Petrafeta, astrazioni urbane e marine, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, dal  17 luglio al 7 settembre 2014   la mostra antologica delle opere dal 2001 al 2014 di “Irene Petrafesa, tra terra e mare”. Sono 40 dipinti dall’intensa impronta cromatica, esposti cominciando con quelli di tema industriale, seguiti dai temi marini e dalle presenze umane. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia  con “Segni d’Arte”,  responsabile Cristina Bettini, a cura di Claudio Strinati e Nicolina Bianchi, che hanno curato anche il Catalogo..

Una inaugurazione molto particolare quella della mostra di Irene Petrafesa al Vittoriano, per la presenza di attori come Valeria Golino e Riccardo Scamarcio,  figlio della pittrice, e di personaggi come Marco Travaglio, con la presentazione da parte di autorità istituzionali come Nicola Giorgino, sindaco di Adria, la città dove risiede, oltre a Claudio Strinati, che ha sottolineato la coincidenza  con i numeri della nascita di Leonardo  delineando  da par suo la figura dell’artista e le caratteristiche peculiari della sua opera pittorica. Inoltre la visita alle opere esposte è stata accompagnata dalla performance di un musicista, Alessio De Simone:  il suono ottenuto con le percussioni  del suo “handpan”  ha creato un’atmosfera in carattere con il contesto pittorico..

L’artista, dalla Puglia all’Europa

Così il presidente del Consiglio regionale della Puglia, Onofrio Introna, ha presentato l’esposizione: “‘Tra terra e mare’, nel titolo della mostra antologica di irene Petrafesa Scamarcio c’è tutta la Puglia, la sua natura, la sua sostanza: Dagli incendi dei rossi, ora solo esplosioni di blu. E solo colori. Forme sempre più rarefatte, segni sempre più vaghi”. Dalle “ciminere dell’Ilva” al suo mare con “i blu tesi nma vivi, violenti ed essenziali”.

La formazione dell’artista si svolge tra Bari e Barletta, poi dal 2000 l’attività artistica prende il volo, tra mostre in Italia ed Europa, premi  e  riconoscimenti, con la menzione di “Artista europeo” nella New Art Summer di Helsinki del 2003: “Frammenti metropolitani” e “Visioni urbane”,   “Tangenzemozionali” e “Architetture e paesaggio urbano” i titoli di alcune mostre tra il 2004 e il 2008; poi la partecipazione tra il 2009 e il 2013 ad eventi come le rasssegne internazionali “Dreams-Visions-Creations: The Positive Side of the Life” sulla condizione umana e  “L’Arte contro la violenza sulle donne” nella giornata internazionale sui tale tema.  Altre mostre personali: “Fossili” e “Realtà non conforme”, “Mediterraneo” e “Ciminiere suggestioni della  memoria”.

Il disagio della civiltà in una visione ottimistica

Entriamo ora nella sua sostanza artistica che si manifesta nella tripartizione tra i dipinti ispirati alla civiltà industriale, quelli sul paesaggio marino, senza figure umane, e le opere dove la presenza è impalpabile ed evanescente, sono “passeggeri” quasi colti di sfuggita perché inafferrabili.

Per Claudio Strinati nei suoi “paesaggi industriali” si coglie la ricerca di “un’essenza profonda, un palpito di vita latente, uno stato d’animo come di delicata auscultazione di una materia che sembrerebbe di per sé arida e quasi respingente”,  il “ciclo Mediterraneo” è costruito con “schegge cromatiche” solide e nitide;  mentre  le sue figure, quando ci sono, “attraversano lo spazio lasciando solo l’impronta di sé, come personaggi “svuotati delle proprie fisicità e pure ancora intravisti dall’artista subito prima della  inevitabile sparizione delle immagini”. 

In tutto questo il critico vede espresso il “disagio della civiltà”,  l’aspetto negativo del progresso per l’isolamento e la debolezza dell’individuo, una minaccia latente cui l’artista cerca di reagire afferrando immagini che tuttavia le sfuggono senza che questo le dia una connotazione negativa; anzi “la visione del suo lavoro va in una direzione  di ottimistica costruttività e non in quella di  nichilismo pessimista”, e la sua “idea di fondo  è nella precisa definizione della propria identità, come disciolta nelle innumerevoli immagini scaturite da una osservazione fervida e dolente nel contempo”.  C’è in lei “un culto delicato per la bellezza della materia, per il senso vivido  dell’emanazione luminosa, per la classica compostezza  dell’immagine”.

Un’arte istintiva e meditata

Gli elementi evidenziati da Strinati sono l’espressione di un’arte insieme istintiva e meditata; non è un ossimoro, è su due livelli, “l’emozione e il contingente”. Lei stessa dice che “la pittura   per me è desiderio innato e naturale di esprimere ciò che è dentro. L’emozione e il contingente sono gli elementi essenziali su cui costruisco il mio lavoro”,  ma non si tratta di mera improvvisazione: “Materia, spazio, ricordo, istinto,  immagini captate e sedimentate nella memoria, vengono evocate nell’atto creativo”.

Quindi captazione immediata  insieme a sedimentazione meditata, in definitiva “la ricerca dell’anima di Irene”,  che  Graziana Lamesta  ha colto in un  “cammino nell’intimità artistica” della pittrice,  che vaga “quotidianamente nel proprio io alla ricerca dell’anima della realtà che si nasconde nel cuore dell’esistenza”.

Vediamo come  si svolge questo viaggio interiore nelle risposte della stessa artista alle domande della Lamesta. “I miei dipinti, premette, sono frutto di una ricerca interna e profonda che abbraccia l’intera esistenza, dove reale e contingente sono i volti della mia ispirazione”. 

Quindi interiorità e realtà insieme, ma come si coniugano?  “Emozioni e dati reali trovano una loro forma materica attraverso i colori e le percezioni cromatiche”, e tutto si manifesta “attraverso i segni.  Nascono come gesti primitivi di espressione”,  ma non sono  esteriori, “rappresentano il libero vagare della mente che li accoglie, li cerca, li asseconda sulla tela quasi mai con un perché ben preciso”.  Ma non è un vagare senza meta nei segni e nelle sensazioni: “Parto dal reale per poi astrarre ed entrare nell’anima delle. In fin dei conti, la ricerca di quest’anima è l’essenza stessa della mia pittura”. Quindi non è la realtà che la interessa, ma la sua anima.

A Marina Ruggero ha dichiarato: “La fonte e l’impulso della creatività, nel mio caso, è un fatto naturale, quasi una necessità, un modo di essere. Provocare una emozione in un altro, attraverso un mio lavoro, mi appaga, qualunque sia il mezzo usato”. Dunque, una trasmissione di emozioni, quella suscitata all’artista dalla realtà, poi trasfigurata dalla sua arte, infine trasferita all’osservatore.

Così Mariangela Canale esprime questo processo: “Percepire appare forse il fine ultimo della creazione artistica. Provocare una riflessione, suscitare un’emozione, una paura, perché ogni sensazione sia perfettamente riconoscibile e concretamente già vissuta nella vita. Percepire ciò che ha provato l’artista nell’atto creativo e ricnoscersi in quello stato d’animo provocato. Alloora gli elementi della natura non sono solo componenti del paesaggio”.

Nessuna pretesa, invece, di lanciare messaggi pur non restando insensibile a quanto comunicato dalla realtà e trasmesso dopo la trasfigurazione artistica: “Non è mia intenzione – afferma – l’implicazione sociologica o il messaggio politico, anche se sicuramente ci sarà un motivo per il fatto che scelga di rappresentare il disagio piuttosto che la gioia o la bellezza apparente a ciò che ci circonda”. E nel dire questo rivendica: “Sono un individuo e, come tale, il risultato di un mio vissuto, di ciò che mi circonda, di ciò che accade”.

Questa autoanalisi dell’artista ci aiuta a interpretare le sue opere, altrimenti quasi indecifrabili dato che a certe espressioni astratte corrispondono titolazioni di situazioni reali non riconducibili alle immagini. Sono  le fonti dell’ispirazione dell’artista che non si è fermata alle apparenze “di ciò che accade”,  ma è penetrata all’interno per mostrare quella che lei ha sentito esserne l’anima.

“L’opera, scrive Giusy Garoppo, diviene prodotto squisitamente ingegneristico dell’evocazione di immagini captate e sedimentate nella memoria: nasce in un equilibrio perfetto tra materia, spazio, ricordo, istinto”.

Mentre  Claudia Germano fornisce un altro aiuto alla comprensione  descrivendo “il passaggio graduale, dalla rappresentazione di un paesaggio decisamente soggettivo, fino all’astrazione”: ebbene, ciò è avvenuto “mediante un processo di semplificazione che ha indotto l’artista ad esprimere il reale  attraverso il vario disporsi di piani irregolari di colore”.  E’ la ricerca di “spazi illimitati” che avviene con l’esplorazione della “struttura più autentica e la concretezza universale delle cose”. Una missione impossibile?  No, la soluzione viene trovata “attraverso un alfabeto pittorico piuttosto semplificato ma estremamente rigoroso, la cui unica cifra è nello spazio cromatico  che trae certezza dall’inflessibile e casuale intersecarsi di linee nello spazio”.

Lo spazio cromatico dell’artista e i risultati

Uno spazio cromatico  molto particolare. Per la Germano  “i colori, quasi sempre puri e nettamente divisi, anche se non escludendo ombre e vibrazioni luminose, esaltano la trasparenza stessa della luce, che tende ad un’assoluta luminosità”; per Francesco Salamina.: “Il  colore si dipinge sulla tela raccontando la sua Anima: il ‘blu’ affonda nei segreti candori, il ‘nero’ è ambivalente voluttà, il ‘bianco’ acqueta ardori. Sono i colori di Irene Petrafesa, punti cardinali di uno spazio pittorico tenuto insieme da pochi ma significativi quadri”,  E parla di “ColoreEmozione come la Musica, raschia i meandri nascosti”.

Vinicio Coppola ha parlato della “lenta e progressiva metamorfosi” del suo colore, dopo i neri e i rossi negli scenari metropolitani diventa  “più essenziale, quasi evanescente, con ampie aperture all’azzurro, al bianco, al viola. con il risultato di mitigare un po’ la carica dirompente”, soprattutto nel passaggio ad altri soggetti come le marine.

L’artista  ha risposto così alla domanda di Maria Grazia Rongo sull’uso del colore: “Nei dipinti in mostra uso tutta una gamma  di bianchi e di blu che poi sfumano al grigio e all’imprtovviso sono quasi squarciati da grandi macchie rosse b, perché è così, niente è mai uguale  a se stesso, ci sono forti momenti emozionali che non ti aspetti e che arrivano all’improvvisdo a interrompere  il grigio consueto”.

Giuliana Schiavone nota: “La superficie appare ora densa, segnata da ferite ancora pulsanti, ora più eterea, impalpabile e incorporea come gli elementi naturali o concreti suggeriti dalla composizione”,

Se queste sono le fonti di ispirazione, gli intenti e le forme espressive, quali i risultati? Prima di illustrare le opere esposte in mostra, ancora la parola alla critica. Così laSchiavone: “Il processo creativo, più simile a una trasfigurazione inversa  che a una rappresentazione strictu sensu, scava nella litografia del reale, giungendo al nucleo primordiale”. Si tratta di un “approccio creativo  contestualmente istintivo e analitico”, nel quale l’artista è portato ad “intercettare i materiali primari dell’esistenza, in uno spazio fluido e di passaggio, di sospensione temporale in cui il pensiero, il dato emozionale e simbolico, sono ancora a uno stadio evolutivo prelinguistico, antecedente a qualsiasi determinazione finita”.

Le opere in mostra, dai paesaggi industriali alle marine

Con questo corredo di interpretazioni critiche il cronista si sofferma sui tre principali soggetti e forme espressive: il, paesaggio industriale e urbano, la marina, le presenze fuggevoli di sagome umane. Di questi soggetti così parla Mariangela Canale: “Cosa accomuna un paesaggio industriale, una periferia solitaria, un muro, una strada? Sono tutte ‘situazioni’. Situazioni dell’esistenza in cui l’essere umano agisce, vive, muore. Irene Petrafesa dipinge immagini ma intende situazioni”.  Parole che ci sembrano la migliore premessa per la visita alla mostra.

Nella prima sala troviaamo “Frammenti metropolitani – Sobborgo”, 2004, il paesaggio urbano più vicino al figurativo con le sagome degli edifici in una fuga prospettica, mentre  altri “Frammenti metropolitani” appaiono meno identificabili; poi .i “rossi” e ocra di “Industriale”, 2005,  contrassegnati da numeri e i “bianco-neri”  oppure “rosso-marroni” dei trittici “Ciminiere”, 2006-07, nonché opere di analogo anche se più violento cromatismo come “Rosso”, 2011;  una striatura di rosso intenso  compare anche in “Bianco”, 2009, su fondo chiaro con un groviglio scuro, un riquadro rosso sfumato in “Cattedrale”, 2010, mentre  “Grigio”, 2009, rende onore al titolo. Otto anni tra  “Tangenze”,  “Mar Nero”, 2006, e “Sospeso”, 2014, lo stesso cromatismo scuro, mentre in “What Identity, 2007, torna la dominante rossa.

Francesca Mariotti vede nella realtà urbana “cantieri sempre aperti in  cui ciò che nasce distrae da ciò che muore, creando luoghi fantasma, abbandonati e aridi”. Si tratta della cosiddetta “Land Art o Art-chitettura” di denuncia che negli ultimi anni esprime una sorta di malcontento o di nostalgia verso un modo di vivere più a misura d’uomo”.  L’artista, in realtà, non vuole lanciare  messaggi, ma sono insiti nella realtà che la emoziona e nelle emozioni che trasmette: “I suoi sono i grandi edifici, vuoti e aridi, successioni di muri e di strutture, in cui la presenza umana non è mai visibile”.

Quando compaiono figure umane nei suoi dipinti non sono  nel contesto urbano, bensì in una nebbia che avvolge degli ectoplasmi fuggevoli e abbozzati quasi in dissolvenza: Strinati parla di “ombre misteriose e sfumate con cui l’artista ha sovente delineato i suoi personaggi che attraversano lo spazio, lasciando soltanto l’impronta di sé, svuotati della propria fisicità e pure ancora intravisti dall’artista subito prima della inevitabile sparizione delle immagini”. E ne dà un’interpretazione  che va ben al di là del fatto estetico e della forma espressiva: “C’è così, nella nostra pittrice, una dialettica tra istanza della definizione e della definizione dell’immagine, e una opposta tendenza, appunto, alla sparizione e all’annientamento quasi della forma”.

Nelle forme umane fuggevoli, in definitiva, si manifesta ciò che è insito nell’intera sua produzione, anche se meno evidente: “Una innata propensione a inseguire le sembianze di tutte le cose, che tuttavia sfuggono, si nascondono all’artista stessa, si ritraggono quasi fossero portatrici di un senso di mortificazione e abbandono”.  E questa, prosegue Strinati, “è la quintessenza del suo essere. Non è un’arte rinunciataria e impalpabile quella che la Petrafesa ha costruito nel tempo e che continua a dipanare come un unico lunghissimo tema che non può trovare un punto culminante o finale. E’ un’arte, piuttosto, incisiva e determinata”,

Le fuggevoli quanto emblematiche figure umane sono nella serie “Passeggero”, la più recente datata 2014 che potrebbe preludere a un’interessante evoluzione con sbocchi imprevedibili. Oscar Iarussi nota che “non dipinge persone, Petrafesa,se non talora come ombre passeggere, tremule, indefinite, e riporta l’interpretazione autentica della stessa artista: “Già, le rare figure umane servono a delimitare connotare il vuoto, fungono da quinta ai paesaggi”.

Nella seconda sala cambia tutto, vediamo una serie di  grandi tele celesti, leggiamo i titoli: “Mare” e “Respiro”, “Profili” e “Asfalto”, dal 2011 al 2013, i titoli non aiutano, mutano leggermente le tonalità e i segni di graffiti, ma l’apparenza è analoga, per interpretarli basta ricorrere ai commenti sopra riportati: è l’emozione che viene trasmessa, piuttosto che l’evidenza visiva.

Invece la serie “Mediterraneo”  appare maggiormente figurativa, l’immagine a forte cromatismo è divisa tra blu intenso e altri colori, verde o  un biancore accecante,  sono opere anteriorei, del 2001, ancora il legame con la realtà è forte, successivamente ci sarà il sempre maggiore ingresso nell’area dell’astrazione emotiva. Nel più recente “Anemos”, 2014, un semicerchio bianco è inscritto  nel celeste sfumato di fondo per evocare quello che la Schiavone definisce il “soffio, vento, respiro” , cioè “quel principio vitale, elemento vivificatore di tutto ciò che esiste nel mondo, che permea di essenza identitaria quanto è già dotato di realtà biologica, e di cui l’essere può intuire l’impercettibile e assidua presenza nel corso della sua storia individuale”.Analoga la forma, anche se rovesciata, nel precedente “Sul filo della memoria”, 2013, evoca una lettera chiusa nella busta.   

Alcuni giudizi conclusivi

Dopo la rapida rassegna delle opere esposte concludiamo con altri giudizi critici che forniscono ulteriori chiavi interpretative di un’artista in cui, ha detto ancora Strinati, “l’apparenza corre il rischio di ingannare, ma non inganna affatto … E’ il suo un itinerario autentico fatto di sviluppi continui, di rimandi interni incessanti, di proposte sempre nuove pur all’interno di un immaginario circoscritto e molto vigilato”.  Nel quale Maurizio Vitello vede “successivi perimetri, pienamente lavorati, ed ulteriori riquadri in cui si distendono, si raggomitolano, si ritraggono, si rifugiano e su sostanziano assopiti sensi vitali in corpi adamitici” . E ancora: “Si percepisce, comunque, il nocciolo della vita, quello che potrebbe accadere. Il ‘fil rouge’ della vita è nas costo, ma presente, celato ma non cancellato”.

C’è, dunque, sempre la realtà  dietro la trasfigurazione artistica che confina con l’astrazione, e Paolo Meneghetti la vede così: “La pittura di Irene Petrafesa vale nella possibilità di confondere visivamente la realtà della figurazione con la sua astrazione del ‘piano immaginario'”. Ecco come questo avviene: “Le velature del colore e i ‘graffi’ del segno spingono a immaginare la pittura, contraddicendo la realtà della prospettiva o della forma. Il quadro è più da vedere che da capire”.

E’ una conclusione che conforta il cronista dinanzi ad alcuni titoli di opere cui corrispondono immagini indecifrabili. Alla quale associamo il giudizio conclusivo di Strinati, derivante più dal vedere che dal capire, anche se lo storico dell’arte ne ha dato l’interpretazione prima riportata dei contenuti: “C’è  nell’artista un culto delicato per la bellezza della materia, per il senso vivido dell’emanazione luminosa, per la classica compostezza dell’immagine, che ne fanno una pittrice sorretta dalla tradizione ma catapultata in un tempo che non concede troppo all’edonismo e al piacere della forma. Piacere della forma che tuttavia resta profondamente radicato nel suo immaginario”.

Come resta negli occhi del visitatore, una volta superata la tentazione di decifrare il rapporto forma-contenuti, quanto mai impenetrabile, essendo i secondi filtrati dalle emozioni. Sono proprio le emozioni più che i contenuti a venire trasmesse, ed è questa l’intrigante magia della sua arte-

Info

Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, Sala Giubileo, tutti i giorni compresi i festivi, ore 9,30-19,30, ingesso gratuito; accesso consentito fino a 45 minuti prima dell’orario di chiusura. Tel. 06.6780664. Catalogo: “Irene Petrafesa tra terra e mare” a cura di Claudio Strinati e Nicolina Bianchi, “Segni d’Arte”, Monografie, luglio 2014, pp..72, formato 21×28; dal Catalogo sono state tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese nel Vittoriano da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta, in particolare l’artista anche per aver accettato di farsi riprendere da noi. In apertura l’artista dinanzi  a “Mare nostro”, 2014;  seguono “Frammenti metropolitani- Sobborgo”, 2004, e ” Industriale 3″, 2005, poi “Mare Nero”, 2006, e “Ciminiere”, 2006, quindi “What Identity”, 2007,  e “Cattedrale”, 2010, ancora  “Asfalto”,  2011,  e  “Rosso”, 2011, infine “Respiro 1”,  2012,  e “Passeggero”, 2014; in chiusura, “Anemos”, 2014, con Alessio De Simone che suona l'”handpan”.

Luce, l’immaginario italiano, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, nell’ala Brasini, lato Ara Coeli, dal 4 luglio al 21 settembre 2014 la mostra “Luce, l’immaginario italiano”, celebrativa dell’istituto Luce fondato nel 1924, che nei suoi 90 anni di attività ha messo insieme uno straordinario archivio di immagini: decine di migliaia di filmati per 5.000 ore, 12.000 cinegiornali, 6.000 documentari e film,  3 milioni di fotografie: sulla vita politica, economica e culturale di un secolo di storia italiana e non solo. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, curatore scientifico e autore  dei testi Gabriele D’Autilia, che ha curato anche il Catalogo Luce-Eri,  curatore artistico e regia video Roland Seiko.

La  mostra – dopo quella sulla Rai, nei  60 anni della TV e i 90 anni della radio –  racconta quasi un secolo di storia e vita italiana, dai grandi eventi ai fatti minuti della quotidianità di un periodo in cui c’è stato tutto quanto di positivo possa derivare dall’essere umano, come il progresso incessante e sconvolgente, e tutto quanto di negativo possa generare la sua azione sconsiderata, ben due guerre mondiali, la prima con 16 milioni di morti, la seconda con ben 50 milioni di vittime.

Tra questi due poli estremi, positivo e negativo, si è dipanata la vita degli individui e della nazione, dalla civiltà contadina a quella industriale e postindustriale, dalla dittatura del partito unico alla democrazia partecipata, dal nazionalismo esasperato all’europeismo convinto.

Come è possibile rendere tale sconfinata miriade di eventi e di emozioni, e come reperire una testimonianza che non sia quella fredda e distante dei documenti ma riporti alle varie situazioni del ‘900 come se si tornasse indietro sulla macchina del tempo?

La risposta è immediata, l’Istituto Luce possiede un archivio sconfinato  di immagini e la mostra le presenta con un allestimento spettacolare, per cui nessun momento è uguale al precedente, e nessun visitatore vede le stesse cose.

L’importanza dell’Istituto Luce e del suo archivio storico

Fondato nel 1924, l’istituto Luce si è fuso di recente con Cinecittà Holding,  rafforzando la  propria funzione e dotandosi anche delle  tecnologie più avanzate. Il Ministro per i Beni culturali e il Turismo Dario Franceschini ne ha sottolineato l’importanza dato che il patrimonio culturale nazionale – di cui l’Istituto è “parte integrante” anche come “portatore di un significativo deposito di cultura identitaria” rappresenta “al tempo stesso la pietra angolare della nostra identità e la fonte inesauribile della nostra creatività”.

Il suo Archivio storico, uno dei più ricchi del mondo, è entrato nel 2013 nel Registro “Memory of the World” dell’Unesco; inoltre l’Istituto Luce-Cinecittà è impegnato nella distribuzione e promozione di opere prime e seconde di produzione italiana. Gli accordi  con i Top Player digitali, e in particolare con Google,  hanno consentito di diffondere nel mondo, con i nuovi potentissimi media, le immagini dell’archivio, contribuendo alla conoscenza della storia e della cultura italiana.

Ma com’è l’archivio dell’Istituto Luce?  I numeri sono eloquenti: 12.000 cinegiornali, 6-000 documentari e film con 5.000 ore di filmati, 200.000 schede, 3  milioni di immagini fotografiche. I contenuti spaziano tra i campi e i temi più diversi  nel lungo arco di tempo della sua esistenza.

“Non uno spaccato, ma tanti scorci – ha detto il sindaco di Roma Ignazio Marino nella presentazione della mostra – Non un’Italia, ma tante Italie, documenti della nostra storia e testimonianze di come, per novant’anni, gli italiani hanno visto il mondo”. Il sindaco precisa: “Tanti pezzi di  mosaico, tasselli indelebili nella mente e nell’immaginario del nostro Paese. Pezzi di memoria che sono entrati nel nostro dna con una concretezza vivida e straordinaria, contribuendo a far crescere gli italiani e a modellare la nostra storia”. Non si tratta di costruzioni intellettuali: “Intere generazioni hanno assistito a bocca aperta alle immagini prodotte, create, girate e ora custodite  dall’Istituto Luce”, ha concluso il sindaco.

Le riprese della realtà,  in fotografia o filmate, hanno fatto conoscere direttamente alle grandi masse ciò che prima era solo frutto dell’immaginazione, e hanno concorso a formare l’ immaginario collettivo: non più fantasia ma immagini della realtà messe disposizione della quasi totalità di cittadini che non erano mai usciti dall’ombra del proprio campanile e ora venivano messi in contatto con il mondo: “Grazie ai ‘cinegiornali’ Luce – si legge nella presentazione della mostra – milioni di cittadini dagli anno ’20 in poi hanno potuto vedere e scoprire per la prima volta città, geografie lontane, popolazioni sconosciute, forme sociali e culturali differenti. La nascita di un’opinione pubblica in Italia passa di qui, insieme alla stessa formazione di ‘luoghi comuni'”.

Il contenuto informativo dietro l’aspetto propagandistico

Come trattare questo sconfinato materiale di archivio sul patrimonio culturale nazionale che per Franceschini è “al tempo stesso la pietra angolare della nostra identità e la fonte inesauribile della nostra creatività”? .

Dacia Maraini esorta a una grande cautela anche dinanzi a immagini che pure ritraggono l’attualità dei vari momenti: “Filmare o fotografare, infatti, non vuol dire rispecchiare pari pari una realtà data, bensì interpretarla, anche quando ci si pretende al di sopra delle parti. L’occhio ricostruisce, reinventa, narra a modo proprio. Non c’è niente di neutro nell’informazione”.

Ciò era tanto più vero quando il regime dittatoriale aveva bisogno di far penetrare i suoi precetti e i suoi imperativi, proprio negli anni in cui nacque l’Istituto Luce:  Mussolini ne comprese subito le notevoli potenzialità sul piano della immagine e ne fece uno strumento della propaganda fascista.

E’ il  primo aspetto evidenziato dai curatori, a seguito del quale la mostra é stata concepita come racconto dell’immaginario italiano che gli organizzatori collocano “su due binari ideali: come l’Italia si è rappresentata nei decenni attraverso le immagini del Luce, e come l’Italia si è rivelata, confessata, svelata attraverso e nonostante le immagini delle sue rappresentazioni ufficiali”.

In effetti, avverte il curatore Gabriele D’Autilia, “le immagini del Luce raccontano come si voleva che l’Italia fosse vista, mostrano molti aspetti della sua storia, ma naturalmente non tutti; sono il frutto di una attenta selezione”.

La lente con cui si voleva presentare la realtà era focalizzata sull'”ordine” e sull'”attività”, ma nonostante questo imperativo “la stessa immagine tecnica, con la sua cristallina indifferenza, è sempre capace di smentire le intenzioni più servili: il reale si ribella alla rappresentazione. Se la propaganda semplifica ciò che  è complesso, escludendo ogni diritto di replica, l’immagine del reale mantiene sempre spazi  in cui il reale conserva la sua complessità. Numerose sono le eccezioni nelle inquadrature del Luce che, senza volerlo, raccontano una diversa  verità (soprattutto rispetto allo speaker imperioso, la cosiddetta ‘voce di Dio'”.

Quindi il contenuto  informativo prende la sua rivincita sull’aspetto propagandistico, e l’effetto educativo può assumere valori positivi liberandosi dalle  aberrazioni dello Stato etico. “Il Paese si mette in posa”, come faceva anche il Duce, ma proprio per questo la goffaggine  di certi atteggiamenti  appare eclatante raggiungendo l’effetto opposto di quello voluto dalla propaganda. “In tutti questi rovesci dell’immagine – si legge sempre nella presentazione – il Paese svela e confessa il suo intimo. Il suo immaginario”. Vediamo come la  mostra riesce nella missione apparentemente impossibile di rappresentare questa ambivalenza, anzi questa antinomia.

Innanzitutto il percorso, inconsueto nelle mostre, che valorizza le peculiarità dello spazio espositivo, un lungo itinerario  su due piani  con una grande rotonda centrale.

Al primo piano su 20 schermi che si incontrano lungo il tragitto  con appositi pannelli esplicativi, sono proiettati montaggi appositi di centinaia di filmati dell’Archivio storico Luce, immagini in movimento che cambiano continuamente. Insieme ai filmati,  centinaia di fotografie – ben  500  -che fungono quasi da “fermo immagine” per sottolineare momenti particolari, mentre i testi dei pannelli ne approfondiscono il significato. C’è continuità tra video, testi e immagini che si susseguono, sono altrettanti momenti in sequenza di una lunga storia che viene raccontata in modo spettacolare.

Il percorso è scandito da parole chiave che danno la sintesi dei singoli momenti: si inizia con “Città/campagna” negli anni ’20, negli anni ’30 si parla di “Autarchia”, “Uomo nuovo” e “Architettura”, e anche di “Censura” e “Propaganda”; fino a “Guerra e rinascita” con momenti di particolare impatto emotivo in “Cassino” e “Vincitori e vinti”. E ancora, andando avanti nel tempo, “Modernità/arretratezza”, “Economia”, “Corpi politici”, “Neotelevisione” e così via..

Questo l’impianto generale, poi la sorpresa  delle speciali “camere” che approfondiscono alcuni aspetti particolari. La “Camera delle meraviglie” mostra .le “scoperte” degli operatori Luce nel mondo, straordinari “reportage” nell’assenza dei rotocalchi e della televisione. Mentre  la “Camera del Duce” prende il toro per le corna, con la sequenza incalzante delle sue retoriche e delle sue pose statuarie,  dinanzi alle quali si pone il problema interpretativo se l’enfasi delle parole e la gestualità esasperata nei primi piani non si stemperassero alla distanza in cui li percepivano le folle oceaniche, e se fossero meno stridenti  di quanto ci appare oggi, con la sensibilità allora meno acuta. Un bel colpo per la mostra, per opposte ragioni è godibile tanto per i nostalgici incalliti dinanzi alla sua immagine del Duce, quanto per gli antifascisti più accaniti, dinanzi alle sue ridicole goffagini. Ad ogni buon conto   alla propaganda deformante viene contrapposta la “Stanza del paese reale”, un “viaggio in Italia” con la situazione effettiva degli italiani, i loro volti, le loro sofferenze.

L’altra sorpresa è la spettacolare installazione nella rotonda centrale: , quattro schermi alti sei metri nei quali sono proiettate immagini particolarmente suggestive nelle forme e nel cromatismo.

Il percorso termina nell’ultimo spazio dedicato al Cinema, con una ricca selezione di “trailer” e “backstage”, al piano superiore sono esposte centinaia di fotografie di attori e registi.

La grande  retrospettiva  di film e documentari

La mostra non si è esaurita nella pur vasta esposizione di video e filmati al Vittoriano. Poiché l’Istituto Luce è la più antica casa cinematografica italiana in attività, con un  ruolo di primo piano nel cinema pubblico come produttore e distributore di film nazionali e internazionali, nell’ambito della mostra è stata organizzata una grande Retrospettiva di film e documentariscelti tra i più rappresentativi della sua evoluzione dagli anni ’30,  proiettati  in quattro sedi diverse.

Ai Fori Imperiali, in piazza Madonna  di Loreto, dall’11 al 27 luglio, e a piazza Santa Croce in Gerusalemme , nell’area archeologica della Basilica, dal 28 luglio al 5 settembre, ore 21, ingresso gratuito,  60 film della serie “Effetto Luce”,a cura del critico e docente di storia del cinema  Gianni Canova,  con i maggiori maestri e  j film tra i più significativi  del cinema italiano con Luce promotore o distributore: I nomi: Fellini, Rossellini e Visconti,  Olmi e i Taviani, Rosi e Lizzani, Bertolucci e Scola, Bellocchio e Cavani, Ferreri e Montaldo, Maselli e Zurlini, Citti e Monicelli. ..

Sempre a cura di Canova,  al Vittoriano, sala Verdi, dal 4 luglio al 21 settembre, ore 11,30 e 18,30 per i visitatori della mostra,  30 titoli  della serie “Identità”, sull’evoluzione dell’istituto come produttore e co-produttore e su quanto si muoveva nel paese. Da “Camicia nera” di Gioacchino Forzano, del 1933, ai contemporanei Monicelli e Scola, Maselli e Olmi. 

Dai  film  ai “Documentari”, al Vittoriano, date e orari come sopra, una selezione  a cura di Nathalie Giacobino e Beppe Attenne di Luce-Cinecittà, su storia e politica, costumi e cultura, arti e lavoro., un’altra forma di registrazione della realtà italiana nel linguaggio del cinema. Dal primo documentario nel 1934 di Omegna sulla Grande Guerra, a “La Grande Olimpiade” di Marcellini, fino a “L’Africa di Pasolini” di Borgna e Menduni.

Infine  al “Maxxi – Museo delle Arti del XXi secolo”, via Guido Reni 4/a, 12 appuntamenti dal 1° luglio al 10 ottobre a ingresso gratuito, della serie “XXI Secolo”,  a cura di Luciano Sovena di Luce-Cinecittà, con le opere prime e seconde di successo distribuite dall’Istituto Luce. Alcuni nomi: Rohrwacher e Frammartino, Emma Dante e Saverio Costanzo, Amadei e Di Costanzo.Il “fermo immagine” della mostra: l’album fotografico del ‘900 nel ricco Catalogo 

Da  quanto si è detto si comprende che non è possibile andare molto oltre le notizie fornite per raccontare la  mostra visitata. Proprio perché fatta soprattutto di video e immagini in continuo cambiamento, sempre diverse per lo stesso visitatore e per i vari visitatori, non è possibile indugiare sui “ferma immagini” pur possibili.  

L’impressione che si ha è di essere sulla macchina del tempo, le immagini sono fortemente evocative della memoria di tutti in relazione alle rispettive anagrafi, l’effetto è molto coinvolgente e suggestivo. Si resterebbe la giornata intera, ci si tornerebbe per vedere ancora, per ricordare ancora, per rivivere ancora.

Invece di inseguire queste sensazioni che si susseguono nella visita, preferiamo tornarci con il “fermo immagine” consentito dal Catalogo, che per le peculiarità di cui si è detto è ben altro che un’iconografia delle opere esposte, del resto impossibile perché non ci sono opere ma filmati. La ricca dotazione documentaria, necessariamente fotografica e non cinematografica del Catalogo,  permette di tornare sui tanti momenti vissuti nell’affastellarsi dei filmati, di passare in rassegna gli aspetti salienti di un secolo così denso di eventi, ripetiamo, nel positivo e nel negativo.

La carrellata fotografica del ‘900 comincia con “Avventure”, vediamo “il continente misterioso” nel reportage  di Mario Craveri al seguito della spedizione del barone Raimondo Franchetti in Dancalia, poi il Dirigibile Italia che s schianterà sull’Artide al comando di Umberto Nobile, la traversata transatlantica aerea dei 12 idrovolanti con  Italo Balbo tra il 1930 e il 1931, e “un paese da fiaba e a leggenda”, l’India, nel 1929, poi l’occupazione giapponese di Shangai nel 1932  ripresa da Craveri  e ancora tanta Africa. Pensare quale potesse essere l’effetto di queste  splendide immagini  su chi attraverso il cinegiornale Luce poteva aprire finalmente  gli occhi sul mondo!

Con  la sezione “Propaganda”  si dà corpo alla la citazione di Gustave Le Bon “”conoscere l’arte di impressionare l’immaginazione delle folle, vuol dire conoscere l’arte di governare”, il regime fascista la seguì alla lettera, le fotografie dell’esibizionismo e del trionfalismo sono eloquenti:basta vedere riprese le folle oceaniche,  le immagini del Duce e le sue parole, come “la massa ama gli uomini forti e la massa è donna”, gli slogan, da “i figli d’Italia si chiaman balilla” a “un posto al sole”, fino all’infausto “Vincere e vinceremo!”. Le immagini che documentano tutto questo sono eloquenti, ma ce ne sono anche  della vita democratica successiva, qualche slogan anche lì.

Di qui ai “Corpi politici” il passo è breve, dal fascismo con Mussolini in primissimo piano onnipresente, alla democrazia, da Togliatti a Fanfani, da Moro a Craxi fino Berlusconi, e tutti gli altri. Viene ricordata la critica di Pier Paolo Pasolini agli uomini del “Palazzo”, oggi la “casta”. 

Il “Paese reale” ci riporta tra la gente, le immagini mostrano la vita vera, oltre la propaganda e le alchimie del “palazzo”,  dagli anni ’20 ai giorni nostri: è una sollecitazione alla memoria di tutti, si torna a quei tempi lontani in cui si verificavano mutamenti allora impercettibili ma che hanno determinato un cambiamento radicale, con “la febbre delle città”  e  l’accresciuto benessere, mentre restavano irrisolti problemi come l’arretratezza del Mezzogiorno.

Dal paese reale al “Bel Paese”, iniziando da una bella ripresa del Gran Sasso d’Italia nel 1931 e del Vesuvio in attività nel 1941. Poi una successione delle belle piazze e località d’Italia e di aree archeologiche poco citate ma di alto valore e bellezza, nonché  dell’avvio di nuove ferrovie e nuovi centri urbani come Pontinia.

La sezione dedicata alle “Donne”  inizia con il “decalogo della Piccola Italiana” secondo cui “la Patria si serve anche spazzando la propria casa”, e  si conclude con i “diritti e lavoro” per il mondo femminile, dopo un’evoluzione che ha superato gli schemi maschilisti e ha visto le donne accedere a tutte le professioni,:le immagini ne presentano il lungo faticoso cammino approdato al successo.

Con i “Linguggi” si va dietro la macchina da presa e fotografica, le riprese sotto il regime fascista erano minuziosamente controllate, e in casi speciali come per la visita di Hitler anche accuratamente organizzate a fini propagandistici. C’è stata una continua evoluzione nei materiali e negli stili impiegati, dai  paesaggi pittorialisti ai tagli geometrici di scuola sovietica o tedesca, al neorealismo tipicamente italiano che svelava la realtà oltre la propaganda; con il miracolo economico i “paparazzi”, la mitizzazione dei divi e il gossip.

“Stelle” cita l’espressione di Federico Fellini secondo cui “i film Luce diventavano appena un po’ più interessanti quando c’era qualche documentazione che riguardava, non so, o l’elezione di una miss o qualche divo americano che era arrivato  a Roma”.  I divi appartengono  “al mondo magico e immateriale dello schermo – scrive D’Autilia – alimentando, nel buio della sala, le fantasie dei fedeli”,  e vengono fotografati nella realtà per perpetuare e moltiplicare tale illusione; diventano divi anche i campioni dello sport e i cantanti. La sfilata di questi divi  arriva ai  tempi nostri.

Con “Italiani e Italiane” si chiude la carrellata fotografica che accompagna la carrellata cinematografica in filmati e video della mostra. E’ un’infinitesima parte dell’Archivio dell’Istituto Luce:, così  conclude  il curatore D’Autilia: “Attraverso  questo smisurato album di famiglia gli italiani hanno conosciuto e costruito l’immagine di sé: l’obiettivo severo o complice dell’Istituto Luce è stato lo strumento di un’autorappresentazione ‘non autorizzata’ della società italiana”. E, come nei documenti d’identità, vengono fissati i volti, per i singoli anni di un secolo “lungo, e non “breve”  come generalmente viene chiamato il ‘900: sono tanti, dopo quelli notissimi delle “stelle” questi sono anonimi e non  identificati.. Così “ognuno può riconoscere, nella storia di questi volti, radicali o impercettibili trasformazioni e insieme, sul lungo periodo, i ‘caratteri originali’, reali o interpretati, che hanno confermato la nostra identità”.

E’ l’immagine di “un Paese vero, concreto, con tutte le sue contraddizioni, le sue armonie  e le sue disarmonie”,  nelle parole di Dacia Maraini, è  una “storia d’Italia piena di umanità”. Non è poco, aver dato questa immagine, raccontato questa storia;  come non è poco aver fatto salire i visitatori sulla macchina del tempo con i filmati che scorrono incessantemente nei 20 schermi della mostra. 

Info

Complesso del Vittoriano, ala Brasini, p.zza Ara Coeli. Tutti i giorni, compresi i festivi, ore 10,30-21,30, la biglietteria chiude un’ora prima; retrospettiva film e documentari, tutti i giorni alle 11,30 e alle 18,30. Ingresso intero euro 6, ridotto per le categorie riconosciute euro 4. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/ e http://www.cinecittà.com/  Catalogo : “Luce. L’immaginario italiano”, a cura di Gabriele D’Autilia, Edizioni Luce Cinecittà – Rai Eri, 2014, pp. 350, formato 19 x 24. Per la mostra citata nel testo,  cfr., in questo sito, il nostro  articolo “Rai, 60 anni di TV e 90 anni di Radio al Vittoriano”, 13 marzo 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Vittoriano,si ringraziano “Comunicare Organizzando”  d Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare l’Istituto Luce Cinecittà, per l’opportunità offerta.  In apertura e in chiusura, il grande allestimento luminoso nella rotonda centrale; le altre immagini riprendono dei momenti-video di alcune sezioni, dalla sezione arcaismo alla sezione  su Mussolini che creò l’Istituto Luce utilizzandolo abilmente per la propaganda di regime, alle sezioni “controinformazione” e “italiani”, fino alla sezione fotografica del piano superiore con una delle pareti tappezzate di fotografie con i protagonisti del secolo.  

Pietracamela, una mostra sui bambini di una volta

di Romano Maria Levante”

Pietracamela,  nel cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso e monti della Laga,  l’agosto 2014  è animato da ” incursioni coreografiche” e “percorsi sonori“, nonchè da spettacoli dei “Teatri de le Rùe”  nelle vie del borgo sulla figura di “Matteo Manodoro, generale dei briganti”, e da altre manifestazioni culturali, come la  presentazione del libro del “pretarolo”, storica guida alpina, Clorindo Narducci , “Pietracamela  tra storia e leggenda” il 19 agosto, e del libro di Adina Riga, “Architettura é/& arte urbana”, il 22 agosto. Questo insieme di iniziative ruota  intorno a due eventi centrali:  il “Premio internazionale di pittura rupestre Guido Montauti”, dal 17 al 24 agosto,  e la mostra “Come eravamo: l’ruoff i gl’ riuff d’la Prota (Le bambine e i bambini di Pietracamela”), dal 9 al 31 agosto. Il titolo è in dialetto pretarolo con la versione italiana, come in tutte le didascalie degli oggetti esposti e nelle citazioni: è un’iniziativa meritoria, trattandosi di  un dialetto molto particolare del quale il libro di Narducci sopra citato fornisce un prezioso glossario linguistico italiano-pretarolo.

Sebbene sia una stagione estiva fiacca nella meteorologia e nell’afflusso turistico,  il paese ferito dal terremoto del 2009 e dalla successiva frana del “Grottone” che ha travolto e distrutto le “pitture rupestri”  di Guido Montauti esprime la sua volontà di reagire mobilitando le energie per un rilancio in linea con le sue straordinarie risorse paesaggistiche e ambientali. 

La mostra, il primo dei due eventi,  è a cura di Lidia Montauti e Celestina De Luca, con la collaborazione di Aligi Bonaduce. I testi di Aureliana  Mazzarella, le ricerche archivistiche e bibliografiche della stessa con Alessandra Mazzarella che ha curato anche il progetto grafico.

In attesa del “Premio pittura rupestre”, nel nome dell’artista che con la firma “Il Pastore bianco”, l'”avanguardia della rinascenza”,  realizzò nel 1963 lo straordinario complesso di pitture sulle rocce della “Grotta dei segaturi” – un “Quarto stato montanaro”  assorto e in attesa – raccontiamo la mostra che segue lo “Sposalizio di una volta”, dell’agosto 2013, da noi  ricordato di recente.

La prima notazione è che la mostra va ben oltre la rievocazione delle immagini del passato attraverso gli album di famiglia dei pretaroli. Nelle 5 sezioni in cui vengono ripercorse con le fotografie d’epoca le fasi principali della vita dei ragazzi di allora, si ricostruisce anche il contesto storico e normativo, oltre che di costume,  con un’accurata analisi rievocativa, spesso accompagnata da documenti d’epoca, i cui risultati sono esposti negli esaurienti pannelli illustrativi.

E’ stato un lavoro a tutto campo – dai ricordi delle curatrici e dalle testimonianze dei pretaroli alle ricerche negli archivi comunali e parrocchiali nel paese e all’Archivio di Stato a Teramo – dal quale sono nati dei testi che vanno considerati  capitoli di un libro sulla storia locale che si aggiungono a quelli della mostra sullo “sposalizio di una volta”, libro che varrebbe la pena di completare dei capitoli successivi, corrispondenti ad altrettante mostre sui costumi di una volta.

I capitoli di quest’anno riguardano l’“attesa e la nascita dei bambini” e “i neonati e la vita dei bambini”, “i sacramenti e le feste” e “l’educazione scolastica”, fino ai “giochi e gli svaghi”:l’infanzia di allora ripresa fotograficamente e analizzata nel contesto storico e socio-economico.

Non che si tratti di costumi primitivi, ma sono pur sempre molto diversi dalla vita contemporanea, per cui recuperarne la memoria e fissarli come fa la mostra è un’opera benemerita di indubbio valore culturale. Si tratta di “cultura materiale e civiltà agricolo-pastorale”, come è scritto nei sottotitoli della mostra, viene ricostruito “l’orizzonte socio-antropologico” della comunità.

Ma la ricostruzione va ben oltre il suo valore iconografico e storico, in quanto fissa  momenti della nostra vita ancora vicini nel tempo, che sembrano tanto lontani per i balzi in avanti del progresso: una storia che è anche e soprattutto memoria in  cui  ci si può rispecchiare, e vediamo subito perché.

Fotografie e oggetti,  documenti e testimonianze

Una caratteristica saliente della mostra è l’identificazione dei soggetti, indicati con precisione per nome e cognome nelle ampie didascalie esplicative. Il “come eravamo”  non è soltanto un richiamo di costume, ma delinea un interessante abbozzo di  genealogia del paese con presenze ripetute e assenze secondo la disponibilità di materiale fotografico. Queste assenze non sono lacune, ma spazi aperti per integrazioni progressive che rappresentano l’auspicabile futuro dell’iniziativa. 

I visitatori paesani anziani possono riconoscersi nei bambini di allora, del resto sono loro ad aver fornito le fotografie dei propri album di famiglia, i giovani possono confrontarsi con i loro predecessori; i visitatori forestieri possono conoscere l’evoluzione della vita montanara. Per tutti, comunque, sono istruttive le notizie dettagliate fornite sulle singole fasi della vita di allora.

Le immagini  consentono esse stesse di calarsi nel clima dell’epoca anche prima di recepirne gli aspetti peculiari attraverso le testimonianze e i documenti reperiti negli archivi.  Aureliana Mazzarella  sottolinea gli elementi comuni alla galleria fotografica: il modo con cui i soggetti fotografati guardano l’obiettivo con una “fissità ieratica”, i diversi atteggiamenti delle scolaresche,  i maschi con un senso di fierezza, le femmine in modo composto  con qualche vezzo.

Sono per lo più foto di studio eseguite in città, o da fotografi ambulanti che andavano di tanto in tanto  nel paese;  comunque in circostanze speciali che danno loro il crisma dell’ufficialità e della testimonianza,  a parte quelle meno antiche riprese in istantanee che sono la minoranza.

I bambini venivano fotografati soprattutto nelle cerimonie che li riguardavano, come comunioni e cresime, oppure nei gruppi familiari per comporre gli album di famiglia considerati un prezioso archivio di memorie, o per trasmettere agli emigrati le immagini aggiornate sulla famiglia rimasta in paese. C’è un fotomontaggio in cui al gruppo familiare di madre e figli è stata aggiunta l’immagine  del padre lontano per la guerra ma che non poteva mancare nella foto di famiglia. 

E’ un giacimento culturale che potrà rivelare ulteriori sorprese, ma che sin da ora ha portato a scoperte sorrette da una solida base probatoria: come è stato il trovare  documentata sia a Pietracamela che nella frazione di Intermesoli  la “ruota dei proietti”  per i quali era previsto un preciso iter assistenziale con la balia appositamente remunerata, che quando si affezionava in modo speciale poteva arrivare fino ad adottare il bimbo. La regola fu imposta dai francesi dal 1806, all’insegna della “fraternité”  della rivoluzione, e sorprende che già allora vi fosse un presidio assistenziale  così avanzato anche nelle più isolate località di montagna dove, naturalmente, venivano portati “proietti” anche da zone lontane per essere più sicuri dell’anonimato.

Gli stessi francesi in quegli anni giustiziarono Matteo Manodoro nella lotta contro i briganti, in realtà questo personaggio di Pietracamela viene visto quale patriota della resistenza contro gli invasori stranieri e non liberatori dal giogo borbonico come li considera la storiografia ufficiale. Il libro di Berardino Giardetti, illustre paesano, a lui dedicato, ne rievoca le gesta e la tragica fine proponendo un riconoscimento come patriota; qualcosa si è fatto, ne viene  rappresentata la vicenda anche quest’anno con i “Teatri de le Rùe”, una “piece” itinerante nelle stradine del borgo suggestiva nella qualità dei testi e nelle musiche di un gruppo dall’enfasi libertaria che ci ha ricordato gli Inti Illimani.  Ma questa è un’altra storia che non c’entra con i bambini, è solo l’associazione di idee con i francesi qui in veste di  “benefattori”, sempre nel nome di Pietracamela. 

Oltre ai documenti degli archivi,  fonte preziosa per la ricostruzione degli antichi costumi sono stati i ricordi delle curatrici dei racconti delle madri e nonne, e dei pretaroli più anziani, la cui memoria storica consente di mantenere vivo il retaggio del tempo che fu. Insieme ai ricordi hanno fornito anche gli oggetti che entravano nel ciclo di vita del bambino,  esposti insieme alle immagini a corredo delle singole sezioni, per lo più negli originali  e in qualche caso in fedeli ricostruzioni  eseguite appositamente con cura e amore.

Un’iconografia rivelatrice

La fionda, il cerchio e l’aquilone, presenti tra gli oggetti d’epoca esposti,  sono raffigurati all’ingresso in un’elegante sagoma con  il profilo di tre bambini,  ciascuno impegnato nel  suo gioco, in un’ideale escalation di  fanciullesca libertà.  Sulle pareti  della stessa sala una sequenza di  fotografie singole di bambini insieme ad immagini spettacolari di gruppi di famiglia con i genitori al centro e i piccoli stretti intorno in ordine di età, come nelle foto dinastiche.

Per la precisa identificazione dei soggetti  il confronto con il presente e il recente passato è immediato, si mescolano memoria e nostalgia;  ma l’interesse c’è comunque,  l’iconografia dell’infanzia  di ieri  rivela le sfumature di costume al di fuori di ogni identificazione personale.

Colpisce la cura nell’abbigliamento dei bambini, anche per l'”ufficialità” delle immagini  riprese nelle cerimonie rituali e comunque in circostanze particolari, come la posa dal fotografo  in città e nel paese con la sua attrezzatura come veli e fondali. Ma a parte questo, testimonia una certa “nobiltà”, o più semplicemente una cura non intaccata dalle condizioni ambientali inospitali.

Lo vediamo negli abiti e nelle calzature, anche nella straordinaria immagine del “piccolo pretarolo” senza nome, che non è stato identificato, e può quindi essere assunto come “il bambino ignoto”, cioè “il piccolo pretarolo ignoto”,  in rappresentanza della moltitudine che non può figurare nella mostra ma ha fatto la storia di Pietracamela; paese che raggiunse 1600 abitanti, non va dimenticato dinanzi allo spopolamento della montagna e alla crisi che ha ridotto le presenze turistiche. 

Pur con gli elementi iconografici in primo piano, non va lasciato cadere quanto di prezioso la mostra mette a disposizione con le notizie sugli usi e costumi di una volta nella nascita e cura dei bambini. In chiari cartelli esplicativi a illustrazione delle 5 sezioni, i testi raffinati di Aureliana  Mazzarella presentano ai visitatori i risultati dell’approfondita ricerca da lei svolta insieme ad  Alessandra  Mazzarella, con l’apporto diretto delle curatrici Lidia Montauti e Celestina De Luca.

Da questi testi sono tratte le notizie che forniremo ripercorrendo l’iter  documentario oltre che iconografico della mostra, premettendo che ben più approfondito e analitico è il quadro che viene offerto ai visitatori.

Dalle fasce agli sci, il cammino dei  piccoli pretaroli

Con le nozze i figli seguivano in continuità,  dopo un’attesa ansiosa e impaziente che non prevedeva programmazioni ritardate. Era quasi un motivo di prestigio avere presto l’erede, la cui nascitaveniva festeggiata con esplosioni di gioia, “più intense se era un maschio” sottolinea maliziosamente Aureliana Mazzarella nell’accurata ricostruzione che fa rivivere questo momento.

Nell’assistenza al parto era rara la presenza del medico, provvedeva l’ostetrica aiutata dalla madre della partoriente e dalle parenti più strette, tutte mobilitate mentre i bambini venivano portati altrove affidati a parenti o amici. Veniva fatta bollire l’acqua per sterilizzare gli strumenti e i panni da utilizzare, poi il neonato veniva lavato e stretto nelle fasce, nei tempi più antichi si immobilizzavano anche le braccia, per impedire i movimenti che avrebbero potuto  danneggiarlo, era pronta la culla.

Sono esposte le vaschette di varie misure per i lavaggi nonché la toilette con catino e brocca nell’apposita  armatura di ferro battuto, rimasta nelle case anche nell’ultimo dopoguerra; i tessuti utilizzati e le fasce, le cuffiette sempre messe sulla testa del neonato, i “paponcini”. Anche due culle di allora e un seggiolone, erano fondamentali perché la mamma impegnata nei lavori domestici e non solo, non aveva tempo per tenere in braccio a lungo il bambino;  la culla era fatta per “nazzicare” il neonato, la mamma la muoveva con il piede mentre faceva la maglia. Era molto breve il periodo in cui era esentata dai lavori, domestici e non solo, per il puerperio, le pressanti esigenze familiari non davano tregua.

Il battesimo seguiva di pochissimi giorni il parto, con la presenza dei padrini e la simbolica assunzione di responsabilità sul piccolo, la fretta era dovuta all’alta mortalità infantile unita alla credenza del “limbo” per i non battezzati. Era un timore così forte che l’ostetrica poteva impartire lei stessa il battesimo in casi estremi, segno comunque dell’affidamento di funzioni parareligiose a persone laiche anche in quei tempi, un secolo prima della comunione impartita dai credenti appositamente legittimati. A volte anche nella religione c’è qualcosa di nuovo, anzi d’antico…

Se la madre non aveva latte sufficiente provvedeva la balia, l’allattamento  si protraeva per molti mesi, non c’erano surrogati artificiali; lo svezzamento era fondamentale, si usava il pancotto o il pane masticato dalla mamma del bambino.

Un salto di alcuni anni ed ecco le foto delle cerimonie, dopo il battesimo comunione e cresima in primo luogo, sezione particolarmente ricca della mostra. Vediamo i vestitini quasi da sposa delle bambine e qualche esempio del “vestivamo alla marinara” dei bambini, insieme ad abitini diversi ma sempre molto curati, a parte quelli che inteneriscono nel fare dei bambini dei veri ometti.  

Nelle foto più antiche gli abiti non sono diversificati per sesso, e delle volte neppure le capigliature, come mostra una fotografia con due “caschetti”, un bambino e una bambina affiancati con lo stesso taglio di capelli. I bambini erano mobilitati nelle processioni,  soprattutto quelli che avevano ricevuto la comunione da poco tempo, con ruoli diversi per i maschi  e le femmine.

Alcune fotografie sono preziose perché documentano le particolari calzature, i “paponi” di pezza, e anche alcuni giocattoli  rudimentali come bambole e cavallucci, esposti nella saletta con i cimeli.

Nella sezione sulla scuola troviamo uno straordinario documento del 1855 dell’Iintendenza borbonica, scovato dalle ricercatrici,  che certifica a quale livello gli impegni scolastici fossero disattesi nell’epoca più antica per non far mancare il contributo del lavoro dei bambini nella lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile. Il documento mostra come l’Intendenza borbonica licenziasse l’insegnante riconoscendo l’impossibilità degli scolari di frequentare perché indispensabili per il lavoro dei campi in primavera e per quello della lana in seguito.

Poi la frequenza a scuola diverrà più regolare, ci sarà maggiore disponibilità di insegnanti e scuole, con i trasferimenti da un paese all’altro e la permanenza “in loco” dei maestri elementari nelle sedi assegnate in montagna, che erano disagiate e impossibili da raggiungere se non all’inizio della scuola e in pochi altri momenti, dato che allora non poteva esserci pendolarismo di alcun tipo. 

Vediamo  esposte le povere cartelle di cartone, la più antica addirittura di legno, e la cancelleria d’epoca, penne e calamai, pagelle e altri articoli scolastici, come i cartelli illustrati con le lettere per la prima alfabetizzazione, poi superati dal “metodo globale”, c’è anche un banco a due posti in legno pesante. Tra le immagini di scolaresche, con i diversi atteggiamenti di bambini e bambine,  anche una rara foto dei saggi ginnici del regime, le “piccole italiane” schierate nelle loro divise bianche e nere nella piazza del paese.

Le malattienon risparmiavano bambini e adulti, le differenze rispetto all’oggi si ingigantiscono. Rimedi empirici  e l’uso di erbe officinali  erano il portato di tradizioni secolari, si faceva molto affidamento sulla loro efficacia. Nelle note esplicative è citata una serie di rimedi dell’epoca per i malanni più frequenti, dal mal di gola, per il quale c’erano le pennellature di tintura di iodio impartite con penne di gallina, ai dolori che venivano curati applicando un coppo riscaldato alla parte del corpo interessata, e altri ancora, alcuni rimasti a lungo come l’uso della malva.

Quando il malanno persisteva si poteva anche far appello a forze misteriose evocate da riti magici, mentre contro i nemici si ricorreva alle fatture e al malocchio; viene da sorridere ma la cronaca ci ha fatto conoscere anche casi recenti  portati con il veicolo, non di certo primitivo, della televisione.

Immagini festose segnano un aspetto della vita di allora non secondario: una vita scandita dal lavoro con momenti di festeggiamenti allorché si concludeva un ciclo stagionale; così c’era la festa della falciatura e quella della trebbiatura, inoltre la festa della “comare a ramaglitt” per i compari fra i giovani e fra le varie famiglie, con reciproci omaggi di rami di ciliegio aventi fiori e frutti in cima, vediamo una graziosa ricostruzione e alcune fotografie corali. E poi le feste religiose, con le processioni  in una unanime partecipazione popolare per l’omaggio devoto, è presentato un elenco delle principali ricorrenze che mobilitavano periodicamente il paese, con le relative notizie, san Rocco il santo più  venerato anche oggi.

Nella sezione dei giochi si spiega che i giocattoli erano costruiti dai grandi ma spesso veniva fatto partecipare anche il bambino perché acquisisse la manualità che gli sarebbe stata indispensabile nella vita, aiutava con uno zelo pari al suo interesse diretto. In uno scaffale e nel pavimento della rispettiva saletta sono allineati i cerchi  con la guida in ferro per spingerli, i carretti di vario tipo, carriole giocattolo, fionde per i bambini, bamboline di pezza e altri oggetti per le bambine, in alto un aquilone colorato. Nei cimeli iconografici si specchia l’immagine dell’apertura della mostra.

Dalla fine degli anni ’20 del ‘900 irrompono gli sci nella vita dei pretaroli,  i ragazzi ne sono subito presi. Li porta in paese nel 1929 la mobilitazione degli alpini nella ricerca di due scalatori  scomparsi nella tormenta di neve mentre cercavano di rientrare in paese dalla montagna, Cambi e Cichetti, i cui corpi furono ritrovati uno vicino al Rio d’Arno, l’altro in una radura del bosco, dove sono ricordati da due cippi.  Nel 1925 era stato fondato dal medico alpinista pretarolo Ernesto Sivitilli il gruppo “Aquilotti del Gran Sasso”, il primo in Italia, come ricordato nel libro del suo fondatore su Corno Piccolo la cui ristampa è stata presentata lo scorso anno a Pietracamela. I  “pretaroli” si segnalarono poi nelle gare regionali e non solo, con sci di legno “fabbricati” da loro anche nell’immediato dopoguerra: due nomi, Mario De Laurentis e Pierino Sivitilli . Agli sci è dedicata una sezione della mostra, dove spicca l’immagine di un  “piccolo sciatore”: il suo nome è noto, Aligi Bonaduce, collaboratore della mostra, lo assumiamo a simbolo dell’evoluzione chiudendo  il cerchio aperto dal “piccolo pretarolo ignoto”.

Per un’esposizione permanente nel Museo delle Genti e antichi Mestieri

Torniamo con il pensiero alla mostra dello scorso anno sullo “sposalizio di una volta”, che iniziava con i primi approcci, poi proseguiva con il fidanzamento e le nozze; le fotografie d’epoca  erano accompagnate ugualmente dalla ricostruzione degli usi e costumi mediante testimonianze e documenti, nonché con i cimeli più caratteristici,  tra cui gli abiti e i corredi.  Con la carrellata sui bambini pretaroli prosegue un racconto che prende sempre di più, diventa appassionante.  A questo punto ci si chiede quale potrà essere la prossima puntata, quale ciclo di vita montanara potrà essere  rivelato con la profondità e la passione messe in campo dalle realizzatrici della mostra.

Non è un lavoro semplice, ma i risultati sono notevoli e ne va dato merito alle organizzatrici e anche, non dimentichiamolo, a chi ha contribuito alla raccolta del materiale pescando negli album di famiglia oltre che, in qualche caso, nelle vecchie soffitte.  Uno spaccato di vita montanara viene riproposto  nell’evidenza visiva  delle  fotografie  e nella testimonianza concreta dei cimeli d’epoca, quanto basta per dar vita a un museo permanente in cui collocare stabilmente questi reperti per mantenerne in permanenza la memoria storica. Non si tratterebbe di un museo statico, fossilizzato nei reperti in esso collocati una volta per tutte, perché le due mostre finora realizzate vanno viste “in progress”, come un nucleo su cui innestare integrazioni e arricchimenti di una galleria umana ben più vasta di quella finora rappresentata. Ed è l’esperienza delle stesse esposizioni a renderle dinamiche, già sono state fatte delle aggiunte, con le mostre  ancora in corso,  per colmare le assenze dalla galleria umana dietro sollecitazione di chi non vi si è ritrovato pur avendo testimonianze fotografiche da esibire. E’ questo un processo che continuerà incessante tenendo conto della vasta rete di “pretaroli” in Italia e all’estero che vorranno dire anche loro “io c’ero”.

Quindi un museo, permanente e dinamico, continuamente arricchito  di immagini e cimeli. Ma come istituirlo? E’ l’uovo di colombo, questo museo c’è già a Pietracamela,  è il “Museo delle Genti e antichi Mestieri”:  in una saletta del Palazzo Comunale sono tuttora esposti dei cimeli  di antichi attrezzi ed oggetti domestici, ma ancora nulla sulle Genti che li hanno utilizzati.

Ebbene, le Genti sono quelle la cui storia viene dipanata nelle mostre già realizzate, che iniziano dallo sposalizio, dopo gli incontri e il fidanzamento, poi vanno ai bambini fino all’età della cresima; la storia potrebbe continuare con l’età adulta e le relative attività, dando rilievo a figure rappresentative e caratteristiche del paese, culminando nell’emigrazione che aprirebbe l’orizzonte alle lontane Americhe. In questo contesto anche gli strumenti degli antichi Mestieri troverebbero la naturale collocazione, inseriti a documentare  i vari momenti, testimonianze di una storia raccontata per immagini, documenti e ricostruzioni d’epoca; inoltre la loro consistenza potrebbe arricchirsi notevolmente, per un processo analogo a quello messo in moto per le fotografie dalle due mostre, la volontà di dire “io c’ero”, quindi vorrei esporre le mie testimonianze.  Dalla saletta attuale si dovrebbe passare a diverse sale con lo spazio per gli arricchimenti che potranno essere progressivi  e continui:  una volta effettuati i lavori di ripristino della parte del Palazzo Comunale  tuttora inagibile per il terremoto potranno liberarsi degli spazi anche nella  vecchia sede comunale.

Sarebbe un’attrattiva in più per il paese e un evento di elevato valore culturale e storico. E questo senza dover creare una nuova struttura, ma dandopienezza di contenuti a quella che esiste, lo ripetiamo, il “Museo delle Genti e antichi Mestieri”,  attualmente monco della parte fondamentale relativa alle Genti e carente per quella degli antichi Mestieri,  i cui reperti sembrano poveri e inadeguati presi in se stessi, ma che acquisterebbero un diverso impatto se inseriti nel contesto fotografico e documentale; oltre agli apporti che potrebbero venire per una volontà di presenza in una memoria storica sentita come patrimonio di tutti..

In questa prospettiva, che ci sentiamo di delineare con ferma convinzione, lasciamo la mostra nell’attesa,  non priva di ansia, della nuova “puntata” di una storia intrigante. Pietracamela, dal 2005 nel club dell’Anci dei “Borghi più belli d’Italia”, poi “Borgo dell’Anno 2007” con le prestigiose “cinque stelle”, e dal 2013 tra i “400 Borghi più belli del mondo”, può valorizzare il suo presente anche facendo leva su un passato entrato nella storia del costume nazionale. Il suo futuro potrà vedere così un rilancio anche su  basi culturali oltre a quelle paesaggistiche che ne fanno il borgo di punta del Parco Nazionale Gran Sasso e monti della Laga.

Info

Pietracamela, Palazzo Comunale, via XXV luglio, all’entrata in  paese, tutti i giorni compresi i festivi, ore 10-13, 15-18, ingresso gratuito.  Cfr. in questo sito i nostri articoli sulla mostra precedente citata, “Pietracamela, lo sposalizio di una volta”,  20 luglio 2014, e sul libro anch’esso citato di Ernesto Sivitilli su Corno Piccolo, “Pietracamela, una mostra d’arte e un libro d’epoca”,  27 agosto 2013; nonché l’articolo “Pietracamela, il premio pittura rupestre Guido Montauti e l’estate 2014″, 17 luglio 1914 al termine del quale, in “Info”, sono indicati gli altri nostri articoli su Pietracamela e le sue mostre,  pubblicati sia in questo sito, sia in “cultura.inabruzzo.it” e in http://www.fotografarefacile.it/.

Foto

Le immagini sono state riprese nella mostra al Palazzo Comunale di Pietracamela da Romano Maria Levante, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura,  “il piccolo pretarolo ignoto”, in chiusura “il piccolo sciatore” ,  Aligi Bonaduce,  Tra le due immagini  che chiudono idealmente il cerchio dell’evoluzione del bambino pretarolo,  al centro la foto del 1914 dei due bambini con i capelli a caschetto unisex, Bruno Marsilii e la sorella Nicolina, tra le riprese panoramiche delle sezioni della mostra.

Francigena 2014, arte e storia, cultura e spiritualità, nel Lazio e nel Sud

di  Romano  Maria Levante

Il 28 aprile 2014 è stata presentata nella sede di Civita di Piazza Venezia a Roma,  che ne è promotrice con Radio Rai, l’iniziativa “La bisaccia del pellegrino: Francigena 2014, l’Europa a piedi verso Roma”   per  la valorizzazione del territorio nella parte nord dell’antica via di pellegrinaggio, facendo ripercorrere l’itinerario da giornalisti-camminatori di varie radio europee  e trasmettendo i loro resoconti in 10 apposite trasmissioni radiofoniche dei diversi  paesi in 9 lingue  per sei settimane consecutive, con inizio il prossimo 5 maggio. L’iniziativa è sostenuta dalla  Fondazione Roma, dalle  regioni Lazio e Toscana,  nonché dall’Associazione europea Vie Francigene, con la collaborazione di Romaincampagna.it e Fondazione Campagna Amica. Due preziose guide  “Touring Editore”, del 2012 e 2013 documentano con dovizia di immagini e di notizie, gli “itinerari a piedi” della “Via Francigena nel Lazio” e della “Via Francigena nel Sud”.

Ha introdotto l’incontro il vice presidente di Civita  Nicola Maccanico ricordando i  valori spirituali, oltre che storico-culturali e artistici della via Francigena e sottolineando l’importanza dell’estensione all’Europa di un percorso altamente simbolico e fortemente attuale.

Le radio europee e i giovani, le regioni Lazio e Toscana

Sergio Valzania, Vicedirettore  di Radio Rai,  si è soffermato sulla  partecipazione delle Radio europee che racconteranno nelle varie lingue la “camminata” del  pellegrino intesa anche come condivisione di esperienze e di valori nel momento in cui si condivide la lunga marcia a piedi.  Già la Rai ha diffuso la conoscenza della via Francigena tra gli italiani, ora sarà estesa anche all’Europa.

Franco Parasassi, direttore generale della Fondazione Roma, ha parlato del “radicamento di persone e di strade” della Via Francigena motivando così  la partecipazione della Fondazione: “promozione sociale e sviluppo economico da un lato, promozione della solidarietà dall’altro”. Un modo anche per strappare tanti giovani dalle deviazioni avvicinandoli a qualche forma di arte e cultura, perché “sulla Via Francigena c’è la condivisione e la solidarietà”. Si creano anche  opportunità di sviluppo economico in varie forme, per le iniziative che possono nascere, prodotti culturali che si traducono in crescita anche del prodotto interno lordo.   Richiama l’asset costituito dalla cultura e dalle tradizioni da utilizzare per promuovere sviluppo economico e insieme la solidarietà sociale.

Il rappresentante dell’Assessorato alla cultura della Regione Lazio  ha citato le iniziative per promuovere il tratto laziale dell’itinerario, tra cui un apposito e book.  E’ un modo per portare l’attenzione dei giovani, attirati dai prodotti della più avanzata tecnologia, su territori con valenze storiche e culturali notevoli. Questo si intende promuovere non in una visione limitata né tanto meno isolata, ma in contatto con altre regioni, in particolare la regione Toscana. C’è anche l’impegno  a sviluppare forme gestionali efficaci  per superare le difficoltà che si incontrano in sede locale, tenendo conto anche dei rilevanti costi di manutenzione.

Per la  Regione Toscana, dove si snoda il tratto più lungo della Francigena fino a Roma,  ha parlato il rappresentante dell’Assessorato al turismo  ricordando come il percorso sia ritenuto importante per lo sviluppo economico: dal 2009 la regione ha investito 13 milioni di euro sulla Francigena, il 2014 è un anno importante perché “il tratto toscano è ben attrezzato e segnalato, messo in sicurezza e completamente fruibile, anche le strutture di ospitalità vengono continuamente migliorate”.

Massimo Tedeschi, presidente dell’Associazione Europea Vie Francigene, che se n’è occupato da sempre, ricorda che negli ultimi dieci anni nel tratto più a nord è stato fatto molto, da comuni, regioni, associazioni; ma c’è  ancora molto da fare. ” La Via Francigena è legata ai valori europei, come accoglienza, pace e storia, e li rappresenta bene”.

E’ il ventennale del tratto che venti anni fa riconosciuto dal Consiglio d’Europa, ci sarà un convegno di riflessione, 1800 Km da Canterbury a Roma, anche gli “scettici inglesi” stanno prendendo coscienza dell’importanza di questo scambio culturale e  religioso.

Nell’Expo milanese verrà evidenziata l’eccellenze del cibo nella Francigena, un valore economico che nasce dalla cultura e dalle tradizioni locali. “L’uomo ha bisogno del cibo per la vita morale e materiale. Lo spirito di accoglienza e collaborazione Franchigena è  in chiave di solidarietà”.

Ci sono tre itinerari principali di valore storico e religioso: verso Santiago di Compostela, verso Roma e verso Gerusalemme. Nel Medio Evo il pellegrinaggio più importante era verso Roma, la via Romea nel IX secolo diviene via Francigena,  cioè francese.  Fidenza nel Medio Evo era punto di incontro di pellegrini dal Nord Europa, perciò a Fidenza c’è la sede dell’Associazione europea.

L’aspetto produttivo legato al cammino sulla Via Francigena

Carlo Hausmann, titolare dell’Azienda Romana Mercati, afferma che “la cultura alimentare è anzitutto cultura”.  Si incontrano culture alimentari molto diverse lungo il percorso, anche noi italiani ne sappiamo poco, perché ci fermiamo alla cucina regionale, pensando che ogni regione ha le proprie caratteristiche. “Ma non è sempre così, c’è la mappa dei dialetti, chi parla la stessa lingua mangia le stesse cose; il ‘made in Italy’ è una miniera di situazioni diverse nel tratto italiano della Francigena. I prodotti sono le parole, le ricette le frasi, la  cucina risultante linguaggio”.

La sua idea è di far provare ogni settimana un kit di prodotti diversi, selezionati e adatti al’uso del cammino: energetici e nutrizionali, con leggerezza di peso e giusto tenore di sale. Se questo funziona potranno entrare in una gamma ideale di cibo che accompagna il viaggio della Francigena.

C’è un mappa molto ampia di prodotti e specialità, 10.000 che confluiscono nelle ricette, in una grande biodiversità alimentare. Sappiamo come sono fatti e a che epoca risalgono, perché collegati all’itinerario. “Poi c’è la componente del racconto, molti non conoscono la nostra cultura alimentare che si sta perdendo, la sfida è creare lungo il tragitto una rete che faciliti questa trasmissione, per questo sono nati i narratori del gusto”. E’ la chiave per apprezzare i gusti autentici  e le differenze effettive e distinguerli dalle false imitazioni.

Mostra degli snack di sola frutta adattissimi alle camminate, e una bevanda chiamata “ambrosia”, con miele amaro, succo di limone, vicino a un antico prodotto romano. C’è bisogno di cose nuove aggiunte a quelle della  tradizione. “La bisaccia del pellegrino è comunque un biglietto da visita per la promozione dello sviluppo”.

Interviene De Amicis della Fondazione campagna amica,  che parla di sfida difficile nella fornitura di prodotti rigorosamente selezionati, espressione della biodiversità che si va riducendo nel mondo per l’industrializzazione che ha omologato i prodotti e anche il gusto. Qui si fa l’opposto con il riscoprire lungo il percorso imprese agricole che hanno i sapori e gli odori con il gusto originario.

Il turismo religioso ha molta importanza, vale 5 miliardi di euro l’anno, con papa Francesco aumenta, è un segmento che pur non spendendo molto, è culturalmente avanzato, quindi sa capire i prodotti selezionati.

Conclude  Sergio Valzania ribadendo che “la Via Francigena è il più bell’itinerario del mondo, ha il piccolo difetto di essere troppo bella, i paesaggi cambiano più volte in una giornata, si incontrano  meraviglie tutti i giorni, senza pause, in un territorio frammentato e ricco di attrazioni diverse, come se si passasse da un mondo  a un altro. E non è soltanto per i paesaggi naturali, ma anche per quelli creati dall’uomo, non solo l’architettura, anche il cibo e il vino italiano, sempre diversi.

Tornerà il 16 giugno, con gli altri camminatori, ricevuto solennemente a San Pietro, la prima meta.

La Via Francigena ieri e oggi

Ma come nasce la Via Francigena, e quali funzioni ha avuto nella storia? Le sue origini risalgono all’Alto Medioevo, intorno al 7° secolo, allorché i longobardi scelsero un itinerario per collegare il Regno di Pavia e i ducati meridionali, tutti sotto il loro dominio, lungo un percorso distante dalle località occupate dai bizantini, quindi relativamente sicuro. Attraversava l’Appennino nel valico della Cisa, proseguiva sulla Cassia e attraverso alcune valli raggiungeva Roma.

L’itinerario assunse il nome “Francigena”, cioè strada che proviene dalla Francia, allorché al dominio longobardo seguì quello francese, e divenne un importante collegamento, non solo per gli eserciti, ma anche per mercanti e pellegrini,  tra la parte settentrionale e quella meridionale. I pellegrinaggi si moltiplicarono dopo l’anno mille nelle tra Santiago, Roma e Gerusalemme.

Non ci sono selciati particolari, dopo la scomparsa di quelli romani, ma i sentieri sono per lo più piste di terra battuta dai pellegrini con luoghi di sosta per la notte nei centri abitati che si incontravano e venivano chiamati “mansioni” e con passaggi obbligati per valichi o guadi; e presentavano deviazioni e varianti per evitare paludi o interruzioni, fino agli agguati di briganti.

E va anche sottolineato che il percorso attuale non corrisponde a quello originario, dato che il tracciato romano spesso è stato incorporato nella grande viabilità e anche i centri abitati sono completamente trasformati, non servirebbe neppure dirlo.

Proprio per questi radicali cambiamenti è interessante rilevare –  si legge nella guida “Itinerari a piedi” – che  “oggi il viaggio a piedi lungo la Via Francigena, pur avendo ovviamente un significato diverso rispetto al Medioevo, conserva sorprendenti analogie con il pellegrino originario”, ma se ne distacca per un particolare: allora il cammino a piedi era una necessità per raggiungere la meta del pellegrinaggio, mentre oggi è una scelta perché lo si potrebbe fare con la più ampia disponibilità di mezzi di trasporto.  E questo ha un’implicazione ben precisa: a differenza dei tempi antichi come degli attuali viaggi in auto, treno o aereo, dove conta soltanto la meta, oggi  “il pellegrino a piedi decide consapevolmente di viaggiare con lentezza, nel suo immaginario il viaggio stesso vale più della meta. Una meta che deve continuare a esistere, altrimenti verrebbe meno il senso del pellegrinaggio, ma che passa in secondo piano rispetto al cammino verso quella meta”.

Ma come procede il cammino nelle mutate condizioni di oggi, i radicali cambiamenti intercorsi non sono stati tali da far svanire il fascino del viaggio e l’autenticità nell’atteggiamento del pellegrino?

La risposta che viene data è precisa e motivata: “Il percorso moderno cerca proprio di ricostruire le suggestioni dell’antico pellegrinaggio, le atmosfere rarefatte, la profondità degli incontri, salvaguardando nel contempo la sicurezza dei pellegrini”.  E lo fa in questo modo: “Il tracciato segue un fllo immaginario che lega le numerose perle artistiche, religiose, culturali che punteggiavano l’antico cammino, procedendo a zig zag per evitare le grandi vie di comunicazione”. Gli effetti: “Il nuovo itinerario è quindi più lungo punto di quello antico, ma questo ha un risvolto positivo: molti tratti della Via Francigena sono di tale bellezza che si vorrebbe non finissero mai”. Sentire queste parole nell’era della velocità esasperata non può che confortare, non tutto è perduto.

La Via Francigena nel Lazio

La guida della ” Via Francigena del Lazio”, di “Touring Editore”  è stata presentata, sempre nella sede dell’Associazione Civita, il 16 novembre 2012, con l’Assessore a Cultura, Turismo e Politiche giovanili della Regione Lazio Fabiana Santini, e il presidente dell’Associazione Europea Vie Francigene Massimo Tedeschi, oltre  al Segretario Generale di Civita, Albino Ruberti, i rappresentanti delll’Editore e il vice direttore di Radio Rai Sergio Valzania che ha realizzato, con la Comunità radiotelevisiva Italofonica,  un apposito programma itinerante di 7 settimane, tra maggio e giugno dello stesso anno, trasmesso da Rai 1 e da RaiWebRadio sul cammino della Via Francigena percorso personalmente a piedi con i giornalisti dell’emittente europea.  

E’ stata definita “una bussola cartacea”, ma è stata creata anche un’altra bussola ancora più attinente allo strumento nautico, una “Geoguida” – da scaricare con gli strumenti più recenti, come smartphone e Ipad – che “consente di mettersi in rete con luoghi, mappe, racconti di viaggio, monumenti ed eccellenze paesaggistiche attraverso l’attuale tecnologia, per camminare assistiti da una ricca e puntuale cartografia informatizzata, per essere accompagnati passo passo alla scoperta di sentieri, percorsi da scegliere, siti da scoprire”. In sintesi, “con l’aiuto del proprio cellulare, il turista-pellegrino di oggi può portare con sé tutto quello che gli occorre per transitare sulla Via Francigena nel Lazio settentrionale senza bisogno di consultare testi cartacei e cartine.

Anche per chi resta fedele alla guida tascabile le informazioni e gli avvertimenti non mancano, persino quello di non fidarsi troppo dei cartelli segnalatori – di cui  vengono puntualmente descritte le varie tipologie – perché potrebbero essere superati da varianti introdotte successivamente. Si descrivono le singole tappe con tempi di percorrenza e difficoltà, compresa l’ombreggiatura, fino ai punti di ristoro e i luoghi di accoglienza per la notte, per gli istituti religiosi riservati ai pellegrini occorrono le “credenziali” rilasciate dall’ “Associazione Europea Vie Francigene”  e poche altre.

Si attraversa il Lazio dalla Toscana in 9 tappe, lasciando la via Cassia nuova, che coincide pressoché  completamente con l‘antico percorso, per strade secondarie per lo più sterrate, il più possibile vicine al tracciato originario, in modo da toccare i punti più significativi.

Partenza da Radicofani, dove Ghino di Tacco  taglieggiava i viaggiatori bloccandoli nella gola – dalla rocca si domina su parte del percorso – poi crinali panoramici fino ad Acquapendente. Di lì si va tra gli ulivi fino al lago di Bolsena, per poi scendere verso Montefuascone. Da lì a Viterbo, definita “la città dei pellegrini”. Siamo nella Tuscia e attraversiamo l’Agro romano, ondulato con piccoli boschi, da Viterbo a Vetralla, da Vetralla a Sutri, fino a Campagnano di Roma, la città eterna ormai è vicina. Da Campagnano a La Storta si entra nei sobborghi, mentre l’ultima tappa porta a Monte Mario che era chiamato significativamente “mons gaudi”, cioè della gioia, perché si era ormai vicinissimi a San Pietro, la meta del viaggio per i pellegrini.

La Via Francigena nel Sud

La prosecuzione nel Mezzogiorno dell’itinerario, la guida della “Via Francigena nel Sud”, è stata presentata nel 2013, quindi tra le due manifestazioni del 2014 e del 2012 sopra ricordate. E’ sempre di “Touring Editore”, con una importante particolarità: non è una guida come le altre perché descrive l’itinerario compiuto effettivamente a piedi con altri giornalisti tra maggio e giugno 2012  dal Vice Direttore di Radio Rai Sergio Valzaina – intervenuto nella presentazione – e tradotto citato nel programma radiofonico dal titolo “Da Roma a Gerusalemme : le strade, il mare, la nostra lingua” . Perciò si apre e si chiude con due testi  di Valzaina, nei quali si sente l’emozione del moderno pellegrino di un mese  e mezzo di “itinerario a piedi”: “Dentro il futuro” alla partenza, “Salire a Gerusalemme” al termine.

Questo lungo tratto della Via Francigena è l’ultimo intinerario in Occidente, da Roma a Brindisi, prima del salto nell’Oriente dal porto pugliese verso la meta di Gerusalemme. Si svolge attraverso le vie consolari Appia e Prenestina, via Latina e Casilina, e i tratturi dove passavano le greggi per svernare in pianura – una rete dagli aspetti analoghi, con aree di sosta e di pernottamento – in un paesaggio molto vario tra pianure, colline e montagne, su basolati romani e sentieri sterrati, rovine e templi, cattedrali e santuari che si incontrano lungo il percorso.

La direttrice principale seguita è stata quella della Via Appia Antica, che veniva chiamata “Regina Viarum” e univa Roma a Brindisi, ma vi sono anche delle varianti rispetto al percorso dei giornalisti di Rai 1 che avevano il vincolo dei tempi prestabiliti per le trasmissioni radiofoniche; tra queste varianti  l’attraversamento di Terracina, e un percorso alternativo sull’Appia Antica rispetto a quello montano e più breve tra Sessa Aurunca e Benevento.  Anche in Puglia due alternative, quella interna sulla Via Traiana tra Canosa e Bari, quella marittima  da Canosa alla costa dove tradizionalmente i pellegrini potevano imbarcarsi per la Terra Santa, dopo l’eventuale visita al santuario di Monte Sant’Angelo, una meta intermedia molto praticata da raggiungere con la variante Troia- Monte Sant’Angelo.

Tutto descritto accuratamente nella “bussola cartacea” di cui si è detto sopra, con il pregio che tutto quanto è indicato – informazioni utili e schede tecniche, indicazioni topografiche e soprattutto splendide  immagini di luoghi, antichità, templi – è stato verificato e provato, sperimentato e raccontato da  “pellegrini” molto particolari e anche esigenti come i giornalisti radiofonici.

Le tappe questa volta non sono soltanto 9 come nel Lazio da Radicofani a Roma, ma ben 32, da Roma a Brindisi. Si passa per Castelgandolfo e Velletri, Cori e Sezze, poi dall’abbazia di Fossanova si va a Terracina con le rovine antiche e il Tempio di Giove Anxur che domina il Golfo del Circeo.   Poi Fondi con il lago e Formia con il mare, attraversate le gole di Sant’Andrea, Termina il Lazio e si entra in Campania, Sessa Aurunca e Nocellato, Santa Maria Capua Vetere e Maddaloni, Montesarchio e Benevento. Altre tappe per entrare in Puglia raggiungendo Troia e poi Cerignola, quindi  si passa per Canosa, Bisceglie e Bitonto, Bari e la meta Brindisi i grandi capoluoghi.

Non possiamo che concludere con le parole con cui Salzania riassume la sua esperienza nell’introduzione: “Il viaggiare  a piedi contemporaneo non è una continuazione di qualcosa ormai estinto né una fuga all’indietro, quanto piuttosto un modo efficace per conoscere se stessi e il mondo nel quale viviamo. Si colloca in uno spazio intermedio tra la meditazione e la ricerca sapienziale, fra la spiritualità monastica e l’esperienza estetica”.

E’ uno spazio di riflessione e di autoanalisi, un ripiegamento interiore connaturato con lo spirito del pellegrino e la lentezza cadenzata del cammino negli “itinerari a piedi”, che può portare alla  rigenerazione da tutti auspicata.

Photo

Le immagini saranno inserite prossimamente

Pietracamela, le mostre sulla vita di ieri: lo sposalizio

di Romano Maria Levante

Il Premio internazionale di pittura rupestre Guido Montauti, di cui abbiamo dato notizia di recente, è la principale iniziativa per l’estate 2014 nel borgo montano alle falde del Gran Sasso, scadenza 31 luglio, 7 agosto selezione dei cinque finalisti, residenza artistica di due giorni 15-16, il vincitore il 17, residenza artistica di una settimana per la trasposizione su roccia, premiazione il 24 agosto. Intorno al premio una serie di manifestazioni di intrattenimento e culturali, musica e teatro all’aperto e la mostra sui “bambini di una volta”,  fotografie e cimeli di “come eravamo”. I “bambini di una volta” erano il frutto dei “matrimoni di una volta“, di cui alla mostra dell’agosto 2013 “I’ spes’ d”na vùota” (lo sposalizio di una volta)”,  quella di quest’estate ne sarà la continuazione. Perciò la vogliamo raccontare come ce la ricordiamo quale premessa della mostra in preparazione: quasi un “riassunto della puntata precedente” prima della nuova puntata.

La mostra che ha evocato i costumi atavici nelle fasi formative della vita e della famiglia, svoltasi  nel mese di agosto 2013, è stata una immersione nei tempi lontani in cui i costumi tradizionali segnavano con regole molto precise i rapporti tra i giovani dei due sessi, dando ad essi un carattere comunitario piuttosto che personale sin dalle fasi di avvicinamento e di conoscenza. Una iconografia e una documentazione storica particolarmente espressive hanno seguito passo per passo il processo che portava al matrimonio – i primi incontri, il fidanzamento, lo sposalizio –  ripercorrendo i costumi dell’epoca: usi e abitudini,  comportamenti e relazioni, situazioni e ambienti; sono le radici della nostra storia, riemerse nei loro segni identitari, tanto più benvenuti nell’era della globalizzazione che tutto omologa e appiattisce.

Fotografie e oggetti, abiti e tessuti, sono stati ordinati per una ricostruzione visiva dei costumi di una volta. Promotrici e curatrici della mostra  Lidia Montauti e Celestina De Luca, rimaste legate strettamente al paese, con il loro entusiasmo hanno coinvolto l’intera comunità nel fornire cimeli e reperti della vita di ieri, come faranno anche quest’anno per il seguito della storia.

Il recupero del passato

Il “recupero del passato” è  anche un’occasione per rinsaldare legami e rapporti con il comune obiettivo di rendere testimonianze legate alla vita delle rispettive famiglie. Sono, infatti, gli album di famiglia a fornire la gran parte del materiale esposto, come anche i vecchi armadi e cassapanche di fondaci e soffitte per calzature, tessuti e articoli di abbigliamento.

L’esposizione ha integrato i diversi elementi accompagnandoli con un’accurata ricostruzione storica che si deve ad Aureliana Mazzarella, ricercatrice colta e attenta che ha scavato negli archivi – compreso quello della parrocchia affidata a don Filippo Lanci – e soprattutto nella memoria delle persone ricavandone un racconto coinvolgente,  esposto nei cartelli che hanno accompagnato il visitatore nel percorso espositivo, e lo faranno anche nella mostra di quest’anno; il  progetto grafico, altrettanto curato, di Alessandra Mazzarella.

Ci si sentiva immersi nel mondo di ieri come se si fosse riavvolta la pellicola della vita o si fosse navigato all’indietro nella macchina del tempo; secondo la fantascienza e la stessa scienza più ardita verrà il momento in cui ciò sarà possibile, resta solo il problema della reversibilità o meno degli eventi intercorsi, la mostra lo ha realizzato e continuerà a farlo quest’anno con i piccoli come protagonisti. Le famiglie radicate nel territorio hanno partecipato attivamente, i Bonaduce e i Giardetti, i Montauti e i Panza, i Trentini e i Trinetti, e la loro adesione ha dato al salto nel passato il senso di una rivendicazione di origini e valori tradizionali che non può non far bene a tutti.

Torniamo a immergerci anche noi in momenti lontani ma non troppo in senso cronologico – si risale agli anni ’20.’30 –  che tuttavia sembrano remoti per il drastico mutamento di costumi e abitudini. Il primo forte segnale si aveva all’ingresso della mostra, con le tre conche esposte insieme ad altri oggetti d’epoca davanti a una bella fotografia di tre donne che le portavano in testa con disinvoltura sul torcinello, esposto anch’esso insieme alle calzature di panno trapunto nella “suola”, i “paponi”.

Non c’era la storica foto di Bruno Marsilii, il medico scalatore Accademico del Cai, impegnato in una scalata con i “paponi” ai piedi in primo piano, che fu posta come copertina di un Bollettino del Cai di parecchi anni fa, ma ce n’erano altre particolarmente espressive di un’epoca non dimenticata nella quale dobbiamo specchiarci per ritrovare le nostre radici;  e c’erano i risultati della ricerca  svolta sugli antichi costumi con la ricostruzione dei tre momenti speciali della vita di ciascuno visti in una retrospettiva emozionante, offerta ai visitatori nei testi esplicativi.

Dai primi incontri al fidanzamento

Tanti  oggetti, tessuti d’epoca e soprattutto fotografie riportavano visivamente ed emotivamente a quell’ambiente e a quel clima. La caratteristica fondamentale è l’aspetto comunitario della vita di allora, la presenza di altri soggetti nei momenti che difficilmente restavano nell’ambito privato. Così gli incontri iniziali,  approcci e corteggiamenti, avvenivano nei luoghi pubblici frequentati: la fontana dove le giovani andavano con le conche e i giovani cercavano di interessarle aiutandole o scherzando in vario modo; il lavoro nei campi dalla fienagione alla trebbiatura, la messa domenicale  e le processioni, le gite e i balli legati al lavoro stagionale. Dopo i primi approcci, magari alla fontana o al lavatoio, si attendevano gli altri momenti comunitari per esprimere i sentimenti che erano nati.  Le immagini erano eloquenti: dopo la foto delle giovani con le conche, quelle del lavoro e dello svago, in un  bianco e nero sfumato e incerto oppure netto e contrastato.

Un a serie di fotografie erano riprese nel “laghetto”, una località a “Punta alta” chiamata così perché per la conformazione del suolo  l’acqua vi ristagnava a lungo dopo il disgelo, e anche all’Arapietra, dove si trova la Madonnina del Gran Sasso, meta di pellegrinaggi sin da epoca antica che culminano nella festa celebrata tuttora la prima domenica di agosto; all’uscita dal paese verso Porta Fontana, dove si andava ad attingere acqua da una fonte prima che ne fosse creata una nella piazza principale; c’era un mulino ad acqua e, vicino, una chiesetta, ora diroccata, dedicata alla Madonna.

Si passava a un’altra sala carica di cimeli d’epoca: soprattutto tessuti per approfondire il secondo momento analizzato dalla mostra, il fidanzamento: Anche qui le immagini erano eloquenti, le espressioni dipinte sui volti all’insegna della serenità e della fiducia facevano capire lo spirito di allora più di tante analisi storiche o sociologiche: “Nel paese il tempo scorreva lentamente – sono le parole di Aureliana Mazzarella – la vita era regolata dal succedersi delle stagioni e dai lavori agricoli connessi, dalle feste dell’anno liturgico e dai piccoli e grandi eventi che riguardavano il nucleo familiare: fra questi c’era il fidanzamento, il matrimonio, la nascita dei figli, la morte”. Ed è proprio la nascita e il crescere dei figli il tema al quale sarà dedicata la mostra di quest’anno.

Al fidanzamento si arrivava per gradi, dopo la prima simpatia nata con l’approccio iniziale e gli incontri comunitari di cui si è detto;  spesso intervenivano familiari o amici a favorire i contatti, fino al coinvolgimento delle famiglie. Quando i rapporti si stringevano il giovane andava a “sedere” nelle lunghe serate in casa della ragazza, con la presenza immancabile e vigile della madre. Fino all’assunzione dell’impegno alle nozze, espresso dalla famiglia del futuro sposo con il “pegno” alla sposa dato dalla suocera, di un anello di famiglia, ricambiato dalla ragazza con una stoffa o uno scialle.  Da questo momento la strada per le nozze era tracciata, seguivano gli accordi segnati dalla tradizione: la famiglia dello sposo provvedeva alla casa e all’arredo, la sposa portava il corredo, frutto di una lunga preparazione, la ragazza fin da bambina vi si impegnava con la madre esercitandosi nel cucito e nel ricamo, nel lavoro a maglia e nell’uncinetto.

Un esemplare di corredo d’epoca era esposto in mostra, se ne poteva apprezzare l’accuratezza e la raffinatezza: lenzuola e coperte, tovaglie e asciugamani, fazzoletti e panni di ogni genere; c’era anche un abito nuziale che suscitava tenerezza per la sua delicatezza semplice e insieme ricercata. Prima del matrimonio il corredo veniva portato pubblicamente dalle amiche della sposa alla futura residenza in modo che tutti potessero vederlo, un’operazione definita “carriaggio”; negli stessi giorni c’erano le visite di parenti e amici con i regali, anch’essi utili per la casa, tradizione paesana che prosegue tuttora ovunque anche se nelle forme nuove delle “liste di nozze” o simili.

Lo sposalizio

Così si giungeva allo sposalizio, culmine della mostra e di questa parte della vita, con una serie di immagini di volti e figure, due fotografie ricordiamo di particolare valore: quelle delle nozze di Matteo Giardetti, insieme alla sposa e con il fratello Amedeo.  Matteo per la circostanza sfoderava un atteggiamento spavaldo, quasi da sfida, la fotografia era rivelatrice di un carattere e di un temperamento. Sia lui che il fratello  perirono nella Grande guerra, a loro è intitolata una piazzetta nel rione “la Villa”. Come tutti i paesi e borghi d’Italia, anche i più sperduti, Pietracamela ha dato il suo tributo alla patria, ai suoi caduti è dedicata la piazza principale, Piazza degli Eroi e una cappellina votiva. Tante altre le coppie riprese nel momento fatidico delle nozze nelle fotografie d’epoca, tratte dagli album delle famiglie di paesani che hanno collaborato alla mostra.

Il pranzo veniva preparato dai parenti dello sposo e della sposa: maccheroni alla chitarra, brodo di gallina  e stracciatelle, pecora “alla callara” o cotta sulla brace, “taralli” e pizza dolce. Nell’accurata ricerca di Aureliana Mazzarella, esposta nei testi illustrativi della mostra cui abbiamo attinto, spiccava un particolare: “Il pranzo nuziale si svolgeva separatamente: la sposa pranzava con lo sposo e i propri parenti; i suoceri e i parenti dello sposo pranzavano nella propria dimora. Alla fine del pranzo, i parenti dello sposo si recavano in corteo a casa della sposa per condurla nella nuova abitazione e concludere la festa con canti e balli nell’aia. Il corteo era guidato da un suonatore di chitarra e da uno di mandolino”. Nei tempi più antichi il corteo trovava la porta di casa della sposa sbarrata, e la suocera non accedeva subito alla loro richiesta di aprire ma solo dopo insistenze permetteva alla figlia di lasciare la casa e di andare con lo sposo.

Madre e figlia, nel passaggio dalla vigilanza nelle lunghe serate con il fidanzato che “sedeva” in casa della futura sposa nella speranza che cedesse al sonno per avere qualche momento di intimità, all’estrema resistenza nel momento del distacco.

Una immagine descriveva con l’immediatezza del mezzo fotografico i rapporti della sposa con la suocera: l’ambiente nella penombra, le due donne sedute ma i loro sguardi non si incontrano, immerse in una solitudine espressione della loro lontananza.  Le radici remote di questo difficile rapporto in un documento di costume che a noi è apparso un capolavoro d’arte fotografica..

Concludiamo così il racconto di una mostra istruttiva nata da un’iniziativa personale delle curatrici che ha trovato subito l’adesione appassionata dei paesani; la ricerca è stata attenta ed accurata, sia per le notizie desunte dalle memorie delle persone e dagli archivi, tra cui quello parrocchiale messo a disposizione da don Filippo Lanci; il sindaco Antonio di Giustino ha concesso le sale del Palazzo Comunale in cui vi è il Museo delle genti e degli antichi mestieri con tanti reperti d’epoca. La stessa cosa avverrà quest’anno con la mostra dedicata ai frutti degli sposalizi, i figli.

Nelle radici c’è anche Gabriele d’Annunzio

Torniamo all’iniziativa del Premio di pittura rupestre, che si inquadra nel rilancio di Pietracamela dopo le ferite del terremoto e della frana che ha dissestato la vallata distruggendo le “pitture rupestri” realizzate dal pittore Guido Montauti con il gruppo del Pastore bianco da lui creato, al quale si rende omaggio con la mobilitazione degli artisti, che si confronteranno su un progetto di pittura su pietra evocativa e spettacolare. Non è un momento isolato, vogliamo sottolineare, la cultura anche come base dell’intrattenimento estivo è nel Dna del paese, l’arte pittorica raggiunge in Guido Montauti un livello di eccellenza internazionale, e ci sono anche i libri pubblicati da altri suoi figli, tra cui Clorindo Giardetti che presenta quest’anno la sua ricerca sulle origini del paese dopo aver vuotato idealmente, nel 2008, “uno zaino pieno di ricordi”  pubblicando il libro con questo titolo.

Del resto a Pietracamela dedicò la sua attenzione Gabriele d’Annunziocon la novella dal titolo modernissimo e dalla trama suggestiva, “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola”, in “Grotteschi e rabeschi” del Duca Minimo, 27 ottobre 1887. E non è detto che un giorno non si possa celebrare anche D’Annunzio, come si farà anche quest’anno con Matteo Manodoro, personaggio storico del paese, giustiziato come bandito all’inizio del 1800 ma ritenuto un vero patriota nella resistenza ai francesi cui ha dedicato un’appassionata  ricerca un altro illustre paesano, Berardino Giardetti; la storia di .Manodoro fu rievocata alla vigilia di ferragosto 2013  nel centro storico da parte della compagnia teatrale abruzzese, il “Teatro della Rùe”.

La mobilitazione è giustamente attorno al Premio internazionale pittura rupestre Guido Montauti che riassume tanti motivi atavici e contemporanei;  per l’intero mese di agosto l’arte sarà protagonista, accompagnata dalla mostra sui costumi tradizionali incentrata sui “figli di una volta” dopo quella sul “matrimonio di una volta” e da iniziative di contorno, teatrali e musicali anche nella “cavea” teatrale del territorio “recuperato” alla fruizione turistica con il ripristino ambientale.

Tanti sono i motivi dai quali prende nuova forza il rilancio di Pietracamela, dal 2005 nel club dei “borghi più belli d’Italia”, nel 2007 “borgo dell’anno”, dal 2013 tra i 400 borghi più belli del mondo, insignito delle “5 stelle” dell’eccellenza.

Alla base di tutto  le antiche radici, ambientali, di costume e culturali,  con l’invito a curare l’albero della memoria in un impegno assiduo nella realtà di oggi.

Info

Cfr.  i nostri articoli:  per il Premio in questo sito Pietracamela. Il Premio pittura rupestre e le altre iniziative dell’estate 2014″, 14 luglio 2014; in “cultura.inabruzzo.it” “Pietracamela. Il premio pittura rupestre Guido Montauti” 4 luglio 2014. Per le “pitture rupestri”: in “cultura.inabruzzo.it” “Pietracamela. Parte la messa in sicurezza del Grottone”, settembre 2012, e “Pietracamela. Fotografie e pitture rupestri nel crollo del Grottone”, 3 settembre 2012; in http://www.fotografarefacile.it/, “Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Montauti”, settembre 2012,  Per gli eventi culturali dell’estate 2013: in questo sito “cultura.inabruzzo.it” “Pietracamela in Arte, mostra di pittura, fotografia e d’arte varia”, 9 settembre 2013, e “Pietracamela. Il libro d’epoca di Ernesto Sivitilli su Corno Piccolo”, 12 settembre 2013, in http://www.fotografarefacile.it/  “Pietracamela, una mostra sugli antichi costumi montanari”, 15 agosto 2013. Per il dopo-terremoto in “cultura.inabruzzo.it” “Rilancio di Pietracamela, il cuore del Gran Sasso”, 22 giugno 2009, in cui è riportata integralmente la novella di D’Annunzio citata nel testo“Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola; per gli effetti del sisma “Il terremoto a Pietracamela”, 21 aprile 2009; infine “Il cielo sopra Pietracamela”, 8 gennaio 2009. La vita di una volta in paese è rievocata nel nostro romanzo “Rolando e i suoi fratelli. L’America!”, Editrice  Andromeda, Colledara 2005, una storia di emigrazione da Pietracamela verso Canada  e poi Stati Uniti,  con disegni inediti di Guido Montauti sul paese e di Diego Esposito sull’America.

Foto

Le immagini della mostra sono state riprese da Romano Maria Levante a Pietracamela nella sede del Museo delle Genti e degli antichi mestieri. In apertura, al “laghetto” in località Cima Alta, segue la piazza del paese durante una processione, poi  giovani paesane con le conche dell’acqua e un gruppo di fotografie di matrimoni; quindi  il particolare dei fratelli Giardetti citati nel testo e altre foto di matrimoni; segue l’immagine-cult dell’incomunicabilità di suocera e nuota e la foto all’ingresso della mostra  ehe introduce alla presenza di  cimeli e fotografie; in chiusura una panoramica del paese tra il Gran Sasso e la montagna di Intermesoli ripreso dall’autore lungo la strada provinciale Ponte Arno-Pietracamela,. 

Pietracamela. Il Premio pittura rupestre e l’estate 2014

di Romano Maria Levante

Il Comune di Pietracamela, con la pubblicazione del bando nel proprio sito istituzionale, ha indetto il “Premio internazionale pittura rupestre Guido Montauti”. L’iniziativa, ideata dal sindaco Antonio Di Giustino, organizzata dal Comune con l’associazione Teramo Nostra, rientra nelle attività di ripristino dell’ambiente di una parte del paese di notevole valore paesaggistico, compromessa dalla frana rovinosa del 2011, esito disastroso del terremoto del 2009, che vide precipitare una parte del promontorio roccioso del “Grottone” a “capo le Vene”, sulla zona della “Grotta dei Segaturi”. Furono travolte  le “pitture rupestri” che il pittore nativo del paese Guido Montauti aveva realizzato a firma  “Il Pastore Bianco”, il gruppo pittorico “avanguardia della rinascenza” da lui creato per un ritorno dell’arte alle origini come reazione alla decadenza espressa dalle trasgressioni quanto mai provocatorie lanciate in quel periodo.

Con la “pittura rupestre” in concorso, Pietracamela  intende cercare un sia pur parziale e insufficiente sollievo a questa ferita insanabile e rendere omaggio al proprio figlio, l’artista che si è ispirato alla natura dei luoghi per le sue composizioni, fatte di sagome umane in simbiosi con le rocce, portate con successo nel mondo dell’arte ottenendo la consacrazione sin dall’inizio con una serie di ammirate recensioni.critiche parigine e italiane.

Le premesse del premio intitolato a Guido Montauti

Come nascono le cosiddette “pitture rupestri” cui si ispira il premio?  In un fase di impegno culturale militante, oltre che di grande vitalità artistica Guido Montauti  volle reagire alla decadenza dell’arte espressa anche da aberranti trasgressioni presentate con clamore alla Biennale di Venezia, dando il segnale forte: del richiamo ai valori primari fondativi della vita, l’umanità e la natura.

Il gruppo formato da tre giovani pastori e un pastore, divenuto poi  pittore naif,  con alla guida lui stesso, fu definito  “l’avanguardia della rinascenza”. Tra le decine di dipinti di grandi dimensioni esposti in una importante mostra alla Galleria d’arte del Palazzo Esposizioni di Roma nel 1964, “Il Giudizio universale”, una composizione spettacolare con le sue caratteristiche sagome primordiali, visibile oggi in cima allo scalone del Comune di Teramo dove occupa l’intera vastissima parete; una parete della  Sala consiliare del Municipio di Pietracamela è occupata da un’altra sua opera.

Nel 1963 furono create le “pitture rupestri” nella zona della “Grotta dei Segaturi”, con tante rocce di varia conformazione e misura nelle quali le sagome dipinte si sono in corporate naturalmente quasi fossero le loro abitazioni primordiali, l'”environment” montanaro. Creavano un clima di sospensione quasi metafisico, mentre la loro posizione in gruppi compatti richiamava il “quarto stato”, lo abbiamo definito un “quarto stato montanaro”, che non avanza ma resta saldamente ancorato alle sue rocce, assorto come in attesa consapevole della forza delle proprie radici.

Tutto questo non c’è più, travolto dal crollo del promontorio roccioso del “Grottone”, dove il pittore Montauti si era fatto fotografare più di trent’anni prima della frana del 2011, in un reportage di Aligi Bonaduce dal quale è nata la mostra dell’agosto 2012 che è riduttivo definire storica, c’è stato qualcosa di più nella premonizione insita nella scelta del luogo e nel ritorno dell’artista con le immagini riprese nella grotta che dominava dall’alto la vallata. E’ come  se fosse tornato per mettersi alla guida  di una nuova “rinascenza”, quella dell’ambiente sfregiato dal crollo rovinoso.

Con il premio ideato dal sindaco Di Giustino volto a realizzare una nuova “pittura rupestre”  di alto valore simbolico, l’arte accorre per la riqualificazione di un ambiente che dall’arte è stato toccato e che con l’ausilio dell’arte potrà essere riportato all’antico splendore. Lo merita un paese che fa parte del club “i borghi più belli d’Italia” dal 2005, è stato “borgo dell’anno 2007”, dal 2013 è tra i 400 borghi più belli del mondo e tra i 200 più bei borghi dell’Unione Europea.

Il Premio “pittura rupestre” indetto quest’anno

Riassumiamo brevemente il bando, rinviando per il testo integrale al sito istituzionale del Comune di Pietracamela. Il concorso è aperto ai cittadini dell’Unione Europea, le domande possono essere spedite o recapitate al Municipio entro il 31 luglio 2014: va compilata una scheda di iscrizione in cui va indicata anche la conoscenza delle tecniche e dei materiali per la pittura su pietra, va allegato il curriculum vitae con i propri dati e va unita l’opera con cui si intende concorrere, “un bozzetto o una idea di intervento che sia inerente alle finalità del concorso”, firmato dall’autore che deve garantirne il carattere inedito, formato massimo 70×100 cm, minimo 20×30 cm; il vincitore trasferirà il bozzetto, revisionato dopo una residenza artistica in paese, su una roccia di 2 metri per 3.

Il bozzetto deve dare “l’idea di intervento fattivo su una parete di roccia non uniforme delle dimensioni di cm 200 x 300 presenti nella zona di frana” con la finalità di “trasformare una ferita inferta al territorio in un momento di creatività e riqualificazione”. A tal fine “ogni partecipante dovrà tenere conto della fattiva trasposizione su pietra irregolare dell’opera presentata”.

C’è un esplicito riferimento all’evento catastrofico che ha travolto le “pitture rupestri” create da Guido Montauti: “Massi giganteschi ora giacciono laddove erano orti, passeggiata turistica, antico fontanile ed altre costruzioni storicamente datati. Il concorso vuole essere un momento di riqualificazione del territorio franato che grazie ad alcuni interventi mirati sta per essere riconsegnato agli abitanti del paese e ai turisti”. Con questo obiettivo: “La finalità è, nel nome e nell’opera di Guido Montauti, una riscrittura del paesaggio che rispetti il ‘nuovo luogo’ venutosi a creare con l’evento catastrofico e costituisca un momento di creatività armonica con esso”. Dal  “ground zero” si riparte per ripristinare quanto possibile un contesto ambientale segnato dall’arte.

Ora il crono programma del Premio intorno al quale saranno imperniate le manifestazioni dell’agosto 2014 a Pietracamela.

Entro il 31 luglio la presentazione delle opere concorrenti.

Nel mese di agosto i bozzetti presentati saranno esposti in  mostra nel Municipio di Pietracamela.

Entro il 7 agosto la selezione delle cinque opere finaliste da parte di una Giuria insindacabile.

Dal 14 al 16 agosto due giorni di residenza artistica dei cinque finalisti ospitati dall’organizzazione (spese di viaggio escluse), perché possano “entrare in simbiosi creativa con l’ambiente dove realizzare l’intervento”. Nei due giorni in paese potranno “modificare i bozzetti inviati o creare nuove forme di intervento scaturite dal contatto con il luogo della realizzazione”; loro stessi si dovranno dotare del materiale per un eventuale nuovo bozzetto o per modificare quelli inviati.

Il 17 agosto la Giuria, sempre insindacabilmente, annuncia il vincitore del concorso cui va il  premio di 2.000 euro, con l'”impegno a realizzare l’opera con cui ha vinto il concorso su una roccia che l’artista avrà scelto nel corso della residenza artistica”.

Dal 18 al 24 agosto nuova residenza artistica di sette giorni per il vincitore ed un accompagnatore a carico degli organizzatori, per la trasposizione dell’opera premiata su una roccia delle dimensioni di 2 metri per 3 che verrà individuata nella zona da riqualificare. 

Il 24 agosto cerimonia pubblica di premiazione a Pietracamela. L’opera vincitrice diviene proprietà del Comune e così i bozzetti presentati che, dopo la mostra del mese di agosto, faranno parte di un’esposizione permanente sempre nel Comune di Pietracamela.

Nel Bando di concorso pubblicato nel sito del Comune i particolari, ai quali rinviamo, precisando che le spese per realizzare l’opera sono a carico dell’artista, mentre le spese per le residenze artistiche a carico dell’organizzazione, escluse le spese di viaggio; i partecipanti consentono “l’uso del proprio nome e l’immagine della propria opera… senza aver diritto ad alcun compenso”.

Per concludere, torniamo al motivo ispiratore dell’iniziativa, ricordando che Guido Montauti con le sue “pitture rupestri” nella “Grutta dei Segaturi” volle invitare a una mobilitazione collettiva per la rinascita dell’arte in una reazione volitiva alla decadenza allora in atto; una mobilitazione collettiva e una reazione viene richiesta anche oggi, dinanzi al “ground zero” dopo la distruzione delle sue “pitture rupestri” e la devastazione dell’ambiente  in cui erano inserite e che le aveva ispirate.

Auspichiamo che l’appello venga accolto, e anche se è svanita l’indicibile atmosfera del “quarto stato montanaro” delle “pitture rupestri” del Pastore bianco, la reazione collettiva potrà sanare almeno in piccola parte la grave ferita arrecata all’arte e all’ambiente, in una mobilitazione nel segno dell’arte e nel ricordo di Guido Montauti.

Le altre iniziative realizzate e in programma per l’estate 2014

Questa è l’iniziativa altamente innovativa, di carattere simbolico e insieme espressione concreta della volontà di ricostituire l’ambiente segnato dalla frana seguita al terremoto: sarà il sigillo dell’estate 2014. Ma non è l’unica, tutt’altro, inoltre è parte di un programma che ha già dato importanti risultati, anch’essi visibili proprio in questa stessa estate 2014.

Ce ne ha parlato il sindaco Di Giustino, che ha gestito la difficile situazione post terremoto e poi quella post frana mobilitandosi in tutte le direzioni, sin dall’assistenza  nella fase più drammatica del sisma, soprattutto ai più anziani, cui è stato vicino come medico attento ai fattori psicologici. E’ stato un lungo incontro nel quale siamo stati colpiti dalla determinazione e dall’entusiasmo dell’amministratore, consapevole delle difficoltà e degli ostacoli ma intenzionato ad andare avanti con decisione nel rilancio del paese portando a realizzazione quanto già deciso e promuovendo nuove iniziative e contatti a largo raggio per valorizzarne al massimo le straordinarie potenzialità.

Gli alloggi del “Largo della Rinascita” per le famiglie le cui abitazioni sono risultate inagibili sono stati il primo risultato concreto; la ricostruzione partirà presto, superati gli ultimi ostacoli burocratici che hanno impedito finora di mettere a frutto i finanziamenti disponibili; già si prefigura la prossima apertura dei cantieri e la rapida conclusione dei lavori per la pronta rinascita del paese.

Altro risultato concreto l’eliminazione del grave pericolo costituito dallo sperone di roccia rimasto sospeso dopo la frana causata dal crollo di parte del promontorio del “Grottone”. Si doveva far esplodere la parete rocciosa di  migliaia di metri cubi, lavoro ben più complesso della demolizione dei palazzi, così ci dissero i responsabili dell’intervento, dato che la composizione della roccia non è regolare per cui possono esserci sorprese e imprevisti. Tutto è andato per il verso giusto il 13 novembre 2013,” il dente è stato tolto” come si disse allora, e si è approfondita la conoscenza del contrafforte roccioso ricavandone notizie preziose sulla sua conformazione interna.

Eliminata la spada di Damocle che minacciava il paese  si sono ripristinate le due vie di accesso a luoghi altamente panoramici che risultavano inaccessibili per i percorsi abituali risultati interrotti.

In alto è’ stato ripristinato l’accesso lungo la via  bloccata dalla frana: al Piano delle mandorle, con i monumenti di Cambi e Cichetti, alla vallata del Rio d’Arno fino alle cascate del Calderone e alle sorgenti, e poi più avanti a Campo Pericoli e di lì a Campo Imperatore che si potevano raggiungere solo con altri percorsi, “ora c’è un’autostrada” ha detto il Sindaco con legittima soddisfazione. In basso si è riaperta la passeggiata verso il vecchio mulino, con la chiesetta diruta della Madonna di Collemolino, la piccola cavea per spettacoli all’aperto  e l’accesso al sentiero lungo il Rio d’Arno, che sale verso la montagna, con le coste del Rio Ruso e, più in su, i prati di Intermesoli e la montagna a lato dei due Corni, e scende verso il borgo della frazione di Intermesoli.

E’ come se il paese tornasse a respirare  a pieni polmoni con il pieno accesso al versante boscoso con le acque del Rio d’Arno divenuto difficile da raggiungere dopo l’interruzione della frana.

Ma poi c’è il palinsesto dell’intrattenimento estivo, una serie di iniziative imperniate sul Premio di pittura rupestre, che danno all’estate 2014 un sapore particolare nel segno dell’arte e della memoria.

Il Sindaco parla del pittore Guido Montauti, cui è intitolato il premio, sottolineando come abbia dato figura umana ai massi della sua montagna, ha visto la persona incorporata nella roccia, e ha saputo rendere visivamente un’identificazione che è connaturata alle gente del paese. Parla della sua leggerezza e della sua ironia, un distacco che verso la sua montagna diventava forte attaccamento.

Aggiungiamo che le sue figure  sono il coronamento di un percorso artistico iniziato con l’ispirazione di grandi artisti, da Gauguin a Roualt, nella ricerca dell’essenza; Mondrian attraversò i diversi stili fino all’approdo alla “perfetta armonia” nell’equilibrio razionale della simbiosi geometria-colore, Montauti la “perfetta armonia” la trovò nell’equilibrio naturale della simbiosi figura-roccia, fino al “periodo bianco” in cui la sintesi ha raggiunto livelli sempre più rarefatti, fino all’iperuranio celestiale dell’ultimo dipinto.

Il  Premio sarà accompagnato lungo il suo svolgimento dal 17 al 24 agosto da una serie di  manifestazioni di intrattenimento per le vie del borgo: incursioni coreografiche e percorsi sonori,metamorfosi ensemble con flauto, viola e violoncello, e incursioni di dance in nature, nonchè uno spettacolo teatrale itinerante sulla vicenda di “Matteo Manodoro, generale dei briganti”,  un eroe locale. Inoltre  una mostra nel “Museo delle Genti e degli antichi Mestieri” aperta dal 9 agosto, su “Le bambine  e i bambini di Pietracamela” nelle immagini di una volta: fotografie e cimeli in un’immersione nel passato che evoca le radici, il costume e umanità montanara; sarà il seguito ideale della mostra dell’estate scorsa, su “Il matrimonio di una volta”.

E’ prevista anche la presentazione, il 19 agosto, dal sindaco Di Giustino e da Alessandro Di Domenicantonio, di un libro di autore “pretarolo” in carattere con il paese: nell’agosto 2013 fu il libro d’epoca di Ernesto Sivitilli su “Corno piccolo”, quest’anno il libro di Clorindo Narducci,  “Pietracamela tra storia e leggenda”, corredato da un glossario linguistico pretarolo-italiano; l’autore, storica guida alpina che ha aperto tante vie alpinistiche sul Gran Sasso, ha pubblicato alcuni anni fa “Uno zaino pieno di ricordi”, le memorie di una vita per la montagna. Inoltre il 22 agosto sarà presentato; da Sandro Melarangelo e Franco Summa, il volume di Adina Riga “Architettura é/& arte urbana”.

Il sindaco Di Giustino non si ferma qui,  è proiettato più lontano: ci limitiamo a un accenno ai due progetti  più ravvicinati, ma il suo sguardo va molto oltre in un disegno strategico di ampio respiro.

Per il prossimo anno  pensa intanto  a una grande iniziativa nell’estate 2015, la “Festa dell’emigrante”, saranno invitati in paese per un soggiorno i suoi figli trasferitisi all’estero, soprattutto in Canada. E’ come se si facesse ritornare idealmente la parte del paese che ne è uscita da generazioni, e non si tratta solo di memoria e riconoscenza: c’è l’esigenza di concepire un sistema a rete, il cui centro sono i residenti, ma di cui fanno parte integrante gli emigrati e quelli che Giammario Sgattoni, l’indimenticato uomo di cultura teramano, chiamava i “fuorusciti” in ogni parte di’Italia, la cui importanza si accresce con lo spopolamento che riduce le presenze stabili.

Nel maggio 2015, inoltre,  Pietracamela parteciperà all’accoglienza degli alpini convenuti per il Raduno nazionale dell’Aquila ospitandone un certo numero per diversi giorni e allietando il loro soggiorno con spettacoli che comprendono anche manifestazioni agonistiche su roccia.

E così siamo tornati alle rocce da cui siamo partiti con il Premio pittura rupestre.  Le rocce sono il segno identitario del paese, dal nome la “Preta” alla grande roccia che lo domina in cui è stato visto da sempre un cammello, come nel Gran Sasso il “gigante che dorme”; identificazione e antropomorfismo che il pittore Montauti ha saputo tradurre nella simbiosi natura-umanità delle sue figure che nelle “pitture rupestri” travolte dalla frana trovarono l’espressione corale cui si ispira il premio intitolato al suo nome. E’ un segno identitario che esprime anche la tenacia della sua gente.

Info

Per il Bando di concorso v. il sito http://www.comune.pietracamela.te.it/; per comunicare con il Comune info@comune.pietracamela.te.itpostacert@pec.comune.pietracamela.te.it. Tel 0861 955112, fax 0861 955214. Cfr. i nostri articoli: in “cultura. inabruzzo.it” per il Premio odierno “Pietracamela. Il premio pittura rupestre Guido Montauti” 4 luglio 2014; per le “pitture rupestri” e l’ambiente da ricostituire secondo le finalità del concorso “Pietracamela. Parte la messa in sicurezza del Grottone”, settembre 2012, con particolare riguardo al “Post” di commento di Giorgio Montauti cui è unito un link con un filmato suggestivo che dà una visione completa delle “pitture rupestri” e dei luoghi prima della frana distruttiva; e “Pietracamela. Fotografie e pitture rupestri nel crollo del Grottone”, 3 settembre 2012; in http://www.fotografarefacile.it/, “Pietracamela. Mostra fotografica sul pittore Montauti”, settembre 2012, e per gli eventi culturali dell’agosto 2013 “Pietracamela, una mostra sugli antichi costumi montanari” 15 agosto 2013; in “cultura.inabruzzo.it” per tali eventi  “Pietracamela in Arte, mostra di pittura, fotografia e d’arte varia”, 9 settembre 2013, e “Pietracamela. Il libro d’epoca di Ernesto Sivitilli su Corno Piccolo”, 12 settembre 2013; per il dopo-terremoto “Rilancio di Pietracamela, il cuore del Gran Sasso”, 22 giugno 2009; per gli effetti del sisma “Il terremoto a Pietracamela”, 21 aprile 2009; infine “Il cielo sopra Pietracamela”, 8 gennaio 2009; in questo sito “Pietracamela, mostra d’arte e un  prestigioso libro d’epoca”, 27 agosto 2013.

Foto

L’immagine di apertura e le due seguenti, sulle “pitture rupestri” di Guido Montauti, sono state fornite da Aligi Bonaduce, che si ringrazia, e con lui il sindaco Antonio Di Giustino per le notizie che ci ha fornito; le altre immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Pietracamela e ritraggono: il “dente” residuo della frana rovinosa che incombeva sulla parte sottostante del paese; poi la parete “dopo la cura”, cioè la rimozione descritta nel testo; quindi i due percorsi panoramici riaperti, il primo in alto verso il Piano delle mandorle e la montagna all’interno del bosco; il secondo in basso verso il vecchio mulino e il Rio d’Arno lungo il quale si sale verso la montagna e si scende verso la frazione di Intermesoli; infine la “cavea” presso il vecchio mulino e, in chiusura, una visione panoramica di Pietracamela con il Gran Sasso ripresa dalla strada provinciale che dalla statale 80,  bivio di Ponte Arno, per 9 km sale verso il paese.

Cerveteri, dall’apogeo alla caduta, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La grande mostra “Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri”   presenta  al Palazzo Esposizioni, dal 15 aprile al 20 luglio 2014  400 reperti archeologici, dal  IX sec. a. C. al I sec. d.C., attraverso i quali viene ricostruita la storia di una delle principali città degli Etruschi, vicina a Roma da cui fu assoggettata dopo intensi scambi economici e culturali nel Mediterraneo. Notevole il valore storico e artistico di alcuni reperti esposti per la prima volta, e di portata eccezionale la riunificazione nella mostra di parti staccate disperse in più musei aventi un’unica provenienza. La mostra è organizzata dall’Azienda speciale Palaexpo con il Museo del Louvre, il CNR, la Soprintendenza Beni Archeologici Etruria meridionale; curatori  Francoise Gaultier e Laurent Haumesser per il Louvre, Paola Santoro e Vincenzo Bellelli per il CNR, Alfonsina Russo Tagliente e Rita Cosentino per la Soprintendenza. Catalogo a cura di Palaexpo e Louvre, Editore Somogy – Editions d’Art, con testi di 52 autori sulla storia di Cerveteri e sui 400 reperti. La mostra è stata presentata, con quella su “Pasolini Roma”, dall’assessore alla Cultura della Regione Lazio Lidia Ravera e da Franco Bernabè, il Presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, che ha manifestato impegno e passione.

Abbiamo riassunto in precedenza la storia dei maggiori ritrovamenti della città di Cerveteri, nell”800 e del ‘900 come premessa  alla descrizione della ricchezza di reperti esposti in mostra e alla ricostruzione della storia degli Etruschi attraverso la storia di una città al livello delle principali metropoli dell’epoca, da Roma a Cartagine.  Di questa storia abbiamo rievocato le prime fasi, la nascita della città con la provenienza  del nome nelle varie versioni, dai Pelasgi e dai Lidi, e abbiamo descritto i principali reperti esposti nelle prime due sezioni,  risalenti al  XII-VIII sec. a. C.

Entriamo ora nel vivo della mostra, e della storia di Cerveteri, dall’emergere delle famiglie aristocratiche nel VII sec. a. C., all’apogeo raggiunto in epoca arcaica, VI-V sec., poi il rinnovamento della città nel IV-III sec. dopo la crisi nella seconda metà del V, fino al termine della storia con l’assoggettamento all’impero romano e la sia pure graduale romanizzazione, I sec. d. C.. 

E’ la ricostruzione completa di una storia tuttavia sempre aperta a revisioni via via che le ricerche portano a nuovi ritrovamenti che aggiungono elementi preziosi, di qui il dinamismo e il carattere innovativo. Le necropoli e i corredi funerari sono la maggiore fonte, ma anche i resti dei templi hanno portato importanti reperti sulla vita e sui costumi della città e in genere del mondo etrusco.

L’emergere dell’aristocrazia nel VII sec.

I traffici commerciali  e lo sfruttamento dei giacimenti minerari hanno prodotto una crescente ricchezza in mano alle famiglie che controllavano tali risorse, mentre la città assumeva un ruolo primario nel Mediterraneo, divenendo un centro di attrazione di merci e persone, tecniche e progetti. Ne danno testimonianza le necropoli del VII sec. a.C.  concepite come monumenti al defunto: l’architettura era imponente, il diametro raggiungeva anche i 60 metri, erano formati da più stanze e i ricchi corredi funerari erano un compendio dello stile di vita del defunto. 

Nella terza sezione su “Cerveteri arcaica” è parzialmente ricostruita la “tomba delle Cinque Sedie”, in cui è stata trovata la scultura che riproduce un banchetto familiare, con due troni per i defunti, cinque scranni per gli antenati, e corredi funebri costituiti da vasi d’argento, ceramiche ed altri oggetti di pregio. Vediamo esposte due statuette in terracotta alte circa mezzo metro, di persone sedute, maschio e femmina, e poi urne cinerarie di colore rosso decorate.

Da altre tombe e tumuli sono venuti reperti preziosi come lo splendido bracciale in oro laminato e fuso decorato a sbalzo, la coppa emisferica  e l’anforetta a doppia spirale in argento  laminato con doratura , dischi e un sostegno decorati di bronzo, nel corredo funerario della “tomba Regolini-Galassi”. E poi le oinochoe e i buccheri, le kotyle e i kyathos dei tumuli di Montetosto e di Monte dell’oro, le olle e i calici, le anfore e le coppe  “dalla Tomba 4” di Monte Abatone.

Altri ritrovamenti hanno fornito elementi sugli usi e costumi degli aristocratici, in particolare sui banchetti nei quali esibivano oggetti preziosi importati che poi entravano nella produzione locale, come per i buccheri, ceramiche tipiche dell’Etruria, di cui abbiamo appena citato degli esemplari.

Ora vogliamo evidenziare reperti come i lebeti particolarmente ornati e i vasi d’argento nonché una spettacolare sequenza di ceramica greca importata o fabbricata nelle colonie greche d’occidente: sono sempre coppe e olle, olpe e  oinochoe  con raffinatissime decorazioni a figure di animali e geometriche.  Le più spettacolari ci sono apparse le ceramiche “white-on red”, pithos e pisside,  e quelle etrusco-corinzie, anfora, dinos e olla con fregio di animali, nonché il bucchero della pisside con figure taurine e il calice a cariatidi, in una grande varietà e originalità, siamo nel VII sec. a. C.

Spiccano i gioielli, data l’epoca remota, come le placchette raffiguranti la “signora degli animali”e gli “affibiagli a sbarre”,  oggetti in oro quasi antropomorfi per le figure umane incorporate.

Con le elite nobili fu recepita la scrittura dall’alfabeto dei greci insediati nel sud d’Italia, inizialmente usato per attestare la proprietà o le donazioni. Altro segno di crescita culturale le figure che compaiono  sugli oggetti, come i vasi dipinti con scene dai miti greci, in particolare tratte dai poemi omerici: nel cratere di Aristonothos c’è su un lato la leggenda di Ulisse e Polifemo, sull’altro una battaglia navale, temi che esprimevano il controllo delle rotte marittime d parte degli Etruschi.

L’apogeo nel VI-V sec. con la “polis” etrusca

Dall’impronta aristocratica si passa gradualmente all’organizzazione politica delle città sul modello della “polis” greca: non è più il potere aristocratico delle grandi famiglie a dominare ma il  corpo politico dei cittadini per cui lo sviluppo urbano riflette esigenze collettive e non più quelle personali dei principi.  La “polis” etrusca viene  dotata di istituzioni e magistrature, nonché di infrastrutture per la comunità,  per il culto religioso si costruiscono santuari e templi.

Terracotte policrome e sculture attestano questi sviluppi, vediamo un acroterio con cavallo alato e una serie di antefisse con figure mitiche o con teste femminili di ottima fattura, nonché due antefisse con “teste di negro”. Poi i frammenti del frontone della Vigna Marini-Vitalini, di cui viene ricostruito l’assetto originario, sono rimaste figure e teste di guerrieri e personaggi mitologici, vi sono anche due lastre con scene di combattimento.

Con i reperti più recenti della Vigna Parrocchiale proseguono le terracotte decorate da figure di guerrieri e di personaggi mitologici, e anche con reperti particolari dello scarico di fonderia, in materiale refrattario dal quartiere arcaico e una serie di olle e ciotole con iscrizione dal santuario, in località sant’Antonio: di particolare effetto la coppa  di argilla del diametro di 46 cm, di produzione ateniese con scene dai poemi omerici.

Al santuario di Pyrgi è dedicata una parte apposita per l’importanza assunta dal porto, centro degli scambi marittimi, e dai due santuari, tra i maggiori dell’epoca, con una  significativa varietà di reperti: nel tempio A sono state rinvenute, ed esposte in mostra, antefisse a testa di guerriero e sileno e nel tempio B  antefisse con la divinità Uni tra cavalli alati,  che ritroviamo anche nelle ciotole,  le lastre e fregi dei rilievi, fino alle laminette d’oro con  dediche scritte in etrusco e fenicio per l’assimilazione delle rispettive dee Uni e Astarte, nel santuario meridionale  terracotte e pendenti, collane e anelli, anfore e olpe, altri vasi di varia conformazione, tutti con disegni di figure o motivi geometrici fino a coppe, phiale con conchiglie e altro e un cratere con scene mitologiche.  Per le scritte ricordiamo il cippo di Tragliatella da cui sono stati decifrati alcuni termini etruschi.

E’ la sezione più ricca  della mostra, i corredi funerari presentano reperti sorprendenti: vediamo esposti tre dadi, un leone dipinto su un’anfora e soprattutto una serie preziosa di gioielli: coppie di orecchini a bauletto e a disco, anelli e collane, fibule e una lamina a forma di kore, tutti in oro.

Le ultime scoperte comprendono grandi depositi votivi con i vasi greci e ulteriori elementi che hanno fatto capire meglio i riti etruschi, E’ esposto un gran numero di oggetti importati, vediamo in particolare i vasi in ceramica provenienti da Corinto e da Atene, a volte realizzati secondo le esigenze dei committenti etruschi, come risulta dalla forma peculiare.  C’è anche il grande cratere di Eufronio del Louvre e il vaso per vino psykter di Duride del British Museum, preziosi esemplari di arte greca provenienti da Cerveteri.

Alle importazioni di prodotti  corrispondevano esportazioni soprattutto di vino e olio, testimoniate dai relitti delle navi cariche di anfore di Cerveteri, rinvenuti sulla costa francese come prova dell’estensione degli sbocchi commerciali. Vediamo le anfore del V sec. recuperate dal relitto del Grand Ribaud F. in una spettacolare esibizione di archeologia subacquea.

Non solo scambi commerciali comprendenti soggetti artistici, perché l’evoluzione della civiltà etrusca vede anche la pittura ad opera inizialmente degli artigiani greci affluiti nella città. Si tratta di lastre dipinte e di vasi con figure, di cui sono esposti splendidi esemplari: in particolare le 5 “lastre Campana” del Louvre e le idre ceretane, vasi di ceramica per l’acqua con decorazioni raffiguranti scene dei miti greci, tra cui le fatiche di Ercole.

I  mutamenti intervenuti nell’organizzazione cittadina, sempre più rivolta alle esigenze collettive rispetto al precedente dominio aristocratico, si riflettono anche nelle necropoli dove alla opulenza monumentale succede l’allineamento di piccole tombe uguali, a dado, lungo direttrici che ripetono quelle delle vie cittadine.  A tombe standardizzate  e più modeste non corrisponde, però, uno scadimento della qualità dei corredi:  lo vediamo dai reperti esposti, come i gioielli e una scultura funeraria in pietra raffigurante un leone rinvenuta nel 2012  nella necropoli della Banditaccia.

Le sculture in ceramica restano prevalenti, spicca nella sua imponenza e bellezza il Sarcofago degli Sposi, lungo circa 2 metri, di incredibile fascino  per i volti sorridenti dei due sposi sul triclinio in una scena conviviale, come se partecipassero al banchetto funebre; viene dimostrata anche la posizione di maggiore  rilievo della donna nella civiltà etrusca rispetto alla civiltà ateniese e a quella romana. Il sarcofago è stato prestato con altri numerosi reperti dal Louvre che per l’occasione lo ha sottoposto a un nuovo intervento di restauro.  Siamo nel 530-510 a. C., dello stesso periodo  un’urna con una coppia distesa sul triclinio nell’offerta del profumo, nella stessa posizione e fattezze del Sarcofago degli Sposi, lunghezza 58 cm, e un’urna con il defunto sul letto funebre, poi un’urna cineraria a forma di casa e un coperchio con Efebo disteso nella posa del banchetto.

Dalla necropoli di Tolfa sono esposti rilievi funerari della “tomba dei Cani”, detta così dalle raffigurazioni di tali animali, vi sono state trovate straordinarie anfore e idrie a figure nere con Ercole e il centauro e  scene movimentate come la contesa del tripode, anche uno specchio in bronzo con un genio alato.

Oltre alla produzione locale, nel vasto campionario di oggetti importati vediamo anfore e coppe, olle e crateri di ceramica corinzia, laconica e calcidese, nonché straordinari esemplari di ceramica attica, in particolare anfore nicosteniche con raffigurati Dioniso, Nike,  Achille e Chirone.

Dioniso è al centro delle raffigurazioni di anfore e coppe, olpe e pskyter a figure rosse o nere, in contrasto con il fondo, dallo straordinario effetto-rilievo; lo stesso per Apollo ed Eracle e anche guerrieri omerici come Achille e Aiace, una galleria di incredibile suggestione. Le ceramiche ceretane a figure nere sono state studiate in modo approfondito negli ultimi anni, trovando una continuità con le ceramiche a figure rosse e individuando pittori dallo stile molto diverso,cui sono stati dati nomi come “il pittore dai volti spigolosi” e “il pittore della caccia di Boston”,  è citato anche  “il pittore dei satiri danzanti”.  Il gruppo di una quarantina di idrie ceretane viene ricondotto  a pittori chiamati “il pittore dell’Aquila”” e il “pittore di Buciride”, vi sono riprodotte soprattutto scene di animali, la caccia al cinghiale, al cervo e al leone, la centauromachia e cerbero che si scaglia contro Euristeo trattenuto da Eracle, rappresentato anche mentre lotta con il Minotauro. . Pithoi  e bracieri decorati a stampo completano questa rassegna.

Concludiamo la citazione dei reperti esposti nella sezione dedicata all’apogeo di Cerveteri con le lastre dipinte, le “lastre Campana”, dal nome dello scopritore – uno dei protagonisti di cui abbiamo  parlato all’inizio –  rinvenute nella necropoli della Banditaccia, ora al Louvre, mentre le “lastre Boccanera”, trovate nella stessa zona,  sono al British Museum, a conferma della deplorevole dispersione dei reperti. Sono in terracotta, con figure rosse su fondo chiaro, di guerrieri e cavalieri, ma anche volti femminili, rari quanto suggestivi retaggi della pittura dell’epoca.

Rinnovamento dopo la crisi e romanizzazione di Cerveteri

Dopo l’evoluzione che si è descritta nel VII sec. a. C., l’Etruria attraversa una crisi nella seconda metà del V sec.,  superata nel IV sec. con un rinnovamento promosso dalle elite locali che tonano ad essere dominanti come nella fase precedente la “polis”. La pressione di Roma sulle città etrusche accresce il ruolo di Cerveteri che si trova vicino alla città imperiale, anche se Caere non riuscirà ad impedire l’assoggettamento e la conseguente romanizzazione; ma per una lunga fase c’è stata intesa tra le rispettive élite cittadine, le “gens patrizie” di Roma erano legate all’aristocrazia ceretana.

La nuova affermazione delle aristocrazie emerge dal fasto dei monumenti funerari, che ricorda quello del VII sec., mentre anche i templi riflettono la maggiore ricchezza recuperata dopo la crisi.  Nella “tomba dei Sarcofaghi”  si manifesta questo nuovo spirito con cui l’élite intende celebrare se stessa, come facevano le élite degli altri paesi del Mediterraneo: ci sono 4 sarcofaghi, tra cui  il Sarcofago del Magistrato, in pietra, con il defunto raffigurato sul coperchio secondo l’uso cartaginese e ai lati bassorilievi che ne rievocano l’ufficio e prefigurano il viaggio nell’al di là.

Nei rapporti con Roma ci fu una crisi nel 353 per la guerra tra Roma e Tarquinia cui parteciparono “iuvenes”  ceriti a fianco dei tarquinesi, poi i rapporti  tornarono intensi;  esisteva  perfino un comunità romana a Caere, testimoniata dagli affreschi della tomba del Triclinio con dieci coppie forse seppellite insieme e un cratere con iscrizione latina al centro. Nel 273 viene datata la fine dell’indipendenza di Caere-Cerveteri per la conquista di Roma al termine delle guerre contro gli Etruschi con cui assoggettò ad una ad una le città del sud, Volsini, Vulci e Tarquinia, prima di Caere. Con l’assoggettamento,  la decadenza nell’epoca tardo-repubblicana e la ripresa in epoca augustea con C.  Manlius  divenuto “censor perpetuus” e il figlio “tribunus militum  e populo”, carica con cui Augusto premiava le élite municipali fedeli: furono costruiti un teatro e un anfiteatro ma di modeste dimensioni, dato che la popolazione era di molto diminuita, e vi fu un ciclo statuario imperiale, il “trono di Claudio”  di cui  resta una lastra con le personificazioni di Vetulonia, Tarquinia e Vulci, tre delle 15 città cui si riferiva l’intero ciclo.

Ma la città era destinata all’abbandono, dopo un  declino economico inarrestabile, lo testimonia il fatto che nel 113 d.C. una votazione della curia senatoriale di 100 decurioni vide presenti solo 9 membri,  compresi tre magistrati.  Con le incursioni saracene del IX secolo i pochi rimasti si rifugiarono nel protettivo castello di Ceri, che assunse il nome dell’antica città la quale lo trasformò invece Cerveteri, cioè “Caere vetera”, antica.  Così siamo giunti ai giorni nostri. 

Iel rinnovamento della città  vediamo nella quinta sezione reperti che attestano la ripresa del sistema decorativo dei templi, con una serie di antefisse a testa di sileno e di Eracle,  in particolare nel santuario di Pyrgi con una testa femminile, capitelli e cornici, nonché antefisse e medaglioni nella Vigna Parrocchiale, e una serie di sculture sorprendenti: teste maschili e femminili, arti e perfino organi interni. Tra le grandi tombe aristocratiche di questo periodo ricordiamo il Sarcofago del Magistrato, già citato, è la metà del IV sec. a. C., con la statua del defunto sul coperchio e scene del viaggio nell’al di là con il corteo sulle pareti; e il sarcofago di tipo architettonico fatto a capanna, anch’esso citato prima.

Dalla “tomba di Greppe sant’Angelo” vengono una porta e delle statue votive con due leoni, in pietra, la terracotta torna con busti e statue femminili e una coppia in trono. Ritroviamo anche l’oro nei corredi funerari, anello e orecchini, specchio e bruciaprofumi, e una florida produzione artigianale, questa volta di ceramiche a figure rosse, c’era un’importante bottega nella città: sono esposti crateri e oinochoe con forme e raffigurazioni varie, piatti e un cantaro.

Abbiamo accennato ai rapporti con Roma favoriti dalla vicinanza,  aggiungiamo solo che si  erano sviluppati dal terreno commerciale  al piano culturale e politico: è stato accertato che i giovani dell’aristocrazia romana  andavano a Cerveteri per imparare l’etrusco, la lingua colta di allora. Queste intense relazioni  portarono a una graduale integrazione dopo la conquista da parte di Roma, senza che venissero annullate le peculiarità etrusche, anche perché gli aristocratici continuarono a tramandare la memoria degli antenati e .le espressioni della loro cultura. Le iscrizioni in latino vengono sempre più usate nei cippi funerari nei quali restano anche iscrizioni etrusche e anche nei cippi stradali esposti, di forma cilindrica e circolare, conica  e rettangolare.

La mostra termina con reperti dell’epoca dell’imperatore Claudio nella “Cerveteri romana”, alla romanizzazione è dedicata la quinta sezione: sono sculture che ritraggono l’imperatore, tra cui la statua postuma di Augusto con la corona di quercia conferitagli dal Senato, siamo nel 27 a. C.; vediamo anche un bassorilievo della metà del I sec. d. C. che esalta la città etrusca, segno della volontà romana di farne un luogo della memoria e non più un mero retaggio di conquista.

Si conclude così nell’era cristiana il viaggio iniziato un millennio prima di Cristo nella ricostruzione storica e soprattutto nella ricchezza dei reperti contestualizzati e interpretati nel loro significato e nel loro valore testimoniale. Un elevato pregio culturale di una mostra dall’elevata resa spettacolare.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie. Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/. Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Cerveteri  le  mostre contemporanee “Pasolini Roma” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”, sulle quali cfr. i nostri articoli, per la prima, in questo sito, il  27 maggio  e 15 giugno 2014, per la seconda in   http://www.fotografarefacile.it/. marzo 2014.   Catalogo: “Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri”, Somogy-Editions d’Art, 2014, pp. 360, formato 23×29, con testi di 52 autori  per la ricostruzione storica e l’illustrazione iconografica. Per il primo articolo sulla mostra cfr. in questo sito  Cerveteri,  la Caere degli Etruschi al Palazzo Esposizioni”, 8 giugno 2014.  Cfr. inoltre i nostri articoli in “http://www.notizie.antika.it/“:  sulla mostra attuale  “Roma. Mostra sugli Etruschi di Cerveteri al Palazzo Esposizioni”, luglio 2014; sugli Etruschiin generale“Asti. Mostra sugli Etruschi nella storia d’Italia” e “Asti. L’archeologia degli Etruschi a Palazzo Mazzetti” il 15 e 17 marzo 2012.

Foto

Dele  immagini, 5  sono state cortesemente fornite dall’Azienda speciale Palaexpo, 4 sono state riprese da Romano Maria Levante  nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra,  si ringrazia in particolare l’Ufficio stampa dell’Azienda, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Sarcofago del Magistrato”, metà del IV sec. a. C. ; seguono “Statua di Charun”-“Leone”, 300 a. C.,, e  “Pithos con metope”-“Phitos con fregio”  fine VII sec. a. C., poi “Psyter attico a figure rosse”, 500-480 a. C. e “Lastre dipinte, dette lastre Campana”, VI sec. a. C., quindi  “Laminette in oro”, fine VI sec. a. C., “Coperchio d’urna,  Efebo disteso a banchetto”, 490 a. C., e “Rilievo delle Città, detto ‘trono di Claudio'”, metà del I sec. d. C.; ,in chiusura una vetrina con anfore e vasi.

Esposito, Carlo e Maurizio Riccardi ricordano i due Papi santi

di Romano Maria Levante

A Roma, allo Spazio 5 dell’associazione “Quinta Dimensione”, la sera del 18 giugno 2014  un ricordo molto particolare dei due papi assurti il 27 aprile alla santità: presentati due volumetti, “San Giovanni XXIII il Papa buono e “Giovanni Paolo II, il papa venuto da lontano”, nel primo 33 fotografie in bianco e nero di Carlo Riccardi, nel secondo 38 foto quasi tutte a colori di Maurizio Riccardi, una staffetta cronologica e generazionale; in entrambi  i testi di Vittorio Esposito  ne ricostruiscono la figura integrando il racconto per immagini con la storia dei due pontificati e la biografia essenziale dei pontefici.

Le fotografie riprodotte sui volumetti fanno parte delle 40 immagini esposte nella mostra “Il giorno dei due Papi”, aperta a Spazio 5 il 23 aprile 2014, quattro giorni prima della solenne santificazione in piazza San Pietro, e sono state il filo conduttore dell’incontro-conversazione di giornalisti –  tra cui l’autore dei testi Vittorio Esposito – e non solo, sui loro ricordi dei due pontificati, che hanno consentito di approfondirne  la figura; i due autori delle fotografie Carlo e Maurizio Riccardi hanno parlato dei loro reportage in una serata di ricordi e di riflessioni. Hanno partecipato, con gli autori, la critica letteraria Mara Ferloni e il giornalista Mauro de Vincentiis, esperto in comunicazioni,  allora responsabile nell’ufficio stampa dell’Alitalia,  che ha seguito da vicino il “Papa pellegrino”.

Testo e fotografie su 30 anni di pontificati

Testo e fotografie, come parole e musica: è una combinazione magistrale che nella serata allo Spazio 5 ha rivelato la sua forza e le sue potenzialità. I testi di Esposito  ripercorrono la vita dei due papi, rivelando anche particolari inediti o poco conosciuti, fornendo il filo rosso per interpretare al meglio le immagini accrescendone lo spessore. Trattandosi di fotografie riprese in occasioni pubbliche che danno la dimensione “esterna” dei due papi ed esprimono, come ha detto Esposito, la “comunicazione”: per questo sono state scelte tra tante migliaia, immagini emblematiche del messaggio che hanno voluto trasmettere, escludendo quelle con la sofferenza, come si fa negli “album di famiglia” per le persone care dove prevale l’affetto. Una scelta edificante questa, in controtendenza per i fotoreporter che cercano lo scoop con la trasgressione, sebbene Carlo Riccardi sia il primo “paparazzo” della “Dolce Vita”, la mostra che dal 27 giugno segue quella sui due papi.

Quindi nessun “effetto speciale” se non la maestria dei due fotografi  e la puntualità con cui sono stati presenti nei tanti momenti della vita pubblica di due pontificati, il primo dal 28 ottobre 1958 al 3 giugno 1963, il secondo dal 16 ottobre 1978 al  2 aprile 2005: breve il pontificato di Giovanni XXIII , durato meno di 5 anni, lunghissimo quello di Giovanni Paolo II, quasi 26 anni e mezzo, tra i più estesi nella storia della Chiesa. Trent’anni di vita ecclesiale e anche della vita di tutti che in qualche misura vi si riflette in due agili volumetti e in una serie di immagini esposte in mostra.

La conversazione dei giornalisti che si sono passati la palla – si consenta l’immagine calcistica in clima di mondiali – è stata quanto mai gustosa, da un aneddoto all’altro, da una considerazione all’altra, stimolati dal conduttore che proponeva di volta in volta l’immagine-simbolo di un determinato evento al quale venivano subito collegati dall’interlocutore di turno ricordi e memorie. Toni e contenuti in un’atmosfera commossa tra la rievocazione leggera e l’intensa riflessione.

Tanti sono stati gli episodi e gli aneddoti rievocati dai giornalisti e dai fotografi come in una conversazione domestica allorché si sfoglia l'”album di famiglia” e si commentano, riallacciandosi ai ricordi, le immagini più lontane in bianco e nero ingiallite dal tempo e quelle più recenti a colori. Il tutto alimentato dai testi di Vittorio Esposito  su due storie pontificie molto diverse, ugualmente  scolpite nei ricordi di ognuno, a introduzione e commento delle fotografie accuratamente selezionate che rappresentano la narrazione visiva negli scatti dei due Riccardi, Carlo e Maurizio.

Non daremo conto della serata – ne rispettiamo il carattere colloquiale e domestico – ma cercheremo di rendere qualcosa di quanto  testo e fotografie  trasmettono dei due papi, seguendo ciò che Esposito preannuncia all’inizio: “Se si vuole che un libro fatto di immagini sia spunto di riflessione, ecco allora che quelle fotografie, riunite in un unico volume, esaltano la loro funzione di immagine per diventare strumento di una analisi che non vuole essere storica ma della volontà di un  papa”. E sono immagini selezionate in base al messaggio di comunicazione..

Per Giovanni XXIII si è trattato, scrive Esposito,  di “essere un uomo tra gli uomini, un uomo di Dio che ha cercato di impersonare il Vangelo”; lo ha fatto nella “semplicità con cui agisce, pensa, parla,per quel suo aspetto così pacioso e festoso che lo fa sembrare a tutti uno di casa; per la facilità con cui rompe piccole grandi tradizioni oramai secolari”, così Rai Edu del 1999 da lui citata. E, continua l’autore,  “le fotografie di Carlo Riccardi lo hanno ritratto anche nelle occasioni ‘ufficiali’ esaltandone la sua ricca umanità anche quando era nel compimento di doveri istituzionali”.

Giovanni Paolo II ha impersonato “Cristo redentore dell’uomo, indicando nel servizio verso l’uomo, verso la sua promozione, la sua cresciuta umana, sociale, culturale, religiosa e la difesa dei suoi diritti la strada che la Chiesa deve percorrere per svolgere la sua missione”. Esposito aggiunge che nel fare ciò “è stato un vero e proprio leader spirituale che ha affrontato tutti i problemi del nostro tempo da uomo oltre che da papa. E’ stato la guida di grandi masse che da ogni paese sono accorse ad ascoltarlo nel corso dei suoi viaggi”. E “ha conquistato da subito il cuore dei fedeli per il suo modo di porsi come individuo tra gli altri individui”.

Giovanni XXIII, il Papa buono

Di papa Roncalli, tra i particolari che non conoscevamo Esposito ci fa scoprire la devozione per San Francesco, che lo fece diventare terziario francescano a 14 anni, e l’ordinazione sacerdotale nell’attuale chiesa degli Artisti di Piazza del Popolo  a Roma: di famiglia contadina bergamasca, quarto di tredici figli, approda alla capitale nel collegio di sant’Apollinare con una borsa di studio.

E poi una carriera diplomatica internazionale in chi manteneva un aspetto domestico, anzi contadino: oltre dieci anni in Bulgaria, poi in Grecia e Turchia, quindi inviato a Parigi nel 1944, nel periodo tremendo dell’occupazione tedesca con la deportazione degli ebrei: si adoperò in tutti i modi per salvarli, e nel 2000 questo suo impegno ha ottenuto un riconoscimento.  

Cardinale nel 1953 e Patriarca di Venezia, Papa il 28 ottobre 1958, solo dopo due mesi esce dalle mura vaticane per visitare a Natale i bimbi malati al Bambin Gesù, a Santo Stefano i carcerati a Regina Coeli.

Poi una raffica di Encicliche, ben quattro da giugno a dicembre 1959 cui ne seguiranno altre quattro tra il 1961 e il 1963,  tra cui la “Mater et magistra” del 15 maggio 1961 con la dottrina sociale della chiesa aggiornata sui nuovi problemi dell’economia e della società nel mondo,  e la “Pacem in terris” dell’11 aprile 1963, in cui l’impegno per la pace è unito a quello per la giustizia sociale.

Intanto dall’uscita dal Vaticano si passa all’uscita da Roma,  il “Papa pellegrino”, ricorda Esposito, va a Loreto e Assisi, e nell’incontro a Spazio 5 è stato rievocato lo storico viaggio in treno.

E’ il 4 ottobre  1962, il giorno di San Francesco, al santo e alla Madonna  vuole affidare il Concilio Ecumenico Vaticano II, che ha annunciato fin dal gennaio 1959, tre mesi dopo l’elezione a pontefice: un evento epocale con 2700 vescovi e arcivescovi, i cui lavori preparatori impegnarono 800 teologi  e studiosi.

Muore il 3 giugno 1963, dichiarato beato il 3 settembre 2000, canonizzato santo il 27 aprile 2014.

Un papa che doveva essere di transizione è diventato di rottura: e non solo sul piano del comportamento e del rinnovamento della Chiesa attraverso il Concilio; perfino sul piano politico, ed Esposito ricorda alcuni momenti significativi: “distingue l’errore (il marxismo) dall’errante (gli uomini)”,  e il 10 agosto 1961invia un messaggio radio alle superpotenze dell’Ovest e dell’Est invitandole al negoziato e al disarmo, fece breccia in Krusciov che ricambiò con gli auguri per i suoi 80anni. Sembrano cose normali oggi, ma non lo erano negli anni della guerra fredda con l’incubo del conflitto nucleare che avrebbe distrutto l’intera umanità, vengono i brividi al ripensarci.

Gesti dal forte significato politico ma soprattutto gesti di valore umano, nel volumetto e nella serata è stato ricordato il “discorso della luna” dell’11 ottobre 1962 che ci sembra una sintesi straordinaria della sua figura: nel momento in cui annunciava dal balcone su Piazza San Pietro l’apertura del Concilio Vaticano II, atto politico per eccellenza, parlando a braccio dinanzi alla fiaccolata dell’immensa folla trovava toni ecumenici oltre che lirici: “Cari figliuoli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero. Qui tutto il mondo è rappresentato.  Si direbbe che persino la luna si è affrettata stasera – osservatela in alto – a guardare questo spettacolo”. 

Poi le parole profondamente umane rimaste nel cuore di tutti, dal mondo passa all’intimità di ciascuno: “Cari figliuoli, tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai bambini e dite: questa è la carezza del Papa”.  Se ne sente ancora la dolcezza e il calore, Esposito ha voluto ricordare quel momento nel presentare le immagini del pontificato, e siamo andati subito a cercare se nel volumetto e nella mostra era fissato anche quel momento. Non abbiamo trovato l’immagine che ricordiamo in televisione, ma una fotografia di quel fatidico giorno, ricordiamo l’11 ottobre 1962, che mostra il Pontefice portato con i pesanti paramenti rituali sulla sedia gestatoria con annessi  “flabelli”, nella navata centrale della basilica di San Pietro, gremita fino all’inverosimile di autorità religiose e civili; ebbene, sembra incredibile che il seguito di tale immagine così istituzionale sia stato un gesto così intimo e umano, la carezza mandata dal papa ai bambini.

Questo doppio registro si percepisce anche in altre immagini, da quelle da pontefice in sedia gestatoria e triregno nei rituali solenni a quelle del pellegrinaggio apostolico a Loreto con una fotografia di particolare interesse mentre benedice dietro il finestrino del “treno papale”,  che in realtà era un  treno presidenziale perché, ricorda Esposito, quello papale fato costruire a Parigi da Pio IX per spostarsi nello Stato pontificio, era stato acquisito dal Regno d’Italia dopo il 20 settembre 1870; dalla foto della visita al Quirinale dell’11 maggio 1963 con il presidente Segni nella poltrona vicina e due corazzieri con le sciabole impettiti sull’attenti a primi piani come quelli in  automobile nel pellegrinaggio apostolico a Loreto del 5 ottobre 1962 dove lo vediamo benedicente oppure in  due immagini dalla grande semplicità il 27 febbraio 1963 all’uscita dalla chiesa di Santa Sabina all’Aventino. Altrettanto semplici ed espressive le immagini del 18 gennaio 1959  in visita alla sede della Pontificia Università Gregoriana e del 5 novembre 1961 alla facoltà di medicina e chirurgia al Gemelli, foto storica perché gli si inginocchia dinanzi baciandogli la mano Montini il futuro papa Paolo VI, e lui ricambia la deferenza portando la mano sinistra al cappello, come la  foto della visita a Regina Coeli  del 26 dicembre 1958 mentre si intrattiene sorridendo con i detenuti che indossano l’abito a righe dei  carcerati, dietro di lui l’allora Ministro della Giustizia Guido Gonella.  E poi immagini mentre celebra le funzioni religiose e tra la gente, come quella del 1962 sotto l’ombrello per la pioggia. Una galleria di ricordi  e di “come eravamo” che si snoda tra la prima al balcone della basilica di San Pietro subito dopo l’elezione a pontefice il 28 ottobre 1958 con il triregno in testa e l’ultima immagine con la salma esposta nella basilica il 4 giugno 1963. 

Tra questi due omaggi estremi della gente comune la storia breve e intensa del “Papa buono”  rimasto nel cuore di tutti per la sua semplicità, ma che ha dato concreto inizio con grande energia all’azione di rinnovamento della Chiesa al suo interno e nei rapporti con il  mondo esterno.

Giovanni Paolo II, il Papa venuto da lontano

Cosa ci fa scoprire Esposito di papa Wojtyla, “venuto da lontano”, precursore, se così si può dire, di papa Francesco, “venuto dalla fine del mondo”?  Tante cose nella lunga biografia che pur essendo essenziale ne ripercorre la vita in 14  pagine fitte di notizie e di eventi. Ciò che ci ha colpito di più è stata l’attività letteraria di Karol Wojtyla, sebbene fossero note alcune sue opere, prima tra tutte “La bottega dell’orefice”,  divenuto film con Burt Lancaster nel 1988; ma ci sono anche i drammi “Giobbe” sull’Antico Testamento, e “Geremia”, “Fratello del  nostro Dio” film nel 1997 con il regista polacco Zanussi e “Canto dello splendore dell’acqua”, i cicli di poesie “La cava di Pietra” e “Profili di Cireneo”, “Chiesa” e “Pellegrinaggio ai luoghi santi”, i poemi “Veglia pasquale 1966” e “Meditazione sulla morte”, i saggi “Amore e responsabilità”, Considerazioni sulla paternità” e “Persona e atto”. Tutti scritti, e in parte pubblicati anche sotto pseudonimo, dal 1940 al 1975;  prima della elezione a Pontefice si citano anche due pubblicazioni della sua attività ecclesiastica, il volume “Alle fonti del rinnovamento”, uno studio sull’attuazione del Concilio Vaticano II e “Segni di contraddizione”, gli esercizi spirituali di Quaresima del 1976 per Paolo VI e i cardinali di Curia.

Dopo l’elezione a papa ancora sue pubblicazioni, nel 1996 il libro “Dono e Mistero nel 50° del mio sacerdozio” e nel 2003 il libro di poesie “Trittico romano, Meditazioni”,  “poema in tre stanze”, precisa Esposito; finché, nel 2004, il libro “Alzatevi, andiamo”, emblematico del suo apostolato missionario iniziato con l’esortazione lanciata nella prima messa del suo ministero il 22 ottobre 1978 e ripetuta nel corso dell’intero pontificato: “Non abbiate paura! Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Cristo sa cosa è dentro l’uomo. Solo lui lo sa”.

Un’esortazione resa granitica dall’esempio di chi non aveva avuto paura delle due spietate dittature che avevano oppresso il suo paese, prima quella nazista, poi quella comunista; ed  ha agito concretamente perché la Polonia  fosse liberata da quest’ultima visitando la terra natale  ben sette volte, favorendo la nascita nel 1980 del sindacato libero di Solidarnosc e intervenendo sul generale Jaruzelski per contenere la pressione della Russia fino al ritiro con la caduta del muro di Berlino.

La sua azione politica lo ha visto incontrare, come “apostolo della pace”, i principali capi di Stato e i rappresentanti delle diverse confessioni religiose, in uno spirito ecumenico senza confini: è stato il primo pontefice che è entrato in una moschea mussulmana a Damasco accolto dal Gran Muftì Kuftaro  e il primo a entrare in una Sinagoga ebraica  a Roma accolto dal rabbino capo Toaff, in quelle occasioni chiamò i mussulmani “fratelli” e gli ebrei “fratelli maggiori” dopo “secoli di odio”, Esposito ricorda anche  la visita a Gerusalemme con la supplica al “muro del pianto” e l’incontro di Assisi  con i rappresentanti delle Chiese cristiane e delle altre religioni per recitare insieme la “Preghiera per la pace”, fu il primo di una serie di incontri ecumenici di grande valore spirituale.

Apostolo della pace, abbiamo detto, e anche “Pellegrino di Dio”, con i suoi viaggi nelle comunità cristiane in tutti gli angoli del mondo, che ne hanno fato il “primo missionario” che ha dato corpo al comandamento di Cristo “Predicate il Vangelo fino ai confini della terra”.

E’ stato anche il “papa dei giovani”: dall’istituzione dell’Anno internazionale della gioventù” da parte dell’Onu  nel 1984 questi appuntamenti  hanno avuto cadenza biennale nella “Giornata mondiale della gioventù”con la partecipazione di milioni di giovani, a Manila nel 1995 ben 4 milioni di “Papa boys”, indelebile il ricordo della giornata del Giubileo dei giovani a Roma allorché,  già malato, costretto sulla poltrona, accompagnava con il bastone la loro musica nel vivo desiderio di partecipare più direttamente alla loro festa. Del resto il pontificato non gli ha impedito di dare corpo alla sua profonda umanità: “E’ stato un uomo – osserva Esposito – che, nonostante gli impegni del suo ministero, ha saputo trovare il tempo anche per se stesso”. E commenta: “E questo lo ha reso agli occhi del mondo ‘umano’ vicino alle aspettative di chi vuole che il pontefice sia l’interprete delle istanze sociali e di libertà che provengono da ogni parte del pianeta”.

A tutto questo, oltre che al rinnovamento della Chiesa, sono state dedicate anche le Encicliche, dodici nel suo pontificato, tra le quali vogliamo ricordare la prima “Redemptor hominis”, del 15 marzo 1979, con il programma di mettere la chiesa al servizio dell’uomo, con le sue esigenze e i suoi diritti, “Laborem exercenses” del 14 settembre 1981 e la “Centesimus annus” del 1° maggio 1991 sulle questioni sociali fino a “Ut unum sint” sull’impegno ecumenico cristiano.

Esposito rievoca anche il “Papa della sofferenza”, dalla commozione cerebrale  del 29 febbraio 1944 a 24 anni alle gravi ferite dell’attentato del 13 maggio 1981 con l’immediato perdono per l’attentatore, e la vera via Crucis degli ultimi anni, con nove ricoveri al Policlinico Gemelli e un degrado fisico sempre più vistoso di chi all’elezione impersonava l'”atleta di Dio”  con il suo vigore e le sue passioni sportive, come il nuoto e lo sci praticate per quanto possibile anche durante il pontificato, si ricordano la piscina fatta costruire in Vaticano e le escursioni sciistiche, anche  in compagnia del presidente della Repubblica Sandro Pertini con cui ebbe un rapporto di amicizia, immortalato in una bella fotografia della visita al Quirinale il 2 giugno 1984.

Una figura così straripante di energia e di umanità, vicina al cuore di tutti e nel contempo in una dimensione globale apparentemente irraggiungibile, trova l’espressione visiva nei fotocolor spettacolari di Maurizio  Riccardi, nel volumetto di Esposito e negli ingrandimento esposti.

La prima fotografia, un vero “scoop” se si può usare tale termine, mostra il cardinale Wojtyla inginocchiato dinanzi a Giovanni Paolo I nel 1978, quasi un profetico passaggio di consegne, segue l’ultima foto del cardinale Wojtyla, sorride all’ingresso nel conclave che lo eleggerà papa.

Una delle poche foto in bianco e nero lo ritrae con Andreotti il 25 gennaio 1979, alla partenza per la Repubblica Domenicana e il Messico nel suo primo viaggio pastorale, lo vediamo anche in cima alla scaletta dell’aereo; Andreotti era presidente del Consiglio, e questo dà la misura del tempo trascorso. Poi eccolo  aprire la Via Crucis al Colosso nel 1985 portando la pesante croce.

Poche immagini istituzionali, molti primi piani,  a differenza di quelle che abbiamo visto su Giovanni XXIII, un segno dei tempi anche questo. Alle scene di folla, e potrebbero essercene moltissime se si pensa ai raduni con milioni di persone, si sono preferite quelle  che ne ritraggono l’intensa espressione del viso escludendo, come abbiamo detto all’inizio, la sofferenza che pure è stato il segno degli ultimi anni, anche se non mancano immagini con i fedeli che si accalcano sulle transenne per salutarlo da vicino o lo seguono in processione verso il santuario del Divino amore. 

Lo vediamo mentre stringe il calice con i paramenti sacri alla celebrazione della messa nella basilica romana di Santa Maria sopra Minerva il 7 novembre 1980 e mentre lascia il Policlinico Gemelli dopo l’attentato del 13 maggio 1981, mentre presiede ad Assisi la “Giornata di preghiera per la pace” il 27 ottobre 1986 e in una nuvola di incenso in una messa in Vaticano nel 1989. Tutti primi piani del suo viso intenso, mentre in altri primi piani si esprime la sua gestualità, il linguaggio del corpo: la mano destra che saluta il 3 dicembre 1978 in una delle prime visite pastorali, è alla chiesa di San Francesco alla Garbatella,  o in  piedi sulla “papa mobile”  a Piazza San Pietro, dall’auto nera scoperta  nel 1980 e in un’udienza nell’Aula Nervi nel 1983. Le braccia si aprono in un abbraccio ideale in una foto ad Assisi, nella basilica di San Francesco il 22 aprile 1979e all’Aula Nervi nel 1980. E poi foto che ne sorprendono espressioni intime, come quelle del 2 febbraio 1982in visita al presepe dei netturbini e con in braccio il figlio della coppia di netturbini di cui aveva celebrato le nozze nel 1979, fino alle due immagini del viso nel 2003 in Piazza di Spagna per la festa dell’Immacolata Concezione, le uniche in  cui si avvertono appena i segni della sofferenza.

Anche qui, come per Giovanni XXIII, il film del pontificato si dipana tra le immagini estreme, quella del 16 ottobre 1978 sul balcone della basilica di San Pietro subito dopo l’elezione, quando pronunciò le storiche parole ricordate da Esposito “”se mi sbaglio mi corrigerete” con le quali conquistò subito la folla, come ha fatto papa Francesco con l’altrettanto storico  “Buonasera”;  e la  foto del 4 aprile 2005 con le sue spoglie mortali portate nella basilica di San Pietro per ricevere l’omaggio di milioni di fedeli dopo una fila durata anche oltre dieci ore, possiamo darne testimonianza diretta. Un post mortem illustrato anche da un primissimo piano della salma e dall’immagine dell’8 aprile 2005 che fissa un momento altamente simbolico: il vento sfoglia le pagine del Vangelo posto  sulla bara deposta a terra, quasi l’espressione della presenza del soprannaturale. Le foto degli striscioni “Santo subito!” sul mare di folla ai funerali ne sono l’immediata prosecuzione, la conclusione è l’immagine del 1° maggio 2011 della cerimonia di beatificazione in piazza San Pietro con un milione e mezzo di fedeli.

Tra tutte le immagini, per la copertina è stata scelta la fotografia del 15 dicembre 1978 all’Udienza nell’Aula Nervi, nella quale il linguaggio del corpo supera le precedenti espressioni: le braccia si aprono ancora di più, l’abbraccio diventa un volo. E’ del 15 dicembre 1978, soltanto due mesi dopo l’elezione a pontefice, ma ha la capacità profetica di riassumerne la storia e il valore.

“Il papa che vola” è intitolata,  vediamo il “globe trotter” della fede nei suoi voli aerei in ogni parte del mondo, e anche nel volo supremo, quello della santità che lo ha portato nell’alto dei cieli.

Info

A Spazio 5, Roma via Crescenzio 99/d, vicino a Piazza Risorgimento, dal lunedì al venerdì ore 16,00-19,00, in una parete della galleria prosegue la mostra “Il Giorno dei due Papi”; dal 27 giugno la mostra fotografica “La Dolce vita”. Tel.  06.687625; info@spazio5.com; info@agrpress.it; http://www.spazio5.com/. In http://www.archivioriccardi.it/  dell’agenzia AGR del Gruppo Riccardi un vasto assortimento di immagini raggruppate per singoli  personaggi ed eventi, tratte dal milione di negativi dell’archivio classificato dalla soprintendenza “patrimonio di interesse nazionale”. I due volumetti: Vittorio Esposito, “San Giovanni XXIII – Il papa buono”, foto di Carlo Riccardi, Armando Editore,  pp. 64 in bianco e nero, aprile 2014, formato 21×21; Vittorio Esposito, “San Giovanni Paolo III – Il papa venuto da lontano”, foto di Maurizio Riccardi, Armando Editore, pp. 80 a colori, aprile 2014, formato 21×21, le due pubblicazioni inaugurano la serie “Fotografici Armando” a cura di Giovanni Curraro. Cfr. l’altro nostro servizio sui due volumetti e sulla mostra in http://www.fotografarefacile.it/ “Roma. Il giorno dei due Papi nelle foto di Carlo e Maurizio Riccardi”, luglio 2014.  In tale sito cfr. i nostri articoli sulle precedenti mostre fotografiche su papa Giovanni Paolo II, “Roma. Piazza Esedra. Mostra fotografica celebra la beatificazione di papa Wojtyla”  il 1° maggio 2011,  “Roma. ‘Beatus’. La mostra fotografica dopo 150 giorni” il 4 settembre 2011,  “‘Giovanni Paolo II Tutto nostro’ nelle foto di Maurizio Riccardi” il 24 maggio 2012 a Spazio 5; infine il nostro articolo su un’altra mostra in tale galleria: “Roma. Dalla Francia con amore. 80 fotografie a Spazio 5“, aprile 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Spazio 5 nella serata dell’incontro di presentazione dei due volumetti. Le fotografie pubblicate ed esposte in mostra fanno parte del grande Archivio Riccardi, un archivio storico fotografico dal 1945 (ArchivioRiccardi.it). Si ringraziano gli organizzatori e i titolari dei diritti, in particolare Carlo e Maurizio Riccardi, per l’opportunità offerta. A Carlo Riccardi un ringraziamento particolare per essersi fatto ritrarre da noi per la foto di apertura; seguono  le immagini dei due papi santi, le prime 4  foto di papa Giovanni XXIII, le successive  5 foto di papa Giovanni Paolo II, in chiusura pazza San Pietro il 1° maggio 2011, giorno della beatificazione con un milione di fedeli.

Natura morta, Ricci al Vittoriano, Zarattini a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Due diverse interpretazioni della natura morta a Roma, all’inizio dell’estate 2014, in due sedi espositive molto particolari: il Complesso del Vittoriano con  la sua monumentalità espone, dal 19 al 29 giugno 2014 nel Salone Centrale, lato Fori Imperiali, l’“Iperrealismo” di Orlando Ricci, 45 oli su tela di forte impatto cromatico e di un precisionismo che dà l’effetto-rilievo; la galleria RvB Arts, nell’ambito del programma “Accessible Art” promosso da Michele Von Buren, espone dal 29 maggio al 28 giugno nella mostra “Capricci” in un’atmosfera familiare alimentata dagli arredi domestici,  la “Natura storta”di Luca Zarattini, definita così per l’indeterminatezza e l’instabilità della composizione dalla cromia attutita dai materiali scelti, ruvidi e assorbenti, e nella mostra “Past Times”  i gruppi da “album di famiglia” di Christina Thwaites.

Nessun confronto tra le due interpretazioni della natura morta,  ma una spontanea associazione di idee ci ha indotto a presentarle in parallelo. La natura morta è un tema declinato nei modi più diversi dagli artisti di ogni epoca, alla Gnam c’è stata una mostra dedicata alle Nature morte giacenti nei magazzini della Galleria, l’esposizione occupava intere pareti fino al soffitto.

Dello sconfinato iceberg artistico di questo tema ci limitiamo a ricordare la “Canestra di frutta” di Caravaggio, che viene evocata a proposito dell’iperrealismo di Ricci, e le composizioni floreali e di frutta della dinastia dei Brueghel, accurate al punto di documentare le diverse specie vegetali.

Passiamo quindi a descrivere la trasposizione artistica dei due autori cercando di evidenziarne le peculiarità che li rendono, per diversi motivi, meritevoli di attenzione e di essere seguiti nel loro percorso pittorico.

L’iperrealismo di Orlando Ricci

Orlando Ricci, romano,  classe 1942, ha cominciato a dipingere da autodidatta a 10  anni e si è formato nell’arte classica, ha uno stretto legame con la Provenza, terra da cui trae ispirazione, mostre personali in Italia e all’estero, a Roma ha già esposto a Palazzo Valentini, nei Giardini di Palazzo Barberini e nello stesso Vittoriano.

La predilezione per le nature morte la fa accostare a Luciano Ventrone, un maestro in questo campo a lui molto vicino, e nel  vedere le sue opere si pensa anche a Sciltian e Tommasi Ferroni, come altrettanti punti di riferimento pur nell’assoluta originalità di un artista fedele alla propria interpretazione della realtà offerta dalla natura.

Sergio Rossi ne parla  così: “L’artista interpreta  e riplasma  i suoi canestri, le sue frutta,  i suoi fiori, e nonostante, o forse grazie all’iperrealismo della resa pittorica ci appaiono ‘altro’ dalla frutta che mangiamo, dai fiori che annusiamo eppure ad essi indissolubilmente legati”. 

Il critico definisce così l'”altro”: “Noi potremo dire che questa non è una zucca, non è un grappolo d’uva, sono una rappresentazione, o per meglio dire una trasfigurazione poetica, di una zucca, di un melograno, con la carica di mistero che sempre la poesia, anche la più semplice, porta con sé”. 

La chiave della trasfigurazione è la luce, una “luce glauca” come quella dell’alba, livida e più “difficile” da cogliere di quella della notte, una luce in grado di dare spessore tridimensionale alla raffigurazione.  Oltre alla luce, il colore, così Viviana Normando: “Valore imprescindibile della sua pittura è lo studio del colore che diventa arte, raffinata ed elegante, tecnicismo, musicalità di ritmi. La particolarità che caratterizza i suoi dipinti ad olio è una diversità di toni, un accentuato  e puntuale colorismo”.

Ma non è per un calcolo o per la ricerca esasperata di un particolare stile pittorico, bensì per un moto istintivo: “Ed è dal furore artistico, dalla spontaneità del gesto, che un frutto, su un tavolo si anima, accarezzato da un anelito di vita”.

Guardiamo le sue opere,  oltre al canestro caravaggesco in varie versioni, ci colpisce il bicchiere ricolmo di ciliege che traboccano dall’orlo, viene di allungare la mano per raccogliere quelle cadute e rimettere dentro al calice quelle appese fuori,  tanto sono realistiche, in un rilievo cromatico impressionante.

Il vetro è onnipresente, vasi con dentro fiori e soprattutto bicchieri ricolmi di frutti, il vetro con la sua trasparenza e la sua luminosità è il grande protagonista – fino a divenire unico in una successione di bicchieri come le bottiglie di Morandi – insieme ovviamente ai chicchi e alle bacche, ai petali e alle corolle. In alcune composizioni i frutti pendono dai rami, come i due grandi grappoli d’uva a fianco della fiasca impagliata, i fiori traboccano anche loro svettando sopra l’orlo dei vasi.  

Si prova la sensazione che così viene descritta dalla Normando: “Lo sguardo si posa sui petali, laddove il fruitore del quadro si aspetta, su quello stesso fiore, il sopraggiungere di un’ape, di una farfalla”; viene data una nuova definizione dell’ “altro” evocato da Rossi: “Le venature delle foglie, la buccia dei frutti, i semi, tutto illuminato dalla luce diventa altro”.  Per assurgere a qualcosa di superiore: “Una rosa, un girasole, l’uva, il melograno sono i segreti dell’animo umano che prendono forma e volume e nascono da un’esigenza interiore”.

La “natura storta” di Luca Zarattini

Si cambia verso completamente con Luca Zarattini, ferrarese, classe 1884, diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, con al suo attivo, pur in giovane età, un’ampia serie di mostre personali e collettive e prestigiosi premi, nel 2010 il Premio d’Arte Zingarelli e nel 2011 il premio della critica Basilio Cascella e  al Concorso di Ferrara per il 150° dell’Unità d’Italia.

La sua caratteristica saliente risiede nella sperimentazione dei materiali più diversi nel raffigurare soggetti tradizionali, da questo incrocio nasce la “natura storta”, con la particolare conformazione che assumono le sue composizioni rese in materiali quali legno, cemento e intonaco. 

“Da Caravaggio a Cezanne a Morandi e Bacon – scrive Viviana Quattrini, sensibile critica d’arte sempre attiva nelle mostre di RvB Arts –  nelle ‘Nature Storte’ eseguite come fossero affreschi, riesce a fondere linguaggi apparentemente opposti. Un dialogo in cui il gioco di piani si inserisce nella modulazione illusoria di luci ed ombre e al silenzio si alterna l’assenza e la distorsione”.

Questo fa sì che “i piani nelle ‘Nature Storte’ più che fungere da appoggio sembrano creare instabilità sorreggendole al limite”.  Equilibri e squilibri  che nascono dai materiali e dal modo dell’artista di trattarli: “La materia è segnata dal gesto della mano e dello strumento. Gli impasti si sovrappongono e si sgretolano nella tradizione delle nature morte”.

Ne vediamo diverse, contrassegnate da un numero d’ordine, sono tutte opere del 2014,  la ricerca e sperimentazione artistica di Zarattini procede con temi e soggetti sempre diversi. In mostre precedenti sempre a RvB Arts abbiamo trovato i suoi primi piani di volti particolarmente intensi.

La sua personale a RvB Arts è intitolata “Capricci” perché espone anche opere su altri temi, come le “Barche”, anch’esse contrassegnate da un numero d’ordine, su cartoni pressati e ferro che creano un addensamento materico nello scafo per poi sciogliersi nella fluidità delle acque. Non danno la sensazione del movimento e neppure del viaggio, sembrano incagliate e in disarmo nella pesantezza della materia e nel cromatismo altrettanto greve. Nessuna presenza umana nelle opere esposte,  se non alcuni raffinati disegni di mani su carta, del resto è una fase evolutiva del percorso di Zarattini, abbiamo già ricordato i suoi ritratti molto espressivi resi in una materia non meno greve.

Abbiamo voluto mettere in primo piano le sue nature morte per l’accostamento del suo realismo tutto particolare con l’iperrealismo della mostra parallela al Vittoriano. Da quanto abbiamo appena detto si ricava che la versatilità nei soggetti è una sua cifra d’artista, insieme all’approfondimento in serie plurime per la sperimentazione. Operazione complessa la sua a stare alle parole della critica.

Così la Quattrini: “Come uno stato d’animo le cui alternanze sfociano in parole inconsuete, gesti rapidi e istintivi,  i ‘Capricci’ si manifestano attraverso una forma destabilizzata dove il soggetto dell’opera non è mai un simbolo a sé stante”. In particolare: “Quello che noi osserviamo è un gioco di più livelli spaziali e temporali dove luci ed ombre non sono altro che un inganno. L’immagine degli oggetti rappresentati in primo piano si impone attraverso l’interazione con piani geometrici, linee spezzate e multiple”.

Gli “album di famiglia” di Christina Thwaites

Abbiamo citato, tra le altre opere di Zarattini, la sua ritrattistica, se così si può dire data la peculiarità dei visi, particolarmente intensi, in precedenti mostre sempre in RvB Arts, nell’ambito del programma “Accessible Art” che seguiamo da tempo per l’interesse che merita una formula con la quale ci si propone di portare l’arte contemporanea  nelle mura domestiche con opere accessibili sotto il profilo economico – prezzi contenuti – e della compatibilità con l’ambiente e la percezione familiare:  requisiti questi garantiti dall’accorta scelta degli artisti e delle opere  compiuta da Michele Von Buren, l’appassionata animatrice dell’attività della galleria e curatrice delle mostre.

Dopo le “nature storte”  di Zarattini,  a RvB Arts abbiamo ripreso contatto con la figura umana, e che contatto! Non si è trattato dei ritratti tormentati di Zarattini, ma degli “album di famiglia” di Christina  Thwaites, ch ci hanno offerto  visi e figure allineati come nelle foto scolastiche.

E’ un’artista inglese che già conoscevamo per precedenti collettive a RvB Arts, qui in una personale, ha lavorato ad Amsterdam, Roma e Palestina, vive in Australia dove ha esposto a Sydney, Melbourne e Camberra. A Roma, oltre che in RvB Arts ha esposto in mostre collettive nel Palazzo Esposizioni e nel Macro.

Il riferimento agli album di famiglia e alle foto scolastiche non è di maniera, la mostra si intitola “Past Times” per esprimere il valore di testimonianza di immagini che fissano un attimo destinato a tornare nella memoria allorché si guarda l’immagine trascorso diverso tempo. Le figure sono allineate frontalmente, in posa, i visi rivolti verso un ideale obiettivo fotografico, come passivi in attesa dello scatto. “I protagonisti – citiamo di nuovo Viviana Quattrini – evitano tra loro lo scambio di sguardi. Punto focale dell’attenzione è posto al di fuori dell’opera. Sottoposti all’indagine dell’occhio meccanico, i ritratti sbiaditi mantengono una sorta di formalità dettata dalla convenzionalità del momento”.

E’ molto diverso dalla  ritrattistica che cerca di esprimere attraverso le fattezze, la posa e l’espressione, l’interiorità della persona, qui viene fissato un momento di sospensione che “a posteriori testimonia il tempo istantaneo dello scatto e del ricordo. Si tratta di una pluralità di ritratti dove ognuno sembra cogliere l’essenza del soggetto”. Senza alcuna penetrazione psicologica, anzi le espressioni spesso appaiono forzate come quelle delle foto, deformate dall’attesa dello scatto. Quindi visi assorti o stralunati, espressioni anche buffe che danno una venatura ironica alle composizioni,  molte di grandi dimensioni, per lo più con dei chiari colori pastello.

Ricordiamo i titoli dei dipinti più spettacolari, “Gentlemen in Orange”, “Mixed Hockey Team”, “Bishop in Disguise”, poi una serie di “ritratti” anche con solo due figure e finanche una,  ma sempre con la positura “fotografica”, come “Two Sisters” e “Woman in Yellow”.

Dopo le nature morte  nelle diversissime trasposizioni artistiche  di Ricci e Zarattini,  e le barche in disarmo di quest’ultimo, ci voleva il “Past Times”  della Thwaites, “nella sua doppia accezione nostalgica e ironica di tempo che passa e passatempo”- è ancora la Quattrini – “in cui viene presentato il valore sia affettivo che rievocativo di momenti di condivisione familiare  o sociale di un istante”. 

Sono momenti rispetto ai quali, in definitiva, chi si trova idealmente dalla parte dell'”obiettivo” nello scattare la foto di gruppo – sia esso l’osservatore o la pittrice che ha scelto questo punto di vista – si limita a registrare l’attimo, non a interpretarlo. E va bene sia rispetto al “tempo che passa” sia rispetto al “passatempo” ciò che esprimono le raffigurazioni: tanto per il visitatore della mostra come per chi vorrà accoglierle nel proprio arredamento domestico come fossero di famiglia, secondo il programma che Michele Von Buren  persegue da anni con coraggio e spirito innovativo.

Info

Per la mostra di Orlando Ricci: Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, Salone Centrale,  tutti i giorni ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito. Tel.  06.6780664, http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “Iperrealismo di Orlando Ricci”, giugno 2014, pp. 20, formato 16,5×24.  Per la mostra di Luca Zarattini: Galleria RvB Arts, Roma, Via delle Zoccolette, 28, e Antiquariato Valligiano in via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505; cell. 335.1633518. E mail: info@rvbarts.com; sito: http://www.arvbarts.com/. Per le precedenti mostre del programma “Accessible Art”, anche con altre opere di Zarattini e Thwaites, cfr. in questo sito i nostri 8 servizi alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio e 26 aprile, 21 giugno, 5 luglio e 5 novembre 2013, 14 marzo 2014.  Sugli autori citati in merito alle “nature morte” cfr. per Caravaggio i nostri articoli in “cultura.inabruzzo.it”  del 2010, il 21, 22, 23 gennaio, con Bacon,  l’8, 11 giugno e 23 febbraio, e il nostro articolo in http://www.fotografarefacile.it/ il 13 aprile 2011, i caravaggeschi in questo sito il 5, 7, 9 febbraio 2013;  per la dinastia Brueghel,  sempre in  questo sito, il nostro articolo il 5 maggio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese nelle due sedi espositive da Romano Maria Levante, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per la mostra di Ricci, RvB Arts di Michele Von Buren per le mostre di Zarattini e Thwaites, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Le prime 3  nature morte sono di Orlando Ricci, che si ringrazia anche per essersi fatto riprendere davanti a un suo dipinto nella foto di apertura; seguono 3 nature morte di Luca Zarattini, quindi 3 gruppi di Christina Thwaites.

Caligola, la statua e non solo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Fori Imperiali, nella Sala del Giubileo, “Sulle tracce di Caligola. Storie di grandi recuperi della Guardia di Finanza”,  la mostra programmata dal 23 maggio al 22 giugno 2014, poi prorogata al 29 giugno  espone la grande statua dell’imperatore e altri reperti recuperati dalla Guardia di Finanza collocati stabilmente nel Museo delle Navi Romane di Nevi. Questa mostra segue l’esposizione del 2010, sempre al Vittoriano, e attraverso una serie di video documenta visivamente la meritoria azione dell’arma nella lotta contro i predatori dell’arte e dell’archeologia. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, responsabile del  progetto Maria Cristina Bettini. Catalogo Gangemi Editore.

I successi nell’azione di tutela della Guardia di Finanza

Iniziamo con un richiamo doveroso ai risultati dell’attività della Guardia di Finanza, che ha al suo interno un Gruppo per la tutela del patrimonio archeologico: vengono presentati periodicamente nell’annuale mostra a Castel Sant’Angelo insieme ai recuperi dell’arma dei Carabinieri e della Polizia, e nel 2010  sono stati oggetto della mostra al Vittoriano “Dal sepolcro al museo. Storie di saccheggi e recuperi. La Guardia di Finanza a tutela dell’Archeologia”, della quale quella attuale è la continuazione. E’mirata su alcuni reperti, in primis la grande statua dell’imperatore, ma nei video  scorrono le immagini che documentano le tante azioni di successo dell’arma in modo spettacolare.

L’attività di tutela nell’archeologia e dell’arte risale al 1916, nel 1922 i primi recuperi di sarcofagi fittili portati al “Museo della civiltà etrusca”, nel 1926 recuperate le  “tavole” del Perugino  trafugate a Perugia dieci anni prima; nel dopoguerra  affianca Siviero nel recupero delle opere  trafugate dagli eserciti nel conflitto mondiale, nel 1963 ci si serve anche di aerei per la sorveglianza delle aree  ad emergenza clandestina.

Nel 1971 recuperato il “Ritratto di Eleonora Gonzaga della Rovere” di Raffaello, nel 1973 il celebre “Polittico del Padreterno” del Carpaccio,  nel 1976  “Santa Margherita” del Guercino, nel 1977 il “Reliquario” di Donatello, nel 1985 su richiesta della Polizia di Malta la Guardia di Finanza partecipa alle ricerche del Caravaggio trafugato nella cattedrale nella capitale La Valletta, nel 1990  recuperata la “Pala d’altare” di Lorenzo Lotto e il “Kouros ” di Reggio Calabria, nel 1995 i dipinti di Bellini, Gossaert e altri fiamminghi trafugati dalla Pinacoteca Vaticana. 

Siamo negli anni 2000, il “Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico” cui è affidata l’attività operativa è inquadrato nel nuovo “Comando Unità Speciali”. Nel 2000 viene recuperato il famoso “Sarcofago di Endimione” del II sec. d. C. tra Cave e Palestrina; nel 2005 un Canaletto, “Il Canal Grande da Palazzo Balbi al Ponte di Rialto”, sequestrato dopo aver smascherato la fittizia provenienza estera con la connivenza di un a casa d’aste londinese. . Nel 2007 recuperato il “Rilievo dei Gladiatori”, di età repubblicana, in un container diretto in  Svizzera, nel 2008 bloccato uno scavo clandestino nell’isola sacra che mirava al “Sarcofago delle Muse”, nel 2009 recuperato in extremis “Il rilievo di Mitria da Veio” destinato al mercato cino-giapponese; nel 2012 “Il sarcofago di Arpinmo” e la “Stipe votiva di Pantanacci”, con altri 3000 reperti destinati al mercato clandestino. Viene fatto rientrare da Londra il famoso “Sarcofago delle Quadrighe” trafugato a Frosinone venti anni prima. 

Alcune di queste operazioni di successo sono documentate dalle riprese che scorrono sui video:  abbiamo citato le più eclatanti alle quali aggiungiamo ora quella che assume un valore simbolico e alla quale è dedicata la mostra attuale:  il recupero della statua dell’imperatore Caligola e di altri reperti collegati alla sua residenza a Nemi, cosa che coinvolge la storia dell’imperatore a tutti noto per la sua crudeltà e per la sua dissennatezza, ma che ha anche altri aspetti da non ignorare, e la vicenda delle due grandi navi rinvenute nel lago di Nemi.

Il recupero della grande statua

I fatti innanzitutto,  rievocati  dal  Comandante del Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico   della Guardia di Finanza, Massimo Rossi, che risalgono al gennaio 2011. A conclusione di una complessa indagine fu bloccato l’espatrio in un container diretto in Svizzera, delle sezioni marmoree di una statua colossale destinata al mercato estero, in particolare sino-nipponico. L’autista del veicolo e due complici che lo scortavano furono deferiti all’autorità giudiziaria, e vennero eseguite perquisizioni domiciliari alla ricerca delle parti mancanti della statua.

E’ emersa subito l’importanza del rinvenimento, i calzari hanno fatto identificare il personaggio nell’imperatore Caligola, mentre le analisi di laboratorio sulle concrezioni e sui residui di terra hanno indicato la zona di provenienza del prezioso reperto: l’agro nemorense, in particolare la località “La Cavalleria”, nel territorio tra Nemi e Velletri, dove Caligola aveva fatto erigere sulle rive del  lago di Nemi una propria residenza e collocare  due navi-palazzo nel lago.

All’identificazione della zona di provenienza è seguito uno scavo sistematico con il rinvenimento dei resti  di una villa suburbana di età giulio-claudia con un ninfeo dove era collocata in origine la statua di Caligola, e di alcune sezioni mancanti della statua con altro materiale decorativo; la presenza di una testa  ha fatto pensare fosse quella mancante nella statua mutila, ma le dimensioni sono diverse, per cui si ritiene riguardasse una delle statue di contorno della villa.  Sulla vera testa della statua  si sono poi concentrate le indagini nell’ambiente antiquario dove veniva offerta una testa gigantesca sul mercato clandestino: acquirente interessato un ricco industriale russo tramite un intermediario ginevrino, ma la vigilanza della Guardia di Finanza ha fatto saltare la trattativa.  

L’imperatore Caligola: aberrazioni e progetti ambiziosi

Il recupero in  corrispondenza del bimillenario della nascita di Caligola, del 12 d. C., ha acuito l’interesse sul personaggio, la cui figura è stata in passato liquidata come sadica e stravagante, mentre è più complessa; infatti oltre alle aberrazioni e alle stravaganze, vanno considerate le iniziative messe in atto e quelle rimaste inattuate  data la rapida conclusione del suo impero durato  “tre anni, nove mesi e dieci giorni”, come ha scritto lo storico dell’epoca Cassio Dione.

L’impero di Caligola ebbe inizio alla morte violenta dell’imperatore  Tiberio, suo prozio che lo aveva designato erede con il cugino Tiberio Gemello, e fu ucciso dal prefetto del pretorio Macrone  con la sua partecipazione, non è chiaro se materiale o soltanto morale, cui seguì la sua ipocrita  orazione funebre nel Foro e il solenne  funerale in cui scortò il feretro al Mausoleo di Augusto.  Altre eliminazioni fisiche da lui provocate quella di Tiberio Gemello, che si suicidò, del suocero Silano e dello stesso Macrone, nel 38, dopo una misteriosa malattia che incattivì ulteriormente Caligola; quindi l’esecuzione del generale Getulico, comandante della Germania Superiore, accusato di congiurare contro l’imperatore, e di Emilio Lepido, con un clima di terrore  diffuso a Roma, anche per i suoi attacchi al Senato, accusato degli omicidi compiuti sotto Tiberio, con tanto di documenti accusatori da lui conservati  mentre dovevano essere distrutti allorché abolì il delitto di lesa maestà nelle prime misure liberalizzatrici dell’impero. 

Le stravaganze vanno dall’elezione a console del suo cavallo Incitatus, con il significato politico di sfidare il Senato che fino ad allora era stato in diarchia con l’imperatore; alla statua d’oro che lo ritraeva e faceva vestire ogni giorno con la veste da lui indossata;  all’ordine dato alle truppe nel tentativo fallito di invadere la Britannia,  di riempire di conchiglie gli elmi e le vesti per raccogliere “le spoglie dell’oceano”. Fino alla costruzioni di due navi gigantesche per navigare in un piccolo lago come quello di Nemi, la rotta maggiore terminava al Tempio di Diana sull’altra sponda.

Fu vittima dell’ennesima congiura ordita dai tribuni dei pretoriani Cherea e Cornelio Sabino nel 41 d. C., colpito da 30 pugnalate, Cherea  fu il primo a colpirlo, poi fece uccidere anche la moglie – ne ebbe diverse nella sua vita inquieta – e la figlia Drusilla di soli quattro anni.

Nel suo quadriennio da imperatore, oltre alle stravaganze e alle violenze, troviamo atti di liberalità come il ripristino delle assemblee popolari e il richiamo degli esiliati, la riabilitazione degli scrittori  e la soppressione di alcune imposte,  l’abolizione del delitto di lesa maestà  e il ripristino delle assemblee popolari; e progetti ambiziosi, la maggior parte dei quali non portati a termine o neppure iniziati: come la costruzione del porto di Reggio con i magazzini per il grano egiziano, e il taglio dell’istmo di Corinzio,  il tempio del divo Augusto e il teatro di Pompeo, l’acquedotto Anio Novus e l’Acqua Claudia, il circo Gaianum con un obelisco egiziano e il ponte di barche di 4 km tra Pozzuoli e Baia, su cui sfilò in trionfo con la corazza di Alessandro Magno e il figlio del re dei Parti sconfitto; sue le spedizioni militari in Germania e in Britannia festeggiate con un’ “ovatio”.

La “damnatio memoriae” –  cui fu condannato dopo essere stato eliminato sanguinosamente dalla congiura del Senato – ha fatto dimenticare  quanto di buono aveva realizzato o soltanto iniziato, tra tante violenze e aberrazioni. E ha fatto sparire ogni traccia della sua figura  con la distruzione delle statue che lo raffiguravano, per cui il recupero di quella in mostra risulta ancora più prezioso. 

Caligola attribuiva un preciso significato politico alle proprie statue, cosa che ne accresce l’interesse e il valore storico. Cercava di emulare Giove facendosi raffigurare in pose statuarie come Juppiter in trono, del resto  fu la forma di autocelebrazione degli imperatori della dinastia giulio-claudia a partire da Ottaviano Augusto, come dimostra la statua di Cuma all’Hermitage di San Pietroburgo.

Voleva utilizzare una propria statua ispirata alla divinità pagana come provocazione per gli ebrei minacciando di esporta nell’inviolabile sancta sanctorum di Gerusalemme. Fu mandata a Roma addirittura una delegazione guidata da Filone di Alessandria per dissuaderlo dall’arrecare un’offesa alla religione che avrebbe potuto provocare  violente reazioni.

La statua di Caligola vista da vicino

Ed eccoci ora dinanzi alla grande statua dopo aver presentato il personaggio e ricordate le circostanze del rinvenimento. E’ in marmo  greco, lo raffigura seduto sul trono,  in dimensioni maggiori del reale: I due grossi frammenti ricomposti sono rispettivamente di cm 131 quello inferiore, con le due gambe e la base del trono, e di cm 115 quello superiore  con il busto e la spalliere, fino al collo. Altezza totale cm 210 ma con la testa mancante sarebbe di cm 240. 

Un mantello avvolge le gambe e la spalla sinistra lasciando nudo il busto, in mano forse aveva uno scettro simbolo del potere  imperiale.  Particolare interesse presentano i calzari perché sono serviti per l’identificazione: sono aperti, la suola è bassa e il piede è le strisce di pelle avvolgono il piede,  si tratta delle “caligae speculatoriae”, scarpe leggere che Caligola era solito usare e che si trovano anche nella sua statua esposta al Louvre.  Il trono è molto elaborato ha una spalliera con un timpano su pilastrini dai capitelli corinzi a foglie lisce, ci sono alcuni rilievi tra i quali una vittoria alata di profilo in cammino, una maschera femminile tipo gorgone tra doppie volute, una figura femminile alata che sembra emergere dall’onda, che ricorda il motivo della “donna fiore”, un capitello eolico; il sedile è coperto da una stoffa che termina con una frangia.

La statua e il trono dovevano essere in origine policromi, come i troni di età macedone. Il modello statuario è quello di Zeus Verospi dei Musei Vaticani, rinvenuto sulla via Nomentana, ispirato a Giove Capitolino che aveva per modello il Zeus di Fidia del tempio di Olimpia descritto da Pausania. Era l’iconografia preferita da Alessandro Magno, quindi non sorprende che la prediligesse anche Caligola, che come si è ricordato sfilava in trionfo con la corazza di Alessandro. 

Una conferma storica della statuaria di Caligola viene proprio da Filone di Alessandria,che abbiamo ricordato capo della delegazione mandata da Gerusalemme a Roma per dissuadere l’imperatore dal collocare una propria statua nel sancta sanctorum, interdetto a chiunque tranne che al sommo sacerdote e soltanto nel giorno della riconciliazione.

Filone, che era uno storico ebreo, nel “Legatio ad Gaium”  fa un resoconto della vicenda: la missione ebbe inizialmente successo, l’imperatore li accolse con benevolenza negli Horti di Agrippa, e acconsentì, ma pochi mesi dopo reagì alla distruzione di una sua statua a Gerusalemme  ordinando al governatore della Siria Petronio di attuare l’idea iniziale, realizzare una sua statua colossale come Juppiter in trono in marmo di Sidone e farla collocare nel sancta sanctorum scortata da due delle quattro legioni della provincia.

Petronio cercò di convincere i maggiorenti ebrei a consentire questa intromissione nel luogo sacro ma invano, allora intervenne sugli artigiani di Sidone per rallentare la realizzazione della statua; e si recò a Tiberiade, la capitale della Galilea con Erode Antipa, ma essendo questi partito per Roma  scrisse a Caligola per dissuaderlo con l’argomento che gli ebrei avrebbero trascurato di coltivare i campi compromettendo i raccolti, con grave danno per Roma.

Nessun risultato,anzi Caligola lo sollecitò a far realizzare presto la statua. Intanto Erode Antipa, venuto a conoscenza a Roma di questa vicenda, condividendo le preoccupazioni di Petronio, facendo leva  sui buoni rapporti con l’imperatore, gli scrisse una lettera accorata che sembrò convincesse Caligola a rinunciare alla sua idea, in cambio dell’assicurazione che gli ebrei non avrebbero ostacolato l’introduzione del culto dell’imperatore fuori Gerusalemme. 

Questa la conclusione, l’ “happy end”? Sembra di sì, ma solo perché l’imperatore morì nella congiura di palazzo nel 41 d. C., poco dopo la missione di Filone del 39-40 d.C.; infatti mentre prometteva di desistere ordinava di realizzare in segreto la statua per portarla con sé nel primo viaggio in Oriente e collocarla di sorpresa a Gerusalemme prima della reazione degli ebrei. Giuseppina Ghini, dopo aver ripercorso l’intera vicenda, osserva come questa testimonianza conferma la riferibilità a Caligola di statue come Juppite r in trono, anche se non sono pervenute per la “damnatio memoriae”. E conclude che l’identificazione con Caligola, oltre che da questa constatazione, deriva dalla tipologia di calzature e dal luogo del rinvenimento, nel territorio di Nemi: “Potrebbe trattarsi di un’immagine celebrativa eletta quando l’imperatore era ancora in vita e innalzata all’interno della sua villa, dove era collocata in un ninfeo a forma di ventaglio, orientata in modo da volgere lo sguardo verso Anzio, città natale dell’imperatore”.

E’ stato fatto un restauro molto accurato con il quale si sono eliminate  le incrostazioni e ricomposta l’unitarietà dei vari pezzi in cui era smembrata la statua, compresi i frammenti recuperati a parte.

Gli altri reperti in mostra

Altri reperti  sono esposti   nella vasta sala del Vittoriano dove spiccano i video che trasmettono ininterrottamente i filmati delle spettacolari  operazioni di recupero della Guardia di Finanza. Sono stati recuperati anch’essi dal Gruppo per la tutela del patrimonio archeologico.

Il primo è una “Testa femminile”, del I sec. d. C., recuperata nel 2007 nel mercato antiquario romano, proveniente da uno scavo clandestino, di marmo con superficie porosa, richiama l’iconografia di Agrippina minore nell’acconciatura e di Agrippina maggiore nel viso.

E’ l’unica testa visibile nella mostra essendo acefala sia la grande statua di Caligola sia  la “Statua di Apollo da Genzano”, del II sec. d. C., un torso in marmo bianco di Aphrodisia o Paros,  mutila anche negli arti, eccetto l’inizio delle braccia all’attaccatura della spalla; nonostante ciò si può ricostruire che poggiava sulla gamba sinistra, una gamba era tesa, l’altra flessa.

La  “Sima con amorini”, seconda metà I sec. a. C., in terracotta,  reca il motivo degli eroti che reggono un festone  tipico dell’area romano-laziale in età augustea, si trova anche nell'”Ara pacis”, l’immagine in rilievo è molto nitida. Ancora più spetta colare il “Cratere marmoreo con corsa di amorini su biche”, recentissimo recupero della Guardia di Finanza nel gennaio 2014, di marmo bianco italico con la rappresentazione tipica dei sarcofagi per i bambini, di una corsa con tre carri all’interno di un circo che potrebbe essere il Circo Massimo; dinamismo e grazia nelle figure in uno sfondo architettonico con colonne e frontone triangolare, in una raffigurazione altamente simbolica.

Ben diversi i sottili rilievi nelle “Lastre del santuario di Diana Nemorense”, della fine del II sec. d.C., rappresentano  un repertorio di armi barbariche sovrapposte come trofei per simboleggiare le virtù militari che hanno fatto strappare al nemico le armi offerte alla divinità.

Con queste lastre torniamo a Caligola, cui si riferiscono direttamente  gli ultimi due reperti esposti:  la “Mano apotropaica dalle navi di Caligola” e la “Parte di fistula recante il nome di Caligola”,che si riferiscono alle “navi di Caligola”  e sono conservate, insieme agli altri reperti citati, nel “Museo delle navi” di Nemi,  del quale la mostra rievoca per immagini la lunga storia.

Le navi di Nemi e il Museo

Ripercorriamo  rapidamente  questa storia, ne sono protagoniste  le due navi che Caligola  fece costruire  e utilizzò nel lago di Nemi.

La prima nave era un vero palazzo  galleggiante di cinque ambienti, corridoi, stanze per gli ospiti, una terrazza,  fu utilizzata anche da Claudio e Nerone, il quale aggiunse un edificio centrale rettangolare, i pavimenti e le pareti erano rivestiti di “opus sectile”, intorno correva una balaustra in bronzo. Aveva timoni, ancora e argani, e veniva trainata da altre imbarcazioni.

Un vero complesso templare galleggiante la seconda nave, un tempio tetrastilo con un  peristilio di colonne corinzie e una facciata a prua di tipo teatrale, anche qui pavimenti e pareti in “opus sectile” con riquadri marmorei, tegole in rame dorato sul tempio di Iside. A differenza della prima nave il movimento era assicurato da 24 remi per lato, manovrati da due rematori ciascuno su appositi seggi.

La lunghezza, di 70-73 metri è leggermente inferiore alla nave porta obelischi dello stesso periodo (39-45 d. C.) di 80 metri, la larghezza per la prima  è simile, per la seconda  maggiore, 24 metri rispetto a 19, le grandi navi di epoca più antica, la “Syracosia” e la “Thalamegos” del 235-219 a: C.   erano più lunghe (86-88 metri) ma molto più strette (13,5 metri). Ebbene, per le navi di Caligola, non si è trattato di una ricostruzione  astratta e virtuale di archeologia navale: sono state rinvenute nel fondo del lago di Nemi,  nelle acque trasparenti era visibile la presenza di relitti, con la struttura relativamente conservata: e hanno rappresentato per secoli, oltre all’occasione di depredamenti, una sfida costante per il recupero.

Il primo tentativo di riportarle in superficie risale a Leon Battista Alberti nel 1446 incaricato dal cardinale Prospero Colonna, che aveva un  castello e terreni sulle rive del lago; l’impresa non ebbe successo, è andato perduto il trattato “Navis”  in cui era descritta. Ulteriori tentativi di Francesco De Marchi nel 1535 e di Annesio Fusconi nel 1827  che recuperò con una campana alcuni materiali; altri bronzi furono recuperati nel 1895 da Eliseo Borghi, che ebbe il merito di accertare la presenza di due scafi e non uno, distanti 200 metri, e di sollevare un a discussione culminata nella relazione del 1905 “Le navi romane del lago di Nemi” che concludeva proponendo il parziale prosciugamento del lago per riportarle in superficie.

Vent’anni dopo, nel 1926, il Ministro nella Pubblica Istruzione Pietro Fedele istituì  una Commissione presieduta da Corrado Ricci, allora impegnato a far riemergere i Fori imperiali, che prese in seria considerazione la proposta del prosciugamento, da realizzarsi ripristinando l’antico emissario ostruito; a tale fine fu costituito il Comitato industriale per lo scoprimento delle navi nemorensi, fu disostruito l’emissario e con l’aiuto di potenti idrovore in meno di un anno, dal 20 ottobre 1928 al 3 settembre 1929 fu riportato alla luce il primo scafo che si trovava ad 11,28 metri.; ci vollero altri tre anni per far rimergere anche la seconda nave nell’ottobre 1932.

Direttore dell’impresa l’ing. Guido Uccelli, per la società Riva di Milano, e al riguardo Giuseppina Ghini, alla quale dobbiamo la minuziosa ricostruzione della storia delle navi di Nemi, osserva: “Uno dei primi esempi fruttuosi di collaborazione pubblico-privato e di sponsorizzazione”. E ricorda che “tutte le operazioni vennero accuratamente documentate con un filmato realizzato dall’Istituto Luce (recentemente restaurato) e accompagnate da indagini geologiche, fisiche, botaniche, chimiche e idrogeologiche”, la cui documentazione si trova nella pubblicazione del Poligrafico dello Stato “Le Navi di Nemi”, edita nel 1940, poi nel 1950 e poi ristampata.

La bella storia continua con la costruzione del Museo in cui collocare le navi, fu ultimata il 15 ottobre 1935, a parte la facciata da completare dopo l’immissione degli scafi; fu progettato dall’architetto Morpurgo, lo stesso della teca dell’Ara Pacis  purtroppo  sostituita dalla devastante megastruttura dell’archistar Meyer, in cui l’Ara Pacis si perde mentre viene soffocata l‘antica chiesa adiacente. La prima nave vi fu immessa un mese dopo, il 18 novembre, e la seconda  trascorsi altri due mesi il 20 gennaio 1936. Vi furono collocati anche  un battellino dei predatorio antichi  e due piroghe protostoriche, le ancore e i macchinari con un ricco corredo documentario.

Finisce qui la parte positiva, il 31 gennaio 1944, alla vigilia della liberazione di Roma, un incendio notturno,  di origine dolosa appiccato dall’interno, distrugge l’intero contenuto del Museo, quindi le preziose navi di Nemi e gli altri reperti, si salvarono quelli portati bell’agosto 1943 nel Museo Nazionale Romano, i bronzi e la balaustra, i condotti e i pavimenti in “opus sectile”.

Una perdita gravissima, e a poco è valsa la ricostruzione dell’edificio, ormai fuori misura con i ballatoi con le scale a chiocciola per osservare dall’alto le due grandi navi che sono state sostituite da due modelli in scala 1:5, nel vasto ambiente fatto per dimensioni quintuple del Museo riaperto il 25 novembre 1953, nel tentativo di dare una funzione didattica; poi dieci anni dopo chiusura venticinquennale e riapertura il 16 dicembre 1988 ma senza i reperti collegati alle navi e al tempio di Diana salvati dalla distruzione. Finché questi reperti nel 1912 sono stati restituiti al Museo dalla Soprintendenza per i beni archeologici di Roma e nel 2013 si è inaugurato il nuovo allestimento.

Con la grande sorpresa della statua di Caligola: recuperata nel 2011 dalla Guardia di Finanza nel bimillenario dalla nascita dell’imperatore, e in quanto proveniente dall’area nemorense  diventa la “star” del Museo, al quale le moderne tecnologie di ricostruzione virtuale offrono i mezzi per sopperire alla perdita fisica dei grandi scafi, finché non sarà possibile riprodurli in dimensioni naturali.  Tutto questo evoca la mostra al Vittoriano, e per questo ha un valore che supera quello normalmente attribuito alle esposizioni, è  la risposta positiva ad un evento quanto mai deprecabile, tanto più che è stata la mano dell’uomo a distruggere reperti così preziosi: l’operazione della Guardia di Finanza ha recuperato la statua di chi quelle navi aveva realizzato e utilizzato, così l’imperatore Caligola è tornato nella sua Nemi assiso in trono come a sfidare il tempo e la sorte.

Info

Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Sala del Giubileo. Aperto tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30,  da venerdì  a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; Guardia di Finanza 06.46682653;  http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “Sulle tracce di Caligola. Storie di grandi recuperi della Guardia di Finanza al lago di Nemi”, Gangemi Editore, maggio 2014, pp. 128, formato 24×28.  Per le mostre del 2013 sui recuperi delle forze dell’ordine cfr. i nostri articoli  in questo sito “Arte salvata, la mostra nel 150° dell’Unità d’Italia” il  1° giugno, “Urne etrusche, 24 recuperate con 3000  altri reperti” il 21 luglio,  e “Archeologia, capolavori recuperati a Castel Sant’Angelo” il 22 luglio; per mostre precedenti cfr. in “cultura.inabruzzo.it”  “I tesori invisibili” 10 luglio 2009. Inoltre in http://www.antika.it/  il nostro articolo “Roma. Recuperate 24 urne etrusche dal Comando tutela”  luglio 2013; nello stesso sito i nostri servizi sui recuperi del Comando Tutela Patrimonio Culturale dei Carabinieri il 12, 15 febbraio e 9 maggio 2010, il 12, 21 gennaio e 12 giugno 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Sala del Giubileo del Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia e la Guardia di Finanza con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura la “Statua maschile su trono” identificata nell’imperatore Caligola, I sec. d. C., seguono “Statua di Apollo da Genzano“, II sec. d. C. e “Cratere marmoreo con corsa di amorini su bighe”, tarda età antonina, poi “Testa femminile”, 40-50 d. C., e vaso, quindi “Sima con amorini”, seconda metà I sec. a. C. e “Parte di fistula recante il nome di  Caligola”  37-41 d. C., , quindi “Mano apotropaica dalle navi di Caligola” e la seconda nave di Nemi nel Museo prima dell’incendio distruttivo del 1944 (foto d’archivio tratta dal Catalogo);  in chiusura uno scorcio della sala con i video illustrativi, in primo piano il Cratere marmoreo con corsa di amorini su bighe”.