fino alla successiva mostra itinerante per l’Europa del 2005 dopo 20 anni di approfondimenti che lo hanno qualificato tra i più grandi maestri fiamminghi e i ritrattisti più esperti del Rinascimento.

Originario della Germania,  nato presso Francoforte, dovette compiere il tirocinio di 4 anni, ma non si hanno notizie delle visite di formazione alle città, tranne dei segni di presenza a Colonia, la cui cattedrale  con le gru appare in alcune sue opere. Nel gennaio 1465 si trasferisce a Bruges dove acquista la cittadinanza forse per iscriversi alla corporazione dei pittori nella quale rimase fino alla morte nel 1494; era nato in una data imprecisata, la più probabile è il 1440. 

Vasari lo ricorda apprendista di Rogier van der Weyden a Bruxelles dal 1459-60 fino alla morte del maestro nel  1464, ma restano molti dubbi, non è ritenuto attendibile sui fiamminghi e non ci sono documentazioni certe; d’altra parte le opere di Memling, tranne due, non sono datate e molte neppure firmate, cosa che ha posto notevoli problemi di attribuzione. Né sono sufficienti per farne un discepolo le analogie del Trittico del suo “Giudizio Universale”, oltre che di altri Trittici, con le pale del maestro sullo stesso tema, anche perché le opere erano state tolte dallo studio diversi anni prima del presunto arrivo di Memling e vi sono notevoli differenze; inoltre erano disponibili ovunque, quindi alla sua portata,  disegni e riproduzioni delle opere di van der Weyden.

Più che a Van der Weyden di Bruxelles viene accostato a Van Eyck e Christus, i più famosi pittori di Bruges,  i cui influssi si notano sia nelle rappresentazioni della Madonna sia nella ritrattistica, in particolare  negli sfondi semplici e in quelli paesaggistici, nei dettagli e nell’ambientazione.

Memling ebbe una bottega molto prolifica a Bruges, con diversi assistenti che svolgevano un ruolo importante. La società cittadina era dedita ai traffici, da Bruges venivano esportate merci raffinate, dai velluti ai broccati, che troviamo in molti dipinti; era anche amante delle arti, quindi ricca e colta, l’ambiente ideale. Si moltiplicavano le committenze di quadri da parte di facoltosi borghesi, tra cui molti italiani della comunità locale, in cui vi era un Banco Mediceo diretto in successione da due banchieri fiorentini, Angelo Tani e Tommasi Portinari, che favorirono le relazioni con l’Italia, li troviamo tra i committenti. Oltre ai ritratti venivano commissionati i trittici devozionali: grandi  per le cappelle, tra i  più spettacolari il “Trittico Moreel” del 1494; piccoli e portatili per  uso privato. 

Degli ultimi anni  sono i dipinti di maggiori dimensioni, come la “Pala della passione” e la “Pala Nàjera”, di 3 e 7 metri di larghezza, a riprova che mantenne fino all’ultimo notevole vitalità, grande fama e presa sulla committenza: tali opere sono del 1989-91, l’artista morirà nel 1994.

L’arte di Memling e l’influenza sulla pittura italiana

Tra l’Italia e le Fiandre si intrecciavano legami economici e finanziari;  tra Bruges e Gand da un lato, Firenze e Genova dall’altro fiorivano gli scambi. Il realismo che nel Rinascimento italiano si esprime nel segno della prospettiva geometrica,  nel Rinascimento fiammingo predilige la mimesi naturalistica, il cromatismo e la luminosità: di qui gli scambi e le contaminazioni. Della pittura fiamminga colpiva l’imitazione della natura ritenuta il principale criterio dell’arte;  il  realismo e la precisione dei dettagli, sue caratteristiche salienti,  erano particolarmente apprezzati per la loro “verosimiglianza”, tanto che dei ritratti di Van Eyck si disse che “manca solo il respiro”, e piacevano gli effetti cromatici e luminosi. Queste peculiarità erano possibili per l’uso della nuova tecnica dei “colori ad olio”  che dava precisione alla raffigurazioni naturali e realistiche ed era molto più versatile, brillante  e luminosa della tradizionale “tempera all’uovo” degli artisti italiani.

Nell’approfondire l’influenza di Memling sulla pittura italiana sono stati evidenziati i caratteri peculiari di questo artista e del Rinascimento fiammingo di cui è un vero protagonista, caratteri che ritroviamo nell’arte a Firenze e altrove, e furono anche i motivi del grande successo e della  ricca committenza soprattutto italiana, stimata pari al 20% di quella complessiva;  Memling era il pittore fiammingo più presente in Italia con le sue opere. Per le sue peculiarità,  l’arte fiamminga esercitava una forte attrazione, i pittori fiamminghi erano chiamati nelle corti italiane, e gli artisti italiani  andavano nelle botteghe fiamminghe, principi e ricchi borghesi acquistavano e commissionavano opere che entrate in Italia influenzavano gli artisti locali che le potevano conoscere da vicino

La penetrazione nel nostro paese – soprattutto a Firenze e Venezia – dell’arte fiamminga nella interpretazione di Memling, fu molto rapida. D’altra parte si è trattato di un processo biunivoco, l’artista  cercava a sua volta di aderire alle aspettative della committenza in atto e potenziale, quindi egli stesso era influenzato  dal gusto degli italiani, tenendo conto che doveva farsi preferire ai concorrenti molto attivi a Bruges; ciò viene rilevato in particolare nei ritratti e nella scelta dei paesaggi di sfondo, derivanti dalla committenza italiana e spesso ripetuti in dipinti italiani.  Osserva il curatore: “Non erano solo i membri della nazione fiorentina o veneziana a richiedere ritratti impreziositi dai paesaggi tanto ammirati in patria, ma esisteva anche una vivace domanda locale”.

Non si pensi a un‘omologazione, gli sfondi dei ritratti vanno dalla forma più semplice e neutra a quella paesaggistica a diversi livelli di dettaglio, forse decisi con il committente anche in base al prezzo. Quindi convivevano le varie forme, anche a seconda  dell’utilizzazione: gli sfondi neutri o monocromatici per far risaltare la figura, a fini memoriali e funebri, mentre gli sfondi paesaggistici aggiungevano alla figura un elemento spettacolare. Anche le opere devozionali, di carattere sacro ma destinate spesso a cappelle private, hanno queste caratteristiche, cui si aggiunge in alcuni casi l’aspetto narrativo, per Memling e per ad altri artisti di Bruges vissuti nello stesso periodo.

Lo scopo era dare lustro al proprietario committente, le opere erano oggetti da collezione e insieme da esibizione, tipico il caso dei banchieri Tani e Portinari  che gli commissionarono dei Trittici, il primo su “Il Giudizio Universale”, il secondo su “La Vergine e san Benedetto”, e una pala, sempre  con funzioni celebrative e penitenziali; Portinari invitò perfino Lorenzo il Magnifico a Bruges.. A questi si aggiungono i distici devozionali, con il  donatore e le figure sacre viste come miniature.

Un aspetto particolare della produzione di Memling è dato dal fatto che molte opere si basano su un certo numero di composizioni standard  combinate di volta in volta in immagini nuove secondo le richieste dalla specifica committenza; lo si vede ad esempio nella posizione delle mani che torna con frequenza, presumibilmente presa da cartoni di bottega, come nelle raffigurazioni della Madonna in cui la figura della Vergine e la sua collocazione sembrano frutto di composizioni che utilizzano elementi precostituiti mutando di volta in volta soggetto, posizione e ambientazione.

Le sue raffigurazioni sono spesso delle narrazioni, ma l’intento non è solo illustrativo: sono intese come espressione di pietà religiosa nello spirito di una moderna “devotio” perché i fedeli si potessero immedesimare dinanzi a quella che voleva essere una testimonianza veritiera dei fatti evangelici.  Questo contenuto sentimentale, tipico dell’arte fiamminga, era apprezzato soprattutto dalla committenza di élite in quanto  cercava di rappresentare l’anima oltre all’aspetto esteriore curato con la precisione del tratto e la cura nei dettagli.

In occasione della mostra è stato approfondito l’influsso dei fiamminghi sugli artisti italiani. Scrive il curatore: “Colori, realismo dei particolari, ritratti e paesaggi: questi gli elementi, particolarmente elogiati negli scritti italiani, che determinano anche la ricezione dei primitivi nederlandesi nelle opere di maestri fiorentini, veneti, lombardi e napoletani. Tutti costoro accolsero le bizzarre formazioni rocciose di Van Eyck, come pure la posizione di tre quarti caratteristica dei ritratti fiamminghi che, nel Quattrocento italiano, venne ad affiancare la resa rigorosamente di profilo. Anche la lucentezza dei colori fiamminghi fu imitata in Italia; un effetto che tuttavia non veniva raggiunto per assimilazione della tecnica, ma semplicemente attraverso un’imitazione meticolosa”.

Nel Catalogo vengono passati in rassegna i principali richiami sotto il profilo stilistico di opere di artisti italiani con i fiamminghi, Memling in particolare, nelle diverse forme espressive.

Elementi del “Ritratto di uomo con una moneta romana”, committente il diplomatico veneziano Bembo,  li ritroviamo in  Botticelli nel “Ritratto d’uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio”  e nella “Ginevra de’ Benci” di Leonardo sia per la posizione di tre quarti sia per lo sfondo paesaggistico.  “E’ possibile – scrive Paula Nuttali – che Memling abbia sviluppato  questa formula  per venire incontro ai gusti della committenza italiana, dal momento che il paesaggio costituiva uno degli aspetti della pittura fiamminga più ammirati in Italia. Non è certo casuale che la maggior parte dei ritratti di italiani eseguiti da Memling includa un paesaggio sullo sfondo, e che quella formula di per se stessa esercitò un’influenza radicale e ‘trasformativa’ sulla ritrattistica locale, venendo ampiamente adottata dagli artisti italiani nell’ultimo quarto del secolo e rimanendo in auge anche all’inizio del secolo successivo”.

Tra loro il Perugino – si cita il ritratto di “Francesco delle Opere” – e persino Leonardo nel  paesaggio di sfondo della “Gioconda” e Raffaello nei suoi “Dama con il liocorno” e “Madonna col Bambino”, ispirati, si afferma, al Trittico di Benedetto Portinari; così altri minori. “Le citazioni dirette dei paesaggi di Memling – prosegue la Nuttali – non sono inusuali nella pittura italiana di questo periodo, potrebbero forse costituire una forma di omaggio al maestro fiammingo, interpretato dai vari pittori italiani con intento virtuosistico e ostentativo delle proprie capacità”.   Ritroviamo i motivi del mulino e delle rocce del Trittico di Pagagnotti in una serie di opere dai “Santi Paolo e Frediano” di Filippino Lippi alla “Pietà” e “Ritratto d’uomo” di Giovanni Bellini fino a “San Giorgio e il drago”  e “Sacra Famiglia con l’agnello” di Raffaello.   

Alla difficoltà da parte degli artisti italiani di conoscere opere – come il ritratto per Bembo e  i Trittici di Portinari e Pagagnotti – strettamente private, quindi non esposte al pubblico, si controbatte che alcuni di loro erano in contatto con i committenti di Memling, e che per gli altri “è più verosimile che tali citazioni derivassero invece da un disegno o da una copia tratta dall’originale e poi divulgata nella cerchia delle botteghe fiorentine per poter adeguatamente rispondere alla crescente richiesta di sfondi paesaggistici ‘alla fiamminga’. Il successo dei paesaggi di Memling raggiunse l’apice nella Firenze di tardo ‘400 e inizio ‘500 quando era quasi un obbligo per i pittori includere sfondi paesaggistici secondo il suo stile”.  Per il paesaggio il “Trittico Galitzin” del Peugino, cioè la “Crocifissione con la Vergine, san Giovanni Evangelista, san Gerolamo e Maria Maddalena” , 1485 circa, “è spesso considerato un esempio paradigmatico dell’influenza di Memling sulla pittura italiana di paesaggio”.

Oltre che per il ritratto e il paesaggio, gli artisti italiani si ispirarono ai fiamminghi, e a Memling in particolare, nella pittura devozionale, cui questi ultimi erano più portati, come osservava Vittoria Colonna nel 1546: “Il dipingere di Fiandra mi sembra più devoto che il modo italiano”.  D’altra parte, nelle opere religiose di uso privato, come quelle di Memling, era fondamentale creare l’atmosfera adatta alla contemplazione e alla preghiera trasmettendo all’osservatore il “pathos” dei personaggi raffigurati. Si tratta della “maniera devota”, di cui un esemplare particolarmente efficace è il dittico di Memling con “Cristo benedicente” e “Mater dolorosa”, tanto commovente e verisimile da influenzare il Ghirlandaio  sicché il dipinto fu ritenuto a lungo opera del fiammingo.

Un’influenza dell’arte fiamminga viene trovata anche nel nudo femminile, anche se sono pochi gli esemplari conosciuti, per Memling il “Trittico della vanità terrena e della salvezza divina”, con l’immagine della Vanitas o Lussuria in posa provocatoria; a questa è accostata l’opera altrettanto allegorica di Giovanni Bellini, che successivamente tornerà nel nudo a uno stile più tradizionale; nudi soprattutto nel Trittico del “Giudizio Universale”  che per le loro forme filiformi abbiamo associato al Rinascimento nordico e freddo di Cranach.

Gli influssi italiani recepiti da Memling

Abbiamo accennato che gli influssi non sono stati a senso unico, dati gli intensi scambi  tra le Fiandre e l’Italia che si svolgevano a diversi livelli.

Vi erano scambi di artisti con la presenza di italiani nelle botteghe delle Fiandre e i viaggi degli olandesi nel nostro paese, ma non solo. Data la prevalente committenza italiana venivano  portate a conoscenza opere di artisti italiani o motivi che si voleva fossero contenuti nel dipinto da realizzare, e poiché Mermling tendeva ad assecondare la committenza, osserva la Nuttali, “sembra sia stato il primo a incorporare motivi e modelli italiani nelle proprie opere”. E quando si evidenziano nei suoi dipinti gli elementi che si ritrovano in artisti italiani, in molto casi ci si accorge che Memling “utilizza una iconografia spiccatamente italiana”, come in “San Girolamo nel deserto”  del Perugino e Pinturicchio  che richiamano “San Girolamo penitente”  dell’artista fiammingo  il quale si è ispirato a opere sul santo che il committente deve avergli mostrato.

Sull’influsso italiano vengono portate varie prove, come i putti e le statuette nude del “Trittico Pagagnotti”  più vicini alla tradizione italiana  di stampo classico che a quella fiamminga, e la decorazione architettonica come le piccole palme di ispirazione classica.  Dinanzi a queste evidenze la Nuttali osserva: “La presenza congiunta di un certo numero di motivi fortemente italianizzanti in un dipinto commissionato da un fiorentino non è casuale; tuttavia non è certo se essi siano stati inclusi  dietro richiesta dell’eminente Vescovo di Firenze o su iniziativa del pittore, il quale ha forse voluto fare sfoggio di tutta la propria abilità nel competere con l’arte italiana o l’arte antica in una sorta di ‘paragone'”. In ogni caso questo dimostra come Memling fosse aperto alle idee italiane, che lo hanno influenzato nel momento stesso in cui esercitava la sua influenza sull’arte italiana.

Così conclude: “Hans Memling, l’ultimo dei grandi fiamminghi ad aver esercitato un impatto rivoluzionario sull’arte italiana, fu anche il primo ad aprire la porta, lasciandola socchiusa, al Rinascimento italiano”.

Le sezioni della mostra

Ce n’è quanto basta per  convenire con i motivi esposti da Franco Bernabé sulla presenza di Memling alle Scuderie sebbene non sia italiano né avesse operato in Italia: è come se lo avesse fatto, tanta e tale è stata la sua influenza sull’arte italiana e l’influsso italico da lui stesso recepito.

Tutto questo è reso compiutamente anche mediante confronti con opere consimili, alcune le abbiamo citate. In apertura due piccoli ritratti-simbolo particolarmente preziosi, uno maschile e uno femminile, poi gli esordi  con la “Deposizione” di van der Weyden insieme al suo “Trittico per Jan Crabbe”; seguono i grandi Trittici di committenza italiana, e la sezione dedicata ai piccoli Ritratti, quindi la pittura di narrazione, e straordinarie composizioni come quella sulla “Passione”.

Spettacolare la sezione sulla pittura devozionale, grandi Trittici per cappelle private e  piccoli Trittici e quadretti per l’uso personale anche in viaggio; sono posti  a confronto con  artisti a lui coevi, rimasti ignoti ma con i nomi legati alle loro opere più rappresentative.

Ricordiamo i tre grandi trittici, di Adriaen Reins di Bruges, della Resurrezione del Louvre e il Trittico Pagagnotti ricomposto nelle componenti degli Uffizi e della National Gallery.

Non resta che visitare la mostra dopo aver fatto tesoro degli approfondimenti da noi fin qui riassunti, che consentono di apprezzare i collegamenti con l’arte italiana e i reciproci influssi.

L’abbiamo visitata due volte, la racconteremo prossimamente da cronisti effettuando una carrellata delle opere esposte e cercando di trasmettere le sensazioni e le emozioni che abbiamo provato.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20.00; venerdì e sabato 2 ore e mezza in più, fino alle 22,30; entrata ammessa fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 12,00, ridotto per le categorie ammesse euro 9,50, tra 7 e 18 anni euro 6,00, riduzioni speciali per scuole e gruppi. Tel. 06.39967500 e 848082408.  Catalogo “Memling. Rinascimento fiammingo”, a cura di Till-Holger Berchet,  Skira, 2014, pp. 248,  formato 24 x 31, dal quale sono state tratte le citazioni del testo.  Il secondo articolo conclusivo, con altre 10 immagini, uscirà in questo sito il 10 dicembre 2014. Per le mostre precedenti citate nel testo cfr. i nostri articoli: in questo sito su Filippino Lippi il 26 giugno 2013; in “cultura.inabruzzo.it” su Giovanni Bellini il  4 febbraio 2009, sui Pittori fiamminghi e olandesi alla Fondazione Roma il  9 febbraio 2009,  su “Cranach, l’altro Rinascimento” alla Galleria Borgese il  10 e 11 febbraio 2011.

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Azienda speciale Expo, si ringrazia l’Ufficio stampa per la cortesia. Di Memling, in apertura, “Ritratto di donna (frammento)”, 1480-85, Rhode Island; seguono “Madonna col Bambino in trono e due angeli musicanti“, 1465-70, Kansas City, e  “Ritratto d’uomo”, 1470-75, New York, poi “Passione di Cristo”, 1470, Torino, e “Trittico di Adriaan Reins”, 1480, Bruges,  quindi “Trittico di Jan Crabbe“: Crocifissione con Jan  Crabbe”, pannello centrale, Vicenza, e “Annunciazione”, verso degli scomparti laterali, Bruges, infine  Cristo benedicente”, 1985, Genova, e “Madonna  col Bambino”, 1485, Lisbona, in chiusura, di Rogier van der Weyden (e aiuti), “Compianto sul Cristo morto”, 1480, Firenze.

Carlo Levi, pittura dionisiaca ed elegiaca, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Dal 20 novembre al 12 dicembre 2014 alla Galleria Russo la mostra antologica “Carlo Levi. La realtà e lo specchio”, curata dalla Fondazione a lui intitolata espone circa 60 dipinti del periodo dal 1926 al 1972, ripercorrendone l’itinerario artistico con 40 opere degli anni ’20 e ’30 e le restanti dagli anni ’40  alle due ultime del 1972, due anni prima della morte; con 5 opere inedite. Catalogo della “Palombi Editori” a cura della Fondazione. Dopo aver inquadrato in precedenza la personalità dell’artista, passiamo alla rassegna delle opere con altri giudizi e testimonianze.

Una personalità poliedrica, quella di Carlo Levi, nella quale è intrigante cercare di cogliere i confini e insieme le correlazioni tra le  molteplici espressioni in un percorso di vita movimentato cui si è accompagnato un percorso artistico che ha visto una continua evoluzione tra le tante avanguardie, pur mantenendo il rigore e la coerenza stilistica.  Ha partecipato al fervore delle tante correnti che si sono succedute ma non ha aderito compiutamente ad alcuna, inserendo di volta in volta nuovi elementi nella sua pittura senza mai snaturare la sua peculiare forma espressiva e senza venir meno ai suoi contenuti.

Ne abbiamo parlato in precedenza con l’ausilio delle interpretazioni di un critico come Fabio Benzi e del presidente della Fondazione  a lui intitolata Daniela Fonti.  Preparandoci alla visita alla mostra  delle 60 opere esposte, torniamo su questi temi con la testimonianza dei suoi galleristi storici,  Antonio ed Ettore Russo, esponenti della prestigiosa galleria che ha avuto l’esclusiva di de Chirico per vent’anni. Ebbero in Carlo Levi una totale fiducia sempre ricambiata, ne è una manifestazione la lettera che l’artista scrisse loro il 7  dicembre 1970, accettando di presentare i suoi quadri in una mostra antologica per inaugurare la loro nuova galleria “Gradiva”.

L’arte di Levi nella testimonianza di Antonio ed Ettore Russo

“La vita intesa come scoperta di verità e conquista di libertà è sempre stata al centro degli interessi artistici ed umani di Carlo Levi”, esordiscono i galleristi, affrontando subito la correlazione tra i suoi diversi percorsi, quello letterario e politico-sociale e quello artistico.  “Ha mantenuto integra, e arricchita, la sua carica vitale, di pittore e di scrittore, e perciò di poeta, creatore di contenuti umani e di civiltà.  Ed è evidente che in tal senso ogni vero artista si sente sempre responsabile dinanzi alla società  e alla cultura del suo tempo, e soprattutto al futuro che egli anticipa”.  Pertanto “l’artista può così liberarsi, senza difficoltà di sorta, da ogni bagaglio intellettuale, sino al punto di non far più sussistere alcun punto di demarcazione tra l’umanesimo dello scrittore e la sensibilità del pittore. Ragione e fantasia si fondono felicemente in una direzione di ricerca che diventa positiva conquista per una pittura che vive autonomamente”.

E’ il motivo per cui  “la sua pittura, fin dagli esordi, non è mai stata soltanto una contrapposizione polemica, pittorica o sociale, agli indirizzi dominanti, ma una viva e potente affermazione di valori nuovi, di una nuova unità dell’uomo”.  Non ha aderito alle avanguardie e correnti stilistiche succedute nel tempo, pur essendo stato  molto attento all’evoluzione artistica e ai contatti a livello europeo dall’osservatorio privilegiato di Parigi, e ha dato una insegnamento valido anche oggi “a tutti, e particolarmente ai giovani, contro i nuovi conformismi, fiducia nell’originalità dell’atto creativo e nell’autonomia dell’esperienza individuale nella infinità dei rapporti che si formano con la realtà universale”.   

La sua attenzione alla realtà come fonte di ispirazione e trasfigurazione non deve, però, confinarlo nel realismo del dopoguerra, anche se partecipò alla reazione all’astrattismo con Renato Guttuso esponente di punta; altrimenti non si coglie quella che i Russo definiscono “la forza e la bellezza di questa pittura che ha un’importanza così determinante nel rinnovamento dell’arte, e non soltanto nel nostro paese”. 

Perché “Carlo Levi è il portavoce di un nuovo umanesimo che ha profonde radici nella storia… ci riporta all’origine e alla ragione delle cose, in un racconto che non ha nulla di veristico ma che sta per noi tutti in una dimensione più veritiera del vero apparente”. Ciò è il frutto della “capacità artistica di Carlo Levi di evocare la realtà, scardinandola nelle sue più intime strutture, a volte anche lacerandola e ricostruendola in una nuova unità”. In questo modo “qualche cosa di ‘mitico’ si sprigiona dalle tele di Carlo Levi, che ha il privilegio di collocare il proprio io a diretto contatto con la realtà in sé, costituita non soltanto da forme e fenomeni, ma da idee che si nascondono in questa stessa realtà. E Carlo Levi ,  con la sua presenza riscatta e qualifica, umanizzandolo, il mondo reale”.

Un realismo e un umanesimo che è insieme tormento ed estasi, vissuti attraverso i soggetti in modo intenso. “L’artista ‘codifica’ così un suo essenziale colloquio con le cose, riportandoci alle fonti primarie dell’esistenza; quelle fonti che, al di là della configurazione esteriore, hanno la loro radice sempre nel cuore dell’uomo”. Il tutto in una “ridondanza cromatica che non è tuttavia fine a se stessa, ma al contrario, nella resa finale, libera il colore da ogni peso fisico, lo spiritualizza, in breve lo emargina da ogni prigionia puramente fenomenica”.  In  tal modo i suoi soggetti “ci danno la chiara sensazione del dramma dell’uomo, dell’essere combattuto tra il bene e il male, tra cadute angosciate e desiderio di liberazione. Ma il risultato finale, concluso nell’unità armonica di ogni quadro, è sempre un superamento del contingente, per cui non è azzardato affermare che secondo l’idea hegeliana l’arte di Carlo Levi – pittore, scultore, uomo del nostro tempo – si risolve sempre, attraverso una prospettiva di impegno poetico, in un offrire ‘l’idea della bellezza nel suo dispiegarsi’ o piuttosto l’immagine della realtà nel momento stesso del suo nascere e formarsi”.

Per concludere: “Quindi un’arte dinamica e aperta e sempre nuova, e, perché tale, sostanziata dal ‘vivente’ che circola nella forma e la chiarisce, sottraendo il fare dell’artista al caos, all’improvvisazione, alla provvisorietà”. In un  contesto dove tutto, dalla pittura alla letteratura all’impegno politico e sociale  è sotteso  da una forte tensione civile e morale.

Le opere in mostra: dagli anni ’20  ai primi anni ‘70

Dei “volti, natura, cose”, in cui Guttuso riassumeva i soggetti della pittura di Levi, in mostra vediamo la grande prevalenza dei volti e delle figure umane, con una significativa presenza anche della natura, per le cose abbiamo soprattutto delle nature morte, in cui si rifugiava nelle fasi difficili e angosciose. Così  i Russo riassumono la sua maestria compositiva e cromatica nell’intensità dei contenuti: “In un intreccio di foglie e di rami, in una sinuosa compenetrazione di volti, in un fluido gioco di mele e aranci la pittura di Carlo Levi ci riporta alle fonti originarie di un’esistenza, ove la gioia di vivere si traduce in fragranza di colori”.

La “natura” è rappresentata con un “pennellare largo e succoso”  dal quale nasce un “ritmo evocativo di simboliche figurazioni che stanno di per sé al di là della semplice raffigurazione esteriore”. E anche le consuete visioni mediterranee di  luoghi a lui cari “lasciano immaginare un mondo esotico, forse una vegetazione di terre inesplorate”.

Nella prevalenza dei “volti” si riflette la sua concezione del tempo e dell’arte.  Il tempo, ha scritto lui stesso,  quando è quello esterno, storico, appare “pieno di avvenimenti e di fatti, travestiti ciascuno con la maschera credibile della necessità, ma vuoto di realtà; perché questa risiede in un altro tempo, quello occupato dagli affetti e dalle persone, e persino dall’espressione dei dolori che noi soli possiamo sentire”.

Sono gli opposti compresenti,  e “in questo ‘dibattito’ dialettico tra l’uomo e l’esistenza, tra l’io e le cose, l’artista ci mostra tutto il suo animo inquieto, in un tormento che prelude al riposo e nella stesso tempo sottintende nuovi cimenti”.  E’ stata  l’avventura della sua vita nel tumulto degli avvenimenti con lui sempre partecipe e spesso protagonista, ma in un distacco legato ai propri valori perenni e universali. 

Degli anni ’20 sono esposti 11 dipinti di “volti” e persone, alcuni con forme nitide e ben definite, altri sfumati ed evanescenti, per lo più persone care.  Tra i primi “Amalia sulla panchina di Alassio” e “Il padre  a tavola”, 1926, “Francesca”, 1927,  e “Pina Jona ad Alassio”, 1929; tra i secondi “Bagnanti”, 1926 e la sorella minore “Lelle con libro e tazza di te”, 1928, “Mamma che cuce” , inedito,e “Donna con maschera rosa”, 1929.  Poi tre nudi, uno del 1928 .“Nudo con palme”,  molto sfumato immerso in un palmizio che gli fa corona, e due del 1929, “Nudo con arco”,  ben definito e sensuale, “Nudo con la sedia” più sfumato, e con richiami a Tagore, oltre che a Modigliani e Soutine.

Nello stesso decennio 7 dipinti sulla “natura”, non solo paesaggi ma scorci urbani dove la natura è ben presente. Così per “Le officine del gas”“La Dora al Ponte Rossini” “La via delle palme”, 1926, e per due scorci di “Parigi. Quai sulla Senna”, 1927, e “Parigi”, 1928.  I paesaggi hanno per lo più una sia pure minuscola presenza umana, come “Merenda sull’erba”, 1926, e “Paesaggio”, 1929. In “Le vele”, 1929, un’atmosfera sfumata, soffusa e delicata, un senso lirico reso da una pennellata leggera, impalpabile.

Siamo agli anni ’30, i “volti” ancora prevalenti, li vediamo in 16  dipinti.  Lo stile muta notevolmente, né contorni netti né evanescenti e sfumati, bensì un cromatismo intenso e un forte spessore materico.  Rappresenta figure a lui care, cominciando dai suoi amici artisti e intellettuali come Aldo Garosci, nel dipinto intitolato “L’eroe cinese”, 1930-31, per un’acrobatica associazione di idee; poi “Ritratto di de Pisis col pappagallo”,  che ha nel petto tante medaglie alla Baj, e “Leone Ginzburg con le mani rosse”, 1933; c’è anche un suo “Autoritratto seduto”, 1934, inedito, da giovane con espressione malinconica, quasi in un’autoanalisi. 

Delle donne  a lui vicine, nei dipinti del  1933 ritroviamo la sorella “Lelle col cappellino”, e “Lelle legge distesa”,  immagine delicata pur nel forte cromatismo, cui accostiamo, per la posizione, “Donna distesa”, che ritrae la domestica Maddalena; poi “Vitia rosso e azzurro” , è la ballerina lituana conosciuta a Torino con cui si unì  a Parigi e frequentò la comunità artistica degli italiani e degli emigrati russi. Del 1935 “Ritratto di Deda Rollino”, che gli fu vicina nel “gruppo dei Sei” a Torino e poi anche a Roma, è ritratta in posa austera, impettita su una poltrona; quindi “La Strega e il bambino”, 1936,  ritrae Giulia Venere, la donna che accudiva la casa con il figlio, dedita alle arti magiche, di qui il titolo; vi colleghiamo due immagini di bambini, “Tonino o Ragazzo lucano”, 1935, e “Il figlio della Parroccola”, 1936, il primo figlio del sarto, il secondo di una contadina del paese, sempre con tratti marcati e cromatismo intenso. Del 1938 “Ritratto di Paola con vestito fiorato”, uno dei tanti ritratti di Paola Levi con cui ebbe un rapporto affettivo, è ripresa di profilo in un’immagine trasognata. Senza nome solo “Ritratto di donna”, 1932-33, dal colore avvolgente, non si è potuto identificare il soggetto, certamente da lui ben conosciuto.

Tre nudi nelle opere di questo decennio: “Nudo femminile”, 1934, inedito, che ci ricorda, pur nelle notevoli differenze, la “Madonna” di Munch; “Nudo femminile accovacciato”, 1937, inedito, e “Due nudi”, 1938, il primo con una pennellata densa, il secondo alla Rubens dal tratto leggero, ma con l’inquietudine per la presenza di una terza figura distesa da un lato e assorta nei propri pensieri, mentre le due donne nude cui il suo viso è rivolto, incuranti dialogano tra loro. 

E la “natura”?  Tre dipinti, uno del 1935, “Dietro Grassano”, e due del 1936, “Paesaggio rosa – Alassio” e “La casa sotto la pineta”, il primo del paese in cui fu mandato al confino, gli altri due nella Alassio che definiva  “mia madre”, al ritorno  dopo la liberazione dei confinati politici.  La natura trionfa nelle sue pennellate, questa volta dal cromatismo delicato.

Intensi i colori nelle nature morte, le “cose” peraltro vicine alla natura.  Ne sono esposte tre, di un periodo nel quale ne realizza numerose: del 1930   “Natura morta con vaso di fiori e frutta”, del 1932 “Natura morta con bottiglia” , e “Natura morta  con boccale di frutta”, di grande equilibrio compositivo e cromatico; nelle prime due i frutti spiccano ben distinti, nella terza sono compenetrati in uno stile sinuoso.

Le tematiche negli anni ’40 sono rappresentate soprattutto da 4  dipinti di “volti”. Nel 1941 il “Ritratto di Eugenio Montale”, nel 1942 di  “Cesare Brandi” e di “Carlo Emilio Gadda”,  le espressioni sono via via più pensierose, e nel suo “Autoritratto” del 1945 dai tratti del volto su fondo cupo traspare tutta l’angoscia della guerra,  le cui atrocità sono nel corpo straziato a terra del dipinto “La guerra partigiana” del 1944. C’è anche il dipinto “Due nudi”, 1947-48, più marcati di quelli del 1938, la rotondità alla Rubens è questa volta scolpita con forti pennellate.   

Alla guerra, o almeno al potere, fa riferimento “Pesci (Pesce grosso mangia pesce piccolo)”, 1945, con un senso di allucinazione, che aleggia anche in “Funghi giganti”, realizzato nel 1947 insieme ad altre nature morte.

Tra le opere esposte per gli anni ‘50  troviamo una dipinto che è una folla di “volti”, “Lamento per Rocco Scotellaro”, 1953,  l’amico  poeta e scrittore morto trentenne, in una sorta di sacra rappresentazione come una Deposizione, la madre e  le donne piangenti e il volto di Levi inserito come faceva Caravaggio; poi un “volto” solo, il “Ritratto di Wright”, 1956, il celebre architetto si recò da lui in “una mattina caldissima di luglio”, non ebbe il tempo per ritrarlo a figura intera, “come un’alta quercia”, ma ne rese “l’aspetto arcaico e impenetrabile”.

Non sono presentati, per tale decennio, dipinti sulla “natura”, che invece sono la totalità di quelli esposti per gli anni ’60: da “Paesaggio con mucca”, 1960, inedito, puntiforme e brillante come un caleidoscopio, ad “Alberi e pergolato di Alassio”, 1963, e “Bosco”, 1960-65,  con la ricomposizione nel  verde, mentre “Conigli”, 1965, è una composizione animata dove si sente la presenza della natura.

Fino alla trilogia del 1970-72, “Carrubo con scaletta ad Alassio”,  “Carrubo gigante” e “Carrubo”, che fa parte dei moltissimi suoi dipinti di alberi e di paesaggio di quegli anni, di cui Antonello Trombadori scrisse:  “Esso è, sì, veduta e scenografia, vale a dire puntualizzazione naturalistica  e ricostruzione fantastica di un luogo, ma è essenzialmente biografia, diario di ciò che nel paesaggio accade”; visto in modo che “non sia il suo stato d’animo  a possedere sentimentalmente quei luoghi ma siano i luoghi a possedere il sentimento dell’artista”. Così la scala che segna la presenza umana è parte della natura, e i due carrubi sono figure miriche, dai tratti  antropomorfi. Per Fabio Benzi “i tronchi contorti degli alberi divengono metafore di esistenze legate alla terra, con le loro sofferenze immutabili, con la loro espressività corporea e carnale, mai accentuata da un’espressività facile e psicologica”.

Le risposte di Carlo Levi  valide ancora oggi

“Felicità e tormento” vi vedono Antonio ed Ettore Russo, “il particolare cessa di esistere come tale, assurgendo a ‘specchio’ di una dimensione ideale che in sé vuole come inglobare tutto l’universo… Dionisiaca si potrebbe pertanto definire la pittura di Carlo Levi per questa esuberante concezione del mondo che si inebria di valori vitali e al contempo chiede continuo alimento sia ai fenomeni naturali sia ai fatti esistenziali”.

Di qui la compresenza insistita e reiterata dei soggetti a lui cari, dai “volti” alla “natura” fino alle “cose”, le nature morte. Ma non c’è solo vitalità, c’è anche “un sottinteso invito alla contemplazione, quasi che l’artista, pago dell’umano possesso delle cose, voglia sollecitarci a rimeditare sui valori intrinseci delle cose stesse, per afferrarne i più nascosti significati”. Per concludere: “Di conseguenza il ‘dionisiaco’ si fonde con l’elegiaco, mentre nell’osservatore la stessa ‘tensione psichica’  a poco a poco si risolve in soffuso raccoglimento”.

L’ambiente raccolto della Galleria Russo lo favorisce, del resto lo stretto  rapporto del luogo con l’artista porta a un’immedesimazione fuori dal tempo  e si crea un clima fortemente suggestivo.

Rivelatori i suoi scritti, tra i quali ricordiamo la lettera  ai galleristi del 7 dicembre 1970, prima citata,  perché ci è sembrata una sorta di testamento spirituale, spaziando nell’intero arco della sua vita. Infatti nel definire  “Paura della Pittura”, da lui scritto nel 1942 “quasi come continuazione e corollario”  del suo precedente “Paura della Libertà”, afferma che “quello scritto, mi sembra,  non ha alcun bisogno di essere aggiornato. E tuttavia sono passati, da allora, 30 anni, due generazioni (o più, per il raccorciarsi del tempo); un tempo così fitto di mutamenti, che nulla è rimasto, si può dire, quello che era”.  L’elenco che fa dei cambiamenti è impressionante,  dalla guerra alla pace nell’infinità di eventi che hanno sconvolto il mondo, con “una vitalità immensa  e creativa; e nello stesso tempo la distruzione di tutti i rituali e di tutti gli idoli, anche i più apparentemente legittimi, anche quelli che avevano avuto una funzione rinnovatrice e rivoluzionaria”.

Levi  stesso afferma che “il fondo di queste esperienze va al di là dell’arte”, così la sua riflessione acquista un respiro storico. In campo artistico tanti sono stati i mutamenti, i fermenti creativi delle avanguardie che “hanno scandagliato tutte le profondità,  esplorato tutte le superfici, penetrato in tutte le cavità, scalato tutte le asperità”, indagato sulle possibilità di tutti i linguaggi e di tutte le prospettive “in tutti gli aspetti visibili e invisibili del mondo e del pensiero”  con uno scopo ben preciso: “Riscoprire una qualità, un attributo,  una categoria perduta fin dal principio, e negate o dimenticate o censurate prima che esse potessero riaffiorare alla coscienza”. Risultato: in questa ricerca affannosa è stato distrutto l’esistente per subire poi la stessa sorte,  nessuna avanguardia e neppure il grande Picasso si sono salvati.

E allora si pone una domanda  quasi disperata: “Dopo tanti anni di ricerca di tutte le parole pittoriche, che cosa resta, dunque, oggi da dire? O che cosa da tacere o non dire più?”.  La risposta è chiara e solare: “Tutto, in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima, espressione. Tutta la realtà umana in ogni singola verità. Non è poco, non è facile”.  E cita la risposta che  nel 1911 diede da giovane  Umberto Saba alla domanda analoga “che cosa resta da fare ai poeti”: “la poesia onesta”, dando ad essa lo stesso contenuto –  “onestà come rivoluzione” – della sua risposta sulla pittura di cui ribadisce, nel dicembre 1970, la validità dopo trent’anni.

Sono trascorsi altri 45 anni, ma si può convenire sull’affermazione che il suo “Paura della pittura” “possa, ancora oggi, avere una qualche utilità e essere riletto, senza bisogno di chiose e di aggiornamenti, ma soltanto di qualche aggiunta di attenzione attuale e di meditazione”.

E si può convenire altrettanto sulla considerazione, sempre della lettera ad Ettore e Antonio Russo,  riferita alla mostra di allora ma perfettamente aderente alla mostra di oggi, di nuovo alla Galleria Russo: “E spero che questa raccolta di quadri miei di tempi diversi, che voi esponete, non esca da questa visione del valore e del senso della pittura, ma possa in qualche modo, anche nella sua limitatezza, contribuire a confermarla e a dimostrarla”.

Ci sembra la migliore conclusione del nostro viaggio nel mondo di Carlo Levi. Non si è fermato al pur prestigioso Eboli letterario, ma ha lasciato il segno nell’arte ponendone in evidenza i valori permanenti in un mondo inquieto e sconvolto da una incessante trasformazione che rischia di travolgere tutto con la sua furia iconoclasta. Si deve far tesoro del messaggio che ci manda il grande artista, lo ripetiamo.  Va ricercata “in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima espressione” una cosa: “La realtà umana in ogni singola verità”.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Lunedì ore 16,30-19,30, da venerdì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949; 06.69920692. info@galleriarusso.com; www.galleriarusso.com . Catalogo “Carlo Levi. la realtà e lo specchio”, a cura della Fondazione Carlo Levi, contributi di Daniela Fonti, Fabio Benzi , Antonella Lavorgna, Palombi Editori, novembre 2014, pp. 192, formato 22 x 22;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo  “Carlo Levi, specchio della realtà alla Galleria Russo”,  è uscitoin questo sito il 28 novembre u. s. con altre 10 immagini. Per gli artisti citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di  Renato Guttuso, il  25 e   30 gennaio 2013, di Modigliani, Soutine e i pittori maledetti il  22 febbraio, 5 e 7 marzo 2013, degli Astrattisti italiani il  5 e 6 novembre 2012,  di Tagore il 15 ottobre 2012, di Picasso, cubismo e cubisti il 16 maggio 2013, Due mostre a Roma tra il sacro e il profano in “cultura.inabruzzo” it, il 4 febbraio 2009.  Su de Chirico, in questo sito, per la mostra sul Ritratto  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, in “cultura.inabruzzo.it” per le mostre su De Chirico e la natura l’8, 10 e 11 luglio 2010, anche a stampa su “Metafisica”  n. 11/13 del 2013 pp. 403-18, su De Chirico e il Museo  il 22 dicembre 2010, sul  Disegno di de Chirico il 27 agosto 2009, su De Chirico ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre 2009.

Foto

Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, la sera dell’inaugurazione della mostra, da Romano Maria Levante che ringrazia la galleria e la Fondazione Carlo Levi per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto seduto” , 1934, seguono “Il padre a tavola”, 1926, e “Donna con maaschera rosa””, 1929; poi “Nudo con la sedia”, 1929, e “Donna dormiente”, 1933; quindi “Nudo femminile”, 1934, e “La casa sotto la pineta”, 1936, inoltre “Pesci”, 1945 e “Carrubo”, 1972; in chiusura, due nature morte, a sinistra “Natura morta con boccale di birra”, 1932, a destra  “Amoroso contrario di Morandi”, 1937.

Sironi, l’artista della grandezza e della tragicità, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

“Mario Sironi. 1885-1961” si intitola la mostra antologica aperta al Vittoriano dal 4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015.  E’ una  grande esposizione con 140 opere dei diversi periodi, che segue la mostra del 1993 alla Gnam, presentando anche inedite opere giovanili. L’artista ha attraversato simbolismo e divisionismo, futurismo, metafisica ed espressionismo  in un’arte passata dai cupi “Paesaggi urbani” alle grandiose Pitture murali decorative per il regime fascista e per questo esposto a un ingiusto  boicottaggio. Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, insieme all’Archivio Sironi di Romana Sironi.

Percorriamo il doppio binario con cui si può considerare l’arte di Mario Sironi, quello dei sentimenti personali legati al suo temperamento e alle vicende della  vita e quello della cifra stilistica in cui si è espresso. 

Sono due percorsi che si sovrappongono perché nel ciclo della sua vita le pulsioni interiori si traducevano in forme pittoriche aderenti alle tendenze di volta in volta seguite. Ma li teniamo separati per evidenziarne più compiutamente l’evoluzione nel tempo.

Le costanti della sua arte: la grandezza e la tragicità

Grandezza e tragicità sono stati i termini con i quali sono state riassunte le sue pulsioni interiori, e in effetti sono alla base di tanta parte della sua espressione artistica.

La grandezza riflette la sua formazione a Roma, nel centro della classicità e della romanità. La “città eterna”  fu decisiva nella sua concezione dell’arte. “L’ideale della Grande Decorazione che Sironi coltiva negli anni trenta – scrive la curatrice Elena Pontiggia – si forma in lui ben prima di quegli anni  (e ben prima del fascismo) guardando  l’Arco di Tito e il Colosseo, la basilica di Massenzio e la Colonna Traiana, il Pantheon  e le Terme di Caracalla, gli affreschi di Raffaello e di Michelangelo”.  Lo dichiarò lui stesso a proposito della “Pittura murale” del 1931, l’ispirazione “a far grande” gli venne negli anni giovanili  guardando “gli splendidi fantasmi dell’arte classica”.

Precisamente dagli anni ’10, ben prima che il fascismo  richiamasse i fasti grandiosi dei “colli fatali di Roma”.  Aderì poi all’ideologia del regime perché gli sembrava realizzasse i suoi ideali in cui la grandezza si traduceva nell’ “Uomo nuovo” e nei valori della classicità, nel segno della patria e della famiglia, della cultura e della giustizia imperniati sul lavoro, come fonte di dignità e nobiltà, da quello delle fabbriche a quello delle campagne.  E li tradusse nell’arte di cui scriveva: “L’Arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza, altezza di principi”. C’è grandezza nelle sue opere monumentali:  pur celebrative dell’ideologia del regime collimavano  con la sua visione,  lo si vede nelle opere in cui rappresentava l’uomo al lavoro,  con un senso di forza e solennità.

Una posizione analoga l’abbiamo trovata in Deineka, il grande artista russo del “Realismo socialista”, anch’egli legato alla mistica del regime perché coincideva con i valori da lui fortemente sentiti, anche qui la dignità dell’uomo sul lavoro e non solo. Entrambi sono diventati strumento della propaganda dei rispettivi regimi, ma non per acquiescenza o sudditanza, tanto meno per opportunismo, quanto perché vedevano  riconosciuti e tradotti in azione politica i valori in cui credevano. Ma a nessuno dei due sfuggiva quanto stava avvenendo nella realtà, entrambi registrarono l’allontanamento dell’ideologia dalle loro convinzioni, di qui la delusione e la reazione.

Sironi scriveva nel 1937, al ritorno dall’Esposizione Universale di Parigi con la sua opera monumentale “L’Italia illustrata”: “Cercherò come sempre di chiudere gli occhi dove non voglio vedere e tirare avanti a tutta forza, con tutta la mia forza: credere poco, obbedire anche  troppo, combattere sempre”. E, più esplicitamente, in un diverso momento: “So bene che ora il fascismo contiene il movimento opposto che ha debellato”, con “ora” sottolineato.

La tragicità è l’altra componente della sua visione, legata a una angoscia esistenziale che sente fortemente il peso della condizione umana, oppressa dai misteri insondabili della vita e della morte. Una sofferenza interiore che si trova in tanti suoi scritti, li cita Romana Sironi: “… trovarmi nel freddo, nell’angoscia, vedere la morte, andarle incontro e dirle portami via”; e poi “Pace all’anima mia – pace al mio corpo martoriato, pace ai miei occhi sbarrati sull’orrore e pieni di lacrime – senza altra luce che quella che negli immensi orizzonti corona debolmente le vette della terra, miserie e lacrime e il lungo smoderato soffrire di tanti anni…”.   Gianni Rodari, che lo salvò quando il 25 aprile 1945 fu catturato da un gruppo di partigiani di cui faceva parte, ha scritto di lui: “Per me la sua pittura è una lezione di tragedia. Non c’è pittore che valga i suoi quadri”. 

Con il trasferimento a Milano all’età  di oltre trent’anni, alle visioni grandiose della Roma classica si sostituiscono le periferie desolate, ai templi della romanità le fabbriche fumose, la natura stessa sembra scomparsa, sopraffatta dalla alienante realtà urbana: tutto questo alimenta l’angoscia esistenziale che troviamo in lui già nei primi anni della giovinezza e si riflette nella sua produzione artistica dove predominano queste immagini cupe.

Romana Sironi scrive che di Roma “il ricordo è vivissimo. Parlava poco, amava ascoltare i racconti di Roma, della Roma che aveva tanto amato nella sua grandiosità, che era stata fonte ispiratrice di tanti suoi capolavori”.  E  aggiunge che  Margherita Sarfatti alla Biennale di Venezia del 1924 lo definì “romano di educazione, nato da una famiglia lombarda a Sassari”, sottolineando “di tutti i nostri pittori italiani d’oggi, egli è anche il più romano, per la sua tendenza alla grandiosità”. Amedeo Sarfatti  precisa  che “si considerava romano e del romano aveva anche l’accento”.

A Roma non dipingeva ancora le periferie, come fece poi con quelle milanesi, ma dovette assorbirne, insieme alla grandiosità classica del centro storico, lo stesso clima.  Lea Mattarella, nella sua nota in Catalogo sulla “Roma plurale di Mario Sironi”, ricorda come Guido Ceronetti  abbia scritto di Sironi che per lui “la città è il monumento alla Solitudine, un cimitero di solitudini, spazi simbolici dove patiscono senza fine, perdutamente, microsensibili, e ti figuri storie di dolore e occhi aperti nel buio dietro quelle finestre” che rappresenterà cieche; e ricorda che Enzo Siciliano,  a commento della mostra del 1995 alla Gnam,  associò Sironi a Pasolini “testimoni di una disperazione nei confronti del mondo che trova proprio nel paesaggio urbano la sua potente esplicazione” parlando di “un ‘sole nero’ che li accomuna. Sorge ogni mattina sui palazzi delle loro periferie così lontane e così vicine”.

Le due pulsioni contrastanti, grandiosità e tragicità,  sono compresenti nelle sue opere, e solo una visione superficiale può vedervi l’una e non l’altra spinta interiore. Anche nelle opere monumentali di regime dove la grandezza è connaturata al soggetto c’è un’intima tragicità, un dramma; mentre in quelle visibilmente drammatiche come le periferie urbane non manca la grandiosità.

Questa compresenza è espressione di una personalità complessa, con una forte passionalità che gli fa abbracciare ciò che risponde alla sua visione, e lo rende distaccato da una società in cui non si riconosce. L’uscita in positivo da queste spinte opposte sta nella fiducia nella costruzione dell'”Uomo nuovo” dall’alta moralità, all’insegna di valori spirituali e di energia.

Il suo sogno si dissolse, alla fine del regime in cui aveva riposto tante speranze,  nelle rovine della seconda guerra mondiale, e l’angoscia esistenziale non fu più contenuta dall’utopia  di grandezza.  Ma non venne meno quella che Romana Sironi definisce “una moralità inflessibile, intransigente, una coerenza testimoniata anche  a prezzo della vita”. E ricorda quando “cadute le disperate ideologie del fascismo, per orgoglio, per rispetto di se stesso, per la fierezza del suo temperamento, non riesce a rinnegare il passato, là dove molti l’avevano fatto, ma resta dalla parte dei vinti, pronto a pagare il duro prezzo della disfatta che lo relegava nell’isolamento più assoluto”.

Ne dà conferma Luigi Cavallo: “Sironi  prende su di sé il peso della sconfitta, l’annientamento dei valori in cui aveva creduto.  Nel fuggi fuggi dal regime che si verificò dopo l’8 settembre 1943, non si mise mascheramenti, restò dalla parte in cui aveva militato e se ne assunse le conseguenze”.

Una scelta coraggiosa che non fu senza contraccolpi. Seguì  un “astioso confino” in cui fu relegato perché la condanna del  regime  nell’ideologia e nelle scelte culturali ed artistiche fu per lui una “damnatio memoriae” a cui invano hanno reagito uomini di cultura come Giovanni Testori, pure  ben lontani politicamente da lui: “Credo che una delle colpe più gravi della critica italiana nei confronti dell’arte moderna sia stata quella di ostinarsi a trattenere in una sorta di limbo, quasi in un ‘a parte’, il caso che fu invece di forza primissima  e di primissima grandezza di Mario Sironi”.

Testori  gli attribuisce il merito di “una chiarezza di posizioni, costi quel che costi, e in quelle posizioni l’umile  e feroce coerenza”.  Una coerenza in cui si riflette “la dolorosa coscienza della dignità che è nell’uomo”, in Sironi riflesso “della sua tensione morale e della sua trasfigurazione poetica: che fu scontrosa, fuligginosa, rocciosa, granitica e carbonizia,  ma, insieme, larga, solenne, sacralmente illuminata e illuminante”.

Ci viene di associare Sironi a Gabriele d’Annunzio per il trattamento assai simile che ha subito nel dopoguerra, sebbene dopo le convergenze nazionalistiche il fascismo lo avesse relegato nella “gabbia d’oro” del Vittoriale e lui stesso ne avesse preso le distanze, salvo un riavvicinamento a Mussolini nell’avventura africana. Anche l’angoscia esistenziale associata all’idea di grandezza e all’iniziale adesione al fascismo perché sembrava incarnarla ci fa accomunare la personalità dei due grandi italiani, oggi finalmente sdoganati dopo la lunga “damnatio memoriae”  del dopoguerra.

Ha dipinto fino all’ultimo, e se la sua pittura divenne più cupa, con i toni di premonizione accentuati, secondo Cavallo “non è sopito il suo anelito a far grande, il suo pensiero plastico”,  per cui “abbiamo momenti assai alti di una presenza messa comunque in tensione da grandi capacità di dare emozione”.

E ci emoziona fino alla commozione anche il ritratto conclusivo che ne fa Romana Sironi: “Una personalità speciale, magnetica, possente, mossa sempre da sentimenti forti, passionali, combattuto  tra speranze utopiche e disperazioni acute. Era bello, gli occhi azzurri, nella folta cornice di capelli neri, a volte si accendevano furenti e lampeggianti se l’argomento non era di suo gradimento ma erano capaci anche di dolcezza e tenerezza”.

L’inizio dell’arte pittorica,  simbolismo e divisionismo   

La curatrice Pontiggia traduce così i caratteri salienti riassunti nella sua produzione pittorica, fin qui evocati: “L’arte di Sironi è una lezione di tragedia. Ma c’è dell’altro. La pittura di Sironi è anche una lezione di grandezza, Le due cose combaciano nelle sue opere come le valve di una conchiglia.  Tragedia, cioè drammaticità, tensione, espressionismo, romanticismo. Grandezza, cioè forza, equilibrio, solennità, classicità”.

E aggiunge: “E’ stato un romantico innamorato della  classicità e un pictor classicus intriso di romanticismo. In questa concordia discors, in questa discordia armoniosa consiste l’altezza della sua arte. E in questa duplicità consiste anche la sua unicità”. Che gli ha fatto percorrere le diverse correnti pittoriche del suo tempo in un itinerario artistico esaltante intrecciato alle vicende della vita,  cui la curatrice dedica un’attenta e dettagliata ricostruzione di cui daremo dei rapidi cenni.

Ne ripercorriamo la storia mentre passiamo in rassegna le opere esposte in mostra, che citeremo di volta in volta – e non ne citeremo altre – inserendole nel mosaico della sua vita artistica.

Mostrò il suo talento fin dalle elementari, i suoi disegni furono messi in vendita da un cartolaio;  il suo primo quadro conosciuto con cui si apre la mostra è “Marina”, dipinto  nel 1899-900,  a 14-15 anni,  è stato riconosciuto dalla sorella Cristina il Porto Canale di Pesaro, c’è già il suo senso materico e dei volumi. A 16 anni si cimenta in  copie dei maestri, la sua formazione e ispirazione é a largo raggio, vediamo una “Copia da Utamaro”, il maestro giapponese di cui riproduce su cartoline alcune figure molto delicate e bidimensionali, distaccandosi nell’occasione dai suoi volumi.

In quegli anni, in cui approfondisce il romanticismo e il pensiero di Nietsche e Schopenhauer, sente l’influsso del simbolismo europeo,  partecipando a Roma al “gruppo dello scultore Prini”, con altri giovani pittori di orientamento simbolista; fu influenzato anche dall’estetismo inglese. Del periodo simbolista vediamo un ex libris per la madre Giulia,  una giovane donna che scrive “Ars et amor”, 1901-02, su un muro alla cui sommità c’è un satiro, su uno sfondo scuro; e il piccolo dipinto “Il pascolo, 1902-03, simboli l’albero per la vita e la pecora con l’agnellino per la maternità.

Nel 1904 conosce Severini e Boccioni, che definisce  “il mio migliore amico e l’ultimo”, così si intitola, tra l’altro, l’accurata ricostruzione di Virginia Baradel della loro amicizia. Per il suo tramite entra in contatto con Giacomo Balla, che lo converte al realismo nei contrasti tra ombra e luce, staccandolo dall’iniziale simbolismo.  Lo abbandona ritenendo letteraria e troppo astratta la teatralità del simbolismo tedesco e le stilizzazioni decorative del simbolismo viennese rispetto  alla “naturalezza” del Novecento italiano che Boccioni e Balla gli facevano apprezzare.

Rappresenta il momento di transizione “La chiesa del Ghisallo”, 1903-05, in cui c’è ancora l’albero simbolico al centro, ma in un contesto naturalistico. Mentre “La sorella Cristina al pianoforte, 1905,  a inchiostro su carta, con linee spezzate, nel suo bianco e nero intenso riflette le ricerche luministiche di Balla e del gruppo intorno a Prini.  

E’ la fase del divisionismo, anche se la sua sensibilità architettonica – il padre e lo zio erano ingegneri progettisti e lui stesso si iscrisse a ingegneria che lasciò presto – gli faceva mantenere i volumi non dissolvendoli nella luminosità e nelle linee divise.  Un’opera significativa di questa fase è “La madre che cuce”, 1905-06,  si avverte la divisione delle linee ma sovrastata dalla volumetria dell’ambiente e dell’arredo, e anche il cromatismo non è dominante.

A Parigi, dove soggiorna con Boccioni, non è attirato dagli impressionisti allora imperanti, quanto dai capolavori classici esposti al Louvre e dalla metropoli.  Oltre alle suggestioni classiche, già fortemente sentite  a Roma,  viene colpito dal moderno paesaggio urbano, lo si vede in alcuni  paesaggi romani in stile divisionista dopo il 1905.

Tra il 1907 e il 1911, aperto uno studio a Milano, va due volte in Germania dove conosce il post espressionismo tedesco  e approfondisce la cultura tedesca cui si è appassionato attraverso la filosofia di Nietsche e il pathos di Wagner da amante della musica. Riflessi di questa esperienza nell’ “Autoritratto”, 1909-10, con il camice del pittore, il viso aggrottato tra luce e ombra ha un senso drammatico come il suo temperamento; e nel “Ritratto del fratello Ettore”, 1910,  anche qui luce e ombre e sebbene sia adolescente non c’è spensieratezza  ma una “crescita dolorosa”, nonché nel “Ritratto della madre”, 1910,  una testa scultorea nel buio,  di marca post-espressionista.

Da amante dell’arte classica non può aderire alla provocazione di Marinetti del 1909  di distruggere i musei, quindi si allontana da Boccioni e Severini al centro del movimento futurista, cui si avvicina solo nel marzo 1913 dopo aver visto la loro mostra a Roma, partecipando a un “banchetto futurista”. Ne sono espressione i lavori “decostruttivi” di questo periodo e le opere in cui traduce il “dinamismo plastico” del futurismo in una “plasticità dinamica”: “Una serie di volumi obliqui ma saldi che possono essere inclinati, ma non incrinati dal movimento”, commenta la Pontiggia.  Di questo anno “Testa”, 1913, diversissimo dalle opere precedenti, c’è la scomposizione picassiana del volto che diventa una maschera, con ombre sugli occhi che le danno una forte drammaticità.  

Gli anni ’10: il periodo futurista con tratti metafisici

Ha trovato la propria cifra nel futurismo e partecipa alle sue manifestazioni, l’amicizia con Boccioni si rafforza, nell’aprile 1914 espone 16 opere alla “Esposizione libera futurista internazionale” dove è presente anche Kandinskij con artisti russi che influenzano alcune sue opere di quel periodo.  Nel 1915 si trasferisce  a Milano ed  entra nel gruppo dirigente del movimento,  esegue collage, disegni e composizioni futuriste con i caratteristici inserti  di lettere.  Di questo periodo “Il camion”,1914-15,  esprime l’interesse futurista per la città moderna e il movimento, ma è di tipo militare e, stretto tra un tram  e gli edifici, più che alla velocità fa pensare alla solidità della carrozzeria, è la variante di Sironi del futurismo come era stata del divisionismo, fedele ai volumi e alla drammaticità. 

Lo si vede anche nei collage futuristi “L’Arlecchino”, 1915,  che la Pontiggia considera “uno degli esiti più alti della stagione futurista di Sironi”, è bidimensionale e cromatico, ma a sinistra c’è il volume di una casa; mentre in “Il bevitore”, 1915-16, il tocco futurista del giornale è sovrastato dalla densità materica  e dalla figura drammatica, il viso ridotto a maschera; ugualmente drammatica “La ballerina” , 1916,  con gli occhi pesantemente bistrati e le membra slogate come una marionetta dà un’immagine di sensualità, piuttosto che del movimento di marca futurista.

Analoga considerazione per due oli dello stesso anno, 1916: in “Borghesi e tram rosso” l’ispirazione futurista è nel tema, la vita cittadina, e nel forte cromatismo, per il resto c’è la sua solidità volumetrica nelle due figure in primo piano e nella massa statica del veicolo; in “Il ciclista” la figura pur in movimento non dà l’idea della velocità ma della fatica  espressa dalla tensione delle gambe, e sullo sfondo i volumi delle abitazioni della periferia anticipano i “Paesaggi urbani”.

Si arruola nel Battaglione Volontari Ciclisti con il gruppo dei futuristi, da Marinetti a Boccioni a Russolo, partecipa ad azioni belliche e firma il manifesto di Marinetti “L’orgoglio italiano”.  Esegue dipinti futuristi sarcastici sui borghesi antipatriottici della “vecchia Italia” cui si contrappongono gli eroici soldati; e comincia a soffermarsi sulla figura in senso fauvista ed espressionista  che lo allontana dal futurismo, finché la morte di Boccioni lo distacca sempre più.

Poi un periodo di vita militare attiva  fino al marzo 1919 quando viene congedato e presenta alla “Grande esposizione futurista”  di Milano 16 opere di cui poche recenti e soprattutto poco futuriste. Torna a Roma dove alle riviste del movimento “Roma futurista” e “Dinamo”  preferisce la nuova rivista “Valori plastici” fondata nel novembre 1918 con de Chirico, Carrà, Savinio, Per lui, scrive la Pontiggia, “la pittura metafisica è una sorta di trauma visivo.  I manichini, le case dalla forma chiusa e precisa, i prismi e i poliedri… esercitano su di lui una profonda suggestione”, già l’influenza delle sagome di Carrà e Depero si nota in alcuni suoi ritratti del 1918. 

Lo colpisce una citazione platonica di Margherita Sarfatti della bellezza come forma stabile, fatta di linee e di tondi e l’articolo di  Carrà in “Valori Plastici”  che esalta la “solida geometria di oggetti”, di qui al dinamismo futurista viene a sovrapporsi la plasticità metafisica.  Afferma che “solamente l’idea platonica del reale può traslare nell’opera di fantasia una forma chiara della realtà”.

“Sironi crea così – è sempre la Pontiggia – un futurismo metafisico o una metafisica futurista, in cui una macchina non corre più ma esibisce l’enigma dei suoi ingranaggi”, si vede dai suoi dipinti del periodo in cui le figure non sono più in movimento ma in un’immobilità statuaria.  Anche nelle mostre,  ad opere futuriste ne affianca altre con “geometrie metafisiche e platoniche”.  Ma la sua metafisica è “fisicissima profondamente umana”, ritrae la vita quotidiana invece del “mondo ortopedico e antisentimentale” metafisico.

Siamo nel settembre 1919, si trasferisce in via definitiva a Milano, città che definisce “brutta ma solida”  rispetto alla “bella, sonnolenta Roma”. Nei suoi “Paesaggi urbani”  di fine 1919-20, in cui ritrae le periferie,  la Sarfatti ha visto la capacità di trarre “forza, grandiosità, ordine, armonia”  dallo squallore della città, una visione diversa da quella della critica moderna che vi vede solitudine e desolazione;  i primi critici, a questa sensazione negativa aggiungevano quella positiva di armonia e forza costruttiva.  Di lei vediamo esposto il bel “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916, un volto con lo sguardo vivace e una luminosità diversa dai toni scuri tipici della drammaticità dell’artista.

La solidità architettonica venne apprezzata anche dai futuristi e diviene una chiave di lettura anche della sua drammaticità: “Sironi – osserva la Pontiggia – esprime il dramma della vita moderna, anzi il dramma della vita in generale, ma di fronte a quel dramma suggerisce un atteggiamento non nichilistico”; la risposta alla sfida della vita è “costruire , perché è necessario… costruire e guardare in alto”, sono le parole che l’artista usò nel 1931. La Pontiggia conclude: “I ‘Paesaggi urbani’ sono lontani tanto dalle Piazze d’Italia quanto dalle città futuriste. Sono una ‘terza via’: una sorta di realismo sintetico e senza tempo che prenderà il nome di ‘Novecento'”.

Vedremo i “Paesaggi urbani” nella rassegna degli anni ’20, intanto ecco sei opere su carta del 1919 in cui si allontana sempre più dal futurismo. Due sono in tempera e olio: “Il sollevatore di pesi”,  una figura statica, quasi bloccata, in un’atmosfera sospesa di tipo metafisico;e “La lampada”, con un manichino dechirichiano, che la Pontiggia definisce “l’esempio più alto della breve stagione metafisica dell’artista”. Altri due sono collage: il  “Il camion giallo”, sigillo della mostra, in cui di futurista ci sono frammenti di scritte, mentre esprime l’opposto della velocità, è bloccato nella strada che occupa interamente, con i grandi volumi abitativi cari all’artista; e “Studio per un paesaggio urbano”, forse in preparazione di un olio, i cui sono compresenti i motivi futuristi nell’aereo in volo, quelli metafisici nell’atmosfera sospesa e quelli del nuovo “Novecento” nelle forme solide delle abitazioni che si accavallano quasi in una volontà di ricostruzione.

Nonostante queste sue persistenti “deviazioni”, continua a partecipare a manifestazioni e mostre futuriste, e nel 1919 aderisce al fascismo: diventa collaboratore del  “Popolo d’Italia”  con i suoi disegni e le sue tavole su temi assegnatigli direttamente da Mussolini che esercita su di lui un forte ascendente, come lo esercita la spinta  nazionalistica dopo la “vittoria mutilata”; sarà pressnte nelle riviste del regime, come “Gerarchia”, e la mostra lo documenta.

A parte questo aspetto fondamentale, “credeva in un fascismo a sfondo sociale, di ascendenza ancor  socialista”,  tanto che la moglie Matilde lo definiva “anarchico e comunista”, Arturo Martini addirittura “bolscevico”.  Questi fatti inducono a non ridurre le sue espressioni artistiche all’adesione al regime, anche se è stata anch’essa un fatto conclamato da non trascurare per un’interpretazione equilibrata dei motivi psicologici ed ideologici sottesi alle sue opere.

Ne parleremo ancora, soprattutto per le sue “Pitture murali” degli anni ’30, celebrative del regime ma nello stesso tempo animate dalla sua concezione dell’uomo e dei suoi valori. Lo faremo prossimamente, nel seguito della appassionante cavalcata nella vita e nell’arte di Sironi.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492.  Seguiranno 3 articoli su Sironi in questo sito, tra dicembre e i primi di gennaio 2015,  rispettivamente sugli anni ’20, gli anni ’30, gli anni ’40 e oltre,  ciascuno con 10 immagini. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su “Deineka”  il    26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012,   su “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo”  il 2 marzo 2014,  su  ” D’Annunzio”  il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013 ,  su “Pasolini” l’11 e 16 novembre 2012 e il  27 maggio e 15 giugno 2014;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, sui  “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011,   su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo”  il 30 aprile e 1° settembre 2009. .   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Il camion giallo”, 1919; seguono “Autoritratto”, 1909-10 e “Ritratto della madre”, 1910, poi “Ritratto del fratello Ettore’, 1910, e “L’Arlecchino”, 1915; quindi  “Il ciclista”, 1916 e “La lampada”, 1919, infine “Paesaggio urbano con taxi”, 1920, e alcune Pubblicità  da lui realizzate; in chiusura alcune Riviste del regime a cui collaborava. 

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