Urne etrusche, 24 recuperate con 3000 altri reperti

di Romano Maria Levante

Ancora una volta le indagini dei Carabinieri del Comando per la Tutela del Patrimonio Culturale hanno fatto centro. In un’affollata conferenza stampa il 27 giugno 2013  nella sede di via Anicia a Roma, è stato presentato un risultato più clamoroso del solito, considerando che a ogni importante operazione segue la presentazione a Roma del successo ottenuto nell’attività di contrasto al traffico clandestino di opere d’arte. Questa volta sono state recuperate 24 urne cinerarie etrusche tra il II e il IV secolo a. C.  con 3000 reperti archeologici provenienti da un unico sito funerario di Perugia risalente al gruppo familiare degli Acni, di cui si conoscono altri ipogei. E’ il frutto di un’azione investigativa durata due anni, cui hanno concorso l’Università Tor Vergata, la Soprintendenza e Procura della Repubblica di Perugia. I cinque responsabili sono stati denunciati all’autorità giudiziaria per “ricerche illecite, impossessamento e ricettazione di beni culturali”.

Ifigenia e le urne cinerarie

“Operazione Ifigenia” è stata chiamata, perché l’eroina greca appare in alcuni rilievi sulle urne. Si tratta della figlia di Agamennone e Clitennestra, ma secondo la leggenda generata da Teseo ed Elena, il cui sacrificio richiesto per placare Artemide creò travagli psicologici e politici all’atto della spedizione a Troia. Il fascino di questo mito è stato tale da ispirare non solo le antiche  tragedie di Euripide, Ifigenia in Aulide e Ifigenia in Tauride, ma anche spettacoli teatrali moderni, melodrammi e opere liriche di diversi musicisti tra cui Domenico Scarlatti, dipinti di artisti come Tiepolo e film.

Le 24 urne cinerarie in travertino umbro bianco presentano altorilievi con scene di battaglia e tauromachie, fregi e preziose dorature; tra i 3000 reperti archeologici preziosi corredi funerari con elmo frigio e scudo, un kottabos bronzeo, schiniere e strigile, vasellame e altro ancora, tutto esposto nella sede del Comando.  Nel percorrere i due lunghi corridoi dove sono allineate le urne con un campionario dei principali reperti archeologici, si ha la sensazione di entrare nel mondo nel quale ci sono le nostre radici: a queste urne si è ispirata la cineraria romana. La localizzazione del sito a Perugia ha dato un’utile conferma sull’estensione dell’Etruria, quindi l’importanza del ritrovamento è anche sul piano della conoscenza storica, oltre al piano artistico. Luigi Melnati, direttore generale per l’antichità del Ministero dei beni culturali, ha sottolineato questi aspetti, ricordando i rapporti con Roma e le alleanze nelle guerre cui si riferiscono gli altorilievi.

Altra importanza è data dall’unicità dell’origine, il sito funerario della famiglia Acni, di cui si conoscevano otto urne provenienti, oltre che da Perugia, da Chiusi, Norchia e Tarquinia. Il ritrovamento è avvento trent’anni dopo la scoperta dell’ipogeo dei Cutu, avvenuta per caso nel 1982. Quello recuperato per merito dell’azione dei Carabinieri è  un complesso ancora più importante di urne con l’annesso corredo funerario riferito a un  unico ipogeo; inoltre le circostanze in cui è stato individuato – non un’attività sistematica di scavo ma un fatto occasionale e per di più da occultare – lasciano pensare che potrebbero esserci altri reperti e addirittura altri ipogei. Al riguardo la Soprintendenza di Perugia si sta attivando per un’apposita campagna di scavi nel sito, una buona notizia considerando come tali attività siano praticamente ferme dovunque, per cui ci si limita a conservare – spesso male come le cronache insegnano – quanto già scoperto in passato.

Nell’incontro alla sede del Comando del nucleo Tpc sono stati sottolineati i gravi danni che si arrecano al patrimonio storico-artistico-culturale disperdendo i ritrovamenti clandestini in vendite frazionate, per cui anche i recuperi non riescono a ricostituire l’unicità originaria, cosa che invece è stato possibile in questo caso. C’è un patrimonio conoscitivo da salvaguardare, Francesco Scoppola lo ritiene “il maggiore tesoro che si accompagna ad ogni oggetto e ad ogni opera d’arte (e che viene invece sistematicamente disperso dai clandestini, dai ricettatori e dai trafficanti): al di là del valore venale, al di là dell’interesse estetico ed antiquario, sono le informazioni e le interrelazioni dei reperti tra loro e con altre opere a consentire l’acquisizione di valore (anche economico, ma prima ancora sostanziale, conoscitivo) che è poi quello di gran lunga maggiore per ogni bene culturale”.

Anche da questi danni irreversibili nasce l’intento di riformare la normativa sui reati contro il patrimonio culturale. Il ministro Massimo Bray  li ha definiti “una ferita profonda nel tessuto del patrimonio culturale nazionale, privato di beni che, anche se recuperati, non sarà più possibile contestualizzare. Oggetti che non potranno parlare, raccontare la loro storia, aiutarci a ricostruire le vicende di un ambito territoriale preciso, tramutati in beni di consumo di lusso o, peggio, in merce di scambio in contropartite malavitose”. E ha annunciato un’iniziativa legislativa per la delega al governo, partendo dal testo cui era pervenuta la Commissione giustizia nella precedente legislatura, su cui lavorano gli uffici del MiBAC e del Ministero della Giustizia per una prossima presentazione al Consiglio dei Ministri; in parallelo, “un’iniziativa seria e responsabile per portare nuova linfa alle Soprintendenze archeologiche, autentico membro della tutela del patrimonio da troppo tempo indebolite dalla mancanza di risorse umane e finanziarie”. Si può solo sperare che all’annuncio seguano i fatti, sequenza logica che tuttavia non si può dare come scontata, occorre perseverare.

L’Operazione Ifigenia nella vicenda investigativa

Oltre alla straordinaria importanza nei risultati, l’Operazione Ifigenia si segnala come esemplare nelle modalità investigative, per le intuizioni che l’hanno originata e le collaborazioni che l’hanno portata al successo. Ne ha parlato diffusamente il generale Mariano Mossa, a capo del Comando del nucleo Tpc dei carabinieri, mentre ha aggiunto interessanti particolari sullo svolgimento delle indaginiil comandante del Reparto operativo maggiore Antonio Coppola.

La prima intuizione è stata di non sottovalutare il fatto di avere trovato, in una perquisizione di “routine” a un noto trafficante romano, una testina-frammento e la foto di un’urna cineraria dalla quale visibilmente era stata staccata. Si è capito che poteva trattarsi di un “provino” per presentarsi ai potenziali acquirenti: la testina come prova di autenticità, la foto per mostrare l’intero reperto.

Ma lì tutto si poteva fermare, il trafficante non era di certo disposto a confessare un reato non ancora compiuto. Allora è scattata la fase della collaborazione, si è consultata l’Università romana di Tor Vergata, il cui docente della materia Gabriele Cifani, presente alla conferenza stampa, ha indirizzato sulla pista giusta: la provenienza doveva essere Perugia, dove c’erano esempi della stessa tipologia; la Soprintendenza per i beni archeologici di Perugia, altra istituzione coinvolta, ha confermato, si sono individuati privati in possesso di reperti analoghi; la Procura della Repubblica presso il tribunale della città, con il Sostituto procuratore Paolo Abbritti, ha coordinato indagini operate con metodi investigativi adeguati, dalle intercettazioni ai pedinamenti di imprenditori edili.

Un’altra intuizione è stata vincente: poteva non essere opera di tombaroli clandestini, ma il rinvenimento casuale nel corso di uno scavo edilizio, al quale invece della doverosa denuncia alle autorità era seguito il tentativo di occultare i reperti rinvenuti per alienarli sul mercato clandestino al fine di ricavarne un illecito profitto: trattasi infatti di beni di valore anche venale  inestimabile.

Le indagini svolte sottoponendo a controllo una serie di imprenditori locali hanno portato all’identificazione dell’imprenditore cui risale il rinvenimento, avvenuto ben dieci anni fa, di qui la particolare difficoltà dell’operazione: l’attività edilizia tra l’altro non era autorizzata, e le perquisizioni hanno portato al rinvenimento e sequestro del cospicuo quanto prezioso materiale mentre si stava per offrirlo sul mercato clandestino, con l’incombente effetto distruttivo della dispersione di un patrimonio dal valore inestimabile sul piano artistico, culturale ed economico.

Il risultato lo vediamo nei due corridoi in cui sono allineate le 24 urne cinerarie e un campionario dei 3000 reperti archeologici.

La presentazione del 27 giugno la consideriamo un emblematico corollario della mostra del Centro Europeo per il Turismo in corso a Castel Sant’Angelo sui “Capolavori dell’Archeologia” recuperati dalle forze dell’ordine,  nella quale vengono approfonditi i “recuperi, ritrovamenti e confronti”. E’ il 20° anno che il Centro cura queste esposizioni, con la contestualizzazione dei ritrovamenti e la descrizione del percorso investigativo, come fatto nel rinvenimento di Perugia.

Dalle urne etrusche alla mostra di Castel Sant’Angelo

Nella presentazione della mostra a Castel Sant’Angelo, il gen. Mariano Mossa ha ricordato l’istituzione del Comando per la Tutela del patrimonio Culturale nel 1969 con 16 militari rispetto ai 280 attuali; e ha sottolineato come con “il bene d’arte, soprattutto se recuperato dall’area dell’illegalità, significa restituire alla collettività un ‘tassello’ che, indipendentemente dalla sua rilevanza storica, artistica, o economica, compone e qualifica la nostra identità culturale”.

E la Soprintendente speciale per il patrimonio storico-artistico e il polo museale di Roma Daniela Porro ha citato un’altra recente operazione dei Carabinieri che ha preceduto la mostra,  il recupero a Roma di 2500 oggetti, alcuni molto rari, tra l’VIII sec. a. C. e il II sec. d. C., avvertendo che in Italia nel 2012 le sottrazioni illecite del patrimonio artistico sono state rilevanti: 890 furti con oltre 17.000 oggetti trafugati, e l’archeologia etrusca è stata ferita dall’irruzione nel  Museo di Villa Giulia.

Il ritrovamento attuale delle 24 urne cinerarie etrusche con i 3000 reperti archeologici è una buona notizia che compensa questa ferita inferta all’archeologia etrusca: la visione delle 24 urne schierate come per essere passate in rassegna è un vero spettacolo, le immagini ne danno solo una pallida idea; come sono uno spettacolo, in proporzioni naturalmente maggiori  per il loro numero e la loro varietà, i reperti esposti nella mostra di Castel Sant’Ango. Ne parleremo prossimamente.

Info

Per le presentazioni dei successi nell’azione di contrasto ai trafugamenti e  al mercato d’arte clandestino presso il Comando dei Carabinieri per la Tutela del patrimonio Culturale, cfr. i nostri servizi nel sito specializzato “notizie.antika.it”: nel 2010: “Recuperati fossili libanesi di 100 milioni di anni”  il 12 febbraio e “Nel 2009 successi da fiction Tv”  il 15 febbraio;  nel 2012: “Carabinieri recuperano 2 statue e 200 reperti archeologici negli Usa” il 12 gennaio; “Bilancio 2011 positivo” il 21 gennaio; “Due Vanvitelli  e un Dughet recuperati” il 9 maggio; “I Carabinieri del Nucleo Tutela recuperano 200 reperti” il 12 giugno; nel 2013, per il ritrovamento attuale, “Recuperate 24 urne etrusche dal Comando Tutela” il 30 giugno.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alle presentazione nella sede del Comando dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, si ringrazia il Comando per l’opportunità offerta. Sono tutte urne cinerarie  etrusche del II-III secolo a. C.

Uganda, nella chiesa dei Martiri, una fotostory di fede e vita

di Romano Maria Levante

Nella chiesa romana dei “Santi Martiri dell’Uganda” , a Poggio ameno nell’XI Municipio, una speciale mostra fotografica, aperta dal 30 giugno 2013 per alcune settimane, con le immagini della visita organizzata dalla sezione missionaria nel paese africano dove a fine ‘800 si sono immolati i giovani ugandesi elevati alla santità per il loro sacrificio e ai quali è stata intitolata la chiesa. Le fotografie ci fanno vivere momenti della vita semplice di un popolo giovane che viene aiutato dalla fede a  trovare la sua strada tra la tradizione legata  ai costumi primitivi e i bisogni indifferibili di istruzione e assistenza da soddisfare per una migliore e più umana qualità della vita.

Una mostra in una chiesa è sempre un fatto straordinario, soprattutto quando il luogo è qualcosa che va oltre una pur prestigiosa sede espositiva per un significato più profondo. E’ stato così per le mostre pittoriche “Arché”, con i dipinti di quattro grandi artisti contemporanei in un ritorno all’archetipo nell’abbraccio ai terremotati dell’Aquila, nella basilica di Santa Maria di  Collemaggio,  dall’abside scoperchiato dal sisma cui era stata data una copertura provvisoria; e  “13 artisti oltre la notte” alla Madonna del Divino Amore, in una sala del nuovo santuario; è così per la mostra nella chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda. Mentre la fotografia è un modo consueto di esprimere testimonianze e rivivere storie religiose, lo abbiamo visto nelle mostre fotografiche romane su Giovanni Paolo II,  a Piazza Esedra,  Palazzo Valentini e “Spazio 5”.  Nel ricordare le mostre religiose non possiamo non citare le grandi esposizioni d’arte a Illegio sugli “Apocrifi”, ad Ancona  nel Congresso eucaristico sull’Ultima cena “Alla mensa del Signore”; e, ancora prima, a Roma, Palazzo Venezia, su “Il Potere e la Grazia” dove sono stati esposti dipinti di artisti celebri sui grandi protagonisti della Chiesa, dagli eremiti ai martiri ai missionari.  La mostra della chiesa dedicata ai Santi Martiri dell’Uganda nasce dalla sua consacrazione al loro martirio e dai frutti dell’azione dei  missionari su un terreno ricettivo a un’evangelizzazione che ha avuto i suoi eroi.

I Santi martiri dell’Uganda, l’omaggio di due Pontefici

Attraverso la documentazione fotografica, la mostra racconta una storia in 22 capitoli sul popolo giovane e vitale dell’Uganda che costruisce il futuro con l’alimento della fede cristiana. E’ intitolata “Uganda, alle radici della nostra storia”, perché lì nasce la chiesa romana e la parrocchia.

In Uganda la  fede fu portata dalla predicazione anglicana del 1877 cui seguì l’evangelizzazione del sud con i missionari, i Padri bianchi giunti dal lago Vittoria; nel nord i Comboniani dal 1911, lungo il Nilo nei grandi laghi.

Dopo meno di dieci anni i fedeli hanno versato il sangue del martirio: nel 1885-87 nel sud sono stati massacrati arsi vivi Carlo Lwanga e 21 compagni ; nel 1918 nel nord uccisi i giovanissimi catechisti Daudi Okelo e Jildo Jrwa. E’ una storia che ci limitiamo ad evocare, prima di seguire l’itinerario della mostra con i frutti sorprendenti di un’evangelizzazione eroica.

Carlo Lwanga era un’assistente del re, come lui tanti altri giovani di famiglie nobili avevano delle funzioni a corte; l’incontro con la fede lo portò a non accettare più il ruolo di efebo disponibile per i piaceri del sovrano, e così i suoi compagni, di qui il  tremendo massacro. I giovani catechisti del nord avevano scelto la fede superando i dubbi dei genitori, furono uccisi con protestanti e islamici.

Nel 1964 la canonizzazione dei primi martiri da parte di Paolo VI  che cinque anni dopo si reca in Uganda sul luogo del martirio. Ne riceve un’impressione così forte da desiderare che la prima chiesa costruita a Roma fosse dedicata a loro, e così è stato: il 20 giugno 1970 viene posta la prima pietra della chiesa di Poggio ameno nell’XI Municipio, nella zona dov’è il santuario delle Tre Fontane,  non lontana da piazza Caduti della Montagnola, dove 42 civili e 11 militari morirono nella resistenza ai tedeschi e sono ricordati in un sacrario; coincidenza simbolica voluta dal caso o da qualcosa di indefinibile. Il 7 dicembre 1970 la parrocchia, nell’attesa della chiesa, celebra la prima messa  in un locale di fortuna: “sotto il Portico”.

Bisognerà attendere dieci anni, e il 26 aprile 1980  un altro papa, Giovanni Paolo II, consacra la chiesa, la prima del suo pontificato, ai Santi Martiri dell’Uganda, le cui reliquie sono poste sotto l’altare. L’edificio religioso sorge ai margini di un piccolo parco, la costruzione fu tormentata da persistenti contestazioni di difesa ambientale, ne fu ridotta l’altezza  rispetto al progetto originario; e fu concepita, nella struttura e nelle tinte, come una prosecuzione del parco, nel tempio si vede e si sente l’essenza di alberi e piante in una compenetrazione tra esterno e interno. Tutt’intorno l’area è una palestra di giochi e attività ricreative e sociali per adunate di ragazzi festosi con i loro sacerdoti, è come se lo spirito del parco aleggiasse nel vasto cortile attrezzato.

La mostra testimonia il ritorno all’Uganda dopo 30 anni, organizzato dal gruppo missionario della parrocchia, in testa il parroco don Luigi D’Errico, con don Davide Lees che si è impegnato molto nell’iniziativa e nella mostra: è un sacerdote giovane e ispirato, che infonde fiducia e serenità nella dedizione attiva alla chiesa e ai fedeli, lo abbiamo visto all’opera, oltre che nelle funzioni religiose, tra quasi duecento ragazzi scatenati e festanti in una sorta di campo estivo nell’area ricreativa della parrocchia. Prima le fotografie sono state collocate in quest’area in una sorta di anteprima, poi con la visita del Vescovo domenica 30 giugno sono state portate all’interno della chiesa: sono 22 ingrandimenti  tra una stazione della via Crucis e l’altra,  un percorso  istruttivo ed edificante che si sviluppa in almeno 60 foto più piccole che declinano in dettaglio i vari “capitoli”.

Ci inoltriamo in quest’itinerario aiutati dalle ampie didascalie che sono una guida ragionata  della storia, e da quanto ci dice don Davide: le fotografie sono state scattate dai quattro partecipanti alla visita in Uganda, nella diocesi di Lira, tra cui lui stesso, e le didascalie sono frutto di riflessioni comuni. Insiste nel sottolineare la partecipazione dell’intero gruppo a ciò che attiene alla mostra.

La fede in un percorso fotografico illuminante

Il percorso inizia dal santuario costruito in Uganda  dopo la visita di Paolo VI nel luogo dell’uccisione di Carlo Lwanga a fine ‘800. All’inaugurazione del 1975 presenziò mons. Giuseppe Matarrese, ora vescovo, il primo parroco della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda, nella cui costruzione si batté con tutte le sue energie e capacità per superare gli ostacoli dei contestatori.

L’immagine del santuario ugandese, “Namugongo”,  è suggestiva, ci sentiamo subito proiettati in un mondo diverso dal nostro dalla forma di capanna del tempio;  si può vedere  una continuità ideale con la chiesa romana che si ispira all’ambiente silvestre. A lato, davanti all’altare c’è un’altra fotografia celebrativa, “Il martirio”,  riprende il sacrario che evoca il rogo con le eroiche vittime.

Vicino è esposta l’immagine delle capanne a forma conica di fango e paglia, nella loro concezione semplice e primitiva le forme più antiche di abitazione nella storia dell’uomo dopo le grotte preistoriche, sono tuttora le loro case; la dispensa è in una capanna più piccola e alta.

E’ questo il centro di un sistema composto da 80 parrocchie ciascuna delle quali comprende diecine di “Cappelle”, nuclei sparsi nel territorio dove l’attività viene svolta soprattutto da catechisti laici appositamente formati: è l’insegnamento che viene dall’esperienza ugandese, è possibile sopperire all’insufficiente numero di religiosi con il supporto di laici  ai quali vengono affidate le attività che è possibile delegare.

In queste circostanze l’arrivo dei parroci e soprattutto la visita del vescovo sono momenti di liturgia e di raccoglimento cui  si aggiunge la confessione: ne danno testimonianza le immagini singole e collettive, che rendono l’atmosfera di  partecipazione popolare e di festa. Spesso vengono donate al presule delle pecore e delle capre,nel rendere concreta l’immagine del “Buon Pastore”, impersonato nelle foto dal vescovo Giuseppe Franzelli che ha accolto i confratelli venuti da Roma; altra assonanza, al Buon Pastore è dedicata la chiesa romana nel piazzale intitolato ai Caduti della  Montagnola, prima ricordato. Tornando all’Uganda, “Il Vangelo”  viene portato in processione e conservato in una capanna riservata insieme ai semi della semina successiva, a sottolineare il legame tra le due semine, entrambe necessarie alla vita e alla costruzione del futuro.

Abbiamo poi fotografie del “Battesimo” e della “Cresima”: moltissimi i battezzati, non solo piccoli ma anche adulti, non manca nulla, l’acqua e l’unzione, le candele e il vestito bianco; ci sono belle istantanee di gruppo e primi piani di una etnia dai tratti somatici molto regolari. Per la cresima vi sono immagini singole e d’insieme, che documentano la cerimonia svoltasi in presenza dei visitatori italiani, nella quale ben 460 hanno preso il sacramento dalle mani del Vescovo.

Dopo la parte strettamente religiosa del racconto fotografico ecco la parte nella quale emergono i costumi e il legame alle tradizioni; e insieme, le iniziative di assistenza e cura della popolazione che sono promosse dai missionari e vengono realizzate rispettando scrupolosamente le radici locali.

Le fotografie sui costumi e sulla vita ugandese

Il racconto fotografico si dipana con “Il  villaggio”: abbiamo già visto le capanne  a forma conica, di fango e mattoni con la copertura di frasche, il focolare è all’aperto, qualche animale domestico e intorno la terra da coltivare. Di lì vengono le risorse per la vita, quello che viene definito “Il pane quotidiano”: si vive con i frutti del suolo favoriti dall’acqua che il cielo manda.  Le immagini rendono “Il clima” propizio, ci sono piogge improvvise, poi torna repentinamente il sereno, le precipitazioni sono tali da dare una natura rigogliosa e due raccolti l’anno. Però spesso per l’acqua potabile si deve andare lontano dove sono i pozzi, lo fanno tutti, adulti e ragazzi, lo vediamo nelle  fotografie piccole con otri e recipienti. “La musica” è una componente delle cerimonie liturgiche, gli strumenti sono arpe e tamburi molto semplici, producono ritmi definiti “caldi e avvolgenti”.

E le provvidenze sociali e assistenziali? Sono necessarie in un territorio vastissimo dove il 50% della popolazione ha meno di 6 anni e le donne hanno in media 6 figli a testa. “L’infanzia” è resa dagli splendidi primi piani dei visi di bimbi e dalle foto collettive dei loro giochi, molto eloquenti.

Allora ecco la “La scuola”, anche qui una sorpresa: sono fotografate lunghe teorie di bambini che all’alba si incamminano, in tenuta scolastica, verso i luoghi lontani di insegnamento; le aule, che vediamo nelle immagini piccole,  contengono 70-80 e anche più di 100 scolari, dinanzi a questi dati illustrati dalle immagini viene da sorridere pensando ai nostri parametri. Pur così la partecipazione è attenta e l’insegnamento efficace.

Poi i “Dispensari”, “a metà strada tra ambulatorio e ospedale”, in terre dalle grandi distanze è il primo presidio per la maternità e altre emergenze sanitarie, di lì se necessario vengono indirizzati all’ospedale più vicino; è possibile questa forma di assistenza per il personale esperto che con dedizione sopperisce ai pochi mezzi.

Mentre per la “Disabilità”, i  malati di Aids e i rifugiati,  le difficoltà nell’assistenza sono notevoli, ma non mancano iniziative caritatevoli, come quella dell’anziana suora missionaria che parlando dei suoi primi 35 assistiti diceva di aver fatto alzare in piedi e, se ciò non era stato possibile, messo in carrozzina, i bimbi che prima “erano a terra come bisce”.  Sono “i poveri tra i poveri”, ma hanno  “La forza dei deboli”, su cui fa leva la cooperativa benemerita Wawoto Cacel di Gulu, sorta per loro, impegnata nel toglierli dall’isolamento inserendoli nel lavoro tra conoscenze, esperienze e ambiente creativo. Altrettanto benemerito l'”Orfanotrofio” “Babies’ Home”  dove trovano un clima sereno e familiare orfani e bimbi abbandonati o con genitori in situazioni difficili fino a tre anni di età senza distinzione di etnia o religione, provenienti da tutti i distretti del nord del paese; stupenda l’immagine del bimbo seduto a terra davanti alla parete celeste mentre gli si prepara il latte.

Le immagini-simbolo, un podio ideale

Tutto questo è illustrato da immagini che rappresentano un vero documentario. Ma c’è di più, ci sono tre immagini-simbolo dal contenuto profondo, un podio ideale con la foto festosa al culmine.

L’obiettivo fotografico è riuscito a rendere evidente il significato di “Cercare”, che don Davide ha fissato in un’immagine intensa con una didascalia altrettanto significativa: “Incontro di sguardi. Siamo di fronte, ma riusciamo a vederci veramente, a comprenderci? Quante barriere dobbiamo far cadere per superare le nostre categorie e capire l’altro, il valore del suo vivere e vederne veramente i bisogni, così da poterci accogliere ed amare per quello che siamo”. L’immagine ha colto gli occhi penetranti del bambino ugandese dietro un muretto-staccionata che rappresenterebbe la barriera da superare. In fondo, in questo “cercare” c’è il contenuto e il significato dell’azione missionaria, che è feconda quando ad essa si unisce un’accoglienza ricettiva. Del resto, l’attività dei catechisti laici è fondamentale per superare le difficoltà delle distanze e la dispersione sul territorio nella penuria di ecclesiastici. Un problema che non è escluso si possa presentare anche nel nostro paese con la crisi delle vocazioni  e potrebbe trovare una risposta in questo modello di coinvolgimento attivo dei laici.

Oltre ai due occhi dietro la barriera di “cercare” ci ha colpito il viso dell’adulto ugandese in primo piano con dietro il religioso e altri visi assorti nell’immagine del “Battesimo”, esprime qualcosa di altrettanto intenso.

La terza immagine-simbolo di questa visita speciale del gruppo missionario nella lontana Uganda è festosa, una selva di braccia di bambini protese verso la mano di don Davide che svetta con la sua altezza; sono “Caramelle”, ma evocano qualcosa, anzi molto di più, fortemente voluto: il futuro. E’ quanto abbiamo cercato di raccontare seguendo la Fotostory della mostra nella parrocchia, per questo nel podio delle prime tre foto per noi è sul gradino più alto e l’abbiamo messa in apertura.

Così potrebbe terminare il nostro resoconto, non prima di aver sottolineato una notazione degli autori: “Lo scatto di una foto è stato anche un modo per avvicinarci e comunicare al di là della parola, a volte motivo di sorpresa per i più piccoli, rivedendosi nella foto appena scattata”; e l’immagine intitolata “Fotografie” documenta questi momenti di stupore e di gioia. Ma l’interesse giornalistico e soprattutto l’approfondimento culturale ci ha portati a voler andare oltre, a “cercare” anche noi: don Davide ci ha fatto incontrare padre Torquato Paolucci, già missionario in Uganda.

La testimonianza di padre Torquato, oltre 30 anni  in Uganda

E’ stato un incontro rivelatore, oltre che coinvolgente per la carica umana di padre Torquato, che ha collaborato attivamente alla visita in Uganda del gruppo missionario. Un sorriso leggero illumina il suo sguardo sereno, la sua parola è chiara e ispirata. Dal 1972, poco più che trentenne, al 2010, missionario comboniano vissuto 32 anni in Uganda, zona di Logongu, ai confini con Sudan e Congo, 300 chilometri a nord ovest dalla zona dove sono state scattate le foto della mostra; una lunghissima permanenza con un’interruzione di sette anni in cui è tornato in Italia.

Oggi la diocesi di Lira nel Nord del paese, in cui ha operato,  con un vescovo comboniano ha 18 parrocchie, un totale di 1200 “cappelle” disperse nel territorio e solo 50 sacerdoti: le “cappelle” sono affidate ai catechisti laici che guidano anche la liturgia della parola e il Vangelo, la pastorale e il catechismo.  Quando vi andò missionario, in che situazione si trovava il paese? gli chiediamo.  

Fu un inizio difficile nel villaggio di origine di Amin Dada, il  dittatore che ha dominato l’Uganda dal 1971 al 1979 con la sua ferocia sanguinaria: ruppe subito i rapporti con l’India, espellendo gli indiani, e con l’Occidente, isolando il paese e condannandolo all’impoverimento, esaurite tutte le risorse disponibili; scatenò persecuzioni razziali e guerre tribali con centinaia di migliaia di vittime.

Sul piano religioso e soprattutto umano, il racconto del missionario ci ha consentito di comprendere meglio la realtà documentata dalle immagini. Dell’importanza dei catechisti abbiamo detto, e padre Torquato ce l’ha documentata,  ora apprendiamo da lui che hanno una formazione molto solida, lo sa bene perché negli ultimi sette anni ha diretto in Uganda il centro per catechisti. Ce ne descrive la rigorosa formazione: un anno di preparazione, poi quattro anni a svolgere attività in comunità, quindi due anni di formazione finale, che si svolge nel centro lontano dalle famiglie dove possono tornare solo ogni tre mesi per trenta giorni. Il sacrificio per le famiglie, spesso con diversi figli, è notevole, considerando che viene a mancare il sostegno e la protezione dell’uomo su moglie e figli, per questo si chiede l’approvazione della moglie prima di accogliere la domanda; poche le catechiste donne perché per lo più la presenza dei figli piccoli lo impedisce. La scelta definitiva del catechista locale spetta comunque alla comunità che decide se accettarlo.

Sacerdoti africani e catechisti locali sono sempre più i protagonisti della chiesa ugandese, padre  Torquato ci parla dell’impressione avuta nel dicembre 2012 quando, dopo due anni, è tornato nella diocesi per il centenario dell’arrivo dei comboniani nel 1912, con la partecipazione del cardinale Filoni prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione, e del presidente della Repubblica d’Uganda: c’erano oltre 50.000 persone, venute anche dopo giorni di cammino dormendo sotto gli alberi. Ebbene, tanti sacerdoti africani, solo 7-8 missionari: il passaggio di testimone è ormai in atto.

Il 60% sono cattolici, meno del 30% protestanti, il 10%  mussulmani, pochissimi i pagani, seguaci delle credenze animiste che i missionari trovarono in quella terra. Chiediamo quale è stata la spinta che ha portato alle conversioni di massa, padre Torquato ha le idee chiare:  “Il loro dio lo identificavano nella natura, dal fiume agli alberi, ne avevano una percezione alquanto vaga; sentivano invece molto gli spiriti ai quali facevano risalire i fatti della vita. Il cristianesimo li ha affascinati perché vi hanno trovato un riferimento sicuro, la spinta della speranza”.  Quando nell’imperversare di una delle tante guerre che hanno insanguinato il paese per vent’anni furono uccisi 13 missionari, temevano che gli altri, tra cui padre Torquato, lasciassero quella terra, cosa che non avvenne. “Se ve ne foste andati, dissero, per la nostra vita sarebbe finito tutto, perché avremmo perduto la speranza”.

Una speranza di fede e una speranza di vita, dato che “la vita cristiana è una vita concreta, espressa anche nelle celebrazioni rituali che durano un’eternità. Non potevo fare una rapida visita per proseguire il giro in altre comunità, dovevo restare con loro l’intera giornata, pranzare insieme, condividerne tutti i momenti”. Padre Torquato ci ha fatto capire anche come nascono i progetti e le iniziative assistenziali di cui abbiamo visto eloquenti immagini nella mostra fotografica. Alla base c’è il Cristianesimo concreto, che manifesta nelle opere il profondo credo interiore. Le scuole e i pozzi per l’acqua, i dispensari e gli ospedali sono “espressione dell’amore di Cristo perché i suoi figli possano avere una vita migliore”, è come se le iniziative avessero un’ispirazione superiore.

A volte l’idea di un progetto nasce addirittura dai gruppi di 10-15 componenti che si riuniscono per meditare sulla Bibbia – ci dice tra l’altro che è riuscito a farla tradurre nella lingua locale, il logbara, lingua nilotica, una delle 27 lingue del paese, altre sono bantu, si studia e si parla l’inglese – iniziando con la preghiera, poi leggendo due volte il brano prescelto, quindi meditazione e interpretazione di ciascuno su ciò che significa per la propria vita e per la comunità; di qui la riflessione si può allargare nella concretezza del Cristianesimo vissuto con iniziative e progetti.

Chiediamo a padre Torquato, al termine dell’incontro, il suo sentimento da missionario  rientrato in Italia  dopo  trent’anni  trascorsi in Uganda. “Il mal d’Africa per me è sentire la mancanza di questa gente, che mi ha dato molto di più di quanto io ho potuto dare loro”,  risponde.

La prova la troviamo in tre episodi toccanti che ci ha raccontato nella conversazione, non li ha rievocati riferendoli a questa conclusione, ma ci sembra ne siano la logica edificante premessa.

Il primo è all’inizio della missione, nel 1972, mentre si recava in auto in una località lontana per svolgere l’attività pastorale, su una strada fangosa, nell’ambiente inospitale, difficile e ostile che lo spingeva a voler chiedere di essere spostato in  una sede più consona alle sue aspettative. Ebbene, vede una giovane donna con le stampelle che si muove a fatica nel fango, mancano 6-7 chilometri alla meta, li avrebbe percorsi  a piedi con una gamba irrigidita dalla paralisi. “Perché non si limita a pregare a casa?”  le chiede padre Torquato. La risposta:  “Ho 18 anni, in queste condizioni nessuno mi sposerà, non avrò una famiglia, non vedo prospettive, ma quando prendo Cristo dentro di me con la comunione la mia vita si illumina, acquista un senso, un valore”.  Una lezione di vita e di fede per il missionario  che stava per arrendersi alle prime  difficoltà, di qui la sua ferma decisione di restare.

Un altro episodio al termine dei trent’anni vissuti da missionario in Uganda, nel 2010, allorché i superiori gli hanno chiesto di tornare in Italia. Questa volta non vorrebbe farlo, è lo stato d’animo opposto a quello dell’episodio all’inizio del mandato missionario. La lezione di vita e di fede viene da un’altra ugandese, sposata a  un aspirante catechista con 6 o 8 figli, padre Torquato prima di accettarlo ha voluto verificare di persona che la moglie fosse consenziente, gli sembrava difficile dato il peso familiare. La donna, confermandogli l’assenso, lo motiva così: “Se Dio ha chiamato a sé mio marito con questa vocazione, chi sono io per andare contro il suo volere?” E padre Torquato collega la chiamata dei superiori al volere di Dio con lo stesso interrogativo dalla risposta scontata: “Chi sono io per andare contro il suo volere?”. Di qui la pronta accettazione superando ogni esitazione.

Ma l’episodio ancora più toccante, se è possibile una graduatoria in questo diapason di sentimenti, si trova tra i due ora evocati, nel corso di una delle guerre sanguinose che hanno sconvolto il paese. Padre Torquato stava tornando indietro nella tipografia dove si era recato con un altro missionario la cui scelta di vita era stata eroica essendo figlio unico di madre vedova. Ebbene, la loro auto viene affiancata da un veicolo da cui spuntano  due fucili spianati, il confratello al volante non si ferma all’intimazione degli uomini armati, l’auto è delle suore e non vuole perderla; partono i colpi, padre Torquato si china e sente sibilare i proiettili sopra la testa, il suo compagno viene colpito dietro il collo, muore sul colpo. L’auto si infila fra i cespugli e si ferma, gli assassini depredano ciò che possono sui corpi, il suo è così insanguinato che non si accorgono che è vivo. Quando viene soccorso e portato in ospedale è livido di rabbia, sente salire una violenta reazione contro chi ha commesso il barbaro assassinio di un missionario a lui così vicino. Le due infermiere che lo curano, a un certo punto gli chiedono di unirsi a loro nella preghiera: intendono rivolgerla alla vittima ma anche ai suoi assassini. Tutto il suo essere si ribella, non gli si può chiedere di perdonare, tale è stato l’orrore, finché sente il groppo salire alla gola irresistibile e poi sciogliersi in un pianto irrefrenabile. Allora la sua preghiera si leva anche per gli assassini, ha perdonato.

Il missionario ci dice che nella sua attività pastorale, nella predicazione, invitava sempre al perdono, unico modo per essere in pace con se stessi oltre che con gli altri; ma quella volta proprio lui non riusciva a metterlo in pratica, fino all’invito delle  ugandesi: “L’Africa mi ha dato il dono del perdono!”, esclama. E aggiunge: “Pensavo di portare Cristo io, l’ho trovato là, era con loro”.

Salutiamo padre Torquato con qualcosa di nuovo nel cuore, ce lo hanno dato i suoi racconti e i suoi occhi con un sorriso speciale, quello della perfetta letizia. Rivediamo gli occhi del bimbo ugandese dietro il muretto-staccionata, il titolo della foto era “cercare”: la  barriera è caduta, la ricerca si è conclusa.

Ci accompagnano le sue parole, dopo una trentennale attività missionaria: “La mia vita è bella” è il suo saluto.  Ripensiamo al suo “mal d’Africa”, sente che gli manca quanto di edificante gli ha dato un paese nella vita semplice alimentata dalla fede e dalle opere, anche se lo serba nel cuore.

Le fotografie della mostra ci sembra ne ricevano una nuova luce, le scorriamo un’ultima volta con emozione, presi ancora di più dalla suggestione di un qualcosa di molto profondo, di superiore.

Info

Chiesa dei Santi Martiri dell’Uganda, nel Largo con tale nome, Roma, Poggio ameno, ‘XI Municipio. Cfr. su questa mostra il nostro articolo in “fotografia.guidaconsumatore.it” il 18 luglio 2013. Per le mostre citate cfr. i nostri servizi: in “cultura.inabruzzo.it” su “Arché” il 9 dicembre 2011, in questo sito su “Divino Amore, 13 artisti oltre la notte” 12 maggio 2013, in “cultura.abruzzoworld.com” sulla mostra “Apocrifi nell’arte ” il 29 settembre  e 3 ottobre 2009,  e su “Il Potere e la Grazia” il 28 e 29 gennaio 2010; in questo sito sul “Congresso eucaristico e la mostra ‘Alla mensa del Signore'” il 29 giugno 2013.Per altri temi religiosi,  in “cultura.abruzzoworld.com” i nostri servizi “Perdonanza 2009” il 3 settembre 2009, e in questo sito “Preghiere per l’Italia”  il 9 luglio 2013. In materia di archeologia cristiana i nostri servizi in “notizie.antika.it”: sulla mostra di Assisi “L’archeologia del colore” il  23, 30 aprile e 7 maggio 2010, sui resti dell’antica basilica di “Santa Maria Aprutiensis a Teramo” il 29 ottobre 2010, sulla “Cripta della Cattedrale di Palermo” il 10 dicembre 2010; su ipogei cristiani romani, i “Sotterranei di Santa Maria Maggiore” il 5 marzo 2010, la “Cripta di santa Maria in Lata” con la cella di san Paolo il 22 ottobre 2012; sull’archeologia umana, le “Catacombe dei Cappuccini di Palermo” il 20 novembre e 4 dicembre 2010, e il “Nuovo museo dei Cappuccini di Roma” il16 luglio 2012. Per l’arte africana in “cultura.abruzzoworld.com” il nostro servizio “Africa? Una nuova storia”, il 15 e 17 gennaio 2010.

Foto

Le immagini sono state fornite da don Davide Lees per il gruppo missionario della parrocchia dei Santi Martiri dell’Uganda, che si ringrazia con i titolari dei diritti. In apertura, “Caramelle”,  don Davide le distribuisce ai piccoli ugandesi, seguono “Namugongo” il Santuario, e “Il villaggio”, “Orfanotrofio” e “La forza dei deboli” con “i poveri tra i poveri” al lavoro, poi“Battesimo” e “Cercare”; in chiusura l’altare della chiesa romana dei Santi Martiri dell’Uganda con don Davide, davanti sono espostele foto del santuario ugandese “Namugongo” (a sinistra) e del sacrario “Il Martirio” (a destra), altre foto piccole si intravedono sulla parete di fondo.

Preghiere per l’Italia, religioni e unità nel 150°, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Il cattolico Giovagnoli, l’ebreo Di Segni, il mussulmano Redouane in una tavola rotonda sull’apporto delle religioni all’Unità d’Italia che ha celebrato i 150 anni sotto un profilo di particolare interesse tanto più in una sede come il Vittoriano, l’Altare della Patria il cui nome, è stato osservato, mutua una terminologia religiosa per l’identità e le istituzioni di un popolo al di là delle confessioni e fedi professate. In questo senso la tavola rotonda “Preghiere per l’Italia”, il titolo dato all’incontro del 24 novembre 2011, è stato come un rito laico. Ci sembra che i temi e gli argomenti trattati siano così rilevanti e tuttora validi, da meritare di tornarci dopo un anno e mezzo dal convegno.

Non si è trattato, naturalmente, di un dialogo interreligioso, anche se è stato evocato, ma culturale: un confronto sui rispettivi apporti all’Unità nazionale non tanto nel senso epico-risorgimentale, quanto come formazione di una coscienza comune nella condivisione dei valori della nazione. Il moderatore Marcello Pizzetti, direttore scientifico  del museo della Shoah di Roma, ha di volta in volta stimolato i tre partecipanti con sapienti siparietti nel passare il testimone, da commentatore e insieme “starter” pronto e avveduto.

I cattolici nella costruzione dell’identità unitaria

“Cosa dobbiamo noi italiani alla religione e alla cultura cattolica, è stato un apporto di coesione nazionale o meno?” questa la domanda che il  moderatore ha posto in apertura ad Agostino Giovagnoli, ordinario di storia contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore. Il docente cattolico ha cominciato con il dire che il contributo delle religioni è innanzitutto di natura culturale: “Sono forze profonde che esprimono tensioni ideali, attingendo anche a questo patrimonio si è costruita l’Unità nazionale”.  Il Risorgimento nasce su un forte disegno istituzionale, ma quando si va nella comunità, le varie componenti si fondono sul terreno della cultura. Prima del 1861 ci fu elaborazione culturale, una fucina di idee improntata a una visione unitaria di identità nazionale, dalle opere letterarie di Leopardi e Manzoni, a quelle musicali di Verdi, ai pittori del Risorgimento; e qui vogliamo richiamare la mostra alle “Scuderie del Quirinale” che fu dedicata appunto ai “Pittori del Risorgimento”, con le visioni belliche dei pittori-soldato e quelle simboliche dei pittori- patrioti.

In questa dimensione si colloca l’apporto della religione cattolica, che si è fuso con quello delle altre religioni, in particolare l’ebraica nella comune matrice cristiana, e con l’apporto della cultura laica. Elementi culturali diversi si sono intrecciati nell’immaginazione collettiva: “La nazione è stata una comunità pensata prima di essere realizzata”, coagulando valori unitari sin dalla prima metà dell’800. Il contributo della religione cattolica al modello di nazione è risultato fondamentale, considerando che “da noi il cemento unitario non è stato di natura etnica, cioè nei costumi e simboli, tradizioni e origini comuni; anzi, dal punto di vista etnico gli italiani sono diversi”; non  a caso erano divisi in tanti piccoli stati in base a tale specifica identità. Il cemento unitario non è stato neppure di natura economica o politica, ma si è basato sull’identità culturale, quindi anche sulla componente religiosa; intesa non come confessione ma come insieme di valori che riguardo alla cultura cattolica hanno permeato da sempre l’intera società.

La presa di coscienza della propria identità in base ai valori della libertà è resa da Manzoni in “Marzo 1821”, che richiama la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto mediante il cammino comune verso l’obiettivo unitario, la terra promessa. Si tratta di un’identità non etnica ma di vocazione storica, del tutto originale rispetto ad altre nazioni europee, che la rende compatibile con altre identità nazionali. Ogni popolo ha la sua storia, anche se non così straordinaria, e riesce ad affermarla in tutte le vicende. E quando la forza identitaria non deriva dalla struttura statuale come in Francia né dall’isolamento geografico come in Inghilterra, come acquisirla?

Per l’Italia deriva dalla storia comune, e quando Mazzini inserisce la Giovane Italia nella Giovane Europa lo fa sulla base di un’identità nazionale non naturale, ma spinta dalla volontà di stare insieme per scelta, riconoscendosi in una cultura comune. Sembrerebbe un’identità debole, invece è fortissima perché non scalfita dalle diversità, che sono evidenti e costituiscono una ricchezza, aggiungiamo; e non è minata da una storia che è una successione di errori e tradimenti pur nella prospettiva risorgimentale, ma come nella Bibbia trova la composizione nel percorso comune: la formazione di una comunità culturale  che unisce le religioni tra di loro e con il mondo laico.

Giovagnoliha concluso collegando a questa visione il problema della cittadinanza agli immigrati, nella drammatica contrapposizione tra lo “ius sanguinis” in vigore e l’aspirazione allo “ius soli” che assimilerebbe automaticamente tutti coloro che nascono in Italia, magari con dei tempi di residenza pregressa dei genitori. “La nostra cultura indica che il ‘sangue italiano’ non esiste, né come appartenenza genetica né come ideologia”,  esiste invece il comune sentire sul piano dei valori, e questo è anche patrimonio degli stranieri che vivono nel nostro paese e i cui figli, nati in Italia, in nulla si distinguono dagli italiani propriamente detti.

La partecipazione degli ebrei al processo unitario

Anche per Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la costruzione dell’Unità nazionale – con la liberazione dell’Italia dal giogo straniero – richiama il modello biblico degli ebrei affrancati dalla schiavitù in Egitto che Giuseppe Verdi ha tradotto in musica nel “Va pensiero” del Nabucco. Gli ebrei italiani si identificano in questo modello  e costruiscono la casa comune nell’Italia unita sebbene sembri contraddittorio rispetto a Sion e alla terra promessa. Le nuove idee di libertà sono state assimilate immediatamente, la popolazione di ebrei è urbana e non contadina, con strati di miseria proletaria ma con un nucleo intellettuale molto dinamico; al tempo dell’Unità si stima che l’85% del totale della popolazione fosse analfabeta, tra gli ebrei italiani invece la percentuale corrispondente era del 10%. Questo dava la possibilità di raggiungere i vertici della società e delle istituzioni ma loro non cercarono di prevaricare. E anche dopo le leggi razziali “il dramma è stato metabolizzato, non c’è comunità più nazionalistica per l’Italia di quella ebraica”.

“Tutto ciò nasce dalla condivisione dei valori di una stessa comunità culturale, e a tal fine non basta nascere in una famiglia italiana né sul suolo italiano – afferma entrando anche lui nel terreno minato dello “ius sanguinis” e “ius soli” – è necessario avere la consapevolezza che esiste una comunità culturale e la volontà di farne parte”. Racconta la storia incredibile, che risale al 1850, del giovane ebreo al quale fu negato l’accesso all’università per motivi razziali; e rivendica la reciprocità nel senso che l’Italia viene sentita come patria nel momento in cui attraverso di essa si arriva alla parità dei diritti: “Il processo unitario è prima di tutto un processo di libertà. poi anche senso di appartenenza”. Gli ebrei pregano per il ritorno a Sion, ma con il luogo dove vivono, nel caso l’Italia, “hanno un legame molto stretto, un insieme di affetti e di cultura condivisa; un ebreo italiano in Italia è un ebreo, in Israele è un italiano, l’anima di ogni ebreo è una mescolanza di identità, e questo rappresenta la vera ricchezza”.

Anche sul terreno pratico il contributo degli ebrei italiano al processo unitario è stato notevole, mediante la partecipazione alle battaglie risorgimentali, dove hanno combattuto in prima fila e in gran numero, cita per tutte Curtatone e Montanara. E richiama le parole di Gramsci secondo cui “gli ebrei  hanno partecipato alla costruzione dell’Unità nazionale come i romagnoli”. Riconosce che non c’è stata unanimità in questo processo, e tra le opposizioni cita quella dei Rotschild a Napoli:  ricostruiscono una comunità e la sinagoga, e non vogliono avere nulla a che fare con i portatori delle istanze risorgimentali che considerano sovversivi. Con la guerra coloniale di Libia del 1897 nacquero gruppi che concepivano il sionismo come filantropico e ne facevano un fatto identitario; a quel punto esplosero i contrasti sull’identità che si accentuarono con la prima guerra mondiale quando gli ebrei diedero un contributo di eroismo più in Italia che altrove. I momenti di crisi si aggravarono con il fascismo, allorché fu posta l’alternativa di stare con l’Italia fascista o non essere considerati italiani, secondo il ben noto “o con noi o contro di noi”. Nel 1929, 9 anni prima delle leggi razziali, una grave crisi attraversò il processo unitario, gli ebrei non erano più considerati cittadini. “Oggi la comunità ebraica in Italia ha almeno 100 anni, con interessi cosmopoliti, e gli ebrei si sentono cittadini del mondo, con salde radici in questa terra e l’orgoglio di difenderne l’identità nella sua Unità”.

I sentimenti  della comunità mussulmana

Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, ha portato “la voce del mondo islamico e mussulmano, ma d’Italia”, ha tenuto a sottolineare. “Questa comunità è recente – ha proseguito –  non ha partecipato all’unificazione, ma considera l’incontro al Vittoriano un ‘battesimo irrituale’ per accompagnare le celebrazioni del 150°”. Sente di far parte del “tessuto sociale dell’Italia che ha mille anime e la comunità islamica costituisce una di queste anime. Partecipare alle celebrazioni rende onore all’anima che vi partecipa e cerca di comprendere il passato nel quale non era presente”. Ha sottolineato come il Vittoriano sia il monumento-simbolo del compimento dell’Unità nazionale e ha ricordato che il processo unitario si concluse alla fine della prima guerra mondiale con le terre irredente riunite alla patria; “chiamarlo Altare della Patria dimostra come i laici usino un linguaggio religioso”, ha detto, citando poi la Moschea di Roma di Monte Antenne, la più grande d’Europa.

Dopo questi riconoscimenti all’Italia con riferimenti alla sua storia, ha parlato degli incontri interreligiosi degli ultimi anni improntati al dialogo per contribuire a un percorso di pace duratura tra i popoli. E’ un itinerario di grande importanza data l’inquietudine del mondo di oggi e la speranza in un mondo pacifico, l’opposto dello scontro di civiltà. L’Italia è un sistema complesso in cui gli italiani di fede cristiana interagiscono con i nuovi italiani anche mussulmani: “Oggi le società sono multietniche e devono riconoscere le diversità, che fanno parte della ‘società plurale’ e non possono degenerare in avversità”. Con lo sviluppo del dialogo le religioni offrono il loro contributo per superare i contrasti e dare un nuovo sviluppo alle realtà presenti, che sono tre: “La prima è lo Stato in cui dimorano, la seconda la società in cui vivono, la terza lo  spazio in cui pregano”.

In questa visione lo Stato di cui si fa parte è la prospettiva ideale e materiale da condividere con gli altri, in modo da produrre consenso e unità e comporre i dissensi. “La religione può assecondare lo Stato senza prevaricare le autonomie, Dio ha dato all’uomo la religione come fonte di conforto e sicurezza, e come mezzo per realizzarsi in rapporto ai propri simili”. L’Islam ha nella radice del proprio nome la pace tra gli uomini che discende da Dio. “Shalam vuol dire pace ed è anche il modo con cui si invoca Dio. I credenti sono cittadini che si alimentano di fede, e questo non è un fatto confessionale. Le religioni devono svolgere un ruolo pacificatore nel rispetto reciproco”.

Redouane ha concluso con una lezione di vita: “Vivere insieme è complesso ma è meno arduo se ognuno si fa carico della propria parte di responsabilità. L’organizzazioni interna e l’assetto della società civile è importante ma resta fondamentale il ruolo delle religioni”. Il dialogo interreligioso è un momento di riflessione e meditazione e va visto come preghiera corale: “La religione non è un edificio di dottrine ma il confrontarsi continuo di tutti sul mondo, sulla vita, sui grandi interrogativi dell’esistenza. Dialogare è interrogarsi insieme e porsi domande su presente e futuro”.

E se i musulmani d’Italia si sentono come un’anima dell’Italia – ha commentato Pizzetti –  la loro presenza anche massiccia non può portare a uno scontro di civiltà, che farebbe sentire tutti come minoranze minacciate. Ma allora, come si devono migliorare le forme di convivenza, perché si possa costruire insieme la società dell’integrazione? A questa domanda ancorata sull’oggi hanno risposto Giovagnoli e Redouane.

I pericoli e le risposte dell’oggi

Secondo Giovagnoli, i pericoli sono reali, tuttavia di fronte alla minaccia di frammentazione le religioni reagiscono: così i musulmani, gli ebrei e anche i cattolici i quali pure potrebbero avere motivi di opporsi allo Stato laico che ha sostituito quello confessionale dopo la rottura traumatica con la Chiesa. Invece la convinzione dei cattolici sul valore dell’Unità è stata totale anche negli ultimi due papi stranieri: viene ricordata la convocazione dei vescovi per l’Unità d’Italia da parte di Papa Giovanni Paolo II nel 1994, nel momento delicato del passaggio dalla prima alla seconda repubblica. “Le religioni sono per la difesa dell’Unità nazionale perché avvertono che dietro le spinte alla frammentazione c’è l’esclusione dell’altro, che può riguardare anche il diverso credo religioso; tanto che il secessionismo, frutto della frammentazione, è accompagnato dalla xenofobia, incompatibile con il messaggio religioso di apertura a tutti”.

Per questo le celebrazioni dell’Unità nazionale dopo la freddezza iniziale delle forze politiche sono state molto sentite secondo il volere del Presidente della Repubblica: gli italiani vi si sono riconosciuti non per un orgoglio nazionale sciovinista estraneo alla nostra mentalità, bensì per un senso di identità che è appartenenza culturale. La sfida del futuro è accettare che ci siano nuovi italiani con le seconde generazioni di immigrati, risorsa straordinaria per il Paese su un crinale difficile che li stimola a maturare una propria sensibilità. “Hanno una gran voglia di essere italiani e noi troppo spesso lo dimentichiamo; vedono nella cultura e nella società italiana una ricchezza e noi spesso non lo consideriamo. E’ significativo osservarli dal di fuori, si sentono italiani più dei figli di italiani, e sarebbe assurdo oltre che ingeneroso non raccogliere una spinta simile, la coesione nazionale impone di dare tutto lo spazio possibile all’integrazione”.

Integrare i nuovi italiani è un’esigenza dinanzi alla realtà di una presenza forte, è una questione di prospettiva che non va immiserita da interessi immediati e miopi di tipo politico o, peggio ancora, elettorale. Cavour pur nel suo laicismo capì che la rottura tra Stato e Chiesa avrebbe danneggiato entrambe le istituzioni, è così oggi nei rapporti con gli immigrati e devono capirlo anche quelli che credono di avvantaggiarsi dando l’ostracismo.

Su questa posizione anche Redouane, nell’ottica dei mussulmani: ha stigmatizzato le voci di secessione tornate a farsi sentire nel 150° dell’Unità d’Italia, per uno sterile provincialismo. “Le religioni hanno grande importanza per la loro influenza sul piano culturale, danno il senso non tanto dell’uguaglianza quanto della fraternità umana, che fa sentire tutti fratelli e sorelle su un terreno che non può ammettere lo scontro di civiltà”. Questo non ha alcuno sbocco positivo, invece ne siamo stati nutriti per dieci anni dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle, finché la primavera araba ha mostrato che l’lslam vuol creare stati pluralistici dove la religione non può venire usata come motivo di scontro. “La stessa costruzione europea si è affermata contro gli scontri religiosi per uno Stato laico pluralista dal punto di vista religioso, ora questo avviene anche nel mondo arabo; il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti ne fa parte, ispirato dalle religioni”.

L’integrazione non ha riflessi soltanto all’interno, si pensi che a sud di Casablanca l’italiano ha sostituito il francese come seconda lingua, grazie agli emigrati marocchini in Italia ritornati in questa regione; il loro apporto è notevole nel diffondere con la lingua la cultura del paese che li ha accolti. Il mondo cambia, la trasversalità è a livello globale, il motivo per cui vi sono paesi che patiscono la crisi e altri no, sta nell’alto livello della domanda interna nei secondi, come l’India, 7% di crescita annua del prodotto interno lordo con  il 70-80 %  dalla domanda interna, rispetto alla quale il paese è autosufficiente.

Nel nostro continente l’Italia non deve smarcarsi dall’Europa ma l’Europa non si salva senza coesione e senza una nuova strategia per uscire insieme dalla crisi. Lo si diceva già nel 2011 e l’esigenza oggi non è cambiata. Mentre nella primavera araba va rafforzato lo Stato per dare unità e coesione, nell’Occidente e in particolare in Italia lo Stato e la politica devono fare un passo indietro perché le istituzioni si sono indebolite lasciando che il mercato gestisse tutto. La crisi è stata creata dalla finanza e ha colpito le società vissute al di sopra dei propri mezzi. Si parla di fallimento di paesi, dopo l’Argentina rischia la Grecia, prima non era pensabile che potesse accadere, e neppure che un paese potesse ricomprare il debito di un altro paese minacciato di fallimento, e che quest’ultimo potesse essere comprato.

“Una volta risolti i dissensi interreligiosi che non hanno motivo di essere, se si arriva a pacificare i rapporti reciproci si può dire che si è sgombrato il terreno per una nuova fase di cooperazione”. Sulle questioni fondamentali non devono esservi scontri politici, come purtroppo avviene per la cittadinanza, e anche per il lavoro e la gioventù: “L’accettazione della diversità dell’altro non disconosce l’uguaglianza dei diritti, dietro la discriminazione individuale c’è quella economico-sociale”.

Redouane ha concluso ribadendo che il ruolo delle religioni deve limitarsi alla propria sfera senza entrare sul terreno politico.”A Cesare quel ch’è di Cesare, e a Dio quel ch’è di Dio”, sembra ricordare l’esponente mussulmano, e questo suona come garanzia per tutti. Faremmo bene a non dimenticarlo mai neppure noi.

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L’immagine degli oratori della Tavola rotonda è stata ripresa da Romano Maria Levante il 24 novembre 2011 al Vittoriano: parla il rabbino Di Segni, alla sua destra il moderatore Pizzetti, alla sua sinistra il mussulmano Redouane e il cattolico Giovagnoli. Si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta.

Accessible Art. La “Summer Collection” con sei artisti, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

L’estate alla galleria romana  RvM  di Michele von Buren si festeggia con la mostra “Summer Collection”, aperta dal 4 luglio al 30 settembre 2013 con la cbiusura nel mese di agosto. Vengono riproposti artisti già presentati in precedenti mostre personali o collettive con alcune  interessanti novità, in una visione  teatrale di figure scultoree e pittoriche di grande qualità e forte impatto. L’ambiente della galleria è coinvolgente e familiare, sempre nel consueto abbinamento con mobili di antiquariato. Sono messi in pratica i tre obiettivi di “Accessible Art”: inserire l’arte nella vita domestica,  offrirla a prezzi avvicinabili, superare la diffidenza verso certa arte contemporanea. 

Non serve soffermarsi su questi obiettivi, che abbiamo illustrato diverse volte, ci limitiamo a ricordarne testualmente l’enunciazione che ne fa la galleria: esibire l’arte in un ambiente informale e accogliente, più vicino ad una collocazione domestica per evitare quel senso di timore reverenziale che si può provare nel varcare la soglia di una classica galleria; rendere l’arte più abbordabile da un punto di vista economico: vengono proposte opere il cui prezzo non supera il tetto dei 5.000 euro, lasciando intatto il potenziale d’investimento; far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare. Le opere sono tutte “comprensibili” e con la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo. Questa iniziativa collega il lavoro di giovani emergenti a quello di nomi già affermati.

Il titolo della mostra non poteva essere espresso meglio della scultura di Alessio Deli, un elemento di particolare spicco della “scuderia” di 20 pittori, 4 scultori e 13 fotografi che Michele von Buren, anima della galleria e curatrice della mostra, ha formato con la sua intensa attività di selezione e promozione. Si tratta di “Summer Awakening”, è una scultura realizzata con materiale di recupero, il busto eretto, dal notevole fascino. Vicino alla parete opposta un’altra grande scultura, dello stesso artista, “Big Warrior”, figura  seduta che incute soggezione e insieme vicinanza con la sua fermezza mista a dolcezza. Sono a grandezza  naturale, come i “Seagul” al centro della sala, vediamo esposti quattro “ritratti” di gabbiani collocati su particolari trespoli che formano una composizione spettacolare. In fondo si scorgono altre due opere di Deli, il “Recycle”, un velocipede che esprime nel nome e nel materiale la filosofia dell’utilizzazione di materiale di recupero; alla parete“Cu”, un quadro con elementi metallici di rame,  perché l’artista eccelle anche in una pittura materica densa con vaste campiture monocromatiche dove sono applicati elementi metallici. Il campionario delle sue opere è completato da “Shoes”,  e “Robin”, dalle scarpe al nido con l’uccellino al di fuori: tanta tenerezza dopo la forza espressiva delle grandi sculture.

Altra presenza coinvolgente che dà il tono internazionale, anch’essa artista di spicco di “Accessible Art”, è quella di Christina Thwaites, nata a Sheffield vive a Roma: i suoi dipinti sono ispirati dalle fotografie del proprio album di famiglia, ne derivano immagini di volta in volta vivaci o assorte, umoristiche o tenere, con qualche tratto inquietante. Sono, in fondo, i diversi momenti della vita che trovano espressione nei volti, spesso allineati nelle immagini di gruppo. “Gentlemen in orange” e Mixed Hockey Team” quelli di maggiori dimensioni, il primo in un inconsueto forte cromatismo, poi “Three Generations” e “Little Stepsisters” , “Christmas Age” e le piccole “Funny Faces”, intriganti ritratti di piccole dimensioni dalle tinte intense di cui sono offerti anche dei multipli.

Fa parte delle presenze familiari nella sala principale della galleria Lorenzo Bruschini, pittore e incisore che ha iniziato a dipingere nella Scuola Libera del Nudo a Roma con il maestro Avanessian, ha fatto esperienza anche a Parigi nell’Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, ha fondato a Roma l’Atelier .”Les Oiseaux Noirs”. In un nero intenso esprime un mondo interiore, tra psiche e realtà, la sua visione è tra l’onirico e il psicanalitico con forti tratti simbolici.  Lo vediamo nei tre dipinti allineati, “L’incontro con la morte nel bosco”,”La casa abbandonata”, “Il fiore di cardo”. Vi abbiamo trovato spunti di surrealismo e anche un’eco di “Guernica”, veramente sono immagini che restano impresse. Non sappiamo se il “Fiore di cardo” per l’artista rivesta significati simbolici, “il cardo rosso” in Tolstoj esprimeva lo spirito indipendente e indomito del suo popolo, come abbiamo potuto vedere nella mostra fotografica di Davide Monteleone con tale titolo.

Sulla parete opposta facciamo la conoscenza con l’arte di Andrea  Silicati, la “new entry”, una nuova proposta in assoluto. “Maestro di pittura”, che ha fondato una scuola dieci anni fa, dove insegna disegno, pittura e tecniche dell’incisione, realizza le sue opere con sovrapposizioni di diversi strati di carta giapponese, utilizzando oli, smalti, acrilici e pigmenti naturali che compone lui stesso. Vediamo quadri intitolati “Figure”, ce ne sono cinque, che rappresentano forme appena delineate, come sospese, con schizzi di colore, le linee  spezzate e incerte danno i contorni essenziali, si intravvedono dei nudi.

Ma la mostra non è finita, nella saletta attigua ritroviamo Gianlorenzo Gasperini, con una piacevole sorpresa. Oltre alle piccole tempere  e oli che conosciamo, “Figure in piedi” e “Figure piegate” su fondo in verde sfumato,  piccole sculture che in aggiunta alle teste bianche presentate in precedenza riproducono le figure rappresentate in pittura e altri temi, come le “Teste” dei piccoli bronzi scuri; e soprattutto le opere di un nuovo ciclo: grandi sculture bianche dalle forme sottili alla Giacometti, ridotte all’essenziale, in resina, gesso e bronzo con le quali esprime l’instabilità e l’equilibrio. Gesti ampi e spettacolari, pensiamo alla danza di “Matisse”, i  titoli sono “Piroga”, “David”, “Torso”.

Oltre alle opere di Gasperini troviamo nella saletta i piccoli quadretti di Luca Zarattini. L’artista lo conosciamo, ma i quadretti sono  una sorpresa, i titoli ripetuti  “Flesso” e “Abassale”;  dei suoi dipinti di grandi dimensioni ritroviamo “Carls”, la cui intensità ci riporta alle sculture di Deli. L’arte figurativa in chiave contemporanea che fa leva sulla densità materica è ben rappresentata dai due artisti dela squadra di “Accessible Art” che utilizzano pigmenti pesanti e corposi l’uno, materiali di recupero ed elementi matallici anche nella pittura ll’altro. 

E’ la bella conclusione di una mostra che offre una verifica tangibile della formula innovativa di “Accessible Arts”, nell’ambiente espositivo accogliente, nell’accessibilità economica, nella comprensibilità di un’arte contemporanea che può entrare nelle case di tutti. Un modo positivo di iniziare l’estate con negli occhi i materiali e i colori, le forme e le composizioni delle opere esposte che sono un campionario di inventiva e di motivi, di visioni e di stimoli a cui non si resta indifferenti. Ci accompagneranno le imponenti figure mitiche di Deli e i volti familiari enigmatici della Thwaites,  le composizioni inquietanti di  Bruschini e le figure essenziali e sospese di Silicati fino alle bianche sculture  filiformi di Gasperini,  che chiudono il cerchio scultoreo aperto da Deli con le robuste forme scure dei suoi materiali di recupero, e alle figure umane dal pesante impasto cromatico di Zarattini con cui si chiude un altro cerchio, sempre con Deli, quello del figurativo di forte presa materica. 

A Michele von Buren il merito di questa attenzione ai momenti che segnano la vita familiare, che l’ha portata alla “Christmas Collection” natalizia e ora a questa “Summer Collection”. Il suo “Accessible Art” si manifesta anche così. All’inizio del “vernissage”  un improvviso quanto rapido temporale,  un battesimo che porta bene: “mostra bagnata, mostra fortunata!”, è il nostro augurio.

Info

“RvB Arts”, via delle Zoccolette  28 (Antiquariato Valligiano in  via Giulia 193)  dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso, agosto chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505; cell. 335.1633518. E mail: info@rvbarts.com; sito: http://www.arvbarts.com/.  Per le precedenti mostre di “Accessible Art” cfr. in questo sito i nostri 5 servizi alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio, 26 aprile e 21 giugno 2013; per la mostra citata nel testo cfr. il nostro servizio “Il cardo rosso di Monteleone alle Officine Fotografiche” in “guidafotografia.com”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura “Summer Awakening”,  scultura di Alessandro Deli; seguono 4 dipinti di Christina Thwaites e  3 di Lorenzo Bruschini, poi 2 di Andrea Silicati  e una scultura di Gianlorenzo Gasperini; in chiusura “Carls”, un dipinto materico di Luca Zarattini.

Accessible Art. La “Summer Collection” con sei artisti, alla RvB Arts

di Romano Maria Levante

L’estate alla galleria romana  RvM  di Michele von Buren si festeggia con la mostra “Summer Collection”, aperta dal 4 luglio al 30 settembre 2013 con la cbiusura nel mese di agosto. Vengono riproposti artisti già presentati in precedenti mostre personali o collettive con alcune  interessanti novità, in una visione  teatrale di figure scultoree e pittoriche di grande qualità e forte impatto. L’ambiente della galleria è coinvolgente e familiare, sempre nel consueto abbinamento con mobili di antiquariato. Sono messi in pratica i tre obiettivi di “Accessible Art”: inserire l’arte nella vita domestica,  offrirla a prezzi avvicinabili, superare la diffidenza verso certa arte contemporanea. 

Non serve soffermarsi su questi obiettivi, che abbiamo illustrato diverse volte, ci limitiamo a ricordarne testualmente l’enunciazione che ne fa la galleria: esibire l’arte in un ambiente informale e accogliente, più vicino ad una collocazione domestica per evitare quel senso di timore reverenziale che si può provare nel varcare la soglia di una classica galleria; rendere l’arte più abbordabile da un punto di vista economico: vengono proposte opere il cui prezzo non supera il tetto dei 5.000 euro, lasciando intatto il potenziale d’investimento; far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare. Le opere sono tutte “comprensibili” e con la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo. Questa iniziativa collega il lavoro di giovani emergenti a quello di nomi già affermati.

Il titolo della mostra non poteva essere espresso meglio della scultura di Alessio Deli, un elemento di particolare spicco della “scuderia” di 20 pittori, 4 scultori e 13 fotografi che Michele von Buren, anima della galleria e curatrice della mostra, ha formato con la sua intensa attività di selezione e promozione. Si tratta di “Summer Awakening”, è una scultura realizzata con materiale di recupero, il busto eretto, dal notevole fascino. Vicino alla parete opposta un’altra grande scultura, dello stesso artista, “Big Warrior”, figura  seduta che incute soggezione e insieme vicinanza con la sua fermezza mista a dolcezza. Sono a grandezza  naturale, come i “Seagul” al centro della sala, vediamo esposti quattro “ritratti” di gabbiani collocati su particolari trespoli che formano una composizione spettacolare. In fondo si scorgono altre due opere di Deli, il “Recycle”, un velocipede che esprime nel nome e nel materiale la filosofia dell’utilizzazione di materiale di recupero; alla parete“Cu”, un quadro con elementi metallici di rame,  perché l’artista eccelle anche in una pittura materica densa con vaste campiture monocromatiche dove sono applicati elementi metallici. Il campionario delle sue opere è completato da “Shoes”,  e “Robin”, dalle scarpe al nido con l’uccellino al di fuori: tanta tenerezza dopo la forza espressiva delle grandi sculture.

Altra presenza coinvolgente che dà il tono internazionale, anch’essa artista di spicco di “Accessible Art”, è quella di Christina Thwaites, nata a Sheffield vive a Roma: i suoi dipinti sono ispirati dalle fotografie del proprio album di famiglia, ne derivano immagini di volta in volta vivaci o assorte, umoristiche o tenere, con qualche tratto inquietante. Sono, in fondo, i diversi momenti della vita che trovano espressione nei volti, spesso allineati nelle immagini di gruppo. “Gentlemen in orange” e Mixed Hockey Team” quelli di maggiori dimensioni, il primo in un inconsueto forte cromatismo, poi “Three Generations” e “Little Stepsisters” , “Christmas Age” e le piccole “Funny Faces”, intriganti ritratti di piccole dimensioni dalle tinte intense di cui sono offerti anche dei multipli.

Fa parte delle presenze familiari nella sala principale della galleria Lorenzo Bruschini, pittore e incisore che ha iniziato a dipingere nella Scuola Libera del Nudo a Roma con il maestro Avanessian, ha fatto esperienza anche a Parigi nell’Ecole Nationale Supérieure des Arts Décoratifs, ha fondato a Roma l’Atelier .”Les Oiseaux Noirs”. In un nero intenso esprime un mondo interiore, tra psiche e realtà, la sua visione è tra l’onirico e il psicanalitico con forti tratti simbolici.  Lo vediamo nei tre dipinti allineati, “L’incontro con la morte nel bosco”,”La casa abbandonata”, “Il fiore di cardo”. Vi abbiamo trovato spunti di surrealismo e anche un’eco di “Guernica”, veramente sono immagini che restano impresse. Non sappiamo se il “Fiore di cardo” per l’artista rivesta significati simbolici, “il cardo rosso” in Tolstoj esprimeva lo spirito indipendente e indomito del suo popolo, come abbiamo potuto vedere nella mostra fotografica di Davide Monteleone con tale titolo.

Sulla parete opposta facciamo la conoscenza con l’arte di Andrea  Silicati, la “new entry”, una nuova proposta in assoluto. “Maestro di pittura”, che ha fondato una scuola dieci anni fa, dove insegna disegno, pittura e tecniche dell’incisione, realizza le sue opere con sovrapposizioni di diversi strati di carta giapponese, utilizzando oli, smalti, acrilici e pigmenti naturali che compone lui stesso. Vediamo quadri intitolati “Figure”, ce ne sono cinque, che rappresentano forme appena delineate, come sospese, con schizzi di colore, le linee  spezzate e incerte danno i contorni essenziali, si intravvedono dei nudi.

Ma la mostra non è finita, nella saletta attigua ritroviamo Gianlorenzo Gasperini, con una piacevole sorpresa. Oltre alle piccole tempere  e oli che conosciamo, “Figure in piedi” e “Figure piegate” su fondo in verde sfumato,  piccole sculture che in aggiunta alle teste bianche presentate in precedenza riproducono le figure rappresentate in pittura e altri temi, come le “Teste” dei piccoli bronzi scuri; e soprattutto le opere di un nuovo ciclo: grandi sculture bianche dalle forme sottili alla Giacometti, ridotte all’essenziale, in resina, gesso e bronzo con le quali esprime l’instabilità e l’equilibrio. Gesti ampi e spettacolari, pensiamo alla danza di “Matisse”, i  titoli sono “Piroga”, “David”, “Torso”.

Oltre alle opere di Gasperini troviamo nella saletta i piccoli quadretti di Luca Zarattini. L’artista lo conosciamo, ma i quadretti sono  una sorpresa, i titoli ripetuti  “Flesso” e “Abassale”;  dei suoi dipinti di grandi dimensioni ritroviamo “Carls”, la cui intensità ci riporta alle sculture di Deli. L’arte figurativa in chiave contemporanea che fa leva sulla densità materica è ben rappresentata dai due artisti dela squadra di “Accessible Art” che utilizzano pigmenti pesanti e corposi l’uno, materiali di recupero ed elementi matallici anche nella pittura ll’altro. 

E’ la bella conclusione di una mostra che offre una verifica tangibile della formula innovativa di “Accessible Arts”, nell’ambiente espositivo accogliente, nell’accessibilità economica, nella comprensibilità di un’arte contemporanea che può entrare nelle case di tutti. Un modo positivo di iniziare l’estate con negli occhi i materiali e i colori, le forme e le composizioni delle opere esposte che sono un campionario di inventiva e di motivi, di visioni e di stimoli a cui non si resta indifferenti. Ci accompagneranno le imponenti figure mitiche di Deli e i volti familiari enigmatici della Thwaites,  le composizioni inquietanti di  Bruschini e le figure essenziali e sospese di Silicati fino alle bianche sculture  filiformi di Gasperini,  che chiudono il cerchio scultoreo aperto da Deli con le robuste forme scure dei suoi materiali di recupero, e alle figure umane dal pesante impasto cromatico di Zarattini con cui si chiude un altro cerchio, sempre con Deli, quello del figurativo di forte presa materica. 

A Michele von Buren il merito di questa attenzione ai momenti che segnano la vita familiare, che l’ha portata alla “Christmas Collection” natalizia e ora a questa “Summer Collection”. Il suo “Accessible Art” si manifesta anche così. All’inizio del “vernissage”  un improvviso quanto rapido temporale,  un battesimo che porta bene: “mostra bagnata, mostra fortunata!”, è il nostro augurio.

Info

“RvB Arts”, via delle Zoccolette  28 (Antiquariato Valligiano in  via Giulia 193)  dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso, agosto chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505; cell. 335.1633518. E mail: info@rvbarts.com; sito: http://www.arvbarts.com/.  Per le precedenti mostre di “Accessible Art” cfr. in questo sito i nostri 5 servizi alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio, 26 aprile e 21 giugno 2013; per la mostra citata nel testo cfr. il nostro servizio “Il cardo rosso di Monteleone alle Officine Fotografiche” in “guidafotografia.com”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  all’inaugurazione della mostra nella galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura “Summer Awakening”,  scultura di Alessandro Deli; seguono 4 dipinti di Christina Thwaites e  3 di Lorenzo Bruschini, poi 2 di Andrea Silicati  e una scultura di Gianlorenzo Gasperini; in chiusura “Carls”, un dipinto materico di Luca Zarattini.

De Chirico, 3. I ritratti fantastici, a Montepulciano

di Romano Maria Levante

Si conclude la visita alla  mostra “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, aperta alla storica Fortezza di Montepulciano dall’8 giugno al 30 settembre 2013, con 44 dipinti, 7 sculture e 17 disegni e acquerelli, 68 opere selezionate tra le tante custodite dalla  Fondazione Giorgio e Isa  de Chirico che l’ha realizzata. Katherine Robinson ha curato la mostra e il Catalogo bilingue di Maretti Editore. Promotrici le istituzioni locali,  Rotary club con il Comune, in fase operativa ha collaborato alla realizzazione la Fondazione Cantiere Internazionale d‘Arte, e gli organismi vinicoli sono stati molto attivi nel creare un ambiente ricettivo e coinvolgente. Dopo averne descritto impostazioni e motivi e aver illustrato il ritratto classico, passiamo al ritratto fantastico che fa entrare nel mondo enigmatico e intrigante della metafisica di de Chirico.

Siamo negli anni ’70, è trascorso più di mezzo secolo dopo l’esplosione metafisica degli anni ’10. L’artista riprende i temi rivoluzionari sessant’anni dopo, si parla di “Neometafisica”, ma non è solo una ripetizione a furor di popolo, tale era la richiesta di opere di quella temperie artistica; intervengono differenze considerevoli, frutto non di un inevitabile logorio, ma di un’evoluzione ideale. Ne danno conto le “enclaves” con queste opere, la prima con ripetizioni vicine agli originali, ma in una luce diversa che crea un’atmosfera di serenità laddove si provava profonda inquietudine; la seconda con un’innovazione molto creativa che si innesta sulla novità rivoluzionaria iniziale; l’ultima con un mix suggestivo di dipinti e sculture che riassumono la poetica dechirichiana.

Ma andiamo con ordine, la prima “enclave” metafisica presenta subito immagini ben conosciute, le opere sono state realizzate tra il 1970 e il 1974 anche se alcune di esse sono retrodatate tra il 1924 e 1938, secondo quanto era uso fare l’artista in quel periodo, seguendo un impulso che univa al motivo commerciale quello psicologico e nostalgico, non esclusa la propria ironia dissacrante.

In “Ettore e Andromaca”, 1970, e “Le maschere”, 1973, i volti che abbiamo visto curati nei dettagli fisionomici con il ritratto classico, diventano le classiche teste ad uovo senza fisionomia, alla ricerca dell’universalità. Sono busti di manichini, tra elementi geometrici evocativi delle squadre degli interni ferraresi, e occupano l’intera superficie del quadro: su un fondo scuro o con la finestra da cui risalta il cielo azzurro e l’edificio turrito con gli archi sulla destra.

Anche “Le Muse inquietanti”, 1974, presentano il solo busto del manichino classico, il resto del corpo è il fusto di una colonna, mentre la figura seduta ha una corposità diversa dal manichino: il tutto nell’enigma della piazza con tanto di statua, ombre lunghe e palazzi sullo sfondo. La  magia metafisica prosegue in “Piazza d’Italia con statua di Cavour”, 1974, la statua guarda l’osservatore, troviamo tutti i canoni del genere: dagli archi alle ombre, dalle figurette in lontananza allo sfondo paesaggistico con il cielo che trascolora dal viola scuro al verde e al giallo; in più, una particolare luminosità, come se le ombre del mistero e non solo quelle della notte si fossero dissolte.

Dalle piazze agli ambienti chiusi in “La meditazione di Mercurio”, gli oggetti e biscotti ferraresi su fondo blu in primo piano, il busto della divinità pensosa in fondo; e nell’“Interno metafisico con testa di Mercurio”, 1973, nella cornice di squadre, con l’ampia apertura sull’esterno dove spicca la statua, questa volta di spalle, con la fuga di arcate e il cielo nelle stesse tre gradazioni ora citate. In “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, 1973, la statua della divinità, assorta com’era Mercurio, è tra due arcate dietro alla natura morta con grappoli d’uva e mele, banane e cocomero.

E’ un ritorno all’antico rassicurante, al punto di stimolare la creatività ad andare ancora oltre l’innovazione metafisica consolidata. In “Trovatore”, databile 1972, ritroviamo il manichino finalmente a figura piena, in posizione eretta con le squadre in evidenza, tra due arcate ai lati e il treno sbuffante sullo sfondo dello stesso cromatismo nel cielo; notiamo che, mentre è senza braccia, le gambe assumono un aspetto corporeo non più inanimato, fino ai piedi perfettamente modellati.

La mutazione della Neometafisica

Assistiamo, quasi in diretta, alla vera e propria mutazione prodotta dalla Neometafisica: riaffiora la carne viva tra le forme inanimate del manichino, gli stessi volti ad uovo non sono più inespressivi, appaiono molto umani. Così “Il pittore di cavalli”, 1974, addirittura guarda verso l’osservatore con il volto a uovo dal fare interrogativo, braccia e gambe di carnagione rosea, per il resto “il quadro nel quadro”, con il cavallo che sta dipingendo rendendo vivo il modello scultoreo, e la finestra su uno sfondo di templi e ruderi.

Un “quadro nel quadro” anche in “Il Contemplatore”, 1976, raffigura un castello su uno sperone di roccia con un albero in primo piano, questa volta il manichino non lo dipinge ma lo contempla; è di nuovo senza braccia come “Trovatore” e le gambe sono tornate inanimate, ma il collo è carne viva e la testa ad uovo esprime sentimenti.

La “reincarnazione” del manichino va ancora avanti in “Il Pensatore”, 1973, petto e braccia, mani e piedi sono umani, la testa ad uovo quasi non si nota, anche perché nel corpo sono affastellati gli oggetti espressivi del “vissuto”, busti e colonne, libri e altri elementi caratteristici dell’archeologia umana di de Chirico; ai due lati un’arcata e un tempio con il praticello verde fiorito e la scritta interrogativa nella mano sinistra del “pensatore”: “Sum sed quid sum”:

Sono figure sedute, come gli originari “Archeologi”, ma il fardello del “vissuto” costituito dagli oggetti in grembo è molto più leggero, e in alcuni manca del tutto quasi se ne fossero liberati.

In questa “escalation” di umanizzazione, “Edipo e la Sfinge”,1968-69, ha il corpo fatto di carne esposta alla vista, del manichino resta solo la testa ad uovo ma espressiva al punto da poggiare sulla mano quasi come nel primo autoritratto alla Nietzsche, e il petto fasciato da una corazza con il “vissuto” di templi e case sopra il peplo che avvolge i fianchi; addirittura la Sfinge alata ha il seno nudo su uno sfondo di rocce con uno squarcio di cielo azzurro percorso da sottili striature di nuvole.

Restando nel mito, “Il rimorso di Oreste”,1969, presenta la massima umanizzazione del manichino: il corpo è interamente nudo, la carne viva ha i muscoli ben modellati, la testa è a uovo ma dello stesso incarnato del corpo, tra le squadre lignee degli interni metafisici, con un’ombra frastagliata che ricorda i soli spenti di altre sue celebri opere, come “Sole sul cavalletto”, dello stesso periodo; ancora con finestre colore del cielo in una prospettiva esterna quasi liberatoria.

Al culmine del “ritratto fantastico”

Dopo avere toccato in precedenza il culmine del ritratto classico con le incarnazioni maschili e femminili della sua ritrattistica tradizionale, abbiamo ora rievocato il ritratto strettamente metafisico, quello dei manichini inanimati. Stiamo per toccare il culmine del ritratto fantastico.

Vediamo due figure in coppia, la prima è “Il Figliuol prodigo”: mostra un giovane in piedi, il corpo nudo in un incarnato roseo, mentre appoggia la mano sulla spalla della figura inanimata e inespressiva seduta con il sovraccarico di templi e colonne, che ne paralizzano il corpo e le braccia bloccate e irrigidite; ci ha ricordato la trasfigurazione di Pinocchio da burattino a ragazzo in carne e ossa, sembra che la figura seduta sia inanimata perché la forza vitale ne è uscita materializzandosi nel giovane aitante, novello Ebdòmero. Un suo precedente “Figliuol prodigo”, di un anno intenso, il 1922, abbinava il figliuolo, che in quel caso era un manichino metafisico, alla figura paterna trasformata in statua marmorea ottocentesca scesa dal piedistallo per abbracciarlo.

La seconda coppia è “Oreste ed Elettra”, 1974, del manichino ha solo la testa a uovo, si vede il petto dalla carnagione rosea, cinge con il braccio destro una figura completamente umana, il cui volto è addirittura incorniciato da baffi e barbetta nera; entrambi hanno un abito molto elaborato.

Così si è compiuta la mutazione, dopo la rivoluzione della figura umana trasformata in manichino per eliminarne l’individualità e farne un archetipo universale, il processo inverso, graduale, come abbiamo visto nella sequenza delle opere esposte: l’umanità, e quindi l’identità torna nel manichino dove la vita pulsa con la forza della carne che ne fa sentire tutto il calore riconquistato.

Il constatare che ciò è avvenuto nella tarda età dell’artista, a ottanta anni e oltre, fa riflettere sulla straordinaria creatività e soprattutto vitalità e freschezza giovanile che lo ha sostenuto fino all’ultimo facendogli compiere un percorso stilistico e di contenuti, artistico e umano,  stupefacente.

Consideriamo in quest’ottica “Gladiatori dopo il combattimento”, 1968, il fatto che sia di qualche anno anteriore a quelli ora commentati indica che si è trattato di un processo prolungato e non episodico: tanto sono forti e umane queste figure da far pensare che la spinta verso l’umanizzazione fosse irresistibile. E’ l’impulso che aveva prodotto sin dal 1948 la serie dei “Bagni misteriosi”, le cui figure nude, maestose e statuarie rispetto ai dimessi omini vestiti, si possono associare a questi gladiatori, per null’affatto minacciosi e battaglieri, i volti freschi di gioventù sono ripresi nella loro umanità: con i corpi pronti alla lotta i gladiatori, immersi nel lavacro dei bagni misteriosi gli altri.

Negli spettri non solo la tragedia, anche la visione di un mondo migliore

De Chirico resta sempre metafisico, secondo Lorenzo Canova, “con lo sguardo del vaticinatore che scopre realtà ignote non solo nelle cose, ma anche negli stessi esseri umani”. Mediante la trasformazione degli uomini “in statue e spettri” l’artista vuol far percepire che sono immagini generate “da uno sguardo che oltrepassa le apparenze per scoprire una verità drammatica”. E’ l’enigma del ritratto, attiene al più generale aspetto delle cose che – come abbiamo già sottolineato citando lo stesso artista – si può penetrare al di là dell’apparenza che è sotto gli occhi di tutti, solo con l’astrazione metafisica di “rari individui in momenti di chiaroveggenza”.

Canova collega il ritratto alle altre opere della metafisica, abbinando la spettralità al meriggio, dove la mezzanotte coincide con il mezzogiorno, come la luce con l’ombra nella congiunzione nietzschiana dei contrasti “che mantiene però la complementarità degli opposti”; in questo facendo eco alle parole di de Chirico sul “senso notturno della luce, il senso della mezzanotte al meriggio”.

Non vi è solo il “senso della tragedia” evocato dal critico che cita la scritta “nulla sine tragoedia gloria”. De Chirico nel “Discorso sulla materia pittorica” pone gli “spettri” in una luce diversa definendo l’elemento metafisico in pittura “quel fenomeno misterioso e sacro che ci mette di fronte al Talento Universale e ci permette di vedere un mondo migliore, un mondo che consola delle miserie e delle banalità degli uomini: un mondo superiore, eterno e perfetto, dove regna il genio”.

Forse ha voluto esprimere anche questo nell’ultima fase della sua parabola creativa, parallela alla parabola umana: “In tarda età – sottolinea Katherine Robinson –  l’artista sembra aver risolto il mistero del Tempo, dimostrando una potenza creativa e una straordinaria giovinezza di spirito. Ora il Manichino si umanizza, con un corpo in carne e ossa e delle mani e braccia ‘vere’ che gli permettono di agire”. Tanto più – sempre per la curatrice – che “la lunga attività ritrattistica di Giorgio de Chirico può essere letta come un ‘ritratto’ della propria arte, una biografia della forma”.

A questa visione artistica e filosofica si riferisce il titolo della mostra: “Il ritratto, figura e forma”.

I disegni metafisici e  le sculture, l’accoppiata finale

Anche qui, come nei ritratti classici, il disegno con gli acquerelli ha accompagnato la pittura. “Minerva e l’oggetto misterioso”, 1973, fa da “pendant” con “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, in entrambi lo stesso busto della divinità, un tendaggio invece dei templi, uno scampolo della sua oggettistica simbolica al posto della natura morta di frutta; come “Il mistero di Manhattan”, sempre 1973,  associato a “Interno metafisico con testa di Mercurio”, la divinità è la stessa, dalla finestra invece della piazza metafisica si vedono i grattacieli newyorkesi. Così l’acquerello “Il segreto delle Muse”,1972, sembra addirittura un fotogramma in sequenza con il “racconto” del dipinto successivo “Le Muse inquietanti”, 1974: la Musa che nell’acquerello è in piedi, nel dipinto si metterà a sedere, e il manichino che invece è seduto, salirà sulla colonna, restano la statua e lo sfondo di edifici che nel dipinto sono più vicini e vistosi.

Negli acquerelli c’è la sublimazione, “Trovatore in cielo”, 1975, è sempre senza braccia ma si libra nell’azzurro tra le nuvole. Di qualche anno prima “I ballerini”, 1971, dedicato “a Isa con tanti auguri”: si può constatare subito come siano leggiadre le loro movenze e come siano espressivi i loro volti sebbene costituiti dal caratteristico uovo senza lineamenti né fisionomia; i corpi sono umani, si vede e si sente la carne, con l’anima e il cuore, la dedica è quanto mai eloquente.

Tanto calore, dunque, nelle opere di una fase della vita nella quale molti grandi artisti tendono a rabbuiarsi per non dire incattivirsi, ad esprimere freddezza e distacco se non depressione, l’opposto di de Chirico. E l’impegno fino all’ultimo nel “d’aprés” del “Tondo Doni”, 60 anni dopo la sua prima copia d’autore, esprime questa ritorno alla freschezza e alla vivacità giovanile.

Abbiamo parlato dei disegni e acquerelli oltre che dei dipinti. Ma non è tutto, la mostra presenta anche 7 sculture nelle quali esprime plasticamente quanto ha manifestato con la forma e il colore. D’altra parte lui stesso dice che la scultura deve essere morbida come la pittura, e come sempre oltre a fare enunciazioni teoriche si mette alla prova. Nelle “enclaves” dei vari settori espositivi le sculture, tutte tra il 1968 e il 1970,  sono collocate al centro dell’ambiente. Così abbiamo visto “Le Sibille” e “Le Muse inquietanti”, “Trovatore” e “Il Pittore”, “Penelope e Telemaco” e “Manichini coloniali”,quest’ultimo raffigura una coppia seduta con i petti coperti di orpelli. Tutte le sculture meno “Le Sibille” – fedele trasposizione della composizione pittorica –  immortalano il manichino con la testa ad uovo nelle molteplici incarnazioni nate dal genio dell’artista.

Ed è con una scultura associata a una pittura, che vogliamo concludere il nostro viaggio nel ritratto di de Chirico dopo un percorso appassionante che ci ha portati, nella nostra metafora stradale, dal “rettilineo” degli autoritratti e poi del ritratto classico, alle “enclaves” della metafisica e della Neometafisica umanizzata. La scultura è “Il grande Metafisico”, un bronzo dorato del 1970 con il manichino ritto sopra i templi e su altre strutture che fanno da piedistallo del monumento di se stesso, e sostituiscono le squadre lignee e gli altri supporti del dipinto dello stesso nome che risale al 1917; il dipinto quasi contemporaneo è “Il Meditatore”, 1971, una figura seduta con gambe e mani in vista sotto un viluppo che la avvolge di pensieri e di problemi, quasi una smisurata barba bianca; il “pensatore” creato da Renzo Arbore per una lontana trasmissione televisiva della notte aveva una folta selva di capelli arricciati,  chissà se si ispirava al meditatore dechirichiano?

Sono i due estremi tra i quali, in definitiva, si muove la vita, dell’artista e di tutti: la fase volitiva e la meditazione. De Chirico ci ha insegnato che fino all’ultimo entrambi questi momenti possono essere onorati. Nella consapevolezza della propria umanità e per cercare con tenacia una risposta all’interrogativo che si pone il suo “Pensatore”: “Sum sed quid sum”.“Sono, ma cosa sono?  E’ il “conosci te stesso” della filosofia che viene declinato mirabilmente anche nella sua pittura.  

Info

Fortezza di Montepulciano. Lunedì ore 16,00-20,00; da martedì a domenica 10.00-22,00 (ultimo ingresso ore 21,15). Ingresso intero 7 euro, under 25 ridotto 5 euro, under 12 gratuito. On line su circuito prevendita http://www.vivaticket.it/, tel. 0578. 757007. Catalogo bilingue, italiano e inglese, dal quale sono tratte le citazioni del testo: “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, a cura di Katherine Robinson, Maretti Editore, giugno 2013, pp. 192, formato 23×28, euro 30. I nostri due precedenti articoli sulla mostra sono in questo sito il 20 e 26 giugno 2013, con 6 immagini ciascuno. Per le mostre precedenti su de Chirico cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com”: nel 2009 “I disegni di de Chirico e la magia della linea” il 27 agosto, “A Teramo de Chirico” ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre, “De Chirico e il Museo, il lato nascosto dell’artista incompreso” il 22 dicembre; nel 2010 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fortezza di Montepulciano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, per l’opportunità offerta. In apertura “Le maschere”, 1973; seguono “Trovatore”, databile 1972, e “Oreste ed Elettra”, databile 1974, poi “Il rimorso di Oreste”, 1969, segue “Il Pensatore”, 1973, con a destra “Il Meditatore”, 1971, e davanti la scultura “”Manichini coloniali”, 1969; in chiusura un'”enclave”  metafisica, al centro “Edipo e la Sfinge”, 1968-69, e “Il Figliuol prodigo”, 1973, la prima scultura è “Penelope e Telemaco”, 1970, la seconda “Le Sibille”, 1970.

Maugeri, il pittore e il poeta, Italo Benedetti, a Venezia

di Romano Maria Levante

Rievochiamo la mostra svoltasi a Venezia, dal 5 al 31 ottobre 2011, alla  Biblioteca Nazionale Marciana, promossa dalla Direzione generale  del MiBAC per le biblioteche, del pittore Vincenzo Maugeri, con le poesie di Italo Benedetti, in un sodalizio  che consente di approfondire anche il rapporto tra pittura e poesia andando oltre il contenuto dell’una e dell’altra per penetrarne i motivi interiori, al di là di quelli visivi e descrittivi, in una ricerca che penetra nel profondo dell’anima . Questi valori permanenti rendono ancora viva e attuale la mostra nonostante il tempo trascorso.

“Piazzetta di Capri”, 2004

Le opere esposte a Venezia erano per i due terzi del 2011, quindi in gran parte inedite rispetto a quelle esposte nella mostra di Roma al Vittoriano del 2010. Rappresentano un’evoluzione nella continuità di una linea stilistica che abbiamo descritto e analizzato a suo tempo, per cui nel ricordare questa mostra vorremmo esplorare più in profondità il rapporto tra pittore e poeta, cercando di coglierne la chiave interpretativa. La mostra si è aperta, infatti, con l’autoritratto del pittore e il ritratto del poeta, come Maugeri li vedeva  nel 2011. Ecco come li vede la critica e come li abbiamo visti in base al loro percorso e ai dipinti delle due mostre.

Il pittore Maugeri

Claudio Strinati fa risalire le origini dell’arte di Maugeri ai suoi luoghi prediletti, visti nell’ottica della metafisica e dell’architettura razionalistica ma con una modernità che lungi dal farlo “un sognatore o un poeta del ricordo”, lo rende “fortemente incardinato nel suo tempo”.  Il retaggio culturale, di stili peraltro da tempo abbandonati è per lui “una sorta di filtro metafisico-razionalista ma non se ne fa condizionare”, ne risulta una pittura lineare e pulita, semplice ma non semplificata,  con un’impressione generale di compiutezza e solidità.  Strinati va oltre, e ci piace sottolineare le sue parole  perché vi incardiniamo la nostra interpretazione del rapporto del pittore con il poeta Benedetti: “Maugeri vive l’arte come un baluardo, una sorta di illuminazione che ci preserva dall’irrazionale e dall’assurdo della vita per proiettarci in una dimensione circoscritta e solida, che ha i caratteri del fiabesco e i contorni di una scienza incantata”.

I luoghi che dipinge  danno “lo spazio come fenomeno geometrico”, nella parole di Maria Teresa Benedetti: “Immagini incapsulate nella precisione del segno, nella imposività dei volumi, si nutrono di un rigore cromatico, sembrano alludere a un mondo privato di ogni incertezza”.

Come questo avvenga ce lo dice Carlo Fabrizio Carli allorché osserva che “Maugeri vede nel reale le forme geometriche pure e le estrae con limpida nitidezza”. Aggiungiamo che la sua é una ricerca dell’essenziale radicalmente diversa da quella di Mondrian che arriva all’estremo con l’intersecarsi di poche linee rette a formare riquadri riempiti di colori puri; Maugeri l’essenziale lo riferisce alle singole realtà, non all’astrazione filosofica, mantenendone  la riconoscibilità che viene trasferita al nuovo impianto spaziale e volumetrico da lui ricreato.

Il risultato lo indica Claudio Crescentini: “Pone lo spettatore nello status ideale e ottimale di una percezione reattiva del significato più profondo delle cose, cioè delle immagini, che non è affidato alle cose stesse – leggi sempre immagini – ma alla loro pura interpretazione”. Ecco l’effetto: “Le immagini di Maugeri, nella simulazione di un mondo percettivo costruito proprio dai segni da lui imposti, è come se finissero per perdere la loro intrinseca natura, quella appunto della rappresentazione formale, alla quale del resto aspirano”. Ma non si va nell’informale, la loro propria  natura la ritrovano “là dove le possibilità psichiche cessano realmente di indicarla: nell’anima”.

“Circeo giallo”,  2006

Il poeta Benedetti

E il poeta Benedetti  quale rapporto ha con questo mondo? Con il mondo reale di Maugeri e con quello che emerge dalla sua scomposizione della realtà per ricomporla in forme solide che però le fanno perdere la natura intrinseca per farla ritrovare nell’anima, come ha scritto Crescentini?

C’è un rapporto strettissimo con il mondo reale, sufficiente a giustificare l’incontro fino alla simbiosi: è il mondo di Capri e poi del Circeo, onnipresenti in entrambi. L'”isola Paradiso” li ha catturati con i suoi colori e i suoi odori, la vegetazione e gli uccelli marini; però, ha anche inferto al poeta dolorose ferite, retaggio dell’infanzia e dell’adolescenza, rimaste aperte e sanguinanti.

“Il mare – scrive Giovanni Russo – lo fa cavalcare sulle onde arrotolate e lo distende dolcemente sull’arenile a sognare”. Ma il sogno è “di scappare, di andare via”. E veramente “il ragazzo fugge perché deve crescere, cercare altre strade, trovare se stesso, ma l’isola lo richiama indietro, all’infanzia solitaria, dolorosa”. Ne è permeata la sua poesia che Russo descrive così:  “Versi pieni di musicalità, musica di dolore, nella continua ricerca della sua identità a lui stesso misteriosa”,

“Se da un’isola in fuga… ” s’intitola una sua poesia  dove si definisce “transfuga sempre quasi mai placato”; e anche in “Anacapri”  è alla ricerca di un’evasione: “Ho creduto /di viaggiare lontano/ barchetta di carta in un ruscello nano./ Poi dalla nuvola/su cui m’inerpicavo/sono caduto/ e il sogno cadendo/ è andato in frantumi”: anche qui è addirittura un sogno lasciare l'”isola Paradiso”.  Come lo è l’incontro con un “Angelo” dalle “ali di spuma”, sembra proprio l’angelo custode, cerca di trattenerlo dicendogli: “Ragazzo/, c’è un oceano in te che t’inquieta/ se vuoi salvarti non devi salparlo”. Non ci riesce: “Ed io: ormai è tardi, sono solo, tutti dormono ancora:/ debbo, la barca mi sta già aspettando.”  Scompare “l’angelo d’onda e di spuma”, si conclude così l'”annunciazione” onirica: “Sull’immenso volto del mare/navigo senza miraggio”.

Poi, la scoperta del Circeo, forse con l’identificazione in Ulisse, sembra placarlo, approda a Sabaudia e scrive: “Capri-Sabaudia Caprolace/così è se vi piace:/E se non vi sta bene/ non datevi per me troppe pene”. L’epigramma  si chiude: “Ognuno nella vita sceglie la strada/ che in definitiva più gli aggrada”.  Il Circeo sembra un’isola ma non lo  è, ha il fascino dell’isola incantata e mitica ma non l’isolamento: “Fuggire dalle isole è il destino/ per ritrovarsi più innocenti e liberi”.

“Città con biglia”, 2008

L’intesa tra il pittore e il poeta

Il  Circeo è il primo collegamento, addirittura visivo, con Maugeri, che pone il suo caratteristico “sky line”, e non quello di Capri, come sfondo di tanti suoi quadri, quasi un segno rassicurante: i due artisti capresi si sono ritrovati in questa trasposizione verso una “non isola” che ricorda molto da vicino la loro isola senza averne il retaggio angoscioso dell’infanzia tormentata del poeta.

Ma il collegamento più stretto sta nella simbiosi poesie-quadri che differenzia Maugeri dal sudamericano Morales  ispiratosi a un altro Benedetti, il celebre Mario di cui ha fatto suo il tema della lontananza dalla patria espresso nelle poesie “Ventos de exilio”del poeta esule dalla sua terra. Morales si ispira all’atmosfera creata dalla lontananza, senza riferirsi alle singole poesie; mentre in Maugeri il rapporto è stretto, una simbiosi o un binomio, a seconda degli elementi di riferimento; oppure  una staffetta o, più strettamente, un  tandem o un bob a due, con ruoli diversi, e quali?

Sia esso il passaggio del testimone, il tandem o bob, vediamo “alla guida” Maugeri, dopo l’impulso iniziale dato da Benedetti, e le loro posizioni restano ben distinte.  Nel poeta troviamo il soggetto e il tema, che il pittore esprime nel suo stile di cui abbiamo parlato a suo tempo. Anzi tanti soggetti e temi, con un elemento comune: la tristezza e l’angoscia ricorrente con poche eccezioni. Viene meno in alcune poesie su Sabaudia, dall’invocazione “O gigantesca sfera della luna/nella notte fiorita di profumi”, al pergolato sotto la pioggia che “mi rende beato:/battezzato dalla natura in un’alba di maggio”,  ai “fantasmi di fauni allegri” che “giocano/ inseguendosi nel fogliame folto”.

Per il resto c’è sempre la nota triste e pessimista, spesso angosciata e disperata. Citiamo per tutte l’appello alla poesia che dovrebbe essere rasserenatrice: “Poesia tu resti la sola ragione/perché la mia vita disperata non anneghi”.  Ma la poesia non basta, anzi gli fa esternare le angosce che compaiono all’improvviso anche in temi di festa, come la ricerca di “un diverso Natale” e il rifiuto della “solita Pasqua”, il ricordo disturbato di Napoli e di Venezia; e alla “terra della mia infanzia” si rivolge dicendo “amo dolorosamente”. E se la poesia non basta,  che cosa lo sostiene?

Ci dà una risposta la lirica “una festa di forme e colori” dedicata espressamente “A Vincenzo Maugeri”, allorché parla delle sue “geometrie allegre/ che s’incastrano /in armonie semplici e incantate”. Vi vediamo quella che ci sembra la chiave dell’intesa fino alla simbiosi: “Tu con umile capacità e pazienza/ ricostruisci dove fu distrutto:/ là cubi, architravi, muri accesi/ edifici nello spazio puro”. Ed ecco l’effetto rasserenante: ” Dall’ordine estremo emana lo stupore:/ lo slargarsi del mondo in prospettive,/ un altrove sognato e rivissuto,/ ricordo di uno smarrito paradiso”.

Geometrie allegre e armonie semplici e incantate; ricostruzione e stupore, sogno e paradiso: ecco cosa trova il poeta nelle immagini del pittore. E questo perché pur nella riconoscibilità perdono la loro intrinseca natura per ritrovarla nell’anima, secondo l’interpretazione che abbiamo riportato di Crescentini. E’ proprio il mondo onirico di una fanciullezza “beata” che il poeta sente solo nei dipinti del pittore, secondo noi, almeno per quel momento, prima del nuovo soprassalto d’angoscia: subito placato dalla solidità delle forme e dallo spazio geometrico del pittore; perché mette “l’ordine estremo” nei pensieri che si affollano e nel contempo apre le gabbie dell’angoscia in un mondo che si allarga nelle perfette prospettive, trasforma gli incubi in sogni, restituisce “lo smarrito paradiso”.

L’intesa è favorita dal fatto che anche il pittore è contagiato dalle angosce del poeta: scrive Maria Teresa Benedetti che le sue immagini “semplificano, attraggono, sublimano con apparente sicurezza, eppure il sentimento che sprigionano è venato di inquietudine, testimoniano l’esistere di un senso di attesa, di un estraneamento, che ripropone l’ambiguità delle apparenze”.

E allora come spiegare la catarsi rasserenatrice? Soccorre la visione di Strinati dell’arte di Maugeri come “un baluardo, una sorta di illuminazione”, rispetto a che cosa? Ripetiamo la citazione, perché ci sembra risolutiva: “Ci preserva dall’irrazionale e dall’assurdo della vita per proiettarci in una dimensione circoscritta e solida, che ha i caratteri del fiabesco e i contorni di una scienza incantata”.

“Notturno sul Nilo”, 2009

Le opere in mostra

Quanto abbiamo cercato di interpretare emerge ancora più evidente considerando anche i quadri che erano stati esposti  a Roma nella mostra dal titolo  “Metroversocromie”, più criptico ma di significato equivalente al contenuto della mostra veneta “Parole e colori sull’acqua”. Verso e cromie, parole e colori, il pittore e il poeta. In un rapporto tanto stretto che c’è un abbinamento diretto tra molti quadri e singole poesie sul soggetto e tema rappresentato nel dipinto.

L’effetto rasserenante e rassicurante della solidità e pulitezza formale degli spazi e dei volumi dipinti da Maugeri era ancora più evidente nella mostra romana per il maggior numero di pitture metafisiche-razionaliste, per ricordare il riferimento di Strinati –  ma ve ne sono state anche a Venezia di particolarmente significative.  “Litoranea”, del 2005, la poesia  dallo stesso titolo a cui si è ispirato il dipinto, pur iniziando con gli aquiloni, si conclude  con la “catastrofe d’una colorata dissoluzione”, mentre nel quadro l’aquilone sorvola uno spazio che è la quintessenza della solidità e dell’equilibrio, della sicurezza e del rigore,  con il sigillo rasserenante ed evocativo del profilo del Circeo. Uguale sensazione di solidità e sicurezza in “Dune”, 2005  e “”Marina grande”, 2009.

Dal Circeo a Capri non muta questa sensazione nei dipinti, lo spazio è dominato da figure solide e forti come in “Visione di Capri”, 2006;  ma nei versi che invocano “Mia isola…”  si legge anche “la sera la leggo più triste  nei tuoi occhi di/ mito”.  “Grotta azzurra”, 2009, mostra  un volo armonioso di due gabbiani che  nella struggente poesia intitolata alla loro tomba sono visti mentre “da lontano venivano  a morire”.

Anche nei dipinti del 2011 troviamo forme solide e sicure, non più nel litorale marino ma nella grande città, come “Stazione Termini, nella cui poesia di riferimento si leggono espressioni come “se la vita è l’inferno, dov’è il paradiso?”  e “forse è più eccitante morire sul treno… mentre tutt’intorno balla la vita/macabra!”; e nella laguna, con “Gondola”, l’imbarcazionesi staglia in un equilibrio perfetto con lo skyline veneziano sullo sfondo: “Città capovolta nel passato – si legge nella poesia “Colori e parole sull’acqua”, dove le scandisce facendone di ciascuna un verso – che sopravvive sommerso nel riverbero multicolore del tempo”. 

 Sembrano analoghi per certi aspetti  “Serenissima” e “Poesis”: al posto della gondola in evidenza c’è una sirena nel primo, la scritta del titolo nel secondo; l’ordine e la solidità regnano sovrane e nella lirica di riferimento “Essere poeti”, dopo un’affabulazione onirica troviamo queste parole: “E direi che in fondo ogni dolore/ non è mai privato, e che nonostante/ epidemie-carestie-dirottamenti-bombe/ il sole è sempre splendido”. Un altro  quadro che raffigura un “Vivaldi” composto e sicuro di sé davanti al pentagramma in cui si affaccia una gondola, ci riporta a Veneziache al poeta ispira parole venate di tristezza: “In quel sole che splende/ ma nel contempo addolora/ ferita antica che mai si sana/ né guarirà/ musica senza inizio né fine/ lacrima inghiottita dall’aria”:  Ci sono  “Violino” e “Il leone di San Marco”,mentre con  “Uomo gondola“, passiamo ai soggetti antropomorfi, fino ai ritratti.

Prima, però, abbiamo ammirato “L’onda”, immagine apparentemente apocalittica con la montagna d’acqua sulla rossa isola, che è Capri, ma il rigore spaziale e la solidità compositiva  ne fanno quasi un fondale più che uno “tsunami”, fa pensare che l’isola resisterà. E anche la poesia “Al prossimo diluvio”  si esprime con queste parole: “Più paterno del mare non conobbi/ amore”., Poi prosegue:”Quando partirò ogni suo flusso/porterò nascosto nelle vene; / di lui a cui affidai ogni lacrima/ avvertirò sempre la mancanza./Ma lui mi inseguirà al prossimo diluvio”,

“Uomo acquario”, 2010 

Con le pitture antropomorfe torniamo al 2010,  in “Giungla” c’è la metafora della vita nella pittura e nella poesia: “O vita di giungla! I giorni sono liane/ che si avvinghiano al corpo come spire/ di serpenti e ti costringono a essere/quello che non sei in un mondo che è”.Per “Uomo acquario” e “Ascensore interno” nella poesia “Galleggio nell’universo” si legge: “Adesso posso anche precipitare/ nel fondo del baratro, a destra, più a / destra, in/ basso, nel tunnel dell’universo”. Li precede di un anno “Alieno”,  figura evocata dalla poesia “Prospettive d’aria”, dove rifiuta di vedersi come “marziano o robot/ macchinario insensato dai troppi/ fili di sensi”.

Vi sono anche animali nei dipinti del 2011: gli amici a quattro zampe in “Natale con i cani” e “Lady”, e i due estremi, “Il delfino di Murano” e “Formica”, mentre i gabbiani sono parte integrante dei luoghi dell’anima; fiori e piante, “Tulipano” e “Le radici della scienza” con  un grande albero sul Colosseo; “Uova blu e verdi” e “Uovo”, simbolo di perfezione; e simboli della classicità, “Discobolo”.

Degli anni immediatamente precedenti  “La città d’Esculapio”, 2010, e tre dipinti del 2009 dedicati all’Egitto, “Notturno sul Nilo”, “Piramidi”, “Cleopatra”:  gli egizi,  nei versi del poeta, con i greci “non resero che, per un attimo, tangibile/ il sognare”.

Abbiamo lasciato per ultimi i ritratti, tutti del 2011, a partire da “Autoritratto” e “Ritratto di Italo con Circeo”, il monte c’è anche nel primo, non sappiamo perché figuri solo in questo titolo, forse per sottolinearne l’aspetto rassicurante.  Il pittore è presentato in un figurativo statuario, il poeta  appare più addolcito: le due forme espressive sembrano incarnare la ferma sicurezza nel primo,  l’incertezza esistenziale nel secondo. Poi le due tenere immagini femminili “Mia madre”  e “Rosaria con Milord e Suki”, la moglie del poeta che nella poesia a lei intitolata scrive: “Sei Ros’aria: una rosa che fiorisce/ dall’aria lo splendore e la purezza”.  Fino all’immagine pensosa di “Pasolini” al  quale rivolge versi struggenti: “Nessuno inseguirà più  questa carne/ umana  dietro l’ombra della sua/ sfortuna./…ma tu sei precipitato/ nella gola d’argento dove cadono/i poeti veri”. Sarebbe stata adatta alla mostra romana svoltasi al Palazzo Incontro con 22 artisti che si sono cimentati con 11 poesie di Pasolini,  è un’immagine espressiva del suo meditare profondo.

Questi ritratti figurativi hanno una profonda introspezione, diventano maschere di umanità. E con delle  maschere dipinte vogliamo concludere la nostra visita virtuale alla mostra, divenuta un viaggio nell’anima dei due maestri e di noi stessi. Sono sempre del 2011, “Maschera  rossa” e “Maschera gialla”:insieme ai quadri antropomorfi sembrano prefigurare una possibile via di allontanamento dal figurativo anche nei ritratti per dare ad essi un alone metafisico al pari dei dipinti sul luoghi. “La gente che vive felice” – così inizia la poesia di Benedetti con questo titolo – /porta una maschera d’oro/ che sfavilla ai raggi del sole”;  e conclude: “La gente felice ha una maschera/ che nasconde la sua tristezza/ e una musica che copre i singhiozzi”. 

Anche qui il dipinto di Maugeri è rassicurante, c’è la Venezia incantata sullo sfondo della maschera che abbozza un sorriso, mentre le lacrime che scendono sul viso diventano coriandoli colorati. E’ la pittura balsamo della poesia? E’ questo l’interrogativo che ci ha fatto tornare sulla mostra del 2011.

Info

Catalogo: “Parole, Vncenzo Maugeri con poesie di Italo Benedetti”, Skirà , 2011, pp. 96, formato 13,5×17, dal quale sono tratte le citazioni del testo, oltre che, per le poesie, da: Italo Benedetti, “Gli aironi di Sabaudia. Poesie (1998-2008)”, Isolaria 2009, pp. 144, e  “La vita poetante, antologia poetica 1970-2012”,  Gangemi Editore, 2012, pp. 158; inoltre il catalogo della precedente mostra di Maugeri a Roma,  al Vittoriano, “Vincenzo Maugeri, “Metroversocromie”, Electa, 2010, pp.  96, formato 16×24. Per tale mostra, citata nel testo, cfr. il nostro servizio in “cultura.abruzzoworld.com” il 22 e 24 giugno 2010.  

Foto

Le immagini state riprese alle mostre dell’artista, che si ringrazia, con l’organizzazione delle esposizioni,  per l’opportunità offerta. In apertura “Piazzetta di Capri”, 2004; seguono “Circeo giallo”,  2006, e “Città con biglia”, 2008, poi “Notturno sul Nilo”, 2009, e  “Uomo acquario”, 2010; in chiusura  “Uomo gondola”, 2011 

“Uomo gondola”, 2011
 

Preghiere per l’Italia, religioni e unità nel 150° dll’Unità, al Vittoriano

Il cattolico Giovagnoli, l’ebreo Di Segni, il mussulmano Redouane in una tavola rotonda sull’apporto delle religioni all’Unità d’Italia che ha celebrato i 150 anni sotto un profilo di particolare interesse tanto più in una sede come il Vittoriano, l’Altare della Patria il cui nome, è stato osservato, mutua una terminologia religiosa per l’identità e le istituzioni di un popolo al di là delle confessioni e fedi professate. In questo senso la tavola rotonda “Preghiere per l’Italia”, il titolo dato all’incontro del 24 novembre 2011, è stato come un rito laico. Ci sembra che i temi e gli argomenti trattati siano così rilevanti e tuttora validi, da meritare di tornarci dopo un anno e mezzo dal convegno.

Non si è trattato, naturalmente, di un dialogo interreligioso, anche se è stato evocato, ma culturale: un confronto sui rispettivi apporti all’Unità nazionale non tanto nel senso epico-risorgimentale, quanto come formazione di una coscienza comune nella condivisione dei valori della nazione. Il moderatore Marcello Pizzetti, direttore scientifico  del museo della Shoah di Roma, ha di volta in volta stimolato i tre partecipanti con sapienti siparietti nel passare il testimone, da commentatore e insieme “starter” pronto e avveduto.

I cattolici nella costruzione dell’identità unitaria

“Cosa dobbiamo noi italiani alla religione e alla cultura cattolica, è stato un apporto di coesione nazionale o meno?” questa la domanda che il  moderatore ha posto in apertura ad Agostino Giovagnoli, ordinario di storia contemporanea all’Università cattolica del Sacro Cuore. Il docente cattolico ha cominciato con il dire che il contributo delle religioni è innanzitutto di natura culturale: “Sono forze profonde che esprimono tensioni ideali, attingendo anche a questo patrimonio si è costruita l’Unità nazionale”.  Il Risorgimento nasce su un forte disegno istituzionale, ma quando si va nella comunità, le varie componenti si fondono sul terreno della cultura. Prima del 1861 ci fu elaborazione culturale, una fucina di idee improntata a una visione unitaria di identità nazionale, dalle opere letterarie di Leopardi e Manzoni, a quelle musicali di Verdi, ai pittori del Risorgimento; e qui vogliamo richiamare la mostra alle “Scuderie del Quirinale” che fu dedicata appunto ai “Pittori del Risorgimento”, con le visioni belliche dei pittori-soldato e quelle simboliche dei pittori- patrioti.

In questa dimensione si colloca l’apporto della religione cattolica, che si è fuso con quello delle altre religioni, in particolare l’ebraica nella comune matrice cristiana, e con l’apporto della cultura laica. Elementi culturali diversi si sono intrecciati nell’immaginazione collettiva: “La nazione è stata una comunità pensata prima di essere realizzata”, coagulando valori unitari sin dalla prima metà dell’800. Il contributo della religione cattolica al modello di nazione è risultato fondamentale, considerando che “da noi il cemento unitario non è stato di natura etnica, cioè nei costumi e simboli, tradizioni e origini comuni; anzi, dal punto di vista etnico gli italiani sono diversi”; non  a caso erano divisi in tanti piccoli stati in base a tale specifica identità. Il cemento unitario non è stato neppure di natura economica o politica, ma si è basato sull’identità culturale, quindi anche sulla componente religiosa; intesa non come confessione ma come insieme di valori che riguardo alla cultura cattolica hanno permeato da sempre l’intera società.

La presa di coscienza della propria identità in base ai valori della libertà è resa da Manzoni in “Marzo 1821”, che richiama la liberazione degli ebrei dalla schiavitù in Egitto mediante il cammino comune verso l’obiettivo unitario, la terra promessa. Si tratta di un’identità non etnica ma di vocazione storica, del tutto originale rispetto ad altre nazioni europee, che la rende compatibile con altre identità nazionali. Ogni popolo ha la sua storia, anche se non così straordinaria, e riesce ad affermarla in tutte le vicende. E quando la forza identitaria non deriva dalla struttura statuale come in Francia né dall’isolamento geografico come in Inghilterra, come acquisirla?

Per l’Italia deriva dalla storia comune, e quando Mazzini inserisce la Giovane Italia nella Giovane Europa lo fa sulla base di un’identità nazionale non naturale, ma spinta dalla volontà di stare insieme per scelta, riconoscendosi in una cultura comune. Sembrerebbe un’identità debole, invece è fortissima perché non scalfita dalle diversità, che sono evidenti e costituiscono una ricchezza, aggiungiamo; e non è minata da una storia che è una successione di errori e tradimenti pur nella prospettiva risorgimentale, ma come nella Bibbia trova la composizione nel percorso comune: la formazione di una comunità culturale  che unisce le religioni tra di loro e con il mondo laico.

Giovagnoliha concluso collegando a questa visione il problema della cittadinanza agli immigrati, nella drammatica contrapposizione tra lo “ius sanguinis” in vigore e l’aspirazione allo “ius soli” che assimilerebbe automaticamente tutti coloro che nascono in Italia, magari con dei tempi di residenza pregressa dei genitori. “La nostra cultura indica che il ‘sangue italiano’ non esiste, né come appartenenza genetica né come ideologia”,  esiste invece il comune sentire sul piano dei valori, e questo è anche patrimonio degli stranieri che vivono nel nostro paese e i cui figli, nati in Italia, in nulla si distinguono dagli italiani propriamente detti.

La partecipazione degli ebrei al processo unitario

Anche per Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, la costruzione dell’Unità nazionale – con la liberazione dell’Italia dal giogo straniero – richiama il modello biblico degli ebrei affrancati dalla schiavitù in Egitto che Giuseppe Verdi ha tradotto in musica nel “Va pensiero” del Nabucco. Gli ebrei italiani si identificano in questo modello  e costruiscono la casa comune nell’Italia unita sebbene sembri contraddittorio rispetto a Sion e alla terra promessa. Le nuove idee di libertà sono state assimilate immediatamente, la popolazione di ebrei è urbana e non contadina, con strati di miseria proletaria ma con un nucleo intellettuale molto dinamico; al tempo dell’Unità si stima che l’85% del totale della popolazione fosse analfabeta, tra gli ebrei italiani invece la percentuale corrispondente era del 10%. Questo dava la possibilità di raggiungere i vertici della società e delle istituzioni ma loro non cercarono di prevaricare. E anche dopo le leggi razziali “il dramma è stato metabolizzato, non c’è comunità più nazionalistica per l’Italia di quella ebraica”.

“Tutto ciò nasce dalla condivisione dei valori di una stessa comunità culturale, e a tal fine non basta nascere in una famiglia italiana né sul suolo italiano – afferma entrando anche lui nel terreno minato dello “ius sanguinis” e “ius soli” – è necessario avere la consapevolezza che esiste una comunità culturale e la volontà di farne parte”. Racconta la storia incredibile, che risale al 1850, del giovane ebreo al quale fu negato l’accesso all’università per motivi razziali; e rivendica la reciprocità nel senso che l’Italia viene sentita come patria nel momento in cui attraverso di essa si arriva alla parità dei diritti: “Il processo unitario è prima di tutto un processo di libertà. poi anche senso di appartenenza”. Gli ebrei pregano per il ritorno a Sion, ma con il luogo dove vivono, nel caso l’Italia, “hanno un legame molto stretto, un insieme di affetti e di cultura condivisa; un ebreo italiano in Italia è un ebreo, in Israele è un italiano, l’anima di ogni ebreo è una mescolanza di identità, e questo rappresenta la vera ricchezza”.

Anche sul terreno pratico il contributo degli ebrei italiano al processo unitario è stato notevole, mediante la partecipazione alle battaglie risorgimentali, dove hanno combattuto in prima fila e in gran numero, cita per tutte Curtatone e Montanara. E richiama le parole di Gramsci secondo cui “gli ebrei  hanno partecipato alla costruzione dell’Unità nazionale come i romagnoli”. Riconosce che non c’è stata unanimità in questo processo, e tra le opposizioni cita quella dei Rotschild a Napoli:  ricostruiscono una comunità e la sinagoga, e non vogliono avere nulla a che fare con i portatori delle istanze risorgimentali che considerano sovversivi. Con la guerra coloniale di Libia del 1897 nacquero gruppi che concepivano il sionismo come filantropico e ne facevano un fatto identitario; a quel punto esplosero i contrasti sull’identità che si accentuarono con la prima guerra mondiale quando gli ebrei diedero un contributo di eroismo più in Italia che altrove. I momenti di crisi si aggravarono con il fascismo, allorché fu posta l’alternativa di stare con l’Italia fascista o non essere considerati italiani, secondo il ben noto “o con noi o contro di noi”. Nel 1929, 9 anni prima delle leggi razziali, una grave crisi attraversò il processo unitario, gli ebrei non erano più considerati cittadini. “Oggi la comunità ebraica in Italia ha almeno 100 anni, con interessi cosmopoliti, e gli ebrei si sentono cittadini del mondo, con salde radici in questa terra e l’orgoglio di difenderne l’identità nella sua Unità”.

I sentimenti  della comunità mussulmana

Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, ha portato “la voce del mondo islamico e mussulmano, ma d’Italia”, ha tenuto a sottolineare. “Questa comunità è recente – ha proseguito –  non ha partecipato all’unificazione, ma considera l’incontro al Vittoriano un ‘battesimo irrituale’ per accompagnare le celebrazioni del 150°”. Sente di far parte del “tessuto sociale dell’Italia che ha mille anime e la comunità islamica costituisce una di queste anime. Partecipare alle celebrazioni rende onore all’anima che vi partecipa e cerca di comprendere il passato nel quale non era presente”. Ha sottolineato come il Vittoriano sia il monumento-simbolo del compimento dell’Unità nazionale e ha ricordato che il processo unitario si concluse alla fine della prima guerra mondiale con le terre irredente riunite alla patria; “chiamarlo Altare della Patria dimostra come i laici usino un linguaggio religioso”, ha detto, citando poi la Moschea di Roma di Monte Antenne, la più grande d’Europa.

Dopo questi riconoscimenti all’Italia con riferimenti alla sua storia, ha parlato degli incontri interreligiosi degli ultimi anni improntati al dialogo per contribuire a un percorso di pace duratura tra i popoli. E’ un itinerario di grande importanza data l’inquietudine del mondo di oggi e la speranza in un mondo pacifico, l’opposto dello scontro di civiltà. L’Italia è un sistema complesso in cui gli italiani di fede cristiana interagiscono con i nuovi italiani anche mussulmani: “Oggi le società sono multietniche e devono riconoscere le diversità, che fanno parte della ‘società plurale’ e non possono degenerare in avversità”. Con lo sviluppo del dialogo le religioni offrono il loro contributo per superare i contrasti e dare un nuovo sviluppo alle realtà presenti, che sono tre: “La prima è lo Stato in cui dimorano, la seconda la società in cui vivono, la terza lo  spazio in cui pregano”.

In questa visione lo Stato di cui si fa parte è la prospettiva ideale e materiale da condividere con gli altri, in modo da produrre consenso e unità e comporre i dissensi. “La religione può assecondare lo Stato senza prevaricare le autonomie, Dio ha dato all’uomo la religione come fonte di conforto e sicurezza, e come mezzo per realizzarsi in rapporto ai propri simili”. L’Islam ha nella radice del proprio nome la pace tra gli uomini che discende da Dio. “Shalam vuol dire pace ed è anche il modo con cui si invoca Dio. I credenti sono cittadini che si alimentano di fede, e questo non è un fatto confessionale. Le religioni devono svolgere un ruolo pacificatore nel rispetto reciproco”.

Redouane ha concluso con una lezione di vita: “Vivere insieme è complesso ma è meno arduo se ognuno si fa carico della propria parte di responsabilità. L’organizzazioni interna e l’assetto della società civile è importante ma resta fondamentale il ruolo delle religioni”. Il dialogo interreligioso è un momento di riflessione e meditazione e va visto come preghiera corale: “La religione non è un edificio di dottrine ma il confrontarsi continuo di tutti sul mondo, sulla vita, sui grandi interrogativi dell’esistenza. Dialogare è interrogarsi insieme e porsi domande su presente e futuro”.

E se i musulmani d’Italia si sentono come un’anima dell’Italia – ha commentato Pizzetti –  la loro presenza anche massiccia non può portare a uno scontro di civiltà, che farebbe sentire tutti come minoranze minacciate. Ma allora, come si devono migliorare le forme di convivenza, perché si possa costruire insieme la società dell’integrazione? A questa domanda ancorata sull’oggi hanno risposto Giovagnoli e Redouane.

I pericoli e le risposte dell’oggi

Secondo Giovagnoli, i pericoli sono reali, tuttavia di fronte alla minaccia di frammentazione le religioni reagiscono: così i musulmani, gli ebrei e anche i cattolici i quali pure potrebbero avere motivi di opporsi allo Stato laico che ha sostituito quello confessionale dopo la rottura traumatica con la Chiesa. Invece la convinzione dei cattolici sul valore dell’Unità è stata totale anche negli ultimi due papi stranieri: viene ricordata la convocazione dei vescovi per l’Unità d’Italia da parte di Papa Giovanni Paolo II nel 1994, nel momento delicato del passaggio dalla prima alla seconda repubblica. “Le religioni sono per la difesa dell’Unità nazionale perché avvertono che dietro le spinte alla frammentazione c’è l’esclusione dell’altro, che può riguardare anche il diverso credo religioso; tanto che il secessionismo, frutto della frammentazione, è accompagnato dalla xenofobia, incompatibile con il messaggio religioso di apertura a tutti”.

Per questo le celebrazioni dell’Unità nazionale dopo la freddezza iniziale delle forze politiche sono state molto sentite secondo il volere del Presidente della Repubblica: gli italiani vi si sono riconosciuti non per un orgoglio nazionale sciovinista estraneo alla nostra mentalità, bensì per un senso di identità che è appartenenza culturale. La sfida del futuro è accettare che ci siano nuovi italiani con le seconde generazioni di immigrati, risorsa straordinaria per il Paese su un crinale difficile che li stimola a maturare una propria sensibilità. “Hanno una gran voglia di essere italiani e noi troppo spesso lo dimentichiamo; vedono nella cultura e nella società italiana una ricchezza e noi spesso non lo consideriamo. E’ significativo osservarli dal di fuori, si sentono italiani più dei figli di italiani, e sarebbe assurdo oltre che ingeneroso non raccogliere una spinta simile, la coesione nazionale impone di dare tutto lo spazio possibile all’integrazione”.

Integrare i nuovi italiani è un’esigenza dinanzi alla realtà di una presenza forte, è una questione di prospettiva che non va immiserita da interessi immediati e miopi di tipo politico o, peggio ancora, elettorale. Cavour pur nel suo laicismo capì che la rottura tra Stato e Chiesa avrebbe danneggiato entrambe le istituzioni, è così oggi nei rapporti con gli immigrati e devono capirlo anche quelli che credono di avvantaggiarsi dando l’ostracismo.

Su questa posizione anche Redouane, nell’ottica dei mussulmani: ha stigmatizzato le voci di secessione tornate a farsi sentire nel 150° dell’Unità d’Italia, per uno sterile provincialismo. “Le religioni hanno grande importanza per la loro influenza sul piano culturale, danno il senso non tanto dell’uguaglianza quanto della fraternità umana, che fa sentire tutti fratelli e sorelle su un terreno che non può ammettere lo scontro di civiltà”. Questo non ha alcuno sbocco positivo, invece ne siamo stati nutriti per dieci anni dopo il tragico attentato alle Torri Gemelle, finché la primavera araba ha mostrato che l’lslam vuol creare stati pluralistici dove la religione non può venire usata come motivo di scontro. “La stessa costruzione europea si è affermata contro gli scontri religiosi per uno Stato laico pluralista dal punto di vista religioso, ora questo avviene anche nel mondo arabo; il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti ne fa parte, ispirato dalle religioni”.

L’integrazione non ha riflessi soltanto all’interno, si pensi che a sud di Casablanca l’italiano ha sostituito il francese come seconda lingua, grazie agli emigrati marocchini in Italia ritornati in questa regione; il loro apporto è notevole nel diffondere con la lingua la cultura del paese che li ha accolti. Il mondo cambia, la trasversalità è a livello globale, il motivo per cui vi sono paesi che patiscono la crisi e altri no, sta nell’alto livello della domanda interna nei secondi, come l’India, 7% di crescita annua del prodotto interno lordo con  il 70-80 %  dalla domanda interna, rispetto alla quale il paese è autosufficiente.

Nel nostro continente l’Italia non deve smarcarsi dall’Europa ma l’Europa non si salva senza coesione e senza una nuova strategia per uscire insieme dalla crisi. Lo si diceva già nel 2011 e l’esigenza oggi non è cambiata. Mentre nella primavera araba va rafforzato lo Stato per dare unità e coesione, nell’Occidente e in particolare in Italia lo Stato e la politica devono fare un passo indietro perché le istituzioni si sono indebolite lasciando che il mercato gestisse tutto. La crisi è stata creata dalla finanza e ha colpito le società vissute al di sopra dei propri mezzi. Si parla di fallimento di paesi, dopo l’Argentina rischia la Grecia, prima non era pensabile che potesse accadere, e neppure che un paese potesse ricomprare il debito di un altro paese minacciato di fallimento, e che quest’ultimo potesse essere comprato.

“Una volta risolti i dissensi interreligiosi che non hanno motivo di essere, se si arriva a pacificare i rapporti reciproci si può dire che si è sgombrato il terreno per una nuova fase di cooperazione”. Sulle questioni fondamentali non devono esservi scontri politici, come purtroppo avviene per la cittadinanza, e anche per il lavoro e la gioventù: “L’accettazione della diversità dell’altro non disconosce l’uguaglianza dei diritti, dietro la discriminazione individuale c’è quella economico-sociale”.

Redouane ha concluso ribadendo che il ruolo delle religioni deve limitarsi alla propria sfera senza entrare sul terreno politico.”A Cesare quel ch’è di Cesare, e a Dio quel ch’è di Dio”, sembra ricordare l’esponente mussulmano, e questo suona come garanzia per tutti. Faremmo bene a non dimenticarlo mai neppure noi.

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L’immagine degli oratori della Tavola rotonda è stata ripresa da Romano Maria Levante il 24 novembre 2011 al Vittoriano: parla il rabbino Di Segni, alla sua destra il moderatore Pizzetti, alla sua sinistra il mussulmano Redouane e il cattolico Giovagnoli. Si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia per l’opportunità offerta.

Micucci. la ricerca pittorica dal Dna al Borromini “occulto”, al Vittoriano

Romano Maria LevanteIl Borromini occulto è stato evocato nella mostra “Luce, spazio, armonia il Divino”, di Laura Gabriella Micucci, svoltasi al Vittoriano, sala Giubileo,  dal 10 al 15 settembre 2011, con due nuove opere aggiunte a quelle esposte  dal 4 al 28 maggio nell’ anteprima al Chiostro di san Carlino alle Quattro Fontane, nel cuore della chiesa la cui facciata è del grande architetto. Altre sue opere insigni san Giovanni in Laterano e sant’Andrea delle Fratte, l’Oratorio e il Convento dei Filippini, sant’Ivo e  La Sapienza, i Palazzi Carpegna e Confalonieri, Spada e Propaganda Fide. Vale la pena tornare sulla mostra dopo oltre due anni per i motivi e significati non solo pittorici che ha evidenziato.

“Stella Danzante  (tò àstron orchoùmenon)”

“La mia è la ricerca di qualcosa che vada oltre il terreno, in una prospettiva di più mondi”, ci disse l’autrice prima della presentazione, parlandoci anche di Dna che si diversifica e rappresenta “il ceppo dell’Universo”.  La sua ispirazione è stata il simbolismo del Borromini, alchimista e astronomo oltre che architetto dal forte senso religioso, portato ad “andare oltre” con i suoi simboli e le sue forme espressive protese verso qualcosa  di superiore come si vede nelle sue chiese.

Ascoltando queste parole e ci guardammo intorno, le opere dominavano la sala, ci attirarono tre scritte: “Bisogna avere il caos in sé per partorire una stella danzante”, ha scritto Nietsche; a questo messaggio se ne aggiungeva uno altrettanto misterioso: “La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli”, è tratta dal Vangelo di S. Giovanni.  Fino all’espressione del Borromini, che ne dà l’interpretazione autentica: “Tutto ciò che disegno e creo porta il sigillo dell’essere mio. Se sai quel che fai puoi essere beato”. Per lui è valso anche l’inverso, l’inattività e il disorientamento della vecchiaia lo portò all’opposto, la disperazione, di qui la morte che si diede trafiggendosi con una spada. Ma nulla di tutto questo traspare dalla magnificenza delle sue opere che hanno ispirato i quadri dell’artista Micucci, rivolti verso altri mondi in una sublimazione festosa e spettacolare.

“Spazio (tò diàstema)”e “Luce (tò phos)”

L’immagine della spirale della vita e il Dna

L’intervento di Claudio Strinati  preparò all’interpretazione delle opere esposte spaziando dall’occulto del Borromini a Mondrian della cui mostra romana abbiamo dato conto a suo tempo.  Il Borromini  era stato  protagonista assoluto nella suggestiva anteprima al Chiostro di san Carlino in cui si era materializzata una simbiosi tra l’architettura e la pittura della Micucci che ad essa si ispira; al Vittoriano  le opere hanno avuto una dimensione autonoma in un  contenitore museale neutro, senza essere sovrastate dalla spettacolare architettura del grande maestro del barocco.

Obiettivo dell’artista è stato legare all’opera di un architetto la propria opera pittorica moderna. . Il punto comune è il senso di ascesa verso qualcosa che va oltre e ci sovrasta, una visione metafisica alla base dell’ispirazione. Ha utilizzato una tecnica molto particolare, ridando vita all’encausto e servendosi di molti materiali;  lo stile creativo si vede anche nella forma delle opere, molto diverse, dal quadrato esposto con gli angoli come fosse un rombo, all’ottagono, fino alla stella ed altre configurazioni che danno il senso dello spazio multiforme.  “Approfondire e innovare nella tecnica, prestare attenzione alla forma esteriore, alle posizioni, tener conto di tanti influssi, dal caso alla necessità”, questo ha fatto l’artista, disse Strinati.  E citò Mondrian, nella  sua evoluzione, non per creare un rapporto diretto con lui, ma per richiamarne il rigore geometrico che alla fine evolve in una nuova percezione della forma: dai compartimenti e dalla staticità della prima fase a un dinamismo che si può ricondurre perfino alle meditazioni dei mistici olandesi.  Il dinamismo si vede nelle opere della Micucci, sembrano lanci di oggetti rotanti, in una visione cosmica che porta “oltre”, una pulsazione che eleva l’opera d’arte verso una suprema armonia.

La pianta delle chiese del Borrominigenera delle immagini inserite nei quadri dell’artista, del resto il grande architetto si ispirò anche a Michelangelo. “La storia dell’arte  è come una corsa a staffetta, concluse Strinati, ognuno raccoglie e porta avanti qualcosa dei predecessori, questo è un bell’esempio di un’artista che ha raccolto il testimone e si è messo a correre sui sentieri dell’arte”.

Affermò anche : “La suprema meditazione genera la forma e porta verso l’alto con la spirale della vita senza fine”. Colleghiamo queste parole  a ciò che ci aveva detto l’artista sul Dna “ceppo dell’universo”. Ebbene, l’immagine del Dna è la doppia elica, rivelata per la prima volta da Rosalind Franklin con la celebre “fotografia  51”,  che diede la conferma decisiva a Watson e  Crick,  insigniti con Wilkins per  la loro scoperta  del Premio Nobel  nel 1961 a lei negato dalla morte prematura del 1958, senza neppure una citazione.  La doppia elica del Dna evocato dalla Micucci corrisponde alla spirale della vita senza fine di Strinati: tutto si tiene in questa assonanza di temi e di motivi.  Che ci fa ripensare alle opere esposte con  interesse misto a soggezione perché fanno penetrare il mistero delle origini della vita proiettandolo negli immensi spazi dell’universo.

“Luce (tò phos)”

Il simbolismo del Borromini  cui si ispira la Micucci

Claudio Strinati  ha indicato la direzione giusta per interpretare le opere della Micucci. Completiamo l’inquadramento con l’analisi della simbologia borrominiana compiuta da Leros Pittoni  nel libro “Francesco Borromini, l’architetto occulto del barocco”,al quale si è ispirata l’artista: “Il simbolo è legato all’uomo che ha bisogno di simboli per mettere la creatività  e la conoscenza in relazione al trascendente”. Per Borromini era complesso e aveva valore teleologico, alimentato dalla sua vasta cultura che spaziava tra astronomia e filologia,  fisica e musica, geografia ed egittologia; e dalla sua osservanza religiosa, al punto di essere definito “ascetico”.

Per questo la sua architettura ha una forza ascensionale che esprime l’elevazione dell’uomo verso Dio e il suo ritorno sull’uomo, “non fa pesare la materia che adopera ma l’alleggerisce al limite dello stabile, quasi a filtrare la luce”,  in modo che “entrando nel tempio si debba lasciare ogni ombra per sentirsi leggeri”.  E ancora: “Tutte le religioni hanno attribuito alla luce l’ascensione verso la divinità”, fino alle parole del filosofo gnostico Proclo: “Vita e luce sono unite , allora è nato il numero dell’Unità dello Spirito”. L’illuminazione non ha soltanto il valore intellettuale dei platonici, ma anche un valore profondamente spirituale che avvicina al divino: “Nelle sue cupole troviamo la costante discesa di una dynamis, un ‘processo’ d’illuminazione che vuole coincidere con l’acquisizione della Rivelazione”.

Su questa base filosofica e teologica così ricostruita da Pittoni,il grande architettoha fondato i suoi simboli geometrici, il cerchio che rappresenta l’infinito, l’eterno e porta al divino; il quadrato che esprime “la materializzazione dell’Idea” e riconduce all’uomo; e la stella a cinque e più  punte. “La croce è normalmente iscritta in un quadrato e contenuta in un cerchio”, mentre “tre cerchi saldati tra loro evocano la Trinità”, al centro Borromini colloca il sole.

E poi i simboli delle palme come “durata nel tempo” e sono il segno dell'”operosità che lascia l’uomo, quella ispirata dal Cristo risorgente”,  mentre i petali dei rosoni “sono il simbolo della durata terrestre, quindi breve”, e le melograne simboli di fede. Gli angeli onnipresenti,cherubini e serafini,  con le ali spiegate sono, nelle sue parole, “conservatori immutati della propria luce, del proprio potere d’illuminazione  per la facoltà di respingere e di abolire ogni tenebra offuscatrice”.

“Armonia (tò àrma)”

Le opere di Laura Gabriella Micucci

Come si cala tutto questo nelle opere della Micucci?  La storica dell’arte Chiara Proietti  le ha analizzate osservando innanzitutto che la luce porta a “comporre la tela come fosse un mosaico. Pensarla come un insieme di tessere, scoprire che dentro ognuna di esse ne esiste sempre un’altra”, come le figure geometriche iscritte nel cerchio con i raggi “simbolo del Cristo che discende nella materia”. Nello spazio, tra turchese, viola e striature bianche  si vede “fissare nelle costellazioni celesti la dolcezza delle linee curve volute da Borromini per le sue chiese romane”.   I pianeti e le galassie  tinte di azzurro esprimono l’armonia universale. Fino al divino, nella “comunione di due mondi, legati tra loro dalla presenza dell’occhio divino, dallo sguardo di Dio”.

Una visione laica, come quella espressa dal latinista-grecista  Gianluca Sarapo, il quale vede nella luce anche “l’irraggiamento universale che dal mondo superiore informa di sé ogni elemento sottostante”, nello spazio l’elemento intermedio per cui “chiunque può abbracciarlo con la mente e con i sensi”, nell’armonia ” la “simbiosi e sintesi di umano e divino”, nel divino un “elemento dinamico, in perenne movimento” e non solo “ciò che sta semplicemente al di sopra”.

Con queste visioni nella mente, parliamo ora delle opere, realizzate nel 2011 in tecnica mista su tela, con vari materiali, acrilico e vinavil, lana di vetro e paste vitree, titanio al laser e oro zecchino, fino all’encausto su cera, che riporta all’antico. Come fanno i titoli, in greco antico per esprimere  con vocaboli di genere neutro la dimensione universale e l’estraneità rispetto a ogni appartenenza.

“Il Divino (tò théion)”

Cominciamo con la serie intitolata allo Spazio (tò diastema)”, il marrone terrestre è segnato dalla pianta delle chiese del Borromini, quasi  astronavi lanciate nell’universo.,

Poi il dipinto intitolato alla Luce (tò phos)”,, una tela ad ottagono irregolare con al centro il cerchio che irraggia in cui è iscritto il triangolo,  su un fondo variegato tra il giallo e l’amaranto in una finissima lavorazione quasi a mosaico.

Ed ecco le opere sull’“Amonia (tò àrma)”, dei quadrati con i vertici come basi,  di un  celeste siderale nel quale galleggiano pianeti e costellazioni.

Il “Divino (tò théion)” è rappresentato in una tela a ottagono irregolare divisa da uno scettro nella sfera terrena, con segni cuneiformi di civiltà del passato, e nella sfera divina con un Angelo la cui ala visibile è costituita da una miriade di  doppie eliche del Dna,  considerato da Strinati “cellula divina che tutto genera”  con questo significato: “L’idea di fondo è quella della cellula da cui l’immensità dell’Universo trae origine” precisa lo studioso.

Fino alla “Stella Danzante”  (tò àstron orchoùmenon)”  l’ottagono della forma del dipinto è arrotondato, “le comete convergono verso l’idea del Divino”: sono tre in una composizione spettacolare con forme rosse e gialle sullo sfondo celeste.

Non finisce qui,  l’esposizione del Vittoriano ha aggiunto a quella del chiostro di San Carlino un nuovo tema, connesso ai precedenti  ma espresso per la prima volta direttamente in due dipinti,  Il primo è “Lo scudo di Atena (e aspìs tès Athenàs”, con la forma di ottagono regolare, reca al centro un’eclisse di sole con l’alone intorno e filamenti di eliche di Dna mentre lo “scudo” è percorso da costellazioni legate ad Atena, dalla forma ben definita.

Il secondo, “L’arco della Sapienza (tò tòxon tès Sophias)”, a triangolo rovesciato, mostra due archi dorati, mentre all’interno di un viluppo di eliche di Dna c’è il serpente simbolo di continuità infinita, che si guarda riflesso in uno specchio di zirconio”

Come concludere questa  coinvolgente immersione nelle immensità cosmiche legate a spazio, luce, e armonia in termini fortemente terreni?  Dopo avere evocato il divino torniamo all’umano con l’espressione posta da Pittoni a sigillo delle sue considerazioni sulla simbologia di Borromini. E’ una citazione del “Corpus Hermeticum”, la poniamo a sigillo della nostra riflessione sulla mostra della Micucci perché è il messaggio che ne abbiamo tratto in un dimensione universale: “L’uomo, da vita e luce, divenne anima e intelletto, dalla Vita originandosi l’Anima e dalla luce l’Intelletto”.

Info

Per la mostra su Mondrian al Vittoriano, citata nel testo, cfr. in questo sito, i  nostri 2 articoli: “Mondrian. Il percorso d’arte e di vita” il 13 novembre  2013e “Mondrian. L’approdo nell’‘armonia perfetta’”  il 18 novembre.

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Le immagini delle opere, tutte del 2011, sono state  fornite dall’Ufficio stampa di “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia che si ringrazia con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Laura Gabriella Micucci.  In apertura, “Stella Danzante  (tò àstron orchoùmenon)”;seguono “Spazio (tò diàstema)”e “Luce (tò phos)”, poi “Armonia (tò àrma)” e “Il Divino (tò théion)”;in chiusura “L’arco della Sapienza (tò tòxon tès Sophias)”.

“L’arco della Sapienza (tò tòxon tès Sophias)”

Unità e regioni, 2. Amministrazione, forze armate, lingua, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro resoconto del convegno “Le ragioni dello stare insieme: le istituzioni, le politiche, le regole dell’unità nazionale”  svoltosi al Vittoriano il 23 giugno 2011. Promosso dal Ministero per i rapporti con le regioni e curato da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, già impegnato oltre che nelle mostre celebrative, in convegni di approfondimento come “Il Viaggio in Italia, 150 anni di emozioni” e la vera e propria lezione dello storico Lucio Villari. Dopo gli interventi del ministro Raffaele Fitto e di Ernesto Longobardi del Ministero abbiamo riferito delle relazioni di Giuliano Amato sulla Carta costituzionale e di Francesco Margiotta Broglio sui rapporti tra Stato e Chiesa. Ora le relazioni di Vincenzo Cerulli Irelli sulla Pubblica amministrazione, di Paolo La Rosa  sulle Forze armate e infine di Paolo Peluffo sulla Lingua italiana, che hanno completato il quadro ampio e organico dei fattori di unità nella diversità.

Parla il relatore sulla Pubblica Amministrazione, Vincenzo Cerulli Irelli 

La Pubblica amministrazione secondo Cerulli Irelli

Vincenzo Cerulli Irelli, l’illustre amministrativista abruzzese, precisamente teramano – citiamo volentieri il dato regionale –  docente a “La Sapienza” di Roma,  ha compiuto un’ampia e dettagliata ricognizione sul cammino compiuto dalla macchina amministrativa dal momento dell’Unità, allorché erano solo 5 mila i dipendenti, con poche funzioni, divenuti  100 mila già alla fine degli anni ’70, poi 300 mila al tempo di Giolitti con funzioni accresciute perché lo Stato si fa carico dei principali servizi, ferrovie e poste, con forte impiego di personale; nascono i grandi enti pubblici. Dopo la prima guerra mondiale erano 500 mila stabili fino agli anni ’30; nella seconda fase del fascismo, dopo i blocchi delle assunzioni, il numero crebbe fino a superare il milione di addetti.

E’ un corpo intermedio tra politica e società, e “ha un rapporto ambiguo e conflittuale con la politica che non può non interessarsi dell’amministrazione su cui si gioca il successo del Governo”. Ma è distinta dalla politica, e nella nostra vicenda unitaria la legge 1853, madre di tutte le leggi in materia, stabilì che “il ministro rispondeva di tutti gli atti dell’amministrazione, quindi  ne doveva avere il maneggio”; soppresse le aziende e i corpi tecnici e instaurò il sistema secondo cui tutti gli atti erano imputati al Ministro, creando una commistione tra politica e amministrazione.

La situazione si stempera con lo Statuto giuridico della funzione pubblica che regola i procedimenti sotto il profilo della discrezionalità, nonché il controllo giurisdizionale. Viene introdotta la distinzione nella disciplina della funzione ma resta la commistione con gli organi politici. Questa situazione si protrae per l’intera storia unitaria ma sul piano organizzativo i pubblici funzionari prima erano sottoposti al potere politico senza garanzie; fu Giolitti ad introdurre lo Statuto con le relative garanzie. In  tempi molto recenti l’amministrazione ha provato a staccarsi dalla politica, e con la legge Amato del 1993 la separazione tra politica e amministrazione diviene fatto compiuto: l’indirizzo e la programmazione agli organi politici, la gestione alla responsabilità dei funzionari.

A questo punto il discorso si è fatto complesso, Cerulli Irelli ha messo a confronto differenti modelli di responsabilità rispetto ai diversi ambiti in cui si manifesta: “Per l’art.  95 della Costituzione il Ministro è responsabile di tutti gli atti”. Il quadro si complica ulteriormente nei rapporti tra centro e periferia, in un’ottica di accentramento o decentramento la cui alternanza caratterizza la nostra storia unitaria. All’inizio la scelta fu di un accentramento amministrativo di tipo francese applicato nel Regno di Sardegna: a livello locale  poca autonomia, funzioni per lo più obbligatorie e poche facoltative, presenza forte dello Stato con il Prefetto, organo periferico con penetranti  poteri di indirizzo, controllo e tutela collegato al Governo centrale.

Non basta, dal 1912 lo Stato entra nell’economia come grande imprenditore, esplode il fenomeno dei servizi pubblici locali, il Comune diventa centro di produzione di beni per i cittadini, e pur con la sua ferrea struttura il sistema si frammenta: “Sul versante dello Stato si accentua la presenza, su quello della periferia cresce la frammentazione; si creano amministrazioni periferiche che dipendono dai rispettivi Ministri, il Prefetto perde la rappresentanza unica del potere centrale”.

L’ordinamento regionale, con autonomia e potere legislativo, deve convivere con l’unitarietà. Per 30 anni non cambia nulla, poi con il radicamento delle Regioni cessa il controllo prefettizio. Le modifiche costituzionali equiparano il livello della pluralità dei centri istituzionali. “In questo quadro i problemi nascono nel trovare elementi di unità, in una rete istituzionale che deve riportare unitarietà nelle grandi scelte di un paese dalle istituzioni frammentate”. L’istituto prefettizio assume la nuova veste di  “mediatore delle istanze autonomistiche”, ci sono anche la Conferenza Stato-Regioni, le Sezioni regionali della Corte dei Conti, in un quadro molto incerto e articolato che fa riflettere su come le ragioni unitarie possano comunque prevalere nella crescente frammentazione.

La carrellata  nei meandri della Pubblica Amministrazione ha fatto vivere la complessità dei meccanismi istituzionali calati nella realtà viva del paese in un processo evolutivo che trova ora un’ulteriore fase di complessità, questa volta inedita e imprevedibile, data dal federalismo.

Ma non c’è  stato tempo di applicare quanto si è ascoltato “de iure condito” al “de iure condendo” della nuova forma federale dello Stato il cui iter è appena agli inizi. Incalzavano altri temi e ne diamo conto, sono fondamentali anch’essi: si tratta delle  Forze armate e della Lingua italiana.

Le Forze armate che mantengono l’Italia unita

L’allora consigliere militare del Ministro della Difesa, Paolo De Rosa, ha parlato del coronamento di un processo storico plurisecolare che ha unificato comunità già in qualche modo omogenee; di qui radici nazionali alla base del Risorgimento, come le antiche virtù guerriere, che pongono le Forze armate tra i fattori della continuità istituzionale. Sono state dure le prove  per completare il processo risorgimentale fino alla Grande guerra. “La strategia di Cavour collegava le forze armate all’industria, le  forze navali alla cantieristica”, parole che ci fanno pensare al complesso industriale-militare di cui si è detto tanto nei tempi moderni per le maggiori potenze mondiali.

Intorno all’arsenale di Taranto nacque un polo industriale, e anche se non si risolse in positivo prova la corrispondenza delle vicende militari con quelle industriali; nel 1875 fu inaugurata la fabbrica di armi a Terni, che divenne un polo della siderurgia. Ma la Grande guerra, considerata l’ultima guerra di indipendenza, vide una partecipazione popolare di massa, da ogni parte del territorio, nei combattimenti a fianco a fianco che forgiarono un’unica comunità nazionale. L’esercito è stato una scuola di civiltà e con la leva di massa obbligatoria fino ad epoca recente un grande educatore nella formazione di una coscienza collettiva unitaria; nel periodo dell’esteso analfabetismo anche un efficace diffusore della lingua italiana, e nelle situazioni di isolamento ed emarginazione ha segnato la socializzazione e l’apertura. “Vieni in Marina e girerai il mondo” è uno slogan che esprime l’emancipazione con l’arruolamento di chi non era mai uscito di casa.

Non possiamo seguire il relatore nella sua ricostruzione dei fasti delle nostre Forze armate e anche dei momenti critici, mentre sullo schermo scorrevano le immagini più significative delle gesta dei soldati e degli armamenti: dalle nostre Alpi alle montagne balcaniche, dalle sabbie africane alle steppe russe come teatri di guerra; dall’offensiva alla disgregazione e allo sbandamento come momenti culminanti nei due sensi. Viene ricordata la presa di distanza da parte della popolazione dal mondo militare: è storia passata, la situazione è del tutto rovesciata oggi che si sono affermati i valori portanti delle virtù militari. Anche perché con il ripudio costituzionale della guerra si esprimono in difesa della pace nel mondo e in soccorso delle popolazioni nelle calamità naturali. 

Le Forze armate sono sempre più parte integrante di una comunità di cui condividono ed esprimono i valori, anche nella modernità: e si è materializzata sullo schermo l’immagine dei due astronauti italiani in orbita – Nespoli ufficiale dell’Esercito e Vittori dell’Aeronautica –  che nobilitano la divisa in continuità con l’impegno scientifico e tecnologico dell’Italia  sin dal 1964 nel progetto San Marco; non è mancato il ricordo della prima traversata aerea transoceanica di Italo Balbo.

Dopo la parentesi spaziale si è tornati sulla terra, in un mondo tormentato, dalla guerra asimmetrica contro il terrorismo all’inasprirsi dei conflitti locali; con le aperture alla speranza date ieri dalla primavera della libertà nell’Est europeo, poi dalla primavera araba contro i regimi dispotici, peraltro oggi alquanto offuscata. La chiusura di questo affresco sulle virtù militari al giorno d’oggi non poteva che essere sui nostri militari all’estero nella frontiera della pace e su quelli che all’interno proteggono i cittadini nelle calamità naturali e operano per la sicurezza contro ogni minaccia e pericolo, venga dalla criminalità  come da emergenze ambientali, dai “vespri siciliani” agli interventi della protezione civile. “L’esercito – ha concluso De Rosa con le parole di Settembrini –  è il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita”. 

La Lingua italiana, fattore di unità

A Paolo Peluffo, consulente del Presidente del Consiglio per le celebrazioni del 150°,il compito di mettere la ciliegina sulla torta parlando dell’unificazione con la Lingua italiana. Lo stesso Mazzini all’epoca del giuramento della Giovane Italia nel 1831 scrisse che era giunto il  momento di promuovere l’unificazione linguistica. Con il Risorgimento la lingua diviene questione centrale e rivoluzionaria anche perché ancora nel 1861 solo il 2,5 %  della popolazione parlava la lingua comune mentre  il 97,5%  si esprimeva nei dialetti italiani. Un paese povero, senza infrastrutture, con gli Stati componenti debolissimi, a scuola li chiamavamo “staterelli”; non si confederarono per questo,  e “la lingua fu una conquista di chi parlava qualcosa che aveva a che fare con l’Italiano”.

Sono stati citati Ugo Foscolo e Vittorio Imbriani – che raccolse canti popolari nei dialetti irpino e lombardo – impegnati in  questo campo, e i tentativi dopo il 1861 di arricchire la lingua con i contributi regionali. I più grandi scrittori dell”800 sono “regionali”, basta ricordare Verga e Manzoni, mentre Tommaseo si impegnò in un notevole ampliamento del dizionario dell’Accademia della Crusca che rappresentava l'”ancien regime” linguistico da superare; con i suoi appunti a margine superò il lessico ristretto della cultura di élite aprendo alle regioni. L’impegno civile per un vocabolario più esteso si unì a quello patriottico, è stata ricordata la liberazione con Daniele Manin nel 1848;di cui ricordiamo  il quadro celebrativo alla mostra “Pittori del Risorgimento“. L’excursus non finisce qui, c’è D’Annunzio e l’orazione dei Mille a Quarto, e ancora il Dizionario.

Il grande affresco del convegno si è concluso in gloria, con l’unificazione della lingua italiana. Nell’insieme è stato un approccio originale, con una riflessione approfondita che ha dato spessore alle manifestazioni celebrative del 150°. Del resto a “Palazzo Incontro” c’è stata una mostra su Dante, l’unificatore “ante litteram” della lingua italiana, per di più basata sulla collezione di un privato cittadino, Livio Ambrogio, un emigrato con questa forte passione. Tutto concorre ad una visione a 360 gradi che si è precisata sempre di più dando il senso vero dello spirito unitario.

Info

La prima parte del resoconto del Convegno al Vittoriano si trova nell’articolo in questo sito il 4 giugno 2013, dal titolo “Unità nazionale, lo scenario, la Costituzione, Stato-Chiesa”.

Foto

L’immagine in apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante al Vittoriano, parla il relatore sulla pubblica amministrazione Vincenzo Cerulli Irelli, a dx. .