Carlo Levi, pittura dionisiaca ed elegiaca, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Dal 20 novembre al 12 dicembre 2014 alla Galleria Russo la mostra antologica “Carlo Levi. La realtà e lo specchio”, curata dalla Fondazione a lui intitolata espone circa 60 dipinti del periodo dal 1926 al 1972, ripercorrendone l’itinerario artistico con 40 opere degli anni ’20 e ’30 e le restanti dagli anni ’40  alle due ultime del 1972, due anni prima della morte; con 5 opere inedite. Catalogo della “Palombi Editori” a cura della Fondazione. Dopo aver inquadrato in precedenza la personalità dell’artista, passiamo alla rassegna delle opere con altri giudizi e testimonianze.

Una personalità poliedrica, quella di Carlo Levi, nella quale è intrigante cercare di cogliere i confini e insieme le correlazioni tra le  molteplici espressioni in un percorso di vita movimentato cui si è accompagnato un percorso artistico che ha visto una continua evoluzione tra le tante avanguardie, pur mantenendo il rigore e la coerenza stilistica.  Ha partecipato al fervore delle tante correnti che si sono succedute ma non ha aderito compiutamente ad alcuna, inserendo di volta in volta nuovi elementi nella sua pittura senza mai snaturare la sua peculiare forma espressiva e senza venir meno ai suoi contenuti.

Ne abbiamo parlato in precedenza con l’ausilio delle interpretazioni di un critico come Fabio Benzi e del presidente della Fondazione  a lui intitolata Daniela Fonti.  Preparandoci alla visita alla mostra  delle 60 opere esposte, torniamo su questi temi con la testimonianza dei suoi galleristi storici,  Antonio ed Ettore Russo, esponenti della prestigiosa galleria che ha avuto l’esclusiva di de Chirico per vent’anni. Ebbero in Carlo Levi una totale fiducia sempre ricambiata, ne è una manifestazione la lettera che l’artista scrisse loro il 7  dicembre 1970, accettando di presentare i suoi quadri in una mostra antologica per inaugurare la loro nuova galleria “Gradiva”.

L’arte di Levi nella testimonianza di Antonio ed Ettore Russo

“La vita intesa come scoperta di verità e conquista di libertà è sempre stata al centro degli interessi artistici ed umani di Carlo Levi”, esordiscono i galleristi, affrontando subito la correlazione tra i suoi diversi percorsi, quello letterario e politico-sociale e quello artistico.  “Ha mantenuto integra, e arricchita, la sua carica vitale, di pittore e di scrittore, e perciò di poeta, creatore di contenuti umani e di civiltà.  Ed è evidente che in tal senso ogni vero artista si sente sempre responsabile dinanzi alla società  e alla cultura del suo tempo, e soprattutto al futuro che egli anticipa”.  Pertanto “l’artista può così liberarsi, senza difficoltà di sorta, da ogni bagaglio intellettuale, sino al punto di non far più sussistere alcun punto di demarcazione tra l’umanesimo dello scrittore e la sensibilità del pittore. Ragione e fantasia si fondono felicemente in una direzione di ricerca che diventa positiva conquista per una pittura che vive autonomamente”.

E’ il motivo per cui  “la sua pittura, fin dagli esordi, non è mai stata soltanto una contrapposizione polemica, pittorica o sociale, agli indirizzi dominanti, ma una viva e potente affermazione di valori nuovi, di una nuova unità dell’uomo”.  Non ha aderito alle avanguardie e correnti stilistiche succedute nel tempo, pur essendo stato  molto attento all’evoluzione artistica e ai contatti a livello europeo dall’osservatorio privilegiato di Parigi, e ha dato una insegnamento valido anche oggi “a tutti, e particolarmente ai giovani, contro i nuovi conformismi, fiducia nell’originalità dell’atto creativo e nell’autonomia dell’esperienza individuale nella infinità dei rapporti che si formano con la realtà universale”.   

La sua attenzione alla realtà come fonte di ispirazione e trasfigurazione non deve, però, confinarlo nel realismo del dopoguerra, anche se partecipò alla reazione all’astrattismo con Renato Guttuso esponente di punta; altrimenti non si coglie quella che i Russo definiscono “la forza e la bellezza di questa pittura che ha un’importanza così determinante nel rinnovamento dell’arte, e non soltanto nel nostro paese”. 

Perché “Carlo Levi è il portavoce di un nuovo umanesimo che ha profonde radici nella storia… ci riporta all’origine e alla ragione delle cose, in un racconto che non ha nulla di veristico ma che sta per noi tutti in una dimensione più veritiera del vero apparente”. Ciò è il frutto della “capacità artistica di Carlo Levi di evocare la realtà, scardinandola nelle sue più intime strutture, a volte anche lacerandola e ricostruendola in una nuova unità”. In questo modo “qualche cosa di ‘mitico’ si sprigiona dalle tele di Carlo Levi, che ha il privilegio di collocare il proprio io a diretto contatto con la realtà in sé, costituita non soltanto da forme e fenomeni, ma da idee che si nascondono in questa stessa realtà. E Carlo Levi ,  con la sua presenza riscatta e qualifica, umanizzandolo, il mondo reale”.

Un realismo e un umanesimo che è insieme tormento ed estasi, vissuti attraverso i soggetti in modo intenso. “L’artista ‘codifica’ così un suo essenziale colloquio con le cose, riportandoci alle fonti primarie dell’esistenza; quelle fonti che, al di là della configurazione esteriore, hanno la loro radice sempre nel cuore dell’uomo”. Il tutto in una “ridondanza cromatica che non è tuttavia fine a se stessa, ma al contrario, nella resa finale, libera il colore da ogni peso fisico, lo spiritualizza, in breve lo emargina da ogni prigionia puramente fenomenica”.  In  tal modo i suoi soggetti “ci danno la chiara sensazione del dramma dell’uomo, dell’essere combattuto tra il bene e il male, tra cadute angosciate e desiderio di liberazione. Ma il risultato finale, concluso nell’unità armonica di ogni quadro, è sempre un superamento del contingente, per cui non è azzardato affermare che secondo l’idea hegeliana l’arte di Carlo Levi – pittore, scultore, uomo del nostro tempo – si risolve sempre, attraverso una prospettiva di impegno poetico, in un offrire ‘l’idea della bellezza nel suo dispiegarsi’ o piuttosto l’immagine della realtà nel momento stesso del suo nascere e formarsi”.

Per concludere: “Quindi un’arte dinamica e aperta e sempre nuova, e, perché tale, sostanziata dal ‘vivente’ che circola nella forma e la chiarisce, sottraendo il fare dell’artista al caos, all’improvvisazione, alla provvisorietà”. In un  contesto dove tutto, dalla pittura alla letteratura all’impegno politico e sociale  è sotteso  da una forte tensione civile e morale.

Le opere in mostra: dagli anni ’20  ai primi anni ‘70

Dei “volti, natura, cose”, in cui Guttuso riassumeva i soggetti della pittura di Levi, in mostra vediamo la grande prevalenza dei volti e delle figure umane, con una significativa presenza anche della natura, per le cose abbiamo soprattutto delle nature morte, in cui si rifugiava nelle fasi difficili e angosciose. Così  i Russo riassumono la sua maestria compositiva e cromatica nell’intensità dei contenuti: “In un intreccio di foglie e di rami, in una sinuosa compenetrazione di volti, in un fluido gioco di mele e aranci la pittura di Carlo Levi ci riporta alle fonti originarie di un’esistenza, ove la gioia di vivere si traduce in fragranza di colori”.

La “natura” è rappresentata con un “pennellare largo e succoso”  dal quale nasce un “ritmo evocativo di simboliche figurazioni che stanno di per sé al di là della semplice raffigurazione esteriore”. E anche le consuete visioni mediterranee di  luoghi a lui cari “lasciano immaginare un mondo esotico, forse una vegetazione di terre inesplorate”.

Nella prevalenza dei “volti” si riflette la sua concezione del tempo e dell’arte.  Il tempo, ha scritto lui stesso,  quando è quello esterno, storico, appare “pieno di avvenimenti e di fatti, travestiti ciascuno con la maschera credibile della necessità, ma vuoto di realtà; perché questa risiede in un altro tempo, quello occupato dagli affetti e dalle persone, e persino dall’espressione dei dolori che noi soli possiamo sentire”.

Sono gli opposti compresenti,  e “in questo ‘dibattito’ dialettico tra l’uomo e l’esistenza, tra l’io e le cose, l’artista ci mostra tutto il suo animo inquieto, in un tormento che prelude al riposo e nella stesso tempo sottintende nuovi cimenti”.  E’ stata  l’avventura della sua vita nel tumulto degli avvenimenti con lui sempre partecipe e spesso protagonista, ma in un distacco legato ai propri valori perenni e universali. 

Degli anni ’20 sono esposti 11 dipinti di “volti” e persone, alcuni con forme nitide e ben definite, altri sfumati ed evanescenti, per lo più persone care.  Tra i primi “Amalia sulla panchina di Alassio” e “Il padre  a tavola”, 1926, “Francesca”, 1927,  e “Pina Jona ad Alassio”, 1929; tra i secondi “Bagnanti”, 1926 e la sorella minore “Lelle con libro e tazza di te”, 1928, “Mamma che cuce” , inedito,e “Donna con maschera rosa”, 1929.  Poi tre nudi, uno del 1928 .“Nudo con palme”,  molto sfumato immerso in un palmizio che gli fa corona, e due del 1929, “Nudo con arco”,  ben definito e sensuale, “Nudo con la sedia” più sfumato, e con richiami a Tagore, oltre che a Modigliani e Soutine.

Nello stesso decennio 7 dipinti sulla “natura”, non solo paesaggi ma scorci urbani dove la natura è ben presente. Così per “Le officine del gas”“La Dora al Ponte Rossini” “La via delle palme”, 1926, e per due scorci di “Parigi. Quai sulla Senna”, 1927, e “Parigi”, 1928.  I paesaggi hanno per lo più una sia pure minuscola presenza umana, come “Merenda sull’erba”, 1926, e “Paesaggio”, 1929. In “Le vele”, 1929, un’atmosfera sfumata, soffusa e delicata, un senso lirico reso da una pennellata leggera, impalpabile.

Siamo agli anni ’30, i “volti” ancora prevalenti, li vediamo in 16  dipinti.  Lo stile muta notevolmente, né contorni netti né evanescenti e sfumati, bensì un cromatismo intenso e un forte spessore materico.  Rappresenta figure a lui care, cominciando dai suoi amici artisti e intellettuali come Aldo Garosci, nel dipinto intitolato “L’eroe cinese”, 1930-31, per un’acrobatica associazione di idee; poi “Ritratto di de Pisis col pappagallo”,  che ha nel petto tante medaglie alla Baj, e “Leone Ginzburg con le mani rosse”, 1933; c’è anche un suo “Autoritratto seduto”, 1934, inedito, da giovane con espressione malinconica, quasi in un’autoanalisi. 

Delle donne  a lui vicine, nei dipinti del  1933 ritroviamo la sorella “Lelle col cappellino”, e “Lelle legge distesa”,  immagine delicata pur nel forte cromatismo, cui accostiamo, per la posizione, “Donna distesa”, che ritrae la domestica Maddalena; poi “Vitia rosso e azzurro” , è la ballerina lituana conosciuta a Torino con cui si unì  a Parigi e frequentò la comunità artistica degli italiani e degli emigrati russi. Del 1935 “Ritratto di Deda Rollino”, che gli fu vicina nel “gruppo dei Sei” a Torino e poi anche a Roma, è ritratta in posa austera, impettita su una poltrona; quindi “La Strega e il bambino”, 1936,  ritrae Giulia Venere, la donna che accudiva la casa con il figlio, dedita alle arti magiche, di qui il titolo; vi colleghiamo due immagini di bambini, “Tonino o Ragazzo lucano”, 1935, e “Il figlio della Parroccola”, 1936, il primo figlio del sarto, il secondo di una contadina del paese, sempre con tratti marcati e cromatismo intenso. Del 1938 “Ritratto di Paola con vestito fiorato”, uno dei tanti ritratti di Paola Levi con cui ebbe un rapporto affettivo, è ripresa di profilo in un’immagine trasognata. Senza nome solo “Ritratto di donna”, 1932-33, dal colore avvolgente, non si è potuto identificare il soggetto, certamente da lui ben conosciuto.

Tre nudi nelle opere di questo decennio: “Nudo femminile”, 1934, inedito, che ci ricorda, pur nelle notevoli differenze, la “Madonna” di Munch; “Nudo femminile accovacciato”, 1937, inedito, e “Due nudi”, 1938, il primo con una pennellata densa, il secondo alla Rubens dal tratto leggero, ma con l’inquietudine per la presenza di una terza figura distesa da un lato e assorta nei propri pensieri, mentre le due donne nude cui il suo viso è rivolto, incuranti dialogano tra loro. 

E la “natura”?  Tre dipinti, uno del 1935, “Dietro Grassano”, e due del 1936, “Paesaggio rosa – Alassio” e “La casa sotto la pineta”, il primo del paese in cui fu mandato al confino, gli altri due nella Alassio che definiva  “mia madre”, al ritorno  dopo la liberazione dei confinati politici.  La natura trionfa nelle sue pennellate, questa volta dal cromatismo delicato.

Intensi i colori nelle nature morte, le “cose” peraltro vicine alla natura.  Ne sono esposte tre, di un periodo nel quale ne realizza numerose: del 1930   “Natura morta con vaso di fiori e frutta”, del 1932 “Natura morta con bottiglia” , e “Natura morta  con boccale di frutta”, di grande equilibrio compositivo e cromatico; nelle prime due i frutti spiccano ben distinti, nella terza sono compenetrati in uno stile sinuoso.

Le tematiche negli anni ’40 sono rappresentate soprattutto da 4  dipinti di “volti”. Nel 1941 il “Ritratto di Eugenio Montale”, nel 1942 di  “Cesare Brandi” e di “Carlo Emilio Gadda”,  le espressioni sono via via più pensierose, e nel suo “Autoritratto” del 1945 dai tratti del volto su fondo cupo traspare tutta l’angoscia della guerra,  le cui atrocità sono nel corpo straziato a terra del dipinto “La guerra partigiana” del 1944. C’è anche il dipinto “Due nudi”, 1947-48, più marcati di quelli del 1938, la rotondità alla Rubens è questa volta scolpita con forti pennellate.   

Alla guerra, o almeno al potere, fa riferimento “Pesci (Pesce grosso mangia pesce piccolo)”, 1945, con un senso di allucinazione, che aleggia anche in “Funghi giganti”, realizzato nel 1947 insieme ad altre nature morte.

Tra le opere esposte per gli anni ‘50  troviamo una dipinto che è una folla di “volti”, “Lamento per Rocco Scotellaro”, 1953,  l’amico  poeta e scrittore morto trentenne, in una sorta di sacra rappresentazione come una Deposizione, la madre e  le donne piangenti e il volto di Levi inserito come faceva Caravaggio; poi un “volto” solo, il “Ritratto di Wright”, 1956, il celebre architetto si recò da lui in “una mattina caldissima di luglio”, non ebbe il tempo per ritrarlo a figura intera, “come un’alta quercia”, ma ne rese “l’aspetto arcaico e impenetrabile”.

Non sono presentati, per tale decennio, dipinti sulla “natura”, che invece sono la totalità di quelli esposti per gli anni ’60: da “Paesaggio con mucca”, 1960, inedito, puntiforme e brillante come un caleidoscopio, ad “Alberi e pergolato di Alassio”, 1963, e “Bosco”, 1960-65,  con la ricomposizione nel  verde, mentre “Conigli”, 1965, è una composizione animata dove si sente la presenza della natura.

Fino alla trilogia del 1970-72, “Carrubo con scaletta ad Alassio”,  “Carrubo gigante” e “Carrubo”, che fa parte dei moltissimi suoi dipinti di alberi e di paesaggio di quegli anni, di cui Antonello Trombadori scrisse:  “Esso è, sì, veduta e scenografia, vale a dire puntualizzazione naturalistica  e ricostruzione fantastica di un luogo, ma è essenzialmente biografia, diario di ciò che nel paesaggio accade”; visto in modo che “non sia il suo stato d’animo  a possedere sentimentalmente quei luoghi ma siano i luoghi a possedere il sentimento dell’artista”. Così la scala che segna la presenza umana è parte della natura, e i due carrubi sono figure miriche, dai tratti  antropomorfi. Per Fabio Benzi “i tronchi contorti degli alberi divengono metafore di esistenze legate alla terra, con le loro sofferenze immutabili, con la loro espressività corporea e carnale, mai accentuata da un’espressività facile e psicologica”.

Le risposte di Carlo Levi  valide ancora oggi

“Felicità e tormento” vi vedono Antonio ed Ettore Russo, “il particolare cessa di esistere come tale, assurgendo a ‘specchio’ di una dimensione ideale che in sé vuole come inglobare tutto l’universo… Dionisiaca si potrebbe pertanto definire la pittura di Carlo Levi per questa esuberante concezione del mondo che si inebria di valori vitali e al contempo chiede continuo alimento sia ai fenomeni naturali sia ai fatti esistenziali”.

Di qui la compresenza insistita e reiterata dei soggetti a lui cari, dai “volti” alla “natura” fino alle “cose”, le nature morte. Ma non c’è solo vitalità, c’è anche “un sottinteso invito alla contemplazione, quasi che l’artista, pago dell’umano possesso delle cose, voglia sollecitarci a rimeditare sui valori intrinseci delle cose stesse, per afferrarne i più nascosti significati”. Per concludere: “Di conseguenza il ‘dionisiaco’ si fonde con l’elegiaco, mentre nell’osservatore la stessa ‘tensione psichica’  a poco a poco si risolve in soffuso raccoglimento”.

L’ambiente raccolto della Galleria Russo lo favorisce, del resto lo stretto  rapporto del luogo con l’artista porta a un’immedesimazione fuori dal tempo  e si crea un clima fortemente suggestivo.

Rivelatori i suoi scritti, tra i quali ricordiamo la lettera  ai galleristi del 7 dicembre 1970, prima citata,  perché ci è sembrata una sorta di testamento spirituale, spaziando nell’intero arco della sua vita. Infatti nel definire  “Paura della Pittura”, da lui scritto nel 1942 “quasi come continuazione e corollario”  del suo precedente “Paura della Libertà”, afferma che “quello scritto, mi sembra,  non ha alcun bisogno di essere aggiornato. E tuttavia sono passati, da allora, 30 anni, due generazioni (o più, per il raccorciarsi del tempo); un tempo così fitto di mutamenti, che nulla è rimasto, si può dire, quello che era”.  L’elenco che fa dei cambiamenti è impressionante,  dalla guerra alla pace nell’infinità di eventi che hanno sconvolto il mondo, con “una vitalità immensa  e creativa; e nello stesso tempo la distruzione di tutti i rituali e di tutti gli idoli, anche i più apparentemente legittimi, anche quelli che avevano avuto una funzione rinnovatrice e rivoluzionaria”.

Levi  stesso afferma che “il fondo di queste esperienze va al di là dell’arte”, così la sua riflessione acquista un respiro storico. In campo artistico tanti sono stati i mutamenti, i fermenti creativi delle avanguardie che “hanno scandagliato tutte le profondità,  esplorato tutte le superfici, penetrato in tutte le cavità, scalato tutte le asperità”, indagato sulle possibilità di tutti i linguaggi e di tutte le prospettive “in tutti gli aspetti visibili e invisibili del mondo e del pensiero”  con uno scopo ben preciso: “Riscoprire una qualità, un attributo,  una categoria perduta fin dal principio, e negate o dimenticate o censurate prima che esse potessero riaffiorare alla coscienza”. Risultato: in questa ricerca affannosa è stato distrutto l’esistente per subire poi la stessa sorte,  nessuna avanguardia e neppure il grande Picasso si sono salvati.

E allora si pone una domanda  quasi disperata: “Dopo tanti anni di ricerca di tutte le parole pittoriche, che cosa resta, dunque, oggi da dire? O che cosa da tacere o non dire più?”.  La risposta è chiara e solare: “Tutto, in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima, espressione. Tutta la realtà umana in ogni singola verità. Non è poco, non è facile”.  E cita la risposta che  nel 1911 diede da giovane  Umberto Saba alla domanda analoga “che cosa resta da fare ai poeti”: “la poesia onesta”, dando ad essa lo stesso contenuto –  “onestà come rivoluzione” – della sua risposta sulla pittura di cui ribadisce, nel dicembre 1970, la validità dopo trent’anni.

Sono trascorsi altri 45 anni, ma si può convenire sull’affermazione che il suo “Paura della pittura” “possa, ancora oggi, avere una qualche utilità e essere riletto, senza bisogno di chiose e di aggiornamenti, ma soltanto di qualche aggiunta di attenzione attuale e di meditazione”.

E si può convenire altrettanto sulla considerazione, sempre della lettera ad Ettore e Antonio Russo,  riferita alla mostra di allora ma perfettamente aderente alla mostra di oggi, di nuovo alla Galleria Russo: “E spero che questa raccolta di quadri miei di tempi diversi, che voi esponete, non esca da questa visione del valore e del senso della pittura, ma possa in qualche modo, anche nella sua limitatezza, contribuire a confermarla e a dimostrarla”.

Ci sembra la migliore conclusione del nostro viaggio nel mondo di Carlo Levi. Non si è fermato al pur prestigioso Eboli letterario, ma ha lasciato il segno nell’arte ponendone in evidenza i valori permanenti in un mondo inquieto e sconvolto da una incessante trasformazione che rischia di travolgere tutto con la sua furia iconoclasta. Si deve far tesoro del messaggio che ci manda il grande artista, lo ripetiamo.  Va ricercata “in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima espressione” una cosa: “La realtà umana in ogni singola verità”.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Lunedì ore 16,30-19,30, da venerdì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949; 06.69920692. info@galleriarusso.com; www.galleriarusso.com . Catalogo “Carlo Levi. la realtà e lo specchio”, a cura della Fondazione Carlo Levi, contributi di Daniela Fonti, Fabio Benzi , Antonella Lavorgna, Palombi Editori, novembre 2014, pp. 192, formato 22 x 22;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo  “Carlo Levi, specchio della realtà alla Galleria Russo”,  è uscitoin questo sito il 28 novembre u. s. con altre 10 immagini. Per gli artisti citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di  Renato Guttuso, il  25 e   30 gennaio 2013, di Modigliani, Soutine e i pittori maledetti il  22 febbraio, 5 e 7 marzo 2013, degli Astrattisti italiani il  5 e 6 novembre 2012,  di Tagore il 15 ottobre 2012, di Picasso, cubismo e cubisti il 16 maggio 2013, Due mostre a Roma tra il sacro e il profano in “cultura.inabruzzo” it, il 4 febbraio 2009.  Su de Chirico, in questo sito, per la mostra sul Ritratto  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, in “cultura.inabruzzo.it” per le mostre su De Chirico e la natura l’8, 10 e 11 luglio 2010, anche a stampa su “Metafisica”  n. 11/13 del 2013 pp. 403-18, su De Chirico e il Museo  il 22 dicembre 2010, sul  Disegno di de Chirico il 27 agosto 2009, su De Chirico ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre 2009.

Foto

Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, la sera dell’inaugurazione della mostra, da Romano Maria Levante che ringrazia la galleria e la Fondazione Carlo Levi per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto seduto” , 1934, seguono “Il padre a tavola”, 1926, e “Donna con maaschera rosa””, 1929; poi “Nudo con la sedia”, 1929, e “Donna dormiente”, 1933; quindi “Nudo femminile”, 1934, e “La casa sotto la pineta”, 1936, inoltre “Pesci”, 1945 e “Carrubo”, 1972; in chiusura, due nature morte, a sinistra “Natura morta con boccale di birra”, 1932, a destra  “Amoroso contrario di Morandi”, 1937.

Sironi, l’artista della grandezza e della tragicità, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

“Mario Sironi. 1885-1961” si intitola la mostra antologica aperta al Vittoriano dal 4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015.  E’ una  grande esposizione con 140 opere dei diversi periodi, che segue la mostra del 1993 alla Gnam, presentando anche inedite opere giovanili. L’artista ha attraversato simbolismo e divisionismo, futurismo, metafisica ed espressionismo  in un’arte passata dai cupi “Paesaggi urbani” alle grandiose Pitture murali decorative per il regime fascista e per questo esposto a un ingiusto  boicottaggio. Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, insieme all’Archivio Sironi di Romana Sironi.

Percorriamo il doppio binario con cui si può considerare l’arte di Mario Sironi, quello dei sentimenti personali legati al suo temperamento e alle vicende della  vita e quello della cifra stilistica in cui si è espresso. 

Sono due percorsi che si sovrappongono perché nel ciclo della sua vita le pulsioni interiori si traducevano in forme pittoriche aderenti alle tendenze di volta in volta seguite. Ma li teniamo separati per evidenziarne più compiutamente l’evoluzione nel tempo.

Le costanti della sua arte: la grandezza e la tragicità

Grandezza e tragicità sono stati i termini con i quali sono state riassunte le sue pulsioni interiori, e in effetti sono alla base di tanta parte della sua espressione artistica.

La grandezza riflette la sua formazione a Roma, nel centro della classicità e della romanità. La “città eterna”  fu decisiva nella sua concezione dell’arte. “L’ideale della Grande Decorazione che Sironi coltiva negli anni trenta – scrive la curatrice Elena Pontiggia – si forma in lui ben prima di quegli anni  (e ben prima del fascismo) guardando  l’Arco di Tito e il Colosseo, la basilica di Massenzio e la Colonna Traiana, il Pantheon  e le Terme di Caracalla, gli affreschi di Raffaello e di Michelangelo”.  Lo dichiarò lui stesso a proposito della “Pittura murale” del 1931, l’ispirazione “a far grande” gli venne negli anni giovanili  guardando “gli splendidi fantasmi dell’arte classica”.

Precisamente dagli anni ’10, ben prima che il fascismo  richiamasse i fasti grandiosi dei “colli fatali di Roma”.  Aderì poi all’ideologia del regime perché gli sembrava realizzasse i suoi ideali in cui la grandezza si traduceva nell’ “Uomo nuovo” e nei valori della classicità, nel segno della patria e della famiglia, della cultura e della giustizia imperniati sul lavoro, come fonte di dignità e nobiltà, da quello delle fabbriche a quello delle campagne.  E li tradusse nell’arte di cui scriveva: “L’Arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza, altezza di principi”. C’è grandezza nelle sue opere monumentali:  pur celebrative dell’ideologia del regime collimavano  con la sua visione,  lo si vede nelle opere in cui rappresentava l’uomo al lavoro,  con un senso di forza e solennità.

Una posizione analoga l’abbiamo trovata in Deineka, il grande artista russo del “Realismo socialista”, anch’egli legato alla mistica del regime perché coincideva con i valori da lui fortemente sentiti, anche qui la dignità dell’uomo sul lavoro e non solo. Entrambi sono diventati strumento della propaganda dei rispettivi regimi, ma non per acquiescenza o sudditanza, tanto meno per opportunismo, quanto perché vedevano  riconosciuti e tradotti in azione politica i valori in cui credevano. Ma a nessuno dei due sfuggiva quanto stava avvenendo nella realtà, entrambi registrarono l’allontanamento dell’ideologia dalle loro convinzioni, di qui la delusione e la reazione.

Sironi scriveva nel 1937, al ritorno dall’Esposizione Universale di Parigi con la sua opera monumentale “L’Italia illustrata”: “Cercherò come sempre di chiudere gli occhi dove non voglio vedere e tirare avanti a tutta forza, con tutta la mia forza: credere poco, obbedire anche  troppo, combattere sempre”. E, più esplicitamente, in un diverso momento: “So bene che ora il fascismo contiene il movimento opposto che ha debellato”, con “ora” sottolineato.

La tragicità è l’altra componente della sua visione, legata a una angoscia esistenziale che sente fortemente il peso della condizione umana, oppressa dai misteri insondabili della vita e della morte. Una sofferenza interiore che si trova in tanti suoi scritti, li cita Romana Sironi: “… trovarmi nel freddo, nell’angoscia, vedere la morte, andarle incontro e dirle portami via”; e poi “Pace all’anima mia – pace al mio corpo martoriato, pace ai miei occhi sbarrati sull’orrore e pieni di lacrime – senza altra luce che quella che negli immensi orizzonti corona debolmente le vette della terra, miserie e lacrime e il lungo smoderato soffrire di tanti anni…”.   Gianni Rodari, che lo salvò quando il 25 aprile 1945 fu catturato da un gruppo di partigiani di cui faceva parte, ha scritto di lui: “Per me la sua pittura è una lezione di tragedia. Non c’è pittore che valga i suoi quadri”. 

Con il trasferimento a Milano all’età  di oltre trent’anni, alle visioni grandiose della Roma classica si sostituiscono le periferie desolate, ai templi della romanità le fabbriche fumose, la natura stessa sembra scomparsa, sopraffatta dalla alienante realtà urbana: tutto questo alimenta l’angoscia esistenziale che troviamo in lui già nei primi anni della giovinezza e si riflette nella sua produzione artistica dove predominano queste immagini cupe.

Romana Sironi scrive che di Roma “il ricordo è vivissimo. Parlava poco, amava ascoltare i racconti di Roma, della Roma che aveva tanto amato nella sua grandiosità, che era stata fonte ispiratrice di tanti suoi capolavori”.  E  aggiunge che  Margherita Sarfatti alla Biennale di Venezia del 1924 lo definì “romano di educazione, nato da una famiglia lombarda a Sassari”, sottolineando “di tutti i nostri pittori italiani d’oggi, egli è anche il più romano, per la sua tendenza alla grandiosità”. Amedeo Sarfatti  precisa  che “si considerava romano e del romano aveva anche l’accento”.

A Roma non dipingeva ancora le periferie, come fece poi con quelle milanesi, ma dovette assorbirne, insieme alla grandiosità classica del centro storico, lo stesso clima.  Lea Mattarella, nella sua nota in Catalogo sulla “Roma plurale di Mario Sironi”, ricorda come Guido Ceronetti  abbia scritto di Sironi che per lui “la città è il monumento alla Solitudine, un cimitero di solitudini, spazi simbolici dove patiscono senza fine, perdutamente, microsensibili, e ti figuri storie di dolore e occhi aperti nel buio dietro quelle finestre” che rappresenterà cieche; e ricorda che Enzo Siciliano,  a commento della mostra del 1995 alla Gnam,  associò Sironi a Pasolini “testimoni di una disperazione nei confronti del mondo che trova proprio nel paesaggio urbano la sua potente esplicazione” parlando di “un ‘sole nero’ che li accomuna. Sorge ogni mattina sui palazzi delle loro periferie così lontane e così vicine”.

Le due pulsioni contrastanti, grandiosità e tragicità,  sono compresenti nelle sue opere, e solo una visione superficiale può vedervi l’una e non l’altra spinta interiore. Anche nelle opere monumentali di regime dove la grandezza è connaturata al soggetto c’è un’intima tragicità, un dramma; mentre in quelle visibilmente drammatiche come le periferie urbane non manca la grandiosità.

Questa compresenza è espressione di una personalità complessa, con una forte passionalità che gli fa abbracciare ciò che risponde alla sua visione, e lo rende distaccato da una società in cui non si riconosce. L’uscita in positivo da queste spinte opposte sta nella fiducia nella costruzione dell'”Uomo nuovo” dall’alta moralità, all’insegna di valori spirituali e di energia.

Il suo sogno si dissolse, alla fine del regime in cui aveva riposto tante speranze,  nelle rovine della seconda guerra mondiale, e l’angoscia esistenziale non fu più contenuta dall’utopia  di grandezza.  Ma non venne meno quella che Romana Sironi definisce “una moralità inflessibile, intransigente, una coerenza testimoniata anche  a prezzo della vita”. E ricorda quando “cadute le disperate ideologie del fascismo, per orgoglio, per rispetto di se stesso, per la fierezza del suo temperamento, non riesce a rinnegare il passato, là dove molti l’avevano fatto, ma resta dalla parte dei vinti, pronto a pagare il duro prezzo della disfatta che lo relegava nell’isolamento più assoluto”.

Ne dà conferma Luigi Cavallo: “Sironi  prende su di sé il peso della sconfitta, l’annientamento dei valori in cui aveva creduto.  Nel fuggi fuggi dal regime che si verificò dopo l’8 settembre 1943, non si mise mascheramenti, restò dalla parte in cui aveva militato e se ne assunse le conseguenze”.

Una scelta coraggiosa che non fu senza contraccolpi. Seguì  un “astioso confino” in cui fu relegato perché la condanna del  regime  nell’ideologia e nelle scelte culturali ed artistiche fu per lui una “damnatio memoriae” a cui invano hanno reagito uomini di cultura come Giovanni Testori, pure  ben lontani politicamente da lui: “Credo che una delle colpe più gravi della critica italiana nei confronti dell’arte moderna sia stata quella di ostinarsi a trattenere in una sorta di limbo, quasi in un ‘a parte’, il caso che fu invece di forza primissima  e di primissima grandezza di Mario Sironi”.

Testori  gli attribuisce il merito di “una chiarezza di posizioni, costi quel che costi, e in quelle posizioni l’umile  e feroce coerenza”.  Una coerenza in cui si riflette “la dolorosa coscienza della dignità che è nell’uomo”, in Sironi riflesso “della sua tensione morale e della sua trasfigurazione poetica: che fu scontrosa, fuligginosa, rocciosa, granitica e carbonizia,  ma, insieme, larga, solenne, sacralmente illuminata e illuminante”.

Ci viene di associare Sironi a Gabriele d’Annunzio per il trattamento assai simile che ha subito nel dopoguerra, sebbene dopo le convergenze nazionalistiche il fascismo lo avesse relegato nella “gabbia d’oro” del Vittoriale e lui stesso ne avesse preso le distanze, salvo un riavvicinamento a Mussolini nell’avventura africana. Anche l’angoscia esistenziale associata all’idea di grandezza e all’iniziale adesione al fascismo perché sembrava incarnarla ci fa accomunare la personalità dei due grandi italiani, oggi finalmente sdoganati dopo la lunga “damnatio memoriae”  del dopoguerra.

Ha dipinto fino all’ultimo, e se la sua pittura divenne più cupa, con i toni di premonizione accentuati, secondo Cavallo “non è sopito il suo anelito a far grande, il suo pensiero plastico”,  per cui “abbiamo momenti assai alti di una presenza messa comunque in tensione da grandi capacità di dare emozione”.

E ci emoziona fino alla commozione anche il ritratto conclusivo che ne fa Romana Sironi: “Una personalità speciale, magnetica, possente, mossa sempre da sentimenti forti, passionali, combattuto  tra speranze utopiche e disperazioni acute. Era bello, gli occhi azzurri, nella folta cornice di capelli neri, a volte si accendevano furenti e lampeggianti se l’argomento non era di suo gradimento ma erano capaci anche di dolcezza e tenerezza”.

L’inizio dell’arte pittorica,  simbolismo e divisionismo   

La curatrice Pontiggia traduce così i caratteri salienti riassunti nella sua produzione pittorica, fin qui evocati: “L’arte di Sironi è una lezione di tragedia. Ma c’è dell’altro. La pittura di Sironi è anche una lezione di grandezza, Le due cose combaciano nelle sue opere come le valve di una conchiglia.  Tragedia, cioè drammaticità, tensione, espressionismo, romanticismo. Grandezza, cioè forza, equilibrio, solennità, classicità”.

E aggiunge: “E’ stato un romantico innamorato della  classicità e un pictor classicus intriso di romanticismo. In questa concordia discors, in questa discordia armoniosa consiste l’altezza della sua arte. E in questa duplicità consiste anche la sua unicità”. Che gli ha fatto percorrere le diverse correnti pittoriche del suo tempo in un itinerario artistico esaltante intrecciato alle vicende della vita,  cui la curatrice dedica un’attenta e dettagliata ricostruzione di cui daremo dei rapidi cenni.

Ne ripercorriamo la storia mentre passiamo in rassegna le opere esposte in mostra, che citeremo di volta in volta – e non ne citeremo altre – inserendole nel mosaico della sua vita artistica.

Mostrò il suo talento fin dalle elementari, i suoi disegni furono messi in vendita da un cartolaio;  il suo primo quadro conosciuto con cui si apre la mostra è “Marina”, dipinto  nel 1899-900,  a 14-15 anni,  è stato riconosciuto dalla sorella Cristina il Porto Canale di Pesaro, c’è già il suo senso materico e dei volumi. A 16 anni si cimenta in  copie dei maestri, la sua formazione e ispirazione é a largo raggio, vediamo una “Copia da Utamaro”, il maestro giapponese di cui riproduce su cartoline alcune figure molto delicate e bidimensionali, distaccandosi nell’occasione dai suoi volumi.

In quegli anni, in cui approfondisce il romanticismo e il pensiero di Nietsche e Schopenhauer, sente l’influsso del simbolismo europeo,  partecipando a Roma al “gruppo dello scultore Prini”, con altri giovani pittori di orientamento simbolista; fu influenzato anche dall’estetismo inglese. Del periodo simbolista vediamo un ex libris per la madre Giulia,  una giovane donna che scrive “Ars et amor”, 1901-02, su un muro alla cui sommità c’è un satiro, su uno sfondo scuro; e il piccolo dipinto “Il pascolo, 1902-03, simboli l’albero per la vita e la pecora con l’agnellino per la maternità.

Nel 1904 conosce Severini e Boccioni, che definisce  “il mio migliore amico e l’ultimo”, così si intitola, tra l’altro, l’accurata ricostruzione di Virginia Baradel della loro amicizia. Per il suo tramite entra in contatto con Giacomo Balla, che lo converte al realismo nei contrasti tra ombra e luce, staccandolo dall’iniziale simbolismo.  Lo abbandona ritenendo letteraria e troppo astratta la teatralità del simbolismo tedesco e le stilizzazioni decorative del simbolismo viennese rispetto  alla “naturalezza” del Novecento italiano che Boccioni e Balla gli facevano apprezzare.

Rappresenta il momento di transizione “La chiesa del Ghisallo”, 1903-05, in cui c’è ancora l’albero simbolico al centro, ma in un contesto naturalistico. Mentre “La sorella Cristina al pianoforte, 1905,  a inchiostro su carta, con linee spezzate, nel suo bianco e nero intenso riflette le ricerche luministiche di Balla e del gruppo intorno a Prini.  

E’ la fase del divisionismo, anche se la sua sensibilità architettonica – il padre e lo zio erano ingegneri progettisti e lui stesso si iscrisse a ingegneria che lasciò presto – gli faceva mantenere i volumi non dissolvendoli nella luminosità e nelle linee divise.  Un’opera significativa di questa fase è “La madre che cuce”, 1905-06,  si avverte la divisione delle linee ma sovrastata dalla volumetria dell’ambiente e dell’arredo, e anche il cromatismo non è dominante.

A Parigi, dove soggiorna con Boccioni, non è attirato dagli impressionisti allora imperanti, quanto dai capolavori classici esposti al Louvre e dalla metropoli.  Oltre alle suggestioni classiche, già fortemente sentite  a Roma,  viene colpito dal moderno paesaggio urbano, lo si vede in alcuni  paesaggi romani in stile divisionista dopo il 1905.

Tra il 1907 e il 1911, aperto uno studio a Milano, va due volte in Germania dove conosce il post espressionismo tedesco  e approfondisce la cultura tedesca cui si è appassionato attraverso la filosofia di Nietsche e il pathos di Wagner da amante della musica. Riflessi di questa esperienza nell’ “Autoritratto”, 1909-10, con il camice del pittore, il viso aggrottato tra luce e ombra ha un senso drammatico come il suo temperamento; e nel “Ritratto del fratello Ettore”, 1910,  anche qui luce e ombre e sebbene sia adolescente non c’è spensieratezza  ma una “crescita dolorosa”, nonché nel “Ritratto della madre”, 1910,  una testa scultorea nel buio,  di marca post-espressionista.

Da amante dell’arte classica non può aderire alla provocazione di Marinetti del 1909  di distruggere i musei, quindi si allontana da Boccioni e Severini al centro del movimento futurista, cui si avvicina solo nel marzo 1913 dopo aver visto la loro mostra a Roma, partecipando a un “banchetto futurista”. Ne sono espressione i lavori “decostruttivi” di questo periodo e le opere in cui traduce il “dinamismo plastico” del futurismo in una “plasticità dinamica”: “Una serie di volumi obliqui ma saldi che possono essere inclinati, ma non incrinati dal movimento”, commenta la Pontiggia.  Di questo anno “Testa”, 1913, diversissimo dalle opere precedenti, c’è la scomposizione picassiana del volto che diventa una maschera, con ombre sugli occhi che le danno una forte drammaticità.  

Gli anni ’10: il periodo futurista con tratti metafisici

Ha trovato la propria cifra nel futurismo e partecipa alle sue manifestazioni, l’amicizia con Boccioni si rafforza, nell’aprile 1914 espone 16 opere alla “Esposizione libera futurista internazionale” dove è presente anche Kandinskij con artisti russi che influenzano alcune sue opere di quel periodo.  Nel 1915 si trasferisce  a Milano ed  entra nel gruppo dirigente del movimento,  esegue collage, disegni e composizioni futuriste con i caratteristici inserti  di lettere.  Di questo periodo “Il camion”,1914-15,  esprime l’interesse futurista per la città moderna e il movimento, ma è di tipo militare e, stretto tra un tram  e gli edifici, più che alla velocità fa pensare alla solidità della carrozzeria, è la variante di Sironi del futurismo come era stata del divisionismo, fedele ai volumi e alla drammaticità. 

Lo si vede anche nei collage futuristi “L’Arlecchino”, 1915,  che la Pontiggia considera “uno degli esiti più alti della stagione futurista di Sironi”, è bidimensionale e cromatico, ma a sinistra c’è il volume di una casa; mentre in “Il bevitore”, 1915-16, il tocco futurista del giornale è sovrastato dalla densità materica  e dalla figura drammatica, il viso ridotto a maschera; ugualmente drammatica “La ballerina” , 1916,  con gli occhi pesantemente bistrati e le membra slogate come una marionetta dà un’immagine di sensualità, piuttosto che del movimento di marca futurista.

Analoga considerazione per due oli dello stesso anno, 1916: in “Borghesi e tram rosso” l’ispirazione futurista è nel tema, la vita cittadina, e nel forte cromatismo, per il resto c’è la sua solidità volumetrica nelle due figure in primo piano e nella massa statica del veicolo; in “Il ciclista” la figura pur in movimento non dà l’idea della velocità ma della fatica  espressa dalla tensione delle gambe, e sullo sfondo i volumi delle abitazioni della periferia anticipano i “Paesaggi urbani”.

Si arruola nel Battaglione Volontari Ciclisti con il gruppo dei futuristi, da Marinetti a Boccioni a Russolo, partecipa ad azioni belliche e firma il manifesto di Marinetti “L’orgoglio italiano”.  Esegue dipinti futuristi sarcastici sui borghesi antipatriottici della “vecchia Italia” cui si contrappongono gli eroici soldati; e comincia a soffermarsi sulla figura in senso fauvista ed espressionista  che lo allontana dal futurismo, finché la morte di Boccioni lo distacca sempre più.

Poi un periodo di vita militare attiva  fino al marzo 1919 quando viene congedato e presenta alla “Grande esposizione futurista”  di Milano 16 opere di cui poche recenti e soprattutto poco futuriste. Torna a Roma dove alle riviste del movimento “Roma futurista” e “Dinamo”  preferisce la nuova rivista “Valori plastici” fondata nel novembre 1918 con de Chirico, Carrà, Savinio, Per lui, scrive la Pontiggia, “la pittura metafisica è una sorta di trauma visivo.  I manichini, le case dalla forma chiusa e precisa, i prismi e i poliedri… esercitano su di lui una profonda suggestione”, già l’influenza delle sagome di Carrà e Depero si nota in alcuni suoi ritratti del 1918. 

Lo colpisce una citazione platonica di Margherita Sarfatti della bellezza come forma stabile, fatta di linee e di tondi e l’articolo di  Carrà in “Valori Plastici”  che esalta la “solida geometria di oggetti”, di qui al dinamismo futurista viene a sovrapporsi la plasticità metafisica.  Afferma che “solamente l’idea platonica del reale può traslare nell’opera di fantasia una forma chiara della realtà”.

“Sironi crea così – è sempre la Pontiggia – un futurismo metafisico o una metafisica futurista, in cui una macchina non corre più ma esibisce l’enigma dei suoi ingranaggi”, si vede dai suoi dipinti del periodo in cui le figure non sono più in movimento ma in un’immobilità statuaria.  Anche nelle mostre,  ad opere futuriste ne affianca altre con “geometrie metafisiche e platoniche”.  Ma la sua metafisica è “fisicissima profondamente umana”, ritrae la vita quotidiana invece del “mondo ortopedico e antisentimentale” metafisico.

Siamo nel settembre 1919, si trasferisce in via definitiva a Milano, città che definisce “brutta ma solida”  rispetto alla “bella, sonnolenta Roma”. Nei suoi “Paesaggi urbani”  di fine 1919-20, in cui ritrae le periferie,  la Sarfatti ha visto la capacità di trarre “forza, grandiosità, ordine, armonia”  dallo squallore della città, una visione diversa da quella della critica moderna che vi vede solitudine e desolazione;  i primi critici, a questa sensazione negativa aggiungevano quella positiva di armonia e forza costruttiva.  Di lei vediamo esposto il bel “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916, un volto con lo sguardo vivace e una luminosità diversa dai toni scuri tipici della drammaticità dell’artista.

La solidità architettonica venne apprezzata anche dai futuristi e diviene una chiave di lettura anche della sua drammaticità: “Sironi – osserva la Pontiggia – esprime il dramma della vita moderna, anzi il dramma della vita in generale, ma di fronte a quel dramma suggerisce un atteggiamento non nichilistico”; la risposta alla sfida della vita è “costruire , perché è necessario… costruire e guardare in alto”, sono le parole che l’artista usò nel 1931. La Pontiggia conclude: “I ‘Paesaggi urbani’ sono lontani tanto dalle Piazze d’Italia quanto dalle città futuriste. Sono una ‘terza via’: una sorta di realismo sintetico e senza tempo che prenderà il nome di ‘Novecento'”.

Vedremo i “Paesaggi urbani” nella rassegna degli anni ’20, intanto ecco sei opere su carta del 1919 in cui si allontana sempre più dal futurismo. Due sono in tempera e olio: “Il sollevatore di pesi”,  una figura statica, quasi bloccata, in un’atmosfera sospesa di tipo metafisico;e “La lampada”, con un manichino dechirichiano, che la Pontiggia definisce “l’esempio più alto della breve stagione metafisica dell’artista”. Altri due sono collage: il  “Il camion giallo”, sigillo della mostra, in cui di futurista ci sono frammenti di scritte, mentre esprime l’opposto della velocità, è bloccato nella strada che occupa interamente, con i grandi volumi abitativi cari all’artista; e “Studio per un paesaggio urbano”, forse in preparazione di un olio, i cui sono compresenti i motivi futuristi nell’aereo in volo, quelli metafisici nell’atmosfera sospesa e quelli del nuovo “Novecento” nelle forme solide delle abitazioni che si accavallano quasi in una volontà di ricostruzione.

Nonostante queste sue persistenti “deviazioni”, continua a partecipare a manifestazioni e mostre futuriste, e nel 1919 aderisce al fascismo: diventa collaboratore del  “Popolo d’Italia”  con i suoi disegni e le sue tavole su temi assegnatigli direttamente da Mussolini che esercita su di lui un forte ascendente, come lo esercita la spinta  nazionalistica dopo la “vittoria mutilata”; sarà pressnte nelle riviste del regime, come “Gerarchia”, e la mostra lo documenta.

A parte questo aspetto fondamentale, “credeva in un fascismo a sfondo sociale, di ascendenza ancor  socialista”,  tanto che la moglie Matilde lo definiva “anarchico e comunista”, Arturo Martini addirittura “bolscevico”.  Questi fatti inducono a non ridurre le sue espressioni artistiche all’adesione al regime, anche se è stata anch’essa un fatto conclamato da non trascurare per un’interpretazione equilibrata dei motivi psicologici ed ideologici sottesi alle sue opere.

Ne parleremo ancora, soprattutto per le sue “Pitture murali” degli anni ’30, celebrative del regime ma nello stesso tempo animate dalla sua concezione dell’uomo e dei suoi valori. Lo faremo prossimamente, nel seguito della appassionante cavalcata nella vita e nell’arte di Sironi.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492.  Seguiranno 3 articoli su Sironi in questo sito, tra dicembre e i primi di gennaio 2015,  rispettivamente sugli anni ’20, gli anni ’30, gli anni ’40 e oltre,  ciascuno con 10 immagini. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su “Deineka”  il    26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012,   su “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo”  il 2 marzo 2014,  su  ” D’Annunzio”  il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013 ,  su “Pasolini” l’11 e 16 novembre 2012 e il  27 maggio e 15 giugno 2014;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, sui  “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011,   su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo”  il 30 aprile e 1° settembre 2009. .   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Il camion giallo”, 1919; seguono “Autoritratto”, 1909-10 e “Ritratto della madre”, 1910, poi “Ritratto del fratello Ettore’, 1910, e “L’Arlecchino”, 1915; quindi  “Il ciclista”, 1916 e “La lampada”, 1919, infine “Paesaggio urbano con taxi”, 1920, e alcune Pubblicità  da lui realizzate; in chiusura alcune Riviste del regime a cui collaborava. 

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Carlo Levi, specchio della realtà, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Russo, dal 20 novembre al 12 dicembre 2014 circa 60 dipinti di “Carlo Levi. La realtà e lo specchio”, una antologica a cura della Fondazione a lui intitolata che copre l’amplissimo periodo dal 1926 al 1972, quasi l’intero suo itinerario artistico, mancano soltanto i primi quattro anni e i due ultimi. Sono esposte 20 opere degli anni ’20,  altrettante degli anni ’30,  8 degli anni ’40,  2 degli anni ’50, 5  degli anni ’60 e 2 degli anni ’70; 5 sono inedite. Scorrono i soggetti della sua pittura, nel  confronto tra “la realtà e lo specchio”. Catalogo della “Palombi Editori” a cura della Fondazione Carlo Levi.

Due anniversari si sono incrociati nel 2014:  i 120 anni di vita della Galleria Russo e il quarantennale della morte dell’artista, che alla galleria è stato legato da un rapporto che  Daniela  Fonti,  presidente della Fondazione Carlo Levi qualifica “assai più di stima reciproca che di impegno commerciale e che ha consentito la formazione di un collezionismo privato vivace, in grado di recepire un ‘attività produttiva amplissima, che si può calcolare nell’ordine di 5000 dipinti. Meno di un quinto di questa produzione è oggi di proprietà della Fondazione”. 

Il percorso di vita di una personalità poliedrica

Carlo Levi ebbe una personalità poliedrica. Pur con l’intensissima attività pittorica testimoniata dalla copiosa produzione, si è segnalato in campo professionale, come politico, uomo  di cultura e scrittore: sua la strenua opposizione al regime fascista, rara nel mondo artistico, che gli causò arresti, confino ed espatrio, sua una pietra miliare nella cultura italiana, a livello letterario e socio-politico, con la denuncia delle condizioni di arretratezza del Mezzogiorno; a ciò va aggiunta la professione medica che all’inizio praticò con impegno. Grande personalità, dunque, di elevato  livello artistico, e insieme etico,  morale, e civile.  

Forse proprio questa caratura altamente positiva ha oscurato in un certo senso la sua attività pittorica perché molto intense erano le luci accese sulle altre espressioni della sua personalità, in particolare di scrittore, a partire dal 1946 allorché fu pubblicato “Cristo si è fermato ad Eboli” e Fortunato Bellonzi scrisse:  “E’ perciò quasi fatale che di fronte alla eccezionale ricchezza di valori umani della prosa di Levi, la sua pittura impallidisca anche più di quanto dovrebbe e faccia, infine, figura di svago”.  Mentre nei  venti anni precedenti, ricorda Daniela Fonti, “prima nella pattuglia dei ‘Sei di Torino’ sostenuta da Lionello Venturi, poi autonomamente negli anni Trenta e Quaranta, si era affermato come originale protagonista della pittura italiana e tenace avversario di ogni novecentismo”.

In un certo senso, seppure per motivi radicalmente diversi, si può trovare una certa analogia con Mario Sironi, la cui mostra si svolge al Vittoriano in questo stesso periodo. Ma c’è il paradosso che Sironi fu oscurato nel dopoguerra per la sua convinta adesione all’ideologia del regime fascista del quale celebrò i fasti con la Grande decorazione, la pittura murale di cui fu il massimo esponente, e non abiurò mai al suo credo; mentre Levi dalla ferma opposizione con gravi sofferenze personali avrebbe potuto trarre il vantaggio di maggiore attenzione nel dopoguerra alla sua arte pittorica. Invece, osserva Fabio Benzi, “la storicizzazione dell’artista, avvenuta lui ancora vivente, ha inevitabilmente rimescolato la sua produzione ‘eroica’ ed innovativa degli anni Trenta e Quaranta con quella più recente (innegabilmente più stanca, anche se di qualità) nonché operante sotto una bandiera storicamente ‘conservatrice'”.

Una “lente deformante”, un “equivoco” durato troppo a lungo. La sua completa rivalutazione dopo la mostra nel 2008 si manifesta anche nell’attuale mostra sempre a Roma, che gli rende onore nella città in cui si trasferì dopo la fine della guerra  da Torino dove aveva studiato e iniziato l’attività di medico.

Nato il 29 novembre 1902, nipote del socialista Claudio Treves che alla sua nascita inviò una cartolina di auguri con il volto di Mazzini, era un predestinato per la politica; ma fu precoce nell’arte, il primo quadro è del 1915, il primo ritratto del 1917.  A 16 anni conosce Piero Gobetti che pubblica “Energie nuove”, a 19 anni partecipa con i gobettiani all’occupazione della Società di cultura, la chiama “colpo di Stato”; a 20 anni, nel 1922,  collabora con la “Rivoluzione liberale” dello stesso Gobetti che gli fa conoscere Felice Casorati.

Si laurea in medicina a 22 anni nel 1924, anno in cui espone alla XIV Biennale di Venezia; si impegna seriamente nella professione, e nonostante la spinta artistica è assistente all’Università, svolge ricerche sperimentali sulle malattie del fegato, frequenta corsi di perfezionamento con vari luminari a Parigi dove soggiorna  entrando in contatto con gli impressionisti e gli “artisti maledetti” e aprendo un proprio studio.

Nel 1927 è di nuovo a Parigi, dove tornerà nel 1928; sempre attivo negli ambienti artistici decide di dedicarsi solo alla pittura, ma non lascia l’impegno politico. Dopo la morte di Gobetti nel 1926 si lega ai fratelli Rosselli con i quali dà vita al giornale  “Lotta politica”, nel contempo  fa parte del gruppo “Sei pittori per Torino” che espone nel capoluogo piemontese, a Genova e Milano. Diventa responsabile organizzativo del movimento “Giustizia e libertà” nel 1929, l’anno successivo è di nuovo alla Biennale  di Venezia, la XVII, e partecipa a un’altra mostra dei “Sei pittori per Torino”. Sue mostre anche a Londra e Buenos Aires. 

L’attività politica e quella artistica procedono intrecciate a ritmi accelerati. Eccolo tra il 1931 e il 1933  impegnato nella stesura del programma rivoluzionario di “Giustizia e libertà” e nella celebrazione di Piero Gobetti e Claudio Treves; ma anche nella prima mostra personale a Parigi, dove risiede stabilmente tenendo i contatti tra Torino e i fuorusciti,  e nella XVIII Biennale di Venezia.  “Giustizia e libertà” è nel mirino della polizia politica, viene incarcerato a Torino il 13 marzo 1934, rilasciato il 9 maggio con  diffida;  sarà arrestato di nuovo un anno dopo, il 15 maggio 1935, e assegnato al confino in un paese in provincia di Matera, Grassano, poi viene spostato ad Aliano dove sarà trattenuto un anno, fino al 20 maggio 1936. Gli viene inibito anche l’esercizio della professione medica per motivi politici, protesta contro il questore.

Tornato a Torino riprende lavoro politico e attività artistica: subito una mostra alla galleria “Il Milione” con dipinti fatti al confino, poi a Genova e l’anno dopo a Roma. Nel 1937 a giugno vengono assassinati i fratelli Rosselli, esprime il suo dolore in un autoritratto  con la camicia insanguinata. L’impegno artistico continua con una mostra a New York, quello politico anche, tanto che deve fuggire di nuovo in Francia dove scrive “Paura della libertà”:  è il 1939, nel 1941 scriverà  “Paura della pittura”, l’intreccio ideale continua.

L’impegno politico lo vede tra i massimi esponenti del partito d’Azione, nel 1943 viene di nuovo arrestato e rinchiuso in carcere da aprile a luglio, poi sarà ospite di Eugenio Montale come altri antifascisti e partigiani.  Tra il 1943 e il 1944 da clandestino a Firenze scrive “Cristo si è fermato ad Eboli”, il suo grande capolavoro che sarà pubblicato nel 1946 e subito tradotto in molte lingue, diventa un “best seller” negli Stati Uniti.  Alla fine della guerra entra nel Comitato di Liberazione Nazionale toscano  per il  Partito d’Azione.

Quindi il trasferimento a Roma. Non solo azione politica in questo periodo, è tra  i promotori della “Nuova Secessione artistica italiana” , con Guttuso, Marini, Mafai e altri, critici verso il Novecentismo e diffidenti verso le avanguardie; un’altra  bella coincidenza  è l’attuale mostra sulla “Secessione” che si svolge quasi in contemporanea alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.  E’ il 1946, si candida alla Costituente, negli anni successivi  tiene una mostra personale a New York, espone alla XXIV Biennale di Venezia con un’intera sala per lui e partecipa alle “Assise per il Mezzogiorno”, quindi al Congresso della Resistenza e alla Mostra dell’Arte contro la barbarie.  Alla Biennale del 1954 presenta 50 dipinti, ancora una volta un’intera sala è tutta per lui, poi lo troviamo impegnato con discorsi e iniziative, si candida alle elezioni politiche del 1958. 

Iniziano gli anni ’60, arte e politica continuano a  intrecciarsi tra mostre e manifestazioni, anche contro l’atomica. Nel 1963 viene eletto senatore, e si impegna nella valorizzazione dei beni culturali mentre partecipa a mostre  celebrative della Resistenza e ad esposizioni con intento meridionalistico. Rieletto senatore nel 1968, l’inizio degli anni ‘70  lo vede esporre opere sul Mezzogiorno in una mostra antologica seguita da un’altra nel 1971. Poi accusa problemi alla vista con una temporanea cecità nel gennaio 1973, in questo periodo realizza 140 disegni e scrive il “Quaderno a cancelli” aiutandosi con uno speciale telaio; la mente torna al “Notturno” di D’Annunzio, , per scriverlo al buio aveva usato anche lui uno stratagemma.

Nel marzo 1974  gli viene affidata una delle tre opere celebrative dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, la fase culminante, “la liberazione”,  dopo “l’oppressione” assegnata a  Cagli e “il massacro” a Guttuso.; a settembre grande mostra antologica a Mantova con 200 opere realizzate in mezzo secolo, dal 1922 al 1974.

 La sua attività instancabile su tanti fronti, dalla politica all’arte, non ha sosta:  partecipa a dibattiti, realizza disegni ispirati a Baudelaire, “I fiori del male”, pubblicati postumi nella cartella “Mille acqueforti, omaggio a Carlo Levi”. A dicembre del 1974,  7 litografie ispirate a Cristo, “murales”, presentazioni a libri di impegno sociale, fino all’ultima opera, “Apollo e Dafne” realizzata su un tamburello coperto di pelle di capra il 22 dicembre, il giorno prima del ricovero al Policlinico Gemelli di Roma dove muore il 4 gennaio 1975. Uscirà postuma un’antologia di suoi scritti anche inediti, “Coraggio dei miti (scritti contemporanei 1922-74)”.

Questa  antologica di un cinquantennio di impegno sul versante letterario-politico si affianca all’antologica sul versante artistico del settembre 1974 nel delineare la sua personalità poliedrica, la sua attività costante sulla scena culturale con una presenza cui la sua imponente fisicità dava un risalto anche visivo.

 l percorso pittorico di un artista straordinario

Il percorso di vita di Carlo Levi, di cui abbiamo rievocato i tratti essenziali, dà alla sua figura uno spessore straordinario e alla sua opera pittorica una luce che va oltre l’eccellenza artistica pur elevatissima. E’ un’opera svolta in un arco di tempo di mezzo secolo,  particolarmente tormentato, con un’attività intensissima nonostante il cumulo di impegni, che deve essere considerata nel suo valore intrinseco  anche se, vogliamo sottolinearlo, risulta ancora più sorprendente tenendo conto dell’intero contesto. L’opposto di quanto ha fatto certa critica, per cui gli altri aspetti della sua personalità hanno oscurato quello artistico.

Astraendosi dal resto, Fabio Benzi osserva che non fu pittore istintivo ma molto  meditato ed attento alle tendenze artistiche del momento. Il suo primo ispiratore era Felice Casorati, il grande artista della sua Torino, da cui recepisce il senso di astrazione e insieme di compostezza nella composizione con i colori freddi; viene visto in lui il “ritorno all’ordine novecentista”,  con la solidità della forma e “un richiamo alla tradizione pittorica letta modernamente”, vengono citati Piero della Francesca e Derain, Giotto e Cézanne.

Dopo l’influenza degli impressionisti francesi, da lui conosciuti da vicino,  nella tendenza alla dissoluzione  della nitidezza e solidità delle forme per un post-impressionismo fino all’espressionismo è stata vista anche una risposta “politica” alla retorica fascista; ma Benzi respinge questa interpretazione considerando il nuovo corso  “un tentativo di uscita da quel clima figurativo classicheggiante ormai vicino alla crisi e all’esaurimento linguistico” e osservando che persino Sironi dal 1927 al 1931 sviluppa un linguaggio espressionista, prova che l’intento politico in senso antifascista è improponibile.

A questo punto, la centralità dell'”espressione” riporta a Matisse e a Modigliani, e ricordiamo che Levi fa parte del gruppo dei “Sei per Torino”,  tra il 1929 e il 1931, di marcata ispirazione francese. Dal 1972,  dopo l’ennesimo soggiorno parigino, “la pittura di Levi trova definitiva maturazione e si stabilizza in uno stile espressionista libero e lirico che sostanzialmente proseguirà per tutta la vita”. La conoscenza diretta degli “artisti maledetti”, gli ebrei di Montparnasse, è per lui rivelatrice, la sua è un’adesione artistica e anche umana e politica; tra i tanti “fuorusciti” ci sono Modigliani e Soutine, che diventerà suo preciso riferimento con la sua pittura materica  ma non cupa bensì di un cromatismo brillante che esprime solarità e apertura.

Il suo impegno politico e sociale lo immerge sempre più nella realtà  che rappresenta “senza i veli dell’intellettualismo”, è sempre Benzi che aggiunge: il suo è “un realismo che però non sarà mai dichiaratamente politico, ma profondamente umanistico, volto a scavare, con le sue pennellate concentriche e sinuose, nella verità delle cose e degli uomini. Un realismo che lo accompagnerà per il resto della sua vita, venato di malinconia e di verità”. Un “espressionismo misurato, che non abbandona la realtà pur nella sua trasfigurazione lirica, in una fusione panica con la natura”, a parte i dipinti ispirati alla guerra con il dramma dei corpi straziati, l’angoscia nei visi delle persone. La “realtà e lo specchio”, dunque.

Si schiera con Guttuso sul fronte del realismo nell’aspra polemica contro l’astrattismo, che dall’arte si trasferì alla politica con l’intervento dirompente di Togliatti, ne sono il riflesso le lettere che Guttuso gli scrisse nel 1956, riportate in ampi stralci da Benzi che commenta: “Nel panorama italiano Guttuso e Levi rappresentano… i due dioscuri di una posizione artistica intrecciata ad aneliti e scelte politiche e sociali. Due personaggi di fatto molto autonomi nei rispettivi esiti ma serrati in un’idea condivisa…  all’esplicita menzione dei temi politici e sociali di Guttuso, Levi risponde con un realismo umanistico e allusivo, privo di retorica discorsiva e denso invece di pathos  partecipato”.

Con riferimento all’ultima opera prima citata, del 1974, il pannello della “liberazione” affiancato a quelli di Guttuso e Cagli, Benzi commenta: “Levi è esattamente il punto simmetrico tra i tre amici pittori, certamente il più intimista: non irrequieto come Cagli, non aggressivo come Guttuso, la sua poetica continua a svolgersi coerentemente fino agli ultimi anni della vita”.  .

Più in generale sulla sua pittura, Guttuso scrisse che Levi è “un pittore molto famoso ma sostanzialmente sconosciuto, non perché la sua pittura sia oscura, intellettualistica, ermetica. Al contrario perché non lo è, perché è piana e leggibile, perché è diretta e racconta volti, natura, cose, con la semplicità che è connessa al dono della pittura”.

Giudizio questo nel quale Daniela Fonti vede “oltre alla sollecitudine dell’amico il pericolo di un fraintendimento perché se è vero che la pittura leviana è il racconto di volti, natura, cose, è certo che essa non è piana ma attraversata , come scrive con commossa ma lucida partecipazione Italo Calvino nel 1962, ‘da una continua messa in gioco  dal momento della tensione, dell’esperimento, del rischio,  ciò che fa punto d’incrocio, continuamente mobile e precario, fra irrazionalismo e coscienza nazionale'”.

Lo scrittore collega l’opera pittorica di Levi alla sua intensa attività intellettuale in “un’identificazione totale di Storia e autobiografia”; e lo colloca nell’acceso dibattito tra realisti e astrattisti sui riflessi dell’attività politica nell’arte, con riguardo allo spirito antifascista, nel quale Levi non era secondo a nessuno per la sua storia personale punteggiata da arresti e confino, mentre gli altri artisti non si erano esposti contro il regime; ciononostante se ne tenne al di fuori ponendosi come riferimento morale piuttosto che come capofila  di un movimento che legava il realismo pittorico all’impegno politico di rinascita antifascista.

E’ forse in questo aspetto la chiave della sua personalità poliedrica, come appare dal suo   “Paura della pittura”,  scritto nel 1942 –  cioè in una fase di intensa attività contro il regime – e  imperniato sulla crisi di identità dell’uomo contemporaneo alla quale si rispondeva con i falsi idoli delle ideologie;. Mentre per lui l’unica soluzione della crisi era il recupero della dimensione dell’uomo come destinatario e misura di ogni azione:  alto richiamo all’umanità e alla morale  che riecheggia la  “Paura della libertà” del 1939.

Carlo Ludovico Ragghianti  afferma che “l’intima struttura della  sua personalità anche poetica è questa forza morale, questo convincimento nelle infinite possibilità dell’uomo libero dai falsi miti, l’origine di quella visione dominante  nella sua pittura che, al di là delle cadenze stilistiche ne costituisce il nocciolo profondo e incorruttibile”.

Daniela Fonti commenta così tale giudizio: “Nelle pagine del critico lucchese la figura di Levi si erge, quasi unica in un panorama internazionale dominato dai ‘falsi miti’ dell’avanguardia (il cubismo, il dadaismo, il surrealismo, perfino l’astrattismo, accomunati in un’unica condanna), come quella di un artista dalla consapevolezza profonda che è in grado, attraverso la sua pittura e solo attraverso di essa, di comporre l’io diviso dell’uomo contemporaneo che come un Narciso di fronte a uno specchio d’acqua perturbato, si riflette in diverse, incomplete e fallaci immagini di un sé frantumato”. Lo si vede nei “volti” e nella “natura”, sempre legati a soggetti a lui cari, persone o paesaggi per cui “non è mai un rapporto neutrale, né tanto meno oggettivo, quello con la realtà, perché mette a nudo e scopre delicati aspetti della sua psiche” che nella realtà si rispecchiano.  “La pittura, come la letteratura – prosegue la Fonti – è per Levi uno dei mezzi di questo continuo rispecchiamento, che è costante interrogazione e ricerca di sé; la pittura, cioè la tela, è veramente uno specchio nel quale l’uomo si ritrae, e veramente non c’è soggetto che abbia dipinto, dagli autoritratti – appunto – ai ritratti, moltissimi, delle tante persona che hanno dato senso alla sua vita, fino ai paesaggi e alle nature morte, che sfugga a questo impulso all’autoanalisi”. 

Perché c’è sempre autoanalisi dietro la sua rappresentazione del reale. La presidente della Fondazione lo spiega:  “La realtà nelle opere di Levi non è mai qualcosa dotato di vita e di senso autonomo, e neppure del tutto, alla maniera del Surrealismo, una delle tante proiezioni del suo io, ma il prodotto di una relazione di natura puramente affettiva, del rapporto d’amore o d’amicizia che lo lega al modello ritratto, a quello o all’altro brano di paesaggio, a quell’angolo dello studio abitato da conturbanti e povere nature morte. Ogni cosa, ogni frammento, sono una parte di sé che viene alla luce e prende forma attraverso la relazione”.  

Altrettanto penetrante l’analisi di questa relazione: ” Non è mai un rapporto neutrale, e tanto meno oggettivo, quello con la realtà, perché mette a nudo e scopre aspetti delicati della sua psiche, paure, timori ancestrali, presenze e voci mai ipotizzabili dietro i rassicuranti e quieti aspetti del vivere quotidiano”.

Vedremo prossimamente, commentando le opere esposte in mostra,  come si esprime tutto questo. Sono 35 “volti” e figure, compresi 5 nudi, 17 dipinti sulla “natura” e 6 nature morte, la maggior parte degli anni ’20  e ‘30, quelli della maturità, nei quali raggiunse il massimo livello. Li passeremo in rassegna avendo nella mente tali interpretazioni critiche ed altre che citeremo, in modo da comporre un ritratto a tutto tondo di questo artista straordinario.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Lunedì ore 16,30-19,30, da venerdì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949; 06.69920692. info@galleriarusso.com; www.galleriarusso.com . Catalogo “Carlo Levi. la realtà e lo specchio”, a cura della Fondazione Carlo Levi, contributi di  Daniela Fonti, Fabio Benzi , Antonella Lavorgna, Palombi Editori, novembre 2014, pp. 192, formato 22 x 22;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e conclusivo articolo  “Carlo Levi, pittura dionisaca ed elegiaca alla Galleria Russo”, uscirà in questo sito il 3 dicembre p.v. con altre 10 immagini. Per gli artisti citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di  Renato Guttuso, il  25 e   30 gennaio 2013, di Modigliani, Soutine e i pittori maledetti il  22 febbraio, 5 e 7 marzo 2013,, degli astrattisti italiani il  5 e 6 novembre 2012,  per le mostre citate ora in corso, prennunciamo in questo sito i nostri 4 articoli sulla mostra di Mario Sironi al Vittoriano previsti per i prossimi  1, 9, 14 e 29 dicembre 2014,  e i nostri 2 articoli sulla mostra degli artisti della “Secessione” alla Gnam previsti per il  24 e 31 dicembre 2014.  

Foto

Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, la sera dell’inaugurazione della mostra, da Romano Maria Levante che ringrazia la galleria e la Fondazione Carlo Levi per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto”, 1945, seguono “Nudo con palme”, 1928, e “Mamma che cuce”, 1929, poi “Lelle legge distesa”, 1933, e“Tonino o Ragazzo lucano“, 1935; quindi “Dietro Grassano”, 1935, e “La Strega e il bambino”, 1936, inoltre “Due nudi”, 1938,  e “Carrubo con scaletta ad Alassio”, 1969; in chiusura due ritratti,  a sinistra “Autoritratto seduto”, 1934, e  a destra “Leone Ginzburg con le mani rosse”, 1933.

Egitto e Slovenia, verso l’Expo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, dopo l’esordio con San Marino nel mese di ottobre 2014, a  novembre entra nel vivo il programma “Roma verso Expo” con la presentazione parallela di due Paesi, l’Egitto nel Salone centrale fino al 16 novembre e la Slovenia nella Sala Giubileo fino al 27 novembre.  Il programma, promosso da Roma Capitale con la partecipazione della Regione Lazio, di Unioncamere e dei Ministeri degli Esteri, Politiche Agricole, Beni culturali e Turismo,  è a cura di “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e di Zétema – Progetto Cultura e prevede mostre al Vittoriano e all’Aeroporto di Fiumicino.

L’iniziativa è lodevole per motivi evidenti ma vale la pena di sottolinearli. L’Expo è un evento mondiale, con oltre 140 paesi partecipanti, 60 milioni di visitatori previsti, l’Alitalia ha impresso il marchio colorato sui suoi aerei. Immagine e risultati dovrebbero riflettersi su tutto il paese, per questo è positivo che la mobilitazione vada ben al di là dell’area milanese direttamente interessata.

A tal fine è fondamentale l’impegno di Roma, straordinaria vetrina del turismo, con l’attrazione del suo patrimonio archeologico, storico e culturale e con quanto evoca la città eterna; capitale d‘Italia e sede delle rappresentanze diplomatiche e degli istituti di cultura di tutti i paesi.

Il Vittoriano è  un complesso dove le mostre hanno un sapore speciale, per la qualità degli spazi espositivi e il fascino del monumento, c’è anche la sacralità dell’altare della patria.

L’Aeroporto di Fiumicino è il terminale di un flusso incessante di viaggiatori per turismo, politica, affari, quindi punto di accoglienza di milioni di visitatori del nostro paese.

Entrambi questi spazi sono interessati al programma “Roma verso Expo”: il Vittoriano dopo San Marino, l’Egitto e la Slovenia, ospiterà nel mese di dicembre la presentazione di Albania e Serbia, in gennaio del Viet Nam, per proseguire nei mesi successivi; all’Aeroporto di Fiumicino, dove è stato creato un apposito spazio con i plastici di alcuni dei principali padiglioni dell’Expo, viene presentato  il Kuwait,  Israele, quindi il principato di Monaco.

Tutti i Punti informativi turistici della Capitale sono mobilitati, e 20 totem sono posti nei principali musei;  28 biblioteche e  centri culturali sono anch’essi impegnati a ricordare e promuovere la manifestazione, all’Ara Pacis un’isola informativa. 

L’Egitto

La mostra “Egitto si presenta”,   inaugurata il 30 ottobre dal Ministro della cultura egiziano Gaber Asfour, è incentrata soprattutto sul patrimonio archeologico e artistico del paese che non ha bisogno di presentazioni, tale è l’attrazione che esercitano sul flusso di visitatori le Piramidi, la Valle dei Re e le tante meraviglie di una civiltà dalle manifestazioni artistiche spettacolari; ma evoca anche le bellezze naturali e paesaggistiche, dal maestoso Nilo alle coste del Mar Rosso,  e la  vitalità delle sue città con i mercati variopinti e pittoreschi.

Sebbene siano universalmente note  queste sue attrazioni, la mostra si propone di evocarle esponendo riproduzioni di reperti particolarmente pregiati della civiltà faraonica, e ad essi accosta  opere dell’arte contemporanea, in un viaggio nella storia e nel tempo di un paese millenario.

Nella prima sezione della mostra viene presentato il paese. L’antica civiltà egizia viene evocata attraverso il ritrovamento nel 1922 della Tomba di Tutankhamon, da parte dell’archeologo inglese Howard Carter, che definì ciò che vedeva “cose  meravigliose”: ed è una meraviglia il  sarcofago d’oro la cui riproduzione fedele è esposta al centro della sala.

La vicenda della scoperta è narrata nei cartelli esplicativi con preziose foto d’epoca: fu ritrovata con un corredo di inestimabile valore storico oltre che economico, non profanata e intatta, quindi ha fornito una  testimonianza unica. Sono esposte anche statue delle ere faraoniche di notevole interesse storico e di sicuro pregio, insieme ad  esempi di arte egiziana contemporanea, pitture e altre opere.

La seconda sezione è riservata alla partecipazione dell’Egitto a Expo, con un proprio padiglione all’interno del Cluster Bio-Mediterraneo, sul tema “Iside, il seme fluttuante, il viaggio incompiuto”, il titolo rende già la commistione del cibo con la storia, del resto l’Egitto è stato definito “dono del Nilo” per la fertilità data dal limo del grande fiume. .

Nella terza sezione viene presentata  l’Accademia d’Egitto di Belle Arti,  che ha sede a Villa Borghese, ed è l’unica istituzione arabo-africana del genere in Europa: è diretta dal 2012 dalla prof. Gihane Zaki. Promuove conferenze, concerti e proiezione di film e più in generale manifestazioni per far conoscere l’arte egiziana e per mettere in contatto gli artisti egiziani con la nostra cultura. Ogni anno vengono ospitati a Roma a questo fine i vincitori del Premio nazionale di creatività artistica.  Lo slogan per il 2014-15 è “nella cultura diversi… ma insieme”

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La Slovenia

In parallelo con l’Egitto, dal 14 novembre la mostra sulla Slovenia, inaugurata dall’ambasciator ein Italia Iztok Mirosevic. Lo stesso titolo scelto per l’Expo  ne riassume i connotati fondamentali: “Sento la Slovenia. Verde. Attiva. Piena di salute”. 

E’ questo il simbolo di un paese piccolo, con solo 2 milioni di abitanti in poco più di 20 mila Kmq, ma ciononostante con diverse culture e linguaggi;  è anche un paese giovane, sorto nel 1991 dopo la dissoluzione della Jugoslavia. .

Si punta sulle bellezze naturali, il verde è inserito al centro del marchio “I FEEL sLOVEnia” ed è al centro delle politiche di salvaguardia dell’ambiente alle quali è commisurato lo sviluppo sostenibile.
La posizione geografica dà al paese una notevole varietà ambientale, con le Alpi e le Colline della Bassa Carniola, la Pianura Pannonica e il mare Adriatico, i fiumi e le formazioni carsiche sotterranee, come le sterminate Grotte di Postumia, 21 chilometri di cavità con stalattiti e stalagmiti, dei quali 10 chilometri visitabili su un trenino.

La mostra si articola in due sezioni, a sottolineare i connotati espressi dal titolo, il verde  della natura, attraverso le foreste nella sezione ” il Fascino del legno” e il dinamismo nella sezione con le  immagini fotografiche dei bianchi cavalli lipizzani di Alenka Slavinec, che è intervenutaalla presentazione della mostra ricordando con orgoglio  le tradizioni del paese cui appartengono di diritto i lipizzani, che non sono austriaci come molti ritengono, essendo in Slovenia la loro origine. 

Il fascino del legno viene dalle foreste, di cui il paese è ricco, il legno  è una grande risorsa sia come fonte di energia rinnovabile sia come materiale per uno  sviluppo compatibile. A questo riguardo il suo impiego non solo richiede minore energia e inquina meno, ma contribuisce alla riduzione di anidride carbonica immagazzinandola, quindi contrasta l’effetto serra in una  fase storica in cui la crescita sarà sempre più condizionata dai vincoli ambientali soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici provocati dalle immissioni nell’atmosfera. A testimonianza dell’antico rapporto con questo materiale naturale si fa presente che la ruota in legno a un asse più antica è stata rinvenuta in Slovenia, sottolineando che ha 6.200 anni, ha preceduto le piramidi di Egitto e la civiltà Maya del Messico.

In legno insieme al vetro è stato realizzato il padiglione dello Slovenia per l’Expo. Il messaggio è che con piccoli passi si dà un grande contributo alla preservazione dell’ambiente. Il plastico del Padiglione non è esposto nella mostra ma a piazza San Silvestro, nel centro di Roma,  è un simbolo: la sua superficie è mutevole, come il paesaggio.

L’altro simbolo della Slovenia nel senso dell’attività, il cavallo lipizzano, è il protagonista della mostra fotografica di Alenka Slavinec intitolata “Slovenia in Noi”: l’autrice è rappresentante della Wayward Pen Foundation di New York e ha fatto conoscere gli allevamenti di cavalli della Slovenia in campo internazionale, dato che la sua mostra è stata presentata in giro per il mondo, in Europa, a Milano e Budapest oltre a Belgrado e  Lubiana, in America, a Washington, New York e Chicago, in Cina a Shangai, in  Kuwait.

Attrazioni naturali e vitalità popolare, questa l’immagine accattivante della Slovenia  

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, compresi i festivi e il lunedì,  dalle 9,30 alle 19,30, entrata consentita fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06. 6780664.  E’ il primo dei nostri servizi sul programma “Roma verso Expo”, cfr. in questo sito i successivi articoli, sono previsti su “Albania e Serbia” nel dicembre 2014;  e, nel 2015, su “Vietnam”   a metà gennaio e su “Estonia”  agli inizi di febbraio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Complesso del Vittoriano, alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” e Zétema, con le Ambasciate dell’Egitto e della Slovenia,  i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, per l’Egitto, la preziosa riproduzione del “sarcofago d’oro”  di Tutankhamon seguita da quella di una grande targa con iscrizioni, e da una caratteristica staua dell’epoca faraonica;  per la Slovenia un’immagine delle bellezze paesaggistiche e una dei celebri cavalli lippizziani ai quali è dedicata la mostra fotografica; si torna all’Egitto con le ultime due immagini di arte egiziana recente.

Meteoriti, e la Terra vista dallo spazio, al Palazzo Esposizioni

di  Romano Maria Levante

Lo spazio in due mostre al Palazzo Esposizioni  aperte  dal 30 settembre al 2 novembre 2014. Promotrice l’Agenzia spaziale europea in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana nel 50° anniversario di collaborazione europea. Nella  prima, “Meteoriti”, sono esposti alcuni significativi reperti di rocce piovute dallo spazio oltre ai pannelli illustrativi; nella seconda, “Il nostro pianeta visto dallo spazio”, curata  da Viviana Panaccia, sono presentati spettacolari ingrandimenti di fotografie  riprese dai satelliti delle grandi aree ambientali, dai ghiacciai alle foreste alle città.

Sono  complementari: “Meteoriti”  è didattica, basata  su pannelli illustrativi che accompagnano  pochi quanto interessanti reperti non del sottosuolo come quelli archeologici, ma piovuti dallo spazio;  “Il mio pianeta dallo spazio” è  spettacolare, i pannelli non sono descrittivi ma fotografici, gigantografie delle straordinarie  riprese dallo spazio  con i satelliti.

Molto diverse dalla mostra “Astri e particelle”, che vedemmo sempre nel Palazzo Esposizioni nel 2010, dove l’allestimento ricco di effetti  speciali coinvolgeva  il visitatore in una sorta di viaggio cosmico; e dalla mostra “Visioni celesti”, che nello stesso anno alla Biblioteca Nazionale Umberto I di Roma documentò con i preziosi libri d’epoca degli astronomi e degli studiosi il cammino fatto nei secoli nel campo della cosmologia e della ricerca spaziale.

Riconosciamo di essere rimasti sorpresi visitando la prima mostra, per  la dovizia di elementi descrittivi rispetto al ridotto materiale espositivo; poi siamo stati colpiti dalla seconda mostra dove parlano le immagini, e che immagini! Un’abile compensazione, con la celebrazione su due livelli dell’avventura spaziale, in cui l’approccio scientifico si coniuga a quello visivo.

La terra è comunque protagonista in entrambe le mostre incentrate sui rapporti con lo spazio,  Nella prima mostra è destinataria della pioggia di meteoriti che vengono dallo spazio;  nella seconda è il soggetto fotografato  dai satelliti nello spazio,  le “star” sono i diversi ambienti del pianeta.

Origine e natura dei meteoriti

Tanti pannelli illustrativi e  poche vetrine, ma contengono reperti preziosi che vengono dallo spazio; pietre di varie dimensioni, nulla di spettacolare, ma è intrigante il loro significato, sono i segni tangibili dello spazio, e la loro visione alimenta il desiderio di conoscere. Basta leggere i pannelli.

Si inizia con l’origine dell’Universo, dimostrata dall’astronomo  Erwin Hubble  nel 1920 quando con il telescopio del Monte Wilson a Pasadena rilevò che le galassie si allontanano sempre più velocemente dal punto di origine, nel quale 10-13 miliardi di anni fa avvenne il “Big Bang”, l’esplosione della materia compressa in un punto a temperature di miliardi di gradi al cubo.

Alcuni miliardi di anni dopo nacque il sistema solare, con il sole al centro e altri corpi celesti che ruotano intorno, tra cui i pianeti e i loro satelliti come la Luna, inoltre  milioni di asteroidi rocciosi e miliardi di comete: un “sistema rotante”  tenuto insieme dalla forza di gravità.

E qui entrano in scena i Meteoriti, frammenti rocciosi formatisi all’origine del sistema solare caduti sulla terra che ne hanno rivelato l’età: 4,6 miliardi di anni. Come avvenne la nascita? Il movimento nello spazio della grande nube iniziale di gas e polveri diventò sempre più veloce, una rotazione accelerata “come un pattinatore sul ghiaccio che racchiude le braccia”: in questo modo il materiale si concentrò nel centro e formò il sole, poi  si formarono dei “grumi” da cui nacque il resto.

I meteoriti  mettono a contatto diretto con la materia dello spazio e  consentono di conoscere la composizione dei corpi celesti. Sono formati per lo più dalla collisione di due asteroidi – le formazioni rocciose che ruotano nello spazio – e piovono sulla terra spinti dalla forza gravitazionale, possono avere le dimensioni più diverse, da pochi millimetri a misure enormi; un numero minore proviene dalla Luna  e da Marte, e vengono identificati soprattutto in base ai campioni prelevati dalle missioni spaziali sul nostro satellite e alle analisi della  sonda Viking sul “pianeta rosso”.

Ai primi dell’800 si capì che i  meteoriti venivano dallo spazio, ma si credeva che la loro origine fosse la Luna, mentre ha questa provenienza un meteorite su 284; i meteoriti lunari sono provocati dall’impatto di un  asteroide o una cometa sul nostro satellite, si formano frammenti di  rocce nello spazio che possono cadere anche dopo decine di migliaia di anni. L’evento si verifica 5 volte ogni milione di anni, perciò i meteoriti lunari recuperati hanno un peso totale di soli 70 Kg; il più grande, Kalahari 009, pesa 13,5 Kg; si riconoscono per la crosta di fusione e i segni dei raggi cosmici.

All’interno di  due meteoriti provenientida Marte si è creduto di trovare tracce di vita nel “pianeta rosso”: nel 1996  nel meteorite ALH84001 trovato in Antartide 12 anni prima, alcuni scienziati americani hanno visto catene di globuli microscopici simili ai batteri terrestri; nel 2000 nel meteorite Y000593 recuperato dai giapponesi in Antartide, scienziati della Nasa hanno riscontrato micro tunnel simili a quelli prodotti sui basalti dai batteri terrestri, oltre a sferule molto ricche di carbonio. Ma le ipotesi sono state abbandonate, non essendo suffragate da prove valide.

Ciò dimostra l’importanza dei meteoriti per la conoscenza del cosmo: possono contenere la “polvere di stelle”, granelli prodotti prima della formazione del sistema solare, dal cui studio vengono preziose informazioni; e possono essere rimasti inalterati conservando la composizione iniziale, la cui analisi consente di approfondire la conoscenza dell’origine del sistema solare.

Vi si possono trovare minerali che non esistono sulla terra, i più recenti sono stati individuati nel 2012 (la panguite) e nel 2013 (la kuratite): sono 250 le specie minerali extraterrestri conosciute rispetto alle 4500 specie terrestri, la metà delle quali derivate dall’interazione con organismi viventi mentre finora non si hanno prove dell’esistenza di forme di vita nello spazio.

La storia geologica del nostro pianeta si avvale delle conoscenze acquisite analizzando  i meteoriti, e la storia della vita sulla terra  riconduce ai meteoriti, in particolare per l’estinzione dei dinosauri che seguì l’impatto con un gigantesco meteorite del diametro di 10 chilometri avvenuto 65 milioni di anni or sono nel Messico, al largo dello Yucatan dove sono restate le tracce dell’immenso cratere. Non ne fu l’unica causa, ma concorse all’estinzione in un processo in atto da milioni di anni con i mutamenti climatici e ambientali che riducevano la biodiversità e le catene alimentari da cui dipendeva la vita dei grandi animali preistorici.

A questo punto, suscitato l’interesse sui meteoriti, tenendo conto che chiunque potrebbe trovarli sulla terra, vengono date le “istruzioni per l’uso”, dopo aver raccomandato di registrare con esattezza la posizione,  non contaminarli e contattare gli specialisti. Come riconoscerli? Viene fornito addirittura uno schema identificativo a base di “if”, con ” si”  e “no”  che indirizzano in un percorso logico fino  alla risposta: “non è un meteorite” oppure “può essere un meteorite”.

Storie di meteoriti

Una serie di  schede analitiche racconta storie di meteoriti, a cominciare dal “Barringer meteor crater”, formatosi  30.000 anni fa nell’America del nord per un impatto di un meteorite del peso di 300.000 tonnellate. Per lungo tempo il cratere del diametro di oltre 1 Km fu ritenuto di origine vulcanica e quando si capì che era un meteorite si ritenne costituisse un grandissimo giacimento di “siderite”; fu costituita la Standard Iron Company per lo sfruttamento del ferro. Tutto vano, il minerale si era  vaporizzato per l’energia prodotta da un impatto della potenza di 2,5  milioni di tonnellate di TNT, pari a 130 volte l’atomica di Hiroshima.

Nel 1492, l’anno della scoperta dell’America, cadde  in Alsazia a Einsisheim un meteorite di 127 Kg, identificato con  il nome della località, ed è forse il primo di cui si hanno notizie. Fu ritenuto un presagio divino beneaugurante per l’imperatore d’Austria Massimiliano I che, dopo alcune vittorie in Francia e Turchia, lo fece porre nella chiesa di Einsisheim legato con funi di ferro per impedire che  andasse via all’improvviso come era venuto; in parte  questo è successo, ma non per forze arcane,  il suo peso oggi è di poco più di 55 Kg  a causa dei continui “prelievi” di pezzi souvenir da parte dei visitatori in mezzo millennio.

Passando a storie meno  lontane,  la prima considerazione da fare è che se i meteoriti cadono in zone disabitate come i deserti o i ghiacciai, possono essere trovati solo dopo molto tempo; ci sono esempi  di queste situazioni,  come della caduta in zone abitate. 

Il 26 aprile 1803 in Normandia, a 150 Km da Parigi, ci fu una pioggia di pietre che si disse fossero “gettate da una meteora”: in quella circostanza lo studioso Ernst Chladni formulò la teoria scientifica dell’origine extraterreste dei meteoriti, prima ritenuti prodotti vulcanici o desertici, fondando la “meteoritica”. Nello stesso secolo, sorprendente il caso del meteorite trovato nel 1867 in Messico, a 200 km da El Paso, all’interno del tempio di Casas Grandes: una massa rotonda di ferro metallico pesante  una tonnellata e mezzo avvolto in bende come le mummie, chissà se era ritenuto sacro dagli antichi abitanti che forse lo avevano visto scendere dal cielo come una divinità!

Per il  ‘900  sono narrate storie gustose nelle schede illustrative, ne facciamo una rapida rassegna in ordine cronologico. Il 30 giugno 1908,  in Siberia, un tremendo boato fu udito a 1000 Km di distanza:  non si trovarono né  meteoriti né crateri, forse per l’esplosione del nucleo di una cometa prima dell’impatto; il 30 novembre 1954,  in Alabama, Ann Hoidge fu colpita al fianco mentre era a letto da un meteorite grande poco più di una palla da tennis, che aveva sfondato il soffitto rimbalzando poi su una radio, si tratta di uno dei due soli casi in cui è stato colpito  un essere umano; il 18 agosto 1974 in Iran, nella cittadina di Naragh, un meteorite pesante circa 3 Kg sfondò il tetto di una scuola, furono trovati due frammenti incandescenti dal diametro di  30 cm di roccia meteorica, precisamente una “condrite”; il 9 ottobre 1992 a New York un meteorite di 12,5 Kg colpì la Chevrolet rossa di Michelle Knapp, che divenne la celebre “macchina colpita da un meteorite”,  il cui fanalino rotto fu venduto per 500 dollari e l’autovettura a un collezionista, ma non si conosce il prezzo; il 15 febbraio 2013 in Russia, a Chelyabinsk, una località a sud degli Urali, cadde al suolo una massa rocciosa di ben 10.000 tonnellate  con un’onda d’urto pari a 500 chilotoni di energia, che distrusse 200.000 metri quadri di finestre con ferito per le schegge dei vetri  senza vittime essendo la zona disabitata; era un meteorite, e viene ricordata la coincidenza, che  a Tucson in Arizona si svolgeva l’annuale fiera su meteoriti e minerali, fossili e gemme.

Queste sono alcune storie che il visitatore apprende dalla mostra se si sofferma sulle schede illustrative. Alimentano l’interesse per un mondo di grande attrattiva, quello della scienza cosmica e della cosmologia, di cui i meteoriti esposti  sono muti testimoni.

I più piccoli sono raccolti numerosi in due grandi vetrine, ce n’è  uno di maggiori dimensioni in un contenitore trasparente che sembra uno scrigno, del resto è materiale prezioso. Lo guardiamo con insistenza, guardiamo ancora gli altri meteoriti, apparentemente comuni sassi rocciosi, quasi per interrogarli.  Sono materiali extraterrestri anche se inanimati,  custodiscono  i misteri dell’universo, che continuano ad emozionare oggi come sempre nella storia umana. Di qui il loro fascino sottile.

Il nostro pianeta visto dallo spazio

Dalla didattica cosmica a illustrazione dei preziosi reperti di meteoriti piovuti dallo spazio alle fotografie del pianeta riprese dallo spazio dai satelliti. Sembrerebbe che le pure immagini prendano il posto della divulgazione scientifica, ma non è così: anche nella seconda mostra, dall’apparenza spettacolare,  la scienza è sempre al centro dell’attenzione. Infatti le immagini, nel riprendere le diverse aree ambientali della terra, ne evidenziano la fragilità rispetto ai cambiamenti climatici e agli altri sommovimenti dell’eco-ambiente cui l’attività umana non è certo estranea.

Raffronti tra riprese a distanza di tempo  rappresentano un monitoraggio dello stato in cui si trova il pianeta e delle trasformazioni in atto, in modo che suoni l’allarme quando l’ambiente si deteriora.  La funzione didattica di questa mostra risiede nel sensibilizzare soprattutto i giovani all’esigenza di uno sviluppo eco-sostenibile con l’utilizzo più consapevole delle risorse naturali.

Le spettacolari gigantografie a colori delle diverse sezioni sono introdotte soltanto dall’indicazione della parte del pianeta fotografata dai satelliti: sono 6 le aree ambientali considerate, ghiacci e acqua, atmosfera e foreste-agricoltura, deserti e città. Stupende riprese,  in molti casi assimilabili a raffigurazioni pittoriche astratte di arte contemporanea, che fanno dimenticare la finalità pedagogica. Ma questa non viene meno, perché vengono segnalati i punti critici monitorati.

I ghiacciaisono ripresi nelle calotte polari, Artide e Antardide:, le regioni più sensibili ai mutamenti climatici, rappresentano un monitoraggio fondamentale dello stato in cui si trova il pianeta e del deterioramento in atto.

Dal ghiaccio all’acqua il passo è breve, le riprese dal satellite mostrano che il livello del mari si sta innalzando, tendenza molto pericolosa perché se si accentua mette a rischio le città costiere. Il pericolo non viene soltanto dal mare, ma anche dai  fiumi e dai laghi per l’uso dissennato del territorio e delle loro acque, e non si tratta solo di inquinamento ma di dissesto idro-geologico.

Fin qui le riprese satellitari dell’acqua allo stato solido e liquido. Ecco ora  l’atmosfera, le riprese dal satellite mostrano l’inquinamento dell’aria, la concentrazione dei gas, l’effetto negativo sul clima dell’anidride carbonica.

Si torna sulla terra nella sezione dedicata alle foreste e all’agricoltura: le immagini spettacolari delle prime ne richiamano l’importanza nell’eco-sistema, per la biodiversità delle specie che le popolano e per la funzione purificatrice rispetto all’anidride carbonica e all’effetto serra; il collegamento con l’agricoltura risiede nell’evidenza visiva della deforestazione per far posto alle colture agricole e nel fatto che la ripresa dal satellite è di ausilio per prevedere e gestire i raccolti.

Dalle foreste e terreni agricoli si passa ai deserti, bellissime le immagini desolate dei principali deserti, in testa il Sahara, poi diversi altri; e di aree che rischiano la desertificazione.

Le immagini dallo spazio delle città  mostrano l’impatto delle aree urbane sull’ambiente, c’è anche una ripresa notturna che attraverso la concentrazione delle zone illuminate evidenzia  le aree di addensamento demografico.

A questo punto si dovrebbe fare una carrellata delle immagini esposte, ma sono talmente spettacolari, a intera parete, che non si possono descrivere in modo adeguato. La nitidezza delle riprese, il forte cromatismo, la loro astrazione quasi artistica restano negli occhi. 

Vogliamo ricordare, al momento della conclusione, l’ultima immagine, con cui si chiude la mostra, che ne riassume visivamente le motivazioni: si vede la terra fotografata dall’astronauta italiano Luca Parmitano, in missione per l’Agenzia Spaziale Italiana a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, che testimonia visivamente la nostra partecipazione all’avventura spaziale.

Nel visitare la mostra non si deve dimenticare che oltre alla parte spettacolare c’è l’ammonimento sul rispetto della natura tanto più importante quanto più belle sono le immagini che la riprendono.

Meteoriti e immagini del pianeta: due visioni molto diverse da considerare complementari.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194. Da martedì a giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato due ore e mezza in più fino alle 22,30, lunedì chiuso, accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 7,50 alle categorie ammesse, euro 6,00 7-18 anni, gratuito fino a 6 anni,  per gruppi,  scuole e visite guidate tel. 848.082.408). l’ingresso consente  di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni. http://www.palazzoesposizioni.it/. Per le mostre citate nel testo,  cfr. in “cultura.inabruzzo.it” i nostri articoli su “Astri e particelle”  allo stesso Palazzo Esposizioni, il  12 febbraio 2010, e su “Visioni celesti” alla Biblioteca Nazionale Umberto I  di Roma il  26, 27 maggio 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo per l’opportunità offerta.  Dalla mostra “Meteoriti”, in apertura l’immagine di un meteorite in caduta sulla terra, seguono, il più grande meteorite esposto e le due vetrine contenenti i meteoriti più piccoli; poi, dalla mostra “Il mio pianeta dallo spazio”, l’installazione all’ingresso e le immagini di alcune aree ambientali, l’Antardide e i Ghiacciai, gli Oceani e l’Atmosfera; in chiusura l’installazione all’interno.

Warhol, tra la quotidianità e il mito, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro racconto della visita alla mostra su “Warhol” della Fondazione Roma al Palazzo Cipolla in via del Corso, aperta  dal  18 aprile al 28 settembre, con circa 110 opere e 40 ritratti, organizzata da “Arthemisia”, e da “24 Ore Cultura” a cura di Peter Brant con Francesco Bonami, che ha curato il  catalogo di “24 Ore Cultura” dalla  copertina argentata ispirata al rivestimento della “Silver Factory”, con l’analisi critica di Francesco Bonami e l’intervista a Peter Brant. Dopo la trilogia Hopper-O’ Keffee- Nevelson, e la raccolta del Guggenheim, il presidente della Fondazione Roma Emmanuele F.M.Emanuele aggiunge un altro tassello al mosaico di artisti americani, mentre diviene sempre più ricco il suo mosaico dell’arte classica che fa perno su Roma.

In precedenza abbiamo ripercorso la prima fase della vita di Andy Warhol e illustrato le opere di quel periodo esposte in mostra. Dopo le prime grafiche della metà degli anni ’50, dalle scarpe ai disegni di fiori, visi e animali, i principali motivi della sua arte più celebrata: le “Campbell’s Soup” nelle molteplici versioni con prodotti similari e le particolari immagini serigrafiche di Marilyn, Liz Taylor e altre star, le rappresentazioni dei “Disaster” e  le  foto segnaletiche dei “Most Wanted Men”, le serigrafie a multipli con figure o foto, dalle banconote del dollaro alla “Gioconda” a Elvis Priesley, fino ai “Flowers”. E’ un caleidoscopio di creatività e versatilità con il denominatore comune della notorietà di soggetti che hanno un forte impatto emotivo sull’opinione pubblica. E la banalizzazione anche delle immagini dei “disastri” e della stessa “sedia elettrica”  privati di ogni tragicità.

Ora continuiamo la carrellata sulle successive  fasi della sua vita e sulle opere esposte in mostra di questo periodo per poi concludere con le riflessioni che ne emergono sulla sua caratura artistica.

L’attentato alla vita, nell’arte i ritratti su commissione

Nel 1968 la scena si anima, dalla Silver Factory si trasferisce  in Union Square, un semplice ufficio, spinto forse dal desiderio di cambiamento. Ma nella nuova sede avviene l’imprevedibile: poco dopo il trasferimento, il 3 giugno, viene ferito gravemente dai colpi di pistola sparatigli all’improvviso da una esponente del movimento “Society for Cutting Up Men”, Valeria Solanas. Entra in coma, dopo un mese e mezzo di ospedale tra la vita e la morte, ne esce molto segnato nel corpo e nello spirito.

Si sente scosso profondamente, e sembra spegnersi la vena pittorica anche se la sua creatività trova altre forme per esprimersi: nel 1969  il romanzo “A.A. Novel”, tratto dalle registrazioni  di un frequentatore della Factory, poi fonda con due soci la rivista delle star del cinema “Interview”, dal terzo numero vi entra Peter Brant che ricorda di averla poi rilevata, rivenduta ad Andy alla fine degli anni ’70 e ricomprata dagli eredi dopo la sua morte, con lui produsse anche due film. Warhol inizia a raccogliere negli scatoloni, le “Time Capsules”, fotografie, cartoline e disegni, tutto accuratamente datato.

I suoi collaboratori ne proseguono l’attività in forma di business, con stampe raccolte in cartelle dei suoi motivi preferiti, a partire dalle serigrafie di Marilyn e dai “Flowers”. Questa attività crescerà molto negli anni, per impulso di Frederick Hughes, che dal 1967 cura  i suoi affari, estendendosi ai ritratti su commissione, per 25.000 dollari: la sua “impresa” ne sforna 50-100 l’anno, 60 scatti con la “Polaroid” tra cui se ne sceglie uno che viene poi stampato in formato 40×40.

Ciascuno poteva avere un proprio “Ritratto” prodotto da  Warhol, in mostra ce n’è una vasta galleria, dal 1972 al 1982, un decennio nel quale i personaggi famosi ritratti sono innumerevoli: a cominciare dai ritratti del suo amico e collezionista Peter Brant, e di Leo Castelli, il gallerista, ecco i grandi stilisti da lui raffigurati, da Valentino a Yves Saint Laurent, ad Armani, gli attori da Liza Minnelli a Joan Collins, da Sylvester Stallone a Jane Fonda, da Farah Fawcett ad Arnold Schwarznegger, gli sportivi dal calciatore Pelè ai tennisti Gerulaitis e Chris Evert, gli artisti da Nureyev a Mick Jagger, i protagonisti della politica, da Jimmy Carter a Ted Kennedy, e del jet system da Carolina di Monaco a Grace Kelly, i divi della televisione, tanto che disse: “Credo che nessuno, per quanto sia famoso, possa sentirsi come una star televisiva”, fino allo scrittore Truman Capote nonostante la sua allergia per la lettura che lo portò ad affermare: “Non leggo mai, guardo solo le figure” e “Odio le domeniche: è tutto chiuso eccetto i fiorai  e le librerie”.

Considera i personaggi degli oggetti di consumo, come quelli in vendita nei supermercati, infatti ha detto: “Alcune persone passano tutta la vita pensando a un particolare personaggio famoso… e ci si fissano. Consacrano interamente la loro persona al pensiero di chi non hanno mai in contrato”, e lui glieli offre come le scatolette di zuppa. Di se stesso dice argutamente ma con un fondo di verità:: “Liz Taylor ha cambiato la mia vita, anch’io ora ho i miei parrucchieri personali”, che sono i componenti il suo staff,  l’effetto imitazione-emulazione dei miti del suo tempo è irresistibile.

Dagli anni ’70 al finale nel 1987,  l’opera “L’ultima cena” e la morte

All’inizio degli anni ’70, nel 1972 e 1973 abbiamo gli storici ritratti di “Mao” che segnano un ritorno all’ispirazione del 1962 con Marilyn: sono in  inchiostro serigrafico e pittura acrilica su lino preparato, li vediamo in diversi cromatismi, con dominante di volta in volta rossa o arancio, gialla o verde, ce n’è uno gigantesco rispetto agli altri, di metri 2 x 1,60, in cromatismo celeste, con la stessa immagine. Del 1972  un ritratto di “Nixon”, 1 metro x 1, con la scritta di senso opposto “Vota Mc Govern”, il candidato democratico. Anche questi personaggi sono spogliati di ideologia, la notorietà li accomuna ai beni di consumo.

Nel 1972 muore la madre, non andrà al funerale; la sua vita è sempre più immersa nel consumismo mediatico,  è impegnato nella pubblicità, anche in spot televisivi, frequenta gli ambienti dello star system. Cambia di nuovo studio nel 1975 per un lussuoso palazzo nella 66^ strada, produce la serie “Ladies and Gentlemen”, pitture polimeriche di busti dal cromatismo violento e  contrastato, in mostra due particolarmente rappresentative.  

Il 1976 è l’anno di nuove innovazioni pittoriche: tali sono le serie “Skulls”, dipinti di teschi che vediamo in mostra in cromatismi contrastati con sfondi bicolore, dal rosso al giallo, dal verde al blu, quasi come del “gadget”, nulla di tragico; e la serie “Oxidations Paintings”, cioè i “Piss Paintings” dipinti orinando sulla tela. È esposto un pannello gigantesco,  2 metri per 5, confusa composizione  in “pigmento rame e urina su tela”.

La sua creatività prende altre direzioni, nel 1979, con i “Reversals”,  collage sulle tematiche Pop in cui gioca tra i colori e il nero del negativo, nel 1980-81 con opere ispirate ai graffiti dal forte cromatismo: vediamo esposte “Diamond Dust Shoes”, una pittura con varie scarpe femminili a forti colori su fondo nero viste dall’alto, una di esse richiama quelle da lui disegnate negli anni ’50; e “Dollar Sign”, non più la banconota ma il simbolo del dollaro, la S barrata su fondo verde. Si ispira anche ad altri temi come la Venere di Botticelli, vedremo che non è l’ultima icona dell’arte;  nel 1984 le “Collaborations”, opere collettive a 6 mani con i giovani Basquiat e Clemente. “Jean Michel Basquiat” sono intitolati due ritratti in Polaroid e uno dipinto in pigmento metallico.  Dello stesso anno “Rorschach“, ispirato alle macchie di inchiostro usate nei test psichiatrici che hanno preso il nome dal loro ideatore, spesso inquietanti per quanto vi associa chi è sottoposto al test, nei sui suoi dipinti sono semplici arabeschi, cercava di allontanare in ogni modo il dolore e l’ansietà.  E nel 1986 le “Camouflage”, pitture polimeriche ispirate nella grafica e cromatismo alla tenuta mimetica militare, è esposto un gigantesco pannello alto 3 metri, lungo 10 metri,  nel segno del Kolossal.

Ma non è questo il finale, per la sua arte il canto del cigno è “The Last Supper”, la sua interpretazione dell””Ultima Cena” di Leonardo, datata 1986 ed esposta nella sua mostra di Milano del gennaio 1987: ne vediamo una serie di versioni su tela, dal gigantesco pannello 3 metri per 10 con i soli contorni delle figure del “Cenacolo”, ai due duetti serigrafici uno sul celeste, l’altro bianco-nero, al particolare ingrandito della figura di Cristo. Sarebbe temerario vedervi una conversione all’arte classica in una sorta di crisi artistico-esistenziale, si deve pensare invece che come avvenne per la “Gioconda” anche il “Cenacolo” viene considerato oggetto familiare e soprattutto di largo consumo; non c’è fervore nè pathos, anche se il senso di profondo rispetto è innegabile. 

Resta la coincidenza con la fine della sua vita, che avviene il mese successivo, il 22 febbraio 2007, quando dopo molti rinvii decide di farsi operare alla cistifellea al New York Hospital: non sopravvive all’intervento di routine, sembra a causa dell’eccesso di anestetico, quasi un contrappasso o una metafora del suo voler allontanare il dolore: la morte lo ha preso a 59 anni, l’aveva sfiorata quando era stato ferito gravemente da una esagitata femminista, a parte lo shock dello sparo al suo dipinto di “Marilyn”, ed era rimasto impressionato dalla morte nel disastro aereo del marito di Liz Taylor; per questo motivo non voleva più prendere l’aeroplano e fece molta fatica a tornare a volare, lo fece per essere presente a Milano all’ultima mostra sull'”Ultima cena”.

La modernità consumistica, da Warhol a Pasolini, gli Autoritratti

Anche quello che lo spaventava faceva parte della modernità consumistica in cui era immerso e che voleva rappresentare,  in questo il pensiero va a Pasolini, il cui anniversario della morte è stato celebrato da una mostra a Roma al Palazzo Esposizioni che si è svolta nello stesso periodo. Nei confronti del grande poeta, scrittore e regista italiano c’è la similitudine del rapporto esclusivo con la madre e il tremendo impatto con la contemporaneità violenta: per Warhol le pallottole della fanatica che lo hanno mandato in coma, per Pasolini la notte conclusa tragicamente con il suo omicidio. Warhol della contemporaneità aveva evidenziato anche i “disastri” e messo in primo piano la morte, pur volendola esorcizzare banalizzandola,  tanto che alcuni personaggi lo hanno interessato proprio alla loro scomparsa; Pasolini della contemporaneità urbana nei suoi “Scritti corsari” vide in anticipo, e denunciò all’opinione pubblica, la deriva violenta nei ragazzi di borgata, quasi profetico della propria tragica fine.

Tutto questo ci fa sentire Warhol più vicino, ci sembra di averne compreso la  creatività e anche le ansie e i timori che cercava di allontanare, in definitiva la profonda umanità. La mostra antologica la sentiamo ora come una carrellata sulla contemporaneità, resa in un linguaggio da tutti comprensibile, in grado di  imporsi  per la sua semplicità che non è banalità, ma essenzialità. In una nuova forma di arte aperta a tutti.

Vogliamo accomiatarci da Andy Warhol dopo l’immersione nel suo mondo che, ripetiamo, è il nostro mondo, il mondo di tutti noi, con i suoi  “Autoritratti” esposti in mostra: da quelli del 1964  in occhiali scuri, collo sbottonato e cravatta allentata, diversa posizione della testa, uno su fondo verde chiaro, l’altro rosa, una autorappresentazione nella normalità; a quelli del 1980-82,  con parrucche ed espressioni sempre diverse, in qualche caso inquietanti, nei 7 esposti il solo colore sono le labbra rosse;  fino al celeberrimo autoritratto del 1986 “Self Portrait (red on black)”, il volto spiritato con l’esplosione di  capelli in un rosso da allucinazione su un fondo nero da incubo, ma lui sdrammatizzò definendolo “un ananas a cui hanno dato fuoco”; alcuni sono “Self-Portrait”  fotografici, in Polaroid, come nei “Ritratti” di personaggi, ma questi autoritratti ne fissano il viso in atteggiamenti e travestimenti stravaganti, anche “in drag”.

Morirà dopo pochi mesi, nel febbraio dell’anno successivo, per una malaugurata complicazione operatoria, quasi una metafora della realtà che può contraddire la normalità. Non c’è nichilismo in lui, aveva detto: “Ognuno ha il suo proprio tempo  e luogo per accendersi. E io dov’è che mi accendo? Io mi accendo quando mi spengo per andare a letto. E’ il mio grande momento, quello che attendo sempre”.  E ancora: “Alla fine dei miei giorni, quando morirò,  non voglio lasciare scarti e non voglio essere uno scarto”.

Possiamo dire che è stato più che esaudito, la sua fama non conosce confini,.la sua arte  ha avuto i massimi riconoscimenti, all’inizio abbiamo citato quelli di Francesco Bonami. Ha ritratto il suo mondo e il nostro mondo,  come maggiore interprete della contemporaneità: “Il  mondo dell’arte – e anche la Storia dell’Arte più recente – è ancora Bonami –  lo mettono in paradiso, vicino a Picasso. Mi pare una collocazione giustificata e meritata. Come Picasso, Warhol oggi è un marchio”,  e aggiunge che ogni suo manifesto,  alla portata di tutti,  “è un frammento dell’idea originale che Warhol aveva dell’arte, della sua riproducibilità, della sua accessibilità”.

L’ idea dell’arte di Warhol

Quale è, dunque,  la sua idea dell’arte che possiamo percepire  dopo aver visto la carrellata delle sue opere esposte in mostra rripercorrendo in parallelo le principali vicende della sua vita?

E’  un’arte all’opposto di quella che, sullo stesso terreno della contemporaneità,  presentavano gli Espressionisti astratti, con l’artista introverso e tormentato che esterna la propria interiorità e i propri dubbi fuori da ogni forma figurativa; con Warhol l’arte è tutta esteriore, ma non come rappresentazione della bellezza bensì della quotidianità più banale senza pregi estetici. “In realtà l’arte per la prima volta si presentava come una realtà comprensibile a tutti”, spiega Bonami, e i critici allora impegnati a elucubrare sull’indecifrabile lo presero come provocazione, non erano più chiamati a spiegare le astrazioni, era comprensibile a tutti, apprezzato o meno che fosse.

“Il misterioso, oramai eterno successo, dell’arte di Andy Warhol sta proprio nel fatto di non essere misteriosa affatto. Un’opera di Warhol ci pone davanti al mistero della nuda e semplice realtà delle cose”. E sono tutte cose a noi familiari, di uso quotidiano come i prodotti di consumo e gli stessi fumetti per non parlare delle banconote, e di uso consumistico come i miti dello star system e della fama mediatica, fino a ciò che produce  shock emotivi come i disastri e la criminalità, le tragedie personali e la morte: “Con il suo geniale candore Warhol riesce a rappresentare  tanto la celebrità quanto la morte, tanto il denaro quanto oggetti di consumo quotidiano”. In tutti c’è la celebrità in diverse forme  espressive: i suoi occhi sono spalancati come quelli del bambino, e come il fanciullo cerca di allontanare tutto quanto può disturbare il suo mondo fantastico, i suoi idoli, i suoi miti, e lui che vi è immerso.  

D’altra parte, l’artista dell’omologazione consumistica, americano per eccellenza anche se di origini slovacche, ha detto: “L’idea dell’America è meravigliosa perché più una cosa è uguale più è americana”. E, sulla romantica nostalgia per la campagna dinanzi all’alienazione metropolitana: “Io sono un ragazzo di città. Nelle grandi città hanno fatto in modo che si possa andare al parco e trovarsi così in una campagna in miniatura, ma in campagna non hanno neanche uno scampolo di grande città, e a me viene così tanta nostalgia di casa”. Consideriamo anche quest’altra sua affermazione: “La cosa più bella di Tokyo è McDonald. La cosa più bella di Stoccolma è McDonald. La cosa più bella di Firenze è McDonald. A Pechino e a Mosca non c’è ancora niente di bello”. Perché non c’era ancora McDonald, parole rivelatrici più di un saggio sul consumismo.

Alla domanda di chi conoscesse dei pittori italiani rispose che dell’Italia conosceva solo gli spaghetti, e questo ha fatto dire a Kounellis nel 1988: “E’ un idiota senza talento, è un pubblicista e non un artista”. Replica  Bonami: “Tra un artista come Kounellis e uno come Warhol c’è la stessa differenza che c’è tra l’enciclopedia Treccani e Google. Nella Treccani c’è molto, ma in Google c’è tutto. Warhol e la sua Factory hanno fatto di tutto e questo ‘di tutto’ lo hanno fatto in modo così stravolgente da giungere a rappresentare il presente e la contemporaneità in modo unico”.

Bonami prosegue: “Viveva in un eterno presente, su una superficie senza confini, senza profondità  ma anche senza limiti”, e questa ci sembra un’osservazione basilare per capire l’ampiezza delle sue forme espressive che possono sembrare stravaganti. “La mancanza, voluta o meno, di qualsiasi spessore filosofico, ha fatto paradossalmente diventare Warhol il filosofo di un mondo in cui i pensieri si sono trasformati in immagini, ovvero il filosofo del mondo in  cui oggi noi tutti viviamo”.  E conclude: “Se Picasso è l’incarnazione del genio moderno chiuso nelle sua torre d’avorio, Andy Warhol è l’incarnazione della contemporaneità, così aperto alle informazioni provenienti dal mondo da essere irraggiungibile”.

Altre parole di Warhol, che sono anche un monito: “Non pensare di fare arte, falla e basta. Lascia che siano gli altri a decidere se è buona o cattiva, se gli piace o gli faccia schifo. Intanto mentre gli altri sono lì ancora a decidere, tu fai ancora più arte”. E’ ciò che ha fatto lui con la sua Factory divenuta una fucina di opere richieste dal mercato e prodotte anche a dispetto della critica.. Dice anche, ed è illuminante: “Non ti preoccupare, non c’è niente che riguarda l’arte che uno non possa capire”.

Richiesto di quali vorrebbe fossero le sue ultime parole famose,  Warhol rispose semplicemente: “Goodbye”. Sono le parole con cui lo salutiamo dopo la “total immersion” nel suo mondo per conoscere, per capire.

Noi abbiamo capito, ci auguriamo di aver aiutato a capire i nostri lettori, in modo che non “storcano il naso”, come ha scritto Bonami, e comprendano un linguaggio dell’arte contemporanea che questa volta è semplice ma non banale tra tante elucubrazioni ben più stravaganti, e per di più criptiche e indecifrabili.

Info

Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, via del Corso n. 320, Roma. Tutti i giorni apertura alle ore 10,00, tranne il lunedì alle 14,00; chiusura alle ore 20,00, tranne il sabato alle 22,00; la biglietteria chiude un’ora prima dell’orario di chiusura. Ingresso euro 15,50, ridotti 13,50 (over 65, tra 11 e 18 anni, studenti fino a 26 anni, bambini 4-11 anni 5 euro, ridotti per gruppi e scuole). Tel. 06.98373328. Catalogo ““Warhol”, “24 Ore Cultura”, aprile 2014, pp. 186, formato 28,5 x 31,00, dal Catalogo sono tratte le  citazioni di Peter Brant  e Francesco Bonami.  Il nostro primo articolo sulla mostra, con una serie di immagini,  è in questo sito, il 15  settembre 2014.  Per le precedenti mostre sugli artisti americani citati all’inizio cfr.  i nostri articoli:  in questo sito per Loise Nevelson, il  25 maggio 2013,  per  la collezione del Guggenheim in generale il 22 novembre 2012, dall’Espressionismo astratto alla Pop Art il 29 novembre 2012, dal Minimalismo al Fotorealismo l’11 dicembre 2012;  in “cultura.inabruzzo.it” per Edward Hopper, il 12, 13 giugno 2010 e per Georgia O’ Keffee, 2 articoli entrambi il 6 febbraio 2012.. l   .

Foto

Le  immagini riprodotte, meno l’ultima, sono state fornite dall’Ufficio stampa di Arthemisia, che si ringrazia per la cortesia e sollecitudine, come si ringraziano i titolari dei diritti, e in particolare  l’autore delle fotografie dell’allestimento Giovanni De Angelis;  l’immagine del “Self Portrait” con Polaroid è stata ripresa dal Catalogo di “24 Ore Cultura”, che si ringrazia. In apertura  “Self-Portrait (red on black)”, 1986; seguono “Red Elvis”, 1962, e “Liz # 5 (Early Colored Liz)”, 1963, poi “Mao”, 1972-73, e “Ladies and Gentlemen”, 1975, quindi “Skull”,  1976, e “Dollar Sign”, 1981; inoltre “Camouflage” (a dx) con “Last Supper (a sin), 1986, e “Rorhschach” (in fondo) , 1884, infine “Last Supper (Black and white)“, 1986, e “Detail of Last Supper-Christ”,  1986;  in chiusura, “Self Portrait”, Polaroid, 1974-77.

Civita e Fondazione Roma per l’Industria Culturale Creativa

di Romano Maria Levante

A Roma, al  Museo dell’Ara Pacis, il 16 settembre 2014 è stato presentato il 2° Rapporto su “L’arte di produrre Arte”, a cura di Pietro Antonio Valentino, realizzato dal Centro studi “G. Imperatori” dell’Associazione Civita presieduta da Gianni Letta con il contributo e la collaborazione della Fondazione Roma-Arte-Musei, la sezione dedicata all’arte della Fondazione  Roma presieduta da Emmanuele F. M. Emanuele. Il rapporto che segue il precedente del 2012 “Imprese culturali a lavoro” approfondisce l’aspetto particolare delle  “Imprese italiane del design al lavoro”,  sottolineando la vitalità del comparto rispetto allo scenario europeo dopo un’ampia analisi sull’Industria Culturale e Creativa in complesso di cui vengono documentati i segni di grave crisi.

Prima di dare qualche cenno sui risultati della ricerca nelle due prospettive, generale per l’ICC e particolare per il design, ci preme sottolineare quanto detto in apertura del convegno dai  Presidenti dei due organismi realizzatori, perché rappresenta un vero e proprio manifesto per la ripresa di un  settore basilare della nostra economia, al punto che si è parlato anche di PIC, Prodotto Interno Culturale, come indicatore di sviluppo più adeguato nel nostro paese del Prodotto Interno Lordo.

Civita e Fondazione Roma hanno collaborato sul piano operativo e delle risorse in un’unità di intenti e di azione concreta che dà loro un ruolo di punta nella collaborazione pubblico-privato ritenuta la formula portatrice di fecondi risultati suscettibile di essere estesa ben oltre le  limitate sperimentazioni attuali. L’intervento dei due presidenti ha mostrato l’assoluta sintonia sul piano strategico e propositivo cui si unisce la attuazione pratica in iniziative comuni cui il 2°  rapporto fornisce un apreziosa cornice analitica.

L’impostazione di Civita, parla il presidente Gianni Letta

Gianni Letta,  presidente di Civita,  ha preso avvio dai dati del Rapporto che evidenziano come l’Industria Culturale e Creativa risenta pesantemente della crisi che ha colpito l’assetto produttivo. “Il nostro – ha detto –  è un paese sull’orlo del declino che arretra e deve trovare la forza per il riscatto, per la ripresa dello sviluppo. Può e deve riprendersi valorizzando cultura e arte coniugate insieme, il migliore investimento in un paese  il cui capitale culturale e artistico è unico al mondo. E’ un capitale che non può oggetto, come per altri settori, di delocalizzazione né di estinzione, anche se andrebbe conservato meglio di come avviene”.

La ricerca, volta a documentare senza enfasi né pretesa di dare soluzioni, offre informazioni e dati frutto di analisi approfondite che fotografano il settore e aiutano a risolvere i problemi evidenziati. Ha reso merito a Ruberti, il direttore di Civita anima dell’iniziativa, e ai precedenti presidenti Imperatori e Maccanico che hanno dato corso alla realizzazione del progetto ideato con lungimiranza; e ha sottolineato l’importanza decisiva del contributo del presidente della Fondazione Roma che ha reso possibile l’iniziativa.

Ma non si è trattato di un mero riconoscimento per una collaborazione pur fondamentale, Letta ha ricordato come il presidente Emanuele abbia teorizzato per primo, dal 2011, l’importanza decisiva del rapporto pubblico-privato e abbia impresso operativamente  alla Fondazione da lui presieduta quella svolta che soltanto adesso viene attuata anche dalle altre fondazioni, ma che lo vide allora solitario e coraggioso innovatore. Il privato, inteso come imprese e fondazioni, è in grado di sostituire il pubblico in molti servizi, con “più società e meno Stato”, la formula su cui si basa il “terzo pilastro”. Dalla teorizzazione alla pratica,  Emanuele con la sua Fondazione Roma è stato all’avanguardia,  ha proseguito Letta, “abituato a guardare avanti prima degli altri che solo dopo lo hanno seguito. Nelle fondazioni ha visto in anticipo su tutti, ora le fondazioni bancarie sono uscite dalle banche, lui ne uscì per primo perché intuì in solitudine quello che dopo anni ha costretto altri a seguirlo”.  Grazie  a quella scelta ha ottenuto grandi risultati con la gestione illuminata di  interventi in un settore fondamentale nel settore culturale che ritiene basilare anche per lo sviluppo economico. “Un settore non sempre messo a frutto, ma Emanuele  da buon banchiere sa che i capitali devono essere messi in condizione di fruttare e al meglio come i talenti. Dalla collaborazione pubblico-privato può venire la valorizzazione del patrimonio immenso di cui l’Italia dispone per trarne le risorse in grado di far tornare il paese ai primi posti in settori fondamentali dove oggi arretriamo. Civita è nata per questo 25 anni fa,  ma c’è il problema di risorse: per superarlo la via obbligata è il rapporto pubblico-privato, ora tutti ne parlano ma pochi lo realizzano in concreto”.

Dopo il secondo rapporto, reso possibile dalla collaborazione tra Civita e la Fondazione Roma, l’augurio è di trovare  forme e strumenti per un nuovo programma di concretezza operativa.

L’azione della Fondazione Roma nelle parole del presidente Emanuele

Il presidente della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele ha preso il testimone dell’ideale staffetta con Gianni Letta, ha risposto ai riconoscimenti evocando i presidenti di Civita Imperatori e Maccanico che hanno dato vita al grande progetto dopo che l’antico borgo laziale suggerì  la nascita dell’associazione, tra le realtà più significative nel campo della cultura, che ha avuto nel direttore Ruberti il motore e il realizzatore di tanti progetti. “Mi sono sentito a casa in questo mondo – ha esclamato – e ho dato una disponibilità totale, le eccellenze devono essere tutelate e protette e Civita è un’eccellenza nel proporre e perseguire soluzioni importanti”.

Il presidente Emanuele ha ricordato, oltre alla collaborazione nelle due ricerche, quella per la via Francigena, un evento culturale-turistico a livello europeo; tutto questo nell’ambito delle tre direttrici nelle quali opera la Fondazione Roma, salute, istruzione, Mediterraneo. “Siamo un popolo di emigranti”, ha detto, ricordando  i 26 milioni di italiani espatriati dalla metà dell’800.. Civita gestisce con la Fondazione Roma importanti iniziative a Roma e  in Sicilia, al riguardo ha citato la mostra sulla pittura siciliana dell’800, prevista per ottobre, la riapertura  del Museo del Risorgimento di Palermo e mostre nel capoluogo siciliano come quella sulla Nevelson, già tenuta a Roma; nella capitale iniziative anche nella parte della periferia meno fortunata, come San Basilio.

Sulla sinergia pubblico-privato sono bastate poche parole appassionate, è ben nota la sua pervicace insistenza su questo tema non solo nelle enunciazioni ma anche nella pratica;  di particolare interesse l’aver sottolineato che questa linea appare  recepita dal ministro dei Beni culturali e il turismo Franceschini, e ciò fa sperare in un’adozione sempre più vasta di tale formula vincente.

E’ altrettanto nota la sua diagnosi impietosa, secondo cui non ha futuro un paese che ha perduto la sua vocazione: ciò che è avvenuto all’Italia, la cui grande industria è delocalizzata, dopo la perdita della siderurgia, delle grande meccanica, e di quant’altro per effetto di una visione padronale che ha portato ai profitti per il privati e alle perdite per il pubblico;  mentre l’agricoltura è in una crisi drammatica,  e nella ricerca scientifica i risultati vengono raccolti all’estero anche se portati dai nostri ricercatori, come si è avuto per il “bosone”, i giovani più dotati sono costretti ad emigrare.

A questo punto la passione di Emanuele lo ha portato alla considerazione che  la sensibilità per la cultura, oggi sempre più latente, risale agli  etruschi e ai romani e dal 1400 i grandi mecenati, i sovrani e i pontefici hanno creato nel nostro paese uno scenario culturale unico al mondo diffuso nel territorio da Venezia a Palermo, non solo con le opere d’arte ma con borghi di straordinaria bellezza che punteggiano il territorio nazionale, e ne ha citati una serie da Caprarola a Ronciglione, da Montepulciano a Sutri mentre  sul piano turistico è come se l’Italia finisse a Firenze, i grandi flussi turistici di cinesi, giapponesi, asiatici non vanno nel Mezzogiorno.  

Dinanzi a questo contesto dalle straordinarie potenzialità, ma non adeguatamente riconosciuto, “lo Sato  italiano latita,.solo lo  0,1 per cento del PIL vi viene destinato, siamo di fronte a una sorta di atarassia intellettuale di chi non vuol capire i valori dell’iniziativa privata, con la positiva eccezione del ministro Franceschini che speriamo possa rimuovere le opposizioni che impediscono al privato di intervenire. Le risorse destinate alla cultura dovrebbero raggiungere il 3-4% del Pil, e si dovrebbe parlare di PIC,  prodotto interno culturale”. Il Mibac dovrebbe divenire il “Ministero dei beni economici e della cultura” passando dalla conservazione dei beni culturali, come nella vecchia visione di Bottai, alla loro valorizzazione economica nella concezuione più moderna.

L’analisi segue la perorazione appassionata, Emanuele ha citato i principali dati sulla crisi della ricerca condotta con Civita, 11 mila imprese del settore in meno,  28 mila persone hanno perduto il lavoro,  perdite più accentuate nei settori più innovativi, più a Roma, Napoli, Torino. Una fragilità strutturale è alla base della crisi, anche se alcuni comparti mostrano una capacità di resistenza e una tendenza alla crescita che vanno sostenute. E lo si può fare dando spazio ai privati che operano dal basso, secondo il dettato costituzionale, come avvenuto nel 1400-1500, ad esempio  con le “misericordie” e come vediamo oggi fare in Inghilterra con la “big society”. ” Proprietà e direttive dello Stato, gestione con autonomia e capacità manageriale del privato. Perché questo abbia le migliori prospettive per il futuro occorre il rafforzamento del sistema scolastico, anche con il ritorno dello studio della storia dell’arte nelle scuole, e quello della proprietà intellettuale”.

Tutto ciò è necessario, ha concluso, “per dare ai nostri figli e nipoti la speranza di vivere in un’Italia  migliore, come hanno fatto i nostri genitori, speranza che oggi sembra tramontata. Ma che può rinascere se la vocazione universale alla bellezza e cultura del nostro paese verrà valorizzata”.

Le analisi di Ruberti e Valentino

Il Convegno, dopo queste fondamentali proclamazioni di intenti dei due presidenti Letta ed Emanuele, si è dipanato nell’esposizione dei risultati dell’analisi, iniziando con quelli generali. Ne hanno parlato il direttore di Civita Albino Ruberti e il curatore della ricerca Pietro Antonio Valentino.

Ruberti ha sottolineato una serie di aspetti negativi: solo il 22 per cento della popolazione ha visitato mostre o musei, al Sud la percentuale è ancora più bassa; gli strumenti di comunicazione sono carenti verso tutti i tipi di pubblico, in particolare verso il pubblico giovane che si ha difficoltà ad avvicinare; le visite di scolaresche sono più un’imposizione che una fruizione voluta, quasi assenti gli strumenti di comunicazione cari ai giovani, occorre investire in questo campo per avvicinare ai musei questa parte di popolazione; le famiglie spendono solo il 7,7 per cento in consumi culturali, rispetto a una media europea dell’8,8%.

E’ un quadro difficile e preoccupante, ma la ricerca oltre a fotografare la situazione di crisi fornisce degli spunti per nuove politiche pubbliche. Il  ministro Franceschini ha dato  segnali positivi non solo nell’impostazione programmatica, anche nei primi  provvedimenti come i “bonus” per l’arte e la nuova struttura del Ministero. C’è da rivedere la parte tariffaria come la gratuità domenicale che va lasciata per i residenti in modo da invogliarli ma non per i turisti almeno nell’alta stagione; la gratuità agli ultra sessantacinquenni ha sempre sorpreso gli stranieri, trattandosi della fascia di età più libera e propensa all’arte.

Si tratta di accenni a una problematica vasta di un sistema da rivedere in modo organico, mentre da alcuni si arriva a teorizzare una maggiore presenza pubblica non tenendo conto che la gestione del patrimonio artistico è quasi totalmente pubblica con gravi carenze e inconvenienti di cui Ruberti ha dato alcuni esempi eclatanti. Non si prendono decisioni coraggiose, mentre si deve avere il coraggio di fare scelte in grado da operare una netta inversione di tendenza: scelte che può fare solo l’autorità pubblica essendo pubblico il patrimonio, ma non trascurando l’importante ruolo da dare ai privati.

Valentino con ampio uso degli “slides” ha riassunto i risultati della ricerca delineando il quadro dell'”industria culturale e creativa al tempo della crisi”. Ebbene, ne ha risentito più degli altri settori, se come numero di imprese la sua incidenza sul totale tra il 2007 e il 2011 è scesa del già ridotto 4,4 al 4,3%; gli anni peggiori il 2010 e 2011 con una riduzione del 6,1 e del 4,7%.  Riduzioni ancora maggiori nel numero degli addetti  sceso da 357.000 a poco più di 326.000  con la perdita di oltre 30.000 posti di lavoro e un’incidenza sugli addetti totali scesa dal 2,2 al 2,1%; tra i macrosettori solo l’edilizia è andato peggio, ma è noto come sia stato il bersaglio della fiscalità. Anche l’incidenza nel comparto dei servizi appare in declino, dal 6% del 2007 al 5,8% del 2011 come numero di imprese e dal 3,7 al 3,4% come numero di addetti. 

La dimensione media delle imprese è la più ridotta tra i macrosettori e in diminuzione da 2 a 1,9, mentre per i servizi è rimasta costante su 3,3 addetti. E’ la minore anche rispetto ai principali paesi europei, meno della metà di Germania e Regno Unito, che hanno 4 e 5 addetti per unità rispetto ai 2 del nostro paese.  I confronti internazionali sono perdenti anche rispetto agli abitanti, in Italia 56 addetti all’Industria Culturale e  Creativa ogni 10.000 abitanti nel 2011, dai 63 del 2007, mentre negli altri principali paesi valori più elevati e stabili o in crescita, con in testa Germania e Regno Unito rispettivamente con 94 e 101 addetti, nel 2007 88 e 103;  e anche in Spagna dove l’incidenza si è ridotta, troviamo  79 addetti nel 2011, dai 97 del 2007, un livello ben più elevato del nostro. Dietro questi rapporti c’è la flessione continua in Italia, e in Spagna, e l’incremento negli altri paesi pur negli anni della crisi.

Dopo il livello generale l’analisi si spinge in profondità, articolata per classi di attività nell’Industria Culturale e Creativa:  dall’editoria, tv e cinema al design, web e pubblicità, dalle arti visive ai beni culturali in generale, considerate anche nelle loro componenti interne; sono considerate inoltre le prime 10 province  e aree metropolitane e viene delineata una geografia del settore. E una base conoscitiva essenziale per passare dalla diagnosi alle terapie e quindi agli interventi all’insegna del “conoscere per deliberare”.

Non era compito della ricerca dare soluzioni, Valentino si è limitato a indicare l’esigenza di  superare la barriera linguistica e di integrare i centri decisionali per sostenere l’innovazione, nonché di promuovere l’utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione, e soprattutto di far crescere la partecipazione del privato nella gestione e anche nella definizione delle strategie.

Il design, isola felice nella crisi dell’ICC

Le  sommarie notazioni che precedono non intendono riassumere la parte generale sull”“Industria culturale  e creativa al tempo della crisi”, 100 pagine rispetto alle 150 pagine sul design, 30 sul  design in complesso e le altre sulla sua presenza nei singoli territori; e le seguenti sfiorano solo il design, analizzato in base a ricerche di campo nei singoli territori i cui problemi e prospettive sono stati ulteriormente esplorati nella tavola rotonda con Gian Paolo Manzella della regione Lazio,  Franco Moschini presidente di Poltrone Frau,  Benedetta Bruzziches, direttrice artistica, esperta, moderata da Aldo Colonnetti direttore di Ottagono.

Nel design sono stati investiti 4 miliardi di euro nel 2011, rispetto ai 3,5 miliardi di Germania e Regno Unito, 1,5 miliardi in Francia e 1,1 miliardi in Spagna. E’ un primato non solo quantitativo dato che tali investimenti sono stati indirizzati alla qualità e all’ampliamento della gamma produttiva anche mediante attività di ricerca interna, per meglio competere sui mercati nel periodo di crisi.

Le indagini di campo nelle aree con maggiore concentrazione di eccellenze nel “made in Italy”  hanno consentito di evidenziare le interconnessioni tra formazione, design e imprese, di individuare i punti di forza e di debolezza, di rilevare le forme nelle quali il design, incorporandosi nei prodotti, ne eleva la qualità dando un valore identitario che rappresenta un potente fattore di competitività.

Per Lazio e Marche, Lombardia e Veneto sono state esplorate le varie forme dei rapporti tra industria e design – dalla semplice consulenza esterna all’integrazione del design nell’organico aziendale – e le diverse modalità del processo di rinnovamento dei distretti produttivi locali dando luogo a “geografie in gran parte inedite del binomio territorio-competitività”.

Particolare attenzione è stata prestata alla formazione, che dovrebbe essere continua e alimentata dal rapporto tra mondo del lavoro e formazione secondaria e universitaria, e all’interazione tra industria e design attraverso politiche settoriali  che rafforzino il design nel sistema scolastico, migliorino la difesa dei diritti di proprietà intellettuale e rafforzino le istituzioni pubbliche dedicate al design; viene proposto anche il ricorso all’acquisto e all’utilizzazione nei luoghi pubblici di prodotti di qualità del “made in Italy” con diversi criteri nei bandi che diano più peso al parametro della qualità rispetto a quello del costo.

Una conclusione nelle parole dei presidenti Letta ed Emanuele

La migliore conclusione la troviamo nelle parole alate con cui Gianni Letta riassume l’intero contesto, “bellezza, conoscenza, mestiere”: “la bellezza migliora gli uomini, ma ha bisogno di essere conosciuta, e il mestiere è ciò che unendo bellezza, passione e conoscenza si trasforma in  creatività”, da combinare con sistemi sempre più efficienti per competere sul mercato globale. E nelle parole pragmatiche di Emanuele che denuncia la fragilità dei nostri sistemi e definisce la ricerca “un grido indirizzato alla classe politica, innanzitutto, sperando che questa non resti sorda alle proposte del settore… E’ anche un monito a chiunque ha a cuore quella parte di creatività e di bellezza di cui siamo artefici, affinché la custodisca e la faccia crescere sempre alta e geniale”.

Creatività e bellezza, ma anche responsabilità nel custodirla e farla crescere, quindi “mestiere” ed efficienza dei sistemi. Civita e Fondazione Roma sono unite in questa missione, ma deve essere accolto l’appello, anzi il “grido” dei due presidenti perché si “cambi verso”, per usare un’espressione entrata in voga nella politica, in un settore cruciale per il nostro paese.

Da tale decisivo cambiamento dovrebbe venire  la spinta risolutiva per un Prodotto Interno Culturale al livello del patrimonio unico al mondo che ha l’Italia sul piano dell’arte e della cultura. Ciò è realizzabile mediante lo sviluppo delle enormi potenzialità insite nella sua valorizzazione con  la mobilitazione totale del pubblico e del privato nei rispettivi ruoli,  in una sinergia finalmente vincente. 

Info

“L’arte di produrre Arte. Imprese italiane del design a lavoro”, a cura di Pietro Antonio Valentino, Marsilio-Civita con il contributo e la collaborazione della Fondazione Roma-Arte-Musei, 2014, pp. 270; cfr. anche “L’arte di produrre Arte. Imprese culturali a lavoro”, come sopra, 2012.  Cfr. in questo sito,  in  “cultura.inabruzzo.it”  e in http://www.antika.it/,  i nostri articoli: dal 2009 sulle mostre della Fondazione Roma e sulle iniziative artistiche e culturali curate da Civita. 

Foto

In apertura, la copertina del volume con la ricerca del 2014 “L’arte di produrre Arte” sull’Industria Culturale e Creativa; seguono 2 immagini frontali  e 2 laterali  della perla racchiusa nella sede del Convegno, l”Ara Pacis, in un periplo intorno al monumento dall’alto valore simbolico per l’arte e la cultura; infine i partecipanti alla  Tavola rotonda sul design e, in chiusura, la copertina del volume con la ricerca del 2012: immagini riprese da Romano Maria Levante il giorno del Convegno al Museo dell’Ara Pacis. 

Wharol, l'”artista totale del XX secolo”, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Cipolla della Fondazione Roma in via del Corso,  dal  18 aprile al 28 settembre,   la grande mostra “Warhol”, che espone circa 110 opere e 40 ritratti, prosegue la rassegna di grandi artisti americani, dopo le mostre su Hopper, la O’ Keffee e la Nevelson, volute fortemente dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele.  Organizzata da “Arthemisia”, e da “24 Ore Cultura” a cura di Peter Brant con Francesco Bonami, che ha curato il  catalogo di “24 Ore Cultura”:  un “Silver Catalogue” –  ispirato nella rigida copertina argentata al rivestimento in alluminio delle pareti della “Silver Factory”- in cui oltre alla splendida iconografia delle opere esposte e all’analisi di Francesco Bonami c’è un’ampia intervista a Peter Brant, il grande collezionista curatore della mostra.

Abbiamo voluto intitolare con la definizione data da Francesco Bonami, che precisa:  “E’  il gigante della società dei media, l’artista che ha intuito prima di ogni altro il fascino che la celebrità e il disastro avrebbero avuto sulla società contemporanea”: sono questi infatti i suoi  soggetti preferiti, insieme ai miti del consumismo, anche quelli più banali e quotidiani.

Bonami afferma realisticamente che dinanzi alle sue scatolette di zuppa Campbell,  come avveniva dinanzi alle bottiglie di Giorgio Morandi,  ugualmente oggetti di uso comune, “molti ancora oggi storcono il naso e le guardano con sospetto, come una presa in giro  e  non come una pietra miliare della Storia dell’Arte, non solo contemporanea ma di tutta la Storia dell’Arte”. Le une e le altre erano gli oggetti della quotidianità, quelle di Morandi indiscutibilmente ritenute arte sublime, quelle di Warhol da molti contestate.

Per quanto appena detto,  negare che la mostra di Wharol possa frastornare e rendere incredulo il comune visitatore che non lo ha apprezzato finora sarebbe venir meno a un principio fondamentale della sua arte, cioè il prevalere dell’evidenza concreta su qualunque considerazione e teoria astratta. Evidenza che gli ha fatto  elevare a opere d’arte oggetti da supermercato e immagini diffuse in modo ripetitivo dai media per la loro presenza quasi ossessiva: una realtà fattuale indiscutibile che in lui ha sovrastato le emozioni e le pulsioni interiori alla base dell’Espressionismo astratto, rendendogli ostili i critici d’arte vicini agli espressionisti celebrati come  i  nuovi “artisti maledetti”.

Il racconto di Peter Brant, il grande collezionista curatore

Questa sensazione, che permane tuttora nonostante la fama, rende ancora più interessanti le parole di Peter Brant, il collezionista curatore della mostra che  nell’intervista a Tony Shafrazi riportata nel Catalogo racconta i suoi rapporti con Warhol,  che conobbe personalmente durante la convalescenza dopo il grave attentato  del 1968, e di cui fu il maggior acquirente di quadri lungo tutto il suo percorso artistico al punto di poter alimentare la mostra antologica con la sua raccolta .

Iniziò con straordinaria  preveggenza acquistando il quadro che raffigurava il barattolo della “Campbell ‘s Soup” per 8 mila dollari, quando una grande Cadillac nuova costava 3.600 dollari; a questo primo acquisto seguì quello di “Gangster Funeral” per 35.000 dollari quando aveva 22 anni, e due anni dopo comprò “Thirty is Better  than One” per 20.000 dollari, era andato perfino in Africa per contattare la collezionista africana Mary Harari McFadden che lo possedeva. Ancora più stupefacenti i due acquisti di “Lavender Disaster” e di un’opera con la lattina di “Campbell’s Soup, 19 cents”, ebbene poco dopo mise all’asta a Zurigo al Kunsthaus un’opera simile che già possedeva, la “Big Torn Campbell’s Soup”  e la vendette per ben 60.000 dollari allora.

All’inizio degli anni ’70 aveva già comprato alcune delle più importanti opere di Warhol, e oggi ricorda: “Negli anni Settanta stavo crescendo e stavo imparando, e ho  venduto dei dipinti notevoli che mi pento di aver venduto. Qualsiasi collezionista che si sia separato da un Andy Warhol ha fatto un grosso errore. Ma è un processo di apprendimento”.

Sul  valore di artista dice: “”Warhol ha proprio un suo posto nel XX secolo: ai miei occhi, è lui il leader di maggior spicco. La gente confronta sempre la prima metà del Novecento con Picasso e la seconda con Warhol, secondo me spicca come una figura alla Leonardo. Questo ha fatto sì che abbia influenzato molti altri artisti delle generazioni successive” E su un piano ancora più personale:  “Credo che Andy abbia sempre saputo di essere un grande artista. Poteva anche scherzarci sopra, ma sapeva di essere grande, e si aspettava che gli altri capissero la sua grandezza”.

Il suo e nostro mondo, la contemporaneità

Dopo queste parole torniamo all’antinomia tra la sensazione dell’osservatore inconsapevole e la valutazione del critico avveduto e per superarla cerchiamo di far entrare l’osservatore nel “suo” mondo, operazione  naturale dato che si tratta del “nostro” mondo, il mondo di tutti: quello del consumismo che ispirò soprattutto la corrente di arte contemporanea della  Pop Art, in un fervore creativo che  dall’Espressionismo astratto ha portato anche  al  Minimalismo e al Postminimalismo al  Concettualismo e  al Fotorealismo..

Oltre che nel suo mondo si deve entrare nella sua vita per scoprirne i risvolti dai quali nasce l’impulso per una visione così  particolare, innovativa nel momento in cui è elementare. Ma “l’uovo di Colombo” proprio perché elementare è stato ritenuto una soluzione geniale, lo stesso dicasi per le figurazioni  di Warhol tanto ovvie da divenire proprio per questo coraggiose e controcorrente anche per gli stessi cultori dell’arte contemporanea che all’inizio ne furono spiazzati, a parte chi ebbe subito fiuto come il collezionista Peter Brant, di cui abbiamo riportato alcuni ricordi rivelatori.  

Come è  rivelatore seguire il manifestarsi e lo svilupparsi del peculiare disegno di rappresentazione di Warhol in parallelo con le principali vicende della sua vita, commentando via via le opere esposte nella spettacolare rassegna antologica della mostra. Lo faremo riservando alla fine le considerazioni sulla sua arte che scaturisce dall’essenza stessa dei soggetti rappresentati, in una creatività frenetica con le interruzioni di eventi che lo hanno minato nel corpo e nello spirito.

Il primo periodo della vita e le opere grafiche iniziali

La sua famiglia è originaria della Slovacchia,  il padre Andrej Warhola emigrò per Pittsburgh dove lavorò da minatore, morì nel 1942 di epatite quando il figlio Andrew, nato nel 1928,  aveva 14 anni;  a questo punto per la famiglia composta dalla madre e da altri due figli la vita diventa misera, ma Andrew può entrare nel 1945 nel Carnegie Institute of  Technology cittadino.

Rivela presto doti  particolari, diventa “picture editor” di una rivista universitaria e decoratore, è dello stesso anno il primo autoritratto, si laurea in “fine arts” e nel 1949 si trasferisce a New York assumendo il nome che lo ha reso celebre e sperimentando la tecnica della “blotted line” con cui replicava l’originale dalla matrice iniziale, in anticipo sulla tecnica serigrafica. Ha un aspetto da artista trasandato, accentuato da pesanti occhiali e da una parrucca bianca, è apprezzato come grafico pubblicitario, crea una serie di disegni di scarpe per “Glamour”, e lavora per grandi riviste come “Vogue” e “Harper’s Bazaar”. 

Dal piccolo studio iniziale va in un vasto ambiente con altri creativi; il lavoro pubblicitario ha successo, intanto nel 1952 la madre va a vivere con lui e i suoi gatti, ci resterà per vent’anni. Del 1952 e 1953 le due prime mostre, nel 1955 e 1956 campagne pubblicitarie di scarpe ed esposizione dei relativi disegni con “blotted line” su “foglia d’oro”. Nel 1957 fonda la “Andy Warhol Enterprises Inc.“, il suo reddito da pubblicitario sale a livelli che come pittore raggiungerà solo negli anni ’70.

Di questo periodo iniziale, tra il 1950 e il 1957, vediamo nella prima sala della mostra la serie di disegni su carta di Shoes”,  scarpe in “foglia d’oro” e inchiostro, sono molto raffinate e leziose nei minimi dettagli, qualcuna fa pensare alla scarpina di Cenerentola; del resto lui disse “To shoe or not to shoe”,  mercificando scherzosamente le celebri parole shakesperiane; poi “Gold Boot”, gli “stivali d’oro” di Elvis Priesley e  un “Golden cat”, stessa tecnica; di questo periodo anche “Sam”,  un gatto in  acquerello rosa,  “Pin theTail on the Donkey”, una gustosa composizione da cortile quasi naif e  “Butterfly”, grande farfalla  in “foglia d’oro”. Inoltre  due colorate “Scarpe in legno dipinto”, a fondo verde o rosso con viso di biondo cherubino.

Altri disegni di volta in volta raffinati o arguti completano la fase iniziale della sua vita artistica: Del 1955-56 disegni di volti molto diversi, “Hermione Gingold” e “James Dean”  riverso dopo l’incidente mortale;  due languide figure femminili, sempre “Hermione Gingold” e un “Nudo di donna seduta” ; del 1957-58 “Flowers in Vase” e“Watermelons”; del 1957-59 due “Nativity”  colorate, inoltre “Wild Raspberry Cake” e “Strawberry Shoe”, una scarpa piena di bacche, 1960 due “Interior”, disegni  a penna a sfera su carta su arredi e pareti con quadri dell’abitazione, e “Female Faces”, ,un disegno con 8 profili femminili sovrapposti, che prelude la svolta del 1962. E’ l’anno anche di “Dick Tracy”  e di altri personaggi dei fumetti dipinti come sono nelle strisce, proseguirà su questa linea, è del 1964 “The Kiss”, appassionata scena cinematografica fissata su carta.

Gli anni ’60, da “Campbell’s Soup” a “Marilyn” e alle serigrafie multiple

All’inizio degli anni ’60 la prima svolta in una carriera già lanciatissima, è quella decisiva: nel 1961 dipinge 32 scatole di ” Campbell’s Soap” con una riproduzione seriale e ripetitiva quasi fosse una macchina, dei barattoli di zuppa, come migliore interprete del consumismo che omologa e moltiplica. Si tratta del suo cibo preferito, le dipinge come se le vedesse veramente sullo scaffale del supermercato: la levata d’ingegno nasce dal consiglio di un’amica di “dipingere ciò che gli piace di più”. Vediamo queste celebri opere in varie forme, “Chicken with Rice”, “Condensed” “Tomato Juice Box”, e non si può non restare  colpiti dalla loro semplicità per non dire banalità direttamente proporzionale alla loro fama. I disegni a matita e gli schizzi ne mostrano la preparazione  Sono esposte anche varianti sul tema, “sculture” di legno o compensato, sono sempre prodotti di largo consumo da supermercato che diventano opere d’arte:  ecco, del 1964,  i “Kellog’s Corn Flakes” e “Del Monte”, “Silver Coke Bottles” e “Brillo Soap Pads Box”, le scatole con le pagliette per le pulizie domestiche.

Non sono i soli temi di questi anni, è per Warhol una fase altamente innovativa e creativa, dopo aver espresso in “Do it yourself”  i suoi concetti su copia e originale e sulla riproducibilità:in serie. Dal 1962 applica questa nuova linea in una serie di serigrafie basate sull’originale disegnato a mano,  iniziando con  “One Dollar Bills”,  vediamo l’opera esposta, una infinità di piccole banconote verdi affiancate e in colonna, ne abbiamo contate oltre 190; così le “Green Stamps”,  blocchi di francobolli in 5 file per 11 colonne, in tutto 55.  In questo anno così innovativo  continua a disegnare e colorare all’anilina, come nei “Matchsticks”, fiammiferi sparsi, e  nei due “Profile of Woman”,volti femminili delicati ingabbiati in un forte cromatismo blu e giallo, ci sono anche due disegni  intitolati “Perfum Bottles”,  pubblicità di profumi,  uno di essi non colorato con Chanel n. 5  sovrastato da Santa Klaus, l’altro su fondo giallo con effluvi rossi verso l’alto.

Seguiranno, nei due anni successivi, sorprendenti applicazioni della tecnica  moltiplicativa serigrafica, i soggetti non potrebbero essere più diversi: del 1963 vediamo esposta Thirty are Better than One”, nel titolo quasi l’enunciazione della filosofia della moltiplicazione di immagini uguali all’originale, nientemeno che la “Gioconda” di Leonardo in bianco e nero; del 1964 Twelve Electric Chair”, il soggetto questa volta è addirittura la sedia elettrica ripetuta 12  volte, con  varianti cromatiche,  al nero  associa il bianco o il giallo, l’arancio o il rosso, il viola o il verde; nessun pathos, è un oggetto omologato dalla notorietà come tanti altri..

I disastri e la morte nelle opere, la Silver Factory nella vita

Oltre a ciò che piace, o comunque  attira, nella vita c’è  quello che colpisce per il motivo opposto,  si tratta dei disastri e della morte, anche questi diventano fonte di ispirazione e li rappresenta. Il primo quadro è “129 Die in Jet”,  da un disastro aereo, ne seguiranno altri ispirati a disastri automobilistici, vediamo “Green Disaster Twice”, autovettura distrutta in campo verde-nero replicata, e  tragedie personali, “Tuna Fish Disaster”, foto delle vittime e scatoletta avariata replicate.

Oltre alle tragedie di persone comuni si ispira a quelle di personaggi: nel 1962, tra  il 5 e il 6 agosto muore Marilyn Monroe,  la celebra con la fotoserigrafia, tecnica da lui studiata per trasferire le immagini fotografiche su una matrice per moltiplicarle;  la stessa cosa fa con l’immagine della Taylor quando si ammala gravemente, “Liz Colored” e così con Priesley in una circostanza analoga, a lui dedica la foto inconfondibile del viso moltiplicata per 36 volte  su un fondo rosso cupo, il “Red Elvis”. Le immagini di Marilyn” vengono esposte in una mostra a New York, che segue la mostra con le “Campbell’s Soup”, sottolineando la compresenza dei diversi motivi che fanno parte dell’esistenza nella società dei consumi.

La fotografia lo affascina, ne parla così: “Una bellezza in fotografia è diversa da una bellezza dal vero… si vorrebbe essere sempre come si viene in fotografia, ma ciò non è possibile. E così si comincia  a copiare la fotografia. Con la fotografia entri per metà in un’altra dimensione”.

Disastri e morte, a questi è connessa la delinquenza, ed ecco la serie “Most wanted men”,  gigantografie di foto segnaletiche di criminali, foto frontale e profilo in bianco e nero, vediamo esposta quella di “Arthur Alvin M.. il lancio fu spettacolare nel 1964, sulle pareti dello State Pavillon di New York  con la collaborazione di un architetto, poi ne fece un prodotto seriale..

Non finisce qui l’eclettismo della prima metà degli anni ’60. Del 1964, dopo aver visto le scatole di articoli domestici e di serigrafie come quella della sedia elettrica, vediamo un filone che sorprende per la sua “normalità” rappresentativa, come gli altri hanno sorpreso per la loro “normalità” quotidiana che diventa spiazzante trasferita nell’arte. Si tratta della serie “Flowers”, pitture acriliche e inchiostro serigrafico su lino di grandi corolle aperte a cinque larghi petali, lo sfondo è nero con fili d’erba verdi, i fiori sono 4 per ogni dipinto, in tinte calde rosso-giallo e fredde blu-viola, o miste, uno con fiori solo bianchi e  “Large Flowers”, due fiori giganti uno rosso, uno blu.

Come spiegare questa fase  così intensa, forse irripetibile, della sua vita artistica? E’ presto detto, nel 1963 si è trasferito a Manhattan in un loft che diventerà la “Silver Factory” altamente creativa,  dall’arredamento ai frequentatori, Billy Name l’ha rivestita per lui con una pellicola di alluminio. Non fu creatività ma segnale allarmante l’incidente del 1964: alla Factory si presenta nel 1964 una donna di nome Dorothy Podwer, “to shot Marilyn”, disse: non fotografò il quadro che ritraeva l’attrice, come lasciava intendere il verbo dal doppio significato, bensì sparò al gruppo di dipinti accatastati a terra, tre poi furono restaurati, il quarto  acquistato da Peter Brant, con l’autorizzazione di Warhol,  ha mantenuto l’impronta del colpo in mezzo alla fronte  è il celebre “Marilyn Shot.

Nella  fucina di creatività della Factory gira dei film che possono sembrare stravaganti, come “Sleep”, “Eat”, “Empire”, con la caratteristica comune di immagini fisse per 6-8 e più ore consecutive; girerà anche “Chelsea Girls”, sui pittoreschi frequentatori della Silver Factory; pensa di lasciare la  pittura e dedicarsi solo al cinema. Nel 1966  ricopre le pareti della galleria di Leo Castelli dove tiene una mostra con la gigantografia di una mucca ripetuta su fondo giallo, in un’altra stanza nuvole d’argento gonfiate di elio, le “Silver Clouds”,  tutto ciò richiama la Silver Factory. La lascerà nel 1968 dopo aver  prodotto anche un disco, “The Velvet Underground & Nico”.

Vedremo prossimamente il seguito della sua vita e commenteremo le altre opere esposte in mostra.

Info

Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, via del Corso n. 320, Roma. Tutti i giorni apertura alle ore 10,00, tranne il lunedì alle 14,00; chiusura alle ore 20,00, tranne il sabato alle 22,00; la biglietteria chiude un’ora prima dell’orario di chiusura. Ingresso euro 15,50, ridotti 13,50 (over 65, tra 11 e 18 anni, studenti fino a 26 anni, bambini 4-11 anni 5 euro, ridotti per gruppi e scuole). Tel. 06.98373328. Catalogo ““Warhol”, “24 Ore Cultura”, aprile 2014, pp. 186, formato 28,5 x 31,00, dal Catalogo sono tratte le  citazioni di Peter Brant  e Francesco Bonami.  L’articolo conclusivo sulla mostra, con un’altra serie di immagini,  è in questo sito il 22 settembre 2014. Per le precedenti mostre sugli artisti americani e le correnti citate nel  testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito per Loise Nevelson, il  25 maggio 2013,  per  la collezione del Guggenheim in generale il 22 novembre 2012, dall’Espressionismo astratto alla Pop Art il 29 novembre 2012, dal Minimalismo al Fotorealismo l’11 dicembre 2012;  in “cultura.inabruzzo.it” per Edward Hopper, il 12, 13 giugno 2010 e per Georgia O’ Keffee, 2 articoli entrambi il 6 febbraio 2012..

Foto

Le  immagini riprodotte, tranne la 4^, sono state fornite dall’Ufficio stampa di Arthemisia, che si ringrazia per la cortesia e sollecitudine, come si ringraziano i titolari dei diritti, e in particolare  l’autore delle fotografie dell’allestimento,  Giovanni De Angelis;  la 4^ immagine, “Campbell’s Soup Can”,  è stata ripresa dal Catalogo di 24 Ore Cultura, che si ringrazia. In apertura  “Blue Shot Marilyn”, 1964, seguono “Pin the Tail on the Donkey”, 1954-55, e “Shoe (Blue and gree e Red with Blond Cherub)”, 1958; poi “Campbell’s Soup Can”, 1962, e “Corn Flaxes Boxes”, 1964;  quindi “Silver Coke bottles”, 1964, e “One Dollar Bills”, 1962, inoltre “Thirty Better Than One”, 1963, e “Twelve Electric Chairs”, 1964; infine “Green Disaster Twice”, 1963 e, in chiusura, “Flowers”, 1964.

Gianni Testa, l’espressionismo onirico, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

A Roma nella Sala Giubileo del Vittoriano, lato Fori Imperiali, la mostra “Gianni Testa. Antologica” espone, dal 12 settembre al 12 ottobre,  40 oli di un maestro dell’arte contemporanea che è un testimone della  nostra epoca pur con opere ispirate alla classicità e al mito oltre che all’attualità. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, responsabile della mostra Cristina Bettini, curatore  Claudio Strinati che ha curato anche  il Catalogo di Gangemi.

Entrando nella Sala del Giubileo si è avvolti da forti masse materiche in una sinfonia di colori che delineano forme spesso sfuggenti che colpiscono ed emozionano. Le parole di Giosuè Allegrini fanno capire questo effetto: “La sua pittura è governata dal fascino vibrante del colore da intendersi quale rappresentazione interiore, struttura sintattica evocatrice di stati d’animo, pensieri, emozioni. Una matrice espressionista, calata nella spiritualità dell’essere, che può essere decifrata solo  attraverso l’impiego di un costrutto onirico”.

Le  ali del sogno, dunque, tema cui fu dedicata la grande mostra di Perugia, “Il teatro del sogno“. E pur essendo  la materia  la base della sua pittura,  l’osservatore è portato “al di là della mera fisicità delle cose umane verso una realtà immaginifica, di rara bellezza”. In che modo? “Talune volte esalta plasticamente la forza espressiva del colore, donandogli vigore, energia vitale guizzante e inebriante, talaltre lo rende opulentemente flessuoso, voluttuoso e rasserenante”.

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L’11 settembre, la verità e il fuoco

All”inaugurazione della mostra, il giorno 11 settembre, Claudio  Strinati ha sottolineato come la data ricordi  l’attentato alle Torri Gemelle al quale Testa ha dedicato un intenso dipinto.  Il  curatore ne prende lo spunto per alcune considerazioni sulla produzione dell’artista, iniziando dal  rapporto tra il vero e il verosimile: “Non sempre ciò che è vero è verosimile o ciò che è verosimile è vero, c’è un’ambiguità nelle vita di tutti,  la verosimiglianza delle volte non ci fa percepire la verità”. 

Il dipinto mostra le due torri divorate dalle fiamme, come sarebbe verosimile per l’impatto dell’aereo, “stanno scomparendo perché bruciano ma non è vero”; dopo l”esplosione nella sommità colpita c’è stato il loro collasso, sono implose su se stesse senza incendiarsi,  “un mistero nel mistero”. L’artista ne fa “una lettura poetica”, utilizzando “le fiamme come metafora di energia, distruttiva in questo caso, vitale come nei cavalli che sembrano animati dal fuoco”.

Strinati  insiste sulla caratteristica del fuoco di distruggere e far balenare, per cui le immagini è come se apparissero e sparissero, lo stesso avviene per le nuvole: “L’arte di Gianni Testa è, effettivamente, una sorta di metaforica fiamma che invade lo spazio della pittura e forgia tutte le cose in maniera sintetica e unitaria, conferendo a tutto ciò che rappresenta lo stesso afflato e la stessa energia”.

L’artista utilizza la materia e i colori in un magma dal quale trae le composizioni, come Tiziano nelle ultime opere, come Michelangelo nella scultura che “tirava fuori la forma da una materia informe, la massa cromatica nel caso del pittore, il blocco di marmo nel caso dello scultore”.

Il pittore ha una vasta esperienza come scultore e utilizza la materia di partenza in modo analogo ma valorizzandone la maggiore versatilità: “Talvolta Testa sbozza l’immagine con grandi campi di colore per cui sembra di vedere alternarsi sulla tela una tendenza a sfumare e una a definire, contigue ma inseparabili”.  E ancora: “Il colore appare come un vento cromatico che spinge delle foglie, che sono le pennellate stesse, a coagularsi in forme di figure, mentre altre volte si nota un sorprendente contrasto tra una potente accensione della cromia e un altrettanto esplicito incupimento della materia pittorica”. Un cromatismo materico spettacolare che colpisce l’osservatore con forti stimoli sensoriali, oltre che intellettivi.

La formazione, dal restauro alla pittura

La matrice si trova nella formazione, alla quale  il curatore si è richiamato per sottolineare alcuni aspetti centrali della sua arte. Dopo l’interesse iniziale per l’architettura, ha frequentato la scuola di restauro alla Galleria Borghese con la guida illuminata della prof.ssa Della Pergola, e ha approfondito le tecniche delle varie epoche per interpretare la realtà e rappresentare i sentimenti, aspetto che Sttrinati  ha sottolineato, aggiungendo la nota personale di aver  iniziato anche lui con la Della Pergola.  Testa ha lavorato da restauratore per un decennio prima di dedicarsi alla scultura con la guida del maestro Bartolini. Il lavoro del restauro lo ha fatto  entrare nello spirito dei maestri dell’antichità, ma questo non vuol dire imitare l’antico, ma diventarne profondi conoscitori e, nella  espressione artistica personale essere interpreti del proprio tempo, come facevano gli artisti antichi, con la capacità di coglierne i segni esprimendo ciò che la maggioranza percepisce  confusamente.

Dopo il restauro e la scultura,  si è dedicato  alla pittura incoraggiato da Carlo Levi che nel 1962 lo fece esporre in una collettiva con i già affermati Quaglia e Guttuso, Mazzacurati e Purificato, che lui stesso frequenta, con Pericle Fazzini. Esponente  della “Scuola di Via Margutta”, erede della Scuola Romana, ha svolto un’attività artistica intensa con notevoli riconoscimenti, le partecipazioni alla Biennale di Roma dal 1968 e alla Triennale di Milano e Quadriennale di Roma dal 1975, premi in concorsi nazionali fino al Premio alla carriera consegnatogli da Vittorio Sgarbi.

 L’approccio maieutico tra il reale  il fantastico

Allegrini vede nella sua ricerca artistica il superamento delle due direttrici che hanno “ingabbiato” l’arte contemporanea, quella che presenta “l’aspetto razionale-concettuale della creatività umana” e quella che rappresenta “la componente più gestuale-emozionale, sia essa a matrice figurativa piuttosto che informale”. Le supera “attraverso una tensione emotiva verso il ricordo, la memoria, il mito che vive e si rigenera attraverso contaminazioni figurative  a matrice onirica espressionista, pervase da una forte dinamicità intellettiva”.

La sua ricerca  “trae la propria linfa vitale dalla dicotomica differenziazione tra luce e materia”, alla quale il critico associa “il dualismo tra il corpo e l’anima, la materia e lo spirito, tra l’immanente e il Trascendente”. E riesce a trovare “una porta d’accesso, un varco sensoriale tra il reale e il fantastico” con un “approccio maieutico” che lo mette “in grado di rendere estremamente palesi e reali i sentimenti e gli stati d’animo dell’uomo moderno: le ansie, le angosce, le speranze ma anche i sogni, le fantasie e tutto quanto la realtà quotidiana non offre, ma semplicemente induce”.

Ecco come questo si traduce  nelle sue forme espressive: “Ogni elemento della composizione vive, nell’opera di Testa, in funzione di una profonda tensione intimista retta da risalti cromatici chiaroscurali, di matrice caravaggesca”. Cromatismi la cui “ambivalenza”  rappresenta il fascino intrigante della sua arte: “Da un lato esplicano la profonda inquietudine dell’essere umano, dall’altro ne determinano la possibile soluzione”. L’inquietudine nasce dalle irrazionalità del mondo da cui bisogna allontanarsi per trovare la pace, la soluzione va trovata nella fantasia e nel sogno “quale basilare medicamento terapeutico dell’anima”, il farmaco unico dell’artista dopo il “tetrafarmaco” del filosofo.

Vediamo come i motivi sottolineati dalla critica si rivelano all’osservatore nella visione delle sue opere, che spaziano su alcuni grandi temi: la Divina Commedia e il Sacro, i Cavalli e i Paesaggi, le Natura morte e i Ritratti e figure.

L’inferno dell’11 settembre e la commedia dantesca, il sacro

Iniziamo con il quadro raffigurante le Torri Gemelle avvolte dalle fiamme –  scena verosimile ma non vera, come ha detto Strinati – il viaggio tra le opere di Testa esposte al Vittoriano: viaggio che richiede pochi passi tra il primo ambiente e la grande Sala Giubileo ma richiama quello virgiliano, tale è la differenza tra i cromatismi rosso fuoco e quelli in cui predomina il celeste o comunque tinte più fredde. Si passa dall’Inferno al Purgatorio e al Paradiso non solo nelle opere sulla “Divina Commedia”, con il virare dei cromatismi dal rosso cupo a tinte chiare, fino a divenire  sideree.

Ma cominciamo con “Undici settembre”, 2001: le fiamme lambiscono anche il cielo e giungono fino alla  base delle due costruzioni, che emergono nel loro biancore spiccando sui primi piani scuri dei piccoli edifici di contorno e delle acque della baia. Una metafora infernale che colleghiamo ai suoi dipinti danteschi sull’Inferno, canti “XI” e “XII  e “I Giganti”, un rosso cupo e corrusco, commisto al nero, un’atmosfera da incubo che rende bene il clima di disperazione, Sono del 1999, due anni dopo l’inferno in terra delle Torri Gemelle, stessi colori,  incubo e disperazione. Per mera associazxione di idee ricordiamo, sullì’Inferno,  i disegni di Rodin e i dipinti di Roberta Comi.

Dello stesso anno i dipinti sul Purgatorio, primo tra tutti “Dante e Beatrice”, il rosso corrusco c’è ancora, ma inquadra un cerchio luminoso su  cui si stagliano le due figure, Beatrice tutta in bianco. E  poi i Canti XX,  le figure che sipiccano tra esseri in volo, il Canto XXIII e il Canto XXVI in cui c’è anche il verde e il blu. In alcuni dipinti su questa cantica, scrive Strinati, “la materia cromatica sembra scagliata dentro il quadro”, come se “una specie di astronave di luce o di meteorite infuocato precipitino dentro il dipinto innervandolo di energia e, letteralmente, di quel tumulto emotivo che guida la mano del maestro”.

Il blu diviene una costante nel Paradiso, stemperandosi nel celeste, lo vediamo per i  Canti V, XVI e XVII..  Allegrini scrive: “Dal rosso-fuoco carnale dell’Inferno, all’azzurro cinerino nel quale si percepiscono i tenui bagliori di luce del Purgatorio, al celeste declinato in tutte le sue molteplici espressioni mistiche e coinvolgenti del Paradiso”.

Al “sacro” è dedicata una sezione, spicca “Crocifissione”, 2007, un olio le cui piccole dimensioni (40×40)  sono inconsuete per questo soggetto da grandi pale, dalla notevole forza drammatica. La sagoma del Crocifisso si intravede anche nel molto più grande “Mana Hata”, 1999, quasi uno studio preliminare, tutto in un blu che sembra rifletta la frase “ti porterò con me in Paradiso”.

Il recentissimo “Il Calvario”, 2014, lega al sacro le immagini predilette dei cavalli, soprattutto i due in primo piano, bianchi e  scalpitanti, sembrano ribellarsi ai cavalieri presi come sono dalla tragedia del Cristo riverso sotto la pesante croce. Anche in “La caduta di Paolo” il cavallo è dominante  come nel Caravaggio, figurarsi se l’artista dei cavalli non ne faceva il protagonista con il santo.

Le altre due opere del “sacro” che vediamo esposte sono quasi simmetriche, con tre figure viste di schiena in primo piano, e delle arcate architettoniche di fronte, i soggetti sono opposti; “La pace”, 1979, mostra le tre figure in ginocchio in preghiera come dietro un altare immerso nel biancore con un affresco sotto l’arcata, mentre in “Inquisizione”, 1982, l’atmosfera cupa è di attesa del verdetto.

I  cavalli e le figure umane, i  ritratti

Ma è ora di tornare ai cavalli, che finora abbiamo visto solo in “Il Calvario”. Per l’artista “i cavalli riproducono la singolarità dell’indole umana,  e ognuno è diverso dall’altro perché rappresenta l’attimo fuggente che sottende ogni variazione delle emozioni personali”. Allegrini li vede “ammantati della luce inafferrabile dell’eroico furore che diventa metafora ed allegoria della vita” e li paragona a “raffinate proiezioni mentali, sinonimo di quella libertà immaginifica e intellettuale da sempre anelata dall’essere umano, consciamente o inconsciamente”.

Ebbene, dinanzi ai cavalli di Testa si è circonfusi da una sorta di sinfonia animale, li vediamo sempre scalpitanti, in alcuni casi rampanti, spesso di un biancore che spicca sul rosso e in molti casi vira sul celeste. “E pur galoppando, in volute, in abbaglianti giochi e movimenti di criniere al vento –  esclama Alberto Giubilo – ti appaiono insieme leggeri e forti, come i cavalli sono e sempre saranno. Più che l’occhio è lo spirito che ti prendono, in un coinvolgimento insieme di sensi e di poetica estasi”.  Sin dal 1966 li vediamo protagonisti della sua pittura, di tale anno “Gli stalloni”, tre che si impennano, poi i “Bradi liberi”, 1976, quasi una danza di bianchi destrieri, li ritroviamo in “Il sogno di Agamennone”, 1982;  prima c’è “Incontro”, 1978, in una sorta di antropomorfismo in cui a una figura femminile è accostata la testa di un cavallo che sembra lanciare un forte nitrito.

Con il secondo millennio i cavalli nel mondo dell’artista si moltiplicano. Dai sei destrieri con gli occhi allucinati di “Bufera sulla città”, 2000, alla moltitudine di quadrupedi nella mischia di “Battaglia”, 2005,  tra il bianco e il rosso. Poi i prediletti cavalli bradi, da “Bradi nella notte”, 2009, a “Lotta di  bradi”, 2011, fino a “Bradi festosi”, 2013: è impossibile renderne a parole la vitalità, il cromatismo e soprattutto le posizioni arrembanti che ne fanno figure prorompenti. In “Giostra notturna” e soprattutto “Pegaso”, entrambi 2009, diventano addirittura figure mitiche.

Per Raffaele Nigro,  “i cavalli sono dappertutto, rendendo possente ed epica la sua pittura”. Ciò fa sì che “la visionarietà dei suoi colori, l’inquietudine esistenziale che lo avvicina a Carena, Savinio e De Chirico non sia statica o estatica, di attesa, di contemplazione, ma sia furente, appassionata, agitata da forze saettanti”.

Dopo il dinamismo sfrenato dei cavalli, che sottende i profondi contenuti espressi dai critici citati, quello più misurato della danza, che  ritroviamo negli anni. Le opere esposte vanno da “Balletto notturno”, 1979,  con le ballerine in varie posizioni,   e “Danza”, 1980,  un’immagine  scultorea intorno a una fontana,  al rutilante “Danzatrici”, 1990, una danza multipla con il celeste dominante  e a “Danza orientale”, 2000, una danzatrice  sola che spicca come un fiore nel suo vestito rosso. 

I ritratti sono come un “fermo immagine” in tutto questo dinamismo; anche il cromatismo si attenua molto  come vediamo nel doppio “Ritratto di Maria Grazia”  nel 1971 in un carboncino bianco e nero, e nel 1975 in un olio a dominante bianco-nera con qualche macchia rossa al centro; lo stesso per il “Ritratto di Lidia Ceccarelli, dove però il rosso sia pur discreto, è  in tutto il quadro; in“Peppa” e “Garibaldi” tale colore fa da sfondo alle figure con ampie zone di bianco e celeste..

Degli altri ritratti vogliamo sottolineare i forti contrasti cromatici in “Ragazza peruviana”, 1977, e “Marilyn Monroe”, 1987; ricordiamo per inciso che della grande attrice Warhol ha resa famosa la riproduzione di una fotografia, fatta segno di colpi di pistola da una fanatica, il celebre “marilyn shot”: Poi l’intensità di  “Anita e Garibaldi”, 1886, seguito a distanza di sei anni da “Anita e la donna”, 1992, dai forti bagliori in un ambiente molto scuro;  il trepido “Ritratto di Chiara”, 1988, dopo l’intrigante “Alchimia”, 1986; e, sul piano religioso, la radicale differenza tra la positura solida e il volto energico di “Cardinale Sabbatani”, 1980, e la figura cadente  che si appoggia al pastorale di “S.S. Giovanni Paolo II”, 2000: sono  le due chiese, quella del potere e quella  della sofferenza unita alla santità. Strinati ha scritto che il papa santo “guarda verso di noi da una ancestrale distanza. Qui veramente l’impatto della materia cromatica che si trasforma in immagine nettamente riconoscibile si incide nella memoria con forza estrema e rifulge all’occhio dell’osservatore”.

Nature morte e paesaggi

Vive e vitali come ritratti ci sono apparse le sue “nature morte”, una di queste, del 2012,  la chiama “Natura silente”, alla De Chirico; dello stesso anno “Uva”, la stessa brillantezza degli acini che li fa sembrare veri che abbiamo visto, nella stessa Sala Giubileo,  nei grappoli di Orlando Ricci, ma qui non siamo nell’iperrealismo, eppure l’effetto è simile; un effetto che abbiamo riscontrato anche nello spettacolare  “Natura morta”, 1979, e in “Autunno”, 1982,in  una bella continuità dopo  trent’anni.

Non solo uva ma anche “Cesto di pesche”, 1973, e pesci in “Manolite”, 1975, questi ultimi quasi guizzanti. La prima “Natura morta”, 1962, con vaso e brocca, fiori e frutti, non era così ben definita, mentre “Natura nel blu“, 1984, riunisce una serie di elementi, dall’uva alle pesche, ad altri frutti, immergendoli in uno spettacolare cromatismo blu.

E’ un blu che ritroviamo nella sezione sui “paesaggi“, soprattutto nelle visioni urbane della città natale di Roma, che sembrano delle apparizioni, evocatrici di una realtà amata. Scrive Strinati che in certe visioni urbane “lo sguardo si rischiara e la tensione emotiva espressa dal maestro pare placarsi nel nome di momenti meditati e sereni”.

Dai dipinti in tinte chiare, come “Sintesi di Roma”, 1967, a quelli a fondo scuro, come “Ruderi di notte”, 1968, e “La vela rossa”, 1988.  Con “Venezia d’estate”, 2009, si affaccia il blu, che esplode con tonalità miste di azzurro e celeste in “Veduta di via del Corso da piazza del Popolo” e “Piazza Navona”,  2000, “Piazza di Spagna”, 2000, e “Piazza del Popolo”,  2012″, i primi due quasi astratti, gli altri ben definiti. 

Secondo Allegrini, l’Urbe capitolina, da lui prediletta, “in cui la figurazione tende a sublimarsi nell’astrazione, come nel  caso del ciclo delle ‘vedute monocrome blu’, non è soltanto lo sfondo celebrativo di molti suoi quadri ma anche luogo elettivamente barocco, come egli desidera che sia la propria pittura, oltre che archetipo della propria indagine concettuale”.

Nei suoi paesaggi ci sono anche le marine: dal piccolo scuro e magmatico fino all’astrazione “Velieri”. 1970, di 24 x 34 cm, al grande “Velieri”, 2000, di 70 x 190 cm, trent’anni dopo l’immagine è spettacolare,  nel blu intenso è immersa una visione di straordinaria luminosità.

Ripensiamo ai suoi quadri del Paradiso, dove questo colore dà la svolta della spiritualità. Ebbene, ci viene di concludere che  nelle piazze più amate della Roma verace, come nella marina incantata, l’artista trova il suo paradiso. E rende partecipi tutti noi di questa favolosa sublimazione.

Info

Complesso del Vittoriano, via san Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo. Tutti i giorni, compresa domenica, dalle ore 9,30 alle 19,30, accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura, ingresso gratuito. Tel. 06.6780664. Catalogo “Gianni Testa. Antologica”, a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, settembre 2014, pp 112, formato 24 x 28; dal Catalogo, e dalla presentazione orale dell’11 settembre,  sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri articoli:  in questo sito  per le mostre  su Warhol con “Marilyn shot” il 15 e 22 settembre 2014, sull’iperrealismo di Orlando Ricci  il 27 giugno 2014, su opere ispirate all’Inferno di Dante, con i disegni di Rodin e i dipinti di Roberta Comi il 20 febbraio 2013, su “Guttuso” il 25 e 30 gennaio 2013, sull’“Astrattismo italiano”   il 5 e 6 novembre 2012;  in “cultura.inabruzzo.it” su de  Chirico e la ‘natura silente’” l’8, 10 e 11 luglio 2010,  in particolare il terzo, “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, sulla mostra di Perugia  “Teatro del sogno”  il   30 settembre, 7 novembre e 1° dicembre 2010, sulla mostra di  Caravaggio  alle Scuderie del Quirinale, il 5 e 11 giugno 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese nella Sala Giubileo del Vittoriano alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, in particolare il maestro Testa al quale va un ringraziamento particolare per aver accettato di farsi ritrarre davanti alle sue opere, In apertura, il maestro Testa davanti a due suoi dipinti di “Bradi”; seguono ,“Undici settembre”, 2001, e “Piazza di Spagna”, 2000, poi “Inquisizione”. 1982, e “Ragazza peruviana”, 1987, quindi “Mana Hata”, 1999, e “Lotta di bradi”, 2011; inoltre “Alchimia”, 1986, e “Monolite”, 1975, infine “Marilyn Monroe”, 1987; in chiusura, un gruppo di dipinti sulla “Divina Commedia”, 1999.

Pietracamela, 2. La “pittura rupestre” di Jorg Grunert la “nuova rinascenza”

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro resoconto del “Premio internazionale  pittura rupestre Guido Montauti”,  1^ edizione, svoltosi a Pietracamela, nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga. Vincitore Jorg Christoph  Grunert, di Colonia, del quale abbiamo delineato in precedenza la figura di artista, citando i suoi cicli di opere con i materiali più diversi fino alla pietra e le intense motivazioni. Abbiamo anche ricordato i partecipanti e in particolare gli altri due finalisti Marco Pace e Franco Pompei, e l’autore del ritratto altamente simbolico di Montauti, Marco Rodomonti.  

Jorg Grunert, “Nuova pittura rupestre”, parte frontale ultimata

Ora seguiremo il vincitore dal bozzetto iniziale alla realizzazione finale sulla grande roccia passando per le fasi intermedie nelle quali si è avuta la progressiva compenetrazione dell’artista con la “pittura rupestre” nel contatto con la pietra su cui dipingere; e c’è la sua scultura, concepita come dono ai “pretaroli”, su ispirazione di pietre trovate “in loco” in cui l’artista ha visto una storia.  Andremo oltre la premiazione, allietata dal “Melos Clarinet Ensemble” diretto da Federico Paci, e dal “Loop incursione di dance in nature”di Ramona di Serafino, con la sorpresa del finale inatteso.

Da “meditando la materia” alla “pittura rupestre”

La maggior parte delle opere citate nel nostro precedente scritto sono della serie “Meditando la materia”, diremmo meditando la pietra. Ed è questa, riteniamo, la chiave della partecipazione dell’artista al “Premio pittura rupestre” e del suo successo, gli si è offerta la possibilità di un contatto ancora più diretto con la pietra, non più di tipo scultoreo ma pittorico: di una pittura, però, che non soffoca la  pietra lasciandola libera di “respirare” come un set di uno spettacolo teatrale.

E Jorg è anche drammaturgo e trainer di pedagogia teatrale oltre che di didattica artistica, nonché performer: quanto di meglio per la performance richiesta nella natura a tu per tu con la pietra, non più  mero materiale di supporto bensì “dominus” della raffigurazione  ispirata alle sue asprezze, anfratti e gibbosità, da cogliere come un regista fa con gli attori, scrutandone le caratteristiche più nascoste per valorizzarle guidandone l’interpretazione. E, in qualche misura, anche esserne guidato in una corrispondenza biunivoca di compenetrazione reciproca

Jorg Grunert, “Nuova pittura rupestre”, parte laterale ultimata

Questo ha fatto Jorg, per come lo abbiamo seguito, sin dalla trasposizione del bozzetto iniziale nel bozzetto definitivo nei due giorni di “residenza artistica” a contatto con la grande pietra prescelta per la performance. Ha fatto la prova generale del suo “spettacolo”, sviluppando l’idea del bozzetto da  lui presentato su un fotocolor del masso, con un valore aggiunto che è stato vincente  perché si è visto quello che non appariva altrettanto evidente dal  fondo cartaceo bianco e forzatamente piatto del disegno iniziale: una serie di figurazioni  paniche, in simbiosi con la natura, ritagliate, per quanto possibile nelle piccole dimensioni dell’immagine fotografica, sulle gibbosità della pietra lasciata “respirare”, libera da una pittura troppo invasiva, e  pronta ad accogliere gli elfi dell’artista.

Allorché dalla residenza artistica di due giorni è passato alla residenza di una settimana per realizzare l’opera sul grande masso, è emersa tutta la sua maestria ma anche tutto il suo amore per questa materia, che ha fatto vivere nelle tante sculture della sua produzione trovando questa volta un diverso rapporto con essa: un rapporto altrettanto se non più coinvolgente anche tenendo conto del valore che ha la sua opera nella speciale motivazione del premio intitolato a Guido Montauti.

La prima fase  della realizzazione, con l’artista all’opera

All’artista  chiediamo ora  di questa sua diversa e, crediamo, innovativa esperienza con la pietra rispetto alle opere di “meditando la materia” e alle altre con lo stesso materiale, in particolare nel rapporto con le “pitture rupestri”  cui Guido Montauti apponeva la firma “Il Pastore bianco”  per sottolineare il ritorno ai primordi silvo-pastorali e l’immersione nella natura.

Ecco cosa ci ha risposto: “Lavoro da una vita sui segni della terra, in particolare sulle pietre che ne sono la primaria espressione; ho seguito lo stesso procedimento di mimesi, cogliere la temperie della materia sentendola dentro di me e trasferirla nella pietra, in una trasformazione e compenetrazione reciproche. Ma questa volta ho avuto la possibilità di un’interpretazione nuova per la forza che il grande masso, divenuto il ‘set’ della mia rappresentazione, ha esercitato su di me. Finora il mio lavoro sui segni della terra aveva prodotto immagini astratte e informali per trarne segni emblematici; in questa circostanza si è avuto il processo inverso. La mimesi ha operato nel senso dell’antropomorfismo della materia, in me non c’era più lo strumento di una civiltà avanzata che coglie i segni della terra trasformandoli in emblemi; mi sono sentito trasformato in un ‘rupestre’ che imprime i suoi graffiti sulla roccia, la grande pietra ha avuto la forza di portarmi a immagini figurative”.

“Graecia capta ferum victorem cepit”, potremmo commentare, la pietra da passiva ricettrice ha imposto la sua legge, che sa di atavico e primordiale, ma anche di rigeneratore catartico. E qui la catarsi non è per l’artista di cui abbiamo ascoltato l’intensa autoanalisi nel segno dell’umanità più genuina e sofferta; bensì per quanto suscita la sua ribellione verso un’autentica “rinascenza” di vita.

In progress, una fase  più avanzata.

Dalla cerimonia alla “pittura rupestre” di Jorg “en plein air”

Con questo rapporto artistico e umano tra l’artista e la pietra nello straordinario scenario naturale della zona ferita dalla frana e recuperata, nasce la sua opera “en plein air”: un vero e proprio monumento che coniuga arte e natura, meritevole di essere inaugurato scoprendo un velo ideale.  

La premiazione si è svolta il 24 agosto  nel panoramico “Belvedere Guido Montauti”, l’intero paese ad assistervi con tanti visitatori “forestieri”, gestita con disinvoltura e sperimentata capacità da Gian Franco Manetta, dal 9 agosto anima della manifestazione e maestro di cerimonie per l’intera settimana dal 17 al 24 agosto. Manetta  ha sottolineato come questo  premio internazionale che ha per oggetto la pittura rupestre sia inedito nel panorama dei concorsi artistici, nel senso di unico al mondo, e non è costatazione da poco per quanto può derivarne sul piano del rapporto arte-natura.

Ben giustificata, quindi, la settimana di eventi culturali e di intrattenimenti musicali e coreografici, per la cerimonia di premiazione, dopo la mattinata con “Metamorfosi ensemble” di flauto viola e violoncello con corografie di Nadia Cois, nel clou della serata il “Melos Clarinet Ensemble” diretto da Federico Paci, solo fiati, 7 clarinetti e 2 strumenti a forma di piccoli sassofoni; e il “Loop incursione di dance in nature”, di Ramona di Serafino, Compagnia Antonio Minini.

Hanno parlato Antonio Di Giustino, che ha ideato il Premio portandolo alla realizzazione come sindaco di Pietracamela: è la ciliegia sulla torta dei tanti impegni assolti positivamente nel recupero di situazioni compromesse da eventi naturali, di una natura che manifesta la sua vitalità spesso in modo distruttivo: dal terremoto alla frana del crollo del “Grottone”, alle due interruzioni stradali, normalità finora ripristinata con gli alloggi del “Largo della Rinascita” per i residenti le cui abitazioni sono risultate inagibili, con l’eliminazione dello sperone incombente dopo la frana, e il prossimo avvio, “allo scioglimento delle nevi”, dei lavori sugli edifici colpiti dal terremoto.

In progress, una fase ancora più avanzata

Si è unito al saluto Pietro Chiarini, il  presidente di “Teramo Nostra” che ha organizzato  il Premio indetto dal Comune di Pietracamela e lo ha gestito con efficienza e passione superando le difficoltà inerenti a un concorso così inusuale, anzi inedito, cui si sono aggiunte quelle dell’improvvisa crisi nell’amministrazione comunale; e organizzando anche la mostra dei bozzetti nella propria sede a Teramo dopo l’esposizione nel Palazzo comunale del borgo. Presenti i due figli dell’artista cui il Premio è intitolato, Pierluigi Montauti, che  ha ricordato come il padre amasse trascorrere l’estate  a Pietracamela e si affacciasse nella finestra proprio sopra al Belvedere che venne successivamente a lui intestato, e Giorgio Montauti che con il pragmatismo dell’analista scientifico ha raccomandato il restauro delle due “pitture rupestri” superstiti e il recupero della terza sopravvissuta che va liberata dalle pietre da cui è coperta e  restaurata. Infine il vincitore, Jorg Christoph Grunert, tra gli applausi ha detto: “Io mi sono trasformato nella pietra e la pietra in me”.

Per quanto ci riguarda, tornando alla “scoperta” del monumento naturale, possiamo aggiungere che la “pittura rupestre” di Jorg  è spettacolare, in senso teatrale, e nel contempo discreta in una mimesi con la natura –  quella di cui ci ha parlato nella sua autoanalisi –  che dà alle figure evidenziate da un cromatismo diffuso nelle gibbosità e anfratti della roccia il fascino e il mistero degli elfi e delle magiche presenze che popolano la montagna, nell’abbozzo di  figurativo che anima il masso.

Si riconoscono le sagome inconfondibili di animali noti, anche se in un figurativo primordiale che le ricorda senza identificarle, delle figure umane anch’esse indistinte e una figura di uomo-animale, poi altre figurazioni che richiamano antichi simbolismi panici. La roccia resta ben visibile, diventa essa stessa figura nella complessa composizione oltre a “respirare” tra le varie figure, in una rappresentazione avvolgente, che prende i due lati visibili della roccia, sempre con la massima aderenza alle asperità della superficie. Veramente magistrale, come tutta l’azione dell’artista.

Una fase conclusiva della realizzazione della “pittura rupestre” di Jorg Gunert

Non poteva iniziare meglio sotto il profilo artistico il ciclo del “Premio pittura rupestre” alla 1^ edizione, cui ne seguiranno altre a cadenza annuale, secondo l’impegno assunto anche a livello regionale. Lo ha prospettato Antonio Di Giustino, al quale va il grande merito di aver ideato una risposta così alta e forte del paese alla devastazione delle pitture rupestri operata dalla frana, e di aver organizzato la manifestazione con “Teramo Nostra”, un’organizzazione esperta e lo ha dimostrato, nella sua sede ci sono le testimonianze dei tanti eventi realizzati nella sua lunga vita..

Il rilancio del borgo con l’abbrivio di un nuovo inizio

E’ un altro passo importante non solo per il ritorno alla normalità, ma per un rilancio del borgo che la superi con l’abbrivio di un nuovo inizio. I due principali percorsi panoramici sono stati ripristinati ed è stato rimosso con il difficile intervento  di demolizione controllata lo sperone di roccia ora non più  incombente sulla zona; gli eventi culturali non sono mancati pur in condizioni molto difficili.

Ma non basta, la nuova “pittura rupestre” di Jorg Christoph Grunert  non sarà isolata, e non soltanto perché ne seguiranno altre nei prossimi anni, fino a formare un parco naturale-artistico di grande valore.  Ne è rimasta una del “Pastore bianco” di Montauti completamente integra che domina la zona, più in alto: era la più grande, con le caratteristiche sagome umane e due cavalli, uno di lato, l’altro visto posteriormente, oltre a questa altre due sopravvissute, una interamente, l’altra parzialmente, tutte da restaurare in quanto sbiadite dalle intemperie e da  inserire in un percorso da ripristinare, lo ha chiesto Giorgio Montauti, lo ribadiamo con forza anche noi chiedendo una risposta impegnativa e risolutiva agli organi competenti comunali e regionali.

Così le “nuove pitture rupestri”,  nel colmare il vuoto lasciato da quelle distrutte dalla frana,  si collegheranno alle “pitture rupestri” rimaste, poche rispetto alla preesistente  platea di figure del “Quarto stato montanaro”, ma molto significative per mantenerne la memoria e il valore simbolico.

La scultura realizzata da  Jorg Gunert
vicino alla “pittura rupestre” come dono ai pretaroli  

Non è tutto, a poche diecine di metri dalla grande pietra con la “pittura rupestre” di Jorg, lungo l’itinerario verso le “pitture rupestri” sopravvissute, c’è in alto tra piante e arbusti un masso di roccia antropomorfo, nel quale da sempre è stato visto dall’immaginazione popolare “L’imperatore”.  Ebbene, negli stessi giorni si è celebrato a Roma il bimillenario di Augusto, il primo imperatore, l’imperatore per eccellenza. La nuova “pittura rupestre” inaugurata in coincidenza con questa ricorrenza millenaria nasce dunque con un segno superiore, e sarebbe bello che anche quella statua naturale fosse inserita nel percorso arte-natura comprendente le “pitture rupestri” sopravvissute con questa appena realizzata e con le altre che seguiranno negli anni.

Il “Premio internazionale di pittura rupestre Guido Montauti” nasce, quindi, nel segno di Augusto. Il primo vincitore è un artista tedesco amico dell’Abruzzo, cosa che risponde appieno alla caratura internazionale data alla manifestazione, anche se la scelta  non ne è stata influenzata, essendo sconosciuti i nomi degli autori alla Giuria che ha giudicato le opere a concorso scegliendo prima i tre finalisti, poi il vincitore. Una scelta che, anche “a posteriori”, si è rivelata quanto mai azzeccata per i valori sentiti dall’artista nel rapporto tra umanità e natura nel segno della ribellione: in Guido Montauti alla degenerazione dell’arte, in Jorg dell’umanità, entrambi in nome della “rinascenza”.

La consegna del premio a Jorg Gunert
da parte di Antonio di Giustino, ideatore da sindaco di Pietracamela

L’avanguardia di una “nuova rinascenza”

Abbiamo riportato in precedenza l’autoanalisi dell’artista su questa degenerazione sempre più diffusa con l’allontanamento dalla natura e dall’umanità che reclama un esercizio più responsabile della libertà. Ebbene, al termine della cerimonia di premiazione si è potuto cogliere come sia purtroppo giustificata ed attuale anche nel microcosmo paesano la sua visione che lo porta a proclamare l’esigenza di una ribellione contro il degrado all’insegna dei veri valori. Mentre si svolgeva la festa della premiazione nel Belvedere Guido Montauti, con l’intrattenimento coinvolgente fin qui ricordato, uno sconsiderato sconosciuto sporcava con della tinta blu la “pittura rupestre” appena realizzata fuori dal paese e la scultura che l’artista aveva concepito come dono ai “pretaroli”. Una profanazione dell’opera, un’offesa all’artista e al borgo, una violenza all’arte.

Non mancano, purtroppo, tali segni di inciviltà, nella vita attuale, in ogni latitudine, nel paese piccoli vandalismi sono avvenuti in passato  nel mese di agosto quando le presenze si moltiplicano; e pure se si fosse trattato del gesto sconsiderato di un ragazzo il giudizio non cambierebbe, anzi potrebbe diventare più sconsolato mettendo in discussione anche la speranza nel futuro se fosse in età di discernere il lecito dall’illecito, il giusto dall’ingiusto; se fosse inconsapevole la condanna si sposterebbe sui genitori e sulla loro incosciente assenza sul piano educativo. Non è ammissibile che un evento, dal quale il paese è stato coinvolto totalmente soprattutto nella settimana culminata nella premiazione, sia stato ignorato dalla famiglia del ragazzo o che non ne abbia reso edotto il minore, al punto che avrebbe profanato l’opera proprio mentre si festeggiava; e se si tratta di ragazzo nell’età dell’incoscienza la famiglia è altrettanto colpevole per omessa vigilanza, senza controllo potrebbe arrecare qualunque danno se non ha la capacità di discernimento o di apprendimento. Se invece fosse il gesto di un adulto la condanna sarebbe senza appello quali che ne fossero i motivi.

La scultura naturale “L’imperatore”  tra la vegetazione nellle vicinanze della nuova “pittura rupestre” di Jorg Gunert

Chiunque fosse stato, ragazzo o adulto, a irridere, consapevole o meno, ai nobili sentimenti evocati, è la metafora di come si possa profanare ciò che ha in sé alti contenuti di cultura e memoria oltre che di arte, ancor più nella cornice di una intera settimana dedicata a questi valori; una prova ulteriore, se ce ne fosse bisogno, di come si debba tornare al rispetto della natura e dell’umanità, e  di come sia quanto mai necessaria l'”ecologia della mente”, oltre che dell’ambiente, invocata dall’artista. Il suo “urlo” è divenuto l’urlo di tutte le persone con un elementare senso di umanità.

Il male è l’altra faccia del bene, ma è il bene a vincere, e l’arte è stata sempre vittoriosa dinanzi alle profanazioni subite anche da grandi capolavori superprotetti; avverrà così pure questa volta. E il fatto che anche nel piccolo borgo si sia ripetuto un vandalismo dall’autore ancora sconosciuto, consapevole o meno ma sempre colpevole o comunque irresponsabile, conferma la denuncia di Jorg delle degenerazioni e l’urgenza della ribellione nel segno dei valori più autentici.  

Le “pitture rupestri” del Pastore bianco di Guido Montauti nacquero, lo si è ricordato, come “avanguardia della rinascenza” perché sentiva tale esigenza per l’arte; Jorg la lega all’umanità, e si è visto come abbia ragione. Jorg Christoph Grunert rilancia così, dopo mezzo secolo, l’appello forte e chiaro di Guido Montauti con le “nuove pitture rupestri” che diventano l'”avanguardia della nuova rinascenza”.

la “pittura rupestre” di Guido Montauti
nell’incavo della roccia indenne dal crollo sbiadita

Una “riconsacrazione” della “pittura rupestre” profanata nella sua integrità artistica, eliminando le deturpazioni che l’hanno ferita, può essere l’occasione di un evento nel quale l’artista abbia il conforto di coloro che nel segno dell’arte vogliano condividerlo con lui. Evento ben oltre i confini del borgo, che il Comune di Pietracamela dovrebbe promuovere, e “Teramo Nostra” organizzare con l’impegno meritorio profuso nel Premio, e  nella bella mostra dei bozzetti presentati nella propria sede; anzi, in quell’occasione abbiamo avanzato questa proposta, subito accolta dal presidente Piero Chiarini, ora ci sembra che sia  il Comune a dover  prendere l’iniziativa e invitare l’artista a riparare ai danni arrecati alla sua opera, la “pittura rupestre” e anche la scultura.

Sarebbe bello il coinvolgimento degli artisti, siamo certi che  Franco Summa e Sandro Melarangelo della Giuria del premio, e altri ancora non faranno mancare la loro presenza solidale.

E’ un’occasione che non va lasciata cadere per i valori che evoca e per il significato che può assumere. Abbiamo visto il profondo sconforto dell’artista nella lunga serata dopo la gioia della premiazione, uno sconforto condiviso da chi è sensibile all’arte e all’umanità, anche in questo caso in stretta simbiosi: siamo certi che quella gioia tornerà nei suoi occhi quando sarà sanata la ferita, cancellato lo sfregio con una partecipazione che ci auguriamo più ampia e qualificata possibile. Che dire di più, l’incanto resta, questo piccolo incidente accresce ancora di più l’attenzione.

La parte musicale della festa di premiazione
con il “Melos Clarinet Ensemble” diretto da Federico Paci

Info

Jorg  Christoph Grunert, “Vie dell’esilio”, testi critici di Rolando Alfonso e Antonio Picariello, Ass. culturale “Deposito dei segni”, pp. 100, formato 24×28.  Cfr. i nostri scritti:  sul Premio, tutti del 2014,  in questo sito l’articolo di cui il presente è la conclusione, “Pietracamela, a Jorg Grunert il Premio pittura rupestre Guido Montauti”, 2 settembre, il precedente sul bando di concorso, “Pietracamela, il premio pittura rupestre  e l’estate 2014”, 14 luglio,  in “Info” sono citati i nostri precedenti articoli su Pietracamela;  e in”cultura.inabruzzo.it” “Pietracamela, premio internazionale di pittura rupestre”,  8  luglio; sulla frana distruttiva delle “pitture rupestri”, tutti del 2012,  in  “cultura.inabruzzo.it” “Pietracamela. Fotografie e pitture rupestri nel crollo del ‘Grottone'”, 3 settembre,  e “Pietracamela. Parte la messa in sicurezza del ‘Grottone'”, 14 settembre; in http://www.fotografarefacile.it/ ,  “Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Guido Montauti”, settembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Pietracamela, fuori  Porta Fontana, nel  costone soprastante e nel Belvedere Montauti del centro storico. In apertura, Jorg Grunert, “Nuova pittura rupestre”, parte frontale,  seguono la parte laterale della pittura ultimata e la prima fase  della realizzazione con l’artista all’opera ; poi  in “progress” altre due fasi  più avanzate, quindi una fase conclusiva della pittura e la scultura realizzata da  Jorg Gunert vicino alla “pittura rupestre” come dono ai pretaroli, inoltre  la consegna del premio a Jorg da parte di Antonio di Giustino, ideatore da sindaco di Pietracamela e la scultura naturale “L’imperatore”  tra la vegetazione, nelle vicinanze della nuoiva “pittura rupestre”; infine la “pittura rupestre” di Guido Montauti nell’incavo della roccia indenne dal crollo sbiadita e la parte musicale della festa di premiazione con il “Melos Clarinet Ensemble” diretto da Federico Paci;  in chiusura, la parte coreografica con il  “Loop incursione di dance in nature” di Ramona di Serafino, Compagnia Antonio Minini.

La parte coreografica della festa di premiazione
con il “Loop incursione di dance in nature”
di Ramona di Serafino, Compagnia Antonio Minini