Augusto, nel Bimillenario, alle Scuderie del Quirinale

di Romano Maria Levante

Alle Scuderie del Quirinale dal 18 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014, la mostra “Augusto” espone circa 200 reperta inseriti in sezioni che scandiscono le varie fasi di un’attenta ricostruzione storica: dal sorgere e consolidarsi dell‘imperium”, alla nuova classicità nell’arte e alla nuova età dell’oro nella vita. Realizzata dall’Azienda speciale Expo insieme ai Musei Capitolini, hanno collaborato il Museo del Louvre e il Grand Palais di Parigi, che sarà sede della successiva esposizione in Francia. Curatori della mostra e del Catalogo Electa, di notevole impegno iconografico e documentario, Eugenio la Rocca, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger.

Le mostre precedenti

Augusto è stato al centro  di alcune grandi mostre nel passato, quando  la sua figura è stata considerata  da diversi punti di vista, compreso quello propagandistico di esaltazione dell’impero che fu alla base della mostra nel 1937 al Palazzo Esposizioni,  nel Bimillenario della nascita: il fascismo non perse l’occasione per celebrare l’espansione  della potenza e della cultura romana nel mondo  allora conosciuto, andando anche oltre il periodo augusteo. E’ stato un precedente che aveva scoraggiato finora iniziative in Italia ispirate a una visione priva di retorica.

In Germania nel 1988 ci fu a Berlino una mostra su Augusto e il tramonto della Repubblica romana, da un’idea di Eugenio La Rocca, basata su una revisione critica dove nulla vi era di agiografico; l’esposizione, tuttavia, era articolata per generi artistici, senza che vi fosse un collegamento diretto tra la ricostruzione storica e i reperti archeologici, per cui sezioni diverse erano dedicate ad architettura e scultura, gemme e cammei, ceramica e monete, che risultavano avulse dal contesto.

Dieci anni dopo, nel 1999, in un’altra mostra sempre in Germania divisa in tre settori, Imperio, Conflitti e Mito, in tre località diverse, l’approccio fu incentrato sull’integrazione tra componente romana e germanica; il settore “Imperio” era diviso in sezioni tematiche, dalla formazione di Roma e poi l’ascesa a potenza mondiale alla politica estera augustea, dall’edilizia monumentale nell’Urbe e nelle province all’amministrazione dell’impero, in specie i rapporti con la Germania, i trasporti.  Questa mostra fu organizzata nel  Bimillenario della sconfitta dei romani nella selva di Teutoburgo.

L’impostazione della mostra

Il  Bimillenario della morte di Augusto ha fornito l’occasione per questa mostra la cui grandiosità ripaga, per così dire, dei settant’anni di  attesa:  per realizzarla si sono uniti alle Scuderie del Quirinale non solo la Soprintendenza per i beni archeologici di Roma e i Musei Capitolini, che detengono molti dei reperti esposti, ma anche il Museo del Louvre, e il Grand Palais di Parigi.

L’esposizione è incentrata sulle arti figurative, quindi sculture e terrecotte, bronzi e rilievi,  gemme e cammei,  ma senza divisioni di generi, come era nella mostra tedesca del 1988; non vi sono  neppure divisioni in tematiche avulse dal tempo, si è preferito seguire la storia augustea nel suo sviluppo cronologico inserendo in questo percorso  i reperti dei diversi generi artistici. Ad eccezione della pittura parietale che si è ritenuto non ridurre a qualche frammento essendovi a Roma le case di Augusto e di Livia e i musei con pannelli per lo più inamovibili; e ad eccezione dell’architettura che,  a parte alcuni fregi, si può ammirare nella città di Roma nella sua grandiosità.

L’excursus storico,  cui le opere esposte forniscono evidenza visiva, non ha frazioni settoriali, e spazia per  la lunga vita di Augusto: si è voluta rendere con il massimo approfondimento la cultura artistica nell’età augustea, quindi  non ci si è dispersi su temi quali l’amministrazione dell’impero, l’esercito e i trasporti,  anche a causa di problemi di spazio e logistici. Ciò non incide  sulla completezza dell’esposizione perché il campo di osservazione è globale e non settoriale.

I  titoli delle 9 sezioni della mostra sono più eloquenti di ogni ulteriore introduzione: si inizia con Ottaviano e il tramonto della Repubblica romana per passare alla conquista da parte sua del potere assoluto; segue la costruzione di una nuova classicità  e il sorgere di forme di celebrazione del principe; l’escalation vede  gli dei protettori di Augusto e l’avvento di una nuova età dell’oro; il tema viene declinato con il lusso nella vita privata, espressione dell’aristocrazia al potere  e rispetto all’eco di Roma nel mondo provinciale; infine la morte e l’apoteosi, Augusto sale all’Olimpo.

La visita alla mostra è un’immersione nel mondo augusteo particolarmente suggestiva per l’effetto altamente spettacolare di un numero di reperti così vasto,  sono oltre 200: dalle grandi statue ai piccoli cammei si passa di emozione in emozione, presi da una romanità che è insieme storia e arte. Per la prima volta sono riunite le statue più celebri come Augusto in toga con il capo velato e l’Augusto di Prima Porta divenuto una vera  e propria icona augustea; e poi rilievi decorativi riuniti della battaglia di Azio riuniti per l’occasione,  cammei preziosi, oggetti in ceramica e vetro, crateri e urne, fino ai pezzi pregiati del tesoro di Boscoreale, il più prezioso servizio di argenteria dell’epoca.

La conquista e il consolidamento del potere

Una ascesa politica quella di Ottaviano che inizia con una sua iniziativa militare raccontata nelle “Res Gestae”:  mise insieme un esercito per difendere la Repubblica dall’urto delle fazioni, poi alla morte di Cesare, nel 44 a. C., adottato nel suo testamento, prese il nome di Gaius Julius Caesar (Octavianus). Come console non si segnalò in modo particolare, ma fu pronto a divenire capopartito duro e determinato e poi principe rispettoso della tradizione; quando Cesare divenne “divino” nel 42 a. C. colse a volo l’occasione  cambiando il nome in Gaius Iulius divi filius Caesar. Ebbe dal Senato l’appellativo di Augusto nel 27 a. C., il princeps diviene così l’Imperator Caesa Augustus.  

Nella prima sezione viene ricordata la figura di Cesare,  e anche di Pompeo Magno e Crasso, mediante busti di marmo e monete, e si fa la conoscenza di Ottaviano con una testa di marmo e delle monete d’oro tra il 36 e il 42 a.C.

Dal 43 al 33 a. C. nel secondo triunvirato si impegna nel difendere  le tradizioni  e le istituzioni romane e italiche qualificandosi come alfiere della romanità con un’intensa attività politica, mentre Antonio si era ellenizzato ad Alessandria d’Egitto, con la regina Cleopatra, lontano da Roma. Lo scontro tra i due si concluse con la sconfitta di Antonio nella battaglia navale di Azio del 31 a. C., e fu seguito da un lungo periodo, dal 31 al 23 a.C., in cui ad Ottaviano fu rinnovato il consolato ogni anno perché portasse avanti la propria azione di restauratore dell’ordine repubblicano. Nel 27 a.C. ebbe il titolo di Augustus e l’imperium provinciale per dieci anni, e nel 23 a. C. rinunciò al consolato per la tribunizia potestas a vita, da novello tribuno della plebe aveva il diritto di veto.

Questa inarrestabile scalata al potere assoluto viene espressa da un gran numero di reperti, tra i quali alcuni con la Vittoria  –  un frammento di rilievo, una antefissa e  una gemma – e altri con immagini quali il trofeo con prigionieri. Dopo questo inizio una serie di suoi ritratti marmorei, dalle teste ai busti fino alle grandi statue e, d’altra parte, con piccoli espressivi cammei. Vediamo anche raffigurata nel marmo la sua famiglia, dalla  moglie Livia a Giulia e Ottavia, fino ai nipoti Gaio e Lucio, accostati ad una sua Statua togata nel gruppo molto espressivo della basilica di Corinto; altri busti ritraggono Agrippa, Tiberio, Marcello  e Druso Maggiore.

La nuova classicità e le forme celebrative del principe

Particolare rilievo viene dato nella mostra alla costruzione di una nuova classicità, soprattutto da parte di uno dei curatori, Eugenio La Rocca, che ne spiega i canoni sottolineando che anche nei casi in cui l’imitazione dai modelli greci era massima, le nuove opere venivano inserite in un contesto ben diverso che dava loro un altro significato.

Il riferimento ai grandi maestri era indispensabile per dare agli dei e ai grandi personaggi raffigurati l’autorità e la dignità morale richiesta; nel nuovo linguaggio figurativo, scrive La Rocca, “gli elementi formali di derivazione classica si amalgamavano con estro e fantasia con altri desunti dallo stile arcaico, severo, e del primo ellenismo”. A tal punto che “severo, classico e tardo-classico sono fusi in un insieme armonico che supera la mera imitazione: si arriva  talvolta a dubitare che siano effettivamente esistiti determinati prototipi”.  La Rocca così conclude: “La cultura augustea non è classicistica, ma nei suoi momenti più alti modifica la tradizione classica  innestandone taluni lemmi in un insieme linguistico, il cui impasto è profondamente innovativo, al punto da dare avvio ad una nuova classicità”. E in modo ancora più esplicito: “Imitazione ed emulazione non sono considerati riferimenti negativi alla tradizione classica, ma una maniera per ripensarne il linguaggio creando nel contempo opere del tutto originali”.

Nella sezione sono esposte statue di marmo dove si può verificare tale assunto: si va dalla statua arcaista di Priapo, e dalle teste di Centauro e di Ulisse al gruppo “Oreste e Pilade” , da un originale greco di netta impronta classicista. I  motivi evocati da La Rocca sono espressi nelle grandi statue esposte, Oreste ed Elettra,  Claudio Marcello e AfroditeDiana e Livia come Cerere o Fortuna. Del  “princeps”, tra le tante sculture, vediamo la Statua togata di Augusto con il capo velato  e la famosa Statua di Augusto da Prima Porta, con il braccio destro levato, divenuta una icona: è altta più di 2 metri, come quella di Livia, e nella mostra a questa è stata accostata una replica del Doriforo di Policleto per un raffronto diretto.

L’arte viene di nuovo associata al consolidamento del potere nella sezione in cui sono esposti i segni della nascita di una sorta di culto di Augusto, beninteso in senso lato, cioè frutto della sconfinata ammirazione per il suo genio, venendogli riconosciute qualità eccezionali, e per la sua persona fisica, il numen, rappresentata nel vigore, prestanza e autorità unita a benevolenza. Di qui il passaggio delle statue con la corazza, come l’Augusto di Prima Porta, a statue in cui è assiso come Zeus Olimpio, l’omologazione alla divinità era implicita nella raffigurazione; in una moneta con in mano lo scettro tiene il globo sotto al suo piede. Sono esposti dei cammei che lo ritraggono  n re di Macedonia, e su una quadriga, come Mercurio e come Apollo.

Gli dei protettori di Augusto e la nuova età dell’oro

Dalla divinizzazione mediante omaggi che superavano l’ammirazione umana, alle divinità considerate suoi protettori: Apollo sin dalla battaglia di Azio, poi anche Mercurio, Marte e Venere. Certamente la sua attenzione per la religione tradizionale mediante campagne di restauri di templi e la ripresa di riti in disuso contribuì a questa ulteriore “escalation” dell’immagine di Augusto: reintrodusse i Ludi secolari nel 17 a. C. e nel 12 a. C. morto Lepido fu eletto Pontefice Massimo. 

In questa sezione sono esposte  lastre campane con le divinità, in particolare Apollo in contesa con Eracle per il tripode delfico, poi  Demetra-Cerere in trono e una scena di iniziazione ai i misteri eleusini, tre erme femminili di marmo nero, forse danzatrici che adornavano  il tempio di Apollo , fino all’altare dei “lares”  di Augusto.

E siamo alla sezione sulla nuova età dell’oro conseguente alla fine dei conflitti interni: non più scontri politici e soprattutto non più le devastanti guerre civili del passato,  un lungo periodo all’insegna delle  virtù civili e della giustizia con la prosperità diffusa. La” pax, felicitas temporum, pietas” viene evocata dai grandi poeti Virgilio, Orazio e Ovidio con immagini di tono idilliaco. Sembra realizzarsi il sogno utopico di  frutti della terra copiosi senza lavoro umano, e tutto questo si esprime nelle decorazioni e nei fregi che evocano l’abbondanza  di doni della natura. Vengono citati i rilievi dell’Ara Pacis con le immagini di pace e  giustizia, vediamo le figure floreali nelle lastre campane esposte. Di particolare importanza i rilievi “Grimani”, con animali ritratti mansueti mentre allattano, siano essi la pecora o la leonessa e la cinghialessa. Non manca il richiamo alal realtà, sono le  sculture degli Horti Sallustiani, sulla Niobe in fuga, ferita e morente.

Il lusso nella vita privata e l’eco nelle province

Prosperità e benessere, insieme alla pace e serenità si traducevano in forme di lusso nella vita privata, in particolare nelle ville degli aristocratici, che peraltro avevano comportamenti da soggetti pubblici anche nelle loro abitazioni perché ricevevano tutte le mattine i clientes come loro patroni. In mostra non vediamo le grandi pitture delle Ville romane, visibili in loco o nei musei dove sono esposti grandi pannelli di affreschi staccati, ma una vasta oggettistica di gran pregio:

Una serie di crateri di varie forme e coppe in ceramica sigillata, poi oggetti in alabastro e cristallo di rocca nonché in vetro monocromo e in vetro-cammeo fino ai prodotti di oreficeria, dalle armille agli orecchini, dalle collane alla “Bulla aurea” contro l’invidia; e poi tripodi, sedie e sgabelli. E soprattutto i pezzi pregiati della collezione di Boscoreale, di tale valore da essere definito il Tesoro, costituito da vasellame in argento lavorato di elevata fattura e qualche pezzo d’oro. Questo si trasmetteva anche nel culto dei defunti, sono esposte urne funerarie con vasto corredo di oggetti.

Le province sottomesse a Roma si ispiravano alle realizzazioni scultoree e architettoniche del centro dell’impero. Si ricorda che  per ornare il triportico della capitale della Lusitania in Spagna fu preso a modello il foro di Augusto. Sono esposte in mostra le statue di Anchise, Enea ed Ascanio in fuga da Troia e viene affermato che si sono rinvenute nella provincia statue togate  e abbigliate con un mantello di lana come a Roma  per i summi viri e i Re.  Ciò è stato riscontrato anche in Gallia e in Italia meridionale. Sono esposti anche l’altare dei cigni e l’altare ad Apollo ad Arles in Gallia e un rilievo da Pozzuoli con la personificazione di una provincia sottomessa.

La morte di Augusto  e la proclamazione a “divino”

L’ultima sezione è dedicata alla morte di Augusto, il 14 d. C.  a Nola,  in presenza della moglie Livia e del figlio Tiberio,  aveva 76 anni.  Esequie di grande solennità, prima il trasporto della salma fino a Roma per alcune settimane, poi la processione dalla casa al Palatino fino al Campo Marzio dove avvenne l’incinerazione., infine la deposizione dei resti al Mausoleo il 6 o l’8 settembre. La divinizzazione fu pressoché immediata, mentre per Cesare si attesero due anni, per lui soltanto una settimana, il 17 settembre fu proclamato divino, un testimone dichiarò di averlo visto ascendere in  cielo.

Questa sezione conclusiva della mostra vede esposti reperti che riassumono in un certo senso il ciclo augusteo. C’è una statua di Augusto e una di Livia del tipo “orante”, poi la serie di rilievi Medinaceli sulla battaglia di Azio ricomposti per l’occasione, evento questo unico perchè provengono da musei di varie nazioni, Budapest e Madrid. Ci sono soprattutto le navi ma anche varie figure come il generale e il suonatore di tuba, Marte e il personale di culto.

Concludere con la battaglia di Azio, che è stato l’inizio, è una idea originale di una regia che è riuscita nel compito molto difficile di coniugare l’esposizione dei reperti con la narrazione storica. In questo modo si è potuto rivivere un periodo tanto significativo nella storia e nella  vita romana con il corredo delle raffigurazioni nelle forme più varie.

L’arte e la storia, tramite l’archeologia, unite  nel far tornare in vita l’età augustea. Non è più una civiltà sepolta, è apparsa in piena luce con  i suoi valori civili ed artistici che restano impressi nella memoria: l’effetto spettacolare delle sale con le grandi statue non si dimenticherà facilmente.

Info

Scuderie del Quirinale, via XXIV Maggio, 16, da domenica a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-22,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso: intero  12,00 euro, ridotto 9,50 euro, per minori di 26 anni e maggiori di 65, particolari categorie e  gruppi; scuole 4 euro ad alunno, gratuito per disabili e accompagnatore. Tel. 06.39967500; info.sdq@palaexpo.it. Catalogo: “Augusto”,  Electa Editore, 2013, a cura di Eugenio La Rocca,, Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger, pp. 336, formato 21×28. Un altro nostro articolo sulla mostra sarà pubblicato prossimamente nel sito specializzato in archeologia e arte antica “notizie.antika.it” con il titolo “Roma, i reperti di Augusto alle Scuderie del Quirinale”.

Foto

Le immagini sono state riprese alla presentazione della mostra alle Scuderie del Quirinale da Romano Maria Levante, si ringraziano gli organizzatori, in particolare l’Ente speciale Palaexpo, con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta. In apertura, Statua di Augusto da Prima Porta, età tiberiana, seguono Statua togata di Augusto,  Gaio e Lucio Cesare dalla basilica di Corinto, fine I sec. a. C.-inizi I sec. d.C.  e   Statua togata di Augusto con il capo velato, stessa data; poi Statua di Niobide in fuga e di Niobide ferita,  440 a. C., e  Statua di Afrodite detta del Frejus,  V sec. a. C. , quindi Frammento di rilievo dell’Ara Pacis, 13-9 a. C., e Rilievo “Grimani”con la pecora, fine I sec. a. C.; in chiusura, Rilievi Medinaceli con navi, Età claudia. 

Koivisto, Peill, le “Intersezioni”, al museo Andersen

“Intersezioni”, si intitola la mostra di Kaisu Koivisto e Claudia Peill, aperta dal 19 settembre 2014 al 19 gennaio 2014 al museo Hendrik Christian Andersen  di Roma – che fa capo alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna – con Matilde Amaturo e Maria Giuseppina Di Monte  curatrici dell’esposizione e del Catalogo Palombi Editori.  E’ doppia, di due artiste, anzi tripla per la spettacolare esposizione al pianterreno di sculture neo classiche di grandi dimensioni dell’artista scandinavo Hendrik Christian Andersen che ha in comune con Hans Christian Andersen con cui condivide il cognome, la comunicazione a largo raggio: Hans Christian con le fiabe raccontate dall’arte del favoliere, poi trasformate in illustrazioni, cinema e teatro, Hendrick con un mondo arcadico fatto di gigantesche figure di stampo nordico scolpite in una classicità coinvolgente.

Il collegamento delle artiste in mostra con le opere di Hendrik

Si resta sbalorditi dinanzi a tanta magnificenza, soggiogati da un’arte che il gigantismo delle sculture rende ancora più sorprendente perché non perde di qualità e crea -ha scritto una delle due curatrici della mostra Matilde Amaturo –  “un mondo passato in cui l’identità delle figure sfugge a volte a causa del mistero che il tempo trascorso porta on sé, ma che conduce lontano attraverso viaggi, e flussi migratori alla ricerca di un linguaggio artistico unico nel suo genere”.

Ecco come viene collegato al mondo dell’artista scandinavo quello evocato dalle due artiste:

Per Kaisu Kovisto il collegamento si trova nel riferimento all'”Atlante della memoria” ricostruito da Warburg, di un mondo che “solo la mente e la memoria restituisce alla sua bellezza e conoscenza intrinseca”, come fa Hendrick con le sue sculture improntate ad una classicità spettacolare.

In relazione all’altra artista ecco come si esprime sempre la Amaturo: “Così sembra che accada al filtro creato da Claudia Peill nelle sue opere: il soggetto prescelto dalla sua arte si confronta con la realtà, ma sfuma nell’inesattezza dell’immagine rapita dallo scatto fotografico”.

Le opere delle due artiste – legate da 15 anni da un rapporto iniziato nel 1997 con la mostra a Venezia, seguita da mostre comuni a Roma e in Finlandia – trovano il collegamento tra loro e con la sede espositiva nelle “Intersezioni”, nome del progetto nato dalla loro collaborazione. Così ne parla l’altra curatrice Maria Giuseppina Di Monte: “Partendo da ipotesi e assunti equidistanti dalla poetica del norvegese sui generis, Peill e Koivisto hanno reso lo spazio del museo vitale e comunicativo, intessendo con esso una relazione che si traduce in racconto, dipanandosi attraverso le sale e creando quell’atmosfera, più misteriosa per la Peill e più provocatoria per la Koivisto, che è espressione non tanto del singolo pezzo ‘eccellente’ messo in bella mostra, quanto del contrappunto delle voci o ‘note’ che determinano la partitura”. E precisa: “Entrando a volte in  diretta conversazione/opposizione l’una con l’altra, a volte ritagliando per se stesse lo spazio fisico atto a raccontare una parte della storia”.

I reperti bellici e le figure di  animali di Kaisu Koivisto

Kaisu Koivisto ha dichiarato, nel presentare alle curatrici il progetto della mostra, di voler interagire con il museo in un discorso sulla “materia, la materialità, l’utopia e la megalomania”. L’utopia , che in Hendrik riguardava il “Piano di comunicazione mondiale”, nella Koivisto si riferisce alle fantasie liberatorie del comunismo e al rapporto uomo-natura, temi entrambi per i quali le sue opere sono dissacranti e volte a diffondere una percezione ben diversa da quella che si è voluta spacciare.

“Ideologia ed utopia”, 2011, esprime questo in un murale con i missili e carri armati, cannoni e armati della guerra fredda  tra mondo comunista e occidente. Le immagini dei residuati bellici nei parchi pubblici della Lettonia sono altrettanto eloquenti: l’artista ha fotografato le bombe nel 2011, dopo averle dipinte con colori sgargianti e insieme deteriorati, dando ad esse un uso innocuo – cestini di acciaio da rifiuti – che però non cela la loro origine bellica. A queste si accostano le immagini di siti in disuso,  come gli “Hangar per missili” abbandonati nella foresta, con immagini di desolazione che non ne annullano l’inquietante origine. In questo modo il passato entra nel presente ogni volta che è dato di incontrarne le tracce, anzi i fantasmi.

Altri temi dell’artista sono quelli della globalizzazione e del viaggio. Il primo lo esprime in un’installazione del 2013, ideata per questa mostra, “Flood”:  vecchie giacche acquistate di seconda mano o recuperate dai rifiuti, con le diverse provenienze nelle etichette ad esprimere  la diffusione delle merci nel mondo in una comunicazione senza confini e gli eccessi del consumismo.

Il tema del viaggio lo troviamo, in particolare, in “Modello di aeroplano”, 2001, dove un’ala  sostituita dal corno di un’alce, quasi a visualizzare il collegamento che crea con mondi anche lontanissimi come quelli in cui vivono le alci: la natura si innesta a titolo evocativo nella tecnologia esplicitando il rapporto con il mondo naturale da parte dell’uomo in un’evoluzione continua dove l’arte si trova a dover entrare in rapporto con la tecnica.

Ma il mondo naturale è fatto soprattutto di animali, e qui l’arte della Koivisto si manifesta mediante  sculture che utilizzano corna, peli, denti e altri materiali organici, elementi “veri” inseriti in strutture visibilmente artificiali.  E’ l’azione negativa dell’uomo che trasforma la vita in un suo surrogato ingannevole che va smascherato. “I suoi oggetti, scrive la Di Monte, lungi dall’essere ‘indifferenti’, sono inquietanti e deprimenti perché attraverso un linguaggio diretto e icastico ci mostrano le miserie della nostra civiltà”.

Non si creda, comunque, che si tratti di immagini terrificanti, tutt’altro, sono apparentemente aggraziate  in un naif scultoreo in cui l’intelaiatura di ferro – nascosta o in vista – è supportata dai materiali di cui si è detto, in un insieme che rende  inquietante il contrasto tra l’immaginario infantile e la realtà che esprimono: “Immagini quasi fantastiche – scrive la Amaduro – illusioni umane, ambigui giocattoli, frammenti di un’opera industriale, pericolosi elementi di un mondo non più esistente”.  Così’ “Babience”, 2010, “In A Different Light”, 2011, “Puppy 106”, 2012, di  quest’ultima intenerisce lo sguardo indifeso del cagnolino bianco che sembra invocare protezione .

L’artista ha anche un altro modo di rappresentare la realtà del mondo animale deturpata dall’uomo, ed è l’uso delle pelli, vere o finte. Sono finte quelle della serie “Cows in New York City Reintroducing The Species”, 2000, immagini di edifici industriali di sfondo con a terra tessuti a forma del corpo dell’animale per richiamare lo svuotamento, l’opposto del mitico vello d’oro.

Ma l’opera più spettacolare è “Ghost”,  2009, una grande pelle di orso bianco polare, i denti e la lingua ben in vista nella bocca spalancata, nonostante l’espressione feroce è evidente lo svuotamento di ogni forza vitale, emblema dell’assoggettamento che l’uomo ha fatto a se stesso delle specie viventi oltre all’ambiente e alla natura: è posto all’altezza degli occhi perciò incute ancora un’iniziale soggezione, ma è evidente che le pelli consimili sono destinate a camminarci come su un tappeto, questa viene salvata dall’arte che ne fa un testimonianza e un’icona.

La fotografia ritoccata dalla pittura di Claudia Peill

Claudia Peill utilizza fotografia  e pittura in un doppio in cui il passato e il presente sono commisti o sovrapposti: la commistione e la sovrapposizione riguardano tempo e spazio, mondo materiale e immateriale, senza alcun addolcimento virtuosistico della realtà né da un punto di vista della rappresentazione né da quello dei contenuti: non ci si rifugia nell’illusione o nel sogno.

Vi è la trasposizione del mondo reale ripreso dalla macchina fotografica verso un mondo misterioso tutto da scoprire e interpretare, ed è quasi come se volesse occultare la realtà esplorata, in modo speculare rispetto alla Koivisto che invece va a cercare la realtà per esporla come denuncia.

Come occultare ciò che viene fissato nell’obiettivo? Lo fa con la ricerca progressiva dei particolari, siano essi parti del corpo di un’immagine di persona o di singoli in immagini di massa, e con la consapevolezza che anche se è irripetibile il momento fissato nella foto, l’artista lo può trascendere rielaborando l’immagine fino a farne pittura, ed è così che manipola le immagini, in un lavoro di tagli e impaginazioni, sfocature e dissolvenze  da cui si ricava un senso ben diverso dall’originale.

E’ un procedimento che ha analogie e differenze con quello pittorico nel quale anche l’opera nasce dai frammenti di realtà rimasti nelle mente e nella memoria e che l’immaginazione ripresenta per essere poi composti nella creazione artistica; qui i frammenti di realtà sono nelle fotografie che restano tali e devono essere manipolate e trasformate, non trasposte in modo speculare.  In questo la fotografia è concepita come un “medium”  da cui nasce una forma diversa, altra, non riprodotta com’era o come la memoria propone all’artMolte immagini sono collocate in sequenza, in un discorso unitario che nel riprodurre la realtà la supera, togliendola dal proprio contesto: “Claudia Peill – scrive la Di Monte – non è interessata a verificare la realtà attraverso la fotografia, ma  a liberare la fotografia dalla sua funzione convenzionale, documentaria, per potenziarne al contrario il carattere espressivo ed estetico”.  Quindi la realtà che riprende è soltanto la base per una libera ricostruzione senza vincoli “come farebbe uno scrittore che dopo aver preso appunti su appunti, una volta tornato a casa li rileggesse e riordinasse per intessere intorno ad essi la sua trama”.

Consideriamo le varie sequenze esposte per verificare queste  interpretazioni. “Rosa/rosae” e “Giallo limone” presentano due frammenti accostati della stessa immagine, mentre “Onde” è una lunga successione di immagini di particolari di volti, con tatuaggi e percing, cui si alternano parti mono cromatiche con un effetto di divisione della parete in due settori quasi fosse un fregio moderno.  Nelle sue fotografie-pitture sono stati visti rimandi a iconografie, e perfino a capolavori come la “Dama con l’ermellino” di Leonardo.  Non c’è una gerarchia tra struttura compositiva e particolari ornamentali, questi ultimi hanno pari dignità come nelle primitive decorazioni corporee, si afferma che il dipingersi il volto da parte ad esempio degli antichi Maori, voleva dire ricrearlo.

Ci sono anche serie fotografiche che abbinano motivi personali a richiami al passato, come in “Città delle ombre bianche”, 1906, con elementi architettonici e colonne ripresi in Libia dai resti di Leptis Magna, un legame tra passato e presente che si succedono nella continuità.

Nelle ultime opere del 2013 quando si concentra sugli elementi strutturali  sceglie quelli apparentemente  insignificanti, come nel caso degli ornamenti, il cui ruolo invece risulta fondamentale come “cerniera”.  La Di Monte al riguardo cita il “Grande Vetro” di Duchamp, l’artista del ready made attirato anch’egli dagli aspetti meccanici e fisici legati alla realtà nelle sue espressioni apparentemente banali: come banali in chiave artistica sarebbero le viti, i bulloni e i tubi di alcune opere della Peill. Lo vediamo in “Extratererstre” e  “Pianeta solitario”, forme spaziali in una tinta neutra che crea un’atmosfera  misteriosa, “Orizzontale/verticale” e “Contro il cielo”, intelaiature quasi monocromatiche;  “Blinky” e “Radius”, “Cobalto” e  “Minio”, “Nido d’ape” e “Piramide”, campiture monocromatiche e leggere elaborazioni modulari.

Tutto da interpretare nel suo enigmatico ermetismo, alla luce dell’impostazione cui si è accennato.

Le sculture giganti di Henrik Christian Andersen

Uscendo dalla mostra non ci si può non affacciare al salone del  pianterreno con le grandi statue in gesso e marmo, terracotta e bronzo,  di Henrik Christian Andersen, riunite nell’utopistica  idea del Centro Mondiale di Comunicazioni: figure mitiche e leggendarie, storiche o della vita quotidiana, dei primi del ‘900..

Si staglia la statua di “Washington e La Fayette” a fianco di quella di persone che frequentavano l’artista, poi la rappresentazione decolla verso figurazioni altamente simboliche; dalle raffigurazioni religiose della “Sacra famiglia” e “La Pietà”,  “San Giorgio e il drago” e  “L’Angelo e la vita”, a  quelle della “Gioia di vivere” e della “Sirenetta”,  poi “Preghiera” e “Maternità”, “Famiglia” e “Fratellanza”, a quelle sull’amore, dalla dea ” Venere” ad “Amore e Psiche”, fino al “Bacio” in varie espressioni calde e sensuali.

C’è anche l’“Onda”, titolo che la Peill – come abbiamo visto – ha dato a una propria sequenza fotografica, qui fissata in una grande creazione scultorea.

E’ un’onda di emozioni, in effetti, quella che ci accompagna all’esterno, sulla via Flaminia. Il tram, uno dei pochi rimasti nella Capitale, ci fa sentire ancora ai primi del ‘900, restiamo legati alle immagini scultoree di Hendrik che ci hanno catturato con la loro imponenza, mentre il pensiero torna anche alle sequenze delle Peill ed alle composizioni della Koivasto in un sovrapporsi di passato e presente. Nel tram del Flaminio questa compresenza si manifesta materialmente, ci saliamo come fossimo ancora nel mondo dai lampioni a gas che non c’è più ma rivive in noi. E’ la forza dell’arte che aiuta la memoria a ricordare, la mente a pensare, il cuore a immedesimarsi.

Info

Museo Hendrik Christiasn Andersen, Roma, via Pasquale Stanislao Mancini, 20, pressi di piazzale Flaminio. Dal martedì al venerdì ore 9,30-18,30, ultimo ingresso ore 18,00; sabato e  domenica ore 9,30-19,30, ultimo ingresso ore 19,00;  lunedì chiuso. s-nam.museoandersen@beniculturali.it. Tel. 06.3219089. Catalogo: Kaisu Kovisto/Claudia Peill, “Intersezioni”, a cura di Matilde Amaturo e Giuseppina Di  Monte, Palombi Editori, settembre 2013, pp.144, da cui sono tratte le citazioni del testo. Bilingue italiano-inglese. Formato  21×26.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  nel Museo Henrik Christian Andersen all’inaugurazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori, la Gnam e i  titolari dei diritti per l’opportunità offerta, in particolare le due artiste Koivisto e Peill che hanno accettato di farsi riprendere da noi davanti alle loro opere. In apertura, di Kaisu Koivosto, “Ghost”, 2009, in fondo dopo gli archi, di Claudia Peill, a sin. “Pianeta solitario”, a dx  “Extraterrestre”,  2013; seguono la Koivisto tra “Bambience”, 2010, alla sua dx, e “Starry Eyes”, 2012, alla sua sin, e il suo “Bombé”, 2011-12, poi la stessa Koivisto con “Puppy 106”, 2012; quindi Claudia Peill con “Blinky”, 2012, e il suo “Orizzontale/verticale”, 2013, poi la stessa Peill con il suo “Nido d’ape”, 2012; in chiusura una veduta parziale delle imponenti opere scultoree di Herik Christian Andersen nel museo al pianterreno.

Giosetta Fioroni, monocromie e ceramiche, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 26 ottobre 2013 al 26 gennaio 2014 l’opera di Giosetta Fioroni in due  esposizioni strettamente collegate: “L’argento”, curata da Claire Gilman, sulle pitture monocrome e i disegni; e “Faience”, curata da Angelandreina Rorro, sulle ceramiche con Teatrini e Vestiti,  le figure femminili policrome dal titolo tra il sostantivo e il participio. Per la mostra è uscito il libro “My story, la mia storia”, con le sue confidenze sui 60 anni .di vita artistica.

Due mostre in una per la doppia  espressione di Giosetta Fioroni,  che riflette motivi legati alla sua arte e anche alla sua vita. Argento e ceramica come mezzi espressivi della sua passione per le forme teatrali,, considerando che il padre modellava figure in argilla per il teatro di burattini allestito dalla madre:  figlia d’arte con i genitori che si erano conosciuti all’Accademia delle Belle Arti di Roma.

La sua vita artistica incrocia molto presto le  avanguardie americane della Pop Art insieme agli artisti che con lei animavano la galleria “La tartaruga” e la scena artistica romana, dal gallerista Plinio De Martiis con il collezionista Giorgio Franchetti agli artisti Mario Schifano e Tano Testa, Franco Angeli e Jannis Kounellis, uniti nella cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”, dal luogo dei loro incontri quotidiani.

Ci fu un forte influsso americano, ma non tale da far abbandonare il figurativo né a lei né agli altri artisti romani, loro tra gli elementi della Pop Art inserivano sfondi o contorni legati a immagini familiari. La Fioroni visualizzava queste immagini con un montaggio di simboli quasi geometrici mentre  la spinta dell’arte informale in Europa traduceva l’espressionismo astratto d’oltre Atlantico. Vi erano  resistenze a recepire la Pop Art  in un rapporto quasi di amore-odio; attrazione per la sua carica innovativa e senso di repulsione per l’incultura artistica del mondo che l’aveva generata.

La risposta fu di cogliere la sfida recependone le novità rivoluzionarie, ma senza accettare la spersonalizzazione del soggetto dominato dall’oggetto  per il consumismo alienante: l’oggetto è sempre protagonista ma vi è la costante presenza del soggetto, quella che conta è la percezione che ne ha. In questo l’artista è stata esemplare, come ha scritto Renato Barilli: “In un’epoca in cui il valore visivo è fortemente screditato, Giosetta Fioroni coraggiosamente afferma la sua fedeltà alla vista”, e aprecisa:”Abbiamo qui una sfida costante a quelle correnti che oggi credono  sia impossibile per l’artista lavorare secondo i normali atti della percezione”.  E anche se la vista rischiava di essere “sedotta e dominata dal suo oggetto”, costituiva pur sempre “le basi della consapevolezza critica e del giudizio”.

C’era molta sensibilità su questo piano, perché se il “regime del consumo” sembrava aver sostituito il regime politico abbattuto dalla guerra, si sentiva il bisogno di costruire qualcosa di solido, come espressione di esattezza e geometria, per raggiungere un risultato di armonia. Lei stessa nel 1960 dice: “Cercavo la leggerezza , qualcosa che proprio trascorre, qualcosa che potrebbe essere immaginato come una serie di inquadrature… Sono tutte pose congelate… miravo proprio a creare una sensazione di fissità, di fissazione intesa come immobilizzazione del movimento”.

Così nasce, nel 1959 la sua “pittura argentata all’alluminio”, cioè il suo “Argento”.

“Argento”,  i volti nella pittura monocromatica

Claire Gilman, curatrice della mostra “Argento”, cita la definizione data dalla stessa artista: “Un ‘non colore'”  tale da cancellare  i colori di cui si era abusato fino ad allora, e che “avrebbe attirato l’attenzione, la percezione, delle persone che osservavano le mie tele”. Ed ecco  l’interpretazione della Gilman: “L’‘argento’ di Giosetta Fioroni rappresentava una sorta di evacuazione, una rimozione, che la condusse dai primi disegni a una serie di immagini spoglie in cui l’artista isolava i singoli oggetti ritratti nei primi lavori, come un letto, una lampadina o un cuore, e li posizionava su superfici che per il resto erano vuote”. 

Così nascono i primi tre monocromi argentati  del 1960,  tele argentate che incorporano disegni, linee che interrompono la superficie continua,  torna al figurativo con figure in argento e grafite isolate. In “Tre bambini”, 1961, le figure non rappresentano tanto la propria realtà quanto il modo con cui ne è percepito il ricordo in un esercizio della memoria che attraversa il tempo e lo spazio.

Negli  anni ’60 si moltiplicano le immagini di volti, riprese da fotografie di  varia provenienza, familiari, anonime, storiche; e soprattutto modelle prese da riviste di moda  e dipinte in color alluminio sulla base di disegni dai contorni netti ma schematici e abbozzati, senza alcun precisionismo. Citiamo l’anonima “Ragazza con occhiali” (1965) e “Lo sguardo”, 1966, stessa  persona;  poi l’attrice Elsa Martinelli, molto in voga in quel periodo, un’eccezione  tra i volti sconosciuti dipinti dall’artista: la vediamo  nei due “Libertà”, del 1964 e 1965, che ricordano l’immagine da una lente telescopica , e nel grande “Glamour”, 1965, in cui il viso emerge  tra un groviglio di linee, “come un sole all’orizzonte”, commenta la Gilman, aggiungendo: “A dire il vero, da sotto queste linee i volti dipinti di Giosetta Fioroni appaiono sospesi, i loro toni argentei ricordano emulsioni fotografiche trasferite sulla superficie della tela”..

L’origine è  fotografica  e le immagini sono quasi incorporee, dall’espressione intensa, triste.  A differenza dei ritratti di Andy Warhol, che ebbe molta influenza su di lei, i suoi non riguardano celebrità – a parte l’eccezione ricordata – e sono realizzati con incisioni su superfici monocrome in cui i ritratti si incorporano. Le diverse versioni dello stesso soggetto non sono mere ripetizioni  come in Warhol ma presentano varianti, come si vede in “Maschera” e “Doppia Maschera”, 1966.

Nel citare “Libertà” e “Glamour” abbiamo sottolineato l’effetto da lente telescopica nel primo, e l’emersione da un groviglio di linee del secondo. Ebbene, questo processo visuale fu portato avanti nell’esposizione “Teatro delle Mostre” presso  “La tartaruga” con una lente telescopica rovesciata in uno spioncino da cui si vedeva  la propria stanza da letto nella galleria, un’attrice simulava i suoi movimenti nella giornata. Abbiamo ritrovato lo spioncino  nella mostra di Duchamp, la Fioroni è stata inclusa tra gli artisti italiani a lui collegati, titolodell’installazione “La spia ottica”.

Non fu un  caso isolato, l’idea dello spioncino l’ha utilizzata per la visione di teatrini o di set su eventi trasformati in scene teatrali visibili con questo accorgimento. Alla base di tutto ciò c’è il racconto, con l’intento di osservare la realtà e riprodurla trasformata offrendola alla visione. La Gilman ricorda le parole dell’artista secondo cui disegnare è servito da “impalcatura o supporto'”, e vi vede ” un terreno per le sue impressioni passeggere e un mezzo per avvicinarsi a un mondo sempre sfuggente”.

“Faience”, Teatrini e Vestiti in ceramica

A questa incursione nel teatro si collega la seconda mostra, “Faience”,  che presenta la serie  “Teatrini” in ceramica, insieme  alla serie “Vestiti”,  ispirate al periodo presso la Bottega Gatti di Faenza, esperienza che ci ricorda quella di Sebastian Echuarren, anche’egli approdato nella stessa bottega faentina alle sculture in ceramica in aggiunta alla sua produzione pittorica e a tutto il resto.

Questa esperienza della Fioroni risale a vent’anni fa, e  a differenza dei disegni e dipinti della serie “Argento”  degli anni ’60, evanescenti o solo abbozzati, mostra, soprattutto nel “Vestiti”,  una forza pittorica precisa e ben definita, dai colori molto intensi.

La precisione delle sculture policrome e l’evanescenza monocroma dei disegni e dipinti  non vengono visti come contrapposti da Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Galleria: “‘Argento’ e ‘Faience’ possono ritenersi i due versanti di un unico evento: l’apparizione”.

In particolare: “Nei dipinti d’argento l’apparizione è intesa come illusione del vedere, vaga traccia  di un’immagine che non si sa bene se stia per comparire o per svanire, immersa in quella che Goethe chiamava la ‘chiarezza nebbiosa’ del paesaggio mediterraneo, sfocato per eccesso di luce. Nei ‘Vestiti’ invece l’apparizione è presenza immaginaria, che oscilla fra evocazione e meraviglia, conservando ‘un’aura conturbante di sortilegio’, secondo un’espressione di Giuliano Briganti”.

Alla base c’è un processo speculare: “Nel primo caso è la realtà che perde consistenza, nel secondo è la fantasia che si solidifica, ma in entrambi siamo trasportati in una zona incerta, indistinta, percorribile solo con lo sguardo interiore della memoria o nell’immaginazione”: sono “varianti sentimentali” per la Fioroni, considerate  “sentimenti spazializzati, atmosfere” dalla Clarelli.

Tenendo conto di queste considerazioni va sottolineata la svolta figurativa e cromatica data anche dalla tridimensionalità delle opere in ceramica: bassorilievi nei Teatrini, statue a tutto tondo nei Vestiti, in cui l’artista si cimenta con il corpo femminile, non solo nella forma della figura ma anche nell’abito che lo copre ed ha un ruolo fondamentale con la sua ricchezza cromatica e ornamentale.

I Teatrini sono allineati nella grande sala della mostra, varietà nella ripetizione del tema, un’esposizione suggestiva. C’è “East of Even”, 1993, uno dei primi realizzati, e “Al grandissimo Arturo M.”, dedicato allo scultore Arturo Martini, 1994, poi i più grandi tra il 2000  e il 2005, ispirati ai racconti di Goffredo Parise e ai suoi primi due romanzi. Ci sono anche teatrini più piccoli quasi miniature di 25 cm, realizzati nel 1995 per l’editore Andrea Franchi, sono le “20 ceramiche per William Shakespeare”, ciascuna ispirata a un’opera di cui viene visualizzato l’elemento chiave. Altri teatrini simili a delle scatole sono ispirati a poemi scenici di Auden,  Marcovaldi, e Arbasino.Questa sezione pur spettacolare, è addirittura superata nell’effetto visivo da quella dei Vestiti: una folla di statue di figure femminili elegantissime fortemente colorate, “semplicemente immobili nel loro portamento”, come l’artista scrisse a  Davide Servadei. Così parla la Clarelli dei corpi femminili vestiti: “Più che fermi paiono fermati, come sulla soglia di una sala da ballo o di un palcoscenico, prima di alzare le gonne e inchinarsi. Sono gli abiti che tutte le bambine, prima o poi, hanno sognato, con le gonne danzanti a campana. Sono bambole al contrario, che hanno tramutato in porcellana ciò che di solito è di stoffa e perduto ciò che di solito è di porcellana”.

Oltre alle bambole fanno pensare ai manichini vestiti con gli abiti realizzati dalla sartoria e anche, con maggiore fascino evocativo, al mondo delle favole: d’altra parte c’è anche Cappuccetto rosso, una delle ultime opere di questo tipo dell’artista, che nel 1978 aveva illustrato il libro di favole di Alberto Arbasino dal titolo  “Luisa col vestito di carta”, con in copertina un abito vaporoso senza corpo trattandosi di una storia di fantasmi e, ancora più indietro nel tempo, nel 1967 aveva disegnato i costumi dell’opera “Carmen”, per la  regia dello stesso Arbasino.

Non solo persone anonime o favole come Cappuccetto rosso, otto statue di “Vestiti” sono dedicate a eroine della letteratura, protagoniste di opere di Ippolito Nievo e Goethe, Turghenev e Musil, Wedekind e Henry James, Theodor Fontane e Kawabata: sono la Pisana e Ottilia, Zinalda e Agathe, Lulù e Daisy, Effi e Komako.

In una conversazione con Angelandreina Rorro l’artista spiega con ampiezza e profondità il suo rapporto con la ceramica, iniziato per una circostanza molto particolare: la realizzazione nel 1992 per l’editore Maurizio Corraini di un teatrino in ceramica presso la Bottega Gatti di Faenza dove inserire le 100 copie numerate del libro sull’amico Guido Ceronetti “Marionettista, nell’alchimia figurativa di Giosetta Fioroni”.

Ricorda con emozione “l’iniziatico momento di affondare le mani nella creta fresca, di modellare questa creta come ‘prelibata vivanda’” e la sua successiva frequentazione della Bottega  realizzando una “ceramica iperpittorica” come “un’unione di pittura e scultura”,  ma senza abbandonare il disegno: anzi in alcune sue ceramiche i particolari sembrano più disegnati che scolpiti, e cita i 60 bassorilievi del 1965 sul Cane con tanti elementi “disegnati”, animaletti, scalette ecc.

L’artista tiene a sottolineare che le sue sono serie di opere ma non multipli,  ognuna è un originale diverso dagli altri, anche se spesso le differenze sfuggono ma ci sono in elementi apparentemente simili, come nei “Teatrini” e nei “100 alberi”, intesi come “omaggio alla natura in senso lato… natura umana, sentimenti, eventi dell’immaginario, mondo fiabesco”.

In questo sta forse la chiave dell’evoluzione dalle figure essenziali e monocrome degli anni ’60 al tripudio di forme e di colori delle ceramiche, un’apertura dettata anche dall’immersione nella natura della campagna trevigiana negli anni ’70 con Goffredo Parise che scriveva i  racconti “Sillabari” ,in un ambiente divenuto ancora più suggestivo per le storie e leggende narrate dai vecchi contadini.

La ceramica, del resto, per l’artista “è di per sé adatta  a proporre l’elemento metafisico, il sogno, la fiaba la chimera e tanto altro”. E può rendere con “levità e grazia” la metafora della vita. Questo dice  a conclusione della conversazione con la Rorro, e ci sembra possa essere anche la nostra conclusione: “Io ho sempre avuto il ‘Teatro della vita’ in mente. Mi spiego: ho cercato di dotare il lavoro, i singoli pezzi, le varie serie di opere, di intendimenti che proponessero un sentimento, oltre la pura apparenza, oltre il loro semplice comparire. Ho tentato… e, chissà, speriamo un poco di esserci riuscita a raggiungere una vaga metafisica, ho cercato di raccontare quel lieve senso di Mistero che aleggia intorno e oltre la realtà”. Speriamo anche noi di essere riusciti a rendere qualcosa di questa poetica leggera e insieme profonda che anima il mondo di Giosetta Fioroni.

Info

Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, Roma, Viale delle Belle Arti, 113. Dal martedì alla domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima), lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 10,00, ridotto euro 8,00, scuole euro 4,00. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/.  Per la mostra è uscito il libro Giosetta Fioroni, “My Story, la mia storia”. Corraini Edizioni, 2013, pp. 304, euro 30,00, formato 16,5×23,6. Per le ceramiche di Echaurren, citato nel testo, cfr. i nostri 3 articoli sulla sua mostra di Roma in questo sito il 23 novembre, 30 novembre e 14 dicembre 2012, in particolare il secondo, “Echuaurren, la natura e la ceramica”. Per la Pop Art e i movimenti d’avanguardia americani cfr. i nostri 3 articoli sulla mostra con opere del Guggenheim, il 22 e 29 novembre  e l’11 dicembre 2012, in particolare il secondo, “Guggenheim, dall’espressionismo astratto alla Pop Art”; infine per i movimenti di  arte contemporanea italiana dal dopoguerra cfr. i nostri 2 articoli in questo sito il 5 e 6 novembre 29012, sull'”Astrattismo italiano”della mostra alla Gnam per il 60° di Editalia.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna all’inaugurazione, si ringrazia la Gnam con  i titolari dei diritti,per l’opportunità offerta.In apertura, una panoramica dell’esposizione di ceramiche “Vestiti” e  “Teatrini” in fondo, della mostra “Faillence”; seguono 4 ritratti femminili di “Argento”, poi due “Teatrini”; in chiusura una visione ravvicinata di “Vestiti”.

Cézanne, e gli artisti italiani, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Raccontiamo la visita alla mostra aperta al Vittoriano, lato Fori Imperiali,  dal 5 ottobre 2013 al 2 febbraio 2014  dedicata a  “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900“:  100 opere tra cui 20 di Cézanne e  80 di 18 artisti italiani del ‘900  a lui ispirati, distribuite in 4 sezioni tematiche sulla natura morta e il paesaggio con 30 opere ciascuna, il ritratto e il nudo rispettivamente con 20-22. Maria Teresa Benedetti è la curatrice della mostra e del Catalogo Skira,  coordinatore generale Alessandro Nicosia,  presidente  di “Comunicare Organizzando”  che l’ha realizzata.

Iniziamo la visita concentrandoci sulle opere di Cézanne esposte nelle 4 sezioni, senza farci sviare dagli artisti italiani  su cui ritorneremo al termine della visione del solo grande maestro. Il motivo della scelta è evidente,  cercare di riscontrare nella pratica della sua arte quanto sotto il profilo dello stile e del contenuto abbiamo già raccontato sulla scorta della critica colta di ieri e di oggi nel servizio precedente. Sarebbe stato più difficile sovrapporvi di volta in volta gli altri artisti ai quali abbiamo dedicato un secondo giro che racconteremo dopo il primo giro  relativo a Cézanne.

Le opere di  Cézanne nelle 4 sezioni della mostra

Ecco  la sezione dedicata alla natura morta, con 30 quadri, 3 di Cézanne. E’ un tema al quale dedicò più di 300 opere, tra oli e acquerelli, un quinto del totale. Nelle sue composizioni, con la semplicità ricercava le geometrie della natura: disse di  “modulare”con il colore  i volumi solidi, invece di “modellarli” con il chiaroscuro, per avvicinarsi al processo naturale; in un ordine ed equilibrio compositivo che esprimeva la sua visione interiore del mondo; basata sull’attenzione ai particolari della composizione, come alla prospettiva e al cromatismo.

Sono esposte due sue opere molto rappresentative, “Il buffet”, 1877-79 e “Frutta”, 1879-80,  nelle quali si manifesta la sua attenzione al rapporto degli oggetti con lo spazio, la linearità delle forme  e il forte cromatismo che dà rilievo ai volumi dei frutti disposti sulla bianca tovaglia che li contiene con le sue curve ponendoli in primo piano in una composizione precisa e ordinata. Inoltre “Teschio e bollitore”, 1864-65, tinte neutre in una composizione dai forti contrasti di luce.

La sezione sul paesaggio tra le  30 opere esposte,  presenta  8 dipinti di Cézanne e 1’acquerello e matita su carta, “Alberi e rocce”, 1887-90, appena abbozzato ma suggestivo nella sua dissolvenza.  Questo tema, al centro della sua produzione artistica, raffigura  la sua terra natale, Aix in Provenza, con la campagna mossa e frastagliata, e la vegetazione nel sole abbagliante,  nonché il paesaggio cittadino di Parigi, con Montmartre e la Senna, il bosco di Fontainebieau e le acque della Marna.

E’ una  pittura in cui si esprime il forte impatto emotivo che riceve dalla natura: ma non si limita a rappresentare l'”impressione” che ne deriva:  ne fa la manifestazione dei sentimenti interiori nella composizione e nell’armonia cromatica delle macchie di colore, mantenendo sempre la sintonia con ciò che colpisce i suoi sensi, in un’evoluzione nel tempo dalla linearità iniziale alla crescente complessità del cromatismo. Molto lineari sono “Paesaggio nella campagna di Aix,: la torre di Cesare”,  e “Paesaggio”, 1863-65;  la linearità c’è anche in “I ladri e l’asino”, 1869 con l’elemento umano e in “La strada in salita”, 1881,  mentre sopravviene la prevalenza delle macchie di colore sulla forma definita, prima nelle rocce in primo piano di “Rocce all’Estaque”, 1882-85  che relegano il mare a una striscia di azzurro, poi nel verde dell’“Interno di una foresta”, 1885,  fino alla quasi astrazione cromatica in “Paesaggio blu” e “Il monte Cengle”, 1904-06.

Nella sezione dei Ritratti , sulle 20 opere esposte, quelle di Cézanne sono 3 dipinti e 1 piccolo acquerello e matita su carta “Ragazzo che legge”, 1985, quasi sperimentale, teso a dare il senso dei volumi senza potersi distinguere il volto. Nei 3 dipinti  si esprime sia la sua concezione del ritratto, sia l’evoluzione nel tempo. La ricerca di esprimere il carattere e l’interiorità della persona raffigurata lo porta a richiedere lunghe sedute di posa nell’immobilità, quasi fossero sedute psicanalitiche; nello stesso tempo lo sfondo viene ridotto a pochi tratti senza profondità in modo da far risaltare il soggetto, che in genere era da lui ben conosciuto o suo parente, a parte gli autoritratti in cui rendere il proprio carattere di persona tenace, diffidente e solitaria. Questa caratteristica di penetrazione interiore la vediamo in “Victor Chocquet”, 1877,  amico e collezionista di sue opere, immagine ben definita di persona pensosa ed enigmatica, mentre  in “Il giardiniere Vallier”, 1906, nell’immagine non spiccano i tratti espressivi, colpisce il biancore della figura come della barba in una composizione di macchie confuse e incerte, siamo nell’ultimo anno di vita: è uinvece del periodo iniziale  “Il negro Scipione”, 1866-68, a metà col ritratto, il soggetto è visto di fianco a schiena nuda mentre riposa con la testa sul braccio.

L’ultima sezione  è quella dei Nudi, delle 22 opere, 6  sono di Cézanne. Dai suoi nudi  emerge un senso di armonia e di compostezza, la sintonia con la natura si esprime nel rapporto tra il dinamismo dei corpi e la vegetazione che non è uno sfondo neutro e indistinto come nei ritratti, ma soggetto essa stessa della composizione. I corpi statuari accentuano il senso di classicità dell’insieme, sono corpi femminili in “Bagnanti”, 1983-87  e “Betsabea”, 1887-90,  corpi maschili in “Piccoli bagnanti”, 1896-97 e “Grandi bagnanti”, 1896-98, e figure miste più indistinte in “Bagnanti”, 1892,  che in “Schizzo di bagnanti”, 1900-06 sono appena abbozzate.

Ci limitiamo ad un

Rapido excursus sui 18 artisti italiani in  mostra

Abbiamo percorso le quattro sezioni enucleando le opere di Cezanne, il protagonista assoluto. Ma gli altri “espositori” non sono semplici comprimari: sono grandi artisti italiani nelle cui opere si possono vedere i riflessi del suo stile, dalle composizioni delle forme e dei volumi al cromatismo,

Ed è questo il grande interesse della mostra, la ricerca su cui si basa compiuta non è chiusa in se stessa, ha selezionato le opere in cui ha percepito la penetrazione di Cezanne nella pittura italiana e le ha sottoposte al pubblico perché si faccia una propria idea degli aspetti in cui tale influenza si manifesta; in una ricerca personale con la visione ravvicinata che rende ancora più affascinante il percorso espositivo. Il visitatore si sente protagonista attivo piuttosto che spettatore passivo.

Non è poco considerando i nomi degli artisti italiani, rappresentati con un numero consistente di opere sui soggetti delle quattro sezioni. Ci sono  13 dipinti di Carlo Carrà e 10 di Giorgio Morandi, 7 di Mario Sironi e – i  numeri si riferiscono ad ogni autore – 6 di Gino Severini e Francesco Trombadori, Felice Carena e Fausto Pirandello, 4 di Umberto Boccioni e Felice Casorati, Giuseppe Capogrossi e Franco Gentilini, 3 di Ottone Rosai e Roberto Melli, 2 di Ardengo Soffici e Antonio Donghi, 1 di Filippo De Pisis, Corrado Cagli e Roberto Francalancia.

Sarebbe velleitario se volessimo avviare una comparazione tra Cezanne e i grandi artisti italiani e tra di loro sui quattro temi,  è un invito rivolto al visitatore perché in questo c’è l’interesse ulteriore della mostra oltre quello insito nella vista di tanti capolavori. Il succedersi delle nature morte fa sentire al centro di un immenso ideale convivio alla sua conclusione, quando si giunge alla frutta; l’immersione nel paesaggio è straordinaria, dalle pareti con i dipinti su questo tema ci si sente attirati nel verde e negli ambienti proposti in tante forme; i ritratti ci danno un campionario di volti e di figure da scorrere cercando di penetrarne i caratteri al di là degli atteggiamenti;  mentre i nudi fanno entrare in una dimensione spesso arcadica e classica legata al mito,  non scevra da un naturale erotismo.inquadramento degli artisti italiani, citando  il numero delle opere esposte nelle 4 sezioni iniziando dallo “scopritore”  di Cezanne per l’Italia in veste di critico, Ardengo Soffici, di cui sono esposti 2 paesaggi nei quali l’influsso stilistico e compositivo è evidente.

L’artista più rappresentato in mostra è Carlo Carrà, che fa di Cezanne l’ispiratore, esaurita la fase metafisica della sua vita artistica, soprattutto per i paesaggi degli anni ’20,  con i volumi essenziali dai quali traspirano forti contenuti: ne sono esposti 7;  insieme a 3 nature morte, 2 ritratti e 1 nudo la cui assonanza competitiva è straordinaria con le “Cinque bagnanti” di Cezanne non in mostra.  

Anche a  Boccioni  l’influsso di Cezanne  offrì la sponda per superare la propria linea pittorica,  come l’artista francese era andato oltre l’impressionismo, lui andò oltre il futurismo per il quale era sopravvenuta una stanchezza anche in ragione delle esperienze di vita, come la guerra, che ne raffreddarono gli entusiasmi. I 3 ritratti e 1 natura morta sono composti dalle macchie di colore.

Di Giorgio Morandi va detto che ne fu attratto subito in età giovanile, dal 1911 lo considera suo Maestro, lo si vede in misura diversa nelle 6 nature  morte, nei 3 paesaggi e 1 nudo.

Gino Severini merita un discorso a sé,  riteneva che Cezanne per il modo con cui dipingeva fosse sempre dominato dalla “sensazione” di tipo impressionista, tuttavia nelle sue opere ne è influenzato per quanto riguarda composizione e atteggiamenti; sono esposti  5 ritratti e .1 natura morta.

Per Mario Sironi la monumentalità e il classicismo delle figure richiamano  aspetti dei ritratti e dei nudi di Cezanne: lo vediamo nei 3 nudi esposti, con 1 natura morta e 2 paesaggi. Molta assonanza anche nei 3 nudi di Fausto Pirandello, di cui sono presentate anche 2 nature morte e 1 ritratto.

Felice Casorati sviluppa in senso metafisico l’osservazione della realtà tipica di Cezanne soprattutto nelle 2 nature morte,  mentre 1 nudo mostra assonanze compositive non stilistiche, come 1 ritratto esposto. Lo stesso si può dire per i 3 nudi di Filippo Carena, esposti con 3 nature morte una delle quali reca un teschio sia pure ben diverso da quello del quadro di Cezanne, la sua vicinanza all’artista francese inizia dal 1913 con le mostre della Secessione da lui organizzate. .

Le opere di Giuseppe Capogrossi, 3 nature morte e 1 nudo presentano un interesse in più,  l’influenza sul figurativo giovanile che sarà superato per una strada inconfondibile, personalissima.

Gli artisti della scuola romana ne risentono l’influsso sia nell’approccio volumetrico sia nell’intensità cromatica, con un risultato di evidente plasticità. Lo vediamo nelle 3 nature morte, 1 ritratto e 1 paesaggio di Francesco Trombadori, in 1 natura morta e 1 paesaggio di Antonio Donghi, in 1 paesaggio, lineare e stilizzato, di Riccardo Francalancia.

Di Franco Gentilini manca la natura morta, ci sono 2 paesaggi con evidente influenza dell’artista francese, 1  nudo che ha assonanze compositive, poi 1 ritratto molto figurativo e ben definito.

Invece nei 3 ritratti di Roberto Melli c’è la carica di modernità e innovazione in senso cubista in cui si sente l’influenza di Cezanne.

Restano da citare due artisti con una sola opera esposta in cui l’influsso è evidente, sono Filippo De Pisis con 1 natura morta, e Corrardo Cagli con 1 nudo.

L’excursus non può rendere il senso di  una visita che ci ha lasciati senza fiato, tale è stata l’emozione nel vedere le opere di tanti grandi artisti poste in ideale raffronto per i quattro  temi evocativi e suggestivi, natura morta e paesaggio, ritratto e nudo. La  speranza è di aver trasmesso un po’ della nostra emozione al paziente lettore, e soprattutto di averlo preparato alla visita a  una mostra così istruttiva e spettacolare imperniata su Cezanne ma aperta alla pittura italiana del ‘900.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali,  Aperto tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-23,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00 intero, 9,00 ridotto a determinate categorie. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900”, a cura di Maria Teresa Bernardini, Skira Editore, settembre 2013, pp. 286, formato 24×27.  Cfr. su questo sito il 24 dicembre 2013 il primo articolo “Cézanne, la sua arte e la pittura italiana, al Vittoriano, con 6 immagini, 4 di opere di Cézanne una per ogni tematica, e 2 di artisti italiani sui temi:  natura morta e paesaggio. 

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Su Cézanne è riportata l’immagine di un’opera per ogni tematica, nell’ordine inverso del primo articolo, quindi nudo, ritratto, paesaggio e natura morta; seguite dalle immagini di due opere di artisti italiani per le due tematiche restanti ritratto e nudo, essendo state inserite nel primo articolo due immagini su natura morta e paesaggio. In apertura, di Cézanne “Bagnanti”, 1892,  seguono “Il giardiniere Vallier”, 2006, e “Rocce all’Estaque”, 1882.85, poi “Buffet”, 1877-79, e, di Umberto Boccioni, “Ritratto della Signora  Cragnolini Fanna” 1916; in chiusura, di Mario Sironi, “Adamo ed Eva”,  1930-34.

Umpiérrez Roberto Carlos, all’Accademia di Spagna

di Romano Maria Levante

Alla Reale Accademia di Spagna al Gianicolo, dal 7 novembre 2013 al 7 gennaio 2014,  la mostra “Roberto Carlos Umpiérrez, un viaggio nelle sue opere”, 60   tra pitture e sculture,  tra eventi e personaggi  che hanno ispirato l’artista nella sua vita, dal Sudamerica all’America del Nord all’Europa,  fino a Roma, con il New Realism – Pop Art che contraddistingue la sua opera poliedrica  in cui si trovano riflessi di tanti stili e influssi di tanti contenuti  nel linguaggio universale dell’ arte.

La caratteristica che ci è parso di cogliere nell’artista  è la sua spiccata attenzione alla contemporaneità in cui è vissuto e che ha voluto fissare in opere quanto mai espressive.

E’ una contemporaneità che spazia nelle aree più diverse, tanto è stata varia la sua vita vissuta  in gran parte al di fuori del proprio paese, dal Sudamerica agli Stati Uniti fino a paesi europei come Francia, Belgio e Olanda, e l’approdo a Roma dove frequenta l’Accademia delle Belle Arti  nella sezione scultura ed ha come maestri nientemeno che Emilio Greco e Pericle Fazzini. E’ morto nel 2010 a 60 anni di età, era nato a Montevideo nel 1050, dove iniziò la sua formazione artistica.

La varietà non è soltanto nei motivi ispiratori e nei contenuti, ma anche nelle forme stilistiche, dal neoclassicismo al cubismo picassiano, dal divisionismo alla Pop Art; e nei materiali utilizzati dalla tela alla carta, dalla plastica  al riciclo, con incursioni dalla pittura al collage alla scultura. Dalla commistione di stili e contenuti è nato li suo approccio denominato “New Realism – Pop Art”.

Personaggi ed eventi insieme ad esperienze dirette personali concorrono a definire un affresco del suo mondo trasfigurato rispetto alla realtà  percepita dalla sua sensibilità e immaginazione di’artista dove si sente la passione civile ben diversa dall’osservazione asettica e neutrale.

Nelle  quattro sale della mostra sono esposte circa 60 opere di cui 10 sculture con materiali di varia natura:in tecnica mista: 3 “Sedie”, 4 dal titolo “Las Murgas”Recuerdo de asado” e un “Monumento a Nassirya”, un omaggio quest’ultimo al lutto dell’Italia per il massacro dei suoi soldati in missione di pace.

Alcuni titoli fanno capire meglio ciò cui si è accennato sulla contemporaneità. I grandi eventi vanno da “Rivoluzione francese” a “Twin Towers”, entrambi del 2010,  all’opposto la quotidianità da  “Il passante”, 1990, a “Camminando”, 1997, da “Periferia” a Quello strano inquilino del piano di sopra”, 2010, da “Braccio di donna”, 2004,  a Ragazzo con barchetta di carta”, 2005.

Dei personaggi vediamo “Fangio e Ferrari”,Il Commendatore” e “Ritratto del Commendatore”,  poi “John Lennon”, tutti del 2009; un anno nel quale ha dipinto anche temi sportivi, “Mille miglia” legato anch’esso all’automobilismo, “Champion”, 2008, e “Il boxeur”, 2009. Successivamente, nel 1911, il ritratto di Castro, “Fidel”. Mentre  un’attualità che si ripete immutabile nel tempo è in “I burocrati”, su tavola nel  1976, su tela in tre dipinti del 1992.

Il mondo americano in opere che vanno da “Amerika”, 2004, a “New York”, 2008, e “God bless America”, da “La Coca Cola”, 1990, a “Bici e Coca Cola”, 2003, con la Pop Art nella sua peculiare rielaborazione.

Al classicismo si ispirano  nello stile i due “Laocoonte”, 2005,  che ripropongono su tavola la celebre composizione scultorea, vi sono anche temi  religiosi come “Virgin de Guadalupe” 2006, e “Io Cristo”, 2005, e  richiami come “Apocalipse”  e “I tre dell’Apocalisse”, entrambi del 2005.

Un percorso quanto mai vario ed eterogeneo, un’ispirazione che si nutre dei motivi più diversi, segno di un’irrequietezza se non di un’inquietudine profonda. Forse la chiave interpretativa l’ha fornita il fratello Edgardo Umpiérrez, promotore della mostra allorché, nell’apertura all’Accademia di Spagna, ha letto con toni commossi una poesia dell’artista. Al termine gli abbiamo chiesto il testo e ha avuto la bontà di darcelo autorizzando la pubblicazione, cosa di cui lo ringraziamo ancora.

Ecco al poesia dell’artista uruguaiano, ci sembra il miglior sigillo a questa breve cronaca della sua mostra, che ha l’intento di attirare l’attenzione sul suo spirito creativo e sulla sua anima sensibile.

“A chi non è nato in Uruguay

sarà difficile capire l’attaccamento

del nativo a quella terra.

tutto surreale, tutto ancor oggi

misterioso, fatto di tempi lenti

e silenzi, ancor di più.

Dove persino il colore bruno

del ‘Rio’ diventa cristallino

a tal punto da poter vedere

la nascita di Venere trainata da cavalli marini.

Là, dove ancor oggi c’è un bar

in ogni angolo, dove trovi l’atmosfera

del tango nei caffè, dove si si respirano

pigmenti africani, suoni malinconici

di percussioni

che fanno tremare il cuore,

anche se nella tavolozza della vita

Sei definito ‘bianco’.

Là, dove l’emigrante europeo trovò

pane,patria  e fantasia.

Là, dove  Einstein nel 1930

pensava alla relatività.

Là, dove Puccini scriveva

fuori dal pentagramma

Là, dove  Varela ha creato

la scuola Laica-Gratuita-Obbligatoria.

Là, dove gli Adelantados

cercavano  ‘il mundo nuevo’.

Là, dove  Tabaré nacque e morì

tra le pagine di un libro.

Là, dove fu sterminata una razza

nobile e fiera.

Là… sulle rive del fiume

dagli uccelli colorati.

Là…

R. C. Unpiérrez

Info

Accademia Reale di Spagna, Roma, Piazza San Pietro in Montorio, 3, Gianicolo. Aperti tutti i giorni, domenica compresa, dalle ore 10 alle ore 20.Tel. 06.5812806; Ingresso gratuito. Tel. 06.5812806, http://www.raer.it/. Per le precedenti mostre all’Accademia di Spagna, cfr. i nostri articoli in questo sito:

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Accademia di Spagna all’inaugurazione della mostra, si ringrazia per l’opportunità offerta l’Accademia con gli organizzatori e i titolari dei diritti, in particolare il fratello dell’artista Edgardo Umpiérrez cui dobbiamo anche la poesia cortesemente accordataci per la pubblicazione. In apertura, “Laocoonte”, 2005, seguono “Ragazze con barchetta di carta” , 2005, con altra opera su “Coca Cola”, e “Vergine di Guadalupe”, 2006, poi  “Fanjo e Ferrari”,  a sin., e “Il Commendatore”, a dx, 2009,   e “Io Cristo”, 2005in chiusura due altre sue opere.

Congresso Eucaristico, l'”Ultima cena”, in mostra ad Ancona

di Romano Maria Levante

Torniamo dopo due anni e mezzo,  come ideale celebrazione del Natale, sul 25° Congresso eucaristico nazionale ad Ancona,presentato in grande stile il 21 giugno 2011 alla Sala stampa del Vaticano. Introdotto da padre Lombardi, ne ha parlatol’arcivescovo del capoluogo marchigiano mons. Edoardo Menichelli , descrivendone il significato pastorale, con Ancona capitale di religiosità e spiritualità dal 3 all’11 settembre 2011. Insieme alle manifestazioni religiose nel territorio, la mostra d’arte “Alla Mensa del Signore” nella Mole Vanvitelliana, una ricca esposizione pittorica  sulle diverse versioni artistiche dell’Ultima cena.  

Il Congresso Eucaristico

“Il Congresso vuole raccogliere il grido e la speranza della società contemporanea ed insieme offrire l’Eucaristia come sacramento di salvezza e presenza viva del Signore Risorto”, ha detto mons. Menichelli. Si è tenuto nel 150° dell’Unità d’Italia che corrisponde al 120° anno dal 1° Congresso Eucaristico Nazionale di Napoli del 19-22 novembre 1991, dieci anni dopo il 1° Congresso  Eucaristico che fu internazionale, a Lille in Francia, nel 1881.

Questo congresso del 2011, molto più che in passato, ha avuto due caratteristiche: la  territorialità e la tematicità. Per il primo aspetto è stato diffuso nell’intera provincia di Ancona, e ha avuto comemomento culminante la visita finale di Benedetto XVI  giunto in elicottero nel Porto di Ancona al molo intitolato a Wojtyla, come luogo simbolico. C’è stata la “Concelebrazione eucaristica” e la recita dell’ “Angelus” nel Cantiere navale di Ancona; nel tardo pomeriggio l’incontro con i sacerdoti e le famiglie nella cattedrale di  San Ciriaco e con i fidanzati in piazza del Plebiscito.

Il tema del Congresso è stato la persona che nella Chiesa si esprime mediante stretti contatti nelle parrocchie, nei borghi e nelle città. Benedetto XVI, nell’esortazione “Sacramentum  caritatis”, ha detto che “in quanto coinvolge la realtà umana del credente nella sua concretezza quotidiana, l’Eucaristia rende possibile, giorno dopo giorno., la progressiva trasfigurazione dell’uomo chiamato per grazia ad essere ad immagine del Figlio di Dio”.  Di qui l’affermazione che “i fedeli cristiani hanno bisogno di una più profonda comprensione delle relazioni tra l’Eucaristia e la vita quotidiana”:  fatta di affettività, fragilità, festa e lavoro, tradizione, cittadinanza, i cinque temi del Congresso.  Nel precedente Congresso Eucaristico di Bari del maggio 2005 la quotidianità era espressa dal tema “Senza la domenica non possiamo vivere”, ora se ne sono esplorati gli aspetti. 

Il programma culturale è stato quanto mai nutrito. Per l’arte, alla Mole Vanvitelliana di Ancona la mostra “Alla mensa del Signore. Capolavori dell’arte europea da Tiepolo a Raffaello”  sul tema dell’Eucaristia, dal periodo rinascimentale fino all’epoca moderna con Rouault, e a quella contemporanea con Aligi Sassu: un’esposizione di 80 opere impreziosita da una sezione di oreficerie sacre. Nelle cinque diocesi, da giugno le mostre documentarie “Segni dell’Eucaristia”  hanno esposto oggetti e apparati liturgici connessi al sacramento eucaristico, espressione della devozione popolare e della magnificenza della Chiesa manifestatasi nel territorio. E’ tornata ad Ancona l’altra  mostra preparatoria “Oggi devo fermarmi a casa tua. L’Eucaristia, la grazia di un incontro imprevedibile”,  dall’episodio evangelico di Gesù nella casa di Zaccheo,   pannelli con testi e immagini, itinerante dal gennaio 2011 nelle Marche e in altre località.

Il programma nel territorio

Fin qui le notizie, ora qualche ulteriore particolare sul significato attribuito  a questo solenne momento comunitario per la Chiesa,il Congresso eucaristico così definito nel Rituale Romano “De comunione et de cultu…” – è “una stazione a cui una Chiesa locale invita le altre chiese della medesima regione o della stessa nazione o del mondo intero” al fine di promuovere “la comprensione e la partecipazione al mistero eucaristico in tutti i suoi aspetti: dalla celebrazione al culto extra missam, fino alla irradiazione nella vita personale e sociale”.

Di qui le due caratteristiche citate, la territorialità insita nell’invito alle chiese locali, la tematicità riferita alla persona, nei molteplici aspetti inerenti al suo sviluppo integrale orientato al bene comune. Il tema è sintetizzato dall’interrogativo “Signore, da chi andremo?”, tratto dal Vangelo di Giovanni, che si adatta all’attuale insicurezza e trova una pronta risposta: “l’Eucaristia per la vita quotidiana”, dopo le parole che Pietro fece seguire alla domanda: “Tu hai parole di vita eterna”.

La domanda è circoscritta nel logo che contiene i simboli cristiani: il Sole e la Patena, l’Alba e i Pesci, il Mare e il Popolo in cammino, la Terra e la Chiesa, con i colori evocativi del giallo per la luce divina e dell’oro per l’eternità, del blu per il cielo e del verde per l’acqua e le piante, del rosso per l’amore e il sacrificio, e del bianco per il Mistero divino.

Il territorio anconetano è stato sede di manifestazioni in tutte le sue diocesi, da quella di Ancona-Osimo a Senigallia e Jesi, Fabriano-Matelica e Loreto. In ogni diocesi,  per la settimana del Congresso, nella mattinata dopo la Santa messa con adorazione eucaristica, preghiera e “lectio”,   un “momento assembleare” di riflessione, due ore con relatori di livello nazionale sul tema del giorno; nel pomeriggio percorsi turistici, culturali e religiosi con  momenti di animazione pastorale, celebrazione eucaristica nelle Cattedrali sedi degli eventi e, al termine,  processioni e altri atti di devozione; nella serata concerti o  rappresentazioni di varia natura.  L’intensa  giornata conclusiva ha visto incontri con il Papa, con i momenti di particolare suggestione della Via Crucis e della Processione Eucaristica con l’Infiorata nelle vie di Ancona.

Dopo la giornata di sabato 3 settembre con l’inaugurazione e l’accoglienza delle autorità, domenica 4  si è svolta  una suggestiva processione di barche in mare con il Legato Pontificio e un concerto a Piazza del Plebiscito con Giovanni Allevi e l’orchestra filarmonica marchigiana; della  giornata di domenica 11 settembre abbiamo detto, con la sua intensa spiritualità si è contrapposta al ricordo della  tragica giornata di dieci anni prima funestata dall’attentato apocalittico alle Torri Gemelle.

Ora diamo qualche altro elemento sulle riflessioni collettive nelle cinque giornate centrali, da lunedì 5 a venerdì 9 settembre, dopo aver già descritto la giornata tipo. Nei  “momenti assembleari”  con i relatori sono stati approfonditi i temi del giorno tutti incentrati sull’Eucaristia, considerata “culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù”, secondo la definizione del Concilio Vaticano II.

Il Consiglio Episcopale Permanente aveva  indicato i momenti da approfondire dell'”atteggiamento contemplativo in grado di dare ‘forma eucaristica’ ai contenuti  della vita quotidiana”, Eccoli:  “Il senso di gratitudine per i doni di Dio, la coscienza umile della propria fragilità, la capacità di accoglienza e di relazioni utili con le persone, il senso di responsabilità nei confronti degli altri nella vita personale, familiare e sociale, l’abbandono in Dio come attesa e speranza affidabile”.

Nello stesso tempo ha preso atto di una “‘distanza culturale’ tra la fede cristiana e la mentalità contemporanea in tanti ambiti della vita quotidiana”, che ritiene si possa superare attraverso “l’opzione di coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica popolare del cattolicesimo italiano”, precisando che “‘popolarità’ non significa una soluzione di basso profilo, ma la scelta di una fede che si fa presente sul territorio, capace di animare la vita quotidiana delle persone, attenta alle esigenze della città, pronta a orientare le forme della convivenza civile”.  Si comprende  come i temi  per la riflessione collettiva siano stati scelti nella  prospettiva di “rendere visibile giorno per giorno la vita credente, che è altro rispetto al modo corrente con cui si esprime il sentire diffuso della gestione del tempo, degli affetti e della presenza sociale”. Così il  Consiglio Episcopale.

Il Congresso è sttao chiamato a dare concretezza a queste attese.  Si è iniziato lunedì  5 settembre con l’“affettività” riferita alla “passione di Dio per l’uomo” ad Ancona;  martedì 6  la “fragilità” con la “presenza di misericordia”, approfondita anche ad Osimo, mentre per gli “ammalati”  a Loreto; mercoledì 7  si è  entrati “nel tempo dell’uomo” con la “festa” ad Ancona, Osimo e Falconara e con il “lavoro” a Fabriano; giovedì 8 la “tradizione”, che è il “pane del cammino”, ad Ancona, Senigallia e Jesi; venerdì 9  la  “cittadinanza” ad Ancona, come “luce per la città”, considerata  a  Osimo  sotto  l’aspetto di “povertà e accoglienza”.

Le mostre documentarie sull’Eucarestia

Non si lascia l’alto livello spirituale dei temi appena evocati parlando delle mostre d’arte che hanno accompagnato il Congresso Eucaristico perché sono state ispirate al sacro, cioè  all’Eucaristia. 

Le mostre documentarie “Segni dell’Eucaristia”   nei vari musei diocesiani anconetani nobilitano ed elevano  il valore degli apparati e degli oggetti liturgici,  in base alla considerazione che l’Eucaristia è il sacramento principale della Messa  alla quale sono destinati, quale che sia la collocazione o la dimensione dell’edificio di culto,  una basilica o una povera chiesa rurale. Di  questi oggetti è stato approfondito il significato liturgico e culturale nel rapporto con il sacramento, e con la religiosità popolare nonché con la magnificenza della Chiesa che deve esprimersi anche in forme visibili, pur se la vocazione deve essere alla povertà, ma non quando si celebra il Signore.

I musei diocesiani delle mostre sono stati ubicati ad Ancona e Osimo,  Jesi e Senigallia; a Loreto nel museo dell’Antico Tesoro della Santa Casa, a Fabriano nell’ex monastero di San Benedetto, a Matelica  nel museo Piersanti. Negli itinerari, oltre alle chiese in tali località, erano comprese  anche quelle di  Offagna e Monsano, Montemarciano e Morro d’Alba, e del Belvedere Ostrense.

Del ritorno della mostra itinerante ” ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’. L’Eucaristia, la grazia di un incontro imprevedibile” abbiamo detto; aggiungiamo soltanto che i 36 pannelli erano collocati in un percorso di quattro sezioni in cui si esprimeva  il bisogno che ha l’uomo dell’Eucaristia.

La grande mostra d’arte “Alla mensa del Signore”

Ed ora il “clou” della parte artistica del Congresso Eucaristico, la grande mostra “Alla mensa del Signore. Capolavori dell’arte europea  da Raffaello a Tiepolo”, alla Mole Vanvitelliana, ne ha parlato il curatore Giovanni Morello con Vittoria Garibaldi, soprintendente per i beni storici e artistici delle Marche.

Nel prestigioso Comitato scientifico, Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, con Micol Forti che vi cura la Collezione di Arte contemporanea.  I Musei vaticani hanno  prestato la tempera su tavola  “Carità”di Raffaelloe lo smalto “Porte du tabernacle” di Rouault, gli oli su tavola “Cena di Emmaus” di Ardengo Soffici e “Cristo e gli Apostoli” di Ferruccio Ferrazzi, nonché la xilografia “Leben Christi: Gang nach Emmaus” di Karl Schmidt-Rottluff  e due Arazzi con episodi della Passione e l’Ultima cena, da Leonardo, di due Manifatture, una del Tournai, la seconda romana.

Queste opere sono solo un assaggio, è stata una carrellata di capolavori dal ‘400 all’800 sul tema dell’Ultima Cena, con le Nozze di Cana” e la “Cena in Emmaus” ad aprire e chiudere la mostra.

Precisiamo quanto già accennato sulle oreficerie sacre  che hanno nobilitato ancora di più l’esposizione con la preziosità degli oggetti presentati: si tratta dei doni dei Pontefici alle chiese della regione, un’altra suggestiva carrellata in secoli di storia, arte e tradizione.

La mostral’abbiamo visitata a suo tempo ammirando i capolavori dell’arte europea da Raffaello a Tiepolo, passando per Rubens e Tiziano. C’era una copia d’epoca del “Cenacolo” leonardesco di Cesare Magni, con i colori originari perduti nei secoli, il grande arazzo del Vaticano e quello di Rubens, il gruppo scultoreo “Ultima Cena” a grandezza naturale, per la prima volta fuori Saronno.

Il tema dell’Ultima cena è collegato alla scrittura del Vangelo in tre momenti: il primo è l’annuncio del tradimento di Giuda mentre gli Apostoli si interrogano sull’accaduto, il secondo l’Eucarestia, il terzo la comunione degli Apostoli, che non  si ritrova in modo esplicito nei Vangeli, ma oltre a ispirare gli artisti dopo il Concilio di Trento diventò, sono parole di Morello, “una catechesi visiva per il popolo, Gesù stesso si consegnava così ai fedeli”. Dopo questi temi – e il dipinto di Tiepolo è uno dei più belli del grande artista – la Comunione degli Apostoli per concludersi con un salto nella modernità, su opere che mostravano come l’Ultima cena ispiri anche artisti contemporanei.

Per questo è  “una mostra di prima grandezza”, una partenza di livello straordinario per il nuovo spazio della Mole Vanvitelliana destinato ad ospitare mostre di grande prestigio e valore artistico.

Dopo queste parole Morello ha guidato la visita illustrando le diverse sezioni animato da passione unita alla competenza. Ci è rimasta impressa l’estrema varietà di interpretazioni della tavolata dell’Ultima cena, non solo per le più diverse posizioni degli apostoli, ma anche per il desco, di volta in volta spartano oppure con cibo succulento, solo pane e poco altro oppure selvaggina. E’ stata un’inedita galleria che ha suscitato non solo vivo interesse , ma anche profonda emozione.

Con tutto quanto abbiamo cercato di esporre, il richiamo del 25° Congresso Eucaristico  Nazionale di Ancona ha toccato diversi tasti, non solo la religiosità e la fede: la coscienza civile è stata mossa dai temi  approfonditi trattandosi della persona umana; la memoria è stata sollecitata dalle mostre sugli oggetti liturgici il cui ricordo è nella storia personale di ognuno; l’attrazione per l’arte stimolata nella mostra dei capolavori da Raffaello a Tiepolo fino ai contemporanei.

Per  queste ragioni legate alla cultura e all’arte, e per il festoso dispiegarsi di iniziative nel territorio, abbiamo ritenuto di ricordare la manifestazione a due anni e mezzo di distanza, e non per i soli credenti, nel giorno di Natale del 2013.  

 Info

 Catalogo “Alla mensa del Signore. Capolavori dell’arte europea da Raffaello a Tiepolo”, a cura di Giovanni Morello, Allemandi &  C., agosto 2011, pp. 256, formato 24×28.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante in Vaticano alla presentazione della mostra. In apertura, parla l’arcivescovo di Ancona, mons. Menichelli; in chiusura un primo piano di mons. Menichelli, alla sua sinistra padre Lombardi.  

Cézanne, la sua arte e la pittura italiana, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, dal 5 ottobre 2013 al 2 febbraio 2014  la mostra “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900“, con 100 opere tra cui 20 di Cézanne e le altre 80 di 18 artisti italiani del ‘900  a lui ispirati, tra cui  Boccioni e Morandi,  Carrà e Sironi, Severini e De Pisis. La mostra, curata da Maria Teresa Benedetti con il catalogo Skirà, è stata realizzata da “Comunicare Organizzando” con il  coordinamento generale del Presidente Alessandro Nicosia..

E’ una grande mostra rivelatrice perché fa conoscere Cézanne, un sommo maestro della pittura, sotto aspetti poco noti almeno al grande pubblico: come il superamento dell’impressionismo a cui peraltro aveva dato un notevole contributo,  e il potente influsso esercitato sugli artisti italiani.

Con Cèzanne oltre l’impressionismo

Il primo aspetto viene analizzato da Claudio Strinati che cita l’affermazione di Ardengo Soffici secondo cui Cézanne sarebbe riuscito ad andare oltre l’impressionismo realizzando “quel che non avevano potuto gli impressionisti”. o avrebbe superato non limitandosi  a guardare la realtà “en plein air” secondo l’impressione del momento, e a riprodurne l’aspetto esteriore con le scomposizioni del colore ben note;  bensì “subordinando la realtà esterna alla verità della sua visione interiore”, in modo da “vedere la propria visione”.

Così lo spiega Strinati: “Non le sembianze fenomeniche del  Reale ma di quel Reale che è la propria attitudine a vedere e a distinguere”; più precisamente “non le apparenze ma le competenze e l’artista è tanto più grande quanto più riesce a imporre se stesso alla Realtà che lo circonda e a rappresentare se stesso che sta osservando”, avendo come oggetto della sua attenzione “prima ciò che è fuori di sé e poi ciò che è dentro di sé”.

In questo supera l’impressionismo che aveva “scoperto”la bellezza della natura vista da vicino, appunto “en plein air” i n tutta la sua luminosità e nella sua sinfonia di colori. Ai sensi che ne sono conquistati aggiunge la mente che, sono ancora parole di Strinati, “concepisce l’arte come atto di amore verso il creato  trattando la superficie pittorica quasi fosse un anelito a dire verità che la parola non può pronunciare. Queste verità sono i grandi, universali sentimenti che chiedono di essere rappresentati per togliere l’essere umano dal turbine doloroso dell’esistenza che lo incalza incardinandolo al ‘mestiere di vivere'”.

Ne consegue che diventa secondario il soggetto rappresentato, di solito fa parte della quotidianità, quindi è visto senza particolare interesse; acquista importanza basilare il sentimento interiore da esso suscitato non traducibile nell’immediatezza un po’ effimera dell’impressionismo, dato che va ben oltre l’apparenza. Dietro c’è pure la ricerca nell’arte di un rifugio contro ciò che nel mondo attenta alla mente e al cuore. Nel 1904, a due anni dalla morte, scriveva all’amico pittore  Emile Bernard di vivere “sotto l’urto di sensazioni” e di voler essere “aggrappato alla pittura”: “Le sensazioni sono alla base della mia opera – sono le sue parole – io credo di essere impenetrabile”. E aggiungeva: “Tutto quello che vediamo, non è vero? Si dilegua. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata, deve farcela gustare eterna. Che cosa c’è dietro il fenomeno naturale? Forse niente, forse tutto”.

In questo viene visto il suo superamento dell’impressionismo che si “accontentava” dell’immagine del momento, l'”impressione” piuttosto che la “sensazione”, che lui sente, di qualcosa che va oltre, colpisce la sua mente oltre ai suoi sensi. La sua ricerca di questo “qualcosa” lo porta a  penetrare la realtà  al di là delle apparenze, al di là della visione istantanea che ritiene provvisoria, incompleta; per tendere all’essenza del reale in modo da rivelarne i contenuti più profondi.

Il contatto diretto con la natura è il medesimo, ma in lui si aggiunge l’introspezione che lo porta all’isolamento anche sdegnoso rispetto alla spietata incomprensione che lo accompagnò nella vita.

L’astrazione insita nella sensazione profonda si aggiunge alla concretezza dell’impressione immediata in un insieme inscindibile che rappresenta la cifra della sua arte. In questo processo lui stesso vede la funzione della pittura: “Ascoltare con totale dedizione la voce della Natura, e con altrettanta dedizione trascriverla nelle forme della più eletta meditazione interiore, in una continua e ardua metamorfosi che si basa sul reale inteso come osservazione diretta delle persone e delle cose e mira al vero inteso come scoperta di una essenza che vige nel mutevole mondo dell’esistenza”.

L’efficace sintesi di Strinati acquista toni di alto valore morale: “Una religione laica implicante il silenzio, la riservatezza e il rispetto totale della professione sentita quasi come una missione”, tale è stata infatti la cifra della sua vita parca e schiva, nella continua e sofferta ricerca di un ideale artistico difficile da raggiungere”. Nella citata lettera a Barnard a due anni dalla morte scriveva “non si è mai troppo scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura”, e nell’ultima lettera a tre mesi dalla fine: “Studio ogni giorno sulla natura e mi pare di progredire lentamente”. Non serve aggiungere altro per ricordarne l’impegno inesausto, stimolo incessante alla sua arte.

Ma come si esprime la sua arte, quali le novità o le conferme? Al riguardo occorre partire dal suo superamento dell’impressionismo che ha i profondi contenuti cui si è accennato.  Ardengo Soffici ne fa un esempio illuminante, ricordato da Strinati: la mietitura come l’avrebbe dipinta un impressionista e come lo avrebbe fatto  Cézanne. Il primo avrebbe riprodotto l’immediatezza della realtà scomponendo le ombre create dal sole e immergendo la scena in una luce abbagliante per rendere la stagione e l’ora, con un effetto abbacinante; Cézanne, invece, nella considerazione che altri sono gli elementi essenziali della scena, avrebbe raffigurato in modo semplice ed essenziale l’ambiente, dalla campagna alle case fino al cielo, sottomettendo “la verità esterna alla verità interna della sua visione interiore e marcando con un segno imperioso i fantasmi del suo sogno”.

Lo fa ricercando strutture geometriche, anche se non in modo sistematico, concentrandosi su come organizzare forma  e volume. Anche qui ci aiutano nell’interpretare il suo intento le lettere a Bernard, in una di esse afferma di “voler trattare la natura per mezzo del cilindro, della sfera, del cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto, di un piano, si orienti verso un punto centrale. Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè un’estensione della natura.. Le linee perpendicolari all’orizzonte danno la profondità. Ora la natura, per noi uomini, è più in profondità che in superficie”.  Il suo “nitore geometrico” e il senso della prospettiva, insieme al particolare uso della luce e del colore  lo riconducono alla dimensione classica, con la ricostituzione della forma che gli impressionisti tendevano a scomporre fino a decomporla, e nello stesso tempo lo fanno antesignano di movimenti d’avanguardia attenti ai volumi come il cubismo e quindi maestro della modernità.

Alla scelta stilistica si collega strettamente quella dei contenuti che, come si è accennato,  sono all’insegna della semplicità, dato che per lui quello che conta è la visione della sua mente  alimentata dalle immagini di quotidianità: con architetture compositive dominate dalla plasticità dei volumi e poi nella maturità dalla sempre più intensa tessitura cromatica.

Nature morte in primo luogo, dove dominano i volumi nella loro espressione geometrica e il gusto della composizione geometrica con attenzione alla prospettiva, quindi paesaggi, nei quali rende  l’inespresso che c’è dietro la superficie della natura, traducibile attraverso la propria visione; stessa ricerca nei ritratti dove in un progressivo affinamento ha assunto un ruolo sempre maggiore il carattere e la personalità del soggetto  percepiti dall’artista pur nella continua ricerca di innovazione stilistica, nei nudi, infine, la classicità ha modo di esprimersi con forme solenni ma pur sempre toccate dalla sua modernità.

Cezanne nei giudizi di critici e artisti italiani

A tali contenuti sono dedicate  le 4 sezioni della mostra dove sono poste a raffronto le sue opere, tema per tema, con quelle di un folto gruppo di artisti italiani, ben 18. E qui s’innesta il secondo motivo dell’iniziativa, la ricerca artistica e culturale della penetrazione in Italia, analizzata dalla curatrice Maria Teresa Bernardini.

L’eco  delle sue opere si diffonde dopo la “scoperta” di Ardengo Soffici due anni dopo la sua morte. Soffici era vissuto dal 1900 al 1907 a Parigi dove aveva conosciuto l’opera di Cézanne e il ritorno al classicismo; nel suo articolo sulla rivista di Siena “Vita d’arte” del 1908:  aveva visto in lui la conciliazione tra modernità legata al presente e tradizione classica con richiami ai maestri del ‘300 e del ‘400. Soffici tornerà su Cézanne commentando su “La Voce” la mostra di Firenze del 2010, con 4 dipinti dell’artista, di cui sottolinea la creatività e  modernità in una visione idealistica dell’arte.

I suoi giudizi interesseranno i futuristi che della modernità più spinta fecero un credo, Carrà si espresse in termini positivi nell’articolo su “Lacerba” del 2013 “Da Cézanne a noi futuristi”, e ci tornò nel 1916 su “La Ronda”; Boccioni ne parlò nel 1914 in “pittura e scultura futurista”. In quegli anni ci furono due mostre in cui furono esposte opere di Cézanne: 12 acquerelli alla “II Esposizione d’Arte della Secessione” di Roma, mentre nella I erano assenti nonostante fosse dedicata a impressionisti, post e neo impressionisti; nella Sezione internazionale della Secessione del 1915 fu esposta la litografia “Bagnanti” , traduzione grafica del grande dipinto “Bagnanti in riposo”.

Roberto Longhi lo definisce “il più grande artista dell’era moderna, il cui testamento pittorico potrebbe essere quello di Pietro dei Franceschi”. Ma si deve attendere il 1920 per vedere 28 sue opere esposte in una personale alla prima Biennale veneziana dopo la guerra 1915-18, realizzata nel padiglione francese con il sostegno di Ugo Ojetti.

Ferveva il dibattito sul ritorno all’ordine del classicismo in una fase in cui agli strascichi della guerra si univa la crisi delle avanguardie artistiche. I giudizi sull’artista oscillavano tra il  prevalere della sua modernità o del suo classicismo, sul quale  venivano evidenziate le analogie con la pittura italiana nelle sue varie espressioni. Soffici, nel propugnare l’indirizzo tradizionalista sembra oscillare, finché lo definisce “il più potente iniziatore di una forma d’arte che  può dirsi ancora dell’avvenire”; mentre Emilio Cecchi lo classifica come classico per il suo ordine compositivo che cerca di conciliare con la sensazione di tipo impressionistico, invece di contrapporre i due motivi.

Carrà in “Pittura metafisica” ne sottolinea la classicità dopo l’abbandono dell’impressionismo, con riferimento alla tradizione italiana, e ai valori eternamente validi che ne sono gli aspetti salienti.

Soltanto Giorgio de Chirico contrasta questi giudizi positivi, pur nella sua difesa del classicismo che non vi vede rappresentato, contro l’impressionismo e le sue derivazioni che sostituiscono la forma-colore al rigore del contorno disegnato, tale da marcare l’essenza delle cose, cui Cézanne era contrario; e utilizza immagini forti e termini duri. Ma, commenta la Bernardini, “anche de Chirico non è del tutto indenne dall’avvertire l’importanza di Cézanne. Il tentativo di esorcizzarlo va considerato sintomatico di un riconoscimento, seppure in negativo”.

A questo punto l’interesse si acuisce, non resta che visitare la mostra passando in rassegna le 4 sezioni dedicate alla natura morta, al paesaggio, al ritratto e al nudo cercando prima di tutto di imprimere nella vista e nella mente le 20 opere di Cézanne sui quattro temi, cui fanno corona le 80 dei 18 artisti italiani. Prossimamente racconteremo la nostra visita seguendo questo  criterio.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali,  Aperto tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-23,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00 intero, 9,00 ridotto a determinate categorie. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900”, a cura di Maria Teresa Bernardini, Skira Editore, settembre 2013, pp. 286, formato 24×27. Cfr. in questo sito, il prossimo 31 dicembre,  il nostro secondo articolo “Cézanne, e gli artisti italiani, visita alla mostra al Vittoriano”, con altre 6 immagini. .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Su Cézanne è riportata l’immagine di un’opera per ogni sezione, nell’ordine natura morta, paesaggio, ritratto e nudo; per gli artisti italiani in questo articolo un’immagine per ciascuna delle due prime sezioni, per le altre due sezioni le immagini saranno nel prossimo articolo dopo altre quattro di opere di Cézanne nell’ordine inverso, prima nudo, poi ritratto, quindi paesaggio e infine natura morta. In apertura, di Cézanne “Frutta”, 1879-80, seguono “La strada in salita”, 1881,  e “Victor Chocquet”, 1877, poi “Bagnanti”, 1883-87″ e, di Giorgio Morandi, “Natura morta”, 1919; in chiusura,  di Carlo Carrà, “Chiesa romanica”, 1927.

Roma ti amo, una mostra dove il calcio diventa arte

di Romano Maria Levante

La mostra “Roma ti amo”, dal 18 febbraio al 20 luglio 2014 nella Factory Pelanda, all’ex Mattatoio di Testaccio, è stata presentata nella sede dell’A.S. Roma  a Trigoria dalla dirigenza societaria con l’intervento di Iole Siena, presidente di Arthemisia, società leader nell’organizzazione di mostre d’arte ed eventi culturali. E questo il motivo che ha stimolato la nostra curiosità divenuta vivo interesse dinanzi all’entusiasmo con cui Iole Siena ha detto che “è una grande sfida per noi, una scommessa coraggiosa”  l’impegno preso: “Tenteremo di unire le due anime più forti del paese”, il mondo elitario dell’arte e quello popolare del calcio. Curatore artistico Nicolas Ballario, coordinamento scientifico di Andrea De Angelis e scenografico di Cesare Inzerillo, Arthemisia è mobilitata. L’Assessorato alle politiche giovanili  di Roma Capitale ha dato il suo sostegno.

C’è un aspetto in cui i due mondi fanno a gara, la valorizzazione dei propri idoli. Anzi nel collezionismo di cimeli sportivi i tifosi superano gli appassionati di arte:  “Il Caravaggio ha un prezzo, anche se elevatissimo – ha detto un detentore di reperti calcistici -ma il mio cimelio non ha prezzo” lo ha raccontato Iole Siena che non conosceva questo speciale aspetto del tifo  calcistico.

La mostra  nasce dall’impegno della nuova proprietà della squadra giallorossa nel diffondere al massimo i valori  della loro Roma: l’esposizione sarà itinerante e dopo altre città italiane andrà negli Stati Uniti. E’ la prima volta che la storia di un club viene presentata come una  storia del costume nazionale, attraverso la capacità di aggregazione e mobilitazione che ha il  calcio “trasformandosi in cultura – è stato detto – esperienza collettiva, parte integrante dell’identità nazionale dei popoli”. Ci sono stati esempi di celebrazioni con fotografie, cimeli e  documenti, ma questa sarà un’esposizione “originale e unica, nella quale verranno applicati al calcio i canoni delle mostre d’arte”. 

Lo si è potuto fare perché la Roma “è uno dei club più storici e amati d’Italia”, e Arthemisia ha potuto mettere in campo la sua vasta esperienza in campo espositivo  unita a dinamismo e carica innovativa.  Di questi due requisiti primari  state date alcune interessanti anticipazioni, eccole..

La  storia dell’A. S. Roma e la sua rappresentazione

Alla nascita dell’Associazione sportiva Roma  nel 1927 si giunse con la fusione di tre formazioni preesistenti, Alba-Audace, Fortitudo-ProRoma e Football Club di Roma. Le prime vittorie  furono la coppa Coni e lo scudetto nel campionato  1941-42, seguirono i successi nella coppa Italia  e la vittoria nella  Coppa delle Fiere del 1961, seguita dieci anni dopo da quella nel Torneo anglo-italiano  del 1972, dal secondo scudetto dopo altri dieci anni nel 1983 e dal terzo, questa volta dopo quasi venti anni nel 2001, fino  al record  di vittorie consecutive a inizio campionato di quest’anno.  C’è stata anche una retrocessione in serie B, durata solo un anno, e le due cocenti delusioni  delle finali di Coppa dei campioni perse con Inter e Liverpool, quest’ultima proprio a Roma; come la recente bruciante sconfitta con la Lazio nella  finale di Coppa Italia svoltasi nella Capitale..

Un palmares rispettabile ma non straordinario, almeno rispetto alle plurititolate del campionato italiano, come le milanesi e  le torinesi, anzi la torinese Juventus, che anche quest’anno, dopo  la partenza a razzo della Roma con le dieci vittorie consecutive, è tornata in testa con i giallorossi impantanati nei quattro pareggi successivi. Quello che  è straordinario è l’attaccamento dei tifosi al quale è ispirato il titolo della mostra “Roma ti amo”, un amore che è nel nome stesso, letto al rovescio alla maniera araba o nella scrittura di Leonardo.

Le anticipazioni su come  verrà rappresentata questa storia  hanno acuito la curiosità piuttosto che  soddisfarla, d’altra parte la mostra è ancora un cantiere in fieri , tanto che si invitano coloro che dispongono di cimeli, documenti e oggetti a proporli per l’esposizione inviando una fotografia e una descrizione all’indirizzo e mail asroma@arthemisia,it  per la conseguente valutazione.

I tifosi, oltre che destinatari di questo appello, sono tra i principali protagonisti, con i giocatori succedutisi nel tempo a fare grande la squadra: i “romanisti” saranno ripresi direttamente con set fotografici allestiti allo stadio nei mesi precedenti, mentre  i giocatori saranno ricordati, oltre che da gallerie fotografiche e cimeli evocativi – come le maglie indossate in partite-evento – anche da un singolare calcio balilla di 20 metri  le cui due squadre –  costituite da “omini” alti due metri invece dei pochi centimetri  del popolare gioco – indosseranno le maglie della squadra  attuale, con  in prima fila Francesco Totti, capitano da vent’anni e leader della Roma dei record di quest’anno; e le maglie di una formazione “all  star” romaniste del passato: da Fulvio Bernardini e Amedeo Amedei, scomparso in questi giorni, a Falcao e Cafù; da Giacomo Losi e Agostino Di Bartolomei a  Bruno Conti e Francesco Rocca,l’indimenticato Kavasaki; da Franco Tancredi e Sebino Nela la difesa di ferro, a Giuseppe Giannini il “Principe” e Roberto Pruzzo il bomber; fino a Vincenzo Montella.

Si rivivrà la storia della società e della squadra  attraverso la narrazione fatta dalla stampa sportiva delle varie epoche  nella “Galleria Corriere dello Sport ” che esporrà centinaia di pagine del giornale romano partner speciale della mostra nel novantesimo anno dalla fondazione. Ma soprattutto  attraverso la ricca esposizione di materiale documentario ed evocativo sulle singole fasi della storia societaria  con al centro i successi della squadra e le delusioni che pure non sono mancate, ne abbiamo fatto una sommaria ricostruzione all’inizio.

In cinque  sale  la cavalcata storica, la prima sulle tre formazioni calcistiche  iniziali  che furono fuse per creare la Roma, le altre quattro ciascuna dedicata a una fase: dalla fondazione al primo dopoguerra; poi dal 1948 alla fine degli anni ’60, quindi dal 1970 al 1991, infine dagli anni ’90 alle vicende più recenti, dal terzo scudetto  ai giorni nostri con i primi passi della  proprietà americana; al termine della spettacolare cavalcata  una sintesi fatta di numeri significativi in una apposita sale.

Parlare di numeri sembra riduttivo per una mostra che si preannuncia altamente spettacolare  con i tanti schermi e monitor che trasmetteranno partite-e interviste, video inediti e gustosi episodi; ma dimostra la serietà  con cui si è affrontata la sfida della mostra per valorizzare il patrimonio sociale: non solo spettacolo ma anche approfondimento, un “must” della nuova proprietà .e del suo staff.

L’impegno, lo spirito, l’attrattiva della mostra

Il sigillo di “Arthemisia” va visto nell’impegno per la ricerca e presentazione, mentre lo spirito sportivo  fa leva sulla collaborazione del Corriere dello Sport  e di TeleRadio Stereo e lo spirito del tifoso su quella di Roma Channel e del Centro Studi dell’Unione Tifosi, che ha fornito preziosi cimeli detenuti da collezionisti  così gelosi dei  propri reperti  fino a chiedere sistemi di sicurezza  in teche protette, come per le più quotate  opere d’arte delle mostre organizzate da “Arthemisia”.

L’assessore alla Scuola di Roma Capitale, Alessandra Cattoi, ha sottolineato anche lei  l’attrattiva della mostra: “Raccontare la storia dell’A.S. Roma vuol dire raccontare un pezzo di storia della nostra città, della sua vita, del so costume, attraverso il calcio, una delle manifestazioni collettive che suscita più emozioni”, e ha aggiunto: “Il fatto che questa narrazione sia concepita come un punto d’incontro tra arte e sport, contribuirà ad attrarre l’interesse non solo degli appassionati, ma anche di coloro che non sono tifosi o non seguono il calcio”. Si attende un a grande affluenza di visitatori, soprattutto giovani che potranno così conoscere lo spazio espositivo di “Factory” alla Pelanda-Testaccio, sede di tante iniziative loro dedicate.  Diffondere la conoscenza tra i giovani di questi siti  con radici popolari  dove si fa cultura  e avvicinarli alle mostre d’arte è un altro risultato che si potrà  ottenere con l’effetto di trascinamento del tifo per la “magica Roma”. E non è poco.

Non resta che attendere l’apertura della mostra e visitarla per verificare come le invitanti premesse si tradurranno nella realtà espositiva.

Foto

L’immagine della presentazione alla stampa con la presidente di Arthemisia Jole Siena tra i dirigenti dell’A:S: Roma e il curatore della mostra è stata ripresa a Trigoria da Romano Maria Levante, si ringraziano i soggetti fotografati per l’opportunità offerta.

Bergamini, il digitale pittorico, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Le grandi  fotografie di Riccardo Bergamini alla Fondazione Crocetti,  dal  18 novembre 2013, nell’esposizione “EsseRI Contemporanei” promossa da “Ademus” e curata da Luigina Rossi, attraverso immagini di imponenti strutture edili in costruzione o demolizione, mostrano un’utilizzazione del mezzo fotografico con la tecnica digitale per interventi quasi pittorici che danno il senso del cambiamento e della trasformazione imprimendovi il dinamismo della vita. Un’impostazione ben diversa dal pittoricismo dei fotografi che cercavano giochi di luce o scorci consueti ai pittori, qui nessuna concessione alla pittura ma ricerca di qualcosa che non si può rendere con l’istantanea tradizionale ma si deve costruire pur mantenendo l’aderenza alla realtà che solo la fotografia assicura.

Le “architetture metafisiche” 

 “Architetture metafisiche/ e colori senza definizione, né patria/ non tutti hanno chiuso per inventario;/c’è chi cataloga, con scatti perfetti/ il respiro e il sospiro, i segni della libertà,/l’odoroso bacio della persona amata/il grido della rosa che muore/ e il chiacchiericcio dell’acciaio brunito”.  Questa volta la definizione dell’opera di un artista, oltre che dalla curatrice della mostra Luigina Rossi,  viene anche da un poeta, Antonio Veneziano, che ha scritto una poesia a presentazione della mostra, dove  Bergamini riesce a far parlare proprio l’ “acciaio brunito” delle “architetture metafisiche”. Il poeta conclude, dopo un excursus sui sentimenti: “Un sole sbiadito, per fortuna,/ insinua domande, tra frammenti di realtà,/  dall’anima di ferro e vetro,/ dove l’impronta digitale,/ di uno scatto fotografico,/ si fa appunto del cuore e del cervello”.

Abbiamo incontrato l’artista che ci ha spiegato come questo avviene, rivelando il suo  modo innovativo di utilizzare il mezzo fotografico nella creazione artistica. Non gioca sui chiaroscuri e sull’intensità dei colori nelle riprese naturali;: né sul taglio delle immagini come nelle riprese oblique di Rodcenko; e in quelle frutto di attesa prolungata o basate sull’immediatezza della ripresa  e, per converso, sulle pose da studio fino alle tante modalità offerte dalla versatilità degli obiettivi. Le accostiamo alle pur diversissime riprese alla ricerca di angoli remoti della natura da celebrare nella loro ignota grandiosità, lo stesso fa Bergamini che trova la grandiosità a portata di mano ma inserita in contesti che la nascondono e la umiliano, mentre l’artista riesce a rivelarla e nobilitarla.

Con lui la tecnica digitale viene utilizzata in forma pittorica in modo creativo: l’artista parte dalla ripresa reale a luce radente, poi elimina l’illuminazione naturale per sostituirla con “pennellate” di  luce digitale che dà i contorni a immagini immerse nel buio, laddove quelle di partenza erano nella luce. Anche le nuvole vengono “pennellate” al posto di quelle catturate dall’obiettivo, e lo stesso avviene per la luce dei lampioni, per citare un particolare. Si tratta, ci ha detto direttamente l’artista, di una luce autentica anche se non quella originaria, “pennellata” nell’elaborazione digitale.

Non c’è manipolazione ma reinterpretazione della realtà per restituire ad essa la vera essenza che va oltre l’impressione di un momento. Tanto più che nella serie di immagini esposte, la realtà è in evidente trasformazione, quindi non può essere quella che appare nell’istantanea, deve essere resa con un procedimento che renda tale processo dinamico.

E’ questa la contemporaneità che interessa l’artista, una realtà “in fieri” di cui riesce a dare l’instabilità con un’atmosfera di sospensione che prende il visitatore, immergendolo in una nuova metafisica urbana, fatta non di piazze  abbacinate dal sole con le ombre lunghe dei colonnati ma di palazzi immersi nel buio contornati da sciabolate di luce.

Così la curatrice della mostra Luigina Rossi: “Ogni elemento architettonico si fa ammirare per essere altro da sé, la luce argentea lo accarezza, lo rende vivo, crea un ponte intellettivo, produce intensi attimi di piacere per la nostra anima; essi prendono vita come fossero una melodia nella ricerca degli accordi di luce”.

L’altro da sé non riguarda soltanto la diversità  rispetto allo scatto primario, l'”altro” è  costruito dall’elaborazione digitale; riguarda anche il fatto che per i palazzi in costruzione l’immagine  provvisoriamente fissata sull’obiettivo non rispetta più la loro realtà dato che nelle successive fasi sono diversi da prima. Ma c’è di più, è un modo di inserire la variabile tempo nella creazione artistica mutandone la percezione; ed è anche un modo di consentire la rielaborazione personale dell’artista rispetto alla percezione immediata della realtà, che il mezzo fotografico fissa con l’obiettivo lasciando poi pochi margini di intervento, aperti invece dalla tecnica digitale che così utilizzata diventa una tavolozza tecnologica che libera la creatività del fotografo divenuto artista.

Guardiamo le 17 tavole fotografiche, molte 70×100,  dei giganti urbani frutto della forte impressione che Bergamini ne ha ricevuto nei suoi viaggi immaginandoli protagonisti assoluti  nella notte che lui stesso ha costruito “come esseri viventi nel divenire del contemporaneo”, per usare le parole della curatrice; e come esseri viventi dialogano con il visitatore, quasi volessero raccontare la propria storia. C’è la struttura avveniristica di Desideri della nuova Stazione Tiburtina, destinata a un futuro senza fine, come quella imponente di un palazzo milanese destinato invece alla demolizione; tra questi destini opposti altre costruzioni che segnano il paesaggio urbano, fino a una ardita ripresa dal  basso del “Fungo” romano, che ricorda la figura turrita della Statua della Libertà , l’unica immagine chiara, anzi abbacinata dalla luce quando tutte le altre sono immerse nel buio fasciate dai riflessi di luce.Ferro, acciaio e vetro pennellati dalla luce, qualche riflesso sul rosso in alcune strutture orizzontali, per lo più è una verticalità vertiginosa che prende l’osservatore portandolo in alto in una proiezione che non è soltanto visiva ma anche spirituale. L’architettura ha di per sé una carica coinvolgente, che nelle immagini viene sublimata dal fatto che gli arditi scorci fotografici, che corrispondono alla visione dal basso, sono sublimati dalle sciabolate di luce dei contorni nell’oscurità degli sfondi. “In esse – scrive ancora la curatrice – dobbiamo scorgere tutto il suo impeto compositivo che significa passione, passione ma anche emozione per chi voglia silenziosamente unirsi a quelle presenze e leggerne ogni linea e sentirne ogni vibrazione nella prorompente rielaborazione della luce con l’uso del digitale”.

Le sculture fotografiche della figura femminile 

Oltre a queste immagini di giganti urbani ne sono esposte 6 che ci portano nell’universo femminile di Bergamini, cui si è dedicato in passato con mostre fotografiche in cui la donna è stata sempre presentata nella sua  dignità personale unita a una carica tale da farne musa ispiratrice. C’è stato impegno sociale e civile come nelle fotografie del campo Rom in Romania,con i bambini protagonisti, premiate in due categorie all’International Photografy Awards per il 2013. In mostra presenta sei immagini oniriche, volti e corpi di donna che come i giganti urbani si stagliano nel buio, le sciabolate di luce li scolpiscono, danno alla loro fisicità segnata da ombre e colori forti contenuti emotivi di sogno e desiderio, di abbandono e ripiegamento interiore.

E’ un filone da perseguire nel quale la fotografia di base diviene “altro” ad elevato contenuto artistico perché muove la mente nella ricerca dei contenuti più profondi e l’anima nella condivisione degli stati d’animo percepiti; come diviene “altro” nei giganti urbani dinanzi ai quali ci sentiamo piccoli come i lillipuziani di Gulliver e come loro rei di averli imprigionati; Bergamini li libera dai lacci delle loro destinazioni pratiche nobilitandone l’imponenza che sfida il tempo e lo spazio.

Per concludere non si può non richiamare la particolarità della sede espositiva, la grande sala della Fondazione, che vuol dire visione contigua dello studio del  grande Venanzo Crocetti  e delle sale in cui c’è l’esposizione permanente delle sue straordinarie opere.  Dove l’universo femminile è rappresentato dalle sculture  di modelle e  ballerine, eleganti e  serene, ma anche di figure tormentate come “Maria di Magdala”, “L’incendio” e “Il ratto”, rispetto alle quali si può trovare un nesso delle donne altrettanto tormentate di cui Bergamini ci offre intense sculture fotografiche; una nostra associazione di idee spontanea dopo l’emozionante visione parallela.

E’ un abbinamento forse inusitato ma intrigante tra la mostra temporanea di Bergamini e l’esposizione permanente di Crocetti che giustifica ancora di più  la “gita fuori porta”, come si dice a Roma, sulla via Cassia numero 492 nella casa museo del grande scultore.

Info

Fondazione e  Museo Crocetti, Via Cassia 492. Orari: lunedì, giovedì, venerdì ore 11-13, 15-19; sabato e domenica 11-18, martedì e mercoledì chiuso. Tel. 06.33711460; http://www.fondazionecrocetti.it/ Catalogo: Riccardo Bergamini, “EsseRI Contemporanei”, novembre 2013, pp. 30, formato 21,5×21,5. Per le opere di Venanzo Crocetti citate, cfr. i nostri articoli: in questo sito l’8 ottobre 2013 “Crocetti, il ‘900 e il senso dell’antico”, in “cultura.inabruzzo.it” il 1° febbraio 2009 “Il mondo di Venanzo Crocetti”. Per le diverse modalità  fotografiche citate nel testo cfr. in http://www.fotografarefacile.it/ i  nostri servizi sui grandi fotografi, 90 dal 2011..

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fondazione Crocetti all’inaugurazione della mostra, si ringrazia la Fondazione con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Bergamini, per l’opportunità offerta; l’artista si ringrazia inoltre per aver acconsentito ad essere ritratto da noi davanti a due sue opere. In apertura, l”artista tra la sua interpretazione del  “Fungo” dell’Eur di Roma e la ripresa digitale di un’intelaiatura in fase di costruzione; seguono altre due immagini di strutture costruttive, poi due immagini con scorci di abitazioni; in chiusura un’intenso viso di donna.

Carlo Erba, arte ed eroismo, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

La mostra alla Galleria Russo con esposti 70 disegni di Carlo Erba, dal 21 novembre al 12 dicembre 2013 presenta un artista raffinato, protagonista di una storia esaltante sotto il profilo artistico e commovente sotto l’aspetto umano, perché all’indipendenza nell’arte e nella vita unisce una conclusione eroica: la morte nella prima  guerra  mondiale in cui andò volontario, nell’impossibile assalto all’arma bianca a una postazione nemica. Roberto Floreani, nel  Catalogo di Palombi Editori,  dà conto in modo esauriente della vita e dell’arte di Carlo Erba.

L’indipendenza nella vita e nell’arte

E’ indipendente Carlo Erba fin dai primi passi della sua biografia. Rinuncia al futuro pronto per lui alla guida della grande industria farmaceutica  che porta il nome del nonno fondatore, uguale al suo, per aderire ad idee anarchiche e dedicarsi agli studi artistici diventando presto artista lui stesso. Si conoscono 600 suoi disegni, mentre la produzione pittorica e altre espressioni d’arte sono andate perdute dopo la sua morte.

Il suo spirito indipendente lo ha tenuto al di fuori delle correnti artistiche del momento ma non è stato impermeabile agli influssi, per la carica innovativa che sentiva di dover esprimere.

Tra il 1905 e il 1909 i suoi disegni sono dei chiaroscuri molto ombreggiati, i soggetti paesaggi e ambienti urbani, figure e temi religiosi. Vediamo esposti, di questo periodo, “Notturno con lampioni” e “Interno di giardino con piante”, “Interno di  studio” ed “Esterno di studio”; “Figure in costume” e “Donna seduta che cuce”, fino a “Testa di Cristo” e “Deposizione”.

Quando nel 1909 viene pubblicato il “Manifesto futurista” di Filippo Tommaso Marinetti -.al quale la Galleria Russo ha dedicato tra febbraio e  marzo 2013 la mostra “Marinetti chez Marinetti” – ha 25 anni e frequenta gli ambienti milanesi della “Famiglia artistica”, con i giovani “scapigliati” e gli indipendenti rispetto alla tradizione. E’ attratto dal Futurismo, ma non vi aderisce neppure dopo il “Manifesto dei Pittori Futuristi” dell’11 febbraio 2010;  né coglie l’occasione del 1911 al Padiglione Ricordi che aprirà agli aderenti al Futurismo una serie di esposizioni internazionali da Parigi a Londra, da Bruxelles a Berlino fino a Mosca, con la condizione “dentro o fuori” il movimento.

Carlo Erba per il suo spirito di indipendenza non vi entrerà, rinunciando ai vantaggi di un’adesione, e nel 1914 contribuì a costituire il gruppo “Nuove tendenze” che nel programma fondativo indicava come “criterio fondamentale” proprio “l’esclusione assoluta di tutte quelle manifestazioni che nelle consuete esposizioni trovano già il loro naturale ambiente”. Indipendenza quindi anche rispetto al Futurismo al quale, tuttavia, il gruppo cui aderì era contiguo per spirito innovativo e trasgressivo, al punto da essere chiamato “l’ala destra del futurismo”; vi confluì  uno dei fondatori, l’architetto visionario Sant’Elia, che sottoscrisse il “Manifesto dell’Architettura” futurista. Contiguità non vuol dire partecipazione, anzi gli fu negata nel 1914 l’Esposizione Libera Futurista alla galleria Sprovieri a Roma per un  veto di Boccioni nonostante l’evoluzione del suo stile in senso futurista.

L’arte tra Futurismo, Nuove tendenze ed Espressionismo

Lo si vede dal confronto tra le opere prima citate e quelle  fino al 1911 con le opere dal 1912 in poi: cambia tutto, abbandona i chiaroscuri e le ombreggiature, il segno diventa deciso e preciso, in molti casi frastagliato e dinamico. A questo confronto la mostra in esame fornisce ampio materiale con i disegni dei periodi suddetti. Dal 1908 al 1911 “Il paesaggio lungo il Naviglio” e due “Studi per Corso Vittorio Emanuele”  nonché “Case sul Naviglio”, “Case di periferia”  e “Case e Duomo di Milano” per i temi ambientali; due ritratti del “Padre Luigi”, di profilo e mentre legge, una “Donna con chitarra” e “Studio di figura maschile” con caratteri analoghi al periodo precedente. Ma del 1911 vediamo due “Figure di donna” in cui il segno cambia, diventa più netto e dinamico.

E’ una svolta stilistica impressa dal Futurismo e, pur se lui resta fuori dal movimento, è più marcata nelle opere successive. Di paesaggi urbani ne vediamo soltanto uno, “Ultime case sul Naviglio”, del 1911-12, quasi un simbolico allontanamento, mentre nelle opere dal 1912-13 domina la figura umana: dai due “Ritratti maschili”, in cui le angolature sembrano preannunciare la svolta, a “Figura in movimento”, “Studio di figure”  e “Figure”, molto segnate dal  dinamismo futurista.

Nel 1913-14 abbiamo ancora scene dinamiche, come ” Coppia danzante” e “Figura di danza”, ma anche soggetti visti nella loro intimità, come “Adolescente con l’orsacchiotto” e “Adolescente guarda l’orsacchiotto”, dove c’è un dialogo senza parole tra bambina e il pupazzo; “Fanciulla alla finestra” e “Modella sdraiata con calze”, “Figura femminile” e “La sorella Bianca seduta con ventaglio”: non sono statiche e pur nell’assenza di movimento vibrano di un nervosismo vitale.

I segni interiori si acuiscono rispetto alla ventata futurista restata in superficie, e nelle opere del 1914 si fa sentire sempre più l’influsso dell’Espressionismo tedesco, in particolare di Ernst Ludwig Kirchner. Vediamo soprattutto figure femminili: “Donna con gatto” e “Giovane donna  sdraiata”, “Modella seduta”  e “La  mia bella luna”, “Donna che cuce” e “donna che legge”, fino a “Bimbo che dorme in braccio a un a donna” e “Studio per ‘le trottole del sobborgo (che vanno)'”che Roberto Floreani  definisce “nato dalla conciliazione tra stili diversi”. Poi vediamo disegnati due busti  maschili: “Testa di vecchio pescatore” e “Studio di volto di pescatore”

Del 2014 anche due esterni, uno urbano, “Chiusa sul naviglio”, l’altro ambientale, “Paesaggio montano”, .che ritroviamo nel 1915 in “Paesaggio urbano”, una piazzetta quasi metafisica con le colonne e la solitudine, e in due “Montagne”, con delle casette in grandi spazi sovrastati dai monti.  I soggetti umani in  “Donna con bambino” e nella straordinaria  “Processione di educande”, uno scorcio suggestivo di figure che passano ripiegate su se stesse tra il pudore e la riflessione.

La guerra e l’eroismo, la disillusione e la fine

Il segno è diventato ancora più netto, la visione interiore ancora più intima e profonda. Ma ormai i temi diventeranno altri perché nella vita dell’artista irrompe la prima guerra mondiale. Sull’onda degli impulsi futuristi nei quali la guerra aveva un posto di primo piano tra le scelte doverose, si arruola volontario proprio nel Battaglione Volontari Ciclisti e Automobilisti di Marinetti, di cui fecero parte gli artisti del Futurismo e di Nuove Tendenze, da Boccioni a Sironi, da Russolo a Bucci compreso l’architetto Sant’Elia che abbiamo citato in precedenza. Carlo Erba vi entrò senza proclami e partecipò con spirito cameratesco all’addestramento prebellico a Gallarate nel luglio 1915 e a Peschiera,  e dipinse con Marinetti, Russolo e Boccioni dei cartelloni, purtroppo perduti, per la “Grande Serata Patriottica” in un teatro. Di questo periodo sono rimaste delle fotografie.

In guerra combatte valorosamente al fronte per la conquista dei dossi Casina e Remit e, allo scioglimento del battaglione, entra negli Alpini. E’ tra i vincitori del concorso “Per la migliore impressione di guerra” al quale partecipa alla fine del 1915 con alcuni disegni fatti al fronte.

Ancora battaglie che lo porteranno a riflettere sugli orrori della guerra spegnendo l’entusiasmo futurista nella disillusione;  il “Ritratto di Umberto Boccioni” raffigura il grande esponente del futurismo con la testa rivolta in basso, affamato e affaticato senza più neppure l’ombra dell’entusiasmo con cui si era arruolato.

Combatte ancora eroicamente, viene ferito, decorato sul campo e promosso tenente; riceve un encomio per aver salvato la vita a due alpini feriti il 2 novembre 1916.  Nei suoi disegni in punta di lapis dal tratto sottile emergono gli stati d’animo, come in “Volontari in riposo (Antonio Sant’Elia”)  e “Posizioni dei fucilieri”, “Prove di tiro” e “L’ordine di sicurezza in stazione”.

Quando nel 1917, dopo due anni di guerra, viene trasferito all’Ortigara, subentra in lui il presentimento della fine vicina. Nell’ultimo breve ritorno  a casa nell’aprile 1917 disse queste parole, nei ricordi della sorella Bianca in presenza dei genitori: “Bianca, pensa tu alla mamma e al babbo, dovrete fare senza di me, lassù in montagna è un inferno, questa volta non tornerò”. La “zona K”, cui è destinato, è  definita “il Calvario degli Alpini” per la via Crucis del fuoco delle mitragliatrici degli austriaci asserragliati in grotte che dominavano il “Vallone della morte” e gli altri varchi micidiali dove gli alpini erano costretti a passare votati al massacro.

In un vano attacco notturno all’arma bianca a  Cima Caldiera Carlo Erba morì  il 12 luglio 1917 “incurante di sé,…rincuorando i reparti” come disse il commilitone Osvaldo Valentini. Un altro suo compagno d’armi e di arte, Alberto Bucci, lo ha ritratto esanime con il titolo “Sonno 12 luglio. Sott. Carlo Erba morto a Ortigara”, che fece parte del volume  di disegni “Battaglione 1915”; fu seppellito vicino al punto in cui cadde.

La preveggenza, l’ispirazione artistica e la qualità umana

Aveva descritto con preveggenza questo momento in una nota del  maggio 1917: “Quand’uno riceve una pallottola di fucile nella testa di solito muore – ecco tutto – cade a terra , lo si raccoglie, lo si carica su una barella, e lo si porta in u n luogo dove sia possibile sotterrarlo. Niente di più e niente di meno”. Di meno ci sarà che il suo corpo non verrà più ritrovato, di più che ebbe la medaglia di bronzo alla memoria, e fu ricordato poco dopo la morte da Margherita Sarfatti e Anselmo Bucci in “Gli Avvenimenti” e “Pagine d’Arte”del 15 luglio 1017. 

Nella nota appena citata c’è una sconvolgente descrizione della guerra vista dall’interno da un entusiasta passato attraverso la delusione e la disillusione alla condanna senza appello con la denuncia di coloro che “scrivono tante sciocchezze sulla guerra” solo perché “non la  vedono e non la vivono”.  Ecco la sua denuncia accorata: “Questa è la guerra che non ha vessilli e non ha inni, è la grigia uniforme monotonia di migliaia di uomini che aspettano vigilando, muoiono avanzando nell’irto groviglio di reticolati, e la musica del cannone  e la rabbia delle raffiche di mitraglia”, anche qui  profetico della sua fine. “I topi che vi corrono sul viso la notte fan gazzarra nelle trincee, nei rifiuti che i soldati buttan via. Topi compagni di vita, come noi rintanati in gallerie di umidità e di sporcizia”, tutta l’epopea futurista della guerra “igiene del mondo” completamente rovesciata.

Roberto Floreani nel concludere la sua commossa rievocazione della vita e dell’opera di Carlo Erba, riassume le diverse fasi del suo percorso artistico, dalla tradizione lombarda all’innovazione fuori da ogni schema agli influssi futuristi e poi espressionisti fino alle opere nel vortice della guerra. E conclude definendolo “grande uomo ed artista delle urgenze del suo tempo”.

Noi non azzardiamo definizioni, preferiamo riportare le due che ci sono apparse più appropriate. La prima riguarda l’ispirazione artistica, e ce la dà lui stesso: “A volte le cose che hanno determinato in me l’emozione hanno avuto ragione d’essere nella loro essenza descrittiva, … in altre condizioni le cose  m’hanno interessato non come elementi di descrizioni, ma come valori di movimenti, masse e colori”; la seconda definizione riguarda la qualità umana, è del citato commilitone Valentini: “Semplice volontario,era il capo spirituale del plotone: ci stringemmo tutti, quasi istintivamente, attorno alla grande, serena  figura di Erba. Era infatti uno spirito superiore… sfogava con giovialità la sua natura esuberante… con la sua serenità nel pericolo… con il suo altruismo che gli faceva ricercare i posti di maggior rischio”.

Il tutto nella sua vita intensa consumata in soli 33 anni fino al sacrificio supremo, il Golgota nel “Calvario degli Alpini”.

Info

Galleria Russo, Roma Via Alibert 20, tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo. Orario:lunedì ore16,30-19,30; da martedì a sabato ore 10,00-19,30; domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, tel. e fax 06.69920692, http://www.galleriarusso.com/; info@galleriarusso.com  Per la mostra su Marinetti cfr, in questo sito, il nostro articolo “Marinetti, disegni e quadri futuristi alla Galleria Russo” il 3 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Russo all’inaugurazione della mostra. Si ringraziano gli organizzatori della Galleria Russo e i titolari dei diritti.  In apertura, “Deposizione”, 1907-08, seguono “Figura di donna”, 1911, e “Ritratto maschile”, 1912-13; poi “Coppia danzante”, 1913-14, e “Donna con bambino”, 1914-15; in chiusura, “Paesaggio urbano”, 1915.