Fausto Roma, la mostra “Le terre del caffè”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Nel Complesso del Vittoriano, lato Ara Coeli, nella sala Gipsoteca la mostra di Fausto Roma, “Le terre del caffè”, espone dal 16 aprile al 18 maggio 2014, 29 acrilici su tela di grandi dimensioni: 20 del ciclo “Le Terre del caffè”, del 2013, 8 del ciclo “Terra”, del 2010, più l’acrilico su tela di 4 metri per 2, “La  mia terra”; vi sono anche tavolini ed altri oggetti con i motivi  della mostra, aperta da “Eneide”, gioiello d’oro con diamante nero e smeraldo, brillante e rubino. Curata da Claudio Strinati, promossa da Regione Lazio, Camera di Commercio di Roma e dall’Associazione Impegno, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Catalogo “Skira”.

L’ispirazione e il  segno un po’ astratto e un po’ concreto

Per meglio interpretare la mostra si deve partire dal gioiello posto in apertura, opera anch’esso dell’artista, perché il viaggio compiuto dall’oggetto ha ispirato i cicli pittorici della terra vista dall’alto. Il nome “Eneide” testimonia la trasmigrazione verso una realtà più vasta,  si va nello spazio perché il viaggio è stato sulla navicella Soyuz 10s, il gioiello fu affidato all’astronauta Vittori, partito il 15 aprile 2005  dal cosmodromo di Baykonur in Russia; nelle tante orbite percorse ha sorvolato il pianeta da un’altezza che ha ridotto le terre sorvolate a carte geografiche.

L’immedesimazione dell’artista in questo volo lo ha portato a intervenire sugli ingrandimenti modulari  delle fotografie satellitari imprimendovi il segno, anzi i segni della sua arte. Claudio Strinati lo definisce “un figurativo che lavora con l’astrazione”, e commenta così: “Non disegna  solo quello che vede ma ne disegna l’anima, l’interna struttura, la linfa vitale che scorre nel mondo animale, in quello vegetale  e persino in quello che definiamo inanimato e che invece animato appare all’artista creatore”, per concludere: “Di questo mondo vivente l’artista rintraccia i confini e i percorsi e quindi diventa una sorta di agrimensore dell’anima”.

Il suo segno, “un po’ astratto, un po’ concreto è sempre uguale e sempre diverso”, ed è immediatamente riconoscibile, del resto anche la vita è fatta di realtà e di astrazione, e nelle sue opere si sente scorrere la linfa vitale: “Sembra sentire latente dentro quelle immagini quel sapore della festa popolare, della allegra animazione di ciò che ci circonda, persino del profumo della amara ma buonissima bevanda, delle movenze sinuose di chi si aggira nel territorio”.

Ci viene da definirlo “impressionista del terzo millennio”: i forti colori e i segni profondi esprimono l’impressione immediata, questa volta però non fissata nella tela sul cavalletto in “plein air”, ma sulle fotografie satellitari del sorvolo virtuale,  offerto dalla modernità all’ispirazione dell’artista.

L’uomo e l’artista,  il pianeta e la sua terra laziale

Anche Philippe Daverio, nell’osservare che “ama il colore e il segno che lo articola come se fosse una scrittura indecifrata” e nel trovare  riferimenti  colti, sottolinea il tono festoso: “Il risultato è particolarmente gioioso: torna vitale con convinta energia e si riprende sfacciato il ‘diritto alla vita’, all’esperimento. Porta con sé un umore rallegrante. Come la terra laziale densa nella quale vive”.

Nato a Ceccano in Ciociaria, studi al Liceo Artistico e Accademia Belle Arti di Frosinone, allievo del maestro Ranocchi. Pittore e scultore che inizia con l’arte povera per approdare negli anni ’90 alle forme totemiche come archetipo, con le quali realizza sculture-architetture, come le sculture-albero che esprimono il movimento. Mostre in Italia e Giappone, ha partecipato al Padiglione Italia della 54^ Biennale di Venezia del 2011, curata da Vittorio Sgarbi, per il 150° dell’Unità nazionale, con l’opera “Terra 2011“. Dopo la “missione Soyuz” del suo gioiello “Eneide” si allargano gli orizzonti, e nel 2010 con il ciclo “Terra” sorvola idealmente la natura trionfante  dal Messico alla Russia, dalla Tanzania alla Nuova Zelanda; nel 1987 aveva già dipinto “La mia terra”, visione  dall’alto del territorio laziale, nella quale trasmette il proprio attaccamento   alle sue radici

E’ un rapporto ripagato dall’affetto della sua gente, che affollava la Gipsoteca all’inaugurazione, con un numero di presenti  di gran lunga superiore alle tante mostre consimili svoltesi in tale sede.

Per questo Michele Ainis, del Comitato scientifico, parla dell'”uomo, in carne ed  ossa, con i suoi amori e umori. In ogni creazione artistica si riflette il suo creatore”, e in Roma c’è la generosità che si trasmette dall’uomo all’artista: “Nella capacità di misurarsi con i più svariati materiali, e con le tecniche più varie: sicché le sue mani modellano sculture, quadri, tappeti, gioielli, installazioni”, ne vediamo alcune lungo il percorso della mostra; “oppure nel gusto delle grandi dimensioni, che stirano l’acrilico in superfici di 4 o  6 metri quadrati, come i dipinti per queste ‘terre del caffè'”.

Ma come si esprime l’artista? Ha sorvolato idealmente le 16 “Terre del caffè” per le condizioni climatiche favorevoli  alla produzione dei semi, dal Kenya al Messico, dall’Etiopia al Guatemala e alla Colombia, come per seguire quel chicco che, dice Patrizia Palombo, “viaggia attraverso altre terre esperte di miscele, torrefazioni, dosi di macinato, macchine perfette che solo mani sapienti sanno manovrare”, tante tappe  per cui “il viaggio di un chicco di caffè è molto simile al processo creativo attraverso cui si realizza un’opera d’arte”.

In merito alla creazione artistica,  Marcello Carlino ha sottolineato il “lavoro ipertestuale sull’ipotesto fotografico, del rifacimento rimodellante della texture, della marcatura delle linee e della loro puntualizzazione perliforme, della costruzione a graticcio di un testo secondo su di un testo primo”.  E ha parlato “del fascino dei colori, come in festa, e della avvolgenza delle forme con i rombi e le spirali, le strisce e i filamenti, le isoipse e le curve di livello che sciamano e che ‘sciarpano’ sinuose e danzanti”.

La galleria pittorica, “Le terre del caffè”

Ed ora la visita alla galleria di dipinti spettacolari, che si apre con un grande pannello che è tutto un programma, si tratta di “Terra 11”, l’opera esposta nel Padiglione Italia del 2011, formato da 48 tele quadrate delimitate dai meridiani e paralleli: qui non ci sono le riprese dallo spazio a ispirare l’artista, la sua immaginazione creativa ha composto un mosaico del pianeta dai forti colori. Del resto nel 2010 aveva già al suo attivo il ciclo “Terra”  con le riprese dall’alto, ora si è trattato di riassumere in una sintesi geniale le tante sollecitazioni e sensazioni di una visione spaziale.

La visione si sviluppa nel percorso della Gipsoteca, dove il visitatore è spinto a inoltrarsi nel lungo androne sinuoso cui fanno ala alle pareti, ben distanti,  gli spettacolari acrilici che segnano le vie del caffè da un continente all’altro, da un territorio all’altro. Tutte  riprese dall’alto nelle immagini dal satellite, con l’intervento decisivo dell’artista nel forte cromatismo e nel disegnare linee di quota e di confine molto marcate che rappresentano la fisionomia, diremmo l’identikit dei diversi territori.

“In tutti questi quadri – osserva Ainis da visitatore attento e affettuoso verso l’autore –  la mano dell’artista disegna un reticolo di linee, svolazzi e ghirigori. Spesso i segni appaiono punteggiati al loro interno, come un ricamo all’uncinetto. Oppure sono segni doppi, che corrono per rami paralleli”. E non avviene a caso: “Sicché lo spazio si rifrange, si moltiplica, ma al contempo si riduce. Diventa spazio atomico, pur nella sua ampia dimensione”. Non finisce qui la visione di Ainis che riassume l’effetto d’insieme e i singoli particolari: “Tuttavia gli atomi non invadono la tela: lasciano fuori lembi, isole cangianti, nuvole d’aria che infine divorano l’insieme, che ingigantiscono quando l’occhio si fissa nel dettaglio. Così il particolare diventa generale, così il microsistema genera macrofigure”.

Questa descrizione fotografa gli aspetti comuni degli acrilici esposti, tali da identificare senza alcun dubbio la mano dell’artista, come ha sottolineato Strinati; e nel  contempo spiega come si differenziano anche nel tratto. Noi ricorderemo i colori che colpiscono con la loro brillantezza, mantenendo ferma la visione d’insieme che abbiamo appena riportato come guida alla visita.

Il verde domina nel Congo e nelle Hawai, più tenue nel primo, più intenso nelle seconde, i segni marcati sono neri, in entrambi ci sono delle “enclave” rosse.

Mentre il rosso è il colore di Kenia ed Etiopia, Nicaragua e Colombia, anche se per il Kenia e l’Etiopia vi è anche una seconda rappresentazione, questa volta con il blu e il verde dominanti. Nel Kenia rosso e nella Colombia non c’è il segno marcato nero usato per le altre due nazioni, come quelle prima citate: le linee sono percorse da cerchi bianchi in successione – i “ricami all’uncinetto” di Ainis – che fanno pensare a tanti fili di perle più che ai chicchi di caffè, notoriamente neri.

Due rappresentazioni anche per il Messico, una con un fondo celeste chiaro su cui i segni divisori sono bianchi e distribuiti in fitti allineamenti sulla superficie; l’altra con una vasta area rosso bordeaux non interrotta da segni mentre il verde con delle raggiere occupa la parte esterna, è il colore del mare. Verde e celeste anche per il Guatemala, con delle sfumature bianche da cielo nuvoloso; mentre  per la Nuova Guinea la terra color arancio, fortemente segnata, è circondata da un blu intenso con macchie bianche, anche qui il mare. Dominano bordeaux chiaro e azzurro in Costa Rica e Portorico, giallo arancio in Giamaica e violenti accostamenti tra bianco e rosso per la Repubblica Dominicana. Infine il Brasile è una sinfonia di colori in un territorio molto segnato.

Il ciclo “Terra”  e la terra dell’artista

Il giro del mondo sulle terre del caffè fu preceduto dal sorvolo virtuale di terre con i diversi segni della natura: dal corso di fiumi come il Volga e il Danubio al delta del Mississippi e alla valle del Tigri, dal cratere dei vulcani al pack  del mare ghiacciato, dalla tundra siberiana alla costa croata.

Questi acrilici sono percorsi, come quelli sulle terre del caffè, da linee isobare per lo più costituite da puntini bianchi sul segno nero – i fili di perle di cui abbiamo parlato – mentre il tratto nero profondo è riservato a poche visioni dall’alto, in particolare quelle sui fiumi e sulla tundra siberiana.

Il motivo di questa differenza resta un mistero, come lo sono i criteri seguiti nel segnare con il suo tratto così variegato e intrigante, le terre “sorvolate”, e i colori usati per dare vita alla sua geografia dell’anima, che va ben oltre il supporto satellitare di base:  l’aggettivo da usare è uno solo, il motivo e il criterio del segno e del colore è sempre artistico perché investe forma e contenuto dell’opera.

Ma c’è molto di più, e lo dice Carlino nel riassumere l’effetto di questi acrilici come di quelli sulle terre del caffè. Sulle fotografie satellitari che “fungono da supporto e quasi da ordito… l’autore interviene con i tratti decisi e i colori squillanti degli acrilici, così ‘aggiungendo’ e disegnando la trama che gli appartiene, che è sua; e quanto si ottiene dalle conquiste  straordinarie della ricerca e dalle sue applicazioni tecnologiche  torna ad incontrarsi virtuosamente con il talento, artigianale e tutto umano, di base all’espressività artistica. Il moderno si risposa con l’antico”.  Questo talento si esprime attraverso  “un sistema mobile di correzioni, di riporti, di velature, di esposizioni, di sottolineature inveranti, di sviluppi proiettivi, di variazioni abrasive, di diffrazioni, di sezionamento da mappa o da carta geografica  con le coordinate appropriate e insomma  – come per impulsi e sotto suggestioni da estro armonico rinascimentale – di ricomposizione complice e felice di tecnologia e di immaginazione, di scienza e di fantasia, di cibernetica e di fantasmi”.

Il culmine della mostra è il grande pannello “La mia terra”, come un ritorno a casa dopo il giro del mondo sulle terre del caffè preceduto di tre anni dalle escursioni su fiumi, crateri e tundre. Ma non è un ritorno quanto una partenza, come la fotografia del paese che l’emigrante porta con sé nel mondo:  l’opera è del 1987,  quasi venti anni prima del viaggio dell'”Eneide”, dunque il sorvolo ideale era nel Dna dell’artista e quello virtuale compiuto attraverso il suo gioiello ha dato la spinta per l’estensione a livello planetario di un’ispirazione artistica  nata dalla propria terra.

Carlino parla delle “fasce diversamente colorate dei terrazzamenti e dei coltivi e dei corsi d’acqua delle nostre terre, sul ritorno a materia preistorica e più ancora magmatica che la natura inaccessibile vista da un occhio lontanamente orbitante sembra suggerirci”.  E all’inaugurazione della mostra i conterranei dell’artista si affollavano intorno a quest’opera sforzandosi di individuare i luoghi a loro ben noti visti dall’alto e marcati dagli interventi pittorici: abbiamo assistito a questa affettuosa ricerca collettiva di vie, piazze e giardini di paese pur nel contesto quanto mai planetario.

C’era anche Ainis, che conosce bene quei luoghi e l’abitazione dell’amico artista di cui scrive: “Abita in un borgo ai margini del borgo di Ceccano, in una casa-studio colorata come un arcobaleno, dove s’assiepano legni, ceramiche, bronzi, tele disposte sui cavalletti o lungo le pareti. Lui vive lì, ma vive sempre altrove. Frequenta il planisfero con l’immaginazione, la stessa immaginazione che s’accende appena lo sguardo sosta sui suoi quadri”. La mente  torna a Emilio Salgari, che ha acceso la fantasia di tante generazioni con i suoi romanzi di avventure in terre esotiche e lontane, da lui mai conosciute ma fatte vivere e rivivere con la sua inesauribile fantasia.

Non è poco suscitare simili emozioni, con la pittura come con la scrittura.

Info

Complesso del Vittoriano, Piazza dell’Ara Coeli 1, sala Gipsoteca. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30, venerdì, sabato e domenica 9,30-19,30, nessuna chiusura settimanale; ultimo ingresso 45 minuti prima dell’orario di chiusura. Ingresso gratuito. Catalogo. “Fausto Roma. Le terre del caffè”, Editore Skira, aprile 2014, pp.120, formato 24×28, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra  citata del “Padiglione Italia” cfr. i nostri 2 articoli in questo sito l’8 e 9 ottobre 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nel Vittoriano. Si ringrazia l’organizzazione, in particolare “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e in via speciale l’artista anche per aver accettato di essere ritratto da noi davanti a una sua opera nell’immagine di apertura.

Roma e l’antico nel ‘700, 3. Le Accademie e le decorazioni, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Le accademie e la scuola dell’Antico

Da quanto si è ricordato sembrerebbe che nel “secolo dei lumi”, con il trionfo della ragione sull’oscurantismo, quindi del progresso sull’immobilismo, nell’arte ci fosse un ripiegamento sull’antico, una rinuncia a progredire. Invece era un potente stimolo, se nel 1774 il pittore Joshua Reynolds scriveva: “Dai resti delle opere degli antichi le arti moderne trassero nuova vita ed è per mezzo di loro che esse devono conoscere una seconda nascita”. Cinque anni prima aveva inaugurato la “Royal Academy of Arts” di Londra  come segno di un primato anche culturale.

Ma il modello di questa e delle altre accademie che fiorirono in Europa era quello italiano, precisamente fiorentino (Accademia del disegno del Vasari, 1563)  e romano (Accademia di San Luca di Zuccari,1593) che, secondo Carolina Brook, “rappresentarono i primi atti di una nuova definizione dell’artista come ‘figura intellettuale'”.. Infatti, prosegue, “l’esempio vasariano – patrocinato da Cosimo de’ Medici e posto sotto la direzione di Michelangelo – segnò il tentativo pionieristico da parte degli artisti di costituirsi in un’associazione unica e indipendente dalle corporazioni professionali di stampo medievale che regolavano i diversi settori della produzione artistica, dai pittori agli scultori, dai bronzisti  agli incisori.

Base di tutto era il disegno, non solo nella pratica ma anche nella teoria, rispetto a geometria, prospettiva e anatomia; e doveva costituire la matrice delle tre “arti sorelle”, pittura, scultura, architettura, “corpo di una sola scienza, divisa però in tre pratiche”  secondo l’Accademia romana di San Luca. I fondamenti teorici delle arti figurative erano diffusi negli ambienti intellettuali attraverso i Discorsi degli Accademici, anche nei rapporti con poesia e musica, immagine e parola.

Roma era il centro dell’interesse per l’antichità ed era meta dei visitatori del Grand Tour, come si è visto; pertanto la sua Accademia, osserva la Brook, “aveva il compito di tradurre i simboli dell’eternità in essa custoditi in un materiale vivo e diffuso, di attualizzare le immagini antiche ammirate per la loro bellezza  – intesa come sinonimo figurativo di valori morali e etici alti – in elementi distintivi del tempo moderno nei quali riconoscersi”.  E’ quella che Winckelmann chiamava senza giri di parole “l’imitazione degli antichi” come “unica via per divenire grandi”.

Sin dall’inizio del ‘700 per iniziativa del nuovo pontefice Clemente XI Albani furono riorganizzati i concorsi  dell’Accademia, chiamati appunto Clementini, nel primo decennio a cadenza annuale con soggetto prescelto le “Romanae Historie” da Tito Livio, il livello iniziale era dedicato alla copia della statuaria antica per acquisire la tecnica classica e farne la base di proprie creazioni; all’esercizio sull’antico si unì quello sul nudo come esercizio dimensione ideale, anche dal vivo.

L’Accademia di Francia a Roma aveva  una ricca raccolta di gessi per la didattica che suscitò l’ammirazione di Goethe nel suo viaggio in Italia. Queste raccolte, le gipsoteche, si diffusero in Europa per lo studio della statuaria classica e ad esse furono aggiunte opere originali o riproduzioni d’epoca fornite dai sovrani, mentre a Roma divenivano sempre meno frequenti le licenze di nuove riproduzioni per gli eccessi di inizio del secolo.

Divennero famose le Accademie di Germania e Russia, Inghilterra e Austria, su influsso di Roma e in stretto contatto con la città attrazione del Grand Tour. Prima di decadere, “l’Accademia ha rappresentato nel Settecento – conclude la Brook la sua analitica rievocazione –  l’avanguardia delle ricerche artistiche, in cui la passione per l’antico si tradusse in una materia di confronto fra gli artisti, sottoposta a una continua revisione.  L’adesione normativa ai modelli dell’antichità non fu quindi semplice omologazione, ma al contrario fornì un lessico universale di base sul quale gli artisti operarono le proprie scelte linguistiche, declinate secondo i diversi contesti europei”.

Le opere in mostra in questa 5^ sezione costituiscono una galleria degna del rilievo delle Accademie, in particolare quella romana. Esse coprono i vari settori dell’espressione artistica, nella particolare ottica di cui si è detto. I  disegni sono copie di statue antiche, come quelle in sanguigna di Palazzo Verospi, di Miguel Pont Cantallops,  ein penna e acquarello  Il convito d’Assalonne di Nicolas Lejeunel; in matita la copia dell’Apollo del Belvedere già visto in scultura, di Pasquale Camporese e della Musa Talia  di Anton Raphael Mengs, da noi già citato più volte; poi, in terracotta, Le Arti rendono omaggio a Clemente di Pierre Legros a inizio secolo e Metello salva il simulacro di Pallade di Luc Francois Breton  a metà secolo.

Dai disegni e dalle terracotte alle pitture a olio e alle statue di marmo. Sono esposti 5 oli su tela, due riproducono la vita dell’Accademia: sono lo spettacolare  La sala dei gessi della Royal Academy in New Somerset House, di Johann Jeseph Zoffany e l’intimo e raccolto Il Disegno di Angelica Kauffmann; tre i soggetti studiati, un nudo disteso detto Ettore, e due dipinti con guerriero nell’armatura con elmo in La morte di Pallante di Jacques Sablet e Alessandro cede Campaspe ad Apollo di Pierre Roget.

Gli esempi di sculture, sempre nell’ultima parte del secolo, sono 5 busti, Niobide di marmo di Carrara e gli altri in gesso: un’altra versione del primo in Busto di Niobe e Testa di Achille, dai lineamenti altrettanto femminei a parte l’elmo, la spettacolare Copia del Torso del Belvedere dell’Accademia di Francia a Roma e le due teste barbute del Fiume Tigri(Arno e di Aiace , quest’ultimo con l’elmo come Achille, tutti della Real Accademia di Madrid

Dalla teoria alla pratica, anche questa è una lezione istruttiva e formativa che ci dà la mostra.

La decorazione degli interni ispirata all’antico

Troviamo ancora delle sculture proseguendo nella visita, sono di piccole dimensioni, quasi soprammobili ornamentali. Infatti siamo nella 6^ sezione, dedicata all’antico che entra nelle abitazioni nel decorare gli interni.  Ne notiamo cinque in biscuit, vengono da famose fabbriche,  due dalla Manifattura di Meissen,  Amore e Psiche, con le forme morbide e lisce e dalla Real Fabbrica Ferdinandea,  Esculapio e Igea , quattro dalla Manifattura di Giovanni Volpato:  Baccante con cembali e Galata morente, Centauro Borghese (anziano) e Centauro Borghese (giovane), ambedue cavalcati da un puttino alato. Tutte alte meno di 30 cm, come le due bronzee di Zoffoli (Giacomo o Giovanni), che mostrano seduti sugli scranni Menandro e Agrippina.

Proseguendo ancora nella galleria della mostra, vediamo le sculture bronzee farsi ancora più piccole, per essere inserite in supporti ornamentali. Spicca l’Orologio da tavolo ornato da ‘Teti immerge Achille nelle acque dello Stige’, con le figure in bronzo dorato su marmo, smalto e metallo e il Vaso della Manifattura  delle Porcellane di Sévres con una scena mitologica sul fronte e nei manici due figure femminile alate in bronzo scuro.

Notiamo poi le basi in marmo bianco con giallo di Siena e bronzo dorato alla base della coppia di soprammobili intitolati “Dioscuri”, riproduzione in piccolo in bronzo scuro delle grandi teste di Castore e Polluce dei colossi di piazza del Quirinale  provenienti dalle terme di Costantino; e le basi in bronzo dorato con marmo statuario e verde antico su cui poggiano le due figure scure quasi a reggere i sei bracci  dorati per le candele nella Coppia di Candelabri, anche qui un riferimento al Quirinale, delle cui dotazioni fa  parte. Questi bronzi ornamentali sono opera di Francesco Righetti, che era stato alla scuola di Valadier e aveva un laboratorio di produzione e vendita di piccoli bronzi ornamentali su imitazione dell’antico collocati su piedistalli in marmi diversi con guarnizioni di metalli dorati  con la possibilità di scegliere anche le dimensioni.

Siamo entrati così nella decorazione  degli interni ispirata all’antico, che va ben oltre i soprammobili ornamentali e i candelabri, e nelle dimore patrizie riguardava anche le facciate con inserite statue che proiettavano all’esterno lo sfarzo dell’interno e si ritrovavano nelle esedre arboree dei i giardini. Vengono citate al riguardo le decorazioni di Villa Borghese , con la monumentale “Sala degli Imperatori” e di Villa Pinciana della stessa famiglia Borghese, del cardinale Scipione Borghese: committenti e artisti erano membri dell’Accademia dell’Arcadia.

Ma “il luogo nel quale il rinnovato rapporto con l’antico trova la sua prima compiuta espressione” – secondo Liliana Barroero – è “Villa Albani sulla via Salaria”, dove  si trovavano opere in mostra, già citate, come Parnaso di Mengs  e il bassorilievo di Antinoo  da Villa Adriana di Tivoli, con Alessandro Albani  al centro dei collegamenti con gli “eruditi-antiquari” e collezionisti, della prima metà del secolo e con quelli della seconda metà tra cui Winckelmann suo bibliotecario.

Nel fervore delle decorazioni di interni prestigiosi ritroviamo personaggi di cui abbiamo parlato come Piranesi,  con il collaboratore Righi, nel “salone d’oro” di Palazzo Chigi,  Mentre Palazzo Altieri viene decorato con le allegorie  del matrimonio legate alla storia antica di Roma e dei Sabini, abbandonando il modello di Palazzo Doria Panphili con le allegorie bibliche, ricorda la Barroero che precisa: “I mosaici antichi sono inseriti direttamente nei pavimenti; come in Villa Albani, le paraste a motivi vegetali si alternano a cammei all’antica, e cornici a classici girali delimitano le partizioni spaziali”. E prosegue: “Questo linguaggio’ romano’ ha in realtà una dimensione marcatamente internazionale”, citando Inghilterra, Russia e Polonia, con il bassorilievo dell’Antinoo Albani nella residenza reale polacca di Lazienski. Per concludere: “La bellezza classica, in originale o in copia, non poteva in definitiva essere ambientata se non in un contesto che richiamasse il più possibile i più nobili tra i contemporanei modelli romani”.

Come dà conto la mostra di questo fervore per l’antico? Abbiamo già visto i soprammobili in sculture bronzee su piedistalli marmorei, anche in orologi, candelabri e vasi, ispirate a modelli antichi, Si va ancora oltre, con il Vaso a urna con vedute di Roma antica della Manifattura di Doccia e soprattutto con il Vaso coperto da vedute di monumenti antichi di Roma e  della campagna romana  nel corpo e nel coperchio con quattro vedute come cartoline incorniciate in oro,  opera di Giacomo Raffaelli; al quale si deve anche la Tabacchiera con la veduta del Colosseo.Forse certo kitsch odierno dei souvenir  nasce da qui, è come la storia che si ripete in farsa.

Non mancano nella mostra raffinati disegni a inchiostro come il Progetto per il Museum di Caterina II di San Pietroburgo, proveniente dall’Ermitage; di Clérisseau; e Studi per la decorazionedi camere da letto e sale sempre per San Pietroburgo, nonché Due studi di decorazione parietale per il conte Nicolaj Seremetev, tutti di  Giacomo Quarenghi.  

Ma l’attenzione viene calamitata dalla saletta tutta dedicata allo spettacolare  Deser di Carlo V, di Luigi Valadierdel 1778: è un vero cinemascope in pietre dure, marmi colorati in verde, rosso e giallo antico, bronzo dorato, i colonnati terminali rotondi, quelli centrali con timpano, con queste componenti: plateau ed esedre colonnate, Tempio di Flora e gradinate, Templi di Minerva e Mercurio, Arco di Settimio Severo e due obelischi, fino alle due colonne rostrate ad uso di dessert..

Rientrava nel gusto di ricreare l’antico all’interno delle dimore nobiliari e aristocratiche anche con miniature di ambienti come questo deser, in un corredo di 240 pezzi compresa argenteria con manici in pietre e oro, figurine, saliere e quant’altro. Nel descrivere l’ambiente ricreato non andiamo oltre queste sommarie citazioni, aggiungendo che l’acquirente del deser, l’ambasciatore dell’Ordine di Malta barone de Breteuil, aveva già un deser di Valadier, poi donato a Caterina II. Ripensiamo all’architettura della  Casina Valadier, il  deser spettacolare che abbiamo descritto ne sarebbe un complemento ideale; invece si trova nel Museo Arqueologico di Madrid,  ci consoliamo pensando che fu ricomposto da bronzisti italiani.

Gli artisti nella sfida dell’Antico

Così si intitola la 7^ e ultima sezione della mostra, vogliamo percorrerla descrivendo soltanto le opere, avendo già illustrato finora il contorno nei suoi diversi aspetti. Di certo, dopo e oltre le copie, fu forte la spinta, soprattutto nella seconda parte del ‘700,  a cimentarsi direttamente in opere ispirate dichiaratamente all’antico ma di impostazione e fattura del tutto personali.

Lo vediamo nelle sculture e nelle pitture, guardiamole separatamente. I due bassorilievi nei medaglioni ovali di quasi mezzo metro, Alessandro e Olimpia, di Filippo Collino, verso la metà del secolo, sono di un classicismo purissimo, nel profilo e nel movimento dei capelli e delle vesti, come il Busto femminile di Filippo Della Valle e il Ritratto femminile (contadina di Frascati) di Jean-Antoine Houdon;  esprimono maggiormente sentimenti interiori il busto  Anton Raphael Mengs, di ChristopherHewetson, ordinato alla sua morte nel 1779 per celebrarlo, e soprattutto  Dolore di Lambert-Sigisbert Adam  con una drammaticità nella smorfia sofferente per il morso del serpente avvinghiato al collo, ritenuta più teatrale che realistica, con il “naturalismo”della capigliatura e della barba di influsso seicentesco.

Sono tutti in marmo di Carrara, bianco e levigato, come la  statua di Antonio Canova, Amore malato, mentre quella ancora più grande, alta 185 cm , Venere e Adone,  è in gesso. Qualcosa  va detto su queste opere, che ci riportano la levigatezza e raffinatezza dello scultore, qui la classicità è ancora più evidente dato che l’ispirazione è diretta: della prima esistono altri tre esemplari, ma quello esposto  presenta varianti  che ne accentuano l’armonia e l’eleganza, tra l’altro sono state aggiunte le due grandi ali per derivazione da una statua antica; nella seconda è rimarchevole il contrasto tra il nudo maschile e quello femminile, e la diversa gestualità.

La cavalcata nel ‘700 romano si conclude con la carrellata pittorica di artisti che si cimentarono con l’Antico in uno sforzo di emulazione fino alla sfida. Sono 12 dipinti, di cui solo quello di Pier Leone Ghezzi, Alessandro e Diogene, è del primo quarto del secolo, gli altri dell’ultimo quarto.

Vediamo  tre ritratti, due di  Pompeo Batoni, Giacinta Orsini Buoncompagni Ludovisi e Henry Peirce a Roma; il terzo di Anton von Maron, Sir Thomas Simpleton.  Gli altri dipinti esposti sono  ispirati a scene mitologiche o di storia romana: tra le prime vediamo  Arianna e Bacco  dello stesso Batoni, poi Psiche destata da Amore  di Bénigne Gagnereaux e Matrimonio di Sara di Gaspare Landi, con la grazia che il Canova esprimeva in scultura, nonché  l’arcadico Ritratto di giovinetta in veste di baccante di Angelica Kauffmann. .Di quest’ultima,  Virgilio legge l’Eneide a Ottavia e Augusto, un interno con arcate e uno scorcio di architettura esterno; grandi pilastri nel dipinto di Jean-Charles Nicaise Perrin, Sofonisba riceve la coppa avvelenata  di Massinissa.

Domenico Corvi ci fa tuffare nella storia romana con il Giuramento di Bruto davanti al corpo di Lucrezia, un interno con statue e figure statuarie, e con Morte di Seneca, nell’oscurità sotto una pallida luna ma con le figure rischiarate da una luce rossastra. Celebrano alcuni valori forti della romanità:  il senso dell’ospitalità e della fede coniugale il primo,  lo stoicismo dinanzi all’ingiustizia e all’arroganza del potere il secondo. “La coppia di quadri – commenta Valter Curzi – finisce dunque per caricarsi si un duplice messaggio etico-morale nell’associazione di esempi di fermezza”.

E’ bello concludere con questo messaggio la visita a una mostra che potremmo definire fondativa di un modo più maturo e consapevole di leggere il ‘700 rispetto all’Antico: dopo aver visto  come si è dipanata la storia dell’arte ispirata al passato nel “secolo dei lumi” proiettato verso il futuro.

Proprio per questo ci sembra un sigillo quanto mai appropriato alla mostra e al nostro racconto l’espressione di Goethe del 1797 che chiude il monumentale catalogo: “Solo se lo sguardo si è posato sicuro sulle cose, si può leggerne e udirne parlare con piacere, perché ci si rifà a un’impressione viva: allora si è in grado di pensare e di giudicare”.

Abbiamo cercato di farlo per noi stessi e per i nostri lettori.

Romano-Del Monaco, lune e alberi, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

“Similitudine & Contrasto” si intitola la mostra al Vittoriano, nella Sala Giubileo in via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, dal 4 aprile al 4 maggio 2014,  che espone le lune polimateriche e le sfere di bronzo di Paola Romano, ispirate al manoscritto“Sidereus Nuncius” di Galileo; e le immagini arboree e floreali di Patricia del Monaco ispirate agli acquerelli del ‘600 dell’“Hortus Regius Honselaerdicensis” di Stefano  Cousyns. La similitudine nell’abbinare opere contemporanee con libri del 600, il contrasto nella diversità di forme d’arte e di temi delle due artiste  Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, curata da Sergio Risaliti, responsabile Maria Cristina Bettini. Catalogo Gangemi Editore.

Un primo commento è che ci troviamo dinanzi a una mostra su un tema posto alle artiste espositrici sulla base di un modello di riferimento. Ci vengono subito in mente la recente mostra “90 artisti per una bandiera”, come le mostre del 2009 “Mitografie” sul mito e “Contemplazioni” sulla bellezza, fino alla mostra del 2010 sulla Carta oleata dell’Ente comunale di Consumo di Roma in cui “43 artisti si interrogano sulla memoria”. In questo caso abbiamo due artiste riferite ciascuna a un tema-testo d’epoca, le loro fonti d’ispirazione sono rispettivamente  la Luna di Galileo e i giardini fioriti seicenteschi.

Il perché di similitudine e contrasto

L’apparente ossimoro del titolo, “Similitudine e contrasto”,  come accennato all’inizio, dovrebbe riferirsi al netto contrasto tra le opere delle due espositrici, e la similitudine all’ispirazione parallela, due tomi della Biblioteca Nazionale di Firenze. Oppure anche ad altri motivi?  Diversi sono i soggetti, la luna  in Paola Romano, gli alberi e i fiori in Patrizia del Monaco, come i materiali e i cromatismi usati per le composizioni, grevi addensamenti nella prima, arabeschi ornati nella seconda; comune l’abbinamento di opere contemporanee a testi d’epoca seicentesca che collimano con i temi prediletti delle due artiste nelle opere precedenti, la Romano nel ciclo delle Lune, la Del Monaco nel ciclo legato alla natura,  dagli alberi ai fiori, in un caleidoscopio di immagini.

Del perché del titolo, e della mostra, ne dà conferma Maria Letizia Sebastiani, responsabile della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze che ha concorso attivamente alla realizzazione del progetto, trovandolo “nell’accostamento di due manoscritti, entrambi celebri e importanti nella materie dagli stessi trattate, con opere artistiche contemporanee”. Mentre Andrea Romoli Barberini  lo spiega così: “Similitudine e contrasto è il titolo di una mostra sostanziata dal confronto tra epoche, discipline, metodi e, non ultimo, visioni del mondo. Ambiti di appartenenza, ad evidenza, estremamente diversi, che sembrerebbero esaltare il concetto di distanza, ma che, al contrario, possono svelare anche insospettate e suggestive prossimità”. Il curatore della mostra Sergio Risaliti  compie  un excursus sui rapporti tra arte e libri, distinguendo i libri artistici dai libri-oggetto.

Le opere delle due artiste si fronteggiamo, per così dire, nella sala espositiva:  le grandi lune  di Paola Romano solide e imponenti, anche come dimensioni, nei loro monocromatismi plurimi con notevole spessore materico di fronte ai delicati arabeschi decorati con raffinatezza e ricchezza cromatica di tipo orientale di Patricia del Monaco.

Un anello di congiunzione, collocato a metà delle due pareti contrapposte, ci è apparso “Il grande albero dei valori” della Del Monaco, che reca nei rami come frutti dei dischi la cui forma e cromatismo richiamano le Lune della Romano. Ma può trattarsi di una mera assonanza senza nessun intento, notata dalla nostra ricerca delle similitudini in un contrasto che più netto non potrebbe essere tra i due mondi: la solidità degli astri, la leggerezza della natura. Accomunati nella visione delle artiste, da lontano l’una, ravvicinata l’altra, che in fondo esprimono la posizione dell’essere umano dinanzi al creato con i mondi extraterrestri e i frutti colorati della terra.

Le Lune polimateriche di Paola Romano

Le opere più imponenti sono le grandi Lune polimateriche di Paola Romano, in una successione cromatica dal bianco al rosso, dall’argento all’oro, accompagnate da sfere bronzee.

Queste ultime, che possono ruotare sull’asse, ciascuna denominata “Cratere”, sono percorse da profonde fenditure, ripetono nella forma le grandi sfere di Arnaldo Pomodoro,  alla Farnesina e alle Nazioni Unite,  e quelle di Silvio Mastrodascio nelle piazze di Teramo e Montorio al Vomano, oltre che in modelli più piccoli di vario tipo, sempre con dei volti inseriti nella struttura sferica. Le sfere di Paola Romano  evocano invece i crepacci lunari, l’astro esprime deserto e lontananza siderale.

Ma le opere più spettacolari sono le Lune polimateriche le quali fanno pensare alle trasfigurazioni nell’immaginario collettivo,  fino alla luna rossa della canzone.  C’è la serie PZ in cui la superficie lunare è come percorsa da pieghe, , mentre nelle altre Lune rugosità e rilievi sono resi da addensamenti materici che l’artista ci dice essere formati dai materiali più vari.

Le dimensioni vanno da 80 a 180 centimetri di diametro, a parte la luna-regina, se così si può dire – che fronteggia l’opera-regina dell’altra artista, prima citata come collegamento tra le due – che occupa l’intera parete di fronte con i suoi tre metri e mezzo di diametro. E’  veramente spettacolare, bianca con una formazione scura che la attraversa, il titolo “Luna Galileo”  la collega direttamente all’opera cui la serie è ispirata, il “Sidereus Nuncius”,  del 1610, manoscritto  autografo di Galileo Galilei in una teca a fianco alla grande tavola polimaterica, aperto alla pagina con le fasi lunari.

Galileo aveva potuto osservare la superficie della luna con il cannocchiale o telescopio all’inizio del 1610, inoltre con questo strumento e le lenti di sua invenzione aveva scoperto corpi celesti, come le Pleiadi, aveva visto più da “vicino” l’ammasso di stelle della Via Lattea e, soprattutto, aveva potuto accertare l’esistenza dei satelliti di Giove,  che chiamò “medicei” ricevendo da Cosimo la possibilità di tornare in Toscana e la carica di “Matematico e Filosofo del Granduca”. L’opera fu una pietra miliare ma non un punto di arrivo, pochi mesi dopo le nuove osservazioni lo portarono a descrivere Saturno “tricorporeo”, le macchie solari e le fasi di Venere, nella progressiva demolizione del sistema aristotelico-tolemaico verso il sistema copernicano.

L’accostamento della pagina con la prima “riproduzione” della superficie della Luna nelle sue cavità e protuberanze, e la grande Luna Galileo di Paola Romano istituisce un ponte tra il passato e il presente, tra la scienza e l’arte, suscitando un’indubbia emozione per il fascino sempre associato al satellite più vicino alla terra, e alle sue fasi che ne scandiscono la luminosità nel firmamento .

Seguono le  Lune cui abbiamo accennato, ne sono esposte sette, anche se l’artista ha dedicato loro un ciclo intenso, ne ricordiamo 34, tutte riprodotte a pagina intera nel Catalogo della mostra con le varianti delle diverse superfici lunari, più o meno tormentate da rilievi e cavità, nei diversi colori che assume per fenomeni atmosferici e per visioni coscienti o trasognate  con dimensioni diverse:  4 Luna bianca e4 Luna grigia, 2 Luna argento e  ben 11 Luna oro, poi Luna rame  e Luna arancio, Luna acqua e Luna azzurra, 2 Luna viola e 2 Luna rossa, fino a Luna petrolio e Luna oro nero, Luna segreta e Luna oltre.

Dopo  aver visto le interpretazioni dell’artista, guardando il satellite della terra nelle serate di plenilunio, non si potrà  fare a meno di ripensare alle sue potenti espressioni materiche.

Gli alberi evocativi di Patricia del Monaco

Cambia tutto, ma non l’emozione, con le opere di Patricia del Monaco, affiancate a loro volta  da un altro manoscritto  del 1600, l’“Hortus Regius Honselaerdicensis”,  un tomo “in folio”  di grande formato con 132 tavole di acquerelli del pittore Stefano Cousyns, 1685-88, che raffigurano fiori locali ed esotici appartenenti al giardino botanico che l’olandese Gaspar Fegel  realizzò a Leewenhorst mandando spedizioni nel  mondo per reperire varietà sconosciute. Lo sostenne nell’iniziativa  Guglielmo III d’Orange che era interessato a favorire le coltivazioni sperimentali nei giardini;  e alla morte di Fegel acquisì le sue coltivazioni e la biblioteca portandole nei propri giardini di Honselersdijk incaricando il pittore  di riprodurli negli acquerelli poi raccolti in volume.

Il libro è esposto con in vista il frontespizio,  opera di Bartholomaeus Brandon, su cui è dipinta l’immagine di una terrazza giardino,  con piante in vasi ornamentali,  inserita in un paesaggio collinare in cui scorre un corso d’acqua che evoca l’Hortus Regius di Guglielmo III: in primo piano quattro figure di donna simboleggiano i quattro continenti da cui provengono le piante.

Queste immagini floreali ci fanno pensare alla vera  e propria galleria botanica senza fine dei dipinti della dinastia di Brueghel, centinaia di specie di fiori riprodotti con straordinaria precisione.

Non è il caso dei dipinti di Patrizia del Monaco,  non intendono riprodurre la natura, si ispirano liberamente al tema degli acquerelli d’epoca rendendone la leggerezza cromatica e ornamentale  ma accentuandone l’aspetto decorativo in una fantasmagoria di motivi preziosi che ricorda Klimt.

Alcune opere sono decorazione assoluta, come “Babilonia”, sei tessere di un mosaico tenue e discreto  che ritroviamo in altre come “Tiffany” e “Moduli primitivi”, non esposte, e “I Giardini di Damasco”, un vero arabesco orientale; oppure, come in “Genesis”,  c’è un nucleo luminoso al centro, lo sviluppo di quanto nei “nuclei primitivi” è accennato dei motivi induisti e precolombiani. In altre sono appena delineate figure femminili, come “Emblema” e “Domina est Hortus”,  con un delicato volto di donna in maschera appena percettibile;  per trovare volti ben delineati  dobbiamo cercare nelle opere non esposte, come “Medusa”  e “Madame Butterfly”, mentre vediamo figure distese in “Gilda” e “L’occhio di Cassandra”, in altre pose in “L’impero dei sensi” e “Frida”, chissà se riferito a Frida Khalo, l’artista eroina del ‘900? Ma sono fuori dal tema e  non esposte.

Rientriamo nel tema con le opere molto delicate esposte in cui si materializza a poco a poco l’immagine che diverrà dominante.  “The eyes” e “Initium horti” recano la sagoma appena percettibile di un albero, poi resa più visibile ma ancora indefinita in “Driadi le ninfee dell’albero” e “Dal giardino dei giusti l’albero di melograno”. Fino a “Il grande albero dei valori”, citato all’inizio, una tela spettacolare di 250 per 200 cm, che fa pensare a un albero della vita per la suggestione che emana con i tanti nuclei dei frutti copiosi resi in dischi preziosi in cui si ritrovano i valori. Ma c’è anche “L’albero della vita” nella sua produzione, con l’allegria delle foglie cerchiate di verde intenso, come“L’albero dei sogni” che trascolora in un celeste leggero, e “L’albero del tempo” dove i nuclei diventano spirali avvolgenti, mentre “L’albero dell’uguaglianza” con l’azzurro intenso ispira serenità, e “L’albero della danza” piega i suoi arancioni come in un inchino; poi tanti altri, da “L’albero tribale” a “L’albero barocco”, da “Infinity White” a “Panta Rei”, nei due ultimi restano dell’albero quasi solo le foglie allusive,  nella sublimazione  estrema.

In mostra è stata avanzata da una collega presente l’idea di far partecipare queste opere alla “Giornata dell’albero”, l’artista è apparsa favorevole,  ci sentiamo di rilanciarla con forza dopo aver visto i preziosi dipinti dei tanti alberi che abbiamo citato in aggiunta a quelli esposti, in  una vera celebrazione dell’albero in tutte le possibili incarnazioni, i cui contenuti enunciati sono altrettanto significativi della forma decorativa estremamente raffinata e ornamentale, di marca orientale e mediterranea, risultato dei numerosi viaggi compiuti dall’artista con i relativi influssi stilistici. Anzi aggiungiamo a questa proposta quella di esporre gli alberi dell’artista nello spettacolare palazzo che ha la forma appunto di un albero  che sarà al centro dell’Expo di Milano del 2015.

L’albero colpisce l’immaginazione, l’associazione di idee ci porta alle progressive schematizzazioni arboree di Mondrian nella sua ricerca della “perfetta armonia”,  poi alla intensa sequenza del film “La battaglia di Alamo” quando nell’ultima sera John Wayne ammira la pianta maestosa dai rami protesi quasi cercando un’estrema impossibile protezione, fino all’opera fotografica di Teresa Emanuele al Padiglione Italia di Vittorio Sgarbi, sezione Lazio, nella mostra a Palazzo Venezia del 2011.

Ora diventano dominanti nelle nostra mente i tanti alberi di Patricia del Monaco, con la loro eleganza, i loro contenuti, le loro evocazioni oniriche e inconsce, che ci accompagneranno ogni volta che la natura ce ne presenterà svettanti, con o senza i frutti copiosi degli alberi evocativi.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo. Tutti i giorni, ore 9,30-19,30, nessuna chiusura settimanale. Ingresso gratuito, l’accesso è consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Tel. 06.6780664. Catalogo: “Patricia del Monaco e Paola Romano, Similitudine & Contrasto”, Gangemi Editore, marzo 2014, pp. 112, formato  24,5 x 28, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre richiamate nel testo cfr. i nostri articoli: in “cultura.inabruzzo.it” su “Mitografie” il 16 giugno 2009 e “Contemplazioni” il 5 agosto 2009; in questo sito su “90 artisti per una bandiera” il 14 e 15 gennaio 2014, su “43 artisti si interrogano sulla memoria” il 1° agosto 2013, su “Mastrodascio”  il 7 ottobre 2013, su “Brueghel” il 5 maggio 2013, su “Frida Khalo” il  24 marzo, 12 e 16 aprile 2014, su “Mondrian” il 13 e 18 novembre 2012, sul “Padiglione Italia” l’8 e 9 ottobre 2013; in http://www.fatografarefacile.it  su “Frida Khalo in 33 fotografie” aprile 2014.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nel Vittoriano, si ringrazia l’organizzazione, in particolare “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti,  in  modo speciale le artiste Paola Romano e Patricia del Monaco anche per aver acconsentito di farsi ritrarre da noi a lato della loro opera più significativa.  In apertura “Luna Galileo” con l’autrice Paola Romano in un’oscurità “lunare”, seguono due lune colorate della stessa artista; poi “L’albero della vita” con l’autrice Patrizia del Monaco, seguono altre sue immagini floreali. 

Borzelli, le sue porte manzoniane, al Fondaco

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Fondaco, nel quartiere Monti di Roma, la mostra “Le porte di Rossana Borzelli”, dal 3 al 19 aprile 2014 con l’estensione fino al 19 giugno al Caffè Vanni nel quartiere Prati, vicino alla Rai, con altre porte e compensati su cui l’artista dipinge volti che si incorporano negli antichi usci il cui legno è segnato dal tempo. E’ stata un’occasione per parlare con l’autrice anche degli altri suoi interessi artistici, come le mani a cui ha dedicato una vera galleria pittorica e la rappresentazione delle donne celebri che l’hanno più colpita in busti totemici con cui ha realizzato una sorta di foresta incantata. Curatrici Flora Ricordy e Francesca Marino.

E’ stato ben più della visita a una mostra e di un’intervista il nostro incontro con Rossana Borzelli in una giornata particolare per diversi motivi.  Abbiamo visto le sue opere e conversato con lei , riscontrando una serie di collegamenti evocativi dell’arte e della vita. Ha partecipato una delle due curatrici della mostra, Flora Ricordy, che con Francesca Marino è titolare della Galleria Fondaco, e ha esibito la vasta raccolta iconografica del suo monitor sull’artista e non solo, descrivendo in modo appassionato la filosofia e  l’attività della galleria

Una storia fonte di ricordi

La storia umana dell’artista ci ha riportato a ricordi lontani, è di una storica famiglia dalle ascendenze nel campo della ceramica ma nota a tutti i romani, almeno dalle recenti generazioni, come imprenditori e artigiani del legno, creativi e innovatori nel campo, precursori lungimiranti dell’assistenza al “fai da te”.

Da “Borzelli” si trovavano tutte le possibili conformazioni dei supporti lignei pronti per l’applicazione finale da parte dell’utente, oltre che i mobili e gli altri arredamenti finiti;  nei ricordi di quella non lontana stagione da loro c’era la soluzione per ogni problema legato al legno, un ausilio prezioso per le famiglie. Le multinazionali come Ikea le sono debitrici, anche se invadendone il campo, con soluzioni diverse e più strutturate, hanno segnato il ritorno degli ultimi epigoni della stirpe Borzelli al mobilio tradizionale di grande qualità.

E Rossana Borzelli? La sua arte nasce in questa famiglia, dove “creatività e intraprendenza erano gli elementi fondamentali del vivere”, dice lei stessa, e ricorda il nonno Umberto e il padre Cesare  muoversi nello stabilimento con i grandi rotoli di carta dei progetti, e soprattutto “l’odore del legno, i compensati su cui erano raffigurati schizzi di mobili disegnati e poi realizzati”.

Il ferma-immagine di questa scena fissa  disegni sui compensati, l’ispirazione da cui nasce nell’infanzia il collegamento con il legno, non più solo dell’artigianato, perché con Rossana entra in campo l’arte.  Il supporto resta  il compensato, gli schizzi  di mobili diventano ritratti di volti, il rapporto con il legno ancora più stretto; perché dal compensato, che resta un supporto costante, passa alle porte fino all’identificazione fissata nel titolo della mostra:  “le porte di Rossana Borzelli” diventeranno un sigillo della sua arte.

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Le porte e i volti  in esse incorporati

Non è soltanto un diverso supporto, c’è molto di più, all’artista si illuminano gli occhi nel parlarne. Il legno è un materiale vivo, le sue fibre  ne segnano caratteristiche e proprietà, diverse sono le condizioni di permeabilità e assorbimento, quando è la base per dipinti ad olio come nel nostro caso; per le porte, scelte tra quelle vecchie e antiche, questa difficile variabilità si accentua per il “vissuto” che ne ha marcato in modo diverso le fibre, per cui anche sotto il profilo tecnico  c’è da fare i conti con la diversa permeabilità della superficie.  Questo aspetto richiede un contatto particolare con il supporto,  una cura e un‘attenzione come per qualcosa di vivente.

Anche  la celebre Louise Nevelson era attratta del “vissuto”  nel legno, al punto di  raccogliere in strada assi e altri pezzi gettati via o in disuso per farli rivivere in composizioni spesso imponenti, ne parliamo con l’artista, il cui interesse si rivolge a una conformazione lignea ben precisa, le porte, con tanto di chiavistelli e cerniere  in bell’evidenza, che hanno una carica evocativa  precisa e diretta. C’è sempre una parta, nella vita, che si apre o si chiude, oppure resta socchiusa nell’attesa; ci sono porte che spesso segnano l’esistenza.

Non si limita all’aspetto tecnico e a quello simbolico quest’attenzione particolare, riguarda anche il lato artistico. Le porte, tanto più quelle vecchie e antiche, come esseri viventi hanno le loro adattabilità e le loro incompatibilità, per cui l’artista “sente” che quella porta può ospitare quel volto e non un altro, in una coabitazione, si direbbe, profondamente umana.  Il rapporto dell’artista con le porte  e i volti che vi dipinge diventa affettivo per la genesi della sua opera  artistica che nasce con la ricerca delle porte  nei diversi ambienti nei quali si possono trovare a seguito delle ristrutturazioni e svecchiamenti, e con l’abbinamento dei volti di persone conosciute o notate per le loro particolarità: sono contrassegnate anche da nomi come titoli, in alcune ci sono delle grandi scritte che attraversano il dipinto. Nessuna seduta di posa, qualche aiuto da ritratti fotografici, per lo più  da ciò che è rimasto impresso nella mente. E sono volti giganteschi che coprono l’intera superficie, nell’abbinamento con le porte ne assumono la dimensione fisica oltre che simbolica.  

Ben diverse ragioni per l’immagine dipinta da Modigliani su una porta dell’abitazione del mercante Zborowski: era il ritratto dell’amico “pittore maledetto” Chaim Soutine, da cui si faceva accompagnare nelle visite quotidiane al mercante, lo dipinse  nel corso delle insistenze per convincere quest’ultimo a prendere Soutine nella sua “scuderia” di cui Amedeo faceva parte, un gesto singolare dettato dall’amicizia. 

Ci viene istintivo a questo punto il richiamo manzoniano, per un’altrettanto spontanea associazione di idee: “Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci” è l’immagine rimasta più impressa nel cuore oltre che nella mente dai tempi della scuola, a segnare l’abbinamento tra quegli “usci” e il volto che ne emerge. La porta non è solo un sipario che si apre, è parte dello spettacolo, la figura umana vi resta impressa, come nei dipinti dell’artista. Manzoni ci mostra “una giovinezza avanzata ma non trascorsa”, “una bellezza velata e offuscata, ma non guasta”, “quella bellezza molle e un tempo maestosa”.  E  lo sguardo:  “Gli occhi non davan lacrime, ma portavan segno d’averne sparse tante”,  “c’era in quel dolore un non so che di patetico e profondo”.  Nei volti della Borzelli c’è una pari introspezione, le porte su cui sono impressi ne accrescono la suggestione, come il volto della madre della piccola  Cecilia, indelebile anche perché “scendeva da uno di quegli usci”.

Il riferimento manzoniano riguarda l’intensità  dei volti della Borzelli, che esprimono profondi sentimenti interiori piuttosto che atteggiamenti momentanei, cosa che accentua il contatto con le porte, il supporto più intrigante, anche se il compensato ha una resa pittorica molto interessante: il fondo in legno resta in evidenza, solo i contorni dei volti sono definiti dalla pittura; differenziandosi del tutto dalle pitture su tavola, che a prima vista non si distinguono da quelle su tela quando  il colore ne copre interamente la superficie.

Dei volti restano impressi gli sguardi, i grandi occhi profondi  dai  quali traspare  un’interiorità e un’intensità di sentimenti che sembra alla ricerca di una comprensione o una condivisione,  e porta l’osservatore a interrogarsi su quella persona e su quella casa.

Ci siamo interrogati anche noi e abbiamo considerato in una “luce” diversa i portoncini di recente sostituiti  nella ristrutturazione  di un’antica abitazione dei nostri nonni a Pietracamela – il borgo montano natio tra i borghi più belli d’Italia e tra  i 400 borghi più belli del mondo –  che non ci siamo sentiti di buttare per il “vissuto” che custodiscono.

Rosanna Borzelli riesce a penetrare in questo “vissuto” e a far convivere con le vecchie porte i nuovi volti da lei dipinti che si armonizzano con le sue fibre, altrettante rughe di una vita vegetale che continua  e si amalgama con la vita umana che viene ad essa sovrapposta.  In qualche caso le sovrapposizioni di volti sono multiple, fino a quando non trova l’amalgama giusto, la radiografia di molte porte lo evidenzierebbe; e quando non sono porte è pannello di legno, un compensato che dà profondità con  la tinta lignea che si scolora.

Abbiamo ritratto lei stessa a lato delle sue porte, approfittando della sua cortesia: ebbene, i ritratti ci sono sembrati delle simbiosi,  perciò alterniamo queste immagini riprese con l’autrice al Fondaco a quelle dei soli dipinti nell’altra sede espositiva, il Caffè Vanni..   

Le mani e la foresta totemica femminile

Non sono solo i volti dipinti sugli usci nell’arte della pittrice, anche se “le porte di Rossana Borzelli” oltre ad essere il titolo della mostra e la materia espositiva ne sono diventate una seconda pelle, se così si può dire, un sigillo inconfondibile. In un’altra serie di opere abbiamo anche le mani protagoniste assolute, in tutte le loro possibili gestualità e variazioni. Come per le porte, anche per le mani si può dire che segnano la vita:  rispetto agli altri accolgono o respingono, accompagnano o allontanano, rispetto a noi stessi fanno tutto ciò che ci serve. Anche le mani della Borzelli, come i volti, hanno grandi dimensioni, fanno pensare alla mano gigantesca dal dito puntato nel Campidoglio.  

Ci ha confidato che le persone sono restie a metterle in evidenza, tanto meno a farle fotografare, ne sono gelose più dei volti, tanto che per riprenderle in modo realistico ha dovuto far fotografare le sue stesse mani nelle posizioni più diverse. Flora Ricordy fa scorrere sul proprio monitor  una vasta galleria di mani dipinte dall’artista,  ci viene spontanea l’associazione di idee dannunziana, la bellezza delle mani era un pensiero costante del Poeta, a lui non gli piacevano le mani della “Gioconda”, che disse di aver “ospitato” nel periodo in cui il quadro fu sottratto per poi essere ritrovato, scrisse una novella dal titolo “Come la marchesa di Pietracamela donò le sue belle mani alla principessa di Scurcola”. Nel racconto  il pittore Flamignano mette in posa la “marchesa di Pietracamela” innamorata di lui che lo è andata a trovare, per completare il quadro della principessa con le sue belle mani. Con questa citazione confidiamo il fatto personale, è Pietracamela il nostro paese natale di cui alle vecchie porte conservate per il loro “vissuto”, è  Rossana Borzelli che riesce a muovere i nostri sentimenti.

Ma non è finita, l’incontro va ancora oltre la mostra, verso un nuovo settore in cui si esprime la sua arte, sempre la Ricordy ce ne mostra le immagini al monitor. E’ una sorta di foresta pietrificata di volti femminili, sono figure totemiche in acciaio che rappresentano donne divenute simboli, le chiediamo di Frida Kahlo, non poteva mancare, fa parte della foresta. Anche la Nevelson dopo il legno di risulta utilizzò l’acciaio per  composizioni  da grande arredo urbano, qui il contenuto evocativo è molto diverso  e possiamo dire che porta a un simbolismo femminile di grande efficacia e intensità.

Galleria Fondaco, ne parla Flora Ricordy

Le sorprese non sono terminate, vanno oltre la mostra anche le parole della Ricordy sull’attività della Galleria Fondaco nel promuovere l’arte accessibile, cioè il suo ingresso nelle case e nelle famiglie reso possibile dal prezzo e dalla compatibilità ambientale, condizioni che certa arte contemporanea non offre: di qui l’accurata selezione di artisti e di opere.

E’ un’opera meritoria, come quella di  Michele von Buren della galleria “RvB Arts” che ha dato addirittura il nome di “Accessible Art” al suo programma  di promuovere l’integrazione tra arte e gli arredi domestici sulla base della condivisione e dell’accessibilità economica e non solo. Caterina Falomo, l’appassionata animatrice del “pennarossa press lab”,  ci ha fatto conoscere prima la von Buren, alle cui mostre abbiamo dedicato vari servizi, ora la Ricordy impegnata anche su altri piani  in una prospettiva in cui l’architettura, professione delle due titolari, ha un ruolo importante.La Galleria Fondaco celebra il decennale della fondazione presentandosi come  “realtà poliedrica”: non solo organizzazione e cura di mostre nel quartiere Monti in via degli Zingari e in altri spazi espostivi con ausilio di curatori e critici anche esterni, e vendita  di opere d’arte; ma anche servizi di consulenza per allestimenti artistici, collezionismo e prodotti editoriali  legati all’arte contemporanea.  Ogni anno da 4 a 6 mostre soprattutto personali, ma l’esposizione nella galleria è permanente per gli artisti che vi fanno capo, giovani emergenti e artisti affermati: oltre a Rossana Borzelli, citiamo Irene Campominosi e  Gerdine Duijssens, Stefano David e Dino Ignani, Mojmir Jezek e Fabio Meschini; è possibile anche visionare opere di Enrico Castellani, Piero Guccione, Mario Ceroli.

E’ luogo d’incontro oltre che di artisti, di architetti e arredatori, e consente al pubblico di entrare in contatto con chi è impegnato ad ‘”arredare con l’arte”. Intesa come “espressione dell’interiorità umana” con la funzione di “trasmettere le emozioni e il pensiero dell’artista”, per cui “possedere un’opera d’arte è in qualche modo scegliere di voler ‘ascoltare’ quel messaggio, ma anche di volerlo condividere e trasmettere, nella molteplicità delle diverse percezioni”. Acquistare un’opera d’arte per inserirla nella propria abitazione o per regalarla è “decidere di comunicare anche di noi, delle nostre emozioni. Perché l’arte come la casa è estensione di noi stessi”. Questa la filosofia alla base dell’attività della galleria, e la passione che vediamo trasparire dalla Ricordy ne è sicura garanzia.

Ci siamo allontanati dall’oggetto del nostro incontro, le “porte di Rosanna Borzelli”? Al contrario, perché l’accostamento dell’arte alla realtà quotidiana che viene perseguito ha portato le opere dell’artista in un altro spazio espositivo oltre quello del “Fondaco”: il Caffè Vanni.  Affrontiamo le incognite del centro sconvolto da agitazioni di piazza con i servizi pubblici in parte bloccati, ma il richiamo delle altre porte esposte nel locale vicino a piazza Mazzini ci fa lasciare l’ospitale galleria nel quartiere Monti.

Le porte della Borzelli al Caffè Vanni

La doppia visione è istruttiva, sulle pareti del ristorante, una lunga galleria animata, le porte assumono un aspetto diverso da quello nel piccolo locale del “Fondaco”, come esseri viventi che mutano atteggiamento e apparenza a seconda del luogo in cui si trovano. Valeva la pena di sottoporsi a una traversata  faticosa, è suggestiva  la fuga di volti dipinti sul legno che sovrastano quelli dei commensali seduti ai tavolini del ristorante affollato, in un rimando di espressioni e di emozioni.

Il Caffè Vanni  ha 85 anni di vita, la posizione è strategica nei luoghi simbolo della Rai, è divenuto un centro di iniziative per riqualificare l’area circostante anche con spazi ai giovani, presenta soluzioni innovative non solo nella ristorazione, cura eventi anche artistici come la mostra in corso. Si sente un’aria speciale, Lorenzo Vanni ci dice che vi ha esposto anche Guttuso,  in lui vediamo l’orgoglio di abbinare in modo suggestivo arte e vita reale e pulsante. Guardiamo insieme le opere di Rossana Borzelli nel ristorante dove l’attività è intensa.

Sono le ore 21, da via Col di Lana, all’angolo con il mitico Teatro delle Vittorie  che muove  i ricordi di non dimenticati spettacoli televisivi, iniziamo l’altrettanto lunga traversata per tornare a casa, tra bus e metropolitana, nella direttrice dell’Eur. E non siamo stati soltanto al “Fondaco” e al “Vanni”. L’invito di Caterina Falomo  ci ha portato  anche, in itinere, allo “Spaziottagoni”  in Trastevere  dove abbiamo trovato il “V Stato”  dell’artista sardo Massimo Onnis. Un’altra emozione, ne parleremo presto.

Info

Galleria Fondaco, di Francesca Marino e Flora Ricordy, via degli Zingari 37, Roma, quartiere Monti, pressi via Cavour. Da martedì a sabato, ore 10,00-13,30 e 16,00-19,00, ingresso gratuito. Tel. 06.4873050; cell. 339.8438270. e-mail: info@fondaco.eu;; http://www.fondaco.eu/. Caffè Vanni, via Col di Lana 10, Roma, quartiere Mazzini, orari di apertura, l’esposizione è nel ristorante.  Per gli artisti citati cfr.in questo sito i nostri articoli: sulle mostre alla Fondazione Roma della Nevelson il  25 maggio 2013, di Modigliani tre articoli il 22 febbraio, 5 e 7 marzo, su quella alle Scuderie del Quirinale della Kahlo tre articoli il 24 marzo, 12 e 16 aprile. Inoltre sull”’Accessible Art” della RvB Arts, citata, cfr., sempre in questo sito, i nostri articoli il  21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio, 26 aprile, 21 giugno, 5 luglio e 5 novembre 2013, 14 marzo 2014. Su Dino Ignani, uno degli artisti della Galleria Fondaco, cfr. in http://www.fotografarefacile.it/ il nostro articolo “Roma. Ritratti di poesia anche fotografici al Tempio di Adriano”, gennaio 2012. Cfr. infine, in “cultura.inabruzzo.it”,  il nostro articolo “Rilancio di Pietracamela, il cuore del Gran Sasso”, il 22 giugno 2009, in cui la novella di Gabriele d’Annunzio citata nel testo è riportata integralmente.    

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Fondaco e al Caffè Vanni, si ringraziano in particolare Flora Ricordy e Lorenzo Vanni con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta; si ringrazia soprattutto Rossana Borzelli anche per essersi fatta ritrarre accanto alle sue opere nella Galleria. Le immagini al Fondaco con l’artista sono alternate a quelle riprese al Caffè Vanni; l’immagine di chiusura è al Caffè Vanni, i due dipinti sono esposti all’ingresso tra i fiori. 

Frida Kahlo, 3. Le opere su carta e le foto, alle Scuderie

di  Romano Maria Levante

Concludiamo la visita alla mostra “Frida Kahlo”, alle Scuderie del Quirinale, dal 20 marzo al 31 agosto 2014, che espone  160 opere, di cui 40 autoritratti e ritratti e 60 opere su carta dell’artista, più 33 fotografie scattate a lei da famosi fotografi e  circa 20 opere di altri artisti poste a raffronto. Ricordiamo che  è promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, realizzata da Azienda speciale Expo con MondoMostre,  e  curata, con il Catalogo Electa,  da Helga Prignitz-Poda; dopo Roma si terrà al Palazzo Ducale di Genova, dal 20 settembre 2014 al 15 febbraio 2015, intitolata anche al pittore compagno di vita Diego Rivera .

Dopo aver descritto la vita e l’arte dell’artista e successivamente gli autoritratti, i ritratti e non solo, terminiamo l’immersione nel suo mondo parlando delle opere su carta esposte, nelle quali esprime in modo diretto le sue sensazioni e i suoi tormenti, fino a veri e propri test psicanalitici; ed evocando poi la sua immagine vera nella vita quotidiana attraverso le fotografie che la ritraggono.

Ricordiamo che la forza delle sue opere, espressive di una vita tormentata  da gravi problemi di salute e movimentata negli amori e nei rapporti sociali, ne ha fatto un’icona femminile del ‘900, mediante l’identificazione con la sua immagine ferma e decisa e insieme fragile e inquieta. Inoltre nella sua arte si riflettono in vario modo le innovazioni delle avanguardie, dalla metafisica all’espressionismo, pur nel suo stile assolutamente personale con il tratto marcato del segno e il continuo ricorso a simbolismi e a codici cifrati difficili da decifrare, per cui ci sono diversi livelli nei quali vanno viste le sue opere, e non bisogna fermarsi alla sensazione immediata e superficiale.

Anche a fini interpretativi, le opere su carta sono preziose perché rappresentano le sue espressioni più immediate, per la semplicità compositiva e l’immediatezza realizzativa. Esse si intersecano temporalmente con i dipinti, sui quali ci siamo ampiamente soffermati e per questo ci richiamiamo a quanto già detto, per una lettura quanto più possibile integrata e complementare.  Nella nostra rassegna delle opere su carta sono riproposti brevemente alcuni dati  biografici essenziali  per evidenziare i  momenti e stati d’animo che ne sono alla base.

La fase iniziale, prima del 1927

I primi “Autoritratti”  sono dei piccolissimi disegni su carta del 1925, due schizzi sbarazzini con cappello a feluca, insieme a loro l’incisione “Due donne”,  rilegata in un libro di poesie, quasi un’immagine sacra con i copricapo che sembrano aureole,  e  con segni di altra natura ben visibili. Nello stesso anno  gli acquarelli su carta “Ragazza di paese” e “Bevitene un altro”: il primo quasi naif, una figura davanti alla staccionata con una casetta in lontananza sopra la collina; il secondo una precisa  prospettiva dell’abitato con il caffè e dietro le cupole, a destra i giardini.

Del 1927 due acquarelli su carta, “Frida a Coyoacàn” – nel paese natale presso Città del Messico – praticamente la stessa immagine, una in bianco e nero, l’altra a colori,  della ragazza con le treccine davanti alla piazzetta con l’abitazione, tre alberi e a destra il campanile della chiesa.

E’ una ragazza che vuole divenire medico, intanto mentre studia aiuta il padre,  fotografo venuto dalla Germania,  a ritoccare le fotografie e un amico del padre le insegna il disegno, ma la pittura non è ancora nella sua vita né nei suoi desideri, i disegni e acquerelli citati sono ingenui tentativi di una ragazza che si diverte.

Dopo il “primo incidente”, gli anni ‘30

Le cose cambiano dopo il grave incidente del 1927, l’investimento dell’autobus in cui si trovava con il proprio ragazzo Alejandro Gòmez Arias che le produce fratture e gravi ferite, rendendo necessari interventi chirurgici e a ripetizione e facendola ricorrere a fumo, alcool e anche droghe. Le segna la vita e, per quei paradossi della sorte, la avvia alla pittura dopo che ha lasciato gli studi di medicina, anche per l’incontro nel 1928 con  Diego Rivera, pittore di murales rivoluzionari. Sono esposti alcuni acquarelli dello stesso anno nei quali non è facile trovare i segni del suo stato d’animo, che saranno evidenti nelle opere su carta successive presenti in mostra.  Ecco “Piccola vita” e “Cavalluccio messicano”,  con una fuga dalla realtà della giovane ferita nel corpo e nell’animo: il primo verso la natura frammentata in pezzi  di verde –  un’erba strappata – il secondo una regressione nell’infanzia della ventunenne, sia pure con lo schermo della tradizione.

Null’altro troviamo su carta in questa fase, mentre è cospicua la documentazione per gli anni ’30. Ha sposato Rivera nel 1928,  nel 1930 vanno insieme in America dove c’è una retrospettiva delle  opere di Diego, cui vengono commissionati dei murales a San Francisco. Torna in Messico, poi  di nuovo in America, a Detroit dove il marito ha un nuovo incarico per i murales. E’ il 1932, è esposta la  sequenza del “Cadavere squisito”, il gioco dei surrealisti consistente nel completare in più persone un disegno senza guardare la parte precedente, sono 3 disegni su carta composti con Lucien Bloch:  delineano una figura dalla testa di gatto “Crazy cat”, Diego e lei con il corsetto ortopedico e una  foglia di fico; dello stesso anno “Triplo autoritratto come bambina, adolescente e donna”, “Diego e Frida il bacio” e “Il sole splende attraverso la finestra”, un trittico sereno, ma per poco.

Nel 1933 dopo un arguto “Ritratto di Diego Rivera”, che sopra la testa ha  delineato molto schematicamente il suo viso, il dramma del secondo aborto  a Detroit,  nella litografia  “Frida e l’aborto”, la sola sua opera a stampa terminata l’11 agosto, sul trauma  per l’interruzione di gravidanza del 4 luglio, nel quale rischiò la vita: lo rende  in modo impietoso in un disegno piccolo ma molto preciso. Il suo corpo è nudo, nel viso due grosse lacrime scendono sulle guance, anche la luna sulla destra piange con lei, due fili di perle intorno al collo – non abbandona mai la collana, presente in tutti i suoi autoritratti – il cordone ombelicale intorno alla gamba destra collega il feto visibile a immagini sulle fasi della fecondazione fino a un neonato maschio che appare vitale, forse è quello che non è stato, mentre lungo la gamba sinistra scende un liquido che va a fertilizzare il terreno in cui spuntano delle specie vegetali, simbolo  della rinascita della vita nella natura mentre il ciclo vitale si è interrotto nell’essere umano. L’abbiamo descritta nel dettaglio per la sua unicità, preceduta solo nel 1894 dalla “Madonna” di Munch, dove vi sono, a lato della figura femminile, alcuni particolari procreativi, nell’accurata analisi fatta da Pari Stave.

Nel “Bozzetto per l’Henry Ford Hospital” dove fu ricoverata, il suo corpo nudo è adagiato integro sul letto, ma gli organi sono riprodotti al di fuori con dei tubi, insieme a figure simboliche.

Dal 1932 al 1937 prima il nuovo viaggio in America per l’incarico a Rivera del murale al Rockfeller Center, non andato a buon fine per il rifiuto dell’immagine di Lenin che Diego aveva disegnato in bell’evidenza; poi la crisi nei rapporti tra lei e il marito in un’alternanza di separazioni e riconciliazioni, dinanzi a tradimenti reciproci, con la sorella Cristina lui, con diversi amanti lei, tra cui il rivoluzionario russo Trotski ospite nella loro casa nel 1937 quando ebbe asilo politico in Messico prima del barbaro assassinio ordinato da Stalin. 

Del 1937  è “Autoritratto disegnando”, niente in comune con gli altri dipinti, oltre alle mani che disegnano ce ne sono altre che le sistemano il viso, quasi in un movimento futurista, del resto la stile dell’epoca emulava per certi aspetti il movimento impresso dal futurismo.

Nello stesso anno l’acquarello “Babbo Natale”, un figurativo enigmatico,  ritrae l’immagine natalizia con un cappello messicano sulle ginocchia, un asinello si affaccia da un riquadro come da una porta.  Mentre “Salone di bellezza. 12 A”.  è un ambiente americano in una forma compositiva d’avanguardia. Figurativo è invece “Antonio Kahlo bambino”, il viso del fratellino disegnato amorevolmente. 

Gli anni ’40,  i fantasmoni e il Karma

Nei due anni successivi l’incontro con Breton: il teorico dell’espressionismo  vede che le sue opere ne mostrano i contenuti senza che lei conoscesse il movimento, e le organizza mostre in  America e a Parigi, nel 1939 lei divorzia da Rivera e nel 1940 lo risposa per vincere la depressione, che la portò a ritrarsi con una collana di spine che la faceva sanguinare.  Troviamo l’inquietudine riflessa nelle opere su carta di questo periodo.“Una lettera”, 1943, contiene, sotto una scritta cancellata, dei segni che la attraversano come delle scariche elettriche; mentre il corpo umano torna protagonista in versione maschile  in “Cromoforo, Autocromo”, 1944.

Le condizioni di salute peggiorano, deve portare un busto di acciaio. Nel 1945 in “Sinistri fantasmoni”  c’è un’allucinazione di figure sanguigne con denti bianchi come zanne, e in “Autoritratto senza titolo” una figura metafisica, profilo di manichino con i capelli trasformati in rami. Ci sono anche disegni politici come “La libertà, lavoratori di tutto il mondo unitevi”, con il monumentale simbolo che ritroveremo  nel disegno del  1950, “La Statua della Libertà”.

Nel 1946 con “Ritratto incerto. Il sole e la luna” iscrive il volto nei due astri, nel primo piange, il secondo è a sezioni, mentre “Autoritratto” delinea il suo viso  con le sopracciglia unite.  E’ l’anno in cui si esprime con disegni in inchiostro di seppia,  come “Dharma Chakra”, un ammasso  di inquietanti figure in un intrico da incubo, mentre in “Karma” le maschere rituali si affollano  in una serena fotografia di gruppo, e in “La coppa”  formano un vaso animato da volti;  il karma esprime la ricomposizione dei destini di tutti. Torna  l’ossessione  in “Maschere”. che diventa incubo  in “Disegno a tema bellico – La rottura”, non sono figure ma pezzi di mani e piedi. “Senza titolo (Le tre Frida)” chiude questa galleria,  tre sono i visi posti ai diversi lati, ma ce ne sono molti di più nell’intera composizione.

Un salto di qualità con il 1947,  “Autoritratto come una vulva” e “Ritratto di Irene Bohus” portano l’ossessione sul piano sessuale senza remore né censure, i suoi desideri non riguardano solo Diego, ma le persone vicine a lei, e si sente libera di manifestarli; l’ossessione si estende alla sicurezza quotidiana in  “Casa in fiamme”  e  si placa con “Casa (disegno senza titolo)” e “Casa serena”.-

Nel 1949 abbiamo l’acquarello e inchiostro “Il cielo, la terra, io e Diego”, che abbiamo citato a proposito del dipinto “L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra (il Messico), io, Diego e il signor Xolotl”, dello stesso anno, di cui sembra il bozzetto preparatorio di Frida con in braccio il marito tornato bambino; oltre agli astri e le lacrime che piovono dal cielo, dietro l’immagine da Madonna col Bambino in primo piano c’è la sua figura nuda e dietro di lei Diego, quasi a voler riprodurre anche l’amore dal quale nasce quella particolare maternità che segna l’inversione dei ruoli: ora è lei la protettrice di lui, dopo essere stata per tanto tempo nella sua ombra.

La fase finale, dalle “emozioni” all’ultimo autoritratto

Diego chiede di nuovo la separazione e lei entra in crisi, l’amica Olga Campos la convince a provare  la “pittura terapeutica” sperimentata dieci anni prima nella clinica psichiatrica di Città del Messico con i disegni dei pazienti. Ne nasce  la serie “Emociones” del 1949-50, sono 11 grafiche a matita colorata su carta con cui visualizza i suoi diversi stati d’animo.  L’amore e la gioia sono fili e cerchi che si allargano in un colore caldo, nell’odio i fili diventano neri e si intrecciano, l’angoscia è resa da cerchi che si stringono in un colore che sarà sempre freddo, anche nel riso,  l’inquietudine è un insieme di cerchi confusi che ruotano obliqui, diventano ruota dentata nel panico, stemperati  in una perfetta corona circolare nella pace, mentre il dolore è in una grafica che evoca onde ricorrenti oppure arbusti pungenti. Risultato, la vicinanza di sentimenti così forti e contrastanti.

Nel  1951 l’acquarello “Paesaggio (III)”, tema inconsueto,  delle plaghe aride con ciuffi d’erba,  quasi percorse da crepacci profondi. Nel 1953 la sua prima mostra messicana, ma le sue condizioni di salute si aggravano, vi partecipa stando a letto e in agosto le viene amputata la gamba destra.

Tre anni dopo, nel 1954,  “Autoritratto con colomba e lemniscata” a prima vista non riflette questo dramma, d’altra parte lei tendeva a dare spesso l’immagine opposta; lo  riteniamo importante per il viso giovanile come l’ autoritratto a olio dello stesso periodo, e per ciò che esprime: mentre nel dipinto c’erano la figura di lei disegnata sulla sua fronte e quella di Diego sul suo petto, ma anche l’inquietante animale con la zampa artigliata sulla sua spalla, qui c’è una colomba sulla sua testa; e suscita tenerezza vedere nell’ultimo anno della sua vita  raffigurarsi con il volatile in cui la identificava la madre chiamando Rivera  e lei “l’elefante e la colomba”.

La galleria fotografica, foto storiche e di quotidianità

Oltre che tramite gli autoritratti, la sua immagine viene trasmessa da una serie di fotografie di fotografi celebri, che andavano a trovarla e poi conservavano la testimonianza visiva di lei.

Sono soprattutto in bianco  e nero, alcune storiche: come quella di Lucienne Bloch che la presenta davanti al Murale dell’Unità panamericana con l’immagine dominante di Lenin che segnò l’improvvisa partenza nel 1933,  o quella di Florence Arquin che la ritrae nel 1943 con il Corsetto, quello esposto in mostra con falce  e martello, a testimonianza dello spirito rivoluzionario che sentiva di avere e si rimproverava di aver soffocato presa dall’arte e dai sentimenti personali.

Non sono da meno le foto di Manuel Alvarez Bravo nel 1944,  “Frida Kahlo alla mostra di Picasso al Museo dì Arte Moderna” , lei statuaria  nel lungo abito messicano orlato di bianco,  e di Hector Garcia nel 1949, “Frida con il dipinto ”Love embrace'”, una delle opere cosmiche più significative, con in braccio Rivera  come un neonato, lei è diversa dal solito, il volto quasi irriconoscibile. E’ una delle immagini che la ritraggono davanti a sue opere, ce ne sono altre, come vedremo.

Sembrano invece tratte dall’album  di famiglia le 10 fotografie del celebre fotografo colombiano Leo Matiz, 6 in giardino nel 1941, primo piano del viso sorridente, e a figura intera  che prende il sole distesa o in posa,  poi con la sorella Cristina e Diego, mentre beve una birra o si trova a Tizapàn e Xochimilco. Conoscendo la sua vita travagliata, la tranquilla quotidianità che esprimono tocca l’animo del visitatore; veniamo a sapere, del resto, che sono le poche immagini di Frida serena.

Le fotografie  di Nickolas Muray riportano all’ufficialità, non sono istantanee ma pose studiate che in qualche caso riproducono i celebri autoritratti pittorici: esemplare  per  atteggiamento, positura, abbigliamento il ritratto a colori del 1938 “Frida Kahlo sulla panca”, detta  la “panchina bianca”.

Tre ritratti, di cui 2 a colori, del 1938 e 1939, la mostrano meno distaccata con il “rebozo” rosso, il mantello messicano e i fiori nei capelli: ma in due resta l’ufficialità nella posizione delle mani come negli autoritratti iconici, mentre nella terza la mano va verso il collo in atteggiamento familiare. C’è intimità in quel mantello che la avvolge, il fotografo vi rappresenta il suo abbraccio  all’amata.

E poi un bacio “rubato”, Muray la riprende abbracciata  a Rivera, sono a Coyoacàn, lui ha qualcosa nella mano destra, lei un sigaretta nella sinistra, di certo è scattata all’improvviso.  Un bacio tra loro è stato colto,  in un’altra foto esposta in mostra, da un autore anonimo, questa volta  da lontano, in fondo a un androne dell’Istituto d’Arte di Detroit: si intravedono appena ma chiaramente, lui con camicia bianca, lei in abito lungo e orlo bianco, la distanza e l’ambiente danno il senso dell’intimità spiata e carpita.

In due fotografie è con la sigaretta nella sinistra, a ricordare come al fumo, e anche all’alcool e alla droga, fosse solita ricorrere: nella foto del 1939 accarezza con l’altra mano “Garizo”,  una sorta di “Bambi”, scena che si ripete in primo piano in un’altra istantanea; nella foto del 1941 è ritratta a colori seduta in relax, evidentemente dopo la posa “ufficiale”  che la vede in sequenza rispetto a un’altra immagine, dov’è seduta nell’abbigliamento tradizionale con gonna nera lunga, scialle rosso e fiori nei capelli, come negli autoritratti.

Sempre del 1941 una foto in bianco e nero intitolata  “Diego Rivera e Frida Kahlo, San Angel”, sembra scimmiottare le foto dinastiche nel loro atteggiamento e nella positura,  lui seduto come in trono con il cappello in mano a mo’ di feluca, lei in piedi acconciata come nelle immagini iconiche, la solennità della posizione contrasta con la modestia dell’ambiente.

Le fotografie dinanzi ai suoi celebri autoritratti

Oltre all’immagine di Muray della “panchina bianca”, sigillo fotografico della mostra, colpiscono in modo particolare altre fotografie  della pittrice davanti ad alcuni quadri famosi, due sono di Muray.

La  sua foto a colori “Frida Kahlo dipinge le due Frida” la ritrae  con in mano pennello e tavolozza davanti al  celebre quadro che testimonia un momento difficile della sua vita,  nel quale ha voluto esprimere le pene d’amore con due figure dallo stesso viso ma vestite diversamente, che si tengono per mano, i cuori sanguinanti fuori del petto collegati in modo misterioso in uno sdoppiamento psicanalitico sotto un cielo dove si addensano le nuvole; l’acconciatura della pittrice e il suo abito sono identici alla fotografia in cui sorride con la mano sul collo. E’ interessante poter confrontare il suo viso vero, visto di profilo, con quello riprodotto nelle due Frida dipinte; inoltre si può vedere richiamato, attraverso la fotografia, questo importante quadro non presente in mostra.

C’è poi l’altra sua foto in bianco e nero  intitolata “Frida e Nickolas Muray nello studio. Sul cavalletto l’‘Autoritratto con pappagalli'”. Ritrae  lei seduta in pantaloni che fissa l’obiettivo, mentre il fotografo in piedi la guarda, tra loro  il dipinto che non è in mostra, con 4 volatili, 2 sulle sue spalle e 2 sul grembo nel quale appoggia le braccia nella posa consueta.  Anche qui si può vedere, sia pure senza colori, un altro quadro importante per i simbolismi legati ai volatili, assente dalla mostra; mentre si intravede sulla parete il quadro di Rivera “Paesaggio con cactus”, che invece è esposto.

L’ultima immagine di questo tipo è una fotografia in bianco e nero del 1940 di Bernhard Silberstein, “Frida dipinge il suo autoritratto mentre Diego la osserva”: lui  è appoggiato con le mani alla sedia di lei che ritocca le labbra del dipinto in cui appare “come Tehuana”, con il viso contornato dal costume tradizionale, sembrano proprio “l’elefante e la colomba”, quasi una metafora di vita. L’interesse è accentuato dal fatto che, oltre all’autoritratto, si vede sulla parete di fronte il dipinto “La tavola ferita”, dello stesso anno, contemporaneo anche a  “Le due Frida”.

Un ultimo intrigante interrogativo

Si conclude con questo fuoco pirotecnico fotografico  l’immersione nell’arte e nella vita di Frida Kahlo. Ne siamo stati presi in modo sempre più coinvolgente, perché le circostanze della sua esistenza sono così particolari da penetrare nell’animo di ognuno, porre interrogativi, suscitare delle risposte. Per questo è divenuta una icona femminile del ‘900, per questo la mostra è stata così attesa da avere oltre 35 mila prenotazioni dall’Italia e dall’estero prima dell’apertura.

Ci ha colpito in modo particolare la sua trasformazione in icona già in vita con gli autoritratti dove  la sua figura è sempre nella medesima positura, spesso lo stesso abbigliamento, nel costume tradizionale messicano, i capelli neri raccolti in alto con un fiore, i lineamenti marcati nello stesso modo, le mani intrecciate in grembo:  in particolare con le sopracciglia folte e quasi unite e una vistosa peluria sopra le labbra, elementi che accentuano l’espressione fiera del viso, così ieratica da richiamare l’egizia Nefertiti.

Nelle fotografie di Muray, che sono primi piani altrettanto iconici nella stessa positura, le sopracciglia anche se vicine sono nettamente più separate che negli autoritratti, e la densa peluria sopra le labbra non si avverte. Qui sorge l’interrogativo se l’amico fotografo le abbia voluto “abbellire” i lineamenti con opportuni ritocchi, oppure se lei abbia voluto invece accentuare aspetti lontani dai canoni di bellezza muliebre.

Propenderemmo per questa seconda alternativa,  perché se avesse voluto essere “abbellita”  avrebbe potuto farlo anche lei stessa in assoluta semplicità negli autoritratti. Del resto che non tenesse all’aspetto esteriore estetica lo dicono le parole scritte al suo dottore Leo Eloesser: “Bellezza e bruttezza sono un miraggio, perché gli altri finiscono per vedere la nostra interiorità”. Per questo potrebbe aver voluto accentuare certe caratteristiche del volto, forse  appena percepibili, e ci è riuscita in modo magistrale. Il mito che la trasforma in icona si alimenta anche dall’unicità di un’immagine, e la sua  lo è ancora di più negli Autoritratti con i segni somatici così marcati.

Ma l’elemento fondamentale del mito resta pur sempre  il grande valore artistico alimentato da una vita sofferta e movimentata per vicissitudini e amori contrastati, che  doveva trovare un sigillo ineguagliabile, e lo ha trovato. Forse anche in quelle sopracciglia unite e nella peluria sul labbro.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica  a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, non c’è chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500; http://www.scuderiequirinale.it/. Catalogo “Frida Khalo”, a cura di Helga Prignitz-Poda,  Electa 2014, pp. 192, formato 28 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Cfr., in questo sito,  il nostro primo articolo “Frida Kahlo, l’arte e  la vita nella mostra alle Scuderie,  con riguardo alla  nota Info per gli artisti e le correnti di riferimento, il  24   marzo 2014; e il secondo articolo “Frida Kahlo, opere su carta e non solo, alle Scuderie” il  12 aprilee, nel sito specializzato http://www.fotografarefacile.it/, il nostro articolo “Roma, Frida Khalo in 33 fotografie nella mostra alle Scuderie“, aprile ’14.

Foto

Le immagini sono state in parte riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte fornite dall’Azienda speciale Expo che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura,  foto di Nickolas Muray,“Frida Kahlo sulla panca”, 1938; seguono, di Frida Kahlo, “Bozzetto per l’Henry Ford Hospital”, 1932, e “La Statua della Libertà”, 1950,  a sin, con “La libertà, lavoratori di tutto il mondo unitevi”, 1945, a dx; poi “Autoritratto senza titolo sulla pagina del Diario”, 1945, e foto di Muray, “Frida Kahlo dipinge le due Frida”, quindi “Frida Kahlo” e “Frida Kahlo con un vestito azzurro“, tutte del 1939; in chiusura, di Frida Kahlo, “Autoritratto con il ritratto di Diego sul petto e Maria tra le sopracciglia”, 1953-54.

Onnis, il “V Stato”, nella mostra a Spaziottagoni

di Romano Maria Levante

Allo “Spaziottagoni” a Trastevere, la personale di Massimo Onnis, “V Stato”, presenta dal 12 aprile al 4 maggio 2014 una serie di opere imperniate su una modernità inquietante, che va dalla nuova visione del conflitto di classe alla vita dei giovanissimi esposta a lusinghe pericolose, con sullo sfondo la tragedia delle Torri Gemelle come monito da non dimenticare. Diversi “formati” artistici, pitture di forte spessore materico, qualche scultura in acciaio fino alla grande installazione del “V Stato” e a un’opera che all’arte unisce la tecnologia. Dalle inquietudini alle emozioni della bellezza in cicli di opere con gli splendidi scorci della sua Sardegna.

Siamo tornati allo “Spaziottagoni”, dove avevamo visitato nel 2012 la mostra “Teatro a muro” di Maria Pizzi, curata da Achille Bonitoliva, in cui la “fotografia dinamica” spiccava in un apparato scenico fatto di ombre. Le ombre dominano anche la mostra di Onnis, ricca di suggestioni, con opere pittoriche dal forte cromatismo in cui sono scolpiti volti e ambienti, e opere diverse in formati e materiali atti ad esprimere il mondo moderno al quale si rivolge l’artista con un tono che va dalla testimonianza alla denuncia.

La forma espressiva è posta al servizio della tematica affrontata e in qualche caso utilizza figure in un materiale di ultima generazione come il Forex di altezza umana che danno l’idea di presenze vive e inquietanti rendendo plasticamente la modernità.

Il V Stato di Massimo Onnis

Entrando nella sala espositiva, con i quadri alle pareti e sculture particolari, si è attratti dalla grande installazione nel fondo, un palcoscenico largo quattro metri, profondo sei nel quale è in atto uno spettacolo teatrale, con ombre suggestive. E’ in scena il “V Stato”, una rilettura in veste diversa del “Quarto Stato” – dipinto da Giuseppe Pellizza da Volpedo nel 1901 – per rappresentare in chiave attuale la rivendicazione di diritti da componenti della società che si mettono in marcia per riconquistare quanto loro spetta.

Il tema lo troviamo intrigante, in un artista così presentato da Teresa Francesca Giffone: “Le forme che abitano i suoi quadri sembrano immagini rupestri che vengono trattenute sulla superficie”; ebbene, definimmo “Quarto stato montanaro” le “pitture rupestri”  del Pastore Bianco che Guido Montauti con il suo gruppo creò nelle rocce della Grotta dei Segaturi a Pietracamela sul Gran Sasso: l’associazione di idee ci è venuta spontanea mentre siamo presi dalla scena in atto sul palcoscenico della nuova società.

Quelle di Onnis non sono più solo le classi sociali sfruttate dei primi del ‘900, operai con la giacca in spalla e operaie impersonate dalla donna col bambino nelle tre figure in primo piano seguite dalla moltitudine, massa d’urto per le agitazioni sindacali. L’operaio resta nell’installazione, con i guantoni e le braccia nude che esprimono fatica, ma ci sono le nuove classi oppresse fino all’impoverimento: l’imprenditore con la sua  borsa di progetti e la ragazza con la cartella di programmi, due tra le categorie più coinvolte nello sconvolgimento sociale portato dalla crisi economica, che marciano a fianco dell’operaio non più il solo antagonista.

La massa d’urto c’è ancora nello sfondo pittorico dai forti colori di una manifestazione popolare, che movimenta la scena, si vede che la composizione sociale è varia, quasi un intero popolo in marcia, con una larga partecipazione di giovani, oggi i più attivi nella protesta essendo i più colpiti dalle difficoltà economiche e dal disagio sociale. Ci sono i cartelli con gli slogan di protesta e anche un avvertimento visibile, tre arnesi agricoli piantati al suolo in primo piano, non tanto in segno di astensione dal lavoro nel solco delle tradizionali forme di lotta, quanto nel segno di arma da brandire nella protesta: sono i “forconi”.

I giovani, dunque, ai quali togliendo il lavoro e i relativi diritti viene sottratta la vita e il futuro, nell’ottuso e cieco autolesionismo che non considera come il loro futuro sia il futuro di tutti: la nuova classe dirigente è costretta ad emigrare depauperando il paese di risorse preziose aggiungendo all’impoverimento economico la rinuncia definitiva ad ogni speranza di ripresa e rilancio. E quando si assiste allo spettacolo vergognoso dei privilegi che si è autoassegnata la casta avida e corrotta di politici e finanzieri, alti burocrati di ogni risma non solo pubblica, si identifica il nemico verso il quale muove lo schieramento popolare del “V Stato” di Onnis, e come sia urgente rimuovere i privilegi perché non si prenda mano ai “forconi” facendo crescere di livello e di pericolosità l’esasperazione.

I “forconi” sono così non solo un simbolo del collegamento tra le lotte dei padri e dei nonni e quelle dei giovani di oggi, ma un monito nella loro bivalenza tra strumento di lavoro e arma di offesa.

I giovani di Onnis, tra malessere e pericolose lusinghe

L’artista non si tira indietro quando c’è da esprimere sentimenti forti e lanciare avvertimenti scomodi che ai più piace rimuovere, anche se questo lo espone a critiche e polemiche. Questo è avvenuto in particolare per un’opera collocata nel lato opposto del “V Stato” in cui viene raffigurato un altro aspetto non meno rilevante della questione giovanile: il rischio di cedere alle lusinghe per scorciatoie ingannevoli. Sono due sagome di ragazze – raffigurate ad altezza naturale con gli ornamenti delle giovani d’oggi – che per l’ultimo “smarthphone” o il capo di abbigliamento firmato sono pronte a squallide prestazioni in giovanissima età, come le minorenni dei Parioli le quali hanno riempito le cronache con i convegni mercenari che hanno sfregiato la loro età dei giochi: il titolo è “La verità è là fuori”.

Espressioni intense in “Woman” e “Girl”, mentre “Al concerto” e “Dopo la manifestazione” fanno entrare in altri momenti in cui si sfoga la vitalità giovanile, il primo riesce a rendere l’atmosfera con gli sprazzi di luce che irrompono nel buio, il secondo mostra altrettanta maestria. “Dopo il lifting” presenta una tendenza non certo rassicurante, non c’è la condanna di “La verità è là fuori”  ma un avvertimento a non trascurare questi sintomi di una società decadente.

Si può fuggire “Alla ricerca di un nuovo mondo”, lo esprime un dipinto con figure scure e un fondale in dissolvenza di grattacieli. Una folgore rossa in “Deep Red”, mentre per “Pensieri lontani”  c’è la forma circolare che l’artista utilizzata in segno di perfezione.

Due sculture in metallo, “Vela” e “Figure abbracciate” confermano la poliedricità dell’autore che si avvale delle più varie forme espressive. La seconda, in cui si può trovare la ricerca di protezione, ci piace vederla vicina a “Ground zero”, perché un’altra opera pittorica, “Giovani”, non in mostra, tra quelle dedicate alla tragedia, li raffigura sul punto di abbracciarsi.

La tragedia di “Ground Zero” in pittura

Cos’è  “Ground Zero” per l’artista? In mostra vediamo l’opera intitolata “Ground Zero. Disperazione”, figure dolenti su strati non sovrapposti in successione verso l’alto: è solo una memoria che ha voluto presentare della tragedia dalla quale è stato preso al punto da trarne ispirazione per un ciclo di opere e una monografia uscita nel decennale del terribile evento introdotta da parole eloquenti: “In queste pagine ho voluto sintetizzare in un piccolo percorso pittorico ‘fatto di sole immagini’ quel che provai allora”.

Guardiamo queste immagini riprodotte nella monografia, le figure sono per lo più nere e appena abbozzate, spiccano per il cromatismo che le isola ponendole in rilievo. Lo vediamo nel bianco accecante intorno alle sagome “In fuga”, come nel giallo intenso intorno alla “Donna”; nella luminosità che avvolge “Giovani” e le figure  che si muovono in “Una luce di speranza”; diventano rosse le sagome umane “Dentro il bistrot” avvolte ancora da un bianco accecante.

Quattro opere di forma circolare completano questa piccola galleria del “Ground Zero” che abbiamo voluto ripercorrere: “Per la strada” e “Tra la gente”, “Impressioni” e “Nelle ali della felicità”, in quest’ultima le figure aprono le braccia in una crocifissione che diventa volo senza fine.

“11 settembre 2001 iniziò tutto come una bella giornata di fine estate, poi improvvisamente tutto divenne buio”, questo abbiamo visto rappresentato in questi dipinti. L’artista aggiunge “Tutto si distrugge, tutto si ricostruisce”, è il nome del movimento da lui creato, e lo fa in pratica affiancando ai dipinti tragici quelli vitali.

Le “Impressioni” non hanno più i grattacieli di sfondo come quelle del “Ground Zero”, le “Emozioni” e le “Atmosfere” hanno un cromatismo intenso, si liberano “Frammenti di colore”, finché “Tra forme e colori” è un’esplosione di calore in un mosaico variopinto.

Una cavalcata di immagini da “Tra ombre e persone” a “Tra case e persone”, da “Ricordi di un’estate passata” a “Pensieri di una sposa”, da “Forme preziose” a “Cavalli al galoppo”, da “Frammenti di storia” a “Storia e tradizione”. Ci avviciniamo alla sua terra come fonte di ispirazione, il “Ground Zero” si allontana, ma restano scolpite le tre quartine dedicate da Ungaretti a San Martino del Carso citate dall’artista: “Di queste case non è rimasto che qualche brandello di muro./ Di tanti che mi corrispondevano non è rimasto neppure tanto./ Me nel cuore nessuna croce manca. E’ il mio cuore il paese più straziato”.

Il romanticismo paesaggistico delle marine

La sua terra di Sardegna è un caleidoscopio di immagini, il nero quasi scompare, diviene prevalente l’azzurro del cielo e il blu del mare, con i rossi dei fiori e i verdi della vegetazione. Il trionfo della natura rigogliosa è reso in dipinti spettacolari.

Protagoniste le barche in “Marina con natura morta” e “Prima della partenza”, “Barca in riva” e “Tra le onde”, “A tarda sera sul mare” e “Luci in porto”; e per le località come “Bonifacio in barca a vela” e “Alghero”. E poi “Mattanza” e “Sulla spiaggia” dove le barche si intravedono appena.

Mentre lo spettacolo della natura trionfa in “Marina di Tavolara” e “Marina di san Pietro a mare”, “Tra spiaggia e mare”  e nella ampia serie di “Paesaggi”,  con colori, fiori e luci. Mare, fiume  e prati in fiore danno inesauribili spunti, non mancano gli “Orizzonti lontani”. Troviamo opere circolari, ispirate dagli stessi motivi nella chiave di perfezione insita nel formato.

Le “Nature morte” e le opere ispirate alla tradizione, come “Maschere del nuorese”, “Bosa e il suo carnevale” e “Figure nuragiche”, completano questo rapido excursus su opere fuori dalla mostra ma che rivelano altre facce dell’espressione poliedrica  dell’artista percorsa da una vibrante vitalità.

“Una pittura stratificata – ha scritto la Giffone – come si evince dall’uso del pigmento e che si irradia in colori solari e caldi come un prisma che si scompone”. E aggiunge: “Un grande amore per le cose semplici ma che rappresentano valori insostituibili. Quello che scorre continuamente davanti ai suoi occhi viene catturato e la tela diventa una ragnatela dove tali impressioni, sogni, ricordi e tutto quello che ama sono visibili per tutti. Amore che si manifesta nel messaggio armonioso che esprime per i suoi luoghi”. In questo modo “dona allo spettatore una ricca dote di tradizioni e sensazioni che ci fanno scoprire una terra antica e lontana”.

E’ la terra sarda, è nato a Villacidro, vive e opera a Nuoro; da lì è partito per le maggiori Biennali del mondo, da Venezia a Palermo, da Parigi a Londra, da Mosca a New York, da Izimir a Dubai, oltre che per mostre personali e collettive e concorsi nazionali e internazionali, sostenuto dai consensi del pubblico e di critici qualificati, ne abbiamo contati una trentina.

Dall’arte e poesia di “Vibrazioni”, all’arte e tecnologia di “Appesi a un filo”

Ci ha colpito in modo particolare nel suo approccio artistico il suo ricorso alla poesia. Lo troviamo nel riferimento a Ungaretti già citato per la tragedia, ma che torna per lo spettacolo del mare: “Voce d’una grandezza libera”, con “le sue blandizie accidiose” resta  “intatto in mezzo a rantoli infiniti”, è “innocenza nemica nei ricordi, rapido a cancellare le ombre dolci d’un pensiero fedele”. “Vibrazioni sul mare” è collegato a una poesia che inizia con le parole “Il mare divide, il mare unisce, è un ponte tra civiltà”, e termina con l’esaltazione di “chi vive sul mare”. Dove “il lavoro, la vita, la fatica, la speranza sono intrecciati tra loro in maniera forse indissolubile. ‘I marinai valgono più delle navi, le vite umane valgono più del benessere'”. E aggiunge “le opere d’arte valgono più degli artisti”, del resto superano la sfida del tempo.

Questa visione romantica che lega l’arte alla poesia, con il fascino della sua terra e i ricordi del mare, si aggiunge all’impegno sociale e civile nella sua pittura di denuncia cui è dedicata la mostra. E non è tutto, in lui si sposano anche arte e tecnologia, lo vediamo nell’opera “Appesi a un filo”, un acrilico su tela con 100 lampade Led illuminate da un pannello fotovoltaico. E’ in mostra, rappresenta un’abitazione in cima a un poggio immerso nel buio, con un imponente traliccio che con un fascio di cavi elettrici vi porta l’energia, i fili sono percorsi da luci intermittenti, l’insieme è suggestivo, non diciamo spettacolare perché l’atmosfera è piuttosto intimista: le ombre cupe danno il senso della solitudine e dell’isolamento e l’energia che si trasmette è il cordone ombelicale che collega alla civiltà, quindi alla vita. E’ un’idea che merita ulteriori applicazioni, nulla vi è degli eccessi che accompagnano spesso l’uso della tecnologia nell’arte, il dipinto tradizionale è percorso da impulsi luminosi che ne completano e vivificano la raffigurazione.

Dal “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo al “V Stato”  di Massimo Onnis: non c’è solo denuncia sociale e impegno civile, e sarebbe già tanto; abbiamo visto anche la rievocazione di una tragedia e un caldo romanticismo paesaggistico, fino a un uso innovativo della tecnologia che immette energia vitale nel buio della lontananza e dell”isolamento. Così la Giffone definisce il suo intento volto a ricostruire quello che è stato distrutto: “Raggiungere il grado zero, un punto di equilibrio significante per se stesso”. Se non lo ha raggiunto crediamo possa considerarsi sulla buona strada.

Info

“Spaziottagoni”, via Goffredo Mameli, 7, Trastevere, vicino al Ministero della Pubblica Istruzione. Aperto tutti i giorni, compresa la domenica, dalle ore 16,00 alle 21,00. Ingresso gratuito. http://www.spaziottagoni.com/: http://www.massimoonnis.com/. La monografia citata è Massimo Onnis, “GroundZero, Tutto si distrugge, tutto si ricostruisce”, Nuoro, 2011, pp.32, formato 20,5 x 29,5. Per mostra citata all’inizio, cfr. il nostro articolo in www.fotografarefacile.it“Roma. ‘Teatro a muro’ di Maria Pizzi con la fotografia dinamica”, il 27 marzo 2012; per la citazione delle “pitture rupestri” di Guido Montauti cfr. i nostri articoli in “cultura.inabruzzo.it” su “Pietracamela. Fotografie e pitture rupestri nel crollo del ‘Grottone'”,3 settembre 2013, e “Pietracamela, parte la messa in sicurezza del ‘Grottone'”, 14 settembre 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nello “Spaziottagoni” all’inaugurazione della mostra, tranne l’ultima fornita da Caterina Falomo di “Pennarossa presslab”, che si ringrazia con  l’organizzazione e i titolari dei diritti, in particolare l’artista Massimo Onnis. In apertura “V Stato”, particolare della grande installazione;seguono “Woman” con “Girl” “Concerto”, poi  “Alla ricerca di un nuovo mondo”  e Ground Zero, disperazione”, quindi “Figure abbracciate”, scultura; in chiusura “Studio” con l’artista Massimo Onnis.

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Frida Kahlo, 2. Gli autoritratti iconici, e non solo, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Dopo aver presentato la sua vita e la sua arte, visitiamo la mostra “Frida Kahlo”   alle Scuderie del Quirinale, dal 20 marzo al 31 agosto 2014, con speciale apertura estiva: sono esposte 160 opere – comprese alcune di Diego Rivera e di altri artisti dell’epoca – tra cui 40 autoritratti e ritratti  dell’artista icona del ‘900. La mostra, promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, è realizzata da Azienda speciale Expo con MondoMostre,  ed è curata, con il Catalogo Electa,  da Helga Prignitz-Poda.  Dopo Roma la mostra andrà a Genova, al Palazzo Ducale, dal 20 settembre 2014 al 15 febbraio 2015, intitolata anche al pittorecompagno di vita Diego Rivera.

Abbiamo cercato di ripercorrere la vita e l’arte di Frida Kahlo, anche richiamando i giudizi di illustri critici, per introdurre la visita alle sue opere, che non si possono comprendere appieno senza collegarle alla vicende spesso dolorose che le hanno ispirate. Va tenuta presente la vita di un’artista con l’esistenza tormentata dai gravi problemi di salute, per la malformazione alla colonna vertebrale e l’incidente stradale che la ferì gravemente e richiese  una lunga serie di interventi chirurgici cambiando radicalmente la sua esistenza. Una vita movimentata da una serie altrettanto lunga di amori  e travagliata da aborti, nell’unione forte ma ondivaga con il pittore di murales Diego Rivera, l'”elefante”  che ha schiacciato a lungo la “colomba” per esserne poi superato nei riconoscimenti artistici.

Le opere in mostra

Le opere di Frida, però, non vanno inquadrate soltanto in questa prospettiva personale, in quanto riflettono anche la natura del popolo messicano e lo spirito rivoluzionario della sua epoca; e sono lo specchio dei movimenti artistici che hanno percorso la prima metà del ‘900. Ne è stata partecipe, risentendone gli influssi  con la sua arte del tutto personale che l’ha portata a concentrarsi sui ritratti, anzi sugli autoritratti, quando la pittura era rivolta al paesaggio, nel “plein air” che portava gli artisti  all’esterno di sé stessi oltre che dei propri atelier.

Non è stato riduttivo per lei limitare il suo campo artistico concentrandosi soprattutto sulla propria figura e sul proprio volto: in tal modo è riuscita a esprimere sentimenti profondi con una lettura dell’animo femminile, della forza e insieme della fragilità della donna, che ne hanno fatto un simbolo molto amato, un’icona  ben prima del femminismo. D’altro canto, l’inserimento di simboli e richiami anche crittografici dà ad ogni autoritratto un significato speciale che è intrigante ricercare; e poi non mancano opere in cui si apre, dai ritratti di persone a lei vicine, alle composizioni che delineano ambienti naturali e urbani, alle nature morte fino all’estremo opposto rispetto al campo individuale ed interiore, verso una visione cosmica nella quale oltre ai simboli compare una sinfonia di volti e di figure astrali.

Guardiamo, dunque, le sue opere tenendo conto di tutto questo, introdotti dalle sue parole che ne riassumono mirabilmente contenuto e ispirazione:  “Ho fatto ritratti, composizioni di figure, anche opere in cui il paesaggio e la natura morta hanno il ruolo principale. Sono giunta a trovare, senza che nessun pregiudizio mi costringesse, un’espressione personale nella pittura. Il mio lavoro nel corso di dieci anni è consistito nell’eliminare tutto quanto non provenisse dalle pulsioni liriche interne che mi spingevano a dipingere. I miei temi sono sempre stati le mie sensazioni , i miei stati d’animo e le profonde dinamiche che la vita andava producendo in me, e ho sempre oggettivato tutto questo in rappresentazioni di me stessa che erano quanto di più sincero e vero potessi fare per esprimere quel che sentivo di me e davanti a me”. Interiorità e realtà, dunque, ai più elevati  livelli emotivi.

Le 9 Sezioni della mostra ripercorrono, attraverso le opere esposte, la sua vita tanto breve e intensa, tormentata e creativa, introversa eppure aperta agli altri, interiore ma sensibile alla realtà esterna.

Sono circa 40 dipinti su tela e anche su lamina metallica, faesite e masonite, 65 lavori su carta  e grafiche, 20 quadri di altri artisti fino a una galleria fotografica che la riprende in 33 immagini di grandi fotografi.  La successione cronologica permette di coglierne l’evoluzione degli stati d’animo dinanzi ai burrascosi eventi della vita e alle mutevoli tendenze artistiche. Ci concentriamo sui dipinti che segnano maggiormente la sua arte riservandoci di tornare sulle altre opere, in particolare quelle su carta, spesso sfogo delle sue angosce  interiori

L’inizio alla metà degli anni ‘20

Partenza folgorante della mostra:  all’ingresso il suo “Autoritratto come Tehuana o Diego nei miei pensieri o Pensando a Diego”, 1943, con l’immagine dell’uomo della vita sulla fronte del proprio volto iconico contornato dal costume tradizionale, come un terzo occhio. E’ presentato insieme a  “Paesaggio con cactus”, 1931, di Diego Rivera,  che sembra evocare il carattere spinoso del loro rapporto.

Poi una sala con 10 ritratti, quasi tutti  opera di Frida,  il primo dei quali, “Autoritratto con vestito di velluto”, 1926, tra le prime opere dopo il grave incidente che segnò la svolta pittorica nella sua esistenza. E’ forse l’unica immagine di seduzione dei suoi tanti autoritratti, ispirata  alla “Venus pudica” di Botticelli di cui le aveva parlato il suo ragazzo che l’aveva vista a Berlino dove era andato con lo zio mandato dai familiari in Europa forse per allontanarlo da lei. Lei gli scrive che ha dipinto per lui “il suo Botticelli”, il gesto del braccio ricorda quello botticelliano ma più che pudico è allusivo, come la lunga scollatura sul corpo nudo con i piccoli seni che premono sul vestito il cui bavero reca motivi che, nei codici cifrati presenti nelle sue opere, potrebbero alludere a un richiamo carnale;  lo sguardo è  invitante, sullo sfondo di onde tempestose, gli chiese di appenderlo all’altezza degli occhi per far incontrare i loro sguardi quando vi passava davanti.

L’immagine del suo ragazzo al quale diede l’Autoritratto la vediamo nella stessa sala, è il  “Ritratto di Alejandro Gòmez Arias”, 1928, con la dedica “al mio camerata”, l’espressione timida e riservata su sfondo rosso richiama quanto lei diceva sulla sua natura sensibile e timida: “Quando mi riaccompagnava  a casa Gòmez Arias mi baciava, mi recitava dei versi”. Segue un’altra figura maschile, il “Ritratto di  Miguel N. Lira”, 1927, molto diverso dal precedente, un uomo  in atteggiamento attivo e molto deciso, con dietro lo strumento della lira simbolo del nome, e altri simboli misteriosi: angelo e teschio, bambola e  cavallo, libro e scritte onomatopeiche  nello stile futurista. I simboli dell’artista attengono in genere anche ai costumi indossati e agli animali raffigurati, i codici cifrati si servono dell’alfabeto di diverse lingue con monogrammi legati e caratteri utilizzati  in modo crittografico, ne fa una interessante analisi la curatrice Prignitz-Poda.

Dello stesso anno “Pancho Villa e Adelita”, la sua partecipazione alla vicenda rivoluzionaria sulla quale Diego Rivera  era impegnato nei murales,  una composizione estridentista, quasi metafisica. Poi tre ritratti femminili nei quali vengono trovati riferimenti alla “Nuova oggettività”, due sono esposti per la prima volta al pubblico:  “Due donne, Herminia e Salvadora”, 1928,le domestiche dei genitori in una posa rigida a tre quarti quasi idealizzata con simboli di virtù, le arance, e di energia, le farfalle, è stato il primo suo quadro che fu venduto;  “Ritratto di Miriam Penansky”, 1929, ritrae la cognata americana di un collezionista in modo essenziale senza orpelli. Il terzo quadro , “Ritratto di una signora in bianco”, 1929,  forse  la sua amica  Dorothy Brown, ripresa con chiari simboli di dignità, con la tenda purpurea, e di sensualità, con le labbra rosse e le gote accese. Una sensualità che troviamo in modo ben più esplicito senza veli nelle due litografie del 1930 di Diego Rivera, “Nudo (di Frida Kahlo”), corpo nervoso, le mani dietro la testa, e “Nudo con capelli lunghi (Dolores Olmedo)”, frontale, il corpo morbido incorniciato dalle chiome che arrivano ai fianchi.

Gli anni ’30, l’America!

Siamo giunti al soggiorno in America di Frida e Diego, dopo il loro matrimonio, a seguito dell’invito al pittore per la retrospettiva e per una committenza a San Francissco.

L’impatto con realtà e culture così diverse con cui si confronta restando nell’ombra di Diego, è presentato gradualmente in mostra, cominciando con  due opere del 1931, “Ritratto della signora Jean Wight”, il suo busto con dietro una tenda e degli edifici, composizione che riflette il quadro di Carlo Mense, esposto a fianco, e “Ritratto del dottor Leo Eloesser”, il suo dottore a figura intera accanto a un tavolo con una barchetta e un quadro alla parete. Sono motivi consueti ma negli sfondi si vede che la pittrice si immerge nella nuova realtà come se la vedesse dalla finestra.

E’ dell’anno successivo “Autoritratto al confine fra il Messico e gli Stati Uniti d’America”, 1932, un olio su lamina metallica, con lei centro della composizione in un lungo vestito rosa chiaro e la bandierina in mano, nel momento del passaggio dalla civiltà  atzeca messicana sulla sinistra con le celebri gradinate monumentali dove va il suo sguardo, alla civiltà delle macchine americana sulla destra con ciminiere e grattacieli stilizzati; in primo piano fiori secchi e simboli, apparecchiature elettriche a destra, reperti a sinistra.  Sempre nel 1932 l’ingresso nel nuovo mondo è reso dalla “Vetrina (in una via di Detroit)”, 1932, un assemblaggio metafisico di oggetti diversissimi, essendo un’esposizione di rigattiere, con la figura di un leone aggressivo e dietro quella di un placido  cavallo bianco, un quadro con l’immagine di George Washington sullo sfondo di lavori in corso.

Del 1933  l’ olio e collage su masonite, dal titolo altrettanto allusivo, dove ha completo sfogo la sua predilezione per i simboli:  “Il mio vestito è appeso là, a New York”, metafisico  nell’accumulo di presenze  evocative che fanno corona al vestito con il “rebozo” rosso e la gonna verde dall’orlo bianco, è soprattutto allegorico rispetto alla vicenda di Rivera, cui era stato  rifiutato il murale per la presenza dell’immagine di Lenin, cosa che pose fine ai suoi sogni di gloria e troncò il loro soggiorno americano; la “vendetta” contro tale atteggiamento è nel collage in primo piano di fotografie ritagliate da riviste con i lavoratori ammassati per protestare nelle piazze o in lunghe file.  Dietro un fronte di grattacieli stilizzati, profili di chiese, un tempio con colonne e trabeazione – forse la civiltà umanistica rispetto al decadimento industrialista – e nel mare livido il piroscafo vincitore del “nastro azzurro” del record di velocità tra i grattacieli di Manhattan ed Ellis Island con in vista la Statua della Libertà, che ritroveremo nei disegni del 1945; poi immgini simboliche, la colonna femminile con in cima la coppa  dai manici come braccia levate in alto in segno di vittoria, quella del “nastro azzurro” che regge il suo vestito appeso, e la colonna dorica maschile con in cima la tazza da gabinetto, che segna la sconfitta di Rivera come maschio mentre come pittore è nei suoi attrezzi per dipingere nel cestino dei rifiuti. Esposto vicino il quadro di Otto Dix, “L’addio ad Amburgo”, 1921, per una certa  assonanza.

C’è stato l’aborto a Detroit, il dramma lo ha espresso nel quadro sull’“Henry Ford Hospital”,  non esposto  in mostra, e in opere su carta tra cui il bozzetto per tale dipinto, opere di cui parleremo nella terza parte della nostra ricognizione, ora concentrata sulle pitture. Si riflette anche nel suo “Autoritratto ‘very ugly’“, 1933, un piccolissimo affresco su pannello il cui titolo già esprime la sua arrabbiatura, resa anche nella scritta su un fondo con altri segni simbolici; e nell’“Autoritratto con collana”, dello stesso anno. Vengono accostati nella mostra al “Ritratto di Jeanne” del 1916  di Gino Severini, per assonanza stilistica e al “Ritratto di Cristina  Kahlo”  di Diego Rivera, 1934, anche maliziosamente per la crisi nei rapporti della coppia che interviene quando Frida scopre la relazione tra Diego suo marito e Cristina sua sorella; si lasciano e si riconciliano nello stesso anno dopo che lei è stata di nuovo in  America, ma vivranno separati.

Siamo nel  1937, due illustri “new entry” nella vita di Frida, Trotskj, poi André Breton, il teorico del surrealismo che viene folgorato dalla sua pittura in cui vede i motivi del suo movimento e le organizza mostre America e a Parigi, rivolgendole recensioni e commenti elogiativi.

Troviamo due suoi autoritratti a figura intera, “Autoritratto seduta sul letto, io e la mia bambola”, 1937, e “Il cane Izcuintli e io”, 1938, lei seduta con le braccia in grembo, abiti tradizionali orlati di bianco,  la bambola sul letto e il cagnolino del titolo minuscolo.

Del 1938 anche “Ritratto di Diego Rivera”,  e “I frutti della terra”, che anticipa in un certo senso le nature morte dell’ultima fase ma senza le angurie che allora saranno dominanti. La sua inquietudine si manifesta in un piccolo olio su lamina metallica, “Il sopravvissuto”, atmosfera metafisica, nel primo piano di una figura totemica piumata e uno sfondo con rudere, accostato in mostra all’altrettanto enigmatico “Ricordo della Valchiria” di Rémedios Varo

Gli anni  ’40, gli autoritratti iconici

Finalmente, con gli anni ’40, gli autoritratti iconici, iniziando dal più doloroso, “Autoritratto con collana di spine e colibri”, 1940, accostato al “Ritratto di Valentine” di Roland Penrose: vestita di bianco, dalle spine  gocce di sangue sul petto dove si posa l’uccellino,  dietro le spalle una scimmia e un gatto, sui capelli delle farfalle, in una composizione accorata e inquietante. Riflette la depressione dopo il divorzio da Rivera nell’autunno del 1939, allorché dipinge anche “Le due Frida”, non in mostra se non nella fotografia di Muray con lei davanti al quadro, in mano tavolozza e pennelli. E’ in cura a San Francisco dal dottor Eloesser – da lei ritratto dieci anni prima –  che convince Rivera a risposarla per combattere la depressione per il loro divorzio, lo farà a  dicembre.

Perciò “Autoritratto con treccia”, 1941, è ben diverso, viene accostato  a “Il sognatore poetico” di Giorgio de Chirico per il copricapo intrecciato di lei raffrontato al copricapo turrito di lui:  al collo non più spine ma una collana come una catena, forse ora soffre per il nuovo vincolo, il suo corpo appare coperto di foglie. Nello stesso anno  “Autoritratto con vestito rosso”, soltanto il viso fino al collo, forte  e quasi totemico, nessuno sfondo né segno simbolico, ma è per poco tempo.

E’ del 1942 “Bimba thuacana Lucha Maria” (intitolato anche “Il sole e la luna”o “Donna con mantellina”), dove il simbolismo torna nei due astri che esprimono i contrasti tanto cari alla pittrice, anche rispetto ai generi maschile e femminile; e “Ritratto di Narucha Lavin”,  con un pittoresco costume locale raffrontato a quello del quadro vicino “La messicana”, di Christian Schad, del 1930, è un dipinto su rame, di forma circolare, con fiori e farfalle allegoriche, in una composizione che si ispira ai ritratti nobiliari rinascimentali.

Tocchiamo di nuovo momenti della sua vita con il “Ritratto di Natasha Gelman”, 1943, il busto chiuso nella pelliccia, il volto severo, i capelli raccolti, è un piccolo olio su masonite di 23 per 30 cm. Dello stesso anno lo spettacolare “Ritratto di Natasha Gelman” di Diego Rivera, esposto vicino, di  115 per 153 cm, un’immagine  molto sensuale della donna, il corpo disteso mollemente sui cuscini con il vestito bianco scollato a forma di “calle” da cui spuntano le gambe-pistilli: è il fiore bianco di tante opere di Georgia O’ Keeffe cui sono stati attribuiti significati allusivi; vicino c’è anche “Venditrici di calle”, sempre di  Rivera, un grande mazzo di fiori bianchi occupa l’intero quadro, con dinanzi due indigene. Il diverso modo con cui la stessa persona è ritratta da lei e da Rivera fa pensare, quasi che le piccole dimensioni e la figura dimessa nel suo ritratto rispetto alla straripante languida  figura tra fiori allusivi nel ritratto del suo uomo riflettesse un attacco di gelosia, in una sorta di simbolismo.  

Nel 1943 altri autoritratti iconici: “Autoritratto con scimmie”, piccole e  vezzose, una davanti, due al fianco, una quarta fa capolino tra il fogliame dello sfondo,  l’atmosfera è serena, dovrebbero simboleggiare i  quattro alunni, “Los Fridas”, nell’insegnamento che svolge in America. E il già citato “Autoritratto come Tehuana”  o” Diego nei miei pensieri”  o “Pensando a Diego”:  l’immagine dell’uomo della vita sulla fronte esprime il suo pensiero fisso, il suo volto maestoso nel costume tradizionale riflette la fama con mostre a Città del Messico, New York, Philadelphia. Viene accostato a “Sposa di Pantla” di Maria Izquierdo, figura statuaria nel ricco costume tradizionale.

Non è frutto di gelosia, anzi è ispirato allo stesso sentimento profondo per Rivera che le aveva fatto dipingere nel 1941 la sua immagine sulla propria fronte, il piccolissimo olio su faesite, 13,5 per 8,5 cm, “Diego e Frida”, o “Doppio ritratto di Diego e me”, 1944, dal simbolismo trasparente: dei rami partono da un tronco costituito da un volto di cui la metà sinistra è di lui e la metà destra di lei, sul fondale rosso il sole che dardeggia i suoi raggi, la mezza luna sorridente, due conchiglie appoggiate sui rami. Un nuovo “Autoritratto con scimmia”,1945, la raffigura per la prima volta con i capelli sciolti  e non più raccolti, il viso contratto, la scimmietta affettuosa  in un colore caldo. Mentre nell’“Autoritratto” del 1948, su faesite, torna l’immagine maestosa del 1943 con il volto incorniciato dal costume messicano , questa volta però con la fronte libera dal pensiero di Rivera.

Dalla pittura cosmica alle  nature morte dei primi anni ‘50

Abbiamo visto che non vi sono richiami simbolici visibili oltre alla scimmia e alla tradizione messicana nell’“Autoritratto” del 1945. Forse perché la attrae un’altra forza, quella cosmica, portandola verso il trascendente.  Lo vediamo nel già citato “Mosè” o “Nucleo solare”, dello stesso anno, una composizione a olio su faesite molto colorata e ricca di immagini, perfettamente definite, con nella metà superiore figure mitiche e totemiche, nella metà inferiore i volti di personaggi storici e politici, piccoli ma  facilmente riconoscibili, da Marx a Gandhi, ci sono Buddha e Gesù Cristo con la corona di spine. Al centro sotto un grande sole che emette fuoco e raggi come mani protese,  una sorta di feto ancora nel sacco amniotico, e sotto, sul mare, la culla con dentro il piccolo Mosè.

Non si tratta di una visione estemporanea e momentanea, del 1949 vediamo “L’abbraccio amorevole dell’universo, la terra (il Messico), io, Diego e il signor Xolotl”,  olio su masonite in cui la visione cosmica è unita a quella personale: al centro, tra le braccia materne di una divinità messicana, una statua che si confonde nella terra con i cactus, c’è Frida con i capelli sciolti e tra le braccia un infante, non è Mosè bensì Rivera raffigurato come un neonato nudo in una sorta di Madonna con Bambino nell’ambiente messicano con sole e luna in un  cielo di nuvole viventi; il quadro fu preceduto da un acquerello in cui Rivera è come marito e figlio dietro e avanti a lei.

Con l’inizio degli anni ’50  sente piombare su di lei la decadenza fisica, anche se ha solo 43 anni, vediamo esposto il “Corsetto di gesso e bende con falce e martello”, a testimonianza delle sue sofferenze per la spina dorsale compromessa  e del suo omaggio alla rivoluzione “la vera ragione per vivere”, disse. E soprattutto interviene il mutamento nella forma espressiva dei  sentimenti  interiori, non più mediante la sua figura e il suo volto, che non vuole più esporre perché li ritiene degradati, bensì mediante nature morte, in cui prevale il frutto più colorato, l’anguria, come avvenne per Guttuso nei suoi  ultimi suoi quadri, forse per ritrovarvi quella vitalità che veniva meno. Vediamo così, del 1951, “Natura morta con pappagallo”, e del 1953 “Sguardi – Natura morta-. Noci di cocco“; nel primo l’animale sembra posto a guardia dell’anguria che spicca tra vari pomi, nel secondo un cocco piangente spunta dietro l’anguria. Finché nel dipinto del 1953, “Natura morta con angurie”, due fette sono allineate dietro dei pomi, gli viene affiancato “Natura viva” di Maria Ezquierdo, del 1946, il titolo anche delle nature morte di De Chirico. Già nel 1943 aveva riprodotto le angurie in tante fette con una civetta e una piccola figura che si affaccia dietro, in “La sposa che si spaventa vedendo la porta aperta”, ben diversa è la vitalità e vivacità anche cromatica. 

Non aggiungiamo altro a questo riguardo perché la mostra offre ancora delle sorprese. Tra il 1953 e il 1954, l’anno della morte, dipinge “Autoritratto con il ritratto di Diego sul petto e Maria tra le sopracciglia”, il titolo lo descrive compiutamente, sulla sua fronte in piccolo il volto iconico contornato dell’autoritratto come Tehuana, in cui c’era Diego ora dipinto sul petto vestito di rosso. Il viso di lei è giovane e fresco, a forti colori, ma un animale nero le arpiona la spalla, due volti nel sole: un ritorno alla giovinezza con Diego nel cuore, ma con la zampa nera irta di artigli su di lei.

Poco dopo, nel 1954, il suo ultimo quadro, quasi una testimonianza visiva del  tramonto della vita: “Autoritratto dentro a un girasole”  è quanto di più lontano dagli autoritratti iconici nei quali c’è sempre la sua fierezza unita a nobiltà, anche se esprime sentimenti sofferti con un segno sempre marcato e ben definito. Qui le pennellate sono incerte e confuse, danno luogo a una macchia cromatica in cui si distingue appena, però in modo evidente, la sua figura in costume messicano mentre il viso è identificato nel girasole che si piega al tramonto del sole, la sfera quasi rotola sulla collina dietro le sue spalle con una serie di simboli.  Non poteva esserci nulla di così dolente e così espressivo di una sensibilità  femminile tanto acuta da ricorrere al girasole per mostrare il degrado fisico senza contrapporlo ai tanti autoritratti dal fisico forte: la sensibilità che poco prima ha esorcizzato il presente con un’immagine da fanciulla sotto un incubo oscuro.

La  carrellata dei dipinti è terminata, ma non il nostro resoconto della mostra.  Restano i disegni,  acquerelli e le altre opere grafiche esposte, che esprimono i suoi stati d’animo in modo ancora più diretto che nei dipinti. Sarà un viaggio nel suo mondo interiore, come una seduta psicanalitica che ne mette a nudo i pensieri inconsci nei momenti più difficili della sua vita, fino a sfoghi grafici che sembrano test psichiatrici sui sentimenti più diffusi.  Con in più una galleria fotografica di sue immagini. Lo racconteremo prossimamente.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica  a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, non c’è chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500; http://www.scuderiequirinale.it/. Catalogo “Frida Khalo”, a cura di Helga Prignitz-Poda,  Electa 2014, pp. 192, formato 28 x 30, dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Cfr., in questo sito, il nostro primo articolo, “Frida Kahlo, l’arte e la  vita nella mostra alle Scuderie” il  24 marzo 2014, con riguardo anche alla nota “Info” per gli artisti e le correnti di riferimento; prossimamente il terzo e ultimo articolo “Frida Kahlo, opere su carta, e non solo, alle Scuderie”, il 16 aprile, e nel sito specializzato http://www.fotografarefacile.it/, il nostro articolo “Roma, Frida Khalo in 33 fotografie nella mostra alle Scuderie“, aprile ’14.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare l’Azienda speciale Expo con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura,  “Autoritratto come tehuana” o “Diego nei miei pensieri” o “Pensando a Diego”,  1943; seguono “Autoritratto con collana di spine e colibrì”, 1940, e “Autoritratto al confine fra il Messico e gli Stati Uniti d’America”, 1932;  poi “Autoritratto con treccia”, 1941, e “Mosè” o “Nucleo solare”,1945; quindi  “L’abbraccio amorevole dell’Universo, la terra (il Messico), io, Diego e il signor Xòlotl”, 1949, e“Natura morta con angurie”, 1953; in chiusura “Autoritratto dentro a un girasole”, 1954.

Roma e l’antico nel ‘700, 2. Dalla resurrezione alla contraffazione, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Nel presentare la prossima mostra della Fondazione Roma  sul ‘700 inglese, “Howart, Reynolds. Turner. Pittura inglese verso la modernità”, al Palazzo Sciarra, al Corso dal 15 aprile al 20 luglio 2014, il presidente Emanuele  ricorda la mostra della stessa fondazione dedicata in passato al ‘700 romano,  “Roma e l’antico nel ‘700″, dal 30 novembre 2010 al 6 marzo 2011, che portò il Parnaso nello spazio espositivo di Palazzo Sciarra, inaugurato nell’occasione. Nell’imminenza della mostra sul ‘700 inglese, dunque, ci sembra interessante il resoconto predisposto allora, nell’immediatezza, della mostra sul ‘700 romano, per corrispondere alla continuità e completezza del percorso culturale-espositivo della Fondazione che ha esplorato, con varie mostre, i profili dell’arte presente a Roma.

 In occasione della prossima mostra della Fondazione Roma “Hogarth, Reynolds e Turner. Pittura inglese verso la modernità, sul ‘700 inglese, dal 15 aprile al 20 luglio 2014, continua la nostra rievocazione della mostra, della stessa Fondazione, dal 30 novembre 2010 al 6 marzo 2011, su “Roma e l’Antico nel ‘700”. Dopo le prime 3 sezioni della mostra concernenti la resurrezione dell’Antico unita a restauri invasivi, falsificazioni e copie, concludiamo con le ultime 4 sezioni, dalle botteghe di restauro e le Accademiealla decorazione degli interni e agli artisti dell’epoca in emulazione e sfida con l’Antico, nella cavalcata tra le 140 opere che fanno rivivere il fervore artistico e culturale nel “secolo dei lumi” reso e analizzato nella mostra con un impegno meritorio.

Dalla resurrezione alla contraffazione e integrazione dell’antico

Troviamo un’opera di Mengs  anche nella 3^sezione della mostra, Giove bacia Ganimede, affresco staccato riportato su tela dipinto nel 1760, ritenuto il falso più celebre del XVIII secolo perché fu fatto passare come una pittura romana antica  ritrovata in una grotta presso Bolsena: ingannò anche Wincklelmann  e Goethe che ne parlarono in termini entusiasti il primo nella sua “Storia dell’arte antica” (eliminandolo nell’edizione del 1766 per i dubbi sorti) , il secondo nel “Viaggio in Italia”. La biografia diMengs del 1760 lo dichiarò un falso originato non da motivi commerciali bensì dalla volontà di cimentarsi “nel rispetto dello spirito wincklelmanniano  dell’imitazione”, scrive Ilaria Sgarbozza, anche se poi il suo percorso fu da contraffazione.

Nello spirito di rispettosa imitazione, questa volta dichiarata, si colloca il dipinto di Cristoforo Unterperger intitolato Apollo affida il proprio figlio Esculapio al centauro Chirone, che si rifà allApollo del Belvedere al quale si era ispirato anche il già citato Parnaso diMengs.Le figure sono classicheggianti,  il tono della composizione è arcadico. E avendo parlato dell’Apollo del Belvedere  notiamo la piccola statua in bronzo esposta con tale nome, non quella classica originaria di Giuliano della Rovere, prima che divenisse papa Giulio II, ma una delle tante imitazioni, molte delle quali  dello studio Zoffoli con un patina che copriva le giunture e dava il senso dell’antichità.

Abbiamo accennato ai falsi, e ce n’era una grande quantità per rispondere alla domanda di antichità da parte di italiani e stranieri del Grand Tour. Come avvenuto per il falso di Mengs – abbiamo citato la grotta presso Bolsena – per spacciarli con maggiore facilità venivano fatti “ritrovare” in occasione degli scavi. E’ emblematico il busto in marmo di Sabina,  apparentemente di epoca classica, esposto in mostra, che il celebre pittore inglese David Hamilton spacciava come rinvenuto negli scavi di Lanuvio, mentre si ritiene sia stato  realizzato tra il 1760 e il 1774, come mostrano dei particolari che renderebbero estremamente improbabile datarlo nell’antichità romana. La “Galleria dei Busti” del museo Pio-Clementino, alla quale appartiene Sabina, ne ha molti altri consimili.

Non sempre, tuttavia, opere di stampo classico non antiche del ‘700 vanno considerate dei falsi, c’erano le  repliche, come nell’Apollo Belvedere, per riprodurre dichiaratamente un’opera irripetibile, tanto più imitata quanto più ammirata. E poi c’era il cosiddetto “lavoro all’antica”, un’opera nuova non ricalcata pedissequamente su modelli originari ma ispirata liberamente ad essi adottando per nuovi soggetti la tecnica e lo stile antichi.  C’erano anche i calchi per la produzione in serie in gesso o in bronzo, con i quali si potevano moltiplicare le riproduzioni anche per l’estero.

E’ un pozzo di San Patrizio l’antichità romana nella realtà e nella visione del ‘700, e la mostra ce ne disvela il contenuto fino in fondo, portando tutto allo scoperto. Fino ad assumere come proprio emblema, come accennato all’inizio, la Minerva d’Orsay realizzata con un evidente trapianto di  testa, braccia e piedi in marmo bianco e di un’egida in agata su un torso in onice dorato di età adrianea che non riguardava minimamente la dea romana, con un panneggio di qualità eccezionale nel pigmento dell’onice anch’esso straordinario: veramente affascina la vista del visitatore..

Non è un caso isolato, tutt’altro, la mostra ce ne dà conto  esponendo due grandi statue marmoree, alte oltre 180 centimetri, raffiguranti Apollo citaredo:la prima in origine raffigurava Pothos, nel restauro fu trasformato in Apollo con il trapianto della testa e delle gambe, peraltro antiche, oltre che l’innesto delle braccia  e della lira; la seconda statua nasce dal rinvenimento a piazza San Silvestro  del torso e di una porzione di braccio, mano e frammento di lira, avvenuto  nel 1785, con identificazione in Apollo e successivo restauro integrando i pezzi mancanti.

Sono esposte anche Musa appoggiata a un pilastro  (Polimnia), copia romana del 50-90 dopo Cristo da un originale tardo ellenico del II secolo avanti Cristo e la gigantesca Atena Lemnia, tipo “Dresda Bologna”, alta oltre due metri, entrambe con analoghi innesti e qualche variante di parti del corpo compresa la testa.

Invece i busti di marmo bianco del II secolo dopo Cristo Ercole tipo “Genzano Lansdowne” e  Marc’Aurelio presentano interventi molto meno invasivi: il primo integrazioni, non innesti, al busto, naso e bocca, mento e orecchie, il secondo soltanto delle “levigature” a tempi e guance, labbro e collo forse ad opera di F.A Fontana. Il busto di marmo bigio morato Serapide, copia romana dell’età di Adriano di originale alessandrino, reca aggiunte di frammenti alla capigliatura.

La  galleria della 3^ sezionedella mostra  rivela dunque il fervore di attività nel ‘700 sia per soddisfare l’incontenibile domanda di antichità ricorrendo a sotterfugi e contraffazioni, sia per dare sfogo all’emulazione dell’antico per spirito di rispettosa imitazione; e anche per riportare all’antico splendore i reperti rinvenuti mutili anche gravemente con innesti antichi o di restauro: operazione oggi ritenuta arbitraria e inammissibile, che ci ha dato pezzi manomessi ma  pur sempre recuperati.

Due ritratti ci mostrano dei protagonisti immersi in questo fervore dell’antico. Autoritratto con al cavalletto l’abbozzo di Apollo e Marsia, della fine del ‘700, di Francisco Bayeu y Subias,  sullo sfondo l’opera allegorica  della vittoria dello spirito sulle passioni opera e soprattutto la dimostrazione dell’importanza dell’immersione nella classicità per un grande ritrattista come lui. L’altro è il Ritratto dell’antiquario Thomas Jenkins, dipinto di fine ‘700 di Anton von Maron,  formatosi alla scuola del già citato Mengs; il soggetto è uno dei più noti e intraprendenti antiquari operanti a Roma nella seconda metà del secolo, intervenuto in operazioni quale quella della Minerva d’Orsay, di cui curò le confuse e complesse trattative di acquisto.

Ci fa entrare di più nel clima dell’epoca nel quale ci immergiamo totalmente con l’altro dipinto esposto in questa sezione, La visita dall’antiquario, di Jacques Sablet. E’ uno spaccato di un’economia che puntava molto sui viaggiatori del Grand Tour e sui loro acquisti, e la diversa estrazione sociale dei visitatori faceva soddisfare le esigenze più varie, anche minime sotto il profilo economico e artistico-storico.

Ma è anche uno spaccato di umanità, la scena dipinta – visitatori patrizi nella bottega dell’antiquario con i suoi “compari” tra busti esposti e velati – non potrebbe essere descritta meglio di come fa Federica Giacobini: “L’inganno appena appena accennato dal gesto del mercante che pesta il piede del compare. Insieme a un terzo socio, essi offrono ai turisti un torso femminile panneggiato che sembra appena giunto da una delle innumerevoli ‘cave’ condotte a quel tempo dentro e fuori la città”. E conclude, su un piano più generale: “Del resto fu anche grazie alla vivacità di un mercato in grado di offrire ogni genere di manufatto legato all’antico, dai preziosi originali alle copie,  alle riproduzioni, alle imitazioni e riduzioni in ogni misura e materiale, nonché naturalmente ai falsi, che la passione per le antichità ebbe la più larga diffusione in tutta Europa, e fu in grado di influenzare in maniera capillare il gusto contemporaneo”.

E’ una sintesi di quanto abbiamo cercato di indicare sul fervore per l’antichità nel ‘700, anche nei suoi aspetti che sembrerebbero regressivi. Entreremo ancora di più in questo mondo così dinamico e vitale raccontando prossimamente lavisita alle ultime quattro sezioni della mostra: dalle botteghe definite “la fabbrica dell’antico”, alle Accademie, dalla decorazione degli interni che porta il gusto dell’antico nelle abitazioni  alla “sfida” degli artisti dell’epoca ai loro modelli da cui traevano ispirazione.  Così completeremo “realtà e visione dell’antico” nel ‘700, il “secolo dei lumi”.

Abbiamo terminato il racconto delle prime tre sezioni soffermandoci sul dipinto “La visita dall’antiquario” di Sablet come espressione del clima dell’epoca riguardo all’arte antica, con la ricerca delle scorciatoie mercantili per far fronte all’elevata domanda di opere  che ricorrevano alle copie più o meno dichiarate fino a diventare falsi di cui veniva millantato il ritrovamento negli scavi anche da personaggi del settore: come lord Hamilton e Jenkins visto nel  ritratto di von Maron

Ma non si deve generalizzare, c’erano  botteghe del restauro di qualità e i dettami dell’epoca sul restauro creativo, diremmo additivo, con l’innesto delle parti mancanti nei reperti mutili, fosse anche la testa – e lo abbiamo visto commentando la 3^ sezione –  davano semmai ulteriori responsabilità perché si trattava di adattare nel modo più omogeneo possibile parti di reperti diversi e anche di crearne di apposite per integrare la scultura rinvenuta. Spiccano due botteghe, quella di Bartolomeo Cavaceppi e di Giovanni Battista Piranesi.

La fabbrica dell’Antico di Cavaceppi e Piranese

Sono venti le opere esposte nella 4^ sezione della mostra per illustrare con esempi particolarmente efficaci l’intensa attività delle due importanti botteghe di restauro. Prima di descrivere la specifica attività di ciascuna con le rispettive opere, ancora qualche notizia in generale.

La si può trarre da una celebre visita a una bottega di restauro  così  rievocata da Chiara Piva: “Quando, nel dicembre del 1779, Antonio Canova visitò il laboratorio di Bartolomeo Cavaceppi, insieme alla ricca collezione di dipinti e disegni non mancò di osservare la quantità  di terracotte, gessi e sculture antiche, ma apprezzò particolarmente la qualità delle copie ‘così bene condotte che sembrava impossibile poter lavorare il marmo così bene'”.

Sculture antiche e copie, gessi e terracotte: quattro parole che riassumono la complessa attività non solo di quella visitata, ma di tutte le botteghe e dei laboratori dei musei, come il grande Pio-Clementino del Vaticano. Era il periodo in cui i restauri implicavano il ripristino totale dell’opera antica  rinvenuta quasi sempre danneggiata e mutila, mediante integrazioni e accessioni anche notevoli, come per gli innesti di testa ed arti sul mero tronco originario. Inoltre negli innesti i  musei e  i collezionisti chiedevano sempre più, e controllavano, il rispetto delle interpretazioni date all’opera per cui il lavoro aveva una parte di analisi storica oltre che estetica preliminare all’intervento operativo. Quanto più il lavoro era impegnativo tanto più si traduceva in bozzetti e poi copie anche in serie in gesso e marmo.

Il bozzetto in terracotta di misura ridotta era la prima fase, affidata al titolare della bottega, come dimostrano i ritratti del caporestauratore – i due che descriveremo, e anche Albacini, D’Este e Pacetti – visti sempre con in mano la stecca che modella la creta e non con lo scalpello; oltre che costume dei restauratori, era anche degli scultori fare bozzetti in terracotta messi poi in collezione.

La seconda fase era il modello in gesso con il calco “a cera persa”, sul quale avvenivano poi le integrazioni in gesso nel restauro dell’opera antica preservandola fino alla fase degli innesti diretti. Vedendo il calco la committenza poteva verificare le intenzioni dei restauratori e proporre varianti.

Era un’operazione delicata svolta da specializzati molto richiesti, per la quale occorrevano permessi. Il calco veniva conservato nelle “casseforme” così da poterne fare copie anche in seguito.

Dal gesso al marmo si passava con una complessa procedura a base di telai in legno di forma quadrata, detti “telai metrati”, per le proporzioni e di fili a piombo per gli interventi da fare in rilievo sulla figura mediante trasposizione dal gesso al marmo, dalla superficie piana allo spazio.

Bartolomeo Cavaceppiera un’autorità, nel discutere con il committente il calco della scultura antica da restaurare arrivava a proporre varianti se si trattava di una replica romana non fedele di un originale greco; così si rivolgevano a lui anche per valutare la qualità di copie antiche e per le datazioni di integrazioni per restauri pregressi. Era pronto allo sfruttamento commerciale con copie a grandezza naturale delle sculture per le quali gli veniva affidato il restauro Se è consentito un paragone irriverente, è quanto avviene oggi con i prodotti di moda affidati a lavoranti anche a domicilio cinesi e non solo che, oltre a produrre per il committente, tengono copie per uso proprio.

Introduce al suo laboratorio un’incisione in mostra tratta dal suo “Raccolta d’antiche statue”, del 1768 con riprodotto lo Studio di Bartolomeo Cavaceppi : sotto le arcate la galleria con le sculture e quattro restauratori ben visibili immersi nel loro lavoro.  Non si trattava di un vano unico in cui le statue esposte erano insieme elementi di arredamento e opere da museo; risulta anche dai testi dell’epoca che c’erano due gabinetti con riproduzioni particolari, un’ampia camera e/o un “cammerone” con copie a grandezza naturale decorato da un bassorilievo di gesso.

Vediamo esposti due busti femminili  presumibilmente uno di Giunone, d’invenzione, e un Ritratto di signora, su commissione; e due busti maschili, Settimio Severo, e Cicerone,  copia il primo da originale del III secolo dopo Cristo. E poi tre statue dell’altezza di circa mezzo metro, copie in piccolo della Pudicizia e Venere (o Musa), entrambe con  un panneggio dalle pieghe fitte, a parte il nudo della parte superiore nella seconda, e Marc’Aurelio, mutila di un braccio e una mano: e due statue più grandi superiori al metro, Flora Capitolina e Musa, Tutte copie della seconda metà del ‘700, in terracotta o gesso o marmo di Carrara. Invece Fortuna, alta circa 80 cm, in marmo bianco, è frutto di un restauro dall’antico del I secolo dopo Cristo, con integrazioni di testa e collo, braccio e cornucopia, mano e piede: un esempio di quanto si è detto sui restauri invasivi con innesti.

Ma passiamo alla bottega del veneziano Giovanni Battista Piranesi, definito “artista mercante” o “mercante d’arte e d’antichità” piuttosto che restauratore: era incisore e architetto e venditore di opere di terzi. Vende anche quadri o disegni di artisti come il Guercino. Nell’antichità classica tratta opere dell’età repubblicana e dell’impero e anche etrusche ed egizie, spesso nelle copie romane, in particolare crateri e candelabri, sculture e rilievi a tutto tondo. Svolge un’intensa attività nei “Frammenti”, sia provvedendo al restauro con integrazione delle parti mancanti sia inserendo i pezzi antichi in elementi decorativi moderni come in candelabri e camini.

Per il restauro si affidava a specialisti riservando a sé l’ideazione e la direzione, integrando con materiale di scavo e antichizzando.  Fonti del suo lavoro l’acquisto di collezioni dismesse dai patrizi o da vendite pubbliche e anche, si insinuava, accordi con i trafugatori; ma è certo che avesse anche una fonte diretta negli scavi da lui stesso operati, spesso insieme al già citato Hamilton. I suoi clienti sono tra i più esigenti  collezionisti italiani, fra loro  i cardinali e i Pontefici della seconda metà del ‘700, e i facoltosi stranieri del Grand Tour, che facevano tappa fissa al “museo Piranesi” posto in zona residenziale centralissima.

Oltre che nelle “tavole incise e antichità” – di cui parla nel suo “Ragionamento Apologetico”, citato da Paolo Coen, nel ricostruirne l’attività –  opera nel settore dell’arredamento e del design, inserendovi i frammenti antichi che vennero così valorizzati mentre prima si riconoscevano solo i reperti statuari, divenuti sempre più rari; questi sviluppi furono portati anche dagli inglesi. L’attività così concepita include mobili, pitture e oggetti decorativi come i candelabri, il tutto documentato da incisioni di cui era maestro, e che davano visibilità commerciale e insieme prestigio istituzionale.

Le opere in mostra, a conferma di quanto esposto, si differenziano del tutto da quelle di Cavaceppi: nessuna statua o scultura, ma acqueforti, disegni  e incisioni a stampa; vasi e  oggetti di arredamento. Tra i primi Capriccio architettonico e Veduta di Villa Albani, dai tratti marcati, e due Camini con disegnati eleganti fregi decorativi stilizzati di origine egizia, etrusca e greca. Tra i vasi  l’imponente Vaso colossale con i frammenti di cui si è detto, inseriti per decorare, dei secoli I avanti Cristo e I e VIII dopo Cristo, il Vaso in pietra d’Istria e il Vaso Warwick  risultanti da restauri “fantasiosi” di Piranesi  da originali rinvenuti in frammenti nella seconda metà del ‘700.

Roma e l’ Antico nel ‘700, 1. Resurrezione delle antichità, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

E’ stata molto più di una mostra, anche se molto ben curata e impegnativa, lo prova che all’inaugurazione a Palazzo Sciarra c’era tutto il mondo dell’arte e della cultura romano.  La Fondazione Roma Museo ha raddoppiato gli spazi espositivi aggiungendo a quelli di Palazzo Cipolla i prestigiosi ambienti del palazzo di fronte, 1500 metri quadrati di superficie espositiva con una preziosa collezione permanente di opere dal ‘400 al ‘900:  Palazzo Sciarra, un palazzo patrizio della seconda metà del ‘500, sede storica della  Fondazione, inaugurato con una mostra che più adatta all’evento non poteva essere. E questo anche perché l’esposizione ha illustrato una ricerca vasta e approfondita sull’identità stessa della vita culturale cittadina in un’epoca cruciale come il ‘700: il secolo dei “lumi” nel quale fiorirono le nuove scoperte della ragione proiettata al futuro ma che cercava nel passato le radici da valorizzare e porre a base del balzo in avanti.

Il valore della rivisitazione del ‘700 con lo sguardo sull’antichità

E’ questo fervore il centro della mostra, il suo autentico motivo ispiratore; è il percorso di cultura e di vita di un periodo cruciale come il ‘700 considerato nei suoi momenti maggiormente legati all’antico ancora di più che le 140 opere esposte, che hanno fatto dire al presidente della Fondazione Roma  Emmanuele M. Emanuele, organizzatore e patron: “La presenza di opere provenienti da tanti musei – e cita tra gli altri l’Ermitage e il Louvre, il Prado e i Musei Vaticani e Capitolini – costituisce la più brillante testimonianza dell’ampia circolazione di reperti antichi all’estero, diversi dei quali rientrano in Italia occasionalmente per la prima volta dal Settecento, ma anche di copie di gesso e di opere di diretta ispirazione”.

Un ritorno a casa, dunque, e una rivelazione del mondo vasto e colorito fiorito intorno  all’arte antica: fatto di straordinarie scoperte archeologiche nel gran teatro delle rovine e della “resurrezione” dell’antico, da scavare e conservare; e poi restaurare non sempre in modo conservativo ma anche creativo, con lo sviluppo di attività mercantili fino alla falsificazione;  una “fabbrica dell’antico” di botteghe prestigiose,  non una deteriore contraffazione; e poi la nascita delle Accademie per la formazione sull’antico, gli arredi e la decorazione degli interni ispirati a modelli dell’antichità, fino a quella che viene chiamata sfida degli artisti dell’epoca con gli antichi modelli ai quali si ispirano in una gara di emulazione.

Il tutto viene documentato nel monumentale Catalogo Skirà  ad opera  degli stessi curatori della mostra, Carolina Brook e Valtrer Curzi, che va ben oltre l’apparato iconografico e critico di supporto all’esposizione per calarsi nel ‘700 romano scandagliando gli aspetti reconditi della vita artistica e culturale proiettata sull’antichità con ben 33 dissertazioni di studiosi concise ed esaurienti nelle quasi 500 pagine riccamente illustrate  e documentate da cui trarremo le  nostre citazioni. 

E’ un’opera di valore che trova la trasposizione visiva negli spazi tematici delle sette sezioni della mostra, altrettanti quadri teatrali che rappresentano uno specchio dei tempi, anzi del tempo, il ‘700, evocato dai prestigiosi testimonial internazionali  delle 140 opere che fanno toccare con mano i momenti salienti di un secolo così vitale nell’ottica dell’antichità vista e vissuta da vicino.

E si ha un primo paradosso, nella mostra sin dalla prima sala: con le stupende statue nella zona centrale e i dipinti alle pareti si ha l’impressione di entrare nel Parnaso, in un olimpo incommensurabile di arte e di bellezza; ma nello stesso tempo ci si sente spinti ad andare oltre, a ricercare i motivi e i movimenti che danno origine e alimentano questa fioritura di meraviglie, a seguire cioè il percorso culturale di ricerca che è il fil rouge dell’intera esposizione.

Un secondo paradosso è nell’immagine-simbolo della mostra: il busto della Minerva d’Orsay del II secolo dopo Cristo, nel quale spiccala testa con una specie di berretto frigio, ebbene questa è l’aggiunta settecentesca di un restauro creativo che più non si potrebbe; perché allora prendere a simbolo qualcosa di non autentico? Proprio perché riassume lo spirito della mostra, investigare su tutto questo, l’amore per l’antico che supera ogni barriera, nella travolgente cavalcata del ‘700

Il nostro racconto, dopo l’ammirato sbalordimento nella prima sala del Parnaso di Palazzo Sciarra, inquadrerà i capolavori esposti nel mondo che li ha rivelati e valorizzati, quelle tematiche sopra indicate evocative dei diversi momenti cui fanno riferimento le sette sezioni che rivisiteremo.

Nel teatro delle antiche rovine

E’  un teatro che esprime l’interesse alla riscoperta dell’antico.  Spettatori i viaggiatori italiani e stranieri, uomini colti e talenti artistici provenienti da ogni parte per una visita a Roma che nel ‘700 divenne meta obbligata per la grande attrazione rappresentata dalle vestigia dell’antica civiltà greco-romana ritenuta necessario alimento e ispirazione per l’arte e la cultura.

Abbiamo opere che testimoniano come fosse attento e affezionato lo sguardo su questo teatro. Nella 1^ sezione le pareti della sala iniziale recano le vedute di Gaspar Van Wittel, il padre del grande architetto della Mole vanvitelliana di Ancona: Castel Sant’Angelo dai Prati di Castello e Colosseo verso Campo Vaccino e i dipinti di altri artisti stranieri: Charles-Louis Clérisseau, Capriccio con Pantheon, Arco di Giano, Piramide Cestia e scena di sacrificio, Jean Baptoiste Lallemand, Veduta di Campo Vaccino, e Hubert Robert, Fantasia architettonica con rovine.

Tra gli italiani tre dipinti di Giovanni Paolo Panini: Rovine con la statua equestre di Marc’Aurelio, Capriccio con la predica di una sibilla e Capriccio con la predica di un apostolo; e opere della Manifattura FiorentinaPantheon e Sepolcro di Cecilia Metella entrambe su modello di Ferdinando Partini, del quale è esposta la Veduta del tempio della Pace;

Una serie di fondali del Gran teatro della Roma antica  offerto ai viaggiatori del Gran tour che non si limitavano ad ammirarne lo spettacolo ma ne lasciavano testimonianza con le opere ispirate. Era un’offerta consapevole, dall’inizio del ‘700  il Pontefice ripristinò il rigore sugli scavi archeologici, rinnovando editti precedenti ma disattesi, per cui erano vietati quelli senza licenza; questa veniva data per “scavi grandi e piccoli” alla presenza di supervisori pontifici alla ricerca di reperti  per collezionisti e antiquari che spesso riuscivano ad aggirare i vincoli all’esportazione delle antichità.

Vengono ricordati nella prima metà del secolo gli scavi dei Farnese al Palatino, con il ritrovamento dei colossi di basanite di Ercole e Dioniso, portati a Parma senza opposizione del supervisore pontificio Francesco Bianchini, che comunque ne fece un’accurata documentazione, come per il Colombario dei liberti di Livia.  e gli scavi del Colombario degli Arrunzi a Porta Maggiore con i successivi disegni di Giovanni Battista Piranesi.  

Nella seconda metà  del ‘700  le ricerche archeologiche sono coordinate e tendono a definire una “storia dell’arte” al di là dei singoli artisti, operano inglesi e italiani come i Piranesi anche nell’ottica commerciale favorita dai visitatori del Grand Tour appartenenti all’élite europea dove si moltiplicavano i collezionisti e dalla possibilità di eludere i divieti. Si citano gli scavi a Tivoli con una grande mole di sculture  rinvenute presso Villa Adriana e quelli alla Villa di Cassio. C’erano anche gli “scavi camerali” per le raccolte pubbliche; si recuperavano oltre alle sculture i mosaici, portati al Museo Pio Clementino, e si faceva un’accurata documentazione con piante e annotazioni preziose. Veniva prestata molta più attenzione al monumento e ai luoghi, da preservare e documentare;  non solo ai reperti artistici ornamentali come in passato allorché svuotati dei marmi pregiati erano considerati cave di mattoni. Mentre Goethe, nel 1787 diceva che “ogni frammento è venerabile”.  “A Roma – parole di Quatremère citato da Paolo Liverani – il paese fa parte lui stesso del museo” precisando che “il vero museo di Roma è composto dai luoghi, dai siti, dalle montagne, dalle strade, dalle vie antiche…” figurarsi se andavano trascurate le rovine degli antichi edifici!

Le sculture al centro della prima sala fanno capire come gli esemplari classici ispirassero gli artisti dell’epoca. Abbiano la Flora Farnese  di Carlo Albacini e il Laoocoonte  di Joseph Chinard, dell’ultima parte del ‘700, dei marmi di grande nitidezza, il primo con il suo panneggio, il secondo con le sue forme; e poi Diana Braschi di Vincenzo Pacetti e  un Vaso ornamentale tipo ‘Borghese’, delle Porcellane di Sèvres, in ceramica diaspro con rilievi bianchi su fondo celeste.

La “resurrezione” e conservazione delle antichità

La “resurrezione dell’antico” più che la mera riscoperta è il tema della 2^ sezione della mostra: è il risultato dell’attività di scavo e ricerca di cui abbiamo appena parlato, con il maggiore rispetto e interesse per le preesistenze dopo l’archeologia “di rapina” dei periodi precedenti.

Diventa fondamentale l’aspetto documentario, l’esigenza di rendere noto e comunicare l’evento, non più soltanto sotto il profilo storico, ma anche sotto quello visivo con le immagini.  Di qui una fervente attività illustrativa che in Francia portò intorno al 1720 ai dieci volumi dell’“Antiquité expliquée et représentée en figures” di Bernar de Montfaucon. D’altra parte nei decenni successivi fu possibile documentare le opere e i monumenti nel loro contesto, finché  Piranesi alla metà del secolo con le sue “Antichità romane” proiettò le rovine e i monumenti nel loro contesto rilevato con assoluta precisione, e non solo: “Le rovine di Piranesi non hanno nulla dell’atonia e della morte dei suoi grandi predecessori – scrive Marcello Barbanera – inquietano perché sono vive. Il messaggio implicito è che l’antichità non deve restare un corpo inerte nelle mani degli eruditi incapaci di penetrarne i segreti, ma essere vivificata dagli artisti e rinascere nelle loro opere”.

Guardiamole le opere esposte in questa sezione, cominciando da quelle pittoriche e grafiche. Torna Giovanni Paolo Panini incontrato nella 1^ sezione, in Rovine romane con resti del tempio di saturno (L’archeologo), di metà secolo, le rovine sono palpitanti di vita. Così danno il senso della vita le immagini all’interno del Museo Pio-Clementino, dal dipinto Allegoria del Museo Pio-Clementino in Vaticano di Bernardino Nocchi, alle acqueforti Veduta della Sala degli animali del Museo Pio-Clementino, e Veduta del Cortile del Belvedere di Giovanni Volpato, tutte dell’ultimo decennio del secolo. Si raggiunge  la superiore dimensione classica della vita in un olimpo di bellezza, serenità e cultura in Parnaso di Villa Albani, di Anton Raphael Mengs, dipinto all’inizio della seconda metà del secolo nel quale vediamo raffigurata l’immagine ideale che l’esposizione ci ha suggerito subito all’ingresso, prima ancora che l’avessimo vista qui riprodotta:

Dai dipinti alle illustrazioni e alle incisioni, a partire da quella del già citato Francesco Bianchini intitolata Camera ed iscrizioni sepolcrali de’ liberti, servi ed ufficiali della casa di Augusto scoperte sulla via Appia, resa viva dai lavori in corso. Troviamo incisioni che riportano con assoluta precisione i rilievi e le scritte, come per l’Urna di marmo pario del celebre Pier Leone Ghezzi , per le  Antichità di Villa Strozzi e Villa Albani di Jean Honoré Fragonard, nonché i Monumenti antichi inediti spiegati e illustrati da Giovanni Wincklemann prefetto delle antichità di Roma. E riproducono statue come Flora e Pirro di Gian Domenico Campiglia a metà secolo, Apollo del Belvedere dal Museo Pio-Clementino  di Stefano Tofanelli e Alessandro Moschetti  fino al Dito colossale in marmo di Antoine Laurent Thomas Vaudoyer, ultima parte del secolo.

Ed ora finalmente l’arte antica irrompe nell’esposizione, si è fatta giustamente attendere, per riprodurre il clima di allora, quando si aspettavano con ansia i progressi negli scavi e i risultati spesso rappresentati da sculture di marmo. Cominciamo dal bassorilievo Vittoria choragica versa delle libagioni in una patera offertale da Diana, copia romana del I dopo Cristo di originale greco del V avanti Cristo, una vera chicca venuta dal Louvre, e dal busto di Antinoo, età adrianea del 130-138 dopo Cristo. Della stessa età l’Erma di Pericle, ritrovata a Tivoli nel 1779 . che fece tanto rumore al punto da ispirare dei versi a Vincenzo Monti con un parallelo tra il personaggio greco e il pontefice Pio VI che l’aveva fatta portare subito in Vaticano, ed è un’altra chicca trovare accanto all’Erma proveniente dal Museo Pio-Clementino la  piccola espressiva statua che la ritrae a fianco del Pontefice nel “biscuit” Pio VI con l’Erma di Pericle. E che dire delle due sculture di marmo Eros Capitolino e Flora Capitolina, la seconda ad altezza naturale, entrambe della prima metà del secondo dopo Cristo? Lasciano incantati il lento movimento con l’arco del primo e il panneggio della seconda con il gesto autorevole e il volto di grande nobiltà e fierezza.+

Dopo il clou nella scultura,. la sorpresa delle riproduzioni di pitture romane, cominciando da quelle di Vincenzo Brenna, che fu parte attiva nella pubblicazione di una “Raccolta” stampata da Ludovico Mirri definito “negoziante di pitture”, che aveva avuto l’esclusiva di una serie di scavi  sulla via Labicana nelle vicinanze del Colosseo. Sono state riprodotte in nero e in una preziosa edizione a colori in sole trenta copie, le 16 Camere neroniane  in sessanta acqueforti con la raffigurazione anche dell’architettura e della a struttura degli ambienti, Ci sono la Sala dalla volta nera e i tre Dipartimenti: quello della cornice inquadra colonne, pilastri e figure come cammei; poi quello dei riquadri a fasce rosse, festoni e listelli, con maschere e animali; infine un fregio con rosoni e foglie. Le tavole di Brenna esposte sono Decorazione del Corridoio delle aquile della Domus aurea e Copia di decorazione murale romana , c’è un’estrema raffinatezza e nitore nella riproduzione che rende appieno la levità aerea di quelle pitture, la loro freschezza e il riflesso di un universo pittorico veramente straordinario che andrebbe esplorato ancora, anche se la mostra alle Scuderie del Quirinale “La pittura di un Impero” ne diede una visione esauriente e affascinante.

E dato che abbiamo parlato della celebre residenza neroniana è il momento di dare atto all’organizzazione della mostra per aver fornito qualcosa in più e inatteso, una sorta di visita virtuale – citiamo testualmente – mediante “la realizzazione di uno specifico filmato all’interno del percorso espositivo per restituire al pubblico l’impatto che le esplorazioni degli ambienti della Domus Aurea provocarono sugli uomini del Settecento”: quelli che li visitarono, come i citati Mirri e gli artisti che ne hanno poi riprodotto  le pitture nel modo che abbiamo visto e vedremo ancora. La ricostruzione virtuale riporta ai fasti del ‘700 con i colori nel loro splendore e l’emozione delle perlustrazioni: la Sala Ottagona e il Ninfeo di Polifemo, Le Sale dalle volte rispettivamente nera e rossa, gialla e delle civette, che sono chiuse saranno accessibili in video come apparivano nel  ‘700.

Molto diverse ma altrettanto espressive le quattro incisioni acquarellate esposte con copie di dipinti murali in domus romane, due di Anton Raphael Mengs con Angelo Campanella, due di Anton von Maron con Piero Vitali e Girolamo Carattoni: le due ultime raffigurano Bacco e Arianna, poi Marte, Venere e Cupido. Quelle di Mengs sono Venere con una ninfa e amorini  e Venere e Adone morente. Non siamo di fronte alla miniatura delicata di Brenna, il segno è robusto, il colore netto, i soggetti a differenza delle aeree decorazioni floreali e simboliche rappresentano architetture precise con archi rotondi e riquadri, con una scena centrale. Ad una di queste Mengs si è ispirato per un dipinto che ritrae Venere con eroti, il corpo seminudo con intorno i putti alati.

Frida Kahlo, 1. L’arte e la vita, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale, dal 20 marzo al 31 agosto 2014, con speciale apertura estiva, l’attesa  mostra “Frida Kahlo”,  35 mila prenotazioni prima dell’inizio, oltre 160 opere tra cui 40 autoritratti e ritratti dell’artista “icona del ‘900”.  Promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale, realizzata da Azienda speciale Expo con MondoMostre,  curata da Helga Prignitz-Poda, Catalogo Electa.  Dal 20 settembre 2014 al 15 febbraio 2015  si trasferirà al Palazzo Ducale di Genova – il cui sindaco è intervenuto alla presentazione in Campidoglio – dove sarà intitolata pure a Diego Rivera, il pittore rivoluzionario che tanta parte ebbe nella vita di Frida.

La mostra di Frida Kahlo è diversa da ogni altra perché i dipinti esposti, con molti disegni e fotografie, non esprimono il modo consueto con cui un artista interpreta la realtà esterna scegliendo i soggetti da rappresentare e la forma pittorica; ma  sono per lo più autoritratti iconici e ritratti di persone nei quali si manifesta il mondo interiore dell’autrice e si riflettono i cambiamenti nella sua vita e nella società.

E’ un’operazione inusuale, perché mentre gli sconvolgenti autoritratti di Van Gogh – nel suo dolente crescendo di arte e di follia – sono accompagnati da vedute naturali, Frida affida soprattutto al proprio volto e alla propria figura – a parte la visione cosmica dell’ultimo periodo e il transfert finale nelle nature morte – la sua  visione della realtà in una concezione iconica che ne rende intrigante l’interpretazione.

L’interesse della mostra, sensibilità femminile e Fridomania

Ci sono diversi livelli di lettura delle opere e non ci si deve fermare al primo più immediato. La curatrice della mostra Helga Prignit-Poda osserva che “anche se Frida Kahlo fa di sé il soggetto di ogni quadro, ogni volta questo avviene in un altro contesto, con un altro fondo, e in un altro ruolo. Nessun dettaglio viene ripetuto  e nessuna pennellata è senza significato. Questo vuol dire che nessuno dei suoi quadri  sono facili da decifrare e molti segreti continueranno a rimanere nascosti nelle sue opere dietro facciate apparentemente innocue e criptate”.

Il volto fiero dell’artista, con i lineamenti nobili e molto marcati, le sopracciglia spesse e lunghe fino a ricongiungersi, occhi e capelli neri, raccolti con i fiori, esprime fermezza e un difficile equilibrio di sentimenti, pronto a rompersi  quando le vicende della vita hanno portato dolore e sofferenza. E’ stata ferita nel fisico e nell’animo dalle dure esperienze vissute che ne hanno fatto un’eroina dell’essere donna quando non c’era il femminismo, e molti suoi atteggiamenti sembra lo abbiano anticipato.  Forse anche questo aspetto – che avvicina alcuni suoi autoritratti alla celebre immagine egizia del volto di Nefertiti – con il tocco dell’arte ha contribuito a creare il suo mito.

Ortrud Westheider parla di “Fridomania”, spiegando che “oggi Frida Kahlo viene idolatrata in tutto il mondo e in maniera quasi cultuale, innescando processi di identificazione sempre nuovi”. E aggiunge che “a tutt’oggi è difficile rispondere alla domanda se sia l’arte ad avene costruito la fama, oppure la vita, le passioni laceranti, la condizione di amante infelice, di vittima predestinata”.

Mentre Achille Bonito Oliva ne sottolinea la solitudine rispetto al “rumore della vita” intorno a lei: “Sensibilità decentrata, anche per la sua condizione femminile, la Kahlo concentra tutto il suo universo intorno alla propria icona, però come scontornata, sola. La bella di nessuno. Sofferente e nervosa, sopracciglia gravi per loro continuità, ma nervosa”.  E precisa: “Bella di nessuno dunque è la Kahlo, ma nervosa e creatrice. Essa fonde una cosmografia figurativa eliocentrica in cui la sua icona è astro motore. Un’armonia di dolori esplicitamente relaziona questo universo e nello stesso tempo lo riproduce con l’inganno seducente della bellezza”.

L’abbiamo associata a Georgia O’ Keeffe, forse per il legame tra il Messico di Frida e il New Mexico di Georgia, e per il collegamento della sua unione con l’artista pittore Diego Rivera della prima e con l’artista fotografo Stieglitz della seconda, per  la natura parallela di questi rapporti, grandi amori permanenti interrotti da crisi e separazioni, poi ripresi senza mai rotture definitive.

E’ un’associazione di idee nata anche dalla vista dei due grandi quadri di Rivera del 1943 in mostra, con le “calle” dominanti, in  uno dei due il vestito della donna distesa è a forma di “calle” da cui spuntano le gambe come pistilli,  era  il fiore prediletto nei dipinti della O’ Keeffe.

L’emozione che suscita la mostra viene dallo stretto rapporto della sua storia pittorica con la propria vita – svoltasi tra gli impetuosi movimenti popolari  che  hanno agitato la sua patria, il Messico – e la ricerca artistica tra le avanguardie pittoriche del ‘900 nelle quali la sua arte ha avuto un posto importante: come  l’espressionismo dopo l’ambìto riconoscimento di André Breton che fu una vera consacrazione, ma anche forme legate alla magia e al mito fino al simbolismo di opere misteriose.

Hanno fatto bene gli organizzatori della mostra – che si avvale di opere riunite per la prima volta venute da 40 provenienze, musei e collezionisti messicani, americani ed europei – ad affiancarla al Palazzo Esposizioni con  8 conferenze serali, tra il 19 marzo  e il 21 maggio, sui diversi aspetti dell’arte e della personalità di Frida, perché ne emerge una riflessione sulla vita individuale e sul rapporto con la vita collettiva, nella società e nei movimenti popolari. Ed è stato geniale affiancarla anche con il ciclo cinematografico “Siamo donne”, dal 22 marzo al  13 aprile: oltre ai due film sull’artista, l’americano “Frida” di Julie Taymor del 2002 e il messicano “Frida, naturaleza viva”, di Paul Leduc del 1986,ce ne sono 6 sulle donne entrate nel mito per ciò che rappresentano, da Giovanna d’Arco a Caterina di Russia, da Isadora Duncan a Evita, Maria Callas a Marilyn Monroe.

Chi era Frida Khalo

Ma chi era Frida Kahlo per suscitare tutto  questo?  Al punto  che negli ultimi dieci anni la sua immagine –  scrive la curatrice  – “ha raggiunto, negli stand di merchandise di tutto il mondo,una popolarità analoga a quella di Che Guevara. E come il nome dell’eroe rivoluzionario si è trasformato nel brand ‘Che’, oggi Frida Kahlo, nell’epoca della sua iconizzazione, è diventata ‘Frida’”. Per rispondere va considerato “il mondo interiore dell’artista, ma anche il mondo esterno, reale, e in particolare  il mondo dell’arte che l’ha spinta a diventare pittrice”.

Lo faremo in un excursus della sua tormentata biografia prima di parlare dei dipinti esposti in 8 Sezioni, espressive delle fasi della sua vita, con in mente i segreti e le espressioni criptate dell’artista cui la curatrice dedica un’ampia analisi, e conclude: “Frida ha riempito di segni nascosti le sue opere al fine di sfidare o anche di trarre in inganno lo spettatore che cerca di capire i suoi  quadri”, precisando: “E parimenti voleva che nessuno potesse navigare attraverso il suo diario, e che nessuno, oltre a lei, potesse comprendere ciò che vi era scritto”.

Nel dare tali avvertimenti  fornisce una serie di codici interpretativi dei segni criptici inseriti negli autoritratti iconici, come monogrammi e orologi, occhi e numeri, caratteri russi e in altre lingue straniere, per “liberare i quadri di Frida Kahlo dalla rigidità della loro iconizzazione”.

Sempre più presi dal mistero della sua arte enigmatica, ne ripercorriamo alcuni momenti di vita partendo dalle sue parole: “Sono nata con una rivoluzione. Diciamolo. E’ in quel fuoco che sono nata, portata dall’impeto di una rivolta fino al momento di vedere giorno. Il giorno era cocente. Mi ha infiammato per il resto della mia vita. Sono nata nel 1910. Era estate. Di lì a poco è nato Emiliano Zapata, el Gran Insurrecto, avrebbe sollevato il sud. Ho avuto questa fortuna. Il 1910 è la mia data”. Il fatto che abbia modificato la vera data di nascita, il 1907, per identificarsi dall’inizio della vita nel fuoco rivoluzionario, la dice lunga su quanto sentiva sprigionarsi dentro di sé.

Ma non si trattava  tanto del fuoco rivoluzionario quanto di quello femminile, che ne ha fatto una vera icona. Del resto lo ha riconosciuto nel suo Diario allorché ha scritto: “Sono molto preoccupata per la mia pittura. Soprattutto voglio trasformarla in qualcosa di utile per il movimento rivoluzionario comunista, dato che finora ho dipinto solo l’espressione onesta di me stessa, ben lontana dall’usare la mia pittura per servire il partito”.  Ma ha servito la causa femminile,  in questo è stata utile eccome.

I “due gravi incidenti” della sua vita

E’ molto stretto il rapporto tra arte e vita che troviamo in lei, perché la sua opera pittorica è legata a vicende sofferte che ne hanno travagliato l’esistenza, sin dalle profonde ferite nel corpo e nello spirito subite  nel 1925  a 19 anni quando l’autobus su cui era salita per recuperare il suo ombrellino fu investito da un tram: “Non è vero che non ci si rende conto dell’urto, non è vero che non si piange – scrisse nel Diario – io non versai una lacrima. L’urto ci spinse in avanti e il corrimano mi trafisse come una spada trafigge un toro. Un uomo si accorse che avevo una tremenda emorragia, mi sollevò e mi depose su un tavolo da biliardo finché la Croce rossa non venne a prendermi”.  E lei? “La prima cosa a cui pensai fu un giocattolo dai bei colori che avevo comprato quel giorno e che portavo con me. Volevo cercarlo, come se quello che era successo non avesse conseguenze molto più gravi”.  Ben 14 fratture e lacerazioni, e in più la malformazione congenita della colonna vertebrale la costrinsero a numerosi  interventi chirurgici e a ricorrere ad alcool, fumo e  droga.

L’anno dopo scrisse al suo ragazzo Alejandro Gomez Arias: “Ero  una ragazza che camminava in un mondo di colori, di forme chiare e tangibili. Tutto era misterioso e qualcosa si nascondeva; immaginare la sua natura era per me un gioco”.  Poi cambia tutto: “Se tu sapessi com’è terribile raggiungere tutta la conoscenza all’improvviso – come se un lampo illuminasse la terra! Ora vivo in un pianeta di dolore, trasparente come il ghiaccio. E’ come se avessi imparato tutto in una volta, in pochi secondi”. Segue uno sfogo molto umano: “Le mie amiche, le mie compagne si sono fatte donne lentamente. Io sono diventata vecchia in pochi istanti è tutto è diventato insipido e piatto. So che dietro non c’è niente, se ci fosse qualcosa lo vedrei…”. A 19 anni iniziava una via crucis.  

Lasciò gli studi di medicina  e si dedicò alla pittura, aiutava il padre fotografo nel ritoccare le fotografie,  un amico di famiglia l’aveva avviata al disegno. Nel 1927 conobbe Diego Rivera già famoso e introdotto nelle avanguardie europee, dopo averne seguito conferenze sull’arte al ritorno dalla Russia,  mentre era impegnato in dipinti che esprimevano, con il recupero della cultura pre-ispanica – lo spirito popolare post rivoluzione:  150  murales politici nei cicli “Lavoro” e “Fiestas”.  

Si sposarono due anni dopo, quando  lei aveva 22 anni, lui 43, con diversi matrimoni  falliti e tre figli, dando inizio a un rapporto intenso e tormentato da cambiamenti bruschi come le montagne russe. Arrivò a scrivere nel Diario: “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita… Il primo è stato quando un tram mi ha travolto e il secondo è stato Diego”.

La  madre di lei, contraria all’unione,  li paragonava all'”elefante e la colomba”,  con un’immagine che ne rende sia l’aspetto fisico che quello interiore; e come per la O’Keeffe e Stieglitz nel loro rapporto ci furono separazioni ed ebbero molti amanti: per Diego addirittura la sorella di Frida che quando lo seppe per reazione si mise con Leon Trotsky, che cadrà vittima del sicario di Stalin.

In mostra si vede  uno straordinario documentario in cui Trotsky conversa e scherza in giardino con  Frida e Rivera, che aveva ottenuto per lui l’asilo in Messico nel 1937 e lo ospitava con la moglie Natal’ja,  poi è ripreso mentre parla con in mano un libro sul processo di Mosca, infine mentre detta un testo alla dattilografa. Di fronte a questo filmato in bianco e nero ce n’è uno a colori su Frida e Rivera  in momenti distensivi; e un video con il commento di critici tra cui Achille Bonito Oliva.

L’esperienza americana, luci e ombre

Poco dopo il matrimonio, la prima esperienza negli Stati Uniti al seguito di Rivera protagonista di due grandi mostre a San Francisco e al MoMA di New York; lei dipinge in albergo in assoluta solitudine mentre è presa dal confronto tra la propria identità e il nuovo mondo che ha conosciuto. Scrive all’amica Isabel Campos nel maggio 1931: “Non puoi immaginarti quanto qui sia meraviglioso… La città è favolosa”.  Dice anche: “Mi ha fatto molto bene venire qui, perché mi ha aperto gli occhi e ho visto una quantità di cose nuove e fantastiche”. Il suo stile pittorico muta, si esprime con autoritratti nei quali sottolinea i contrasti, come quello tra sole e luna, metafora del rapporto tra uomo e donna, dolore e gioia; le piccole dimensioni sottolineano la ricerca interiore.

La solitudine si acuisce nel 1932 dopo  la morte della madre e uno dei ripetuti aborti a Detroit, che le ispira un dipinto sull'”Henry Ford Hospital”, dove è ricoverata, in mostra un disegno preparatorio con lei nuda su un letto molto simile a quello celebre dell’ “Apollinére” di Duchamp, qui non abbiamo la scherzosa trasposizione delle parole pubblicitarie  modificate, ma l’evocazione di un dramma. Del resto fu allora che vide per la prima volta le opere di Duchamp, essendo in contatto con i collezionisti californiani Arensberg amici del creatore dei “ready made”, tra l’altro sarà suo ospite a Parigi nel 1939. Entrambi hanno rappresentato, in forme diverse e inusuali, la sensualità dinanzi alla vita, Duchamp in “Mariée  mise à nu par ses Célibataires, meme”, del 1915-23, lei  in “La sposa si spaventa alla vista della vita aperta”, del 1943, riferito alla sposa di Breton, da lei amata.

Va ricordata che quando lascia gli Stati Uniti  dopo il  rifiuto di un murales di Rivera perché vi ha inserito un grande ritratto di Lenin, dipinge il quadro molto eloquente “Il mio vestito appeso là”.  

Nel secondo soggiorno a New York conosce Louise Nevelson, allora studentessa  di arte, che nel  1933 diventa  assistente di Rivera e viene ospitata in un appartamento sotto il loro; nello stesso periodo nasce un legame anche con George Grosz, di qui i collegamenti con correnti artistiche quali la Nuova Oggettività e il Realismo magico, oltre all’espressionismo di cui si dirà tra poco; Ortrud Westheider ne fa un’ampia analisi includendo  Alfred H. Barr Jr., direttore del MoMA,  Julien Levy, di una grande galleria sempre a New York, e il critico d’arte Wilheilm Valentiner.

La crisi esistenziale, la consacrazione espressionista

Il rapporto con Rivera è sempre più precario, il dolore e la sofferenza diventano costanti nella sua vita e nella sua arte. Torna in Messico nel 1934, l’unione con Diego è entrata in crisi  quando ha scoperto la relazione con la sorella Cristina, c’è la storia con Trotski nel 1937, il divorzio nel 1939 e nuove nozze nel 1940:  un’alternanza che la logora, torna la tempesta di sentimenti alla base della sua arte.

Scrive nel Diario che  “l’angoscia  e il dolore, il piacere e la morte non sono nient’altro che un processo per esistere”, e  anche “a che mi servono i piedi se ho ali per volare?”.  E nelle lettere a Leo Eloesser, il suo dottore: “Bellezza e bruttezza sono un miraggio perché gli altri finiscono per vedere la nostra interiorità”.  Eccola: “Ho provato ad affogare i miei dolori, ma hanno imparato  a nuotare. Il dolore non è parte della vita, può diventare la vita stessa”.

Esprime questi stati d’animo e sentimenti nella pittura. I suoi dipinti riscuotono l’ammirazione di Andrè Breton, in America  dall’aprile 1937 per conferenze e ospite di Rivera, come Trotski, con la moglie Jacqueline Lamba: le tre coppie fecero sei lunghi viaggi all’interno del Messico, di cui Breton poté apprezzare lo spirito popolare vicino al surrealismo, mentre lo scopriva nell’arte di Frida: “La sua opera, concepita nella totale ignoranza delle ragioni che  hanno potuto spingere me e i miei amici, sbocciava nelle ultime tele in pieno surrealismo”, scrisse, e ne promosse l’esposizione  facendone un’entusiastica recensione.

Nel 1939 le mostre a New York, alla Julien Levy Gallery, e poi a Parigi, salutate così da Breton: “Mentre ero in Messico, sentivo che non potevo pensare ad un’arte situata nel tempo e nello spazio in maniera più perfetta della sua. Vorrei aggiungere che non c’è nessun’altra arte più esclusivamente femminile; nel senso che, per essere più seduttiva  possibile,vuole disperatamente giocare ad essere assolutamente pura e allo stesso tempo assolutamente perniciosa. L’arte di Frida Kahlo è un nastro legato attorno a una bomba”.

E’ “seduttivo” lo sguardo dei suoi autoritratti quasi per ammaliare alla ricerca di comprensione e di aiuto, come è “perniciosa” la tristezza che gli autoritratti spesso trasmettono come specchio della sua condizione umana di sofferenza. Il tutto nell’unione tra arte e vita come espressione non solo delle sfortunate esperienze personali ma anche delle vicende storiche e sociali, del sentimento popolare e, non ultimo, delle sue intense letture nei lunghi periodi di solitudine e di degenza.

Espressioni personali e cultura popolare, fino alla visione cosmica

La aiuta la ricerca e l’uso di simboli e codici nei quali esprimere contenuti segreti, secondo gli antichi miti messicani in  cui trovava  ispirazione, dietro “le facciate apparentemente innocue e criptate” di cui parla la curatrice. In chiave fortemente intima e personale opera la fusione tra i propri sentimenti  e la cultura popolare impiegando colori e simboli tradizionali; e intercetta i movimenti culturali e le forme stilistiche della sua epoca, dal Pauperismo rivoluzionario e dall’Estridentismo sulla scia del Futurismo europeo, al Surrealismo fino al realismo magico nell’ultima fase. Anche perché ha conosciuto direttamente gli artisti della sua epoca, Duchamp e gli espressionisti, , Picasso e i cubisti,Van Gogh ed Ernst. 

Scrive Salomon Grinberg: “L’artista quasi sempre presenta se stessa al centro di rappresentazioni drammatiche che rimandano alle prove dolorose della sua vita. E’ un fatto, del resto, che la pittura di Kahlo – se la si vuole davvero comprendere – non può essere considerata separatamente dalla sua vita. Tuttavia, l’influenza pervasiva della cultura visiva dell’artista  non è meno importante ai fini della comprensione della sua opera”.

E non si tratta solo delle correnti artistiche da lei interpretate ed attraversate. Ancora Westheider contesta  “il contrasto stereotipato che vede in Diego Rivera il pittore di un mondo di ampi panorami sociali, e in Frida Kahlo, invece, un’artista confinata dall’handicap della sua malattia al piccolo  mondo dei ritratti di amici, degli autoritratti e delle natura morte”.

Tornando alla biografia, in America Peggy Guggenheim si interessa a lei e le organizza una mostra, diviene insegnante all’Accademia delle Arti, i suoi  pochi ma fedelissimi allievi si facevano chiamare  “Los Fridas”: lei priva di base accademica  li spronava a esprimere la propria personalità senza vincoli di stile o contenuto, ne nacquero opere che venivano inaugurate con grandi feste.

Sono di questo periodo dei ritratti molto espressivi di amici o committenti, seguiti da disegni politici cme la  “Statua  della Libertà”. C’è anche  una sublimazione verso la visione cosmica e la trascendenza, con immagini sempre più simboliche, senza la sua figura ma con tanti volti inseriti in composizioni vaste e complesse di sapore biblico con la dominanza astrale se non divina.. Viene premiato nel 1946 il suo quadro “Nucleo solar” o “Mosé”  che ricorda il murale “Creazione” di Rivera ma con motivi personali legati a sensi di colpa e paure degli aborti con ricerca di protezione.

Quando torna la sua figura è per mostrare che, pur nel sofferto isolamento, è cresciuta in autostima:  dopo 20 anni dall’unione con Rivera si sente  più importante, prima era schiacciata anche in termini artistici dal peso del celebre pittore di murales, l’elefante sulla colomba.

L’arte di Frida si segnala sempre più di valenza universale, in quanto espressione dei sentimenti perenni dell’umanità  nella solitudine dell’individuo dinanzi ai problemi esistenziali, mentre l’arte di Rivera era legata ai bisogni in chiave collettiva  del Messico rivoluzionario.

L’ultima fase della “Giovanna d’Arco dell’arte”

Nell’ultima fase della sua ancora giovane vita, l’inizio degli anni ‘50,  passa alle nature morte per esprimere loro tramite la sua inquietudine abbandonando gli autoritratti che ritiene sarebbero impietosi per il decadimento fisico che lei non vuole esporre  dopo tante forti immagini di fierezza, ma sceglie soprattutto l’anguria per la vitalità del suo rosso violento, come fece Renato Guttuso.

Siamo nel 1954, l’anno in cui muore  a soli 47 anni, ora la sua “casa blu” è un museo dove sono conservate le sue ceneri; Rivera la seguì nel 1957, a 71 anni, ed è sepolto a Città del Messico nella Rotonda delle Persone illustri: anche qui la loro diversa prospettiva, personale e intima per lei, pubblica e collettiva per lui.  Ma il Museo è visitato da mezzo milione di visitatori ogni anno per la dimensione dei suoi sentimenti individuali che hanno, ripetiamo, un carattere universale.

Achille Bonito Oliva la definisce “Giovanna d’Arco dell’arte” e conclude così il suo ritratto critico dell’artista: “Sismografo del cuore spinato è stata la pittura per Frida Kahlo. E mai strumento di rilevamento ha restituito alla vita e tanto risarcito quanto in questo caso. Per colpa degli altri e per merito della Bella. Tu bella e nostra Frida! Sacro cuore e muschio di nuova vita iconografica. Mai più sola. Con me per sempre”.  La nostra visita inizia con queste parole, la racconteremo presto.

Info

Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Da domenica  a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30, non c’è chiusura settimanale, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50. Tel. 06.39967500; http://www.scuderiequirinale.it/. Catalogo “Frida Khalo”, a cura di Helga Prignitz-Poda,  Electa, 2014, pp. 192, formato 28 x 30, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Per gli artisti e le correnti cui si è fatto riferimento, cfr. i nostri articoli in questo sito sulle mostre di  Marcel Duchamp il 16 gennaio 2014, di Louise Nevelson il 25 maggio 2013, di Renato Guttuso il 25, 30 gennaio 2013, dei Cubisti, 16 maggio 2013, di  Giorgio de Chirico il 20, 26 giugno e 1° luglio 2013, del Guggenheim il 23, 27 novembre e 11 dicembre 2012; e in “cultura.inabruzzo,it”  i nostri 2 articoli sulla mostra di Georgia O’ Keeffe il 6 febbraio 2012, dei Surrealisti il 6, 7 febbraio, nonché 1° dicembre 2010  nell’ambito della mostra “Teatro del sogno” di Perugia, di Van Gogh il  17, 18 febbraio 2011, di Giorgio de Chirico l’8, 10, 11 luglio 2010, nonché 27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009, di Picasso il 4 febbraio  2009. Cfr. in questo sito gli altri due nostri articoli sulla mostra, “Frida Kahlo, Autoritratti iconici e non solo, alle Scuderie” e “Frida Kahlo, opere su carta e non solo, alle Scuderie”, che saranno pubblicati il 12 e 16 aprile prossimi, e nel sito specializzato http://www.fotografarefacile.it/. il nostro articolo “Roma. Frida Khalo in 33 foto nella mostra alle Scuderie”, aprile ’14.

Foto

Le immagini sono state in parte riprese da Romano Maria Levante nelle Scuderie del Quirinale alla presentazione della mostra, in parte fornite dall’Azienda speciale Expo che si ringrazia con i titolari dei diritti. In apertura,  “Autoritratto con scimmie”, 1943; seguono “Autoritratto con vestito di velluto”, 1926, e  “Vetrina in una via di Detroit”, 1932;  poi “Ritratto di una signora in bianco”, 1929, e “Bimba thuacana Lucha Maria” o “Il Sole e la Luna” o “Donna con mantellina”, 1942;  quindi “La sposa che si spaventa vedendo la vita aperta”, 1943, e “Ritratto di Natasha Gelman”, 1943; in chiusura, di Diego Rivera, “Ritratto di Natasha Gelman”, 1943.