Mastrodascio, alla “Vetrina del Parco” di Montorio

di Romano Maria Levante

Mastrodascio alla “Vetrina del  parco” di Montorio al Vomano è un felice ritorno, ricordiamo la sua mostra del 2006 nella Banca di Teramo dove si trova la “piccola Loggia dei Lanzi” con le sculture di Venanzo Crocetti creata dal compianto Antonio Tancredi, che ne è stato mecenate, come lo è stato di Mastrodascio i cui busti sono esposti alla vicina passeggiata dei “Tigli” che termina con il grande  Monumento ai Caduti di Crocetti. Questo maestro lo ha ispirato sin dagli inizi della sua carriera, e lui ha avuto in sorte di completarne l’opera nel Duomo di Teramo con la scultura simbolica nel portale posteriore. Crocetti è l’autore di una delle grandi porte della basilica di San Pietro a Roma. Prima di parlare della sua mostra torniamo brevemente sulla “Vetrina del Parco”.

La “Vetrina del Parco” senza il protagonista

Ne abbiamo parlato di recente descrivendo i contenuti della manifestazione ed esprimendo la nostra delusione per l’assenza del vero protagonista, il Parco, ci torniamo prima di calarci nella  mostra  scultorea di Mastrodascio con 25 opere  nella sala conferenze del Chiostro degli Zoccolanti di Montorio al Vomano, che al livello inferiore in una sorta di sito catacombale presenta la mostra permanente su usi, costumi e mestieri  di una volta, che ha dato supporto a una “vetrina” nella quale altrimenti sarebbe stato pressoché assente il respiro della tradizione e della storia popolare.

E’ mancata del tutto la presenza dei borghi che storicamente hanno dato vita a un territorio montano ora alle prese con lo spopolamento, ma con suscettività e attrattive naturali che hanno collocato il paese nel cuore del Parco, Pietracamela, tra i 400 “borghi più belli del mondo” dal 2013, dopo essere entrato nel club dei “borghi più belli d’Italia” nel 2005 e proclamato “borgo dell’anno” nel 2007. Come è mancato del tutto il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga la cui “vetrina” non poteva non presentare – ma non lo ha fatto – sia la propria attività sia l’insieme articolato e pittoresco dei borghi che lo compongono da uno dei quali, Cerqueto, viene Mastrodascio; poi c’è Pietracamela che pure quest’estate ha allestito una mostra storica sullo “Sposalizio di una volta”, Fano Adriano fino a Isola del Gran Sasso e Tossicia sul versante teramano, per non parlare del versante aquilano, da Stefano di Sessano a Castel del Monte,  che doveva essere rappresentato in una visione non miope. E poi dall’altro lato della “strada maestra” gli abitati di Crognaleto, da Aprati a Nerito, San Giorgio e Poggio Umbricchio, Alvi e Tottea, Frattoli e Cesacastina, Senarica e Cortino, dalle bellezze naturali e urbane di antico borgo montano.

Due sole le presenze al riguardo. La prima è stata la catena montuosa con le storiche gigantografie degli scenari e ascensioni d’epoca tratte dal volume “Sua Maestà il Gran Sasso”, a cura di Silvio Di Eleonora, Fausto Eugeni e Lina Ranalli, la curatrice del libro d’epoca di Ernesto Sivitilli sullo stesso Corno Piccolo, presentato dopo ferragosto a Pietracamela; ricordiamo che nella “Vetrina dl Parco” del 2009 c’erano anche gigantografie sul Gran Sasso, allora all’esterno nella piazza Orsini, quelle attuali all’interno del  “Chiostro”. La seconda presenza Montorio al Vomano nelle foto del suo percorso storico in 500 anni, tratte dal libro “Montorio al Vomano. Immagini per la memoria” di Egidio Marinaro. E’ ben poco, troppo poco per giustificare il titolo della manifestazione.

Poi c’è stata “la via del gusto”  per le specialità enogastronomiche,  e la  musica dei complessi in Piazza Orsini e nel Chiostro, neppure loro giustificano  il titolo  “La vetrina del Parco”. Come non lo giustificano le pur apprezzabili esposizioni d’arte, la mostra “on the road” del pittore Paolo Foglia insieme al poeta Francesco Barnabei, già visti in “Pietracamela in arte” subito dopo ferragosto, inquietudini maschili e abbandoni femminili incrociati nelle tele e nei versi esposti “en plein air”  in un largo raccolto e intrigante; e la grande mostra pittorica “I Kostaby, Sound & Dreams”, 50 tele di composizioni oniriche in ambiente metafisico reso da manichini dalle teste ad uovo e le forme ben delineate, cui si associano maschere inquietanti allucinate e spettrali; il tutto in un cromatismo vivace con colori caldi e freddi, un segno preciso, un’ispirazione costante.

La mostra di Silvio Mastrodascio, con la sua storia personale di figlio della montagna che ha cercato fortuna nel nuovo mondo, si avvicina allo spirito della gente del Parco, anche questo poteva essere evocato attraverso il coinvolgimento delle comunità di emigrati, ma non lo si è fatto.

L’esperienza di vita

Lo scultore partito da Cerqueto per il Canada alla fine degli anni ’60 ha da raccontare un’esperienza di vita di sapore antico ma anticipatrice del percorso attuale di molti giovani;  in un incontro con noi lo ha fatto con il cuore in mano, rievocandone i passaggi cruciali.  E’ stata la sua un’emigrazione non più di necessità estrema  ma alla ricerca di migliori opportunità sulla base di un’istruzione approdata al livello universitario e con una prima esperienza di lavoro a Roma dove è stato impegnato nella realizzazione pionieristica dell’ “onda verde” in tre arterie, la via Olimpica, la Salaria, viale Regina Margherita. La scelta che gli si prospettava tra la Persia e il Canada aveva una risposta obbligata; non solo perché la carne di montone non lo allettava, ma perché il nord America, e in particolare Toronto, era la meta tradizionale dei suoi conterranei della montagna abruzzese.

Si organizza il nuovo scalo aereo, la compagnia di bandiera lo prende, vi resterà quasi per quattro decenni, diventerà caposcalo. Un lavoro impegnativo, che non gli impedisce di seguire la via dell’arte, anche se alle otto ore quotidiane in Alitalia deve aggiungerne quattro dedicate all’arte.

A Cerqueto si esprimeva nella pittura, ricordiamo le sue tele dai colori forti, soprattutto paesaggistiche; a Toronto rafforza le sue basi culturali all’Accademia delle Belle Arti, seguirà ben trentadue corsi, e con profitto, si diploma “cum laude”  e scopre i tanti segreti dei grandi maestri approfondendone la conoscenza in una palestra di cultura e di arte. Affiancata alla palestra di vita  del suo lavoro, nel crocevia di genti e tradizioni, culture e sensibilità  che è uno scalo aereo, dal quale si sposta nell’intera America – da Miami a Boston, da Los Angeles a Chicago – e in altri paesi.

Che cosa ha potuto dare quest’esperienza a un osservatore acuto impegnato giornalmente a confrontarsi con l’arte oltre che con la vita che gli scorreva davanti? Viaggi e incontri, contatti e relazioni, nel contatto diretto e continuo con i volti delle persone e il linguaggio dei corpi, gli hanno fornito la chiave per penetrare nei sentimenti e nei valori, nelle ansie e attese dell’animo umano, al di là delle nazionalità, dell’aspetto esteriore, del censo; per coglierne le linee essenziali, in una sintesi da fissare nelle figure e nei ritratti in cui si manifestano i complessi meccanismi della vita.

Come nasce la “pelle della scultura” e la “pittura tridimensionale”

Mastrodascio plasma le figure e i ritratti nella creta, materia ideale per identificarsi con l’ispirazione mediante una ricerca resa dalla manualità di un artigianato sopraffino che diviene arte e lo riporta al lavoro degli avi, i “maestri d’ascia” che trasformavano l’immobilità dei  tronchi d’albero in veloci barche , da cui l’origine del cognome.  La creta si fa modellare docilmente dalla mano dell’artista, che vi trasmette il soffio vitale, a differenza del marmo nel quale invece si tratta di liberare ciò che è imprigionato dalla dura materia. La fusione in bronzo nel forno è la successiva fase tecnica cui segue il lavoro di rifinitura e limatura, quando l’arte deve far corrispondere la realizzazione con l’ispirazione, la materia corporea con l’idea ispiratrice eterea e incorporea. In questa fase – ci confida lui stesso – c’è il momento magico, quando “sente” che l’idea è diventata immagine, figura, e la materia inerte è animata dal soffio della vita:è il momento in cui si manifesta la creazione, è nata una creatura da assimilare all’essere umano, se l’ispirazione e quindi l’opera  sono autentiche.

Nelle sue sculture c’è del colore, spesso sono dorate e ambrate, o di un verde discreto, retaggio del colore della pittura, anche se da almeno un ventennio si esprime nella scultura. Del resto le sculture antiche erano colorate anche se il tempo ha cancellato il colore, perché così è la vita. E la sua fonte di ispirazione, la vita cosmopolita degli scali aerei, è stata di certo una sinfonia di colori; e un caleidoscopio di volti e di figure, da cui ricava l’essenza della persona fissata in una positura e in un gesto, in un atteggiamento e in un’espressione.

Viene considerato esponente di un filone scultoreo che risale a Donatello proiettato nella modernità, d’altra parte nella sua lunga frequentazione dell’Accademia è stato abituato a filtrare l’insegnamento dei grandi maestri con la realtà sotto i suoi occhi. Sono le sollecitazioni alla base della raffinatezza ed eleganza di vesti e figure, con una dignità che incute rispetto fino alla soggezione, in un’aura di luminosità e armonia. E’ tutto un mondo che si manifesta, l’essenza della persona scandagliata nei suoi tanti momenti, i suoi sentimenti interiori. Resta impressa la delicatezza dei volti e dell’incarnato, il calore dei corpi e la luce degli occhi inconsueta nella scultura, mentre il colore dà vita alla materia con i suoi riflessi misteriosi. La bellezza del corpo trasmette la dignità dell’anima, attraverso la raffinatezza di una superficie ambrata o dorata, così nasce “la pelle della scultura”, che la critica d’arte Silvia Pegoraro ha definito “una levitas sottotraccia guidata da un cuore caldo e da una mente serena”.

Le sue donne in mostra, forma e contenuto

Dinanzi alla galleria di figure femminili si ha  la sensazione di penetrare in un’intimità riservata da non violare, anche se le forme sono protette da veli sottili e leggeri, da vesti elaborate e preziose e, se sono nudi, dalla pelle ambrata e dorata che le circonda di una sensualità discreta. Superata questa prima sensazione si è catturati dalla maestria con cui sono curati i dettagli da un’arte che è anche alto artigianato nel fissare sul bronzo satinato con riflessi dorati gesti e atteggiamenti, fisionomie ed espressioni quanto mai vive e pulsanti. E’ un realismo che viene sublimato nell’idealizzazione.

Maurizio Calvesi li definisce “ritratti parlanti di donne e giovinezze sorprese nel loro smarrimento o nella loro malinconia. Volti resi naturali dalla morbidezza con cui l’argilla è plasmata in terrecotte  che sanno comunicare la tenerezza delle carnagioni,, la dolcezza o la mitezza o la fierezza degli sguardi, l’increspatura delle chiome dove i chiaroscuri cercano un effetto squisitamente pittorico”.

Nelle figure sedute il tono alla scultura è dato dalle posizione di braccia e gambe, l’atteggiamento e l’espressione. “Agata” e “Solitudine” sono sulla panca, mentre “Modella sulla sedia”, e “Modella nuda seduta sullo sgabello”, come “Dea della sapienza”; invece “Alexandra, in posa per l’artista” e “Posa finale”  sono sedute a terra.

Le figure in piedi spiccano per la maestosità del portamento, sia quando hanno vesti ricche e raffinate, come “Cuore solitario” e “Dolce serata”, “Serata di gala” e “Il fuoco arde nel mio cuore”; sia quando sono mostrate nude nella loro purezza primigenia, come “Barbara” ed “Eleonora”, “Libertà e pudore”, “Nudo”; sia quando esprimono tenerezza come “Madre con bambino” e “Ritorno al mercato”, “Settembre” e “Modella in posa”.

Elemento comune a tutte le raffigurazioni, pur nelle differenze espressive e compositive, è la sensualità discreta che sprigionano i volti e gli sguardi, i corpi con i seni appena rivelati o in piena evidenza o la pelle ambrata nella sua carnalità  calda e tangibile, protetta da una nobiltà e una dignità che ispira rispetto. E’ una sensualità, in definitiva, che sconfina nel romanticismo.

Una scultura rappresenta in un certo senso una sintesi di motivi apparentemente opposti, è “Buongiorno”, con la sensualità dei  seni nudi e la preziosità della veste raffinata allacciata dalla cintola in giù, l’atteggiamento oscilla tra l’abbandono e l’istintiva difesa in un gesto istintivo.

Nella sua produzione artistica ci sono anche teste e busti bronzei e in terracotta, di ispirazione classica, ricordiamo che è stata una testa la sua prima scultura dopo aver avuto quella egizia nel deserto del Sinai. Così abbiamo “Testa di donna” e “Testa di ballerina”, “Ritratto di Irene” e “Ritratto di Suzanne. Il pensiero torna all’Accademia d’arte di Toronto da lui frequentata  con l’osservazione delle modelle e lo scalo aereo con la varia umanità  che passava sotto ai suoi occhi.

L’insieme dimostra come sia riuscito a rendere docile la materia  facendole recepire la sua ricerca dei dettagli figurativi, perché tale è l’ispirazione avuta dalla realtà, e può farlo attraverso la creta e il successivo affinamento della fusione in bronzo. Ottiene in questo modo il risultato tipico della pittura, dove sono ammessi ripensamenti e dettagli minuziosi, trasferito alla scultura che diviene così la “pittura tridimensionale” di cui si è detto.

Le sfere di bronzo, la “Reincarnazione dell’Universo”

Anche la figura maschile entra nella sua produzione, segnaliamo il dolce “Ritratto di Alex”, il più severo “Uomo con barba” e il “Mio antenato”, poi va oltre questi soggetti umani per assumere soggetti dal  valore universale.

Come passa Mastrodascio dall’individuo all’umanità? Mediante le sue sfere nelle quali si affacciano dei volti, ne vediamo esposta una di piccole dimensioni della serie “Genesi”, un vero gioiello in cui l’arte si associa alla meccanica, ruota sul suo asse come la sfera terrestre. Si tratta di un filone da lui sviluppato in una serie di opere dai titoli eloquenti, per ognuno una serie plurima: “Canadian dream”e “Sogno Indu”, “Il seme della vita” e “La luce e la vita”, “Evolution of the World” e “Reincarnazione“. E anche opere più elaborate sulla stessa base sferica come “L’albero della saggezza” e “Armonia dei sogni”.

A queste sfere di quasi mezzo metro di diametro si richiamano le più grandi sfere da arredo urbano, che fanno parte della sua produzione, anch’esse sui temi dell’Universo. Una di queste si trova proprio nella seconda piazza di Montorio,. È la “Sfera alata”,  come se la terra abbia messo le ali, un nugolo di piccioni volteggia intorno, le loro ali viventi sulle ali simboliche della scultura.

Non ci fermiamo qui, andiamo a rivedere la più grande sfera di bronzo sulla “Reincarnazione dell’Universo”. Ricordiamo quando era stata collocata al centro della principale piazza di Teramo, Piazza Garibaldi, investita da polemiche perché accusata di interrompere la visuale che dal Viale Bovio con la preesistente fontana arrivava fino al Duomo. Nulla di più fuori luogo, peraltro l’ipogeo che è stato “eretto”  al suo posto – contraddizione in termini, ma tant’è –  è ben più invasivo. La sfera, però, ha avuto una collocazione adeguata, nello svincolo tra l’accesso alla  superstrada, la salita dei Cappuccini-Porta Romana e la via verso la Specola, tutti luoghi-simbolo di Teramo.

E’ un crocevia che accoglie i visitatori del capoluogo, ganglio pulsante della vita concitata, sempre più ansiosa e insofferente, dei tanti automobilisti che girano nella la rotonda.  Mentre la sfera di Mastrodascio sembra richiamare a una superiore serenità, espressa dai volti  che si affacciano sulla superficie del globo a testa alta, nella consapevolezza della  persistenza dei valori e dell’umanità che sfida il proprio tempo, misurato dai piani orizzontali proiettati verso l’alto. E’ la varia umanità che l’autore ha incontrato nella sua lunga vita professionale tra gli scali aerei e le più diverse provenienze e destinazioni in tante parti del mondo e rende protagonista della reincarnazione.

L’abbiamo raffrontata idealmente alla “Grande sfera” di Arnaldo Pomodoro nello sterminato piazzale della Farnesina a Roma, e le abbiamo trovate complementari. Quella di Mastrodascio fa sentire vicina un’umanità fiduciosa su cui poter fare affidamento nel dipanarsi vorticoso e spesso disumano della vita moderna; la sfera di Pomodoro con le sue fenditure e le rugosità che richiamano i grattacieli alienanti, l’inclinazione dell’asse che proietta nell’universo, ne fa sentire la lontananza. Sono le due lenti attraverso le quali si può vedere l’umanità, adatte alle rispettive collocazioni.

Siamo partiti dalla dimensione locale del “ritorno a casa” dell’emigrante di lusso assurto a fama internazionale per la sua arte; anche le sue opere dalla dimensione individuale di teste e figure assurgono a un valore universale con le sfere della “Genesi” e della “Reincarnazione”.  Non c’è dubbio che solo per questo la “Vetrina del parco” di quest’anno potrà essere ricordata, per il resto i gravi  limiti cui abbiamo accennato consigliano di voltare pagina al più presto: fare una vera “vetrina del Parco” oppure cambiare nome alla festa, così sembra un’indebita usurpazione.

Info

“Mastrodascio”, Monografia con un testo critico di Maurizio Calvesi  2010, Aipem e Ginga S.p.A, pp. 210, formato 25×30. Cfr. i nostri precedenti articoli: sulla “Vetrina del Parco”, in questo sito il 3 ottobre 2013 dal titolo “”Vetrina del Parco, a Montorio manca il Parco”, in “cultura.inabruzzo.it” l’11  settembre 2009 “Vetrina del Parco a Montorio al Vomano” e “Il ‘Chaos’ di Alice, opere cosmiche ispirate al terremoto”; su Mastrodascio,  nel sito ora citatoil 20 ottobre 2013 “Montorio al Vomano. Il ritorno di Mastrodascio”, nella rivista a stampa “L’oleandro” del dicembre 2006 con il titolo “Ritratto di artista. Mastrodascio”.

Foto

Le  immagini delle sculture sono state riprese da Romano Maria Levante a Montorio al Vomano durante la manifestazione, si ringraziano gli organizzatori e i titolari dei diritti, in particolare l’artista scultore Silvio Mastrodascio, per l’opportunità offerta. Ne sono state scelte, alternandole, due per le tre posizioni tipiche, con la figura in piedi, seduta su una sedia o rannicchiata a terra, e diverso abbigliamento.  

“Vetrina del Parco”, è mancato il Parco, a Montorio

di Romano Maria Levante

Nell’intenso week end di fine estate dal 6 all’8 settembre 2013 si è svolta la XVIII “Vetrina del Parco” come sempre a Montorio al Vomano, dove si apre la “strada maestra” che sale verso il passo delle Capannelle tra le pendici del Gran Sasso e dei  Monti della Laga nella vallata del fiume Vomano, per poi scendere verso Arischia ed Amatrice, dopo aver superato il valico.

Il presidente della regione Abruzzo Gianni Chiodi l’ha definita “una delle aree più belle della regione: quel Parco del Gran Sasso e Monti della Laga che abbraccia due aree importanti dell’Abruzzo creando un continuum tra l’interno aquilano e la costa teramana”.

Spicca in questo “continuum” il culmine degli Appennini con le vette dolomitiche dei due Corni,  il suggestivo scenario del “gigante che dorme”, il declivio erboso degradante dei Prati di Tivo  e il “borgo dell’anno 2007”, tra i “borghi più belli d’Italia” dal 2005 e nei 400 “borghi più belli del mondo” dal 2013, Pietracamela; poi Cerqueto e Fano Adriano,  Isola e Forca di Valle per restare dalla parte del Gran Sasso, Crognaleto e i numerosi borghi da Aprati a Nerito, Poggio Umbricchio e San Giorgio, Alvi e Tottea, Cesacastina e Senarica, Cervaro e Valle Vaccaro dalla parte dei Monti della Laga. E’ la “via del gusto” – come viene definita – di cui la  manifestazione avrebbe dovuto rendere il fascino attraverso il coinvolgimento popolare nella musica e gastronomia, e mediante l’approfondimento culturale in mostre e incontri legati però strettamente al territorio.

E’ mancata la magia dei luoghi, i borghi assenti

E’ stato fatto un tentativo di coniugare le tipicità enogastronomiche e naturaliste con i richiami dell’arte e della cultura. Lo riteniamo fallito perché c’è stato un grande assente, il vero protagonista, cioè il territorio nelle espressioni caratteristiche dei suoi borghi;  la “vetrina” ne ha mostrato uno sprazzo con il volume “Montorio al Vomano. Immagini per la memoria”, giusto riconoscimento alla “porta” del Parco: una raccolta di immagini d’epoca lungo cinque secoli di storia locale, con dotte introduzioni storiche: fotografie e documenti, cartoline e disegni, mappe e vedute hanno ripercorso le trasformazioni urbanistiche in una sorta di affascinante “Montorio sparita”.

Ma qui ci si è fermati, degli altri borghi nessuna traccia; né la lacuna si può dire colmata dalle immagini pur straordinarie di “Sua Maestà il Gran Sasso d’Italia”, nel volume presentato e nella mostra spettacolare nel “Chiostro” – è divenuto itinerante tra L’Aquila e Ascoli, Ancona e Torino, Roma fino a Bruxelles – di preziosi documenti visivi d’epoca: a partire dall’immagine del 1573 del primo conquistatore  Francesco De Marchi, in un iter incalzante di foto in bianco e nero degli anni ’30 e ’40, con incisioni e disegni, mappe e appunti i viaggio, nonché cartoline e manifesti.

Ricordiamo al riguardo che nella “Vetrina” del 2009 le gigantografie del Gran Sasso erano all’esterno in Piazza Orsini, in un coinvolgimento che nell’anno del terremoto fu maggiore dell’edizione odierna, anche per i convegni e le mostre – ricordiamo il “Chaos” di Alice – ispirati al dopo terremoto. In quell’anno ci trovammo ad apprezzare lo sforzo compiuto, pur con gli evidenti limiti, che invece furono al centro di critiche penetranti come quella che arrivò a definirla “La vetrina ‘nel’  Parco”, come passerella per personaggi vanesi più che specchio del territorio. Ebbene, da allora, quando c’era l’attenuante del terremoto, la situazione ci è apparsa peggiorata, per cui l’aspra critica che fu elevata diventa ben più calzante oggi: torna di assoluta attualità.

Quest’anno forse non si è avuta neppure una vera passerella, personaggi ci sono stati ma con presenze fuggevoli, i convegni hanno brillato per lo scarso coinvolgimento, al punto da contare pochissime presenze. Certo,è il prezzo che si paga quando si ignorano i tanti borghi che avrebbero potuto e dovuto essere chiamati a partecipare con le loro realtà e le loro presenze. Perché sono loro a dare vita alla montagna e alla natura con la storia scolpita sulle pietre dei  muri e dei vicoli.

Assenti i borghi, assente l’Ente Parco a livello espositivo – lo stand era ben povera cosa,  non diciamo di più per carità di patria  –  anche se il Presidente Arturo Diaconale è intervenuto il 30 agosto all’anteprima della mostra sul Gran Sasso e il direttore Marcello Maranella ha fatto una rapida comparsa alla presentazione del “Progetto Tramontana”.  

La magia dei luoghi è mancata per l’assenza dei borghi dalla “Vetrina”, mentre nelle “catacombe” del “Chiostro degli Zoccolanti”, con le sue pietre e le sue arcate, il respiro della storia popolare si è sentito attraverso la mostra permanente di costumi d’epoca e antichi mestieri,  una straordinaria ricostruzione di usi e tradizioni con una dovizia di reperti d’epoca che è stata la  vera scoperta per chi l’ha trovata mentre inseguiva gli incontri e le mostre. Gli ambienti di un tempo che sembra remoto anche se non è troppo lontano cronologicamente sono stati ricostruiti non solo in miniatura ma anche a grandezza naturale, creando un’atmosfera suggestiva. Si deve alla manifestazione se il prezioso giacimento culturale è stato conosciuto da chi ne ignorava l’esistenza dato che non è pubblicizzato come meriterebbe; è un merito indiretto che riconosciamo, poi ne citeremo un altro.

Il “Progetto Tramontana”, il pittore e il poeta, il pittore e lo scultore

La mostra permanente è stata lo sfondo prestigioso ai primi piani dati dalla “Vetrina del Parco”  alle immagini fotografiche d’epoca di Montorio e del Gran Sasso presentate nei due volumi  e nelle relative mostre cui si è accennato; e al “Progetto Tramontana”, un’iniziativa europea sulle comunità montane di lingua romanza che esplora il campo intrigante della “toponomastica narrativa” per scavare nell’origine dei nomi delle località in modo da ricostruire brani di storia locali vissuti nell’immaginario individuale delle persone intervistate: è la cultura locale espressione dei toponimi popolari radicati in storie lontane, mentre i toponimi ufficiali riproducono  “in loco” temi e personaggi della storia nazionale. Un “amarcord”  visivo e sonoro con le interviste nostalgiche su “I luoghi della memoria” presentate da Giovanni Agresti, responsabile del progetto e con i filmati sulle produzioni gastronomiche tradizionali presentate da Gianfranco Spitilli, autore di ricerche e libri fotografici su usi e costumi locali che ha illustrato “Pastori e pizze dolci”. Agresti ha ricordato anche la complessa ricerca in corso sul dialetto di Pietracamela, il “pretarolo”, che oltre a differenziarsi nettamente dagli idiomi d’Abruzzo mostra una dinamica evolutiva che ne accresce l’interesse e richiede un approfondimento attraverso generazioni che vanno riducendosi sempre più.

Gli intervistati del “Progetto Tramontana” sono soprattutto degli sconosciuti ma non solo, riconosciamo Di Giosa che è tra gli organizzatori della manifestazione mentre fornisce la sua testimonianza sonora e visiva. Come nel volume “Conosciamoci e facciamoci conoscere”, di Alida Scocco Marini, con “personaggi noti e meno noti della provincia di Teramo” dopo il primo volume dedicato al capoluogo, ne è stato preannunciato un terzo dedicato a esponenti della cultura a livello regionale, con l’area di riferimento estesa all’intera regione nel denominatore comune della cultura.

In questo rapido excursus sui vari momenti della “Vetrina del Parco” vogliamo soffermarci sulle esposizioni artistiche. Abbiamo ritrovato i dipinti di Paolo Foglia, alcuni dei quali già presentati nella mostra “Pietracamela in Arte” del 16-17 agosto, con le poesie di Francesco Barnabei, nell’abbinamento pittore-poeta anche qui esposti “en plein air” valorizzando il coinvolgimento popolare “on the road”, in un largo confinante con gli spazi gastronomici e musicali. Rivedere l’inquietudine dei volti maschili e l’attesa serena dei nudi femminili, ritrovarvi l’eco dei versi del poeta, inquieto e proteso verso qualcosa di agognato come la donna, è stata una piacevole sorpresa.

Poi le due grandi mostre d’arte alla Sala Conferenze del “Chiostro”,  il primo piano della sede espositiva che nelle “catacombe” del piano inferiore ospita la  nostra permanente dei costumi locali che abbiamo ricordato. La mostra di pittura dei Kostaby, Mark & Paul, intitolata “Sound and Dreams”,e la  mostra “Le sculture di Silvio Mastrodascio”. In comune la caratura internazionale conquistata in America, Mark Kostaby di origine estone affermatosi a  New York, Silvio Mastrodascio nato a Cerqueto vicino Montorio e affermatosi a Toronto da artista e lavoratore.

Entrambe le esposizioni ricche e spettacolari, complementari nella loro netta diversità. Gli oltre 40 dipinti espressione di immagini oniriche e ambienti metafisici, di volta in volta allusive o angosciose, le 25 sculture di visi e corpi femminili riflesso di una classicità ferma e serena.

Le metafisica onirica nelle allucinazioni pittoriche di Mark Kostaby

Per interpretare la metafisica onirica dei dipinti di Mark Kostaby, “Sound and Dreams”,  occorre riferirsi alla posizione dell’artista nella temperie artistica dell’East Village dove si  immerse con il trasferimento da Los Angeles, la città natale, a New York nel 1982. Nella “grande mela” fu esponente della ribellione al consumismo  e alla mercificazione dell’arte, anche con autointerviste provocatorie e nel 1988 fondò “il Konstaby World”, tra la bottega rinascimentale e la “factory” moderna alla Warhol, un atelier nel quale con l’aiuto di assistenti e allievi produsse un gran numero di opere. Nel 1996 “scopre” Roma, che diviene l’altra sua sede oltre a New York e lo mette in contatto con i grandi maestri del passato, il cui insegnamento si coniuga con la sua contemporaneità di artista moderno legato alle tematiche di un mondo sempre più inquieto.

Nelle sue opere si riflettono la solitudine della condizione umana e l’alienazione del consumismo,  il materialismo imperante e  l’invadenza della tecnologia, fino all’aggressione del sistema mediatico. L’atmosfera enigmatica di marca metafisica è evidente nei manichini con la testa a uovo, senza volto, lisci e glabri, senza colore, diversi da quelli di Giorgio de Chirico ma altrettanto allusivi; mentre l’atmosfera allucinata di tipo onirico è indotta da maschere ossessive, che ricordano quelle con cui Pablo Echaurren esorcizza il male evocandolo in immagini che lo allontanano nella realtà. Il segno è netto e ben delineato, i colori si alternano al bianco e nero, sono caldi o freddi senza sfumature, un eclettismo cromatico in una unitarietà stilistica pur nella di versa atmosfera delle sue composizioni.

La galleria della mostra è di una straordinaria ricchezza ed espressività, c’è anche un “Omaggio all’Abruzzo”,  una sintesi suggestiva delle bellezze naturali, dal mare alla montagna, con le delizie enogastronomiche e i due manichini in posa beata, sullo sfondo il caratteristico  borgo abruzzese.

Non proviamo neppure a riassumere i motivi delle composizioni, ci sono anche ambientazioni modernissime, come quella dei manichini in una mostra d’arte dove si riconosce l’opera trasgressiva di Duchamp, la celebre “Fontana” con l’orinatoio divenuto arte, tra altri “ready made” e quadri astratti; e ambientazioni fantastiche, dominate dalle maschere ossessive che rappresentano una presenza incombente.

Il tempo di dare uno sguardo alle “Ceramiche di Castelli” esposte nella stessa sede , prima di passare all’altra mostra d’arte nella Sala Conferenze del Chiostro, quella di Mastrodascio.

La serenità classica nella bellezza muliebre delle sculture di Mastrodascior

Anche per la mostra “Le sculture di Silvio Mastrodascio” le note biografiche aiutano nell’interpretarne l’opera artistica. Dagli Appennini alle Ande, dal Gran Sasso della sua Cerqueto ai monti Appalachi di Toronto, dove lavora come caposcalo di Toronto nella compagnia aerea di bandiera, dopo un passaggio lavorativo per Roma dove realizza l’onda verde in tre arterie viarie.

Nel suo lavoro all’Alitalia c’è la fonte dell’ispirazione con il passaggio alla scultura, dopo l’iniziale espressione artistica nella pittura, soprattutto paesaggi della sua terra prima dello sbarco nel nuovo mondo. Lo colpisce a Roma una scultura di cavalli di Marini; poi a Teramo una figura di donna di Crocetti,  ne raccoglierà l’eredità completando con un’opera dal forte significato simbolico il lavoro del Maestro per il Duomo del capoluogo. Il mecenate di Crocetti, Antonio Tancredi, lo sarà anche per lui, con i busti per l’esposizione all’aperto nella passeggiata dei “Tigli”, prima del grande “Monumento ai Caduti” di Crocetti, nel percorso sovrastato dalla “Piccola Loggia dei Lanzi” della terrazza-giardino della Banca di Teramo voluta e realizzata da Tancredi nella sua intensa attività di promozione artistica: lì si possono ammirare “Il Giovane cavaliere della pace” e “San  Michele”, “La Modella che si spoglia” e la “Danzatrice in  riposo” di Crocetti, i busti di Mastrodascio non sono lontani, e così la monumentale sfera di bronzo “La reincarnazione dell’universo”, prima al centro di Piazza Garibaldi, poi spostata nel largo di Porta romana tra l’approdo dell’autostrada, la salita dei Cappuccini e la strada per la Specola.

La sfera alla Pomodoro la troviamo anche alla mostra di Montorio in piccole dimensioni, un vero gioiello, girevole sull’asse, ma le 25 sculture del salone delle Conferenze e le altre distribuite nel portico del cortile inferiore sono soprattutto immagini di donne di un bronzo satinato, che rivelano la nudità di una pelle ambrata e dorata oppure vesti leggere, elaborate e preziose. Per la loro raffinatezza spinta al dettaglio che impreziosisce la materia di riflessi e vibrazioni nonché per la naturalezza di posizioni ed atteggiamenti che la rende viva si è parlato di “pittura tridimensionale”.

Nelle figure sedute il tono è dato, oltre che dalla posizione di gambe e braccia, dalla panca, sedia o sgabello che compaiono anche nei titoli, insieme al riferimento ad Agata o Alexandra, Modella o  Dea della sapienza; nelle figure in piedi dalla ricchezza delle vesti, come in Dolce serata o Serata di gala,  e, per converso, dalla purezza dei nudi in Barbara, Eleonora, Libertà e pudore, o dai gesti vezzosi, come in Madre con bambino, Ritorno dal mercato e Modella in posa.

Vi ritroviamo le sue osservazioni delle attese nello scalo di Toronto, non limitate all’aspetto esteriore ma spinte verso l’espressione interiore. L’insieme sprigiona una forte sensualità, anche perché la materia è viva, la “pelle della scultura” – così l’ha definita Silvia Pegoraro – è la pelle delle donne nella loro carnalità conturbante, protetta da una dignità che si traduce in lui in ammirazione e rispetto. C’è anche del romanticismo, come se in tutti questi incontri fugaci abbia voluto esprimere la ricerca dell’incontro che illumina la vita: in “Buongiorno”  lo vediamo realizzato nella figura avvolta di una veste preziosa dalla cintola in giù e con i seni protesi e un gesto vezzoso tra l’abbandono e la difesa.

E’ l’umanità della persona che si manifesta nei particolari raffinati della sua “pittura tridimensionale” e nei colori ambrati  che danno pelle alla sua scultura, nella  nudità esibita con gioia o velata dal pudore, sempre discreta e riservata, espressione di un intenso sentire interiore.

Con Mastrodascio si sono toccati i vertici dell’arte più pura restando legati al territorio, Cerqueto è vicino a Montorio, l’origine dai maestri d’ascia suoi antenati ci ricorda il lungo cammino percorso, del resto ci ha detto che, dopo l’impressione ricevuta dalle mostre di  Marini e Crocetti, la spinta decisiva per passare alla scultura la ebbe nel deserto del Sinai allorché una tribù beduina gli diede per centocinquanta dollari una piccola scultura egizia che conserva ancora, pulita ed essenziale nelle linee e nelle forme, che gli ispirò la prima scultura, una testa altrettanto pulita ed essenziale. Da allora mostre in diverse città del mondo dopo la prima esposizione del 1978 a Toronto, da New York e Winnipeg a Montreal e Brampton, da Monaco di Baviera a Città del Messico, e ovviamente in Italia. Il cittadino del mondo è tornato a casa, nel suo Abruzzo, anzi nel suo Gran Sasso, e di questo, oltre che dell’averci fatto conoscere la mostra permanente di antichi mestieri e costumi,  non di altro, dobbiamo essere grati alla “Vetrina del Parco” nell’edizione 2013. Ne riparleremo presto.

L’impressione finale e una considerazione conclusiva

Usciamo dal “Chiostro” con la forte impressione dell’uno-due pittorico e scultoreo di Kostaby e Mastrodascio. Siamo avvolti dalla “movida” musicale ed enogastronomica tra Piazza Orsini e il cortile interno del “Chiostro” dove si sono alternati, dopo l’anteprima del 30 agosto del “Passagallo Trio” con la musica abruzzese, diversi complessi, nel “Chiostro” il portico ingentilito dalle statuette di Mastrodascio: sono“Alla Bua” con musiche salentine e “Taraf de Gadio” con motivi tzigani, “Marta sui tubi” con l’irridente contemporaneità fino a formazioni quali la band di Eusebio Martinelli con la musica balcanica e la musica swing del Trio Lady Laura, il violin show di Virginia Galliani e la musica e cabaret di Nunzio One Man Show. Nella chiesa di San Rocco la corale Giuseppe Verdi ha portato la sua polifonia e il suo folklore di fama internazionale.

Che dire in conclusione? La “via del gusto” è lastricata di tanti motivi, occorre valorizzare la  forte identità che dà a un territorio ricco di attrattive dei punti di forza da su cui fare leva. Natura e arte, tradizione e cultura, sono gli ingredienti, la “vetrina” ne ha presentato solo alcuni omettendo quelli principali, cioè la storia e la realtà dei borghi, il territorio, in definitiva il Parco.

Se non rimedierà a questa grave lacuna non potrà più chiamarsi “La Vetrina del Parco”, dovrà accettare di essere derubricata ad una delle sagre popolari di cui l’estate abruzzese è fin troppo ricca, magari chiamandosi “La Vetrina del gusto”. Ma “Vetrina del parco” no, altrimenti rischierà di danneggiarne l’immagine perché sembrerà che nel Parco non c’è nulla di attraente o presentabile, oltre a quanto le kermesse gastronomiche propongono in  tante località. E’ un rischio inaccettabile!

Info

Per i riferimenti del testo alla “Vetrina del Parco” 2009 cfr. in “cultura.inabruzzo.it”, il nostro articolo dell’11 settembre 2009 “Vetrina del Parco a Montorio al Vomano di Teramo” e quello di Giovanni Lattanzi “La vetrina ‘nel’ Parco” del 12 settembre 2009. Sulla mostra dello scultore cfr. il nostro articolo nel sito citato del 24 settembre 2013, “Montorio al Vomano. Il ritorno di Silvio Mastrodascio”. Per articoli sul territorio cfr., sempre in “cultura.inabruzzo.it”, i nostri servizi su Crognaleto il 29 luglio 2009, e Tottea il 6 settembre 2010, Forca di Valle 3 articoli nel dicembre 2010, e quelli su Pietracamela:nel 2009 l’8 gennaio e il 21 aprile, il 22 giugno e il 15 agosto, il 9 e 12 settembre; nel 2012 il 3 e il 14 settembre; nel 2013 il 15 agosto, il 9 e 12 settembre; sempre su Pietracamela in “guida fotografia.com”, settembre 2012 e 2013; in questo sito il 27 agosto 2013. Per i riferimenti del testo alle mostre pittoriche di altri artisti cfr. i  nostri articoli su Giorgio de Chirico in questo sito nel 2013 il 20, 26 giugno e 1° luglio, in “cultura.inabruzzo.it”  nel 2009 il 27 agosto, 23 settembre e 22 dicembre, nel 2010 l’8. 10 e 11 luglio;  e su Pablo Echaurren in questo sito nel 2012 il 23, 30 novembre e 14 dicembre.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla manifestazione a Montorio al Vomano, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, una foto d’epoca della montagna dalla mostra nel  “Chiostro” , “Sua Maestà il Gran Sasso d’Italia”,  dal volume omonimo; seguono due immagini d’epoca dalla mostra in piazza Orsini  “Montorio al Vomano. Immagini per la memoria”, anch’esse dal volume omonimo, e le Donne in attesa di  Paolo Foglia della sua mostra pittorica “on the road”; poi due dipinti della mostra “.Mark Kostaby. Sound and Dreams” nello spazio espositivo superiore del “Chiostro” e una scultura della mostra  di“Mastrodascio” nella stessa sede espositiva; in chiusura, in primo piano  una delle sculture di Mastrodascio esposte nel cortile del Chiostro,  ripresa durante una manifestazione  della  “Vetrina del Parco”.   

lkay Samli, i colori per un sincretismo religioso, all’Ufficio culturale turco

di Romano Maria Levante

Dall’11 settembre all’11 ottobre 2013 presso l’Ufficio cultura e informazioni della Turchia a Roma, un’altra tappa del cammino congiunto arte-misticismo che l’Ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede, Kenan Gursoi, sta portando avanti attraverso mostre pittoriche ispirate a grandi richiami mistici. Nel marzo scorso lo fece con la mostra “I colori dell’opera ‘Mesnevi’ di Rumi su tela”  della pittrice Tulay Gurses; questa volta con la mostra della pittrice Ilkai Samli, il cui Richiamo dei Colori” si ispira ai versetti del Sacro Corano e utilizza una tecnica “goccia a goccia” che riporta alla sintesi delle particelle verso l’unità mediante la meditazione per penetrare il mistero E’ intrigante come una forma d’arte come la pittura, dove tutto è visibile e palese, sia utilizzata in un modo del tutto particolare per esprimere contenuti appartenenti non alla realtà o all’interiorità personale, ma alla fede; e questo con  una tecnica, non utilizzata in Occidente, che a sua volta è lo strumento per rendere un processo cosmico di convergenza delle singole componenti verso l’Unità.

Ebru,  una tecnica che diviene arte

Cominciamo con il disvelare questa tecnica, di nome Ebru,  “nube” o “simile a una nuvola”, “venatura increspata” o “superficie acquosa”, definita così dall’artista che l’ha utilizzata per le opere presentate: “Un’arte di raffigurazione realizzata con il riversamento su carta di tinte a base di terreno battuto con acqua distillata e fatte galleggiare su acqua raddensata”.

Nella pratica l’acqua crea uno specchio su cui si forma  la tavolozza cromatica mediante pigmenti oleosi diluiti in trementina, per effetto della bile bovina che dà luogo alle condizioni fisico-chimiche per la  loro deposizione sullo specchio liquido secondo il disegno dell’artista, che utilizza delle assicelle per spostare le gocce di pigmento sospese nell’acqua. Questa formazione liquida con sospensioni oleose viene trasferita sul foglio che vi viene poggiato sopra e viene ritirato quasi subito perché l’acqua vi penetra lasciandovi i propri segni e colori; poi si asciuga e l’opera è nata. Nulla di segreto, l’artista ne ha fatta una dimostrazione pubblica, cui è stato dato il nome “Dipingere sull’acqua”,  il 12 settembre, due giorni dopo la presentazione, a Palazzo Baleani sempre a Roma.

L’arte dell’Ebru, nata in Asia centrale e diffusa lungo la Via della Seta,  essendo basata sulle gocce di pigmento insolubili che si ricompongono sull’acqua, rende la superficie “marmorizzata”, e lo si vede nei risguardi di libri preziosi come in antichi documenti e carte di valore realizzati con questa tecnica; esemplari che risalgono al 1447 sono esposti nella biblioteca del palazzo di Topkapi, creazioni uniche, non replicabili né suscettibili di correzioni e cancellature. Venivano prodotti anche quaderni con la carta marmorizzata per i doni dell’Imperatore  alle famiglie reali europee e agli ambasciatori stranieri presenti a Istanbul.

Dall’Ebru  alla relazione cosmica tra l’uomo, l’universo e il divino

Il rapporto dell’artista Ilkay Samli con la tecnica Ebru è molto stretto, l’ha imparata  dal maestro  di fama mondiale HIkmet Barutcugil e – si legge nella sua biografia – “quando si è accorta del fatto che l’arte di Ebru sia l’arte di arrendersi ad Allah e dei misteri dell’esistenza, ha cominciato il master per poter addottrinarsi nella traduzione e l’interpretazione del Sacro Corano”. Siamo nel 2001, nel dipartimento degli Studi islamici alla Facoltà di Teologia  dell’università, l’artista ha 30 anni, l’argomento della sua tesi è “Il fatto dell’arrendesi ad Allah nel Corano e l’interpretazione di Inb-i Arabi”; dal 2006 al 2013 ha insegnato l’arte di Ebru a 500 appassionati.

Da quanto abbiamo premesso si può comprendere come siamo dinanzi a qualcosa di più, e non solo di diverso, di una tecnica  o di uno stile, entriamo nel campo della spiritualità e del misticismo.

L’ambasciatore Kenan Gursoi lo ha fatto capire chiaramente nell’introduzione, sottolineando il “rapporto con la tradizione cristiana della cultura occidentale” e definendo “i colori e la loro armonia  simbolo della creazione collegato al concetto di pace”; riferendosi alla tecnica seguita,  ha precisato che “sono colori allo stato puro come in natura, non artificiali”, e rendono “la saggezza del divino respiro universale”.  Con il  rispetto delle regole della creazione, ha concluso,  “ci si libera dall’egoismo verso la giustizia e la trascendenza divina”.

A lui ha espresso gratitudine l’artista per “aver sempre invitato alla meditazione”, e per “aver insieme eseguito il ‘richiamo dei colori’, ma soprattutto per aver insieme ascoltato quel ‘io’ divino della moltitudine”. Siamo nel campo della spiritualità più alta, vediamo ora come si coniuga con l’arte, anch’essa nobile ed elevata, nel dare espressione terrena e tangibile a qualcosa di superiore.

E nel riflettere qualcosa di misterioso:  Maometto, alla domanda “dov’era Dio prima di creare l’Universo” rispose “in uno spazio indeterminato e senza tempo”, usando la parola “ama” che oltre a indeterminazione significa segretezza e anche nuvola, cosa che ci riporta all’Ebru. Ma l’artista va ancora oltre nell’introdurre le proprie opere:  “Nel Macro Universo, o più specificamente in tutti gli esseri viventi – afferma –  ogni particella esistente rappresenta soltanto un unico e singolo nome di Dio”; mentre “i limiti fisici e l’aspetto di ciascuna di queste particelle, tra le quali non vi è alcuna esplicita correlazione, sono come uno specchio nebuloso deformato  costituito da punti separati”.

Per concludere:  “L’essere umano, invece, che è parte del Micro Universo, è la cera di questo specchio; giacché la struttura di tutto l’universo è molto evidente e, mediante l’intercorrelazione di tutte le sue particelle tra di loro fino a formare un unico ‘io’, si riflette nell’essere umano”. La metafora dell’Ebru non potrebbe essere più calzante ed eloquente: “Anche l’arte Ebru, proprio come nello ‘ama’ di cui sopra, realizza il proprio richiamo goccia a goccia, con espressioni dall’aspetto nebuloso formate da svariati colori”. E in particolare l’esposizione delle 28 opere, nelle parole della stessa artista, “dovrebbe essere considerata alla luce del pensiero spirituale di Ibn Arabi, mistico Sufi musulmano del XII sec., che prende il nome dell’Unicità dell’Essere”: le singole gocce insolubili che si ricompongono nello specchio acquoso.

Le opere devozionali sul Dio unico, altissimo

Da quanto abbiamo riportato risulta evidente l’impossibilità di penetrare nei significati reconditi dei dipinti da parte di chi non è immerso nella spiritualità e nella cultura che ne è la fonte ispiratrice. Ci limitiamo, quindi, a qualche constatazione basata sugli elementi che possiamo percepire e decifrare.

Notiamo subito che 18 opere  comprendono lettere calligrafiche i cui autori, gli Hattat, sono indicati nominativamente: Arif Yucel per ben 6 opere, Alì Toy per 3, Mustafa Cemil Efe  Huseyin Gunes per 2, più Deniz Cimen,e Musa Mahmut, Munevver-Kaya Ucer, Levent Karaduman e Emin Barun. Le gocce di pigmento si sono coagulate in queste grandi iscrizioni arabe, al centro del quadretto, di diversi colori oltre che differente forma, sempre calligrafica.  

Ci viene indicato che la prima lettera dell’alfabeto arabo, Alef, indica l’essenza di Dio, il mistico Ibn Arabi vi identifica la voce e lo Spirito di Dio e la ritiene “assoluta” e “inglobante”, è una A che simbolizza Allah, il Dio unico, le sue qualità si riunificano nell’essenza divina.  Si insiste nell’identificare la Divina verità nell’Unicità dell’Essere, “Lui è tutto e niente, e niente è Lui. E lui è onnisciente”.

Per questo la lettera o le lettere composte dall’emulsione dell’Ebru  sono qualcosa di ben diverso da un’espressione grafica, sono un’espressione spirituale e di fede ai livelli più elevati. Ciascuna ha un titolo che ne riassume il contenuto, ne citiamo alcuni: “Nel nome di Allah” e “Quel Allah che…”, “Il Vivente” e “Colui che sussiste da se stesso”, “Il Custode” e “L’Altissimo”, “Il Sublime” e “Verità assoluta”, “Misericordia per i mondi” e “I veri discepoli di Maometto”, Le doppie Waw” e “Le Waw che scorrono”.  I versetti del Corano cui si ispirano ne ricordano le qualità soprannaturali, nella ben nota assonanza con le altre divinità monoteiste, quella cristiana in primis: “Creò l’uomo da un gene” e “Il tuo Signore è l’Incessante Creatore, il Sapiente”;  “Il suo Trono è più vasto dei cieli e della terra” ed “Egli è l’Altissimo, l’Immenso”.

Concetto questo espresso in 4 opere  con un elemento centrale solo o dominante. In “L’Unico” è rappresentato come un numero uno: “Dì: ‘Egli Allah è Unico. Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato, e nessuno è uguale a Lui”;  in “Signore degli Universi”, il numero uno è raddoppiato, intorno a un fiore, mentre in “Il potere assoluto” si eleva in una vetta stilizzata, segnata da questo versetto: “Chi agogna l’onnipotenza, sappia che l’onnipotenza compete solo a Dio; a Lui ascendono le buone parole ed Egli accetta le buone azioni”; fino a “L’autentico possessore” nel quale “il creatore” ha un’immagine che nella concentricità dei cerchi ricorda l’empireo dantesco: “Egli fa compenetrar la notte nel giorno e fa compenetrare il giorno nella notte; e vi ha asservito il sole e la luna… tale è l’opera d’Allah, vostro Signore e Suo è il Regno”.

Le opere terrene di forte spiritualità

Gli altri 10 dipinti esprimono dei contenuti figurativi a loro volta riflesso di una profonda spiritualità ma più terrena. “Rota fortunae” è un volteggiare di piume variopinte su fondo viola, il versetto recita: “Egli ha creato per voi tutto quello che c’è sulla terra. Poi si è rivolto al cielo e lo ha ordinato in sette cieli. Egli è l’Onnipotente”. Con “La Genesi” si va alle radici, sono agglomerati di cellule che si aggregano e si separano su fondo celeste: “Creammo l’uomo con argilla secca, da mota impastata. E in precedenza creammo i demoni del fuoco di un vento bruciante”.

“Il diavolo” è il titolo di un’opera con lingue di fuoco che si levano a lambire un fondo blu, i versetti evocano la ribellione: Gli angeli dinanzi ad Adamo “si prosternarono ad eccezione di Iblis, che non fu tra i prosternati. Disse (Allah): ‘Cosa mai ti impedisce di prosternarti, nonostante il mio Ordine?’ Rispose: ?Sono migliore di lui, mi hai creato dal fuoco, mentre lui lo creasti dalla creata’”.

Le fiamme percorrono orizzontalmente l’opera “Castigo del fuoco”, ispirata al versetto: “Signore, non hai creato tutto questo invano. Gloria a Te! Preservaci dal castigo del Fuoco”.

Il rosso è anche in immagini serene, come “I semi che germogliano”, ali incolonnate e rivolte verso l’alto: “Muhammad, il Messager di Dio, e i suoi seguaci son severi coi miscredenti, e indulgenti tra di loro… mentre nel Vangelo essi son paragonati ad un seme che emette il suo germoglio”.  Non è verticale ma obliqua la composizione “I cuori che si deviano dalla verità“, sono cuori divenuti fiori con l’anima verde quasi trascinati in basso: “Signor nostro, non lasciare che i nostri cuori si perdano dopo che li hai guidati e concedici misericordia da parte Tua. In verità Tu sei Colui che dona”.

Ma ci sono “I penitenti“, raffigurati con un fiore rosso dal lungo stelo su fondo celeste percorso da striature bianche: “Essi avranno in compenso il perdono del loro Signore e i Giardini in cui scorrono i ruscelli, e vi rimarranno in perpetuo. Che bella ricompensa per coloro che ben agiscono!”. E “Quelli che hanno perseveranza nella carità” sono raffigurati a loro volta da tre fiori rosa in un ovale prezioso, lo stesso fondo celeste, entreranno  nei “Giardini dell’Eden”: “Pace su di voi, perché siete stati perseveranti. Com’è bella la vostra Ultima Dimora!”.

In definitiva, “Chi ha la pazienza raggiunge la Vittoria”,  l’immagine mostra una grande iscrizione bianca appena visibile nel denso agglomerato di fondo: “Coloro che perseverano… saranno benedetti dal loro Signore e saranno ben guidati”.

Fino a “La Resurrezione“, un dinamico susseguirsi di onde  vitali che si accavallano nelle tinte calde, l’ispirazione è in questi versetti: “E’ Dio che invia i venti i quali smuovono le nuvole che, poi, dirigiamo verso una landa brulla vivificandone, così, il suolo dopo la sua morte: similmente avviene la resurrezione”.

Si torna sulla terra con “Le foglie cadenti“, una pioggia di foglie che sembrano di edera, dal verde al rosso al marrone  con il versetto “L’era”: “Per l’era in corso, inver, l’umanità è in perdizione. Tranne quelli che credono e fanno il bene”. E si risale in alto con “La digradazione sacra”: “Dì: ‘Lo ha fatto scendere lo Spirito di Santità con la verità [inviata] dal tuo Signore, per rafforzare coloro che credono, come guida e buona novella per i musulmani”.

E non solo per loro, i cristiani si riconoscono appieno in queste parole – si pensi allo Spirito santo – ed è stata una bella occasione trovare conferme sul sincretismo religioso in una mostra d’arte, cosa non inattesa conoscendo il mistico Ambasciatore di Turchia presso la Santa Sede. L’ultima citazione vogliamo dedicarla a “I veri discepoli di Maometto”: il dipinto mostra  formazioni simmetriche molto armoniose su fondo rosa, saranno le figure parallele che si muovono in sincronia. Ce lo dicono i versetti, “nel nome di Dio, Clemente, Misericordioso”: “Dì: ‘Crediamo in Allah e in quello che ha fatto scendere su di noi e in quello che ha fatto scendere su Abramo, Ismaele, Isacco, Giacobbe e le tribù, e in ciò che, da parte del Signore, è stato dato a Mosè, a Gesù e ai profeti: non facciamo alcuna differenza tra loro e a Lui siamo sottomessi”.

Nessuna parola, in questa come negli altri versetti, si discosta dalle parole che siamo soliti ascoltare nei nostri riti religiosi. Dopo lo Spirito santo si nomina anche Gesù, e se invece di Allah ci fosse Dio, del resto usato nel titolo, l’omologazione sarebbe totale. E allora come possono nascere i conflitti di civiltà, le persecuzioni, l’Islam contro il Cristianesimo? Forse dall’ignoranza oltre che dal fondamentalismo. Ebbene, questa mostra ha il grande merito di  rompere questo muro, peggiore di quello dell’indifferenza, perché dall’ignoranza viene il pregiudizio e poi l’ostilità, fino all’odio.

Ritrovarsi immersi nello stesso mistero illuminati dalla medesima luce che squarcia le tenebre cercando di dare un senso alla vita e alla creazione non può che fare partecipi di un destino comune. Il dialogo religioso e il sincretismo non devono restare parole astratte: quanto illustrato dalla mostra con immagini suggestive e con evocazione di profonde meditazioni ci sembra più efficace di tante conferenze e tante dichiarazioni pur solenni ma che restano estranee al grande pubblico.

L’Ambasciatore Gursoi ha fatto già una cosa straordinaria nell’inaugurare la precedente mostra ispirata al mistico Rumi il giorno dell’intronizzazione di papa Francesco; per scoprire che Bergoglio è nato nello stesso giorno in cui, secoli prima, moriva Rumi, non estraneo, sembra, all’incontro di san Francesco con il Sultano.

Questa volta, ci sembra di poter dire, l’Ambasciatore è andato ancora oltre. Siamo sicuri che su questo piano ci farà ancora delle sorprese. All’insegna della meditazione e della spiritualità che accomuna tutti i credenti, quale che sia la fede; e anche i non credenti di buona volontà.

Info

Ufficio “Cultura e Informazione” della Turchia, Piazza della Repubblica 55-56, Roma, pressi Stazione Termini. Dal lunedì al venerdì ore 9,00-17,00, sabato e domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.4871190-1393; http://www.turchia.it/; turchia@turchia.it. Catalogo “Richiamo dei colori”, introduzione dell’artista Ilkay Samli, settembre 2013, pp. 60, formato 22×22. Per i riferimenti citati, cfr. in questo sito:  sulla mostra precedente il nostro “Tulay Gurses, a colori il misticismo di Rumi”  il 21 marzo 2013; per “Istanbul,viaggio nella ‘nuova Roma’” i nostri 3 articoli il 10, 13, 15 marzo 2013; per “La Via della Seta”  i nostri tre articoli il 18,21,23 marzo 2013. Ciascuno degli articoli citati è illustrato da 6 immagini.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra nell’Istituto culturale della Turchia, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; in particolare l’ambasciatore Kenan Gursoy e l’artista Ilkay Samli  che abbiamo ripreso davanti alle opere esposte. In apertura l’ambasciatore Gursoy e l’artista Samli all’inaugurazione, dietro di loro, da sinistra “Il potere assoluto”,”Quelli che hanno perseveranza nella carità”, “I penitenti” ; seguono “La Genesi” e “Il diavolo”; poi “La digradazione sacra” e “L’autentico possessore”; in chiusura un gruppo di 6 opere basate sulla grafica di lettere degli artisti della calligrafia, da sinistra in alto “L’Altissimo”, “Quel Allah che…”,  “Il Vivente”, in basso “Il Sublime”, “Il Custode”, “Colui che sussiste da se stesso”.

Pittura ungherese, la modernità del 1905-25, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Al centro dell’Anno culturale Ungheria-Italia 2013 la mostra “Il tempo della modernità. Pittura Ungherese 1905-25”, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 25 giugno al  6 ottobre 2013 con 140 tra dipinti ed altre opere. Realizzata dalla Galleria Nazionale Ungherese di Budapest e curata da Mariann Gergely con  Gyorgy Szucs è una straordinaria  esplosione di colori e di stili in cui si trovano tradizione e modernità, folklore e avanguardia, influssi stranieri e  atmosfere locali; un incontro suggestivo dell’impressionismo e delle avanguardie con il Fauvismo ungherese. Ne tracciamo le linee fondamentali sulla base delle puntuali ricostruzioni contenute nel Catalogo.

L’Anno culturale Ungheria-Italia 2013 comprende una serie di manifestazioni, letterarie e musicali, teatrali e cinematografiche; oltre alle mostre d’arte allestite nei due paesi. Questa in corso alla Gnam è, nelle parole di Laszlò Baàn, Direttore generale del museo delle belle arti e della Galleria nazionale ungherese, “l’esposizione più importante di pittura ungherese realizzata a Roma, una delle capitali culturali del mondo”. E la soprintendente alla Gnam, Maria Vittoria Marini Clarelli sottolinea come “nel periodo 1905-1925, i rapporti con l’Italia furono pochi ma significativi. Il più importante è certamente il rapporto con il Futurismo”, poi “un’altra connessione, più ambigua, è il revival classico degli anni venti, con la percezione scultorea della forma”.

Va premesso che l’intitolazione alla modernità si riferisce alle profonde trasformazioni intervenute in Ungheria nel primo quarto del secolo scorso: dalle canzoni popolari di Béla Bartok alle nuove riviste di arte e letteratura, dall’avanguardia del “Gruppo degli Otto” al rigore intellettuale del costruttivismo ungherese, dagli stimoli del Futurismo italiano al revival classico che impegnò artisti italiani e ungheresi. Tutto questo si riflette nella temperie artistica di quel periodo.

L’ambiente politico era attraversato da crisi e montava il malcontento nei riguardi della monarchia ungherese; gli artisti d’avanguardia, spesso costretti a lasciare Budapest, partecipavano ai Saloni di Parigi, alla Biennale di Venezia  e alle Esposizioni di arti decorative di Milano e Torino. Ci fu un “felice  tempo di pace” fino alla prima guerra mondiale, poi il Trattato che sancì la fine del conflitto portò allo smembramento del paese. All’inizio degli anni ’20  molti artisti si trasferiscono all’estero mentre gli scrittori e intellettuali rimasti  in patria cercavano la restaurazione basata sul realismo.

Fauvismo ungherese, naturalismo “en plein air”: il “neo-impressionismo”

Dall’Accademia di Monaco partì il superamento della tradizione da parte di artisti che, dopo averne frequentato i corsi, ne contestarono gli orientamenti. Tra loro  Simon Hollòskiche fondò una scuola con l’intento di creare un’arte ungherese moderna contrapposta a quella accademica svolta al chiuso, ispirandosi  al paesaggio per un’arte “en plein air”, come gli impressionisti cui associa il naturalismo. Istituì una colonia di pittura estiva  a Nagybàanka (oggi Baia Mare in Romania),che attuò questi principi, con  lo “stile di Nagybàanka”, definiti appunto  “naturalismo en plein air”.

Il nuovo corso si manifesta nell’arte come si può vedere nelle sezioni della mostra. Nella 1^ sezione  facciamo la conoscenza con Jòzsef Reippl-Rònai,  di cui sono esposte 7  opere. Inizia la vita artistica a Parigi, come assistente del maestro  d’Ungheria Munkàcsy, prima subisce l’influenza del Simbolismo francese con grandi macchie di colore e contorni sottili, poi lo stile si fa più  personale, lascia l’ampia gamma di colori per tinte scure che  fanno chiamare questa fase “periodo nero”. Tra gli altri “Tristezza”, 1905, e “Mio padre e zio Piacsek mentre bevono vino rosso”, 1907. Non viene compreso dal pubblico e cambia ancora stile, avvicinandosi ai post-impressionisti, fino ad essere definito “il maestro del post-impressionismo ungherese”. I suoi dipinti ritraggono ambienti, come “Particolare del parco”, 1910,  personaggi a lui vicini, come “La Signora Schiffer con le figlie”, 1911, e scene militari, come “Soldati in marcia”, 1914. Ha successo nel pubblico ed è apprezzato dalla critica, può riprendere le sperimentazioni iniziate  a Parigi: in particolare  raffigura oggetti reali e utilizza colori  sgargianti che scompone in  macchie molto piccole, vediamo anche i “Ritratti di Lajos e Odon”, 1918, e “Zoka Banyai in vestito nero”, 1919.

La 2^ sezione presenta 12 opere dei “fauves” ungheresi che nascono dalla reazione agli indirizzi accademici dopo aver frequentato i corsi dell’Accademia delle Belle Arti di Monaco. C’è un artista particolarmente significativo, Béla Czòbel,che visitò nel 1906 la colonia di Nagybàaanka portandovi le proprie  opere ispirate al pointillismo, colori puntinati contornati da linee nette, che ebbero molta influenza; alcuni della colonia seguirono questo stile. Fu ancora più evidente l’influsso parigino, tanto che furono chiamati “neo-impressionisti”, o soltanto “neo”, in modo riduttivo dato che l’impressionismo veniva considerato decadente dai detrattori. Non si trattava solo di tendenze impressionistiche, oltre al pointillismo  vanno aggiunti influssi di Gaugin  e Matisse. Di lui  vediamo esposti “Via di Parigi” e “Uomo seduto”, 1906, “Natura morta fauvista”, 1907.

Dei  “neo” sono in mostra  opere molto espressive, dal forte cromatismo. Di Vilmos Perlott- Csaba “Ritratto di Sàndor Ziffer”, 1908, e “Paesaggio invernale con recinti”, 1910, “Ragazzi bagnanti”, 1911, e “Autoritratto con modello”, 1922. Sàndor Ziffer è presente con  “Musicisti”, 1907, e “Paesaggio invernale con recinti”. Un altro Sàndor, Galimberti con l’oscuro “Motivo di Nagbànya”, 1911 Naturalmente c’è anche Vilmos Huszàr, tra i fondatori del gruppo olandese De Stijl, con “Nel giardino”, 1906.

L’alternativa al neo-impressionismo, l’espressionismo e il futurismo

Il fervore creativo prosegue nella 3^  sezione con 27 opere. Entra in scena il gruppo “gli Otto”, che  lasciano gli impressionisti e naturalisti per un movimento alternativa a loro oltre che all’Accademia: non si cerca più di cogliere l’attimo fuggente delle impressioni suscitate dalla  realtà, ma di entrare nei significati più profondi.  La mostra “Nuove immagini” del dicembre 1909  presenta sette artisti, l’ottavo è Béla Czòbel che era a Parigi, così nasce il gruppo. C’è l’influsso di Cezanne nelle nature morte con oggetti di uso comune, e troviamo molti nudi immersi nella natura; influssi fauvisti e cubisti sono evidenti, ma solo a tratti dati gli scarsi contatti con tali movimenti di avanguardia. 

Vediamo esposte con questi motivi 4 opere  di Karoly Kernstok, tra cui  i classici “Cavalieri sulla sponda”, 1910, e “Disegno di vetrata”, 1912;   e 3 di Odon Marffy, immagini cubiste di paesaggio in “L’antica dogana di Vàc”, 1910, di nudo in “Nudo di donna sdraiata”, 1910, di ritratto in “Autoritratto”, 1914.  E  5 opere di Robert Berèny, “Ritratto di Leo Weiner” e “Autoritratto”, “Nudo di donna sdraiata” e “Donna in vestaglia rossa”, Composizione” e “Dall’isola di Capri“, tutti tra il 1905 e il 1911.  Dezso Czigàny, che nel 1908 aveva aderito al Circolo degli impressionisti e naturalisti ungherese, l’anno dopo partecipò ad una mostra considerata  la prima esposizione collettiva del “gruppo degli Otto”: di lui vediamo opere dai forti e nitidi contrasti cromatici senza segni impressionistici, la mutazione fu totale: Così “Funerale di un bambino” e “Autoritratto”, 1908-09, e i successivi “Autoritratto”, 1913, e “Natura morta con mele e stoviglia”, 1915.

L’effetto sull’ambiente conservatore fu notevole, anche se dopo tre anni, organizzate altre tre mostre collettive, il gruppo cessò di esistere.

Il rinnovamento non si ferma, ne dà conto la 4^ sezione con una serie di opere, 15 dipinti, 16 litografie,  stampe e incisioni. Irrompe l’espressionismo e il futurismo, artefice è Lajos Kassàk, che fonda la rivista d’arte “L’Azione” intorno alla quale  si forma un nuovo gruppo con lo spirito del futurismo di cambiare la società attraverso un’arte di rottura; era un messaggio così dirompente da suonare come rivoluzionario. Per questo nel  1916 la rivista fu chiusa, ma Kassàk non demorde, fonda “Oggi” (Ma)  che uscirà non solo  a Budapest (tra il 1916 e il 1919) ma anche a Vienna (tra il 1920 e il 1926). Inoltre offre agli artisti d’avanguardia una sala d’esposizione a Budapest, inaugurata nel 1917 con opere di Jànos Mattis Teutsch. Vediamo in mostra,  di Kassak dipinti geometrici, come “Armonia di colori”, 1921,  e la serie “Architettura pittorica”, 1924, più un “Ritratto di Tristan Zara” in omaggio all’avanguardia futurista da lui impersonata. Opere  geometriche ma con un cromatismo intenso,di  Sandor Bortni,  come “Locomotiva rossa”, “Fabbrica rossa” e “Composizione con sei figure”, del 1918-19; “Natura morta con vaso” e il metafisico “Asino verde”, “Il nuovo Adamo” e “La nuova Eva”, 1923-24, quasi dei manichini.  Teutsch è presente con tre “Paesaggi”, 1916-17, dalle linee evanescenti e colori  tenui che nell’ultimo dipinto  diventano intensi, come in “Fiori dell’anima” del 1921.

Le inquiete vicende politiche si ripercuotono sull’arte, i movimenti di avanguardia devono lasciare il paese, Vienna ne diventa il centro dal 1920 sostituendosi a Budapest..

Laszlo Moholy-Nagy- corrispondente da Berlino della rivista MA, fornisce informazioni aggiornate sulle correnti artistiche europee in collegamento con le altre riviste d’avanguardia, tra cui de Stijl; e crea opere scultoree ispirate ai piani geometrici astratti, plastiche in legno e metallo e costruzioni in nichelio. Le espone nel 1922 in una mostra con Laszlò Péri, della stessa rivista, che si ispira ai costruttivisti russi; di  Nagy vediamo 5 composizioni con linee geometriche su fondo nero. Ne sente l’influenza anche il già citato Kassàk le cui composizioni a piani geometrici vengono viste “come modelli di un nuovo ordine visivo”. Di Peri sono esposte incisioni,  disegni e costruzioni di tipo “spaziale”, siamo tra il 1922 e il 1924.  Geometriche anche le composizioni di Béla Ultz, come “”Battaglia” e “Analisi su fondo viola”, del 1922.

L’orizzonte delle avanguardie si allarga, da Vienna a Berlino

Nella 5^ sezione troviamo 14 opere negli stili delle principali correnti artistiche europee, dal cubismo all’espressionismo e  al futurismo, che penetrò nell’ambiente artistico ungherese dopo la mostra del 1913 a Budapest con opere di Boccioni e Russolo, Severini e Carrà. Il centro si sposta da Vienna a Berlino, nella galleria  Der Sturm dove espongono i tardo-espressionisti.

Hugò Scheiber è attratto dai temi futuristi ispirati al movimento e alla frenetica vita cittadina, compresi i cabaret e i locali notturni. Sono esposti 7 suoi dipinti, della metà degli anni ’20, i cui titoli bastano per apprezzare il dinamismo futurista, espresso in immagini ben lontane dal figurativo: citiamo  “Metropoli” e “Sul tram”, “Ballo”, “Folla” e “Carosello”.  

L’altro  artista espressivo di questa tendenza è Béla Kàdàr, che si ispira al folklore dei villaggi, con una scomposizione dove all’ispirazione futurista si associa quella cubista per rappresentare la dimensione spazio-temporale. Vediamo in mostra 3 opere di forte impatto cromatico come “Festaioli”, “Scena bucolica” e “Sotto le stelle”, del 1923, e  3 dal cromatismo più tenue come “Paesaggio con carrozza”, “Vacche” e “Ammazzano il maiale”, tra il 1921 e il 1924.  

Questi artisti espongono in mostre internazionali, da Berlino a New York nel 1926, a Roma nel 1933 nella mostra nazionale dei futuristi inaugurata da Marinetti.

Il ritorno a un nuovo classicismo

I sommovimenti del primo quarto di secolo, dopo aver prodotto il dinamismo innovativo delle avanguardie, determinarono un  contraccolpo verso un ritorno al classicismo. Fu l’effetto della prima guerra mondiale che con i suoi lutti  e le sue rovine spense molti entusiasmi per il futuro facendo sentire il bisogno dell’ordine e dell’equilibrio dei tempi andati. Questo sentimento diffuso nella società ebbe riflessi anche nell’arte come li aveva avuti il sentimento opposto.

Anche questa volta è in un’Accademia che nasce la nuova tendenza, quella di Budapest, come la tendenza  opposta di reazione al classicismo era nata in quella di Monaco.  Un gruppo di allievi dell’Accademia ungherese ancora studenti cerca di tornare all’ideale della bellezza classica pur non rinunciando ad alcune conquiste dell’arte contemporanea. Sono Istvàn Szonyi,Vilmos Aba-Novàk e Kàroly Patkò. Lo vediamo nelle 20 opere esposte nella 6^ sezione: , ritratti e  scene di ambiente classico, ma modernizzati, come autoritratti e paesaggi con  nudi.

In particolare di Szonyi “Autoritratto”, 1919, e “Paesaggio con cavallo”, 1920; di Aba Novàk “Il portatore di legna”, 1024, e “Doppio autoritratto”, 1925, di Patkò “Autoritratto”, 1922, e “Nudi nel paesaggio”, 1926. Oltre a loro Gyula Derkovits, ambienti idilliaci con una certa tensione, come “Concerto” e “Cenacolo”, 1921-22

E’ stato definito “stile neoclassicista ungherese di ispirazione italiana”, con il gusto del classico che entra a permeare l’arte contemporanea ungherese, anche tramite l’Accademia d’Ungheria a Roma, istituita nel 1927, con i citati Szònyi, Aba-Novàk e Patkò  che fruiscono di una borsa di studio, incoraggiati dal curatore dell’Accademia, Tibir Gerevich.

“Gerevich –  si afferma al termine della presentazione della mostra –  nell’affermazione dello stile neoclassicista ungherese di ispirazione italiana, riconosce il trionfo del gusto classico, nell’arte contemporanea ungherese”. E ci sembra il migliore sigillo per una mostra inquadrata nell’Anno culturale Ungheria-Italia, che vede l’incontro delle due  culture.

Conclusione

Abbiamo citato soltanto una parte degli artisti le cui opere sono esposte in mostra, delineando le principali tendenze da loro rappresentate.

L’impressione che si ricava dalla mostra è di una grande apertura alle correnti e tendenze pittoriche del novecento, con un cromatismo forte e intenso, in composizioni per lo più figurative, con i forti segni dell’impressionismo e futurismo, cubismo e fauvismo, fino a qualche tendenza all’astrazione soprattutto attraverso forme geometriche.

E’ un’immersione totale nell’universo pittorico del ‘900 ungherese con le sue assonanze e i suoi richiami ai motivi ispiratori. Che si ritrovano nella sconfinata Galleria d’Arte Moderna a disposizione dei  visitatori della mostra. Si rischia la “sindrome di Stendhal” dinanzi a tanta grazia di Dio artistica, ma di certo dopo la mostra sulla pittura ungherese viene voglia davvero di tornare alle fonti prime,  e sono tutte a disposizione nelle spettacolari sale della Gnam, da vedere e rivedere.  

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma,Viale delle Belle Arti, 131. Da martedì a domenica dalle 10,30 alle 19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45); lunedì chiuso.  Ingresso intero 8 euro;  ridotto 4 euro, tra 18 e 25 anni e per insegnanti delle scuole pubbliche nell’UE; ingresso libero fino a 18 anni e oltre 65.  Tel. 06.32298221, http://www.gnam.beniculturali.it/. Catalogo: “Il tempo della modernità. Pittura ungherese 1905-1925”, della Galleria Nazionale Ungherese, 2013, pp- 240, bilingue italiano-inglese, formato21x27; dal Catalogo sono tratte le notizie del testo.

Per l’arte in altri paesi, a parte i più grandi maestri che non possono essere confinati nella propria nazionalità, cfr. i nostri servizi: in questo sito per l’arte rumena, sulla pitturadel ‘900 il 15 gennaio 2013,  per l‘arte cinese, sui maestri della pittura moderna “oltre la tradizione” il 15 giugno 2013, su “visual China” realismo figurativo contemporaneo il 17 settembre 2013, sullo scultore Weishan il 24 novembre 2012; per l’arte giapponese, sulla pittura “nihonga” il 25 aprile 2013; per l’arte russa, su  Deineka il 26 novembre, 1 e 26 dicembre 2012; per l’arte africana, sullo scultore Wi Waki il  27 gennaio 2013; per l’arte americana, sul Guggenheim  il 23, 27 novembre e 11 dicembre 2012, su Scully il 17 gennaio 2013, sulla Nevelson il 25 maggio 2013;  per l’arte israeliana, su “Israel now” il 6 febbraio 2013; per l’arte turca, sulla Gurses e la mistica di Rumi il 12 marzo 2013; per l’arte greca, sulla pittura moderna di “Ellenico plurale” il 16 dicembre 2012. Inoltre cfr. i nostri servizi in  cultura.abruzzoworld.it: per l’arte africana, su “Africa, una nuova storia”, il 15 e 17 gennaio 2010, per l’arte russa  sui “Realismi socialisti” 3 articoli il 31 dicembre 2011, per l’arte americana,. su Hopper il 12 e 13 giugno 2010  e sulla O’ Keeffe 2 articoli il 6 febbraio 2012; sul “Guggenheim” il 22 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012, su “Empire”, arte contemporanea Usa, il 31 maggio 2013.

Infine per l’arte antica e arcaica (archeologia) degli altri paesi cfr. i nostri servizi: in questo sito per l’arte antica indiana, su “Akbar” il 18 e 22 gennaio 2013; in “notizie.antika.it”: per l’arte  georgiana arcaica, sul “Vello d’oro” il 20 novembre 2011; per l’arte messicana  arcaica, su “Teotihuacan” il 9 novembre 2010 e il 24, 27 febbraio 2011; per l’atte cinese arcaica, su “L’Aquila e il dragone” il 4 e 7 dicembre 2011; per l’arte cipriota arcaica sulla “terra di Afrodite” il  9 settembre 2012; per  l’arte albanese arcaica, sui “tesori del patrimonio culturale dell’Albania” il 15 dicembre 2012.

Foto

La immagini sono state fornite dalla Gnam, Ufficio stampa, che si ringrazia, con l’organizzazione e i titolari dei diritti; in successione  viene riportata un’opera per ognuna delle 6 sezioni della mostra illustrate nel testo. In apertura Jòzsef Rippi Rònai, “Particolare del parco”,  1910; seguono  Sàndor Ziffer, “Musicisti”, 1907; e  Ròbert Berény, “Nudo di donna sdraiata”, 1905-06, poi Sàndor Bortniyik, “Il nuovo Adamo“, 1924; e Béla Kàdàr, “Festaioli”, 1923; in chiusura  Gyula Derklovits, “Concerto”, 1921.22.

Pulli e Pellegrino, due mostre contemporanee, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Due mostre aperte lo stesso giorno al Vittoriano, il 19 settembre 2013,  e di durata molto simile – l’“Antologica” di Elio Pulli fino al 10 ottobre e “Primi piani” di Bruno Pellegrino fino al 3 ottobre 2013 – costituiscono due modi di percepire la realtà e di renderla con il mezzo pittorico. Una regia magistrale  le presenta in contemporanea nelle sale ubicate da parte opposta nel complesso monumentale: nel lato Fori Imperiali, via san Pietro in carcere la mostra di Pulli curata da Claudio Strinati, nel lato Ara Coeli la mostra di Pellegrino curata da Duccio Trombadori. Realizzate da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia,  responsabile delle due mostre Maria Cristina Bettini. Cataloghi di Gangemi Editore per Pulli, di Drago Publishing per Pellegrino.

Non intendiamo con questa premessa fare dei raffronti tra i due artisti e le loro opere;  ma vogliamo sottolinearne la netta diversità  per riflettere sull’ampiezza di visione dell’arte come espressione di differenti percezioni della realtà che sembrano appartenere a mondi totalmente lontani ed estranei tra loro. Elemento comune è l’interesse per la realtà, non nei suoi aspetti esteriori ma nei suoi significati profondi. Gli artisti  cercano di penetrarne i contenuti più riposti, e di rappresentarla rendendone i risvolti più significativi e connaturati con la propria visione, pur se molto diversa.

I due artisti, Pulli e Pellegrino, nell’arte e nella vita

L'”Antologica” di Elio Pulli presenta una estrema varietà di composizioni sulla vita e le tradizioni di un popolo, precisamente quello sardo a cui l’autore appartiene. Mentre i “Primi piani”  di Bruno Pellegrino sono “volti solo in piccola parte di persone conosciute  e più spesso semplicemente immaginate”, scrive Paolo Portoghesi; è una visione non solo monotematica ma quasi da “fermo immagine” senza varianti compositive, bensì solo cromatiche e materiche.

Entrambe hanno come motivo centrale l’umanità e i suoi sentimenti: Pulli la trova nei paesaggi e nella gente che fatica con i carretti o sfila in processione, presentando anche qualche figura intensa di isolana. Pellegrino la ricerca nei volti sconosciuti le cui fattezze si fissano come espressione di qualcosa di interiore che lui cerca di far trasparire con il colore e la materia.

L’uno e l’altro  sono attirati dai fiori, anche qui con un approccio molto diverso: delicati mazzi nei vasetti di vetro per ornare le abitazioni nel primo, forti “primi piani” delle corolle immersi nel colore nel secondo.

Altrettanto diversa la loro biografia,  ma in entrambi spicca l’impegno attivo nella cultura.

Pulli  è stato immerso nell’arte da sempre, come pittore e scultore, ceramista e restauratore, anche scenografo. Oltre che come artista si è segnalato per l’impegno culturale nella propria città, Sassari, che gli ha conferito nel 2011 il “Candeliere d’oro”, riconoscimento alle maggiori personalità cittadine. Il sindaco di Sassari Gianfranco Ganau sottolinea che la sua arte, apprezzata “anche oltre i confini nazionali”, è comunque “ispirata nelle forme, nei colori  e nei soggetti alla nostra terra di Sardegna”. Alla pittura unisce la scultura in ceramica, le due arti in lui sono paritarie.

Pellegrino invece fino al 1992 ha svolto attività politica ed è stato impegnato a livello culturale e nella comunicazione; ci limitiamo a ricordare che è stato segretario del Club Turati agli inizi degli anni ’70, consigliere comunale a Milano e presidente del Comitato regionale lombardo per la comunicazione, nel 1980 ha fondato il “Club dei Club”, è entrato  nel Consiglio di Amministrazione  della Rai, è stato Senatore. Dopo il 1992 l’impegno culturale ha sostituito quello politico, e negli ultimi cinque anni ha scoperto l’arte come autore e non più solo come  osservatore. Nasce così il pittore, con escursioni nella scultura.

L’intenso realismo sociale nell'”Antologica” di Pulli

La mostra di Pulli presenta circa 50 dipinti più una serie di fiori e ritratti, e circa 40 sculture tra piatti e vassoi, piccole e grandi composizioni in ceramica policroma. E’ un’esposizione spettacolare che colpisce il visitatore per la vibrante varietà degli stimoli visivi, come quella di Pellegrino colpisce per la forza penetrante della monotematica presenza ossessiva degli sguardi e dei volti.

Ha detto il curatore Claudio Strinati nella presentazione orale in cui è apparso particolarmente ispirato: “Si vede la stessa mano in pittura e scultura, si capisce che è la stessa persona con la sua presenza estrosa, sorprendente, aggressiva, che ha attraversato spazi ancestrali, remoti e futuristici”. 

Il fatto che Pulli abbia coltivato le due arti parallelamente con pari dedizione e caratura artistica lo spiega così: la pittura non gli basta perché “è tale l’energia e l’impulso del ricostruire il mondo intorno a noi, che il maestro ha costantemente il bisogno della tridimensionalità, della materia che plasma e che gli permette di sentirsi come un demiurgo che reinventa le apparenze, per farci vedere ciò che non vediamo normalmente e che pure è latente nelle nostre visioni”. 

In questo senso “è come impastato di ‘verità’, questo potente artigiano che è nel contempo pittore e scultore sensibilissimo e introverso, meditativo e incantato di fronte alla bellezza delle forme che viene elaborando”. Si pone con “lo spirito del grande sapiente che conosce le cose e del bambino che ci mette la sua fantasia positiva”, per cui nelle sue opere “il divertimento e la leggerezza coesistono con la gravitas antica di chi non dimentica il dolore e la malinconia, il timore e la fatica”.

Strinati non manca di citare gli ascendenti, primo tra tutti Picasso per la capacità mimetica di “dare corpo alle fantasie più spericolate che restano, però, sempre agganciate alla concretezza delle cose”; risale fino al pensiero di Eraclito e al maestro orientale del XIX secolo Hokusai, e cita Mathieu, Morandi; in particolare nelle ceramiche trova “echi di Burri, di Fontana, di Leoncillo”  pur nel suo personalissimo stile in cui “il popolaresco e l’aristocratico sono amalgamati in un insieme inscindibile e sommamente affascinante”. E della vasta esposizione di ceramiche dobbiamo dire che è travolgente la forza delle sculture spigolose avvolte dalla luce della colorazione policroma.

Vediamo esposti 8 “Piatti”, diametro 41 cm, ornati di motivi cromatici con segni marcati che si intersecano e si avviluppano con forza, 14 “Vasi” alti 50 cm, dalle forme diverse e dalla policromia rutilante e 4 “Pannelli murari”, trofei di solida composizione materica. E poi composizioni legate all’ispirazione pittorica, taglienti e spigolose nel loro realismo, “ritratti” come “Eleonora d’Arborea”  e “Il folle”, “Ragazza del monte Arci” e “Ragazza con velo”, “La spettinata” e “La mantide”, “Donna sarda” e “Uomo sardo”, fino a “Don Chisciotte” e alla  composizione lunga un metro e mezzo “Carro di sant’Efisio”, dinamica visione con figura umana, animali e carro.

Il carro è in pittura nel dipinto “Carretti siciliani”, un suggestivo scorcio che li vede assiepati quasi per una battaglia, mentre gli animali li troviamo nei due dipinti sulla  “Transumanza all’isola piana”,  “All’abbeveratoio”, e nella “Seminatrice”. Sono immagini intense dal forte realismo, le forme sono ancora distinguibili ma non è un figurativo precisionista: si va verso l’informale per l’atmosfera oscura che avvolge le figure confondendone i contorni quasi per immergerle in un buio che le renderebbe indecifrabili.  Ci si ferma prima di oltrepassare  questo confine peraltro molto vicino, che viene superato in “Muro” e “Vecchio rudere”, “la Nurra” e “Terme di Ardara”, dove alla precisa identificazione dei luoghi corrisponde un magma cromatico che entra nell’astrazione.

Le persone, appena percepibili nelle sagome di queste composizioni, diventano figure  quasi scolpite in “Donne in preghiera”  e “Paola”, “La sposa sarda” e “Fanciulla sarda”, fino a “Mio padre”  e “Zi Antoni Pizzoni”. I caratteri della sua terra emergono con forza soprattutto nei volti, prima indistinti poi sempre più definiti nella loro serietà malinconica e insieme ferma e decisa.  Sono immagini individuali che diventano collettive nelle composizioni  rituali, da “Crocifissione” a “Deposizione”, dall'”Ardia di san Costantino” alle due versioni  di “Settimana santa” e “Processione”,  varianti dove l’oscurità o il segno che vira all’informale trasforma la moltitudine in un magma fluttuante che in “Ballo tondo” diventa indistinguibile.

C’è anche l’altra parte del mondo sardo, il mare con le barche e il porto. Ecco “Barca in cantiere” e “Barcone di pescatori”, “Porto Torres”  e “Porto di Alghero”, verso l’informale ma con i contorni ancora ben distinguibili con l’uso sapiente di volta in volta di luce e di ombra. 

Spettacolare è “Mattanza”, nel magma spiccano i pesci e qualche sagoma colpita dalla luce, tra un’acqua dalle chiazze corrusche e un viluppo di forme indistinguibili ma dall’evidente contenuto; acqua e barche anche in “Alba a Stintino” e “Tramonto a Stintino”, ben più “figurativi” di “Veduta di Cagliari” e “Rovine a Torralba”, mentre “Nevicata” ha un evidente tono impressionistico. Con le vedute l’artista esce dalla Sardegna, lo vediamo nei suggestivi scorci di “Ponte vecchio” e “Dal Vittoriano” – sì, proprio dalla sede della sua mostra – le arcate dei ponti sull’Arno e la cupola sui tetti della Capitale sono ben distinguibili sull’impasto  materico della sua forte pennellata.

Vi abbiamo ritrovato i temi di realismo sociale dei dipinti di pittori abruzzesi come Patini, visti nella mostra “Gente d’Abruzzo” con l’uomo al lavoro insieme agli animali, i rituali sacri delle processioni. Gli aspetti comuni riguardanti le atmosfere e le ombre evocative sottolineano la fatica del duro lavoro e la difficoltà della vita, la forza della fede e la profonda umanità popolare.

In aggiunta a questo costante riferimento regionalistico abbiamo i momenti gentili dei fiori nei vasetti di vetro: dal “Biancospino” al “Mandorlo”, dalle “Mimose” ai “Fiori di campo”;  inoltre le ricche nature morte come “Melograni” e “Mele cotogne”, “Cacciagione” e “Il picchio”.

Ma Pulli non esce dal realismo sociale soltanto con i fiori e le nature morte, a parte le vedute di cui abbiamo detto, sulla sua Sardegna, Firenze e Roma. Ne esce per composizioni  sempre più evanescenti, dove il colore a chiazze e il segno nero delineano forme sfuggenti, come “Il guerriero”  e “Sulla sedia”,”Ricordi sul pianoforte” e “Composizione con scodella rossa”, “Raggio di sole” e “Nel centro”. Fino ai motivi più alti di natura religiosa,  resi in un informale   cromatismo caldo che lascia percepire cosa c’è dietro il mistero,  come  “Maternità” e “Adorazione”, e a quelli di natura cosmica e universale, come “Il principio” e “L’inizio della vita”, dove il sole e il mondo si stagliano nel nero con bianche fenditure sideree o geometriche.

Gli enigmatici  “Primi piani” di Pellegrino

La mostra di Pellegrino tra le 140 opere esposte presenta anche fiori e pesciSpettacolare la sezione dedicata ai pesci,  in tre pareti è esposto un gran numero di quadretti che compongono una sorta di suggestivo acquario,  la luminescenza rende quasi tangibili le immagini rappresentate. I fiori  sono violente macchie di colore su sfondi dai contrasti cromatici molto forti, “primi piani” anch’essi, con le  caratteristiche di quelli umani, anche dei fiori vediamo i volti.

Ma quelli che risultano più intriganti sono i primi piani dei volti delle persone, parte preponderante della sua produzione, con queste caratteristiche particolarmente significative:  non sono identificati né identificabili, non hanno titolo, sono anonimi e sconosciuti e neppure ritenuti espressivi di particolari connotazioni esteriori o interiori; inoltre , sono isolati dal contesto. Ci guardano nella loro successione muta e per questo coinvolgente, come un insieme di individui la cui personalità è tutta da scoprire ma per questo forse possono costituire una moltitudine non generica e indefinibile, bensì con dei precisi contenuti di sensibilità e di emozioni che quei volti cercano di trasmetterci.

“Siamo  di fronte ad una sequenza ripetuta di personaggi in cerca di autore – scrive il curatore della mostra Duccio Trombadori – o di un autore che ama circoscrivere l’indagine visiva alla esposizione dei suoi provini”, come per “documentari del nostro tempo riassunti e accomunati dal pennello in un teatro di posa”. In questa visione si tratta di inquadrature, di fotogrammi “dove i soggetti isolati dal contesto acquistano profondità psicologica per via di un anonimato che non dissolve la personalità del tratto individuale”. Ed è  sull’antinomia tra anonimato esibito e personalità individuale sottostante che ci si sofferma nell’indagine psicologica per una propria interpretazione.

Paolo Portoghesi la butta in politica, per così dire, e non potrebbe essere altrimenti dato che Pellegrino è stato tra i protagonisti della ricerca svolta nel Partito socialista su precise basi culturali all’insegna della parola d’ordine “da ciascuno secondo i suoi meriti, a ciascuno secondo i suoi bisogni”: impostazione che superava l’egualitarismo socialista tradizionale per aprirsi all’ascolto del sentire diffuso nella società ma proveniente dagli “altri intesi come individui, non come massa”.  Risultato: “una straordinaria quasi maniacale produzione di una incredibile quantità di volti”.

Questa moltitudine che ci guarda dalle pareti della sala Zanardelli sembra la personificazione della commedia umana, interpretata da individui tutti diversi che nel loro insieme non diventano mai massa perché conservano la loro personalità, ma definiscono i contorni dell’umanità. Lo fanno con le espressioni colte dall’artista nella loro normalità che diventa un campionario di caratteri e di personalità senza indulgere nella tipizzazione ma con uno spirito di ricerca che si sofferma sui particolari espressivi, come se si trattasse di provini cinematografici.  

Il riferimento al cinema lo troviamo ripetutamente argomentato in Trombadori. Il curatore afferma che “ci troviamo di fronte a un repertorio pittorico di ‘immagini-tempo’, fotogrammi legati da una rete di richiami visivi, da riassumere con il colpo d’occhio estetico di un montaggio dichiarato che fa il verso al parlato cinematografico di Godard e di Resnais”; e aggiunge che l’artista “metabolizza il linguaggio della tradizione moderna in  versione cinematografica o televisiva quando stringe l’obiettivo sulle persone e le cose o quando si avvicina con distacco emotivo sui particolari, sui dettagli di un volto, come faceva Sergio Leone quando sfiorava gli occhi degli attori puntandogli contro la macchina da presa”; e cita “il febbricitante sguardo dell’indio (Gian Maria Volontè) o la pupilla guizzante del colonnello Mortimer (Lee Van Cleef) nei primi piani scenografici di ‘Per qualche dollaro in più”. Mentre Portoghesi  parla di “un cinematografico sistema di dissolvenze incrociate in cui non c’è nulla di scontato e di prevedibile”.

Guardiamo dunque da vicino questi fotogrammi e ferma-immagine pittorici nei quali, però, non ci sembra esserci l’esibizione di uno stato d’animo predeterminato, come avviene nei primi piani dei film, bensì la ricerca psicologica di cosa traspare dalle apparenze colte nel loro anonimato senza storia né identità. Per questo il riferimento del curatore ai “personaggi in cerca d’autore”  e dell’autore alla ricerca di personaggi con i suoi “provini”  ci appare  particolarmente calzante.

La nostra prima constatazione riguarda lo sfondo su cui si stagliano i visi, sempre colorato da tinte unite, per lo più sul verde e sul blu, sul viola e sull’arancio; a volte non è a contrasto con il cromatismo del soggetto, come avviene in altri “primi piani”, ma lo ripropone in tonalità ben più accentuate, in qualche caso addirittura figura e sfondo sono immersi nello stesso bagno di colore.  I visi sono per lo più frontali, con qualche raro profilo,  vediamo una sola immagine di volto posto orizzontalmente in un interno. I volti femminili per lo più solo fino al collo, rari gli accenni all’abito; invece quelli maschili spesso fino al busto, anche con camicia, giacca  e cravatta.

Entrambi i critici citati evocano assonanze con grandi ritrattisti del passato. Trombadori cita von Jawlensky e Gerstl, Soutine e Backmann,  Schmidt Rottluff e  Sironi, Malevich e  Rosai, Magritte e Migneco, Schoenberg e  Testori, fino a Lucien Freud. Portoghesiparla di “due polarità dominanti”, quella intimistica dove il colore “fa da padrone con le sue campiture omogenee”che riporta a Munch e al primo Picasso, a Soutine e a Modigliani, quella  espressionista dove “la materia combutta con il segno che si carica di vibrazioni e provoca una frattura spaziale tra figura e sfondo”.

Il cronista non si addentra in queste analisi della critica colta, si limita a riportare un’impressione da visitatore attento. E nota come, a parte le poche eccezioni nei rari profili, gli occhi di tutti quei volti sono puntati sull’osservatore, quasi fossero foto-tessere per non parlare delle foto segnaletiche. Quest’ultima associazione ci viene da un sentimento comune che traspare da quegli sguardi: un’inquietudine appena espressa che al limite  si stempera in una calma dignitosa, quasi mai nel riso.  Il cromatismo  cupo accentua la chiusura nell’inquietudine, mentre i rari colori caldi dei volti e degli sfondi illuminano gli sguardi di una serenità che in un caso diventa un mesto sorriso.

E’ come se gli sfondi stiano a rappresentare la condizione particolare che imprigiona il singolo soggetto con i suoi pesanti vincoli riflessi nell’espressione del viso da cui traspare l’inquietudine che ha poche occasioni per raggiungere la calma. Se questa è l’atmosfera che aleggia nella galleria di volti di Pellegrino, va rilevato che non vi è neppure dolore ostentato né sofferenza, ma un senso di fermezza e dignità che accomuna la grande varietà fisiognomica,  le diverse età e i due sessi.

La commedia umana di tanti personaggi in cerca d’autore, mentre l’autore ricerca i suoi personaggi è, dunque, tutta da decifrare, forse perché è tutta da vivere. E il proporre le  opere senza titolo né data è un altro segno che nulla è definito, l’enigma resta aperto. Da pochi anni Pellegrino dipinge, dopo il lungo apprendistato nella politica e nella cultura; ci aspettiamo che quando avrà decifrato la commedia umana, avrà trovato i suoi personaggi e loro avranno trovato l’autore che cercano, vedremo nelle prossime mostre gli ulteriori risultati cui sarà approdata la sua ricerca appassionata.

Due visioni diverse, giustapposte  e complementari

Quanto abbiamo potuto evidenziare presentando le opere del realismo sociale di Pulli, si attaglia perfettamente alla conclusione di Strinati: “In definitiva, una intera umanità si dispiega davanti ai nostri occhi, attestanteci il carattere talvolta idilliaco talvolta epico di questo grande cantore della sua terra, che è nel contempo un cantore universale dalla mente libera  e feconda  e dall’espressione sempre rinnovantesi e generosamente ricca di mille implicazioni, mille echi, mille suggestioni”.

Per Pellegrino, ci ricolleghiamo alle parole di Trombadori: “Un campionario delle figure prescelte come i ‘primi piani’ di un’ideale messa in scena cinematografica”, :da leggere “in simultanea, nel suo insieme come in ogni singola parte. ‘Tutti insieme, in modo diverso'”, citando Lucio Dalla: “La lista di ritratti umani (immaginari e no) che emerge e si scopre tutta all’improvviso, come accadde un tempo ai diritti funerari di El Fayum”.

E non è solo per questo richiamo all’arcaico,  che abbiamo visto evocato da Strinati per Pulli, e qui citato da Trombadori per Pellegrino – che intendiamo concludere accomunando i due artisti in una visione sinergica. La loro rappresentazione  dell’umanità è diversissima e giustapposta, quasi come i due lati estremi del Vittoriano che rendono plasticamente la distanza;  ma è anche complementare, per questo è stato importante dare la possibilità di visitare le due mostre in successione rendendole contemporanee. Se ne esce appagati negli occhi per l’effetto magnetico delle forme e quello spettacolare dei colori, e stimolati nella mente per le riflessioni su “uno, nessuno e centomila” che nascono dalla doppia visione dell’umanità.

Info

Complesso del Vittoriano, tutti i giorni, compresi domenica e lunedì, ingresso gratuito ammesso fino a 45 minuti prima della chiusura. Mostra di Elio Pulli, via san Pietro in carcere, lato Fori Imperiali, Sala del Giubileo, lunedì-domenica  sempre ore 9,30-19,30. Catalogo: Elio Pulli, “Antologica”, a cura di Claudio Strinati, Gangemi Editore, settembre 2013, pp. 112, formato 24×28. Mostra di Bruno Pellegrino, piazza Ara Coeli, sala Zanardelli, lunedì-giovedì ore 9,30-18,30, venerdì-domenica fino alle 19,30. Catalogo: Bruno Pellegrino, “Primi piani”, a cura di Duccio Trombadori, Drago Publishing, settembre 2013, pp. 107, formato 17×24.  Dai cataloghi sono state tratte le citazioni riportate nel testo. Per la mostra citata, “Gente d’Abruzzo”,  cfr. i nostri 2 articoli in “cultura.abruzzoworld.com” il 10 e 12 gennaio 2011.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano all’inaugurazione delle due mostre, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta. Di Pulli: in apertura, “Mattanza“, seguono “Seminatrice” e “La Settimana santa”, poi uno scorcio della sala con le sculture “Don Chisciotte” (a sin.) e “Carro di sant’Efisio” (a dx). A seguire, di Pellegrino: 3  “primi piani” di volti senza titolo, in chiusura uno scorcio della saletta con i dipinti sui “pesci”, parete di fronte.

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Film Festival turco di Roma, non solo cinema

di Romano Maria Levante

Alla sua terza edizione, il “Film Festival turco di Roma”, tra il 27 e il 29 settembre 2013, si è trasferito dalla “Casa del cinema” di Villa Borghese alla Multisala Barberini, nel pieno centro di Roma, tra Palazzo Barberini, Piazza di Spagna e la Fontana di Trevi. Presentato dall’ambasciatore di Turchia a Roma Hakki Akil con il Sottosegretario turco alla cultura Faruk Sahin a livello politico, e da Serap Engin, presidente del Festival con il presidente onorario, il regista Ferzan Ozpetek, definito turco-italiano e italiano-turco, le  due nazionalità della sua vita, lo ha dimostrato con i siparietti in turco, oltre che con il perfetto italiano, all’animata presentazione del Festival.

Lo spostamento di sede ha un chiaro significato, rendere la manifestazione qualcosa di diverso del cinema “d’essai” per gli addetti ai lavori, farne un messaggio di comunicazione popolare per far conoscere al pubblico la sensibilità e lo spirito di un grande popolo espressi attraverso il mezzo cinematografico. Il sottotitolo “Mamma li turchi”  prende di petto l’antica esclamazione per l’incubo di sbarchi degli “infedeli” trasformandolo nella gioiosa invasione di film significativi non solo sotto l’aspetto artistico. Infatti, come ha detto Ozpetek, ci danno la possibilità di “ascoltare storie di quelli che vivono ‘sull’altra costa’, ‘degli altri da noi’ verso i quali spesso non abbiamo il coraggio di approfondire le conoscenze e la comprensione”. Cosa di cui oggi più che mai se ne sente il bisogno anche per effetto della globalizzazione, oltre che per la prospettiva di ingresso della Turchia nell’Unione Europea, che richiede il superamento di tabù e pregiudizi ancora persistenti.

Il “testimonial”, Premio speciale: il grande Yilmaz Guney

E chi poteva essere il “testimonial” di questa operazione culturale e politica? La scelta è stata coraggiosa, perché al centro del cartellone del Festival ci sono tre film di Yilmaz Guney, uomo di cinema ma soprattutto patriota al quale in occasione della retrospettiva viene conferito il “Premio speciale”. Riceve il premio la moglie Fatos Guney, perché il regista, attore e scrittore è morto a Parigi nel 1984, a 47 anni, “ora ne avrebbe 76”, ha detto con un’espressione di affettuoso rimpianto.

Nella capitale francese era in esilio, dopo aver trascorso 10 anni in carcere, i suoi film sono uno specchio della realtà turca, spesso cruda e spietata, alla sua sincerità fuori da ogni compromesso ha dedicato la propria vita e ha pagato di persona. Un anno e mezzo di carcere per i suoi racconti, poi 2 anni di esilio per aver ospitato dei rivoluzionari, quindi arresto con l’accusa di aver ucciso un giudice e condanna a 19 anni, intanto il film “Suru”, il “Gregge”, riceve premi internazionali; pubblica in carcere una rivista culturale, presto chiusa, poi in occasione di un permesso riesce a fuggire ed andare all’estero dove il suo film “Yol”  vince la “Palma d’oro” al Festival di Cannes.

La moglie ha denunciato al Barberini la persecuzione da lui subita, compreso il vero e proprio ostracismo “fino alla distruzione dei negativi dei suoi film”, che non  sono  programmati nelle sale e neppure trasmessi in televisione, nonostante il loro valore artistico: nel suo paese ci si comporta “come se non fosse mai esistito”.  Riferendosi al travaglio interno che attraversa la sua terra, è arrivata a dire che “se si fossero ascoltati i suoi film oggi la Turchia non avrebbe questo dolore”.  

Il suo intervento appassionato ci è sembrato come un sasso lanciato nelle acque tranquille della presentazione ufficiale dell’Ambasciatore Akil, che nella sua introduzione aveva reso onore al maestro celebrato quest’anno, come del resto aveva fatto Ozpetek sottolineandone il valore di uomo di cinema. Per questo, aperto l’incontro alle domande della stampa, siamo intervenuti sottolineando il contrasto tra la celebrazione ufficiale nel Festival romano e l’ostracismo emerso dall’intenso intervento della vedova, auspicando che da Roma possa venire anche lo sdoganamento in patria delle opere celebrate e premiate all’estero. Le acque della presentazione si sono mosse ancora di più: Ozpetek ha negato che ci sia dell’ostracismo, dicendo che i film non vengono trasmessi dalle TV per una scelta aziendale, mentre il sottosegretario alla cultura si è spinto fino a dire che non solo i suoi film non sono vietati, ma saranno forniti ai giornalisti dietro semplice richiesta, e comunque si potranno trasmettere in televisione, basta  attivarsi al riguardo. Un’ultima precisazione della vedova, secondo cui da anni cerca di farli trasmettere senza riuscirci, ha chiuso questa discussione con la speranza che tutto ciò serva a riaprire subito  TV e schermi  turchi al grande uomo di cinema.

Chi è, dunque, Yilmaz Guney? Ecco come lo hanno presentato i due presidenti del festival.

Ozpetek lo ha definito “pietra miliare del cinema turco”, precisando che “la rivoluzione cinematografica di Guney, più che la tecnica e le innovazioni estetiche, riguardava ‘il coraggio di sentire nonostante il dolore'” e aggiungendo che creava i suoi film, “passati alla storia del cinema internazionale, non solo con la penna, con la cinepresa e con la mente, ma soprattutto con il cuore”.

La Engin ha scritto di lui: “Per alcuni una vita dedicata per lottare contro l’ingiustizia, per altri il padre delle anime povere. Sicuramente un personaggio molto discusso”. Ma è certo che ha cambiato radicalmente il cinema turco, i cui film “di poco valore guardavano il mondo con gli occhiali rosa, è stato il pioniere del realismo sociale, pagandone però il prezzo”. E’ diventato “la speranza’ dei ragazzi delle periferie, ‘la preoccupazione’ dei generali golpisti, ‘l’amico’ dei poveri e ‘la strada’ delle persone che sognano un futuro più bello e più giusto. I suoi racconti, i suoi personaggi, le sue idee e i suoi sogni rimarranno sempre attuali”.

Ed è bello che di questo forte messaggio partito da Roma l’eco ad Ankara e Istanbul possa essere così potente da rimuovere gli ostacoli al rilancio della sua immagine e della sua arte anche in patria. Si deve riconoscere che le autorità turche presenti hanno lasciato capire che questo possa avvenire.

Gli altri film impegnati del cartellonei

I tre film di Yilmaz Guney e il film d’apertura

La trilogia di Guney comprende tre film, ripetutamente premiati,  di tutti è produttore e  sceneggiatore, di due anche regista e interprete. Inizio  venerdì 27 settembre con “L’Amico” (“Arkadas”), 1974, lo sguardo alla degenerazione della società attraverso l’incontro dopo molti anni di due amici di diversa estrazione sociale, uno dei quali, Azem, cerca di far aprire gli occhi all’altro, il ricco Cemil, sugli aspetti negativi della sua vita; ma la cognata di Cemil si innamora di lui, di qui la crisi familiare e non solo.

Anche con  “Il Gregge” (“Suru”), 1978, del quale scrisse la sceneggiatura in carcere, regista è Zeki Okten,  proiettato due volte sabato 28, la storia di due persone si inserisce in uno scenario più ampio: qui si tratta di una tribù, un “gregge”, nei rapporti anche conflittuali tra l’uomo e la società, l’essere umano e la natura. Con una storia d’amore in un clima di ingiustizia sociale e oppressione.  

Chiusura della trilogia domenica 29 settembre con due proiezioni di “La Speranza” (“Umut”), 1970, co-regista di Guney è Serif Goren, protagonista il cocchiere Cabbar che perde il lavoro e per salvare la propria famiglia ricorre  a tutti gli espedienti compresa la lotteria e la ricerca di tesori sepolti, fino a cercare conforto nella religione: di qui lo sguardo sul mondo circostante con il suo “realismo sociale”, è impressionante l’intensità dei volti scolpiti in un suggestivo bianco e nero .

Il film d’apertura nell’inaugurazione del 26 settembre, è “Il Freddo” (“Soguk”), di Ugor Yucel,2013, ripetuto il 27 e 28: un film di frontiera non solo per la località caucasica in cui si svolge, fredda e isolata d’inverno; c’è un night club dove lavorano tre sorelle, un operaio sposato si innamora della più giovane, pronto a lasciare tutto. E’ netto il contrasto tra la condizione di coniugato e la vita da scapolo nel locale notturno, il fratello dell’operaio  è  un vagabondo.

La programmazione comprende film recentissimi, del 2013 e 2’12, con poche eccezioni del 2011.

Venerdì 27  e domenica  29,  “Il Ciclo” (“Devir”), di Dervis Zaim, 2013: in un piccolo paese dell’Anatolia c’è l’annuale gara tra greggi che attraversano il fiume, vinta negli ultimi otto anni dal protagonista Takmaz, e la tradizione di colorare la lana degli agnelli con il colore rosso ricavato dalle rocce. Lo sfruttamento di una miniera  turba questo mondo  descritto nella sua vita quotidiana.

Negli stessi due giorni di 27 e 29 “Senza radici” (Koksuz”), di Deniz Akcay Katiksiz, 2013: una donna, Nurcan, si sposa per sfuggire alla madre dispotica, ma con il marito geloso la situazione non migliora: rimane vedova con tre figli, e allora Feride assume le veci del padre. Sono quattro figure diverse che non riescono a saldarsi in una famiglia.

Una storia altrettanto amara quella di “Il Tempo Presente”  (“Simdiki Zaman”), di Belmin Soylemez, 2012, programmata il 28 e 29 settembre:  rimasta sola con tre figli dinanzi alle difficoltà della vita la protagonista, disoccupata, già sposata e costretta a lasciare la casa, rinuncia al sogno americano, finirà con il leggere i fondi delle tazze di caffè in un bar.

Con “Jin”, di Reha Erdem, 2011, il 27 e il 28 settembre, la favola di “Cappuccetto rosso” si materializza su uno sfondo corrusco, l’organizzazione armata da cui la protagonista fugge  nascondendosi da amici e compagni per raggiungere la città, e trova rifugio nella natura che la nasconde nel suo grembo.

I film comici e i cortometraggi

Fin dal primo giorno, oltre ai film impegnati due film comici, nella serie “Così ridono i turchi”

“La Signora Governo” (Hukumet Kadin”),  di Sermiyan Midyat, 2012, in programma negli stessi 27 e 28 settembre, è una commedia imperniata su Xate, la moglie del sindaco  di Midyat, con 8 figli, la quale diventa sindaco e deve fare i conti con la concorrenza dei figli nei lavori cittadini  che suscita l’ilarità degli abitanti; ma con la sua tenacia fronteggia ogni difficoltà.

L’altra commedia è “Ahime Ahime 2” (“Eyvah Eyvah 2”, di Hakan Algul, 2011, il 27 e 29 settembre: il protagonista, Huseyin entra in contrasto con il medico del paese, e si espone a brutte figure, e anche quando va al pronto soccorso per chiedere di sposarlo all’infermiera di cui è innamorato, trova sulla sua strada il medico. Spassoso il viaggio della famiglia dell’infermiera che incontra  Huseyin.

I cortometraggi sono stati proiettati  il 28 e 29 settembre. cinque in successione, dai 12 ai 18-20 minuti, tranne il primo molto più breve.

 “Senza memoria” (“Belleksiz”), di Sukriye Arslan, 2012,  di 5 minuti, fa parte della serie di 22 “Film sulla coscienza”,  che si propongono di ridare voce alla coscienza ridotta al silenzio. Di qui le risposte a tanti interrogativi sulle contraddizioni della vita e sulle relative  responsabilità.

“Il vapore” (“Buhar”), di Abdurrahman Oner, 2012, visualizza i problemi del matrimonio con immagini  di ambienti domestici e di trasmissioni televisive, mentre la moglie prepara la cena.

Dal ritratto di famiglia in un interno a “La fine dell’Universo” (“Evrenin Sonu”), di Eli Kasavi, 2012,  una storia di eredità che non appassiona il ragazzo diciottenne in procinto di disporne, tutto preso dal concorso di danza cui parteciperà con una propria musica.

In “Sala da Riposo” (“Istirahat Odasi“), di Hakan Burcuoglu), 2012,  protagonista è un uomo solo che lascia la cameretta dove si era rinserrato per sfuggire al dispotismo statale per una Casa di riposo governativa, che però è utilizzata “come un servizio di suicidio indolore per le masse”,

L’ultimo cortometraggio è “Musa”, di Serhat Karaaslan, 2012,  il titolo è il nome del protagonista, che vende Dvd pirati e quando incontra il celebre regista Demirkubuz si sente fare una proposta perché il regista ha visto che tra i Dvd in vendita c’è un proprio film.

Naturalmente le brevi note di sintesi fornite non pretendono di illustrare i contenuti dei film e neppure di delineare la  filmografia  di un paese dalla forte vivacità culturale e dall’intensa vitalità quale è la Turchia, che in Istanbul ha la cerniera tra Oriente ed Occidente, un ruolo cruciale.

Abbiamo voluto accennare alle storie narrate nei film e cortometraggi per evidenziarne la specificità, che non può non suscitare interesse per la conoscenza di un popolo e di una cultura cui dobbiamo avvicinarci, anche a prescindere dall’ingresso del paese nell’Unione Europea, troppo a lungo rinviato. C’è ancora molto da conoscere e da scoprire, del resto non bisogna dimenticare le comuni radici, Costantinopoli e quel vasto capitolo di storia che fece definire Istanbul “la nuova Roma”.

Info

I film del “3° Festival turco di Roma” sono proiettati alla Multisala Barberini, Piazza Barberini, Roma. Ingresso gratuito, da venerdì 27 a domenica 29 settembre 2013: nella Sala 2  con inizio alle ore 15, alle 17, alle 19 e alle 21; nella sala 4 con inizio alle ore 16, alle 18, alle 20 e alle 22.  In questo sito sull’arte turca cfr. il nostro “Tulay Guses, a colori il misticismo di Rumi”, il 21 marzo 2013; su Istanbul cfr. i nostri 3 articoli il 10, 13 e 15 marzo 2013, rispettivamente  “Istanbul, il viaggio nella ‘nuova Roma’”, “Istanbul. Il negoziato con l’UE e la visita del Papa”, “Istanbul, alla ricerca di Costantinopoli”; infine  sulla “Via della Seta” i nostri 3 articoli sulla mostra romana, il 19, 21 e 23 febbraio 2013, l’ultimo dei quali intitolato “Via della Seta, Baghdad e Istanbul al Palazzo Esposizioni”.

Foto

Le immagini  dei film ono state fornite dall’Istituto di cultura turco di Piazza della Repubblica, Roma,  che si ringrazia, nella persona di Silvia Gambarotta, con i titolari dei diritti; l’immagine di chiusura è  stata ripresa da Romano Maria  Levante  al cinema Barberini al termine della  ‘presentazione, si ringraziano i soggetti per  la loro disponibilità.. In apertura il poster della manifestazione; seguono, nell’ordine di citazione nel testo,  immagni dei film del Festival, e precisamente: i tre film “in memoriam” di  Yilma Guney, , “L’Amico”, “Il Gregge”, “La Speranza“,e il film di apertura “Il Freddo”; poi “Il Ciclo”” e “Jin”, “Senza radici” e “Il tempo presente”; in chiusura, al termine della presentazione il presidente onorario del Festival, Ferzan Ozpetek,  e il regista  del film inaugurale “Il Freddo” Ugur Yucel  con  Fatos Guney, la moglie di Yilmaz  Guney, il grande ‘uomo di cinema premiato e con una sezione di tre film “ad memoriam”.

di  Romano Maria Levante

Alla sua terza edizione, il “Film Festival turco di Roma”, tra il 27 e il 29 settembre 2013, si è trasferito dalla “Casa del cinema” di Villa Borghese alla Multisala Barberini, nel pieno centro di Roma, tra Palazzo Barberini, Piazza di Spagna e la Fontana di Trevi. Presentato dall’ambasciatore di Turchia a Roma Hakki Akil con il Sottosegretario turco alla cultura Faruk Sahin a livello politico, e da Serap Engin, presidente del Festival con il presidente onorario, il regista Ferzan Ozpetek, definito turco-italiano e italiano-turco, le  due nazionalità della sua vita, lo ha dimostrato con i siparietti in turco, oltre che con il perfetto italiano, all’animata presentazione del Festival.

Lo spostamento di sede ha un chiaro significato, rendere la manifestazione qualcosa di diverso del cinema “d’essai” per gli addetti ai lavori, farne un messaggio di comunicazione popolare per far conoscere al pubblico la sensibilità e lo spirito di un grande popolo espressi attraverso il mezzo cinematografico. Il sottotitolo “Mamma li turchi”  prende di petto l’antica esclamazione per l’incubo di sbarchi degli “infedeli” trasformandolo nella gioiosa invasione di film significativi non solo sotto l’aspetto artistico. Infatti, come ha detto Ozpetek, ci danno la possibilità di “ascoltare storie di quelli che vivono ‘sull’altra costa’, ‘degli altri da noi’ verso i quali spesso non abbiamo il coraggio di approfondire le conoscenze e la comprensione”. Cosa di cui oggi più che mai se ne sente il bisogno anche per effetto della globalizzazione, oltre che per la prospettiva di ingresso della Turchia nell’Unione Europea, che richiede il superamento di tabù e pregiudizi ancora persistenti.

Il “testimonial”, Premio speciale: il grande Yilmaz Guney

E chi poteva essere il “testimonial” di questa operazione culturale e politica? La scelta è stata coraggiosa, perché al centro del cartellone del Festival ci sono tre film di Yilmaz Guney, uomo di cinema ma soprattutto patriota al quale in occasione della retrospettiva viene conferito il “Premio speciale”. Riceve il premio la moglie Fatos Guney, perché il regista, attore e scrittore è morto a Parigi nel 1984, a 47 anni, “ora ne avrebbe 76”, ha detto con un’espressione di affettuoso rimpianto.

Nella capitale francese era in esilio, dopo aver trascorso 10 anni in carcere, i suoi film sono uno specchio della realtà turca, spesso cruda e spietata, alla sua sincerità fuori da ogni compromesso ha dedicato la propria vita e ha pagato di persona. Un anno e mezzo di carcere per i suoi racconti, poi 2 anni di esilio per aver ospitato dei rivoluzionari, quindi arresto con l’accusa di aver ucciso un giudice e condanna a 19 anni, intanto il film “Suru”, il “Gregge”, riceve premi internazionali; pubblica in carcere una rivista culturale, presto chiusa, poi in occasione di un permesso riesce a fuggire ed andare all’estero dove il suo film “Yol”  vince la “Palma d’oro” al Festival di Cannes.

La moglie ha denunciato al Barberini la persecuzione da lui subita, compreso il vero e proprio ostracismo “fino alla distruzione dei negativi dei suoi film”, che non  sono  programmati nelle sale e neppure trasmessi in televisione, nonostante il loro valore artistico: nel suo paese ci si comporta “come se non fosse mai esistito”.  Riferendosi al travaglio interno che attraversa la sua terra, è arrivata a dire che “se si fossero ascoltati i suoi film oggi la Turchia non avrebbe questo dolore”.  

Il suo intervento appassionato ci è sembrato come un sasso lanciato nelle acque tranquille della presentazione ufficiale dell’Ambasciatore Akil, che nella sua introduzione aveva reso onore al maestro celebrato quest’anno, come del resto aveva fatto Ozpetek sottolineandone il valore di uomo di cinema. Per questo, aperto l’incontro alle domande della stampa, siamo intervenuti sottolineando il contrasto tra la celebrazione ufficiale nel Festival romano e l’ostracismo emerso dall’intenso intervento della vedova, auspicando che da Roma possa venire anche lo sdoganamento in patria delle opere celebrate e premiate all’estero. Le acque della presentazione si sono mosse ancora di più: Ozpetek ha negato che ci sia dell’ostracismo, dicendo che i film non vengono trasmessi dalle TV per una scelta aziendale, mentre il sottosegretario alla cultura si è spinto fino a dire che non solo i suoi film non sono vietati, ma saranno forniti ai giornalisti dietro semplice richiesta, e comunque si potranno trasmettere in televisione, basta  attivarsi al riguardo. Un’ultima precisazione della vedova, secondo cui da anni cerca di farli trasmettere senza riuscirci, ha chiuso questa discussione con la speranza che tutto ciò serva a riaprire subito  TV e schermi  turchi al grande uomo di cinema.

Chi è, dunque, Yilmaz Guney? Ecco come lo hanno presentato i due presidenti del festival.

Ozpetek lo ha definito “pietra miliare del cinema turco”, precisando che “la rivoluzione cinematografica di Guney, più che la tecnica e le innovazioni estetiche, riguardava ‘il coraggio di sentire nonostante il dolore'” e aggiungendo che creava i suoi film, “passati alla storia del cinema internazionale, non solo con la penna, con la cinepresa e con la mente, ma soprattutto con il cuore”.

La Engin ha scritto di lui: “Per alcuni una vita dedicata per lottare contro l’ingiustizia, per altri il padre delle anime povere. Sicuramente un personaggio molto discusso”. Ma è certo che ha cambiato radicalmente il cinema turco, i cui film “di poco valore guardavano il mondo con gli occhiali rosa, è stato il pioniere del realismo sociale, pagandone però il prezzo”. E’ diventato “la speranza’ dei ragazzi delle periferie, ‘la preoccupazione’ dei generali golpisti, ‘l’amico’ dei poveri e ‘la strada’ delle persone che sognano un futuro più bello e più giusto. I suoi racconti, i suoi personaggi, le sue idee e i suoi sogni rimarranno sempre attuali”.

Ed è bello che di questo forte messaggio partito da Roma l’eco ad Ankara e Istanbul possa essere così potente da rimuovere gli ostacoli al rilancio della sua immagine e della sua arte anche in patria. Si deve riconoscere che le autorità turche presenti hanno lasciato capire che questo possa avvenire.

Gli altri film impegnati del cartellonei

I tre film di Yilmaz Guney e il film d’apertura

La trilogia di Guney comprende tre film, ripetutamente premiati,  di tutti è produttore e  sceneggiatore, di due anche regista e interprete. Inizio  venerdì 27 settembre con “L’Amico” (“Arkadas”), 1974, lo sguardo alla degenerazione della società attraverso l’incontro dopo molti anni di due amici di diversa estrazione sociale, uno dei quali, Azem, cerca di far aprire gli occhi all’altro, il ricco Cemil, sugli aspetti negativi della sua vita; ma la cognata di Cemil si innamora di lui, di qui la crisi familiare e non solo.

Anche con  “Il Gregge” (“Suru”), 1978, del quale scrisse la sceneggiatura in carcere, regista è Zeki Okten,  proiettato due volte sabato 28, la storia di due persone si inserisce in uno scenario più ampio: qui si tratta di una tribù, un “gregge”, nei rapporti anche conflittuali tra l’uomo e la società, l’essere umano e la natura. Con una storia d’amore in un clima di ingiustizia sociale e oppressione.  

Chiusura della trilogia domenica 29 settembre con due proiezioni di “La Speranza” (“Umut”), 1970, co-regista di Guney è Serif Goren, protagonista il cocchiere Cabbar che perde il lavoro e per salvare la propria famiglia ricorre  a tutti gli espedienti compresa la lotteria e la ricerca di tesori sepolti, fino a cercare conforto nella religione: di qui lo sguardo sul mondo circostante con il suo “realismo sociale”, è impressionante l’intensità dei volti scolpiti in un suggestivo bianco e nero .

Il film d’apertura nell’inaugurazione del 26 settembre, è “Il Freddo” (“Soguk”), di Ugor Yucel,2013, ripetuto il 27 e 28: un film di frontiera non solo per la località caucasica in cui si svolge, fredda e isolata d’inverno; c’è un night club dove lavorano tre sorelle, un operaio sposato si innamora della più giovane, pronto a lasciare tutto. E’ netto il contrasto tra la condizione di coniugato e la vita da scapolo nel locale notturno, il fratello dell’operaio  è  un vagabondo.

La programmazione comprende film recentissimi, del 2013 e 2’12, con poche eccezioni del 2011.

Venerdì 27  e domenica  29,  “Il Ciclo” (“Devir”), di Dervis Zaim, 2013: in un piccolo paese dell’Anatolia c’è l’annuale gara tra greggi che attraversano il fiume, vinta negli ultimi otto anni dal protagonista Takmaz, e la tradizione di colorare la lana degli agnelli con il colore rosso ricavato dalle rocce. Lo sfruttamento di una miniera  turba questo mondo  descritto nella sua vita quotidiana.

Negli stessi due giorni di 27 e 29 “Senza radici” (Koksuz”), di Deniz Akcay Katiksiz, 2013: una donna, Nurcan, si sposa per sfuggire alla madre dispotica, ma con il marito geloso la situazione non migliora: rimane vedova con tre figli, e allora Feride assume le veci del padre. Sono quattro figure diverse che non riescono a saldarsi in una famiglia.

Una storia altrettanto amara quella di “Il Tempo Presente”  (“Simdiki Zaman”), di Belmin Soylemez, 2012, programmata il 28 e 29 settembre:  rimasta sola con tre figli dinanzi alle difficoltà della vita la protagonista, disoccupata, già sposata e costretta a lasciare la casa, rinuncia al sogno americano, finirà con il leggere i fondi delle tazze di caffè in un bar.

Con “Jin”, di Reha Erdem, 2011, il 27 e il 28 settembre, la favola di “Cappuccetto rosso” si materializza su uno sfondo corrusco, l’organizzazione armata da cui la protagonista fugge  nascondendosi da amici e compagni per raggiungere la città, e trova rifugio nella natura che la nasconde nel suo grembo.

I film comici e i cortometraggi

Fin dal primo giorno, oltre ai film impegnati due film comici, nella serie “Così ridono i turchi”

“La Signora Governo” (Hukumet Kadin”),  di Sermiyan Midyat, 2012, in programma negli stessi 27 e 28 settembre, è una commedia imperniata su Xate, la moglie del sindaco  di Midyat, con 8 figli, la quale diventa sindaco e deve fare i conti con la concorrenza dei figli nei lavori cittadini  che suscita l’ilarità degli abitanti; ma con la sua tenacia fronteggia ogni difficoltà.

L’altra commedia è “Ahime Ahime 2” (“Eyvah Eyvah 2”, di Hakan Algul, 2011, il 27 e 29 settembre: il protagonista, Huseyin entra in contrasto con il medico del paese, e si espone a brutte figure, e anche quando va al pronto soccorso per chiedere di sposarlo all’infermiera di cui è innamorato, trova sulla sua strada il medico. Spassoso il viaggio della famiglia dell’infermiera che incontra  Huseyin.

I cortometraggi sono stati proiettati  il 28 e 29 settembre. cinque in successione, dai 12 ai 18-20 minuti, tranne il primo molto più breve.

 “Senza memoria” (“Belleksiz”), di Sukriye Arslan, 2012,  di 5 minuti, fa parte della serie di 22 “Film sulla coscienza”,  che si propongono di ridare voce alla coscienza ridotta al silenzio. Di qui le risposte a tanti interrogativi sulle contraddizioni della vita e sulle relative  responsabilità.

“Il vapore” (“Buhar”), di Abdurrahman Oner, 2012, visualizza i problemi del matrimonio con immagini  di ambienti domestici e di trasmissioni televisive, mentre la moglie prepara la cena.

Dal ritratto di famiglia in un interno a “La fine dell’Universo” (“Evrenin Sonu”), di Eli Kasavi, 2012,  una storia di eredità che non appassiona il ragazzo diciottenne in procinto di disporne, tutto preso dal concorso di danza cui parteciperà con una propria musica.

In “Sala da Riposo” (“Istirahat Odasi“), di Hakan Burcuoglu), 2012,  protagonista è un uomo solo che lascia la cameretta dove si era rinserrato per sfuggire al dispotismo statale per una Casa di riposo governativa, che però è utilizzata “come un servizio di suicidio indolore per le masse”,

L’ultimo cortometraggio è “Musa”, di Serhat Karaaslan, 2012,  il titolo è il nome del protagonista, che vende Dvd pirati e quando incontra il celebre regista Demirkubuz si sente fare una proposta perché il regista ha visto che tra i Dvd in vendita c’è un proprio film.

Naturalmente le brevi note di sintesi fornite non pretendono di illustrare i contenuti dei film e neppure di delineare la  filmografia  di un paese dalla forte vivacità culturale e dall’intensa vitalità quale è la Turchia, che in Istanbul ha la cerniera tra Oriente ed Occidente, un ruolo cruciale.

Abbiamo voluto accennare alle storie narrate nei film e cortometraggi per evidenziarne la specificità, che non può non suscitare interesse per la conoscenza di un popolo e di una cultura cui dobbiamo avvicinarci, anche a prescindere dall’ingresso del paese nell’Unione Europea, troppo a lungo rinviato. C’è ancora molto da conoscere e da scoprire, del resto non bisogna dimenticare le comuni radici, Costantinopoli e quel vasto capitolo di storia che fece definire Istanbul “la nuova Roma”.

Info

I film del “3° Festival turco di Roma” sono proiettati alla Multisala Barberini, Piazza Barberini, Roma. Ingresso gratuito, da venerdì 27 a domenica 29 settembre 2013: nella Sala 2  con inizio alle ore 15, alle 17, alle 19 e alle 21; nella sala 4 con inizio alle ore 16, alle 18, alle 20 e alle 22.  In questo sito sull’arte turca cfr. il nostro “Tulay Guses, a colori il misticismo di Rumi”, il 21 marzo 2013; su Istanbul cfr. i nostri 3 articoli il 10, 13 e 15 marzo 2013, rispettivamente  “Istanbul, il viaggio nella ‘nuova Roma’”, “Istanbul. Il negoziato con l’UE e la visita del Papa”, “Istanbul, alla ricerca di Costantinopoli”; infine  sulla “Via della Seta” i nostri 3 articoli sulla mostra romana, il 19, 21 e 23 febbraio 2013, l’ultimo dei quali intitolato “Via della Seta, Baghdad e Istanbul al Palazzo Esposizioni”.

Foto

Le immagini  dei film ono state fornite dall’Istituto di cultura turco di Piazza della Repubblica, Roma,  che si ringrazia, nella persona di Silvia Gambarotta, con i titolari dei diritti; l’immagine di chiusura è  stata ripresa da Romano Maria  Levante  al cinema Barberini al termine della  ‘presentazione, si ringraziano i soggetti per  la loro disponibilità.. In apertura il poster della manifestazione; seguono, nell’ordine di citazione nel testo,  immagni dei film del Festival, e precisamente: i tre film “in memoriam” di  Yilma Guney, , “L’Amico”, “Il Gregge”, “La Speranza“,e il film di apertura “Il Freddo”; poi “Il Ciclo”” e “Jin”, “Senza radici” e “Il tempo presente”; in chiusura, al termine della presentazione il presidente onorario del Festival, Ferzan Ozpetek,  e il regista  del film inaugurale “Il Freddo” Ugur Yucel  con  Fatos Guney, la moglie di Yilmaz  Guney, il grande ‘uomo di cinema premiato e con una sezione di tre film “ad memoriam”.

Visual China, l’odierno realismo figurativo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali,  dal 4 al 27 settembre 2013  la mostra “Visual China. Realismo figurativo contemporaneo”,  presenta 70 opere di 11 artisti  con formazione accademica, molti in posizioni preminenti, della provincia di Hubei, dinamico centro di studi e ricerche artistico-culturali. Sono le moderne espressioni d’arte pittorica  che  hanno permeato di realismo il mondo orientale,  con tecniche e forme di ispirazione occidentale ma senza dimenticare le solide basi della tradizione cinese.  Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con “Segni d’Arte”, curata da Claudio Strinati e Nicolina Bianchi, responsabile della mostra  Maria Cristina Bettini. Catalogo molto curato, veramente prezioso sotto il profilo iconografico ed editoriale, Prefazione di Alessandro Nicosia, testi di Strinati (“In gara con la realtà”), Bianchi  (“Cina, nuove contaminazioni del reale”), e del critico Yang Xiaayan (“La cinesità nella pittura contemporanea cinese”).

Gli undici artisti in vario modo reinterpretano i motivi di fondo della natura e della vita umana restando radicati nelle realtà in modo libero e autonomo, con atmosfere rese speciali dalla luce,  dai cromatismi raffinati, dai simbolismi creativi. La loro contemporaneità appare ancora più strabiliante a chi ha visto la mostra del 2012 a Palazzo Venezia “Oltre la tradizione. I maestri della pittura moderna cinese”, in cui la modernità e il superamento delle forme del passato era appena percattibile agli occhi occidentali perchè forme e contenuti si muovevano nel solco della tradizione millenaria, dalla china ai cartigli, mentre qui sono vere pitture ad olio; si trattava di 6 maestri nati a fine ‘800-primi ‘900, quindi  50 anni – ma che sembrano secoli – prima degli 11 maestri contemporanei.

Dalle considerazioni del critico Yang Xiaayan sulla “cinesità” ricaviamo l’interpretazione autentica che viene data all’arte pittorica nella tecnica ad olio che sebbene abbia per gli artisti cinesi poco più di un secolo di vita, “è diventata una forma d’arte tradizionale cinese. Essa non è semplicemente più una forma d’arte straniera ma questa pittura ha la sua profonda radice in Cina e diventa una forma d’arte che collega strettamente la realtà cinese e l’estetica cinese di oggi”. Sono artisti contemporanei e le opere esposte sono recenti: su 70, ben 42 sono del triennio 2011-13, 12  del 2008-10, e le restanti 17, quasi tutte del 2005-07, di tre artisti, Xu Mangyao, Luo Min, e Leng Jun.

La pittura contemporanea cinese, dall’impronta poetica al realismo oggettivo

E’ di particolare interesse il processo con cui si è sviluppata la lotta contro le tendenze antifigurative per affermare l’attenzione alla realtà osservata, speculare e per certi versi opposto rispetto a quello dell’Occidente dove invece ci si è allontanati sempre più dalla visione del reale  verso l’astrazione.

Nel mondo occidentale l’arte aveva il suo riferimento nell’osservazione, l’immagine cercava lo stesso riferimento alla realtà della scienza; nel mondo orientale, invece, l’impronta era poetica, dominavano meditazione e sentimento. Con il modernismo l’arte occidentale si è distaccata dall’osservazione della realtà verso il ripiegamento interiore, quella cinese ha compiuto il percorso inverso, spostandosi verso il realismo e la rappresentazione oggettiva, portatavi anche dalle profonde trasformazioni sociali, una vera rivoluzione che la pittura contemporanea ha voluto rappresentare e interpretare.

Così Xiaan ne riassume i risultati: “Il profondo spirito realistico, la posizione umanistica e le tecniche classiche ed eleganti, i colori naturali e spirituali e l’osservazione dei dettagli degli oggetti contribuiscono al successo della pittura realistica cinese e della sua qualità estetica”.

In pratica  il processo di trasformazione in senso realistico dell’arte cinese è stato sollecitato dalle tendenze più avanzate dell’iperrealismo americano ed europeo tra gli anni ’60 e ’70, secondo la ricostruzione di Claudio Strinati, il quale sottolinea che tale forma figurativa contemporanea “ricorda anche il “realismo socialista” che dominava in Unione Sovietica:  ma pur con le derivazioni occidentali si riconosce pur sempre “una mano orientale quando ci si trova di fronte a dipinti  che esprimono una adesione con il reale sovente ai limiti dello sbalorditivo e del virtuosistico”.

Dal curatore vengono fornite anche indicazioni sull’ambito nel quale si muovono gli autori selezionati e le loro opere  esposte in mostra. C’è un modernismo paradossale, con il “rifiuto del criterio occidentale di ‘avanguardia’ per acquietarsi nel facile e entro certi limiti ovvio principio dell’Arte quale imitazione della Realtà”; ma da qui nasce la complessità, perché se da un lato si resta “radicati a una qualsivoglia idea di Realtà”, dall’altro “si rivendica orgogliosamente una propria specificità nell’approccio al reale”: il tocco dell’Oriente sebbene la tecnica a olio sia propria dell’Occidente.

Questa sorta di quadratura del cerchio si realizza nella mostra, con l'”affermazione perentoria di una ‘via cinese’ alla raffigurazione del reale” negli 11 artisti e nelle loro opere che non possono rendere la vastissima gamma di mezzi espressivi ma comunque rivelano la loro specificità rispetto alle opere dell’Occidente con cui pure possono confrontarsi sul piano del realismo figurativo che non pone vincoli alla creatività, anzi la promuove con “una sorta di ‘legge’ interiore e perentoria”.

Per questo l’altra curatrice, Nicolina Bianchi, definisce la mostra “lo spaccato di un inedito racconto di undici preziose fisionomie figurative della contemporaneità cinese… maestri che ben si integrano nel più ampio concetto del ‘realismo figurativo universale'”. Con questo effetto su noi visitatori: “Ci coinvolgono nelle suggestive luci e nelle particolari atmosfere della ritrattistica e del paesaggio, interpretati nell’equilibrio cromatico e formale di una propria raffinatezza tecnica di virtuosità e simbologie”.

Li passeremo in rassegna, facendo precedere le brevi note dedicate ad ognuno degli 11 artisti  dall’immagine di una sua opera, con un corredo iconografico ben più ricco del consueto; in apertura e in chiusura i particolari di un’opera che ci ha colpito per la sua assonanza, ma non identità, con Monna Lisa, sia nel volto e atteggiamento (in apertura), sia nella posizione delle mani (in chiusura).

Il “quadro nel quadro” e i ritratti soprattutto femminili

Iniziamo con  Xu Mangyao, vi troviamo il realismo nei visi e nelle figure, la raffinatezza orientale negli scorci ambientali, ma anche il surrealismo di immagini volanti – sottolineato dalla Bianchi – con cui, scrive Xiaayan, “ricorda al visitatore di osservare il senso nascosto dietro la descrizione realista”. Secondo Strinati “ha elaborato una poetica invero sottile e ipersensibile che lo porta a ricreare nella sua arte l’idea del ‘quadro nel quadro'”; in pratica il concetto della “scatola cinese dove, scrutando un aspetto della Realtà, se ne intravede subito un altro”. “Carlo è rimasto alla finestra” mostra metà del viso, la finestra è il vero quadro con un paesaggio di alto valore pittorico. A un realismo più pronunciato, con il giovane in corsa di“Il mio sogno” aggiunge elementi simbolici surrealisti nei guanti che volano lontano e nella testa di antica scultura a lato. C’è la figura ripresa da vicino, con la “Parigina” e “La signora indossa un orecchino”: nella prima la chioma riccioluta impressionistica incornicia il viso sorridente mentre si china con le braccia conserte; nella seconda colpisce la cura dei particolari, mentre il raddoppio di mani e piedi è un altro segno di surrealismo. Così per gli enigmatici stivali in posizione di salire un gradino senza essere indossati di “Specchio”. Invece “Schizzi paesistici” e “Contadino anziano a Shaanxi” sono di un figurativo delicato, assente qualsiasi elemento surreale. “L’esercito nuovo quattro. La battaglia”, non l’abbiamo visto in mostra, è di oltre 5 metri per due, il  campo di battaglia con la conquista delle trincee nemiche, un esemplare del “Realismo socialista” come i grandi dipinti sull’Armata rossa sovietica esposti alla mostra del 2011 al Palazzo Esposizioni di Roma.

Il “quadro nel quadro” è anche in Pang Maokun: il soggetto diventa esclusivamente femminile, sono figure in attesa tenera e sensuale, come di “una dolce ‘stagione dei fiori'”, commenta la Bianchi, e per lo più guardano fisso l’osservatore. In un caso la figura è vista di lato, quasi fosse stata sorpresa nell’attesa di qualcuno, di cui non si accorge, resta seduta sul divano con a fianco la borsa, mentre guarda davanti a sé. Un’altra figura è invece semidistesa sul divano, i suoi occhi mostrano sorpresa, quasi sgomento, forse perché nel dipinto “Stagione di fiorire” è vista mentre bacia se stessa allo specchio, quasi per esorcizzare la solitudine, immagine reiterata in un altro specchio-quadro. Molta attenzione al viso e in qualche caso alle vesti particolarmente elaborate, c’è la ricerca di rendere non solo la bellezza, anche l’intimo sentire che si manifesta nello sguardo e  nell’atteggiamento. E’ una galleria di figure che restano impresse, i cui  titoli sono seriali, “Nella stagione dei fiori” e “Ragazza ucraina”, con diversi numeri di serie, ma nulla di stereotipato, tutt’altro. Nel dipinto “Fiori nello specchio“,  il tema è declinato in modo molto realistico con la donna in soprabito verde e occhiali che si specchia passando, l’immagine è anche qui ripetuta in alto in un “quadro nel quadro”. Per Strinati “la dimensione del sogno e il vagheggiamento di una concreta realtà toccano un vertice vero di pregnante eleganza”. Secondo Xiaayan ha la “forza di creare un mondo psicologico e contemporaneo con la forza realistica nella esperienza plastica”.

Di Leng Jun sono presentati dipinti molto diversi, due figure femminili di grande fascino, in “Ritratto di Xiao Jiang” la fanciulla è pensierosa con le mani ai fianchi, mentre in “Ritratto di Xiao Luo” ha le mani intrecciate e anche nel viso richiama Monna Lisa,  cui è dedicato il disegno “Mona Lisa, progetto per un sorriso”. ‘L’attenzione minuziosa ai dettagli rimanda alla tradizione ritrattistica più nobile, Strinati li definisce “ritratti sbalorditivi e invero bellissimi”. Le altre opere esposte riguardano un “Negozio di antiquariato a New York”, con le statue marmoree che spiccano negli ambienti oscuri, espressione di un forte realismo. Ci sono anche dipinti su scorci ambientali, come “Dopo la pioggia” e “Tardo autunno”, nonché disegni, tra i quali “Ombrella”, tre parapioggia dalle impugnature diverse ripresi chiusi in primo piano. Strinati  attribuisce questa forma di realismo  a “una corrente di pensiero inerente alle conclamate connessioni Oriente-Occidente che risalgono, per quel che riguarda le nostre tradizioni, agli albori dell’età romantica, tra la fine del diciottesimo e l’inizio del diciannovesimo secolo”. Xiaayan pone l’accento sulla “profondità della sua meticolosità”, sulla “sua precisione e la sua tranquillità”con cui “racconta il mondo sotto i suoi occhi”. Mentre secondo la Bianchi “riesce a intrigare l’osservatore con gli originali, impeccabili dettagli descrittivi degni della più prestigiosa tradizione ritrattistica o con una rivisitata classicità di un fluido e moderno verismo”.

Le opere di Liu Xin sono definite da Strinati “raffinatissime”, la Bianchi parla di “ricchezza espressiva” e di “eloquente realismo”: vediamo quattro intense figure femminili sedute, la “Ragazza con la gonna a fiori” che le copre le gambe,  il viso reclinato immerso nei pensieri, le braccia che si incrociano in un dinamismo nervoso, e “Un caldo pomeriggio”, in cui a incrociarsi sono le mani della ragazza, lo sguardo altrove, le gambe scoperte; “Mengmen nello studio” guarda l’osservatore, le mani raccolte, mentre in “Il sole passa a Kashgar” la donna, questa volta anziana, è seduta a terra e guarda lontano mentre passa un bambino, quasi un’istantanea ripresa per strada, il realismo è ai massimi livelli. Non mancano immagini invece da “studio” come i due “Disegni della figura” con attenzione ai particolari; e la serie “Claustrofobico” dove il realismo si esprime m  nature morte di oggetti, come in “Traccia bianca”. Le sue pitture sono viste da Xiaayan in contrasto con quelle di Wang Xinyao di cui diremo al termine.

Guo Runwen è‘ un artista che approfondisce i contenuti della pittura occidentale mantenendo l’originalità, come sottolinea Xiaayan, “i toni eleganti, i colori adatti e morbidi e le espressioni sottili dei suoi ritratti  sembrano una recitazione del monologo del cuore”, il suo realismo non è dunque freddo. Nell’alternanza paesaggi-figure tornano immagini femminili particolarmente intense riprese in  momenti particolari della loro vita, come il passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Vediamo “Nastro per capelli rosso” e “Il quindicesimo giorno del mese lunare”, Ragazza uigura” e “Pensieri“, in  atteggiamenti molto diversi, disinvolti e scontrosi, timidi e aggressivi,  una  galleria di femminilità che comprende anche la ben diversa donna  seduta che impugna minacciosamente una grossa pistola con il titolo ironico “Vita ideale”. La serie sulla  “Cattedrale”, con le “luci” e le “vetrate”, l’ esterno e l’interno, completa la gamma di questo artista attento all’umanità espressa nelle persone e anche nei templi dove le persone vanno a meditare e pregare. Strinati parla di “profondità, delicatezza, introspezione e penetrazione del suo pensiero visivo”, nel senso che pur guardando con occhio rispettoso e discreto  il soggetto, ne fissa l’immagine con solidità e forza.  La Bianchi ne sottolinea la “forte valenza realistica ed un intimo sentire”, in una “narrazione pittorica dell’attuale società che trascrive come una intensa storia di classiche intonazioni nei suoi personaggi, ritratti nelle pose, nei momenti, negli ambienti più originali e suggestivi”.

Il realismo come apertura alla vita si esprime appieno in Xin Dongwang,  che presenta un mondo moderno e  dinamico, disincantato e sfrontato: volti di uomini molto “vissuti”, che un iperrealismo porta a deformazioni quasi satiriche, poi composizioni  festose come “Passare l’estate”, con le persone che si affollano intorno a libri e giornali, e “Gruppo dei giovani gioiosi” in cui non ci sono solo giovani, segno che ci si riferisce alla gioia dell’animo. I titoli dei ritratti esprimono la “satira sociale” sottolineata da Strinati: “Temperamento” e “Badare agli affari, “Va bene” e  “Vista”, fino a “Giovani” e “Canto”, identificano caratteri forti e decisi esposti senza timore. “Una vera, analitica osservazione del profondo, uno studio logico delle passioni e del carattere”, secondo la Bianchi,  in cui il realismo è accentuato “da una moderna ricerca coloristica che sottolinea l’autenticità della sua esperienza”. Xiaayan  lo conferma affermando che “il realismo di Xin Dongwang ha la sua radice popolare, diretta e selvaggia”.

Ambienti enigmatici e malinconici, paesaggi sfumati ed evanescenti

Dal realismo figurativo in senso stretto a composizioni elaborate da decrittare con Ma Lin: restano immagini figurative ma in un contesto enigmatico, criptico e allusivo in una tecnica con acrilico su tela o su legno, nel qual caso si configura un’installazione. “Una sorta di pop occidentale” – scrive Strinati –  attraverso “immagini che combinano figure e tradizioni apparentemente incomunicanti in contesti di stravagante e insieme mobilissima penetrazione concettuale ed emotiva”. Viene evocata anche la “metafisica” di Giorgio De Chirico. Alcuni titoli, come “Dialogo e conflitto”,“Dialogo asimmetrico”  e “Percezione esistenziale”, “Dialogo con Zeus” e “Dialogo Roma-Pechino”, esprimono incomunicabilità e contrasti che si cerca di comporre ma le figure restano isolate nei loro comparti. C’è qualcosa di inquietante e un senso di allucinazione, in “Collisione” e “L’ora di moda”, dove due figure sono contrapposte nettamente in modo surreale. L’artista vive e lavora a Roma, si vede che l’influsso occidentale in lui è ancora più evidente e penetrante, e secondo Xiaayan “la sua arte contiene elementi delle culture occidentali e orientali e fa vedere il contrasto fra di loro”. Per la Bianchi, “fantasie, simbologie e metafore definiscono un carattere pittorico evoluto in un approfondito studio della persona umana, sia dal punto di vista anatomico, sia psicologico”; in “un’immensa allegoria cromatica e intuitiva”.

In Zhu Xiaoguo non più figure delicate né accostamenti di immagini violenti e allucinati, dell’artista vediamo ambienti naturali da “grande paesaggista”, come lo definisce Strinati, mentre la Bianchi scrive che “con i suoi dipinti documenta l’elegante poesia della natura” come nel naturalismo nordico di fine ‘800. Il realismo è dato da come vede l’ambiente, squallido o malinconico, riflesso di un qualcosa di più intimo, forse la solitudine se non l’emarginazione: “Boschi d’autunno e torrenti”, “Stagno di un tardo autunno”, e “Il tempo è passato e arriva l’inverno”, sono dipinti dove le foglie secche ingiallite dominano, mentre nella pittura a inchiostro “Strada sporca” si accentua il realismo per nulla edulcorato. Abbiamo anche uno scorcio di abitato con una grande piazza e una sola piccolissima figura umana, quasi un’immagine metafisica; e un viso  di “Ragazza” sospettoso, ben diverso da quelli degli artisti prima ricordati. I suoi paesaggi della Cina settentrionale sono visti da Xiaayan contrastare “il realismo freddo di Luo Min”.

Guardiamo questo “realismo freddo” di cui parla Xiaayan, sono paesaggi in cui si intravedono piccole sagome umane e animali. Luo Min è una artista definita così da Strinati: “E’ il campione supremo, della evidenza, fisica e metafisica insieme” con lo sguardo “intento penetrare le sembianze del Reale, attonito e sbalordito quasi per aver scoperto quanto l’essere umano sia in grado di avvertire quel mistero insondabile e nel contempo quell’ovvio concetto che è, appunto, la Realtà”. “Sole” e “Bosco populeo”, “Paesaggio  in Tashkurgan”e “Palazzo vecchio sulla strada”,  “Vedute di San Pietroburgo” e “Roman ruins” , mostrano immagini sfumate quasi impressionistiche, dall’effetto spettacolare; “Rovine romane” è il titolo di un altro dipinto in un figurativo quasi fotografico, a dimostrazione della vastità dell’arco stilistico e di ispirazione dell’artista cinese. La Bianchi sottolinea il significato dei diversi soggetti parlando di “un’ampia integrazione culturale che corre idealmente lungo un antico cammino, sulla Via della Seta, dai resti della Roma imperiale e ci conduce ai verdi paesaggi di San Pietroburgo, fino alla calda luce del sole nella suggestiva campagna di Tashkurgan”.

Anche Chen Zijun si allontana dal figurativo precisionista con figure sfumate, quasi evanescenti  che formano composizioni mosse e mutevoli, per Xiaayan  le pitture di questa artista “alludono ad un ordine dove la logica emotiva scivola leggermente”. Strinati la vede “immersa nella velocità della percezione di chi si aggira in mezzo alla folla e percepisce solo brandelli di realtà, movimenti veloci, immagini che appaiono e scompaiono”. Gli stessi titoli evocano l’atmosfera rarefatta e  impalpabile di apparizioni  quasi oniriche: “Piume” e “Contatto”, “Apparire e scomparire” e “Immaginando”. Alcune scene sembrano visioni da “Divina Commedia”, pur con la delicatezza nel tratto e la raffinatezza nel segno che a volte lascia il posto a contrasti violenti: come il viso bianco dell’uomo e la testa verde scuro del cavallo in “Sussurro”, o l’agglomerato oscuro di volti e figure allucinati di “Indovinare”; ma c’è anche la composizione calda “Godersi della gioia”. E’ realismo  il suo, ma c’è una notevole componente fantastica, così sottolineata dalla Bianchi: “Nella sua giovane e disinvolta trama pittorica tra ideali ‘contaminazioni’ di cromie e sentimenti, traduce in suggestive trascolorazioni una fantastica realtà che pervade  tutta la sua raffinata ispirazione”.

Ancora più lontano dal figurativo precisionista, ma con irrefrenabile energia e slancio creativo,  è Wang Xinyao, che Strinati definisce “dotato di un occhio prensile e sensibile”, associandolo a Liu Xin e a Zhu Xiaoguo nel “risentire anche della conoscenza del paesaggismo francese dell’Ottocento, a sua volta così influenzato dall’idea orientale della contemplazione e dell’immersione nella maestà della Natura”; Xiaayan, come abbiamo anticipato, afferma che “le pitture di Wang Xinyao e quelle di Lin Xin vengono a contrasto”, mentre la Bianchi evidenzia “le imprevedibili energie di quel suo naturale talento che segna un nuovo slancio creativo” attraverso “quei bianchi bagliori di luce sulla bruna materia del propilene di un inedito paesaggio cinese”. Si tratta di “Ricordi della vecchia strada”,: dipinti stilizzati dai tratti abbozzati ma con precisione calligrafica. Ci sono anche degli “Schizzi di ritratti” e l’ermetico “Paesaggio cinese” che si differenzia molto dal resto: pannelli di un nero profondo con delle striature, verso l’astrazione.

La visita è terminata, siamo coinvolti ancora dalla “narrazione” per immagini  degli artisti cinesi del mondo d’oggi, che rielaborano stimoli provenienti da lontano inglobandoli nella propria cultura. “E’ una Cina – conclude la curatrice Bianchi –  che si evolve accogliendo e riproponendo una immagine a volte inedita, un po’ romantica, a volte surreale e provocatoria, in ogni caso fortemente emozionale, di una quotidianità visibile e vissuta”. E’ un “dialogo con il reale” che si traduce “giorno dopo giorno” in un viaggio “verso un futuro sempre più tecnologico”; ma”con una sempre più grande e nuova voglia di esprimere e salvaguardare quella idea spirituale e poetica che è parte integrante della coscienza creativa di ogni artista”.

E questo ci sembra essere l’elemento fortemente identitario del figurativo cinese contemporaneo.

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Complesso del Vittoriano, Via San Pietro in Carcere (lato Fori Imperiali). Tutti i giorni, compresi domenica e lunedì, ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito, Tel. 06.6780664, 06.69923801; fax 06.69200634. Catalogo: “Visual China. Realismo figurativo contemporaneo”, Li Huajia Editino Ya Chang China Shenzhen, 2013, pp. 310 non numerate, cartonato con titoli di copertina rossi sovraimpressi in rilievo su fondo giallo, trilingue (italiano, cinese, inglese), testi introduttivi di Alessandro Nicosia, Claudio Strinati, Nicolina Bianchi, testo conclusivo di Yang Xiaayan. Le opere degli 11 artisti sono riportate con un montaggio elegante dopo un quadro fotografico riassuntivo per il singolo artista, riprodotte su supporti cartacei di diverso spessore e raffinatezza, con preziosi intercalari ad introdurre ogni artista dall’immagine quasi in filigrana sul giallo intenso del foglio cellophanato posto a divisorio. Dal Catalogo sono tratte tutte le citazioni del testo. Per la   mostra di Palazzo Venezia, “Oltre la tradizione. I Maestri della pittura moderna cinese”, citata nel testo, cfr. in questo sito il  nostro articolo  il 15 giugno 2013; per la scultura cinese cfr. in questo sito il nostro articolo sulla mostra, sempre a Palazzo Venezia, dello scultore “Weishan”,   il 24 novembre 2012; per la mostra al Palazzo Esposizioni, citata nel testo, sui  “Realismi socialisti”, cfr. i nostri 3 articoli in “cultura.abruzzoworld.com” , tutti il 31 dicembre 2011;  per la mostra, nella stessa sede, su uno dei massimi esponenti del “realismo socialista”, “Deineka”,  cfr. in questo sito i nostri 3 articoli il  26 novembre, 1 e 26 dicembre 2012.  Per l’arte e la cultura cinese cfr. anche in “notizie.antika.it” i nostri 2 articoli sulla mostra a Palazzo Venezia “L’Aquila e il Dragone”, il   4 e 7 febbraio 2011; in “cultura.abruzzoworld.com”, i nostri articoli, uno sull'”Anno culturale cinese” il  26 ottobre 2010  e 2 sulla “Settimana del Tibet” il  21 luglio 2011; in questo sito il  nostro articolo sull”incontro all’Ambasciata cinese e sul Tibet il 1° aprile 2013.  Infine, per la citazione della “Via della Seta”, cfr.  in questo sito i nostri 3  articoli sulla mostra al Palazzo Esposizioni, ad essa intitolata, il 19, 21 e 23 febbraio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Leng Jun, “Ritratto di Xiao Luo”, 2005, che  insieme alle mani, il cui particolare verrà riprodotto in chiusura, richiama Monna Lisa, cui è dedicato un disegno; seguono Xu Mangyao, “Carlo in piedi davanti alla finestra”, 2007 e Pang Maokun, “Stagione di fiorire”, 2012;  Leng Jun, “Negozio di antiquariato a New York”, 2013, e Liu Xin, “La ragazza dalla gonna a fiori”, 2012;  Guo Runwen, “Il quindicesimo giorno del mese lunare”, 2009,  e Xin Dongwan, “Canto”, 2012; Ma Lin, “L’ora di moda”, 2004, e  Zhu Xiaoguo, “Il tempo è passato e arriva l’inverno”, 2009;  Luo Min, “Palazzo vecchio sulla strada”, 2009,  Chen Zijun, “Sussurro”, 2008, e Wang Xinyao, “Ricordi della vecchia strada”, 2009; in chiusura: Leng Jun, “Ritratto di Xiao Luo”, 2005, particolare delle mani nella figura leonardesca riportata in apertura.

Isgrò, il Modello Italia nelle cancellature, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna  è aperta dal 20 giugno al 6 ottobre 2013 una mostra speciale:  “Emilio Isgrò. Modello Italia 2013-1964”:  mezzo secolo  tra l’intuizione geniale e la provocazione spiazzante con un denominatore comune, la centralità del proprio paese, che considera con lo sguardo corrucciato  per l’amore tradito mettendone a nudo le magagne come stimolo alla rigenerazione salvifica. Nell’invito alla mostra del 2010 a Verona su “La Costituzione cancellata” scriveva: “Questa mostra è il grido di dolore di un artista per l’Italia che si sfascia”.  Curatrice Angelandreina Rorro che ha curato anche il  Catalogo  Electa con Beatrice Benedetti.

Lo strumento di cui si serve da cinquant’anni per esprimersi in modo tanto originale da potersi dire unico è la cancellatura, un paradosso che deve essere spiegato tanto è inusuale e aggressivo. Ma prima va approfondito come sia maturata la sua preoccupazione per l’Italia partendo dalla Sicilia, terra natale sua e di tanti letterati, Pirandello e Vittorini, Brancati e Sciascia. All’isola dedicò le sue prime cancellature eliminandola dalla carta geografica e i suoi “Semi d’arancia” in formato gigante.

Le cancellature di Isgrò: significato e valore

Secondo la direttrice della Gnam Maria Vittoria Marini Clarelli, con il suo “Seme d’arancia”, “il minimo simbolo possibile della sicilianità assurge  a monumento e il fuori scala lo rende  una forma ‘altra’, tra l’esergo e l’embrione. Così diventa possibile il paradosso di sedersi all’ombra di un seme”; come  le cancellature rendono possibile il paradosso di rigenerare ciò che si è  eliminato. Del resto le carte geografiche con la Sicilia cancellata risalgono al 1970, poi coprono l’intero paese.

Ricordiamo la reazione patriottica con spirito risorgimentale quando l’Italia è stata definita “un’espressione geografica”, ebbene  Isgrò è attirato dalla sua geografia, la identifica come un insieme di nomi che percorrono  lo stivale, dalle città ai monti, dai fiumi ai laghi, per poi cancellarli fino a ridurre l’Italia alla lettera iniziale, per di più invasa dalle formiche, in “Modello Italia”.

Le sue cancellature avvengono in modi diversi, con la china nera che distende sulle parole o con la scomparsa dell’immagine che diviene virtuale; possono essere anche mobili ad opera di formiche o scarafaggi che si spostano eliminando alcune  e lasciandone in vita altre per lanciare messaggi, arriva all’autocancellazione nel suo ciclo “Dichiaro di non essere Emilio Isgrò” iniziato nel 1971.

E’ il momento di approfondirne il significato prima di vedere le sue opere dove tutto questo si manifesta in modo  inequivocabile con una persistenza nel tempo di cui occorre tenere conto.

La  direttrice della Gnam Clarelli scrive che “la cancellatura è un meta-linguaggio applicabile a qualunque codice grafico”, mentre per la curatrice Rorro “il seme della cancellatura è il dubbio. La  messa in discussione delle proprie certezze”.  

Ferruccio de Bortoli vi vede il coraggio di guardare in faccia la realtà: “Ogni giorno, con gesti inconsapevoli, cancelliamo una parte del nostro essere italiani. Senza accorgercene. E non sentiamo il bisogno di togliere sovrastrutture, pesi ed egoismi. Insomma, non abbiamo il coraggio di cancellare per rinascere e per sentirci un po’ più liberi”. Questo coraggio invece ce l’ha il nostro artista: “L’indisciplinato Isgrò intanto disegna e acconcia, con pazienza e irriverenza, l’immensa tavola delle nostre contraddizioni nella quale fatichiamo a specchiarci”.

Ma mentre la cancellazione inconsapevole che facciamo noi è distruttiva, la sua proprio perché consapevole è costruttiva, tanto che lui stesso  ha scritto: “C’è un tempo per cancellare le parole e un tempo per recuperarle”. E ancora:”La cancellatura è un modo di aprire le porte alla comunicazione, fingendo di chiuderle per dare più libertà”. Ne ha dato prova facendo seguire al “Dichiaro non essere Emilio Ingrò” del 1971, prima citato, il “Dichiaro di Essere Emilio Ingrò” del 2008: riapre la porta dopo oltre 35 anni.

Ecco come ha recepito il suo messaggio una laureanda ventitreenne in storia dell’arte con la tesi “la cancellatura dopo Isgrò”, Clelia Mangione: “Ho imparato dall’uomo Isgrò ad indagare, a pormi domande e a cercare le risposte dentro di me e nel mondo che mi circonda, ho imparato accanto a lui a sostenerle con umile forza e ad esserne sempre innamorata. E ho imparato dall’artista Isgrò a cancellare, a cancellarmi per riscoprirmi e cancellare il mondo che mi circonda per riconoscerlo”. E conclude: “Come le parole e le immagini sfuggono alle cancellature di Isgrò, così le nostre idee possono sfuggire alle mani di chi vuole cancellarle, per distruggere la nostra libertà”.

La cancellature patriottiche dalla Sicilia all’Italia

Cominciamo dalle opere che aprono la mostra e ne riassumono i motivi: “Modello Italia”, 2012, presenta lo stivale su un grande pannello tra fitte cancellature; in un pannello simile, ma senza la penisola, dalle cancellature si salvano soltanto le parole “Dichiaro di essere Emilio Ingrò”, 2008;poi “I come Italia”, 2010, la grande lettera aggredita dalle formiche.

Troviamo questi motivi nella prima sala, con il “Mantra siciliano per Madonne toscane”, 2006-08, un’installazione in cui convivono la forma di cancellazione con i tratti neri e quella con le formiche: la prima in “Ave Maria”, 12 colonne a stampa rigorosamente cancellate, la seconda in “Madonna con formiche” e “Giara”dove l’insetto non cancella scritte ma evoca “l’infinito presente” del mondo contemporaneo che, secondo l’artista,  aggredisce tradizioni radicate “tutto distruggendo e tutto cancellando”,  pur nell’ operosità collegata alle api contrapposte alle cicale.  Il “mantra” è una litania in dialetto siciliano recitata dalla voce dell’autore nel sottofondo.  

La Sicilia è protagonista anche nello “Sbarco a Marsala”, 2010, un’installazione con al centro della sala il “Monumento a Garibaldi caduto”,  intorno due Pianoforti di legno bianco lucido sui cui leggii ci sono partiture di ” Norma” e “Puritani”,  “Sonnambula” e “Pirata”, ma tutto è infestato dalle formiche; di Garibaldi si vede solo lo stivale,  sulla parete la scritta “W Garibaldi” formata da formiche, il  tutto accompagnato dal celebre telegramma “Obbedisco” cancellato e dal “Decreto del baciamano” che lo vieta  tra uomini; un carillon diffonde le note di “Casta Diva”. Che dire,  non si può non restare presi e sconcertati.

Il legame tra l’isola e l’intera nazione e soprattutto la sua accorata ansia per le sorti del paese emergono ancora di più  nel salone  dove troviamo di nuovo cancellazione a tratti neri e formiche. “Fratelli d’Italia. Fratelli di Sicilia” , 2009, è composto da cinque serigrafie che riportano l’Inno di Mameli dove nella cancellazione quasi totale sono risparmiate le parole “Italia/Schiava”,  oggi il riferimento che allora era al  passato è divenuto attuale, dato che la perdita di sovranità sotto i diktat europei è sempre più evidente. Segue “La Costituzione cancellata”, 2010,  installazioni-box in legno e plexiglas  che riproducono pagine cancellate dove in ognuna sopravvivono frasi di senso opposto al dettato costituzionale, come “Una indivisibile minorata” e “L’arte ha diritto di sciopero”, “Non sono proibite le associazioni segrete” e “E’ senatore di diritto chi è nato a febbraio”, “Lo Stato può essere sciolto da tre cittadini” e “La giustizia amministrata da giudici spaventati”.  Ci fa pensare al referendum abrogativo che può cancellare singole parti  e parole delle leggi trasformando le frasi nel loro opposto, in fondo Ingrò usa lo stesso  procedimento.

Non si fa attendere il momento  “costruens” dopo quello “destruens”: “La Costituzione delle api”, 2010,  mostra la penisola formata da api che nel pannello successivo lasciano l’interno dello stivale per definirne i contorni. è di grandi dimensioni, veramente spettacolare,  le api operose sono ancora più attive delle formiche previdenti, un  messaggio positivo per la nazione segue la dissacrazione.

Vediamo poi “L’Italia che dorme”, composizione in alluminio con una  figura sdraiata  sotto una coperta invasa da scarafaggi,  è sempre il 2010, anno nel quale troviamo anche “Le Regioni addormentate”. Sembra una resa;  ma l’anno dopo ecco  “L’Italia s’è desta”,2011, una pagina del “Corriere della sera” con questa strofa dell’inno nazionale che  sopravvive alla cancellazione di tutto il resto, sono parole di riscossa mentre in “Fratelli d’Italia”  rimaneva “schiava”: una bella differenza, sono passati soltanto due anni da allora, torna l’ottimismo.

Lo stesso ottimismo sembra essere alla base della “Cancellazione dei debito pubblico”, ancora 2011, quasi lo si potesse fare con delle righe nere nell’articolo su due pagine di un giornale economico dal titolo “Et dimitte nobis debita nostra”, con altri titoli, grafici e numeri cancellati, resta solo la sequenza di 15 zeri che seguono il numero del debito; l’artista ha spiegato che la cancellatura “funziona come lo zero in matematica, chiamato a formare da solo tutti i numeri, tutti i valori”. E’ stata realizzata per l’Università Bocconi, dov’è stabilmente installata nei suoi 2,80  per 3 metri di grandezza, dono dell’artista; fu inaugurata con il rettore della Bocconi  Mario Monti.

E dopo il debito pubblico,  ecco “Cancello  il Manifesto del Futurismo”, 1912, realizzato verso la fine dell’anno per un museo di Rovereto, il Mart,  due pagine con il celebre testo pubblicato sul “Figaro” di Parigi il 20 febbraio 2009 quasi interamente cancellate, resta “Allons, dis-je, mes amis! Partons!”, l’ultima parola “salvata” anche più avanti.  In parallelo tenne nel museo un “Corso di cancellazione generale per le scuole d’Italia”, riconsiderando istituto e avanguardie con la cancellazione: “Noi vogliamo cancellare, noi vogliamo sognare” , del resto anche la cancellazione del debito pubblico con un tratto di penna esprime il sogno impossibile di cancellarlo nella realtà. Mentre crediamo che la cancellazione della Costituzione esprimeva invece il richiamo al realismo della sua insufficiente attuazione  rispetto alla retorica della “Costituzione più bella del mondo”.

Abbiamo introdotto con l’immagine del “Modello Italia”, il grande stivale tra le cancellature, recentissima l’installazione dallo stesso titolo generale che si articola in tanti titoli particolari a pagine di quotidiani cancellate ma di cui si riconosce la testata e qualche titolo al quale si riferisce l’intitolazione dell’artista. Tanti sono i “Modelli Italia”, 2013,  fissati in altrettanti quotidiani  i cui titoli e testi  sono “cancellati”, anzi “scialbati” perché alcuni percepibili: il romano e iltemporale, il francescano e il benedettino, il tasso di sconto e l’evasivo, il moto perpetuo e il riciclaggio, il dubbio permanente e il provvisorio, il marinaro  e l’ingannevole, il modello in movimento  e l’irraggiungibile”, con i temi più elevati, modello di verità e di umiltà, di sapienza e di speranza, fino al modello delle anime; c’è anche un modello di perfezione,  in cui cancella l’articolo del giornale ma non il grande titolo “Lo Stato ignorante”, magistrale!

E’ spettacolare la vista di tutte queste pagine di quotidiani cancellate nella grande sala espositiva. Ma è anche fortemente simbolico, lui stesso ha detto di aver “scialbato” parole e figure “non certo per distruggere, ma per azzerare con un gesto simbolico la difficile situazione in cui ci troviamo e ricominciare a costruire il futuro anche con l’arte , con la cultura”, che è il suo messaggio di fondo. Il “Modello Italia ” è soprattutto la metafora di una società globalizzata che si rispecchia perfettamente nel disordine italiano. Disordine mondiale e disordine italiano, in altre parole, si equivalgono perfettamente”. E precisa: “In questo senso, e solo in questo senso, l’Italia può diventare un laboratorio d’arte e di cultura per nuove, e inedite, esperienze civili e politiche”. L’artista alza ancora il tiro.

La cancellazione ottomana  e la scomparsa delle immagini

Un’altra installazione con una molteplicità di elementi sotto un unico titolo generale che viene declinato nelle sue manifestazioni è “Var ve yok”,  cioè “C’è e non c’è”,realizzato per la mostra di Istanbul del 2010, in cui il grande libro del “Codice ottomano”  è presentato  con tutte le cancellature in 14 leggii, dai titoli come Codice ottomano dell’armonia, poi terrore e libertà, insonnia e dubbio,solitudine e tempeste, mare blu e lanterne, spezie  e longevità, silenzio e desiderio, infine ombre. L’artista lo ha definito “il lavoro più difficile”, perché con i testi ottomani procuratigli dall’amico Ozgur ha “cercato di raccontare, se così si può dire – sono le sue parole- il graduale transito dalla Turchia ottomana alla Turchia contemporanea”: e lo ha fatto con le cancellazioni   lasciando  parole in turco tradizionale, non  decifrabili neppure dai  turchi di oggi, e  parole in latino per riaffermare che la Turchia è vicina all’Europa, mentre spuntano nomi simbolici, Maria Antonietta nel Codice ottomano del terrore, Goethe e Schiller nel Codice della longevità.

Nella stessa sala, alle pareti, “Il sorriso di Ataturk”, 2010,  due grandi pannelli rossi che riproducono la bandiera turca  con mezzaluna  e stella e la scritta in turco, inglese, italiano, “Mustafa Kemal Ataturk (al centro) sorride nel rosso vestito di rosso”. La particolarità è che non si vede nulla, oltre al rosso uniforme.  Lo stesso aveva fatto oltre 35 anni prima con i due pannelli, esposti, in rosso uniforme intenso senza alcuna figura neppure delineata con la scritte “Karl Marx (a sinistra) mangia nel rosso vestito di rosso” in uno, nell’altro tra parentesi è scritto “a destra“, ma l’immagine è sempre invisibile, quasi inghiottita dal suo stesso colore. 

La scomparsa di immagini  la troviamo 35 anni prima in “Paolo e Francesca”, 1966, nel nero acrilico su tela non vi è alcuna figura, e poi in “Trittico del Vecchio Continente”, 1968,  tre tele emulsionate in cui “Emilio Isgrò (sotto l’albero) medita sul destino del vecchio continente”,  “(a sinistra)  medita sull’immortalità dell’anima”, e “(al centro) scivola verso la morte” con il particolare che non vi è alcuna immagine dell’artista nel retinato; fino alla tela emulsionata “Poesia Jacqueline”, 1985, in cui si legge “Jacqueline (indicata dalla freccia) si china sul marito morente”,né lei né Kennedy colpito a morte sono visibili nel retinato.

Completano la parentesi turca gli acrilici su tela “Cancellazione ottomana energica” e “Cancellazione esitante”, 2010, questa volta non sono cancellate le scritte ma due figure in piedi, la prima totalmente annerita tranne braccio, mano e pugnale, l’altra del tutto sbiancata tranne braccio, mano e cimiero.

I 12 elementi di “Weltanschauung”, 2007, presentano carte geografiche di diversi paesi con i nomi delle località cancellati.

La retrospettiva,  dagli anni ’60 al 1985, e una conclusione

Nella retrospettiva spiccano le due più antiche opere in mostra: la tela emulsionata , “Volskwagen bianca in campo nero“,  1964, una fila delle inconfondibili auto con sopra la scritta, sempre in bianco, “Dio è un essere perfettissimo come una Volkswagen”, è tutto un programma di trasgressione. E la trasgressione prosegue  con  “Cancellatura”, 1964, un piccolissimo ritaglio di giornale con lo scritto tutto cancellato meno  “un truffa  dalla quale sono rimasti vittima numerosi amatori”, poi in una carta fotografica con lo stesso titolo, nel 1966, una cancellazione selettiva nel testo intitolato “Ideologia della sopravvivenza”.  

Le cancellazioni puntano in alto, sul massimo monumento enciclopedico: “Enciclopedia Treccani”, 1970, con una  serie di  box in legno,  su ciascuno un  grosso volume numerato aperto in due pagine dalle scritte cancellate con la solita china nera; e sulle carte geografiche di “Italia” e “Sicilia”, 1970, dove sono cancellati i nomi delle località.  Segue la cancellazione di tre “Telex“, 1972, lunghe strisce in box di legno e plexiglas, e di libri,  “Libro cancellato “, uno generico, 1972, l’altro “Subbaturi Romanu”, 1974,  poi “Dulcinea”, 1967, fino  a “Einstein”, 1983.

Sono esposte anche sue opere che giocano con i colori: il giallo  in “Flavida”, 1979,  macchie di “100 gialli  tra cui stabilire quale giallo è più giallo”, e  “Dittico del giallo perduto”; con il rosso in “Il rosso e la macchia”,  1985,c’è una a scritta che ricorda quella della Volkswagen: “Dio nostro Signore crea questo rosso e lo chiama Gesù”.  Non si tratta di irriverenza, è esposta un’opera in  cristallo trattato con pigmenti  che mostra il suo grande rispetto per la religione, “Le tavole della legge, ovvero la Bibbia di vetro”,è monumentale e senza cancellature.

Gioca con la punteggiatura in “Virgola”, 1966,dove è scritto “Le virgole sono il sale della lingua”, e in “Competition is competition”, che non è in retrospettiva lontana essendo del 1999:  2 acrilici su tela con una grande virgola e la scritta è “Comprereste questa virgola da Bill Clinton?” in uno, “… da Emilio Ingrò?” nell’altro.  Gioca con la prospettiva deformata in “Johanna Juditha”, 1985, dipinto con una figura femminile surreale .

Le uniche altre figure le troviamo in un’opera molto particolare dal forte impegno civile: “L’ora italiana” , 20 grandi cerchi alle pareti con sopra orologi che segnano ore diverse, e immagini di persone dai visi deformati e in pose surreali; ciascun tondo ha un nome evocativo con aggettivi quali carnale e devastato, glorioso e indiziario, lunare e matematico, pauroso e perfetto, possibile  e tonale.  Evocano le tante stragi che attendono giustizia, prima tra tutte quella alla stazione dl Bologna del 2 agosto 1980 quando l’esplosione fermò le  lancette dell’orologio alle 10,25.

Abbiamo iniziato questo excursus citando i “Semi d’arancia” giganti della sua sicilianità e  tre opere simbolo che ne  riassumono i motivi  come italiano e come artista fuori dal coro, il “Modello Italia” con le cancellazioni, “I come Italia” aggredita dalle formiche e il suo “Dichiaro di essere Isgrò”. Dalla sua produzione emerge la persistenza dei motivi e la coerenza stilistica che fa diventare stabile quella che poteva sembrare una invenzione del momento, rinnovandola e puntando sempre in alto. Così ha precorso i tempi dell’arte concettuale e non solo. E’ un artista, lo ricordiamo ancora, che si serve di paradosso e trasgressione per un messaggio positivo di speranza e di fiducia nel suo paese, e la mostra gli rende omaggio con un allestimento spettacolare.

Info

Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, Roma,Viale delle Belle Arti, 131. Da martedì a domenica dalle 10,30 alle 19,30 (la biglietteria chiude alle 18,45); lunedì chiuso.  Ingresso intero 8 euro;  ridotto 4 euro, tra 18 e 25 anni e per insegnanti delle scuole pubbliche nell’UE; ingresso gratuito fino a 18 anni e oltre 65, più altre gratuità di legge.  Tel. 06.32298221, http://www.gnam.beniculturali.it/.  Catalogo: Emilio Isgrò, “Modello Italia 2013-1964”, Electa, 2013, pp. 232, formato 20×25. l

Foto

La immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Gnam, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “I come Italia”, 2010, seguono “Madonna con formiche”, nel “Mantra siciliano per madonne toscane”, 2006-2008, e “Costituzione delle api”, 2010, poi  “Monumento a Garibaldi caduto” in “Sbarco a Marsala”, e  “L’ora italiana”, uno dei 20 elementi; in chiusura, “Tre semi d’arancia (Liberté Egalité Fraternité”), 1998.

Maugeri, al Festival dannunziano con il poeta Benedetti

di Romano Maria Levante

Nuovo incontro con il pittore Vincenzo Maugeri e con il poeta Italo Benedetti, dopo le mostre “Metroversocromie” a Roma  nel 2010 e “Parole e colori sull’acqua” a Venezia nel 2011: il pittore espone 9 dipinti e Benedetti presenta  una poesia al “D’Annunzio International Arts Festival”, a Pescara dal 20 luglio al 31 agosto 2013, nel 150° anniversario dannunziano. Direttore artistico Giordano Bruno Guerri,  presidente della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, che ha dato nuovo slancio alla storica residenza del Poeta con  iniziative di valore culturale e simbolico. Sede del Festival l’antica fabbrica, ora centro espositivo, dell’Aurum, nome ideato da D’Annunzio, un edificio dalla facciata neoclassica ad arcate, con un cortile interno circolare di concezione “panottica”: ci ha ricordato  quella del  teatro in  cui l’attenzione converge  sul palcoscenico.

Il Festival  ha mobilitato teatro e musica, cinema e  letteratura, poesia  e pittura in un susseguirsi di manifestazioni per l’intera estate. Ci soffermiamo sul pittore e il poeta citati, in continuità con le loro precedenti mostre, considerando che le altre manifestazioni  sono concluse, mentre la mostra di Maugeri terminerà il 31 agosto, e con essa il Festival; ma il  motivo principale è il fatto che hanno fissato in immagini e in versi  importanti momenti della vita e del mondo dannunziano su cui  soffermarci.

Prima facciamo un  excursus sulla parte del Festival  già svolta, una carrellata di generi artistici e spettacoli in omaggio a una personalità  straordinaria  e versatile e alla sua vulcanica creatività  espressa nei campi più diversi dell’arte e della vita.

Teatro e musica,  cinema e letteratura

Il   teatro ha presentato Giorgio Albertazzi al quale è stato conferito il “Premio Vittoriale”- con “Io ho quel che ho donato”,   il  motto dannunziano che ne riassume la dedizione. Lo spettacolo, di cui Albertazzi è autore e interprete, svoltosi  il 27 luglio, ha scavato nei contrasti dannunziani,  da un lato la contemplazione della bellezza allo stato puro, dall’altro una sensualità che alcuni definiscono per eccesso “voyeur satiresco”, mentre riflette  l’eterna lotta tra lo spirito  e la carne.

 Con   “Legionari, l’impresa di Fiume”, di Stefano Angelucci Marino,  il 29 luglio il pubblico si è emozionato allo spettacolo imperniato sul racconto coinvolgente del  legionario che,  lasciato il borgo d’Abruzzo, si era unito a D’Annunzio condividendone ideali e sogni, azioni e ribellioni.

Al teatro si è aggiunta la musica  con Daniela Musini,  che il 21 luglio ha tenuto il recital-concerto “L’Abruzzo nel cuore: brani dannunziani – poesie, prose di romanzi e di opere teatrali – recitati anche accompagnandosi al pianoforte, e scelti tra quelli dai quali risalta il suo attaccamento all’Abruzzo; protagoniste le Muse dannunziane, Eleonora Duse in primo piano.

Le romanze di Tosti con parole di D’Annunzio  sono state al centro di due spettacoli: il  20 luglio il recital “Omaggio a Francesco Paolo Tosti e Gabriele d’Annunzio”,  del  tenore Christian Maragliano,  con Antonella Salvatore al pianoforte; il 25 luglio il concerto “I musicisti di D’Annunzio”, per celebrare  i 150 anni della nascita, con la soprano  Manuela Formichellaaccompagnata al pianoforte da Marco Ciccone  che, con l’americano Brendan Mc Conville, è autore  di musiche su testi di D’Annunzio,  presentate con quelle ben conosciute di Tosti. .

Il cinema è stato presente alla grande, con la proiezione, il 22 luglio, di Cabiria”, film del 1914 – dopo il restauro a colori del primo kolossal del cinema italiano  –  voluto da  D’Annunzio le cui didascalie sono state lette da Edoardo Sylos Labini, con lemusiche antiche e moderne di Wagner e i Pink Floyd, Chopin e i Doors, proposte dal dj Antonello Aprea.

Anche un festival  nel festival,  il 23 luglio il  Festival cinematografico, diretto da Arianna Di Tomasso, con  cortometraggi  d’autore e premiazione di esordienti; inoltre la mostra fotografica sul cinema   FrameByFramed, curata da Luca Di Francescantonio.

Per la letteratura,  il  20  luglio una tappa del tour estivo del Premio Campiello si è svolta nell’ambito del Festival dannunziano: i  cinque finalisti hanno incontrato il pubblico, la premiazione del vincitore avverrà il 7 settembre a La Fenice di Venezia. Mentre il  24 luglio si è avuta la presentazione dei libri“La mia vita carnale. Amori e passioni di Gabriele d’Annunzio”  di Giordano Bruno Guerri,  e “L’onorevole d’Annunzio. L’esperienza parlamentare di Gabriele d’Annunzio tra destra e sinistra” di Lucio Di Biase; il libro di Guerri e il “Tempio della Sapienza VI – L’Allegoria dell’Autunno”,  sono stati oggetto di sculture dell’artista Claudio Perri.

C’è  stato anche un momento simbolico altamente spettacolare, il volo commemorativo sulle rotte dannunziane, di idrovolanti da Gardone Riviera a Pescara  con approdo nel fiume al Ponte del Mare,  per segnare in modo tangibile  il collegamento ideale tra il territorio dov’è il Vittoriale, la sua sede ultima carica di valori, e la città natale.

Poesia e pittura, “Il Vittoriale dei poeti” di  Benedetti

Il Vittoriale è presente al Festival anche con  la poesia e la pittura di Benedetti e Maugeri. Ma prima di parlarne citiamo il recital del 23 luglio, “La Poesia che ritorna, per salvare il mondo”, protagonisti i  detenuti della Casa di Reclusione di Sulmona, nel progetto di formazione e recupero di Vilma Maria De Sanctis; e la mostra del pittore Marco Sciame, aperta dal 3 luglio al  29 agosto.

 “Tu sai dunque l’amore”, il titolo,  51 quadretti  con “Gabriele d’Annunzio: tra amori e battaglie, Il Fumetto” e 17 grandi tavole (70×50)   dedicate alla donna e alla sensualità espressa nelle sue opere: dalla “Vergine delle rocce”  a “La città morta”, da “Il fuoco” a “Francesca da Rimini”,  da “La Pisanella” a “Parisina”, da “Sogno di un mattino di primavera” a “Sogno di un tramonto d’autunno”. Scene tratteggiate a china con eleganza e incisività da Sciame, lo “scriba della visione”, in una grafica raffinata e avvolgente, esprimono il simbolismo dannunziano con l’immaginario e l’eroico, il reale e l’ideale. La visita alla sala con alle pareti i quadretti e le tavole è stata un’immersione nel  mondo di D’Annunzio evocato con  il fumetto e  nei personaggi  delle opere cui si è ispirato l’artista; per ognuna la tavola riporta il  brano cui si riferisce la raffigurazione, l’insieme è spettacolare.

Poesia e pittura in simbiosi  nell’installazione alla pineta pescarese “Creatura terrestre che hai nome Ermione” , di Antonella Cinelli,  che dal 19 luglio ha evocato  “La pioggia nel pineto” con immagini del viso e delle mani, piante e alberi in un abbandono panico alla natura; proseguirà fino al 15 settembre, anche dopo la conclusione delle tante manifestazioni del  Festival.

L’ultima nel tempo è  la mostra di Vincenzo Maugeri, dal 21 luglio  al 31 agosto,  cui si affianca – come si è detto – l’omaggio di Italo Benedetti  “Il Vittoriale dei poeti”. Un’intesa pittore-poeta di cui abbiamo trovato degli epigoni nella mostra “Pietracamela per l’arte”, il 16-17 agosto nel paese al cuore del Parco Nazionale del Gran Sasso alle falde di Monte Corno, la vetta più alta degli Appennini: sono Paolo Foglia e Francesco Barnabei che hanno esposto insieme i dipinti del primo e le poesie del secondo non legati da un rapporto diretto ma dalla condivisione di sogni e inquietudini.

Dopo questo collegamento fresco nel tempo, venuto spontaneo, vogliamo prendere l’avvio dal poeta Benedetti perché fa entrare nell’atmosfera speciale del mondo dannunziano espressa dal Vittoriale, il “buen ritiro” dove dal 1921 fino alla morte nel 1938 visse come in esilio circondandosi dei cimeli e dei ricordi della sua vita inimitabile. Per questo è importante che il poeta, per il suo omaggio a D’Annunzio, si sia ispirato alla sua  residenza, ponendo la data Gardone, 3 marzo 2013.

A chi si rivolge la poesia, e quale messaggio contiene?  Si rivolge al Vittoriale, “tu luogo magico”,  per i poeti  “la vera casa dell’anima”: immagina  possano  portarvi la loro inquietudine coloro che sono vissuti nel chiuso di una stanza come Emily, o al contrario hanno vagabondato per  il mondo come Ribaud  o lo hanno fatto con i versi come Campana; vedremo poi che cita anche “lo spirito di Dante”. Quando visita il Vittoriale “è quasi primavera”, e dal  vasto giardino si innalzano gli effluvi  della natura che si risveglia, cui dedica versi ispirati: sente il profumo dei narcisi tra i  boccioli dei roseti, “dove s’irradia l’alone degli occhi grandi del Poeta”. Ma va oltre queste pur forti sensazioni.

Nel  “misterioso e cimiteriale susseguirsi di stanze straripanti di reliquie” ” coglie alcuni aspetti  fondamentali  quali  il sincretismo religioso in cui “in un tripudio d’oriente divinità cinesi abbracciano San Sebastiano e santi francescani”; ma nella “Stanza delle Reliquie” al culmine della piramide di divinità c‘è la Madonna madre di Cristo. E coglie l’ essere “la dimora del dopo, l’asilo dove si radunano i fantasmi dei poeti”, tra loro c’è anche quello di D’Annunzio, e non solo ora, anche  quando vi abitava, dopo una vita inimitabile spesa senza risparmio in tante direzioni.

Perciò sono accolti nella residenza “quelli che amarono su tutto la poesia immortale e la bellezza”, e D’Annunzio è il primo di loro: “Qui sostano le anime dei grandi, in questa cripta dell’eternità, dove aleggia lo spirito di Dante!”

La conclusione è in carattere con l’inizio: “Gardone Riviera, oggi e per sempre, è primavera!”, e non per il ciclo delle stagioni, ma per quanto di vivo e vitale è radicato nel Vittoriale degli Italiani.

L’“Atto di donazione al popolo italiano” iniziava con queste parole: “Prendo possesso di questa terra votiva che m’è data in sorte; e qui pongo i segni che  recai  meco, le mute potenze che qui mi condussero”. E più avanti:”Tutto è qui da me creato e trasfigurato”.  Della “Stanza del Lebbroso”, in particolare, scriverà al pittore Guido Cadorin, che aveva dipinto nel soffitto le Sante donne in assistenza al lebbroso dalla visione avuta mentre visitava un  monastero di clausura di Ferrara, evocata nelle “Faville del maglio”:  “La stanza è un miracolo al di là della tua arte e al di là della mia ispirazione. E’ un miracolo e un mistero, entrambi inconoscibili”.  

Si spiegano  le parole del fedele legionario Mario Barilli: “E chi abbia anche per una sola volta la fortuna di entrare nella villa del Poeta, ne riporta un’impressione così duratura, così scolpita nella mente, che spesso, poi, può rievocare e rivivere le ore inobliabili trascorse nel Vittoriale, nei domini rosazzurri del sogno”. Immagine che ritroviamo nelle parole di Francesco Meriano, all’epoca console italiano ad Odessa, dopo una visita al Vittoriale, che poteva essere apprezzata soltanto da chi era scevro di pregiudizi: “Ma chi del dono era degno porta in sé, e porterà sempre, l’immagine di un ineffabile sogno”. Benedetti  ne ha dato la versione poetica, avendo percepito, oltre agli effluvi primaverili, gli influssi misteriosi che trasmettono la magia della casa dei poeti.

Nei  9 dipinti di Maugeri  un suggestivo”tutto D’Annunzio”

Dall’ambiente evocato da Benedetti  al personaggio raffigurato da Maugeri in 9 dipinti così presentati da Giordano Bruno Guerri: “In quei colori allegri, in quei tratti  apparentemente semplici, è rappresentata tutta la vita di D’Annunzio: i grandi amori e l’ossessione carnale, le imprese belliche senza spargimento di sangue, perché il nemico deve essere beffato, prima ancora che vinto, l’amore panico per la natura e la magia ritmica delle parole nella pioggia nel pineto; ci sono il Vate futurista e il Vate senza tempo che si è eternato nelle pietre vive del Vittoriale, c’è persino l’amore di Gabriele per le uova, intese come base per le frittate, ma che per Vincenzo Maugeri sono il simbolo dell’umanità di D’Annunzio… Infine nell’alone di quegli occhi grandi che riprende quello della falce di luna calante, leggiamo il D’Annunzio per noi irraggiungibile eppure vicino, antico e sempre contemporaneo, di una eleganza senza tempo, di una dolcezza senza fine”.

Questa la lettura che ne fa il presidente della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” rievocando attraverso i dipinti  il  mondo dannunziano.  Per parte nostra, descritte le singole opere, concluderemo con una notazione finale che aggiunge alla visione suggestiva di Guerri  una componente che ci viene suggerita da uno dei dipinti, il più enigmatico.

“Vate volante” e “Posta aerea” lo mostrano sui fragili velivoli dell’epoca. Il primo  in una delle prove di arditismo più spettacolari, il volo su Vienna: una sfida  simbolica, vi furono gettati dei manifestini tricolori, visibili nel dipinto in cui si intravedono appena lui e il pilota sull’aereo che sorvola la capitale austriaca; il secondo, in cui invece sono in primo piano, ci piace riferirlo idealmente al volo su Cattaro, nella “notte di san Francesco”, quando sentì di trovarsi “nel terzo luogo”, quella “plaga oltre la vita e oltre la morte”. La sua prima missione aerea era stata  il 7 agosto 1915  sopra Trieste, e l’aereo pilotato da Miraglia fu colpito; ce ne furono poi sul Carso fino all’incidente a Grado del 16 gennaio 1916,  in cui perse l’occhio destro e fu costretto all’immobilità e al  buio da cui  nacque il “Notturno”; poi il 13 settembre volo su Parenzo e nel 1917su Pola e sulle linee nemiche della Bainsizza, fino al volo su Cattaro il 4 ottobre 1917 e su Vienna il  9 agosto 1918.  Maugeri ha raffigurato nei dipinti anche il pilota sull’aereo, con il quale D’Annunzio aveva un forte  legame.

Quando qualcuno dei piloti a lui vicini periva vittima della guerra – e ce ne furono tra quelli  più cari – non nascondeva il suo profondo cordoglio, partecipando al rito religioso si inginocchiava, come dinanzi ai caduti a Fiume, ci sono immagini eloquenti. Nel “Notturno” parla delle  “quattro croci fraterne. Giuseppe Miraglia è crocifisso alla sua ala. Luigi Bailo è crocifisso alla sua ala. Alfredo Barbieri è crocifisso alla sua ala. Luigi Bresciani è crocifisso alla sua ala”.. E di Miraglia, definito “dimidium animi”,  scrive: “Il mio compagno è nell’isola dei trapassati… Io sono vivo ma esattamente collocato nel mio buio com’egli nel suo… Gli somiglio anche nella ferita… così la sua morte e la mia vita sono la medesima cosa… Se bene io soffra, se bene egli non soffra più, per l’uno e per l’altro la carne è abolita mentre gli spiriti si ricongiungono… Io vissi con lui o morii con lui? V’è un luogo dell’anima, là dove il nero fiume e il fiume chiaro confluiscono”.

Dall’ardimento e patriottismo all’amore e alla sensualità.  In “Ragnatela” è raffigurato il legame con Eleonora Duse, le loro figure sono insieme  nel dipinto  in un’atmosfera  malinconica. Della Duse teneva al Vittoriale un busto dello scultore Minerbi  che lui coprì con un velo chiamandola “Testimone velata”. Frances Winwar ha scritto che “secondo l’umore, abbassava o sollevava il velo”; nei momenti di tristezza, ci ha detto una testimone,  invocava “Eleonora,  Eleonora”, come per chiederle un aiuto, e sul suo tavolo al momento della morte furono trovate quattro dediche in preparazione per la Duse.

L’“Ossessione carnale”  raffigura la sensualità dannunziana con l’immersione della sua figura nella donna che lo avvolge e tiene dentro di sé con un’espressione ferma e decisa, ma lui riemerge dominnate.  Il tema è complesso perché la sensualità non si può considerare fine a se stessa. D’Annunzio ha scritto:  “L’opera di carne è in me opera di spirito,  e l’una e l’altra opera concordano nell’attingere a una sola unica bellezza”. E  ne dà la spiegazione:  “La più fertile creatrice di bellezza nel mondo è la sensualità rischiarata dalla divinazione. La sensualità mi accomuna alle cose che guardo, mi fa simile alle cose che tocco ed esamino,  mi dà la veggenza di Francesco cieco che vedeva le musiche. Non vedo io le mie musiche? Ma ho ancòra da penetrare questo mistero, ho ancòra da esplorarlo impudicamente, cioè innocentemente”.

Non riuscì a scrivere i  tre romanzi di “carne senza carne” che aveva progettato, scegliendo i titoli:”Buonarrota”, ” La Violante”,” La Bocca velata” , secondo questo motivo  ispiratore: “Quando per esprimersi lo spirito si serve della materia, non si sottomette esso alla materia, ma la sottomette”. Sempre nelle sue parole, “la carne non è più carne ma l’orlo di una potenza interiore”.  Francesco Flora vi legge”una sintesi svelata degli estremi del senso come bellezza e dell’anima come coscienza di purificazione”. … Per lui lo spirito è la carne”.

L’ossessione carnale, peraltro, viene da lui considerata risalendo nel tempo alle prime emozioni, riportate nelle “Faville del maglio”: quella nella Stanza del Museo etrusco, dinanzi alla statua della  Chimera, quando la compagna gli “si serrava addosso” e a lui “pareva fosse doventata nuda, tutta nuda e bruciante… Quella carne sediziosa mi mordeva più di quel metallo irto”; e l’emozione suscitata dalla contadinella  che “avea nome Sblendore”: “E le parlai d’amore, e la pregai d’amore; e le cercai la bocca nella vendemmia intempestiva, cercai il succo dell’uva di là da’ suoi denti di lupatta, quasi avviluppando il mio desiderio con l’ombra del vespro supplicato e stimolato”.

Sempre nelle “Faville”, arriva alla confessione del “male ereditario”: “Ero invasato dal male di donna. Se fossi stato accolto dai frati del Bel Morire avrei confessato, in San Gregorio, che l’abitacolo della mia mente era tenuto dalla concupiscenza, intiero. Avrei confessato, pallido d’impudenza, avrei confessato d’essere ormai ossesso da una sola unica immagine, da una figura carnale non ancora apparita a’ miei occhi e pure evidente nel ricordo”. Che rievoca con parole inequivocabili, nelle quali Salomè e Clematide si susseguono nella sua fantasia sovreccitata.

Maugeri ha esplorato anche altri lati di D’Annunzio, ed ecco “La falce di luna”, immagine notturna con la sua figura che spicca su un cielo nero in cui si staglia  la sezione del disco che risplende, in un contrappunto luce-ombra tra il suo viso e la luna. Associamo a questo il dipinto “La pioggia nel pineto”, il suo profilo tra le grosse gocce che piovono sul verde della vegetazione, mentre si  intravede  la sagoma di Ermione, evocata nella poesia.

Tre dipinti sono enigmatici, e per questo intriganti: “Le uova di D’Annunzio” ,  un tema caro al pittore di cui Guerri ha spiegato il significato per il Poeta – la prediletta frittata e l’umanità –  mentre “Vate  nel tempo” lo raffigura stretto non più nel corpo femminile ma in una clessidra, con il volto nell’ampolla superiore, e non potrà scendere in quella inferiore attraverso lo stretto pertugio. Quindi resiste al tempo, il Vittoriale ne rappresenta la prova tangibile, e se ne ha conferma nel l’interesse sempre vivo sulla sua figura che attira centinaia di migliaia di visitatori  come anche nel fiorire di iniziative molto seguite  promosse dal Vittoriale e dalla natia Pescara dove la sua casa è diventata un museo.

C’è un altro “tempo” di D’Annunzio, quello degli anni del Vittoriale allorché era “coperto da una tristezza color di cenere” – sono le parole di una sua  lettera a Fiammetta – per il prevalere, sul suo animo volitivo e portato all’azione, delle angosce esistenziali in cui i timori della vecchiaia e della morte  erano la sua non gradita compagnia. Nel  giorno del quarantesimo compleanno, nel 1903, celebrò “le esequie della giovinezza” con queste parole: “Bisogna dunque che io imbalsami alfine il cadavere della giovinezza, che fasciato di bende io lo chiuda fra quattro assi e ch’io lo faccia passare per quella porta, ove lo spettro della vecchiaia è apparso tra i battenti socchiusi e con un cenno quasi familiare m’ha augurato il buon giorno”. E’ lo “spettro abominevole”, il “nuovo ospite” a cui però non si arrende: “Scacciarlo non potrò; ma domani forse lo dimenticherò vestendomi di quell’acciaio che ogni mattina suol fabbricarmi il mio coraggio… Ma stamani mi ha abbandonato”.

Un altro contrasto, o se si vuole contraddizione, un’altra lotta oltre quella tra lo spirito e la carne. Entrambe sono in qualche misura regolate dallo scorrere inesorabile del tempo. E concorrono, con i tanti altri motivi della sua complessa personalite del suo mondo multiforme, a lasciare un’immagine di inafferrabilità, dell’ impossibilità a circoscriverlo in confini precisi.  

Sono le contraddizioni da lui stesso alimentate a  renderlo difficile: “Più attendo quando più ho fretta, più mi contengo quando più sono impetuoso, più mi velo quando sono più lucente, più mi spengo quanto più sono ardente; soffoco le faville, non il fuoco addentro”. E più chiaramente: “Certo io non vorrò mai raccontare quel che so e che voi ignorate né conoscerete mai, io ve lo dico senza rancore e senza orgoglio, pacatamente: mai”. Il motivo? “Non voglio essere compreso. Nulla temo, ma sol temo di non essere incompreso”. Fino alla logica conseguenza: “La interpretazione di me diventa grossolana e goffa anche negli uomini più gentili”.

Nella nostra personalissima interpretazione è quanto Maugeri ci sembra visualizzi  nel “Cubo magico”, un cubo di Rubik con il volto del Poeta nelle facce,  per  essere scomposto e trasferito sulle altre mentre resta mutevole quanto inafferrabile la sua vera natura.  Del resto scrive nel “Libro segreto”: “Chi mai, oggi e nei secoli, potrà indovinare quel che di me io ho voluto nascondere?”

Crediamo che il pittore abbia colto anche questo aspetto, e se il Festival  ci ha dato spunti e scorci dannunziani di notevole interesse, di cui si deve essere grati agli organizzatori – Giordano Bruno Guerri in testa – resta aperto l’interrogativo di D’Annunzio: “Se l’Italia m’è un enigma, non sono io un enigma per l’Italia?”. 

Info

Per i riferimenti  ai motivi dannunziani e alle relative citazioni cfr. il libro-inchiesta: Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530. Per la celebrazione del 150° anniversario su questo sito cfr. i nostri articoli il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013  su “arte  e potere in D’Annunzio” – il  potere religioso e la fede – ciascuno con 6 immagini;  inoltre. l’intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante l’11 marzo 2013 in http://www.100newslibri.it/ dal titolo: “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine a 150 anni dalla nascita”. Infine cfr. i nostri articoli su D’Annunzio in “cultura.abruzzoworld.com”  nel 2009 (27 febbraio e 10 aprile), 2010 (22 giugno e 2 ottobre) e 2011 (4 marzo e 2 maggio).  Per le altre mostre di Maugeri con il poeta Benedetti,, cfr. i nostri articoli in cultura.abruzzoworld.com  il   22 e 24 giugno 2010  sulla mostra di Roma del 2010, e  in questo sito il  30 giugno 2013 sulla mostra di Venezia del 2011. Per il collegamento con gli epigoni pittore-poeta Foglia e Barnabei cfr. il nostro articolo in questo sito il 28 agosto 2013, “Pietracamela, una mostra d’arte e un libro d’epoca”.

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Le immagini sono state fornite gentilmente dall’artista Vincenzo Maugeri che si ringrazia per l’attenzione e la cortesia manifestate.   In apertura “Vate volante”, seguono “Ragnatela” e “Ossessione carnale”, poi “Falce di luna” e “Pioggia nel pineto”; in chiusura “Cubo magico” .

Pietracamela, mostra d’arte e un prestigioso libro d’epoca

di Romano Maria Levante

L’estate “pretarola” si è riscaldata, per così dire, ad agosto inoltrato con la mostra “Lo sposalizio di una volta”, che ha ricostruito attraverso cimeli e fotografie i costumi di un tempo lontano ma non remoto in tre momenti fondamentali della vita: i primi incontri, il fidanzamento, lo sposalizio. Si è svolta dal 10 al 20 agosto, poi il 16 e 17 agosto  la manifestazione “Pietracamela per l’arte”, imperniata sulla mostra di due pittori e un poeta, su fotografie e  arte varia, fino alla performance teatrale conclusiva; e il 18 agosto la presentazione della ristampa anastatica del libro del 1930 “Il Corno piccolo”, di Ernesto Sivitilli, Accademico del CAI,  fondatore del gruppo alpinistico di Pietracamela “Aquilotti del Gran Sasso”, il primo nel tempo anche rispetto alle Alpi. Della mostra “Lo sposalizio di una volta” daremo conto prossimamente, ora  parliamo delle altre due manifestazioni.

Il paese, colpito dal terremoto del 2009 e dalla frana che un anno dopo, nel 2010,  ha arrecato nuove ferite, attende il rilancio dopo i lavori di ripristino ambientale e logistico nell’area investita dalla frana e la ricostruzione delle abitazioni dissestate dal sisma. Lentezze burocratiche e difficoltà nell’erogazione dei fondi pur decisi o stanziati da tempo hanno impedito finora di effettuare le opere necessarie, a parte la pronta realizzazione degli appartamenti per i residenti con le abitazioni inagibili. A questo si è aggiunta la crisi che ha investito l’Abruzzo come la nazione.

Il sindaco Antonio Di Giustino ci ha detto comunque che i lavori per la frana inizieranno presto e anche per quelli relativi ai danni provocati dal sisma si sono fatti importanti passi avanti.

Nella situazione di attesa e di disagio, tuttavia, il paese ha mostrato vitalità nell’organizzare le manifestazioni sopra citate in un agosto che per questo motivo sarà ricordato come stimolante sul piano artistico e culturale. Mentre “Lo sposalizio di una volta” ha rievocato usi e costumi tradizionali, “Pietracamela per l’arte” ha presentato artisti abruzzesi immersi nella contemporaneità. E’ stata promossa dall’Amministrazione separata beni uso civico Pietracamela, il cui presidente Sergio Marchegiani ha messo la sua passione nell’affrontare i  problemi organizzativi, mentre la direzione e cura  è stata affidata alla competenza di  Paolo di Giosia. 

La mostra “Pietracamela per l’arte”

Si è svolta all’aperto, nel centro storico, con le opere pittoriche appese ai muri esterni di antichi edifici ed esposte nel belvedere panoramico intitolato al pittore Guido Montauti; oppure sul selciato dei vicoli che salgono o scendono nella conformazione molto particolare del borgo, la sera con la luce dei ceri a terra.  Anche la performance teatrale finale è stata all’aperto,  l’attore ha recitato i monologhi sulla scala della chiesetta di san Giovanni.

Due pittori molto diversi: Paolo Foglia ispirato a Modigliani, e in collegamento con un poeta, Francesco Barnabei; in “Versi su tela”; con loro Ennio Marini impegnato nella contemporaneità più avanzata.

Cominciamo dal binomio pittore-poeta, che abbiamo già conosciuto dal sodalizio tra il pittore Vincenzo Maugeri e il poeta Italo Benedetti, presenti insieme in mostre nelle quali ad alcuni quadri erano abbinate le poesie che li avevano ispirati. Anche qui ad ogni quadro era affiancata una poesia, a caratteri ingranditi, quindi facilmente leggibili, in un cartiglio inserito in una originale cassetta da frutta; ma non si riscontrava alcun rapporto diretto tra le due opere.  La “location” è il Belvedere Guido Montauti, c’è il muro scrostato e soprattutto lo scorcio panoramico del paese.

L’abbinamento ci ha incuriosito, e ne abbiamo parlato con gli interessati che nel confermare l’evidente autonomia delle rispettive creazioni – pittorica e poetica – hanno sottolineato la comunanza di inquietudini e di speranze che ha scandito il loro sodalizio culturale. Come a suo tempo abbiamo cercato di esplorare il binomio Maugeri-Benedetti così abbiamo fatto nella nuova circostanza analizzando le loro opere.

I quadri del pittore, una quindicina, presentavano due volti maschili tesi e scavati da un’inquietudine profonda; due immagini di cariatidi, tema originale coltivato dall’autore che in uno dei due quadri pone il proprio volto a confronto con la mitica figura, gli altri dipinti visi e molti nudi femminili, come si è detto alla Modigliani, quasi in attesa con un’offerta di sé.

La donna con sullo sfondo l’inquietudine, dunque, sembra essere il tema e il motivo primario dei dipinti del pittore, che si dispiega in tele dal cromatismo discreto ma netto e definito. Cerchiamo di capire i motivi degli scritti del poeta che hanno indotto a intitolare la mostra “Versi su tela”.

Dai  carrtigli esposti come altrettanti quadretti,  incorniciati da cassette per la frutta, abbiamo colto alcuni versi che ci hanno colpito per la loro intensità. Eccone un campionario fior da fiore: L’inquietudine: “Diveniamo bersagli malinconici, adottiamo lettere mai scritte” e”Possiedo parole antiche, semplici lettere dimenticate”, poi “Guardavo avanti e non vedevo niente” e”Sospeso tra il dire e un fare, resto nascosto come una goccia che tarda a venire via”. Irrompe la donna, un miraggio salvifico: “Mi giro per cercare la parte che manca di te, ma sono solo, indosso il vestito di questo andare inquieto” e “Cercavo riparo all’ombra del tuo seno, rischiavo di sbandare tra le curve della carne tentatrice, sapevo benissimo dove volevo arrivare, abbandonarmi al vizio mutando le parole”, quindi “Vorrei inseguirti,  abbracciami un momento, stancami ancora ma lasciti portare”, fino a “Poi mi diede un bacio come si svela un segreto, non avevo più un segreto da svelare ne avevo uno da custodire…”.  

Dunque l’inquietudine, dunque la donna, nei versi di Barnabei; ma non erano i motivi che abbiamo colto nella  pittura di Foglia? Qui forse è l’inquietudine in primo piano, con la donna sulla sfondo.  Si potrebbe osservare che sono motivi che ricorrono nell’arte come nella vita, quindi è normale riscontrarli nella pittura e nella poesia che di arte e vita sono espressione diretta. Ci sembra, tuttavia, che la loro consonanza dia al binomio una valenza speciale, facendo intravedere reciproci influssi in grado di alimentare le rispettive ispirazioni. Non occorre che i versi siano tradotti in immagini corrispondenti, è già molto la consonanza di fondo delle ispirazioni e delle sensibilità.

Non richiede analogo approfondimento l’opera dell’altro pittore in mostra, Ennio Marini, immerso nella contemporaneità con la sua “Tecnica mista”: intesa sul piano materico, dato che si avvale di ferro, vetro e altri materiali, e sul piano pittorico con le sue composizioni volte all’astrazione. Un suo quadro è stato collocato tra quelli di Foglia, quasi come una “sentinella” in postazione avanzata, gli altri, in tutto quasi una ventina”, nei vicoli del centro storico.

Esempi materici quelli con cerchietti metallici o altro e la corona di spine, mentre la parte pittorica  va da un cromatismo intenso con linee che si incrociano, a segni monocromatici e paralleli.

C’erano anche i lavori di Barbara Probo, di cui conoscevamo fini dipinti di fiori, dal titolo “Tappi”, grandi riproduzioni circolari con il marchio e i colori, in un gigantismo volto forse a sottolinearne l’invadenza ormai dominante. Vicino all’esposizione di tappi giganti, quella  dei “Gioielli” d’uncinettodi Adele Altieri, la mostra di “crochet”, come espressione di quanto la gente d’Abruzzo ha saputo e sa produrre in un  artigianato raffinato che confina con l’arte.

La  mostra fotografica, intitolata in modo significativo “Pezzi di paese”, è stata curata direttamene da Paolo di Giosa. Composizioni di cartoline fotografiche e gruppi di fotografie per evidenziare alcuni spaccati di vita paesana, come le tre fotografie dei puntelli, sostegni e transenne nei vicoli, con due persone riprese di spalle che si muovono con circospezione, l’autrice è Elenora Mori che si esprime in un bianco e nero molto contrastato; il contrario di Cristina Di Saverio, le cui fotografie sembrano incisioni antiche, tanto sono chiare. C’è il paese visto dall’alto, una madonnella e l’acqua che scende, fino a un gruppo di frecce direzionali del Parco nazionale del Gran Sasso, peccato che nella realtà all’indicatore non corrisponde il sentiero percorribile e il tempo di percorrenza dato che è inagibile perché invaso da erbacce e arbusti, il Parco dovrebbe ripristinarlo e non solo segnalarlo con la freccia. Valeria De Remigis ha esposto due maschere-di volti totemici, altre interpretazioni del tema, il paese, da parte di Maria Caldarola e Fabio Ciardelli, Angela Orsoli e Antonio Pigliacelli.

Dalle mostre al teatro, in forma di monologo, con Antonio Crocetta, autore e interprete unico, la sera del 17 agosto della “performance” teatrale dal titolo “Storie di santi,d’amore e di briganti”. Gestualità e mimica prorompente, una recitazione esilarante con passaggi da “grammelot”, i toni declamatori alternati ai confidenziali. Testo e recitazione di qualità, il tutto già presentato a Roma.

“Pietracamela per l’arte” si è chiusa così la sera del 17 agosto. Ma il pomeriggio del giorno successivo si è riaperta su un altro versante, è il caso di dirlo. Sul proscenio, questa volta al chiuso nella  Sala consiliare del Municipio il 18 agosto è stata presentata la ristampa anastatica del libro di Ernesto Sivitilli, “Corno piccolo”,  che era stato pubblicato nel 1930 per il CAI dell’Aquila.  

Il libro di Ernesto Sivitilli:  Corno Piccolo, 1930

E’ stato un evento, alla presentazione del prestigioso libro d’epoca si è aggiunta una celebrazione: a Lino D’Angelo, guida emerita del  paese che ha oltrepassata la soglia dei 90 anni, il sindaco di Pietracamela ha conferito un trofeo in segno di riconoscimento e gratitudine.

D’Angelo a sua volta ha trasmesso alla più giovane generazione, impersonata dalla guida Claudio Intini, un simbolico cimelio: il gagliardetto degli Aquilotti con piccozza e martello che la madre di Cambi, uno dei due alpinisti  romani sopraffatti dalla tormenta nel 1929, aveva dato in memoria del figlio e del compagno ad Ernesto Sivitilli, la cui famiglia lo aveva conservato  40 anni per poi trasmetterlo a Lino D’Angelo che a sua volta lo ha tenuto per 42 anni. Un momento di commozione  che ha fatto sentire il fascino di una nobile tradizione  a lungo protratta nel tempo.

La presentazione del libro,  introdotta dal sindaco Antonio Di Giustino –– è stata un’occasione per rivisitare le origini delle ascensioni alpinistiche dei montanari spinti dallo spirito  di conoscenza e conquista, dopo che nella fase iniziale erano gli appassionati della città a promuoverle mentre i locali praticavano la montagna solo per le attività professionali e il lavoro legato alle sue risorse.

Sono stati sottolineati dagli intervenuti, e in particolare dal presidente del CAI dell’Aquila, Salvatore Perinetti, gli stretti legami tra i due versanti, quello aquilano e quello teramano del territorio di Pietracamela, sin da epoca remota quando i pretaroli rotolavano dall’alto del  passo della Portella le balle di lana carfagna prodotta per poi lasciarsi scivolare seduti in fila indiana in numero variabile ma ben precisato,come dei bob umani fino alla frenata finale con bastoni e altro. Il presidente ha citato la testimonianza scritta del 1573 di De Marchi, il primo conquistatore del Gran Sasso, e le  pubblicazioni e iniziative anche recentissime del CAI, e ha sottolineato come con il sindaco Di Giustino i rapporti tra le rispettive istituzioni si sono ulteriormente rafforzati.

Dopo il presidente aquilano, il docente dell’Università di Teramo Federico Roggiero  ha ribadito gli stretti rapporti, soffermandosi su quelli tra il gruppo aquilano del CAI e quello pretarolo degli “Aquilotti del Gran Sasso” creato  da Sivitilli, il primo in Italia. E ha compiuto un’accurata analisi di contenuti e significato del libro del pioniere dell’alpinismo organizzato, non solo in Abruzzo: con il gruppo degli “Aquilotti”, infatti, rovesciava lo schema delle ascensioni promosse dai forestieri che aggregavano i locali, ora i montanari prendevano in modo autonomo l’iniziativa.

Il libro è una preziosa documentazione di tutti gli itinerari alpinistici “scoperti” – di scoperte per lui si trattava – sul Gran Sasso fino al 1939, accompagnata da fotografie delle pareti e da schizzi schematici dei percorsi. La bibliografia di Sivitilli collocata in apertura attesta che nulla era improvvisato,  sono elencati specificamente i suoi 50 scritti pubblicati per lo più sul Bollettino del CAI, all’inizio per la sezione di Teramo, poi per la sezione dell’Aquila dal 1927 al 1930. C’è la consapevolezza che l’alpinismo sarebbe andato ben oltre, ma proprio per questo era importante cristallizzare l’esperienza fino ad allora acquisita da non disperdere.

All’inizio sono riportati  consigli pratici, e vengono fornite notizie sulla situazione ambientale e le caratteristiche geologiche, con un excursus sulla storia alpinistica. Poi le vie d’attacco,il percorso e i tempi di percorrenza, da Pietracamela e dai rifugi alle pareti del massiccio: parete meridionale e orientale, parete settentrionale e creste; “giro del Corno Piccolo”, accesso da Isola del Gran Sasso.

I singoli itinerari vengono descritti con cura – sono solo una ventina, quelli fino ad allora praticati – illustrati con fotografie e schizzi; il percorso viene indicato in dettaglio, per fornire una guida pratica agli appassionati. Quindi il libro non è limitato alla tecnica della scalata, entra nella storia alpinistica e nel quadro ambientale con notizie anche di biologia e la geografia, in modo da fornire  una conoscenza ben più ampia dei luoghi  e del territorio, che diventa il vero protagonista.

Termina nella breve descrizione di “Corno Piccolo d’inverno” con la prima ascensione invernale per la via normale di Abbate e Accitelli, con la citazione della traversata di Cambi e Cichetti del 22 aprile 1927 seguita dalle note che i due alpinisti scrissero nel registro del Rifugio Garibaldi dalle quali emergono le condizioni metereologiche e ambientali proibitive che ne stroncarono la  resistenza nella tremenda bufera di neve del 9 febbraio del 1929 in cui perirono.

Si astiene da ogni commento sul tentativo “dei due grandi amici, troppo valenti alpinisti” che avevano di certo valutato “le difficoltà da vincere e gli ostacoli da superare”, e ne trae questo ammaestramento: “Non arrestarsi mai, ma salire  sempre, su tutte le vette, per tutte le vie, con l’audacia mai disgiunta e sempre temperata dalla prudenza. Le vie  del progresso dell’Alpinismo sono cosparse di croci, come tutte le cose grandi”; e dopo il doveroso raccoglimento occorre “riprendere la via, fatti più esperti e sicuri, verso l’alto”.  

Questo perché aveva una visione che superava la stessa passione alpinistica: oltre all’attenzione per il territorio si inseriva in una concezione della vita ispirata dai valori della conquista e dell’eroismo, nella quale  “la montagna era il terreno di elezione per formare la gioventù”, e lo metteva in pratica nel gruppo degli “Aquilotti del Gran Sasso”.

Il suo era un atto d’amore per “quel meraviglioso gioiello d’architettura naturale che è il Corno Piccolo”, e un atto “di fede per lo sviluppo dell’Alpinismo su di esso”. Parla del suo”fascino speciale, stregante, che spinge a tornarci dopo esserci stati una volta”, non si dimentica  “tanto perfetta architettura di forma e così precisa e artistica conformazione di linea!”.

Non è solo ammirazione per l’aspetto esteriore del massiccio, c’è molto di più. La curatrice del volume  Lina Ranalli è entrata nel personaggio, anche attraverso le testimonianze di coloro che lo hanno conosciuto ed ha rintracciato e incontrato. Nella sua interpretazione Sivitilli si muoveva “secondo una concezione spirituale come ultima gioia di perenne bellezza”: la bellezza della natura non come fatto estetico, ma “colta nella sua essenza secondo una visione panica”.

Viene citata  dalla curatrice l'”anima del mondo”del “Timeo” di Platone per inquadrare questa visione di Sivitilli: “Nello Spirito della montagna egli rinnova il suo e si perde tuttavia dinanzi all’infinito, al mistero che, pur presente, non si identifica”. La Ranalli va oltre, attinge alle poesie del personaggio –  anche poeta, oltre che alpinista e medico generoso, considerato per questo il “medico dei poveri” – che parlano degli “spiriti del cielo”, in  “un pullulare di stelle” al quale rivolge l’invocazione di  “intonare un canto all’anima dell’uomo. Cantate alla mia anima, ansiosa di luce la musica eterna dell’universo”.

Rivolgendosi al Monte Corno Sivitilli esclama: “Tu porti sulle tue cime l’ansia degli uomini, porti il tormento della mia anima lanciata verso la più alta conquista”. E aggiunge: “Per me tu sei più augusto di un tempio. Con te appresi lo Spirito arcano della Montagna, il primo aspetto dello Spirito divino”.  Si rivolge anche allo Spirito della montagna con questi versi: “Quando cammino per i tuoi sentieri sento che esisti. Invidio le tue costruzioni solenni come templi di una religione eterna”, e sente “questo bisogno di Paradiso che grida nella nostra anima insaziata di eternità”. 

La sua è una “montagna adorabile”, rappresenta “il tempio in cui si custodisce qualcosa del segreto universale”. Ma per la sua visione poetica è ancora di più: “Tu sei la mia guida a ritrovare Dio più volte smarrito nelle strade custodite dagli uomini”.

Il finale è premonitore: “Taccio e ascolto, Montagna. Sì, tu sei la prima creatura del Signore, le tue cime mi accompagneranno verso la sua impenetrabile dimora”. Morirà a soli 38 anni l’11 aprile del 1940 a Teramo, dopo essere stato medico condotto a Colonnella, il paese in provincia di Teramo al confine con le Marche.

La sua  “spinta emotiva e ideale” non andò dispersa. Nel 1925 aveva costituito il gruppo degli “Aquilotti”, “giovanissimi arrampicatori e rocciatori che presto divennero i veri ‘padroni’ del Gran Sasso”, e a loro diede  una “smisurata fiducia” –  sono parole della Ranalli – con l’ insegnamento e l’esempio che  “l’alpinismo è arte, è scienza, è gloria, è fede… è virtù”; queste ultime sono parole di Sivitilli tratte da un inedito fornito alla curatrice dal sindaco Di Giustino.  “Di lui – scrive ancora la Ranalli – ci restano la storia, la scienza e una eredità spirituale fatta di gocce d’anima”.

Sono state lette alcune delle sue poesie e la presentazione è stata accompagnata da pezzi sinfonici interpretati da un duo musicale di flauto e chitarra, che ha creato un’atmosfera suggestiva, in carattere con l’aura poetica.

Abbiamo dato conto all’inizio della conclusione con il passaggio del gagliardetto degli Aquilotti donato dalla madre di Cambi a Sivitilli, dalla guida emerita Lino D’Angelo, premiato nella circostanza dal Sindaco, al suo successore la guida Claudio Intini.

E’ stata un’altra emozione, anzi un’altra commozione in una giornata veramente speciale che marca l’identità della gente di quel “paese nella  roccia” che è Pietracamela, dal 2005 nel Club Anci dei  “Borghi più belli d’Italia” – Borgo dell’anno 2007 –  entrato due mesi fa  tra i 400 “Borghi più belli del mondo”.  Lo Spirito della montagna evocato da Sivitilli si fa sentire ancora!

Info

Ernesto Sivitilli, “Il Corno piccolo”, a cura di Lina Ranalli, edito da “Ricerche & Redazioni” per il Club Alpino Italiano  Sezione dell’Aquila, giugno 2013, pp. 90, euro 15. Ristampa con procedimento anastatico del libro pubblicato nel 1930, sempre dal CAI aquilano, stampato dalle Officine Grafiche Vecchioni, il cui esemplare è conservato presso la Biblioteca provinciale “Melchiorre Delfico” di Teramo.

Foto

Le immagini dei due avvenimenti sono state riprese da Romano Maria Levante, si ringraziano le rispettive organizzazioni con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, della mostra alcuni dipinti di Paolo Foglia, seguono dipinti di Ennio Marini, e fotografie di Eleonora Mori; poi,  della manifestazione  la Copertina del libro di Sivitilli, e  l’intervento del presidente del CAI dell’Aquila Salvatore Perinetti; alla sua destra la curatrice del volume Lina Ranalli, alla sua sinistra il docente dell’Università di Teramo Federico Roggiero e  il sindaco di Pietracamela Antonio Di Giustino; in chiusura,, la consegna del gagliardetto degli Aquilotti da parte della guida emerita  Lino D’Angelo (in piedi a destra) alla guida  Claudio Intini (in piedi a sinistra).