Luciano Radi, nel centenario dalla nascita: Politica, Cultura, Umanità

di Romano Maria Levante

Sabato 15 ottobre 2022, alle ore 17, si è tenuto a Foligno, all’Oratorio del Crocifisso, un incontro celebrativo del centenario dalla nascita:  “Luciano Radi, il suo messaggio politico e umano”. E’ stato  un omaggio all’uomo politico, allo studioso, all’intellettuale e scrittore molto stimato e amato non solo nella sua terra, ma a livello nazionale nel quale ha operato con una milizia politica, un impegno civile e un’attività letteraria in un modo appassionato che ha segnato tutta la sua vita.

Luciano Radi

 E ‘ trascorso un mese dall’incontro, ricordiamo oggi Luciano Radi nel trigesimo non di una scomparsa  ma di una ricomparsa, una apparizione sia pure solo virtuale. La consideriamo tale perché sono state così intense le espressioni usate da coloro che lo hanno ricordato ai molti amici ed estimatori che hanno affollato l’Oratorio del Crocifisso, che la sua figura è apparsa viva e presente.

Si è trattato di una vera e propria cerimonia per il livello istituzionale di alcuni illustri intervenuti, e per la sede sacrale dell’Oratorio del Crocifisso, ma nulla di formale e rituale, tale la spontaneità e l’immediatezza con cui si è svolta, con gli sguardi commossi della figlia Maria Chiara e dei nipoti Tommaso e Sebastiano; a loro si deve l’aureo libretto-ricordo dato ai partecipanti oltre alla perfetta organizzazione nata da un amore e una dedizione senza fine.

L’invito per i partecipanti
con l’aureo libretto-ricordo

Se non avesse avuto questo carattere ci sarebbe triste rievocare la manifestazione, per il nostro rapporto con lui durato più di un quarantennio, in un sodalizio intellettuale profondo. Invece proviamo dolcezza –  mista a malinconia e nostalgia per il tempo passato in stretta intesa con lui – sentendo rivivere la sua nobile figura nei molteplici  aspetti, politico, culturale e umano attraverso le parole non astrattamente elogiative ma legate a precisi ricordi di una vita spesa nell’impegno civile da un protagonista del nostro tempo, il quale ne è stato anche testimone nei suoi libri che hanno lasciato una traccia imperitura per le nuove generazioni con il suo messaggio politico e umano.

Foligno, l’Oratorio del Crocifisso

I messaggi e gli interventi celebrativi

L’ambasciatore Paolo Foresti,  che ha condotto l’incontro con garbo e immedesimazione, ha iniziato sottolineando la comune visione dell’Europa e un rapporto personale con lui che lo faceva intrattenere  “a parlare del mondo”, dei personaggi di comune conoscenza e di altri eventi che li vedevano insieme. E ha confidato : ”La profonda cultura e umanità di Luciano mi affascinavano ogni volta che mi recavo a fargli visita nella sua casa di campagna appena sopra Foligno”. Ha concluso il suo ricordo citando un messaggio di grande valore ricavato dal libro “La macchina planetaria. Quale regole per la corsa alla globalizzazione”, del 2000, quando ancora tale termine non era entrato nell’economia e nella società. Questa la citazione testuale dal libro: “Una convergenza di segni indica che l’umanità va verso un cambiamento e questo cambiamento è forse molto vicino. Non siamo alla fine dei tempi ma alla fine di un tempo. Anche la globalizzazione, così come oggi si realizza, è solo una stagione, non l’approdo definitivo del nostro approdo sul pianeta”.  

Il commento di Foresti: “Ecco chi era veramente Luciano Radi, un uomo che attraverso il passato in tutte le sue manifestazioni esplorava ed individuava il futuro”.

Giuseppe De Rita nel corso della sua testimonianza al centro della rievocazione, alla sua dx l’ambasciatore Paolo Foresti

Dei molteplici aspetti della sua personalità poliedrica –  in una vita fortemente impegnata in campo politico, sociale e culturale, e nell’interrogarsi dentro in una introspezione struggente, per poi condividere le proprie emozioni attraverso i suoi libri –  hanno parlato gli intervenuti, dopo la lettura di messaggi molto significativi.

Iniziamo con gli interventi provenienti dall’istituzione religiosa e da quella civile, legati a ricordi personali del suo impegno nella comunità, mentre il nobile e sentito messaggio del massimo livello della nostra Repubblica lo citeremo in conclusione.

Lo spettacolare affresco al centro del soffitto dell’Oratorio

Il  cardinale Giuseppe Betori, Arcivescovo di Firenze, in  tempi passati a Foligno, in un ampio messaggio ha rievocato gli anni della “formazione del giovane Luciano, fortemente segnata dalla sua esperienza nell’Istituto San Carlo, in specie nell’attività teatrale, in quel tempo ampiamente caratterizzante la proposta di presenza cattolica nella città. Nell’Istituto vivevano i valori di quella connessione tra fede e cittadinanza che ne avevano animato le origini come testimonianza del Vangelo di fronte a una società segnata da forti vene anticlericali, poi nel far fronte all’egemonia educativa del fascismo, quindi nel motivare i giovani partigiani nella resistenza al nazi-fascismo, infine, proprio negli anni della presenza di Luciano nel San Carlo, nell’offrire principi e riferimenti valoriali in grado di orientare le nuove generazioni nella ricostruzione della società italiana nel dopoguerra”. Una importante testimonianza che disvela le radici profonde dei valori ispiratori della sua condotta a livello politico e umano rimasti esemplari, nelle parole  del  Cardinale; il quale ricorda quando, all’inizio degli anni ’80, si impegnò nel ridare vita all’esperienza san carlista: “Missione che fui lieto di assumere, sostenuto da validi laici e avendo come riferimento immediato proprio la generazione dei sancarlisti di cui era parte Luciano Radi”.

Uno scorcio della sala dell’Oratorio con i partecipanti all’incontro

Dalla formazione giovanile all’esperienza politica: “Essa si svolse in forte appartenenza a quel filone del cattolicesimo politico che legava insieme una visione dell’uomo e della società saldamente ancorata alla visione cristiana del mondo e la declinava con una particolare accentuazione rivolta alle attese dei poveri e alla giustizia sociale. Al centro di quel mondo si collocava la figura del sindaco santo fiorentino, il venerabile prof. Giorgio La Pira”. E il Cardinale ricorda la “comunione ideale”che aveva Luciano Radi con il sindaco santo a cui ha dedicato un libro e una citazione in “Buonanotte onorevole‘: “Da questa comunione ideale scaturisce anche il suo modo di fare politica molto attento alla dimensione del servizio e sempre attento alle ragioni dei ceti più umili, in particolare il mondo dei lavoratori della terra”.

Un angolo suggestivo dell’Oratorio

Dalla vita politica all’attività di scrittore con “l’attenzione che Luciano Radi ha rivolto alla realtà della Chiesa, in specie dei suoi preti, una realtà colta nella sua quotidianità, anche fragile, ma con un occhio e un cuore di figlio che tutto avvolgeva nell’affetto e nella misericordia. Con gli occhi ben aperti sulle debolezze della vita ecclesiale e sacerdotale, ma mai per condannare con spirito di antagonismo e di rivalsa, bensì con attenzione, comprensione, desiderio di contribuire a quella continua conversione di cui la Chiesa ha bisogno”. In questo era in sintonia con il Santo Papa Giovanni XXIII che con il Concilio volle “manifestare il volto materno e misericordioso della Chiesa” e lo è anche con Papa Francesco “che della misericordia ha fatto la chiave di ingresso nel suo pontificato”. E aggiunge: “Lo si vede dai suoi scritti sulle figure dei santi, in particolare umbri, dai quali era attratto, lasciando trasparire nelle pagine agiografiche la profondità della spiritualità che lo animava, ed era la ragione di tutto”.

L’intenso messaggio del Cardinale si conclude con un sentito “grazie a Luciano Radi, per come ha seminato di bene il cammino della nostra città, della vita politica e della Chiesa”.

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1969

Dopo l’autorità religiosa, l’autorità politica, ai massimi livelli comunale e regionale.

Il Sindaco di Foligno, Stefano Zuccarini,  ha iniziato dicendo come “abbia davvero voluto lasciare il segno con la sua vita, nella vita degli altri: degli altri intesi anche come Comunità, proprio attraverso l’impegno nelle Istituzioni.

Un impegno civile, nel senso più alto del termine: quello del condividere il Bene Comune e di mettere se stessi e le proprie capacità al servizio degli altri, in un mondo in cui sempre più spesso si mettono i propri interessi prima di quelli degli altri e ci si serve delle Istituzioni invece di servirle, ecco che la figura di Luciano Radi rappresenta un punto di riferimento, sempre attuale e un modello da seguire ancora oggi” .

E questo “con la sua figura di Uomo, di Cristiano, di Politico con la P maiuscola, di Folignate che ha contribuito a far grande Foligno”.

Ne ha poi ricordato la carriera politica, iniziata nell’immediato dopoguerra come Consigliere comunale dal 1946, Deputato ininterrottamente dal 1958 al 1992, Senatore fino al 1994; ricoprendo  ruoli importanti nel governo italiano, e ha parlato dell’attaccamento alla propria terra, dove ha sempre vissuto ed è stato fautore di importanti iniziative produttive, sociali, culturali: “Anche da questo possiamo dire che il segno lasciato da Luciano Radi è ancora vivo, ed è tra noi”. 

Riguardo alla sua elevata caratura intellettuale lo ha definito “uomo consapevole che con il confronto si potevano cogliere spunti meritevoli di essere approfonditi per allargare, arricchire e perfezionare la propria visione” , e ha citato “la sua ricca produzione letteraria: opuscoli e libri di carattere politico, socio-economico, storico, agiografico e di costume”.

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Con Scelba, Fanfani e Rumor

 Questo il sindaco attuale, ma anche Manlio Marini, già sindaco di Foligno dal 1993 al1995 e dal 2004 al 2009 in un messaggio ha voluto “rievocare ed esaltare la figura di un uomo che oltre che marito e padre esemplare ha dimostrato onestà intellettuale, saggezza e coerenza nell’esercizio di una prestigiosa funzione di servizio per il bene della comunità nazionale e di quella regionale interpretando, nel migliore dei modi, il ruolo della politica”.

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1970

La Presidente della Regione Umbria, Donatella Tesei, nel suo intervento di saluto,  ha ulteriormente sottolineato l’azione che come politico ha svolto per la sua terra, non solo per la città di  Foligno –  che con l’incontro odierno così partecipato ne ricambia l’amore – ma per l’intera regione. Per questo lo ha considerato “ancora tra noi, è stato ed è sempre tra noi”, costantemente vicino alla propria comunità, dalla quale è partito nella continua ricerca del bene pubblico a livello locale e nazionale. E non si è limitato ad operare nella sfera politica, ma “ha espresso i suoi mille interessi culturali in una serie rilevante di opere che ha pubblicato,diventate per tutti noi un motivo di apprendimento, di crescita, di guida”.

Ne ha ricordato le doti preclare di politico e uomo di cultura con parole che sono state un omaggio  sentito e sincero a chi ha manifestato con la propria azione concreta e l’impegno appassionato il valore delle radici territoriali e insieme il riconoscimento del retaggio lasciato all’Umbria, che si collega ai riferimenti spirituali della regione da lui sentiti profondamente.  Ha voluto infine rivelare che la sua emozione è ancora più intensa di quella che le viene dalla carica istituzionale nel ricordo degli stretti rapporti di Luciano Radi con suo padre, che svolgeva attività politica nel suo stesso partito a Montefalco.

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Con Fanfani, in visita a Dottori

Una nota personale dello stesso segno, ancora più profonda, nell’intervento di Alessandro Forlani, e non poteva essere altrimenti considerando quanto stretti fossero stati i rapporti di Radi con il padre, impossibilitato  a venire per la fragilità dell’età molto avanzata ma partecipe con il suo saluto portato dal figlio che ha ricordato l’intesa tra loro, dagli anni della prima segreteria della DC di Arnaldo Forlani, nel 1969-73,  alla Presidenza del Consiglio del 1980-81 con Radi suo sottosegretario. Del resto ne era considerato “il braccio destro”. Ha rievocato la loro “grande amicizia, amicizia profonda, frequentazione costante, continuativa, due percorsi politici fortemente intrecciati in una preziosa collaborazione e confidenza”.

Ha osservato come ce ne sia un’espressione nel profilo che Radi ne ha tracciato, con parole molto espressive dedicate a Forlani nell’aureo libretto dato ai presenti. Ne citiamo solo alcune: “Forlani ha la virtù’ della prudenza, della pazienza, della moderazione, dell’autocontrollo e l’arte di cogliere i tempi giusti; da lui non verranno mai appelli drammatici, alternative perentorie. Fa la politica in maniera elegante , sottilmente disincantata: ogni suo sforzo tende a rassicurare, a riportare le cose sui binari del buon senso…”. Sembra un autoritratto di Radi, aggiungiamo, e questo spiega la stretta intesa che c’è stata sul piano umano oltre che politico. Anche ricordi personali della fase iniziale della propria carriera politica nei giovani DC e come  consigliere comunale, pur nel divario generazionale:  ha voluto Radi relatore in un corso di formazione per i giovani da lui promosso a Fiuggi, e ne ricorda la lezione densa di cultura umanistica e di competenza  economica e sociale.

Soprattutto ne ha fatto rivivere la figura con queste parole: “Di quella classe dirigente con punte di professionalità politica eccelsa Luciano Radi è stato tra i migliori: non solo per la raffinatissima cultura, la competenza, l’impegno nell’attività parlamentare unito a quello per la sua terra; ma anche per lo stile, l’approccio e il tratto sempre molto cortese e molto disponibile, sorridente, mai settario – pur in un periodo storico di contrapposizioni quanto mai accese – ma dialogante, ragionatore acuto con grande capacità di persuasione, pronto a farsi carico delle ragioni degli altri”.

Ha concluso dicendo che per gli insegnamenti che ha lasciato, il suo esempio può essere un utile riferimento ideale quando si affrontano gravi problemi in un momento così difficile per il paese.

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1973

 Giuseppe De Rita, lo “storico” Presidente del Censis, il Centro Studi Investimenti Sociali da lui fondato, per dieci anni Presidente  del CNEL, il Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, nella sua testimonianza al centro della manifestazione ne ha rievocato la figura con toni sommessi e parole intensamente sentite, derivanti dalla sua lunga consuetudine con lui, in un rapporto iniziato quando “Luciano era giovane parlamentare con l’incarico nel partito delle ‘Aree depresse del Centro-Nord’,  la cosiddetta ‘Cassetta’”: nel loro primo incontro a Villa Lubin  gli chiese di andare il giorno dopo in Umbria per trattare di quei temi così importanti per il suo territorio.

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Con Gava e Scalfaro

Di lui ha ricordato la “cultura della mediazione”  anche quando era molto difficile, ma non cedeva all’opportunismo, “era sempre se stesso”, non era costruito bensì  “semplice e naturale,  senza enfasi”.  E aveva “una generosità spontanea”, come quando a scuola, molto bravo in matematica, passava i compiti ai compagni.

Ha sottolineato come ha attraversato anni di forti contrasti, nella politica e nella società, anche all’interno del suo partito, senza mai perdere la sua capacità di “stare dentro alle cose”,  far emergere le soluzioni smussando le punte.  E ha citato il giudizio di Andreotti, che non ne formulava mai ma eccezionalmente nei suoi confronti ha parlato “dell’amicizia per un collega del quale ammiro particolarmente la dedizione al lavoro, la serenità di spirito, la comunicativa umana” ,  aggiungendo che “la  calma, tutta umbra, di Luciano Radi, contribuisce a distendere il nostro complesso mondo di lavoro”.

De Rita ha parlato dei 35 anni di attività parlamentare, nei quali la società italiana ha avuto i radicali cambiamenti che dall’osservatorio del Censis ha analizzato e penetrato costantemente con l’annuale Relazione sulla situazione sociale. Ha fatto dei riferimenti alle forti trasformazioni anche sul piano politico, ma dell’amico ha voluto tratteggiare essenzialmente gli aspetti umani.

 E ha concluso  evocando il rapporto che ha definito “fondamentale”  nell’azione e nella vita di Radi tra esterno  e interno: l’incessante attività nelle istituzioni,  con l’altrettanto incessante impegno civile e culturale,  che lo ha visto “convesso”,  ha avuto una corrispondenza all’interno, è stato “cavo”, ripiegato nella riflessione e nell’introspezione. “Ha fatto i conti con se stesso”, e aprendosi nei suoi libri dell’anima ha fatto partecipi gli altri dei suoi sentimenti interiori nei quali emergono i temi  che penetrano  nel profondo, fino al tema della morte.

 Così è stata delineata una parabola di vita  che mentre esprimeva all’esterno l’assoluta dedizione nell’impegno civile e politico, all’interno diveniva meditazione accorata e spesso sofferta.

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1979

L’ unicità della sua figura

E’ un itinerario di vita, quello di Luciano Radi,  che nell’aureo libretto dato come ricordo ai presenti viene rivissuto nei suoi molteplici aspetti: l’unicità della sua figura di politico e uomo di cultura; una vita nella politica, un impegno continuo e una testimonianza preziosa; in più la narrativa, con l’introspezione più intima e segreta; fino al suo messaggio politico e umano.

Ma va premessa la sua eccezionalità che supera i due stereotipi opposti quanto speculari, quello contro i “professionisti della politica” e l’altro contrapposto della “politica come servizio”. Non è stato un professionista della politica data la sua caratura professionale di docente universitario, mentre il suo servizio politico per il bene pubblico non è stato esclusivo data la vastità dei suoi interessi coltivati in campo culturale. Una vera lezione di cui fare tesoro il saper coniugare diverse vite al più alto livello intellettuale e culturale.

Una eccezionalità la sua che diventa unicità considerando che l’osservazione attenta della realtà del suo Paese e della sua terra alimentava non solo la sua azione politica ma anche gli approfondimenti dati alle stampe nei quali spicca saggezza unita a umanità. Ma c’è di più, la sua competenza di economista e statistico docente all’Università, forniva le basi per delle analisi alle quali seguiva la proposta e l’azione volta a realizzare quanto emergeva dalle  sue riflessioni e studi approfonditi.

Come non definire unico chi, parlamentare in nove legislature per oltre 35 anni ha al suo attivo 35 pubblicazioni che spaziano dalla politica all’economia, dalla storia alla sociologia, fino ai bozzetti di costume non solo espressi in prosa, ma anche attraverso grafiche artistiche anch’esse del tutto peculiari? Tutto nasce dalla sua insaziabile curiosità di cogliere e interpretare i movimenti della società mobilitandosi per accompagnarli con adeguati interventi della politica; senza limitarsi a questa azione concreta e fattiva ma impegnandosi con i suoi libri per renderne partecipi tutti coloro che come lui avevano a cuore l’evoluzione visibile e quella nascosta della società.

Da Presidente della Camera Italiana di Alta Moda, a dx Giovanni Leone

 L’identificazione dei bisogni dei più deboli era in cima ai suoi pensieri, mossi da una religiosità profondamente radicata nella sua terra, la terra di San Francesco, alla cui figura ha dedicato libri intensi e ispirati. Non si deve pensare  che queste sue peculiarità lo rendessero distaccato, al contrario aveva una amabilità disarmante – come ha ricordato De Rita citando anche le parole di Andreotti – che non dava soggezione, bensì calma e serenità.  Ma non si trattava soltanto di temperamento, bensì di istintiva apertura al dialogo, al confronto con le idee contrarie alle sue, che pur se erano solide e ben radicate potevano giovarsi della conseguente riflessione estendendo la visione con approfondimenti successivi in un arricchimento e perfezionamento altamente virtuosi.

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1984

L’impegno  politico attraverso i suoi libri

Non ripercorriamo la sua lunga milizia politica nella Democrazia Cristiana, che risale al 1946 con l’elezione in Consiglio comunale di Foligno, a livello nazionale De Gasperi gli affidò giovanissimo la direzione del dipartimento “Aree depresse del Centro Nord ”. In Parlamento dal 1958 al 1994, ininterrottamente dalla III all’XI legislatura, 405 progetti di legge presentati, 104 atti di indirizzo e controllo, 256 interventi, 2 incarichi parlamentari e 8 incarichi di governo,  ne ha parlato Giuseppe De Rita inquadrandone la presenza e azione politica  nei profondi mutamenti avvenuti nella società.

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Con Fanfani e Pertini a una cerimonia sulla CEE

Con riferimento alla nota “Luciano Radi. Protagonista e testimone del nostro tempo”  che conclude, con “Il profumo della memoria”, l’aureo libretto celebrativo, accenniamo agli scritti nei quali ne ha dato testimonianza, a riprova della “unicità” che abbiamo visto nella sua figura e nella sua opera di protagonista politico nelle istituzioni e di scrittore quanto mai versatile nei contenuti e nelle forme.

Dalla prima pubblicazione che risale al 1957, “La crisi della pianificazione rigida e centralizzata”  al saggio “I Mezzadri e le lotte contadine nell’Italia centrale dall’Unità al 1960”, del 1962, che riflette l’impegno politico sulle aree depresse, cui seguirà nel 1970 “Nati due volte”,una serie di bozzetti di vita contadina in una sua partecipazione così  sentita da divenire immedesimazione.

Carlo Carretto ha scritto nella Presentazione: “Io dico che è un documento, un impressionante documento capace di far nascere romanzi e destare inchieste su una realtà che anche se non esiste  più nel suo complesso, travolta dalle trasformazioni veloci del nostro tempo, è ancora attaccata a brandelli sulle nostre carni e ci fa soffrire quasi come se fossimo attori e responsabili”.

Nel 1969 aveva pubblicato “Potere democratico e forze economiche” – era sottosegretario alle Partecipazioni statali dopo esserlo stato all’Agricoltura, due dicasteri di natura economica, anzi produttiva –  nel quale espone le sue idee per una moderna politica economica nazionale incentrate sulla posizione dell’uomo nella società contemporanea, visto come individuo, come cittadino e come lavoratore, in una visione valida ancora oggi dopo oltre mezzo secolo..

1985

Come sono  attuali le sue considerazioni conclusive secondo cui è essenziale che “il dialogo tra le forze politiche e gli apporti risultanti attengano ai contenuti specifici e concreti dell’azione politica e non alle impostazioni ideologiche…  nè tanto meno alla ripartizione delle posizioni di potere”.

Una vera lezione, con un avvertimento: “Tutto ciò riflette l’essenza stessa della partecipazione ai vari livelli, che comporta l’apertura ad ogni corrente di pensiero sia perché soltanto così si attua appieno il metodo democratico, sia perché in caso contrario le forze escluse da una effettiva partecipazione esercitano una pressione rivendicativa che, nella misura in cui si esercita in forme violente, arriva a minacciare lo stesso sistema democratico”.

Tra i  libri più strettamente politici  ricordiamo Partiti e classi in Italia del 1975, seguito da Il voto dei giovani del 1977, e due analisi dei risultati elettorali del suo partito, Riflessioni su una sconfitta e Riflessioni su una vittoria. Fino a La talpa rossa del 1979, sulla penetrazione sotterranea del Partito comunista nel corpo del paese, al di là del suo ruolo di maggiore partito di opposizione, ritenuto per ciò stesso al di fuori delle stanze del potere, mentre era soltanto apparenza.

Nel libro ne denuncia la insidiosa azione egemonica: “Ma la meta di una società come la nostra sospinta dalla libera dialettica culturale, sociale, economica  non è una meta indicata ‘organicamente’ dai capi,una volta per sempre con la forza di una egemonia totalizzante, è una meta sempre rinnovantesi  che la società persegue in un dialogo tra tutti i soggetti della vita sociale”.

 Con questo impulso: “ L’unico moto autenticamente rivoluzionario è suscitato dalla libertà. La libertà è la forza sempre nuova che con la scienza e la tecnica  e la coscienza della crescente complessità delle relazioni sociali, trasforma la società fondata sul potere come dominio in una società consapevole fondata sul potere come servizio, come funzione dirigente”.  Un forte messaggio politico che resta valido tuttora.

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Con Pertini all’inaugurazione della mostra per il centenario di Garibaldi

E poi, nel 1991,  La grande maestra, la Tv tra politica e società, un viaggio all’interno del “grande fratello” che ne riflette l’azione come responsabile dei problemi radiotelevisivi del suo partito, l’anno dopo diventa presidente della “Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai” promuovendo importanti innovazioni. Nel 1980-81 è stato Direttore del quotidiano“Il Popolo”, organo della DC.

Non mancano i “ritratti” di personaggi politici, a partire da Tambroni, trent’anni dopo l’agitata quanto breve stagione della Presidenza del Consiglio culminata nei fatti di Genova, del 1990, fino a Gerardo Bruni e la questione cattolica, del 2005,  e quelli a livello locale del 2006: Foligno 1946. Ricordo di Italo Fittaioli e Benedetto Pasquini in occasione del sessantesimo della prima elezione democratica al Consiglio comunale, 2006.

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1990

Spicca tra tutti Gli anni giovanili di Giorgio La Pira, del 2001, il “sindaco santo” nella fase della sua formazione,cui si è riferito anche il Cardinale Betori nel messaggio citato all’inizio. E poi La DC da De Gasperi a Fanfani,del 2005, 20 capitoli molto densi punteggiati di ricordi e di vive testimonianze personali che arricchiscono l’accurata ricostruzione storica.

Ha anche esteso lo sguardo oltre l’ambito nazionale con La macchina planetaria. Quali regole per la corsa alla globalizzazione, del 2000 –  con la prefazione di Giuseppe De Rita, il testimone dell’incontro celebrativo del centenario – nel quale prevedeva la difficile conciliazione tra azione del mercato e valori individuali e collettivi, in presenza delle temute ondate inflazionistiche, delle crisi finanziarie e della difficoltà di introdurre regole condivise, che dovrebbero portare a un coordinamento globale, magari in sede ONU, anche se non pensava certo a un governo mondiale, utopistico e controproducente per una serie di motivi indicati con precisione.

Con Guido Carli

Ecco il suo lungimirante messaggio:   “Nelle condizioni attuali la scelta ci sembra inequivocabile: dare alla comunità internazionale le leggi e le istituzioni necessarie per la difesa della pace, della libertà, della stabilità e del benessere; favorire ovunque l’evoluzione culturale e le conoscenze scientifiche e tecnologiche; provvedere alla integrazione nel sistema delle vaste aree marginali destinate altrimenti a rimanere escluse; dare al mercato leggi planetarie per ciò che riguarda  l’organizzazione del sistema bancario e i flussi finanziari. Si è in drammatico ritardo. Il futuro è già tra noi. Dare soluzioni efficaci all’insieme dei problemi che condizionano non solo la crescita, ma la stabilità del sistema globale e la sostenibilità ecologica dello sviluppo, è indifferibile”. Lo scriveva 22 anni fa.

 “Se il sistema capitalistico non si orienterà in questa nuova direzione – erano le sue conclusioni -mettendo alla prova, ancora una volta, la sua capacità di adattamento e non favorirà il processo di coordinamento a livello globale, rischierà di generare pericolosi e sempre nuovi rischi di disgregazione del sistema planetario”.

La sua attualità è nei gravi problemi di oggi , di qui la lungimiranza sottolineata dall’ambasciatore Foresti nell’aprire l’incontro. 

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1993

I libri con la sua testimonianza culturale e umana

Ma la sua testimonianza non è solo politica, bensì anche culturale e umana – come è stato ricordato da tutti – per questo intendiamo soffermarci ora sui libri in cui si è manifestata in una introspezione sempre intima,  spesso accorata e qualche volta sofferta, un altro aspetto della sua unicità:  disvelare così i propri sentimenti, tanto più di un uomo politico, è più unico che raro.

L’esordio nella saggistica  risale addirittura al 1948, quando a 26 anni, nel 1948, pubblicò Il pendolo composto e le sue leggi, ristampato in anastatica nel 2010; poi lo vediamo impegnato nella ricostruzione storica con 20 giugno 1859: l’insurrezione e il sacrificio di Perugia, siamo nel 1998, e molti anni dopo con Il mantello di Garibaldi., nel 2011.   Di qui alle vite dei Santi, aperte da Chiara di Assisi, del 1994, a lui molto cara, seguita da Angela da Foligno nel 1996, da Santa Veronica Giuliani nel 1997, e Umbria santa del 2001. Poi, San Nicola da Tolentino e Margherita da Cortona nel 2004.

In Francesco e il Sultano,  del 2006, dopo una approfondita ricerca storica rivela il vero intento della missione del santo, “porre fine alle Crociate con il dialogo e con la conversione e non con l’uso delle armi” –  che peraltro il santo esortava “a non usare ma non a deporre”  – cioè “il metodo del dialogo e della testimonianza personale al posto della contrapposizione e dello scontro”, come sottolinea Franco Ferrari: il metodo usato nella sua azione politica e nell’intera sua vita.

Sul santo dall’incomparabile fascino religioso e umano troviamo anche San Francesco e gli animali del 1999, con episodi tratti dalla sua vita che fanno comprendere come sarà l’armonia rigenerata dall’Amore in tutto il creato: “Se gli uomini torneranno ad amare i fiori, gli animali, i fiumi, i mari, le montagne, i boschi, ameranno se stessi, gli uni e gli altri, e faranno della tecnologia un potente strumento di promozione di equilibri umani sempre più alti. Esalteranno la loro operosa presenza sulla terra, la loro dignità di persone, la loro libertà, e vivranno pacificamente insieme, in attesa del compimento dei tempi. Questa è la lezione che ci ha lasciato Francesco di Assisi”.

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Con la presidente della Camera Nilde Iotti alla cerimonia del “ventaglio”

Due libri con protagonisti gli animali,  creature di Dio che trasmettono messaggi e comunicano tra loro e con noi, “Francesco ha intuito che il linguaggio di ogni specie è in verità un dialetto sotteso da una lingua madre, universale, che consente la comunicazione cosmica”:  Diario di un cane del 1993 e Memorie di una lumaca del 2002. In una umanizzazione francescana parlano in prima persona, ed è straordinario come lui riesca a immedesimarsi fino a mettersi nella loro posizione guardando dal basso con curiosità o apprensione ciò che avviene intorno a loro e sopra di loro.

 Si avverte, in questa personalizzazione del cane e della lumaca, anche una certa vena umoristica che non gli ha fatto mai difetto, del resto ha esordito nel teatro come attore, lo ha ricordato il Cardinale, e in ruoli comici in cui riusciva molto bene, e lo ebbe a ricordare con la battuta che “pure i politici fanno ridere”  a chi gli chiedeva perché non aveva continuato a fare l’attore comico.

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ottobre 1999

La vena umoristica pervade la “trilogia dell’onorevole” , da Buongiorno onorevole, del 1973 – 4 edizioni di successo – seguito, nel 1996, da Buonanotte, onorevole;  tra loro, nel 1978, Gli  scarabocchi dell’onorevole, Cento appunti grafici di Luciano Radi, cui si aggiunge Il taccuino dell’onorevole del 1985, note da osservatore attento. Antonello Trombadori ha scritto che “sia nell’ossequio che nella confidenza formicola sempre la medesima ironia folignate, pacata, ma, se è necessario, senza far male, pungente”.

Ma non soltanto ironia, il primo dei 45 bozzetti di “Buongiorno, onorevole”, dopo la descrizione dell’assiduità da parte dei concittadini nel suo collegio, con una infinità di attenzioni ma anche di fastidi,  si conclude con queste parole: “Sento il desiderio di tornarmene tra la folla anonima della capitale, ma il mare dei visi sconosciuti, spogliati di ogni ricordo mi fa comprendere che sono me stesso solo nel rapporto con gli altri: sono la somma dei loro problemi, delle loro aspirazioni; sono il loro passato, sono il loro presente. Se fuggo brucio invano la mia angoscia. Debbo rimanere con loro come ingrediente di una misteriosa lega, gettato nel crogiolo della lotta civile per partorire nel dolore il futuro, per me e per gli altri”.  Una introspezione accorata che anticipa i libri dell’anima.

Una vena garbatamente  ironica pervade i suoi bozzetti, e si esprime poi compiutamente in forma grafica negli  “Scarabocchi dell’onorevole”,  ritratti arguti e schizzi che riflettono i momenti di evasione dalle lunghe sedute parlamentari.

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Alla visita de Presidente del Senato australiano

Questo vale anche per Un grappolo di tonache, del 1981,  grafiche gustose ed eloquenti, in qualche caso impertinenti anche se rispettose, questa volta sui religiosi.

Cambia tutto con la “trilogia dell’anima”, dall’ironia disincantata della “trilogia dell’onorevole” passa a un’introspezione accorata. E’ preceduta da  Non sono solo, del 1984, 68 bozzetti come presi dal taccuino di un vecchio sacerdote che gli ha dato “un vero godimento spirituale”  in totale coincidenza con i suoi sentimenti.

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novembre 1999

Il primo bozzetto, “Chi sono?” “Sono un uomo che ama, un uomo che offre la sua pena per la redenzione del suo popolo. Sono come la fonte che è al centro del paese, corrosa dal tempo, ma ricca di acqua pura per la sorgente che l’alimenta”. L’ultimo,”Ecco l’ora si avvicina”: “In questo momento conclusivo non sono solo: non potrei, non saprei indirizzare i miei nuovi passi. E’ con me, sin dall’inizio del tempo, il Figlio dell’Uomo, a consolarmi, a tenermi compagnia”; termina così: “Si può credere e non credere, ma ciò che non si può è sottrarsi a questo passaggio. Chi crede ha il dono di assaporare subito la letizia dell’Assoluto, chi è convinto di non credere, invece vedrà, quando avrà chiuso l’uscio alle sue spalle, Il figlio dell’Amore, credente  e non credente, non muore, vive in eterno”.  

Un bozzetto intermedio, “Il Sole”: “Il nostro fine è amare, amare l’Amore. Il tumulto delle nostre esplosioni interne, che è la ragione della nostra avventura umana, ha una risultante positiva solo se irradia amore. Ognuno di noi è un piccolo sole”; e in “Siamo come i fiori del campo”: “Se ti trovi chiuso in te stesso, costretto ad attraversare la notte dell’incomunicabilità, non disperare, ma attendi con pazienza che il sole risorga”.

In   Sotto la brace,del novembre 1999, si inserisce nella “trilogia”: partendo dai ricordi d’infanzia – il primo giorno di scuola – si immerge sempre più nella vita trascorsa nella sua famiglia e nella sua terra, con tutte le scoperte  e le paure, gli incontri e le sorprese, le rivelazioni e le riflessioni.

Ecco come in “Le mie ‘cotte’”, parla dei religiosi che hanno avuto una notevole importanza nella sua formazione,  cui dedicherà gli scherzosi grafici ironici di “Un grappolo di tonache” di cui queste parole sembrano essere delle didascalie: “Benedetti sempre siano i preti miei! Se non ci fosse stato l’indice pungente di don Consalvo; se non avessi incontrato la bontà proverbiale di mons. Corbini, che affidava le sorti della diocesi più che ai suoi atti di governo, alla misericordia di Dio;  se non avessi conosciuto la vis polemica e apologetica di padre Atanasio e di padre Bonaventura, chi lo sa dove sarei andato a finire. Avrei forse deragliato. Invece, anche grazie a loro sono qua a godermi il ribollire della mia inquieta coscienza, a guardare con trepidante speranza oltre l’orizzonte del tempo. Anche per chi non crede, come tante vicende mi hanno insegnato, il prete è pur sempre un rifugio, una difesa, talvolta l’unica ancora di salvezza”. Un orizzonte che nella conclusione dal titolo  “Cadono le foglie” vede così : “La nostra vita appare capricciosa, con le sue contraddizioni, i suoi tradimenti, le sue incertezze. Ci sembra di precipitare, ma poi un soffio ci solleva fino alle vette più alte”. Come le “foglie esposte al vento che Altro governa. All’innalzamento può seguire il precipitare improvviso sul prato delle erbe morte per ridare vigore alla vita”.

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Con una delegazione tedesca da Questore della Camera

Ed ora la trilogia, con i racconti di Anime e voci del 1990, in cui c’è il pensiero dominante della morte partendo dalla solitudine della vecchiaia, che ha fatto dire a Leone Piccioni: “Forse c’è in Radi una minore serenità forse dovuta ai fatti della vita, ma per noi lettori quanto successo a Radi è un bene, perché, appunto, la sua pagina ha preso un altro spessore, una diversa profondità, uno struggente attaccamento al paesaggio, una dimensione poetica più intensa”.

Nel 2005“Luci del tramonto” – 52 riflessioni su aspetti della quotidianità –  15 anni dopo, secondo lo stesso Piccioni allorché “Radi guarda alla vita e alla morte con più distacco ma certi dubbi risorgono e Radi non li nasconde anche se li risolve in una rinnovata fede”. Le energie spirituali assumono una nuova vitalità, la Fede penetra come non mai tutte le apparenze, attraversa il muro del dubbio, appare una vittoria della volontà”. 

Premette una riflessione accorata: “Alla mia età tutto sembra precario, si ha l’impressione di vivere una vita aggiunta. La tentazione è di scomparire, di nascondersi; lo sguardo non si posa su orizzonti lontani, si rivolge alle cose più vicine che sono diretta proiezione di sé. I bisogni si riducono all’essenziale, la preoccupazione è di non turbare il fragile equilibrio metabolico. A mano a mano che il corpo perde elasticità ed efficienza e si trasforma in un cumulo di acciacchi, l’anima che ne è prigioniera scalpita per conquistare l’arcano”.

Ed ecco, a risollevarlo,  la ripresa volitiva: “Le energie spirituali assumono una nuova vitalità, la Fede penetra, come non mai,  tutte le apparenze, attraversa il muro del dubbio, appare una vittoria della volontà”.

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2001

In primo piano torna l’amore: “L’amore è un mistero che nessuno riuscirà mai a svelare; lo cerco, lo possiedo, ma non so proprio cosa sia…  Noi uomini sentiamo che tutti i suoi gradi non sono sufficienti per saziarci; che siamo chiamati ad un amore più alto, a partecipare all’amore increato. Un amore che inizia quaggiù e si compie al di là del tempo”. E poi: “La vita non è il dipanarsi di un rimpianto. ‘Il tempo che passa è Dio che viene’”.

La “trilogia”, vent’anni dopo “Anime e voci”, si conclude con I giorni del silenzio, del 2010, in cui dà conto del suo ritiro spirituale in un monastero: è il più accorato e insieme il più sereno, perché “l’anima ha bisogno del silenzio, del raccoglimento, per ritrovare se stessa dopo la dispersione provocata dal dinamismo, spesso convulso ma inevitabile, che caratterizza i giorni nostri” e per “essere sottoposta a un esame severo”.

 Nei giorni del silenzio riesce a superare le angosce, a rinnovare le speranze che sembravano svanite, a sentire di nuovo l’amore vero, non quello fallace che ci rende “vittime di una fata morgana nello sconfinato deserto dell’anima nostra”. 

Cita le parole di Padre Iacopo che lo invita ad aprirsi  per essere compreso ed aiutato: “L’anima umana nasconde  degli abissi inesplorati: le ragioni ultime del male nessuno le conosce, solo Lui è in grado di individuarle e di estirparle. Anche quando ci sembra di aver toccato il fondo in verità dentro di noi si presenta ancora un abisso: esiste un infinito negativo come esiste un infinito positivo.”.  E la sua reazione nel sentirsi sollevato: “Ripresi allora coraggio. Io che da qualche tempo non sapevo più dove attingere conforto, io che avevo l’animo sconvolto, inquieto, sino a soffrirne, provai un singolare refrigerio”. Finché  può esclamare: “Mi sembrò che una ignota mano avesse aperto una breccia nel muro della mia inquietudine. Sia pur teso, avvertivo di aver ritrovato me stesso”.

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Un altro momento di vita parlamentare

Così lo giudica Attilio Turrioni: “Un libro di rara composizione che, mentre puntualizza momenti significativi del cammino umano e spirituale dell’autore, sollecita nel lettore una risposta personale altrettanto perentoria di fronte ai problemi dell’esistenza, alle ragioni ultime della fede, all’esperienza storica che ciascuno è chiamato a percorrere hic et nunc nel rapporto con gli altri, nel contributo, offerto o omesso, alla costruzione di una società più umana”.

Per questo ci siamo soffermati maggiormente su questo e sugli altri “libri dell’anima” riportando testualmente le sue intime, accorate e intense conclusioni.

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2004

Il suo messaggio politico e umano

E’ una finalità superiore, mossa da un autentico sentimento religioso, quella a cui guarda nell’introspezione di se stesso, la medesima finalità alla quale è stata rivolta l’attività politica di una vita nelle istituzioni.

Pensa che la costruzione di una società più umana possa avvenire rifiutando ogni egemonia totalizzante, perché ”l’unico moto autenticamente rivoluzionario è suscitato dalla libertà. La libertà è la forza sempre nuova che, con la scienza e la tecnica e la coscienza della crescente complessità delle relazioni sociali, trasforma la società fondata sul potere come dominio in una società consapevole fondata sul potere come servizio, come funzione dirigente”.

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Con Forlani, Malfatti, Spitella e De Poi

Le stesse azioni per realizzare ciò “hanno un limite nell’autonomia e nella libertà stessa. Come la libertà ha un limite nel coordinamento per perseguire un fine di interesse generale, è un delicato, difficile equilibrio che è facile compromettere”. 

E aggiunge: “Per questo la collettività e i singoli cittadini non possono fare a meno di un preciso sistema di garanzie, ed una delle conquiste fondamentali dell’esperienza liberaldemocratica è lo Stato di diritto al quale non possiamo rinunciare e che la nostra Costituzione ha definito in un complesso sistema di autonomie, di articolazione e divisione di poteri, anche per salvaguardare la società civile da possibili arbitri della società politica”. 

Nel messaggio per la “costruzione di una società più umana”, con i suoi profondi risvolti spirituali e religiosi, si trova  condensata l’azione politica e l’impegno civile anche a livello culturale e umano, in una tensione morale che lo ha spinto nella sua instancabile, inesausta e incessante attività di tutta una vita da protagonista e testimone del nostro tempo, ci piace tornare a sottolinearlo.

Commozione, sorriso, fino alla spettacolare e intensa “Elegia per Luciano”

Nell’incontro tutto questo aleggiava nell’aria, evocato dalle parole degli intervenuti, intervallato dal  ricordo degli spunti umoristici nei quali si è rivisto il Luciano Radi che ha sempre saputo esprimere anche una straordinaria capacità di ritrattista arguto con uno stile tutto personale, fatto di intensi addensamenti grafici che aprivano e hanno aperto al sorriso per la loro benevola forza espressiva, fino a una satira benigna, in particolare verso gli “onorevoli colleghi” e il “grappolo di tonache”.

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marzo 2005

Abbiamo detto che “hanno aperto al sorriso” perché un numero ridotto ma significativo dei suoi bozzetti arguti ha dato corpo all’aureo libretto donato ai partecipanti dalla figlia Maria Chiara, che si apre con la dedica dei nipoti Tommaso e Sebastiano, “Ciao, nonno”, due pagine intrise di commozione, nei ricordi del tempo passato con lui, e di gratitudine.

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dicembre 2005

I ricordi: “Quanti momenti di svago e di gioia, il divertimento e la gioia di stare insieme sono impressi nei nostri cuori!  La tua casa era un posto magico, dove si trascorrevano ore fantastiche ascoltando le tue storie entusiasmanti e istruttive, quasi sempre divertenti!  Quante risate quando imitavi il verso degli animali: la gallina era perfetta, vera. E quanta dolcezza nei piccoli libriccini che preparavi per noi piccoli per spiegarci  i vulcani, i dinosauri e altri fenomeni della fisica, Alternavi i tuoi ‘scarabocchi’ a  brevi, sintetiche, chiare paginette scritte! E che nostalgia per le partitelle di pallone nel campetto che avevi predisposto per noi con delle porte gigantesche  dove ci era così facile fare goal!”.

La gratitudine: “Ci hai esortato a seguire i nostri sogni, e a non scoraggiarci di fronte alle difficoltà, a mantenere sempre un sano equilibrio, a coltivare con passione i nostri interessi, ad essere aperti alle novità e impegnati a progredire, cose che tu hai fatto fino a quando ci hai lasciato. I tuoi consigli sono oggi un vero patrimonio morale e affettivo, i tuoi valori e insegnamenti, con la tua esperienza di vita, illuminano il nostro cammino”.

Parole che presentano l’altra vita, quella di nonno, di Luciano, a  coloro che lo hanno conosciuto ma non nel privato, e ai tanti che ne scoprono ora il luminoso esempio.

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Con Francesco Cossiga

La commozione alla lettura di queste parole lascia il posto al sorriso alla vista dei ritratti e schizzi grafici – oltre a onorevoli e preti anche animali e piante – veramente gustosi tanto più perché accompagnati da pagine scelte fior da fiore tra i tanti libri che ha scritto.

Si tratta di una bibliografia vasta e variegata – che abbiamo sommariamente ripercorso – dai saggi socio-politici ed economici, e anche di costume come quello sulla Televisione, ai libri di ambiente parlamentare e non solo, fino alle introspezioni più sentite e sofferte, passando per le vite dei Santi, primi tra tutti i molto amati Chiara d’Assisi e San Francesco.  Quattro filoni – saggistici, narrativi, bozzettistici, storici – che si susseguono alternandosi nella sua vita di politico molto impegnato e docente universitario, quasi un “tetra farmaco” letterario che lo sosteneva e stimolava.

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2006

Le pagine del libretto sono tratte da Umbria santa. Il segreto di san Francesco d’Assisi e Nati due volte, Buongiorno onorevole e Non sono solo, Il taccuino dell’onorevole e Anime e voci, Diario di un cane e Sotto la brace,  Luci del tramonto e Le voci del silenzio, che insieme agli altri pubblicati segnano un itinerario coerente nello stile e nei contenuti.  Ne prendiamo due  brani, sempre quanto mai eloquenti della sua straordinaria sensibilità in un’anima profondamente religiosa.  

Da “Umbria santa”: “Sul paesaggio soffia un alito di infinito. Lo spirito viene rapito, ci si sente sospesi, si avverte di essere nel vestibolo dell’Eterno. L’Umbria non è dunque un paese di rimembranze, un grande museo di reperti che evocano emozioni di cose morte; non è la memoria di un mondo che fu. l’Umbria è viva. I suoi ulivi sussurrano, suscitando misteriosamente la facoltà di tradurre in pensieri silenzi e vibrazioni, L’Umbria, dalla profondità dei secoli, ancora insegna come elevarsi per lambire il divino. E’ davvero il paese dell’anima: consente di sottrarsi al disagio del convulso andare del tempo e di gustare il senso sapido della vita”.

Da “Non sono solo”:  con il titolo “A Sua immagine”: “Siamo a Sua immagine non per il nostro corpo, ma per la nostra capacità di amare, di comprendere l’amore, di amare l’Amore. E gli uomini amano perché in essi Dio ha messo il principio di Se stesso, la Sua vita. Siamo stati creati ad immagine di Dio perché in noi Egli si specchia, Egli abita. E ciò è vero per un cristiano, ma anche per un buddista, un musulmano, un miscredente. Egli è amore: se sei capace di amare , anche se lo ignori, Egli abita in te, Egli è con te”.

Alcune sue pagine, unite alla musica, hanno dato vita alla parte spettacolare della manifestazione, nella quale ha assunto speciale risalto la sede, l’Oratorio del Crocifisso, situato nella zona della corporazione degli artigiani delle funi, per cui la chiesa era detta “delli Funari”. Una storia alle spalle in  un gioiello architettonico e artistico cinquecentesco con molti interventi nel ‘600 e ‘700, il culmine nella volta affrescata, è chiamato “La Sistina del Barocco”.

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La cordialità dei suoi incontri ufficiali

L’”Elegia per Luciano”  è stata recitata da Carlo Dalla Costa, del Teatro Stabile dell’Umbria,  quasi a voler rievocare i suoi inizi teatrali: ha letto brani dai suoi libri. Una voce narrante intensa, che ha reso con sobrietà e immedesimazione le volute verbali di testi ispirati, citiamo solo l’inizio delle quattro suggestive evocazioni.

Umbria Santa:“In Umbria ogni colore si fonde in un azzurro e in un verde, dimessi e velati: un annuncio di umiltà e di mistero. Le colline si stringono l’una sull’altra, consegnando al cielo ricamati profili e alla campagna, tenui giochi d’ombra…”.

 Sotto la brace: “Sono belle le foglie che cadono ai primi annunci dell’autunno, sembrano farfalle ubriache di vento: le loro volute disegnano nell’aria geroglifici capricciosi dettati dalle folate che scendono dalle  colline. La natura, contrariamente a quanto facciamo noi, all’approssimarsi del freddo si spoglia e gli alberi perdono  rapidamente i loro multicolori mantelli. Gli alberi nudi mettono nell’anima un senso di melanconia…”.

Non sono solo: “Dio creò l’uomo a sua immagine e somiglianza. Non avevo mai pensato  al vero significato di  questa sorprendente affermazione biblica. Abituati come siamo a vedere rappresentato il Padreterno come un vecchio barbuto, ho sempre ritenuto, senza rifletterci, che il Creatore avesse barba e capelli come me. Oggi questa immagine mi dà fastidio. Lui, infinito, onnipotente, onnisciente, non può essere  pensato come un Superuomo”.

 Luci del tramonto:“E’ una bella giornata di sole che mi regala splendidi colori e un paesaggio che solo l’Umbria può offrire… mi attraggono sempre più le luci dei tramonti  … Certo la parabola della vita  si svolge inesorabilmente dalla nascita alla morte, dalla giovinezza alla vecchiaia. La giovinezza è un soffio di entusiasmo e di illusioni, la maturità non si sa che cosa sia, la vecchiaia è una corsa verso il traguardo con una insostenibile somma di omissioni e di tradimenti. C’è però un’altra parabola che segue il cammino opposto: dalla vecchiaia alla giovinezza, dalla morte alla vita.”

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2010

Tra una evocazione letteraria e l’altra – nella sua maestria descrittiva unita alla profondità di contenuti –  le volute musicali del Quartetto d’archi UmbriaEnsemble”  – con i due violini, Angelo Cicillini e Cecilia Rossi, la viola e il violoncello, Luca Ranieri e Maria Cecilia Berioli – che ha suonato musiche di Samuel Barber, Wolfgang Amedeus Mozart e Pietro Mascagni.

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Alla presentazione di un suo libro

Il finale è stato l’Intermezzo dalla “Cavalleria rusticana”, in un insieme  di emozioni musicali che ha dato corpo alla definizione di Platone, citata nel programma del Quartetto:”La Musica dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla Vita e gioia a tutte le cose… Ma potremmo aggiungere che la Musica dà voce ai messaggi chiusi nelle metaforiche bottiglie della memoria che attraversano l’oceano del tempo più o meno remoto”.

Ebbene, proprio questo si è “sentito” profondamente durante l’”Elegia per Luciano”, ed è rimasto nel cuore di tutti: dalle “bottiglie della memoria” è riemersa la nobile figura di Luciano Radi, e l’”oceano del tempo” si è dissolto in una presenza viva e vitale, virtuale ma quanto mai vicina.

2011

La conclusione con due nobili messaggi

Il nostro racconto dell’incontro celebrativo del centenario, con un approfondimento dell’unicità della sua figura a livello politico, culturale e umano, si conclude riportando due messaggi dai contenuti e dai toni di alta nobiltà. 

Antonio Baldassarre, Presidente emerito della Corte Costituzionale, dopo l’incontro del 15 ottobre a cui ha partecipato, ha trasmesso queste parole alla figlia Maria Chiara: “Ti  ringrazio della bella giornata dedicata alla memoria del tuo splendido papà, che ho avuto la fortuna di conoscere e di averlo amico. E’ stato bello perché è stato un ricordo a tutto tondo: il grande mediatore politico, lo scrittore attento ai mutamenti del costume e il sensibile narratore dell’intimità dell’uomo. Il tutto con la struggente melanconia della musica camerale. Una bella esperienza spirituale”.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio, letto dall’ambasciatore Foresti in apertura dell’incontro, ha usato parole e soprattutto espresso sentimenti che danno la misura del ricordo, dell’alta considerazione per la sua figura e della gratitudine per la sua opera.

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Alla presentazione in Parlamento del governo Forlani
in cui è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio

“Uomo di grande umanità e cultura, con una grande passione per la politica, con un forte legame con il territorio, Luciano Radi, in tanti anni di attività, ha espresso una idea di progresso nella libertà, portando avanti le sue idee con determinazione, assumendo sempre come obiettivo gli interessi della comunità. Esponente politico di rilievo, uomo delle istituzioni, ha attraversato la storia della nostra Repubblica con coerenza e correttezza, sia nei numerosi incarichi di governo, sia all’interno dell’esperienza del suo partito, la Democrazia Cristiana.  Intellettuale, scrittore, autore sia di saggi politici e socioeconomici sia di scritti di vita sociale e religiosa, Radi ha interpretato, a partire dall’Umbria, il divenire di un Paese. 

Invio a tutti i presenti i migliori auguri di buon lavoro, nella convinzione che il suo messaggio permanga quanto mai prezioso”.

Meglio non si poteva dire, per suggellare questa celebrazione.

Il nostro commosso saluto

Aggiungiamo soltanto poche parole nel ricordo di più di un quarantennio di feconda condivisione e sodalizio intellettuale. Dei nostri continui contatti ci sono rimasti impressi due aspetti, che ci sembrano molto significativi. Il primo è la totale apertura nel condividere con noi – cercando anche un proficuo confronto – le nuove tematiche che stava approfondendo per trasmettere poi i risultati delle sue ricerche pubblicandoli, sempre nell’ottica di risolvere i problemi per il bene comune e far conoscere le soluzioni che cercava con lo scrupolo del ricercatore portandole poi avanti con la volontà  realizzatrice del politico.  Il secondo aspetto, speculare al primo, è invece l’assoluta riservatezza nei nostri riguardi sulle sue riflessioni interiori, i “libri dell’anima” ce li ha donati con dedica,  a sorpresa,  sempre dopo la pubblicazione, neppure un benchè minimo accenno prima, ulteriore prova della loro struggente autenticità nel riserbo assoluto quando si ripiegava su se stesso.

 Con l’ammirazione dopo la rievocazione compiuta, nella forte emozione per questa sua interiorità così riposta e sofferta, ci accommiatiamo commossi con un nostalgico, memore,  “Ciao, Luciano”.

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Luciano Radi, commiato

Info

L’incontro in omaggio a “Luciano Radi, il suo messaggio politico e umano”, si è svolto a Foligno, nell’Oratorio del Crocifisso, largo Frezzi, il 15 ottobre 2015 alle ore 17. Cfr. i nostri precedenti articoli pubblicati in questo sito nel 2019, a cinque anni dalla sua scomparsa: “Luciano Radi ricordato con una sua opera, l’incontro tra ‘Francesco e il Sultano 800 anni fa” 6 giugno; “Luciano Radi, ‘Potere democratico e forze economiche’” 9 giugno; “Luciano Radi, ‘’i libri dell’anima’, l’umanità e la fede di una ‘personalità limpida’” 11 giugno; “Luciano Radi, protagonista e testimone del nostro tempo”, 13 giugno, “Luciano Radi, il mio ricordo” 15 giugno.

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Luciano Radi, “A Sua immagine”

Foto

In apertura, Luciano Radi, poi L’invito, con l’aureo libretto-ricordo per i partecipanti. Seguono 5 immagini sulla manifestazione, 3 foto dell‘Oratorio del Crocifisso, “la Sistina del Barocco”, dove si è svolta, una visione generale e due particolari  – lo spettacolare affresco nel soffitto e un angolo suggestivo – tratte dal sito web dell’Oratorio; 2 foto sull’incontro, una con Giuseppe De Rita nel corso della sua  testimonianza al centro della rievocazione, alla sua dx l’ambasciatore Paolo Foresti, l’altra uno scorcio della sala con i partecipanti, tratte dal sito web perugiatoday, che si ringrazia, come l’altro sito citato. Nelle immagini successive sono alternate le copertine di alcuni suoi libri, inserite in ordine cronologico,  con momenti della sua vita politica, l’alternanza dell’intera sua esistenza: due libri, entrambi del 2005, marzo e dicembre, su un tema politico e uno interiore, dopo il libro del 2004 sulla storia di un santo, sono posti in successione ad evidenziare l’alternanza anche delle tematiche dei suoi libri, a partire dal 1969 e 1970. I libri, di cui sono riprodotte le copertine, sono  Potere democratico e forze economiche 1969 e Nati due volte 1970, Buongiorno, onorevole 1973  e La talpa rossa 1979, Non sono solo 1984 e Il Taccuino dell’onorevole 1985,  Anime e voci 1990 e Diario di un cane 1993, San Francesco e gli animali ottobre1999  e Sotto la brace novembre 1999, Umbria santa 2001 e San Nicola da Tolentino 2004,  La DC da De Gasperi a Fanfani marzo 2005 e Luci del tramonto dicembre 2005, Francesco e il Sultano 2006 e I giorni del silenzio 2010, infine Il mantello di Garibaldi 2011. Le immagini della sua vita politica, meno due, sono riprese dai nostri articoli del giugno 2019 sopra citati, a cui si rinvia per i siti web da cui sono tratte, si ringraziano di nuovo i titolari per l’opportunità offerta; le due aggiunte –  quella alla Camera Italiana di Alta Moda e quella con Guido Carli – sono tratte dal sito del Quirinale e da MSN, a cui si estende il nostro ringraziamento. Non  vi è alcun intento pubblicitario o economico nel loro inserimento a mero scopo illustrativo, pronti a eliminare subito, su semplice richiesta, le immagini di cui i titolari non gradiscano la pubblicazione. Le immagini della vita politica sono: Con Scelba, Fanfani e Rumor e Con Fanfani, in visita a Dottori;poi, Con Gava e Scalfaro e Da Presidente della Camera Italiana di Alta Moda, a dx Giovanni Leone;  Con Fanfani e Pertini a una cerimonia sulla CEE e Con Pertini all’inaugurazione della mostra per il centenario di Garibaldi; Con Guido Carli e Con la presidente della Camera Nilde Iotti nella cerimonia del ‘ventaglio’; Alla visita del presidente del Senato australiano e Con una delegazione tedesca da Questore della Camera; Un altro momento di vita parlamentare e Con Forlani e Malfatti, Spitella e De Poi; Con Francesco Cossiga e La cordialità dei suoi incontri ufficiali; Alla presentazione di un suo libro el’ultima Alla presentazione al Parlamento del governo Forlani di cui è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Infine una sua opera grafica, tratta dall’aureo libretto dato ai partecipanti,Luciano Radi, A Sua immagine, di grande intensità, a differenza delle altre scherzose  nel libretto e nei libri di grafiche, e la sua foto sorridente, Luciano Radi, commiato; in chiusura, Piazza della Repubblica nella sua Foligno, i due edifici-simbolo.

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Piazza della Repubblica nella sua Foligno, i due edifici-simbolo

I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano, 2. Dal “Nuclearismo” a “I mondi della nuova comunicazione”, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra  “I favolosi anni ’60  e ’70 a Milano”, all’Auditorium della Conciliazione a Roma, dal  27 settembre al 20 novembre 2022 , promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  realizzata  da “Poema” in collaborazione con “Auditorium della Conciliazione”,  curata da Lorenzo ed Enrico Lombardi come il Catalogo di Gangemi Editore”. Dopo aver descritto in precedenza  la sezione lo “Spazialismo”, passiamo in rassegna le restanti sezioni: “Nuclearismo e Astrazioni”, “Nouveau réalisme tra Italia e Francia”, “Nei mondi della nuova comunicazione”. Esposte 36 opere di 24 artisti più un filmato.

Arman, “Senza titolo”, 2002

Al  Manifesto Tecnico degli “Spazialisti” del 1951 – il movimento di cui abbiamo parlato in precedenza a proposito della prima sezione della mostra – seguì il Manifesto Tecnico della “Pittura Nucleare” con un’impostazione molto diversa anche rispetto alla recentissima corrente che dava allo spazio un contenuto del tutto innovativo. Con inizio negli anni ’50, in pieno dopoguerra, i due decenni successivi videro gli artisti collocati in schieramenti definiti ma non esclusivi, per cui ne ritroviamo molti aderire a diversi manifesti, come quelli dello Spazialismo e della Pittura Nucleare.

Si incontravano nel Bar Jamaica, divenuto il loro ritrovo, anche con letterati e artisti stranieri, mentre Milano era divenuta una città d’arte di richiamo internazionale. L’evoluzione era talmente rapida sotto la spinta di una forte inquietudine creativa che veniva superato addirittura anche l’informale per una smaterializzazione dell’arte con delle sculture “immateriali”.  Ma il consumismo di massa – che rappresentava una vera e propria rivoluzione nei costumi e nella vita della società – riportava alla realtà come si presentava nella standardizzazione crescente; l’arte si poneva in direzione  critica nei confronti di questa tendenza inarrestabile, come nei confronti della commercializzazione sempre più spinta. Finché la forza del mercato ebbe la prevalenza anche in campo artistico, e allora –  dopo il successo della Pop Art americana alla Biennale di Venezia del 1964 – al centro della scena subentrò New York rispetto a Milano e  Roma, oltre che Parigi, in termini prettamente economici, perché a Milano si continuò a sperimentare attivamente.

Le tre sezioni della mostra che commenteremo – dopo la prima sullo Spazialismo di cui abbiamo già dato conto –  danno testimonianza della spinta innovativa che proseguì nei “favolosi anni 60 e ‘70” a Milano: “Nuclearismo e Astrazioni”, “Nouveau  réalisme tra Italia e Francia”,  “Nei mondi della nuova comunicazione”.  

Piero Manzoni, “Merda d’artista”, 1961

“Nuclearismo e Astrazioni”

Le 5 opere di 4 artisti esposte in questa sezione evocano un movimento che, come lo Spazialismo, vuole innovare profondamente nei canoni fino ad allora seguiti rivedendo anche gli archetipi della pittura e dell’arte. I Nuclearisti addirittura non si limitano a intervenire sulla tela come gli Spazialisti con i quali condividono la lotta contro l’accademismo: nel  loro Manifesto si legge che “vogliono reinventare la pittura disintegrandone le forme tradizionali”. Ed ecco come: “Nuove forme dell’uomo possono essere trovate nell’universo dell’atomo e nelle sue cariche elettriche”. Ecco perché: “Non siamo in possesso della verità che può essere trovata solo nell’atomo. Siamo coloro che documentano la ricerca di questa verità”.

In sostanza, si postula l’uscita dalla fisicità pittorica della tela – in modo diverso da Fontana ma con analoga motivazione – come dalla fisicità scultorea della materia per cercare altre prospettive dell’arte rivedendo i rapporti tra luce ed energia, materia e movimento.  E questo nel progredire dell’attività del movimento con un’azione antistilistica che respingeva ogni imitazione oggettiva e ogni necessità di rappresentare la realtà.

Nel “Manifesto contro lo stile” del 1959 con cui, in una certa misura, culmina e si esaurisce il Nuclearismo,  Baj e D’Angelo scrivono:  “L’ultimo anello della catena sta per essere oggi distrutto. Noi nucleari denunciamo oggi l’ultima delle convenzioni – lo stile… Noi affermiamo l’irripetibilità dell’opera d’arte, e che l’essenza della stessa si ponga come ‘presenza modificante’ in un mondo che non necessita più di rappresentazioni celebrative ma di presenze”. In definitiva,  con l’antistile venivano abbattuti i luoghi comuni per la completa liberazione dell’arte, andando ben oltre quanto  avevano fatto per liberare la pittura l’impressionismo rispetto ai soggetti convenzionali, il cubismo e il futurismo rispetto all’imitazione oggettiva, l’astrattismo rispetto alla rappresentazione: ci si liberava anche dello stile.

Mimmo Rotella, “Tupamaros”, 1988

Numerosi gli artisti che fecero parte di questo movimento, alcuni di loro, Baj in primis, li ritroviamo in altri movimenti e altre sezioni della mostra, a conferma del clima fortemente innovativo dell’area milanese. Anche in questo caso si inizia dagli anni ’50, che sono stati gli apripista dei due decenni successivi, come si è già detto, proprio per gli stimoli del dopoguerra.

La  prima opera che vediamo esposta è del 1951, “Spirali” di Roberto Crippa, molto significativa perché il groviglio di fili neri sembra evocare gli elettroni che ruotano intorno al nucleo dell’atomo, potrebbe essere considerata la sigla visiva dei Nuclearisti. L’artista nel 1950 fu uno dei firmatari del terzo  Manifesto dello Spazialismo con  Lucio Fontana di cui era amico, ma dal 1955 si dedicò ad opere polimateriche, prima con dipinti, poi utilizzando materiali come ferro, bronzo, acciaio, dal 1960 amianto e sughero. .

Degli anni ’70, anzi del 1970, troviamo 2 “Senza titolo”, una di Sergio D’Angelo e l’altra di Gianni Dova. Hanno in comune anche la modalità rappresentativa, delle forme ben delineata, la prima sembra un coniglio dietro a  una distesa di panni, la seconda ha delle forme tonde e lineari molto nette, blu e bianche. Di D’Angelo è esposta anche un’opera degli anni ’90, “Suono di arpa”, con delle forme indubbiamente evocative. L’artista faceva parte del gruppo che dalla metà degli anni ’50 frequentava Albissola per gli Incontri internazionali di ceramica e le altre occasioni legate anche alla scultura per l’importanza assunta dalla città ligure nella ceramica.

Così in “Figure”, del 1978, di Emilio Scannavino, su fondo rosso due strisce bianche con infilato un groviglio di fili o simili. Il nodo stilizzato, in diverse forme e colorazioni fino al rosso sangue, viene considerato  un suo segno caratteristico.

Daniel Spoerri, “Tableau plegé”, 1972, part.

“Nouveau réalisme tra Italia e Francia”

Entrano sulla scena  nuove avanguardie, il clima artistico muta negli USA con il New Dadaism e in Francia  il “Nouveau Realisme”, che tenne a Milano la prima mostra nel 1960 nella Galleria Apollinaire. Risposero all’invito di Pierre Restany, a capo del gruppo,  Arman e Hains, Deufrene e Villeglé, Tinguely e Klein che già aveva esposto nella stessa galleria tre anni prima  dove aveva conosciuto Piero Manzoni; in seguito entrarono nel gruppo altri artisti quali Raysse e Cesar, Christo e Nike de Saint Phalle, Spoerri e Rotella, fino a Deschamps,

Nella diversità delle forme espressive questi artisti avevano in comune, come si legge nel Manifesto scritto da Restany, il “riciclaggio poetico del reale urbano, industriale, pubblicitario”. E con il forte sviluppo economico e  lo sviluppo il consumismo di massa stimolato dalla pubblicità gli stimoli non mancavano. In pratica venivano realizzati degli assemblaggi di materiali spesso di risulta che si traducevano in sculture d’avanguardia a testimonianza della realtà in evoluzione.

Di Arman vediamo esposta un’opera espressiva di quel periodo anche se molto successiva, “Senza titolo” 2002,  una “accumulazione di  tubetti e sassofono tagliato, montato su tela, riportato su tavola”, si legge nella didascalia, i tubetti bianchi e aperti sopra, il sassofono diviso a metà sotto al centro, tutto realistico. In altre opere utilizza frammenti o pezzi interi di oggetti di uso comune, quali chiavi , forchette e coltelli. Anche Cesar, le cui opere non sono presenti in mostra, utilizzava pezzi di oggetti, addirittura di carcasse di automobili compresse fino a comporre delle sculture.

Enrico Baj, “Personaggio”, 1980

Ed è altrettanto realistico David Spoerri, nel “Tableau Pegé” 1972, con una ventina di “oggetti diversi su pannello”, piatti e tazzine, posate e una bambola, perfino un portacenere con sigarette consumate, tutto molto figurativo. Suoi i “quadri-trappola”, con oggetti incollati su tavole.

Ma con Piero Manzoni  si va ben oltre, il suo “Merda d’artista” 1961, vuol essere la contestazione al sistema intorno alle opere d’arte, che non vengono considerate per il valore ma soltanto per la provenienza dall’autore che le ha create, e diventano d’arte solo per questo motivo. Inscatolò le proprie feci in 90 barattoli di 30 grammi, 6,5×4,5 cm, indicando la data del maggio 1961 in cui era stata “conservata al naturale, prodotta e inscatolata”,  e i suoi barattoli diventarono opera d’arte venduti allora  a peso d’oro dei 30 gr di contenuto, e lo sono tuttora, basti pensare che il barattolo n. 69  è stato venduto il 6 dicembre 2016 all’asta della galleria milanese “Il Ponte” per 275.000 euro, superando i 247.000  euro  della vendita del 16 ottobre dell’anno precedente all’asta londinese di Christie’s.  Anche Marcel Deshamps ebbe una esperienza analoga, i suoi “Ready made” – oggetti in vendita semplicemente tolti dalla loro funzione abituale – esposti come opere d’arte divennero tali per la loro provenienza da lui artista. Di Piero Manzoni vanno ricordate soprattutto le sculture immateriali, fatte solo di aria e di linee verso l’infinito in degli astucci, come ricorda Alberto Dambruoso. Sono opere in cui ha superato l’informale,  che era diventato pura accademia riducendosi a una superficie su cui venivano apportati segni alla rinfusa, materie di vario tipo, concrezioni di colore,  e il tutto diventava opera d’arte solo per la firma dell’artista; come ha provato con la sua provocazione. Scomparve prematuramente nel 1983 a soli 30 anni.

Con Mimmo Rotella incontriamo un altro caposcuola, che partecipa anche al gruppo romano della Scuola di Piazza del Popolo,  di lui sono esposti 2 “decollage” di piccolo formato, “Senza titolo”, circa 1955, su faesite, pezzi di colore giallo in varie tonalità fino all’arancione,  e “Tupamaros” 1988, su tela, con i contorni in nero di un revolver su fondo bianco e parti incollate rosso e arancio, in evidenza grandi lettere con il nome del gruppo rivoluzionario. Rotella è rinomato soprattutto per i pezzi di manifesti, cartelloni stradali e locandine di film strappati e incollati su tela o tavola.

Valerio Adami, “Studio per professione pittore”, 1974

“Nei mondi della nuova comunicazione”

La 4^ sezione della mostra  fa entrare ulteriormente in quella straordinaria temperie artistica che sono stati gli anni ’60 e ’70 a Milano, alimentata dalle suggestioni provenienti da una comunicazione quanto mai invasiva, espressione degli straordinari  mutamenti in atto nella società che da agricola diventava industriale e dei servizi, con il consumismo crescente e gli stimoli conseguenti sempre più penetranti della pubblicità, non escluso lo “star system” e simili. Abbiamo già sottolineato come rispetto alle avanguardie degli altri paesi – Pop Art americana in testa – nelle forme d’arte innovative sempre più diffuse che nascono nell’ambiente milanese non sono mancati i legami con il ricco entroterra culturale e artistico del nostro paese.

Dopo gli “Spazialisti”, i “Nuclearisti”,e i “Nuovi realisti”, ecco gli artisti che maggiormente riflettono gli stimoli della “Nuova comunicazione”, con espressioni molto diverse tra loro, nella  comune la volontà di innovare ma senza rinunciare a quanto di positivo in questa direzione era stato portato dalle  forme d’arte italianissime che sono state il Futurismo e la Metafisica.

Emilio Tadini, “Archeologia”, 1973

La rassegna espositiva di questi artisti – per i quali le citazioni che faremo si riferiscono a Lorenzo Canova  –  si apre con Enrico Baj, celebre per i suoi generali messi alla berlina nella loro goffa bulimia del potere: questo artista, presente in vari gruppi di avanguardia, oltre ai potenti generali ritrae con pari ironia principesse di regni spariti. Non solo ma –  come scrive il critico ora citato – “i generali di Baj possono allora trasformarsi così negli ultracorpi che insidiano pin-up da rivista illustrata o che minacciano Adamo ed Eva come angeli della collera divina riletti in modo grottesco e provocatorio”. L’artista utilizza immagini commerciali e da film fantascientifici creando un immaginario dissacrante rispetto alla tradizione. Sono esposti “Animale” 1062, un collage su cartone con un grande occhio in una specie di fiocco in primo piano su uno sfondo con le sagome disegnate di meccanismi; e “Personaggio”, 1980 un grande volto rosa con venature bianche, in cui gli occhi sono oggetti circolari, la bocca un oggetto rettangolare e il naso della passamaneria, l’effetto dell’insieme è di una ironia peraltro leggera.

Valerio Adami, dopo una prima fase di natura espressionista e poi addirittura astratta, si impegna nel recuperare la figurazione ma non riferendosi alla tradizione bensì al fumetto e agli altri portati della Pop Art americana. Le sue opere sono di un cromatismo netto  brillante senza chiaroscuri di alcun tipo, i suoi personaggi evocano appunto quelli dei fumetti ma con una assoluta purezza di linee, anche per essere stato allievo di Achille Funi all’Accademia  di Brera a Milano.  L’opera esposta, “Studio per professione pittore” 1974, ha la stessa precisione cromatica delle altre sue opere ma appare enigmatica, senza le predilette figurazioni umane.

Lucio Del Pezzo, “L’oro era oro”, 1966

Ben diversa l’opera esposta di Sergio Sarri, “Baroness Steel n. 2” del 1973, sebbene l’ultimo riquadro nella parte inferiore sia proprio un fumetto con due giovani donne, una lega l’altra tenendole le braccia da dietro; il resto del collage su tavola è costituito da due immagini uguali ma di dimensioni diverse di “punching ball” che coprono a metà la figura di un pugile, al centro due corde arancione tese su un supporto metallico, terminano con due ganci lasciati liberi. In un unico schema compositivo la “contaminazione tra fumetto BDSM e classicità, tra la freddezza degli oggetti e la loro capacità allusiva”, quella del punching ball è una “sessualità allusa  e feticistica”.  

Di 5 artisti sono esposte più opere, li passeremo in rassegna avviandoci  alla conclusione.

Anchenelle opere di Emilio Tadini  ci sono “spazi nitidi e irreali, percorsi dalle apparizioni di manichini, oggetti, parole e supereroi”, ma il suo “stile rigoroso e impeccabile si arricchisce di un senso più profondo, ritrovando nelle suggestioni metafisiche la presenza enigmatica degli oggetti quotidiani e dei corpi senza volto”; e riferimenti filosofici, artistici e letterari mossi dalla sua attività di critico d’arte  e scrittore parallela a quella di artista. I 2 acrilici su tela, “Archeologia” 1973, e Natura morta” 1986, mostrano il primo 3 oggetti sospesi a fianco di una figura senza volto, il secondo forme bianche come panni stesi su una corda e una etichetta.

Ugo Nespolo, “Sun Flower”, 1995

Lucio del Pezzo esprime appieno la fusione tra elementi Pop e una visione con riferimenti classici, rinascimentali e metafisici, in assemblaggi tridimensionali dove sono unite figure ed elementi geometrici: “Del Pezzo, in modo pioneristico e tattile, ha reso infatti tridimensionali molti elementi tratti dalle opere di de Chirico, come asticelle colorate, palle, triangoli, volute, ma anche certi segni ermetici contenuti nelle sue opere della Metafisica a Parigi e a Ferrara, estraendoli e rimodulandoli all’interno del suo codice formale  dove incasella con perfezione numerica bersagli, piramidi e obelischi”. Lo vediamo nelle 3 opere esposte: la scultura “Navi russe” 1968, una colonna con 7 piani che recano oggetti tra cui un’ancora e una piramide, “L’oro era oro” 1968,  una piramide in primo paino a sinistra. e altre in lontananza a destra, in mezzo due misteriose forme bianche con fregi e altro, “Il ritorno di Giseh” 1983, la piramide in alto, un obelisco e un zig zag in basso.

Con Bruno Di Bello e Fabrizio Plessi entriamo direttamente nelle comunicazione. Bruno Di Bello  riproduce particolari ingranditi di reportage presi da settimanali quali “L’Espresso” e “Life” nelle sue opere intitolate “Copia dal vero”, mentre non copia il vero ma la sua versione fotografica. Nel suo “Senza titolo” 1962, uno smalto su carta applicata su tela in un colore rosso arancio, vediamo delle file orizzontali di lettere A intervallate a delle O. Gli anni ’70 lo vedono impegnato a scomporre e ricomporre le parole.  L’altro “Senza titolo” 1973 esposto, una tela fotografica mostra 20 riquadri ombreggiati con dei segni di lettere e altro.

Fabrizio Plessi va ancora oltre nel percorso comunicativo, avvalendosi delle nuove tecnologie, soprattutto del video, rendendo dinamiche immagini fotografiche, lo vediamo nell’opera esposta “Disegno/  movimento +a tempo, 1973 . su carta, gambe di ragazza in movimento che ricordano la “Ragazza che corre sul balcone” di Balla. Sul movimento farà ricerche che lo porteranno a realizzare videosculture tridimensionali, anche con ispirazione classica. L’altra sua opera esposta, “Senza titolo” 1963 è  anteriore, la forma ricorda un volto quasi da robot, freddo senza umanità.

Sergio Sarri, “Baroness Steel N. 2“, 1973

L’opposto troviamo in Ugo Nespolo, con 2 opere esposte, un esplosione di vita nei colori brillanti e nelle forme eclatanti, che rimandano al Futurismo di cui è stato conoscitore e in una certa misura continuatore, anche nella visione che spazia dalla pittura alla scultura, dall’installazione al  cinema, dal design alla pubblicità in un concetto di “opera aperta”: “Ha fuso dunque i suoi riferimenti colti all’immaginario pop, le sue visioni contemporanee alla grande tradizione rinascimentale …. Realizzando opere coloratissime dove le immagini compiono un percorso sospeso tra l’immediatezza dei mass media e il filtro della memoria, evocando numeri quasi futuristi  e attraversamenti di musei segnati dai capolavori dell’arte mondiale”.  I numeri futuristi in un trionfo di colori li troviamo in una delle due opere in acrilico su legno esposte, “My numbers” 2017, mentre  nell’altra opera,  “Sun flowers” 1995, al trionfo cromatico si aggiunge l’irraggiamento,

Ma  di Nespolo è anche la sorpresa finale, del 1967, un Filmato sonoro di 16 mm, 25’,  con Lucio Fontana. Enrico Baj, Renato Volpini, gli artisti amici, protagonisti autoironici di una breve storia scherzosa, cui ha dato il titolo “La galante avventura del Cavaliere dal lieto volto”. E’ la degna conclusione di una mostra che meritoriamente ci ha riportati ai “favolosi anni ’60 e ’70 a Milano”.

Bruno Di Bello, “Senza titolo”, 1962

Info

Auditorium della Conciliazione, Roma, Piazza Pia, 1. Orario, ore 12-19 dal martedì al sabato, ingresso gratuito. Catalogo “I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano”, a cura di Lorenzo e Enrico Lombardi, Gangemi Editore, settembre 2022, pp. 160, formato 23 x 28. Il primo articolo è uscito in questo sito il 13 novembre 2022. Cfr. i nostri articoli, per la mostra del 2011 “Gli irripetibili anni ’60”, su cultura.inabruzzo.it il 15, 20, 25 luglio 2011; per gli gli artisti citati, in questo sito, su Adami, 1, 2 gennaio 2021, Astrattismo italiano 5, 7 novembre 2012, in cultura.inabruzzo.it su Baj 23 settembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).

Photo

Sono inserite nel testo le immagini di un’opera per ciascuno dei 24 artisti espositori: in questo secondo articolo le immagini per 12 artisti di cui 4 della sezione “Nouveau réalism”, e 8 della sezione “Nei mondi della nuova comunicazione”; per la sezione “Nuclearismo e Astrazioni” le immagini sno inserite nella seconda parte del primo articolo. Le immagini sono state riprese dal Catalogo, per questo ringraziamo Gangemi Editore, tranne la 3^, “Tupamaros” di Mimmo Rotella, tratta dal sito web InsideArt, si ringrazia il titolare, pronti ad eliminarla se non è gradita la pubblicazione, peraltro senza alcuna motivazione economica ma solo illustrativa. Per la sezione “Nouveu réalisme tra Francia e Italia”, in apertura,

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Fabrizio Plessi, “Disegno / movimento + tempo”, 1969

I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano, 1. Lo “Spazialismo”, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante

Tornano  gli “irripetibili anni 60”  insieme al decennio successivo  nella mostra “I favolosi anni ’60   e ’70 a Milano”, all’Auditorium della Conciliazione a Roma, dal  27 settembre al 20 novembre 2022 , promossa dalla Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, presidente Emmanuele F. M. Emanuele,  realizzata da “Poema” in collaborazione con “Auditorium della Conciliazione”, curata da Lorenzo ed Enrico Lombardi . Sono esposte 36 opere  di 24 artisti in 4 sezioni, conclude un filmato.  Catalogo  di Gangemi Editore”  curato, come la mostra, da Lorenzo ed Enrico Lombardi.

Lucio Fontana, “Studi per Concetto spaziale”, 1949-51

Una mostra con motivazioni e contenuti quasi… autobiografici per l’ideatore e promotore, il presidente Emmanuele F. M. Emanuele che,  nell’introduzione del Catalogo,  ricorda come negli anni ’60 nei suoi continui spostamenti per lavoro tra Roma e Milano frequentava assiduamente gli  ambienti artistici milanesi, in particolare Brera e il “Bar Jamaica”, luogo di ritrovo degli artisti di Milano che incarnava “i valori della modernità. Spinto dal boom economico, il capoluogo lombardo si trovò improvvisamente a  vivere un irrefrenabile fermento culturale, caratterizzato da una forza progettuale senza precedenti e dalla voglia di lasciarsi alle spalle in maniera definitiva gli orrori della guerra”. In tal modo divenne “il fulcro dell’Avanguardia internazionale in cui prendevano forma movimenti e tendenze”, in sintonia con ciò che si muoveva in ambito europeo, con particolare riguardo a Francia, Belgio, Inghilterra. A Roma, invece, dove  Emanuele viveva, “si respirava il clima di leggerezza e bellezza proprio del territorio, e la città era protagonista di una esaltante stagione in cui la cultura di massa incideva non solo nel contesto socio-culturale, ma anche nell’ambito della creatività e della comunicazione contemporanea”. Gli artisti romani, anche per “lo speciale rapporto della Capitale con gli Stati Uniti, alimentato dal boom del cinema che fece di Cinecittà la “Hollywood sul Tevere’”, erano maggiormente in dialogo con la Pop Art americana.

Enrico Castellani, “Senza titolo”, 1967

Da questa esperienza sono nate le due recenti mostre,  questa del 2022 su “I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano” e la mostra del 2021 nella galleria “Monogramma” in via Margutta su quella che fu chiamata la “Scuola di Piazza del Popolo” a Roma, citata dal presidente Emanuele; aggiungiamo  la grande mostra del 2011 a Palazzo Cipolla della Fondazione Roma sugli “Irripetibili anni ‘60”, da lui stesso promossa, come si manifestarono a Milano e Roma, le dedicammo tre articoli, da Fontana a Marconi, dalla monocromia alla Pop Art fino alla “nuova scultura”, partendo anche allora dai ricordi del presidente sulle due realtà artistiche vissute direttamente.

Emanuele fece parte del movimento della “Patafisica” con Virgilio Dagnino e Paride Accetti e divenne grande amico di Ugo Nespolo, l’artista eclettico che si è espresso in vari settori  cui nel 2016 la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale da lui presieduta ha dedicato la mostra antologica “That’s Life” a Catania.

Agostino Bonalumi, “Bianco”, 1976

La  peculiarità dei “favolosi” anni ’60 e ’70 e degli “irripetibili” anni ‘60

Ma qual è stata la straordinaria peculiarità di questa stagione di anni “favolosi” e “irripetibili”?  Possiamo definirla una ventata di modernità che ha investito l’intera società nel dopoguerra – a partire dalla metà degli anni ’50  considerati gli antesignani  degli sviluppi  successivi – e non solo le arti visive ma anche la musica e la moda, il design e l’architettura. Un  po’ come  era stato – ci viene spontaneo  l’ accostamento – il futurismo qualche decennio prima, ma questa volta la spinta è venuta non dal desiderio di rimuovere le staticità del passato dinanzi al nuovo mito della velocità, bensì dai forti  impulsi suscitati dal boom economico e dai nuovi grandi spazi metropolitani dopo le tragedie e le ristrettezze della guerra, con un consumismo divenuto realtà diffusa.  La società che tendeva a divenire “opulenta” esercitava forti sollecitazioni attraverso le comunicazioni di massa sempre più invadenti,  anche per la pubblicità e l’avvento della televisione, per non parlare del cinema e dello sport con la creazione di nuovi miti. Altra marcata differenza con il futurismo, fenomeno tipicamente italiano, a parte le forme di espressione artistica non raffrontabili è stata la portata internazionale di questa “rivoluzione visiva e culturale, potente e rinfrescante, un vento colorato di immagini e di idee” –  come scrive Lorenzo Canova – dalla metà degli anni ’50, partendo da  Londra, si è diffusa nelle altre capitali europee e  segnatamente  negli USA, assumendo  conformazioni riassunte  in modo esemplificativo e forse semplicistico  nella Pop Art, mentre  varie e variegate sono state le tendenze alle quali possono ascriversi gli artisti di quella feconda stagione.  

Paolo Scheggi, “Zone riflesse”, 1965

Ma rispetto alla  Pop Art degli altri paesi –  legata essenzialmente  nelle ricerche e nelle conseguenti forme espressive al boom economico e al consumismo di massa con gli altri fattori di prorompente modernità –  per l’Italia, sottolinea  sempre Canova,  “uno degli aspetti più innovativi e condivisi di queste ricerche è pertanto la voluta contaminazione tra elementi banali e citazioni colte, in una fusione dove sono presenti prelievi da rotocalchi, inserimenti di immagini kitsch, assemblaggi di cos e scene di vita quotidiane”.  Più precisamente, vengono rilevate “molte analogie e interazioni tra gli artisti italiani che hanno condiviso la volontà di non lavorare soltanto sugli spunti della nuova società dei consumi, ma di fonderli in una visione ibrida in cui le sollecitazioni provenienti dalle culture di massa si mescolano alle citazioni dall’arte dei secoli passati e dalla grande stagione dell’arte  della prima metà del Novecento”. Si è avuta dunque una “raffinata e colta fusione”  tra gli elementi provenienti dai mass media e quelli  derivati dalla “grande storia dell’arte, riletta e interpretata senza nostalgie  come un grande stimolo alla creazione di una nuova idea dell’arte italiana”. 

Viene inoltre rilevato che questa “nuova figurazione”  ha  trovato  “un basilare codice di origine nel Futurismo e nella Metafisica, due fondamentali punti di riferimento per l’utilizzo consapevole del rapporto coi mass media, per le indagini sui nuovi materiali extrapittorici, per la grande storia dell’arte usata come fonte di ispirazione e di citazione”.  Il  riferimento diretto a due forme d’arte italianissime  evidenzia ancora di più come questa nuova espressione artistica così innovativa si inserisca nel contesto internazionale della Pop Art con una specificità tutta italiana.

Getulio Alviani, “Quattro cerchi virtuali”, 1967

Nella mostra sono  materializzate  in 4 sezioni le forme d’arte innovative in cui si esprimono gli artisti italiani  nel mondo milanese tra gli anni ’60 e ’70:  dallo “Spazialismo” al “Nuclearismo”, è un nuovo mondo che si apre. I titoli delle sezioni sono eloquenti: “Arte materia e spazio verso lo zero”, con 10 opere, “Nouveau réalisme tra Italia e Francia” con 5 opere, “Nuclearismo e Astrazioni”  con 5 opere, “Nei mondi della nuova comunicazione” con 15 opere”. Una selezione di 24 artisti con 36 opere estremamente concentrata e anche per questo intensa e mirata.

“Arte materia e spazio verso lo zero”

La  1^ sezione “Arte materia e spazio verso lo zero”  espone 10 opere di 8 artisti. Nel commentarle,  salvo diverse citazioni come la prima espressamente indicate, faremo riferimento all’analitica introduzione della mostra nel  Catalogo di Guglielmo Gigliotti, con 8 “medaglioni critici” e il titolo “Il cielo sopra Milano: spazio, spazialisti e altri sognatori”.

La galleria espositiva si apre con Lucio Fontana,  come caposcuola di una “visione costruttiva più ‘fredda’, un rigore organizzato della struttura del segno e dell’impostazione progettuale dell’opera, in una sublimazione del gesto e della materia”,  che ha caratterizzato l’arte milanese a differenza di quella romana, con caposcuola Burri; accomunate entrambe le tendenze dal “ritorno felice  a una diversa arte iconica, un’immagine vista in modo innovativo, superando gli schemi dell’informale e del postcubismo e andando oltre quella strisciante iconoclastia che serpeggiava nelle teorizzazioni dei primi anni  del secondo dopoguerra, trovando soluzioni alternative anche alla dialettica astrazione-figurazione”. Questa analisi di Lorenzo Canova mostra come dietro le semplificazioni espressive della nuova arte ci sia una evoluzione molto profonda, addirittura radicale.  

Rodolfo Aricò, “178A”, 1967

Fontana, rientrato in Italia nel 1947,  aveva fondato il movimento artistico chiamato “Spazialismo” del quale nel 1951 fu pubblicato il Manifesto Tecnico, e non solo “funse da trait d’union tra la prima  e la seconda Avanguardia, ovvero  tra Futurismo e l’Arte Povera, ma influenzò ad esempio  anche la nascita nel 1951 dell’Arte Nucleare”: lo ricorda Alberto Dambruoso sottolineando  che “anche a Milano sono gli anni  Cinquanta a determinare poi lo sviluppo delle ricerche artistiche  degli anni Sessanta e Settanta”.

Mentre Guglielmo Gigliotti  sottolinea che “l’importanza storica di Lucio Fontana, al di là dell’altissima qualità delle sue opere, sta nel fatto che egli non fu solo mosso  da slanci volti a rivoluzionare i linguaggi dell’arte, quanto le stesse radicate convinzioni che ne stanno alla base”.  E questo perché  nell’immediato dopoguerra  “intuì le infinite potenzialità estetiche ed esistenziali di uno spazio della creatività inteso come totalità. Quindi, non è uno spazio concepito come risultante in negativo da un volume, ma come dimensione plastica, tensione, presenza ed esperienza. Uno spazio astratto ma vivent come immateriale concrezione ambientale”. Tutto ciò si traduce a partire dal 1949 nei “Concetti spaziali”, le tele bucate da fori isolati sparsi o “diradati in ritmiche orditure lineari” sulla superficie che viene in un certo senso negata per riaffermare un concetto esprimibile soltanto con i fori ancorati alla “fisicità residua della tela”.  “Il buco-Dio, il buco-nulla si concretizza allusivamente nel gesto elementare, e di forza primordiale, d’un punteruolo che fa breccia nel lino”. Con questo effetto: “Il quadro si sbriciola per proiezione intellettuale in quell’idea di assoluto spaziale, di cui paradossalmente si fa custode e garante”.  Alla fine degli anni ’50   si passa dal foro al taglio: “Su fondi rigorosamente monocromi, le fessure incise nella tela a colpi di perentorie rasoiate, trasmutano infatti il vitalismo dei buchi nelle sacralità solenne di un gesto cosmogonico, un gesto assoluto gravido di quella contemplatività che indusse Fontana a intitolare “Attese” questo particolare filone dei “Concetti spaziali”.  

Vincenzo Agnetti, “Assioma Lavoro – Agnetti dimenticato a Memoria”, 1972

Abbiamo voluto riportare testualmente l’interpretazione di Gigliotti data l’importanza della rivoluzione avviata da Fontana rispetto allo spazio che diventa protagonista anche per i suoi seguaci. Sono esposte 2 sue opere, disegni in inchiostro su carta, “Studi per Concetto spaziale” 1949-51, con le macchie dei buchi disseminate sulla superficie della tela, e “Ambiente spaziale per le X Triennale di Milano” 1949, una sorta di scalinata che sale, verso uno spazio in dissolvenza. 

Dopo le 2 opere di Fontana che dall’inizio degli anni ’50  ha precorso ”i favolosi anni ’60 e‘70” a Milano, 3 opere di altrettanti artisti negli anni ’60. Poi 5 opere degli anni ’70 di altri 3 artisti.

Enrico Castellani fu un seguace di Fontana nello Spazialismo, fondò la galleria Azimuth e la rivista omonima  con Enrico Bonalumi  e Piero Manzoni, e due anni dopo la morte di Fontana nel 1970 si trasferì in un antico borgo, Celleno presso Viterbo,  vivendo  in solitudine e dando corpo a quanto affermava che non doveva avere nulla  intorno a sé perché “lo spazio di riferimento della mia arte è lo spazio mentale”. Intitolava i suoi quadri “Superfici” perché “nella superficie” e non “sulla superficie”  si diffondono ”a modulazioni di sequenze regolari e fluide, sequenze di punti in aggetto e punti in cavità… Il quadro si gonfia e si svuota come un polmone… Introflessioni estroflessioni , come due polarità della vita e della visualità”. La pittura si smaterializza, è fatta di superfici monocrome di diversi colori e tonalità,  dal bianco al blu, con gli aggetti e le cavità ottenuti operando sul telaio dove viene inchiodata la tela alla tensione voluta.  “Per tutta la vita, come un monaco, Castellani è stato devoto alla causa del quadro-oggetto, nato da una costola delle effrazioni del piano operate dal capostipite Fontana”.  In  “Senza Titolo” 1967, su una superficie giallo arancio spiccano i punti di aggetto e di cavità. 

Michele Zaza, “Senza titolo”, 1972

Di Paolo Scheggi è esposta “Zone riflesse” 1965, tre forme ovali in arancione, sono le “Intersuperfici” sovrapposte monocrome:  artista  precoce venuto meno prematuramente a 30 anni, stimato da Fontana che ne introdusse il Catalogo alla mostra del 1962 a Bologna, nella sua breve vita seguirono personali a Milano, Roma, Venezia e recensioni dei maggiori critici d’arte.  Le tre tele sovrapposte in strati esprimono la penetrazione della mente nello spazio creato dalla fantasia. Ma non solo: “Le parole, per Scheggi, erano importanti come la pittura”, dal 1970 realizza “opere, d’istanza concettuale , in cui la componente verbale assumeva  la centralità che prima avevano le aperture nell’insondabile”,e questo lo accosta a Vincenzo Agnetti, come vedremo.

Il terzo artista di cui sono esposte in questa prima sezione opere degli anni ’60 è Getullio Alviani con “Quattro cerchi virtuali” 1967, su alluminio.  Si definiva “ideatore plastico”  nell’arte ottico-cinetica, i suoi semicerchi hanno l’effetto ottico di cerchi completi e con questa alterazione della realtà esprimono il carattere illusorio delle certezze, dato che “non vediamo gli oggetti ma la luce da essi riflessa. Dunque noi vediamo le ‘cose’ come se fossero specchi”. Sempre con l’alluminio l’artista ha realizzato, scavandolo con la fresa elettrica,  “Superfici a testata vibratile”, che appaiono diverse  cambiando la posizione dell’osservatore, che diventa attivo e non più passivo. “La loro essenza luminosa è mobile, muta continuamente, aderendo per costituzione al grande flusso della realtà impermanente, al panta rei  dell’universo”.

Roberto Crippa, “Spirali”, 1951

E siamo ai 4 artisti con opere degli anni ’70. Di Vincenzo Agnetti sono esposte 2 opere dei primi due anni del decennio, “Continua” 1971, e  “Assioma lavoro – Agnetti dimenticato a memoria” 1972, la prima una fotografia di giornale con la scritta: “Vincenzo Agnetti, Copia dal vero.  Opera prima”; la seconda un quadrato di bachelite nera con inciso in basso in bianco il titolo. Si vede da queste scritte che per lui  – in assonanza con Paolo Scheggi – la parola aveva molta importanza, ma non per l’attività letteraria o di critica d’arte ma  perché “non era solo un mezzo, ma un’immagine”.  Eloquente la sua affermazione: “Una figura non è solo una figura, come una parola non è solo una parola”. Ma non ci sono solo poche parole semplici quali quelle delle due opere esposte, nei suoi “Feltri”, pannelli incisi a fuoco, e nelle tavole di bachelite ci sono testi  ampi ed evocativi di suggestioni letterarie o mitiche aperte al paradosso “dove la realtà ricompone la sua apparenza molteplice nella fusione degli opposti, nell’affastellamento dei contrari”, attraverso l’arte; in un suo “Feltro” del 1971 si legge “Quando mi vidi non c’ero”,  Gigliotti commenta: “Non è un’opera eccezionale solo per il contenuto d’afflato mistico,  ma perché le parole sono pittura in sé”.

Ampi testi anche nell’opera esposta degli stessi anni di Michele Zaza,Senza titolo” 1972, una fotografia di un terreno sabbioso accidentato con scritta in rilievo “Scegliendo me”, e sotto tre riquadri  di scritte molto fitte alternati a tre quadrati bianchi, nel primo la parola Zeus, negli altri due sembra di leggere Cpono e Ctono. I testi esortano l’uomo a  sperare per non immiserirsi, fino a citare “l’ultimo uomo, la sua razza è indistruttibile…l’ultimo uomo vive più a lungo  – noi abbiamo inventato la felicità – dicono gli ultimi uomini, e ammiccano”. Sono tratti da “Così parlò Zarathustra” di Nietsche,  precedono la sua nota espressione “Si deve avere del caos dentro di sé per generare una stella che danza” . E’ stato definito “pensatore di immagini”, venuto a studiare a Brera da Molfetta, la sua arte (“prima performativa, poi  essenzialmente fotografica e installativa)  è un grande rito arcaico-contemporaneo di regressione all’origine, sua e dell’universo”. Di qui fotografie  di ambienti poveri, dei genitori simbolo dei due sessi, intorno “a questa antropologia metafisica, a questo sacrale disvelamento di una memoria inconscia e fuori dal tempo”.

Sergio Dangelo, “Senza titolo”, 1970

Con Agostino Bonalumi ritroviamo il “principio del rigonfiamento della tela”  anche operando sul  telaio ligneo, caratteristico di Enrico Castellani, di cui fu amico  dopo averlo conosciuto nello studio di Enrico Baj con  Piero Manzoni  dando vita a un sodalizio che si tradusse nella fondazione della galleria e nella rivista Azimuth, come abbiano detto, e in esposizioni comuni per due anni. Fu molto apprezzato da Fontana che interveniva in modo opposto, con cavità e non con aggetti in rilievo come Bonalumi e Castellani, ma operavano tutti nello spazio della tela, l’uno “al di là”, gli altri due “al di qua”,  mossi  dalla stessa visione dello spazio. “Bonalumi aveva una maggiore propensione all’invasione nello spazio, guidato da una accentuata sensibilità plastica all’altorilievo, con estroflessioni articolate, in alcuni suoi periodi, in serpentine, affossamenti, e inattese circonvoluzioni, di sapore nettamente scultoreo”. Ma  non mancano opere in cui prevale il senso geometrico alternate a quelle delle ”fasi di dinamismo plastico e biomorfico”. In mostra è esposta “Bianco”, 1976,  una tela “estroflessa” a fasce che sfumano su due tonalità di grigio.

Anche Rodolfo Aricò, l’ultimo artista della sezione Spazialista, viene collegato a Castellani per condividere la pittura-oggetto, pur nelle notevoli differenze rispetto a lui e agli altri artisti finora citati.  “I suoi quadri-oggetto sono infatti piatti, non aggettano come quelli di Bonalumi e Castellani, e non sprofondano in varchi dentro al superficie, come in Fontana e Scheggi, ma si dispiegano in solari sequenze geometriche  a muro, in installazioni a parete”. Viene definito “architetto della pittura”,  e “pittore di architetture cromatiche”  ma anche “filosofo della pittura” non con le parole  ma con la sua espressione artistica, utilizzando gli strumenti della pittura – telaio e materia, colore e superficie – a fini di analisi, tanto che fu inserito tra gli esponenti della Pittura Analitica. Si ispirava anche alla pittura del ‘400 e all’architettura classica “componendo sul muro sequenze di tele monocrome atte a formare archi, timpani e affondi prospettici, nell’accezione di un’architettura dello spirito  vissuta come ultimo mito della modernità”. Sono esposte “178°”,  1977,  collage  su tela dalle tinte sfumate con due piani architettonici, e”Senza titolo” 1989, collage su carta del periodo in cui prevale l’orientamento geometrico multiforme del periodo successivo, in trapezi e in ottagoni come quello di questo quadro in un intenso colore grigio.

Con un’opera che va oltre gli anni ’70 termina la prima sezione della mostra dedicata allo “Spazialismo”, commenteremo prossimamente le sezioni restanti, a partire dal “Nuclearismo e Astrazioni”, altra tendenza importante  tra le espressioni di avanguardia, seguito dal “Nouveau réalisme tra Italia  e Francia”, per concludere con “Nei  mondi della nuova comunicazione”. 

Gianni Dova, “Senza titolo”, anni ’70

Info

Auditorium della Conciliazione, Roma, Piazza Pia, 1. Orario, ore 12-19 dal martedì al sabato, ingresso gratuito. Catalogo “I favolosi anni ’60 e ’70 a Milano”, a cura di Lorenzo e Enrico Lombardi, Gangemi Editore, settembre 2022, pp. 160, formato 23 x 28. Cfr. i nostri articoli, per la mostra del 2011 “Gli irripetibili anni ’60”, su cultura.inabruzzo.it il 15, 20, 25 luglio 2011; per gli gli artisti citati, in questo sito, su Astrattismo italiano 5, 7 novembre 2012, in cultura.inabruzzo.it su Fontana 23 settembre 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su questo sito).

Photo

Sono inserite nel testo le immagini di un’opera per ciascuno dei 24 artisti espositori: in questo primo articolo le immagini per 12 artisti di cui 8 della sezione “Spazialismo”, commentata dopo un’inquadratura generale della mostra, e 4 della sezione “Nuclearismo e Astrazione” commentata all’inizio del secondo articolo, prima delle due sezioni restanti. Le immagini sono state riprese dal Catalogo, per questo ringraziamo Gangemi Editore, tranne la 9^, “Spirali” di Roberto Crippa, tratta dal sito web Farsettiarte, si ringrazia il titolare, pronti ad eliminare l’immagine se non è gradita la pubblicazione, peraltro senza alcuna motivazione economica ma solo illustrativa. Per la sezione “Concettualismo, in apertura, Lucio Fontana, “Studi per Concetto spaziale” 1949-51; seguono, Enrico Castellani, “Senza titolo” 1967 e Agostino Bonalumi, “Bianco” 1976; poi, Paolo Scheggi, “Zone riflesse” 1965 e Getulio Alviani, “Quattro cerchi virtuali” 1967; quindi, Rodolfo Aricò, “178A” 1967 e Vincenzo Agnetti, “Assioma Lavoro – Agnetti dimenticato a Memoria” 1972; inoltre, Michele Zaza, “Senza titolo” 1972. Per la sezione “Nuclearismo e Astrazioni”, commentata nel prossimo articolo, Roberto Crippa, “Spirali” 1951, seguono Sergio Dangelo, “Senza titolo” 1970 e Gianni Dova, “Senza titolo” anni ’70; in chiusura, Emilio Scanavino, “Figure” 1978.

Emilio Scanavino, “Figure” 1978

Villa Giulia a Ventotene: la capacità umana di far soffrire anche in Paradiso

di Romano Maria Levante

“Per un’Europa libera e unita!”, il riconoscimento della Commissione UE al Manifesto di Ventotene

Dopo le anticipazioni degli ultimi giorni, ai due articoli già condivisi sul Carcere dell’isola di Santo Stefano, facciamo seguire il terzo articolo su Ventotene – da noi raggiunta sulla barca “Luna” dell’amico Ciro Soria – di cui il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha sottolineato l’alto valore simbolico per l’Europa, trattandosi dei luoghi “dove è nata l’idea più rivoluzionaria dei nostri tempi: l’Europa federale”, aggiungendo come sia giusto  intitolare la “Scuola di alti pensieri” nella vicina isola di Santo Stefano, di cui abbiamo parlato, “a David che con il suo impegno politico e civico è stato in tutto il suo percorso di vita un interprete profondo dello spirito del Manifesto di Ventotene”.

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Altiero Spinelli, con il simbolo del’Europa unita vaticinata dal Manifesto di Ventotene

Ma ecco le parole che David Sassoli ha rivolto da Bruxelles il 17 settembre 2020 durante l’incontro che si  volse proprio a Ventotene tra i promotori,  le istituzioni locali e le amministrazioni sottoscrittrici del Progetto: “Il carcere di Santo Stefano e l’isola di Ventotene costituiscono dei capisaldi della nostra storia, punti di riferimento… il passaggio di tanti protagonisti della vita della Repubblica italiana: Sandro Pertini, Umberto Terracini, Rocco Pugliese, uomini coraggiosi considerati scomodi, dissidenti politici, persone che hanno fatto della resistenza al fascismo una delle loro battaglie, sono stati costretti a trascorrere parte delle loro vite in questo carcere, molti addirittura le loro ultime ore. Il valore del carcere di Santo Stefano deve essere quindi considerato per il suo alto significato simbolico. Il patrimonio culturale è una parte importante della nostra identità comune. Il vostro progetto va proprio in questa direzione, ha il nostro sostegno e contribuisce a rafforzare quel senso di cittadinanza europea che proprio sugli scogli di Ventotene ha posto le sue fondamenta. E’ lì che abbiamo avuto uomini e donne che hanno immaginato, per noi, un futuro diverso. Non dobbiamo dimenticare che questa è stata una terra di ispirazione per tutti coloro che consideriamo i nostri padri fondatori e le loro parole sono ora, più che mai, attuali”.

Resteranno attuali anche nel futuro, un futuro ancora diverso con un’Europa più integrata e solidale – superato lo scoglio dell’insensata guerra scatenata al suo interno dall’aggressività dell’autocrate russo – alla quale sarà rivolto l’impegno formativo della scuola, con la garanzia che il nome di David Sassoli manterrà vivi i valori alla base del suo impegno politico, civile e umano. Quei valori  alla base del riconoscimento  “Per un’Europa libera e unita!” conferito il 28 aprile 2022 dalla Commissione dell’UE al Manifesto di Ventotene di Altiere Spinelli con Ernesto Rossi ,rilanciato oggi che se ne ha un disperato bisogno.  Ecco l’articolo su Villa Giulia, una prigione dorata, un paradiso divenuto un simbolo, che pubblicammo il 26 ottobre 2010.  

Home > settore > archeologia romana > Villa Giulia a Ventotene: la capacità umana di far soffrire anche in Paradiso, 24 ottobre 2010

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Villa Giulia a Punta Eolo, un angolo di paradiso
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La visita a Villa Giulia, prigione romana dorata, nella Ventotene del Manifesto di Altiero Spinelli

I “venerdì di “Archeorivista” – trascorsi sette giorni dalla partecipazione in anteprima all’apertura al pubblico del Terzo anello e degli Ipogei del Colosseo – tornano a Ventotene dopo aver esplorato l’archeologia carceraria di Santo Stefano. Una breve premessa di archeologia marina, poi l’archeologia romana nel racconto della visita ai resti di Villa Giulia, residenza degli imperatori, soprattutto per le mogli esiliate: andiamo a Punta Eolo, la zona più ventosa di un’isola battuta dai venti, che in questo lato hanno modellato le rocce friabili con formazioni ondulate e sinuose.

Dal museo archeologico alla villa romana

L’appuntamento è al Museo Archeologico di Ventotene, al piano terra dell’edificio merlato con una vista incantevole sul mare, ed è solo l’antipasto di quanto andremo a gustare. Un rapido sguardo ai reperti del museo ci fa entrare ancora di più nell’atmosfera marina che si respira in ogni punto dell’isola. Antiche ancore e soprattutto anfore, di varie fogge e dimensioni, incrostate dalla permanenza millenaria nelle acque; i ritrovamenti continuano tuttora, c’è una grande anfora rinvenuta di recente immersa in un ampio recipiente in fase di disincrostazione.

Il campionario di reperti emersi dalle acque è vario, gli scogli che abbondano hanno provocato naufragi, le navi affondate conservano i loro contenuti per restituirli a poco a poco. La “star” del museo è il “dolio”, il grande otre sferico per vino oppure olio che troneggia al centro della sala principale. Dei grafici ne illustrano la disposizione nelle stive in appositi alloggiamenti. E’ intatto!

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La villa rustica.

Ma non è il mare la nostra meta della giornata, bensì sono i ruderi della villa romana di Punta Eolo che raggiungeremo con il folto gruppo di visitatori guidato dall’addetta al Museo, Elena Schiano di Colella, così compresa nel ruolo da avere utilizzato nel proprio indirizzo e mail il nome di Scribonia, la seconda moglie di Augusto madre di Giulia, della quale ci racconta la storia. E lo fa con trasporto e partecipazione, inanellando una miriade di dettagli storici nel tragitto dal Museo archeologico al sito con i resti della Villa romana.

Un tragitto relativamente lungo per una lunga premessa, che ci fa arrivare alla nostra meta avendo assorbito le vicende dell’epoca, fatte di intrighi e spietate vendette e, perché no, di gossip in salsa romana. Che prevedeva punizioni come il soggiorno forzato in questa residenza di sogno, situazione descritta dalla nostra guida con le parole, a noi apparse straordinarie, che abbiamo messo nel titolo: “Villa Giulia rivela la capacità umana di far soffrire anche in Paradiso”.

Nel mondo alla rovescia così evocato c’è anche un Caligola “buono” che recupera le spoglie dei familiari e revoca la “damnatio memoriae” comminata dai predecessori. E’ una chicca che la guida Elena ci regala.

Le grandi cisterne per l’acqua.

Le mogli imperiali mandate a soffrire nel paradiso di Villa Giulia

Si sente come lo spirito femminile, non diciamo femminista, della nostra guida, è vicino alle imperatrici mandate ad espiare colpe anche non commesse nel luogo di sogno che gli imperatori avevano a disposizione per trascorrere periodi di distensione e di svago in una località non troppo lontana da Roma ma abbastanza distante per staccarsi dalle cure giornaliere dell’impero.

La carrellata storica che fa Elena è lunga e minuziosa, trattandosi di una fase particolarmente movimentata del periodo imperiale. E’ proprio questo lo spirito dell’archeologia, portare alla luce virtualmente quello che c’è dietro i ruderi, la cui consistenza spesso è inversamente proporzionale alla vastità del mondo che dischiudono; qui sono consistenti e in gran parte da portare alla luce.

Vedremo dopo i resti, intanto il quadro storico acuisce la curiosità e l’interesse, cresce l’aspettativa mentre nelle parole condite da battute che alleggeriscono il peso della storia, sfilano famiglie imperiali al completo, con i loro alberi genealogici intrecciati come gli intrighi di corte.

Tre le grandi esiliate a Villa Giulia la figlia di Augusto, Giulia, fu la prima e le diede il nome, poi Tiberio nel 29 dopo Cristo vi mandò Agrippina, fino a Nerone che vi relegò la moglie Ottavia.

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Uno scorcio dei resti della villa imperiale

Si comincia dunque con Cesare Ottaviano Augusto che la fece costruire per l’“otium”, nella concezione romana non era il dolce far niente ma contemplava l’impegno culturale da coltivarsi nella pur distensiva vacanza. Oltre all’ubicazione favorevole per l’isolamento assicurato anche dal mare rispetto a Roma, ma non assoluto data la relativa vicinanza, aveva il pregio di non essere colonizzata, allora c’era molto verde e un bosco che favoriva la piovosità, oltre a fornire legna per il riscaldamento. L’aspetto negativo era rappresentato dalla mancanza di sorgenti d’acqua dolce che spiegava l’assenza di popolazione; ma era compensata dall’acqua piovana raccolta in cisterne.

Viene realizzato sin dall’inizio il porto romano con opere di scavo nel terreno tufaceo: è ritenuto tuttora molto sicuro, forse più del porto moderno; è sotto al faro di Ventotene. Le navi di passaggio trovavano accoglienza in una darsena dove si eseguivano lavori e riparazioni e si provvedeva anche al rifornimento di acqua dolce. C’era una peschiera con allevamento ittico per l’imperatore, e una terrazza dalla quale lo sguardo può scrutare l’orizzonte marino fino all’isola d’Ischia.

In questo ambiente nasce la Villa che vedrà, oltre agli “otia” degli imperatori illuminati, l’esilio di nobildonne punite dagli stessi imperatori per vere o presunte trasgressioni nel quadro di intrighi e congiure di palazzo nelle quali le famiglie imperiali si laceravano al loro interno. La lex julia “de pudicitia” fu attivata per Giulia mentre fino ad allora era stata disattesa per non innescare delazioni e denunce a catena, dice sempre Elena facendoci entrare nell’atmosfera mentre ci avviciniamo.

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Stucchi dell’area di Villa Giulia (Museo Archeologico)

Basti pensare che Giulia, figlia di Ottaviano, era stata promessa in sposa da bambina al figlio di Marco Antonio, poi entrato in conflitto con lui e sconfitto nella battaglia di Azio: è solo l’inizio precoce di una vicenda intrecciata e movimentata, tra matrimoni, figli e tradimenti. Giovanissima, nel 25 avanti Cristo sposa Marco Claudio Marcello, poi nell’anno 21, a 18 anni, sposa Agrippa e gli dà cinque figli, nel corso di una vita matrimoniale molto irrequieta. Alla morte del marito nel 12, Augusto adottò i suoi due primi figli Gaio e Lucio Vipsanio Agrippa, e la indusse a sposare subito Tiberio, il fratellastro designato a succedergli; il matrimonio durò pochi anni, dall’11 al 6, poi nel 2 avanti Cristo l’accusa di adulterio e l’arresto per tradimento anche per un presunto complotto contro lo stesso Augusto, avendo lei una relazione con Iulio Antonio, uno dei congiurati costretto al suicidio. Invece della morte, a Giulia fu comminato l’esilio a Ventotene (allora Pandateria), vi andò con la madre Scribonia nella villa imperiale che prese il suo nome con restrizioni che furono accentuate nel 14 dopo Cristo allorché Tiberio divenne imperatore. Seguì la morte di Giulia uccisa o suicida per il dolore dell’uccisione del figlio Agrippa Postumo nato poco dopo la morte del marito.

Il ruolo di Tiberio nella storia della villa non finisce qui, la sua successione non fu scontata dato che le discendenze dinastiche non contavano e per imporlo Augusto gli diede due consolati e l’“imperium”. Anche divenuto imperatore l’astro del condottiero Germanico gli faceva ombra e dopo averlo mandato in Siria lo fece avvelenare nel 19 dopo Cristo. La moglie di Germanico Agrippina Maggiore, che allevava i figli nel suo accampamento militare, finì nel 29 a Ventotene rinchiusa a Villa Giulia dove morì nell’angoscia dei due figli morti per colpa di Tiberio: Nerone Cesare e Druso Cesare, fratelli di Agrippina Minore, obbligata nel 27 a sposare un uomo anziano che non voleva, da cui ebbe il figlio Lucio Nerone nel 37, e portata a Villa Giulia nell’anno 39. E quando morì Tiberio, dei due fratelli di Agrippina Minore indicati per succedergli fu scelto Caligola proclamato imperatore nell’anno 37.

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Frammento dell’intonaco di Villa Giulia (Museo Archeologico)

E’ una parentesi di umanità in una sequela di spietate punizioni: l’imperatore recupera le spoglie di madre e figli e interrompe la ”damnatio memoriae”; ma presto, forse preso dalla pazzia, diviene persecutore a sua volta e accusa di complotto la sorella Agrippina relegandola a Villa Giulia nel 38. Ucciso Caligola in una congiura nel 41 e succeduto Claudio, fratello di Germanico, Agrippina si prende la rivincita rientrando dall’esilio con la sorella Livilla destinata ad essere presto esiliata di nuovo e poi uccisa lasciandola padrona della corte; anche perchè Messalina, moglie dell’imperatore, nel 48 fu condannata a morte per la sua dissolutezza e l’anno dopo Agrippina Minore fu sposata da Claudio.

Lo convinse a scegliere suo figlio Nerone, che aveva fatto sposare con la figlia di Claudio, per la successione al posto di Britannico, avuto da Messalina; nel 54 muore Claudio per avvelenamento, forse ad opera di Agrippina, e inizia l’impero di Nerone con il ruolo importante assunto da Agrippina che lo aveva fatto educare da Seneca e per cinque anni gestì di fatto il potere al suo posto. Poi, dinanzi all’insofferenza di Nerone, si riavvicinò a Britannico, ex rivale per il trono imperiale, ma questi venne avvelenato. La sua posizione si indebolì ulteriormente quando l’imperatore, anche istigato da Poppea, decise di liberarsi della moglie Ottavia e della madre. Per Agrippina architettò una macchinazione nell’isola di Baia che si concluse con l’uccisione per mano delle guardie dopo un naufragio provocato appositamente per eliminarla. dal quale lei si salvò a nuoto. Ottavia fu rinchiusa a Villa Giulia dopo il ripudio nell’anno 62.

Raccontando questa storia infinita la guida Elena sottolinea l’arrivo dei messaggeri a Villa Giulia quando le comunicarono la morte dei due amati figli e lei tenta di uccidersi per l’angoscia: “A lei viene imposta la vita – commenta – come ai figli era stata imposta la morte”.

Così Domiziano, il persecutore dei cristiani, vi manderà in esilio nel 95, accusandola di giudaismo e ateismo, Flavia Domitilla, che diventerò santa. Ma dopo tanto “noir” ci sarà il “periodo rosa”, si aprirà il porto romano agli scambi commerciali e Villa Giulia tornerà ad essere lo splendido soggiorno in paradiso.

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I resti di un muro della villa, sullo sfondo l’isola di Santo Stefano con il carcere

La “domus rustica”, la parte del complesso riservata alla servitù

Terminare con il “periodo rosa” l’excursus storico introduce alla vista dei ruderi che nella parte più lontana hanno una coloritura rosa data dai caratteristici mattoncini; mentre i primi resti che si incontrano sono gli ambienti per schiavi e servi, in una posizione che appositi accorgimenti nascondevano alla vista dalla villa:

La “domus rustica” aveva camminamenti impermeabilizzati con il cocciopesto, materiale molto resistente all’acqua e anche ai terremoti, tanto che viene ripreso oggi in considerazione nella bio-edilizia. Vi erano tre strati di intonaco, mentre nella villa sette. Le murature sono in “opus reticulatum” autoportante dalla tipica forma romboidale con pezzi cuneiformi per una maggiore solidità. I resti dei vani sono regolari con un corridoio di disimpegno. C’è anche la cisterna per l’acqua dolce a 4 navate, di cui 3 scavate, per un totale di 1200 mc, con dei pilastrini molto sottili; nelle cisterne c’era il capitone per far muovere l’acqua e ossigenarla, così restava fresca e pulita.

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Un passaggio inibito in un’area non portata alla luce


La Villa vera e propria per la famiglia imperiale

Il sito archeologico, che nella “domus rustica” ha mostrato la geometrica disposizione degli ambienti allineati l’uno dopo l’altro in una successione ordinata e simmetrica, nella “villa imperiale” rivela strutture e accorgimenti escogitati per dotare la residenza di tutti gli agi possibili.

Si trova nella parte più bassa prospiciente la costa per rendere agevole l’accesso dal mare e per il migliore afflusso dell’acqua piovana raccogliendo anche quella accumulata nella parte più alta. L’aspetto negativo risiede nello sbancamento del terreno che è stato fatto con scavi e riempimenti.

La fantasia e la ricostruzione degli archeologi si sbizzarrisce nell’immaginare gli ambienti e i colonnati, il peristilio e il giardino che in una zona così esposta era protetto dai venti. Un emiciclo di vaste dimensioni, due terrazze e gradoni degradanti con delle scale che portavano alla cala sottostante rendono l’idea di come fosse

Un passaggio che porta direttamente al mare

curato l’inserimento nella natura dei luoghi attraverso un progetto del tutto originale, che si inseriva nella conformazione del terreno anche se i livellamenti e la costruzione delle terrazze vi apportarono profonde modifiche. Non si passava davanti alla “domus rustica” ma al di sotto, in modo da evitare la vista della servitù non all’altezza del rango.

Viene ricordato, comunque, che non fossero preordinate le esposizioni ai raggi solari, erano evitate dai ceti patrizi perché seccavano la pelle e la rendevano scura come quella degli schiavi.

Per concludere, occorre parlare della parte termale della villa, di particolare importanza per i romani. La guida Elena ci indica i resti dei frigidarium, tepidarium e calidarium, qui di calidaria ce ne sono due riscaldati da tre forni, due laterali e uno centrale; per le proprietà rimandiamo all’ampia descrizione che ne facemmo raccontando la visita alle Terme di Caracolla in un “venerdì di Archeorivista”. Attraverso stretti condotti gli schiavi facevano funzionare il sistema termale.

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Dolio (Museo Archeologico)

Delle molte altre notizie forniteci dalla guida Elena, a chiusura della visita vorremmo riportare quelle relative alle vicende successive, un triste aggiornamento perché sono storie di spoliazioni e demolizioni del patrimonio artistico e anche degli stessi materiali da costruzione. La collocazione della villa alle propaggini dell’isola, con l’approdo sul mare, l’ha aperta anche alle scorrerie dei pirati, ma come per Roma si dice che “quod non fecerunt barbari fecerunt Barberini”, così per Villa Giulia ciò che non fecero i pirati e altri predoni lo fecero i regnanti: nel 1700 Ferdinando di Borbone interessato a un’alleanza con gli inglesi diede a Lord Hamilton il nulla osta di prelevare da Villa Giulia a suo piacimento marmi e statue, colonne e fontane. E non è stata rapina da poco se si pensa che i colonnati si estendevano per 300 metri di lunghezza e 100 di larghezza e vi era ogni ben di Dio di arredi artistici, come si può facilmente immaginare dall’architettura della Villa.

Altri interventi di rapina fecerunt con la colonizzazione dell’isola e anche lo Stato pontificio fecit la sua parte prelevando il tufo nella Villa. Oltre a spogliarla furono aperte nella zona cave di tufo con evidenti danni all’ambiente. Questo per l’azione dell’uomo sempre rivelatasi distruttiva nei confronti dei grandi complessi dell’antichità non solo nel rapinare le opere d’arte ma anche nel prelevare materiali da costruzione distruggendo  senza remore architetture anche preziose. Una gara tra le pulsioni deteriori dell’avidità e dell’ottusità che fanno regredire la civiltà e lo stesso senso di  umanità.

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Anfore (Museo Archeologico)

Il “felix error” dell’anteprima solitaria

Verremmo meno all’imperativo montanelliano che è il nostro credo giornalistico – “andare senza pregiudizi, vedere e raccontare quello che si è visto” – se omettessimo di riferire il “felix error” al quale dobbiamo l’anteprima “in solitario” rispetto alla visita guidata. Il nostro errore ha riguardato il luogo dell’appuntamento con la guida e il suo gruppo, pensavamo fosse all’ingresso della Villa invece era al Museo archeologico; ragion per cui ci siamo trovati dinanzi al cancello da soli per di più in leggero ritardo da farci credere che la visita fosse già iniziata all’interno. Un addetto ad altra struttura locale ci confermò nella convinzione e ci fece entrare nel complesso archeologico.

La ricerca del gruppo con la guida fu vana perché, al contrario di quanto si era pensato, non era ancora arrivato, venendo dal lontano Museo archeologico con tutte le soste lungo il tragitto. Ma fu ugualmente proficua perché ci consentì di esplorare in anteprima tutti gli anfratti e le innumerevoli articolazioni di un sito archeologico particolarmente vasto e ricco di reperti pur se allo stato di ruderi smozzicati. E anche se, a quanto fu detto poi, l’80 per cento è ancora da portare alla luce e non lo si fa per non esporlo al degrado in un ambiente difficile da proteggere, c’è stato tanto da vedere dove la visita guidata non si spinge, sempre nella buona fede del nostro “felix error”.

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Marre d’ancora in piombo (Museo Archeologico)

Quale, dunque, il valore aggiunto della visita in anteprima? Forse quello stesso delle scalate “in solitario” e chi scrive, anche se non è alpinista, come uomo di montagna le apprezza molto. Ne fa fede la galleria di immagini scattate che può dare un’idea di come sia stato emozionante trovarsi da soli al cospetto di tanta antichità in una punta ventosa e particolarmente esposta. Perché superati i ruderi fino all’ultima propaggine ci siamo trovati con alle spalle le rocce disegnate dal vento negli arabeschi di tutte le sinuosità e le levigatezze di un’erosione millenaria di rara suggestione.

Ebbene, dopo aver fatto il pieno negli occhi e nella fotocamera con le immagini dei ruderi di una così vasta e ricca residenza ci siamo trovati a fare il pieno di uno spettacolo altrettanto emozionante: ciò che vedevano gli occhi degli imperatori nel loro “otium” virtuoso o nel loro colpevole spirito oppressore e vendicativo verso le proprie donne spesso incolpevoli: il paradiso della natura.

Punta Eolo fa onore al nome, ce lo dicevamo allorché sospesi tra le pareti erose dal vento che si faceva sentire con le sue improvvise folate e le scogliere biancheggianti di spuma in basso abbiamo provato quel brivido che dà l’attrazione del “bello orrido” , “che intender non lo può chi non lo prova”, il “felix error” ce lo ha fatto provare.

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La roccia erosa dal vento di Punta Eolo

Sentirsi come “Papillon” nel punto più esposto

Ci siamo sentiti come ”Papillon” dall’alto della scogliera guardare in basso i marosi infrangersi contro le rocce creando riflussi spumeggianti, quasi attirati dalla forza magnetica della natura alla quale il tocco della storia dava una suggestione ancora maggiore; così soli e sospesi lassù in alto potevamo trovarci in un’altra epoca, quella degli imperatori, i nostri occhi potevano essere i loro, non c’erano i ruderi a segnare il tempo trascorso, li avevamo lasciati dietro di noi superando gli ultimi passaggi in diretto contatto con le ultime rocce prima della scogliera.

Abbiamo capito in quel momento come “Papillon” trovasse il coraggio per il grande balzo nel vuoto sulle onde che si infrangevano negli scogli a picco; non era solo l’anelito di libertà, ma la forza magnetica della natura che richiama come nel proprio grembo materno al pari delle sirene di Ulisse.

La visita “in solitario” era terminata, ancora in “trance” siamo tornati nel piazzale all’ingresso, proprio quando arrivava il gruppo che avevamo cercato percorrendo il sito sino alle sue propaggini estreme. Con sguardo severo la guida Elena ci ha fatto rilevare l’errore e non ci ha consentito di seguire la visita del sito perché avevamo perduto l’introduzione storica, accompagnandoci al cancello ci ha dato appuntamento all’indomani. Abbiamo aderito, la visita “regolare” del giorno dopo l’abbiamo raccontata, ma non potevamo omettere l’anteprima.

Elena ne sarà sorpresa quando ci leggerà, non dovrà irritarsi perché tanto lei quanto chi scrive sono estranei alla piega degli eventi, dovuta al “felix error”: il fato cui i romani credevano tanto, non poteva essere assente in un sito così prestigioso. Forse le verrà il desiderio di tornare anche lei ”in solitario” nelle propaggini estreme che di certo ben conosce e non possono essere rese visibili nelle visite regolari, ci si deve fermarsi prima. Lo meritano eccome! Solo dopo averle viste si può comprendere la felice espressione della stessa Elena, alla quale oltre all’onore del titolo diamo  quello della conclusione: “La capacità umana di far soffrire anche in Paradiso”.

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La vista alla Papillon della scogliera tra la villa e la roccia erosa dal vento, il cielo e il mare

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 24 ottobre 2010 – Email levante@archart.it

Ph. Romano Maria Levante, tutte, dai ruderi di Vulla Giulia e dal Museo Archeologico.

Questo articolo ha dei commenti

Maximo scrive:

26 ottobre 2010 alle 19:10

Amo la principessa imperiale Giulia, a tutta la sua verace storia, triste e melanconica.

saluti della Spagna

o’pazzariello scrive:

10 Dicembre 2013 alle 00:27

Villa Giulia a Ventotene: la capacità umana di falsificare.
Uno scorcio dei resti della villa imperiale: balle, tutto ricostruito, altro che scavi , si son messi con impegno, hanno anche lì fatto abusi edilizi.

ranco amadio scrive:

5 Dicembre 2013 alle 08:31

Nell’appassionata descrizione della storia che attraversa villa Giulia,è detto che Agrippina minore fu esiliata nel 38 a villa giulia per ordine di Caligola ,con la sorella Jiulia Livilla.I testi ‘sacri’ dicono che le sorelle furono esiliate da Caligola a Ponza.Più tardi,Jiulia livilla venne probabilmante inviata nell’odierna ventotene perché dovette scontrarsi con la gelosia di Messalina.
Cordialmante
franco amadio

Santo Stefano, 2. Le storie dei reclusi nel penitenziario-teatro

di Romano Maria Levante

“Per un’Europa più libera e unita” nel nome di David Sassoli

Facendo seguito a quanto anticipato ieri con riferimento all’onorificenza conferita dall’Unione europea un mese fa al Manifesto di Ventotene “Per un’Europa libera e unita”, ripubblichiamo il nostro secondo articolo sul Carcere dell’isola di Santo Stefano – che visitammo nel viaggio a Ventotene sulla barca “Luna” dell’amico Ciro Soria – nel quale sarà insediata la “Scuola di alti pensieri” destinata ai giovani europei da formare in nome degli ideali di David Sassoli cui sarà intitolata dopo la proposta, avanzata dalla Commissaria straordinaria del Governo Silvia Costa d’intesa con il Ministro  della Cultura Dario Franceschini accolta con favore dal nostro Presidente del Consiglio.  Mario Draghi  – quasi anticipando letteralmente l’onorificenza venuta quattro mesi dopo – ha sottolineato “la profondità del suo impegno a favore di una Europa più unita e più libera, come nelle intenzioni dei padri fondatori”, considerandolo “un modo per tracciare una linea ideale con il passato, tra due momenti di rinascita del progetto europeo, di cui David Sassoli è stato appassionato protagonista”.

David Sassoli

La Commissaria Costa nella proposta approvata ha citato, di Sassoli,  la “sintesi di ‘idealità e mediazione’ alla luce dei suoi saldi valori cattolico-democratici e delle sue forti istanze di solidarietà, giustizia sociale, partecipazione civica e dialogo”. Per questo intitolando a lui la “Scuola di Alti pensieri”, “la testimonianza e l’esempio di Sassoli resteranno anche nel cuore di tanti giovani che ci stanno inviando toccanti messaggi e che in questi anni lo hanno sentito vicino e attento alle loro richieste”. E si tratta dei giovani europei ai quali è rivolta la scuola “che accolga tutte le migliori esperienze formative sui diritti umani, la dignità della persona, la giustizia, la solidarietà, il ruolo della cultura e della sostenibilità per la costruzione della libertà, della democrazia e della solidarietà in Europa e nel Mediterraneo.” Ed ecco il lsecondo e conclusivo articolo sul Carcere dell’isola di Santo Stefano ripubblicato oggi 3 giugno 2022, mentre domani sarà ripubblicato l’articolo su Ventotene, in omaggio alla località  del celebre “Manifesto” che ha avuto il prestigioso riconoscimento della Commissione europea:      

La storia patria si intreccia con la vicenda carceraria

La nostra immersione nell’archeologia carceraria del penitenziario di Santo Stefano prosegue con un’immersione nella storia evocata dalle vicende dei reclusi nel carcere borbonico che dal Regno di Napoli e poi dal Regno delle due Sicilie viene adottato anche dal Regno d’Italia e dal regime fascista fino alla Repubblica italiana che negli anni ’60 ne decretò la chiusura.

                                             Veduta frontale del carcere risalendo il sentiero dal lato anteriore.

Fu da subito reclusorio per ergastolani, autori dei delitti più efferati, ma anche politici condannati all’ergastolo, nei tempi passati, soprattutto per commutazione della pena di morte. Non potevano sperare nella grazia che interveniva per i detenuti comuni dopo trent’anni di buona condotta, avendone già usufruito con la commutazione. Ma la loro speranza era nei rivolgimenti storici..

Già nel 1799, dopo i moti di Napoli, i primi detenuti politici si aggiunsero alla “parte marcia della società” che vi era rinchiusa, tra loro Giuseppe Settembrini, padre di Luigi Settembrini. Nel 1806, per resistere ai francesi, il re di Napoli accetta l’aiuto di Fra Diavolo che viene nominato generale e arruola i detenuti con la promessa della grazia, il suo tentativo fallisce e viene giustiziato; in quegli anni la stessa cosa avviene per Matteo Manodoro di Pietracamela, anche lui ritenuto bandito nella visione dei giacobini vicini ai francesi, patriota in quella di parte borbonica.

E siamo al 1848, dopo la sconfitta di Murat tornano i Borboni e si costituisce il Regno delle due Sicilie, nel 1817 viene riaperto il carcere di Santo Stefano. Nuovi moti a Napoli, le speranze dei liberali che si affidavano alla Costituzione vengono calpestate, Luigi Settembrini e Silvio Spaventa sottoposti a un processo-farsa, il primo arrestato il 23 giugno 1849 e accusato, come documenta in modo minuzioso lui stesso, di essere capo settario, autore di un proclama e detentore di stampe vietate. L’assurda accusa può essere facilmente smontata ma nel processo del 16 settembre viene sostenuta dalla testimonianza altrettanto assurda – strappata con “stolte e crudeli sevizie” ai compagni di detenzione – che Settembrini aveva ordito in carcere un complotto con una setta rivoluzionaria per uccidere un ministro, il prefetto e il presidente della Corte.

Risultato: condanna a morte, e dopo i drammatici “tre giorni in cappella” – la cella della morte dell’epoca in attesa dell’esecuzione da un momento all’altro – ecco la commutazione delle pena per grazia reale nel carcere a vita al penitenziario di Santo Stefano per intervento del cardinale Cosenza, arcivescovo di Capua, su preghiera della moglie Giulia rivoltasi al vescovo di Caserta.

Un bel salto nella storia ci porta alla reclusione degli anarchici che dopo diversi attentati andati a vuoto riescono ad assassinare Umberto I con i colpi di pistola di Bresci. mandato all’ergastolo di Santo Stefano e dopo quattro mesi trovato impiccato in cella nonostante l’avancorpo militare incaricato di vigilarlo a vista: più che un suicidio forse fu un’esecuzione, ne abbiamo viste simulate in forme analoghe anche nei tempi moderni. Il suo corpo fu seppellito nel piccolo cimitero.

Altro capitolo la detenzione politica degli antifascisti nel ventennio dopo che fu dato alle commissioni provinciali il potere di punire i reati di opinione con diversi gradi di sanzioni, dalla semilibertà al confino nelle isole, dalla sorveglianza speciale al carcere a Porto Longone e Fossombrone, Volterra e Santo Stefano: in questi casi nessun lavoro esterno, cella e ora d’aria con in più misure speciali di isolamento per impedire i contatti: dopo tre anni di segregazione se c’era il ravvedimento si passava alla semilibertà, altrimenti reclusione per altri tre anni

Così a Santo Stefano, oltre ai patrioti del Risorgimento sono stati segregati anche quelli definiti sovversivi nel regime fascista, tra loro Amendola e Pertini il quale ultimo vi soggiornò poco, fu spostato ad altre carceri, tra condanne ed evasioni in Italia, Francia e Svizzera: c’è una lapide all’ingresso del penitenziario che ne ricorda la detenzione nell’isola nel 1929 per tre mesi , cella 36 terzo livello. Anche Terracini, presidente della Costituente, e Scoccimarro, vi furono detenuti.

Alla fine della guerra l’ingresso degli alleati che liberano i detenuti politici, non quelli comuni che fanno una rivolta con a capo Mariani nel novembre 1943, prendono ostaggi 64 agenti di custodia.

Poi nella storia del carcere non più politici ma solo detenuti comuni e il grande esperimento umanitario di Perucatti imperniato su fiducia e rispetto, lavoro per tutti, incontri con le famiglie prolungati per intere ventiquattr’ore, tutela dei carcerati anche rispetto agli stessi agenti di custodia oltre alle strutture ricreative di cui si è detto nella I parte, per la socializzazione e il recupero..

La vita dei detenuti, la memoria diviene storia

Sulle condizioni dei detenuti per il primo periodo della sua storia, quello del Regno di Napoli e poi delle due Sicilie, c’è il diario particolareggiato di Luigi Settembrini a descriverla dall’interno come partecipe di quella sofferenza estrema e insieme osservatore, tanto si sentiva estraneo a una punizione così atroce che molti condannati pluriomicidi sentivano come dovuta e anche meritata.

                                                            Una visione dell’anfiteatro carcerario

Il suo racconto è impressionante, riguarda tanti momenti e situazioni. Tutto è sentito come oppressione, anche “il cielo che è terminato dalle alte mura dell’ergastolo, e che come un immenso coverchio di bronzo ricopre il tristo edifizio e ti pesa sull’anima. Se passa volando qualche uccello, oh come lo riguardi con invidia, e lo segui col pensiero e con la speranza stanca, e con esso voli alla tua patria, alla tua famiglia, ai tuoi cari, ai tuoi giorni di gioia e di amore che sempre ti tornano in mente per sempre tormentarti”. E’ solo un piccolo scampolo di miriadi di espressioni altrettanto toccanti, nelle quali non c’è nulla di stantio, è il reportage spontaneo e genuino dall’interno di una realtà nella quale le reazioni non sono scontate, è un terribile esperienza che sorprende anche lui.

A cominciare dalla minuziosa descrizione dei diversi tipi di condanna, se ai ferri o all’ergastolo, indica anche il numero di maglie della catena e la palla di ferro o il puntale legato agli anelli o alle sbarre. La promiscuità è insopportabile, si è a stretto contatto con gente di ogni risma: oltre al compagno di cella di cui abbiamo detto all’inizio, in fondo incolpevole del delitto commesso dal padrone e dai suoi sgherri, c’erano dei veri assassini. Si formavano dei clan spesso di matrice regionale e rischiava anche l’inoffensivo appartenente alla regione di cui ci si voleva vendicare. Misure di afflizione corporale erano previste con fustigazione sotto gli occhi dei reclusi, ma non servivano da monito per tutti, al contrario facevano gioire la fazione avversa al fustigato.

“Ma neppure puoi star molto su questa loggia ingombra di masserizie e di uomini che ti urtano, gridano, vantano, bestemmiano, accendono fuoco, fendono legne: e poi nel cortile non vedi che condannati trascinare penosamente le sonanti catene, spesso vedi lo scanno sul quale si danno le battiture, spesso la barella con entro cadaveri di uccisi. il vento ti molesta, il sole ti brucia, la pioggia ti contrista, tutto che vedi o che odi ti addolora, e devi ritirarti nella cella”.

Dalla padella alla brace, potremmo dire, perché nello spazio di “sedici palmi quadrati, e ce ne ha di più strette”, vi sono nove, dieci e più reclusi: “Sono nere e affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo”. E qui la minuta descrizione dei “letti squallidi, coperti di cenci” con un piccolo spazio residuo e le pareti nere dove sono affastellate le “povere e sudice masserizie; una seggiola è arnese raro, un tavolino rarissimo, è vietato ogni arnese di ferro” e così via, tutto è indicato con precisione in un’atmosfera da tregenda: “pochi fanno comunanza, perché il delitto li rende cupi e solitari: spesso ciascuno accende il suo fuoco, onde esce un fumo densissimo che ingombra tutta la cella e le vicine, ti spreme le lagrime, ti fa uscire disperatamente su la loggia, dove trovi altre fornacette accese che fumano, ed invano cerchi un luogo non contristato dal fumo, che esce dalle porte, dalle finestre, da ogni parte”. E non è tutto: “Qui si vive a discrezione de’ venti e del mare, divisi dall’universo, e soffrendo tutti i dolori che l’universo racchiude”.

Questo per le condizioni materiali, e quelle psicologiche? Anche peggiori, tra urla e grida “che fieramente echeggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse”, gemiti e strida con i cadaveri nelle barelle. Fino all’agghiacciante conclusione: “Quando stanco d’ozio, d’inerzia e di noia cerchi un po’ di riposo e di solitudine sul duro e strettissimo letto, mentre dimenticando per poco gli orrori del luogo corri dolcemente col pensiero alla tua donna, ai tuoi figlioletti, al padre, alla madre, ai fratelli, alle persone care all’anima tua, senti il fetido respiro dell’assassino che ti dorme accanto, e sognando rutta e bestemmia”. L’unica salvezza é nella fede: “O mio Dio,quante volte ti ho invocato in quelle ore di angosce inesplicabili; quante notti con gli occhi aperti nel buio io ho vegliato sino a giorno fra pensieri tanto crudeli, che io stesso ora mi spavento a ricordarli”.

Presto interviene la comprensione per i delinquenti e gli assassini con cui deve forzatamente convivere, perché “non sanno quello che fanno” si potrebbe dire, non sono responsabili di azioni frutto dell’ignoranza e della degradazione che sono colpe gravi di chi li ha tenuti in quelle condizioni: “Quando entrai nell’ergastolo gli uomini che qui sono mi facevano orrore, dopo alquanti giorni mi fecero pietà. Sono scellerati, sì, ma perché sono scellerati? Ma essi solo sono scellerati?”

E rivolgendosi a coloro che fanno le leggi e giudicano gli uomini chiede: “Prima che costoro fossero caduti nel delitto, che avete fatto voi per essi? avete voi educata la loro fanciullezza, e consigliata la loro gioventù? avete sollevato la loro miseria? li avete educati col lavoro? avete voi insegnato ad essi i doveri del loro stato? avete loro spiegato le leggi?”. Fino ad esclamare: “Non dite che alcuni uomini non possono correggersi: ma voi li avete prima educati, avete fatto nulla per impedire i delitti? E dopo i delitti avete tentato alcun mezzo per correggerli? Pane e lavoro sono gli elementi di ogni educazione, i mezzi per domare ogni durezza, per mansuefare ogni fierezza”.

Una lezione di alta civiltà raccolta da Perucatti che vi imperniò l’intero suo sistema carcerario, valida tuttora che l’abbiamo vista riemergere come un reperto prezioso dall’archeologia carceraria.

L’altra grande sofferenza morale è quella della lontananza dai propri cari, per di più in una segregazione senza speranza. Anche qui si nota un’evoluzione quanto mai eloquente, con il tempo lo spirito di sopravvivenza prevale sulla disperazione, pur in un carcere così oppressivo trova il modo di trasmettere e ricevere messaggi segreti dalla moglie, lettere con inchiostro simpatico ed altri accorgimenti, fino alla progettazione di un’evasione mancata a cura del fuoruscito Panizzi.

Torneremo al termine sulla vicenda romanzesca che a un certo punto gli apre le porte della libertà. Ora vorremmo sottolineare che la sofferenza morale la supera nel trasmettere sentimenti in cui l’affetto è un balsamo per le ferite morali nello stesso tempo in cui è una ferita esso stesso.

                                                                       Una struttura accessoria

L’assenza dei propri cari la sente come un dolore lancinante, si rivolge a loro con toni toccanti nel diario e nelle lettere, percorrono l’intera sua vicenda carceraria, sono innumerevoli le espressioni d’amore per moglie e figli negli otto anni di detenzione. Ne riportiamo soltanto una del 17 aprile 1854, dopo i primi quattro lunghi anni da recluso a Santo Stefano: “Ho baciato il tuo ritratto, o mia diletta, ma l’ho baciato segretamente. Gli uomini tra cui sono, se m’avessero veduto m’avrebbero deriso, perché non conoscono la virtù e l’amore. Che nuovo tormento è questo di dover tenere celato come delitto il più sacro, il più casto degli affetti? Ho baciato il tuo ritratto, ho riveduto gli occhi tuoi, ma non sono dessi, non hanno quella luce e quell’amore. Gli occhi tuoi li ho qui nell’anima mia, e qui scintillano come due stelle, e mi spandono una luce soave per tutta l’anima”.

Con il Regno d’Italia le condizioni migliorano, si dimezza la dimensione delle celle e in ognuna un solo recluso, i detenuti sono ammessi a lavorare nel carcere. Dalla promiscuità che generava incidenti anche mortali all’isolamento il miglioramento c’è, pur se si diffonde la depressione.

                                                                    Il piccolo cimitero del carcere

Questa esperienza si protrasse per alcuni anni, tra contrasti e polemiche di ogni tipo dall’esterno, senza che vi fosse neppure il pieno sostegno del personale di custodia che non aveva più la licenza di comportarsi con la durezza di sempre verso i detenuti. Per cui la prima evasione dell’agosto 1956 gli fu addebitata anche se riuscì a superare la crisi, avvenne dal settore lavorazioni, per quindici giorni ricerche infruttuose a Ventotene dove il fuggiasco era approdato a nuoto nascondendosi tra gli scogli, poi l’arresto mentre cercava di lasciare l’sola su un’imbarcazione. Ma Perucatti non superò la seconda evasione dopo due anni, quando i due detenuti evasi non furono ritrovati, anche se si pensa che forse morirono annegati nel tentativo. Il nuovo direttore reintrodusse le severe misure di massima sicurezza ma dinanzi a un carcere ingestibile dovette incentivare la buona condotta: “Il carcere è cambiato, non si torna più indietro”, commenta la guida Salvatore.

La chiusura comincerà nel 1962 e sarà lunga fino all’accelerazione che avvenne alla morte di tre detenuti impegnati a scaricare la merce nell’approdo più periglioso dell’isola; nel 1965 era già semivuota, a parte pochi detenuti per le operazioni di chiusura completate solo nel 1975.

Il carcere fu lasciato incustodito, con l’arrembaggio dei soliti vandali per sottrarre quanto ritenuto utile, le porte furono divelte. Ha bruciato le tappe nel subire la sorte comune ai reperti archeologici, risultati di spoliazioni che nelle antichità hanno riguardato gli stessi materiali da costruzione.

Chiuso e di fatto abbandonato, salvo le visite guidate che ne mostrano al pubblico la deplorevole fatiscenza e rivelano anche per questo verso la scarsa cura che si ha per tutto quanto è storia da rispettare, almeno attraverso un’efficace manutenzione e custodia, e memoria da valorizzare.

                                                                 Il lato posteriore del carcere

Da Santo Stefano a Ventotene, tra la storia e la natura

La nostra guida Salvatore ha le sue idee in proposito, e le abbiamo riportate all’inizio. Ci auguriamo che qualche idea l’abbia anche chi può porre rimedio a una situazione paradossale: si mostra doverosamente a tutti un pezzo di storia patria e nel fare questo si scopre la scarsità di risorse destinate ai beni culturali e l’assenza di iniziative che possano convogliarvi risorse esterne.

Scendiamo il ripido sentiero verso un approdo diverso da quello dal quale siamo sbarcati con il gommone della barca “Luna” del nostro amico Ciro: questo attracco è più scosceso e periglioso. Ci troviamo ora sull’imbarcazione a motore che si lascia alle spalle Santo Stefano e punta su Ventotene. Al timone Francesco detto Spadino in una fiammante maglietta rossa, a lui ci affida Salvatore che dopo due ore di spiegazioni mantiene tutta la cortesia mostrata nella mattinata.

Ci sembra di rivedere la scena con cui si apre il film di D’Alatri “Sul mare” girato proprio a Ventotene, del quale abbiamo parlato nel servizio del 24 luglio scorso sulla rivista consorella www.amalarte.it. Il motoscafo divora le onde, il porto romano si avvicina. Siamo tornati nell’isola principale, in passato terra di confino per centinaia di perseguitati politici. Il continente è ancora lontano ma non sentiamo il bisogno di tornarci, tanto è bella la natura da queste parti.

E poi si respira la storia ed è un tonico potente, anche nel caldo mese di agosto quando si cerca soprattutto riposo e disimpegno. Ma allorché alla bellezza della natura si aggiunge la suggestione della memoria si può dire di aver fatto il pieno di emozioni. E allora non ci resta che andare nella piazza principale di Ventotene alla libreria “Ultima  spiaggia” per prendere il libro di Luigi Settembrini,“L’ergastolo di Santo Stefano”: è la lettura dei giorni che hanno lasciato il segno.

                                        Il sentiero percorso in discesa nel lasciare il carcere dal lato posteriore

Spes contra spem

Questa lettura ci permette di non chiudere la nostra descrizione dell’archeologia carceraria nel segno della reclusione senza speranza, bensì della riacquisita libertà. Che non è stata quella effimera dei detenuti fuggiti alla “Papillon” e poi ripresi oppure scomparsi, ma una libertà vera che venne dal non essersi lasciato piegare dall’inedia cui condannavano i reclusi avendo mantenuto la mente vigile e lo spirito attivo non solo nella traduzione dal greco dei “Dialoghi” di Luciano, pur disponendo soltanto di un minuscolo dizionarietto, ma anche nel descrivere impietosamente le condizioni inumane del carcere e nel tentare, riuscendovi, di trasmettere all’esterno il suo diario insieme alle lettere colme di sentimenti per la propria famiglia, in particolare la moglie e il figlio.

Nelle lettere c’è l’organizzazione del tentativo di fuga cui abbiamo accennato con l’amico Panizzi fuoruscito a Londra dove si era occupato del figlio Raffaele, avviato tra incertezze e contrasti alla carriera di ufficiale di marina; un tentativo al quale il soggiorno nell’infermeria di Santo Stefano forniva punti di riferimento perché poteva vedere il mare e quindi l’eventuale “vapore” liberatore.

Ma soprattutto il suo diario generò un movimento di opinione all’estero contro le condizioni inumane di vita dei reclusi politici, per cui le pressioni di governi quale quello inglese indussero il sovrano a commutare la pena nell’esilio in Argentina per le nozze del figlio Francesco, l’erede.

Si protrasse per due anni questo tira e molla in un’alternanza di speranze e delusioni e anche tra i problemi sollevati dalla compatibilità dell’esilio con le convinzioni politiche: lui non ha dubbi, sarebbe poi ritornato. Finché si imbarca con gli altri esiliati sul vapore che fa scalo a Cadice dove resta a lungo in attesa della nave americana dove avrebbe fatto la seconda parte del viaggio, si parla di almeno 60 giorni di navigazione che era arduo superare nelle condizioni in cui si svolgevano.

Qui la realtà romanzesca prende corpo in una inattesa visita sulla nave di Raffaele nell’elegante divisa da ufficiale di marina: dice di aver saputo per una provvidenziale coincidenza che incrociava nello stesso porto il vapore dei deportati in Argentina ed era venuto a salutare il padre. Sarebbe già molto dopo la reclusione a Santo Stefano, ma è solo l’inizio. Perché non è il caso che lo ha portato a Cadice, e non si trova più sul veliero dal quale era sceso per far visita al genitore allorché salpa sotto lo sguardo triste di Luigi Settembrini che lo vede partire senza sapere quando rivedrà il figlio.

Se lo ritrova tra le braccia appena la nave che lo porterà in Argentina lascia Cadice, e non più come visitatore, ma come finto cameriere che si è fatto assumere con l’intento di dirottarla. E lo fa con determinazione e abilità, usa argomenti molto convincenti non escluso il ricorso alla forza se necessario. Il comandante deve cedere, la nave invece che in Argentina approda in Inghilterra, la terra della libertà. Lui vi si ferma un anno prima di rientrare in patria, la sua odissea è terminata con un dirottamento che anticipa quelli vissuti negli anni recenti, ma allora con alte finalità morali.

Dove nel crocevia di motivazioni generali e personali, politiche e sentimentali, in cui si incrociano i valori etici di libertà con i più puri affetti familiari, la storia di Luigi Settembrini riesce a produrre un capolavoro letterario di umanità e insieme di giustizia in un “happy end” esaltante.

E abbiamo voluto che fosse pure l’“happy end” della nostra visita. Anche da un penitenziario così arcigno e protetto il recluso ingiustamente può trovare la forza e i mezzi per uscire. Il vecchio film francese di Robert Bresson, “Un condannato a morte è fuggito”, lo esprimeva attraverso la ricerca spasmodica senza speranza ma poi coronata dal successo con l’apertura della breccia nella cella impenetrabile; in Settembrini la chiave è stata la forza morale nella resistenza e nella denuncia, con l’aiuto della cultura alla quale non ha rinunciato mai, dai “Dialoghi” di Luciano al diario della vita carceraria nel quale sfogava indignazione e sofferenza, e si rifugiava nei ricordi familiari.

Un insegnamento per tutti. E una conferma, che ci viene dall’immersione nell’archeologia carceraria, della validità del motto che invita a non disperare mai: “Spes contra spem”.

Ph. Romano Maria Levante, tutte.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 8 ottobre 2010 – Email levante@archart.it

Santo Stefano, 1. Archeologia carceraria del penitenziario-teatro

di Romano Maria Levante

A David Sassoli la “Scuola di alti pensieri” nel carcere di Santo Stefano

Poco più di un mese fa, il 28 aprile 2022,  l’annuncio della Commissaria Europea per l’Innovazione, la ricerca e la cultura, Mariya Gabriel, del conferimento dell’onorificenza al Manifesto di Ventotene “Per un’Europa libera e unita”, commentato così dal nostro Ministro della Cultura Dario Fraceschini: “Il riconoscimento del Manifesto di Ventotene, insignito oggi del marchio di patrimonio europeo, assurge a simbolo dell’Unione il contributo ideale di tre grandi italiani: Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che lo redassero in confino nel 1941, e Eugenio Colorni, che ne curò la pubblicazione nel 1944 poco prima di essere trucidato a Roma dalla milizia fascista. A conferma di come nei momenti più bui la forza delle idee sappia portare la luce di cui ha bisogno l’umanità”. Anche quello attuale è un momento buio nel quale i valori dell’ “Europa libera  e unita”  sembrano messi a rischio dall’insensata aggressione della Russia all’Ucraina che ha riportato la guerra in Europa dopo quasi 80 anni di pace e il superamento della stessa “guerra fredda” per una coesistenza che sembrava definitivamente pacifica, anzi amichevole. Sono valori perseguiti nei tempi più recenti da David Sassoli e messi in atto come Presidente del Parlamento europeo prima dell’improvvisa prematura scomparsa, per questo ci sentiamo di aggiungere il suo nome ai tre del “Manifesto di Ventotene”. E  lo ricordiamo oggi 2 giugno, solenne Festa della Repubblica,  considerando che David Sassoli sarebbe stato tra i candidati alla Presidenza della Repubblica come ha affermato Enrico Letta,  segretario del suo partito, il PD, nel celebrarne la nobile figura.     

David Sassoli forever…

Il profilo ufficiale di David Sassoli ne ricorda i  valori  – “lealtà, coerenza, educazione, rispetto”  – gli insegnamenti – “mai fingere né alimentare polemiche, spirali, pregiudizi, pettegolezzi, meschinità’ – l’atteggiamento – “stile, riservatezza, sobrietà” – la credenza “nella politica nella sua accezione più nobile e nell’Europa baluardo dei diritti e delle opportunità, nell’impegno a difesa delle persone deboli e indifese, nella lotta contro ogni  forma di ingiustizia e prevaricazione”, e questo “sempre con il sorriso” –  il suo sorriso in apertura della nobile rievocazione conclusa con le parole: “Bello fossero tantissimi sorrisi”.

Ebbene, saranno tantissimi i sorrisi dei giovani europei che  lo ricorderanno in un luogo simbolo dell’ideale europeo con i  valori in lui impersonati. E’ stata annunciata  il 17 gennaio l’intestazione a David Sassoli della “Scuola di Alti pensieri” insediata nello storico Carcere di Santo Stefano appena realizzato il recupero con il “Progetto Ventotene” nome della località – dinanzi alla quale c’è l’isola di Santo Stefano con il carcere –  dove Altiero Spinelli con Ernesto Rossi redasse il Manifesto per l’unità europea.

Abbiamo visitato il carcere di Santo Stefano più di dieci anni fa, in un viaggio a Ventotene sulla barca “Luna” dell’amico Ciro Soria. “Archeologia carceraria”, un sito in abbandono ma altamente simbolico. Pertanto, in omaggio alla prestigiosa intestazione della “Scuola di alti pensieri” che vi sarà insediata, ripubblichiamo oggi e domani, 2 e 3 giugno, il nostro reportage sul carcere uscito in due articoli il 2 e il 10 ottobre 2010 su www.archeorivista.it. per rievocare e far rivivere l’emozione di allora in un complesso nel quale è racchiusa tanta memoria storica e umana; sarà seguito il 4 giugno da un terzo articolo sulla visita a Ventotene, a Villa Giulia. . Ecco il primo articolo, che ripubblichiamo tal quale come faremo domani e dopodomani con gli altri due articoli a seguire.

La visita al penitenziario, l'”Alcatraz” italiano

Con la ripresa dopo la pausa estiva dei “giovedì di Santa Marta” – gli incontri letterari settimanali al Collegio romano promossi dal ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi ai quali ci siamo ispirati per i nostri 20 incontri archeologici settimanali dal febbraio scorso – riprendono anche i “venerdì di Archeorivista”, che raccontano visite a siti e musei archeologici o temi assimilabili.

Ieri giovedì 30 settembre nella Sala Convegni dell’ex chiesa di Santa Marta in piazza del Collegio Romano è stata presentata la rivista trimestrale “Accademie e biblioteche d’Italia” con un affollato incontro coordinato dal Direttore generale per le Biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Maurizio Fallace. E’ stata una vera celebrazione del libro, con le appassionate letture di Manzoni da parte di Pamela Villoresi e di Calvino da parte di Mattia Ruspoli Sbragia e la poetica esaltazione della bellezza del libro e della lettura del Consigliere del Ministro Giuseppe Benelli. Ma ecco la sorpresa, il “giovedì di Santa Marta” si è concluso con una visita alla cripta dell’antica chiesa, guidata dall’archeologa Angela Maria Ferroni che ne ha inquadrato le origini nella storia di Campo Marzio e ha mostrato, in un percorso che si è snodato tra antichi ambienti a volta, il pavimento romano alla profondità di cinque metri. Abbiamo preso questa coincidenza ipogeica, del tutto inattesa in una presentazione di libri, non solo come un segno beneaugurante ma come un gemellaggio ideale con la nostra iniziativa parallela.

Tornando a noi, riprendiamo i racconti delle visite agli ipogei anche virtuali con l’archeologia carceraria, uno scavo nella storia della nostra umanità se è vero che dalle carceri si misura la civiltà di un popolo. E imperniamo il nostro racconto su un libro, coincidenza fortuita anche questa, che dà al gemellaggio ideale appena evocato un rapporto biunivoco, non ricercato ma determinatosi nella realtà. Detto questo, chiamare teatro il penitenziario di Santo Stefano – che possiamo definire “l’Alcatraz italiano” non è solo metafora: lo vedremo dall’architettura e soprattutto dalla condizione carceraria.

                                                          Visione di una parte dell’anfiteatro carcerario

L’archeologia carceraria è storia da rispettare e memoria da valorizzare

Luigi Settembrini, che vi fu rinchiuso per otto anni, scrive che quando vi entrò tra i suoi cinque compagni di cella c’era “un abruzzese di un villaggio presso Teramo, e chiamasi Giovanni”, condannato per complicità in undici omicidi, compiuti dal “signore suo padrone” e dai suoi sgherri, aveva solo bussato alla porta eseguendo l’ordine ricevuto, un superstite dell’eccidio lo denunciò e lui fece i nomi dei colpevoli: sei di loro e il padrone impiccati, “egli con altri dannato all’ergastolo, dove è giunto da pochi mesi”. Questa “ouverture” ci introduce al “teatro” di Santo Stefano.

Ha la forma e la struttura di un vero teatro, la sua planimetria rimpicciolita è perfettamente sovrapponibile a quella del San Carlo di Napoli. I tre ordini di palchi diventano celle poste a semicerchio nella concezione “panottica” tipica del teatro, che assicura visione totale della scena da ogni punto.

Ma mentre nel teatro la scena è al centro dove convergono gli sguardi dai palchi tutt’intorno, nel carcere è l’opposto, gli sguardi delle sentinelle poste al centro devono potersi diramare verso le celle, tutte sotto continua sorveglianza. Al motivo funzionale di praticità ed efficacia per la vigilanza se ne aggiungeva uno quasi subliminale nella concezione di quell’epoca che per recuperare i detenuti occorreva che le loro menti fossero dominate, e questa struttura lo consentiva; ci volle il direttore Perucatti, del quale parleremo, per sovvertire questi concetti.

Il genio italico ha anticipato il trattato che nel 1791 uscì in Inghilterra sulla concezione “panottica” a visione totale del carcere: la progettazione fu dei due principali tecnici dei Borboni, Francesco Caffi ingegnere con Antonio Winspeare maggiore del genio, che avevano partecipato al progetto urbanistico di Ventotene, per il porto, le rampe di accesso e la strada fino al Forte. Il progetto, iniziato nel 1786, si concluse nel 1790 con la costruzione durata 7 anni; nel 1797 fu inaugurato ufficialmente, ma l’utilizzazione iniziò subito con la manodopera carceraria impegnata nei lavori.

Queste sono le prime notizie che ci dà la nostra guida, Salvatore Schiano di Colella, in una visita di due ore che diventa una carrellata su quasi due secoli di storia patria, il carcere è stato chiuso negli anni sessanta dopo le evasioni degli ultimi anni degne di Papillon utilizzate anche come pretesto per estromettere il direttore che aveva ispirato la sua gestione all’umanità e al dettato costituzionale.

E’ un vero viaggio nel tempo dove la storia si collega alla sociologia, la politica al costume, nelle parole della guida dalle quali traspare partecipazione personale e, perché no, affetto per quel pezzo di storia d’Italia che mostra anche – questo l’esordio di Salvatore – come “da un ordine e una pulizia estrema si può passare a un disordine e un degrado altrettanto estremi”.

Ci sentiamo di fare una denuncia e insieme un appello: come viene rispettata e valorizzata l’archeologia industriale – il “Lingotto” di Torino è solo il più evidente di una miriade di esempi – così non si giustifica il colpevole abbandono dell’archeologia carceraria, una struttura che oltre al doveroso rispetto per la storia in essa racchiusa è meritevole, oltre che suscettibile, di valorizzazione sul piano culturale, come altre strutture dismesse, da Procida all’Asinara che non vanno abbandonate, e non si accampi la solita scusante della carenza di risorse  adeguate.  Con le sponsorizzazioni potrebbero affluire in modo adeguato, basta uscire dall’inerzia e produrre idee costruttive; crediamo che non tarderebbero risposte in grado di tradursi in iniziative concrete o di proporre altre soluzioni.

Per Santo Stefano, alla guida Salvatore le idee non mancano e lo dice senza esitazioni pressappoco così: “Potrebbe divenire un grande museo sull’evoluzione dei diritti umani. In aggiunta potrebbero esservi ospitati laboratori di ricerca, la piccola isola è una riserva naturale dove si possono rivitalizzare le colture. Una foresteria per ricercatori e personale e anche un piccolo albergo dov’era la residenza del direttore sono ulteriori componenti di questa o di altre idee per utilizzare una così grande struttura carica di storia che va salvata dal degrado”.

Ci espone queste idee al termine della visita, mentre con una accorta regia mostra grandi fotografie di quando il penitenziario era in attività, veramente “ordine e pulizia estrema” almeno esteriore, muri bianchi con le arcate in vista e la disposizione degli altri blocchi oltre al ferro di cavallo del carcere simili a quelle residenze coloniali viste in molti film di ambiente esotico.

E non abbiamo ancora parlato dello spettacolo incantevole che si gode dello sperone su cui si vede “grandeggiare l’ergastolo, che per la sua figura quasi circolare sembra da lungi un’immensa forma di cacio posta su l’erba”, scriveva Luigi Settembrini raccontando minuziosamente il suo approdo nel 1851: ”Per iscendere sull’isola si deve saltare su uno scoglio coperto d’alga e sdrucciolevole. Cominciando a salire per una stradetta erta e scabrosa”.

Segue la descrizione di un’isola che non c’è più, non soltanto nel negativo del penitenziario ora chiuso e in rovina, ma neppure nel positivo delle coltivazioni, tornata com’è allo stato di abbandono preesistente al carcere: “Sino a pochi anni addietro l’isola era tutta selvaggia ed aspra; ora è coltivata, tranne una ghirlanda intorno, dove tra gli sterpi e le erbacce pascono le capre pendenti dalle rocce, sotto di cui si rompe il mare e spumeggia. Su la parte più larga e piana del monte sorge l’ergastolo”, scrive sempre Settembrini.

Avevano diversi approdi – dice la guida Salvatore – il Marinella per i velieri e le barche che portavano merci, e il n. 4 per i detenuti e persone con merci alla rinfusa. Poi tre di emergenza, un porticciolo non agibile, la “vasca azzurra” nella roccia vulcanica, l’“approdo del burrone”.

                                                          Uno scorcio ravvicinato dell’anfiteatro

L’arrivo nel penitenziario

Ci guardiamo intorno, cerchiamo di immedesimarci nell’arrivo dei condannati, la scena che si presentava loro è la stessa a parte il colore del muro, oggi annerito: “Il gran muro esterno dipinto di bianco e senza finestre, è sparso ordinatamente di macchiette nere, che sono buchi a guisa di strettissime feritoie, che danno luogo solo al trapasso dell’aria”.

Il condannato non poteva godere dello spettacolo della natura, e noi che abbiamo di fronte la bellezza del mare e la nera sagoma del penitenziario possiamo apprezzare le parole di Settembrini: “Non si può dire che tumulto d’affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrà più rivedere; con che frequenza respira e beve per l’ultima volta quell’aria pura; con che desiderio cerca di suggellarsi nella mente l’immagine degli oggetti che gli sono intorno”.

Quindi la descrizione degli edifici dopo la “terribile porta”: un casolare sulle rovine della Villa Giulia di Santo Stefano, dependance della grande Villa Giulia che a Ventotene divenne quasi un carcere a sua volta, o meglio un luogo di espiazione per le imperatrici cadute in disgrazia in un vero paradiso della natura; un recinto con le croci del “cimitero dei condannati”; la “casetta del tavernaio divenuto coltivatore dell’isola”; e poi, “un edificio quadrangolare sta innanzi l’ergastolo, e ad esso è unito dal lato posteriore”.

Due torrette agli angoli, cinque finestre e la porta di ingresso con la sentinella, dove non c’è scritto “perdete ogni speranza o voi che entrate”, non sono degni neppure di questo, ci si rivolge alla società affermando che “finché la santa Legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo Stato e la proprietà”, e lo si fa in latino: “Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis vincta tenet, stat res, stat tibi tuta domus”. Commenta amaramente Settembrini: “Parole non lette o non capite dai più che entrano, ma che stringono il cuore del condannato politico e lo avvertono che entra in un luogo di dolore eterno, fra gente perduta, alla quale egli viene assimilato. Bisogna avere gran fede in Dio e nella virtù per non disperarsi”.

                                                                   Le singole arcate con le celle

Poi un cortile quadrilatero circondato dalle abitazioni dei sorveglianti, con magazzino, forno e taverna: Settembrini descrive il personale, oltre al comandante, ufficiale di marina e al suo aiutante detto “comite”, “pochi caporali, e bastevol numero di aguzzini; un altro ufficiale comanda un drappello di soldati, i quali guardano l’esterno. Vi sono anche due preti, due medici,un chirurgo e tre loro aiutanti; v’è il provveditore e il tavernaio”. Un microcosmo che si è profondamente modificato nel tempo, ma di cui è illuminante riscoprire la consistenza nella fase storica iniziale.

La descrizione dell’ingresso nel carcere si fa incalzante: gli “agozzini coi loro fieri ceffi” perquisiscono e tolgono la catena ai condannati all’ergastolo, la controllano ai condannati ai ferri, poi la registrazione e le prescrizioni del comandante “dopo averti biecamente squadrato da capo a piè”, se si violano “vi sono le battiture e la segreta”. Si attraversa un secondo androne, un custode apre il cancello sul ponte levatoio che fa superare il muro con la palizzata e il fossato, “varchi il ponte ed eccoti nell’ergastolo. Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi,che sono i tre piani delle celle dei condannati; immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro… che nel mezzo di esso muro in alto sta una loggia coverta, che comunica con l’edificio esterno, e su la quale sta sempre una sentinella che guarda, e domina tutto in giro questo teatro; e più su in questa gran tela di muro sono molte feritoie volte ad ogni punto. Così avrai l’idea di questo vasto edificio”.

Abbiamo voluto descrivere l’impressione provata entrando nel complesso con le parole di Settembrini nelle quali l’ansia e l’angoscia non celano lo stupore. Lo stesso devono aver provato, pur se si sono aggiunte costruzioni e si sono modificati gli accessi, i detenuti delle epoche successive, in particolare i politici dinanzi all’iscrizione all’ingresso e alla spettacolare scenografia dell’anfiteatro carcerario di forma teatrale. In noi non c’è l’ansia e l’angoscia nell’entrare ma certamente lo stupore. Ansia e angoscia verranno dinanzi ai particolari della vita carceraria.

C’erano 99 celle, 33 per ognuno dei tre piani, tutte per gli ergastolani tranne metà delle celle del primo piano per “un centinaio di condannati ai ferri -scrive Settembrini – nell’altra metà del primo piano i più discoli, nel secondo i meno tristi, nel terzo quelli che han dato pruova di essere rassegnati”, il pensiero va alle tre cantiche dantesche. In alto “una loggia scoperta che gira innanzi tutte le celle”, invece dei trentatre archi di ciascuno dei due piani inferiori; nel terzo piano le undici ultime celle sono per l’infermeria “e queste sole invece di buchi esterni hanno finestrelle ferrate, dalle quali si può vedere un po’ di verde e la vicina Ventotene, hanno invetriate e pareti bianchi”.

Un paradiso che Settembrini dopo essere stato all’“inferno” poté sperimentare descrivendo in modo straordinario ciò che vedeva, fino a scrutare il mare in attesa del vapore che “deve il giorno prefisso comparire da Capo Circiello, accostarsi a Ventotene. Se viene da altra parte non possiamo vederlo”, questo nel progetto della fuga non avvenuta, la liberazione avverrà in modo altrettanto romanzesco.

E’ il momento di entrare nell’anfiteatro, all’interno dello spettacolare ferro di cavallo; prima occorre superare l’ingresso dov’era la recinzione con il ponte levatoio che veniva alzato un’ora prima del tramonto dando la sensazione del totale isolamento, “un’isola nell’isola”, la definisce Settembrini che aggiunge: “Quando è abbassato sempre aspetti e sempre speri, alzato non più aspetti né speri”.

Non è soltanto la prima impressione, se l’8 febbraio 1955, dopo quattro anni di reclusione, scriveva: “Oh come mi ha trasfigurato l’ergastolo! Alle pene fisiche mi sono già abituato: alle pene morali non mi abituerò giammai, soccomberò sì ma combatterò sempre, mi difenderò sempre il cuore, che è la mia rocca, la mia inespugnabile fortezza. Oh povera mente, povero cuore mio, quanti nemici assaltano l’uno e l’altra! Mi viene a piangere quando riguardo me stesso, e miro la mia mentale e morale . No, no, non mi vincerete: io combatterò sino all’ultimo , finché mi palpiterà il cuore. Oh tremendo ergastolo! Oh angoscioso ergastolo che mi squarci tutte le fibre della vita. Oh, mi si spezzasse il petto, e la finissi una volta per sempre!”. Disperazione che supera ogni qualvolta si ripresenta in un percorso psicologico e umano esemplare e illuminante.

In ogni cella erano rinchiusi da 6 a10 ergastolani, negli 11 metri quadrati e anche meno di superficie dovevano restarci per l’intera giornata, a parte l’ora d’aria nella quale potevano vedere soltanto il cielo e non l’esterno. Quindi le 99 celle contenevano 900-1000 detenuti che potevano cucinare all’interno della cella con le fornacette, la conseguenza era un denso fumo nero che la particolare struttura riversava tutto all’interno rendendo l’aria irrespirabile, ci torneremo.

La finestra con le sbarre si trovava sopra la porta e non c’era, quindi, circolazione d’aria. Soltanto una parte delle celle all’ultimo piano aveva l’apertura sull’altra parete, ma era in alto e a bocca di lupo per cui non si poteva vedere l’esterno; quelle dell’infermeria, con la vista sull’esterno verso Ventotene erano l’eccezione, e abbiamo detto che Settembrini vi soggiornò per un breve periodo.

L’evoluzione nel tempo del carcere per ergastolani

Regno di Napoli, poi delle due Sicilie, e Regno d’Italia, regime fascista e Repubblica italiana, la storia fa passi da gigante e il penitenziario di Santo Stefano non rimane fermo. Non solo nella struttura, con molte aggiunte e modifiche, ma soprattutto nel trattamento dei detenuti. E di questo vogliamo parlare mantenendo sullo sfondo i mutamenti epocali che si sono verificati nel tempo.

                                                            Padiglioni per la direzione e il personalee

L’interesse per l’isoletta, come per Ventotene, risale ai tentativi di colonizzare le isole pontine a cominciare da Ponza dove nel 1738 Carlo III insedia coloni per sottrarla allo Stato Pontificio; per Ventotene si tentò l’“esperimento Russeaux”, nel 1768 vi furono insediati 200 uomini e donne di malaffare secondo la teoria del “buon selvaggio”, ma fu dichiarato fallito dal vescovo di Gaeta nel 1771 perché “vivevano in nequizia” una “vita libertina”, sono rispediti a continuarla nei luoghi di origine. “Tre anni sono troppo pochi per un simile esperimento, e poi non è il vescovo il più adatto a giudicare”, così il commento di buon senso di Salvatore. Il sovrano non demorde, nel 1772 un Editto reale trasferisce a Ventotene contadini e pescatori di Napoli.

Ma torniamo a Santo Stefano, la decisione del 1786 di progettare un carcere per portarvi la “parte marcia della società” deriva anche dalla sua conformazione vulcanica con le coste scoscese, facile da controllare. La struttura “panottica” faceva il resto, con una torretta al centro dove c’è anche una cappellina. Nell’avancorpo gli ambienti per la guarnigione militare, la costruzione originale senza aggiunte è in rosa, vivevano in locali così ristretti che la condizione dei custodi non era molto diversa da quella dei detenuti. Già con il Regno delle due Sicilie si provvide ad ampliare alcune strutture per renderle meno invivibili.

Fu con il Regno d’Italia che si concessero maggiori spazi a tutti e le condizioni di vita divennero meno severe, gli agenti di custodia potevano anche recarsi a Ventotene, dove peraltro non c’erano particolari diversivi. Furono fatti numerosi lavori edili, che vengono descritti uno ad uno dalla guida Salvatore, ma si tratta di aggiunte e modifiche a

una struttura che resta la stessa. In particolare garitte per le sentinelle, prima c’era l’anomalia che i sorveglianti dovevano stare all’addiaccio mentre i detenuti erano al coperto in celle prima comuni poi dimezzate e singole.

Con la Repubblica italiana negli anni ’50 si compie un vero balzo in avanti, arriva un direttore così illuminato da fornire il carcere di servizi ricreativi che non c’erano neppure a Ventotene: una sala cinema, poi anche una sala Tv, un campo di calcio, fino alla pista per go kart. L’approvvigionamento di acqua con navi cisterna era così regolare e abbondante che paradossalmente da Ventotene ci si rivolgeva spesso a Santo Stefano.

                                                       Il campo di calcio realizzato dal direttore Perucatti

Una figura di direttore illuminato rischiara per un po’ l’immagine cupa del carcere, si chiamava Eugenio Perucatti, e le sue non erano iniziative estemporanee. Ne avremo la prova nella libreria “Ultima spiaggia” della piazza di Ventotene, che espone in una valigia di fibra, con libri rari d’epoca non in vendita, un vero trattato di 560 pagine edito dallo stesso Perucatti nel 1956 dal titolo di per sé eloquente “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”, che descrive analiticamente il suo “metodo”.

La valigia è alla sommità di una preziosa isola libraria con le memorie dei condannati al confino nell’isola, primo tra essi Altiero Spinelli e il suo “Manifesto di Ventotene” con Ernesto Rossi e altri; e anche con scritti sul carcere di Santo Stefano, in particolare quello dell’anarchico Alberto Marini e del patriota Luigi Settembrini, entrambi pubblicati meritoriamente nel 2009 e 2010 dalla libreria a cura dell’Editrice omonima “Ultima spiaggia”. C’è pure un voluminoso tomo su Gaetano Bresci, autore dell’attentato riuscito alla vita di Umberto I .

Abbiamo detto dei servizi ricreativi introdotti da Perucatti, e come abbiamo citato all’inizio il cartello ricordato da Luigi Settembrini non possiamo non citare quelli introdotti dal direttore umanitario. In progressione si incontrano le scritte “Questo è un luogo di Dolore”, poi “Questo è un luogo di Espiazione”, infine “Questo soprattutto è un luogo di Redenzione”. Finché si giunge a “Piazza della Redenzione”, c’erano anche immagini del Redentore e di san Giuseppe. “Ogni luogo e ogni tempo sono adatti ad adoperarsi nel bene” si legge, il carcere con Perucatti ha cambiato davvero pelle in omaggio al dettato costituzionale dell’articolo 27 che ne fa un mezzo per la rieducazione del condannato possibile pure in una struttura creata con l’impostazione opposta.

Salvatore si diffonde sulla questione della coltivazione dell’isola, dal 1832 per conto della Real Marina fino al 1931 allorché fu data in enfiteusi a due famiglie di contadini con la relativa casa colonica: si produceva per l’autoconsumo anche con il lavoro dei detenuti, la manodopera carceraria a basso costo rendeva economica la produzione; ora non é più così, già prima della definitiva chiusura del carcere i quasi 30 ettari dell’isola sono tornati incolti, destino del resto comune a tanta parte delle nostre campagne. Si parla di una richiesta di 22 milioni di euro, rimasta senza seguito, l’handicap è la mancanza di sorgenti d’acqua e anche un eventuale dissalatore richiederebbe di rifare il sistema idrico a costi proibitivi; quando l’isola era in attività sopperiva con una-due navi cisterna al giorno e con due grandi cisterne che raccoglievano l’acqua piovana.

La visita prosegue nelle strutture esterne all’anfiteatro, vediamo dov’era lo spaccio e dove le visite dei familiari, la chiesetta e la cupoletta. Si stringe il cuore nel vedere l’orto botanico divenuto un intrico di vegetazione selvaggia e il campo di calcio irriconoscibile per le erbacce che lo hanno invaso, si distingue per gli alti muri che lo circondano, immaginiamo avesse fatto la gioia dei detenuti. Poi il cimitero che guarda verso Ventotene, ci sono 47 tombe con le salme non richieste dalle famiglie, certo nel passato meno vicino non avveniva mai, spesso ai carcerati non restava nessuno e comunque la traslazione era difficile e costosa, anche Bresci sembra vi sia sepolto.

Ma non è questo il vero contenuto della visita. Come in ogni visita archeologica – e lo è anche l’approdo a Santo Stefano – ciò che conta è soprattutto quello che non si vede e si deve ricostruire, evocato dai resti in evidenza. Ebbene, c’è tanto da ricostruire ed evocare, in termini di storia patria e di umanità senza tempo e senza confini. Proseguiremo nel prossimo “venerdì di Archeorivista”.

Ph. Romano Maria Levante, tutte.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 2 ottobre 2010 – Email levante@archart.it

Ritratti di Poesia, 15^, 2. Il pomeriggio, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante 

Prosegue, e si conclude, la narrazione della maratona poetica “Ritratti di poesia”, svoltasi venerdì 8 aprile a Roma, all’Auditorium della Conciliazione, con il resoconto delle sezioni pomeridiane sulla poesia italiana con “Di penna in penna”, internazionale con “Poesia sconfinata”, degli Editori di libri di poesie con “Idee di carta”, di altri interventi poetici e al termine un “recital” di Lina Sastri, che unendo  confidenze e  poesie alle canzoni ha creato un’atmosfera suggestiva. La manifestazione, giunta alla 15^ edizione, è stata ideata, fortemente voluta dal 2006 e promossa dal presidente onorario della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele, poeta egli stesso, realizzata  e curata come sempre  da Vincenzo Mascolo, organizzata dalla Fondazione Roma in collaborazione con Inventa Eventi.

Vincenzo Mascolo, nella conduzione della maratona poetica

Alla ripresa pomeridiana, nella 3^ parte di Idee di carta,  viene presentata  AV, con tre direttori che l’hanno creata nel segno dell’amicizia, Massimo Morasso, Roberto Pietrosanti, Andrea Valcalda. Ha una “doppia anima”-  dicono a Mascolo che li intervista –  rivista e  monografia, con testi inediti spesso diversissimi tra loro per genere, forma e contenuto, collegati  a testi  appositamente concepiti, pubblicata in piccola tiratura non in commercio per biblioteche,  centri di cultura e… amici. E’ al 4° numero, dedicato all’Italia, esplora il rapporto tra l’homo italicus e la sua terra alla ricerca dell’italianità ideale.

Idee di carta” 3^ parte,   Massimo Morasso di AV con Vincenzo Mascolo

Poi i “Ricordi della villeggiatura”  di Cecco Mariniello,  lo presenta sempre Mascolo. E’ illustratore di libri e si è dedicato alla “pittura di confine”, in un “altrove”  rispetto al caos della vita, i suoi sono paesaggi inventati, fantastici ma familiari, mediterranei, con la realtà fisica in qualche modo estraniata. Un quarto di secolo di mestiere illustrativo come vignettista, autore di fumetti,  illustratore e anche con la vena poetica, poi la pittura, con la scrittura insieme all’illustrazione. Da “Che farò senza Euridice”:   “In quale inabissata ansa del tempo, su quale sperduta sponda ancora mi aspetti, Euridice?/ Di nuovo specchia la tua immagine Acheronte  e dietro la porta a vetri, sul piano di marmo in cucina./ Persefone impasta con l’acqua la sua farina”.  

“Ricordi della villeggiatura”, Cecco Mariniello con Vincenzo Mascolo

Siamo  alla 2^ parte di “Poesia sconfinata”, cioè internazionale, con Kate Clanchy, scozzese che risiede in Inghilterra a Oxford, la presenta la  traduttrice Giorgia Sensi: è romanziera da 20 anni con un manuale sulla carriera di insegnante premiato, nella sua pubblicazione c’è una selezione di poesie e brani in prosa sul  laboratorio di poesia con rifugiati di cui abbiamo detto all’inizio, presentando con lei Shukria Rezaei, e “Le colombe di Damasco”. Ha letto anche una poesia inedita. Da “La testa di Shakila”, 2019: “Mi lascio in giro, da sciattona,/ pezzi di me, momenti che ho amato:/li lascio lì dove/ cadono, si stropiccino, se vogliono./ So come farli camminare/ e respirare di nuovo…/ … gli alberi in fiore, leggeri,/ leggeri e festosi. Rimettiti/ in sesto, dicono, giustamente,/ ma è testarda, la ragazza,/ quell’ottimista che continua a camminare”.  

“Poesia sconfinata” 2^ parte, la scozzese Kate Clanchy

Di nuovo la  poesia italiana, addirittura la “Vita nova”, nell’incontro di Mascolo con Stefano Carrai,  poeta e professore, filologo e traduttore, Alcuni suoi versi da “Equinozio”, 2021: “Paradosso della fotografia/ essere testimonianza di vita/ e anche certificato/ di morte/ lo stesso della poesia”. E’ dantista, parla dell’edizione della “Vita nova” di Dante commentata, e del rapporto con la “Divina Commedia”, proprio al termine del 7.mo centenario dantesco. E’ un rapporto molto stretto, la “Vita nova” racconta l’amore terreno che ha un seguito nel viaggio nell’al di là,  quando ritrova Beatrice nel paradiso terrestre; sono due momenti diversi di una stessa storia con l’amore infelice della “Vita nova”  sublimato nella visione celeste della “Divina Commedia”. Anche senza la “Divina Commedia” Dante sarebbe rimasto nella storia per la “Vita nova”, di straordinaria originalità allora e modernità oggi.  E’ il primo libro di poesia, misto con prosa, originale perché prima l’amore era sentito come desiderio e passione dei sensi – la  malattia d’amore –  mentre con la “Vita nova” la poesia d’amore cambia, vi entra il concetto dell’amore spirituale idealizzato, premessa del viaggio ultraterreno, si concilia la passione erotica con il concetto cristiano dell’amore. Beatrice era morta veramente, e questo  gli fa trasformare l’amore terreno della “Vita nova”  nella sublimazione celeste della “Divina Commedia”.  La modernità è nel riconoscimento dell’amore senza speranza – dato che Beatrice era promessa sposa – l’amore infelice di tanti ragazzi – la lingua arcaica  è uno scoglio  soltanto apparente. Con la lettura del celebre sonetto si conclude la rievocazione: “Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia, quand’ella altrui saluta,/ ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,/ e li occhi no l’ardiscon di guardare…”, è la prima quartina, anche il resto nessuno lo ha dimenticato… 

“Vita nova”, Stefano Carrai,  con Vincenzo Mascolo

Segue la 3^ parte di “Di penna in penna, con Annalisa Comes, introdotta da Anna Toscano, che scrive – anche in francese dopo dieci anni vissuti in Francia, e in inglese – poesie nate da un dialogo, poesie brevi da ebraico biblico che evocano i racconti brevi di Kafka, e brevi prose con andamento poetico. Si vola sull’airone, in continui spostamenti tra cielo e terra. Da “Alberi a fronte, Versi-segni”, 2018: “Saremo ancora dopo il gelo e la tempesta/ dopo la solitudine e il deserto/ saremo ancora fioritura piena/… e dove il buio incide nell’alba/ saremo ventre e radici/ germogli per le generazioni a venire”.  Poi Gianni Montieri presenta Piero Simon Ostan, interessato al paesaggio, ricorda gli anni universitari quando un libro gli ha aperto gli occhi, usa mischiare italiano e dialetto per avvicinarsi al paesaggio nel modo più familiare. Da “Il verde che viene ad aprile”, 2019, ecco l’”Autoritratto”: “E’ il taglio degli occhi di mio padre/ non il suo colore/ l’attaccatura bassa dei capelli/ quasi piatti i piedi e lo stesso stampo delle mani/ o forse è lo stare scorretto della schiena/… Sarà poi un giorno mio figlio/ e il figlio di mio figlio/ sarà l’aggirarsi nello stesso buio delle strade/ ad aspettare che venga il vento giusto/ e il chiaro dentro gli occhi”.    

“Di penna in penna” 3^ parte, Annalisa Comes, a sin. in fondo Anna Toscano

La   “Poesia sconfinata”, 3^ parte, ci fa conoscere lo spagnolo José Carlos Rosales, presentato dal suo traduttore Damiano Sinfonico,  racconta la storia di uno che lascia la casa e scompare sentendosi  distante dal mondo al punto di voler sparire.  Da “Se volessi potresti alzarti e volare”, 2021: “Sarai così stanco che ti senti leggero,/ così leggero/ che anche ora potresti alzarti e volare/ non pesi più, non peserai più come prima,/ pesi davvero così poco/ che il mondo ti sembra lontano/ anche la stanchezza ti sembra lontana,/ è evaporata all’improvviso,/ ciò che pesa a volte evapora/ e anche ora potresti alzarti e volare,/ non lo fai, non lo fai, e non/ perché il peso del corpo o la tua volontà/ potrebbero impedirlo, / non lo fai/ perché non c’è nessun posto/ dove vorresti tornare,/ un luogo perduto o ignorato,/ il posto dove potresti entrare e dissolverti,/ sdraiarti con le ali piegate,/ quelle ali giganti che ti impediscono di vivere”.  Abbiamo riportato interamente la non brevissima poesia perché ci ha fatto ripensare a “Miracolo a Milano”, quando al  canto “ci  basta una capanna/ per vivere e dormir/ ci basta un po’ di terra/ per vivere e morir…”,  si sono alzati in volo  leggeri verso un posto “dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno” : forse quel posto perduto e ignorato, dove entrare  e riposarsi, che il poeta sembra non aver ancora trovato.

“Poesia sconfinata”3^ parte, lo spagnolo José Carlos Rosales, a sin. in fondo Damiano Sinfonico

Nella poesia italiana – siamo alla 4^ parte di “Di penna in penna” – siamo stati colpiti da Alessandra Carnaroli che cita tentativi di suicidi e oggetti contundenti, legati alla cronaca di una realtà lucida e dissacratoria senza sentimentalismi. Presentata da Anna Toscano,  parla di storie che nascono ispirate dall’osservazione esterna e dall’esperienza personale, con cadute, ferite, emarginati, ci siamo tutti in queste storie nate dalla quotidianità. E’ come una voce che chiama alla vita o rende muta e ci coinvolge dicendo chi siamo e cosa possiamo fare per  cambiare la situazione. I versi sono scanditi dalla poetessa con una cadenza quasi da automa, cita anche la fine tragica del piccolo Samuele a Cogne, una cronaca terribile che torna. Da “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”, 2021:  “Dentro il garage/ dove ho passato l’infanzia/ a separare i chiodi dalle viti/ per mostrare  a mio padre di valere/ almeno quanto gomma/ da bagnato mclaren/ abbassare il finestrino/ sgasare”, è tutto… Elisa Donzelli, che viene presentata da Mascolo, dirige la Collana di poesie dell’omonima casa editrice, insegna letteratura contemporanea e svolge attività di critica, il suo recente libro di poesia contiene  un insieme di  ricordi pubblici o privati. Al pari dell’album di fotografie unisce frammenti di memoria, lo ha scritto a quarant’anni e accortasi che le vicende personali si intrecciavano a vicende del Paese ha voluto ricostruire la  formazione di una coscienza privata singola ma anche collettiva. Per la sua età si è sentita sospesa tra la contestazione del 1968 e il riflusso degli anni ’80 in una città come Torino dove dominava il conflitto di classe, evoca l’inizio della guerra del Golfo del 2 agosto 1990 e il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009.  Da “Album”, 2021, alcuni versi del “Sonetto per Hevrin”, attivista dei diritti delle donne e segretaria generale del Partito siriano del futuro” uccisa nel nord della Siria il 12 ottobre 2019: “Ma oggi che apro l’immagine alla notizia/ ancora ti vedo al mattino bronzea Nefertiti/ stringere alta sul capo l’acconciatura/ di tremila anni sorella mostrare e punire/ la minaccia alla troppa bellezza”. Segue, presentata ancora da Mascolo, Claudio Pozzani, che ha iniziato con la musica ed è organizzatore di tanti eventi sulla poesia, direttore artistico del Festival di poesia di Genova  “Parole spalancate”, aggettivo associato alle parole che il titolo del suo libro associa agli spazi, dando al  termine “spalancato” il significato suo proprio di molto aperto. Le poesie lette ripercorrono il percorso esistenziale dalla nascita. Da “Spalancati spazi. Poesie 1995-2006”,  2017: “Sono l’apostolo lasciato fuori dall’Ultima cena,/ Sono il garibaldino arrivato troppo tardi allo scoglio di Quarto/ Sono il Messia di una religione in cui nessuno crede/ Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto che non cede”, e così per altre tre quartine da “outsider”.

tre, “Di penna in penna” 4^ parte, Alessandra Carnaroli, a sin. in fondo Anna Toscano

Incalza la “Poesia sconfinata”, 4^ parte, viene presentato dal traduttore Simone Sibilio  il palestinese Najwan Darwish, sentiamo in luil’odissea di un popolo tormentato dalla lotta atavica  con Israele, con cui condivide una storia millenaria, pensiamo alla “spianata delle Moschee” e alla storia di Cristo, vi si ispira il poeta nella parte in cui presenta simboli religiosi per esprimere le difficili condizioni del suo popolo. Redattore della pagina culturale di un giornale arabo e interessato alla poesia italiana, il suo libro  “Più nulla da perdere” fu scritto prima in inglese poi in arabo e uscì con il titolo “Un giorno ci svegliammo in Paradiso”. Erede della grande tradizione della poesia palestinese politicamente impegnata legata al passato impresso nella coscienza araba, se ne distacca e rielabora sovvertendo con una riscrittura  in cui esprime le preoccupazioni della sua terra e delle altre comunità oppresse in silenzio, con sguardo disilluso e ironia pungente. Nelle sue poesie sulle città, come Gerusalemme, si sente un afflato lirico profondo ma emergono anche le contraddizioni. Da Più nulla da perdere”, 2011, la poesia “Gerusalemme”: “Ci fermammo sul monte/ per offrirti un sacrificio/ e al vedere le nostre mani levarsi, vuote/ capimmo di essere noi il tuo sacrificio”/…resterai per sempre/ un confuso pellegrinaggio/ di gente di passaggio/ ma a te cosa importa?/…”.

“Poesia sconfinata” 4^ parte, il palestinese Najwan Darwish, a sin. in fondo Simone Sibilio

Torniamo alla poesia italiana nella 5^ parte di “Di penna in penna”, con un poeta e una poetessa, entrambi  introdotti da Gianni Montieri. Il primo è  Flavio Santi,  friulano, quindi di terra di confine, poeta, traduttore, romanziere, il suo libro con le poesie dal 1999 al 2019, è fatto di  frammenti: sono importanti gli oggetti nel rapporto con il tempo, in una archeologia postmoderna, con i televisori prima ingombranti, ora sempre più sottili, erano presenze fisiche e familiari nelle case di tutti. E’ un modo per recuperare quell’Italia degli anni ’70, un tempo vissuto quasi in seduta psicanalitica. Da “Quanti”, 2021, la poesia “Luce”: “Mentre guardavo/ la foto di te, Lucia, a un mese di vita, mi dicevo che la Natura/ deve avere uno strano senso dell’umorismo/… crea esseri luminosi come te/ e poi questo COVID 19./ Che poi nemmeno lui – o lei o esso -/  dev’essere cattivo/a di per sé, sai?”.  Lo strano senso dell’umorismo, diremmo macabro conoscendo l’interminabile catena di lutti portati dal COVID, sembrerebbe del poeta, chiamiamola … licenza poetica, allude forse al fatto che il virus non ha la benché minima consistenza fisica e tanto meno psichica; è una considerazione spontanea, ovviamente non vogliamo commentare l’immagine poetica che è personale e assolutamente legittima.  Sara Ventroni ha in comune con Santi il fatto di essere poliedrica, ha scritto per il teatro, la radio e la Televisione, i libri più recenti sono “La sommersione” e “Le relazioni”. Le nostre relazioni hanno a che fare con la storia,  cosa ci succede e cosa non ci succede e ciò che non riusciamo a cogliere; “La sommersione” si apre con le parole  “Adesso che si rompono le cose…” ce ne accorgiamo solo quando vanno in frantumi e rischiamo di perderle, e vediamo quello che ci interessa e prima ignoravamo.  È necessario l’incanto, non si può fare senza, questo cerchiamo nella poesia,  ci fa vedere le cose meglio di come non le abbiamo mai viste. Da “Le relazioni”, 2019: “Prima di essere santi ci piace la materia/risucchio di luce nel buco/ in cui si cade: materia che ruba la luce/ per cui siamo vivi, che tira come un metallo al magnete/ nel punto in cui il tempo è movimento/ capovolto/… (all’occhio manca la luce/ che la materia trattiene)”.  

“Di penna in penna” 5^ parte, Sara Ventroni, a sin. in fondo Gianni Montieri

David Riondino, introdotto da Nicola Butrini,  presenta le “Variazioni in versi”, è un artista eclettico che spazia in diversi campi, scrittore e drammaturgo, attore e regista, perfino autore di canzoni e cantante, con dischi pubblicati e un laboratorio  video di canzoni originali ispirate a fatti di cronaca. Attivo nel teatro e nel cinema,  nella televisione in trasmissioni leggere  e nella radio anche in programmi  impegnati su Boccaccio e soprattutto su Dante – i “Tipi danteschi” del 2021 seguono nel 2022 i “Tipi pasoliniani” – ha  una vena satirica che si è espressa nelle apposite riviste e in spettacoli con Paolo Rossi,  ha pubblicato nel 2019 scritti satirici in versi nel “Sussidiario”. La sua è una sperimentazione continua, che mescola generi e forme espressive diverse, con una forte base culturale. E’ anche poeta tra i poeti in controtendenza, la sua poesia ha una forma chiusa, adotta una metrica rigorosa, in questo  sembra fuori tempo; è uno schema seguito fin da ragazzo, con  le terzine incatenate dalla forma che dà maggiore concretezza perchè la rima porta alla concretizzazione, non è autocostrizione ma senso di esattezza, la forma chiusa lo rende libero. Non è più tempo di rivoluzione né di palingenesi terzomondista,  la palingenesi è inesistente, fino all’affermazione sui due ultimi sindaci di Roma, che  le “buche della Raggi” da ieri diventano le “buche di Gualtieri”. Gustoso e profondo.      

“Variazione in versi”, David Riondino

Ed ora una delle due attrazioni dato il momento che stiamo vivendo con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia appoggiata dalla Bielorussia. Nella “Poesia sconfinata”, 5^ parte, presentata da Moira Egan, con i due poeti intrattenuti insieme – una eccezione alla formula consueta – la bielorussa Valzhina Mort parla del lascito nella sua eredità, ma lei non ha un lascito – la Bielorussia è nata dall’ex Unione Sovietica – per l’impossibilità di usare un linguaggio  appropriato. Due poetesse russe sono state le pietre angolari della sua generazione, una di loro partigiana voleva fare la narratrice ma non era possibile dinanzi a una realtà inimmaginabile.  Attraverso le testimonianze si può capire la tragedia dell’Ucraina e quella della Bielorussa sotto Lukashenko, ora non sa se il suo lascito e anche la sua vita saranno influenzati da questi  eventi, si dedicherà alla poesia postbellica. Da “Freeman’s amore”, 2021: “Ho preso il tuo libro dallo scaffale di Sandeep/ la biografia del poeta diceva: ‘vive e insegna.’/ Anche se il libro era piuttosto recente non era più vero./… Ora i treni stanno di ghiaccio nella bufera invernale,/  e io li compatisco/ come fossero farfalle scosse da brividi,/ uno stormo intero, l’ultimo del genere,/ bloccato in una neve che l’Inghilterra non ha mai visto/… Il tuo libro nelle mie mani bruciate dal gelo”. L’americano Ishion Hutchinson alla  domanda sul lascito dell’eredità risponde che è difficile perché la vita si sviluppa con gli eventi che accadono, ne sottolinea le contraddizioni;  proviene dai Caraibi, terra in cui si sente la spinta alla riconciliazione ma anche la resistenza all’influenza del  colonizzatore.  Attraverso la poesia cerca di superare le contraddizioni, adora i poeti caraibici e vuole consolidarne la tradizione. Da “Nuova poesia americana – Volume III”, 2021: “La bellezza degli alberi la quieta,/ lei è quiete che fissa le foglie,/ immobili e verdi, che reggono il cielo/… gli occhi che fissano sbarrati, fondi, silenziosi/ fissi sugli alberi e sulla bellezza/ del cielo, del verde, delle foglie”.

“Poesia sconfinata” 5^ parte, la bielorussa Valzhina Mort“,
a dx in fondo l’americano Ishion Hutchinson.

Di nuovo la poesia italiana con la 6^ parte di “Di penna in penna”, Edoardo Albinati,  romanziere vincitore nel 2016 del Premio Strega con “La scuola cattolica”, una storia dell’Italia degli anni ’70,  autore anche di libri di poesia,  introdotto da Mascolo. Dopo un lungo silenzio è tornato molto di recente alla poesia con una sorta di  canzoniere erotico: si pone la domanda se è più forte il desiderio poetico o quello del corpo. Mentre  la prosa avrebbe diluito i concetti,  la poesia con i suoi versi è vista come lente per concentrare.   Non c’è qualcosa di più profondo del centro della terra dove dovrebbe cessare la forza di gravità. Il sesso rende anonimi coloro che lo praticano…. “Afferrata, posseduta, trafitta, respinta, abbandonata”, ecco alcune espressioni che rendono la forza della sua visione erotica. Da “La tua bocca  è la mia religione”, 2022: “… un corpo nudo dev’essersi infilato/ accanto a me nel letto, gelido come il ghiaccio/ … prima le gambe/ poi la schiena premute per scaldarsi contro di me/ che non capivo niente, non sentivo nulla…/ … Sei tu? Nel buio della semincoscienza ho allungato/ le mani: il morbido del seno, i capezzoli dritti”.

“Di penna in penna” 6^ parte, Edoardo Albinati

Ancora la “Poesia sconfinata”, siamo alla 6^ parte,  con la  tedesca Susan  Stephan,  anche scrittrice di prosa e saggi. La presenta Paola del Zoppo, parlando del senso della memoria e di come l’arte può essere trasmessa, vissuta  e percepita tramite il vivere, nella prima sezione del suo libro la ballata con poesie su compositori quali Schubert e Chopin,  nelle altre sezioni visite a Roma quando si è trovata di fronte a cosa vuol dire percepire la storia passata con arte e memoria e con la musealizzazione che vale per ogni altra arte. Anche la memoria funebre è coniugata alla possibilità della narrazione poetica avendo la capacità di non distogliere lo sguardo: l’ultima immagine è focalizzata su ciò che la poetessa vede non restringendola a percezione immediata ma per poter raccontare l’indicibile. Da “Manovra d’autunno”, 2016: “Il portale ben chiuso/ ma di lato una finestra in frantumi./ Un’immagine di cose abbandonate velate di polvere,/ vecchi strumenti elettrici/ … Sull’altare un silenzio troppo breve”.

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Poesia sconfinata” 6^ parte, la tedesca Susan Stephan, a dx, con Paola Del Zoppo

Si conclude l’alternanza tra poeti italiani  e poeti stranieri con la 7^ parte delle due ultime sezioni. In “Di penna in penna”  due poetesse italiane, la prima, Maura Del Serra,  è narratrice e traduttrice, autrice di “L’opera del vento” , editore Marsilio, premio Montale 1995. Mascolo nel presentarla la interroga sull’idea di poesia come conoscenza, risponde che  ha una funzione conoscitiva ed è  conoscenza essa stessa come diceva Pasternak. Ci fa cercare la luce e tanto più in  tempi come questi permette di superare la violenza in cui siano imprigionati nella nostra realtà materiale mediante la congiunzione tra bellezza e verità; non c’è passività nel farsi parola, coscienza e conoscenza, la sua funzione attiene all’essere in quanto creatura, voce, coscienza intima civile e cosmica. Bisogna pensare all’assoluto invisibile come nostra dimensione teleologica senza mai dimenticarlo, siamo immersi nel cosmo di essenze invisibili e le portiamo con la poesia nella vita quotidiana:  questa la funzione conoscitiva. Attraverso la parola poetica si può penetrare l’esistenza nel cosmo, non narcisismo e potere ma poesia a testimonianza individuale e collettiva.  Il discorso poi va verso il sole e la notte, si estende all’agonia degli elementi acqua aria fuoco terra, fino ai profumi e agli affetti. C’è anche un omaggio a Umberto Saba. Da “Taccuini di certezza. Poesie 1999-2009”, 2010: “Tu dall’alto di un jet puoi contemplare/ tutte le strade per salire in vetta/ ma i tuoi piedi non possono percorrerne che una./ … L’arte può farti vivere ogni vita, scagliarti negli abissi o nella luna/ ma di una sola vita tu puoi testimoniare,/ sentirla eterna./…  e quella/ per te è la storia, e niente la cancella”. Dell’altra poetessa, Maria Luisa Vezzali,  introdotta da Fabrizio Fantoni, viene sottolineato lo sconfinamento dall’intimità all’esterno, nel movimento verso il paesaggio concepito come compenetrazione tra dentro e fuori; la vita si fa largo,  il vento porta con se l’eco dello stare al mondo. Nello spettro di casa le scie di calore restano come funi tese tra le pareti, i giorni si arrampicano sul tetto, si avvolgono intorno al camino… serve calore. La camera da letto cigola…  Uno sguardo all’angolo fuori tra gli infissi della finestra fa capire come la poesia nasca dalla percezione dello stare  e posizionarsi e il continuo desiderio di sconfinamento; dalle coordinate temporali non viene nulla di certo,  neanche la memoria,  occorre disciplina ma è doloroso e si scivola nel  passato e futuro mentre c’è da ancorarsi nel presente. Nell’orizzontalità della parola  e nella verticalità della percezione poetica si coglie il senso della vita. DaTutto quanto”, 2018: “Non è vero che non siamo stati felici, abbiamo avuto leggende manifesti confusi  tra case spezzate e chiglie gelide, venti radicali, onde senza compensi, infastiditi indocili come canne occhiute nell’immenso fogliame… / …..abbiamo   avuto lettere piene di mattino, un paesaggio di corpi possibili./… Ma ora un logorio diverso di guerre che sembrano uguali. E non sappiamo che farmaco ci addormenta la notte”.

“Di penna in penna” 7^ parte, Maria Luisa Vezzali, a sin. in fondo Fabrizio Fantoni

Nella “Poesia sconfinata”, parte 7^, la seconda attrazione dopo la poetessa bielorussa, è l’ucraino Ilya  Kaminski, introdotto da Giorgia Sensi. La sua opera in versi è originale, racconta una storia con tono narrativo, in un testo di tipo teatrale ibrido con personaggi che non parlano in prima persona: sono due atti, un narratore nel primo atto, e un altro nel secondo atto, è la storia violenta e drammatica di un paese invaso da un esercito, è del 2019, sembra una premonizione.  Cosa l’ha spinto, cosa gli ha dato l’ispirazione? Nel 1993 la sua famiglia fuggì dinanzi a un esercito invasore, lui rifugiato negli Stati Uniti non voleva parlare di guerra di invasione e di rifugiati, il suo scritto, ricco di immagini del mondo abbandonato, è un ponte tra il mondo lasciato e il nuovo mondo trovato negli Usa. Da “Repubblica sorda”, 2021: “Ora ciascuno di noi è/ testimone./ Vasenska ci guarda guardare quattro soldati che buttano Alfonso Barabinski sul marciapiede./ Glielo lasciamo prendere. Siamo tutti codardi./ Ciò che non diciamo/ ce lo portiamo in valigia, in tasca, nelle narici./ Dalla strada lo investono con cannoni ad acqua. Lui grida,/ poi smette./…  Sotto un sole così forte/ ciascuno di noi/ è testimone/ prendono Alfonso/ e nessuno si fa avanti. Il nostro silenzio si fa avanti per noi”. La realtà attuale nell’Ucraina è ben diversa, contro l’invasore gli ucraini non sono testimoni muti ma combattenti, l’opposto dei codardi della poesia che descrive altre situazioni. Gli ucraini si sono battuti e si battono da eroi!

“Poesia sconfinata” 7^ parte, l’ucraino Ilya Kaminski, a sin. in fondo Giorgia Sensi

Ed ora … “la musica è finita”, anzi si può dire che “la poesia è finita”  al termine di una giornata così intensa; ma gli amici non “se ne vanno”, è in scena Lina Sastri con il fascino sottile e insieme intenso della sua sensibilità artistica in un crescendo in cui poesia e canzone si intrecciano in storie evocate con toni accorati e insieme delicati. Il titolo “Appunti di viaggio”, il viaggio della sua vita, ben si collega a quello della manifestazione, “In viaggio con la poesia” come sottolinea Mascolo nell’accoglierla. E’ in  completo pantalone nero su camicia bianca, al collo una sciarpa rossa lunga fino alle ginocchia,  inizia dichiarando di sentirsi fuori posto senza il riflettore  che isola sul palcoscenico,  per di più in un incontro di poeti, non in uno spettacolo, anche se “la musica è poesia” e lei ha scritto delle poesie. Parla della madre con commozione, poi una carrellata sui grandi incontri della sua vita artistica, da Eduardo a Patroni Griffi, alternando l’italiano al napoletano in una narrazione suggestiva accompagnata dagli accordi della chitarra di Maurizio Pica che hanno dato un’eco profonda alle sue parole; e lei alla fine darà atto ai musicisti come lui che hanno valorizzato il suo teatro-canzone fatto anche di riflessioni a cuore aperto: citazioni teatrali seguite da poesie, canzoni seguite da confidenze e condivisioni di sentimenti. 

“Appunti di viaggio”, Lina Sastri

Da “Lo suldato ‘nammurato” – che ha ricordato, come intensità pur nella  diversità, la grande Anna Magnani –   a “Reginella” fino a  “Mala Femmena” con tante altre canzoni e al bis finale di “Terra mia” nel quale ha raggiunto il diapason canoro e interpretativo. E’ stata più di mezz’ora di magica suggestione, con il suo viso acceso nelle espressioni più vive – dolce e aggressiva, compunta e sorridente, febbrile e ispirata –  e  Mascolo al termine l’ha fatta aprire ancora alle confidenze sulla sua vita: una giovinezza presa dalla voglia di cambiare il mondo come i giovani di allora, quindi teatro di ricerca e di rottura in italiano, il napoletano legato alla tradizione non poteva esprimere la ribellione. Poi il cambiamento,  “il tempo ci regala la possibilità di liberarci dalle cose inutili”, il suo teatro diventa napoletano, conosce Eduardo, scopre Filumena Marturano che fa di tutto per rivendicare la famiglia e l’appartenenza. Segue il cinema, a partire da “Mi manda Picone”,  altri film per sette-otto anni, e finalmente la musica con il canto, prima non prevista, ed è quella che rimane stabilmente nel suo impegno artistico. Parla infine dei suoi programmi, uno spettacolo al Teatro dell’Opera della Crimea – dopo la poetessa bielorussa e il poeta ucraino un’altra evocazione dello stesso segno –  ed è allo studio un film la cui sceneggiatura già scritta è tratta da un suo libro in ricordo della madre. Mascolo le fa gli “auguri per tutto” e a questo punto un gustosissimo siparietto, lei si agita ed esclama allarmata “auguri mai, perché porta male!”, e lui subito muta l’augurio in “in bocca al lupo”; ma lei non lo recepisce, si piega su se stessa e le scappa un  “mannaggia” inquieto, Mascolo premuroso e imbarazzato dice “mannaggia, non lo devo dire, non lo dovevo dire” e lei “aspetta”, mentre  lui preoccupato “che dobbiamo fare?” con lei che insiste “ha detto auguri.. .”, lui  ripete “che dobbiamo fare ora?” e lei “dica in bocca al lupo”. Mascolo lo aveva già detto ma lo dice di nuovo per sentire la risposta rassicurata di lei “crepi il lupo, anzi viva il lupo”, quasi che con entrambe le opposte formule volesse garantirsi meglio, e per noi ha fatto bene, da abruzzesi che di lupi se ne intendono preferiamo la seconda.  “Bene, perfetto!”, il commento di Mascolo, ed è così: è stata una prova inattesa di napoletanità genuina e verace, con  Mascolo quasi da “spalla”, involontaria quanto efficace, in un duetto imperdibile, nell’autenticità spontanea che chiude “bene” e in modo “perfetto”  la lunga giornata di serissima poesia come il botto finale dei  fuochi di artificio nelle feste paesane.  

Lina Sastri con Vincenzo Mascolo

Così la sfilata dei 50 poeti si è conclusa in maniera scoppiettante dopo la magica atmosfera creata da quest’artista così sensibile e appassionata. La maratona poetica è finita e anche la nostra narrazione. Il  sigillo finale lo abbiamo trovato nei versi dell’ideatore e realizzatore da 15 anni della manifestazione, Emmanuele F. M. Emanuele, per l’apertura alla vita in questi momenti drammatici del passaggio dall’angoscia della pandemia, pur ancora presente, a quella della guerra di aggressione della Russia che il 24 febbraio ha invaso l’Ucraina. Dalla poesia “Vivere nel sole” che ha dato il titolo all’ultima raccolta pubblicata nel 2021 e apre il Catalogo della 15^ edizione dei “Ritratti di poesia”: “Ne ho sempre sentito la presenza,/ anche nei giorni più scuri e tristi,/ e ha illuminato, con il suo fulgore,/ il mio vivere./ Come una corazza e uno scudo/ ha protetto il mio essere/ e il divenire di ciò che è stato/ è dipeso dallo stare dentro di me/ dando vigore al mio pensiero/ e ai miei passi./ E oggi ancora lo guardo/ sebbene con occhi socchiusi,/ al mattino e sera,/ all’alba e al tramonto,/ considerandolo/ il protettore del mio esistere”. Un luminoso esempio per tutti.

Il pubblico del recital finale

Info

Auditorium della Conciliazione, via della Conciliazione 4,  Roma. Il primo articolo sulla manifestazione è uscito in questo sito il 22 maggio 2022.  Cfr. in questo sito i nostri articoli, sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di poesia”  12 marzo 2020, 17 febbraio 2019, 1°, 5 marzo 2018,  10 marzo 2017, 10 febbraio 2016, 15 febbraio 2013, 9 maggio 2011; su Emmanuele F.M. Emanuele   22 ottobre 2019, 14, 20 aprile 2019; sulla citazione di Pasolini, gli articoli nel centenario della nascita il 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 marzo 2022; sulla citazione di Dante. gli articoli sulla recente mostra del pittore Gianni Testa sulla “Divina Commedia” il 23, 28, 29 marzo e 3 aprile 2022, sulle mostre “L’Inferno” di Rodin e di Roberta Coni 20 febbraio 2014, su una collezione dantesca 9, 10 luglio 2011. .   

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Una visione d’insieme della sala

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Le immagini sono state tratte dalla pagina “Facebook” dei “Ritratti di Poesia”, si ringrazia l’organizzazione di Inventa Eventi, e in particolare Carla Caiafa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Vincenzo Mascolo, nella conduzione della maratona poetica; seguono, Idee di carta” 3^ parte,   Massimo Morasso di AV con Vincenzo Mascolo, e “Ricordi della villeggiatura”, Cecco Mariniello con Vincenzo Mascolo; poi, “Poesia sconfinata” 2^ parte, la scozzese Kate Clanchy, e “Vita nova”, Stefano Carrai,  con Vincenzo Mascolo; quindi, “Di penna in penna” 3^ parte, Annalisa Comes, a sin. in fondo Anna Toscano, e  “Poesia sconfinata” 3^ parte, lo spagnolo José Carlos Rosales, a sin. in fondo Damiano Sinfonico; inoltre, “Di penna in penna” 4^ parte, Alessandra Carnaroli, a sin. in fondo Anna Toscano, e “Poesia sconfinata” 4^ parte, il palestinese Najwan Darwish, a sin. in fondo Simone Sibilio; ancora, “Di penna in penna” 5^ parte, Sara Ventroni, a sin. in fondo Gianni Montieri, e “Variazione in versi”, David Riondino; continua, “Poesia sconfinata” 5^ parte, la bielorussa Valzhina Mort“, a dx in fondo l’americano Ishion Hutchinson, e “Di penna in penna” 6^ parte, Edoardo Albinati; prosegue, Poesia sconfinata” 6^ parte, la  tedesca Susan  Stephan, a dx, con Paola Del Zoppo, “Di penna in penna”  7^ parte, Maria Luisa Vezzali, a sin. in fondo Fabrizio Fantoni, “Poesia sconfinata” 7^ parte, l’ucraino Ilya  Kaminski, a sin. in fondo Giorgia Sensi; poi, “Appunti di viaggio”, Lina Sastri, e Lina Sastri con Vincenzo Mascolo; quindi, Il pubblico del recital finale, e una visione d’insieme della sala; in chiusura, il palco vuoto al termine della maratona poetica.

Il palco vuoto al termine della maratona poetica

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Ritratti di Poesia, 15^, 1. La mattinata, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante 

Si è svolta, nella giornata di venerdì 8 aprile 2022, a Roma, all’Auditorium della Conciliazione – per la seconda volta dopo le 13 edizioni precedenti al Tempio di Adriano –  la 15^ edizione di “Ritratti di poesia” , la maratona poetica a livello nazionale e internazionale con spazi per gli Editori dei libri di poesia, e il finale spettacolare  di Lina Sastri. Come sempre Vincenzo Mascolo curatore, conduttore e intervistatore della manifestazione con un programma di 50 presenze di poeti scandito nei tempi dall’indicatore luminoso posto in alto –  10 minuti per gli italiani, 15 per gli stranieri – i quali dopo una breve introduzione hanno letto alcune loro poesie, come gli studenti di “Caro poeta”, e i vincitori del premio “Ritratti di poesia”  nazionale e internazionale e di due premi per poesia breve di 280 caratteri e per la prima pubblicazione. Quest’anno c’è stato l’anteprima “Ritratti di poesia . Il podcast”, 7 appuntamenti di 20 minuti dal 23 febbraio al 6 aprile visibili gratis sulle principali piattaforme di streaming audio – Sportify e Google Podcasts, Apple Podcasts e Amazon Music – ognuno dedicato a un tema in forma di dialogo con i poeti e poetesse ospiti che hanno letto dei loro testi. “Ritratti di poesia“ è una macchina complessa promossa e organizzata, in collaborazione con Inventa Eventi, dalla  Fondazione Roma – che ritorna dopo gli anni del  Terzo Pilastro-Mediterraneo –  con la Presidenza onoraria del suo ideatore e realizzatore, già storico Presidente.

Emmanuele F. M. Emanuele, nell’intervento introduttivo della premiazione

Emmanuele F. M. Emanuele “cursus honorum” ineguagliabile di eminente studioso e docente universitario, a livelli di vertice manageriale e imprenditoriale in importanti settori, scrittore e poeta autore di raccolte premiate – l’ha ideata e realizzata 15 anni fa considerando la poesia la più nobile e antica espressione dell’animo umano da coltivare e diffondere alla pari delle  altre arti nel mondo contemporaneo che sembra allontanarsene ma solo in apparenza.  E la manifestazione ne è una prova con la mobilitazione poetica in campo nazionale e internazionale, che vede anche i giovanissimi impegnati con entusiasmo nelle loro scuole affiancati da grandi poeti.

Uno scorcio della scenografia

La cornice scenografica mostra ragazzi che chiamano con le mani intorno alla bocca o con un  megafono, una “vox clamantis in deserto”? E tanti cerchi concentrici, l’amplificazione della voce come i cerchi nell’acqua intorno al sasso quando viene lanciato, è l’ immaginazione di Enrico Miglio dopo  quella del riscaldamento globale nel 2020 che non sembrerebbe il problema più immediato e assillante oggi, dato che se ne sono aggiunti altri  più urgenti. Ancora più impellente la necessità di “far sentire la nostra voce, la vostra voce – ha detto Vincenzo Mascolo ai ragazzi –  per la pace, la speranza, la libertà di tutti”  e i pannelli scenografici intorno alla sala sembrano  fare eco.

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“Caro poeta”, gli studenti dei 4 llicei romani

I ragazzi sono i protagonisti della parte iniziale della maratona nella sezione “Caro Poeta”,  gli studenti venuti da quattro licei romani – N. Machiavelli, V. Colonna,  G. De  Sanctis e e M. Hack – si esibiscono al microfono sul palco con il rispettivo poeta “tutor” e testimone del loro impegno poetico, sono i poeti  Claudio Damiani, Elio Pecora, Maria Teresa Carbone, e Lidia Riviello.  I compagni  affollano la platea con un tifo da stadio, e vederlo per la poesia e non per il calcio e gli idoli canori è una consolazione pensando a quanto si dice dei giovani di oggi sviati dai “social”, ma vedremo che anche i discussi “social” possono diventare terreno favorevole per la poesia.

Per il N. Machiavelli,  Claudio Damiani, dopo aver rievocato i suoi trascorsi liceali  in un istituto vicino introduce le prime due studentesse, Miriam e Alice, che hanno messo in pratica il rapporto tra poesia e musica e “cantano” una sua poesia con una musica contemporanea, quasi ne fosse il paroliere, seguono altre suggestive recitazioni canore. Nel V. Colonna, Elio Pecora ha lasciato un segno profondo negli studenti che al microfono condividono quanto hanno interiorizzato dalla sua testimonianza sul valore della poesia. Si parla della poesia vista come cambiamento, espressione di sentimento e risentimento, metafora e conoscenza. E’ una forma di conoscenza elevatissima, un modo per conoscere sé stessi e gli altri: quindi “la poesia esiste, i poeti sono vivi e lo dimostrano oggi”, ha esclamato Mascolo con legittima soddisfazione. E’ il turno poi del G. De Sanctis con Maria Teresa Carbone, gli studenti non si sono limitati alle 11 poesie che leggono al microfono ma ne hanno composte molte altre, un bell’incitamento per i coetanei.  Infine per il M. Hack, la “veterana” Lidia Riviello, ricordando le sue precedenti partecipazioni a “Caro Poeta”, sottolinea che “Ritratti di poesia” è uno scambio generazionale, un viaggio che si rinnova continuamente nel tempo e nello spazio, e nell’inatteso; rispetto alla poesia parla di mutazione e di preparazione ad altri linguaggi, con l’importanza della parola che ha una sua “memorabilità” perciò va ricercata quella giusta, come quando una studentessa ha espresso  la sua stanchezza con la parola “stressata”, dopo altri termini che sentiva non appropriati; entra in gioco anche l’identificazione, come il sonetto “A se stesso” che viene recitato dalla studentessa Asia, seguono altre recitazioni.  

“Caro poeta”, uno studente legge la sua poesia, con il poeta Elio Pecora

Dopo “Caro poeta” ancora i giovani alla ribalta con la premiazione della vincitrice del “Premio Ritratti di poesia 280”, il numero di battute su  “Twitter” – alla prima edizione erano 140 come allora sul “social” –  la sintesi icastica lascia spazio sufficiente anche alla Poesia, d’altra parte “M’illumino d’immenso” era ben più breve, addirittura fulminante! E’ Irene Schiesaro, la presentano Nicola Bultrini, Elio Pecora e Sara Ventroni, i poeti tradizionali e la forma poetica al passo con la tecnologia comunicativa più avanzata amata dai giovani.  

“Premio Ritratti di poesia 280”, la premiata Irene Schiesaro
con i membri della giuria Sara Ventroni, Nicola Bultrini, Elio Pecora

Suggestiva la presentazione di “Le colombe di Damasco”, un laboratorio di poesia con profughi  immigrati divenuto libro di successo, ne parla la traduttrice, Giorgia Sensi, con la scozzese  Kate Clanchy che ritroveremo, e la protagonista, l’afghana Shukria Rezaei, appartenente a un gruppo etnico perseguitato dai talebani – il pensiero va agli occhi spauriti della “afghana girl” di Steve McCurry – era fuggita dieci anni fa con il padre, impiegarono tre anni per raggiungere il Regno Unito,  lei senza conoscere una parola di inglese, quindi una antologia di poesie in inglese: un miracolo della volontà e del talento.  Da “Le colombe di Damasco, poesie da una scuola inglese”, 2020: “Voglio una poesia/ con i ghirigori di un colino/ sulla sfoglia/… Che tutta la tua poesia/ dia alla pagina bianca la forma/ di un prisma che rifrange la luce./ Non andartene senza averne visto tutti i colori”. 

“Le colombe di Damasco”, l’afghana Shukria Rezaei

Mascolo ci fa co­­­­­­noscere l’autrice dei pannelli  molto colorati, “Terra!”,posti sul retro, che aggiungono un altro elemento pittorico alla scenografia. E’  Valentina De Martini, passata dalla decorazione alla pittura nel 2002 con successo ma poi, delusa dalle regole del mercato, dal 2014 si ritira in campagna dedicandosi alle rose, fino alla svolta del gennaio 2020 quando tornata a Roma intraprende il nuovo percorso artistico di cui vediamo i risultati. Lo definisce “progetto da ampliare”, è il trionfo di un  mondo animale, essenza di natura e vita, con l’ elefante rosa visto su Internet che l’ha ispirata, poi tigri, ippopotami e giraffe e anche pecore e galline: sono colori vibranti staccati dalla realtà per evocarne l’essenza poi immersa nella giungla fantastica,  con bellezza e purezza insieme.  Si legge la scritta  ”For life” , è un  inno alla vita, come nella scenografia si grida per la vita, osserva Mascolo, non solo pianeta  e ambiente ma umanità…

Inizia la sfilata dei poeti nelle sezioni classiche loro dedicate, ne daremo conto spigolando anche tra le loro poesie per dare qualche scampolo fior da fiore dei rispettivi versi, dalla selezione riportata nel Catalogo della manifestazione con una poesia rappresentativa di ognuno, ma senza alcuna pretesa, la sterminata “maratona” non ci permette di approfondire, ci soffermeremo su ciò che ci ha colpito con i  limiti, le semplificazioni ed inesattezze di cronisti dinanzi a un evento così particolare svoltosi durante una intera giornata.  

“Terra!”,  Valentina De Martini con Vincenzo Mascolo

La 1^ parte di “Di penna in penna” sulla  Poesia Italiana, presenta tre  poeti i quali, come gli altri che seguiranno, vengono introdotti prima di leggere le loro poesie.  Rompe il ghiaccio Gianni Montieri che introduce Marco Corsi, classico e contemporaneo insieme, parla di come si attraversa il dolore, tanto da voler morire prima dei più cari, e del linguaggio, uno strumento per consegnare un messaggio a chi se ne va. Da “La materia dei giorni”, 2021: “…mi chiedo, cuore mio, perché ancora/ ti spauri dinanzi alla fine naturale/ delle cose, perché non ti rassegni/ a chiudere gli occhi insieme/ alle persone care, perché mai/ ti tradisci gonfiando d’aria/ l’impressione di non aver più,/ non aver mai, non aver sempre?”. In Flaminia Cruciani  – introdotta da Fabrizio Fantoni – che con “Lezioni di immortalità” ha vinto il Premio  Montale – convivono registri differenti di poesia e prosa in un interrogarsi febbrile tra pensiero ed esperienza che penetra nell’inconscio quasi fosse un archeologo. La poesia come scavo per il ritorno al luogo di origine, e in questo la poetessa ha messo a frutto la sua esperienza nell’archeologia, ha partecipato anche a una importante missione di scavo in Siria. C’è un rapporto tra archeologia e poesia: entrambe scavano nel profondo per portare alla luce ciò che vi si trova, l’”arché” dell’origine nella radice di “archeologia”, penetrando nella imprevedibilità alla ricerca di ciò che è  segreto e sepolto, tra visibile e invisibile, tra altra vita e altro mondo, un frammento di altrove. Scuotere il cielo è compito del poeta, scuotere la terra impegno dell’ archeologo alla ricerca di qualche frammento. Da Semeiotica del male”, 2016:  “Ho partorito l’umanità/ nei boschi dell’indifferenza/ quando rovistavo nella vertigine del cielo/ come in un cassonetto./ Poi ci sorprese l’amore/ e sotto quel cielo guasto/ noi tacevamo nella stessa lingua”.  Maria Grazia Calandrone presenta Graziano Graziani che divide la propria opera in sezioni come nel cimitero, in cui si trova la tomba di famiglia con i fornetti e il resto, compresa l’ombra del cipresso. La droga e il carcere, l’anima sputata via, c’è anche Stefano Cucchi, morto un’altra volta…   Solo la morte è ferma… Nella pesciarola  si materializza l’espressione “il  pesce puzza sempre dalla testa”, c’è un triste destino per chi vive in basso. Fino al sacrario dei morti. Da “er Corvaccio e li morti”, 2022: “Ero statista, e ne gestivo a frotte/ de ‘mpicci vari, de bajocchi e gente,/ ma quello che volevo veramente/ è l’immortalità, gloria a strafotte”.

“Di penna in penna” 1^parte, Marco Corsi, a sin., con Gianni Montieri

Nella 1^ parte dell’’intermezzo editoriale, “Idee di carta”,  Mascolo incontra Angela Grasso e Luca  Rizzatello dell’Ophelia Borghesan,  realizzatori di un progetto oltre i canali classici dell’editoria, di natura multimediale con i  contenuti seriali di un Catalogo in cui c’è la poesia con altre categorie, mantenendo uno stretto  contatto con il pubblico.  La  realtà editoriale costituita dalla  collana di poesie fa porre a Mascolo la domanda se c’è spazio per tali collane, e se la poesia ha uno spazio editoriale. Inequivocabile la risposta affermativa, spazio c’è perché  scrivere poesia è innato e finché si produce si trovano gli spazi sgomitando, la poesia gode ottima salute. Andrebbe favorita la lettura di poesie di poeti attuali  nelle scuole, con la sezione “Caro poeta” si cerca di farlo spiegandolo agli studenti, la poesia  è viva,  i poeti sono tra noi. E’ un piccolo editore indipendente che riunisce poeti diversi con una forte idea di fondo: alta qualità dei testi e scritti  introduttivi autorevoli, con la ricerca del linguaggio poetico, la scelta della parola, dei significati da attribuire ad essa. La poesia è un filo continuo per saldare le diverse parti di noi anche quando è difficile. E’ inutile chiedersi se siamo quelli che eravamo, non guardiamo indietro, siamo su un’asse di equilibrio in alto mare, dobbiamo guardare avanti e continuare…

“Idee di carta” 1^ parte  Angela Grasso e Luca  Rizzatello dell’Ophelia Borghesan
con Vincenzo Mascolo

E’ il turno della 1^ parte di “Poesia sconfinata”, cioè internazionale, il suo traduttore Fabio Scotto presenta la poetessa francese Sylvie Fabre. E’ legata all’Italia anche per le origini familiari, narratrice e saggista, la giovinezza impegnata nei collettivi femministi, ha pubblicato tardi, la sua opera viene definita “saggezza inquieta”, nella “meditazione lirica e introspezione”, un ponte tra oriente  occidente, in lei la grande scrittura del paesaggio e l’estasi lirica dei mistici non in senso confessionale ma nella sacralità della poesia. Nella sua evoluzione poetica il pathos emotivo passionale, con un linguaggio amoroso, non si arrende all’inevitabilità della perdita di cui ha avuto dolorose esperienze. Apre la lettura poetica con “La disperata passione di essere al mondo” un’”Ode a Pasolini e alla Morante” nel centenario pasoliniano. Da “Frère humain, L’Amourier”, 2013:  “Quando pronuncerai/ la parola di silenzio/ tu che più non sei corpo dei corpi del mondo/ … creatura di respiro e di fumo/ d’antico inchiostro, di segni e ricordi/  prova a parlare/ le parole sono enigmi/ nessuna decifrazione ma una scia di tempo/ forse hai vissuto, fratello umano/ come tutti i tuoi prima di te/  senza mai sapere quale sia la tua voce e dove vada/ solo l’ebbrezza/ e l’estinzione”.  

“Poesia sconfinata” 1^ parte, la francese Sylvie Fabre, con Fabio Scotto

Poi il momento più solenne, i premi “Ritratti di poesia” conferiti dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele, li introduce confidando che per lui si tratta di un momento di gioia tra le ansie e le preoccupazioni che angosciano in questa fase così difficile, gli è sembrato di rivivere i timori provati da ragazzo dinanzi alla guerra vista da vicino, che si spera possa essere oggi scongiurata. La gioia la dà la poesia, che da sempre scaturisce dalla mente e dal cuore senza aver bisogno di strumenti per esprimersi, come invece avviene per le altre arti, dalla musica alla scultura e alla pittura, occorre solo sensibilità per trasmettere ciò che l’anima e la mente ispirano. E sono sentimenti contrastanti,  felicità o dolore, entusiasmo o angoscia, e anche memoria della propria gioventù soprattutto se si torna nei luoghi in cui la si è vissuta, e si può rivivere la felicità perduta, come avviene a lui stesso quando torna nella sua Sicilia e il cuore gli detta i versi poetici che ne esprimono le forti emozioni. Un momento toccante, lo supera con il riconoscimento a Vincenzo Mascolo e alla consorte del grande merito di aver dato corpo in modo egregio per 15 anni, e di continuare nel futuro, alla sua idea di far uscire all’aperto la poesia dandole uno spazio adeguato come quello riservato alle altre arti; li chiama e li stringe a sé con un gesto di riconoscenza che accompagna la sincerità delle sue parole, Mascolo nel ringraziare sembra arrossire….

“Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello nazionale,
 il premiato Maurizio Cucchi  con Emmanuele F. M. Emanuele che legge la motivazione del premio, sulla sinistra Vincenzo Mascolo

Ed ecco la proclamazione del vincitore del   “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello nazionale, è  Maurizio Cucchi  che nella motivazione letta da Emanuele è definito uno dei maggiori  interpreti della contemporaneità di cui sa raccontare esiti e mutamenti con un linguaggio essenziale  e nitido che ha anticipato le nuove modalità espressive; un precursore poeta della realtà che si muove nel paesaggio urbano con il suo pulviscolo per metterne a fuoco gli aspetti di quotidianità nei minimi dettagli dell’intera esperienza del vivere umano che continua ad esplorare.

Maurizio Cucchi  con il premio tra gli applausi di Emmanuele F. M. Emanuele e Vincenzo Mascolo

Il premiato si dice convinto che la poesia abbia la funzione essenziale di portare il pensiero entro il reale e di cercarne la complessità, e ricorda le parole del grande Mario Luzi secondo cui il poeta deve pescare nel profondo senza darlo a vedere, quindi senza sottolineature enfatiche; la poesia inoltre deve essere al servizio della nostra lingua soprattutto in questi tempi difficili in cui subisce violenza, per questo deve difenderla dagli stereotipi esteri ripescandone i valori.  DaSindrome del distacco e tregua”, 2019:  “La poesia ha parole pesanti/ che in queste strane pagine/ sembrano morbide e leggere/ Viaggiano quasi imprendibili,/ cangianti e disorientano/ la nostra vecchia mente di carta/… la poesia/ chiede di spargersi e andare/ lieve e piana nel mondo,/ che forse non lo sa/ però la sta aspettando”.    

“Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello internazionale,
il premiato Titos Patrikios nel suo intervento in collegamento

Il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello internazionale  viene conferito a Titos Patrikios che la motivazione letta da Emanuele definisce uno dei maggiori poeti del secondo ‘900 impegnato nella ricerca inesausta di verità mediante il fondere esperienze collettiva e individuale con il valore testimoniale di congiungere memoria a coscienza del  tempo presente, anche nei suoi esiti tragici, con uno  sguardo compassionevole sulle  vicende umane. Significatici al riguardo i versi della poesia “La porta dei leoni” nella raccolta “La resistenza dei fatti”, 2007: “Spaventa sempre il nostro grave passato, spaventa il racconto degli eventi/ nella scritta incisa sull’architrave/ della porta che attraversiamo tutti i giorni”. Donatella Puliva lo presenta  sottolineandone la creatività come sua cifra fondamentale, nel senso etimologico della parola poeta, mentre il premiato, in collegamento, esprime la soddisfazione di poter comunicare insieme alla tristezza di non essere presente per il Covid, Roma è per lui un importante itinerario, ricchissimo e variegato, il suo tratto poetico è la fedeltà a se stesso e  alla realtà esistente.

Emmanuele F. M. Emanuele consegna il premio alla rappresentante del premiato Titios Patrikios

Legge proprie poesie antiche e recenti che aprono alla speranza considerando che un ultra 90enne ha lo sguardo giovane nel passare il testimone alle nuove generazioni. Eccone alcuni versi, preceduti da eloquenti titoli icastici: “Amici”: “Non è il ricordo di amici uccisi/  a straziarmi le viscere… ma degli amici sconosciuti/  che diedero la vita per me”;  “Debito”: “…per la vita che è un dono/  tra tanta morte uccisioni e guerre/… dono della sorte/ se non furto della vita,/ tempo che resta regalato dai morti/ per narrare la loro storia”. “Metrò”: “Tutto dimenticato/… tranne quando ti aggrappasti/ al mio braccio”. “Poesia per Rena”, moglie molto amata, scomparsa: “Passò come un fulmine…  ma trova sempre modi la luce/ per ritornare a illuminare”.  “La strada e la vita”, ultima scritta: “Tutto ciò che viviamo/… altri ora piccoli/….. rivivranno tormenti, gioie e strade nuove/ partendo da nostra vita dai mille volti/, vita unica vita nostra e degli altri”. Infine “La speranza”: “Che sia passeggero il dolore/ e sia eterno l’amore”, la scrisse sullo scontrino di un ristorante per la figlia di un amico che gli chiese di dedicarle dei versi. Ed è la speranza il suo messaggio poetico tra tante angosce attuali.

Sonia Caporossi, a dx, con Maria Grazia Calandrone

La poesia italiana torna nella 2^ parte di “Di penna in penna” , con tre poetesse. Inizia Sonia Caporossi, presentata da Maria Grazia Calandrone che ne sottolinea il talento multiforme, come musicista,  poetessa, critica letteraria, riconosciuto da premi ed espresso anche nella direzione di Collane e altro ancora. Sua la recente trilogia dei “Taccuini”,  dell’urlo, della madre, della cura.   Sembrerebbe un diario con la lettura della propria esistenza, e in parte lo è, ma ne è anche una lettura filosofica, nella forma accosta parole simili oppure opposte con effetto a volte straniante. Da “Taccuino della cura”, 2021:  “Ricordamelo tu, se proprio vuoi, chi sono/ la nudità dell’essere invoca l’apparire/ il vuoto dello specchio mi assiste incuriosito/ mentre distillo in pianto le mie perplessità./  cos’è la (nostalgia), necrosi di un istante/…che cosa è la sostanza di un riconoscimento/… e nonostante il sole che circoscrive il volto/ sebbene il suo calore ci riconosca vivi/ rimane solo il (gelo) che di umano non ha nulla…”.  Poi Anna Toscano presenta Anna Maria Curci, insegnante di tedesco e traduttrice in diverse lingue, la lingua è fondamentale per lei, concepisce la poesia come accoglimento della parola e poi testimonianza.  Torna il concetto di “cura” dopo la poetessa precedente, la poesia come cura anche nella traduzione definita “pratica devozionale”.  Da “Opera incerta”, 2020: “e notti e giorni/ e scostano le albe/ le cicatrici/ e le ferite fresche/ la cura si rinnova/ e la chiamano cruccio/ la coccoliamo come Sommo Dolore/ innamorati noi di noi dolenti/ bizzarra prescrizione un tempo aliena/ dischiude il senso allora/ travalica il confine/ quel sorriso che piangevi perduto”.  Pure Cetta Petrolio, introdotta anch’essa da Anna Toscano, come la Caporossi è direttrice di Collane e ha altre importanti attività. E’ come se nella sua poesia ci fosse non solo lei, la sente come raddoppiamento nel senso anche di accrescimento; è un filo continuo per saldare le varie parti di sé  in lei che scrive e spera che questa saldatura avvenga pure in chi la ascolta. Da “Giochiamo a contarci le dita”, 2022:  “Mi porto dietro il mio passato/ con qualche tarlo antico/ che a ogni primavera si rinnova/ sottotraccia il profumo nella casa/ di quando noi eravamo./ ….. Ancora trent’anni al secolo/ (già sorpassato/ da questo tavolino d’antiquariato)”.  

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“Idee di carta” 2^ parte Cristina Babino di “Vydia” con Vincenzo Mascolo

Segue la casa editrice “Vydia” nella 2^ parte di  “Idee di carta”,  che offre un Catalogo a largo spettro, con Collane che vanno dalla narrativa alla saggistica, dall’inchiesta giornalistica alle tradizioni locali e ai libri per l’infanzia, con un posto importante per la poesia. Ne parla  Mascolo con Luca Bartoli, l’imprenditore editoriale che la fondò nel 2011 il quale sottolinea la ricerca della qualità come criterio basilare. Dal 2018 il catalogo si è arricchito con la collana di poesie “Nereidi”, ideata e diretta da Cristina Babino, la quale spiega come siano ospitati poeti sia nuovi sia affermati con scritti introduttivi particolarmente autorevoli.  

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“Ritratti di poesia si stampi”, la premiata Diletta D’Angelo
con i componenti della giuria Alberto Bertani, Stefano Carrai, Carmen Gallo

Nella sezione “Ritratti di poesia si stampi”  il riconoscimento della prima pubblicazione – nella giuria Alberto Bertani, Stefano Carrai, Carmen Gallo, sono presenti Interno poesia e Andrea Cati – a  Diletta D’Angelo, per “L’Anamnesi”,  intesa come antecedente necessario alla diagnosi, la poetessa raccoglie i  ricordi  della sua famiglia con aspetti fisiologici  e patologici, fino alle radici del dolore e della violenza di generazione in generazione.

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Diletta D’Angelo legge dei versi dalla sua “Anamnesi”dopo la premiazione

Con la fine della mattinata  termina la prima parte della manifestazione, una breve pausa poi un pomeriggio altrettanto intenso, le maratone sono interminabili, quella poetica non fa eccezione;  nel suo campo invece è un’eccezione, un impegno poetico tanto prolungato appare veramente unico. Presto racconteremo la seconda parte con il finale emozionante del recital di Lina Sastri.

Emmanuele F.M. Emanuele con Vincenzo Mascolo e consorte

Info

Auditorium della Conciliazione, via della Conciliazione 4,  Roma. L’intera giornata è stata trasmessa in “streaming” su Rai Cultura e Rai Scuola ed è raggiungibile su Rai Play, le singole parti sono raggiungibili su youtube. Il 2°  e ultimo articolo sulla manifestazione uscirà in questo sito domani 21 maggio 2022.  Cfr. in questo sito i nostri articoli, sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di poesia”  12 marzo 2020, 17 febbraio 2019, 1° e 5 marzo 2018,  10 marzo 2017, 10 febbraio 2016, 15 febbraio 2013, 9 maggio 2011 ; su Emmanuele F.M. Emanuele   22 ottobre 2019, 14, 20 aprile 2019; sulle citazioni, di Steve MCurry e l’”afghana girl”   7, 10 gennaio, 17 marzo  2012, di  Pasolini gli articoli nel centenario della nascita il 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 marzo 2022.    

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Uno scorcio della sala

Foto

Le immagini sono state tratte dalla pagina “Facebook” dei “Ritratti di Poesia”, si ringrazia l’organizzazione di Inventa Eventi, e in particolare Carla Caiafa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Emmanuele F. M. Emanuele nell’intervento introduttivo della premiazione; seguono, uno scorcio della scenografia e “Caro poeta”, gli studenti dei 4 licei ; poi, “Caro poeta”, uno studente legge la sua poesia, con il poeta Elio Pecora, e “Premio Ritratti di poesia 280”, la vincitrice Irene Schiesaro con i membri della giuria, Sara Ventroni, Nicola Bultrini, Elio Pecora; quindi, “Le colombe di Damasco”, l’afghana Shukria Rezaei, e “Terra!”,  Valentina De Martini con Vincenzo Mascolo; inoltre, “Di penna in penna” 1^ parte, Marco Corsi, a sin,. con Gianni Montieri, “Idee di carta” 1^ parte  Angela Grasso e Luca  Rizzatello dell’Ophelia Borghesan, con Vincenzo Mascolo, e “Poesia sconfinata” 1^ parte, la francese Sylvie Fabre.con Fabio Scotto; ancora, “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello nazionale,  il premiato Maurizio Cucchi  con Emmanuele F. M. Emanuele che legge la motivazione del premio, a sin. Vincenzo Mascolo, e  Maurizio Cucchi  con il premio tra gli applausi di Emmanuele F. M. Emanuele e Vincenzo Mascolo; continua, “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello internazionale, il premiato Titos Patrikios nel suo intervento in collegamento, e Emmanuele F. M. Emanuele consegna il premio alla rappresentante del premiato Titos Patrikios; prosegue, Sonia Caporossi, a dx, con Maria Grazia Calandrone, e “Idee di carta” 2^ parte Cristina Babino di “Vydia” con Vincenzo Mascolo: poi, “Ritratti di poesia si stampi”, la premiata Diletta D’Angelo con i componenti della giuria Alberto Bertani, Stefano Carrai, Carmen Gallo, e Diletta D’Angelo legge dei versi dalla sua “Anamnesi” dopo la premiazione; quindi, Emmanuele F.M. Emanuele con Vincenzo Mascolo e consorte, poi uno scorcio della sala; in chiusura, la strumentazione della regia con trasmissione in streaming.

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la strumentazione della regia con trasmissione in streaming

Gianni Testa, 4. Le eterne beatitudini nelle visioni celestiali del Paradiso, al Museo Crocetti

Romano Maria Levante

Si conclude la nostra carrellata sulla mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto delle tre Cantiche. Dopo l‘Inferno e il Purgatorio siamo al Paradiso, con i 33 dipinti riferiti, come per le altre Cantiche, ciascuno a una terzina ispiratrice che riportiamo in corsivo, mentre sono in chiaro i versi ispiratori di altri dipinti dell’artista non esposti per il limite di un dipinto ogni canto. Si possono acquistare due stampe numerate fino a 100. Curatrice della mostra Chiara Testa, che l’ha realizzata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale con splendide riproduzioni dei dipinti incorniciati in nero e inquadrati nei Canti e versi ispiratori .

Canto 1°, vv. 88-90

La terza Cantica nella sua arcana astrazione è una sfida sovrumana, l’artista si cimenta nelle raffigurazioni dei 33 canti elevandosi al di sopra della materia per raggiungere l’Empireo dantesco, e non deve essergli risultato naturale dato che lo spessore materico e l’intensità cromatica sono stati sempre la sua cifra e forza espressiva, qui si è trattato invece di alleggerire, schiarire e rarefare.

Come  interpreta la magia del Paradiso Gianni Testa?  Le sue sono  immagini che, come in un ideale  caleidoscopio,  mutano conformazione nell’incanto di  figurazioni altamente ispirate: una sequenza  di colorazioni sull’azzurro, che porta in un ‘atmosfera celestiale, è seguita da una sinfonia di colori in un tripudio  sfolgorante, fino all’alternanza cromatica altrettanto simbolica che sostanzia la sublimazione soprannaturale unita a persistenti richiami terreni. Anche qui i dipinti in mostra, uno per canto, sono una selezione dei tanti realizzati, gli altri sono evocati solo dalla citazione dei versi  non in corsivo come quelli ispiratori dei dipinti selezionati, ma non vengono descritti.  

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Testa  Ultimo Paradiso 21470 Entrando nel  Paradiso, con i suoi nove Cieli dalla Luna al Primo Mobile e i Beati a diversi livelli fino all’Empireo, c’è da esprimere visivamente nientemeno che  “la gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra e risplende/ in una parte più e meno altrove”, questo l’inizio del Canto 1°. L’artista è ispirato dall’ammonimento di Beatrice a Dante sui limiti della visione terrena rispetto a quella celeste che è la vera dimensione in cui collocarsi:  “e cominciò: ‘Tu stesso ti fai grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti se l’avessi scosso” (vv. 88-90), pensare cose sbagliate ottunde la mente e non  fa vedere ciò che altrimenti sarebbe chiaro.  Cosa vedrà chiaro il Poeta lo dice nei versi successivi:”Tu non se’ in terra, sì come tu credi;/ ma folgore, fuggendo il proprio sito,/ non corse come tu ch’ad esso riedi”, l’immagine è folgorante, la proiezione verso il Paradiso veloce come il fulmine è resa con una raggiera celeste intorno alla meta suprema al centro. Anche l’artista si colloca in un’altra dimensione, “scuotendo” da sé le consuete forme espressive.

Canto 3°, vv. 88-90

La raggiera celeste diventa come un vortice avvolgente nell’immagine sul Canto 2°. I versi ispiratori, “O voi che siete in piccioletta barca/ desiderosi d’ascoltar, seguiti/ dietro al mio legno che cantando varca” (vv. 1-3), rimandano all’ammonimento su quanto sia complesso ciò che seguirà per la sua altezza sublime, e la vediamo nel centro del vortice verso cui tende insieme agli Angeli che gli sono più vicini, Dante ancora lontano. Arriveranno al cielo della Luna, “in una nube lucida spessa solida  e pulita” come un diamante che risplende al sole, e avvolge anche Dante pur con la sua  natura corporea:  ne resta affascinato e sente di adorare la grazia di Dio che gli ha concesso un privilegio sublime. Poi  prevale il raziocinio,  con le disquisizioni sull’annoso problema delle  macchie lunari e le influenze celesti, scienza e fede insieme. L’artista non segue la ragione ma l’ispirazione celestiale, raffigura nei cerchi concentrici un volo di angeli che si librano con le ali aperte  in modo leggiadro; rende appieno la “mirabil cosa” che, dice il Poeta,  “mi torse il viso a sé”, distogliendolo  dalla vista di Beatrice. Poco dopo continua la metafora marinara, pur entrando nei cieli del Paradiso: “metter potete ben per l’altro sale/ vostro navigio, servando mio solco/ dinanzi all’acqua che ritorna equale” . Dirà, ai versi 106-111, che non c’è da meravigliarsi dinanzi al portentoso, come fu per gli Argonauti, e fa seguire più avanti l’inimmaginabile:  “Or come ai colpi de li caldi rai/ de la neve riman nudo il soggetto/ e dal colore e dal freddo primai,/ così rimaso te ne l’intelletto/ voglio informar di luce sì vivace,/ che ti tremolerà nel suo aspetto”-

Nel Canto 3°  Dante comincia a capire: “Chiaro mi fu allor come ogne dove/ in cielo è paradiso, etsi la grazia/  del sommo ben d’un modo non vi piove” (vv. 88-90), l’artista lo segue con l’identificazione del Paradiso in un cielo dal celeste al blu con angeli in volo che diffondono un biancore luminoso. Cosa vede chiaro il Poeta lo ha già fatto capire nei versi precedenti, la spiritualità s’innalza con i versi 52-54: “Li  nostri affetti che solo infiammati/ son nel piacer de lo Spirito Santo/, letizian del suo ordine formati”  e ancora con i versi 76-78 ”che vedrai non capére in  questi giri,/ s’essere in carità è qui necesse,/ e se la sua natura ben rimiri”.

Canto 8°, vv 16-18

Beatrice parla dell’ordinamento dell’universo, con al centro Dio, della predestinazione  degli uomini con il libero arbitrio e la volontà divina; si incontrano le prime anime elette, tra cui Piccarda, nel cielo con le beatitudini ancora al livello inferiore.

La visione celeste si eleva con i cerchi concentrici visti da vicino, l’artista presenta la visione ingrandita di metà della loro circonferenza, fino al culmine del centro, si ispira ai versi del  Canto 4°: “S’elli intende tornare a queste rote/ l’onor de la influenza e ‘l‘biasmo, forse/ in alcun vero suo arco percuote” (v. 58-60) che si richiamano alla tesi platonica sugli influssi buoni  e cattivi di quei cieli, li interpreta con motivi rossi che si aggiungono a quelli chiari nel piovere sulla terra, mentre Dante e Beatrice si godono lo spettacolo. Ci sono elevati discorsi teologici e filosofici, sulla violenza cui hanno ceduto le anime che non può scusarle appieno perché “volontà se non vuol non s’ammorza”, si parla di Piccarda e del velo monacale. La beatitudine è eterna e senza limiti di tempo, a differenza della tesi platonica di periodi limitati delle anime che tornavano alle stelle. Così ne parla ai versi 31-33: “ Non hanno in altro cielo i loro scanni/ che questi spirti  che mo t’appariro,/ né hanno a l’esser lor più o meno anni”. Ci sono i  Serafini, l’ordine più alto degli Angeli, si parla della Vergine, dei  maggiori profeti Abramo e Samuele, dei  santi Giovanni, Battista ed Evangelista, tutti uniti nell’eternità, sembrano riferirsi a loro le vaghe forme che si vedono fluttuare.

Nel Canto 5° la visione dell’artista diviene ancora più penetrante, il celeste diventa blu attraversato da forme indistinte che forse evocano la complessità dottrinale, anche se al termine si eleva. L’artista è colpito dalla terzina iniziale: “”Io veggio ben sì come già resplende/ ne l’intelletto tuo l’eterna luce,/ che, vista, sola e sempre amore accende” (vv. 7-9), cui segue ai versi  16-18 la precisazione: “Sì cominciò Beatrice questo canto;/ e sì com’uom che suo parlar non spezza,/ continuò così ‘l processo santo”. La luce divina suscita amore perenne, Beatrice non si interrompe, le sue parole sono sull’amore terreno e  la verità divina, le buone azioni e le manchevolezze umane, i voti e il libero arbitrio. Ai versi 103-105 la visione poetica si accende: “si vid’io ben più di mille splendori/ trarsi vèr noi, ed in ciascun s’udìa:/ ‘Ecco chi crescerà li nostri amori’”.

Canto 10°, vv. 139-141

Sorprende l’immagine sul Canto 6°, incendiata di rosso e arancio, anche se si intravvedono angeli in volo, ma è presto spiegata, si ispira ai versi che aprono il canto: “Poscia che Costantin l’aquila volse/ contro al corso del ciel, che la seguio/ dietro a l’antico che Lavinia tolse…” (v. 1-3):  le insegne imperiali e l’evocazione di Enea riportano alle fiamme delle guerre e all’incendio di Troia, l’anima che ricorda la storia dell’impero romano da Costantino in poi si presenta così:  “Cesare fui e son Giustiniano”, è il cielo di Mercurio,  ancora inferiore rispetto all’Empireo, con le anime che pur operando bene, sono state  mosse dalla ricerca di gloria e di fama piuttosto che del bene assoluto. 

Ancora rosso e arancio nell’interpretazione del Canto 7° ispirata dalla terzina”’Tu dici: ‘Io veggio  l’acqua, io veggio il fuoco,/ l’aere e la terra e tutte lor misture/ venire a corruzione e durar poco…’” (vv. 124-126), l’immagine è molto contrastata nel suo cromatismo, a  differenza delle tinte celestiali consuete, ma si tratta della corruttibilità degli elementi naturali fino a giungere alla resurrezione dei corpi. E poi tornano le complicazioni dottrinali – come il sacrificio di Cristo e le colpe degli uomini con la punizione degli ebrei – evocate dai dubbi di Dante sulle apparenti contraddizioni che vengono sciolte prontamente. La conclusione è sulla bontà divina, sul riscatto con il sacrificio di Cristo dal peccato dell’uomo di aver abusato della libertà  donatagli da Dio, un bene sacro per gli angeli e anche per gli uomini immortali,  come gli angeli.

Torna la visione celestiale nel Canto 8°, con la terzina ispiratrice “E come in fiamma favilla si vede,/ e come in voce voce si discerne,/ quand’una è ferma e l’altra va e riede” (v. 16-18), torna il blu e il celeste in una visione dal basso del rincorrersi evocato da queste parole, con  Dante e Beatrice che guardano  un cielo dal quale scendono raggi fino al culmine dei cerchi concentrici verso la sommità. E’ il cielo di Venere, degli “spiriti amanti”, con Beatrice “ch’i vidi far più bella”, c’è Carlo Martello che disquisisce sulla buona e “mala segnorìa” in Sicilia e non solo dei D’Angiò e degli Aragonesi.

Canto 14°, vv. 31-33

L’atmosfera si accende nel Canto 9°  con un cromatismo intenso sul rosso in tre masse distinte e un blu che tende al nero, la terzina ispiratrice ha come protagonista  Cunizza, ultima dei figli di Ezzelino II da Romano, tiranno della marca trevigiana, che dopo una vita  traviata dalle passioni, diventa fervente di carità e amore celeste, per questo è tra i beati al livello minore, Dante  ne descrive l’apparizione così: ”Ed ecco un altro di quegli splendori/ ver’ me si fece , e il suo voler piacermi / significan nel chiarir di fiori” (vv. 13-15). La rappresentazione tempestosa sembra evocare le sventure che lei  predice  e il tradimento del vescovo di Feltre; ma anche nello squarcio azzurro la diversa evocazione di Falchetto di Marsiglia, con l’anima risplendente di Raab che aiutò gli Ebrei nella riconquista della Terra santa,

Nel  Canto 10° l’ispirazione viene dal sublime richiamo soprannaturale: “Indi, come orologio che ne chiami/ ne l’ora che la sposa di Dio surge/ a mattinar lo sposo perché l’ami” (v. 139-141),  l’immagine con il blu intenso e il celeste evoca la profondità  spirituale, ma non manca il riferimento a qualcosa di terreno nel resto della composizione, il verde in una sorta di corona circolare. I versi richiamano la messa mattutina, quindi c’è anche questo motivo quotidiano. Siamo nel Cielo del Sole con le anime dei sapienti che \si dispongono in cerchio, il Poeta ringrazia Dio sì chè “Beatrice eclissò ne l’oblio”.

Blu con  formazioni vaganti e striature bianche luminose l’immagine sul Canto 11°, l’artista è ispirato da due straordinarie figure di santi: “L’un fu tutto serafico  in ardore; / l’altro per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore” (vv. 37-39). Si tratta di san Francesco e di san Domenico che, secondo le parole di san Tommaso, nel disegno della Provvidenza erano stati  mandati da Dio per rinnovare la comunità cristiana, san Francesco nella povertà e nell’umiltà, san Domenico in altre virtù, in cielo con i serafini e i cherubini vengono riconciliati i due ordini che in terra si contrapponevano sul piano dottrinale e dell’azione pratica, contemplativa nei francescani votati alla povertà, attiva nei domenicani sui beni materiali, per questo entrarono in decadenza nelle parole di san Tommaso che all’elogio di san Francesco unisce la critica ai domenicani.

Canto 15°, vv 70-72

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Nel  Canto 12°,  il francescano san Bonaventura loda san Domenico,  nell’alternanza simbolica con la lode del domenicano san Tommaso a san Francesco, e anche in questo caso termina con l’aspra  critica alla decadenza dei francescani con le loro deviazioni, divisi tra i fedeli seguaci della rigida regola e i trasgressori per una vita più facile e rilassata.  L’artista presenta un’esplosione cromatica come una festa celebrativa con i fuochi d’artificio dei due campioni, ispirandosi a una terzina  festosa “Più che ‘l tripudio e l’altra festa grande,/ sì del cantare e sì del fiammeggiarsi/ luce con  luce gaudiose e blande”(vv. 22-24) preceduta da versi altrettanto eloquenti “… così di quelle sempiterne rose/ volgiensi circa noi le due ghirlande,/ e sì l’estrema e l’intima rispose”, .

 Resta il rosso, sfumato nel rosa arancio, nell’immagine ispirata alla terzina  del Canto  13°  “imagini la bocca di quel corno/ che si comincia in punta de lo stelo/ a cui la prima rota va dintorno” (v. 10-12): siamo nella costellazione dell’Orsa Minore, di qui la visione celestiale dei cerchi concentrici questa volta in un colore insolito;  forse perché i carri con la stella polare sono una visione frequente anche dalla terra la  scena si tinge di tonalità terrene. Il Poeta descrive la danza dei beati nelle due ghirlande con degli esempi, poi tornano le disquisizioni teologiche, questa volta su Adamo e Gesù Cristo, con gli ammonimenti sui giudizi umani incauti ed erronei. Al centro sempre san Tommaso, con l’elogio della sapienza politica di Salomone.    

Salomone interviene direttamente nel Canto 14°, rispondendo a Beatrice che subentra a san Tommaso rivelando un dubbio di  Dante sulla luce irradiata negli spiriti beati anche dopo la resurrezione dei corpi. Descrive la carità come una veste luminosa tanto più intensa quanto maggiore è il suo ardore che dipende  dalla visione di Dio legata alla grazia soprannaturale aggiunta ai meriti che con la resurrezione farà raggiungere la perfezione dell’integrità con la beatitudine, quindi una visione di Dio ancora maggiore  con carità più intensa  e luce più fulgida, è il Sommo bene. La terzina alla quale si ispira l’artista introduce questa esplosione di spiritualità resa con un volo di bianche figure in una porzione ravvicinata del cerchio celestiale con sfumature dall’azzurro luminoso al blu nella visione avvolgente di una ascesa  concentrica irresistibile. “tre volte era cantato da ciascuno/ di quelli spirti con tal melodia,/ ch’ad ogne merto saria giusto muno”  (vv. 31-33), è il canto degli spiriti  in omaggio alla Trinità, i meriti avranno la loro ricompensa.

Canto 17°, vv 121-123

Con il Canto 15° il cromatismo si fa variegato, con il giallo e il rosso nella fascia centrale, le bianche figure in volo dominano anche qui  la scena, “Io mi volsi a Beatrice e quella udio/ pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno/ che fece crescer l’ali al voler mio” (vv. 70-72),, le ali metaforiche sembrano materializzarsi  nell’atmosfera appena descritta con una sottile pioggia bianca di purezza divina. L’assenza di Beatrice sembra in contrasto con i versi ispiratori, ma  è solo apparente, si parla dei Beati, nei quali la visione di Dio mette sullo stesso piano intelligenza e sentimento, del “sol che v’allumò e arse”, perciò la visione diventa  solo celestiale. Parla Cacciaguida trisavolo del Poeta, alla sua nascita Firenze era  piccola  ma onesta e pura nei costumi mentre poi si è ingrandita e corrotta, lui è morto combattendo in Terrasanta, è l’occasione per una disamina sull’antica moralità e il vizio odierno, fino all’antitesi tra la terra e il cielo. All’inizio del canto, ai versi 19-21,  una spettacolare visione celeste: “… tale dal corno che ‘n destro si stende/ a piè di quella croce corse un astro/ de la costellazion che lì resplende”.

Non c’è né il celeste né il blu del firmamento, la raggiera è insolitamente scura, sempre le candide  figure in volo con al centro  delle forme bianche indistinte, su un fondo chiaro che illumina la scena. Siamo al Canto 16°, Cacciaguida ancora protagonista, Dante gli fa delle domande cui risponde parlando della propria famiglia e delle famiglie fiorentine decadute, la terzina ispiratrice è una delle frequenti metafore dantesche: “Come s’avviva allo spirar di venti/ carbone in fiamma, così vid’io quella/ luce risplendere a’ miei blandimenti” (vv.28-30), la trasposizione pittorica è conseguente.

La luce è al centro  anche dell’interpretazione del Canto 17°, ancora in modo metaforico, immersa in un cromatismo verde-azzurro, come per il canto precedente emergeva da una raggiera scura: “La luce in che rideva il mio tesoro/ ch’io trovai lì, si fa prima corrusca,/ quale a raggio di sole specchio d’oro” (vv. 121-123). Si riferisce a Cacciaguida, che scuote Dante con la profezia della persecuzione dei suoi nemici e dell’esilio presso gli Scaligeri, e della fama imperitura che lo attende esortandolo  a raccontare tutto senza esitare, con una grande tensione morale.

Canto 19 °, vv 4-6

 Beatrice  all’inizio del Canto 18° lo riscuote dai pensieri sulla sorte futura a lui profetizzata ricordandogli che la presenza di Dio, riflessa in lei risplendente di luce, fa sopportare e raddrizza ogni torto subito. Cacciaguida presenta le altre anime celebri che sono in una croce luminosa, Giosuè e Maccabeo, Carlo Magno e Orlando, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo, quindi si entra nel cielo di Giove  con coloro che in vita operarono secondo giustizia. L’artista si è ispirato a una delle ultime terzine, idealmente conclusiva di un  incontro così intenso: “O milizia del ciel  cu’ io contempli,/ adora per color che sono in terra / tutti sviati dietro il malo esempio” (vv.  124-126. L’invocazione alla corte celeste di pregare per riportare sulla retta via segue quella sulla giustizia umana che “effetto sia del ciel”. Nell’immagine troviamo la compresenza del blu profondo con il rosso altrettanto intenso e un verde chiaro che dà luce, per esprimere la convivenza dei due motivi, quello celeste, ”la milizia del ciel”, e quello terreno, “il malo esemplo”.

La corona circolare ruotante del canto 14° lo ritroviamo non più nell’azzurro celestiale, ma  in un rosso tendente al rosa al centro, tra un estremo scuro e uno chiaro e luminoso. Siamo al Canto 19°, la terzina ispiratrice è ancora una metafora: “parea ciascuna rubinetto in cui/ raggio di sole ardesse sì acceso/  che ne’ miei occhi rifrangesse lui” (vv. 4-6), ogni anima appare come un rubino acceso dalla luce del sole, che l’artista ha prefigurato con un cromatismo inconsueto. Nell’Aquila che campeggia nel cielo di Giove si trovano le anime luminose unite nella sua figura che diventa un simbolo al di là delle componenti, in una astrazione sempre maggiore dopo le terrene rievocazioni di Cacciaguida, l’Aquila parla della  giustizia di Dio e della dottrina della salvezza, ma non manca “in cauda venenum”, l’invettiva contro i cattivi regnanti che pagheranno nel giorno del giudizio.

Ancora la corona circolare ruotante ma questa volta nel suo colore celestiale nell’immagine del Canto 20° ispirata a una delle prime terzine: “però che tutte quelle vive luci/ vie più lucendo, cominciaron canti/ da mia memoria labili e caduci”  (vv. 10-12). E’ il canto dei Beati dopo l’invettiva dell’Aquila, simbolo della Giustizia nel cui occhio c’è Davide, nel ciglio Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo d’Altavilla, il troiano Rifeo, tra cui due pagani ugualmente beati. Viene data risposta allo sconcerto di Dante per concludere con la predestinazione, la figura appena accennatA dall’artista al centro della sua rappresentazione sembra evocare la giustizia divina.

Canto 21°, vv 31-33

Cambia tutto con l’immagine riferita al Canto 21°, la più “terrena”  tra quelle del Paradiso: un picco   altissimo coperto di verde vegetazione che sembra bucare il cielo, in sostituzione dei lumi evocati dai versi, che si riferiscono alla scala d’oro che si percorre  nella vita contemplativa: “Vidi  anche per li gradi scender giuso/ tanti splendor, ch’io pensai ch’ogni lume/ che par nel ciel quindi fosse diffuso” (v. 31-33). La similitudine immediatamente successiva del movimento delle cornacchie riporta sulla terra, come  l’invettiva di san Pier Damiano contro la corruzione della Chiesa, il picco verde che punta in alto sembra segnare il  passaggio al cielo di Saturno con il richiamo terreno.

Per il Canto 22°  una sorta di ruota  dai forti tratti con figure appena delineate in basso,  siamo fuori dalla visione celestiale, evoca la sfera terrestre con la stessa circolarità ma dalla forma  e  dal cromatismo ben diversi: “Col viso ritornai per tutte quante/ le sette sfere e vidi questo globo/ tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante”  (vv. 133-135). Come è ben diverso il globo terrestre dalle sette sfere nel suo “vil sembiante” a fronte della grandezza dell’universo. La figura dominante è san Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine di cui lamenta la decadenza, come era avvenuto per francescani e domenicani.

I Canti finali, dal 23° al 33°

Dopo le due immagini  “terrene” si torna alla visione celestiale con figure in volo bianche e blu immerse in un celeste chiarissimo quanto mai luminoso. Siamo al Canto 23°, nella terzina ispiratrice “Perché la faccia mia  si t’innamora/ che tu non ti rivolgi al bel giardino/  che sotto i raggi di Cristo s’infiora?” (vv. 70-72) il dolce invito di Beatrice di distogliere lo sguardo da lei per rivolgerlo ai cori dei Beati che si accendono alla luce di Cristo, come i fiori ai raggi del sole, l’immagine esprime nella leggerezza cromatica e delle forme quanto di più spirituale si possa concepire. C’è nel canto il trionfo di Cristo e il trionfo di Maria, fino alla dolce melodia del “Regina coeli”.

Canto 23,°, vv 70-72

Entriamo nel Canto 24°, in un cromatismo più intenso, con il celeste che vira al blu in una esplosione di macchie candide  con un delicato intreccio di linee avvolgenti che evocano l’immagine della terzina ispiratrice: “Così Beatrice, e quelle anime liete/ si fero sapere sopra fissi poli,/ fiammando, volte, a guisa di comete”   (vv. 10-12). Tutto ruota intorno a un asse immobile, gli spiriti beati come costellazioni. Alla preghiera di Beatrice agli Apostoli di porgere  a Dante l’acqua della vita eterna risponde san Pietro e lei lo invita ad esaminare  Dante sulla fede, la prima virtù teologale, sostanza delle cose sperate e argomento di quelle che non si vedono, si parla anche dei miracoli  riscuotendo al termine  l’approvazione del principe degli Apostoli.

Dall’esame sulla fede a quello sulla speranza, la seconda virtù teologale, nel Canto 25°, la terzina ispiratrice è la prima con quella che è stata definita tra le note più umane di tutto il poema in quanto trasforma l’esame in una consacrazione, le note personali sulla sua opera diventano missione universale. : “Se mai costringa che ‘l poema sacro/ al quale ho posto mano e cielo e terra,/ sì che m’ha fatto per molti anni macro” (vv. 1-3). E sebbene sia stato logorato dalla sua nobile fatica è stato posto a bando dalla sua città per l’odio dei concittadini. Per questo l’interpretazione dell’artista è un’immagine da Purgatorio, quasi volesse richiamare la parte che precede del “poema sacro”, mentre la figura bianca protesa in alto, oltre che un’anima penitenziale, può impersonare la “sposa tacita e immota” che appare tra le splendide scene nel poetico esame di Dante sulla speranza.

L’esame di Dante sulla terza virtù teologale, la carità, che segue logicamente nel Canto 26°, rimanda all’oggetto primario dell’amore che la anima, l’infinita grandezza e bontà di Dio al quale tendono le anime. Riprende l’uso pieno della vista, prima simbolicamente annebbiata, mentre si eleva il canto del Sanctus e vede la luce della  prima anima creata da Dio, quella di Adamo che risponde alle sue domande  confidandosi sulla sua permanenza nel paradiso terrestre e sulla lingua. L’artista si ispira alla terzina “Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose/ ne l’eccelso giardino, ove costei/ a così lunga scala ti dispuose”  (vv. 109-111), e rappresenta una scala quasi indistinguibile immersa in un verde veramente terreno, il “giardino” con la bianche sagome delle anime in volo.

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Canto 26°, vv. 109-111

Il  rosso-arancio che vediamo nella parte sinistra del’immagine ispirata al Canto 27°, sembra esprimere i motivi terreni nell’invettiva di san Pietro contro il malcostume di Bonifacio VIII che ha corrotto la Chiesa e l’intera città di Roma superati per il calore dell’amore divino; mentre l’azzurro e il viola, con le sfumature celestiali e gli angeli in volo, rimandano all’intervento salvifico della Provvidenza evocato dall’apostolo, cui fa eco Beatrice:  “e questo cielo non ha altro dove/ che la mente divina, in che s’accende/ l’amor che il  volge e la virtù ch’ei piove” (v. 109-111), è la terzina cui si è ispirato l’artista, il cielo dove si trovano non rientra in altri luoghi celesti ma nell’Empireo dove lo fa girare l’ardente amore e la virtù  che trasmette alle sfere sottostanti. Si sale al Primo Mobile. Anche in questo canto nelle parole di Beatrice c’è la deplorazione dell’umanità corrotta dall’errore e dalla colpa, ma anche la promessa di una nuova stagione di onestà e di giustizia.     

Nel Canto 28°  spicca  un punto molto luminoso insostenibile alla vista e  nove cerchi di fuoco, da quel punto nel quale si trova Dio dipendono il cielo e la natura, i cerchi rappresentano le gerarchie angeliche che a loro volta animano a diversi livelli le sfere celesti secondo principi  collegati alle virtù; il  cielo più grande, il Primo Mobile dove si trovano, corrisponde al cerchio angelico più vicino a Dio. “Li cerchi corporai sono ampi e arti/ secondo il più e il men de la virtude/ che si distende per tutte le lor parti”(vv. 64-66). L’artista interpreta questa terzina ponendo Dante e Beatrice  sulla sinistra al cospetto di una visione non più nel cromatismo celestiale  ma in un’ocra alquanto variegata mentre le bianche sagome in volo mantengono viva la presenza delle anime al di là delle complesse architetture in cui si pongono le gerarchie celesti. Beatrice spiega l’ordine celeste anche rispetto all’ordine del mondo, ma nell’immagine non si stacca da Dante. 

All’opposto trionfa il rosso brillante come non mai nell’interpretazione  della terzina del Canto 29° “La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe,/ quanti son li splendori a chi s’appaia” (vv. 136-138).  La corona circolare da celeste diviene infuocata, percorsa da tratti che sembrano evocare le divisioni e le gerarchie, e il fatto che la luce di Dio mentre irraggia i cieli angelici viene ricevuta in tanti modi diversi  quanti sono i loro splendori, ogni angelo riceve la luce della grazia e il dono della visione di Dio con una intensità differente. Nella spiegazione di Beatrice dell’ordine celeste non manca la rampogna per l’ordine terreno, contro i preti i quali dimenticano che la predicazione deve persuadere ad essere cristiani e i frati impostori che spacciano favole e finte indulgenze alla gente semplice per dei bassi interessi personali.  

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Canto 30°, vv 97-99

L’invocazione del Canto 30°, “O isplendor di Dio, per cu’ io vidi/ l’alto triunfo del regno verace/, dammi virtù a dir com’io il vidi!” (v. 97-99), l’artista sembra farla propria, rappresenta la mirabile elevazione dal turbinio di colori della terra al celeste e al blu iperuranio fino a sollevarsi  in una piramide che raggiunge il cerchio divino posto al culmine, dove arde l’amore divino, nell’’Empireo dove si trovano Dio con gli Angeli e i Beati uniti nell’eterna beatitudine. L’immagine  evoca anche la visione dei fiori, che vediamo intorno a Dante e Beatrice sotto la pioggia  di luce, un “umbrifero prefazio”, come dice Beatrice, una meraviglia inaccessibile alla mente umana. L’occhio spazia dal generale al particolare, nella città celeste ci sono i “corpi gloriosi”, gli scanni dove siedono i giusti, quasi tutti già occupati, vi è il “trono” ancora vuoto in attesa di Arrigo VII, che verrà in Italia per ripristinare ordine e giustizia, ma troverà la terra impreparata e sarà ostacolato dal papa Clemente V, per questo finito poi all’Inferno tra i simoniaci.

E’ l’ultima nota terrena, ora  siamo al Canto 31°,  gli Angeli volano avanti e indietro tra Dio e i Beati  per comunicare  pace e amore, e  scendendo “di banco in banco” con il loro volo  non impediscono  “la vista e lo splendore”,  “… chè la luce divina è penetrante/ per l’universo secondo ch’è degno,/  sì che nulla le puote essere ostante” (v. 22-24). Lo vediamo nelle macchie luminose che costellano la composizione tra il blu e il celeste con grandi squarci bianchi in un’immersione totale nell’Empireo iperuranio.  Viene evocata così l’immensa rosa candida costituita dai santi che si mostrano a Dante  immerso nella contemplazione, passando da un “gradino” all’altro, tra i visi accesi dall’amore e dalla carità. Intanto Beatrice si dilegua, al suo posto c’è san Bernardo di Chiaravalle,  il grande mistico fervente apostolo del culto di Maria, che mostra a Dante Beatrice andata a sedersi sul proprio trono nel terzo gradino, lontanissima da lui che la vede distintamente e le rivolge un elogio riconoscente per i benefici di grazia e di virtù che gli ha dato dandogli speranza e liberandolo dalla schiavitù del peccato. Poi la contemplazione della Vergine per prepararsi alla visione di Dio.

Nel  Canto 32° san Bernardo spiega la disposizione dei beati nella “candida rosa” con al culmine la Vergine e ai suoi piedi Eva,  “vo per la rosa giù di foglia in foglia”, e poi dirimendo del fior tutte le chiome”, fino a  “’l fiore è maturo di tutte le sue foglie”, mentre “da l’altra parte onde sono intercisi/ di vòti  i semicircoli, si stanno/ quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.   Alla sinistra di Maria i credenti nel Cristo “venturo”, alla sua destra i credenti nel Cristo “venuto”,  l’artista rappresenta l’immagine  di Cristo con una grande figura veramente toccante, su uno sfondo che evoca la profondità celeste, il corpo quasi connaturato con le nuvole del cielo. La terzina “Così ricorsi ancora a la dottrina/ di colui ch’abbelliva di Maria,/  come del sole stella mattutina” (vv. 106-108) rimanda a san Bernardo su cui si riflette la luce di Maria, la “vergine madre figlia del tuo figlio” così magistralmente raffigurato dall’artista che anticipa l’inizio sfolgorante dell’ultimo canto. San Bernardo esorta Dante a contemplare la Vergine per prepararsi alla visione di Dio, mentre l’Arcangelo Gabriele intona “Ave Maria, gratia plena…”

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Canto 33, vv. 142-144

Si è giunti  così al punto più alto  del viaggio artistico di Gianni Testa  che accompagna il viaggio poetico di Dante Alighieri: è il Canto 33°, a chiusura della  cantica e dell’intera  Commedia, si apre con l’invocazione di san Bernardo alla Madonna, i suoi accenti sono tali da toccare il cuore ogni volta che si ricordano:“Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’eterno consiglio,…” . L’artista ha interpretato queste parole memorabili con un’immagine che vede la Madonna vicina al vertice celeste con i raggi che partono dalla sua figura sospesa in alto e scendono fino a diventare una grande nuvola che raggiunge Dante, spettatore ammirato; è tra i tanti dipinti non compresi tra quelli in mostra, ma non abbiamo potuto astenerci dal descriverlo – a differenza di tutti gli altri assenti per i quali abbiamo citato soltanto i versi ispiratori non mettendoli in corsivo –  per la straordinaria forza espressiva nella traduzione pittorica dell’invocazione. Il canto si chiude con i versi che ispirano l’artista nella sua conclusione pittorica coincidente con la conclusione poetica: “A l’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disìo e il velle,/ sì come rota ch’igualmente è mossa,/ l’amor che move il sole  e l’altre stelle” (v. 142-145).  Siamo al momento supremo, la contemplazione di Dio cui Dante è pronto essendosi purificato  passando dall’Inferno al Purgatorio poi, di cielo in cielo nel Paradiso  fino alla sommità dell’Empireo. Viene reso con i cerchi concentrici, i “tre giri”,  e la convergenza verso il centro più alto posto al culmine. Rispetto all’immagine ispirata dal Canto 1°  si nota un’analoga convergenza verso l’alto, ma in quella raffigurazione tutto era più marcato, le linee ascendenti come il centro coperto da una macchia rossa, qui tutto è sfumato, il centro è ora scoperto, un bianco ingresso a un infinito  imperscrutabile.

Dove c’era tensione ora c’è pace, la sete di Dio è stata placata, nell’animo si è diffusa l’armonia che regna nei Beati: questo avviene nel cuore del Poeta al termine del viaggio, questo è avvenuto nel cuore dell’artista che lo ha accompagnato, lo abbiamo visto dall’ultima immagine che trascolora, ispirata ai versi conclusivi della Commedia dantesca, questo sentiamo anche dentro di noi dopo la totale immersione pittorica e poetica che abbiamo narrato.

Il racconto del nostro viaggio pittorico e anche poetico nella Divina Commedia termina qui, ma avrà un seguito conclusivo prossimamente in un’intervista con 15 domande al maestro Gianni Testa sull’iter creativo della sua opera e le relative valutazioni. Ci sentiamo intanto di dire senza presunzione ma come moto spontaneo, che la riteniamo  un’opera  meritevole di essere associata  al testo dantesco nelle scuole e nei “Dantedì” da poco istituiti. Sarebbe un bel modo perché il 7° centenario di Dante lasci un segno nell’immaginario collettivo oltre che nel mondo degli appassionati alle “lecturae Dantis”.   

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Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. I primi tre articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 23, 25, 29 marzo 2022. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 24°, vv. 10-12

Foto

Le immagini dei dipinti del Paradiso sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice o prese dal Catalogo Si ringrazia Chiara Testa, insieme all’Editore e a Gianni Testa, l’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri del Purgatorio nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro del Paradiso ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 1° vv. 88-90, seguono, Canto 3° vv 88-90 e Canto 8° vv 16-18; poi, Canto 10° vv. 139-141, e Canto 14° vv 31-33; quindi, Canto 15° vv 70-72 e Canto 17° vv 121-123; inoltre, Canto 19 ° vv 4-6 e Canto 21° vv 31-33; ancora, Canto 23° vv 70-72 e Canto 26° vv 109-111; conrinua, Canto 30° vv 97-993, e Canto 33 vv. 142-144; infine, Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici e Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto Canto 24° vv. 10-12; in chiusura, L‘artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14° vv. 31-33 del Paradiso.

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L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14°, vv. 31-33 del Paradiso

Gianni Testa, 3. Le anime penitenti nell’ascesa del Purgatorio, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Passiamo al Purgatorio dopo aver percorso le 34 “stazioni” dell’Inferno dantesco nella mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto. Sono 33 dipinti anch’essi, come per le altre Cantiche, riferiti ciascuno a una terzina ispiratrice. Si possono acquistare due stampe numerate fino a 100. Curatrice della mostra Chiara Testa, che l’ha realizzata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale con riproduzioni dei dipinti corredate dall’ inqudramento dei Canti e dai versi ispiratori, in una cornice nera che ne fa risaltare l’intenso cromatismo.

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Canto 3° vv. 58-60

Le  33 rappresentazioni del  Purgatorio esprimono il senso di liberazione dopo i recessi corruschi dell’Inferno, con la luce, i colori e l’apertura degli spazi dove  si muovono Dante e Virgilio. Nelle sue plaghe si purgano i peccati commessi dei quali gli espianti la pena si pentono sinceramente. Nella nostra carrellata, i versi ispiratori dei quadri esposti sono in corsivo, i versi in tondo per lo più hanno ispirato altri dipinti dell’artista non esposti.

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Con l’Antipurgatorio, nella prima immagine dell’artista ci sono i colori rossastri, l’Inferno è ancora vicino: la barca dove si trovano Dante e Virgilio si muove nelle acque agitate con gli spruzzi che li bagnano mentre seduti sono impegnati a  reggersi per restare a bordo.  Si ispira ai versi iniziali del Canto 1°, visualizzandone la similitudine: “Per correr miglior acque alza le vele/ ormai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro di sé mar sì crudele” (vv. 1-3).   Poi viene l’incontro con Catone, simbolo di integrità morale, penitente per il suicidio cui ricorse nell’anelito di libertà.  

Nel  Canto 2°,  con i peccatori per vanità, una navicella porta le anime biancovestite, c’è un grande angelo con le ali aperte ad accoglierle sulla riva, le guardano due figure, una eretta vestita di bianco, l’altra di marrone accoccolata a terra, potrebbero essere  Dante e Virgilio che hanno dismesso i panni blu e rosso, così in Dante si ha la piena immedesimazione con le anime. Casella intonerà poi  il  canto. “amor che nella mente mi ragiona”, con le parole del “Convivio” dantesco,  fino al brusco richiamo di Catone “Che è ciò, spiriti lenti?”.  Questi i versi del Poeta che hanno ispirato l’artista: “Da poppa stava il celestial nocchiero,/ tal che faria beato pur descripto;/ e più di cento spirti entro sediero” (vv. 43-45). 

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, Canto 5° vv 22-24

Entriamo  ancora di più nel vivo con il Canto 3°, vi sono i defunti per morte violenta che  non si sono potuti pentire e gli scomunicati, una lunga schiera di anime biancovestite: “da man sinistra m’apparì una gente, che movieno o piè ver’ noi,/ e non pareva, sì venian lente” (vv. 55-60). L’immagine ne dà una visione corale di grande intensità, la fila di penitenti sul crinale del monte guidata dall’angelo dall’alto, li guardano Dante e  Virgilio che si rivolge a loro con le parole “ben finiti, spiriti eletti”. Dopo si parlerà del peccato originale, di Aristotele e Platone, ci sarà  l’incontro con gli scomunicati, tra cui  Manfredi, “nipote di Costanza imperatrice”, che  rivela come in punto di morte si rivolse “a quei che volentier perdona”, e il suo appello alla misericordia divina lo salvò dalla pena infernale.

Nel Canto 4° – dove di trovano i negligenti che sono stati sorpresi dalla morte prima di confessarsi –   l’artista non si è ispirato direttamente ai versi 31-33 “Noi salivam per entro il sasso rotto,/ e d’ogni lato ne stringea lo stremo,/ e piedi e man volea il suol di sotto”, tanto che Dante e Virgilio sono quasi indistinguibili, ma a una terzina più avanti: “ch’a lui fu giunta alzò la testa  appena,/ dicendo: ‘Hai ben veduto come il sole / da l’omero sinistro il carro mena?” (vv. 118-120) e non poteva essere altrimenti: l’immagine, infatti,  rappresenta  un sole rosso sulla sinistra  di una montagna aguzza, e ha colpito l’artista più che l’ascesa pura e semplice, inoltre evoca le questioni astronomiche del  canto, con i penitenti idealmente presenti in tracce bianche anche nel cielo.

La natura trionfa nei suoi colori, dal verde della vegetazione al  bianco luminoso dei raggi del sole che bucano le rosse nuvole nell’incontro con le anime di altri negligenti verso Dio che hanno subito ingiurie, sono stati vendicativi ma nel morire  di morte violenta solo all’ultimo si sono pentiti e hanno perdonato, chiedono  a Dante e Virgilio  di ricordarli ai congiunti  appena tornati nel mondo.  E’ il Canto 5°, “E ‘ntanto per la costa di traverso/ venivan genti innanzi a noi un poco,/ cantando ‘Miserere’ a verso a verso” (vv. 22-24).  Poi sentiranno  “io fui da Montefeltro, io son Bonconte”,  una voce che confida  la sua tragica fine  nella consolazione del  perdono divino,   fino alla tenera espressione  “Ricorditi di me che son la Pia” seguita dal ricordo nefasto “Siena mi fe’, disfecemi Maremma”. Le emozioni continuano, mnemoniche e visive, nello scorrere la galleria pittorica.

Canto 8° vv 22-24

Nel Canto 6°, ancora con i peccatori di negligenza morti tragicamente che per vendicarsi hanno omesso di confessare i loro peccati, un penitente si rivolge a Virgilio con il sole che  continua a dardeggiare i suoi raggi nella sinfonia di colori caratteristica dell’artista: ”Surse vér lui del loco ove pria stava/, dicendo : ‘O Mantovano, io son Sordello/ de la tua terra !’E l’un l’altro abbracciava” (vv. 73-75). Segue la denuncia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta…”..

Torna la splendida moltitudine nel Canto 7° – sono sempre negligenti, questi hanno indebitamente tardato di confessarsi – le anime biancovestite ritratte in basso protese,  con  Sordello che  si offre come guida, nel tripudio della natura: “’Salve Regina in sul verde e ‘n su’ fiori,/ quindi seder cantando anime vidi,/ che per la valle non parean di fori” ( vv. 82-84). Ci sono i principi e i sovrani, anch’essi negligenti, ne viene ricordata la vita, sono citati gli avi e i successori.  Sembra di intravvedere Nino de’ Visconti e Malaspina risplendenti nel  loro biancore quasi in punta di piedi in una enclave rocciosa sotto un cielo nel quale appare l’azzurro con figure fluttuanti di angeli in volo.

Le bianche figure sono erette su un pianoro circondato da monti nell’immagine  del Canto 8°, che inizia “Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e  ‘ntenerisce il core”. L’artista si ispira ai versi: “Io vidi quello esercito gentile/ tacito poscia riguardare in sue,/ quasi aspettando, palido e umile” (v. 22-24). Si vede che ne arrivano molti in una lunga teoria in dissolvenza, scontano la negligenza di aver trascurato i loro doveri morali, come la confessione,  per l’esercizio del potere o per avidità.  Nel canto sono protagonisti Nino Visconti, Corrado Malaspina, e soprattutto le tre virtù teologali..

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Canto 10° vv 73-75

Ed ecco, terminato l’Antipurgatorio, si apre la porta del Purgatorio, in uno sfondo bianco e celeste. Siamo al  Canto 9°,  approdano su una barchetta  in un ambiente raccolto,  protendono le braccia in un saluto al grande angelo che dinanzi alla porta che si vede dopo alcuni scalini, ha le ali aperte  come in un abbraccio: “…in sogno mi parea veder sospesa/ un’aguglia nel ciel con penne d’oro,/ con l’ali aperte e a calar intesa” (v. 19-21). L’artista è colpito da questi versi premonitori, e nella sua interpretazione unisce la visione del sogno all’arrivo che il Poeta descrive nei versi 76-77 dicendo”… vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa…”.

C’è un’altra immagine, ancora più aperta e luminosa, per il  Canto 10°: come nell’Inferno ritroviamo i  suoi splendidi “bradi “, ma qui sono come nuvole bianche con dei cavalieri, riproducono una delle storie scolpite su dei bassorilievi nello zoccolo roccioso, quella di Traiano imperatore, con delle colonne sullo sfondo,  mentre  Dante e Virgilio ammirano la scena spettacolare: “Quiv’era storiata l’alta gloria/ del roman principato, il cui valore/ mosse Gregorio e la sua gran vittoria” (vv. 73-75)  è la terzina ispiratrice, ma di certo si è aggiunta anche quella appena successiva dei versi 79-81: “Intorno a lui parea calcato e pieno/ di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro/ sovr’essi in vista al vento si movieno”.  Siamo nel primo girone del Purgatorio, con i superbi, la lunghezza della pena è commisurata al peccato di vanità, ci sono anche esempi preclari di umiltà. .

Luminosa nella metà superiore con un cielo dall’azzurro variegato di bianco tendente all’arancio l’immagine del Canto 11° nel quale ci sono i superbi per vanagloria, tra cui Liberto da Santafiore e il senese Provenzano Salvani.  La parte inferiore  è una terra brulla che si innalza  in una rupe sotto la quale si intravedono appena delle figure quasi compenetrate in essa  cui si rivolgono Dante e Virgilio visti da dietro. La terzina ispiratrice,  “Oh vana gloria de l’unmane posse com’ poco verde in su la cima dura,/ se non è  giunta da l’etati grosse!”(vv. 91-93) si riferisce alla caducità del successo, Cimabue fu oscurato da Giotto, Guinizelli da Cavalcanti, il “poco verde” è usato in senso metaforico, e la sua assenza totale nel dipinto ne è la trasposizione pittorica, come lo è la compenetrazione delle figure nella terra fino quasi a scomparire, altro che “lumane posse”.

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Canto 11° vv 91-93

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Dal celeste con bianco-arancio al blu molto intenso che scolora nel bianco nel Canto 12°,  nel girone  sono puniti i superbi presi dalla vanità delle glorie mondane. condannati a portare dei pesi sulle spalle: “Di pari, come buoi che vanno a giogo,/ m’andava io con quell’anima carca,/ fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo” (vv. 1-3).  Dante non affianca più Oderisi da Gubbio che sconta la sua superbia con il carico opprimente ma guarda, con Virgilio, i  penitenti raffigurati nel suolo, ne vediamo  tre con i carichi e due stremati a terra, sono tra le poche figure restate “umane” ritratte dall’artista. L’ambiente sembra scolpito, con la parete rocciosa di un intenso cromatismo rossastro scuro, e la grande fenditura in cui entrano il blu e il bianco altrettanto intensi, il suolo chiaro come le figure, anche qui in una  compenetrazione cromatica significativa, anzi simbolica.

La già intensa tempesta cromatica si accentua, sopra alla mesta teoria di penitenti chini e incappucciati, che non hanno sembianze umane, anime protese nell’ascesa lenta ma continua, le figure di Dante e Virgilio che sembrano attenderli più in alto sono appena percepibili. Siamo  nel  Canto  13°, dove si trovano gli invidiosi. Nei primi tre versi si legge “Noi eravamo al sommo de la scala/ dove secondamente  si risega/ lo monte che, salendo, altrui dismala”, nei versi 58-60 “Di vil cilicio mi parean coperti,/ e l’un sofferìa l’altro  con la spalla,/ e tutti da la ripa eran sofferti”, tutto questo è reso nel dipinto che però  si ispira direttamente a un’altra terzina sempre descrittiva ma più personale: “Allora più che prima li occhi apersi;/ guarda’mi innazi , e vidi ombre con manti/ al color de la pietra non diversi”  (vv. 46-49).

Fa quasi “pendant” con questo cromatismo, quello  dell’immagine del Canto 14°, con ancora gli invidiosi tra cui Rinieri  da Calvoli.  Sullo sfondo della tempesta rossa e corrusca con squarci bianchi, si vede uno specchio d’acqua dove spiccano due grandi forme indistinte agli estremi: “infin la ve’ si rende per ristoro/ di quel che ‘l ciel de la marina asciuga,/ ond’hanno i fiumi ciò che va con loro” (vv.34-36). Si tratta dell’acqua dei fiumi che va alla foce per gettarsi nel mare e dargli “ristoro” compensando ciò che gli viene tolto dall’evaporazione causata dai raggi del sole. Un procedimento naturale al quale potrebbero alludere in modo criptico le forme indistinte.

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Canto 12° vv 1-3

Ancora più netto il contrasto di masse cromatiche avvolgenti per il  Canto 15°,  con chi si è fatto attrarre troppo dai beni terreni,  Dante e Virgilio – in basso a destra nel dipinto –  sono separati dal piccolo gruppo di penitenti alla metà della composizione. L’artista si ispira ai versi che  ricordano la lapidazione di Santo Stefano da parte della folla adirata, il santo potrebbe identificarsi nella piccola figura in alto: “Poi vidi genti accese in foco d’ira/ con pietre un giovinetto ancider, forte/ gridando   a sé pur: ‘Martira, martira!” (v. 106-108).

Nel  Canto 16°,  dove sono gli iracondi, con Marco Lombardo,  avvolti nel fumo, l’artista rappresenta la grande croce nel cielo che in una intensa sinfonia cromatica sovrasta Dante e Virgilio con gli occhi rivolti in alto: “Io sentia voci, e ciascuna pareva/ pregar per pace e per misericordia/ l’Agnel di Dio  che le peccata leva” (vv. 15-19) è la terzina di riferimento. I versi successivi, 25-27,  completano la scena: “Poi  piovve dentro a l’alta fantasia/ un crocifisso, dispettoso e fero/ ne la sua vista, e cotal si morìa” (vv. 25-27). E’ la punizione del ministro persiano che preso dall’ira condannò alla crocifissione un ebreo, perché non aveva adorato il Re, e i correligionari, poi fu crocifisso lui dal Re con un atto di giustizia  riparatrice. Si condanna la corruzione morale e politica.

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Canto 16° vv 16-18

Una figura che li guarda molto dal basso in una invocazione con le braccia aperte è nel dipinto del Canto 17°, nel girone dei colpevoli di ira punita, per converso segue l’Angelo della Pace e la dottrina dell’amore, principio di ogni virtù. Sull’alta rupe che sovrasta la figura invocante si vedono le sagome piccolissime di Dante e Virgilio con sullo sfondo il tramonto descritto nella terzina che ha ispirato l’artista: “e fia la tua imagine leggera/ in giugnere a veder com’io rividi/ lo sole in pria, che già nel corcar era” (vv. 7-9).

Ai piedi di alberi dai rami spogli li vediamo nel Canto 18° dove viene punita, anzi “purgata”, l’accidia: “Poi, come  l’foco movesi in altura/ per la sua forma  ch’è nata  a salire/ là dove più in sua matera fura” (vv. 28-30) sono i versi ispiratori. La metafora della tensione dello spirito verso l’alto come il fuoco la vediamo  tradotta negli alberi altissimi con il fuoco che sale, in un impasto cromatico particolarmente intenso.

Distesi sul terreno i penitenti del Canto 19°, tra le poche figure umane ritratte, che Dante e Virgilio guardano vicino a loro, scontano  la penitenza per l’avarizia o prodigalità, mescolati alla terra da cui non hanno saputo liberarsi. L’immagine lo rende con la coloritura giallastra in un ambiente desertico: “Sì come l’occhio nostro non s’aderse/ in alto, fisso a le cose terrene,/ così giustizia qui a terra  il merse” (v. 118-120). Poco dopo,  l’incontro con Ottobuono de’ Fieschi, divenuto  papa  Adriano V, si rese conto che i beni mondani sono ingannevoli e la felicità è data solo dai beni spirituali, il suo papato fu brevissimo, di 38 giorni.

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Canto 17 °, vv 7-9

Ancora gli avari e i prodighi  nel Canto 20°,  torna il clima tempestoso, masse cromatiche si incrociano, chiare ma agitate sulla sinistra, scure e distese sulla destra, in primo piano degli arbusti in una  desolata solitudine, con al margine le sagome minuscole di Dante e Virgilio. La terzina ispiratrice evoca  Carlo d’Angiò che, catturato  dopo una battaglia navale, fa sposare sua figlia per interesse a un marchese ricchissimo: “L’altro, che già uscì preso di nave,/ veggio vender sua figlia e patteggiarne,/ come fanno i corsar de l’altre schiave” (v. 79-81).. Sono ricordati  nel canto i misfatti di Carlo di Valois e di Filippo il Bello, i casi di avarizia puniti di Mida e Licinio Crasso, Eliodoro e Pigmalione, finché un  terremoto scuote il suolo,  le anime allora cantano un inno in gloria di Dio.

La sete di conoscenza di Dante viene soddisfatta nel Canto 21°, l’immagine dell’artista  è  ancora densa di masse cromatiche, nel girone ci sono i penitenti per prodigalità, ed è dominato dalla figura di Stazio che spunta fuori all’improvviso  “già surto fuor de la sepulcral buca / ci apparve un’ombra, e dietro a noi venia,/ dal piè guardando la turba che giace” (vv. 9-11), si vedono figure distese a terra. Il suolo si muove quando un’anima ha terminato la sua espiazione, ed è Stazio, che si dichiara discepolo di Virgilio senza averlo riconosciuto, fino all’”agnitio” in umiltà reciproca.

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Canto 19° vv 118-120

Torna la scalinata, contornata di bianco con l’azzurro del cielo sulla sinistra,  nell’immagine sul  Canto 22°, ai piedi della quale ci sono Dante e Virgilio, con dei rami leggeri che fanno da cornice in primo piano: “E io più lieve che per l’altre foci/ m’andava, sì che senz’alcun labore/ seguiva in su li spiriti veloci” (v. 7-9), si parla delle beatitudini, in particolare della temperanza, con l’Angelo che la impersona,  e la scala che sale verso l’alto sembra evocarle.

I Canti finali, dal 23° al 33°

Nel Canto 23°  le candide figure dei penitenti – questa volta i golosi tra cui l’amico di un tempo, Forese Donati, irriconoscibile per la magrezza della pena – sono in un ambiente quasi terreno, una radura amena, dietro una rupe, attraversata da un rivolo bianco, con un albero e l’azzurro del cielo.

Rende visivamente i versi: “Chi crederebbe che l’odor d’un pomo/ si governasse, generando brama,/ e quel d’un’acqua, non sappiendo como?” (v. 34-36): odori, frutta, acqua, gli umori della natura, l’essere umano è stato evocato nei versi che precedono,  “chi nel viso de li uomini legge ‘omo’/ben avria quivi conosciuta l’emme”, con gli zigomi uniti dalle sopracciglia a formare la “m”.

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Canto 22° vv 7-9

La terzina ispiratrice del  Canto 24° , sempre con i golosi, si riferisce a Firenze: “Però che ‘l loco u’ fui a viver posto,/ di giorno in giorno più di ben si spolpa,/ e a trista ruina par disposto” (vv. 79-81). Il responsabile della  “ruina” della sua città natale è Corso Donati, capo dei Guelfi neri,  di cui viene prefigurata da Forese Donati la morte violenta.  Al  centro della scena Dante e Virgilio con un corpo disteso a terra, l’atmosfera è cupa nel cromatismo scuro mentre in alto l’azzurro con squarci bianchi è percorso da misteriose forme oscure quasi presagio di sventura. Poi ci sarà l’incontro con Bonaggiunta, che riconosce in Dante l’autore  dei versi  “Donne ch’avete intelletto d’amore”, inizio della “Vita nova” e parla con lui dello “stil novo”; e  anche celebri esempi di gola punita

Una apertura luminosa di bianco e celeste tra due rupi, con un  lago dalle acque arrossate su cui passa una barchetta di penitenti, mentre  Dante e Virgilio si fermano, alle prese con la difficoltà del cammino: è  il Canto 25°, l’ispirazione viene dalla terzina“E già venuto a l’ultima tortura/ s’era per noi, e volto a la man destra,/ ed eravamo attenti ad altra cura” (v. 109-111).  Prima di questo momento che precede l’incontro con i lussuriosi, c’è stata la lunga disquisizione di Stazio sull’evoluzione dell’essere umano, fino alla trasmigrazione dell’anima nel luogo assegnato da Dio.

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Canto 25° vv 109-111

Sono  su una grande rupe all’inizio del  Canto 26°,  continuano le difficoltà, dalla “tortura” (la cornice), all’ “orlo”, con i consigli di Virgilio: “Mentre che sì  per  l’orlo, uno innanzi altro,/ ce n’andavamo, e spesso il buon maestro/ diceva: ‘Guarda: giovi ch’io ti scaltro’” (vv. 1-3). Sorge il sole e rischiara un lato della rupe, il resto ancora in ombra è il lato oscuro dopo gli squarci luminosi visti in precedenza. I lussuriosi incontrano i sodomiti, si rievocano Sodoma e Gomorra,  e Pasifae, poi il tono si eleva incontrando lo stilnovista Guido Guinizellii e il provenzale Arnaldo Daniello.

Nel Canto 27° torna la scalinata dove salgono i penitenti nelle loro sagome bianche tutte uguali, questa volta Dante e Virgilio li attendono al culmine, lo sfondo è di un blu variegato con grandi squarci bianchi, la terzina ispiratrice contiene altri particolari : “’Lo sol sen va, soggiunse, ne vien la sera; / non v’arrestate, ma studiate il passo,/ mentre che l’occidente non si annera’” (vv. 61-63). E’ una voce che li esorta  a procedere verso la sommità del monte, hanno incontrato l’Angelo della castità, e attraversato il muro di fuoco, li aspetta l’Eden e si avvicina il commiato di Virgilio.

Si entra nell’Eden con il Canto 28°, l’artista è ispirato dalla prima terzina “Vago già di cercar  dentro e dintorno/ la divina foresta spessa e viva,/ ch’a li occhi temperava il novo giorno” (vv. 1-3) e rappresenta  la foresta incantata con un tripudio luminoso che accoglie Dante e Virgilio. Ci sarà poi il fiume da non oltrepassare e la dolcissima fanciulla, Matilda, che al di là del fiume gli parla di quel nuovo luogo e scioglie i suoi dubbi, gli dice che il fiume Lete dà l’oblio del peccato e che forse l’età dell’oro preconizzata è proprio l’Eden, il paradiso terrestre.

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Canto 27° vv 61-63

Luminosità e verde splendente nell’interpretazione del paradiso terrestre da parte dell’artista per il Canto 29°,  c’è la processione delle bianche figure dei penitenti nel tripudio della natura: “dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,/ ci si fe’   l’aere sotto i verdi rami;/ e ‘l dolce suon per canti era già inteso“ (v. 34-36), il Poeta invoca le Muse per “forti cose a pensar metter in versi”, avanza un carro trionfale con il grifone. Dante e Virgilio tendono le braccia dinanzi a tale  spettacolo, le strisce rosse sono simbolo della carità, il bianco della fede, il verde della speranza, 

L’atmosfera si fa celestiale nell’immagine per il Canto 30°, bianche figure in volo con le ali aperte,  sono gli angeli che accompagnano Beatrice mentre scende dal cielo, Virgilio scompare, la sua missione è terminata, Beatrice è la nuova guida di Dante e inizia subito a rimproverarlo per le sue deviazioni dalla retta via, poi: “Ella si tacque e li angeli  cantaro/  di subito ‘In te, Domine, speravi’:/ ma oltre’pedes meos’ non passaro” (vv. 82-84), è un salmo sulla misericordia di Dio .

Dagli angeli in volo alle ninfe del Canto 31°, che ispirano l’artista in una immagine in cui la dominante verde dell’intenso cromatismo è interrotta da un rivolo bianco che separa la scena in due parti, a destra l’ospite, a sinistra quattro figure candide: “’Noi siam qui ninfee nel ciel siamo stelle;/ pria che Beatrice discendesse al mondo,/ fummo ordinate a lei per sue ancelle” (vv. 106-108). Oltre questa interpretazione pittorica, il viaggio poetico continua con Beatrice che non smette di ricordare a Dante i suoi errori, lui si pente e si sente mancare, poi  ecco Matilde e l’immersione purificatrice nel Lete, le 4 virtù morali e le 3 virtù teologali, fino al disvelamento di Beatrice.

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Canto 33, vv. 88-90

L’albero di Adamo, dove si dirige “la santa schiera”, è al centro del Canto 32° come simbolo sia della storia dell’uomo che di quella della Chiesa dopo il peccato originale: “Io sentì mormorare atutti; ‘Adamo’,/ poi cechiaro una pianta dispogliata / di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo” . (vv. 37-39) . Viene interpretato dall’artista in una intensa raffigurazione proiettata verso l’alto, con Dante quasi connaturato nella sostanza terrena che sembra elevarsi verso un cielo anche qui con la dominante verde tra bagliori luminosi. Avviene di tutto intorno all’albero, dove restano Dante, che  si addormenta al canto dei beati,  e Beatrice circondata da sette donne; irrompono animali fino a un drago, nel dipinto c’è un qualcosa di recesso e misterioso, è l’ultimo di sapore terreno.

Siamo alla raffigurazione finale, sul Canto 33°   conclusivo della Cantica, porta già “in più spirabil aere”, la figura di Dante  emerge dall’ombra con lo sfondo di un cielo sfolgorante di azzurro e di un bianco luminoso dove angeli in volo emergono dalle nuvole, una vera liberazione: “e veggi vostra via da la divina/ distar contanto, quanto si discorsa/ da terra il ciel che più alto festina” (vv. 88-90), la scienza umana distante dalla sapienza divina come la terra dal cielo, Ci saranno i quattro fiumi del Paradiso, e Dante potrà elevarsi verso il cielo della terza Cantica, dopo la richiesta di Beatrice di scrivere ciò che ha visto e un nuovo bagno purificatore, questa volta nell’Eunoè. Così è “puro e  disposto a salir alle stelle”.

Ed è disposto a salir alle stelle anche chi ha ripercorso il viaggio del Poeta attraverso le immagini dell’Artista attraversando le plaghe del Purgatorio come prima ha fatto con i recessi corruschi dell’Inferno. Lo aspettano, anzi ci aspettano, le stelle dell’infinito, con l’incommensurabile che l’artista interpreta visivamente in una “missione impossibile” che  diviene “missione compiuta”. Lo vedremo prossimamente con la nostra narrazione dantesca che  attraverserà i cieli del Paradiso fino a  raggiungere il culmine, l’Empireo, nella magica trasposizione pittorica di Gianni Testa.

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Purgatorio, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 23 e 25 marzo 2022, prossimamente l’ultimo articolo. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Purgatorio, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 2° vv 43-45

Foto

Le immagini dei dipinti del Purgatorio sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice o prese dal Catalogo Si ringrazia Chiara Testa, insieme all’Editore e a Gianni Testa, l’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri del Purgatorio nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro del Purgatorio ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 3° vv. 58-60, seguono, Canto 5° vv 22-24 e Canto 8° vv 22-24; poi, Canto 10° vv 73-75, e Canto 11° vv 91-93; quindi, Canto 12° vv 1-3 e Canto 16° vv 16-18; inoltre, Canto 17 ° vv 7-9 e Canto 19° vv 118-120; ancora, Canto 22° vv 7-9 e Canto 25° vv 109-111; conrinua, Canto 27° vv 61-63, e Canto 33, vv. 88-90; infine, Purgatorio, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici, e Purgatorio, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto Canto 2°, vv. 43-45; in chiusura, L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 27° vv. 61-63 del Purgatorio.

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L’artista Gianni Testa nella casa.-atelier mostra il suo quadro del Canto 27° vv. 61-63 del Purgatorio