Russo, la pittura e l’emblema, i grandi personaggi, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra di  Mario Russo, alla sala Zanardelli del Vittoriano a Roma dal 1° al 25 febbraio 2011, era intitolata  “La pittura e l’emblema” perché la sua pittura si carica di mistero e di significati simbolici tali da farne un emblema; anzi tanti emblemi per le raffigurazioni pittoriche che si nutrono della realtà per coglierne i motivi reconditi e portarli allo scoperto attraverso i particolari. Siamo rimasti sorpresi nel visitare la galleria dei suoi dipinti per l’assenza di quella luminosità che si attenderebbe da un pittore di Napoli, come dal trovare poche immagini ispirate al mare. Ma l’impressione è stata tale da rievocarla due anni e mezzo dopo l’esposizione, per i suoi contenuti.

Non è stata una mostra  povera di immagini, anzi ne era ricca, molto ricca, troppo ricca verrebbe fatto di pensare. E quando si segue un filone pensando di aver colto un motivo ispiratore, il filo di Arianna si interrompe, nuovi motivi si affollano, quasi che l’idea precedente fosse dimenticata.

Altrettanto sconcertati siamo stati per lo stile, vedendo i fondi scuri sui quali risaltano le figure; ma quando credevamo di percepire la cifra pittorica, ecco un’esplosione di colori: non più cammei che emergevano da brume lontane, ma figure vive e vitali immerse nella natura e radiose di vita.

Come spiegare tutto questo che ci spiazzava nella ricerca di un nostro percorso? Lo faremo tornando alle sensazioni di allora raccontando la visita con le impressioni avute, e aiutandoci con i giudizi della critica. Ma prima cerchiamo una risposta accessibile a tutti, sempre che esista e sia percepibile. Ebbene, per noi si riassume in una sola parola: Roma. E’ nella capitale che Mario Russoha vissuto la parte prevalente della sua vita artistica, ed è giusto che sia stato celebrato a dieci anni dalla scomparsa in una sede prestigiosa come il Vittoriano; e che alla presentazione il vicesindaco Mauro Cutrufo gli abbia rivolto parole di alta considerazione. Nella  Capitale il suo sguardo di artista ha colto una quotidianità ben più ricca di quella visibile in città meno cosmopolite, che non sono  “caput mundi” nel senso di incrocio e incontro di genti e culture; e vi ha trovato anche sollecitazioni per una fantasia che sovrasta e arricchisce il quotidiano.

L’artista ricava le sue immagini da una realtà che fornisce esemplari della più varia umanità in un mondo contemporaneo mutevole e stimolante;  e nel contempo è preso dai retaggi del passato di cui Roma è altrettanto ricca, dai quali prende avvio il volo della fantasia . E penetra in queste realtà non per un fatto solo figurativo ma – ha dettoAlessandro Nicosiache con Comunicare Organizzando ha realizzato la mostra – “per entrare in contatto umano profondo ed empatico con i soggetti e le scene che raffigura, trasformandoli e deformandoli per poterne meglio interpretare l’animo e il sentire”.

La cifra artistica di Mario Russo

“Trasformandoli e deformandoli”, dunque, e vediamo come, cominciando dai fondi oscuri dai quali balzano fuori le figure. Una chiave di lettura ce l’ha data il curatore della mostra, Duccio Trombadori: “L’artista si preoccupa di segnalare la dimensione misteriosa della realtà, quella dimensione ‘metafisica’ della vita che si rivela e ci appare sempre nella pittura degna di questo nome”. Il critico non scomoda l’inconscio, come avviene per i surrealisti, ma non si ferma neppure dinanzi alle apparenze: “L’arte di Russo miscela con effetti sorprendenti realtà e fantasia e riduce la distanza tra i due campi spirituali”. Di qui una serie di qualificazioni che cercano di catturare un mondo altrimenti inafferrabile: “planetario mondano” e “segnaletica del mistero”, termini che diventano complementari, “il migliore viatico per sciogliere l’enigma della realtà altrimenti indecifrabile”.

La suggestione di certe rappresentazioni è data dal fatto che incorporano i sentimenti in modo così percepibile da dare all’immagine raffigurata una valenza superiore a quella reale. Così, afferma ancora il curatore citato, “lo spettacolo dipinto si rivela, per l’emozione trasmessa, come ‘più vero del vero’ e l’operazione pittorica  diventa una inusitata esperienza di verità”.

Per fare questo occorre una grande capacità di osservazione e insieme di introspezione, in modo da cogliere gli aspetti reconditi della realtà con occhio indagatore e portarli a contatto con le sensibilità dell’artista che li trasfigura. E’ necessario disporre di una grande varietà di soggetti, perché solo dalla molteplicità e diversità si può cogliere la matrice, l’essenza comune e disvelare il mistero della vita e dell’arte; perciò ci troviamo dinanzi a una “iperbolica e illimitata ‘pinacoteca di Babele'” – è sempre Trombadori –  come efficace e potenziale sintesi della sua espressione” che tocca le vette della classicità in quanto “possiede il pregio degli stilemi tipicizzanti e in quanto tali riproducibili”.

Non si tratta di elucubrazioni intellettualistiche, l’alone che circonda le sue composizioni evoca la favola e il mistero, e non per una fuga dalla realtà; anzi l’artista vi aderisce tanto da indugiare nei dettagli e nei particolari, ma ciò che conta è l’atmosfera in cui i dipinti fanno entrare l’osservatore.

Torniamo a quanto detto sulla quotidianità che è il suo tema preferito, è la cifra stilistica della sua pittura a diffondere l’alone visionario e favolistico che trascende la realtà raffigurata e nel contempo la fa aprire per rivelarne i contenuti più profondi. Ed è evidente la propria partecipazione emotiva, il suo immedesimarsi  nel personaggio rappresentato e nella scena, per cui è vero che rappresenta sempre la realtà, ma non una realtà qualsiasi bensì intimamente sentita. Senza una sofisticata scelta di soggetti e senza esclusioni, ma quale espressione del “planetario mondano” di cui ha parlato Trombadori; abbiamo visto nei quadri esposti le tante “stelle” di questo planetario, che ne fanno un caleidoscopio con le luci che si muovono tra le ombre e vengono portate sul proscenio.

Spiccano i particolari analizzati come se utilizzasse una lente d’ingrandimento con uno sguardo apparentemente impietoso perché evidenzia i difetti, ma in definitiva amorevole nello scoprire  la sostanza umana e psicologica insieme alla dimensione sociale e ambientale di certi soggetti. Il fascio di luce che li investe, quasi un occhio di bue teatrale, ne fa dei protagonisti che acquistano una propria statura diversa dalle altre figure con le quali, peraltro, si può condividere estrazione realistica e stile pittorico: “Si annuncia così, e si riconferma – secondo il critico curatore – la ricorrente predilezione di Russo per la messa in scena, l’artificio teatrale e la rappresentazione spettacolare, che è sempre ‘più vera del vero’. Il pittore, dunque, si abbandona al tuffo nella realtà per riportarla subito dopo nel chiuso dell’atelier dove si elabora l’artificio finale delle immagini”.

La galleria di immagini: i grandi personaggi

La visita alle opere ci ha consentito di riferire questi giudizi alle composizioni pittoriche, iniziando da una ritrattistica tutta particolare, personaggi molto noti quasi in un’araldica nobiliare, per lo più le sole teste incorniciate in un fondale grigio come dei cammei. Balzano in rilievo i volti intensi e pensosi, con qualche sorriso, di Benedetto Croce e Giuseppe Ungaretti, Bertrand Russel e Alberto Moravia, Carlo Marxe e Ho Chi Min, Mao Tse Tung e Charles De Grulle,  Paolo VI e J. F. Kennedy; non aggiunge altri particolari, solo in J. F. Kennedy un abbozzo di immagine di Robert e una figura nera della battaglia contro la segregazione del Sud; fa eccezione de Chirico la cui testa è incapsulata nell’uovo dei manichini, sigillo inequivocabile della sua figura.

Dalle teste ai busti di un Jorge Luis Borges assorto e un Pietro Nenni combattivo, con un “Omaggio a Pirandello” dall’espressione sorridente quasi fosse sorpreso dietro il finestrino di un’autovettura, una vera istantanea questa;  una posa tranquilla è il Ritratto di Giulio Carlo Argan e il tempietto di Bramante, mentre  Donna del sud mostra la severità di un volto anonimo ma intenso, di una dignità che incute rispetto e fa pensare a valori profondi e tradizioni ancestrali. Torna il cammeo in Omaggio a Gemito, una testa circondata dalla massa di barba e capelli chiarii.

Questi i ritratti esposti, che non esauriscono certo la produzione vastissima di tali soggetti, portata fino alla contemporaneità più vicina. Per questo si è avuto un fenomeno inedito, o almeno inconsueto: il commento dei soggetti presi come modelli per i ritratti, istruttivo per approfondire il particolare realismo di Russo, nel rappresentare e insieme superare le apparenze. Riteniamo significativo riportare due di questi commenti che aggiungono  interpretazioni autentiche, si potrebbe dire, perché vengono da chi può parlarne da un osservatorio veramente privilegiato.

Federico Fellini, soggetto di una vasta serie di ritratti, ricordava: “Mario Russo mi ha preso, senza mai dirmelo, per modello, raffigurandomi in moltissimi travestimenti, attribuendomi sfondi e costumi di epoche lontane, atteggiamenti aureolati, ruoli improbabili, oppure probabilissimi come quelli del clown, del saltimbanco, del burattinaio. Forse lo hanno suggestionato il mio lavoro, le atmosfere, le figure femminili dei miei film,un certo modo di guardare la vita che ha sentito familiare, in cui avrà riconosciuto una inconsapevole appartenenza “. E Vittorio Sgarbi: “La verità della pittura sta nel rendere reale ciò che appare come tale. Noi stessi, al pari delle opere d’arte, siamo immagini, immagini di noi. Io e il ritratto di Mario Russo siamo due immagini che fanno riferimento ad una identica sostanza: Vittorio Sgarbi. Forse il ritratto di Russo è più immagine di Vittorio Sgarbi di quanto non lo sia io: questo è il miracolo dell’arte di Mario Russo, l’autentica verità delle sue apparenze”. Verità e fantasia, realtà e apparenza, vengono messe a confronto  da questi due personaggi che hanno vissuto in prima persona la trasfigurazione operata dall’artista.

Significativi anche i commenti degli uomini di cultura sulla sua espressione artistica, ne riportiamo due di particolare interesse. Domenico Rea ha osservato: “La metamorfosi è congeniale all’arte. E mai come in queste cifre, mai come nell’esatto e concettuale simbolismo di Mario Russo te la ritrovi a siglare storie e riflessioni, referenti e intrecci. Un volto di Giano che nella secolarità della sua effige sedimenta il bene e il male o quanto viene indicato come bene e quanto , invece, rappresenta il suo contrario… Mai come in questa pittura la metamorfosi ha un ruolo, un suo ruolo così preciso. La dicotomia delle due età, uno dei topoi classici dell’arte, il volto usato come  maschera e stemma del divenire, trovano qui un loro cronometrico protagonismo”.  

E Giuseppe Patroni Griffi: “Se un nato cieco acquistasse all’improvviso, miracolosamente, la vista, per fargli capire dove si trova, che cosa è questa cosa che si chiama mondo, in messo a quali impianti, oggetti, ingombri, materiali moventi e semoventi ha vissuto durante tutto il suo periodo di oscurità… ebbene io lo metterei davanti alla vasta opera pittorica di Mario Russo, la cui generosità, ampiezza, ecletticità,  riempirebbe tutti i suoi vuoti , colmerebbe le sue infelici lacune, lo appagherebbero d’un tratto, pronto a percorrere  il suo viaggio verso la cultura in una vita cosciente”.

Abbiamo considerato fin qui il primo tema dell’opera di Mario Russo, dopo aver cercato di rendere il senso della “pittura e l’emblema”  che è il sigillo della mostra. Nei ritratti di personaggi che abbiamo commentato c’è l’espressione più legata alla realtà, con le trasfigurazioni fantastiche e gli approfondimenti  psicologici. Parleremo presto dei temi restanti, soprattutto dei ritratti femminili e delle altre raffigurazioni di soggetti umani, per finire con i fiori e la natura. E non è poco.

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Il secondo articolo conclusivo è previsto in questo sito per il 5 agosto 2013.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vttoriano, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.

43 artisti, la “carta oleata” e la modernità, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Rievochiamo una mostra molto originale, svoltasi  dal 15 dicembre 2011 al 10 gennaio 2012 al Vittoriano,“43 artisti si interrogano sulla memoria”: erano giovani emergenti messi a confronto con il passato espresso dai fogli di carta oleata che avvolgevano il burro dell’Ente Comunale di Consumo romano, rinvenuti per caso in una vecchia cantina e forniti loro come filo d’Arianna di una memoria portata nell’attualità, senza vincoli di utilizzarli, solo di riceverli come testimoni muti.

E’ un’idea nata in un comune della provincia di Roma, Genazzano, che aveva già esposto le opere dei giovani artisti prima che approdassero alla prestigiosa sede espositiva del Vittoriano inserendosi nel ciclo celebrativo dei 150 anni dell’Unità d’Italia, perché in fondo gli Enti Comunali di Consumo hanno rappresentato un presidio nelle ristrettezze e rientrano nel grande affresco storico della nostra vita quotidiana. La forma di celebrazione di questa benemerita istituzione è molto particolare, non tanto per l’utilizzo simbolico della carta oleata che avvolgeva il burro, prodotto leader nell’Ente di consumo romano, quanto per lo sbocco trovato nell’arte contemporanea.

Un’arte che non sempre può definirsi “popolare”, come lo era l’Ente Comunale di Consumo, per i problemi interpretativi che spesso pongono al grande pubblico le installazioni o le composizioni più avanzate e trasgressive; nessun imbarazzo invece per i critici che riescono con disinvoltura ad attribuire significati, siano essi reconditi o meno, con una netta distanza tra critica e senso comune.

Per questo l’operazione è stata coraggiosa, d’altra parte portare la memoria nell’attualità si poteva fare solo con l’arte contemporanea senza limiti e senza vincoli, a parte l’accettazione della carta oleata come “testimone” e  in un certo senso musa ispiratrice, pronta a farsi da parte senza apparire nell’opera d’arte. Ma abbiamo visto come il testimone sia divenuto “testimonial” nella gran parte delle opere esposte, con i fatidici fogli che avvolgevano il burro inseriti in vario modo.

D’altra parte, cos’è l’arte contemporanea? “Strumento di ricerca collettiva, opportunità di crescita materiale e immateriale, valore aggiunto e bene comune da condividere, fattore di coesione sociale”. Non lo ha detto Achille Bonitoliva, che ne fa una religione, bensì Nicola Zingaretti, l’allora presidente della Provincia di Roma nella presentazione della mostra, rivendicando  come “l’arte più recente può offrire la chiave interpretativa per rileggere eventi della nostra storia e riallacciare i fili di memorie fragili e preziose”.  Protagonisti giovani artisti rispetto a  tempi che non hanno conosciuto ma possono immaginare, nell’iniziativa che esprime “la fiducia nel linguaggio creativo e nella capacità comunicativa” che si esercita attraverso di loro e l’arte contemporanea. 

E Alessandro Nicosia – presidente di Comunicare Organizzando che ha organizzato la mostra insieme con il Centro internazionale per l’arte contemporanea di Genazzano –  ha sottolineato con soddisfazione “come questi fogli di carta oleata, che rappresentano la memoria di una realtà perduta, siano diventati opere d’arte”.

La visita alla mostra ci ha fatto capire come questo sia avvenuto nelle forme più varie, in un succedersi di diverse modalità espressive, ispirate e testimoniate da quel semplice involucro cartaceo che avvolgeva il burro e resisteva all’acqua  con la sua schermatura oleata di bianco opaco.

Dai “ready made” ai significati  resi espliciti dalle scritte

Siamo nell’arte contemporanea, di fronte a forme e contenuti in cui si esprime la libertà stilistica e compositiva ben oltre i generi tradizionali di pittura, disegno, scultura, per non parlare dell’architettura.  Il contemporaneo spazia senza limiti, e lo abbiamo visto nella mostra, dalle installazioni ai video, dalle sequenze cartacee a oggetti da “ready made”. Tra questi ci hanno colpito i vecchi frigoriferi nel cui interno si intravedevano visi scolpiti, tra cui Pasolini. Rocco Dubbiniè l’autore delle sculture e della installazione intitolata così: “Simulacri di burro plasmati dalla necessità della storia che si ripete”. Abbiamo visto anche “Controcorrente”, con cui Stanislao Di Giugnointitolava un ventilatore in funzione il cui vento manteneva in equilibrio un foglio: “Un monumento alle intenzioni, allo sforzo di sostenersi e sostenere le proprie convinzioni con qualsiasi mezzo e contro le convenzioni”. In “Sansoni Elide”, di Giovanni De Angelis, il “ready made” era il telefono e la bicicletta arrugginita, le foto evocavano il viaggio nella memoria di cui era protagonista Elide, che gestiva il chiosco dell’Ente nel quartiere popolare della Garbatella.

Non mancava un’opera che ci ha riportato all’esilarante scena di “Vacanze intelligenti” nella visita  alla mostra d’arte contemporanea con l’equivoco di scambiare per opera d’arte la moglie di Alberto Sordi che si era seduta per riposarsi. Possiamo dire di esserci cascati anche noi, per quanto disincantati, dinanzi a delle scatole di imballaggio ammucchiate in un angolo, sembravano rimaste lì per la fretta dell’inaugurazione, in attesa di essere portate via. Abbiamo detto ai colleghi vicini, tanto per fare una battuta,  “potrebbe essere anche un’opera d’arte”;  ebbene, subito dopo abbiamo visto che lo era, con la sua brava etichetta, autore Simone Canetti. Niente di dissacrante né ironico in questa osservazione, è mera cronaca, segno della vitalità e dei motivi di interesse suscitati.

E’ stata una mostra che è riuscita a sorprendere e, a parte i paradossi della percezione, ha fatto anche riflettere. Ogni opera era corredata dall’interpretazione dell’autore, ed è un fatto del tutto inconsueto, dato che molto spesso si incontrano opere “Senza titolo”, che non rivelano il significato loro attribuito. Qui c’erano invece testi ampi e impegnativi che andavano anche oltre l’opera per svelarci la sensibilità dell’autore nel mondo d’oggi, le sue ansie e i suoi timori, le sue speranze e i suoi sogni. Il foglio di carta oleata come un catalizzatore è riuscito a far reagire l’anima proiettandola nella materia, divenendo un’inedita e inusuale traccia autografa del processo creativo.

Più in generale quello che conta è il valore della memoria sollecitata in chi non ha la memoria di quei tempi. Lo ha spiegato il curatore  Claudio Libero Pisanoaffermando che “la memoria è intesa non come spazio colmabile attraverso la nostalgia e il conforto di ciò che è stato. E’ piuttosto la memoria intesa come necessità, percepita come elemento indispensabile per comprendere il presente e restituire alla circolarità della vita un suo senso compiuto”.  Così “è possibile ridisegnare una mappa delle tensioni e delle aspettative che l’oggi impone”. I giovani artisti lo dimostrano.

Immagini di povertà e di sicurezza, realtà e apparenza

C’era un’opera costituita da una fotografia di un alienante palazzo moderno in orizzontale, con una lista della spesa scritta sulla “carta oleata” sotto il titolo “Cosa manca oggi”. Al primo posto si leggeva “equità”, sembrava  scritto dopo la manovra del governo Monti, invece era ben precedente, oltre a mostrare una premonizione, rivelava un’acuta sensibilità, autrice Gea Casolaro.

Altrettanto nella sfilata di fogli di “carta oleata” incorniciati, il titolo “Mercati”, guardando bene in basso su ognuno era indicato un mercato dove si sono avute stragi nel mondo, Iraq e Afghanistan in testa, con la macabra contabilità dei morti: “Da spazio dove ci si procura il necessario per vivere è divenuto il luogo dove si procura morte e distruzione”  ammoniva l’autore Francesco Arena.

Non c’era tragedia ma miseria in “Like an Animal”, di Domenico Piccolo, immagini di povertà e di squallore mentre  in “Nessun dorma” di Matteo Sanna una vera tenda era accompagnata da parole di solidarietà: nessuno resti inattivo perché nessun bisognoso  resti solo. Ai poveri era dedicata la videoinstallazione “Working poors” di Sandro Mele, che meditava sui “nuovi poveri”: “Sembra non esistano, sono numerosi e silenziosi, hanno un lavoro ma non hanno da mangiare a sufficienza”.

Mentre la “Porta di dominio” di Roberto Timperi esprimeva con la sua intelaiatura qualcosa “che non c’è più, una porta che dava  sicurezza alle famiglie per i beni primari”; dal canto suo con gli infissi d’epoca di “Paravento”, che vibrano per il motore elettrico, Marco Fedele di Catrano sottolineava il contrasto tra una struttura mobile e la monumentalità del Vittoriano. Anche le asticelle di Nicola Gobbetto unite a forma di triangolo e quadrato con la carta oleata esprimevano una metafora basata sulle qualità del burro, si tratta della “Butter door” che purifica.

Tra i bisogni primari c’è il nutrirsi, e la carta oleata per il burro non poteva non ispirare opere sul cibo. Lo ha fatto Roberto Bentugno con “Prendimi se puoi”, una serie di  vere gabbie con un contenuto, quasi vi fossero topi destinati a cadere in trappola per prendere il cibo al loro interno. Opprime anche una fame virtuale, la mancanza di fiducia nel futuro, Marco Bernardi l’ha visualizzata con un panetto di burro nella fatidica carta oleata e la scritta “Dacci oggi il nostro ieri”.  I panetti sono diventati dieci per Arianna Carossa, ma non a fini alimentari, bensì per esprimere il divario tra realtà e apparenza, “Quel che è vero non profuma di te“.  Ce n‘erano  tanti, di piccola dimensione, in un vassoio, a disposizione dei visitatori che potevano portarli via fino a farli scomparire, come è scomparso l’Ente Comunale di Consumo, idea di Moira Ricci, denominazione “Untitled (come le caramelle di Felix)”.

Dal “Senza titolo” dell’assenza alle memorie familiari e personali

Il “Senza titolo” lo abbiamo trovato in opere molto diverse: la lunga tavola  con grafiche uncinate rossedi Mario Ricci, “croci e incroci di una città deformata, tessuti tirati a forza”; i panetti di burro tra ferri e lampadine “in totale ribaltamento di senso” di Alessandro Piangiamore, che ne ha tratto “pretesto per un’opera scultorea”; la bilancia incassata nel suolo di Silvia Gianbrone, “senza titolo e senza misura”  che invece “misura l’assenza del soggetto: un soggetto a misura di inesistenza”; tessuti ed elementi intrappolati dalla resina  posti sulla carta oleata da Barbara Salvucci che diceva: “Ho bloccato nel tempo elementi di un vissuto trasformandoli in fossili contemporanei”.

Ma c’erano anche oggetti che esprimevano memoria in modo diverso, David Casini con “Bianco Souvenir” offriva sfere di cristallo che i visitatori potevano scuotere per avere l’effetto-nevicata, dentro c’era anche il panetto di burro infilzato: “vita quotidiana, di un tempo passato” e  violenza.

C’era poi la famiglia in una visione quasi onirica di immagini di giochi  che Gioacchino Pontrelli intitolava “Non sentiamo né l’odore né il sapore”; mentre li sentiva Luca Croser, gli ricordavano il padre, “io sapevo della sua presenza per l’odore di formaggio che si portava addosso, e me ne vergognavo”, il sapore era quello della nostalgia, il titolo “Qualcuno deve gridare”. Nostalgico senza tristezza il collage di foto familiari di Akessandro Sarra, Made in Italy”, “una memoria forte, personale, ma che nell’atto del convivio racconta una storia e diventa fatto comune”.  Anche Anna, la nonna ricordata in “L’aquilone rosso” da Alice Schivardi, “custodisce memorie collettive”, cioè  “ricordi che appartengono anche alla nostra storia”: l’aquilone di carta oleata non si sollevò, tuttavia  ugualmente “tra testo e immagine fisica Anna cuce un sogno”.

Abbiamo ritrovato l’aquilone ancorato in alto sopra una corridoio e una porta in “Souffle” di Vincenzo Rulli, lo portava con sé quando aveva sette anni e “il cielo era un magnete”, allora “i poveri abitavano nel mondo per un’ora, e quella era l’ora visibile”; e abbiamo rivisto il sogno, questa volta di una generazione, evocato da Donatella Spaziani con “Cartoline d’epoca su carta oleata”, immagini  di fine anni ’60, “la famiglia, l’amore, la quiete domestica, morale ed etica”.

I video evocativi

L’arte contemporanea è anche suono e visione,  di Raffaella Crispino un’installazione sonora  dal titolo “Ecc.”  che rendeva in suoni le immagini  del logo dell’Ente Comunale di Consumo mediante il rapporto colore-suono e le diffondeva attraverso casse acustiche costruite con pochi mezzi.

Di Stefania Galegati Shines il lungo video con 230 immagini e sottofondo musicale, scattate su una spiaggia, “il ritratto di una massa nuda, animale, che vive l’illusione della modernità”, persone in costume su un lido affollato “che camminano e camminano, su e giù e ancora su e giù”, il titolo: “E’ meglio ricordare i giorni più felici che possono per sempre ritornare”. Molte persone che sfilavano nel video davano un’immagine di obesità, ma non quanto “Obesitas” di Giuseppe Petronio, con il ritratto della donna extralarge all’insegna del termine latino del grasso che intitola l’opera. Diapositive su schermo di carta oleata in “Il teatro scompare”, di Ra di Martino, l’oscuramento a tratti sottolineava la sorte infausta che rischia di accomunare il teatro all’Ente Comunale di Consumo.

In una video-animazione Ivana Spinelli  presentava la carta oleata con il logo quasi da prodotto pregiato, non da involucro, e la esponeva in “Ecc paper” come un “ready made commerciale”. Una denuncia del lusso era, di converso, il video di Iginio De Luca che documentava l’azione da “commando”  svolta in via Condotti proiettando il logo dell’ECC sulle vetrine con  i prodotti di “Brand” celebri, per marchiare i beni superflui con la presenza insopprimibile di un bene primario. Alla vita familiare era invece dedicato il video “di Marina Paris, girato con la mitica “Super 8”, anni ’60, scene  tra il nuovo benessere e i perduranti strascichi della povertà del dopoguerra.

Dalle opere su carta alla “performance” finale

Non mancavano i collage, Diego Iaiain “Estreme make up” assemblava stampe di elenco telefonico, carte d’identità e altro, e lo definiva “unico estremismo ammesso e condiviso” anche se trasgressivo. Ma c’erano anche le opere su carta più semplici, fino a quelle elementari.

Faceva appello alla tradizione popolare più genuina Domenico Mangano che utilizzava sette proverbi sul burro per una carrellata di “finti manifesti” da lotta di classe, e intitolava la sua opera con l’ultimo proverbio “Un giuramento di burro è un giuramento che si dimentica presto”. Ancora più tradizionale “Ricette di famiglia” di Eugenio Percossi, le ha scritte semplicemente sulla carta oleata  con il logo del burro, c’erano una quindicina di fogli appuntati al muro con lo spillo, un vero “uovo di Colombo”, metafora adatta restando in campo culinario. Mentre, con memore affetto, Flavio Favelli riproduceva a matita sulla carta oleata dell’ECC marchi, tra cui “Fanta”,  “ancora vivi, appartengono  a un passato che non è ancora concluso”. Perfino più semplice “Breakfasts Paintings” di Carola Spadoni, una “carta consumo”, quella oleata, in “consommè rosa”.  Mentre erano alquanto cerebrali 7 stampe a inchiostro semicancellate dall’acqua applicate alla carta oleata  che esprimevano la metafora di Luana Perilli legata alle formiche: il suo “Annapurna Messor” mostrava “quanto il sostentamento materiale sia imprescindibile dalla crescita spirituale e morale”.

La carta oleata, che ora abbiamo visto esposta quasi tal quale – formiche Annapurna a parte – è stata  usata anche per creare figure solide come sculture: “Tamburino” di Valerio Ricci Montani, riproduceva il tamburo di latta dei giochi infantili; “Nuovo paesaggio italiano” di Pietro Ruffo “ricostruiva” addirittura un vecchio edificio dell’Ente Comunale di Consumo, le erbe e gli insetti ne mostravano la vetustà archeologica, come un obeliscoantico. Da superficie piana a forma solida.

Ma l’espressione finale più sorprendente l’abbiamo vista in un “non sense” fortemente simbolico: la “performance” di Driant Zeneli intitolata “Grand Tour Italia”. Dopo la visita al Colosseo  in testa ai turisti con il vessillo recante la carta oleata e il logo dell’Ente Comunale di Consumo il giorno del Natale di Roma, ecco la visita alla mostra il giorno dell’inaugurazione guidata dal curatore Claudio Libero Pisano: “Così ho costruito un viaggio – ha scritto Zeneli – non sulla storia o sulla memoria di questo foglio ma un viaggio raccontato attraverso le opere di tutti gli artisti in mostra”.

L’arte concettuale nella sua forma estrema. Ebbene, è quello che con la parola scritta abbiamo cercato di fare anche noi perché resti una traccia meditata di una visita che ci ha dato delle emozioni. Come per il curatore Pisano, la carta oleata con il marchio dell’Ente Comunale di Consumo è per noi “un oggetto pieno di memoria”; e lo è stata anche la mostra che ad essa si è ispirata, al punto che abbiamo sentito l’impulso a rievocarla, a un anno e mezzo di distanza.

Info 

Catalogo “43 Artisti si interrogano sulla memoria”,  dicembre 2011.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra. Si ringrzia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.

Franco Angeli, il sogno fotografico nella memoria, ai Mercati Traianei

di Romano Maria Levante

Ai Mercati Traianei c’è stata due anni fa la mostra “Il sogno fotografico di Franco Angeli”, dal  27 maggio al 4 settembre 2011. Ci è sembrato il seguito ideale della carrellata fotografica degli “irripetibili anni ‘60”, perché vi abbiamo trovato il clima e personaggi come Schifano, Castellano e Rotella; e insieme il riflesso della galleria di immagini di Tamara de Lempicka, al posto di Tamara c’eraMarina, anche lei protagonista di un certo mondo da “belle epoque” e icona della moda femminile, con momenti di impegno solidale e ricorrenti stravaganze. La mostra faceva immergere in mondi che si vedevano solo da lontano attraverso la lente mediatica e lì venivano portati in primo piano. Per questo vogliamo ricordarla descrivendo la visita che facemmo allora.

“Ben celata nel lavoro di Franco Angeli si nasconde una macchina del tempo. Solo così si può spiegare il miracolo della immutata freschezza delle sue fantasie colorate. La sua ancora poetica è un’infanzia che non morì mai, di cui Franco Angeli ci ha lasciato in regalo i giocattoli adulti”. Sono parole di Bernardo Bertolucci che ci danno una particolare chiave di lettura della mostra.

E’ significativo che il grande regista cinematografico parli di “fantasie colorate” per immagini in bianco e nero, e di “immutata freschezza” dopo quarant’anni. Il colore si sente nell’atmosfera, e il bianco e nero più che la patina di antico ha le stimmate della foto d’arte, anche se l’arte fotografica oggi si esprime altrettanto nel colore, e lo fa sempre più, tanto che nella mostra “I colori del mondo” al Palazzo Esposizioni veniva rivendicata questa pari dignità. L'”immutata freschezza”  era evidente, accentuata dalla prestigiosa “location” della mostra: gli antichi Mercati Traianei dove l’attualità è resa viva dal contrasto con l’ambiente romano antico costellato di reperti storici.

Si tratta di uno spazio espositivo molto particolare, dove le mostre temporanee convivono con la mostra permanente dei reperti della romanità: dalla grande aula a pianoterra, in cui si entra “scortati” da due file di grosse statue acefale ben inserite nel coevo ambiente monumentale, al piano superiore, dove si è accolti da un secondo ordine di arcate e loggiati con tanti ambienti nei quali gli antichi reperti fanno bella mostra di sé. Le fotografie erano raggruppate in blocchi compatti, collocati in sei delle tante sale e salette in un allestimento agile che le inseriva nell’ambiente nel quale erano esposti anche veri abiti “anni ‘60” su manichini, gli stessi di alcune fotografie, spiccava un vestito verde che faceva “pendant” con l’unica fotografia a colori.

Detto questo sull’ambiente, passiamo subito al contenuto: la mostra era praticamente monotematica, e il sogno fotografico di Franco Angeli si può definire un sogno d’amore vissuto in otto anni ruggenti, dal 1967 al 1975, con la sua musa, Marina; e non solo, perché all’intimità sentimentale di tante immagini si univa il carattere cameratesco di altre, dove apparivano gli amici, personaggi che  riportavano all’ambiente artistico degli  anni ’60 e ‘70. Sì, proprio gli “irripetibili anni ‘60” che abbiamo rievocato con le fotografie esposte nell’omonima mostra pittorica della Fondazione Roma Museo. Di nuovo Rotella e Castellano, Tano Festa e soprattutto Mario Schifano, con loro Franco Angeli condivideva l’amore per la pittura, la fotografia era un hobby.

Alcune immagini nel proprio studio in via dei Prefetti nel cuore di Roma. Per questo è sembrato un seguito della precedente rievocazione, diremmo un blow up, un ingrandimento: è come se dal campo lungo delle riprese da lontano nelle mostre di allora e negli atelier si fosse passati al primo piano della vita personale, con le figure e i volti, più che gli ambienti e le situazioni.

Gli ambienti erano vari, onnipresente Roma dove Franco Angeli era della “Scuola di Piazza del Popolo”, con i pittori e gli altri artisti nonché gli scrittori compagni di conversazione: la galleria “La Tartaruga” di Plinio de Martiis e il Bar Rosati, luogo degli incontri, erano vicinissimi. Tra i frequentatori i già citati Schifano e Mimmo Rotella, Enrico Castellano e Tano Festa, che abbiamo visto nelle foto; inoltre Marco Bellocchio e Laura Betti, Moravia e Pasolini, Gian Maria Volonté e Giosella Fioroni. Diverse immagini riproponevano la vita negli interni degli studi pittorici.

L’ingrandimento che penetra nella vita prendeva le sembianze di Marina, la sua figura e il suo viso riproposti nei luoghi e nelle pose più diverse, sempre affascinanti, come un’icona della bellezza e non solo;  tipo Marta Marzotto per Renato Guttuso, e non ce ne voglia chi non è d’accordo sul parallelo. Tutti conoscono Marina, è celebre per i suoi matrimoni dai cognomi nobiliari da Lante della Rovere a Ripa di Meana , e anche per le sue stravaganze, o se si vuole il suo provocatorio anticonformismo e un certo esibizionismo, nel quale rientrano i celebri cappellini, uno calzato alla sbarazzina sovrastava la sua chioma rossa alla presentazione; nella mostra ce n’era un vasto campionario, appesi in un vano oscuro in modo da sembrare un’installazione d’arte contemporanea, le sospensioni aeree non sono infrequenti, da Calder al messicano  Morales.

Erano esposti altri articoli personali di allora, grandi borse e minuscole borsette a forma di pesce, gigantesche collane, e non solo, di Marina; più oggetti di un’epoca vicina che sembra lontanissima, a ben guardare la radio Brionvega e il televisore Antares, la macchina da scrivere Olivetti “Lettera 22” e la lampada a pipistrello di Gae Aulenti più quelle molto particolari di Sapper e Magistretti. C’erano i cataloghi delle mostre di Franco Angeli, scomparso nel 1988 a 53 anni. Avena 35 anni quando è stato compagno di Marina per otto anni dopo il divorzio dal marito Lante della Rovere; lei successivamente ha sposato Carlo Ripa di Meana, il quale fu preso dall’irrequietezza e gioia di vivere e di stupire, da cui fu coinvolto senza intaccare minimamente il proprio proverbiale aplomb.

Franco Angeli non era inquadrato in apodittiche credenze, pur nelle sue convinzioni politiche,  come uomo era geniale e anticonformista, spregiudicato e sperimentatore, ma anche inquieto e riservato, silenzioso e tenebroso. Nella rivoluzione culturale e di costume degli anni ’60 fu tra i cosiddetti “pittori maledetti”, con Mario Schifano e Tano Festa nacque un trio scatenato, protagonista della “movida” romana intorno a piazza del Popolo. Si espresse nella pittura utilizzando anche garze e tele speciali, vividi smalti con soggetti ben precisi rappresentati da segni netti e forti contrasti cromatici, pensiamo all'”Aquila” e alla “Lupa“, al “Mezzo dollaro” e ad una “Marina” che non è la sua musa ma un orizzonte suggestivo su un mare blu intenso. Presente alla Biennale e nelle mostre più importanti, è stato un artista innovativo con indubbia coerenza stilistica.

Nella sua fotografia, ha detto Giosella Fioroni che faceva parte del suo gruppo, c’è “un garbo ironico e una vena direi diaristica. Sulle foto stampate (a volte molto ingrandite) interviene tracciando segni di pittura a delimitare luoghi o a rafforzare i lineamenti delle persone”.

Carlo Ripa di Meana era il curatore della mostra delle fotografie donate dall’autore a Marina, la protagonista: l’aveva divisa in sei sezioni, collocate in sei salette dei Mercati Traianei: Marina, Lucrezia, Urss, Moda, Sperimentazioni, Amici; ma, a parte l’ultima, al centro sempre Marina.

Marina vista nel fulgore della gioventù: “vitale e impunita”, la definisce Letizia Paolozzi. Non sembra inquieta, mentre ha detto di sentirsi travolta dalle trasgressioni del compagno, droga compresa; nel suo “Cocaina a colazione” del 2006 confida una dedizione fino ad accettare per lui una “proposta indecente”, in “I miei primi quarant’anni” aveva narrato la storia della loro unione.

Le sezioni Marina e Moda la mostravano ritratta a figura intera con abiti di grande eleganza e vistosi cappelli a larghe tese, in primi piani che valorizzavano l’intensità del viso e l’espressione, nei chiaroscuri discreti e misteriosi, fino ad alcuni nudi discreti e rispettosi del 1972 a Villa Hruska.

In Urss una provocazione alla gigantografia di Lenin il 1° maggio (“ma Lenin chi è?”) non fu apprezzata dai rigidi poliziotti moscoviti, dai quali fu fermata per oltraggio; nelle foto risaltava  il contrasto tra la sua immagine disinvolta e la formazione militare inquadrata nello sfondo. E dire che i tre viaggi in Russia, a Mosca e Leningrado, furono il compimento di un sogno, un traguardo per l’ideologia di un socialista come Franco Angeli, figlio di un antifascista perseguitato dal regime.

Anche la sezione Lucrezia la vedeva protagonista, pur essendo intitolata alla figlia che diventerà l’attrice Lante della Rovere, verso cui il compagno della madre mostra una speciale tenerezza nelle immagini che la ritraggono bambina.

E poi Sperimentazione, con interventi sulle fotografie, ne parlava così: “Le trasformo, le faccio diventare pitture e disegni, a volte le proietto, altre volte le faccio ingrandire e le coloro”; ne vediamo degli esempi riferiti alla galleria “Sirio”.

Amici presentava il circolo, quasi un cenacolo, che abbiamo evocato – Schifano in primo piano al centro di molte immagini –  con una diciottenne Isabella Rossellini, la figlia d’arte attrice lei stessa, una sorta di voce dell’America ed espressione dell’Italia cosmopolita, coccolata da tutti.

Dopo questo rapido excursus sui temi e sui soggetti di Franco Angeli crediamo non sia il caso di indugiare nelle descrizioni,  solo le fotografie della mostra potrebbero rendere il fascino di quegli anni “irripetibili”. Le immagini non sono più dinanzi ai nostri occhi nell’ambientazione suggestiva dei Mercati Traianei, ma anche se sono trascorsi due anni dall’esposizione non le abbiamo dimenticate.

Info

Sulle mostre citate nel testo cfr. i nostri servizi:   per “Gli irripetibili anni ’60”  3 articoli in “cultura.abruzzoworld.com” il 28 luglio  e 1 articolo in “guidafotografia.com” il 30 luglio 2011; “Tamara de Lempicka”  3 articoli in “cultura.abruzzoworld.com” il 30 giugno e 1 articolo in “guidafotografia.com”  il 5 luglio 2011; per “I colori del mondo” 1 articolo in “guidafotografia.com”, 12 aprile 2011.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante ai Merati Traianei all’apertura della mostra, si ringraziano gli organizzatori e i titolari dei diritti, con particolare riguardo alle famiglie Angeli e Ripa di Meana., per l’opportunità offerta.

Pertica, il giornalismo che diventa arte, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Dopo aver evocato “Roma dea e donna” e “I tesori di Roma”, ricordiamo la mostra che si è svolta al Vittoriano, dal 20 dicembre 2011 al 22 gennaio 2012,  realizzata da “Comunicare Organizzando”, su “Domenico Pertica. Un’idea che aleggia per Roma tra giornalismo, impegno e arte”. Un’esposizione ricca di motivi di interesse per i vari piani nei quali si è cimentato il giornalista scomparso da circa un decennio; e ricca di sorprese, come i disegni di Federico Fellini  affiancati a quelli di Pertica sui film del grande regista in cui è stato impegnato in ruoli di personaggio-caratterista; e le immagini degli insigniti della rosa di bronzo del “Premio simpatia” da lui ideato, una carrellata di quarant’anni con i personaggi più amati dal pubblico non solo romano.

Tornare su una mostra in memoria di un giornalista, strettamente legato alla sua città, sembrerebbe un omaggio corporativo, per di più campanilistico trattandosi di Roma. Non è così per l’ampiezza dei suoi interessi e delle espressioni culturali ed artistiche, e non lo è per il valore di paradigma di un riconoscimento verso chi si è prodigato per la sua città che doverosamente ne riconosce i meriti e la qualità.

Non ne ripercorriamo il prestigioso curriculum professionale in alcuni tra i più importanti quotidiani italiani, raccontiamo la mostra nella quale emergono soprattutto le sue attività diverse dal giornalismo, che veniva evocato all’inizio nelle grandi vetrine con esposte le pagine di cronaca recanti i suoi servizi e reportage di inchiesta dai quali traspare la sensibilità per i problemi sentiti sottopelle dalla città, che lui faceva emergere alla vista di tutti; e soprattutto l’amore per la sua terra e la sua gente. Era un cronista pronto a denunciare gli abusi e anche a mobilitare l’opinione pubblica per riparare i torti, assistere i bisognosi, difendere l’ambiente cittadino da speculazione e degrado. Valgano alcuni titoli che sono un florilegio di motivi e di sentimenti e un bedeker per i visitatori: parlano di Trastevere e di Villa Doria Pamphili, di Villa Borghese e in generale di “Roma perduta”; c’è soprattutto molta Roma delle borgate viste con l’occhio attento a scoprirne pecche e necessità anche nelle località limitrofe come Ostia, il mare della capitale, e le vicine Ladispoli e Nettuno.

C’è ancora Roma nel video della cerimonia con cui Walter Veltroni gli ha intitolato un giardino cittadino dedicandogli parole fuori di ogni ritualità indossando la fascia tricolore di sindaco. Altrettanto sentite le parole di altri illustri personaggi che lo hanno definito così: “Un romano trasversale perché sceglie il bene di Roma come denominatore comune dei pensieri e delle azioni”, è Rutelli che parla da sindaco; “un tardo-romantico che si aggira nel ventesimo secolo” secondo Duccio Trombadori, “Cocteau del Testaccio” per Igor Man, “un uomo incarnato nella sua Roma” per Marco Pomilio, mentre Domenico Purificato ne sottolinea “la sensibilità e la propensione all’arte”.

Da queste definizioni comincia ad emergere qualche tratto della sua personalità espressa nelle sue “altre vite” affiancate a quella principale, dedicata al giornalismo. In mostra tre dipinti di artisti, sonoritratti che riflettono la considerazione e l’affetto per lui.

Ma quelli che ci interessano sono i suoi dipinti, dato che si esprimeva con il pennello oltre che con la penna, anzi con la macchina da scrivere, la “Olivetti lettera 22” celeste esposta in mostra, sua fedele compagna come per Montanelli. E qui la prima sorpresa, le “Pouponnes”  raggruppate quasi in una composizione, dodici dipinti che circondavano il più grande centrale. Visi grandi, anzi visi grossi, per il formato e la densità della pennellata, nonché per la forte gamma cromatica in colori non brillanti ma grevi come le loro espressioni, segnate dalla vita. Sono ritratti in primissimo piano senza contorni, tali da immergere nell’atmosfera che evocano, fatta di ambienti fumosi e di tabarin in una “belle epoque” rivisitata a domicilio come eco sofferta di vite perdute ma anche nostalgica di umori e di amori.

Vicino erano esposti dipinti di tutt’altra forma e sostanza. Dai visi grevi e appesantiti come le palpebre delle donne di vita si passava a immagini leggere quasi ironiche ma non prive di significati profondi, come quelle dei gatti: “Vivo come i tempi, al ritmo dei tempi, libero e indipendente come i gatti” ebbe a dire. Ed eccolo ritrarli in varie situazioni, da “Gatto con la luna” a “Gatto nel lago”, passando per “Gatto giocoliere” e “Gatto velato”, “Gatto mammone” e addirittura “Gatto Re”.  Dai gatti allo zodiaco ispirandosi a poesie degli amici Dario Bellezza e Dante Maffia nella serie “Segni del cielo”: Ariete”  con le “orecchie del cielo”, Toro “prigionia di sesso”, Gemelli “separati per affinità”, Cancro “cercando la chimera”, Leone “la criniera del vento”, Vergine “le spighe e la loro parte d’aria”, Bilancia “la giustizia del cuore”, Scorpione “un’angoscia di fuoco”, Sagittario “scocca la freccia”, Capricorno “terra acqua cielo fuoco”, Aquario “livide gocce che volano danzando”, Pesci “girovaghi azzurrati”. Una costellazione di parole alate trasformate in immagini di sogno.

Un grande dipinto celebrava l’“Allegoria del tempo nell’agro romano”, un lumacone gigante al centro della composizione in ambiente arcadico, c’era anche “Montagne di ghiaccio” e “Il Pavone”, collocato  al culmine di una di queste montagne. Fantasia e ancora fantasia, libera e indipendente, mentre in “Sogno a Baghdad sul Tigre”  uno scorcio di cupole delle moschee con l’acqua del fiume in primo piano.

Dalla pittura di nuovo alla scrittura, ma questa volta non con servizi giornalistici bensì con libri, dalla narrativa alla storia fino alla poesia allineati in una vetrinetta. Era sodale di Palazzeschi ed Elsa Morante, Arbasino e Dario Bellezza, il suo romanzo “La Contessa di Roma” fu finalista al premio “Viareggio opera prima”; un altro suo libro, “Le voci dell’isola” è stato definito “poesia in prosa”, storie di contadini sconvolte dalla strage di Piazza Fontana; poi “Salotto in libreria”, interviste a contemporanei che culminano in un “incontro con Leopardi”. Quindi le poesie, nelle quali è stata trovata una vena dannunziana: “Madrigale Eugubino” e “Baghdad nelle rose”, fino a “Canzoniere ad Andrea”, dedicato al nipotino scomparso due anni prima. Il suo amore per la propria città si è espresso nei libri su Roma, anch’essi esposti in mostra: “Villa Borghese” e “Storia dei Rioni di Roma”, “Fatti, fattacci e personaggi della Roma umbertina” e “Roma delle meraviglie”,  a questo rimandano le mostre a livello provinciale sotto il titolo “La Provincia delle meraviglie”.

Ma la vera meraviglia viene dal lato per così dire cinematografico della sua vita. Tutto iniziò con un’intervista a Federico Fellini, che d’improvviso gli prese il viso tra le mani e disse “ho bisogno della tua faccia”, ricorda il repentino bacio del portiere Casillas della nazionale spagnola alla intervistatrice Carbonero dopo la vittoria del mondiale: l’intervistato che prende un’iniziativa estemporanea e dirompente. La sua è una faccia “metà da gatto soriano metà da elfo dei boschi con la capigliatura scomposta e arruffata”, la chioma si ridurrà alla fine a due punte argute. Parteciperà da personaggio-caratterista ai film del grande regista, da “Amarcord” in cui è il “cieco di Càntarel” che accompagna alla fisarmonica il banchetto nuziale con cui si conclude il film, a “E la nave va” e “Ginger e Fred”, Nella mostra abbiamo visto le fotografie di scena dei film, il suo è un viso che non si dimentica.

Non si dimenticano i suoi disegni, esposti anch’essi, in particolare dal set di “E la nave va”, e i tre pastelli di Federico Fellini sul “cieco di Càntarel” di “Amarcord”. Dal set anche il “Diario di bordo”, un taccuino vero reportage giornalistico su esperienze irripetibili, illustrato dai suoi disegni. La mostra si avviava alla conclusione con l’immagine simbolica della nave felliniana di un suo bel disegno.

Il botto finale era la carrellata di fotografie del “Premio Simpatia”, da lui ideato e promosso con Vittorio De Sica e Aldo Palazzeschi. Quarant’anni di premiati, illustri o gente comune, nelle immagini sfilavano i personaggi più amati del cinema e dello spettacolo, dell’arte e della società, campioni di simpatia. Ognuno con la “Rosa di bronzo” dello scultore Peikov, in tutti i volti i segni della simpatia. In molte fotografie dietro il tavolo c’era lui, Domenico Pertica, il sorriso stampato su quel viso così speciale e arguto.

Con la sua immagine si chiudeva una mostra che ha fatto ripercorrere quarant’anni della nostra vita attraverso reportage e libri, pitture e foto di scena, fino alla cavalcata finale all’insegna della simpatia. La mostra, che è stata aperta fino al 22 gennaio 2012, ha allietato le festività natalizie e l’inizio dello scorso anno con una leggerezza e un disincanto che hanno dato un dolce sapore alla memoria. Perciò abbiamo voluto ricordarla.

Info

Per la citazione iniziale cfr., in questo sito, i nostri servizi ” su  Roma dea e donna il 28 luglio e sui Tesori di Roma il 29 luglio 2013.

Foto

Le immagini sono state fornite da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, che si ringrazia con i titolari dei diritti, in particolare la famiglia Pertica. I dipinti sono di Domenico Pertica, ripreso in apertura e chiusura dinanzi a un suo quadro; la penultima immagine è un pastello di Federico Fellini a lui dedicato, che lo ritrae argutamente come “cieco di Cantarel” mentre dipinge.

Provincia di Roma, i Tesori in un palmo di mano, al Tempio di Adrianoo

di Romano Maria Levante

Torniamo indietro di due anni alla mattinata densa di stimoli e di motivi al Tempio di Adriano, il l2 maggio 2011, per l’iniziativa “Tesori in un palmo di mano”, promossa da Civita e realizzata con il sostegno della Camera di commercio di Roma e il patrocinio della Provincia di Roma.  I “Tesori” sono 12 percorsi sulle 13 vie consolari romane alla riscoperta di 180 beni culturali, con  43 centri abitati, 70 beni storico-artistici, 50 beni archeologici e beni paesaggistici, un volume illustrativo,  un’applicazione iPhone  e un sito web  interattivo, www.tesorintornoroma.it. Presentata da Zingaretti, Maccanico e Cremonesi,con una tavola rotonda moderata da Maria Concetta Mattei; un’idea per l’Abruzzo di Franco Salvatori, presidente della Società Geografica Italiana.  La persistente validità di quanto presentato ci fa ritenere cosa utile ricordarlo in dettaglio. 

Subito l’idea per l’Abruzzo offerta dal presidente Franco Salvatori al termine dell’incontro, allorché abbiamo chiesto uno spunto a lui che da abruzzese aveva ricordato i suoi viaggi a Roma lungo la Tiburtina, noi teramani facevamo la Salaria. Ebbene, l’idea da lui lanciata è la riattivazione della “Via dell’Abruzzo” che univa Firenze a Napoli, vi transitavano le lane e lo zafferano d’Abruzzo verso Firenze che ne era consumatrice per la sua industria tessile e per l’alimentare. Sarebbe una “Strada maestra” interregionale  oltre la Strada statale ’80 che percorre il Parco nazionale del Gran Sasso d’Italia e Monti della Laga con punti di sosta e di informazione.

L’iniziativa secondo i promotori

Ma andiamo subito alla mattinata: una presentazione, quella di Maria Concetta Mattei, agile e disinvolta nel moderare l’incontro proponendo i temi alla tavola rotonda. Ha esordito con parole non di prammatica nel descrivere l’iniziativa: “Ci sono anche gli accessi con gli iPhone – ha detto – che i ragazzi conoscono e manovrano come le nostre nonne facevano con il rosario”, accostamento che ci è sembrato originale e intrigante. “Dal cuore della Roma antica, dal Tempio di Adriano vicino alla Fontana di Trevi, si parte per la riscoperta del territorio”  ha concluso dando il via agli interventi  dei protagonisti, i vertici delle tre istituzioni promotori in vario modo nell’iniziativa.

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E’ stato precisato che mediante l’iPhone, oltre ad avere “in un palmo di mano” la Provincia di Roma, con la guida dei singoli itinerari fornita di tutte le informazioni e indicazioni utili, si può personalizzare la visita selezionando i temi che di volta in volta interessano e costruendovi intorno dei percorsi appositi. L’accesso avviene gratuitamente scaricando l’applicazione da AppStore.

A ciò si aggiunge il sito web www.tesorintornoroma.it, con accurati testi e un ricco apparato iconografico; un video per ogni itinerario, in italiano e in inglese, e mappe per progettare la visita, con funzioni interattive che consentono di inviare contributi multimediali (immagini, video, ecc.), condividendo commenti e segnalazioni anche mediante i social network, quali Facebook e Twitter. Sulle strutture ricettive e la ristorazione, Civita e la Provincia di Roma (con Provinciattiva S.p.A.) hanno attivato il portale www.romaepiu.it e sul sistema agroalimentare la Camera di Commercio (con Azienda Romana Mercati) il portale www.romaincampagna.it.

Il presidente di Civita, Antonio Maccanico – da poco scomparso, ne ricordiamo l’impegno per la cultura – ebbe parole alate sulla bellezza di Roma, esortando a “riscoprire il viaggio lento”, anche nella provincia spesso soffocata dalla grandezza della Città Eterna:  “L’Italia è un museo a cielo aperto esaltato in ogni epoca dai viaggiatori di tutto il mondo, l’iniziativa valorizza nuovi percorsi”. Il vicepresidente, Bernabò Bocca,allargò il discorso alle prospettive nazionali e mondiali, per focalizzare poi l’attenzione sulla situazione provinciale: nel 2009 solo 2 milioni su 12 arrivi di turisti hanno scelto un comune diverso da Roma, quindi  va colta l’opportunità di un allargamento dell’area di interesse turistico. Nel ricordare che le 13 vie consolari includono 180 siti e musei, centri storici e monumenti, ha richiamato l’attenzione sui prodotti tipici in campo enogastronomico che completano l’offerta turistica per quel “viaggio lento” che li fa gustare meglio.

Giancarlo Cremonesi, presidente della Camera di Commercio di Roma e padrone di casa, ha ribadito con forza che i giacimenti culturali possono essere il motore dello sviluppo economico, promuovendoli si hanno importanti risultati. Il primo è la loro tutela e salvaguardia, anzi la riscoperta perché molti sono nascosti e così possono essere portati alla luce e valorizzati. Un secondo risultato è lo sviluppo armonico del territorio, di pari passo con la riscoperta dei suoi tesori: l’allargamento dell’attenzione dai poli ben conosciuti ad aree trascurate se non ignorate, fa sì che il momento ludico diventi sempre più momento culturale. Terzo aspetto è coniugare le bellezze artistiche e ambientali con l’agroalimentare, il lato culturale e intellettuale con quello gastronomico, unire al godimento dello spirito quello del corpo: un aspetto che può far vincere la competizione.

Ha concluso le presentazioni l’allora presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti – ora governatore della regione Lazio – sottolineando a sua volta i motivi di maggiore novità e rilievo. La collaborazione tra i soggetti economici alla base dell’iniziativa è un fatto molto importante, si superano le gelosie e i compartimenti stagni all’insegna di una cooperazione nella quale ognuno esprime il meglio di sé facendo nel contempo squadra. Un altro motivo è l’inversione di tendenza rispetto al passato anche recente – gli ultimi quindici anni – quando il territorio veniva “consumato” e non valorizzato, con un’edilizia sussidiaria rispetto alla capitale e nefasta per l’ambiente; ha citato come esempio la carenza di piazze, quindi del tessuto per l’aggregazione. Intorno alla città più bella del mondo c’è un territorio ricco di tesori da scoprire, valorizzare e anche tutelare.

Si rende sempre più necessaria la costruzione di un nuovo modello di sviluppo per crescere e creare lavoro, prospettiva vitale dal momento che si restringono le prospettive nel manifatturiero tradizionale; mentre sulle risorse culturali e ambientali del territorio si deve far leva per superare l’handicap nei costi e nelle materie prime rispetto ai paesi emergenti; i beni culturali non sono riproducibili all’estero e non rischiano il decentramento  produttivo verso i paesi a bassi costi. Zingaretti ha lanciato  l’idea di un’alleanza di operatori economici per godere della ” settimana del bello e del buono”, con un modello di marketing e promozione del territorio “in modo da valorizzare ciò che siamo stati e siamo e non rassegnarci al declino”.

La tavola rotonda sul turismo nel territorio

E’ seguita la tavola rotonda, Maria Concetta Mattei ha moderato la discussione sollecitando direttamente i partecipanti sui temi da lei proposti, quelli centrali per una politica di valorizzazione del territorio e sviluppo del turismo, di grande interesse anche per altre regioni. Si è  iniziato collegando località e siti ai piatti tipici, Franco Salvatori ha citato l’Abruzzoanche per le sue origini, e vi riconduce l’amatriciana e la ricotta che pure fanno parte della gastronomia romana; abbiamo appreso che l’aggiunta di crema di latte nella ricotta dei supermercati scherma il sapore più autentico, e ne abbiamo avuto la prova tangibile al termine nella gustosa degustazione offerta.

Carlo Hausmann, direttore generale dell’Azienda Romana Mercati ha parlato della sinergia tra turismo e agricoltura attraverso l’agriturismo, dove si uniscono accoglienza e ambiente, cibi locali con tradizioni: oggi lo si fa in modo professionale e ne viene valorizzato il territorio. Vi sono pacchetti di proposte diversi, c’è molta personalizzazione; è una diversificazione spontanea e non studiata, risponde all’inventiva tipica degli italiani. L’iniziativa presentata aggiunge il gioco di squadra e colma la lacuna delle gelosie e dell’isolamento; si collegano le istituzioni in una fattiva cooperazione. Roma è partita in ritardo nell’allargare l’azione al territorio provinciale data la forte attrattiva della Capitale, per cui all’esterno finora solo esperienze isolate: 140 aziende di agroturismo, ben poche per il territorio romano, e 250-300 aziende con vendite dirette.

Eleganza e semplicità i requisiti. “Un attacco a tre punte, arte cultura e territorio” con  tecnologie avanzate per penetrare nel mondo del web: aiuta il fascino del nome Roma,  prodotti che si consumano nella Capitale vengono dalla campagna nella provincia. Quello che era un deserto è diventato un giardino, va difeso dall’urbanizzazione selvaggia. I 12 itinerari non sono segni tracciati sulla carta ma qualcosa di vivo. L’uso di Internet è fondamentale, telefonino e web, iPhone che consente di consultare “in un palmo di mano” le schede scegliendo la chiave, geografica o per tema.

Il già citato presidente della Società geografica Italiana Franco Salvatori  ha ricordato il consumo di territorio denunciato da Zingaretti, riferendolo allo spazio e al suolo, colonizzato in maniera deteriore utilizzandolo per scopi anche speculativi saltando l’integrazione con lo spazio urbano. La campagna romana dava l’idea di solitudine e vuoto, per chi arrivava a Roma nel Medio Evo:  attraversava un vasto deserto finché da un colle vedeva la Città Eterna, la meta del lungo cammino.

Sarebbe interessante arrivarci anche oggi dalle vie consolari come una volta, in una visione opposta all’attuale romanocentrica che parte da Roma per irradiarsi nella provincia. “I  casali abbandonati sono ideali per l’agriturismo andando a Roma e non partendo da Roma”. Non è un’idea velleitaria, il turismo crocieristico arriva a Civitavecchia e poi si avvicina a Roma, potrebbe fare un percorso che si soffermi nelle località della provincia, ” non facendo il salto del canguro come oggi avviene”.

La voce dell’economia è stata quella di Pietro Antonio Valentino, docente all’Università “La Sapienza”: ha parlato del valore del progetto come incentivo allo sviluppo del territorio. “Piccolo non solo è bello come si diceva una volta, o brutto,  ma è debole e forte: debole se isolato, forte se fa sistema, il progetto propone questo coinvolgendo una serie di operatori”. Roma era al sesto posto negli arrivi internazionali, ha perduto posizioni  rispetto ad altre città, come  Istanbul, che pure sulla carta hanno meno risorse di noi. Abbiamo continuato a vivere sulla rendita di posizione fin dal Medioevo, mentre dovremmo creare nuove attrazioni e motivi di interesse. Ben un milione di turisti arriva a Civitavecchia, occorre allungare le presenze per includere oltre ai Musei vaticani e le altre grandi  attrattive della Capitale anche il territorio della provincia che può offrire i suoi tanti tesori.

Come si catturano i nuovi ricchi? Ha chiesto la Mattei, riferendosi ai tanti magnati russi e asiatici . L’aspetto fondamentale, ha risposto l’economista, è l’integrazione delle risorse; in un mondo sempre più concorrenziale anche nel turismo, che si prevede in forte crescita: “Conta avere  un’identità forte, per cui l’impegno è ritrovare e valorizzare tale identità che consente anche di dare un’offerta differenziata  per la grande varietà di tradizioni che aumenta la potenzialità complessiva”. Non avendolo fatto finora ha creato anche il  problema della difesa del territorio, quindi del paesaggio per non perdere un’identità divenuta vitale nell’appiattimento della globalizzazione.

Il presidente dell’Istituto Nazionale di Sociologia, Corrado Barberis,ha fatto sentire la voce della tradizione che non segue le sirene del modernismo, dal web ai telefonini, figurarsi l’iPhone…  Ha fatto rilevare come dall’urbanesimo che sembrava inarrestabile si sta tornando alle campagne, anche se non come contadini produttori ma per una migliore qualità della vita. Il reddito degli abitanti delle campagne, che nel 1959 era sceso al 50% del reddito nelle città,  è salito al 95%.

Non utilizza i mezzi della tecnologia moderna, ma questo  non vuol dire che ne sottovaluta l’importanza, e la Mattei ha concluso con l’auspicio scherzoso che venga conquistato anche lui dall’iPhone per mezzo del quale si possono avere i tesori della provincia “in un palmo di mano”.

Poi è arrivato il momento della degustazione: vino e porchetta, pane  casereccio e  olio della Sabina, formaggio e ricotta , naturalmente senza aggiunta di crema di latte, quindi il dolcissimo miele.

Dulcis in fundo, quindi, tra le colonne del Tempio di Adriano: la bella mattinata di riflessioni e stimoli è terminata davanti alla grande mappa della provincia con i suoi “tesori in un palmo di mano”.

I 12 itinerari nel volume illustrativo e non solo

Ma non finisce qui per chi fosse interessato ai “tesori della provincia di Roma”  e, più in generale, ad itinerari turistici  dove preesistenze di grande pregio storico e artistico si trovano in un territorio di notevole fascino ambientale, caratteri frequenti nel Bel Paese.

I partecipanti alla tavola rotonda che abbiamo rievocato erano gli autori, ciascuno dal proprio angolo di visuale, di quattro dei cinque saggi introduttivi del volume  riccamente illustrato “Tesori lungo le vie consolari romane. Storia, arte e paesaggio nella provincia di Roma”  edito dalle tre organizzazioni promotrici; lo scritto introduttivo, di Franco Cardini, è intitolato “Vie consolari tra storia ed archeologia”.

E’ un affresco variegato e documentato su un ambiente ricco di preesistenze e di attrattive, quindi di grande interesse. Ma il volume è anche una guida, un bedeker, per usare un termine caro agli antichi viaggiatori, perché alle sintesi introduttive segue l’analisi dei dodici percorsi nell’accurata descrizione che ne fa, uno per uno, Fabrizio Ardito: sono testi scorrevoli quanto minuziosi, arricchiti da schede con i “tesori” che si incontrano negli itinerari, e da un prezioso corredo iconografico: le fotografie sono per lo più dello stesso Ardito, e l’associazione tra  testo e immagini nel medesimo autore ne accresce l’interesse. Sembra di accompagnare l'”esploratore” nella sua ricerca storica e artistica e nella ricognizione paesaggistica immedesimandosi nell’emozione visiva data da immagini che presentano inquadrature spettacolari e suggestive, negli scorci scelti e nell’atmosfera creata, spesso con vere foto d’arte. Dopo la mostra pittorica al Vittoriano sulla  “Campagna romana”, le immagini di Ardito meriterebbero una mostra fotografica sul tema.

Basta sfogliare le pagine di questi itinerari per ammirare i “tesori”  di cui sono ricchi, nelle immagini e nelle schede descrittive. Ricordiamo quanto accennato all’inizio, che si vedono anche nel sito www. tesorintornoroma.itcon le sue 200 immagini fotografiche e i 12 video in italiano e inglese; inoltre si prendono “in un palmo di mano” sull’iPhonescaricandoli gratuitamente  daApp Store.L’offerta è ricca oltre ad essere tecnologicamente all’avanguardia: ci si può posizionare in un punto e verificare i “tesori”  a portata di mano con tutto il sopporto informativo e visivo;  come si possono personalizzare percorsi selezionati per tematiche prescelte. E oltre ai tesori storici-archeologici e artistici-naturalistici ci sono gli indirizzi utili per l’agroturismo nei già citati portali di Provinciattiva  www.romaepiu.it e di Azienda Romana Mercati www. romaincampagna.it.

Raccomandiamo l’accurata ricognizione  storica e artistica, ambientale e fotografica di Fabrizio Ardito, un’opera che additiamo come esemplare.

Info

Cfr.in questo sito il nostro articolo  sulla citata ricostruzione di Fabrizio Ardito degli itinerari consolari, il 16 marzo 2014, con 12 immagini, una per ogni itinerario.

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Provincia di Roma, con i titolari del diritti; soprattutto si ringrazia Fabrizio Ardito, che  ne è l’autore, tranne quelle di apertura e chiusura riprese da Romano Maria Levante alla manifestazione al Tempio di Adriano. In apertura, Maria Concetta Mattei dinanzi alla carta della regione Lazio,  seguono via Aurelia a S. Marinella il Castello di Santa Severa e via Latina a Grottaferrata Fortificazioni dell’abbazia di san Nilo, poi via Prenestina a Castel del Porto Fortezza  e via Nomentana a Nerola il Castello Orsini, quindi via Tiburtina a Vicovaro borgo e chiesa di san Pietro Apostolo e via Cassia l’Isola Farnese; in chiusura, la Tavola rotonda moderata da Maria Concetta Mattei.

Roma, Dea e Donna celebrata nel 150° dell’Unità, a Piazza Navona

di Romano Maria Levante

Dopo il “viaggio in Italia”, nel clima estivo rievochiamo la celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia svoltasi il 7 luglio 2011 con un’immersione nella memoria della capitale, in uno spettacolo multimediale di Graziano Marraffa, fondatore e presidente dell’Archivio storico del cinema italiano: un mosaico di suoni, parole e immagini, con le grandi figure che hanno dato lustro alla città. nell’arte e nello spettacolo. La dea Roma è un retaggio antico che vive tuttora, è anche la donna celebrata per la sua sensibilità e apertura al mondo: sono questi i caratteri della città eterna.

Piazza Navona, era una calda sera di luglio di due anni fa, con lo spettacolo pittoresco della varia umanità che si raccoglie intorno alla grande fontana dei Quattro fiumi, monumentale e imponente con le gigantesche statue sopra le quali svetta l’obelisco; l’antica vasca per gare nautiche è animata come non mai, turisti e romani, giocolieri e artisti di strada ne animano il movimento.

Ma non è nella piazza  la festa alla quale ci ha chiamato il tam tam di Facebook, bensì nel primo grande edificio che si incontra venendo da corso Vittorio Emanale  II, palazzo Braschi, una delle sedi monumentali del museo romano. Non è neppure l’interno del palazzo la meta della serata, bensì il vasto cortile quadrato, sovrastato dai diversi ordini di finestre come un fondale d’epoca, le cui trabeazioni sono sottolineate da giochi di luce che danno loro una speciale profondità.

L’attrazione  è l’arcata sul fondo con una statua dal lungo panneggio al centro; alla sua destra una breve scalinata che sale al primo piano, a sinistra una vetrata ad arco. Un tappeto rosso copriva la scalinata e la prosecuzione nel cortile in una pedana che è stata il palcoscenico della serata: per le sfilate di moda e per i cantanti lirici, per le voci recitanti e per gli ospiti d’onore; ma c’era anche il video-schermo, anzi era l’elemento fondamentale, nella serata il cinema è stato importante.

All’inizio dello spettacolo si è avuta una combinazione, o per meglio dire una contaminazione di generi, indispensabile per evocare quanto fa della capitale la  “dea” e la “donna” celebrata.

Le indossatrici che scendevano dalla stretta scalinata, percorrevano la pedana, e poi tornavano indietro per scomparire nel palazzo non facevano pensare a una sfilata di moda; ma alle immagini suadenti e seducenti della città, i loro abiti non erano quelli spesso stravaganti delle sfilate, ma in stile “Dolce vita”, va reso onore allo stilista Luigi Bruno che ha saputo esprimere le tante forme e i tanti colori della bellezza e dell’eleganza senza voler sorprendere con l’originalità ma  prendendo gli occhi e la fantasia materializzando sogni e desideri che la città fa balenare nei frettolosi incontri.

Per questo le loro apparizioni si dileguavano come se rientrassero nelle loro case dopo un rapido giro “in centro”, magari alla Galleria Colonna che ha preso il nome di Alberto Sordi.  Nome che ha introdotto la parte prevalente della serata, in cui si sono evocati i principali interpreti della romanità, divenuta italianità a tutti gli effetti. Del resto non fu “Storia di un italiano” il titolo che Sordi diede a una sorta di serial costituito da brani dei suoi film di una commedia all’italiana che meglio dei trattati di sociologia ha descritto i caratteri della nostra gente? Senza retorica né infingimenti, ma con l’umanità che ci viene riconosciuta da tutti.

Il poker d’assi Sordi-Gassman-Manfredi-Mastroianni è stato calato nel cortile di palazzo Braschi, sul video schermo le immagini dei manifesti cinematografici, dei quali abbiamo potuto apprezzare la rilevanza sul piano del costume oltre che della comunicazione: perché nell’evocare i soggetti delle loro interpretazioni, in una galleria memorabile della memoria collettiva, hanno stimolato anche la memoria individuale, richiamando i momenti della nostra vita nei quali ci siamo imbattuti in quei titoli con quelle figure.Altri poker d’assi  sono stati calati, altrettanto presenti e vitali:: più indietro nel tempo Aldo Fabrizi-Anna Magnani-Renato Rascel- Petrolini; arrivando ai giorni nostri con Gigi Proietti-Claudio Villa- Gabriella Ferri- Monica Vitti.

Con Villa e la Ferri è scesa in campo la canzone. Nella pedana di palazzo Braschi  due voci liriche hanno intonato le arie più celebri e intense, compresa “E lucean le stelle” per la voce del grande tenore Sergio Panaija;  altra straordinaria voce femminile quella della soprano Argia Sara Pastore con il gruppo “Spazio teatro 80”. La contaminazione di generi è stata incessante, ai suoni e ai canti si sono unite le parole,  poesie e prosa,  anche brani e sketch dal teatro di rivista e dialettale; ha recitato l’attrice romana Gina Rovere. E la danza? Sulla pedana Jack La Cayenne, ballerino e fantasista, in una coreografia di Patrizia Paccari  della Gts Danza di  Nettuno e di Anzio.

Anche una premiazione a un maestro dello spettacolo, il Premio alla Carriera all’autore Luigi Magni, per aver esaltato l’anima della città. Graziano Marraffa, dominus della serata, ha consegnato il premio che riproduce il logo del suo Archivio storico del cinema italiano, un frammento della vecchia, cara pellicola, come la ricordiamo immortalata in “Nuovo Cinema Paradiso”. Filiforme in completo scuro con fiammante cravatta rossa ha letto la sobria motivazione, di cui ricordiamo le parole “impegno e qualità”, che riassumono i requisiti dell’eccellenza.

L’evento rientrava nel programma, organizzato da Zètema Progetto Cultura,  “Roma in scena – Estate”. Ebbene, si può dire che mai come in quella serata di luglio la città è stata in scena. Come fucina di artisti, fonte di suggestioni e di emozioni. Roma Capitale ma soprattutto Città Eterna!

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Braschi, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Graziano Maraffa, per l’opportunità offerta.  

Emigrazione, il suo ruolo, il Museo al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, l’8 novembre 2011 si è svolto il convegno sul “Ruolo dell’emigrazione italiana nell’Unità nazionale”,  nel segno delle parole di Donna Galbaccia secondo la quale “non è possibile comprendere la creazione dell’Italia né il movimento volto a definire una nuova nazione degli italiani senza tenere conto delle emigrazioni”.  L’incontro si è svolto nell’ambito del Museo dell’Emigrazione Italiana del Vittoriano, con l’introduzione dell’allora sottosegretario Mantica, gli interventi di Nicosia direttore del Museo e Prencipe coordinatore del Comitato scientifico nonché le relazioni di studiosi sui  paesi di accoglienza, primo tra tutti l’ambasciatore dell’Argentina Di Tella.

La sala Zanardelli era affollata la mattina del Convegno che si è protratto per l’intera giornata. Nella pausa delle 13 la vista mozzafiato della terrazza  del Vittoriano, e poi la visita emozionante del Museo dell’Emigrazione Italiana al pianterreno, guidata dal Coordinatore del comitato scientifico del Museo Lorenzo Prencipe, che ha moderato il Convegno arricchendolo di dati precisi.

Mantica: dalla rimozione alla celebrazione

In una giornata cruciale per la politica il sottosegretario  agli esteri pro tempore Alfredo Mantica, è stato presente per tutta la mattinata, con un un intervento andato ben oltre il rituale indirizzo di saluto. Ha esordito con una verità difficile da ammettere: per lungo tempo l’emigrazione è stata considerata come “una storia di serie B, quasi da averne vergogna, comunque da dimenticare. Seguiva le due guerre,  rifletteva  uno stato di miseria da cui fuggire, momenti difficili, perché ricordarlo?” Peter Kammer dirà poi che sono i tedeschi a doversi vergognare di come li hanno trattati, non gli italiani per essere emigrati; Mantica, tuttavia, ci sembra abbia colto un sentire diffuso, da noi verificato anche direttamente nel paese natale, ed ha avuto il coraggio di esternarlo.

Nei 150 anni dall’Unità si è capito di dover ricordare questa storia, non solo di sofferenze ma di successi personali e contributi allo sviluppo dei paesi di destinazione. “Successi costati lacrime e sangue, che però hanno mostrato la capacità della nostra gente di  affrontare le temperie della vita, inventandosi nuove opportunità con coraggio e spirito di iniziativa”.  I nostri emigrati sono partiti con le loro identità regionali e di campanile, hanno acquisito l’italianità mescolandosi agli altri, come nelle trincee della prima guerra mondiale. Non c’è contraddizione, nell’appartenenza regionale si riconosce l’italianità che si nobilita nello spirito identitario che nasce dal campanile. “L’Unità d’Italia è stata realizzata mettendo insieme tante diversità”, o se si vuole tante identità. La stessa dicotomia Nord-Sud non esiste nell’emigrazione, se si pensa che le maggiori provenienze dei nostri emigrati sono dal Veneto, seguito dalla Sicilia e al terzo posto troviamo la  Lombardia.

Mantica ha accennato anche al contributo dato storicamente alla crescita del paese con le rimesse dei loro risparmi e alla nuova forma di emigrazione “in business class” di ricercatori e altri “cervelli” che cercano all’estero spazi qui sempre più ristretti: Ma si tratta di temi che saranno sviluppati in seguito, come quello del Museo dell’Emigrazione,  nato sotto l’egida del Ministero degli Esteri per dare un riferimento unitario agli oltre 50 musei locali dell’emigrazione, anche minuscoli: come quello nell’isola di Salina per le Eolie nella casa d’origine di un emigrato.

Nicosia e Prencipe per il Museo dell’Emigrazione italiana

Del Museo dell’Emigrazione Italiana ha parlato Alessandro Nicosia che ne è il Direttore ed è il “dominus” delle manifestazioni e mostre del Vittoriano con la sua “Comunicare Organizzando”: ha realizzato altri convegni per i 150 anni dell’Unità, il nuovo spettacolare allestimento del Museo storico del Risorgimento, e mostre della memoria, come quella sul “Milite ignoto” e il viaggio del treno commemorativo, e di grande valore culturale come quelle sui più grandi artisti.

Già il sottosegretario aveva citato i musei locali sparsi per l’Italia, Nicosia ha aggiunto particolari ed ha anche parlato dei musei dell’Emigrazione sorti nel paesi di accoglienza, tutte iniziative per non disperdere la memoria e mettere in rapporto presente e passato. Il Museo Nazionale dell’Emigrazione nasce il 23 ottobre 2009 come raccordo e momento culminante delle tante iniziative locali con le quali ci sono contatti e scambi fecondi. Il Vittoriano è apparsa la sede ideale, perché dopo una chiusura durata vent’anni, con la presidenza Ciampi è diventata la Casa degli Italiani, simbolo dei valori che danno il senso di appartenenza. Per l’Unità che si realizza nella diversità cita le 16 statue del frontone, realizzate nel 1907,  per rappresentare le 16 regioni italiane, ciascuna ad opera di scultori  della regione simboleggiata. “La memoria ci rende soggettivamente e oggettivamente quello che siamo”, ha detto Nicosia, il Museo dell’Emigrazione è un museo della memoria, e prima che si disperdesse definitivamente è stato “messo a sistema” il vastissimo materiale raccolto in modo che sia accessibile a tutti con il concorso di tante istituzioni e di 60 generosi prestatori. “In questi 150 anni l’emigrazione è la cornice per definire l’identità nazionale”.

Sono 5 le sezioni cronologiche con materiale documentario di vario genere, la prima sull’Italia preunitaria e il periodo 1876-1915, poi la fase con le due guerre tra il 1916 e il45 e il dopoguerra fino al 1976, infine la realtà attuale e la nuova immigrazione, la storia si ripete a parti invertite.

Il coordinatore del Comitato scientifico Lorenzo Prencipe ne ha poi illustrato i particolari nella visita al Museo, ma prima è intervenuto anche lui sui temi generali; ha confidato che nel presentare il Museo all’estero, sentiva dire “finalmente siamo qualcuno per l’Italia che si ricorda di noi”; la rimozione, quindi, non c’è stata solo da parte dei singoli per le storie personali volutamente dimenticate; ma anche da parte delle istituzioni fino alla svolta con il sigillo del presidente Napolitano  che ha considerato l’apertura del Museo un evento per riflettere sul cammino compiuto e sulle prospettive, da collegare all'”impegno a lavorare per risolvere i pressanti problemi condividendo una memoria comune  per condividere un futuro comune, che può dare la forza per affrontare le sfide”.

Prencipe è entrato nel vivo dei temi, ricordando come l’emigrazione sia stata una valvola di sfogo per la pressione demografica ed occupazionale, e le rimesse degli emigrati un notevole contributo all’equilibrio della bilancia dei pagamenti quindi allo sviluppo economico del paese.  E’ stato un itinerario di privazioni, ma la cultura del lavoro lo ha fatto percorrere con successo. Oggi nei paesi di destinazione i nostri connazionali contribuiscono al rafforzamento delle relazioni con l’Italia  e alla diffusione della lingua e della cultura italiane.  Il Museo dell’Emigrazione affianca il Museo del Risorgimento perché l’Italia si è fatta con le armi dei combattenti e con il lavoro anche all’estero degli emigrati: “Partiti per l’estero da ‘regionali’ sono diventati ‘italiani  imparando, e poi insegnando, come sia importante mettersi a confronto e in relazione con gli altri”

Circa 29 milioni sono stati gli emigrati dal 1861, con oltre 26 milioni nel secolo 1876-1976: Ammonta a 11 milioni il numero di emigrati rientrati, portando in patria un patrimonio di conoscenze e relazioni, capacità e risorse economiche. E’ stato detto giustamente che non è possibile comprendere la storia d’Italia senza tener conto dell’emigrazione italiana”.

Prencipe ci ha accompagnato nella visita al Museo illustrando le scelte espositive: sulla fase preunitaria sono descritti visivamente i diversi momenti dell’emigrazione, l’attesa e la partenza, l’arrivo e la selezione, l’inserimento nel lavoro e le tragedie minerarie. Gli elementi dell’integrazione sono declinati nella scuola e nella religione, nelle associazioni e nella stampa, infine nella casa che una volta acquisita trattiene all’estero. Nulla di  pedante e didascalico, tutto per immagini e carte dell’epoca, anche cartoline con foto locali e vignette scherzose, nessuna ricerca del pittoresco, pochi oggetti esposti: le fatidiche valige di cartone e i bauli, gli strumenti musicali e gli arnesi di lavoro, come le lampade dei minatori.  La storia incalza, gli emigrati sono al centro di attenzioni interessate, e anche di ostilità, accomunati nelle immagini della delinquenza comune e del terrorismo anarchico, gli innocenti Sacco e Vanzetti pagarono per tutti. Poi, ecco il crinale del regime fascista che cercò inizialmente di ostacolare le partenze e di due guerre mondiali quando venivano internati se  l’Italia era il paese nemico.

Irrompe nel Museo il secondo dopoguerra, il via alla ricostruzione  all’interno e a una politica che favorisce l’esodo verso l’estero come valvola di sfogo. Le tragedie minerarie sono in agguato, da Managua con 500 morti a Mercinelle con quasi 200. La conclusione con una finestra colorata sull’immigrazione nel nostro paese e l’insorgere  di un flusso verso l’estero di emigrati intellettuali.

Abbiamo soltanto accennato ai contenuti di  un’esposizione di grande spessore e accuratezza; la vista è curata con i video e una cornice avvolgente di immagini filmate che accompagnano il visitatore, l’udito con le note di  “Partono i bastimenti” nelle sale, e musiche in cuffia, perfino “Ciao, amore, ciao”, di Luigi Tenco, con la “strada bianca” dell’emigrante, un’emozione in più.

Come emozionante è stato il filmato  “Italiani nel mondo: la storia” proiettato nel convegno  alla ripresa pomeridiana, ha  ripercorso le fasi storiche  con dovizia di immagini e un commento preciso e puntuale da parte della stessa guida d’eccezione, il direttore Lorenzo Prencipe. Un “en plein”.

Il Convegno è continuato con le relazioni per paese  “tra storia e attualità e nel rapporto con l’Italia” iniziate già al mattino, ne daremo alcuni brevi tratti.

Le analisi sull’emigrazione italiana nei principali paesi

La parte speciale – seguita all’inquadramento generale sul significato della nostra emigrazione nel definire l’identità nazionale nel processo unitario dei 150 anni, di cui abbiamo dato conto – si è concentrata su alcuni dei principali paesi di destinazione, Argentina e Perù, Australia e Svizzera, Germania e Stati Uniti. Per ogni paese, alla premessa di Prencipe che ha indicato i flussi migratori  nelle varie fasi dando un’utile dimensione quantitativa,  è seguita l’analisi dei relatori, docenti universitari  con la significativa presenza dell’ambasciatore di un paese di destinazione.

Delle analisi  ci limitiamo ad evidenziare alcuni aspetti  che ci hanno maggiormente colpito, non potendo ripercorrere gli specifici itinerari che assumono connotati diversi nelle specifiche storie delle nazioni di accoglienza. E allora per l’Argentina  il relatore Torcuato di Tella era la prova vivente del percorso di crescita, essendo diventato da figlio di emigrati l’ambasciatore di quel paese in Italia. Non ha nascosto le difficoltà incontrate  dagli emigrati pur in un paese dove la maggioranza della popolazione è di origine italiana e i nostri emigrati hanno rappresentato il 30% del totale, percentuale doppia rispetto agli Stati Uniti.  Ma a differenza degli Usa, in Argentina gli emigrati non  potevano prendere la nazionalità, avendo minori diritti nel processo di integrazione.

Subito dopo da Enzo Borsellino è stato presentato il quadro del Perù con un dato che, a differenza di quanto si crede, ha posto anche questo paese al centro dell’attenzione sui flussi migratori dall’Italia: tra il 1920 e il 1940 c’erano già 40 sindaci italiani.  Inizialmente gli emigrati erano soprattutto marinai e commercianti, poi vennero i religiosi, i flussi si intensificarono dopo l’indipendenza, soprattutto dalla Liguria e con prevalenza della capitale Lima. Oggi abbiamo anche un flusso di immigrati in Italia dal Perù che sfiora le 100 mila persone. Abbiamo detto che Borsellino ha presentato un “quadro” del paese: in effetti ha mostrato pure molti quadri e anche sculture di una mostra permanente dell’arte italiana nel paese, nata da una lettera di due emigrati ad Ugo Ojetti.  E’ stato un momento esaltante  la cavalcata dell’arte sullo schermo, sarebbe bello poter avere quella mostra al Vittoriano, una  prova  che l’Italia oltre alle braccia ha esportato cultura.

Per l’Australia padre Fabio Baggio, dell’Istituto Scalabrini per l’Emigrazione, ha portato una parola significativa perché in molti casi, e soprattutto nel paese da lui descritto, i missionari sono stati gli apripista. Dalla fase in cui la nostra emigrazione è risultata  a carattere individuale e quindi sporadica fino alla prima guerra mondiale – mentre i maggiori flussi venivano dall’Inghilterra, quasi una emigrazione interna per le affinità e gli stretti legami – al fenomeno di massa dopo l’ultima guerra che ha reso gli italiani il secondo gruppo tra gli immigrati in quel lontano paese.

Dal più lontano al più vicino, la Svizzera, ne ha parlato Michele Colucci, sottolineando come in una prima fase fosse soprattutto meta dei fuorusciti, dall’epoca risorgimentale al fascismo, citando il caso del sindacalista Giuseppe Di Vittorio. Tra la fine dell’800  e l’inizio del ‘900 la grande stagione dei trafori alpini ha alimentato un flusso di emigrazione per lavoro ingrossatosi sempre più. E qui il relatore si è immerso nella complessità del fenomeno che vede intrecciarsi diversi tipi di flussi, “rotatori” per i frontalieri e stagionali ma anche permanenti, questi ultimi contrastati  da un paese che non avrebbe voluto che i lavoratori vi si stabilissero. A differenza della vicina Germania, un 20-30% di emigrati sono andati nell’agricoltura; si aggiunge la mancata partecipazione alla Comunità Europea che ha posto seri problemi di diritti negati, sul piano della tutela e della previdenza e della domanda di cittadinanza. Dopo l’accordo del 1955 ci fu un’impennata nei flussi,  e l’ostilità alla permanenza portò al Referendum degli anni ’70  che vide sconfitti gli antiitaliani.

La relazione di Peter Kammerer  sulla  Germania ha allargato il quadro agli effetti dell’emigrazione sul paese di destinazione e di provenienza. Sulla Germania il contributo allo sviluppo, in particolare dell’industria, è stato notevole, ma lo è stato anche allo sviluppo dell’Italia per aver alleggerito la pressione demografica e sul mercato del lavoro, e con le rimesse il cui apporto ha contribuito all’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Dalla caratteristica “rotatoria” dei flussi iniziali per un ritorno dopo un certo periodo,  si è passati a flussi permanenti ma con caratteristiche peculiari. La vicinanza dei paesi ha reso paradossalmente difficile l’integrazione perché gli emigrati si sono sentiti “italiani in Germania e tedeschi in Italia” nei ritorni. E’ mancata una crescita nel modello europeo che dovrebbe far superare le origini per una appartenenza più vasta ed un’integrazione più stretta  nel senso dell’internazionalizzazione e della fratellanza.

La conclusione del giro del mondo non poteva essere più appropriata. Degli Stati Uniti ha parlato Stefano Luconi , si tratta del grande paese che dal 1820 ha accolto 6 milioni di emigrati italiani, di cui 4 milioni dal 1870 al 1920, 15 milioni di abitanti sono italo-americani. La loro crescente presenza è stata vista in modo diverso nelle varie fasi: inizialmente  confinati nei ghetti delle “little Italy” identificati in  lavori umili e comportamenti delinquenziali; più rispettati  quando sono stati alleati nella prima guerra mondiale e poi nella crescita del prestigio del nostro paese;  di nuovo ghettizzati nella seconda guerra mondiale dove erano diventati nemici, fino a rispettarli nel periodo successivo per l’influenza assunta nella politica americana.  E qui il relatore con enfasi e passione nella voce e nel contenuto, ha esaltato il ruolo svolto a favore dell’Italia delle comunità pur così lontane, legate non al campanile ma alla nazione: una lobby potente forte del proprio peso elettorale per i diritti di cittadinanza,  che ha concorso a far ottenere enormi vantaggi al nostro paese nei momenti più critici, dal Trattato di pace al piano Marshall, e dopo facendo leva anche sullo spirito anticomunista degli americani che imponeva di aiutare un paese baluardo al comunismo in Europa. Dall’analisi è emersa la gratitudine che è dovuta a questi fratelli lontani i quali, invece del risentimento verso la terra che li aveva costretti a partire non potendo assicurare loro una vita dignitosa, si sono mobilitati per aiutarla nei momenti difficili; e non solo per l’alleggerimento demografico e le loro rimesse, basilari per l’equilibrio finanziario, ma con un’azione diretta.

Possiamo dire che dopo un’analisi così appassionata, siamo usciti dal convegno con emozione e orgoglio, e un senso di ammirazione per questi italiani mobilitati per la patria utilizzando la forza data dalla loro coesione e spirito di iniziativa. E’ un’immagine inedita che dà ai tanti che hanno ascendenti emigrati in America un motivo di più di commossa riconoscenza. E’ il massimo che si poteva attendere da un Convegno di studi, diventato riscoperta memore ed  edificante; per questo abbiamo ritenuto di ricordarne diffusamente i contenuti dopo un anno  e mezzo.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano, si ringrazia l’organizzazione per l’opportunità offerta. In apertura, il tavolo dei relatori al Convegno; seguono immagini di cimeli, reperti, fotografie, esposti nel Museo dell’Emigrazione; in chiusura il manifesto “Dream”, il sogno dell’emigrante. 

Italia a colori, le “autocromie” del 1861-1935, al Palazzo Incontro

“Un percorso nelle diversità e bellezze della nostra penisola in occasione dei primi 150 anni dall’unificazione per guardare insieme, con maggiore serenità, al nostro futuro”, così si concludeva la presentazione dell’allora presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti alla mostra “Italia a colori 1861-1935”, al Palazzo Incontro in via dei Prefetti dietro il Parlamento, dal 18 novembre 2011 all’8 gennaio 2012. L’esposizione, a cura di Reinhard Schultz , organizzata dall’associazione “Civita”,  rientrava nel progetto “ABC Arte Bellezza e Cultura: i luoghi da vivere della Provincia di Roma”. La ricordiamo, dopo un anno e mezzo, per il suo carattere spettacolare e documentario, e perché consente di evocare immagini che restavano impresse nel favoloso “viaggio in Italia”.

Nell’ambito del progetto ABC la mostra si inseriva nella parte “Storia e memoria”  riallacciandosi  idealmente alla mostra “La Guerra a colori”, che espose insolite immagini colorate del primo conflitto mondiale. Ne vengono riproposte due: “Piave. Trincea italiana”, 1918,  i corpi dei caduti in primo piano, un soldato affranto in secondo piano, altri in fondo;“Prigionieri italiani nella battaglia dell’Isonzo”, 1915,  qualche centinaio in attesa seduti su un costone, dalla tragedia alla rassegnazione. Colpiva la nitidezza dei diversi piani, i volti perfettamente definiti e “a fuoco”, dal primo piano all’infinito, tanto era estesa la “profondità di campo” .

La tecnica dell'”autochrome”, lastre di vetro a colori

Si trattava di 165 diapositive su vetro dai colori brillanti. Il curatore Reinnhard Schultz, già protagonista della mostra appena citata  tenuta due anni prima nello stesso Palazzo Incontro, ha descritto di nuovo le  tecniche introdotte all’inizio del ‘900  per avere immagini colorate che riproducessero fedelmente la realtà. Ha parlato della “tricromia”, presentata dallo scozzese Maxwell a Londra, 1l 17 maggio 1861, due mesi dopo l’unificazione dell’Italia; ma dovranno trascorrere 27 anni per la prima fotografia a colori sulla rivista francese “L’Illustration” cui seguì,  “una vera e propria corsa alla scoperta e all’applicazione di strumenti e tecniche  come la colorazione delle stampe fotografiche o la nascita di fotochrome (basati sulla procedura litografica)”.

Questa corsa fu vinta, se così si può dire, nientemeno che dai fratelli Lumière con il primo sistema di diapositive a colori attraverso granelli variopinti: era il 1904, brevettarono la  placca “autochrome”, poi nel 1907 il procedimento diventò industriale con la fabbrica che la diffuse nel mondo. I costi erano ancora alti, ma valeva la pena sostenerli per testimoniare la realtà e gli eventi in tutte le loro componenti, e il colore ne era una componente fondamentale.

Per fissare le immagini della memoria non c’èra più soltanto la pittura, la fotografia passava il Rubicone del colore, nel 1914 Luigi Pellerano pubblicò un testo su questa tecnica, “L’autocromista e la pratica elementare della fotografia a colori”. Le sue fotografie andarono sulla rivista “National Geographic”così quelle di Secondo Piano, che nel 1898 aveva fotografato la Sacra Sindone a Torino, e Ferdinando Fino, che per primo fotografò a colori le Alpi Graie. Questi  autori erano rappresentati nella mostra, insieme a tanti altri anche stranieri, tra i quali i più noti erano Hans Hildebrand, di cui vedemmo gli scatti nella mostra  “La Guerra a colori”, e Branson DeCou.

Non c’era solo l’ “autochromia”, anche le tecniche ad albume e la fotocromia che colorava le immagini dopo lo scatto, fino ai procedimenti successivi che davano subito le immagini a colori.

Cos’era la  “placca autochrome”  brevettata dai padri del cinema, lo ha spiegato ancora Schultz: una lastra di vetro su cui effettuare  diapositive a colori. Entrando in punta di piedi nel  labirinto della tecnica precisiamo che si basava sulla “sintesi additiva”, con cui le emissioni di luce della fotografia si fissano sui colori fondamentali presenti sulla lastra che viene impressionata; c’è di più, i colori erano organizzati in una rete sottilissima  di granelli ognuno dei quali agiva come un filtro miniaturizzato di colore verde, blu-viola, arancio; in ogni millimetro quadrato vi erano ben 6.000 grani di 10-15 micron.  Di materiali avanzati questi filtri portentosi? Assolutamente no, semplici granelli di fecola di patate disposti affiancati sulla lastra, i vuoti venivano riempiti con nerofumo.

Tutto qui? No, sarebbe troppo semplice, occorre inoltrarsi nel labirinto. Sul lato dell’esposizione  si passavano sali d’argento o altre emulsioni con proprietà fotografiche perchè si impressionasse la lastra, spesso non al primo tentativo; occorreva poi l’inversione dal negativo al positivo.

I granelli colorati creavano punti di diverso colore nella lastra, ma l’insieme appariva omogeneo e non si avvertiva la divisione nei punti, come nei sistemi di televisione a colori  prima delle innovazioni più recenti. Il pensiero va alla pittura divisionista,, ma mentre nei quadri  i punti sono evidenti, nelle lastre no. Lo si vedeva nelle fotografie esposte in grandi lastre di vetro illuminate dai colori brillanti e  continui, dove colpiva la perfetta messa a fuoco dal primo piano all’infinito.

l senso e l’impostazione della mostra

Ricordiamo che le fotografie a colori della Grande Guerra  ebbero una certa diffusione, in particolare quelle di  Hans Hildenbrand, sul fronte tedesco, di Jules Gervais-Courtellemont sul fronte francese, dei due australiani Hubert Wilkins e Frank Hurley nelle Fiandre e in Medio Oriente.  Così Schultz definì quella  mostra: “Non si tratta di una storia cronologica della guerra, dei diversi fronti o delle battaglie che l’attraversano; è il tentativo di illuminare con i colori di sessanta foto quella guerra che fino ad oggi era sempre apparsa in bianco e nero”.   

Con la nuova mostra che stiamo evocando lo spettro si è allargato, i colori di 165 fotografie hanno illuminato la nazione, l’Italia, che negli anni 1861-1935 a cui si riferiscono le immagini, avevamo visto sempre in bianco e nero. E in bianco e nero erano le immagini dell’Ansa  in “Fotografando”, la mostra  in corso nello stesso periodo al Vittoriano, dagli anni ‘40 agli  anni ’70, in una paradossale staffetta in cui il colore era negli anni più antichi per merito della tecnica che abbiamo illustrato; mentre dagli anni’80  ai giorni nostri  dominava il colore nella  pellicola fotografica, erede della vecchia “autochrome”.

Il primo effetto d’insieme della galleria era l’armonioso inserimento delle rutilanti immagini esposte nelle salette di Palazzo Incontro, con il pavimento in cotto e le travi in legno nel soffitto. Sembrava un’irruzione della modernità negli ambienti tradizionali, e in fondo lo era; ma di una modernità datata 1865-1935, questo il periodo considerato, mentre la tecnica innovativa era di inizio del ‘900.

La seconda considerazione è che non era un’esposizione cronologica, e neppure tematica, sembravano fotogrammi di un film sull’identità nazionale, dove epoche e temi si mescolavano in un caleidoscopio immaginifico fortemente colorato; né vi era distinzione a seconda dei rispettivi anni,  la stessa perfezione tecnica, i colori brillanti, la nitidezza delle riproduzioni. Nelle didascalie, in base al periodo era indicata la tecnica usata, dalla “stampa all’albume” dell’ultimo quarto dell”800  alla “diapositiva di vetro colorata a mano”, dalla “fotocromia” di prima del ‘900 alle “autochromie”,

I temi che si alternavano erano quelli della vita quotidiana, dai paesaggi e monumenti delle città d’arte alle scene di vita e di lavoro nelle piccole località della provincia, spesso pittoresche. Con la particolarità che andavano da 150 a 75 anni fa e  nonostante la vetustà erano a colori.

Vogliamo ripercorrere i 75 anni cui si riferiva la mostra in una carrellata della memoria, componendo in un ordine tematico le 165 immagini esposte nelle 10 salette dei due piani di Palazzo Incontro: i temi erano le città del Bel Paese, viste nelle loro bellezze ambientali e nella gente che le popola.  Era raccontata l’Italia  municipale in tutti i suoi colori e nella sua pittoresca umanità.

Il Centro-Sud nelle foto-di 150-75 anni fa 

Al posto delle incisioni e disegni, nonché delle rare foto  d’epoca che evocavano  “Roma sparita” in un bianco e nero suggestivo quanto parziale, le immagini  ne restituivano anche i colori. C’era “Porta San Paolo” con  la Piramide Cestia e il “Foro romano”,  “Castel Sant’Angelo”  preso isolatamente e “Castel Sant’Angelo, Fiume Tevere, Pescatori“, una stampa all’albume colorata a mano del 1880 di rara suggestione; poi il “Colosseo”  in diverse riprese, visto nell’interno e dall’esterno nel suo splendido isolamento e con il primo piano di una“Donna che vende arance”. Altrettanto ravvicinata  “Donna a San Pietro”,  con le imponenti colonne riprese da vicino, mentre  “Piazza San Pietro”  era in un campo lungo quasi  felliniano, con una squadra di preti in tonaca e cappello neri. Altre piazze romane incalzavano, “Piazza di Minerva” e “Trinità dei Monti e scalinata di piazza di Spagna”, il “Foro di Augusto, colonne di Marte Ultore”  fino a “Villa Medici” che spiccava su una piazza deserta con la sua facciata monumentale. Vi erano anche siti come  il “Palazzo senatorio”, nel suo portale con uscieri e sentinelle, e la “Tomba di Vittorio Emanuele” al Pantheon, sommersa dalle corone.

Parecchie fotografie erano firmate  McAllister e Branson DeCou, il  primo  intorno al 1900, il secondo al 1930. Facevano pensare ai pittori che raffiguravano la città nel loro viaggio in Italia, ne avevamo viste nel 2009 le opere in una bella mostra sulla “Campagna romana” al Vittoriano.  Anche qui abbiamo trovatola “Popolazione della campagna romana“, davanti a un antico casale, era una foto del 1934 di Hans Hildenbrand del 1934.Ma anche i due fotografi appena citati non mancavano di rappresentarla: così i ritratti del primo,  “Pastori”, “Pastore romano e gregge” e “Giovani contadine”, con gli abiti e costumi tipici dell’epoca ben evidenti,  nonché “Via Appia”, protagonisti tre buoi ripresi frontalmente mentre avanzavano maestosi trainando un carretto. La rassegna romana terminava con “Bagnaia, mercato di bestiame”, una bella distesa di buoi. e vitelli, del 1928.  Di Hildebrand e DeCou anche foto di altre città, il loro era un vero “viaggio in Italia”.

Da Roma a Napoli, con le vestigia del passato: “Pompei”, “Paestum” e “Pozzuoli. Anfiteatro”  ci venivano presentati in fotografie del 1900 di George Washington Wilson & Co. Il fotografo dava anche una corrusca ripresa della bocca del  “Vesuvio” con i vapori minacciosi, e immagini idilliache di “Amalfi”e “Capri Marina Grande”,  nonché “Capri. Scala fenicia, Anacapri. Una donna a riposo”, dove tornava la figura umana.

Ma Napoli era anche il “Porto” con il carretto in primo piano e le “Navi nel porto”, “Via Partenope” e soprattutto “Due vicoli a Santa Lucia” e “Strada con lavandaie”, popolate di un’umanità pittoresca; ripresa in primo piano con “Venditore di latte” e “Maccaronaio” visto in due momenti. Ripresa anche  la “Pasta in essiccazione”, foto d’autore del 1928 di DeCou autore anche del dolente “Una povera donna”. Ma forse la più impressionante era “Ragazzi di strada”, foto all’albume colorata a mano del 1866 di Giorgio Sommer, una visione caravaggesca di raro realismo con quattro figure  battute da colpi di luce.

Seguiva  Bari, di Hildenbrand  uno splendido “Lavandaie”, 1934, le vecchie  case e il mare, i panni stesi sulla spiaggia e le donne al lavoro, mentre di Auguste Léonerano esposte due immagini molto diverse: la foto di gruppo “Bambini” e “Alberobello. Trulli“, 1913. quasi dei ruderi antichi.

Della Sicilia, 5 immagini di colore locale e di atmosfera di DeCou, mirate alle persone e non al paesaggio o al folklore, erano del 1928 come le altre del famoso fotografo: “Sicilia” con l’autovettura di allora davanti al costone roccioso e “Carro siciliano” visto da dietro con sopra 4 persone;  “Bambine” e “Taormina. Ragazze alla fontana” che esprimevano una povera ma dignitosa umanità. Abbiamo fatto la conoscenza di Luigi Pellerano, citato all’inizio per il libro del 1914 sulla nuova tecnica a colori: suo “Carro siciliano”, ripreso dal retro, il fotografo  ha mostrato anche gente in costume, “Uomini e donne” e “Donna”, 1912, poi “Cacciatore”, 1915,  gli ultimi due ritratti di rara efficacia, soprattutto la fierezza della donna.

Siamo passati in Sardegna, dove abbiamo trovato, di Clifton Adams, “Uomini con carrello ed asino”, 1921, anche questi in costume.

Il Centro-Nord dell’Italia 1861-1935

Tornando dalle isole al continente e risalendo dal Centro verso il Nord il viaggio in Italia della mostra approdava in Toscana, ancora DeCou con 2 splendide immagini “Carrello decorato”, molto diverso da quelli siciliani con la sua “capote” colorata  e “Vendemmia”, i contadini in una simbiosi festosa  con i vigneti i cui tralci sono onusti i grappoli.  Un’altra immagine di un “Vigneto”, 1900, dello studio Keystone View, lo personalizzava con  due vignaioli tra i filari; altrettanto personalizzati “Donna su asino” e “Lavandaie”, 1928, autori sconosciuti.

DeCou oltre a quelle campagnole, presentava immagini della città di Firenze, come “Santa Maria del Fiore”  vista da vicino con lo scorcio della cupola del Brunelleschi e un vigile in primo piano a regolare il traffico di tre automezzi, un carretto e una bicicletta; e l’“Edicola durante la festa del grillo”, con l’edicolante dinanzi all’esposizione delle riviste dalle copertine colorate. Di autori anonimi c’era anche la “Loggia dei Lanzi”, 1900,  e “Loggia del mercato nuovo”, 1928, un bel sorriso femminile e tanti fiaschi di vino in parata,  poi “Ponte Vecchio”, 1900, una veduta prospettica  con  dietro lo “skyline” cittadino; lo stesso ponte appariva come sfondo dello stupendo “Un uomo vende melograni lungo il fiume Arno”, 1934, di Jules Gervais-Courtellemont.

Firenze è anche “Fiesole”, con due belle immagini, mentre Toscana è pure “Pisa” e “Siena”, “Sangimignano” e “Bolsena”, introno al 1900. ma si andava più indietro con  “Chianti”, 1887,  un carretto e delle botti di vino, due addetti e  un’arcata, solo una celebrità poteva concepire una simile composizione: in effetti è Alfred Stieglitz, il grande fotografo americano tornato di attualità con la mostra della Fondazione Roma su “Georgia O’ Keeffe”, che lui sposò e rese famosa.

Non abbiamo dimenticato Hildenbrand, e se ciò fosse avvenuto ce lo hanno ricordato 3 sue fotografie  del viaggio dal Centro al Nord:  “Perugia. Un contadino vicino alla città”,  in realtà stava in una campagna brulla senza abitazioni con due alberi scheletrici e il carro di buoi, “Assisi. Basilica di San Francesco”  e “Ravenna. Il canale verso il mare Adriatico”, ancora buoi, è il 1927.

Da Ravenna a Bologna il passo è breve, lo ha compiuto DeCou con la spettacolare parata di gabbie del “Venditore di animali da compagnia”,  con sullo sfondo i famosi portici cittadini.

Il viaggio in Italia di questo fotografo continuava in Liguria con “Portofino. Venditrice di pizzo” e “Sanremo” Sulla regione e in particolare Genova, c’era una vera galleria di Hildenbrand,  le sue immagini andavano da “Portofino“, con uno splendido panorama,  a Bordighera, con la spettacolare “Donna all’ingresso di un giardino” , sul cancello c’era una cascata di rose, e le due immagini nude ed essenziali, “Pescatore con le acciughe” e “Pescatori”.  Il  “Villaggio di pescatori”  era il soggetto di due fotografie  calligrafiche di Louis J. Steel, con degli alberi straordinari sul costone brullo sopra la misera rada.  Tornando a Hildenbrand  come non ricordare gli scorci dell’abitato di “Donna con un asino” e di “Donna  con le rose”? E “Panni stesi”, non sono i bassi di Napoli, siamo a Genova!

Questo fotografo lo abbiamo trovato anche in Lombardia, con “Lago di Garda. Lavandaie”, foto sfumata e delicata come una pittura; mentre “Gargnano. Lago di Garda”, di autore sconosciuto ci dà la vista del 1900 di un angolo di Paradiso. Un nuovo artista in scena, Sergey Mikhaylovich Prokudin-Gorsky, con 3 straordinari “quadri” di solitudine, “Donna al cancello” e “Donna sul balcone”, due diverse attese, e “Ragazzo sul ponte”, tutte con colori soffusi in una tricromia di grande qualità artistica.  Suoi gli scorci insoliti di “Il Duomo” di Milano, dove le guglie venivano esaltate in una ripresa dalla sommità della basilica, quasi  fosse una fuga di  minareti.

“Mito” è stata chiamata l’ipotetica unione tra Milano e Torino, abbiamo troviamo questo collegamento in Hildenbrand, che nel 1927  scattò le foto di ambiente montanaro esposte in mostra: “Nelle Alpi” e “Una ragazza nelle Alpi del Sud”, ” Cogne. Una donna  delle Alpi Graie” e “Cogne. Polizia”,  una premonizione. Le Alpi erano evocate nel 1912  da Steel,  che abbiamo  già incontrato, in “Una chiesa nelle Alpi”, di lui c’era anche “Ragazzo e vecchia”. Di questi due autori ricordiamo due splendide immagini di lago, il primo del “Lago Maggiore, Isola dei Pescatori”, 1935, un barcone a riva con tre pescatori che tirano le reti, il secondo del “Lago di Como, Nesso”, una casa con arcata e scalinata che porta sull’acqua. La “new entry” è Ferdinando Fino, citato all’inizio, con tre immagini del 1910 delle “Valli di Lanzo”: “Villaggio” e “Ragazza” dominate dai monti, “Madre e figli” immersa nel verde.  Ancora più indietro, del 1900, tre splendide immagini. “Lavandaie”, “Donna con l’acqua” e “Mulino ad acqua”. Corale la prima, bel ritratto di contadina col “bilanciere” la seconda.

L’acqua evocaVenezia, di autori anonimi la “Basilica di San Marco” imbandierata e “Piazza San Marco” brulicante di gente e con una “Parata militare”,  un “Canale” e  il “Mercato”, un “Vecchio cortile veneziano”, e una “Processione sul Canal Grande” su un ponte ripresa dalle barche. Abbiamo ritrovato Hildenbrabd con la foto da fine anno scolastico “Vacanze al Lido¸” e DeCou in  “Canal Grande” con  le case  e il ponte, le gondole e la gente.

C’erano anche immagini di Vicenza e Trieste, ma quelle che ci sembra meritino di essere poste a conclusione della rassegna erano riprese a New York, riassumono l’epopea della nostra emigrazione: “Mulberry Street”,  la Little Italy affollata e pittoresca e “Donna italiana lungo Bleeker Street” con l’immenso scatolone sulla testa esprimeva la durezza del lavoro,  “Italiani intorno a una banca” come simbolo di integrazione, e “Bambini italiani di fronte alla loro scuola”  simbolo di un futuro ricco di soddisfazioni per le posizioni raggiunte  nella società americana.

La mostra, lo abbiamo già detto, era nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, e allora come non ricordare le due immagini della Grande guerra citate all’inizio e quelle di Luigi Pelleranosulla “Tripoli” del 1910, non ancora “bel suol d’amore”?  E come non porre il sigillo finale con le immagini del 1900 del “Monumento a Garibaldi” sul Gianicolo e soprattutto con l’eroe dei due mondi artefice dell’unità  in una “carte de visite colorata a mano”? E’ “Giuseppe Garibaldi” ripreso a Napoli proprio nel 1861.

Che dire dopo questa carrellata dove la storia si mescola alla cronaca resa viva dai rutilanti colori? E stato un “viaggio in Italia”; ripensiamo a quello di Goethe e di tanti famosi viaggiatori, ci immedesimiamo in ciò che videro, in un mondo statico fedelmente rappresentato dalle immagini. Immedesimarsi vuol dire emozionarsi,  ripercorrere con la memoria le salette espositive per  fare dei raffronti, immergersi di nuovo in quel mondo sparito che ci ha conquistato.

E meditare sul suo significato più profondo, al di là della  resa spettacolare ed emotiva, pur importante, ripensando alle  parole di Zingaretti, che ci sembrano riassumerne il valore e la portata e hanno lanciato un messaggio: “Una mostra  rivolta a tutti i cittadini, dai più giovani ai più anziani; perché la memoria delle grandi conquiste economiche, sociali, politiche ottenute nel corso dei decenni passati possa fondersi con la ricerca delle soluzioni ai problemi di oggi e di domani”. Per questo abbiamo voluto ricordarla nei suoi particolari dopo un anno  e mezzo dal suo svolgimento.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Incontro alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori , con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura “Roma”, seguono “Firenze”, “Napoli” e “kilano”, in chiusura “Venezia”.

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Viaggio in Italia, 150 anni di fascino e di emozioni, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, oltre alla storia patria e ai diversi campi in cui si è realizzata l’unità nella diversità regionale, si è dedicata doverosa attenzione anche a ciò che ha reso  “il Viaggio in Italia: 150 anni di emozioni” indimenticabile per i tanti che nei secoli sono stati attratti a visitare il nostro paese, e ne hanno avuto un’impronta indelebile. Rievochiamo il convegno così intitolato, promosso dal Ministero del Turismo il 16 giugno 2011 con l’intervento dell’allora ministroMichela Vittoria Brambilla: ne hanno parlato Giordano Bruno Guerri e Maria Teresa Benedetti, Filippo Maria Battaglia ed Heinz Beck, Mario Morcellini con  Bruno Vespa che ha moderato l’incontro al Vittoriano, curato da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia. Sono trascorsi oltre due anni, mutati molti personaggi, ma le prospettive evocate restano valide e attuali.

Un’eccellenza-simbolo: Il Vittoriale

Giordano Bruno Guerri ha parlato del “Vittoriale” di Gardone Riviera, una perla del Bel paese che conosce molto bene per essere il presidente della Fondazione  cui è affidata l’inimitabile residenza di Gabriele d’Annunzio, che il vate lasciò agli italiani a testimonianza di un pezzo di storia patria, tante sono le memorie lì racchiuse con le realizzazioni della sua inesauribile fantasia.

Più che descriverla, ha documentato l’attrattiva che permane ad oltre settant’anni dalla scomparsa del Poeta ricordando che nell’ultimo biennio, era il 2009-11,  il trend dei visitatori, in prolungata flessione negli otto anni precedenti, è tornato a crescere anche per effetto delle iniziative di rilancio.

E’ stato sistemato il Parco, anche con nuovi alberi simbolici, sono stati aperti due nuovi Musei: un Museo degli artisti contemporanei che hanno offerto gratuitamente le loro  opere per l’esposizione in omaggio al Poeta; un altro museo  che espone quanto faceva parte della vita quotidiana del Poeta contenuto nei cassetti e negli armadi, dagli oggetti di uso comune agli articoli di abbigliamento anche i più stravaganti, “D’annunzio segreto”, insomma, così si intitola il museo, che risponde alla sua volontà di lasciare agli italiani l’ abitazione, con il relativo contenuto, per accostarli a quella che era la sua vita di tutti i giorni. Guerri ha annunciato anche l’apertura di un terzo museo, poi avvenuta, su“D’Annunzio eroe”, con i retaggi della guerra, dalle spade e i pugnali ai manoscritti, che facevano parte dei doni scambiati con i personaggi  raccolti da un diplomatico collezionista.

Poi il rilancio della stagione teatrale nell’anfiteatro all’aperto tra il verde del Parco e la vista incomparabile del Lago di Garda, sotto il titolo accattivante “Tener a mente”, con una propaggine dalla stessa denominazione a Pescara. Non si è fermato alla  città natale del Poeta il coinvolgimento, si è esteso a molte altre città attraverso i “Gemellaggi dannunziani”, fino all’idea di allargarlo alle nazioni rivierasche con il “Festival dei due mari” nelle due sponde dell’Adriatico.  Ha concluso con il motto dannunziano “Io ho quel che ho donato”, l’omaggio al Poeta è un amore ricambiato.

Il viaggio in Italia secondo la storica dell’arte, il giornalista, lo chef

Dopo questa visione particolare di un’eccellenza nazionale altamente simbolica, si è passati a una visione più generale, cominciando con la storica dell’arte Maria Teresa Benedetti che dopo D’Annunzio ha ricordato Goethe, il cui primo viaggio in Italia avvenne a 25 anni, per fare poi un excursus sugli altri viaggiatori calamitati dal fascino dei luoghi e dal richiamo del nostro patrimonio artistico. Oltre ai grandi personaggi ha citato  gli studenti dell’Accademia di Vienna, a riprova che il viaggio nel Bel paese era un fatto culturale e formativo, non solo un piacevole diversivo per le élite.

La visione generale ha riguardato anche il giudizio complessivo, con il quale il giornalista Filippo Maria Battaglia ha delineato i volti contrastanti dell’Italia dati dalle contraddizioni con le quali convive la sua straordinaria caratteristica di museo a cielo aperto. Contraddizioni che non passano soltanto per la dicotomia tra Nord e Sud, ma attengono a tanti aspetti della società e del carattere degli italiani: da un sondaggio è emerso che solo due su tre hanno il senso di appartenenza alla nazione, ma un sondaggio successivo ha elevato al 90% la percentuale di coloro che danno un valore positivo all’unità del paese.  

Ne hanno scritto Montanelli e Flaiano, Croce e Manganelli, è stato detto che “amare l’Italia è saperne dire male”. Le immagini ugualmente positive del lato artistico e monumentale  e di quello tradizionale e quotidiano che ancora resiste, come le vecchie osterie, hanno concluso l’amabile conversazione del giornalista che ha detto come entrambi questi motivi apparentemente contraddittori abbiano costituito anch’essi l’attrattiva costante del viaggio in Italia, sentito sempre come un “percorso del cuore”.

Ed è stato uno straniero come Heinz Beck, chef di un rinomato ristorante romano, a dare la misura di un affetto che nasce dall’ammirazione per le eccellenze del nostro paese. Ha detto che il viaggio in Italia rimette in discussione ognuno al cospetto dell’immenso patrimonio artistico e culturale che ha valore universale e tutto il mondo ci invidia; dobbiamo rilanciarlo e non banalizzarlo. Poi è passato a parlare della cucina italiana, anche questa lo ha catturato, il suo pregio è di non essere elaborata come quella francese, ma semplice e genuina, “c’è da togliere, non da aggiungere”; e oltre a pasta e pizza c’è molto di più, la varietà è la sua caratteristica, come lo è quella della “mia cucina italiana”. Per concludere con un atto d’amore: “L’Italia è il paese più importante del mondo. Non si può scegliere dove nascere ma si può scegliere dove vivere. Io ho scelto l’Italia”.

La visione dell’accademico

Mario Morcellini, preside alla Sapienza di Roma della facoltà di Scienza della Comunicazione, ha portato il pensiero accademico. Ha iniziato inquadrando il viaggio in Italia nei tempi moderni, ora non è più un fatto di élite come in passato, ma ha una vasta estensione sociale, come è avvenuto in settori quali la musica e le visite archeologiche, il teatro e in genere gli spettacoli dal vivo. Quindi ha spiegato che il turismo è il mezzo utilizzato da chi considera la cultura un modo di aspirare alla modernità, in particolare dai giovani, e non è stato investito dalla crisi economica; le sue forme sono articolate, dai pacchetti collettivi alle forme individuali del tipo “clerici vagantes”.

Ha poi approfondito l’analisi, osservando che troppo a lungo c’è stato un complesso di inferiorità rispetto alla bellezza, come se non si fosse all’altezza delle meraviglie dell’arte. “Viaggio è una delle parole più nobili, va letta in senso interiore, come scoperta di sé mentre si aprono gli occhi su ciò che si è trovato”. Significa non stare fermi ma muoversi, non restare seduti ma alzarsi, andare verso il nuovo e diverso: “Andare o non andare distingue le persone perché significa lasciare le certezze e mettersi in discussione”. La celebrazione del 150° ha portato alla ribalta il bene primario dell’unità d’Italia, e va ricordato che l’identità culturale ha preceduto l’unità politica, e “la bellezza che si ammira nel viaggio in Italia è il bene culturale per eccellenza”.

Il viaggio in Italia secondo l’allora ministro del Turismo

Un’associazione di idee dissacrante ci assale al nome dell’allora ministro, la nostra generazione ricorda “la famiglia Brambilla in vacanza”, “nomen omen” per la titolare del dicastero del Turismo, Michela Vittoria Brambilla. Ma non si è presentata su “una vecchia Torpedo”, ha definito il viaggio in Italia “una tappa fondamentale, un’emozione imprescindibile nella vita di poeti, artisti, scrittori, filosofi e scienziati”. Per questo nei secoli “è stato raccontato e vissuto come una categoria dello spirito, un’aspirazione insopprimibile, il capitolo centrale del proprio romanzo di formazione cui non ci si può sottrarre”. Un excursus storico porta ai mercanti del Medioevo, ai pellegrinaggi dei Religiosi e a quelli laici degli Umanisti, intellettuali degli Illuministi, sentimentali dei Romantici.

Ha avuto, dunque, un’uguale attrattiva su persone delle nazioni più diverse e con motivazioni  diverse, “dal carattere pratico o contemplativo”, con identità diverse, “statisti o poeti, scienziati o filosofi,atleti o pittori, attori o musicisti”.  Ed è evidente il perché: “E’ un’emozione continua la scoperta, ovunque si vada, dei gioielli d’arte, perle di paesaggi dai mari ai monti ai laghi, un’emozione continua la scoperta di musei, chiese, palazzi storici, reperti archeologici, un’emozione continua la scoperta della nostra cucina, dei nostri sapori e profumi”.

Ma alla base dell’attrattiva anche un motivo più profondo: “Ognuno di loro ha trovato in Italia, con estrema naturalezza, le risposte alle domande che lo inseguivano, e quella serenità necessaria per poter affrontare a testa alta le sfide dell’esistenza”.

Di qui l’augurio ai visitatori del nostro paese, per il periodo di celebrazioni dell’Unità d’Italia, ma valido per sempre: “Che ogni ospite possa trarre dal viaggio in Italia le esperienze piacevoli, le forti ispirazioni e le suggestioni indimenticabili che, talvolta inconsapevolmente, andava cercando”. Perché resta immutato il fascino dell’Italia con le sue eccellenze e le emozioni che suscita “l’unicità di una terra e di un popolo straordinari, sempre capaci di sorprendere e di farsi amare”.

L’Italia nelle parole dei personaggi di ieri e di oggi

Potrebbe sembrare un’enfasi nazionalistica ad usum delphini dai toni eccessivi e scontata? Non è così, le espressioni dei grandi visitatori del passato e del presente sono ancora più calde, come nelle dichiarazioni d’amore.  La Brambilla ne ha proposto un florilegio dal quale riportiamo le parole di cinque grandi personaggi tra l’ottocento e il novecento, tre pittori e due scrittori cui ne aggiungiamo uno che sarebbe ingiusto ignorare; e di cinque protagonisti diversissimi del nostro tempo.

“Il problema con l’Italia è che è troppo bella…  perché preoccuparsi di dipingere quando si ricava un tale piacere semplicemente guardandosi intorno ?” dichiarava Pierre-Auguste Renoir. “Tutto è colore cangiante e fiammeggiante, è ammirevole…e io sono incantato del paese”, aggiungeva Claude Monet. Il cerchio dei tre pittori si chiude con Paul Klee: “Mi sto innamorando di tutti in questo paese”.

Altrettanto fervidi gli scrittori:  Oscar Wilde: “L’anima mia ardeva, Italia, mia Italia, al tuo nome: e quando uscii… e vidi la terra agognata della mia vita, risi come chi ha conquistato un gran trofeo”; e  Sigmund Freud:  “Un tale splendore di colori, profumi, vedute e benessere non li ho mai avuti tutti in una volta”.

Dei contemporanei Abebe Bikila, il maratoneta etiope, ha detto: “Non ho mai visto niente di più meraviglioso e sono contento di averlo visto durante la notte più bella della mia vita”, dopo aver superato vittorioso a piedi scalzi il traguardo all’Arco di Costantino nella maratona delle Olimpiadi di Roma del 1960. E un’icona della musica, Sting: “Qualcosa mi ha attirato qui… a questa terra di colline, alla sua trascendente bellezza. Ho tratto da questo posto ispirazione per la mia musica”.  Un altro americano, il divo del cinema George Clooney,si è espresso così: “E’ il posto più bello che abbia mai visto. Dopo una settimana di villeggiatura non riesci a immaginare di vivere altrove. Gli italiani mi hanno insegnato a celebrare la vita!”. E Isabella Rossellini, diva internazionale e figlia d’arte: “Io sono felice di essere italiana… perché da italiana… io vivo per il piacere di vivere: di viaggiare, di conoscere, o anche solo di godere una giornata di sole”.

La visione diviene storica agli occhi dello statista, del livello di John Fitzerald Kennendy: “Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana. E’ un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo”.

Un’immagine che non identifica l'”espressione geografica” dell’antica irridente definizione, ma una terra di cui è giusto ricordare le nobili origini e l’impronta lasciata nella storia, oltre a sottolinearne la persistente bellezza. Che fu tanto ammirata da Gogol che abbiamo ricordato nel 2009 per le manifestazioni del suo bicentenario –  e per questo motivo lo aggiungiamo al florilegio di personaggi meritoriamente offerto dal ministro: “Che terra, L’Italia! … Oh, se solo poteste guardare questo cielo accecante, tutto soffuso di splendore! Ogni cosa è splendida, sotto questo cielo”.  E ancora: “O Roma, Roma! O, Italia! Quale mano mi può strappare da qui? Che cielo! Che giornate!”. Riferendosi alla capitale: “Di Roma ti innamori molto lentamente, poco a poco, ma per tutta la vita”. Infatti vi soggiornò più volte, e a lungo, tra il 1837 e il 1847, alla città dedicò il racconto “Roma”, vi scrisse parte di un suo capolavoro, “Le anime morte”. E prima di morire, cinque anni dopo l’ultimo viaggio in Italia a Roma, ebbe a dire che “è sotto un’aria e un cielo benedetti”. Una benedizione laica che si aggiunge a quelle “urbi et orbi” della sede pontificia.

Il viaggio in Italia, nella  “trascendente bellezza”  di Sting che fa sentire “il piacere di vivere” della Rossellini , è un viaggio nell’anima che “ardeva” in Wilde al sentirne il nome. E bene si è fatto a evocarlo nella celebrazione del 150° dell’Unità,  che abbiamo voluto concludere con il nostro ricordo del grande scrittore russo: “Quello che rende unico e incomparabile Gogol – ha detto Claudio Strinati nel bicentenario – è il suo essere nello stesso tempo profondamente russo e intimamente  italiano”. Quanto questo sia possibile lo abbiamo sentito dalla dichiarazione d’amore per l’Italia di Heinz Beck: si resta legati alla terra dove non si è scelto di nascere, ma si ama perdutamente la terra dove si è scelto di vivere, in questo caso la nostra bella Italia.

Abbiamo voluto riproporre questo amore per il nostro paese nel tempo d’estate in cui viaggi e turismo si intensificano. Il “viaggio in Italia” resta pur sempre un’esperienza indimenticabile, lo testimoniano i giudizi ammirati di tanti personaggi.

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Un’immagine del Convegno ripresa da Romano Maria Levante al Vittoriano, parla il ministro Michela Vittoria Brambilla, a dx.

Archeologia, capolavori recuperati, a Castel Sant’Angelo

di Romano Maria Levante

L’annuale mostra a Castel Sant’Angelo delle opere d’arte recuperate dalle Forze dell’ordine quest’anno si  svolge dal 21 maggio al 5 novembre 2013, è la 32^ del Centro Europeo per il Turismo e celebra i 20 anni di collaborazione con le Forze dell’ordine nel presentare i risultati dell’azione di tutela. E’ dedicata ai “Capolavori dell’archeologia. Recuperi, ritrovamenti, confronti”,  e curata da Mario Lolli Ghetti e Maria Grazia Bernardini, che dirige il Museo di Castel Sant’Angelo. Il Catalogo di Gangemi Editore è monumentale, il Comitato scientifico imponente, presidente Eugenio La Rocca, 60 illustri componenti. I reperti sono inseriti con mano leggera nelle antiche sale della parte alta del castello, dalle aperture lungo tutto il perimetro della  galleria superiore un vero  belvedere, il panorama mozzafiato di Roma storica con il Tevere, i monumenti e i ruderi. L’arte antica incastonata tra storia e natura, un autentico spettacolo!

Molte delle opere esposte sono state recuperate in Italia dopo essere state scavate clandestinamente e trafugate, e all’estero dove le avevano esportate illegalmente: dalla mostra si diffonde un monito ai predatori, un allarme e un messaggio ai visitatori sui rischi di depauperamento del patrimonio storico- culturale se non si protegge in modo adeguato dal saccheggio e dall’appropriazione.

In aggiunta a  questa testimonianza di alto valore civile, una di tipo culturale: una intensa attività di ricerca condotta con  criteri scientifici è alla base dei ritrovamenti di reperti archeologici a rischio, come bronzi e ceramiche, marmi e affreschi, oreficerie e argenti.

Inoltre le vicende, spesso complesse,  che hanno portato sulla pista giusta suscitano anch’esse vivo interesse dal punto di vista investigativo e giornalistico, alcune sembrano delle “spy story”.  Sono storie spesso narrate dai protagonisti  nella sede del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, l’agguerrito nucleo specializzato cui vanno riferiti tutti i recuperi che indichiamo per brevità solo con Carabinieri. Con i ritrovamenti a fronte di azioni illecite i cui responsabili vengono assicurati alla giustizia, ci sono quelli fortunosi, diremmo  fortunati.

Non basta, sebbene sia già molto, insieme ai reperti recuperati ne sono esposti altri  assimilabili per  tecnica, materiali e data, dei quali si conosce il sito di provenienza, in modo da poter fare confronti tematici: vediamo corredi funerari integri che dimostrano visivamente come sia importante l’integrità del complesso archeologico, e quindi  il danno insanabile arrecato dallo scavo clandestino e dal trafugamento con l’irrimediabile dispersione dei reperti in tanti direzioni.

“Proprio nella volontà di contestualizzare i pezzi e ricostruire un tessuto storico che illustri al meglio l’importanza e l’obbligatorietà del recupero, risiede la principale novità di questa mostra”, così nella presentazione ufficiale ne vengono riassunte motivazioni e peculiarità.

Nulla di pedante e didascalico, le 9 sezioni tematiche sono introdotte da un reperto che ne rappresenta il “campione” più  rappresentativo, detto  “monumento”:  simbolo dell’attività illustrata nella sezione e documentata con prove concrete, una serie di reperti recuperati o rinvenuti con riferimenti visivi ai luoghi in cui sono conservati, spesso musei archeologici locali  poco conosciuti.

Le prime tre sezioni:   kouroi, crateri e acroliti

Visitiamo, dunque, le sale di Castel Sant’Angelo intitolate a Clemente VII e Clemente VIII, ad Apollo e alla Giustizia, presi dal fascino dell’antico che promana non solo dai reperti ma anche dalla sede espositiva, con i suoi anditi e i suoi corridoi, i pavimenti in cotto e i soffitti istoriati.

La 1^ sezione, sui “Simboli dell’aristocrazia”, presenta statue di soggetti maschili e femminili in epoca arcaica, “i kouroi e korai””  con il loro “campione”: il  Kouros in marmo della fine del VI sec. a. C., parzialmente dipinto,  ritrovato dalla Guardia di Finanza, ora al Museo archeologico di Reggio Calabria. E’ un originale greco proveniente da Paros, privo di braccia e di parte delle gambe ma sostanzialmente integro, con l’acconciatura alla sommità del capo particolarmente elaborata. Tra gli altri è esposto il Kouros detto Apollino Milani con una particolarità: nel Museo archeologico di Firenze da dove proviene, è acefalo, un torso perfetto che è stato accostato alla statua di Teseo dell’Acropoli, qui ha una testa molto delicata, la c. d. testa Bellini, su concessione dei proprietari.

Dalle statue ai crateri nella 2^ sezione “Euphronios ed Euthymides e l’invenzione delle figure rosse”, esposizione monografica di vasi in ceramica attica spettacolari per fattura, cromatismo  e forza narrativa: spiccano, il Cratere a calice attico con il trasporto del corpo di Sarpedonte  e la Kylix attica con Ilioupersis,  entrambi del VI sec. a. C. provenienti dal Museo etrusco di Villa Giulia, la cui storia è eloquente: l’Arma dei Carabinieri  li ha identificati nientemeno che nei prestigiosi Metropolitan Museum di New York e Getty Museum di Malibu e si è riusciti ad ottenere la restituzione.  Soprattutto il primo, delle dimensioni di 50 cm di altezza e diametro, lascia senza fiato per la raffigurazione, tratta dall’Iliade, con le personificazioni allegoriche di Sonno e Morte. L’Ilioupersis nel secondo riporta alla caduta di Troia con l’uccisione di Priamo e del piccolo Astianatte, ci sono anche Patroclo  e Agamennone, Elena e Menelao, Aiace e Cassandra, il duello tra Ettore e Aiace davanti ad Apollo ed Atena. Un’immersione nei ricordi scolastici che emoziona.  

Dei celebri autori Euphronio ed Euthymide vengono esposti altri vasi che si alternano ai primi nel periodo della mostra in una originale staffetta. In particolare alla Kylix attica viene affiancata l’Hydria attica c. d. Vivenzio, del Museo nazionale archeologico di Napoli, per un interessante confronto sul ciclo troiano, dato che anche in questa sono raffigurate le stesse scene sopra rievocate.

Con la 3^ sezione “Acroliti. Statue oltre misura”  facciamo la conoscenza della Testa di Kore, del VI sec. a. C., dal Museo archeologico regionale di Aidone, in provincia di Enna, un esempio dei reperti di straordinario valore custoditi da piccoli musei periferici; questo si trova in Sicilia, proviene  dal sito di Morgantina insieme ad altri “acroliti”, restituiti come alcuni reperti prima citati, dagli Stati Uniti dopo l’intervento dei Carabinieri  e  del Ministero Beni Culturali.  Viene presentato come termine di confronto la testa, piedi e mano sinistra della statua acrolitica  che raffigura l’Apollo Aleo, del Museo archeologico di Reggio Calabria, con due  Teste di marmo, una maschile, l’altra femminile, del Museo archeologico nazionale di Paestum. Inoltre si illustra la composizione di questo tipo di statua che veniva esposto nel tempio:  gli acroliti erano le estremità pregiate di marmo, come quelle appena citate, di statue composte da un corpo con l’impalcatura in legno coperta di vesti di vario materiale,  bronzo dorato o tessuti preziosi, gli occhi in vetro o pietre pregiate. Non è esposta la grande Statua di Venere, ma  c’è  parte del Tesoro di argenti, recuperato dopo essere stato trafugato dai tombaroli: coppe e recipienti per simposi e cerimonie religiose. La statua è stata restituita dal Getty Museum, gli argenti dal Metropolitan Museum di New York. 

Altre tre sezioni: teste di intellettuali,  colori del marmo,  pittori di vasi

Il viaggio all’interno del mondo greco  diviene sempre più appassionante, dopo i giovani è la volta dei “Filosofi e cittadini”, con evidenziati i rapporti tra “il pensiero e l’azione”.  I campioni che introducono la 4^ sezione sono Testa di filosofo da Porticello, del 460-440 a. C., e Testa virile barbata c. d. “di Basilea”, del V-IV sec. a. C., sculture provenienti dai musei archeologici di Reggio Calabria e Paestum. Il nome della prima deriva dall’espressione pensosa, la seconda per la sua autorevolezza viene riferita o a un personaggio regale oppure a Zeus Eleutherios, con loro il Ritratto di filosofo, del Museo archeologico di Firenze, sguardo assorto, espressione corrucciata. La rassegna è completata dalle Erme con ritratti di intellettuali e filosofi greci, provenienti dai Musei capitolini e dal Museo Barracco sempre di Roma: Omero e Pindaro, Sofocle e Anacreonte.

Finora abbiamo incontrato gli effetti cromatici nelle “figure rosse” dei grandi vasi in ceramica attica, quelli di Euphronio in testa a tutti; nella sezione “I colori del marmo” li troviamo nei vasi marmorei con dipinti motivi floreali. Il  Cratere a calice su sostegno in  marmo della II metà del IV sec. a. C., dal Museo comunale di Ascoli Satriano (Foggia), dove si intravede l’impronta di una corona aurea di foglie dipinta, è il “campione” di un gruppo di reperti di grande valore provenienti dalla stessa località  e forse da un unico sito, una tomba aristocratica daunia, recuperati dai Carabinieri. Insieme è esposta una Corona aurea  del II sec. a. C., dal Museo archeologico di Taranto, è di tipo funerario a foglie di quercia.  Il cromatismo marmoreo è rappresentato soprattutto  dai due Crateri apuli a volute da Canosa in Puglia, recuperati dai Carabinieri, figure delicate di cavalli e una testa femminile in un rosa sfumato; e  da una Testa di Amazzone,  dai capelli a ciocche con chignon,  provenienza  Ercolano, ritenuta copia romana di una famosa scultura del grande Fidia.

Si torna alle ceramiche con la 6^  sezione, “Ceramografi in Magna Grecia: il pittore di Amykos e il pittore di Dario”, titolo enigmatico  che indica l’opera pittorica dei due artisti sui vasi  e crateri. I rispettivi “campioni” sono due Nestorides di Amikos, dal Museo archeologico “Dino Adamesteanu” di Potenza, di grande valore, con scene figurate nella parte superiore e motivi geometrici in quella inferiore; e due grandi Crateri a mascheroni apuli a figure rosse, del Pittore di Dario e Pittore di Baltimora”, del 330 a.C. dal Museo archeologico di Taranto Marta, alti oltre 1 metro,  composizioni figurative di grande pregio con figure nette e nitide, soprattutto cavalli e divinità; sono stati recuperati il primo dalla Guardia di Finanza, il secondo dai Carabinieri.  Insieme a questi vasi monumentali sono esposti altri esemplari di Anfore apule a figure rosse,  pari nella grandezza delle dimensioni e dei pregi stilistici di  nitidezza e ricchezza figurativa, del Museo archeologico di Napoli, provengono  dalla tomba dove è stato trovato il vaso del Pittore di Dario. Fino all’Hydria apula a figure rosse, con una composizione marina dal taglio che sembra moderno.’

Le ultime tre sezioni: decorazione parietale, statue e sarcofaghi

Finora la mostra ha presentato statue e vasi, che abbellivano gli ambienti pubblici e privati di grande prestigio. Di questi luoghi, per stimolare la fantasia di chi vuole ricostruirne la vita quotidiana, nella 7^ sezione sono esposti  piccoli quadretti di Pompei, dal Museo archeologico di Napoli, per evocare  “La grande decorazione parietale” : due “Pinakes della casa dei Casti Amanti” e Vignetta con Erote, Architetture fantastiche con natura morta e  Scene di un banchetto,fino al Pastiche di frammenti,  tutti del 45-79 d. C.. Viene narrata la storia istruttiva di questi quadretti: incorniciano pezzi di affresco staccati dalle pitture parietali pompeiane,  venivano appesi alle pareti in una galleria di antica pittura romana di cui solo il sovrano borbonico, in virtù del suo potere, poteva disporre. Sono stati  recuperati dai Carabinieri  dopo essere stati rubati, tre Frammenti di decorazione parietale individuati nel Paul Getty Museum e restituiti: lo stile pompeiano spicca dal rosso della finestra da cui  si vede uno sfondo verde di edifici nel primo, dal rosso dell’arco in cui si affaccia la maschera di Ercole nel secondo, dal rosso del soffitto su una maschera teatrale nel terzo. Dimostrano il grande valore dell’unitarietà dei complessi archeologici e del danno arrecato enucleandone delle parti con azioni delinquenziali a fini speculativi di rapina.

L’ 8^ e penultima sezione ci riporta la scultura, il titolo è tutto un programma: “Sculture e scultori fra Greci e  Romani”.  Nella sfera pubblica troviamo la scultura civica e sacra, quella privata è più numerosa, venendo dalle ville situate in vaste aree di Roma e dintorni, dagli imperatori alla cerchia imperiale ai patrizi, all’insegna dell'”otium”, che includeva il lato artistico e culturale della vita. I “campioni” sono la Statua di Eirene dell’età proto augustea, I sec. a. C., che celebrava la pace,  e la Statua c. d. di Vibia Sabinia, II sec. d. C., entrambe monumentali, alte più di 2 metri. La  prima, proveniente dal Museo civico di Palombara Sabina,  recuperata dopo un furto, è intatta nel viso e nel panneggio, conserva parte delle braccia che tenevano la cornucopia e un piccolo Pluto, che manca; la seconda, dall’Antiquarium del Canopo di Villa Adriana a Tivoli, raffigura l’imperatrice moglie di Adriano, in piedi, a grandezza naturale, impressionante per la forza espressiva. Sono esposte gigantografie di due statue non  presenti per motivi conservativi, ma si sono  volute ricordare per la loro importanza: Statua maschile barbata, forse Efeso,  a torso nudo, del I sec. d. C., e Statua maschile su trono, che sembrerebbe rappresentare Caligola dal ritrovamento nei pressi del lago di Nemi e dai calzari, altro prezioso reperto portato alla luce da uno scavo clandestino e recuperato di recente dalla Guardia di Finanza.

 “Vincere la palma: corse e aurighe nella Roma imperiale” è la 9^ sezione, quella  conclusiva. Attraverso queste raffigurazioni viene fatto un excursus nell’arte funeraria, che riflette la concezione  basata sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, per cui la serenità nell’al di là derivava da una vita virtuosa. Nell’età arcaica il rito funerario era l’inumazione, la cremazione verrà successivamente: nelle classi povere c’era la mera deposizione in una fossa scavata nella terra, poi con l’elevarsi del ceto  i cassoni in tegole o lastre di pietra, quindi casse litiache in pietra povera fino ai sarcofaghi in marmo, porfido e granito, nelle classi più elevate  sui sarcofaghi vi erano sculture con scene di vita quotidiana del defunto che presero il posto delle  scene mitologiche iniziali. Ammiriamo il Sarcofago delle quadrighe, del Museo comunale di Aquino, con scolpite scene di corsa alla Ben Hur, in una spettacolare rappresentazione dei cavalli al galoppo in gruppi di quattro e l’auriga sul cocchio, c’è anche un caduto sotto gli zoccoli,  vediamo la scena pure in un frammento di intonaco dipinto; e il Sarcofago delle Muse, intorno al II sec. d. C.,  dal Museo degli scavi di Ostia, le nove Muse sono allineate con i loro simboli, in presenza di Athena ed Apollo, sul coperchio scene di filosofi. Entrambi sono stati recuperati dalla Guardia di Finanza dopo essere stati rubati. Per mostrare i danni degli scavi clandestini che persistono anche dopo il recupero, è esposto il Sarcofago della fanciulla di Grottarossa, II sec. d. C., con scene di caccia di Enea e Didone dall’Eneide di Virgilio:  conteneva la mummia della fanciulla con il corredo funerario, fu trovato clandestinamente ancora sigillato e aperto in laboratorio con grave perdita di elementi  preziosi, fu rinvenuta anche una bambolina con le articolazioni. Nel vederlo ripensiamo alla dolcissima Crepereia, la mummia, il sarcofago e il  corredo,  e la bambolina che intenerì le file di visitatori della prima mostra romana a lei dedicata parecchi anni fa, il ricordo è ancora vivo.

Dopo la visita alla mostra sentimenti e riflessioni

Cosa suscita questo volo in un tempo così lontano sulle ali dell’arte in un’epoca, da cui discende la nostra civiltà,  sempre prodiga di insegnamenti quando l’archeologia ne fa conoscere nuovi risvolti? Innanzitutto l’ammirazione per l’arte e la cultura del mondo  antico, poi il brivido che viene dinanzi allo scempio degli scavi clandestini e dei furti di antichi reperti; e insieme la riconoscenza per la dedizione e i successi delle Forze dell’ordine, in particolare Carabinieri e Guardia di Finanza, nell’azione volta a recuperare quella parte del patrimonio culturale illegalmente sottratta.

Ma c’è una riflessione conclusiva nel vedere come i preziosi reperti che la mostra ha il merito di far conoscere al grande pubblico di visitatori di  Castel Sant’Angelo  provengano da una serie di Musei archeologici situati anche in piccole località sul  territorio nazionale. C’è l’aspetto positivo della diffusione capillare della cultura e della storia millenaria dove si trovano le nostre radici; e anche l’aspetto problematico sulla gestione di un sistema nato nel passato e che va ammodernato in modo che sia assicurata la più ampia visibilità ai reperti  e non si tratti di una sterile custodia. Molte idee sono state avanzate, tra cui il “museo diffuso”, per collegare in un circuito coordinato singole realtà altrimenti marginali od emarginate, vanno valutate attentamente per iniziative concrete soprattutto in una fase di difficoltà economica che mette a rischio anche le realtà più solide e consolidate.

Nei momenti di crisi occorre porre le basi per il rilancio, e la mostra di Castel Sant’Angelo è l’espressione visiva di tante potenzialità da valorizzare.  E’ anche questo il suo messaggio, che si aggiunge all’allarme sui rischi che incombono sul patrimonio culturale per le azioni malavitose e sull’esigenza di potenziare le difese affidate alle Forze dell’ordine  la cui azione coronata da successo va sostenuta con mezzi adeguati. Si tratta di un investimento, non di una spesa, chiunque visita la mostra ne ricava un’impressione che difficilmente potrà dimenticare. A parte il fascino straordinario di Castel Sant’Angelo nel quale la mostra è incastonata come una pietra preziosa.

Info

Castel Sant’Angelo, Lungotevere Castello 50. Tel 06.6819111. Da martedì a domenica ore 9,00-19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso a Castel Sant’Angelo: intero euro 10,50, ridotto euro 7,50 (tra 18 e 25 anni, insegnanti Ue scuole statali); gratuito minori di 18 anni e maggiori di 65 anni, oltre ad una serie di categorie.  Catalogo: “Capolavori dell’Archeologia. Recuperi, Ritrovamenti, Confronti”,  Gangemi Editore, maggio 2013, pp.368, formato 21×30. Cfr. il nostro servizio su questa mostra in “notizie.antika.it” il 21 luglio 2013 e quelli sulle precedenti mostre del Centro Europeo per il Turismo: in questo sito “Papi della memoria”, il 15 ottobre 2012; sui recuperi delle forze dell’ordine in “cultura.abruzzo world.com”, “I tesori invisibili” 10 luglio 2009, in questo sito “Arte salvata nel 150°” 1° giugno 2013. Per i recuperi dei Carabinieri cfr. i nostri servizi in “notizie.antika.it”: il 12, 15 febbraio e 9 maggio 2010, il 12, 21 gennaio e 12 giugno 2012, e il 30 giugno 2013 sul recupero di “urne etrusche”; e in questo sito, stesso tema “urne etrusche” il 21 luglio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia il Centro Europeo per il Turismo e la direzione del Museo di Castel Sant’Angelo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura “Kouros”, 500-490 a: C.; seguono  vetrina con “Hydrie” attiche a figure rosse, 500 a. C. e “Erma iscritta di Anacreonte” (a sin.) – “Testa di Sofocle, tipo ‘Farnese'” (a dx)  da originali greci del IV-V sec. a C., poi “Frammento di affresco con figura di Dioniso”, 61-79 d. C., e  “Statua c. d. di Vibia Sabina”, II sec. d. C.; in chiusura “Il sarcofago delle quadrighe”, II-III sec. d. C., sopra “Corsa di quadrighe”, frammento di intonaco, 62-79 d. C.