Cartier Bresson, 350 foto del ‘900, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

Nel Museo dell’Ara Pacis, dal 26 settembre 2014 al 25 gennaio 2015 la mostra “Henri Cartier Bresson” presenta 500 documenti della vita e dell’arte del celebre fotografo parigino, di cui 350 immagini scattate nei suoi viaggi per il mondo a testimonianza di eventi epocali del ‘900, come di scene di vita quotidiana. Prodotta dal Centre Pompidou che ha già presentato l’esposizione a Parigi, e curata dallo storico della fotografia Clément Chéroux, è organizzatacon la Fondazione Henri Cartier Bresson da Zetema e da Contrasto,  editore del  Catalogo..  

Nel decennale della morte di Henry Cartier Bresson, è prodotta dal Centre Pompidou di Parigi e curata dallo storico della fotografia Clément Chéroux, segue molto in grande la piccola ma significativa mostra a lui dedicata, tenuta al Palazzo Incontro  nel 2010, con 60 immagini. Coincide con il decennale della morte di Helmut Newton al quale il Palazzo Esposizioni ha già dedicato una grande mostra lo scorso anno con le sue immagini soprattutto sull’universo femminile. , .

Sembra di tornare indietro nel tempo, tanto questa mostra è diversa dalle altre sui maggiori fotografi, da Steve Mc Curry a Helmut Newton, da  Doisneau a Salgado, dove venivano presentati ingrandimenti spettacolari. Qui le immagini sono di piccola dimensione, quasi si trattasse di un album di famiglia esposto al pubblico. E sono ben 350 oltre a 150 tra disegni  e dipinti, manoscritti e altro materiale prezioso di documentazione del ‘900, il “secolo breve” così denso di avvenimenti.

Sono pochissime le fotografie  a colori, che  non amava anche perché quando il colore fu introdotto non consentiva una gradazione cromatica ricca come quella dei  grigi e richiedeva tempi di esposizione più lunghi quindi inadatti alla sua visione di foto istantanea, inoltre  appariva troppo vicina alla pittura con il particolare che  per lui era un “mezzo di documentazione non di espressione artistica” . Però dal 1946 agli anni ’70 ha fotografato anche a colori ritenendola “una necessità professionale, non un compromesso ma una concessione”.

Caratteristiche  della mostra

 Le altre mostre hanno celebrato in Bresson “l’occhio del secolo” mettendo in evidenza la sua capacità di fermare l’attimo in istantanee eloquenti con il sottinteso dell’unitarietà della sua opera con questo denominatore comune. Invece “all’opposto degli approcci unificatori – si afferma nella presentazione – questa esposizione vuol dimostrare che non c’è stato un solo Cartier-Bresson, ma tanti”. Anche per questo motivo perché le immagini riflettano  al meglio i momenti in cui sono state scattate, nel lungo periodo dagli anni ’20 al 2000,  sono nel formato delle varie epoche che ne esalta le differenze anche stilistiche rispetto ad una uniformità fittizia e forzata

Il percorso espositivo si articola in 9 sezioni, e una introduttiva, e si snoda come un labirinto senza fine negli ampi spazi del Museo dell’Ara Pacis. Visitare la mostra è come fare un viaggio nel secolo scorso sulla macchina del tempo. Ad ogni sezione corrisponde una fase di attività professionale e un periodo storico, gli eventi che sono rimasti nella memoria di tutti scolpiti nell’immediatezza del loro verificarsi: vediamo immagini o alla guerra civile spagnola e alla seconda guerra mondiale, alla decolonizzazione e alla  guerra freddai e di dittatori, in una successione incalzante sala per sala.

Si inizia dalle fotografie negli anni della formazione, con le influenze degli amici americani a Parigi,  il primo viaggio che fece in Africa e quelli successivi in tutto il mondo, America e Messico,  Spagna e Italia, Germania e  Polonia.  e Messico; i reportage di guerra, dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale;  è documentato il suo impegno politico a: New York con Paul Strand e il Nykino group, a Parigi con Jean Renoir e l’Associazione degli artisti e scrittori rivoluzionari (Aear); la collaborazione alla  stampa comunista con Robert Capa e Louis Aragon; le guerre, da quella civile spagnola resa in un film alla seconda guerra mondiale, ai documenti sulla resistenza e sul ritorno dei prigionieri come prigionieri, il lavoro per l’Agenzia Magnum, con i reportage in Cina e in India, con la morte di Gandhi, in Urss dopo la morte di Stalin, a Cuba nella crisi dei missili .  

Le sezioni, oltre a seguire la cronologia degli eventi, isolano aspetti peculiari della sua arte fotografica, come scelta dei soggetti e modalità espressive, citiamo  i temi “L’uomo e la macchina” e la serie “Vive la France”, fino alla “Fotografia contemplativa”..Raccontiamo la mostra ripercorrendo la sua vita e soffermandoci su questi aspetti: ogni fase da noi rievocata è documentata da un ricco campionario di immagini, che non possiamo citare dato il gran numero, oltre 350,  ma basta evocare gli eventi per immaginare la puntuale documentazione  nell’immediatezza del “momento decisivo”. C’è anche una galleria di grandi personaggi,  a livello politico come Gandhi e Nixon, letterario come William Faulkner e Truman Capote, Jean Paul Sartre ed Ezra Pound, artistico come Marcel Duchamp e Henry Matisse, John Huston e Marilyn Monroe, Igor Stravinsky,  mondano come Coco Chanel, fino allo scienziato dell’atomica Robert Oppenheimer..

Sono stati previsti anche dei percorsi storico-iconografici nel periodo della mostra, sulla fotografia come racconto del quotidiano e la fotografia di guerra, la fotografia e il ritartto, la fotografia del viaggio. , 

 Il percorso di vita e  l’arte fotografica nella prima fase 

Nato in Francia e fotografo francese a tutti gli effetti, è diventato “cittadino del mondo”, antesignano del  foto-giornalismo, testimone e interprete del novecento, tanto da essere chiamato “l’occhio del secolo”. Usava una Leica, leggera e maneggevole, per mescolarsi tra la gente e poter cogliere l‘”istante decisivo”, l’attimo fuggente da fissare sulla pellicola, si trattasse di un evento o di un fatto senza alcun valore in sé ma che lo acquista con lo scatto creativo del fotografo. Per questo viene ritenuto il precursore della “street photography” con una tecnica definita “snap shooting”, la spontaneità prevale sulla tecnica.. Non si esaurì in questa caratteristica, sarà suo anche un tipo di fotografia detto “contemplativo”; inoltre anche negli scatti “casuali”  la sua non era improvvisazione, lo vedremo ripercorrendo la sua formazione e la sua tecnica fotografica.

Nel rievocare i  principali momenti della sua lunga attività  ad altissimo livello va considerando che in aggiunta a quella professionale imperniata su reportage, ritratti e servizi su commissione, vi è quella che viene chiamata “antropologia visiva”, fatta di “combinazione di reportage, filosofia e analisi (sociale, psicologica e altro)”: un’attività personale, a latere di quella ufficiale,  che nasce dagli stimoli ricevuti nel corso del suo lavoro a   fotografare soggetti particolari fino a compiere vere e proprie inchieste suggeritegli dalle circostanze, quale che fosse il suo impegno del momento. “Sono visivo – diceva –  Osservo, osservo, osservo. E’ con gli occhi che capisco”. ,

In tal modo la galleria di immagini esposte, in una cronologia ricca  e stimolante  che si associa alla organizzazione tematica, nel fare la storia del grande fotografo fa anche la storia del secolo che ha rappresentato e documentato in modo così penetrante.

“L’opera fotografica di Cartier-Bressom – così viene presentata la mostra – è il prodotto di un insieme di fattori combinati: una certa inclinazione artistica, un assiduo apprendistato, un po’ di atmosfera del periodo, aspirazioni personali, molti incontri”. Ne daremo  qualche indicazione, dopo aver precisato che nella sua attività si possono evidenziare tre periodi fondamentali: il primo, negli anni della formazione, tra il 1926  e il 1935,  con l’influenza dei surrealisti francesi, l’inizio dell’attività fotografica e i primi grandi viaggi; il secondo negli  anni intorno alla seconda guerra mondiale, dal 1936 al 1946 con il suo impegno politgico, anche con la stampa comunista,  el’esperienza del cinema; il terzo, dal 1947 al 1970 con la creazione dell’Agenzia Magnum fino al termine dell’attività.

Ha iniziato con la pittura per la quale ha sempre avuto una vera passione; “Da bambino. Ha scritto, la facevo il giovedì e la domenica, ma la sognavo tutti gli altri giorni”. Adornava le sue lettere con disegni e si dilettava a fare schizzi fino a riempirne interi album. I più vecchi suoi dipinti sono del 1924, a 16 anni – era nato nel 1908 – lo stile si ispira a Cèzanne. Dipinge presso Jacque-Emile Blanche, poi entra nell’Accademia di Andrè  Lhote,  la geometria è al centro dei suoi  insegnamenti e lo affascina; i suoi dipinti del 1926 e 1928 ne sono influenzati. Applica i principi del “numero d’oro” nel 1931 legge il libro di Matila Ghyka diviene molto attento alla composizione.

Quindi grande amore per l’arte e amici artisti, anche americani, Julien Levy lo interessa alla composizione, con Caresse e Crosby, Gretchen e Powel scopre  la Nuova visione e le fotografie di Eugene Atget, pubblicate sulla rivista dei surrealisti, che erano colpiti daL loro carattere enigmatico, l’intera collezione fu acquistata da Levy alla morte di Atget nel . 1927. Le prime foto di Cartier Bresson si ispirano ai soggetti di Atget, come  manichini, vetrine, insegne, mucchi di merci.

E’ il 1930, ha terminato il servizio militare, va in nave in Africa, prima in Costa d’Avorio ma ancora non è attratto dalla fotografia pur se è fornito di  macchina fotografica; al ritorno da quel viaggio scatta l’attrazione fatale dopo aver visto una fotografia di Martin Munkacsi che gli fece “venir voglia – sono le sue parole – di guardare la realtà attraverso l’obiettivo”.. Visita anche  Cameron, Togo e Sudan, va lungo il Niger. Scatta molte immagini senza indulgere all’esotismo  che disprezza come “detestabile colore locale”, riprende i bambini che giocano e gli uomini che lavorano, remando o scaricando le navi, vuole rappresentare la vita quotidiana e va a caccia, raccoglie maschere e feticci, legge libri sull’Africa, vuole vivere la vita del continente.

L’esperienza è stata determinante per  farlo dedicare alla fotografia, nell’estate del 1931 raccoglie le immagini scattate in Africa con  le migliori  degli anni ’20 in un raccoglitore rudimentale, il “First album”. Poi con un amico si mette in viaggio per l’Europa, Germania, Polonia, Ungheria, quindi  Francia meridionale, Italia, Spagna.

La sua prima macchina fotografica impegnativa è  una Leica 35 mm con lente di 50 mm che manterrà a lungo, preferirà sempre la leggerezza e la maneggevolezza rispetto alle macchine più ingombranti per mescolarsi tra la gente

Ha anche un’importante esperienza  nel cinema,  assistente del celebre regista francese Jean Renoir in due film nel 1936 (“La vie est à nous” e “Una partie de campagne”), dopo i quali nel 1937 è lui stesso regista del film “Return to life”; tornerà nel 1939 ad assistere Renoir in “La régle du Jeu”. Anche qui il suo impegno nella rappresentazione della realtà con forte sensibilità politica.  .

Ha conosciuto nel 1934 un intellettuale polacco, fotografo anch’egli, David Szmin che cambierà il nome in Sevmour, con cui ha una forte sintonia culturale, l’amico gli presenterà Robert Capa, un fotografo ungherese allora sconosciuto il cui nome era Endré Friedmann.

Fotografa ispirandosi alla “Nuova visione” , sorta con il costruttivismo russo, con attenzione alle inquadrature dall’alto o dal basso . Spesso individuava lo sfondo più adatto sulla base  della sua struttura geometrica, e di quanto lo rendeva già interessante, ciò che Lhote  chiamava “schermo”,  a volte un semplice muro, e attendeva  che  la scena si animasse con  persone interessanti in modo che si formasse quella che chiamava “coalizione istantanea”,  da lui ripresa prontamente:  ne derivava una composizione in parte casuale ma in parte attentamente studiata secondo leggi geometriche e sceniche ben precise.

E’ un periodo, fino al 1935, in cui frequenta i surrealisti, tra cui l’amico  Max Ernst e realizza collage. Viene affascinato da Bréton, che suggeriva di chiudersi  alle sollecitazioni esterne in modo da poter  far emergere l’inconscio, il “modello interiore”. Per questo nelle sue fotografie di allora i soggetti hanno sempre gli occhio chiusi, secondo l’iconografia surrealista che voleva le palpebre abbassate, visi dormienti e sognanti, c’è una sua immagine del 1926 molto significativa. Aggiungeva elementi contestuali che proiettassero all’esterno i moti interiori dei soggetti.

I surrealisti facevano ben altro nella pittura, sfiguravano  le sembianze umane con deformazioni esasperate, distorsioni, frantumazioni, raddoppi. Lo fa anche lui con la fotografia  mediante  deformazioni prospettiche dall’alto o dal basso, appiattimenti, e altri accorgimenti;  su ogni soggetto, anche negli autoritratti, come visti attraverso uno specchio deformante.

Vedremo prossimamente come da questo inizio prende avvio una vita professionale che ne farà l'”occhio del secolo”  per la sua capacità di rendere i “momenti decisivi”, si tratti di eventi di portata storica come di momenti semplici ma non per questo banali, con l’immediatezza di uno scatto fotografico tale da fissare la realtà nel momento in cui avviene ma non senza una visione di natura compositiva e contenutistica che la mostra cerca di rendere con un’attenta ricostruzione.  

Info

Museo dell’Ara Pacis, Nuovo spazio espositivo Ara Pacis, Via Ripetta, Roma.    Da martedì a domenica ore  9.00-19.00, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima; il venerdì e sabato per l’intera durata della mostra, prolungamento dell’orario di apertura, del solo spazio espositivo (Via di Ripetta), fino alle 22.00 (ultimo ingresso ore 21.00). Ingresso  solo mostra “Henri Cartier-Bresson” (ingresso da Via di Ripetta)  Intero € 11,00, ridotto € 9,00 (meno di 26 anni e oltre 65 anni e particolari categorie).  Il secondo articolo sarà pubblicato in questo sito prossimamente. Per le mostre dei grandi fotografi citati, Rodcenko e McCurry, Salgado e Doisneau, cfr. i nostri articoli in www.visualia.it., dove abbiamo pubblicato anche un articolo sulla precedente mostra di Cartier Bresson al Palazzo Incontro, con un gruppo di  circa 50 fotografie accompagnate dal commento dell’autore.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Ara Pacis all’inaugurazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori con il Center Pompidou e  i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Henri Cartier Bresson per l’opportunità offerta. Le immagini sono riportate in ordine alterno tra eventi, come la pira con il corpo di Gandhi, le grandi sfilate, e i personaggi, come Giacometti e  Sartre; e le scene di vita quotidiana con persone sconosciute colte sul momento.  

Sironi, gli anni ’20 e la maturità artistica, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, dal  4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015,  la mostra  antologica “Mario Sironi. 1885-1961”  espone  140 opere dei vari periodi della sua vita artistica. Abbiamo già ripercorso la parte iniziale fino al 1920, dopo averne delineato la figura di uomo e di artista nel segno della tragicità e della grandezza. Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, con l’Archivio Sironi di Romana Sironi.

L’itinerario artistico e umano dell’artista lo ha visto nella prima gioventù con alcune opere presentate per la prima volta in mostra, a partire da quella che dipinse sedicenne. Poi l’excursus tra simbolismo e divisionismo, e un primo approdo al futurismo per l’amicizia nata con Boccioni e Severini  e i contatti con Balla, impegnandosi sui suoi motivi tipici, come la città moderna e i mezzi di trasporto senza peraltro recepire i temi del movimento e della velocità in contrasto con la staticità e solidità dei suoi volumi; caratteri questi che trovò nella metafisica alla quale si ispirò nei suoi paesaggi urbani dove, oltre alle costruzioni dechirichiane, aleggia anche l’atmosfera sospesa.

E’ peraltro tipicamente novecentista la solidità costruttiva e architettonica che  troviamo anche nelle opere di matrice futurista, e lo vediamo ancora di più nelle numerose opere esposte degli anni ’20.

Il “Novecento” e le opere classiciste

Negli anni ’20, scrive Elena Pontiggia,  “è un artista che crea continuamente nuove immagini, ma al tempo stesso rielabora ostinatamente le precedenti  accostando ricerche stilistiche anche molto diverse”. Per cui  insieme ad opere di stile classico sono compresenti opere di stile futurista e anche espressionista; neppure i temi raffigurati sono univoci, anche qui una compresenza di soggetti.  Si alternano figure solenni e figure pensose,  figure allegoriche e figure realistiche che esprimono dolore e sofferenza.

In questo periodo c’è il “ritorno all’ordine”,  il classicismo bandisce ogni improvvisazione e rifugge dall’immediatezza per lo studio e l’applicazione; l’ispirazione viene dai modelli classici, ma vi sono anche elementi metafisici, pur se con diversi significati, che diventano simboli pure platonici.

Del 1920-21 l’antologica presenta una ricca serie di “Paesaggi urbani”.  Ricordiamo che questo tema coincide con il suo trasferimento definitivo a Milano nel  1919, città industriosa e dinamica, così diversa dalla  Roma  classica e tranquilla, per di più in quel periodo agitata dalle tensioni sociali del primo dopoguerra, che sfociavano in tumulti sociali. La periferia lo colpisce con la sua solitudine e desolazione, ed è questa la Milano da lui rappresentata, così diversa dalla Roma umbertina che si trova in alcuni suoi dipinti giovanili. 

Il paesaggio urbano non fa più da sfondo ai soggetti in primo piano, ma diventa protagonista, e che protagonista!  La Pontiggia si esprime così: “Dal trauma della realtà milanese, e di una Milano che non è più la città euforica del 1915 ma la capitale di un dopoguerra senza pace, nasce una delle pagine più alte della pittura italiana, e non solo italiana, dell’epoca”.  

Sono paesaggi di desolazione e solitudine, che esprimono la propria visione pessimistica, pur temperata dalla volontà di reagire. Abbiamo già ricordato che Margherita Sarfatti vi vede la trasposizione dello squallore delle periferie in forza e grandiosità, ordine e armonia, quasi non fosse la visione pessimistica dell’artista a rendere cupa la scena, ma la realtà urbana che lui poi illumina.

Dal punto di vista stilistico con queste opere riafferma il prevalere delle sue concezioni volumetriche ed architettoniche sulle spinte alla scomposizione e al dinamismo delle correnti che lo hanno influenzato, dal divisionismo al futurismo con i passaggi metafisici, facendogli introdurre nuovi elementi ma senza sconfessare la matrice prima del suo stile.

I “Paesaggi urbani”

Vediamo, del 1920, 4 paesaggiurbani con i tipici veicoli della vita cittadina.  “Paesaggio (Paesaggio urbano con camion)” è uno dei primi e l’unico datato con certezza. Sono grandi caseggiati senza tracce di vita, strade senza alberi né passanti, una ciminiera, la composizione è immersa nella più assoluta staticità in un clima metafisico sospeso di chiara ispirazione dechirichiana, ma con l’impronta della propria solidità architettonica.  E il futurismo? E’ nella sagoma del camion che attraversa l’incrocio e nel fumo che esce dalla ciminiera, espressioni della frenetica attività cittadina; ma il fumo sia pure dalle locomotive era un “imprinting” delle piazze di de Chirico ben conosciute da Sironi.

Analogamente il “Paesaggio urbano con taxi, qui come in “Il camion giallo” il taxi occupa trasversalmente la strada quasi bloccandola ed è bloccato a sua volta in una staticità forzata dove non c’è più il dinamismo del movimento; il veicolo è semplificato per accentuarne la solidità geometrica, mentre gli edifici pur in secondo piano, si impongono per la loro solidità nella loro primitiva collocazione prospettica: è la costruttività cara a Sironi,  anche qui strutture e atmosfera sospesa di tipo metafisico.

In un secondo “Paesaggio urbano con camion” le forme degli edifici, pur nella loro solidità, si rarefanno e si rimpiccioliscono nello sfondo lontano dove il dinamismo operoso è riassunto da una gru, c’è un camion che passa su una strada ma questa volta senza bloccarla, tutt’altro, si perde nella vastità  della scena, schematica e geometrica: è “la compostezza e sobrietà squadrata e semplice”  apprezzata dalla Sarfatti come lascito dell’antica classicità.

Con “Il tram” la compresenza di motivi futuristi e metafisici è evidente, il tram elettrico era la modernità dopo quelli a vapore, c’è anche l’autovettura, cosa si vuole di più per esprimere il motivo futurista? Ma il tram che blocca l’auto e gli edifici sul fondo riportano alla staticità e alla solidità in una composizione in cui aleggia l’atmosfera metafisica.

A queste opere dalla forte analogia tematica e compositiva ne seguono 3 anch’esse esposte in mostra, riferite al 1921,  che raffigurano visioni urbane molto diverse: non ci sono più veicoli e neppure caseggiati con i riquadri delle finestre.

Sintesi di paesaggio urbano” è privo di qualsiasi elemento riconducibile alla realtà, sono forme architettoniche semplificate e ridotte all’essenziale fino a perdere il senso della loro funzione, pareti senza aperture come in un’acropoli inaccessibile, gli angoli netti e senza curve: ci sono le ombre nette e anche “la preziosità del mezzi toni dorati” di cui ha parlato la Sarfatti.  E’ lontano dai paesaggi urbani, per cui è centrato il titolo in cui si sottolinea il concetto di sintesi, il dipinto esprime con efficacia l’impianto costruttivistico novecentista senza interferenze figurative.

Invece “Il molo” presenta tutti elementi reali, ma realizza ugualmente una sintesi essenziale senza  particolari descrittivi incentrata su pochi elementi, nella semplificazione novecentista.  C’è una lunga costruzione con quattro piccolissime finestre, e in alto sullo sfondo un normale caseggiato, poi la direttrice del molo “dove un cavaliere senza nome procede solitario – scrive la Pontiggia nella scheda del Catalogo – come un Guidoriccio da Fogliano metafisico, verso un luogo misterioso e un misterioso destino”.

La terza opera del 1921 esposta è “La cattedrale”, ugualmente  c’è la semplificazione, nessun orpello nella chiesa come nel piccolo campanile e battistero di piccole dimensioni visibilmente sproporzionate rispetto alla grande cupola di cui vuol far risaltare l’imponenza come espressione della forza del sacro. Richiama quella di Santa Maria del Fiore a Firenze nella sua essenzialità costruttiva, che aveva visto in un viaggio nella città del 1908; la Pontiggia riporta le parole eloquenti  su Brunelleschi scritte dall’artista quasi  30 anni dopo, nel 1950: “La sua legge è l’armonia; una musicalità dello spirito costruttivo – edifica su rapporti armonici su astratte invenzioni di spazialità geometrizzata”.

Le figure solide e armoniose

Siamo al 1922, anno chiave per l’avvento del fascismo:  il 7 dicembre, festa di Sant’Ambrogio, viene fondato a Milano il “Novecento italiano”, appoggiato da Margherita Sarfatti, Sironi vi partecipa subito come caposcuola nel segno di una  “classicità moderna” basata su volume e peso, proporzioni e prospettiva, nonché sulla prevalenza della figura umana sugli altri soggetti e del disegno sul colore. “L’estetica platonica, ellenica – scriverà poi – è fatta soprattutto di compostezza e di equilibrio”.

Troviamo figure solide nelle sue opere del periodo, come in quelle di Carrà e De Chirico, ma le sue non hanno più matrice metafisica bensì esprimono questa ricerca di compostezza ed equilibrio, in definitiva di armonia, per riflettere i ritmi naturali: studia la sezione aurea e le proporzioni ritmiche.

Le sue sono “misure istintive”, per dare ordine ed equilibrio.  “Anche per questo – secondo la Pontiggia – la pittura sironiana non è mai completamente espressionista nemmeno nei momenti di maggiore pathos: perché la sua tensione drammatica non esclude un presentimento di armonia” . Ma c’è anche il risvolto: “Il suo sarà sempre un pitagorismo doloroso,  dove i ritmi armonici non escludono una dimensione tragica, anzi si caricano di presentimenti allarmanti”.

La maturità espressiva e compositiva si manifesta con uno dei suoi capolavori, “L’architetto”, 1922-23, raffigurato nel suo studio ricco di numerosi elementi simbolici: dalla colonna col capitello corinzio al pilastro, dalla porta al vaso; lo sguardo non è rivolto alle carte davanti  a lui ma a un orizzonte lontano, per il significato che l’artista gli attribuiva, non solo progettista di edifici, ma costruttore di città e della stessa Nazione.

Altrettanto espressiva “Venere”,  1923-24,  in cui rifulge la sintesi compositiva nelle linee nette e nel rilievo della figura con il seno nudo tratta dal mito ma attualizzata in un’ambientazione moderna in cui invece della mela c’è un fruttiera con diversi frutti, un pomo ma anche un grappolo d’uva. Di classico c’è una testa scolpita su un pilastro, con cui sembra confrontarsi la figura in una posa statuaria. “Corpo vivo e scultura allora si confondono –  commenta la Pontiggia – in una metamorfosi di ascendenza metafisica che preannuncia già il realismo magico”.

Scultorea anche “Solitudine”, 1925,  stesso seno sinistro nudo, sembra la Venere disposta di profilo, la veste bianca invece che nera, l’espressione non è assorta ma severa, riflette l’isolamento quasi claustrofobico come in un maniero con uno stretto arco dechirichiano dal quale guarda fuori in attesa di qualcosa o di qualcuno. Più che il lato psicologico viene apprezzato il lato compositivo,  la forma architettonica dell’ambiente, la solidità e compattezza dei volumi.

Nello stesso anno un’altra figura di “Architetto”, 1925,  meno intensa della precedente ma con una  sua nobiltà che richiama il “ritorno all’ordine”  nella nuova centralità della figura umana dopo le deformazioni delle avanguardie. Ad essere deformata è l’architettura con l’accostamento anomalo di una colonna sotto a un arco senza alcun motivo, vi viene vista l’espressione del “realismo magico”. La figura e l’ambiente hanno comunque un che di metafisico.

Con “Il pescivendolo”, 1925-26, nobilita il lavoratore di un mestiere ritenuto umile, in una straordinaria finezza di lineamenti nel profilo da scultura greca. Il corpo nudo fino alla cintola è statuario,  spicca sul vano chiaro della finestra, sul banco dove appoggia le mani si vedono delle forme confuse, il pesce. E’ un’evoluzione del precedente “Il povero pescatore”, 1925, non in mostra:  stessa figura statuaria a torso nudo forse più imponente, in basso si intravede la rete dei pesci,  lo sfondo questa volta è nero.

Partecipa ad una serie di mostre con gli altri “Novecentisti”, dalla Biennale di Venezia del 1924 alla Biennale romana del 1925 con “Il povero pescatore”,  nel 1026 mostre a New York e a Parigi con gli altri artisti italiani contemporanei, poi il rifiuto ad altre esposizioni, tanto che nella mostra dei “quindici artisti del Novecento”  a Milano nel 1927 furono presentati solo “quattordici artisti” per la sua defezione all’ultimo momento; ma partecipa alle mostre di Ginevra con 9 opere e di Amsterdam con 2 quadri. Nel 1928 partecipa  a due mostre collettive a Milano ma rinuncia alle mostre del “Novecento” ad Amburgo, Lipsia e Madrid.

Motivo di queste rinunce? Crisi depressive ed eccesso di impegni legati al ruolo assunto da  “Novecento”  di cui è il massimo esponente, con la Sarfatti: entra nel direttorio del Sindacato artisti e nelle giurie,  scrive critiche d’arte  sul “Popolo d’Italia”, cura gli allestimenti di esposizioni e i padiglioni per mostre internazionali, lavora per il teatro, fa l’illustratore e il grafico, mentre continua ad impegnarsi per “Novecento”.  Realizza così – commenta la Pontiggia – “il sogno dell’artista completo che è insieme pittore, scultore, architetto, decoratore e scenografo”.

Il nuovo paesaggio urbano e  il paesaggio  montano

Tra il 1926 e il 1928 torna il paesaggio urbano, con temi legati al lavoro. “Paesaggio urbano”, 1926, presenta la consueta solidità volumetrica nelle case contadine non allineate come nelle altre raffigurazioni, ma sfalsate, in una semioscurità rischiarata da due fonti luminose: il mantello del cavallo che sulla sinistra traina un carretto immerso nel buio e la facciata di una casetta in lontananza, sotto un’alta ciminiera all’estrema destra. E’ come se fossero i poli di due realtà opposte, la civiltà contadina che si allontana e la modernità industriale che resta padrona del campo. In  “Paesaggio urbano con ciclista, 1928-30, non in mostra, l’ antinomia sarà tra carretto e ciclista.

Prima di questa diversa raffigurazione della contrapposizione tra tradizione e modernità ci sono opere sul tema in cui sembra passare il Rubicone della modernità per sposarla senza riserve, cosa che può sorprendere in un artista così legato alla classicità e refrattario alle avanguardie.

In un altro “Paesaggio urbano”, 1927, occupano gran parte del quadro 4 gigantesche ciminiere che si stagliano come delle torri su 2 volumi scuri e squadrati; al loro fianco un caseggiato bianco in forma prospettica che richiama la casetta dell’opera del 1926, anche in quel quadro sovrastata dalla ciminiera. A questo dipinto viene accostata una tavola del 1925 per la pubblicità e una dello stesso anno per “Il Popolo d’Italia” ad esaltazione del modernismo incalzante. L’attenzione volumetrica e architettonica dell’artista è evidente nelle linee ortogonali e nella vertiginosa verticalità delle ciminiere contrapposta alla struttura del caseggiato che si sviluppa in orizzontale: anche questo può essere un modo per esaltare la modernità della civiltà industriale.

Due ciminiere  si vedono anche nel terzo “Paesaggio urbano”  di questo periodo (1925-28) esposto in mostra; ma sono appena percepibili in un addensamento di edifici di gran lunga prevalente sui simboli della modernità, anche se questa si avvale dell’immagine del tram giallo che risale la strada deserta in una visione dall’alto che lo fa sembrare miniscolo rispetto alle case la cui facciata ha solo una o due finestre su cui batte la luce e l’altra facciata con il tetto immersi nel buio. Colpisce la netta diversità tra la parte destra, precisa nell’architettura degli edifici e nitida nei giochi di luce, e la parte sinistra più confusa di tipo espressionista.

Dalle periferie urbane alla montagna il passo sembrerebbe lungo, ma la sua famiglia ne era appassionata e lui stesso, oltre ad andarci per la villeggiatura estiva sin dalla giovinezza, vi era stato a lungo in trincea da volontario alla Grande guerra. In “Paesaggio montano”, 1927,  vediamo una rappresentazione con i monti viola sullo sfondo, delle case, una chiesa e relativo campanile in primo piano, in mezzo un laghetto di montagna dalle acque scure  con macchie luminose.  Anche se si è creduto di trovarvi le caratteristiche delle località di montagna lombarde, è tutt’altro che una rappresentazione realistica della natura: nessuna cura dei particolari, si vuole magnificare la maestosità della vallata con una forza drammatica che sovrasta ogni presunta apparenza idilliaca.

Ben diverso é “Vette”, 1931, la nuda roccia nell’imponenza dei volumi segnati da ombre cupe, “la montagna non è giardino ma tragedia”, diceva l’artista, sono quattro guglie, ricordano vagamente le tre cime di Lavaredo sdoppiate, come il quadro “Rocce cadenti” del 1854, che Sironi forse conosceva, avendo citato come “splendido esempio, Courbet, nei suoi romantici paesaggi alpestri”.

I richiami arcaici, dalla famiglia al lavoro

Nessuna visione idilliaca in “La famiglia”, 1927-28,  che, scrive la Pontiggia, “rappresenta un’umanità delle origini, un gruppo di famiglia senza tempo ritratto sulla sfondo di un paesaggio primordiale”.  Si vede la madre seduta che prende in braccio il piccolo, il padre in piedi a torso nudo guarda la scena interrompendo il faticoso lavoro, le loro figure vengono accostate a Masaccio e anche a Picasso; l’ambiente in cui si trovano si apre su uno sfondo montano imponente, si intravede un pilastro e uno scalino sulla sinistra, tutto sembra scolpito nella roccia. La Pontiggia aggiunge: “Da tutta la composizione si sprigiona un senso di arcaica energia e insieme di biblica solennità, le figure si stagliano immobili davanti ai millenni”.

Arcaico, rispetto al modernismo di tante opere precedenti, sembra essere anche “L’aratro“, 1928, che fa parte di una serie di opere dedicate al tema, dal 1925 al 1944, al quale si era interessato anche in gioventù copiando “L’Aratura” di Segantini. Ma questa considerazione è sovrastata dalla presenza ammonitrice, dietro il contadino chino sull’attrezzo trainato da un bue rischiarato dalla luce, di un’erma con la testa a forma di teschio, che sembra contrapporre alla fertilità dei campi l’evocazione della morte. Ma questo  non sembra avere un significato negativo, viene visto come la riaffermazione dei valori della vita come missione da compiere pur se il destino dell’umanità è espresso nell’erma, tra l’altro utilizzata  dagli antichi, e forse anche qui, come segno beneaugurante.

Un richiamo arcaico alle origini dell’uomo viene trovato anche nel “Contadino”, 1928: in “L’Aratro”  spingeva a fatica l’attrezzo curvo in avanti, qui si appoggia alla vanga per riposarsi, ma non appare fragile e contratto come in tante raffigurazioni, né schiacciato dalla pesantezza del lavoro:  è una figura monumentale e composta, domina l’albero al suo fianco e la casa dietro di lui. Viene assimilato a un’opera sullo stesso tema, “La vanga”, 1928,  in entrambe le opere la luce batte sull’attrezzo. Così si espresse la Sarfatti: “Grandiosa come un frammento di pittura antica, religiosa e solenne con patriarcale semplicità’, si riferiva a “La vanga”, ma concordiamo con il commento della Pontiggia: “Sono parole che si possono riferire anche al ‘Contadino’, che della ‘Vanga’ è contemporaneo”.

I paesaggi, dunque, non sono più urbani ma di ambiente contadino, senza intenti descrittivi e tanto meno pittoreschi; e hanno un riflesso lirico come  retaggi di un mondo arcaico, solido ed armonioso, e un respiro teatrale.

Nel 1929  partecipa a tre mostre con il gruppo del “Novecento”: a Nizza, a Ginevra-Berlino, a Parigi; nel 1930  ad altre due rassegne “novecentiste”, a Basilea-Berna e Buonos Aires; nel 1931 a una mostra itinerante da Stoccolma agli altri paesi nordici. Nel frattempo è presente alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma che gli dedica una intera sala: “Entrambe, segnano l’acme di una crisi espressionista” dovuta alla sua concezione tragica dell’uomo.

La “crisi espressionista” e il nuovo classicismo

Il segno diventa via via meno stilizzato, si ispessisce ed è più materico, sia nei nudi che negli altri soggetti; alla classicità subentra “una tensione romantica, un pathos concitato” che fece definire “neoromantici” lui e gli altri del “Novecento” lombardo. Alla fine del decennio la sua pittura si sofferma sui lavoratori di ogni attività, visti senza la retorica del lavoro o il realismo della fatica ma in chiave mitica come simboli di nobiltà; diventa mitico pure il paesaggio, mentre dipinge anche alcuni personaggi della mitologia antica. 

Abbiamo visto i lavoratori del mondo agricolo, troviamo ancora un “Pescatore”, 1930, ma ben diverso dal “Povero pescatore” che abbiamo associato al“Pescivendolo”, entrambi idealizzati nella nobiltà e nella bellezza dei lineamenti come del corpo nudo da statua greca, mentre i pesci erano poco visibili e comunque ordinati. Qui invece occupano il primo piano come una massa informe si cui si cala una mano rossa altrettanto informe, del lavoratore spiccano le braccia nude, il resto del corpo emerge da uno sfondo corrusco; il viso è segnato come una maschera drammatica, si fa fatica ad attribuire questi dipinti allo stesso autore.  E’ un segno alla Rouault e non disdegna le sgocciolature del pennello. “‘Insieme monumentale ed approssimativa la figura acquista una ‘bellezza sensibile, per usare le parole della Sarfatti”, commenta la Pontiggia.

Dei nudi,  maschili e  femminili, spiccano in alcuni dipinti del 1929-33 ispirati  a temi classici.

In “Composizione (Architettura con vestale e atleta)”, 1929, è evidente la derivazione dal “Doriforo” di Policleto, ma senza estetismo classicheggiante né vitalismo futurista, bensì con una tensione verso un qualcosa di elevato, che va ben oltre l’aspetto fisico: la missione dell’uomo che sovrasta l’individuo. La figura femminile di vestale sulla destra con la veste bianca è una fonte di luce, il tutto in un ambiente classico con le consuete incongruenze architettoniche.

Un torso maschile nudo in “Busto virile”, 1931-33,  la cui straordinaria monumentalità fa pensare che fosse uno studio preparatorio per un lavoratore della  pittura murale sulla “Carta del lavoro”, oppure per l’affresco “Il lavoro”; ricorda soprattutto nel braccio sinistro la positura di “Il pescivendolo”.Ha chiare ascendenze classiche nella statuaria degli atleti, ma è propria dell’artista la fierezza e la nobiltà della figura in cui si incarna il valore fondamentale  del lavoro: il busto eretto, i muscoli tesi in un’anatomia perfettamente modellata ne sono l’espressione visiva.

Il nudo femminile “Nudo e albero”, 1929-30, si ispira alla “Niobide” degli Horti Sallustiani, la statua classica sulla vendetta degli dei che la trafissero con i quattordici figli. E’ una figura potente e drammatica, le braccia levate per strapparsi la freccia dalla schiena, invisibile come nella Niobide, la disperazione nel viso. Il suo urlo, scrive la Pontiggia, ” esprime un dolore universale, che sembra riecheggiare  silenziosamente nel tronco mutilato  e nelle scabre montagne sullo sfondo”. C’è tutto Sironi in questo dipinto, l’ispirazione classica, la monumentalità della figura e la cura dei volumi, la drammaticità per la condizione umana; lo stile pittorico è quello del periodo, non più nitidezza ma pesantezza del segno quasi volesse accompagnare l’accentuarsi della visione drammatica.

La stessa posizione delle braccia in un’altra figura anch’essa mitica,  “La vergine delle rocce”,  1932,  un nudo dall’espressione altrettanto sofferente, anche se c’è minore solennità e il segno è più greve e materico. Domina le rocce in cui è come incastonata, l’albero e la casupola sulla vetta sono minuscoli rispetto alla sua monumentalità  che rimanda alle coeve pitture murali.

La “Composizione (San Martino)”, 1930, segna l’accentuazione dell’addensamento materico dal tratto espressionista nella pittura a macchie pesanti che tendono al rosso con bagliori luminosi che conferiscono una forte drammaticità alla scena. Sono “personaggi deformati e dolorosi che sembrano dipinti col sangue” fu il commento di Costantini  allorché fu esposto alla Quadriennale di Roma del 1931. La Pontiggia, nel riportare questo giudizio e quello di Marziano Bernardi secondo cui Sironi, per l’influenza di Rouault, “rifiuta ogni umanità”, replica: “In realtà quest’opera non rifiuta affatto ‘ogni umanità’, ma è anzi umanissima nel colloquio muto fra il santo e il povero (supplice  ma imponente perché, pur accennando a  inginocchiarsi, è ben più alto del cavaliere)”. E nota come San Martino non si limita  a donare parte del mantello ma se ne priva del tutto e resta nudo anche lui per condividere la condizione del povero. In fondo,  la stessa condizione umana.

Concludiamo l’excursus nelle opere degli anni ’20 esposte in mostra con “Natura morta“, 1926, l’abbiamo isolato perché è uno dei pochi dipinti di un genere da lui non prediletto, tanto che lo riteneva espressione dell'”impotenza immaginativa della pittura contemporanea”. Il carattere intimo e quotidiano, che toglie ogni tensione a questo genere, era in contrasto con la sua pittura, ma in questo dipinto si impegna nella “missione impossibile” di rendere la natura morta congeniale con i suoi contenuti di artista.  Ci riesce evidenziandone  i volumi con tre vasi accostati  e accentuando le ombre che anneriscono i contorni dei frutti, ottenendo un risultato di forte drammaticità.

Termina così la rassegna delle opere degli anni ’20 e dei primissimi anni ’30 in cui si esprime compiutamente la sua maturità con un’evoluzione stilistica e compositiva pur nella persistenza dei suoi motivi fondamentali. Prossimamente le pitture murali degli  anni ’30, il riflusso nei quadri degli anni ’40 e l’epilogo con la “damnatio memoriae” del primo dopoguerra.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso:  intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492. In questo sito l’articolo precedente sulla “grandezza e la tragicità”, il 1° dicembre 2014, ne seguiranno due, tra dicembre e i primi di gennaio 2015, sempre con 10 immagini ciascuno. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su  “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo”  il 2 marzo 2014 ;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009,  su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo”  il 30 aprile e 1° settembre 2009.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Venere”,  1923.24;  seguono “Il tram”, 1920 e “Il molo”,  1921;  poi “L’architetto’, 1922-23, e “”Solitudine”, 1923-24; quindi  “Paesaggio urbano”, 1925-28 e “La famiglia”, 1927-28; infine “L’aratro”, 1938,  e “La vanga”,1928; in chiusura “Le vette”, 1931.

Memling, 2. Ritratti e dipinti devozionali, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale, dall’11 ottobre 2014 al 18 gennaio 2015, la mostra “Memling. Rinascimento fiammingo” espone le opere di Hans Memling, dedicate alla ritrattistica e sulla pittura devozionale per uso pubblico e privato. Le mostra, organizzata dall’Azienda Speciale Expo con Arthemisia, è curata da Till-Holger Borchert;  lo splendido Catalogo, a cura dello stesso, è edito da Skira, sono in programma incontri sull’arte fiamminga e visite guidate a tre importanti opere. Si inserisce nel ciclo delle mostre sugli “Old Masters”, come Antonello da Messina, Bellini e Lippi.

Delle iniziative di contorno alla mostra abbiamo dato conto in precedenza, come abbiamo cercato di inquadrare l’arte di Memling nel contesto in cui si è manifestata: il Rinascimento fiammingo, di cui è stato un protagonista, che ha preceduto e influenzato per molti versi il Rinascimento italiano.

Abbiamo già ricordato alcuni aspetti della vita di Memling approdato a Bruges, centro commerciale e finanziario con filiali di banche fiorentine e una classe agiata con una comunità italiana aperta alla committenza verso un artista di cui sentiva l'”appeal” per la sua particolare produzione pittorica a olio su tavola: con  grande impiego della paesaggistica negli sfondi delle opere devozionali e dei ritratti, questi ultimi nell’originale posizione a tre quarti rispetto alla posizione di profilo degli artisti italiani. C’è una verisimiglianza particolarmente spiccata nel suo realismo anche per l’estrema precisione e nitidezza dei dettagli, con una luminosità tutta speciale. E poi le innovazioni compositive come nella “narrazione”, e quelle relative all’impiego delle opere devozionali per uso personale anche in viaggio con piccoli  polittici portatili o tondi da tenere in mano.

Una mostra diversa dalle tante altre con pale d’altare e opere a soggetto religioso che colpiscono per la loro imponenza. Qui colpisce l’opposto, la nitidezza e precisione nelle piccole dimensioni fino alle miniature, che l’allestimento valorizza con l’uso della luce moltiplicandone l’effetto.

Emerge l’intimità di una pratica devozionale interiore e discreta, se ne resta  profondamente colpiti. per la “rara bellezza e l’alta qualità”, sono le parole dal presidente dell’Azienda Expo Franco Bernabè. Non si può che sottoscriverle, bellezza e qualità le troviamo nei due piani della mostra. 

I due ritratti emblematici, “testimonial” della mostra

All’ingresso accolgono i visitatori due ritratti emblematici, i “testimonial” dell’esposizione: “Ritratto di donna”, 1480-85 e “Ritratto d’uomo con una moneta romana” , 1473-74.

Il primo è un  delicato ritratto femminile, lo sfondo neutro fa risaltare  il viso e  la scollatura,  manca la parte inferiore con le mani e non si conosce l’identità;  la si conosce invece per il ritratto di “Sibylla Sambetha”, il volto e gli occhi che guardano altrove presentano  analogie, a noi richiama “La dama dell’Ermellino”,  la nostra è solo un’associazione visiva, non un riferimento critico.

L’altro ritratto-simbolo  sembra raffiguri Bembo, ambasciatore veneziano alla corte di Borgogna che nel  1473-74 soggiornò nelle Fiandre e nel 1475 fu ambasciatore a Firenze dove  portò con sé questo quadro con la moneta, che  può aver ispirato Botticelli nel “Ritratto d’uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio”. e Leonardo nel “Ritratto di Ginevra de’ Benci” . E’ l’unico con lo sguardo verso l’osservatore e non altrove e con la testa non rivolta sulla sinistra come negli altri ritratti.

Dopo questo inizio folgorante, l’esposizione  ripercorre la vita e la carriera di Memling in una carrellata di storia pittorica e personale illustrata dalle opere appartenenti ai diversi periodi o ai diversi temi analizzati.

Dai  trittici degli esordi alla “ritrattistica”, fino alla “narrazione”

Nella sezione sugli “Esordi” è interessante il riferimento al più celebre pittore di allora, Roger van der Weiden, del quale è esposto il “Compianto del Cristo morto”, 1460-65,  accostato al celebre “Trittico di Jan  Crabbe”, che  fu commissionato a Memling  poco dopo il suo arrivo a Bruges per il 15° anniversario del prelato Crabbe. Si avverte l’influenza di van der Weiden nello stile e nell’iconografia, mentre nei due pannelli esterni sull’Annunciazione c’è tutto il realismo di Memling, con immagini “in carne e ossa”, e non  idealizzate, dell’incarnazione di Cristo.

Dagli esordi a “Un incarico ambizioso”  il passo è breve  in termini cronologici e in termini espositivi,  l’incarico è per Il Giudizio Universale”, siamo nel 1467-72, poco dopo il suo arrivo a Bruges. L’opera è’ riprodotta in video perché  dichiarata non trasportabile a causa della sua delicatezza,  quasi un contrappasso nella vita tormentata del dipinto, rubato dai pirati anseatici nel trasporto in Italia, e finito a Danzica. Committente Antonio Tani, il banchiere fiorentino direttore della filiale di Bruges del Banco Mediceo  che lo volle per la sua cappella privata della Badia di Fiesole, dove il quadro non arrivò mai.

E’ una composizione molto ricca con tante figure quasi filiformi di stile nordico, richiamano visivamente Cranach, protagonista dell’algido Rinascimento tedesco;  pur nell’assenza giustificata dell’originale, si può analizzare per lo scorrere sul video di un gran numero di ingrandimenti dei sottili corpi nudi  delle anime nell’al di là. Spicca al centro la grande figura di san Michele Arcangelo  con la spada, che colpì la fantasia al punto di essere riprodotta in modo pressoché identico in un dipinto anch’esso di grandi dimensioni  opera  di un Anonimo napoletano del 1490-500, esposto vicino al video del “Giudizio Universale”. .

Dopo  questi  grandi Trittici la mostra cambia passo, torna ai piccoli ritratti presentati in apertura. La sezione “Maestro ritrattista” ne presenta  8, rappresentativi di un filone fortunato, dato che i banchieri e il ceto facoltoso di Bruges, e non sole le élite aristocratiche, ne commissionavano anche in dittici  e trittici devozionali. Sono piccoli,  per lo più 30 x 40 cm,  tutti con la testa a tre quarti e lo sguardo verso sinistra, l’eccezione è stato il ritratto di apertura che ha anche il fondo neutro.

Lo stesso  fondo  neutro  si nota in “Ritratto d’uomo”, 1475-80, e “Ritratto di giovane uomo in preghiera”, 1485-1490,  mentre gli altri ritratti esposti hanno  uno sfondo paesaggistico. In “Ritratto d’uomo”,1470-75, il personaggio non è stato identificato,  lo sfondo è un paesaggio idilliaco, con alberi e costruzioni, la figura a mezzo busto è divisa dalla sfondo da una cornice, come una finestra, che fa spiccare ancora di più il primo piano; mentre in “Ritratto di ignoto in un paesaggio”, 1475, invece della cornice c’è una balaustra dietro la testa all’altezza del collo e una più in basso dove si appoggia. Quasi immerso nel paesaggio è “Ritratto di giovane”, 1480, dove non ci sono elementi di separazione, anche se la mano è appoggiata su una balaustra invisibile.

I “Ritratti di William Moreel e Barbara von Vlanderbergh”, 1480, dovevano essere gli scomparti laterali di un piccolo trittico omonimo, essendo di 30-40 cm, ben più piccoli delle componenti del grande “Trittico Moreel”: a differenza degli altri sono all’interno di una loggia, ciononostante il paesaggio sullo sfondo è molto ampio, su due livelli, uno vicino alla loggia e l’altro più lontano.

Segue logicamente il grande “Trittico Moreel”, che in mostra è collocato al centro del lungo ambiente espositivo all’interno di una apposita vetrina protettiva. Fu commissionato da una delle famiglie più ricche di Bruges per l’altare della famiglia nella chiesa cittadina di San Giacomo: era una famiglia di origini italiane che aveva fatto fortuna con il commercio delle spezie e l’attività bancaria. .Il grande pannello centrale, di 140 x 170,  raffigura San Cristoforo che porta  Gesù Bambino sulle spalle con a lato i santi  Mauro ed Egidio.

Nei due pannelli laterali i committenti in ginocchio con i rispettivi santi protettori la cui mano è sulla loro spalla e i figli allineati dietro, Willem Moreel con il santo Guglielmo di Malavalle e i 5 figli maschi, la moglie Barbara con santa Barbara e le 11 figlie femmine; nel verso san Giovanni Battista e san Giorgio come fossero statue nelle nicchie. Anche le dimensioni dei pannelli laterali sono ragguardevoli, 140 x 86 cm, nell’insieme è il suo più grande dipinto esposto. E’fondamentale nell’arte fiamminga  per la paesaggistica, molto curata con verde, alberi e costruzioni, e per la ritrattistica di gruppo a diversi piani prospettici.

La mostra prosegue in crescendo con “Memling narratore”, non solo ritratti di gruppo ma composizioni molto elaborate in cui più eventi sono raffigurati simultaneamente in una rappresentazione panoramica di tipo teatrale; le immagini si sviluppano in una sequenza che  pone gli eventi  in successione logica e temporale  presentandoli insieme nella stessa sede pittorica.

Lo vediamo nella “Passione di Cristo”, 1470, ritenuta una delle prime sue opere a carattere  “narrativo”, esposta in mostra vicino al dipinto del 1500 sullo stesso tema di un seguace che ne riprende forma e contenuto in un trittico che non ha né può avere la continuità narrativa di Memling. Gli fu commissionata  da Tommaso Portinari, che dirigeva la filiale di Bruges del Banco Mediceo, il quale la portò a Firenze dove fece scuola: al riguardo  è esposto un dipinto di Gaspare Sacchi, “Scene della vita di Cristo”, 1520-30, dalla composizione affine nell’ambientazione  in nicchie e comparti, sebbene si dia più spazio alla campagna rispetto al complesso urbano abitativo.

E’  un’opera permeata di religiosità medioevale, come se si svolgesse un pellegrinaggio sulla salita del Calvario ripercorrendo i vari momenti della Passione, da riscoprire con una lettura attenta e meditata, muovendo lo sguardo da sinistra a destra e spostandolo dal primo piano allo sfondo; l’intento era farli rivivere nel raccoglimento interiore, e non sappiamo se vi fossero collegate le indulgenze come avveniva qualche volta in quel periodo.  

Per presentare contemporaneamente i  momenti molto diversi della Passione, come luogo e come tempo,  l’artista ha scelto la prospettiva dall’alto e un gioco di luci che rende il giorno e la notte  compresenti nel quadro. Il percorso spirituale che culmina con il Golgota e l’immagine delle tre croci è inserito in una sorta di complesso monumentale con le  figure umane collocate all’interno di enclave abitative o in esterni urbani molto raccolti;  al culmine di architetture elaborate con torri e cupole spicca la collina del Calvario con il Cristo a terra inchiodato sulla croce, poi i tre crocifissi eretti, fino alla deposizione dalla croce. Pur nelle dimensioni molto contenute, 50 x 90 cm circa, le figure sono numerosissime,  brulicano tra le torri e le cupole, gli archi  e le guglie di Gerusalemme.

Il “Trittico della Crocifissione”, 1480-85,  sviluppa in primo piano il tema che nella “Passione di Cristo” è quasi sullo sfondo sebbene al culmine, quasi visto in una lontananza siderale. Anche qui le figure si affollano, e la sequenza narrativa si realizza non in modo unitario come nel grande complesso urbano della “Passione”, ma in  tre comparti: dal laterale sinistro con Cristo sotto il peso della croce nella salita del Calvario, al grande pannello centrale con i tre crocifissi intorno ai quali si accalca la folla, fino alla Resurrezione nel pannello destro con Cristo fuori dal sepolcro.

La prima galleria della mostra è terminata, si sale al piano superiore dove prosegue la “narrazione”. Con altre sorprese in una continuità di motivi e di temi che contiene sempre elementi di novità.

Dai  piccoli polittici devozionali ai confronti con artisti italiani e fiamminghi

 “Il rinnovamento dell’immagine devozionale” si intitola la sezione dove è esposta una serie di piccoli dipinti; il rinnovamento viene collegato alla nascita  della “devotio moderna”, con il culto popolare legato alla natura umana di Cristo e quindi portato a emularne l’umiltà nella vita e la sofferenza nella passione, in attesa del giorno del Giudizio.

Si tratta di dittici e trittici, una sorta di  piccoli polittici di uso privato, meno legati alla liturgia curiale e più aderenti alla religiosità del proprietario, che accompagnavano anche in viaggio, venivano aperti per poter toccare e baciare le sacre immagini, poi richiusi. Le piccole dimensioni, in uno stile pittorico orientato al realismo, impegnavano l’artista in un precisione quasi da miniatura, e il suo virtuosismo si spingeva fino ad evidenziare dettagli anche insignificanti. Mentre l’uso privato, e intimo, faceva personalizzare l’iconografia secondo le preferenze devozionali del committente.

Si inizia con il “Trittico di Adriaan Reins”, 1480, il cui pannello centrale, di 44 x 36 cm., reca la deposizione dl Cristo dalla croce, nel pannello di sinistra il committente in ginocchio in adorazione con il protettore nella sua armatura in piedi, la mano sulla spalla, nel pannello di destra santa Barbara, il tutto con uno straordinario paesaggio  sullo sfondo:  al centro le cupole e i templi di Gerusalemme, ai lati gli alberi e la campagna; sul retro degli “sportelli” laterali  due immagini di sante, una martire e una eremita, entro arcate traforate che richiamano la struttura della cappella.

Nel “Trittico della Resurrezione”  torna  sul pannello centrale la figura di Cristo, dentro una cornice circolare, mentre esce dal sepolcro aiutato dagli angeli con le guardie addormentate, sullo sfondo il Golgota con le tre croci;  nel pannello di destra la scena prosegue con la Santa Madre e gli Apostoli che guardano in alto Cristo  ascendere in cielo se ne vedono sono i piedi, mentre  la figura di san Giovanni di spalle chiude il cerchio, nel pannello sinistro il corpo nudo di  san Sebastiano,

Cristo  trionfante non nella Resurrezione ma in trono come “Salvator mundi” è al centro di un’opera molto particolare, il “Trittico della vanità terrena e della salvezza divina”, 1485: è circondato da 4 angeli, ma è l’unica immagine religiosa in una composizione allegorica – una delle tre pervenute di Memling – che per i suoi insoliti contenuti si è dubitato a lungo fosse riconducibile a lui: Il Salvatore  rappresenta la salvezza rispetto alla dannazione dell’inferno per la vanità, per alcuni la lussuria, raffigurata sul retro nel corpo nudo di una donna che si guarda allo specchio, collegata al teschio che ricorda la morte, mentre i cartigli contengono ammonizioni sulla fine del mondo e sulla redenzione dell’umanità. Anche quest’opera ha un committente italiano, di famiglia bolognese, il mercante Giacomo di Giovanni d’Antonio Loiani..

Ci sono poi i due laterali esterni raffiguranti “Santo Stefano e San Cristoforo”, 1480, con uno sfondo molto elaborato e monumentale. Facevano parte del  “Trittico del riposo durante la fuga in Egitto”, conservato al Louvre e non esposto in mostra, nel pannello centrale  la Madonna col Bambino in piedi dinanzi a uno sfondo roccioso, mentre san Giuseppe lontano coglie i frutti da un albero, un santo e una santa nei pannelli laterali in cui continua il paesaggio del pannello centrale,

Di piccole dimensioni anche i tondi  devozionali, potevano essere girati tra le mani dal devoto in preghiera avendo un diametro di soli 18 cm. Ne sono esposti due con che raffigurano la “Madonna col Bambino (Maria lactans)”, 1475-80, uno di Memling, l’altro della sua scuola che ne ricalca la forma senza avere la stessa straordinaria luminosità e trasparenza dell’incarnato nel tenero momento dell’allattamento.

Con la sezione “L’affermazione artistica”,  prosegue  la galleria di opere devozionali. Particolare rilievo ha l’iconografia della Vergine, tra le altre la  “Madonna col Bambino”, 1485,  in piccole dimensioni, poco più di 40 x 30 cm. E’ un tema prediletto da Memling che doveva avere schemi precostituiti  cui apportava di volta in volta varianti in funzione delle committenze. Ritroviamo la mela data al Bambino come ammonimento del peccato originale con l’innovazione della balaustra coperta da  un prezioso tappeto su cui appoggia il Bambino. Sono esposte a confronto due opere:dallo stesso titolo: quella successiva di Bernardino Luini, 1500, con molte assonanze stilistiche e il motivo della balaustra sviluppato in un parapetto su cui è disteso il Bambino; quella precedente di Hugo van der Goess, 1475-80,in cui ritroviamo la posizione e le fattezze dei soggetti, ma non la delicatezza del dipinto di Memling.

Rivediamo i comparti di un trittico, sono incompleti e  raffigurano “San Pietro (recto) e San Francesco d’Assisi (verso), Santa Elisabetta d’Ungheria  (recto) e San Bernardino da Siena (verso)“, 1485-1490:  austere figure nei loro sai, due in nicchie senza sfondo, quasi delle statue, due  in logge con sfondo paesaggistico.

Nelle sezioni “Un Rinascimento fiammingo”  e “Memling in Italia” viene evidenziata soprattutto  l’influenza dell’arte fiamminga, e in particolare di Memling, su quella italiana del periodo, e viene anche ricordata l’influenza indiretta sull’artista tramite la committenza le cui preferenze erano da lui recepite puntualmente e a poco a poco entravano nel suo stile, come si è visto per il paesaggio.

E’ esposto il “Trittico Pagagnotti”, 1480,  di piccole dimensioni perché per la devozione privata,  nel pannello centrale c’è Cristo bambino tra le braccia materne della Madonna con ai lati due angeli musicanti, su un trono sotto un sontuoso baldacchino con dei putti che sorreggono dei festoni in alto: è l’innovazione che troviamo dal 1480, su ispirazione degli antichi e forse di Donatello. Nei pannelli laterali due santi, nello sfondo un paesaggio agricolo con case di campagna e gli alberi dalla caratteristica forma cilindrica. A differenza del Trittico di Reins, il committente non è riprodotto nel pannello laterale, inoltre è  italiano, Benedetto Pagagnotti, vescovo di Firenze e poi di una diocesi francese.

E’ molto simile per soggetto e composizione al pannello centrale del “Trittico Pagagnotti” la “Madonna col Bambino e angeli”, 1480-85, di nuovo gli Angeli musicanti e il sontuoso baldacchino con dietro un paesaggio più monumentale;  e il particolare che l’angelo di sinistra offre al Bambino una mela, l’immagine simbolo del peccato e della redenzione. Viene evidenziata l’influenza sulla pittura italiana esponendo  il “Trittico della trasfigurazione” di Sandro Botticelli.

Un altro confronto diretto viene operato per il “Cristo benedicente”, 1485,  con il dipinto dello stesso titolo del Ghirlandaio, 1490: la somiglianza è tale da essere una copia vera e propria anche nei dettagli, come le gocce di sangue che scendono sulla fronte dalla corona di spine, sono state aggiunte solo due colonne in porfido quasi indistinguibili sullo sfondo scuro. L’opera di Memling, 50 x 30 cm,  è parte di un dittico con la “Mater dolorosa”, raffigurata quasi come una suora.

Ritroviamo un “Cristo benedicente (Salvator Mundi)”, 1480-85, ancora più piccolo, 35 x 25 cm, il busto è raffigurato in una cornice dorata  con nuvole scure, l’atteggiamento è ben diverso, assorto e protettivo. Mentre torna il “Cristo dolente”, 1490, in una specie di  miniatura di circa 10 cm.

I confronti con dipinti di altri pittori non riguardano soltanto gli artisti italiani fin qui citati. Nella sezione “Rivali e concorrenti” sono esposti i quadri, alcuni di grandi dimensioni, di artisti restati anonimi cui è stato attribuito un nome inerente i soggetti rappresentati. Si tratta del “Maestro della leggenda di sant’Orsola” con due opere del 1480:  il “Trittico di Paolo Pagagnotti”,  lo stesso committente italiano di Memling, la Madonna col Bambino nel pannello centrale, il committente in ginocchio con il protettore in piedi nel pannello sinistro, Cristo in quello destro; e  la “Madonna  con Bambino e quattro santi”,  originale composizione che vede i santi schierati ai due lati frontalmente.

Due opere sono del “Maestro della leggenda di santa Lucia”:  il monumentale, rispetto agli altri, “Santa Caterina d’Alessandria”, un’immagine regale alta 2 metri e “Madonna col Bambino”, 1485, altrettanto regale in trono con gli Angeli musicanti ai lati.  Vediamo poi una “Annunciazione e presentazione al tempio”  del “Maestro della leggenda di santa Caterina” e il “Trittico di sant’Andrea” del “Maestro di Andrea della Costa”.

Vogliamo concludere con il “Trittico di Clemente VII”  del “Maestro del fogliame ricamato” perché ci sembra possa assumere un valore di alto contenuto simbolico nei rapporti tra il Rinascimento fiamminga e l’Italia. Il trittico reca nel pannello centrale Cristo dolente con la corona di spine – che abbiamo già visto in Memling –  e la Madonna addolorata, nei pannelli laterali sant’Anna e santa Margherita, le dimensioni degli scomparti sono di circa 60 cm, con la sommità smussata.

Non fu commissionato, ma acquistato direttamente dal cardinale Giovanni di Lorenzo de’ Medici in un viaggio in  Europa nel 1499, dopo la cacciata dei Medici da Firenze, con lui viaggiò il nipote, cardinale Giulio de’ Medici. Il dipinto  dovette  portare loro fortuna, Giovanni divenne papa  Leone X  dal 1513 al 1521,  Giulio ne fu il successore come papa Clemente VII;  poi la fortuna sembrò cessare, nel 1527 ci fu il Sacco di Roma, il dipinto fu trafugato in Vaticano da un soldato spagnolo; ma mostrò di nuovo la sua forza perché il soldato temendo di incorrere nella dannazione per il sacrilegio lo consegnò nientemeno che ai frati agostiniani di Cagliari. Clemente VII  non lo riprese, anche lui scosso dal prodigio lo donò al Duomo di Cagliari con una prescrizione: l’obbligo di  esposizione ai fedeli ogni anno nella festa dell’Ascensione “ac honorifice ac devote”.

E’ una vicenda per noi emblematica nei rapporti del Rinascimento fiammingo con l’Italia: la “devotio moderna” fu un movimento popolare, e cosa c’è di più popolare dell’esposizione per la devozione dei fedeli a cadenza annuale nel mezzo secolo trascorso e nei secoli a venire?

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20.00; venerdì e sabato 2 ore e mezza in più, fino alle 22,30; entrata ammessa fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 12,00, ridotto per le categorie ammesse euro 9,50, tra 7 e 18 anni euro 6,00, riduzioni speciali per scuole e gruppi. Tel. 06.39967500 e 848082408.  Catalogo “Memling. Rinascimento fiammingo”, a cura di Till-Holger Berchet,  Skira, 2014, pp. 248,  formato 24 x 31. Il primo articolo, con altre 10 immagini, è uscito in questo sito l’8 dicembre 2014.  Per le mostre precedenti citate nel testo cfr. i nostri articoli: in questo sito su Filippino Lippi il 26 giugno 2013; in “cultura.inabruzzo.it” su Giovanni Bellini il  4 febbraio 2009, sui Pittori fiamminghi e olandesi alla Fondazione Roma il  9 febbraio 2009,  su “Cranach, l’altro Rinascimento”  alla Galleria Borgese il  10 e 11 febbraio 2011. 

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Azienda speciale Expo, il cui Ufficio stampa ringraziamo per la cortesia, tranne l’ultima ripresa dal catalogo dell’editore Skira, che si ringrazia per la concessione, Di Memling, in apertura, “Ritratto d’uomo con una moneta romana (Bernardo Bembo?)”, 1473-74 (?), Anversa,  seguono “Trittico di Jan Crabb”: Anna Willemzoon con sant’Anna (recto dello scomparto sinistro,  Willem de Winter con san Guglielmo di Malavalle (recto dello scomparto destro), New York, e “Ritratto d’uomo“, 1475-80, Londra, poi “Trittico Pagagnotti”: Madonna in trono col Bambino e due angeli (pannello centrale), 1480, Firenze, e  San Giovanni Battista (scomparto sinistro); quindi  “Trittico Moreel”, I santi Cristoforo, Egidio, Mauro (recto ),  San Giovanni Battista e San Giorgio (verso), 1484, Bruges e “Madonna col Bambino e angeli”, 1480-85, Washington; infine “Trittico della Resurrezione”: Martirio di San Sebastiano (scomparto sinistro), Ascensione (scomparto destro), Resurrezione (pannello centrale), 1480-85, Parigi, e “Trittico della vanità terrena e della salvezza divina”, 1485, Strasburgo; in chiusura, del Maestro del fogliame ricamato, “Trittico di Clemente VII”, sant’Anna, la Madonna e il Bambino, l’Addolorata con il Cristo dolente, Santa Margherita, 1500, Cagliari.

Albania e Serbia, verso l’Expo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Sono di scena Albania e Serbia, due paesi a noi vicini al Vittoriano, nel programma “Roma verso Expo”, con la presentazione  in due mostre quasi in contemporanea, dal 9 novembre al 9 dicembre 2014 . l’Albania nella Sala Zanardelli, ingresso piazza Ara Coeli, dal 5 al 16 dicembre sempre 2014 la Serbia nella Sala Giubileo  Ala Brasini ingresso Fori Imperiali. L’intero  programma è promosso da Roma Capitale, con la Regione Lazio, l’Unioncamere e i ministeri interessati, realizzato da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e da Zétema -Progetto Cultura.

Il progetto “Roma verso Expo”

Nel complesso monumentale le due esposizioni seguono le due precedenti, dello stesso programma “Roma verso Expo”, su Egitto e Slovenia, che a loro volta sono state precedute dalla mostra su San Marino, mentre il 2015 inizierà con la mostra sul Vietnam.  All’aeroporto di Fiumicino la presentazione di Kuwait e Israele negli stessi mesi del 2014 e del principato di Monaco  all’inizio del 2015.  Un programma molto fitto come si deve a una manifestazione di risonanza mondiale quale è l’Expo, con 140 paesi partecipanti e oltre 60 milioni di visitatori

La partecipazione di Roma all’evento che si svolge a Milano è ritenuta fondamentale per il suo ruolo di capitale, con la presenza delle ambasciate di tutti i paesi e degli Istituti di cultura, e per la forte attrazione della città eterna con il suo immenso patrimonio storico, archeologico e artistico.

Il complesso del Vittoriano è molto di più di una sede espositiva, anche se la sua struttura monumentale ha spazi quanto mai adeguati; è il simbolo dell’italianità, l’altare della patria, quindi quanto di meglio per la presentazione di  nazioni e  culture, in un ideale confronto; l’aeroporto di Fiumicino, dove si svolgono altre presentazioni, per  motivi ben evidenti è anch’esso molto adatto nella sua funzione di collegamento con il transito di milioni di viaggiatori di ogni nazionalità.

L’Albania                                

“L’Albania del cielo e del profondo blu” è il titolo della mostra che presenta il paese al di là dell’Adriatico, “fotografandone” le bellezze naturali. Abbianmo usato questo verbo perchè è una mostra di splendide fotografie, una galleria di visioni suggestive.

Sono spiagge della costa jonica e montagne, le Alpi albanesi con la vetta di Jezerca; valli fluviali e canyon, colline  e pianure, laghi e isole,  flora e fauna;  monumenti bizantini e post bizantini, chiese e monasteri, tesori archeologici. Tutto questo in foto artistiche che fanno pensare a quadri d’autore  Sono state pubblicate in due volumi dal titolo eloquente: “Archeologia albanese dal cielo”. .

L’antichità è il cuore della storia di questo piccolo paese posto in un importante crocevia internazionale, nel quale si sono incontrate diverse civiltà, l’ellenica  e l’illirica, la bizantina e l’ottomana oltre a quella romana. 

Il sito archeologico di Butrinti, che troviamo in diverse fotografie, posto sul lato meridionale del lago dallo stesso nome, che gli antichi chiamavano Pelodes, reca importanti testimonianze di una storia millenaria, ricostruita seguendo Apollodoro, che fa derivare il nome dal greco “bous”, cioè bue, e Dionigi di Alicarnasso secondo il quale il bue sarebbe stato offerto in sacrificio agli dei da Enea in transito verso il tempio di Dodona dopo aver lasciato Troia espugnata e distrutta dagli Achei; ne dà conferma Virgilio nel terzo libro dell’Eneide.

Nel quarto secolo a.C. Butrinti ebbe il massimo sviluppo, poi fu colonizzato da Roma nel 228 e un secolo dopo entrò nella provincia dell’Illiria, nel sesto secolo d.C. infine divenne centro religioso. La sua attrazione non deriva soltanto da questa lunga storia ma dalle sue bellezze naturali, è immerso nel verde lussureggiante e le fotografie esposte ne mostrano tutto lo splendore.

Bellezze naturali e testimonianza storica anche nel Cimitero degli eroi della 2^ guerra mondiale a sud ovest di Tirana, un Memorial posto in un luogo panoramico meta di turisti. Nel Museo storico nazionale della capitale si trovano i reperti del grande conflitto mondiale.

La Serbia

“Itinerarium Serbiae” si intitola invece la mostra di un altro paese a noi vicino, che non punta sulla natura ma sulla storia amtica., e in particolare sulla romanità.

Le attrazioni ambientali non mancano, nella cartina che è stata distribuita  si trova l’invito “scoprite la Serbia!” con esortazioni accompagnate da immagini eloquenti: “Scoprite la Serbia verde con una vacanza dinamica” e “navigate sul Danubio visitando le città”, “immergetevi nell’atmosfera dei villaggi tradizionali” e “gustate le specialità enogastronomiche”  fino all’invito  “scoprite il patrimonio storico-artistico”. Mentre le città, in particolare la capitale Belgrado, secondo l’invito, promettono una vita  notturna “vibrante e animata, in contrasto con la rilassante tranquillità delle province, dove la natura e l’ambiente offrono numerose occasioni di fuga dalla vita metropolitana”.

E’ stata ricostruita da tempo l’immagine di un paese e di un popolo sfregiata negli anni non lontani della dissoluzione della Jugoslavia dagli orribili episodi di “pulizia etnica”; ricordiamo il “mese della Serbia” all’inizio del 2012, con la mostra fotografica al Vittoriano su arte e cultura.

Il fulcro dell’attuale  presentazione è invece il richiamo alle antiche radici di una storia millenaria, alle civiltà scomparse di cui restano tracce nei siti archeologici e nei monumenti, nelle chiese e nei monasteri.  La loro ubicazione nei luoghi più remoti tra le catene montuose,  o nelle valli e alle foci dei fiumi fa sì che l’itinerario culturale si intrecci con quello paesaggistico, la storia con la natura.

Gli imperatori romani ne diventano protagonisti, d’altra parte furono 18 quelli nati nel territorio dell’attuale Serbia, un quinto del totale, più di quelli  nati fuori dell’Italia messi insieme; e il territorio serbo con il Danubio rappresentava il “limes”, il confine dell’impero di valore strategico.

Il titolo della mostra richiama l’iniziativa culturale che collega i luoghi storici e i siti archeologici dell’antica storia romana come erano collegati all’epoca delle legioni sulle rive del Danubio. Non è solo un fatto logistico, sono stati portate alla luce antiche rovine, si sono recuperati reperti, si è ridata vita ad ambiti di grande valore storico, con l’obiettivo di realizzare un percorso di 600 chilometri  come patrimonio culturale per l’Europa e per il mondo.

Al centro della sala, con i busti degli imperatori alle pareti, c’è il grande plastico di una città antica. La mostra presenta “Vinacium”, ne è anche il sottotitolo, capitale della Mesia superiore dov’era la VII legio Claudia, una città che aveva oltre 28 mila abitanti,  di cui gli scavi archeologici hanno portato alla luce i resti, tra cui una necropoli romana con più di 14 mila tombe tra il I e il V secolo, con relativi corredi funerari e affreschi della tarda antichità. Le terme, le porte della città e il mausoleo dell’imperatore Ostiliano sono visibili nel Parco archeologico con l’antico Anfiteatro.

Ci guardiamo intorno, i busti degli imperatori che evocano secoli di storia antica sembrano invitarci,  come prima ci invitavano i richiami alle bellezze naturali e ambientali. Quando storia e natura si uniscono l’attrazione diventa irresistibile, e nel dire questo ripensiamo anche alle splendide immagini dell’Albania, che alla natura della splendida galleria fotografica unisce storia e cultura.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, compresi i festivi e il lunedì,  dalle 9,30 alle 19,30, entrata consentita fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06. 6780664.  Cfr. in questo sito i nostri  articoli sul programma “Roma verso Expo”,  per “Egitto e Slovenia”  l’8 novembre 2014; nel 2015 le ulteriori presentazioni, sono previsti il “Vietnam”  a metà gennaio 2015 e l’ “Estonia” all’inizio di febbraio; sull’archeologia albanese il nostro articolo del 12 dicembre 2012 sulla mostra a Roma.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Complesso del Vittoriano, alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” e Zétema, con le Ambasciate di Albania e Serbia, e  i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Per l’Albania, in apertura un anfiteatro antico a Butrinti, seguono immagini fotografiche delle bellezze ambientali, dai monti al mare; per la Serbia  busti di imperatori di Roma e, in chiusura, un grande plastico di città romana.

Memling, 1. Il Rinascimento fiammingo, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale, dall’11 ottobre 2014 al 18 gennaio 2015 la mostra “Memling. Rinascimento fiammingo” espone per la prima volta in Italia le opere del maestro olandese  ricomposte con i prestiti dei più grandi musei, e compie un prezioso lavoro di approfondimento sugli influssi del Rinascimento fiammingo sul Rinascimento italiano. La mostra, organizzata dall’Azienda speciale Expo con Arthemisia e la collaborazione di Flemish Art Collection of Fine Arts, è curata da  Till-Holger Borchert, curatore del Memling Museum di Bruges, che ha curato anche il Catalogo Skira nel quale sono riportati saggi sui rapporti con l’Italia del Rinascimento fiammingo. Dal 22 ottobre al 10 dicembre sono in programma  6 incontri, a cadenza settimanale, il primo con il curatore, sui temi della mostra, come i rapporti con la pittura  italiana,  la committenza,  e il paesaggio dipinto; inoltre gli “Spot! 20 minuti un’opera”, il 14, 19 novembre, 20 gennaio 2015.

La mostra nella presentazione di Franco Bernabè

“Una mostra di rara bellezza e di grande qualità” l’ha definita il presidente dell’Azienda speciale Expo da cui dipendono le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni, Franco Bernabè,  il 10 ottobre 2014 nel presentare l’esposizione, consigliando di vederla due volte per poter apprezzarne meglio i particolari e la qualità delle opere. A prima vista sembra fuori dai binari delle mostre delle Scuderie, sugli “Old Masters”, maestri italiani e  maestri stranieri vissuti in Italia. Messling non è mai stato nel nostro paese ma la sua pittura ha una notevole vicinanza con la nostra, il Rinascimento fiammingo ha anticipato il Rinascimento italiano, influenzandolo notevolmente. Si è avuta anche l’azione decisiva dell’alta borghesia italiana, in testa i grandi banchieri, come committenti del maestro di Bruges, dove si trovava una vasta e ricca comunità originaria dell’Italia.

Bernabè ha indicato anche altre motivazioni della mostra, in primis “la grande qualità e l’alto impatto culturale” che ha fatto accettare il rischio di presentare per la prima volta l’artista nel nostro paese, in coerenza con la programmazione pluriennale delle “Scuderie”. E al riguardo ha ricordato  le mostre alle Scuderie dal 2006 su Antonello da Messina, Giovanni Bellini e Filippino Lippi.

Infine la presidenza semestrale dell’Unione Europea affidata all’Italia: cosa di meglio che celebrarla con un artista che esprime  “la contaminazione tra l’arte italiana e l ‘arte europea”  fonte di tanti grandi capolavori? Nella prima parte della mattinata c’era stata la visita del Presidente della Repubblica a dare maggiore solennità all’evento e a sottolinearne questo particolare aspetto.

La mostra ha consentito di ricostituire l’unicità dei famosi Trittici le cui componenti sono in diverse sedi museali, come di effettuare 10 importanti interventi di restauro su opere delicatissime e di approfondire il tema dei collegamenti e degli influssi tra le scuole artistiche in campo europeo: motivi permanenti di interesse e di validità che vanno ben oltre il tempo espositivo. 

Fin qui il presidente Bernabè, da parte nostra possiamo dire che  nel visitare la mostra ci è parso del tutto appropriata la definizione di “rara bellezza e grande qualità”: il tratto pittorico e cromatico dell’artista è tale da dare alle composizioni una precisione, chiarezza e espressività notevoli, sia nei piccoli ritratti sia negli spettacolari Trittici. E ci siamo trovati a visitarla veramente due volte, per soffermarci meglio sui particolari delle opere, alcune delle quali di portata narrativa coinvolgente. 

L’allestimento valorizza queste positive caratteristiche, la penombra dell’ambiente espositivo è rischiarata dai fasci di luce sui dipinti come l’occhio di bue sulle “star”, le opere sono distribuite in ampi spazi nelle 7 Sezioni che scandiscono il percorso artistico e umano con appositi cartelli illustrativi: è come se si dipanasse una storia narrata da opere di forte impatto visivo, con didascalie luminose e con discrete quanto documentate schede per le più importanti. Allestimento magistrale !

Il contesto ambientale e artistico  

Sembrerà strano che un simile artista ancora nel 1953 fosse definito “grande maestro minore” da Erwin Panofsky, un ossimoro apparente perché l’accento è sul “minore” piuttosto che sul “grande maestro”, in quanto ritenuto mediocre discepolo del famoso Rogier van der Weisen, il più importante artista di Bruxelles, cosa peraltro rimasta incerta; eppure nel 1540 un dotto di Bruges lo aveva  definito “il più dotato ed eccellente pittore dell’intero mondo cristiano”.  Soltanto nel 1994, nel 500° anniversario della morte, la grande mostra della sua città Bruges che espose metà di tutti i dipinti  pervenuti consentì la totale rivalutazione della sua arte, fino alla successiva mostra itinerante per l’Europa del 2005 dopo 20 anni di approfondimenti che lo hanno qualificato tra i più grandi maestri fiamminghi e i ritrattisti più esperti del Rinascimento.

Originario della Germania,  nato presso Francoforte, dovette compiere il tirocinio di 4 anni, ma non si hanno notizie delle visite di formazione alle città, tranne dei segni di presenza a Colonia, la cui cattedrale  con le gru appare in alcune sue opere. Nel gennaio 1465 si trasferisce a Bruges dove acquista la cittadinanza forse per iscriversi alla corporazione dei pittori nella quale rimase fino alla morte nel 1494; era nato in una data imprecisata, la più probabile è il 1440. 

Vasari lo ricorda apprendista di Rogier van der Weyden a Bruxelles dal 1459-60 fino alla morte del maestro nel  1464, ma restano molti dubbi, non è ritenuto attendibile sui fiamminghi e non ci sono documentazioni certe; d’altra parte le opere di Memling, tranne due, non sono datate e molte neppure firmate, cosa che ha posto notevoli problemi di attribuzione. Né sono sufficienti per farne un discepolo le analogie del Trittico del suo “Giudizio Universale”, oltre che di altri Trittici, con le pale del maestro sullo stesso tema, anche perché le opere erano state tolte dallo studio diversi anni prima del presunto arrivo di Memling e vi sono notevoli differenze; inoltre erano disponibili ovunque, quindi alla sua portata,  disegni e riproduzioni delle opere di van der Weyden.

Più che a Van der Weyden di Bruxelles viene accostato a Van Eyck e Christus, i più famosi pittori di Bruges,  i cui influssi si notano sia nelle rappresentazioni della Madonna sia nella ritrattistica, in particolare  negli sfondi semplici e in quelli paesaggistici, nei dettagli e nell’ambientazione.

Memling ebbe una bottega molto prolifica a Bruges, con diversi assistenti che svolgevano un ruolo importante. La società cittadina era dedita ai traffici, da Bruges venivano esportate merci raffinate, dai velluti ai broccati, che troviamo in molti dipinti; era anche amante delle arti, quindi ricca e colta, l’ambiente ideale. Si moltiplicavano le committenze di quadri da parte di facoltosi borghesi, tra cui molti italiani della comunità locale, in cui vi era un Banco Mediceo diretto in successione da due banchieri fiorentini, Angelo Tani e Tommasi Portinari, che favorirono le relazioni con l’Italia, li troviamo tra i committenti. Oltre ai ritratti venivano commissionati i trittici devozionali: grandi  per le cappelle, tra i  più spettacolari il “Trittico Moreel” del 1494; piccoli e portatili per  uso privato. 

Degli ultimi anni  sono i dipinti di maggiori dimensioni, come la “Pala della passione” e la “Pala Nàjera”, di 3 e 7 metri di larghezza, a riprova che mantenne fino all’ultimo notevole vitalità, grande fama e presa sulla committenza: tali opere sono del 1989-91, l’artista morirà nel 1994.

L’arte di Memling e l’influenza sulla pittura italiana

Tra l’Italia e le Fiandre si intrecciavano legami economici e finanziari;  tra Bruges e Gand da un lato, Firenze e Genova dall’altro fiorivano gli scambi. Il realismo che nel Rinascimento italiano si esprime nel segno della prospettiva geometrica,  nel Rinascimento fiammingo predilige la mimesi naturalistica, il cromatismo e la luminosità: di qui gli scambi e le contaminazioni. Della pittura fiamminga colpiva l’imitazione della natura ritenuta il principale criterio dell’arte;  il  realismo e la precisione dei dettagli, sue caratteristiche salienti,  erano particolarmente apprezzati per la loro “verosimiglianza”, tanto che dei ritratti di Van Eyck si disse che “manca solo il respiro”, e piacevano gli effetti cromatici e luminosi. Queste peculiarità erano possibili per l’uso della nuova tecnica dei “colori ad olio”  che dava precisione alla raffigurazioni naturali e realistiche ed era molto più versatile, brillante  e luminosa della tradizionale “tempera all’uovo” degli artisti italiani.

Nell’approfondire l’influenza di Memling sulla pittura italiana sono stati evidenziati i caratteri peculiari di questo artista e del Rinascimento fiammingo di cui è un vero protagonista, caratteri che ritroviamo nell’arte a Firenze e altrove, e furono anche i motivi del grande successo e della  ricca committenza soprattutto italiana, stimata pari al 20% di quella complessiva;  Memling era il pittore fiammingo più presente in Italia con le sue opere. Per le sue peculiarità,  l’arte fiamminga esercitava una forte attrazione, i pittori fiamminghi erano chiamati nelle corti italiane, e gli artisti italiani  andavano nelle botteghe fiamminghe, principi e ricchi borghesi acquistavano e commissionavano opere che entrate in Italia influenzavano gli artisti locali che le potevano conoscere da vicino

La penetrazione nel nostro paese – soprattutto a Firenze e Venezia – dell’arte fiamminga nella interpretazione di Memling, fu molto rapida. D’altra parte si è trattato di un processo biunivoco, l’artista  cercava a sua volta di aderire alle aspettative della committenza in atto e potenziale, quindi egli stesso era influenzato  dal gusto degli italiani, tenendo conto che doveva farsi preferire ai concorrenti molto attivi a Bruges; ciò viene rilevato in particolare nei ritratti e nella scelta dei paesaggi di sfondo, derivanti dalla committenza italiana e spesso ripetuti in dipinti italiani.  Osserva il curatore: “Non erano solo i membri della nazione fiorentina o veneziana a richiedere ritratti impreziositi dai paesaggi tanto ammirati in patria, ma esisteva anche una vivace domanda locale”.

Non si pensi a un‘omologazione, gli sfondi dei ritratti vanno dalla forma più semplice e neutra a quella paesaggistica a diversi livelli di dettaglio, forse decisi con il committente anche in base al prezzo. Quindi convivevano le varie forme, anche a seconda  dell’utilizzazione: gli sfondi neutri o monocromatici per far risaltare la figura, a fini memoriali e funebri, mentre gli sfondi paesaggistici aggiungevano alla figura un elemento spettacolare. Anche le opere devozionali, di carattere sacro ma destinate spesso a cappelle private, hanno queste caratteristiche, cui si aggiunge in alcuni casi l’aspetto narrativo, per Memling e per ad altri artisti di Bruges vissuti nello stesso periodo.

Lo scopo era dare lustro al proprietario committente, le opere erano oggetti da collezione e insieme da esibizione, tipico il caso dei banchieri Tani e Portinari  che gli commissionarono dei Trittici, il primo su “Il Giudizio Universale”, il secondo su “La Vergine e san Benedetto”, e una pala, sempre  con funzioni celebrative e penitenziali; Portinari invitò perfino Lorenzo il Magnifico a Bruges.. A questi si aggiungono i distici devozionali, con il  donatore e le figure sacre viste come miniature.

Un aspetto particolare della produzione di Memling è dato dal fatto che molte opere si basano su un certo numero di composizioni standard  combinate di volta in volta in immagini nuove secondo le richieste dalla specifica committenza; lo si vede ad esempio nella posizione delle mani che torna con frequenza, presumibilmente presa da cartoni di bottega, come nelle raffigurazioni della Madonna in cui la figura della Vergine e la sua collocazione sembrano frutto di composizioni che utilizzano elementi precostituiti mutando di volta in volta soggetto, posizione e ambientazione.

Le sue raffigurazioni sono spesso delle narrazioni, ma l’intento non è solo illustrativo: sono intese come espressione di pietà religiosa nello spirito di una moderna “devotio” perché i fedeli si potessero immedesimare dinanzi a quella che voleva essere una testimonianza veritiera dei fatti evangelici.  Questo contenuto sentimentale, tipico dell’arte fiamminga, era apprezzato soprattutto dalla committenza di élite in quanto  cercava di rappresentare l’anima oltre all’aspetto esteriore curato con la precisione del tratto e la cura nei dettagli.

In occasione della mostra è stato approfondito l’influsso dei fiamminghi sugli artisti italiani. Scrive il curatore: “Colori, realismo dei particolari, ritratti e paesaggi: questi gli elementi, particolarmente elogiati negli scritti italiani, che determinano anche la ricezione dei primitivi nederlandesi nelle opere di maestri fiorentini, veneti, lombardi e napoletani. Tutti costoro accolsero le bizzarre formazioni rocciose di Van Eyck, come pure la posizione di tre quarti caratteristica dei ritratti fiamminghi che, nel Quattrocento italiano, venne ad affiancare la resa rigorosamente di profilo. Anche la lucentezza dei colori fiamminghi fu imitata in Italia; un effetto che tuttavia non veniva raggiunto per assimilazione della tecnica, ma semplicemente attraverso un’imitazione meticolosa”.

Nel Catalogo vengono passati in rassegna i principali richiami sotto il profilo stilistico di opere di artisti italiani con i fiamminghi, Memling in particolare, nelle diverse forme espressive.

Elementi del “Ritratto di uomo con una moneta romana”, committente il diplomatico veneziano Bembo,  li ritroviamo in  Botticelli nel “Ritratto d’uomo con medaglia di Cosimo il Vecchio”  e nella “Ginevra de’ Benci” di Leonardo sia per la posizione di tre quarti sia per lo sfondo paesaggistico.  “E’ possibile – scrive Paula Nuttali – che Memling abbia sviluppato  questa formula  per venire incontro ai gusti della committenza italiana, dal momento che il paesaggio costituiva uno degli aspetti della pittura fiamminga più ammirati in Italia. Non è certo casuale che la maggior parte dei ritratti di italiani eseguiti da Memling includa un paesaggio sullo sfondo, e che quella formula di per se stessa esercitò un’influenza radicale e ‘trasformativa’ sulla ritrattistica locale, venendo ampiamente adottata dagli artisti italiani nell’ultimo quarto del secolo e rimanendo in auge anche all’inizio del secolo successivo”.

Tra loro il Perugino – si cita il ritratto di “Francesco delle Opere” – e persino Leonardo nel  paesaggio di sfondo della “Gioconda” e Raffaello nei suoi “Dama con il liocorno” e “Madonna col Bambino”, ispirati, si afferma, al Trittico di Benedetto Portinari; così altri minori. “Le citazioni dirette dei paesaggi di Memling – prosegue la Nuttali – non sono inusuali nella pittura italiana di questo periodo, potrebbero forse costituire una forma di omaggio al maestro fiammingo, interpretato dai vari pittori italiani con intento virtuosistico e ostentativo delle proprie capacità”.   Ritroviamo i motivi del mulino e delle rocce del Trittico di Pagagnotti in una serie di opere dai “Santi Paolo e Frediano” di Filippino Lippi alla “Pietà” e “Ritratto d’uomo” di Giovanni Bellini fino a “San Giorgio e il drago”  e “Sacra Famiglia con l’agnello” di Raffaello.   

Alla difficoltà da parte degli artisti italiani di conoscere opere – come il ritratto per Bembo e  i Trittici di Portinari e Pagagnotti – strettamente private, quindi non esposte al pubblico, si controbatte che alcuni di loro erano in contatto con i committenti di Memling, e che per gli altri “è più verosimile che tali citazioni derivassero invece da un disegno o da una copia tratta dall’originale e poi divulgata nella cerchia delle botteghe fiorentine per poter adeguatamente rispondere alla crescente richiesta di sfondi paesaggistici ‘alla fiamminga’. Il successo dei paesaggi di Memling raggiunse l’apice nella Firenze di tardo ‘400 e inizio ‘500 quando era quasi un obbligo per i pittori includere sfondi paesaggistici secondo il suo stile”.  Per il paesaggio il “Trittico Galitzin” del Peugino, cioè la “Crocifissione con la Vergine, san Giovanni Evangelista, san Gerolamo e Maria Maddalena” , 1485 circa, “è spesso considerato un esempio paradigmatico dell’influenza di Memling sulla pittura italiana di paesaggio”.

Oltre che per il ritratto e il paesaggio, gli artisti italiani si ispirarono ai fiamminghi, e a Memling in particolare, nella pittura devozionale, cui questi ultimi erano più portati, come osservava Vittoria Colonna nel 1546: “Il dipingere di Fiandra mi sembra più devoto che il modo italiano”.  D’altra parte, nelle opere religiose di uso privato, come quelle di Memling, era fondamentale creare l’atmosfera adatta alla contemplazione e alla preghiera trasmettendo all’osservatore il “pathos” dei personaggi raffigurati. Si tratta della “maniera devota”, di cui un esemplare particolarmente efficace è il dittico di Memling con “Cristo benedicente” e “Mater dolorosa”, tanto commovente e verisimile da influenzare il Ghirlandaio  sicché il dipinto fu ritenuto a lungo opera del fiammingo.

Un’influenza dell’arte fiamminga viene trovata anche nel nudo femminile, anche se sono pochi gli esemplari conosciuti, per Memling il “Trittico della vanità terrena e della salvezza divina”, con l’immagine della Vanitas o Lussuria in posa provocatoria; a questa è accostata l’opera altrettanto allegorica di Giovanni Bellini, che successivamente tornerà nel nudo a uno stile più tradizionale; nudi soprattutto nel Trittico del “Giudizio Universale”  che per le loro forme filiformi abbiamo associato al Rinascimento nordico e freddo di Cranach.

Gli influssi italiani recepiti da Memling

Abbiamo accennato che gli influssi non sono stati a senso unico, dati gli intensi scambi  tra le Fiandre e l’Italia che si svolgevano a diversi livelli.

Vi erano scambi di artisti con la presenza di italiani nelle botteghe delle Fiandre e i viaggi degli olandesi nel nostro paese, ma non solo. Data la prevalente committenza italiana venivano  portate a conoscenza opere di artisti italiani o motivi che si voleva fossero contenuti nel dipinto da realizzare, e poiché Mermling tendeva ad assecondare la committenza, osserva la Nuttali, “sembra sia stato il primo a incorporare motivi e modelli italiani nelle proprie opere”. E quando si evidenziano nei suoi dipinti gli elementi che si ritrovano in artisti italiani, in molto casi ci si accorge che Memling “utilizza una iconografia spiccatamente italiana”, come in “San Girolamo nel deserto”  del Perugino e Pinturicchio  che richiamano “San Girolamo penitente”  dell’artista fiammingo  il quale si è ispirato a opere sul santo che il committente deve avergli mostrato.

Sull’influsso italiano vengono portate varie prove, come i putti e le statuette nude del “Trittico Pagagnotti”  più vicini alla tradizione italiana  di stampo classico che a quella fiamminga, e la decorazione architettonica come le piccole palme di ispirazione classica.  Dinanzi a queste evidenze la Nuttali osserva: “La presenza congiunta di un certo numero di motivi fortemente italianizzanti in un dipinto commissionato da un fiorentino non è casuale; tuttavia non è certo se essi siano stati inclusi  dietro richiesta dell’eminente Vescovo di Firenze o su iniziativa del pittore, il quale ha forse voluto fare sfoggio di tutta la propria abilità nel competere con l’arte italiana o l’arte antica in una sorta di ‘paragone'”. In ogni caso questo dimostra come Memling fosse aperto alle idee italiane, che lo hanno influenzato nel momento stesso in cui esercitava la sua influenza sull’arte italiana.

Così conclude: “Hans Memling, l’ultimo dei grandi fiamminghi ad aver esercitato un impatto rivoluzionario sull’arte italiana, fu anche il primo ad aprire la porta, lasciandola socchiusa, al Rinascimento italiano”.

Le sezioni della mostra

Ce n’è quanto basta per  convenire con i motivi esposti da Franco Bernabé sulla presenza di Memling alle Scuderie sebbene non sia italiano né avesse operato in Italia: è come se lo avesse fatto, tanta e tale è stata la sua influenza sull’arte italiana e l’influsso italico da lui stesso recepito.

Tutto questo è reso compiutamente anche mediante confronti con opere consimili, alcune le abbiamo citate. In apertura due piccoli ritratti-simbolo particolarmente preziosi, uno maschile e uno femminile, poi gli esordi  con la “Deposizione” di van der Weyden insieme al suo “Trittico per Jan Crabbe”; seguono i grandi Trittici di committenza italiana, e la sezione dedicata ai piccoli Ritratti, quindi la pittura di narrazione, e straordinarie composizioni come quella sulla “Passione”.

Spettacolare la sezione sulla pittura devozionale, grandi Trittici per cappelle private e  piccoli Trittici e quadretti per l’uso personale anche in viaggio; sono posti  a confronto con  artisti a lui coevi, rimasti ignoti ma con i nomi legati alle loro opere più rappresentative.

Ricordiamo i tre grandi trittici, di Adriaen Reins di Bruges, della Resurrezione del Louvre e il Trittico Pagagnotti ricomposto nelle componenti degli Uffizi e della National Gallery.

Non resta che visitare la mostra dopo aver fatto tesoro degli approfondimenti da noi fin qui riassunti, che consentono di apprezzare i collegamenti con l’arte italiana e i reciproci influssi.

L’abbiamo visitata due volte, la racconteremo prossimamente da cronisti effettuando una carrellata delle opere esposte e cercando di trasmettere le sensazioni e le emozioni che abbiamo provato.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio 16, Roma. Tutti i giorni, da domenica a giovedì ore 10,00-20.00; venerdì e sabato 2 ore e mezza in più, fino alle 22,30; entrata ammessa fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 12,00, ridotto per le categorie ammesse euro 9,50, tra 7 e 18 anni euro 6,00, riduzioni speciali per scuole e gruppi. Tel. 06.39967500 e 848082408.  Catalogo “Memling. Rinascimento fiammingo”, a cura di Till-Holger Berchet,  Skira, 2014, pp. 248,  formato 24 x 31, dal quale sono state tratte le citazioni del testo.  Il secondo articolo conclusivo, con altre 10 immagini, uscirà in questo sito il 10 dicembre 2014. Per le mostre precedenti citate nel testo cfr. i nostri articoli: in questo sito su Filippino Lippi il 26 giugno 2013; in “cultura.inabruzzo.it” su Giovanni Bellini il  4 febbraio 2009, sui Pittori fiamminghi e olandesi alla Fondazione Roma il  9 febbraio 2009,  su “Cranach, l’altro Rinascimento” alla Galleria Borgese il  10 e 11 febbraio 2011.

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Azienda speciale Expo, si ringrazia l’Ufficio stampa per la cortesia. Di Memling, in apertura, “Ritratto di donna (frammento)”, 1480-85, Rhode Island; seguono “Madonna col Bambino in trono e due angeli musicanti“, 1465-70, Kansas City, e  “Ritratto d’uomo”, 1470-75, New York, poi “Passione di Cristo”, 1470, Torino, e “Trittico di Adriaan Reins”, 1480, Bruges,  quindi “Trittico di Jan Crabbe“: Crocifissione con Jan  Crabbe”, pannello centrale, Vicenza, e “Annunciazione”, verso degli scomparti laterali, Bruges, infine  Cristo benedicente”, 1985, Genova, e “Madonna  col Bambino”, 1485, Lisbona, in chiusura, di Rogier van der Weyden (e aiuti), “Compianto sul Cristo morto”, 1480, Firenze.

Carlo Levi, pittura dionisiaca ed elegiaca, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Dal 20 novembre al 12 dicembre 2014 alla Galleria Russo la mostra antologica “Carlo Levi. La realtà e lo specchio”, curata dalla Fondazione a lui intitolata espone circa 60 dipinti del periodo dal 1926 al 1972, ripercorrendone l’itinerario artistico con 40 opere degli anni ’20 e ’30 e le restanti dagli anni ’40  alle due ultime del 1972, due anni prima della morte; con 5 opere inedite. Catalogo della “Palombi Editori” a cura della Fondazione. Dopo aver inquadrato in precedenza la personalità dell’artista, passiamo alla rassegna delle opere con altri giudizi e testimonianze.

Una personalità poliedrica, quella di Carlo Levi, nella quale è intrigante cercare di cogliere i confini e insieme le correlazioni tra le  molteplici espressioni in un percorso di vita movimentato cui si è accompagnato un percorso artistico che ha visto una continua evoluzione tra le tante avanguardie, pur mantenendo il rigore e la coerenza stilistica.  Ha partecipato al fervore delle tante correnti che si sono succedute ma non ha aderito compiutamente ad alcuna, inserendo di volta in volta nuovi elementi nella sua pittura senza mai snaturare la sua peculiare forma espressiva e senza venir meno ai suoi contenuti.

Ne abbiamo parlato in precedenza con l’ausilio delle interpretazioni di un critico come Fabio Benzi e del presidente della Fondazione  a lui intitolata Daniela Fonti.  Preparandoci alla visita alla mostra  delle 60 opere esposte, torniamo su questi temi con la testimonianza dei suoi galleristi storici,  Antonio ed Ettore Russo, esponenti della prestigiosa galleria che ha avuto l’esclusiva di de Chirico per vent’anni. Ebbero in Carlo Levi una totale fiducia sempre ricambiata, ne è una manifestazione la lettera che l’artista scrisse loro il 7  dicembre 1970, accettando di presentare i suoi quadri in una mostra antologica per inaugurare la loro nuova galleria “Gradiva”.

L’arte di Levi nella testimonianza di Antonio ed Ettore Russo

“La vita intesa come scoperta di verità e conquista di libertà è sempre stata al centro degli interessi artistici ed umani di Carlo Levi”, esordiscono i galleristi, affrontando subito la correlazione tra i suoi diversi percorsi, quello letterario e politico-sociale e quello artistico.  “Ha mantenuto integra, e arricchita, la sua carica vitale, di pittore e di scrittore, e perciò di poeta, creatore di contenuti umani e di civiltà.  Ed è evidente che in tal senso ogni vero artista si sente sempre responsabile dinanzi alla società  e alla cultura del suo tempo, e soprattutto al futuro che egli anticipa”.  Pertanto “l’artista può così liberarsi, senza difficoltà di sorta, da ogni bagaglio intellettuale, sino al punto di non far più sussistere alcun punto di demarcazione tra l’umanesimo dello scrittore e la sensibilità del pittore. Ragione e fantasia si fondono felicemente in una direzione di ricerca che diventa positiva conquista per una pittura che vive autonomamente”.

E’ il motivo per cui  “la sua pittura, fin dagli esordi, non è mai stata soltanto una contrapposizione polemica, pittorica o sociale, agli indirizzi dominanti, ma una viva e potente affermazione di valori nuovi, di una nuova unità dell’uomo”.  Non ha aderito alle avanguardie e correnti stilistiche succedute nel tempo, pur essendo stato  molto attento all’evoluzione artistica e ai contatti a livello europeo dall’osservatorio privilegiato di Parigi, e ha dato una insegnamento valido anche oggi “a tutti, e particolarmente ai giovani, contro i nuovi conformismi, fiducia nell’originalità dell’atto creativo e nell’autonomia dell’esperienza individuale nella infinità dei rapporti che si formano con la realtà universale”.   

La sua attenzione alla realtà come fonte di ispirazione e trasfigurazione non deve, però, confinarlo nel realismo del dopoguerra, anche se partecipò alla reazione all’astrattismo con Renato Guttuso esponente di punta; altrimenti non si coglie quella che i Russo definiscono “la forza e la bellezza di questa pittura che ha un’importanza così determinante nel rinnovamento dell’arte, e non soltanto nel nostro paese”. 

Perché “Carlo Levi è il portavoce di un nuovo umanesimo che ha profonde radici nella storia… ci riporta all’origine e alla ragione delle cose, in un racconto che non ha nulla di veristico ma che sta per noi tutti in una dimensione più veritiera del vero apparente”. Ciò è il frutto della “capacità artistica di Carlo Levi di evocare la realtà, scardinandola nelle sue più intime strutture, a volte anche lacerandola e ricostruendola in una nuova unità”. In questo modo “qualche cosa di ‘mitico’ si sprigiona dalle tele di Carlo Levi, che ha il privilegio di collocare il proprio io a diretto contatto con la realtà in sé, costituita non soltanto da forme e fenomeni, ma da idee che si nascondono in questa stessa realtà. E Carlo Levi ,  con la sua presenza riscatta e qualifica, umanizzandolo, il mondo reale”.

Un realismo e un umanesimo che è insieme tormento ed estasi, vissuti attraverso i soggetti in modo intenso. “L’artista ‘codifica’ così un suo essenziale colloquio con le cose, riportandoci alle fonti primarie dell’esistenza; quelle fonti che, al di là della configurazione esteriore, hanno la loro radice sempre nel cuore dell’uomo”. Il tutto in una “ridondanza cromatica che non è tuttavia fine a se stessa, ma al contrario, nella resa finale, libera il colore da ogni peso fisico, lo spiritualizza, in breve lo emargina da ogni prigionia puramente fenomenica”.  In  tal modo i suoi soggetti “ci danno la chiara sensazione del dramma dell’uomo, dell’essere combattuto tra il bene e il male, tra cadute angosciate e desiderio di liberazione. Ma il risultato finale, concluso nell’unità armonica di ogni quadro, è sempre un superamento del contingente, per cui non è azzardato affermare che secondo l’idea hegeliana l’arte di Carlo Levi – pittore, scultore, uomo del nostro tempo – si risolve sempre, attraverso una prospettiva di impegno poetico, in un offrire ‘l’idea della bellezza nel suo dispiegarsi’ o piuttosto l’immagine della realtà nel momento stesso del suo nascere e formarsi”.

Per concludere: “Quindi un’arte dinamica e aperta e sempre nuova, e, perché tale, sostanziata dal ‘vivente’ che circola nella forma e la chiarisce, sottraendo il fare dell’artista al caos, all’improvvisazione, alla provvisorietà”. In un  contesto dove tutto, dalla pittura alla letteratura all’impegno politico e sociale  è sotteso  da una forte tensione civile e morale.

Le opere in mostra: dagli anni ’20  ai primi anni ‘70

Dei “volti, natura, cose”, in cui Guttuso riassumeva i soggetti della pittura di Levi, in mostra vediamo la grande prevalenza dei volti e delle figure umane, con una significativa presenza anche della natura, per le cose abbiamo soprattutto delle nature morte, in cui si rifugiava nelle fasi difficili e angosciose. Così  i Russo riassumono la sua maestria compositiva e cromatica nell’intensità dei contenuti: “In un intreccio di foglie e di rami, in una sinuosa compenetrazione di volti, in un fluido gioco di mele e aranci la pittura di Carlo Levi ci riporta alle fonti originarie di un’esistenza, ove la gioia di vivere si traduce in fragranza di colori”.

La “natura” è rappresentata con un “pennellare largo e succoso”  dal quale nasce un “ritmo evocativo di simboliche figurazioni che stanno di per sé al di là della semplice raffigurazione esteriore”. E anche le consuete visioni mediterranee di  luoghi a lui cari “lasciano immaginare un mondo esotico, forse una vegetazione di terre inesplorate”.

Nella prevalenza dei “volti” si riflette la sua concezione del tempo e dell’arte.  Il tempo, ha scritto lui stesso,  quando è quello esterno, storico, appare “pieno di avvenimenti e di fatti, travestiti ciascuno con la maschera credibile della necessità, ma vuoto di realtà; perché questa risiede in un altro tempo, quello occupato dagli affetti e dalle persone, e persino dall’espressione dei dolori che noi soli possiamo sentire”.

Sono gli opposti compresenti,  e “in questo ‘dibattito’ dialettico tra l’uomo e l’esistenza, tra l’io e le cose, l’artista ci mostra tutto il suo animo inquieto, in un tormento che prelude al riposo e nella stesso tempo sottintende nuovi cimenti”.  E’ stata  l’avventura della sua vita nel tumulto degli avvenimenti con lui sempre partecipe e spesso protagonista, ma in un distacco legato ai propri valori perenni e universali. 

Degli anni ’20 sono esposti 11 dipinti di “volti” e persone, alcuni con forme nitide e ben definite, altri sfumati ed evanescenti, per lo più persone care.  Tra i primi “Amalia sulla panchina di Alassio” e “Il padre  a tavola”, 1926, “Francesca”, 1927,  e “Pina Jona ad Alassio”, 1929; tra i secondi “Bagnanti”, 1926 e la sorella minore “Lelle con libro e tazza di te”, 1928, “Mamma che cuce” , inedito,e “Donna con maschera rosa”, 1929.  Poi tre nudi, uno del 1928 .“Nudo con palme”,  molto sfumato immerso in un palmizio che gli fa corona, e due del 1929, “Nudo con arco”,  ben definito e sensuale, “Nudo con la sedia” più sfumato, e con richiami a Tagore, oltre che a Modigliani e Soutine.

Nello stesso decennio 7 dipinti sulla “natura”, non solo paesaggi ma scorci urbani dove la natura è ben presente. Così per “Le officine del gas”“La Dora al Ponte Rossini” “La via delle palme”, 1926, e per due scorci di “Parigi. Quai sulla Senna”, 1927, e “Parigi”, 1928.  I paesaggi hanno per lo più una sia pure minuscola presenza umana, come “Merenda sull’erba”, 1926, e “Paesaggio”, 1929. In “Le vele”, 1929, un’atmosfera sfumata, soffusa e delicata, un senso lirico reso da una pennellata leggera, impalpabile.

Siamo agli anni ’30, i “volti” ancora prevalenti, li vediamo in 16  dipinti.  Lo stile muta notevolmente, né contorni netti né evanescenti e sfumati, bensì un cromatismo intenso e un forte spessore materico.  Rappresenta figure a lui care, cominciando dai suoi amici artisti e intellettuali come Aldo Garosci, nel dipinto intitolato “L’eroe cinese”, 1930-31, per un’acrobatica associazione di idee; poi “Ritratto di de Pisis col pappagallo”,  che ha nel petto tante medaglie alla Baj, e “Leone Ginzburg con le mani rosse”, 1933; c’è anche un suo “Autoritratto seduto”, 1934, inedito, da giovane con espressione malinconica, quasi in un’autoanalisi. 

Delle donne  a lui vicine, nei dipinti del  1933 ritroviamo la sorella “Lelle col cappellino”, e “Lelle legge distesa”,  immagine delicata pur nel forte cromatismo, cui accostiamo, per la posizione, “Donna distesa”, che ritrae la domestica Maddalena; poi “Vitia rosso e azzurro” , è la ballerina lituana conosciuta a Torino con cui si unì  a Parigi e frequentò la comunità artistica degli italiani e degli emigrati russi. Del 1935 “Ritratto di Deda Rollino”, che gli fu vicina nel “gruppo dei Sei” a Torino e poi anche a Roma, è ritratta in posa austera, impettita su una poltrona; quindi “La Strega e il bambino”, 1936,  ritrae Giulia Venere, la donna che accudiva la casa con il figlio, dedita alle arti magiche, di qui il titolo; vi colleghiamo due immagini di bambini, “Tonino o Ragazzo lucano”, 1935, e “Il figlio della Parroccola”, 1936, il primo figlio del sarto, il secondo di una contadina del paese, sempre con tratti marcati e cromatismo intenso. Del 1938 “Ritratto di Paola con vestito fiorato”, uno dei tanti ritratti di Paola Levi con cui ebbe un rapporto affettivo, è ripresa di profilo in un’immagine trasognata. Senza nome solo “Ritratto di donna”, 1932-33, dal colore avvolgente, non si è potuto identificare il soggetto, certamente da lui ben conosciuto.

Tre nudi nelle opere di questo decennio: “Nudo femminile”, 1934, inedito, che ci ricorda, pur nelle notevoli differenze, la “Madonna” di Munch; “Nudo femminile accovacciato”, 1937, inedito, e “Due nudi”, 1938, il primo con una pennellata densa, il secondo alla Rubens dal tratto leggero, ma con l’inquietudine per la presenza di una terza figura distesa da un lato e assorta nei propri pensieri, mentre le due donne nude cui il suo viso è rivolto, incuranti dialogano tra loro. 

E la “natura”?  Tre dipinti, uno del 1935, “Dietro Grassano”, e due del 1936, “Paesaggio rosa – Alassio” e “La casa sotto la pineta”, il primo del paese in cui fu mandato al confino, gli altri due nella Alassio che definiva  “mia madre”, al ritorno  dopo la liberazione dei confinati politici.  La natura trionfa nelle sue pennellate, questa volta dal cromatismo delicato.

Intensi i colori nelle nature morte, le “cose” peraltro vicine alla natura.  Ne sono esposte tre, di un periodo nel quale ne realizza numerose: del 1930   “Natura morta con vaso di fiori e frutta”, del 1932 “Natura morta con bottiglia” , e “Natura morta  con boccale di frutta”, di grande equilibrio compositivo e cromatico; nelle prime due i frutti spiccano ben distinti, nella terza sono compenetrati in uno stile sinuoso.

Le tematiche negli anni ’40 sono rappresentate soprattutto da 4  dipinti di “volti”. Nel 1941 il “Ritratto di Eugenio Montale”, nel 1942 di  “Cesare Brandi” e di “Carlo Emilio Gadda”,  le espressioni sono via via più pensierose, e nel suo “Autoritratto” del 1945 dai tratti del volto su fondo cupo traspare tutta l’angoscia della guerra,  le cui atrocità sono nel corpo straziato a terra del dipinto “La guerra partigiana” del 1944. C’è anche il dipinto “Due nudi”, 1947-48, più marcati di quelli del 1938, la rotondità alla Rubens è questa volta scolpita con forti pennellate.   

Alla guerra, o almeno al potere, fa riferimento “Pesci (Pesce grosso mangia pesce piccolo)”, 1945, con un senso di allucinazione, che aleggia anche in “Funghi giganti”, realizzato nel 1947 insieme ad altre nature morte.

Tra le opere esposte per gli anni ‘50  troviamo una dipinto che è una folla di “volti”, “Lamento per Rocco Scotellaro”, 1953,  l’amico  poeta e scrittore morto trentenne, in una sorta di sacra rappresentazione come una Deposizione, la madre e  le donne piangenti e il volto di Levi inserito come faceva Caravaggio; poi un “volto” solo, il “Ritratto di Wright”, 1956, il celebre architetto si recò da lui in “una mattina caldissima di luglio”, non ebbe il tempo per ritrarlo a figura intera, “come un’alta quercia”, ma ne rese “l’aspetto arcaico e impenetrabile”.

Non sono presentati, per tale decennio, dipinti sulla “natura”, che invece sono la totalità di quelli esposti per gli anni ’60: da “Paesaggio con mucca”, 1960, inedito, puntiforme e brillante come un caleidoscopio, ad “Alberi e pergolato di Alassio”, 1963, e “Bosco”, 1960-65,  con la ricomposizione nel  verde, mentre “Conigli”, 1965, è una composizione animata dove si sente la presenza della natura.

Fino alla trilogia del 1970-72, “Carrubo con scaletta ad Alassio”,  “Carrubo gigante” e “Carrubo”, che fa parte dei moltissimi suoi dipinti di alberi e di paesaggio di quegli anni, di cui Antonello Trombadori scrisse:  “Esso è, sì, veduta e scenografia, vale a dire puntualizzazione naturalistica  e ricostruzione fantastica di un luogo, ma è essenzialmente biografia, diario di ciò che nel paesaggio accade”; visto in modo che “non sia il suo stato d’animo  a possedere sentimentalmente quei luoghi ma siano i luoghi a possedere il sentimento dell’artista”. Così la scala che segna la presenza umana è parte della natura, e i due carrubi sono figure miriche, dai tratti  antropomorfi. Per Fabio Benzi “i tronchi contorti degli alberi divengono metafore di esistenze legate alla terra, con le loro sofferenze immutabili, con la loro espressività corporea e carnale, mai accentuata da un’espressività facile e psicologica”.

Le risposte di Carlo Levi  valide ancora oggi

“Felicità e tormento” vi vedono Antonio ed Ettore Russo, “il particolare cessa di esistere come tale, assurgendo a ‘specchio’ di una dimensione ideale che in sé vuole come inglobare tutto l’universo… Dionisiaca si potrebbe pertanto definire la pittura di Carlo Levi per questa esuberante concezione del mondo che si inebria di valori vitali e al contempo chiede continuo alimento sia ai fenomeni naturali sia ai fatti esistenziali”.

Di qui la compresenza insistita e reiterata dei soggetti a lui cari, dai “volti” alla “natura” fino alle “cose”, le nature morte. Ma non c’è solo vitalità, c’è anche “un sottinteso invito alla contemplazione, quasi che l’artista, pago dell’umano possesso delle cose, voglia sollecitarci a rimeditare sui valori intrinseci delle cose stesse, per afferrarne i più nascosti significati”. Per concludere: “Di conseguenza il ‘dionisiaco’ si fonde con l’elegiaco, mentre nell’osservatore la stessa ‘tensione psichica’  a poco a poco si risolve in soffuso raccoglimento”.

L’ambiente raccolto della Galleria Russo lo favorisce, del resto lo stretto  rapporto del luogo con l’artista porta a un’immedesimazione fuori dal tempo  e si crea un clima fortemente suggestivo.

Rivelatori i suoi scritti, tra i quali ricordiamo la lettera  ai galleristi del 7 dicembre 1970, prima citata,  perché ci è sembrata una sorta di testamento spirituale, spaziando nell’intero arco della sua vita. Infatti nel definire  “Paura della Pittura”, da lui scritto nel 1942 “quasi come continuazione e corollario”  del suo precedente “Paura della Libertà”, afferma che “quello scritto, mi sembra,  non ha alcun bisogno di essere aggiornato. E tuttavia sono passati, da allora, 30 anni, due generazioni (o più, per il raccorciarsi del tempo); un tempo così fitto di mutamenti, che nulla è rimasto, si può dire, quello che era”.  L’elenco che fa dei cambiamenti è impressionante,  dalla guerra alla pace nell’infinità di eventi che hanno sconvolto il mondo, con “una vitalità immensa  e creativa; e nello stesso tempo la distruzione di tutti i rituali e di tutti gli idoli, anche i più apparentemente legittimi, anche quelli che avevano avuto una funzione rinnovatrice e rivoluzionaria”.

Levi  stesso afferma che “il fondo di queste esperienze va al di là dell’arte”, così la sua riflessione acquista un respiro storico. In campo artistico tanti sono stati i mutamenti, i fermenti creativi delle avanguardie che “hanno scandagliato tutte le profondità,  esplorato tutte le superfici, penetrato in tutte le cavità, scalato tutte le asperità”, indagato sulle possibilità di tutti i linguaggi e di tutte le prospettive “in tutti gli aspetti visibili e invisibili del mondo e del pensiero”  con uno scopo ben preciso: “Riscoprire una qualità, un attributo,  una categoria perduta fin dal principio, e negate o dimenticate o censurate prima che esse potessero riaffiorare alla coscienza”. Risultato: in questa ricerca affannosa è stato distrutto l’esistente per subire poi la stessa sorte,  nessuna avanguardia e neppure il grande Picasso si sono salvati.

E allora si pone una domanda  quasi disperata: “Dopo tanti anni di ricerca di tutte le parole pittoriche, che cosa resta, dunque, oggi da dire? O che cosa da tacere o non dire più?”.  La risposta è chiara e solare: “Tutto, in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima, espressione. Tutta la realtà umana in ogni singola verità. Non è poco, non è facile”.  E cita la risposta che  nel 1911 diede da giovane  Umberto Saba alla domanda analoga “che cosa resta da fare ai poeti”: “la poesia onesta”, dando ad essa lo stesso contenuto –  “onestà come rivoluzione” – della sua risposta sulla pittura di cui ribadisce, nel dicembre 1970, la validità dopo trent’anni.

Sono trascorsi altri 45 anni, ma si può convenire sull’affermazione che il suo “Paura della pittura” “possa, ancora oggi, avere una qualche utilità e essere riletto, senza bisogno di chiose e di aggiornamenti, ma soltanto di qualche aggiunta di attenzione attuale e di meditazione”.

E si può convenire altrettanto sulla considerazione, sempre della lettera ad Ettore e Antonio Russo,  riferita alla mostra di allora ma perfettamente aderente alla mostra di oggi, di nuovo alla Galleria Russo: “E spero che questa raccolta di quadri miei di tempi diversi, che voi esponete, non esca da questa visione del valore e del senso della pittura, ma possa in qualche modo, anche nella sua limitatezza, contribuire a confermarla e a dimostrarla”.

Ci sembra la migliore conclusione del nostro viaggio nel mondo di Carlo Levi. Non si è fermato al pur prestigioso Eboli letterario, ma ha lasciato il segno nell’arte ponendone in evidenza i valori permanenti in un mondo inquieto e sconvolto da una incessante trasformazione che rischia di travolgere tutto con la sua furia iconoclasta. Si deve far tesoro del messaggio che ci manda il grande artista, lo ripetiamo.  Va ricercata “in ogni più grande o piccolo momento, in ogni minima, o massima espressione” una cosa: “La realtà umana in ogni singola verità”.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Lunedì ore 16,30-19,30, da venerdì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949; 06.69920692. info@galleriarusso.com; www.galleriarusso.com . Catalogo “Carlo Levi. la realtà e lo specchio”, a cura della Fondazione Carlo Levi, contributi di Daniela Fonti, Fabio Benzi , Antonella Lavorgna, Palombi Editori, novembre 2014, pp. 192, formato 22 x 22;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo  “Carlo Levi, specchio della realtà alla Galleria Russo”,  è uscitoin questo sito il 28 novembre u. s. con altre 10 immagini. Per gli artisti citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di  Renato Guttuso, il  25 e   30 gennaio 2013, di Modigliani, Soutine e i pittori maledetti il  22 febbraio, 5 e 7 marzo 2013, degli Astrattisti italiani il  5 e 6 novembre 2012,  di Tagore il 15 ottobre 2012, di Picasso, cubismo e cubisti il 16 maggio 2013, Due mostre a Roma tra il sacro e il profano in “cultura.inabruzzo” it, il 4 febbraio 2009.  Su de Chirico, in questo sito, per la mostra sul Ritratto  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, in “cultura.inabruzzo.it” per le mostre su De Chirico e la natura l’8, 10 e 11 luglio 2010, anche a stampa su “Metafisica”  n. 11/13 del 2013 pp. 403-18, su De Chirico e il Museo  il 22 dicembre 2010, sul  Disegno di de Chirico il 27 agosto 2009, su De Chirico ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre 2009.

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Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, la sera dell’inaugurazione della mostra, da Romano Maria Levante che ringrazia la galleria e la Fondazione Carlo Levi per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto seduto” , 1934, seguono “Il padre a tavola”, 1926, e “Donna con maaschera rosa””, 1929; poi “Nudo con la sedia”, 1929, e “Donna dormiente”, 1933; quindi “Nudo femminile”, 1934, e “La casa sotto la pineta”, 1936, inoltre “Pesci”, 1945 e “Carrubo”, 1972; in chiusura, due nature morte, a sinistra “Natura morta con boccale di birra”, 1932, a destra  “Amoroso contrario di Morandi”, 1937.

Sironi, l’artista della grandezza e della tragicità, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

“Mario Sironi. 1885-1961” si intitola la mostra antologica aperta al Vittoriano dal 4 ottobre 2014 all’8 febbraio 2015.  E’ una  grande esposizione con 140 opere dei diversi periodi, che segue la mostra del 1993 alla Gnam, presentando anche inedite opere giovanili. L’artista ha attraversato simbolismo e divisionismo, futurismo, metafisica ed espressionismo  in un’arte passata dai cupi “Paesaggi urbani” alle grandiose Pitture murali decorative per il regime fascista e per questo esposto a un ingiusto  boicottaggio. Realizzata da  “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di Elena Pontiggia che ha curato anche il Catalogo Skira, insieme all’Archivio Sironi di Romana Sironi.

Percorriamo il doppio binario con cui si può considerare l’arte di Mario Sironi, quello dei sentimenti personali legati al suo temperamento e alle vicende della  vita e quello della cifra stilistica in cui si è espresso. 

Sono due percorsi che si sovrappongono perché nel ciclo della sua vita le pulsioni interiori si traducevano in forme pittoriche aderenti alle tendenze di volta in volta seguite. Ma li teniamo separati per evidenziarne più compiutamente l’evoluzione nel tempo.

Le costanti della sua arte: la grandezza e la tragicità

Grandezza e tragicità sono stati i termini con i quali sono state riassunte le sue pulsioni interiori, e in effetti sono alla base di tanta parte della sua espressione artistica.

La grandezza riflette la sua formazione a Roma, nel centro della classicità e della romanità. La “città eterna”  fu decisiva nella sua concezione dell’arte. “L’ideale della Grande Decorazione che Sironi coltiva negli anni trenta – scrive la curatrice Elena Pontiggia – si forma in lui ben prima di quegli anni  (e ben prima del fascismo) guardando  l’Arco di Tito e il Colosseo, la basilica di Massenzio e la Colonna Traiana, il Pantheon  e le Terme di Caracalla, gli affreschi di Raffaello e di Michelangelo”.  Lo dichiarò lui stesso a proposito della “Pittura murale” del 1931, l’ispirazione “a far grande” gli venne negli anni giovanili  guardando “gli splendidi fantasmi dell’arte classica”.

Precisamente dagli anni ’10, ben prima che il fascismo  richiamasse i fasti grandiosi dei “colli fatali di Roma”.  Aderì poi all’ideologia del regime perché gli sembrava realizzasse i suoi ideali in cui la grandezza si traduceva nell’ “Uomo nuovo” e nei valori della classicità, nel segno della patria e della famiglia, della cultura e della giustizia imperniati sul lavoro, come fonte di dignità e nobiltà, da quello delle fabbriche a quello delle campagne.  E li tradusse nell’arte di cui scriveva: “L’Arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza, altezza di principi”. C’è grandezza nelle sue opere monumentali:  pur celebrative dell’ideologia del regime collimavano  con la sua visione,  lo si vede nelle opere in cui rappresentava l’uomo al lavoro,  con un senso di forza e solennità.

Una posizione analoga l’abbiamo trovata in Deineka, il grande artista russo del “Realismo socialista”, anch’egli legato alla mistica del regime perché coincideva con i valori da lui fortemente sentiti, anche qui la dignità dell’uomo sul lavoro e non solo. Entrambi sono diventati strumento della propaganda dei rispettivi regimi, ma non per acquiescenza o sudditanza, tanto meno per opportunismo, quanto perché vedevano  riconosciuti e tradotti in azione politica i valori in cui credevano. Ma a nessuno dei due sfuggiva quanto stava avvenendo nella realtà, entrambi registrarono l’allontanamento dell’ideologia dalle loro convinzioni, di qui la delusione e la reazione.

Sironi scriveva nel 1937, al ritorno dall’Esposizione Universale di Parigi con la sua opera monumentale “L’Italia illustrata”: “Cercherò come sempre di chiudere gli occhi dove non voglio vedere e tirare avanti a tutta forza, con tutta la mia forza: credere poco, obbedire anche  troppo, combattere sempre”. E, più esplicitamente, in un diverso momento: “So bene che ora il fascismo contiene il movimento opposto che ha debellato”, con “ora” sottolineato.

La tragicità è l’altra componente della sua visione, legata a una angoscia esistenziale che sente fortemente il peso della condizione umana, oppressa dai misteri insondabili della vita e della morte. Una sofferenza interiore che si trova in tanti suoi scritti, li cita Romana Sironi: “… trovarmi nel freddo, nell’angoscia, vedere la morte, andarle incontro e dirle portami via”; e poi “Pace all’anima mia – pace al mio corpo martoriato, pace ai miei occhi sbarrati sull’orrore e pieni di lacrime – senza altra luce che quella che negli immensi orizzonti corona debolmente le vette della terra, miserie e lacrime e il lungo smoderato soffrire di tanti anni…”.   Gianni Rodari, che lo salvò quando il 25 aprile 1945 fu catturato da un gruppo di partigiani di cui faceva parte, ha scritto di lui: “Per me la sua pittura è una lezione di tragedia. Non c’è pittore che valga i suoi quadri”. 

Con il trasferimento a Milano all’età  di oltre trent’anni, alle visioni grandiose della Roma classica si sostituiscono le periferie desolate, ai templi della romanità le fabbriche fumose, la natura stessa sembra scomparsa, sopraffatta dalla alienante realtà urbana: tutto questo alimenta l’angoscia esistenziale che troviamo in lui già nei primi anni della giovinezza e si riflette nella sua produzione artistica dove predominano queste immagini cupe.

Romana Sironi scrive che di Roma “il ricordo è vivissimo. Parlava poco, amava ascoltare i racconti di Roma, della Roma che aveva tanto amato nella sua grandiosità, che era stata fonte ispiratrice di tanti suoi capolavori”.  E  aggiunge che  Margherita Sarfatti alla Biennale di Venezia del 1924 lo definì “romano di educazione, nato da una famiglia lombarda a Sassari”, sottolineando “di tutti i nostri pittori italiani d’oggi, egli è anche il più romano, per la sua tendenza alla grandiosità”. Amedeo Sarfatti  precisa  che “si considerava romano e del romano aveva anche l’accento”.

A Roma non dipingeva ancora le periferie, come fece poi con quelle milanesi, ma dovette assorbirne, insieme alla grandiosità classica del centro storico, lo stesso clima.  Lea Mattarella, nella sua nota in Catalogo sulla “Roma plurale di Mario Sironi”, ricorda come Guido Ceronetti  abbia scritto di Sironi che per lui “la città è il monumento alla Solitudine, un cimitero di solitudini, spazi simbolici dove patiscono senza fine, perdutamente, microsensibili, e ti figuri storie di dolore e occhi aperti nel buio dietro quelle finestre” che rappresenterà cieche; e ricorda che Enzo Siciliano,  a commento della mostra del 1995 alla Gnam,  associò Sironi a Pasolini “testimoni di una disperazione nei confronti del mondo che trova proprio nel paesaggio urbano la sua potente esplicazione” parlando di “un ‘sole nero’ che li accomuna. Sorge ogni mattina sui palazzi delle loro periferie così lontane e così vicine”.

Le due pulsioni contrastanti, grandiosità e tragicità,  sono compresenti nelle sue opere, e solo una visione superficiale può vedervi l’una e non l’altra spinta interiore. Anche nelle opere monumentali di regime dove la grandezza è connaturata al soggetto c’è un’intima tragicità, un dramma; mentre in quelle visibilmente drammatiche come le periferie urbane non manca la grandiosità.

Questa compresenza è espressione di una personalità complessa, con una forte passionalità che gli fa abbracciare ciò che risponde alla sua visione, e lo rende distaccato da una società in cui non si riconosce. L’uscita in positivo da queste spinte opposte sta nella fiducia nella costruzione dell'”Uomo nuovo” dall’alta moralità, all’insegna di valori spirituali e di energia.

Il suo sogno si dissolse, alla fine del regime in cui aveva riposto tante speranze,  nelle rovine della seconda guerra mondiale, e l’angoscia esistenziale non fu più contenuta dall’utopia  di grandezza.  Ma non venne meno quella che Romana Sironi definisce “una moralità inflessibile, intransigente, una coerenza testimoniata anche  a prezzo della vita”. E ricorda quando “cadute le disperate ideologie del fascismo, per orgoglio, per rispetto di se stesso, per la fierezza del suo temperamento, non riesce a rinnegare il passato, là dove molti l’avevano fatto, ma resta dalla parte dei vinti, pronto a pagare il duro prezzo della disfatta che lo relegava nell’isolamento più assoluto”.

Ne dà conferma Luigi Cavallo: “Sironi  prende su di sé il peso della sconfitta, l’annientamento dei valori in cui aveva creduto.  Nel fuggi fuggi dal regime che si verificò dopo l’8 settembre 1943, non si mise mascheramenti, restò dalla parte in cui aveva militato e se ne assunse le conseguenze”.

Una scelta coraggiosa che non fu senza contraccolpi. Seguì  un “astioso confino” in cui fu relegato perché la condanna del  regime  nell’ideologia e nelle scelte culturali ed artistiche fu per lui una “damnatio memoriae” a cui invano hanno reagito uomini di cultura come Giovanni Testori, pure  ben lontani politicamente da lui: “Credo che una delle colpe più gravi della critica italiana nei confronti dell’arte moderna sia stata quella di ostinarsi a trattenere in una sorta di limbo, quasi in un ‘a parte’, il caso che fu invece di forza primissima  e di primissima grandezza di Mario Sironi”.

Testori  gli attribuisce il merito di “una chiarezza di posizioni, costi quel che costi, e in quelle posizioni l’umile  e feroce coerenza”.  Una coerenza in cui si riflette “la dolorosa coscienza della dignità che è nell’uomo”, in Sironi riflesso “della sua tensione morale e della sua trasfigurazione poetica: che fu scontrosa, fuligginosa, rocciosa, granitica e carbonizia,  ma, insieme, larga, solenne, sacralmente illuminata e illuminante”.

Ci viene di associare Sironi a Gabriele d’Annunzio per il trattamento assai simile che ha subito nel dopoguerra, sebbene dopo le convergenze nazionalistiche il fascismo lo avesse relegato nella “gabbia d’oro” del Vittoriale e lui stesso ne avesse preso le distanze, salvo un riavvicinamento a Mussolini nell’avventura africana. Anche l’angoscia esistenziale associata all’idea di grandezza e all’iniziale adesione al fascismo perché sembrava incarnarla ci fa accomunare la personalità dei due grandi italiani, oggi finalmente sdoganati dopo la lunga “damnatio memoriae”  del dopoguerra.

Ha dipinto fino all’ultimo, e se la sua pittura divenne più cupa, con i toni di premonizione accentuati, secondo Cavallo “non è sopito il suo anelito a far grande, il suo pensiero plastico”,  per cui “abbiamo momenti assai alti di una presenza messa comunque in tensione da grandi capacità di dare emozione”.

E ci emoziona fino alla commozione anche il ritratto conclusivo che ne fa Romana Sironi: “Una personalità speciale, magnetica, possente, mossa sempre da sentimenti forti, passionali, combattuto  tra speranze utopiche e disperazioni acute. Era bello, gli occhi azzurri, nella folta cornice di capelli neri, a volte si accendevano furenti e lampeggianti se l’argomento non era di suo gradimento ma erano capaci anche di dolcezza e tenerezza”.

L’inizio dell’arte pittorica,  simbolismo e divisionismo   

La curatrice Pontiggia traduce così i caratteri salienti riassunti nella sua produzione pittorica, fin qui evocati: “L’arte di Sironi è una lezione di tragedia. Ma c’è dell’altro. La pittura di Sironi è anche una lezione di grandezza, Le due cose combaciano nelle sue opere come le valve di una conchiglia.  Tragedia, cioè drammaticità, tensione, espressionismo, romanticismo. Grandezza, cioè forza, equilibrio, solennità, classicità”.

E aggiunge: “E’ stato un romantico innamorato della  classicità e un pictor classicus intriso di romanticismo. In questa concordia discors, in questa discordia armoniosa consiste l’altezza della sua arte. E in questa duplicità consiste anche la sua unicità”. Che gli ha fatto percorrere le diverse correnti pittoriche del suo tempo in un itinerario artistico esaltante intrecciato alle vicende della vita,  cui la curatrice dedica un’attenta e dettagliata ricostruzione di cui daremo dei rapidi cenni.

Ne ripercorriamo la storia mentre passiamo in rassegna le opere esposte in mostra, che citeremo di volta in volta – e non ne citeremo altre – inserendole nel mosaico della sua vita artistica.

Mostrò il suo talento fin dalle elementari, i suoi disegni furono messi in vendita da un cartolaio;  il suo primo quadro conosciuto con cui si apre la mostra è “Marina”, dipinto  nel 1899-900,  a 14-15 anni,  è stato riconosciuto dalla sorella Cristina il Porto Canale di Pesaro, c’è già il suo senso materico e dei volumi. A 16 anni si cimenta in  copie dei maestri, la sua formazione e ispirazione é a largo raggio, vediamo una “Copia da Utamaro”, il maestro giapponese di cui riproduce su cartoline alcune figure molto delicate e bidimensionali, distaccandosi nell’occasione dai suoi volumi.

In quegli anni, in cui approfondisce il romanticismo e il pensiero di Nietsche e Schopenhauer, sente l’influsso del simbolismo europeo,  partecipando a Roma al “gruppo dello scultore Prini”, con altri giovani pittori di orientamento simbolista; fu influenzato anche dall’estetismo inglese. Del periodo simbolista vediamo un ex libris per la madre Giulia,  una giovane donna che scrive “Ars et amor”, 1901-02, su un muro alla cui sommità c’è un satiro, su uno sfondo scuro; e il piccolo dipinto “Il pascolo, 1902-03, simboli l’albero per la vita e la pecora con l’agnellino per la maternità.

Nel 1904 conosce Severini e Boccioni, che definisce  “il mio migliore amico e l’ultimo”, così si intitola, tra l’altro, l’accurata ricostruzione di Virginia Baradel della loro amicizia. Per il suo tramite entra in contatto con Giacomo Balla, che lo converte al realismo nei contrasti tra ombra e luce, staccandolo dall’iniziale simbolismo.  Lo abbandona ritenendo letteraria e troppo astratta la teatralità del simbolismo tedesco e le stilizzazioni decorative del simbolismo viennese rispetto  alla “naturalezza” del Novecento italiano che Boccioni e Balla gli facevano apprezzare.

Rappresenta il momento di transizione “La chiesa del Ghisallo”, 1903-05, in cui c’è ancora l’albero simbolico al centro, ma in un contesto naturalistico. Mentre “La sorella Cristina al pianoforte, 1905,  a inchiostro su carta, con linee spezzate, nel suo bianco e nero intenso riflette le ricerche luministiche di Balla e del gruppo intorno a Prini.  

E’ la fase del divisionismo, anche se la sua sensibilità architettonica – il padre e lo zio erano ingegneri progettisti e lui stesso si iscrisse a ingegneria che lasciò presto – gli faceva mantenere i volumi non dissolvendoli nella luminosità e nelle linee divise.  Un’opera significativa di questa fase è “La madre che cuce”, 1905-06,  si avverte la divisione delle linee ma sovrastata dalla volumetria dell’ambiente e dell’arredo, e anche il cromatismo non è dominante.

A Parigi, dove soggiorna con Boccioni, non è attirato dagli impressionisti allora imperanti, quanto dai capolavori classici esposti al Louvre e dalla metropoli.  Oltre alle suggestioni classiche, già fortemente sentite  a Roma,  viene colpito dal moderno paesaggio urbano, lo si vede in alcuni  paesaggi romani in stile divisionista dopo il 1905.

Tra il 1907 e il 1911, aperto uno studio a Milano, va due volte in Germania dove conosce il post espressionismo tedesco  e approfondisce la cultura tedesca cui si è appassionato attraverso la filosofia di Nietsche e il pathos di Wagner da amante della musica. Riflessi di questa esperienza nell’ “Autoritratto”, 1909-10, con il camice del pittore, il viso aggrottato tra luce e ombra ha un senso drammatico come il suo temperamento; e nel “Ritratto del fratello Ettore”, 1910,  anche qui luce e ombre e sebbene sia adolescente non c’è spensieratezza  ma una “crescita dolorosa”, nonché nel “Ritratto della madre”, 1910,  una testa scultorea nel buio,  di marca post-espressionista.

Da amante dell’arte classica non può aderire alla provocazione di Marinetti del 1909  di distruggere i musei, quindi si allontana da Boccioni e Severini al centro del movimento futurista, cui si avvicina solo nel marzo 1913 dopo aver visto la loro mostra a Roma, partecipando a un “banchetto futurista”. Ne sono espressione i lavori “decostruttivi” di questo periodo e le opere in cui traduce il “dinamismo plastico” del futurismo in una “plasticità dinamica”: “Una serie di volumi obliqui ma saldi che possono essere inclinati, ma non incrinati dal movimento”, commenta la Pontiggia.  Di questo anno “Testa”, 1913, diversissimo dalle opere precedenti, c’è la scomposizione picassiana del volto che diventa una maschera, con ombre sugli occhi che le danno una forte drammaticità.  

Gli anni ’10: il periodo futurista con tratti metafisici

Ha trovato la propria cifra nel futurismo e partecipa alle sue manifestazioni, l’amicizia con Boccioni si rafforza, nell’aprile 1914 espone 16 opere alla “Esposizione libera futurista internazionale” dove è presente anche Kandinskij con artisti russi che influenzano alcune sue opere di quel periodo.  Nel 1915 si trasferisce  a Milano ed  entra nel gruppo dirigente del movimento,  esegue collage, disegni e composizioni futuriste con i caratteristici inserti  di lettere.  Di questo periodo “Il camion”,1914-15,  esprime l’interesse futurista per la città moderna e il movimento, ma è di tipo militare e, stretto tra un tram  e gli edifici, più che alla velocità fa pensare alla solidità della carrozzeria, è la variante di Sironi del futurismo come era stata del divisionismo, fedele ai volumi e alla drammaticità. 

Lo si vede anche nei collage futuristi “L’Arlecchino”, 1915,  che la Pontiggia considera “uno degli esiti più alti della stagione futurista di Sironi”, è bidimensionale e cromatico, ma a sinistra c’è il volume di una casa; mentre in “Il bevitore”, 1915-16, il tocco futurista del giornale è sovrastato dalla densità materica  e dalla figura drammatica, il viso ridotto a maschera; ugualmente drammatica “La ballerina” , 1916,  con gli occhi pesantemente bistrati e le membra slogate come una marionetta dà un’immagine di sensualità, piuttosto che del movimento di marca futurista.

Analoga considerazione per due oli dello stesso anno, 1916: in “Borghesi e tram rosso” l’ispirazione futurista è nel tema, la vita cittadina, e nel forte cromatismo, per il resto c’è la sua solidità volumetrica nelle due figure in primo piano e nella massa statica del veicolo; in “Il ciclista” la figura pur in movimento non dà l’idea della velocità ma della fatica  espressa dalla tensione delle gambe, e sullo sfondo i volumi delle abitazioni della periferia anticipano i “Paesaggi urbani”.

Si arruola nel Battaglione Volontari Ciclisti con il gruppo dei futuristi, da Marinetti a Boccioni a Russolo, partecipa ad azioni belliche e firma il manifesto di Marinetti “L’orgoglio italiano”.  Esegue dipinti futuristi sarcastici sui borghesi antipatriottici della “vecchia Italia” cui si contrappongono gli eroici soldati; e comincia a soffermarsi sulla figura in senso fauvista ed espressionista  che lo allontana dal futurismo, finché la morte di Boccioni lo distacca sempre più.

Poi un periodo di vita militare attiva  fino al marzo 1919 quando viene congedato e presenta alla “Grande esposizione futurista”  di Milano 16 opere di cui poche recenti e soprattutto poco futuriste. Torna a Roma dove alle riviste del movimento “Roma futurista” e “Dinamo”  preferisce la nuova rivista “Valori plastici” fondata nel novembre 1918 con de Chirico, Carrà, Savinio, Per lui, scrive la Pontiggia, “la pittura metafisica è una sorta di trauma visivo.  I manichini, le case dalla forma chiusa e precisa, i prismi e i poliedri… esercitano su di lui una profonda suggestione”, già l’influenza delle sagome di Carrà e Depero si nota in alcuni suoi ritratti del 1918. 

Lo colpisce una citazione platonica di Margherita Sarfatti della bellezza come forma stabile, fatta di linee e di tondi e l’articolo di  Carrà in “Valori Plastici”  che esalta la “solida geometria di oggetti”, di qui al dinamismo futurista viene a sovrapporsi la plasticità metafisica.  Afferma che “solamente l’idea platonica del reale può traslare nell’opera di fantasia una forma chiara della realtà”.

“Sironi crea così – è sempre la Pontiggia – un futurismo metafisico o una metafisica futurista, in cui una macchina non corre più ma esibisce l’enigma dei suoi ingranaggi”, si vede dai suoi dipinti del periodo in cui le figure non sono più in movimento ma in un’immobilità statuaria.  Anche nelle mostre,  ad opere futuriste ne affianca altre con “geometrie metafisiche e platoniche”.  Ma la sua metafisica è “fisicissima profondamente umana”, ritrae la vita quotidiana invece del “mondo ortopedico e antisentimentale” metafisico.

Siamo nel settembre 1919, si trasferisce in via definitiva a Milano, città che definisce “brutta ma solida”  rispetto alla “bella, sonnolenta Roma”. Nei suoi “Paesaggi urbani”  di fine 1919-20, in cui ritrae le periferie,  la Sarfatti ha visto la capacità di trarre “forza, grandiosità, ordine, armonia”  dallo squallore della città, una visione diversa da quella della critica moderna che vi vede solitudine e desolazione;  i primi critici, a questa sensazione negativa aggiungevano quella positiva di armonia e forza costruttiva.  Di lei vediamo esposto il bel “Ritratto di Margherita Sarfatti”, 1916, un volto con lo sguardo vivace e una luminosità diversa dai toni scuri tipici della drammaticità dell’artista.

La solidità architettonica venne apprezzata anche dai futuristi e diviene una chiave di lettura anche della sua drammaticità: “Sironi – osserva la Pontiggia – esprime il dramma della vita moderna, anzi il dramma della vita in generale, ma di fronte a quel dramma suggerisce un atteggiamento non nichilistico”; la risposta alla sfida della vita è “costruire , perché è necessario… costruire e guardare in alto”, sono le parole che l’artista usò nel 1931. La Pontiggia conclude: “I ‘Paesaggi urbani’ sono lontani tanto dalle Piazze d’Italia quanto dalle città futuriste. Sono una ‘terza via’: una sorta di realismo sintetico e senza tempo che prenderà il nome di ‘Novecento'”.

Vedremo i “Paesaggi urbani” nella rassegna degli anni ’20, intanto ecco sei opere su carta del 1919 in cui si allontana sempre più dal futurismo. Due sono in tempera e olio: “Il sollevatore di pesi”,  una figura statica, quasi bloccata, in un’atmosfera sospesa di tipo metafisico;e “La lampada”, con un manichino dechirichiano, che la Pontiggia definisce “l’esempio più alto della breve stagione metafisica dell’artista”. Altri due sono collage: il  “Il camion giallo”, sigillo della mostra, in cui di futurista ci sono frammenti di scritte, mentre esprime l’opposto della velocità, è bloccato nella strada che occupa interamente, con i grandi volumi abitativi cari all’artista; e “Studio per un paesaggio urbano”, forse in preparazione di un olio, i cui sono compresenti i motivi futuristi nell’aereo in volo, quelli metafisici nell’atmosfera sospesa e quelli del nuovo “Novecento” nelle forme solide delle abitazioni che si accavallano quasi in una volontà di ricostruzione.

Nonostante queste sue persistenti “deviazioni”, continua a partecipare a manifestazioni e mostre futuriste, e nel 1919 aderisce al fascismo: diventa collaboratore del  “Popolo d’Italia”  con i suoi disegni e le sue tavole su temi assegnatigli direttamente da Mussolini che esercita su di lui un forte ascendente, come lo esercita la spinta  nazionalistica dopo la “vittoria mutilata”; sarà pressnte nelle riviste del regime, come “Gerarchia”, e la mostra lo documenta.

A parte questo aspetto fondamentale, “credeva in un fascismo a sfondo sociale, di ascendenza ancor  socialista”,  tanto che la moglie Matilde lo definiva “anarchico e comunista”, Arturo Martini addirittura “bolscevico”.  Questi fatti inducono a non ridurre le sue espressioni artistiche all’adesione al regime, anche se è stata anch’essa un fatto conclamato da non trascurare per un’interpretazione equilibrata dei motivi psicologici ed ideologici sottesi alle sue opere.

Ne parleremo ancora, soprattutto per le sue “Pitture murali” degli anni ’30, celebrative del regime ma nello stesso tempo animate dalla sua concezione dell’uomo e dei suoi valori. Lo faremo prossimamente, nel seguito della appassionante cavalcata nella vita e nell’arte di Sironi.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, dal lunedì al giovedì, ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 0,30-22,00; domenica 9,30-2030.. Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel 06.6780664. Catalogo: “Mario Sironi. 1885-1961”, a cura di Elena Pontiggia, Skirà, ottobre 2014, pp.  302, formato  24×28. Dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo, con un riferimento al catalogo della mostra  del 1993 alla Gnam, stesso titolo, Editore  Electa, a cura di Fabio Benzi. pp. 492.  Seguiranno 3 articoli su Sironi in questo sito, tra dicembre e i primi di gennaio 2015,  rispettivamente sugli anni ’20, gli anni ’30, gli anni ’40 e oltre,  ciascuno con 10 immagini. Per i riferimenti del testo cfr.  i nostri articoli:  in questo sito su “Deineka”  il    26 novembre, 1 e 16 dicembre 2012,   su “De Chirico”  il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, sul “Futurismo”  il 2 marzo 2014,  su  ” D’Annunzio”  il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013 ,  su “Pasolini” l’11 e 16 novembre 2012 e il  27 maggio e 15 giugno 2014;   in cultura.inabruzzo.it  sulla mostra di Sironi  al Museo Crocetti, il 26 gennaio 2009, sui  “Realismi socialisti”  3 articoli il 31 dicembre 2011,   su “De Chirico” il 27 agosto, 22 dicembre 2009, l’8, 10, 11 luglio 2010, sul “Futurismo”  il 30 aprile e 1° settembre 2009. .   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Il camion giallo”, 1919; seguono “Autoritratto”, 1909-10 e “Ritratto della madre”, 1910, poi “Ritratto del fratello Ettore’, 1910, e “L’Arlecchino”, 1915; quindi  “Il ciclista”, 1916 e “La lampada”, 1919, infine “Paesaggio urbano con taxi”, 1920, e alcune Pubblicità  da lui realizzate; in chiusura alcune Riviste del regime a cui collaborava. 

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Carlo Levi, specchio della realtà, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Russo, dal 20 novembre al 12 dicembre 2014 circa 60 dipinti di “Carlo Levi. La realtà e lo specchio”, una antologica a cura della Fondazione a lui intitolata che copre l’amplissimo periodo dal 1926 al 1972, quasi l’intero suo itinerario artistico, mancano soltanto i primi quattro anni e i due ultimi. Sono esposte 20 opere degli anni ’20,  altrettante degli anni ’30,  8 degli anni ’40,  2 degli anni ’50, 5  degli anni ’60 e 2 degli anni ’70; 5 sono inedite. Scorrono i soggetti della sua pittura, nel  confronto tra “la realtà e lo specchio”. Catalogo della “Palombi Editori” a cura della Fondazione Carlo Levi.

Due anniversari si sono incrociati nel 2014:  i 120 anni di vita della Galleria Russo e il quarantennale della morte dell’artista, che alla galleria è stato legato da un rapporto che  Daniela  Fonti,  presidente della Fondazione Carlo Levi qualifica “assai più di stima reciproca che di impegno commerciale e che ha consentito la formazione di un collezionismo privato vivace, in grado di recepire un ‘attività produttiva amplissima, che si può calcolare nell’ordine di 5000 dipinti. Meno di un quinto di questa produzione è oggi di proprietà della Fondazione”. 

Il percorso di vita di una personalità poliedrica

Carlo Levi ebbe una personalità poliedrica. Pur con l’intensissima attività pittorica testimoniata dalla copiosa produzione, si è segnalato in campo professionale, come politico, uomo  di cultura e scrittore: sua la strenua opposizione al regime fascista, rara nel mondo artistico, che gli causò arresti, confino ed espatrio, sua una pietra miliare nella cultura italiana, a livello letterario e socio-politico, con la denuncia delle condizioni di arretratezza del Mezzogiorno; a ciò va aggiunta la professione medica che all’inizio praticò con impegno. Grande personalità, dunque, di elevato  livello artistico, e insieme etico,  morale, e civile.  

Forse proprio questa caratura altamente positiva ha oscurato in un certo senso la sua attività pittorica perché molto intense erano le luci accese sulle altre espressioni della sua personalità, in particolare di scrittore, a partire dal 1946 allorché fu pubblicato “Cristo si è fermato ad Eboli” e Fortunato Bellonzi scrisse:  “E’ perciò quasi fatale che di fronte alla eccezionale ricchezza di valori umani della prosa di Levi, la sua pittura impallidisca anche più di quanto dovrebbe e faccia, infine, figura di svago”.  Mentre nei  venti anni precedenti, ricorda Daniela Fonti, “prima nella pattuglia dei ‘Sei di Torino’ sostenuta da Lionello Venturi, poi autonomamente negli anni Trenta e Quaranta, si era affermato come originale protagonista della pittura italiana e tenace avversario di ogni novecentismo”.

In un certo senso, seppure per motivi radicalmente diversi, si può trovare una certa analogia con Mario Sironi, la cui mostra si svolge al Vittoriano in questo stesso periodo. Ma c’è il paradosso che Sironi fu oscurato nel dopoguerra per la sua convinta adesione all’ideologia del regime fascista del quale celebrò i fasti con la Grande decorazione, la pittura murale di cui fu il massimo esponente, e non abiurò mai al suo credo; mentre Levi dalla ferma opposizione con gravi sofferenze personali avrebbe potuto trarre il vantaggio di maggiore attenzione nel dopoguerra alla sua arte pittorica. Invece, osserva Fabio Benzi, “la storicizzazione dell’artista, avvenuta lui ancora vivente, ha inevitabilmente rimescolato la sua produzione ‘eroica’ ed innovativa degli anni Trenta e Quaranta con quella più recente (innegabilmente più stanca, anche se di qualità) nonché operante sotto una bandiera storicamente ‘conservatrice'”.

Una “lente deformante”, un “equivoco” durato troppo a lungo. La sua completa rivalutazione dopo la mostra nel 2008 si manifesta anche nell’attuale mostra sempre a Roma, che gli rende onore nella città in cui si trasferì dopo la fine della guerra  da Torino dove aveva studiato e iniziato l’attività di medico.

Nato il 29 novembre 1902, nipote del socialista Claudio Treves che alla sua nascita inviò una cartolina di auguri con il volto di Mazzini, era un predestinato per la politica; ma fu precoce nell’arte, il primo quadro è del 1915, il primo ritratto del 1917.  A 16 anni conosce Piero Gobetti che pubblica “Energie nuove”, a 19 anni partecipa con i gobettiani all’occupazione della Società di cultura, la chiama “colpo di Stato”; a 20 anni, nel 1922,  collabora con la “Rivoluzione liberale” dello stesso Gobetti che gli fa conoscere Felice Casorati.

Si laurea in medicina a 22 anni nel 1924, anno in cui espone alla XIV Biennale di Venezia; si impegna seriamente nella professione, e nonostante la spinta artistica è assistente all’Università, svolge ricerche sperimentali sulle malattie del fegato, frequenta corsi di perfezionamento con vari luminari a Parigi dove soggiorna  entrando in contatto con gli impressionisti e gli “artisti maledetti” e aprendo un proprio studio.

Nel 1927 è di nuovo a Parigi, dove tornerà nel 1928; sempre attivo negli ambienti artistici decide di dedicarsi solo alla pittura, ma non lascia l’impegno politico. Dopo la morte di Gobetti nel 1926 si lega ai fratelli Rosselli con i quali dà vita al giornale  “Lotta politica”, nel contempo  fa parte del gruppo “Sei pittori per Torino” che espone nel capoluogo piemontese, a Genova e Milano. Diventa responsabile organizzativo del movimento “Giustizia e libertà” nel 1929, l’anno successivo è di nuovo alla Biennale  di Venezia, la XVII, e partecipa a un’altra mostra dei “Sei pittori per Torino”. Sue mostre anche a Londra e Buenos Aires. 

L’attività politica e quella artistica procedono intrecciate a ritmi accelerati. Eccolo tra il 1931 e il 1933  impegnato nella stesura del programma rivoluzionario di “Giustizia e libertà” e nella celebrazione di Piero Gobetti e Claudio Treves; ma anche nella prima mostra personale a Parigi, dove risiede stabilmente tenendo i contatti tra Torino e i fuorusciti,  e nella XVIII Biennale di Venezia.  “Giustizia e libertà” è nel mirino della polizia politica, viene incarcerato a Torino il 13 marzo 1934, rilasciato il 9 maggio con  diffida;  sarà arrestato di nuovo un anno dopo, il 15 maggio 1935, e assegnato al confino in un paese in provincia di Matera, Grassano, poi viene spostato ad Aliano dove sarà trattenuto un anno, fino al 20 maggio 1936. Gli viene inibito anche l’esercizio della professione medica per motivi politici, protesta contro il questore.

Tornato a Torino riprende lavoro politico e attività artistica: subito una mostra alla galleria “Il Milione” con dipinti fatti al confino, poi a Genova e l’anno dopo a Roma. Nel 1937 a giugno vengono assassinati i fratelli Rosselli, esprime il suo dolore in un autoritratto  con la camicia insanguinata. L’impegno artistico continua con una mostra a New York, quello politico anche, tanto che deve fuggire di nuovo in Francia dove scrive “Paura della libertà”:  è il 1939, nel 1941 scriverà  “Paura della pittura”, l’intreccio ideale continua.

L’impegno politico lo vede tra i massimi esponenti del partito d’Azione, nel 1943 viene di nuovo arrestato e rinchiuso in carcere da aprile a luglio, poi sarà ospite di Eugenio Montale come altri antifascisti e partigiani.  Tra il 1943 e il 1944 da clandestino a Firenze scrive “Cristo si è fermato ad Eboli”, il suo grande capolavoro che sarà pubblicato nel 1946 e subito tradotto in molte lingue, diventa un “best seller” negli Stati Uniti.  Alla fine della guerra entra nel Comitato di Liberazione Nazionale toscano  per il  Partito d’Azione.

Quindi il trasferimento a Roma. Non solo azione politica in questo periodo, è tra  i promotori della “Nuova Secessione artistica italiana” , con Guttuso, Marini, Mafai e altri, critici verso il Novecentismo e diffidenti verso le avanguardie; un’altra  bella coincidenza  è l’attuale mostra sulla “Secessione” che si svolge quasi in contemporanea alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.  E’ il 1946, si candida alla Costituente, negli anni successivi  tiene una mostra personale a New York, espone alla XXIV Biennale di Venezia con un’intera sala per lui e partecipa alle “Assise per il Mezzogiorno”, quindi al Congresso della Resistenza e alla Mostra dell’Arte contro la barbarie.  Alla Biennale del 1954 presenta 50 dipinti, ancora una volta un’intera sala è tutta per lui, poi lo troviamo impegnato con discorsi e iniziative, si candida alle elezioni politiche del 1958. 

Iniziano gli anni ’60, arte e politica continuano a  intrecciarsi tra mostre e manifestazioni, anche contro l’atomica. Nel 1963 viene eletto senatore, e si impegna nella valorizzazione dei beni culturali mentre partecipa a mostre  celebrative della Resistenza e ad esposizioni con intento meridionalistico. Rieletto senatore nel 1968, l’inizio degli anni ‘70  lo vede esporre opere sul Mezzogiorno in una mostra antologica seguita da un’altra nel 1971. Poi accusa problemi alla vista con una temporanea cecità nel gennaio 1973, in questo periodo realizza 140 disegni e scrive il “Quaderno a cancelli” aiutandosi con uno speciale telaio; la mente torna al “Notturno” di D’Annunzio, , per scriverlo al buio aveva usato anche lui uno stratagemma.

Nel marzo 1974  gli viene affidata una delle tre opere celebrative dell’eccidio delle Fosse Ardeatine, la fase culminante, “la liberazione”,  dopo “l’oppressione” assegnata a  Cagli e “il massacro” a Guttuso.; a settembre grande mostra antologica a Mantova con 200 opere realizzate in mezzo secolo, dal 1922 al 1974.

 La sua attività instancabile su tanti fronti, dalla politica all’arte, non ha sosta:  partecipa a dibattiti, realizza disegni ispirati a Baudelaire, “I fiori del male”, pubblicati postumi nella cartella “Mille acqueforti, omaggio a Carlo Levi”. A dicembre del 1974,  7 litografie ispirate a Cristo, “murales”, presentazioni a libri di impegno sociale, fino all’ultima opera, “Apollo e Dafne” realizzata su un tamburello coperto di pelle di capra il 22 dicembre, il giorno prima del ricovero al Policlinico Gemelli di Roma dove muore il 4 gennaio 1975. Uscirà postuma un’antologia di suoi scritti anche inediti, “Coraggio dei miti (scritti contemporanei 1922-74)”.

Questa  antologica di un cinquantennio di impegno sul versante letterario-politico si affianca all’antologica sul versante artistico del settembre 1974 nel delineare la sua personalità poliedrica, la sua attività costante sulla scena culturale con una presenza cui la sua imponente fisicità dava un risalto anche visivo.

 l percorso pittorico di un artista straordinario

Il percorso di vita di Carlo Levi, di cui abbiamo rievocato i tratti essenziali, dà alla sua figura uno spessore straordinario e alla sua opera pittorica una luce che va oltre l’eccellenza artistica pur elevatissima. E’ un’opera svolta in un arco di tempo di mezzo secolo,  particolarmente tormentato, con un’attività intensissima nonostante il cumulo di impegni, che deve essere considerata nel suo valore intrinseco  anche se, vogliamo sottolinearlo, risulta ancora più sorprendente tenendo conto dell’intero contesto. L’opposto di quanto ha fatto certa critica, per cui gli altri aspetti della sua personalità hanno oscurato quello artistico.

Astraendosi dal resto, Fabio Benzi osserva che non fu pittore istintivo ma molto  meditato ed attento alle tendenze artistiche del momento. Il suo primo ispiratore era Felice Casorati, il grande artista della sua Torino, da cui recepisce il senso di astrazione e insieme di compostezza nella composizione con i colori freddi; viene visto in lui il “ritorno all’ordine novecentista”,  con la solidità della forma e “un richiamo alla tradizione pittorica letta modernamente”, vengono citati Piero della Francesca e Derain, Giotto e Cézanne.

Dopo l’influenza degli impressionisti francesi, da lui conosciuti da vicino,  nella tendenza alla dissoluzione  della nitidezza e solidità delle forme per un post-impressionismo fino all’espressionismo è stata vista anche una risposta “politica” alla retorica fascista; ma Benzi respinge questa interpretazione considerando il nuovo corso  “un tentativo di uscita da quel clima figurativo classicheggiante ormai vicino alla crisi e all’esaurimento linguistico” e osservando che persino Sironi dal 1927 al 1931 sviluppa un linguaggio espressionista, prova che l’intento politico in senso antifascista è improponibile.

A questo punto, la centralità dell'”espressione” riporta a Matisse e a Modigliani, e ricordiamo che Levi fa parte del gruppo dei “Sei per Torino”,  tra il 1929 e il 1931, di marcata ispirazione francese. Dal 1972,  dopo l’ennesimo soggiorno parigino, “la pittura di Levi trova definitiva maturazione e si stabilizza in uno stile espressionista libero e lirico che sostanzialmente proseguirà per tutta la vita”. La conoscenza diretta degli “artisti maledetti”, gli ebrei di Montparnasse, è per lui rivelatrice, la sua è un’adesione artistica e anche umana e politica; tra i tanti “fuorusciti” ci sono Modigliani e Soutine, che diventerà suo preciso riferimento con la sua pittura materica  ma non cupa bensì di un cromatismo brillante che esprime solarità e apertura.

Il suo impegno politico e sociale lo immerge sempre più nella realtà  che rappresenta “senza i veli dell’intellettualismo”, è sempre Benzi che aggiunge: il suo è “un realismo che però non sarà mai dichiaratamente politico, ma profondamente umanistico, volto a scavare, con le sue pennellate concentriche e sinuose, nella verità delle cose e degli uomini. Un realismo che lo accompagnerà per il resto della sua vita, venato di malinconia e di verità”. Un “espressionismo misurato, che non abbandona la realtà pur nella sua trasfigurazione lirica, in una fusione panica con la natura”, a parte i dipinti ispirati alla guerra con il dramma dei corpi straziati, l’angoscia nei visi delle persone. La “realtà e lo specchio”, dunque.

Si schiera con Guttuso sul fronte del realismo nell’aspra polemica contro l’astrattismo, che dall’arte si trasferì alla politica con l’intervento dirompente di Togliatti, ne sono il riflesso le lettere che Guttuso gli scrisse nel 1956, riportate in ampi stralci da Benzi che commenta: “Nel panorama italiano Guttuso e Levi rappresentano… i due dioscuri di una posizione artistica intrecciata ad aneliti e scelte politiche e sociali. Due personaggi di fatto molto autonomi nei rispettivi esiti ma serrati in un’idea condivisa…  all’esplicita menzione dei temi politici e sociali di Guttuso, Levi risponde con un realismo umanistico e allusivo, privo di retorica discorsiva e denso invece di pathos  partecipato”.

Con riferimento all’ultima opera prima citata, del 1974, il pannello della “liberazione” affiancato a quelli di Guttuso e Cagli, Benzi commenta: “Levi è esattamente il punto simmetrico tra i tre amici pittori, certamente il più intimista: non irrequieto come Cagli, non aggressivo come Guttuso, la sua poetica continua a svolgersi coerentemente fino agli ultimi anni della vita”.  .

Più in generale sulla sua pittura, Guttuso scrisse che Levi è “un pittore molto famoso ma sostanzialmente sconosciuto, non perché la sua pittura sia oscura, intellettualistica, ermetica. Al contrario perché non lo è, perché è piana e leggibile, perché è diretta e racconta volti, natura, cose, con la semplicità che è connessa al dono della pittura”.

Giudizio questo nel quale Daniela Fonti vede “oltre alla sollecitudine dell’amico il pericolo di un fraintendimento perché se è vero che la pittura leviana è il racconto di volti, natura, cose, è certo che essa non è piana ma attraversata , come scrive con commossa ma lucida partecipazione Italo Calvino nel 1962, ‘da una continua messa in gioco  dal momento della tensione, dell’esperimento, del rischio,  ciò che fa punto d’incrocio, continuamente mobile e precario, fra irrazionalismo e coscienza nazionale'”.

Lo scrittore collega l’opera pittorica di Levi alla sua intensa attività intellettuale in “un’identificazione totale di Storia e autobiografia”; e lo colloca nell’acceso dibattito tra realisti e astrattisti sui riflessi dell’attività politica nell’arte, con riguardo allo spirito antifascista, nel quale Levi non era secondo a nessuno per la sua storia personale punteggiata da arresti e confino, mentre gli altri artisti non si erano esposti contro il regime; ciononostante se ne tenne al di fuori ponendosi come riferimento morale piuttosto che come capofila  di un movimento che legava il realismo pittorico all’impegno politico di rinascita antifascista.

E’ forse in questo aspetto la chiave della sua personalità poliedrica, come appare dal suo   “Paura della pittura”,  scritto nel 1942 –  cioè in una fase di intensa attività contro il regime – e  imperniato sulla crisi di identità dell’uomo contemporaneo alla quale si rispondeva con i falsi idoli delle ideologie;. Mentre per lui l’unica soluzione della crisi era il recupero della dimensione dell’uomo come destinatario e misura di ogni azione:  alto richiamo all’umanità e alla morale  che riecheggia la  “Paura della libertà” del 1939.

Carlo Ludovico Ragghianti  afferma che “l’intima struttura della  sua personalità anche poetica è questa forza morale, questo convincimento nelle infinite possibilità dell’uomo libero dai falsi miti, l’origine di quella visione dominante  nella sua pittura che, al di là delle cadenze stilistiche ne costituisce il nocciolo profondo e incorruttibile”.

Daniela Fonti commenta così tale giudizio: “Nelle pagine del critico lucchese la figura di Levi si erge, quasi unica in un panorama internazionale dominato dai ‘falsi miti’ dell’avanguardia (il cubismo, il dadaismo, il surrealismo, perfino l’astrattismo, accomunati in un’unica condanna), come quella di un artista dalla consapevolezza profonda che è in grado, attraverso la sua pittura e solo attraverso di essa, di comporre l’io diviso dell’uomo contemporaneo che come un Narciso di fronte a uno specchio d’acqua perturbato, si riflette in diverse, incomplete e fallaci immagini di un sé frantumato”. Lo si vede nei “volti” e nella “natura”, sempre legati a soggetti a lui cari, persone o paesaggi per cui “non è mai un rapporto neutrale, né tanto meno oggettivo, quello con la realtà, perché mette a nudo e scopre delicati aspetti della sua psiche” che nella realtà si rispecchiano.  “La pittura, come la letteratura – prosegue la Fonti – è per Levi uno dei mezzi di questo continuo rispecchiamento, che è costante interrogazione e ricerca di sé; la pittura, cioè la tela, è veramente uno specchio nel quale l’uomo si ritrae, e veramente non c’è soggetto che abbia dipinto, dagli autoritratti – appunto – ai ritratti, moltissimi, delle tante persona che hanno dato senso alla sua vita, fino ai paesaggi e alle nature morte, che sfugga a questo impulso all’autoanalisi”. 

Perché c’è sempre autoanalisi dietro la sua rappresentazione del reale. La presidente della Fondazione lo spiega:  “La realtà nelle opere di Levi non è mai qualcosa dotato di vita e di senso autonomo, e neppure del tutto, alla maniera del Surrealismo, una delle tante proiezioni del suo io, ma il prodotto di una relazione di natura puramente affettiva, del rapporto d’amore o d’amicizia che lo lega al modello ritratto, a quello o all’altro brano di paesaggio, a quell’angolo dello studio abitato da conturbanti e povere nature morte. Ogni cosa, ogni frammento, sono una parte di sé che viene alla luce e prende forma attraverso la relazione”.  

Altrettanto penetrante l’analisi di questa relazione: ” Non è mai un rapporto neutrale, e tanto meno oggettivo, quello con la realtà, perché mette a nudo e scopre aspetti delicati della sua psiche, paure, timori ancestrali, presenze e voci mai ipotizzabili dietro i rassicuranti e quieti aspetti del vivere quotidiano”.

Vedremo prossimamente, commentando le opere esposte in mostra,  come si esprime tutto questo. Sono 35 “volti” e figure, compresi 5 nudi, 17 dipinti sulla “natura” e 6 nature morte, la maggior parte degli anni ’20  e ‘30, quelli della maturità, nei quali raggiunse il massimo livello. Li passeremo in rassegna avendo nella mente tali interpretazioni critiche ed altre che citeremo, in modo da comporre un ritratto a tutto tondo di questo artista straordinario.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, Roma. Lunedì ore 16,30-19,30, da venerdì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949; 06.69920692. info@galleriarusso.com; www.galleriarusso.com . Catalogo “Carlo Levi. la realtà e lo specchio”, a cura della Fondazione Carlo Levi, contributi di  Daniela Fonti, Fabio Benzi , Antonella Lavorgna, Palombi Editori, novembre 2014, pp. 192, formato 22 x 22;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e conclusivo articolo  “Carlo Levi, pittura dionisaca ed elegiaca alla Galleria Russo”, uscirà in questo sito il 3 dicembre p.v. con altre 10 immagini. Per gli artisti citati cfr., in questo sito, i nostri articoli sulle mostre di  Renato Guttuso, il  25 e   30 gennaio 2013, di Modigliani, Soutine e i pittori maledetti il  22 febbraio, 5 e 7 marzo 2013,, degli astrattisti italiani il  5 e 6 novembre 2012,  per le mostre citate ora in corso, prennunciamo in questo sito i nostri 4 articoli sulla mostra di Mario Sironi al Vittoriano previsti per i prossimi  1, 9, 14 e 29 dicembre 2014,  e i nostri 2 articoli sulla mostra degli artisti della “Secessione” alla Gnam previsti per il  24 e 31 dicembre 2014.  

Foto

Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo, la sera dell’inaugurazione della mostra, da Romano Maria Levante che ringrazia la galleria e la Fondazione Carlo Levi per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto”, 1945, seguono “Nudo con palme”, 1928, e “Mamma che cuce”, 1929, poi “Lelle legge distesa”, 1933, e“Tonino o Ragazzo lucano“, 1935; quindi “Dietro Grassano”, 1935, e “La Strega e il bambino”, 1936, inoltre “Due nudi”, 1938,  e “Carrubo con scaletta ad Alassio”, 1969; in chiusura due ritratti,  a sinistra “Autoritratto seduto”, 1934, e  a destra “Leone Ginzburg con le mani rosse”, 1933.

Egitto e Slovenia, verso l’Expo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, dopo l’esordio con San Marino nel mese di ottobre 2014, a  novembre entra nel vivo il programma “Roma verso Expo” con la presentazione parallela di due Paesi, l’Egitto nel Salone centrale fino al 16 novembre e la Slovenia nella Sala Giubileo fino al 27 novembre.  Il programma, promosso da Roma Capitale con la partecipazione della Regione Lazio, di Unioncamere e dei Ministeri degli Esteri, Politiche Agricole, Beni culturali e Turismo,  è a cura di “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e di Zétema – Progetto Cultura e prevede mostre al Vittoriano e all’Aeroporto di Fiumicino.

L’iniziativa è lodevole per motivi evidenti ma vale la pena di sottolinearli. L’Expo è un evento mondiale, con oltre 140 paesi partecipanti, 60 milioni di visitatori previsti, l’Alitalia ha impresso il marchio colorato sui suoi aerei. Immagine e risultati dovrebbero riflettersi su tutto il paese, per questo è positivo che la mobilitazione vada ben al di là dell’area milanese direttamente interessata.

A tal fine è fondamentale l’impegno di Roma, straordinaria vetrina del turismo, con l’attrazione del suo patrimonio archeologico, storico e culturale e con quanto evoca la città eterna; capitale d‘Italia e sede delle rappresentanze diplomatiche e degli istituti di cultura di tutti i paesi.

Il Vittoriano è  un complesso dove le mostre hanno un sapore speciale, per la qualità degli spazi espositivi e il fascino del monumento, c’è anche la sacralità dell’altare della patria.

L’Aeroporto di Fiumicino è il terminale di un flusso incessante di viaggiatori per turismo, politica, affari, quindi punto di accoglienza di milioni di visitatori del nostro paese.

Entrambi questi spazi sono interessati al programma “Roma verso Expo”: il Vittoriano dopo San Marino, l’Egitto e la Slovenia, ospiterà nel mese di dicembre la presentazione di Albania e Serbia, in gennaio del Viet Nam, per proseguire nei mesi successivi; all’Aeroporto di Fiumicino, dove è stato creato un apposito spazio con i plastici di alcuni dei principali padiglioni dell’Expo, viene presentato  il Kuwait,  Israele, quindi il principato di Monaco.

Tutti i Punti informativi turistici della Capitale sono mobilitati, e 20 totem sono posti nei principali musei;  28 biblioteche e  centri culturali sono anch’essi impegnati a ricordare e promuovere la manifestazione, all’Ara Pacis un’isola informativa. 

L’Egitto

La mostra “Egitto si presenta”,   inaugurata il 30 ottobre dal Ministro della cultura egiziano Gaber Asfour, è incentrata soprattutto sul patrimonio archeologico e artistico del paese che non ha bisogno di presentazioni, tale è l’attrazione che esercitano sul flusso di visitatori le Piramidi, la Valle dei Re e le tante meraviglie di una civiltà dalle manifestazioni artistiche spettacolari; ma evoca anche le bellezze naturali e paesaggistiche, dal maestoso Nilo alle coste del Mar Rosso,  e la  vitalità delle sue città con i mercati variopinti e pittoreschi.

Sebbene siano universalmente note  queste sue attrazioni, la mostra si propone di evocarle esponendo riproduzioni di reperti particolarmente pregiati della civiltà faraonica, e ad essi accosta  opere dell’arte contemporanea, in un viaggio nella storia e nel tempo di un paese millenario.

Nella prima sezione della mostra viene presentato il paese. L’antica civiltà egizia viene evocata attraverso il ritrovamento nel 1922 della Tomba di Tutankhamon, da parte dell’archeologo inglese Howard Carter, che definì ciò che vedeva “cose  meravigliose”: ed è una meraviglia il  sarcofago d’oro la cui riproduzione fedele è esposta al centro della sala.

La vicenda della scoperta è narrata nei cartelli esplicativi con preziose foto d’epoca: fu ritrovata con un corredo di inestimabile valore storico oltre che economico, non profanata e intatta, quindi ha fornito una  testimonianza unica. Sono esposte anche statue delle ere faraoniche di notevole interesse storico e di sicuro pregio, insieme ad  esempi di arte egiziana contemporanea, pitture e altre opere.

La seconda sezione è riservata alla partecipazione dell’Egitto a Expo, con un proprio padiglione all’interno del Cluster Bio-Mediterraneo, sul tema “Iside, il seme fluttuante, il viaggio incompiuto”, il titolo rende già la commistione del cibo con la storia, del resto l’Egitto è stato definito “dono del Nilo” per la fertilità data dal limo del grande fiume. .

Nella terza sezione viene presentata  l’Accademia d’Egitto di Belle Arti,  che ha sede a Villa Borghese, ed è l’unica istituzione arabo-africana del genere in Europa: è diretta dal 2012 dalla prof. Gihane Zaki. Promuove conferenze, concerti e proiezione di film e più in generale manifestazioni per far conoscere l’arte egiziana e per mettere in contatto gli artisti egiziani con la nostra cultura. Ogni anno vengono ospitati a Roma a questo fine i vincitori del Premio nazionale di creatività artistica.  Lo slogan per il 2014-15 è “nella cultura diversi… ma insieme”

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La Slovenia

In parallelo con l’Egitto, dal 14 novembre la mostra sulla Slovenia, inaugurata dall’ambasciator ein Italia Iztok Mirosevic. Lo stesso titolo scelto per l’Expo  ne riassume i connotati fondamentali: “Sento la Slovenia. Verde. Attiva. Piena di salute”. 

E’ questo il simbolo di un paese piccolo, con solo 2 milioni di abitanti in poco più di 20 mila Kmq, ma ciononostante con diverse culture e linguaggi;  è anche un paese giovane, sorto nel 1991 dopo la dissoluzione della Jugoslavia. .

Si punta sulle bellezze naturali, il verde è inserito al centro del marchio “I FEEL sLOVEnia” ed è al centro delle politiche di salvaguardia dell’ambiente alle quali è commisurato lo sviluppo sostenibile.
La posizione geografica dà al paese una notevole varietà ambientale, con le Alpi e le Colline della Bassa Carniola, la Pianura Pannonica e il mare Adriatico, i fiumi e le formazioni carsiche sotterranee, come le sterminate Grotte di Postumia, 21 chilometri di cavità con stalattiti e stalagmiti, dei quali 10 chilometri visitabili su un trenino.

La mostra si articola in due sezioni, a sottolineare i connotati espressi dal titolo, il verde  della natura, attraverso le foreste nella sezione ” il Fascino del legno” e il dinamismo nella sezione con le  immagini fotografiche dei bianchi cavalli lipizzani di Alenka Slavinec, che è intervenutaalla presentazione della mostra ricordando con orgoglio  le tradizioni del paese cui appartengono di diritto i lipizzani, che non sono austriaci come molti ritengono, essendo in Slovenia la loro origine. 

Il fascino del legno viene dalle foreste, di cui il paese è ricco, il legno  è una grande risorsa sia come fonte di energia rinnovabile sia come materiale per uno  sviluppo compatibile. A questo riguardo il suo impiego non solo richiede minore energia e inquina meno, ma contribuisce alla riduzione di anidride carbonica immagazzinandola, quindi contrasta l’effetto serra in una  fase storica in cui la crescita sarà sempre più condizionata dai vincoli ambientali soprattutto in relazione ai cambiamenti climatici provocati dalle immissioni nell’atmosfera. A testimonianza dell’antico rapporto con questo materiale naturale si fa presente che la ruota in legno a un asse più antica è stata rinvenuta in Slovenia, sottolineando che ha 6.200 anni, ha preceduto le piramidi di Egitto e la civiltà Maya del Messico.

In legno insieme al vetro è stato realizzato il padiglione dello Slovenia per l’Expo. Il messaggio è che con piccoli passi si dà un grande contributo alla preservazione dell’ambiente. Il plastico del Padiglione non è esposto nella mostra ma a piazza San Silvestro, nel centro di Roma,  è un simbolo: la sua superficie è mutevole, come il paesaggio.

L’altro simbolo della Slovenia nel senso dell’attività, il cavallo lipizzano, è il protagonista della mostra fotografica di Alenka Slavinec intitolata “Slovenia in Noi”: l’autrice è rappresentante della Wayward Pen Foundation di New York e ha fatto conoscere gli allevamenti di cavalli della Slovenia in campo internazionale, dato che la sua mostra è stata presentata in giro per il mondo, in Europa, a Milano e Budapest oltre a Belgrado e  Lubiana, in America, a Washington, New York e Chicago, in Cina a Shangai, in  Kuwait.

Attrazioni naturali e vitalità popolare, questa l’immagine accattivante della Slovenia  

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, compresi i festivi e il lunedì,  dalle 9,30 alle 19,30, entrata consentita fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06. 6780664.  E’ il primo dei nostri servizi sul programma “Roma verso Expo”, cfr. in questo sito i successivi articoli, sono previsti su “Albania e Serbia” nel dicembre 2014;  e, nel 2015, su “Vietnam”   a metà gennaio e su “Estonia”  agli inizi di febbraio.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Complesso del Vittoriano, alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” e Zétema, con le Ambasciate dell’Egitto e della Slovenia,  i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, per l’Egitto, la preziosa riproduzione del “sarcofago d’oro”  di Tutankhamon seguita da quella di una grande targa con iscrizioni, e da una caratteristica staua dell’epoca faraonica;  per la Slovenia un’immagine delle bellezze paesaggistiche e una dei celebri cavalli lippizziani ai quali è dedicata la mostra fotografica; si torna all’Egitto con le ultime due immagini di arte egiziana recente.

Meteoriti, e la Terra vista dallo spazio, al Palazzo Esposizioni

di  Romano Maria Levante

Lo spazio in due mostre al Palazzo Esposizioni  aperte  dal 30 settembre al 2 novembre 2014. Promotrice l’Agenzia spaziale europea in collaborazione con l’Agenzia spaziale italiana nel 50° anniversario di collaborazione europea. Nella  prima, “Meteoriti”, sono esposti alcuni significativi reperti di rocce piovute dallo spazio oltre ai pannelli illustrativi; nella seconda, “Il nostro pianeta visto dallo spazio”, curata  da Viviana Panaccia, sono presentati spettacolari ingrandimenti di fotografie  riprese dai satelliti delle grandi aree ambientali, dai ghiacciai alle foreste alle città.

Sono  complementari: “Meteoriti”  è didattica, basata  su pannelli illustrativi che accompagnano  pochi quanto interessanti reperti non del sottosuolo come quelli archeologici, ma piovuti dallo spazio;  “Il mio pianeta dallo spazio” è  spettacolare, i pannelli non sono descrittivi ma fotografici, gigantografie delle straordinarie  riprese dallo spazio  con i satelliti.

Molto diverse dalla mostra “Astri e particelle”, che vedemmo sempre nel Palazzo Esposizioni nel 2010, dove l’allestimento ricco di effetti  speciali coinvolgeva  il visitatore in una sorta di viaggio cosmico; e dalla mostra “Visioni celesti”, che nello stesso anno alla Biblioteca Nazionale Umberto I di Roma documentò con i preziosi libri d’epoca degli astronomi e degli studiosi il cammino fatto nei secoli nel campo della cosmologia e della ricerca spaziale.

Riconosciamo di essere rimasti sorpresi visitando la prima mostra, per  la dovizia di elementi descrittivi rispetto al ridotto materiale espositivo; poi siamo stati colpiti dalla seconda mostra dove parlano le immagini, e che immagini! Un’abile compensazione, con la celebrazione su due livelli dell’avventura spaziale, in cui l’approccio scientifico si coniuga a quello visivo.

La terra è comunque protagonista in entrambe le mostre incentrate sui rapporti con lo spazio,  Nella prima mostra è destinataria della pioggia di meteoriti che vengono dallo spazio;  nella seconda è il soggetto fotografato  dai satelliti nello spazio,  le “star” sono i diversi ambienti del pianeta.

Origine e natura dei meteoriti

Tanti pannelli illustrativi e  poche vetrine, ma contengono reperti preziosi che vengono dallo spazio; pietre di varie dimensioni, nulla di spettacolare, ma è intrigante il loro significato, sono i segni tangibili dello spazio, e la loro visione alimenta il desiderio di conoscere. Basta leggere i pannelli.

Si inizia con l’origine dell’Universo, dimostrata dall’astronomo  Erwin Hubble  nel 1920 quando con il telescopio del Monte Wilson a Pasadena rilevò che le galassie si allontanano sempre più velocemente dal punto di origine, nel quale 10-13 miliardi di anni fa avvenne il “Big Bang”, l’esplosione della materia compressa in un punto a temperature di miliardi di gradi al cubo.

Alcuni miliardi di anni dopo nacque il sistema solare, con il sole al centro e altri corpi celesti che ruotano intorno, tra cui i pianeti e i loro satelliti come la Luna, inoltre  milioni di asteroidi rocciosi e miliardi di comete: un “sistema rotante”  tenuto insieme dalla forza di gravità.

E qui entrano in scena i Meteoriti, frammenti rocciosi formatisi all’origine del sistema solare caduti sulla terra che ne hanno rivelato l’età: 4,6 miliardi di anni. Come avvenne la nascita? Il movimento nello spazio della grande nube iniziale di gas e polveri diventò sempre più veloce, una rotazione accelerata “come un pattinatore sul ghiaccio che racchiude le braccia”: in questo modo il materiale si concentrò nel centro e formò il sole, poi  si formarono dei “grumi” da cui nacque il resto.

I meteoriti  mettono a contatto diretto con la materia dello spazio e  consentono di conoscere la composizione dei corpi celesti. Sono formati per lo più dalla collisione di due asteroidi – le formazioni rocciose che ruotano nello spazio – e piovono sulla terra spinti dalla forza gravitazionale, possono avere le dimensioni più diverse, da pochi millimetri a misure enormi; un numero minore proviene dalla Luna  e da Marte, e vengono identificati soprattutto in base ai campioni prelevati dalle missioni spaziali sul nostro satellite e alle analisi della  sonda Viking sul “pianeta rosso”.

Ai primi dell’800 si capì che i  meteoriti venivano dallo spazio, ma si credeva che la loro origine fosse la Luna, mentre ha questa provenienza un meteorite su 284; i meteoriti lunari sono provocati dall’impatto di un  asteroide o una cometa sul nostro satellite, si formano frammenti di  rocce nello spazio che possono cadere anche dopo decine di migliaia di anni. L’evento si verifica 5 volte ogni milione di anni, perciò i meteoriti lunari recuperati hanno un peso totale di soli 70 Kg; il più grande, Kalahari 009, pesa 13,5 Kg; si riconoscono per la crosta di fusione e i segni dei raggi cosmici.

All’interno di  due meteoriti provenientida Marte si è creduto di trovare tracce di vita nel “pianeta rosso”: nel 1996  nel meteorite ALH84001 trovato in Antartide 12 anni prima, alcuni scienziati americani hanno visto catene di globuli microscopici simili ai batteri terrestri; nel 2000 nel meteorite Y000593 recuperato dai giapponesi in Antartide, scienziati della Nasa hanno riscontrato micro tunnel simili a quelli prodotti sui basalti dai batteri terrestri, oltre a sferule molto ricche di carbonio. Ma le ipotesi sono state abbandonate, non essendo suffragate da prove valide.

Ciò dimostra l’importanza dei meteoriti per la conoscenza del cosmo: possono contenere la “polvere di stelle”, granelli prodotti prima della formazione del sistema solare, dal cui studio vengono preziose informazioni; e possono essere rimasti inalterati conservando la composizione iniziale, la cui analisi consente di approfondire la conoscenza dell’origine del sistema solare.

Vi si possono trovare minerali che non esistono sulla terra, i più recenti sono stati individuati nel 2012 (la panguite) e nel 2013 (la kuratite): sono 250 le specie minerali extraterrestri conosciute rispetto alle 4500 specie terrestri, la metà delle quali derivate dall’interazione con organismi viventi mentre finora non si hanno prove dell’esistenza di forme di vita nello spazio.

La storia geologica del nostro pianeta si avvale delle conoscenze acquisite analizzando  i meteoriti, e la storia della vita sulla terra  riconduce ai meteoriti, in particolare per l’estinzione dei dinosauri che seguì l’impatto con un gigantesco meteorite del diametro di 10 chilometri avvenuto 65 milioni di anni or sono nel Messico, al largo dello Yucatan dove sono restate le tracce dell’immenso cratere. Non ne fu l’unica causa, ma concorse all’estinzione in un processo in atto da milioni di anni con i mutamenti climatici e ambientali che riducevano la biodiversità e le catene alimentari da cui dipendeva la vita dei grandi animali preistorici.

A questo punto, suscitato l’interesse sui meteoriti, tenendo conto che chiunque potrebbe trovarli sulla terra, vengono date le “istruzioni per l’uso”, dopo aver raccomandato di registrare con esattezza la posizione,  non contaminarli e contattare gli specialisti. Come riconoscerli? Viene fornito addirittura uno schema identificativo a base di “if”, con ” si”  e “no”  che indirizzano in un percorso logico fino  alla risposta: “non è un meteorite” oppure “può essere un meteorite”.

Storie di meteoriti

Una serie di  schede analitiche racconta storie di meteoriti, a cominciare dal “Barringer meteor crater”, formatosi  30.000 anni fa nell’America del nord per un impatto di un meteorite del peso di 300.000 tonnellate. Per lungo tempo il cratere del diametro di oltre 1 Km fu ritenuto di origine vulcanica e quando si capì che era un meteorite si ritenne costituisse un grandissimo giacimento di “siderite”; fu costituita la Standard Iron Company per lo sfruttamento del ferro. Tutto vano, il minerale si era  vaporizzato per l’energia prodotta da un impatto della potenza di 2,5  milioni di tonnellate di TNT, pari a 130 volte l’atomica di Hiroshima.

Nel 1492, l’anno della scoperta dell’America, cadde  in Alsazia a Einsisheim un meteorite di 127 Kg, identificato con  il nome della località, ed è forse il primo di cui si hanno notizie. Fu ritenuto un presagio divino beneaugurante per l’imperatore d’Austria Massimiliano I che, dopo alcune vittorie in Francia e Turchia, lo fece porre nella chiesa di Einsisheim legato con funi di ferro per impedire che  andasse via all’improvviso come era venuto; in parte  questo è successo, ma non per forze arcane,  il suo peso oggi è di poco più di 55 Kg  a causa dei continui “prelievi” di pezzi souvenir da parte dei visitatori in mezzo millennio.

Passando a storie meno  lontane,  la prima considerazione da fare è che se i meteoriti cadono in zone disabitate come i deserti o i ghiacciai, possono essere trovati solo dopo molto tempo; ci sono esempi  di queste situazioni,  come della caduta in zone abitate. 

Il 26 aprile 1803 in Normandia, a 150 Km da Parigi, ci fu una pioggia di pietre che si disse fossero “gettate da una meteora”: in quella circostanza lo studioso Ernst Chladni formulò la teoria scientifica dell’origine extraterreste dei meteoriti, prima ritenuti prodotti vulcanici o desertici, fondando la “meteoritica”. Nello stesso secolo, sorprendente il caso del meteorite trovato nel 1867 in Messico, a 200 km da El Paso, all’interno del tempio di Casas Grandes: una massa rotonda di ferro metallico pesante  una tonnellata e mezzo avvolto in bende come le mummie, chissà se era ritenuto sacro dagli antichi abitanti che forse lo avevano visto scendere dal cielo come una divinità!

Per il  ‘900  sono narrate storie gustose nelle schede illustrative, ne facciamo una rapida rassegna in ordine cronologico. Il 30 giugno 1908,  in Siberia, un tremendo boato fu udito a 1000 Km di distanza:  non si trovarono né  meteoriti né crateri, forse per l’esplosione del nucleo di una cometa prima dell’impatto; il 30 novembre 1954,  in Alabama, Ann Hoidge fu colpita al fianco mentre era a letto da un meteorite grande poco più di una palla da tennis, che aveva sfondato il soffitto rimbalzando poi su una radio, si tratta di uno dei due soli casi in cui è stato colpito  un essere umano; il 18 agosto 1974 in Iran, nella cittadina di Naragh, un meteorite pesante circa 3 Kg sfondò il tetto di una scuola, furono trovati due frammenti incandescenti dal diametro di  30 cm di roccia meteorica, precisamente una “condrite”; il 9 ottobre 1992 a New York un meteorite di 12,5 Kg colpì la Chevrolet rossa di Michelle Knapp, che divenne la celebre “macchina colpita da un meteorite”,  il cui fanalino rotto fu venduto per 500 dollari e l’autovettura a un collezionista, ma non si conosce il prezzo; il 15 febbraio 2013 in Russia, a Chelyabinsk, una località a sud degli Urali, cadde al suolo una massa rocciosa di ben 10.000 tonnellate  con un’onda d’urto pari a 500 chilotoni di energia, che distrusse 200.000 metri quadri di finestre con ferito per le schegge dei vetri  senza vittime essendo la zona disabitata; era un meteorite, e viene ricordata la coincidenza, che  a Tucson in Arizona si svolgeva l’annuale fiera su meteoriti e minerali, fossili e gemme.

Queste sono alcune storie che il visitatore apprende dalla mostra se si sofferma sulle schede illustrative. Alimentano l’interesse per un mondo di grande attrattiva, quello della scienza cosmica e della cosmologia, di cui i meteoriti esposti  sono muti testimoni.

I più piccoli sono raccolti numerosi in due grandi vetrine, ce n’è  uno di maggiori dimensioni in un contenitore trasparente che sembra uno scrigno, del resto è materiale prezioso. Lo guardiamo con insistenza, guardiamo ancora gli altri meteoriti, apparentemente comuni sassi rocciosi, quasi per interrogarli.  Sono materiali extraterrestri anche se inanimati,  custodiscono  i misteri dell’universo, che continuano ad emozionare oggi come sempre nella storia umana. Di qui il loro fascino sottile.

Il nostro pianeta visto dallo spazio

Dalla didattica cosmica a illustrazione dei preziosi reperti di meteoriti piovuti dallo spazio alle fotografie del pianeta riprese dallo spazio dai satelliti. Sembrerebbe che le pure immagini prendano il posto della divulgazione scientifica, ma non è così: anche nella seconda mostra, dall’apparenza spettacolare,  la scienza è sempre al centro dell’attenzione. Infatti le immagini, nel riprendere le diverse aree ambientali della terra, ne evidenziano la fragilità rispetto ai cambiamenti climatici e agli altri sommovimenti dell’eco-ambiente cui l’attività umana non è certo estranea.

Raffronti tra riprese a distanza di tempo  rappresentano un monitoraggio dello stato in cui si trova il pianeta e delle trasformazioni in atto, in modo che suoni l’allarme quando l’ambiente si deteriora.  La funzione didattica di questa mostra risiede nel sensibilizzare soprattutto i giovani all’esigenza di uno sviluppo eco-sostenibile con l’utilizzo più consapevole delle risorse naturali.

Le spettacolari gigantografie a colori delle diverse sezioni sono introdotte soltanto dall’indicazione della parte del pianeta fotografata dai satelliti: sono 6 le aree ambientali considerate, ghiacci e acqua, atmosfera e foreste-agricoltura, deserti e città. Stupende riprese,  in molti casi assimilabili a raffigurazioni pittoriche astratte di arte contemporanea, che fanno dimenticare la finalità pedagogica. Ma questa non viene meno, perché vengono segnalati i punti critici monitorati.

I ghiacciaisono ripresi nelle calotte polari, Artide e Antardide:, le regioni più sensibili ai mutamenti climatici, rappresentano un monitoraggio fondamentale dello stato in cui si trova il pianeta e del deterioramento in atto.

Dal ghiaccio all’acqua il passo è breve, le riprese dal satellite mostrano che il livello del mari si sta innalzando, tendenza molto pericolosa perché se si accentua mette a rischio le città costiere. Il pericolo non viene soltanto dal mare, ma anche dai  fiumi e dai laghi per l’uso dissennato del territorio e delle loro acque, e non si tratta solo di inquinamento ma di dissesto idro-geologico.

Fin qui le riprese satellitari dell’acqua allo stato solido e liquido. Ecco ora  l’atmosfera, le riprese dal satellite mostrano l’inquinamento dell’aria, la concentrazione dei gas, l’effetto negativo sul clima dell’anidride carbonica.

Si torna sulla terra nella sezione dedicata alle foreste e all’agricoltura: le immagini spettacolari delle prime ne richiamano l’importanza nell’eco-sistema, per la biodiversità delle specie che le popolano e per la funzione purificatrice rispetto all’anidride carbonica e all’effetto serra; il collegamento con l’agricoltura risiede nell’evidenza visiva della deforestazione per far posto alle colture agricole e nel fatto che la ripresa dal satellite è di ausilio per prevedere e gestire i raccolti.

Dalle foreste e terreni agricoli si passa ai deserti, bellissime le immagini desolate dei principali deserti, in testa il Sahara, poi diversi altri; e di aree che rischiano la desertificazione.

Le immagini dallo spazio delle città  mostrano l’impatto delle aree urbane sull’ambiente, c’è anche una ripresa notturna che attraverso la concentrazione delle zone illuminate evidenzia  le aree di addensamento demografico.

A questo punto si dovrebbe fare una carrellata delle immagini esposte, ma sono talmente spettacolari, a intera parete, che non si possono descrivere in modo adeguato. La nitidezza delle riprese, il forte cromatismo, la loro astrazione quasi artistica restano negli occhi. 

Vogliamo ricordare, al momento della conclusione, l’ultima immagine, con cui si chiude la mostra, che ne riassume visivamente le motivazioni: si vede la terra fotografata dall’astronauta italiano Luca Parmitano, in missione per l’Agenzia Spaziale Italiana a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, che testimonia visivamente la nostra partecipazione all’avventura spaziale.

Nel visitare la mostra non si deve dimenticare che oltre alla parte spettacolare c’è l’ammonimento sul rispetto della natura tanto più importante quanto più belle sono le immagini che la riprendono.

Meteoriti e immagini del pianeta: due visioni molto diverse da considerare complementari.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194. Da martedì a giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato due ore e mezza in più fino alle 22,30, lunedì chiuso, accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 12,50, ridotto euro 7,50 alle categorie ammesse, euro 6,00 7-18 anni, gratuito fino a 6 anni,  per gruppi,  scuole e visite guidate tel. 848.082.408). l’ingresso consente  di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni. http://www.palazzoesposizioni.it/. Per le mostre citate nel testo,  cfr. in “cultura.inabruzzo.it” i nostri articoli su “Astri e particelle”  allo stesso Palazzo Esposizioni, il  12 febbraio 2010, e su “Visioni celesti” alla Biblioteca Nazionale Umberto I  di Roma il  26, 27 maggio 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo per l’opportunità offerta.  Dalla mostra “Meteoriti”, in apertura l’immagine di un meteorite in caduta sulla terra, seguono, il più grande meteorite esposto e le due vetrine contenenti i meteoriti più piccoli; poi, dalla mostra “Il mio pianeta dallo spazio”, l’installazione all’ingresso e le immagini di alcune aree ambientali, l’Antardide e i Ghiacciai, gli Oceani e l’Atmosfera; in chiusura l’installazione all’interno.