Giosetta Fioroni, monocromie e ceramiche, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 26 ottobre 2013 al 26 gennaio 2014 l’opera di Giosetta Fioroni in due  esposizioni strettamente collegate: “L’argento”, curata da Claire Gilman, sulle pitture monocrome e i disegni; e “Faience”, curata da Angelandreina Rorro, sulle ceramiche con Teatrini e Vestiti,  le figure femminili policrome dal titolo tra il sostantivo e il participio. Per la mostra è uscito il libro “My story, la mia storia”, con le sue confidenze sui 60 anni .di vita artistica.

Due mostre in una per la doppia  espressione di Giosetta Fioroni,  che riflette motivi legati alla sua arte e anche alla sua vita. Argento e ceramica come mezzi espressivi della sua passione per le forme teatrali,, considerando che il padre modellava figure in argilla per il teatro di burattini allestito dalla madre:  figlia d’arte con i genitori che si erano conosciuti all’Accademia delle Belle Arti di Roma.

La sua vita artistica incrocia molto presto le  avanguardie americane della Pop Art insieme agli artisti che con lei animavano la galleria “La tartaruga” e la scena artistica romana, dal gallerista Plinio De Martiis con il collezionista Giorgio Franchetti agli artisti Mario Schifano e Tano Testa, Franco Angeli e Jannis Kounellis, uniti nella cosiddetta “Scuola di Piazza del Popolo”, dal luogo dei loro incontri quotidiani.

Ci fu un forte influsso americano, ma non tale da far abbandonare il figurativo né a lei né agli altri artisti romani, loro tra gli elementi della Pop Art inserivano sfondi o contorni legati a immagini familiari. La Fioroni visualizzava queste immagini con un montaggio di simboli quasi geometrici mentre  la spinta dell’arte informale in Europa traduceva l’espressionismo astratto d’oltre Atlantico. Vi erano  resistenze a recepire la Pop Art  in un rapporto quasi di amore-odio; attrazione per la sua carica innovativa e senso di repulsione per l’incultura artistica del mondo che l’aveva generata.

La risposta fu di cogliere la sfida recependone le novità rivoluzionarie, ma senza accettare la spersonalizzazione del soggetto dominato dall’oggetto  per il consumismo alienante: l’oggetto è sempre protagonista ma vi è la costante presenza del soggetto, quella che conta è la percezione che ne ha. In questo l’artista è stata esemplare, come ha scritto Renato Barilli: “In un’epoca in cui il valore visivo è fortemente screditato, Giosetta Fioroni coraggiosamente afferma la sua fedeltà alla vista”, e aprecisa:”Abbiamo qui una sfida costante a quelle correnti che oggi credono  sia impossibile per l’artista lavorare secondo i normali atti della percezione”.  E anche se la vista rischiava di essere “sedotta e dominata dal suo oggetto”, costituiva pur sempre “le basi della consapevolezza critica e del giudizio”.

C’era molta sensibilità su questo piano, perché se il “regime del consumo” sembrava aver sostituito il regime politico abbattuto dalla guerra, si sentiva il bisogno di costruire qualcosa di solido, come espressione di esattezza e geometria, per raggiungere un risultato di armonia. Lei stessa nel 1960 dice: “Cercavo la leggerezza , qualcosa che proprio trascorre, qualcosa che potrebbe essere immaginato come una serie di inquadrature… Sono tutte pose congelate… miravo proprio a creare una sensazione di fissità, di fissazione intesa come immobilizzazione del movimento”.

Così nasce, nel 1959 la sua “pittura argentata all’alluminio”, cioè il suo “Argento”.

“Argento”,  i volti nella pittura monocromatica

Claire Gilman, curatrice della mostra “Argento”, cita la definizione data dalla stessa artista: “Un ‘non colore'”  tale da cancellare  i colori di cui si era abusato fino ad allora, e che “avrebbe attirato l’attenzione, la percezione, delle persone che osservavano le mie tele”. Ed ecco  l’interpretazione della Gilman: “L’‘argento’ di Giosetta Fioroni rappresentava una sorta di evacuazione, una rimozione, che la condusse dai primi disegni a una serie di immagini spoglie in cui l’artista isolava i singoli oggetti ritratti nei primi lavori, come un letto, una lampadina o un cuore, e li posizionava su superfici che per il resto erano vuote”. 

Così nascono i primi tre monocromi argentati  del 1960,  tele argentate che incorporano disegni, linee che interrompono la superficie continua,  torna al figurativo con figure in argento e grafite isolate. In “Tre bambini”, 1961, le figure non rappresentano tanto la propria realtà quanto il modo con cui ne è percepito il ricordo in un esercizio della memoria che attraversa il tempo e lo spazio.

Negli  anni ’60 si moltiplicano le immagini di volti, riprese da fotografie di  varia provenienza, familiari, anonime, storiche; e soprattutto modelle prese da riviste di moda  e dipinte in color alluminio sulla base di disegni dai contorni netti ma schematici e abbozzati, senza alcun precisionismo. Citiamo l’anonima “Ragazza con occhiali” (1965) e “Lo sguardo”, 1966, stessa  persona;  poi l’attrice Elsa Martinelli, molto in voga in quel periodo, un’eccezione  tra i volti sconosciuti dipinti dall’artista: la vediamo  nei due “Libertà”, del 1964 e 1965, che ricordano l’immagine da una lente telescopica , e nel grande “Glamour”, 1965, in cui il viso emerge  tra un groviglio di linee, “come un sole all’orizzonte”, commenta la Gilman, aggiungendo: “A dire il vero, da sotto queste linee i volti dipinti di Giosetta Fioroni appaiono sospesi, i loro toni argentei ricordano emulsioni fotografiche trasferite sulla superficie della tela”..

L’origine è  fotografica  e le immagini sono quasi incorporee, dall’espressione intensa, triste.  A differenza dei ritratti di Andy Warhol, che ebbe molta influenza su di lei, i suoi non riguardano celebrità – a parte l’eccezione ricordata – e sono realizzati con incisioni su superfici monocrome in cui i ritratti si incorporano. Le diverse versioni dello stesso soggetto non sono mere ripetizioni  come in Warhol ma presentano varianti, come si vede in “Maschera” e “Doppia Maschera”, 1966.

Nel citare “Libertà” e “Glamour” abbiamo sottolineato l’effetto da lente telescopica nel primo, e l’emersione da un groviglio di linee del secondo. Ebbene, questo processo visuale fu portato avanti nell’esposizione “Teatro delle Mostre” presso  “La tartaruga” con una lente telescopica rovesciata in uno spioncino da cui si vedeva  la propria stanza da letto nella galleria, un’attrice simulava i suoi movimenti nella giornata. Abbiamo ritrovato lo spioncino  nella mostra di Duchamp, la Fioroni è stata inclusa tra gli artisti italiani a lui collegati, titolodell’installazione “La spia ottica”.

Non fu un  caso isolato, l’idea dello spioncino l’ha utilizzata per la visione di teatrini o di set su eventi trasformati in scene teatrali visibili con questo accorgimento. Alla base di tutto ciò c’è il racconto, con l’intento di osservare la realtà e riprodurla trasformata offrendola alla visione. La Gilman ricorda le parole dell’artista secondo cui disegnare è servito da “impalcatura o supporto'”, e vi vede ” un terreno per le sue impressioni passeggere e un mezzo per avvicinarsi a un mondo sempre sfuggente”.

“Faience”, Teatrini e Vestiti in ceramica

A questa incursione nel teatro si collega la seconda mostra, “Faience”,  che presenta la serie  “Teatrini” in ceramica, insieme  alla serie “Vestiti”,  ispirate al periodo presso la Bottega Gatti di Faenza, esperienza che ci ricorda quella di Sebastian Echuarren, anche’egli approdato nella stessa bottega faentina alle sculture in ceramica in aggiunta alla sua produzione pittorica e a tutto il resto.

Questa esperienza della Fioroni risale a vent’anni fa, e  a differenza dei disegni e dipinti della serie “Argento”  degli anni ’60, evanescenti o solo abbozzati, mostra, soprattutto nel “Vestiti”,  una forza pittorica precisa e ben definita, dai colori molto intensi.

La precisione delle sculture policrome e l’evanescenza monocroma dei disegni e dipinti  non vengono visti come contrapposti da Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Galleria: “‘Argento’ e ‘Faience’ possono ritenersi i due versanti di un unico evento: l’apparizione”.

In particolare: “Nei dipinti d’argento l’apparizione è intesa come illusione del vedere, vaga traccia  di un’immagine che non si sa bene se stia per comparire o per svanire, immersa in quella che Goethe chiamava la ‘chiarezza nebbiosa’ del paesaggio mediterraneo, sfocato per eccesso di luce. Nei ‘Vestiti’ invece l’apparizione è presenza immaginaria, che oscilla fra evocazione e meraviglia, conservando ‘un’aura conturbante di sortilegio’, secondo un’espressione di Giuliano Briganti”.

Alla base c’è un processo speculare: “Nel primo caso è la realtà che perde consistenza, nel secondo è la fantasia che si solidifica, ma in entrambi siamo trasportati in una zona incerta, indistinta, percorribile solo con lo sguardo interiore della memoria o nell’immaginazione”: sono “varianti sentimentali” per la Fioroni, considerate  “sentimenti spazializzati, atmosfere” dalla Clarelli.

Tenendo conto di queste considerazioni va sottolineata la svolta figurativa e cromatica data anche dalla tridimensionalità delle opere in ceramica: bassorilievi nei Teatrini, statue a tutto tondo nei Vestiti, in cui l’artista si cimenta con il corpo femminile, non solo nella forma della figura ma anche nell’abito che lo copre ed ha un ruolo fondamentale con la sua ricchezza cromatica e ornamentale.

I Teatrini sono allineati nella grande sala della mostra, varietà nella ripetizione del tema, un’esposizione suggestiva. C’è “East of Even”, 1993, uno dei primi realizzati, e “Al grandissimo Arturo M.”, dedicato allo scultore Arturo Martini, 1994, poi i più grandi tra il 2000  e il 2005, ispirati ai racconti di Goffredo Parise e ai suoi primi due romanzi. Ci sono anche teatrini più piccoli quasi miniature di 25 cm, realizzati nel 1995 per l’editore Andrea Franchi, sono le “20 ceramiche per William Shakespeare”, ciascuna ispirata a un’opera di cui viene visualizzato l’elemento chiave. Altri teatrini simili a delle scatole sono ispirati a poemi scenici di Auden,  Marcovaldi, e Arbasino.Questa sezione pur spettacolare, è addirittura superata nell’effetto visivo da quella dei Vestiti: una folla di statue di figure femminili elegantissime fortemente colorate, “semplicemente immobili nel loro portamento”, come l’artista scrisse a  Davide Servadei. Così parla la Clarelli dei corpi femminili vestiti: “Più che fermi paiono fermati, come sulla soglia di una sala da ballo o di un palcoscenico, prima di alzare le gonne e inchinarsi. Sono gli abiti che tutte le bambine, prima o poi, hanno sognato, con le gonne danzanti a campana. Sono bambole al contrario, che hanno tramutato in porcellana ciò che di solito è di stoffa e perduto ciò che di solito è di porcellana”.

Oltre alle bambole fanno pensare ai manichini vestiti con gli abiti realizzati dalla sartoria e anche, con maggiore fascino evocativo, al mondo delle favole: d’altra parte c’è anche Cappuccetto rosso, una delle ultime opere di questo tipo dell’artista, che nel 1978 aveva illustrato il libro di favole di Alberto Arbasino dal titolo  “Luisa col vestito di carta”, con in copertina un abito vaporoso senza corpo trattandosi di una storia di fantasmi e, ancora più indietro nel tempo, nel 1967 aveva disegnato i costumi dell’opera “Carmen”, per la  regia dello stesso Arbasino.

Non solo persone anonime o favole come Cappuccetto rosso, otto statue di “Vestiti” sono dedicate a eroine della letteratura, protagoniste di opere di Ippolito Nievo e Goethe, Turghenev e Musil, Wedekind e Henry James, Theodor Fontane e Kawabata: sono la Pisana e Ottilia, Zinalda e Agathe, Lulù e Daisy, Effi e Komako.

In una conversazione con Angelandreina Rorro l’artista spiega con ampiezza e profondità il suo rapporto con la ceramica, iniziato per una circostanza molto particolare: la realizzazione nel 1992 per l’editore Maurizio Corraini di un teatrino in ceramica presso la Bottega Gatti di Faenza dove inserire le 100 copie numerate del libro sull’amico Guido Ceronetti “Marionettista, nell’alchimia figurativa di Giosetta Fioroni”.

Ricorda con emozione “l’iniziatico momento di affondare le mani nella creta fresca, di modellare questa creta come ‘prelibata vivanda’” e la sua successiva frequentazione della Bottega  realizzando una “ceramica iperpittorica” come “un’unione di pittura e scultura”,  ma senza abbandonare il disegno: anzi in alcune sue ceramiche i particolari sembrano più disegnati che scolpiti, e cita i 60 bassorilievi del 1965 sul Cane con tanti elementi “disegnati”, animaletti, scalette ecc.

L’artista tiene a sottolineare che le sue sono serie di opere ma non multipli,  ognuna è un originale diverso dagli altri, anche se spesso le differenze sfuggono ma ci sono in elementi apparentemente simili, come nei “Teatrini” e nei “100 alberi”, intesi come “omaggio alla natura in senso lato… natura umana, sentimenti, eventi dell’immaginario, mondo fiabesco”.

In questo sta forse la chiave dell’evoluzione dalle figure essenziali e monocrome degli anni ’60 al tripudio di forme e di colori delle ceramiche, un’apertura dettata anche dall’immersione nella natura della campagna trevigiana negli anni ’70 con Goffredo Parise che scriveva i  racconti “Sillabari” ,in un ambiente divenuto ancora più suggestivo per le storie e leggende narrate dai vecchi contadini.

La ceramica, del resto, per l’artista “è di per sé adatta  a proporre l’elemento metafisico, il sogno, la fiaba la chimera e tanto altro”. E può rendere con “levità e grazia” la metafora della vita. Questo dice  a conclusione della conversazione con la Rorro, e ci sembra possa essere anche la nostra conclusione: “Io ho sempre avuto il ‘Teatro della vita’ in mente. Mi spiego: ho cercato di dotare il lavoro, i singoli pezzi, le varie serie di opere, di intendimenti che proponessero un sentimento, oltre la pura apparenza, oltre il loro semplice comparire. Ho tentato… e, chissà, speriamo un poco di esserci riuscita a raggiungere una vaga metafisica, ho cercato di raccontare quel lieve senso di Mistero che aleggia intorno e oltre la realtà”. Speriamo anche noi di essere riusciti a rendere qualcosa di questa poetica leggera e insieme profonda che anima il mondo di Giosetta Fioroni.

Info

Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, Roma, Viale delle Belle Arti, 113. Dal martedì alla domenica ore 10,30-19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima), lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 10,00, ridotto euro 8,00, scuole euro 4,00. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali.it/.  Per la mostra è uscito il libro Giosetta Fioroni, “My Story, la mia storia”. Corraini Edizioni, 2013, pp. 304, euro 30,00, formato 16,5×23,6. Per le ceramiche di Echaurren, citato nel testo, cfr. i nostri 3 articoli sulla sua mostra di Roma in questo sito il 23 novembre, 30 novembre e 14 dicembre 2012, in particolare il secondo, “Echuaurren, la natura e la ceramica”. Per la Pop Art e i movimenti d’avanguardia americani cfr. i nostri 3 articoli sulla mostra con opere del Guggenheim, il 22 e 29 novembre  e l’11 dicembre 2012, in particolare il secondo, “Guggenheim, dall’espressionismo astratto alla Pop Art”; infine per i movimenti di  arte contemporanea italiana dal dopoguerra cfr. i nostri 2 articoli in questo sito il 5 e 6 novembre 29012, sull'”Astrattismo italiano”della mostra alla Gnam per il 60° di Editalia.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna all’inaugurazione, si ringrazia la Gnam con  i titolari dei diritti,per l’opportunità offerta.In apertura, una panoramica dell’esposizione di ceramiche “Vestiti” e  “Teatrini” in fondo, della mostra “Faillence”; seguono 4 ritratti femminili di “Argento”, poi due “Teatrini”; in chiusura una visione ravvicinata di “Vestiti”.

Cézanne, e gli artisti italiani, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Raccontiamo la visita alla mostra aperta al Vittoriano, lato Fori Imperiali,  dal 5 ottobre 2013 al 2 febbraio 2014  dedicata a  “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900“:  100 opere tra cui 20 di Cézanne e  80 di 18 artisti italiani del ‘900  a lui ispirati, distribuite in 4 sezioni tematiche sulla natura morta e il paesaggio con 30 opere ciascuna, il ritratto e il nudo rispettivamente con 20-22. Maria Teresa Benedetti è la curatrice della mostra e del Catalogo Skira,  coordinatore generale Alessandro Nicosia,  presidente  di “Comunicare Organizzando”  che l’ha realizzata.

Iniziamo la visita concentrandoci sulle opere di Cézanne esposte nelle 4 sezioni, senza farci sviare dagli artisti italiani  su cui ritorneremo al termine della visione del solo grande maestro. Il motivo della scelta è evidente,  cercare di riscontrare nella pratica della sua arte quanto sotto il profilo dello stile e del contenuto abbiamo già raccontato sulla scorta della critica colta di ieri e di oggi nel servizio precedente. Sarebbe stato più difficile sovrapporvi di volta in volta gli altri artisti ai quali abbiamo dedicato un secondo giro che racconteremo dopo il primo giro  relativo a Cézanne.

Le opere di  Cézanne nelle 4 sezioni della mostra

Ecco  la sezione dedicata alla natura morta, con 30 quadri, 3 di Cézanne. E’ un tema al quale dedicò più di 300 opere, tra oli e acquerelli, un quinto del totale. Nelle sue composizioni, con la semplicità ricercava le geometrie della natura: disse di  “modulare”con il colore  i volumi solidi, invece di “modellarli” con il chiaroscuro, per avvicinarsi al processo naturale; in un ordine ed equilibrio compositivo che esprimeva la sua visione interiore del mondo; basata sull’attenzione ai particolari della composizione, come alla prospettiva e al cromatismo.

Sono esposte due sue opere molto rappresentative, “Il buffet”, 1877-79 e “Frutta”, 1879-80,  nelle quali si manifesta la sua attenzione al rapporto degli oggetti con lo spazio, la linearità delle forme  e il forte cromatismo che dà rilievo ai volumi dei frutti disposti sulla bianca tovaglia che li contiene con le sue curve ponendoli in primo piano in una composizione precisa e ordinata. Inoltre “Teschio e bollitore”, 1864-65, tinte neutre in una composizione dai forti contrasti di luce.

La sezione sul paesaggio tra le  30 opere esposte,  presenta  8 dipinti di Cézanne e 1’acquerello e matita su carta, “Alberi e rocce”, 1887-90, appena abbozzato ma suggestivo nella sua dissolvenza.  Questo tema, al centro della sua produzione artistica, raffigura  la sua terra natale, Aix in Provenza, con la campagna mossa e frastagliata, e la vegetazione nel sole abbagliante,  nonché il paesaggio cittadino di Parigi, con Montmartre e la Senna, il bosco di Fontainebieau e le acque della Marna.

E’ una  pittura in cui si esprime il forte impatto emotivo che riceve dalla natura: ma non si limita a rappresentare l'”impressione” che ne deriva:  ne fa la manifestazione dei sentimenti interiori nella composizione e nell’armonia cromatica delle macchie di colore, mantenendo sempre la sintonia con ciò che colpisce i suoi sensi, in un’evoluzione nel tempo dalla linearità iniziale alla crescente complessità del cromatismo. Molto lineari sono “Paesaggio nella campagna di Aix,: la torre di Cesare”,  e “Paesaggio”, 1863-65;  la linearità c’è anche in “I ladri e l’asino”, 1869 con l’elemento umano e in “La strada in salita”, 1881,  mentre sopravviene la prevalenza delle macchie di colore sulla forma definita, prima nelle rocce in primo piano di “Rocce all’Estaque”, 1882-85  che relegano il mare a una striscia di azzurro, poi nel verde dell’“Interno di una foresta”, 1885,  fino alla quasi astrazione cromatica in “Paesaggio blu” e “Il monte Cengle”, 1904-06.

Nella sezione dei Ritratti , sulle 20 opere esposte, quelle di Cézanne sono 3 dipinti e 1 piccolo acquerello e matita su carta “Ragazzo che legge”, 1985, quasi sperimentale, teso a dare il senso dei volumi senza potersi distinguere il volto. Nei 3 dipinti  si esprime sia la sua concezione del ritratto, sia l’evoluzione nel tempo. La ricerca di esprimere il carattere e l’interiorità della persona raffigurata lo porta a richiedere lunghe sedute di posa nell’immobilità, quasi fossero sedute psicanalitiche; nello stesso tempo lo sfondo viene ridotto a pochi tratti senza profondità in modo da far risaltare il soggetto, che in genere era da lui ben conosciuto o suo parente, a parte gli autoritratti in cui rendere il proprio carattere di persona tenace, diffidente e solitaria. Questa caratteristica di penetrazione interiore la vediamo in “Victor Chocquet”, 1877,  amico e collezionista di sue opere, immagine ben definita di persona pensosa ed enigmatica, mentre  in “Il giardiniere Vallier”, 1906, nell’immagine non spiccano i tratti espressivi, colpisce il biancore della figura come della barba in una composizione di macchie confuse e incerte, siamo nell’ultimo anno di vita: è uinvece del periodo iniziale  “Il negro Scipione”, 1866-68, a metà col ritratto, il soggetto è visto di fianco a schiena nuda mentre riposa con la testa sul braccio.

L’ultima sezione  è quella dei Nudi, delle 22 opere, 6  sono di Cézanne. Dai suoi nudi  emerge un senso di armonia e di compostezza, la sintonia con la natura si esprime nel rapporto tra il dinamismo dei corpi e la vegetazione che non è uno sfondo neutro e indistinto come nei ritratti, ma soggetto essa stessa della composizione. I corpi statuari accentuano il senso di classicità dell’insieme, sono corpi femminili in “Bagnanti”, 1983-87  e “Betsabea”, 1887-90,  corpi maschili in “Piccoli bagnanti”, 1896-97 e “Grandi bagnanti”, 1896-98, e figure miste più indistinte in “Bagnanti”, 1892,  che in “Schizzo di bagnanti”, 1900-06 sono appena abbozzate.

Ci limitiamo ad un

Rapido excursus sui 18 artisti italiani in  mostra

Abbiamo percorso le quattro sezioni enucleando le opere di Cezanne, il protagonista assoluto. Ma gli altri “espositori” non sono semplici comprimari: sono grandi artisti italiani nelle cui opere si possono vedere i riflessi del suo stile, dalle composizioni delle forme e dei volumi al cromatismo,

Ed è questo il grande interesse della mostra, la ricerca su cui si basa compiuta non è chiusa in se stessa, ha selezionato le opere in cui ha percepito la penetrazione di Cezanne nella pittura italiana e le ha sottoposte al pubblico perché si faccia una propria idea degli aspetti in cui tale influenza si manifesta; in una ricerca personale con la visione ravvicinata che rende ancora più affascinante il percorso espositivo. Il visitatore si sente protagonista attivo piuttosto che spettatore passivo.

Non è poco considerando i nomi degli artisti italiani, rappresentati con un numero consistente di opere sui soggetti delle quattro sezioni. Ci sono  13 dipinti di Carlo Carrà e 10 di Giorgio Morandi, 7 di Mario Sironi e – i  numeri si riferiscono ad ogni autore – 6 di Gino Severini e Francesco Trombadori, Felice Carena e Fausto Pirandello, 4 di Umberto Boccioni e Felice Casorati, Giuseppe Capogrossi e Franco Gentilini, 3 di Ottone Rosai e Roberto Melli, 2 di Ardengo Soffici e Antonio Donghi, 1 di Filippo De Pisis, Corrado Cagli e Roberto Francalancia.

Sarebbe velleitario se volessimo avviare una comparazione tra Cezanne e i grandi artisti italiani e tra di loro sui quattro temi,  è un invito rivolto al visitatore perché in questo c’è l’interesse ulteriore della mostra oltre quello insito nella vista di tanti capolavori. Il succedersi delle nature morte fa sentire al centro di un immenso ideale convivio alla sua conclusione, quando si giunge alla frutta; l’immersione nel paesaggio è straordinaria, dalle pareti con i dipinti su questo tema ci si sente attirati nel verde e negli ambienti proposti in tante forme; i ritratti ci danno un campionario di volti e di figure da scorrere cercando di penetrarne i caratteri al di là degli atteggiamenti;  mentre i nudi fanno entrare in una dimensione spesso arcadica e classica legata al mito,  non scevra da un naturale erotismo.inquadramento degli artisti italiani, citando  il numero delle opere esposte nelle 4 sezioni iniziando dallo “scopritore”  di Cezanne per l’Italia in veste di critico, Ardengo Soffici, di cui sono esposti 2 paesaggi nei quali l’influsso stilistico e compositivo è evidente.

L’artista più rappresentato in mostra è Carlo Carrà, che fa di Cezanne l’ispiratore, esaurita la fase metafisica della sua vita artistica, soprattutto per i paesaggi degli anni ’20,  con i volumi essenziali dai quali traspirano forti contenuti: ne sono esposti 7;  insieme a 3 nature morte, 2 ritratti e 1 nudo la cui assonanza competitiva è straordinaria con le “Cinque bagnanti” di Cezanne non in mostra.  

Anche a  Boccioni  l’influsso di Cezanne  offrì la sponda per superare la propria linea pittorica,  come l’artista francese era andato oltre l’impressionismo, lui andò oltre il futurismo per il quale era sopravvenuta una stanchezza anche in ragione delle esperienze di vita, come la guerra, che ne raffreddarono gli entusiasmi. I 3 ritratti e 1 natura morta sono composti dalle macchie di colore.

Di Giorgio Morandi va detto che ne fu attratto subito in età giovanile, dal 1911 lo considera suo Maestro, lo si vede in misura diversa nelle 6 nature  morte, nei 3 paesaggi e 1 nudo.

Gino Severini merita un discorso a sé,  riteneva che Cezanne per il modo con cui dipingeva fosse sempre dominato dalla “sensazione” di tipo impressionista, tuttavia nelle sue opere ne è influenzato per quanto riguarda composizione e atteggiamenti; sono esposti  5 ritratti e .1 natura morta.

Per Mario Sironi la monumentalità e il classicismo delle figure richiamano  aspetti dei ritratti e dei nudi di Cezanne: lo vediamo nei 3 nudi esposti, con 1 natura morta e 2 paesaggi. Molta assonanza anche nei 3 nudi di Fausto Pirandello, di cui sono presentate anche 2 nature morte e 1 ritratto.

Felice Casorati sviluppa in senso metafisico l’osservazione della realtà tipica di Cezanne soprattutto nelle 2 nature morte,  mentre 1 nudo mostra assonanze compositive non stilistiche, come 1 ritratto esposto. Lo stesso si può dire per i 3 nudi di Filippo Carena, esposti con 3 nature morte una delle quali reca un teschio sia pure ben diverso da quello del quadro di Cezanne, la sua vicinanza all’artista francese inizia dal 1913 con le mostre della Secessione da lui organizzate. .

Le opere di Giuseppe Capogrossi, 3 nature morte e 1 nudo presentano un interesse in più,  l’influenza sul figurativo giovanile che sarà superato per una strada inconfondibile, personalissima.

Gli artisti della scuola romana ne risentono l’influsso sia nell’approccio volumetrico sia nell’intensità cromatica, con un risultato di evidente plasticità. Lo vediamo nelle 3 nature morte, 1 ritratto e 1 paesaggio di Francesco Trombadori, in 1 natura morta e 1 paesaggio di Antonio Donghi, in 1 paesaggio, lineare e stilizzato, di Riccardo Francalancia.

Di Franco Gentilini manca la natura morta, ci sono 2 paesaggi con evidente influenza dell’artista francese, 1  nudo che ha assonanze compositive, poi 1 ritratto molto figurativo e ben definito.

Invece nei 3 ritratti di Roberto Melli c’è la carica di modernità e innovazione in senso cubista in cui si sente l’influenza di Cezanne.

Restano da citare due artisti con una sola opera esposta in cui l’influsso è evidente, sono Filippo De Pisis con 1 natura morta, e Corrardo Cagli con 1 nudo.

L’excursus non può rendere il senso di  una visita che ci ha lasciati senza fiato, tale è stata l’emozione nel vedere le opere di tanti grandi artisti poste in ideale raffronto per i quattro  temi evocativi e suggestivi, natura morta e paesaggio, ritratto e nudo. La  speranza è di aver trasmesso un po’ della nostra emozione al paziente lettore, e soprattutto di averlo preparato alla visita a  una mostra così istruttiva e spettacolare imperniata su Cezanne ma aperta alla pittura italiana del ‘900.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali,  Aperto tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-23,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00 intero, 9,00 ridotto a determinate categorie. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900”, a cura di Maria Teresa Bernardini, Skira Editore, settembre 2013, pp. 286, formato 24×27.  Cfr. su questo sito il 24 dicembre 2013 il primo articolo “Cézanne, la sua arte e la pittura italiana, al Vittoriano, con 6 immagini, 4 di opere di Cézanne una per ogni tematica, e 2 di artisti italiani sui temi:  natura morta e paesaggio. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Su Cézanne è riportata l’immagine di un’opera per ogni tematica, nell’ordine inverso del primo articolo, quindi nudo, ritratto, paesaggio e natura morta; seguite dalle immagini di due opere di artisti italiani per le due tematiche restanti ritratto e nudo, essendo state inserite nel primo articolo due immagini su natura morta e paesaggio. In apertura, di Cézanne “Bagnanti”, 1892,  seguono “Il giardiniere Vallier”, 2006, e “Rocce all’Estaque”, 1882.85, poi “Buffet”, 1877-79, e, di Umberto Boccioni, “Ritratto della Signora  Cragnolini Fanna” 1916; in chiusura, di Mario Sironi, “Adamo ed Eva”,  1930-34.

Umpiérrez Roberto Carlos, all’Accademia di Spagna

di Romano Maria Levante

Alla Reale Accademia di Spagna al Gianicolo, dal 7 novembre 2013 al 7 gennaio 2014,  la mostra “Roberto Carlos Umpiérrez, un viaggio nelle sue opere”, 60   tra pitture e sculture,  tra eventi e personaggi  che hanno ispirato l’artista nella sua vita, dal Sudamerica all’America del Nord all’Europa,  fino a Roma, con il New Realism – Pop Art che contraddistingue la sua opera poliedrica  in cui si trovano riflessi di tanti stili e influssi di tanti contenuti  nel linguaggio universale dell’ arte.

La caratteristica che ci è parso di cogliere nell’artista  è la sua spiccata attenzione alla contemporaneità in cui è vissuto e che ha voluto fissare in opere quanto mai espressive.

E’ una contemporaneità che spazia nelle aree più diverse, tanto è stata varia la sua vita vissuta  in gran parte al di fuori del proprio paese, dal Sudamerica agli Stati Uniti fino a paesi europei come Francia, Belgio e Olanda, e l’approdo a Roma dove frequenta l’Accademia delle Belle Arti  nella sezione scultura ed ha come maestri nientemeno che Emilio Greco e Pericle Fazzini. E’ morto nel 2010 a 60 anni di età, era nato a Montevideo nel 1050, dove iniziò la sua formazione artistica.

La varietà non è soltanto nei motivi ispiratori e nei contenuti, ma anche nelle forme stilistiche, dal neoclassicismo al cubismo picassiano, dal divisionismo alla Pop Art; e nei materiali utilizzati dalla tela alla carta, dalla plastica  al riciclo, con incursioni dalla pittura al collage alla scultura. Dalla commistione di stili e contenuti è nato li suo approccio denominato “New Realism – Pop Art”.

Personaggi ed eventi insieme ad esperienze dirette personali concorrono a definire un affresco del suo mondo trasfigurato rispetto alla realtà  percepita dalla sua sensibilità e immaginazione di’artista dove si sente la passione civile ben diversa dall’osservazione asettica e neutrale.

Nelle  quattro sale della mostra sono esposte circa 60 opere di cui 10 sculture con materiali di varia natura:in tecnica mista: 3 “Sedie”, 4 dal titolo “Las Murgas”Recuerdo de asado” e un “Monumento a Nassirya”, un omaggio quest’ultimo al lutto dell’Italia per il massacro dei suoi soldati in missione di pace.

Alcuni titoli fanno capire meglio ciò cui si è accennato sulla contemporaneità. I grandi eventi vanno da “Rivoluzione francese” a “Twin Towers”, entrambi del 2010,  all’opposto la quotidianità da  “Il passante”, 1990, a “Camminando”, 1997, da “Periferia” a Quello strano inquilino del piano di sopra”, 2010, da “Braccio di donna”, 2004,  a Ragazzo con barchetta di carta”, 2005.

Dei personaggi vediamo “Fangio e Ferrari”,Il Commendatore” e “Ritratto del Commendatore”,  poi “John Lennon”, tutti del 2009; un anno nel quale ha dipinto anche temi sportivi, “Mille miglia” legato anch’esso all’automobilismo, “Champion”, 2008, e “Il boxeur”, 2009. Successivamente, nel 1911, il ritratto di Castro, “Fidel”. Mentre  un’attualità che si ripete immutabile nel tempo è in “I burocrati”, su tavola nel  1976, su tela in tre dipinti del 1992.

Il mondo americano in opere che vanno da “Amerika”, 2004, a “New York”, 2008, e “God bless America”, da “La Coca Cola”, 1990, a “Bici e Coca Cola”, 2003, con la Pop Art nella sua peculiare rielaborazione.

Al classicismo si ispirano  nello stile i due “Laocoonte”, 2005,  che ripropongono su tavola la celebre composizione scultorea, vi sono anche temi  religiosi come “Virgin de Guadalupe” 2006, e “Io Cristo”, 2005, e  richiami come “Apocalipse”  e “I tre dell’Apocalisse”, entrambi del 2005.

Un percorso quanto mai vario ed eterogeneo, un’ispirazione che si nutre dei motivi più diversi, segno di un’irrequietezza se non di un’inquietudine profonda. Forse la chiave interpretativa l’ha fornita il fratello Edgardo Umpiérrez, promotore della mostra allorché, nell’apertura all’Accademia di Spagna, ha letto con toni commossi una poesia dell’artista. Al termine gli abbiamo chiesto il testo e ha avuto la bontà di darcelo autorizzando la pubblicazione, cosa di cui lo ringraziamo ancora.

Ecco al poesia dell’artista uruguaiano, ci sembra il miglior sigillo a questa breve cronaca della sua mostra, che ha l’intento di attirare l’attenzione sul suo spirito creativo e sulla sua anima sensibile.

“A chi non è nato in Uruguay

sarà difficile capire l’attaccamento

del nativo a quella terra.

tutto surreale, tutto ancor oggi

misterioso, fatto di tempi lenti

e silenzi, ancor di più.

Dove persino il colore bruno

del ‘Rio’ diventa cristallino

a tal punto da poter vedere

la nascita di Venere trainata da cavalli marini.

Là, dove ancor oggi c’è un bar

in ogni angolo, dove trovi l’atmosfera

del tango nei caffè, dove si si respirano

pigmenti africani, suoni malinconici

di percussioni

che fanno tremare il cuore,

anche se nella tavolozza della vita

Sei definito ‘bianco’.

Là, dove l’emigrante europeo trovò

pane,patria  e fantasia.

Là, dove  Einstein nel 1930

pensava alla relatività.

Là, dove Puccini scriveva

fuori dal pentagramma

Là, dove  Varela ha creato

la scuola Laica-Gratuita-Obbligatoria.

Là, dove gli Adelantados

cercavano  ‘il mundo nuevo’.

Là, dove  Tabaré nacque e morì

tra le pagine di un libro.

Là, dove fu sterminata una razza

nobile e fiera.

Là… sulle rive del fiume

dagli uccelli colorati.

Là…

R. C. Unpiérrez

Info

Accademia Reale di Spagna, Roma, Piazza San Pietro in Montorio, 3, Gianicolo. Aperti tutti i giorni, domenica compresa, dalle ore 10 alle ore 20.Tel. 06.5812806; Ingresso gratuito. Tel. 06.5812806, http://www.raer.it/. Per le precedenti mostre all’Accademia di Spagna, cfr. i nostri articoli in questo sito:

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’Accademia di Spagna all’inaugurazione della mostra, si ringrazia per l’opportunità offerta l’Accademia con gli organizzatori e i titolari dei diritti, in particolare il fratello dell’artista Edgardo Umpiérrez cui dobbiamo anche la poesia cortesemente accordataci per la pubblicazione. In apertura, “Laocoonte”, 2005, seguono “Ragazze con barchetta di carta” , 2005, con altra opera su “Coca Cola”, e “Vergine di Guadalupe”, 2006, poi  “Fanjo e Ferrari”,  a sin., e “Il Commendatore”, a dx, 2009,   e “Io Cristo”, 2005in chiusura due altre sue opere.

Congresso Eucaristico, l'”Ultima cena”, in mostra ad Ancona

di Romano Maria Levante

Torniamo dopo due anni e mezzo,  come ideale celebrazione del Natale, sul 25° Congresso eucaristico nazionale ad Ancona,presentato in grande stile il 21 giugno 2011 alla Sala stampa del Vaticano. Introdotto da padre Lombardi, ne ha parlatol’arcivescovo del capoluogo marchigiano mons. Edoardo Menichelli , descrivendone il significato pastorale, con Ancona capitale di religiosità e spiritualità dal 3 all’11 settembre 2011. Insieme alle manifestazioni religiose nel territorio, la mostra d’arte “Alla Mensa del Signore” nella Mole Vanvitelliana, una ricca esposizione pittorica  sulle diverse versioni artistiche dell’Ultima cena.  

Il Congresso Eucaristico

“Il Congresso vuole raccogliere il grido e la speranza della società contemporanea ed insieme offrire l’Eucaristia come sacramento di salvezza e presenza viva del Signore Risorto”, ha detto mons. Menichelli. Si è tenuto nel 150° dell’Unità d’Italia che corrisponde al 120° anno dal 1° Congresso Eucaristico Nazionale di Napoli del 19-22 novembre 1991, dieci anni dopo il 1° Congresso  Eucaristico che fu internazionale, a Lille in Francia, nel 1881.

Questo congresso del 2011, molto più che in passato, ha avuto due caratteristiche: la  territorialità e la tematicità. Per il primo aspetto è stato diffuso nell’intera provincia di Ancona, e ha avuto comemomento culminante la visita finale di Benedetto XVI  giunto in elicottero nel Porto di Ancona al molo intitolato a Wojtyla, come luogo simbolico. C’è stata la “Concelebrazione eucaristica” e la recita dell’ “Angelus” nel Cantiere navale di Ancona; nel tardo pomeriggio l’incontro con i sacerdoti e le famiglie nella cattedrale di  San Ciriaco e con i fidanzati in piazza del Plebiscito.

Il tema del Congresso è stato la persona che nella Chiesa si esprime mediante stretti contatti nelle parrocchie, nei borghi e nelle città. Benedetto XVI, nell’esortazione “Sacramentum  caritatis”, ha detto che “in quanto coinvolge la realtà umana del credente nella sua concretezza quotidiana, l’Eucaristia rende possibile, giorno dopo giorno., la progressiva trasfigurazione dell’uomo chiamato per grazia ad essere ad immagine del Figlio di Dio”.  Di qui l’affermazione che “i fedeli cristiani hanno bisogno di una più profonda comprensione delle relazioni tra l’Eucaristia e la vita quotidiana”:  fatta di affettività, fragilità, festa e lavoro, tradizione, cittadinanza, i cinque temi del Congresso.  Nel precedente Congresso Eucaristico di Bari del maggio 2005 la quotidianità era espressa dal tema “Senza la domenica non possiamo vivere”, ora se ne sono esplorati gli aspetti. 

Il programma culturale è stato quanto mai nutrito. Per l’arte, alla Mole Vanvitelliana di Ancona la mostra “Alla mensa del Signore. Capolavori dell’arte europea da Tiepolo a Raffaello”  sul tema dell’Eucaristia, dal periodo rinascimentale fino all’epoca moderna con Rouault, e a quella contemporanea con Aligi Sassu: un’esposizione di 80 opere impreziosita da una sezione di oreficerie sacre. Nelle cinque diocesi, da giugno le mostre documentarie “Segni dell’Eucaristia”  hanno esposto oggetti e apparati liturgici connessi al sacramento eucaristico, espressione della devozione popolare e della magnificenza della Chiesa manifestatasi nel territorio. E’ tornata ad Ancona l’altra  mostra preparatoria “Oggi devo fermarmi a casa tua. L’Eucaristia, la grazia di un incontro imprevedibile”,  dall’episodio evangelico di Gesù nella casa di Zaccheo,   pannelli con testi e immagini, itinerante dal gennaio 2011 nelle Marche e in altre località.

Il programma nel territorio

Fin qui le notizie, ora qualche ulteriore particolare sul significato attribuito  a questo solenne momento comunitario per la Chiesa,il Congresso eucaristico così definito nel Rituale Romano “De comunione et de cultu…” – è “una stazione a cui una Chiesa locale invita le altre chiese della medesima regione o della stessa nazione o del mondo intero” al fine di promuovere “la comprensione e la partecipazione al mistero eucaristico in tutti i suoi aspetti: dalla celebrazione al culto extra missam, fino alla irradiazione nella vita personale e sociale”.

Di qui le due caratteristiche citate, la territorialità insita nell’invito alle chiese locali, la tematicità riferita alla persona, nei molteplici aspetti inerenti al suo sviluppo integrale orientato al bene comune. Il tema è sintetizzato dall’interrogativo “Signore, da chi andremo?”, tratto dal Vangelo di Giovanni, che si adatta all’attuale insicurezza e trova una pronta risposta: “l’Eucaristia per la vita quotidiana”, dopo le parole che Pietro fece seguire alla domanda: “Tu hai parole di vita eterna”.

La domanda è circoscritta nel logo che contiene i simboli cristiani: il Sole e la Patena, l’Alba e i Pesci, il Mare e il Popolo in cammino, la Terra e la Chiesa, con i colori evocativi del giallo per la luce divina e dell’oro per l’eternità, del blu per il cielo e del verde per l’acqua e le piante, del rosso per l’amore e il sacrificio, e del bianco per il Mistero divino.

Il territorio anconetano è stato sede di manifestazioni in tutte le sue diocesi, da quella di Ancona-Osimo a Senigallia e Jesi, Fabriano-Matelica e Loreto. In ogni diocesi,  per la settimana del Congresso, nella mattinata dopo la Santa messa con adorazione eucaristica, preghiera e “lectio”,   un “momento assembleare” di riflessione, due ore con relatori di livello nazionale sul tema del giorno; nel pomeriggio percorsi turistici, culturali e religiosi con  momenti di animazione pastorale, celebrazione eucaristica nelle Cattedrali sedi degli eventi e, al termine,  processioni e altri atti di devozione; nella serata concerti o  rappresentazioni di varia natura.  L’intensa  giornata conclusiva ha visto incontri con il Papa, con i momenti di particolare suggestione della Via Crucis e della Processione Eucaristica con l’Infiorata nelle vie di Ancona.

Dopo la giornata di sabato 3 settembre con l’inaugurazione e l’accoglienza delle autorità, domenica 4  si è svolta  una suggestiva processione di barche in mare con il Legato Pontificio e un concerto a Piazza del Plebiscito con Giovanni Allevi e l’orchestra filarmonica marchigiana; della  giornata di domenica 11 settembre abbiamo detto, con la sua intensa spiritualità si è contrapposta al ricordo della  tragica giornata di dieci anni prima funestata dall’attentato apocalittico alle Torri Gemelle.

Ora diamo qualche altro elemento sulle riflessioni collettive nelle cinque giornate centrali, da lunedì 5 a venerdì 9 settembre, dopo aver già descritto la giornata tipo. Nei  “momenti assembleari”  con i relatori sono stati approfonditi i temi del giorno tutti incentrati sull’Eucaristia, considerata “culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù”, secondo la definizione del Concilio Vaticano II.

Il Consiglio Episcopale Permanente aveva  indicato i momenti da approfondire dell'”atteggiamento contemplativo in grado di dare ‘forma eucaristica’ ai contenuti  della vita quotidiana”, Eccoli:  “Il senso di gratitudine per i doni di Dio, la coscienza umile della propria fragilità, la capacità di accoglienza e di relazioni utili con le persone, il senso di responsabilità nei confronti degli altri nella vita personale, familiare e sociale, l’abbandono in Dio come attesa e speranza affidabile”.

Nello stesso tempo ha preso atto di una “‘distanza culturale’ tra la fede cristiana e la mentalità contemporanea in tanti ambiti della vita quotidiana”, che ritiene si possa superare attraverso “l’opzione di coltivare in modo nuovo e creativo la caratteristica popolare del cattolicesimo italiano”, precisando che “‘popolarità’ non significa una soluzione di basso profilo, ma la scelta di una fede che si fa presente sul territorio, capace di animare la vita quotidiana delle persone, attenta alle esigenze della città, pronta a orientare le forme della convivenza civile”.  Si comprende  come i temi  per la riflessione collettiva siano stati scelti nella  prospettiva di “rendere visibile giorno per giorno la vita credente, che è altro rispetto al modo corrente con cui si esprime il sentire diffuso della gestione del tempo, degli affetti e della presenza sociale”. Così il  Consiglio Episcopale.

Il Congresso è sttao chiamato a dare concretezza a queste attese.  Si è iniziato lunedì  5 settembre con l’“affettività” riferita alla “passione di Dio per l’uomo” ad Ancona;  martedì 6  la “fragilità” con la “presenza di misericordia”, approfondita anche ad Osimo, mentre per gli “ammalati”  a Loreto; mercoledì 7  si è  entrati “nel tempo dell’uomo” con la “festa” ad Ancona, Osimo e Falconara e con il “lavoro” a Fabriano; giovedì 8 la “tradizione”, che è il “pane del cammino”, ad Ancona, Senigallia e Jesi; venerdì 9  la  “cittadinanza” ad Ancona, come “luce per la città”, considerata  a  Osimo  sotto  l’aspetto di “povertà e accoglienza”.

Le mostre documentarie sull’Eucarestia

Non si lascia l’alto livello spirituale dei temi appena evocati parlando delle mostre d’arte che hanno accompagnato il Congresso Eucaristico perché sono state ispirate al sacro, cioè  all’Eucaristia. 

Le mostre documentarie “Segni dell’Eucaristia”   nei vari musei diocesiani anconetani nobilitano ed elevano  il valore degli apparati e degli oggetti liturgici,  in base alla considerazione che l’Eucaristia è il sacramento principale della Messa  alla quale sono destinati, quale che sia la collocazione o la dimensione dell’edificio di culto,  una basilica o una povera chiesa rurale. Di  questi oggetti è stato approfondito il significato liturgico e culturale nel rapporto con il sacramento, e con la religiosità popolare nonché con la magnificenza della Chiesa che deve esprimersi anche in forme visibili, pur se la vocazione deve essere alla povertà, ma non quando si celebra il Signore.

I musei diocesiani delle mostre sono stati ubicati ad Ancona e Osimo,  Jesi e Senigallia; a Loreto nel museo dell’Antico Tesoro della Santa Casa, a Fabriano nell’ex monastero di San Benedetto, a Matelica  nel museo Piersanti. Negli itinerari, oltre alle chiese in tali località, erano comprese  anche quelle di  Offagna e Monsano, Montemarciano e Morro d’Alba, e del Belvedere Ostrense.

Del ritorno della mostra itinerante ” ‘Oggi devo fermarmi a casa tua’. L’Eucaristia, la grazia di un incontro imprevedibile” abbiamo detto; aggiungiamo soltanto che i 36 pannelli erano collocati in un percorso di quattro sezioni in cui si esprimeva  il bisogno che ha l’uomo dell’Eucaristia.

La grande mostra d’arte “Alla mensa del Signore”

Ed ora il “clou” della parte artistica del Congresso Eucaristico, la grande mostra “Alla mensa del Signore. Capolavori dell’arte europea  da Raffaello a Tiepolo”, alla Mole Vanvitelliana, ne ha parlato il curatore Giovanni Morello con Vittoria Garibaldi, soprintendente per i beni storici e artistici delle Marche.

Nel prestigioso Comitato scientifico, Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani, con Micol Forti che vi cura la Collezione di Arte contemporanea.  I Musei vaticani hanno  prestato la tempera su tavola  “Carità”di Raffaelloe lo smalto “Porte du tabernacle” di Rouault, gli oli su tavola “Cena di Emmaus” di Ardengo Soffici e “Cristo e gli Apostoli” di Ferruccio Ferrazzi, nonché la xilografia “Leben Christi: Gang nach Emmaus” di Karl Schmidt-Rottluff  e due Arazzi con episodi della Passione e l’Ultima cena, da Leonardo, di due Manifatture, una del Tournai, la seconda romana.

Queste opere sono solo un assaggio, è stata una carrellata di capolavori dal ‘400 all’800 sul tema dell’Ultima Cena, con le Nozze di Cana” e la “Cena in Emmaus” ad aprire e chiudere la mostra.

Precisiamo quanto già accennato sulle oreficerie sacre  che hanno nobilitato ancora di più l’esposizione con la preziosità degli oggetti presentati: si tratta dei doni dei Pontefici alle chiese della regione, un’altra suggestiva carrellata in secoli di storia, arte e tradizione.

La mostral’abbiamo visitata a suo tempo ammirando i capolavori dell’arte europea da Raffaello a Tiepolo, passando per Rubens e Tiziano. C’era una copia d’epoca del “Cenacolo” leonardesco di Cesare Magni, con i colori originari perduti nei secoli, il grande arazzo del Vaticano e quello di Rubens, il gruppo scultoreo “Ultima Cena” a grandezza naturale, per la prima volta fuori Saronno.

Il tema dell’Ultima cena è collegato alla scrittura del Vangelo in tre momenti: il primo è l’annuncio del tradimento di Giuda mentre gli Apostoli si interrogano sull’accaduto, il secondo l’Eucarestia, il terzo la comunione degli Apostoli, che non  si ritrova in modo esplicito nei Vangeli, ma oltre a ispirare gli artisti dopo il Concilio di Trento diventò, sono parole di Morello, “una catechesi visiva per il popolo, Gesù stesso si consegnava così ai fedeli”. Dopo questi temi – e il dipinto di Tiepolo è uno dei più belli del grande artista – la Comunione degli Apostoli per concludersi con un salto nella modernità, su opere che mostravano come l’Ultima cena ispiri anche artisti contemporanei.

Per questo è  “una mostra di prima grandezza”, una partenza di livello straordinario per il nuovo spazio della Mole Vanvitelliana destinato ad ospitare mostre di grande prestigio e valore artistico.

Dopo queste parole Morello ha guidato la visita illustrando le diverse sezioni animato da passione unita alla competenza. Ci è rimasta impressa l’estrema varietà di interpretazioni della tavolata dell’Ultima cena, non solo per le più diverse posizioni degli apostoli, ma anche per il desco, di volta in volta spartano oppure con cibo succulento, solo pane e poco altro oppure selvaggina. E’ stata un’inedita galleria che ha suscitato non solo vivo interesse , ma anche profonda emozione.

Con tutto quanto abbiamo cercato di esporre, il richiamo del 25° Congresso Eucaristico  Nazionale di Ancona ha toccato diversi tasti, non solo la religiosità e la fede: la coscienza civile è stata mossa dai temi  approfonditi trattandosi della persona umana; la memoria è stata sollecitata dalle mostre sugli oggetti liturgici il cui ricordo è nella storia personale di ognuno; l’attrazione per l’arte stimolata nella mostra dei capolavori da Raffaello a Tiepolo fino ai contemporanei.

Per  queste ragioni legate alla cultura e all’arte, e per il festoso dispiegarsi di iniziative nel territorio, abbiamo ritenuto di ricordare la manifestazione a due anni e mezzo di distanza, e non per i soli credenti, nel giorno di Natale del 2013.  

 Info

 Catalogo “Alla mensa del Signore. Capolavori dell’arte europea da Raffaello a Tiepolo”, a cura di Giovanni Morello, Allemandi &  C., agosto 2011, pp. 256, formato 24×28.

 Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante in Vaticano alla presentazione della mostra. In apertura, parla l’arcivescovo di Ancona, mons. Menichelli; in chiusura un primo piano di mons. Menichelli, alla sua sinistra padre Lombardi.  

Cézanne, la sua arte e la pittura italiana, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, dal 5 ottobre 2013 al 2 febbraio 2014  la mostra “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900“, con 100 opere tra cui 20 di Cézanne e le altre 80 di 18 artisti italiani del ‘900  a lui ispirati, tra cui  Boccioni e Morandi,  Carrà e Sironi, Severini e De Pisis. La mostra, curata da Maria Teresa Benedetti con il catalogo Skirà, è stata realizzata da “Comunicare Organizzando” con il  coordinamento generale del Presidente Alessandro Nicosia..

E’ una grande mostra rivelatrice perché fa conoscere Cézanne, un sommo maestro della pittura, sotto aspetti poco noti almeno al grande pubblico: come il superamento dell’impressionismo a cui peraltro aveva dato un notevole contributo,  e il potente influsso esercitato sugli artisti italiani.

Con Cèzanne oltre l’impressionismo

Il primo aspetto viene analizzato da Claudio Strinati che cita l’affermazione di Ardengo Soffici secondo cui Cézanne sarebbe riuscito ad andare oltre l’impressionismo realizzando “quel che non avevano potuto gli impressionisti”. o avrebbe superato non limitandosi  a guardare la realtà “en plein air” secondo l’impressione del momento, e a riprodurne l’aspetto esteriore con le scomposizioni del colore ben note;  bensì “subordinando la realtà esterna alla verità della sua visione interiore”, in modo da “vedere la propria visione”.

Così lo spiega Strinati: “Non le sembianze fenomeniche del  Reale ma di quel Reale che è la propria attitudine a vedere e a distinguere”; più precisamente “non le apparenze ma le competenze e l’artista è tanto più grande quanto più riesce a imporre se stesso alla Realtà che lo circonda e a rappresentare se stesso che sta osservando”, avendo come oggetto della sua attenzione “prima ciò che è fuori di sé e poi ciò che è dentro di sé”.

In questo supera l’impressionismo che aveva “scoperto”la bellezza della natura vista da vicino, appunto “en plein air” i n tutta la sua luminosità e nella sua sinfonia di colori. Ai sensi che ne sono conquistati aggiunge la mente che, sono ancora parole di Strinati, “concepisce l’arte come atto di amore verso il creato  trattando la superficie pittorica quasi fosse un anelito a dire verità che la parola non può pronunciare. Queste verità sono i grandi, universali sentimenti che chiedono di essere rappresentati per togliere l’essere umano dal turbine doloroso dell’esistenza che lo incalza incardinandolo al ‘mestiere di vivere'”.

Ne consegue che diventa secondario il soggetto rappresentato, di solito fa parte della quotidianità, quindi è visto senza particolare interesse; acquista importanza basilare il sentimento interiore da esso suscitato non traducibile nell’immediatezza un po’ effimera dell’impressionismo, dato che va ben oltre l’apparenza. Dietro c’è pure la ricerca nell’arte di un rifugio contro ciò che nel mondo attenta alla mente e al cuore. Nel 1904, a due anni dalla morte, scriveva all’amico pittore  Emile Bernard di vivere “sotto l’urto di sensazioni” e di voler essere “aggrappato alla pittura”: “Le sensazioni sono alla base della mia opera – sono le sue parole – io credo di essere impenetrabile”. E aggiungeva: “Tutto quello che vediamo, non è vero? Si dilegua. La natura è sempre la stessa, ma nulla resta di ciò che appare. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata, deve farcela gustare eterna. Che cosa c’è dietro il fenomeno naturale? Forse niente, forse tutto”.

In questo viene visto il suo superamento dell’impressionismo che si “accontentava” dell’immagine del momento, l'”impressione” piuttosto che la “sensazione”, che lui sente, di qualcosa che va oltre, colpisce la sua mente oltre ai suoi sensi. La sua ricerca di questo “qualcosa” lo porta a  penetrare la realtà  al di là delle apparenze, al di là della visione istantanea che ritiene provvisoria, incompleta; per tendere all’essenza del reale in modo da rivelarne i contenuti più profondi.

Il contatto diretto con la natura è il medesimo, ma in lui si aggiunge l’introspezione che lo porta all’isolamento anche sdegnoso rispetto alla spietata incomprensione che lo accompagnò nella vita.

L’astrazione insita nella sensazione profonda si aggiunge alla concretezza dell’impressione immediata in un insieme inscindibile che rappresenta la cifra della sua arte. In questo processo lui stesso vede la funzione della pittura: “Ascoltare con totale dedizione la voce della Natura, e con altrettanta dedizione trascriverla nelle forme della più eletta meditazione interiore, in una continua e ardua metamorfosi che si basa sul reale inteso come osservazione diretta delle persone e delle cose e mira al vero inteso come scoperta di una essenza che vige nel mutevole mondo dell’esistenza”.

L’efficace sintesi di Strinati acquista toni di alto valore morale: “Una religione laica implicante il silenzio, la riservatezza e il rispetto totale della professione sentita quasi come una missione”, tale è stata infatti la cifra della sua vita parca e schiva, nella continua e sofferta ricerca di un ideale artistico difficile da raggiungere”. Nella citata lettera a Barnard a due anni dalla morte scriveva “non si è mai troppo scrupolosi, né troppo sinceri, né troppo sottomessi alla natura”, e nell’ultima lettera a tre mesi dalla fine: “Studio ogni giorno sulla natura e mi pare di progredire lentamente”. Non serve aggiungere altro per ricordarne l’impegno inesausto, stimolo incessante alla sua arte.

Ma come si esprime la sua arte, quali le novità o le conferme? Al riguardo occorre partire dal suo superamento dell’impressionismo che ha i profondi contenuti cui si è accennato.  Ardengo Soffici ne fa un esempio illuminante, ricordato da Strinati: la mietitura come l’avrebbe dipinta un impressionista e come lo avrebbe fatto  Cézanne. Il primo avrebbe riprodotto l’immediatezza della realtà scomponendo le ombre create dal sole e immergendo la scena in una luce abbagliante per rendere la stagione e l’ora, con un effetto abbacinante; Cézanne, invece, nella considerazione che altri sono gli elementi essenziali della scena, avrebbe raffigurato in modo semplice ed essenziale l’ambiente, dalla campagna alle case fino al cielo, sottomettendo “la verità esterna alla verità interna della sua visione interiore e marcando con un segno imperioso i fantasmi del suo sogno”.

Lo fa ricercando strutture geometriche, anche se non in modo sistematico, concentrandosi su come organizzare forma  e volume. Anche qui ci aiutano nell’interpretare il suo intento le lettere a Bernard, in una di esse afferma di “voler trattare la natura per mezzo del cilindro, della sfera, del cono, il tutto posto in prospettiva, in modo che ogni lato di un oggetto, di un piano, si orienti verso un punto centrale. Le linee parallele all’orizzonte danno l’estensione, cioè un’estensione della natura.. Le linee perpendicolari all’orizzonte danno la profondità. Ora la natura, per noi uomini, è più in profondità che in superficie”.  Il suo “nitore geometrico” e il senso della prospettiva, insieme al particolare uso della luce e del colore  lo riconducono alla dimensione classica, con la ricostituzione della forma che gli impressionisti tendevano a scomporre fino a decomporla, e nello stesso tempo lo fanno antesignano di movimenti d’avanguardia attenti ai volumi come il cubismo e quindi maestro della modernità.

Alla scelta stilistica si collega strettamente quella dei contenuti che, come si è accennato,  sono all’insegna della semplicità, dato che per lui quello che conta è la visione della sua mente  alimentata dalle immagini di quotidianità: con architetture compositive dominate dalla plasticità dei volumi e poi nella maturità dalla sempre più intensa tessitura cromatica.

Nature morte in primo luogo, dove dominano i volumi nella loro espressione geometrica e il gusto della composizione geometrica con attenzione alla prospettiva, quindi paesaggi, nei quali rende  l’inespresso che c’è dietro la superficie della natura, traducibile attraverso la propria visione; stessa ricerca nei ritratti dove in un progressivo affinamento ha assunto un ruolo sempre maggiore il carattere e la personalità del soggetto  percepiti dall’artista pur nella continua ricerca di innovazione stilistica, nei nudi, infine, la classicità ha modo di esprimersi con forme solenni ma pur sempre toccate dalla sua modernità.

Cezanne nei giudizi di critici e artisti italiani

A tali contenuti sono dedicate  le 4 sezioni della mostra dove sono poste a raffronto le sue opere, tema per tema, con quelle di un folto gruppo di artisti italiani, ben 18. E qui s’innesta il secondo motivo dell’iniziativa, la ricerca artistica e culturale della penetrazione in Italia, analizzata dalla curatrice Maria Teresa Bernardini.

L’eco  delle sue opere si diffonde dopo la “scoperta” di Ardengo Soffici due anni dopo la sua morte. Soffici era vissuto dal 1900 al 1907 a Parigi dove aveva conosciuto l’opera di Cézanne e il ritorno al classicismo; nel suo articolo sulla rivista di Siena “Vita d’arte” del 1908:  aveva visto in lui la conciliazione tra modernità legata al presente e tradizione classica con richiami ai maestri del ‘300 e del ‘400. Soffici tornerà su Cézanne commentando su “La Voce” la mostra di Firenze del 2010, con 4 dipinti dell’artista, di cui sottolinea la creatività e  modernità in una visione idealistica dell’arte.

I suoi giudizi interesseranno i futuristi che della modernità più spinta fecero un credo, Carrà si espresse in termini positivi nell’articolo su “Lacerba” del 2013 “Da Cézanne a noi futuristi”, e ci tornò nel 1916 su “La Ronda”; Boccioni ne parlò nel 1914 in “pittura e scultura futurista”. In quegli anni ci furono due mostre in cui furono esposte opere di Cézanne: 12 acquerelli alla “II Esposizione d’Arte della Secessione” di Roma, mentre nella I erano assenti nonostante fosse dedicata a impressionisti, post e neo impressionisti; nella Sezione internazionale della Secessione del 1915 fu esposta la litografia “Bagnanti” , traduzione grafica del grande dipinto “Bagnanti in riposo”.

Roberto Longhi lo definisce “il più grande artista dell’era moderna, il cui testamento pittorico potrebbe essere quello di Pietro dei Franceschi”. Ma si deve attendere il 1920 per vedere 28 sue opere esposte in una personale alla prima Biennale veneziana dopo la guerra 1915-18, realizzata nel padiglione francese con il sostegno di Ugo Ojetti.

Ferveva il dibattito sul ritorno all’ordine del classicismo in una fase in cui agli strascichi della guerra si univa la crisi delle avanguardie artistiche. I giudizi sull’artista oscillavano tra il  prevalere della sua modernità o del suo classicismo, sul quale  venivano evidenziate le analogie con la pittura italiana nelle sue varie espressioni. Soffici, nel propugnare l’indirizzo tradizionalista sembra oscillare, finché lo definisce “il più potente iniziatore di una forma d’arte che  può dirsi ancora dell’avvenire”; mentre Emilio Cecchi lo classifica come classico per il suo ordine compositivo che cerca di conciliare con la sensazione di tipo impressionistico, invece di contrapporre i due motivi.

Carrà in “Pittura metafisica” ne sottolinea la classicità dopo l’abbandono dell’impressionismo, con riferimento alla tradizione italiana, e ai valori eternamente validi che ne sono gli aspetti salienti.

Soltanto Giorgio de Chirico contrasta questi giudizi positivi, pur nella sua difesa del classicismo che non vi vede rappresentato, contro l’impressionismo e le sue derivazioni che sostituiscono la forma-colore al rigore del contorno disegnato, tale da marcare l’essenza delle cose, cui Cézanne era contrario; e utilizza immagini forti e termini duri. Ma, commenta la Bernardini, “anche de Chirico non è del tutto indenne dall’avvertire l’importanza di Cézanne. Il tentativo di esorcizzarlo va considerato sintomatico di un riconoscimento, seppure in negativo”.

A questo punto l’interesse si acuisce, non resta che visitare la mostra passando in rassegna le 4 sezioni dedicate alla natura morta, al paesaggio, al ritratto e al nudo cercando prima di tutto di imprimere nella vista e nella mente le 20 opere di Cézanne sui quattro temi, cui fanno corona le 80 dei 18 artisti italiani. Prossimamente racconteremo la nostra visita seguendo questo  criterio.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali,  Aperto tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30, venerdì e sabato 9,30-23,00, domenica 9,30-20,30, la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso euro 12,00 intero, 9,00 ridotto a determinate categorie. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “Cézanne e gli artisti italiani del ‘900”, a cura di Maria Teresa Bernardini, Skira Editore, settembre 2013, pp. 286, formato 24×27. Cfr. in questo sito, il prossimo 31 dicembre,  il nostro secondo articolo “Cézanne, e gli artisti italiani, visita alla mostra al Vittoriano”, con altre 6 immagini. .

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. Su Cézanne è riportata l’immagine di un’opera per ogni sezione, nell’ordine natura morta, paesaggio, ritratto e nudo; per gli artisti italiani in questo articolo un’immagine per ciascuna delle due prime sezioni, per le altre due sezioni le immagini saranno nel prossimo articolo dopo altre quattro di opere di Cézanne nell’ordine inverso, prima nudo, poi ritratto, quindi paesaggio e infine natura morta. In apertura, di Cézanne “Frutta”, 1879-80, seguono “La strada in salita”, 1881,  e “Victor Chocquet”, 1877, poi “Bagnanti”, 1883-87″ e, di Giorgio Morandi, “Natura morta”, 1919; in chiusura,  di Carlo Carrà, “Chiesa romanica”, 1927.

Roma ti amo, una mostra dove il calcio diventa arte

di Romano Maria Levante

La mostra “Roma ti amo”, dal 18 febbraio al 20 luglio 2014 nella Factory Pelanda, all’ex Mattatoio di Testaccio, è stata presentata nella sede dell’A.S. Roma  a Trigoria dalla dirigenza societaria con l’intervento di Iole Siena, presidente di Arthemisia, società leader nell’organizzazione di mostre d’arte ed eventi culturali. E questo il motivo che ha stimolato la nostra curiosità divenuta vivo interesse dinanzi all’entusiasmo con cui Iole Siena ha detto che “è una grande sfida per noi, una scommessa coraggiosa”  l’impegno preso: “Tenteremo di unire le due anime più forti del paese”, il mondo elitario dell’arte e quello popolare del calcio. Curatore artistico Nicolas Ballario, coordinamento scientifico di Andrea De Angelis e scenografico di Cesare Inzerillo, Arthemisia è mobilitata. L’Assessorato alle politiche giovanili  di Roma Capitale ha dato il suo sostegno.

C’è un aspetto in cui i due mondi fanno a gara, la valorizzazione dei propri idoli. Anzi nel collezionismo di cimeli sportivi i tifosi superano gli appassionati di arte:  “Il Caravaggio ha un prezzo, anche se elevatissimo – ha detto un detentore di reperti calcistici -ma il mio cimelio non ha prezzo” lo ha raccontato Iole Siena che non conosceva questo speciale aspetto del tifo  calcistico.

La mostra  nasce dall’impegno della nuova proprietà della squadra giallorossa nel diffondere al massimo i valori  della loro Roma: l’esposizione sarà itinerante e dopo altre città italiane andrà negli Stati Uniti. E’ la prima volta che la storia di un club viene presentata come una  storia del costume nazionale, attraverso la capacità di aggregazione e mobilitazione che ha il  calcio “trasformandosi in cultura – è stato detto – esperienza collettiva, parte integrante dell’identità nazionale dei popoli”. Ci sono stati esempi di celebrazioni con fotografie, cimeli e  documenti, ma questa sarà un’esposizione “originale e unica, nella quale verranno applicati al calcio i canoni delle mostre d’arte”. 

Lo si è potuto fare perché la Roma “è uno dei club più storici e amati d’Italia”, e Arthemisia ha potuto mettere in campo la sua vasta esperienza in campo espositivo  unita a dinamismo e carica innovativa.  Di questi due requisiti primari  state date alcune interessanti anticipazioni, eccole..

La  storia dell’A. S. Roma e la sua rappresentazione

Alla nascita dell’Associazione sportiva Roma  nel 1927 si giunse con la fusione di tre formazioni preesistenti, Alba-Audace, Fortitudo-ProRoma e Football Club di Roma. Le prime vittorie  furono la coppa Coni e lo scudetto nel campionato  1941-42, seguirono i successi nella coppa Italia  e la vittoria nella  Coppa delle Fiere del 1961, seguita dieci anni dopo da quella nel Torneo anglo-italiano  del 1972, dal secondo scudetto dopo altri dieci anni nel 1983 e dal terzo, questa volta dopo quasi venti anni nel 2001, fino  al record  di vittorie consecutive a inizio campionato di quest’anno.  C’è stata anche una retrocessione in serie B, durata solo un anno, e le due cocenti delusioni  delle finali di Coppa dei campioni perse con Inter e Liverpool, quest’ultima proprio a Roma; come la recente bruciante sconfitta con la Lazio nella  finale di Coppa Italia svoltasi nella Capitale..

Un palmares rispettabile ma non straordinario, almeno rispetto alle plurititolate del campionato italiano, come le milanesi e  le torinesi, anzi la torinese Juventus, che anche quest’anno, dopo  la partenza a razzo della Roma con le dieci vittorie consecutive, è tornata in testa con i giallorossi impantanati nei quattro pareggi successivi. Quello che  è straordinario è l’attaccamento dei tifosi al quale è ispirato il titolo della mostra “Roma ti amo”, un amore che è nel nome stesso, letto al rovescio alla maniera araba o nella scrittura di Leonardo.

Le anticipazioni su come  verrà rappresentata questa storia  hanno acuito la curiosità piuttosto che  soddisfarla, d’altra parte la mostra è ancora un cantiere in fieri , tanto che si invitano coloro che dispongono di cimeli, documenti e oggetti a proporli per l’esposizione inviando una fotografia e una descrizione all’indirizzo e mail asroma@arthemisia,it  per la conseguente valutazione.

I tifosi, oltre che destinatari di questo appello, sono tra i principali protagonisti, con i giocatori succedutisi nel tempo a fare grande la squadra: i “romanisti” saranno ripresi direttamente con set fotografici allestiti allo stadio nei mesi precedenti, mentre  i giocatori saranno ricordati, oltre che da gallerie fotografiche e cimeli evocativi – come le maglie indossate in partite-evento – anche da un singolare calcio balilla di 20 metri  le cui due squadre –  costituite da “omini” alti due metri invece dei pochi centimetri  del popolare gioco – indosseranno le maglie della squadra  attuale, con  in prima fila Francesco Totti, capitano da vent’anni e leader della Roma dei record di quest’anno; e le maglie di una formazione “all  star” romaniste del passato: da Fulvio Bernardini e Amedeo Amedei, scomparso in questi giorni, a Falcao e Cafù; da Giacomo Losi e Agostino Di Bartolomei a  Bruno Conti e Francesco Rocca,l’indimenticato Kavasaki; da Franco Tancredi e Sebino Nela la difesa di ferro, a Giuseppe Giannini il “Principe” e Roberto Pruzzo il bomber; fino a Vincenzo Montella.

Si rivivrà la storia della società e della squadra  attraverso la narrazione fatta dalla stampa sportiva delle varie epoche  nella “Galleria Corriere dello Sport ” che esporrà centinaia di pagine del giornale romano partner speciale della mostra nel novantesimo anno dalla fondazione. Ma soprattutto  attraverso la ricca esposizione di materiale documentario ed evocativo sulle singole fasi della storia societaria  con al centro i successi della squadra e le delusioni che pure non sono mancate, ne abbiamo fatto una sommaria ricostruzione all’inizio.

In cinque  sale  la cavalcata storica, la prima sulle tre formazioni calcistiche  iniziali  che furono fuse per creare la Roma, le altre quattro ciascuna dedicata a una fase: dalla fondazione al primo dopoguerra; poi dal 1948 alla fine degli anni ’60, quindi dal 1970 al 1991, infine dagli anni ’90 alle vicende più recenti, dal terzo scudetto  ai giorni nostri con i primi passi della  proprietà americana; al termine della spettacolare cavalcata  una sintesi fatta di numeri significativi in una apposita sale.

Parlare di numeri sembra riduttivo per una mostra che si preannuncia altamente spettacolare  con i tanti schermi e monitor che trasmetteranno partite-e interviste, video inediti e gustosi episodi; ma dimostra la serietà  con cui si è affrontata la sfida della mostra per valorizzare il patrimonio sociale: non solo spettacolo ma anche approfondimento, un “must” della nuova proprietà .e del suo staff.

L’impegno, lo spirito, l’attrattiva della mostra

Il sigillo di “Arthemisia” va visto nell’impegno per la ricerca e presentazione, mentre lo spirito sportivo  fa leva sulla collaborazione del Corriere dello Sport  e di TeleRadio Stereo e lo spirito del tifoso su quella di Roma Channel e del Centro Studi dell’Unione Tifosi, che ha fornito preziosi cimeli detenuti da collezionisti  così gelosi dei  propri reperti  fino a chiedere sistemi di sicurezza  in teche protette, come per le più quotate  opere d’arte delle mostre organizzate da “Arthemisia”.

L’assessore alla Scuola di Roma Capitale, Alessandra Cattoi, ha sottolineato anche lei  l’attrattiva della mostra: “Raccontare la storia dell’A.S. Roma vuol dire raccontare un pezzo di storia della nostra città, della sua vita, del so costume, attraverso il calcio, una delle manifestazioni collettive che suscita più emozioni”, e ha aggiunto: “Il fatto che questa narrazione sia concepita come un punto d’incontro tra arte e sport, contribuirà ad attrarre l’interesse non solo degli appassionati, ma anche di coloro che non sono tifosi o non seguono il calcio”. Si attende un a grande affluenza di visitatori, soprattutto giovani che potranno così conoscere lo spazio espositivo di “Factory” alla Pelanda-Testaccio, sede di tante iniziative loro dedicate.  Diffondere la conoscenza tra i giovani di questi siti  con radici popolari  dove si fa cultura  e avvicinarli alle mostre d’arte è un altro risultato che si potrà  ottenere con l’effetto di trascinamento del tifo per la “magica Roma”. E non è poco.

Non resta che attendere l’apertura della mostra e visitarla per verificare come le invitanti premesse si tradurranno nella realtà espositiva.

Foto

L’immagine della presentazione alla stampa con la presidente di Arthemisia Jole Siena tra i dirigenti dell’A:S: Roma e il curatore della mostra è stata ripresa a Trigoria da Romano Maria Levante, si ringraziano i soggetti fotografati per l’opportunità offerta.

Bergamini, il digitale pittorico, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Le grandi  fotografie di Riccardo Bergamini alla Fondazione Crocetti,  dal  18 novembre 2013, nell’esposizione “EsseRI Contemporanei” promossa da “Ademus” e curata da Luigina Rossi, attraverso immagini di imponenti strutture edili in costruzione o demolizione, mostrano un’utilizzazione del mezzo fotografico con la tecnica digitale per interventi quasi pittorici che danno il senso del cambiamento e della trasformazione imprimendovi il dinamismo della vita. Un’impostazione ben diversa dal pittoricismo dei fotografi che cercavano giochi di luce o scorci consueti ai pittori, qui nessuna concessione alla pittura ma ricerca di qualcosa che non si può rendere con l’istantanea tradizionale ma si deve costruire pur mantenendo l’aderenza alla realtà che solo la fotografia assicura.

Le “architetture metafisiche” 

 “Architetture metafisiche/ e colori senza definizione, né patria/ non tutti hanno chiuso per inventario;/c’è chi cataloga, con scatti perfetti/ il respiro e il sospiro, i segni della libertà,/l’odoroso bacio della persona amata/il grido della rosa che muore/ e il chiacchiericcio dell’acciaio brunito”.  Questa volta la definizione dell’opera di un artista, oltre che dalla curatrice della mostra Luigina Rossi,  viene anche da un poeta, Antonio Veneziano, che ha scritto una poesia a presentazione della mostra, dove  Bergamini riesce a far parlare proprio l’ “acciaio brunito” delle “architetture metafisiche”. Il poeta conclude, dopo un excursus sui sentimenti: “Un sole sbiadito, per fortuna,/ insinua domande, tra frammenti di realtà,/  dall’anima di ferro e vetro,/ dove l’impronta digitale,/ di uno scatto fotografico,/ si fa appunto del cuore e del cervello”.

Abbiamo incontrato l’artista che ci ha spiegato come questo avviene, rivelando il suo  modo innovativo di utilizzare il mezzo fotografico nella creazione artistica. Non gioca sui chiaroscuri e sull’intensità dei colori nelle riprese naturali;: né sul taglio delle immagini come nelle riprese oblique di Rodcenko; e in quelle frutto di attesa prolungata o basate sull’immediatezza della ripresa  e, per converso, sulle pose da studio fino alle tante modalità offerte dalla versatilità degli obiettivi. Le accostiamo alle pur diversissime riprese alla ricerca di angoli remoti della natura da celebrare nella loro ignota grandiosità, lo stesso fa Bergamini che trova la grandiosità a portata di mano ma inserita in contesti che la nascondono e la umiliano, mentre l’artista riesce a rivelarla e nobilitarla.

Con lui la tecnica digitale viene utilizzata in forma pittorica in modo creativo: l’artista parte dalla ripresa reale a luce radente, poi elimina l’illuminazione naturale per sostituirla con “pennellate” di  luce digitale che dà i contorni a immagini immerse nel buio, laddove quelle di partenza erano nella luce. Anche le nuvole vengono “pennellate” al posto di quelle catturate dall’obiettivo, e lo stesso avviene per la luce dei lampioni, per citare un particolare. Si tratta, ci ha detto direttamente l’artista, di una luce autentica anche se non quella originaria, “pennellata” nell’elaborazione digitale.

Non c’è manipolazione ma reinterpretazione della realtà per restituire ad essa la vera essenza che va oltre l’impressione di un momento. Tanto più che nella serie di immagini esposte, la realtà è in evidente trasformazione, quindi non può essere quella che appare nell’istantanea, deve essere resa con un procedimento che renda tale processo dinamico.

E’ questa la contemporaneità che interessa l’artista, una realtà “in fieri” di cui riesce a dare l’instabilità con un’atmosfera di sospensione che prende il visitatore, immergendolo in una nuova metafisica urbana, fatta non di piazze  abbacinate dal sole con le ombre lunghe dei colonnati ma di palazzi immersi nel buio contornati da sciabolate di luce.

Così la curatrice della mostra Luigina Rossi: “Ogni elemento architettonico si fa ammirare per essere altro da sé, la luce argentea lo accarezza, lo rende vivo, crea un ponte intellettivo, produce intensi attimi di piacere per la nostra anima; essi prendono vita come fossero una melodia nella ricerca degli accordi di luce”.

L’altro da sé non riguarda soltanto la diversità  rispetto allo scatto primario, l'”altro” è  costruito dall’elaborazione digitale; riguarda anche il fatto che per i palazzi in costruzione l’immagine  provvisoriamente fissata sull’obiettivo non rispetta più la loro realtà dato che nelle successive fasi sono diversi da prima. Ma c’è di più, è un modo di inserire la variabile tempo nella creazione artistica mutandone la percezione; ed è anche un modo di consentire la rielaborazione personale dell’artista rispetto alla percezione immediata della realtà, che il mezzo fotografico fissa con l’obiettivo lasciando poi pochi margini di intervento, aperti invece dalla tecnica digitale che così utilizzata diventa una tavolozza tecnologica che libera la creatività del fotografo divenuto artista.

Guardiamo le 17 tavole fotografiche, molte 70×100,  dei giganti urbani frutto della forte impressione che Bergamini ne ha ricevuto nei suoi viaggi immaginandoli protagonisti assoluti  nella notte che lui stesso ha costruito “come esseri viventi nel divenire del contemporaneo”, per usare le parole della curatrice; e come esseri viventi dialogano con il visitatore, quasi volessero raccontare la propria storia. C’è la struttura avveniristica di Desideri della nuova Stazione Tiburtina, destinata a un futuro senza fine, come quella imponente di un palazzo milanese destinato invece alla demolizione; tra questi destini opposti altre costruzioni che segnano il paesaggio urbano, fino a una ardita ripresa dal  basso del “Fungo” romano, che ricorda la figura turrita della Statua della Libertà , l’unica immagine chiara, anzi abbacinata dalla luce quando tutte le altre sono immerse nel buio fasciate dai riflessi di luce.Ferro, acciaio e vetro pennellati dalla luce, qualche riflesso sul rosso in alcune strutture orizzontali, per lo più è una verticalità vertiginosa che prende l’osservatore portandolo in alto in una proiezione che non è soltanto visiva ma anche spirituale. L’architettura ha di per sé una carica coinvolgente, che nelle immagini viene sublimata dal fatto che gli arditi scorci fotografici, che corrispondono alla visione dal basso, sono sublimati dalle sciabolate di luce dei contorni nell’oscurità degli sfondi. “In esse – scrive ancora la curatrice – dobbiamo scorgere tutto il suo impeto compositivo che significa passione, passione ma anche emozione per chi voglia silenziosamente unirsi a quelle presenze e leggerne ogni linea e sentirne ogni vibrazione nella prorompente rielaborazione della luce con l’uso del digitale”.

Le sculture fotografiche della figura femminile 

Oltre a queste immagini di giganti urbani ne sono esposte 6 che ci portano nell’universo femminile di Bergamini, cui si è dedicato in passato con mostre fotografiche in cui la donna è stata sempre presentata nella sua  dignità personale unita a una carica tale da farne musa ispiratrice. C’è stato impegno sociale e civile come nelle fotografie del campo Rom in Romania,con i bambini protagonisti, premiate in due categorie all’International Photografy Awards per il 2013. In mostra presenta sei immagini oniriche, volti e corpi di donna che come i giganti urbani si stagliano nel buio, le sciabolate di luce li scolpiscono, danno alla loro fisicità segnata da ombre e colori forti contenuti emotivi di sogno e desiderio, di abbandono e ripiegamento interiore.

E’ un filone da perseguire nel quale la fotografia di base diviene “altro” ad elevato contenuto artistico perché muove la mente nella ricerca dei contenuti più profondi e l’anima nella condivisione degli stati d’animo percepiti; come diviene “altro” nei giganti urbani dinanzi ai quali ci sentiamo piccoli come i lillipuziani di Gulliver e come loro rei di averli imprigionati; Bergamini li libera dai lacci delle loro destinazioni pratiche nobilitandone l’imponenza che sfida il tempo e lo spazio.

Per concludere non si può non richiamare la particolarità della sede espositiva, la grande sala della Fondazione, che vuol dire visione contigua dello studio del  grande Venanzo Crocetti  e delle sale in cui c’è l’esposizione permanente delle sue straordinarie opere.  Dove l’universo femminile è rappresentato dalle sculture  di modelle e  ballerine, eleganti e  serene, ma anche di figure tormentate come “Maria di Magdala”, “L’incendio” e “Il ratto”, rispetto alle quali si può trovare un nesso delle donne altrettanto tormentate di cui Bergamini ci offre intense sculture fotografiche; una nostra associazione di idee spontanea dopo l’emozionante visione parallela.

E’ un abbinamento forse inusitato ma intrigante tra la mostra temporanea di Bergamini e l’esposizione permanente di Crocetti che giustifica ancora di più  la “gita fuori porta”, come si dice a Roma, sulla via Cassia numero 492 nella casa museo del grande scultore.

Info

Fondazione e  Museo Crocetti, Via Cassia 492. Orari: lunedì, giovedì, venerdì ore 11-13, 15-19; sabato e domenica 11-18, martedì e mercoledì chiuso. Tel. 06.33711460; http://www.fondazionecrocetti.it/ Catalogo: Riccardo Bergamini, “EsseRI Contemporanei”, novembre 2013, pp. 30, formato 21,5×21,5. Per le opere di Venanzo Crocetti citate, cfr. i nostri articoli: in questo sito l’8 ottobre 2013 “Crocetti, il ‘900 e il senso dell’antico”, in “cultura.inabruzzo.it” il 1° febbraio 2009 “Il mondo di Venanzo Crocetti”. Per le diverse modalità  fotografiche citate nel testo cfr. in http://www.fotografarefacile.it/ i  nostri servizi sui grandi fotografi, 90 dal 2011..

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fondazione Crocetti all’inaugurazione della mostra, si ringrazia la Fondazione con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Bergamini, per l’opportunità offerta; l’artista si ringrazia inoltre per aver acconsentito ad essere ritratto da noi davanti a due sue opere. In apertura, l”artista tra la sua interpretazione del  “Fungo” dell’Eur di Roma e la ripresa digitale di un’intelaiatura in fase di costruzione; seguono altre due immagini di strutture costruttive, poi due immagini con scorci di abitazioni; in chiusura un’intenso viso di donna.

Carlo Erba, arte ed eroismo, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

La mostra alla Galleria Russo con esposti 70 disegni di Carlo Erba, dal 21 novembre al 12 dicembre 2013 presenta un artista raffinato, protagonista di una storia esaltante sotto il profilo artistico e commovente sotto l’aspetto umano, perché all’indipendenza nell’arte e nella vita unisce una conclusione eroica: la morte nella prima  guerra  mondiale in cui andò volontario, nell’impossibile assalto all’arma bianca a una postazione nemica. Roberto Floreani, nel  Catalogo di Palombi Editori,  dà conto in modo esauriente della vita e dell’arte di Carlo Erba.

L’indipendenza nella vita e nell’arte

E’ indipendente Carlo Erba fin dai primi passi della sua biografia. Rinuncia al futuro pronto per lui alla guida della grande industria farmaceutica  che porta il nome del nonno fondatore, uguale al suo, per aderire ad idee anarchiche e dedicarsi agli studi artistici diventando presto artista lui stesso. Si conoscono 600 suoi disegni, mentre la produzione pittorica e altre espressioni d’arte sono andate perdute dopo la sua morte.

Il suo spirito indipendente lo ha tenuto al di fuori delle correnti artistiche del momento ma non è stato impermeabile agli influssi, per la carica innovativa che sentiva di dover esprimere.

Tra il 1905 e il 1909 i suoi disegni sono dei chiaroscuri molto ombreggiati, i soggetti paesaggi e ambienti urbani, figure e temi religiosi. Vediamo esposti, di questo periodo, “Notturno con lampioni” e “Interno di giardino con piante”, “Interno di  studio” ed “Esterno di studio”; “Figure in costume” e “Donna seduta che cuce”, fino a “Testa di Cristo” e “Deposizione”.

Quando nel 1909 viene pubblicato il “Manifesto futurista” di Filippo Tommaso Marinetti -.al quale la Galleria Russo ha dedicato tra febbraio e  marzo 2013 la mostra “Marinetti chez Marinetti” – ha 25 anni e frequenta gli ambienti milanesi della “Famiglia artistica”, con i giovani “scapigliati” e gli indipendenti rispetto alla tradizione. E’ attratto dal Futurismo, ma non vi aderisce neppure dopo il “Manifesto dei Pittori Futuristi” dell’11 febbraio 2010;  né coglie l’occasione del 1911 al Padiglione Ricordi che aprirà agli aderenti al Futurismo una serie di esposizioni internazionali da Parigi a Londra, da Bruxelles a Berlino fino a Mosca, con la condizione “dentro o fuori” il movimento.

Carlo Erba per il suo spirito di indipendenza non vi entrerà, rinunciando ai vantaggi di un’adesione, e nel 1914 contribuì a costituire il gruppo “Nuove tendenze” che nel programma fondativo indicava come “criterio fondamentale” proprio “l’esclusione assoluta di tutte quelle manifestazioni che nelle consuete esposizioni trovano già il loro naturale ambiente”. Indipendenza quindi anche rispetto al Futurismo al quale, tuttavia, il gruppo cui aderì era contiguo per spirito innovativo e trasgressivo, al punto da essere chiamato “l’ala destra del futurismo”; vi confluì  uno dei fondatori, l’architetto visionario Sant’Elia, che sottoscrisse il “Manifesto dell’Architettura” futurista. Contiguità non vuol dire partecipazione, anzi gli fu negata nel 1914 l’Esposizione Libera Futurista alla galleria Sprovieri a Roma per un  veto di Boccioni nonostante l’evoluzione del suo stile in senso futurista.

L’arte tra Futurismo, Nuove tendenze ed Espressionismo

Lo si vede dal confronto tra le opere prima citate e quelle  fino al 1911 con le opere dal 1912 in poi: cambia tutto, abbandona i chiaroscuri e le ombreggiature, il segno diventa deciso e preciso, in molti casi frastagliato e dinamico. A questo confronto la mostra in esame fornisce ampio materiale con i disegni dei periodi suddetti. Dal 1908 al 1911 “Il paesaggio lungo il Naviglio” e due “Studi per Corso Vittorio Emanuele”  nonché “Case sul Naviglio”, “Case di periferia”  e “Case e Duomo di Milano” per i temi ambientali; due ritratti del “Padre Luigi”, di profilo e mentre legge, una “Donna con chitarra” e “Studio di figura maschile” con caratteri analoghi al periodo precedente. Ma del 1911 vediamo due “Figure di donna” in cui il segno cambia, diventa più netto e dinamico.

E’ una svolta stilistica impressa dal Futurismo e, pur se lui resta fuori dal movimento, è più marcata nelle opere successive. Di paesaggi urbani ne vediamo soltanto uno, “Ultime case sul Naviglio”, del 1911-12, quasi un simbolico allontanamento, mentre nelle opere dal 1912-13 domina la figura umana: dai due “Ritratti maschili”, in cui le angolature sembrano preannunciare la svolta, a “Figura in movimento”, “Studio di figure”  e “Figure”, molto segnate dal  dinamismo futurista.

Nel 1913-14 abbiamo ancora scene dinamiche, come ” Coppia danzante” e “Figura di danza”, ma anche soggetti visti nella loro intimità, come “Adolescente con l’orsacchiotto” e “Adolescente guarda l’orsacchiotto”, dove c’è un dialogo senza parole tra bambina e il pupazzo; “Fanciulla alla finestra” e “Modella sdraiata con calze”, “Figura femminile” e “La sorella Bianca seduta con ventaglio”: non sono statiche e pur nell’assenza di movimento vibrano di un nervosismo vitale.

I segni interiori si acuiscono rispetto alla ventata futurista restata in superficie, e nelle opere del 1914 si fa sentire sempre più l’influsso dell’Espressionismo tedesco, in particolare di Ernst Ludwig Kirchner. Vediamo soprattutto figure femminili: “Donna con gatto” e “Giovane donna  sdraiata”, “Modella seduta”  e “La  mia bella luna”, “Donna che cuce” e “donna che legge”, fino a “Bimbo che dorme in braccio a un a donna” e “Studio per ‘le trottole del sobborgo (che vanno)'”che Roberto Floreani  definisce “nato dalla conciliazione tra stili diversi”. Poi vediamo disegnati due busti  maschili: “Testa di vecchio pescatore” e “Studio di volto di pescatore”

Del 2014 anche due esterni, uno urbano, “Chiusa sul naviglio”, l’altro ambientale, “Paesaggio montano”, .che ritroviamo nel 1915 in “Paesaggio urbano”, una piazzetta quasi metafisica con le colonne e la solitudine, e in due “Montagne”, con delle casette in grandi spazi sovrastati dai monti.  I soggetti umani in  “Donna con bambino” e nella straordinaria  “Processione di educande”, uno scorcio suggestivo di figure che passano ripiegate su se stesse tra il pudore e la riflessione.

La guerra e l’eroismo, la disillusione e la fine

Il segno è diventato ancora più netto, la visione interiore ancora più intima e profonda. Ma ormai i temi diventeranno altri perché nella vita dell’artista irrompe la prima guerra mondiale. Sull’onda degli impulsi futuristi nei quali la guerra aveva un posto di primo piano tra le scelte doverose, si arruola volontario proprio nel Battaglione Volontari Ciclisti e Automobilisti di Marinetti, di cui fecero parte gli artisti del Futurismo e di Nuove Tendenze, da Boccioni a Sironi, da Russolo a Bucci compreso l’architetto Sant’Elia che abbiamo citato in precedenza. Carlo Erba vi entrò senza proclami e partecipò con spirito cameratesco all’addestramento prebellico a Gallarate nel luglio 1915 e a Peschiera,  e dipinse con Marinetti, Russolo e Boccioni dei cartelloni, purtroppo perduti, per la “Grande Serata Patriottica” in un teatro. Di questo periodo sono rimaste delle fotografie.

In guerra combatte valorosamente al fronte per la conquista dei dossi Casina e Remit e, allo scioglimento del battaglione, entra negli Alpini. E’ tra i vincitori del concorso “Per la migliore impressione di guerra” al quale partecipa alla fine del 1915 con alcuni disegni fatti al fronte.

Ancora battaglie che lo porteranno a riflettere sugli orrori della guerra spegnendo l’entusiasmo futurista nella disillusione;  il “Ritratto di Umberto Boccioni” raffigura il grande esponente del futurismo con la testa rivolta in basso, affamato e affaticato senza più neppure l’ombra dell’entusiasmo con cui si era arruolato.

Combatte ancora eroicamente, viene ferito, decorato sul campo e promosso tenente; riceve un encomio per aver salvato la vita a due alpini feriti il 2 novembre 1916.  Nei suoi disegni in punta di lapis dal tratto sottile emergono gli stati d’animo, come in “Volontari in riposo (Antonio Sant’Elia”)  e “Posizioni dei fucilieri”, “Prove di tiro” e “L’ordine di sicurezza in stazione”.

Quando nel 1917, dopo due anni di guerra, viene trasferito all’Ortigara, subentra in lui il presentimento della fine vicina. Nell’ultimo breve ritorno  a casa nell’aprile 1917 disse queste parole, nei ricordi della sorella Bianca in presenza dei genitori: “Bianca, pensa tu alla mamma e al babbo, dovrete fare senza di me, lassù in montagna è un inferno, questa volta non tornerò”. La “zona K”, cui è destinato, è  definita “il Calvario degli Alpini” per la via Crucis del fuoco delle mitragliatrici degli austriaci asserragliati in grotte che dominavano il “Vallone della morte” e gli altri varchi micidiali dove gli alpini erano costretti a passare votati al massacro.

In un vano attacco notturno all’arma bianca a  Cima Caldiera Carlo Erba morì  il 12 luglio 1917 “incurante di sé,…rincuorando i reparti” come disse il commilitone Osvaldo Valentini. Un altro suo compagno d’armi e di arte, Alberto Bucci, lo ha ritratto esanime con il titolo “Sonno 12 luglio. Sott. Carlo Erba morto a Ortigara”, che fece parte del volume  di disegni “Battaglione 1915”; fu seppellito vicino al punto in cui cadde.

La preveggenza, l’ispirazione artistica e la qualità umana

Aveva descritto con preveggenza questo momento in una nota del  maggio 1917: “Quand’uno riceve una pallottola di fucile nella testa di solito muore – ecco tutto – cade a terra , lo si raccoglie, lo si carica su una barella, e lo si porta in u n luogo dove sia possibile sotterrarlo. Niente di più e niente di meno”. Di meno ci sarà che il suo corpo non verrà più ritrovato, di più che ebbe la medaglia di bronzo alla memoria, e fu ricordato poco dopo la morte da Margherita Sarfatti e Anselmo Bucci in “Gli Avvenimenti” e “Pagine d’Arte”del 15 luglio 1017. 

Nella nota appena citata c’è una sconvolgente descrizione della guerra vista dall’interno da un entusiasta passato attraverso la delusione e la disillusione alla condanna senza appello con la denuncia di coloro che “scrivono tante sciocchezze sulla guerra” solo perché “non la  vedono e non la vivono”.  Ecco la sua denuncia accorata: “Questa è la guerra che non ha vessilli e non ha inni, è la grigia uniforme monotonia di migliaia di uomini che aspettano vigilando, muoiono avanzando nell’irto groviglio di reticolati, e la musica del cannone  e la rabbia delle raffiche di mitraglia”, anche qui  profetico della sua fine. “I topi che vi corrono sul viso la notte fan gazzarra nelle trincee, nei rifiuti che i soldati buttan via. Topi compagni di vita, come noi rintanati in gallerie di umidità e di sporcizia”, tutta l’epopea futurista della guerra “igiene del mondo” completamente rovesciata.

Roberto Floreani nel concludere la sua commossa rievocazione della vita e dell’opera di Carlo Erba, riassume le diverse fasi del suo percorso artistico, dalla tradizione lombarda all’innovazione fuori da ogni schema agli influssi futuristi e poi espressionisti fino alle opere nel vortice della guerra. E conclude definendolo “grande uomo ed artista delle urgenze del suo tempo”.

Noi non azzardiamo definizioni, preferiamo riportare le due che ci sono apparse più appropriate. La prima riguarda l’ispirazione artistica, e ce la dà lui stesso: “A volte le cose che hanno determinato in me l’emozione hanno avuto ragione d’essere nella loro essenza descrittiva, … in altre condizioni le cose  m’hanno interessato non come elementi di descrizioni, ma come valori di movimenti, masse e colori”; la seconda definizione riguarda la qualità umana, è del citato commilitone Valentini: “Semplice volontario,era il capo spirituale del plotone: ci stringemmo tutti, quasi istintivamente, attorno alla grande, serena  figura di Erba. Era infatti uno spirito superiore… sfogava con giovialità la sua natura esuberante… con la sua serenità nel pericolo… con il suo altruismo che gli faceva ricercare i posti di maggior rischio”.

Il tutto nella sua vita intensa consumata in soli 33 anni fino al sacrificio supremo, il Golgota nel “Calvario degli Alpini”.

Info

Galleria Russo, Roma Via Alibert 20, tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo. Orario:lunedì ore16,30-19,30; da martedì a sabato ore 10,00-19,30; domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, tel. e fax 06.69920692, http://www.galleriarusso.com/; info@galleriarusso.com  Per la mostra su Marinetti cfr, in questo sito, il nostro articolo “Marinetti, disegni e quadri futuristi alla Galleria Russo” il 3 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Russo all’inaugurazione della mostra. Si ringraziano gli organizzatori della Galleria Russo e i titolari dei diritti.  In apertura, “Deposizione”, 1907-08, seguono “Figura di donna”, 1911, e “Ritratto maschile”, 1912-13; poi “Coppia danzante”, 1913-14, e “Donna con bambino”, 1914-15; in chiusura, “Paesaggio urbano”, 1915.  

Ebrei romani, 70 anni dopo l’ “infamia tedesca”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Ara Coeli, nella sala Zanardelli, dal 17 ottobre al 30 novembre 2013 la mostra “16 ottobre 1943 –  La razzia degli ebrei di Roma”,  nel quadro delle manifestazioni per il 70° anniversario ricorda il tragico evento, inquadrandolo nel contesto storico con un’accurata ricostruzione di luoghi, vicende e  protagonisti e una ricca esposizione iconografica e documentale.  La mostra, con il coordinamento generale di Alessandro Nicosia, è realizzata in collaborazione tra “Comunicare Organizzando”, di cui è Presidente, e la Fondazione Museo della Shoah ed è curata da Marcello Pezzetti, che ne è il direttore. Prezioso per la ricchezza documentaria e l’accuratezza editoriale  il Catalogo di Gangemi Editore, a cura dello stesso Marcello Pezzetti.

Il coraggio della mostra

La prima notazione  è il coraggio nell’immagine-simbolo: la pagina del 16 ottobre 1943 dell’agenda con scritto a mano in corsivo “infamia tedesca”: si badi bene, tedesca e non nazista come spesso viene fatto per ridimensionare fino a negare le responsabilità del popolo, un negazionismo anche questo da evitare. In Germania non ci sono stati moti popolari di resistenza, neppure come quello italiano al di là dell’agiografia ufficiale, e le fallite ribellioni a Hitler sono venute soltanto dai vertici delle forze armate, Rommel e gli autori dell’attentato. Diciamo questo per la verità storica non per ostilità verso la deleteria egemonia tedesca sull’Europa monetaria, che ci imprigiona nella gabbia di ferro di un euro ridotto a supermarco impedendoci di crescere.

Il coraggio della mostra si manifesta anche nel dare un volto ai perversi autori della razzia e delle persecuzioni antiebraiche che vengono documentate: i loro volti e le loro figure impettite nelle divise o dentro comuni abiti borghesi sono nell’apposita sezione; la loro tranquillità a confronto con l’umanità dolente dei perseguitati, ripresi nella razzia ma anche nei momenti tranquilli. La galleria di nomi con cui inizia la mostra, e quella di volti con cui si chiude, sono  un omaggio e un monito, è bene che siano nomi e volti a parlare, non soltanto i freddi numeri di una contabilità angosciosa.

Ma  non si limita a  questo, e sarebbe già molto, la comunità ebraica romana non è vista soltanto nel momento della razzia, bensì nella sua evoluzione nel tempo, fin dall’insediamento: e sono eloquenti le immagini di quartieri e persone, come la ricca documentazione che le accompagna.

La nostra visita ha avuto una guida di eccezione, il curatore Marcello Pezzetti, che ha illustrato i vari momenti con trasporto e insieme con serenità, nessun residuo di rancore nelle sue parole, del resto l’incancellabile indignazione era “in re ipsa”, per così dire. D’altra parte gli ebrei non hanno speculato sulle azioni scellerate come quella del 16 ottobre 1943 culminate nel genocidio dell’olocausto; vittime inermi senza resistere nei ghetti divenuti segregazione e poi annientamento,  con la creazione dello stato di Israele hanno realizzato un’autodifesa attiva che li ha portati, con una popolazione di pochi milioni, numero assimilabile a quello della città di Roma, a fronteggiare e vincere le aggressioni di cento milioni di arabi decisi ad eliminarli  dalla Terra promessa dove sono approdati nel loro “exodus” eroico realizzando il sogno biblico, con una forza miracolosa che lascia increduli e ammirati.

Con la mostra viene evocato uno spezzone di storia che è istruttivo vedere alla luce dell’attuale situazione degli ebrei stretti  nella difesa di Israele, sorretti da un vasto concorso di nazioni amiche ma consapevoli che per la loro sicurezza e la loro stessa esistenza l’unica valida garanzia è la loro forza. E questo, lo ripetiamo, suscita in noi  incredulità e insieme ammirazione pari alla condanna per chi vorrebbe in altre forme, non cruente ma altrettanto distruttive,  ripetere l’infamia dell’olocausto.

L’ingresso alla mostra, con i 1022 nomi delle vittime del rastrellamento seguito da morte con 17 soli sopravvissuti,  evoca la tragedia umana perpetrata in quel triste giorno di settant’anni fa. Era trascorso poco più di un mese dall’armistizio dell’8 settembre, al razzismo antisemita si aggiungeva la vendetta verso gli italiani prima uniti nel Patto d’acciaio. Delle persone rastrellate in 26 “zone d’azione” da 360 militari tedeschi dell’unità Seeling diretti da Theodor Dannecker, collaboratore del famigerato Eichmann, ne furono rilasciate 260 dopo la selezione al Collegio militare perché stranieri protetti, non ebrei o “misti”, mentre i 1022 ebrei trattenuti furono deportati ad Auschwitz-Birkenau  dove giunsero il 23 ottobre dopo l’interminabile viaggio in treno nei tremendi vagoni piombati: più di ottocento furono uccisi all’arrivo, dei circa duecento internati si salveranno solo 16 uomini e una donna, Settimia Spizzichino.

Le parole delle autorità romane 

Conclusione tragica di una vicenda collettiva alla quale la mostra ha dato un respiro storico inquadrandola in modo da farne – come ha detto il sindaco Ignazio Marino – “un vero  e proprio viaggio della memoria, tra i vicoli del quartiere ebraico, nel Collegio militare di via della Lungara, alla stazione Tiburtina e sul treno per Auschwitz, tra i ricoveri e i nascondigli nelle chiese, negli istituti religiosi e nelle case dei romani”. Viene documentata anche la solidarietà della popolazione che consentì di salvare la maggior parte degli 8000 ebrei presenti nella città, e il contesto dei luoghi e del difficile momento nel quale i volti inermi delle vittime incrociarono i volti spietati  dei carnefici, gli uni e gli altri fissati in immagini di straordinaria forza evocativa.

“E’ questa la forza della memoria – ha detto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti – e la caratteristica che la differenzia dalla semplice ricostruzione storica. La storia è una catena di fatti e di verità, la memoria è la comprensione delle nostre vite e della vita dei luoghi in cui viviamo. La memoria è viva quando è vivo l’atto di tramandare. Il passaggio di un testimone consegnato da una generazione alla successiva”.  E’ un ruolo vitale che Roma assolve celebrando il 16 ottobre 1943: “Continuare a costruire la memoria per il bene delle generazioni che verranno”, lo ha detto con forza  Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma.

Alessandro Nicosia, che ha coordinato la realizzazione della mostra, l’ha così presentata: “L’obiettivo, ancora una volta, è stato quello di fare Memoria, ricordare per fare in modo che certi fatti non accadano più, dando alla pubblica fruizione, soprattutto alle nuove generazioni, la possibilità di riflettere su una tragedia come questa, tenendo vigili e attente le coscienze di tutti”. Mentre il curatore Marcello Pezzetti ne sottolinea “l’impatto visivo capace di segnare la memoria della collettività tutta”, e  ne allarga così il raggio d’azione: “Un’esposizione che si concentra sulla sorte degli ebrei della capitale, vittime della politica di sterminio nazista, ma che si rivolge a tutti gli italiani perché si tratta della loro storia”.  Che viene tradotta in memoria da immagini evocative.

Dalla piena cittadinanza al ricatto dei 50 chili d’oro

Le prime immagini risalgono al periodo  anteriore l’imbarbarimento razziale, dal 1870 al 1938 quando, cessato l’ostracismo dello Stato Pontificio, con Roma capitale gli ebrei divennero cittadini italiani a tutti gli effetti, integrati e assimilati nella popolazione con la piena cittadinanza romana. Vediamo la fotografia di Ernesto Nathan, ebreo di formazione repubblicana, sindaco di Roma per due mandati, dal 1907 al 1913, ricordato per i successi della sua amministrazione; e le immagini di vita rionale nell’antico ghetto, tra cui alcune di una “Roma sparita” molto suggestive.

Poi, come in “La vita è bella” di Benigni, dalle scene serene si passa all’incubo delle persecuzioni, che inizia con le leggi razziali del 1938, è esposta una serie di documenti sull’applicazione di tali leggi e sulle richieste di esenzione dovute a meriti acquisiti verso il regime: caso particolarmente pietoso quello della straniera la cui richiesta di esenzione dall’espulsione fu accolta alla fine del 1938, ma cinque anni dopo fu deportata il 16 ottobre 1943 e uccisa  all’arrivo a Birkenau.

Non solo esclusioni dal lavoro ed espulsioni per gli ebrei stranieri, anche lavori forzati lungo l’argine del Tevere, le fotografie sono eloquenti; come lo sono quelle di una manifestazione antisemita e di una lettera di commercianti italiani che denunciavano i concorrenti ebrei, nel 1941. Oltre alla solidarietà di tanti, infatti, c’era l’ostilità di alcune frange della popolazione alimentata dall’insano desiderio di avvantaggiarsi dell’insperato ostracismo dato ai temibili concorrenti, anche questo si deve ricordare pur se è doloroso constatarlo..

Con l’8 settembre1943, dalla incivile discriminazione si passa alla criminale persecuzione in atto in altri paesi d’Europa dalla quale fino ad allora gli ebrei italiani erano stati risparmiati; con l’ignobile intermezzo della richiesta fatta il 25 settembre di 50 chili d’oro alla Comunità ebraica romana da consegnare entro 36 ore pena la deportazione di 200 suoi membri; il “riscatto” fu pagato il 28 settembre, ma non placò i tedeschi che sequestrarono schedari e archivi, a nulla valsero le lettere di protesta dell’Unione delle comunità israelite esposte in mostra.

La razzia: persecutori e luoghi. testimonianze e documenti   

Ma la vera tragedia doveva ancora consumarsi, ecco la descrizione di Riccardo Pacifici. “Il 16 ottobre, all’alba, quando in molti ancora dormono sotto le proprie coperte, gli ebrei romani sono stati svegliati dalla furia nazista. Le strade dell’antico ghetto e di altri quartieri abitati  dagli ebrei della città sono state chiuse. Erano i primi passi che avrebbero destinato più di mille italiani di religione ebraica dentro il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau”.  Primi passi preparati accuratamente nei giorni precedenti con un intreccio di comunicazioni tra le autorità diplomatiche e militari tedesche a Roma e i vertici a Berlino, le prime orientate negativamente sulla deportazione, i secondi invece intransigenti per l'”ordine di Hitler di deportare gli 8000 ebrei di Roma”.  E fu un miracolo dovuto alla popolazione che li nascose e alla loro fuga se ben 7000 si salvarono, i portieri dei palazzi li nascosero negli scantinati, i parroci  nei punti meno accessibili delle chiese.

I persecutori sono i comandanti militari e in particolare quelli dell’unità Seeling  che effettuò i rastrellamenti, come Dannacker responsabile dell’operazione ed  Eisenkolb, suo ufficiale; si vedono diverse immagini dei soldati dell’unità inquadrati in un rigido prsentat’arm oppure schierati semplicemente e in posizione di riposo. Tra i responsabili civili,vediamo il console a Roma Moellhausen, che cercò invano di dissuadere i vertici berlinesi ricevendone oltre al rifiuto degli aspri rimbrotti: questa sua posizione sarà valorizzata al termine della guerra, e rimase in Italia dove avviò un’attività commerciale che ancora oggi appartiene alla famiglia; anche Kappler e le altre autorità militari sconsigliarono l’operazione per la quale non si sentivano pronti, ma poi si misero a disposizione per farla attuare.Ed eccoci alla “razzia” del 16 ottobre, i luoghi sono documentati da una mappa in cui è indicato il numero delle persone rastrellate in ogni sito. La rievocazione più toccante è quella attraverso i  disegni di Aldo Gay e Pio Pullini, le uniche testimonianze dirette  che sono il piatto forte della mostra. Aldo Gay riuscì a sottrarsi all’arresto e memorizzò quanto vedeva fissandolo poi con  matita e acquerelli e a china; ecco i militari che caricano gli ebrei sui camion Opel modello Blitz.tra piazza Sonnino e Trastevere; ecco un  primo piano di soldato tedesco che sfonda una porta con il calcio del fucile, come fece con la porta della propria casa dove ne sono rimasti i segni, ecco la teoria dolente delle persone che scendono le scale delle proprie abitazioni scortate dai soldati; ecco la scena violenta dell’arresto dei suoi parenti, una famiglia con tre figli, fino a quella impressionante  di madre e figlia che si gettano dalla finestra per sfuggire all’arresto, e per fortuna si salvano.

I due disegni di Pio Pollini anch’egli testimone degli eventi, riproducono la scena delle donne terrorizzate sbattute su un camion dai soldati, e un soldato in divisa che afferra brutalmente per la collottola un vecchio e trascina per mano un bambino; entrambi hanno sullo sfondo le colonne del  Portico d’Ottavia  nel cuore del ghetto ebraico.

Sono queste le uniche evidenze visive della razzia. Le altre sono tutte documentali, frutto di una ricerca estremamente accurata. C’è il “calendario delle operazioni”, un  prospetto burocratico in tedesco del comandante della piazza, Reiner Stahel e due note della Questura di Roma sugli arresti operati dai tedeschi, una sorta di “mattinale” senza commenti quasi si trattasse di operazioni rientranti nella normalità, complicità o almeno il reato di omissione. Ben diverse le denunce nel dopoguerra da parte di italiani dei comandanti tedeschi implicati negli arresti e le testimonianze, in particolare contro Dannacker, a capo dell’operazione, e Kappler. Poi, specularmente, le deposizioni dei deportati e dei tedeschi impiegati negli arresti nei procedimenti  contro i responsabili delle deportazioni svoltisi in Germania negli anni ’60.

Le 1000 vittime, tra cui 200 bambini  

Dopo i persecutori e la razzia, in un’escalation di emozioni, la mostra presenta le vittime, dopo averne indicato tutti i nomi all’ingresso.  Sono per lo più bambini, donne e anziani perché si pensava che non rischiassero mentre i giovani e i maschi adulti si erano nascosti temendo la deportazione nei campi da lavoro; Dei 425 maschi deportati il 67% con meno di 15 o più di 60 anni; 196 bambini minori di 5 anni! Gli arrestati sono di umili condizioni o addetti a lavori pesanti, ma anche professionisti, avvocati ed ingegneri, perfino un ammiraglio pluridecorato.  Nel quartiere ebraico fu operata metà degli arresti, il resto nelle altre zone; colpisce il caso della famiglia  di Settimio Calò, venditore ambulante, era in fila dal tabaccaio per acquistare le sigarette il giorno della distribuzione razionata, quando i soldati fecero irruzione nella sua casa al Portico d’Ottavia prelevando la moglie e i nove figli,  non li rivedrà più. Sopravvissero in 16, nessun bambino.

Che dire della galleria di volti  offerta alla nostra memoria? E delle storie toccanti che a loro si associano?  Ci sono letterine di bimbi e pagelle scolastiche insieme ad ansiose domande rivolte per iscritto a “Sua Eccellenza” sulla sorte delle persone scomparse, rimaste tutte senza risposta. Inoltre un diario e un biglietto nel quale nella sosta al Collegio militare gli internati chiedono oggetti necessari per la deportazione. Questo biglietto ci fa tornare alla mente quello consegnato dai soldati tedeschi impegnati nel rastrellamento il 16 ottobre agli abitanti delle case che sarebbero stati “trasferiti”, compresi gli ammalati gravissimi, entro venti minuti tassativi, con indicato il necessario: cibo per 8 giorni e tessere annonarie, carta d’identità e bicchieri; e il consentito, valigetta con effetti e biancheria personale, denaro e gioielli. Suona beffarda l’indicazione al punto 4 del biglietto di istruzioni: “Chiudere a chiave l’appartamento”.

Reticenza pubblica e protezione privata del Vaticano, assenza dei partiti  

Abbiamo detto che è una mostra coraggiosa, ebbene lo è anche nel documentare la reazione del Vaticano, generica e “nebulosa”, affidata a un articolo dell’ “Osservatore Romano” su “La carità del santo padre”, definita “universalmente paterna”, quindi senza confini “né di nazionalità, né di religione, né di stirpe”, e divenuta “quasi più operosa” dinanzi “all’accrescersi di tanti mali” e  inoltre “maggiormente intensificata per le aumentate sofferenze di tanti infelici”. Dinanzi a tali espressioni che  è eufemistico definire criptiche, cadono le preoccupazioni tedesche per la reazione del Pontefice, non protestano perché il riferimento alla razzia verrà capito solo “da un esiguo numero di persone”, quindi non devono temere contraccolpi. Oltre questo, solo un incontro tra il segretario di Stato e l’ambasciatore tedesco con la richiesta di salvezza per gli ebrei in modo da non mettere la Santa Sede “in condizione di protestare”. Troppo poco!.

La mostra, che con coraggio non nasconde nulla del reticente atteggiamento vaticano dinanzi alla razzia, non esita però a dare ampia evidenza all’impegno dello stesso Vaticano e delle organizzazioni cattoliche di fronte alle persecuzioni che dopo il 16 ottobre coinvolgevano anche le autorità italiane a seguito della formazione della Repubblica Sociale Italiana a fianco dei tedeschi. Una ingente documentazione prova come si siano mobilitati organismi religiosi e parroci, semplici cittadini e un’apposita organizzazione, la Delegazione per l’assistenza agli emigrati ebraici, per nascondere tutti coloro che erano minacciati di deportazione: sono esposte numerose lettere del Vaticano e di altri istituti, relazioni e attestati di varia natura, dagli oggetti di ebrei nascosti ritrovati nelle soffitte ai disegni umoristici ma espressivi di un rifugiato nel sottotetto di una chiesa; hanno un a forza documentaria ed evocativa paragonabile ai disegni di Gay e Pulli..

Sulla razzia non ci fu solo sottovalutazione da parte vaticana; la stampa, salvo poche lodevoli eccezioni,  la ignorò e così le forze politiche, compreso il Comitato di Liberazione Nazionale dei partiti antifascisti che, riunito il pomeriggio del 16 ottobre non parlò del grave evento.

L’orrore della deportazione e il ritorno alla vita dei 16 sopravvissuti  

Ma lasciamo alla storia ogni giudizio, la mostra ci porta ora a rivivere la deportazione con i biglietti passati furtivamente alla stazione Tiburtina e i diari dei sopravvissuti; e l’arrivo ad Auschwitz e Birkenau:  qui soccorrono le immagini fotografiche dei luoghi dove giunsero la sera del 22 ottobre gli ebrei rastrellati a Roma il giorno 16, una lunga teoria di baracche in una landa desolata, com’erano allora e i resti di oggi. E poi i documenti della lugubre contabilità della meticolosa burocrazia nazista, schede personali ed elenchi di prigionieri arrivati, liste di morti, e sanitarie; anche in questa sezione le toccanti testimonianze  dei pochi sopravvissuti.

Le ultime sezioni della mostra, organizzata su due piani con un’accurata regia espositiva, sono il contraltare delle tragiche immagini di Auschwitz, agghiaccianti anche se non si vede il campo di sterminio con le sue vittime, ma solo le baracche e la contabilità dell’orrore. Infatti si tratta del “ritorno alla vita” dopo la liberazione di Roma del 4 giugno 1944. Ma non è un ritorno immediato, anche questa per gli ebrei romani sarà una conquista difficile: il ritorno nelle loro case sequestrate e nei negozi espropriati è difficile per le resistenze degli occupanti, mentre le notizie dei deportati sono molto incerte: tutto questo viene evidenziato dai documenti esposti, di varia natura, provenienza e destinazione, che fanno rivivere la fase di transizione verso la normalità convulsa ma finalmente aperta alla speranza. Commuovono le richieste di notizie, come il Bollettino del Comitato Ricerche dei deportati Ebrei, appositamente costituito, che il 20 settembre 1945 reca il nome di Settimia Spizzichino tra i “reduci” .

E’ stata l’unica donna a sopravvivere, la madre, una sorella e una nipotina furono mandate nelle camere a gas, l’altra sorella Giuditta non superò gli stenti del lager; lei resistette anche al trasferimento da Auschwitz a Belsen Belsen dove fu liberata nell’aprile 1945, riuscì a  rientrare a Roma nel mese di settembre. Per ciascuno dei 16 sopravvissuti  una foto e una scheda che ne fa rivivere l’odissea con le tremende vicende dell’arresto, la deportazione e prigionia nel lager-campo di sterminio dove molti di loro hanno perduto i propri familiari, fino alla liberazione.

La mostra non termina con le loro immagini. Doverosamente si chiude con la galleria dei deportati, almeno trecento di loro come gli eroi delle Termopili, visi di ogni età negli atteggiamenti più diversi, per lo più felici e sorridenti. Ricolleghiamo le loro figure alla teoria senza fine dei 1022 nomi all’ingresso della mostra, è come una immensa lapide collettiva che diventa l’epopea di un eroismo, di persone normali che la sorte ha fatto diventare eroi. Il loro sacrificio e quello delle tante altre vittime dell’insensata violenza razzista segni per sempre la fine di queste orribili tragedie che ripugnano alla coscienza civile e alla stessa umanità.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, p,zza Ara Coeli, sala Zanardelli. Aperto tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30; da venrdì a dome nica 9,30-19,30.; accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma”, a cura di Marcello Pezzetti, Gangemi Editore, ottobre 2013, pp. 272, Formato 21×29,6. Per altre mostre sulle persecuzioni antisemite e le deportazioni nonchè su quegli anni di guerra cfr. i nostri articoli  in “cultura.abruzzo.it” “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010,  “Il bombardamento di Montecassino”  16 febbraio 2009 e  “Ombre di guerra”  8 agosto 2009; e  in http://www.fotografarefacile.it/,   “I ghetti nazisti” 27 gennaio 2012 e “Ombre di guierra alll’Ara Pacis”  2 febbraio 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e la “Fondazione Museo della Shoah” con Marcello Pezzetti e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura un simbolico “muro del pianto”, seguono  la Roma del quartiere ebraico, con una visione da lontano e immagini ravvicinate dei luoghi, poi ebrei romani al lavoro sul Tevere nel 1942  e due immagini dei lager di deportazione e sterminio, quindi l‘unica donna sopravvissuta Settimia Spizzichino, l’ultima a destra nella foto; in chiusura la galleria delle vittime con cui termina il percorso espositivo. 

Carbone. “The Dream”, il sogno dell’emigrante, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Fori Imperiali, la mostra “The Dream – Omaggio all’emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America nel XX secolo”, espone dall’8 al 24 novembre 2013 le opere di Meo Carbone sull’epopea dell’emigrazione italiana in America. E’ un prestigioso complemento artistico temporaneo del Museo Nazionale dell’Emigrazione permanente, collocato dalla parte opposta del complesso monumentale, nel lato dell’Ara Coeli. Inoltre si svolge in significativa coincidenza con la X edizione del Concorso Video Memorie Migranti, promosso dal Museo dell’Emigrazione Pietro Conti per recuperare la memoria storica dell’emigrazione italiana nel mondo e favorire un’attività di ricerca e di studio sugli aspetti sociali, storici ed economici legati al grande esodo; il concorso – e in questo c’è un nesso con la “rappresentazione” di Meo Carbone – prevede “l’ideazione e la produzione di un audiovisivo che tragga spunto dalla tematica migratoria italiana”.

La mostra del Vittoriano, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è curata da Pascale Carbone, responsabile è Cristina Bettini. Al motivo primario dell’emigrazione evocata in modo suggestivo unisce ulteriori contenuti che la collegano al senso di umanità, al rapporto dell’artista con l’atto creativo, fino all’incarnazione più profonda dell’identità nazionale.

Questi motivi e contenuti trovano espressione in una galleria di immagini intense che portano l’osservatore in un mondo lontano nel tempo e nello spazio ma vicino nella memoria di tanti italiani, considerando che il fenomeno dell’emigrazione tra l’800 e gli anni ’50 del ‘900  ha inciso in profondità in molte regioni del paese dal Nord al Sud.  All’Italia di 60 milioni di abitanti va aggiunta l’altra Italia, di entità analoga, considerando i primi emigrati e le loro discendenze approdate ai massimi livelli istituzionali: e non serve ricordare Fiorello la Guardia o il più vicino Mario Cuomo, c’è la fresca elezione di de Blasio a sindaco di New York a porre un nuovo sigillo.

L’onda di sentimenti

E’ un viaggio nella macchina del tempo sull’onda dei sentimenti quello che si compie circondati da immagini immediatamente familiari anche se si tratta di volti sconosciuti. Dalle pareti della sala ci si sente fissati da tanti occhi come in una visione dantesca, sembra invitino a fermarsi sulla loro storia personale che vorrebbero raccontare mentre si dipana una storia collettiva ricca di pathos e di umanità; la storia è così raccontata da una molteplicità di singoli – ciascuno espressione dalla propria individualità – che diventano folla, comunità, popolo. E’ anche la nostra storia nazionale, e in molti casi una storia familiare:  come per chi scrive il cui nonno materno partito da un piccolo paese dell’Appennino abruzzese, Pietracamela alle falde del gran Sasso, sbarcò a Ellis Island dalla “Sicilian Prince” con meta Newcastle-Pennsylvania il 25 giugno 1906, tre mesi prima della nascita della figlia avvenuta il 1° ottobre, date che sottolineano il sacrificio sin dal momento della partenza.

Il fatto personale può aver acuito in noi le sensazioni provate nel visitare la mostra, ma riteniamo che l’emozione prenda anche chi – e non sono molti – non ha ascendenti emigrati, perché questi sono ascendenti dell’intera nazione da cui nessuno può sentirsi estraneo; come quando si visita il Museo Nazionale dell’Emigrazione, dall’altra parte del Vittoriano, con la sua ricca  esposizione: dalle valigie di fibra e le carrette musicali alle fotografie, documenti e cimeli di ogni tipo in un clima evocativo fatto di suoni e luci, proiezioni e video, audizioni di canzoni sul tema, da quelle d’epoca come “Partono i bastimenti”  alle più vicine, compreso “Ciao amore ciao” di Luigi Tenco.

La galleria di immagini di Meo Carbone si apre nel largo ambulacro di ingresso, con due valigie artisticamente dipinte di figure dolenti e insieme determinate, il “sogno americano” comincia di lì.  Sulla sinistra una sequenza di pannelli distinti che insieme compongono – ce lo fa notare cortesemente la curatrice – lo skyline di Chicago. Le figure e i volti sono incorporati, per così dire, nei grattacieli e negli edifici cittadini in una compenetrazione simbolica che esprime il contributo determinante dato dagli emigrati alla fisionomia della città: sia per il duro lavoro alle altezze vertiginose dei grattacieli da loro costruiti sia per la stretta integrazione nel contesto cittadino.

I volti imprigionati nei grattacieli sembrano alla ricerca di un ascolto delle loro storie, mentre sulla parete opposta vediamo immagini del tutto diverse in alcuni pannelli di masonite da rappresentazione teatrale. I grattacieli ci sono sempre ma come sfondo, in primo piano le persone, i bambini e le famiglie, che non devono più affollarsi per farsi ascoltare, sono sul proscenio da protagonisti. E non si tratta degli emigrati di successo, è la gente comune che esce dall’anonimato.

La visione dantesca nella Sala Giubileo

Si entra nella Sala Giubileo, si sente l’effetto di una visione dantesca, le aerografie  accerchiano il visitatore proiettando su di lui l’intensità degli sguardi degli emigranti, ripresi soprattutto nei volti ma anche  nelle figure in piedi fino a qualche scorcio in bicicletta. Sono operai e minatori, forti del loro anonimato.  Che arriva ad incorporare anche personaggi divenuti famosi, perché vittime di una discriminazione xenofoba giunta all’epilogo tragico dell’esecuzione di innocenti, come Sacco e Vanzetti; o per la loro dedizione alla carità e all’assistenza degli emigranti bisognosi come Santa Francesca Cabrini. Sono rappresentati “tra gli operai italiani”, ai quali trasmettono la loro celebrità eroica ma dei quali acquisiscono l’anonimato altrettanto eroico nel segno della sofferenza  e della tensione per un ideale, il “sogno americano”. Sacco e Vanzetti lo videro infranto, ma il loro sacrificio supremo provocò un moto di reazione che nobilitò l’oscuro sacrificio di tanti. A Nicola Sacco e a Bartolomeo Vanzetti sono dedicati anche dei grandi primi piani con la  scritta “Dead!”, anatema verso i colpevoli dell’inaudito  crimine contro la verità e la giustizia che li ha uccisi.

Quelle appena indicate sono le poche personalizzazioni anche nei titoli degli aerogrammi esposti. Per il resto i titoli vanno da “Partenza” per le valige dipinte a “Partenza” e “Attesa” per le masoniti teatrali, da  “Emigranti a Chicago” per la spettacolare sequenza di ingresso a “Gruppo di emigranti” ciascuno nella propria casella, da “Operai nella dimensione architettonica” a “Minatori di Castle Gate, Utah”, da “Operai in pausa” a “Le madri”. Fino alle “Images” e “Immagini e sogni di libertà”, dietro le espressioni assorte e dolenti, ma determinate, spicca la Statua della Libertà che, in definitiva, impersonava il sogno americano. Fin dal momento in cui – come ricorda Alessandro Baricco in “Novecento” e ha mostrato Giuseppe Tornatore nella sequenza iniziale del  film “La leggenda del pianista sull’oceano” – risuonava il grido “L’America!”  lanciato dall’emigrante che per primo dalla tolda della nave vedeva come un miraggio l’alta figura turrita.

Dietro il sogno rappresentato non nel cassetto ma nella valigia c’è la sofferenza, abbiamo detto: traspare non solo dai volti dei singoli ma dalle immagini  di madri e figli, dei bambini, che danno una dimensione familiare dalla quale si assurge alla dimensione sociale. Il calvario diviene epopea collettiva in cui si incarna il sogno di intere generazioni fino a diventare sogno di una nazione. I bagliori che attraversano i volti dolenti sono insieme riflessi del dramma e lampi del sogno, da realizzare con il duro lavoro di operai, spesso alle altezze vertiginose dei grattacieli in costruzione, e il lavoro periglioso dei minatori immersi nelle viscere altrettanto vertiginose dei giacimenti minerari. Viene celebrato anche il lavoro  delle emigrate italiane sia in famiglia sia nei negozi di “Fruits & Vegetables”, le cui scritte spiccano in alcune aerografie.

L’arte di Meo Carbone, realtà e rappresentazione

Come vengono espressi sul piano artistico questi motivi che uniscono l’attenzione all’individuo alla dimensione collettiva che diventa denuncia sociale?  Claudio Crescentini parla di “ricostruzione della realtà”, cioè del sogno “analizzandolo e studiandolo con uno sguardo acuto, quasi da entomologo, partendo appunto dalla realtà riletta e ricostruita da Carbone, mediante le foto dei nostri parenti poveri”. Sono le fotografie esposte a Ellis Island presenti nella collezione di Dominic Candeloro, che colpirono l’artista nel 1995 allorché incontrò il docente della Loyola University di Chicago storico e collezionista di cimeli e documenti dell’emigrazione italiana in Nord America.

La curatrice Pascale Carbone ci parla con toni appassionati di questa svolta artistica del padre, avvenuta allorché fu “folgorato”  dalle fotografie degli emigranti raccolte da Candeloro ed esposte nella “Casa Italia”  di Chicago; l’artista le vide nel 1992 nella sua visita per i 500 anni dalla scoperta dell’America celebrata con la mostra “Deities”,  sue pitture e sculture come omaggio artistico alle divinità indiane autoctone, tradotta anche in un libro dello stesso titolo presentato da Paolo Portoghesi. E’ stata una scelta coraggiosa e controcorrente, considerando il trattamento oppressivo, per usare un eufemismo perché fu liquidatorio, riservato agli indiani autoctoni. Come è coraggioso e controcorrente aver dato un posto di riguardo nell’“Omaggio all’emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America nel XX secolo”– dal sottotitolo della mostra –  a Sacco e Vanzetti,  la loro esecuzione è una macchia indelebile nella moderna democrazia americana come è stata una macchia lo sterminio degli indiani nell’epopea pur esaltante degli esploratori e dei pionieri.

Queste immagini fotografiche vere diventano le tessere del mosaico virtuale dell’aerografia che le compone e le scompone, le assembla e le divide su fondi scuri in qualche caso  percorsi da sciabolate di luce come fossero illuminate da un riflettore da controllo o da un occhio di bue da ribalta. L’aerografia le colloca in una visione geometrica mantenendone la fisionomia figurativa ma rendendo l’insieme un’astrazione virtuale quasi che la realtà sfumasse nell’onirico. Del resto è “il sogno”  il soggetto collettivo dietro le immagini individuali, una comunità dietro le singole persone.

Geometria, astrazione, figurativo si ritrovano convergenti nella sua rappresentazione, come una sintesi di periodi e forme stilistiche diverse che hanno segnato la vita artistica di Meo Carbone, nella descrizione che ce ne fa la curatrice. Con la particolarità che il figurativo non è stata la sua partenza, salvo le fasi iniziali, ma un suo approdo dopo l’astrazione, cosa inusuale dato che il normale percorso va nella direzione inversa, lo abbiamo visto nella mostra su Mondrian.

L’aerografia, in genere meccanica e fredda, in questo caso acquista calore e tale convergenza diviene  la formula ideale per dare corpo alla visione del “sogno”  attraverso immagini prese dalla realtà che devono trascenderla subliminandola con l’arte. I suoi “geometrismi illuministici”, scrive ancora Crescentini, “scompongono il passato fotografico con una forza espressiva che sospende e sorprende la cronaca per elevarla appunto al grado di Arte. E l’Arte riscuote nel tempo e scuote nella storia, ridando immagine e storia a quelle immagini di cronaca, a quelle cronache che sono diventate immagini storiche e oggi, tramite Meo Carbone, arte. Un’arte che tende al sociale per divenire politica, un’arte di denuncia sempre meno perseguita in questo nostro XXI secolo”.

Non si poteva riassumere meglio l’operazione di alto livello artistico e di forte contenuto sociale fino alla denuncia sul piano politico compiuta da Meo Carbone, ed è giusto che la sua mostra sia approdata al Vittoriano, che oltre ad ospitare il Museo Nazionale dell’Emigrazione,  riassume i valori dell’identità e dell’Unità nazionale celebrati anche dalla mostra “The Dream”.  Un approdo prestigioso lungo un cammino itinerante dal 1996 tra Italia e America: San Benedetto del Tronto e Perugia, Napoli e Casoli, Torricella Peligna e Frascati tra le precedenti tappe italiane oltre a Roma al Vicariato poi e all’Archivio di Stato; San Francisco, Pittsburgh, Washington le tappe americane.

Il percorso personale dell’artista è iniziato sin dal 1971 con la prima esposizione coincisa con l’Oscar dei Giovani per la scultura e la vittoria nel premio Tevere-Reno. Due anni dopo la partecipazione a una mostra internazionale di livello europeo a Graz, passano altri due anni e viene invitato alla 10^ Quadriennale “New Generation”; con la consacrazione nazionale prestigiosi riconoscimenti internazionali come l’invito all’esposizione al County Museum of Modern Arts di Los Angeles e la partecipazione alla 3^ Biennale di grafica d’arte europea a Baden Baden. 

Nel 1991 l’incontro con il capo indiano dei Lakota Sioux in occasione della mostra “Omaggio alle divinità indiane del Nord America” per le celebrazioni del 1992, presentata al Palazzo dei Congressi di Roma da Paolo Portoghesi, di cui abbiamo  parlato; in Italia si è tenuta anche a Spoleto e Pescara, in America itinerante a Miami e Orlando, poi a Chicago, Salt Lake City e San Francisco.

Con il 1995 il ciclo di mostre di “Dreams” come omaggio all’emigrazione italiana e a Chicago e Boston, nel 1999 il progetto “La Via Crucis nel Mondo”, dipinta per il Giubileo del 2000 e presentata anch’essa in diverse mostre. Considerandole insieme alle mostre sulle divinità indiane si compone un quadro edificante e coraggioso dell’impegno culturale e civile dell’artista.

Il sogno per l’artista e per l’emigrante, l’espressione dell’identità nazionale

Abbiamo detto che altri contenuti si possono rinvenire nella sua opera oltre ai motivi di particolare valore che abbiamo evocato. Il primo riguarda il significato del “sogno”, che non si limita al sogno americano pur se questo è il protagonista attraverso tanti volti che racchiudono, oltre a tante sofferenze, tante speranze quindi tanti sogni.

Il sogno è visto come metafora di liberazione per l’emigrante, perché gli consente di liberarsi dai vincoli geografici; ma per Meo Carbone anche nell’artista è liberazione dai vincoli concettuali ed espressivi. Ecco come ne parla: “Entrambi, artisti ed emigranti, hanno sogni. I sogni rincorrono la realtà e la realtà rincorre i sogni. Un progressione geometrica dove in ogni istante la fine del sogno è l’inizio della realtà e la fine della realtà è l’inizio del sogno”. La visione diviene filosofica: “Non sarebbe possibile per un uomo confrontarsi con la vita, affermare delle idee e poi difenderle, senza la capacità sognante che come d’incanto mette le ali alle nostre sensazioni e ci fa volare in mondi più giusti dove l’uomo e l’uomo riescono a tenersi per mano. Il sogno è movimento, è dinamismo. Il sogno è affrontare qualsiasi difficoltà: come le difficoltà degli emigranti”.

Poi c’è un contenuto ancora più alto, oltre la dimensione collettiva e sociale del sogno che già supera quella individuale. Si tratta della stessa identità nazionale che viene segnata profondamente e in positivo, e non solo sotto il profilo dell’emigrazione. La evoca con parole ispirate Gianni Letta, con la sua particolare sensibilità di uomo della istituzioni: “Questa mostra ha la potenza espressiva della verità. Dice chi siano le donne e gli uomini d’Italia. Non solo quelli partiti per l’America, ma per gli italiani tutti. Gli emigranti infatti sono gli italiani nella loro dimensione autentica”. Lo precisa così: “Viene da chiamarli per nome, viene da desiderare di sedere con loro al desco povero eppur familiare. Non sono gli emigranti in generale, quasi fossero una categoria sociologica o un tipo antropologico, ma ci imbattiamo in identità personali irriducibili”.

Queste identità personali hanno molto da dire: “Impressiona vedere come ciascun soggetto di queste opere, anche quando raffigurato in un gruppo, abbia il suo ‘sogno’ unico, irripetibile, che coincide con il suo nome, la sua anima”. Il sogno che illumina i loro volti è ben diverso dall’evasione onirica nell’immaginario: “Essi sono trasfigurati da un ‘desiderio sognante’, che non è fuga dalla realtà ma tensione a cambiarla, così da avere una vita buona e un desiderio lucente per sé, la propria famiglia e il mondo intero”. La luce negli sguardi non cancella l’amarezza: “Nei loro occhi si vede ancora il dolore dell’abbandono, ma insieme ecco ‘the dream’ , che non è mai compiuto totalmente, non è un film la cui storia scorre fino al ‘the end’, ma è un pungolo che sempre sospinge a crescere”.

La considerazione che ne trae Gianni Letta è identitaria per il nostro paese: “In questo senso gli italiani sono un popolo inconfondibile, eppure universale. La loro (la nostra…) natura ha un’eco dovunque ci siano figli di Adamo”. Una bella celebrazione, a commento delle intense immagini di Meo Carbone, dell’epopea della nostra emigrazione, tale da sublimarne il valore nazionale.

Concludiamo dicendo che forse non ha ragion d’essere, anche se era doveroso, il nostro avvertimento iniziale che i motivi personali di partecipazione alla storia dell’emigrazione per ragioni familiari possono aver acuito in noi la sensibilità verso le opere d’arte che la declinano in modo suggestivo. Infatti anche senza ascendenti emigrati, la sensibilità viene sollecitata dal senso di identità nazionale espresso da Gianni Letta come messaggio saliente delle storie di emigrazione.

E in questo tutti si possono riconoscere senza poter restare indifferenti.  Nel caso della mostra si aggiunge il fascino dell’arte che nell’evocare il tema colpisce con l’efficacia icastica delle sue immagini:  una visione dantesca l’abbiamo definita, un viaggio sconvolgente in un mondo  mitico.

Lo “sguardo dal ponte” di Meo Carbone

Un’ultima considerazione ci è suggerita dal nome dell’artista, Meo Carbone. Come è noto, il protagonista di “Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller, il dramma teatrale  divenuto un’icona della nostra emigrazione,  si chiama Eddie Carbone.

Viene da dire che l’artista si incarna con il suo nome nelle storie riflesse su quei volti scavati e assorti, percorsi da lampi di luce. Meo Carbone si immedesima così nei tanti Eddie Carbone affacciati nel proscenio della sua esaltante rappresentazione.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo. Tutti i giorni, compresi domenica e lunedì, ore 9,30-19,30; ingresso gratuito, accesso  fino a 45 minuti prima dell’ora di chiusura. Tel. 06.6780664. meocarbone@gmail.com; www.meocarbone.com. Catalogo: Meo Carbone, “The Dream, omaggio all’emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America nel XX secolo”, Tipografia artigiana, novembre 2013, pp. 80, formato 30×21. Sul X Concorso Video Memorie Migranti, citato all’inizio, si precisa che è aperto ai “giovani filmakers sia dall’Italia che dall’estero e i giornalisti e registi nella specifica categoria dedicata ai documentari già andati in onda”, il premio è “una somma complessiva di 1.500,00 euro e la proiezione dei video vincitori nella giornata conclusiva del concorso”; bando di concorso e scheda di partecipazione nel sito www.emigrazione.it, link “Concorso Video”, per informazioni 0759142445 e info@emigrazione.it. Sul tema dell’emigrazione cfr. i nostri articoli: in questo sito “Emigrazione, il suo ruolo, il museo al Vittoriano”, 27 luglio 2013; in “www.fotografarefacile.it”  “Emigrazione: la fotografia interprete e rivelatrice”, 20 aprile 2011; in “cultura.inabruzzo.it”  “Ellis Island, mostra multimediale a Roma”, 12 ottobre 2009. Inoltre il nostro romanzo ispirato  a una storia vera di emigrazione: Romano M. Levante, “Rolando e i suoi fratelli. L’America!”, Andromeda Editrice, 2006, pp.364 e, tra  gli articoli di commento, in particolare quelli su “L’oleandro”,  Rivista dell’omonima associazione culturale di Brescia, del dicembre 2006: Elena Ledda, “Rolando e i suoi fratelli. L’America!” a pg. 7; Alessandro Di Domenicantonio, “I piani interpretativi del romanzo”, alle pp. 8-12; Enrico De Nicola, “I principi della Costituzione, la giustizia”, alle pp. 13-14. Per la citazione di Mondrian cfr. in questo sito i nostri 2 articoli  sulla mostra romana al Vittoriano “Mondrian, il percorso d’arte e di vita”, e “Mondrian, l’approdo nell’armonia perfetta’”, il 13 e 18 novembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Meo Carbone, per l’opportunità offerta. In apertura, “Cristo  tra i condannati Sacco e Vanzetti”, 2005; seguono il particolare dei primi due pannelli dell’aerografia  “Emigranti a Chicago”, 2005, e “Attesa”, 1996, poi “Minatori di Salt Lake City, Utah”, e “Valigia”, emtrambi 1998; in chiusura l’intera aerografia di 8 pannelli  “Emigranti a  Chicago” , 2005.