Cerveteri, la Caere degli Etruschi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni, dal 15 aprile al 20 luglio 2014 la grande mostra “Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri” espone 400 reperti archeologici eccezionali per antichità, alcuni risalgono al IX sec. a. C., e per bellezza, vasi e anfore di incomparabile splendore, nonché per valore storico e resa spettacolare come il “Sarcofago degli Sposi” esposto per la prima volta. La mostra è a cura delle istituzioni che, insieme all’Azienda Speciale Palaexpo,  l’hanno organizzata anche prestando reperti prestigiosi, curatori Francoise Gaultier e Laurent Haumesser del Museo del Louvre, Paola Santoro e Vincenzo Bellelli del CNR, Alfonsina Russo Tagliente e Rita Cosentino della Soprintendenza Beni Archeologici Etruria meridionale. Catalogo a cura di Palaexpo e Louvre, Editore Somogy – Editions d’Art, con testi di 52 autori per la ricostruzione della storia di Cerveteri e per il commento critico ai 400 reperti della mostra riprodotti nella parte iconografia del volume. Alla presentazione congiunta con la mostra “Pasolini Roma” sono intervenuti l’assessore alla Cultura della Regione Lazio Lidia Ravera e il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo Franco Bernabè, le cui sperimentate capacità manageriali e imprenditoriali riferite all’arte sono sicura garanzia.  

Ciò che colpisce subito della mostra sugli Etruschi di Cerveteri è la straordinaria ricchezza e l’altrettanto straordinaria bellezza dell’esposizione. Lo spazio espositivo coni suoi ampi ambienti che si snodano in un lungo itinerario è costellato di splendidi reperti, pietre e marmi, vasi e anfore di splendida fattura fino al grande “Sarcofago degli Sposi” che rappresenta il “clou” della mostra.

Ma non è solo la parte spettacolare il pregio della mostra, bensì la sua articolazione per temi, di cui i reperti sono la testimonianza visiva sulla base di un’accurata ricerca storica e archeologica. Una ricostruzione storica non sul popolo etrusco in generale, ma imperniata sul centro in cui si è manifestata tale civiltà per irradiarsi nel Mediterraneo, la città di Cerveteri,   a meno di 50 km da Roma. L’antica “Caere” dei Romani, “Agylla” per i greci, “Kaiseraie ” per gli Etruschi, definita “la più prospera e popolata città dell’Etruria” da Dionigi di Alicarnasso, nel I millennio a. C.  

La Cerveteri di allora viene paragonata a città come Atene, Siracusa e Cartagine, crocevia di traffici commerciali e di scambi culturali con il mondo greco e romano, fenicio e italico, tra Oriente e Occidente, di cui ha assorbito, adattandoli,  stile e modelli.

Contenuto e articolazione della mostra

Il compito che si sono posti gli organizzatori della mostra è stato quello di raccontare questo millennio di storia,  documentando con i reperti come si fosse formata la città, la sua espansione nel Mediterraneo, la sua rivalità con Roma fino al suo assoggettamento all’impero romano agli albori.

E’ una storia ricostruita e raccontata con i reperti del sottosuolo, dunque: anche questi hanno una loro storia, essa pure ripercorsa nella mostra. Ne sono protagonisti  gli archeologi e i collezionisti come il marchese Campana e i musei in cui i reperti hanno trovato collocazione, primi tra tutti il Louvre e il Museo Etrusco di Villa Giulia; ma tra i prestatori ci sono anche il Museo Nazionale Cerite e il Museo Gregoriano Etrusco del Vaticano,  il British Museum di Londra e  grandi musei di Berlino e Copenaghen. Questi apporti hanno permesso di riunire  i reperti aventi un’unica provenienza ma distribuiti nei vari musei ripristinando per il periodo della mostra la loro unitarietà.

La fonte principale per la ricostruzione operata dalla mostra sono state le necropoli portate alla luce nell’800 e nel ‘900,  dalle quali è provenuta la gran parte del numero sterminato di reperti;  ma anche gli scavi cittadini hanno fornito  notevoli contributi integrando i dati emersi dai prevalenti reperti funerari. Il confronto tra i reperti di più antico rinvenimento e quelli più recenti ha consentito inoltre di rivedere alcune conclusioni che sembravano definitive; le ricerche tuttavia proseguono,  permettendo di estendere la conoscenza dalle necropoli e dal centro urbano all’intero  territorio, dove si trova  il sito di Pyrgi, il porto più importante dell’antica “Caere”,

Viene sottolineata la mobilitazione nelle ricerche recenti, con l’impegno di istituti universitari e di ricerca, di archeologi italiani e stranieri, e un ruolo importante del volontariato e della formazione; e il fatto che è un lavoro “in progress”. Così i curatori: “Ma i lavori non finiscono qui, presentando i risultati di un bilancio parziale, la mostra intende aprire la strada anche a nuove ricerche”.

Nulla di statico e stantio, dunque, da museo coperto di polvere, ma dinamismo e innovazione, sono le  caratteristiche  della mostra al cui apparato altamente spettacolare si associa un contenuto culturale di grande livello.

Il dinamismo risiede nell’evoluzione incessante delle conoscenze che porta a rivedere le acquisizioni del passato; l’innovazione nel presentare una civiltà attraverso la lente di ingrandimento di una città che ne è stata la grande interprete.

Ecco i temi  trattati nelle diverse sezioni espositive. Si inizia con la “storia di una scoperta”, documentando le grandi ricerche archeologiche e i relativi risultati a cominciare dall”800; poi si dedica doverosamente uno spazio al collezionista Campana, la cui incessante attività di collezionista – la sua raccolta raggiunse i 10.000 pezzi – cessò per un finale da tempi moderni.

Con “la nascita di una città”, tra il XII e il VII sec. a. C.,   si entra nel vivo della ricerca etruscologica, con reperti di capanne e di vasellame, e soprattutto corredi funebri.  Ma chi sono i protagonisti, e come evolve nel tempo questa civiltà?  La sezione sui “principi di Cerveteri” dà una risposta, con la panoramica sull’Etruria, l’oriente e la Grecia del VII sec. a. C., attraverso i  monumenti ei corredi funerari.

“L’apogeo” della civiltà viene descritto rievocando la “Cerveteri in epoca arcaica”, VI-V sec. a. C.: e questo attraverso l’architettura e l’urbanistica, gli scambi commerciali e la pittura, le necropoli  ei corredi funerari a confronto con le risultanze sulla evidenze del centro urbano,

Il confronto con Roma, nel IV-III sec. a. C. porta al “rinnovamento della città”, con l’apertura al nuovo linguaggio artistico e l’autocelebrazione della nobiltà nei sarcofaghi funerari.

L’ultima sezione della mostra si intitola “la fine di una storia; Cerveteri romana”, siamo al III-I sec. a. C., viene descritta la progressiva romanizzazione  con la persistenza delle “radici” etrusche.

Le scoperte archeologiche nell”800 e ‘900

La “narrazione”  della mostra inizia nella prima sezione con  la riscoperta di Cerveteri nelle campagne di scavo di inizi ‘800, già in un testo di Luigi Canina del 1938 era identificata e descritta l’antica “Caere” attraverso i primi risultati ottenuti dalle ricerche, che si intensificarono dopo gli anni ’20. Fu creato l’Istituto di corrispondenza archeologica a Roma che pubblicava via via gli esiti degli scavi; altro materiale documentario di tali campagne è stato recuperato negli appositi archivi .

Per farsi un’idea dell’entità dei ritrovamenti basta considerare che nel 1826 l’arciprete Alessandro Regolini  portò alla luce oltre 800 terracotte votive e che nel 1934, nella necropoli della  Banditaccia furono rinvenute 53 tombe, tra cui la Tomba degli Animali Dipinti e la tomba degli Scudi e delle Sedie, seguirono nel 1835 le tombe della Sedia Torlonia e la tomba Torlonia  con numerosi arredi funebri. Nel 1836 il citato Regolini trovò altre tombe  con corredi funerari, e nel 1837  fu istituito il Museo Gregoriano Etrusco che raccolse molti reperti di Cerveteri.

Negli anni ’40 entra in scena il collezionista Giovanni Pietro Campana, che nel 1844 effettua scavi  nelle terre del principe Ruspoli e porta alla luce delle tombe, la” tomba Campana” cui fu dato il suo nome, e la “tomba dei Pilastri”, poi nel 1946-47 verrà la “tomba dei Rilievi”.  Era un marchese  appassionato di archeologia e arte antica, membro di accademie scientifiche, con scavi e acquisti mise insieme la più grande collezione  dell’epoca, di oltre 10.000 reperti, nota in tutta Europa. Fu arrestato con l’accusa di peculato per aver prelevato notevoli somme di denaro del Monte di Pietà che dirigeva impegnando per garanzia la propria collezione, ma immobilizzandone i capitali;  la sua collezione fu confiscata dall’amministrazione pontificia nel 1857 e Napoleone acquistò la parte etrusca che è finita al Louvre dal 1863, per questo il grande museo francese ne è tuttora il detentore.

Tra gli altri ricercatori di tombe ricordiamo i fratelli Augusto e Alessandro Castellani, che tra il 1860 e il 1870 avevano rilevato parte della collezione Campana, e nel 1865 scoprirono la “tomba delle Cinque Sedie” e la “tomba dei Cani”, ma le aste da loro indette e le donazioni portarono alla dispersione dei reperti rompendo l’unitarietà  dei corredi, quindi non conservando il set originario.

E soprattutto i fratelli Boccanegra ai quali si deve il ritrovamento,  nel 1881, del Sarcofago degli Sposi e delle grandi lastre dipinte del British Museum cui è stato dato il loro nome.

Hanno contribuito alla riscoperta di Caere nella seconda metà dell”800  Giovanni Antomarchi, un ufficiale francese in servizio a Tolfa  che ha ritrovato nel 1865 la necropoli di Pian della Conserva e partecipato agli scavi per portare alla luce 30 tombe tra cui quella dei Cani già citata; l’antiquario Agostino Jacobini e Antonio Lauri ai quali si deve il ritrovamento di un lotto di “terracotte architettoniche” provenienti da edifici della zona,  tanto rilevante  che le ritroviamo in molti musei in Europa e America, oltre che nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia. Uguale sorte hanno avuto i reperti di un deposito votivo molto ricco scoperto nel 1885 da don Mariano Lazzari.

Ai primi del ‘900 riprendono le ricerche  nelle aree che erano state scoperte nell’ 800 per iniziativa di privati, ma questa volta con la direzione e il controllo di istituzioni pubbliche, che sono riuscite a impedire la smembramento e la dispersione dei reperti riuscendo a mantenere l’unitarietà dei nuovi ritrovamenti. Per quelli precedenti,  come si è detto, troviamo le destinazioni più diverse, analizzate  specificamente nel Catalogo che ricostruisce con cura la formazione delle raccolte di materiali provenienti da Cerveteri con apposite trattazioni relative al Museo di Berlino e al Louvre, al British Museum e al  Museo di Copenaghen, ai Musei americani e  italiani, in particolare i Musei Capitolini e il Museo nazionale etrusco di Villa Giulia.

Gli scavi del ‘900 hanno esplorato l’area dell’antica Caere  con le necropoli circostanti, dell’estensione di circa 160 ettari: i primi interventi sistematici  di esplorazione delle necropoli ad opera del direttore dell’Ufficio scavi di Civitavecchia e Tolfa Mengarelli, tra il 1908 e il 1934,  individuarono centinaia di tombe, soprattutto nella zona della Banditaccia, seguirono i restauri a cura dello stesso direttore che operò proficuamente per oltre 20 anni. Poi un’interruzione prolungatasi per il conflitto mondiale e la ripresa nel dopoguerra a cura della Soprintendenza per le antichità dell’Etruria meridionale cui si affiancarono altri organismi, dal 1950 la Scuola italiana di Archeologia e dal 1960 la Fondazione Lerici del Politecnico di Milano.

Negli anni ’70, oltre ad approfondire la conoscenza delle necropoli note, fu scoperto un altro settore della necropoli villanoviana e la necropoli di Greppe Sant’Angelo con una tomba dalla facciata rupestre e delle sculture; lì verrà rinvenuto da uno scavo clandestino il celebre cratere di Eufronio recuperato per l’azione delle forze dell’ordine di tutela del patrimonio archeologico; negli anni ’80 e ’90  sono state scoperte le tombe principesche e nel 2004, in coincidenza con l’inserimento della  necropoli della Banditaccia tra i siti patrimonio dell’umanità dell’Unesco, si sono riprese indagini sistematiche nell’area della “tomba delle Cinque sedie” e, nel 2012, nell’area  della “tegola Dipinta”, anche per prevenire e contrastare gli scavi clandestini.

Nell’area urbana si sono svolte ricerche all’inizio del ‘900, in prosecuzione delle prime condotte  negli anni ’40 dell’ ‘800; l’interruzione iniziata nel 1936 è stata più lunga, sono riprese negli anni ’80 con il ritrovamento dei resti di una struttura templare a tre celle e di un edificio per pubbliche assemblee nell’area della Vigna parrocchiale; poi negli anni ’90 nella località sant’Antonio con i resti di un santuario monumentale, protagonista in entrambi i casi Mauro Cristofani con il soprintendente Paola Pelagatti; nuove indagini nel 2007 sulle tombe sotto al santuario nella cui area è stata rinvenuta anche una necropoli di età romana con relativo corredo funerario. Importante l’azione svolta dal CNR per gli scavi archeologici nell’area urbana.

Infine va ricordato il ritrovamento della cinta muraria  e delle strutture del castello corrispondente all’antico abitato di Pyrgi, dove per sei decenni sono stati eseguiti scavi, dopo l’intuizione di Massimo Pallottino negli anni ’40;  fuori dalle mura c’è il santuario noto da fonti antiche. 

Come antipasto della ricchissima esposizione, forte di 400 reperti, vediamo una serie di teste di statua, di uomo, donna e bambino, del III sec. a. C., scoperte nel 1826 nella località  Vignali. Dagli scavi sulle terre dei Torlonia provengono reperti più antichi, che risalgono al VII-V sec. a. C., come un modellino di barca e un albastron, un calice con cariatidi e una splendida “coppa attica a occhioni’, poi un’ olpe proto corinzia  e vasellame corinzio,un’oinochoe, un’anfora e una Kotyle,tutte con fregi di animali, sfingi ed altre figure che spiccano sulla superficie degli oggetti.

La nascita di una città

La seconda sezione è dedicata alla nascita della città di Caere dove si trova oggi Cerveteri, a 45 km da Roma, la più meridionale delle città etrusche.  E’ arretrata di alcuni chilometri rispetto al mare e e in posizione elevata – 80 metri – per motivi di sicurezza, come una roccaforte; il centro si estendeva per 160 ettari, la metà di Roma, la popolazione stimata da 25 mila a 80 mila abitanti. Pianori percorsi da corsi d’acqua  al centro di un sistema di comunicazioni che sviluppò assi viari verso l’interno, i monti della Tolfa e i laghi vulcanici,  e la fascia costiera, da Pyrgi a Civitavecchia.

Le origini di Caere sono ben più antiche di quelle di Roma, che si fermano al 753 a. C., sembra che fondatori della città fossero i Pelasgi, stanziati nell’Ellade prima dei greci, e dopo l’arrivo di questi approdati in Italia dando vita agli Etruschi che, secondo Erodoto, erano invece di origine lidia. Per Caere le due tesi vengono sommate: in origine ci furono i Pelasgi, poi subentrarono i Lidi: Caere sarebbe il nome lidio, mentre Agylla il nome attribuito ai Pelasgi anche se alcuni sostengono che furono loro a chiamarla Caere  per ricordare il grido di gioia nella loro lingua all’approdo su quel  territorio quando trovarono finalmente l’acqua dopo la lunga navigazione. L’identificazione con i Pelasgi è dipesa dall’essere un popolo molto vicino ai greci con cui dovevano convivere.

All’Età del ferro si fa risalire la nascita della città, ma come punto di arrivo di insediamenti precedenti dell’Età del bronzo – forse attratti dai  giacimenti minerali e dalle argille della zona della Tolfa – di cui le ricognizioni archeologiche hanno trovato tracce evidenti.  I  reperti rinvenuti nella zona documentano una certa continuità tra Età del bronzo e del ferro sebbene gli insediamenti maggiori fossero stati abbandonati per creare comunità più piccole  periferiche. Di qui una certa lentezza nell’aggregazione che darà vita alla grande città di Caere.

Della storia più remota danno testimonianza una serie di reperti provenienti da Vaccina, il cui insediamento si sviluppò agli albori del XII sec. a. C. lungo un corso d’acqua, ed era al centro di traffici commerciali  cui si riferisce il materiale esposto. Si tratta, infatti, di vasellame di tipo miceneo, in argilla tornita e dipinta, trovato con un gran numero di ceramiche d’impasto  peculiari dell’Età del bronzo avanzato,  dotate di  anse con appendici a forma di teste di uccelli acquatici. Sono esposte una coppa e delle tazze, inoltre delle anse zoomorfe, una punta di freccia  e una situla.

Dall’Età del bronzo dei primi insediamenti  nella Tolfa all’Età del ferro di Caere si passa con  un’altra serie di reperti anch’essi antichissimi, risalgono al IX sec. a. C,si tratta di un fornello di terracotta e di una serie di reperti dalle tombe del Sorbo,  ricche di oggetti di uso domestico:  brocche e  tazze, urne biconiche  e fibule, rocchetti e fusaiole. Meno arcaica, si fa per dire, la necropoli del Laghetto, VIII sec. a: C. con le coppe e i  morsi in bronzo per cavallo,come segno di distinzione sociale.  Le ceramiche cominciano ad essere dipinte, a differenza di quelle del periodo precedente, su modelli, latini, lidi e greci: sono apporti esterni che riflettono i traffici commerciali.

Siamo nell’VIII sec. a. C., i morsi in bronzo per cavallo sono il segno dell’emergere di un ceto aristocratico, le grandi famiglie. Nella terza sezione viene documentato l’avvento dei Principi di Cerveteri attraverso i corredi funerari con le insegne del potere, seguirà l’apogeo della città, il culmine raggiunto nell’architettura, nella pittura e negli scambi, anche qui con i corredi funerari;  poi il suo rinnovarsi dopo un periodo di crisi fino al confronto con Roma e l’assorbimento nell’impero romano. La cavalcata nella storia attraverso i reperti esposti, giunge al I sec. d.C., con l’era cristiana.  Ripercorreremo tale periodo prossimamente concludendo la visita alla mostra.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie. Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/. Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Cerveteri  le  mostre contemporanee “Pasolini Roma” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”: al riguardo cfr. i nostri articoli, per la prima  in questo sito il 27 maggio  e 15 giugno 2014, per la seconda in  http://www.fotografarefacile.it/ aprile 2014.  Catalogo: “Gli Etruschi e il Mediterraneo. La città di Cerveteri”, Somogy-Editions d’Art, 2014, pp. 360, formato 23×29, con testi di 52 autori  per la ricostruzione storica e l’illustrazione iconografica. Per il secondo articolo sulla mostra cfr. in questo sito Cerveteri, dall’apogeo alla caduta al Palazzo Esposizioni”, 6 luglio 2014. Cfr. inoltre i nostri articoli in “http://www.notizie.antika.it/“:  per la mostra attuale  “Roma. Mostra sugli Etruschi di Cerveteri al Palazzo Esposizioni”, luglio 2014; per un’altra mostra sugli  Etruschi“Asti. Mostra sugli Etruschi nella storia d’Italia” e “Asti. L’archeologia degli Etruschi a Palazzo Mazzetti” il 15 e 17 marzo 2012.

FotoLe  immagini, tranne quella di apertura cortesemente fornita dall’Azienda Speciale Palaexpo,  sono state riprese da Romano Maria Levante  nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra,  si ringrazia in particolare l’Ufficio stampa dell’Azienda, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Sarcofago degli sposi”, 530-510 a. C.; seguono “Anfore” VII sec. a. C.,  e “Lebete con protomi” –Sostegno decorato a sbalzo”,  675-650 a. C.,, poi  “Antefissa” dal tempio di Hera, III sec. a. C.,  e un gruppo di “Anfore” dal relitto del Grand Ribaud F. V sec. a. C., quindi “Urna raffigurante una coppia semidistesa su un letto da banchetto nell’atto dell’offerta di profumo”, 520-500 a. C., “Statua maschile”, III sec. a. C., e 2 “Statuette”, 650-630 a. C.;  in chiusura,  la veduta di una sala con in primo piano dei crateri.

Liberazione di Roma 1943-44, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra “19 luglio 1943-4 giugno 1944. Roma verso la libertà”,  dal 5 giugno al 20 luglio  al Vittoriano, lato Ara Coeli, ricorda la fase culminata con l’entrata degli alleati, con i rastrellamenti e le deportazioni, la prigionia  e le torture, la resistenza armata ai nazisti e quella civile alla fame e ai bombardamenti. In primo piano i luoghi cittadini più toccati dagli eventi, evocati con mappe e fotografie,  filmati e giornali, manifesti e cimeli.  Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di  Stefania Ficacci e Maria Teresa Natale.  Catalogo Gangemi Editore.

In contemporanea con la mostra per il centenario della “Grande Guerra”, sempre al Vittoriano, la mostra è aperta fino al 20 luglio, mentre dal 4 all’8 giugno  i 70 anni dalla Liberazione di Roma sono stati celebrati con una serie di manifestazioni distribuite nella città: dibattiti e proiezioni, concerti e  spettacoli teatrali, con la serata evento di sabato 7 giugno ai Fori Imperiali: è stato proiettato il film-simbolo  di Roberto Rossellini,  “Roma città aperta” restaurato, con il concerto “Freedom” di Duke Ellington eseguito dall’orchestra e coro di Santa Cecilia.

Il Sindaco Ignazio Marino ha avuto una bella immagine nel  commentare, senza riferimenti storici o politici, le fotografie della folla festosa che accolse gli alleati: “Da quelle facce, da quei gesti si percepisce un sentimento straordinario: la riappropriazione della città. I romani si riprendono Roma, i luoghi, i palazzi, le strade, le piazze che per secoli sono stati dentro la loro vita e che improvvisamente, con brutalità, qualcuno, l’occupante nazista, aveva loro tolto”. E ha  aggiunto, riferendosi alla mostra: “Sono i luoghi a parlare, attraverso gli scatti fotografici dell’epoca”.

Lo stesso è avvenuto con la mostra precedente sempre al Vittoriano sull’ “infamia tedesca” che all’oppressione aggiunse la deportazione degli ebrei romani il 16 ottobre 1943,  da 1022  solo 16 sopravvissuti, mentre un’altra mostra è stata su “Giugno 1944. lo Sbarco di Anzio” del 1944, con la prospettiva di  liberare Roma.

I “percorsi di lettura” di quel periodo, suggeriti dalle curatrici  Ficacci e Natale vanno dai bombardamenti alleati sulla città all’occupazione nazista, dalla resistenza romana nei 271 giorni di occupazione alla liberazione del 4 giugno 1944.  E soprattutto sono focalizzati  sui luoghi degli eventi nella loro precisa individuazione topografica.

Al riguardo viene  ricordata la definizione di Enzo Forcella per capire l’occupazione nazista di Roma: “Un agglomerato di quartieri, un arcipelago di isole, completamente isolati e reciprocamente inconsapevoli ma anche, per chi ne conosceva la chiave d’accesso, collegati da una fitta rete di invisibili e misteriosi fili”  che in “Roma città aperta” sono stati resi in linguaggio cinematografico. Sui luoghi di Roma così concepiti si focalizzano le sezioni della mostra, con la documentazione visiva, soprattutto fotografica, dei singoli  avvenimenti  nel loro impatto sui quartieri interessati.

La foto-simbolo ci è apparsa quella che poniamo in apertura, i giovani sul carro armato festeggiano la liberazione, dando liberto sfogo a  una gioia incontenibile. Chissà se Roberto Benigni si è ispirato a questa immagine per il  finale del suo film  “La vita è bella” in cui il bambino sale felice sul carro armato, qui il numero è moltiplicato, la gioia diventa corale, è dell’intera città. 

I luoghi dei bombardamenti e della battaglia per la difesa della città

Tutti conoscono  il bombardamento al quartiere di San Lorenzo come la violazione dello status di “città aperta” , evento così dirompente da far uscire per la prima e unica volta papa Pio XII dal Vaticano; sarà anche, negli anni ’50, al centro del processo per diffamazione intentato da De Gasperi a Guareschi che aveva pubblicato una lettera a firma dello statista, che la definì apocrifa, in cui avrebbe chiesto quel bombardamento per esasperare e far insorgere la popolazione. Ma i luoghi dei bombardamenti sono molteplici, sparsi nella periferia della città.  

Infatti quello non fu l’unico bombardamento e non colpì solo San Lorenzo ma l’ampia area limitrofa, come sottolineano le curatrici che affermano: “Al di là della necessaria riflessione sul significato simbolico che il bombardamento di San Lorenzo riveste sull’immagine della città in guerra, non può tuttavia far cadere nell’oblio la memoria delle successive 52 incursioni, se non altro per non consegnare alla storia l’immagine di una città risparmiata dal fuoco alleato”.

Il  bombardamento di San Lorenzo era mirato allo scalo merci, il 19 luglio 1943 alle 11,03 ben 662 bombardieri americani scortati da 268 caccia cominciarono a sganciare 1060 tonnellate di bombe, ma l’operazione “crosspoint”  colpì  anche gli aeroporti Littorio e Ciampino, fabbriche e depositi; un mese dopo, il 19 agosto, alla stessa ora altre 500 tonnellate di bombe sulle stazioni delle a linea ferroviaria Roma-Napoli. Tra l’8 settembre 1943 e il 4 giugno 1944 vi furono 51 bombardamenti nella parte meridionale della città con distruzione di stazioni e ferrovie, fabbriche e depositi, chiese e scuole, cimiteri e diecine di migliaia di case.

Perché questo accanimento nonostante lo status di “città aperta” e poi l ‘armistizio dell’8  settembre?  In una prima fase il motivo fu il valore simbolico di capitale di uno stato nemico, poi  ragioni strategiche legate allo sbarco in Sicilia con successiva conquista della penisola passando per Roma e all’importanza del sistema ferroviario romano per la logistica dei tedeschi. Lo   status di “città aperta”  per la presenza del Vaticano e delle antichità veniva “rispettato” bombardando al periferia dove, peraltro, risiedevano gli obiettivi,  tutti al di fuori della cerchia di Mura Aureliane.

Le fotografie  sono eloquenti, come quelle del palazzo di via Ettore Rolli vicino piazza Marconi, e di uno stabilimento di arti grafiche  in via Ostiense completamente distrutti, e altri palazzi sventrati a Cinecittà, siamo a  febbraio-marzo 1944. Ci sono le immagini della visita ai luoghi colpiti a San Lorenzo di Pio XII circondato dagli abitanti sconvolti, e della Principessa di Piemonte, seguita da alcuni accompagnatori.  6  disegni acquerellati di Vito Lombardi fissano i luoghi di San Lorenzo dopo il bombardamento, con il portico distrutto, gli interni devastati.

Dopo l’8 settembre  Roma era nella tenaglia dei bombardamenti alleati dal cielo, mirati ad obiettivi militari ma che non risparmiavano le abitazioni civili, e dell’oppressione dei tedeschi per controllare completamente la città divenuta ostile. Non ci fu una resistenza organizzata, la popolazione era inerme e i pochi militari disorganizzati, ma singole battaglie in difesa della città. Il 10 settembre a Porta San Paolo e nelle zonevicine, come la Piramide Cestia, ci furono violenti scontri dei reparti tedeschi ben equipaggiati contro “civili senza armi  e militari senza comandi; nel quartiere della Montagnola provocarono 53 vittime, 42 militari e 11 civili, i “caduti della Montagnola”,   nella piazza c’è oggi un sacrario.

Le fotografie dei luoghi mostrano la Piramide Cestiae Porta San Paolo in quel  periodo, insieme ad altre visioni di palazzi che vengono protetti, la  galleria Colonna con barriere di sacchi di sabbia, piazza del Campidoglio con lo spostamento all’interno della statua di Marc’Aurelio. Anche qui acquerelli di Vito Lombardi su carri armati tedeschi a  Porta Maggiore e Via Prenestina. 

I luoghi del potere degli occupanti e della resistenza dei romani

La debole resistenza dei romani viene schiacciata, è troppo importante per i tedeschi controllare la città per organizzare il controllo complessivo del paese dai luoghi del potere nazifascista.

Vengono preservate le sedi del regime fascista per la costituzione della nascente Repubblica Sociale Italiana, insediate a Palazzo Braschi e a Palazzo Wedekind in Piazza Colonna;  mentre  i luoghi  del potere tedesco vengono fissati a Villa Wolkonsky in via Ludovico di Savoia, con il plenipotenziario del Reich, Rahn, presto sostituito dal giovane console Molhausen , e nei due alberghi vicini, l’Hotel Flora a Via Veneto per il Comando generale germanico e il Tribunale di guerra tedesco che celebrava processi lampo, e l’Hotel Bernini a Piazza Barberini  per l’organizzazione collaterale tedesca della Todt, che operava rastrellamenti di civili da avviare ai lavori per esigenze militari.

Tra le immagini fotografiche che illustrano questa sezione spicca la facciata di Palazzo Braschi interamente ricoperta  dal gigantesco manifesto di propaganda con il volto di Mussolini al centro circondato da un’infinità di SI.  Per il resto le fotografie rendono il clima greve dell’occupazione tedesca, i camion a Piazza del Viminale  e a Piazza Venezia dove occupano l’intera zona centrale, e le lunghe file di prigionieri anglo-americani che sfilano scortati dai soldati tedeschi in Via Veneto e in Via dell’Impero: siamo già nel febbraio 1944, ma gli alleati sono ancora lontani.

Ma soprattutto riportano a quel clima le Ordinanze naziste che comminavano la reclusione a chi ascoltava le “emissioni radiofoniche nemiche”  o “propalava” le notizie trasmesse, e l’Avviso del Comando superiore tedesco in cui si intimava agli appartenenti alle classi di età 1910-25 di rispondere alla chiamata delle autorità italiane per il “servizio del lavoro”, necessario allo sforzo bellico tedesco, minacciando punizioni “secondo le leggi germaniche di guerra”, appello che fu disatteso, i romani non  si fecero intimidire. Sono esposti anche  gli appelli “alle armi” e all'”onore e combattimento”  lanciati  dai “fascisti repubblicani romani”, un gruppo che presto fu sciolto.

La resistenza a Roma si è espressa in modo particolare, era la sede del Comitato di liberazione nazionale formato dai partiti antifascisti che diede l’ordine di “resistere con ogni mezzo”; la città fu divisa in  zone, due centrali ed otto periferiche controllate dai Gap, Gruppi di azione patriottica, nelle tipografie si stampavano i giornali clandestini, dall'”Unità”  all'”Avanti”, da “L’Italia Libera” a “Bandiera Rossa”, si arriva anche a 8000 copie distribuite in modo altrettanto clandestino,. Non mancano i sabotaggi e le bombe. Roma, scrivono le curatrici della mostra, “era dunque una città dai mille percorsi, nei quali si muovono uomini  e donne di ogni età con l’obiettivo da un lato di sopravvivere e resistere alla ferocia nazifascista e dall’altro di favorire l’avanzata americana tenendo testa all’esercito e alla polizia tedesca”.

I luoghi della resistenza sono le scuole  medie superiori e le università, le stazioni  ferroviarie e le aree strategiche come il Quadraro, le tipografie che stampano material clandestino e ospedali come il Fatebenefratelli all’Isola Tiberina che nascondeva ebrei e antifascisti coprendoli con il terribile morbo  neurodegenerativo definito “K”,  un’invenzione con le iniziali di Kesserling e Kappler, poi la sede della “santa barbara” che riforniva di bombe i Gap,  e il barcone di Radio Vittoria sul Tevere sotto Ponte Risorgimento. A Via Rasella l’azione più dirompente, l’attentato che uccise 33 soldati tedeschi e un  ragazzo tredicenne italiano, e portò alla feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine.

Una rara immagine mostra due partigiani romani con il fucile puntato a Tor Pignattara, altre alcuni dei luoghi appena citati.  Sono esposti i giornali che abbiamo indicato, stampati nella clandestinità con forti  intitolazioni contro “l’oppressione nazista” e “la distruzione nazista”; come i volantini con gli appelli ai lavoratori a scioperare del Comitato sindacale d’agitazione:  “Questo sciopero deve essere l’insurrezione del popolo romano contro l’oppressione tedesca, deve essere la vostra battaglia decisiva per la libertà e l’indipendenza”.  Vediamo anche il manifesto intitolato “Grido disperato di allarme delle madri e donne romane di ogni ceto e condizione”  con tre grandi “No!”  e lo sfogo: “Tutte unite nello strazio comune protestiamo contro il mancato rispetto delle regole della Città aperta di Roma da parte dell’esercito tedesco”, perché  il movimento di trippe e materiale bellico  espone ai continui bombardamenti.

Spicca il manifesto colorato del Partito comunista: “Uniti! Contro il nazifascismo assassino” con una grande mano ad artiglio, la svastica sul braccio, che strazia la penisola. E soprattutto le straordinarie tavole di Renato Guttuso  “Gott mit uns”, da una serie di 24 tavole a colori pubblicate nel 1945 con una nota introduttiva di Antonello Trombadori, vi è scolpita la ferocia nazista.

I luoghi dei processi e delle torture, dei rastrellamenti  e delle retate

La ferocia rappresentata da Guttuso si manifestava nei luoghi dei processi e delle torture, dei rastrellamenti e delle deportazioni.  Dopo l’8 settembre 1943 Roma diviene in  sostanza un a retrovia del fronte, con il Comando supremo tedesco e il residuo potere fascista  che lo affiancherà,  nella consapevolezza di doversi difendere dall’esercito alleato che avanzava inesorabilmente e dalla resistenza cittadina. Il controllo della polizia tedesca è assoluto, sotto il colonnello Kappler, tedeschi e fascisti nelle loro azioni  crudeli sono spinti da frustrazioni e risentimenti spietati. Le curatrici scrivono: “Prende così forma una ragnatela di luoghi, fra centro e periferia, lungo la quale nazisti e fascisti si muovono  a piccoli gruppi, favoriti da delazioni e conoscenze, informazioni estorte o pagate, per rastrellare uomini da avviare ai campi di lavoro, arrestare presunti partigiani, deportare intere famiglie di ebrei, trovare donne da sfruttare”.

Tra i luoghi  di tortura è tristemente famoso il  carcere di via Tasso, sede della polizia tedesca, con lo studio di Kappler al pian terreno e i luoghi di detenzione dove si compivano le maggiori atrocità al secondo piano con le finestre murate; anche a Regina Coeli si torturavano i reclusi nei bracci controllati dai tedeschi, al punto che il 20 settembre 1944, dopo la liberazione, la folla lincerà l’allora direttore Carretta, e così a Forte Bravetta. Del tribunale militare germanico all’Hotel Flora  abbiamo detto, c’era una dependance nella vicina via Lucullo, inoltre in via Principe Amedeo vicino alla Stazione Termini nella pensione Oltremare il quartiere generale della banda di Koch, altro torturatore fascista.

Queste alcune delle sedi fisse degli orrori, poi i luoghi dei rastrellamenti e delle  retate: dalla centralissima via Nazionale a Montesacro, da Viale Giulio Cesare a Pietralata, fino al Collegio militare di Palazzo Salviati  dove furono concentrati gli ebrei romani rastrellati all’alba del 16 ottobre nel  ghetto e in altri 26 luoghi, per essere deportati in 1022 al campo di sterminio, dal quale sono tornati solo in 16. Le Fosse Ardeatine chiudono questa Via Crucis dell’orrore.

Lo scorcio dell’edificio di Via Tasso nel 1943-44, esposto in mostra, evoca nella muratura visibile alle finestre gli orrori dell’interno, mentre il biglietto con le disposizioni per gli ebrei rastrellati su cosa dovevano portare con sé dopo il rastrellamento mette i brividi  nella sua apparente banalità; 5 acquerelli a colori di Pio Pullini  rendono il clima plumbeo  di questo rastrellamento.

I luoghi della liberazione e della memoria

Dai luoghi dell’oppressione e dell’orrore ai luoghi della liberazione.  Tra questi le vie Casilina e Appia e la zona dei Castelli romani dove le formazioni partigiane si scontrarono con quelle tedesche in ritirata per favorire l’avanzata  degli alleati al comando dell’inglese Alexander e dell’americano Clark. Il 2 giugno il 53° bombardamento su Roma, il 4 giugno l’entrata delle truppe alleate mentre si ricercavano i soldati tedeschi che non avevano fatto in tempo a ritirarsi.

Sono esposte delle fotografie che riprendono  le truppe americane nella campagna laziale e il generale Clark immortalato sotto il cartello stradale con scritto Roma in grossi caratteri, si era fatto fotografare anche in precedenza con il chilometraggio di distanza, voleva essere il primo a liberare Roma e ci riuscì. Poi i luoghi della liberazione per eccellenza, Piazza Venezia e i Fori Imperiali con il Colosseo all’ingresso dei carri armati  alleati festeggiati dalla folla esultante, c’è un primo piano di tanti volti della gente felice con al centro la ragazza che abbraccia il soldato,  guancia  a guancia.

Ritroviamo gli acquerelli di Vito Lombardi,  che aveva illustrato i bombardamenti, ora sulla ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli americani ci, sono 5 suggestive vedute da lontano. Poi 5 acquerelli di Tina Tommasini sulla nuova vita con gli sciuscià e i venditori di prodotti americani nel 1947-48.

La gioia non fa dimenticare le sofferenze  e i lutti, la mostra si conclude con i luoghi della memoria e del ricordo. Sono disseminati nella città, contrassegnati da targhe e lapidi celebrative che rappresentano la memoria degli avvenimenti passati dai quali è stata  segnata la storia della città e della vita dei romani.  “Tutto ciò, concludono le curatrici, costituisce la nostra memoria collettiva che ci chiede di essere conservata e trasmessa  alle future generazioni, consegnandoci un patrimonio di conoscenze e di valori sui quali abbiamo fondato la nostra democrazia. Un ‘passaggio di testimone’ possibile anche mantenendo viva la percezione del territorio che non solo  si vive, ma si abita”. E’ stata questa la formula della mostra, questa in fondo la sua funzione educativa.

Sfilano le immagini di queste targhe e lapidi, passarle in rassegna significa ripercorrere idealmente l’itinerario  dell’esposizione che ha presentato gli eventi dai quali è nato il ricordo espresso in quelle scritte, in quei nomi. Sono nei luoghi che abbiamo citato di volta in volta, ci  limitiamo a segnalare il sacrario con  monumento ai caduti nel Piazzale della Montagnola e i monumenti ai caduti  nel  Parco XVII aprile 1944, e al Partigiano torturato in via Lucullo,  le lapidi commemorative sulle Mura Aureliane al Piazzale Ostiense e la grande Croce tra via Tuscolana e via dei Quintili. Fino al Sacrario delle Fosse Ardeatine e alla parete a semicerchio del Cimitero Verano ” a ricordo dei 2725 cittadini romani eliminati nei campi di sterminio nazisti”, di cui 1022 dalla deportazione  del 16 ottobre 1943.

Aver ricordato tutto questo, con gli effetti suggestivi  della mostra al Vittoriano è meritorio. Perché, concludiamo con le parole del sindaco Marino, “è la storia del profondo legame tra le romane e i romani e la loro città, allora come oggi”. Ma evoca anche la storia e la memoria di tutti noi.

Info

Complesso del Vittoriano, piazza Ara Coeli, tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30,  da venerdì  a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo “19 luglio 1943-4 giugno 1944. Roma verso la libertà”, Gangemi editore, giugno 2014, pp. 192, formato 21×29,5.  Pe le altre mostre sul tema cfr. i nostri articoli:  in questo sito,“16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei” e “I ghetti nazisti”; in www.fotografarefacile.it   “Giugno 1944. lo sbarco di Anzio”., in “cultura.inabruzzo.it”  Scatti di guerra”, 8 agosto 2009.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’esultanza dei giovani alla liberazione sul carro armato; seguono uno scorcio della mostra, e la fragile protezione all’edificio delle Assicurazioni Generali, poi un palazzo, in via Ettore Rolli, sventrato dalle bombe, e la visita di Pio XII al quartiere di  San Lorenzo dopo il bombardamento, quindi la protezione della Galleria Colonna e prigionieri alleati scortati dai tedeschi in via dell’Impero, inoltre ordinanze, manifesti e una tavola di Guttuso da “Gott mitt uns”, la Piramide Cestia e Porta San Paolo dove ci fu la resistenza armata ai tedeschi; in chiusura,  la folla festeggia l’ingresso degli alleati nei pressi del Colosseo

di  Romano Maria Levante

La mostra “19 luglio 1943-4 giugno 1944. Roma verso la libertà”,  dal 5 giugno al 20 luglio  al Vittoriano, lato Ara Coeli, ricorda la fase culminata con l’entrata degli alleati, con i rastrellamenti e le deportazioni, la prigionia  e le torture, la resistenza armata ai nazisti e quella civile alla fame e ai bombardamenti. In primo piano i luoghi cittadini più toccati dagli eventi, evocati con mappe e fotografie,  filmati e giornali, manifesti e cimeli.  Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, a cura di  Stefania Ficacci e Maria Teresa Natale.  Catalogo Gangemi Editore.

In contemporanea con la mostra per il centenario della “Grande Guerra”, sempre al Vittoriano, la mostra è aperta fino al 20 luglio, mentre dal 4 all’8 giugno  i 70 anni dalla Liberazione di Roma sono stati celebrati con una serie di manifestazioni distribuite nella città: dibattiti e proiezioni, concerti e  spettacoli teatrali, con la serata evento di sabato 7 giugno ai Fori Imperiali: è stato proiettato il film-simbolo  di Roberto Rossellini,  “Roma città aperta” restaurato, con il concerto “Freedom” di Duke Ellington eseguito dall’orchestra e coro di Santa Cecilia.

Il Sindaco Ignazio Marino ha avuto una bella immagine nel  commentare, senza riferimenti storici o politici, le fotografie della folla festosa che accolse gli alleati: “Da quelle facce, da quei gesti si percepisce un sentimento straordinario: la riappropriazione della città. I romani si riprendono Roma, i luoghi, i palazzi, le strade, le piazze che per secoli sono stati dentro la loro vita e che improvvisamente, con brutalità, qualcuno, l’occupante nazista, aveva loro tolto”. E ha  aggiunto, riferendosi alla mostra: “Sono i luoghi a parlare, attraverso gli scatti fotografici dell’epoca”.

Lo stesso è avvenuto con la mostra precedente sempre al Vittoriano sull’ “infamia tedesca” che all’oppressione aggiunse la deportazione degli ebrei romani il 16 ottobre 1943,  da 1022  solo 16 sopravvissuti, mentre un’altra mostra è stata su “Giugno 1944. lo Sbarco di Anzio” del 1944, con la prospettiva di  liberare Roma.

I “percorsi di lettura” di quel periodo, suggeriti dalle curatrici  Ficacci e Natale vanno dai bombardamenti alleati sulla città all’occupazione nazista, dalla resistenza romana nei 271 giorni di occupazione alla liberazione del 4 giugno 1944.  E soprattutto sono focalizzati  sui luoghi degli eventi nella loro precisa individuazione topografica.

Al riguardo viene  ricordata la definizione di Enzo Forcella per capire l’occupazione nazista di Roma: “Un agglomerato di quartieri, un arcipelago di isole, completamente isolati e reciprocamente inconsapevoli ma anche, per chi ne conosceva la chiave d’accesso, collegati da una fitta rete di invisibili e misteriosi fili”  che in “Roma città aperta” sono stati resi in linguaggio cinematografico. Sui luoghi di Roma così concepiti si focalizzano le sezioni della mostra, con la documentazione visiva, soprattutto fotografica, dei singoli  avvenimenti  nel loro impatto sui quartieri interessati.

La foto-simbolo ci è apparsa quella che poniamo in apertura, i giovani sul carro armato festeggiano la liberazione, dando liberto sfogo a  una gioia incontenibile. Chissà se Roberto Benigni si è ispirato a questa immagine per il  finale del suo film  “La vita è bella” in cui il bambino sale felice sul carro armato, qui il numero è moltiplicato, la gioia diventa corale, è dell’intera città. 

I luoghi dei bombardamenti e della battaglia per la difesa della città

Tutti conoscono  il bombardamento al quartiere di San Lorenzo come la violazione dello status di “città aperta” , evento così dirompente da far uscire per la prima e unica volta papa Pio XII dal Vaticano; sarà anche, negli anni ’50, al centro del processo per diffamazione intentato da De Gasperi a Guareschi che aveva pubblicato una lettera a firma dello statista, che la definì apocrifa, in cui avrebbe chiesto quel bombardamento per esasperare e far insorgere la popolazione. Ma i luoghi dei bombardamenti sono molteplici, sparsi nella periferia della città.  

Infatti quello non fu l’unico bombardamento e non colpì solo San Lorenzo ma l’ampia area limitrofa, come sottolineano le curatrici che affermano: “Al di là della necessaria riflessione sul significato simbolico che il bombardamento di San Lorenzo riveste sull’immagine della città in guerra, non può tuttavia far cadere nell’oblio la memoria delle successive 52 incursioni, se non altro per non consegnare alla storia l’immagine di una città risparmiata dal fuoco alleato”.

Il  bombardamento di San Lorenzo era mirato allo scalo merci, il 19 luglio 1943 alle 11,03 ben 662 bombardieri americani scortati da 268 caccia cominciarono a sganciare 1060 tonnellate di bombe, ma l’operazione “crosspoint”  colpì  anche gli aeroporti Littorio e Ciampino, fabbriche e depositi; un mese dopo, il 19 agosto, alla stessa ora altre 500 tonnellate di bombe sulle stazioni delle a linea ferroviaria Roma-Napoli. Tra l’8 settembre 1943 e il 4 giugno 1944 vi furono 51 bombardamenti nella parte meridionale della città con distruzione di stazioni e ferrovie, fabbriche e depositi, chiese e scuole, cimiteri e diecine di migliaia di case.

Perché questo accanimento nonostante lo status di “città aperta” e poi l ‘armistizio dell’8  settembre?  In una prima fase il motivo fu il valore simbolico di capitale di uno stato nemico, poi  ragioni strategiche legate allo sbarco in Sicilia con successiva conquista della penisola passando per Roma e all’importanza del sistema ferroviario romano per la logistica dei tedeschi. Lo   status di “città aperta”  per la presenza del Vaticano e delle antichità veniva “rispettato” bombardando al periferia dove, peraltro, risiedevano gli obiettivi,  tutti al di fuori della cerchia di Mura Aureliane.

Le fotografie  sono eloquenti, come quelle del palazzo di via Ettore Rolli vicino piazza Marconi, e di uno stabilimento di arti grafiche  in via Ostiense completamente distrutti, e altri palazzi sventrati a Cinecittà, siamo a  febbraio-marzo 1944. Ci sono le immagini della visita ai luoghi colpiti a San Lorenzo di Pio XII circondato dagli abitanti sconvolti, e della Principessa di Piemonte, seguita da alcuni accompagnatori.  6  disegni acquerellati di Vito Lombardi fissano i luoghi di San Lorenzo dopo il bombardamento, con il portico distrutto, gli interni devastati.

Dopo l’8 settembre  Roma era nella tenaglia dei bombardamenti alleati dal cielo, mirati ad obiettivi militari ma che non risparmiavano le abitazioni civili, e dell’oppressione dei tedeschi per controllare completamente la città divenuta ostile. Non ci fu una resistenza organizzata, la popolazione era inerme e i pochi militari disorganizzati, ma singole battaglie in difesa della città. Il 10 settembre a Porta San Paolo e nelle zonevicine, come la Piramide Cestia, ci furono violenti scontri dei reparti tedeschi ben equipaggiati contro “civili senza armi  e militari senza comandi; nel quartiere della Montagnola provocarono 53 vittime, 42 militari e 11 civili, i “caduti della Montagnola”,   nella piazza c’è oggi un sacrario.

Le fotografie dei luoghi mostrano la Piramide Cestiae Porta San Paolo in quel  periodo, insieme ad altre visioni di palazzi che vengono protetti, la  galleria Colonna con barriere di sacchi di sabbia, piazza del Campidoglio con lo spostamento all’interno della statua di Marc’Aurelio. Anche qui acquerelli di Vito Lombardi su carri armati tedeschi a  Porta Maggiore e Via Prenestina. 

I luoghi del potere degli occupanti e della resistenza dei romani

La debole resistenza dei romani viene schiacciata, è troppo importante per i tedeschi controllare la città per organizzare il controllo complessivo del paese dai luoghi del potere nazifascista.

Vengono preservate le sedi del regime fascista per la costituzione della nascente Repubblica Sociale Italiana, insediate a Palazzo Braschi e a Palazzo Wedekind in Piazza Colonna;  mentre  i luoghi  del potere tedesco vengono fissati a Villa Wolkonsky in via Ludovico di Savoia, con il plenipotenziario del Reich, Rahn, presto sostituito dal giovane console Molhausen , e nei due alberghi vicini, l’Hotel Flora a Via Veneto per il Comando generale germanico e il Tribunale di guerra tedesco che celebrava processi lampo, e l’Hotel Bernini a Piazza Barberini  per l’organizzazione collaterale tedesca della Todt, che operava rastrellamenti di civili da avviare ai lavori per esigenze militari.

Tra le immagini fotografiche che illustrano questa sezione spicca la facciata di Palazzo Braschi interamente ricoperta  dal gigantesco manifesto di propaganda con il volto di Mussolini al centro circondato da un’infinità di SI.  Per il resto le fotografie rendono il clima greve dell’occupazione tedesca, i camion a Piazza del Viminale  e a Piazza Venezia dove occupano l’intera zona centrale, e le lunghe file di prigionieri anglo-americani che sfilano scortati dai soldati tedeschi in Via Veneto e in Via dell’Impero: siamo già nel febbraio 1944, ma gli alleati sono ancora lontani.

Ma soprattutto riportano a quel clima le Ordinanze naziste che comminavano la reclusione a chi ascoltava le “emissioni radiofoniche nemiche”  o “propalava” le notizie trasmesse, e l’Avviso del Comando superiore tedesco in cui si intimava agli appartenenti alle classi di età 1910-25 di rispondere alla chiamata delle autorità italiane per il “servizio del lavoro”, necessario allo sforzo bellico tedesco, minacciando punizioni “secondo le leggi germaniche di guerra”, appello che fu disatteso, i romani non  si fecero intimidire. Sono esposti anche  gli appelli “alle armi” e all'”onore e combattimento”  lanciati  dai “fascisti repubblicani romani”, un gruppo che presto fu sciolto.

La resistenza a Roma si è espressa in modo particolare, era la sede del Comitato di liberazione nazionale formato dai partiti antifascisti che diede l’ordine di “resistere con ogni mezzo”; la città fu divisa in  zone, due centrali ed otto periferiche controllate dai Gap, Gruppi di azione patriottica, nelle tipografie si stampavano i giornali clandestini, dall'”Unità”  all'”Avanti”, da “L’Italia Libera” a “Bandiera Rossa”, si arriva anche a 8000 copie distribuite in modo altrettanto clandestino,. Non mancano i sabotaggi e le bombe. Roma, scrivono le curatrici della mostra, “era dunque una città dai mille percorsi, nei quali si muovono uomini  e donne di ogni età con l’obiettivo da un lato di sopravvivere e resistere alla ferocia nazifascista e dall’altro di favorire l’avanzata americana tenendo testa all’esercito e alla polizia tedesca”.

I luoghi della resistenza sono le scuole  medie superiori e le università, le stazioni  ferroviarie e le aree strategiche come il Quadraro, le tipografie che stampano material clandestino e ospedali come il Fatebenefratelli all’Isola Tiberina che nascondeva ebrei e antifascisti coprendoli con il terribile morbo  neurodegenerativo definito “K”,  un’invenzione con le iniziali di Kesserling e Kappler, poi la sede della “santa barbara” che riforniva di bombe i Gap,  e il barcone di Radio Vittoria sul Tevere sotto Ponte Risorgimento. A Via Rasella l’azione più dirompente, l’attentato che uccise 33 soldati tedeschi e un  ragazzo tredicenne italiano, e portò alla feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine.

Una rara immagine mostra due partigiani romani con il fucile puntato a Tor Pignattara, altre alcuni dei luoghi appena citati.  Sono esposti i giornali che abbiamo indicato, stampati nella clandestinità con forti  intitolazioni contro “l’oppressione nazista” e “la distruzione nazista”; come i volantini con gli appelli ai lavoratori a scioperare del Comitato sindacale d’agitazione:  “Questo sciopero deve essere l’insurrezione del popolo romano contro l’oppressione tedesca, deve essere la vostra battaglia decisiva per la libertà e l’indipendenza”.  Vediamo anche il manifesto intitolato “Grido disperato di allarme delle madri e donne romane di ogni ceto e condizione”  con tre grandi “No!”  e lo sfogo: “Tutte unite nello strazio comune protestiamo contro il mancato rispetto delle regole della Città aperta di Roma da parte dell’esercito tedesco”, perché  il movimento di trippe e materiale bellico  espone ai continui bombardamenti.

Spicca il manifesto colorato del Partito comunista: “Uniti! Contro il nazifascismo assassino” con una grande mano ad artiglio, la svastica sul braccio, che strazia la penisola. E soprattutto le straordinarie tavole di Renato Guttuso  “Gott mit uns”, da una serie di 24 tavole a colori pubblicate nel 1945 con una nota introduttiva di Antonello Trombadori, vi è scolpita la ferocia nazista.

I luoghi dei processi e delle torture, dei rastrellamenti  e delle retate

La ferocia rappresentata da Guttuso si manifestava nei luoghi dei processi e delle torture, dei rastrellamenti e delle deportazioni.  Dopo l’8 settembre 1943 Roma diviene in  sostanza un a retrovia del fronte, con il Comando supremo tedesco e il residuo potere fascista  che lo affiancherà,  nella consapevolezza di doversi difendere dall’esercito alleato che avanzava inesorabilmente e dalla resistenza cittadina. Il controllo della polizia tedesca è assoluto, sotto il colonnello Kappler, tedeschi e fascisti nelle loro azioni  crudeli sono spinti da frustrazioni e risentimenti spietati. Le curatrici scrivono: “Prende così forma una ragnatela di luoghi, fra centro e periferia, lungo la quale nazisti e fascisti si muovono  a piccoli gruppi, favoriti da delazioni e conoscenze, informazioni estorte o pagate, per rastrellare uomini da avviare ai campi di lavoro, arrestare presunti partigiani, deportare intere famiglie di ebrei, trovare donne da sfruttare”.

Tra i luoghi  di tortura è tristemente famoso il  carcere di via Tasso, sede della polizia tedesca, con lo studio di Kappler al pian terreno e i luoghi di detenzione dove si compivano le maggiori atrocità al secondo piano con le finestre murate; anche a Regina Coeli si torturavano i reclusi nei bracci controllati dai tedeschi, al punto che il 20 settembre 1944, dopo la liberazione, la folla lincerà l’allora direttore Carretta, e così a Forte Bravetta. Del tribunale militare germanico all’Hotel Flora  abbiamo detto, c’era una dependance nella vicina via Lucullo, inoltre in via Principe Amedeo vicino alla Stazione Termini nella pensione Oltremare il quartiere generale della banda di Koch, altro torturatore fascista.

Queste alcune delle sedi fisse degli orrori, poi i luoghi dei rastrellamenti e delle  retate: dalla centralissima via Nazionale a Montesacro, da Viale Giulio Cesare a Pietralata, fino al Collegio militare di Palazzo Salviati  dove furono concentrati gli ebrei romani rastrellati all’alba del 16 ottobre nel  ghetto e in altri 26 luoghi, per essere deportati in 1022 al campo di sterminio, dal quale sono tornati solo in 16. Le Fosse Ardeatine chiudono questa Via Crucis dell’orrore.

Lo scorcio dell’edificio di Via Tasso nel 1943-44, esposto in mostra, evoca nella muratura visibile alle finestre gli orrori dell’interno, mentre il biglietto con le disposizioni per gli ebrei rastrellati su cosa dovevano portare con sé dopo il rastrellamento mette i brividi  nella sua apparente banalità; 5 acquerelli a colori di Pio Pullini  rendono il clima plumbeo  di questo rastrellamento.

I luoghi della liberazione e della memoria

Dai luoghi dell’oppressione e dell’orrore ai luoghi della liberazione.  Tra questi le vie Casilina e Appia e la zona dei Castelli romani dove le formazioni partigiane si scontrarono con quelle tedesche in ritirata per favorire l’avanzata  degli alleati al comando dell’inglese Alexander e dell’americano Clark. Il 2 giugno il 53° bombardamento su Roma, il 4 giugno l’entrata delle truppe alleate mentre si ricercavano i soldati tedeschi che non avevano fatto in tempo a ritirarsi.

Sono esposte delle fotografie che riprendono  le truppe americane nella campagna laziale e il generale Clark immortalato sotto il cartello stradale con scritto Roma in grossi caratteri, si era fatto fotografare anche in precedenza con il chilometraggio di distanza, voleva essere il primo a liberare Roma e ci riuscì. Poi i luoghi della liberazione per eccellenza, Piazza Venezia e i Fori Imperiali con il Colosseo all’ingresso dei carri armati  alleati festeggiati dalla folla esultante, c’è un primo piano di tanti volti della gente felice con al centro la ragazza che abbraccia il soldato,  guancia  a guancia.

Ritroviamo gli acquerelli di Vito Lombardi,  che aveva illustrato i bombardamenti, ora sulla ritirata dei tedeschi e l’arrivo degli americani ci, sono 5 suggestive vedute da lontano. Poi 5 acquerelli di Tina Tommasini sulla nuova vita con gli sciuscià e i venditori di prodotti americani nel 1947-48.

La gioia non fa dimenticare le sofferenze  e i lutti, la mostra si conclude con i luoghi della memoria e del ricordo. Sono disseminati nella città, contrassegnati da targhe e lapidi celebrative che rappresentano la memoria degli avvenimenti passati dai quali è stata  segnata la storia della città e della vita dei romani.  “Tutto ciò, concludono le curatrici, costituisce la nostra memoria collettiva che ci chiede di essere conservata e trasmessa  alle future generazioni, consegnandoci un patrimonio di conoscenze e di valori sui quali abbiamo fondato la nostra democrazia. Un ‘passaggio di testimone’ possibile anche mantenendo viva la percezione del territorio che non solo  si vive, ma si abita”. E’ stata questa la formula della mostra, questa in fondo la sua funzione educativa.

Sfilano le immagini di queste targhe e lapidi, passarle in rassegna significa ripercorrere idealmente l’itinerario  dell’esposizione che ha presentato gli eventi dai quali è nato il ricordo espresso in quelle scritte, in quei nomi. Sono nei luoghi che abbiamo citato di volta in volta, ci  limitiamo a segnalare il sacrario con  monumento ai caduti nel Piazzale della Montagnola e i monumenti ai caduti  nel  Parco XVII aprile 1944, e al Partigiano torturato in via Lucullo,  le lapidi commemorative sulle Mura Aureliane al Piazzale Ostiense e la grande Croce tra via Tuscolana e via dei Quintili. Fino al Sacrario delle Fosse Ardeatine e alla parete a semicerchio del Cimitero Verano ” a ricordo dei 2725 cittadini romani eliminati nei campi di sterminio nazisti”, di cui 1022 dalla deportazione  del 16 ottobre 1943.

Aver ricordato tutto questo, con gli effetti suggestivi  della mostra al Vittoriano è meritorio. Perché, concludiamo con le parole del sindaco Marino, “è la storia del profondo legame tra le romane e i romani e la loro città, allora come oggi”. Ma evoca anche la storia e la memoria di tutti noi.

Info

Complesso del Vittoriano, piazza Ara Coeli, tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30,  da venerdì  a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo “19 luglio 1943-4 giugno 1944. Roma verso la libertà”, Gangemi editore, giugno 2014, pp. 192, formato 21×29,5.  Pe le altre mostre sul tema cfr. i nostri articoli:  in questo sito,“16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei” e “I ghetti nazisti”; in www.fotografarefacile.it   “Giugno 1944. lo sbarco di Anzio”., in “cultura.inabruzzo.it”  Scatti di guerra”, 8 agosto 2009.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’esultanza dei giovani alla liberazione sul carro armato; seguono uno scorcio della mostra, e la fragile protezione all’edificio delle Assicurazioni Generali, poi un palazzo, in via Ettore Rolli, sventrato dalle bombe, e la visita di Pio XII al quartiere di  San Lorenzo dopo il bombardamento, quindi la protezione della Galleria Colonna e prigionieri alleati scortati dai tedeschi in via dell’Impero, inoltre ordinanze, manifesti e una tavola di Guttuso da “Gott mitt uns”, la Piramide Cestia e Porta San Paolo dove ci fu la resistenza armata ai tedeschi; in chiusura,  la folla festeggia l’ingresso degli alleati nei pressi del Colosseo

Grande guerra, il centenario, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Dopo la mostra del 2012 “Verso la Grande guerra”, la mostra aperta al Vittoriano, sala Gipsoteca, dal 31 maggio al 31 luglio 2014   “La Prima guerra mondiale” 1914-18. Materiali e fonti”,  è il primo atto delle celebrazioni ufficiali del centenario.  Alla sua realizzazione da parte di “Comunicare Organizzando”  di Alessandro Nicosia hanno partecipato le  istituzioni depositarie di archivi storici  fornendo materiali  e documenti originali cui si sono aggiunti supporti  visivi e sonori. E’ stata curata da Marco Pizzo, del Museo centrale del Risorgimento con esponenti delle altre istituzioni. Catalogo Gangemi a cura di Marco Pizzo.

La sobrietà è l’aspetto che colpisce subito della mostra, priva di ogni retorica, e questo è  dovuto al suo scopo documentario piuttosto che  celebrativo. Per questo l’attenzione delle varie sezioni va più alle fonti e ai materiali di documentazione che alle manifestazioni eclatanti di un pezzo importante di storia patria. E si viene a conoscenza del fatto che la documentazione in materia è immensa, e va dalle fotografie alle cartoline, dai manifesti ai giornali per la trincea, dai fogli di propaganda ai fascicoli personali dei caduti, dalle lettere ai diari dei soldati al fronte, dai dipinti alle musiche e ad  altre forme di testimonianza.

Il grande archivio telematico per proprie “mostre virtuali”

Rossella Caffo, direttore dell’Istituto del Catalogo unico, tra i curatori della mostra,  ci fa sapere ch e l’istituto da lei diretto , in collaborazione con il Museo centrale del Risorgimento e alcune grandi biblioteche, ha dato corso al progetto “14-18. Documenti e immagini della Grande Guerra” riunendo le più importanti raccolte di documenti e testimonianze di guerra in una banca dati che finora dispone di  250.000 immagini, visibili sul sito http://www.14-18.it/ e sul portale europeo http://www.europeana1914-1918.eu/.  Vi si trova la vastissima documentazione data dalla molteplicità dei materiali sopra citati, i n continuo ampliamento, anche perché vi stanno confluendo le più importanti collezioni di altre istituzioni, dall’Istituto Luce agli uffici e musei storici delle forze armate ad archivi pubblici della più varia natura, tutti in possesso di prezioso materiale.

“Tutte le risorse contenute nel sito http://www.14-18.it/  – precisa la Caffo – opportunamente catalogate e indicizzate, saranno a disposizione di tutti istituzioni o progetti, che potranno attingere ai contenuti ognuno secondo le proprie necessità”. Con il progetto Movio viene fornito “agli istituti ma anche alle scuole o a privati cittadini uno strumento di facile utilizzo per creare mostre virtuali”, cioè per ciascuno “propri percorsi e chiavi di lettura, differenti da quelli proposti dal curatore, allargando l’orizzonte delel proprie conoscenze”.

Con questo strumento è stata già presentata nel dicembre 2013 la mostra virtuale “Movio. Vedere la Grande Guerra”,  La mostra attuale compie il percorso inverso perché presenta i materiali reali archiviati in modo virtuale, che nell’esposizione hanno il fascino dei reperti originali e dei cimeli. Ma non è solo un insieme di documenti, c’è dietro un lavoro di ricerca e di analisi, oltre che di selezione, volto ad offrire uno spaccato originale di quegli anni approfondendo alcuni temi  non da tutti conosciuti in modo adeguato anche perché sottaciuti ritenendoli poco consoni a un evento su cui la retorica patriottica ha avuto la prevalenza.

In particolare desideriamo sottolineare la parte dedicata alla censura che impediva di pubblicare determinate notizie e fotografie negli anni della guerra e che di fatto è proseguita anche dopo per una tacita intesa. Al cinema “Uomini contro” di Francesco Rosi ha fatto eccezione  rispetto ai grandi affreschi bellici edificanti con la forza dirompente delle sue immagini impietose di documentazione e denuncia; citiamo anche “All’ovest niente di nuovo” dal romanzo i “Nulla di nuovo sul fronte occidentale” di Eric Maria Remarque, antiretorico e profondamente umano, ma meno dirompente.  

La censura

Cominciamo proprio da questa parte nel raccontare la mostra, perché ci è sembrata emblematica della sua impostazione. Si voleva dare, osserva il curatore Marco Pizzo, “una visione della guerra quasi anestetizzata che si muoveva all’interno di alcune sponde censorie che saranno codificate nel luglio 1917 “.In effetti,  le fotografie dovevano illustrare soprattutto la vita nelle retrovie e nelle marce di avvicinamento al fronte, spesso sottolineandone le difficoltà e l’ardimento, nonché la situazione nelle zone attraversate dalla guerra, dove si contrapponeva una certa  “normalità” nella vita quotidiana alle distruzioni e rovine.

Le fotografie dovevano essere presentate alla Censura Militare in tre esemplari, di cui uno veniva restituito con l’approvazione o meno.  Secondo le direttive generali non si potevano riprendere immagini relative alle truppe come dislocazione e organizzazione, numero e attività, ai mezzi di offesa e difesa, munizioni e armamento, allo stato di strade e ferrovie, ai morti e feriti; prescrizioni queste  comprensibili per la sicurezza militare. Altre disposizioni,  indicate in apposite circolari, o adottate di fatto, censuravano i “cadaveri in posa macabra” e quelli “insepolti che destano orrore e raccapriccio”, e non solo; erano vietate le immagini dei soldati ripresi nei momenti di riposo  se poco edificanti, come quelle della vita di trincea se appariva disordinata, e soprattutto le scene delle esecuzioni capitali, dei disertori, spie e non solo.

Non erano vietate le foto dei morti, e non poteva essere in una guerra che da parte italiana ne ha avuti 650.000 e in totale ben 9 milioni. Ma dovevano essere  fotografie “composte” di morti  dai corpi integri tali da non suscitare disgusto, ma pietà, per cui i fotografi cercavano addirittura pose plastiche. Anche nelle fotografie dei feriti la doppia visione ordinata ed edificante da un lato, realistica e impressionante dall’altro.  Le fotografie di propaganda sfruttavano anche la cura alle ferite per rimediare ai danni inferti dalla guerra. Una sezione della mostra è dedicata alle Crocerossine con immagini edificanti della loro dedizione.

Tra quelle le fotografie censurate  ricordiamo in particolare la fotografia di un “militare giustiziato sul fronte del Piave”,  legato all’albero dove è stato fucilato, è del Reparto fotografico del Regio esercito italiano; e la foto  dell’esecuzione di cecoslovacchi” impiccati ad un albero con dei cartelli appesi al collo del Reparto fotografico dell’esercito austro–ungarico, in entrambi i fronti documentata la durezza implacabile con cui venivano eliminati coloro che non rispettavano le rigide regole di guerra. Ricordiamo la  “decimazione” con cui si punivano interi reparti scegliendo a caso i condannati alla fucilazione, D’Annunzio vi assistette dedicandovi poi commosse parole.  Ma sono tra quelle censurate con una croce blu anche immagini diverse, come quella della benedizione di una bandiera con il prete in cotta o quella del riposo in trincea.

Il ruolo della fotografia

Le immagini censurate  sono nella sezione “la Grande Guerra in fotografia”, che documenta il ruolo assunto dall’immagine fotografica nel far conoscere il conflitto.  Furono riprese centinaia di migliaia di foto e riprodotte nei modi più diversi, sui giornali e in cartoline da spedire “in franchigia”, furono perfino realizzate  mostre in diversi comuni  con immagini di piccolo formato e ingrandimenti a migliaia.  Ciò è stato possibile perché, a differenza della guerra libica del 1911, nel 1915 iniziò ad operare la Sezione foto-cinematografica dell’Esercito italiano e nel 1816 fu riorganizzata in stretto contatto con il Comando supremo  con professionisti quali Giovanni Virrotti, della Ambrosio Film, Luigi Marzocchi e Antonio Revedin. E intellettuali come Ugo Ojetti il capitano Giorgio Pullé e il maggiore Maurizio Rava.

E’ un vastissimo materiale raccolto in volumi-album nei quali  è indicato il nome dell’autore delle fotografie per documentarne l’attività personale. Tra le immagini esposte in mostra colpiscono quelle delle opere d’arte e dei monumenti, una serie dedicata alla loro protezione, un’altra alla loro distruzione sotto i bombardamenti, un’altra ancora alla loro bellezza intatta che prendeva il fotografo al punto di non poterle ignorare anche se era impegnato a documentare gli effetti della guerra. Nacque allora il “reportage di guerra”, anche perché la tecnica consentiva già con tempi di posa ridotti, di fissare il movimento, ed eseguendo le foto in rapida successione si avevano sequenze quasi cinematografiche; inoltre si potevano riprendere scene a 360 gradi unendo diverse immagini in modo da rendere la grande apertura delle montagne come l’Adamello, il monte Grappa, il Carso che erano lo scenario della guerra. Le località di alta montagna erano poco note per il loro isolamento e le immagini contribuirono a farle conoscere.

Una mostra nella mostra è l’esposizione “Teatri di guerra”,  una trentina di  ingrandimenti delle montagne sede di combattimenti riprese  recentemente da Luca Campigotto, un celebre fotografo di “viaggi”, questo suo è un viaggio nella storia, anzi nella storia patria. Non sono foto d’epoca ma la loro magnificenza rende in modo suggestivo il clima e l’ambientazione di quei luoghi dove si vedono opere belliche e altre tracce di quel passato; picchi e canmminamenti, aperture nella roccia che immettono nel cuore della montagna, grotte e feritoie, fortificazioni di ogni tipo rendono ancora oggi gli impervi “teatri di guerra” di allora.

Tornando all’esposizione con le foto d’epoca, scopriamo lo “Scudo rotante, elemento di trincea mobile, Defilamento anche dai tiri obliqui”, sono scudi allineati con delle ruote che formano un fronte protetto, ci vengono in mente le corazze da guerrieri medioevali con cui nel film “Uomini contro” i  nostri si avvicinavano ai reticolati nemici per tagliarli credendosi protetti, mentre venivano falciati essendo quella una fragile difesa. Due stampe di atti di valore, in particolare di Filippo Zuccarello, ci riportano all’roismo, mostrano la conquista del Podgora da parte di pochi uomini tra scoppi di granate e gli austriaci che si arrendono vistosamente a mani alzate.

I documenti e le opere d’arte

Abbiamo cominciato dalla “Grande guerra in fotografia”, che è la parte prevalente, ma è importante anche l’esposizione di documenti autentici, come l’originale  con i sigilli in ceralacca e le sottoscrizioni autografe,  del trattato della “Triplice Alleanza” del 1882, che vedeva l’Italia alleata all’Austria divenuta la sua nemica nella Grande Guerra, e la bozza manoscritta del verbale con cui il Consiglio dei Ministri decise l’entrata in guerra. Vediamo anche le sentenze di condanna a morte,  per diserzione, con fucilazione alla schiena, in documenti originali  e manifesti.

Ma non vi è solo questo all’inizio della mostra, l’accorta regia vi ha  abbinato due quadri di Giacomo Balla, “Bandiere all’altare della Patria“, 1915, e “Colpo di fucile (domenicale). Viva l’Italia”, 1918,  la guerra all’inizio e alla fine vista in chiave futurista. E’ noto come dopo il “manifesto futurista” del 1911 in cui si inneggiava alla guerra “igiene del mondo”, i futuristi si arruolarono volontari  ma furono scottati dalla dura realtà della vita di trincea che ribaltava la loro visione eroica. 

Litografie e vignette umoristiche, e libri sulla guerra, come “Un  anno sull’altipiano” di Emilio Lussu  e “Il mio Carso” di Scipio Slataper,  “Cose e ombre di uno” di Stuparich e il “Diario giornaliero dle capitano Bodrero” dell’ottobre 1918, completano la cornice artistica e culturale con cui si apre la mostra, sono presentate anche le poesie di Giuseppe Ungaretti, “Porto sepolto”  e il suo “Allegria di naufragi”.

La propaganda

Sono queste espressioni spontanee dell’arte e della cultura, cui va aggiunta la propaganda, che spesso se ne serviva.. A questa è dedicata una sezione della mostra, dove si ricorda il servizio P con le parole di Giuseppe Prezzolini: “Il servizio P. fu propaganda, assistenza, vigilanza. Ma in fondo queste tre funzioni furono una sola attività,  soltanto la pratica e la burocrazie le divisero”.  Una delle più importanti raccolte di documenti e testimonianze di questa attività fu messa insieme all’epoca dal Comitato nazionale per la storia del Risorgimento italiano con altre istituzioni mentre il Vittoriano, che doveva ospitarle, era in costruzione.

La propaganda impegnava tutti i paesi in  guerra, in forma spesso simili, come il manifesto funebre dell’Austria nel 1915 sulla morte dell’Italia, poi copiato dalla stessa Italia a parti invertite. Su  questa forma di persuasione, da lei definita “una sorta di guerra ‘fredda’ ma pur sempre guerra”, Nicoletta Dacrema scrive: “Inventare un linguaggio assoluto, fatto di tutte le astuzie, che mescolasse insieme comunicazione,psicologia, politica, parola, immagine, suono,m e che ricorresse a tutti i toni – da quelli a bassa voce a quelli gridati – era più che mai necessario per stimolare un comportamento emotivo che facesse accettare un’inaccettabile carneficina”.  Per questo è stata definita  “arte dell’impossibile”.

Vediamo esposti  una serie di grandi manifesti e le fotografie di strade di Roma di cui sono tappezzate: Quelli per sollecitare a sottoscrivere il “Prestito nazionale” mostrano la vittoria alata con il braccio proteso mentre sullo sfondo si intravede la carica dei bersaglieri, oppure scene più raccolte come l’alpino con la figlia che saluta la teoria di commilitoni in marcia, fino all’alpino seduto che scrive la lettera alla famiglia.

Il cinema  e la musica

La solidarietà e il sostegno popolare alla  causa italiana furono sollecitati anche dalla mobilitazione del mondo dello spettacolo, dal cinema alla musica. Nel 1916 erano già 100 i film sulla guerra, iniziò Carmine Gallone con il film “Sempre nel cor la Patria”, del settembre 1915, delle pellicole venivano dedicate anche ai bambini, come “Maciste l’alpino”. I film che abbiamo citati all’inizio, di Rosi e dal libro di Remarque, sono invece rivisitazioni successive a distanza di tempo, c’è stata la seconda Guerra mondiale, ancora più sanguinosa, a favorire  una tale presa di coscienza.

In campo musicale ci fu la produzione di canzoni popolari e  patriottiche che celebravano la dedizione e il sacrificio e anche gli affetti lontani del soldato sotto le armi.  Abbiamo quindi canti guerreschi e di dolore, di sentimento e malinconia, e anche di rabbia e protesta, perfino antimilitarista e di prigionia, questi ultimi recuperati soprattutto in epoca successiva a quella della censura imperante, prima nel periodo bellico, poi sotto il regime fascista.

La Discoteca di Stato ha raccolto i documenti sonori, che ebbero rapida diffusione per radio, e anche su disco,  in mostra sono esposte a titolo evocativo, gli apparecchi radio e fonografici di allora. Vi sono anche le voci dei protagonisti, come l’“Ordine del giorno alle truppe” di Luigi Cadorna del 7 novembre 1917 e il “Bollettino della vittoria” di Armando Diaz del 4 novembre 1918, il discorso alla camera dei deputati di Vittorio Emanuele Orlando “La Vittoria” del 19 gennaio 1919. Dei canti degli alpini citiamo i  notissimi “Ta pum”, “Monte Nero” e “La tradotta”,  rientra nelle canzoni patriottiche il celeberrimo”‘O surdato ‘nnammurato”  con la tristezza e la nostalgia e anche l’inno alla vita. Naturalmente “La leggenda del Piave”, composta da un dilettante suonando come facevano in trincea con i mandolini, nella sua spontaneità è il più evocativo, al punto da essere stato proposto ripetutamente come possibile inno nazionale.

La componente religiosa: il Sacro Cuore, padre Gemelli e Semeria

Nella mostra è sottolineata anche la componente religiosa, c’è un quadro con l’immagine del Sacro Cuore di Gesù, la sua devozione fu propugnata dalla Chiesa, che gli consacrò le famiglie, durante tutto il conflitto  che aveva cercato di evitare con gli interventi di papa Benedetto XV  contro “l’inutile strage”.  La guerra veniva vista come “punizione di Dio” e le nazioni cattoliche che la dichiararono vedevano, scrive Alvaro Cacciotti, “l’occasione della guerra come il momento propizio per ridurre l’umanità intera alla legeg di Cristo sotto la guida della Chiesa cattolica”.

Le figure di Gesù, Giuseppe e Maria, cui si rivolgevano le preghiere, “divengono il riferimento di una vita familiare cristiana volta a superare i tragici eventi della guerra”, sorsero associazioni e confraternite dedite al Sacro Cuore che propugnavano la fine del conflitto con il riconoscimento della superiore volontà di Cristo. In questo contesto si colloca l’iniziativa di padre Agostino Gemelli, che ha creato l’Università del Sacro Cuore, e ideò nel marzo 2016 la consacrazione dell’Italia in guerra al Sacro Cuore, con il parere favorevole del Comando Supremo e il benestare di papa Benedetto XV: così il primo venerdì del mese di gennaio 1917 in  tutti i luoghi militari avvenne la solenne consacrazione dell’esercito al sacro Cuore.  Non si trattava di promuovere uno spirito di crociata, ma di porre le premesse per realizzare quella che Cacciotti definisce “la sua aspirazione religiosa più alta i n attesa della fine del conflitto: il rinnovamento culturale e religioso che avrebbe permesso all’Italia una sicura crescita morale e sociale”.

Tutto questo nell’accettazione della guerra, espressa sulla sua  rivista “Vita  e Pensiero” con queste parole , nel maggio 1915: “La patria chiama tutti alla sua difesa,. Cessino le discussioni, i dissidi. Noi cattolici, che sino a ieri abbiamo lavorato per impedire la guerra, oggi dobbiamo dare tutta la nostra attività, tutto il nostro cuore, tutto il nostro ingegno a chi tiene nelle sue mani il destino della patria”. Tre mesi dopo fu chiamato dal Comando Supremo come cappellano militare e medico, al fronte curò i feriti e creò un laboratorio di psicologia e un ospedale da campo apposito.  Dopo Caporetto si prodigò, anche con atti di eroismo, nel salvare le vite dei feriti nella rotta del nostro esercito, propugnando in risposta alle rovine e all’angoscia del paese “la necessità di un ritorno alle fonti inesauribili del Cristianesimo”, nell’anno esce il suo scritto “Il nostro soldato”, saggi di psicologia militare; poi la controffensiva del Piave confermò il suo pensiero: “non le armi ma sarà il coraggio  e l’anima dell’uomo il vero fattore della  vittoria”, ricorda Cacciotti.

Un altro religioso, padre Giovanni Semeria, viene ricordato nella mostra per la sua partecipazione alla Grande Guerra. Allo scoppio del conflitto tornò in Italia dal Belgio dove era stato mandato “in esilio” per il suo modernismo, e riuscì a farsi nominare direttamente da Cadorna cappellano militare al Comando Supremo, avesse  compiuto 46 anni e nel 1887 fosse stato riformato, superando l’indisponibilità di posti. I n questa posizione poteva andare nelle zone di guerra, ma non fare predicazioni cui era stato inibito dalle autorità ecclesiastiche. Ciononostante, scrive Filippo Lovison,  “non curandosi delle accuse di interventismo e di nazionalismo, si rivelò un instancabile animatore delel truppe nel cercare di coniugare iun un rinnovato patriottismo cristiano quel concetto di ‘Patria’ e di ‘Chiesa’ che tanto volevano vedere divisi se non addirittura contrapposti” A dispetto dei divieti  fece vibranti prediche al Comando supremo come ai soldati  in prima linea, visitò e confessò i feriti, curò lo smaltimento della corrispondenza con le famiglie,  collaborò con Padre Gemelli anche nell’organizzazione dell’ufficio doni, i nervi cedettero dinanzi a tanti orrori obbligandolo a un’interruzione alla fine del 1916, ma riprese presto. Dopo Caporetto seguì la sorte di Cadorna con la rimozione da cappellano addetto al Comando, ma proseguì nella sua missione nei campi di concentramento veneti ed emiliani. Gli verrà conferita una medaglia di benemerenza il 1° giugno 1919.

Anche questo è un merito della mostra, e un altro aspetto della sua originalità: aver sottolineato con questi due personaggi  la componente religiosa in un conflitto che inutilmente la Chiesa aveva cercato di impedire.

C’è tanto altro, rispetto a quanto abbiamo cercato di ricordare, e soprattutto un allestimento suggestivo nei vasti spazi della Gipsoteca in cui ci si inoltra circondati da una quantità tale di documenti e testimonianze visive da sentirsi immerso in quella realtà ma senza esaltazioni eroiche, tutt’altro: con una riflessione e meditazione profonda su una parte così importante della nostra storia patria di un  secolo fa.

Info

Complesso del Vittoriano, Gipsoteca, Piazza Ara Coeli, tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-19,30,  da venerdì  a domenica ore 9,30-20,30, ultimo ingresso 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo “La Prima guerra mondiale 1914-18, materiali e fonti”, Gangemi Editore, maggio 2014, pp. 160, formato 21×30, da cui sono tratte le citazioni del testo. Cfr. i nostri precedenti articoli, in questo sito sulla mostra “Verso la Grande guerra”, in www.fotografarefacile.it “La Grande guerra a colori“.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per l’occasione offerta; un particolare ringraziamento a Luca Campigotto, per la riproduzione delle sue fotografie.  In apertura e chiusura, immagini di nostri soldati al fronte; nel testo,  riprese di sezioni della mostra intervallate dalle spettacolari fotografie dei “Teatri di guerra” di Campigotto.

Collage-Pittura, Passalacqua e Terlizzi allo Studio S di Roma

di Romano Maria Levante

Allo Studio S di Carmine Siniscalco, nella mostra “Collage… pittura”dal 20 maggio al 9 giugno 2014, due forme molto diverse di “collage”: bozzetti preparatori fatti di delicate applicazioni rispetto a dipinti finali di grandi dimensioni dal forte cromatismo acceso dai  colori della natura per Lina Passalacqua;  opere compiute frutto di assemblaggi materici in un delicato bianco e nero con raffinate varianti in composizioni ispirate al mare e alle sue storie per Ernesto Terlizzi. Lo Studio S con questa mostra torna sul tema del “collage” dopo essersene occupato con Giorgio Pirrotta e con Max Bucaille.

I due ambienti dello Spazio S si prestano all’accoppiata delle due forme di “collage-pittura”: le due esposizioni sono separate da un piccolo corridoio che segna il passaggio da un mondo all’altro: c’è sempre la natura, nelle sue espressioni luminose ricche di richiami della Passalacqua, nella sua manifestazione marina ricca di contenuti di Terlizzi. Carmine Siniscalco definisce “pittrice di pancia”  la Passalacqua per la sua intensa passionalità, “pittore di testa” Terlizzi per la sua razionalità dai  contenuti meditati.

Il mare nei collage razionali di Ernesto Terlizzi

Cominciamo con i “collage” compiuti di Terlizzi, più complessi di quelli della Passalacqua, da interpretare nella forma e nel contenuto. La composizione materica è articolata, sul supporto di tela, carta o tavola l’artista colloca materiali eterogenei che acquistano come per incanto una omogeneità tale da dare all’opera  un aspetto pittorico; molto diversi quindi dalle esuberanze futuriste e da quelle della pop art, c’è una classicità e un controllo rigoroso della forma e dello stile, in diverse opere è incastonata una pietra, come un sigillo, ma non è un elemento estraneo, fa corpo unico.

Per Terlizzi “collage e assemblage sono la sua spatola e il suo pennello”, osserva Siniscalco, e li utilizza con una razionalità elegante e raffinata, nient’affatto fredda. La realtà è viva e presente, ed è una realtà a lui non estranea, anzi intensamente vissuta per ciò che mostra e per ciò che nasconde. E’ “una realtà trasfigurata, o meglio destrutturata – sono ancora parole del gallerista – nell’ambito della quale Terlizzi si muove a suo agio, come un funambolo che danza senza corda senza temere la sfida del vuoto”.  E’ un artista di Salerno, ha esposto di recente allo Spazio Tadini di Milano.

Seguiamo la sua performance artistica guardando le molteplici raffigurazioni del mare, rappresentato con segni e incisioni, oltre ad applicazioni, nel bianco-nero con leggere varianti, mantenendo alcune costanti: qualche volta la pietra incastonata, sempre delle forme scure fluttuanti.

Ne parliamo con l’artista, ci dice che ha scelto di ricercare i valori plastici rinunciando al colore: il risultato è un’estrema raffinatezza ed eleganza formale mentre si sente una forte tensione per i contenuti espressi.  Ne fanno fede alcuni titoli, dal trittico “Sponde” a “Le ali della speranza”, da “Il mare dentro” a “Le carrette del mare” con il dramma dei naufragi nel “mare nostrum”, e poi “La pietra  nell’acqua” e “Fuori dall’acqua”, con la pietra incastonata a ricordare anche la “terra”.

Si capisce perché Siniscalco lo paragona a “un funambolo”: si muove nel confine tra realtà e astrazione  resistendo all’attrazione fatale dell’una e dell’altra, e può farlo perché trasfigura la realtà scomponendola senza farle perdere la sua fisionomia ma dando ad essa contenuti che vanno al di là della sua espressione figurativa. Operazione difficile ma perfettamente riuscita:  restano impresse negli occhi e nella mente le forme fluttuanti dei suoi collage divenendo familiari, come un film che si dipana attraverso una serie di fotogrammi, i cui personaggi si muovono e si spostano restando se stessi. E’ la narrazione pittorica e materica di una storia  con aspetti lirici e momenti drammatici: la storia del mare.

Com’è profondo il mare, vien fatto di pensare, ma questa era una nota canzone di Lucio Dalla.

La natura nei collage passionali di Lina Passalacqua

Dalla razionalità alla passionalità, dalla “testa” alla “pancia”, per richiamare la definizione di Siniscalco, passando ai “collage” e relativi dipinti  di Lina Passalacqua. Siamo subito calamitati da “Tramonto a Nettuno”, il bozzetto-collage su carta di 17 per12 centimetri è affiancato al dipinto finale su tela dallo stesso titolo di 80 per 60 centimetri: il secondo è ancora più intenso e cromatico del primo,  più caldo e passionale, quale trasposizione pittorica di un’ispirazione spontanea ma meditata, come rivela la cura certosina nell’assemblare piccoli foglietti come petali di un fiore; nel caso della palma  abbiamo visto l’applicazione di piccoli steli della pianta come in una miniatura.

Anche i “collage” della Passalacqua sono rigorosamente controllati nella forma e nello stile, quindi lontani dalle espressioni più  dissacranti del futurismo e della pop art. L’artista, però, ha una ispirazione futurista che, secondo Maria Teresa Benedetti, “si ritrova nell’energia plastica, nel flusso dinamico del segno, nell’eliminazione di strutture immobilmente prospettiche, nel tendere della visione all’infinito, nel premere di forze che sembrano uscire dai limiti del dipinto”; e nella composizione del bozzetto-collage, che ne è il fedele e meditato momento preparatorio.

La natura ne è protagonista, ma nello stesso tempo va interpretata  – sempre nelle parole della Benedetti   come “una pittura che superi ogni suggestione naturalistica” e si esprime  in “un colore compatto e squillante, nella ricerca di una risonanza interiore”; in questo si può riscontrare “un’adesione all’astrattismo lirico” in cui più che la rma è il colore a marcare i contenuti.

Riscontriamo questa peculiarità nelle  sue serie pittoriche, preparate dai relativi “collage” che vediamo raggruppati nella mostra per poi tradursi in dipinti compiuti anch’essi esposti. E ricordiamo “Le Quattro stagioni”, il tema della sua recente mostra al Vittoriano della quale abbiamo dato conto delineando anche la figura dell’artista. Adesso citiamo la serie “Le Vele”, che ci consente un richiamo a Terlizzi, anche un suo collage è dedicato alle vele; e soprattutto la serie “I Voli”, con le quattro espressioni primarie della natura, aria, acqua, terra, fuoco: nettamente distinte sul piano cromatico, dai colori freddi dell’aria e dell’acqua a quelli sempre più caldi fino a divenire ardenti di terra e fuoco; la stessa “escalation” cromatica delle “Quattro stagioni” nel passaggio dalla freddezza dell’autunno e gelo dell’inverno al calore e luce crescente di primavera ed estate.

Un altro riferimento viene spontaneo, astraendoci dalla parte pittorica per restare all’interno dei suoi “collage!. Ed è alla serie  “Flash” , esposta in una mostra sempre a Roma nel 2009, che testimonia come l’artista sia giunta al “collage” come bozzetto del grande dipinto dal forte cromatismo dopo un lungo percorso che l’ha vista fissare in composizioni fatte di disegni e fotografie, pastelli e “collage” i momenti di vita che l’hanno più colpita, le “immagini per un istante”, come le ha definite lei stessa nel 1989 in un colloquio con Enzo Benedetto.  Sono tutti “flash” di cronaca che si sono succeduti in modo incalzante nel tempo, insieme fanno la storia di quattro decenni.

Gli irripetibili anni ’60  sono fissati in una serie di  “riporti fotografici” dei “grandi personaggi” come Paolo VI e Barnard, di visioni angosciose come “tifone” e “caos”, “ingranaggi”  e “trincea”,  “traffico” e “incidente”, che si materializzano anche in “calvario” e “fuochi d’artificio” oltre a forme geometriche stringenti come “cerchi” e “spirale”. Appare il mare in “turismo” e “la pesca del pesce spada”  fino alle espressioni della natura, “acqua” e “inverno”,  che anticipano i cicli prima citati.

Negli anni ’70 fissa  gli “aiuti umanitari” e la “sete in Africa” con una straordinaria “maternità” nera, insieme a visioni aperte,  da “la diva”al “saluto”, dal “ponte” alle “penne di pavone”. 

Con gli anni ’80 prende il sopravvento la figura umana, e quella femminile in particolare, ravvivata dai pastelli colorati su foto e collage: lo vediamo in “fumetti” e “la fuga”, “di notte” e “il negativo e il positivo”, bei visi di donna ripresi nei momenti più diversi; ma c’è anche la quotidianità, “l’idolo del tempo”  e “lo specchietto per le allodole”, l’ “incidente”  e “spaghetti e banane”.

Finché, negli anni ’90  le figure femminili fissano un’esplosione di motivi, sentimentali come “abbraccio” e “ricordi”, “Lisa” e “bimbi”, sereni  come “i ragazzi” e  “sorrisi”, ambientali come “sera”  e “nebbia”, “giardini” e “la mimosa”, con l’esplosione finale di “immagine” e “gare”, “due momenti” e “top model”, “bagno turco” e “Marocco”.

L’artista si è liberata,  può guardare altro, il “collage” di riporti fotografici e disegni, con pastelli colorati, è stata una palestra di vita e di arte:  dopo i cicli decennali della cronaca, quelli naturali del pianeta negli elementi primari, acqua, terra e fuoco, fino alle quattro stagioni, Ne abbiamo già parlato ma ci ricongiungiamo a tali cicli dopo aver seguito l’artista nel lungo percorso di “collage”.

Come concludere dopo l’excursus su questa che ci è apparsa la matrice dei suoi “collage” poi approdati alla maturità della passione naturalistica accesa dai colori ? Le parole giuste le ha dette Renato Civiello, nel 1987,  chiudendo così il proprio commento alla mostra sui «Flash” che abbiamo fin qui ricordato: “Nell’opera della Passalacqua, tutto è armonia, sapienza distributiva, respiro poetico. La gamma che s’innerva o si dissolve riconduce alla stessa mediazione non asettica, ma implicante, piuttosto, e prodiga di risonanze durature. L’arabesco e il volume, l’idea e la passione concorrono, parallelamente, ad esplorare il mistero di vivere”,

E  ciò avviene anche quando, come nella mostra in corso allo Studio S di Roma, il mistero di vivere si esprime non attraverso la cronaca quotidiana ma nelle forme più profonde degli elementi naturali e dei cicli stagionali che si manifestano attraverso una sinfonia mutevole e travolgente di colori spettacolari. A questo proposito, come per Terlizzi, l’associazione di idee di tipo musicale è immediata: per la Passalacqua come non evocare le “Quattro stagioni” di Vivaldi?

Info

Studio S. – Arte Contemporanea, Roma, via della Penna 59, tel./fax 06.3612086, cell. 339.3303719, e.mail: car.sin.s@virgilio ,it. Dal lunedì al venerdì ore 15,30-19,30; sabato ore 11-13,30/ 15,30-19,30. Ingresso gratuito. Cataloghi di Lina Passalacqua, “Voli”, Studio S Arte contemporanea, 2006, pp. 64, formato 21×29,5; “Flash”, Società Editrice Romana, 2009, pp. 102, formato 21×29,5; sulla precedente mostra dell’artista cfr. in questo sito il nostro articolo il 28 aprile 2013 “Lina Passalacqua, le Quattro stagioni al Vittoriano”. Per i temi evocati nel testo cfr. i nostri articoli sulle relative mostre:  in “cultura.inabruzzo.it”  i 2 articoli del 30 aprile e 1° settembre 2009  sul “Futurismo” , e i 3 articoli del 28 luglio 2011 su “Gli irripetibili anni ‘60”; in questo sito l’articolo del 19 gennaio 2014  su “Anni ’70, l’arte a Roma” e i 3 articoli del 22, 29 novembre e11 dicembre 2011  sulle raccolte del “Guggenheim” con la Pop Art  e le altre correnti d’avanguardia contemporanee.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante allo Studio S di Roma, si ringrazia l’organizzazione, in particolare il direttore Carmine Siniscalco, con gli artisti Terlizzi e Passalacqua  per l’opportunità offerta. Le prime 4 immagini sono  “collage” raffinati e razionali di Ernesto Terlizzi, in apertura il trittico “Sponde”; le 4 successive sono dipinti a forte cromatismo di Lina Passalacqua derivati dai propri collage-bozzetti. 

Pittura inglese, il 700, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Alla Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, la mostra “Hogarth, Reynolds, Turner. Pittura inglese verso la modernità”, dal 15 aprile al 20 luglio 2014, espone oltre 100 opere provenienti dalle maggiori istituzioni museali britanniche e non solo – prestatori  anche gli Uffizi –  di artisti inglesi del ‘700, con i tre principali in evidenza, che partendo dai valori della classicità hanno ricercato una visione autonoma, anzi autoctona. Curatori della mostra Carolina Brook e Valter Curzi, che hanno curato anche il Catalogo  Skira, con testi che ripercorrono criticamente la pittura inglese del ‘700, oltre ad una documentata iconografia. .

Il presidente della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele si è ricollegato alla mostra del 2010-11 alla Fondazione, “Roma e l’Antico. Realtà e visione nel ‘700”,  sul rilancio artistico di Roma nel ‘700  operato valorizzando l’eredità dell’antico. 

L’Inghilterra aveva assorbito i valori della classicità, tanto che Joshua Reynolds ebbe a dichiarare nel 1774: “”Dai resti delle opere degli antichi  le arti moderne trassero nuova vita ed è per mezzo di loro che esse devono conoscere una nuova nascita”.

Su questa solida base il paese si proiettava anche nell’arte verso la modernità,  con lo slancio innovativo che investiva  il campo politico, economico e sociale di una nazione al centro di un vasto impero. Londra era il cuore di fiorenti attività commerciali, industriali e finanziarie e divenne sede degli artisti – vi andò anche il Canaletto – e delle maggiori committenze, non solo quelle aristocratiche orientate verso l’arte italiana, ma quelle della nuova borghesia urbana  che intendeva celebrare nell’arte  il ruolo preminente assunto nell’economia e nella società attraverso lo spirito d’iniziativa che portava al successo individuale e collettivo.

Le linee innovative del ‘700 inglese, ritratto e paesaggio

Emanuele spiega  che “attraverso il pennello  di Hogarth, Reynolds, Wright of Derby, Zoffany e Fussli, le figure emergenti di industriali, scienziati, esploratori, oltre che di artisti, musicisti, attori e sportivi, diventano le protagoniste del percorso espositivo”.  La mostra  è, quindi,  “una carrellata che intende illustrare le numerose articolazioni presentate nel campo del ritratto, dal mezzo busto alla figura intera immersa nel paesaggio, ai gruppi, i conversation pieces, in cui famiglie o circoli di amici trovano un’originale forma di rappresentanza”.  E’ un’inedita varietà di formule compositive. 

In questo contesto, si collocano le incisioni di Hogarth nelle quali, secondo i curatori Brook e Curzi, “i temi di vita quotidiana, ‘soggetti morali moderni’, diventano l’occasione per promuovere un’arte che, al di fuori della gerarchia accademica, recupera la sua vocazione educativa, rivolgendosi a un pubblico di diversi livelli sociali con un linguaggio realistico e incisivo. Infine sarà intorno al nome di Shakespeare, padre riconosciuto dell’identità britannica, che si coaguleranno gli artisti, una schiera di Shakespeare’s Painters”, tra i quali spicca lo svizzero Fussli.

Mentre Reynolds è il ritrattista che ebbe maggiore successo  “per aver conferito a questo genere i tratti del grande stile”, commenta Emanuele.  “Al paesaggio – conclude – vengono dedicate le ultime tre sezioni, nelle quali si può osservare l’evoluzione di questo genere in direzione della modernità”.

L’innovazione dell’acquerello ha permesso di dipingere all’aperto cogliendo le variazioni di luminosità nel paesaggio, un “en plein air” che anticipa gli impressionisti naturalmente in forme molto diverse. Gli acquarellisti –  che si svilupparono fino a costituire, all’inizio dell’800, la “Society of Painters in Water Colours”  riprendevano il paesaggio in presa diretta “in loco”, oppure rielaboravano nell’atelier gli schizzi presi all’aperto. La mostra, sottolineano i curatori, presenta “la doppia natura della rappresentazione ‘moderna’ del paesaggio, ora affidata alla percezione emozionale e mnemonica, ora impostata sulla recezione razionale ‘sviluppando la logica dell’organizzazione delle sensazioni’, come avrebbe scritto Paul Cézanne a distanza di un secolo dalle opere di Towne”, un paesaggista che restava fedele al contatto diretto con la natura.

Nei dipinti  ad olio, “il paesaggio italianizzante, di matrice pastorale e classicista, continuò a mantenere per tutto il Settecento un primato nel mercato britannico – precisano i curatori – e mai venne meno in Inghilterra la passione per il paesaggio storico ed eroico, a cui ricollegare specifici valori identitari di una classe aristocratica che vanta una particolare familiarità con la letteratura latina e greca”. Ma l’originalità dei pittori britannici risiede nella visione della campagna inglese che sottende, “con la presenza di contadini e pastori impegnati in diverse mansioni, quell’etica protestante del lavoro che cancella, un po’ ingenuamente, ogni tipo di fatica e di conflitto sociale”, e  anche nel paesaggio “non antropizzato”, inserisce soggetti di “una mitologia tutta britannica”.

In  questa visione autoctona, se Gainsborough rinunciò addirittura al viaggio di formazione in Italia, Stubb visitò il nostro paese nel 1754 senza esserne influenzato mentre Wright of Derby  scoprì la pittura del paesaggio nel viaggio in Italia del 1774-75,  tra “percezione ed emozione”, tra “il pittoresco e il sublime”, per  la “coscienza della fragilità dell’esistenza umana di fronte all’immensità dell’universo”.

La mostra scavalca il ‘700 e nell’ultima sezione entra nell”800 con le pitture all’aperto di Constable di paesaggi britannici e con i paesaggi di Turner, dedicati anche a soggetti italiani come Roma e Venezia, la cui pittura è “prima ancora che restituzione del dato naturale, un fatto mnemonico e insieme concettuale: la capacità cioè di fissare, anche a distanza di tempo, il lato affettivo dell’esperienza personale di un paesaggio o di una città e di consegnare tale esperienza alla forza probante della storia”.

Sono parole dei curatori, la migliore premessa per la visita a una mostra così promettente. E l’allestimento accresce l’interesse,  creando l’ambientazione giusta per far respirare il clima del ‘700 con le architetture classiche  che riprendono quelle della sala dorica di Harewood House.

Le vedute di Londra e le effigi dei ceti emergenti

In apertura della mostra l’ambientazione diventa pittorica, nella  1^ sezione sono esposte le vedute della Londra del ‘700, la cui popolazione cresceva in modo impetuoso mentre la città assumeva l’aspetto di metropoli lanciata verso la modernità: il Tamigi e i suoi ponti in primo piano.

Ecco, di Samuel Scott, “Veduta di Wesminster con il ponte in costruzione”, 1742, e “La piazza e il mercato di Covent Garden”, 1747-48, e di William Marlow “Fresh Warf, London Bridge”, 1762 e “Veduta di Adelphi dalle rive del Tamigi” con le ciminiere di un’industria che emettono  fumo. Mentre di Joseph Michael Gandy e Van Assen “Veduta del Consols Trasfer Office nella Bank of England”, 1799,  un interno  con una grande cupola e suggestivi effetti di luce.

C’è anche il  Canaletto,  pittore degli scorci architettonici e lagunari veneziani che dipinge  inquadrature spettacolari del Tamigi nel 1747 dallo stesso ponte di Scott: “La City di Londra vista attraverso un’arcata di Westminster Bridge”, 1747,  e “Westminster Bridge in costruzione visto dalla sponda di Sud-Ovest”, suo anche l’“Interno della Rotonda di Ranelagh”, 1751, rappresentata come un grande teatro, un interno che accostiamo a quello di Gandy altrettanto imponente. Nel Catalogo si trova un’accurata analisi di Sergio Marinelli su “la Venezia degli inglesi, l’Inghilterra dei veneziani”, troveremo in seguito  i paesaggi italiani nei pittori britannici come quelli londinesi in Canaletto e in altri pittori italiani.

Sono esposti  anche degli acquerelli di Paul Sandby con i pittoreschi frequentatori delle zone popolari della metropoli:  London Cries, “ Lavandaia”  e “Lustrascarpe”, “Pescivendolo” e “Venditore di muffin”.

Dalla metropoli in crescita con queste figure caratteristiche, alle classi emergenti in una ritrattistica di tipo nuovo, con le effigi del ceto emergente di commercianti e industriali, viaggiatori e scienziati, attori e musicisti, perfino uomini di sport. Attraverso i protagonisti i dipinti celebrano i settori  verso i quali va l’interesse collettivo: dallo sviluppo economico e produttivo alle scoperte della scienza, dalle scoperte degli esploratori, nel mondo che si apre, ai successi degli sportivi. Tutto ciò alimenta per la prima volta un mercato dell’arte diffuso, in un nuovo rapporto con la crescita culturale: nascerà una scuola artistica nazionale con stile e contenuti autoctoni.

La 2^ sezione riflette il “mondo nuovo” nel quale gli esponenti del   ceto medio si affiancano  alla vecchia aristocrazia  sia nel prestigio di censo sia nel mecenatismo  verso gli artisti per celebrare lo status acquisito.  Joseph Wright of Derby raffigura “L’industriale Richard Arkwright”, 1790,  20 anni prima aveva dipinto un “Filosofo che tiene una dissertazione sul planetario”, 1768;  William Hodges presenta “Il capitano James Cook”, e “Tahiti rivisitata”, 1775-76, mentre John Hamilton Mortmer Il boxeur Jack Broughton”, 1767,  e Thomas Gainsbourough “Jonhatan Sebastian Bach”.

 Del grande Joshua Reynolds  vediamo “Autoritratto”, 1775, mentre di Johan Zoffany Autoritratto con cappello piumato”. C’è anche “L’ascesa della mongolfiera Lunardi”, dipinta da Julius Caesar Ibbetson.

La pittura teatrale e il ritratto inglese

Nelle opere che portano alla formazione di una scuola artistica nazionale si riflettono i mutamenti nella società e i modi in cui si esprime la vita sociale, tra cui lo spettacolo teatrale molto diffuso nell’epoca che diede luogo a opere che vi si ispiravano.

E’ il contenuto della  3^ Sezione della mostra, che si apre con tre dipinti di Creti, Besoli e Ferraroli su altrettante “Tombe allegoriche”, di Joseph Addison, Robert Boyle, Lord Torrington, 1722-29, vivaci scene di vita dinanzi alle tombe monumentali.

La vita sociale la vediamo nelle incisioni del 1797-1801 di William Hogarth e Thomas Cook, in particolare nel ciclo “Marriage a-la-mode” e nell’“Election Day”, che sono rappresentazioni di tipo teatrale. Una  vena di umorismo è nei personaggi che animano la scena del  “matrimonio alla moda”, il “Contratto” e “Poco tempo dopo il matrimonio”, “La visita del ciarlatano e “La levée della sposa”; mentre c’è il senso del tragico  in “La morte del visconte” e “Il suicidio della contessa”. Molto animate le scene dell'”Elezione”, dal “Banchetto elettorale” alla “Sollecitazione dei voti”, dalla “Votazione” ai “Deputati portati in trionfo”. Sono veri teatrini  le due incisioni degli stessi autori “Analisi della bellezza”, 1798, e altrettanto teatrale l’olio “Il ballo” del solo Hogarth, 1745, quindi mezzo secolo prima delle incisioni. .

Il teatro vero  e proprio è evocato da  Johan Zoffany, i cui lunghi soggiorni in Italia – a Roma a 17 anni dal 1750 al 1757, a Firenze dal 1772 al 1779 – lo presero al punto da fargli dipingere opere classiche da “David con la testa di Golia” a  una “Madonna con Bambino” non esposte nella  mostra. Ma come fu influenzato dal contesto in Italia così lo fu tornato in Inghilterra,  per cui, nota Anna Maria Ambrosini Massari, “giunto a Londra il suo percorso, soprattutto tenendo presenti gli antefatti, risulta addirittura rivoluzionario”.  Per questo “Zoffany è preciso come uno scienziato in ogni dettaglio delle sue opere, dove si vedono persone, oggetti e luoghi reali,  mai generici”. In questa sezione vediamo una scena del “Macbeth”, due personaggi che si muovono con ampi gesti.

Il teatro ispira soprattutto  Johann Henrich Fussli, di cui sono esposti 5 dipinti con  soggetti shakespeariani e mitologici,  figure di tipo classico, conturbanti ed  evanescenti. L’artista più che riprodurre scene autentiche, le reinterpretava nella sua immaginazione. A differenza di Fussli, l’ideatore del genere,  Hogarth, ritraeva attori teatrali  molto noti e scene autentiche: nel 1730 dipinse una scena del“Falstaff” e nel 1945 una di “Riccardo III” raffigurato come Laocconte.

Robin  Simon parla del rapporto tra attore teatrale e pittore, che con Hogarth ha segno opposto rispetto al normale riferimento del pittore alla performance teatrale, con lui l’attore Garrick si ispirava anche ai suoi dipinti oltre che a disegni e stampe, in una proficua sinergia tra generi artistici. E aggiunge: “Howart è spesso definito artista tipicamente inglese, insulare e istintivamente avverso a qualsiasi suggestione europea”, precisando che sebbene sia soggetto all’influenza dell’accademia  “in modo del tutto caratteristico crea qualcosa di nuovo e profondamente legato alla tradizione inglese”.  Può attingere a due culture, e segnò la ritrattistica  che nei dipinti di soggetto teatrale univa “un certo grado di autorevolezza accademica”  a un dato essenziale, “l’accurata e realistica rappresentazione degli attori ritratti”, in modo da essere riconoscibili dal pubblico.

Il ritratto, cui è dedicata la 4^ sezione,  si sviluppa notevolmente, anche perché la religione protestante escludeva i temi religiosi; inoltre gli veniva attribuito il ruolo di tramandare i valori dei protagonisti dell’epoca.  Si tratta anche di generali e nobildonne, oltre ai personaggi eminenti, in una sorta di autocelebrazione  individuale che diventa collettiva per il ceto emergente. E’ definita “età eroica”,  ne sono esponenti due “vedette” della mostra  e altri artisti già incontrati.

Di Hogarth vediamo  “Ritratto di gruppo con Lord John Hervey”,  1738-40,  una scena con sei soggetti aristocratici  ripresi come nei ritratti e“Ritratto maschile in rosso”, 1741, intenso primo piano aristocratico. 

Mentre di Joshua Reynolds   c’è una galleria di 5 ritratti:  dal busto di “Lo scultore Joseph Wilton”, 1752, con il viso che emerge dall’ombra, mentre guarda altrove, alle due figure sedute, “L’attore Garrick con la moglie Eva Maria Violette”, fino ai due ritratti in piedi a figura intera per “Lady Bampfylde” e “Il luogotenente generale John Manners”,  tutti tra il 1770 e il 1777.

“Nessun artista nell’Inghilterra del Settecento ebbe più assistenti nel corso della sua carriera di Sir Joshua Reynolds”, scrive Brian Allen, e ricorda come sia pervenuto molto materiale sulle sedute di posa per i ritratti, che seguivano un preciso  rituale: “Spesso i modelli si recavano nello studio dell’artista insieme a membri della famiglia, così la pratica potenzialmente noiosa della seduta di posa si trasformava in un’occasione sociale”.

Guarda altrove, come lo “scultore” di Reynolds, anche “William Wollaston”, 1759,  di Gainsaborough, di cui vediamo pure il precedente “Coppia in un paesaggio“, con l’abito della dama che si confonde con il terreno, tra il 1753 e il 1750. Di questo artista Allen cita un’affermazione sullo sforzo richiesto per dipingere rispetto alla remunerazione: “Mentre il pittore di ritratti è assediato fino allo sfinimento, il pittore di panneggi sta comodamente seduto e guadagna cinque e seicento all’anno, e ride sotto i baffi”.

Lo sguardo rivolto altrove è una caratteristica anche del “Ritratto di Richard Kinchant nel costume da caccia”, di John Russel, 1790, grande pastello su carta,  e di “St. Charles Watson”, 1775, di Pompeo Baroni, mentre fissano invece l’osservatore  con aria impettita “”Miss Janet Sharp” e “Julia Hasell, di Allan Ramsay, tra il 1749 e il 1750.

Ritroviamo  Zoffany con “La famiglia Sharp”, un’allegra brigata di 15 persone, e “Ritratto di Fra Giovanni Poggi”, dall’espressione arguta e ammonitrice, tra il 1777 e il 1781.

Il paesaggio e le sue variazioni

Abbiamo detto che il ritratto era uno dei grandi temi, l’altro è il paesaggio, che troviamo nelle sezioni finali della mostra. Nella 5^ Sezione è di scena il “Paesaggio on the spot”, ad acquerello, di cui abbiamo indicato le principali caratteristiche, qui vediamo le relative opere pittoriche.

Sono esposte le rappresentazioni di castelli e case padronali nella celebrazione parallela al ritratto, e di abbazie, come i due acquerelli di Paul Sandby, “Yorkshire, Roche Abbey”, 1770, “Shopshire Wenlock Abbey, 1779. Poi un sorpresa:  nei successivi acquerelli troviamo paesaggi italiani, molto sfumati fino a sembrare evanescenti, senza presenza umana: tali le “Vedute” di John Robert Cozens,  dei ” Colli Euganei” e del “Castel Sant’Elmo a Napoli”, 1782-90, i 5 paesaggi di Francis Towne,  l’“Arco Oscuro a Roma e il Tevere”, il “Giardino di Villa Barberini” e le “Terme di Caracalla”, fino al “Monte Bianco”, 1780-81. Sono abbozzati come per evocare ricordi lontani.

Torna il colore più intenso, pur se non brillante, con gli oli della 6^ Sezione, sulle “Variazioni del paesaggio”, anche qui quasi tutti paesaggi italiani. Vi sono piccole figure in un ambiente naturale che nella sua vastità è il soggetto del dipinto nel “Paesaggio con chiusa, contadini e animali al pascolo”, 1753, di Gainsborough, nelle 2 vedute diRichard Wilson,  “Tivoli, le Cascatelle e la ‘Villa di Mecenate'”, e “Il lago di Agnano con il Vesuvio in lontananza”, 1770-75, e nella “Veduta delle mura vaticane”, post 1783, di Thomas Jones, sua anche una “Marina in tempesta”, 1778.

Senza presenza umana i 3 dipinti di Wright of Derby, sul “Vesuvio in eruzione”, una “Grotta nel Golfo di Salerno”, e “Snowdon al chiaro di luna”, 1774-92, con suggestivi  effetti luminosi. Iniziò da ritrattista, come abbiamo visto, e continuò a dipingere ritratti fino all’ultimo, ma nel paesaggio fu innovativo, come sottolinea Martin Postle: “Si può affermare che con queste opere di Wright l’arte paesaggistica britannica entrò in una nuova fase, poiché esse, abbandonando il regno augusteo delle generazioni precedenti, inaugurarono l’epoca romantica di Turner e Constable”.

Sono proprio i due artisti con i quali la mostra passa nell’800 nella  7^ e ultima sezione,  c’è Turner, la terza “vedette” della mostra: i loro dipinti mostrano come l’approdo dell’evoluzione settecentesca sia stato un nuovo linguaggio figurativo aperto alla modernità,  tipicamente inglese.

John Constable fissa il paesaggio con colori netti, che diventano  sempre meno decisi e più sfumati con il passare del tempo: i più netti  in “La valle dello Stour con Dedham” e “Vallata di Dedham, sera”, 1800-05, mentre sfumano in “La vallata di Deham” e “Malvern Hall da sud-ovest”, 1809-14,  maggiormente nel “Canale presso il mulino” e “Hampstead Heath, lo stagno di Branch Hill”, 1814-21, fino a “Paesaggio con nuvole” e “La cattedrale di Salisbury”, 1820-31, quest’ultimo dal tocco pre-impressionistico. 

Cercò di conciliare la spontaneità del dipingere all’aperto con i grandi formati del dipinto in studio. Scrive al riguardoPostle:”Era desiderio di Constable di conservare nei dipinti finiti la spontaneità e l’intimità degli studi eseguiti di getto nelle sessioni di pittura en plein air” . L’artista non lasciò mai l’Inghilterra e si ispirò molto ai paesaggi della terra natia al punto di dire: “Associo ‘la mia spensierata giovinezza’ con tutto  quanto è visibile sugli argini del fiume Stour; questi paesaggi hanno fatto di me un  pittore, e sono loro grato”.

Con Joseph Mallord William Turner, che invece si ispirò soprattutto ai numerosi viaggi  in Inghilterra e in Europa,  il  paesaggio resta sfumato, reso da macchie cromatiche poco contrastate, nessun colore brillante: si ispira ai maestri classici e alla tradizione topografica per cui inserisce elementi precisi nei suoi paesaggi “esotici e maestosi – commenta  ancora Postle – montagne, mari in tempesta, tramonti e cataclismi naturali di ogni genere”. Alcuni paesaggi esposti  sono vedute con castelli, “Chateau  St. Michael, Bonneville, Savoia”, e “Lowter Castle, Westmorland”, 1802-10, o con altre strutture, come “Il porto di Londra” e “Il faro di Eddystone”, “Il Danubio con la cattedrale di Ratisbona” e “Gloucester”, 1824-40.  Le altre opere, 4 su 10, sono paesaggi italiani, del 1727-28: “Tivoli, cascatelle” e “Paesaggio con Ulisse e Polifemo”,  “Nepi” e “Catania”,  vediamo accentuato l’aspetto delle macchie dense senza ricerca figurativa, quasi l’addensamento nella memoria di quanto rimasto impresso nel viaggio in Italia, che sia pure nello slancio verso la modernità e la ricerca di un’espressione autonoma ed autoctona, restava una costante nella formazione e non solo di questi artisti, salvo alcune esplicite rinunce cui abbiamo accennato.

Si conclude così un percorso , all’insegna di un rigore espositivo che ha saputo ricreare l’atmosfera settecentesca  in clima britannico. La sfilata di effigi, ritratti e paesaggi si imprime nella mente e negli occhi dell’osservatore, l’allestimento fa il resto. Ancora una volta l’arte riesce a riprodurre un mondo che viene così affidato alla memoria. È questo il miracolo della cultura.

Info

Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, via Marco Minghetti 22 , Roma. Lunedì ore 14,00-20,00; dal martedì al giovedì e domenica 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-21,00. Il servizio di biglietteria termina un’ora prima della chiusura.Tel. 06.69205060; http://www.fondazioneromamuseo.it/, http://www.pitturaingleseroma.it/. Catalogo. “Hogarth Reynolds Turner. Pittura inglese verso la modernità”, a cura di Carolina Brook e Valter Curzi, Skira e Fondazione Roma Museo,  aprile 2014, pp.306, formato  24×28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per  la precedente mostra  della Fondazione su “Roma e l’Antico nel  ‘700”,  cfr.  in “www.antika.it”, i nostri 3 articoli “Il Parnaso a Palazzo Sciarra”, “Dal Parnaso alla fabbrica dell’Antico”, “Dal  Parnaso alla sfida all’Antico”, il  3, 4, 5  marzo 2011; su  Cèzanne citato nel testo, cfr., in questo sito, i  nostri 2 articoli  sulla mostra al Vittoriano, il  24 e 31 dicembre 2013.   

Foto

Le immagini sono state cortesemente fornite dalla Fondazione Roma Museo che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura, William Hogarth, “Ritratto di gruppo con Lord John Hervey”, 1738-40; seguono Samuel Scott, “Veduta di Westminster con il ponte in costruzione”, e William Hogarth, “Ritratto maschile in rosso”, 1741; poi Thomas Gainsborough, “Coppia in un paesaggio”, 1753, e Joshua Reynolds, “L’attore Garrick con la moglie Eva Maria Violette”, 1772-73; quindi Wright of Derby, “Grotta nel golfo di Salerno al tramonto”, 1780-81, John Constable, “La cattedrale di Salisbury”, 1829-31, e Joseph Mallord William Turner, “Paesaggio a Nepi, Lazio, con acquedotto e cascata”, 1828; in chiusura, Canaletto, “La City di Londra vista attraverso un’arcata di Westminster Bridge“, 1747.  

Grecia e Italia, classicità ed Europa, al Quirinale

di Romano Maria Levante

Le presidenze di Grecia e Italia dell’Unione Europea in successione nei due semestri del 2014 vengono celebrate con la mostra al Quirinale intitolata “Classicità ed Europa. Il destino della Grecia e dell’Italia”, dove è esposta dal 29 marzo al 15 luglio 2014 una selezione di  25 opere tra reperti archeologici, a testimonianza dell’inizio nell’antichità, e dipinti, a testimonianza dell’approdo nel ‘900. E’ realizzata, con la partecipazione di entrambi i paesi,  da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, curata da Louis Godart, Consigliere del presidente della Repubblica italiana per la Conservazione dei Patrimonio Culturale, inaugurata il 28 marzo dai Presidenti della Repubblica dei due paesi. Catalogo del Segretariato Presidenza della Repubblica.

Un’iniziativa meritoria come quella precedente dedicata alla presidenza dell’Unione Europea da parte di Cipro, con la differenza che questa volta si è ricercata un’estrema sintesi, se si pensa che rispetto ai molti reperti di allora, ne sono esposti soltanto 16, oltre ai 9 quadri di epoca recente, e qui si tratta delle due civiltà egemoni, greca e romana. Lo riconosce il Segretario generale del Ministero della cultura della repubblica Ellenica, Lina Mendoni, affermando che la mostra è stata realizzata “con un numero minimo di capolavori, il cui contenuto concettuale e simbolico è così elevato, e allo stesso tempo così familiare ai membri della civiltà europea, da essere perfettamente in grado di riconoscere gli elementi principali della memoria e dell’identità collettiva continentale”.

La testimonianza del comune destino europeo

La  stessa Mendoni ha volto in termini interrogativi il titolo “il destino della Grecia e dell’Italia” chiedendosi, dinanzi alla crisi epocale che ha investito i due paesi:  “E’ Europeo?” , e più direttamente: “Vale la pena di far parte dell’Unione Europea?”  Ecco il suo pensiero : “La risposta è affermativa, chiara e definitiva. Il destino comune, per essere autenticamente e veramente ‘europeo’, non può essere solo ‘greco’, ‘italiano’ o ‘mediterraneo’. Non può esserci un’Europa senza il Mediterraneo – come entità geografica e culturale – che ha funzionato da catalizzatore per l’incontro, l’unione  e la diffusione feconda della ‘civiltà classica greco-romana’ in tutto il continente”.  Sono “le fondamenta sopra le quali il progetto moderno europeo si è lentamente ma gradualmente costruito. Non può esistere una civiltà greco-romana rinchiusa in una struttura geograficamente ed etnicamente limitata, isolata dalla costante e inerente attività, dalla comunicazione e dalla mentalità di chi l’ha creata e la definisce”.

Il  presidente Giorgio Napolitano ha presentato la mostra citando le parole di Pericle: “Abbiamo una costituzione che non emula le leggi dei vicini, perché noi siamo più d’esempio ad altri che imitatori; è retta in modo che i diritti civili spettino non a poche persone ma alla maggioranza; perciò è chiamata democrazia”. E riferendosi espressamente alla staffetta tra Italia e Grecia nella presidenza dell’Unione Europea nel 2014,  ha affermato: “I due paesi trasmettendo al mondo il messaggio delle civiltà classiche hanno plasmato il volto dell’Europa moderna”. Le opere esposte nella mostra, reperti archeologici e dipinti, “esprimono attraverso i millenni la complessa elaborazione della coscienza europea germinata in Grecia e in  Italia e segnata dal rispetto per l’individuo  e la sua libertà  tanto celebrato dagli antichi”.

Louis Godart come curatore è entrato nei particolari della mostra  evidenziando “il messaggio lanciato all’Unione Europea dalla civiltà classica, che ha compiuto due grandi invenzioni: ha posto l’uomo al centro della storia, ha  creato la democrazia.  Sono invenzioni della civiltà greca, recepite da Roma che le ha trasmesse all’Europa e al mondo”.  La mostra presenta  reperti che esprimono la persistenza dei valori comuni: i reperti della Grecia coprono cinque millenni di storia, dal III e II millennio a. C. delle civiltà cicladica, minoica  e micenea; millenni anche nei reperti italici, dal 1200 a:C.; per concludere dipinti fino ad epoca recente, al termine di un percorso millenario.

Il nostro paese ha avuto un  ruolo fondamentale “nella trasmissione del messaggio greco, dimostrando così che fu Roma a diffondere in Europa una visione del mondo imperniata sui valori che hanno fatto grande la civiltà ellenica”. E ha citato i simboli della civiltà, la difesa della democrazia nell'”Athena pensosa” dell’Acropoli, e la lotta ai tiranni nei “Tirannicidi” del Museo di Napoli, che il presidente Napolitano ha richiamato come le due opere più significative della mostra.

Le opere esposte non sono divise per provenienza, quelle greche e quelle romane si alternano in un percorso cronologico che iniziando da millenni prima di Cristo arriva, con reperti via via  del V e I secolo a. C., poi del II e VI secolo d. C., fino ai dipinti di autori greci e italiani dal 1300 al 1950.

Seguiremo anche noi questo percorso che è una cavalcata nell’arte e nella storia del Mediterraneo.

I reperti del periodo più antico

Il reperto più antico è una statua femminile che risale al 2700-2300 a. C., della civiltà cicladica, nel cerchio di isole intorno a Delo, la patria di Apollo. Ci sono stati contatti con la Grecia continentale fin dal Paleolitico, la produzione artistica tipica delle Cicladi sono le statue di marmo, di piccola dimensione come quella esposta, ma che superamo anche il metro e mezzo.  La “Statuetta femminile” in mostra, del  Museo Archeologico di Atene, trovata nella tomba 10  del cimitero di Spedos, Naxos, appartiene al Cicladico Antico II allorché le tecniche si erano perfezionate rispetto al Cicladico Antico I  con figure schematiche, il corpo rappresentato da una sagoma, la testa come una protuberanza; la statuetta esposta è una figura sottile ed elegante, la testa è abbozzata in modo essenziale, dà un’idea di agilità ed eleganza. Nelle tombe c’era un numero molto maggiore di figure femminili, alle quali sono state date diverse interpretazioni, dalla “Grande dea madre” alle compagne destinate a servire il defunto nell’al di là. Ma poiché sono state trovate anche nei resti di abitazioni, Godart spiega: “La funzione primaria delle statue cicladiche non era certamente collegata con il culto dei morti; si tratta di oggetti che facevano parte del mondo dei vivi e che erano normalmente collocati nelle case”.

Segue un reperto legato alla civiltà micenea, il “Rhyton a testa di toro” rinvenuto a Zagros,  un vaso per libagioni  che evoca la leggenda del Minotauro, la mostruosa creatura nata dal toro bianco mandato da Poseidone a Minosse, figlio di Zeus e di Europa , il quale non volle sacrificarlo al dio e fu punito dalla sua unione innaturale con la moglie Pasifae, invaghitasi dell’animale, dalla quale nacque il Minotauro, cui venivano dati sacrifici umani nel labirinto di Dedalo, dove era rinchiuso e fu ucciso da Teseo aiutato dal filo di Arianna.

Poi la “Tavoletta in scrittura lineare B”  testimonia l’introduzione della scrittura, per le esigenze di registrare e controllare il traffico  che si svolgeva tramite i “palazzi” minoici, dove venivano consegnati i prodotti del territorio e da lì distribuiti  nello sviluppo di scambi commerciali. Tra le due scritture sillabiche sorte nei secoli XVIII e XVII, geroglifico e lineare A, prevalse la scrittura lineare a Creta e nelle isole, I Greci vi si stabilirono dalla fine del III millennio e adattarono alle loro esigenze il lineare A, così nacque  il lineare B,  utilizzato all’inizio sempre per registrazioni di controllo attraverso gli scribi ufficiali.

Altre civiltà vengono evocate seguendo le rotte commerciali dei minoici e micenei, come quella egiziana:  le navi egee portavano i prodotti dell’Asia in Egitto dopo che i Faraoni ebbero occupato  i porti della costa siriana. Negli scritti in lineare B si trovano citati porti dell’Egitto, inoltre di  Mileto e Cipro, Cnido e Alicarnasso, in quanto erano quelli del commercio di tipo statale; mentre per il Mediterraneo occidentale, nelle rotte dei commerci privati dei mercanti egei, vi sono i reperti archeologici delle presenze micenee in Magna Grecia e in Sicilia, nelle Eolie e in Sardegna.  L’Anfora a staffa del periodo Tardo elladico, risalente al XIII sec. a. C., esposta in mostra e proveniente dal Museo di Taranto, è una di queste preziose testimonianze storiche: le popolazioni locali apprezzavano i vasi micenei al punto di produrli  imitando i lavori dei ceramisti egei.

Altra importante testimonianza è la “Kotyle Rodia” dell’VIII sec. a. C., in argilla, rinvenuta in una tomba di Phintecusa, oggi Ischia, la sua decorazione geometrica fa pensare che provenga dall’Egeo Orientale, forse Rodi. E’ detta “Coppa di Nestore”  perché così si legge nell’iscrizione in una delle scritte alfabetiche più antiche del mondo greco, e il nome richiama un personaggio omerico. Vi è scritto  che “chi berrà sarà preso immediatamente dal desiderio di Afrodite”, la dea dell’Amore, il cui culto fiorì a Cipro. Sono versi in forma metrica, segno che già nell’VIII sec. c’era la poesia epica greca scritta, inoltre è la coppa accuratamente descritta nell’XI canto dell’Iliade, “una coppa bellissima che il vecchio [Nestore] portò da casa”; evidentemente la portarono poi nella sua tomba.

I reperti del V-VI sec. a. C.

Questo periodo intermedio tra  quelli cui si riferiscono i reperti in mostra presenta la “Kore”, in marmo pario, della fine del VI sec. a. C.,  rinvenuta ad Est dell’Eretteo, il tempio dedicato ad Atena Pallade, protettrice della città. La statuetta è di epoca  precedente la distruzione dell’Acropoli nel 480 da parte di Serse, poi sconfitto per mare a Salamina e per terra a Platea  l’anno successivo; seguirà la ricostruzione iniziata da Temistocle dei santuari e monumenti sulle rovine del passato, così abbiamo il Partenone tra il 447 e il 438, i Propilei tra il 438 e il 432, il tempio di Atena Nike, nel segno della vittoria, tra il 421 e il 415, l’Eretteo completato tra il 410  e il 404 a. C.  Viene ricordata  la gara tra Atena e Posidone, la vittoria di Atena con il dono dell’ulivo, il prodigio della statua caduta dal cielo dove nel I millennio a. C. le fu edificato il tempio con successive ricostruzioni, ampliamenti e abbellimenti.

Abbiamo citato la distruzione dell’Acropoli nella guerra tra greci e persiani: ebbene, il celebre pittore di vasi greci Eufronio – la cui posizione nella pittura greca arcaica è ritenuta pari a quella di Leonardo o Raffaello nel Rinascimento – fornisce nella “Kylix attica a figure rosse” e nel “Cratere con  Sarpedonte”  la doppia prospettiva in cui viene vista la guerra, una epica e l’altra tragica. La visione epica presenta l’immagine dei giovani ateniesi che si preparano alla battaglia, hanno il volto sereno, l’anima in pace, combatteranno per la propria patria, la massima virtù civile; la visione tragica presenta il trasporto del corpo di Sarpedonte trafitto dalla lancia, nell’impari duello con Patroclo vestito delle armi di Achille, cioè la fine della vita, la  terribile rovina per un giovane.  La  guerra di Troia è rappresentata da Eufronio nelle sue espressioni più violente e spietate, come l’uccisione del piccolo Astianatte, figlio di Ettore ed Andromaca,  e poi del re Priamo, nel tempio inviolabile e sotto gli occhi sbarrati della figlia Polissena violando tutti i principi di umanità.

Questo il commento di Godart: “Dalla Kylix che descrive gli orrori della guerra al Cratere che sconsiglia di andare a combattere, il messaggio politico di Eufronio è evidente: la guerra va condannata in assoluto perché è portatrice di sofferenze e di lutti”.

“In più spirabil aere”, per così dire, con i due reperti che provengono dagli Horti Sallustiani, sono di figure femminili, quindi lontani da riferimenti bellici:  “L’amazzone inginocchiata”, del VI sec. a. C.  e l’“Acrolito Ludovisi”, della prima metà del V sec., erano nei giardini che  Sallustio arredava con i capolavori del mondo greco da lui ammirato.

Altra opera esposta ispirata alla bellezza muliebre  è la “Stele Borgia”, dello stesso periodo, di marmo bianco, proveniente dal Museo Archeologico di Napoli, della collezione iniziata da Gioacchino Murat.

Con “Atene pensosa”  torna il riferimento alla guerra attraverso un’immagine tutt’altro che bellica:, che si cerca di interpretare, considerando  che fu trovata nella Rocca sacra del Partenone e proviene dal  Museo dell’Acropoli. Godart l’ha commentata così nella presentazione alla mostra: “La sua serena  e severa perfezione trasmette a chi l’ammira un sentimento di pace ma guai ad inorgoglirsi eccessivamente pensando ai risultati raggiunti! L’Atena che poggia la fronte sulla lancia non è soltanto la dea dell’intelligenza, è anche quella pronta al combattimento. Le conquiste che l’Atene democratica ha conseguito rischiano di non essere eterne, perciò vanno difese e la lancia deve essere perennemente al servizio della lucida intelligenza”. C’è un’altra interpretazione alla quale Godart stesso ha aderito nel corso della visita alla mostra, cioè la sofferta riflessione della dea pur nella vittoria  dinanzi alle tante perdite umane. In fondo si ripropone in quest’opera la doppia  prospettiva  del vaso di Eufronio sulla guerra, non sono visioni alternative ma compresenti.

Pensosa anche la testa in bronzo della seconda metà del V sec. a. C. esposta, è tra i reperti di grande interesse rinvenuti nel mare di Reggio Calabria com’è avvenuto per i “Bronzi di Riace”, . a C.. E’ chiamata “Testa del ‘filosofo'” anche con riferimento alle scuole filosofiche della Magna Grecia.

I reperti dal I sec. a. C. al II sec. d.C., il Codice purpureo

Siamo giunti a cavallo dell’era cristiana, è del I sec. a. C. la “Statua di giovane” in bronzo, proviene dal Museo Archeologico di Atene,  recuperata dalla Germania dove era approdata per le vie misteriose del traffico illegale, è del periodo ellenistico-romano,  scuola di Policleto. Mentre si colloca tra il I sec. a. C. e il I sec. d.C. il “Busto di Pirro”,  in marmo, dalla Villa dei Papiri di Ercolano, proviene dal Museo archeologico di Napoli, raffigura il re dell’Epiro sconfitto da Roma, che è entrato nel linguaggio comune per indicare una vittoria che è costata più di una sconfitta.

Non c’è solo la guerra verso il nemico esterno, c’è anche un nemico interno da combattere con altrettanta forza, è il tiranno. Questo è testimoniato dal “Gruppo dei Tirannicidi”, del II sec. d. C., copia romana scoperta a Villa Adriana e portata a Napoli,  con la collezione Farnese; l’originale era rappresentato da due statue degli scultori Crizio e Nesiote, che a loro volta avevano  riprodotto la statua originaria dello scultore Antenore portata via dai Persiani nella conquista di Atene del 480 a. C.  Le  dimensioni sono più grandi di quelle naturali, l’imponente gruppo marmoreo celebra Armodio e Aristogitone, uccisori del tiranno Ipparco. In realtà i motivi furono personali – vendicare la sorella che il tiranno voleva escludere da funzioni rituali per il rifiuto oppostogli  da Armodio – ma assunsero un valore civile dopo che  furono presi e giustiziati e la situazione si aggravò, come ha scritto Tucidide: “Dopo questi avvenimenti la tirannide divenne per gli Ateniesi molto più dura e Ippia, ormai in preda alla paura, uccise molti cittadini; e cercava fuori di Atene un riparo dove fuggire in caso di rivoluzione”. La fuga del tiranno avvenne nel 510 e, come attesta Plinio, i due furono il simbolo della ribellione alla tirannide, celebrati come eroi.

Concludiamo la rassegna con un reperto del tutto diverso, il “Codex Purpureus Rossanensis”, del VI sec. d. C., manoscritto in pergamena purpurea finemente miniato, viene da Rossano in Calabria, dove approdarono i monaci geco-melkiti in fuga dinanzi all’espansione araba dopo il 636-638, e i monaci iconoduli dopo la metà dell’VIII secolo per sfuggire alle persecuzioni degli imperatori bizantini contro i monasteri. L’ipotesi più attendibile sembra quella secondo cui il Codice purpureo vi sia stato portato da questi ultimi. A “Rossano la bizantina”, sede vescovile, ci sono monasteri e biblioteche, sono di questa terra di accoglienza dei papi e santi come San Nilo e San Bartolomeo fondatori della celebre basilica di Grottaferrata vicino Roma, particolari che confermano l’ipotesi.

E’ un codice miniato molto particolare nel suo aspetto esteriore estremamente arcaico al quale corrispondono all’interno miniature molto raffinate, con il bianco, celeste e soprattutto l’oro,  che spiccano sulla scura porpora della pergamena, In mostra è chiuso sotto una teca di vetro, ma lo si può “sfogliare” virtualmente pagina per pagina in un video che ne rende la straordinaria bellezza.

I dipinti del XII, XVII e XX secolo

La cavalcata nei tempi remoti finisce qui, ma non il percorso della mostra che si propone di giungere al giorno d’oggi, sia pure con poche  presenze pittoriche di artisti greci e italiani.

Prima un’opera molto antica, “La vergine della tenerezza”, del XII sec. d. C., dal Museo Bizantino Cristiano di Atene, una tempera all’uovo su legno semplice e maestosa, espressione dello spirito religioso sviluppatosi in Oriente, nel mondo bizantino. Segue un’altra presenza greca di eccellenza, “San Pietro” , opera di “El Greco”, artista nato a Creta,  vissuto tra la Grecia, l’Italia e la Spagna,  un olio su tela del 1600-1607 in cui la spiritualità è unita all’autorevolezza.

Degli stessi anni “San Giovanni Battista” di Caravaggio, il pittore con il quale nasce l’arte moderna,  in un parallelismo tra l’arte italiana e quella greca: una figura non certo acetica ma popolare, il modello del santo  ricorda quelli che spesso fecero rifiutare l’opera ai committenti, quando riconobbero, ad esempio, che per il volto della Madonna aveva preso quello di una popolana amica dalla vita non certo spirituale. A lato il dipinto di Mattia Preti, “Il tributo della moneta”, un caravaggesco che ha ripercorso l’itinerario di Caravaggio, come lui è stato a Roma, a Napoli e a Malta, anche se non aveva condanne a cui sfuggire, come Merisi la cui odissea tra queste località e la Sicilia fino alla morte a Porto Empedocle fu dovuta alla condanna a morte per una rissa finita tragicamente  con la morte del fratello del capo rione di Campo Marzio a Roma.

Sule altre pareti dell’apposita sala, le opere del ‘900. Per l’Italia due dipinti che fanno parte del patrimonio del Quirinale, il sereno e liliale “Il mattino delle rose. L’attesa”, 1906, di Giovanni Giani, che ci porta in un contesto ambientale accogliente e familiare, e “Le tabacchine” di Guido Cadorin,  di cui ricordiamo oltre ai dipinti religiosi, gli affreschi della Stanza del Lebbroso nel Vittoriale dannunziano; il  dipinto esposto 

Conclude una terna di opere di artisti greci, due del 1931 di Konstantinos Parthenis, un pioniere del modernismo  nel suo paese “Natura morta con Acropoli” e “Paesaggio con tre figure”, entrambi in tinte pastello, l’Acropoli nel primo e le tre figure nel secondo sono quasi in dissolvenza, evanescenti, un insieme suggestivo. La terza e ultima opera è del 1951, “Figura”, di Yiannis Moralis, pioniere del post-modernismo, un’immagine scura molto ben definita.

La conciliazione dell’arte moderna con la tradizione è stata una conquista degli artisti greci, come si è visto nella mostra al Vittoriano “Ellenico plurale”  che ne ha esaltato l’ampiezza dell’orizzonte sul piano stilistico e su quello dei contenuti; anche quell’esposizione  ha avuto un particolare significato politico, essendosi svolta nel momento di maggiore crisi per la Grecia, indegnamente bistrattata in campo europeo, a riaffermarne l’alta dignità e il valore della sua civiltà che non può essere umiliato, come non può esserlo quello italiano, da deteriori visioni mosse da egoismi e ristrettezze culturali.

Né la loro economia può essere soffocata da restrizioni insostenibili esercitando un’egemonia finanziaria che risulta inaccettabile in quanto rende impossibile la crescita, fonte di lavoro e di iniziative, di sviluppo e di ordinata vita civile e sociale, e condanna  a una regressione senza fine.

Quale  conclusione si può trarre da questa mostra, che celebra la significativa staffetta dei due paesi, accomunati nella presidenza semestrale dell’Unione Europea del 2014 – la Grecia nel primo, l’Italia nel secondo semestre – come lo sono stati nella diffusione dell’arte e della civiltà nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo?  Che la sua concomitanza con le elezioni  per il nuovo Parlamento Europeo possa essere il segno di una svolta per una nuova Europa  dando corpo ai valori della civiltà classica nello slancio solidale verso la crescita civile, economica e sociale di una vera unione di popoli.

Info

Palazzo del Quirinale, sala delle Rampe e sale delle Bandiere. Da martedì a sabato ore 10,00-13,00, 15,30-18,30; domenica 8,30-12,00 in concomitanza con l’apertura al pubblico delle sale di rappresentanza, chiuso il lunedì  e i giorni festivi, comprese le domeniche del 1°, 22 e 29 giugno, 6 e 13 luglio 2014. Ingresso gratuito. Catalogo: “Classicità ed Europa. Il destino della Grecia e dell’Italia”, marzo 2014, pp. 240, formato 23×30. Per le precedenti mostre al Quirinale, citate nel testo, e per questa mostra,  cfr. in “www.antika.it”  i nostri articoli “Roma. I reperti di Cipro, l’isola di Afrodite, al Quirinale”, ottobre  2012, “Roma. I tesori del Quirinale alla fine del settennato”,  ottobre 2013, e “Roma. Al Quirinale la classicità di Grecia e Italia per l’Europa”, maggio 2014. Per la mostra “Ellenico plurale” citata, cfr. in questo sito il nostro articolo il 26 dicembre 2012.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Quirinale alla presentazione della mostra. Si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e la Segreteria generale della Presidenza della Repubblica con i titolari dei diritti, per l’opportunità  offerta. In apertura, “Athene ‘pensosa’”, 460 a. C.;  seguono “Gruppo dei Tirannicidi (Armodio e Aristogitone)”,  II sec. d. C., e “Cratere di Eufronio”, 515 a.C; poi “Statua di giovane”, I sec. a.C.-I sec. d. C., e “Acrolito Ludovisi”, 480-470 a. C., quindi “Kore”, 520-510 a. C. e “Aristogitone“, particolare del “Gruppo dei Tirannicidi”; in chiusura, Caravaggio, “San Giovanni Battista”, 1605-06.

Interni d’artista, 7 artisti dell”800-‘900, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Una serie di opere, molte mai esposte finora, ambientate negli studi di 7 artisti dell”800-‘900 nella mostra alla Gnam “Interni d’artista”, dal 4 marzo al 2 giugno 2014,  inserita in un programma sul ruolo dello spazio privato con una serie di iniziative per il pubblico. Gli artisti di cui sono ricostruiti gli studi, con le loro sagome, sono Palizzi e Morelli, Ferrazzi e Mazzacurati, Balla e Capogrossi, più un’installazione di Alik Cavaliere. E’ curata da Massimo Mininni,contemporanea alle mostre “Isabella Ducrot. Bende sacre” e “Ventisette artisti e una rivista”; nello stesso periodo la mostra di scultura “Gli scultori italiani dopo Rodin”, con tante opere. La Gnamè un palcoscenico straordinario per l’incomparabile spettacolo dell’arte.

E’ una mostra diversa dalle altre, anche se non inconsueta alla Gnam che ha un patrimonio così vasto di opere esposte in modo permanente o in magazzino, da poter di volta in volta offrire percorsi tematici particolari in mostre studiate per l’occasione.  Nell’ambito del  programma “Le storie dell’arte. Grandi Nuclei d’Arte Moderna” la Gnam periodicamente organizza mostre su singoli artisti  utilizzando anche opere  non esposte nel percorso  permanente; in queste circostanze non è mancata un’ambientazione  idonea a far sentire l’atmosfera dei depositi in cui sono conservate le opere non visibili dal pubblico, lo abbiamo visto in una mostra sulle nature morte.

L’atmosfera degli studi d’artista

Per questa mostra il criterio espositivo è stato diverso,  si è voluta rendere l’atmosfera degli studi degli artisti presentati, come spazi creativi in cui ambientare le loro opere. Non si è trattato di una scelta limitata all’allestimento, di questi artisti viene approfondita la vita di studio-atelier, quindi sono analizzati gli spostamenti nel corso della vita artistica delineando una mappa urbana e artistica coinvolgente. Il visitatore che voglia seguire queste ricostruzioni, analiticamente descritte dalle ampie schede  esplicative nelle sale dedicate ai singoli artisti, compie un “tour”  affascinante che lo fa entrare in interni sempre diversi, evocativi dei loro percorsi artistici e di vita. Si è portati  a riflettere  sul ruolo degli atelier come spazi di auto-rappresentazione degli artisti e sedi di incontri oltre che di lavoro.

La scelta espositiva  sottolinea inoltre che le opere presentate provengono direttamente  dagli studi suddetti come donazioni o acquisizioni dirette da parte della Gnam, quindi non vi sono stati passaggi intermedi in altre gallerie e collezionisti; perciò conservano l’odore e il sapore dello studio dell’artista, e non essendo state per lo più esposte, è come se vi fossero rimaste e lo studio venisse aperto ora al pubblico.

Sono presentati anche quadri dell”800-‘900, alcuni mai esposti finora, sugli interni degli studi, nell’ambito  delle iniziative con il MiBAC volte ad approfondire tale tematica, anche con una mappatura degli atelier romani di cui è fornita un’anticipazione  in un video di Marcella Cossu e Silvana Freddo, curatrici della mostra contemporanea “Bende sacre”. Si aggiunge la possibilità di visitare studi di artisti presenti a Roma, così presentata: “Un percorso nel cuore segreto degli ateliers che gli artisti e le accademie straniere hanno aperto al pubblico per far conoscere e far  vivere l’esperienza di uno spazio in cui viene quotidianamente praticato un mestiere e spesa una vita per l’arte”.

Nel sito della Gnam nel corso della mostra si può consultare il calendario delle visite.

Filippo Palizzi e Domenico Morelli

Cominciamo da Filippo Palizzi non perché come noi è un abruzzese quanto perché la sua sala è la più spettacolare, la prima in cui siamo entrati, colpiti subito dalla straordinaria  ricchezza espositiva: le pareti letteralmente coperte di suoi quadri fino all’alto soffitto, ne abbiamo contati almeno un centinaio, molti dipinti con tema il cavallo, tanti altri con scene di vita contadina.

Ricordiamo le sue opere esposte a Teramo insieme a quelle di altri artisti abruzzesi dell’800-‘900, nella mostra del 2011 sulla “Gente d’Abruzzo”, clima e atmosfera attraverso l’interpretazione di artisti della stessa terra d’Abruzzo: un esempio che a suo tempo proponemmo di seguire in altre regioni per creare un circuito artistico evocativo che gioverebbe alla conoscenza reciproca di usi, costumi e ambienti, stemperando le contrapposizioni localistiche nella comune identità popolare.

L’ambientazione nello studio è insita nella “quadreria” che è stata ricostruita, con una ringhiera e la sagoma dell’artista. Nella scheda a lui dedicata, Linda Sorrenti  ricorda  che donò 327 opere nel 1891 alla Gnam, allora al Palazzo Esposizioni, e su sua indicazione furono collocate sulle pareti in una “quadreria” che riproduceva, come quella della mostra attuale, la disposizione nel  suo studio di Napoli in Vico Cupo a Chiaia.  Definì la donazione nel giugno 1892  una “semplice dimostrazione  della fede e amore immensi che sempre portai nelle lunghe e laboriose ricerche dell’Arte”.

In alcune incisioni di Dante Paolocci sull'”Illustrazione italiana”  dell’agosto 1892, si vede la sala il giorno dell’inaugurazione, con tanti schizzi e studi oltre a quadri. In effetti era solito raccogliere gli spunti per le sue opere da giugno a novembre in schizzi e studi, poi con la “rielaborazione invernale” traduceva quegli appunti nelle opere pittoriche. L’amico pittore Domenico Morelli, che aveva lo studio vicino in via della Pace 39, ne parla in un testo contenuto nella raccolta  “La scuola napoletana di pittura nel secolo decimo nono ed altri scritti d’arte”, nel quale sottolinea il ruolo di Palizzi dopo il 1840, improntato al realismo sociale senza formalismi e accademismi, ne fa fede la  “Gente d’Abruzzo”.

La sala  vicina è dedicata proprio allo studio e alle opere  di Domenico Morelli, quasi coetaneo dell’amico Palizzi, la loro vita si è svolta dagli anni ’20 a fine ‘800, erano vicini anche fisicamente, dato che, come è scritto nella biografia, “le porte dei loro studi erano l’una accanto all’altra, nei giorni della lotta e della pena, e s’aprivano quando l’amico chiamava il fratello”.

Vediamo esposto il dipinto  “Torquato Tasso legge la Gerusalemme Liberata a Eleonora d’Este”, 1865, e le opere religiose della maturità, “Cristo nel deserto” e “Pater noster”, 1898,  che figurano nell’immagine scattata dai fotografi Danesi nel suo atelier; in un’altra fotografia si vede “Mater purissima” con il “Ritratto di Pasquale Villari” che fu con Morelli sulle barricate nei moti del 1848 contro i Borboni; tre anni dopo il pittore ne sposò la sorella.

Questa e tante altre notizie sono nell’ampia scheda di Valentina Filamingo che ricorda come il suo atelier  fosse frequentato, oltre che da Palizzi, dall’artista abruzzese vicino a D’Annunzio, Francesco Paolo Michetti – ricordiamo anche lui nella citata mostra a Teramo “Gente d’Abruzzo” – da Bernardo Celentano e da stranieri come Mariano Fortuny e Lawrence Alma-Tadema il quale gli mandava cartoline sulla Palestina, terra che lo attirava molto come ispirazione religiosa, tanto che ne teneva una pianta nello studio e Primo Levi: nel libro sulla sua vita  e la sua arte, scrive che “dinanzi ai suoi quadri, ai suoi studi, ai suoi disegni della galilea e della Giudea, gli diceva: Ma voi ci siete stato!”, per cui fu definito “viaggiatore intorno al cavalletto”.

Ashton R.  Willard descrive  il suo studio – del quale l’ambientazione  della Gnam si limita forzatamente a riprodurre l’angolo con il cavalletto e una serie di quadri come quelli citati – osservando che vi sono ampie stanze  il cui “carattere è in prevalenza orientale e ci sono poche suggestioni del suo iniziale periodo romantico”, testimoniato solo da “grande cartone del ‘Tasso’ che ancora occupa lo spazio in alto sulla parete che gli assegnò quando occupò le attuali stanze di lavoro”. Per il resto “i pavimenti sono coperti da tappeti tirchi e divani rosso scuro. Vari oggetti d’arte orientale  in ceramica e metallo sono sparpagliati sulle mensole e sui tavoli, ricami e tappezzerie siriane trovano posto negli spazi liberi sulle pareti”. Un’ambientazione dannunziana  nella quale viene preservato dall’artista l’angolo originario che vediamo ricostruito nella mostra.

Ferrazzi, Mazzacurati e Cavaliere

Con  questi tre artisti si entra in pieno ‘900, essendo nati o alla fine dell”800  o nel nuovo secolo.

Lo studio in cui Ferruccio Ferrazzi  lavorò per 35 anni era una capanna di un orto in affitto a Roma, nella zona della Domus Aurea, tra l’Esquilino e Colle Oppio, lo spostò per tre volte finché riuscì a inserirlo addirittura in una cappella borrominiana.  E’ figlio d’arte, ricorda che nello studio paterno, nella loro  abitazione modesta ma luminosa a piazza Vittorio, “sull’ammattonato con mio fratello sgorbiavamo a carbone i primi S. Micheli del Reni, e i putti di Raffaello”.

Il suo studio nell’orto era in una  corte dei miracoli, tra le mura che cingevano il terreno erano sorte  baracche con un’umanità pittoresca, acquaioli e ortolani, falegnami e fabbri, fabbricanti di terraglie e di liquido da bucato, c’era anche l'”Osteria dei bontemponi”: “Pareva una piccola repubblica – ha ricordato lui stesso – sembrava di vivere in una grande comunità o in una sola famiglia, io stavo nel suo centro poetico, rispettato ed amato, qui uscivo con le mie tele a dipingere, qui venivano invitati da me gli artigiani a vedere le mie opere, che partivano poi per le esposizioni del mondo”.  Nel 1977  ha aggiunto: “Nella mia capanna all’orto delle Sette Sale venivano Capogrossi, Ziveri sempre eccitato fin da giovane quando vedeva  pittura, Mazzacurati con l’amico critico Arsian, Stradone allora giovinetto. Ma in realtà sono stato sempre un solitario”.

Lo studio successivo in via Ripetta, cui si ispira la ricostruzione della mostra, si vede in una foto d’epoca con dipinti alcuni dei quali divenuti di proprietà della Gnam ed esposti in mostra: lo frequenta lo scultore Martini, mentre lui frequenta Balla e Marinetti accostandosi al futurismo la cui influenza si vede nelle opere esposte  “Albergo a Montreux” e “Carosello alla Riponne”, 1916-17, partecipò poi alla grande Esposizione Nazionale Futurista del 1919. Nel 1927 dalla capanna nell’orto si trasferisce a Palazzo Altieri vicino Piazza Venezia, ma dipinge anche al Casalaccio di Tivoli per fuggire dalla città, opere come “Toro romano”, 1930,  che vediamo esposto; dal 1934 al 1957 avrà lo studio al Piazzale delle Muse ai Parioli, con vista sul Tevere, infine si trasferirà all’Argentario su un poggio nel 1959-60, per appartarsi definitivamente, e torna alla scultura.

In questa successione di studi-atelier,ricostruita nell’ampia scheda di Keila Linguanti,  c’è il suo percorso artistico ed esistenziale, con ricorrenti fasi di crisi e insofferenza per le pressioni dell’ambiente. Così le sue parole: “Al Casalaccio di Tivoli, ancora al fianco di mio padre, sentii un giorno il respiro ampio verso l’eternità panica che mi sconvolge tuttora lo spirito tra il divino e l’umano”; e alla fine “l’innato desiderio di contemplazione, di silenzio i meditazione, di misura dell’uomo in rapporto con le cose mi hanno spinto qui all’Argentario”. Lo studio ai Parioli, “allora periferia verde e silenziosa”, come lui stesso diceva, era descritto dalla stampa “vasto, luminoso, accogliente”, un “ambiente altissimo” nel quale “tre cavalletti sostengono tele, tavole, su cui Ferrazzi lavora anche contemporaneamente, e poi quadri dappertutto”; confidava “di aver passato molte notti nel mio scantinato a lambiccare combinazioni di smalti, di vernici, di supporti, di imprimiture, di resistenze al colore”.

Ci siamo soffermati su questo artista per la testimonianza preziosa sullo studio-atelier arricchita dalla molteplicità delle sedi in cui si è trasferito con caratteristiche così diverse e significative per i riflessi sulla sua sensibilità che lo portava ad evaderne temporaneamente o e poi stabilmente.

Abbiamo ricordato che tra i frequentatori della sua capanna-atelier vi era Mazzacurati. Ed è di Renato Marino Mazzacurati la successiva ricostruzione dello studio d’artista, anche lui ne ha cambiati diversi. Emiliano, studia all’Accademia delle Belle Arti di Roma, dove ha il suo primo studio nel 1926 nel laboratorio collettivo di Villa Strohl-Fern; con Mario Mafai fonda la “scuola di via Cavour”, nell’abitazione di Mafai in tale strada. Due anni dopo sposta lo studio al Testaccio e dopo tre anni, nel 1931, in  via Flaminia dove con Scipione fonda e dirige la rivista “Fronte”.

Nel 1938 è di nuovo a Roma, questa volta stabilmente, dopo un ritorno in Emilia, il suo studio ora è in via Margutta, ma lui si sposterà in via Giulia, nell'”officina” di Villa Poniatowski dove crea con Enrico Galassi oggetti di arte applicata, collaborano anche Giorgio de Chirico con il fratello Savinio, Pietro Consagra e Franco Gentilini. Nel 1947 quest’iniziativa si chiude, e quando viene data agli artisti la possibilità di occupare i locali di Villa Massimo dov’era  prima l’Accademia tedesca vi si trasferisce, con  Renato Guttuso con lui anche in via Giulia.  Vì crea delle opere esposte in mostra, come il “Ritratto di Palma Bucarelli” e il “Fucilato”, dal “Monumento al partigiano”. Il periplo romano dei suoi atelier termina agli Orti della Farnesina, con Mafai, negli studi all’interno di appartamenti realizzati da una cooperativa di artisti.

Anche per lui, come per gli altri, il percorso da uno studio all’altro, che abbiamo riassunto sulla base della ricostruzione di Maria Sole Cardulli,  è significativo rispetto alle vicende della vita e alla crescita artistica: la mostra ne dà testimonianza.

Ben diversa è la testimonianza relativa ad Alik Cavaliere, come anche l’esposizione a lui dedicata, una spettacolare struttura scenica ricostruita che occupa un’intera sala, è dedicata a “I Processi dalle storie inglesi di Shakespeare”; risale al 1972 ed esprime la delusione della gioventù per la caduta delle speranze di rinnovamento del 1968. I “processi” sono anche sociali e culturali, ma la rappresentazione è di tipo giudiziario, con giudici e imputati, il potere e le sue vittime.

La voce di Roberto Sanesi recita un suo testo accompagnato dalla musica di Bruno Canino, su un’imponente intelaiatura lignea un palcoscenico con un manichino, un uomo sanguinante in gabbia,  una donna  dietro una grata, e più di cento oggetti simbolici sparsi in disordine e in bell’evidenza. Il perché lo spiega l’autore: “E’ rimasta la memoria, la traccia, il ricordo attraverso gli oggetti lasciati, le cose sono rimaste attraverso questa memoria fisica, toccabile. Ho giocato a ibernare le cose, a fossilizzarle, a bloccarle in una situazione di immobilità estetica”.

La scheda di Arturo Schwarz descrive in dettaglio le componenti e i simboli, sottolineando l’indifferenza fino al disprezzo del giudice verso la donna dietro la grata, la quale rappresenta l’umanità vittima dei soprusi che si estendono alla natura, anche se nell’albero c’è una ambivalenza positiva. “Nessun aspetto positivo, invece, conclude Schwarz, per l’uomo in gabbia, gabbia che sta anche per quella dei ruoli e delle convenzioni. Come nel racconto di Alice nel paese delle meraviglie, possiamo intuire che la pena è pronunciata prima del verdetto”.

Giacomo Balla e Giuseppe Capogrossi

Siamo al “clou”, con Balla e Capogrossi, già citato come frequentatore dello studio di Ferruccio Ferrazzi nell’orto delle Sette Sale: è la grande arte,  dal futurismo  del primo agli “inconfondibili segni” del secondo.

Giacomo Balla venuto a Roma da Torino come “architetto pittore” si stabilisce prima nella zona di Via Veneto, in via Piemonte, poi vicino alla Stazione Termini in via Montebello: vanno da lui Boccioni, Severini e Sironi, poi si sposta in una abitazione in via Salaria, finché il primo vero studio nella casa dove va dopo essersi sposato con Elisa,  in via Parioli, ora via Paisiello, all’angolo con via Porpora, fuori Porta Pinciana, con vista sul verde di  Villa Borghese.

Non è una storia come quelle precedenti in cui gli atelier successivi rispondevano alle accresciute esigenze e possibilità economiche ma restavano “interni d’artista” e niente più. Lui trasforma la casa-studio in laboratorio futurista dove produce arredi e oggetti in carattere con il movimento e ne fa il centro propulsore del futurismo romano, al punto che nella stampa comparivano inviti di questo tono: “Visitate la casa Futurista di Balla ogni domenica dalle 15 alle 19. Via Nicolò Porpora 2, Roma”.  Prampolini, Depero ed Evola tra i frequentatori più  assidui. Francesco Gargiulo la definisce “tutta iridescente e scintillante di colori, di vetri fracassati dal sole, traforata dall’aria e dal cielo azzurro cinguettante”, e il suo studio “ingombro di quadri geniali, di costruzioni dinamiche, di svariate architetture diaboliche, fantastico di ogni magia”.

Poi, in  una sorta di contrappasso, si deve trasferire, perché la casa viene demolita, il quartiere si rinnova all’insegna della modernizzazione accelerata, è “la città che avanza” dei suoi dipinti futuristi.  Prima viene ospitato nella Villa Ambron a Valle Giulia dall’allievo proprietario, poi si sistema nel quartiere Prati, in via Oslavia, in una casa popolare. Vi resterà definitivamente, attrezzando lo studio con gli arredi del laboratorio futurista di via Porpora, insieme alle figlie pittrici Luce ed Elica, i cui nomi evocano la luminosità e il movimento del futurismo.

“La casa di Balla – si legge nella scheda di Elena Gigli –  ai Parioli fino al 1926, poi al quartiere Delle Vittorie,  si presenta sempre come una fucina dove inventare, progettare e realizzare oggetti utili al lavoro ma anche belli e magici”.

Pensando a queste parole, dall’angolo dello studio ricostruito con la sagoma dell’artista che ne fa sentire la presenza si ricava una sensazione particolare:  la Gnam ha molte sue opere  spettacolari esposte in modo permanente, ma quelle inserite in quest’ambientazione hanno un sapore speciale.

Lo stesso avviene per Giuseppe Capogrossi, l’ultimo grande artista con cui si conclude la mostra. Ha vissuto e operato soprattutto a Roma, il primo studio in via Pompeo Magno, all’ultimo piano, all’inizio con lui è Emanuele Cavalli, che poi si sposterà in uno studio vicino tutto suo, si forma uno stretto sodalizio. All’inizio, negli anni ’30, il suo stile è figurativo, una pittura “tonale”  ispirata ai grandi maestri del ‘300-‘400, come Giotto, Masaccio e soprattutto Piero della Francesca.

Dopo un intermezzo di due anni in Umbria, vicino Narni, in cui si dedica al paesaggio dal vero, torna a Roma in uno studio vicino piazza Barberini, in via san Nicola da Tolentino, dove nel dopoguerra andranno giovani pittori come Achille Perilli, Gastone Novelli e Sante Monachesi, impegnati in ricerche d’avanguardia.

“Quello di Capogrossi  – si legge nella scheda di Laura Campanelli –  è un vasto studio al ‘centodecimo scalino’, con una parete interamente vetrata; alcune foto scattate da Ugo Mulas ci mostrano le pareti ricoperte non dai suoi lavori, ma da manifesti di esposizioni”.  

La descrizione fa rivivere l’atmosfera dello studio: “Le sue opere, finite o abbozzate, erano tutte appoggiate a terra, con il retro rivolto ai frequentatori dello studio, quasi fossero ‘quadri in castigo’… Le uniche visibili erano quelle a cui stava lavorando: da queste si intravede il persistere di un metodo rigoroso di progettazione del quadro, anche dopo il passaggio all’arte informale, che dall’inizio degli anni cinquanta era animata dai suoi inconfondibili segni”.

L’ambientazione dell’interno d’artista è ispirata alle fotografie di Mulas, c’è la sua sagoma in piedi davanti al tavolo di lavoro; la Campanelli cita le parole di Capogrossi tratte dall’introduzione a un catalogo di una sua mostra di Lubiana del 1967: “Come nei vent’anni precedenti al mio passaggio dal figurativo all’astratto, il mio lavoro continuava a procedere nella norma seguita dai tempi più antichi: attraverso una serie di disegni, studi (gouaches, acquerelli) di chiarimento per me stesso.”

Composizioni pittoriche con i suoi “inconfondibili segni” sono esposte nelle pareti della sala in cui campeggia il tavolo e la sua figura. Lo studio resterà in via san Nicola da Tolentino, separato dall’abitazione che invece se ne allontanerà spostandosi dalla vicina via Margutta a via delle Terme Deciane fino a via Marco Polo nei pressi della Cristoforo Colombo verso l’Eur.

All’inizio degli anni ’70 si sarebbe dovuto trasferire in quello che fu definito un “meraviglioso studio a Tor San Lorenzo”, per lui “stupendo” perché poteva accogliere i quadri di grandissime dimensioni che aveva in animo di dipingere. Ma muore nel 1972, con i lavori ancora in corso. Alla sua storia personale e artistica questa circostanza aggiunge un ulteriore motivo di riflessione: il pensiero di quali e quanti grandissimi dipinti avrebbe potuto creare nel nuovo studio, chissà quali e quante espressioni ancora più spettacolari di quelle delle opere a noi pervenute avrebbero avuto i suoi “inconfondibili segni”!

Ed è questo il contributo finale, storico-artistico, e anche emozionale, che proviene da una mostra speciale che penetra all’interno del processo creativo attraverso la ricognizione e ricostruzione degli studi d’artista di maestri dell’800-900 in una sede quanto mai idonea: la Gnam con i suoi grandi spazi, le sue esposizioni permanenti, e la sua storia che incrocia  in modo evocativo la grande arte. 

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, viale delle Belle Arti, 131. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45), lunedì chiuso: ingresso mostra-museo, intero  euro 12, ridotto euro 9,50. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/. Per gli artisti e mostre citati cfr. i  nostri articoli: in questo sito su “Marinetti”  il 14 e 15 gennaio 2014, “Guttuso” il 16 gennaio 2014, “Astrattisti italiani”  il 1° agosto 2013, “Monachesi” il 13 e 18 novembre 2012, “De Chirico” il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013; in cultura.inabruzzo.it su “Gente d’Abruzzo” il 10 e 12 gennaio 2011, “Futurismo”  il 23, 30 novembre e 14 dicembre 2012,  “De Chirico”  il 27 agosto, 23 settembre e 22 dicembre 2009.                        .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria con l’organizzazione e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.In apertura, un angolo dell’interno dello studio di Palizzi; seguono  altre ricostruzioni di interni da  Balla a Capogrossi, con due sue opere; in chiusura, la spettacolare ricostruzione della struttura teatrale shakespeariana di Cavaliere. 

D’Orsay, dalle Accademie al post impressionismo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra “Musée d’Orsay. Capolavori” espone per la prima volta a Roma, al Vittoriano, dal 22  febbraio all’8 giugno 2014, 60 opere del celebre museo dell’impressionismo sorto nello spazio di un’antica stazione ferroviaria, in cui è in corso un restyling. L’esposizione inizia dalla pittura accademica dei Salon, poi presenta i grandi maestri dell’impressionismo, simbolismo e post impressionismo, Courbet e Corot, Cèzanne e Sisley, Monet e Pissarro, Degas e Manet, Seurat e Signac, fino a Gauguin e Van Gogh e altri, in una impostazione che consente un confronto sui singoli temi, dal paesaggio e vita rurale alla vita dell’epoca, dagli stati d’animo alle avanguardie. La mostra è realizzata da “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia, ne sono curatori eccellenti Guy Cogeval, Presidente dei Musées d’Orsay et de l’Orangerie, e Xavier Rey, Direttore delle collezioni e conservatore del dipartimento di pittura del Musée d’Orsay. Catalogo Skira.

La mostra dei capolavori del Museo D’Orsay si inserisce in un  percorso che ha visto realizzare al Vittoriano  negli ultimi anni le mostre “Da Corot a Monet. La sinfonia della natura” nel 2010, “Van Gogh”  nel 2011 e “Cézanne” nel 2013. Nel presentare l’esposizione, Alessandro Nicosia ha sottolineato  “la straordinaria disponibilità del Presidente dell’Orsay, Guy Cogeval, grande amante ed estimatore di Roma” e la preziosa attività del “cocuratore Xavier Rey che ha selezionato le opere nella prospettiva scientifica finalizzata alla definizione di un progetto compiuto e sistematizzato”.

Si tratta di un’occasione straordinaria per vedere in Italia una serie di opere che segnano l’itinerario di celebri artisti usciti dall’accademismo dei Salon parigini per le nuove vie dell’impressionismo e del realismo,  del simbolismo e del post impressionismo. Sono artisti che si cimentano su una serie di soggetti ai quali sono dedicate 5 sezioni in cui ritroviamo gli stessi maestri in un’impostazione non monografica ma tematica. Utili raffronti si possono fare dalle visioni arcadiche e mitiche dell’Accademia e dai paesaggi e scene di vita rurale degli impressionisti che rappresentavano la vita contemporanea, agli stati d’animo dei simbolisti fino alle avanguardie post impressioniste.

Da Gare d’Orsay a Musée d’Orsay‘

La prima parte della mostra è dedicata al “contenitore” da cui le opere esposte provengono, data la sua storia intrigante che la vede nascere come stazione ferroviaria nel cuore di Parigi per l’Esposizione Universale del 1900, quella per cui fu realizzata la Torre Eiffel; anche per la Gare d’Orsay si parla di record, un solo anno di lavori per quasi 700 operai in più turni 24 ore su 24.  

Con la seconda guerra mondiale cessa l’impiego come stazione, diventa di tutto – da centro raccolta per prigionieri e poligono di tiro a deposito e parcheggio – finché nel 1970 si decide di demolirla suscitando reazioni che porteranno alla trasformazione in museo dell’edificio esistente. L’italiana Gae Aulenti progetta il museo  nel 1886, puntando sul contrasto tra l’edificio esistente e le nuove scelte architettoniche, dando la prevalenza agli spazi e alla luce. Mentre con il nuovo allestimento le opere diventano ancora di più protagoniste

All’ingresso della mostra accoglie il visitatore una ricca galleria fotografica con le immagini dell’Orsay nelle successive incarnazioni, da stazione a deposito a Museo versione anni ’80 e ’90 fino alla versione attuale del “Nuovo Orsay”  inaugurato nel 2011, basata su diversi criteri espositivi oltre che architettonici, tra cui l’abbandono del criterio monografico per quello cronologico e tematico che permette il raffronto tra artisti sui vari temi.

Ma la storia del Museo d’Orsay non è sorprendente soltanto sotto l’aspetto architettonico, lo è anche dal lato artistico. Perché  ha ereditato le opere del Musée du Luxemburg, nel quale venivano collocate le opere di artisti viventi  presentate nei Salon mentre al Louvre andavano soltanto quelle degli artisti che si erano affermati ma dieci anni dopo la loro morte;  tutto il resto era confinato nel citato museo, confluito nel Musée d’Orsay, dove entravano le opere degli artisti in attesa di poter approdare al Louvre oppure quelle di artisti respinti, o quelle acquistate direttamente dagli autori.

Le regole che riservavano le acquisizioni istituzionali alla consacrazione ufficiale ai Salon hanno fatto sì che  musei apparentemente secondari come il Musée du Luxemburg potessero avere sin dall’inizio le opere, ad esempio, degli impressionisti, destinate a finire solo in mano ai collezionisti, sia mediante acquisti sia per i lasciti di collezionisti e mecenati, tra questi si ricorda Gustave Caillebotte  nel 1984, cui si devono opere di Renoir e di Monet, Isaac de Camondo nel 1011, cui si devono Degas e Manet, Etienne Moreau-Nélaton, dal 1906 al 1929,  cui si deve “Le dejeuner sur l’herbe” di Manet, fu anche il direttore del Musée destinatario, il Musée du Luxemburg. 

Questo museo accolse anche molte opere di artisti stranieri, italiani, spagnoli, americani, su iniziativa  del direttore Léonce Bénédite subito dopo il 1890, finché le collezioni straniere del “museo d’arte moderna” furono separate dalle altre e poi trasferite al Jeu de Paume., dove nel 1947 andarono anche le collezioni degli impressionisti. Nel dopoguerra il Musée du Luxemburg fu chiuso e le sue raccolte trasferite al Louvre e collocate soprattutto nei magazzini, finché si fece pressante l’esigenza di presentare gli impressionisti, sempre più apprezzati, in un nuovo museo.

Dove? La reazione all’idea di demolire la Gare du Orsay come si era fatto per le Halles, unita a quest’esigenza, fece prevalere l’idea della sua trasformazione nel Museo per quella parte dell”800 e ‘900  non rappresentata al Louvre – dove rimasero le opere del neoclassicismo e romanticismo di David, Ingres, Delacroix – in particolare impressionismo,  post impressionismo e simbolismo, con tante opere tra il 1848 e il 1914, dei più grandi artisti dell’epoca, basta citare Courbet e Corot, Cèzanne e Sisley, Monet e Pissarro, Degas e Manet, Seurat e Signac, fino a Gauguin e Van Gogh.

E’ evidente da questi accenni sommari alla storia tutta particolare del Musée d’Orsay, il valore delle sue raccolte pittoriche e l’importanza della mostra al Vittoriano che ha colto l’occasione di un ultimo restyling dopo la nuova inaugurazione del 2011 per un prestito prestigioso che comprende tutti i grandi maestri appena citati, presenti spesso con diverse opere nelle varie sezioni.

Il presidente e curatore della mostra Guy Cogeval,nel rievocare la storia del museo, conclude affermando che con il restyling in corso, il “Musée d’Orsay, rispettando le intenzioni originali di Michel Laclotte, ritrova la sua vocazione di museo ‘polifonico’. E polifonica sarà anche la mostra allestita a Roma, in cui si rende omaggio alla varietà di stili che coesistono, rivaleggiano e si contaminano reciprocamente nei ricchissimi decenni tra il 1848 e il 1914 rappresentati dal Musée d’Orsay. Accademismo, realismo, naturalismo, impressionismo, simbolismo, post-impressionismo: ciascuna delle grandi correnti della seconda metà dell’Ottocento è chiamata ad attestare l’importanza decisiva di questi anni per la nascita dell’arte moderna agli inizi del Novecento”.  

Dall’Accademia all’impressionismo, ambiente e vita rurale

L’impostazione tematica e non monografica della mostra è perfettamente in linea con il nuovo assetto del Musée d’Orsay, organizzato nello stesso modo. Ed è altamente spettacolare perché fa vedere la risposta sugli stessi temi data da artisti diversi nelle varie correnti stilistiche che evolvono nel tempo passando, nelle varie sezioni, dall’Accademia all’impressionismo, dal simbolismo al post impressionismo; i temi evolvono anch’essi passando dalle visioni arcadiche e mitiche a quelle paesaggistiche e di vita quotidiana, fino alla realtà moderna e agli stati d’animo interiori.

La prima sezione è come un prologo, pone subito il visitatore di fronte alla pittura dominante, quella delle Accademie, il cui predominio era perpetuato dalle esposizioni nei “Salon” cui erano ammessi soltanto artisti prescelti da una giuria di tradizionalisti che sbarrava il passo al nuovo corso; le mostre personali erano molto rare e solo in questa sede avvenivano gli acquisti da parte pubblica di opere che venivano parcheggiate al Musée du Luxemburg, come si è detto, per essere trasferite al Louvre  dieci anni dopo la morte dell’autore. Museo che, però, con lungimiranza ne accettava anche altre fuori da questo circuito, e sono quelle che costituiscono la parte preponderante della mostra.

Bastano i titoli per immaginare le opere di stile accademico esposte in questa sezione: “La casta Susanna” e “Tamara”, “Diana” e “Gioventù e amore”, gli autori Henner e Cabanel, Delaunay e Bouguereau. Il periodo è dal 1864 al 1877.  E’ esposta anche “Donna nuda con cane” di Courbet,  un nudo ben diverso da quello levigato con amorino di “Gioventù e amore”, c’è un altro colore e un altro tratto, e una visione della realtà del tipo di quella che vediamo nella sezione successiva.

Si passa all’impressionismo con un’opera di soggetto accademico, “La danza delle ninfe” di Corot, 1860, ma la visione, nel segno e nella luce, è ben diversa da quella arcadica, e così la “Pastorella con gregge”, 1863, di Millet,  immagine non bucolica ma naturalistica “en plein air”.

La natura non ha i caratteri dell’Arcadia, ma della realtà ambientale, lo vediamo nella “Foresta di Fontainbleau”, 1865, di Bazille, e nel “Tempo da neve” , 1874, e “La costa del Coeur.Volant a Marly sotto la neve”, entrambi di Sisley. Non sono rappresentazioni idealizzate, si cerca l’identificazione precisa con luoghi reali, e qui scendono in campo i grossi calibri. 

Monet arriva a indicare l’indirizzo, nella rappresentazione della realtà: “Cortile di fattoria in Normandia”, 1863, “Argenteuil”, 1872, “Le barche. Regata ad Argenteuil”, 1874.  Il “Cortile di fattoria” , 1879, è rappresentato anche da Cézanne, mentre Pissarro a sua volta raffigura il “Viale della Tour-du-Jongleur e casa del signor  Musy, Louvecennes”, 1872,  e la “Strada d’Ennery”.

Lo stesso Pissarro ritrae chi vive quella realtà, la “Giovane contadina che accende il fuoco”, 1888,  e Seurat il “Giovane contadino vestito di blu”, 1882. Squarci di vita rurale sono offerti da Troyon in “Guardacaccia fermo vicino ai suoi cani” e Guigou in “Lavandaia”, de Sousa Pinto  in “La raccolta della patate”, e Muenier in “La lezione di catechismo”.

Dalla vita contemporanea agli stati d’animo, alle avanguardie

Dall’ambiente rurale nella seconda sezione si passa alla rappresentazione della vita contemporanea, iniziando con una serie di luoghi parigini in cui si svolge:  come “La Senna e Notre-Dame di Parigi”, 1864, di Jongkind, e “La Senna e il Louvre”, 1903, di Pissarro, “La rue Montorgueil a Parigi. Festa del 30 giugno 1878” di Monete “La piazza delle Piramidi”, 1875, di De Nittis; altre località come “Porto di Rouen, Saint-Sever”, 1896, e “Angolo di giardino all’Hermitage. Pontoise”, entrambi ancora di Pissarro.

Ai luoghi si affiancano coloro che ci vivono, uno dei quadri esposti evoca il duro lavoro, è “Gli scaricatori di carbone”, 1875, di Monet; un altro presenta “Il giorno di visita all’ospedale”, 1889, di Geoffroy.  Tutti i restanti della sezione mostrano situazioni e momenti ben diversi, che fanno rivivere il clima della Belle Epoque parigina. Come i due di Degas, “L’Orchestra dell’Opera”, 1870, e “Ballerine che salgono una scala”, 1875, cui associamo “Un palco al Théatre des Italiens” di Eva Gonzalès. E poi, entrando sempre più nell’intimità,  “Ragazze al pianoforte”, 1892,  di Renoir, e “Brthe Morison con un mazzo di violette”, 1872, di Manet, fino a “Il bagno”, 1867, di Stevens, e “La sognatrice,”, 1876, di Tissot.

In queste opere l’impressionismo con la sua visione della natura e dell’ambiente  illuminata dalla luce “en plein air” e resa vivida dal colore con la caratteristica pennellata,  descrive luoghi e situazioni  della realtà avvicinandoci sempre più a una visione più direttamente rivolta alla persona.

Sarà la pittura simbolista a cercare di riprodurre gli stati d’animo, ad essa è dedicata la sezione successiva, in senso tematico e cronologico, dove troviamo opere di fine ‘800 di cinque artisti, diversi da quelli incontrati finora. Sono presenti con due opere ciascuno Vuillard, “A letto”, 1891, e “Felix Vallotton”,  1900; Denis con “Il bambino dai calzoncini blu”, 1897, e “Maternità alla finestra”, 1899, Redon con “Paul Gauguin”, 1903-05, e “Pianta verde in un’urna”, 1916.

Siamo giunti così all’ultima sezione della mostra, dedicata al post impressionismo, verso le avanguardie del XX secolo. Arrivano i nostri, si direbbe, tornano i grandi nomi come Monet con “Il tramonto”, e “Il giardino dell’artista a Giverny”, entrambi del 1900, Signac e Seurat, rispettivamente con “Il circo”, 1891, e “Les Andelys”, 1886.  Troviamo nuovamente anche Vuillard con 3 opere, “Il covone” e “Il viale”, del 1907-08, “Piazza Berlioz, schizzo”, 1915,  e Denis, con “La signora del giardino chiuso”, 1894.

In più una serie di artisti che raffigurano luoghi  e ambienti mentre altri si soffermano sulle persone. Per i primi, ecco Cross con “Le isole d’oro”, 1891-92, e Sérusier con “Lo steccato” e “Campo di grano dorato e di grano saraceno”, Van Rysselberghe con “Barche a vela ed estuario”. Tra i secondi Bernard  raffigura “Donne bretoni con l’ombrello”, 1891, e Maillol “Ragazza con drappo”, una statua in bronzo, l’unica scultura  tra tanti dipinti, mentre Bonnard con “Il palco” e “Giochi d’acqua”,  intorno al 1908, ci fa tornare nell’atmosfera serena e festosa prima evocata.

Il botto finale dello spettacolo pirotecnico dei capolavori del Musée d’Orsay al Vittoriano è nei due nomi che in questa sezione si aggiungono ai grandissimi già incontrati. C’è Van Gogh con “L’italiana”, 1887, e Gauguin con “Il pasto”, 1891.

Un viaggio pittorico che abbatte gli steccati

Si conclude così il viaggio pittorico che la mostra ci ha fatto compiere in quella che da stazione ferroviaria dell’Orsay è stata trasformata nella più straordinaria raccolta di impressionisti, simbolisti e esponenti delle avanguardie post impressioniste:  di Monet e Pissarro troviamo ben 6 opere ciascuno, di Vuillard 5 opere, anche altri celebri, come abbiamo visto, sono presenti con più opere.

Ma sono distribuiti tra le varie sezioni a seconda dei tempi rappresentati, e in questo si è seguita l’impostazione del Museo tematica e non monografica per autori, come si è detto, senza neppure divisioni in base a classificazioni stilistiche.  Persino rispetto alle opere del classicismo accademico il curatore Xavier Rey invita a “comprendere la libertà che gli artisti si erano indiscutibilmente  presi nonostante il loro contributo alla pittura accademica, ma soprattutto a distinguere l’immensa varietà delle opere comodamente relegate nella categoria ben poco fondata del neoclassicismo”. 

Nel classicismo vengono  trovati “strumenti comuni alla pittura moderna”, visione che si inquadra nella linea portava avanti dal Musée d’Orsay, che “le categorie non siano più sicure di se stesse”, e le opere raccolte consentono di “penetrare tutta la complessità di relazioni all’interno di un’arte in apparenza ricca di contrasti”.

In questo senso il d’Orsay avrebbe contribuito ad una revisione della storia dell”800, abbattendo gli steccati delle classificazioni, portando a una nuova valutazione delle correnti pittoriche, a un dialogo tra gli stili, a parallelismi sempre nuovi tra artisti posti a confronto. “E’ come se il museo d’Orsay – afferma ancora Rey – volesse raccontare una storia senz’altro più complessa della leggenda che si è rapidamente fissata nell’immaginario collettivo sul periodo”.

Poter cogliere questo aspetto cruciale è un altro motivo di interesse, che si aggiunge a quello insito nella grandezza degli artisti e nel fascino della loro arte, della mostra al Vittoriano  che esprime – nelle parole con cui Rey conclude la propria presentazione – “l’estrema ricchezza di un istante breve e determinante dell’arte occidentale”.

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Complesso del Vittoriano, via San Pietro in Carcere (lato Fori Imperiali). Dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30; venerdì e sabato 9,30-23,00; domenica 9,30-20,30, nessuna chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. Tel. 06.6780664, www.comunicare organizzando.it. Catalogo: “Musée d’Orsay. Capolavori”, a cura di Guy Cogeval e Xavier Rey, Skira Editore, 2014, pp. 196, formato 24 x 28, dal quale sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre al Vittoriano  citate, cfr., in questo sito, i nostri 2 articoli sulla mostra “Cézanne” il 24, 31 dicembre 2013; inoltre cfr., in “cultura.inabruzzo.it”, i nostri 2 articoli sulla mostra “Da Corot a Monet, La sinfonia della natura” il 27, 28 giugno 2010 e i nostri 2  articoli sulla mostra  “Van Gogh” il 17, 18 febbraio 2011.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare il Musée d’Orsay. In apertura, Vincent Van Gogh,L’Italiana”, 1887.

Fausto Roma, la mostra “Le terre del caffè”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Nel Complesso del Vittoriano, lato Ara Coeli, nella sala Gipsoteca la mostra di Fausto Roma, “Le terre del caffè”, espone dal 16 aprile al 18 maggio 2014, 29 acrilici su tela di grandi dimensioni: 20 del ciclo “Le Terre del caffè”, del 2013, 8 del ciclo “Terra”, del 2010, più l’acrilico su tela di 4 metri per 2, “La  mia terra”; vi sono anche tavolini ed altri oggetti con i motivi  della mostra, aperta da “Eneide”, gioiello d’oro con diamante nero e smeraldo, brillante e rubino. Curata da Claudio Strinati, promossa da Regione Lazio, Camera di Commercio di Roma e dall’Associazione Impegno, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Catalogo “Skira”.

L’ispirazione e il  segno un po’ astratto e un po’ concreto

Per meglio interpretare la mostra si deve partire dal gioiello posto in apertura, opera anch’esso dell’artista, perché il viaggio compiuto dall’oggetto ha ispirato i cicli pittorici della terra vista dall’alto. Il nome “Eneide” testimonia la trasmigrazione verso una realtà più vasta,  si va nello spazio perché il viaggio è stato sulla navicella Soyuz 10s, il gioiello fu affidato all’astronauta Vittori, partito il 15 aprile 2005  dal cosmodromo di Baykonur in Russia; nelle tante orbite percorse ha sorvolato il pianeta da un’altezza che ha ridotto le terre sorvolate a carte geografiche.

L’immedesimazione dell’artista in questo volo lo ha portato a intervenire sugli ingrandimenti modulari  delle fotografie satellitari imprimendovi il segno, anzi i segni della sua arte. Claudio Strinati lo definisce “un figurativo che lavora con l’astrazione”, e commenta così: “Non disegna  solo quello che vede ma ne disegna l’anima, l’interna struttura, la linfa vitale che scorre nel mondo animale, in quello vegetale  e persino in quello che definiamo inanimato e che invece animato appare all’artista creatore”, per concludere: “Di questo mondo vivente l’artista rintraccia i confini e i percorsi e quindi diventa una sorta di agrimensore dell’anima”.

Il suo segno, “un po’ astratto, un po’ concreto è sempre uguale e sempre diverso”, ed è immediatamente riconoscibile, del resto anche la vita è fatta di realtà e di astrazione, e nelle sue opere si sente scorrere la linfa vitale: “Sembra sentire latente dentro quelle immagini quel sapore della festa popolare, della allegra animazione di ciò che ci circonda, persino del profumo della amara ma buonissima bevanda, delle movenze sinuose di chi si aggira nel territorio”.

Ci viene da definirlo “impressionista del terzo millennio”: i forti colori e i segni profondi esprimono l’impressione immediata, questa volta però non fissata nella tela sul cavalletto in “plein air”, ma sulle fotografie satellitari del sorvolo virtuale,  offerto dalla modernità all’ispirazione dell’artista.

L’uomo e l’artista,  il pianeta e la sua terra laziale

Anche Philippe Daverio, nell’osservare che “ama il colore e il segno che lo articola come se fosse una scrittura indecifrata” e nel trovare  riferimenti  colti, sottolinea il tono festoso: “Il risultato è particolarmente gioioso: torna vitale con convinta energia e si riprende sfacciato il ‘diritto alla vita’, all’esperimento. Porta con sé un umore rallegrante. Come la terra laziale densa nella quale vive”.

Nato a Ceccano in Ciociaria, studi al Liceo Artistico e Accademia Belle Arti di Frosinone, allievo del maestro Ranocchi. Pittore e scultore che inizia con l’arte povera per approdare negli anni ’90 alle forme totemiche come archetipo, con le quali realizza sculture-architetture, come le sculture-albero che esprimono il movimento. Mostre in Italia e Giappone, ha partecipato al Padiglione Italia della 54^ Biennale di Venezia del 2011, curata da Vittorio Sgarbi, per il 150° dell’Unità nazionale, con l’opera “Terra 2011“. Dopo la “missione Soyuz” del suo gioiello “Eneide” si allargano gli orizzonti, e nel 2010 con il ciclo “Terra” sorvola idealmente la natura trionfante  dal Messico alla Russia, dalla Tanzania alla Nuova Zelanda; nel 1987 aveva già dipinto “La mia terra”, visione  dall’alto del territorio laziale, nella quale trasmette il proprio attaccamento   alle sue radici

E’ un rapporto ripagato dall’affetto della sua gente, che affollava la Gipsoteca all’inaugurazione, con un numero di presenti  di gran lunga superiore alle tante mostre consimili svoltesi in tale sede.

Per questo Michele Ainis, del Comitato scientifico, parla dell'”uomo, in carne ed  ossa, con i suoi amori e umori. In ogni creazione artistica si riflette il suo creatore”, e in Roma c’è la generosità che si trasmette dall’uomo all’artista: “Nella capacità di misurarsi con i più svariati materiali, e con le tecniche più varie: sicché le sue mani modellano sculture, quadri, tappeti, gioielli, installazioni”, ne vediamo alcune lungo il percorso della mostra; “oppure nel gusto delle grandi dimensioni, che stirano l’acrilico in superfici di 4 o  6 metri quadrati, come i dipinti per queste ‘terre del caffè'”.

Ma come si esprime l’artista? Ha sorvolato idealmente le 16 “Terre del caffè” per le condizioni climatiche favorevoli  alla produzione dei semi, dal Kenya al Messico, dall’Etiopia al Guatemala e alla Colombia, come per seguire quel chicco che, dice Patrizia Palombo, “viaggia attraverso altre terre esperte di miscele, torrefazioni, dosi di macinato, macchine perfette che solo mani sapienti sanno manovrare”, tante tappe  per cui “il viaggio di un chicco di caffè è molto simile al processo creativo attraverso cui si realizza un’opera d’arte”.

In merito alla creazione artistica,  Marcello Carlino ha sottolineato il “lavoro ipertestuale sull’ipotesto fotografico, del rifacimento rimodellante della texture, della marcatura delle linee e della loro puntualizzazione perliforme, della costruzione a graticcio di un testo secondo su di un testo primo”.  E ha parlato “del fascino dei colori, come in festa, e della avvolgenza delle forme con i rombi e le spirali, le strisce e i filamenti, le isoipse e le curve di livello che sciamano e che ‘sciarpano’ sinuose e danzanti”.

La galleria pittorica, “Le terre del caffè”

Ed ora la visita alla galleria di dipinti spettacolari, che si apre con un grande pannello che è tutto un programma, si tratta di “Terra 11”, l’opera esposta nel Padiglione Italia del 2011, formato da 48 tele quadrate delimitate dai meridiani e paralleli: qui non ci sono le riprese dallo spazio a ispirare l’artista, la sua immaginazione creativa ha composto un mosaico del pianeta dai forti colori. Del resto nel 2010 aveva già al suo attivo il ciclo “Terra”  con le riprese dall’alto, ora si è trattato di riassumere in una sintesi geniale le tante sollecitazioni e sensazioni di una visione spaziale.

La visione si sviluppa nel percorso della Gipsoteca, dove il visitatore è spinto a inoltrarsi nel lungo androne sinuoso cui fanno ala alle pareti, ben distanti,  gli spettacolari acrilici che segnano le vie del caffè da un continente all’altro, da un territorio all’altro. Tutte  riprese dall’alto nelle immagini dal satellite, con l’intervento decisivo dell’artista nel forte cromatismo e nel disegnare linee di quota e di confine molto marcate che rappresentano la fisionomia, diremmo l’identikit dei diversi territori.

“In tutti questi quadri – osserva Ainis da visitatore attento e affettuoso verso l’autore –  la mano dell’artista disegna un reticolo di linee, svolazzi e ghirigori. Spesso i segni appaiono punteggiati al loro interno, come un ricamo all’uncinetto. Oppure sono segni doppi, che corrono per rami paralleli”. E non avviene a caso: “Sicché lo spazio si rifrange, si moltiplica, ma al contempo si riduce. Diventa spazio atomico, pur nella sua ampia dimensione”. Non finisce qui la visione di Ainis che riassume l’effetto d’insieme e i singoli particolari: “Tuttavia gli atomi non invadono la tela: lasciano fuori lembi, isole cangianti, nuvole d’aria che infine divorano l’insieme, che ingigantiscono quando l’occhio si fissa nel dettaglio. Così il particolare diventa generale, così il microsistema genera macrofigure”.

Questa descrizione fotografa gli aspetti comuni degli acrilici esposti, tali da identificare senza alcun dubbio la mano dell’artista, come ha sottolineato Strinati; e nel  contempo spiega come si differenziano anche nel tratto. Noi ricorderemo i colori che colpiscono con la loro brillantezza, mantenendo ferma la visione d’insieme che abbiamo appena riportato come guida alla visita.

Il verde domina nel Congo e nelle Hawai, più tenue nel primo, più intenso nelle seconde, i segni marcati sono neri, in entrambi ci sono delle “enclave” rosse.

Mentre il rosso è il colore di Kenia ed Etiopia, Nicaragua e Colombia, anche se per il Kenia e l’Etiopia vi è anche una seconda rappresentazione, questa volta con il blu e il verde dominanti. Nel Kenia rosso e nella Colombia non c’è il segno marcato nero usato per le altre due nazioni, come quelle prima citate: le linee sono percorse da cerchi bianchi in successione – i “ricami all’uncinetto” di Ainis – che fanno pensare a tanti fili di perle più che ai chicchi di caffè, notoriamente neri.

Due rappresentazioni anche per il Messico, una con un fondo celeste chiaro su cui i segni divisori sono bianchi e distribuiti in fitti allineamenti sulla superficie; l’altra con una vasta area rosso bordeaux non interrotta da segni mentre il verde con delle raggiere occupa la parte esterna, è il colore del mare. Verde e celeste anche per il Guatemala, con delle sfumature bianche da cielo nuvoloso; mentre  per la Nuova Guinea la terra color arancio, fortemente segnata, è circondata da un blu intenso con macchie bianche, anche qui il mare. Dominano bordeaux chiaro e azzurro in Costa Rica e Portorico, giallo arancio in Giamaica e violenti accostamenti tra bianco e rosso per la Repubblica Dominicana. Infine il Brasile è una sinfonia di colori in un territorio molto segnato.

Il ciclo “Terra”  e la terra dell’artista

Il giro del mondo sulle terre del caffè fu preceduto dal sorvolo virtuale di terre con i diversi segni della natura: dal corso di fiumi come il Volga e il Danubio al delta del Mississippi e alla valle del Tigri, dal cratere dei vulcani al pack  del mare ghiacciato, dalla tundra siberiana alla costa croata.

Questi acrilici sono percorsi, come quelli sulle terre del caffè, da linee isobare per lo più costituite da puntini bianchi sul segno nero – i fili di perle di cui abbiamo parlato – mentre il tratto nero profondo è riservato a poche visioni dall’alto, in particolare quelle sui fiumi e sulla tundra siberiana.

Il motivo di questa differenza resta un mistero, come lo sono i criteri seguiti nel segnare con il suo tratto così variegato e intrigante, le terre “sorvolate”, e i colori usati per dare vita alla sua geografia dell’anima, che va ben oltre il supporto satellitare di base:  l’aggettivo da usare è uno solo, il motivo e il criterio del segno e del colore è sempre artistico perché investe forma e contenuto dell’opera.

Ma c’è molto di più, e lo dice Carlino nel riassumere l’effetto di questi acrilici come di quelli sulle terre del caffè. Sulle fotografie satellitari che “fungono da supporto e quasi da ordito… l’autore interviene con i tratti decisi e i colori squillanti degli acrilici, così ‘aggiungendo’ e disegnando la trama che gli appartiene, che è sua; e quanto si ottiene dalle conquiste  straordinarie della ricerca e dalle sue applicazioni tecnologiche  torna ad incontrarsi virtuosamente con il talento, artigianale e tutto umano, di base all’espressività artistica. Il moderno si risposa con l’antico”.  Questo talento si esprime attraverso  “un sistema mobile di correzioni, di riporti, di velature, di esposizioni, di sottolineature inveranti, di sviluppi proiettivi, di variazioni abrasive, di diffrazioni, di sezionamento da mappa o da carta geografica  con le coordinate appropriate e insomma  – come per impulsi e sotto suggestioni da estro armonico rinascimentale – di ricomposizione complice e felice di tecnologia e di immaginazione, di scienza e di fantasia, di cibernetica e di fantasmi”.

Il culmine della mostra è il grande pannello “La mia terra”, come un ritorno a casa dopo il giro del mondo sulle terre del caffè preceduto di tre anni dalle escursioni su fiumi, crateri e tundre. Ma non è un ritorno quanto una partenza, come la fotografia del paese che l’emigrante porta con sé nel mondo:  l’opera è del 1987,  quasi venti anni prima del viaggio dell'”Eneide”, dunque il sorvolo ideale era nel Dna dell’artista e quello virtuale compiuto attraverso il suo gioiello ha dato la spinta per l’estensione a livello planetario di un’ispirazione artistica  nata dalla propria terra.

Carlino parla delle “fasce diversamente colorate dei terrazzamenti e dei coltivi e dei corsi d’acqua delle nostre terre, sul ritorno a materia preistorica e più ancora magmatica che la natura inaccessibile vista da un occhio lontanamente orbitante sembra suggerirci”.  E all’inaugurazione della mostra i conterranei dell’artista si affollavano intorno a quest’opera sforzandosi di individuare i luoghi a loro ben noti visti dall’alto e marcati dagli interventi pittorici: abbiamo assistito a questa affettuosa ricerca collettiva di vie, piazze e giardini di paese pur nel contesto quanto mai planetario.

C’era anche Ainis, che conosce bene quei luoghi e l’abitazione dell’amico artista di cui scrive: “Abita in un borgo ai margini del borgo di Ceccano, in una casa-studio colorata come un arcobaleno, dove s’assiepano legni, ceramiche, bronzi, tele disposte sui cavalletti o lungo le pareti. Lui vive lì, ma vive sempre altrove. Frequenta il planisfero con l’immaginazione, la stessa immaginazione che s’accende appena lo sguardo sosta sui suoi quadri”. La mente  torna a Emilio Salgari, che ha acceso la fantasia di tante generazioni con i suoi romanzi di avventure in terre esotiche e lontane, da lui mai conosciute ma fatte vivere e rivivere con la sua inesauribile fantasia.

Non è poco suscitare simili emozioni, con la pittura come con la scrittura.

Info

Complesso del Vittoriano, Piazza dell’Ara Coeli 1, sala Gipsoteca. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30, venerdì, sabato e domenica 9,30-19,30, nessuna chiusura settimanale; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. Ingresso gratuito. Catalogo. “Fausto Roma. Le terre del caffè”, Editore Skira, aprile 2014, pp.120, formato 24×28, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra  citata del “Padiglione Italia” cfr. i nostri 2 articoli in questo sito l’8 e 9 ottobre 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nel Vittoriano. Si ringrazia l’organizzazione, in particolare “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e in via speciale l’artista anche per aver accettato di essere ritratto da noi davanti a una sua opera nell’immagine di apertura.

Roma e l’antico nel ‘700, 3. Le Accademie e le decorazioni, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Le accademie e la scuola dell’Antico

Da quanto si è ricordato sembrerebbe che nel “secolo dei lumi”, con il trionfo della ragione sull’oscurantismo, quindi del progresso sull’immobilismo, nell’arte ci fosse un ripiegamento sull’antico, una rinuncia a progredire. Invece era un potente stimolo, se nel 1774 il pittore Joshua Reynolds scriveva: “Dai resti delle opere degli antichi le arti moderne trassero nuova vita ed è per mezzo di loro che esse devono conoscere una seconda nascita”. Cinque anni prima aveva inaugurato la “Royal Academy of Arts” di Londra  come segno di un primato anche culturale.

Ma il modello di questa e delle altre accademie che fiorirono in Europa era quello italiano, precisamente fiorentino (Accademia del disegno del Vasari, 1563)  e romano (Accademia di San Luca di Zuccari,1593) che, secondo Carolina Brook, “rappresentarono i primi atti di una nuova definizione dell’artista come ‘figura intellettuale'”.. Infatti, prosegue, “l’esempio vasariano – patrocinato da Cosimo de’ Medici e posto sotto la direzione di Michelangelo – segnò il tentativo pionieristico da parte degli artisti di costituirsi in un’associazione unica e indipendente dalle corporazioni professionali di stampo medievale che regolavano i diversi settori della produzione artistica, dai pittori agli scultori, dai bronzisti  agli incisori.

Base di tutto era il disegno, non solo nella pratica ma anche nella teoria, rispetto a geometria, prospettiva e anatomia; e doveva costituire la matrice delle tre “arti sorelle”, pittura, scultura, architettura, “corpo di una sola scienza, divisa però in tre pratiche”  secondo l’Accademia romana di San Luca. I fondamenti teorici delle arti figurative erano diffusi negli ambienti intellettuali attraverso i Discorsi degli Accademici, anche nei rapporti con poesia e musica, immagine e parola.

Roma era il centro dell’interesse per l’antichità ed era meta dei visitatori del Grand Tour, come si è visto; pertanto la sua Accademia, osserva la Brook, “aveva il compito di tradurre i simboli dell’eternità in essa custoditi in un materiale vivo e diffuso, di attualizzare le immagini antiche ammirate per la loro bellezza  – intesa come sinonimo figurativo di valori morali e etici alti – in elementi distintivi del tempo moderno nei quali riconoscersi”.  E’ quella che Winckelmann chiamava senza giri di parole “l’imitazione degli antichi” come “unica via per divenire grandi”.

Sin dall’inizio del ‘700 per iniziativa del nuovo pontefice Clemente XI Albani furono riorganizzati i concorsi  dell’Accademia, chiamati appunto Clementini, nel primo decennio a cadenza annuale con soggetto prescelto le “Romanae Historie” da Tito Livio, il livello iniziale era dedicato alla copia della statuaria antica per acquisire la tecnica classica e farne la base di proprie creazioni; all’esercizio sull’antico si unì quello sul nudo come esercizio dimensione ideale, anche dal vivo.

L’Accademia di Francia a Roma aveva  una ricca raccolta di gessi per la didattica che suscitò l’ammirazione di Goethe nel suo viaggio in Italia. Queste raccolte, le gipsoteche, si diffusero in Europa per lo studio della statuaria classica e ad esse furono aggiunte opere originali o riproduzioni d’epoca fornite dai sovrani, mentre a Roma divenivano sempre meno frequenti le licenze di nuove riproduzioni per gli eccessi di inizio del secolo.

Divennero famose le Accademie di Germania e Russia, Inghilterra e Austria, su influsso di Roma e in stretto contatto con la città attrazione del Grand Tour. Prima di decadere, “l’Accademia ha rappresentato nel Settecento – conclude la Brook la sua analitica rievocazione –  l’avanguardia delle ricerche artistiche, in cui la passione per l’antico si tradusse in una materia di confronto fra gli artisti, sottoposta a una continua revisione.  L’adesione normativa ai modelli dell’antichità non fu quindi semplice omologazione, ma al contrario fornì un lessico universale di base sul quale gli artisti operarono le proprie scelte linguistiche, declinate secondo i diversi contesti europei”.

Le opere in mostra in questa 5^ sezione costituiscono una galleria degna del rilievo delle Accademie, in particolare quella romana. Esse coprono i vari settori dell’espressione artistica, nella particolare ottica di cui si è detto. I  disegni sono copie di statue antiche, come quelle in sanguigna di Palazzo Verospi, di Miguel Pont Cantallops,  ein penna e acquarello  Il convito d’Assalonne di Nicolas Lejeunel; in matita la copia dell’Apollo del Belvedere già visto in scultura, di Pasquale Camporese e della Musa Talia  di Anton Raphael Mengs, da noi già citato più volte; poi, in terracotta, Le Arti rendono omaggio a Clemente di Pierre Legros a inizio secolo e Metello salva il simulacro di Pallade di Luc Francois Breton  a metà secolo.

Dai disegni e dalle terracotte alle pitture a olio e alle statue di marmo. Sono esposti 5 oli su tela, due riproducono la vita dell’Accademia: sono lo spettacolare  La sala dei gessi della Royal Academy in New Somerset House, di Johann Jeseph Zoffany e l’intimo e raccolto Il Disegno di Angelica Kauffmann; tre i soggetti studiati, un nudo disteso detto Ettore, e due dipinti con guerriero nell’armatura con elmo in La morte di Pallante di Jacques Sablet e Alessandro cede Campaspe ad Apollo di Pierre Roget.

Gli esempi di sculture, sempre nell’ultima parte del secolo, sono 5 busti, Niobide di marmo di Carrara e gli altri in gesso: un’altra versione del primo in Busto di Niobe e Testa di Achille, dai lineamenti altrettanto femminei a parte l’elmo, la spettacolare Copia del Torso del Belvedere dell’Accademia di Francia a Roma e le due teste barbute del Fiume Tigri(Arno e di Aiace , quest’ultimo con l’elmo come Achille, tutti della Real Accademia di Madrid

Dalla teoria alla pratica, anche questa è una lezione istruttiva e formativa che ci dà la mostra.

La decorazione degli interni ispirata all’antico

Troviamo ancora delle sculture proseguendo nella visita, sono di piccole dimensioni, quasi soprammobili ornamentali. Infatti siamo nella 6^ sezione, dedicata all’antico che entra nelle abitazioni nel decorare gli interni.  Ne notiamo cinque in biscuit, vengono da famose fabbriche,  due dalla Manifattura di Meissen,  Amore e Psiche, con le forme morbide e lisce e dalla Real Fabbrica Ferdinandea,  Esculapio e Igea , quattro dalla Manifattura di Giovanni Volpato:  Baccante con cembali e Galata morente, Centauro Borghese (anziano) e Centauro Borghese (giovane), ambedue cavalcati da un puttino alato. Tutte alte meno di 30 cm, come le due bronzee di Zoffoli (Giacomo o Giovanni), che mostrano seduti sugli scranni Menandro e Agrippina.

Proseguendo ancora nella galleria della mostra, vediamo le sculture bronzee farsi ancora più piccole, per essere inserite in supporti ornamentali. Spicca l’Orologio da tavolo ornato da ‘Teti immerge Achille nelle acque dello Stige’, con le figure in bronzo dorato su marmo, smalto e metallo e il Vaso della Manifattura  delle Porcellane di Sévres con una scena mitologica sul fronte e nei manici due figure femminile alate in bronzo scuro.

Notiamo poi le basi in marmo bianco con giallo di Siena e bronzo dorato alla base della coppia di soprammobili intitolati “Dioscuri”, riproduzione in piccolo in bronzo scuro delle grandi teste di Castore e Polluce dei colossi di piazza del Quirinale  provenienti dalle terme di Costantino; e le basi in bronzo dorato con marmo statuario e verde antico su cui poggiano le due figure scure quasi a reggere i sei bracci  dorati per le candele nella Coppia di Candelabri, anche qui un riferimento al Quirinale, delle cui dotazioni fa  parte. Questi bronzi ornamentali sono opera di Francesco Righetti, che era stato alla scuola di Valadier e aveva un laboratorio di produzione e vendita di piccoli bronzi ornamentali su imitazione dell’antico collocati su piedistalli in marmi diversi con guarnizioni di metalli dorati  con la possibilità di scegliere anche le dimensioni.

Siamo entrati così nella decorazione  degli interni ispirata all’antico, che va ben oltre i soprammobili ornamentali e i candelabri, e nelle dimore patrizie riguardava anche le facciate con inserite statue che proiettavano all’esterno lo sfarzo dell’interno e si ritrovavano nelle esedre arboree dei i giardini. Vengono citate al riguardo le decorazioni di Villa Borghese , con la monumentale “Sala degli Imperatori” e di Villa Pinciana della stessa famiglia Borghese, del cardinale Scipione Borghese: committenti e artisti erano membri dell’Accademia dell’Arcadia.

Ma “il luogo nel quale il rinnovato rapporto con l’antico trova la sua prima compiuta espressione” – secondo Liliana Barroero – è “Villa Albani sulla via Salaria”, dove  si trovavano opere in mostra, già citate, come Parnaso di Mengs  e il bassorilievo di Antinoo  da Villa Adriana di Tivoli, con Alessandro Albani  al centro dei collegamenti con gli “eruditi-antiquari” e collezionisti, della prima metà del secolo e con quelli della seconda metà tra cui Winckelmann suo bibliotecario.

Nel fervore delle decorazioni di interni prestigiosi ritroviamo personaggi di cui abbiamo parlato come Piranesi,  con il collaboratore Righi, nel “salone d’oro” di Palazzo Chigi,  Mentre Palazzo Altieri viene decorato con le allegorie  del matrimonio legate alla storia antica di Roma e dei Sabini, abbandonando il modello di Palazzo Doria Panphili con le allegorie bibliche, ricorda la Barroero che precisa: “I mosaici antichi sono inseriti direttamente nei pavimenti; come in Villa Albani, le paraste a motivi vegetali si alternano a cammei all’antica, e cornici a classici girali delimitano le partizioni spaziali”. E prosegue: “Questo linguaggio’ romano’ ha in realtà una dimensione marcatamente internazionale”, citando Inghilterra, Russia e Polonia, con il bassorilievo dell’Antinoo Albani nella residenza reale polacca di Lazienski. Per concludere: “La bellezza classica, in originale o in copia, non poteva in definitiva essere ambientata se non in un contesto che richiamasse il più possibile i più nobili tra i contemporanei modelli romani”.

Come dà conto la mostra di questo fervore per l’antico? Abbiamo già visto i soprammobili in sculture bronzee su piedistalli marmorei, anche in orologi, candelabri e vasi, ispirate a modelli antichi, Si va ancora oltre, con il Vaso a urna con vedute di Roma antica della Manifattura di Doccia e soprattutto con il Vaso coperto da vedute di monumenti antichi di Roma e  della campagna romana  nel corpo e nel coperchio con quattro vedute come cartoline incorniciate in oro,  opera di Giacomo Raffaelli; al quale si deve anche la Tabacchiera con la veduta del Colosseo.Forse certo kitsch odierno dei souvenir  nasce da qui, è come la storia che si ripete in farsa.

Non mancano nella mostra raffinati disegni a inchiostro come il Progetto per il Museum di Caterina II di San Pietroburgo, proveniente dall’Ermitage; di Clérisseau; e Studi per la decorazionedi camere da letto e sale sempre per San Pietroburgo, nonché Due studi di decorazione parietale per il conte Nicolaj Seremetev, tutti di  Giacomo Quarenghi.  

Ma l’attenzione viene calamitata dalla saletta tutta dedicata allo spettacolare  Deser di Carlo V, di Luigi Valadierdel 1778: è un vero cinemascope in pietre dure, marmi colorati in verde, rosso e giallo antico, bronzo dorato, i colonnati terminali rotondi, quelli centrali con timpano, con queste componenti: plateau ed esedre colonnate, Tempio di Flora e gradinate, Templi di Minerva e Mercurio, Arco di Settimio Severo e due obelischi, fino alle due colonne rostrate ad uso di dessert..

Rientrava nel gusto di ricreare l’antico all’interno delle dimore nobiliari e aristocratiche anche con miniature di ambienti come questo deser, in un corredo di 240 pezzi compresa argenteria con manici in pietre e oro, figurine, saliere e quant’altro. Nel descrivere l’ambiente ricreato non andiamo oltre queste sommarie citazioni, aggiungendo che l’acquirente del deser, l’ambasciatore dell’Ordine di Malta barone de Breteuil, aveva già un deser di Valadier, poi donato a Caterina II. Ripensiamo all’architettura della  Casina Valadier, il  deser spettacolare che abbiamo descritto ne sarebbe un complemento ideale; invece si trova nel Museo Arqueologico di Madrid,  ci consoliamo pensando che fu ricomposto da bronzisti italiani.

Gli artisti nella sfida dell’Antico

Così si intitola la 7^ e ultima sezione della mostra, vogliamo percorrerla descrivendo soltanto le opere, avendo già illustrato finora il contorno nei suoi diversi aspetti. Di certo, dopo e oltre le copie, fu forte la spinta, soprattutto nella seconda parte del ‘700,  a cimentarsi direttamente in opere ispirate dichiaratamente all’antico ma di impostazione e fattura del tutto personali.

Lo vediamo nelle sculture e nelle pitture, guardiamole separatamente. I due bassorilievi nei medaglioni ovali di quasi mezzo metro, Alessandro e Olimpia, di Filippo Collino, verso la metà del secolo, sono di un classicismo purissimo, nel profilo e nel movimento dei capelli e delle vesti, come il Busto femminile di Filippo Della Valle e il Ritratto femminile (contadina di Frascati) di Jean-Antoine Houdon;  esprimono maggiormente sentimenti interiori il busto  Anton Raphael Mengs, di ChristopherHewetson, ordinato alla sua morte nel 1779 per celebrarlo, e soprattutto  Dolore di Lambert-Sigisbert Adam  con una drammaticità nella smorfia sofferente per il morso del serpente avvinghiato al collo, ritenuta più teatrale che realistica, con il “naturalismo”della capigliatura e della barba di influsso seicentesco.

Sono tutti in marmo di Carrara, bianco e levigato, come la  statua di Antonio Canova, Amore malato, mentre quella ancora più grande, alta 185 cm , Venere e Adone,  è in gesso. Qualcosa  va detto su queste opere, che ci riportano la levigatezza e raffinatezza dello scultore, qui la classicità è ancora più evidente dato che l’ispirazione è diretta: della prima esistono altri tre esemplari, ma quello esposto  presenta varianti  che ne accentuano l’armonia e l’eleganza, tra l’altro sono state aggiunte le due grandi ali per derivazione da una statua antica; nella seconda è rimarchevole il contrasto tra il nudo maschile e quello femminile, e la diversa gestualità.

La cavalcata nel ‘700 romano si conclude con la carrellata pittorica di artisti che si cimentarono con l’Antico in uno sforzo di emulazione fino alla sfida. Sono 12 dipinti, di cui solo quello di Pier Leone Ghezzi, Alessandro e Diogene, è del primo quarto del secolo, gli altri dell’ultimo quarto.

Vediamo  tre ritratti, due di  Pompeo Batoni, Giacinta Orsini Buoncompagni Ludovisi e Henry Peirce a Roma; il terzo di Anton von Maron, Sir Thomas Simpleton.  Gli altri dipinti esposti sono  ispirati a scene mitologiche o di storia romana: tra le prime vediamo  Arianna e Bacco  dello stesso Batoni, poi Psiche destata da Amore  di Bénigne Gagnereaux e Matrimonio di Sara di Gaspare Landi, con la grazia che il Canova esprimeva in scultura, nonché  l’arcadico Ritratto di giovinetta in veste di baccante di Angelica Kauffmann. .Di quest’ultima,  Virgilio legge l’Eneide a Ottavia e Augusto, un interno con arcate e uno scorcio di architettura esterno; grandi pilastri nel dipinto di Jean-Charles Nicaise Perrin, Sofonisba riceve la coppa avvelenata  di Massinissa.

Domenico Corvi ci fa tuffare nella storia romana con il Giuramento di Bruto davanti al corpo di Lucrezia, un interno con statue e figure statuarie, e con Morte di Seneca, nell’oscurità sotto una pallida luna ma con le figure rischiarate da una luce rossastra. Celebrano alcuni valori forti della romanità:  il senso dell’ospitalità e della fede coniugale il primo,  lo stoicismo dinanzi all’ingiustizia e all’arroganza del potere il secondo. “La coppia di quadri – commenta Valter Curzi – finisce dunque per caricarsi si un duplice messaggio etico-morale nell’associazione di esempi di fermezza”.

E’ bello concludere con questo messaggio la visita a una mostra che potremmo definire fondativa di un modo più maturo e consapevole di leggere il ‘700 rispetto all’Antico: dopo aver visto  come si è dipanata la storia dell’arte ispirata al passato nel “secolo dei lumi” proiettato verso il futuro.

Proprio per questo ci sembra un sigillo quanto mai appropriato alla mostra e al nostro racconto l’espressione di Goethe del 1797 che chiude il monumentale catalogo: “Solo se lo sguardo si è posato sicuro sulle cose, si può leggerne e udirne parlare con piacere, perché ci si rifà a un’impressione viva: allora si è in grado di pensare e di giudicare”.

Abbiamo cercato di farlo per noi stessi e per i nostri lettori.