Viaggio in Italia, 150 anni di fascino e di emozioni, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia, oltre alla storia patria e ai diversi campi in cui si è realizzata l’unità nella diversità regionale, si è dedicata doverosa attenzione anche a ciò che ha reso  “il Viaggio in Italia: 150 anni di emozioni” indimenticabile per i tanti che nei secoli sono stati attratti a visitare il nostro paese, e ne hanno avuto un’impronta indelebile. Rievochiamo il convegno così intitolato, promosso dal Ministero del Turismo il 16 giugno 2011 con l’intervento dell’allora ministroMichela Vittoria Brambilla: ne hanno parlato Giordano Bruno Guerri e Maria Teresa Benedetti, Filippo Maria Battaglia ed Heinz Beck, Mario Morcellini con  Bruno Vespa che ha moderato l’incontro al Vittoriano, curato da Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia. Sono trascorsi oltre due anni, mutati molti personaggi, ma le prospettive evocate restano valide e attuali.

Un’eccellenza-simbolo: Il Vittoriale

Giordano Bruno Guerri ha parlato del “Vittoriale” di Gardone Riviera, una perla del Bel paese che conosce molto bene per essere il presidente della Fondazione  cui è affidata l’inimitabile residenza di Gabriele d’Annunzio, che il vate lasciò agli italiani a testimonianza di un pezzo di storia patria, tante sono le memorie lì racchiuse con le realizzazioni della sua inesauribile fantasia.

Più che descriverla, ha documentato l’attrattiva che permane ad oltre settant’anni dalla scomparsa del Poeta ricordando che nell’ultimo biennio, era il 2009-11,  il trend dei visitatori, in prolungata flessione negli otto anni precedenti, è tornato a crescere anche per effetto delle iniziative di rilancio.

E’ stato sistemato il Parco, anche con nuovi alberi simbolici, sono stati aperti due nuovi Musei: un Museo degli artisti contemporanei che hanno offerto gratuitamente le loro  opere per l’esposizione in omaggio al Poeta; un altro museo  che espone quanto faceva parte della vita quotidiana del Poeta contenuto nei cassetti e negli armadi, dagli oggetti di uso comune agli articoli di abbigliamento anche i più stravaganti, “D’annunzio segreto”, insomma, così si intitola il museo, che risponde alla sua volontà di lasciare agli italiani l’ abitazione, con il relativo contenuto, per accostarli a quella che era la sua vita di tutti i giorni. Guerri ha annunciato anche l’apertura di un terzo museo, poi avvenuta, su“D’Annunzio eroe”, con i retaggi della guerra, dalle spade e i pugnali ai manoscritti, che facevano parte dei doni scambiati con i personaggi  raccolti da un diplomatico collezionista.

Poi il rilancio della stagione teatrale nell’anfiteatro all’aperto tra il verde del Parco e la vista incomparabile del Lago di Garda, sotto il titolo accattivante “Tener a mente”, con una propaggine dalla stessa denominazione a Pescara. Non si è fermato alla  città natale del Poeta il coinvolgimento, si è esteso a molte altre città attraverso i “Gemellaggi dannunziani”, fino all’idea di allargarlo alle nazioni rivierasche con il “Festival dei due mari” nelle due sponde dell’Adriatico.  Ha concluso con il motto dannunziano “Io ho quel che ho donato”, l’omaggio al Poeta è un amore ricambiato.

Il viaggio in Italia secondo la storica dell’arte, il giornalista, lo chef

Dopo questa visione particolare di un’eccellenza nazionale altamente simbolica, si è passati a una visione più generale, cominciando con la storica dell’arte Maria Teresa Benedetti che dopo D’Annunzio ha ricordato Goethe, il cui primo viaggio in Italia avvenne a 25 anni, per fare poi un excursus sugli altri viaggiatori calamitati dal fascino dei luoghi e dal richiamo del nostro patrimonio artistico. Oltre ai grandi personaggi ha citato  gli studenti dell’Accademia di Vienna, a riprova che il viaggio nel Bel paese era un fatto culturale e formativo, non solo un piacevole diversivo per le élite.

La visione generale ha riguardato anche il giudizio complessivo, con il quale il giornalista Filippo Maria Battaglia ha delineato i volti contrastanti dell’Italia dati dalle contraddizioni con le quali convive la sua straordinaria caratteristica di museo a cielo aperto. Contraddizioni che non passano soltanto per la dicotomia tra Nord e Sud, ma attengono a tanti aspetti della società e del carattere degli italiani: da un sondaggio è emerso che solo due su tre hanno il senso di appartenenza alla nazione, ma un sondaggio successivo ha elevato al 90% la percentuale di coloro che danno un valore positivo all’unità del paese.  

Ne hanno scritto Montanelli e Flaiano, Croce e Manganelli, è stato detto che “amare l’Italia è saperne dire male”. Le immagini ugualmente positive del lato artistico e monumentale  e di quello tradizionale e quotidiano che ancora resiste, come le vecchie osterie, hanno concluso l’amabile conversazione del giornalista che ha detto come entrambi questi motivi apparentemente contraddittori abbiano costituito anch’essi l’attrattiva costante del viaggio in Italia, sentito sempre come un “percorso del cuore”.

Ed è stato uno straniero come Heinz Beck, chef di un rinomato ristorante romano, a dare la misura di un affetto che nasce dall’ammirazione per le eccellenze del nostro paese. Ha detto che il viaggio in Italia rimette in discussione ognuno al cospetto dell’immenso patrimonio artistico e culturale che ha valore universale e tutto il mondo ci invidia; dobbiamo rilanciarlo e non banalizzarlo. Poi è passato a parlare della cucina italiana, anche questa lo ha catturato, il suo pregio è di non essere elaborata come quella francese, ma semplice e genuina, “c’è da togliere, non da aggiungere”; e oltre a pasta e pizza c’è molto di più, la varietà è la sua caratteristica, come lo è quella della “mia cucina italiana”. Per concludere con un atto d’amore: “L’Italia è il paese più importante del mondo. Non si può scegliere dove nascere ma si può scegliere dove vivere. Io ho scelto l’Italia”.

La visione dell’accademico

Mario Morcellini, preside alla Sapienza di Roma della facoltà di Scienza della Comunicazione, ha portato il pensiero accademico. Ha iniziato inquadrando il viaggio in Italia nei tempi moderni, ora non è più un fatto di élite come in passato, ma ha una vasta estensione sociale, come è avvenuto in settori quali la musica e le visite archeologiche, il teatro e in genere gli spettacoli dal vivo. Quindi ha spiegato che il turismo è il mezzo utilizzato da chi considera la cultura un modo di aspirare alla modernità, in particolare dai giovani, e non è stato investito dalla crisi economica; le sue forme sono articolate, dai pacchetti collettivi alle forme individuali del tipo “clerici vagantes”.

Ha poi approfondito l’analisi, osservando che troppo a lungo c’è stato un complesso di inferiorità rispetto alla bellezza, come se non si fosse all’altezza delle meraviglie dell’arte. “Viaggio è una delle parole più nobili, va letta in senso interiore, come scoperta di sé mentre si aprono gli occhi su ciò che si è trovato”. Significa non stare fermi ma muoversi, non restare seduti ma alzarsi, andare verso il nuovo e diverso: “Andare o non andare distingue le persone perché significa lasciare le certezze e mettersi in discussione”. La celebrazione del 150° ha portato alla ribalta il bene primario dell’unità d’Italia, e va ricordato che l’identità culturale ha preceduto l’unità politica, e “la bellezza che si ammira nel viaggio in Italia è il bene culturale per eccellenza”.

Il viaggio in Italia secondo l’allora ministro del Turismo

Un’associazione di idee dissacrante ci assale al nome dell’allora ministro, la nostra generazione ricorda “la famiglia Brambilla in vacanza”, “nomen omen” per la titolare del dicastero del Turismo, Michela Vittoria Brambilla. Ma non si è presentata su “una vecchia Torpedo”, ha definito il viaggio in Italia “una tappa fondamentale, un’emozione imprescindibile nella vita di poeti, artisti, scrittori, filosofi e scienziati”. Per questo nei secoli “è stato raccontato e vissuto come una categoria dello spirito, un’aspirazione insopprimibile, il capitolo centrale del proprio romanzo di formazione cui non ci si può sottrarre”. Un excursus storico porta ai mercanti del Medioevo, ai pellegrinaggi dei Religiosi e a quelli laici degli Umanisti, intellettuali degli Illuministi, sentimentali dei Romantici.

Ha avuto, dunque, un’uguale attrattiva su persone delle nazioni più diverse e con motivazioni  diverse, “dal carattere pratico o contemplativo”, con identità diverse, “statisti o poeti, scienziati o filosofi,atleti o pittori, attori o musicisti”.  Ed è evidente il perché: “E’ un’emozione continua la scoperta, ovunque si vada, dei gioielli d’arte, perle di paesaggi dai mari ai monti ai laghi, un’emozione continua la scoperta di musei, chiese, palazzi storici, reperti archeologici, un’emozione continua la scoperta della nostra cucina, dei nostri sapori e profumi”.

Ma alla base dell’attrattiva anche un motivo più profondo: “Ognuno di loro ha trovato in Italia, con estrema naturalezza, le risposte alle domande che lo inseguivano, e quella serenità necessaria per poter affrontare a testa alta le sfide dell’esistenza”.

Di qui l’augurio ai visitatori del nostro paese, per il periodo di celebrazioni dell’Unità d’Italia, ma valido per sempre: “Che ogni ospite possa trarre dal viaggio in Italia le esperienze piacevoli, le forti ispirazioni e le suggestioni indimenticabili che, talvolta inconsapevolmente, andava cercando”. Perché resta immutato il fascino dell’Italia con le sue eccellenze e le emozioni che suscita “l’unicità di una terra e di un popolo straordinari, sempre capaci di sorprendere e di farsi amare”.

L’Italia nelle parole dei personaggi di ieri e di oggi

Potrebbe sembrare un’enfasi nazionalistica ad usum delphini dai toni eccessivi e scontata? Non è così, le espressioni dei grandi visitatori del passato e del presente sono ancora più calde, come nelle dichiarazioni d’amore.  La Brambilla ne ha proposto un florilegio dal quale riportiamo le parole di cinque grandi personaggi tra l’ottocento e il novecento, tre pittori e due scrittori cui ne aggiungiamo uno che sarebbe ingiusto ignorare; e di cinque protagonisti diversissimi del nostro tempo.

“Il problema con l’Italia è che è troppo bella…  perché preoccuparsi di dipingere quando si ricava un tale piacere semplicemente guardandosi intorno ?” dichiarava Pierre-Auguste Renoir. “Tutto è colore cangiante e fiammeggiante, è ammirevole…e io sono incantato del paese”, aggiungeva Claude Monet. Il cerchio dei tre pittori si chiude con Paul Klee: “Mi sto innamorando di tutti in questo paese”.

Altrettanto fervidi gli scrittori:  Oscar Wilde: “L’anima mia ardeva, Italia, mia Italia, al tuo nome: e quando uscii… e vidi la terra agognata della mia vita, risi come chi ha conquistato un gran trofeo”; e  Sigmund Freud:  “Un tale splendore di colori, profumi, vedute e benessere non li ho mai avuti tutti in una volta”.

Dei contemporanei Abebe Bikila, il maratoneta etiope, ha detto: “Non ho mai visto niente di più meraviglioso e sono contento di averlo visto durante la notte più bella della mia vita”, dopo aver superato vittorioso a piedi scalzi il traguardo all’Arco di Costantino nella maratona delle Olimpiadi di Roma del 1960. E un’icona della musica, Sting: “Qualcosa mi ha attirato qui… a questa terra di colline, alla sua trascendente bellezza. Ho tratto da questo posto ispirazione per la mia musica”.  Un altro americano, il divo del cinema George Clooney,si è espresso così: “E’ il posto più bello che abbia mai visto. Dopo una settimana di villeggiatura non riesci a immaginare di vivere altrove. Gli italiani mi hanno insegnato a celebrare la vita!”. E Isabella Rossellini, diva internazionale e figlia d’arte: “Io sono felice di essere italiana… perché da italiana… io vivo per il piacere di vivere: di viaggiare, di conoscere, o anche solo di godere una giornata di sole”.

La visione diviene storica agli occhi dello statista, del livello di John Fitzerald Kennendy: “Tutti noi, nel senso più vasto, dobbiamo qualcosa all’esperienza italiana. E’ un fatto storico straordinario: ciò che siamo e in cui crediamo ha avuto origine in questa striscia di terra che si protende nel Mediterraneo”.

Un’immagine che non identifica l'”espressione geografica” dell’antica irridente definizione, ma una terra di cui è giusto ricordare le nobili origini e l’impronta lasciata nella storia, oltre a sottolinearne la persistente bellezza. Che fu tanto ammirata da Gogol che abbiamo ricordato nel 2009 per le manifestazioni del suo bicentenario –  e per questo motivo lo aggiungiamo al florilegio di personaggi meritoriamente offerto dal ministro: “Che terra, L’Italia! … Oh, se solo poteste guardare questo cielo accecante, tutto soffuso di splendore! Ogni cosa è splendida, sotto questo cielo”.  E ancora: “O Roma, Roma! O, Italia! Quale mano mi può strappare da qui? Che cielo! Che giornate!”. Riferendosi alla capitale: “Di Roma ti innamori molto lentamente, poco a poco, ma per tutta la vita”. Infatti vi soggiornò più volte, e a lungo, tra il 1837 e il 1847, alla città dedicò il racconto “Roma”, vi scrisse parte di un suo capolavoro, “Le anime morte”. E prima di morire, cinque anni dopo l’ultimo viaggio in Italia a Roma, ebbe a dire che “è sotto un’aria e un cielo benedetti”. Una benedizione laica che si aggiunge a quelle “urbi et orbi” della sede pontificia.

Il viaggio in Italia, nella  “trascendente bellezza”  di Sting che fa sentire “il piacere di vivere” della Rossellini , è un viaggio nell’anima che “ardeva” in Wilde al sentirne il nome. E bene si è fatto a evocarlo nella celebrazione del 150° dell’Unità,  che abbiamo voluto concludere con il nostro ricordo del grande scrittore russo: “Quello che rende unico e incomparabile Gogol – ha detto Claudio Strinati nel bicentenario – è il suo essere nello stesso tempo profondamente russo e intimamente  italiano”. Quanto questo sia possibile lo abbiamo sentito dalla dichiarazione d’amore per l’Italia di Heinz Beck: si resta legati alla terra dove non si è scelto di nascere, ma si ama perdutamente la terra dove si è scelto di vivere, in questo caso la nostra bella Italia.

Abbiamo voluto riproporre questo amore per il nostro paese nel tempo d’estate in cui viaggi e turismo si intensificano. Il “viaggio in Italia” resta pur sempre un’esperienza indimenticabile, lo testimoniano i giudizi ammirati di tanti personaggi.

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Un’immagine del Convegno ripresa da Romano Maria Levante al Vittoriano, parla il ministro Michela Vittoria Brambilla, a dx.

Archeologia, capolavori recuperati, a Castel Sant’Angelo

di Romano Maria Levante

L’annuale mostra a Castel Sant’Angelo delle opere d’arte recuperate dalle Forze dell’ordine quest’anno si  svolge dal 21 maggio al 5 novembre 2013, è la 32^ del Centro Europeo per il Turismo e celebra i 20 anni di collaborazione con le Forze dell’ordine nel presentare i risultati dell’azione di tutela. E’ dedicata ai “Capolavori dell’archeologia. Recuperi, ritrovamenti, confronti”,  e curata da Mario Lolli Ghetti e Maria Grazia Bernardini, che dirige il Museo di Castel Sant’Angelo. Il Catalogo di Gangemi Editore è monumentale, il Comitato scientifico imponente, presidente Eugenio La Rocca, 60 illustri componenti. I reperti sono inseriti con mano leggera nelle antiche sale della parte alta del castello, dalle aperture lungo tutto il perimetro della  galleria superiore un vero  belvedere, il panorama mozzafiato di Roma storica con il Tevere, i monumenti e i ruderi. L’arte antica incastonata tra storia e natura, un autentico spettacolo!

Molte delle opere esposte sono state recuperate in Italia dopo essere state scavate clandestinamente e trafugate, e all’estero dove le avevano esportate illegalmente: dalla mostra si diffonde un monito ai predatori, un allarme e un messaggio ai visitatori sui rischi di depauperamento del patrimonio storico- culturale se non si protegge in modo adeguato dal saccheggio e dall’appropriazione.

In aggiunta a  questa testimonianza di alto valore civile, una di tipo culturale: una intensa attività di ricerca condotta con  criteri scientifici è alla base dei ritrovamenti di reperti archeologici a rischio, come bronzi e ceramiche, marmi e affreschi, oreficerie e argenti.

Inoltre le vicende, spesso complesse,  che hanno portato sulla pista giusta suscitano anch’esse vivo interesse dal punto di vista investigativo e giornalistico, alcune sembrano delle “spy story”.  Sono storie spesso narrate dai protagonisti  nella sede del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, l’agguerrito nucleo specializzato cui vanno riferiti tutti i recuperi che indichiamo per brevità solo con Carabinieri. Con i ritrovamenti a fronte di azioni illecite i cui responsabili vengono assicurati alla giustizia, ci sono quelli fortunosi, diremmo  fortunati.

Non basta, sebbene sia già molto, insieme ai reperti recuperati ne sono esposti altri  assimilabili per  tecnica, materiali e data, dei quali si conosce il sito di provenienza, in modo da poter fare confronti tematici: vediamo corredi funerari integri che dimostrano visivamente come sia importante l’integrità del complesso archeologico, e quindi  il danno insanabile arrecato dallo scavo clandestino e dal trafugamento con l’irrimediabile dispersione dei reperti in tanti direzioni.

“Proprio nella volontà di contestualizzare i pezzi e ricostruire un tessuto storico che illustri al meglio l’importanza e l’obbligatorietà del recupero, risiede la principale novità di questa mostra”, così nella presentazione ufficiale ne vengono riassunte motivazioni e peculiarità.

Nulla di pedante e didascalico, le 9 sezioni tematiche sono introdotte da un reperto che ne rappresenta il “campione” più  rappresentativo, detto  “monumento”:  simbolo dell’attività illustrata nella sezione e documentata con prove concrete, una serie di reperti recuperati o rinvenuti con riferimenti visivi ai luoghi in cui sono conservati, spesso musei archeologici locali  poco conosciuti.

Le prime tre sezioni:   kouroi, crateri e acroliti

Visitiamo, dunque, le sale di Castel Sant’Angelo intitolate a Clemente VII e Clemente VIII, ad Apollo e alla Giustizia, presi dal fascino dell’antico che promana non solo dai reperti ma anche dalla sede espositiva, con i suoi anditi e i suoi corridoi, i pavimenti in cotto e i soffitti istoriati.

La 1^ sezione, sui “Simboli dell’aristocrazia”, presenta statue di soggetti maschili e femminili in epoca arcaica, “i kouroi e korai””  con il loro “campione”: il  Kouros in marmo della fine del VI sec. a. C., parzialmente dipinto,  ritrovato dalla Guardia di Finanza, ora al Museo archeologico di Reggio Calabria. E’ un originale greco proveniente da Paros, privo di braccia e di parte delle gambe ma sostanzialmente integro, con l’acconciatura alla sommità del capo particolarmente elaborata. Tra gli altri è esposto il Kouros detto Apollino Milani con una particolarità: nel Museo archeologico di Firenze da dove proviene, è acefalo, un torso perfetto che è stato accostato alla statua di Teseo dell’Acropoli, qui ha una testa molto delicata, la c. d. testa Bellini, su concessione dei proprietari.

Dalle statue ai crateri nella 2^ sezione “Euphronios ed Euthymides e l’invenzione delle figure rosse”, esposizione monografica di vasi in ceramica attica spettacolari per fattura, cromatismo  e forza narrativa: spiccano, il Cratere a calice attico con il trasporto del corpo di Sarpedonte  e la Kylix attica con Ilioupersis,  entrambi del VI sec. a. C. provenienti dal Museo etrusco di Villa Giulia, la cui storia è eloquente: l’Arma dei Carabinieri  li ha identificati nientemeno che nei prestigiosi Metropolitan Museum di New York e Getty Museum di Malibu e si è riusciti ad ottenere la restituzione.  Soprattutto il primo, delle dimensioni di 50 cm di altezza e diametro, lascia senza fiato per la raffigurazione, tratta dall’Iliade, con le personificazioni allegoriche di Sonno e Morte. L’Ilioupersis nel secondo riporta alla caduta di Troia con l’uccisione di Priamo e del piccolo Astianatte, ci sono anche Patroclo  e Agamennone, Elena e Menelao, Aiace e Cassandra, il duello tra Ettore e Aiace davanti ad Apollo ed Atena. Un’immersione nei ricordi scolastici che emoziona.  

Dei celebri autori Euphronio ed Euthymide vengono esposti altri vasi che si alternano ai primi nel periodo della mostra in una originale staffetta. In particolare alla Kylix attica viene affiancata l’Hydria attica c. d. Vivenzio, del Museo nazionale archeologico di Napoli, per un interessante confronto sul ciclo troiano, dato che anche in questa sono raffigurate le stesse scene sopra rievocate.

Con la 3^ sezione “Acroliti. Statue oltre misura”  facciamo la conoscenza della Testa di Kore, del VI sec. a. C., dal Museo archeologico regionale di Aidone, in provincia di Enna, un esempio dei reperti di straordinario valore custoditi da piccoli musei periferici; questo si trova in Sicilia, proviene  dal sito di Morgantina insieme ad altri “acroliti”, restituiti come alcuni reperti prima citati, dagli Stati Uniti dopo l’intervento dei Carabinieri  e  del Ministero Beni Culturali.  Viene presentato come termine di confronto la testa, piedi e mano sinistra della statua acrolitica  che raffigura l’Apollo Aleo, del Museo archeologico di Reggio Calabria, con due  Teste di marmo, una maschile, l’altra femminile, del Museo archeologico nazionale di Paestum. Inoltre si illustra la composizione di questo tipo di statua che veniva esposto nel tempio:  gli acroliti erano le estremità pregiate di marmo, come quelle appena citate, di statue composte da un corpo con l’impalcatura in legno coperta di vesti di vario materiale,  bronzo dorato o tessuti preziosi, gli occhi in vetro o pietre pregiate. Non è esposta la grande Statua di Venere, ma  c’è  parte del Tesoro di argenti, recuperato dopo essere stato trafugato dai tombaroli: coppe e recipienti per simposi e cerimonie religiose. La statua è stata restituita dal Getty Museum, gli argenti dal Metropolitan Museum di New York. 

Altre tre sezioni: teste di intellettuali,  colori del marmo,  pittori di vasi

Il viaggio all’interno del mondo greco  diviene sempre più appassionante, dopo i giovani è la volta dei “Filosofi e cittadini”, con evidenziati i rapporti tra “il pensiero e l’azione”.  I campioni che introducono la 4^ sezione sono Testa di filosofo da Porticello, del 460-440 a. C., e Testa virile barbata c. d. “di Basilea”, del V-IV sec. a. C., sculture provenienti dai musei archeologici di Reggio Calabria e Paestum. Il nome della prima deriva dall’espressione pensosa, la seconda per la sua autorevolezza viene riferita o a un personaggio regale oppure a Zeus Eleutherios, con loro il Ritratto di filosofo, del Museo archeologico di Firenze, sguardo assorto, espressione corrucciata. La rassegna è completata dalle Erme con ritratti di intellettuali e filosofi greci, provenienti dai Musei capitolini e dal Museo Barracco sempre di Roma: Omero e Pindaro, Sofocle e Anacreonte.

Finora abbiamo incontrato gli effetti cromatici nelle “figure rosse” dei grandi vasi in ceramica attica, quelli di Euphronio in testa a tutti; nella sezione “I colori del marmo” li troviamo nei vasi marmorei con dipinti motivi floreali. Il  Cratere a calice su sostegno in  marmo della II metà del IV sec. a. C., dal Museo comunale di Ascoli Satriano (Foggia), dove si intravede l’impronta di una corona aurea di foglie dipinta, è il “campione” di un gruppo di reperti di grande valore provenienti dalla stessa località  e forse da un unico sito, una tomba aristocratica daunia, recuperati dai Carabinieri. Insieme è esposta una Corona aurea  del II sec. a. C., dal Museo archeologico di Taranto, è di tipo funerario a foglie di quercia.  Il cromatismo marmoreo è rappresentato soprattutto  dai due Crateri apuli a volute da Canosa in Puglia, recuperati dai Carabinieri, figure delicate di cavalli e una testa femminile in un rosa sfumato; e  da una Testa di Amazzone,  dai capelli a ciocche con chignon,  provenienza  Ercolano, ritenuta copia romana di una famosa scultura del grande Fidia.

Si torna alle ceramiche con la 6^  sezione, “Ceramografi in Magna Grecia: il pittore di Amykos e il pittore di Dario”, titolo enigmatico  che indica l’opera pittorica dei due artisti sui vasi  e crateri. I rispettivi “campioni” sono due Nestorides di Amikos, dal Museo archeologico “Dino Adamesteanu” di Potenza, di grande valore, con scene figurate nella parte superiore e motivi geometrici in quella inferiore; e due grandi Crateri a mascheroni apuli a figure rosse, del Pittore di Dario e Pittore di Baltimora”, del 330 a.C. dal Museo archeologico di Taranto Marta, alti oltre 1 metro,  composizioni figurative di grande pregio con figure nette e nitide, soprattutto cavalli e divinità; sono stati recuperati il primo dalla Guardia di Finanza, il secondo dai Carabinieri.  Insieme a questi vasi monumentali sono esposti altri esemplari di Anfore apule a figure rosse,  pari nella grandezza delle dimensioni e dei pregi stilistici di  nitidezza e ricchezza figurativa, del Museo archeologico di Napoli, provengono  dalla tomba dove è stato trovato il vaso del Pittore di Dario. Fino all’Hydria apula a figure rosse, con una composizione marina dal taglio che sembra moderno.’

Le ultime tre sezioni: decorazione parietale, statue e sarcofaghi

Finora la mostra ha presentato statue e vasi, che abbellivano gli ambienti pubblici e privati di grande prestigio. Di questi luoghi, per stimolare la fantasia di chi vuole ricostruirne la vita quotidiana, nella 7^ sezione sono esposti  piccoli quadretti di Pompei, dal Museo archeologico di Napoli, per evocare  “La grande decorazione parietale” : due “Pinakes della casa dei Casti Amanti” e Vignetta con Erote, Architetture fantastiche con natura morta e  Scene di un banchetto,fino al Pastiche di frammenti,  tutti del 45-79 d. C.. Viene narrata la storia istruttiva di questi quadretti: incorniciano pezzi di affresco staccati dalle pitture parietali pompeiane,  venivano appesi alle pareti in una galleria di antica pittura romana di cui solo il sovrano borbonico, in virtù del suo potere, poteva disporre. Sono stati  recuperati dai Carabinieri  dopo essere stati rubati, tre Frammenti di decorazione parietale individuati nel Paul Getty Museum e restituiti: lo stile pompeiano spicca dal rosso della finestra da cui  si vede uno sfondo verde di edifici nel primo, dal rosso dell’arco in cui si affaccia la maschera di Ercole nel secondo, dal rosso del soffitto su una maschera teatrale nel terzo. Dimostrano il grande valore dell’unitarietà dei complessi archeologici e del danno arrecato enucleandone delle parti con azioni delinquenziali a fini speculativi di rapina.

L’ 8^ e penultima sezione ci riporta la scultura, il titolo è tutto un programma: “Sculture e scultori fra Greci e  Romani”.  Nella sfera pubblica troviamo la scultura civica e sacra, quella privata è più numerosa, venendo dalle ville situate in vaste aree di Roma e dintorni, dagli imperatori alla cerchia imperiale ai patrizi, all’insegna dell'”otium”, che includeva il lato artistico e culturale della vita. I “campioni” sono la Statua di Eirene dell’età proto augustea, I sec. a. C., che celebrava la pace,  e la Statua c. d. di Vibia Sabinia, II sec. d. C., entrambe monumentali, alte più di 2 metri. La  prima, proveniente dal Museo civico di Palombara Sabina,  recuperata dopo un furto, è intatta nel viso e nel panneggio, conserva parte delle braccia che tenevano la cornucopia e un piccolo Pluto, che manca; la seconda, dall’Antiquarium del Canopo di Villa Adriana a Tivoli, raffigura l’imperatrice moglie di Adriano, in piedi, a grandezza naturale, impressionante per la forza espressiva. Sono esposte gigantografie di due statue non  presenti per motivi conservativi, ma si sono  volute ricordare per la loro importanza: Statua maschile barbata, forse Efeso,  a torso nudo, del I sec. d. C., e Statua maschile su trono, che sembrerebbe rappresentare Caligola dal ritrovamento nei pressi del lago di Nemi e dai calzari, altro prezioso reperto portato alla luce da uno scavo clandestino e recuperato di recente dalla Guardia di Finanza.

 “Vincere la palma: corse e aurighe nella Roma imperiale” è la 9^ sezione, quella  conclusiva. Attraverso queste raffigurazioni viene fatto un excursus nell’arte funeraria, che riflette la concezione  basata sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte, per cui la serenità nell’al di là derivava da una vita virtuosa. Nell’età arcaica il rito funerario era l’inumazione, la cremazione verrà successivamente: nelle classi povere c’era la mera deposizione in una fossa scavata nella terra, poi con l’elevarsi del ceto  i cassoni in tegole o lastre di pietra, quindi casse litiache in pietra povera fino ai sarcofaghi in marmo, porfido e granito, nelle classi più elevate  sui sarcofaghi vi erano sculture con scene di vita quotidiana del defunto che presero il posto delle  scene mitologiche iniziali. Ammiriamo il Sarcofago delle quadrighe, del Museo comunale di Aquino, con scolpite scene di corsa alla Ben Hur, in una spettacolare rappresentazione dei cavalli al galoppo in gruppi di quattro e l’auriga sul cocchio, c’è anche un caduto sotto gli zoccoli,  vediamo la scena pure in un frammento di intonaco dipinto; e il Sarcofago delle Muse, intorno al II sec. d. C.,  dal Museo degli scavi di Ostia, le nove Muse sono allineate con i loro simboli, in presenza di Athena ed Apollo, sul coperchio scene di filosofi. Entrambi sono stati recuperati dalla Guardia di Finanza dopo essere stati rubati. Per mostrare i danni degli scavi clandestini che persistono anche dopo il recupero, è esposto il Sarcofago della fanciulla di Grottarossa, II sec. d. C., con scene di caccia di Enea e Didone dall’Eneide di Virgilio:  conteneva la mummia della fanciulla con il corredo funerario, fu trovato clandestinamente ancora sigillato e aperto in laboratorio con grave perdita di elementi  preziosi, fu rinvenuta anche una bambolina con le articolazioni. Nel vederlo ripensiamo alla dolcissima Crepereia, la mummia, il sarcofago e il  corredo,  e la bambolina che intenerì le file di visitatori della prima mostra romana a lei dedicata parecchi anni fa, il ricordo è ancora vivo.

Dopo la visita alla mostra sentimenti e riflessioni

Cosa suscita questo volo in un tempo così lontano sulle ali dell’arte in un’epoca, da cui discende la nostra civiltà,  sempre prodiga di insegnamenti quando l’archeologia ne fa conoscere nuovi risvolti? Innanzitutto l’ammirazione per l’arte e la cultura del mondo  antico, poi il brivido che viene dinanzi allo scempio degli scavi clandestini e dei furti di antichi reperti; e insieme la riconoscenza per la dedizione e i successi delle Forze dell’ordine, in particolare Carabinieri e Guardia di Finanza, nell’azione volta a recuperare quella parte del patrimonio culturale illegalmente sottratta.

Ma c’è una riflessione conclusiva nel vedere come i preziosi reperti che la mostra ha il merito di far conoscere al grande pubblico di visitatori di  Castel Sant’Angelo  provengano da una serie di Musei archeologici situati anche in piccole località sul  territorio nazionale. C’è l’aspetto positivo della diffusione capillare della cultura e della storia millenaria dove si trovano le nostre radici; e anche l’aspetto problematico sulla gestione di un sistema nato nel passato e che va ammodernato in modo che sia assicurata la più ampia visibilità ai reperti  e non si tratti di una sterile custodia. Molte idee sono state avanzate, tra cui il “museo diffuso”, per collegare in un circuito coordinato singole realtà altrimenti marginali od emarginate, vanno valutate attentamente per iniziative concrete soprattutto in una fase di difficoltà economica che mette a rischio anche le realtà più solide e consolidate.

Nei momenti di crisi occorre porre le basi per il rilancio, e la mostra di Castel Sant’Angelo è l’espressione visiva di tante potenzialità da valorizzare.  E’ anche questo il suo messaggio, che si aggiunge all’allarme sui rischi che incombono sul patrimonio culturale per le azioni malavitose e sull’esigenza di potenziare le difese affidate alle Forze dell’ordine  la cui azione coronata da successo va sostenuta con mezzi adeguati. Si tratta di un investimento, non di una spesa, chiunque visita la mostra ne ricava un’impressione che difficilmente potrà dimenticare. A parte il fascino straordinario di Castel Sant’Angelo nel quale la mostra è incastonata come una pietra preziosa.

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Castel Sant’Angelo, Lungotevere Castello 50. Tel 06.6819111. Da martedì a domenica ore 9,00-19,30 (la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso a Castel Sant’Angelo: intero euro 10,50, ridotto euro 7,50 (tra 18 e 25 anni, insegnanti Ue scuole statali); gratuito minori di 18 anni e maggiori di 65 anni, oltre ad una serie di categorie.  Catalogo: “Capolavori dell’Archeologia. Recuperi, Ritrovamenti, Confronti”,  Gangemi Editore, maggio 2013, pp.368, formato 21×30. Cfr. il nostro servizio su questa mostra in “notizie.antika.it” il 21 luglio 2013 e quelli sulle precedenti mostre del Centro Europeo per il Turismo: in questo sito “Papi della memoria”, il 15 ottobre 2012; sui recuperi delle forze dell’ordine in “cultura.abruzzo world.com”, “I tesori invisibili” 10 luglio 2009, in questo sito “Arte salvata nel 150°” 1° giugno 2013. Per i recuperi dei Carabinieri cfr. i nostri servizi in “notizie.antika.it”: il 12, 15 febbraio e 9 maggio 2010, il 12, 21 gennaio e 12 giugno 2012, e il 30 giugno 2013 sul recupero di “urne etrusche”; e in questo sito, stesso tema “urne etrusche” il 21 luglio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia il Centro Europeo per il Turismo e la direzione del Museo di Castel Sant’Angelo, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura “Kouros”, 500-490 a: C.; seguono  vetrina con “Hydrie” attiche a figure rosse, 500 a. C. e “Erma iscritta di Anacreonte” (a sin.) – “Testa di Sofocle, tipo ‘Farnese'” (a dx)  da originali greci del IV-V sec. a C., poi “Frammento di affresco con figura di Dioniso”, 61-79 d. C., e  “Statua c. d. di Vibia Sabina”, II sec. d. C.; in chiusura “Il sarcofago delle quadrighe”, II-III sec. d. C., sopra “Corsa di quadrighe”, frammento di intonaco, 62-79 d. C.

Urne etrusche, 24 recuperate con 3000 altri reperti

di Romano Maria Levante

Ancora una volta le indagini dei Carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale hanno fatto centro. In un’affollata conferenza stampa il 27 giugno 2013  nella sede di via Anicia a Roma, è stato presentato un risultato più clamoroso del solito, considerando che a ogni importante operazione segue la presentazione a Roma del successo ottenuto nell’attività di contrasto al traffico clandestino di opere d’arte. Questa volta sono state recuperate 24 urne cinerarie etrusche tra il II e il IV secolo a. C.  con 3000 reperti archeologici provenienti da un unico sito funerario di Perugia risalente al gruppo familiare degli Acni, di cui si conoscono altri ipogei. E’ il frutto di un’azione investigativa durata due anni, cui hanno concorso l’Università Tor Vergata, la Soprintendenza e Procura della Repubblica di Perugia. I cinque responsabili sono stati denunciati all’autorità giudiziaria per “ricerche illecite, impossessamento e ricettazione di beni culturali”.

Ifigenia e le urne cinerarie

“Operazione Ifigenia” è stata chiamata, perché l’eroina greca appare in alcuni rilievi sulle urne. Si tratta della figlia di Agamennone e Clitennestra, ma secondo la leggenda generata da Teseo ed Elena, il cui sacrificio richiesto per placare Artemide creò travagli psicologici e politici all’atto della spedizione a Troia. Il fascino di questo mito è stato tale da ispirare non solo le antiche  tragedie di Euripide, Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride, ma anche spettacoli teatrali moderni, melodrammi e opere liriche di diversi musicisti tra cui Domenico Scarlatti, dipinti di artisti come Tiepolo e film.

Le 24 urne cinerarie in travertino umbro bianco presentano altorilievi con scene di battaglia e tauromachie, fregi e preziose dorature; tra i 3000 reperti archeologici preziosi corredi funerari con elmo frigio e scudo, un kottabos bronzeo, schiniere e strigile, vasellame e altro ancora, tutto esposto nella sede del Comando.  Nel percorrere i due lunghi corridoi dove sono allineate le urne con un campionario dei principali reperti archeologici, si ha la sensazione di entrare nel mondo nel quale ci sono le nostre radici: a queste urne si è ispirata la cineraria romana. La localizzazione del sito a Perugia ha dato un’utile conferma sull’estensione dell’Etruria, quindi l’importanza del ritrovamento è anche sul piano della conoscenza storica, oltre al piano artistico. Luigi Melnati, direttore generale per l’antichità del Ministero dei beni culturali, ha sottolineato questi aspetti, ricordando i rapporti con Roma e le alleanze nelle guerre cui si riferiscono gli altorilievi.

Altra importanza è data dall’unicità dell’origine, il sito funerario della famiglia Acni, di cui si conoscevano otto urne provenienti, oltre che da Perugia, da Chiusi, Norchia e Tarquinia. Il ritrovamento è avvento trent’anni dopo la scoperta dell’ipogeo dei Cutu, avvenuta per caso nel 1982. Quello recuperato per merito dell’azione dei Carabinieri è  un complesso ancora più importante di urne con l’annesso corredo funerario riferito a un  unico ipogeo; inoltre le circostanze in cui è stato individuato – non un’attività sistematica di scavo ma un fatto occasionale e per di più da occultare – lasciano pensare che potrebbero esserci altri reperti e addirittura altri ipogei. Al riguardo la Soprintendenza di Perugia si sta attivando per un’apposita campagna di scavi nel sito, una buona notizia considerando come tali attività siano praticamente ferme dovunque, per cui ci si limita a conservare – spesso male come le cronache insegnano – quanto già scoperto in passato.

Nell’incontro alla sede del Comando del nucleo Tpc sono stati sottolineati i gravi danni che si arrecano al patrimonio storico-artistico-culturale disperdendo i ritrovamenti clandestini in vendite frazionate, per cui anche i recuperi non riescono a ricostituire l’unicità originaria, cosa che invece è stato possibile in questo caso. C’è un patrimonio conoscitivo da salvaguardare, Francesco Scoppola lo ritiene “il maggiore tesoro che si accompagna ad ogni oggetto e ad ogni opera d’arte (e che viene invece sistematicamente disperso dai clandestini, dai ricettatori e dai trafficanti): al di là del valore venale, al di là dell’interesse estetico ed antiquario, sono le informazioni e le interrelazioni dei reperti tra loro e con altre opere a consentire l’acquisizione di valore (anche economico, ma prima ancora sostanziale, conoscitivo) che è poi quello di gran lunga maggiore per ogni bene culturale”.

Anche da questi danni irreversibili nasce l’intento di riformare la normativa sui reati contro il patrimonio culturale. Il ministro Massimo Bray  li ha definiti “una ferita profonda nel tessuto del patrimonio culturale nazionale, privato di beni che, anche se recuperati, non sarà più possibile contestualizzare. Oggetti che non potranno parlare, raccontare la loro storia, aiutarci a ricostruire le vicende di un ambito territoriale preciso, tramutati in beni di consumo di lusso o, peggio, in merce di scambio in contropartite malavitose”. E ha annunciato un’iniziativa legislativa per la delega al governo, partendo dal testo cui era pervenuta la Commissione giustizia nella precedente legislatura, su cui lavorano gli uffici del MiBAC e del Ministero della Giustizia per una prossima presentazione al Consiglio dei Ministri; in parallelo, “un’iniziativa seria e responsabile per portare nuova linfa alle Soprintendenze archeologiche, autentico membro della tutela del patrimonio da troppo tempo indebolite dalla mancanza di risorse umane e finanziarie”. Si può solo sperare che all’annuncio seguano i fatti, sequenza logica che tuttavia non si può dare come scontata, occorre perseverare.

L’Operazione Ifigenia nella vicenda investigativa

Oltre alla straordinaria importanza nei risultati, l’Operazione Ifigenia si segnala come esemplare nelle modalità investigative, per le intuizioni che l’hanno originata e le collaborazioni che l’hanno portata al successo. Ne ha parlato diffusamente il generale Mariano Mossa, a capo del Comando del nucleo Tpc dei carabinieri, mentre ha aggiunto interessanti particolari sullo svolgimento delle indaginiil comandante del Reparto operativo maggiore Antonio Coppola.

La prima intuizione è stata di non sottovalutare il fatto di avere trovato, in una perquisizione di “routine” a un noto trafficante romano, una testina-frammento e la foto di un’urna cineraria dalla quale visibilmente era stata staccata. Si è capito che poteva trattarsi di un “provino” per presentarsi ai potenziali acquirenti: la testina come prova di autenticità, la foto per mostrare l’intero reperto.

Ma lì tutto si poteva fermare, il trafficante non era di certo disposto a confessare un reato non ancora compiuto. Allora è scattata la fase della collaborazione, si è consultata l’Università romana di Tor Vergata, il cui docente della materia Gabriele Cifani, presente alla conferenza stampa, ha indirizzato sulla pista giusta: la provenienza doveva essere Perugia, dove c’erano esempi della stessa tipologia; la Soprintendenza per i beni archeologici di Perugia, altra istituzione coinvolta, ha confermato, si sono individuati privati in possesso di reperti analoghi; la Procura della Repubblica presso il tribunale della città, con il Sostituto procuratore Paolo Abbritti, ha coordinato indagini operate con metodi investigativi adeguati, dalle intercettazioni ai pedinamenti di imprenditori edili.

Un’altra intuizione è stata vincente: poteva non essere opera di tombaroli clandestini, ma il rinvenimento casuale nel corso di uno scavo edilizio, al quale invece della doverosa denuncia alle autorità era seguito il tentativo di occultare i reperti rinvenuti per alienarli sul mercato clandestino al fine di ricavarne un illecito profitto: trattasi infatti di beni di valore anche venale  inestimabile.

Le indagini svolte sottoponendo a controllo una serie di imprenditori locali hanno portato all’identificazione dell’imprenditore cui risale il rinvenimento, avvenuto ben dieci anni fa, di qui la particolare difficoltà dell’operazione: l’attività edilizia tra l’altro non era autorizzata, e le perquisizioni hanno portato al rinvenimento e sequestro del cospicuo quanto prezioso materiale mentre si stava per offrirlo sul mercato clandestino, con l’incombente effetto distruttivo della dispersione di un patrimonio dal valore inestimabile sul piano artistico, culturale ed economico.

Il risultato lo vediamo nei due corridoi in cui sono allineate le 24 urne cinerarie e un campionario dei 3000 reperti archeologici.

La presentazione del 27 giugno la consideriamo un emblematico corollario della mostra del Centro Europeo per il Turismo in corso a Castel Sant’Angelo sui “Capolavori dell’Archeologia” recuperati dalle forze dell’ordine,  nella quale vengono approfonditi i “recuperi, ritrovamenti e confronti”. E’ il 20° anno che il Centro cura queste esposizioni, con la contestualizzazione dei ritrovamenti e la descrizione del percorso investigativo, come fatto nel rinvenimento di Perugia.

Dalle urne etrusche alla mostra di Castel Sant’Angelo

Nella presentazione della mostra a Castel Sant’Angelo, il gen. Mariano Mossa ha ricordato l’istituzione del Comando per la Tutela del patrimonio Culturale nel 1969 con 16 militari rispetto ai 280 attuali; e ha sottolineato come con “il bene d’arte, soprattutto se recuperato dall’area dell’illegalità, significa restituire alla collettività un ‘tassello’ che, indipendentemente dalla sua rilevanza storica, artistica, o economica, compone e qualifica la nostra identità culturale”.

E la Soprintendente speciale per il patrimonio storico-artistico e il polo museale di Roma Daniela Porro ha citato un’altra recente operazione dei Carabinieri che ha preceduto la mostra,  il recupero a Roma di 2500 oggetti, alcuni molto rari, tra l’VIII sec. a. C. e il II sec. d. C., avvertendo che in Italia nel 2012 le sottrazioni illecite del patrimonio artistico sono state rilevanti: 890 furti con oltre 17.000 oggetti trafugati, e l’archeologia etrusca è stata ferita dall’irruzione nel  Museo di Villa Giulia.

Il ritrovamento attuale delle 24 urne cinerarie etrusche con i 3000 reperti archeologici è una buona notizia che compensa questa ferita inferta all’archeologia etrusca: la visione delle 24 urne schierate come per essere passate in rassegna è un vero spettacolo, le immagini ne danno solo una pallida idea; come sono uno spettacolo, in proporzioni naturalmente maggiori  per il loro numero e la loro varietà, i reperti esposti nella mostra di Castel Sant’Ango. Ne parleremo prossimamente.

Info

Per le presentazioni dei successi nell’azione di contrasto ai trafugamenti e  al mercato d’arte clandestino presso il Comando dei Carabinieri per la Tutela del patrimonio Culturale, cfr. i nostri servizi nel sito specializzato “notizie.antika.it”: nel 2010: “Recuperati fossili libanesi di 100 milioni di anni”  il 12 febbraio e “Nel 2009 successi da fiction Tv”  il 15 febbraio;  nel 2012: “Carabinieri recuperano 2 statue e 200 reperti archeologici negli Usa” il 12 gennaio; “Bilancio 2011 positivo” il 21 gennaio; “Due Vanvitelli  e un Dughet recuperati” il 9 maggio; “I Carabinieri del Nucleo Tutela recuperano 200 reperti” il 12 giugno; nel 2013, per il ritrovamento attuale, “Recuperate 24 urne etrusche dal Comando Tutela” il 30 giugno.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alle presentazione nella sede del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, si ringrazia il Comando per l’opportunità offerta. Sono tutte urne cinerarie  etrusche del II-III secolo a. C.

Uganda, nella chiesa dei Martiri, una fotostory di fede e vita

di Romano Maria Levante

Nella chiesa romana dei “Santi Martiri dell’Uganda” , a Poggio ameno nell’XI Municipio, una speciale mostra fotografica, aperta dal 30 giugno 2013 per alcune settimane, con le immagini della visita organizzata dalla sezione missionaria nel paese africano dove a fine ‘800 si sono immolati i giovani ugandesi elevati alla santità per il loro sacrificio e ai quali è stata intitolata la chiesa. Le fotografie ci fanno vivere momenti della vita semplice di un popolo giovane che viene aiutato dalla fede a  trovare la sua strada tra la tradizione legata  ai costumi primitivi e i bisogni indifferibili di istruzione e assistenza da soddisfare per una migliore e più umana qualità della vita.

Una mostra in una chiesa è sempre un fatto straordinario, soprattutto quando il luogo è qualcosa che va oltre una pur prestigiosa sede espositiva per un significato più profondo. E’ stato così per le mostre pittoriche “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in un ritorno all’archetipo nell’abbraccio ai terremotati dell’Aquila, nella basilica di Santa Maria di  Collemaggio,  dall’abside scoperchiato dal sisma cui era stata data una copertura provvisoria; e  “13 artisti oltre la notte” alla Madonna del Divino Amore, in una sala del nuovo santuario; è così per la mostra nella chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda. Mentre la fotografia è un modo consueto di esprimere testimonianze e rivivere storie religiose, lo abbiamo visto nelle mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II,  a Piazza Esedra,  Palazzo Valentini e “Spazio 5”.  Nel ricordare le mostre religiose non possiamo non citare le grandi esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona  nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena “Alla mensa del Signore”; e, ancora prima, a Roma, Palazzo Venezia, su “Il Potere e la Grazia” dove sono stati esposti dipinti di artisti celebri sui grandi protagonisti della Chiesa, dagli eremiti ai martiri ai missionari.  La mostra della chiesa dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda nasce dalla sua consacrazione al loro martirio e dai frutti dell’azione dei  missionari su un terreno ricettivo a un’evangelizzazione che ha avuto i suoi eroi.

I Santi martiri dell’Uganda, l’omaggio di due Pontefici

Attraverso la documentazione fotografica, la mostra racconta una storia in 22 capitoli sul popolo giovane e vitale dell’Uganda che costruisce il futuro con l’alimento della fede cristiana. E’ intitolata “Uganda, alle radici della nostra storia”, perché lì nasce la chiesa romana e la parrocchia.

In Uganda la  fede fu portata dalla predicazione anglicana del 1877 cui seguì l’evangelizzazione del sud con i missionari, i Padri bianchi giunti dal lago Vittoria; nel nord i Comboniani dal 1911, lungo il Nilo nei grandi laghi.

Dopo meno di dieci anni i fedeli hanno versato il sangue del martirio: nel 1885-87 nel sud sono stati massacrati arsi vivi Carlo Lwanga e 21 compagni ; nel 1918 nel nord uccisi i giovanissimi catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa. E’ una storia che ci limitiamo ad evocare, prima di seguire l’itinerario della mostra con i frutti sorprendenti di un’evangelizzazione eroica.

Carlo Lwanga era un’assistente del re, come lui tanti altri giovani di famiglie nobili avevano delle funzioni a corte; l’incontro con la fede lo portò a non accettare più il ruolo di efebo disponibile per i piaceri del sovrano, e così i suoi compagni, di qui il  tremendo massacro. I giovani catechisti del nord avevano scelto la fede superando i dubbi dei genitori, furono uccisi con protestanti e islamici.

Nel 1964 la canonizzazione dei primi martiri da parte di Paolo VI  che cinque anni dopo si reca in Uganda sul luogo del martirio. Ne riceve un’impressione così forte da desiderare che la prima chiesa costruita a Roma fosse dedicata a loro, e così è stato: il 20 giugno 1970 viene posta la prima pietra della chiesa di Poggio ameno nell’XI Municipio, nella zona dov’è il santuario delle Tre Fontane,  non lontana da piazza Caduti della Montagnola, dove 42 civili e 11 militari morirono nella resistenza ai tedeschi e sono ricordati in un sacrario; coincidenza simbolica voluta dal caso o da qualcosa di indefinibile. Il 7 dicembre 1970 la parrocchia, nell’attesa della chiesa, celebra la prima messa  in un locale di fortuna: “sotto il Portico”.

Bisognerà attendere dieci anni, e il 26 aprile 1980  un altro papa, Giovanni Paolo II, consacra la chiesa, la prima del suo pontificato, ai Santi Martiri dell’Uganda, le cui reliquie sono poste sotto l’altare. L’edificio religioso sorge ai margini di un piccolo parco, la costruzione fu tormentata da persistenti contestazioni di difesa ambientale, ne fu ridotta l’altezza  rispetto al progetto originario; e fu concepita, nella struttura e nelle tinte, come una prosecuzione del parco, nel tempio si vede e si sente l’essenza di alberi e piante in una compenetrazione tra esterno e interno. Tutt’intorno l’area è una palestra di giochi e attività ricreative e sociali per adunate di ragazzi festosi con i loro sacerdoti, è come se lo spirito del parco aleggiasse nel vasto cortile attrezzato.

La mostra testimonia il ritorno all’Uganda dopo 30 anni, organizzato dal gruppo missionario della parrocchia, in testa il parroco don Luigi D’Errico, con don Davide Lees che si è impegnato molto nell’iniziativa e nella mostra: è un sacerdote giovane e ispirato, che infonde fiducia e serenità nella dedizione attiva alla chiesa e ai fedeli, lo abbiamo visto all’opera, oltre che nelle funzioni religiose, tra quasi duecento ragazzi scatenati e festanti in una sorta di campo estivo nell’area ricreativa della parrocchia. Prima le fotografie sono state collocate in quest’area in una sorta di anteprima, poi con la visita del Vescovo domenica 30 giugno sono state portate all’interno della chiesa: sono 22 ingrandimenti  tra una stazione della via Crucis e l’altra,  un percorso  istruttivo ed edificante che si sviluppa in almeno 60 foto più piccole che declinano in dettaglio i vari “capitoli”.

Ci inoltriamo in quest’itinerario aiutati dalle ampie didascalie che sono una guida ragionata  della storia, e da quanto ci dice don Davide: le fotografie sono state scattate dai quattro partecipanti alla visita in Uganda, nella diocesi di Lira, tra cui lui stesso, e le didascalie sono frutto di riflessioni comuni. Insiste nel sottolineare la partecipazione dell’intero gruppo a ciò che attiene alla mostra.

La fede in un percorso fotografico illuminante

Il percorso inizia dal santuario costruito in Uganda  dopo la visita di Paolo VI nel luogo dell’uccisione di Carlo Lwanga a fine ‘800. All’inaugurazione del 1975 presenziò mons. Giuseppe Matarrese, ora vescovo, il primo parroco della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda, nella cui costruzione si batté con tutte le sue energie e capacità per superare gli ostacoli dei contestatori.

L’immagine del santuario ugandese, “Namugongo”,  è suggestiva, ci sentiamo subito proiettati in un mondo diverso dal nostro dalla forma di capanna del tempio;  si può vedere  una continuità ideale con la chiesa romana che si ispira all’ambiente silvestre. A lato, davanti all’altare c’è un’altra fotografia celebrativa, “Il martirio”,  riprende il sacrario che evoca il rogo con le eroiche vittime.

Vicino è esposta l’immagine delle capanne a forma conica di fango e paglia, nella loro concezione semplice e primitiva le forme più antiche di abitazione nella storia dell’uomo dopo le grotte preistoriche, sono tuttora le loro case; la dispensa è in una capanna più piccola e alta.

E’ questo il centro di un sistema composto da 80 parrocchie ciascuna delle quali comprende diecine di “Cappelle”, nuclei sparsi nel territorio dove l’attività viene svolta soprattutto da catechisti laici appositamente formati: è l’insegnamento che viene dall’esperienza ugandese, è possibile sopperire all’insufficiente numero di religiosi con il supporto di laici  ai quali vengono affidate le attività che è possibile delegare.

In queste circostanze l’arrivo dei parroci e soprattutto la visita del vescovo sono momenti di liturgia e di raccoglimento cui  si aggiunge la confessione: ne danno testimonianza le immagini singole e collettive, che rendono l’atmosfera di  partecipazione popolare e di festa. Spesso vengono donate al presule delle pecore e delle capre,nel rendere concreta l’immagine del “Buon Pastore”, impersonato nelle foto dal vescovo Giuseppe Franzelli che ha accolto i confratelli venuti da Roma; altra assonanza, al Buon Pastore è dedicata la chiesa romana nel piazzale intitolato ai Caduti della  Montagnola, prima ricordato. Tornando all’Uganda, “Il Vangelo”  viene portato in processione e conservato in una capanna riservata insieme ai semi della semina successiva, a sottolineare il legame tra le due semine, entrambe necessarie alla vita e alla costruzione del futuro.

Abbiamo poi fotografie del “Battesimo” e della “Cresima”: moltissimi i battezzati, non solo piccoli ma anche adulti, non manca nulla, l’acqua e l’unzione, le candele e il vestito bianco; ci sono belle istantanee di gruppo e primi piani di una etnia dai tratti somatici molto regolari. Per la cresima vi sono immagini singole e d’insieme, che documentano la cerimonia svoltasi in presenza dei visitatori italiani, nella quale ben 460 hanno preso il sacramento dalle mani del Vescovo.

Dopo la parte strettamente religiosa del racconto fotografico ecco la parte nella quale emergono i costumi e il legame alle tradizioni; e insieme, le iniziative di assistenza e cura della popolazione che sono promosse dai missionari e vengono realizzate rispettando scrupolosamente le radici locali.

Le fotografie sui costumi e sulla vita ugandese

Il racconto fotografico si dipana con “Il  villaggio”: abbiamo già visto le capanne  a forma conica, di fango e mattoni con la copertura di frasche, il focolare è all’aperto, qualche animale domestico e intorno la terra da coltivare. Di lì vengono le risorse per la vita, quello che viene definito “Il pane quotidiano”: si vive con i frutti del suolo favoriti dall’acqua che il cielo manda.  Le immagini rendono “Il clima” propizio, ci sono piogge improvvise, poi torna repentinamente il sereno, le precipitazioni sono tali da dare una natura rigogliosa e due raccolti l’anno. Però spesso per l’acqua potabile si deve andare lontano dove sono i pozzi, lo fanno tutti, adulti e ragazzi, lo vediamo nelle  fotografie piccole con otri e recipienti. “La musica” è una componente delle cerimonie liturgiche, gli strumenti sono arpe e tamburi molto semplici, producono ritmi definiti “caldi e avvolgenti”.

E le provvidenze sociali e assistenziali? Sono necessarie in un territorio vastissimo dove il 50% della popolazione ha meno di 6 anni e le donne hanno in media 6 figli a testa. “L’infanzia” è resa dagli splendidi primi piani dei visi di bimbi e dalle foto collettive dei loro giochi, molto eloquenti.

Allora ecco la “La scuola”, anche qui una sorpresa: sono fotografate lunghe teorie di bambini che all’alba si incamminano, in tenuta scolastica, verso i luoghi lontani di insegnamento; le aule, che vediamo nelle immagini piccole,  contengono 70-80 e anche più di 100 scolari, dinanzi a questi dati illustrati dalle immagini viene da sorridere pensando ai nostri parametri. Pur così la partecipazione è attenta e l’insegnamento efficace.

Poi i “Dispensari”, “a metà strada tra ambulatorio e ospedale”, in terre dalle grandi distanze è il primo presidio per la maternità e altre emergenze sanitarie, di lì se necessario vengono indirizzati all’ospedale più vicino; è possibile questa forma di assistenza per il personale esperto che con dedizione sopperisce ai pochi mezzi.

Mentre per la “Disabilità”, i  malati di Aids e i rifugiati,  le difficoltà nell’assistenza sono notevoli, ma non mancano iniziative caritatevoli, come quella dell’anziana suora missionaria che parlando dei suoi primi 35 assistiti diceva di aver fatto alzare in piedi e, se ciò non era stato possibile, messo in carrozzina, i bimbi che prima “erano a terra come bisce”.  Sono “i poveri tra i poveri”, ma hanno  “La forza dei deboli”, su cui fa leva la cooperativa benemerita Wawoto Cacel di Gulu, sorta per loro, impegnata nel toglierli dall’isolamento inserendoli nel lavoro tra conoscenze, esperienze e ambiente creativo. Altrettanto benemerito l'”Orfanotrofio” “Babies’ Home”  dove trovano un clima sereno e familiare orfani e bimbi abbandonati o con genitori in situazioni difficili fino a tre anni di età senza distinzione di etnia o religione, provenienti da tutti i distretti del nord del paese; stupenda l’immagine del bimbo seduto a terra davanti alla parete celeste mentre gli si prepara il latte.

Le immagini-simbolo, un podio ideale

Tutto questo è illustrato da immagini che rappresentano un vero documentario. Ma c’è di più, ci sono tre immagini-simbolo dal contenuto profondo, un podio ideale con la foto festosa al culmine.

L’obiettivo fotografico è riuscito a rendere evidente il significato di “Cercare”, che don Davide ha fissato in un’immagine intensa con una didascalia altrettanto significativa: “Incontro di sguardi. Siamo di fronte, ma riusciamo a vederci veramente, a comprenderci? Quante barriere dobbiamo far cadere per superare le nostre categorie e capire l’altro, il valore del suo vivere e vederne veramente i bisogni, così da poterci accogliere ed amare per quello che siamo”. L’immagine ha colto gli occhi penetranti del bambino ugandese dietro un muretto-staccionata che rappresenterebbe la barriera da superare. In fondo, in questo “cercare” c’è il contenuto e il significato dell’azione missionaria, che è feconda quando ad essa si unisce un’accoglienza ricettiva. Del resto, l’attività dei catechisti laici è fondamentale per superare le difficoltà delle distanze e la dispersione sul territorio nella penuria di ecclesiastici. Un problema che non è escluso si possa presentare anche nel nostro paese con la crisi delle vocazioni  e potrebbe trovare una risposta in questo modello di coinvolgimento attivo dei laici.

Oltre ai due occhi dietro la barriera di “cercare” ci ha colpito il viso dell’adulto ugandese in primo piano con dietro il religioso e altri visi assorti nell’immagine del “Battesimo”, esprime qualcosa di altrettanto intenso.

La terza immagine-simbolo di questa visita speciale del gruppo missionario nella lontana Uganda è festosa, una selva di braccia di bambini protese verso la mano di don Davide che svetta con la sua altezza; sono “Caramelle”, ma evocano qualcosa, anzi molto di più, fortemente voluto: il futuro. E’ quanto abbiamo cercato di raccontare seguendo la Fotostory della mostra nella parrocchia, per questo nel podio delle prime tre foto per noi è sul gradino più alto e l’abbiamo messa in apertura.

Così potrebbe terminare il nostro resoconto, non prima di aver sottolineato una notazione degli autori: “Lo scatto di una foto è stato anche un modo per avvicinarci e comunicare al di là della parola, a volte motivo di sorpresa per i più piccoli, rivedendosi nella foto appena scattata”; e l’immagine intitolata “Fotografie” documenta questi momenti di stupore e di gioia. Ma l’interesse giornalistico e soprattutto l’approfondimento culturale ci ha portati a voler andare oltre, a “cercare” anche noi: don Davide ci ha fatto incontrare padre Torquato Paolucci, già missionario in Uganda.

La testimonianza di padre Torquato, oltre 30 anni  in Uganda

E’ stato un incontro rivelatore, oltre che coinvolgente per la carica umana di padre Torquato, che ha collaborato attivamente alla visita in Uganda del gruppo missionario. Un sorriso leggero illumina il suo sguardo sereno, la sua parola è chiara e ispirata. Dal 1972, poco più che trentenne, al 2010, missionario comboniano vissuto 32 anni in Uganda, zona di Logongu, ai confini con Sudan e Congo, 300 chilometri a nord ovest dalla zona dove sono state scattate le foto della mostra; una lunghissima permanenza con un’interruzione di sette anni in cui è tornato in Italia.

Oggi la diocesi di Lira nel Nord del paese, in cui ha operato,  con un vescovo comboniano ha 18 parrocchie, un totale di 1200 “cappelle” disperse nel territorio e solo 50 sacerdoti: le “cappelle” sono affidate ai catechisti laici che guidano anche la liturgia della parola e il Vangelo, la pastorale e il catechismo.  Quando vi andò missionario, in che situazione si trovava il paese? gli chiediamo.  

Fu un inizio difficile nel villaggio di origine di Amin Dada, il  dittatore che ha dominato l’Uganda dal 1971 al 1979 con la sua ferocia sanguinaria: ruppe subito i rapporti con l’India, espellendo gli indiani, e con l’Occidente, isolando il paese e condannandolo all’impoverimento, esaurite tutte le risorse disponibili; scatenò persecuzioni razziali e guerre tribali con centinaia di migliaia di vittime.

Sul piano religioso e soprattutto umano, il racconto del missionario ci ha consentito di comprendere meglio la realtà documentata dalle immagini. Dell’importanza dei catechisti abbiamo detto, e padre Torquato ce l’ha documentata,  ora apprendiamo da lui che hanno una formazione molto solida, lo sa bene perché negli ultimi sette anni ha diretto in Uganda il centro per catechisti. Ce ne descrive la rigorosa formazione: un anno di preparazione, poi quattro anni a svolgere attività in comunità, quindi due anni di formazione finale, che si svolge nel centro lontano dalle famiglie dove possono tornare solo ogni tre mesi per trenta giorni. Il sacrificio per le famiglie, spesso con diversi figli, è notevole, considerando che viene a mancare il sostegno e la protezione dell’uomo su moglie e figli, per questo si chiede l’approvazione della moglie prima di accogliere la domanda; poche le catechiste donne perché per lo più la presenza dei figli piccoli lo impedisce. La scelta definitiva del catechista locale spetta comunque alla comunità che decide se accettarlo.

Sacerdoti africani e catechisti locali sono sempre più i protagonisti della chiesa ugandese, padre  Torquato ci parla dell’impressione avuta nel dicembre 2012 quando, dopo due anni, è tornato nella diocesi per il centenario dell’arrivo dei comboniani nel 1912, con la partecipazione del cardinale Filoni prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione, e del presidente della Repubblica d’Uganda: c’erano oltre 50.000 persone, venute anche dopo giorni di cammino dormendo sotto gli alberi. Ebbene, tanti sacerdoti africani, solo 7-8 missionari: il passaggio di testimone è ormai in atto.

Il 60% sono cattolici, meno del 30% protestanti, il 10%  mussulmani, pochissimi i pagani, seguaci delle credenze animiste che i missionari trovarono in quella terra. Chiediamo quale è stata la spinta che ha portato alle conversioni di massa, padre Torquato ha le idee chiare:  “Il loro dio lo identificavano nella natura, dal fiume agli alberi, ne avevano una percezione alquanto vaga; sentivano invece molto gli spiriti ai quali facevano risalire i fatti della vita. Il cristianesimo li ha affascinati perché vi hanno trovato un riferimento sicuro, la spinta della speranza”.  Quando nell’imperversare di una delle tante guerre che hanno insanguinato il paese per vent’anni furono uccisi 13 missionari, temevano che gli altri, tra cui padre Torquato, lasciassero quella terra, cosa che non avvenne. “Se ve ne foste andati, dissero, per la nostra vita sarebbe finito tutto, perché avremmo perduto la speranza”.

Una speranza di fede e una speranza di vita, dato che “la vita cristiana è una vita concreta, espressa anche nelle celebrazioni rituali che durano un’eternità. Non potevo fare una rapida visita per proseguire il giro in altre comunità, dovevo restare con loro l’intera giornata, pranzare insieme, condividerne tutti i momenti”. Padre Torquato ci ha fatto capire anche come nascono i progetti e le iniziative assistenziali di cui abbiamo visto eloquenti immagini nella mostra fotografica. Alla base c’è il Cristianesimo concreto, che manifesta nelle opere il profondo credo interiore. Le scuole e i pozzi per l’acqua, i dispensari e gli ospedali sono “espressione dell’amore di Cristo perché i suoi figli possano avere una vita migliore”, è come se le iniziative avessero un’ispirazione superiore.

A volte l’idea di un progetto nasce addirittura dai gruppi di 10-15 componenti che si riuniscono per meditare sulla Bibbia – ci dice tra l’altro che è riuscito a farla tradurre nella lingua locale, il logbara, lingua nilotica, una delle 27 lingue del paese, altre sono bantu, si studia e si parla l’inglese – iniziando con la preghiera, poi leggendo due volte il brano prescelto, quindi meditazione e interpretazione di ciascuno su ciò che significa per la propria vita e per la comunità; di qui la riflessione si può allargare nella concretezza del Cristianesimo vissuto con iniziative e progetti.

Chiediamo a padre Torquato, al termine dell’incontro, il suo sentimento da missionario  rientrato in Italia  dopo  trent’anni  trascorsi in Uganda. “Il mal d’Africa per me è sentire la mancanza di questa gente, che mi ha dato molto di più di quanto io ho potuto dare loro”,  risponde.

La prova la troviamo in tre episodi toccanti che ci ha raccontato nella conversazione, non li ha rievocati riferendoli a questa conclusione, ma ci sembra ne siano la logica edificante premessa.

Il primo è all’inizio della missione, nel 1972, mentre si recava in auto in una località lontana per svolgere l’attività pastorale, su una strada fangosa, nell’ambiente inospitale, difficile e ostile che lo spingeva a voler chiedere di essere spostato in  una sede più consona alle sue aspettative. Ebbene, vede una giovane donna con le stampelle che si muove a fatica nel fango, mancano 6-7 chilometri alla meta, li avrebbe percorsi  a piedi con una gamba irrigidita dalla paralisi. “Perché non si limita a pregare a casa?”  le chiede padre Torquato. La risposta:  “Ho 18 anni, in queste condizioni nessuno mi sposerà, non avrò una famiglia, non vedo prospettive, ma quando prendo Cristo dentro di me con la comunione la mia vita si illumina, acquista un senso, un valore”.  Una lezione di vita e di fede per il missionario  che stava per arrendersi alle prime  difficoltà, di qui la sua ferma decisione di restare.

Un altro episodio al termine dei trent’anni vissuti da missionario in Uganda, nel 2010, allorché i superiori gli hanno chiesto di tornare in Italia. Questa volta non vorrebbe farlo, è lo stato d’animo opposto a quello dell’episodio all’inizio del mandato missionario. La lezione di vita e di fede viene da un’altra ugandese, sposata a  un aspirante catechista con 6 o 8 figli, padre Torquato prima di accettarlo ha voluto verificare di persona che la moglie fosse consenziente, gli sembrava difficile dato il peso familiare. La donna, confermandogli l’assenso, lo motiva così: “Se Dio ha chiamato a sé mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?” E padre Torquato collega la chiamata dei superiori al volere di Dio con lo stesso interrogativo dalla risposta scontata: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Di qui la pronta accettazione superando ogni esitazione.

Ma l’episodio ancora più toccante, se è possibile una graduatoria in questo diapason di sentimenti, si trova tra i due ora evocati, nel corso di una delle guerre sanguinose che hanno sconvolto il paese. Padre Torquato stava tornando indietro nella tipografia dove si era recato con un altro missionario la cui scelta di vita era stata eroica essendo figlio unico di madre vedova. Ebbene, la loro auto viene affiancata da un veicolo da cui spuntano  due fucili spianati, il confratello al volante non si ferma all’intimazione degli uomini armati, l’auto è delle suore e non vuole perderla; partono i colpi, padre Torquato si china e sente sibilare i proiettili sopra la testa, il suo compagno viene colpito dietro il collo, muore sul colpo. L’auto si infila fra i cespugli e si ferma, gli assassini depredano ciò che possono sui corpi, il suo è così insanguinato che non si accorgono che è vivo. Quando viene soccorso e portato in ospedale è livido di rabbia, sente salire una violenta reazione contro chi ha commesso il barbaro assassinio di un missionario a lui così vicino. Le due infermiere che lo curano, a un certo punto gli chiedono di unirsi a loro nella preghiera: intendono rivolgerla alla vittima ma anche ai suoi assassini. Tutto il suo essere si ribella, non gli si può chiedere di perdonare, tale è stato l’orrore, finché sente il groppo salire alla gola irresistibile e poi sciogliersi in un pianto irrefrenabile. Allora la sua preghiera si leva anche per gli assassini, ha perdonato.

Il missionario ci dice che nella sua attività pastorale, nella predicazione, invitava sempre al perdono, unico modo per essere in pace con se stessi oltre che con gli altri; ma quella volta proprio lui non riusciva a metterlo in pratica, fino all’invito delle  ugandesi: “L’Africa mi ha dato il dono del perdono!”, esclama. E aggiunge: “Pensavo di portare Cristo io, l’ho trovato là, era con loro”.

Salutiamo padre Torquato con qualcosa di nuovo nel cuore, ce lo hanno dato i suoi racconti e i suoi occhi con un sorriso speciale, quello della perfetta letizia. Rivediamo gli occhi del bimbo ugandese dietro il muretto-staccionata, il titolo della foto era “cercare”: la  barriera è caduta, la ricerca si è conclusa.

Ci accompagnano le sue parole, dopo una trentennale attività missionaria: “La mia vita è bella” è il suo saluto.  Ripensiamo al suo “mal d’Africa”, sente che gli manca quanto di edificante gli ha dato un paese nella vita semplice alimentata dalla fede e dalle opere, anche se lo serba nel cuore.

Le fotografie della mostra ci sembra ne ricevano una nuova luce, le scorriamo un’ultima volta con emozione, presi ancora di più dalla suggestione di un qualcosa di molto profondo, di superiore.

Info

Chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda, nel Largo con tale nome, Roma, Poggio ameno, ‘XI Municipio. Cfr. su questa mostra il nostro articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it” il 18 luglio 2013. Per le mostre citate cfr. i nostri servizi: in “cultura.inabruzzo.it” su “Arché” il 9 dicembre 2011, in questo sito su “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, in “cultura.abruzzoworld.com” sulla mostra “Apocrifi nell’arte ” il 29 settembre  e 3 ottobre 2009,  e su “Il Potere e la Grazia” il 28 e 29 gennaio 2010; in questo sito sul “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” il 29 giugno 2013.Per altri temi religiosi,  in “cultura.abruzzoworld.com” i nostri servizi “Perdonanza 2009” il 3 settembre 2009, e in questo sito “Preghiere per l’Italia”  il 9 luglio 2013. In materia di archeologia cristiana i nostri servizi in “notizie.antika.it”: sulla mostra di Assisi “L’archeologia del colore” il  23, 30 aprile e 7 maggio 2010, sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo” il 29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo” il 10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore” il 5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo il 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” il 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma” il16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.abruzzoworld.com” il nostro servizio “Africa? Una nuova storia”, il 15 e 17 gennaio 2010.

Foto

Le immagini sono state fornite da don Davide Lees per il gruppo missionario della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, che si ringrazia con i titolari dei diritti. In apertura, “Caramelle”,  don Davide le distribuisce ai piccoli ugandesi, seguono “Namugongo” il Santuario, e “Il villaggio”, “Orfanotrofio” e “La forza dei deboli” con “i poveri tra i poveri” al lavoro, poi“Battesimo” e “Cercare”; in chiusura l’altare della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda con don Davide, davanti sono espostele foto del santuario ugandese “Namugongo” (a sinistra) e del sacrario “Il Martirio” (a destra), altre foto piccole si intravedono sulla parete di fondo.

Preghiere per l’Italia, religioni e unità nel 150°, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Il cattolico Giovagnoli, l’ebreo Di Segni, il mussulmano Redouane in una tavola rotonda sull’apporto delle religioni all’Unità d’Italia che ha celebrato i 150 anni sotto un profilo di particolare interesse tanto più in una sede come il Vittoriano, l’Altare della Patria il cui nome, è stato osservato, mutua una terminologia religiosa per l’identità e le istituzioni di un popolo al di là delle confessioni e fedi professate. In questo senso la tavola rotonda “Preghiere per l’Italia”, il titolo dato all’incontro del 24 novembre 2011, è stato come un rito laico. Ci sembra che i temi e gli argomenti trattati siano così rilevanti e tuttora validi, da meritare di tornarci dopo un anno e mezzo dal convegno.

Non si è trattato, naturalmente, di un dialogo interreligioso, anche se è stato evocato, ma culturale: un confronto sui rispettivi apporti all’Unità nazionale non tanto nel senso epico-risorgimentale, quanto come formazione di una coscienza comune nella condivisione dei valori della nazione. Il moderatore Marcello Pizzetti, direttore scientifico  del museo della Shoah di Roma, ha di volta in volta stimolato i tre partecipanti con sapienti siparietti nel passare il testimone, da commentatore e insieme “starter” pronto e avveduto.

I cattolici nella costruzione dell’identità unitaria

“Cosa dobbiamo noi italiani alla religione e alla cultura cattolica, è stato un apporto di coesione nazionale o meno?” questa la domanda che il  moderatore ha posto in apertura ad Agostino Giovagnoli, ordinario di storia contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore. Il docente cattolico ha cominciato con il dire che il contributo delle religioni è innanzitutto di natura culturale: “Sono forze profonde che esprimono tensioni ideali, attingendo anche a questo patrimonio si è costruita l’Unità nazionale”.  Il Risorgimento nasce su un forte disegno istituzionale, ma quando si va nella comunità, le varie componenti si fondono sul terreno della cultura. Prima del 1861 ci fu elaborazione culturale, una fucina di idee improntata a una visione unitaria di identità nazionale, dalle opere letterarie di Leopardi e Manzoni, a quelle musicali di Verdi, ai pittori del Risorgimento; e qui vogliamo richiamare la mostra alle “Scuderie del Quirinale” che fu dedicata appunto ai “Pittori del Risorgimento”, con le visioni belliche dei pittori-soldato e quelle simboliche dei pittori- patrioti.

In questa dimensione si colloca l’apporto della religione cattolica, che si è fuso con quello delle altre religioni, in particolare l’ebraica nella comune matrice cristiana, e con l’apporto della cultura laica. Elementi culturali diversi si sono intrecciati nell’immaginazione collettiva: “La nazione è stata una comunità pensata prima di essere realizzata”, coagulando valori unitari sin dalla prima metà dell’800. Il contributo della religione cattolica al modello di nazione è risultato fondamentale, considerando che “da noi il cemento unitario non è stato di natura etnica, cioè nei costumi e simboli, tradizioni e origini comuni; anzi, dal punto di vista etnico gli italiani sono diversi”; non  a caso erano divisi in tanti piccoli stati in base a tale specifica identità. Il cemento unitario non è stato neppure di natura economica o politica, ma si è basato sull’identità culturale, quindi anche sulla componente religiosa; intesa non come confessione ma come insieme di valori che riguardo alla cultura cattolica hanno permeato da sempre l’intera società.

La presa di coscienza della propria identità in base ai valori della libertà è resa da Manzoni in “Marzo 1821”, che richiama la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto mediante il cammino comune verso l’obiettivo unitario, la terra promessa. Si tratta di un’identità non etnica ma di vocazione storica, del tutto originale rispetto ad altre nazioni europee, che la rende compatibile con altre identità nazionali. Ogni popolo ha la sua storia, anche se non così straordinaria, e riesce ad affermarla in tutte le vicende. E quando la forza identitaria non deriva dalla struttura statuale come in Francia né dall’isolamento geografico come in Inghilterra, come acquisirla?

Per l’Italia deriva dalla storia comune, e quando Mazzini inserisce la Giovane Italia nella Giovane Europa lo fa sulla base di un’identità nazionale non naturale, ma spinta dalla volontà di stare insieme per scelta, riconoscendosi in una cultura comune. Sembrerebbe un’identità debole, invece è fortissima perché non scalfita dalle diversità, che sono evidenti e costituiscono una ricchezza, aggiungiamo; e non è minata da una storia che è una successione di errori e tradimenti pur nella prospettiva risorgimentale, ma come nella Bibbia trova la composizione nel percorso comune: la formazione di una comunità culturale  che unisce le religioni tra di loro e con il mondo laico.

Giovagnoliha concluso collegando a questa visione il problema della cittadinanza agli immigrati, nella drammatica contrapposizione tra lo “ius sanguinis” in vigore e l’aspirazione allo “ius soli” che assimilerebbe automaticamente tutti coloro che nascono in Italia, magari con dei tempi di residenza pregressa dei genitori. “La nostra cultura indica che il ‘sangue italiano’ non esiste, né come appartenenza genetica né come ideologia”,  esiste invece il comune sentire sul piano dei valori, e questo è anche patrimonio degli stranieri che vivono nel nostro paese e i cui figli, nati in Italia, in nulla si distinguono dagli italiani propriamente detti.

La partecipazione degli ebrei al processo unitario

Anche per Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la costruzione dell’Unità nazionale – con la liberazione dell’Italia dal giogo straniero – richiama il modello biblico degli ebrei affrancati dalla schiavitù in Egitto che Giuseppe Verdi ha tradotto in musica nel “Va pensiero” del Nabucco. Gli ebrei italiani si identificano in questo modello  e costruiscono la casa comune nell’Italia unita sebbene sembri contraddittorio rispetto a Sion e alla terra promessa. Le nuove idee di libertà sono state assimilate immediatamente, la popolazione di ebrei è urbana e non contadina, con strati di miseria proletaria ma con un nucleo intellettuale molto dinamico; al tempo dell’Unità si stima che l’85% del totale della popolazione fosse analfabeta, tra gli ebrei italiani invece la percentuale corrispondente era del 10%. Questo dava la possibilità di raggiungere i vertici della società e delle istituzioni ma loro non cercarono di prevaricare. E anche dopo le leggi razziali “il dramma è stato metabolizzato, non c’è comunità più nazionalistica per l’Italia di quella ebraica”.

“Tutto ciò nasce dalla condivisione dei valori di una stessa comunità culturale, e a tal fine non basta nascere in una famiglia italiana né sul suolo italiano – afferma entrando anche lui nel terreno minato dello “ius sanguinis” e “ius soli” – è necessario avere la consapevolezza che esiste una comunità culturale e la volontà di farne parte”. Racconta la storia incredibile, che risale al 1850, del giovane ebreo al quale fu negato l’accesso all’università per motivi razziali; e rivendica la reciprocità nel senso che l’Italia viene sentita come patria nel momento in cui attraverso di essa si arriva alla parità dei diritti: “Il processo unitario è prima di tutto un processo di libertà. poi anche senso di appartenenza”. Gli ebrei pregano per il ritorno a Sion, ma con il luogo dove vivono, nel caso l’Italia, “hanno un legame molto stretto, un insieme di affetti e di cultura condivisa; un ebreo italiano in Italia è un ebreo, in Israele è un italiano, l’anima di ogni ebreo è una mescolanza di identità, e questo rappresenta la vera ricchezza”.

Anche sul terreno pratico il contributo degli ebrei italiano al processo unitario è stato notevole, mediante la partecipazione alle battaglie risorgimentali, dove hanno combattuto in prima fila e in gran numero, cita per tutte Curtatone e Montanara. E richiama le parole di Gramsci secondo cui “gli ebrei  hanno partecipato alla costruzione dell’Unità nazionale come i romagnoli”. Riconosce che non c’è stata unanimità in questo processo, e tra le opposizioni cita quella dei Rotschild a Napoli:  ricostruiscono una comunità e la sinagoga, e non vogliono avere nulla a che fare con i portatori delle istanze risorgimentali che considerano sovversivi. Con la guerra coloniale di Libia del 1897 nacquero gruppi che concepivano il sionismo come filantropico e ne facevano un fatto identitario; a quel punto esplosero i contrasti sull’identità che si accentuarono con la prima guerra mondiale quando gli ebrei diedero un contributo di eroismo più in Italia che altrove. I momenti di crisi si aggravarono con il fascismo, allorché fu posta l’alternativa di stare con l’Italia fascista o non essere considerati italiani, secondo il ben noto “o con noi o contro di noi”. Nel 1929, 9 anni prima delle leggi razziali, una grave crisi attraversò il processo unitario, gli ebrei non erano più considerati cittadini. “Oggi la comunità ebraica in Italia ha almeno 100 anni, con interessi cosmopoliti, e gli ebrei si sentono cittadini del mondo, con salde radici in questa terra e l’orgoglio di difenderne l’identità nella sua Unità”.

I sentimenti  della comunità mussulmana

Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, ha portato “la voce del mondo islamico e mussulmano, ma d’Italia”, ha tenuto a sottolineare. “Questa comunità è recente – ha proseguito –  non ha partecipato all’unificazione, ma considera l’incontro al Vittoriano un ‘battesimo irrituale’ per accompagnare le celebrazioni del 150°”. Sente di far parte del “tessuto sociale dell’Italia che ha mille anime e la comunità islamica costituisce una di queste anime. Partecipare alle celebrazioni rende onore all’anima che vi partecipa e cerca di comprendere il passato nel quale non era presente”. Ha sottolineato come il Vittoriano sia il monumento-simbolo del compimento dell’Unità nazionale e ha ricordato che il processo unitario si concluse alla fine della prima guerra mondiale con le terre irredente riunite alla patria; “chiamarlo Altare della Patria dimostra come i laici usino un linguaggio religioso”, ha detto, citando poi la Moschea di Roma di Monte Antenne, la più grande d’Europa.

Dopo questi riconoscimenti all’Italia con riferimenti alla sua storia, ha parlato degli incontri interreligiosi degli ultimi anni improntati al dialogo per contribuire a un percorso di pace duratura tra i popoli. E’ un itinerario di grande importanza data l’inquietudine del mondo di oggi e la speranza in un mondo pacifico, l’opposto dello scontro di civiltà. L’Italia è un sistema complesso in cui gli italiani di fede cristiana interagiscono con i nuovi italiani anche mussulmani: “Oggi le società sono multietniche e devono riconoscere le diversità, che fanno parte della ‘società plurale’ e non possono degenerare in avversità”. Con lo sviluppo del dialogo le religioni offrono il loro contributo per superare i contrasti e dare un nuovo sviluppo alle realtà presenti, che sono tre: “La prima è lo Stato in cui dimorano, la seconda la società in cui vivono, la terza lo  spazio in cui pregano”.

In questa visione lo Stato di cui si fa parte è la prospettiva ideale e materiale da condividere con gli altri, in modo da produrre consenso e unità e comporre i dissensi. “La religione può assecondare lo Stato senza prevaricare le autonomie, Dio ha dato all’uomo la religione come fonte di conforto e sicurezza, e come mezzo per realizzarsi in rapporto ai propri simili”. L’Islam ha nella radice del proprio nome la pace tra gli uomini che discende da Dio. “Shalam vuol dire pace ed è anche il modo con cui si invoca Dio. I credenti sono cittadini che si alimentano di fede, e questo non è un fatto confessionale. Le religioni devono svolgere un ruolo pacificatore nel rispetto reciproco”.

Redouane ha concluso con una lezione di vita: “Vivere insieme è complesso ma è meno arduo se ognuno si fa carico della propria parte di responsabilità. L’organizzazioni interna e l’assetto della società civile è importante ma resta fondamentale il ruolo delle religioni”. Il dialogo interreligioso è un momento di riflessione e meditazione e va visto come preghiera corale: “La religione non è un edificio di dottrine ma il confrontarsi continuo di tutti sul mondo, sulla vita, sui grandi interrogativi dell’esistenza. Dialogare è interrogarsi insieme e porsi domande su presente e futuro”.

E se i musulmani d’Italia si sentono come un’anima dell’Italia – ha commentato Pizzetti –  la loro presenza anche massiccia non può portare a uno scontro di civiltà, che farebbe sentire tutti come minoranze minacciate. Ma allora, come si devono migliorare le forme di convivenza, perché si possa costruire insieme la società dell’integrazione? A questa domanda ancorata sull’oggi hanno risposto Giovagnoli e Redouane.

I pericoli e le risposte dell’oggi

Secondo Giovagnoli, i pericoli sono reali, tuttavia di fronte alla minaccia di frammentazione le religioni reagiscono: così i musulmani, gli ebrei e anche i cattolici i quali pure potrebbero avere motivi di opporsi allo Stato laico che ha sostituito quello confessionale dopo la rottura traumatica con la Chiesa. Invece la convinzione dei cattolici sul valore dell’Unità è stata totale anche negli ultimi due papi stranieri: viene ricordata la convocazione dei vescovi per l’Unità d’Italia da parte di Papa Giovanni Paolo II nel 1994, nel momento delicato del passaggio dalla prima alla seconda repubblica. “Le religioni sono per la difesa dell’Unità nazionale perché avvertono che dietro le spinte alla frammentazione c’è l’esclusione dell’altro, che può riguardare anche il diverso credo religioso; tanto che il secessionismo, frutto della frammentazione, è accompagnato dalla xenofobia, incompatibile con il messaggio religioso di apertura a tutti”.

Per questo le celebrazioni dell’Unità nazionale dopo la freddezza iniziale delle forze politiche sono state molto sentite secondo il volere del Presidente della Repubblica: gli italiani vi si sono riconosciuti non per un orgoglio nazionale sciovinista estraneo alla nostra mentalità, bensì per un senso di identità che è appartenenza culturale. La sfida del futuro è accettare che ci siano nuovi italiani con le seconde generazioni di immigrati, risorsa straordinaria per il Paese su un crinale difficile che li stimola a maturare una propria sensibilità. “Hanno una gran voglia di essere italiani e noi troppo spesso lo dimentichiamo; vedono nella cultura e nella società italiana una ricchezza e noi spesso non lo consideriamo. E’ significativo osservarli dal di fuori, si sentono italiani più dei figli di italiani, e sarebbe assurdo oltre che ingeneroso non raccogliere una spinta simile, la coesione nazionale impone di dare tutto lo spazio possibile all’integrazione”.

Integrare i nuovi italiani è un’esigenza dinanzi alla realtà di una presenza forte, è una questione di prospettiva che non va immiserita da interessi immediati e miopi di tipo politico o, peggio ancora, elettorale. Cavour pur nel suo laicismo capì che la rottura tra Stato e Chiesa avrebbe danneggiato entrambe le istituzioni, è così oggi nei rapporti con gli immigrati e devono capirlo anche quelli che credono di avvantaggiarsi dando l’ostracismo.

Su questa posizione anche Redouane, nell’ottica dei mussulmani: ha stigmatizzato le voci di secessione tornate a farsi sentire nel 150° dell’Unità d’Italia, per uno sterile provincialismo. “Le religioni hanno grande importanza per la loro influenza sul piano culturale, danno il senso non tanto dell’uguaglianza quanto della fraternità umana, che fa sentire tutti fratelli e sorelle su un terreno che non può ammettere lo scontro di civiltà”. Questo non ha alcuno sbocco positivo, invece ne siamo stati nutriti per dieci anni dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle, finché la primavera araba ha mostrato che l’lslam vuol creare stati pluralistici dove la religione non può venire usata come motivo di scontro. “La stessa costruzione europea si è affermata contro gli scontri religiosi per uno Stato laico pluralista dal punto di vista religioso, ora questo avviene anche nel mondo arabo; il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti ne fa parte, ispirato dalle religioni”.

L’integrazione non ha riflessi soltanto all’interno, si pensi che a sud di Casablanca l’italiano ha sostituito il francese come seconda lingua, grazie agli emigrati marocchini in Italia ritornati in questa regione; il loro apporto è notevole nel diffondere con la lingua la cultura del paese che li ha accolti. Il mondo cambia, la trasversalità è a livello globale, il motivo per cui vi sono paesi che patiscono la crisi e altri no, sta nell’alto livello della domanda interna nei secondi, come l’India, 7% di crescita annua del prodotto interno lordo con  il 70-80 %  dalla domanda interna, rispetto alla quale il paese è autosufficiente.

Nel nostro continente l’Italia non deve smarcarsi dall’Europa ma l’Europa non si salva senza coesione e senza una nuova strategia per uscire insieme dalla crisi. Lo si diceva già nel 2011 e l’esigenza oggi non è cambiata. Mentre nella primavera araba va rafforzato lo Stato per dare unità e coesione, nell’Occidente e in particolare in Italia lo Stato e la politica devono fare un passo indietro perché le istituzioni si sono indebolite lasciando che il mercato gestisse tutto. La crisi è stata creata dalla finanza e ha colpito le società vissute al di sopra dei propri mezzi. Si parla di fallimento di paesi, dopo l’Argentina rischia la Grecia, prima non era pensabile che potesse accadere, e neppure che un paese potesse ricomprare il debito di un altro paese minacciato di fallimento, e che quest’ultimo potesse essere comprato.

“Una volta risolti i dissensi interreligiosi che non hanno motivo di essere, se si arriva a pacificare i rapporti reciproci si può dire che si è sgombrato il terreno per una nuova fase di cooperazione”. Sulle questioni fondamentali non devono esservi scontri politici, come purtroppo avviene per la cittadinanza, e anche per il lavoro e la gioventù: “L’accettazione della diversità dell’altro non disconosce l’uguaglianza dei diritti, dietro la discriminazione individuale c’è quella economico-sociale”.

Redouane ha concluso ribadendo che il ruolo delle religioni deve limitarsi alla propria sfera senza entrare sul terreno politico.”A Cesare quel ch’è di Cesare, e a Dio quel ch’è di Dio”, sembra ricordare l’esponente mussulmano, e questo suona come garanzia per tutti. Faremmo bene a non dimenticarlo mai neppure noi.

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L’immagine degli oratori della Tavola rotonda è stata ripresa da Romano Maria Levante il 24 novembre 2011 al Vittoriano: parla il rabbino Di Segni, alla sua destra il moderatore Pizzetti, alla sua sinistra il mussulmano Redouane e il cattolico Giovagnoli. Si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta.

Accessible Art. La “Summer Collection” con sei artisti, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

L’estate alla galleria romana  RvM  di Michele von Buren si festeggia con la mostra “Summer Collection”, aperta dal 4 luglio al 30 settembre 2013 con la cbiusura nel mese di agosto. Vengono riproposti artisti già presentati in precedenti mostre personali o collettive con alcune  interessanti novità, in una visione  teatrale di figure scultoree e pittoriche di grande qualità e forte impatto. L’ambiente della galleria è coinvolgente e familiare, sempre nel consueto abbinamento con mobili di antiquariato. Sono messi in pratica i tre obiettivi di “Accessible Art”: inserire l’arte nella vita domestica,  offrirla a prezzi avvicinabili, superare la diffidenza verso certa arte contemporanea. 

Non serve soffermarsi su questi obiettivi, che abbiamo illustrato diverse volte, ci limitiamo a ricordarne testualmente l’enunciazione che ne fa la galleria: esibire l’arte in un ambiente informale e accogliente, più vicino ad una collocazione domestica per evitare quel senso di timore reverenziale che si può provare nel varcare la soglia di una classica galleria; rendere l’arte più abbordabile da un punto di vista economico: vengono proposte opere il cui prezzo non supera il tetto dei 5.000 euro, lasciando intatto il potenziale d’investimento; far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare. Le opere sono tutte “comprensibili” e con la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo. Questa iniziativa collega il lavoro di giovani emergenti a quello di nomi già affermati.

Il titolo della mostra non poteva essere espresso meglio della scultura di Alessio Deli, un elemento di particolare spicco della “scuderia” di 20 pittori, 4 scultori e 13 fotografi che Michele von Buren, anima della galleria e curatrice della mostra, ha formato con la sua intensa attività di selezione e promozione. Si tratta di “Summer Awakening”, è una scultura realizzata con materiale di recupero, il busto eretto, dal notevole fascino. Vicino alla parete opposta un’altra grande scultura, dello stesso artista, “Big Warrior”, figura  seduta che incute soggezione e insieme vicinanza con la sua fermezza mista a dolcezza. Sono a grandezza  naturale, come i “Seagul” al centro della sala, vediamo esposti quattro “ritratti” di gabbiani collocati su particolari trespoli che formano una composizione spettacolare. In fondo si scorgono altre due opere di Deli, il “Recycle”, un velocipede che esprime nel nome e nel materiale la filosofia dell’utilizzazione di materiale di recupero; alla parete“Cu”, un quadro con elementi metallici di rame,  perché l’artista eccelle anche in una pittura materica densa con vaste campiture monocromatiche dove sono applicati elementi metallici. Il campionario delle sue opere è completato da “Shoes”,  e “Robin”, dalle scarpe al nido con l’uccellino al di fuori: tanta tenerezza dopo la forza espressiva delle grandi sculture.

Altra presenza coinvolgente che dà il tono internazionale, anch’essa artista di spicco di “Accessible Art”, è quella di Christina Thwaites, nata a Sheffield vive a Roma: i suoi dipinti sono ispirati dalle fotografie del proprio album di famiglia, ne derivano immagini di volta in volta vivaci o assorte, umoristiche o tenere, con qualche tratto inquietante. Sono, in fondo, i diversi momenti della vita che trovano espressione nei volti, spesso allineati nelle immagini di gruppo. “Gentlemen in orange” e Mixed Hockey Team” quelli di maggiori dimensioni, il primo in un inconsueto forte cromatismo, poi “Three Generations” e “Little Stepsisters” , “Christmas Age” e le piccole “Funny Faces”, intriganti ritratti di piccole dimensioni dalle tinte intense di cui sono offerti anche dei multipli.

Fa parte delle presenze familiari nella sala principale della galleria Lorenzo Bruschini, pittore e incisore che ha iniziato a dipingere nella Scuola Libera del Nudo a Roma con il maestro Avanessian, ha fatto esperienza anche a Parigi nell’Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, ha fondato a Roma l’Atelier .”Les Oiseaux Noirs”. In un nero intenso esprime un mondo interiore, tra psiche e realtà, la sua visione è tra l’onirico e il psicanalitico con forti tratti simbolici.  Lo vediamo nei tre dipinti allineati, “L’incontro con la morte nel bosco”,”La casa abbandonata”, “Il fiore di cardo”. Vi abbiamo trovato spunti di surrealismo e anche un’eco di “Guernica”, veramente sono immagini che restano impresse. Non sappiamo se il “Fiore di cardo” per l’artista rivesta significati simbolici, “il cardo rosso” in Tolstoj esprimeva lo spirito indipendente e indomito del suo popolo, come abbiamo potuto vedere nella mostra fotografica di Davide Monteleone con tale titolo.

Sulla parete opposta facciamo la conoscenza con l’arte di Andrea  Silicati, la “new entry”, una nuova proposta in assoluto. “Maestro di pittura”, che ha fondato una scuola dieci anni fa, dove insegna disegno, pittura e tecniche dell’incisione, realizza le sue opere con sovrapposizioni di diversi strati di carta giapponese, utilizzando oli, smalti, acrilici e pigmenti naturali che compone lui stesso. Vediamo quadri intitolati “Figure”, ce ne sono cinque, che rappresentano forme appena delineate, come sospese, con schizzi di colore, le linee  spezzate e incerte danno i contorni essenziali, si intravvedono dei nudi.

Ma la mostra non è finita, nella saletta attigua ritroviamo Gianlorenzo Gasperini, con una piacevole sorpresa. Oltre alle piccole tempere  e oli che conosciamo, “Figure in piedi” e “Figure piegate” su fondo in verde sfumato,  piccole sculture che in aggiunta alle teste bianche presentate in precedenza riproducono le figure rappresentate in pittura e altri temi, come le “Teste” dei piccoli bronzi scuri; e soprattutto le opere di un nuovo ciclo: grandi sculture bianche dalle forme sottili alla Giacometti, ridotte all’essenziale, in resina, gesso e bronzo con le quali esprime l’instabilità e l’equilibrio. Gesti ampi e spettacolari, pensiamo alla danza di “Matisse”, i  titoli sono “Piroga”, “David”, “Torso”.

Oltre alle opere di Gasperini troviamo nella saletta i piccoli quadretti di Luca Zarattini. L’artista lo conosciamo, ma i quadretti sono  una sorpresa, i titoli ripetuti  “Flesso” e “Abassale”;  dei suoi dipinti di grandi dimensioni ritroviamo “Carls”, la cui intensità ci riporta alle sculture di Deli. L’arte figurativa in chiave contemporanea che fa leva sulla densità materica è ben rappresentata dai due artisti dela squadra di “Accessible Art” che utilizzano pigmenti pesanti e corposi l’uno, materiali di recupero ed elementi matallici anche nella pittura ll’altro. 

E’ la bella conclusione di una mostra che offre una verifica tangibile della formula innovativa di “Accessible Arts”, nell’ambiente espositivo accogliente, nell’accessibilità economica, nella comprensibilità di un’arte contemporanea che può entrare nelle case di tutti. Un modo positivo di iniziare l’estate con negli occhi i materiali e i colori, le forme e le composizioni delle opere esposte che sono un campionario di inventiva e di motivi, di visioni e di stimoli a cui non si resta indifferenti. Ci accompagneranno le imponenti figure mitiche di Deli e i volti familiari enigmatici della Thwaites,  le composizioni inquietanti di  Bruschini e le figure essenziali e sospese di Silicati fino alle bianche sculture  filiformi di Gasperini,  che chiudono il cerchio scultoreo aperto da Deli con le robuste forme scure dei suoi materiali di recupero, e alle figure umane dal pesante impasto cromatico di Zarattini con cui si chiude un altro cerchio, sempre con Deli, quello del figurativo di forte presa materica. 

A Michele von Buren il merito di questa attenzione ai momenti che segnano la vita familiare, che l’ha portata alla “Christmas Collection” natalizia e ora a questa “Summer Collection”. Il suo “Accessible Art” si manifesta anche così. All’inizio del “vernissage”  un improvviso quanto rapido temporale,  un battesimo che porta bene: “mostra bagnata, mostra fortunata!”, è il nostro augurio.

Info

“RvB Arts”, via delle Zoccolette  28 (Antiquariato Valligiano in  via Giulia 193)  dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso, agosto chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505; cell. 335.1633518. E mail: info@rvbarts.com; sito: http://www.arvbarts.com/.  Per le precedenti mostre di “Accessible Art” cfr. in questo sito i nostri 5 servizi alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio, 26 aprile e 21 giugno 2013; per la mostra citata nel testo cfr. il nostro servizio “Il cardo rosso di Monteleone alle Officine Fotografiche” in “guidafotografia.com”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura “Summer Awakening”,  scultura di Alessandro Deli; seguono 4 dipinti di Christina Thwaites e  3 di Lorenzo Bruschini, poi 2 di Andrea Silicati  e una scultura di Gianlorenzo Gasperini; in chiusura “Carls”, un dipinto materico di Luca Zarattini.

Accessible Art. La “Summer Collection” con sei artisti, alla RvB Arts

di Romano Maria Levante

L’estate alla galleria romana  RvM  di Michele von Buren si festeggia con la mostra “Summer Collection”, aperta dal 4 luglio al 30 settembre 2013 con la cbiusura nel mese di agosto. Vengono riproposti artisti già presentati in precedenti mostre personali o collettive con alcune  interessanti novità, in una visione  teatrale di figure scultoree e pittoriche di grande qualità e forte impatto. L’ambiente della galleria è coinvolgente e familiare, sempre nel consueto abbinamento con mobili di antiquariato. Sono messi in pratica i tre obiettivi di “Accessible Art”: inserire l’arte nella vita domestica,  offrirla a prezzi avvicinabili, superare la diffidenza verso certa arte contemporanea. 

Non serve soffermarsi su questi obiettivi, che abbiamo illustrato diverse volte, ci limitiamo a ricordarne testualmente l’enunciazione che ne fa la galleria: esibire l’arte in un ambiente informale e accogliente, più vicino ad una collocazione domestica per evitare quel senso di timore reverenziale che si può provare nel varcare la soglia di una classica galleria; rendere l’arte più abbordabile da un punto di vista economico: vengono proposte opere il cui prezzo non supera il tetto dei 5.000 euro, lasciando intatto il potenziale d’investimento; far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare. Le opere sono tutte “comprensibili” e con la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo. Questa iniziativa collega il lavoro di giovani emergenti a quello di nomi già affermati.

Il titolo della mostra non poteva essere espresso meglio della scultura di Alessio Deli, un elemento di particolare spicco della “scuderia” di 20 pittori, 4 scultori e 13 fotografi che Michele von Buren, anima della galleria e curatrice della mostra, ha formato con la sua intensa attività di selezione e promozione. Si tratta di “Summer Awakening”, è una scultura realizzata con materiale di recupero, il busto eretto, dal notevole fascino. Vicino alla parete opposta un’altra grande scultura, dello stesso artista, “Big Warrior”, figura  seduta che incute soggezione e insieme vicinanza con la sua fermezza mista a dolcezza. Sono a grandezza  naturale, come i “Seagul” al centro della sala, vediamo esposti quattro “ritratti” di gabbiani collocati su particolari trespoli che formano una composizione spettacolare. In fondo si scorgono altre due opere di Deli, il “Recycle”, un velocipede che esprime nel nome e nel materiale la filosofia dell’utilizzazione di materiale di recupero; alla parete“Cu”, un quadro con elementi metallici di rame,  perché l’artista eccelle anche in una pittura materica densa con vaste campiture monocromatiche dove sono applicati elementi metallici. Il campionario delle sue opere è completato da “Shoes”,  e “Robin”, dalle scarpe al nido con l’uccellino al di fuori: tanta tenerezza dopo la forza espressiva delle grandi sculture.

Altra presenza coinvolgente che dà il tono internazionale, anch’essa artista di spicco di “Accessible Art”, è quella di Christina Thwaites, nata a Sheffield vive a Roma: i suoi dipinti sono ispirati dalle fotografie del proprio album di famiglia, ne derivano immagini di volta in volta vivaci o assorte, umoristiche o tenere, con qualche tratto inquietante. Sono, in fondo, i diversi momenti della vita che trovano espressione nei volti, spesso allineati nelle immagini di gruppo. “Gentlemen in orange” e Mixed Hockey Team” quelli di maggiori dimensioni, il primo in un inconsueto forte cromatismo, poi “Three Generations” e “Little Stepsisters” , “Christmas Age” e le piccole “Funny Faces”, intriganti ritratti di piccole dimensioni dalle tinte intense di cui sono offerti anche dei multipli.

Fa parte delle presenze familiari nella sala principale della galleria Lorenzo Bruschini, pittore e incisore che ha iniziato a dipingere nella Scuola Libera del Nudo a Roma con il maestro Avanessian, ha fatto esperienza anche a Parigi nell’Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, ha fondato a Roma l’Atelier .”Les Oiseaux Noirs”. In un nero intenso esprime un mondo interiore, tra psiche e realtà, la sua visione è tra l’onirico e il psicanalitico con forti tratti simbolici.  Lo vediamo nei tre dipinti allineati, “L’incontro con la morte nel bosco”,”La casa abbandonata”, “Il fiore di cardo”. Vi abbiamo trovato spunti di surrealismo e anche un’eco di “Guernica”, veramente sono immagini che restano impresse. Non sappiamo se il “Fiore di cardo” per l’artista rivesta significati simbolici, “il cardo rosso” in Tolstoj esprimeva lo spirito indipendente e indomito del suo popolo, come abbiamo potuto vedere nella mostra fotografica di Davide Monteleone con tale titolo.

Sulla parete opposta facciamo la conoscenza con l’arte di Andrea  Silicati, la “new entry”, una nuova proposta in assoluto. “Maestro di pittura”, che ha fondato una scuola dieci anni fa, dove insegna disegno, pittura e tecniche dell’incisione, realizza le sue opere con sovrapposizioni di diversi strati di carta giapponese, utilizzando oli, smalti, acrilici e pigmenti naturali che compone lui stesso. Vediamo quadri intitolati “Figure”, ce ne sono cinque, che rappresentano forme appena delineate, come sospese, con schizzi di colore, le linee  spezzate e incerte danno i contorni essenziali, si intravvedono dei nudi.

Ma la mostra non è finita, nella saletta attigua ritroviamo Gianlorenzo Gasperini, con una piacevole sorpresa. Oltre alle piccole tempere  e oli che conosciamo, “Figure in piedi” e “Figure piegate” su fondo in verde sfumato,  piccole sculture che in aggiunta alle teste bianche presentate in precedenza riproducono le figure rappresentate in pittura e altri temi, come le “Teste” dei piccoli bronzi scuri; e soprattutto le opere di un nuovo ciclo: grandi sculture bianche dalle forme sottili alla Giacometti, ridotte all’essenziale, in resina, gesso e bronzo con le quali esprime l’instabilità e l’equilibrio. Gesti ampi e spettacolari, pensiamo alla danza di “Matisse”, i  titoli sono “Piroga”, “David”, “Torso”.

Oltre alle opere di Gasperini troviamo nella saletta i piccoli quadretti di Luca Zarattini. L’artista lo conosciamo, ma i quadretti sono  una sorpresa, i titoli ripetuti  “Flesso” e “Abassale”;  dei suoi dipinti di grandi dimensioni ritroviamo “Carls”, la cui intensità ci riporta alle sculture di Deli. L’arte figurativa in chiave contemporanea che fa leva sulla densità materica è ben rappresentata dai due artisti dela squadra di “Accessible Art” che utilizzano pigmenti pesanti e corposi l’uno, materiali di recupero ed elementi matallici anche nella pittura ll’altro. 

E’ la bella conclusione di una mostra che offre una verifica tangibile della formula innovativa di “Accessible Arts”, nell’ambiente espositivo accogliente, nell’accessibilità economica, nella comprensibilità di un’arte contemporanea che può entrare nelle case di tutti. Un modo positivo di iniziare l’estate con negli occhi i materiali e i colori, le forme e le composizioni delle opere esposte che sono un campionario di inventiva e di motivi, di visioni e di stimoli a cui non si resta indifferenti. Ci accompagneranno le imponenti figure mitiche di Deli e i volti familiari enigmatici della Thwaites,  le composizioni inquietanti di  Bruschini e le figure essenziali e sospese di Silicati fino alle bianche sculture  filiformi di Gasperini,  che chiudono il cerchio scultoreo aperto da Deli con le robuste forme scure dei suoi materiali di recupero, e alle figure umane dal pesante impasto cromatico di Zarattini con cui si chiude un altro cerchio, sempre con Deli, quello del figurativo di forte presa materica. 

A Michele von Buren il merito di questa attenzione ai momenti che segnano la vita familiare, che l’ha portata alla “Christmas Collection” natalizia e ora a questa “Summer Collection”. Il suo “Accessible Art” si manifesta anche così. All’inizio del “vernissage”  un improvviso quanto rapido temporale,  un battesimo che porta bene: “mostra bagnata, mostra fortunata!”, è il nostro augurio.

Info

“RvB Arts”, via delle Zoccolette  28 (Antiquariato Valligiano in  via Giulia 193)  dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso, agosto chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505; cell. 335.1633518. E mail: info@rvbarts.com; sito: http://www.arvbarts.com/.  Per le precedenti mostre di “Accessible Art” cfr. in questo sito i nostri 5 servizi alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio, 26 aprile e 21 giugno 2013; per la mostra citata nel testo cfr. il nostro servizio “Il cardo rosso di Monteleone alle Officine Fotografiche” in “guidafotografia.com”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura “Summer Awakening”,  scultura di Alessandro Deli; seguono 4 dipinti di Christina Thwaites e  3 di Lorenzo Bruschini, poi 2 di Andrea Silicati  e una scultura di Gianlorenzo Gasperini; in chiusura “Carls”, un dipinto materico di Luca Zarattini.

De Chirico, 3. I ritratti fantastici, a Montepulciano

di Romano Maria Levante

Si conclude la visita alla  mostra “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, aperta alla storica Fortezza di Montepulciano dall’8 giugno al 30 settembre 2013, con 44 dipinti, 7 sculture e 17 disegni e acquerelli, 68 opere selezionate tra le tante custodite dalla  Fondazione Giorgio e Isa  de Chirico che l’ha realizzata. Katherine Robinson ha curato la mostra e il Catalogo bilingue di Maretti Editore. Promotrici le istituzioni locali,  Rotary club con il Comune, in fase operativa ha collaborato alla realizzazione la Fondazione Cantiere Internazionale d‘Arte, e gli organismi vinicoli sono stati molto attivi nel creare un ambiente ricettivo e coinvolgente. Dopo averne descritto impostazioni e motivi e aver illustrato il ritratto classico, passiamo al ritratto fantastico che fa entrare nel mondo enigmatico e intrigante della metafisica di de Chirico.

Siamo negli anni ’70, è trascorso più di mezzo secolo dopo l’esplosione metafisica degli anni ’10. L’artista riprende i temi rivoluzionari sessant’anni dopo, si parla di “Neometafisica”, ma non è solo una ripetizione a furor di popolo, tale era la richiesta di opere di quella temperie artistica; intervengono differenze considerevoli, frutto non di un inevitabile logorio, ma di un’evoluzione ideale. Ne danno conto le “enclaves” con queste opere, la prima con ripetizioni vicine agli originali, ma in una luce diversa che crea un’atmosfera di serenità laddove si provava profonda inquietudine; la seconda con un’innovazione molto creativa che si innesta sulla novità rivoluzionaria iniziale; l’ultima con un mix suggestivo di dipinti e sculture che riassumono la poetica dechirichiana.

Ma andiamo con ordine, la prima “enclave” metafisica presenta subito immagini ben conosciute, le opere sono state realizzate tra il 1970 e il 1974 anche se alcune di esse sono retrodatate tra il 1924 e 1938, secondo quanto era uso fare l’artista in quel periodo, seguendo un impulso che univa al motivo commerciale quello psicologico e nostalgico, non esclusa la propria ironia dissacrante.

In “Ettore e Andromaca”, 1970, e “Le maschere”, 1973, i volti che abbiamo visto curati nei dettagli fisionomici con il ritratto classico, diventano le classiche teste ad uovo senza fisionomia, alla ricerca dell’universalità. Sono busti di manichini, tra elementi geometrici evocativi delle squadre degli interni ferraresi, e occupano l’intera superficie del quadro: su un fondo scuro o con la finestra da cui risalta il cielo azzurro e l’edificio turrito con gli archi sulla destra.

Anche “Le Muse inquietanti”, 1974, presentano il solo busto del manichino classico, il resto del corpo è il fusto di una colonna, mentre la figura seduta ha una corposità diversa dal manichino: il tutto nell’enigma della piazza con tanto di statua, ombre lunghe e palazzi sullo sfondo. La  magia metafisica prosegue in “Piazza d’Italia con statua di Cavour”, 1974, la statua guarda l’osservatore, troviamo tutti i canoni del genere: dagli archi alle ombre, dalle figurette in lontananza allo sfondo paesaggistico con il cielo che trascolora dal viola scuro al verde e al giallo; in più, una particolare luminosità, come se le ombre del mistero e non solo quelle della notte si fossero dissolte.

Dalle piazze agli ambienti chiusi in “La meditazione di Mercurio”, gli oggetti e biscotti ferraresi su fondo blu in primo piano, il busto della divinità pensosa in fondo; e nell’“Interno metafisico con testa di Mercurio”, 1973, nella cornice di squadre, con l’ampia apertura sull’esterno dove spicca la statua, questa volta di spalle, con la fuga di arcate e il cielo nelle stesse tre gradazioni ora citate. In “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, 1973, la statua della divinità, assorta com’era Mercurio, è tra due arcate dietro alla natura morta con grappoli d’uva e mele, banane e cocomero.

E’ un ritorno all’antico rassicurante, al punto di stimolare la creatività ad andare ancora oltre l’innovazione metafisica consolidata. In “Trovatore”, databile 1972, ritroviamo il manichino finalmente a figura piena, in posizione eretta con le squadre in evidenza, tra due arcate ai lati e il treno sbuffante sullo sfondo dello stesso cromatismo nel cielo; notiamo che, mentre è senza braccia, le gambe assumono un aspetto corporeo non più inanimato, fino ai piedi perfettamente modellati.

La mutazione della Neometafisica

Assistiamo, quasi in diretta, alla vera e propria mutazione prodotta dalla Neometafisica: riaffiora la carne viva tra le forme inanimate del manichino, gli stessi volti ad uovo non sono più inespressivi, appaiono molto umani. Così “Il pittore di cavalli”, 1974, addirittura guarda verso l’osservatore con il volto a uovo dal fare interrogativo, braccia e gambe di carnagione rosea, per il resto “il quadro nel quadro”, con il cavallo che sta dipingendo rendendo vivo il modello scultoreo, e la finestra su uno sfondo di templi e ruderi.

Un “quadro nel quadro” anche in “Il Contemplatore”, 1976, raffigura un castello su uno sperone di roccia con un albero in primo piano, questa volta il manichino non lo dipinge ma lo contempla; è di nuovo senza braccia come “Trovatore” e le gambe sono tornate inanimate, ma il collo è carne viva e la testa ad uovo esprime sentimenti.

La “reincarnazione” del manichino va ancora avanti in “Il Pensatore”, 1973, petto e braccia, mani e piedi sono umani, la testa ad uovo quasi non si nota, anche perché nel corpo sono affastellati gli oggetti espressivi del “vissuto”, busti e colonne, libri e altri elementi caratteristici dell’archeologia umana di de Chirico; ai due lati un’arcata e un tempio con il praticello verde fiorito e la scritta interrogativa nella mano sinistra del “pensatore”: “Sum sed quid sum”:

Sono figure sedute, come gli originari “Archeologi”, ma il fardello del “vissuto” costituito dagli oggetti in grembo è molto più leggero, e in alcuni manca del tutto quasi se ne fossero liberati.

In questa “escalation” di umanizzazione, “Edipo e la Sfinge”,1968-69, ha il corpo fatto di carne esposta alla vista, del manichino resta solo la testa ad uovo ma espressiva al punto da poggiare sulla mano quasi come nel primo autoritratto alla Nietzsche, e il petto fasciato da una corazza con il “vissuto” di templi e case sopra il peplo che avvolge i fianchi; addirittura la Sfinge alata ha il seno nudo su uno sfondo di rocce con uno squarcio di cielo azzurro percorso da sottili striature di nuvole.

Restando nel mito, “Il rimorso di Oreste”,1969, presenta la massima umanizzazione del manichino: il corpo è interamente nudo, la carne viva ha i muscoli ben modellati, la testa è a uovo ma dello stesso incarnato del corpo, tra le squadre lignee degli interni metafisici, con un’ombra frastagliata che ricorda i soli spenti di altre sue celebri opere, come “Sole sul cavalletto”, dello stesso periodo; ancora con finestre colore del cielo in una prospettiva esterna quasi liberatoria.

Al culmine del “ritratto fantastico”

Dopo avere toccato in precedenza il culmine del ritratto classico con le incarnazioni maschili e femminili della sua ritrattistica tradizionale, abbiamo ora rievocato il ritratto strettamente metafisico, quello dei manichini inanimati. Stiamo per toccare il culmine del ritratto fantastico.

Vediamo due figure in coppia, la prima è “Il Figliuol prodigo”: mostra un giovane in piedi, il corpo nudo in un incarnato roseo, mentre appoggia la mano sulla spalla della figura inanimata e inespressiva seduta con il sovraccarico di templi e colonne, che ne paralizzano il corpo e le braccia bloccate e irrigidite; ci ha ricordato la trasfigurazione di Pinocchio da burattino a ragazzo in carne e ossa, sembra che la figura seduta sia inanimata perché la forza vitale ne è uscita materializzandosi nel giovane aitante, novello Ebdòmero. Un suo precedente “Figliuol prodigo”, di un anno intenso, il 1922, abbinava il figliuolo, che in quel caso era un manichino metafisico, alla figura paterna trasformata in statua marmorea ottocentesca scesa dal piedistallo per abbracciarlo.

La seconda coppia è “Oreste ed Elettra”, 1974, del manichino ha solo la testa a uovo, si vede il petto dalla carnagione rosea, cinge con il braccio destro una figura completamente umana, il cui volto è addirittura incorniciato da baffi e barbetta nera; entrambi hanno un abito molto elaborato.

Così si è compiuta la mutazione, dopo la rivoluzione della figura umana trasformata in manichino per eliminarne l’individualità e farne un archetipo universale, il processo inverso, graduale, come abbiamo visto nella sequenza delle opere esposte: l’umanità, e quindi l’identità torna nel manichino dove la vita pulsa con la forza della carne che ne fa sentire tutto il calore riconquistato.

Il constatare che ciò è avvenuto nella tarda età dell’artista, a ottanta anni e oltre, fa riflettere sulla straordinaria creatività e soprattutto vitalità e freschezza giovanile che lo ha sostenuto fino all’ultimo facendogli compiere un percorso stilistico e di contenuti, artistico e umano,  stupefacente.

Consideriamo in quest’ottica “Gladiatori dopo il combattimento”, 1968, il fatto che sia di qualche anno anteriore a quelli ora commentati indica che si è trattato di un processo prolungato e non episodico: tanto sono forti e umane queste figure da far pensare che la spinta verso l’umanizzazione fosse irresistibile. E’ l’impulso che aveva prodotto sin dal 1948 la serie dei “Bagni misteriosi”, le cui figure nude, maestose e statuarie rispetto ai dimessi omini vestiti, si possono associare a questi gladiatori, per null’affatto minacciosi e battaglieri, i volti freschi di gioventù sono ripresi nella loro umanità: con i corpi pronti alla lotta i gladiatori, immersi nel lavacro dei bagni misteriosi gli altri.

Negli spettri non solo la tragedia, anche la visione di un mondo migliore

De Chirico resta sempre metafisico, secondo Lorenzo Canova, “con lo sguardo del vaticinatore che scopre realtà ignote non solo nelle cose, ma anche negli stessi esseri umani”. Mediante la trasformazione degli uomini “in statue e spettri” l’artista vuol far percepire che sono immagini generate “da uno sguardo che oltrepassa le apparenze per scoprire una verità drammatica”. E’ l’enigma del ritratto, attiene al più generale aspetto delle cose che – come abbiamo già sottolineato citando lo stesso artista – si può penetrare al di là dell’apparenza che è sotto gli occhi di tutti, solo con l’astrazione metafisica di “rari individui in momenti di chiaroveggenza”.

Canova collega il ritratto alle altre opere della metafisica, abbinando la spettralità al meriggio, dove la mezzanotte coincide con il mezzogiorno, come la luce con l’ombra nella congiunzione nietzschiana dei contrasti “che mantiene però la complementarità degli opposti”; in questo facendo eco alle parole di de Chirico sul “senso notturno della luce, il senso della mezzanotte al meriggio”.

Non vi è solo il “senso della tragedia” evocato dal critico che cita la scritta “nulla sine tragoedia gloria”. De Chirico nel “Discorso sulla materia pittorica” pone gli “spettri” in una luce diversa definendo l’elemento metafisico in pittura “quel fenomeno misterioso e sacro che ci mette di fronte al Talento Universale e ci permette di vedere un mondo migliore, un mondo che consola delle miserie e delle banalità degli uomini: un mondo superiore, eterno e perfetto, dove regna il genio”.

Forse ha voluto esprimere anche questo nell’ultima fase della sua parabola creativa, parallela alla parabola umana: “In tarda età – sottolinea Katherine Robinson –  l’artista sembra aver risolto il mistero del Tempo, dimostrando una potenza creativa e una straordinaria giovinezza di spirito. Ora il Manichino si umanizza, con un corpo in carne e ossa e delle mani e braccia ‘vere’ che gli permettono di agire”. Tanto più – sempre per la curatrice – che “la lunga attività ritrattistica di Giorgio de Chirico può essere letta come un ‘ritratto’ della propria arte, una biografia della forma”.

A questa visione artistica e filosofica si riferisce il titolo della mostra: “Il ritratto, figura e forma”.

I disegni metafisici e  le sculture, l’accoppiata finale

Anche qui, come nei ritratti classici, il disegno con gli acquerelli ha accompagnato la pittura. “Minerva e l’oggetto misterioso”, 1973, fa da “pendant” con “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, in entrambi lo stesso busto della divinità, un tendaggio invece dei templi, uno scampolo della sua oggettistica simbolica al posto della natura morta di frutta; come “Il mistero di Manhattan”, sempre 1973,  associato a “Interno metafisico con testa di Mercurio”, la divinità è la stessa, dalla finestra invece della piazza metafisica si vedono i grattacieli newyorkesi. Così l’acquerello “Il segreto delle Muse”,1972, sembra addirittura un fotogramma in sequenza con il “racconto” del dipinto successivo “Le Muse inquietanti”, 1974: la Musa che nell’acquerello è in piedi, nel dipinto si metterà a sedere, e il manichino che invece è seduto, salirà sulla colonna, restano la statua e lo sfondo di edifici che nel dipinto sono più vicini e vistosi.

Negli acquerelli c’è la sublimazione, “Trovatore in cielo”, 1975, è sempre senza braccia ma si libra nell’azzurro tra le nuvole. Di qualche anno prima “I ballerini”, 1971, dedicato “a Isa con tanti auguri”: si può constatare subito come siano leggiadre le loro movenze e come siano espressivi i loro volti sebbene costituiti dal caratteristico uovo senza lineamenti né fisionomia; i corpi sono umani, si vede e si sente la carne, con l’anima e il cuore, la dedica è quanto mai eloquente.

Tanto calore, dunque, nelle opere di una fase della vita nella quale molti grandi artisti tendono a rabbuiarsi per non dire incattivirsi, ad esprimere freddezza e distacco se non depressione, l’opposto di de Chirico. E l’impegno fino all’ultimo nel “d’aprés” del “Tondo Doni”, 60 anni dopo la sua prima copia d’autore, esprime questa ritorno alla freschezza e alla vivacità giovanile.

Abbiamo parlato dei disegni e acquerelli oltre che dei dipinti. Ma non è tutto, la mostra presenta anche 7 sculture nelle quali esprime plasticamente quanto ha manifestato con la forma e il colore. D’altra parte lui stesso dice che la scultura deve essere morbida come la pittura, e come sempre oltre a fare enunciazioni teoriche si mette alla prova. Nelle “enclaves” dei vari settori espositivi le sculture, tutte tra il 1968 e il 1970,  sono collocate al centro dell’ambiente. Così abbiamo visto “Le Sibille” e “Le Muse inquietanti”, “Trovatore” e “Il Pittore”, “Penelope e Telemaco” e “Manichini coloniali”,quest’ultimo raffigura una coppia seduta con i petti coperti di orpelli. Tutte le sculture meno “Le Sibille” – fedele trasposizione della composizione pittorica –  immortalano il manichino con la testa ad uovo nelle molteplici incarnazioni nate dal genio dell’artista.

Ed è con una scultura associata a una pittura, che vogliamo concludere il nostro viaggio nel ritratto di de Chirico dopo un percorso appassionante che ci ha portati, nella nostra metafora stradale, dal “rettilineo” degli autoritratti e poi del ritratto classico, alle “enclaves” della metafisica e della Neometafisica umanizzata. La scultura è “Il grande Metafisico”, un bronzo dorato del 1970 con il manichino ritto sopra i templi e su altre strutture che fanno da piedistallo del monumento di se stesso, e sostituiscono le squadre lignee e gli altri supporti del dipinto dello stesso nome che risale al 1917; il dipinto quasi contemporaneo è “Il Meditatore”, 1971, una figura seduta con gambe e mani in vista sotto un viluppo che la avvolge di pensieri e di problemi, quasi una smisurata barba bianca; il “pensatore” creato da Renzo Arbore per una lontana trasmissione televisiva della notte aveva una folta selva di capelli arricciati,  chissà se si ispirava al meditatore dechirichiano?

Sono i due estremi tra i quali, in definitiva, si muove la vita, dell’artista e di tutti: la fase volitiva e la meditazione. De Chirico ci ha insegnato che fino all’ultimo entrambi questi momenti possono essere onorati. Nella consapevolezza della propria umanità e per cercare con tenacia una risposta all’interrogativo che si pone il suo “Pensatore”: “Sum sed quid sum”.“Sono, ma cosa sono?  E’ il “conosci te stesso” della filosofia che viene declinato mirabilmente anche nella sua pittura.  

Info

Fortezza di Montepulciano. Lunedì ore 16,00-20,00; da martedì a domenica 10.00-22,00 (ultimo ingresso ore 21,15). Ingresso intero 7 euro, under 25 ridotto 5 euro, under 12 gratuito. On line su circuito prevendita http://www.vivaticket.it/, tel. 0578. 757007. Catalogo bilingue, italiano e inglese, dal quale sono tratte le citazioni del testo: “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, a cura di Katherine Robinson, Maretti Editore, giugno 2013, pp. 192, formato 23×28, euro 30. I nostri due precedenti articoli sulla mostra sono in questo sito il 20 e 26 giugno 2013, con 6 immagini ciascuno. Per le mostre precedenti su de Chirico cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com”: nel 2009 “I disegni di de Chirico e la magia della linea” il 27 agosto, “A Teramo de Chirico” ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre, “De Chirico e il Museo, il lato nascosto dell’artista incompreso” il 22 dicembre; nel 2010 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fortezza di Montepulciano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, per l’opportunità offerta. In apertura “Le maschere”, 1973; seguono “Trovatore”, databile 1972, e “Oreste ed Elettra”, databile 1974, poi “Il rimorso di Oreste”, 1969, segue “Il Pensatore”, 1973, con a destra “Il Meditatore”, 1971, e davanti la scultura “”Manichini coloniali”, 1969; in chiusura un'”enclave”  metafisica, al centro “Edipo e la Sfinge”, 1968-69, e “Il Figliuol prodigo”, 1973, la prima scultura è “Penelope e Telemaco”, 1970, la seconda “Le Sibille”, 1970.

Maugeri, il pittore e il poeta, Italo Benedetti, a Venezia

di Romano Maria Levante

Rievochiamo la mostra svoltasi a Venezia, dal 5 al 31 ottobre 2011, alla  Biblioteca Nazionale Marciana, promossa dalla Direzione generale  del MiBAC per le biblioteche, del pittore Vincenzo Maugeri, con le poesie di Italo Benedetti, in un sodalizio  che consente di approfondire anche il rapporto tra pittura e poesia andando oltre il contenuto dell’una e dell’altra per penetrarne i motivi interiori, al di là di quelli visivi e descrittivi, in una ricerca che penetra nel profondo dell’anima . Questi valori permanenti rendono ancora viva e attuale la mostra nonostante il tempo trascorso.

“Piazzetta di Capri”, 2004

Le opere esposte a Venezia erano per i due terzi del 2011, quindi in gran parte inedite rispetto a quelle esposte nella mostra di Roma al Vittoriano del 2010. Rappresentano un’evoluzione nella continuità di una linea stilistica che abbiamo descritto e analizzato a suo tempo, per cui nel ricordare questa mostra vorremmo esplorare più in profondità il rapporto tra pittore e poeta, cercando di coglierne la chiave interpretativa. La mostra si è aperta, infatti, con l’autoritratto del pittore e il ritratto del poeta, come Maugeri li vedeva  nel 2011. Ecco come li vede la critica e come li abbiamo visti in base al loro percorso e ai dipinti delle due mostre.

Il pittore Maugeri

Claudio Strinati fa risalire le origini dell’arte di Maugeri ai suoi luoghi prediletti, visti nell’ottica della metafisica e dell’architettura razionalistica ma con una modernità che lungi dal farlo “un sognatore o un poeta del ricordo”, lo rende “fortemente incardinato nel suo tempo”.  Il retaggio culturale, di stili peraltro da tempo abbandonati è per lui “una sorta di filtro metafisico-razionalista ma non se ne fa condizionare”, ne risulta una pittura lineare e pulita, semplice ma non semplificata,  con un’impressione generale di compiutezza e solidità.  Strinati va oltre, e ci piace sottolineare le sue parole  perché vi incardiniamo la nostra interpretazione del rapporto del pittore con il poeta Benedetti: “Maugeri vive l’arte come un baluardo, una sorta di illuminazione che ci preserva dall’irrazionale e dall’assurdo della vita per proiettarci in una dimensione circoscritta e solida, che ha i caratteri del fiabesco e i contorni di una scienza incantata”.

I luoghi che dipinge  danno “lo spazio come fenomeno geometrico”, nella parole di Maria Teresa Benedetti: “Immagini incapsulate nella precisione del segno, nella imposività dei volumi, si nutrono di un rigore cromatico, sembrano alludere a un mondo privato di ogni incertezza”.

Come questo avvenga ce lo dice Carlo Fabrizio Carli allorché osserva che “Maugeri vede nel reale le forme geometriche pure e le estrae con limpida nitidezza”. Aggiungiamo che la sua é una ricerca dell’essenziale radicalmente diversa da quella di Mondrian che arriva all’estremo con l’intersecarsi di poche linee rette a formare riquadri riempiti di colori puri; Maugeri l’essenziale lo riferisce alle singole realtà, non all’astrazione filosofica, mantenendone  la riconoscibilità che viene trasferita al nuovo impianto spaziale e volumetrico da lui ricreato.

Il risultato lo indica Claudio Crescentini: “Pone lo spettatore nello status ideale e ottimale di una percezione reattiva del significato più profondo delle cose, cioè delle immagini, che non è affidato alle cose stesse – leggi sempre immagini – ma alla loro pura interpretazione”. Ecco l’effetto: “Le immagini di Maugeri, nella simulazione di un mondo percettivo costruito proprio dai segni da lui imposti, è come se finissero per perdere la loro intrinseca natura, quella appunto della rappresentazione formale, alla quale del resto aspirano”. Ma non si va nell’informale, la loro propria  natura la ritrovano “là dove le possibilità psichiche cessano realmente di indicarla: nell’anima”.

“Circeo giallo”,  2006

Il poeta Benedetti

E il poeta Benedetti  quale rapporto ha con questo mondo? Con il mondo reale di Maugeri e con quello che emerge dalla sua scomposizione della realtà per ricomporla in forme solide che però le fanno perdere la natura intrinseca per farla ritrovare nell’anima, come ha scritto Crescentini?

C’è un rapporto strettissimo con il mondo reale, sufficiente a giustificare l’incontro fino alla simbiosi: è il mondo di Capri e poi del Circeo, onnipresenti in entrambi. L'”isola Paradiso” li ha catturati con i suoi colori e i suoi odori, la vegetazione e gli uccelli marini; però, ha anche inferto al poeta dolorose ferite, retaggio dell’infanzia e dell’adolescenza, rimaste aperte e sanguinanti.

“Il mare – scrive Giovanni Russo – lo fa cavalcare sulle onde arrotolate e lo distende dolcemente sull’arenile a sognare”. Ma il sogno è “di scappare, di andare via”. E veramente “il ragazzo fugge perché deve crescere, cercare altre strade, trovare se stesso, ma l’isola lo richiama indietro, all’infanzia solitaria, dolorosa”. Ne è permeata la sua poesia che Russo descrive così:  “Versi pieni di musicalità, musica di dolore, nella continua ricerca della sua identità a lui stesso misteriosa”,

“Se da un’isola in fuga… ” s’intitola una sua poesia  dove si definisce “transfuga sempre quasi mai placato”; e anche in “Anacapri”  è alla ricerca di un’evasione: “Ho creduto /di viaggiare lontano/ barchetta di carta in un ruscello nano./ Poi dalla nuvola/su cui m’inerpicavo/sono caduto/ e il sogno cadendo/ è andato in frantumi”: anche qui è addirittura un sogno lasciare l'”isola Paradiso”.  Come lo è l’incontro con un “Angelo” dalle “ali di spuma”, sembra proprio l’angelo custode, cerca di trattenerlo dicendogli: “Ragazzo/, c’è un oceano in te che t’inquieta/ se vuoi salvarti non devi salparlo”. Non ci riesce: “Ed io: ormai è tardi, sono solo, tutti dormono ancora:/ debbo, la barca mi sta già aspettando.”  Scompare “l’angelo d’onda e di spuma”, si conclude così l'”annunciazione” onirica: “Sull’immenso volto del mare/navigo senza miraggio”.

Poi, la scoperta del Circeo, forse con l’identificazione in Ulisse, sembra placarlo, approda a Sabaudia e scrive: “Capri-Sabaudia Caprolace/così è se vi piace:/E se non vi sta bene/ non datevi per me troppe pene”. L’epigramma  si chiude: “Ognuno nella vita sceglie la strada/ che in definitiva più gli aggrada”.  Il Circeo sembra un’isola ma non lo  è, ha il fascino dell’isola incantata e mitica ma non l’isolamento: “Fuggire dalle isole è il destino/ per ritrovarsi più innocenti e liberi”.

“Città con biglia”, 2008

L’intesa tra il pittore e il poeta

Il  Circeo è il primo collegamento, addirittura visivo, con Maugeri, che pone il suo caratteristico “sky line”, e non quello di Capri, come sfondo di tanti suoi quadri, quasi un segno rassicurante: i due artisti capresi si sono ritrovati in questa trasposizione verso una “non isola” che ricorda molto da vicino la loro isola senza averne il retaggio angoscioso dell’infanzia tormentata del poeta.

Ma il collegamento più stretto sta nella simbiosi poesie-quadri che differenzia Maugeri dal sudamericano Morales  ispiratosi a un altro Benedetti, il celebre Mario di cui ha fatto suo il tema della lontananza dalla patria espresso nelle poesie “Ventos de exilio”del poeta esule dalla sua terra. Morales si ispira all’atmosfera creata dalla lontananza, senza riferirsi alle singole poesie; mentre in Maugeri il rapporto è stretto, una simbiosi o un binomio, a seconda degli elementi di riferimento; oppure  una staffetta o, più strettamente, un  tandem o un bob a due, con ruoli diversi, e quali?

Sia esso il passaggio del testimone, il tandem o bob, vediamo “alla guida” Maugeri, dopo l’impulso iniziale dato da Benedetti, e le loro posizioni restano ben distinte.  Nel poeta troviamo il soggetto e il tema, che il pittore esprime nel suo stile di cui abbiamo parlato a suo tempo. Anzi tanti soggetti e temi, con un elemento comune: la tristezza e l’angoscia ricorrente con poche eccezioni. Viene meno in alcune poesie su Sabaudia, dall’invocazione “O gigantesca sfera della luna/nella notte fiorita di profumi”, al pergolato sotto la pioggia che “mi rende beato:/battezzato dalla natura in un’alba di maggio”,  ai “fantasmi di fauni allegri” che “giocano/ inseguendosi nel fogliame folto”.

Per il resto c’è sempre la nota triste e pessimista, spesso angosciata e disperata. Citiamo per tutte l’appello alla poesia che dovrebbe essere rasserenatrice: “Poesia tu resti la sola ragione/perché la mia vita disperata non anneghi”.  Ma la poesia non basta, anzi gli fa esternare le angosce che compaiono all’improvviso anche in temi di festa, come la ricerca di “un diverso Natale” e il rifiuto della “solita Pasqua”, il ricordo disturbato di Napoli e di Venezia; e alla “terra della mia infanzia” si rivolge dicendo “amo dolorosamente”. E se la poesia non basta,  che cosa lo sostiene?

Ci dà una risposta la lirica “una festa di forme e colori” dedicata espressamente “A Vincenzo Maugeri”, allorché parla delle sue “geometrie allegre/ che s’incastrano /in armonie semplici e incantate”. Vi vediamo quella che ci sembra la chiave dell’intesa fino alla simbiosi: “Tu con umile capacità e pazienza/ ricostruisci dove fu distrutto:/ là cubi, architravi, muri accesi/ edifici nello spazio puro”. Ed ecco l’effetto rasserenante: ” Dall’ordine estremo emana lo stupore:/ lo slargarsi del mondo in prospettive,/ un altrove sognato e rivissuto,/ ricordo di uno smarrito paradiso”.

Geometrie allegre e armonie semplici e incantate; ricostruzione e stupore, sogno e paradiso: ecco cosa trova il poeta nelle immagini del pittore. E questo perché pur nella riconoscibilità perdono la loro intrinseca natura per ritrovarla nell’anima, secondo l’interpretazione che abbiamo riportato di Crescentini. E’ proprio il mondo onirico di una fanciullezza “beata” che il poeta sente solo nei dipinti del pittore, secondo noi, almeno per quel momento, prima del nuovo soprassalto d’angoscia: subito placato dalla solidità delle forme e dallo spazio geometrico del pittore; perché mette “l’ordine estremo” nei pensieri che si affollano e nel contempo apre le gabbie dell’angoscia in un mondo che si allarga nelle perfette prospettive, trasforma gli incubi in sogni, restituisce “lo smarrito paradiso”.

L’intesa è favorita dal fatto che anche il pittore è contagiato dalle angosce del poeta: scrive Maria Teresa Benedetti che le sue immagini “semplificano, attraggono, sublimano con apparente sicurezza, eppure il sentimento che sprigionano è venato di inquietudine, testimoniano l’esistere di un senso di attesa, di un estraneamento, che ripropone l’ambiguità delle apparenze”.

E allora come spiegare la catarsi rasserenatrice? Soccorre la visione di Strinati dell’arte di Maugeri come “un baluardo, una sorta di illuminazione”, rispetto a che cosa? Ripetiamo la citazione, perché ci sembra risolutiva: “Ci preserva dall’irrazionale e dall’assurdo della vita per proiettarci in una dimensione circoscritta e solida, che ha i caratteri del fiabesco e i contorni di una scienza incantata”.

“Notturno sul Nilo”, 2009

Le opere in mostra

Quanto abbiamo cercato di interpretare emerge ancora più evidente considerando anche i quadri che erano stati esposti  a Roma nella mostra dal titolo  “Metroversocromie”, più criptico ma di significato equivalente al contenuto della mostra veneta “Parole e colori sull’acqua”. Verso e cromie, parole e colori, il pittore e il poeta. In un rapporto tanto stretto che c’è un abbinamento diretto tra molti quadri e singole poesie sul soggetto e tema rappresentato nel dipinto.

L’effetto rasserenante e rassicurante della solidità e pulitezza formale degli spazi e dei volumi dipinti da Maugeri era ancora più evidente nella mostra romana per il maggior numero di pitture metafisiche-razionaliste, per ricordare il riferimento di Strinati –  ma ve ne sono state anche a Venezia di particolarmente significative.  “Litoranea”, del 2005, la poesia  dallo stesso titolo a cui si è ispirato il dipinto, pur iniziando con gli aquiloni, si conclude  con la “catastrofe d’una colorata dissoluzione”, mentre nel quadro l’aquilone sorvola uno spazio che è la quintessenza della solidità e dell’equilibrio, della sicurezza e del rigore,  con il sigillo rasserenante ed evocativo del profilo del Circeo. Uguale sensazione di solidità e sicurezza in “Dune”, 2005  e “”Marina grande”, 2009.

Dal Circeo a Capri non muta questa sensazione nei dipinti, lo spazio è dominato da figure solide e forti come in “Visione di Capri”, 2006;  ma nei versi che invocano “Mia isola…”  si legge anche “la sera la leggo più triste  nei tuoi occhi di/ mito”.  “Grotta azzurra”, 2009, mostra  un volo armonioso di due gabbiani che  nella struggente poesia intitolata alla loro tomba sono visti mentre “da lontano venivano  a morire”.

Anche nei dipinti del 2011 troviamo forme solide e sicure, non più nel litorale marino ma nella grande città, come “Stazione Termini, nella cui poesia di riferimento si leggono espressioni come “se la vita è l’inferno, dov’è il paradiso?”  e “forse è più eccitante morire sul treno… mentre tutt’intorno balla la vita/macabra!”; e nella laguna, con “Gondola”, l’imbarcazionesi staglia in un equilibrio perfetto con lo skyline veneziano sullo sfondo: “Città capovolta nel passato – si legge nella poesia “Colori e parole sull’acqua”, dove le scandisce facendone di ciascuna un verso – che sopravvive sommerso nel riverbero multicolore del tempo”. 

 Sembrano analoghi per certi aspetti  “Serenissima” e “Poesis”: al posto della gondola in evidenza c’è una sirena nel primo, la scritta del titolo nel secondo; l’ordine e la solidità regnano sovrane e nella lirica di riferimento “Essere poeti”, dopo un’affabulazione onirica troviamo queste parole: “E direi che in fondo ogni dolore/ non è mai privato, e che nonostante/ epidemie-carestie-dirottamenti-bombe/ il sole è sempre splendido”. Un altro  quadro che raffigura un “Vivaldi” composto e sicuro di sé davanti al pentagramma in cui si affaccia una gondola, ci riporta a Veneziache al poeta ispira parole venate di tristezza: “In quel sole che splende/ ma nel contempo addolora/ ferita antica che mai si sana/ né guarirà/ musica senza inizio né fine/ lacrima inghiottita dall’aria”:  Ci sono  “Violino” e “Il leone di San Marco”,mentre con  “Uomo gondola“, passiamo ai soggetti antropomorfi, fino ai ritratti.

Prima, però, abbiamo ammirato “L’onda”, immagine apparentemente apocalittica con la montagna d’acqua sulla rossa isola, che è Capri, ma il rigore spaziale e la solidità compositiva  ne fanno quasi un fondale più che uno “tsunami”, fa pensare che l’isola resisterà. E anche la poesia “Al prossimo diluvio”  si esprime con queste parole: “Più paterno del mare non conobbi/ amore”., Poi prosegue:”Quando partirò ogni suo flusso/porterò nascosto nelle vene; / di lui a cui affidai ogni lacrima/ avvertirò sempre la mancanza./Ma lui mi inseguirà al prossimo diluvio”,

“Uomo acquario”, 2010 

Con le pitture antropomorfe torniamo al 2010,  in “Giungla” c’è la metafora della vita nella pittura e nella poesia: “O vita di giungla! I giorni sono liane/ che si avvinghiano al corpo come spire/ di serpenti e ti costringono a essere/quello che non sei in un mondo che è”.Per “Uomo acquario” e “Ascensore interno” nella poesia “Galleggio nell’universo” si legge: “Adesso posso anche precipitare/ nel fondo del baratro, a destra, più a / destra, in/ basso, nel tunnel dell’universo”. Li precede di un anno “Alieno”,  figura evocata dalla poesia “Prospettive d’aria”, dove rifiuta di vedersi come “marziano o robot/ macchinario insensato dai troppi/ fili di sensi”.

Vi sono anche animali nei dipinti del 2011: gli amici a quattro zampe in “Natale con i cani” e “Lady”, e i due estremi, “Il delfino di Murano” e “Formica”, mentre i gabbiani sono parte integrante dei luoghi dell’anima; fiori e piante, “Tulipano” e “Le radici della scienza” con  un grande albero sul Colosseo; “Uova blu e verdi” e “Uovo”, simbolo di perfezione; e simboli della classicità, “Discobolo”.

Degli anni immediatamente precedenti  “La città d’Esculapio”, 2010, e tre dipinti del 2009 dedicati all’Egitto, “Notturno sul Nilo”, “Piramidi”, “Cleopatra”:  gli egizi,  nei versi del poeta, con i greci “non resero che, per un attimo, tangibile/ il sognare”.

Abbiamo lasciato per ultimi i ritratti, tutti del 2011, a partire da “Autoritratto” e “Ritratto di Italo con Circeo”, il monte c’è anche nel primo, non sappiamo perché figuri solo in questo titolo, forse per sottolinearne l’aspetto rassicurante.  Il pittore è presentato in un figurativo statuario, il poeta  appare più addolcito: le due forme espressive sembrano incarnare la ferma sicurezza nel primo,  l’incertezza esistenziale nel secondo. Poi le due tenere immagini femminili “Mia madre”  e “Rosaria con Milord e Suki”, la moglie del poeta che nella poesia a lei intitolata scrive: “Sei Ros’aria: una rosa che fiorisce/ dall’aria lo splendore e la purezza”.  Fino all’immagine pensosa di “Pasolini” al  quale rivolge versi struggenti: “Nessuno inseguirà più  questa carne/ umana  dietro l’ombra della sua/ sfortuna./…ma tu sei precipitato/ nella gola d’argento dove cadono/i poeti veri”. Sarebbe stata adatta alla mostra romana svoltasi al Palazzo Incontro con 22 artisti che si sono cimentati con 11 poesie di Pasolini,  è un’immagine espressiva del suo meditare profondo.

Questi ritratti figurativi hanno una profonda introspezione, diventano maschere di umanità. E con delle  maschere dipinte vogliamo concludere la nostra visita virtuale alla mostra, divenuta un viaggio nell’anima dei due maestri e di noi stessi. Sono sempre del 2011, “Maschera  rossa” e “Maschera gialla”:insieme ai quadri antropomorfi sembrano prefigurare una possibile via di allontanamento dal figurativo anche nei ritratti per dare ad essi un alone metafisico al pari dei dipinti sul luoghi. “La gente che vive felice” – così inizia la poesia di Benedetti con questo titolo – /porta una maschera d’oro/ che sfavilla ai raggi del sole”;  e conclude: “La gente felice ha una maschera/ che nasconde la sua tristezza/ e una musica che copre i singhiozzi”. 

Anche qui il dipinto di Maugeri è rassicurante, c’è la Venezia incantata sullo sfondo della maschera che abbozza un sorriso, mentre le lacrime che scendono sul viso diventano coriandoli colorati. E’ la pittura balsamo della poesia? E’ questo l’interrogativo che ci ha fatto tornare sulla mostra del 2011.

Info

Catalogo: “Parole, Vncenzo Maugeri con poesie di Italo Benedetti”, Skirà , 2011, pp. 96, formato 13,5×17, dal quale sono tratte le citazioni del testo, oltre che, per le poesie, da: Italo Benedetti, “Gli aironi di Sabaudia. Poesie (1998-2008)”, Isolaria 2009, pp. 144, e  “La vita poetante, antologia poetica 1970-2012”,  Gangemi Editore, 2012, pp. 158; inoltre il catalogo della precedente mostra di Maugeri a Roma,  al Vittoriano, “Vincenzo Maugeri, “Metroversocromie”, Electa, 2010, pp.  96, formato 16×24. Per tale mostra, citata nel testo, cfr. il nostro servizio in “cultura.abruzzoworld.com” il 22 e 24 giugno 2010.  

Foto

Le immagini state riprese alle mostre dell’artista, che si ringrazia, con l’organizzazione delle esposizioni,  per l’opportunità offerta. In apertura “Piazzetta di Capri”, 2004; seguono “Circeo giallo”,  2006, e “Città con biglia”, 2008, poi “Notturno sul Nilo”, 2009, e  “Uomo acquario”, 2010; in chiusura  “Uomo gondola”, 2011 

“Uomo gondola”, 2011
 

Preghiere per l’Italia, religioni e unità nel 150° dll’Unità, al Vittoriano

Il cattolico Giovagnoli, l’ebreo Di Segni, il mussulmano Redouane in una tavola rotonda sull’apporto delle religioni all’Unità d’Italia che ha celebrato i 150 anni sotto un profilo di particolare interesse tanto più in una sede come il Vittoriano, l’Altare della Patria il cui nome, è stato osservato, mutua una terminologia religiosa per l’identità e le istituzioni di un popolo al di là delle confessioni e fedi professate. In questo senso la tavola rotonda “Preghiere per l’Italia”, il titolo dato all’incontro del 24 novembre 2011, è stato come un rito laico. Ci sembra che i temi e gli argomenti trattati siano così rilevanti e tuttora validi, da meritare di tornarci dopo un anno e mezzo dal convegno.

Non si è trattato, naturalmente, di un dialogo interreligioso, anche se è stato evocato, ma culturale: un confronto sui rispettivi apporti all’Unità nazionale non tanto nel senso epico-risorgimentale, quanto come formazione di una coscienza comune nella condivisione dei valori della nazione. Il moderatore Marcello Pizzetti, direttore scientifico  del museo della Shoah di Roma, ha di volta in volta stimolato i tre partecipanti con sapienti siparietti nel passare il testimone, da commentatore e insieme “starter” pronto e avveduto.

I cattolici nella costruzione dell’identità unitaria

“Cosa dobbiamo noi italiani alla religione e alla cultura cattolica, è stato un apporto di coesione nazionale o meno?” questa la domanda che il  moderatore ha posto in apertura ad Agostino Giovagnoli, ordinario di storia contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore. Il docente cattolico ha cominciato con il dire che il contributo delle religioni è innanzitutto di natura culturale: “Sono forze profonde che esprimono tensioni ideali, attingendo anche a questo patrimonio si è costruita l’Unità nazionale”.  Il Risorgimento nasce su un forte disegno istituzionale, ma quando si va nella comunità, le varie componenti si fondono sul terreno della cultura. Prima del 1861 ci fu elaborazione culturale, una fucina di idee improntata a una visione unitaria di identità nazionale, dalle opere letterarie di Leopardi e Manzoni, a quelle musicali di Verdi, ai pittori del Risorgimento; e qui vogliamo richiamare la mostra alle “Scuderie del Quirinale” che fu dedicata appunto ai “Pittori del Risorgimento”, con le visioni belliche dei pittori-soldato e quelle simboliche dei pittori- patrioti.

In questa dimensione si colloca l’apporto della religione cattolica, che si è fuso con quello delle altre religioni, in particolare l’ebraica nella comune matrice cristiana, e con l’apporto della cultura laica. Elementi culturali diversi si sono intrecciati nell’immaginazione collettiva: “La nazione è stata una comunità pensata prima di essere realizzata”, coagulando valori unitari sin dalla prima metà dell’800. Il contributo della religione cattolica al modello di nazione è risultato fondamentale, considerando che “da noi il cemento unitario non è stato di natura etnica, cioè nei costumi e simboli, tradizioni e origini comuni; anzi, dal punto di vista etnico gli italiani sono diversi”; non  a caso erano divisi in tanti piccoli stati in base a tale specifica identità. Il cemento unitario non è stato neppure di natura economica o politica, ma si è basato sull’identità culturale, quindi anche sulla componente religiosa; intesa non come confessione ma come insieme di valori che riguardo alla cultura cattolica hanno permeato da sempre l’intera società.

La presa di coscienza della propria identità in base ai valori della libertà è resa da Manzoni in “Marzo 1821”, che richiama la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto mediante il cammino comune verso l’obiettivo unitario, la terra promessa. Si tratta di un’identità non etnica ma di vocazione storica, del tutto originale rispetto ad altre nazioni europee, che la rende compatibile con altre identità nazionali. Ogni popolo ha la sua storia, anche se non così straordinaria, e riesce ad affermarla in tutte le vicende. E quando la forza identitaria non deriva dalla struttura statuale come in Francia né dall’isolamento geografico come in Inghilterra, come acquisirla?

Per l’Italia deriva dalla storia comune, e quando Mazzini inserisce la Giovane Italia nella Giovane Europa lo fa sulla base di un’identità nazionale non naturale, ma spinta dalla volontà di stare insieme per scelta, riconoscendosi in una cultura comune. Sembrerebbe un’identità debole, invece è fortissima perché non scalfita dalle diversità, che sono evidenti e costituiscono una ricchezza, aggiungiamo; e non è minata da una storia che è una successione di errori e tradimenti pur nella prospettiva risorgimentale, ma come nella Bibbia trova la composizione nel percorso comune: la formazione di una comunità culturale  che unisce le religioni tra di loro e con il mondo laico.

Giovagnoliha concluso collegando a questa visione il problema della cittadinanza agli immigrati, nella drammatica contrapposizione tra lo “ius sanguinis” in vigore e l’aspirazione allo “ius soli” che assimilerebbe automaticamente tutti coloro che nascono in Italia, magari con dei tempi di residenza pregressa dei genitori. “La nostra cultura indica che il ‘sangue italiano’ non esiste, né come appartenenza genetica né come ideologia”,  esiste invece il comune sentire sul piano dei valori, e questo è anche patrimonio degli stranieri che vivono nel nostro paese e i cui figli, nati in Italia, in nulla si distinguono dagli italiani propriamente detti.

La partecipazione degli ebrei al processo unitario

Anche per Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la costruzione dell’Unità nazionale – con la liberazione dell’Italia dal giogo straniero – richiama il modello biblico degli ebrei affrancati dalla schiavitù in Egitto che Giuseppe Verdi ha tradotto in musica nel “Va pensiero” del Nabucco. Gli ebrei italiani si identificano in questo modello  e costruiscono la casa comune nell’Italia unita sebbene sembri contraddittorio rispetto a Sion e alla terra promessa. Le nuove idee di libertà sono state assimilate immediatamente, la popolazione di ebrei è urbana e non contadina, con strati di miseria proletaria ma con un nucleo intellettuale molto dinamico; al tempo dell’Unità si stima che l’85% del totale della popolazione fosse analfabeta, tra gli ebrei italiani invece la percentuale corrispondente era del 10%. Questo dava la possibilità di raggiungere i vertici della società e delle istituzioni ma loro non cercarono di prevaricare. E anche dopo le leggi razziali “il dramma è stato metabolizzato, non c’è comunità più nazionalistica per l’Italia di quella ebraica”.

“Tutto ciò nasce dalla condivisione dei valori di una stessa comunità culturale, e a tal fine non basta nascere in una famiglia italiana né sul suolo italiano – afferma entrando anche lui nel terreno minato dello “ius sanguinis” e “ius soli” – è necessario avere la consapevolezza che esiste una comunità culturale e la volontà di farne parte”. Racconta la storia incredibile, che risale al 1850, del giovane ebreo al quale fu negato l’accesso all’università per motivi razziali; e rivendica la reciprocità nel senso che l’Italia viene sentita come patria nel momento in cui attraverso di essa si arriva alla parità dei diritti: “Il processo unitario è prima di tutto un processo di libertà. poi anche senso di appartenenza”. Gli ebrei pregano per il ritorno a Sion, ma con il luogo dove vivono, nel caso l’Italia, “hanno un legame molto stretto, un insieme di affetti e di cultura condivisa; un ebreo italiano in Italia è un ebreo, in Israele è un italiano, l’anima di ogni ebreo è una mescolanza di identità, e questo rappresenta la vera ricchezza”.

Anche sul terreno pratico il contributo degli ebrei italiano al processo unitario è stato notevole, mediante la partecipazione alle battaglie risorgimentali, dove hanno combattuto in prima fila e in gran numero, cita per tutte Curtatone e Montanara. E richiama le parole di Gramsci secondo cui “gli ebrei  hanno partecipato alla costruzione dell’Unità nazionale come i romagnoli”. Riconosce che non c’è stata unanimità in questo processo, e tra le opposizioni cita quella dei Rotschild a Napoli:  ricostruiscono una comunità e la sinagoga, e non vogliono avere nulla a che fare con i portatori delle istanze risorgimentali che considerano sovversivi. Con la guerra coloniale di Libia del 1897 nacquero gruppi che concepivano il sionismo come filantropico e ne facevano un fatto identitario; a quel punto esplosero i contrasti sull’identità che si accentuarono con la prima guerra mondiale quando gli ebrei diedero un contributo di eroismo più in Italia che altrove. I momenti di crisi si aggravarono con il fascismo, allorché fu posta l’alternativa di stare con l’Italia fascista o non essere considerati italiani, secondo il ben noto “o con noi o contro di noi”. Nel 1929, 9 anni prima delle leggi razziali, una grave crisi attraversò il processo unitario, gli ebrei non erano più considerati cittadini. “Oggi la comunità ebraica in Italia ha almeno 100 anni, con interessi cosmopoliti, e gli ebrei si sentono cittadini del mondo, con salde radici in questa terra e l’orgoglio di difenderne l’identità nella sua Unità”.

I sentimenti  della comunità mussulmana

Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, ha portato “la voce del mondo islamico e mussulmano, ma d’Italia”, ha tenuto a sottolineare. “Questa comunità è recente – ha proseguito –  non ha partecipato all’unificazione, ma considera l’incontro al Vittoriano un ‘battesimo irrituale’ per accompagnare le celebrazioni del 150°”. Sente di far parte del “tessuto sociale dell’Italia che ha mille anime e la comunità islamica costituisce una di queste anime. Partecipare alle celebrazioni rende onore all’anima che vi partecipa e cerca di comprendere il passato nel quale non era presente”. Ha sottolineato come il Vittoriano sia il monumento-simbolo del compimento dell’Unità nazionale e ha ricordato che il processo unitario si concluse alla fine della prima guerra mondiale con le terre irredente riunite alla patria; “chiamarlo Altare della Patria dimostra come i laici usino un linguaggio religioso”, ha detto, citando poi la Moschea di Roma di Monte Antenne, la più grande d’Europa.

Dopo questi riconoscimenti all’Italia con riferimenti alla sua storia, ha parlato degli incontri interreligiosi degli ultimi anni improntati al dialogo per contribuire a un percorso di pace duratura tra i popoli. E’ un itinerario di grande importanza data l’inquietudine del mondo di oggi e la speranza in un mondo pacifico, l’opposto dello scontro di civiltà. L’Italia è un sistema complesso in cui gli italiani di fede cristiana interagiscono con i nuovi italiani anche mussulmani: “Oggi le società sono multietniche e devono riconoscere le diversità, che fanno parte della ‘società plurale’ e non possono degenerare in avversità”. Con lo sviluppo del dialogo le religioni offrono il loro contributo per superare i contrasti e dare un nuovo sviluppo alle realtà presenti, che sono tre: “La prima è lo Stato in cui dimorano, la seconda la società in cui vivono, la terza lo  spazio in cui pregano”.

In questa visione lo Stato di cui si fa parte è la prospettiva ideale e materiale da condividere con gli altri, in modo da produrre consenso e unità e comporre i dissensi. “La religione può assecondare lo Stato senza prevaricare le autonomie, Dio ha dato all’uomo la religione come fonte di conforto e sicurezza, e come mezzo per realizzarsi in rapporto ai propri simili”. L’Islam ha nella radice del proprio nome la pace tra gli uomini che discende da Dio. “Shalam vuol dire pace ed è anche il modo con cui si invoca Dio. I credenti sono cittadini che si alimentano di fede, e questo non è un fatto confessionale. Le religioni devono svolgere un ruolo pacificatore nel rispetto reciproco”.

Redouane ha concluso con una lezione di vita: “Vivere insieme è complesso ma è meno arduo se ognuno si fa carico della propria parte di responsabilità. L’organizzazioni interna e l’assetto della società civile è importante ma resta fondamentale il ruolo delle religioni”. Il dialogo interreligioso è un momento di riflessione e meditazione e va visto come preghiera corale: “La religione non è un edificio di dottrine ma il confrontarsi continuo di tutti sul mondo, sulla vita, sui grandi interrogativi dell’esistenza. Dialogare è interrogarsi insieme e porsi domande su presente e futuro”.

E se i musulmani d’Italia si sentono come un’anima dell’Italia – ha commentato Pizzetti –  la loro presenza anche massiccia non può portare a uno scontro di civiltà, che farebbe sentire tutti come minoranze minacciate. Ma allora, come si devono migliorare le forme di convivenza, perché si possa costruire insieme la società dell’integrazione? A questa domanda ancorata sull’oggi hanno risposto Giovagnoli e Redouane.

I pericoli e le risposte dell’oggi

Secondo Giovagnoli, i pericoli sono reali, tuttavia di fronte alla minaccia di frammentazione le religioni reagiscono: così i musulmani, gli ebrei e anche i cattolici i quali pure potrebbero avere motivi di opporsi allo Stato laico che ha sostituito quello confessionale dopo la rottura traumatica con la Chiesa. Invece la convinzione dei cattolici sul valore dell’Unità è stata totale anche negli ultimi due papi stranieri: viene ricordata la convocazione dei vescovi per l’Unità d’Italia da parte di Papa Giovanni Paolo II nel 1994, nel momento delicato del passaggio dalla prima alla seconda repubblica. “Le religioni sono per la difesa dell’Unità nazionale perché avvertono che dietro le spinte alla frammentazione c’è l’esclusione dell’altro, che può riguardare anche il diverso credo religioso; tanto che il secessionismo, frutto della frammentazione, è accompagnato dalla xenofobia, incompatibile con il messaggio religioso di apertura a tutti”.

Per questo le celebrazioni dell’Unità nazionale dopo la freddezza iniziale delle forze politiche sono state molto sentite secondo il volere del Presidente della Repubblica: gli italiani vi si sono riconosciuti non per un orgoglio nazionale sciovinista estraneo alla nostra mentalità, bensì per un senso di identità che è appartenenza culturale. La sfida del futuro è accettare che ci siano nuovi italiani con le seconde generazioni di immigrati, risorsa straordinaria per il Paese su un crinale difficile che li stimola a maturare una propria sensibilità. “Hanno una gran voglia di essere italiani e noi troppo spesso lo dimentichiamo; vedono nella cultura e nella società italiana una ricchezza e noi spesso non lo consideriamo. E’ significativo osservarli dal di fuori, si sentono italiani più dei figli di italiani, e sarebbe assurdo oltre che ingeneroso non raccogliere una spinta simile, la coesione nazionale impone di dare tutto lo spazio possibile all’integrazione”.

Integrare i nuovi italiani è un’esigenza dinanzi alla realtà di una presenza forte, è una questione di prospettiva che non va immiserita da interessi immediati e miopi di tipo politico o, peggio ancora, elettorale. Cavour pur nel suo laicismo capì che la rottura tra Stato e Chiesa avrebbe danneggiato entrambe le istituzioni, è così oggi nei rapporti con gli immigrati e devono capirlo anche quelli che credono di avvantaggiarsi dando l’ostracismo.

Su questa posizione anche Redouane, nell’ottica dei mussulmani: ha stigmatizzato le voci di secessione tornate a farsi sentire nel 150° dell’Unità d’Italia, per uno sterile provincialismo. “Le religioni hanno grande importanza per la loro influenza sul piano culturale, danno il senso non tanto dell’uguaglianza quanto della fraternità umana, che fa sentire tutti fratelli e sorelle su un terreno che non può ammettere lo scontro di civiltà”. Questo non ha alcuno sbocco positivo, invece ne siamo stati nutriti per dieci anni dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle, finché la primavera araba ha mostrato che l’lslam vuol creare stati pluralistici dove la religione non può venire usata come motivo di scontro. “La stessa costruzione europea si è affermata contro gli scontri religiosi per uno Stato laico pluralista dal punto di vista religioso, ora questo avviene anche nel mondo arabo; il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti ne fa parte, ispirato dalle religioni”.

L’integrazione non ha riflessi soltanto all’interno, si pensi che a sud di Casablanca l’italiano ha sostituito il francese come seconda lingua, grazie agli emigrati marocchini in Italia ritornati in questa regione; il loro apporto è notevole nel diffondere con la lingua la cultura del paese che li ha accolti. Il mondo cambia, la trasversalità è a livello globale, il motivo per cui vi sono paesi che patiscono la crisi e altri no, sta nell’alto livello della domanda interna nei secondi, come l’India, 7% di crescita annua del prodotto interno lordo con  il 70-80 %  dalla domanda interna, rispetto alla quale il paese è autosufficiente.

Nel nostro continente l’Italia non deve smarcarsi dall’Europa ma l’Europa non si salva senza coesione e senza una nuova strategia per uscire insieme dalla crisi. Lo si diceva già nel 2011 e l’esigenza oggi non è cambiata. Mentre nella primavera araba va rafforzato lo Stato per dare unità e coesione, nell’Occidente e in particolare in Italia lo Stato e la politica devono fare un passo indietro perché le istituzioni si sono indebolite lasciando che il mercato gestisse tutto. La crisi è stata creata dalla finanza e ha colpito le società vissute al di sopra dei propri mezzi. Si parla di fallimento di paesi, dopo l’Argentina rischia la Grecia, prima non era pensabile che potesse accadere, e neppure che un paese potesse ricomprare il debito di un altro paese minacciato di fallimento, e che quest’ultimo potesse essere comprato.

“Una volta risolti i dissensi interreligiosi che non hanno motivo di essere, se si arriva a pacificare i rapporti reciproci si può dire che si è sgombrato il terreno per una nuova fase di cooperazione”. Sulle questioni fondamentali non devono esservi scontri politici, come purtroppo avviene per la cittadinanza, e anche per il lavoro e la gioventù: “L’accettazione della diversità dell’altro non disconosce l’uguaglianza dei diritti, dietro la discriminazione individuale c’è quella economico-sociale”.

Redouane ha concluso ribadendo che il ruolo delle religioni deve limitarsi alla propria sfera senza entrare sul terreno politico.”A Cesare quel ch’è di Cesare, e a Dio quel ch’è di Dio”, sembra ricordare l’esponente mussulmano, e questo suona come garanzia per tutti. Faremmo bene a non dimenticarlo mai neppure noi.

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L’immagine degli oratori della Tavola rotonda è stata ripresa da Romano Maria Levante il 24 novembre 2011 al Vittoriano: parla il rabbino Di Segni, alla sua destra il moderatore Pizzetti, alla sua sinistra il mussulmano Redouane e il cattolico Giovagnoli. Si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta.