Ebrei romani, 70 anni dopo l’ “infamia tedesca”, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Ara Coeli, nella sala Zanardelli, dal 17 ottobre al 30 novembre 2013 la mostra “16 ottobre 1943 –  La razzia degli ebrei di Roma”,  nel quadro delle manifestazioni per il 70° anniversario ricorda il tragico evento, inquadrandolo nel contesto storico con un’accurata ricostruzione di luoghi, vicende e  protagonisti e una ricca esposizione iconografica e documentale.  La mostra, con il coordinamento generale di Alessandro Nicosia, è realizzata in collaborazione tra “Comunicare Organizzando”, di cui è Presidente, e la Fondazione Museo della Shoah ed è curata da Marcello Pezzetti, che ne è il direttore. Prezioso per la ricchezza documentaria e l’accuratezza editoriale  il Catalogo di Gangemi Editore, a cura dello stesso Marcello Pezzetti.

Il coraggio della mostra

La prima notazione  è il coraggio nell’immagine-simbolo: la pagina del 16 ottobre 1943 dell’agenda con scritto a mano in corsivo “infamia tedesca”: si badi bene, tedesca e non nazista come spesso viene fatto per ridimensionare fino a negare le responsabilità del popolo, un negazionismo anche questo da evitare. In Germania non ci sono stati moti popolari di resistenza, neppure come quello italiano al di là dell’agiografia ufficiale, e le fallite ribellioni a Hitler sono venute soltanto dai vertici delle forze armate, Rommel e gli autori dell’attentato. Diciamo questo per la verità storica non per ostilità verso la deleteria egemonia tedesca sull’Europa monetaria, che ci imprigiona nella gabbia di ferro di un euro ridotto a supermarco impedendoci di crescere.

Il coraggio della mostra si manifesta anche nel dare un volto ai perversi autori della razzia e delle persecuzioni antiebraiche che vengono documentate: i loro volti e le loro figure impettite nelle divise o dentro comuni abiti borghesi sono nell’apposita sezione; la loro tranquillità a confronto con l’umanità dolente dei perseguitati, ripresi nella razzia ma anche nei momenti tranquilli. La galleria di nomi con cui inizia la mostra, e quella di volti con cui si chiude, sono  un omaggio e un monito, è bene che siano nomi e volti a parlare, non soltanto i freddi numeri di una contabilità angosciosa.

Ma  non si limita a  questo, e sarebbe già molto, la comunità ebraica romana non è vista soltanto nel momento della razzia, bensì nella sua evoluzione nel tempo, fin dall’insediamento: e sono eloquenti le immagini di quartieri e persone, come la ricca documentazione che le accompagna.

La nostra visita ha avuto una guida di eccezione, il curatore Marcello Pezzetti, che ha illustrato i vari momenti con trasporto e insieme con serenità, nessun residuo di rancore nelle sue parole, del resto l’incancellabile indignazione era “in re ipsa”, per così dire. D’altra parte gli ebrei non hanno speculato sulle azioni scellerate come quella del 16 ottobre 1943 culminate nel genocidio dell’olocausto; vittime inermi senza resistere nei ghetti divenuti segregazione e poi annientamento,  con la creazione dello stato di Israele hanno realizzato un’autodifesa attiva che li ha portati, con una popolazione di pochi milioni, numero assimilabile a quello della città di Roma, a fronteggiare e vincere le aggressioni di cento milioni di arabi decisi ad eliminarli  dalla Terra promessa dove sono approdati nel loro “exodus” eroico realizzando il sogno biblico, con una forza miracolosa che lascia increduli e ammirati.

Con la mostra viene evocato uno spezzone di storia che è istruttivo vedere alla luce dell’attuale situazione degli ebrei stretti  nella difesa di Israele, sorretti da un vasto concorso di nazioni amiche ma consapevoli che per la loro sicurezza e la loro stessa esistenza l’unica valida garanzia è la loro forza. E questo, lo ripetiamo, suscita in noi  incredulità e insieme ammirazione pari alla condanna per chi vorrebbe in altre forme, non cruente ma altrettanto distruttive,  ripetere l’infamia dell’olocausto.

L’ingresso alla mostra, con i 1022 nomi delle vittime del rastrellamento seguito da morte con 17 soli sopravvissuti,  evoca la tragedia umana perpetrata in quel triste giorno di settant’anni fa. Era trascorso poco più di un mese dall’armistizio dell’8 settembre, al razzismo antisemita si aggiungeva la vendetta verso gli italiani prima uniti nel Patto d’acciaio. Delle persone rastrellate in 26 “zone d’azione” da 360 militari tedeschi dell’unità Seeling diretti da Theodor Dannecker, collaboratore del famigerato Eichmann, ne furono rilasciate 260 dopo la selezione al Collegio militare perché stranieri protetti, non ebrei o “misti”, mentre i 1022 ebrei trattenuti furono deportati ad Auschwitz-Birkenau  dove giunsero il 23 ottobre dopo l’interminabile viaggio in treno nei tremendi vagoni piombati: più di ottocento furono uccisi all’arrivo, dei circa duecento internati si salveranno solo 16 uomini e una donna, Settimia Spizzichino.

Le parole delle autorità romane 

Conclusione tragica di una vicenda collettiva alla quale la mostra ha dato un respiro storico inquadrandola in modo da farne – come ha detto il sindaco Ignazio Marino – “un vero  e proprio viaggio della memoria, tra i vicoli del quartiere ebraico, nel Collegio militare di via della Lungara, alla stazione Tiburtina e sul treno per Auschwitz, tra i ricoveri e i nascondigli nelle chiese, negli istituti religiosi e nelle case dei romani”. Viene documentata anche la solidarietà della popolazione che consentì di salvare la maggior parte degli 8000 ebrei presenti nella città, e il contesto dei luoghi e del difficile momento nel quale i volti inermi delle vittime incrociarono i volti spietati  dei carnefici, gli uni e gli altri fissati in immagini di straordinaria forza evocativa.

“E’ questa la forza della memoria – ha detto il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti – e la caratteristica che la differenzia dalla semplice ricostruzione storica. La storia è una catena di fatti e di verità, la memoria è la comprensione delle nostre vite e della vita dei luoghi in cui viviamo. La memoria è viva quando è vivo l’atto di tramandare. Il passaggio di un testimone consegnato da una generazione alla successiva”.  E’ un ruolo vitale che Roma assolve celebrando il 16 ottobre 1943: “Continuare a costruire la memoria per il bene delle generazioni che verranno”, lo ha detto con forza  Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma.

Alessandro Nicosia, che ha coordinato la realizzazione della mostra, l’ha così presentata: “L’obiettivo, ancora una volta, è stato quello di fare Memoria, ricordare per fare in modo che certi fatti non accadano più, dando alla pubblica fruizione, soprattutto alle nuove generazioni, la possibilità di riflettere su una tragedia come questa, tenendo vigili e attente le coscienze di tutti”. Mentre il curatore Marcello Pezzetti ne sottolinea “l’impatto visivo capace di segnare la memoria della collettività tutta”, e  ne allarga così il raggio d’azione: “Un’esposizione che si concentra sulla sorte degli ebrei della capitale, vittime della politica di sterminio nazista, ma che si rivolge a tutti gli italiani perché si tratta della loro storia”.  Che viene tradotta in memoria da immagini evocative.

Dalla piena cittadinanza al ricatto dei 50 chili d’oro

Le prime immagini risalgono al periodo  anteriore l’imbarbarimento razziale, dal 1870 al 1938 quando, cessato l’ostracismo dello Stato Pontificio, con Roma capitale gli ebrei divennero cittadini italiani a tutti gli effetti, integrati e assimilati nella popolazione con la piena cittadinanza romana. Vediamo la fotografia di Ernesto Nathan, ebreo di formazione repubblicana, sindaco di Roma per due mandati, dal 1907 al 1913, ricordato per i successi della sua amministrazione; e le immagini di vita rionale nell’antico ghetto, tra cui alcune di una “Roma sparita” molto suggestive.

Poi, come in “La vita è bella” di Benigni, dalle scene serene si passa all’incubo delle persecuzioni, che inizia con le leggi razziali del 1938, è esposta una serie di documenti sull’applicazione di tali leggi e sulle richieste di esenzione dovute a meriti acquisiti verso il regime: caso particolarmente pietoso quello della straniera la cui richiesta di esenzione dall’espulsione fu accolta alla fine del 1938, ma cinque anni dopo fu deportata il 16 ottobre 1943 e uccisa  all’arrivo a Birkenau.

Non solo esclusioni dal lavoro ed espulsioni per gli ebrei stranieri, anche lavori forzati lungo l’argine del Tevere, le fotografie sono eloquenti; come lo sono quelle di una manifestazione antisemita e di una lettera di commercianti italiani che denunciavano i concorrenti ebrei, nel 1941. Oltre alla solidarietà di tanti, infatti, c’era l’ostilità di alcune frange della popolazione alimentata dall’insano desiderio di avvantaggiarsi dell’insperato ostracismo dato ai temibili concorrenti, anche questo si deve ricordare pur se è doloroso constatarlo..

Con l’8 settembre1943, dalla incivile discriminazione si passa alla criminale persecuzione in atto in altri paesi d’Europa dalla quale fino ad allora gli ebrei italiani erano stati risparmiati; con l’ignobile intermezzo della richiesta fatta il 25 settembre di 50 chili d’oro alla Comunità ebraica romana da consegnare entro 36 ore pena la deportazione di 200 suoi membri; il “riscatto” fu pagato il 28 settembre, ma non placò i tedeschi che sequestrarono schedari e archivi, a nulla valsero le lettere di protesta dell’Unione delle comunità israelite esposte in mostra.

La razzia: persecutori e luoghi. testimonianze e documenti   

Ma la vera tragedia doveva ancora consumarsi, ecco la descrizione di Riccardo Pacifici. “Il 16 ottobre, all’alba, quando in molti ancora dormono sotto le proprie coperte, gli ebrei romani sono stati svegliati dalla furia nazista. Le strade dell’antico ghetto e di altri quartieri abitati  dagli ebrei della città sono state chiuse. Erano i primi passi che avrebbero destinato più di mille italiani di religione ebraica dentro il campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau”.  Primi passi preparati accuratamente nei giorni precedenti con un intreccio di comunicazioni tra le autorità diplomatiche e militari tedesche a Roma e i vertici a Berlino, le prime orientate negativamente sulla deportazione, i secondi invece intransigenti per l'”ordine di Hitler di deportare gli 8000 ebrei di Roma”.  E fu un miracolo dovuto alla popolazione che li nascose e alla loro fuga se ben 7000 si salvarono, i portieri dei palazzi li nascosero negli scantinati, i parroci  nei punti meno accessibili delle chiese.

I persecutori sono i comandanti militari e in particolare quelli dell’unità Seeling  che effettuò i rastrellamenti, come Dannacker responsabile dell’operazione ed  Eisenkolb, suo ufficiale; si vedono diverse immagini dei soldati dell’unità inquadrati in un rigido prsentat’arm oppure schierati semplicemente e in posizione di riposo. Tra i responsabili civili,vediamo il console a Roma Moellhausen, che cercò invano di dissuadere i vertici berlinesi ricevendone oltre al rifiuto degli aspri rimbrotti: questa sua posizione sarà valorizzata al termine della guerra, e rimase in Italia dove avviò un’attività commerciale che ancora oggi appartiene alla famiglia; anche Kappler e le altre autorità militari sconsigliarono l’operazione per la quale non si sentivano pronti, ma poi si misero a disposizione per farla attuare.Ed eccoci alla “razzia” del 16 ottobre, i luoghi sono documentati da una mappa in cui è indicato il numero delle persone rastrellate in ogni sito. La rievocazione più toccante è quella attraverso i  disegni di Aldo Gay e Pio Pullini, le uniche testimonianze dirette  che sono il piatto forte della mostra. Aldo Gay riuscì a sottrarsi all’arresto e memorizzò quanto vedeva fissandolo poi con  matita e acquerelli e a china; ecco i militari che caricano gli ebrei sui camion Opel modello Blitz.tra piazza Sonnino e Trastevere; ecco un  primo piano di soldato tedesco che sfonda una porta con il calcio del fucile, come fece con la porta della propria casa dove ne sono rimasti i segni, ecco la teoria dolente delle persone che scendono le scale delle proprie abitazioni scortate dai soldati; ecco la scena violenta dell’arresto dei suoi parenti, una famiglia con tre figli, fino a quella impressionante  di madre e figlia che si gettano dalla finestra per sfuggire all’arresto, e per fortuna si salvano.

I due disegni di Pio Pollini anch’egli testimone degli eventi, riproducono la scena delle donne terrorizzate sbattute su un camion dai soldati, e un soldato in divisa che afferra brutalmente per la collottola un vecchio e trascina per mano un bambino; entrambi hanno sullo sfondo le colonne del  Portico d’Ottavia  nel cuore del ghetto ebraico.

Sono queste le uniche evidenze visive della razzia. Le altre sono tutte documentali, frutto di una ricerca estremamente accurata. C’è il “calendario delle operazioni”, un  prospetto burocratico in tedesco del comandante della piazza, Reiner Stahel e due note della Questura di Roma sugli arresti operati dai tedeschi, una sorta di “mattinale” senza commenti quasi si trattasse di operazioni rientranti nella normalità, complicità o almeno il reato di omissione. Ben diverse le denunce nel dopoguerra da parte di italiani dei comandanti tedeschi implicati negli arresti e le testimonianze, in particolare contro Dannacker, a capo dell’operazione, e Kappler. Poi, specularmente, le deposizioni dei deportati e dei tedeschi impiegati negli arresti nei procedimenti  contro i responsabili delle deportazioni svoltisi in Germania negli anni ’60.

Le 1000 vittime, tra cui 200 bambini  

Dopo i persecutori e la razzia, in un’escalation di emozioni, la mostra presenta le vittime, dopo averne indicato tutti i nomi all’ingresso.  Sono per lo più bambini, donne e anziani perché si pensava che non rischiassero mentre i giovani e i maschi adulti si erano nascosti temendo la deportazione nei campi da lavoro; Dei 425 maschi deportati il 67% con meno di 15 o più di 60 anni; 196 bambini minori di 5 anni! Gli arrestati sono di umili condizioni o addetti a lavori pesanti, ma anche professionisti, avvocati ed ingegneri, perfino un ammiraglio pluridecorato.  Nel quartiere ebraico fu operata metà degli arresti, il resto nelle altre zone; colpisce il caso della famiglia  di Settimio Calò, venditore ambulante, era in fila dal tabaccaio per acquistare le sigarette il giorno della distribuzione razionata, quando i soldati fecero irruzione nella sua casa al Portico d’Ottavia prelevando la moglie e i nove figli,  non li rivedrà più. Sopravvissero in 16, nessun bambino.

Che dire della galleria di volti  offerta alla nostra memoria? E delle storie toccanti che a loro si associano?  Ci sono letterine di bimbi e pagelle scolastiche insieme ad ansiose domande rivolte per iscritto a “Sua Eccellenza” sulla sorte delle persone scomparse, rimaste tutte senza risposta. Inoltre un diario e un biglietto nel quale nella sosta al Collegio militare gli internati chiedono oggetti necessari per la deportazione. Questo biglietto ci fa tornare alla mente quello consegnato dai soldati tedeschi impegnati nel rastrellamento il 16 ottobre agli abitanti delle case che sarebbero stati “trasferiti”, compresi gli ammalati gravissimi, entro venti minuti tassativi, con indicato il necessario: cibo per 8 giorni e tessere annonarie, carta d’identità e bicchieri; e il consentito, valigetta con effetti e biancheria personale, denaro e gioielli. Suona beffarda l’indicazione al punto 4 del biglietto di istruzioni: “Chiudere a chiave l’appartamento”.

Reticenza pubblica e protezione privata del Vaticano, assenza dei partiti  

Abbiamo detto che è una mostra coraggiosa, ebbene lo è anche nel documentare la reazione del Vaticano, generica e “nebulosa”, affidata a un articolo dell’ “Osservatore Romano” su “La carità del santo padre”, definita “universalmente paterna”, quindi senza confini “né di nazionalità, né di religione, né di stirpe”, e divenuta “quasi più operosa” dinanzi “all’accrescersi di tanti mali” e  inoltre “maggiormente intensificata per le aumentate sofferenze di tanti infelici”. Dinanzi a tali espressioni che  è eufemistico definire criptiche, cadono le preoccupazioni tedesche per la reazione del Pontefice, non protestano perché il riferimento alla razzia verrà capito solo “da un esiguo numero di persone”, quindi non devono temere contraccolpi. Oltre questo, solo un incontro tra il segretario di Stato e l’ambasciatore tedesco con la richiesta di salvezza per gli ebrei in modo da non mettere la Santa Sede “in condizione di protestare”. Troppo poco!.

La mostra, che con coraggio non nasconde nulla del reticente atteggiamento vaticano dinanzi alla razzia, non esita però a dare ampia evidenza all’impegno dello stesso Vaticano e delle organizzazioni cattoliche di fronte alle persecuzioni che dopo il 16 ottobre coinvolgevano anche le autorità italiane a seguito della formazione della Repubblica Sociale Italiana a fianco dei tedeschi. Una ingente documentazione prova come si siano mobilitati organismi religiosi e parroci, semplici cittadini e un’apposita organizzazione, la Delegazione per l’assistenza agli emigrati ebraici, per nascondere tutti coloro che erano minacciati di deportazione: sono esposte numerose lettere del Vaticano e di altri istituti, relazioni e attestati di varia natura, dagli oggetti di ebrei nascosti ritrovati nelle soffitte ai disegni umoristici ma espressivi di un rifugiato nel sottotetto di una chiesa; hanno un a forza documentaria ed evocativa paragonabile ai disegni di Gay e Pulli..

Sulla razzia non ci fu solo sottovalutazione da parte vaticana; la stampa, salvo poche lodevoli eccezioni,  la ignorò e così le forze politiche, compreso il Comitato di Liberazione Nazionale dei partiti antifascisti che, riunito il pomeriggio del 16 ottobre non parlò del grave evento.

L’orrore della deportazione e il ritorno alla vita dei 16 sopravvissuti  

Ma lasciamo alla storia ogni giudizio, la mostra ci porta ora a rivivere la deportazione con i biglietti passati furtivamente alla stazione Tiburtina e i diari dei sopravvissuti; e l’arrivo ad Auschwitz e Birkenau:  qui soccorrono le immagini fotografiche dei luoghi dove giunsero la sera del 22 ottobre gli ebrei rastrellati a Roma il giorno 16, una lunga teoria di baracche in una landa desolata, com’erano allora e i resti di oggi. E poi i documenti della lugubre contabilità della meticolosa burocrazia nazista, schede personali ed elenchi di prigionieri arrivati, liste di morti, e sanitarie; anche in questa sezione le toccanti testimonianze  dei pochi sopravvissuti.

Le ultime sezioni della mostra, organizzata su due piani con un’accurata regia espositiva, sono il contraltare delle tragiche immagini di Auschwitz, agghiaccianti anche se non si vede il campo di sterminio con le sue vittime, ma solo le baracche e la contabilità dell’orrore. Infatti si tratta del “ritorno alla vita” dopo la liberazione di Roma del 4 giugno 1944. Ma non è un ritorno immediato, anche questa per gli ebrei romani sarà una conquista difficile: il ritorno nelle loro case sequestrate e nei negozi espropriati è difficile per le resistenze degli occupanti, mentre le notizie dei deportati sono molto incerte: tutto questo viene evidenziato dai documenti esposti, di varia natura, provenienza e destinazione, che fanno rivivere la fase di transizione verso la normalità convulsa ma finalmente aperta alla speranza. Commuovono le richieste di notizie, come il Bollettino del Comitato Ricerche dei deportati Ebrei, appositamente costituito, che il 20 settembre 1945 reca il nome di Settimia Spizzichino tra i “reduci” .

E’ stata l’unica donna a sopravvivere, la madre, una sorella e una nipotina furono mandate nelle camere a gas, l’altra sorella Giuditta non superò gli stenti del lager; lei resistette anche al trasferimento da Auschwitz a Belsen Belsen dove fu liberata nell’aprile 1945, riuscì a  rientrare a Roma nel mese di settembre. Per ciascuno dei 16 sopravvissuti  una foto e una scheda che ne fa rivivere l’odissea con le tremende vicende dell’arresto, la deportazione e prigionia nel lager-campo di sterminio dove molti di loro hanno perduto i propri familiari, fino alla liberazione.

La mostra non termina con le loro immagini. Doverosamente si chiude con la galleria dei deportati, almeno trecento di loro come gli eroi delle Termopili, visi di ogni età negli atteggiamenti più diversi, per lo più felici e sorridenti. Ricolleghiamo le loro figure alla teoria senza fine dei 1022 nomi all’ingresso della mostra, è come una immensa lapide collettiva che diventa l’epopea di un eroismo, di persone normali che la sorte ha fatto diventare eroi. Il loro sacrificio e quello delle tante altre vittime dell’insensata violenza razzista segni per sempre la fine di queste orribili tragedie che ripugnano alla coscienza civile e alla stessa umanità.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, p,zza Ara Coeli, sala Zanardelli. Aperto tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30; da venrdì a dome nica 9,30-19,30.; accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “16 ottobre 1943. La razzia degli ebrei di Roma”, a cura di Marcello Pezzetti, Gangemi Editore, ottobre 2013, pp. 272, Formato 21×29,6. Per altre mostre sulle persecuzioni antisemite e le deportazioni nonchè su quegli anni di guerra cfr. i nostri articoli  in “cultura.abruzzo.it” “Auschwitz-Birkenau, ‘la morte dell’uomo’”  27 gennaio 2010,  “Il bombardamento di Montecassino”  16 febbraio 2009 e  “Ombre di guerra”  8 agosto 2009; e  in http://www.fotografarefacile.it/,   “I ghetti nazisti” 27 gennaio 2012 e “Ombre di guierra alll’Ara Pacis”  2 febbraio 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e la “Fondazione Museo della Shoah” con Marcello Pezzetti e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura un simbolico “muro del pianto”, seguono  la Roma del quartiere ebraico, con una visione da lontano e immagini ravvicinate dei luoghi, poi ebrei romani al lavoro sul Tevere nel 1942  e due immagini dei lager di deportazione e sterminio, quindi l‘unica donna sopravvissuta Settimia Spizzichino, l’ultima a destra nella foto; in chiusura la galleria delle vittime con cui termina il percorso espositivo. 

Carbone. “The Dream”, il sogno dell’emigrante, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Fori Imperiali, la mostra “The Dream – Omaggio all’emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America nel XX secolo”, espone dall’8 al 24 novembre 2013 le opere di Meo Carbone sull’epopea dell’emigrazione italiana in America. E’ un prestigioso complemento artistico temporaneo del Museo Nazionale dell’Emigrazione permanente, collocato dalla parte opposta del complesso monumentale, nel lato dell’Ara Coeli. Inoltre si svolge in significativa coincidenza con la X edizione del Concorso Video Memorie Migranti, promosso dal Museo dell’Emigrazione Pietro Conti per recuperare la memoria storica dell’emigrazione italiana nel mondo e favorire un’attività di ricerca e di studio sugli aspetti sociali, storici ed economici legati al grande esodo; il concorso – e in questo c’è un nesso con la “rappresentazione” di Meo Carbone – prevede “l’ideazione e la produzione di un audiovisivo che tragga spunto dalla tematica migratoria italiana”.

La mostra del Vittoriano, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è curata da Pascale Carbone, responsabile è Cristina Bettini. Al motivo primario dell’emigrazione evocata in modo suggestivo unisce ulteriori contenuti che la collegano al senso di umanità, al rapporto dell’artista con l’atto creativo, fino all’incarnazione più profonda dell’identità nazionale.

Questi motivi e contenuti trovano espressione in una galleria di immagini intense che portano l’osservatore in un mondo lontano nel tempo e nello spazio ma vicino nella memoria di tanti italiani, considerando che il fenomeno dell’emigrazione tra l’800 e gli anni ’50 del ‘900  ha inciso in profondità in molte regioni del paese dal Nord al Sud.  All’Italia di 60 milioni di abitanti va aggiunta l’altra Italia, di entità analoga, considerando i primi emigrati e le loro discendenze approdate ai massimi livelli istituzionali: e non serve ricordare Fiorello la Guardia o il più vicino Mario Cuomo, c’è la fresca elezione di de Blasio a sindaco di New York a porre un nuovo sigillo.

L’onda di sentimenti

E’ un viaggio nella macchina del tempo sull’onda dei sentimenti quello che si compie circondati da immagini immediatamente familiari anche se si tratta di volti sconosciuti. Dalle pareti della sala ci si sente fissati da tanti occhi come in una visione dantesca, sembra invitino a fermarsi sulla loro storia personale che vorrebbero raccontare mentre si dipana una storia collettiva ricca di pathos e di umanità; la storia è così raccontata da una molteplicità di singoli – ciascuno espressione dalla propria individualità – che diventano folla, comunità, popolo. E’ anche la nostra storia nazionale, e in molti casi una storia familiare:  come per chi scrive il cui nonno materno partito da un piccolo paese dell’Appennino abruzzese, Pietracamela alle falde del gran Sasso, sbarcò a Ellis Island dalla “Sicilian Prince” con meta Newcastle-Pennsylvania il 25 giugno 1906, tre mesi prima della nascita della figlia avvenuta il 1° ottobre, date che sottolineano il sacrificio sin dal momento della partenza.

Il fatto personale può aver acuito in noi le sensazioni provate nel visitare la mostra, ma riteniamo che l’emozione prenda anche chi – e non sono molti – non ha ascendenti emigrati, perché questi sono ascendenti dell’intera nazione da cui nessuno può sentirsi estraneo; come quando si visita il Museo Nazionale dell’Emigrazione, dall’altra parte del Vittoriano, con la sua ricca  esposizione: dalle valigie di fibra e le carrette musicali alle fotografie, documenti e cimeli di ogni tipo in un clima evocativo fatto di suoni e luci, proiezioni e video, audizioni di canzoni sul tema, da quelle d’epoca come “Partono i bastimenti”  alle più vicine, compreso “Ciao amore ciao” di Luigi Tenco.

La galleria di immagini di Meo Carbone si apre nel largo ambulacro di ingresso, con due valigie artisticamente dipinte di figure dolenti e insieme determinate, il “sogno americano” comincia di lì.  Sulla sinistra una sequenza di pannelli distinti che insieme compongono – ce lo fa notare cortesemente la curatrice – lo skyline di Chicago. Le figure e i volti sono incorporati, per così dire, nei grattacieli e negli edifici cittadini in una compenetrazione simbolica che esprime il contributo determinante dato dagli emigrati alla fisionomia della città: sia per il duro lavoro alle altezze vertiginose dei grattacieli da loro costruiti sia per la stretta integrazione nel contesto cittadino.

I volti imprigionati nei grattacieli sembrano alla ricerca di un ascolto delle loro storie, mentre sulla parete opposta vediamo immagini del tutto diverse in alcuni pannelli di masonite da rappresentazione teatrale. I grattacieli ci sono sempre ma come sfondo, in primo piano le persone, i bambini e le famiglie, che non devono più affollarsi per farsi ascoltare, sono sul proscenio da protagonisti. E non si tratta degli emigrati di successo, è la gente comune che esce dall’anonimato.

La visione dantesca nella Sala Giubileo

Si entra nella Sala Giubileo, si sente l’effetto di una visione dantesca, le aerografie  accerchiano il visitatore proiettando su di lui l’intensità degli sguardi degli emigranti, ripresi soprattutto nei volti ma anche  nelle figure in piedi fino a qualche scorcio in bicicletta. Sono operai e minatori, forti del loro anonimato.  Che arriva ad incorporare anche personaggi divenuti famosi, perché vittime di una discriminazione xenofoba giunta all’epilogo tragico dell’esecuzione di innocenti, come Sacco e Vanzetti; o per la loro dedizione alla carità e all’assistenza degli emigranti bisognosi come Santa Francesca Cabrini. Sono rappresentati “tra gli operai italiani”, ai quali trasmettono la loro celebrità eroica ma dei quali acquisiscono l’anonimato altrettanto eroico nel segno della sofferenza  e della tensione per un ideale, il “sogno americano”. Sacco e Vanzetti lo videro infranto, ma il loro sacrificio supremo provocò un moto di reazione che nobilitò l’oscuro sacrificio di tanti. A Nicola Sacco e a Bartolomeo Vanzetti sono dedicati anche dei grandi primi piani con la  scritta “Dead!”, anatema verso i colpevoli dell’inaudito  crimine contro la verità e la giustizia che li ha uccisi.

Quelle appena indicate sono le poche personalizzazioni anche nei titoli degli aerogrammi esposti. Per il resto i titoli vanno da “Partenza” per le valige dipinte a “Partenza” e “Attesa” per le masoniti teatrali, da  “Emigranti a Chicago” per la spettacolare sequenza di ingresso a “Gruppo di emigranti” ciascuno nella propria casella, da “Operai nella dimensione architettonica” a “Minatori di Castle Gate, Utah”, da “Operai in pausa” a “Le madri”. Fino alle “Images” e “Immagini e sogni di libertà”, dietro le espressioni assorte e dolenti, ma determinate, spicca la Statua della Libertà che, in definitiva, impersonava il sogno americano. Fin dal momento in cui – come ricorda Alessandro Baricco in “Novecento” e ha mostrato Giuseppe Tornatore nella sequenza iniziale del  film “La leggenda del pianista sull’oceano” – risuonava il grido “L’America!”  lanciato dall’emigrante che per primo dalla tolda della nave vedeva come un miraggio l’alta figura turrita.

Dietro il sogno rappresentato non nel cassetto ma nella valigia c’è la sofferenza, abbiamo detto: traspare non solo dai volti dei singoli ma dalle immagini  di madri e figli, dei bambini, che danno una dimensione familiare dalla quale si assurge alla dimensione sociale. Il calvario diviene epopea collettiva in cui si incarna il sogno di intere generazioni fino a diventare sogno di una nazione. I bagliori che attraversano i volti dolenti sono insieme riflessi del dramma e lampi del sogno, da realizzare con il duro lavoro di operai, spesso alle altezze vertiginose dei grattacieli in costruzione, e il lavoro periglioso dei minatori immersi nelle viscere altrettanto vertiginose dei giacimenti minerari. Viene celebrato anche il lavoro  delle emigrate italiane sia in famiglia sia nei negozi di “Fruits & Vegetables”, le cui scritte spiccano in alcune aerografie.

L’arte di Meo Carbone, realtà e rappresentazione

Come vengono espressi sul piano artistico questi motivi che uniscono l’attenzione all’individuo alla dimensione collettiva che diventa denuncia sociale?  Claudio Crescentini parla di “ricostruzione della realtà”, cioè del sogno “analizzandolo e studiandolo con uno sguardo acuto, quasi da entomologo, partendo appunto dalla realtà riletta e ricostruita da Carbone, mediante le foto dei nostri parenti poveri”. Sono le fotografie esposte a Ellis Island presenti nella collezione di Dominic Candeloro, che colpirono l’artista nel 1995 allorché incontrò il docente della Loyola University di Chicago storico e collezionista di cimeli e documenti dell’emigrazione italiana in Nord America.

La curatrice Pascale Carbone ci parla con toni appassionati di questa svolta artistica del padre, avvenuta allorché fu “folgorato”  dalle fotografie degli emigranti raccolte da Candeloro ed esposte nella “Casa Italia”  di Chicago; l’artista le vide nel 1992 nella sua visita per i 500 anni dalla scoperta dell’America celebrata con la mostra “Deities”,  sue pitture e sculture come omaggio artistico alle divinità indiane autoctone, tradotta anche in un libro dello stesso titolo presentato da Paolo Portoghesi. E’ stata una scelta coraggiosa e controcorrente, considerando il trattamento oppressivo, per usare un eufemismo perché fu liquidatorio, riservato agli indiani autoctoni. Come è coraggioso e controcorrente aver dato un posto di riguardo nell’“Omaggio all’emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America nel XX secolo”– dal sottotitolo della mostra –  a Sacco e Vanzetti,  la loro esecuzione è una macchia indelebile nella moderna democrazia americana come è stata una macchia lo sterminio degli indiani nell’epopea pur esaltante degli esploratori e dei pionieri.

Queste immagini fotografiche vere diventano le tessere del mosaico virtuale dell’aerografia che le compone e le scompone, le assembla e le divide su fondi scuri in qualche caso  percorsi da sciabolate di luce come fossero illuminate da un riflettore da controllo o da un occhio di bue da ribalta. L’aerografia le colloca in una visione geometrica mantenendone la fisionomia figurativa ma rendendo l’insieme un’astrazione virtuale quasi che la realtà sfumasse nell’onirico. Del resto è “il sogno”  il soggetto collettivo dietro le immagini individuali, una comunità dietro le singole persone.

Geometria, astrazione, figurativo si ritrovano convergenti nella sua rappresentazione, come una sintesi di periodi e forme stilistiche diverse che hanno segnato la vita artistica di Meo Carbone, nella descrizione che ce ne fa la curatrice. Con la particolarità che il figurativo non è stata la sua partenza, salvo le fasi iniziali, ma un suo approdo dopo l’astrazione, cosa inusuale dato che il normale percorso va nella direzione inversa, lo abbiamo visto nella mostra su Mondrian.

L’aerografia, in genere meccanica e fredda, in questo caso acquista calore e tale convergenza diviene  la formula ideale per dare corpo alla visione del “sogno”  attraverso immagini prese dalla realtà che devono trascenderla subliminandola con l’arte. I suoi “geometrismi illuministici”, scrive ancora Crescentini, “scompongono il passato fotografico con una forza espressiva che sospende e sorprende la cronaca per elevarla appunto al grado di Arte. E l’Arte riscuote nel tempo e scuote nella storia, ridando immagine e storia a quelle immagini di cronaca, a quelle cronache che sono diventate immagini storiche e oggi, tramite Meo Carbone, arte. Un’arte che tende al sociale per divenire politica, un’arte di denuncia sempre meno perseguita in questo nostro XXI secolo”.

Non si poteva riassumere meglio l’operazione di alto livello artistico e di forte contenuto sociale fino alla denuncia sul piano politico compiuta da Meo Carbone, ed è giusto che la sua mostra sia approdata al Vittoriano, che oltre ad ospitare il Museo Nazionale dell’Emigrazione,  riassume i valori dell’identità e dell’Unità nazionale celebrati anche dalla mostra “The Dream”.  Un approdo prestigioso lungo un cammino itinerante dal 1996 tra Italia e America: San Benedetto del Tronto e Perugia, Napoli e Casoli, Torricella Peligna e Frascati tra le precedenti tappe italiane oltre a Roma al Vicariato poi e all’Archivio di Stato; San Francisco, Pittsburgh, Washington le tappe americane.

Il percorso personale dell’artista è iniziato sin dal 1971 con la prima esposizione coincisa con l’Oscar dei Giovani per la scultura e la vittoria nel premio Tevere-Reno. Due anni dopo la partecipazione a una mostra internazionale di livello europeo a Graz, passano altri due anni e viene invitato alla 10^ Quadriennale “New Generation”; con la consacrazione nazionale prestigiosi riconoscimenti internazionali come l’invito all’esposizione al County Museum of Modern Arts di Los Angeles e la partecipazione alla 3^ Biennale di grafica d’arte europea a Baden Baden. 

Nel 1991 l’incontro con il capo indiano dei Lakota Sioux in occasione della mostra “Omaggio alle divinità indiane del Nord America” per le celebrazioni del 1992, presentata al Palazzo dei Congressi di Roma da Paolo Portoghesi, di cui abbiamo  parlato; in Italia si è tenuta anche a Spoleto e Pescara, in America itinerante a Miami e Orlando, poi a Chicago, Salt Lake City e San Francisco.

Con il 1995 il ciclo di mostre di “Dreams” come omaggio all’emigrazione italiana e a Chicago e Boston, nel 1999 il progetto “La Via Crucis nel Mondo”, dipinta per il Giubileo del 2000 e presentata anch’essa in diverse mostre. Considerandole insieme alle mostre sulle divinità indiane si compone un quadro edificante e coraggioso dell’impegno culturale e civile dell’artista.

Il sogno per l’artista e per l’emigrante, l’espressione dell’identità nazionale

Abbiamo detto che altri contenuti si possono rinvenire nella sua opera oltre ai motivi di particolare valore che abbiamo evocato. Il primo riguarda il significato del “sogno”, che non si limita al sogno americano pur se questo è il protagonista attraverso tanti volti che racchiudono, oltre a tante sofferenze, tante speranze quindi tanti sogni.

Il sogno è visto come metafora di liberazione per l’emigrante, perché gli consente di liberarsi dai vincoli geografici; ma per Meo Carbone anche nell’artista è liberazione dai vincoli concettuali ed espressivi. Ecco come ne parla: “Entrambi, artisti ed emigranti, hanno sogni. I sogni rincorrono la realtà e la realtà rincorre i sogni. Un progressione geometrica dove in ogni istante la fine del sogno è l’inizio della realtà e la fine della realtà è l’inizio del sogno”. La visione diviene filosofica: “Non sarebbe possibile per un uomo confrontarsi con la vita, affermare delle idee e poi difenderle, senza la capacità sognante che come d’incanto mette le ali alle nostre sensazioni e ci fa volare in mondi più giusti dove l’uomo e l’uomo riescono a tenersi per mano. Il sogno è movimento, è dinamismo. Il sogno è affrontare qualsiasi difficoltà: come le difficoltà degli emigranti”.

Poi c’è un contenuto ancora più alto, oltre la dimensione collettiva e sociale del sogno che già supera quella individuale. Si tratta della stessa identità nazionale che viene segnata profondamente e in positivo, e non solo sotto il profilo dell’emigrazione. La evoca con parole ispirate Gianni Letta, con la sua particolare sensibilità di uomo della istituzioni: “Questa mostra ha la potenza espressiva della verità. Dice chi siano le donne e gli uomini d’Italia. Non solo quelli partiti per l’America, ma per gli italiani tutti. Gli emigranti infatti sono gli italiani nella loro dimensione autentica”. Lo precisa così: “Viene da chiamarli per nome, viene da desiderare di sedere con loro al desco povero eppur familiare. Non sono gli emigranti in generale, quasi fossero una categoria sociologica o un tipo antropologico, ma ci imbattiamo in identità personali irriducibili”.

Queste identità personali hanno molto da dire: “Impressiona vedere come ciascun soggetto di queste opere, anche quando raffigurato in un gruppo, abbia il suo ‘sogno’ unico, irripetibile, che coincide con il suo nome, la sua anima”. Il sogno che illumina i loro volti è ben diverso dall’evasione onirica nell’immaginario: “Essi sono trasfigurati da un ‘desiderio sognante’, che non è fuga dalla realtà ma tensione a cambiarla, così da avere una vita buona e un desiderio lucente per sé, la propria famiglia e il mondo intero”. La luce negli sguardi non cancella l’amarezza: “Nei loro occhi si vede ancora il dolore dell’abbandono, ma insieme ecco ‘the dream’ , che non è mai compiuto totalmente, non è un film la cui storia scorre fino al ‘the end’, ma è un pungolo che sempre sospinge a crescere”.

La considerazione che ne trae Gianni Letta è identitaria per il nostro paese: “In questo senso gli italiani sono un popolo inconfondibile, eppure universale. La loro (la nostra…) natura ha un’eco dovunque ci siano figli di Adamo”. Una bella celebrazione, a commento delle intense immagini di Meo Carbone, dell’epopea della nostra emigrazione, tale da sublimarne il valore nazionale.

Concludiamo dicendo che forse non ha ragion d’essere, anche se era doveroso, il nostro avvertimento iniziale che i motivi personali di partecipazione alla storia dell’emigrazione per ragioni familiari possono aver acuito in noi la sensibilità verso le opere d’arte che la declinano in modo suggestivo. Infatti anche senza ascendenti emigrati, la sensibilità viene sollecitata dal senso di identità nazionale espresso da Gianni Letta come messaggio saliente delle storie di emigrazione.

E in questo tutti si possono riconoscere senza poter restare indifferenti.  Nel caso della mostra si aggiunge il fascino dell’arte che nell’evocare il tema colpisce con l’efficacia icastica delle sue immagini:  una visione dantesca l’abbiamo definita, un viaggio sconvolgente in un mondo  mitico.

Lo “sguardo dal ponte” di Meo Carbone

Un’ultima considerazione ci è suggerita dal nome dell’artista, Meo Carbone. Come è noto, il protagonista di “Uno sguardo dal ponte” di Arthur Miller, il dramma teatrale  divenuto un’icona della nostra emigrazione,  si chiama Eddie Carbone.

Viene da dire che l’artista si incarna con il suo nome nelle storie riflesse su quei volti scavati e assorti, percorsi da lampi di luce. Meo Carbone si immedesima così nei tanti Eddie Carbone affacciati nel proscenio della sua esaltante rappresentazione.

Info

Complesso del Vittoriano, via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo. Tutti i giorni, compresi domenica e lunedì, ore 9,30-19,30; ingresso gratuito, accesso  fino a 45 minuti prima dell’ora di chiusura. Tel. 06.6780664. meocarbone@gmail.com; www.meocarbone.com. Catalogo: Meo Carbone, “The Dream, omaggio all’emigrazione italiana negli Stati Uniti d’America nel XX secolo”, Tipografia artigiana, novembre 2013, pp. 80, formato 30×21. Sul X Concorso Video Memorie Migranti, citato all’inizio, si precisa che è aperto ai “giovani filmakers sia dall’Italia che dall’estero e i giornalisti e registi nella specifica categoria dedicata ai documentari già andati in onda”, il premio è “una somma complessiva di 1.500,00 euro e la proiezione dei video vincitori nella giornata conclusiva del concorso”; bando di concorso e scheda di partecipazione nel sito www.emigrazione.it, link “Concorso Video”, per informazioni 0759142445 e info@emigrazione.it. Sul tema dell’emigrazione cfr. i nostri articoli: in questo sito “Emigrazione, il suo ruolo, il museo al Vittoriano”, 27 luglio 2013; in “www.fotografarefacile.it”  “Emigrazione: la fotografia interprete e rivelatrice”, 20 aprile 2011; in “cultura.inabruzzo.it”  “Ellis Island, mostra multimediale a Roma”, 12 ottobre 2009. Inoltre il nostro romanzo ispirato  a una storia vera di emigrazione: Romano M. Levante, “Rolando e i suoi fratelli. L’America!”, Andromeda Editrice, 2006, pp.364 e, tra  gli articoli di commento, in particolare quelli su “L’oleandro”,  Rivista dell’omonima associazione culturale di Brescia, del dicembre 2006: Elena Ledda, “Rolando e i suoi fratelli. L’America!” a pg. 7; Alessandro Di Domenicantonio, “I piani interpretativi del romanzo”, alle pp. 8-12; Enrico De Nicola, “I principi della Costituzione, la giustizia”, alle pp. 13-14. Per la citazione di Mondrian cfr. in questo sito i nostri 2 articoli  sulla mostra romana al Vittoriano “Mondrian, il percorso d’arte e di vita”, e “Mondrian, l’approdo nell’armonia perfetta’”, il 13 e 18 novembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Vittoriano all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Meo Carbone, per l’opportunità offerta. In apertura, “Cristo  tra i condannati Sacco e Vanzetti”, 2005; seguono il particolare dei primi due pannelli dell’aerografia  “Emigranti a Chicago”, 2005, e “Attesa”, 1996, poi “Minatori di Salt Lake City, Utah”, e “Valigia”, emtrambi 1998; in chiusura l’intera aerografia di 8 pannelli  “Emigranti a  Chicago” , 2005.

Turchia. Permanenze, appunti artistici di viaggio, all’Ufficio culturale turco

di Romano Maria Levante

A Roma, presso l’Ufficio culturale turco in Piazza della Repubblica, dopo le mostre di ispirazione religiosa delle pittrici turche Tulai Gurses sulla mistica di Rumi tra marzo e aprile, e Ilkai Samli sui versetti del Corano tra settembre e ottobre,  dal 23 ottobre al 22 novembre 2013 una mostra di 9 artisti italiani che si ispirano a sensazioni turistiche per approfondirne i motivi non transitori. “Permanenze. Appunti di viaggio e di paesaggio in Turchia”  è una mostra di pitture, sculture e fotografie di Ciaccia e e Carletti, Cossu  e De Filippis, Franchi e Nero Galante, Montuschi, Orlandi e Taschini. L’esposizione è curata da Angelo Andriuolo e Francesco Giulio Farachi.

Alla Turchia, paese dove il profondo  misticismo si traduce nell’arte espressa dalle precedenti mostre, si collega la Turchia paese turistico che alle attrazioni paesaggistiche e storiche aggiunge quelle del paese di frontiera tra Oriente e Occidente, vicino e insieme lontano che resta nell’animo.

Le vestigia e soprattutto le memorie millenarie – che a Istanbul  marcano la “nuova Roma” di Costantino – si sentono sullo sfondo  di un paese moderno, giovane e vitale, che offre tanti motivi di interesse e momenti di vera emozione ai visitatori. Sono tanti e in forte crescita, nei primi 10 mesi del 2013 hanno superato i 30 milioni, con un aumento del 10% rispetto al 2012, mentre le entrate turistiche sono cresciute di oltre il 20%, dinamica che pone la Turchia al terzo posto  nel mondo.

Per i  9 visitatori-artisti italiani che espongono in mostra  il ricordo del viaggio turistico diventa quasi per magia una realtà immaginaria: colori e  atmosfere persistenti nei ricordi personali.

La  Turchia vista da 9 artisti italiani

Lo vediamo negli “appunti di viaggio e paesaggio” esposti come “permanenze” nel tempo esprimendo, come scrive il curatore Farachi, “la sintonia emozionale di un’appartenenza e affinità affettiva”. E spiega così il titolo della mostra: “”Permanenze, allora, nel senso sia del soggiorno che ciascuno di essi ha fisicamente, mentalmente e sentimentalmente svolto, e pure nel senso di quello che è meravigliosamente stabile è stato recepito, come atmosfere, circostanze, percezioni e incanti, nella loro intima visione”.

Tutto ciò viene espresso in un arco di forme d’arte che va  dalla pittura alla scultura in diverse espressioni, fino alla fotografia. I contenuti sono altrettanto variegati, non è occasionalità ma riflessione, non  superficialità ma intensità, non  esteriorità ma introspezione. Ancora Farachi sui contenuti: “Sono luoghi e sensazioni, luci, colori, materie e forme, illusioni, effettività di un mondo scoperto e ritrovato, dialoghi da instaurare nel chiuso del proprio immaginario e da aprire al confronto con gli altri”. Andiamo a rilevarli in una rapidissima rassegna degli artisti espositori.

I “segni sulla carta” di Sabrina Carletti svelano ambienti tra il reale e l’immaginario, in una sequenza di immagini che ha il sapore della magia.E Valerio De Filippis presenta visioni accese tra il reale e l’immaginario, mentre di Massimo Franchi  ricordiamo una composizione simbolica, con la mezzaluna e la testa turrita, e altre due figure. Di Pasquale Nero Galante due immagini complementari, una vasta pianura con lo specchio d’acqua e il campanile che spicca in un orizzonte sfumato dalla foschia; vi affianchiamo l’immagine di Claudio Orlandi che ci sembra dia vita a questi ambienti lontani in una prospettiva di moschee con i minareti e di abitati. Con  la pittura delicata di  Luca Ciaccia  si entra nella dimensione personale solitaria assorta, dove tutto è fermo in attesa, l’opposto del dinamismo della danza in un’atmosfera dai forti contrasti cromatici di Giancarlo Montuschi.   La scultura di Ugo Cossu incasella una serie di piccole figure come fossero riposte in comparti della memoria,  ben diversa l’opera di Antonio Taschini che espone delle sagome vestite come manichini.

E’ una molteplicità di impressioni trasformate dagli artisti in espressioni spesso enigmatiche che Farachi spiega con il fascino straordinario della Turchia: “Una terra  in cui, chi arriva e sosta, conquista una visione unitamente di oggettività e di magia che poi rimane dentro, che si trasforma in una visione densa, sicura persistente. Il ricordo diventa cristallo allora nel fascino sottile di un’atmosfera respirata”.  Per questo gli appunti di viaggio e paesaggio diventano “permanenze”.

Dopo aver accennato in modo forzatamente sommario  alle “permanenze”  della Turchia vista in viaggi rapidi o prolungati che sedimentano nella memoria degli artisti, parliamo di un’altra permanenza, fatta di stile e di contenuti.. Lo facciamo considerando due artisti  dei nove della mostra, che più diversi non potrebbero essere, per questo rappresentativi dell’intera gamma:  Sabrina Carletti dal segno profondo, e  Luca Caccia  dalla leggerezza metafisica, entrambi romani.

L’organico inorganico di Sabrina Carletti

Sabrina Carletti ha una vasta cultura artistica e storica, è impegnata nella didattica per l’arte, ispirata in particolare dalla metodologia di Bruno Munari, e per promuoverla tra adulti e bambini ha fondato l’Associazione Laborans; dopo un corso nella Libera Accademia Belle Arti  di Roma nel 2006 si è espressa artisticamente nella forma dell’incisione, ha partecipato, tra le tante mostre,  alla IX e X Biennale Internazionale per l’Incisione. Ha avuto premi  nel 2007-08-09-10.

E’ esposto in mostra un trittico di segni profondi e scuri alternati a segni chiari che delinea scene di ambienti dall’informale al ben definito, quasi si trattasse dell’iter formativo, dell’atto creativo. Questo processo è ancora più esplicito in altre opere che vanno sotto il nome di “organico inorganico”  per esprimere il rapporto stretto tra tutte le componenti naturali. In esse anche il corpo umano diviene materia  perché nel processo creativo tutto è omologato nel segno della natura. Il corpo è esplorato in una serie di opere: dal feto di “Incubazione” alla figura nuda a sedere nelle fasi  con singole parti del corpo, come i piedi, – le serie  “St”, “St 0” e “St 00” e “12 pollici” -.

Natura è genesi e apocalisse, nascita e morte, in un ciclo per il quale la vita si riproduce di continuo. “In tal senso -. scrive Ida Mitrano –  ogni oggetto raffigurato nei suoi lavori esprime se stesso in quanto tale ma anche la stretta connessione con il tutto”. 

Come si collocano le “permanenze”  legate agli appunti di viaggio in Turchia in questi processi evolutivi?  Si spiegano con la particolare capacità  della memoria di incasellare immagini e sensazioni, fermarle nel tempo e nello spazio, e farle riemergere al di fuori del fluire della vita.

La leggerezza metafisica di Luca Ciaccia

Luca Ciaccia si è formato all’Antica Scuola delle Arti Ornamentali, con il maestro Vincenzo Ottone Petrillo, ha seguito i “Corsi per la tecnica ‘a fresco’” con il maestro Uliano  Vecci all’accademia pittorica della celebre “Scuola romana” e . il “Corso libero di nudo” all”Accademia delle Belle Arti di Roma. Ha partecipato a molte mostre personali e collettive, è presente in collezioni d’arte anche all’estero. In mostra espone due opere di un cromatismo tenue e delicato, sul celeste e bianco, una delle quali con una sedia vuota in una terrazza altrettanto deserta aperta sul mare: il titolo è “Solitudo”, il collegamento con le “Permanenze” degli appunti di viaggio in Turchia va ricondotto alla sensazione che torna viva nella memoria, qui è un senso di assenza.

Assenza umana ma presenza naturale, dato che la natura è protagonista  nella sua pittura, anche quando ci sono delle figure umane. Massimo Rossi Ruben ne fa un’attenta analisi ricordando che “naturalismo” è per l’artista un modo di interpretare la realtà circostante  in una propria visione che non si limita a riprodurne forme e colori ma la rende con la personale sensibilità.  Il naturalismo di Ciaccia si esprime  nella “sospensione di plaghe e vedute, sembianti di una trasalita consapevolezza onirica in rapporto alle sollecitazioni emotive”. Come avviene questo? “Egli, con sereno distacco, circoscrive  lo spazio della propria ispirazione  al paesaggio ancorandolo – occasionalmente –  alla realtà  muta e fisionomica di talune presenze che raccontano un assorto e composto abbandono”.

Quando ci sono queste presenze sono per lo più piccole figure che proiettano  lunghe ombre, tra i titoli “L’attesa” e “Il distacco”, “L’assenza” e “L’oasi”;  se non ci sono, come avviene spesso,  la natura si dispiega nella sua magnificenza, come in “Marina” e “Pioggia su golfo”, “L’aratura” e “Paesaggio”. In tutti il clima è di sospensione, un’atmosfera metafisica che rispetto a quella dechirichiana non nasce dalle piazze assolate con lunghe ombre di arcate e monumenti, bensì da composizioni diafane e sfumate, sul grigio e il celeste, così descritte da Viviana Vannucci:   “Protagonista è una luminosità abbagliante che avvolge le forme, stemperandone i contorni. Sulla superficie si estendono ampie campiture cromatiche che compongono una trama pittorica cangiante e  variegata da cui emergono decisi contrasti chiaroscurali risolti in un’ armonia tonale”.

Non si tratta di aspetti solo stilistici o meramente estetici, la Vannucci parla di “luoghi dell’anima”, ed effettivamente ci si sente presi da ambienti naturali molto particolari la cui vastità rende il senso dell’isolamento anche quando non vi sono le piccole figure che lo rendono esplicito. E’ sempre “solitudo” anche quando i titoli sono diversi e non c’è la sedia vuota del dipinto esposto in mostra.

Due considerazioni finali

Al termine della mostra possiamo dire che le “Permanenze” rimaste in noi non sono soltanto quelle degli artisti che hanno tradotto in dipinti o sculture i loro ricordi di viaggi in Turchia; ma anche quelle personali, i nostri ricordi altrettanto “permanenti” tradotti a suo tempo in quello che un cronista può produrre, appunti di viaggio scritti. La galleria di opere esposte ha messo in moto la memoria e questo è stato per noi un momento emozionante come lo era stato il nostro viaggio.

Un’altra considerazione ci sentiamo di fare: la mostra oltre ai ricordi della Turchia ci ha fatto incontrare dei giovani artisti italiani che si esprimono in forme diverse con genuinità e autenticità. Ne abbiamo considerati in particolare due,  Sabrina Carletti e Luca Ciaccia, di cui abbiamo visto altre opere oltre quelle in mostra, sono meritevoli come gli altri di essere seguiti ancora.

Anche questa volta dallo spazio espositivo dell’Istituto turco di cultura e informazione è venuta una bella sorpresa. L’arte non è unita al misticismo e alla religiosità come nella due precedenti mostre; ma a un qualcosa di laico  ugualmente capace di muovere lo spirito. E non è poco.

Info

Ufficio cultura e informazione della Turchia, Piazza della Repubblica 55-56, Roma, pressi Stazione Termini. Dal lunedì al venerdì ore 9,00-17,00, sabato e domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.4871190-1393; http://www.turchia.it/; turchia@turchia.it. Per le due mostre precedenti citate nel testo cfr., in questo sito,  l’articolo del  21 marzo 2013  sulla mostra di Tulay Gurses ispirata alla mistica di Rumi e l’articolo del 2 ottobre 2013 sulla mostra di Ilkay Samli ispirata ai versetti del Corano. Per gli “appunti di viaggio” personali in Turchia, evocati nel testo cfr., sempre in questo sito,  i  nostri 3 articoli, il primo intitolato “Istanbul, la nuova Roma”, il 10, 13, 15 marzo 2013. Ciascuno degli articoli citati è illustrato da 6 immagini. I dati sui risultati del turismo turco nei primi 10 mesi del 2013 sono stati cortesemente forniti da Silvia Gambarotta dell’Ufficio cultura e informazione.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nell’Istituto culturale della Turchia, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura un’opera di Luca Ciaccia, seguono un trittico di Sabrina Carletti e un’opera di Ugo Cossu, una di Valerio De Filippis e tre opere di Massimo Franchi, poi due opere di Pasquale Nero Galante , una di Giancarlo Montuschi e una di Claudio Orlandi; in chiusura un’opera di Antonio Taschini. 

Accessible Art. Lucianella Cafagna e l’infanzia, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Nella galleria  romana RvB Arts di via delle Zoccolette, Michele von Buren e l’Artigianato Valligiano presentano, dal 10 ottobre al 23 novembre 2013, la mostra di Lucianella Cafagna, “Qualcosa di importante”,   quadri a olio o a grafite su carta – oltre ad alcune piccole sculture – che ritraggono l’infanzia nei suoi momenti ludici e riflessivi, nella solitudine e nei primi timidi contatti. Sembra di cogliere, nell’attenzione dell’artista e nella sua persistenza sul tema, l’ascolto di quanto di autentico si può percepire nel mondo dell’innocenza dove è possibile trovare momenti di verità.

La sfida di Accessible Art

Nella galleria RvB Arts prosegue incessante l’itinerario di “Accessible Art”, una sfida artistica e culturale, con risvolti sociali, che merita di essere seguita e incoraggiata per il valore che può avere nella diffusione dell’arte al di fuori dei confini tradizionali. Perché il suo intento è farla entrare nelle case, farne un elemento familiare che si inserisce nell’arredamento degli ambienti, e non è poco.

A tal fine due sono i requisiti rispettati nelle sue mostre-mercato in cui sono esposte le opere di una scuderia di artisti contemporanei, giovani o affermati: l’accessibilità economica e la praticabilità domestica. Il primo requisito fa sì che, dati i prezzi contenuti, l’acquisto divenga investimento produttivo piuttosto che spesa a fondo perduto; il secondo requisito fa sì che non ci si trovi dinanzi a un’arte contemporanea trasgressiva o invasiva da non poter avere posto nelle normali abitazioni.

La scuderia di artisti è nutrita, sono una trentina circa, di cui 20 pittori e scultori, 10 fotografi, le mostre che ne propongono le opere sono frequenti, dal maggio dello scorso anno  ne abbiamo contate, e regolarmente commentate, altre sei, collettive e personali.  Si svolgono in un ambiente che non è quello spesso freddo e impersonale di molti spazi espositivi; ma una galleria dove i mobili di antiquariato, anch’essi economicamente accessibili, rendono il calore del clima familiare e mostrano visivamente come le opere presentate possano inserirsi nell’arredamento domestico.  Ci può essere l’accoppiata di mobile e quadro in sede di acquisto, possibilità anche questa interessante.

Nelle parole di Michele von Buren, appassionata curatrice e animatrice della mostra e di “Accessible Art”, tutto questo si riassume in poche parole: le opere presentate sono “comprensibili e hanno la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo”, così è possibile “far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare”; inoltre  l’accessibilità del prezzo  rende “l’arte più abbordabile dal punto di vista economico” e  viene mantenuto “inalterato il potenziale d’investimento”,  con interessanti possibilità di crescita.

Lucianella Cafagna e l’ascolto dell’infanzia

L’artista della personale odierna è romana, con una prestigiosa esperienza all’estero, avendo studiato all’Ecole Nationale Supérieure des Beaux Arts di Parigi e avendo fatto parte per un certo periodo dello studio di Pierre Caron, pupillo di Balthus.  La sua partecipazione a mostre collettive inizia nel 1994, al Grand Palais, nel 2011 una sua opera è stata selezionata per il Padiglione Italia della Biennale di Venezia che, per la celebrazione dl 150° dell’Unità d’Italia, è stato curato da Vittorio Sgarbi con criteri innovativi; negli ultimi anni una serie di mostre personali, ora alla RvB Arts dove aveva già esposto nella mostra del maggio 2012 con altri due artisti.

Tornando per un attimo alla mostra del 2012 se ne può percepire il percorso artistico, nello stile e nei contenuti.  Avemmo modo di evidenziare  due formule espressive, accomunate dal figurativo ma nettamente differenziate: una formula con cromatismo intenso e contrastato, contorni netti e composizioni non convenzionali, come si vedeva in alcune singolari prospettive, come in una figura a terra dalle gambe scomposte; l’altra formula invece dal cromatismo delicato, improntata alla raffinatezza e all’eleganza, con richiami classici, pensiamo a “Lady Jane” – l’opera esposta alla Biennale di Venezia – al mistero e all’enigma della sua figura eretta, dal senso quasi religioso.

La galleria di opere di questa nuova mostra ci propone ancora due formule, accomunate oltre che dal figurativo, dallo stesso contenuto: l’infanzia. C’è un’evoluzione rispetto alle formule della mostra precedente, anche se i filoni stilistici ed espressivi sono gli stessi: il filone del cromatismo intenso e dei contorni netti lo ritroviamo nelle raffigurazioni di un’infanzia senza sottintesi, aperta e vicina; l’altro, quello della delicatezza e della raffinatezza coniugate all’enigma e al mistero, si esprime in un’infanzia tutta da decifrare e da comprendere.

Una chiave interpretativa ci è parso averla trovata in un’opera dell’artista che non è pittorica, come la maggior parte di quelle esposte, ma scultorea: una figurina molto piccola scolpita con delle grandi orecchie e il titolo: “Ascolto”.  Ebbene, lo affianchiamo idealmente al titolo “Qualcosa di importante” che sottolinea  i risultati di questo ascolto, la percezione che nell’adolescenza c’è “qualcosa di importante”  emersa da quei volti, da quelle figure, da quei muti dialoghi.

E’ l’artista in ascolto mentre raffigura i ragazzi nei momenti ludici oppure semplicemente nella loro figura fragile ma carica di energia. Come nell’opera che dà il titolo alla mostra in cui si fronteggiano un ragazzino e una ragazzina con tutto quanto di represso e insieme di palese può esserci a quell’età, lo si vede nel linguaggio del corpo. Si respira l’atmosfera del film di René Clément, Palma d’oro a Cannes nel 1952, “Giochi proibiti”: si avverte la sottile complicità che nel film era scandita da una musica indimenticabile, la stessa che lanciò la coppia canora Al Bano-Romina Power in un’interpretazione suggestiva nella quale, giovanissimi, erano uno di fronte all’altro quasi un’anticipazione dell’immagine della Cafagna.  

La stessa suggestione accompagna le immagini singole, accresciuta dalla tecnica utilizzata. Il  filone dal cromatismo intenso, dai contorni netti e forte luminosità,  è reso dalla pittura a olio; il filone di introspezione delicata dalla grafite su carta, l’effetto visivo è di una pioggia leggera che accentua l’enigma e il mistero, molte opere sono in un colore sul marrone che dà profondità alla scena.

Al primo filone appartengono “Menina”  e “Sayonara” con due ragazze, “Lo scranno” e “Portici” con due ragazzi, il primo solennemente assiso, l’altro in piedi, poi “Cherubino” con l’aria da monello. Mentre del secondo filone fanno parte, oltre al citato “Qualcosa di importante”, “Giochi di sabbia” con due bambini confusi tra le proprie ombre, “Amici” con il primo piano di  due aperti visi infantili maschile e femminile, e “Julien”  con l’intenso volto di adolescente dietro una cascata scura tra la pioggia e la cortina.  Poi diversi  “Etude”  e “Fillette”, “La soglia” e “Mondello”, “Poco poco” e “Giuliana”, che citiamo come sono esposti nella successione casuale della vita.

Ci sono anche le piccole sculture “Pieds dans l’eau” e soprattutto “Ascolto” di cui abbiamo sottolineato il valore simbolico come atteggiamento dell’artista verso l’infanzia perché ci sembra una chiave della mostra ed è foriero di ulteriori sviluppi via via che questo mondo così carico di energia e di futuro rivela la propria ricchezza interiore a chi vuole e sa ascoltare.

Viviana Quattrini, nella sua presentazione critica, ha evidenziato i risultati di questo ascolto, le scoperte fatte dall’artista: “Le figure non presentano un particolare stato d’animo, risultano assenti, perse in questioni più grandi di loro”, è una notazione che sembrerebbe negativa, ma non lo è, e lo spiega: “Gli occhi dei protagonisti sembrano per un attimo cogliere il mistero della condizione umana dove tutto è sospeso, in un equilibrio precario a finale aperto”. E non basta: “La verità in loro è intensa e profondamente toccante”.

Per questo è un terreno da coltivare con la stessa amorevole cura con cui quei volti e quelle figure infantili sono portati alla ribalta perché dalla loro innocenza può emergere la verità sulla condizione umana.  Intanto l’osservatore è portato a meditare sulla “fragilità dei ricordi, il tempo perduto di un’infanzia che non torna ma ci condiziona”.

Sono opere che per i prezzi contenuti – la maggioranza al di sotto dei 1000 euro – e per i contenuti possono rappresentare il simbolo di “Accessible Art”. Immagini dell’infanzia così coinvolgenti  nel cuore della casa sono quanto di più adatte non solo a dare prestigio all’arredamento domestico, ma anche e soprattutto a riproporre sempre l’esigenza di prestare attenzione ai segnali sottili quanto preziosi che possono venire dai nostri ragazzi. Per comprenderli ma anche per capire noi stessi.

Info

GalleriaRvB Arts, via delle Zoccolette  28, e Antiquariato Valligiano in via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505; cell. 335.1633518. E mail: info@rvbarts.com; sito: http://www.rvbarts.com/. Per le precedenti mostre di “Accessible Art” cfr. in questo sito i nostri 6 servizi alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio e 26 aprile, 21 giugno e 5 luglio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts a Roma in via delle Zoccolette, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti,  soprattutto Lucianella Cafagna, per l’opportunità offerta. In apertura, “Qualcosa di importante”, seguono “Menina” e “Giochi di sabbia”, poi “Portici” e “Amici”; in chiusura “Sayonara”.

Vino. Saperi, cultura e tradizioni, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano,  lato Fori Imperiali, dal 26 ottobre al 30 novembre 2013 la mostra “Verso il 2015. La cultura del vino in Italia”, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, curata da Massimo Montanari, in collaborazione con Yann Grappe in particolare per la sezione territoriale e con Louis Godart per la sezione storico-archeologica.  C’è stato il patrocinio del Ministero delle politiche agricole, con le Amministrazioni regionali dell’Agricoltura, e il contributo  dell’Expo 2015 di Milano. Hanno partecipato il Museo di arti e tradizioni popolari  e il Museo del vino di Torgiano-Fondazione Lungarotti, la Biblioteca internazionale “La Vigna” e il Comitato grandi Cru d’Italia. Mobilitata tutta la filiera del vino.

La prospettiva  2015 è d’obbligo,  Roma fa da apripista alla grande esposizione internazionale di Milano dedicata all’alimentazione presentando il campione dell’enogastronomia, il  vino. Il Ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo ne ha sottolineato, nel presentare la mostra romana, “oltre al suo indubitabile valore economico, quel portato di saperi, di cultura e di tradizioni che lo rendono unico” anticipando che “a questo straordinario prodotto” sarà dedicato un intero padiglione all’Expo 2015.  Una definizione che ci è piaciuta, tanto che ne abbiamo fatto il titolo del nostro commento.

Presentazione festosa, con visita guidata dei curatori e dei protagonisti della filiera del vino ciascuno con un proprio contributo diretto alla mostra. Così Massimo Montanari ha inquadrato la cultura del vino nel tempo e nello spazio, Yanne Grappe ha illustrato l’originale  visione del vino nei territori, Maria Grazia Marchetti Lungarotti le raccolte storiche e artistiche del Museo del vino, Mario Bagnara l’eccezionale collezione dovuta alla passione di  Dino Zaccaria di quanto scritto sul vino nei secoli; in primo piano la colta analisi del vino nel mondo classico di Louis Godart.

Il vino “raccontato” dalla mostra

Montanari ha riassunto la particolarità del vino nell’incrocio tra frutto della natura e lavoro umano, quindi è un prodotto naturale venendo dalla terra, e insieme artificiale per l’intervento dell’uomo, da cui viene segnato anche il paesaggio. Ha sottolineato che è la bevanda più antica, è sulla tavola da millenni e fino a due secoli fa era l’unica bevanda, unita all’acqua con un ruolo igienico e sanitario per la protezione dell’alcool rispetto alle infezioni; è stata sia a carattere popolare sia segno di distinzione e di accoglienza per qualità  e prestigio. Sin dai tempi più remoti ha avuto un valore sacrale, di comunicazione con la divinità, pensiamo a Dioniso-Bacco ma anche all’eucarestia cristiana.  Altra considerazione è lo stare insieme, la socialità e convivialità suscitate dal vino; per questo è stato ispiratore nel campo delle lettere e delle arti, come viene documentato dalla mostra.

Questo insieme di valori umani e religiosi, sociali e simbolici fa parlare di “cultura del vino”, che va dalle civiltà classiche esplorate e rievocate da Godart alle società mediterranee, con al centro l’Italia. “L’Italia è il paese del vino”, sono parole di Montanari;  è “l’unico prodotto del Made in Italy che non può essere de localizzato, talmente è espressione del territorio, della cultura, delle genti che lo lavorano”, scrive Nicosia; e spiega che “il principio di unità nella diversità è il polo intorno al quale si sviluppa l’impostazione della mostra, attraverso il coinvolgimento dei territori, in un gioco continuo di rimandi tra particolare e generale, e quindi tra singola regione e Italia intera”.

In tal modo viene valorizzato l’elemento identitario del vino, la dialettica tra diversità e unità nell’enogastronomia come nel paesaggio così fortemente marcato dai vitigni, cosicché le diverse viti e i diversi vini sono tutt’uno con i differenti dialetti e tradizioni, usi e costumi pur nella cornice unitaria che di queste diversità si arricchisce divenendo una e centomila, mai nessuna. Anzi, è stato detto che sottolineare l’importanza della diversità locale nei vitigni e nei sapori non è solo un omaggio al glorioso passato, ma anche una garanzia per il futuro che premia le forti identità. 

Tutto questo cerca di esprimere la mostra con un percorso che diventa racconto dove la storia si unisce alla geografia, la scienza dell’alimentazione agli usi e costumi, le tradizioni ai saperi, con sullo sfondo il più vasto mondo gastronomico-alimentare di cui il vino è una punta avanzata.

Il racconto,  però, non è didascalico, si sviluppa in progressione mediante evidenze tangibili, che nella loro varietà documentano i molti campi interessati da Sua Maestà il Vino, vien fatto di dire.

La progressione si snoda attraverso sei sezioni in altrettante sale vivaci e colorate. Inizia con iIl vino tra mito e religione”,  l’archeologia ha il suo spazio nelle statue di Dioniso-Bacco con grappoli d’una; poi “Alla scoperta dei territori”, le singole Regioni si presentano con un’immagine e una parola chiave il cui contenuto viene esplicitato; “Dalla terra al bicchiere”  è una successione di oggetti nel tempo e nello spazio, “Vino e letteratura”  espone preziosi libri d’epoca sul vino e fa ascoltare le poesie ad esso dedicate dalla voce di Paola Pitagora; “Le Eccellenze. I grandi Cru d’Italia” sono una sfilata di successi, e infine “Vino e cinema” è una selezione di sequenze bacchiche di quasi 60 film dal 1943 al 2010.

Dell’intero percorso riproponiamo dei  momenti particolarmente rilevanti: la rassegna spettacolare delle diversità regionali e l’esposizione molto istruttiva di quanto prodotto dall’arte e dalla cultura.

Le diversità regionali rivelate da una parola chiave

La sala è spettacolare, tutt’intorno sulle pareti gigantografie di paesaggi vinicoli tipicizzati da particolari ambientali  che evocano visivamente le diversità regionali sigillo dell’unitarietà nazionale nella valorizzazione delle rispettive identità. Una parola le qualifica con una citazione colta seguita da un’ampia motivazione. Come si trattasse di un premio o di una sentenza. E’ una formula molto originale, Yann Grappe ne ripercorre l’iter creativo  e ne illustra i contenuti.

I grandi pannelli luminosi ci mostrano come possano essere diversi i vigneti, nei filari cui il lavoro dell’uomo dà le configurazioni più varie per il retaggio delle tradizioni, l’orientamento e la conformazione del suolo, la tipicità del vitigno. Spesso con il vigneto ci sono scorci ambientali, come montagne e marine di sfondo, o presenze abitative, dall’abitazione contadina al monastero.

Le definizioni non sono apodittiche, ma motivate, e la loro efficacia icastica rimanda non solo al vino ma a qualcosa di più ampio, legato al modo di essere della regione. Pertanto partiamo da queste definizioni e vediamo come e perché vi siano state collegate le singole Regioni.  Abbiamo riportato in ordine alfabetico le definizioni e non le Regioni come nel Catalogo, per dare loro più risalto, mentre nella sala l’ordine è ancora diverso, con accostamenti dettati da altri criteri.

Appartenenza e confine, convivialità ed eleganza, generosità e incontro, innovazione e memoria, misura e orgoglio, passione e racconto,  regalità e rigore, sacralità e scambio, schiettezza e sfida, tenacia e tipicità: diciotto premi o diciotto sentenze, comunque diciotto  segni identitari.

“Appartenenza” è una qualità della regione attaccata alle proprie tradizioni, anche ancestrali, tanto che le colture arcaiche della vite sono rimaste fino all’ultimo dopoguerra: “Niente in Sardegna assomiglia a qualcos’altro”,  le invasioni straniere portarono i vitigni più variegati ma le particolarità geografiche, climatiche e geologiche unite a quelle storiche e culturali li piegarono all’appartenenza. Lo ha ricordato Adriano Ravegnani citando l’arcaica vite ad alberello, restata fino al secondo dopoguerra e dicendo che “l’autentico vino sardo è quello potente e austero dei pastori”.

“Confine” fa pensare subito alle Marche, per motivi storici. Ma a questa regione viene applicato con citazioni  nientemeno che di Giacomo Leopardi, il quale nello “Zibaldone”  scrive che “il piacere del vino è misto di corporale e di spirituale”. E ne descrive gli effetti sulla creatività e sulla “capacità di andare ‘oltre’, al di là del confine, verso l’infinito”;  anzi loda la bontà dei vini della Marca che potrebbero essere portati fuori regione. “Oltre il confine” chiosa la motivazione.

Anche da “Convivialità”  all’Emilia-Romagna il passo è breve, a stare al carattere attribuito agli abitanti da Massimo Alberini che li porta a incontrarsi sempre come i pallini da caccia fatti rotolare in fondo alla damigiana per pulirne le incrostazioni del vino. La citazione enologica non è casuale,  “nel modo di fare, e non solo di bere vino” si è espresso il carattere consociativo e cooperativo”.

Lo stesso si può dire per “Eleganza”, fa pensare alla Toscana ed alla “cultura cortese” impersonata in Lorenzo il Magnifico: viene riferita al vino e al paesaggio con i filari dei vigneti ora esclusivi ma in passato promiscui e alternati ad ulivi e alberi da frutta, grano e leguminose. Dopo citazioni facete di Piovano Arlotto si conclude che “l’eleganza non è appannaggio del lusso, ma dell’eccellenza”.

“Generosità” vuol dire Puglia perché fu definita “cantina d’Europa”, e per la qualità della sua gente. C’è la testimonianza di Paolo Monelli, che cita le parole del  pugliese Pietro Accolti sul vino “quasi fosse un velluto liquido”, e lo chiama “vino-alimento, è la carne che mai mangiano quei contadini, ed ha le fibre della carne sì che verrebbe voglia di tagliarlo con il coltello tanto è ricco e corposo”.

Con “Incontro” si va nell’estremo nord, al Trentino-Alto Adige, motivando la definizione con la cultura dello scambio connaturata nella regione, che viene riferita al vino anche ricordando il proclama dei consoli  di Trento emesso contro “l contrabbando di “vini, vernazze & acquavite forestieri” che “fraudolentemente si introducono in città”.  Addirittura si cita Mozart che dopo una sosta a Rovereto, suggerì al librettista del Don Giovanni “”Ah che piatto saporito… Versa il vino! Eccellente marzimino!”.

Nessuna sorpresa per “Innovazione”  riferita alla Lombardia, la regione tradizionalmente più dinamica in campo industriale, anche se qui si tratta di vino: viene citato lo scritto di Agostino Gallo che nel 1569 indicava le novità nella fermentazione abbreviata in tino per avere vini più chiari, con questi vantaggi: “Perciochè veggono, che i vini restano con più bel colore, con miglior sapore, e con maggior bontà, & anco conservano maggiormente, che non facevano”.

Invece “Memoria” è un capolavoro di creatività, è attribuita alla Basilicata non per un carattere diffuso, ma per i ricordi di una anziana nipote di un appassionato viticultore lucano vissuto dal 1900 al 1993 che si portava anche all’osteria il proprio vino e diceva: “Non so se morire prima o dopo la vendemmia”. Concludono i “creatori” della definizione: “Tutti gli anziani sono dei libri aperti. Loro come le vigne, sono i custodi della memoria”.

“Misura“è attribuito all’Umbria con una citazione dalla “Regola” di Benedetto da Norcia in cui si riferisce al vino indicando la quantità sufficiente aumentabile in rapporto “alle condizioni del luogo, o la fatica del lavoro o l’arsura dell’estate” purché non susciti ebbrezza. “Accordiamoci di non bere fino alla sazietà, ma in modo abbastanza sobrio”. Le regole sono importanti, come quelle dei monasteri, anche per fare il vino “armonizzando le vocazioni del terreno e del vitigno con le esigenze e i desideri di chi lo berrà”.

“Orgoglio” riferito alla Calabria non sorprende, è un carattere tipico degli abitanti, ma qui viene riferito all'”orgoglio della diversità”  vinicola, e al riguardo si cita Norman Douglas che  In “Old Calabria” del 1915 scriveva: “Quasi ogni villaggio ha il proprio tipo di vino, e ogni famiglia che si rispetti ha un suo metodo particolare per farlo”.

Ugualmente  “Passione” lo colleghiamo al carattere dei siciliani, ma il riferimento alla Sicilia è perché “il vino è passione e ama i sentimenti forti”, che si accompagnano ad una “regione assolata in cui il fuoco del vulcano accompagna da millenni la vita degli uomini”. Puntuale la citazione, si tratta delle “Poesie siciliane” del 1787 di Giovanni Meli, con un brindisi pieno di fuoco e di vitalità.

Invece “Racconto”  viene riferito al Lazio seguendo le descrizioni molto dettagliate del XVI secolo di Sante Lancerio in una lettera del XVI secolo al cardinale Guido Ascanio Sforza e di Andrea Bracci nella  “Storia naturale dei vini”: il primo “raccontava” tutti i vini assaggiati dal papa, il secondo descriveva la grande varietà di vini giunti a Roma dall’esterno o prodotti nel Lazio. .

“Regalità” non comporta sorprese, qualifica il Piemonte per la sua storia sabauda e il vino altrettanto regale, per questo “si dice che il Barolo è il re dei vini, e il vino dei re”, mentre “troneggiano” gli altri vini piemontesi, i fratelli, tra cui il Barbaresco. La citazione è per Mario Soldati che nel suo viaggio gastronomico del 1957-58 porta l’amico Brusa a paragonare  il Barolo a una “colonna ionica, equilibrata” e il Barbaresco “a una colonna dorica, forte, semplice”.

Il“Rigore”  viene attribuito al Friuli  per “la grafica rigorosa dei filari tra pianure e colline, tra il mare e la montagna”, impronta data dal lavoro che dunque “nasce dalla necessità e dalla passione”.. Si cita al riguardo la Relazione del 1620 in cui Costantino Zorzi, provveditore a Cividale per la Repubblica di Venezia, descrive l'”incessabile fatica” dei friulani per coltivare la vite in ambienti inospitali come “quei gioghi dove ben spesso le capre precipitando non arrivano”.

Dopo la regalità, ecco la “Sacralità”, riferita alla Campania  seguendo la leggenda secondo cui il  nome “lacrima Christi”  di un rinomato vino campano viene dal pianto di Dio quando vide nel golfo di Napoli il brandello di cielo strappato da Lucifero nel precipitare agli inferi; lo scrittore francese Valery aveva scritto che Chiabrera, vissuto tra il XVI e XVII secolo, sulla  “‘lacrima Christi’ trovava così impropriamente chiamato con il nome del dolore, mentre invece fa i cuori felici”.

Con riferimento ai traffici internazionali vinicoli della Repubblica veneta, al Veneto viene collegato  lo “Scambio”: si trattava di vini aromatici provenienti dall’Oriente, vernacce e moscati, moscatelli e “vini greci’, che il Veneto decise di produrre in proprio coltivando i vitigni orientali nel proprio territorio. Il “Dialogo” in un’osteria veneta, di Sicco Polenton, del 1419, è eloquente, riferito in particolare alla malvasia : “E’ il vino a tenere in vita l’uomo. Dio non ha creato niente che sia meglio del vino”

La “Schiettezza” è riferita all’Abruzzo, in coerenza con  l’appellativo di “forte e gentile”. Il vino è “schietto, sincero, diretto”  è mezzo di socialità e solidarietà, semplicità e rispetto.  Questo atteggiamento è alla base della cura crescente per vigna e cantina con grande attenzione a non essere invadenti e non distorcere il rapporto tra vitigni  e territorio.  Le parole del 1955 di Ignazio Silone in “Vino e pane” sono eloquenti: “Il pane di grano bagnato nel vino rosso, non c’è nulla di meglio. Ma bisogna avere il cuore in pace”. E’ schiettezza anche questa.

Sembra incomprensibile “Sfida” applicato alla Valle d’Aosta, ma lo si spiega pensando alla orografia di un ambiente inadatto i vitigni,  eppure il lavoro degli aostani ha sviluppato nei secoli una fiorente viticultura, pur in condizioni estreme nel suolo e nel clima.  I vitigni autoctoni si sono adattati all’ambiente e la natura si è piegata. La sfida è stata vinta, lo  si legge nella Relazione del 1635 in cui Francesco Agostino Della Chiesa afferma che  sulle vigne “che producono buonissimi vini rossi, bianche e chiarelli”  si direbbe “a forza di martello esser state piantate”.

Per vincere le sfide ci vuole “Tenacia”, viene attribuita alla Liguria, richiamandosi a quanto scrivevano sulla regione Cicerone, secondo cui “non dà nessun prodotto se non a prezzo di un’intensa coltivazione e di molto sudore”, e Diodoro Siculo  secondo cui “in Liguria né olivo, né vite ma foreste. Terra inaccessibile a Cerere e Bacco”. Poi, con il lavoro mediante i  terrazzamenti si è vinta la natura, ci sono vitigni di gran pregio e un’uva di cui parla anche Boccaccio. Giovanni Boine, in “La crisi degli ulivi in Liguria” sulla “Voce”, nel 1911 descriveva il tremendo lavoro per i muri a secco “come templi ciclopici”, che rendono possibili tali colture in terre impervie e ingrate.

La galleria di sigilli regionali si chiude con la “Tipicità” del Molise, che ne sottolinea la varietà nei vitigni e nei vini prodotti “lontano da Campobasso”, viene precisato. Mario Soldati, nel suo “Vino al vino”, del terzo viaggio del 1975, li cita con le rispettive località ricordando che “le vecchie vigne sono ad alberello”, “come singole colonne”, scomparse ma testimoni della notevole diversità  che viene perseguita con il rilancio dell’uva autoctona ora rilanciata dopo aver rischiato l’estinzione. La chiusura  vale anche in generale per una rassegna in cui la varietà e specificità  sono  denominatore comune: “Riscoprire e valorizzare le proprie differenze ha anche un vantaggio: piace”.

Oggettistica  e arte grafica, ceramica e arte contemporanea

Dopo i paesaggi vinicoli delle regioni italiane accompagnati dalla parola chiave e relative motivazioni passiamo alle espressioni popolari e artistiche dedicate al vino esposte nelle altre sezioni della mostra, oltre alle spettacolari statue antiche  che la aprono, come si è ricordato.

L’oggettistica è di particolare interesse, la selezione della raccolta esistente nel Museo di Arti e Tradizioni Popolari riflette l’Italia rurale scomparsa nella vita reale ma viva nella memoria. Si va dai bigonci ai bariletti, dai tini ai barili, dalle coppe ai boccali,  dalle  misure da vino in latta o vetro alle bottiglie decorate, dalle borracce alle fiasche nelle forme più diverse, fino alla “fiasca a libro”  del 1901 in terracotta con il  disegno di un tavolino, sopra una bottiglia e due bicchieri, a lati due sedie vuote, in un cromatismo molto sobrio.

Si entra nell’arte sin dall’epoca antica con le brocche di argilla e di ceramica a figure nere e a figure rosse, che risalgono al IV. V secolo avanti Cristo; c’è anche un frammento di scultura simbolico e spettacolare, una mano  di marmo che afferra un grappolo d’uva.

Dell’arte grafica è presente una ricca esposizione di illustrazioni in tema vinario del Museo del Vino di Torgiano, tra cui opere in bulino come  “Baccanale con Sileno” di Andrea Mantegna e “Sileno ebbro (Tazza  Farnese)” di Annibale Carraccci, “Bacco disteso”  visto di fronte e di spalle da Rugendas, con un tralcio di vite nei capelli e nella mano destra. E acqueforti come “Trionfo di Bacco” di Pietro Aquila, “Sarcofago con corteo bacchico” di Pietro Sante Bartoli, “Statua di Sileno con in braccio Bacco” e altre di Francesco Piranesi., inoltre la litografia “Nascita di Bacco” di Michele Danesi.  Infine sorprendenti incisioni sulle Sacre Scritture, che vanno dall’“Ebrezza di Noè”di tre artisti dal secolo XVI al XIX, Adrian Collaert, Carlo Lasinio e  Eugenio Damele; a “Lot e le figlie” di tre incisori, tedesco, inglese e francese fino a episodi evangelici come “Acqua mutata in vino da Cristo nelle nozze di Cana” e “Cena di Emmaus” di Pietro Monaco del secolo XVIII:.

All’arte grafica associamo,  con nostra libera scelta – in mostra è una sezione a sé stante – l’esposizione della opere sul vino, la  vasta Raccolta letteraria della Biblioteca internazionale “La Vigna” perché i frontespizi sono incisioni e grafiche artistiche.  La vetrina che contiene le pubblicazioni più rare colpisce per la grafica dei titoli e delle immagini. Al centro le uniche immagini a colori di  due  tralci d’uva  prese dall’“Ampelografia italiana”  del Ministero d’agricoltura e commercio, del 1870-90,  un volume di grandi tavole su tutti i vitigni nazionali riprodotti con l’indicazione del vino derivato. A quest’edizione moderna fanno corona preziose “cinque centine”,  edizioni seicentesche e settecentesche, fino al ‘900; si pensi che all’istituzione della Biblioteca che raccoglieva la collezione del benemerito Demetrio Zaccaria i volumi erano 12 mila, ora sono 50 mila, le acquisizioni continuano, con orgoglio è stato annunciato che la mostra coincide con  l’acquisto di una rara “cinquecentina”. Incisioni sottili non solo nei frontespizi illustrati ma anche nei semplici titoli, la cui grafica riporta agli stili delle varie epoche e il contenuto esplora i tanti aspetti con “Trattati della viticoltura” e “Trattati della vinificazione”, ma ci sono anche dei ditirambi dell’800  come “Il Bacco in Romagna”  di Giuseppe Piolanti e “El vin friulano de Bagnoli” di Lodovico Pastò. Dopo questa  escursione torniamo al Museo del Vino

Spettacolare l’esposizione di ceramiche  medioevali del secolo XIII-XIV, tardogotiche e barocche del XV-XVIII secolo, fino a quelle artigianali del XIX e XX sec. Si tratta di panate e boccali, brocche e bottiglie, coppe e fiaschi, piatti e vasi di Faenza e Deruta, Orvieto e altre località di Lazio e Toscana variamente istoriate a seconda del periodo di produzione. Interessanti per la loro particolarità  la “Bottiglia antropomorfa”  e la “Bottiglia con tappo a vite” del sec. XVI, la “Coppa a inganno ‘Bevi se puoi'”  del XVII sec. e il “Boccale amatorio ‘Bevi se puoi’ del XIX sec., il “Piatto con donna ebbra” e  l'”Assaggiavino”  del XVII sec., la “Fiasca ittiforme” e la “Fiasca anulare” del XIX sec., le “Fiasche antropomorfe” di Seminara del XX sec.

Con l’arte contemporanea, spiccano per originalità  la “Bottiglia mamma” di Gio Ponti, la bottiglia-madre incorpora la bottiglia-figlia come in un marsupio,  e “La donna cantina” di Riccardo Biavati,  in una statua di donna stilizzata di 50 cm sono ricavati 15 comparti con bottiglie; “Baccante” di Nino Caruso è una figura femminile contorta  su una colonna, altezza 175 cm,   e la “Coppa antropomorfa” di Aldo Rontini delinea appena un volto umano. Tutte dopo il 1990.

Il poker d’assi conclusivo e il nostro sigillo

Il poker d’assi di artisti  moderni in mostra comprende  “Pan” di Vincenzo Gemito,  una testa in bronzo molto espressiva e “Piatto con satiro” di Jean Cocteau, un profilo stilizzato su fondo giallo arancio, “Bacco” di Renato Guttuso  con la sua figura un’acquatinta a colori intensi, e “Baccanale” di Pablo Picasso, linoleografia in nero con suonatore e danzatore, un volatile e un quadrupede.

Una conclusione in bellezza, cui ci permettiamo di aggiungere, nel terminare il racconto della mostra che ha raccontato il vino, il nostro personale sigillo: un’opera di Giorgio de Chirico, il “Ritratto di Peikov”, che non figura nell’esposizione. Lo riportiamo in chiusura, il bicchiere di vino rosso in mano è anche un modo di rievocare il festoso finale della presentazione della mostra: i brindisi nella spettacolare terrazza del Vittoriano sopra i tetti e i monumenti della Roma antica  tra voli di gabbiani e sciami di turisti.

Info

Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Ala Brasini – Salone Centrale. Tutti i giorni compresi domenica e lunedì: dal lunedì al giovedì ore 9,30-19,30 – venerdì, sabato e domenica ore 9,30-20,30; ingresso gratuito, consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Catalogo: “Verso il 2015. La cultura del vino in Italia”, a cura di Massimo Montanari, Skirà-Expo, ottobre 2013, pp. 176, formato 16×24.

Foto

Le immagini, esclusa quella di chiusura, sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra  nel  Vittoriano, si ringrazia “”Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Bacco”, di Andrea di Michelangelo Ferrucci, I decennio del XVII secolo, dalla raccolta della Fondazione Santarelli; seguono un angolo  della sala con le Litografie  e  uno scorcio della sala con i Pannelli luminosi regionali,  poi due tavole dell’“Ampelografia italiana”, 1879-90, e alcune Ceramiche dei sec. XV-XVIII, quindi “Baccante” di  Nino Caruso, 1995, e  “Baccanale” di Pablo Picasso, 1959. In chiusura “Ritratto di Peikov” di Giorgio de Chirico, 1945, immagine tratta dal Catalogo della mostra: “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, Maretti Editore  2013, pp.192,  formato 23×28, si ringraziano i titolari dei diritti. Su tale mostra, a Montepulciano dall’8 giugno al 30 settembre 2013, prorogata al 3 novembre,  cfr. i nostri 3 articoli in questo sito sui “Ritratti classici” e i “Ritratti fantastici” il 20, 28 giugno e 1° luglio 2013. Per la Collezione Santarelli, da cui proviene la scultura posta in apertura, cfr. il nostro articolo in questo sito il 15 ottobre 2012 dal titolo “Zeri Santarelli, collezionisti al Palazzo Sciarra”.

Giardino delle fontane, l’arte all’aperto, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Al “Giardino delle fontane” della Galleria Nazionale d’Arte Moderna sabato 19 ottobre inaugurata l’installazione  “Ipotesi grafica” di Cloti Ricciardi  e le due sculture all’aperto “Libri gialli” e “Libro giallo” di Lucilla Catania, nel clima festoso di una mattinata di sole.  Il pubblico potrà visitarlo fino a domenica 17 novembre 2013 nei giorni di sabato e domenica, tra le ore 12 e le 16. Dopo l’installazione nella prima vasca, in primavera sarà realizzato il progetto di Maria Dompè nella seconda e più grande vasca con delle ninfee rose che si ispireranno  al celebre dipinto di Monet esposto, con i tanti capolavori del ‘900, nelle sale che si attraversano per uscire in giardino.

L’inconsueta presentazione alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, non nei vasti saloni della prestigiosa sede espositiva ma negli spazi verdi, precisamente nel giardino al quale si accede dalle  vetrate  sul retro, ha riguardato una installazione e due sculture, in una cornice speciale: l’area con le siepi di bossi, gli alberi e le due grandi vasche che riportano ai cortili signorili dell’antica Roma.

Per arrivare al giardino si attraversa l’ambulacro con il pavimento a specchi spezzati dove si possono ammirare opere di artisti  di grande valore, citiamo solo Burri e Fontana, per non parlare di Duchamp e tanti altri; poi si deve passare per sale che rappresentano un concentrato del ‘900 più rinomato e spettacolare, inutile citare dei nomi, sono tutti i più celebri, le opere le più note e amate.

E’ difficile procedere resistendo alle sollecitazioni visive e culturali di tanto ben di Dio: è come se si incontrassero dei cari amici, con cui non si ha consuetudine quotidiana, ma che si riconoscono subito e non è possibile non salutarli; ma sono tanti, si rischia di dimenticare la meta per la quale si è venuti e perdersi nello strepitoso labirinto delle sale da superare per andare nel giardino.

Ci riusciamo a fatica, usciamo dall’ultima sala  tra due sculture ammonitrici, “L’umanità contro il male” di Gaetano Cellini e “Caino”  di Domenico Trentacoste, il dipinto “I tesori del mare” di Plinio  Novellini ci rincuora con l’immagine dell’acqua purificatrice.  Siamo giunti così in  un labirinto ben diverso, il “Giardino delle fontane”,  con i due ampi spazi delle vasche d’acqua collegati dai classici sentieri nella vegetazione in cui si arrampica una breve scalinata.

La direttrice della Gnam  Maria Vittoria Marini Clarelli fa gli onori di casa, questa volta vengono presentate tre opere per esterni, un’installazione del tutto particolare e due sculture. Tutto al femminile, l’installazione “Ipotesi grafica” è opera di Cloti Ricciardi, le due sculture “Libri gialli”  e “Libro giallo” di Lucilla Catania, curatrici Marcella Cossu e Maria Giuseppina Di Monte.

L'”Ipotesi grafica” di Cloti Ricciardi

E’ la grande vasca dinanzi alle arcate l’immagine che si presenta risalendo il vialetto, con una pioggia finissima che scende dall’alto realizzando una sorta di quinta, un velo che si frappone senza nascondere e senza svelare, impalpabile e quasi immateriale. L’effetto suggestivo è ottenuto da un’installazione  che solleva l’acqua con una pompa lungo canali verticali che confluiscono in un canale orizzontale traforato per far scendere al centro della vasca la pioggia come fili d’argento.

“Ipotesi grafica” è la denominazione dell’opera donata stabilmente alla Galleria,  e l’idea viene da lontano: già nel 1971 a Milano alla galleria Toselli  fu realizzato con lo stesso titolo l’analogo effetto di fili d’acqua che attraversavano lo spazio creando una cortina impalpabile, uno schermo visivo sensibile alla luce, una quinta trasparente. La cosa è stata ripetuta al Macro di Roma con il titolo “Trasparenze”; nel 1995 abbiamo avuto “Fermata d’autobus”, su sollecitazione di Achille Bonitoliva, la pioggia quella volta scendeva all’interno del mezzo di trasporto creando un contatto fisico con i presenti. Oltre alla mostra del 1998 alla Galleria del Cortile, sempre a Roma, dove la resina era collegata all’acqua attraverso mappe nautiche, nel 1996 e 2000 abbiamo la serie “Piani di calpestio”,  pavimenti per bagno con riferimenti acquatici evidenti e assonanza classiche.

Naturalmente non è solo l’acqua il soggetto della sua creazione artistica, come elemento all’origine della vita. Ve ne sono anche altri nella ricerca di forme nello spazio che creino una interazione con l’ambiente. Una delle sue prime manifestazioni era stata nel 1968 al teatro di Giancarlo Nanni a Roma, non si trattava di acqua ma di tela, con cui foderò la sala in modo che potesse venire tirata e deformata dagli spettatori: l’ambiente così sembrava respirare, divenire un polmone vivente  e pulsante. Nella stessa direzione  l’anno successivo al “Premio Internazionale Michetti” a Francavilla a Mare con un percorso di lamine metalliche che calpestate dai visitatori suscitavano dei suoni, l’ambiente parlava, quindi viveva. C’è poi un lungo periodo di impegno femminista, nella concezione che la donna artista “partorisce” l’opera d’arte, “mette al mondo il mondo”, mentre per converso l’uomo artista è mosso  dalla paura della morte. Fonda delle riviste, scompone i nomi delle compagne in lettere associate a delle idee, in una rivoluzione dell’alfabeto contro ogni convenzione.

Negli anni ’80 l’artista ritrova il suo percorso naturale, nel 1983 ancora alla Galleria del Cortile presenta “Finestre” con opere imperniate sul vetro infranto volutamente per rompere il diaframma che limita la libertà, e deformato  per restituire ai visitatori che vi si specchiano un’immagine distorta. Il vetro è anche, con l’acciaio,  il materiale con cui nel 1989 nella mostra “Anomie spaziali” allo Studio Bocchi a Roma presenta sculture contorte come piante,  segno di vitalità nel rapporto con l’ambiente.  Dallo spazio al tempo il rapporto viene espresso visualizzando la pausa, come intervallo tra un’azione e l’altra, con delle sedie: la “stasi liberatoria” la realizza nel 1993 alla Biennale di Venezia con la sala “Misura per misura”.

Scende in profondità l’anno successivo con “Sete”, ancora allo Studio Bocchi, esprimendo quella che Ludovica Persichetti, nel darne una esauriente biografia, definisce “una spazialità rovesciata, che ospita oggetti spaesati e mette lo spettatore davanti alle difficoltà dello specchiarsi”.

A questo punto abbiamo i già citati “Fermata d’autobus” del 1995 e “Piani di calpestio” del 2002 con l’acqua protagonista, come lo è nell'”Ipotesi grafica” che troviamo oggi e abbiamo ricordato già presente nell’opera dallo stesso titolo nel 1971, segno della linearità del suo percorso artistico.  Che la vede nel 2011 alla Biennale di Venezia, nel 2012 alla Galleria del Cortile con “Fiori d’Acciaio” e nel 2013 a Mirano, Venezia con “Armonie Plantarum”. I titoli sono eloquenti, l’ambiente diventa l’esterno, il verde, come nel Giardino delle fontane della galleria Nazionale d’Arte Moderna dove viene presentata la sua nuova “Ipotesi grafica”.

Prima delle ultime tre mostre citate la vediamo, nel 2009-2010, collaborare con Lucilla Catania per la mostra “12 disegni per due sculture”, tenuta a casa d’Annunzio a Pescara e a Matera, dove furono installate rispettivamente “Quale tempo e quale spazio” della Ricciardi  e “Naturale” della Catania, entrambe del 2007. Abbiamo ricordato la circostanza perché le due artiste sono qui di nuovo  accomunate nella presentazione delle loro opere che aggiungono il tocco dell’arte al Giardino delle fontane: l’installazione della Cloti, le due sculture della Catania.

I “Libri in giallo” di Lucilla Catania

Queste sculture si fronteggiano  sul vialetto, hanno titoli simili, “Libri in giallo”,  2008, e “Libro in giallo”, 2012, all’evoluzione nel tempo del titolo corrisponde quella nella forma: mentre nella prima scultura è visualizzata una catasta di libri ammonticchiati l’uno sull’altro in una pila che diviene colonna; nel secondo è il fluire delle parole nel libero ad essere evocato con delle striature verticali, come in papiro che si srotola.  

E’ un effetto-onda che addolcisce la ruvidezza del materiale con un riferimento alla trasformazione incessante dell’universo alla base di altre sue realizzazioni: come “Tra Onde e Monti e Valli”,  e “Acqua dolce”, 1990, sculture orizzontali mentre in quella del Giardino delle fontane analogo effetto si ha in verticale e in forma molto discreta. Il travertino giallo di Persia pur se sfumato, spicca nel verde dei cespugli dove l’alloro  di unisce al leccio, il mirto al corbezzolo, in un luminoso contrasto visivo.

I libri, secondo la curatrice Maria Giuseppina Di Monte, “rappresentano il desiderio di un suo ritorno ai valori della nostra cultura: frutto di una lunga e profonda sedimentazione e stratificazione”. Ed ecco come lo esprime nelle sue opere più recenti sul tema:  “Le pile di libri, addossati alle pareti o autoportanti, a formare colonne agili e connotate da un forte dinamismo interno, rivelano la volontà di aprirsi al futuro senza rinunciare al passato”.  Per avere questo effetto rinuncia alla orizzontalità preferita,  perché la affascina più la terra e il mare che il cosmo, per una verticalità misurata e proporzionata.

La biografia della scultrice la descrive diplomata a Roma all’Accademia delle Belle Arti di via Ripetta, poi in Francia dove entra in contatto con Cesàr e le sue tendenze materiche. Inizia con sculture in terracotta, poi passa alla pietra e al marmo preferiti per la loro maggiore compattezza . Significativi i titoli di alcune mostre cui partecipa: “Modi della scultura” a Roma, nella Galleria Banchi Nuovi,  e “Geometrie dionisiache” a Milano alla Rotonda della Besana, poi “Statue” ancora a Roma, alla Galleria Oddi Baglioni. siamo nel 1988.  Le mostre si moltiplicano all’inizio degli anni ’90,  con tre collettive all’estero, “Roma” e “Amor Roma” a Vienna, e un’altra a Francoforte.

Altre mostre nel 1995 con il gruppo da lei fondato “A regola d’arte”, finché nel 2000 al marmo aggiunge di nuovo la  terracotta. Titoli di altre mostre: “Lavori in corso” e “La seduzione della materia” nel 2002. Sorvolando sulle numerose iniziative e mostre del periodo, citiamo l’installazione “Naturale” nel Museo d’Abruzzo a L’Aquila e l’esposizione a Pechino in occasione dei giochi olimpici, nella mostra a Casa Italia “Energia della materia, la materia dell’energia”.

Siamo nel 2008, l’anno in cui realizza “Libri in giallo” che vengono inseriti ora nel Giardino, nel 2009 la collettiva “Cella. Strutture di emarginazione e disciplinamento”   e poi, nel 2010, la collaborazione citata con Cloti Ricciardi in “Dodici disegni per due sculture”, fino alla recente mostra del 2013 al Museo d’arte orientale a Roma dal titolo “Stareandare”.

Il percorso che l’artista compie e ci fa compiere viene così definito da Mario de Candia: “Gettare il nostro sguardo al di là di ogni orizzonte immediatamente percepibile e e ammettere la costante oscillazione del mondo oggettivo verso le immensità intime della nostra interiorità”.  Si segue l’artista “a caccia dei trucchi del tempo e della memoria  che, emanata dal finito, si estende all’infinito. Una memoria attiva in cui il passato si fa complice del presente”. Proprio per questo non è una memoria di fatti  ed eventi storici, ma un ritorno alle origini “quel quasi ‘non-inizio’ precedente tutto, tutte le forme, tutte le sostanze”. Non è l’estetica che la interessa ma ciò che attiene alla natura, quando crea legami armoniosi all’interno delle cose e degli esseri viventi. 

Per questo si serve di simboli che non hanno riferimenti a correnti artistiche, bensì all’esigenza di esprimere una visione cosmica in forme moderne. Nella quale è presente la divaricazione tra speranze e desideri da un lato e realtà dall’altra, che viene definita “profonda crepa dell’essere” alla quale reagisce cercando di “attingere l’energia di una rigenerazione capace di dissolvere, o meglio dissipare, quel terrore che costantemente e persistentemente ci abita, come una eco lontana ma non sradicabile”. Lo combatte con il dinamismo, la forza del movimento, alla ricerca di un equilibrio nel tempo e fuori dal tempo, con il mondo e fuori dal mondo.

Intervistata da Marcella Cossu ha definito le due opere nel Giardino delle fontane “un significativo punto di arrivo” della sua ricerca e ha spiegato: “Anche in questi due lavori, ‘Libro in giallo’ e ‘Libri in giallo’, l’opposizione genera l’opera. Del resto, nella natura tutto si svolge per opposte tensioni e movimenti che incredibilmente concorrono, compattandosi, alla creazione di una forma finale”. Sul suo modo di operare ha aggiunto: “Il disegno è una tappa necessaria del processo che conduce alla realizzazione plastica del mio lavoro. E’ un momento privato diversamente dalla collocazione dell’opera nello spazio, momento in cui l’opera diventa definitivamente pubblica. Il disegno in sé ha una valenza non solo progettuale ma è esso stesso un momento di riflessione sull’idea; nel  disegnare chiarisco a me stessa l’idea originaria e la porto verso la sua risoluzione definitiva”.

L’Uovo di struzzo di Mondazzi

Vicino alla vasca più grande, dove in primavera saranno collocate ninfee rose in omaggio a Monet, vediamo il grande Uovo di struzzo” di Marcello Mondazzi, dal titolo “Nihil est ovo”: all’imponenza  si aggiunge il suo contrario, una certa fragilità con un senso di vuoto interno che si ha guardandolo. L’espressione del titolo vaga e allusiva, “non c’è ragione all’uovo”, era scritta in un cartiglio a Villa d’Este di Tivoli, nel cui giardino fu presentato in  una mostra del 2006, poi portato nel giardino della Raccolta Manzù ad Ardea nel 2007, per approdare al Giardino delle fontane della Gnam nel 2008, l’anno di realizzazione della scultura della Catania, ora collocata, “Libri in giallo”.  

E’ frutto di un lavoro particolare su un involucro plastico autoportante e permeabile alla luce, sottoposto a bruciature, combustioni ed alterazioni, fino a trasformarlo in altro, dalla pietra alla madreperla; non è rigido e duro come sembra, deve rendere la fragilità dell’uovo. Le irregolarità della superficie sono come pori su una pelle rugosa, che si attaglia all’uovo visto quale simbolo delle origini: dall’uovo nasce la vita, ricordiamo i dipinti di Vincenzo Maugeri, uno dei quali è stato riferito a D’Annunzio alla mostra dannunziana dello scorso agosto a Pescara, nel 150° dalla nascita.

Usciamo dai giardini dopo tante sollecitazioni naturalistiche e culturali. E stata indubbiamente una mattinata ben spesa, tra l’aria balsamica della vegetazione odorosa e gli stimoli creativi ed artistici. La nuova occasione ci sarà in primavera con le ninfee, sarà una mattinata anch’essa da non perdere.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Viale delle Belle Arti 131, Giardino delle fontane. Aperto al pubblico fino a domenica 17 novembre 2013, dalle 12 alle 16 salvo condizioni meteorologiche avverse. Cataloghi, da cui sono tratte le citazioni del testo, a cura di Marcella Cossu e Maria Giuseppina Di Monte, Palombi Editore, ottobre 2013, formato 15×21: Cloti Ricciardi, “Nel Giardino delle fontane”, pp. 72, e Lucilla Cafagna, “Nel Giardino delle fontane”, pp. 84.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Giardino delle fontane alla Gnam, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti, in particolare le artiste Cloti Ricciardi e Lucilla Cafagna, e anche Marcello Mordazzi, per l’opportunità offerta. In apertura,  Cloti Ricciardi, “Ipotesi grafica”; seguono, Lucilla Cafagna, “Libri in giallo“, 2008, e “Libro in giallo”, 2012,  poi  “Libri in giallo” e “Libro in giallo” di fronte nel vialetto,  e Marcello Mondazzi, “Uovo di struzzo. Nihil est ovo”, 2006; in chiusura, la vasca grande dove in primavera saranno poste le ninfee rose.

Arabia Saudita, archeologia, cultura e storia, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Ara Coeli, la mostra “Alla scoperta dell’Arabia Saudita. La terra del dialogo e della cultura”, dal 4 ottobre al 30 novembre 2013, fa scoprire il patrimonio archeologico, storico e culturale poco conosciuto  di un paese di cui è nota soprattutto  la rilevanza economica per essere il primo esportatore e detentore delle maggiori  riserve di petrolio e la rilevanza religiosa come culla dell’Islam e sede della Mecca, con un ruolo primario nella politica internazionale. La mostra, che si inquadra nelle celebrazioni per gli 80 anni di relazioni diplomatiche con l’Italia, è stata promossa dalla Commissione Saudita per il Turismo e le Antichità e curata dal suo vicepresidente Ali I. Al-Gabban, in collaborazione con la Reale Ambasciata Saudita; coordinamento generale di Alessandro Nicosia  presidente di “Comunicare Organizzando” che l’ha realizzata. Catalogo Gangemi Editore.

La citata Commissione Saudita, impegnata nella conservazione del patrimonio e nella promozione  culturale del Regno, ha curato l’esposizione degli oltre 150 reperti, manufatti e oggetti d’epoca  messi a disposizione insieme a immagini che documentano storia, costumi e cultura del paese, crocevia di tradizione e civilizzazioni  per la sua posizione geografica tra l’Oriente e l’Occidente.

I rapporti con Roma sono molto antichi, come risulta dalle monete, sculture e manufatti romani rinvenuti in territorio arabo e presentati nella mostra insieme ai reperti  in ordine cronologico sulle diverse fasi del percorso storico dal Paleolitico e  Neolitico all’età arcaica e all’età  classica  fino al Regno di Arabia Saudita proclamato nel 1932, dall’Arabia pre-islamica al periodo islamico.

E’ un percorso nel quale civiltà diverse si sono incontrate per il flusso di pellegrini verso la Mecca e gli scambi commerciali nel mercato di Okaz, nonché per la rete di trasporti e comunicazioni che ne ha favorito la diffusione e la successiva fusione in un’unica civiltà islamica rispettosa dei valori delle altre civiltà e religioni monoteiste preesistenti accomunate dal rito del pellegrinaggio, considerato il “quinto pilastro”. Il “quarto pilastro” è il patrimonio culturale, i primi “tre pilastri” sono quelli ricordati all’inizio,  cioè la rilevanza religiosa, economica e politica del Regno Saudita.

I rapporti con  paesi lontani,come Siria, Mesopotamia, Egitto e le altre civiltà del Mediterraneo risalgono al 5000 a. C., poi è venuta la  cosiddetta “economia delle oasi” e i grandi centri commerciali, ci sono ruderi degli antichi siti dedicati al commercio dell’incenso  e all’accoglienza dei pellegrini verso la Mecca.

I reperti archeologici e le altre testimonianze storiche

Abbiamo visitato la mostra con la prestigiosa guida del curatore Al I. Al-Ghabban che ha illustrato con toni appassionati e orgogliosi i vari momenti del percorso storico, culturale e artistico del paese.

Si inizia con i reperti più antichi, si pensi che sono state trovate prove della presenza dell’uomo un milione e duecentomila anni fa. Aprono la mostra tre spettacolari monoliti e la documentazione fotografica delle pitture rupestri con aspetti della vita quotidiana nella preistoria;  i siti sauditi sono tra i più ricchi al mondo di queste testimonianze primordiali. Anche nella scrittura il curatore rivendica agli arabi un primato, in una vetrina un’antichissima scrittura alfabetica prima dei fenici.

Dopo le civiltà preistoriche e l’arte rupestre, le prime civiltà e i primi alfabeti, poi gli antichi regni arabi, da quelli iniziali ai regni intermedi  ai tardi regni arabi: la mostra si articola in queste sezioni.

Tra i reperti del periodo iniziale sotto il regno di Madian vediamo delle ceramiche con decorazione geometrica e delle iscrizioni in geroglifici del XIII secolo a. C.

La via dei commerci è stato il fattore determinante degli scambi interarabi e tra Oriente ed Occidente con le carovane che richiedevano stazioni di ristoro, alloggio e protezione con tutto quanto queste attività comportavano. A questa si collega la via dei pellegrinaggi  dall’Egitto e dallo Yemen, dalla Siria e dall’Oriente islamico, come la strada di Zubaidah del VII secolo d. C., in uno dei maggiori siti islamici  da cui si sono ottenute importanti informazioni sull’architettura e l’organizzazione sociale, realizzatore il califfo abbasside Hàrùn el-Rashid con la moglie Zubaidah.

Del periodo intermedio ci sono immagini fotografiche del sito archeologico della città di Taimà, che era circondata da un muro di cinta di 11 Km, vi sono stati impegnati archeologi sauditi e tedeschi: era la capitale dell’impero babilonese nel regno di Nabonide, tra il VI e il VII secolo a:C.  Poi viene evocata l’oasi di Dumat Al-Jandal, in antichità Adummatu, sulla via di collegamento di Taima con Babilonia.

Ancora, in successione, Qaryat  al-Faw, città carovaniera dell’Arabia centrale, non solo foto delle rovine ma anche un prezioso pannello dipinto e soprattutto lo spettacolare Ercole saudita; fu rinvenuto ai limiti di un deserto arabo, e attesta i segni della cultura e civiltà mediterranea.

Poi Najran, stazione sulla via delle spezie e dell’incenso, sito del quale è esposto un gran numero di reperti scultorei in bronzo e alabastro, statuette e teste scolpite di eccezionale fattura, una serie di monete romane in rame rinvenute nel sito attestano i rapporti tra le due culture e civiltà. Oltre a questi materiali duri abbiamo anche busti e statue a figura intera in arenaria del V-III secolo a. C.

Ma ecco le immagini di Mada’ in Saleh, avamposto del regno dei Nabatei sulla via dell’incenso, il grande pannello fotografico ne attesta la grandiosità; è patrimonio dell’Unesco dal 2008, capitale della parte meridionale, a nord c’è Petra con la quale divide lo stile e il fascino delle altissime facciate scolpite in un unico blocco di 40 metri; è  del 300 a C.-106 d. C., forse il sito archeologico più ricco al mondo, un mix di culture, di per sé  un appello permanente al dialogo interculturale.

Nello stesso 2008 è entrata nella lista dell’Unesco Adder’iah, la capitale storica dopo l’unificazione della penisola araba nel primo Stato saudita, 1744-1818, una delle più grandi città esempio di architettura desertica in fango e pietra.

Un altro sito eccezionale è quello al nord, tra le dune di sabbia di Annufud,, vicino alla città di Giubbah, che risale al 7000 a. C., dove sono state rinvenute incisioni rupestri, è stata chiesta l’iscrizione nel patrimonio dell’umanità dell’Unesco. 

Una importante citazione dei siti archeologici  riguarda il villaggio di Fao, del 300-400 a. C., scoperto alcuni anni fa da archeologi sauditi; una scoperta importante perché ha consentito una nuova valutazione di rovine arabe preislamiche  dell’epoca del Regno di Chinda, cui appartiene il grande edificio con decorazioni in bronzo, sculture bronzee e una rara  collezione di dipinti.  E’ un’altra prova dello sviluppo di città arabe nelle vie commerciali dallo Yemen alla penisola arabica. 

Con il periodo tardo cronologicamente si entra nell’era cristiana, i reperti esposti sono dal I al III secolo d.C.: vediamo vassoi e ciotole,brocche  e vasi in ceramica dipinta più una maschera in pietra di fattura primordiale; mentre una coppa e un’anfora di vetro in stile fenicio sono  riccamente decorati:  l’anfora ha un fondo  blu cobalto con sovrapposti motivi geometrici policromi.

Facendo un salto in avanti nel tempo, tra l’VIII e il XII sec. d. C. le ceramiche dipinte si moltiplicano, nelle più varie forme e fatture; tra le tante esposte ha colpito la nostra attenzione soprattutto  un vaso in ceramica dipinta  con la parte superiore verde e l’interno invetriato in blu cobalto; di quest’ultimo colore le decorazioni di un piatto in  ceramica dipinta su tre piedi. Più oltre vediamo delle stele funerarie spettacolari per le iscrizioni che le ricoprono, alcune del  XVI sec. d. C., e una lastra di marmo di fondazione, mentre sullo sfondo una ripresa fotografica mostra la Fortezza di Al Zuraib ad Al-Wajk, perfettamente conservata, sulla via dei pellegrinaggi dall’Egitto.

L’apertura al mondo e la sensibilizzazione sul patrimonio culturale saudita

Il curatore in uno sfogo appassionato dice che come l’Egitto è il dono del Nilo così l’Arabia Saudita è il dono di un territorio aperto agli scambi per la sua ubicazione, ricco non solo di petrolio ma di oro e pietre preziose, spezie, nonché di antiche tradizioni, arte e cultura.

Anfore, piatti e vassoi in argento, insieme a statue, teste e busti e oggetti molto ricercati, tutto esposto in mostra, testimoniano l’arte di allora.

L’Arabia islamica diede luogo alla  diffusione di una nuova cultura nel mondo in contatto con le altre grandi culture, da quella cinese a quella egizia e oltre, si pensi all’estensione del dominio ottomano.  Le iscrizioni su stele e quelle rupestri come i  manoscritti e i dipinti attestano che molti abitanti sapevano leggere e scrivere, e che la lingua araba era già diffusa anche prima del Corano che fu scritto in questa lingua.  Il curatore ci tiene a sottolinearlo.

Il percorso termina con oggetti e articoli che evocano l’ospitalità dei sauditi, dai profumi al caffè arabo con la relativa caffettiera di forma particolare.

La  nostra prestigiosa guida è stata prodiga di riferimenti storici e culturali, come curatore ci ha fatto seguire il filo rosso che collega i diversi momenti della mostra, sempre con tono appassionato. E’ stato un interprete autentico e credibile del messaggio lanciato dall’esposizione perché l’Arabia Saudita sia considerata non solo terra del petrolio ma soprattutto “terra del dialogo e della cultura”.

In questo spirito, il Decreto reale del 2008 per la tutela dei siti archeologici islamici nel paese ha attivato efficaci procedure di mantenimento e conservazione; inoltre è stato implementato dalle istituzioni preposte, Ministero competente e Istituto del Patrimonio, il “Programma nazionale per il mantenimento delle Moschee antiche”. Nel maggio 2010 la Commissione per il Turismo e le Antichità ha organizzato la 1^ Conferenza Internazionale del Patrimonio Architettonico negli Stati Islamici con la partecipazione di 40 paesi e organizzazioni  e un centinaio di specialisti e oratori.

E’ seguita nel  luglio dello stesso 2010 la prima di una serie di mostre delle antichità saudite all’interno e all’estero: l’inizio non poteva essere più prestigioso, si è svolta al Louvre, quattro mesi dopo, nel novembre, a Barcellona; un anno dopo la prima mostra al Louvre , nel maggio 2011, mostra nell’altrettanto celebre Hermitage di San Pietroburgo, poi nel 2912 al Museo Pergamo di Berlino e negli Stati Uniti allo Smithsonian Museum di Washington e al Carnegie Museum di Pittsburgh; nel 2013 quella attuale al Vittoriano di Roma e poi in altri musei nel mondo.

La tutela del patrimonio archeologico e la valorizzazione anche mediante le mostre su scala mondiale è accompagnata da un’educazione culturale all’interno con notevole impiego di risorse per sensibilizzare  soprattutto i giovani al valore del patrimonio dell’antichità e all’ orgoglio che ne deriva su cui si fonda  l’identità nazionale,  lo abbiamo visto esprimersi nel curatore Al Ghabban. A questo fine si fa leva anche sul coinvolgimento delle comunità locali che potrà inoltre  ravvivare l’interesse verso i  mestieri tradizionali che fanno parte del patrimonio culturale del paese.

Viene annunciata anche la costruzione di un Museo per il Sacro Corano a Medina e l’istituzione di nuovi musei  e centri culturali nelle varie provincie in edifici storici pubblici. E non basta, in molte zone del paese vengono attuati programmi di riqualificazione dei centri storici, villaggi e mercati tradizionali e i privati ricevono sostegni finanziari per il restauro di edifici tradizionali.

Ricordare queste iniziative nel raccontare la visita alle opere esposte non è andare fuori tema, perché la mostra è una strumento di conoscenza e diffusione nel mondo di questa nuova consapevolezza sull’importanza della tutela e valorizzazione dei beni culturali di un paese di grande rilevanza internazionale come l’Arabia Saudita. 

L’Italia è impegnata dal 2009 in una missione archeologica nel sito di Dumat al-Jandal, Adummatu, nella provincia di al-Jawf , prima citato,  in forza di un accordo di cooperazione con la Commissione saudita promotrice della mostra;  vi partecipa l’università “L’Orientale” di Napoli; dal 2010 è entrato nell’accordo il Centro nazionale per la ricerca scientifica francese.  

E’ una delle  occasioni di feconde collaborazioni che potranno crearsi  nel settore dei beni culturali, da sempre così importante per il nostro paese, ma forse troppo trascurato  mentre l’Arabia Saudita, che ne ha scoperto di recente il valore, è lanciata in un programma di tutela e valorizzazione a tutto campo. Ci attendiamo ulteriori manifestazioni e risultati da questo notevole impegno.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, p.azza Ara Coeli sala Gipsoteca. Tutti i giorni, compresi domenica e lunedì. Lunedì-giovedì ore 9,30-18,30, venerdì-domenica 9,30-19,30; accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; www.comunicareorganizzando.it  Catalogo: “Alla scoperta dell’Arabia Saudita. La terra del dialogo e della cultura”, della Commissione scientifica per il Turismo e le Antichità, Gangemi Editore,  novembre 2013, pp.160, formato 24,5×30.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra. Si ringraziano “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e la Commissione Saudita per il Turismo e le Antichitànella persona del suo vicepresidente Ali I. Al-Gabban, con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura Statua a figura intera, V-II sec. a.C, seguono Incisioni rupestri a Jabal Um, Sanman e Al-Shwaimis, e Pannello in marmo-alabastro del I sec. a.C., poi Testa scolpita con Statua a figiura intera in arenaria, V-II sec. a. C. e Stele funeraria in basalto con iscrizioni, X-XII sec. d. C e Statua di Ercole  del sito di Al.Faw; in chiusura il sito di Mada’ in Saleh.

Crocetti. Il ‘900 e il senso dell’Antico, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

“Venanzo Crocetti. Il sentimento dell’Antico, l’eleganza del Novecento” in  mostra a Roma a Palazzo Venezia dal 2 settembre  al 20 ottobre 2013.  A cura di Paola Goretti e Raffaella Morselli, in sale trasformate in un tempio classico con un allestimento  nel quale sono state inserite  in modo armonioso le 85 scultureselezionate nella sua vasta produzione la cui esposizione permanente è nel Museo della Fondazione Crocetti in via Cassia a Roma. Tre  sezioni: “Elegantiae” la  raffinatezza del classicismo, “Etternale ardore” la tragicità dell’epica, “Clementiae” il lessico rusticano. La mostra  apre e chiude con il sacro, il Crocifisso e il bozzetto del Portale della Basilica di San Pietro

L’allestimento della mostra a Palazzo Venezia

E’ un “presente senza tempo”  quello delle sculture di Crocetti, ben definito dal titolo della mostra, perché nell’elegante modernità del Novecento c’è tutto il sentimento dell’Antico nelle espressioni di cui alle tre sezioni. Le ballerine e le modelle, le teste e i busti della sezione “Elegantiae” rimandano alla raffinatezza classica; le Maddalene e i rapimenti, le fughe e gli incendi, le lotte animali  della sezione “Etternale ardore”  al tragico dell’epica, i pescatori e bagnanti, gli animali del mondo contadino  della sezione “Clementiae”  al lessico rusticano.  Grandi statue di bronzo in cui il tocco dell’artista è leggero, sono monumenti che esprimono sensazioni intense, dalla grazia alla forza.

Come è possibile tutto questo? L’artista di cui si celebra il centenario dalla nascita avvenuta nel 1913 ha avuto un costante dialogo con l’antico pur collocato saldamente nel ‘900 in cui si è posto da protagonista tra gli scultori. Questo richiamandosi ai mitici Donatello e Niccolò dell’Arca, e anche a Marini, Antelami e Poussin, nonché più in generale agli spunti italici e mediterranei fino a greci ed etruschi, egizi e piceni.  Le sue composizioni hanno un forte senso plastico, una solidità radicata nella profonda ispirazione che non ha mai mostrato nel corso dei decenni  alcun cedimento alle suggestioni delle avanguardie e della contemporaneità nazionali e internazionali.

Nelle grandi sale al piano nobile di Palazzo Venezia, la Sala Regia, la Sala delle Battaglie e la Sala del Mappamondo, il curatore dell’allestimento Cesare Mari ha realizzato un colonnato armonioso,  riproducendo un porticato classico il cui candore lo rende quasi evanescente, per un richiamo al “presente senza tempo”: si è parlato di grecità e anche di elegia perché Mari è riuscito a creare un clima e un‘atmosfera di indicibile fascino senza prevaricare con l’allestimento le opere collocate all’interno del colonnato, che invece vedono valorizzata la loro classicità e imponenza. 

Tutto è avvolto in una penombra che dà il senso del tempo e del mistero, con l’illuminazione di Giuseppe Mestrangelo volta a riprodurre i percorsi ipotetici della luce naturale più conformi all’idea dell’artista, scavando nelle pieghe della materia, nelle sue rotondità e negli spigoli, evidenziandone la forza espressiva. Completa l’immersione nel mondo di Crocetti un sistema di proiezioni nell’alto delle pareti delle sale, di Mario Flandoli, con i pensieri dell’artista  tratti da diari inediti e immagini della sua opera scultorea. Ricordiamo al riguardo che al Museo della Fondazione Crocetti c’è il suo studio di scultore, diremo alla fine perchè è bene visitarlo dopo aver ammirato le 85 opere della mostra di Palazzo Venezia, c’è ancora tutto il suo mondo.

Nell’arte l’orgogliosa reazione a un’infanzia sfortunata

Nel commentare la mostra celebrativa del centenario del Maestro, riteniamo di aderire meglio al suo spirito ricordandone la vita e le opere senza limitarci alla descrizione delle opere esposte.

Ricordiamo subito che la sua prima esposizione avvenne nel 1930 a 17 anni, innumerevoli i premi conseguiti, le partecipazioni  alle Quadriennali di Roma e alle Biennali di Venezia dove la sua fu una presenza costante; ebbe presidenze e  cattedre di scultura nelle grandi Accademie nazionali nonostante avesse un temperamento schivo. Tutto questo si può vedere quasi a compensazione dei colpi della sorte subiti  dall’età infantile: orfano di madre a dieci anni, due anni dopo perdette anche il padre  e fu affidato allo zio paterno,che faceva il  muratore a Portorecanati.

Ebbe la forza di volontà di reagire all’avverso destino con un orgoglio e una determinazione a sostegno di un talento innato. Ha scritto  Carlo Ludovico Ragghianti: “Non si riscontrano nella formazione e nel percorso di Crocetti dibattiti o crisi. Una spontaneità felice, oltre ogni difficoltà e talvolta divieto di vita specie nella prima età, ha presieduto alle origini artistiche dello scultore, chiaramente un predestinato che fin dalla pubertà ha inseguito con tensione ininterrotta, e si direbbe con serenità, la finalità scoperta fin dalla vocazione”. L’arte, dunque, come rivincita sulla vita.

A Teramo, dal “Giovane Cavaliere della Pace” al “Monumento ai Caduti”

Ricordiamo che nella sua proiezione all’esterno ebbe il decisivo appoggio di Antonio Tancredi, scomparso nel maggio 2012, un mecenate moderno con la Banca di Teramo di cui era presidente, oltre che mediante la Fondazione Crocetti  di cui da vice presidente Tancredi divenne presidente alla morte dello scultore.  Un sodalizio altamente proficuo, che ha portato anche a molte reiterazioni di opere accrescendone così la fruibilità e diffusione; ne rimane un segno permanente nella terrazza della Banca di Teramo con la “Piccola Loggia dei Lanzi”, un’esposizione permanente a cielo aperto di sue opere particolarmente significative, le modelle e le ballerine in diverse pose e atteggiamenti,  gli animali fino a raggiungere il culmine nel “Giovane Cavaliere della Pace”.

E’ l’opera che per il suo valore altamente simbolico è stata esposta, oltre che in molte grandi città nel mondo, all’Ermitage di San Pietroburgo e al Tretiacov di Mosca, al Parlamento europeo di Strasburgo e al Palazzo dell’ONU di New York, fino al Museo di arte contemporanea di Hiroshima: li abbiamo citati in un crescendo legato al più alto valore civile rappresentato in modo magistrale, la pace e la gioventù per il futuro. 

Della grande statua che ha girato il mondo vi sono diverse incarnazioni stabili, dal Museo della Fondazione Crocetti al  “Monumento ai Caduti di tutte le Guerre” a Teramo – che è la sua città, essendo nato a Giulianova sul litorale teramano – dove spicca all’interno della grande composizione celebrativa; oltre che nella  “Piccola Loggia dei Lanzi” prima citata, con un serto d’alloro sul capo del Giovane Cavaliere, assente negli altri esemplari altrettanto monumentali. Nel “Monumento ai Caduti”, il Giovane Cavaliere  è la figura serena e proiettata nel futuro posta al centro di imponenti sculture svettanti, tutte di ben quattro metri, che esprimono il sacrificio dei “Caduti della Terra”, i “Caduti del Mare”, i “Caduti del Cielo” con le loro forme allungate in modo estremo, nervose e scavate, protese nel momento supremo dell’eroismo. Un Mausoleo altamente simbolico,  la rappresentazione epica è coronata dai tigli con la catena del Gran Sasso sullo sfondo; vi si svolge l’annuale omaggio delle autorità cittadine ai Caduti il 4 novembre, nell’anniversario della Vittoria.

La vita torna prorompente nella “Maternità”, altra statua all’aperto sempre a Teramo in piazza Orsini dinanzi al Municipio, un angolo raccolto tra il Duomo e il Vescovado: una madre splendida nella sua nudità solleva un bambino vestito, la sua è una seduzione  naturale  nel ritorno alle origini.  Mentre nel portale sul retro del Duomo, nella centralissima Piazza Martiri della Libertà, il suo bassorilievo  dell’“Annunciazione”, che si staglia sulla scalinata dove si affollano i giovani universitari, l’ultima opera incompiuta, completata dalla colomba di Silvio Mastrodascio, venuto dalla montagna abruzzese di Cerqueto, come Crocetti proviene dal marina di Giulianova.

Tornando alla “Piccola Loggia dei Lanzi” teramana, ricordiamo le parole che ci disse nel 2009 Antonio Tancredi, il realizzatore di questo  Museo a cielo aperto nella Banca di Teramo di cui è stato storico presidente, come lo è stato della Fondazione Crocetti:  “I contenuti umani delle sue opere sono universali, come la passione e l’amore, la gioia e il dolore, la contemplazione illuminata e l’esaltazione della vita”. E lo precisò così: “Alcune esprimono lo smarrimento e l’umiltà e altre l’eleganza e la forza e altre ancora la dolcezza e la prepotenza. In tutte le figure sono impressi i modi di essere dei sentimenti e delle interiorità che si incontrano nel mondo”.  La profondità di questi contenuti viene da un “‘monaco della scultura’, che in tutta la sua vita ha sempre cercato il lavoro, in silenzio e solitudine. Un artista che non conosce pause per feste o per ferie, che non ammette distrazioni, neanche le più lecite, perché queste opere sono la sua famiglia, i suoi figli, tutto il suo mondo”.  

Raffaella Morselli, curatrice della mostra con Paola Goretti, lo descrive così: “Non cercava il lancio professionale, il mercato, il gallerista che lo accompagnasse in un percorso di autopromozione, ma era sufficiente a se stesso e alla sua arte”. ‘

Le opere in mostra a Palazzo Venezia

Nel guardare la vetrina rappresentata dalla mostra, passiamo dalle parole del mecenate suo sodale per una vita, alle analisi critiche della sua scultura improntata alla classicità, dove l’eleganza del ‘900 si associa al senso dell’Antico con il realismo reso dalla compostezza unita al realismo, la plasticità coniugata all’astrazione.  I giudizi che riportiamo si riferiscono alle opere esposte nelle tre sezioni, secondo il diverso grado di tensione accordato ai contenuti che abbiamo prima riassunto.

Secondo Enzo Carli, “conferisce ai suoi ritratti… una tensione psichica, o un moto fisico o, meglio, fisionomico che sommuova la compostezza – non, si intenda, la freddezza o l’immobilità – dei loro lineamenti”. Per  Floriano De Santi “è classica l’arte che compendia nella rappresentazione della forma una concezione globale del mondo, un’esperienza storica dello spazio e del tempo, del naturale e dell’umano, di cui si concede che mutino secondo i momenti e i luoghi, gli aspetti contingenti, ma non la sostanza o la struttura, cioè la storia intesa come coscienza del valore e ordine degli eventi”.  

Per lo più sono figure umane, ballerine e modelle, bagnanti e donne comuni, che colpiscono per la calma e l’equilibrio, in una dimensione monumentale che sovrasta la statura comune, spesso oltre due metri e mezzo, nella ricerca di classicità pur nell’approccio moderno alla scultura.  Altro segno di classicità la bellezza muliebre vista come nell’antichità classica e nel Rinascimento, dove la  sensualità naturale è tradotta in nudi che esprimono un’innocenza primigenia da paradiso terrestre.

E’ il tema prevalente della prima sezione della mostra, “Elegantiae” con esposte molte di tali figure, allieve  di danza e modelle, donne e fanciulle,  alcune di notevoli dimensioni, ben più che grandezza naturale, con il bronzo che ne accresce l’imponenza. La curatrice  Paola Goretti le definisce “icone di fierezza quasi inavvicinabili, come divinità del tempio desunte dalla statuaria egizia. Paradossalmente, stanziali più che mai. Dall’alto del loro gesto,scrutano pensose, immerse nel colloquio intimo con lo spazio che vibra attorno”.

Citiamo le tre monumentali “Grande allieva di danza” in diverse posizioni, tra lo statuario e il leggiadro, sono del 1972, ’77 e ’92, del 1959 un’“Allieva di danza in riposo” e del 1960 un busto di “Allieva di danza”; più recenti l’“Equilibrio armonico di una ballerina”,1990, preceduto dall’“Omaggio alla lontana splendida danzatrice di Olimpia”, 1998, che non poteva mancare in questa mostra; e  poi tante “Ballerine” dove l’imponenza statuaria si unisce al dinamismo, come se i quadri di Degas prendessero forma roteando i loro corpi, mentre le vesti tagliano l’aria in uno slancio di vita.  Di tema affine “La modella” del 1964, poi la “Modella in riposo”, 1966, e “Modella che si spoglia”, 1976. La grazia muliebre è rappresentata anche in soggetti comuni come “Ragazza seduta”, 1946, o mitici come “Sibilla”, 1998;  in “Ritratto di ragazza”, 1949, e  “Ritratto di donna”, 1968, entrambe con la testa pensierosa appoggiata alla mano; in “Fanciulla con le trecce”, 1957, e  “Ragazza con le trecce”, 1991.

Spesso lo stesso soggetto viene interpretato in modi diversi in un vasto arco temporale, segno che non si tratta di ispirazioni passeggere, ma di motivi permanenti nell’assoluta coerenza stilistica.

Non vi sono solo statue monumentali e comunque imponenti, anche una galleria di busti e teste, dal 1940 al ’65: molte “Teste di donna”,  ma anche “Teste di uomo” , “Testa di bambino con cappello”  e “Testa di bambina con cappello” cui associamo la “Donna che guarda la luna”, 1956, dai capelli coperti e lo sguardo sognante, fino al busto di “Gabriele d’Annunzio” del 1940, due anni dopo la morte del Poeta. Sono esposte anche piccole composizioni che rispetto alle altre sembrano miniature, come  “Le lavandaie”, 1937, e i due “Balletto antico”, 1940, in  25 centimetri c’è leggiadria e movimento, grazia e sensualità.

Per Fortunato Bellonzi è la “femminilità che sopporta il peso del proprio fiore”, la “carne che già dimette le promesse acerbe, e che pare liberarsi della veste come di una costrizione”. Inoltre “negli atti dei volti e delle membra dominano una compostezza austera, che attribuiresti al sentimento di un destino oscuro e vagamente minaccioso, e un riconoscimento costante della creatura e del suo vitalismo prorompente negli anni giovani “. E’ la sintesi tra classicità e realismo voluta dal Maestro.

Nella seconda sezione, ‘“Etternale ardore” – titolo preso dal XIV Canto dell’Inferno, verso 37 -si esprime in opere tormentate. “In esse, commenta la Goretti, affiora tutta l’anima del dolore, del pianto antico, delle lamentationes; in un dosaggio di diminuzione dei toni elegiaci, verso tinte dell’ombra. Il trattamento rimane composto, ma in alcune soluzioni di estrema concitazione si organizza in masse informi abitate da grida stranianti”.

Così “Maddalena” o “Maria di Magdala”  nelle diverse espressioni, dal 1956 al ‘73-76, fino all’85, cui corrispondono positure diverse: eretta si tiene la testa nella tempesta o ha la testa piegata, è  accovacciata o piegata in due, perfino in ginocchio. Rivela una vitalità sofferta, raccolta e pronta a scattare come le fiere ferite, scarmigliata al pari di un’Erinni, in un concentrato di angoscia, sofferenza, disperazione, l’opposto delle allieve di danza e modelle della prima sezione.

La sofferenza è anche negli animali, che Crocetti definiva “maestri di vita”  perché i loro movimenti istintivi rivelano quelli naturali,  nell’uomo nascosti dalle convenzioni, a parte quelli nell’età infantile e nella tarda età dove torna l’istinto.  Espressioni sofferte in “La gazzella ferita”, 1933,  e “La caduta del cavallo”, 1975, mentre la violenza si esprime nella “Lotta di cavalli”, 1940,  e “Lotta di animali”, 1968; la nobiltà animale in “Cavallo che si abbevera”, 1965, e nella “Leonessa”, 1936; l’azione predatrice in “Leonessa con il serpente”, 1935, e  “Leonessa  con la preda”, 1960.

C’è anche la sofferenza umana dinanzi a eventi catastrofici, come “L’incendio”, “Terremoto” e “Il ratto”, sculture di piccole dimensioni del 1945, la prima una sorta di “Nike” sofferente, le altre due contorte e intrecciate come dei “Laocoonti”  moderni. 

L'”etternale ardore” si esprime inoltre nella tensione degli spettatori in vario modo assorti in “Loggione”, 1939, e nella tensione mistica di “Giacobbe e l’angelo”, 1955, fino alla tensione vitale di “Scene di vita”, 1932, e alla tensione che si scarica nella sosta di “L’uomo appoggiato ad un tronco”, 1937.

Siamo alla terza sezione, “Clementiae”,  rimanda a immagini popolaresche rimaste impresse nella sua mente, che sono state lo spunto anche di una vastissima serie di disegni a carboncino molto densi ed espressivi. La Goretti le riassume nelle parole “Ruralia, Animalia, Rusticalia. Questo è il Crocetti più flessuoso e pacificato, disteso nella gloria di un mezzogiorno contadino mosso da antica grecità… tornano a galla i resti di un mondo agreste , accogliendo il Virgilio delle Georgiche e delle Bucoliche  e la sua arcadia elementare, risolta nelle cifre della modernità”.

Figure non statiche, per lo più di grandi dimensioni: dalle più antiche statue degli anni ’30 “La gravida”, 1932, e “Fanciulla al fiume”,  1934,  “La portinaia”, stesso anno, e “Pescatorello”, 1935, “Zingara”, 1937; a quelle dei decenni successivi,  da “Bagnante”, 1948, a  “Ragazza al fiume che saluta”, 1969 e “Bagnante con cappello che si asciuga”, 1981. Sono vere e proprie istantanee scultoree di persone singole,  che esprimono dinamismo nella posizione, eretta o piegata in vario modo. Tra le più antiche c’è l’unica composizione con più figure, “La vendita della vacca”, 1932, un piccolo bronzo che fissa in modo realistico il  momento dell’accordo al mercato.

Alla galleria umana segue quella animale, questa volta non sono le fiere dell’ “etternale ardore”, ma piccoli animali da cortile, come “La gallina”, 1931, e “Il gallo”, 1961, e grandi animali del mondo contadino come “Vitellino”, 1937, e “La mucca”, 1938: il pensiero va  a “T’amo, pio bove, e mite un sentimento di vigore e di pace al cor m’infondi…”, lo vediamo “solenne come un monumento”.

La conclusione, che è forse il “clou” della mostra, oltre ai due  marmi senza data, “Maternità” e “Iside”- eccezioni rimarchevoli tra la generalità delle opere in bronzo – è l’epopea del cavallo. Lo abbiamo visto nella sezione precedente mentre si abbevera, cade o è in lotta; qui lo vediamo con il cavaliere in composizioni di varie dimensioni, dalle più piccole di 40 cm, “Cavalieri che si salutano”, 1969, e “Cavallo e cavaliere”, 1970, alle due più grandi dallo stesso titolo “Cavallo e cavaliere”: quella del 1967 di oltre un metro e 30, e quella del 1972 di un metro.  Sono immagini nervose con dinamismo represso. Non poteva mancare il “Giovane Cavaliere della Pace”, di cui abbiamo già parlato, è esposta una versione piccola, poco più di 90 cm, del 1987, che ha il serto in testa, come nella versione monumentale alla “Piccola Loggia dei Lanzi” della Banca di Teramo.

Per Ragghianti,  “Crocetti nella composizione di figure, negli animali e specie nei cavalli infondeva un fluido continuo e incalzante, la strofe plastica si diramava come un organismo accelerato dal moto e ritmato dal respiro, e così mosso destinato a serbare per sempre l’originaria pulsante dinamica”. Anche il cavallo del “Giovane Cavaliere della Pace” esprime vitalità con il muso mentre bruca il terreno, che si coniuga alla serenità del giovane chinato ad accarezzargli il collo in una composizione di grande compostezza che anche per questo è assurta a simbolo universale.

Su quest’opera-simbolo aggiungiamo una notazione personale. Il serto sul capo nel piccolo esemplare in mostra e nella versione monumentale nella “Piccola Loggia dei Lanzi” a Teramo, simile a quello sulla testa di “Bacco”, 1956, e di “La fruttivendola”, 1978, è un motivo che ritorna. Ma nel Giovane Cavaliere incorona un viso con gli occhi accesi, non è una variante ornamentale, fa ripensare al giovane protagonista del film “L’attimo fuggente” nelle intense e drammatiche sequenze  della rappresentazione teatrale che ne fa anche un simbolo delle passioni giovanili con le inquietudini che agitano e l’aspirazione alla pace, dinanzi alla tragedia sempre incombente.

Questa spontanea associazione di idee e di sentimenti riporta il Giovane Cavaliere ad una dimensione personale e interiore, mentre la versione che ha girato il  mondo ed è stata esposta a San Pietroburgo e a Hiroshima, davanti al Parlamento europeo e al Palazzo delle Nazioni ha proiettato nei luoghi simbolo l’immagine forte dell’aspirazione universale alla pace.

A Roma la “Porta dei Sacramenti” di San Pietro e lo Studio dell’artista

Il “Giovane Cavaliere della Pace”  lo pone, dunque,  al culmine nella espressione simbolica della sua opera in una dimensione laica, mentre la “Porta dei Sacramenti” della Basilica di San Pietro, il cui bozzetto è esposto a coronamento della mostra di Palazzo Venezia, è il culmine della sua dimensione sacrale: sono 8 pannelli separati, li collega il profondo legame  tra la figura ieratica del celebrante e la posizione dimessa del penitente che vibra dell’emozione dinanzi al divino. C’è anche la grande “Croce della Passione”, 1954, a completare  idealmente il percorso sacro della sua opera.

Con questi altissimi messaggi  l’artista ha nobilitato la scultura come espressione dei valori più alti, personali e collettivi, e dal carattere  schivo è assurto a portavoce di sentimenti universali.

Abbiamo detto all’inizio che dopo aver visto la mostra vale la pena di andare a visitare lo Studio dell’artista alla sede della Fondazione Crocetti sulla via Cassia, nella zona della Tomba di Nerone  dove si trova il Museo che realizzò lui stesso con grande impegno personale e preveggenza. La Morselli rivela che ha disposto persino, nella pur improbabile ipotesi che la Fondazione finisse, di disseminare nel mondo le tante opere che vi sono raccolte collocandone una in ogni grande museo.

Il portone d’ingresso, in patina dorata  come la “Porta dei Sacramenti”, è  un bassorilievo con figure al lavoro che recano i segni della fatica umana in un’agitazione febbrile. Ci sono cinque vaste sale su due piani, l’esposizione permanente delle sue opere sembra una foresta incantata ma non pietrificata, tanto è il dinamismo e la vitalità, la serenità e la compostezza delle grandi figure bronzee che la popolano il cui calore supera la soggezione legata all’imponenza monumentale.

Dietro una grande vetrata  è offerto alla vista il suo studio come lo ha lasciato quasi ne fosse uscito momentaneamente, pronto a riprendere il lavoro, ci sono attrezzi e strumenti, bozzetti e disegni, pannelli e bassorilievi: come quello in gesso, al sommo di una scaletta, con “Angelo, la Madonna e il Bambino” in piedi, che sembra attendere solo la fusione finale per divenire opera compiuta, oltre ai bozzetti della “Porta dei Sacramenti”  e della “Croce della Passione”  in primo piano, a busti e statue disseminate per il vasto spazio dello studio. Si sente la creazione artistica nel suo manifestarsi mediante opere incompiute e abbozzate, poste con la casualità del quotidiano con le suppellettili e gli oggetti propri di ogni abitazione.

Abbiamo compiuto, partendo dalla mostra a Palazzo Venezia, un periplo nel percorso artistico di Venanzo Crocetti sul territorio dove si è espresso. Oltre alle opere esposte, su cui abbiamo riportato i giudizi dei critici, nel celebrare il centenario non potevamo omettere le opere che a Teramo sono  offerte permanentemente al pubblico:  la citazione d’obbligo per  la “Piccola Loggia dei Lanzi” della Banca di Teramo – creazione di Antonio Tancredi presidente della Banca e della Fondazione Crocetti – è andata al “Giovane Cavaliere della Pace” posto al centro come nel vicino “Monumento ai Caduti di tutte le Guerre”, fino alla “Maternità”  in Piazza Orsini e all’“Annunciazione” nel portale del Duomo.  Il bozzetto della “Porta dei Sacramenti” per il Portale di San Pietro, il culmine dell’espressione sacrale, ci ha riportati a Roma dove la visita al suo Studio d’artista nel Museo della Fondazione Crocetti  sulla via Cassia è una tappa obbligata che suscita autentica emozione.

E’  un percorso che viene spontaneo compiere dopo aver apprezzato l’esposizione della mostra nella quale le sue opere sono inserite in un contesto classico con il prestigioso allestimento del colonnato, creando un tempio popolato di statue monumentali. Nella terrazza della Banca, nelle piazze e nel Duomo di Teramo le sue creazioni sono inserite nella vita pulsante, come a Roma per il Portale di San Pietro. Anche il suo Studio d’artista fa parte di queste immersione nella  vita perché, come abbiamo detto, se ne sente la presenza quasi  se ne fosse allontanato momentaneamente.

E’ un modo di celebrarne il centenario che ci è parso appropriato rendendo il senso di vitalità espresso nelle sue opere, viste non solo nella solenne sede espositiva, ma anche “en plein air”, nella vita pulsante di cui segnano momenti toccanti per la compostezza e insieme la forza espressiva.

La curatrice Morselli,  ricordandone le radici abruzzesi, lo colloca “tra gli scultori che hanno vangato in profondità le pieghe della terra e hanno formulato, con il loro lavoro, nuovi ma sempre antichi postulati. Perché l’arte senza tempo ha bisogno di tempo per manifestarsi in tutto il suo splendore”.  La mostra di Palazzo Venezia nel centenario ne celebra la consacrazione che c’è già stata a livello internazionale: “Crocetti – è sempre la Morselli – deve stare nei campi elisi dove la provvidenza l’ha consegnato fin dalla sua infanzia disgraziata, eppoi stoica, illuminata, predestinata. La sua carriera è stata una lunga cavalcata”. Con umiltà ed emozione  ne abbiamo ripercorso alcuni momenti.  

Info

Palazzo Venezia, Roma, via del Plebiscito, 118. Tel. 06.69994388. Martedì-domenica ore 8,30-19,30,  la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 5, ridotto 2,50 cittadini UE età 18-25 anni e insegnanti di ruolo nelle scuole statali.  Catalogo: “Venanzo Crocetti e il sentimento dell’Antico. L’eleganza del Novecento”, a cura di Paola Goretti, introduzione di Raffaella Morselli, Allemandi & C. Editore, agosto 2013, pp. 156,  formato 16,5×24; segnaliamo, inoltre, i volumi: “Venanzo Crocetti”, di Enzo Carli, Accademia Nazionale di San Luca, 1979, pp. 264, e “Crocetti”, a cura di C.L. Ragghianti, E. Carli, F. Bellonzi,  1984, pp. 184; per le opere non scultoree  “Venanzo Crocetti. Disegni e incisioni”, con testi di Fortunato Bellonzi e Floriano De Santi, Editalia 1997, pp. 230. Dal Catalogo e da questi volumi sono tratte le citazioni del testo. Cfr. anche il nostro articolo “Il mondo di Venanzo Crocetti”, in “cultura.inabruzzo.it” il 2 febbraio 2009.

Foto

Le immagini dellle opere di Venanzo Crocetti sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra a Palazzo Venezia, si ringrazia la soprintendenza museale e l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Crocetti, per l’opportunità offerta; l’immagine dello Studio d’artista, in chiusura, è stata ripresa, sempre da Romano Maria Levante, al Museo della Fondazione Crocetti che si ringrazia anche per questa opportunità. In apertura, della sezione “Clementiae”, “Giovane Cavaliere della Pace”, 1987;  seguono, della sezione “Elegantiae”,  due riprese della sala, con in primo piano “Grande allieva di danza”, 1977,  e  “La modella”, 1964,  a sinistra, con “Sibilla”, 1998, a destra; poi “Omaggio alla splendida danzatrice di Olimpia”, 1998,  e “Modella in riposo”, 1966; “Ragazza seduta”, 1946, e uno scorcio panoramico della sala; quindi, della sezione “Etternale ardore”,   “Maddalena”,  1973, e “Terremoto”, 1945,   il “Bozzetto definitivo della porta di San Pietro”, 1958, e la “Croce della passione”, 1954; in chiusura una visione della sala di Palazzo Venezia con le sculture esposte nel colonnato dell’allestimento classico in una suggestiva penombra e una ripresa del suo Studio d’artista nel Museo della Fondazione Crocetti  a Roma in via Cassia 492.

Padiglione Italia, 2. Artisti contemporanei nel Lazio

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della visita alla mostra di Roma, a Palazzo Venezia, aperta dal 24 giugno al 22 settembre 2011, con le opere degli artisti della Regione Lazio del periodo 2000-2010, che hanno espresso la creatività contemporanea della regione, nel quadro del Padiglione Italia all’Arsenale di Venezia, che ha coinvolto tutte le regioni e tutti gli Istituti di cultura italiani all’estero. La manifestazione, curata da Vittorio Sgarbi per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, e organizzata da Arthemisia con l’apporto della Fondazione Roma Arte-Museiè stata innovativa: gli artisti selezionati da una Commissione di intellettuali e non dai critici d’arte.

Riprendiamo il racconto della visita dinanzi al quadro di impronta classica di Giovanni Tommasi Ferroni, che sembrava uscire dalla contemporaneità nella forma e nel contenuto:  l’“Aurora boreale a Roma” era un cocchio celeste con sopra le divinità, il cavallo ricordava quelli famosi di Paolo Uccello, l’Aurora ci richiamava la sua dea, Eos, e la sua eterna storia d’amore con Titone,  un rampollo della famiglia di Priamo che per sua intercessione ebbe da Giove l’immortalità, ma la dea dimenticò di chiedere per lui l’eterna giovinezza. Qui, però, il cocchio era affollato, mentre Eos, nella storia narrata dal romanzo spettacolare di Paolo Andreocci, “Eos e Titone”, sul proprio  cocchio era sempre sola, libera nei suoi amori.

Si affollavano i ricordi di quella appassionante lettura, mentre lo sguardo andava sul quadro vicino, dal titolo “Per quel che ricordo”, di Coralla Maiuri, un’immagine altrettanto serena e liliale: due grandi fiori dalla corolla azzurra e blu che fluttuavano nell’aria.

Una scultura  molto particolare ci riportava sulla terra, “Il mimo” di Mario De Luca, in pezzi di materia, ottone, rame e bronzo, tenuti da fili metallici, notevole il dinamismo reso dai materiali.

Altri ambienti, altre espressioni fotografiche della contemporaneità, di Michele Zara, “Corpo iniziale”,  due riprese di un viso intenso dipinto come una maschera, su fondo nero altrettanto intenso;  di Claudio Valenteun nudo erotico, “Sogno”; ben diverso da “Doppio sogno” di Barbara Salvucci, una sorta di tunnel lungo due metri fatto di spirale di ferro, che si allargava alle estremità. Vicino all’eccitante  sogno due paesaggi molto diversi, “Respiro” di Claudio Valenti, un figurativo con il verde della campagna fino all’orizzonte, e “Transito” di Franco Viola, tre livelli cromatici molto netti, giallo, rosso arancio e blu, molto netto ed efficace.

Mentre il “doppio sogno” rimandava a certi incubi notturni, anche se il tunnel non era opprimente essendo la spirale aperta tutt’intorno, non si aveva tale l’impressione dinanzi al grande albero intitolato “Senza ombra di dubbio”, di Teresa Emanuele, in tecnica varia. Fosse stato o meno l’albero della vita, nella sua centralità da protagonista ci ha ricordato l’albero del film “Alamo” , che John Wayne additava alla donna ammirandone l’imponenza, la notte prima della battaglia in cui è destinato a soccombere con gli eroici difensori del forte americano assediato dalle forze preponderanti messicane. Un parallelo personale il nostro, il quadro evocava  i tanti alberi scolpiti nella memoria o immortalati dall’arte, ricordiamo le stilizzazioni progressive di Mondrian. Molto indovinato metterci vicino “Il folle volo” di Stefano Piali, diversissimo in tutto, essendo un grande cerchio in resina e bronzo, ma altrettanto poetico nell’ispirazione e nella fattura  che delineava in modo appena percettibile le sembianze di Icaro.

Da questa visione poetica alla rude realtà il passo era breve, l’immagine del volto di bimba in bianco e nero con una corona di spine e la scritta “sinite parvulos venire ad me”, “I’m raped”  il drammatico titolo, autore Guido Fabrizi.  Edificante, invece, nel titolo, “Fede, speranza, carità”, posto a lato, ma le tre immagini di Lara De Angelis contorte e dai colori violenti esprimevano esse stesse sofferenza. Altro tipo di violenza nelle immagini fotografiche ravvicinate di un doppio Tyson, proposto da Stefano Mezzaromacon il titolo “Don’t look at me”. come diverse le delicate “Monocromie di ritmi viola” di Renata Rampazzi e “Silenzi” che Mario Moretti esprimeva in un arancio omogeneo con appena visibile il profilo di una montagna, il colore spegneva il suono.

Impressionante il “Deus absconditus” di Giovanni Gasparro, viluppo di corpi nudi tenuti dai fili di un burattinaio di cui si vedevano solo le mani, inquietante come lo era “La sposa” di Lithian Ricci, sospesa nell’aria in posizione yoga con a lato la misteriosa figura nuda efebica dalla testa di animale del presunto sposo. L’ambiente era ravvivato dal rosso di “Islands” di Renzo Bellanca, come dall’azzurro del cielo su “Corso d’Italia” di Giulio Catelli, e soprattutto dal“Notturno di Roma dipinto dal vero”, di Giovanni Di Carpegna Falconieri,  in giallo ocra alternato al nero.

Enigmatico e festoso il  “Sorriso per la speranza” di Augusto De Romanis, metà di un viso che sbocciava dal verde sullo sfondo rosso, ricordava una fisionomia inconfondibile ma senza occhi non si può esserne sicuri, poi non vorremmo buttarla in politica. Altrettanto festoso, quasi naif, ma forse amaro in chiave femminista, “Come tu mi vuoi” di Giovanna Picciau, una galleria della donna nelle diverse incarnazioni e ruoli in cui la confina la sopraffazione operata dal maschio.

“Noi” di Teresa Coratella una tavolozza di colori con forti pennellate, al suo fianco “Lungomare” di Mariano Filippetta uno specchio di un blu profondo. Come lu lo sfondo del bel “Ritratto di Marcia Teopphilo poetessa” di Aldo Turchiaro, il fascino della donna, quasi una matrioska, e il mistero del gatto sulla sua spalla, intorno il volo degli uccelli; enigma e fascino, mito e mistero.

L’incomunicabilità era espressa da Silvia Codignola con “La cena primaria”, le due persone agli estremi della  lunga tavola avevano le braccia conserte che esprimevano chiusura in se stessi e lo sguardo spento e perso nei visi che non si distinguevano nel buio era senza espressione. Mentre “Il ragazzo seduto in terra” di Marco Cola, pur nel suo isolamento, aveva lo sguardo vivo.

Niente era buio come “Magik (negative and positive pole)” di Orazio Battaglia, uno specchio di un nero profondo e null’altro; al quale accostiamo, per associazione cromatica, lo specchio blu visto in precedenza. Altrettanto nero “Il più ignobile e macchina del tempo con immagine virtuale” Gabriella Di Trani, in video galleggiava in rilievo l’immagine colorata dipinta nel quadro vicino,  una bocca che afferrava un oggetto a strisce.

Erano neri  anche gli “Alberi” di Lorenzo Cardi, in nove fogli e “L’eterno cammino in salita” di Lughia, quattro pannelli con una lunga teoria di figure incolonnate, quasi verso il nulla, o chissà dove. Le “Strutture per un vortice” di Sinisca, tecniche miste in acrilico e acciaio davano, in bianco e nero, una diversa dimensione, con uno spettacolare  grande occhio metallico centrale. Mentre Giorgio Galli ammoniva che “Nessun futuro è per sempre”,  con un grande ovale dai bordi rossi che contrastava con lo specchio nero esposto al suo fianco.

Un camion carico di piante in uno sfondo di colline, dove trionfava il verde colore festoso, segnava il ritorno della vita attiva, per così dire, era “On the road” di Amodeo Savina Tavano. “Lux – Lex Io sono un altro te stesso” veniva visualizzato da Alessandro Fornari in due complessi monumentali, verde e rosso contrapposti i cui guerrieri armati di lancia sembravano voler combattere l’uno contro l’altro.

L’umanità tornava con Daria Paladino, che in “Enzo Cucchi” mostrava un grande viso espressivo in un bianco e nero di straordinaria intensità. Spiccava ancora di più a lato del trittico “Il viaggio” di Francesca de Angelis, macchie viola su fondo bianco, nelle quali si intravedevano dei volti umani, uno richiamava lo sguardo di Cucchi.

Nell’altro lato di Cucchi i colori squillanti di Antonio Fiore, squarci cromatici  tricolori e non solo con delle lane ed alabarde rosse che inquadravano il piccolo testo della Costituzione quasi fosse una reliquia da proteggere, il titolo era “Unità d’Italia – 150 anni”.

Di fronte “Ternario, silenzi provvisori” di Alberto Abate, due giovani seduti agli estremi dello stesso divano ma lontani anni luce, la forma del quadro li divideva anche con una cesura, alla mano protesa di lei corrispondevano le mani raccolte di lui, gli sguardi spenti nel vuoto. Ben più vivo, pur nella sua solitudine, il “Ragazzo seduto per terra” di Marco Cola, gli occhi vivi da scugnizzo pronto a scattare.

Poi la “Pentecoste”  di Mario Verolini, in uno sfumato sull’arancio molto espressivo, alberi scuri in primo piano, una costruzione dai contorni indefiniti e nuvole a strisce sul cielo azzurro.. A lato le nere piramidi dei “Riverberi” di Giovanni Papi,e i colori della composizione geometrica “Alla frontiera dell’essere”, di Manlio Amodeo, dove l’armonia e le forme  davano un’immagine liberty, sembrava un lego montato con cura e precisione.

Colpivano diverse immagini fotografiche, la fotografia è considerata una forma d’arte primaria. Di Piergiorgio Branzi diverse immagini in bianco e nero, una natura morta e un grande pesce, una coppia di sardine e una finestra a Parigi con dietro una figura indistinta; e due foto in tinta pastello con il cine club Las Vegas, una fila di sedie vuote e una panca con sopra un vecchio quadro di una diva. Mentre di Andrea Papi cinque piccole immagini del suo studio sul movimento, i fiotti di luce rompevano l’oscurità in modi diversi, creando un movimento luminoso. Vicino “Autoritratto” di Gino Guida, tutto giocato sul nero con risalto dato dalla luce alla faccia e alle mani, leggermente arrossate, il bianco della luce segmentava anche l’ambiente oscuro.

Come non citare infine il teatrino dei pomodori di Giacarlino Benedetto Corcos, il sipario si apriva su 42 macchie di colore con schizzi, lettere e simboli, a terra pietre dipinte, la fantasia pura di un’infanzia felice resa dai tocchi di colore e dai segni fine a se stessi, senza intenti simbolici. ‘enclave della Fondazione Roma Museo

Erano poi esposte opere dei 14 artisti selezionati direttamente dalla Fondazione Roma Arte-Musei, ai quali era riservata la sala centrale, ne parliamo a conclusione del nostro racconto della visita.

Ricordiamo due opere diAlberto Di Fabio, ci avevano colpito i titoli molto diversi, “Spazio curvo” e “Neurone rosa”, sebbene i dipinti si differenziavano più nel colore che nella forma e contenuto, erano delle ramificazioni, la prima su sfondo celeste, la seconda rosa.

Mentre spiccavano come esplicite e molto espressive le tre opere di Massimo Giannoni, due intitolate “Libreria”, la terza doppia, “Interno di Borsa Nyse”: colpiva la realizzazione minuziosa e sapiente, nella materia e nel colore, come nella composizione, veramente rimarchevoli.

Suscitavano inquietudine,  come certi sogni, le due opere di Angela Pellicanò, del resto il titolo era “Dream Experience, trilogia di agosto”.suo anche il “Sonno di Greta”, immagini allucinate,

L’inquietudine raggiungeva il diapason dinanzi ai tanti volti e figure femminili  disperate e anche sanguinanti, dal titolo “This humanity series circle of sinners, the collector, di Matteo Basilè, 54 fotografie, tante quanti i volumi della “Treccani sott’olio”, stesso numero per contenuti così diversi. 

Di fronte alle 54 figure dolenti, 20 stoffe come cuscini con sopra impronte di mani rosse, non sappiamo se insanguinate o colorate, e anche blu, un “pendant” anch’esso intrigante, è “Schone Traume” di Bruno Ceccobelli.

In tela anche “Lenzuolo” di Gianfranco Goberti, a righe nere verticali, appeso al lato del quadro dello stesso autore “Camicia”, tessuto ripreso in primo piano in acrilico su tela, una bell’immagine.

A questo punto la scena era occupata dal  “Cielo rovesciato”  di Tommaso Cascella, grande installazione dal diametro di quattro metri con le costellazioni sopra il grande cerchio planetario.

Torniamo alla pittura con Innocenzo Odescalchi, tre opere in tecnica mista, scritture perdute, grandi caratteri grigi tra l’arabo e il cirillico posti in verticale su sfondo neutro e quattro con la stessa tecnica, dal titolo “Corsa araldica”, meri contrasti cromatici tra lo sfondo e i motivi indistinti ma con figure animali disegnate ai margini.

Contrasto cromatico tra la parte inferiore rossa e quella superiore grigia con richiami rossi in “Il senso del dentro” di Enrica Capone, le pennellate rosse centrali evocavano l’impronta digitale; suo anche “Strappo”,  un binomio cromatico, questa volta pastello, color avorio e nocciola.

I tre “Senza titolo” di Emanuele Diliberto meritano di essere ricordati per i colori e le figurazioni, alcune come improvvise apparizioni che è difficile qualificare, li associamo agli spiritelli o peggio che Echaurren mette nei dipinti per esorcizzare il maligno. E’ un’associazione del tutto personale, la visione non era inquietante, invitava ad approfondire il significato nell’assenza del titolo.

Una sezione di questa parte dell’esposizione valorizzava l’espressione fotografica con tre grandi opere di Jonathan Guantalmacchi, British black great target”, “British black my home”, e “British black battersea power”, quest’ultimo su tre livelli, in tecnica mista su tela, visioni dall’alto di ambienti metropolitani che lasciavano stupefatti per la loro imponenza, segnata dai forti contrasti volumetrici in bianco e nero.

Nella parete accanto tre opere molto diverse di Enrico Benetta, grammaticalmente perfetto, “Acrobazie” e “Il sacro Graal”, lettere in ferro applicate a sporgere confusamente su un fondo con raffinate scritture corsive in oro.

Mentre trionfavano i colori è in “Vento, fuoco, vapori” di Mikel Gjokaj, tre oli su tela spettacolari per il modo con cui era espressa cromaticamente la forza della natura. “Afa” e “Rispecchiamento”  dello stesso autore rendevano in un cromatismo più sfumato altri fenomeni naturali.

Concludiamo con Maurizio Savini, la sua “Sindrome di Pilato” era una scultura in fiberglass e ferro, un uomo in rosa, giacca e cravatta, camicia e scarpe in tinta se ne lavava… il tricolore, a lato uno stendipanni con la bandiera Usa e arboscelli coralliferi.

Con “Gente d’Italia” l’unità nazionale nelle identità regionali

Vogliamo chiudere ricordando le immagini di artisti che si sono ispirati al sentimento nazionale nell’anno della celebrazione del 150° dell’Unità d’Italia. Le abbiamo già descritte, dal tricolore lavato dal novello Ponzio Pilato fino alla raffigurazione fortemente simbolica del piccolo testo della Costituzione tra bagliori cromatici dove spicca il tricolore. Anche nell’estrema libertà dell’arte contemporanea espressa dalle opere esposte c’è stato spazio e modo di celebrare valori fortemente sentiti. In un modo originale e non scontato, certo, ma  non per questo meno espressivo. 

E’ stata una sorpresa, certamente positiva, venuta dalla mostra di Palazzo Venezia, varia e multiforme, una carrellata fuori da ogni conformismo sulla creatività contemporanea; in questa sede per la regione Lazio – e forse è l’esposizione locale più ricca, come è stato detto – ma ve ne sono state in ogni regione e anche in più sedi, nelle Marche ad Ancona, Mole Vanvitelliana, e ad Urbino.

Sarebbe l’ideale far seguire a questa ricognizione dei talenti di oggi nell’assoluta libertà dell’arte contemporanea una panoramica di come i talenti di ieri si sono ispirati alla propria terra, anche a questo riguardo a livello regionale, per raffigurarne vita e costumi. Un esempio lo ha offerto la mostra “Gente d’Abruzzo” del 2010 alla Pinacoteca di Teramo, con le opere di artisti abruzzesi dell’800-primi del ‘900 che hanno espresso il “Realismo sociale” della vita di allora, nel lavoro, l’ambiente naturale e non solo. Perché non dare un seguito di questo tipo al “Padiglione Italia” regionale? Le mostre di ogni regione potrebbero essere itineranti nelle altre, dando luogo a un intreccio di culture e costumi trasmesso all’intero paese, evidenziando le radici comuni pur nelle precise identità. Non sarebbe una premessa culturale e popolare per quel federalismo che, come è stato per l’Europa rischia altrimenti di essere un’espressione geografica poco radicata nella gente?

Dopo “Gente d’Abruzzo”, quindi, ogni regione potrebbe mostrare la sua “gente”. I mosaici regionali con le tessere costituite dalle opere degli artisti locali ispirate alla propria terra verrebbero a comporre il grande affresco della “Gente d’Italia”, dando forma visiva a quell’unità nazionale nella diversità regionale evocata nei convegni di studio. Non è mai troppo tardi per un’iniziativa del genere, gli anniversari non mancano se si volesse legare a particolari ricorrenze istituzionali. L’immaginario collettivo ne sarebbe colpito, con la maggiore conoscenza reciproca delle radici artistiche e culturali regionali si accrescerebbe la coesione nazionale e il senso di appartenenza. Per la contemporaneità, invece, le mostre regionali sono state sufficienti, non occorre che siano itinerante, l’ispirazione non è locale ma globale; per fissare le identità, è necessario invece ricorrere  agli artisti che alla formazione dell’Unità d’Italia hanno fissato il volto delle sue componenti.

E con quest’immagine che lega contemporaneità e storia patria e l’auspicio che si possa comporre l’identità della “Gente d’Italia”  quale appare dalle sue componenti regionali espresse nell’arte, termina il racconto della nostra visita a una mostra innovativa e anticonformista. L’emozione e gli stimoli che ci ha dato allora permangono ancora oggi, dopo due anni, per questo abbiamo voluto farne partecipi i nostri lettori.

Info

Il primo articolo sulla mostra è stato pubblicato in questo sito l’8 ottobre 2013, con altre 10 immagini.

Foto

Le immagini sono state riprese alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante o fornite dall’organizzazione, si ringraziano Arthemisia e la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti. In apertura, Vittorio Sgarbi, con a destra Emmanele F. M. Emanuele, alla presentazione del Padiglione Italia – Lazio; seguono opere di  Barbara Salvucci  e Teresa Emanuele, Mezzaroma e Branzi, Pellicanò e Cascella; infine un quadro con gli eroi del Risorgimento nell’orifiamma intorno alla Coatituzione; in chiusura, di Fantastichini,   “Monumento al caos”, la piramide all’ingresso della mostra a Palazzo Venezia. 

Padiglione Italia, 1. Sgarbi e la creatività contemporanea

di Romano Maria Levante

Torniamo sulla mostra svoltasi a Roma, a Palazzo Venezia, dal 24 giugno al 22 settembre 2011, sugli artisti della Regione Lazio selezionati per esprimere la creatività contemporanea nel primo decennio del terzo millennio, 2000-2010. Anche dopo due anni mantiene il suo valore documentario ed evocativo, trattandosi dell’iniziativa inquadrata nel Padiglione Italia all’Arsenale di Venezia, in parallelo in tutte le Regioni italiane e in tutti gli Istituti di cultura italiani all’estero: un grande “Circo Barnum” dell’arte messo in pista da Vittorio Sgarbi per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, e organizzato da Arthemisia con l’apporto della Fondazione Roma Arte-Museiche ha contribuito economicamente e selezionato 14 artisti. Ne ricordiamo i contenuti originali, anzi immaginifici, e raccontiamo la visita alla mostra effettuata a suo tempo.

  “Di palazzo in palazzo, la Biennale arriverà fino al Padiglione Italia nell’Arsenale di Venezia, dove tenterò il risarcimento del rapporto fra letteratura, pensiero, intelligenza del  mondo e arte, chiedendo, non a critici d’arte, e neppure a me stesso, quali siano gli artisti di maggiore interesse tra il 2000 e il 2011, ma a scrittori e pensatori il cui credito è riconosciuto per qualunque riflessione essi facciano sul nostro tempo. Gli scrittori si leggono per quello che ci dicono della storia, dell’economia, del costume, della letteratura, del cinema. Perché non, o non più (come Pasolini, Sciascia, Moravia) dell’arte, della pittura, della fotografia? Perché dovremmo affidarci ai ‘curatori’ o, come si vogliono con civetteria chiamare, ‘curatori indipendenti’?”

 Il Padiglione Italia di Vittorio Sgarbi

Queste le parole di Vittorio Sgarbi che riassumono l’idea innovativa alla base del Padiglione Italia di cui l’esposizione di Palazzo Venezia è stata la componente regionale laziale. L’ironia della sorte fa sì che lui stesso venga definito nei documenti ufficiali “il curatore del Padiglione Italia 2011”, segno che la sua innovazione iconoclasta ha risparmiato questa terminologia, ma non si qualifica “curatore indipendente”, per il resto un turbine di novità sin dal titolo: “L’arte non è cosa nostra”.

Sono stati esclusi dalle selezioni i critici d’arte perché a causa loro “l’arte è diventata come un ospedale, al quale hanno accesso solo i medici e i parenti dei malati. Un grande ‘sanatorio’, separato dal mondo, non frequentato se non accidentalmente dalle persone sane. E intanto la bellezza del mondo sta fuori di quelle mura ed è sotto gli occhi di tutti, senza che nessuno la indichi”.

 Di conseguenza l’indicazione degli artisti chiamati a rappresentare l’arte italiana contemporanea nei 150 anni dall’Unità è venuta dagli uomini di cultura e di spettacolo, un osservatorio qualificato della società civile nei suoi esponenti da tutti riconosciuti come testimoni credibili del mondo in cui viviamo che possono aprire, quindi, agli occhi di tutti, ciò che viene presentato con l’immagine dell'”ospedale”, un “ghetto” separato nel quale l’arte, secondo Sgarbi, è stata finora “esiliata”.

I “designatori” sono stati 260 costituiti in un Comitato degli intellettuali presieduto da Emmanuele F. M. Emanuele, il presidente della Fondazione Roma e, allora anche dell’Azienda speciale Expo con le Scuderie del Quirinale e il Palazzo delle Esposizioni: sono stati segnalati 3000 artisti, tra pittori, scultori, fotografi e video artisti, che costituiscono il “Fondo Sgarbi” dell’arte contemporanea italiana, tra i quali selezionati i 1200 artisti  per il Padiglione Italia.

Il “Circo Barnum” dell’arte creato da Sgarbi ha anche aperto gli occhi sugli artisti italiani viventi e operanti all’estero, nell’Arsenale di Venezia un centinaio di televisori, ciascuno collegato a un Istituto di cultura italiana all’estero – ve ne erano 89 – portava le espressioni dell’arte italiana oltre i confini;  anche qui le segnalazioni non erano venute dagli addetti ai lavori, i critici d’arte.

Così per le Regioni, dove l’inventario degli artisti è stato fatto con la collaborazione degli assessorati alla cultura e dei Direttori dei Musei, per l’esposizione degli artisti regionali nelle sedi più rappresentative della regione: “Ogni sede – ha precisato Sgarbi – sarà Padiglione Italia, consentendo l’esposizione di circa mille artisti in corrispondenza con l’epopea dei Mille nel 150° dell’Unità d’Italia”. Sono state valorizzate anche le venti Accademie di Belle Arti italiane, i cui direttori hanno segnalato una serie di opere degli allievi: “Quest’ultima rassegna – ha detto Emanuele – a mio parere, vale, da sola, tutto il Padiglione Italia della Biennale”.

Il Padiglione della Regione Lazio

Entrando nello specifico della sezione laziale del Padiglione Italia,  va rilevato che l’impegno è stato massimo anche per l’intervento diretto della Fondazione Roma-Arte-Musei. La saletta della presentazione era piccola, a stare alle dimensioni di Palazzo Venezia, ma nelle pareti spiccavano 12  dipinti del 600-700. Alcuni di grandi dimensioni e in fondo tre sculture dorate dello stesso periodo. Una “vendetta” dell’amante di arte antica Vittorio Sgarbi sulla contemporaneità del suo Padiglione? Di fatto sopra al tavolo nel quale Emmanuele F. M. Emanuele e Francesco M. Giro, Antonia Pasqua Recchia e Massimo Voglino presentavano la mostra, scorrevano su un video immagini moderne, in una compresenza che richiamava quanto detto da Sgarbi: l’arte è tutta contemporanea perché, quale ne sia l’età, se è vera arte rivive nel presente.

La soprintendente Recchia l’ha definita “una grande, bellissima mostra che unisce alla maestria degli artisti l’accuratezza dell’apparato espositivo”. Voglino, per l’Assessorato alla Cultura della Regione Lazio, ne ha sottolineato la centralità nell’ambito del “Padiglione” nazionale: “La più ampia delle selezioni di artisti locali, sono 110 artisti selezionati nel territorio, anche qui non da critici di professione ma da intellettuali, persone di cultura, che esprimono più compiutamente la società”.

E proprio Emanuele, Presidente del Comitato di intellettualiche aveva selezionato le opere, ha parlato di quella particolare esperienza, tornando sul tema a lui caro della collaborazione tra pubblico e privato, ritenuta essenziale: “Quello che è stato fatto – ha affermato – è irripetibile, Sgarbi ha avuto una grande intuizione, gli va riconosciuto il coraggio di voler dimostrare che cultura, arte e paesaggio sono le grandi risorse del paese, e ha messo in evidenza la capacità di sognare, di cui si ha tanto bisogno”.

La verifica dello stato dell’arte nel paese nel decennio 2000-10 consente di coltivare “i germi dell’arte nuova” nei più diversi campi dalla pittura alla scultura, dalla  ceramica ai materiali vari, dal video alla fotografia, tipica espressione della modernità: “i fotografi quando raggiungono livelli di eccellenza possono chiamarsi artisti”. Non si è adottato un approccio giovanilistico, i “vecchi vanno rispettati e se sono creativi sono più bravi dei giovani”, com’è il caso di un artista  di 97 anni che è stato selezionato dallo sguardo lungo degli intellettuali.

Come presidente del Comitato, sulle scelte degli  intellettuali ha detto che “il risultato è stato clamoroso, le designazioni coerenti. Il Padiglione, con la sua grande capacità di attrazione, esprime la valorizzazione degli artisti italiani contemporanei anche all’estero, e dei luoghi dell’arte, dato che molte delle sedi prescelte sono di prestigio”. Da partecipante all’organizzazione del Padiglione Lazio, con un contributo di 150 mila euro, ha definito “meravigliose, fantastiche, creative le opere esposte a Venezia, ordinate e organiche quelle esposte qui”; e si è dichiarato felice di aver partecipato a un’opera corale con intuizioni così valide dando un contributo non solo intellettuale ma anche economico come segno tangibile di piena fiducia. E riconoscendo a Sgarbi oltre alla ben nota creatività, “una grande capacità di stimolare il lavoro di squadra”.

L’allora sottosegretario ai Beni culturali Giroha parlato di “avventura intellettuale per sostenere la cultura” ricordando il patrimonio culturale e il paesaggio che ne è l’indispensabile cornice.  E ha  definito “indovinata” la scelta di base dell’esposizione con l’apporto della regione e dei principali comuni nel mettere insieme un vero “laboratorio della creatività contemporanea di Roma e del Lazio”. Poi ha spaziato sul Colosseo e su Castel Sant’Angelo, “un vero palinsesto di stili ed epoche diverse”  per rimarcare anche lui l’importanza della collaborazione tra  Stato e privati. “La Biennale di Venezia è un grande manifesto culturale fatto di grandi progetti e grandi impegni sul tema della creatività italiana che ha il prestigioso sigillo della Biennale”.

Sgarbi nel suo fluviale intervento, come al solito brillante e polemico, ha difeso l’idea di base dell’esposizione e i criteri di scelta degli artisti, sottolineando l’importanza di una ricognizione così accurata alla riscoperta della creatività italiana anche all’estero, compresi i luoghi  dell’arte, primi tra essi le Accademie, nelle quali la scelta è stata compiuta tra i diplomati dell’ultimo decennio. Ha  insistito sulla maggiore legittimazione di personaggi di cultura rispetto a critici autoreferenziali nel segnalare gli artisti che meritano piena visibilità. Ma di questi temi abbiamo detto all’inizio, è giunto il momento di parlare delle opere esposte in mostra.

Le opere del Padiglione a Palazzo Venezia

Da una prima visione d’insieme ci ha colpito la varietà di forme espressive, stili e motivi, è stato come partecipare a una festa popolare dove ciascuno sciorina ciò che crede più adatto alla manifestazione, sebbene non si possa parlare di folklore ma di arte e di sperimentazione nelle forme, contenuti e materiali; anche l’arte fotografica è stata rappresentata, e non mancavano le espressioni trasgressive.

L’arte contemporanea, spesso incomprensibile, riesce a suscitare emozioni ma secondo molti non si può descrivere. Noi cercheremo di raccontarla, anche perché il Padiglione Italia allestito da Sgarbi a Palazzo Venezia ben si prestava rispetto a certi eccessi di una trasgressione spesso indecifrabile.

L’ingresso alla mostra era spettacolare, nel suggestivo ambulacro di Palazzo Venezia spiccava una altissima piramide nel vano della maestosa scalinata che sale verso le sale dell’esposizione: il “Monumento al caos” di Piero Fantastichini, in realtà rigoroso nella sua forma di solido geometrico, in cima un globo caudato, con piccole figurazioni sparse lungo le facce che non davano una vera sensazione di caos. Un paradosso voluto il contrasto, almeno apparente, tra titolo e forma-contenuto? L’interrogativo accompagnava mentre si saliva verso le sale dell’esposizione al piano nobile: quelle storiche, come la “Sala del Mappamondo”, con divisori interni a segnare il percorso.Una installazione tipo colata lavica in miniatura accoglieva all’ingresso, la “Metalchemica” di Fabrizio Di Nardo e Pietro Orlando, di “Officina Materica”, con il motto “Idea nasci! Forza trasforma!Arte sublima! Io sono metalchemica”. Dopo questa “ouverture”, nella prima sala attiravano l’attenzione due forme scultoree di tipo arcaico, l’inquietante totem “Senza titolo” di Marco Barina con i denti minacciosi di una sega sopra la testa, e la “Chimera” di Patrick Alò,il cui atteggiamento aggressivo ci ha ricordato una scultura di Venanzo Crocetti. E due quadri di puro colore, celeste l’olio e matita su tela di Antonello Viola, “Cobalto deep lake” e nera l’acquaforte puntasecca di Guido Strazza, “Trama quadrangolare” accompagnato da un calligrafico “Segni”.

Quindi la visione cubista in una suggestiva penombra, “Convergenze”  di Corrado Banicatti, contrastata dal giallo squillante su fondo arancio di“Via Giolitti” di Marco Raggi, vicino alla quale  c’era “La culla della pace” di Tito Rossini, un interno tranquillo che, pur se disabitato, ci ha ricordato nella forma e nel colpo d’occhio la barchetta nella camera del famoso dipinto di  de Chirico.

Paolo Angelosanto ha presentato il motto gattopardesco “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi” su un tricolore sbiadito, dalla trama di broccato, “Senza titolo”, nella serie “Made in Italy”.

Si passava poi a un settore molto colorato al centro del quale c’era un grande gommone bianco con tanto di motore fuoribordo, Un “ready-made” dadaista? No, aveva sopra un obelisco, del tipo di quello sull’Elefante alla Minerva o, per restare nel contemporaneo, sul rinoceronte nella ceramica di Pablo Echaurren; se possono reggerlo questi possenti animali, può farlo anche un solido gommone! 

I colori dei dipinti alle pareti ne contrastavano il biancore. Abbiamo notato, in particolare, “Augmented Reality” di Mimmo Nobile, enigmatico nelle due figure nere capovolte; e“Road Movie” di Solveig Cogliani, con nei riquadri nella metà sinistra il formicolio delle finestre di un edificio che sembrava sfaldarsi sulla strada a destra, mentre in “Il pensiero nel corpo” di Ennio Calabria il colore affidato a forme corporee confuse, forse com’è il pensiero stesso.

Ben definita la bellezza muliebre in due nudi scultorei a figura intera ed eretta collocati ai vertici opposti della sala:“Lei, vede non vede o altrove guarda”, di Alba Gonzales, la donna dai tanti volti e dalla statuaria avvenenza, con le braccia aperte a reggere due piatti e i piedi imprigionati da sbarre: rappresentazione della Giustizia che “non può essere giusta”; trattasi di una fusione a cera persa, l’altra statua in resina e ferro, totemica, dal titolo “Sospensione”, di Francesca Tulli.

Accostiamo a queste sculture due immagini femminili con la stessa verticalità della figura, il nudo fotografico “Ascension”di Andrea Simoncini e la ragazza della porta accanto di Gianmarco Chieregato:  capelli arruffati, camicia bianca e pantaloni neri, il titolo è “Xenia Rappaport”. A lato due fotografie molto lineari orizzontali, “Horos” e “Dromos” di Andrea Lelario, di fronte la liliale immagine di due corolle blu e celesti che si librano nell’aria, è “Per quel che ricordo” di Coralla Maiuri. Colorate e intense per sfumature e sfondi oscuri le sei stampe di Elisabetta Catalano, cinque “Ritratti d’artista” e un “Ritratto di scrittore”, tutti fotografati con maestria e sentimento.

Emilio Farina ci ha presentato il suo “Punto di vista”,  un grande cerchio di legno con terre colorate spezzato in due, mentre  di Franco Mulas era esposto “Notturno”, un olio con forti sciabolate di luci e colori.

Da un settore all’altro tra le tante “enclaves” ricavate con pareti mobili:  ricordiamo l’ambiente con al centro il busto candido in marmo di Benedetto XVI sorridente, dal titolo “Tu”, guardato  da terra da una grande testa verde con occhiali a specchio dal titolo “Io”, autore Jacopo Cardillo.

Nella parete retrostante tre piani di scaffalatura con assi da cantina di quasi otto metri su cui erano posti 54 contenitori trasparenti, ciascuno recante un vero volume dell'”Enciclopedia Italiana”, c’erano tutti, compresi gli aggiornamenti fino al 2000, con il titolo è Treccani sott’olio”: che alludesse alla conservazione di un qualcosa di prezioso ma ormai in disuso, relegato in cantina da Internet ma pur sempre meritevole di essere tenuto per ogni evenienza? Autore Benedetto Marcucci.Di fronte la statua in ottone, rame e bronzo, il “Mimo” scattante di Mario De Luca,

Fabriano Parisi ci ha portato ad una realtà enigmatica con “Il mondo che non vedo”, titolo di due dipinti quasi figurativi di vasti ambienti per il pubblico deserti, dove le sedie e le suppellettili abbattute alludevano a una fuga precipitosa, quasi fossero stati abbandonati in preda al panico. l fumo era evocato da Alessandro Cannistràcon due immagini molto sfumate, nel cui titolo prima di “Fumo solo 1 e 2” si leggeva “Andrò ad eseguire”; invece immagini nette con un rosso violento nello sfondo al cavallo bianco da Vidal con grande scritta al neon Assente di Enrico Manera e il cuore pulsante di Marco Tamburro in “Battito metropolitano”. Coloratissimi il floreale “Dal cuore della terra” di Fiamma Zagara e “Come in un rebus” di Sergio Ceccotti: da una terrazza sul mare un treno moderno, una nave traghetto e un aereo da sfondo alla partita a scacchi di due persone sedute in primo piano, alla madonnella e al serpente colpito con il bastone.

Dopo tanto colore i bianconeri “Ora X” di Stefania Fabrizi, 5 replicanti di una figura con occhiali neri che scrutava l’orologio e “Una finestra” di Francesco Cervelli, su una notte nera come la pece.

Ecce mater dulcissima” di Ernesto Lamagna si faceva ammirare al centro della sezione, una sorta di pietà sconsolata in una scultura formato naturale in bronzo fuso a cera persa. E qui termina la prima parte della visita, con il raccoglimento che ispira l’immagine dopo opere scultoree così diverse come quelle commentate o che incontreremo. Riprenderemo presto il racconto, c’è ancora tanto da ricordare della fiera immaginifica sulla creatività contemporanea a cura di Vittorio Sgarbi.

Info

L’articolo conclusivo sulla mostra sarà pubblicato in questo sito il 9 ottobre 2013, con altre 10 immagini.   

Foto

Le immagini sono state riprese alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante o fornite dall’organizzazione, si ringraziano Arthemisia e la Fondazione Roma, con i titolari dei diritti. In apertura, Vittorio Sgarbi,  alla presentazione del Padiglione Italia; segue una selezione delle opere esposte senza citazione degli autori per dare ad essa un carattere rappresentativo dell’intera mostra; in chiusura,  Vittorio Sgarbi mentre sistema un quadro dopo la presentazione.