Modigliani, 1. Con Utrillo, Valadon e altri, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

La mostra “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter” alla Fondazione Roma, Palazzo Cipolla, espone  dal 14 novembre 2013 al 6 aprile 2014 oltre 100 opere degli artisti che hanno rivoluzionato la pittura nei primi venti anni del ‘900, l’età d’oro parigina per vitalità e fervore artistico e di vita, dalla quale si dice che è nata l’arte moderna. Si tratta di Modigliani e Soutine, Utrillo e la madre Valadon, De Vlaminck e Derain, Antcher e Hayden, Kisling e Zawadowski, con altri 16, per un totale di  26 pittori.. Curata da Marc Restellini, organizzata da “Arthemisia” con la Pinacothèque de Paris e il contributo di 24 Ore Cultura, cui si deve lo splendido Catalogo, autore lo stesso Restellini, la mostra andrà successivamente a Milano al Palazzo Reale, nello stesso abbinamento della mostra su Edward Hopper, che ebbe 208.400 visitatori a Milano e 209.200 a Roma.

A parte la ricorrenza citata, l’esposizione alla Fondazione Roma si inserisce nel filone, voluto dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele, che ha visto in passato la mostra “La Collezione Zeri e Santarelli” nella stessa sede, e altre mostre basate su collezioni museali al Palazzo Esposizioni, con il Guggenheim Museum e con i Capolavori dello Stadhael, e  vede al Vittoriano in parziale coincidenza temporale con questa, la mostra delle opere del Museo D’Orsay in ristrutturazione.

Un affresco di vita oltre che di arte

Ma solo quest’ultima ha qualche analogia con quella di cui parliamo, in quanto espone le opere che hanno rivoluzionato l’Accademia del Salon nel postimpressionismo fino al simbolismo. Solo qualche analogia perché questa ha la particolarità di essere un affresco di vita oltre che di arte eccelsa, dato che quasi tutti gli autori delle opere esposte sono accomunati dalla sorte di vivere una misera esistenza e perseguitati in quanto ebrei; una vita alla quale l’arte, generalmente incompresa, offriva poco più dei mezzi per sopravvivere legandoli ai mercanti che spesso ne sostenevano le necessità primarie in cambio di esclusive sulla loro produzione artistica a ritmi spesso forsennati.

Non è solo il mondo dell’arte in un periodo di straordinario fervore creativo quello illuminato dalla mostra; si esce dall’impressionismo  legato alla natura, per un’arte senza riferimenti né al soggetto rappresentato né alle origini dell’autore, ma legata piuttosto agli stimoli della vita. E’ anche il mondo dei mercanti e dei collezionisti, che erano i destinatari finali della loro attività, e avevano un ruolo fondamentale nell’alimentare i talenti che con il loro intuito riuscivano a cogliere e sostenere in un mecenatismo  mosso da interesse artistico. 

Sono chiamati “artisti maledetti” non per una loro inclinazione alla trasgressione, come è stato in una certa misura per Caravaggio, quanto per la loro emarginazione sociale e personale: una vita grama e di stenti, in qualche caso resa ancora più precaria da problemi di salute – come la tubercolosi di Modigliani o l’alcoolismo  di Utrillo – e c’è anche la fine tragica ad Auschwitz – è il caso di Epstein e Feder. Era la vita che si svolgeva a Montparnasse, tra artisti pieni di talento e poveri di mezzi, che si incontravano negli stessi locali, condividevano analoghe difficoltà, e manifestavano uno straordinario estro creativo, accorsi da tutt’Europa a Parigi divenuta una calamita per l’Esposizione Universale con la Torre Eiffel che dominava la città. Non erano solo pittori, c’erano anche scrittori, Hemingway e Miller, intellettuali come Cocteau e politici.  

La loro precarietà esistenziale si reggeva su un equilibrio delicato dato dagli accordi – fissati in  veri e propri contratti – con il mercante, a sua volta finanziato spesso dal collezionista, mosso da simpatia umana e intuito artistico. Due i protagonisti di una catena che si traduceva nel sostegno decisivo agli “artisti maledetti”: il mercante d’arte polacco Léopold Zborowski e il collezionista Jonas Netter, della cui collezione sono le opere esposte in mostra, anch’essi ebrei.

Netter era un agiato commerciante  appassionato d’arte e incline al collezionismo, si avvicina agli “artisti maledetti” all’inizio perché per lui erano inaccessibili le quotazioni raggiunte dagli impressionisti, ma poi sente il fascino della loro vita da “boemienne”, misera però creativa, e si impegna per sostenerli, finanziando anche il loro soggiorno in altre località quando si rendeva necessario: eccolo entrare in stretto contatto con  Modigliani, Soutine e Utrillo, e anche con Valadon e Kisling, Antcher e Hayden, Krémegne e Kikoine, Epiche e Fournier, tutti presenti in mostra. In cambio del sostegno che assicurava, per il tramite del mercante Zborowski, tanti quadri erano prodotti da spiriti tormentati spesso fino alla disperazione che trovavano nell’arte il rifugio oltre al sostentamento. Questo è il motivo che li accomuna, al di là delle varie provenienze nazionali e inclinazioni stilistiche, questo è l’eccezionale interesse umano oltre che culturale della mostra.  

Sono opere divenute visibili da pochi anni, precisamente da quando gli eredi del collezionista Netter hanno costituito una Fondazione per proseguire, in un certo senso, l’opera del loro progenitore: aiutare i giovani e chi ha bisogno di un sostegno per esprimersi nell’arte. Va riconosciuto che con questa azione Netter più che da collezionista interessato si comportò da mecenate illuminato.

Suzanne Valadon e la “trinità maledetta”

La nostra rassegna degli “artisti maledetti” cercherà di inquadrarne le opere nella vita molto tormentata,  perché ci sembra questa la cifra della mostra, il suo valore umano oltre che artistico.

Iniziamo con la madre di Utrillo, pittrice anch’essa, Suzanne Valadon, del 1865, quasi 20 anni prima di Modigliani nato l’anno dopo suo figlio, che vide la luce nel 1983. Sia per la sua precedenza anagrafica rispetto agli altri “artisti maledetti”,  tutti nati negli stessi anni di Modigliani, sia perché la sua vita movimenta è emblematica della loro inquietudine, sia infine per il suo legame materno con Utrillo, anch’esso inquieto e tormentato, ci sembra la degna “apripista” di questi artisti.  

Lo stesso suo nome ne evoca le tempestose vicende di vita, come modella ebbe intense relazioni amorose con molti degli artisti per i quali posava, tra loro Renoir e Toulouse Lautrec; quest’ultimo ne descrisse l’attrazione esercitata paragonandola alla Susanna biblica con i vecchioni, immagine che le piacque al punto di cambiare il proprio nome da Maria-Clementine in Suzanne. Fu proprio Toulouse Lautrec ad avviarla al disegno e ai primi pastelli, seguendo un’inclinazione istintiva che  la rendeva attenta osservatrice del lavoro dei pittori mentre posava per loro come modella.

Sua madre Madeleine si era trasferita a Parigi subito dopo la sua nascita, dopo la morte del marito, in prigione per aver fabbricato monete false, un inizio di vita tragico con un seguito movimentato. Lavora sin da piccola, date le condizioni di indigenza della madre, anche in un circo, e a 15 anni inizia a fare la modella, lavoro che le fa dire subito “Finalmente! Non sapevo perché, ma sapevo di essere approdata a qualcosa che non avrei più lasciato”.  Poserà per dieci anni, la lista dei pittori è lunga, e così quella dei suoi amanti, citiamo solo la relazione di sette anni con  Puvis de Chavannes, 40 anni più di lei, quelle con Renoir, di 27 anni più anziano, e con Toulouse Lautrec, coetaneo e vicino di casa, che se ne innamorò follemente. Nei dipinti dei pittori è riconoscibile lei come modella di indubbia bellezza, capelli biondi, occhi azzurri, corpo sensuale (in particolare per Renoir in “Ballo in città” e “Ballo a Bougival”, “La treccia” e varie “Bagnanti”; per Lautrec in due “Ritratti”,  “La bevitrice”, e “Il circo”).  Nel 1983 nasce il figlio Maurice con incertezze sulla paternità fugate dal riconoscimento, otto anni dopo, dal giornalista spagnolo Miguel Utrillo.  La prima opera di Suzanne è un “Autoritratto” nell’anno stesso della nascita del figlio Maurice Utrillo, fino al 1990 molti disegni soprattutto del figlio. Ne segnano la vita amori e matrimoni, ma anche l’amicizia con Degas che ne apprezza la pittura, la incoraggia e le insegna l’incisione. Nel 1896 sposa Paul Mousis, un  ricco agente di cambio e può avere una vita agiata, ma il figlio Maurice già a tredici anni cade nell’alcolismo e  fa corsi di disintossicazione. L’agiatezza termina quando nel 1909 lascia il marito per un giovane pittore amico del figlio, André Utter – lo sposerà all’inizio della guerra 1915-18 – che le dà la spinta decisiva verso la pittura, divenuta per lei attività esclusiva: dipinge nudi femminili seguiti da altre opere.

Tra gli anni ’20 e gli anni ’30 il suo periodo più produttivo, espone nelle principali gallerie, diviene nota all’estero, il collezionista Netter si interessa a lei e acquista le sue opere. Il figlio diviene pittore sempre più apprezzato, i dipinti di Utrillo hanno un florido mercato.  I tre sono chiamati “la trinità maledetta”, nel 1931 si separa da Utter, continua a dipingere attivamente ed  entra nel gruppo “Donne artiste moderne”. Nel 1934 l’amicizia con il giovane pittore ascetico Gazi, l’anno dopo Utrillo si sposa, lei continua a dipingere soprattutto fiori fino alla morte avvenuta nel 1938.  

Uno stile forte il suo, definito “virile”,  una varietà compositiva e una vivacità cromatica che non si riscontrano nella gran parte degli altri “artisti maledetti”, in particolare nel figlio Utrillo. Sono 13 le opere esposte, la carrellata  comincia con il disegno “Ketty nuda mentre si stiracchia”, 1904, seguito da “Tre nudi nella campagna”, 1909, figure snelle dai contorni definiti, mentre i successivi “Nudo che si pettina”, e “Due nudi dopo il bagno”, del 1916, hanno una corporeità morbida, sono sfumati con una forte resa cromatica. E’ il pendolo che vediamo anche negli altri dipinti, tra il cromatismo sfumato e i contorni netti e ben definiti: ci sono le scene paesaggistiche di “Veduta di Corte (Corsica)”, 1913, un villaggio sulla collina in un figurativo nitido e definito, posto cronologicamente tra due opere fatte di macchie cromatiche più che di contorni, “Chiesa di Neyron”, 1910, e “Nel bosco”, 1914; mentre con “Paesaggio a Vieux-Moulin” la composizione diventa schematica ed essenziale. Nella “Natura morta con tovagliolo”, 1915, e “Vaso di fiori”, 1917, prevalgono le macchie di colore. Anche nelle figure di donne oscilla tra il cromatismo sfumato di “Ritratto di Gaby”, 1917, e i contorni marcati di “Ritratto di Maria Loni”, 1918. Le sue figure sono realistiche e vigorose, “la nudità in Valadon non è né sensuale  né volgare, – ha scritto  Daniel Marchessau nel 1996 in un Catalogo – essa rivela una complicità sororale con le modelle, talora venata di compassione, e sempre piena di umanità”.  E lo vede dai gesti e  dalle pose, e dal nodo naturale con cui tratta i capelli. Sono immagini espressive della vita quotidiana, si sentono influssi dei tanti pittori frequentati ma lo stile è del tutto personale.

Utrillo, tra l’alcool e la grande pittura

Dalla madre al figlio, Maurice Utrillo, la cui storia tormentata inizia con l’incerta paternità: “Nato da Marie-Clémentine Valadon e da padre ignoto”, secondo la dichiarazione del 26 dicembre 1883, si ritenne figlio del cantante e pittore Adrien Boissy, “ubriacone” come diventerà lui, anche perché la madre diceva di non sapere chi fosse il padre in un periodo in cui era l’amante di Boissy oltre che di Puvis de Chavannes, Renoir e Miguel Utrillo. Il dubbio fu fugato non solo dal riconoscimento formale di quest’ultimo, che diede il nome al figlio quando aveva otto anni, ma anche dalla notevole somiglianza con lui e dall’esplicita ammissione della madre nel 1934 alla morte di Miguel.

L’alcolismo di Utrillo si manifestò a 13 anni, forse perché si fermava nei bistrò parigini, ma venne aggravato dal fatto che la nonna quando aveva 16 anni cercava di sedare con il vino le crisi epilettiche della sua adolescenza; il male divenne così acuto che dovettero ritirarlo dalla scuola. Era introverso con sbalzi d’umore che lo facevano passare dalla dolcezza alla violenza. La madre, invece, quando lo riprese con sé nella sua vita movimentata, su consiglio di un medico applicò la “terapia della pittura”, ottenendo il risultato di far esplodere il suo talento artistico senza peraltro vincere l’alcolismo, tanto che nelle crisi ricorrenti arrivava a bere la trementina e l’acqua di colonia usata per diluire i colori della tavolozza. A vent’anni doveva portare ogni sera un nuovo quadro alla madre, dipinto all’aperto tra le povere strade e le case fatiscenti del quartiere, Montparnasse allora misero e desolato, dov’erano locali malfamati in cui Maurice beveva la sera e al mattino dipingeva per pagare il conto. Fu proprio questa necessità a far sì che la sua produzione artistica non si interrompesse mai, neppure nei periodi più critici della sua vita per l’implacabile alcolismo. 

I problemi di salute e la vita difficile, nonché i locali frequentati e le bevute, lo avvicinano a Modigliani, altrettanto tormentato: per avere un’idea dell’atmosfera si pensi che Utrillo barattò i vestiti dell’artista italiano per due bottiglie di vino senza che questi reagisse, e che anche le prostitute del quartiere lo irridevano chiamandolo “le fou de la Boutte”, mentre i bambini lo avevano soprannominato “Litrico”, sempre per l’alcolismo. Nel 1916, quando aveva 33 anni,  il mercante Zborowski si interessò  a lui, seguito dal collezionista Netter, per il livello artistico raggiunto, mentre per l’alcolismo fu rinchiuso  quattro mesi nel manicomio di Villejuif, dove dipinse accanitamente con un maggiore uso del colore. 

Preso da ritorni infantili, a 40 anni si isolava in casa giocando con il trenino elettrico regalatogli dalla madre, l’alcolismo non gli dava tregua, tentò anche cure di disintossicazione con l’aiuto finanziario del collezionista Netter, ma ricadeva sempre nel vizio del bere, con continui passaggi al posto di polizia o all’ospedale, dipingeva anche lì, ovunque. Viveva con la madre che definì nell’Autobiografia “una santa donna che venero e benedico come una dea dal profondo della mia anima, una creatura sublime per bontà, rettitudine, carità, abnegazione, intelligenza, coraggio e dedizione”, e ancora “una donna d’eccezione, forse la più grande luce pittorica del secolo e del mondo”.

Le riconosceva il merito di averlo allevato “secondo i principi più rigorosi della morale, del diritto e del dovere” e si rammaricava di non aver seguito i suoi consigli e di essersi lasciato trascinare “sulla strada del vizio, senza accorgermene, per colpa della frequentazione di creature lubriche e immonde, viscide sirene dagli occhi ardenti di perfidia”  le quali hanno fatto di lui, che era “un rosaio un po’ appassito, un ripugnante ubriacone, oggetto di pietà e di pubblico discredito”, oltre che “responsabile dell’infelicità” materna.  Forse questa enfasi portò alla definizione di loro due  con il marito di lei Utter, conviventi, la “trinità maledetta”, anche per gli eccessi nel tenore di vita consentiti dalle disponibilità economiche derivate dalle elevate quotazioni raggiunte dai suoi dipinti, fino al record di 50.000 franchi di una sua tela nel 1926, quando era diventato ricco e famoso.

Nel 1928 fu nominato Cavaliere della Legion d’onore e decorato dal sindaco di Lione, divenne cattolico e si fece battezzare, ma continuò a bere. La madre, con cui visse fino a 52 anni, riuscì a farlo sposare  nel 1935 con una vedova, Lucie Valore; si stabilirono a Le Vésinet dove visse da sequestrato in casa e continuò a dipingere vedute di Montmartre come faceva nella miseria, indifferente all’ambiente dei tutto diverso che ora lo circondava. Suzanne Valandon morì nel 1938, lui non andò al funerale della madre, ma alla stessa ora dipinse il “Calvario di Saint Pierre de Montmartre” ispirandosi a una grande fotografia di lei. La sua religiosità diventò furore mistico, “è pazzesco quanto prega quell’uomo”, disse Petridès a Francis Carco. Morì nel 1955 a 72 anni. Nulla di scontato o di abitudinario nella sua vita, lo ricorda Claude Roger-Marc nell’introduzione alla  monografia “Utrillo” del 1953: “Utrillo non si è abituato a nulla, né alla vita, né alla gloria, e nemmeno alla pittura”. Lo spiega così: “Nella sua selvatichezza e semplicità, incapace com’è di progredire perché vincersi equivarrebbe a rinunciare a se stesso, è saggio nella totale ignoranza di ogni saggezza, è grande perché è rimasto un bambino”.  

Ci torna in mente il pensiero di Giacomo Leopardi: “I fanciulli trovano il tutto anche nel niente, gli uomini il niente nel tutto”. Il “niente” possono essere le vie misere e le case fatiscenti di Montmartre in cui trovava il suo “tutto” anche quando era ricco e famoso. Dal primo periodo impressionistico al “periodo bianco”  con un cromatismo particolare,  Roger-Marc ammira “il cielo che non solo palpita al di sopra di ogni suo paesaggio, ma illumina i muri, l’asfalto, la terra stessa dei suoi riflessi, dei suoi fremiti”, fino a quando, secondo il curatore Marc Rebellin, “le linee sono più dure, i contorni più netti, i colori più crudi. I suoi paesaggi sono popolati  di figure femminili dai fianchi larghi”.  Nei suoi dipinti c’è la Montparnasse di allora, “quell’umile scenario di case fatiscenti, livide e tristi, quegli alberi rinsecchiti in fila come stecchi”; il quartiere della Boutte aveva  “le sue catapecchie nella sterpaglia, i padiglioni, gli studi fatti di assi di legno, i giardini e, qua e là, dietro le staccionate, i terreni abbandonati, che di notte si popolavano di sgualdrinelle sentimentali e di temibili malviventi”.  

Vediamo esposta  “Rue Muller a Montmartre”, 1908, un agglomerato di edifici e una lunga scalinata di fronte, con alcuni passanti, si sente isolamento e squallore; stessa sensazione nelle altre, presenza umana scarsissima o inesistente, solitudine: così “Montmagny”, 1906, e “Porte Saint-Martin”, 1908,  “Rue Norvins”, 1909, e “Rue Mercadet a Parigi”, 1911, “Avenue Rozée a Sannois”, 1912, e “Strada a Fontenaibleau”, 1916, e le piazze, “Square de Messine”, 1909, e “Place Cornot ad Argenteil”, 1915, quasi metafisica; mentre “Piazza della chiesa a  Montmagny”, 1907, introduce i pittoreschi scorci di chiese, dove non mancano poche, piccolissime e quasi invisibili figure di fedeli:  sono “Chiesa di periferia”, 1909, dalle linee nette, “Chiesa di Sermaize” e “Chiesa di Barcy”, entrambe 1914-16, in un’atmosfera più sfumata: era ancora lontana l’infatuazione mistica dell’ultima fase della vita, ma lo interessavano le linee architettoniche, e le chiese erano un soggetto ideale sotto questo aspetto.

Dinanzi alle opere esposte, che danno un’immagine opposta rispetto all’umanità e al  forte cromatismo  della Valadon, si sente una profonda solitudine e desolazione, accentuate dai contorni sfumati come in una nebbia sottile e dalle piccolissime figure isolate che sembrano smarrirsi; è ben diverso dalle piazze metafisiche, cui va l’associazione di idee, dove la nettezza delle linee e delle ombre e le figurette dialoganti, con il treno lontano, danno sospensione e  senso dell’attesa.

La mostra presenta tanti altri “artisti maledetti”,  la nostra visita continua con loro, li racconteremo prossimamente, fino a Soutine e al “clou” con Amedeo Modigliani, il “principe di Montparnasse”.  

Info

Palazzo Cipolla della Fondazione Roma Museo, Via del Corso 320 Roma,. Aperto tutti i giorni, lunedì ore 14,00-20,00, da martedì a domenica ore 10,00-20,00, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 13,00 (autoguida inclusa) , ridotto euro 11,00 per 11-18 anni, oltre 65, studenti fino a 26 anni, militari e portatori di handicap; ridotto euro 10 per gruppi, euro 5,00 per scuole e 4-11 anni. Catalogo: Marc Restelllini, “Modigliani, Soutine e gli artisti maledetti. La collezione Netter”, 24 Ore Cultura, pp. 306, novembre 2013, formato 23,0 x 32,5; dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr. i prossimi due nostri articoli sulla mostra in questo sito, “Modigliani, con gli “artisti maledetti” alla Fondazione Roma”, e  “Modigliani, il grande Amedeo e Soutine  alla Fondazione Roma”, che saranno pubblicati il 5 e 7 marzo 2014. Per le mostre citate nel testo cfr. i nostri articoli: in “cultura.inabruzzo.it” su Hopper l’11-13 giugno 2010 e sui Capolavori dello Stadhael Museum, il 13 luglio 2011 tre articoli ; in questo sito sulle Collezioni Zeri e Santarelli il 15 ottobre 2012 e sul Guggenhiem Musem il 22, 29  novembre e 11 dicembre 2012. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Cipolla alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura: Modigliani, “Elvire con colletto bianco”, 1917-18; seguono  Valadon, “Veduta di Corte (Corsica)”, 1910, e “Ritratto di Maria Lani”, 1928; poi,  Utrillo, “Porte Saint-Martin”,  e “Rue Muller a Montmartre”, 1908, quindi Modigliani, “Ritratto di Zborowski”, e “Ritratto di Lepoutre”,1916; in chiusura “Amedeo Modigliani”, fotografia del 1917.

Dio, mistero senza fine, in un libro di Gelasio Giardetti

di Romano Maria Levante

Gelasio Giardetti, già autore nel 2008 del libro “Gesù, l’uomo”,  ha appena pubblicato il nuovo  libro “Dio, fede e inganno”, nel quale affronta un tema quanto mai arduo. E lo fa mettendo in discussione principi e precetti di fede sottoponendoli all’analisi impietosa della ragione che non risparmia le contraddizioni tra insegnamenti e realtà: sia nelle Sacre scritture sia nel comportamento delle istituzioni religiose e nel funzionamento della società lontana dai principi di bontà e giustizia attribuiti al Dio creatore, onnipotente e onnisciente. Completano l’analisi i confronti altrettanto impietosi tra il pensiero credente e quello ateo e tra le società credenti e quelle non credenti.

Un libro coraggioso e documentato

E’ un libro innanzitutto coraggioso, perché affronta temi delicati che toccano la sensibilità di larghi settori  della pubblica opinione senza timidezza, in un modo che può sembrare spregiudicato, mentre è il frutto naturale del pragmatismo del ricercatore: non di ricerche sociologiche e storiche, dove tutto resta opinabile, ma di ricerche scientifiche che devono basarsi su evidenze concrete.

Poi è un libro documentato, ogni affermazione è suffragata da riferimenti precisi che spaziano in un arco molto vasto: dalle Sacre Scritture e dall’azione della Chiesa che le ha poste al centro del proprio sistema spirituale e temporale, alla società in cui viviamo nella sua realtà storica e in particolare a quella capitalistica, fino alle società non credenti poste a confronto con quelle credenti. 

La logica del ricercatore che vuole toccare con mano senza lasciarsi sedurre da visioni consolatorie è presente in ogni passaggio del libro e porta l’autore ad essere così intransigente sul piano logico da concludere con una condanna senza appello delle concezioni religiose, quella cristiana in particolare che nasce dal tronco della rivelazione biblica su cui si è innestata la figura di Cristo divenuta prevalente. Il Cristo cui ha dedicato in precedenza il libro altrettanto coraggioso e documentato, “Gesù, l’uomo”, nel quale all’ammirazione per la figura terrena del Cristo rivoluzionario è unita la negazione del Cristo trascendente, che l’autore si sente di sostenere in base a un riscontro accurato con le voci della rivelazione, come i Vangeli, e a un’attenta analisi storica.

Non c’è nulla di implicito o inespresso, né si giunge per gradi alla conclusione contraria alla teoria creazionista, è evidenziata già nella Prefazione dove, con i toni e gli accenti della denuncia, sono messe a nudo le contraddizioni  tra i principi evangelici che dovrebbero reggere le società dei credenti e i loro comportamenti pervicacemente trasgressivi, fino agli orrori ricordati con parole di forte indignazione. La passione civile porta l’autore a superare l’asettico approccio del ricercatore per appassionarsi ai risultati che confermano un assunto già presente nella sua mente, e non potrebbe non esserlo avendo sotto gli occhi le nequizie del mondo,  l’opposto dell’immagine di un essere superiore con i caratteri dell’onniscienza e onnipotenza unite alla somma bontà e giustizia.

Affermiamo questo per sottolineare che pur nel rigore dell’approccio scientifico non ha mai toni freddi e distaccati, ma rende partecipi del mistero sull’esistenza di un essere supremo creatore del mondo e padrone dei suoi destini considerandolo  nell’immanenza della vita reale dell’umanità.

Dio, mistero senza fine, abbiamo intitolato, perché il mistero resta e non avrà mai fine, anche se l’autore ritiene di averne svelato una parte, quella che attiene alla fede da lui accostata forse troppo arditamente all’inganno. Si possono ingannare molti per poco tempo o pochi  per molto tempo, secondo un antico detto, non molti per molto tempo come farebbero le religioni. Certo, l’esigenza consolatoria e rassicuratrice della specie umana le aiuta a diffondersi e radicarsi, e la loro molteplicità e persistenza in tutte le epoche e in tutte le zone del mondo anche le più remote porta  a pensare che il mistero di Dio non è circoscrivibile a questa o quella credenza ma tuttavia è immanente nell’umanità pur nella sua irraggiungibile trascendenza. E tra le prove ontologiche dell’esistenza di Dio trovate dal pensiero filosofico e quelle cui arriva parte del pensiero scientifico forse questa semplice constatazione vale quanto una eloquente testimonianza collettiva.

E’ difficile ritenere, d’altra parte, che la perfezione delle leggi dell’universo non abbia alla base un’intelligenza superiore, comunque la si voglia definire; e se la si riferisce al caso le probabilità sono infinitesime come ci insegna la stessa scienza. La ragione non accetta le semplificazioni cui porta la fede, ma non riesce neppure a dare una risposta alternativa. E’ comprensibile, tuttavia, che l’autore voglia toccare con mano, e lo fa con ferma determinazione, senza essere condizionato come noi dall’anima “nativamente religiosa carica del retaggio di fede tramandato dalla mia gente”, per dirla con D’Annunzio. Una gente che crede in un Dio a immagine e somiglianza dell’uomo quando sarà giunto al termine di un processo evolutivo infinito, da cui si è ancora molto lontani.

Gli errori della Chiesa e le contraddizioni del mondo attengono a un ambito rispetto al quale l’idea di Dio è superiore incommensurabilmente e in quanto tale indecifrabile, anzi imperscrutabile, quindi  non ne viene toccata. Ed è positivo sottolineare tali errori e contraddizioni in un’analisi serrata e impietosa come fa l’autore.

Seguiamolo in questo suo accidentato e coraggioso percorso.

L'”inattendibilità” di tanti passaggi della rivelazione biblica

L’inizio è folgorante, “l’incredibilità del Dio trascendente” emergerebbe dallo stesso Libro sacro  posto alla base della Rivelazione, quindi come prova della sua esistenza offerta alla fede umana: la Bibbia che peraltro risente di culture e religioni più antiche riviste nell’ottica monoteistica. E questo per le sue contraddizioni,  incoerenze ed errori ritenuti plateali rispetto a quanto il pensiero scientifico ha dimostrato, in contrasto insanabile con la sua dichiarata provenienza diretta da Dio.

L'”inattendibilità” della Bibbia viene prospettata per la creazione dell’Universo e per la creazione della vita, dato che le implicazioni pratiche di quanto descritto risulterebbero insostenibili logicamente e impossibili praticamente, e così per il diluvio universale e altri eventi che esprimono  lo sviluppo della società umana  tra mito  e storia visti dall’autore con spietato realismo.

Per avere un’idea del rigore del suo approccio scientifico si consideri che dimostra l’impossibilità per  l’arca di Noè di salvare le oltre 20.000 specie animali esistenti calcolandone la capacità  sulla base delle misure bibliche in 41.000 metri cubi con lo spazio sufficiente solo per  1000 coppie di animali e per l’alimentazione loro e della famiglia di  Noè. Sembrerebbe un cavillo o una pedanteria, ebbene è una tessera del mosaico di verifiche che compie con la stessa meticolosità da ricercatore su  tante altre affermazioni del Libro sacro, fino a  quelle relative  agli aspetti  più profondi e interiori  della natura del Creatore.

La moralità e l’etica che emergono dalla Rivelazione minerebbero per altro verso l’esistenza di Dio perché  la sua spietata violenza vendicativa appare in stridente contrasto con l’impalcatura teologica fondata sui più alti concetti di giustizia e di etica, di bontà e di spiritualità. In effetti  queste considerazioni  turbano anche la coscienza del credente quando la lettura biblica domenicale molto spesso presenta un Dio crudele e spietato del tutto diverso dall’immagine invece caritatevole che emerge dalla lettura del passo evangelico abbinata  nella stessa giornata. Di certo Cristo con la sua predicazione imperniata sulla carità ha dato al Dio cristiano universale che lo ha mandato sulla terra per riscattare l’umanità un volto ben diverso dal Dio biblico protettore del popolo ebraico. In fondo nella SS. Trinità dei cattolici Dio rappresenta la legge, lo Spirito Santo la sapienza, Cristo l’amore.

L’autore non trae la conclusione dell'”inesistenza” del Dio creatore solo dalla constatazione che le parole bibliche sono fallaci; alla risposta che sono state scritte dall’uomo replica che allora non può essere quella la prova dell’esistenza di Dio, al contrario dimostrerebbe come chi le ha scritte secondo lo spirito del tempo abbia fatto leva sull’insicurezza e sulla paura umana per far accettare facilmente l’idea di un Dio invincibile, tale da proteggere prima il popolo eletto poi l’intera umanità.

Non si può ridurre a poche frasi la complessità dell’analisi svolta dall’autore che replica anche alle osservazioni dei creazionisti basate sul simbolismo e sull’insufficienza delle  parole rispetto alla grandezza della creazione: un’analisi stringente che può far sorgere dei dubbi anche al credente.

ll contrasto della società religiosa e umana con l’etica divina

La sua visione supera presto l’ambito biblico, pur fondamentale nell’impostazione generale, per estendersi al rapporto tra l’essenza di Dio e i comportamenti della società religiosa. Qui il suo ragionamento è improntato a una logica consequenziale: se quello della creazione è un progetto con forti basi etiche, almeno la società religiosa dovrebbe ispirarsi ad esso con assoluto rigore. Invece la moralità e l’etica nel governo della Chiesa  spesso sono mancate del tutto, come dimostra con un’analisi altrettanto impietosa riguardante non solo l’Inquisizione e le malefatte di  pontefici indegni, il Borgia primo tra tutti, ma anche atteggiamenti negativi recenti come quelli verso forme pur ispirate al pensiero evangelico quali la “teologia della liberazione”, osteggiata per sostenere classi dominanti altrettanto indegne; fino alla pedofilia sacerdotale e ai danni  morali che l’autore vede prodotti dall’integralismo e dall’indottrinamento religioso.

Dalla società religiosa si passa alla società umana, e qui non occorre scavare per trovare le molteplici nequizie che contrastano radicalmente con il progetto concepito dai creazionisti di un mondo  guidato da sani principi etici e morali. Le vediamo tutti i giorni, e l’autore cita quelle che gli sembrano le più stridenti, legate al sistema capitalistico per la volontà di potenza che porta agli armamenti e alle guerre e per il potere economico-finanziario dominato da criteri di profonda ingiustizia e immoralità; un capitalismo al quale la Chiesa è stata storicamente alleata nonostante, afferma, rivestisse tanti caratteri in contrasto con i principi che invece la religione dovrebbe voler vedere realizzati nella pratica. Siamo su un piano inclinato che farebbe scivolare nella politica se l’autore si limitasse ad affermazioni apodittiche, ma lo spirito del ricercatore resta vivo con citazioni precise di fatti e responsabilità; vengono citate anche le crisi economico-finanziarie più recenti  per ricordare a tutti come le contraddizioni siano plateali e drammaticamente attuali.

A questo punto si dovrebbe entrare sul tema del male, sulla sua compresenza con il bene per la legge degli opposti, ciascuno dei quali è necessario per l’esistenza dell’altro, e sulla libertà di scegliere data all’uomo legata al suo libero arbitrio, connotato essenziale della sua stessa  umanità. Per cui un società  religiosa e umana in cui trionfi il bene va vista come una conquista a cui si deve tendere, ma non come una condizione in assenza della quale si annulla qualunque disegno divino.

Dal pensiero credente e i dogmi al pensiero non credente

La critica serrata dell’autore preferisce tornare sull’insegnamento della chiesa, ed attacca i dogmi  e le manifestazioni ritenute soprannaturali su cui fa si fa leva per accrescere un proselitismo alimentato dalla superstizione. Si tratta pur sempre di visioni umane la cui interpretazione risente dei tempi e delle circostanze; del resto sono stati i Concili vaticani o le pronunce papali a validarle.

La Resurrezione e l’Eucarestia, come considerate dalla religione cattolica, vengono  analizzate nelle loro contraddizioni che spesso hanno diviso la stessa chiesa al suo interno. Per la Resurrezione, addirittura, la contraddizione sarebbe tra le parole dette direttamente da Cristo, dalle quali se ne dedurrebbe l’incorporeità, e i Vangeli, che si riferiscono espressamente all’intera entità umana fatta di corpo e spirito. Rispetto all’Eucarestia la tesi è che gli evangelisti più che all’esperienza diretta di Cristo si siano riferiti alla prima lettera ai Corinzi di Paolo, che descrisse in anticipo di 30 anni rispetto a loro la ripetizione da parte di Gesù della pasqua ebraica; non serve neppure aggiungere che il ricercatore scientifico avanza altre considerazioni negazioniste sull’impossibilità di trasformare il pane in corpo e sangue, e ricorda i casi in cui fenomeni di sanguinamento dell’ostia, ritenuti miracolosi, hanno poi trovato elementari spiegazioni scientifiche. La verifica scientifica oltre a quella razionale è impietosa, ma forse si sottovaluta il valore simbolico che vi è riposto.

Nel  libro non c’è solo verifica scientifica e razionale di formulazioni specifiche, viene messo a confronto il pensiero credente con quello non credente , e soprattutto il funzionamento pratico delle società che si ispirano alle due opposte concezioni, quella fideistica e quella atea.

Del pensiero credente, anche non cattolico, si sottolineano gli aspetti consolatori volti ad assicurare un al di là di durata infinita colmo di promesse a compensazione di una vita grama limitata nel tempo, cambio vantaggioso che farebbe sopportare ingiustizie o sacrifici altrimenti intollerabili: in particolare il paradiso cristiano con la beatitudine della vicinanza a Dio e quello musulmano con le promesse delle vergini che attendono il martire per soddisfarne i desideri nell’eternità. Mentre del pensiero non credente si riportano le  concezioni dell’ateismo secondo cui pensiero e materia sono legati indissolubilmente perché il primo proviene dal cervello che è un elemento materiale.

Passa in rassegna il pensiero ateo partendo dal “canto dell’arpista” dell’antico Egitto che dopo la constatazione dell’inesistenza dell’al di là lanciava l’esortazione “divertiti e non stancarti di farlo!” da cui forse ha tratto ispirazione la campagna ateista che ha furoreggiato in Gran Bretagna, con lo slogan divenuto spot pubblicitario contro le associazioni religiose, “Dio non c’è, spassatevela!”.

Quindi  Lucrezio, secondo il quale vale solo la luce della ragione per cui “nulla sorge dal nulla per dono divino mai” e quindi “senz’orma divina si compion le cose”. 

L’Illuminismo del XVIII secolo ha posto in primo piano la luce della ragione contro il buio delle concezioni teologiche e ha affermato l’importanza fondamentale di determinare razionalmente contenuti e regole, modalità e sviluppi della vita fuori da ogni idolatria.

Seguono  Diderot, Feuerbach, Schopenauer,  fino a  Carlo Marx, il cui ateismo nasce dal cosiddetto materialismo storico, lo stato dei rapporti-sociali basato sulla lotta di classe tra capitalismo e proletariato: la vittoria della classe operaia avrebbe portato al superamento di tutte le sovrastrutture, dallo Stato alla religione considerata contraria all’armonioso sviluppo della società umana.  Il superuomo di Nietsche e l’angoscia esistenziale di Baudelaire chiudono la rassegna filosofica.

L’assenza di etica e moralità nell’uomo e il suo spirito di sopraffazione

Nell’avviarsi alla conclusione l’autore torna ad occuparsi della realtà, calandosi sulla società umana per verificarne il tasso di moralità e di etica. La verifica che compie nelle società credenti e in quelle non credenti è sconsolata, nefandezze  che potrebbero essere attribuite all’ateismo con l’assenza di ogni remora religiosa sono presenti anche negli stati i cui governanti dichiarano di essere mossi da spirito religioso: non solo l’ateo Stalin, ma anche Hitler che ha avuto un qualche avallo della Chiesa, e perfino i presidenti degli Stati Uniti d’America, hanno compiuto, in varia misura, orrori, massacri o comunque atti che ripugnano allo spirito religioso come a quello ateo.

L’autore ne trae la considerazione che non è l’ateismo l’origine di ciò, dato che neppure il credere in un Dio trascendente ha la forza morale e la capacità etica di evitare comportamenti brutali e disumani. E’ l’uomo con il suo spirito di sopraffazione  e la sua avidità di potere e di denaro che cerca di assoggettare in  modi più o meno evidenti i propri simili e nazioni intere: realtà provata storicamente con tanti esempi da cui risulta che non c’è spazio nella società per principi religiosi o filosofie morali in grado di contrastare il drammatico manifestarsi di tali degradanti tendenze.

Tutto questo secondo l’autore confermerebbe l'”inesistenza” del Dio trascendente e personale che già risulterebbe da contraddizioni e incongruenze tali da togliere credibilità al Libro sacro della Rivelazione, analizzate nella prima parte; conclusione che però non affronta nella sua complessità il problema del male cui abbiamo accennato in precedenza. E nello stesso tempo ritiene inadeguata la spiegazione della nascita della vita data dagli ateisti secondo cui dopo l’origine dell’Universo con l’esplosione di energia del Big Bang la vita sarebbe iniziata per puro caso come forma unicellulare poi evoluta in miliardi di anni. E si chiede: “La teoria ateistica però non copre la lacuna che scaturisce dalle seguenti domande: chi ha creato il punto infinitesimale di infinita energia  e densità? Chi ha creato la prima molecola di Dna o Rna essenziali per  la nascita della vita?”

Come rispondere alle domande capitali

Sono domande a cui lui stesso si propone di rispondere facendo seguire una parte “costruens” a quella “destruens” cui è dedicato il libro in esame. Al riguardo preannuncia un suo prossimo libro, che uscirà nel corso del 2014, forse in primavera, con il titolo intrigante “L’uomo, il virus di Dio”,  in cui cercherà di far luce sui misteri dando risposte ai temi esistenziali che affliggono l’umanità. L’inadeguatezza delle concezioni esistenti, religiose e atee che siano, induce ad esplorare vie nuove.

In che modo lo enuncia così: “Immaginare soluzioni alternative sull’origine dell’universo e della vita partendo, ad esempio, da inediti presupposti di carattere essenzialmente analogici secondo i quali, ponendo in relazione due concezioni, due visioni, sulla base certa e reale della piena conoscenza di una di esse, si presuppone la validità di caratteristiche molto simili anche nell’altra”.

E’ una formulazione da ricercatore scientifico il cui carattere criptico non può che acuire l’interesse per il lavoro preannunciato, e il fatto che la conclusione resti sospesa suscita l’ansia di conoscere “come va a finire”. Perché questa storia è la nostra storia di esseri pensanti componenti l’umanità.

In attesa, abbiamo placato l’ansia andando a cercare una conclusione che parte dall’analisi scientifica di ciò che c’è “Tra il nulla e l’infinito. Lo spazio di Dio”:  un libro edito nel 2008 da “Rispostes”, di Eduardo Ioele che ha in comune con l’autore di essere aduso alla scienza e non alla teologia nell’affrontare per passione il tema dalle origini dell’universo e delle sue leggi fino a Dio.

Nel ripercorrere le prove psicologiche e ontologiche Ioele osserva: “Dato che lo spazio del trascendente si pone ai limiti della conoscenza – limiti tracciati dalle stesse leggi naturali – dobbiamo dedurre che la ricerca di Dio vada fatta oltre i confini della ragione. Ma come? Seguendo la ragione del cuore anziché la ragione della ragione, come diceva Pascal? Anche, ma non solo”.

E in questo “non solo” c’è l’osservazione che oltre all’origine della vita c’è l’emergere della coscienza cui non si è potuta dare alcuna spiegazione scientifica, perché va oltre la materia e non può  derivare dal caso. “La miscela di leggi e caos, che ci rende liberi, non sembra per nulla casuale, ma appare il frutto di una infinita sapienza”, scrive Ioele. Inoltre “è proprio nell’impossibilità di pervenire a una risposta razionale definitiva che risiede realmente la nostra libertà”; anzi c’è di più: “L’impossibilità di accedere a una verità finale, scandita anche da leggi naturali, non deve necessariamente essere interpretata in termini sconfortanti o anche umilianti per la ragione umana; al contrario, essa è forse la scelta più saggia della natura”. Perché se questa verità fosse l’esistenza del solo mondo materiale darebbe insicurezza e vanificherebbe ogni speranza, se fosse l’esistenza certa del  trascendente priverebbe di ogni interesse il mondo materiale per uno sterile misticismo.

“La verità assoluta, se c’è – prosegue Ioele – si colloca oltre i confini della nostra ragione, e tale preclusione, in fondo, sembra la migliore strategia della natura”. E aggiunge: “Il mistero della ‘prima mossa’ dunque, non sembra risolvibile e ciò deve indurci a un sano scetticismo verso gli integralismi e le grandi certezze nell’una o nell’altra direzione”. D’altra parte, ci ha detto di persona, “credere al  caso è come avere un‘altra religione senza alcuna certezza neppure in negativo”. E ci ha confidato che lo affascina l’immagine dantesca di “Dio come una grande luce”.

Queste parole non mitigano in noi l’attesa della preannunciata conclusione di Giardetti con il nuovo libro in cui darà la sua risposta agli interrogativi che lui stesso si pone al termine della prima parte della sua ricerca. Ma in un certo senso sono parole rassicuranti dopo l’impietosa analisi che con la ferrea logica della ragione ha la forza di poter  mettere in dubbio anche convincimenti radicati. Così conclude Ioele: “In quest’ottica la fede è una speranza che nasce anche dai limiti della ragione umana e che si nutre nel dubbio. Ognuno di noi, pertanto, è libero di assumere la posizione che più lo rassicura, quella che sente dentro, e nessuno potrà dire che la nostra scelta è errata”.

E’ una considerazione che ci fa attendere con serenità il completamento della dissacrante  analisi di Giardetti. Al quale va l’indubbio merito di aver affrontato il tema supremo del suo libro senza condizionamenti e con tanto coraggio, spinto dallo spirito del ricercatore che non accetta l'”ipse dixit” ma vuole toccare con mano utilizzando gli strumenti della ricerca culturale, filosofica, e scientifica.

Non è da poco, considerando che l’argomento è così vasto e coinvolgente da prendere l’intero essere in tutta la nostra esistenza, da investire il cuore oltre alla mente, la memoria della nostra vita oltre alla realtà.  Si tratta di Dio, e basta questa parola per perdersi nell’infinito.

Info

Gelasio Giardetti, “Dio, fede e inganno”, Arduino Sacco Editore, Roma, settembre 2013, pp. 240, euro 19,90.  Dello stesso autore “Gesù, l’uomo”, Andromeda Editrice, Castelli (Te), giugno 2008, pp.318, euro 18,00.

Foto

Il  libro di Giardetti non contiene illustrazioni; noi abbiamo ritenuto di inserire nel nostro commento una serie di immagini di Dio nell’arte, in una sequenza che dall’Empireo lo avvicina sempre più fino alla scintilla della vita nel contatto con Adamo del “Giudizio Universale” michelangiolesco nella Cappella Sistina. Si ringraziano i siti dai quali abbiamo rilevato le immagini, nell’ordine: piccolifiglidellaluce.it, mirys.altervista.org; digilander.libero.it; preghiereonline.it;  wilkipedia.org e freeformazione.leonardo.it; mariadinazaret.it;  blog.studenti.it; sanbenedettotorino.it; michelangelobuonarroti.historiaweb.net. Se non vi fosse gradimento per la pubblicazione da parte di qualcuno dei titolari, la rispettiva immagine verrà immediatamente depennata appena pervenuta la richiesta in tal senso anche come semplice post in questo sito all’articolo, dal quale sono estranee implicazioni di natura economica di qualunque tipo, nè si è potuta richiedere l’autorizzazione preventiva.

Yildiz Doyran, lo “slancio vitale” di Bergson in pittura

di Romano Maria Levante

Mostra personale della pittrice turca Yildiz Doyran, intitolata “Slancio vitale”, 20 acrilici su tela esposti all’Ufficio Cultura e Informazioni della Turchia a Roma, in Piazza della Repubblica. dal 23 gennaio al 7 febbraio 2014.  La mostra è organizzata dall’Ambasciata di Turchia presso la Santa Sede, che ha nel 2013 ha al suo attivo le mostre di Tulay Gurses sul misticismo,  di Ikay Samli sul Corano, di 9 artisti italiani sui loro viaggi in Turchia.  L’artista, ricercatrice e docente universitaria con dottorato presso la facoltà di Belle Arti di Ankara, ha un lungo curriculum di mostre  e attività internazionali ed è stata insignita di premi in competizioni artistiche: ad Adana nel 1999, ad Ankara nel 2000 e due volte nel 2003, a Malatya nel 2005.  .

Dopo le mostre ispirate al misticismo di Rumi e ai versetti del Corano, con la nuova mostra ispirata al pensiero di Bergson il percorso dell’Ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede Kenan Gursoy fa entrare nella filosofia, ma è smepre presente l’ispirazione  spirituale. Il filosofo dello “slancio vitale” è infatti un alfiere dello spiritualismo, è stato critico del positivismo basato sull’evidenza scientifica della materia e sul determinismo, il suo pensiero mette in primo piano lo spirito e la libertà, quindi la scelta fatta è una nuova tappa di un coerente cammino artistico-culturale.

“Evoluzione creatrice” e “slancio vitale”

Lo spiritualismo di Bergson non è solo il motore del’umanità ma lo è della natura, per lui regolata non da un processo deterministico ma in base all'”evoluzione creatrice”, effetto dinamico impresso dall’energia insita nello “slancio vitale”: quello cui si ispirano le opere della pittrice.

Con la sua “evoluzione creatrice” il filosofo riesce a coniugare due termini che sembrerebbero formare un ossimoro, dato che l’evoluzionismo in genere è visto come antitesi del creazionismo; l’artista se ne serve per coniugare la visione naturale con il contenuto spirituale, apparentemente in contrasto dato che la prima guarda all’esterno, il secondo è interiore; lo “slancio vitale” non è circoscritto all’uomo, essere pensante dotato di volontà, ma riferito alla natura, considerata viva e animata.

Lo “slancio vitale”, dunque, è l’energia che dà la vita e muove l’evoluzione conferendole il carattere della creazione libera come lo spirito, e non dell’andamento programmato come la materia. Perché se c’è una parte materiale è compresente sempre una parte spirituale: nell’uomo la prima è istinto, cioè una percezione legata alla sensibilità; la seconda è intelletto, collegata alla coscienza intesa come un fluire continuo, per cui l’evoluzione diviene necessariamente libera  enon deterministica.

Nella coscienza vige la spontaneità che è sinonimo di libertà, e supera sia il meccanicismo basato su causa ed effetto sia il finalismo basato sul fine ultimo per una “evoluzione creatrice” in continuo divenire spinta dall’energia dello “slancio vitale”. Questo è animato a sua volta dall’intuizione antitesi del determinismo, sintomo di istinto e di intelligenza.

Lo “slancio vitale”, centrale nel pensiero di Bergson, che dà il titolo alla mostra, è quindi un flusso creativo e spontaneo che investe la coscienza e la realtà. In questa concezione tempo e spazio acquistano connotati soggettivi e non più oggettivi, c’è il “tempo della coscienza” e con lo spazio forma “l’essere della coscienza”; alta spiritualità nell’umanità e nella natura.

Lo “slancio vitale nella natura attraverso le immagini della pittrice

E nella natura?  La pittrice si impegna nella missione impossibile di rendere questo processo altamente spirituale e intrinsecamente libero raffigurando ambienti naturali. Non la aiutano le similitudini – la valanga e il gomitolo la zolletta di zucchero e il genietto, la limatura di ferro e i fuochi d’artificio – con cui Bergson cerca di rendere familiari concetti complessi come la relatività del tempo e dello spazio. Lei ha escogitato immagini dalle quali traspare una profonda armonia e un’intensa spiritualità, cioè una sintesi libera ed espressiva del pensiero bergsoniano.

Parlare di “immagini” a questo punto è molto impegnativo perché Bergson attribuiva loro il superamento della mera percezione interna secondo l’idealismo come della realtà tangibile all’esterno secondo il materialismo: l'”immagine” per lui è una sorta di realtà intermedia tra ciò che esiste solo nella percezione e ciò che esiste nella realtà, ed esiste indipendentemente dall’essere percepita da noi e inoltre trascende la realtà, quindi va oltre il puro spirito e la mera materia.

Forse è questo tipo di “immagine” che la pittrice cerca di catturare nelle sue opere che intendono trasmettere la spinta dello “slancio vitale”, far sentire l'”evoluzione creatrice” che anima la natura.

Lo vediamo nella composizione dei 20 dipinti in acrilico su tela, con in comune la forma quasi evanescente percorsa da macchie traslucide come riflessi, sembrano fremiti che evocano l’evoluzione; e che sia creatrice si vede nella varietà delle forme  pur in un’omogeneità di fondo che ne fa un racconto unitario. E’ come se volesse evidenziare le stratificazioni dell’esistenza, i diversi piani in cui si manifesta nel mondo materiale percorso dagli impulsi vitali di origine spirituale. Sono increspature che muovono i diversi strati.

Il cromatismo è l’altro aspetto dominante, con il colore che prevale sulla forma. In ogni dipinto il fondo omogeneo  è percorso dalle increspature in tinte o tonalità diverse, i colori sono sia forti come i verdi, rossi e blu, sia tenui come il celeste e l’ocra molto sfumata. Mentre, a parte due dipinti dal titolo “Periferia”, il soggetto è pressoché unico, “Acqua”, e c’è un preciso motivo in questa scelta.

L’acqua, secondo quanto ha affermato  Levent Bayraktar nella presentazione della mostra, “è da intendersi come simbolo dell’essere e del cambiamento”, e in quanto tale comprende “la variabile e l’invariabile”. Perché “l’acqua, anche se si rinnova in ogni istante, rimane d’altro canto acqua”, e in questo fluire rimanendo se stessa consente di rappresentare con i colori il “flusso dialettico della vita,  inenarrabile a parole”. In altri termini, “l’artista non riproduce l’attimo, congelandolo, bensì l’esistenza e la durata della natura. Raffigura il cambiamento, la trasformazione”.  Fa sentire il tempo nella concezione di Bergson, con l’impeto creativo imprevedibile che trasforma l’esistente.

Non  ci soffermiamo sugli elementi che differenziano le singole opere, a parte i cromatismi  diversi sia come colore che come intensità, ma vogliamo sottolineare un altro aspetto comune oltre quello cui si è accennato della forma evanescente percorsa da fremiti: sono i “canneti” che in modo discreto spuntano dall’acqua: “Lo slancio vitale è un innalzarsi verso la libertà – osserva Bayraktar – I ‘canneti’ utilizzati dall’artista ne sono l’immagine più elementare. La vitalità va oltre la materia”.

Dalla natura all’umanità, un’altra missione impossibile

L’elemento umano non è presente nella rappresentazione dell’artista, rivolta alla natura non soltanto come opera d’arte in se stessa ma anche e soprattutto come manifestazione dello “slancio vitale” che imprime l’energia necessaria per il processo di “evoluzione creatrice”. Ma  alla base c’è un forte desiderio di comunicazione dell’essere vivente con la natura, dietro la percezione e l’intuizione c’è l’istinto e l’intelligenza, quindi la coscienza, tutti attributi spiccatamente umani.

Nel rendere esplicita questa comunicazione tra natura ed essere umano c’è forse un possibile sviluppo di un’ispirazione così alta legata allo “slancio vitale” di Bergson. Il filosofo non si arresta all'”evoluzione creatrice” espressa nella natura ma porta avanti questo processo  nella vita e nella storia umana. Arriva alla “società aperta” verso l’umanità e basata sulla libertà degli individui, antitesi della “società chiusa” di carattere autoritario legata a valori rigidi e predeterminati. Dalla prima nascono le religioni “statiche”, dogmatiche e  istituzionalizzate, diremmo  fondamentaliste; dalla seconda l’apertura porta a religioni “dinamiche”, che vengono  identificate nel  misticismo.

In Bergson il misticismo esprime la libera essenza dell’uomo e lo collega con il flusso vitale, quindi con lo “slancio vitale” che ne è alla base,  in una visione ottimistica  che troviamo riassunta in queste sue parole: “L”umanità intera, nello spazio e nel tempo, è come uno sterminato esercito che galoppa al fianco di ciascuno di noi, avanti e dietro a noi, in una carica travolgente capace di rovesciare tutte le resistenze e di superare moltissimi ostacoli, forse anche la morte“.

L’immagine è quanto mai dinamica, vi si manifesta l'”evoluzione creatrice” spinta dallo “slancio vitale”, questa volta nell’umanità piuttosto che nella natura. Una bella sfida per chi, come l’artista, si è già cimentata nella missione impossibile di  rendere lo “slancio vitale” attraverso la natura.

Info

Ufficio cultura e informazione della Turchia, Piazza della Repubblica 55-56, Roma, pressi Stazione Termini. Dal lunedì al venerdì ore 9,00-17,00, sabato e domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.4871190-1393; http://www.turchia.it/; turchia@turchia.it. Per le tre mostre precedenti citate cfr., in questo sito,  i nostri articoli del  21 marzo 2013  per la mostra di Tulay Gurses ispirata alla mistica di Rumi, del 2 ottobre 2013 per quella di Ilkay Samli ispirata ai versetti del Corano , del  9 novembre 2013 per quella di 9 artisti italiani sui ricordi di viaggio. Catalogo: “Yildiz Doyran, “Slancio vitale!”, gennaio 2012, pp. 36, formato 21×22.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nell’Istituto culturale della Turchia, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. Sono tutte opere formato 130×150 realizzate nel 2013: le 2 opere  ad angolo in apertura  e le 4  seguenti sono della serie “Acqua“; le due iaffiancate in chiusura sono della serie “Periferia, I e II

San Gennaro, il Tesoro di Napoli, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

La mostra “Il Tesoro di Napoli. I Capolavori del Museo di San Gennaro”  organizzata dalla Fondazione Roma al Palazzo Sciarra dal 30 ottobre 2013 al 16 febbraio 2014,  in un percorso suggestivo fa rivivere la devozione popolare di Napoli per San Gennaro, che ha coinvolto anche i regnanti d’Europa, attraverso 70 preziosi oggetti sacri e ornamentali donati al santo. Paolo Jorio e Ciro Paolilo curatori della mostra e del catalogo Skirà Dopo aver indicato il significato e il contenuto della mostra e aver ricordato come nasce e come si manifesta il culto per San Gennaro, nel popolo e nei regnanti,visitiamo l’esposizione descrivendone i principali pezzi pregiati.

Il percorso nelle sale di Palazzo Sciarra ci dà la dimensione artistica  ma anche quella emozionale di una devozione così forte con un allestimento che si avvale di effetti sorprendenti, come i cammei-video con i regnanti donatori dietro i pezzi preziosi da loro dedicati al santo; o le timbrature offerte al visitatore per imprimere l’immagine del santo. L’effetto d’insieme è suggestivo con la luce sugli argenti dei busti e delle sculture, lo splendore degli ori e i luccichii variopinti delle pietre preziose dalle teche che spiccano nella loro magnificenza in una semioscurità evocativa e intrigante.

L’incontro con San Gennaro: i dipinti, il Busto reliquario

Nella prima sala, dedicata alla civiltà napoletana con le sue immagini simbolo,  c’è  subito l’incontro con San Gennaro: accolgono il visitatore due quadri del 1600, “San Gennaro benedicente” di Francesco Solimena, 1702, ieratico dal volto scavato, e “Decollazione di san Gennaro e dei compagni nella Solfatara” del Domenichino, 1630, un acquerello su carta impressionante, una composizione con i soldati e la gente sul luogo del martirio in una sanguigna che ne fa percepire appena i contorni sfumati facendola assomigliare a una Crocifissione.

Ma  soprattutto c’è il “Busto reliquario“, di cui è esposta una copia che rende la preziosità dell’originale donato da Carlo dì Angiò nel 1305, opera inamovibile che viene portata in processione. Poiché non poteva mancare nella mostra sul Tesoro di San Gennaro di cui costituisce un elemento fondamentale, è stato svolto un lavoro di altissimo artigianato  per la duplicazione, altamente meritoria, con la scansione tridimensionale, lo stampo e la modellazione, la fusione in bronzo e la doratura, l’applicazione di castoni e gemme. Il risultato è di straordinaria efficacia.

Riferendoci all’originale ricordiamo che è in argento prevalentemente sbalzato, cesellato e dorato, vi erano incastonate 177 gemme, quelle cadute o asportate soprattutto  nelle processioni sono state sostituite  nel tempo dalle più svariate pietre preziose, dai zaffiri ai rubini, dagli smeraldi alle acquemarine, dai lapislazzuli ai coralli, dalle madreperle alle malachiti. Il volto quasi imberbe, le rughe sulla fronte  e la corona di capelli ricci hanno fatto pensare a un ritratto dal vero, forse di un membro della famiglia reale o del futuro arcivescovo Ubero d’Ormont: ma per tutti è San Gennaro!

La sfilata di busti e statue d’argento dei santi patroni

Si passa poi in un corridoio ad angolo con delle grandi vetrine dedicate ai Parati sacri, vi è esposta una vasta serie di oggetti, anche in più esemplari per tipologia: candeliere e lampada votiva, putto e giara, brocca per pontificale e pisside, ampollina e calice, cartagloria e chiave, messale e crocifisso. In argento fuso, spesso dorato, cesellato e inciso da un artigianato artistico di qualità.

Proseguendo vediamo Busti in argento dell’altezza di un metro che venivano portati in processione, poi delle grandi Statue anche sui 2 metri ed oltre. L’esposizione di sculture in argento continua  nei diversi ambienti della mostra, fanno corona fino alle grandi attrazioni delle ultime sezioni, quelle con la Mitria preziosa, la Collana di San Gennaro  e i doni dei regnanti. Li consideriamo insieme nella loro continuità artistica, nel racconto che si dipana lungo il percorso espositivo sono una costante, quasi dei numi protettori onnipresenti nella storia del santo.

Sono dell’ultima parte del ‘600 i busti di “Sant’Eufebio vescovo” 1672, e “San Pietro martire” 1660, “Sant’Attanasio vescovo” 1672, e “San Giovanni Battista” 1695, “San Francesco Borgia” 1695, e “Santa Maria Elegiaca” 1699;. mentre “San Michele Arcangelo” 1691, è una figura alata che svetta nella sua posa trionfante.  Del ‘700 “Santa Irene” 1733, e “Sant’Emidio” 1735, “Tobiolo e l’Angelo (san Raffaele)” 1797, non un busto ma una composizione. Siamo nell’800 con “Sant’Agostino confessore” 1836,  “San Francesco d’Assisi” 1839-60, e “San Biagio” 1856.

Sono statue firmate dai più rinomati argentieri e scultori delle varie epoche, tra i primi Treglia e Vinaccia  alla fine del ‘600, De Angelis e Del Giudice nel ‘700; tra gli scultori Vaccaro e Fanzango a fine  ‘600, Fumo e Sanmartino nel ‘700. Nell’800 gli scultori sono Capozzi, Murolo, Ferraro. Busti e statue, nelle espressioni e positure più diverse danno la sensazione che un  “popolo di santi” accompagna e scorta San Gennaro nel suo incontro con il popolo di fedeli. Dal punto di vista artistico si può dire che non c’è nulla di stereotipato, sono figure vere con visi spesso tormentati e gestualità espressiva, panneggi particolarmente elaborati nelle cesellature raffinate.

Completano  la serie di statue d’argento due grandi composizioni, il cui nome “Splendori” viene dalla magnificenza della fattura  e dall’imponenza delle dimensioni, oltre 3 metri  e mezzo di altezza, opera di Filippo del Giudice, donati da Carlo III di Borbone e Maria Amalia di Sassonia. C’è un globo terrestre con i  putti e le virtù teologali – fede, speranza e carità – e tre allegorie – fortezza, mansuetudine e buon governo – donati da Carlo III di Borbone e Amalia di Sassonia.

Anche gli “Splendori”, come altre sculture argentee, sono esposti più avanti, ma abbiamo voluto completare la rassegna citandoli subito.

La “Mitria preziosa”

Ora torniamo al percorso della mostra, siamo  giunti alla quarta sezione, con le opere più preziose. Al centro della sala, mentre alle pareti ci sono alcune delle statue appena citate,  è esposta la “Mitria preziosa”, che ha compiuto all’apertura della mostra il 300° anno, essendo stata realizzata dall’antico Borgo Orefici su commissione della Deputazione perché fosse collocata sul Busto del santo nella processione  dell’aprile del 1713, autore Matteo Treglia, figlio di Aniello,  con dei collaboratori, in riconoscimento dei quali firmò “Matthaus Treglia fieri curavit” e non “fecit”.

Nella Mitria sono incastonate 3964 pietre preziose, che alla ricchezza uniscono la simbologia: i rossi rubini rappresentano il sangue, i verdi smeraldi l’unione tra sacro al livello di santità e profano al livello di potere, i diamanti risplendenti la forza della fede. Viene fornito anche il numero dei singoli gioielli: 3326 diamanti,  164 rubini, 198 smeraldi; questi ultimi provengono dalla lontana America Latina,  ed è questa un rarità che dà a tali pietre un valore anche storico, perché si ricollegano agli antichi popoli sudamericani, sotto i più grandi è stata posta della seta gialla per farne risaltare meglio il colore e impedire che l’ossidazione dell’argento si trasmettesse alla pietra; altra particolarità è che i diamanti sono stati tagliati secondo le esigenze del disegno.

L’opera ha una struttura architettonica, per così dire: è formata da due valve assemblate ai bordi  con due dischi d’argento in una struttura a crociera e una calotta di metallo per sostenerne il peso e poterla collocare sul Busto del santo. Segnò il superamento dei modelli francesi di riferimento fino ad allora adottati: vi furono inseriti gli spessori per una visione tridimensionale e le varietà di gioielli diversamente colorati per un cromatismo quale quello dei fiori, con un effetto estetico di tipo pittorico. Così gli artigiani del  Borgo degli Orefici, dove si trovava il laboratorio dei Treglia e dove furono trasferite tutte le botteghe orafe – alla fine del 1600 ve n’erano circa 350 – divennero celebri in tutta Europa e l’oreficeria come visione artistica  si avvicinò a pittura e scultura.

La “Collana gemmata” e il Reliquiario del sangue

Con  negli occhi l’immagine abbacinante di tanto valore materiale, ma soprattutto artistico e devozionale, si passa alla sala successiva dove, in un’escalation di emozioni, si è subito attratti dalla teca blindata centrale con la “Collana gemmata di San Gennaro”,  chiamata anche “Collare”, uno dei gioielli più preziosi esistenti al mondo, creato nel 1679, sempre per iniziativa della Deputazione, per ornare il Busto del santo, da Michele Dato e altri artigiani in pochi mesi. Furono utilizzate 13 pesanti maglie d’oro massiccio cui inizialmente appesero croci tempestate di zaffiri e smeraldi; fino al 1734 vi fu aggiunta dalla Deputazione soltanto una “ciappa, vale a dire un fermaglio, di 7 smeraldi, ma sembra che la composizione della collana fosse studiata in modo da prevedere aggiunte successive.

I doni dei sovrani, spesso in coincidenza con eventi per loro felici,  iniziarono con Carlo III di Borbone, entrato vittorioso a Napoli passando per Porta Capuana  alle 10,30 del maggio 1934; alle 14,30  da Re delle due Sicilie si presenta sul cavallo bianco alla porta del Duomo, accolto dal Cardinale Pignatelli, entra nella Cappella del Tesoro e consegna il suo dono al tesoriere: una Croce con 130 diamanti perché fosse aggiunta alla Collana, del valore di 6750 ducati; nel 1738, due mesi dopo le nozze con Maria Amalia di Sassonia, il 2 luglio donò una Croce  con bottone di 63 diamanti, del valore di 2400 ducati.

La strada era aperta per i doni di altri regnanti e non solo. Nel 1775 è il turno di Maria Carolina d’Austria, un’altra Croce in brillanti e zaffiri, questa volta è un ringraziamento per la nascita del figlio maschio Carlo Tito duca di Calabria. Con il nuovo secolo una nuova Croce  di smeraldo e diamanti si aggiunge alla Collana, è donata nel 1806 da Giuseppe Bonaparte, su consiglio del fratello Napoleone che lo ha nominato Re di Napoli. Circostanza straordinaria, considerando che Napoleone era solito asportare le opere d’arte dalle terre conquistate, mentre in questo caso oltre a rispettare il Tesoro di San Gennaro lo fa incrementare con il dono da lui consigliato.

Quasi 20 anni dopo, nel 1825 il nuovo dono di Francesco I di Borbone, figlio di Maria Carolina, nell’ascesa al trono, una Spilla con tre smeraldi di forma diversa contornati da diamanti, valore 2890 ducati.

Poi è il turno dei Savoia, a partire da Maria Cristina, devota di San Gennaro e molto amata a Napoli fino ad essere chiamata “la regina santa”: nel 1832 donò un a Sevigné  di smeraldi e diamanti di intensa luminosità. Segue Vittorio Emanuele II nel 1862 con una Croce a spilla di diamanti  e crisoliti offerta dopo la liquefazione del sangue; l’anno dopo fu incoronato re d’Italia. L’ultimo dono dei Savoia è stato occasionale ma significativo: nel 1933 Maria José, moglie di Umberto di Savoia, mentre visitava il Tesoro, fu così colpita dalla preziosità della Collana da sfilarsi l’anello e infilarlo in una maglia, ripetendo il gesto di una devota che cinquant’anni prima si era tolta anello e orecchini con diamanti  e perle per aggiungerlo alla Collana.

Finora con Mitria e Collana abbiamo fatto la conoscenza dei preziosi ornamenti rituali del Busto del santo. Adesso, con la quinta sezione, siamo al clou devozionale, il “Reliquiario del sangue”dove ci sono le sacre ampolle. E’ stato realizzato nella prima parte del XIV secolo, con trasformazioni tra il 1643 e il 1676, in argento dorato di manifattura angioina, opera di Gian Domenico Vinaccia. E’ difficile descriverlo, nella parte inferiore la piccola statua del santo  benedicente assiso in posa ieratica con il bastone da vescovo e la mitra, sopra una trabeazione e sopra ancora l’ampolla dentro una raggiera, contornata da rami  e piante, una straordinaria leggerezza e armonia dell’insieme. Seguono preziosi Paliotti, di autore ignoto o di manifattura napoletana, per l’altare maggiore, in tonalità verde e rossa, così siamo di nuovo entrati nell’atmosfera del culto.

Gli oggetti sacri, d’oro e pietre preziose, dono dei sovrani

Nella sezione finale dedicata ai doni dei sovrani torna e rifulgere il bagliore dell’oro. Esposti nelle  piccole teche al centro sono calici d’oro, pissidi ed altri oggetti sacri,  preziosi per il materiale e artistici per la fattura:  l’allestimento li valorizza con l’immagine a colori e animata del donatore che spicca sulla parete in un video dal carattere evocativo di notevole interesse sia dal punto di vista visivo che da quello storico. Sembra che siano lì a porgere o presentare il loro dono, abbiamo già citato alcuni donatori per la Collana, qui vi sono gli altri doni sempre per San Gennaro.

Vediamo il Calice in oro e brillanti, rubini e smeraldi del 1791 donato da Ferdinando di Borbone e l’Ostensorio in oro, argento e rubini del 1808 di Gioacchino Murat, sempre su suggerimento di Napoleone; la Pisside in oro con rubini e zaffiri, smeraldi e brillanti del 1831 di Ferdinando II e l’Ostensorio in oro e pietre preziose, smalti e perline del 1837  che  Maria Teresa d’Austria donò in occasione delle proprie nozze con Ferdinando II. Pochi mesi dopo Ferdinando II donò il Baldacchino d’argento sostenuto da due angeli anch’essi in argento con una porticina per collocarvi durante le processioni l’Ostensorio donato da Maria Teresa.  

Ci sono anche doni tutti italiani. Ecco il dono che Pio IX  fece nel 1849 per ringraziare il santo  dell’ospitalità dei napoletani in occasione dei moti mazziniani che lo avevano fatto allontanare da Roma, un Calice in oro zecchino realizzato a Roma con impresso lo stemma del proprio casato “Mastai Ferretti”, dall’orafo Valadier, è una delle poche opere non napoletane.

Ammiriamo poi i doni dei Savoia, la spettacolare  Croce episcopale in oro, smeraldi e brillanti di Re Umberto I e Margherita di Savoia quando salirono al trono nel 1878: il dono seguì l’attentato di un anarchico che cercò di  pugnalare il Re  mentre attraversava la città in carrozza dopo l’incoronazione tra la folla festante, gli fece scudo con il suo corpo Benedetto Cairoli che fu ferito, il prezioso dono  di ringraziamento a San Gennaro per essersi salvato fu una logica conseguenza.

Non ringraziamento ma intento propiziatorio all’origine del dono di Umberto II di Savoia all’atto di trasferirsi a Napoli nel 1931 lasciando Torino dove l’ambiente era diventato meno favorevole; Mussolini lo accolse in Piazza Plebiscito, ma la visita alla Cappella di San Gennaro era d’obbligo, avvenne il 5 novembre alla presenza del cardinale Alessio Ascalesi, il dono che vediamo fu una Pisside di corallo e malachite con un effetto di contrasto tra l’argento e l’arancione, opera dei migliori argentieri con la famiglia Alcione di Torre del Greco, patria del corallo..

Ricchezza e povertà alla luce della devozione

Si esce dalla mostra con negli occhi tanta ricchezza che sembra stridere con le condizioni  della gente napoletana la cui devozione  ha alimentato nei secoli il culto del santo, soprattutto nell’ottica francescana della povertà della chiesa. Ma la ricchezza non stride con la passione corale per il santo che è stata sempre massima e spiega come da parte dei sovrani e anche del popolo si sia voluto esprimerla nelle forme caratteristiche dei vari momenti storici. I doni dei regnanti come le creazioni preziose della Deputazione a nome del popolo ne sono i segni tangibili, quasi un volersi avvicinare a quanto di più prezioso nel trascendente con quanto di più prezioso nell’immanente. Lo stesso può dirsi per le grandi cattedrali dove la devozione si esprime nelle forme architettoniche più eccelse.

Torniamo ai tempi nostri, e alla chiesa povera di papa Francesco, non la sentiamo in contrasto con quanto abbiamo ammirato nel Tesoro di San Gennaro che resta un giacimento culturale di incalcolabile valore sul piano artistico e storico e anche sul piano devozionale. Comunque lo si voglia considerare, tra gli estremi della religiosità e della superstizione, è  lo spirito popolare direttamente o indirettamente  che ha mosso l’arte, attraverso le donazioni e le committenze,  per rendere omaggio al santo  mediante opere preziose che restano impresse negli occhi e nella mente..

Info

Museo Fondazione Roma, Palazzo Sciarra, Roma, via Marco Minghetti 22, traversa del Corso, aperto tutti i giorni:  Lunedì ore 15,00-20, 00, dal martedì al giovedì e domenica 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-21,00; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso:  intero 10 euro, ridotto 8 euro (fino a 26 anni e oltre 65 anni, più universitari e docenti facoltà artistiche, dipendenti MiBAC, adulto con minore, gruppi e convenzioni), scuole 5 euro ad alunno, omaggi particolari per categorie e giorni determinati. Catalogo: “Il tesoro di Napoli. I Capolavori del Museo di San Gennaro”, a cura di Paolo Jorio e Ciro Paolillo, Skira Editore, ottobre 2013, pp. 232, formato  24×28.  Per i contenuti della mostra e la storia del culto di San Gennaro cfr. in questo sito il nostro precedente articolo “San Gennaro, il Tesoro  con la sua storia alla Fondazione Roma” del 17 gennaio 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Sciarra, si ringrazia la Fondazione Roma con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura la “Mitria preziosa”, seguono “San Gennaro benedicente”, 1702, di Francesco Solimena, e  “Sant’Agostino confessore”, 1836, di Capozzi, poi un prezioso “parato sacro” e un “Calice d’oro”  dono di un sovrano nel video sul fondo; in chiusura un angolo della mostra con un busto d’argento nella nicchia e un colossale candelabro .

Anni ’70, l’arte a Roma, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni a Roma,  dal  17 dicembre 2013 al 2 marzo 2014,   la mostra “Anni ’70. Arte a Roma”, con  200 opere di 100 autori italiani e stranieri che hanno operato nella Capitale in un intreccio fecondo di culture e linguaggi, provocazioni e  stimoli, alimentato da una rete di associazione e gallerie che hanno promosso eventi e sostenuto artisti, e rappresentano uno dei motivi principali della scelta di Roma come osservatorio privilegiato. Curatrice della mostra e del catalogo, Daniela Lancioni.  E’ promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale ed  è accompagnata da una serie di Conferenze e da un fitto programma cinematografico sugli anni ’70.

Spirito e  contenuto della mostra

Dopo “Gli irripetibili anni ‘60”  evocati dalla Fondazione Roma nel 2011, irrompe al Palazzo Esposizioni nel 2014 l'”Arte negli anni ‘70″, all’insegna di tre valori, “comunicazione, partecipazione, libertà”. Tutto messo in gioco in un dinamismo culturale e in un fervore creativo concentrato su Roma, vera Capitale dell’arte contemporanea. Sono anni “sfaccettati” – per citare la risposta data dalla curatrice alla nostra domanda di un termine corrispondente agli “irripetibili” del decennio precedente – con l’affollarsi di tante diversità da considerare simultaneamente,  tanti motivi da condividere, misurando la libertà dell’uno con quella degli altri. 

Per sintetizzare in una parola il percorso espositivo sugli “anni 70”  nell’arte a Roma sceglieremmo “labirinto” tra quelle usate come titoli della varie sezioni: un labirinto reso ancora più intrigante dal fatto che non sono preordinati l’ingresso e l’uscita, ma lasciati alla scelta del visitatore, quasi fosse un palindromo, l’invarianza nei due versi opposti. Non è indifferente, naturalmente, perché  la prospettiva muta, ma poiché non sono preordinati  neppure i temi delle varie sezioni, ognuno segue la propria ispirazione; così facendo può invertire la sequenza cronologica, dato che alle due metà del decennio corrispondono due percorsi distinti, ma resta riaffermata la libertà di interpretazione.

Il labirinto può far pensare a una direzione unica dopo il disorientamento iniziale, niente di tutto questo: ci riferiamo alla  ricchezza di elementi offerti per ricostruire attraverso le arti visive il clima di un decennio di fermenti mediante il dialogo e il dibattito sviluppatosi nell’arte e nella società.

Quale significato dare allora ai titoli delle varie sezioni?  I titoli, viene spiegato, non sono i temi che vengono rappresentati, ma un “fil rouge” di altro tipo: “Un’attitudine, una disciplina, un pensiero, una parola chiave, un’intuizione presa a prestito”, e neppure la collocazione delle opere esposte in una o nell’altra sezione è tassativa, le tematiche che emergono sono trasversali, e così i collegamenti, il visitatore può spostarle idealmente da una parte all’altra per associazione di idee, creando delle proprie connessioni nel gioco della memoria che è assolutamente personale.

Molto spazio viene dato alla memoria presentando opere d’arte create o divenute note negli anni ‘70, e per  riportare a quel clima si inizia con la rievocazione visiva delle mostre che le hanno offerte al pubblico allora, e delle associazioni e  Gallerie che le hanno promosse lanciando e sostenendo gli artisti con operazioni coraggiose dato il loro carattere di avanguardia.

La  creatività e lo spirito innovativo a Roma nel decennio sono stati tali da  considerarlo come uno “spartiacque”, per cui gli anni ’70 sono ritenuti fondamentali per l’avvio di molti processi attuali: dalla parità dei diritti alla sensibilità ambientale, dall’evoluzione delle classi sociali a quella del lavoro. Viene subito dopo il 1968 con la contestazione, ma sarebbe riduttivo sottolinearne gli aspetti conflittuali, vi è stato un rinnovamento di linguaggi e contenuti sul piano visivo ed artistico che si è manifestato in un fervore straordinario di mostre, dibattiti, eventi, in una Capitale che nella seconda metà del decennio, dal 1976 al 1979, ha avuto come sindaco il critico d’arte Giulio Carlo Argan.

Per riproporre un decennio così fervido e vitale è stato necessario svolgere un’accurata ricerca che ha portato al mosaico di opere d’arte esposte dal quale nasce un’interpretazione,  un racconto. Ma nel proporlo si avverte che la visione emergente dai titoli sui motivi più radicati in quel tempo non è tassativa, si lascia aperta ogni diversa interpretazione mentre  ci si preoccupa di documentare il tutto con precisione oltre a stimolare la memoria con un evocativo corredo fotografico e filmico.

“Negli anni  Settanta – scrive la curatrice Daniela Lancioni con un termine oggi attuale – si cambiò passo.  Nelle nuove opere, e ci auguriamo che questo emerga dalla mostra, accadono prodigi, si familiarizza con il mistero della vita e della morte, si prefigura l’infinito, ci si predispone all’ascolto dell’altro, senza perdere la cognizione delle cose  semplici e quotidiane, si trascende. Ciò avvenne, crediamo, anche attraverso gli scambi reciproci tra gli autori delle diverse generazioni”, a Roma.

Il racconto, così riassunto, inizia con l’appello alla memoria: la rievocazione fotografica di 4 mostre collettive nella Rotonda centrale, prima delle 7 grandi sale che fanno corona; nelle 3 a sinistra la vita quotidiana, nelle 3 a destra i linguaggi,  nella 7^ sala il “tutto”. Nelle sale seguenti si va dal fenomeno al racconto, dalla politica al labirinto, sempre attraverso le arti visive. Il numero di opere come quello degli autori è vastissimo, seguendo il “fil rouge”  tematico della mostra il visitatore li incontrerà di volta in volta e sarà come rivivere sensazioni ed emozioni sopite dal tempo.

Dall’immaginario al sistema

Le 4 mostre della Rotonda sono rievocate attraverso 30 immagini di tre noti fotografi,  Claudio Abate, Ugo Mulas  e Massimo Piersanti, che riportano le opere di artisti d’avanguardia, i titoli sono intriganti: “Visione del negativo nell’arte italiana 1960-70”  e “Contemporaneo” sull’arte internazionale, “Fine dell’alchimia” e “Ghenos Eros Thanatos” sul mistero della morte e della vita.

Il percorso inizia con “La carne e l’immaginario”, dai fatti verificabili al mito in un “doppio tragitto di andata e ritorno, lo stesso attraversato dagli artisti”. Spiccano i due “Cretti” bianco e nero di Burri e la piccola galleria di de Chirico, con i neometafisici “Vita silente” e “Il poeta e il pittore”, nonché una sfilata di 8 disegni, da Ebdòmero ai gladiatori, alle mani misteriose. E poi la “Copertina per la città di Riga” e il  teatrino “Senza titolo” di Kounellis, i misteriosi “La Doublure” e Mimesi” di Giulio Paolini, i “d’apres” fotografici  di Ontani, “Bacchino” e Salvo, “Autoritratto (come Raffaello)”, fino all’ “Immortalità” di Gino De Dominicis e le foto di Claudio Abate.

Con “Il doppio” il duplice tragitto si precisa nel rapporto con la tradizione e il nuovo insito nell’opera di artisti che vogliono innovare e sentirsi parte di un insieme, doppio di sé stessi: entità dissimili potevano essere riunite all’insegna di valori condivisi quali la giustizia, l’uguaglianza, e il mistero dell’esistenza, che convergono nella cultura e nella storia comune, in altri termini la civiltà. Troviamo ancora Paolini e De Dominicis, il primo con delle geometrie, “Triade” e “Dimostrazione”, il secondo con dei volti speciali – “Il giovane e il vecchio” abbinati, e “Conversazione senza macchia” – che vediamo anche in Vettor Pisani, anche in omaggio a Duchamp, e in Luigi Ontani, nelle  vesti di “Dante”  e “Pinocchio” ; poi Maurizio Mochetti con i “Cubi” e il “Mare rovesciato”, Carlo Maria Mariani e Tano Festa con ispirazioni storiche, mentre Sandro Chia si cimenta con “L’ombra e il suo doppio” e in un “Autoritratto in veste di David”.

Dal “doppio” a “L’altro”, che ne è l’immagine speculare come possibilità di comunicare e rompere l’isolamento, superando la cultura dell’appartenenza che faceva restare confinati nel proprio ambito per entrare in territori più vasti dove – scrive la Lancioni – “la propria libertà deve necessariamente misurarsi con quella dell’Altro”.  Da Richard Nonas a Ferruccio De Filippii, che si chiede “Cosa significa il responso dell’oracolo,” da Michele Zara con la “Dissoluzione” e il “Racconto celeste” a  Vettor Pisani  con “L’androgino (carne umana e oro)”, fino all’enigmatica “Dichiarazione d’artista” di Ketty La Rocca.

E l’arte in senso stretto? La vediamo in “Il disegno e la scultura”,  in cui si  propone un’interpretazione molto particolare di quegli anni, dopo i processi di de materializzazione  dell’oggetto d’arte sviluppatisi negli anni ‘60. Così la Lancioni: “Nelle opere esposte un modo di mettere in sicurezza le invenzioni e le istanze maturate nel decennio precedente  suggellandole in un disegno o in una scultura o in un lavoro che in alcuni casi è un insieme di disegno e scultura”; in altri si limita all’enunciazione di un’idea che è essa stessa arte pur non divenendo opera finita. Vediamo  come questo si concretizza in espressioni dal cromatismo delicato come l’antropomorfismo acrobatico di “La zingara” di Fausto Melotti e “Alluminio e seta indiana” di Luciano Fabro, e come le tenui ocre delle cuspidi degradanti sul chiaro  nel “Senza titolo” di Marisa Merz; fino alle  macchie rosse dello “Stocchi Family Portrait” di .Cy Twombly.  Il cromatismo è ancora più sfumato nelle tre opere di Alighiero Boetti, “Cimento dell’armonia e dell’invenzione”, poi si passa al muro con i riquadri geometrici di Sol Le Witt  e il segno grafico quasi impercettibile sulla grande parete bianca di Richard Tuttle, con “Piece”. Ben diverse le forti immagini fotografiche di Giuseppe Penone, volti e sguardi misteriosi in “Rovesciare i propri occhi”; di lui è esposto anche “Albero di 3,50 metri”, un ramo su una tavola steso a terra.

Siamo giunti così al “Sistema” inteso come ambito entro il quale circoscrivere l’espressione artistica, vediamo le ripetizioni delle immagini e l’attribuzione di un valore a ciò che sembrerebbe banale. Viene ricordato, come riferimento e ispirazione, il minimalismo americano,  e il rifiuto dei ruolo dell’artista da parte dei giovani francesi; uno sbocco è visto nella tassonomia, cioè nell’analisi di un tema attraverso elenchi che lo esemplificano, e in esperienze legate alla pittura in varie forme. La sezione si apre con Giuseppe Capogrossi, il suo segno inconfondibile come un monogramma spicca  nella “Superficie 726”, mentre di Enrico Castellani abbiamo “Superficie bianca”, con delle increspature, e nel “Senza titolo” di Niele Toroni sulla superficie bianca  vi sono dei quadratini ocra; l’autore presenta anche le “Impronte di pennello n. 50 ripetute  intervalli regolari”, dove la banalità aspira a divenire arte. Il colore ocra diviene più intenso nel “Grande trasparente” di Claudia Accardi, un riquadro come una finestra, e soprattutto  in “Acrilico 15” di Marco Gaslini dove marca con forza una sorta di zoccolo al termine di una superficie chiara. La serialità esemplificativa la troviamo nelle scacchiere alle pareti di Laura Grisi e nella modularità lineare di Jan Dibbets, nonché nella modularità volumetrica del “Costruttivo” di Nicola Carrino.

Dal linguaggio al labirinto

Con “Il linguaggio”,  l’analisi dei contenuti si approfondisce, c’è la tendenza a rimettere in discussione quanto ricevuto dalla tradizione che, essendo espressione della cultura di appartenenza può essere ridefinito da chi se ne sente estraneo. Viene contestato il formalismo, spostando l’attenzione dell’arte dalla forma al contenuto, richiamandosi alla provocazione dei “ready made” di Duchamp. “L’arte per Kosuth – ricorda la Lancioni – è linguaggio sull’arte. Un’opera d’arte, pertanto, è una sorta di preposizione presentata entro il contesto dell’arte come commento sull’arte”. Kosuth lo ha scritto  in “Arte dopo Filosofia” del 1969, quindi apre gli anni ’70, mentre Lawrence Weiner “esalta il potere del linguaggio (uno strumento semplice e alla portata di tutti) e, senza dare direttive di alcun genere, descrive opere  aperte, che si possono realizzare in modi e situazioni diverse, e in riferimento a situazioni di segno positivo o negativo”. Dato che  si tratta di ridefinire l’opera d’arte con riferimento al linguaggio parlato e scritto, con queste premesse spicca la scritta a caratteri cubitali “Le contraddizioni sono ovunque”, nell’opera di Francesco Matarrese; poi, in chiave psicologica, le opere di Sergio Lombardo,  una scritta sulla busta con accanto la boccetta del veleno in “Progetto di morte per avvelenamento”e “Cinquanta partite  a dadi”, una serie di grafici allineati che rendono lo stato d’animo del giocatore determinante nell”esito.  C’è anche il nichilismo della  decultura, lo esprimono la “Cultura mummificata”  di Elisa Mattiacci, con il cumulo di volumi accatastati e la bandiera cancellata di Giaqnfranco Notargiacomo; nonché il “Libro dimenticato a memoria” di Vincenzo Agnetti, le parole sono eliminate forse perché il linguaggio tradizionale non basta più, e l’opera di Fabio Mauri “Perché un pensiero intossica una stanza?”, dove l’effetto negativo è dato da 32 rettangoli sulla parete. Renato Mambor propone invece un recupero della comunicazione attraverso l'”Evidenziatore”, una sorta di “oggetto misterioso”. Con Luca Maria Patella – di cui ricordiamo il suo omaggio all'”Apolinére Enameled” di Duchamp,  il “letto sbagliato e quello corretto” esposti in permanenza alla Gnam – passiamo dai grafici su complesse teorie linguistiche  di “Razionalità, creatività, ossessione”, a visioni fotografiche suggestive, il rosso tramonto di “Verso la Rubedo” e la delicata “Tessitura solare con Arcobaleno”, molta psicologia in queste immagini, oltre a una tecnica fotografica tutta particolare.

E’  molto tecnica la sezione successiva, “Memoria”, si tratta della rappresentazione dell’arte fatta da Luciano Giaccari con speciali video sperimentali che dimostrano la grande attenzione dedicata alle arti visive, in un collegamento fecondo tra arte e musica, danza e teatro. Si descrive l’impiego del videotape nell’arte e si presenta un’ampia serie di esempi di opere riprese.

E siamo al “Tutto”, titolo molto impegnativo per una sezione che intende mostrare un’altra tendenza del decennio: “un nuovo modo di intuire il tutto – l’insieme, la visione ‘universale’ . come ottenuto dalla somma di visioni ‘particolari'”. In questa ricerca si superano i limiti del linguaggio  basandosi su alcuni presupposti generali della comunicazione: l’insieme esiste e per comporlo occorre unire le diverse componenti, che così dall’ambito singolo passano a quello generale. Vincenzo Agnetti punta molto in alto, suo è “Ritratto di Dio”, la scritta “Io sono l’alfa/   e l’omega/ il primo/ l’ultimo/ il principio/ e la fine/ di tutto quanto”, seguito dal dimesso “Autoritratto”, la scritta “Quando / mi vidi/ non c’ero”. Alighiero Boetti  esprime il tutto in “Mappa”, un grande planisfero con i colori delle bandiere nei singoli paesi; mentre in “Mettere al mondo il mondo” riporta tutte le lettere dell’alfabeto. I 5 “Senza titolo” di Ettore Spalletti mostrano superfici uniformi dal cromatismo pastello appena accennato, e anche la sua “Colonna di colore” in realtà è acromatica, a differenza di quella  di André Cadere dagli anelli a forti tinte . In “Alba, giorno, tramonto, notte” di Eliseo Mattiacci spiccano quattro superfici dal forte cromatismo, dell’autore anche le diversissime opere fotografiche in bianco e nero “Freccia” e “Tramonto”. Il tragico bianco e nero con la figura sdraiata  avvolta in un telo di Jannis Kounellis, e il trittico dal forte cromatismo e intensa vitalità “Fantasia del paziente naturale”, di Mario Schifano costituiscono due visioni contrapposte della realtà. 

Con “La rivoluzione siamo noi” si rievoca un evento negli incontri internazionali d’arte di Achille Bonito Oliva, Joseph Beuys espose il suo piano rivoluzionario che partiva dall’arte: “Bisogna scuotere l’uomo dalla tendenza a privatizzarsi, a isolarsi, a depoliticizzarsi, a concentrarsi sui propri interessi e svegliare in lui i sentimenti comunitari”. In questa azione l’arte deve restare separata dalla realtà per essere di stimolo, di opposizione e di esempio. Si può sentire la voce di Beuys e quella degli artisti intervenuti – da Amelio a Menna, da Fabio Mauri fino al grande Renato Guttuso – e vedere le fotografie dell’artista che parla e disegna grafici alla lavagna scattate da Elisabetta Catalano e da Claudio Abate.

Siamo alle ultime quattro sezioni. “Fenomeno” intende negare qualsiasi interpretazione rifacendosi alla fenomenologia del filosofo Edmund Husserl, secondo cui aderendo alla vita ci si deve astenere da formulare giudizi. Nessun motivo comune viene proposto, anzi si invita a sottolineare le specificità di ogni singola opera in una pluralità che fa decadere strutture consolidate per l’insorgenza di strutture e forme nuove, e anche questa può essere un’interpretazione. In tale eterogeneità, tra le opere che presentano oggetti  citiamo la “Stella di giavellotti” di Gilberto Zorio e “Piroga” di Hidetoshi Nagasawa, l’ “Aereo razzo” di Maurizio Mochetti e i “4, 5 o 6 pianoforti” di Mario Merz, autore anche del “Vento preistorico delle montagne gelate”, fascine su una parete disegnata, e di “3 cavoli e 5 piedi”; fino al “Circolo di pietre di tufo” di Richard Long. Poi si va ai riquadri di Christian Boltanski,”L’appartamento di via Vaugirard”, e di Gilbert & George con i ritratti di “Cherry Blossom n. 8”, fino ai primi piani di artisti, tra cui alcuni citati, le foto di Elisabetta Catalano. Non manca il più eterogeneo rispetto alle altre opere, un dipinto orizzontale tipo “pittura dell’impero”, dal cromatsmo delicato e le forme classiche, “I giganti fulminati da Giove” di Salvo.

Dopo la dissociazione dell’eterogeneità si passa al “Racconto”, in cui la rappresentazione da parte del singolo di un fatto quotidiano che lo riguarda non è fatta per assumere un valore generale, dall’esemplare fino all’universale, come si è visto nella sezione del “tutto”;  ma come racconto di  un’esperienza con fotografie e testo  in una linea che si riallaccia alla “Narrative Art”, ben diversa dall'”Arte concettuale”:  a differenza di altre tendenze, nelle immagini si ricerca l’aderenza dalla realtà e nei testi e contenuti al linguaggio comune. Tutto omologato, dunque? Non è così, vi sono anche esperienze che si discostano dal senso comune e dalle regole, anzi vi si oppongono.  Tra le opere esposte il racconto si esprime in “La spiegazione”, di Michael Badura, nel collage di cartoncini  e fotografie, mentre “Le pazienze” di Francesco Clemente nei tre riquadri in successione, che nel “Senza titolo” di Alberto Garutti diventano due rettangoli con una linea obliqua; solo fotografico il “racconto” di  Jochen Gerz, “FT/n. 86″”, mentre è accompagnato da testi quello di Peter Hutchinson, con fiori e frutti, e di Franco Vaccari, con un doppio viso di donna, che in Mimmo Germanà diventa il proprio viso “Io sono un’altra cosa” seguito da un foglio con tagli verticali, “La linea è sempre uguale”.  E’ Giosetta Fioroni con “Foto da un atlante di medicina legale” a darci  immagini inquietanti con lunghi testi: l’artista degli “argenti” e delle  ceramiche presentate  nella mostra alla Gnam è presente anche in questa speciale rassegna artistica.

Dalla dimensione personale del racconto a quella civile e sociale della “Politica”: la penultima sezione della mostra  esprime l’esigenza, fortemente sentita in quegli anni, di partecipare alla vita sociale senza rinchiudersi nella torre d’avorio dell’arte, che si traduce nell’impegno politico contenuto in molte opere ed espresso in iniziative, come gli “Uffici per la  immaginazione preventiva”,  di cui si dà conto con una accurata documentazione. Il disagio e le lotte sociali sono nelle fotografie di Tano D’Amico, da “Gela” a “Primo maggio”, da “Rivolta a Rebibbia” a “Emigrato in Svizzera”, mentre Mario Cresci con le sue sequenze in interni sembra esprimere il malessere della solitudine; ci sono anche le immagini di Videobase su tre inchieste, “Carcere in Italia”, “Policlinico in lotta”, “Quartieri popolari di Roma”, sono del 1973 ma hanno il sapore della più viva attualità. Poi opere che esprimono le istanze con  distacco, come “Il grano” di Gianfranco Barucchello,  “Ecce Homo” di Verita Monselels, e “Litanie Lauretane” di Tomaso Binga, cinque aerei in volo nel primo, 20 siluette femminili di dimensioni diverse in 15 riquadri a specchio l’altro.

La mostra termina con “Labirinto”, il termine che per noi la riassume tutta. Il significato rimanda al disorientamento degli anni ’70, con percorsi senza inizio né fine, e al carattere misterioso dato dalla commistione di elementi di cui non serve comprendere il collegamento insito soltanto nella storia dell’opera e del suo autore. E’ una pittura, viene precisato, spesso dominata dal disegno, che Bonito Oliva definì “piano inclinato”; e la sua ripresa è vicina all’arte concettuale  nel gusto di circoscrivere l’espressione all’interno di una cornice, inoltre c’è “l’io individuale che ritorna in scena”. E si esprime nelle incarnazioni di Luigi Ontani, da “Giovane con la frutta” a “Krishna” dopo un viaggio in India nel 1977 divenuto mostra, negli “Autoritratti” di Stefano Di Stasio, che ci dà anche le “illuminazioni”, di Sandro Chia, di cui abbiamo anche “Ometto, quando ti sentirai a tuo agio, visto che sei a casa tua?” e il coloratissimo “Mattinata all’opera”, una giovane donna con una piccola figura di vecchia di sfondo e tre pesci, di Francesco Clemente, con “vestito di Chanel” oltre  a”Pitture barbare”. Poi le fotografie in bianco e nero di Francesca Woodman e Vittorio Messina, i “disegni malati” di Giuseppe Gallo, la classicità pittorica di Carlo Maria Mariani con “San Girolamo”, di Felice Leoni con “Il Re”, e di Franco Piruca con “Mirum” e “Dedalus”. Si conclude in un intenso cromatismo: il giallo di Bruno Ceccobelli con “Il signore del sole”, il blu di Enzo Cucchi con “E’ la barca”, il rosso di Giulio Turcato con “”Testa di moro”.

E’  come il botto finale nei fuochi di artificio, si esce dal “labirinto” come avviene nei Luna Park, con negli occhi il tourbillon di immagini intriganti collegate nelle diverse sezioni da spunti interpretativi altrettanto intriganti. Una sfida per gli occhi e per la mente, un’immersione nel contemporaneo degli anni ’70  con un richiamo alla memoria di una cronaca che diviene storia.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, via Nazionale 194. Mercoledì e giovedì ore 10,00-20,00, venerdì  e sabato ore 10,00-22,30, domenica ore 10,00-20,00, lunedì chiuso. Ingresso intero euro 9,50, ridotto euro 8,00, con visita a tutte le mostre al Palazzo Esposizioni, in particolare alla mostra fotografica “La Grande avventura” nel 125° anniversario di National Geographic, aperta anch’essa fino al 2 marzo 2014. Tel. 06.39967500, http://www.palazzoesposizioni.it/. Catalogo: “Anni ’70 Arte a Roma”, Azienda Speciale Expo e Iacobelli Editore, dicembre 2013, pp. 324, formato 17×23. Per la mostra citata sugli “Irripetibili anni ‘60” alla Fondazione Roma cfr. in “cultura.inabruzzo.it” i nostri 3 articoli tutti il 28 luglio 2011, poi in questo sito per Duchamp  (e Patella)  il 16 gennaio 2014 sulla mostra alla Gnam, per Renato Guttuso il 25 e 30 gennaio 2013 sulla mostra al Vittoriano, per Giorgio de Chirico il 16 e 20 giugno e il 1° luglio 2014 sulla mostra a Montepulciano, per mostre precedenti su de Chirico a Roma cfr. i nostri articoli in “cultura.inabruzzo.it” il 27 agosto e 22 dicembre 2009, nonché l’8, 10 e 11 luglio 2010; infine cfr i nostri articoli per Claudio Abate  in “www.fotografare facile.it” sulla mostra al Palazzo Esposizioni con le sue foto a Carmelo Bene;  e, in questo sito, per  Giosetta Fioroni il  1° gennaio 2014 e per  l’“Astrattismo italiano”  il 5 e 6 novembre 2012, entrambi sulle rispettive mostre alla Gnam. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, in particolare l’Azienda Speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura  Giuseppe Capogrossi, “Superficie 726”, 1972, per la sezione il “Sistema”; seguono  Luigi Ontani, “Bacchino”, 1980 per “La carne  e l’immaginario” , e Gino De Dominicis, “Conversazione con macchie“, 1971, per “Il doppio”; poi Sol Le Witt, “Wall drawing # 287″, 1976, per  “Il disegno e la scultura”,  e  Luca Maria Patella, “Tessitura solare con arcobaleno”, 1976, per “Il linguaggio”; quindi Mario Schifano, “Fantasia del paziente naturale”, 1970, per “Tutto”, e  Salvo, “I giganti fulminati da Giove”, 1977, per “Fenomeno”; in chiusura Giulio Turcato, “Testa di moro”, 1970, per “Labirinto”.

Morrione, “Madri e figlie”, 80 foto in mostra e in un libro

di Romano Maria Levante

Una mostra e un libro fotografico di Gabriele Morrione fanno entrare in un mondo che si crede di conoscere mentre spesso non ci si rende conto della profondità di sentimenti che attraversano i rapporti tra “Madri e figlie”. La mostra, così intitolata come il libro – con l’intervento di Flora Ricordy e Francesca Romana Marino, titolari della Galleria d’Arte “Il Fondaco” – è nell’ex pastificio Cerere – benemerito nel sostegno all’arte in diverse forme come nel concorso con stage per i vincitori “6Artista” – dal 18 gennaio al 2 febbraio 2014.  Il libro edito da Infinito Edizioni ne è il raffinato catalogo e non solo, perché oltre alle immagini delle 80 madri e 99 figlie contiene circa 50  racconti delle protagoniste del set fotografico che consentono di rapportare le  immagini alle parole.

Storie raccontate da immagini e parole

E’ questa una delle particolarità dell’iniziativa, che nasce dalla concezione di Morrione che spesso l’immagine fotografica non riesce a raccontare appieno la storia del momento fissato dall’obiettivo e del soggetto ripreso dallo scatto; per questo fa parlare i protagonisti perché si aprano alla confidenza, fino alla confessione, rendendo partecipe l’osservatore di ciò che sta dietro un’espressione, un sorriso, un gesto. Si rende conto lui stesso di andare controcorrente ma va avanti nella sua strada: “La scelta di accompagnare le fotografie con testi scritti non è facilmente accettata dalla critica fotografica – scrive – Viceversa, per me, questa scelta risponde a un’esigenza più profonda: restituire la fotografia alla vita”. In definitiva, non si limita a rappresentare l’apparenza sia pure attraverso l’occhio indagatore del mezzo fotografico, per completare la narrazione cerca di penetrare al di là dell’immagine fino ai recessi più intimi con la partecipazione che diventa complicità del soggetto, senza invadenza.

Come ciò avvenga lo spiega Francesca Marino: “Questo perché la sensibilità con cui Gabriele Morrione entra e partecipa della vita degli altri coinvolge il soggetto ripreso in modo tale che chi poi guarda e legge l’opera finita si sente accolto, invitato garbatamente, a partecipare egli stesso”.

La fotografia per lui resta fondamentale, è posta al centro dell’attenzione, è la sola in grado di “catturare” l’emozione di un attimo e a conservarne la memoria che altrimenti sarebbe dispersa; e lo ha fatto con le madri e le figlie le quali possono così rivelare a se stesse sentimenti che non si esauriscono nel generico rapporto materno e filiale pur se intenso, dal quale tuttavia oltre alla vicinanza naturale può nascere una distanza non voluta ma subita. Mentre il richiamo che scaturisce dagli incontri ravvicinati fissati dalle fotografie è sentito  così da Mara Abruzzese: “Scorrendo le immagini di questo libro è lampante la ricerca, più o meno consapevole,  di un contatto, che sia fisico o spirituale poco importa”. I testi con le confidenze servono ad interpretare le immagini, a valorizzarne i contenuti più profondi.

Una passione per la fotografia, la sua, che ha dall’infanzia, tanto che a 13 anni stampava da sé le fotografie, come ha continuato a fare anche per quelle attuali tutte in bianco e nero. Si è dedicato alla fotografia d’arte con committenze di grandi collezionisti e importanti editori,  e alla fotografia d’architettura cui ha potuto impegnarsi unendo alla passione la competenza di architetto di un ente pubblico, direttore  per 12 anni di “Edilizia Militare”, con servizi fotografici per università e imprese e con la documentazione dell’opera di grandi architetti, basta ricordare la mostra romana del 1980 al Palazzo Esposizioni  “Gaudi immagine e architettura” che riscosse grande successo, e il libro del 1979 dallo stesso titolo.

Inoltre è stato tra i pionieri della fotografia nella scuola, protagonista di corsi nelle attività extracurriculari per gli studenti; attività tradotta nei libri “Scuola, immagine e sperimentazione”, del 1981, e “La fotografia nella scuola”, del 1986.

Ma soprattutto si è dedicato con  impegno alla fotografia della donna, rendendo il fascino e la seduzione del nudo femminile; e al ritratto sperimentandone fino in fondo le possibilità espressive anche facendone un’attività professionale: tra i 15 libri di cui è stato autore, ben 9, fino al libro attuale, erano stati dedicati alla donna: ci limitiamo a citare “Anna e le bambole” e “Grammatica di donna” negli anni ’80, “Volti di donna” e “Sharon o del corpo svelato” degli anni 90, “Corpi di donna”  e “Immagini e parole di donna” dopo il 2000. Ricordiamo anche la mostra del 2002 a Ferrara, “La donna al lavoro tra ieri e domani”, un tema sul quale ricordiamo la mostra romana di Carlo e Maurizio Ricciardi del marzo 2011, “Donne & lavoro”

Ora Morrione ci offre la mostra e il libro “Madri e figlie”, dove il mondo femminile viene visto sotto un diverso e speciale profilo, più complesso e meno scontato di quanto si possa pensare a prima vista: sono donne legate dal rapporto più stretto che ci possa essere – qual è quello tra madri e figlie – ma proprio per questo ricco di sfaccettature che lo rendono intrigante e misterioso anche quando sembrerebbe tutto chiaro e aperto. Come i misteri dell’Oriente che spesso si celano dietro normali apparenze, e anche a questi è interessato: Istanbul, che come crocevia tra Oriente e Occidente ne è la porta, è la sua città preferita ed è attualmente impegnato  a realizzare un libro che ne racconterà il fascino e la complessità.

Un “setting”  fotografico inconsueto

Quello che viene presentato non è il mondo di Morrione e non è neppure il mondo femminile che aveva indagato finora in una concezione della fotografia come “sublimazione dei desideri” per cui aveva ripreso soprattutto nudi di donne giovani e affascinanti. E non si è trattato neppure di celebrare personalità straordinarie, come è stato nella mostra fotografica “Le donne che hanno fatto l’Italia”, tenuta al Vittoriano nel 150° dell’Unità nazionale.

Dal novembre 2012 al giugno 2013 ha scelto donne comuni, spesso da lui conosciute da tempo, forse per quello che chiama il “senso di colpa” di essere il quarto figlio maschio al posto della femmina attesa, e si è accorto subito di un’altra differenza rispetto alle esperienze consuete nel rapporto che era solito instaurare col soggetto raffigurato: questa volta non era più lui a condurre il gioco ma le madri e figlie nucleo di una famiglia cui era estraneo.

Nutriva la speranza “che il setting fotografico, con le sue peculiari caratteristiche, abbia favorito, in alcuni casi, un incontro e un dialogo forse trascurati, sopiti o considerati scontati”. Ma a questa sensazione positiva se ne aggiungeva un’altra di segno diverso: “Eppure… mi sono sentito vecchio… Tutto era già avvenuto: dalla nascita di una figlia che segna il tempo della madre, al mio tempo.  Una constatazione della saldezza e della precarietà della vita”.

Tutto ciò avendo a che fare con soggetti in gran parte conosciuti, ma che si arricchivano via via che il lavoro procedeva, sicché davanti al suo obiettivo – dice lui stesso – veniva “in qualche modo materializzato  l’archetipo femminile, riassunto nell’ancestrale rapporto-madre-figlia”.  Un obiettivo, per di più aperto all’interno del suo studio in Trastevere, quindi lontano dalle abitazioni dei soggetti e anche dai luoghi pubblici delle istantanee rubate: pose molto professionali, con luce diffusa e due-tre riflettori per illuminare in modo appropriato particolari del viso e dei capelli. In controtendenza rispetto all’apparato da studio di posa, la richiesta di essere naturali e pensare ad atteggiamenti e gesti consueti senza timidezza: “Ovviamente la richiesta è facile da formulare, ma molto più difficile da attuare!”, commenta.

Voleva la presenza di tutte le figlie senza alcuna esclusione, e la scelta della foto tra quelle scattate ad ogni gruppo familiare (una o due pellicole di 9 fotogrammi)  è stata fatta – spiega – “spesso confrontandomi con i soggetti fotografati”. Una complicità che si estende fino alla richiesta di un testo in cui i soggetti esprimessero il proprio pensiero sui rapporti madre-figlia, indipendentemente dalla fotografia scelta in modo da liberarli da ogni condizionamento.

Fotografie e pensieri di “madri e figlie” prima del 2013

Abbiamo detto che il “setting” fotografico è stato attivo per 8 mesi, dal novembre 2012 al giugno 2013; con un’eccezione, le prime 7 fotografie sono anteriori, tre degli anni ’70, una degli anni ‘80, una degli anni ’90  e due dal 2008 al 2010, quasi che l’autore abbia voluto collegarsi a un vasto arco della propria vita, per creare un confronto ideale tra ieri e oggi. Non nell’azione del tempo sui soggetti, che sono ovviamente diversi, ma sul proprio approccio al tema: ebbene, si nota un’assoluta continuità, gli sfondi di volta in volta neri o luminosi, i primi piani dei volti scolpiti o accarezzati dalla luce, contrasti e chiaroscuri insieme a ombreggiature sfumate; differenze  di età più o meno marcate, la posa da diva insieme ad atteggiamenti di carattere prettamente domestico.

Sono caratteri che ritroviamo nell’intera galleria nella quale, quasi specularmente con il passato, presenta solo 7 foto del novembre 2012, le altre tutte del 2013. Ma tra le poche immagini del 2012 c’è quello che ci è apparso il capolavoro: “Claudia, Elena e Margherita”, una fotografia pittorica di straordinaria intensità, con gli occhi delle due bambine che fissano l’osservatore come in alcuni intensi scatti di Steve McCurry, mentre il viso della madre ad occhi chiusi nell’estasi dell’amore materno è quasi stretto dall’abbraccio dei loro volti nel calore del mantello della bambina che racchiude quello dei loro cuori, con la luce abbacinante senza ombre a dare il senso della pienezza di un sentimento totale, assoluto. E la madre Claudia Caputi, nel ripercorrere con la memoria le emozioni della maternità con la vulnerabilità acquisita ai sentimenti, scrive: “E’ stato quello il passaggio,Gabriele. L’hai colto in quella foto dove sono con gli occhi chiusi. Ancora una volta hai dimostrato di saper usare l’obiettivo cogliendo quello che si nasconde nell’anima. Hai colto il giorno in cui la mia vita non è stata più soltanto mia, il momento esatto in cui sono diventata tre e io è diventato noi“.

Sempre nel 2012 c’è un’immagine ben diversa, “Paola e Chiara”,  non è il noto duo canoro ma una madre avanti con gli anni e una figlia scrittrice sia pure giovane: espressione statuaria con le mani nervose bene in vista, ed a queste fa riferimento la madre  Paola Cecchetti: “La foto di Gabriele non mi piace, perché rimanda altro: una posa posseduta dal tempo cronologico che blocca me e Chiara in una gerarchia spaziale dove solo le mani svelano una vita rapace”. E aggiunge, rivelando senza volerlo la grande capacità maieutica del fotografo: “Arroganza, la sua aggressività, o semplice descrizione? Certo, costringe  a fermare lo sguardo e il pensiero sull’immagine da lui creata: immagine che sempre trasuda il mistero del passaggio dalla presenza all’assenza. Nella sua artefatta immobilità parla di una qualche verità che non è quella che mostra”. Restituisce la fotografia alla vita, come dice lui stesso.

Galleria fotografica e scritti dei primi tre mesi del 2013

Nel gennaio 2013 ci colpiscono due foto speculari nella loro diversità.“Elisabetta e Matilde” sono due visi assorti abbacinati dalla luce, la figlia in primo piano con i grandi occhi spalancati, la madre dietro di lei con gli occhi socchiusi; “Alessandra e Giulia” due figure con i visi quasi sovrapposti aperti nel sorriso e le mani non rapaci ma annodate strettamente.  Delle prime due donne resta il mistero dei loro sguardi, delle seconde ha scritto Alessandra Vergani: “Siamo simili e diverse. Tra noi da sempre un legame forte, una vera passione, come tutte le passioni a tratti irrequieta e contrastata… E’ il tempo tra me e lei di ridefinire intimità e distanze. Sempre con lo stesso amore”. La fotografia esprime  tutto questo.

Abbiamo poi, sempre nel gennaio, una serie di foto con tre soggetti in una varietà di composizioni, i volti stretti tra loro di “Maria, Emma ed Anna Sofia”, quelli in sequenza di “Paola, Marta e Bianca”, oppure quelli distanti quasi a sottolineare la raggiunta emancipazione in “Anna, Cloe e Martina” e in “Renata, Maria e Paola”.

Qualche foto a tre soggetti anche in febbraio: “Antonella, Giulia e Sabrina”, “Vanda, Gabriella e Simonetta“, con il gap generazionale in evidenza, fino ai quattro soggetti “Marina, Fulvia, Enrica e Claudia”; le altre sono tutte di una madre con l’unica figlia nei più diversi atteggiamenti: in pose scherzose “Isa e Ingrid”, “Ginevra e Emma” e Chiara e Giulia”, straordinaria quest’ultima con la testa e le mani della bimba quasi uscissero dal marsupio della madre, sorridenti “Andreina e Anna”, “Paola e Federica”. “Mentre Gabriella e Michela”, “Michela e Alice” , “Silvia e Fulvia”, “Mahtab e Amrita”, cercano di trasmettere una particolare intensità. Nessuno scritto consente di interpretarne i sentimenti al di là di quanto comunicato dall’immagine, che non è poco. Invece Cristina Angeleri commenta così la forte immagine dei volti di “Cristina ed Elisa”: “Ecco, un’istantanea di noi due: tu, meditabonda, che poni domande. Io che ti guardo, sorpresa. Se l’amore è il sentimento che mi lega  a te, la sorpresa, da quando sei nata, è l’emozione che più di ogni altra mi regali”.

In marzo è forse la primavera a dare una vivacità che in “Donatella e Stefania” diventa positivamente clownesca, e in altre si traduce in aperti sorrisi. Che in “Maria e Benedetta”, “Loretta e Camilla” rischiarano composizioni suggestive per il gioco dei capelli e delle luci tra volti radiosi. In “Carmela e Monica” il gap  generazionale è evidente, e torna in aprile con “Maria Grazia e Matilde”, “Rosalba e Lavinia”. Le loro parole:: Carmela Marazia e Monica Marra: “Questa fotografia diviene il ricordo lieve di un istante consegnato agli altri”; Matilde Sarti: “Una madre e una figlia hanno un rapporto indissolubile e intrecciato in ogni atomo, ma quasi mai la figlia lo comprende prima di arrivare ad una certa età… e mai lo comprende fino in fondo finché non diviene lei stessa madre”; lo conferma Rosalba Verolino riferendosi alla figlia Lavinia: “Da qualche mese è madre anche lei. Qualcosa è cambiato: il rapporto tra noi ora è più solido. Riconosce in me un’alleata, un’assistente. Condivide con me nuovi attimi d’intimità e capisce, finalmente, anche i ‘no’ del passato. Forse, adesso, siamo anche amiche”.

Immagini e parole dell’ultimo trimestre del “reportage”

Aprile è ricco di immagini con tre eccezioni al “setting” dello studio fotografico. “Maria e Lucia”, “Lucia, Marta e Emma” sono all’aperto, in giardino, le seconde addirittura dividono un’amaca, si respira benessere e serenità; “Laura e Matilde” sono riprese davanti a una scaffalatura di libri, un interno confortevole per la loro terza età, quanto mai vitale, tanto che la figlia Matilde Bocchi si rivolge così alla madre: “Laura, sei stata e sei tutt’ora una forza della natura, una vera leonessa”. Daniela Pellegrini,  ritratta con la madre in “Annamaria e Daniela”, nel ricordare gli insegnamenti avuti dalla vita esclama: “Mia nonna, mia madre, le mie quattro sorelle, sono quello che io mi sforzo di essere per mio figlio. E per la verità non mi sforzo, mi viene e basta. Le braccia aperte in cui trovare conforto, e la forza per remare nella stessa direzione”.

In maggio solo coppie di madre e figlia, con espressioni gioiose, pensose invece in “Fatima e Francesca”, non c’è testo, resterà il mistero dei loro sguardi teneri e assorti. Assorta è anche la madre impettita in “Sabina e Jeanne”, ma la figlia scherzando si lascia andare a terra. Magistrale l’accoppiata di “Laura e Carlotta” e “Mariangela e Laura”, in entrambe Laura Bottiglia nei due ruoli: come figlia si rivolge così alla madre.”Tu ci sei sempre stata…  più ti vedo accanto a me più mi emoziono e ti ringrazio per tutto. e’ stato imbarazzante, complicato, ma anche emozionante e molto curioso posare con Te… anche questa volta…insieme!”; come madre scrive: “Ora eccoci qui, in posa davanti all’obiettivo per parlare di noi… le nostre discussioni, le nostre giornate no… ma anche i nostri sorrisi, le nostre chiacchierate, le coccole e gli abbracci!”. Il passaggio del testimone reso in due immagini e in qualche parola che pone in luce anche la complessità del rapporto con  i sentimenti di umanità che esprime.

Le altre coppie di maggio vedono volti freschi nelle pose più varie, guancia a guancia nell’intenso “Laura e Matilde”, obliqui alla Rodcenko nello scherzoso “Gaia e Agata”, e Gaia Morrione – ritratta anche con la madre in “Annamaria e Gaia”, un’immagine invece quasi ufficiale – scrive: “Madre Figlia – Figlia Madre, impossibile pensare a un rapporto più intenso e complesso. Sono le  nostre figlie che scelgono noi?”. Volti accompagnati da gesti delle mani in “Paola e Marta”, “Patrizia e Joi”, “delle braccia in “Marta e Hanna”, “Maria Pia  e Beatrice”.  “Franca e Ludovica” sono riprese invece in giardino.

Nell’accorta miscela generazionale dell’autore tornano i capelli bianchi, oltre che nel già citato  “Annamaria e Gaia”,  in “Elvezia e Mara” nella loro casa, come Mara Filippi Morrione sottolinea nel testo scritto, e in “Francesca e Alessandra” dove Francesca Milani, nel dichiarare che era certa del sesso della nascitura pur senza ecografia, lo spiega così: “Certe cose si sentono dentro, hanno delle loro ragioni arcane, ma nettissime, tali da avermi fatto pensare in anticipo al suo nome: Alessandra”.

E siamo giunti all’ultimo mese del “reportage” di Morrione nel suo studio sui sentimenti di maternità e sull’amore filiale: giugno 2013, 9 immagini, ritroviamo l’allineamento verticale dei visi in “Anna e Donatella”, “Sabrina e Ana Rosa”, mentre in “Patrizia e Benedetta”sono allineate verso l’alto le figure ; gli sguardi complici di “Maria Pia e Ilaria” e le teste accostate di “Maria Rosaria e Giulia” completano la galleria delle coppie.

Poi le immagini con tre figure in una sinfonia di espressioni, ma ci ha colpito ancora di più la composizione a quattro “Ilaria, Livia, Elena e Marta”, per la felicità nei loro sorrisi con gli occhi penetranti che la rendono contagiosa per l’osservatore. Ilaria Schiaffini nel sottolineare “l’abbondanza di femminilità” della sua famiglia osserva: “L’immediatezza dell’identificazione femminile nel rapporto madre-figlia apre una partita di alta intensità emotiva, governata da pulsioni viscerali, gelosie ed esigenze di emancipazione. A volte mi sento in un territorio di conquista, conteso da esigenze di esclusività inconciliabili, che vivo con un senso di gratificazione e nello stesso tempo di inadeguatezza. All’inizio pensavo che la spontaneità dell’amore potesse proteggere , come uno scudo inossidabile, da dubbi, errori e sofferenze. Ora mi accorgo con una certa delusione che non è così”. Ma conclude sollevata con le parole di Elena: “Tu sei la mamma più bella e più  brava di tutte. Sorpresa e incuriosita le ho chiesto: ‘Perchè’. E lei:’Perché sei la mia mamma’”.  Parole che scolpiscono la complessità di questo rapporto e il modo in cui le contraddizioni che possono divenire contrasti si sciolgono nel mare del sentimento materno cui si unisce l’amore filiale.

Il rapporto madre-figlia visto fuori dal “set” di  Morrione

Più di tante indagini sociologiche le fotografie di Morrione accompagnate da parole eloquenti fanno penetrare nel rapporto tra madre e figlia la cui complessità viene descritta ponendosi all’esterno del suo osservatorio da Mara Abruzzese: “Quanta confidenza e quanta distanza si celano tra una mamma e una figlia. Specchio della volontà suprema di affermare sé stesse, spudoratamente sicure di un legame imperituro e innegabile trattenuto da tre ‘emme’, le più chiare, le più complicate. Ognuna a suo modo, ognuna nei propri limiti”.  Legame che viene evidenziato dalle immagini, nelle quali “è lampante la ricerca , più o meno consapevole, di un contatto, fisico o spirituale, poco importa”.

Franca Avvisati aggiunge: “Ogni foto è un racconto, una novella, una storia di rapporti, di dipendenze, di amori, di emozioni, di conflitti”, così definiti da Daniela Bartolini: “Legami fra donne che non si sono mai spezzati e che quando maturano, godono d’una forza propria che supera nettamente la somma delle forze individuali di ognuna delle sue componenti”. E ancora: “Intangibili fili, sottili corrispondenze invisibili e forti che il tempo e lo spazio non sanno spezzare, fili che cambiano e si attorcigliano e diventano un cordone ombelicale che nessuna lama al mondo può scindere o intaccare, in questo ‘essere donne’…”.

Patrizia Cupelloni la chiama “alleanza senza ambiguità” tra madri e figlie: “Sembrano differenziarsi solo per l’orgoglio delle prime e per l’imbarazzo delle seconde. Si mostrano strette in caldi abbracci, in sguardi ammiccanti”, le immagini esprimono “un sentimento irrinunciabile, arcaico, un legame basico”.

L’autore ha descritto questo sentimento in modo molto personale, esprimendo “ciò che la propria ‘anima’ sente del mondo degli altri”, scrive Pia De Silvestris e aggiunge: “Morrione riesce a far rivivere davanti a noi la coppia madre-figlia, la più tenera o la più conflittuale con assoluta semplicità, al punto da farci quasi rabbrividire”. Ma non è stato un lavoro semplice: “Ogni immagine della raccolta è il frutto di molti tentativi, da parte dell’autore, per giungere a cogliere la relazione tra madre e figlia, attraverso i tanti ‘guardarsi non guardarsi’, ‘toccarsi non toccarsi‘ e in che modo, fino al momento in cui l’artista  riesce a ‘funzionare come sismografo dell’anima’”. La capacità dell’artista è precisamente quella di riuscire a realizzare ciò che la propria ‘anima’ sente del  mondo e degli altri, attraverso le sue più profonde vibrazioni”.  Il risultato? “Guardiamo questi ritratti e non possiamo evitare le emozioni: siamo tenuti e viverle. Ognuno, rispecchiandosi nelle immagini, può trovare elementi delle proprie vicende affettive originarie e, fantasticando sull’una o sull’altra, scoprire quello che avrebbe voluto oppure quello che non immaginava di avere avuto, in positivo o in negativo”. Come arriva a questo? E lo fa Francesco Scotti chiude con l’unico punto di vista maschile questa galleria femminile di commenti all’opera anch’essa maschile dell’autore delle immagini sul rapporto madre-figlia. E partendo da Freud, parla della “asimmetria” di tale rapporto: “La madre si trova a vivere in una scissione (sana) rispetto ai propri altri ruoli e compiti; mentre per la figlia la madre rappresenta tutto il mondo, con cui confrontarsi, mettendo alla prova la propria forza, così la madre non avrebbe bisogno, per la propria sopravvivenza, di  distaccarsi dalla figlia; mentre questo distacco sarebbe essenziale per la figlia che dovrebbe lottare per realizzarlo”.  Dinanzi a tale complessità così vede l’opera del fotografo, che “rappresenta l’aspettativa del superamento di questa lotta. Egli svolge tale ruolo attraverso una rappresentazione, costruendo l’immagine: egli ha la funzione di un terzo che propone l’occasione, offre modi, giudica, fa una scelta secondo un criterio proprio più o meno insindacabile”. Così la fotografia può rappresentare qualcosa di ben più importante di un’immagine: “E’ un equilibrio colto nell’istante, un esempio, una possibilità, la promessa o l’inizio di un nuovo rapporto: la messa in posa per costruire l’immagine diventa l’esempio di un compito che può essere affrontato per stabilire una nuova relazione”.

Dinanzi a queste parole si avverte la complessità e insieme l’importanza dell’operazione compiuta da Gabriele Morrione, sul suo “set” ogni volta non c’erano soltanto due o più soggetti da ritrarre insieme, ma un insieme di rapporti e di legami spesso di segno diverso che venivano rivissuti e andavano in qualche modo espressi visivamente. E questo è avvenuto in tanti modi, con l’espressione dei visi o il linguaggio dei corpi, le luci e le ombre o le forme e i volumi, i gesti o la fissità, i particolari o l’insieme; in una rappresentazione teatrale all’interno di uno studio fotografico dove i soggetti sono stati chiamati ad essere sé stessi e nel contempo a rappresentare il variegato e misterioso mondo della maternità e insieme della femminilità. Con un regista maschile, estraneo e interessato a quel mondo, anzi portato ad esplorarlo proprio per la sua estraneità personale e familiare.

Un bel risultato essere riuscito a costruire quello che Scotti, a conclusione del suo ampio commento, chiama “un monumento all’ideologia del femminile”.

Info

Spazio espositivo “Cerere”, Roma, via degli Ausoni 3, quartiere San Lorenzo. Tutti i giorni  esclusa la domenica, dalle ore 17 alle 21. Ingresso gratuito. Per informazioni  Ufficio stampa e Relazioni esterne – Caterina Falomo-PennarossaPressLab;  Cell. 346.8513723 – E-mail: caterina@pennarossapresslab.it;  http://www.gabrielemorrione.it/. Libro-catalogo: Gabriele Morrione, “Madri e figlie”, Infinito Edizioni, novembre 2013, pp. 128, formato 21×29,5 euro 25,00: dal catalogo sono state tratte le citazioni. Per il concorso con stage “6Artista”, ricordato all’inizio, cfr. il nostro articolo in questo sito il  3 gennaio 2013. Sulle mostre, anch’esse ricordate all’inizio, cfr. i nostri articoli in http://www.fotografarefacile.it/ del 16 gennaio 2012  “Roma. Le fotografie delle donne d”Italia al Vittoriano”, e del 29 marzo 2012 “‘Donne e lavoro’ nelle fotografie di Carlo e Maurizio Ricciardi”; nel suddetto sito specialistico cfr. anche, per Rodcenko e McCurry citati nel testo, i nostri servizi sulle relative mostre romane: per Rodcenko il 27 dicembre 2011 “Roma. In mostra le fotografie di Aleksandr Rodcenko” e “Roma. L’altro Rodcenko al Palazzo Esposizioni”; per McCurry il 7 gennaio e il 17 febbraio 2012 “Roma. Steve McCurry al Macro con 200 forografie”, “Roma. Steve McCurry in mostra al Testaccio” e “Roma. Dietro la fotografia del manifesto veneziano di Steve McCurry”; infine cfr., sempre su tale sito, un altro nostro servizio sulla mostra qui commentata dal titolo  “Roma. ‘Madri e figlie’ nelle fotografie di Gabriele Morrione”. Per la città di Istanbul, evocata nel testo, cfr. i nostri 3 articoli in questo sito del 10, 13 e 15 marzo 2013, in particolare “Istanbul, viaggio nella ‘nuova Roma’” e “Istanbul, alla ricerca di Costantinopoli”.

Foto

Le immagini, che scandiscono i singoli mesi del “reportage”, sono state cortesemente fornite da Caterina Falomo che si ringrazia, con l’autore titolare dei diritti  In apertura, “Claudia, Elena e Margherita”, novembre 2012, seguono  “Elisabetta e Matilde”, gennaio 2013, e “Chiara e Giulia”, febbraio 2913, poi “Maria e Benedetta”, marzo 2013, “Rosalba e Lavinia“, aprile 2013,  e “Gaia e Agata”, maggio 2013; in chiusura “Ilaria, Livia, Elena e Marta”, giugno 2013. 

San Gennaro, Tesoro e storia, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

“Il Tesoro di Napoli. I Capolavori del Museo di San Gennaro” nella mostra della Fondazione Roma aperta al Palazzo Sciarra dal 30 ottobre 2013 al 16 febbraio 2014. Esposti per la prima volta fuori Napoli 70 pezzi pregiati della collezione di arte orafa più importante al mondo con dipinti, arredi e la documentazione della storia di devozione nata dal popolo e tramessa anche ai regnanti europei, tradotta nello straordinario coinvolgimento di arte e artigianato artistico. Curatori di mostra e Catalogo Skirail direttore del Museo del Tesoro di San Gennaro, Paolo Jorio e Ciro Paolillo;  consulente Franco Recanatesi.  

L’esposizione del Tesoro di Napoli, con i capolavori del Museo di San Gennaro, è un’altra delle intuizioni, anzi delle invenzioni del presidente della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele, dopo quella primaria di aver indirizzato una parte rilevante delle iniziative della Fondazione della Cassa di Risparmio di Roma verso l’arte creando la Fondazione Roma-Arte-Museo, senza tralasciare le attività assistenziali e del terzo settore. Il risultato tangibile sono le due prestigiose sedi espositive romane al Corso, Palazzo Cipolla per il contemporaneo e Palazzo Sciarra per l’antico e il “racconto” di Roma nell’arte, oltre alle meritorie iniziative sugli attori detenuti che uniscono arte con assistenza, e agli interventi assistenziali in senso stretto nel ruolo istituzionale della Fondazione.

L’eccezionalità dell’esposizione del Tesoro a Roma  

Questa volta viene “raccontata” la Napoli popolare e devota attraverso il Tesoro di San Gennaro, una straordinaria collezione di ori, argenti e pietre preziose in calici e pissidi, in busti di profeti e complessi statuari, una Collana, una Mitria e un Busto reliquario del santo, tutti di valore incalcolabile: per la preziosità e per l’arte come per la devozione, tanto che il Busto non si è potuto spostare e viene presentata una copia appositamente realizzata. Tutto il resto non aveva mai lasciato Napoli, a parte il temporaneo spostamento del Tesoro di San Gennaro al Monastero di Montecassino per dargli un riparo sicuro dalla guerra distruttrice, seguito dal miracoloso – è il caso di dire – salvataggio dalla distruzione del monastero nel bombardamento del febbraio 1943 con la preventiva evacuazione della Biblioteca e dei tesori tra cui questo, da parte dei tedeschi con la vigilanza dei frati.

Quella attuale,  invece, è una “trasferta”  non di necessità e in situazioni drammatiche, ma trionfale ed emblematica: il Tesoro è stato trasferito con una scorta di protezione e celebrato in tutta la sua magnificenza negli storici ambienti del palazzo Sciarra, una successione di sale che segna un percorso emozionante: l’emozione è data dalla devozione che si sente esserci dietro le opere esposte, dall’arte che le nobilita, dal valore insito nella loro preziosità. 

Abbiamo sentito il contrasto con la schiva sobrietà di Papa Francesco che ha tutti i segni della povertà, ma nel contempo vi abbiamo visto  una testimonianza potente della devozione ad ogni livello, dal popolo ai regnanti, che nelle varie epoche si esprimeva nella forma dell’arte  e dei materiali preziosi  come  modo di elevare lo slancio umano e terreno verso l’irraggiungibile santità.

E’ una santità che viene da lontano nel tempo, San Gennaro è un martire cristiano del terzo secolo ed è considerato non solo il patrono della città ma il suo speciale protettore.  La città nel corso dei secoli si è stretta intorno alle sue reliquie e ai suoi simboli  portando in processione le ampolle del suo sangue e il suo Busto reliquario e con manifestazioni molto particolari. Così il presidente Emanuele F. M. Emmanuele le vede nel presentare i doni preziosi del Tesoro per la prima volta fuori Napoli: “La vicenda di san Gennaro è spesso in bilico tra devozione e pregiudizio, fede e incredulità, passione e scettcismo”, e aggiunge: “Le sorti del santo e del suo Tesoro sono legate a doppio filo alla storia della città di Napoli, che chiede da sempre la sua protezione contro le pestilenze, le carestie, le catastrofi naturali e le guerre, in un reciproco processo di reciproca identificazione”. 

L’inizio della storia: il martirio di “Ianuarius”  

La storia che si è sviluppata va quindi considerata nei suoi aspetti molto peculiari, ma c’è un dato di fatto ineludibile: un culto popolare così radicato che lega la gente di Napoli sparsa per il mondo al suo santo protettore in modo indissolubile. E’ una storia movimentata,  forse le sue vicende tormentate hanno fatto considerare una conquista la vicinanza del santo, poi l’attribuzione di prodigi ha fatto il resto. Vale la pena di raccontarla per comprendere meglio perché è  nato il Tesoro.

Nel 305  il vescovo di Benevento, Ianuarius, si mette in viaggio con un diacono e un altro confratello, per una visita pastorale a Miseno dove si trova il diacono amico Sossio; all’a’rrivo vengono a sapere che Sossio con tre fedeli è stato arrestato dai soldati del governatore della Campania Dracozio, per effetto delle persecuzioni di Diocleziano contro i cristiani. Invece di tornare indietro Ianuarius cerca di entrare in contatto con le autorità per intercedere e con Sossio per confortarlo, ma viene arrestato anche lui con i due che lo accompagnano. Avrebbero salva la vita se abiurassero alla fede cristiana, ma rifiutano e vengono portati al martirio, con Sossio e i suoi tre fedeli. Erano destinati ad essere sacrificati nell’arena,  poi lo spettacolo fu sospeso, secondo una tradizione per il prodigio dei leoni divenuti mansueti, secondo un’altra per l’improvviso richiamo a Roma di Draconzio. Ma l’esecuzione non fu annullata, bensì spostata nella solfatara di Pozzuoli dove avvenne la decapitazione, raffigurata in uno stupendo acquerello del 1630 del Domenichino, esposto in mostra.  Eusebia, una  nutrice, raccolse in due ampolle il sangue che sgorgava dalla testa recisa di Ianuarius, è quello portato in processione in attesa dello scioglimento in senso augurale.

E’ una storia con molte lacune e incertezze, iniziando dal nome, oltre al cognome Ianuarius doveva avere il nome di battesimo Procopius ma non è sicuro, l’anno di nascita sembra fosse il 272, quando fu giustiziato aveva circa 35 anni ed era molto alto, sembra un metro e novanta, fu sepolto vicino al luogo dell’esecuzione nell’agro Marciano, tra la Solfatara di Pozzuoli e la conca di Agnano, dove sono stati trovati nel 1973 i resti di una cripta a lui dedicata con intorno a raggiera altre sepolture.

Le tormentate vicende delle spoglie mortali 

Tutto qui? No, la storia della devozione inizia con le vicende che tormentarono le sue spoglie mortali. Tra il 413 e il 431 furono traslate a Napoli, nelle catacombe di Capodimonte, da Giovanni I, vescovo e duca della città, che morì dopo un malore mentre pronunciava l’orazione funebre  per il martire e fu tumulato  in una cripta vicina alla sua. Intorno è nato il più grande complesso cimiteriale  paleocristiano, che prese il nome del martire, le Catacombe di san Gennaro, quindi addirittura una basilica sotterranea scavata nel tufo: Il culto, con i relativi pellegrinaggi, sarebbe stato alimentato da un prodigio avvenuto durante la traslazione della salma, dal finale movimentato.

Passano quattro secoli e nell’832 a seguito di un assedio di Napoli il principe longobardo di Benevento, Sicone I, si impadronì dei resti del santo e li portò nella  cattedrale di Benevento, dove restarono per ben due secoli, finché nel 1154 Guglielmo I “il Malo”, re Normanno di Sicilia che governava su Napoli, li portò a Montevergine, luogo più sicuro di Benevento esposta ai saccheggi. Ma il santo del luogo era san Guglielmo, mentre a Napoli cresceva il mito di san Gennaro per la presenza di altre sue reliquie. Fu Carlo d’Angiò a compiere la consacrazione definitiva paradossalmente con un atto profano: commissionò a degli orafi provenzali un Busto-reliquario in oro e argento, nel capo venivano custodite alcune ossa; si era nel 1315, quattro anni dopo Roberto d’Angiò  ordinò una teca d’argento con le ampolle del sangue perché i fedeli le vedessero insieme alle reliquie. Le spoglie mortali restarono a Montevergine, sotto l’altare maggiore, fino al 1497, allorché furono portati nel Duomo di Napoli dal vescovo Alessandro Carafa, 17 anni dopo il ritrovamento avvenuto nel 1480, a causa della resistenza opposta dai monaci del santuario.

Espressioni e motivazioni della devozione popolare

Già dal 1337 ci fu la processione, per volontà dell’arcivescovo Giovanni Orsini, prima soltanto con il Busto reliquario del santo donato da Carlo d’Angiò, poi anche con la teca recante le ampolle del sangue donata da Roberto d’Angiò.

Al 1389 risale la prima liquefazione accertata del sangue, era la festa dell’Assunta e il prodigio avvenne durante una cerimonia indetta contro la grave carestia che imperversava: secondo la tradizione la  carestia cessò e guarirono gli ammalati per gli stenti. La pestilenza del 1526-29 offrì il motivo per dedicargli una Cappella nel Duomo di Napoli appena la calamità fosse cessata: l’opera, finanziata con una vasta  sottoscrizione popolare, ebbe una lunga gestazione, i lavori iniziarono nel 1608 ma solo nel 1646 la Cappella poté essere consacrata: in splendido barocco, con statue di argento, sculture e dipinti.

Una Deputazione, istituita per realizzare la Cappella fin dal secolo XVI, ne ha la gestione, con la caratteristica che è un’istituzione laica e non ecclesiastica in quanto rappresenta il popolo napoletano; non è stata soltanto custode del prezioso Tesoro, lo ha anche arricchito nel tempo promuovendo o indirizzando le espressioni artistiche più raffinate dedicate al culto del Santo.

Il popolo napoletano ha chiesto protezione al santo in tutte le vicende e le calamità capitategli: il terremoto del 1536, l’eruzione dei campi Flegrei nel 1538, l’eruzione del Vesuvio del 1631.

Così Franco Recanatesi, consulente della mostra,  definisce il rapporto che si è venuto a creare tra il santo e i napoletani: “San Gennaro era (è) il baluardo, la speranza, il santo cui chiedere protezione. O l’amico? O il parente? E’ difficile trovare un rapporto tanto confidenziale fiduciario tra un santo e i suoi devoti”. E conclude: che tutto questo spiega perché sta il santo più venerato al mondo con 25 milioni di devoti, perché gli emigranti alla partenza e al ritorno hanno sempre salutato la sua statua nel porto, perché  la sua festa il 19 settembre è celebrata in tutto il mondo e a New York Little Italy lo festeggia per dieci giorni. Infine “perché da secoli governanti, papi, nobili e popolani lo abbiano ricoperto di doni preziosissimi fino a formare un tesoro di inestimabile valore”.

E’ il Tesoro che la mostra ci presenta e che non forse non verrebbe compreso pienamente senza ripercorrere sommariamente la storia del santo nei suoi rapporti con la città di Napoli.

La  devozione è espressa in forma tangibile attraverso “ex voto” per pericoli scampati e grazie ricevute e soprattutto, sul versante della’arte, mediante  opere preziose fatte realizzare e donate in particolare dai  sovrani, a partire dai già citati  Carlo II d’Angiò che, come si è detto,  nel 1300, mille anni dopo la morte, donò a Napoli il Busto reliquario del santo in argento dorato; e Roberto d’Angiò che commissionò la teca d’argento per le due ampolle del sangue del santo. 

Le opere sono state esposte al pubblico soltanto da dieci anni nel Museo del Tesoro di San Gennaro dove torneranno dopo la mostra romana con maggiori possibilità espositive data la realizzazione di teche blindate che  renderanno visibili nella Cappella del santo le più preziose. Sono le meritevoli iniziative legate alle mostre temporanee che migliorano la fruibilità nel tempo dei capolavori esposti: ora le teche di protezione, per lo più  i restauri per preservarli e recuperarne la bellezza.

Il Tesoro, testimonianza preziosa di arte e di devozione 

Per  avere un’idea della vastità e del valore inestimabile del Tesoro si consideri che si contano oltre 21 mila pezzi raccolti in 700 anni, quindi espressivi di un arco storico altrettanto  vasto; e che il suo valore è superiore a quello dei Gioielli della Corona d’Inghilterra e dello Zar di Russia, secondo una ricerca condotta proprio dal curatore della mostra Ciro Paolillo con una squadra di gemmologi. A differenza delle altre ricchezze che le civiltà hanno prodotto si è sempre accresciuto senza che nulla sia stato mai sottratto o venduto, come avveniva per le razzie o il finanziamento delle guerre, la sua sacralità lo ha sempre preservato mentre nell’ultima guerra ha rischiato nel trasferimento precauzionale a Montecassino ma si è salvato con la provvidenziale evacuazione che si è ricordata.

L’uscita del Tesoro di San Gennaro da Napoli non è soltanto un evento espositivo di elevato valore artistico. Il  santo, con il prodigio della liquefazione del sangue in momenti predeterminati, viene visto con un atteggiamento tra devozione e pregiudizio, fede e incredulità, passione e scetticismo, come ha detto il presidente Emmanuele. La mostra romana, quindi, scrivono i curatori Jorio e Paolillo, “è anche un modo per sdoganare, una volta per tutte, il culto di san Gennaro, relegato sino a oggi esclusivamente a leggende pittoresche e a manifestazioni di colore locale, dimenticando o non sapendo che, attorno a questa millenaria devozione, si è sviluppato uno straordinario movimento artistico e culturale, testimonianza della capacità, della fantasia, delle eccellenze che Napoli ha saputo esprimere nel corso dei secoli grazie  a uomini di cultura, artisti e artigiani invidiati in tutto il mondo”.  Alla devozione per san Gennaro si deve la nascita del Borgo degli Orefici a Napoli,  una delle più celebri tradizioni di oreficeria in Italia dove sono state realizzate alcune delle opere di maggior valore esposte in mostra.

Della sterminata collezione di oggetti  preziosi e opere d’arte  l’esposizione romana presenta una parte selezionata con i pezzi più preziosi e rappresentativi.

Attraverso le 70 opere esposte si può seguire la formazione nel tempo del Tesoro e sentirne l’importanza sul piano artistico e storico ma anche sul piano devozionale per il popolo di Napoli;

San Gennaro viene venerato nella Cappella del Duomo, e le processioni si snodano nelle vie e nei vicoli con un rituale  immutato da secoli, con  la banda musicale, le insegne delle comunità, comune di Napoli e Regione in primo luogo, gli stendardi delle congregazioni religiose, e le autorità religiose e civili. Le statue dei compatroni sono portate a spalle dai fedeli, poi segue il Busto del Santo con le ossa della testa, quindi il Reliquiario con le ampolle del venerato sangue. L’itinerario va dalla  Cappella del Tesoro al Duomo alla chiesa di Santa Chiara in piazza del Gesù, mentre inizialmente cambiava ogni volta approdando alternativamente a una delle sette maggiori basiliche di Napoli, finché la popolazione volle che terminasse all’aperto di una piazza e non all’interno di una chiesa per potersi stringere maggiormente al santo protettore così amato e venerato.

Una storia così affascinante non si può rendere a parole, del resto il curatore Paolo Jorio che dirige il Museo del Tesoro di San Gennaro ha scritto: “Definire i volti di San Gennaro e di Napoli è come asserire di essere riusciti a contare tutte le stelle dell’universo”. Nessuna pretesa, dunque, ma averne ricordato alcuni momenti fa immedesimare nel coinvolgimento che ha unito popolo e regnanti e prepara alla visita a una mostra in cui l’arte si mescola alla devozione. La visita – che racconteremo prossimamente –  oltre a una rassegna di opere d’arte e di elevato artigianato artistico, è una ricognizione su cosa può muovere una spinta così forte, nutrita da aspettative salvifiche con la ricerca di una protezione soprannaturale, originata comunque da un moto spirituale che deve far riflettere sulle pulsioni di un popolo il quale ha saputo trovare un aiuto consolatorio nelle avversità.

Sarà come attraversare i vicoli di Napoli con la processione del santo allorché le miserie della vita, non solo in  termini materiali, vengono per qualche ora dimenticate dinanzi alla ricchezza dei doni ricevuti nei secoli dal santo, i più preziosi, Mitria e Collana, ne adornano il prezioso Busto reliquario. Li vedremo nelle teche blindate che saranno donate a fine mostra per l’esposizione permanente nella Cappella, in modo che a Napoli in futuro tutti potranno ammirarne sempre la magnificenza.

Info

Museo Fondazione Roma, Palazzo Sciarra, Roma, via Marco Minghetti 22, traversa del Corso, aperto tutti i giorni:  Lunedì ore 15,00-20,00, dal martedì al giovedì e domenica 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-21,00; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso:  intero 10 euro, ridotto 8 euro (fino a 26 anni e oltre 65 anni, più universitari e docenti facoltà artistiche, dipendenti MiBAC, adulto con minore, gruppi e convenzioni), scuole 5 euro ad alunno, omaggi particolari per categorie e giorni determinati. Catalogo: “Il Tesoro di Napoli. I Capolavori del Museo di San Gennaro”, a cura di Paolo Jorio e Ciro Paolillo, Skira Editore, ottobre 2013, pp. 232, formato  24×28.  Per l’evacuazione del Tesoro di San Gennaro dall’abbazia di Montecassino nel 1943 cfr. il nostro articolo in “cultura.inabruzzo.it” del 16 febbraio 2009, “Il bombardamento di Montecassino”. Per la visita alla mostra cfr. il nostro articolo dal titolo “San Gennaro, la mostra del Tesoro alla Fondazione Roma”,in questo sito il 20 gennaio 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Sciarra, si ringrazia la Fondazione Roma con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura la “Collana gemmata di San Gennaro”, 1679, seguono la copia del  “Busto reliquario” e “Sant’Attanasio vescovo”, 1672, di Treglia argentiere, Falcone e Fanzago scultori;  poi due busti e un’altra opera di alto artigianato artistico; in chiusura “San Michele Arcangelo”, 1691, di Vinaccia argentiere, Vaccaro scultore. 

Duchamp, 14 ready made e 93 incisioni, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, dall’8 settembre 2013 al 9 febbraio 2014 la mostra “Duchamp. Re-made in Italia”, a cura di Stefano Cecchetto, Giovanna Coltelli e Marcella Cossu, con Carla Subrizi per la selezione degli artisti italiani, Catalogo Electa  a cura della Coltelli e della Cossu.  Espone i 14 ready made della mostra del 1964 richiamandone l’allestimento, oltre a 93 opere grafiche e ad una scelta di artisti italiani collegati a Duchamp. Un’immersione nella creatività di un artista rivoluzionario che ha dissacrato l’opera d’arte facendo assurgere al livello di capolavori dei semplici oggetti di uso quotidiano, avulsi dal loro contesto e intitolati in modo intrigante.

Non poteva che essere la Galleria Nazionale d’Arte Moderna ad organizzare la mostra su Marcel Duchamp, dato il gran nucleo di opere dell’artista, un centinaio,  che fa parte della copiosa donazione Schwarz allo Stato italiano, ben 500 opere depositate per sua scelta alla Gnam; dove  nel 1997 si svolse nella Galleria la grande mostra “Marcel Duchamp ed altri iconoclasti, anche”. D’altro canto, fu la direttrice della Gnam Palma Bucarelli ad acquistare l’esemplare della celebre “Boite- en- valise” – presentata alla Biennale di Venezia del 1948 –  esposto  nella mostra sul surrealismo di Schwarz a Milano nell’aprile-maggio 1959, ricorda la curatrice Giovanna Coltelli.

Il riferimento d’obbligo è alla mostra del 1964 a Milano nella galleria Schwarz, e a quella successiva organizzata da Dino Cavina e Schwarz a Roma in via Condotti nel 1965,  allestita da Carlo Scarpa. Ora Duchamp torna in Italia, paese dal quale si era tenuto lontano per tanti anni, non volendo essere influenzato dai  capolavori dell’arte tradizionale, proiettato com’era verso il futuro.

L’ originalità nell’arte e nella vita

Né viaggi in Italia per formazione, quindi, né per turismo, salvo  nel 1925-26; fino al 1962, allorché aveva 75 anni. Con la visita al nostro paese, i contatti con artisti d’avanguardia  e con la direttrice Bucarelli per la mostra Dada del 1966. Nel 1964, l’anno della mostra milanese, visitò Firenze e tre anni dopo ebbe a dichiarare: “Ho visto finalmente gli Uffizi”: non temeva più il contagio dei sommi  maestri. Morirà nel 1968.

Una vita artistica molto particolare quella di Duchamp, percorsa da periodi di straordinaria genialità con lunghe interruzioni, in una concezione di libertà dell’arte legata alla libertà della vita: nessun vincolo oggettivo, tanto meno estetico, la considerava  legata alla percezione soggettiva dello spettatore che partecipa così al processo creativo.

Criticava la pittura, che definiva “retinica”, come fenomeno visivo,  dicendo che doveva essere posta al servizio dell’ “esprit”, cioè l’intelletto. Questo avveniva dopo  i primi quadri in stile impressionistico e con l’influsso di Cézanne; passò poi allo stile cubista e fu fortemente influenzato dal futurismo nel senso del movimento fino al surrealismo nel periodo americano della sua vita.

Il suo celebre “Nudo che scende le scale” del 1912, esposto a New York l’anno successivo nella grande mostra definita “Armory Show”, fu messo in caricatura dal New York Times come “Il rude che scende le scale”: ma ciononostante, e forse anche per le polemiche che suscitò, divenne il quadro più famoso. Con altre opere consimili esprime l’influsso futurista nel movimento,  ma c’è anche la componente meccanica, che attirerà sempre più il suo interesse portandolo a realizzare congegni ottici, apparecchiature e meccanismi di vario tipo, cosa che divenne un impegno costante.

Dai meccanismi basati su leggi fisiche il suo interesse si estese all’azione delle leggi del caso: ed ecco l’artista sfidare la roulette al casinò di Montecarlo secondo un sistema studiato nei minimi particolari in base ai bollettini con le serie di numeri usciti, finanziandosi con prestiti degli amici garantiti da Buoni con cedole, da lui disegnati, che divennero pezzi da collezione.

Non fu l’unica originalità nella vita da artista di Duchamp. Rinuncia alla pittura e si dedica sempre più al prediletto gioco degli scacchi, frequenta i circoli e partecipa ai tornei fino a gareggiare a livello mondiale  nella nazionale francese. Per ben sei anni, dal 1928 al 1934, gli scacchi furono la sua occupazione quasi esclusiva, al punto che la moglie giunse ad incollarli nella scacchiera per liberarlo dall’impegno divenuto totale. Scrisse un libro sugli scacchi e si impegnò nella creazione di nuove forme dei pezzi progettandole  con Man Ray senza poterli produrre com’era il suo intento.

Negli scacchi vedeva una forma di espressione che con la pittura aveva in comune di coinvolgere il protagonista con il pubblico: l’osservatore nelle mostre, lo spettatore nelle partite. Accostava gli scacchi alla roulette attraverso l’azione del caso in entrambi i giochi, accentuandola nel primo e attenuandola nel secondo in modo da avvicinarli.

Valorizzava le differenze  attribuendole al caso da cui dipende l'”ultrasottile” che distingue anche gemelli all’apparenza identici, e nell’arte attaccava “i concetti di originalità e di autografia in favore di quella che potremmo definire una ‘co-produzione con il caso'”, scrive la  soprintendente della Galleria Nazionale d’Arte Moderna Maria Vittoria Marini Clarelli nella presentazione della mostra.

I ready made

Tutto questo è confluito nel colpo di genio dei “ready made”, la negazione del valore estetico e oggettivo dell’opera d’arte si è tradotta nell’utilizzazione di oggetti di uso comune cui veniva dato un titolo diverso dalla funzione originaria, spesso dissacrante; quella che era una parodia dell’opera d’arte è divenuta così vera opera d’arte legata al nascere del dadaismo cui Duchamp diede un notevole contributo fin dal primo viaggio a New York dove portò “50 cc di aria di Parigi”, in un’ampolla farmaceutica per soluzioni fisiologiche vuotata e poi sigillata con l’aria dal farmacista.

I “ready made” non vanno visti in modo semplicistico, per non dire liquidatorio, Schwarz dagli scritti di Duchamp ricava le due condizioni e le quattro regole cui sono sottoposti,che vengono così riassunte dalla Clarelli: “Le due condizioni sono che l’oggetto deve essere scelto e firmato dall’artista. La prima regola è la de-contestualizzazione: l’oggetto deve essere estratto dal suo ambito abituale, non più usato secondo la sua funzione. La seconda regola è l’apposizione di un titolo. La terza regola è la limitazione della frequenza dell’atto, la riduzione quantitativa del ‘ready made’. L’ultima regola, che Schwarz definisce ‘la più esoterica’, riguarda quello che Duchamp chiamava le rendez-vous, l’appuntamento con l’oggetto”.

Guardiamo, nella sala in cui sono esposti,  i 14 ready made realizzati per la mostra del 1964 prima citata, replicati in base agli originali se ancora esistenti o a loro fotografie con il controllo diretto dell’artista che diede – lo scrive lo stesso  Duchamp – il “visto si stampi”  lodando pubblicamente la cura “quasi fanatica”  messa da Schwarz nella ricostruzione degli oggetti e impegnandosi a non autorizzare ulteriori riproduzioni per dare maggior valore a quelle realizzate per la mostra.

Il primo ready made è la celebre “Ruota di bicicletta”, 1913, lasciata nel suo studio quando andò in America, poi montata sullo sgabello che vediamo come base, in un accostamento in cui Maurizio Calvesi ha visto gli ossimori di tipo alchemico, cerchio-quadrato, mobile-fisso fino a una forza ascendente verso l’alto nei piedi e nella forcella. Crediamo sia espressione del suo interesse per i meccanismi oltre che per il movimento che l’anno prima gli fece dipingere il nudo futurista citato, e il loro accoppiamento è collegato alla sua attrazione per gli eventi casuali privi di senso preciso. Era impegnato in quell’anno nella progettazione del “Grande vetro”, iniziata l’anno precedente, con figure meccanomorfe atte ad esprimere movimento e durata, nonché casualità: come la ruota.

Il caso sembra alla base anche di un ready made molto diverso, “Tre rammendi tipo”, 1913-14, una immagine dell’unità di misura, il metro, insieme precisa e casuale, ottenuta facendo cadere tre fili di tale lunghezza su una tela dove li fissò nella posizione risultante ritagliandovi regoli in legno, il tutto inserito in una lunga scatola di legno che vediamo esposta. Il titolo ironizza sul realismo e nasce dal nome di un negozio in cui la parola “rammendi” sta insieme ad una che evoca la misura standard; la misura casuale e soggettiva, ma nel contempo scientifica, è anche nel “Grande vetro”.

Più vicino alla Ruota di bicicletta il terzo ready made, “Scolabottiglie o Riccio”, 1914. Anche questo oggetto dalla capacità di 50 bottiglie, da lui acquistato, fu lasciato nel suo studio  alla partenza per l’America; da New York diede disposizione alla sorella di scrivere una frase nel cerchio inferiore e apporre la sua firma, era nato l’originale, poi perduto con la sua scritta. Appeso al soffitto perde la sua funzione, anche qui molti i significati attribuiti, Calvesi vi vede l’albero buddista della vita, i cerchi e le punte sono una nuova conciliazione degli opposti.

Che dire del quarto ready made, “Anticipo per il braccio rotto”?  Si tratta di una pala da neve acquistata dall’artista, e anche qui la creatività è nella sottrazione al suo uso naturale e nella collocazione, appesa al soffitto; in più nel titolo, che è un non-sense come dichiarato espressamente dall’artista, perché non si può anticipare un braccio rotto magari dell’utilizzatore della pala. Anche per quest’opera vengono trovati riferimenti al “Grande vetro”, in particolare al velo della “Sposa”.

Vediamo poi, del 1916, “Pieghevole da viaggio”, “Con rumore segreto”, “Dipingi!”.,  ready made  strettamente collegati  all’amico americano e suo mecenate Walter Arensberg. Fu lui a regalargli la macchina da scrivere con cui realizza un’opera a caratteri dattilografici e segni a penna, il “pieghevole da viaggio” ne è la copertura su cui è scritto “Underwood”,  a sottolineare il mistero che si cela sotto la fodera.  Il “rumore segreto” si produce scuotendo all’interno di un rotolo di spago entro una struttura di ottone con quattro viti a dado, la particolarità, e il mistero, è che neppure l’artista sa da cosa è prodotto il rumore, l’oggetto vi è stato messo a sua insaputa da Arensberg: Duchamp  intervistato disse “non so e non saprà mai se è un diamante o una monetina o che altro”. “Dipingi!” è un  pettine dove la particolarità e il mistero sono  nella  frase appostavi  in cui parla di “3 o 4 gocce di alterigia”, riferite da Schwarz alla “Sposa” del “Grande vetro”.

Tra il 1916 e il 1917 un ready made  molto particolare,  non è un oggetto come gli altri, ma una vera locandina pubblicitaria ridipinta a smalto nel titolo, “Apollinère smaltato” dove  era scritto “Smalto Sapolin”: “Precisamente “Sapolin Enamel” diventa “Apolinère enameled”. Raffigura una bambina che dipinge un letto in legno in una stanza con un comò e uno specchio dove l’artista ha aggiunto il riflesso improbabile della sua nuca, è un omaggio al poeta Guillaime che apprezzava perché  sapeva “riconciliare l’arte e il popolo” facendo prevalere le “cose della mente” alla visione estetica.

“Pappagallo”, “Trabocchetto” e “Fontana” sono tre ready made del 1917, presentati tal quale. I primi due erano utilizzati nel suo studio fino a diventare opere d’arte: il “pappagallo” è un portacappelli in legno, termine usato anche come titolo dell’opera, una base circolare con sei aste a uncini, viene appeso al soffitto per estraniarlo dalla sua funzione, richiama le geometrie del Portabottiglie e quindi anche le interpretazioni e il riferimento alle forme del “Grande vetro”; il “trabocchetto”  un normale attaccapanni in legno e metallo che viene estraniato fissandolo al pavimento, in questa posizione gli uncini sporgenti spiegano il titolo che viene riferito anche alla “trappola” per catturare gli uccelli e a quella per ingannare l’avversario negli scacchi

“Fontana” è il più dissacrante, un vero orinatoio di porcellana bianca che fu presentato a firma Richard Mutt alla mostra neworkese del 1917 al Grand Central Palace, venne rifiutata provocando le dimissioni di Duchamp e di Arensberg che erano nel comitato organizzativo. Anche la collocazione è diversa, precisamente rovesciata, per cui diventa “fontana”,  cioè “non più l’oggetto che raccoglie il liquido, l’urina, bensì quello che lo espelle, la fontana”, come lo descrive Achille Bonitoliva. L’intento dissacrante è evidente anche dalla parole di Duchamp, “Volli  fare un’esperienza riguardo al gusto: scegliere un oggetto con la minore probabilità di poter piacere”; il mistero è nel nome Richard Mutt, le interpretazioni vanno dal produttore dell’oggetto ai significati in tedesco come madre o misero, e in americano come sciocco, Duchamp disse: “”Volevo un nome indifferente.  E ho aggiunto Richard… Non è male per un orinatoio, il contrario di miseria “.

Restano da descrivere gli ultimi ready made esposti, realizzati tra il 1919 e il 1921, “Aria di Parigi”, “Neo vedova” e “Perché non starnutire Rrose Sélavy?”. Molto diversi  nei materiali e nella concezione, oltre che nei titoli enigmatici. L’“aria di Parigi” è  l’ampolla di vetro per miscele fisiologiche, cui abbiamo accennato, svuotata e richiusa con l’aria parigina portata a New York. Anche qui mutamento di funzione di un oggetto comune, anche qui  riferimenti al “Grande vetro”, in particolare alla “Sposa”, e secondo Schwarz al corpo femminile ma appeso.  La “neo vedova” è un modello ridotto di una  finestra francese (“french window”) che fece realizzare da un falegname americano e intitolò con il gioco di parole sulla vedova recente “fresh widow”. Infine il terzo titolo sta per una gabbietta da uccelli con 152 cubetti di marmo come zollette di zucchero, un termometro e un osso di seppia. Componenti irrazionali e misteriose, il marmo come peso è l’opposto dello zucchero, non è dolce ed è pesante, sollevare la gabbietta susciterebbe sorpresa e sconcerto, non c’è il canarino ma l’osso, mentre il termometro può solo misurare la freddezza.

Gli artisti italiani collegati a Duchamp

A  questo punto l’esposizione degli artisti italiani  a lui direttamente collegati arricchisce i riferimenti. Di Luca Maria Patella è esposto “Duchamp dis Enameled”, due lettini, “il letto giusto e quello sbagliato”, che riproducono in legno e in misure naturali il lettino dell'”Apollinaire emameled” dell’artista, raddoppiandolo nella forma corretta e in quella inutilizzabile;  ricordiamo che sono esposti in via permanente nel grande salone all’inizio della Galleria. Dello stesso autore ci sono anche “Mutt-Tum”, una grande scritta su un pannello blu con il nome  nella “Fontana”, e “Ritratto di Duchamp (vaso fisiognomico”, l’antropomorfismo di una colonna con in cima un vaso.

Di Sergio D’Angelo5 “hand made”, termine che sembra gli sia stato suggerito dallo stesso Duchamp in un incontro a cena del 1964. Sono costituiti da “scarti di recupero in scatola”, vediamo “Stele per Meret”, uno spazzolone verticale con una sfera di lampione in cima e altri elementi, “Salvatori”, dentro la scatola forme verdi e marrone, forse tegole,“Tu tre”  corolla e foglie su una vistosa struttura, “Agguato”, una indescrivibile massa scura con una forma bianca distesa, fino a “Stagione”, cilindri di diversa altezza con forme sovrapposte al culmine.

Abbiamo anche Enrico Baj con un originalissimo “Omaggio a Marcel Duchamp”, una Gioconda “rifatta” con il volto dell’artista francese, e intorno le decorazioni tipiche dei “generali” di Baj, non c’è intento canzonatorio, tutt’altro, anche se viene intitolata alternativamente “La vendetta della Gioconda”, dopo la correzione del dipinto leonardesco che ne fece  Duchamp aggiungendovi i baffi e l’iscrizione dissacrante L.H.O.O.Q., iniziali di parole francesi che indicano “donna disponibile”.

Mentre di Giosetta Fioroni  c’è “La spia ottica”, una stanza da letto visibile dall’esterno attraverso uno spioncino, si materializza così, virtualmente, l’antica tentazione di guardare dal buco della serratura. L’effetto è quanto mai intrigante.

Per ultimo Gianfranco Barucchello, il più vicino a Duchamp, da lui conosciuto a Milano nel 1962 dopo essere rimasto impressionato dalle concezioni dell’artista sul caso,  l’infrasottile e il resto.  Vediamo esposti “Necessaire per l’oltretomba”, una valigetta con oggetti alla rinfusa, chissà se si ispira alla “Boite-En-valise” di Duchamp con le miniature delle opere quasi da commesso viaggiatore, poi “Esalazione di fumo”, due mezze bottiglie, una su fondo nero, l’altra su quadrettatura bianca, e “Campo base della spedizione aerea Duchamp alle sorgenti del Nilo”, campitura bianca con in basso delle forme e a lato degli agglomerati. Ma le sue opere più espressive dello stretto rapporto con l’artista, una sorta di celebrazione, sono i tre grandi collage, quasi dei tazebao, “Marcel contro campestre bianco”, “Intorno ad alcuni aspetti del rapporto di Marcel Duchamp con lo spazio detto comunemente stanza”, e “Come spiegare M. D. al proletariato giovanile”. Sono composizioni enigmatiche di piccolissimi disegni,  miniature nel vasto manifesto bianco, nel terzo ci sono vistosi disegni in chiaroscuro di edifici e strutture tutte da decifrare.

La valigia e le incisioni di Duchamp, fino al gioco degli scacchi

Ci siamo soffermati sui ready made perché rappresentano una radicale innovazione artistica, ma la mostra presenta anche molti altri lavori di Duchamp, 93 opere grafiche,  incisioni e litografie.

Prima di tutti  la “Boite-en-valise”,  una sorta di “summa” della sua attività creativa, originale creazione essa stessa in quanto la valigia in pelle di camoscio contiene una scatola di legno con le riproduzioni miniaturizzate in fotografie e stampe di  69 sue opere in scomparti come commesso viaggiatore di se stesso, le sue innovazioni più eclatanti riprodotte e raccolte in modo innovativo con il valore aggiunto di un significato concettuale: si crea una nuova opera anche con piccolissime differenze rispetto a quella riprodotta. Ne ha fatto l'”anatomia” la curatrice Marcella Cossu.

Facciamo la conoscenza diretta del “Grande vetro”, 1965, più volte citato: ben 17 incisioni  con le componenti del disegno complessivo da “La sposa” a “I testimoni oculari”, con una serie di congegni meccanici da “Un mulino ad acqua” alla “Macinatrice di cioccolato”, fino al “Grande vetro completo”  con l’intero meccanismo composito e  intrigante. Meccanismi anche in “Pistone per corrente” e “Progetto per l’emisfero rotante”, i dischi di “Rotorilievi” e “Tirato  a lucido”,

Quindi manifesti per mostre e copertine, tra i primi una grande mano rossa con il sigaro“Cuori volanti”, rossi e blu iscritti l’uno nell’altro. Due opere autobiografiche, “Tonsura”, da un fotografia dell’amico Man Ray, e “Autoritratto di profilo”, nel quadrato azzurro al centro di uno sfondo nero.

C’è anche una galleria figurativa con “d’apres” da Ingres e Courbet, Rodin e Cranach, per lo più disegni di nudi, come la serie sugli amanti per illustrare il libro di Schwarz sul “Grande vetro”. E’ la dimostrazione della capacità nel disegno figurativo abbandonata per una creatività sconvolgente, che troviamo anche nell’unico dipinto a olio, dell’età giovanile, risale infatti al 1902, prima di tutte le altre opere esposte: si tratta di “Paesaggio a Blainville”, scena idilliaca impressionistica. Ma torna l’irriverenza con l’“Obbligazione per la roulette di Montecarlo”, 500 franchi al portatore al 20%, con la sua testa coronata da corna inquadrata in una roulette, un ready made anche questo.

Vogliamo concludere la rassegna delle sue opere con quelle che, in realtà, aprono l’esposizione, e riguardano il gioco degli scacchi. Si tratta di tre incisioni intitolate “Studio per i giocatori” e di una “Scacchiera tascabile”, con la sua firma, un ready made rettificato del 11943 dono di Schwarz. Nella sua passione per gli scacchi, fino a diventarne maestro con allievi e campione impegnato a livello agonistico, si trova, infatti, una chiave interpretativa della sua vita e della sua arte.

Ci sembra la migliore conclusione del nostro racconto della mostra l’interpretazione del curatore Stefano Cecchetto: “La proverbiale insofferenza dell’artista verso il mondo accademico dell’arte lo porta sempre più a trincerarsi dietro il perimetro protetto dalla scacchiera: il gioco degli scacchi permette di trascorrere il tempo evitando la spiacevole convivenza con la realtà, formulare una mossa, prevedendo e anticipando quella dell’avversario diventa la strategia primaria della sua esistenza”. E infine: “Questo continuo sfuggire se stesso moltiplicandosi in altre inverosimili proiezioni; inseguirsi e nascondersi dentro ai labirinti immaginari di un processo di regole formulato dall’intelligenza, permette a Duchamp di elaborare tutta una serie di opere che sono il frutto di una perfetta geometria concettuale”. Così sono nati i suoi rivoluzionari “ready made”.

Info

Galleria nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma, Viale delle Belle Arti, 131, da martedì a domenica ore 10,30-19,30, la biglietteria chiude  alle 18,45, lunedì chiuso. Ingresso: intero 10 euro, ridotto 8 euro, per le scuole 4 euro. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/  Catalogo: “Duchamp. Re-made in  Italy”, a cura di Giovanna Coltelli e Marcella Cossu, Electa, 2013, pp. 304, formato  24,5×29, dal quale sono tratte le citazioni del testo. Su mostre precedenti con opere di Duchamp cfr. i nostri articoli  in “cultura.inabruzzo.it”: i 2 articoli del 6 e 7 febbraio 2010  sulla mostra al Vittoriano “Roma riscopre Dada e i surrealisti” e “Dada e surrealismo riscoperti a Roma”, nonché  i 3 articoli del 30 settembre, 7 novembre e 1° dicembre 2010 sulla mostra di Perugia “Il teatro del sogno”,  in particolare il terzo “I surrealismi in mostra”; per Giosetta Fioroni  il nostro articolo in questo sito il 1° gennaio 2014 sulla mostra alla Gnam.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna alla presentazione della mostra, si ringrazia la Galleria con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Ruota di bicicletta”, 1913 (replica autorizzata 1964), seguono “Scolabottiglie”, 1914 (1964), e “Fontana”, 1917 (1964), poi “Il Grande Vetro” , 1965, e “Dopo l’amore”, 1967,  quindi “Studio per giocatori di scacchi”,  1911 (1965) e “Apolinére Enameled”, 1916-17 (post 1937), tutte opere di Duchamp; in chiusura,  di Luca Maria Patella, “Duchamp Dis-Enameled. Il letto giusto e quello sbagliato”, (1964) 1983-84. 

Bandiera, 2. 90 opere di artisti sul tema, al Vittoriano

di Romano  Maria Levante

Abbiamo già descritto motivazioni  e aspetti dell’iniziativa da cui è nata la mostra “Novanta artisti per una bandiera”, al “Sacrario delle Bandiere” del Vittoriano dal 22 novembre 2013 al 31 gennaio 2014. A ciascuno dei 90 artisti è stata consegnata una delle 86 bandiere esposte nelle strade di Reggio Emilia nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia  perché vi si ispirasse nel creare un’opera d’arte da donare per la costruzione in città di un moderno Ospedale per la Donna e il Bambino. Ora descriviamo tutte le 90 opere create per tale iniziativa, esposte nella mostra al Vittoriano, in una rassegna completa e senza omissioni, forse noiosa ma specchio dell’arte e insieme della storia. Distinguiamo le opere  più vicine all’originale dalle interpretazioni più libere. Massimo Parmiggianiha realizzatol’iniziativa, compresa la ricerca degli artisti, e ha curato la mostra ed il Catalogo di Corsiero Editore con raffigurate tutte le opere e le singole bandiere, e riportate  ampie schede biografiche dei 90 artisti: una documentazione preziosa e spettacolare.

Le opere meno lontane dall’originale

Molte bandiere le ritroviamo ben evidenti  nelle opere,  ma sempre il tocco geniale apporta una variante o un contorno che le trasforma in un qualcosa di diverso ma non lontano dall’originale.

Cominciamo con l’opera  di Alberto Andreis, che ha dipinto nel retro della Bandiera del Regno d’Etruria, del 1801, pezzi di architettura a costruzione dell’identità nazionale; poi Roberto Barni che intorno alla Bandiera del granducato di Toscana, 1765, colloca le sue figure filiformi; Davide Benati con il Tricolore dei moti del 1831 e Domenico Bianchi con il drappo azzurro e lo Stemma in oro della Presidenza della Repubblica di Saragat, 1965; Danilo Bucchi con la Bandiera navale sarda dei quattro mori, 1799-02, ne ha ingrandito uno tra sagome appena accennate, mentre Enzo Cacciola  ha appiattito in una linea il bianco dell’antica Bandiera mercantile di bompresso  in vigore dal 1793 al 1946; Giovanni Campus ha scomposto la Bandiera del Regno di Sardegna, dopo il 1765,  ed Eugenio Carmi inserisce la “sezione aurea” nel Tricolore  partigiano di Giustizia e libertà, 1943-45; Tommaso Cascella  interpreta la bandiera della Marina mercantile italiana, 1947,  “aspettando il vento” che ne mescola i colori, e Bruno Ceccobelli inserisce la scritta “Natura Super Natione” nella Bandiera del 1802 della Repubblica Cisalpina di Napoleone.

Di Bruno Chersicla un grande stemma per il Tricolore del 1706 della Legione Lombarda,  e di Andrea Chiesi un traliccio nel tricolore della Guardia nazionale veneta nella Repubblica di San Marco di Manin e Tommaseo, 1848; Pier Giorgio Colombara  pone “tra i rami” il simbolo delle Brigate Fiamme Verdi partigiane, 1943-45,  e Angelo Davoli inserisce  il logo “Quanto generoso amore” di CuraRE Onlus nella Bandiera dai colori codificati del 2 giugno 2004. Sandro De Alexandris  presenta lo stendardo reale di Casa Savoia in vigore dal 1881,  ripiegato nel 1946, mentre Lucio Del Pezzo immette propri motivi nella Bandiera del Regno di Napoli di Murat, 1801-1815. Giuliano Della Casa  depura del fascio e degli allori lo Stendardo della Seconda Repubblica Cisalpina ed  Enrico Della Torre squaderna la Bandiera della Repubblica partigiana della Val d’Ossola, 1944; mentre  Marco Ferri  inserisce motivi geometrici nella Bandiera del Regno d’Etruria del 1801, ed Ennio Finziingrandisce lo Stemma di Presidente emerito di Ciampi, 2001.

Laura Fiume  immette un rebus sull’iniziativa umanitaria nella Bandiera della Repubblica proclamata dai francesi a Roma nel 1798, e Antonio Freiles come Emilio Isgrò interpreta il Tricolore con al centro la Trinacria del governo insurrezionale siciliano del 1848: entrambi mantengono, nei loro stili, la figura centrale, il primo togliendo i colori, il secondo con le sue caratteristiche “cancellature”. Omar Galliani  presenta l’aquila rampante su fondo blu del Ducato del Friuli quasi immutata, e Marco Gastini  una grafica al centro del Tricolore della Prima Repubblica Cisalpina del 1797-98.  Giorgio Griffa inserisce dei motivi nello Stendardo dei Re d’Italia 1861-81 e Franco Guerzoni vede la Bandiera della Confederazione Cispadana, 1796-97,  a mo’ di sipario. Paolo Iacchetti scompone il Tricolore presidenziale senza stemma di Cossiga,1992.

Riccardo Licata, Tetsuro Shimizu e Ilier Melioli, tutti e tre con la Bandiera della Repubblica anconitana del 1797-98: il primo vi inserisce dei segni, il secondo ne dà la dissolvenza cromatica, il terzo trasforma in angolari le strisce del vessillo; mentre Claudia Losi trasforma in una protettiva tenda canadese vera la Bandiera con l’aquila imperiale del Regno d’Italia Napoleonico, 1805-15,  e Luigi Mainolfi  fa piovere grani sulla  bandiera del Regno di Sardegna utilizzata per il Regno d’Italia dal 1861 al 1863; Mirco Marchelli  pone sulla punta di tre lance la Bandiera di terra e di mare adottata a Milano nel 1802, e Umberto Mariani vela appena il vessillo immaginato da Carlo Pisacane senza riferimenti monarchici, 1857; Giovanni Menada  ingrandisce lo stemma del Tricolore di Stato in mare per navi non militari dal 2003, mentre  Hidetoshi Nagasawa  introduce  motivi particolari nella Bandiera dei  Cacciatori a Cavallo di Napoleone del 1805, e Gianfranco Notargiacomo trasforma in bandiera lo Stemma dello Stato Maggiore della Difesa del 2000.

Claudio Olivieri sfuma in nero la Bandiera carbonara del 1820-31, e Tullio Pericoli nel suo “Paesaggio con bandiera” aggiunge una serie di elementi grafici alla Bandiera di bompresso  per mercantili dal 1947, che resta in un angolo.  Lucia Pescador “semina croci dell’arte” nello Stendardo adottato nel 2000 dal Presidente Ciampi, e Oscar Piattella verticalizza le strisce dell’arcobaleno della Bandiera della pace adottata da Aldo Capitini nella prima marcia di Assisi del 1961. Pino Pinelli  trasforma in tre croci i colori del Tricolore francese del 1794-1812, e Graziano Pompili disegna un “paesaggio cispadano”  con una piccola scatola decorata sopra al tricolore cispadano del 1797, sbiadito;  mentre Concetto Pozzati nel fazzoletto recante motti della resistenza a Venezia del 1849,  inserisce una serie di citazioni, e  Mario Raciti copre con un velo parte delle insegne, tra cui un fascio, della Guardia nazionale milanese del 1796.

Jacopo Ricciardi  sfuma in orizzontale il  bianco e giallo della bandiera dello Stato della Chiesa 1808-70,  e Leonardo Rosa  inserisce le “tracce del tempo” nel Vessillo partigiano del Corpo Volontari della Libertà, 1944;  Ruggero Savinio  pone una figura seduta appena abbozzata a lato della Bandiera del Papa re, Pio IX, 1848, e Antonio Seguì presenta il tricolore dei Mille di Garibaldi del 1860 recante al centro lo stemma sabaudo rimpicciolito e deformato in mano  a Garibaldi con i garibaldini a cavallo in una suggestiva panoramica dal titolo “A la Victoria”;  Tino Stefanoni  ingrandisce artisticamente il logo delle iniziative del 150° recante tre tricolori, e Guido Strazza  traduce il tricolore mazziniano della Repubblica romana con al centro le parole “Dio e popolo”, 1848-49,  in una fuga orizzontale degli stessi colori; Wainer Vaccari  compie una rielaborazione fedele del Tricolore di Piacenza e Modena del 1859, mentre Pietro Mussini rielabora in colori diversi il Tricolore che ne incorpora uno piccolo di uno studente greco dei moti di Bologna del 1831. Valentino Vago inserisce le immagini sacre dell’Annunciazione e del Crocifisso nella Bandiera amaranto e gialla dello Stato della Chiesa  in vigore fino al 1808 senza le chiavi di Pietro.

Walter Valentini  presenta, ripiegata sotto un cielo stellato, in un’ambientazione suggestiva, la bandiera  della Brigata Partigiana Garibaldina dal nome dei fratelli Cervi, del 1944, con la stella rossa e i segni neri evocanti gli uccisi in file di 7 come i fratelli, e Paolo Valle la bandiera dei Volontari della Morte  delle  “cinque giornate” di Milano del 1848 cui ha sovrapposto segni e simboli grafici molto marcati, alcuni nei caratteri di Capogrossi. Mentre  Wal aggiunge figure tra il totemico e l’infantile ai colori della Bandiera del Ducato di Modena e Reggio, 1830-59, prima dell’annessione al Regno d’Italia, e William Xerra la grande scritta “Vive” sulla Bandiera del ducato di Parma, Piacenza e Guastalla, 1847-50. Infine Gianfranco Zappettini  colora di bianco la bandiera blu con 12 stelle del Consiglio d’Europa del 1950.

E’ una carrellata nella storia patria, per questo abbiamo citato anche gli anni delle bandiere, che richiamano gli eventi popolari e bellici che li hanno contrassegnati imprimendosi nella memoria. Sono le tante tessere del mosaico unitario costituite dai Ducati, dai Comuni, dai movimenti popolari, e dalle lotte risorgimentali fino alla resistenza, espresse sempre in vessilli gloriosi,  fino a quello del Consiglio d’Europa che inizia un nuovo percorso unitario, questa volta a livello europeo.

I 60 artisti citati finora hanno interpretato le rispettive bandiere, come abbiamo visto,  restando aderenti al tema in modi diversi. L’originale è sempre riconoscibile, nella forma o nel colore, o con dei richiami ben evidenti che abbiamo cercato di indicare sia pure sommariamente.

Completiamo la rassegna passando alle opere in cui la libera interpretazione dell’artista si è allontanata maggiormente dalla bandiera cui si è ispirato, fino a rendere il nesso irriconoscibile.

Le variazioni sul tema più libere

Luca Alinari con il tricolore del Granducato di Toscana del 1848, mostra un volto femminile dai grandi occhi senza contorni  intitolato “La bandiera senza la quale”, che lui stesso commenta così “Ogni uomo è un inganno. Ci salva la bandiera”. Mentre di Giosetta Fioroni un moderno volto femminile con occhiali neri contornato dai capelli e la dedica “Per la Donna col bambino da… Giosetta Fioroni”, la finalità benefica prevale sul riferimento alla bandiera, che nella circostanza era quella della Serenissima di Venezia del 1797. “Donne” è il titolo dell’opera di Antonio Marras, due figure stilizzate appena abbozzate, molto diverse dai visi netti delle due opere appana citate, su uno sfondo con i colori della Bandiera di terra  e mare della Repubblica Cisalpina de1 1802. Un viso di donna anche nell’opera “Cheval-roi & cephalopode” di Pat Andrea, con tante gambe, un cavallo coronato e l’aquila in riposo, sono gli elementi reinterpretati ironicamente dello stemma  della Bandiera  del Regno di Napoli di Giuseppe Bonaparte  del 1805-08.

Assadour interpreta i colori della Bandiera mazziniana del 1831 con il motto al centro in due opere dal titolo “Itinerario di una bandiera/ Storia di una bandiera”,  utilizzando le sue geometrie enigmatiche, e  Gabriella Benedini si ispira alla Bandiera garibaldina, che dopo l'”obbedisco” di Teano dovette attendere dieci anni per  tornare a Roma, con l’opera “Il cielo del 26 ottobre  1860”, il giorno di Teano,  un collage del firmamento con astri e corpi vaganti tra cui molto in piccolo in alto si intravede la minuscola bandiera. Alfonso Borghi si allontana dalla Bandiera della Prima Repubblica Cisalpina” del 1797-98,  con “Immagine, omaggio a John Lennon”, una stesura materica in rosso, frastagliata, recante la scritta evocativa REPU. Vi accostiamo idealmente “I fiori e la bandiera” di Fausto De Nisco, ispirata al vessillo del Regno d’Italia con lo stemma sabaudo del 1861, per l’assemblaggio di forme in parte geometriche.

Roberto Casiraghi con “Essere”, forme fluttuanti e addensamenti, interpreta il Tricolore dai colori francesi a bande verticali che durante la rivoluzione del 1848  sostituì provvisoriamente quello orizzontale; lo stesso tricolore viene interpretato da Marino Iotti “nel vento”, un collage di grigi con un lembo rosso a ricordare con un solo colore la bandiera.  Elio Marchegianiinserisce nel  lenzuolo bianco divenuto simbolo dell’impegno comune contro la mafia dopo la strage di via D’Amelio del 1992,  un  triangolo dal vertice in basso con reiterate in crescendo verso l’alto le figure di Falcone e Borsellino. E Attilio Forgioli nel suo “Paesaggio con tricolore”, in una bandierina  a margine riporta i forti colori del vessillo di Ferdinando II del 1848, senza stemma, mentre le delicate tinte pastello delineano l’ambiente, chissà se anche i raduni degli alpini cari all’artista. Alessandro Gamba rende il tricolore codificato il 2 giugno 2004  con l’installazione “Come… in croce”, forse perché si era scoperto che il tricolore al Parlamento Europeo era irriconoscibile con il rosso tendente all’arancione, di qui la rigorosa codifica.

Di Marco Grimaldi “Senza titolo”, dove  si intravvedono appena, dietro forme verticali fluttuanti  in primo piano, i colori del tricolore della seconda Repubblica Cisalpina del 1800-02.   Mentre “Segnale di pericolo” di Carlo Mastronardi, un triangolo rovesciato dalle pennellate grevi,  richiama nel cromatismo il tricolore del giugno 1860 adottato nel  Regno delle Due Sicilie da Francesco II dopo i Mille. Elisa Montessoriinterpreta lo Stemma della Repubblica adottato dai deputati costituenti con “Articolo I della Costituzione  italiana”,  il testo è riportato in scritte in più lingue, con grafiche evocanti il lavoro.  E Giulia Napoleoni dinanzi al simbolo di un’illusione del 1848 –  le reiterate immagini di Pio IX  inquadrate nel tricolore – con tre piccolissime colonnine dai colori diversi esprime forse lo stravolgimento delle illusioni, e annega il tutto nel cromatismo preferito, una vasta campitura blu, in parte variegata, “Prussia-Cobalto” è il titolo.

Nunzio interpreta la Bandiera delle Brigate garibaldine, del 1944-45 – al centro una stella rossa nel tricolore recante l’immagine dell’eroe – nel suo “Tegola nera con dentro la bandiera”, di cui si intravede appena un lembo, forse per proteggerla nascondendola.  E Bruno Raspanti  si ispira alla Bandiera di Napoleone Bonaparte del 1802 della Repubblica Cisalpina con una composizione che esprime, nelle sue parole, “precarietà, evocazione, nomadismo, spazio in cui le cose devono abitare, e soprattutto inattuabilità”. Dal canto suo Giovanni Sesiarende lo spirito di commozione e reazione civile dello striscione con su scritto “E adesso ammazzateci tutti” dietro cui sfilarono i ragazzi di Locri nel 2005 dopo l’assassinio di Francesco Fortugno, con un’opera in tecnica mista su  base fotografica “I caduti fella strage di Locri”, un lenzuolo insanguinato  davanti alla lapide con i nomi delle vittime della mafia.  

Medhat Shafik  interpreta la Bandiera di Napoli del 1798-99  con il “Canto epico”, quattro livelli  in verticale con incorporati oggetti nei quali è racchiuso il significato, e Aldo Spoldi per la Bandiera degli Usseri della Repubblica Cisalpina 1797-98  presenta un “Garibaldino a cavallo”,  un vero  e proprio Guidoriccio da Fogliano in chiave risorgimentale, mentre per Mauro Staccioli il tricolore della Costituente del 1947 è la  “Bandiera avvolta su ramo o radice”, a forma di V, simbolo di vittoria.  Nani Tedeschi  si riferisce allo Stemma del Regno delle Due Sicilie, fino ai Mille del 1860,  con l’opera “Dietro ogni bandiera c’è un convitato di pietra”, Garibaldi sul cavallo bianco, davanti al vessillo con il leone  incoronato, in alto una colomba bianca nel cielo blu cobalto.

Spettacolare “Celebra (R.E.) la bandiera” di Nino Migliori, per la Bandiera di bompresso di navi non militari del 1947,  presenta una fotocomposizione arcitettonica  con un tempio al culmine. Mentre Carlo Nangeroni mantiene il campo azzurro della bandiera dell’ONU, ma trasforma il piccolo planisfero tra due foglie d’alloro dello stemma al centro, in una sorta di sistema solare, gli astri sono molti cerchi dal bianco al nero passando per un celeste che si confonde quasi con lo sfondo e ruotano in orbite circolari, forse le principali aree del pianeta; il  planisfero diventa così un empireo dantesco, di certo lontano dalla realtà tormentata, ma aderente all’ideale di pace dell’ONU.

La rassegna degli ultimi 26 artisti termina con questo finale planetario ispirato alla bandiera dell’ONU, e conclude la cavalcata tra le 90 interpretazioni artistiche di bandiere espressive di mondi ben più ristretti e lontani nel tempo, ma che hanno il respiro della storia ed evocano figure ed eventi  patriottici indimenticabili. 

C’è  infine un ultimo – o primo – artista, la cui opera collega artisticamente l’omaggio alla Bandiera con la Donna alla quale é dedicato l’Ospedale per la Donna e il Bambino reso possibile per il contributo dato dalle opere esposte. E’ Ilario Tamassia,   l’opera è  “Libertà con donna a specchio e bandiera”: due vessilli e un’alta figura femminile con le braccia levate in alto realizzata con pezzi di  specchio, i frammenti del terremoto. “Il dolore è un ponte che raggiunge l’Amore”, ricorda l’artista.

Questo  e tutto il resto ci sembra da non dimenticare. Perciò abbiamo voluto fissarne il ricordo.

Info

Complesso del Vittoriano, Sacrario delle  Bandiere (ingresso laterale del complesso destro Piazza D’Aracoeli). Tutti i giorni ore 9.30-15,30, lunedì chiuso. Ingresso libero. Tel. 02.36755700, http://www.ciponline.it/. Catalogo: “Novanta artisti per una bandiera”, a cura di Sandro Parmiggiani, Corsiero Editore, marzo 2013, pp. 198, formato 24 x 28, euro 20,00; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è stato pubblicato in questo sito il 14 gennaio 2014. Per due tra i 90 artisti cfr. in questo sito anche i nostri articoli “Giosetta Fioroni, monocromie  e ceramiche alla Gnam”, 11 gennaio 2014, e “Isgrò, il modello Italia nelle ‘cancellature’ alla Gnam”,  16 settembre 2013.

Foto

Le immagini sono state fornite dagli organizzatori che si ringraziano, con i titolari dei diritti. In apertura, la bandiera di Bruno Ceccobelli, seguono  quelle di Giuliano Della e Tullio Pericoli; poi di Bruno Raspanti e Marco Ferri; quindi di Giovanni Campus e Carlo Nangeroni, inoltre di Tommaso Cascella e William Xerra; in chiusura, la bandiera di Nino Migliori.

Bandiera, 1. 90 artisti in mostra, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, nel “Sacrario delle Bandiere”,  la mostra “Novanta artisti per una Bandiera”  espone dal  22 novembre 2013  al 31 gennaio 2014  le interpretazioni della bandiera assegnata a ciascuno degli artisti che le hanno donate per un’iniziativa benefica: la costruzione dell’Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, la patria della Bandiera italiana, nelle cui strade sono state esposte 86 bandiere per le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità nazionale nel 2011.

L’arte al servizio della storia e anche della solidarietà, una bella combinazione. L’iniziativa è promossa dall’Associazione CuraRE Onlus con lo Stato Maggiore della Difesa e il Comune  di Reggio Emilia, a cura di Sandro Parmiggian, che l’ha realizzata a partire dalla ricerca degli artisti, e ha curato anche il Catalogo di Corsiero Editore con le 90 opere e le esaurienti schede biografiche.

Non è la prima mostra, tra quelle  di cui ci siamo occupati,  che riunisce un certo numero di artisti su un tema preordinato. Ricordiamo le mostre del 2009 “Mitografie” al Museo Carlo Billotti con una serie di artisti operanti a Roma ai quali fu chiesto di interpretare il tema del mito, e “Contemplazioni”, a Rimini sul tema della bellezza, con una scelta di opere già esistenti.

Le particolarità di una mostra “unica” e irripetibile

Questa mostra è diversa in quanto gli artisti sono stati invitati a un’opera originale non su un tema ma su un “oggetto”, come avvenuto per un’altra mostra che ci piace ricordare, quella evocativa del ruolo dell’Ente comunale di Consumo di Roma sulla base della carta oleata che avvolgeva il  burro.

Nel caso attuale l'”oggetto” dato agli artisti per trarne ispirazione è la massima icona laica che si possa concepire, la Bandiera;  gli esemplari consegnati tutti diversi, perché tante sono le incarnazioni della bandiera, compresi gli Stati preunitari e i vessilli di occasioni particolari. La mobilitazione non poteva che essere massiccia, ben 90 artisti con altrettante opere, con nomi importanti, e la sede espositiva quanto mai prestigiosa, il “Sacrario delle Bandiere” al Vittoriano, l’Altare della Patria.

Ma c’è un’altra particolarità che rende unica la mostra: non è fine a se stessa, e già sarebbe un evento data l’importanza del tema e la qualità delle opere, ma è finalizzata alla costruzione di un Ospedale della Donna e del Bambino a Reggio Emilia, dove è nato il Tricolore. A tale intento meritorio  sono destinati i  proventi dalla vendita delle opere, anche se l’importanza sul piano artistico è tale che al motivo umanitario si associa, nelle parole degli organizzatori, “l’obiettivo tuttavia di preservare l’integrità della rassegna e farne una sorta di raccolta permanente”.

Il Sindaco di Roma Ignazio Marino  ha collegato il tricolore alla finalità  per la donna e il bambino: “Un’unione rappresentata da quel verde, bianco e rosso simboli di rivoluzione, sovranità e libertà del popolo e simbolo di speranza. Di così tanta intensità è l’amore che lega una madre a un figlio. Infinito, sconfinato, unico,  profondo, viscerale. Un amore che va tutelato e protetto. E’ questo che si propone CuraRE Onlus con il suo ‘Ospedale dedicato alla Donna e al Bambino”. 

E la presidente di CuraRE Onlus Deanna Ferretti Veroni lo ha confermato sottolineando che la struttura si prenderà cura della donna e del bambino “integrando accoglienza, familiarità, confort, sapere, professionalità e tecnologia”,  per l'”impegno artistico, sociale, umanitario” degli artisti.

Mentre il Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, tra i valori e principi comuni evocati dal Tricolore, simbolo dell’unità nazionale, ha citato, oltre a libertà e a democrazia, la giustizia sociale e la solidarietà.

E’ un ospedale  a più piani di oltre 12.000 metri quadrati, quello che si intende realizzare, con le tecnologie e competenze più avanzate, le specialità cliniche dalla Ginecologia e ostetricia, compresa la Procreazione medicalmente assistita, alla Neonatologia, Pediatria e Neuropsichiatria infantile, con il relativo Blocco operatorio.

Perché ciò avvenga,  il sostegno degli artisti è decisivo ma non si manifesta con la pur generosa cessione di un’opera esistente, bensì con l’impegno a crearne una apposita ispirata non al Tricolore in generale, ma alla particolare bandiera  consegnata a ciascuno, con gli specifici colori e simboli.

Fuori dalla torre d’avorio nella quale viene spesso isolata la figura degli artisti, li vediamo  impegnati solidalmente nella soluzione di un problema sociale pressante come l’assistenza alla donna e al bambino. L’immersione nella realtà viva e pulsante non è limitata a questa partecipazione,  perché le bandiere consegnate loro per la traduzione artistica sono state esposte nel 2011, come accennato, nelle strade di Reggio Emilia, dove il tricolore è nato il 7 gennaio 1797,  per celebrare il 150° dell’Unità d’Italia che ha visto un gran  numero di manifestazioni in tutto il Paese.

Si tratta delle bandiere degli Stati preunitari, giacobine e napoleoniche, dei moti e  insurrezioni popolari del Risorgimento, dell’Unità e del Regno d’Italia, fino ai diversi vessilli della Repubblica e a quelli utilizzati per obiettivi di valore civile e sociale, come nelle manifestazioni antimafia.

Tutte queste bandiere, dopo il bagno popolare di un anno nelle “Strade della bandiera” di Reggio Emilia – la manifestazione inaugurata dal presidente Giorgio Napolitano il 7 gennaio 2011 – sono finite negli studi dei 90 artisti.

Di qui la trasposizione, anzi la trasfigurazione artistica, qualcosa di straordinario che non ha precedenti, e ha visto gli artisti ispirarsi liberamente alla bandiera assegnata e ai suoi colori.

La partecipazione degli artisti al progetto benefico e patriottico

Ma prima di fare un excursus sulle opere realizzate, intendiamo soffermarci sulle riflessioni  nate nella complessa organizzazione dell’evento che ha richiesto la ricerca preliminare degli artisti disposti a partecipare a un’iniziativa fuori del comune.

Ne parla l’artefice dell’iniziativa, Sandro Parmiggiani,   partendo dalla considerazione che “gli artisti vivono con particolare fastidio, e con molte ragioni, la consuetudine di andare a bussare alle loro porte per chiedere un’opera da destinare a un qualche scopo benefico”. Tanto più in questo caso in cui si trattava di un tema predeterminato e di un’opera da realizzare appositamente e non da scegliere tra quelle disponibili e inutilizzate.

Se in passato il ruolo rivestito dall’artista era coerente con le richieste di partecipare ad eventi benefici con la sua autorevolezza, in seguito la sua figura è andata mutando, anche per la crescente mercificazione dell’arte in cui l’aspetto economico ha prevaricato quello artistico per cui le richieste di partecipare  a iniziative benefiche hanno privilegiato il primo aspetto scadendo di livello ed esponendosi a frequenti rifiuti; mentre l’artista per sua stessa natura  è aperto alla società e sensibile alle esigenze dettate dalla solidarietà e dalla partecipazione  alle iniziative comuni.

L’iniziativa legata alle Bandiere ha potuto ristabilire un rapporto fecondo con gli artisti coinvolgendoli in un progetto che alla valenza civile e umanitaria ha unito un forte contenuto artistico, per di più riferito a uno dei valori più nobili dell’identità nazionale, quello legato alla Bandiera. E non a una sola bandiera, ma alle 86 bandiere che riflettono una lunga storia di aspirazioni e di lotte, di vittorie e di sconfitte, approdata alla fine nel Tricolore nazionale.

Con la lunga esposizione agli agenti atmosferici nelle strade di Reggio Emilia hanno assunto lo stesso aspetto delle bandiere segnate dai campi di battaglia, in quelle date agli artisti c’era il segno del “vissuto”. La “street exibition” –  ha scritto Alberto Melloni   ha trasformato la città in “un museo a cielo aperto di grandi bandiere, messe come fitte quinte delle strade principali, a marcare le tappe e gli apporti che confluiscono nella bandiera nazionale in un percorso storicamente rigoroso”. 

Ha poi dato l’interpretazione della molteplicità di vessilli esposti che si è tradotta in una corrispondente  molteplicità delle opere d’arte a loro ispirate: “Un racconto muto che partendo dal tricolore francese dicesse le varianti di una metamorfosi nella quale non fosse il mito carducciano del ‘primo’ tricolore a costituire l’asse del discorso, ma al contrario il molteplice rifrangersi di un simbolo civile che, dopo la campagna napoleonica, si iscrive nella storia italiana, dalle bandiere degli Stati dell’Italia disunita”, fino alla Costituzione che ha posto “il tricolore come ultimo dei principi fondamentali”.  Al quale si sono aggiunti i vessilli del Quirinale, dell’UE e dell’ONU. 

Non sono stati posti vincoli alla personale interpretazione della specifica bandiera loro consegnata – scrive Parmiggiani –  da considerare solo “come un  punto di partenza da cui inoltrarsi nel loro cammino,  verso la realizzazione di un’opera che comunque recasse il segno della loro lingua, del loro stile”;  sono stati stimolati “a inoltrarsi su strade inesplorate, esperienze che, depositatesi nella memoria, fermenteranno nell’immaginario e saranno foriere di innovazioni nella loro opera”.

Ed ecco come gli artisti hanno risposto: “Alcuni sono intervenuti sulla bandiera stessa o su una sua parte, dipingendovi sopra o utilizzandola per creare un’opera-oggetto; altri ne hanno utilizzato frammenti per inserirli, attraverso il collage, nei loro lavori; altri ancora hanno creato un lavoro del tutto autonomo: la bandiera loro assegnata è diventata  fonte diretta di ispirazione per i possibili riferimenti di colori, di scritte, di forme disegnate”.

Esposizioni delle opere e giudizi autorevoli

Le 90 opere sono state già esposte – “noblesse oblige” – a Reggio Emilia nei Chiostri di San Domenico, in una mostra inaugurata il 13 marzo 2013; poi sono state presentate il 2 giugno, nella festa della Repubblica,  alla sede dell’Accademia militare di Modena,  il cui legame con la bandiera è evidente.

Ma l’approdo al Vittoriano, l’Altare della patria, nel “Sacrario delle Bandiere”, è il culmine che l’iniziativa meritava di raggiungere: “Era un luogo cui appariva impensabile solo pensare, se non  come uno di quei ‘sogni’  che, parafrasando il testo teatrale di Indro Montanelli, ‘muoiono all’alba’”, scrive Parmiggiani, confidando sinceramente  come fosse inattesa l’apoteosi finale.

Nel “Sacrario delle Bandiere” la vastità dell’ambiente e la spettacolarità dei vessilli storici nelle  teche di vetro tutt’intorno fa sì che le opere degli artisti siano discrete, come a non voler turbare l’atmosfera quasi religiosa che vi si respira, una religione civile altrettanto coinvolgente. Ma proprio questa discrezione le fa inserire nello spazio centrale compenetrandole  nello spirito del luogo.

Il Catalogo riporta in elegante veste grafica per ogni artista l’opera realizzata a piena pagina e in aggiunta, riprodotta in piccolo, la bandiera assegnatagli cui si è ispirato; inoltre  una biografia esauriente che, riguardando 90 autori, concorre a formare una inedita, preziosa documentazione, come è preziosa la descrizione degli 86 vessilli, per ognuno dei quali si riassume la storia.

E’ un accurato lavoro di ricerca che rappresenta un ulteriore valore aggiunto del progetto, ma non basta: “Se l’Italia fosse un paese molto diverso – scrive ancora Melloni – chi compra queste opere potrebbe essere tentato di ridonarle alla  città, perché diventino subito patrimonio di tutti”, prospettiva auspicabile ma non certa, per cui aggiunge: “Se non fosse così, se non sarà così, un catalogo dirà cosa questa città avrebbe potuto dire di se stessa a valle di una celebrazione che l’ha vista partecipe con le sue strade e la sua gente”.

Un orgoglio cittadino espresso anche dal sindaco Graziano Delrio: “Ci piace pensare che il tricolore italiano, con il suo impulso alla solidarietà, libertà, convivenza, non potesse nascere in un luogo qualsiasi. Proprio questo luogo non qualsiasi, Reggio Emilia, ha accolto il 150esimo dell’Unità d’Italia” con le strade imbandierate e ne è nata  l’iniziativa benefica. Un orgoglio che Sonia Masini, presidente della Provincia di Reggio Emilia, ha espresso sottolineando il contributo significativo della sua terra nel “far germogliare le radici democratiche della nazione, a radicare i valori della libertà, dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica”.  E  Vasco Errani, presidente della Regione Emilia-Romagna, ha sottolineato che Reggio Emilia “deve la sua fama, a livello nazionale e internazionale, anche alla cura e all’attenzione dell’universo materno-infantile”,  associando così il richiamo al motivo benefico alla matrice civile patriottica.

Le diverse interpretazioni del  tema-oggetto “bandiera”

Dal confronto tra l’opera e la relativa bandiera si può ripercorrere idealmente l’itinerario dell’ispirazione artistica, vedere come il soggetto proposto è stato recepito e trasfigurato.  In una ampia serie di opere la bandiera di base è riconoscibile, o nella forma e struttura complessiva dell’opera oppure nei soli colori, nell’intero dipinto oppure in una consistente parte di esso.

Altre opere ne danno un’interpretazione molto più libera fino a rendere del tutto irriconoscibile la fonte originaria di ispirazione. In qualche caso viene dichiarato espressamente il diverso contenuto, ma si sente sempre che la sensibilità civile e umana è stata sollecitata per cui il nuovo riferimento è altrettanto meritevole. Pensiamo ai valori insiti in  “Imagine” di Lennon, come a quelli sottesi in altre fonti di ispirazioni liberamente associate alla bandiera in una riflessione a raggio più vasto.

E’  uno spaccato di arte contemporanea quello che viene presentato, la cui “lettura” è facilitata dal Catalogo che nell’ampia biografia di ognuno dei 90 artisti inserisce i caratteri salienti del loro stile pittorico, rappresentando una guida preziosa per la mostra oltre che un’istruttiva antologia.

A questo punto visitiamo la mostra, nell’atmosfera magica del “Sacrario delle bandiere”, consapevoli che, dato il gran numero di artisti e delle rispettive opere, dovremo limitarci a una rassegna forzatamente rapida senza poterci soffermare ma dando qualche sommario accenno su ciascun artista, senza omissioni, per una testimonianza completa.  Ne daremo conto prossimamente.

Info

Complesso del Vittoriano, Sacrario delle  Bandiere (ingresso laterale del complesso). Tutti i giorni ore 9.30-15,30, lunedì chiuso. Ingresso libero. Tel- 02.36755700, http://www.ciponline.it/. Catalogo: “Novanta artisti per una Bandiera”, a cura di Sandro Parmiggiani, Corsiero Editore, marzo 2013, pp. 198, formato 24 x 28, euro 20,00; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo articolo sarà pubblicato in questo sito il 15 gennaio 2014.  Per le mostre citate cfr. i nostri articoli:  in questo sito, “43 artisti, la vecchia carta oleata ispira la modernità” 1° agosto 2013; in “cultura.inabruzzo.it”, “Mitografie al Museo Carlo Bilotti di Roma” 16 giugno 2009, e “Contemplazioni, bellezza e tradizione nella pittura italiana contemporanea” 4 agosto 2009.

Foto

Le immagini sono state fornite dagli organizzatori della mostra che si ringraziano con i titolari dei diritti. In apertura, la bandiera di Antonio Segui, seguono  quelle di Eugenio Carmi e Walter Valentini; poi di Umberto Mariani e Lucio del Pezzo;  quindi di Gabrilla Benedini Graziano Pompili, inoltre di Hidetoshi Nagasawa e Piergiorgio Colomara; in chiusura,  la bandiera di Antonio Marras..