Provincia di Roma, i 12 itinerari consolari

di  Romano Maria Levante

Nel Convegno tenuto a Roma al Tempio di Adriano il 12 maggio 2011 – tavola rotonda moderata da Maria Concetta Matteidella Rai – è stato presentato il volume riccamente illustrato  “Tesori lungo le vie consolari romane. Storia, arte e paesaggio nella provincia di Roma” curato da Provincia, Camera di Commercio e “Civita” – nel quale, oltre a cinque  saggi sugli aspetti generali, è contenuta una ricognizione dei dodici itinerari sulle vie consolari, con testi e fotografie di Fabrizio Ardito.

Degli aspetti generali si è parlato nella tavola rotonda tra gli autori dei saggi riportati nel volume, aperto dallo scritto introduttivo di Franco Cardini, “ sulle vie consolari tra storia e archeologia”: dalla Campagna Romana tra paesaggio e storia alla scoperta dell’altra Roma nel paesaggio agrario e naturale; dalle origini della tradizione gastronomica romanesca ai viaggiatori delle vie consolari nel terzo millennio.  Insieme a questi saggi di interesse culturale, il  corpo del volume è costituito dalla descrizione dei dodici itinerari  consolari, oltre all’affresco di un ambiente ricco di preesistenze e di attrattive storiche e ambientali: una guida preziosa per il turista esigente e avveduto.

Insieme al volume sono stati presentati l’applicazione iPhone, scaricabile gratuitamente da AppStore, che consente di personalizzare la visita per temi;  e il sito web www.tesorintornoroma.it  ricco di testi descrittivi, fotografie  e video per i singoli itinerari, mappe e funzioni interattive con la possibilità di fornire contributi, commenti, segnalazioni,  e condividerli nei social network. . Ne parliamo nella rivista consorella cultura.inabruzzo.it,, in  un ampio servizio sul Convegno  citato.

La conoscenza dei dodici percorsi descritti accuratamente, uno per uno, dall’autore dei testi è  arricchita da schede con analizzati i “tesori” che si trovano lungo gli itinerari; e da un prezioso corredo iconografico con  ben 150 fotografie, di cui 35 a pagina intera,  tra le quali inquadrature di notevole pregio artistico. Testi e fotografie sono opera pregevole di Fabrizio Ardito, in un’efficace associazione tra parole e immagini nello stesso autore che crea continuità tra i due momenti della comunicazione: le “mille parole” del commento e l’immagine che ne fissa subito i passi salienti. 

Nel leggere i testi – che sono scritti con l’immediatezza e la vivacità del viaggiatore appassionato – ci si sente associati nel “viaggio”, come in una caccia  al tesoro che offre sempre sorprese e novità. Ed è come se si prendesse un taccuino per leggere gli appunti sulle sensazioni provate, con in più i risultati di ricerche storiche; e nello stesso tempo si frugasse nelle  fotografie scattate nel “viaggio”.

Degli “itinerari di Fabrizio Ardito”  sulle vie consolari  i titoli fissano i momenti centrali dei singoli percorsi  rendendone già il fascino. Si percorre la via Flaminia “lungo il biondo Tevere”  fino a Sant’Oreste, per 84 km. Lungo la via Cassia si va “a nord, nella terra del tufo” fino a Mazzaro Romano per 105 Km. La via Claudia Braccianese conduce “in Etruria, sulle rive del grande vulcano”, sono 86 km fino ad Allumiere.

Lungo la via Aurelia si incontrano “le necropoli e il mare della via costiera”, in 140 km si è a Civitavecchia; inutile precisare che “lungo la via dei porti imperiali” c’è la  via Portuense, 25 km fino a Fiumicino.  “Tra dune e pineta” la via Severiana in 63 km conduce da Ostia a Torre Astura, l’unico itinerario che non inizia da Roma ma dal suo antico porto. “La strada delle origini di Roma”, la via Ardeatina, in 44 km porta ad Ardea, la accostiamo idealmente  alla “Regina delle strade romane”, la via Appia,  63 km fino a Velletri. “Tra boschi, torri e castelli” corre la via Latina che dopo 93 km sbocca a Segni, mentre la via Prenestinasi snoda “tra i monti, verso i confini del Sud” fino a Valmontone per 108 km. Le strade percorse storicamente dagli abruzzesi per raggiungere Roma completano gli itinerari: la via Tiburtina, “ai piedi dell’Appennino”, porta a Subbiaco in 137 km, e la via  Salaria con la Nomentana“dalle catacombe romane ai colli e agli olivi della Sabina”, 120 km fino a Mentana, Palombara Sabina, Nerola e Monterotondo.

I dodici itinerari raccontati con le immagini

Dai titoli passiamo ai contenuti attraverso le immagini. La nostra Photo Gallery intende far compiere un suggestivo viaggio virtuale come premessa al viaggio reale che il lettore vorrà fare in questi o in altri itinerari dove le preesistenze storiche e artistiche sono immerse in un ambiente affascinante. Sono  immagini quasi tutte contenute nel volume citato, tra le 150 totali;  alcune, però,  non vi sono comprese, ma fanno parte anch’esse della ricca galleria di Fabrizio Ardito.

Inizia con il definire le strade consolari “vie del passato, che ancora oggi disegnano la geografia dei dintorni di Roma” e spiega che  “il percorso storico è servito da traccia e da ispirazione”, permettendo di accostarsi “al tracciato originario, con le sue stazioni di sosta, le sue mete, le innumerevoli cittadine romane sorte a fianco del fluire del traffico dell’antichità”. Ed è proprio questo il filo conduttore del suo racconto, la scoperta “in itinere” di siti e ambienti. Di qui, per ogni via consolare con il territorio che attraversa, un’attenta descrizione ambientale e topografica accompagnata da una ricostruzione storica documentata,  anche con  apposite schede soprattutto per le preesistenze artistiche. La descrizione dei singoli itinerari è seguita dalle origini della via, viene voglia di ripercorrerli seguendo passo passo il volume, magari con  l’iPhone: dove sono “in palmo di mano”, accessibili in modo virtuale anche con la personalizzazione voluta  per temi, come è stato spiegato nel Convegno per il quale abbiamo rinviato all’apposito servizio su cultura.inabruzzo.it.

Pur nella forma didascalica e descrittiva che entra  nei particolari  più minuti, si avverte la passione del viaggiatore. Potremmo definirlo “Il viaggio in Italia”, sulle vie consolari romane di Fabrizio Ardito, lo immaginiamo riposarsi come Goethe nel dipinto di Tischbein  – esposto di recente tra i “Cento capolavori” della mostra al Palazzo delle Esposizioni di Roma – con sullo sfondo i ruderi e gli insediamenti nella campagna romana,  che sono il fondale anche del suo affresco ambientale.

Una guida alle immagini della Galleria, che non sia una successione di fredde didascalie, ci sembra essere la citazione del loro contenuto in una sequenza che sia un racconto di scoperte e di emozioni.

Ecco la via Flaminia, vediamo l’Eremo di San Silvestro  a Monte Soratte sotto un cielo nuvoloso e la campagna sullo sfondo,  e poi Castelnuovo di Porto che a dispetto del nome è su un cucuzzolo.  Incalza la vicina Via Cassia, con il borgo dell’Isola Farnese, che ha il fascino delle stampe di “Roma sparita”  e le “chiare, fresche e dolci acque” della  cascata di Monte Gelato nellaValle del Treja, Acque altrettanto chiare, fresche e dolci quelle  del Lago di Bracciano, sulla via Claudia Braccianese,  che offre anche un orizzonte di rilievi sovrastati  da nuvole simili a veli misteriosi, sono i monti della Tolfa, dove ci si inerpica verso l’insediamento suggestivo della rocca Frangipane. Altrettanto arroccato il borgo di Ceri, una frazione di Cerveteri sulla via Aurelia,  mentre a Santa Marinella, il castello di Santa Severa, con la sua torre sul mare, non ha l’aspetto arcigno dei cupi manieri. Troviamo l’acqua anche sul percorso della  via Portuense, ed è a Fiumicino, nel bacino dell’antico Porto di Traiano, con pini e un volo radente di bianche ali,  e una strada lastricata a servizio del bacino ci ricorda le origini romane. Ancora il mare con  la duna costiera sulla  via Severiana, nella  tenuta presidenziale di Castelporziano che comprende  riserve di caccia, aree agricole e pascoli; più avanti il Forte Sangallo a Nettuno, un maniero dalla struttura poderosa.

Sulla via Ardeatina si incontra l’Acropoli di Ardea, di cui vediamo la porta delle mura, poi il paesaggio intorno al borgo, un suggestivo scorcio di campagna romana. La via Appia cattura subito l’attenzione con il basolato romano, sull’Appia antica ne sono rimaste consistenti preesistenze; l’antichità è evidente anche nella fontana di Nettuno a Marino, mentre la natura torna con il panorama del lago di Nemi e uno scorcio dell’itinerario escursionistico di Montecompatri nel parco dei Castelli Romani.  Dal parco naturale al parco archeologico che si trova a  Frascati, sulla via Latina,  vediamo le scalee a semicerchio del teatro romano di Tuscolo; sempre a Frascati ecco Villa Aldobrandini. Ben diversa ma altrettanto spettacolare l’abbazia di San Nilo a Grottaferrata con le sue fortificazioni, mentre torna il fascino ambientale con Pian della Faggeta dei monti Lepini. Una cattedrale anche sulla via Prenestina,  è quella di Sant’Agapito a Palestrina,  c’è anche  una veduta del borgo addossato alla collina con in vista le preesistenze romane, è sorto sui resti del santuario della Fortuna Primigenia. La galleria di questo itinerario comprende anche  un castello, quello di Passerano a Gallicano, e una fortezza, quella di Castel San Pietro Romano, un  borgo medioevale, San Gregorio da Sassola,  e una “sala del trono”, però nulla di imperiale, fa parte del museo del giocattolo di  Zagarolo.

Le ultime due vie consolari le percorrevano gli abruzzesi per raggiungere Roma, dai piedi dell’Appennino,  prima dell’autostrada.  La via Tiburtina ci fa vedere la neve nei Monti Simbruini, con lo sci di fondo a Vallepietra, poi ci regala due visioni suggestive, per motivi opposti: il  Ponte di San Francesco a Subbiaco, un angolo intimo e raccolto, e il borgo di Vicovaro con la chiesa di San Pietro Apostolo, imponente come un castello che domina con i suoi due campanili e la sua vasta estensione l’ambiente circostante, sebbene sia sotto un costone che sembra quasi proteggerla. La via Salaria, con la Nomentana, mostra anch’essa una grande chiesa, è l’abbazia di San Giovanni in Argentella  a Palombara Sabina, immersa nell’ambiente senza dominarlo; e anche un maniero, il castello Orsini a Nerola con la torre merlata e le mura impenetrabili senza finestre; poi il Ponte Nomentano e il basolato dell’antica via Nomentana. Ci riportano a Roma, la Capitale, la Città eterna dove “conducono tutte le strade” e da dove iniziano i dodici itinerari descritti dalle fotografie. 

La  galleria di imagini le riporta nella loro immediatezza. Sono opera di Fabrizio Ardito al quale si devono anche i testi che descrivono i percorsi delle vie  consolari negli aspetti storici, artistici, ambientali con molta attenzione alla topografia e alla logistica. Le immagini li illustrano con efficacia, il nostro servizio su cultura,inabruzzo.it inquadra i problemi e le prospettive discussi nel Convegno al Tempio di Adriano, il volume citato all’inizio descrive il viaggio di Fabrizio Ardito anche con le sue parole; oltre alle fotografie che ha scattato, l’iPhone con il software della Provincia offre un viaggio virtuale con personalizzazione anche tematica, molto utile per chi voglia andare “a caccia” dei tesori della provincia di Roma; un apposito sito internet completa la disponibilità per gli interessati di strumenti tradizionali e di strumenti avanzati, non manca nulla.

E’ una dovizia di opportunità per gli appassionati, un modello innovativo esemplare per tutti.

Info

Cfr. in questo sito il nostro articolo per il Convegno sui  “Tesori” della Provincia di Roma il 29 luglio 2013. 

Foto

Le immagini sono state fornite dallAssociazione “Civita” che si ringrazia, con i titolari del diritti, precisamente  Fabrizio Ardito al quale va uno speciale ringraziamento essendo l’autore di 29 delle 36 foto forniteci tra le quali ne abbiamo selezionate 12, una per ogni itinerario consolare.Questa la successione delle immagini: in apertura, Appia Antica; seguono Flaminia e Cassia; poi Claudia-Braccianese e Aurelia; quindi Portuense e Severiana; inoltre Ardeatina ed Appia; ancora Latina e Prenestina; in chiusura, Tiburtina.

Ducrot, l’arte nelle Bende sacre, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dal 4 marzo al 18 maggio 2014 la mostra di Isabella Ducrot, “Bende sacre”, 40 lavori di cui 18 su seta tibetana, 14 trasposizioni su carta con Luciano Trina, e le 14 matrici di bende originali. La mostra, con il Catalogo Gangemi,  è curata da Marcella Cossu e Silvana Freddo. In contemporanea nella stessa Gnam, le mostre“Ventisette artisti e una rivista” con l’esposizione delle copertine artistiche create nei primi anni ’90 per il periodico Mass Media, e “Interni d’artista”,  con la ricostruzione degli studi di 7 artisti italiani del ‘900. Non è tutto, è stata inaugurata anche l’installazione “Filo Rosso” di Paola Grossi Gondi  e prosegue la mostra “Scultori italiani dopo Rodin”. Un “en plein”  veramente straordinario

Non è la prima volta che vediamo dei tessili esposti, ricordiamo la mostra  “Antichi telai” con i tessuti sacri e polittici per i rituali delle chiese cristiane, nelle varie scuole e scelte stilistiche, dalla romana e napoletana alla siciliana, il cui effetto era spettacolare con gli ori, gli argenti e i rubini.

Questa volta abbiamo le “Bende sacre”, sciarpe votive tibetane dall’effetto semplice e dimesso, raccolte in Cina e nel Tibet dall’artista,  divenutane studiosa. Per Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Gnam,  sono “tessuti ridotti ai minimi termini, al puro e semplice incrocio fra la trama  e l’ordito prima ancora che il telaio lo riconducesse alla regolarità geometrica”.

Non vengono esposte tal quale, ma sono la matrice di due operazioni diverse: la prima, di valenza pittorica, è consistita nel sovrapporre loro degli “orbicoli”, forme circolari ed ellittiche, la seconda, di valenza tecnologica, è consistita nel tradurne il tracciato su carta mediante la trasposizione grafica delle fragili fibre naturali insieme a Luciano Trina.  La sacralità è nei fili tessili, al naturale o in grafica, che hanno la stessa funzione dei grani nel rosario cattolico.

La Ducrot non è pervenuta alla trasposizione artistica in base a percorsi mistici o ideologici ma per il proprio interesse ai tessuti e per il fatto di aver conservato le vecchie “Katha”, la sciarpa tibetana distribuita ai pellegrini prima dell’incontro con il grande saggio al quale la donano  “in cambio di uno sguardo, un sorriso, un ringraziamento, un sussurro, una rassicurazione, una benedizione”, come scrive John Eskenazi rievocando un’esperienza personale; e aggiunge che nei suoi soggiorni himalayani le sciarpe lo hanno accompagnato dovunque,  “costante, tangibile, silenziosa presenza del rito, della devozione, della sottomissione, dell’accettazione  e comprensione del divino”. 

Per questo  le sciarpe più vecchie, fragili e impolverate “sono preghiere, suppliche, il sacrificio della propria identità nella speranza dell’ascolto della divinità”, e  sono proprio le sciarpe utilizzate dall’artista per esprimervi la propria arte come il pittore su una tela che qui è di alto valore mistico.

Motivazioni e modi di questo suo intervento fuori del comune non possono che essere rivelati dalla stessa artista, e lo fa nel corso di un ampio dialogo con Marcella Cossu, una curatrice della mostra.

I tessuti nella visione dell’artista 

Alla base delle sue opere c’è l’interesse per il tessuto in generale, prima che per “quel” tessuto, come si vede nella raccolta dei suoi scritti precedenti sul tema pubblicata nel  2008,  “La matassa primordiale”.  In questi scritti, partendo dalla persistenza nel tempo della composizione tra ordito e trama, svolge una serie di considerazioni dal mito alla filosofia, dall’antropologia all’arte.

Il tessuto è la metafora dell’anima dell’universo e della creazione con il “bing bang” iniziale in una sequenza come quella tessile in cui l’ordito precede la trama alla quale segue il tessuto. Le piace l’immagine – tra fantasiosa e leggendaria – della divinità “unica e assorta in sé” che rovesciando la testa sparse a raggiera nello spazio i lunghi fili dei suoi capelli; ciò che vagava nell’atmosfera si unì alla chioma, era l’ordito che con la trama creava il tessuto, da considerare il principio della creazione e il cosmo “tessuto in espansione”.  Nello “spirito del tessuto”  vede il soffio vitale in un sincretismo tra pensiero orientale e occidentale, tra spiritualità antica e sensibilità moderna.

All’interesse intellettuale e culturale si è aggiunto il collezionismo di stoffe dell’Asia e America Latina per il fascino delle origini remote del tessuto, le cui testimonianze risalgono al neolitico, i frammenti più antichi a diecimila anni fa. La cosa sorprendente è che in tempi così remoti si fosse concepito un lavoro ben più complesso dei gesti naturali dai quali sono nati gli oggetti di uso quotidiano: infatti  si dovevano contare  i fili, dividere l’ordito, inserirvi la trama, distinguere gli elementi orizzontali e verticali: “E’ un miracolo che si sia potuto realizzare da tempi così antichi qualcosa il cui procedimento di esecuzione è per di più rimasto inalterato nei secoli. Il tessuto, infatti, non può che essere e restare quello che è: un insieme elementare di incroci”. L’esigenza di coprirsi nasce con quella di alimentarsi, così nelle più antiche abitazioni si cucinava e si tesseva, una volta superata la fase primordiale dell’uso delle pelli degli animali uccisi.

Il colloquio dell’artista  con la curatrice apre un mondo sconosciuto e affascinante. Il tessuto viene raffrontato al linguaggio, Platone diceva che “i nomi separati dai verbi non arrivano  a formare una frase, così come l’ordito disgiunto dalla trama non è ancora un tessuto”;  e sottolineava l’analogia dell’ordito con il carattere maschile e della più cedevole trama con il carattere femminile. Ma soprattutto l’artista insiste sulle sensazioni date da un qualcosa “che potrebbe benissimo anche essere di ottomila anni fa, perché tecnica e struttura non sono cambiate nel modo più assoluto, e già questo è emozionante”; altra emozione viene dal fatto che  “noi vi conviviamo nel modo più intimo possibile, è la nostra ottava pelle, non ce ne separiamo mai dalla nascita alla morte”. Il tessuto è per noi coesistenziale e scontato come il respiro. “Si potrebbe dire in fondo che siamo diventati umani nel momento in cui abbiamo avuto questa copertura”.

E’ evidente che questa alta considerazione del tessuto doveva sfociare nell’arte, in un modo coerente con il rispetto che prova per questo “miracolo” dell’operosità umana. Negli anni ’80 fa i primi “collage” con i tessuti in modo da “onorarne la struttura” , oggetto di interesse fino alla meditazione,  senza tagli e manomissioni di alcun genere. Poi la collezione di tessili dell’Oriente

L’intervento artistico sulle bende sacre tibetane

Le “bende sacre” portano al diapason questi motivi: “Il mio interesse è nato dal loro carattere estremo; la loro consistenza è al limite fra l’esserci e il non esserci, non hanno alcuna decorazione. E’ stato un cammino graduale verso l’essenziale, la rarefazione, l’assoluto. Perché, certo, meno di quel che c’è, in queste ‘Bende sacre’ non ci potrebbe essere”.

Così entriamo più da vicino nell’oggetto della trasposizione artistica di questi materiali così evocativi, che vengono dalle bancarelle del Tibet nei territori dei monasteri buddhisti, utilizzate in passato come ex voto, preghiere e decorazioni di statue votive. Acquistate e messe in un cassetto, come molti souvenir di viaggio, l’interesse crescente per il tessuto le ha fatte riemergere dall’oblio e diventare matrice preziosa per la trasposizione artistica della loro essenzialità quasi immateriale.

Tanto immateriale che viene l’assimilazione con la preghiera, il cui carattere è ritmato come trama  e ordito: la litania e la giaculatoria in occidente, il mantra in oriente, lo stesso carattere ripetitivo e ritmato della tessitura, nel corso della quale, tra l’altro, non mancavano cantilene.

L’intervento dell’artista, a differenza dei suoi primi lavori sui tessuti, non è stato conservativo, tutt’altro: “Effettivamente ho violato queste ‘bende’, perché le ho tagliate, unite, usate quindi con una certa brutalità”, e questo uscendo dal loro campo “per consentirmi di immaginare un qualcosa di diverso, usandole ai miei fini, che sono pittorici”. E la pittura irrompe con gli elementi tondi o ellittici sovrapposti, anche con il colore oro o rosso, per i quali il tessuto è un supporto prezioso.

Ma c’è un altro supporto, la carta, usato per l’altra operazione i cui risultati sono anch’essi esposti, la trasposizione delle fibre in grafiche tecnologicamente ottenute: La carta  è una pasta  che “non ha in sé la complicazione della ‘battaglia’”. E il tessuto? “Esso è l”agguantatore dello spirito’, perché via via che si forma si costituiscono tante  e tante caselle depositarie di ‘quella cosa che non ha nome’, forse l’anima”. Con il succedersi di vuoti e pieni “due elementi essenzialmente eterogenei  vengono a convivere e producono qualcosa comparabile al respiro incarnato”.

In Oriente la considerazione dei tessuti è molto maggiore che in Occidente, ci sono musei riservati ai tessuti, anche se le sciarpe votive buddhiste  non hanno nulla della spettacolare ricchezza dei paramenti liturgici occidentali che abbiamo potuto ammirare nella mostra “Antichi Telai” citata all’inizio.  Le “bende sacre” sono state considerate dall’artista “come possibile materia prima da  cui partire per realizzare delle immagini di preghiere universali”. Una materia divenuta preziosa perché con il turismo di massa la tessitura a mano ha lasciato il posto a quella industriale, come alle fibre naturali si sono sostituite quelle artificiali, rendendo i tessuti di un tempo reperti preziosi.

Gli interventi pittorici

Sono esposti 40 lavori dell’ultimo quinquennio, ma il suo percorso artistico attraverso questi tessuti risale nel tempo. Di Castro nel 1985 scriveva che “il lavoro di Isabella Ducrot attesta una progettualità continua che non si realizza nel disegno, ma nella scelta e accumulo dei materiali, le stoffe, raccolta che accompagna il corso della sua vita rispondendo di quantità sensorie, di timbri cromatici e luminosi, di trame diverse. Il nostro tempo insieme ad altre poche e culture , preziosità e povertà, il sentimento persino del ‘domani’ sono contenuti nelle stoffe prescelte”.

Ecco le 18 pitture su seta tibetana, e  14 incisioni su carta con Luciano Trina con altrettante  bende originali che ne sono state matrici. Le “Bende sacre” sono ciascuna contrassegnata da un numero.

Sei sono del 2011, 4 su fondo chiaro con ovali o cerchi verde scuro o rossi, una su fondo rosso intenso con ovali chiari, è la n. 2, e il “Trittico di Ipazia”, dedicato alla scienziata martire dell’intolleranza. Nel 2012 “Preghiera”, nel 2013 5 opere, 2 con ovali contornati ma chiari come il fondo, 2 con ovali di un verde intenso, in uno fondo chiaro, nell’altro marroncino con un contorno reticolare, quindi una “benda”verticale quasi in dissolvenza; 3, infine, nel 1914, che ripetono gli ovali contornati come il fondo e a tinta piena più intensa del fondo ma dello stesso colore.

Abbiamo cercato di descriverli,  ma come si può rendere atmosfera mistica e misteriosa che creano?

La trasposizione su carta

L’altra operazione artistica, quella della trasposizione su carta, viene così descritta dal coautore Luciano Trina: “La prima cosa che mi colpì fu la partecipazione rituale di Isabella che, nel dipanare questo ordito, nel ridistendere questa trama sul foglio di carta, nel ridargli forma sfidando la sua fragilità, mi apparve come coinvolta dalla stessa partecipazione devozionale di chi aveva eseguito quei lavori al telaio, non un semplice lavoro di tessitura, ma un preghiera, un ex voto che superava la stessa materialità”.  E’ la sensazione di immaterialità che abbiamo trovato nelle “bende sacre”.

Il tecnico si trova di fronte a un’esperienza nuova rispetto a quelle precedenti di imprimere sulla lastra il “Tutto Pieno”, fosse anche un tessuto:  “Ora, invece, avevamo di fronte il Tutto Vuoto, Isabella ridisegnava quel vuoto per sottrazione. ‘Meno più meno’, la somma del vuoto contemporaneo sommato a un vuoto arcaico. Una trama e un ordito sottilissimi, grandi vuoti racchiusi da sottilissimi pieni, che lanciavano la sfida all’occhio analogico, alle tecniche calcografiche tradizionali”. Trina la raccoglie utilizzando la tecnica digitale: “Solo con uno scanner si poteva tentare di catturare il vuoto sfuggente come l’essenza reale, vera del nostro soggetto”.

A differenza della tessitura basata sul “primato del tatto, la sua rappresentazione si basa sul “primato della vista”, ma una vista commisurata all’oggetto, “che veda oltre l’apparenza, un occhio immaginativo, consapevole che, come sempre,  l’osservatore è parte dell’opera ed è il suo occhio che completa l’opera dell’artista”.

La modernità della trasposizione digitale si sposa con l’utilizzo di carte leggerissime per rendere l’immaterialità del soggetto, “costruite artigianalmente foglio per foglio”; quindi imperfette quando il digitale le richiede perfette ma, conclude Trina, va bene “perché senza qualcosa di errato, e di nascosto, il perfetto non c’è”. Ma proprio così l “arcaicità della carta” rende l’opera senza tempo.

Sono  numerate, costituite da tessili tibetani e stampe digitali su carta japan, sono esposte in successione, creano un’atmosfera di leggerezza con i fili leggerissimi soprattutto verticali con larghi spazi e poche trame orizzontali, salvo “katha 5”, solo in orizzontale, e “Katha 6”,  la stampa digitale di una “benda sacra” su cui la artista ha dipinto i suoi cerchi ellittici.

Vediamo nella realtà ciò che Trina ha descritto, cioè l’impressione dei vuoti piuttosto che dei pieni. L’immateriale è reso visibile, il massimo che si può chiedere all’arte come alla scienza.

Il ritorno alla realtà tangibile nell’immaterialità dell’arte

Si torna alla  realtà tangibile nelle altre due mostre presentate contemporaneamente, mentre nel percorso, come sempre,  si attraversano le sale del Museo: un’esposizione permanente di fascino straordinario per l’importanza delle opere presenti, con tutti i maggiori artisti  e i loro capolavori. Abbiamo detto altre volte che si rischia la “sindrome di Stendhal”, e non è un’esagerazione.

Questa volta  c’è anche uno spazio notevole riservato alla scultura con la mostra “Scultori italiani dopo Rodin”  contemporanea alle tre appena inaugurate. Dalle “Bende sacre” si passa così al marmo e al bronzo,  maggiore contrasto nei materiali non potrebbe esserci: ma in forme diverse per non dire opposte  l’immaterialità dell’arte riafferma la sua forza espressiva ed evocativa.

E’ una sacralità che trova nella Gnam il suo teatro incomparabile, per la “total immersion”  nel miracolo dell’arte.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, viale delle Belle Arti, 131. Da martedì a domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45), lunedì chiuso: ingresso mostra-museo, intero  euro 12, ridotto euro 9,50. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/  Catalogo: Isabella Ducrot, “Bende sacre”, Gangemi Editore, febbraio 2014, pp. 48, formato 24 x 22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la mostra citata nel testo cfr. il nostro articolo in “cultura.inabruzzo.it”  “Antichi Telai, i tessuti d’arte tra eternità e storia”, 3 luglio 2009.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria con l’organizzazione e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura e nelle tre immagini che seguono, le “Bende sacre” dipinte contrassegnate da un numero d’ordine, realizzate tra il 2011 e il 2014; nella quarta immagine le stampe digitaali, “Katha” anch’esse contrassegnate  da un numero d’ordine; in chiusura, la facciata della Gnam con i festoni delle mostre in corso, citate nel testo. 

Bruschini, uno Chagall in bianco e nero, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Una nuova mostra, “Self Shaping Paintings”  di Lorenzo Bruschini, alla RvB Artsdal 27 febbraio al 22 marzo 2014, all’insegna dell’“Accessible Art”.  E’ la formula originale che Michele Von Buren – appassionata animatrice della galleria, organizzatrice e curatrice della mostra –  utilizza da tempo per allargare il raggio d’azione dell’arte contemporanea facendola accogliere nelle case della gente e sostenendo la creatività degli artisti. Si basa sulla selezione di opere di artisti di oggi  “sostenibili” perché in linea con la sensibilità delle persone comuni, quindi in grado di far parte dell’arredamento, e perché economicamente accessibili a un prezzo opportunamente contenuto.

Accessible Art, la sfida di Michele Von Buren

Abbiamo già sottolineato in occasione delle mostre precedenti di  RvB Arts questi aspetti che le rendono  meritevoli di speciale apprezzamento come veicolo per allargare i limiti sempre troppo ristretti nei quali l’arte contemporanea è confinata e quindi per alimentare e sostenere la creatività artistica soprattutto dei giovani. Ma ogni volta riteniamo doveroso sottolineare l’attività instancabile della Von Buren per tale meritoria iniziativa. Nelle due sedi espositive – quella principale in Via delle Zoccolette,  e l’altra in via Giulia presso l’Antiquariato Valligiano – le opere spiccano tra pregiati pezzi di arredamento, anch’essi in vendita a prezzi accessibili, così si può avere un’idea  dell’inserimento nei contesti abitativi, e si può fare anche l’accoppiata di acquisto quadro-mobile.

Michele Von Buren può contare su  una “scuderia” di quasi 40 artisti, 19 pittori, 4 scultori e  13 fotografi, in grado di presentare a rotazione le loro opere in un rinnovamento nella continuità che ne rappresenta un altro elemento caratteristico. Ormai ci si affeziona ai suoi protagonisti, che non spariscono anche se la mostra in corso non riguarda più loro; alcune opere restano nel retro delle sale espositive oppure tra quelle esposte, quasi a voler ricordare che nulla vi è di occasionale e transitorio, ma c’è una base solida e persistente. Visitare la mostra è come tornare tra amici che si desidera rivedere, ritroviamo i grandi dipinti da “album di famiglia”, tra l’ingenuo e l’inquietante,  di Christina Thwaites e le sculture imponenti o minuscole in materiali  di risulta di Alessio Deli, quelle bianche e sottili di Lorenzo Gasperini e la testa totemica di Janice James, gli allegri cani variopinti di Maito e le figurette di Roberto Fantini, poi altri ancora.

La mostra  natalizia “Christmas Tales” con 15 artisti

Per questo motivo,  prima di parlare della mostra in corso vogliamo ricordare quella che si è svolta dal 5 dicembre 2013 all’11 gennaio 2014, “Christmas Tales”, 15 artisti ispirati alle favole di Hans Christian Andersen,  la settima della serie da noi seguita, nella tradizione natalizia che l’anno prima aveva  presentato la mostra “Christmas Collection”.  Il favoliere danese ha collegato le novelle alla poesia con queste parole poste a sigillo della mostra di Natale 2013: “Nel regno intero della Poesia, nessuna terra è così sconfinata come quella della fiaba… per me rappresenta tutta la poesia”.

Abbiamo visto all’inaugurazione del 5 dicembre 2013, pitture e sculture, disegni,  collage e fotografie ispirate a favole, alcune ben identificate nei titoli. Come “La Sirenetta” che ha ispirato ad Alessio Deli un’opera diversa da quelle a lui consuete fatte di materiali poveri di risulta,  nobilitati da un’arte che produce figure scultoree dalla modernità contemporanea e insieme dall’imponenza statuaria di marca classica. Mentre ci preparavamo a confrontare la sua prevedibile scultura  alla “Sirenetta” che ci ha affascinato per la sua tenerezza intrisa di solitudine sul molo di Copenaghen, abbiamo trovato invece un’opera pittorica, una figura vista di schiena deliziosa e tenera.  Del resto Deli affianca dipinti a sculture, ma per lo più con una ruvidezza pari a quella dei materiali di risulta, qui ci ha sorpreso con un’opera su carta intensa e raffinata, espressiva della delicatezza del tema.

Roberto Fantini, l’altra presenza costante, espose “Con tutta me stessa”, quadro simbolo di quella mostra, l’immagine di favola è la ragazza su un velocipede d’epoca e un lungo strascico cromatico che parte dai capelli. E abbiamo ritrovato Lucianella Cafagna e Maiti, espressioni e mondi lontani, la prima con l’infanzia dai controluce di sogno o pitture luminose, il secondo con animali colorati.

Oltre loro nel segno della continuità, anche tante “new entry” nel senso del cambiamento: Cornelia Badelita e Justin Bradshaw, Alessandra Carloni e Laura Fo, Giulia Lanza e Vera Rossi, Alessandra Morino e Fabio Xena. Poi Jane Marie Petersen, che interpretò  la favola “Mignolina” con un volo di rondine su un arabesco colorato.

Abbiamo lasciato per ultime le citazioni di Alvaro Petritoli con “La Regina delle Nevi”  e di Lorenzo Bruschini con  “A piedi nudi nel vasto mondo”, perché  ci consentono di collegarci alla mostra attuale. Il primo in quanto la sua opera ha lo stesso titolo di una delle opere di Bruschini, il secondo per  ovvi motivi, tanto più che ritroviamo esposta l’opera presentata a Natale.

Lorenzo Bruschini, immagini enigmatiche da interpretare

“La Regina delle nevi” di Bruschini è forse la più figurativa delle sue opere esposte, c’è l’immagine della regina con la corona in testa, che  stende la mano verso una colomba, mentre Petritoli aveva presentato sotto quel titolo 12 riquadri con profili montagnosi senza figure umane.  “A piedi nudi nel vasto mondo” mostra  una giovane nel bosco con il lupo, un “cappuccetto rosso”  evoluto.

All’ingresso “Elogio del silenzio”,  poi  “Il viaggio di Jean Jacques” e   “Il Castello”, “L’Amore e il suo doppio”e “Il giardino segreto”, “La casa abbandonata”, dominante il nero con il lupo,  e “Primo incontro con la morte”,  dominante una grande volpe bianca nel bosco.  E poi altri, di minori dimensioni, sagome umane e animali, figure in volo o a terra, ben definite ma evanescenti, sospese tra sogno e realtà, nell’innocenza del naif oppure con profili inquietanti.

Il visitatore può dare corpo ai contenuti evocati dalle immagini suggestive che nella galleria di RvB Arts  lo circondano come in una foresta incantata e richiamano alla memoria sensazioni sopite pronte a risvegliarsi quando sono sollecitate dalla rappresentazione artistica.

Dell’ autore Lorenzo Bruschini, già presentato in precedenza, ricordiamo che è un pittore e incisore diplomato in pittura a pieni voti all’Accademia di Belle Arti di Roma nel 2007, dopo aver frequentato la “Ecole Nationale Supérieure des Arts decoratifs” di Parigi, fondatore della Scuola d’Arte  “Les Oiseaux Noirs”, ha tra le fonti di ispirazione la poesia francese che apprezza molto.

Abbiamo visto nelle sue opere figure spesso sospese come in volo e dalle forme evanescenti, e le abbiamo associate spontaneamente e istintivamente a certe immagini oniriche di Chagall, senza con questo voler creare alcun collegamento né tanto meno parallelo sotto il profilo della critica d’arte.

Da cronisti e visitatori documentati ci affidiamo alle valutazioni critiche di Viviana Quattrini  che si ricollega “alle più antiche forme d’arte dove mito e rito erano parte integrante dell’opera”. E ci dà una spiegazione del coinvolgimento da cui ci si sente presi guardando le figure esposte, che sono bidimensionali e fluttuanti senza prospettiva, né lo sfondo crea legami con la realtà, bensì piuttosto  con la fantasia e con i sogni. Le figure umane e di animali qualche volta sono intrecciate in una simbiosi più che nella  semplice convivenza, da riferire a pensieri inconsci di natura psicanalitica.

Il titolo della mostra “Dipinti che auto modellano”, lo ritroviamo nel titolo di un’opera, Self Shaping Painting”, anche in forma grafica con “Self Shaping Drawings”, e fa pensare a un mutamento continuo, riferito dalla Quattrini a un cambio di identità in tre momenti: il primo è quello del sogno, legato alla fantasia dell’artista, il secondo è quello del simbolo, legato al suo contenuto mutevole, il terzo è quello dell’interpretazione, legata all’immaginazione di chi osserva. Sono  trasformazioni che rendono lo spettatore “protagonista inconsapevole: un nuovo atto creativo si sviluppa nella mente dall’atto percettivo. Questa immanente vitalità rimette continuamente in discussione percezione e cognizione di chi osserva e di chi crea”.

Non ci sono soltanto i sogni e la fantasia ad intrecciarsi, c’è anche il vissuto e queste tre componenti fanno emergere nell’osservatore le immagini sedimentate nella sua coscienza, anzi nell’inconscio, sollecitate dall’ambivalenza e dall’ubiquità di quelle presentate dall’artista.  E’ un processo creativo continuo, con un “feed back”  tra artista e osservatore  che si svolge attraverso l’opera esposta.  

La Viviani parla di “viaggio iniziatico attraverso un labirinto di figure fantastiche che evocano l’invisibile dell’apparente realtà”, come se si fosse sul divano dello psicanalista o si cercasse di interpretare le inquietanti figure dei test visivi psicologici o addirittura psichiatrici. Vengono alla mente associazioni di idee, noi abbiamo citato quella meno inquietante, le figure in volo di Chagall, qui in bianco e nero, ma possono essercene anche altre puntuali che emergono dal proprio vissuto e dal propri sogni se non, in qualche caso, dagli incubi. Torna alla mente perfino “Guernica”, con le corna e le code, qui si trasformano in ali, lì rappresentano la violenza della guerra distruttiva. Anche il Minotauro, perché no,  può riaffiorare dai ricordi scolastici, tra il mito e l’incubo personale.

Abbiamo parlato di bianco e nero, in realtà le tonalità sono varie e diverse, e ci si sorprende a scoprire le tante variazioni del bianco e del nero fino all’opale, come delle immagini deformate dal sogno. Sempre secondo la Quattrini, “l’arte di Lorenzo Bruschini diviene strumento per una comunicazione sensibile, capace di restituire, attraverso personali visioni, saperi universali”.

E non è poco avere la possibilità di vedere opere che possono dare queste sensazioni ed entrare anche nella propria casa – cosa facilitata dai prezzi contenuti anche per dipinti di grandi dimensioni – in modo da perpetuare il sottile fascino di tale collegamento. 

Le immagini dicono di più di molte parole, d’altro canto non è possibile rendere appieno ciò che esprime “realtà, fantasia, non-sense, mistero, intrigo”, come dice la Quattrini. Occorre vedere per credere.

Info

Galleria “RvB Arts”, Roma, via delle Zoccolette 28, presso Ponte Garibaldi, e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso.  Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518; http://www.rvbarts,com/info@rvbarts.it   Per le  precedenti mostre di “Accessible Art”, con immagini delle opere esposte, cfr. in questo sito i nostri 7 servizi alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio e 26 aprile, 21 giugno, 5 luglio e 5 novembre 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringraziano gli organizzatori, in particolare Michele Von Buren, e i titolari dei diritti, specialmente l’artista cui siamo grati per avere accettato di essere ritratto da noi. In apertura,   Lorenzo Bruschini davanti a una sua opera; seguono  “La Regina della neve” e un’altra opera, poi  il grande dipinto orizzontale “Self Shaping Painting” che dà il nome alla mostra, e un’altra opera,  quindi,  affiancate, ” A piedi nudi nel vasto mondo”, a sin., e “Il Castello”, a dx; in chiusura “Il viaggio di Jean Jacques”.  (N.B: Le altre immagini sempre presenti  oltre alla prima, sono scomparse per un improvviso problema tecnico, presto verranno reinserite).

Rai, 60 anni di TV e 90 di Radio, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, lato Ara Coeli, dal 31 gennaio al 30 marzo 2014 la mostra “La Rai racconta l’Italia, 1924-2014”, celebra il doppio “compleanno” rievocando  60 anni di televisione e 90 di radio mediante  una selezione nel vastissimo archivio delle “teche Rai”  di trasmissioni antiche e recenti riproposte con video e schermi in un allestimento sobrio che porta alla riflessione personale pur in un’immedesimazione nelle grandi tematiche collettive. Curata da Costanza Esclapan, Barbara Scaramucci della Rai e da Alessandro Nicosia presidente di Comunicare Organizzando che l’ha realizzata; Fabiana Giacomotti per la sezione costumi. Catalogo Skirà/Nuova Eri, e in occasione della mostra monumentale volume rievocativo Rai RicordeRai”. 

La mostra è stata presentata con parecchi giorni di anticipo nella sede della Rai in viale Mazzini dal Presidente Anna Maria Tarantola con il direttore generale Luigi Gubitosi e tutti coloro che hanno partecipato alla realizzazione: il presidente di “Comunicare Organizzando”  Alessandro Nicosia, curatore con i  responsabili delle funzioni più impegnate, Costanza Esclapon Barbara Scaramucci  e i “testimonial” Rai, selezionatori delle riprese in mostra.  Una festa di compleanno doppia, 90 anni per la radio e 60 anni per la televisione, con la ricorrente “cabala del 4” come ricordato dalla Scaramucci: 1924 inizio della Radio, 1944, l’Eiar diviene Rai, 1954 inizio della televisione, 2014 celebrazione del doppio anniversario. .

L’annoso servizio pubblico, ma oggi?

Evidente che il Presidente ha tenuto a sottolinearne la funzione di servizio pubblico ma non ha potuto fare a meno di chiedersi come dovrà esercitarsi nei nuovi assetti del sistema comunicativo e mediatico, una vera rivoluzione rispetto al passato. Ha risposto che la Rai deve fare “una scelta forte: tornare ad essere un televisione e una radio che fanno quello che le altre emittenti non fanno. Realizzare, su tutte le piattaforme, il sempre attuale slogan della Bbc: informare, educare, intrattenere ‘bene’. Tutti ormai danno notizie, basta un tweet, 140 caratteri, ma l’approfondimento quanti lo fanno?”. 

“Tornare ad essere” vuol dire riconoscere una carenza da colmare, e non è poco considerando che al ruolo di servizio pubblico, con i relativi contenuti culturali, la Corte costituzionale ha collegato la legittimità del canone; e vuol dire anche l’indicazione di una strategia, dato che il differenziarsi rispetto alla concorrenza risulta vincente, rispetto all’appiattirsi avvenuto finora. Ma il discorso sarebbe complesso, tanto anacronistico appare l’obbligo del canone, nato all’epoca del monopolio come contropartita del servizio prestato, in presenza di un’offerta così vasta sia generalista sia a pagamento. Discorso da noi fatto in passato, qui ci limitiamo a ricordarne la conclusione: perché non raccogliere la sfida di  “un decoder per la Rai”  nel mercato odierno ancora più concorrenziale?

Anche il direttore generale ha fatto riferimento al “servizio pubblico”, ma ha sottolineato nel contempo il “primato negli ascolti”, la presenza su tutte le piattaforme digitali,.insomma la forza competitiva. E allora perché non affrontare il mercato per guadagnarsi i 3,5 miliardi di introiti ora dal canone con questa forza competitiva ponendoci in condizioni di parità con gli altri concorrenti?

La cavalcata in 60 anni di televisione e 90 di radio

Queste considerazioni non intendono offuscare il  grande spettacolo offerto dalla mostra, una cavalcata nei 60 anni di spettacolo televisivo, in aggiunta ai 90 anni di assidua presenza radiofonica, che fa ripercorrere la nostra vita segnata dagli eventi grandi e piccoli testimoniati dalla Rai. Perché le trasmissioni non vengono viste tanto in se stesse, come fossero produzioni di qualità da ammirare, quanto come specchio di questi eventi, un riflesso condizionato della memoria. E allora  tornano alla mente dei visitatori anche i momenti della loro vita, e se giovanissimi – sono numerose le scuole – fatti ascoltati nei racconti familiari con riferimenti vaghi qui virtualmente evocati.

“Un viaggio a 360°, un’immersione completa nella storia del nostro paese ch parte dal passato, attraversa il presente  e guarda al futuro”, ha scritto Alessandro Nicosia. E questo “perché  la radio e la Tv non sono state solo capaci di disegnare, suggerire e dipingere una nuova Italia, incoraggiare idee e realizzare sogni, offrire opportunità impensabili, fondare mode e inaugurare fenomeni di costumi; radio e Tv l’Italia l’hanno anche raccontata, con modalità e strumenti de tutto nuovi e straordinari, attraverso le voci di poeti e letterati, per mezzo dei racconti dei cronisti, con i reportage, le moviole, le dirette, le edizioni straordinarie  e le ‘mondovisioni’, facendoci sentire uniti, stretti nel dolore della tragedia di Alfredino Rampi o esultanti davanti alla Coppa del mondo”.

Nessun effetto “ieri e oggi”, perché la mostra non si sviluppa in senso cronologico, questo avviene per la sezione dedicata alla radio, dove le postazioni sono articolate in decenni, ma la radio è solo ascolto e quindi il confronto non è impietoso: E’ organizzata per temi, per cui l’oggi si mescola al ieri e all’altro ieri in un insieme omogeneo, senza stacchi e raffronti che farebbero pesare il trascorrere del tempo, che non è il filo conduttore, anche se resta indubbiamente un protagonista. Il tempo della memoria personale che si confronta con le cronache apparentemente impersonali, in realtà affidate  a personaggi divenuti familiari che hanno scandito i diversi momenti. Lo si sente nelle telecronache e nelle interviste, nei programmi di intrattenimento dallo spettacolo alla politica.

L’impostazione tematica attenua l’effetto “nostalgia”  e accentua l’effetto “coinvolgimento”. Proprio perché non ci si misura con il tempo ma con gli eventi, questi diventano tessere di un mosaico atemporale in cui i singoli fatti diventano espressioni di un insieme che si chiama: informazione o spettacolo, cultura o politica, società o economia, scienza o sport.  Sono le sezioni tematiche in cui si articola la mostra sui 60 anni di televisione,  mentre  i 90 anni della radio sono stati condensati, come accennato, in 9 monitor interattivi, ciascuno dedicato a un decennio, oltre che nell’esposizione di documenti e oggetti dell’epoca, dagli apparecchi radiofonici a tutto quanto portato a documentare una presenza così importante nella vita degli italiani.

I “testimonial” e l’allestimento per i singoli temi

Con l’avvento della televisione non si è avuta sostituzione ma compresenza, anche se la presenza della radio è divenuta meno eclatante di quella televisiva. Per questo, crediamo, la sezione della radio è posta  a metà del percorso tematico televisivo, introdotta dalla presentazione di  Marcello Sorgi con l’oleogramma a figura intera, particolarità particolarmente indovinata a introduzione di tutte le singole sezioni, ciascuna con il proprio testimonial:  E’ così naturale e realistica la figura del testimonial in piedi su sfondo nero nel piccolo vano di ingresso alla saletta dedicata alla sezione, che sembra sia in carne e ossa a presentare con voce piana e confidenziale il contenuto da lui dato al tema che gli è stato affidato per la sua notorietà e autorevolezza acquisita nel rispettivo campo.  Ecco, quindi, l’invito bonario e suadente di Sergio Zavoli per l’informazione e Emilio Ravel per lo spettacolo, Andrea Camilleri per la cultura e Bruno Vespa per la politica, Piero Badaloni per la società e  Arnaldo Plateroti per l’economia, Piero Angela per la scienza e Bruno Pizzul per lo sport:

Alla voce sussurrata del “testimonial” che introduce le singole sezioni si aggiunge  un allestimento sobrio, come hanno tenuto a precisare i realizzatori Alessandro Baldoni e Giuseppe Catania: “Sono stati per questo realizzati degli spazi compressi e con un’illuminazione controllata al fine di evidenziare maggiormente i contenuti multimediali rispetto all’involucro”.  In effetti piccoli ambienti foderati di nero nella penombra, il cui risultato è quello di far sentire il visitatore come  a casa propria pronto a far riemergere la propria memoria personale e collettiva mediante le sollecitazioni dei video incessantemente riproposti alla sua attenzione. La curiosità diventa subito interesse, poi partecipazione, volontà di vedere e sentire di più, provare sensazioni ed emozioni.

All’interno delle salette tematiche

La singola saletta diventa così un “confessionale” – e ci dispiace usare un termine di cui si è abusato in senso profano in non memorabili trasmissioni televisive – perché è un confessare a  se stessi ciò che si prova nell’impatto con la realtà  in una successione atemporale, ma cronologicamente marcata, su tematiche fondamentali nella vita personale e, ripetiamo, collettiva; ma nel suo approccio ai video che gli vengono offerti il visitatore è solo con se stesso.

Ogni saletta tematica ha quattro video da scrittoio con cuffie per l’ascolto, ci si può sedere e godere della visione personale di sequenze scelte come particolarmente significative dal “testimonial”. Nel lato opposto del relativo spazio ben organizzato un grande schermo dove si susseguono altre immagini sempre del tema trattato nella sezione, dallo scrittoio si passa  al cinema, anche in queste due forme visive si fissano i due atteggiamenti personale e collettivo che premono nella memoria.

“Abbiamo lavorato per temi che poi lungo il cammino si sono trasformati in emozioni e quelle emozioni in valori”, ha scritto Costanza Esclapon, direttore Comunicazioni e Relazioni Esterne Rai,curatrice: una  bella espressione forse sciupata dal  riferimento al “servizio pubblico” che ci è sembrato burocratizzare qualcosa che il visitatore sente spontaneamente. Le emozioni scaturiscono dalla memoria personale, i valori dalla memoria collettiva le fa assurgere a qualcosa di permanente.

Non chiameremmo “saggi” i presentatori, ma testimoni essi stessi  con la loro presenza oggi di quanto ci ha trasmesso la loro partecipazione diretta ieri degli eventi che ci hanno raccontato. Eventi che tornano nell’espressione virtuale delle trasmissioni nelle quali si sono materializzati nel video casalingo. Sono i protagonisti, con le sorprese e le conferme, le gioie e i dolori a noi trasmessi.

Si potrebbe spigolare “fior da fiore” tra le tante proposte evocative selezionate e offerte ai visitatori che possono loro stessi scegliere le trasmissioni da rivedere in una sorta di interattività virtuale. Ma sarebbe come proporsi di riassumere 60 anni di vita nazionale che diventano 90 anni per la radio, quindi evocare qualche evento va ben oltre la sua espressione radiofonica o televisiva e attiene alla memoria di tutti. Nella selezione c’è un elemento di interesse in più, pensare quale può essere il motivo che, nell’oceano di trasmissioni, ha portato a selezionare quelle proposte; ma viene subito soverchiato dall’attenzione riservata al documento di vita divenuto storia per il fatto stesso di venire presentato, e memoria per il singolo visitatore che lo collega ai momenti personali da lui vissuti.

Dai favolosi abiti di scena alla mitica “giraffa”

Le trasmissioni sono le protagoniste in quanto specchio fedele degli eventi che documentano e ripropongono all’attenzione e alla memoria. Uno specchio virtuale ma quanto mai presente.

Vi sono anche elementi materiali altrettanto evocativi, e con questi si apre la mostra, prima di entrare nell’otto volante di emozioni nelle sezioni dedicate alle singole tematiche. Quale può essere lo spazio dato alla “materia” in un mondo virtuale, e come vi si può collegare ?  La risposta  non è estratta ma concreta, sono i 30 abiti di scena di grande effetto nella prima sala, ciascuno identificato rispetto a chi lo ha indossato e alle rispettive trasmissioni; Mina e le gemelle Kessler, Raffaella Carrà e Heather Parisi, fino ad Abbe Lane, agli inizi della televisione. 

E’  come un “back stage” favoloso, un vero spettacolo dinanzi al quale i visitatori si affollano ammirati, è quanto di più appariscente delle trasmissioni in studio, a parte le scenografie.

Se questo è l’inizio, al termine del lungo percorso della mostra si trova quello che c’è dietro, il meno appariscente, anzi invisibile: dal museo della televisione le telecamere di ripresa nelle successive generazioni e anche la mitica “giraffa”, il microfono aereo che garantiva la preziosa diretta quando si era diffuso il “play back”, così perfezionato che solo l’assenza della “giraffa” lo faceva scoprire. Oltre ai rudimentali apparecchi televisivi degli inizi, oggi addirittura patetici.

Un mostra nella mostra, i quadri d’autore

Inizio e fine, abbiamo detto, ma durante la mostra nulla di “materiale”? Ci riferiamo alla rievocazione della televisione perché in quella della radio ci sono documenti e oggetti. Ebbene, troviamo distribuita in ogni saletta, una “materia” nobilitata al massimo livello, perché è stata toccata dall’arte. Si tratta dei numerosi quadri di celebri artisti appesi dinanzi alle postazioni video, un patrimonio artistico della Rai che giustamente viene esposto al pubblico a corredo del resto.  Anche quattro quadri ogni ambiente, con un numero molto maggiore per il grande salone dove è celebrata la radio, una vera e propria galleria d’arte.

E’ una mostra nella mostra, sono ben 60 opere, e una rivista culturale come la nostra non può non darne conto  e sottolinearne il valore. Con un quadro, Carlo Carrà ed Emilio Vedova, Corrado Cagli e Ottone Rosai, Sante Monachesi e Renzo Vespignani, Mino Maccari e Giuseppe Santomaso, Mario Mafai e Bruno Saetti, Marcello Avenali e Luigi Spazzapan, Achille Funi e Arturo Carmassi, Carol Rama e Mauro Reggiani,  Romano Gazzera e Gianni Vagnetti, Costanza Mennyey e Alberto Zivieri; con due quadri, Giorgio de Chirico e Renato Guttuso, Giulio Turcato e Italo Cremona, Massimo Campigli e Toti Scialoja; con cinque quadri, Felice Casorati, con nove quadri ciascuno Enrico Paolucci e Ugo Nespolo, suo “Viva la Rai”, che è il sigillo visivo della mostra, si intitola come la canzone d’epoca sottilmente ironica di Renato Zero.  E’ esposto anche il bozzetto della scultura di Francesco Messina, il  “Cavallo” di Viale Mazzini. Tanti artisti celebri che si sono ispirati anche a trasmissioni radiofoniche e televisive, non mancano immagini di ripetitori. Nella sezione della radio spicca il grande dipinto di Vincenzo Irolli, “Tre donne ascoltano la radio”.

Il desiderio di tornare

Che dire in conclusione? Si esce dalla mostra con molte sensazioni che si accavallano in una sorta di autoanalisi personale che si estende a una riflessone su quanto di interesse collettivo si è rivisto e rivissuto. Il passaggio dal passato al presente senza sequenze cronologiche ordinate,  e il succedersi di tematiche che nella realtà e nella memoria sono commiste mentre qui vengono isolate e quindi evidenziate è una esercizio mentale e visivo fonte di sensazioni ed emozioni continue. Non si può dire che non se ne viene presi, stretti dal desiderio di vederne di più, sentirne di più, toccarne di più.

Ha scritto la già citata curatrice Esclapon: “Il nostro desiderio è che il visitatore passeggiando tra le sezioni della mostra possa sentirsi dentro la storia, rivedersi e scoprirsi partecipe di una storia collettiva, attraverso e con il proprio bagaglio di ricordi e di emozioni ma con uno sguardo al futuro”. Missione compiuta, è quanto abbiamo provato nel visitare la mostra. E ci siamo tornati, in questo ha avuto ragione pure l’altra curatrice Scaramucci con questa sua presentazione: “Benvenuti quindi più che a una mostra, a un grande spettacolo al quale avete il vantaggio di poter partecipare per due mesi anche tutti i giorni, basta tornarci e vedersi un pezzo per volta ogni giorno”.

Quando uscì il film “Titanic” si disse che dei giovani andavano a rivederlo tutti i giorni, tale era l’emozione suscitata in loro dalla struggente storia. Per “La Rai racconta l’Italia”  si tratta di un’altra storia, ma non è detto che non accada ancora, noi almeno due volte  ci siamo tornati.

Info

Complesso del Vittoriano, Gipsoteca, piazza Ara Coeli,. Dal lunedì al giovedì, ore 9,30-18,30, venerdì, sabato, e domenica ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664-363. info@comunicareorganizzando.it, http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo Skirà/Nuova Eri, euro 28, volume documentario “RicordeRai 1924/1954/2014”, a cura di Barbara Scaramucci e Claudio Ferretti, Rai Eri, gennaio 2014, pp.616, euro 29,00., formato 24,5×28,00. Sulla Rai cfr. in “cultura.inabruzzo.it” i nostri articoli:  per i problemi inerenti al “servizio pubblico” e al canone gli articoli del 2009, precisamente il 16 e 28 marzo, 29 settembre, 21 ottobre,   per altri aspetti, sempre nel 2009,  i nostri corsivi del 10,14,  28 settembre, 21 ottobre e 6 novembre, 2, 7 e 9 dicembre; poi nel 2010, 3 marzo, 10 settembre e 13 ottobre.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella sede di Viale Mazzini alla presentazione della mostra e al Vittoriano. Si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia , con i titolari dei diritti, in particolare la Rai, per l’opportunità offerta. In apertura, Ugo Nespolo, “Viva la Rai”, composizione testimonial della mostra nell’atrio della sede;  seguono i celebri abiti di scena delle più popolari dive della TV, da Mina alla Carrà, una serie di postazioni video con quadri d’autore, e una postazione con video e schermo; infine un   momento dalla presentazione della mostra nella sede mentre parla Piero Angela, al tavolo della presidenza i vertici della Rai; in chiusura  il famoso “Cavallo” di Messina in viale Mazzini, all’ingresso della sede.

Modigliani, 3. Il grande Amedeo e Soutine, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Concludiamo il racconto della mostra  “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter”, alla Fondazione Roma, Palazzo Cipolla,  dal 14 novembre 2013 al 6 aprile 2014 con esposte 100 opere, specchio di un periodo di grande fermento artistico ed espressione di una vita inquieta che trovava nell’arte sostentamento e sfogo in un rapporto fecondo tra gli “artisti maledetti”  e i collezionisti, nel caso particolare Netter, attraverso i mercanti, per quelli in mostra Zborowski. Curatore della mostra Marc Restellini, autore anche del prezioso  Catalogo edito da 24 Ore Cultura,  intervenuta nell’organizzazione della mostra realizzata da  “Arthemisia” con la Pinacothèque de Paris.La mostra andrà dopo Roma a Milano, al Palazzo Reale,  come fu per Hopper, nel rapporto instaurato dal presidente Emanuele con gli organi milanesi, soprintendenze e autorità civili al massimo livello.

Abbiamo descritto in precedenza la Montparnasse di allora, con la vita inquieta e tormentata degli artisti giunti da tutta Europa a Parigi attratti dal richiamo dell’arte e della modernità: erano ebrei bersaglio delle persecuzioni  sfociate anche nella tragedia. Il fervore artistico e l’inquietudine esistenziale pervade quel mondo e quel periodo e abbiamo cercato di darne conto anche attraverso sommarie biografie degli artisti che accompagnano il rapido sguardo alle opere esposte. Abbiamo cominciato con l’abbinamento madre-figlio tra Suzanne Valadon e Maurice Utrillo, una vita attraversata da inquietudini ma illuminata dall’arte. Poi abbiamo fatto una carrellata degli altri “artisti maledetti” a partire da Antcher e Hayden, i fauvisti De Vlaminck e Derain, per passare a quelli  più vicini a Modigliani, in particolare Krémégne, Kikoine e “Zavado”; con la la bella vita di Kisling  e la tragica fine di Feder ed Epstein; una rapida rassegna dei temi dei dipinti esposti anche per gli artisti presenti con una sola opera.

Siamo  adesso al “clou” del nostro racconto, con in primo piano Chaim Soutine e la vera star della mostra, Amedeo Modigliani, è come se la marcia di avvicinamento sia giunta finalmente al traguardo.

Soutine,  l’artista tormentato protetto da Modigliani 

Chaim Soutine è in un certo senso una figura emblematica degli “artisti maledetti” per le violenze subite nella vita, compresi i “pogrom” antisemiti, la miseria e  l’emarginazione affrontate, tutto riscattato dall’arte che lo ha reso ricco e famoso, protagonisti il collezionista Netter e soprattutto un collezionista americano giunto a Parigi per comprare quadri, che segnò la sua fortuna e la propria.

Ma andiamo con ordine in un sommario ritratto dell’artista. Nato da una famiglia molto povera, undici figli, lui era il penultimo, subì violenze già dai genitori,  e persino dai correligionari ebrei per aver infranto a 13 anni una loro regola mentre ritraeva a carboncino il rabbino del suo paese natale in Lituania, il figlio del rabbino lo picchiò mandandolo all’ospedale per 15 giorni. Nel 1913, a 19 anni,  si trasferì a Parigi, sporco e lacero era considerato ripugnante dagli artisti che frequentava, come Chagall, e non conobbe l’igiene finché non divenne ricco e famoso e gli fu insegnato a fare il bagno, ma l’odore di selvatico gli rimase.  Istintivo e sempre insoddisfatto, veniva  preso da accessi di follia distruttiva, era discontinuo, poteva fare solo qualche disegno in un intero anno oppure, come avvenne quando il mercante lo mandò a Corot, sui Pirenei, ben 200 quadri in tre anni.

Fu presentato  nel 1915 a Modigliani, che gli si affezionò e divise con lui lo studio, dove dipinse le prime nature morte;  lo dirozzò, presentandolo anche a Sborowski, e insistendo perché se ne prendesse cura. Si faceva  accompagnare a casa del mercante dove andava tutti i giorni per tre anni, fino a disegnare il ritratto dell’amico su una porta di casa Sborowski, dicendo “un giorno questa porta varrà tanto oro quanto pesa”; il giudizio del mercante verso le sue opere era tiepido, ma ne prese alcune, però ritardava i pagamenti portandolo vicino al suicidio. Netter invece lo apprezzava molto e acquistò tante sue opere da farne la parte più importante della sua collezione.

Il collezionista americano che diede una svolta alla sua vita  fu Albert Barnes, che aveva fatto fortuna nell’industria farmaceutica con un nuovo prodotto: andò a Parigi nel dicembre 1922 e ripartì per l’America a metà gennaio 1923 dopo due settimane di intense visite accompagnato da Guillaume, con 700 opere dei nuovi artisti, tra cui di Soutine 35 o 100 a seconda delle fonti, pagandole 3000 dollari, cosa che rese l’artista ricchissimo e finalmente elegante. Ciò non gli impedì  di entrare in crisi, depresso lasciò Parigi e quando vi tornò riprese a dipingere intensamente, nel 1925 lo affascinò il tema del “bue squartato” ripreso da Rembrandt, il relativo dipinto è in mostra.

La crisi del 1929 lo colpì, ma lo aiutarono Madeleine e Marcellin Castaing, trascorreva parte dell’estate nella loro dimora presso Chartres dal 1931 al 1935.  In quest’ultimo anno la prima mostra negli Stati Uniti, dal 13 al 30 dicembre, dove espose di nuovo nel 1939, a Londra nel 1937 e 1938, e anche a Parigi.  Nello stesso anno conobbe Gerda Gard che lo colpì con la sua “gaiezza ironica”, lo vegliò un’intera notte quando fu colpito da dolori, poi si unì a lui nella sua abitazione misera e sporca, ma con riproduzioni di opere di impressionisti e libri di romanzieri francesi e russi.

Nel 1940, dopo  l’accordo Ribbentrop-Molotov,  lui russo e lei tedesca in Francia subirono prima delle restrizioni,  poi con l’invasione nazista le persecuzioni antisemite, lei venne internata e poi liberata, lui passò da un rifugio all’altro. Nel 1943, dopo due sue mostre a Washington e New York, morì per l’improvviso aggravarsi dei suoi problemi di salute avendo affrontato un lungo viaggio attraverso la Normandia per essere portato in ospedale a Parigi  evitando la polizia. Fu sepolto a Montparnasse in una fossa provvisoria..

Non aveva un temperamento facile, di carattere collerico e intemperante anche in questo era “maledetto”. La  Gard – coinvolta come abbiamo detto dalle traversie della guerra, mentre l’artista per non restare isolato visse insieme a Marie-Berthe Aurenche, già moglie del pittore Max Ernst – lo descrive così: “Era un uomo chiuso e solitario, pieno di diffidenza e il meno espansivo possibile. Tutto in lui era strano. Quando lavorava nel suo studio non tollerava che lo si disturbasse. Utilizzava un gran numero di pennelli e, nella febbre della composizione, li gettava a terra l’uno dopo l’altro”. Conferma questo particolare Drieu La Rochelle: “Attorno a lui tubetti e pennelli sono disseminati a terra, sventrati o spezzati”. Spesso stendeva il colore con le mani, e gli restava attaccato sotto le unghie, poi girava il quadro verso la parete, non voleva fosse visto.

Forse il suo carattere e le tante stranezze spiegano una contraddizione nei suoi rapporti con  Modigliani.  Secondo Arthur Miller, era “il migliore amico di Modigliani, che fino al terzo o al quarto aperitivo era brillante e divertente, ma poi diventava un pazzo, un esaltato”;  ma non avrà riconoscenza per lui,  che lo aveva introdotto nel mondo dei mercanti e dei collezionisti, anzi il contrario,  per essere stato trascinato in una vita di boemienne con abbondanti bevute sicché anche dopo che l’artista italiano, morto da tempo, era diventato famoso, non si tratteneva dal dire: “Non mi parlate di quell’italiano che mi ha fatto quasi diventare un alcolizzato”.

Nella sua monografia su Soutine del 1973, così Raymond Cogniat ne descrive la pittura collegata alla vita: “Non un’immagine indulgente, non un sorriso affettuoso, nel suo gioco al massacro, così come nella sua inquietudine non c’è un istante di distensione, nemmeno quando le circostanze gli diventano favorevoli. La bruttezza è il suo terreno; l’inquietudine il suo clima; la passione la sua condizione permanente”. Parole queste che sono una preparazione adeguata alle sue opere.

Sono 7 paesaggi, 5 nature morte e 7 ritratti, tutte opere accomunate dal forte cromatismo in cui è il colore a creare le forme senza alcun contorno, fino a renderle poco intelligibili. E’ l’espressionismo della Scuola di Parigi a manifestarsi in questa forma moderna e suggestiva.  

E’ il caso delle visioni naturalistiche come “Strada in salita” e Paesaggio di montagna”,  “Platani a Céret” e  “Grandi alberi blu, Céret”, tutti tra il 1918 e il 1922, nelle quali le pesanti e dense macchie di colore non definiscono composizioni riconoscibili, ma un magma quasi indistinto.  Comprensibili, pur nella pesantezza e forza cromatica, “Case rosse” e “Case”, 1917, e “Scalinata rossa a Cagnes”, 1918, le forme sono definite nei rossi delle abitazioni e della scala, nel verde scomposto della campagna, nel  bianco di alcune pareti.

La forma è meglio definita nelle nature morte, sia in  quelle anteriori ai paesaggi appena citati, sia in quelle successive; forse a determinare questa differenza concorre la delimitazione del soggetto, mentre quando si allarga la prospettiva negli esterni ambientali  l’artista viene coinvolto anche emotivamente, ed è qui che lascia i pennelli e stende il colore con le dita. 

Quando parliamo di nature morte ci riferiamo non solo a”Natura morta su tavola rotonda”, 1922, e “Tavolino con vettovaglie”, 1923, ma anche ai dipinti con selvaggina e carne che prediligeva, al punto di portare nel suo studio i soggetti da riprendere, come il quarto di bue pagato da Zborowski 3.500 franchi, fino ad avere problemi con la polizia per le denunce dei vicini a causa del fetore  superati con l’uso della formaldeide che bloccava la decomposizione anche se decolorava la carne;  inconveniente superato a sua volta spalmandovi sangue fresco preso anch’esso al mattatoio, cosicché il bue tornava “più bello di prima”, come raccontò Paulette Jordain.

Ecco  “Il bue”, 1920, la forma è definita dai tratti rossi e bianchi e si staglia sul verde variegato del fondo, inconsueto soggetto di grande effetto; anteriore è “Pesci”, 1917, posteriore “Lepre appesa”, 1923, ancora più definiti e precisi, soprattutto i cinque pesci che spiccano sulla tovaglia gialla.

Anche nei ritratti – in piedi e a sedere, quasi sempre con le mani in vista – pur se  il cromatismo è pesante e senza contorni, la forma è evidenziata dal contrasto di colore con lo sfondo: non siamo nell’indistinto delle visioni naturalistiche e neppure nella definizione delle nature morte,  ma in un’espressione intermedia.  Tra “Giovane donna”, 1915, e “Bambina con vestito rosa”, 1938, intercorre oltre un ventennio, ma non si avverte differenza stilistica. Gli altri ritratti  femminili e maschili esposti sono entro queste due date :  “Ritratto d’uomo”, 1916 e  “La pazza”, 1919, anno del quale sono “Donna in verde” e “Uomo con cappello”. Una citazione a parte per “Autoritratto con tenda”, 1917, si raffigura a 23 anni, con cappotto e sciarpa, l’espressione corrucciata, in diverse sfumature di verde, a parte il viso, questa volta senza contrasto con lo sfondo.

Con questa immagine nel mezzo del cammin della sua vita – vivrà solo 49 anni – lasciamo Soutine per il culmine della mostra, il grande Amedeo Modigliani, dalla vita ancora più breve e tormentata. 

Amedeo Modigliani, il “principe di Montparnasse”

Ecco, dunque,  Amedeo Modigliani, il “principe di Montparnasse”, la “star” degli “artisti maledetti” che nei primi due decenni del ‘900 approdavano a Parigi dove conducevano una vita misera ed emarginata ma con il fuoco della creazione artistica che in quelle condizioni degradate trovava alimento.  E’ l’eroe romantico, con atteggiamenti da bohemienne, legge molto, soprattutto poesie, una vita tra stenti e  malattie, illuminata dalla creazione di un’arte poco riconosciuta  finché visse; tutto fu travolto dall’immatura fine, anche il destino della giovane compagna, Jeanne. Arte, amore e morte, alla sua scomparsa vennero i riconoscimenti mancati nella sua vita troppo breve.

La sua vita artistica inizia con i primi quadri nel 1898, a 14 anni, ma subito dopo si ammala di tubercolosi;  nel 1906, a 22 anni, va a Parigi, capitale dell’avanguardia europea. Nel 1909 si stabilisce a Montmartre,  conosce i fauvisti intorno a Matisse e i cubisti intorno a Picasso, e anche Utrillo e gli altri “artisti maledetti”,  frequenta più i caffè di Montparnasse che le botteghe d’arte.  La prima esposizione di quadri è del 1910, realizza anche sculture, espone 7 teste di pietra nel 1911; nel 1914 abbandona la scultura, è l’anno in cui conosce Beatrice Hastings, che si dichiara “scombussolata da quel pallido e irresistibile briccone”, e descrive così il loro secondo incontro, quello  decisivo: “Era rasato e affascinante. Si tolse amabilmente il cappello , arrossì fino ai capelli  e mi invitò ad andare a vedere i suoi quadri”. Corrispondente di una rivista letteraria inglese, appena giunta a Parigi, viene descritta così da Kiki: “Occhi verdi, voce arrogante, avida d’uomini e d’alcool”,  Modigliani intrattiene con lei per due anni una relazione tempestosa con liti furiose tra loro due entrambi ubriachi.

Paul Guillaume diventa il  mercante suo e di Soutine, ma con lo spirito del mecenate.  Modigliani dipinge una tela  a settimana, molti ritratti con due o tre sedute di posa dei  soggetti.  Nel 1916 la salute peggiora, cessa la relazione con la Hastings, espone nella mostra “L’Art moderne en France” con i maggiori “artisti maledetti”, più de Chirico e Matisse, Rouault e Severini.

Una figura molto particolare, l’ “ultimo autentico bohémienne” che alternava  alterchi ed espressioni gentili, ubriacature e creazioni artistiche. Non volle dipingere i paesaggi richiestigli invano da Zborowski, anche se gli avrebbero alleviato la vita con i proventi della vendita. Da scultore non li sentiva, a differenza dei ritratti nel suo  stile inconfondibile sull’onda dell’espressionismo della Scuola di Parigi di Chagalle, Kisling e Soutine,  in cui si manifestava la disperazione insieme ai sogni di ognuno. Modigliani con la sua pittura rivoluzionava ogni rappresentazione precedente.

Si conoscono gli artisti da lui presentati al mercante, alcuni li abbiamo citati in precedenza, ma non è certo come lo abbia conosciuto, sembra che gli sia stato presentato da Kisling o lo abbia incontrato nel 1916 nella galleria  “La lyre e la palette”  a una collettiva che esponeva opere sue e di artisti tra cui Matisse e Picasso. Zborowski, a parte la vana richiesta di paesaggi, apprezzerà molto le sue opere, tanto da accoglierlo nella propria casa perché potesse dipingere non disponendo di un’abitazione, a lui il mercante fa concessioni che non darà a nessun altro artista,  in particolare nel 1918 gli pagherà il soggiorno in Costa Azzurra quando lo vedrà stanco e malato.

Dietro Zborowski c’è  il collezionista Netter che finanzierà l’esclusiva delle opere in base a un accordo prima verbale, poi formalizzato in un contratto a tre nel 1919, quando espongono a Londra 10 suoi quadri; nel 1917 dipinge i primi nudi sensuali nelle tre fasi dell’amore che Restellin definisce “invito, anticipazione, appagamento “,. Ha appena conosciuto Jeanne, il suo amore disperato fino alla tragica conclusione, una diciannovenne, tra le più belle frequentatrici della Rotonde di Montparnasse; è anche l’anno della prima mostra personale, che Zborowski organizza il 3 dicembre alla galleria Berthe Weill, con tanto di poesia di presentazione del Catalogo, ma viene chiusa subito perché la polizia impone di togliere i nudi e si temono disordini per la gran folla accorsa . Suoi dipinti sono esposti nella nuova galleria di Guillame, e poi in una mostra con de Chirico e Corot.

Al sole della Costa Azzurra il suo colore si schiarisce, le figure si fanno più allungate, continua a fare ritratti e dipinge persino 4 paesaggi, i soli  conosciuti; incontra Renoir,  ma non apprezza i nudi che il vecchio artista gli presenta lodando il rosa dell’incarnato come una carezza  sensuale.

Dalla compagna Jeanne nasce una bambina cui viene messo il  nome di lei, nel 1919 è di nuovo incinta; lui espone ancora, finalmente apprezzato dalla critica. Continua a dipingere intensamente ma la tubercolosi si aggrava anche perché beve molto e non vuole curarsi.

Nel 1920, la tragedia, resta all’addiaccio nella notte parigina ad aspettare gli amici, si ammala gravemente, è  assistito da Zborowski finché il mercante prende l’influenza, il vicino di casa è assente e al ritorno trova l’artista nel gelo del suo studio privo di conoscenza con Jeanne accasciata al fianco. Morirà dopo due giorni senza riaversi: viene diagnosticata meningite tubercolare, è la sera del 24 gennaio. Ha 36 anni, e il giorno dopo, all’alba del 26 gennaio, Jeanne al nono mese di gravidanza si uccide gettandosi dalla finestra dopo aver respinto le inisstenti raccomandazioni degli amici di ricoverarsi in  maternità.

La sua vita tormentata dalla tubercolosi è stata dunque alleviata nel finale da un amore corrisposto con la nascita di una figlia e l’attesa di un altro figlio. Ha visto i primi successi dei suoi quadri, e ha continuato  a dipingere furiosamente fino all’ultimo anche se con i primi successi si sono ridotti gli impegni con mercante e collezionista. Si è sottoposto a un forte stress, incurante della malattia implacabile, hanno parlato addirittura di eroismo o incoscienza, ma era il fuoco dell’arte che ardeva in lui, forse con il presagio della fine immatura, avvenuta a soli 36 anni. Un finale da tragedia  greca, che ne ha ingigantito il dramma umano mentre è diventata immensa la valutazione artistica.  Amore e morte, genio e sregolatezza, talento e destino,  tutti gli ingredienti per una dolente storia popolare.

Come si esprime nell’arte, in particolare nelle opere in  mostra? Sono tutti ritratti, a parte la “Cariatide (blu)”, 1913, olio e tempera in cui si riflette la passione per la scultura, mentre anche i due disegni, l’altra sua forma espressiva, sono dei ritratti.  Del resto, da appassionato scultore, sui paesaggi litigò con Diego Rivera gridandogli “Le paysage n’existe pas”, così si precluse il maggiore filone pittorico, finché il sole della Costa Azzurra, nel 1919, gliene farà  dipingere quattro, come si è detto,  basati sul colore, senza trasporvi le sue passioni per disegno e plasticità, in un cromatismo che forse avrebbe avuto un seguito senza la sua fine prematura. E il disegno è la base della sua arte.

I suoi ritratti sono essenziali, nel tempo sempre più limpidi e luminosi, con molta cura per la struttura del quadro e l’immedesimazione totale nel soggetto; non vanno omologati per certe apparenti somiglianze,  sono espressione del sentimento in una modernità  al di sopra del tempo. Come al di sopra degli altri si considerava lui stesso, non per presunzione, ma per l’introspezione sofferta della propria sensibilità e solitudine, tanto che scrisse a Oscar Ghiglia: “Noi abbiamo dei diritti diversi dagli altri, perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra – bisogna dirlo e crederlo – della loro morale”.  Per questo non ha avuto epigoni, ha aperto e chiuso in splendido isolamento il suo ciclo irripetibile, con i ritratti e i nudi di una sensualità naturale, in cui la donna è vista  nelle forme sottili e nei lunghi colli da cigno, espressione di tenerezza e amore.

In termini cronologici la galleria inizia con il “Ritratto di Beatrice Hastings”, 1915, che si distacca da tutti gli altri, inusuale sia nella figura, dove invece del collo spicca il biancore della lunga scollatura, sia nello sfondo confuso con il vestito. Segue una serie di ritratti del 1916, dal “Ritratto di Lepoutre”, il corniciaio e mercante d’arte che lo aiutò e lui lo compensò con il quadro poi ceduto a Zborowski, al “Ritratto di Zborowski”, soltanto il viso giovanile incorniciato dalla barbetta e il lungo collo con camicia aperta, un’immagine da poeta, com’era oltre che mercante, mentre in un ritratto del 1919 lo ritrae a figura intera da commerciante impettito e incravattato; insieme a questi il doppio “Ritratto di Soutine”, l’artista sodale  in disegno e ad olio, nel quale, come in Lepoutre, non è in evidenza il collo.

Del 1917 i  due ritratti  più caratteristici dell’artista,“Elvire con colletto bianco” e “Fanciulla in abito giallo, con collettino”, mentre del 1918 citiamo innanzitutto i due disegni, il “Ritratto di Hanka Zborowska”, moglie del mercante ritratto nel 1916, con la figura ben definita nelle forme tipiche dell’artista, la veste nel fitto tratteggio,  e “Ragazzo con berretto”, di cui invece sono appena delineati i contorni con segno sottile quasi evanescente. Nello stesso anno  dipinge “La bella spagnola o Madame Modot”, con lo sfondo elaborato, e “Bambina in abito azzurro”, uno dei tanti ritratti di bambini del 1918, con attenzione al rapporto con lo spazio sottolineato dall’ombra e dalla prospettiva del pavimento; mentre è dell’anno successivo “Ritratto di donna seduta  con camicia azzurra”, dove si ritrovano le principali caratteristiche della sua ritrattistica.

Abbiamo lasciato in ultimo, per motivi evidenti, la doppia raffigurazione della sua compagna, nel 1918,anno in cui la ritrasse anche con un cappello a larghe tese: “Ritratto di ragazza dai capelli rossi (Jeanne Hébuterne” è un primo piano del viso, lo sguardo intenso, mentre “Ritratto di Jeanne Hébuterne”   è il profilo di lei a sedere vestita di nero e rosso: nel primo quadro ha la chioma sciolta,  nel secondo raccolta in un vistoso chignon con una forte intensità cromatica senza ombre. Era con lui dal 1917, gli aveva dato una figlia ed era in dolce attesa ma volle seguirlo subito nell’al di là, in un romanticismo portato all’estremo; la tenera civetteria femminile nella doppia acconciatura dei capelli che ce la restituisce nel pieno della vita ci tocca nell’intimo.

La visita alla mostra termina qui, dopo tanti paesaggi e nature morte degli altri “artisti maledetti”, abbiamo ammirato  i ritratti, unici nel loro genere, di Modigliani. Concludiamo con l’immagine che ne ha dato Leone Piccioni, dove troviamo  riassunti alcuni suoi tratti salienti.

I tratti della sua vita: “La grande bellezza del suo volto da andare a segno a colpo sicuro, la profonda e generosa bontà, un’educazione insieme angusta e apertissima, tanto difficile acclimatamento, per le condizioni di vita e di cultura, operato e pagato di persona, le follie, la fedeltà a se stesso, la sorte come di esule, di sradicato, le malattie che lo minano, un fierezza che non viene in lui mai meno, ma tanti profondi scoraggiamenti”. 

Infine i tratti della sua arte: “I colli lunghi, eleganti, insieme frivoli e forti, degli ultimi ritratti di Jeanne o di Lunia, nessuno potrà vederli deformati, o ironici o grotteschi: vsono esaltazioni dell’amore dato e ricevuto in cambio, come le belle mani affusolate, che si riposino in grembo, o che siano in un gesto come sospese nell’aria. E c’è tenerezza infinita nei ritratti di Jeanne in attesa della maternità; c’è la carne rosa, calda, viva e insieme astratta dei nudi, cantati così a piena voce”.

Questo resta dentro di noi, e il prezioso Catalogo ne serberà la memoria, è arrivato perfino ad allungare le proprie pagine in un originale e apprezzato omaggio visivo all’artista dei ritrtti dai colli di cigno.

Info

Palazzo Cipolla della Fondazione Roma Museo, Via del Corso 320 Roma,. Aperto tutti i giorni, lunedì ore 14,00-20,00, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 13,00 (autoguida inclusa) , ridotto euro 11,00 per 11-18 anni, oltre 65, studenti fino a 26 anni, militari e portatori di handicap; ridotto euro 10 per gruppi, euro 5,00 per scuole e 4-11 anni. Catalogo: Marc Restelllini, “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter”, 24 Ore Cultura, pp. 306, novembre 2013, formato 23,0 x 32,5; dal catalogo sono tratte le notizie del testo e le citazioni tranne l’ultima.. Cfr. gli altri nostri articoli sulla mostra in questo sito,  “Modigliani,Utrillo, Valadon e altri alla Fondazione Roma”  il 22 febbraio, e “Modigliani, e gli artisti maledetti alla Fondazione Roma”, il 5 marzo 2013.    

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura: Modigliani, “Ritratto di ragazza  dai capelli rossi (Jeanne Hébuterne), 1918, seguono Soutine, “Autoritratto con tenda”, 1917 con a dx “Giovane donna”, 1915, “Uomo con cappello”, 1919-20, e “Il bue”, 1920,  poi Modigliani, “Bambina in abito azzurro”, e “Ritratto di donna (Giovane donna seduta con camicia azzurra”,   quindi “Ritratto di Jeanne Hébuterne,”,tutti del 1918; in chiusura “Jeanne Hébuterne all’età di sedici anni”, fotografia dell’aprile 1914.

Sorelle Lumiére, con “Unintended”, fotografie e confessioni, al Blurry Club

di Romano Maria Levante

Una curiosità più che un interesse consapevole ci indusse, due anni fa,  a  cercare il Blurry Club, al 33/35 di via di San Crisogono, una traversa di Viale Trastevere vicino piazza Mastai a Roma, nei pressi dell’antica chiesa dedicata al santo costruita sulla vasta basilica inferiore dove eravamo scesi qualche mese prima per  una visita archeologica. Nel club era annunciata una mostra fotografica con un’intestazione intrigante nel titolo “, “Unintended”, e negli espositori, il “gruppo fotografico Sorelle Lumière”,di qui la curiosità. La mostra si è chiuse a metà maggio 2011, ma è rimasto vivo  l’apprezzamento  perché vi abbiamo trovato  molto più di una serie di belle fotografie.

La curiosità divenne interesse entrando nella vasta  struttura polifunzionale del Blurry Club, ambienti ariosi attrezzati a Bistrot e Book shop, Cocktail bar e Foto Gallery; poi dall’interesse all’apprezzamento il passo è stato breve, è bastato vedere le fotografie esposte in gruppi con una scheda illustrativa per autore, anzi autrice.

Il titolo “Uninteded” e le fotografe “Sorelle Lumière”

E’ stato decifrato innanzitutto “Unintended” nel suo doppio significato: “E’ la forza espressiva di qualcosa che ‘semplicemente accade’ in quel preciso istante, senza un fine né una costruzione ed è, allo stesso tempo, la ‘non intenzionalità’ del fotografo, che si trova casualmente sulla scena e riesce a catturare la particolare creatività di quell’istante”.  Quel che “semplicemente accade” non riecheggia il “semplicemente sei” di Jovanotti in “A te”, ma quasi:  in realtà il titolo della mostra richiama un brano musicale della band “Muse” che esprime la casualità di momenti fondamentali: “Potresti essere la mia scelta/ involontaria di vivere la mia vita offerta/ potresti essere colei che amerò sempre/ potresti essere colei che ascolta…/ potresti essere…”; e non “semplicemente sei”.

Abbiamo conosciuto così le dieci “Sorelle Lumière”, ciascuna esponeva un gruppo di fotografie con il suo stile e le motivazioni descritte nelle schede come in una confessione pubblica. Ne è derivata non soltanto una Foto Gallery variegata e suggestiva, ma anche un identikit a molte facce, precisamente dieci, di cosa vuol dire esprimersi con la fotografia e cosa si cerca di esprimere.

Erano ritratti con cui il lettore poteva confrontarsi per far emergere le sue motivazioni, anche le più recondite, e magari esprimerle lui stesso avvalendosi dell’opportunità offerta dall’on line;  agli appassionati di fotografia  la possibilità di animare un forum avvincente. Diremo poco, quindi, delle fotografie, esposte al  giudizio con la loro evidente resa spettacolare, spesso pittorica; e molto delle motivazioni ricavandole dalle espressioni usate da ciascuna autrice nel confessarsi pubblicamente.

Le dieci Sorelle Lumière si confessano

Cominciamo da Patrizia Urbinati, la fondatrice del gruppo con Gabriella Carlei. La fotografia è stata per lei un punto di arrivo, non di partenza, vi è giunta dopo la poesia e la pittura, la decorazione e il webdesign.  E questo perché, ha spiegato, “amo giocare con le parole ed i colori per portare alla luce le emozioni racchiuse dentro di me”. La attirano “i contrasti e i giochi di luce e di ombre, le esplosioni di colori”, nonché “il turbamento e l’emozione che un’immagine può rivelare”. Ecco una sua bella definizione: “La fotografia è come una finestra spalancata sul mondo interiore, su quello che si cela e si rileva da un contrasto, una percezione, un accostamento, un’ombra.” Perciò “in ogni inquadratura cerco di cogliere l’invisibile che si muove dentro e fuori di me”. Lo  ha colto fissando la maternità nella tenera immagine della madre col bambino quasi una icona sacra, la forza nel pugno serrato e nel volto volitivo, il  muto dialogo in un intenso primo piano  e il confronto fisico nelle due figure maschili che si afferrano.

Le fa eco la cofondatrice del gruppo, Gabriella Carlei:”Ognuno sceglie la tecnica per esprimersi, disegno o scrittura, musica o scultura, la fotografia mi accompagna da sempre”. La sua larga diffusione la fa riflettere sul rapporto con l’arte: “Per arte intendiamo la nostra personale rielaborazione della realtà, la creazione dal caos”. Un processo difficile con la fotocamera: “La fotografia riproduce l’istante in modo innaturale, bidimensionale, manca di materia, di sacralità, eppure ci sono fotografi che hanno fatto arte”. Cita Cartier Bresson e Man Ray, il secondo un artista geniale a tutto campo, si pensi al “ready-made”. Infine, lasciando da parte l’arte, confessa: “Amo la fotografia perché  riesce a descrivere ciò che non riusciamo  a  vedere”. Le conferme nei suoi ingrandimenti: dalla nebbia lattiginosa  alla corolla grigia con tanti petali, dal  rametto con  vivaci colori a terra ai riflessi delle luci sull’azzurro del selciato traslucido per la pioggia.

Aver creato il gruppo ha portato le due fotografe  a scavare a fondo nel significato della fotografia; Verena Grottesi, invece, scava nella propria memoria in un tenero amarcord.  Ricorda “gli anni della camera oscura”, il padre che sviluppava nella vasca da bagno, “con la lucina calda, il filo steso sulla vasca, le vaschette con gli acidi e le fotografie stese come i panni ad asciugare”. Dichiara di essere “nostalgica della pellicola”, sono rimasti impressi nella sua mente i primi insegnamenti sulla Hassemblad, poi la Rolleiflex e la Nikon,  pensa che “le immagini digitalizzate abbiano tolto tutta la personalità alla fotografia”. Per questo si esprime in un intenso bianco e nero d’altri tempi: il nero è nel buio, nelle gambe  con  le loro ombre, e nella figura scura al centro di un vasto ambiente; il bianco nella luce che fende l’oscurità da una finestra, fino alla grande macchia chiara che irrompe.

Anche Daniela Ortolani parla di se stessa, ma non è nostalgica della pellicola, anzi si qualifica come computer graphic e c’è in lei semmai un “mal d’Africa” di marca moderna, impegnata com’è in progetti di cooperazione nell’Africa mediterranea e sahariana; il suo obiettivo spazia nell’Europa nord orientale oltre che in Italia. “C’è attenzione ai luoghi e alle persone, attraverso loro si comunica con le immagini”. Nelle inquadrature  un quartiere animato e un vasto spazio davanti a un edificio, dei bambini e un  trattore; l’esterno di un localee una balconata con una figura pensierosa.

I dettagli, siano essi dell’ambiente urbano o di quello naturale, colpiscono in modo particolare Elly Murkett: “Nella fotografia si crea un’atmosfera diversa da come la vede l’occhio umano”; ciò dipende “dagli effetti di luce e di ombra, dal rapporto tra luce, colore e forma”. Lo esprime in inquadrature semplici ed essenziali, dalla figura in piedi che si staglia solitaria in controluce, alla figura a sedere arabescata, al misterioso ingresso rosso incorniciato di nero da mille e una notte.

Per Lia Attanasio “ogni foto è un’emozione, un viaggio profondo nei miei sentimenti”. Non è un moto dell’animo effimero, “c’è una ricerca e un arricchimento che mi giunge attraverso le persone e i luoghi che fotografo”. L’immagine del pavone in tutta la sua magnificenza vuole esprimere questa ricchezza, così l’albero che getta la sua ombra sul prato; ci sono anche tre donne a braccia conserte e due persone sedute davanti a un negozio con un cane bianco.

Altrettanto intense le sensazioni di Simona Carli:”Fotografare è un bisogno, una necessità per il mio spirito. Fotografia per me è passione, istinto e umiltà”.  Sì, proprio umiltà, ha usato la camera oscura per anni: “Non si finisce mai di imparare. Mai”. E aggiunge: “Osservo tutto e anche nei posti familiari continuo a fare scoperte”. Non si pone recinti e tanto meno limiti stilistici: “Mi piace filtrare ciò che vedo con la mia sensibilità”, afferma. E’ una sensibilità che la porta a misurarsi con la penombra, dalla quale emerge un bellissimo volto di donna  e una figura inquietante, un paio di scarpe da tennis fino a tre splendidi cavalli bianchi  colti in un momento di riposo.

Francesca Nuzzo va anche oltre, se possibile: “La fotografia è narrazione. In una fase della vita può accadere che si sente il bisogno di narrare, il desiderio di raccontare”. E ancora: “La fotografia è ordine e disordine. Fa guardare oltre lo spazio delle rappresentazioni, in un rapporto tra ciò che è immaginato o immaginabile, fa comporre e scomporre”. Fino a raggiungere il risultato sperato, forse afferrare il sogno agognato: “Trovare un luogo che fa andare oltre lo scoprire e colorare emozioni, oltre i limiti e l’immaginazione”. Lo cerca in alcune immagini esotiche molto colorate e in unoscorcio di Luna Park con sullo sfondo la grande ruota panoramica, ricorda quella del Prater di Vienna immortalata dal “Terzo uomo” di Orson Wells con la cetra di Anton Karas; e poi in immagini in bianco e nero con un’inquadratura dall’alto di due bambini e un campo lungo sfumato.

Vola in alto anche Carolina Cavaterra, a lei non si applica l’omen nomen, il cognome la vorrebbe immersa a scavare nella realtà mentre lei cerca di superarla. Nelle sue corde c’è la pittura che ha coltivato in fasi alterne insieme alla fotografia. Sente attrazione “per i colori e la luce, e anche per gli effetti da chiaroscuro”, ma non si ferma alla rappresentazione esteriore: “L’arte fotografica sa rendere eterno l’atto irripetibile. C’è nella foto un quid nascosto o in primo piano che rivela un cuore battente”. Di più non si potrebbe dire. Come lo esprime? Intensi ritratti di bambine, e dialoghi  all’ingresso di locali, chissà cosa si diranno?

In questo mondo interiore si muove anche  Elisabeth D’Amico: “Fermare con la fotografia per un momento lo scorrere del tempo, un sentimento, è come fare una piccola magia”. E  ne rivela il segreto: “Un’immagine può esprimere, guardandola in un solo istante, una sensibilità o un concetto che mille parole non saprebbero comunicare”.  Le sue fotografie rendono tutto questo: un volto sorridente di bambina in primissimo piano, forse la speranza e la fiducia; figure sperdute in ampi spazi, forse l’isolamento e la solitudine.

Il cronista è abituato a scrivere mille parole, è il suo mestiere, lo strumento di cui dispone. Ma proprio per la consapevolezza dei limiti dello scritto, gli piace accompagnarlo con le immagini. Farà così anche per questa mostra e per le mille parole rivelatrici che ha tratto dalle schede delle dieci “Sorelle Lumière”. Perciò alle “mille parole” ha unito la  Foto Gallery dei dieci blocchi delle immagini in mostra per ciascuna delle “Sorelle Lumière” di cui sono state riportate le “confessioni”: si tratta di un distillato  di sensazioni  e di emozioni rese dalla potenza del mezzo fotografico.

A tutte loro siamo grati per quanto hanno saputo esprimere non solo con le immagini, ma anche con le parole, in un abbinamento inconsueto quanto fecondo. Il  quale fa sì che la “piccola magia” , di cui parla l’ultima delle “Sorelle Lumiere” che abbiamo citato, per noi diventi veramente grande.

Info

Delle “Sorelle Lumiére” segnaliamo il sito http://www.sorellelumiere.com/ dove si trova l’informativa delle loro iniziative più recenti e una galleria fotografica.

Foto

Le immagini dei 10 gruppi di fotografie esposte, ciascuno di una autrice, sono state riprese in mostra da Romano Maria Levante al “Blurry Club” che si ringrazia insieme alle autrici; la qualità in qualche caso è resa scadente dai riflessi dell’ambiente dovuti alle circostanze in cui sono state scattate le istantanee dei gruppi di foto esposte. I 10 gruppi di foto sono posti nell’ordine in cui le “Sorelle Lumière”  sono citate nel testo  e precedono  la rapida citazione di ciascuna. In apertura, Patrizia Urbinati, poi  Gabriella Carlei e Verena Grotteschi,quindiDaniela Ortolani e Eddy Murkett, inoltre Lia Attanasio e Simona Carli, infine Francesca Nuzzo e Carolina Cavaterra; in chiusura Elisabeth D’Amico.

Modigliani, 2. Con gli “artisti maledetti”, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

Alla Fondazione Roma, Palazzo Cipolla,  dal 14 novembre 2013 al 6 aprile 2014 oltre 100 operedi “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti”, accorsi a Parigi nel primo ventennio del ‘900 in un fervore artistico e un’inquietudine di vita che dà alla rassegna delle loro opere uno straordinario significato sul piano dell’umanità, oltre che dell’arte. La mostra è curata da Marc Restellini, autore anche del bellissimo Catalogo edito da 24 Ore Cultura che ha contribuito all’organizzazione della mostra realizzata da  “Arthemisia” con la Pinacothèque de Paris.Dopo Roma la mostra si trasferirà al Palazzo Reale di Milano.

Ricordiamo brevemente che la maggior parte degli “artisti maledetti”  condividono l’origine ebraica e sono stati bersaglio delle persecuzioni antisemite prima in patria – per lo più Polonia e Russia – poi nella Francia occupata dai nazisti. A parte questo aspetto pur determinante, l’attributo di “maledetti” si deve alla condizione di esuli confinati  nel misero sobborgo di Montparnasse dove conducevano una vita grama ma illuminata dall’arte che consentiva loro di sbarcare il lunario con i propri quadri, lasciandoli direttamente ai locali in cambio di un pasto o una bevuta o legandosi stabilmente a dei mercanti  che normalmente facevano capo a collezionisti appassionati quanto interessati. Abbiamo conosciuto così gli altri due protagonisti della mostra, oltre agli artisti, il collezionista Netter, la cui Fondazione ha messo a disposizione le opere, e il mercante Zborowski che faceva da tramite tra gli artisti a lui legati da appositi contratti, e il collezionista finanziatore.

In precedenza abbiamo descritto questo mondo concentrandoci poi su Suzanne Valendon di cui sono esposti 12 dipinti,  e soprattutto su Maurice Utrillo, con 13 dipinti. Ora passiamo agli artisti con un numero minore di opere esposte, prima del gran finale con Chaim Soutine e il grande Amedeo Modigliani.

Antcher e Hayden, i fauvisti De Vlaminck e Derain

Il più rappresentato in mostra, tra gli altri “artisti maledetti”,  con 5 dipinti, è Isaac Antcher, della seconda ondata degli artisti promossi da Sborowski, ma per lui si interruppe la collaborazione tra il mercante e il collezionista Netter: dopo il loro primo contratto del 1928; quello successivo del 1931  fu con Netter e Madame Zac. La sua inquietudine lo porta a fare il pioniere in un kibbuz in Palestina, ma l’arte lo richiama a Parigi; dopo il successo e la ricchezza, la crisi del 1929 lo riporta indietro, ai lavori più umili, un’inquietudine la sua con sbocco nella religione, diviene un  mistico. Le opere esposte,del 1928-30,  “La valle dei lupi” e “Bosco con figure”, “Paesaggio con pastore” e “Paesaggio di St. Tropez”, sono visioni angosciose quasi da incubo, così “Zia  Miche”.

Nato a Varsavia lo stesso anno in cui Utrillo vedeva la luce a Parigi,  nel 1883, e vissuto quindici anni di più, Henry Hayden è in mostra con 4 dipinti della collezione Netter, dato che fece parte della squadra del mercante Zborowski dopo quella di Rosenberg. Dalla Polonia a Parigi, grande interesse per Gaugun e soprattutto per Cézanne, abbraccia il cubismo, poi lo lascia senza  approdare a uno stile ben definito. Samuel Becket, di cui fu amico, scrisse di lui: “Per tutta la sua vita ha saputo resistere alle  due grandi tentazioni, quella del reale e quella della menzogna”.  Delle opere esposte, “Bevitore bretone”, 1911, coincide con la sua prima mostra di successo avvenuta nello stesso anno; le altre 3 sono nature morte, “Con teiera”, 1914, “Su sgabello”, 1920, “Con chitarra”, 1923, si sente l’influsso di Cézanne arricchito dal suo apporto personale.

Ci sono poi Andrè Derain e Maurice de Vlaminck, ciascuno con 3 dipinti, entrambi vissuti negli stessi anni di Utrillo, essendo nati intorno al 1880 e morti intorno al 1955. Grande amicizia tra loro due, iniziarono a dipingere insieme, sono tra i fondatori del fauvismo: De Vlaminck era disgustato dalla guerra mentre Derain trovava nei campi di battaglia della prima guerra mondiale una “deliziosa serenità” fuori dalla banalità e dalle abitudini, in un’ottica che diremmo futurista, ma i futuristi dinanzi agli orrori della trincea si ricredettero; questo mise a dura prova l’amicizia tra i due fauvisti. De Vlaminck negli ultimi anni  confidò a un amico la sua ansia di autenticità, il desiderio di mostrarsi per quello che era: “Ho voluto che mi si conoscesse tutto intero, con le mie qualità e i miei difetti. Non ho dissimulato nulla dietro formule, non ho camuffato nulla dietro prestiti, non ho mendicato nulla, non ho rubato nulla”. Derain in fin  di vita formulò l’ultimo desiderio di avere “un pezzetto di cielo azzurro e una bicicletta”. Tra i  pittori “maledetti”  c’era anche questa sensibilità esasperata che colpisce e commuove.

Sulla pittura sua e dell’amico De Vlaminck Derain affermava: “Il fauvismo è stato per noi la prova del fuoco. I colori diventavano cartucce di dinamite. Essi dovevano far esplodere la luce”. Attraverso l’uso di un colore “indomabile” e “selvaggio” – proseguiva – “l’obiettivo che  ci prefiggiamo è la felicità, una felicità che dobbiamo creare di conseguenza”. Colpisce la plasticità e il cromatismo intenso nel dipinto di oltre 2 metri per quasi 2, “Le grandi bagnanti”, 1908, una composizione complessa di stampo arcaico, scura e contrastata: si ricorda  come sia stata ispirata da una statuetta africana mostratagli da De Vlaminck, che avrebbe ispirato anche  “Les Demoiselles d’Avignon” di Picasso, al quale lui stesso la fece vedere. Dello stesso anno “Nudo stante”, che non ha l’arcaismo del nudo delle bagnanti; la terza opera, “Bosco presso Martigues”, 1914, è di un monocromatismo angoscioso.

De Vlaminck si dichiarava “nato nella musica” essendo i genitori musicisti, ma scelse la pittura anche come “uno sfogo, un ascesso di fissazione. Senza di essa, senza questo dono, avrei fatto una brutta fine”, disse lui stesso e aggiunse: “Quello che nella mia vita non avrei potuto fare se non lanciando una bomba – il che mi avrebbe condotto al patibolo – ho tentato di raggiungerlo con l’arte, con la pittura, impiegando al massimo il colore puro”.  E ancora: “Il fauvismo è il mio modo di ribellarmi e insieme di liberarmi. Ho così soddisfatto il mio desiderio di distruggere vecchie convenzioni, di ‘disubbidire’, allo scopo di creare un mondo sensibile, vivo e liberato”. Per concludere: “Dobbiamo tendere alla calma, al contrario delle generazioni che ci hanno preceduto. Questa calma è la certezza. La bellezza deve perciò essere una aspirazione alla calma”.  Le 3 opere esposte sono di forte intensità cromatica:  “Riva di fiume”, 1910-11, e “Veliero nella tempesta”, 1914, in un blu suggestivo interrotto da poche varianti coloristiche; “Mazzo di fiori”, 1915-16, con una sinfonia di colori intensi perfettamente armonizzati, contorni netti al centro, poi sfumati.

La bella vita di Kisling, la fine tragica di Feder ed Epstein

Una posizione molto particolare tra gli “artisti maledetti” è quella di Moise Kisling, di cui sono esposti 7 dipinti. Fu vicino a Modigliani aiutandolo fino all’ultimo,  e  lo presentò a Zborowski, suo vicino abitando nello stesso edificio. Era venuto a Parigi da Cracovia nel 1910  e, rispetto all’immagine tormentata e scontrosa degli “artisti maledetti”, era allegro e generoso; a differenza della loro esistenza di stenti e rinunzie, amava la bella vita, pur impegnandosi al massimo nella pittura ogni mattina alla stessa ora anche se era rientrato a tarda notte.

Famoso per aver ritratto le donne più eleganti e raffinate – tra cui la Falconetti e Arletty, la Tessier e la Sologne – frequentava ambienti aristocratici e incantava con la sua prestanza e con il suo sfrontato ottimismo; viene ricordato che Modigliani non volle far posare Beatrice Hastings per lui, temendone  il fascino aggressivo. Il suo spirito avventuroso lo portò nella prima guerra mondiale a entrare nella Legione straniera, dove venne ferito  gravemente, mentre nella seconda guerra mondiale lasciò la Francia per gli Stati Uniti mettendosi in salvo dalle persecuzioni naziste antisemite. Poi tornò a vivere in Francia dove il ricordo di lui “che ha la risata più allegra di tutta Parigi”  restò sempre vivo tra le modelle, le signore dell’alta società e il mondo degli artisti. Aiutò Modigliani fino all’ultimo.

E’ esposto l’unico dipinto che raffigura  Netter, quindi di grande valore storico oltre che artistico, è il “Ritratto di uomo (Jonas Netter)”, 1920, identificato con certezza anche dai familiari del collezionista, ritratto seduto in una poltrona con la testa appoggiata alla mano destra, l’aria assorta, i baffetti e l’ampia stempiatura  di un’avanzata calvizie. Vediamo poi 4 figure femminili, molto diverse, “La giovane cuoca”, 1910, e “Donna con maglione rosso”, 1917, in due interni scuri fortemente caratterizzati, “La spagnola” e “Nudo sdraiato sul divano”, con una maggiore luminosità. In comune nei differenti soggetti il forte cromatismo e il tratto netto e definito, caratteristiche  anche di “Natura morta in due tavoli”  e “St. Tropez”, entrambi del 1918.

Dall’immagine ridente e gaudente di Kisling il passaggio ad Aizik Feder ed Henri Epsteinè quanto mai brusco, perché la loro vita si conclude nella tragedia del campo di sterminio di Auschwitz.

Feder, arrivato nel 1908 a Parigi da Odessa, dove era nato nel 1886, al café de la Rotonde conobbe Modigliani, andò anche in Palestina. Illustratore di libri e disegnatore per “Le Monde”, espose a Parigi al Salon des Tuileries e in altri Saloni, nel 1912 fu membro della Societè du Salon d’Automne. Con la seconda guerra mondiale la fine tragica ad Auschwitz:  particolare pietoso è che si rifiutò di fuggire dalla prigione di Drancy, come fece invece la moglie che mise in salvo un album di disegni fatti in carcere dal marito. Vediamo due opere del 1915, “Donna con vaso di fiori” e “Ritratto di donna”, la quotidianità nel primo, un senso di inquietudine  sul viso nel secondo.

L’altro “artista maledetto” con la stessa tragica fine, Epstein, giunse a Parigi da Lodz nel 1913, e rimase a La Roche fino al 1938;  la madre lo aveva incoraggiato alla pittura, il suo percorso stilistico approdò all’espressionismo. Si trasferì in una fattoria a Epernon, da lui acquistata, che divenne il suo rifugio durante l’occupazione nazista, ma lì fu arrestato dalla Gestapo, lo portarono al carcere di Drancy come Feder e risultarono vani i tentativi di farlo rimettere in  libertà degli amici e della figlia. Il 7 marzo 1944 il suo viaggio senza ritorno per il campo di sterminio ad Auschwitz.  Il suo “Nudo stante”, 1920, è molto diverso da quello di Derain dallo stesso titolo, è frontale come il già citato “Nudo che si pettina” della Davalon.

Tra i più vicini a Modigliani, Krémégne, Kikoine e “Zavado”

Nella marcia di avvicinamento a Modigliani, con cui terminerà in bellezza il racconto della mostra, incontriamo ora gli “artisti maledetti” che, oltre il già citato Kisling, lo hanno frequentato più da vicino, cominciando da colui che gli presentò Soutine, le cui opere esposte rappresentano “una mostra nella mostra”.

Si tratta di Pinctus Krémégne, giunto a Parigi dalla Russia dove era scampato con l’amico alle persecuzioni antisemite; prima si dedica alla scultura, poi alla pittura, frequenta il Louvre e anche le bettole ritrovo degli “artisti maledetti”. Scontato l’incontro con Zborowski e l’interesse di Netter, raggiunge la fama ma con l’occupazione nazista deve lasciare Parigi,  né l’inquietudine cessa alla fine della guerra sebbene il suo studio non sia stato toccato; andrà in Inghilterra e in Svezia, poi anche lui in Israele dove farà il contadino. Muore nel 1981 a 91 anni. Di lui sono esposte 4 opere del 1930, due paesaggi, “Céret” e “Paesaggio d’inverno”, “Natura morta con tovaglia gialla” e  “Vaso di fiori”, uno stile  particolare in cui si sentono influssi dall’impressionismo al cubismo.

Amico suo e di Soutine fu Michel Kikoine, si conoscevano in Russia prima di andare tutti e tre a Parigi. E’ preso dallo stile di Pissarro e Cézanne, ai quali si ispira, e Modigliani lo introduce dai mercanti d’arte con successo perché la borghesia di Parigi apprezza la delicatezza del suo tocco ben  più dei toni accesi di Soutine. Volontario nella prima guerra mondiale, acquista l’agiatezza economica ma non la tranquillità, perché subentrano le persecuzioni antisemite con la seconda guerra mondiale. Anche lui va in Israele nel 1954, poi torna in Francia dove muore nel 1968.  Nelle sue opere predomina la natura con toni bucolici, lo vediamo nelle 4 esposte, tutte del 1930, “Paesaggio” e “Via alberata”,  con le diverse tonalità di verde, e i solari “Anemoni” e “Tulipani”.

Vicino a Modigliani anche Jan Waclaw Zawadowski, che giunge a Parigi, sempre dalla Russia, a trent’anni, e frequenta gli ambienti degli artisti a Montparnasse. Alla morte di Modigliani si trasferisce nel suo studio e si affida a Zborowski che gli chiede di firmarsi “Zavado”. Una vita intensa la sua, attiva piuttosto che tormentata, frequenta non solo pittori ma anche musicisti e scrittori, espone oltre che a Parigi anche a Londra, a Cracovia e New York, e dopo due retrospettive acquista la notorietà. Anche lui, come Krémégne, muore a 91 anni. Di “Zavado” 4 opere, molto diverse dalle precedenti, questa volta tutte del 1915: “Paesaggio del Sud” e “Collioure” sono frutto dei suoi viaggi nel sud della Francia, colpisce la loro solarità, mentre “Ritratto”  e “Conciatetti baschi” riflettono due atmosfere opposte, il primo ritrae un lettore pensieroso in un interno,  il secondo due uomini che lavorano su un tetto  sospesi su un mare blu con vele bianche.

Altri 13 “artisti maledetti”, da Solà a Paresce

E’ presente in mostra, con 4 opere del 1925, Léon Solà: tre figure sedute, “Ragazza con camicia azzurra”, e “Donna con ventaglio”, più “Il bevitore di vino” e una “Natura morta con tenda verde”, dalle forme ben definite, un cromatismo con prevalenza del rosso.

Molto diverse le tre opere del 1930 di  Eugène Ebiche, polacco, della seconda ondata della scuderia Zborowski, apparentemente vicino all’impressionismo ma in realtà più legato alla composizione da rendere con il cromatismo che alla luce e al colore fine a se stesso; nella maturità arriva a  prediligere il mondo plastico perché crea “emozioni e non sensazioni”. Sono esposti “Paesaggio”, “Conigli appesi”  e “Vecchia con pallone”, dalle forme confuse e quasi evanescenti.

Abbiamo poi artisti con 2 opere ciascuno. Di René Durey “Fabbrica” e “Natura morta”, entrambe del 1925,  precise e lineari, sul verde pastello la prima, tra blu e rosso, arancio e bianco l’altra.

Dello stesso anno, di  Celso Lagar-Arroyo, “Natura morta su una sedia” e “Giocatori di carte”, per il secondo è interessante il confronto con le opere sullo stesso tema di grandi artisti dell’epoca. 

Mentre i dipinti del 1930 di Aron Dejez sono molto diversi tra loro: “Paesaggio con carretto” è un esterno quasi naive, a differenza  di “Scena di taverna”, un interno intimo e cupo.  

Vi accostiamo  Marcel Gaillard, che dipinge “Paesaggio” e “Natura morta con coperchio”, 1930, il primo all’aperto con varie tonalità di verde, il secondo al chiuso, con bottiglia e pentola nel buio.

Di Gabriel Fournier, frequentatore della Rotonde con  Modigliani e altri artisti di Montparnasse, le due opere esposte sono a cavallo del contratto del 1920 con Zborowski, “Alberi” è del 1919, i rami contorti ricordano Artcher, “Nudo stante”, del 1920-21, ci ricorda l’opera omonima di Epstein.

Un “Nudo”  seduto in posa  frontale è di Zygmut Landau, più simile nelle forme floride a quelli della Valadon, è esposta anche “Natura morta con lepre”, del 1922 come il nudo, è un’originale composizione che si sviluppa in verticale, dal cromatismo smorto ravvivato dai pomi rossi.

Nettamente diverso da tutti Jean Hélion, che nel 1929 creò il gruppo “Cercle et Carré”, e si ispirò al neoplasticismo di Mondrian: lo si vede dalle sue due opere esposte del 1930, entrambe intitolate “Composizione”, con una linearità geometrica, fatta di orizzontali e verticali, che formano riquadri colorati. Per lui non è, come per Mondrian, un punto di arrivo, introdurrà poi curve e volumi e soprattutto nel 1939 si esprimerà nel figurativo di “Figura seduta”,  il percorso inverso di Mondrian che dal figurativo attraverso le varie correnti approdò alla “perfetta armonia” dell’astrazione.

Restano gli artisti di cui è esposta una sola opera, sono 5, che chiudono la nostra carrellata.

Un tema consueto quello di Thèrése Dubains con  “Vaso di fiori”, 1920, dalla brocca bianca escono steli delicati e corolle a raggiera, quasi sospese nell’aria;  come  è consueto “Casa dietro gli alberi”, 1916,  di Renato Paresce, con l’ispirazione cubista  nella scomposizione di quanto circonda la casa, dal terreno alle foglie. Inconsueto è  “Uomo con maschere”, 1930, di Raphael Chanterou, una figura intera con 30 maschere che riempiono lo sfondo in un’atmosfera surreale.

Concludiamo con  l’opera di Jeanne Hébutérne, che ritroveremo in due ritratti di Modigliani, di cui fu la compagna dalla tragica fine, come  vedremo: sono esposti “Adamo ed Eva”, 1919,  e “Interno con pianoforte”, sul recto, nel primo le figure sono allungate e quasi stilizzate con leggerezza come l’albero e il serpente, il secondo è la visione molto originale di un interno.

Alla  cavalcata tra gli “artisti maledetti” vogliamo porre come sigillo le parole di Raymond Nocenta, nel suo scritto sulla storia e l’epoca della Scuola di Parigi: “La loro arte aveva qualcosa di viscerale. Mettendola a punto essi hanno liberato forze oscure, millenarie, che costituiscono il fondo dell’anima ebraica e non erano mai state espresse in pittura prima d’allora”.  E quelle che il curatore Restellini pone a completamento della citazione: “Questi spiriti tormentati si esprimono in una pittura che si nutre di disperazione. In definitiva, l’arte loro non è né più polacca che bulgara, russa, italiana o francese, ma assolutamente originale; semplicemente, è a Parigi che hanno trovato i mezzi espressivi che meglio traducevano la visione, la sensualità e i sogni propri a ciascuno di loro”. E’  il filo rosso che accomuna personalità e forme espressive così diverse, il loro denominatore comune.

Prossimamente l’atteso finale con Soutine e, soprattutto, con il “principe di Montparnasse”, il grande Amedeo Modigliani, la cui breve vita con un finale da tragedia greca, ha lasciato opere di incommensurabile valore artistico e umano. Info

Palazzo Cipolla della Fondazione Roma Museo, Via del Corso 320 Roma,. Aperto tutti i giorni, lunedì ore 14,00-20,00, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 13,00 (autoguida inclusa) , ridotto euro 11,00 per 11-18 anni, oltre 65, studenti fino a 26 anni, militari e portatori di handicap; ridotto euro 10 per gruppi, euro 5,00 per scuole e 4-11 anni. Catalogo: Marc Restelllini, “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter”, 24 Ore Cultura, pp. 306, novembre 2013, formato 23,0 x 32,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr. gli altri nostri articoli sulla mostra in questo sito,  il primo “Modigliani, con gli “artisti maledetti alla Fondazione Roma” uscito il 22  febbraio, il terzo “Modigliani, il grande Amedeo e Soutine alla Fondazione Roma”, che sarà pubblicato il 7 marzo 2013.Per gli artisti richiamati espressamente, cfr. i nostri articoli in questo sito, su Cézanne il  24 e 31 dicembre 2013 , su  Mondrian il  13 e 18 novembre 2012..

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura: Modigliani, “Fanciulla in abito giallo (Ritratto di giovane donna con collettino)”,  1917; seguono, Derain, “Le grandi bagnanti” con a dx “Nudo stante”, 1908, e Kisling, “Ritratto d’uomo (Jonas Netter)”,  1920, poi  Feder, “Donna con vasi di fiori” con a dx “Ritratto di donna”, 1915, e Solà, “Il bevitore di vino”, con a dx “Donna con ventaglio”  e Natura morta con tenda verde”,  1925, quindi Arroyo, “Giocatori di carte”, 1925; in chiusura Helion, due dal titolo “Composizione”, 1930.

Dottori, mostra e serata futurista, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

L’attenzione al futurismo della Galleria Russo dopo “Chez Marinetti” si è espressa nella mostra “Gerardo Dottori. Brani di Futurismo del Maestro dell’Aeropittura”, aperta dal 6 febbraio all’8 marzo 2014,  “in coincidenza con la mostra al Guggenhem di  New York su “Italian Futurism, 1904-1944. Recostructing the Universe”, curata da Vivien Green, oltre 300 opere e un “ruolo di tutto rilievo” di Dottori presente con “Sala da pranzo di casa Cimino”, il “Trittico della velocità” e “Battaglia aerea sul golfo di Napoli”. Lorenzo Canova sottolinea al riguardo il rapporto con il Futurismo di Georgia O’ Keeffe, che in alcune opere dal 1919 al 1930 rivela una derivazione dalle  soluzioni spaziali e dalle vedute aeree del movimento, da Balla a Boccioni, da Severini a Dottori. La mostra romana e il catalogo di “Palombi Editori”  sono a cura di Massimo Duranti, in collaborazione con gli Archivi Gerardo Dottori di Perugia. Contributi di Canova, Baffoni, Floreani.

Nella città dove l’artista nato a Perugia visse ed espose dal 1920, divenendo prima protagonista con  Marinetti della stagione di futurismo, poi inventore dell'”aeropittura”, nella fase evolutiva del movimento , la galleria Russo oltre alla mostra  ha organizzato la “Serata futurista in guanti di daino”, nel vicino Teatro Eventi, rievocando la memorabile manifestazione di Perugia del 9 aprile 1914 tenuta con Marinetti sfidando i conservatori, ritratta in un disegno del giovanissimo Dottori.

La serata futurista al Teatro Eventi

La serata futurista, che veniva organizzata negli anni  dal 1910 al 1914,  non era soltanto uno spettacolo di avanguardia, era considerato “un moderno psicodramma, l’evento liberatore di nuove, vitali energie” per cui anche i forti contrasti erano scontati, anzi esprimevano “la lotta tra i vecchi pregiudizi ne i nuovi ideali estetici”.  Quella del 1914 a Perugia fu l’occasione per Marinetti di visitare il suo studio, tanto che sembra ne nacque l’invito a una mostra a Roma pochi giorni dopo.

Questa serata futurista, a 100 anni da allora, ideata da Roberto Floreani come altre celebrative del genere, una a Padova nel 2009, centenario del manifesto futurista – ha presentato una selezione di testi futuristi declamati dallo stesso Floreani, con Sergio Bonometti, molto espressivo nella voce e nella mimica,  mentre Michele Vigilante ha recitato le “pazze liriche” e la leggiadra Miriam Peraro  si è esibita in quattro esibizioni di “aerodanza” con evoluzioni armoniose e costumi appariscenti, il tutto accompagnato al pianoforte dalla “linea sonora” di Roberto Jonata.

I temi  e relativi testi danno un’idea della serata: le “Veloci geometrie luminose” mediante l'”Inno a Marinetti, l’“Irruzione antigraziosa” con il “Bombardamento di Adrianopoli”, le “Pazze liriche “ con “Uva pazza” e “Tormenti” del 1913 di Armando Mazza, uno dei futuristi presenti alla serata di  Perugia, poi “Dinamismi muscolari” nel Manifesto del Futurismo del 1909 e “Battaglismi” in un testo di Marinetti del 1910, “Modernolatria” con “Futurismo Hurrà” di Luciano Folgore e “Volospirale” con “In tuffo sulla città” di Ubaldo Serbo, fino a “Squilli rivoluzione” da “Rivoluzione” di Enrico Cavacchioli del 1914.  I titoli dell’aerodanza: “Apparizione aerodinamica” con “Tracciante tricolore” e “Decollaggio”, “Marciare non marcire” e “Volo spirale”.

La serata è stata  conclusa con il lancio di manifestini tricolori recanti  in un lato il foto ritratto di Dottori di Bragaglia, nell’altro il disegno di Dottori prima citato, espressivo e ironico, il teatro di Perugia è rappresentato nella platea e nei due ordini di palchi in tumulto, si vede chiaramente il lancio di ortaggi di cui sono tracciate anche le traiettorie, i quattro futuristi sul proscenio in vari atteggiamenti, uno colpito in testa, mentre l’autore si ritrae seduto a terra riparato dietro il tavolo.

Le tematiche innovative di Dottori, l’aeropittura

Prima dell’evento teatrale e all’uscita il pubblico ha potuto visitare di nuovo la mostra aperta da un mese, in una immersione totale nell’atmosfera futurista dalla vitalità spettacolare all’arte pittorica.

Ma qual è la posizione di Dottori nel movimento futurista, quale il suo apporto?  Viene rivendicato che Dottori non è solo il protagonista del “secondo futurismo”,  o più precisamente appartiene ai “futuristi di transito” come Depero e Prampolini; aderì al movimento dal Manifesto anche con scritti su “L’impero”, “Oggi e domani” e molte altre testate. Le sue prime opere futuriste risalgono al 1912 e 1914, ma in mostra vediamo opere fino al 1969, con un nucleo importante negli anni ’30, dopo il “Bozzetto di decorazione dell’Aeroscalo di Ostia”, che secondo Marinetti “segna una data importante nella storia della nuova pittura aerea”.

Il suo apporto non è solo pittorico ma anche teorico, come si vede dalle tematiche da lui sviluppate  in senso innovativo, ne fa un’ampia rassegna Massimo Duranti, curatore della mostra e del catalogo. Inizia come “futurista rurale”, all’inizio degli anni ’10 del novecento, poi eccolo “futurista mistico”, quindi dagli anni ’20 creatore dell'”aeropittura”  e inventore dell’ “arte sacra futurista”. 

Secondo Duranti incontrò “presto il dinamismo e la velocità della rivoluzione futurista, che subito declinò però in modo autonomo ed esclusivo nella dimensione della natura e dello spirito”. Con il futurismo rurale poneva come nuovo canone del futurismo il dinamismo della natura, che conosceva da vicino essendo stato immerso nell’ambiente umbro della sua Perugia, fonte di alta ispirazione; il suo futurismo mistico ridava vita alla visione più alta dopo la crisi seguita alla morte nel 1916 di Boccioni e Sant’Elia; con l’arte sacra futurista traduceva da credente non praticante in termini moderni l’iconografia che aveva una gloriosa tradizione fino al Rinascimento umbro.

L'”aeropittura” merita un discorso a parte, l’ispirazione fu il risultato di una volo con Mino Somenzi negli anni ’20, il modo per moltiplicare il messaggio futurista del movimento e della velocità “spostando dalla terra al cielo – è ancora Duranti – lo scenario di rappresentazione, dunque potenziando la dimensione spaziale rispetto a quella temporale”. In tal modo  “il volo non consentiva soltanto una nuova condizione fisica dell’osservazione, bensì una nuova dimensione mentale  di lettura dell’ambiente e del mondo”. In effetti le visioni dall’alto non sono solo a più largo raggio, ma appaiono “distorte, dilatate e perfino capovolte”, dando un nuovo volto alla realtà come si legge nel suo “Manifesto umbro dell’aeropittura”: “Una spiritualizzazione della natura e della dinamica vita di oggi intesa come magia per dare pensiero pur e anima pura alle cos e più terrestri”; con questa chiave di lettura: “Un segreto che la mia terra svela a chi la sappia sentire”.

Una varietà di approcci innovativi  non solo nella pittura e nell’impostazione teorica ma anche in altre espressioni concrete come i disegni di scenografie, e le illustrazioni di libri,  l’ambientazione di spazi e le progettazione di mobili, in una sorta di “ricostruzione futurista dell’Universo”, fino alle sue critiche d’arte, nonché negli scritti futuristi come “Parolibera”, le parole in libertà in mostra.. E’ ammesso alla Biennale di Venezia del 1924, primo pittore futurista, mentre Marinetti manifestava e fu arrestato;  poi altre partecipazioni a Venezia, e alla Quadriennale di Roma. Negli anni ’30 è presente con sue opere alle mostre di “aeropittura” in Europa e in America.

La guerra  la vide convinto interventista con gli altri futuristi nel battaglione Volontari Ciclisti Automobilisti, per 40 mesi al fronte, ma nel reparto sanità sembra non patisse  le delusioni dei più ferventi bellicisti come Boccioni dinanzi agli orrori della trincea. Continuò a scrivere e disegnare secondo il verbo futurista, poi la sua ottica si amplia,  l’influenza di Balla, da cui era affascinato, dopo gli anni ’30 si ritrova “sempre più raramente, fino a sparire del tutto”, sono sue parole. 

Autore di suggestive ambientazioni, quali quelle degli spazi nel ristorante perugino “L’altro  mondo” nel celeste siderale del Paradiso, il grigio pentimento del Purgatorio, il rosso vivo del fuoco dell’Inferno, vediamo esposti i “Bozzetti per arredi”; fino alla citata Sala d’aspetto dell’idroscalo di Ostia e alle pitture murali in interni di  chiese ed edifici nell’Umbria dove tornava spesso da Roma.

Con la fine del regime fascista, come gli altri futuristi e per altri versi D’Annunzio, subì un lungo ostracismo nel corso del quale continuò a dipingere,  fino alla riscoperta che ha fatto decollare le quotazioni, soprattutto dopo il Catalogo del 2006, dell'”aeropittura”, che caratterizza la gran parte delle sue opere; apprezzata anche l’idropittura con la tecnica molto personale dell’‘idromatite”.

La mostra è una carrellata nelle sue  molteplici espressioni artistiche, dalle opere figurative paesaggistiche e i disegni del primo quarto del ‘900, con molti ritratti e caricature, alle espressioni iniziali del dinamismo futurista, con dipinti e “idromatite”, dalle opere di arte sacra futurista  al culmine artistico nell'”aeropittura”, di cui sono esposti dipinti e bozzetti. Al termine  il nuovo paesaggio moderno e le ultime illustrazioni, che ci fanno  seguirne la sua vita artistica fino al 1976.

I disegni e i dipinti in ottant’anni di vita artistica

Tra le opere esposte c’è anche il “Progetto per un’aeronave dirigibile”, 1919, che esprime meglio di ogni altra considerazione, la sua visione della realtà che non si accontenta di guardare dall’alto ma vuole vivere attivamente; il disegno su precisa scala 1 a 100 ad acquerello reca calcoli precisi e un’immagine di sorvolo, senza intenti artistici ma descrittivi di una visione da realizzare in pratica. Sarebbe stato lungo 160 metri  dal diametro di 16 metri, come gli Zeppelin, con otto cabine.

Ma andiamo in ordine cronologico, dal primo acquarello su carta, “Rosa”, 1897, seguito dai “Bozzetti di putti” e “Studi per motivi decorativi”, 1898; quindi fino al termine del primo decennio del secolo, “Studio per testa d’uomo” e “Lavandaie”, “Donna seduta” e” Musico fibulato”, tutti su carta; mentre l’intenso “Fanciulla che legge”, e i naturalisti “Trittico degli alberi- I superstiti” e “Paesaggio con pagliai” sono  degli oli, il secondo su tavola su diversi piani prospettici, esposto per la prima volta.  Prima della guerra vediamo disegni di animali del 1912, “Pavone” e “Tacchino”, “Gallina con pulcini” e “Anatra”. Della vita militare  veri documenti grafici, cartoline con scritte e disegni umoristici, come “Di piantone al cancello…”, oppure descrittivi come l’ospedale. Negli anni successivi, per tutto il primo quarto del secolo, i disegni riguardano  poche figure femminili e moltissimi “Profili di uomo”, ritratti caricaturali delle più diverse fattezze e pose. Questa prima galleria grafica presenta anche un momento di vita familiare “Avanti al caminetto”, 1925, e i due esterni “Rocca di Assisi” e “Studio per Porto Venere”, il primo ben definito, il secondo schizzato. E si conclude con le varie figure in movimento nel dinamismo futurista di “Appunti allo stadio”.

Dei dipinti nella stagione futurista,  “Esplosione”, 1916-17,  sembra ispirato ai bombardamenti nell’irraggiamento luminoso centrale, che troviamo anche nel successivo “Gialli-violetti”, 1923, meno esplosivo: in entrambi intorno al nucleo centrale di un forte arancio,  c’è una spirale che esprime il risucchio di energia e anticipa le visioni dell’ “aerofuturismo”.  La geometria compositiva si ritrova in “Forme astratte”, primi anni ’20, dove non si sente più l’energia esplosiva e il cromatismo è più pacato con tinte pastello che degradano in vari tenui colori.  Anticipatori dell'”aeropittura”  vengono considerati anche “Sintesi di montagne”, carboncino e pastello del 1919, per il dinamismo ascendente delle montagne da lui studiato con riferimento alle Dolomiti mentre era in guerra di stanza al Col di Lana; e “Quattro studi per paesaggi”, tra cui uno ascensionale e un altro una veduta dall’alto della campagna umbra.  Dei primi anni ’20 è  “Ciclista” e del 1925 “Studio per trittico della velocità”, il primo con la figura in corsa avvolta in un vortice, il secondo con lo schizzo dell’auto che crea delle linee di forza ben espresso poi nell’opera finale.

Cronologicamente troviamo 3 opere di arte sacra futurista.  La “Madonna col Bambino”, 1924, esprime un’intensa spiritualità, la figura assorta, gli occhi chiusi nella tenerezza con il bue e l’asinello ai lati e il paesaggio umbro di sfondo, in una visione anch’essa tipica dell'”aeropittura”. Mentre “Crocifissione”, in idromatita su cartone, 1927,  è preparatorio del grande dipinto a olio realizzato per il “Manifesto dell’arte sacra futurista” del 1931: una composizione di straordinaria forza espressiva, con il cono centrale in cui è compreso il Crocifisso, la madre e una santa donna.  La terza opera sacra un bozzetto  per una vetrata poi non realizzata, che rappresenta il “Volto del Cristo” reclinato a destra come nella “Crocifissione”, in una composizione quasi cubista.

Ed ecco l'”aeropittura”, il “clou” della mostra, con circa 10 opere esposte, di cui 4 su carta: due  idromatite  dai forti colori e fortemente dinamiche,  “Esplosione dell’isola” , 1939, e “Saltatore con l’asta”, anni ’60; due  composizioni a inchiostro o carboncino, “Studio per ‘Uragano'” e “Le città d’Italia-Roma”, entrambe degli anni ’30. Va rilevato che “Esplosione nell’isola” è anche il soggetto di un olio su tavola molto anteriore, del 1927, a riprova della persistenza di stimoli e motivi ispiratori, qui sono le energie endogene della terra che esplodono come le bombe in guerra.

Non tutto è così violento, in “Notturno”, 1925, l’olio graffito esalta il dinamismo della luce che piove dalle formazioni astrali, su una natura essenziale negli alberi che spuntano dal verde. “Rondini in volo” e “Aeropaesaggio”, entrambi del 1932, esprimono:  il primo una visione aerea con i paesini fatti di piccoli cubi, le abitazioni viste da grande altezza in una natura monocromatica e stilizzata;   il secondo invece ha un cromatismo vivace, la visione è ravvicinata con chiesa e paesaggio, in alto un vortice di aeroplani in volo con scie e coni di luce.

Restano tre suggestive visioni aeree su tavola di panorami lacustri o marini.in un forte cromatismo isola il lago tra il verde, anzi i verdi, della natura, per poi sconfinare in una striscia di sabbia e nel mare,  dello stesso tipo la composizione di “Laghi italiani”, 1938, che però invece del mare presenta nello sfondo dei due laghi delle alte montagne, mentre “Coste e golfi”, 1935, dopo la piccola striscia di verde e case, ha un cromatismo viola, che trascolora.

Sono paesaggi aeropittorici che ritroviamo nella fase finale della sua vita artistica con il  “nuovo paesaggio moderno”: “Laghi umbri”, 1969, richiama, in un cromatismo diverso, il citato  “Laghi italiani” del 1938, mentre “Lago”, 1970, ripropone in ben diverso soggetto, il cono di luce che piove dall’alto in “Crocifissione”. “Elevazione”, 1945, e “Porto Venere”, 1958, richiamano gli elementi dell’aeropittura  nella forza ascensionale del primo e nella visione aerea del secondo, colori intensi.

C’è anche un’ultima opera, “Astrazione”, è del 1976, con una macchia di grande varietà cromatica si chiude un lunghissimo ciclo artistico, 80 anni, dal primo disegno esposto del 1997.

Lorenzo Canova  riferisce al radicamento territoriale che lo lega alla grande arte umbra quella che Enrico Crispolti ha chiamato “idealizzata visione della natura”  in “una disposizione mistico-contemplativa rivolta alla natura in un respiro cosmico”.  In tal modo realizza, è Canova che parla, “una fusione di elementi di innovazione e di anticipazione e di elementi ‘primitivisti'”, prefigurando alcune delle esperienze più innovative della vita e dell’immagine contemporanea.  Lo spiega così, in una conclusione che rappresenta il sigillo dell’opera e della figura di Dottori: “Continua a regalarci la sorpresa del suo sguardo difforme fatto di nuove prospettive sul paesaggio umbro e sulle città italiane, simboli del mondo intero ‘al di là e al di sopra’ per superare ‘il tradizionale orizzonte limitato da una linea orizzontale’ [Andrea Baffoni] e collegarsi all’occhio verticale e sterminato delle metropoli elettroniche contemporanee e alla visione astrodinamica dei viaggi interstellari e delle stazioni spaziali”. “Artista del 2000”, dunque: ne era consapevole, lui stesso si definì così.

Info

Galleria Russo, via Alibert 20, tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo. Lunedì,  ore 16,30-19,30; da martedì a sabato 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, tel. e fax 06.69920692. www.galleriarusso.com,
info@galleriarusso.com.  Catalogo: “Gerardo Dottori. Brani di Futurismo del Maestro dell’Aeropittura”, a cura di Massimo Duranti, Palombi editori, bilingue italiano-inglese, pp. 148, formato  22×22, dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le mostre citate cfr. i  nostri articoli: in questo sito su per “Chez Marinetti” il 2 marzo 2013, e sul Guggenheim il 21 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012; in “cultura.inabruzzo.it”  su Georgia O’ Keeffe 2 articoli del 6 febbraio 2012, sulla “Mostra del  Futurismo a Roma”  30 aprile 2009,   “A Giulianova ferragosto futurista”  1° settembre 2009, “Futurismo presente” 2 dicembre 2009.  

Foto

Le immagini sono state riprese alla Galleria Russo e al Teatro Eventi, si ringraziano gli organizzatori della mostra  e dello spettacolo teatrale con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, un momento di recitazione nella  “Serata futurista” al Teatro Eventi; seguono  “Esplosione”, 1916-17, e “Notturno”, 1925; poi “Laghi italiani”, 1938, e “Elevazione”, 1945; quindi “Porto Venere”, 1958; in chiusura,  un momento di danza nella “Serata futurista” al Teatro Eventi..

Modigliani, 1. Con Utrillo, Valadon e altri, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

La mostra “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter” alla Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, espone  dal 14 novembre 2013 al 6 aprile 2014 oltre 100 opere degli artisti che hanno rivoluzionato la pittura nei primi venti anni del ‘900, l’età d’oro parigina per vitalità e fervore artistico e di vita, dalla quale si dice che è nata l’arte moderna. Si tratta di Modigliani e Soutine, Utrillo e la madre Valadon, De Vlaminck e Derain, Antcher e Hayden, Kisling e Zawadowski, con altri 16, per un totale di  26 pittori.. Curata da Marc Restellini, organizzata da “Arthemisia” con la Pinacothèque de Paris e il contributo di 24 Ore Cultura, cui si deve lo splendido Catalogo, autore lo stesso Restellini, la mostra andrà successivamente a Milano al Palazzo Reale, nello stesso abbinamento della mostra su Edward Hopper, che ebbe 208.400 visitatori a Milano e 209.200 a Roma.

A parte la ricorrenza citata, l’esposizione alla Fondazione Roma si inserisce nel filone, voluto dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele, che ha visto in passato la mostra “La Collezione Zeri e Santarelli” nella stessa sede, e altre mostre basate su collezioni museali al Palazzo Esposizioni, con il Guggenheim Museum e con i Capolavori dello Stadhael, e  vede al Vittoriano in parziale coincidenza temporale con questa, la mostra delle opere del Museo D’Orsay in ristrutturazione.

Un affresco di vita oltre che di arte

Ma solo quest’ultima ha qualche analogia con quella di cui parliamo, in quanto espone le opere che hanno rivoluzionato l’Accademia del Salon nel postimpressionismo fino al simbolismo. Solo qualche analogia perché questa ha la particolarità di essere un affresco di vita oltre che di arte eccelsa, dato che quasi tutti gli autori delle opere esposte sono accomunati dalla sorte di vivere una misera esistenza e perseguitati in quanto ebrei; una vita alla quale l’arte, generalmente incompresa, offriva poco più dei mezzi per sopravvivere legandoli ai mercanti che spesso ne sostenevano le necessità primarie in cambio di esclusive sulla loro produzione artistica a ritmi spesso forsennati.

Non è solo il mondo dell’arte in un periodo di straordinario fervore creativo quello illuminato dalla mostra; si esce dall’impressionismo  legato alla natura, per un’arte senza riferimenti né al soggetto rappresentato né alle origini dell’autore, ma legata piuttosto agli stimoli della vita. E’ anche il mondo dei mercanti e dei collezionisti, che erano i destinatari finali della loro attività, e avevano un ruolo fondamentale nell’alimentare i talenti che con il loro intuito riuscivano a cogliere e sostenere in un mecenatismo  mosso da interesse artistico. 

Sono chiamati “artisti maledetti” non per una loro inclinazione alla trasgressione, come è stato in una certa misura per Caravaggio, quanto per la loro emarginazione sociale e personale: una vita grama e di stenti, in qualche caso resa ancora più precaria da problemi di salute – come la tubercolosi di Modigliani o l’alcoolismo  di Utrillo – e c’è anche la fine tragica ad Auschwitz – è il caso di Epstein e Feder. Era la vita che si svolgeva a Montparnasse, tra artisti pieni di talento e poveri di mezzi, che si incontravano negli stessi locali, condividevano analoghe difficoltà, e manifestavano uno straordinario estro creativo, accorsi da tutt’Europa a Parigi divenuta una calamita per l’Esposizione Universale con la Torre Eiffel che dominava la città. Non erano solo pittori, c’erano anche scrittori, Hemingway e Miller, intellettuali come Cocteau e politici.  

La loro precarietà esistenziale si reggeva su un equilibrio delicato dato dagli accordi – fissati in  veri e propri contratti – con il mercante, a sua volta finanziato spesso dal collezionista, mosso da simpatia umana e intuito artistico. Due i protagonisti di una catena che si traduceva nel sostegno decisivo agli “artisti maledetti”: il mercante d’arte polacco Léopold Zborowski e il collezionista Jonas Netter, della cui collezione sono le opere esposte in mostra, anch’essi ebrei.

Netter era un agiato commerciante  appassionato d’arte e incline al collezionismo, si avvicina agli “artisti maledetti” all’inizio perché per lui erano inaccessibili le quotazioni raggiunte dagli impressionisti, ma poi sente il fascino della loro vita da “boemienne”, misera però creativa, e si impegna per sostenerli, finanziando anche il loro soggiorno in altre località quando si rendeva necessario: eccolo entrare in stretto contatto con  Modigliani, Soutine e Utrillo, e anche con Valadon e Kisling, Antcher e Hayden, Krémegne e Kikoine, Epiche e Fournier, tutti presenti in mostra. In cambio del sostegno che assicurava, per il tramite del mercante Zborowski, tanti quadri erano prodotti da spiriti tormentati spesso fino alla disperazione che trovavano nell’arte il rifugio oltre al sostentamento. Questo è il motivo che li accomuna, al di là delle varie provenienze nazionali e inclinazioni stilistiche, questo è l’eccezionale interesse umano oltre che culturale della mostra.  

Sono opere divenute visibili da pochi anni, precisamente da quando gli eredi del collezionista Netter hanno costituito una Fondazione per proseguire, in un certo senso, l’opera del loro progenitore: aiutare i giovani e chi ha bisogno di un sostegno per esprimersi nell’arte. Va riconosciuto che con questa azione Netter più che da collezionista interessato si comportò da mecenate illuminato.

Suzanne Valadon e la “trinità maledetta”

La nostra rassegna degli “artisti maledetti” cercherà di inquadrarne le opere nella vita molto tormentata,  perché ci sembra questa la cifra della mostra, il suo valore umano oltre che artistico.

Iniziamo con la madre di Utrillo, pittrice anch’essa, Suzanne Valadon, del 1865, quasi 20 anni prima di Modigliani nato l’anno dopo suo figlio, che vide la luce nel 1983. Sia per la sua precedenza anagrafica rispetto agli altri “artisti maledetti”,  tutti nati negli stessi anni di Modigliani, sia perché la sua vita movimenta è emblematica della loro inquietudine, sia infine per il suo legame materno con Utrillo, anch’esso inquieto e tormentato, ci sembra la degna “apripista” di questi artisti.  

Lo stesso suo nome ne evoca le tempestose vicende di vita, come modella ebbe intense relazioni amorose con molti degli artisti per i quali posava, tra loro Renoir e Toulouse Lautrec; quest’ultimo ne descrisse l’attrazione esercitata paragonandola alla Susanna biblica con i vecchioni, immagine che le piacque al punto di cambiare il proprio nome da Maria-Clementine in Suzanne. Fu proprio Toulouse Lautrec ad avviarla al disegno e ai primi pastelli, seguendo un’inclinazione istintiva che  la rendeva attenta osservatrice del lavoro dei pittori mentre posava per loro come modella.

Sua madre Madeleine si era trasferita a Parigi subito dopo la sua nascita, dopo la morte del marito, in prigione per aver fabbricato monete false, un inizio di vita tragico con un seguito movimentato. Lavora sin da piccola, date le condizioni di indigenza della madre, anche in un circo, e a 15 anni inizia a fare la modella, lavoro che le fa dire subito “Finalmente! Non sapevo perché, ma sapevo di essere approdata a qualcosa che non avrei più lasciato”.  Poserà per dieci anni, la lista dei pittori è lunga, e così quella dei suoi amanti, citiamo solo la relazione di sette anni con  Puvis de Chavannes, 40 anni più di lei, quelle con Renoir, di 27 anni più anziano, e con Toulouse Lautrec, coetaneo e vicino di casa, che se ne innamorò follemente. Nei dipinti dei pittori è riconoscibile lei come modella di indubbia bellezza, capelli biondi, occhi azzurri, corpo sensuale (in particolare per Renoir in “Ballo in città” e “Ballo a Bougival”, “La treccia” e varie “Bagnanti”; per Lautrec in due “Ritratti”,  “La bevitrice”, e “Il circo”).  Nel 1983 nasce il figlio Maurice con incertezze sulla paternità fugate dal riconoscimento, otto anni dopo, dal giornalista spagnolo Miguel Utrillo.  La prima opera di Suzanne è un “Autoritratto” nell’anno stesso della nascita del figlio Maurice Utrillo, fino al 1990 molti disegni soprattutto del figlio. Ne segnano la vita amori e matrimoni, ma anche l’amicizia con Degas che ne apprezza la pittura, la incoraggia e le insegna l’incisione. Nel 1896 sposa Paul Mousis, un  ricco agente di cambio e può avere una vita agiata, ma il figlio Maurice già a tredici anni cade nell’alcolismo e  fa corsi di disintossicazione. L’agiatezza termina quando nel 1909 lascia il marito per un giovane pittore amico del figlio, André Utter – lo sposerà all’inizio della guerra 1915-18 – che le dà la spinta decisiva verso la pittura, divenuta per lei attività esclusiva: dipinge nudi femminili seguiti da altre opere.

Tra gli anni ’20 e gli anni ’30 il suo periodo più produttivo, espone nelle principali gallerie, diviene nota all’estero, il collezionista Netter si interessa a lei e acquista le sue opere. Il figlio diviene pittore sempre più apprezzato, i dipinti di Utrillo hanno un florido mercato.  I tre sono chiamati “la trinità maledetta”, nel 1931 si separa da Utter, continua a dipingere attivamente ed  entra nel gruppo “Donne artiste moderne”. Nel 1934 l’amicizia con il giovane pittore ascetico Gazi, l’anno dopo Utrillo si sposa, lei continua a dipingere soprattutto fiori fino alla morte avvenuta nel 1938.  

Uno stile forte il suo, definito “virile”,  una varietà compositiva e una vivacità cromatica che non si riscontrano nella gran parte degli altri “artisti maledetti”, in particolare nel figlio Utrillo. Sono 13 le opere esposte, la carrellata  comincia con il disegno “Ketty nuda mentre si stiracchia”, 1904, seguito da “Tre nudi nella campagna”, 1909, figure snelle dai contorni definiti, mentre i successivi “Nudo che si pettina”, e “Due nudi dopo il bagno”, del 1916, hanno una corporeità morbida, sono sfumati con una forte resa cromatica. E’ il pendolo che vediamo anche negli altri dipinti, tra il cromatismo sfumato e i contorni netti e ben definiti: ci sono le scene paesaggistiche di “Veduta di Corte (Corsica)”, 1913, un villaggio sulla collina in un figurativo nitido e definito, posto cronologicamente tra due opere fatte di macchie cromatiche più che di contorni, “Chiesa di Neyron”, 1910, e “Nel bosco”, 1914; mentre con “Paesaggio a Vieux-Moulin” la composizione diventa schematica ed essenziale. Nella “Natura morta con tovagliolo”, 1915, e “Vaso di fiori”, 1917, prevalgono le macchie di colore. Anche nelle figure di donne oscilla tra il cromatismo sfumato di “Ritratto di Gaby”, 1917, e i contorni marcati di “Ritratto di Maria Loni”, 1918. Le sue figure sono realistiche e vigorose, “la nudità in Valadon non è né sensuale  né volgare, – ha scritto  Daniel Marchessau nel 1996 in un Catalogo – essa rivela una complicità sororale con le modelle, talora venata di compassione, e sempre piena di umanità”.  E lo vede dai gesti e  dalle pose, e dal nodo naturale con cui tratta i capelli. Sono immagini espressive della vita quotidiana, si sentono influssi dei tanti pittori frequentati ma lo stile è del tutto personale.

Utrillo, tra l’alcool e la grande pittura

Dalla madre al figlio, Maurice Utrillo, la cui storia tormentata inizia con l’incerta paternità: “Nato da Marie-Clémentine Valadon e da padre ignoto”, secondo la dichiarazione del 26 dicembre 1883, si ritenne figlio del cantante e pittore Adrien Boissy, “ubriacone” come diventerà lui, anche perché la madre diceva di non sapere chi fosse il padre in un periodo in cui era l’amante di Boissy oltre che di Puvis de Chavannes, Renoir e Miguel Utrillo. Il dubbio fu fugato non solo dal riconoscimento formale di quest’ultimo, che diede il nome al figlio quando aveva otto anni, ma anche dalla notevole somiglianza con lui e dall’esplicita ammissione della madre nel 1934 alla morte di Miguel.

L’alcolismo di Utrillo si manifestò a 13 anni, forse perché si fermava nei bistrò parigini, ma venne aggravato dal fatto che la nonna quando aveva 16 anni cercava di sedare con il vino le crisi epilettiche della sua adolescenza; il male divenne così acuto che dovettero ritirarlo dalla scuola. Era introverso con sbalzi d’umore che lo facevano passare dalla dolcezza alla violenza. La madre, invece, quando lo riprese con sé nella sua vita movimentata, su consiglio di un medico applicò la “terapia della pittura”, ottenendo il risultato di far esplodere il suo talento artistico senza peraltro vincere l’alcolismo, tanto che nelle crisi ricorrenti arrivava a bere la trementina e l’acqua di colonia usata per diluire i colori della tavolozza. A vent’anni doveva portare ogni sera un nuovo quadro alla madre, dipinto all’aperto tra le povere strade e le case fatiscenti del quartiere, Montparnasse allora misero e desolato, dov’erano locali malfamati in cui Maurice beveva la sera e al mattino dipingeva per pagare il conto. Fu proprio questa necessità a far sì che la sua produzione artistica non si interrompesse mai, neppure nei periodi più critici della sua vita per l’implacabile alcolismo. 

I problemi di salute e la vita difficile, nonché i locali frequentati e le bevute, lo avvicinano a Modigliani, altrettanto tormentato: per avere un’idea dell’atmosfera si pensi che Utrillo barattò i vestiti dell’artista italiano per due bottiglie di vino senza che questi reagisse, e che anche le prostitute del quartiere lo irridevano chiamandolo “le fou de la Boutte”, mentre i bambini lo avevano soprannominato “Litrico”, sempre per l’alcolismo. Nel 1916, quando aveva 33 anni,  il mercante Zborowski si interessò  a lui, seguito dal collezionista Netter, per il livello artistico raggiunto, mentre per l’alcolismo fu rinchiuso  quattro mesi nel manicomio di Villejuif, dove dipinse accanitamente con un maggiore uso del colore. 

Preso da ritorni infantili, a 40 anni si isolava in casa giocando con il trenino elettrico regalatogli dalla madre, l’alcolismo non gli dava tregua, tentò anche cure di disintossicazione con l’aiuto finanziario del collezionista Netter, ma ricadeva sempre nel vizio del bere, con continui passaggi al posto di polizia o all’ospedale, dipingeva anche lì, ovunque. Viveva con la madre che definì nell’Autobiografia “una santa donna che venero e benedico come una dea dal profondo della mia anima, una creatura sublime per bontà, rettitudine, carità, abnegazione, intelligenza, coraggio e dedizione”, e ancora “una donna d’eccezione, forse la più grande luce pittorica del secolo e del mondo”.

Le riconosceva il merito di averlo allevato “secondo i principi più rigorosi della morale, del diritto e del dovere” e si rammaricava di non aver seguito i suoi consigli e di essersi lasciato trascinare “sulla strada del vizio, senza accorgermene, per colpa della frequentazione di creature lubriche e immonde, viscide sirene dagli occhi ardenti di perfidia”  le quali hanno fatto di lui, che era “un rosaio un po’ appassito, un ripugnante ubriacone, oggetto di pietà e di pubblico discredito”, oltre che “responsabile dell’infelicità” materna.  Forse questa enfasi portò alla definizione di loro due  con il marito di lei Utter, conviventi, la “trinità maledetta”, anche per gli eccessi nel tenore di vita consentiti dalle disponibilità economiche derivate dalle elevate quotazioni raggiunte dai suoi dipinti, fino al record di 50.000 franchi di una sua tela nel 1926, quando era diventato ricco e famoso.

Nel 1928 fu nominato Cavaliere della Legion d’onore e decorato dal sindaco di Lione, divenne cattolico e si fece battezzare, ma continuò a bere. La madre, con cui visse fino a 52 anni, riuscì a farlo sposare  nel 1935 con una vedova, Lucie Valore; si stabilirono a Le Vésinet dove visse da sequestrato in casa e continuò a dipingere vedute di Montmartre come faceva nella miseria, indifferente all’ambiente dei tutto diverso che ora lo circondava. Suzanne Valandon morì nel 1938, lui non andò al funerale della madre, ma alla stessa ora dipinse il “Calvario di Saint Pierre de Montmartre” ispirandosi a una grande fotografia di lei. La sua religiosità diventò furore mistico, “è pazzesco quanto prega quell’uomo”, disse Petridès a Francis Carco. Morì nel 1955 a 72 anni. Nulla di scontato o di abitudinario nella sua vita, lo ricorda Claude Roger-Marc nell’introduzione alla  monografia “Utrillo” del 1953: “Utrillo non si è abituato a nulla, né alla vita, né alla gloria, e nemmeno alla pittura”. Lo spiega così: “Nella sua selvatichezza e semplicità, incapace com’è di progredire perché vincersi equivarrebbe a rinunciare a se stesso, è saggio nella totale ignoranza di ogni saggezza, è grande perché è rimasto un bambino”.  

Ci torna in mente il pensiero di Giacomo Leopardi: “I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto”. Il “niente” possono essere le vie misere e le case fatiscenti di Montmartre in cui trovava il suo “tutto” anche quando era ricco e famoso. Dal primo periodo impressionistico al “periodo bianco”  con un cromatismo particolare,  Roger-Marc ammira “il cielo che non solo palpita al di sopra di ogni suo paesaggio, ma illumina i muri, l’asfalto, la terra stessa dei suoi riflessi, dei suoi fremiti”, fino a quando, secondo il curatore Marc Rebellin, “le linee sono più dure, i contorni più netti, i colori più crudi. I suoi paesaggi sono popolati  di figure femminili dai fianchi larghi”.  Nei suoi dipinti c’è la Montparnasse di allora, “quell’umile scenario di case fatiscenti, livide e tristi, quegli alberi rinsecchiti in fila come stecchi”; il quartiere della Boutte aveva  “le sue catapecchie nella sterpaglia, i padiglioni, gli studi fatti di assi di legno, i giardini e, qua e là, dietro le staccionate, i terreni abbandonati, che di notte si popolavano di sgualdrinelle sentimentali e di temibili malviventi”.  

Vediamo esposta  “Rue Muller a Montmartre”, 1908, un agglomerato di edifici e una lunga scalinata di fronte, con alcuni passanti, si sente isolamento e squallore; stessa sensazione nelle altre, presenza umana scarsissima o inesistente, solitudine: così “Montmagny”, 1906, e “Porte Saint-Martin”, 1908,  “Rue Norvins”, 1909, e “Rue Mercadet a Parigi”, 1911, “Avenue Rozée a Sannois”, 1912, e “Strada a Fontenaibleau”, 1916, e le piazze, “Square de Messine”, 1909, e “Place Cornot ad Argenteil”, 1915, quasi metafisica; mentre “Piazza della chiesa a  Montmagny”, 1907, introduce i pittoreschi scorci di chiese, dove non mancano poche, piccolissime e quasi invisibili figure di fedeli:  sono “Chiesa di periferia”, 1909, dalle linee nette, “Chiesa di Sermaize” e “Chiesa di Barcy”, entrambe 1914-16, in un’atmosfera più sfumata: era ancora lontana l’infatuazione mistica dell’ultima fase della vita, ma lo interessavano le linee architettoniche, e le chiese erano un soggetto ideale sotto questo aspetto.

Dinanzi alle opere esposte, che danno un’immagine opposta rispetto all’umanità e al  forte cromatismo  della Valadon, si sente una profonda solitudine e desolazione, accentuate dai contorni sfumati come in una nebbia sottile e dalle piccolissime figure isolate che sembrano smarrirsi; è ben diverso dalle piazze metafisiche, cui va l’associazione di idee, dove la nettezza delle linee e delle ombre e le figurette dialoganti, con il treno lontano, danno sospensione e  senso dell’attesa.

La mostra presenta tanti altri “artisti maledetti”,  la nostra visita continua con loro, li racconteremo prossimamente, fino a Soutine e al “clou” con Amedeo Modigliani, il “principe di Montparnasse”.  

Info

Palazzo Cipolla della Fondazione Roma Museo, Via del Corso 320 Roma,. Aperto tutti i giorni, lunedì ore 14,00-20,00, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 13,00 (autoguida inclusa) , ridotto euro 11,00 per 11-18 anni, oltre 65, studenti fino a 26 anni, militari e portatori di handicap; ridotto euro 10 per gruppi, euro 5,00 per scuole e 4-11 anni. Catalogo: Marc Restelllini, “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter”, 24 Ore Cultura, pp. 306, novembre 2013, formato 23,0 x 32,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr. i prossimi due nostri articoli sulla mostra in questo sito, “Modigliani, con gli “artisti maledetti” alla Fondazione Roma”, e  “Modigliani, il grande Amedeo e Soutine  alla Fondazione Roma”, che saranno pubblicati il 5 e 7 marzo 2014. Per le mostre citate nel testo cfr. i nostri articoli: in “cultura.inabruzzo.it” su Hopper l’11-13 giugno 2010 e sui Capolavori dello Stadhael Museum, il 13 luglio 2011 tre articoli ; in questo sito sulle Collezioni Zeri e Santarelli il 15 ottobre 2012 e sul Guggenhiem Musem il 22, 29  novembre e 11 dicembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura: Modigliani, “Elvire con colletto bianco”, 1917-18; seguono  Valadon, “Veduta di Corte (Corsica)”, 1910, e “Ritratto di Maria Lani”, 1928; poi,  Utrillo, “Porte Saint-Martin”,  e “Rue Muller a Montmartre”, 1908, quindi Modigliani, “Ritratto di Zborowski”, e “Ritratto di Lepoutre”,1916; in chiusura “Amedeo Modigliani”, fotografia del 1917.

Dio, mistero senza fine, in un libro di Gelasio Giardetti

di Romano Maria Levante

Gelasio Giardetti, già autore nel 2008 del libro “Gesù, l’uomo”,  ha appena pubblicato il nuovo  libro “Dio, fede e inganno”, nel quale affronta un tema quanto mai arduo. E lo fa mettendo in discussione principi e precetti di fede sottoponendoli all’analisi impietosa della ragione che non risparmia le contraddizioni tra insegnamenti e realtà: sia nelle Sacre scritture sia nel comportamento delle istituzioni religiose e nel funzionamento della società lontana dai principi di bontà e giustizia attribuiti al Dio creatore, onnipotente e onnisciente. Completano l’analisi i confronti altrettanto impietosi tra il pensiero credente e quello ateo e tra le società credenti e quelle non credenti.

Un libro coraggioso e documentato

E’ un libro innanzitutto coraggioso, perché affronta temi delicati che toccano la sensibilità di larghi settori  della pubblica opinione senza timidezza, in un modo che può sembrare spregiudicato, mentre è il frutto naturale del pragmatismo del ricercatore: non di ricerche sociologiche e storiche, dove tutto resta opinabile, ma di ricerche scientifiche che devono basarsi su evidenze concrete.

Poi è un libro documentato, ogni affermazione è suffragata da riferimenti precisi che spaziano in un arco molto vasto: dalle Sacre Scritture e dall’azione della Chiesa che le ha poste al centro del proprio sistema spirituale e temporale, alla società in cui viviamo nella sua realtà storica e in particolare a quella capitalistica, fino alle società non credenti poste a confronto con quelle credenti. 

La logica del ricercatore che vuole toccare con mano senza lasciarsi sedurre da visioni consolatorie è presente in ogni passaggio del libro e porta l’autore ad essere così intransigente sul piano logico da concludere con una condanna senza appello delle concezioni religiose, quella cristiana in particolare che nasce dal tronco della rivelazione biblica su cui si è innestata la figura di Cristo divenuta prevalente. Il Cristo cui ha dedicato in precedenza il libro altrettanto coraggioso e documentato, “Gesù, l’uomo”, nel quale all’ammirazione per la figura terrena del Cristo rivoluzionario è unita la negazione del Cristo trascendente, che l’autore si sente di sostenere in base a un riscontro accurato con le voci della rivelazione, come i Vangeli, e a un’attenta analisi storica.

Non c’è nulla di implicito o inespresso, né si giunge per gradi alla conclusione contraria alla teoria creazionista, è evidenziata già nella Prefazione dove, con i toni e gli accenti della denuncia, sono messe a nudo le contraddizioni  tra i principi evangelici che dovrebbero reggere le società dei credenti e i loro comportamenti pervicacemente trasgressivi, fino agli orrori ricordati con parole di forte indignazione. La passione civile porta l’autore a superare l’asettico approccio del ricercatore per appassionarsi ai risultati che confermano un assunto già presente nella sua mente, e non potrebbe non esserlo avendo sotto gli occhi le nequizie del mondo,  l’opposto dell’immagine di un essere superiore con i caratteri dell’onniscienza e onnipotenza unite alla somma bontà e giustizia.

Affermiamo questo per sottolineare che pur nel rigore dell’approccio scientifico non ha mai toni freddi e distaccati, ma rende partecipi del mistero sull’esistenza di un essere supremo creatore del mondo e padrone dei suoi destini considerandolo  nell’immanenza della vita reale dell’umanità.

Dio, mistero senza fine, abbiamo intitolato, perché il mistero resta e non avrà mai fine, anche se l’autore ritiene di averne svelato una parte, quella che attiene alla fede da lui accostata forse troppo arditamente all’inganno. Si possono ingannare molti per poco tempo o pochi  per molto tempo, secondo un antico detto, non molti per molto tempo come farebbero le religioni. Certo, l’esigenza consolatoria e rassicuratrice della specie umana le aiuta a diffondersi e radicarsi, e la loro molteplicità e persistenza in tutte le epoche e in tutte le zone del mondo anche le più remote porta  a pensare che il mistero di Dio non è circoscrivibile a questa o quella credenza ma tuttavia è immanente nell’umanità pur nella sua irraggiungibile trascendenza. E tra le prove ontologiche dell’esistenza di Dio trovate dal pensiero filosofico e quelle cui arriva parte del pensiero scientifico forse questa semplice constatazione vale quanto una eloquente testimonianza collettiva.

E’ difficile ritenere, d’altra parte, che la perfezione delle leggi dell’universo non abbia alla base un’intelligenza superiore, comunque la si voglia definire; e se la si riferisce al caso le probabilità sono infinitesime come ci insegna la stessa scienza. La ragione non accetta le semplificazioni cui porta la fede, ma non riesce neppure a dare una risposta alternativa. E’ comprensibile, tuttavia, che l’autore voglia toccare con mano, e lo fa con ferma determinazione, senza essere condizionato come noi dall’anima “nativamente religiosa carica del retaggio di fede tramandato dalla mia gente”, per dirla con D’Annunzio. Una gente che crede in un Dio a immagine e somiglianza dell’uomo quando sarà giunto al termine di un processo evolutivo infinito, da cui si è ancora molto lontani.

Gli errori della Chiesa e le contraddizioni del mondo attengono a un ambito rispetto al quale l’idea di Dio è superiore incommensurabilmente e in quanto tale indecifrabile, anzi imperscrutabile, quindi  non ne viene toccata. Ed è positivo sottolineare tali errori e contraddizioni in un’analisi serrata e impietosa come fa l’autore.

Seguiamolo in questo suo accidentato e coraggioso percorso.

L'”inattendibilità” di tanti passaggi della rivelazione biblica

L’inizio è folgorante, “l’incredibilità del Dio trascendente” emergerebbe dallo stesso Libro sacro  posto alla base della Rivelazione, quindi come prova della sua esistenza offerta alla fede umana: la Bibbia che peraltro risente di culture e religioni più antiche riviste nell’ottica monoteistica. E questo per le sue contraddizioni,  incoerenze ed errori ritenuti plateali rispetto a quanto il pensiero scientifico ha dimostrato, in contrasto insanabile con la sua dichiarata provenienza diretta da Dio.

L'”inattendibilità” della Bibbia viene prospettata per la creazione dell’Universo e per la creazione della vita, dato che le implicazioni pratiche di quanto descritto risulterebbero insostenibili logicamente e impossibili praticamente, e così per il diluvio universale e altri eventi che esprimono  lo sviluppo della società umana  tra mito  e storia visti dall’autore con spietato realismo.

Per avere un’idea del rigore del suo approccio scientifico si consideri che dimostra l’impossibilità per  l’arca di Noè di salvare le oltre 20.000 specie animali esistenti calcolandone la capacità  sulla base delle misure bibliche in 41.000 metri cubi con lo spazio sufficiente solo per  1000 coppie di animali e per l’alimentazione loro e della famiglia di  Noè. Sembrerebbe un cavillo o una pedanteria, ebbene è una tessera del mosaico di verifiche che compie con la stessa meticolosità da ricercatore su  tante altre affermazioni del Libro sacro, fino a  quelle relative  agli aspetti  più profondi e interiori  della natura del Creatore.

La moralità e l’etica che emergono dalla Rivelazione minerebbero per altro verso l’esistenza di Dio perché  la sua spietata violenza vendicativa appare in stridente contrasto con l’impalcatura teologica fondata sui più alti concetti di giustizia e di etica, di bontà e di spiritualità. In effetti  queste considerazioni  turbano anche la coscienza del credente quando la lettura biblica domenicale molto spesso presenta un Dio crudele e spietato del tutto diverso dall’immagine invece caritatevole che emerge dalla lettura del passo evangelico abbinata  nella stessa giornata. Di certo Cristo con la sua predicazione imperniata sulla carità ha dato al Dio cristiano universale che lo ha mandato sulla terra per riscattare l’umanità un volto ben diverso dal Dio biblico protettore del popolo ebraico. In fondo nella SS. Trinità dei cattolici Dio rappresenta la legge, lo Spirito Santo la sapienza, Cristo l’amore.

L’autore non trae la conclusione dell'”inesistenza” del Dio creatore solo dalla constatazione che le parole bibliche sono fallaci; alla risposta che sono state scritte dall’uomo replica che allora non può essere quella la prova dell’esistenza di Dio, al contrario dimostrerebbe come chi le ha scritte secondo lo spirito del tempo abbia fatto leva sull’insicurezza e sulla paura umana per far accettare facilmente l’idea di un Dio invincibile, tale da proteggere prima il popolo eletto poi l’intera umanità.

Non si può ridurre a poche frasi la complessità dell’analisi svolta dall’autore che replica anche alle osservazioni dei creazionisti basate sul simbolismo e sull’insufficienza delle  parole rispetto alla grandezza della creazione: un’analisi stringente che può far sorgere dei dubbi anche al credente.

ll contrasto della società religiosa e umana con l’etica divina

La sua visione supera presto l’ambito biblico, pur fondamentale nell’impostazione generale, per estendersi al rapporto tra l’essenza di Dio e i comportamenti della società religiosa. Qui il suo ragionamento è improntato a una logica consequenziale: se quello della creazione è un progetto con forti basi etiche, almeno la società religiosa dovrebbe ispirarsi ad esso con assoluto rigore. Invece la moralità e l’etica nel governo della Chiesa  spesso sono mancate del tutto, come dimostra con un’analisi altrettanto impietosa riguardante non solo l’Inquisizione e le malefatte di  pontefici indegni, il Borgia primo tra tutti, ma anche atteggiamenti negativi recenti come quelli verso forme pur ispirate al pensiero evangelico quali la “teologia della liberazione”, osteggiata per sostenere classi dominanti altrettanto indegne; fino alla pedofilia sacerdotale e ai danni  morali che l’autore vede prodotti dall’integralismo e dall’indottrinamento religioso.

Dalla società religiosa si passa alla società umana, e qui non occorre scavare per trovare le molteplici nequizie che contrastano radicalmente con il progetto concepito dai creazionisti di un mondo  guidato da sani principi etici e morali. Le vediamo tutti i giorni, e l’autore cita quelle che gli sembrano le più stridenti, legate al sistema capitalistico per la volontà di potenza che porta agli armamenti e alle guerre e per il potere economico-finanziario dominato da criteri di profonda ingiustizia e immoralità; un capitalismo al quale la Chiesa è stata storicamente alleata nonostante, afferma, rivestisse tanti caratteri in contrasto con i principi che invece la religione dovrebbe voler vedere realizzati nella pratica. Siamo su un piano inclinato che farebbe scivolare nella politica se l’autore si limitasse ad affermazioni apodittiche, ma lo spirito del ricercatore resta vivo con citazioni precise di fatti e responsabilità; vengono citate anche le crisi economico-finanziarie più recenti  per ricordare a tutti come le contraddizioni siano plateali e drammaticamente attuali.

A questo punto si dovrebbe entrare sul tema del male, sulla sua compresenza con il bene per la legge degli opposti, ciascuno dei quali è necessario per l’esistenza dell’altro, e sulla libertà di scegliere data all’uomo legata al suo libero arbitrio, connotato essenziale della sua stessa  umanità. Per cui un società  religiosa e umana in cui trionfi il bene va vista come una conquista a cui si deve tendere, ma non come una condizione in assenza della quale si annulla qualunque disegno divino.

Dal pensiero credente e i dogmi al pensiero non credente

La critica serrata dell’autore preferisce tornare sull’insegnamento della chiesa, ed attacca i dogmi  e le manifestazioni ritenute soprannaturali su cui fa si fa leva per accrescere un proselitismo alimentato dalla superstizione. Si tratta pur sempre di visioni umane la cui interpretazione risente dei tempi e delle circostanze; del resto sono stati i Concili vaticani o le pronunce papali a validarle.

La Resurrezione e l’Eucarestia, come considerate dalla religione cattolica, vengono  analizzate nelle loro contraddizioni che spesso hanno diviso la stessa chiesa al suo interno. Per la Resurrezione, addirittura, la contraddizione sarebbe tra le parole dette direttamente da Cristo, dalle quali se ne dedurrebbe l’incorporeità, e i Vangeli, che si riferiscono espressamente all’intera entità umana fatta di corpo e spirito. Rispetto all’Eucarestia la tesi è che gli evangelisti più che all’esperienza diretta di Cristo si siano riferiti alla prima lettera ai Corinzi di Paolo, che descrisse in anticipo di 30 anni rispetto a loro la ripetizione da parte di Gesù della pasqua ebraica; non serve neppure aggiungere che il ricercatore scientifico avanza altre considerazioni negazioniste sull’impossibilità di trasformare il pane in corpo e sangue, e ricorda i casi in cui fenomeni di sanguinamento dell’ostia, ritenuti miracolosi, hanno poi trovato elementari spiegazioni scientifiche. La verifica scientifica oltre a quella razionale è impietosa, ma forse si sottovaluta il valore simbolico che vi è riposto.

Nel  libro non c’è solo verifica scientifica e razionale di formulazioni specifiche, viene messo a confronto il pensiero credente con quello non credente , e soprattutto il funzionamento pratico delle società che si ispirano alle due opposte concezioni, quella fideistica e quella atea.

Del pensiero credente, anche non cattolico, si sottolineano gli aspetti consolatori volti ad assicurare un al di là di durata infinita colmo di promesse a compensazione di una vita grama limitata nel tempo, cambio vantaggioso che farebbe sopportare ingiustizie o sacrifici altrimenti intollerabili: in particolare il paradiso cristiano con la beatitudine della vicinanza a Dio e quello musulmano con le promesse delle vergini che attendono il martire per soddisfarne i desideri nell’eternità. Mentre del pensiero non credente si riportano le  concezioni dell’ateismo secondo cui pensiero e materia sono legati indissolubilmente perché il primo proviene dal cervello che è un elemento materiale.

Passa in rassegna il pensiero ateo partendo dal “canto dell’arpista” dell’antico Egitto che dopo la constatazione dell’inesistenza dell’al di là lanciava l’esortazione “divertiti e non stancarti di farlo!” da cui forse ha tratto ispirazione la campagna ateista che ha furoreggiato in Gran Bretagna, con lo slogan divenuto spot pubblicitario contro le associazioni religiose, “Dio non c’è, spassatevela!”.

Quindi  Lucrezio, secondo il quale vale solo la luce della ragione per cui “nulla sorge dal nulla per dono divino mai” e quindi “senz’orma divina si compion le cose”. 

L’Illuminismo del XVIII secolo ha posto in primo piano la luce della ragione contro il buio delle concezioni teologiche e ha affermato l’importanza fondamentale di determinare razionalmente contenuti e regole, modalità e sviluppi della vita fuori da ogni idolatria.

Seguono  Diderot, Feuerbach, Schopenauer,  fino a  Carlo Marx, il cui ateismo nasce dal cosiddetto materialismo storico, lo stato dei rapporti-sociali basato sulla lotta di classe tra capitalismo e proletariato: la vittoria della classe operaia avrebbe portato al superamento di tutte le sovrastrutture, dallo Stato alla religione considerata contraria all’armonioso sviluppo della società umana.  Il superuomo di Nietsche e l’angoscia esistenziale di Baudelaire chiudono la rassegna filosofica.

L’assenza di etica e moralità nell’uomo e il suo spirito di sopraffazione

Nell’avviarsi alla conclusione l’autore torna ad occuparsi della realtà, calandosi sulla società umana per verificarne il tasso di moralità e di etica. La verifica che compie nelle società credenti e in quelle non credenti è sconsolata, nefandezze  che potrebbero essere attribuite all’ateismo con l’assenza di ogni remora religiosa sono presenti anche negli stati i cui governanti dichiarano di essere mossi da spirito religioso: non solo l’ateo Stalin, ma anche Hitler che ha avuto un qualche avallo della Chiesa, e perfino i presidenti degli Stati Uniti d’America, hanno compiuto, in varia misura, orrori, massacri o comunque atti che ripugnano allo spirito religioso come a quello ateo.

L’autore ne trae la considerazione che non è l’ateismo l’origine di ciò, dato che neppure il credere in un Dio trascendente ha la forza morale e la capacità etica di evitare comportamenti brutali e disumani. E’ l’uomo con il suo spirito di sopraffazione  e la sua avidità di potere e di denaro che cerca di assoggettare in  modi più o meno evidenti i propri simili e nazioni intere: realtà provata storicamente con tanti esempi da cui risulta che non c’è spazio nella società per principi religiosi o filosofie morali in grado di contrastare il drammatico manifestarsi di tali degradanti tendenze.

Tutto questo secondo l’autore confermerebbe l'”inesistenza” del Dio trascendente e personale che già risulterebbe da contraddizioni e incongruenze tali da togliere credibilità al Libro sacro della Rivelazione, analizzate nella prima parte; conclusione che però non affronta nella sua complessità il problema del male cui abbiamo accennato in precedenza. E nello stesso tempo ritiene inadeguata la spiegazione della nascita della vita data dagli ateisti secondo cui dopo l’origine dell’Universo con l’esplosione di energia del Big Bang la vita sarebbe iniziata per puro caso come forma unicellulare poi evoluta in miliardi di anni. E si chiede: “La teoria ateistica però non copre la lacuna che scaturisce dalle seguenti domande: chi ha creato il punto infinitesimale di infinita energia  e densità? Chi ha creato la prima molecola di Dna o Rna essenziali per  la nascita della vita?”

Come rispondere alle domande capitali

Sono domande a cui lui stesso si propone di rispondere facendo seguire una parte “costruens” a quella “destruens” cui è dedicato il libro in esame. Al riguardo preannuncia un suo prossimo libro, che uscirà nel corso del 2014, forse in primavera, con il titolo intrigante “L’uomo, il virus di Dio”,  in cui cercherà di far luce sui misteri dando risposte ai temi esistenziali che affliggono l’umanità. L’inadeguatezza delle concezioni esistenti, religiose e atee che siano, induce ad esplorare vie nuove.

In che modo lo enuncia così: “Immaginare soluzioni alternative sull’origine dell’universo e della vita partendo, ad esempio, da inediti presupposti di carattere essenzialmente analogici secondo i quali, ponendo in relazione due concezioni, due visioni, sulla base certa e reale della piena conoscenza di una di esse, si presuppone la validità di caratteristiche molto simili anche nell’altra”.

E’ una formulazione da ricercatore scientifico il cui carattere criptico non può che acuire l’interesse per il lavoro preannunciato, e il fatto che la conclusione resti sospesa suscita l’ansia di conoscere “come va a finire”. Perché questa storia è la nostra storia di esseri pensanti componenti l’umanità.

In attesa, abbiamo placato l’ansia andando a cercare una conclusione che parte dall’analisi scientifica di ciò che c’è “Tra il nulla e l’infinito. Lo spazio di Dio”:  un libro edito nel 2008 da “Rispostes”, di Eduardo Ioele che ha in comune con l’autore di essere aduso alla scienza e non alla teologia nell’affrontare per passione il tema dalle origini dell’universo e delle sue leggi fino a Dio.

Nel ripercorrere le prove psicologiche e ontologiche Ioele osserva: “Dato che lo spazio del trascendente si pone ai limiti della conoscenza – limiti tracciati dalle stesse leggi naturali – dobbiamo dedurre che la ricerca di Dio vada fatta oltre i confini della ragione. Ma come? Seguendo la ragione del cuore anziché la ragione della ragione, come diceva Pascal? Anche, ma non solo”.

E in questo “non solo” c’è l’osservazione che oltre all’origine della vita c’è l’emergere della coscienza cui non si è potuta dare alcuna spiegazione scientifica, perché va oltre la materia e non può  derivare dal caso. “La miscela di leggi e caos, che ci rende liberi, non sembra per nulla casuale, ma appare il frutto di una infinita sapienza”, scrive Ioele. Inoltre “è proprio nell’impossibilità di pervenire a una risposta razionale definitiva che risiede realmente la nostra libertà”; anzi c’è di più: “L’impossibilità di accedere a una verità finale, scandita anche da leggi naturali, non deve necessariamente essere interpretata in termini sconfortanti o anche umilianti per la ragione umana; al contrario, essa è forse la scelta più saggia della natura”. Perché se questa verità fosse l’esistenza del solo mondo materiale darebbe insicurezza e vanificherebbe ogni speranza, se fosse l’esistenza certa del  trascendente priverebbe di ogni interesse il mondo materiale per uno sterile misticismo.

“La verità assoluta, se c’è – prosegue Ioele – si colloca oltre i confini della nostra ragione, e tale preclusione, in fondo, sembra la migliore strategia della natura”. E aggiunge: “Il mistero della ‘prima mossa’ dunque, non sembra risolvibile e ciò deve indurci a un sano scetticismo verso gli integralismi e le grandi certezze nell’una o nell’altra direzione”. D’altra parte, ci ha detto di persona, “credere al  caso è come avere un‘altra religione senza alcuna certezza neppure in negativo”. E ci ha confidato che lo affascina l’immagine dantesca di “Dio come una grande luce”.

Queste parole non mitigano in noi l’attesa della preannunciata conclusione di Giardetti con il nuovo libro in cui darà la sua risposta agli interrogativi che lui stesso si pone al termine della prima parte della sua ricerca. Ma in un certo senso sono parole rassicuranti dopo l’impietosa analisi che con la ferrea logica della ragione ha la forza di poter  mettere in dubbio anche convincimenti radicati. Così conclude Ioele: “In quest’ottica la fede è una speranza che nasce anche dai limiti della ragione umana e che si nutre nel dubbio. Ognuno di noi, pertanto, è libero di assumere la posizione che più lo rassicura, quella che sente dentro, e nessuno potrà dire che la nostra scelta è errata”.

E’ una considerazione che ci fa attendere con serenità il completamento della dissacrante  analisi di Giardetti. Al quale va l’indubbio merito di aver affrontato il tema supremo del suo libro senza condizionamenti e con tanto coraggio, spinto dallo spirito del ricercatore che non accetta l'”ipse dixit” ma vuole toccare con mano utilizzando gli strumenti della ricerca culturale, filosofica, e scientifica.

Non è da poco, considerando che l’argomento è così vasto e coinvolgente da prendere l’intero essere in tutta la nostra esistenza, da investire il cuore oltre alla mente, la memoria della nostra vita oltre alla realtà.  Si tratta di Dio, e basta questa parola per perdersi nell’infinito.

Info

Gelasio Giardetti, “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, Roma, settembre 2013, pp. 240, euro 19,90.  Dello stesso autore “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, Castelli (Te), giugno 2008, pp.318, euro 18,00.

Foto

Il  libro di Giardetti non contiene illustrazioni; noi abbiamo ritenuto di inserire nel nostro commento una serie di immagini di Dio nell’arte, in una sequenza che dall’Empireo lo avvicina sempre più fino alla scintilla della vita nel contatto con Adamo del “Giudizio Universale” michelangiolesco nella Cappella Sistina. Si ringraziano i siti dai quali abbiamo rilevato le immagini, nell’ordine: piccolifiglidellaluce.it, mirys.altervista.org; digilander.libero.it; preghiereonline.it;  wilkipedia.org e freeformazione.leonardo.it; mariadinazaret.it;  blog.studenti.it; sanbenedettotorino.it; michelangelobuonarroti.historiaweb.net. Se non vi fosse gradimento per la pubblicazione da parte di qualcuno dei titolari, la rispettiva immagine verrà immediatamente depennata appena pervenuta la richiesta in tal senso anche come semplice post in questo sito all’articolo, dal quale sono estranee implicazioni di natura economica di qualunque tipo, nè si è potuta richiedere l’autorizzazione preventiva.