di Romano Maria Levante
Ecco il secondo articolo che ripubblichiamo tal quale oggi 16 gennaio 2023 il giorno della scomparsa di Gina Lollobrigida, per rendere omaggio al suo percorso artistico che ha seguito l’itinerario al massimo livello nel mondo del cinema da grande diva e protagonista indimenticabile di film di grande successo. Dopo aver rievocato nel precedente articolo le sue realizzazioni nella scultura, ora ricordiamo quelle nella fotografia con la recensione alla sua mostra a Roma nel 2009 la cui lettura, come ebbe a telefonarci, l’aveva resa “felice”.. Lo ricordiamo con commozione ripetendo il nostro saluto memore e grato: buon viaggio, Gina.
Con riferimento all’articolo pubblicato in data odierna su questo sito, dal titolo “Gina Lollobrigida, con Stefano Massini per l””utilità’ dell’arte, le sue sculture”, riproduciamo di seguito – con il medesimo titolo e l’identico testo, compreso un “post” di allora – la nostra recensione alla mostra del 2009 al Palazzo delle Esposizioni uscita sul sito giornalistico non più raggiungibile cultura.inabruzzo.it, di cui siamo stati corrispondenti da Roma fino alla sua chiusura nell’ottobre 2012 . Alla recensione seguìrono i contatti con la Lollobrigida che abbiamo rievocato nell’articolo e la sua testimonianza della voluta e pervicace omissione dei conduttori TV, in particolare in Rai, della sua attività artistica, cui reagiva invano. Dopo aver rievocato la sua arte di scultrice, per ricordare la sua arte fotografica abbiamo ritenuto – a parte i brevi cenni introduttivi al termine dell’articolo contestuale a questo – di rifarci alla mostra fotografica del 2009 al Palazzo delle Esposizioni che dava conto dei “50 anni” di fotografie, in un’attività iniziata nel 1959 nel pieno del successo nel cinema che lei volle lasciare all’inizio degli anni ’70 per dedicarsi totalmente all’arte, ma intanto poteva pubblicare nel 1972 il volume fotografico “Italia mia”, libro dell’anno e bestseller a livello mondiale. Illustriamo la recensione con qualche immagine di suoi servizi in Italia e all’estero e con molte fotografie in cui è ripresa con l’inseparabile macchina fotografica che punta verso i suoi soggetti; è la dimostrazione che anche da giovanissima la fotografia è stata la sua grande passione, oltre alla scultura della quale abbiamo dato una galleria di opere anche monumentali presentate nelle mostre in Italia e all’estero; al disegno e alla pittura propedeutici alle altre forme artistiche sono dedicate le immagini finali dalla mostra di Pietrasanta poste verso il termine del pòresente articolo.
– 10 agosto 2009 – Postato in: Eventi
Il giro del mondo in 250 scatti di un’artista poliedrica, genialità italica in una personalità ferrea
Non ce ne voglia Philippe Daverio, che ha curato la mostra “Gina Lollobrigida fotografa”, al Palazzo delle Esposizioni di Roma dal 25 giugno al 13 settembre 2009, se non collochiamo l’artista nella categoria dei “geniacci”, cioè di coloro che non solo hanno talento “per affrontare bene, anzi talvolta facilmente, l’opera che intendono intraprendere”, ma “affrontano tante imprese con talenti di volta in volta rinnovati”. Non chiameremmo “geniaccio” Leonardo, non chiameremo così la Lollobrigida, fatte le debite proporzioni naturalmente, anzi siamo tentati di utilizzare l’affettuosa abbreviazione che ne ha scandito la carriera cinematografica piuttosto che l’attributo dal suono sgradevole non confacente all’immagine che almeno la nostra generazione ha della diva nazionale; ma potremmo farlo se parlassimo solo della diva, non oggi che parliamo dell’artista a 360 gradi.
Il fuoco dell’arte e il mito della
bellezza nella grande diva
In lei troviamo molto di più e di diverso dell’improvvisazione tutta italiana
alimentata dal talento, della sbrigativa disinvoltura nel trovare soluzioni
brillanti, della capacità di avere colpi d’ala impensati. Troviamo una
professionalità caparbia che riesce a incanalare gli impulsi artistici in
molteplici discipline lasciandovi il segno con una costanza e una metodicità
non riscontrabile, non solo nel variegato ed effimero mondo dello spettacolo,
ma neppure nel “geniaccio”, bensì nell’artista il cui fuoco creativo non
conosce steccati di genere ma si manifesta a vasto raggio.
Avviene così anche nelle aziende di talento, se ci è consentito un ardito parallelo, quando nell’esercizio della normale attività, che resterà la principale, scoprono filoni di competenze e capacità, sono chiamati “la filiera del valore”, e li sviluppano portandoli ad un elevato livello come qualità intrinseca e competitività; e solo così sono vincenti, se la diversificazione è occasionale, frutto dell’improvvisazione di un “geniaccio” qualsiasi, è destinata ad essere transitoria e perdente. Da quanto detto fin qui si comprende che la mostra ci ha impressionato, e prima dell’esposizione fotografica il filmato che ripercorre l’attività principale e i filoni nei quali poi si è diversificata.
Non è solo la fotografia, e sarebbe già molto per una diva che ha avuto per sé più di seimila copertine di periodici nel mondo; c’è anche il disegno e soprattutto la scultura, l’arte nella quale ha raggiunto livelli e riconoscimenti di eccellenza, dalla Francia alla Russia, con mostre e premi prestigiosi; è l’amore più recente, nato da una sua posa per una scultura di Manzù e sviluppatosi lungo la “filiera del valore” che ha come denominatore comune l’arte e la passione.
E non la chiameremmo “passionaccia” – altro quasi dispregiativo che non ci piace, anche se gergale – ci perdoni Enrico Mentana che ha intitolato così la sua autobiografia – bensì applicazione costante illuminata dalla scintilla della genialità, metodica e non come un occasionale “colpo d’ala” se le sue sculture raggiungono anche i cinque metri di altezza, quindi non sono estemporanee. Del resto, fanno un tutt’uno con il talento di artista, a quel mondo si ispirano, alla leggiadria e alla bellezza.
Ecco, forse è la bellezza l’elemento unificante della sua arte, un mito che ha saputo declinare in multiformi espressioni, dal cinema dove ne è stato il simbolo al disegno, i ritratti sono l’immagine del bello maschile e muliebre, alla scultura, nella quale lei stessa si libra in un’altra dimensione quasi volesse concedersi ancora al suo pubblico nel pieno della giovinezza e dell’espressione artistica e lasciare un’immagine imperitura nella materia oltre che nella pellicola e nella fantasia. Ultima e non ultima, anzi prima passione dopo l’arte cinematografica, la fotografia, anch’essa un filone della “catena del valore” nato dai suoi viaggi nel mondo e poi divenuto fondamentale.
Per fare tutto questo occorre essere, come viene presentata nella mostra, dalla ”personalità ferrea, viaggiatrice instancabile, vera e propria ‘femme forte’ della nostra epoca”; ed avere capacità non comuni di apprendimento e di espressione. Daverio ricorda, e nel filmato della mostra si può verificare direttamente, come i suoi grandi successi in film inglesi e francesi non fossero doppiati, si era impadronita delle due lingue alla perfezione, perdendo qualsiasi cadenza romanesca; e che la sua arte pittorica, soprattutto scultorea, ha una lontana origine negli studi all’Accademia delle Belle Arti di Roma, alla quale fu strappata dal cinema, prima della spinta decisiva di Manzù, anche questo un segno della capacità di apprendimento di un’arte che la Lollobrigida non ha mai messo da parte. E’ l’opposto dell’imprevedibilità e dell’incostanza che accompagna la versatilità del “geniaccio”.
Si tratta del fuoco dell’arte, alimentato da una genialità istintiva tutta italica in una personalità ferrea e illuminato dalla bellezza, che si esprime nelle forme più diverse, e la Lollobrigida ha saputo crearne di molteplici nelle quali ha continuato, in fondo, a esprimere quanto ha rappresentato nell’immaginario collettivo di più di una generazione, in Italia e nel mondo.
L’arte della fotografia vista come immediata espressione di sentimenti
Parlando ora della Lollobrigida fotografa ci sentiamo di dire che interpreta se stessa, come nella scultura e nel disegno, si appropria della macchina da presa, per così dire, andando dall’altra parte dell’obiettivo. Non deve più sottostare alle scelte del regista, è lei a “dirigere” e neppure su tempi obbligati quanto prolungati una volta fatta la scelta del soggetto, come avviene per gli attori che diventano registi, spesso di altissimo valore, l’ultimo più grande è Clint Eastwood.
Certo, come dice Daverio, nella fotografia di ieri, ben diversa da quella digitale di oggi dove tutto è automatico, c’era una tecnica da imparare, fatta di tempi e di apertura del diaframma, di sensibilità delle pellicole e di esposizione del soggetto; ma per questo la personalità ferrea e la capacità di apprendimento della Lollobrigida non incontrava ostacoli, è stato il primo filone dove si è incanalata la sua genialità artistica fuori dal cinema, perché dal cinema derivava: “Un mestiere nato – è sempre Daverio, lo citiamo ancora e non per una riparazione – per chi viveva con la pellicola in movimento giocando con la pellicola ferma”. E ancora: “Il mestiere di ieri e quello d’oggi mantengono in comune lo stesso coinvolgimento dell’occhio che intuisce e del dito che scatta. La fotografia non è da vedere: é vedere. E vede solo chi guarda con attenzione, ponendo nello sguardo tutta la complessità del proprio carattere. E lei, che fu guardata moltissimo, ha guardato tanto”.
Come ha guardato lo scrive lei stessa, sembra una confessione: “E’ un attimo che ci coglie di sorpresa; un attimo che si deve afferrare all’istante altrimenti è perduto per sempre. Si scopre così bellezza e desolazione. Si rubano sentimenti che non ci appartengono, si scopre un mondo sconosciuto”. E lo precisa: “Momenti di vita, di dolore, di amore, di serenità o di complicità. Vediamo ciò che altri non vedono, entriamo in un mondo che non è nostro, ma che subito ci appartiene”. E c’è anche del sentimento: “Uno scatto sarà sufficiente a far nascere un ricordo che ci illuminerà come una lezione di vita vissuta… in un solo istante nasce un’immagine, un’emozione che non ci abbandonerà mai più e che rimarrà fissata nell’eternità”.
Ed ecco come la vede ancora Daverio, facendo quasi una sintesi dei contenuti delle 250 fotografie allineate nelle molte sale e corridoi della mostra: “Ha guardato con un occhio carico d’affetto un mondo italiano che c’era una volta e che non c’è più… ha guardato un mondo più lontano ancora, quello che allora era oggettivamente esotico”.
Percorriamo questo mondo attraverso i 250 scatti cercando di “raccontarlo” come una storia, senza soluzione di continuità tra uno scatto e l’altro, senza diaframmi di tempo e di spazio, guardandolo attraverso gli occhi sgranati di un’artista innamorata della bellezza, intenerita dall’umanità.
Il mondo italiano che non c’è più
Questo, per la nostra artista, è “un mondo di allegrie povere, di vite minute
cariche di densità, come quelle che il cinema del dopoguerra tentava di
raccontare”. E al tempo delle foto c’erano ancora le propaggini di quel
periodo, l’eco lontana ma più vicina al mondo del cinema che la rifletteva.
Una fotografia neorealista, come il cinema che ha preceduto quello aperto e spensierato della Lollobrigida, ma senza la ricerca forzata del “colore locale” inteso come situazioni limite. Siamo in una sala tra cinquanta ingrandimenti, la maggior parte d’epoca, con immagini scanzonate come la famiglia Brambilla che sfila sulle due ruote di una “Vespa”, quattro persone a bordo; e il gatto a colori in un grande primo piano che mangia un piatto di pastasciutta con lo sfondo del Colosseo, e sotto altri gatti, questa volta in bianco e nero, all’interno dell’Anfiteatro Flavio. E due scatti veneziani a colori, l’opera d’arte della ricamatrice dei merletti di Burano e il casto nudo di una modella d’eccezione, Marisa Solinas sullo sfondo del canale e del ponte veneziano.
Di Roma, nelle foto d’epoca, c’è Trinità dei Monti dietro un de Chirico che innaffia i fiori sul suo balcone superpanoramico, e sullo sfondo della conturbante passeggiata di una “pin up” a Piazza di Spagna; Mister OK nel suo tuffo di Capodanno dal ponte sul Tevere; e anche il neorealismo, quello aperto alla speranza impersonato da De Sica con i suoi sciuscià fotografati sorridenti, il gesto disperato del disoccupato che minaccia di buttarsi e la drammatica congestione di ombrelli e ai lati di macchine nello “sciopero giornaliero”, un’immagine angosciosa. A questa, che è una delle poche scene di massa, fa da contraltare l’altra, il popolo di Subbiaco, autorità e bambini in prima fila, in posa davanti alla propria concittadina più illustre con l’orgoglio dipinto nei visi sorridenti.
Il ritratto di un Fellini pensoso ci ricorda il profilo di un Visconti quasi aggrondato, che abbiamo visto in un’altra stanza, ma per poco; subito ci colpisce un’immagine felliniana vicina, lo svolazzare di tonache rosse di preti sul ponte davanti a Castel Sant’Angelo, cui fa da “pendant” la foto in bianco e nero, più felliniana ancora, dei preti che si tirano palle di neve in piazza San Pietro, una doppia rarità, la neve a Roma quando arriva, come nel 1956, ispira canzoni tanto è eccezionale.
Neorealismo in due immagini opposte. Il bacio dei giovani innamorati al crepuscolo dietro una colonna sull’Appia Antica, “una volta la strada dell’amore” quando non era “impraticabile e pericolosa“. E il bimbo disperso tra le macerie del terremoto, chissà se ha perduto i genitori, l’interrogativo resta, immagine tremendamente attuale dopo il rovinoso sisma aquilano. C’è anche un controluce da “Ladri di biciclette”, il bambino ritrovato dal padre “appena in tempo”.
Con altri due suggestivi controluce in bianco e nero vogliamo concludere il racconto di questa sala dedicata all’Italia. L’immagine di Venezia nel ponte sospeso in secondo piano con un fascino tutto particolare, l’immagine di “Roma, il mio amore”, presa rasoterra con l’acciottolato della strada romana in primo piano, i due giovani che tenendosi per mano vanno verso l’antico arco, con i raggi del tramonto all’orizzonte di un’immagine sfiorata dalla luce e scolpita dal chiaroscuro. Un sigillo d’autore nella rappresentazione di due città in cui si riassume tanta Italia: Venezia e Roma.
Ma c’è anche il “reportage” inatteso, addirittura nell’isola di Linosa sui mafiosi al confino, con il boss La Barbera. Si presentà camuffata con un giaccone hippy, una parrucca e dei grossi occhiali da vista dalle lenti spesse, le guance rigonfie per dei posticci all’interno. Così irriconoscibile scatta il servizio, tra scene di desolazione ambientale le figure dei mafiosi, pericolosi anche se apparentemente acacttivanti. Siamo nell’estate 1971, il servizio entrerà l’anno dopo nel volume “Italia mia”.
Il mondo più lontano, dall’India alla Cina e al Giappone
La diva come la fotografa esce dal guscio, il giro del mondo protrattosi per decenni diventa più intenso con il diradarsi degli impegni cinematografici, intensissimi nella prima metà degli anni ’50 in Italia, poi estesi a livello internazionale e divenuti episodici dall’inizio degli anni ’70, sostituiti in qualche modo dagli scatti fotografici. Forse anche in questa compensazione può trovarsi la molla che ha spinto la diva a compiere la scelta opposta della Garbo per resistere all’offuscarsi del mito della bellezza e della fama. Non si è nascosta appartandosi in un anonimato voluto e forse sofferto; al contrario si è esposta al mondo continuando a curare la bellezza ma trasmutandola nell’arte.
Perché è proprio la dimensione mondiale del “reportage” fotografico a dare la misura del suo valore, al di là delle singole opere, e Daverio ne dà una definizione appropriata: “Ci restituisce una documentazione vastissima, una sorta di archivio antropologico culturale della terra, vista con costante benevolenza, senza arroganza, con simpatia perenne”. Vogliamo raccontarlo.
I temi prediletti continuano ad essere quelli “italiani”, quasi una proiezione a livello mondiale di un neorealismo fotografico, la miseria e la solitudine, l’umanità e la semplicità. Il “colossal” era lontano dall’animo della fotografa, il “Salomone e la regina di Saba” dell’attrice è del lontano 1959.
L’India della Lollobrigida, siamo nel 1974-77, non è fatta di immagini corali, di scene di massa; ne dà una visione intimista, dall’interno, fatta di primi piani. Anche se si apre con il bel controluce dei raggi dietro le cupole di Nuova Delhi, prosegue con i poveri che dormono sui marciapiedi e stazionano ai margini delle strade, con le vacche sacre. Poi, dopo i volti del rude indiano e delle bimbe delicate, la scena si anima, siamo a Calcutta, con i bambini sui marciapiedi, i templi. Nelle rive del Gange, quelli che lei stessa chiama “gli ingressi dei templi affollati di umanità, i poveri”, ma sempre senza scene di massa. Il venditore d’acqua è carico di ombre, come Benares di notte, sembra una natura morta con figura umana. C’è una sorta di madonna indiana, in piedi con il bambino in braccio e il lungo velo che dalla testa scende sulle spalle, i colori pastello sono trafitti dai loro occhi spalancati, cosa guardano? Anche in questo mistero sta la bellezza. Segue il ritratto di due Sick sorridenti e dell’indiano aggrondato davanti a un elefante.
I colori esplodono nella bellissima sagoma di donna in rosso con lungo mantello giallo e un fondo bicolore, in un verde e un giallo alla Van Gogh, con un sottile tronco d’albero al centro; è un cromatismo violento con la donna ripresa di spalle, chissà qual è il suo viso? In primo piano frontale, invece, con pari resa cromatica, la ragazza del Taj Mahal, il tempio che troviamo in un altro scatto, visto da un’apertura nella grande vetrata. E poi il lavoro nei campi, un grande quadro a colori di un piccolo gruppo di donne con leggeri canestri sotto il braccio e pesanti mantelli.
Torna il bianco e nero nel tenero ritratto a mezzo busto della fanciulla con le treccine e soprattutto nelle tristi immagini della famiglia Gandhi, come quella in cui “Indira gioca con i nipotini nel giardino in cui sarà uccisa”. E poi Raijv con Sonia, l’unica sopravvissuta.
“L’ultimo scatto prima di lasciare Benares, un’immagine che non dimenticherò mai” congeda dall’India con un interrogativo: i poveri che si affollano al di fuori dei vetri dell’auto nell’immagine presa dall’interno sono mendicanti, addirittura lebbrosi, o sono soltanto persone che salutano? L’immagine è del 1976, non la dimenticheremo mai neppure noi.
Ma cosa ci fa vedere di quella parte del mondo asiatico dai tratti somatici così diversi, la Cina e il Giappone? Non c’è la ricchezza di immagini che attendevamo, vista l’India e vista l’estensione e l’esotismo, ma non è questo che cerca la fotografa, forse non è terra di intimità e introspezione. Tuttavia sono pur sempre cospicue, prendono l’intera parete di un lungo corridoio, l’altra è dedicata alle Filippine.
C’è la Shangai operosa e artistica con le sue strade animate e le sale di danza, due ballerine che volteggiano parallele; qualche scatto a Pechino e Canton, un vecchio molto espressivo con gli occhiali inforcati che sobbalza sorpreso. Prevale ancora l’intimo e il personale senza scene di massa anche se, come in India, siamo nell’alveare umano, quindi con tante occasioni spettacolari che non vengono colte perché l’interesse di fondo è la persona nella sua più intima umanità.
Così anche per Tokio, a parte la sfilata di una banda musicale, ma anche lì l’attenzione è sul bambino che ha eluso i controlli e si è infilato tra lo striscione e il corteo; in un altro scatto un bimbo ancora più piccolo si appoggia a una ringhiera in un angolo di marciapiede, una sorta di neorealismo in chiave nipponica. Mentre si sorride dinanzi ai lunghi capelli maschili sciorinati in un interno come tutti gli altri semplice e disadorno. E non mancano i lottatori, lo sport nazionale, curiosamente impalati sotto i loro ritratti.
Lontani sulle isole, le Filippine,
il paradiso di Cotabato
Il verde della laguna di Alaminos nella Hidden Valley e le figure di fanciulli
colpiscono con la loro forza cromatica, la fotografa sembra immergersi in questo
mondo coloratissimo, quasi una vacanza dopo le tante immagini neorealiste
spesso grigie, tuttavia ravvivate da particolari carichi di vitalità.
Ma ci sono anche immagini che riportano alla realtà, il guaritore sotto le cui mani sgorga il sangue dell’uomo disteso, il viso cotto dal sole del pescatore di Quezon, specchio di una vita semplice e dura, il mercato del pesce direttamente sull’acqua con una distesa di barche nello sfondo. E un bianco e nero aspro e drammatico nella processione del venerdì santo, una delle pochissime scene di massa, sembra la piazza del Campo del Palio di Siena, tanto è ricolma nella sua forma semicircolare. Dalla massa al tragico primo piano, il viso di Cristo sotto il peso della croce nella sacra rappresentazione, poi la crocifissione simulata della persona che impersona il figlio di Dio.
Vediamo subito un capolavoro in bianco e nero, la gigantesca foglia di noce di cocco, a terra come un labirinto vegetale, con in fondo un bimbo minuscolo al confronto. E un capolavoro a colori, nella Hidden Valley due bimbi nudi mentre entrano nell’acqua tra le foglie acquatiche in un verde abbagliante da paradiso terrestre; eguaglia in bellezza e splendore gli smeraldi nell’adiacente mostra dei gioielli di Bulgari, quelli di Liz Taylor e della stessa Lollobrigida, alla quale è dedicata, “noblesse oblige”, una vetrina nella spettacolare sezione “glamour” della “Dolce vita”. Più avanti, nella stessa laguna, un bambino minuscolo galleggia su una foglia gigantesca in un verde intenso.
L’alternanza cromatica continua, torna il bianco e nero con il viso di vecchia che sorride tra le rughe e le due radiose donne della laguna che ridono sotto i loro cappellini intrecciati; incalza il colore nel verde smeraldo delle terrazze di riso di Banaue, l’ottava meraviglia del mondo”, e nella piantagione di tabacco a nord di Luzon, con la macchia rossa del vestito della giovane donna che sta raccogliendo le foglie verdi e ne è sommersa; il verde domina ancora nel pittore con la modella.
Quindi il mercato del pesce, la gente entra nell’acqua fino alle caviglie e va verso le barche schierate sul fondo; in un altro scatto, al contrario, un nugolo di papere in primo piano che escono dall’acqua. Un grande quadro esprime il movimento in una tricromia tra cielo, terreno e le masse dei bufali in corsa sfrenata. Tante forme di vita in azione, a diversi livelli e dimensioni.
E poi, primi piani di bambini filippini, di Cotabato, sorridenti e pensosi, fino a due bimbi Tasaday “che vivono nell’età della pietra”, come altri più grandi dei quali tutti sono addirittura indicati i nomi, al pari dei grandi del cinema, dell’arte e della politica ritratti dalla Lollobrigida. C’è anche un’immagine corale di vita primitiva, calma e serena.
Il resto del mondo e i grandi
personaggi, fino al mondo dei bambini
Nella parete opposta si affacciano due immagini dell’Irak, anch’esse quiete e
serene, due interni, uno di vita artigiana l’altro di vita religiosa. Sono del
1988, c’era stata la guerra con l’Iran, nel 1990 comincerà quella con gli Usa e
il mondo, una parentesi di pace colta con grande tempismo.
Il resto del mondo è sparso nelle sale, c’è l’Australia con due immagini di un concerto rock; poi la Svizzera e l’Argentina, con una figura somigliante a Margherita Hack, l’Egitto, il Quatar e Panama.
In Brasile esplode il carnevale di Rio, saltiamo al 1993, cinque scatti a colori, in due di essi il viso femminile è quasi inghiottito da un nugolo di penne variopinte; è una bella sintesi della frenesia collettiva, espressa da un viso femminile in estasi e dal corpo nudo di una ballerina visto dal lato B.
Sono coloratissime anche le immagini dell’Honduras, un primo piano di giovane madre con il bambino sulle spalle, un filatoio all’aperto in costumi tipici, riccamente variopinti. E anche il Perù è rappresentato da una donna in rosso e nero davanti a un muro graffiato, sembra un quadro d’autore.
Del Marocco colpiscono i visi, due scatti alle donne con il proprio bambino, e poi l’immagine delle lunghe vesti rosa e verde davanti a una vecchia casa color ocra. Nel Kenia, di pari bellezza i vigorosi bianco e nero e i solari scatti a colori.
Al Sudafrica la chiusura di questa carrellata, per il grande vigore artistico del minatore con il viso teso nel buio della miniera d’oro, ci si chiede come abbia fatto la fotografa ad entrarvi riuscendo a scattare un bianco e nero così suggestivo; e anche per il colore delicato e rasserenante delle due ragazze in parallelo, quasi in scala, e dei ragazzi meno simmetrici ma assortiti nelle diverse età.
Ed ora l’Europa, di cui abbiamo visto finora solo l’Italia. Ecco la Spagna, in un forte cromatismo espressivo di un clima e di un ambiente: lo troviamo nelle scene della corrida, con Ordonez ed El Cordobes alle prese con il toro nell’arena, e in un ritratto del secondo.
Ce n’è anche uno in bianco e nero, come le immagini del flamenco, vissuto nei volti intensi delle ballerine e nella loro vibrante energia in un’immagine di movimento vorticoso; inoltre nel volto severo e nella “siluette” di Antonio Gades. Ma non manca il colore, una statuaria ballerina con un abito rosa arricciato che sembra pronta a rotearlo come fa il pavone.
Gran Bretagna e Russia sono in bianco e nero. Di Londra desolate immagini di periferia; di Mosca tre fotografie espressive, l’anziana donna seduta curva, una forma quasi circolare, il Cremlino in una orizzontalità data dalla strada in primo piano, la Piazza rossa con la verticalità delle sue cupole.
Non c’è particolare interesse per l’America opulenta, i pochi scatti dedicati a New York e a San Francisco sono desolati, forse dipende dall’alienazione e dalla solitudine nelle metropoli; ed è struggente il sorriso della bambina con la testa stretta in una morsa d’acciaio in un ospedale di New York.
Un inedito Paul Newman che fa il bagno dopo la sauna tra i ghiacci nello specchio d’acqua davanti al suo “chalet” immerso nel bosco si aggiunge al bel ritratto del suo sorriso radioso, ad essere serio c’è Henry Kissinger ritratto al telefono; scuro e serioso anche Fidel Castro, mentre Marcos è ripreso sulla spiaggia dove corre per il “footing”, piccola figura di un dittatore spietato.
Soltanto qui, e poi nella sala a loro dedicata, affiora il privilegio del rango, tutti i grandi personaggi, del cinema come della politica, della cultura come delle istituzioni diligentemente fotografati. Quasi fosse un dovere – sia per loro che per la fotografa – e lo si avverte in molti ritratti convenzionali e in posa. Vogliamo ricordare tra i tanti, ne abbiamo contati quasi quaranta, per la resa artistica, una Liz Taylor avvolta in un lungo vestito e scialle rosso, in posizione reclinata, con il nero corvino dei capelli e gli occhi sgranati che ricorda la Lollo di allora; e Liv Ullman, immagine quasi monocromatica di delicata fattura.
Orson Welles tenebroso anche se quasi in posa, come Grace Kelly vestita di verde e Farah Diba impalata, completano la nostra citazione. Che si chiude con l’immagine dell’amata Callas in bianco e nero, e con uno scorcio della figura di Bette Davis, in un colore che sembra grigio per la tristezza di una vecchia diva di cui si immagina il viso scavato.
Dal mondo dei grandi vogliamo arrivare a quello dei bambini ai quali l’attrice ha dedicato un’attività umanitaria nell’ambito dell’Unicef, oltre a quella svolta per la FAO contro la fame. E’ un terreno d’avanguardia sperimentato dall’inizio degli anni ’80, del resto anche nelle sue fotografie tradizionali la Lollobrigida mette la propria visione del tutto particolare alimentata dalla fantasia. “Nell’immagine è fissata una rappresentazione della realtà fissata dal nostro inconscio – ha scritto – una rappresentazione trasformata, talora irreale, racchiusa in un’inquadratura che taglia, esclude o addirittura annulla ciò che può disturbare: quello che non interessa e che lascia unicamente spazio a ciò che vogliamo vedere, proprio come un regista che sceglie e confeziona le scene di un film”. Così fa nelle composizioni per i bambini, le immagini le crea e le costruisce, poi le fissa sulla pellicola. Le tecniche sono inedite e innovative per quegli anni, quando i sistemi computerizzati non avevano preso piede con la loro attuale invadenza, e si doveva lavorare artigianalmente.
E’ una rappresentazione fotografica che sconfina con la scultura, essendo fatta di forme e colori virtuali, quasi tridimensionali nel loro impatto visivo, forse è stato il “trait- d’union” tra le due forme espressive. Sono macchie cromatiche e accostamenti arditi con figurazioni fantastiche, a volte sembrano giochi di prestigio e di equilibrismo: delfini, struzzi e altri animali ripresi in simbiosi con i bambini. Fiabe solari ben lontane dalle oscurità di certe favole nordiche fatte per incutere nei piccoli il senso del pericolo, ma che scavano nell’animo solchi di paura.
I successi editoriali e quelli artistici
L’incursione nella fotografia per bambini ad elevato livello di qualità e innovazione, la felice sinergia tra genialità italica e personalità ferrea che predilige l’apprendimento accelerato e l’applicazione, nel 1994, dopo 14 anni si è tradotta in un libro per l’Unicef, “The Wonder of Innocence”. E’ solo una parte del più ampio lavoro che le ha visto pubblicare otto volumi di fotografie nel corso del tempo, uno dei quali, nel 1973, dal titolo “Italia mia” ebbe il Premio “Nadar” come miglior libro fotografico dell’anno e vendette più di 300.000 copie nel mondo.
Fu Vittorio De Sica a suggerire questo titolo al posto di quello da lei pensato “La mia Italia”, titolo del libro fotografico di Tony Vaccaro contemporaneamente in mostra alle Scuderie del Quirinale. Una bella coincidenza di due italiani dilettanti fotografi divenuti presto eccezionali professionisti.
I riconoscimenti artistici non sono mancati. Nel 1992 rappresentò l’Italia all’Expo di Siviglia con la scultura “Vivere insieme”, un bambino che cavalca un’aquila. Chirac le diede la Medaglia d’oro della Città di Parigi di cui era sindaco nel 1980 per la mostra di fotografie al Museo Carnavalet. Le sue sculture sono state esposte in affollate mostre al Museo Puskin di Mosca nel 2003, anno nel quale ha partecipato all’Open di Venezia.
Nel 2008, nella città di Pietrasanta, meta di artisti europei ed americani, dove le piace lavorare come scultrice, si è tenuta una grande retrospettiva delle sue opere. Alcune rappresentano la sua gioventù e la sua bellezza in statue colorate molto grandi, di una leggerezza e leggiadria che le fa apparire come visioni oniriche; nel filmato che si può vedere nella mostra ci sono queste sculture come ci sono anche spezzoni dei suoi film più famosi con la sua disinvolta dizione in francese e in inglese, un portento.
Per l’insieme della sua opera di attrice e artista ha ricevuto nel 1992 la “Legion d’Onore” in Francia dal presidente della Repubblica Francois Mitterand. Ma non vogliamo indugiare oltre su questi riconoscimenti ufficiali, ci piace concludere con alcuni giudizi sulla sua poliedrica personalità e sulle sue doti da parte di personaggi, soprattutto attori e registi che hanno lavorato con lei iniziando con i giudizi più lontani dai campi da lei coltivati.
André Cayatte:”Ha un autentico talento da cantante, una voce carezzevole. Se non si fosse ormai votata alla carriera cinematografica, Gina avrebbe potuto percorrere la carriera di cantante con altrettanto brillanti risultati di quelli raggiunti come attrice”; Cocò Chanel: “Gina è nata per indossare i miei tailleur, è meglio delle mie mannequin”. Ed ora gli attori e registi più famosi: Humphrey Bogart: “In quanto a sex appeal fa apparire Marilyn come una scolaretta”; Sean Connery: “Ho lavorato con molte artiste, di tutte Gina è quella che scelgo”; poi i registi, Renè Clair: “Gi-na-Lol-lo-bri-gi-da, sono le sette sillabe oggi più famose in Europa; Fellini: “Gina non finisce mai di sorprendermi; è straordinaria”.
Fellini parlava di lei come attrice cinematografica, ma il suo potrebbe essere benissimo il sigillo della mostra che ne rivela i tanti profili d’artista: non finisce mai di sorprendere, è straordinaria.
1 Commento
- Rossi Vittorio
Postato settembre 18, 2009 alle 9:55 PM
molto bello e chiaro
Info
la mostra si è svolta a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, dal 25 giugno al 13 settembre 2009. L’articolo è stato pubblicato in culturainabruzzo.it (non più raggiungibile) il 10 agosto 2009. Catalogo “Gina Lollobrigida fotografa”, Damiani Editore, giugno 2009, pp 320. Il precedente articolo “Gina Lollobrigida, 1. Con Stefano Massini per l’ “utilità” dell’arte, le sue sculture” . è uscito in questo sito nella stessa data del 5 maggio 2020.
Foto
Le immagini si riferiscono alla Lollobrigida fotografa, le tre che precedono le due di chiusra mostrano i suoi disegni e dipinti esposti alle pareti di due sale della mostra a Pietrasanta con al centro sue sculture, alle quali è dedicato l’ articolo appena citato, pubblicato contestualmente. Esse sono tratte dai siti web, che saranno indicati nell’ordine di inserimento delle immagini, di cui si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, precisando che hanno scopo eminentemente illustrativo senza alcun intento economico, nè commerciale, nè pubblicitario; qualora la pubblicazione non fosse gradita le immagini verranno rimosse immediatamente su semplice richiesta dei titolari dei siti. In apertura, il Catalogo della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma, 2009; segue, Gina Lollobrigida fotografa tra alcuni dei suoi scatti nel mondo, poi, intervallate da immagini in cui è ritratta mentre è impegnata a fotografare che qui non vengono citate, Gina Lollobrigida, India, Bambini che giocano; quindi, Gina Lollobrigida, Reportage sui mafiosi al confino, Linosa, estate 1971 in 4 immagini, la 1^ è una scena d’ambiente, la 2^ riprende 4 mafiosi al confino, la 3^ mostra Angelo La Basrbera in un incontro “ravvicinato” con un carabiniere, istantanea eccezionale, nella 4^ il boss La Barbera con due mafiosi al confino; inoltre, il libro fotografico “Italia mia”, edizione inglese 1973 , in tedesco, “Mein Italen” 1978; poi, dopo 5 immagini della Lollobrigida con il libro “Italia mia” come fotografa e anche come fotografata, il suo ritratto fotografico di “Paul Newman” ; ancora, mentre fotografa il regista Luchino Visconti, poi un Corazziere, e mentre fotografa a fianco dell’attore David Niven; continua, Il Catalogo delle fotografie risultato della ricerca sui bambini 1993, e lei sui tetti di Roma mentre fotografa una modella; poi il francobollo di San Marino sulla sua arte fotografica, e 3 immagini dei suoi dipinti e disegni della mostra di Pietrasanta, una dalla Sala del Capitolo, 2 dalla Sala dei Putti; infine, il francobollo di San Marino, su lei ambasciatrice FAO; in chiuusra, il Catalogo delle mostre fotografiche all’estero 2010. Sono tratte dai siti web: diamianieditore.it, 06foto.it, pinterest.it, nikoland.it, humusdremawidth.com, 4 reportagesicilia.blogspot.com, intervallati da fotoimesite.net, picclic e profilodidonna.com, poi marieclaire.it, amazon.com, nikoland.it, chi-e.com, gettyimages, fotoalamy.it, 2 nikoland.it, fotografiamoderna.it, 2 fotoalamy.it, intervallati da repubblica.it, 2 nikoland.it, reportagesicilia.blogspot.com, amazon.it archiviopizzi.formiche.net, 2 riminibeach.it intervallati da 3 museodeibozzetti.it, amazon.com.