Gianni Testa, 4. Le eterne Beatitudini nelle visioni celestiali del Paradiso, al Museo Crocetti

Romano Maria Levante

Si conclude la nostra carrellata sulla mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto delle tre Cantiche. Dopo l‘Inferno e il Purgatorio siamo al Paradiso, con i 33 dipinti riferiti, come per le altre Cantiche, ciascuno a una terzina ispiratrice che riportiamo in corsivo, mentre sono in chiaro i versi ispiratori di altri dipinti dell’artista non esposti per il limite di un dipinto ogni canto. Si possono acquistare due stampe numerate fino a 100. Curatrice della mostra Chiara Testa, che l’ha realizzata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale con splendide riproduzioni dei dipinti incorniciati in nero e inquadrati nei Canti e versi ispiratori .

Canto 1°, vv. 88-90

La terza Cantica nella sua arcana astrazione è una sfida sovrumana, l’artista si cimenta nelle raffigurazioni dei 33 canti elevandosi al di sopra della materia per raggiungere l’Empireo dantesco, e non deve essergli risultato naturale dato che lo spessore materico e l’intensità cromatica sono stati sempre la sua cifra e forza espressiva, qui si è trattato invece di alleggerire, schiarire e rarefare.

Come  interpreta la magia del Paradiso Gianni Testa?  Le sue sono  immagini che, come in un ideale  caleidoscopio,  mutano conformazione nell’incanto di  figurazioni altamente ispirate: una sequenza  di colorazioni sull’azzurro, che porta in un ‘atmosfera celestiale, è seguita da una sinfonia di colori in un tripudio  sfolgorante, fino all’alternanza cromatica altrettanto simbolica che sostanzia la sublimazione soprannaturale unita a persistenti richiami terreni. Anche qui i dipinti in mostra, uno per canto, sono una selezione dei tanti realizzati, gli altri sono evocati solo dalla citazione dei versi  non in corsivo come quelli ispiratori dei dipinti selezionati, ma non vengono descritti.  

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Testa  Ultimo Paradiso 21470 Entrando nel  Paradiso, con i suoi nove Cieli dalla Luna al Primo Mobile e i Beati a diversi livelli fino all’Empireo, c’è da esprimere visivamente nientemeno che  “la gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra e risplende/ in una parte più e meno altrove”, questo l’inizio del Canto 1°. L’artista è ispirato dall’ammonimento di Beatrice a Dante sui limiti della visione terrena rispetto a quella celeste che è la vera dimensione in cui collocarsi:  “e cominciò: ‘Tu stesso ti fai grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti se l’avessi scosso” (vv. 88-90), pensare cose sbagliate ottunde la mente e non  fa vedere ciò che altrimenti sarebbe chiaro.  Cosa vedrà chiaro il Poeta lo dice nei versi successivi:”Tu non se’ in terra, sì come tu credi;/ ma folgore, fuggendo il proprio sito,/ non corse come tu ch’ad esso riedi”, l’immagine è folgorante, la proiezione verso il Paradiso veloce come il fulmine è resa con una raggiera celeste intorno alla meta suprema al centro. Anche l’artista si colloca in un’altra dimensione, “scuotendo” da sé le consuete forme espressive.

Canto 3°, vv. 88-90

La raggiera celeste diventa come un vortice avvolgente nell’immagine sul Canto 2°. I versi ispiratori, “O voi che siete in piccioletta barca/ desiderosi d’ascoltar, seguiti/ dietro al mio legno che cantando varca” (vv. 1-3), rimandano all’ammonimento su quanto sia complesso ciò che seguirà per la sua altezza sublime, e la vediamo nel centro del vortice verso cui tende insieme agli Angeli che gli sono più vicini, Dante ancora lontano. Arriveranno al cielo della Luna, “in una nube lucida spessa solida  e pulita” come un diamante che risplende al sole, e avvolge anche Dante pur con la sua  natura corporea:  ne resta affascinato e sente di adorare la grazia di Dio che gli ha concesso un privilegio sublime. Poi  prevale il raziocinio,  con le disquisizioni sull’annoso problema delle  macchie lunari e le influenze celesti, scienza e fede insieme. L’artista non segue la ragione ma l’ispirazione celestiale, raffigura nei cerchi concentrici un volo di angeli che si librano con le ali aperte  in modo leggiadro; rende appieno la “mirabil cosa” che, dice il Poeta,  “mi torse il viso a sé”, distogliendolo  dalla vista di Beatrice. Poco dopo continua la metafora marinara, pur entrando nei cieli del Paradiso: “metter potete ben per l’altro sale/ vostro navigio, servando mio solco/ dinanzi all’acqua che ritorna equale” . Dirà, ai versi 106-111, che non c’è da meravigliarsi dinanzi al portentoso, come fu per gli Argonauti, e fa seguire più avanti l’inimmaginabile:  “Or come ai colpi de li caldi rai/ de la neve riman nudo il soggetto/ e dal colore e dal freddo primai,/ così rimaso te ne l’intelletto/ voglio informar di luce sì vivace,/ che ti tremolerà nel suo aspetto”-

Nel Canto 3°  Dante comincia a capire: “Chiaro mi fu allor come ogne dove/ in cielo è paradiso, etsi la grazia/  del sommo ben d’un modo non vi piove” (vv. 88-90), l’artista lo segue con l’identificazione del Paradiso in un cielo dal celeste al blu con angeli in volo che diffondono un biancore luminoso. Cosa vede chiaro il Poeta lo ha già fatto capire nei versi precedenti, la spiritualità s’innalza con i versi 52-54: “Li  nostri affetti che solo infiammati/ son nel piacer de lo Spirito Santo/, letizian del suo ordine formati”  e ancora con i versi 76-78 ”che vedrai non capére in  questi giri,/ s’essere in carità è qui necesse,/ e se la sua natura ben rimiri”.

Canto 8°, vv 16-18

Beatrice parla dell’ordinamento dell’universo, con al centro Dio, della predestinazione  degli uomini con il libero arbitrio e la volontà divina; si incontrano le prime anime elette, tra cui Piccarda, nel cielo con le beatitudini ancora al livello inferiore.

La visione celeste si eleva con i cerchi concentrici visti da vicino, l’artista presenta la visione ingrandita di metà della loro circonferenza, fino al culmine del centro, si ispira ai versi del  Canto 4°: “S’elli intende tornare a queste rote/ l’onor de la influenza e ‘l‘biasmo, forse/ in alcun vero suo arco percuote” (v. 58-60) che si richiamano alla tesi platonica sugli influssi buoni  e cattivi di quei cieli, li interpreta con motivi rossi che si aggiungono a quelli chiari nel piovere sulla terra, mentre Dante e Beatrice si godono lo spettacolo. Ci sono elevati discorsi teologici e filosofici, sulla violenza cui hanno ceduto le anime che non può scusarle appieno perché “volontà se non vuol non s’ammorza”, si parla di Piccarda e del velo monacale. La beatitudine è eterna e senza limiti di tempo, a differenza della tesi platonica di periodi limitati delle anime che tornavano alle stelle. Così ne parla ai versi 31-33: “ Non hanno in altro cielo i loro scanni/ che questi spirti  che mo t’appariro,/ né hanno a l’esser lor più o meno anni”. Ci sono i  Serafini, l’ordine più alto degli Angeli, si parla della Vergine, dei  maggiori profeti Abramo e Samuele, dei  santi Giovanni, Battista ed Evangelista, tutti uniti nell’eternità, sembrano riferirsi a loro le vaghe forme che si vedono fluttuare.

Nel Canto 5° la visione dell’artista diviene ancora più penetrante, il celeste diventa blu attraversato da forme indistinte che forse evocano la complessità dottrinale, anche se al termine si eleva. L’artista è colpito dalla terzina iniziale: “”Io veggio ben sì come già resplende/ ne l’intelletto tuo l’eterna luce,/ che, vista, sola e sempre amore accende” (vv. 7-9), cui segue ai versi  16-18 la precisazione: “Sì cominciò Beatrice questo canto;/ e sì com’uom che suo parlar non spezza,/ continuò così ‘l processo santo”. La luce divina suscita amore perenne, Beatrice non si interrompe, le sue parole sono sull’amore terreno e  la verità divina, le buone azioni e le manchevolezze umane, i voti e il libero arbitrio. Ai versi 103-105 la visione poetica si accende: “si vid’io ben più di mille splendori/ trarsi vèr noi, ed in ciascun s’udìa:/ ‘Ecco chi crescerà li nostri amori’”.

Canto 10°, vv. 139-141

Sorprende l’immagine sul Canto 6°, incendiata di rosso e arancio, anche se si intravvedono angeli in volo, ma è presto spiegata, si ispira ai versi che aprono il canto: “Poscia che Costantin l’aquila volse/ contro al corso del ciel, che la seguio/ dietro a l’antico che Lavinia tolse…” (v. 1-3):  le insegne imperiali e l’evocazione di Enea riportano alle fiamme delle guerre e all’incendio di Troia, l’anima che ricorda la storia dell’impero romano da Costantino in poi si presenta così:  “Cesare fui e son Giustiniano”, è il cielo di Mercurio,  ancora inferiore rispetto all’Empireo, con le anime che pur operando bene, sono state  mosse dalla ricerca di gloria e di fama piuttosto che del bene assoluto. 

Ancora rosso e arancio nell’interpretazione del Canto 7° ispirata dalla terzina”’Tu dici: ‘Io veggio  l’acqua, io veggio il fuoco,/ l’aere e la terra e tutte lor misture/ venire a corruzione e durar poco…’” (vv. 124-126), l’immagine è molto contrastata nel suo cromatismo, a  differenza delle tinte celestiali consuete, ma si tratta della corruttibilità degli elementi naturali fino a giungere alla resurrezione dei corpi. E poi tornano le complicazioni dottrinali – come il sacrificio di Cristo e le colpe degli uomini con la punizione degli ebrei – evocate dai dubbi di Dante sulle apparenti contraddizioni che vengono sciolte prontamente. La conclusione è sulla bontà divina, sul riscatto con il sacrificio di Cristo dal peccato dell’uomo di aver abusato della libertà  donatagli da Dio, un bene sacro per gli angeli e anche per gli uomini immortali,  come gli angeli.

Torna la visione celestiale nel Canto 8°, con la terzina ispiratrice “E come in fiamma favilla si vede,/ e come in voce voce si discerne,/ quand’una è ferma e l’altra va e riede” (v. 16-18), torna il blu e il celeste in una visione dal basso del rincorrersi evocato da queste parole, con  Dante e Beatrice che guardano  un cielo dal quale scendono raggi fino al culmine dei cerchi concentrici verso la sommità. E’ il cielo di Venere, degli “spiriti amanti”, con Beatrice “ch’i vidi far più bella”, c’è Carlo Martello che disquisisce sulla buona e “mala segnorìa” in Sicilia e non solo dei D’Angiò e degli Aragonesi.

Canto 14°, vv. 31-33

L’atmosfera si accende nel Canto 9°  con un cromatismo intenso sul rosso in tre masse distinte e un blu che tende al nero, la terzina ispiratrice ha come protagonista  Cunizza, ultima dei figli di Ezzelino II da Romano, tiranno della marca trevigiana, che dopo una vita  traviata dalle passioni, diventa fervente di carità e amore celeste, per questo è tra i beati al livello minore, Dante  ne descrive l’apparizione così: ”Ed ecco un altro di quegli splendori/ ver’ me si fece , e il suo voler piacermi / significan nel chiarir di fiori” (vv. 13-15). La rappresentazione tempestosa sembra evocare le sventure che lei  predice  e il tradimento del vescovo di Feltre; ma anche nello squarcio azzurro la diversa evocazione di Falchetto di Marsiglia, con l’anima risplendente di Raab che aiutò gli Ebrei nella riconquista della Terra santa,

Nel  Canto 10° l’ispirazione viene dal sublime richiamo soprannaturale: “Indi, come orologio che ne chiami/ ne l’ora che la sposa di Dio surge/ a mattinar lo sposo perché l’ami” (v. 139-141),  l’immagine con il blu intenso e il celeste evoca la profondità  spirituale, ma non manca il riferimento a qualcosa di terreno nel resto della composizione, il verde in una sorta di corona circolare. I versi richiamano la messa mattutina, quindi c’è anche questo motivo quotidiano. Siamo nel Cielo del Sole con le anime dei sapienti che \si dispongono in cerchio, il Poeta ringrazia Dio sì chè “Beatrice eclissò ne l’oblio”.

Blu con  formazioni vaganti e striature bianche luminose l’immagine sul Canto 11°, l’artista è ispirato da due straordinarie figure di santi: “L’un fu tutto serafico  in ardore; / l’altro per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore” (vv. 37-39). Si tratta di san Francesco e di san Domenico che, secondo le parole di san Tommaso, nel disegno della Provvidenza erano stati  mandati da Dio per rinnovare la comunità cristiana, san Francesco nella povertà e nell’umiltà, san Domenico in altre virtù, in cielo con i serafini e i cherubini vengono riconciliati i due ordini che in terra si contrapponevano sul piano dottrinale e dell’azione pratica, contemplativa nei francescani votati alla povertà, attiva nei domenicani sui beni materiali, per questo entrarono in decadenza nelle parole di san Tommaso che all’elogio di san Francesco unisce la critica ai domenicani.

Canto 15°, vv 70-72

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Nel  Canto 12°,  il francescano san Bonaventura loda san Domenico,  nell’alternanza simbolica con la lode del domenicano san Tommaso a san Francesco, e anche in questo caso termina con l’aspra  critica alla decadenza dei francescani con le loro deviazioni, divisi tra i fedeli seguaci della rigida regola e i trasgressori per una vita più facile e rilassata.  L’artista presenta un’esplosione cromatica come una festa celebrativa con i fuochi d’artificio dei due campioni, ispirandosi a una terzina  festosa “Più che ‘l tripudio e l’altra festa grande,/ sì del cantare e sì del fiammeggiarsi/ luce con  luce gaudiose e blande”(vv. 22-24) preceduta da versi altrettanto eloquenti “… così di quelle sempiterne rose/ volgiensi circa noi le due ghirlande,/ e sì l’estrema e l’intima rispose”, .

 Resta il rosso, sfumato nel rosa arancio, nell’immagine ispirata alla terzina  del Canto  13°  “imagini la bocca di quel corno/ che si comincia in punta de lo stelo/ a cui la prima rota va dintorno” (v. 10-12): siamo nella costellazione dell’Orsa Minore, di qui la visione celestiale dei cerchi concentrici questa volta in un colore insolito;  forse perché i carri con la stella polare sono una visione frequente anche dalla terra la  scena si tinge di tonalità terrene. Il Poeta descrive la danza dei beati nelle due ghirlande con degli esempi, poi tornano le disquisizioni teologiche, questa volta su Adamo e Gesù Cristo, con gli ammonimenti sui giudizi umani incauti ed erronei. Al centro sempre san Tommaso, con l’elogio della sapienza politica di Salomone.    

Salomone interviene direttamente nel Canto 14°, rispondendo a Beatrice che subentra a san Tommaso rivelando un dubbio di  Dante sulla luce irradiata negli spiriti beati anche dopo la resurrezione dei corpi. Descrive la carità come una veste luminosa tanto più intensa quanto maggiore è il suo ardore che dipende  dalla visione di Dio legata alla grazia soprannaturale aggiunta ai meriti che con la resurrezione farà raggiungere la perfezione dell’integrità con la beatitudine, quindi una visione di Dio ancora maggiore  con carità più intensa  e luce più fulgida, è il Sommo bene. La terzina alla quale si ispira l’artista introduce questa esplosione di spiritualità resa con un volo di bianche figure in una porzione ravvicinata del cerchio celestiale con sfumature dall’azzurro luminoso al blu nella visione avvolgente di una ascesa  concentrica irresistibile. “tre volte era cantato da ciascuno/ di quelli spirti con tal melodia,/ ch’ad ogne merto saria giusto muno”  (vv. 31-33), è il canto degli spiriti  in omaggio alla Trinità, i meriti avranno la loro ricompensa.

Canto 17°, vv 121-123

Con il Canto 15° il cromatismo si fa variegato, con il giallo e il rosso nella fascia centrale, le bianche figure in volo dominano anche qui  la scena, “Io mi volsi a Beatrice e quella udio/ pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno/ che fece crescer l’ali al voler mio” (vv. 70-72),, le ali metaforiche sembrano materializzarsi  nell’atmosfera appena descritta con una sottile pioggia bianca di purezza divina. L’assenza di Beatrice sembra in contrasto con i versi ispiratori, ma  è solo apparente, si parla dei Beati, nei quali la visione di Dio mette sullo stesso piano intelligenza e sentimento, del “sol che v’allumò e arse”, perciò la visione diventa  solo celestiale. Parla Cacciaguida trisavolo del Poeta, alla sua nascita Firenze era  piccola  ma onesta e pura nei costumi mentre poi si è ingrandita e corrotta, lui è morto combattendo in Terrasanta, è l’occasione per una disamina sull’antica moralità e il vizio odierno, fino all’antitesi tra la terra e il cielo. All’inizio del canto, ai versi 19-21,  una spettacolare visione celeste: “… tale dal corno che ‘n destro si stende/ a piè di quella croce corse un astro/ de la costellazion che lì resplende”.

Non c’è né il celeste né il blu del firmamento, la raggiera è insolitamente scura, sempre le candide  figure in volo con al centro  delle forme bianche indistinte, su un fondo chiaro che illumina la scena. Siamo al Canto 16°, Cacciaguida ancora protagonista, Dante gli fa delle domande cui risponde parlando della propria famiglia e delle famiglie fiorentine decadute, la terzina ispiratrice è una delle frequenti metafore dantesche: “Come s’avviva allo spirar di venti/ carbone in fiamma, così vid’io quella/ luce risplendere a’ miei blandimenti” (vv.28-30), la trasposizione pittorica è conseguente.

La luce è al centro  anche dell’interpretazione del Canto 17°, ancora in modo metaforico, immersa in un cromatismo verde-azzurro, come per il canto precedente emergeva da una raggiera scura: “La luce in che rideva il mio tesoro/ ch’io trovai lì, si fa prima corrusca,/ quale a raggio di sole specchio d’oro” (vv. 121-123). Si riferisce a Cacciaguida, che scuote Dante con la profezia della persecuzione dei suoi nemici e dell’esilio presso gli Scaligeri, e della fama imperitura che lo attende esortandolo  a raccontare tutto senza esitare, con una grande tensione morale.

Canto 19 °, vv 4-6

 Beatrice  all’inizio del Canto 18° lo riscuote dai pensieri sulla sorte futura a lui profetizzata ricordandogli che la presenza di Dio, riflessa in lei risplendente di luce, fa sopportare e raddrizza ogni torto subito. Cacciaguida presenta le altre anime celebri che sono in una croce luminosa, Giosuè e Maccabeo, Carlo Magno e Orlando, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo, quindi si entra nel cielo di Giove  con coloro che in vita operarono secondo giustizia. L’artista si è ispirato a una delle ultime terzine, idealmente conclusiva di un  incontro così intenso: “O milizia del ciel  cu’ io contempli,/ adora per color che sono in terra / tutti sviati dietro il malo esempio” (vv.  124-126. L’invocazione alla corte celeste di pregare per riportare sulla retta via segue quella sulla giustizia umana che “effetto sia del ciel”. Nell’immagine troviamo la compresenza del blu profondo con il rosso altrettanto intenso e un verde chiaro che dà luce, per esprimere la convivenza dei due motivi, quello celeste, ”la milizia del ciel”, e quello terreno, “il malo esemplo”.

La corona circolare ruotante del canto 14° lo ritroviamo non più nell’azzurro celestiale, ma  in un rosso tendente al rosa al centro, tra un estremo scuro e uno chiaro e luminoso. Siamo al Canto 19°, la terzina ispiratrice è ancora una metafora: “parea ciascuna rubinetto in cui/ raggio di sole ardesse sì acceso/  che ne’ miei occhi rifrangesse lui” (vv. 4-6), ogni anima appare come un rubino acceso dalla luce del sole, che l’artista ha prefigurato con un cromatismo inconsueto. Nell’Aquila che campeggia nel cielo di Giove si trovano le anime luminose unite nella sua figura che diventa un simbolo al di là delle componenti, in una astrazione sempre maggiore dopo le terrene rievocazioni di Cacciaguida, l’Aquila parla della  giustizia di Dio e della dottrina della salvezza, ma non manca “in cauda venenum”, l’invettiva contro i cattivi regnanti che pagheranno nel giorno del giudizio.

Ancora la corona circolare ruotante ma questa volta nel suo colore celestiale nell’immagine del Canto 20° ispirata a una delle prime terzine: “però che tutte quelle vive luci/ vie più lucendo, cominciaron canti/ da mia memoria labili e caduci”  (vv. 10-12). E’ il canto dei Beati dopo l’invettiva dell’Aquila, simbolo della Giustizia nel cui occhio c’è Davide, nel ciglio Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo d’Altavilla, il troiano Rifeo, tra cui due pagani ugualmente beati. Viene data risposta allo sconcerto di Dante per concludere con la predestinazione, la figura appena accennatA dall’artista al centro della sua rappresentazione sembra evocare la giustizia divina.

Canto 21°, vv 31-33

Cambia tutto con l’immagine riferita al Canto 21°, la più “terrena”  tra quelle del Paradiso: un picco   altissimo coperto di verde vegetazione che sembra bucare il cielo, in sostituzione dei lumi evocati dai versi, che si riferiscono alla scala d’oro che si percorre  nella vita contemplativa: “Vidi  anche per li gradi scender giuso/ tanti splendor, ch’io pensai ch’ogni lume/ che par nel ciel quindi fosse diffuso” (v. 31-33). La similitudine immediatamente successiva del movimento delle cornacchie riporta sulla terra, come  l’invettiva di san Pier Damiano contro la corruzione della Chiesa, il picco verde che punta in alto sembra segnare il  passaggio al cielo di Saturno con il richiamo terreno.

Per il Canto 22°  una sorta di ruota  dai forti tratti con figure appena delineate in basso,  siamo fuori dalla visione celestiale, evoca la sfera terrestre con la stessa circolarità ma dalla forma  e  dal cromatismo ben diversi: “Col viso ritornai per tutte quante/ le sette sfere e vidi questo globo/ tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante”  (vv. 133-135). Come è ben diverso il globo terrestre dalle sette sfere nel suo “vil sembiante” a fronte della grandezza dell’universo. La figura dominante è san Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine di cui lamenta la decadenza, come era avvenuto per francescani e domenicani.

I Canti finali, dal 23° al 33°

Dopo le due immagini  “terrene” si torna alla visione celestiale con figure in volo bianche e blu immerse in un celeste chiarissimo quanto mai luminoso. Siamo al Canto 23°, nella terzina ispiratrice “Perché la faccia mia  si t’innamora/ che tu non ti rivolgi al bel giardino/  che sotto i raggi di Cristo s’infiora?” (vv. 70-72) il dolce invito di Beatrice di distogliere lo sguardo da lei per rivolgerlo ai cori dei Beati che si accendono alla luce di Cristo, come i fiori ai raggi del sole, l’immagine esprime nella leggerezza cromatica e delle forme quanto di più spirituale si possa concepire. C’è nel canto il trionfo di Cristo e il trionfo di Maria, fino alla dolce melodia del “Regina coeli”.

Canto 23,°, vv 70-72

Entriamo nel Canto 24°, in un cromatismo più intenso, con il celeste che vira al blu in una esplosione di macchie candide  con un delicato intreccio di linee avvolgenti che evocano l’immagine della terzina ispiratrice: “Così Beatrice, e quelle anime liete/ si fero sapere sopra fissi poli,/ fiammando, volte, a guisa di comete”   (vv. 10-12). Tutto ruota intorno a un asse immobile, gli spiriti beati come costellazioni. Alla preghiera di Beatrice agli Apostoli di porgere  a Dante l’acqua della vita eterna risponde san Pietro e lei lo invita ad esaminare  Dante sulla fede, la prima virtù teologale, sostanza delle cose sperate e argomento di quelle che non si vedono, si parla anche dei miracoli  riscuotendo al termine  l’approvazione del principe degli Apostoli.

Dall’esame sulla fede a quello sulla speranza, la seconda virtù teologale, nel Canto 25°, la terzina ispiratrice è la prima con quella che è stata definita tra le note più umane di tutto il poema in quanto trasforma l’esame in una consacrazione, le note personali sulla sua opera diventano missione universale. : “Se mai costringa che ‘l poema sacro/ al quale ho posto mano e cielo e terra,/ sì che m’ha fatto per molti anni macro” (vv. 1-3). E sebbene sia stato logorato dalla sua nobile fatica è stato posto a bando dalla sua città per l’odio dei concittadini. Per questo l’interpretazione dell’artista è un’immagine da Purgatorio, quasi volesse richiamare la parte che precede del “poema sacro”, mentre la figura bianca protesa in alto, oltre che un’anima penitenziale, può impersonare la “sposa tacita e immota” che appare tra le splendide scene nel poetico esame di Dante sulla speranza.

L’esame di Dante sulla terza virtù teologale, la carità, che segue logicamente nel Canto 26°, rimanda all’oggetto primario dell’amore che la anima, l’infinita grandezza e bontà di Dio al quale tendono le anime. Riprende l’uso pieno della vista, prima simbolicamente annebbiata, mentre si eleva il canto del Sanctus e vede la luce della  prima anima creata da Dio, quella di Adamo che risponde alle sue domande  confidandosi sulla sua permanenza nel paradiso terrestre e sulla lingua. L’artista si ispira alla terzina “Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose/ ne l’eccelso giardino, ove costei/ a così lunga scala ti dispuose”  (vv. 109-111), e rappresenta una scala quasi indistinguibile immersa in un verde veramente terreno, il “giardino” con la bianche sagome delle anime in volo.

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Canto 26°, vv. 109-111

Il  rosso-arancio che vediamo nella parte sinistra del’immagine ispirata al Canto 27°, sembra esprimere i motivi terreni nell’invettiva di san Pietro contro il malcostume di Bonifacio VIII che ha corrotto la Chiesa e l’intera città di Roma superati per il calore dell’amore divino; mentre l’azzurro e il viola, con le sfumature celestiali e gli angeli in volo, rimandano all’intervento salvifico della Provvidenza evocato dall’apostolo, cui fa eco Beatrice:  “e questo cielo non ha altro dove/ che la mente divina, in che s’accende/ l’amor che il  volge e la virtù ch’ei piove” (v. 109-111), è la terzina cui si è ispirato l’artista, il cielo dove si trovano non rientra in altri luoghi celesti ma nell’Empireo dove lo fa girare l’ardente amore e la virtù  che trasmette alle sfere sottostanti. Si sale al Primo Mobile. Anche in questo canto nelle parole di Beatrice c’è la deplorazione dell’umanità corrotta dall’errore e dalla colpa, ma anche la promessa di una nuova stagione di onestà e di giustizia.     

Nel Canto 28°  spicca  un punto molto luminoso insostenibile alla vista e  nove cerchi di fuoco, da quel punto nel quale si trova Dio dipendono il cielo e la natura, i cerchi rappresentano le gerarchie angeliche che a loro volta animano a diversi livelli le sfere celesti secondo principi  collegati alle virtù; il  cielo più grande, il Primo Mobile dove si trovano, corrisponde al cerchio angelico più vicino a Dio. “Li cerchi corporai sono ampi e arti/ secondo il più e il men de la virtude/ che si distende per tutte le lor parti”(vv. 64-66). L’artista interpreta questa terzina ponendo Dante e Beatrice  sulla sinistra al cospetto di una visione non più nel cromatismo celestiale  ma in un’ocra alquanto variegata mentre le bianche sagome in volo mantengono viva la presenza delle anime al di là delle complesse architetture in cui si pongono le gerarchie celesti. Beatrice spiega l’ordine celeste anche rispetto all’ordine del mondo, ma nell’immagine non si stacca da Dante. 

All’opposto trionfa il rosso brillante come non mai nell’interpretazione  della terzina del Canto 29° “La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe,/ quanti son li splendori a chi s’appaia” (vv. 136-138).  La corona circolare da celeste diviene infuocata, percorsa da tratti che sembrano evocare le divisioni e le gerarchie, e il fatto che la luce di Dio mentre irraggia i cieli angelici viene ricevuta in tanti modi diversi  quanti sono i loro splendori, ogni angelo riceve la luce della grazia e il dono della visione di Dio con una intensità differente. Nella spiegazione di Beatrice dell’ordine celeste non manca la rampogna per l’ordine terreno, contro i preti i quali dimenticano che la predicazione deve persuadere ad essere cristiani e i frati impostori che spacciano favole e finte indulgenze alla gente semplice per dei bassi interessi personali.  

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Canto 30°, vv 97-99

L’invocazione del Canto 30°, “O isplendor di Dio, per cu’ io vidi/ l’alto triunfo del regno verace/, dammi virtù a dir com’io il vidi!” (v. 97-99), l’artista sembra farla propria, rappresenta la mirabile elevazione dal turbinio di colori della terra al celeste e al blu iperuranio fino a sollevarsi  in una piramide che raggiunge il cerchio divino posto al culmine, dove arde l’amore divino, nell’’Empireo dove si trovano Dio con gli Angeli e i Beati uniti nell’eterna beatitudine. L’immagine  evoca anche la visione dei fiori, che vediamo intorno a Dante e Beatrice sotto la pioggia  di luce, un “umbrifero prefazio”, come dice Beatrice, una meraviglia inaccessibile alla mente umana. L’occhio spazia dal generale al particolare, nella città celeste ci sono i “corpi gloriosi”, gli scanni dove siedono i giusti, quasi tutti già occupati, vi è il “trono” ancora vuoto in attesa di Arrigo VII, che verrà in Italia per ripristinare ordine e giustizia, ma troverà la terra impreparata e sarà ostacolato dal papa Clemente V, per questo finito poi all’Inferno tra i simoniaci.

E’ l’ultima nota terrena, ora  siamo al Canto 31°,  gli Angeli volano avanti e indietro tra Dio e i Beati  per comunicare  pace e amore, e  scendendo “di banco in banco” con il loro volo  non impediscono  “la vista e lo splendore”,  “… chè la luce divina è penetrante/ per l’universo secondo ch’è degno,/  sì che nulla le puote essere ostante” (v. 22-24). Lo vediamo nelle macchie luminose che costellano la composizione tra il blu e il celeste con grandi squarci bianchi in un’immersione totale nell’Empireo iperuranio.  Viene evocata così l’immensa rosa candida costituita dai santi che si mostrano a Dante  immerso nella contemplazione, passando da un “gradino” all’altro, tra i visi accesi dall’amore e dalla carità. Intanto Beatrice si dilegua, al suo posto c’è san Bernardo di Chiaravalle,  il grande mistico fervente apostolo del culto di Maria, che mostra a Dante Beatrice andata a sedersi sul proprio trono nel terzo gradino, lontanissima da lui che la vede distintamente e le rivolge un elogio riconoscente per i benefici di grazia e di virtù che gli ha dato dandogli speranza e liberandolo dalla schiavitù del peccato. Poi la contemplazione della Vergine per prepararsi alla visione di Dio.

Nel  Canto 32° san Bernardo spiega la disposizione dei beati nella “candida rosa” con al culmine la Vergine e ai suoi piedi Eva,  “vo per la rosa giù di foglia in foglia”, e poi dirimendo del fior tutte le chiome”, fino a  “’l fiore è maturo di tutte le sue foglie”, mentre “da l’altra parte onde sono intercisi/ di vòti  i semicircoli, si stanno/ quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.   Alla sinistra di Maria i credenti nel Cristo “venturo”, alla sua destra i credenti nel Cristo “venuto”,  l’artista rappresenta l’immagine  di Cristo con una grande figura veramente toccante, su uno sfondo che evoca la profondità celeste, il corpo quasi connaturato con le nuvole del cielo. La terzina “Così ricorsi ancora a la dottrina/ di colui ch’abbelliva di Maria,/  come del sole stella mattutina” (vv. 106-108) rimanda a san Bernardo su cui si riflette la luce di Maria, la “vergine madre figlia del tuo figlio” così magistralmente raffigurato dall’artista che anticipa l’inizio sfolgorante dell’ultimo canto. San Bernardo esorta Dante a contemplare la Vergine per prepararsi alla visione di Dio, mentre l’Arcangelo Gabriele intona “Ave Maria, gratia plena…”

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Canto 33, vv. 142-144

Si è giunti  così al punto più alto  del viaggio artistico di Gianni Testa  che accompagna il viaggio poetico di Dante Alighieri: è il Canto 33°, a chiusura della  cantica e dell’intera  Commedia, si apre con l’invocazione di san Bernardo alla Madonna, i suoi accenti sono tali da toccare il cuore ogni volta che si ricordano:“Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’eterno consiglio,…” . L’artista ha interpretato queste parole memorabili con un’immagine che vede la Madonna vicina al vertice celeste con i raggi che partono dalla sua figura sospesa in alto e scendono fino a diventare una grande nuvola che raggiunge Dante, spettatore ammirato; è tra i tanti dipinti non compresi tra quelli in mostra, ma non abbiamo potuto astenerci dal descriverlo – a differenza di tutti gli altri assenti per i quali abbiamo citato soltanto i versi ispiratori non mettendoli in corsivo –  per la straordinaria forza espressiva nella traduzione pittorica dell’invocazione. Il canto si chiude con i versi che ispirano l’artista nella sua conclusione pittorica coincidente con la conclusione poetica: “A l’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disìo e il velle,/ sì come rota ch’igualmente è mossa,/ l’amor che move il sole  e l’altre stelle” (v. 142-145).  Siamo al momento supremo, la contemplazione di Dio cui Dante è pronto essendosi purificato  passando dall’Inferno al Purgatorio poi, di cielo in cielo nel Paradiso  fino alla sommità dell’Empireo. Viene reso con i cerchi concentrici, i “tre giri”,  e la convergenza verso il centro più alto posto al culmine. Rispetto all’immagine ispirata dal Canto 1°  si nota un’analoga convergenza verso l’alto, ma in quella raffigurazione tutto era più marcato, le linee ascendenti come il centro coperto da una macchia rossa, qui tutto è sfumato, il centro è ora scoperto, un bianco ingresso a un infinito  imperscrutabile.

Dove c’era tensione ora c’è pace, la sete di Dio è stata placata, nell’animo si è diffusa l’armonia che regna nei Beati: questo avviene nel cuore del Poeta al termine del viaggio, questo è avvenuto nel cuore dell’artista che lo ha accompagnato, lo abbiamo visto dall’ultima immagine che trascolora, ispirata ai versi conclusivi della Commedia dantesca, questo sentiamo anche dentro di noi dopo la totale immersione pittorica e poetica che abbiamo narrato.

Il racconto del nostro viaggio pittorico e anche poetico nella Divina Commedia termina qui. Ci sentiamo di dire senza presunzione ma come moto spontaneo, che la riteniamo  un’opera  meritevole di essere associata  al testo dantesco nelle scuole e nei “Dantedì” da poco istituiti. Sarebbe un bel modo perché il 7° centenario di Dante lasci un segno nell’immaginario collettivo oltre che nel mondo degli appassionati alle “lecturae Dantis”.   

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Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. I primi tre articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 23, 25, 29 marzo 2022. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 24°, vv. 10-12

Foto

Le immagini dei dipinti del Paradiso sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice o prese dal Catalogo Si ringrazia Chiara Testa, insieme all’Editore e a Gianni Testa, l’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri del Purgatorio nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro del Paradiso ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 1° vv. 88-90, seguono, Canto 3° vv 88-90 e Canto 8° vv 16-18; poi, Canto 10° vv. 139-141, e Canto 14° vv 31-33; quindi, Canto 15° vv 70-72 e Canto 17° vv 121-123; inoltre, Canto 19 ° vv 4-6 e Canto 21° vv 31-33; ancora, Canto 23° vv 70-72 e Canto 26° vv 109-111; conrinua, Canto 30° vv 97-993, e Canto 33 vv. 142-144; infine, Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici e Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto Canto 24° vv. 10-12; in chiusura, L‘artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14° vv. 31-33 del Paradiso.

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L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14°, vv. 31-33 del Paradiso

Gianni Testa, 3. Le anime penitenti nell’ascesa del Purgatorio, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Passiamo al Purgatorio dopo aver percorso le 34 “stazioni” dell’Inferno dantesco nella mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto. Sono 33 dipinti anch’essi, come per le altre Cantiche, riferiti ciascuno a una terzina ispiratrice. Si possono acquistare due stampe numerate fino a 100. Curatrice della mostra Chiara Testa, che l’ha realizzata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale con riproduzioni dei dipinti corredate dall’ inqudramento dei Canti e dai versi ispiratori, in una cornice nera che ne fa risaltare l’intenso cromatismo.

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Canto 3° vv. 58-60

Le  33 rappresentazioni del  Purgatorio esprimono il senso di liberazione dopo i recessi corruschi dell’Inferno, con la luce, i colori e l’apertura degli spazi dove  si muovono Dante e Virgilio. Nelle sue plaghe si purgano i peccati commessi dei quali coloro che scontano la pena si pentono sinceramente. Nella nostra carrellata, i versi ispiratori dei quadri esposti sono in corsivo, i versi in tondo per lo più hanno ispirato altri dipinti dell’artista non esposti.

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Con l’Antipurgatorio, nella prima immagine dell’artista ci sono i colori rossastri, l’Inferno è ancora vicino: la barca dove si trovano Dante e Virgilio si muove nelle acque agitate con gli spruzzi che li bagnano mentre seduti sono impegnati a  reggersi per restare a bordo.  Si ispira ai versi iniziali del Canto 1°, visualizzandone la similitudine: “Per correr miglior acque alza le vele/ ormai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro di sé mar sì crudele” (vv. 1-3).   Poi viene l’incontro con Catone, simbolo di integrità morale, penitente per il suicidio cui ricorse nell’anelito di libertà.  

Nel  Canto 2°,  con i peccatori per vanità, una navicella porta le anime biancovestite, c’è un grande angelo con le ali aperte ad accoglierle sulla riva, le guardano due figure, una eretta vestita di bianco, l’altra di marrone accoccolata a terra, potrebbero essere  Dante e Virgilio che hanno dismesso i panni blu e rosso, così in Dante si ha la piena immedesimazione con le anime. Casella intonerà poi  il  canto. “amor che nella mente mi ragiona”, con le parole del “Convivio” dantesco,  fino al brusco richiamo di Catone “Che è ciò, spiriti lenti?”.  Questi i versi del Poeta che hanno ispirato l’artista: “Da poppa stava il celestial nocchiero,/ tal che faria beato pur descripto;/ e più di cento spirti entro sediero” (vv. 43-45). 

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, Canto 5° vv 22-24

Entriamo  ancora di più nel vivo con il Canto 3°, vi sono i defunti per morte violenta che  non si sono potuti pentire e gli scomunicati, una lunga schiera di anime biancovestite: “da man sinistra m’apparì una gente, che movieno o piè ver’ noi,/ e non pareva, sì venian lente” (vv. 55-60). L’immagine ne dà una visione corale di grande intensità, la fila di penitenti sul crinale del monte guidata dall’angelo dall’alto, li guardano Dante e  Virgilio che si rivolge a loro con le parole “ben finiti, spiriti eletti”. Dopo si parlerà del peccato originale, di Aristotele e Platone, ci sarà  l’incontro con gli scomunicati, tra cui  Manfredi, “nipote di Costanza imperatrice”, che  rivela come in punto di morte si rivolse “a quei che volentier perdona”, e il suo appello alla misericordia divina lo salvò dalla pena infernale.

Nel Canto 4° – dove di trovano i negligenti che sono stati sorpresi dalla morte prima di confessarsi –   l’artista non si è ispirato direttamente ai versi 31-33 “Noi salivam per entro il sasso rotto,/ e d’ogni lato ne stringea lo stremo,/ e piedi e man volea il suol di sotto”, tanto che Dante e Virgilio sono quasi indistinguibili, ma a una terzina più avanti: “ch’a lui fu giunta alzò la testa  appena,/ dicendo: ‘Hai ben veduto come il sole / da l’omero sinistro il carro mena?” (vv. 118-120) e non poteva essere altrimenti: l’immagine, infatti,  rappresenta  un sole rosso sulla sinistra  di una montagna aguzza, e ha colpito l’artista più che l’ascesa pura e semplice, inoltre evoca le questioni astronomiche del  canto, con i penitenti idealmente presenti in tracce bianche anche nel cielo.

La natura trionfa nei suoi colori, dal verde della vegetazione al  bianco luminoso dei raggi del sole che bucano le rosse nuvole nell’incontro con le anime di altri negligenti verso Dio che hanno subito ingiurie, sono stati vendicativi ma nel morire  di morte violenta solo all’ultimo si sono pentiti e hanno perdonato, chiedono  a Dante e Virgilio  di ricordarli ai congiunti  appena tornati nel mondo.  E’ il Canto 5°, “E ‘ntanto per la costa di traverso/ venivan genti innanzi a noi un poco,/ cantando ‘Miserere’ a verso a verso” (vv. 22-24).  Poi sentiranno  “io fui da Montefeltro, io son Bonconte”,  una voce che confida  la sua tragica fine  nella consolazione del  perdono divino,   fino alla tenera espressione  “Ricorditi di me che son la Pia” seguita dal ricordo nefasto “Siena mi fe’, disfecemi Maremma”. Le emozioni continuano, mnemoniche e visive, nello scorrere la galleria pittorica.

Canto 8° vv 22-24

Nel Canto 6°, ancora con i peccatori di negligenza morti tragicamente che per vendicarsi hanno omesso di confessare i loro peccati, un penitente si rivolge a Virgilio con il sole che  continua a dardeggiare i suoi raggi nella sinfonia di colori caratteristica dell’artista: ”Surse vér lui del loco ove pria stava/, dicendo : ‘O Mantovano, io son Sordello/ de la tua terra !’E l’un l’altro abbracciava” (vv. 73-75). Segue la denuncia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta…”..

Torna la splendida moltitudine nel Canto 7° – sono sempre negligenti, questi hanno indebitamente tardato di confessarsi – le anime biancovestite ritratte in basso protese,  con  Sordello che  si offre come guida, nel tripudio della natura: “’Salve Regina in sul verde e ‘n su’ fiori,/ quindi seder cantando anime vidi,/ che per la valle non parean di fori” ( vv. 82-84). Ci sono i principi e i sovrani, anch’essi negligenti, ne viene ricordata la vita, sono citati gli avi e i successori.  Sembra di intravvedere Nino de’ Visconti e Malaspina risplendenti nel  loro biancore quasi in punta di piedi in una enclave rocciosa sotto un cielo nel quale appare l’azzurro con figure fluttuanti di angeli in volo.

Le bianche figure sono erette su un pianoro circondato da monti nell’immagine  del Canto 8°, che inizia “Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e  ‘ntenerisce il core”. L’artista si ispira ai versi: “Io vidi quello esercito gentile/ tacito poscia riguardare in sue,/ quasi aspettando, palido e umile” (v. 22-24). Si vede che ne arrivano molti in una lunga teoria in dissolvenza, scontano la negligenza di aver trascurato i loro doveri morali, come la confessione,  per l’esercizio del potere o per avidità.  Nel canto sono protagonisti Nino Visconti, Corrado Malaspina, e soprattutto le tre virtù teologali..

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Canto 10° vv 73-75

Ed ecco, terminato l’Antipurgatorio, si apre la porta del Purgatorio, in uno sfondo bianco e celeste. Siamo al  Canto 9°,  approdano su una barchetta  in un ambiente raccolto,  protendono le braccia in un saluto al grande angelo che dinanzi alla porta che si vede dopo alcuni scalini, ha le ali aperte  come in un abbraccio: “…in sogno mi parea veder sospesa/ un’aguglia nel ciel con penne d’oro,/ con l’ali aperte e a calar intesa” (v. 19-21). L’artista è colpito da questi versi premonitori, e nella sua interpretazione unisce la visione del sogno all’arrivo che il Poeta descrive nei versi 76-77 dicendo”… vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa…”.

C’è un’altra immagine, ancora più aperta e luminosa, per il  Canto 10°: come nell’Inferno ritroviamo i  suoi splendidi “bradi “, ma qui sono come nuvole bianche con dei cavalieri, riproducono una delle storie scolpite su dei bassorilievi nello zoccolo roccioso, quella di Traiano imperatore, con delle colonne sullo sfondo,  mentre  Dante e Virgilio ammirano la scena spettacolare: “Quiv’era storiata l’alta gloria/ del roman principato, il cui valore/ mosse Gregorio e la sua gran vittoria” (vv. 73-75)  è la terzina ispiratrice, ma di certo si è aggiunta anche quella appena successiva dei versi 79-81: “Intorno a lui parea calcato e pieno/ di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro/ sovr’essi in vista al vento si movieno”.  Siamo nel primo girone del Purgatorio, con i superbi, la lunghezza della pena è commisurata al peccato di vanità, ci sono anche esempi preclari di umiltà. .

Luminosa nella metà superiore con un cielo dall’azzurro variegato di bianco tendente all’arancio l’immagine del Canto 11° nel quale ci sono i superbi per vanagloria, tra cui Liberto da Santafiore e il senese Provenzano Salvani.  La parte inferiore  è una terra brulla che si innalza  in una rupe sotto la quale si intravedono appena delle figure quasi compenetrate in essa  cui si rivolgono Dante e Virgilio visti da dietro. La terzina ispiratrice,  “Oh vana gloria de l’unmane posse com’ poco verde in su la cima dura,/ se non è  giunta da l’etati grosse!”(vv. 91-93) si riferisce alla caducità del successo, Cimabue fu oscurato da Giotto, Guinizelli da Cavalcanti, il “poco verde” è usato in senso metaforico, e la sua assenza totale nel dipinto ne è la trasposizione pittorica, come lo è la compenetrazione delle figure nella terra fino quasi a scomparire, altro che “lumane posse”.

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Canto 11° vv 91-93

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Dal celeste con bianco-arancio al blu molto intenso che scolora nel bianco nel Canto 12°,  nel girone  sono puniti i superbi presi dalla vanità delle glorie mondane. condannati a portare dei pesi sulle spalle: “Di pari, come buoi che vanno a giogo,/ m’andava io con quell’anima carca,/ fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo” (vv. 1-3).  Dante non affianca più Oderisi da Gubbio che sconta la sua superbia con il carico opprimente ma guarda, con Virgilio, i  penitenti raffigurati nel suolo, ne vediamo  tre con i carichi e due stremati a terra, sono tra le poche figure restate “umane” ritratte dall’artista. L’ambiente sembra scolpito, con la parete rocciosa di un intenso cromatismo rossastro scuro, e la grande fenditura in cui entrano il blu e il bianco altrettanto intensi, il suolo chiaro come le figure, anche qui in una  compenetrazione cromatica significativa, anzi simbolica.

La già intensa tempesta cromatica si accentua, sopra alla mesta teoria di penitenti chini e incappucciati, che non hanno sembianze umane, anime protese nell’ascesa lenta ma continua, le figure di Dante e Virgilio che sembrano attenderli più in alto sono appena percepibili. Siamo  nel  Canto  13°, dove si trovano gli invidiosi. Nei primi tre versi si legge “Noi eravamo al sommo de la scala/ dove secondamente  si risega/ lo monte che, salendo, altrui dismala”, nei versi 58-60 “Di vil cilicio mi parean coperti,/ e l’un sofferìa l’altro  con la spalla,/ e tutti da la ripa eran sofferti”, tutto questo è reso nel dipinto che però  si ispira direttamente a un’altra terzina sempre descrittiva ma più personale: “Allora più che prima li occhi apersi;/ guarda’mi innazi , e vidi ombre con manti/ al color de la pietra non diversi”  (vv. 46-49).

Fa quasi “pendant” con questo cromatismo, quello  dell’immagine del Canto 14°, con ancora gli invidiosi tra cui Rinieri  da Calvoli.  Sullo sfondo della tempesta rossa e corrusca con squarci bianchi, si vede uno specchio d’acqua dove spiccano due grandi forme indistinte agli estremi: “infin la ve’ si rende per ristoro/ di quel che ‘l ciel de la marina asciuga,/ ond’hanno i fiumi ciò che va con loro” (vv.34-36). Si tratta dell’acqua dei fiumi che va alla foce per gettarsi nel mare e dargli “ristoro” compensando ciò che gli viene tolto dall’evaporazione causata dai raggi del sole. Un procedimento naturale al quale potrebbero alludere in modo criptico le forme indistinte.

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Canto 12° vv 1-3

Ancora più netto il contrasto di masse cromatiche avvolgenti per il  Canto 15°,  con chi si è fatto attrarre troppo dai beni terreni,  Dante e Virgilio – in basso a destra nel dipinto –  sono separati dal piccolo gruppo di penitenti alla metà della composizione. L’artista si ispira ai versi che  ricordano la lapidazione di Santo Stefano da parte della folla adirata, il santo potrebbe identificarsi nella piccola figura in alto: “Poi vidi genti accese in foco d’ira/ con pietre un giovinetto ancider, forte/ gridando   a sé pur: ‘Martira, martira!” (v. 106-108).

Nel  Canto 16°,  dove sono gli iracondi, con Marco Lombardo,  avvolti nel fumo, l’artista rappresenta la grande croce nel cielo che in una intensa sinfonia cromatica sovrasta Dante e Virgilio con gli occhi rivolti in alto: “Io sentia voci, e ciascuna pareva/ pregar per pace e per misericordia/ l’Agnel di Dio  che le peccata leva” (vv. 15-19) è la terzina di riferimento. I versi successivi, 25-27,  completano la scena: “Poi  piovve dentro a l’alta fantasia/ un crocifisso, dispettoso e fero/ ne la sua vista, e cotal si morìa” (vv. 25-27). E’ la punizione del ministro persiano che preso dall’ira condannò alla crocifissione un ebreo, perché non aveva adorato il Re, e i correligionari, poi fu crocifisso lui dal Re con un atto di giustizia  riparatrice. Si condanna la corruzione morale e politica.

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Canto 16° vv 16-18

Una figura che li guarda molto dal basso in una invocazione con le braccia aperte è nel dipinto del Canto 17°, nel girone dei colpevoli di ira punita, per converso segue l’Angelo della Pace e la dottrina dell’amore, principio di ogni virtù. Sull’alta rupe che sovrasta la figura invocante si vedono le sagome piccolissime di Dante e Virgilio con sullo sfondo il tramonto descritto nella terzina che ha ispirato l’artista: “e fia la tua imagine leggera/ in giugnere a veder com’io rividi/ lo sole in pria, che già nel corcar era” (vv. 7-9).

Ai piedi di alberi dai rami spogli li vediamo nel Canto 18° dove viene punita, anzi “purgata”, l’accidia: “Poi, come  l’foco movesi in altura/ per la sua forma  ch’è nata  a salire/ là dove più in sua matera fura” (vv. 28-30) sono i versi ispiratori. La metafora della tensione dello spirito verso l’alto come il fuoco la vediamo  tradotta negli alberi altissimi con il fuoco che sale, in un impasto cromatico particolarmente intenso.

Distesi sul terreno i penitenti del Canto 19°, tra le poche figure umane ritratte, che Dante e Virgilio guardano vicino a loro, scontano  la penitenza per l’avarizia o prodigalità, mescolati alla terra da cui non hanno saputo liberarsi. L’immagine lo rende con la coloritura giallastra in un ambiente desertico: “Sì come l’occhio nostro non s’aderse/ in alto, fisso a le cose terrene,/ così giustizia qui a terra  il merse” (v. 118-120). Poco dopo,  l’incontro con Ottobuono de’ Fieschi, divenuto  papa  Adriano V, si rese conto che i beni mondani sono ingannevoli e la felicità è data solo dai beni spirituali, il suo papato fu brevissimo, di 38 giorni.

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Canto 17 °, vv 7-9

Ancora gli avari e i prodighi  nel Canto 20°,  torna il clima tempestoso, masse cromatiche si incrociano, chiare ma agitate sulla sinistra, scure e distese sulla destra, in primo piano degli arbusti in una  desolata solitudine, con al margine le sagome minuscole di Dante e Virgilio. La terzina ispiratrice evoca  Carlo d’Angiò che, catturato  dopo una battaglia navale, fa sposare sua figlia per interesse a un marchese ricchissimo: “L’altro, che già uscì preso di nave,/ veggio vender sua figlia e patteggiarne,/ come fanno i corsar de l’altre schiave” (v. 79-81).. Sono ricordati  nel canto i misfatti di Carlo di Valois e di Filippo il Bello, i casi di avarizia puniti di Mida e Licinio Crasso, Eliodoro e Pigmalione, finché un  terremoto scuote il suolo,  le anime allora cantano un inno in gloria di Dio.

La sete di conoscenza di Dante viene soddisfatta nel Canto 21°, l’immagine dell’artista  è  ancora densa di masse cromatiche, nel girone ci sono i penitenti per prodigalità, ed è dominato dalla figura di Stazio che spunta fuori all’improvviso  “già surto fuor de la sepulcral buca / ci apparve un’ombra, e dietro a noi venia,/ dal piè guardando la turba che giace” (vv. 9-11), si vedono figure distese a terra. Il suolo si muove quando un’anima ha terminato la sua espiazione, ed è Stazio, che si dichiara discepolo di Virgilio senza averlo riconosciuto, fino all’”agnitio” in umiltà reciproca.

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Canto 19° vv 118-120

Torna la scalinata, contornata di bianco con l’azzurro del cielo sulla sinistra,  nell’immagine sul  Canto 22°, ai piedi della quale ci sono Dante e Virgilio, con dei rami leggeri che fanno da cornice in primo piano: “E io più lieve che per l’altre foci/ m’andava, sì che senz’alcun labore/ seguiva in su li spiriti veloci” (v. 7-9), si parla delle beatitudini, in particolare della temperanza, con l’Angelo che la impersona,  e la scala che sale verso l’alto sembra evocarle.

I Canti finali, dal 23° al 33°

Nel Canto 23°  le candide figure dei penitenti – questa volta i golosi tra cui l’amico di un tempo, Forese Donati, irriconoscibile per la magrezza della pena – sono in un ambiente quasi terreno, una radura amena, dietro una rupe, attraversata da un rivolo bianco, con un albero e l’azzurro del cielo.

Rende visivamente i versi: “Chi crederebbe che l’odor d’un pomo/ si governasse, generando brama,/ e quel d’un’acqua, non sappiendo como?” (v. 34-36): odori, frutta, acqua, gli umori della natura, l’essere umano è stato evocato nei versi che precedono,  “chi nel viso de li uomini legge ‘omo’/ben avria quivi conosciuta l’emme”, con gli zigomi uniti dalle sopracciglia a formare la “m”.

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Canto 22° vv 7-9

La terzina ispiratrice del  Canto 24° , sempre con i golosi, si riferisce a Firenze: “Però che ‘l loco u’ fui a viver posto,/ di giorno in giorno più di ben si spolpa,/ e a trista ruina par disposto” (vv. 79-81). Il responsabile della  “ruina” della sua città natale è Corso Donati, capo dei Guelfi neri,  di cui viene prefigurata da Forese Donati la morte violenta.  Al  centro della scena Dante e Virgilio con un corpo disteso a terra, l’atmosfera è cupa nel cromatismo scuro mentre in alto l’azzurro con squarci bianchi è percorso da misteriose forme oscure quasi presagio di sventura. Poi ci sarà l’incontro con Bonaggiunta, che riconosce in Dante l’autore  dei versi  “Donne ch’avete intelletto d’amore”, inizio della “Vita nova” e parla con lui dello “stil novo”; e  anche celebri esempi di gola punita

Una apertura luminosa di bianco e celeste tra due rupi, con un  lago dalle acque arrossate su cui passa una barchetta di penitenti, mentre  Dante e Virgilio si fermano, alle prese con la difficoltà del cammino: è  il Canto 25°, l’ispirazione viene dalla terzina“E già venuto a l’ultima tortura/ s’era per noi, e volto a la man destra,/ ed eravamo attenti ad altra cura” (v. 109-111).  Prima di questo momento che precede l’incontro con i lussuriosi, c’è stata la lunga disquisizione di Stazio sull’evoluzione dell’essere umano, fino alla trasmigrazione dell’anima nel luogo assegnato da Dio.

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Canto 25° vv 109-111

Sono  su una grande rupe all’inizio del  Canto 26°,  continuano le difficoltà, dalla “tortura” (la cornice), all’ “orlo”, con i consigli di Virgilio: “Mentre che sì  per  l’orlo, uno innanzi altro,/ ce n’andavamo, e spesso il buon maestro/ diceva: ‘Guarda: giovi ch’io ti scaltro’” (vv. 1-3). Sorge il sole e rischiara un lato della rupe, il resto ancora in ombra è il lato oscuro dopo gli squarci luminosi visti in precedenza. I lussuriosi incontrano i sodomiti, si rievocano Sodoma e Gomorra,  e Pasifae, poi il tono si eleva incontrando lo stilnovista Guido Guinizellii e il provenzale Arnaldo Daniello.

Nel Canto 27° torna la scalinata dove salgono i penitenti nelle loro sagome bianche tutte uguali, questa volta Dante e Virgilio li attendono al culmine, lo sfondo è di un blu variegato con grandi squarci bianchi, la terzina ispiratrice contiene altri particolari : “’Lo sol sen va, soggiunse, ne vien la sera; / non v’arrestate, ma studiate il passo,/ mentre che l’occidente non si annera’” (vv. 61-63). E’ una voce che li esorta  a procedere verso la sommità del monte, hanno incontrato l’Angelo della castità, e attraversato il muro di fuoco, li aspetta l’Eden e si avvicina il commiato di Virgilio.

Si entra nell’Eden con il Canto 28°, l’artista è ispirato dalla prima terzina “Vago già di cercar  dentro e dintorno/ la divina foresta spessa e viva,/ ch’a li occhi temperava il novo giorno” (vv. 1-3) e rappresenta  la foresta incantata con un tripudio luminoso che accoglie Dante e Virgilio. Ci sarà poi il fiume da non oltrepassare e la dolcissima fanciulla, Matilda, che al di là del fiume gli parla di quel nuovo luogo e scioglie i suoi dubbi, gli dice che il fiume Lete dà l’oblio del peccato e che forse l’età dell’oro preconizzata è proprio l’Eden, il paradiso terrestre.

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Canto 27° vv 61-63

Luminosità e verde splendente nell’interpretazione del paradiso terrestre da parte dell’artista per il Canto 29°,  c’è la processione delle bianche figure dei penitenti nel tripudio della natura: “dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,/ ci si fe’   l’aere sotto i verdi rami;/ e ‘l dolce suon per canti era già inteso“ (v. 34-36), il Poeta invoca le Muse per “forti cose a pensar metter in versi”, avanza un carro trionfale con il grifone. Dante e Virgilio tendono le braccia dinanzi a tale  spettacolo, le strisce rosse sono simbolo della carità, il bianco della fede, il verde della speranza, 

L’atmosfera si fa celestiale nell’immagine per il Canto 30°, bianche figure in volo con le ali aperte,  sono gli angeli che accompagnano Beatrice mentre scende dal cielo, Virgilio scompare, la sua missione è terminata, Beatrice è la nuova guida di Dante e inizia subito a rimproverarlo per le sue deviazioni dalla retta via, poi: “Ella si tacque e li angeli  cantaro/  di subito ‘In te, Domine, speravi’:/ ma oltre’pedes meos’ non passaro” (vv. 82-84), è un salmo sulla misericordia di Dio .

Dagli angeli in volo alle ninfe del Canto 31°, che ispirano l’artista in una immagine in cui la dominante verde dell’intenso cromatismo è interrotta da un rivolo bianco che separa la scena in due parti, a destra l’ospite, a sinistra quattro figure candide: “’Noi siam qui ninfee nel ciel siamo stelle;/ pria che Beatrice discendesse al mondo,/ fummo ordinate a lei per sue ancelle” (vv. 106-108). Oltre questa interpretazione pittorica, il viaggio poetico continua con Beatrice che non smette di ricordare a Dante i suoi errori, lui si pente e si sente mancare, poi  ecco Matilde e l’immersione purificatrice nel Lete, le 4 virtù morali e le 3 virtù teologali, fino al disvelamento di Beatrice.

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Canto 33, vv. 88-90

L’albero di Adamo, dove si dirige “la santa schiera”, è al centro del Canto 32° come simbolo sia della storia dell’uomo che di quella della Chiesa dopo il peccato originale: “Io sentì mormorare atutti; ‘Adamo’,/ poi cechiaro una pianta dispogliata / di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo” . (vv. 37-39) . Viene interpretato dall’artista in una intensa raffigurazione proiettata verso l’alto, con Dante quasi connaturato nella sostanza terrena che sembra elevarsi verso un cielo anche qui con la dominante verde tra bagliori luminosi. Avviene di tutto intorno all’albero, dove restano Dante, che  si addormenta al canto dei beati,  e Beatrice circondata da sette donne; irrompono animali fino a un drago, nel dipinto c’è un qualcosa di recesso e misterioso, è l’ultimo di sapore terreno.

Siamo alla raffigurazione finale, sul Canto 33°   conclusivo della Cantica, porta già “in più spirabil aere”, la figura di Dante  emerge dall’ombra con lo sfondo di un cielo sfolgorante di azzurro e di un bianco luminoso dove angeli in volo emergono dalle nuvole, una vera liberazione: “e veggi vostra via da la divina/ distar contanto, quanto si discorsa/ da terra il ciel che più alto festina” (vv. 88-90), la scienza umana distante dalla sapienza divina come la terra dal cielo, Ci saranno i quattro fiumi del Paradiso, e Dante potrà elevarsi verso il cielo della terza Cantica, dopo la richiesta di Beatrice di scrivere ciò che ha visto e un nuovo bagno purificatore, questa volta nell’Eunoè. Così è “puro e  disposto a salir alle stelle”.

Ed è disposto a salir alle stelle anche chi ha ripercorso il viaggio del Poeta attraverso le immagini dell’Artista attraversando le plaghe del Purgatorio come prima ha fatto con i recessi corruschi dell’Inferno. Lo aspettano, anzi ci aspettano, le stelle dell’infinito, con l’incommensurabile che l’artista interpreta visivamente in una “missione impossibile” che  diviene “missione compiuta”. Lo vedremo prossimamente con la nostra narrazione dantesca che  attraverserà i cieli del Paradiso fino a  raggiungere il culmine, l’Empireo, nella magica trasposizione pittorica di Gianni Testa.

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Purgatorio, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 23 e 25 marzo 2022, prossimamente l’ultimo articolo. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Purgatorio, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 2° vv 43-45

Foto

Le immagini dei dipinti del Purgatorio sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice o prese dal Catalogo Si ringrazia Chiara Testa, insieme all’Editore e a Gianni Testa, l’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri del Purgatorio nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro del Purgatorio ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 3° vv. 58-60, seguono, Canto 5° vv 22-24 e Canto 8° vv 22-24; poi, Canto 10° vv 73-75, e Canto 11° vv 91-93; quindi, Canto 12° vv 1-3 e Canto 16° vv 16-18; inoltre, Canto 17 ° vv 7-9 e Canto 19° vv 118-120; ancora, Canto 22° vv 7-9 e Canto 25° vv 109-111; conrinua, Canto 27° vv 61-63, e Canto 33, vv. 88-90; infine, Purgatorio, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici, e Purgatorio, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto Canto 2°, vv. 43-45; in chiusura, L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 27° vv. 61-63 del Purgatorio.

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L’artista Gianni Testa nella casa.-atelier mostra il suo quadro del Canto 27° vv. 61-63 del Purgatorio

Gianni Testa, 2. I recessi corruschi dell’Inferno, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto, cominciando dall’ Inferno: 34 dipinti con la forte intensità cromatica e materica propria dell’artista, ciascuno riferito a una terzina ispiratrice che viene indicata espressamente. E’ possibile acquistare due stampe numerate fino a 100. La mostra è organizzata da Chiara Testa, che l’ha anche curata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale, una straordinaria galleria dal forte cromatismo con il fascino della cornice nera e l’inquadramento nei Canti e nei versi ispiratori.

Canto 8°, versi 112-114

Raccontare la mostra – dopo averla inquadrata nel suo alto valore simbolico e artistico con riferimento all’eccezionalità del suo contenuto e delle sue motivazioni a chiusura del 7° centenario dalla morte di Dante – è come ripercorrere il viaggio dantesco degli anni di scuola attraverso i dipinti evocativi con i versi ispiratori che rappresentano vere e proprie didascalie, autore addirittura il sommo Poeta.

Ma non è solo emozione retrospettiva: nei due terzi dei dipinti sull’Inferno c’è una dominante rossa che incombe sulle figure di Dante e Virgilio, e su quelle ancora più inermi dei dannati quando emergono dai recessi corruschi. Il pensiero va alle immagini quotidiane delle esplosioni dei missili e delle bombe sulle popolazioni delle città ucraine, lo stesso rosso violento sugli inermi, è come se l’artista avesse dipinto l’inferno di oggi.

Cominciamo dall’Inferno la nostra carrellata dantesca sui 34 dipinti con i versi ispiratori in corsivo, mentre gli altri versi in tondo hanno per lo più ispirato ulteriori dipinti dell’artista che espone un solo dipinto per Canto.

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Si inizia con l’ingresso di Dante, apertosi il varco tra un  intreccio  arboreo  con i colori che si avviluppano come liane;  al di là dell’apertura  ancora rischiarata dalla luce si sentono risuonare i  versi del  Canto 1°: “Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura/  ché la diritta via era smarrita” (vv. 1-3). Poi, mentre crede di poter ritrovare la giusta direttrice sul colle della purificazione, tre belve lo ostacolano e Virgilio, espressione della ragione, gli preannuncia che gli farà da guida in un lungo percorso, tra i dannati e i penitenti.  

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Canto 2°, vv 70-72

L’angosciosa oscurità della selva è rotta come per incanto da  un’immagine luminosa, “I’ son Beatrice che ti faccio andare;/ vegno del loco ove tornar disio:/: amor mi mosse, che mi fa parlare” (vv. 70-72): è il Canto 2°, la dolce figura femminile  ha le braccia  aperte nella sua bellezza eterea, il Poeta  la guarda trasognato mentre è circonfusa  di un cerchio di luce  tra il rosso incombente che accende il buio tutt’intorno di  bagliori fiammeggianti. E’ stata Beatrice a chiedere a Virgilio di accompagnare Dante, per il volere della Vergine Maria e l’intercessione di Santa Lucia.

Con la terza immagine la scena cambia, “Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: ‘Guai a voi, anime prave!’” (vv. 82-84). E’ il Canto 3°,  “Caròn dimonio dagli occhi di bragia” è  ritratto  in piedi sulla sua barca  mentre  i dannati  aspettano in lontananza di essere traghettati sul fiume Acheronte,  in un clima tempestoso, cupo e infiammato. Ci sono gli ignavi, con Celestino V, “che per viltade fece il gran rifiuto”, poi un terremoto scuote la terra.

Siamo ora al Canto 4°, il Poeta svetta con lo sguardo proteso su un panorama di anime vaganti, un’immagine spettacolare e nel contempo di grande intensità: “…e l’occhio riposato intorno mossi/ diritto levato, e fiso riguardai/ per conoscer lo loco dov’ io fossi” (vv. 4-6): è nel Limbo, dall’alto vede l’espressione del  “duol senza martiri” di chi “non aveva pianto mai che di sospiri”; tra le piccole figure che si muovono in basso ci sono  Omero e Orazio,  Ovidio e Lucano.

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Canto 3°, vv 82-84

E’ ’ sempre ritto come una statua nel  Canto 5°,  in un forte cromatismo contrastato tra il rosso  e il blu,  il bianco e l’azzurro. L’artista è ancora colpito dai versi che descrivono l’angoscia suscitata dall’ambiente infernale, “Io venni  in luogo d’ogni luce muto,/ che mugghia come fa mar per tempesta/ se da contrari venti è combattuto” (vv. 28-30). E’ il cerchio dei lussuriosi, ci sono Achille ed Elena, Cleopatra e Didone, e soprattutto Paolo e Francesca. L’artista non ritrae “quei due che ‘nsieme vanno/ e paiono sì al vento esser leggieri”,  ma li fa sentire con forme fluttuanti  che si intravedono in volo nell’atmosfera corrusca;  mentre il  Poeta non cade subito “come corpo morto cade”,  intanto si copre gli occhi perché non regge alla vista dopo la loro storia, come Ulisse si chiuse le orecchie per resistere al  canto delle sirene.

 Nel Canto 6°, “Cerbero, fiera crudele e diversa,/ con tre gole caninamente latra/ sopra la gente che quivi è sommersa” (vv. 13-15), è il cerchio dei golosi, il Poeta con Virgilio guarda, oltre a Cerbero,  abbacinato dalla luce in uno scenario di fuoco, uno dei peccatori a terra che gli dice “riconoscimi, se sai….”: è un fiorentino irriconoscibile nel fango, che gli parla della condanna all’Inferno dei politici della sua epoca e gli rivela il proprio nome nei versi 52-54: “Voi cittadini mi chiamaste Ciacco;/ per la dannosa colpa della gola,/ come tu vedi alla pioggia mi fiacco”.

Dai golosi ai prodighi e avari nel Canto7°,  con Pluto di guardia all’ingresso che spaventa Dante ma viene fatto tacere da Virgilio, non è questo che ispira l’artista e neppure i grossi massi che i dannanti devono rotolare, bensì i versi “ E io, che di mirare stavo inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso” (v.v 109-111)Di qui le figure femminili rappresentate nude con i piedi nell’acqua che suscitano tenerezza per il pudore e la ricerca di calore stringendosi le une alle altre, le loro tinte delicate contrastano con il forte cromatismo che incombe sulla scena.   

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Canto 4°, vv 4-6

Dopo i prodighi e gli avari, ecco gli iracondi nel Canto 8°, ci sarà  Flegiàs, il traghettatore infernale che accetta di portare Dante e Virgilio nella sua barca sulla palude di Stige, e un cavaliere fiorentino, “messer Filippo Argenti” che cercherà di aggrapparsi alla loro barca e viene così descritto nel versi 52-54: “… Maestro, molto sarei vago/ di vederlo attuffare in questa broda / prima che noi uscissimo da lago”. L’artista si riferisce ad altri versi, “Udir non potti quello ch’a lor porse;/ ma ei non stette là con essi guari,/che ciascun dentro a pruova si ricorse” (vv. 112-114), e rappresenta la barca con sopra Dante in una stupenda distesa azzurra, senza entrare nel complicato dialogo tra Virgilio – che spiega come il poeta sia lì per volere divino – e chi non vuole  credergli ostinato nel male.

L’artista è colpito dall’apertura del Canto 9°, ”Quel color che viltà di fuor mi pinse/ veggendo il duca mio tornare in volta,/ più tosto dentro il suo novo ristrinse” (vv. 1-3), con la figura pallida del Poeta atterrito dai diavoli che vorrebbero impedire loro di proseguire entrando nella città di Dite, e Virgilio che si era allontanato torna indietro e lo rassicura. C’è l’apparizione  delle tre Furie, con la minaccia della Medusa, un  magma materico piove sul Poeta, questa volta lontano dalla sua guida.

Nel  Canto 10° vengono rappresentati di nuovo insieme, anzi per sottolineare lo scampato pericolo del distacco, figurano stretti l’uno all’altro mentre guardano dall’alto un fiume  rosso infuocato incanalato tra due rupi, che travolge i dannati:  “Ora sen va per un secreto calle/ tra ‘l muro de la terra e li martiri/ lu mio maestro , e io dopo le spalle” (vv. 1-3). Vengono evocate  le lotte tra Guelfi e Ghibellini,  è il canto con Cavalcanti e  Farinata  degli Uberti, però l’artista, come sempre, più che dal personaggio, “dalla cintola in su tutto il vedrai”,  è preso dall’ambiente. Siamo tra gli eretici.

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Canto 12°, vv 55-57

Muta  la scena,  eccoci al Canto 11°: “In  su l’estremità d’un’alta ripa/ che facevan gran pietre rotte in cerchio/ venimmo sopra più crudele stipa” (vv 1-3), vediamo  raffigurati il Poeta e la sua guida  non più ai piedi di una roccia ma sulla cima della rupe aguzza che sovrasta il settimo cerchio in una rappresentazione che fa sentire vertigine e solitudine e resta impressa per la sua forza. E’ il girone in cui viene punita l’usura, e poiché “l’usuriere altra via tiene,… poi ch’in altro pon la spene”, cioè devia dalla retta via e sfrutta il lavoro altrui, si trova tra i violenti.  C’è molta forza morale, anche contro i fraudolenti,  resa dall’immagine della vetta circonfusa di luce.

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Con il  Canto 12°  dedicato ancora ai violenti, nei primi versi, 10-12,  ”‘n su la punta della rotta lacca/ l’infamia di Creti era distesa” (v. 10-12)  si incontra il Minotauro, ma non viene rappresentato dall’artista preso da un’altra immagine “… e tra ‘l piè della ripa ad essa in traccia/ corrien Centauri, armati di saette,/ come solìen nel mondo andare a caccia” (vv 55-57): sono quattro, in primo piano, rivediamo le sagome inconfondibili e il dinamismo dei  “bradi” scalpitanti del più celebre ciclo dell’artista; vorrebbero impedire il loro passaggio, poi Chirone li fa accompagnare da Nesso che indica loro famosi tiranni e predoni condannati alla pena eterna

Dai violenti ai violenti contro sé stessi nel Canto 13°, trasformati in sterpaglie dove si annidano le arpie, “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:/  ben dovrebb’esser la tua man più pia,/se state fossimo anime di serpi” (vv 37-39), vediamo un viluppo di corpi con le braccia alzate immersi in una caligine livida nella  mutazione in sterpi evocando anche le serpi, sentiamo dei brividi…

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Canto 14°, vv 106-108.

L’immagine del  Canto 14°  è radicalmente diversa, torna il cromatismo infuocato: “La dolorosa selva  l’è ghirlanda/  intorno, come ’l fosso tristo ad essa:/ quivi fermammo i passi a randa a randa” (vv 10-12). E’ il  girone del violenti contro Dio, in particolare i bestemmiatori, come Capaneo, uno dei sette Re greci contro Tebe. L’artista presenta la “dolorosa selva”  disposta in cerchio, con una figura distesa sulla destra, il Poeta e Virgilio spiccano al centro di una scena di grande equilibrio compositivo.

Cromatismo attenuato nel Canto 15°  con i violenti contro natura tra cui Brunetto Latini che riconosce Dante suo discepolo con “qual meraviglia!”, si intrattiene a parlare di Firenze, poi raggiunge la teoria di bianche figure che salgono, più da anime penitenti che da dannati. Ed è la visione d’insieme più che il personaggio, che ha ispirato l’artista: “quando incontrammo d’anime una schiera,/che venian lungo l’argine, e ciascuna/ ci riguardava, come suol da sera…”  (vv 16-18) in una visione panoramica coinvolgente.

Torna il magma cromatico tra il bianco e rosso in alto e il celeste-blu in basso, nel Canto 16°:“Già ero in loco onde s’udìa ‘l rimbombo/ dell’acqua che cadea nell’altro giro,/  simile a quel che l’arnie fanno rombo” (vv 1-3), come la precedente la rappresentazione ambientale è spettacolare, ed è questa che impegna l’artista piuttosto che le figure dei sodomiti che vi sono puniti, tra cui Jacopo Rusticucci e i guelfi fiorentini. Più avanti ci sarà un altro fiume infernale, il Flegetonte. 

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Canto 26°, vv 55-57

Dai violenti contro natura  ai violenti nell’arte nel Canto 17°,  che l’artista interpreta con una immagine di grande equilibrio compositivo, Dante e Virgilio al centro perfetto con dietro una fascia scura, sopra il rosso incombente, sotto il chiarore delle acque evocate dalla terzina che lo ha ispirato: “”Io sentia già da la man destra il gorgo/ far sotto noi un orribile scroscio;/per che con li occhi ‘n giù la testa sporgo” (vv 118-120). E’ il baratro sopra il quale stanno i dannati, Dante e Virgilio saliranno poi sulle spalle di Gerione che li farà scendere nel cerchio successivo.

Altrettanto spettacolare l’immagine ispirata alla parte iniziale del  Canto 18°: “Quel cinghio che rimane adunque è tondo/ tra ‘l pozzo e ‘l piè dell’alta ripa dura,/ e ha distinto in dieci valli il fondo” (vv 7-9), la massa corrusca incombe dall’alto sulle due piccole figure, si intravvedono diversi piani e livelli.  Ci sono i  ruffiani e i seduttori, tra i quali Giasone, l’argonauta del “vello d’oro”, ma all’artista interessa evocare  l’ambiente.

Nell’ immagine del Canto 19°,  il Poeta e Virgilio guardano dalla riva del lago alle acque azzurro-blu le sagome dei papi simoniaci, come Niccolò III,  riuniti in cerchio nell’altra riva, mentre si preannuncia il prossimo arrivo di Bonifacio VIII, ancora in vita ma già “dannato”.  L’artista si ispira ai versi della parte conclusiva del canto:  “Di voi pastor s’accorse il Vangelista,/ quando colei che siede sopra l’acque/ puttaneggiar coi regi  a lui fu vista” (vv 106-108),  scende dall’alto una cascata d’acqua e di luce, con una figura bianca a braccia aperte che evoca  l’Evangelista. Il canto inizia con “O Simon mago, o miseri seguaci/ che le cose di Dio, che di bontate/  deon essere spose/ voi rapaci/per oro e per argento avolterate”.

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Canto 27°, vv 79-81

Nel  Canto 20° gli impostori che hanno professato l’arte divinatoria, condannati ad andare con la testa rivolta all’indietro, una specie di contrappasso rispetto alla visione del futuro che hanno spacciato in vita. Al centro della scena delle figure nude, alcune immerse nell’acqua, una fuori con le braccia alzate, Dante e Virgilio come il solito la contemplano da lontano: “Quindi passando, la vergin cruda / vide terra nel mezzo del pantano,/ senza coltura e d’abitanti nuda” (vv. 82-84), la pena per chi è stata spietata nei sortilegi.

Immersi nella pece bollente i barattieri degli uffici del Comune nel Canto 21° con i diavoli che li rigettano dentro quando cercano di uscirne: “Non altrimenti i cuoci a lor vassalli/ fanno attuffare in mezzo la caldaia/  la carne con li uncin, perché non galli” (vv 55-57), l’artista ne dà una rappresentazione fedele con la grande caldaia infuocata, i diavoli ai lati e le figure dei dannati appena delineate in un rosso fuoco.

Altri barattieri nel Canto 22°,  i trafficanti di grazie e giustizia nelle corti dei principi, qui tornano gli amati  “bradi” dell’artista, questa volta non più bianchi  ma di un intenso rosso con sfumature rosa e chiare, e senza  la variante dei Centauri, sempre dinamici e arrembanti intorno a una striscia bianca, evocano le cavalcate e i tornei dei versi del Poeta: “… corridor vidi per la terra vostra,/ o Aretini, e vidi gir gualdane,/ fedir torneamenti e correr  giostra” (vv 4-6).  Questo colpisce la fantasia e dà l’ispirazione, più che le schermaglie tra diavoli, con a capo Barbariccia,  e i dannati  nella bolgia, tra i quali Ciampolo di Navarra.

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Canto 28°, vv 79-81

I Canti finali, dal 23° al 34°

Dopo il rosso sfumato dei “bradi”, nel Canto 23° il rosso acceso con chiazze bianche che incombe su una teoria di dannati in fila l’uno dietro l’altro sotto pesanti cappe di piombo,  verso i quali Dante tende  la mano, dietro di lui  Virgilio appoggiato a una roccia: “Taciti, soli, senza compagnia,/ n’andavam, l’un dinanzi e l’altro dopo,/ come i frati minor vanno per via” (vv 1-3).  L’immagine che ritroviamo nel versi 61-63, “Elli avean cappe con cappucci bassi/ dinanzi alli occhi, fatte della taglia/ che in Clugnì per li monaci fassi”, non poteva non colpire l’artista che li ritrae sotto un addensarsi corrusco mentre in basso spunta addirittura un prato verde.  Sono gli ipocriti, con Caifa, il gran sacerdote degli ebrei che fece condannare Cristo.

Con il Canto 24° le tinte diventano chiare ma non per questo rasserenanti, tutt’altro, sembra una dissolvenza inquietante per rappresentare la pena inflitta ai ladri, che vengono morsicati da serpi orribili, bruciano e risorgono dalle loro ceneri, ecco perché il colore cenerino: “Con serpi le man dietro avean legate;/ quelle ficcavan per le ren la coda/ e ‘l capo, ed eran dinanzi aggrappate”. (vv 94-96). I corpi dei dannati si intravedono nel loro contorcersi e dissolversi.

Il rosa, con degli squarci bianchi, rischiara appena l’ambiente che resta oppressivo nell’immagine del Canto 25°, con le piccole figure di Dante e Virgilio in uno scenario lunare, monocromatico color terra,  siamo tra i bestemmiatori, tra i quali Vanni Fucci,  non appare il mostro sanguinario che lo insegue cui sono dedicati i versi danteschi: “Lo mio maestro disse: ‘Questi è Caco,/ che sotto il sasso di monte Aventino/ di sangue fece spesse volte laco (vv 25-27)”. Pur essendo un centauro, non si trova tra quelli che sorvegliano i violenti, punito per un furto di armenti e abbattuto da Ercole.

Canto 29°, vv 10-12

Altra indicazione virgiliana  che ha ispirato l’artista quella del Canto 26°,  Virgilio si rivolge a Dante: “Rispuose a me: ‘Là dentro si martira./ Ulisse e Diomede, e così insieme/ alla vendetta vanno come all’ira” (vv 55-57).  Colpito da questi versi immerge i due eroi greci in una nuvola rossa che quasi li nasconde alla vista del Poeta e della sua guida,  tenuti fuori dal clima infuocato come se si trovassero su una nuvola candida. Siamo tra i consiglieri fraudolenti, Ulisse sconta  l’inganno del cavallo di Troia, il tono si eleva con la nobile esortazione ai compagni: “Fatti non foste  a viver come bruti/ ma per seguir virtute e conoscenza”, poi l’esaltante partenza, “dei remi facemmo ali al folle volo”, quindi la successiva doccia fredda,  “noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto”, e infine l’epilogo nella tragedia, “… finché  il mar fu sopra noi richiuso”.

Altro consigliere fraudolento nel Canto 27°, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie dello stato di Romagna e gli rivela di averlo dato, sotto fede di assoluzione, addirittura a Bonifacio VIII. Troviamo di nuovo citato il pontefice odiato da Dante che gli ha già assegnato un posto nell’Inferno per motivi politico-religiosi, non per la scelleratezza di aver gettato in una fetida cella Pietro da Morrone dopo averlo indotto a fare “il gran rifiuto” al pontificato – cui era stato chiamato come Celestino V- per ritrovare la pace nel suo eremo mentre morì poco tempo dopo di stenti e malattie nella prigionia. Il verso che ha ispirato l’artista, nella confessione accorata di Guido,  è di portata generale: “Quando mi vidi giunto in quella parte/ di mia etade ove ciascun dovrebbe/ calar le vele e raccoglier le sarte” (vv 79-81), in realtà i beni mondani sviano dalla retta via: La metafora è colta nella barca affollata con le vele ancora alzate e una figura che si protende in basso verso le acque.

Un grande vascello per il Canto 28°, con i ricordi di guerre sanguinose e visioni orripilanti di corpi straziati, tra i “seminator di scandalo e di scisma”, fra i quali Maometto,   viene evocato un episodio drammatico: “… gittati saran fuor di lor vasello/ e mazzerati presso a la Cattolica/ per tradimento d’un cristiano fello” (vv 79-81): si tratta del “gran fallo”, il misfatto per cui i “due miglior da Fano”, Guido  e Angiolello, furono buttati fuori dal vascello dove li aveva attirati  l’inganno del tiranno Malatesta. Atmosfera tempestosa, con il cielo rosso fuoco e le acque  blu con il bianco spumeggiante. 

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Canto 31, vv 31-33

Il bianco è ancora più diffuso, pur se resta dominante il rosso, nell’immagine ispirata al  Canto 29°, e in particolare ai versi “E già la luna è sotto i nostri piedi;/ lo tempo è poco omai che n’è concesso,/ e altro è da veder che tu non vedi” (vv 10-12);  nella bolgia ci sono i seminatori di discordia e i falsari,  ma è la luna l’evento inatteso che rompe  la corrusca atmosfera infernale.

Atmosfera livida  nella visione  del Canto 30°  dove si trovano i falsari, della persona,  della moneta e della parola.  Ma l’artista è preso dalla tragica sorte della regina di Troia: ”Ecuba, trista misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva” (vv 16-18), segue che “forsennata latrò si come cane/; tanto il dolor le fè la mente torta”.  Si vede il corpo senza vita nell’acqua e il gruppo intorno alla regina che ha perso la ragione, non può esserci colore per esprimere tale dramma, ma un biancore diffuso per manifestare il doloroso raccoglimento che vediamo nella scena composta, del tutto inattesa dato il restante contenuto del canto.

Altrettanto inattesa, nel Canto 31°,  la vista dei giganti, che Dante da lontano scambia con delle torri, ma Virgilio gli spiega: “… sappi che non son torri, ma giganti;/ e son nel pozzo intorno dalla ripa/ da l’umbilico in giuso tutti quanti’” (vv 31-33). c’è Nembrot, ideatore della Torre di Babele, punito con la lingua incomprensibile, e Anteo che si presta a depositare Dante e Virgilio in fondo all’ultimo cerchio. L’artista presenta due figure, una chinata e l’altra eretta, in un ambiente oscuro, sono gli unici primi piani, a parte Dante e Virgilio, dell’intero “corpus”, è uno dei pochissimi dipinti di maggiori dimensioni, 80 x 80, gigante anch’esso… rispetto allo standard 60 x 60  degli altri.

,Canto 34° vv 28-30

L’atmosfera cambia, è come se tornasse la luce, lo vediamo nell’immagine ispirata al  Canto 32°: “Per ch’io mi volsi, e vidimi davante/, e sotto i piedi un lago, che per gelo/  avea di vetro e non d’acqua sembiante” (vv 22-24). Questa volta non è il riflesso della luce lunare ma il ghiaccio del fiume Cocito su cui camminano Dante e Virgilio, davanti a loro una sorta di roccia anch’essa bianca, è il gelo a creare questo, ma è anche l’artista alla ricerca della luce dopo tanta oscurità. Vi sono puniti i traditori dei parenti, i fratelli Alessandro e Napoleone degli Abati, e della patria, Bocca degli Abati per il tradimento nella battaglia di Montaperti. Sono conficcati nel ghiaccio infernale.

C’è  un ultimo episodio che lo fa ripiombare nell’atmosfera corrusca, anzi addirittura l’intera composizione si  tinge di rosso sanguigno. Siamo al Canto 33°, in cui ci sono i traditori della fiducia riposta in loro, l’artista si ispira ai versi “In picciol corso mi parìeno stanchi/ lo padre e’ figli, e con l’agute scane/ mi parea lor veder fender li fianchi” (vv 34-36). Nel sogno premonitore della tragedia del Conte Ugolino, i cani dai denti aguzzi addentano la preda. Non vediamo il conte mentre “la bocca sollevò dal fiero pasto”, e neppure “più che il dolor potè il digiuno”, ma delle figure su una sorta di  pavimento, una distesa a terra, l’altra protesa in un bacio con un bambino a fianco, una delle poche scene viste da vicino in un interno scuro indefinibile, prima della fine.  

Subito dopo  l’artista riprende quella luce accecante che  ha rischiarato le immagini del 29° e 32° Canto,  siamo al Canto 34°, l’ultimo dell’Inferno, con le figure di Dante e Virgilio  più piccole del solito, e sul bordo della composizione, dalla parte dell’osservatore, che guardano in alto una massa tenebrosa con delle lingue rosse che fanno piovere dal cielo gocce infuocate. Siamo sempre tra i traditori, questa volta è punito Lucifero, che ha nelle sue bocche Giuda, Bruto e Cassio.  E’ la libera interpretazione dell’artista,  Lucifero è descritto da questi versi: “Lo ‘mperador del doloroso regno/ da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia;/ e più con un gigante io mi convegno/ che giganti non fan con le sue braccia” (vv 28-31). Le braccia sono dunque gigantesche, e così la testa,  mentre il ghiaccio viene rappresentato con il bianco accecante che copre  metà composizione.

Con il biancore che illumina di  luce  risplendente il primo piano dell’immagine, contrastando l’angosciosa massa scura che incombe grondando sangue,  anche l’artista che ha seguito Dante e Virgilio nel viaggio all’Inferno potrà dire con loro: ”….e quindi uscimmo a riveder le stelle”.  E così il visitatore che ha seguito l’itinerario poetico e pittorico della prima Cantica. Ma il suo e nostro viaggio è appena iniziato, come per Dante continua nel Purgatorio sempre con la guida di Virgilio, per ascendere infine al Paradiso con Beatrice. Proseguiremo il nostro racconto appassionato per i sentimenti che suscita la mostra prossimamente.

Inferno, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 23 marzo 2022, seguiranno i prossimi tre. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Inferno, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 11°, vv. 1-3

Foto

Le immagini dei dipinti dell’Inferno sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice Chiara Testa che si ringrazia, insieme all’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri dell’Inferno nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro dell’Inferno ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 8° vv. 112-114, seguono, Canto 2° vv 70-72, e Canto 3° vv 82-84; poi, Canto 4° vv 4-6, e Canto 12° vv 55-57; quindi, Canto 14° vv 106-108 e Canto 26° vv 55-57; inoltre, Canto 27° vv 79-81 e Canto 28° vv 79-81; ancora, Canto 29° vv 10-12 e Canto 31° vv 31-33; continua, Canto 34° vv 28-30, e Inferno, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici; infine , Inferno, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 11°, vv. 1-3; in chiusura, L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 11° vv. 1-3 dell’Inferno.

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L‘artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 11° vv.1-3 dell’Inferno

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Gianni Testa, 1. La Divina Commedia nel 7°centenario, una magia miracolosa di forme e colori, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022,  la mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa espone 101 dipinti a olio, uno per ciascun canto senza alcuna esclusione – 34 per l’Inferno, 33 per Purgatorio e Paradiso più uno per Dante – formato 60 x 60, alcuni 80 x 80. La mostra è organizzata e curata da Chiara Testa. E’ possibile acquistare due stampe numerate fino a 100, Claudio Strinati ha introdotto la mostra all’inaugurazione, madrina Isabel Russinova. Catalogo di Gangemi Editore Internazionale, con la straordinaria carrellata dei 101 dipinti in un cromatismo perfetto cui la cornice nera dà uno straordinario risalto creando l’atmosfera del viaggio dantesco, con una sobria brevissima presentazione di Claudio Strinati che fa risaltare ancora di più la magia delle immagini così splendidamente offerte creando emozione al lettore.

La locandina della mostra

Una mostra-evento nella storia di opere ispirate alla Commedia

I dipinti – salvo quelli più grandi collocati su cavalletti intorno alle colonne al centro delle sale – sono esposti sulle pareti in due file sovrapposte molto fitte, tra le quali i rispettivi versi ispiratori, con una successione incalzante – come i canti nel libro a stampa – che fa sentire il visitatore “in viaggio” con il sommo Poeta, spinto in avanti  da un dipinto all’altro in un crescendo fino al sollievo di ”riveder le stelle” nell’uscita dall’Inferno, all’emozione di sentirsi “pronto e disposto a salire a le stelle”  al termine del Purgatorio, alla folgorazione dinanzi a “l’amor  che move il sole e l’altre stelle” alla conclusione del Paradiso e della Commedia.

Abbiamo voluto definirla mostra-evento perché chiude le celebrazioni del 7.mo centenario della morte del sommo poeta con un qualcosa di assolutamente eccezionale, un “viaggio” pittorico durato un quarto di secolo che rappresenta un “unicum” nella lunga storia di opere ispirate alla Divina Commedia. E’ un “corpus” di dipinti  vasto e organico che si presta mirabilmente a illustrare il capolavoro dantesco corredandone i canti  immortali con immagini intense e suggestive. E’ come l’esplosione pirotecnica finale con il diapason del “botto” conclusivo nelle feste paesane, e qui si è trattato di una festa globale, il sommo poeta appartiene all’umanità intera e il 7.mo centenario della sua morte è una ricorrenza universale, le sedi dell’Associazione Dante Alighieri sono sparse per il mondo. E come nelle feste si supera la mezzanotte, così si è sconfinati nel 2022, in un eloquente splendido isolamento che ha coinciso con un inferno purtroppo vicino a noi, la guerra in Ucraina. Così Gianni Testa intervistato da Canale dieci che nelle sue news ha trasmesso per un’intera giornata l’ampio servizio sull’inaugurazione della mostra: “Sarebbe stato bello se non ci fosse la guerra. L’inferno è la guerra, non quella di Dante. Mi addolora molto”. Ma pur non essendo cetamente bello questo accostamento è simbolico, più di una coincidenza; tanto che la mostra precedente “L’Inferno” alle Scuderie del Quirinale aveva una sezione finale intitolata “L’inferno oggi: la guerra” ma riferita ad altre guerre, lontane nel tempo e nello spazio.

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Gianni Testa con la madrina Isabel Russinova all’inaugurazione della mostra

Anche la collocazione della mostra è eccezionale: non in un normale centro espositivo, ma nel Museo Crocetti, la casa-museo del grande scultore abruzzese – e da conterranei teramani lo sentiamo particolarmente vicino – celebre il suo “Il Giovane Cavaliere della Pace”  che fu esposto anche all’ONU, tanto di attualità oggi per l’auspicio della fine dell’“inutile strage” in Ucraina, nel cuore dell’Europa, come il suo “Monumento ai Caduti di tutte le guerre” a Teramo. E’ di Venanzo Crocetti  la “Porta dei Sacramenti” di San Pietro, oltre alla “Porta del Duomo” di Teramo, cosa che rende ancora più emblematica la collocazione della mostra sulla sacralità dantesca e  offre al visitatore l’occasione unica di abbinare alla vista della grande pittura la vista della grande scultura delle tante opere esposte nei piani della vasta casa-museo nonché dello studio d’artista dello scultore con un bozzetto della Porta di San Pietro, lasciato com’era, quasi si fosse solo allontanato, dinanzi è collocato il quadro testimonial della mostra. .  

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Intorno al quadro-testimonial

Le  101 spettacolari composizioni cromatiche a olio di Gianni Testa vengono dopo  i  ricami calligrafici delle  pergamene di Sandro Botticelli e  le  elaborate grafie a matita,  penna  e acquerello di  Federico Zuccari nel ‘500,   le  nitide incisioni di Gustave Dorè  e i marcati disegni preparatori di  Auguste Rodin sull’Inferno, le drammatiche tavole di William Blake e quelle accademiche di Francesco Scaramuzza nell’800; fino alle incantate visioni di Amos Nattini agli inizi del ‘900, per giungere ai disegni surrealisti di Salvador Dalì e ai realismi di Guttuso a metà degli anni ’50, arrivando alle più recenti illustrazioni di Dell’Otto e Mattotti, Barbieri e Madè. C’è stato anche lo scultore Benedetto con un’opera titanica, altri artisti si sono cimentati  in incursioni sporadiche; ricordiamo l’Inferno” di Roberta Coni.

A parte le xilografie e le sculture si è trattato per lo più di disegni o acquerelli e tavole illustrative,  spesso su commissione per edizioni a stampa della Divina Commedia,  perciò è un vero e proprio evento che un artista contemporaneo della caratura di Gianni Testa abbia rivisitato in 101 spettacolari dipinti a olio l’intera opera dantesca rendendone la magica suggestione con maestria cromatica e materica sostenuta e stimolata da una forte motivazione.

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Un itinerario d’arte e di vita

La caratura artistica: l’attività pittorica di Gianni Testa viene da lontano, già nel 1962 partecipò a una collettiva con Quaglia, Guttuso, Mazzacurati e Purificato, su invito di Levi che era stato colpito dal talento espresso nelle sue prime opere,  frequentò questo gruppo e anche Calabria e poi Pericle Fazzini. Ha esposto in ben 150 mostre in Italia e all’estero, fino a New York e Filadelfia,  e ha ricevuto molti riconoscimenti, dal primo nel 1970 vincitore del concorso “Brandy italiano” al  titolo di “Pittore di Marina” conferitogli nel 2016, al “Premio alla carriera” consegnatogli recentemente da Vittorio Sgarbi. Ha avuto popolarità anche presso il vasto pubblico televisivo con la partecipazione agli inizi degli anni ’90 per diversi anni, alla trasmissione quotidiana “Mattina 2”  come illustratore in diretta del fatto del giorno – “quadri senza prova d’appello” gli chiese l’autore Michele Guardì – chiamato dal direttore di Rai 2 Giampaolo Sodano. 

Fin dal 1968 ha partecipato alla Biennale di Roma, poi alla Triennale di Milano, dal 1975 alla Quadriennale di Roma, l’ultima grande mostra al Vittoriano nel 2014 con i suoi diversi cicli pittorici. Si è formato alla scuola di restauro nella Galleria Borghese diretta dalla prof.ssa Della Pergola studiando le tecniche dei grandi artisti del passato per tradurre visivamente i propri sentimenti e le proprie ispirazioni; con il maestro Bartolini ha approfondito anche la scultura.

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L’artista in … famiglia, con la moglie e la figlia Chiara organizzatrice e curatrice

La maestria cromatica e materica: da questa formazione nasce un uso del colore molto intenso, e uno spessore materico da cui sembra estrarre le forme in un “espressionismo onirico” in cui i diversi generi artistici lo hanno portato al suo inconfondibile stile personale. 

La sua forte motivazione: è stata diversa dal solito, come l’iter creativo, quasi inimmaginabili: nessun intento illustrativo né didattico, e tanto meno un programma  preordinato, bensì la manifestazione di un bisogno interiore nato sui banchi di scuola che ha trovato la forma per esprimersi in diverse fasi lungo la sua piena maturità artistica, fino al compimento definitivo. La rilettura della Divina Commedia lo ha accompagnato sempre, come “libro di compagnia” – nella definizione del giornalista “cronista d’arte” che lo conosce molto bene Vittorio Esposito – e di volta in volta si è tradotta in schizzi, disegni e tele secondo l’ispirazione del momento che ha stimolato il suo spirito creativo in modo inarrestabile. E che si tratti di una personalità forte, pronta a seguire fino in fondo le proprie spinte interiori, lo ha dimostrato quando lasciò la facoltà di Architettura pur avendo il massimo dei voti per dedicarsi completamente alla pittura. Dando sfogo a ciò che maturava dentro di lui dall’adolescenza,  non vede la Commedia dall’esterno ma  dall’interno, ogni volta che l’ispirazione preme riemergendo dal suo inconscio., e si è avuto per un quarto di secolo.

Come è avvenuto tutto questo? Così l’artista, sempre a Canale dieci: “C’è tutto il percorso di Dante. Si inizia con il capitolo in cui ci sono 300 versi, se ne sceglie uno. E uno di questi è un quadro. Poi c’è il trittico che è stato fatto all’ultimo”. E sull’interpretazione pittorica: “E’ stato uno sforzo notevole, tanto per fare i cromatismi, tanto per creare un catalogo importante, tanto per il tempo che ci è voluto. Venticinque anni”. Sull’esposizione: “E’ una mostra particolare, dove i quadri si vedono e si segnano attraverso il colore”.

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L’artista con due amiche e l’amico giornalista Vittorio Esposito

Il risultato: Claudio Strinati afferma: “Netto e indelebile è il Dante pensato da Testa e la sua pittura rientra a pieno titolo nella nobile storia del rapporto tra arte figurativa e pittura dantesca”. Per questo riteniamo che l’impiego illustrativo e didattico, anche se assente dalle sue intenzioni,  sarebbe quanto mai appropriato,  si sente l’autenticità dell’ispirazione che è stata una costante nella sua vita da studente prima, da artista poi; quindi la diffusione nelle scuole di una Divina  Commedia così riccamente illustrata potrebbe far sì che gli studenti prendano maggiore confidenza con i versi danteschi accompagnati dalla  magia dei colori e dall’intensità  materica ed espressiva delle forme.

Ma non solo. Ha detto Chiara Testa, organizzatrice e curatrice della mostra, sempre a Canale dieci: “Vogliamo trasmettere alle persone un invito a riscoprire la Divina Commedia di Dante. Attraverso le 101 opere vogliamo far tornare le persone indietro nella storia”. Ed effettivamente dopo aver visitato la mostra viene la voglia di riprendere in mano la Divina Commedia per rileggere fior da fiore le sue terzine immortali.

Da un quarto di secolo l’ispirazione e la spinta creativa dell’artista sono state alimentate dalle suggestioni della Commedia dantesca che, intendiamo sottolinearlo, riaffioravano  dall’inconscio dove erano sedimentate  sin dall’adolescenza. Risalgono al 1999  i suoi primi dipinti sulle tre Cantiche, con i quali  ai  cicli dei cavalli e dei paesaggi,  dei ritratti e delle nature morte, si aggiunse il ciclo della Divina Commedia,  che insieme al ciclo del sacro ha portato l’artista a misurarsi con il divino. Ma sono stati  interventi sporadici  e saltuari diluiti nel tempo fino al “rush”  finale che lo ha impegnato pienamente negli ultimi cinque anni.

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A parte la Commedia, un’incursione oltre il suo campo  stilistico: l’“espressionismo onirico” dalla tempesta cromatica si è trasferito ai “movimenti astratti”, alla cui base c’è addirittura un’immagine di Dante Alighieri che gli ha ispirato un  diverso percorso tradotto  in dipinti astrattisti  di numero pari a quelli sulla Commedia, in una misteriosa e arcana coincidenza.     

Tutto ciò ci porta a guardare  i  suoi dipinti  in modo diverso dalle altre opere sul tema dantesco e dalle manifestazioni artistiche in genere, considerando l’arte comunque tra le  forme più elevate e nobili dell’agire umano. Sentiamo che c’è di più, e di diverso,  nelle sue rappresentazioni, al di là del giudizio estetico e della valutazione critica, pur se di eccellenza.

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Siamo spinti a esplorare il  percorso interiore dell’artista, a penetrare nella sua visione della Commedia che ha fissato sulla tela  con dedizione: la chiamiamo così per rendere,  anche se in modo inadeguato, il suo  trasporto  appassionato per il capolavoro dantesco.

Più che i singoli personaggi è impressa nella sua memoria e nella sua sensibilità l’atmosfera dei diversi canti, che traduce nell’intenso cromatismo con tutte le infinite sfumature che rendono magici gli ambienti dell’Inferno, del Purgatorio, del Paradiso in una escalation di visione soprannaturale  che troviamo trasfigurata dai versi immortali alle mirabili tavole pittoriche. 

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All’autenticità dell’ispirazione, e alla spontaneità creativa, si deve che non tutti i canti erano stati rappresentati dall’artista, mentre  quelli che lo avevano più colpito gli avevano ispirato più raffigurazioni, non essendo il suo un impegno sistematico e programmato, ma solo istintivo; finché, vista la copertura quasi totale dei canti, ha completato  e sistematizzato il tutto.

I motivi interiori e le forme espressive

Tra i tanti giudizi manifestati dai  critici d’arte che hanno evidenziato gli aspetti salienti  della sua pittura, ne citiamo due, uno sui motivi interiori, l’altro sulle forme espressive.

L’aspetto più propriamente artistico è  strettamente connesso al suo peculiare atteggiamento che crea  le condizioni ottimali perché non vi sia iato e neppure diaframma tra ispirazione ed espressione, e la sua sperimentata cifra stilistica di altissimo livello ne è la garanzia assoluta.

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Giosuè Allegrini  ha sottolineato la rappresentazione interiore di stati d’animo, pensieri, emozioni, che va al di là della fisicità per una realtà immaginifica, riscontrando  una tensione emotiva verso il ricordo, la memoria, il mito, con una forte dinamicità intellettiva; e il fatto che la luce  e la materia nella sua pittura esprimono il dualismo tra il corpo  e l’anima, tra la materia e lo spirito, tra l’immanente e il trascendente, in un approccio maieutico, per un simbolismo etico universale.  

Si riferisce alla sua opera e alla sua  connotazione di artista,  non al “corpus” di  dipinti  sulla Divina Commedia, ma sono anche  gli elementi  da cui nasce il  fascino perenne del poema..  E  se questi  sono i motivi interiori  dell’artista che diventano ispirazione e spinta creativa per la Divina Commedia, le forme espressive trovano nel poema dantesco il loro sbocco ideale.

Le descrive Claudio Strinati – che ha presentato la mostra – anche in relazione all’opera  complessiva dell’artista nella quale  vede sprigionarsi  una  metaforica fiamma che forgia tutte le cose  con la sua carica di energia. E  ciò senza  vincolarsi a una forma precostituita dai contorni preordinati: l’artista mantiene libera di esprimersi  la propria tensione interna  partendo da una massa cromatica  indistinta dalla quale ricava la forma come lo scultore dal marmo, liberandola dal resto della materia informe. E   parla del modo in cui la luce e la materia diventano energia in un processo  che chiama einsteiniano e si manifesta nelle grandi masse di colori calate sulla tela in rutilanti contrasti e viluppi cromatici.

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Il momento delle dediche autografe

In tal modo si realizza un’ulteriore aderenza allo spirito della Commedia dantesca, in cui l’umano e il divino sono compresenti in una dimensione che Strinati evoca richiamando la “quintessenza”,  cioè le dimensioni fisica e metafisica che aleggiano nel poema;   l’artista le  visualizza con il virare del  colore verso tonalità sempre più sideree e della forma verso  una progressiva trasfigurazione.

Il “corpus” di dipinti, l’evocazione nelle tre Cantiche e l’emozione che suscita

L’elemento comune  che emerge  dal “corpus” di dipinti sulla Commedia, nel contesto creativo,  espressivo e stilistico così delineato, è la presenza di Dante nelle più varie situazioni ambientali, in assoluta coerenza con l’opera, ma anche  sintomo di qualcosa di più: la totale identificazione dell’artista con il sommo Poeta nel viaggio  fantasmagorico dove vuole essere presente in ogni momento e ogni luogo. 

Per questo motivo la sua figura  è compenetrata  nella sostanza cromatica come composta della stessa materia della visione evocata. Fino al Paradiso allorché le visioni celestiali occupano l’intera composizione, e non potrebbe essere altrimenti, Dante resta a contemplarle ma fuori di scena. 

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Un’altra dedica autografa a una delle stampe numrate fino a 100

Le anime sono evocate con discrezione nelle tre Cantiche, non è sui singoli personaggi che va l’attenzione dell’artista, ma sull’ambiente in cui vagano, tenebroso  o infuocato nella dominante rossa per l’Inferno, mentre nel Purgatorio la tempesta cromatica si sposta sui colori della terra e della natura, fino al Paradiso dove c’è anche il rosso, ma come glorificazione, mentre trionfa il sidereo celeste.

Così l’“espressionismo onirico” dell’artista lo porta  a trasmettere attraverso i dipinti le emozioni suscitategli dai diversi passi delle tre Cantiche, ispirate a terzine e versi da lui identificati con precisione, ma con questo non deve  confondersi l’espressione con l’illustrazione. Infatti, pur se  il suo intenso cromatismo ha componenti figurative, per lo più non ritrae sempre i personaggi ma rende l’atmosfera, a parte le figure appena delineate di Dante e Virgilio nell’Inferno e Purgatorio, e di Dante e Beatrice nel Paradiso, che sono una presenza frequente quanto discreta. E’ una rappresentazione pervasa di intensità mistica che stimola la mente  e la memoria, suscita emozioni e sentimenti, scuote nell’intimo.

Il Paradiso è  reso  non con astrazioni  impalpabili, ma con una forza cromatica non limitata all’azzurro e neppure al  blu intenso, ma estesa a un’ampia gamma, compreso il rosso, in un equilibrio nei colori con i quali sono state delineate in modo tangibile forme arcane, nella  peculiarità di stile e di contenuto dell’artista. Mentre del Purgatorio colpiscono i toni variegati nel passaggio dalla visione terrena a quella sempre più distaccata dalla materia con le bianche figure dei penitenti e gli angeli che le guidano.  Dell’Inferno restano impressi i toni corruschi e l’ambiente oscuro e spesso infiammato, tra acque tempestose, rocce aguzze, lande tormentate.

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Li descriveremo in una carrellata in cui, nell’accennare ai motivi dei singoli dipinti, inseriremo degli  accenni agli  episodi danteschi che li hanno ispirati per l’eccezionale peculiarità di questo ciclo pittorico che muove i tasti più reconditi. I  riferimenti ai canti richiamano alla mente  ricordi sedimentati dal tempo nel fondo  della memoria,  perché la Divina Commedia sin dal periodo scolastico è entrata nella vita di tutti, oltre ad essere patrimonio universale della letteratura  e,  per merito di coloro che l’hanno interpretata visivamente, anche dell’arte. 

Abbiamo detto che Gianni Testa  ha dato corpo e anima alle incomparabili visioni del poema dantesco spinto dal bisogno irresistibile di esprimere ciò che premeva in lui dai banchi della scuola. Perciò  i suoi  dipinti sono ben più di un ciclo pittorico di altissimo livello, si sente la sollecitazione intima  che impegna il cuore  oltre alla mente,  e va al di là del fatto estetico e stilistico, la forma e il contenuto.  La tempesta cromatica delle sue immagini  si traduce in una tempesta di emozioni ed evoca un vissuto personale rimasto nell’inconscio che riaffiora  dentro ciascuno di noi.

Le figure di Dante e Virgilio, nelle loro lunghe vesti rossa e blu, penetrano nell’intimo allorché si seguono  nella loro peregrinazione tra i sanguigni gironi dell’Inferno e  gli squarci di luce del Purgatorio;  la presenza luminosa  di Beatrice e la celestiale beatitudine del Paradiso fanno raggiungere  il massimo di emozioni in una indicibile suggestione.  Accostarsi al divino  nella sua espressione iperurania,  dopo averne sentito la compresenza con  le manifestazioni umane  in un processo di progressiva elevazione, è qualcosa di toccante  e indescrivibile.

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Collocazuione dei quadri di maggiore dimensione 80 x 80 intorno alla colonna

L’“espressionismo onirico” dell’artista – che ha trasfigurato  le immagini della realtà nelle intense visioni della sua rivoluzione cromatica – ha trovato un terreno per esprimere   le sue potenzialità in un mondo poetico  del quale il colore e la forma hanno  reso la dimensione sovrumana in cui si è trovato il Poeta  in una misura che investe l’umano e il divino.

Ripensiamo all’impressione avuta nell’adolescenza dinanzi alle tavole di Gustave Dorè che davano vita ai versi danteschi  con la nitida precisione delle xilografie  in cui i corpi in primo piano assumevano rilievi possenti, michelangioleschi. Ebbene, i dipinti di Gianni Testa  fanno provare un’emozione altrettanto forte: ci si sente  presi  dal suo vortice cromatico come da un turbinio soprannaturale che ha compenetrato  anche noi, ma le sue figure sono invece viste da lontano con discrezione e delicatezza, come la figura di Dante onnipresente, creando l’atmosfera di un magma indefinibile  in cui la dimensione terrena si  trasfigura nel  divino per effetto di quella che abbiamo definito “una magia miracolosa di  forme e colori”.

Per Claudio Strinati, “il suo Dante è un personaggio magmatico e incndescente che sembra, sulle tele del maestro, essere costituito della stessa materia con cui il pittore costituisce i diversi luoghi e le diverse situazioni del Poema. E’ fatto, il dante di Testa, della stessa sostanza. Anzi, nell’immaginazione del pittore, un’unica sotanza presiede a tutte le rappresentazioni e qui scatta la grandezza veramente dantesca del maestro”. La magia miracolosa nasce dalla “luce divina” che aleggia sempre, pervasa di poesia, come ha scritto Vittorio Esposito: “In ogni dipinto Gianni Testa evidenzia e scandisce il senso di spiritualità che pervade e rende immortale il fascino dei versi danteschi traducendoli da elaborato poetico a poesia dipinta”.

E’ giunto il momento di ripercorrerne il viaggio nel suggestivo itinerario della mostra attraverso la sequenza ininterrotta di immagini dei singoli canti, che rinnovano emozioni lontane alle quali danno vita le forme e i colori nella magistrale visione del Maestro. Lo faremo prossimamente in tre articoli dedicati all’Inferno, al Purgatorio, al Paradiso.

Il quadro testimonial della mostra di Gianni Testa davanti allo studio d’artista

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it; www.giannitesta.it. Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; nei prossimi giorni usciranno gli altri 4 articoli sulla mostra. Per gli artisti citati:  Guttuso: Antologica al Vittoriano 25, 30 gennaio 2013, Realismo rivoluzionario alla GAM di Torino 14, 20, 30 luglio 2018, Innamorato alla Galleria Nazionale 16 ottobre 2017, Religioso al Quirinale 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016; Calabria: Antologica sul luogo dell’essere a Palazzo Cipolla 11 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019; Levi Specchio della realtà, Pittura dionisiaca ed elegiaca alla  Galleria Russo 28 novembre, 3 dicembre 2014; Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo su L’Inferno di Dante  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009. Mostre del passato nel Museo Crocetti recensite: Vanda Valente Pittura in difesa della natura 4 aprile 2014, Bergamini Il digitale pittorico 6 dicembre 2013, Sironi  in mostra 26 gennaio 2009. 

Lo studio d’artista dello scultore Venmanzo Crocetti

Foto

Le immagini dell’inaugurazione della mostra sono state fornite dalla organizzatrice e curatrice Chiara Testa che si ringrazia per la prontezza e la cortesia, ad eccezione delle n. 1, 10, 17 tratte rispettivamente dai siti di pubblico dominio lagone.it, canaledieci.it, vignaclarablog.it, dei quali si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, pronti a eliminarle qualora non ne risulti gradita questa pubblicazione che ovviamente non ha alcun intento economico ma solo illustrativo; la n. 16 è di Romano Maria Levante tratta dall’articolo su Crocetti citato in Info. In apertura, La locandina della mostra; seguono Gianni Testa con la madrina Isabel Russinova all’inaugurazione della mostra e Intorno al quadro-testimonial; poi, lo scorcio di una parete, L‘artista in … famiglia, con la moglie e la figlia Chiara organizzatrice e curatrice, e L‘artista con due amiche e l’amico giornalista Vittorio Esposito; quindi, altri due scorci di pareti e tra loro due immagini dell’artista con visitatori; inoltre, Il momento delle dediche autografe e Un’altra dedica autografa a una delle stampe numrate fino a 100; ancora, un’ulteriore scorcio di parete e Collocazione dei quadri di maggiore dimensione 80 x 80 intorno alla colonna; continua, Il quadro testimonial della mostra di Gianni Testa davanti allo studio d’artista, e Lo studio d’artista dello scultore Venmanzo Crocetti; in chiusura, Il Museo Crocetti, sulla dx “Il Giovane Cavaliere della Pace” .

Il Museo Crocetti, sulla sin. la scultura-simbolo “Il giovane Cavaliere della Pace”

Pasolini, 7. Nella 16^ Quadriennale di Roma le ultime 6 sezioni con Pasolini

Abbiamo celebrato il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini con 6 articoli ripubblicati dal 5 marzo 2022, giorno della ricorrenza, fino a ieri 10 marzo, usciti a suo tempo sulle mostre a lui dedicate visitate nel decennio scorso. In particolare abbiamo riproposto in successione il nostro articolo del 2012 sulla mostra di Monica Cillario che ha fotografato la sua prima abitazione romana, i due articoli del 2014 sulla mostra “Pasolini Roma” al Palazzo delle Esposizioni evocativi della sua figura di poeta e scrittore, saggista e regista, e della sua vita terminata tragicamente, l’articolo del 2015 sulla mostra “I tanti Pasolini” a “Spazio 5” con la sua immegine nelle fotografie di Carlo Riccardi, testimonianze di personaggi, e non solo, fino ai due articoli del 2012 sull’omaggio di 22 artisti ispiratisi alle sue poesie nella mostra a Palazzo Incontro che hanno concluso la nostra rievocazione basata sulle mostre ora citate. Oggi, in aggiunta ai 6 articoli sulle mostre a lui interamente dedicate, ripubblichiamo uno degli articoli del 2016 sulla “Quadriennale di Roma” che descrive, insieme ad altre, la sezione dell’esposizione dedicata alle opere di artisti ispiratisi alla sua “Orestiade”. Così termina la nostra personale celebrazione di una figura prima controversa ma ora universalmente esaltata e onorata.

Postato da arteculturaoggi.com [30/10/2016, 12,30]

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Altri tempi altri miti” della 16^ Quadriennale di Roma, al  Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, che torna dopo otto anni con 150 opere di 99  artisti  italiani contemporanei selezionati da 11 curatori, esposte in 10  sezioni sui temi intorno ai quali i curatori le hanno raggruppate spiegandone ampiamente le motivazioni. E’ stata organizzata dalla Fondazione della Quadriennale  presieduta da Franco Bernabè e dalla Azienda speciale Palaexpo cui fa capo il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, istituzioni che hanno curato anche il Catalogo, e fornito la copertura finanziaria con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. L’ENI è “main partner”della mostra, c’è una sua apposita installazione, mentre la BMW è “partner” con un’opera celebrativa, la “BMW Art Car” di Sandro Chia. .  

Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato ,2012-2016” Veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”,  settembre 2015,

Altre 3 sezioni,  “Orestiade italiana”, “Ad occhi chiusi ma aperti”, “De rerun rurale”,

Abbiamo già descritto le prime 4 sezioni della mostra, l’ultima delle quali ispirata a Tocqueville, e abbiamo anticipato  che un altro ispiratore  è Pier Paolo  Pasolini, nella sezione “Orestiade italiana”. Il curatore Simone Frangi si ispira  ai suoi  “Appunti per un’Orestiade africana”, analizzati per “recuperare il carattere propedeutico, ipotetico, di ricognizione e di risveglio politico”.  Di qui la scelta di artisti su temi come “studio dei conflitti latenti e della stasi europea; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioniste; micro fascismi, normalizzazioni sociali; legami ambivalenti tra approccio documentario e orientalismo culturale e multiculturale in prassi antropologiche ed etnologiche” e altri sul colonialismo, fino ai “fenomeni migratori trans-continentali intereuropei”, al “sincretismo religioso”, alla “resistenza politica e simbolica”. 

Diego Tonus, “Il baro”, 2016

Non abbiamo la velleità di individuare  le opere riferite ai temi specifici così enunciati, citiamo  per prima la spettacolare immagine di una sorta di “cave” moderna, “Helicotrema, veduta di una sessione d’ascolto al festival dell’audio registrato”, di Blauer Hase e Giulia Morucchio; poi la foto di epoca coloniale sovrastata dalla grande scritta “Has the ‘new man’ moved on to colonise our memory?”, di Alessandra Ferrini, dal titolo “Negotiating Amnesia”, e “Il Baro”,  di Diego Tonus, altra immagine coloniale. Tra le altre ritroviamo Nicolò Degeorgis, con le immagini “Hidden Islam”Vincenzo Latronico e Armin Linkeo con foto in bianco e nero di un viaggio in Etiopia, Danilo Correale e Blauer Hase il primo con un “libro d’artista”, il secondo con la pubblicazione  “Paesaggio”. Per il resto filmati e video, da Riccardo Arena a Invernomuto, Maria Iorio e Raphael Cuomo, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom, Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli;  

E’ un‘Orestiade che si avvale di tutti i mezzi  per approfondire lo sguardo. In questo tourbillon video e sonoro spicca l’efficacia cartesiana dei 4 diagrammi ” dai titoli intriganti, “Analogia senza rimpatrio” e “Allegoria senza malinconia”, “Etica generica senza identità” e “Via d’uscita”  nel segno dell’innocenza e della fiducia, un finale positivo, dunque.

Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d.

Il personaggio, cui si ispira Luca Lo Pinto,  curatore della sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti”, è Emilio Villa, che nel 1941 emise un giudizio sulla storia antitetico alla vulgata comune che “Historia est magistra vitae”, per lui “la Storia è uno sbaglio continuo che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedersi, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani”. E non si è limitato ad affermarlo, ha cercato di cancellare ogni riferimento temporale nelle sue opere per impedirne la storicizzazione, ed evitare ad ogni costo di entrare nella storia facendo di tale atteggiamento un valore esistenziale.

Questa premessa per inquadrare la sezione,  imperniata sull’esigenza di non farsi mistificare da ciò che si vede, come avviene con i fatti storici,  ma di aprirsi, chiudendo gli occhi, al sogno e alla meditazione che portano a percezioni fuori dell’ordinario e rimuovono ogni contraddizione. In questo senso l’anima è nelle cose, e gli artisti nelle loro opere che ne sono espressione  rivelano “un modo personale di guardare al mondo, insieme singolare e universale”. Di qui una sezione “archeologica”, che parte da un frammento di vetro dipinto con l’immagine di una vergine e una scritta a pennarello di Villa, in un greco indecifrabile.  L’esposizione è concepita “come un dispositivo di visione in cui tutte le opere, chiuse come ricci, possano vedere lentamente la luce e guardare negli occhi chi le osserva”, in una speciale dimensione temporale. Per Giorgio Andreotta Calò questa dimensione è quella della clessidra, l’immagine fotografica nella doppia versione dello scatto e nella sua trasposizione  si specchia su se stessa rivelando una doppia identità, mettendo in relazione “il sensibile e l’intelligibile”, sono 4 località in dissolvenza.

Roberto Cuoghi, “Pazuzu”, 2014

Se questo appare criptico non lo è da meno il “Poggiaschiena” di Martino Gamper, “Back to Front Chair (Single)”, e così le tre opere “Senza Titolo” in gomma e altro materiale di Nicola Martini, e il totem “Pazuzu” di Roberto Cuoghi. Mentre “Le storie esistono solo nelle storie” di Rà di Martino è un documento vivo e animato, che dall’archeologia riporta alla realtà presente.

Le restanti 4 sezioni entrano  ancora di più nell’attualità, a dispetto dell’erraticità e irrazionalità della creatività ontemporanea: si va dai mutamenti dell’ambiente alla cibernetica passando per il riciclo e le periferie,  una rassegna dei disagi e delle opportunità dell’attuale fase storica. Ciò vale per le enunciazioni e le motivazioni dei curatori, e lo abbiamo già visto nella presentazione del 6 giugno, mentre per le interpretazioni degli artisti siamo sempre nell’indeterminato e inconoscibile.

Danilo Correale, “The Great Sleeper”, 2008

“De Rerum rurale” non si riferisce al mondo agricolo, come potrebbe sembrare, Matteo Lucchetti vi ricomprende quelle aree sempre più vaste in cui si perdono i confini tra città e campagna, come i centri commerciali e le villette con il verde ai margini delle città, le valli e i terreni di discarica, e quant’altro di urbanizzato al di fuori dei centri e in contatto con la campagna. Il terreno agricolo  è stato decimato dal consumo di suolo connesso alla cementificazione urbana, fino ad esporre il territorio ai rischi del dissesto, un “rurale continuo” che si sottrae ad ogni regola di protezione. 

La sezione ispirata  al “De rerum natura” di Lucrezio interpreta la natura in chiave rurale: “Come ambiente in crisi e biisognoso di nuove narrazioni, come luogo abitato da comunità in conflitto tra loro o, ancora, come spazio ibrido, in divenire, dove la metamorfosi tra stati è generativa di scenari inediti e trasformativi”. Ben 14 artisti sono mobilitati  intorno a questo tema, distribuiti in tre spazi nei quali l’allestimento passa dall’ordine all’accumulo e all’entropia, cioè dalla disciplina alla frenesia, seguendo Lucrezio secondo cui la natura prima crea e alimenta, poi accresce, infine distrugge.  Oltre agli oggetti semplici e ordinati di Anna Scafi Eghenter, tra cui una serie di righelli sagomati, le “Matrici irregolari”, e un contenitore di “acque internazionali”, “Res communis omnium”, vediamo evocati gli abusi delle multinazionali e le minacce al paesaggio. Di Adelina Husni-Bej, che ritroviamo nella sua terza sezione, un  manifesto recante una ideale convenzione sull’uso dello spazio con tante annotazioni colorate, frutto di approfondimenti del tema, cui accostiamo il racconto di due viaggi molto speciali  di Rossella Biscotti.  

Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”

Molto diverse  le opere di Valentina Vetturi sugli hacker,  installazione luminosa e “coro a cadenza casuale”, e di  Danilo Correale, che con il titolo “The Great Sleeper” presenta la figura di Edison addormentato tra strumenti di misura del riposo nello sfruttamento capitalistico del lavoro. Da un ordine così inquietante si passa alla formazione di comunità come difesa collettiva, che gli artisti presentano con  installazioni e performance, così Marzia Migliorai visualizza l’assenza con le pannocchie abbandonate,Elena Pugliese fa rivivere la storia estrema dell’imprenditore Isidoro Danza, rapinatore  per pagare i suoi operai, cui segue la storia  di Simone Pianetti che uccise i simboli del potere e divenne mito degli anarchici, nell’installazione di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio. Più pacifiche le storie comunitarie di Beatrice Catanzaro, su un’associazione di donne per donne, e di Marinella Senatore, con i suoi strumenti  per stimolare la partecipazione, foto, collage, ecc.

Lo spazio del disordine entropico cerca di rendere i turbinosi cambiamenti nel mondo agricolo con riferimento anche alle antiche mitologie rurali. Queste sono evocate da Moira Ricci, in “Da buio a buio”, museo immaginario di immagini in bianco e nero dei contadini maremmani, mentre l’installazione di Leone Contini  celebra con vivace cromatismo “Un popolo di trasmigratori”. La varietà delle forme artistiche comprende il busto di un agronomo giapponese intitolato alla sua  “Rivoluzione del filo di paglia” con immagini di “Riso amaro”, di Michelangelo Consani, e un film di Nico Angiuli sulla “Cerignola di ieri dentro quella di oggi”, con lo sfruttamento dei migranti che cancella le lotte vittoriose del passato. Ai migranti si riferisce anche l’opera di Luigi Coppola, “Dopo un’epoca di riposo”, che documenta , con video e stendardi, la riqualificazione di aree degradate a discarica convertite con culture miste, “scelte dal terreno”  più che dall’agronomo, in un’integrazione naturale metafora di quella con i migranti.

Paolo Icaro, “Pile Up”, 2008 (1978)

Le ultime tre sezioni,  “Periferiche”, “La seconda volta” e “Cyphoria”

Dal rurale inteso anche come estensione abnorme dell’urbano alle “Periferiche”,  un tema che in passato ha interessato pittori come Mario Sironi il quale ha evocato le “periferie”  con intensi dipinti nei quali si sente la solitudine. La curatrice Doris Viva afferma che occorre sfatare l’illusione di una loro vitalità data da un policentrismo positivo, la globalizzazione schiaccia ogni cultura localizzabile e quindi identitaria. “Periferia, in una geografia ormai delocalizzata e interconnessa, non può che ritenersi quel luogo incapace di attrarre investimenti, privo di grande valore strategico e soggetto a fenomeni sociali, demografici e culturali tutt’altro che dinamici”; perciò si apre una “fase di riconfigurazione della quale è impossibile allo stato attuale prevedere il destino”.  Tutto questo si riflette anche sugli artisti, che vedono smarrire la loro identità nell’omologazione globale, ma possono anche “documentare o criticare tali processi, sollecitare discorsi di consapevolezza e di coscienza politica, oppure, a partire dalla scala della propria singolarità, tentare vie di mobilità e di emancipazione”. 

Gli 8 artisti prescelti hanno deciso di operare in periferia per ripararsi dalla globalizzazione e sentire la linfa della  loro eterogeneità, senza però ostentare questa posizione “dislocativa” che pure li alimenta.  Hanno in comune “la rivendicazione di un tempo più biologico e meditato” e “una forma di più radicale attenzione a un’antropologia del quotidiano, a un’umanità poco dinamica”,  la “vocazione della loro ricerca per la reiterazione”,  e “l’assoluta indifferenza per l’evoluzione tecnologica”.

Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim”, 2013

Colpisce  la lunga cassa coperta di riquadri ad uncinetto colorati, “coperta di lana e zucchero”, intitolata Sim Sala Bim”, di Giulia Pisciatelli,  e la catasta di travi di Michele Spanghero, “Listening is Making Sense”, la colonna piramidale in gesso di Paolo Icaro, “Pile Up”, e il trittico “Paesaggi” di Maria Elisabetta Novello.  Poi il bianco e nero “Volti dell’anonimo” di Paolo Gioli, che espone anche “Luminescenze”, fino al “Massimo Ritratto” e agli “Affreschi su Impressione” di Emanuele Becheri“Parte della superficie terrestre” di Carlo Guaita è una borsa sul pavimento, come se fosse smarrita o dismessa.

E così dalle “Periferiche” passiamo alla sezione “La seconda volta”, che essendo ispirata al riuso dei materiali scartati, in un certo senso si associa al senso di marginalità attribuito al periferico. Ma come le periferie diventano fondamentali in una visione equilibrata della città, così il riuso acquista un ruolo centrale nel riequilibrare gli eccessi del consumismo che distrugge risorse non sempre riproducibili. Gli scarti sono stati definiti “la faccia tragica del consumismo” e hanno attirato anche gli artisti nel riciclo e assemblaggio, tra loro  ricordiamo i legni abbandonati dell’americana Louise Nevelson,  i residui bellici del libico Wak Wak, i rifiuti da discaricadell”italiano Alessio Deli; ben prima, il riuso con finalità artistiche ha fatto nascere il collage, sin dai Futuristi,  e il “ready made”, Marcel Duchamp avanti a tutti. Ma a parte quest’ultimo, che ha nobilitato oggetti di uso comune, i materiali di recupero sono stati impiegati al servizio dell’arte soprattutto scultorea al posto  di quelli tradizionali. Invece,  i  5 artisti presentati nella sezione curata da Cristiana Perrella, non scolpiscono né dipingono, si avvicina al “ready made” Martino Gamper con le sue “100 sedie in 100 giorni” , “trovate, smontate e riconfigurate”; mentre un riuso originale di una statua classica, traducendo il marmo imperiale in poliuretano, lo troviamo in Francesco Vezzoli, che in “Metamorfosi (Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia)”,  ha sostituito con il calco del proprio volto il viso dell’Apollo del Belvedere mantenendo intatto il resto della statua. 

Lara Favaretto, “032-2012”, 2015

L’opposto fa Lara Favaretto che punta sulla cancellazione di un’opera, più che sulla reiterazione,  in forme transitorie  che ne fanno trasparire qualche traccia per farla riemergere in un ciclo reversibile, “Dipinti trovati, lana” sono tre tele rosse con dei contorni sottostanti appena delineati, come quelli di ripensamenti, ci tornano in mente il minimalismo con Rauschenberg e, in tutt’altro senso, le “cancellature”  di Isgrò. Mentre A1ek O. espone oggetti o materiali presi dalla quotidianità, in qualche caso anche personale o familiare, per dare loro una nuova vita che mantiene il retaggio di quella precedente con interventi minimali, spesso assemblaggi operati artigianalmente. Così nelle greche di “Tina” e in “E’ già mattino”, una parete derivata dai manifesti, foderata di celeste con applicazioni dai colori brillanti. Ma il più spettacolare, quanto più elementare, ci è sembrato  “Himalaya” di Marcello Maloberti, un giovane apollineo a torso nudo accovacciato a terra, vera scultura umana, intento a ritagliare dai libri d’arte le foto di sculture classiche, cosparse sul pavimento per essere calpestate e spostate dai visitatori: venendo mosse in modo casuale e continuo danno il senso dell’imprevedibilità della vita.

E siamo all’ultima sezione, nel nostro personale percorso non può che essere “Cyphoria”, dove il curatore Domenico Quaranta affronta il tema del futuro che è già iniziato. Quello della “disforia”, cioè il disagio  e l’insoddisfazione, applicata alla cibernetica, in particolare a Internet che ha stravolto tutti i campi e i momenti della vita diventando in molti casi quello che Gene McHugh ha definito “non un posto del mondo in cui rifugiarci, ma piuttosto quello stesso mondo da cui cercavamo rifugio”.  E’ stata così rapida e pervasiva la sua diffusione, anche con gli strumenti di comunicazione più avanzati che si sono moltiplicati, come i “social network”, che non si riesce a dominare un mondo virtuale dalle parvenze del reale né a decodificarne i linguaggi e a contenerne l’influenza.

Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto
come Apollo che uccide il satiro Marsia”)

Anche nell’arte questa nuova forma di espressione si è diffusa  come tecnologia innovativa; ma pochi, osserva il curatore, “realmente affrontano la questione di cosa significhi pensare, vedere e filtrare le emozioni attraverso il digitale”.  Tra loro, i 14 artisti  presenti in questa sezione della mostra, che esplorano la nuova sconvolgente condizione umana sotto diversi aspetti critici a livello pubblico e privato, passando dalle problematiche generali alle reazioni intime.

Sarebbe arduo cercare di descrivere le opere presentate, per lo più si tratta di video, film o di installazioni molto elaborate, ci limitiamo a citare dei titoli, in relazione ai temi esplorati. Eva e Franco Mattes con i video di “Befnoed”  parlano della “nuova schiavitù”  con lo sfruttamento del lavoro via Internet, tema trattato anche da Elisa Giardina Papa in “Technologies of Care”, un video sulle lavoratrici “on line”. Enrico Boccioletti in “Angelo Azzurro” entra, sempre con un video, nella disperazione generazionale, mentre della zona grigia tra arte e spazzatura mediale si occupa Roberto Fassone insieme a Valeria Mancinelli con l’archivio video “The Importance of Being Context”, al quale accostiamo il tema che il collettivo “Alterazione video” sviluppa con il turbo-film “Surfing With Satoshi” e l’installazione “Take Care of the One You Love”.  “Overexposed”, di Paolo Cirio e Giovanni Fredi, con i ritratti di membri della CIA viola il loro privato come l’agenzia di intelligence fa regolarmente nella sua attività spionistica, mentre Fredi presenta dei “selfi” che si moltiplicano sul web in “Everyone Has Something to Share”.

Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share”, 2015

Un approccio visivo delicato quello di Simone Monsi con la serie “Transparent Word Banners” e di Kamilia Kard con “Betrayal”, mentre in “My Love is Religious – The Three Graces” esplora l’amore “on line”.  Mara Oscar Cassiani con l’installazione “Eden” si cimenta sulla ricerca del relax, la cura dell’acqua e la mercificazione della cura del corpo, e Natàlia Trejbalovà con il video “Relax” e un’installazione denuncia i rischi ambientali e climatici a cui reagire con piccoli sistemi eco-domestici. Vi colleghiamo Marco Strappato che indaga sui cambiamenti dell’immagine del paesaggio e sul modo in cui le arti plastiche reagiscono con la forma-schermo, e lo fa in una stampa e armadietti con schermi dal titolo “Apollo and Daphne e Laocoon”, tema che troviamo in evidenza nella scultura di Quayola, “Laocoon”,  un clone dell’originale di grandi dimensioni, rispettoso dell’antico, con effetti di digitalizzazione; è una presenza spettacolare di forte rilievo scultoreo, come di  forte rilievo pittorico sono i quadri del ciclo “The Brotherhood” di Federico Solmi,  video animazioni di figure di leader dalle maschere grottesche come i generali di Enrico Baj, che nella loro vistosa presenza  disvelano quanto la  finta  fratellanza sia fonte di caos e degenerazione.

La “centesima” opera esposta, la “BMW Art Car” di Sandro Chia, con cui si celebra il centenario del gruppo automobilistco  e il mezzo secolo della sua presenza in Italia, è il fuoco d’artificio finale di una mostra che fa sentire proiettati nel futuro. L’arte associata alla tecnologia conclude un percorso in cui non è mancato l’elemento umano: anche figure umane maschili  e femminili accoccolate la cui serietà e compostezza nella postura allontana ogni possibile associazione con l’irridente scena delle “Vacanze intelligenti” di Alberto Sordi, in cui la “sua signora” seduta viene scambiata per una scultura vivente. 

Del resto anche così  l’arte contemporanea, che nella rutilante esposizione abbiamo visto declinata in un tourbillon di manifestazioni con l’impiego dei materiali più diversi e delle forme espressive più varie, fa riflettere seriamente sul futuro.

Ed è questo il merito della  mostra  nella prospettiva del  rilancio permanente della Quadriennale romana negli spazi ristrutturati del settecentesco  Arsenale Pontificio.    

Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces”

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Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni a studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.  Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5;  dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Gli altri 2 articoli  sulla mostra sono usciti in questo sito il  24 e  27 ottobre,  l’ultimo articolo, sul confronto tra curatori, uscirà  il 29 novembre 2016; l’articolo di presentazione della mostra è uscito il  16 giugno 2016. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli.  in questo sito,  su Pasolini, 16 novembre 2012, 27 maggio e 15 giugno 2014, 27 ottobre 2015, su Duchamp gennaio 2014, Nevelson 25 maggio 2013, Wak Wak 27 gennaio 2013, Deli  21 novermbre 2012 e 5 luglio 2013, Isgrò 16 settembre 2013, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2012, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in “fotografia.guidadel consumatore.it”, per Pasolini  4 maggio 201, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli aaranno ricollocati.

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 2 immagini per ogni sezione, riportate nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo. In apertura,  Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato 2012-2016”, veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”  settembre 2015, seguito da Diego Tonus, “Il baro” 2016; seguono, Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d., e Roberto Cuoghi, “Pazuzu” 2014; quindi, Danilo Correale, “The Great Sleeper”, e Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”, inoltre, Paolo Icaro, “Pile Up” 2008 (1978), e Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim” 2013; ancora, Lara Favaretto, “032-2012”, 2015, e Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto come Apollo che uccide il satiro Marsia”, infine, Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share” 2015, e Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces” 2016; in chiusura, Marcello Maloberti, “Himalaya” 2012. 

Marcello Maloberti, “Himalaya”, 2012

Pasolini, 6. Altri 14 artisti per 7 sue poesie, al Palazzo Incontro

Si conclude la nostra personale celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini con l’ultimo dei 6 articoli che abbiamo ripubblicato sulle mostre a lui dedicate visitate nel decennio scorso, cominciando il 5 marzo, il giorno della ricorrenza nel quale abbiamo rievocato la mostra del 2012 di Monica Cillario – sulla sua prima abitazione romana – e proseguendo nei quattro giorni successivi con i nostri due articoli sulla mostra del 2014 “Pasolini Roma” al Palazzo delle Esposizioni – sulla sua figura di poeta e scrittore, saggista e regista, e le vicende della sua vita stroncata tragicamente – seguiti dall’articolo sulla mostra del 2015 “I tanti Pasolini” a “Spazio 5” – sulla sua immegine nelle fotografie di Carlo Riccardi, testimonianze di personaggi, e non solo – , fino al primo dei due articoli sull’omaggio di 22 artisti ispiratisi alle sue poesie nella mostra del 2012 a Palazzo Incontro al quale segue l’articolo odierno che conclude la nostra rievocazione sulle mostre a lui dedicate. Ma non finisce qui la nostra personale celebrazione, avrà un seguito domani con l’articolo che descrive, insieme ad altre, la sezione della “Quadriennale di Roma” del 2016 dedicata alle opere di artisti ispiratisi alla sua “Orestiade”.

Postato da arteculturaoggi.com [16/11/2012 00:42]

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini” al Palazzo Incontro di Roma dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,promossa dalla Provincia di Roma su progetto di “Teorema”, in collaborazione con “Civita”, con le opere di 22 artisti contemporanei ispirate ad 11 poesie di Pasolini esposte anch’esse al loro fianco . In precedenza abbiamo esposto le motivazioni della mostra presentata da Nicola Zingaretti con i realizzatori Gianni Borgna, Achille Bonito Oliva e Flavio Alivernini curatore anche del Catalogo.

L’opera di Veronica Botticelli  

Da “La religione del mio tempo” a “Marilyn”

Abbiamo già  descritto i primi 4 abbinamenti tra poesie e interpretazioni di una coppia di artisti ciascuna: il primo da “Le ceneri di Gramsci”, gli altri 3 da “La religione del mio tempo”, 1959-60, con 8 artisti impegnati a tradurre in immagini visive le espressioni poetiche dai forti contenuti.

Passiamo agli altri 7 abbinamenti, iniziando con  “Alla mia nazione” ,tratta  ancora da “La religione del mio tempo”, “Nuovi epigrammi”. Contiene un’altra aspra invettiva, dopo quella “A un papa” di cui abbiamo detto in precedenza. La nazione viene definita in termini severi, terra di “milioni di piccoli borghesi come milioni di porci”, i cui esponenti, dai governanti agli impiegati, dagli agrari ai prefetti, ai funzionari, sono “affamati, corrotti”. Per questo “proprio perché sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente”.  E in quanto “colpa di ogni male”, da nazione cattolica, ecco l’invettiva: “Sprofonda in questo bel tuo mare, libera il mondo”.

Gianni Dessì, in “Lucciola” ne dà un’interpretazione enigmatica, una scultura in ceramica scura con due mani annodate che però non pregano, si stringono ma lasciano un varco, buono per la lucciola. Il “Campionario” di Elena Nonnis esprime la molteplicità dei soggetti evocati dalla poesia con 20 ritratti a penna e in filo nero su tela di lino, una scacchiera di tipi umani di ogni età e condizione.

Il “Frammento alla morte”, dalle “Poesie incivili”, del 1960,  è un’invocazione “vengo da te e torno a te” in cui ripercorre la sua vita “battezzato quando il vagito era gioia”, in un accavallarsi di sentimenti: “Ho camminato alla luce della storia, ma, sempre, il mio essere fu eroico, sotto il tuo dominio, intimo pensiero”. Le sue contraddizioni:  “La furia della confusione, prima, poi la furia della chiarezza; era da te che nasceva, ipocrita, oscuro sentimento!”. Con la morte che dà forza all’esistenza: “Tu mi isoli, mi dai la certezza della vita”.  Fino alla reazione alla nevrosi che “mi ramifica accanto, l’esaurimento mi inaridisce , ma non mi ha: al mio fianco ride l’ultima luce di gioventù”. E dopo tanto vissuto l’esclamazione finale: “Africa! Unica mia alternativa…”.

La seggiola dalla spalliera con la scritta “1922-1975”,di Veronica Botticelli è più di un epitaffio: la sedia è fragile per la sua esistenza precaria ma è da regista perché la sua opera ha lasciato il segno, è vuota per la perdita incolmabile. In “Senza titolo” di Nunzio, due corpi neri lignei sovrapposti sfalsati mostrano gli opposti confluiti nella sua poesia, che hanno però un sottile punto di incontro.

Resta la morte con “Marilyn”, del 1962,  la poesia è un inno accorato alla bellezza, di una “sorellina minore”  restata bambina: “Fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente”. E si approfittò delle sue debolezze: “Impudica per passività, indecente per obbedienza. L’obbedienza richiede molte lacrime inghiottite. Il darsi agli altri”.  Per questo “sparì, come una bianca ombra d’oro”, un “pulviscolo d’oro”. E “la tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne così un male” . Ma  “sei tu la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte”

Franco Gulino in “Pasolini”  interpreta la Marilyn del poeta così ricca di significati con una figura inquietante, un  corpo femminile dalle lunghe gambe inguainate esibito senz’anima né sesso, il belletto sul viso pasoliniano angosciato dà all’immagine un tono grottesco fra il trans e il clown triste.  Di Laura Canali “Alle radici dell’essenza”, una composizione di forme e colori mossa e vivace, che vorrebbe rendere il fluire dei moti dell’anima,  in una brillante  astrazione pittorica..

L’opera di Giosetta Fioroni

Da “Poesia in forma di rosa” a  “Transumar e organizzar”

In “Poesia in forma di rosa. La realtà” è contenuta  “Supplica a mia madre”, un’invocazione struggente in un rapporto assoluto, esclusivo: “Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore”. E aggiunge: “Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”.  Insiste sulla forza di questo “impegno immenso”, che era “l’unico modo per sentire la vita” fino a quando questo è finito, con “la confusione di una vita rimasta fuori dalla ragione”.  Per questo ” è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”.

“Gloria”  di Enzo Dubini rende questo sentimento esclusivo con nove elmetti militari sui quali sono delineati in pittura acrilica i contorni prenatali trasformando il simbolo della guerra in un sacco marsupiale protettivo. Giosetta Fioroni intitola con il verso del poeta “E’ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia” una scultura nera con una parte inferiore squadrata e una parte superiore informe e delle mani dorate che ne escono assicurando un approdo  e un contatto rassicuranti.

“La Guinea” è tratta dalla stessa raccolta, inizia con un omaggio alla poesia, “alle volte è dentro di noi qualcosa  di buio in cui si fa luminosa la vita”; diventa una visione onirica di ambienti esotici colorati con una negritudine che ha i caratteri della bellezza, poi il pensiero va al proprio mondo perduto,  la Grecia, Roma e “i piccoli centri immortali”, rispetto a “questo popolo ormai dissociato da secoli”  verso cui “la mia ingenua rabbia non è competitrice”.

Fino al risveglio in terra italiana con i prati  bianchi e i “ruderi consumati da rustiche piogge e liturgici soli”, che lo fa esclamare: “La Negritudine è in questi prati bianchi, tra i covoni dei mezzadri, nella solitudine delle piazzette, nel patrimonio dei grandi stili – della nostra storia”.  E splende anche il sole: “Un sole che morendo ritira la sua luce, certa allusione a un finito amore”.

Questo messaggio così intenso non arriva al destinatario, circostanza su cui  fa leva Giuseppe Pietroniro  interpretandolo come “Un messaggio mai recapitato”:  una busta con la parte trasparente dell’indirizzo dalla quale si intravede un contenuto affastellato di falci di luna e simulacri di vita, imprigionato nella lettera che a sua volta è chiusa nella cornice, in una doppia compressione. Mentre Nino Giammarco prende come titolo il verso “Io muoio, ed anche questo mi nuoce” in cui c’è la reazione all’indifferenza e all’insensibilità del nostro popolo anche di fronte alle tragedie, e lo declina in un un‘opera in ferro saldato a forma di tempio violentemente scoperchiato per liberarsi dalle false protezioni, superare stereotipi e tabù e liberarsi dal fardello di un passato ingombrante.

“La poesia della tradizione”  fa parte di “Transumar e organizzar”, in particolare dei “Poemi zoppicanti”.  Si rivolge alla “generazione sfortunata”  e alle sue illusioni rivoluzionarie in un mondo che chiedeva “ai suoi nuovi figli di aiutarlo a contraddirsi per continuare”: un  mondo “rinnovato attraverso le sue reazioni e repressioni, ma soprattutto attraverso voi che vi siete ribellati proprio come esso voleva”. Portando il giovane alla maturità e alla vecchiaia “senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere e che non si gode senza ansia e umiltà”; con la disillusione “di aver servito il  mondo contro cui ‘portavi avanti la lotta’”. E dopo un’amara riflessione sull’autorità paterna, “oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano una meravigliosa vittoria che non esisteva!”.

“Il corvo” di Mauro Di Silvestro  incarna  le disillusioni per i simboli e gli ideali marxisti nel nero volatile di “Uccellacci e uccellini”, al centro di una tavola dipinta a scacchiera con cubi dalle facce nere, rosse e beige mentre una falce e martello capovolta visualizza la crisi dell’ideologia comunista e una scritta identifica il corvo nell’intellettuale di sinistra e rimanda alla morte di Togliatti.  Assenza di colore nella superficie bianca con testa in rilievo in “Conversazione” di Oliviero Rainaldi: è la perdita di valori, identità e possibilità di comunicare della “generazione sfortunata”, attraverso un calco facciale senza fisionomia, staccato dal corpo; quindi un intellettualismo sterile e impotente, senza gambe per  far camminare le idee, quasi un’impersonale maschera di attore.

Della stessa raccolta “Transumar e organizzar”, libro secondo “Charta (sporca)”,  abbiamo l’ultima poesia proposta agli artisti, “Versi del testamento”, una straordinaria riflessione fortemente autobiografica sulla solitudine, che porta agli incontri effimeri e illusori e anche alla solidarietà..

 “Bisogna essere forti per amare la solitudine”, perché spinge a girare senza sosta alla ricerca di un qualcosa che possa alleviarla. Non bastano i fugaci incontri, anche amorosi, “non sono che momenti della solitudine” e  la accentuano: “Chi poi se ne va  si porta dietro una giovinezza enormemente giovane; e in questo è disumano perché non lascia tracce”. Tanto più numerosi gli incontri quanto più si resta soli: “La solitudine è ancora più grande se una folla intera attende il suo turno”. Nel giovane “è il mondo che così arriva con lui, appare e scompare, come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose”.  E al termine  un pensiero filosofico in cui la negazione diventa affermazione: “E allora cosa ti aspetta se ciò che non è considerato solitudine  è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?”: la ricerca “senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”. Qui la solitudine diventa solidarietà, la vera ancora di salvezza.

Sono due opere fotografiche ad esprimere in linguaggio figurativo questi contenuti filosofici  e insieme personali. “Più caldo e vivo è il corpo gentile” è un verso con il quale Matteo Basile intitola l’immagine di una dolente figura femminile  con il viso sofferente dai lineamenti orientali avvolto da un fazzoletto rosso, lo sguardo a terra mentre spunta un seno dal corpo giovane  già molto vissuto. Sono questi gli incontri che si fanno con la soddisfazione di scoprire la solidarietà. La fotografia “Senza titolo” di Claudio Abate  raffigura la solitudine nell’uomo che fuma seduto dietro a un tavolino nella stanzetta in una specie di tunnel oscuro nel quale, però, non è del tutto solo:  gli fa compagnia la luce che spiove sul tavolo da una lampadina accesa e dà consistenza allo spazio, si irradia nelle volute di fumo che sembrano ectoplasmi emessi dai suoi pensieri; potrebbe essere l’immagine della sua stessa solitudine riscaldata dalle sue riflessioni profonde e illuminate.

L’opera di Oliviero Rainaldi

Cosa è rimasto oggi di quello che ha detto quando c’era

Abbiamo riportato alcuni  tratti essenziali delle poesie di Pasolini pur perdendone nell’estrema sintesi la verve polemica e la forza di una denuncia gridata con il cuore e l’anima, spesso con toni disperati. Sulle interpretazioni artistiche ci siamo limitati a render conto delle componenti visive, aggiungiamo che la qualità delle opere  è spesso notevole, così il loro grado di accuratezza.

Però non possiamo esimerci dal dare la nostra impressione complessiva sui contenuti:  ebbene, ci è parsa, nella gran parte delle opere, più una esercitazione artistica pur impegnativa e sentita che una immedesimazione autentica, non vi abbiamo visto riflessa la denuncia accorata del poeta, la sua rabbia esistenziale, il suo allarme epocale gridato a viva voce. Non crediamo sia stata mancanza di coraggio, bensì il venir meno della straordinaria spinta ideale e vitale legata all’unicità e singolarità del personaggio che sentiva sulla sua carne i morsi lancinanti di una realtà che respingeva. Questo non incide sulla caratura degli artisti e sul risultato dell’esperimento compiuto sotto il profilo della qualità espressiva; innalza invece ancora di più la statura e moltiplica il valore dell’opera di Pasolini che si conferma dopo questa verifica come irripetibile e ineguagliabile. Per cui le sue poesie e la sua stessa vita assurgono a testimonianze insostituibili di una presenza vitale perduta per sempre ma per la sua unicità divenuta una pietra miliare nella storia della nostra società e della nostra epoca.

All’interrogativo di Alivernini “cosa è rimasto oggi  di quello che ha detto quando c’era”  possiamo  dare quindi questa risposta: un convinto omaggio artistico di alta qualità al personaggio e alla sua battaglia civile, intriso di ammirazione oltre che di rispetto, ma con poca motivazione autentica e tanto meno mobilitazione sui temi che lo hanno visto mettere la propria vita in gioco, e diventare il “bersaglio emblematico”  di cui parla Bonito Oliva. Non a caso tra le più espressive ci sono apparse le interpretazioni della solitudine e della solidarietà con quelle del senso materno; tra le meno efficaci quelle sulle  materie in cui la sua vis polemica era stata  più sferzante fino a divenire feroce.

Detto questo come impressione generale, dobbiamo aggiungere che tra tutte ci è rimasta dentro la composizione funebre di Kounellis, la casacca sdrucita sulla fredda portantina a terra, triste  “monumento” funebre di tante morti di poveri emarginati e derelitti ed anche della sua fine solitaria e desolata quasi a volerle condividere: oscura ma illuminata dai fiori rossi dell’amore dei giusti.

Concludiamo il rapido excursus tra i suoi versi e la trasposizione artistica con la citazione molto appropriata  di Alivernini dal “Trattato della pittura”  di Leonardo da Vinci sul rapporto tra poesia e pittura: “La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede”. Insieme “hanno scambiato i sensi, per i quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto”. Ed è proprio quello che avviene con la mostra, nel segno del nume tutelare Pier Paolo Pasolini.

Info

Palazzo Incontro, Roma, via dei Prefetti, 22, dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,  martedì-domenica ore 11,00-18,00,  entrata fino alle 17,30, lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel.  Palazzo Incontro  06.97276614; “Teorema” 392.2984.600. Info@teoremacultura.com, http://www.teoremacultura.com/. Catalogo:  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, a cura di Flavio Alivernini, Fandango libri, Roma  ott. 2012, pp. 126 euro 20,00. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito l’11 novembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Incontro, si ringrazia la Provincia di Roma, “Teorema ” con Civita, Fandango e i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’opera di Veronica Botticelli, seguita dalle opere di  Giosetta Fioroni, poi di Oliviero Rainaldi; in chiusura l’opera di Claudio Abate.

L’opera di Claudio Abate

Pasolini, 5. Omaggio poetico-artistico, a Palazzo Incontro

Ci avviamo alla conclusione della nostra celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini ripubblicando oggi il primo dei nostri due articoli del 2012 sulla  mostra romana al Palazzo Incontro in cui furono presentate le opere di 22 artisti ispiratisi a 11 sue poesie, domani rpubblicheremo il secondo. I 4 articoli precedenti, usciti in successione su questo sito dal 5 marzo, giorno del centenario,  riguardano il primo la  mostra fotografica di Monica Cillario del 2012, i due scguenti la mostra “Pasolini Roma” del 2014 al Palazzo delle Esposizioni, il quarto la mostra “I tanti Pasolini”  di “Spazio 5” nel 2015. Il poeta e lo scrittore, il saggista e regista e anche la sua vicenda umana conclusa tragicamente vengono riproposti nella nostra narrazione di allora.

Postato da arteculturaoggi.com [11/11/2012 00:42]

di Romano Maria Levante

Una mostra  il cui titolo  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini” è in carattere con la natura del personaggio indomito e controcorrente, scomparso tragicamente nel 1975.  Promossa dalla Provincia di Roma su progetto di “Teorema”, in collaborazione con “Civita”, catalogo di Fandango libri, aperta al Palazzo Incontro di Roma dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012. La mostra, che comprende anche due giornate di approfondimento sulla sua poetica,  presenta le interpretazioni di 22 artisti su 11 sue poesie affiancate alle opere, 2 artisti ogni poesia.

Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva

Avevamo visto nel 2011 la mostra fotografica di Monica Cillario sull’abitazione di Pasolini a Roma, dall’atrio al gabbiotto del portiere, dalla tromba delle scale al campanello, fino al Cimitero degli inglesi che ispirò “Le ceneri di Gramsci”: sembrava di sentire i suoi passi.

Questa mostra ci riporta di nuovo la sua memoria attraverso  una selezione delle sue poesie e le opere che hanno ispirato ad artisti di due generazioni: quella che ha vissuto il suo stesso periodo e quella successiva che lo ha conosciuto per fama. Gli artisti hanno interpretato il suo pensiero poetico nel 2012 o  pochi anni addietro, quindi le loro opere sono uno segno di cosa è rimasto oggi della sua lezione civile quale alimento dell’arte contemporanea con motivi forti.  Sono i motivi della sua poesia civile che ha affiancato le altre forme artistiche e letterarie in cui si è cimentato.

Ne hanno parlato con accenti commossi alla presentazione il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, che ha promosso la mostra, e i realizzatori:  Gianni Borgna, per la selezione poetica, il curatore Flavio Alivernini dell’associazione “Teorema”  nel cui  nome si ritrova  un suo film scomodo e inquietante, e il critico Achille Bonito Oliva che si è soffermato sulle diverse forme nelle quali Pasolini ha manifestato i sentimenti e la rabbia. E  una ricostruzione del film “La rabbia di Pasolini”, curata da Giuseppe Bertolucci da un’idea di Tati Sanguineti,  è in visione alla mostra.

Le forme artistiche di Pasolini per Bonito Oliva

Bonito Oliva trova nella forza della sua passione civile il motivo per esprimersi nei campi più disparati, dalla poesia al cinema, dalla narrativa alla pubblicistica, fino alle arti figurative. E questo per trovare spazi dove far passare le proprie istanze esistenziali prima che culturali, in una continua  sperimentazione che implicava la contaminazione e lo sconfinamento  tra varie forme espressive.

Forme diverse ma rivolte allo stesso obiettivo: marcare la propria presenza e la propria denuncia di una realtà afflitta da contraddizioni da decifrare con una ricerca instancabile esercitata su se stesso e con lo strumento della cultura come lente d’ingrandimento che ne rivelasse i guasti anche prima che fossero visibili. La sparizione delle lucciole è un’immagine simbolo di questa sua spasmodica attenzione nella quale non si è mai risparmiato ponendosi così come un “bersaglio emblematico”.

Delle forme artistiche utilizzate da Pasolini quella meno nota, la pittura e il disegno, viene analizzata da Bonito Oliva quasi a creare un collegamento con i dipinti esposti nella mostra in suo omaggio. Il critico lo associa al manierismo, “che esprimeva la posizione dolorosa e decentrata dell’artista”  il quale viveva in una realtà attraversata da “crisi religiose, economiche, scientifiche e morali che segnavano la fine del Rinascimento”; e questo perché sono “quelle crisi che attanagliano anche la nostra società contemporanea, ponendo l’artista fuori da qualsiasi certezza e portandolo ad adoperare l’arte come strumento d’affermazione della propria identità”.  Di qui un excursus sulla sua opera pittorica, dalle prime opere con un segno vicino a De Pisis, agli autoritratti, da quello con il fiore in bocca  alla Van Gogh, a quello dal volto verde marcio nello stile di Pontorno. In tutti deformava i propri tratti somatici mentre nei ritratti degli amici li ingentiliva. Pochi paesaggi o nature morte, nei ritratti non coglieva l’attimo ma ritraeva in posa per dare la “rappresentazione di uno stato interiore”  cioè “questa sorta di rallentamento e dilatazione di uno stato d’animo”.

In modo analogo nel suo cinema, legato alle arti figurative come lui le intendeva:  una narrazione lontana dal naturalismo per estraniarsi dalla realtà e soddisfare il suo “desiderio di contemplazione”; realizzata mediante “una sequenza di quadri staccati , di immagini splendidamente isolate tra loro”.

La sua poesia civile proposta agli artisti per il curatore Alivernini

E la poesia?  Una poesia civile come i suoi romanzi e la sua coraggiosa pubblicistica. Flavio  Alivernini parla di “totale immedesimazione fra la dimensione soggettiva, personale, oggettiva, storico culturale”.  Si tratta di “confessioni e testimonianze, psiche e realtà, poesia e storia: la ricerca spasmodica della verità, condotta con una ‘sincerità crudele'”.

Il suo è un “procedimento maieutico” in cui mette in gioco se stesso, l’immedesimazione diventa sofferenza: “Una poesia che è vita, ma lega l’esistenza alla realtà e si fa poema civile,  cercando il riscatto nella storia”.   Pasolini “bersaglio emblematico”, come lo ha definito Bonito Oliva,  per il curatore si espone a  “reazioni ostili, non solo dal punto di vista prettamente ideologico”,  e se ne rende conto lui stesso nell’introduzione del 1967 a una raccolta di poesie in cui commenta amaramente l’ “ingenuità” nello scrivere  versi “per chi non potesse volermi che un gran bene. Adesso capisco perché sono stato  tanto sospetto e odiato”.

Si è rivelato preveggente non solo con le lucciole, ma anche nella denuncia della violenza che si annidava nelle borgate e di questo odio verso la sua persona: vengono i brividi nel ripensare alla sua tragica fine in cui convergono queste sue sofferte visioni.  Nelle quali spicca la massificazione spietata che annulla l’autentica cultura.

Le visioni profetiche sono espresse nella sua poesia civile, e perciò proporre una scelta dei suoi componimenti poetici a un gruppo di qualificati artisti contemporanei è stato un modo magistrale di “tracciare un bilancio generazionale del lascito di Pasolini  alla nostra epoca”: così la sua  ispirazione poetica si incrocia con la creatività artistica dei contemporanei “in un continuo rimando di suggestioni, simboli, concetti  e creazioni estetizzzanti che si fanno impressioni e visione”.

L’opera di Maurizio Savini

Le prime 4  poesie con 8 artisti: da “Le ceneri di Gramsci” a “La religione del mio tempo”

E allora  guardiamo le 22 opere della mostra che rimandano alle 11 poesie esposte nelle rispettive stanze, nei due livelli espositivi di Palazzo Incontro, gli abbinamenti rispondono ai loro linguaggi. Il Catalogo di “Fandango libri”  riporta le une e le altre, con il “Punto di vista non autorizzato” di Elisa Santinelli, che le mette a raffronto, e la “Biografia degli artisti”, una documentazione preziosa.

Si inizia con “Le ceneri di Gramsci” del 1954, 5 ampi  testi poetici  accorati e sofferti in cui il pensiero rivolto alla memoria del personaggio dinanzi alla sua tomba  suscita profonde riflessioni su se stesso e sull’umanità. Già l’ideale al quale l’uomo politico ha sacrificato la vita, fortemente condiviso – “noi morti ugualmente con te”- sebbene “illumini questo silenzio” trova il vuoto intorno a sé, anche se il Cimitero degli inglesi, confinato e negletto dalla città, è l’ambiente adatto per questo isolamento non solo rispetto alla “noia patrizia” ma anche al lavoro operaio.

Del resto “caparbio l’inganno che attutiva la vita resta nella morte”, tutto è caduco , “scelte, dedizioni… altro suono non hanno che questo del giardino gramo”, dove aleggia un’atmosfera di malinconia che stempera le passioni: “Qui il silenzio della morte è fede di un  civile silenzio di uomini rimasti uomini, di un  tedio  che nel tedio del Parco, discreto muta”.

Ma presto si immerge in una sofferta introspezione sulle proprie esitazioni e contraddizioni: “Eppure senza il tuo rigore, sussisto perché non scelgo, vivo nel non volere: amando il mondo che odio”; fino al confronto impari:  “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”.  E alla vitale affermazione “Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato”, segue l’interrogativo: “Ma a che serve la luce?”.

Non è solo nelle sue ambasce sul senso della vita, ripensa a Shelley, esclama “io vivo, eludendo la vita, con nel petto il senso di una vita che sia oblio accorante, violento”. Scorrono immagini  della Maremma e della Versilia, delle “torride Apuane” e della Riviera che lo portano a dire: “Mi chiederai tu, morto  disadorno, d’abbandonare questa disperata passione d’essere nel mondo?”.

Fino all’ultimo brano in cui si accommiata: “Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi”. E si rivolge di nuovo alla vita cittadina nelle sue miserie che descrive impietoso e nelle sue illusioni: “E’ un brusio la vita, e questi persi in essa la perdono serenamente” per concludere con un dubbio esistenziale lacerante: “Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?”. E’ un  compito da far tremare le vene e i polsi esprimere nell’arte questa valanga di sentimenti.

Maurizio Savini  con “Il cammino è iniziato e il viaggio è già finito”  la traduce nel corvo di “Uccellacci e uccellini”, nell’ombrello e cappello con l’assegno che firmò al ristorante poco prima di trovare la morte nella desolazione dell’Idroscalo, evocazione di un evento angoscioso.  Invece Gianfranco Baruchello, con “Enfatiche ceneri”,  rimanda al poema con scritture e segni enigmatici.

L’excursus poetico passa a “La religione del mio tempo”, 1955-59, con cinque componimenti. In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive in modo impietoso nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

 L’opera di Pietro Ruffo

In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

La prima loro passione è “il desiderio di ricchezza,: sordido come le loro membra non lavate, nascosto, e insieme scoperto, privo di ogni pudore”.  E lo paragona al rapace “che svolazza pregustando chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno; così bramano soldi come zingari, mercenari, puttane”.  Ma poi sconsolato conclude: “Il loro desiderio di ricchezza è simile al mio. Ognuno pensa a sé, a vincere l’angosciosa scommessa, a dirsi: ‘E’ fatta’, con un ghigno di re…”.  Nella comune ossessione c’è solo una differenza: la speranza è “estetizzante in me, in essi anarchica”, il raffinato e il sottoproletario sono “entrambi fuori dalla storia”. Gli unici “varchi” sono “nei sensi. In cui la gioia è gioia, il dolore dolore”. Altra complessità dolente che è veramente arduo rappresentare.

Carla Accardi con “Bianca Ombra” traspone in forme e segni dai forti colori l’intreccio tra sete di ricchezza e sentimenti fino alla gioia e al dolore che trovano il loro equilibrio compositivo.   Sten & Lex, in “Ritratto anonimo”  danno un viso grigliato di donna, un grigio identikit dell’anonimato.

“Alla Bandiera rossa”  è un epigramma  che inizia con una forte legittimazione: “Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa, tu devi realmente esistere perché lui esista”.  Ma dinanzi alle sofferenze dei miseri “chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi”.  Di qui l’esortazione: “Ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.

Un tema preciso, lo visualizza Giuseppe Capitano che in “Bandiera”  presenta un panno rustico senza colore su un’asta orizzontale, al centro un grumo di stoffa rappreso,  forse un simbolo di emarginati in lotta.  Michelangelo Pistoletto con “Presentazione” espone una stoffa a scacchi chiari e scuri tenuto da due mani, segno che  quando c’è chi lo agita tutto può diventare un simbolo.

Un  epigramma, “A un papa”, del 1958, suscitò forti reazioni, dopo la morte di Pio XII cui chiede ragione di una morte senza nome e di vite miserevoli “in vista della bella cupola di San Pietro”. Gli si rivolge così: “Pochi giorni prima che tu morissi, la morte aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo”,  Zucchetto; e gli chiede il perché di tanta indifferenza rispetto alle intollerabili condizioni di vita degli emarginati: “Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente di tanti mille e mille cristi come lui”. Fino a confessare: “Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore”.  Infine l’invettiva, dura come una maledizione o una bestemmia: “Lo sapevi, peccare non significa fare il male; non fare il bene, questo significa peccare. Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: non c’è stato un peccatore più grande di te”.

Dinanzi a questa eretica sacra rappresentazione si aspettavano opere altrettanto trasgressive. Invece  Pietro Ruffo con “Pasolini” ha reso i due aspetti contrastanti di Roma incarnati nel volto del poeta su una pianta cittadina plastificata dai segni marcati, con dei chiodi di sofferenza conficcati nel suo volto. Il “Senza titolo” di Jannis Kounellis va oltre la dissacrazione e la denuncia evocando  la morte senza rispetto e senza nome con una casacca nera sdrucita a terra su una portantina di ferro, con a lato alcune rose appassite, uno struggente monumento funebre misero e intenso non solo a Zucchetto pianto dal poeta ma forse allo stesso Pasolini, alla cui tragica fine  da solo nel posto più desolato e inospitale fa ripensare,  come le rose fanno sentire il calore dell’amore di tanti per lui.

Altre salette, altre poesie, altre opere d’arte. La visita continua,  ne parleremo prossimamente.

Info

Palazzo Incontro, Roma, via dei Prefetti, 22, dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,  da martedì a domenica ore 11,00-18,00,  entrata fino alle 17,30, lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel.  Palazzo Incontro  06.97276614; “Teorema” 392.2984.600. Info@teoremacultura.com  –  http://www.teoremacultura.com/ Catalogo:  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, a cura di Flavio Alivernini, Fandango libri, Roma  ott. 2012, pp. 126 euro 20,00.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Incontro, si ringrazia la Provincia di Roma, “Teorema ” con Civita, Fandango e i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta. In apertura, Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva; seguono le opere di Maurizio Savini, Pietro Ruffo e Jannis Kounellis.

 L’opera di Jannis Kounellis

Pasolini, 4. “I tanti Pasolini”, di Carlo Riccardi, canzoni e film, a “Spazio 5”

La nostra celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini il 5 marzo 2022 – iniziata con la ripubblicazione dell’articolo sulla mostra del 2012 di Monica Cillario che ha fotografato la sua prima abitazione a Roma, e proseguita il 6 e il 7 marzo ripubblicando l’articolo sulla mostra “Pasolini a Roma” del 2012 al Palazzo Esposizioni dedicata alla sua figura e alla sua attività di poeta e scrittore, regista e saggista – presenta oggi 8 marzo i “Tanti Pasolini” delle istantanee del celebre fotografo Carlo Riccardi e delle testimonianze di vari personaggi nel nostro articolo pubblicato nel 2012 sulla mostra a “Spazio 5”. Domani e dopodomani 9 e 10 marzo 14 artisti ispirati a 7 sue poesie in una mostra del 2012 a Palzzo Incontro.

Postato da arteculturaoggi.com [02/11/2015, 11,30]

di Romano Maria Levante

La  “maratona”  “I tanti Pasolini” a “Spazio 5”,  sede dell’Istituto Quinta Dimensione, nei pressi di piazza Risorgimento a Roma, dal 24 ottobre al 4 novembre 2015, a quarant’anni dalla morte,  espone 30 fotografie dei primi anni ’60 di Carlo Riccardi, con 30 testimonianze di personaggi di varia estrazione nel Catalogo. Nella serata inaugurale un concerto con le sue canzoni a cura di Irene Toppetta, voce di Marta la Noce, chitarra di Fabio Micalizzi. Sono intervenuti Luigina di Liegro assessore al Turismo di Roma Capitale,  Sabrina Alfonsi e Andrea Valeri del I Municipio. Nei giorni 27-29 ottobre  in programma a “Spazio 5”, i film di Pasolini regista “Uccellacci e uccellini”, “Accattone” e “Mamma Roma”, “Il gobbo” di Carlo Lizzani  con Pasolini attore e “Pasolini, la verità nascosta” con il regista Federico Bruno, e un incontro con Silvio Parrello, del film “Ragazzi di vita”, con Ilaria Parisella. Organizzato da “Archivio Riccardi” e  I Municipio, presentato dall’Istituto Quinta Dimensione  a “Spazio 5”. Mostra e Catalogo a cura di Maurizio Riccardi e Giovanni Currado.

La locandina della mostra con una foto del 1961,
alla conferenza stampa del Premio Strega

Abbiamo dato conto a suo tempo di altre mostre su Pierpaolo Pasolini,  da quella del 2011 di Monica Cillario, un reportage fotografico  sui luoghi della sua vita,  alla mostra al Palazzo Incontro del 2012  con le opere di 22 artisti ispirate alle sue poesie, fino alla grande mostra del 2014 al Palazzo Esposizioni su “Pasolini Roma”. La mostra organizzata da “Spazio 5″  nel quarantennale evoca, con una selezionata sintesi fotografica, i “tanti Pasolini”  nelle sue relazioni in vari momenti di quotidianità.

Prima dei “tanti Pasolini” non possiamo non accennare ai “tanti Riccardi”, anch’essi evocati. In realtà  sono due, Carlo Riccardi e Maurizio Riccardi che ne prosegue l’opera, ma ci riferiamo a Carlo, il maestro che in sessant’anni di attività ad alto livello si è moltiplicato nelle vicende della storia e del costume che ha documentato così da dar vita a “tanti Riccardi”, innumerevoli come gli eventi di cui ha fissato le testimonianze irripetibili negli “attimi fuggenti”  in cui si sono verificati.

I “tanti Riccardi”  e una sorpresa

Già da ragazzo Carlo Riccardi era vicino al fotografo di Mussolini, ricorda lui stesso, e non smetteva di scattare foto, poi si scatenerà  nella “Dolce vita”. Di lì tutti gli eventi: c’è il Riccardi del cinema e il Riccardi del  costume, il Riccardi delle  dive e il Riccardi  dei Pontefici, e potremmo continuare a lungo,  tutto e tutti troviamo nei milioni di fotografie dell'”Archivio Riccardi”, qualificato come Patrimonio di interesse nazionale dalla Soprintendenza archivistica del Lazio. 

Dall’archivio vengono  “i tanti Pasolini” .presentati nella mostra a ” Spazio 5″ dall’Istituto Quinta Dimensione,  una sede aperta alle iniziative culturali di cui Carlo con orgoglio ci racconta che era la libreria del padre, che fu chiusa per l’invadenza delle grandi librerie facenti capo alle case editrici, finché Maurizio non le ha dato la nuova destinazione. E’ un prezioso punto di riferimento, raccolto e accogliente, di un’istituzione che svolge un’attività meritoria di diffusione della cultura utilizzando in modo innovativo il linguaggio dell’arte come forma di comunicazione. 

A casa Bellonci per le cinquine dei finalisti del Premio Strega e
mentre depone la scheda nell’urna alla serata finale

Tanti Riccardi, dunque, ma la serata per Pasolini  ce ne ha presentato uno sconosciuto ai più, il Riccardi pittore,  una qualifica a cui tiene molto dicendoci che  ha dipinto da sempre anche se la fotografia è la sua forma espressiva più nota. E che pittore! Al termine dell’incontro la sorpresa: all’uscita, un “tazebao” su tela lungo quindici metri e alto un metro era disteso a terra sul marciapiede davanti all’ingresso, una specie di affresco di un cromatismo intenso, con una sequenza di immagini celebrative del Giubileo dall’apertura della Porta Santa, molte mani aperte nelle quali il riferimento ai graffiti primordiali si unisce all’espressione della fede. E’ stato il modo da lui scelto per celebrare i suoi novant’anni, realizzato  la sera prima, un miracolo incredibile di arte ed energia.

“I tanti Pasolini” nelle immagini scattate da Carlo Riccardi

“I tanti Pasolini” presentati nella mostra attengono alle diverse incarnazioni del poliedrico uomo di cultura di cui si celebra il quarantennale della morte violenta, sulla quale Carlo Riccardi ha delle idee ben precise, in controtendenza rispetto a quanto si ritiene generalmente sulla matrice dell’orrendo assassinio.  Ma il suo ricordo è sereno, nel rievocare il primo incontro sul set del “Gobbo” di Lizzani, in cui gli riservò “un interrogatorio particolare: condotto per tutto il tempo con il sorriso”; e aggiunge: “Pasolini parlava con chiunque. Era curioso, sempre interessato a qualsiasi cosa. Per me era come parlare con un amico sempre disposto a sapere cosa mi accadesse”. 

La selezione di 30 fotografie  coglie Pasolini in  diversi momenti in cui si è manifestata la sua multiforme attività di scrittore  e regista, attore e giornalista, poeta e drammaturgo.  L’obiettivo di Carlo Riccardi  ce lo mostra soprattutto agli inizi, perché il grande fotografo sa puntare su chi esploderà in seguito. Le immagini esposte risalgono alla prima metà degli anni 60, tranne due del 1969, ne documentano la partecipazione a diversi eventi relativi alla sua multiforme attività.

Nel 1960  vediamo Pasolini scrittore al Premio Strega con Laura Betti; Pasolini attore sul set  del “Gobbo” in 4 immagini, una con il registra Carlo Lizzani, due premonitrici, la morte violenta del personaggio di Leandro da lui interpretato; Pasolini sceneggiatore sul set del film  “Il bell”Antonio”  con Marcello Mastroianni e Pierre Brasseur.

Nel cinema nel 1960 già due Pasolini, nel 1961 il terzo e principale Pasolini  regista, Carlo Riccardi lo riprende in due immagini alla prima di “Accattone”, una con Franco Citti;  il Pasolini scrittore lo vediamo nello stesso anno al Premio Strega con Goffredo Parise e una dolcissima Laura Betti che si stringe affettuosamente a lui, l’istantanea  è riuscita a cogliere un momento di tenerezza; poi l’abile fotografo lo riprende mentre deposita  la scheda nell’urna e nella conferenza stampa.

Lo ritroviamo al Premio Viareggio nel 1962, seduto tra Giuseppe Ungaretti e Adriana Asti; e nel 1963 alla presentazione di un libro alla Libreria Einaudi a Roma.  E’ l’anno della foto di  Pasolini regista al Festival internazionale del cinema di Venezia  e del Pasolini perseguitato per i suoi film, lo documentano due immagini, la prima mentre si difende davanti al giudice  del Tribunale di Roma dall’accusa di vilipendio della religione per il film “La ricotta”, la seconda liberatoria all’uscita da Palazzo di Giustizia  scortato dagli amici Alberto Moravia e Dacia Maraini, Enzo Siciliano e Laura Betti; forse nella stessa occasione altre due immagini serene, al bar con Alberto Moravia e Laura Betti e un intenso primo piano con  questa sua grande amica, questa volta dall’espressione assorta.

Siamo nel 1964, ecco il Pasolini drammaturgo alla prima di uno spettacolo teatrale e il Pasolini scrittore e figliodurante la serata finale del Premio Strega con la madre Susanna Colussi.

Ancora al Premio Strega nel 1965 in quattro immagini, due a Casa Bellonci alla votazione della cinquina, con Arnoldo Mondadori e Maria Bellonci, due alla serata finale  in un insolito completo bianco, una con Paolo Volponi, l’altra con Isabella Barzini in abito da sera bianco a riquadri.

Del 1969 le due ultime foto,  all’aeroporto di Ciampino, in una bacia Maria Callas, la sua Medea.

Una galleria essenziale ed espressiva, alcuni dei “tanti Pasolini” ripresi con immediatezza.

Una foto del 1962 a Viareggio con Adriana Asti

La figura di Pasolini nelle testimonianze che accompagnano le immagini

Insieme a queste immagini  fissate dalla fotocamera  di Carlo Riccardi,  l’iniziativa di “Spazio 5” ha presentato anche i giudizi  di tanti personaggi che operano nei vari settori dei “tanti Pasolini”: alla galleria fotografica il Catalogo associa questa raccolta di testimonianze,   ciascuna  delle quali accompagna ogni singola fotografia.

Iniziamo con  la testimonianza del produttore cinematografico Manolo Bolognini, che ricorda la prontezza con cui, dopo soli venti giorni, consegnò l’intera sceneggiatura del “Bell’Antonio” diretto dal fratello Mauro Bolognini: “Era un uomo straordinario, uno scrittore, un poeta, un pittore e poi diventò anche un grande regista. I suoi problemi sono tutt’altra cosa”. E con la testimonianza di  Ilaria Parisella, Heritage manager: “Curiosità, passione, competenza, diversità sono le parole chiave con le quali Pasolini ha intrapreso sempre nuove incursioni in campi espressivi diversi, integrandoli  tra loro. Un uomo unico, dalle mani sempre ‘fredde’ e ‘sudate’, dalla voce sottile e soave, emaciato come se avesse già incise sul volto le ferite della vita e della morte”.

Innocenzo Cipolletta, ora commissario dell’Azienda speciale Palaexpo, ci riporta alla sua visione: “Da un lato ha provato nostalgia per un mondo ormai passato, ma dall’altro si è totalmente proiettato verso il futuro”. E aggiunge: “Per me la figura di Pasolini ha rappresentato l’occasione per riflettere sulla capacità di guardare alle cose nuove , valutandone, però, l’effettiva utilità”.

E’ una chiave per interpretare l’interesse unanime scattato oggi per un intellettuale ai suoi tempi molto  controverso , che lo storico dell’arte Costantino D‘Orazio  vede così: “Pasolini ha lasciato innumerevoli tracce del suo passaggio nella cultura contemporanea, forse anche più  di quanto lui stesso avrebbe immaginato… Ha creato un immaginario a cui l’arte contemporanea attinge continuamente, correndo spesso il rischio di tradire le sue idee, eppure attratta dalle sue atmosfere irrisolte e dalle sue provocazioni”.

Nel 1963 alla presentazione di un libro con Laura Betti

Altra chiave interpretativa è la sua capacità di anticipare gli eventi, la mostrò fin dal  1962 nella poesia “Alì dagli occhi azzurri” sugli arrivi degli africani in Calabria, tappa verso Marsiglia, come oggi con Lampedusa, tappa verso  la Germania, lo evoca il regista Enzo De Carolis: “E’ impossibile non ammirare la sua lungimiranza  che tutt’oggi ci aiuta a riflettere e per la quale non possiamo non essergli grati”. Il filosofo ed epistemiologo Giulio Giorello aggiunge: “Pasolini è stato un grande testimone del nostro tempo, che ha saputo cogliere con largo anticipo le contorsioni della politica, il ‘problema del palazzo’, la difficile condizione dei diversi. Ora sembra più facile, ma allora erano momenti duri, di censura della libera espressione”.  

Dallo scrittore Roberto Ippolito un’ulteriore angolazione, mentre ricorda  la risposta a Italo Calvino sulla vita  di studio, lavoro e relazioni di un intellettuale: “Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita’. E spiegò che quest’altra sua vita si svolgeva in mondi diversi, fra i contadini, i sottoproletari, gli operai”. Questo il commento: “Pasolini non è dunque e non vuole essere l’uomo di cultura  distaccato dalla realtà quotidiana. Non è arroccato nella cittadella di un’èlite che ostenta la propria superiorità, con un comportamento dannoso anche oggi.  Tocca invece con mano la diversità, è immerso dentro. la vive, anche esageratamente… Lui non si limita a guardare il panorama dalla torre, dall’alto in basso. In basso c’è.

E da quella posizione non si può restare nell’ortodossia, lo dice il maestro della fotografia  Ferdinando Scianna: “Pasolini è stato un personaggio di snodo della società italiana perché è stato quello che si definisce un ‘eretico’. Era, infatti, ‘eretico’ da diversi punti di vista: da quello della cultura religiosa, da quello della cultura italiana, dal partito comunista, dalla sessualità, dalla sua maniera di vivere le cose. In quanto tale, è stato un personaggio  portatore di scandalo”.

 All’esterno del Palazzo di Giustizia a Roma
con Dacia Maraini e Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Laura Betti

Queste le conclusioni che Filippo La Porta trae dalla carrellata di giudizi e dalla galleria  di fotografie “che lo ritraggono nei contesti più diversi e stranianti” nel piccolo ma denso Catalogo: “Ecco, la cosa che bisognerebbe dire di Pasolini è che amava la vita… Certo, la amava a modo suo, con quella furia e tensione totale, e a volte in modi decadenti, ma la amava, e amava di un amore straziante la cultura, la tradizione, la grande civiltà del  nostro paese, la felicità reale, e ancor di più le persone umili del popolo, quelle  che non sanno nemmeno di avere dei diritti”.

E’ un’immagine di vita che ce lo fa sentire vicino, come nel delicato pensiero della scrittrice Dacia Maraini che – con Alberto Moravia il quale pronunciò una commossa orazione funebre  alle sue esequie dopo la tragica fine nel giorno dei morti di quarant’anni fa – gli fu sempre vicina:  “Pasolini sarebbe ora qui al Premio Strega e avrebbe uno sguardo sempre più attento verso la realtà. Però avrebbe anche un sorriso dolcissimo, perché lui era così, un uomo mite e sorridente. Nonostante avesse dentro di sé vigore, sicurezza, decisione, determinazione, era poi anche molto capace di grande affetto”.

All’interno del Palazzo di Giustizia nell’interrogatorio davanti al giudice

Le sorprendenti canzoni di Pasolini in un concerto per voce e chitarra

Una commemorazione  con queste immagini e con queste parole sarebbe già di per sé meritevole. Ma a “Spazio 5” si è andati anche oltre. Per i prossimi giorni sono previste le proiezioni di alcuni film-cult con lui regista, “Uccellacci e uccellini”, “Accattone” e “Mamma Roma”,  con lui attore,  “Il gobbo” di Carlo Lizzani, con l’intensa ricerca diFederico Bruno,“Pasolini, la verità nascosta”.

E nella serata di inaugurazione della mostra e presentazione del Catalogo con  30  testimonianze tra le quali abbiamo colto fior da fiore quelle citate, c’è stata una sorpresa straordinaria, un altro Pasolini in aggiunta ai “tanti” evocati, scrittore e giornalista, regista e attore, poeta e drammaturgo: il Pasolini autore dei testi di canzoni musicate da alcuni dei più  famosi cantautori dell’epoca, come Sergio Endrigo e Domenico Modugno, e da musicisti del calibro di Piero  Umiliani, Piero Piccioni  ed Enni o Morricone.  

Le canzoni non solo sono state evocate, ma eseguite dal vivo in unvero concerto,  introdotte da Irene Toppetta, una studiosa colta e appassionata che si è dedicata alla riscoperta del repertorio musicale di Pasolini, sconosciuto anche ai tanti  che ne hanno seguito sia pure da lontano, sin dal suo nascere,  l’escalation culturale e artistica nonché le polemiche che l’hanno accompagnata.  La Toppetta ha sottolineato come le sue canzoni impegnate e di denuncia  fossero lontane dal clichè musicale sanremese e in un caso la Rai ne impedì la trasmissione per alcune immagini forti; e le ha presentate con  accuratezza e discrezione, affidandole alla voce di Marta La Noce accompagnata alla chitarra da  Fabio Micalizzi.

Così abbiamo ascoltato canzoni allora cantate da Laura Betti, che fu attrice nei suoi film .  “Macrì Teresa detta Pazzia”, dal tono sommesso che si eleva in un grido, i suoi versi musicati da Piero Umiliani,  “Cristo al Mandrione”,  dedicata alla vita di borgata con musica di Piero Piccioni, e “La sbronza” con la prostituta ubriaca che si illude di aver ritrovato la verginità. Fino a “Il soldato di Napoleone” con un’immagine forte che la Rai chiese di eliminare e ne ricevette un rifiuto, da Pasolini e da Sergio Endrigo, autore della musica;  e  alla canzone “Che cosa sono le nuvole?”, musica di Domenico Modugno: entrambe le canzoni con l’inconfondibile quanto diverso timbro musicale dei due cantautori  e l’altrettanto inconfondibile sigillo poetico di Pasolini. L’ultima canzone del concerto è stato un  pezzo difficile, “Danze della sera”, musica di Ettore de Carolis, un virtuosismo.  Non sono le uniche di Pasolini, ve ne sono altre, da “Valzer della toppa” e “Marylin”, cantate da Laura Betti,  a “Uccellacci e uccellini” cantata da Domenico Modugno. Vi sono delle raccolte in CD, anche con la consulenza artistica di Laura Betti,  contenenti  15 canzoni, il libretto dei testi poetici  e una “Meditazione orale” di Pasolini, .Sono stati fatti in passato dei concerti tra cui quello all'”Auditorium Parco della Musica”  con Aisha Cerami e Nuccio Siano.

Nel 1960,  la sequenza di “Il gobbo”  di Carlo Lizzani
in cui viene ucciso Leandro, da lui interpretato

Pasolini si cimentava anche in questo genere  ritenuto minore,  per la  penetrazione popolare che aveva la canzone e arrivava dove non  entravano  romanzo e poesia, cinema impegnato e  teatro. Perciò nel 1956 sulla rivista “Avanguardia” aveva scritto che era “sollecitabile e raccomandabile” l’intervento di un vero poeta nel campo della canzone. “Non vedo perché sia la musica che le parole delle canzonette non dovrebbero essere più belle”, aggiungendo: “Personalmente non mi è mai capitato di scrivere versi per canzoni…, non mi si è presentata l’occasione…, credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare dei versi a una bella musica”.   A questa prenotazione vera e propria  seguirono le canzoni cantate da Laura Betti in romanesco, poi negli anni ’60 le altre.  

Marta la Noce, con il magistrale accompagnamento “a memoria” di Fabio Micalizzi alla chitarra, ha interpretato con intensa immedesimazione il difficile repertorio creando un’atmosfera veramente suggestiva. L’impegno dei due interpreti e della “voce narrante” di Irene Toppetta, curatrice dello spettacolo, e la resa artistica inseriscono di diritto  la “performance” nel programma di celebrazioni dell’apposito Comitato  presieduto da Dacia Maraini costituito dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, e presentato il 20 ottobre al Teatro India dal ministro Dario Franceschini che ha  lamentato “il colpevole ritardo nell’aver capito l’artista , cosa che invece ha fatto da subito il popolo italiano”,  affermando  esplicitamente che per questo la celebrazione “è anche un atto di scusa”. 

L’ultima immagine della mostra, nel 1969 all’Aeroporto
di Ciampino a ricevere la Callas, che bacia in un’altra immagine

E’ un programma sterminato, che si protrarrà per un intero anno:  comprende anche Bologna, Casarsa e Pordenone, città della sua biografia, e soprattutto Roma con la mobilitazione di primarie istituzioni culturali, come le Biblioteche e la  Casa della letteratura, teatrali e cinematografiche, compresa la Festa del cinema: sono previste tutte le forme di manifestazioni, readings  di poesie e prose, film e documentari, spettacoli teatrali e convegni, perfino installazioni e street art, una partita di calcio e un treno celebrativo, la Rai manderà in onda circa 30 trasmissioni nei diversi canali a tutte le ore, anche notturne.

Auspichiamo che in questo programma  altamente apprezzabile, ai concerti con le sue canzoni sia dato lo spazio che meritano, e vi  trovino posto  gli interpreti  ascoltati allo “Spazio 5”.  Così potrà essere valorizzata anche questa angolatura sorprendente e meno nota quanto preziosa nel rutilante caleidoscopio di espressioni culturali e artistiche dei  “tanti Pasolini”.

In questo modo viene celebrato a 360 gradi  un uomo di cultura, grande  artista  sensibile e ispirato, anticonformista e anticipatore coraggioso,  che subì l’aggressione di 33  processi penali  contro la sua libera espressione artistica, prima dell’aggressione mortale;  tutto questo gli è dovuto, è l'”atto di scusa” di cui ha parlato il Ministro, riparazione purtroppo tardiva, tanto alto è il prezzo che ha dovuto pagare alla violenza assassina. La sua eresia era a 360 gradi, non risparmiava nessuno nel dare “scandalo” rispetto al perbenismo corrente e alle ideologie,  anche a quelle ammiccanti al proletariato. 

Ha ragione Ferdinando Scianna  a concludere la sua testimonianza che abbiamo riportato, con le parole: “I portatori di scandalo hanno una tendenza a essere sacrificati: è successo anche a Cristo e a quasi tutti gli altri, le cui personalità sono state poi recuperate e divinizzate”. 

E’ venuto il momento di farlo, e farlo bene, con  impegno e convinzione, e sembra che ci siano tutte le premesse nella mobilitazione su un programma  ampio e coinvolgente. Non è mai troppo tardi viene da dire con commozione.

Un momento della serata, in controluce, al termine del loro concerto,
da sinistra Fabrizio Micalizzi, Marta La Noce, Irene Toppetta

Info

“Spazio 5”, via Crescenzio 99, Roma, pressi Piazza Risorgimento. Dal martedì alla domenica ore 15,00-20,00, ingresso gratuito, fino al 4 novembre.  Tel. 06.6876251, cell. 348.4814089; info@spazio5.com; www.spazio5.com. Catalogo: Maurizio Riccardi – Giovanni Currado, “I tanti Pasolini”, Fotografie di Carlo Riccardi, Archivio Riccardi, settembre 2015, pp.  80, formato 14,5 x 16. Il programma della “Maratona” di “Spazio 5” prevede alle ore 17 e 19 di martedì 27 ottobre i film “Uccellacci e uccellini” e “Pasolini, la verità nascosta” con il regista Federico Bruno; di mercoledì 28 ottobre  il film “Accattone” e l’incontro con Silvio Parrello, “er  Pecetto” di “Ragazzi di vita”. Alle ore 16 di giovedì 29 ottobre “Il gobbo” con lui attore e alle ore 18 “Mamma Roma”.  Per le altre mostre su Pasolini citate nel testo cfr.i nostri articoli: in questo sito, “Pasolini, la vita e l’arte al Palazzo Esposizioni”, 27 maggio 2014, e  “Pasolini, al Palazzo Esposizioni il suo rapporto con Roma”, 15 giugno 2014; “Pasolini, omaggio poetico-artistico a Palazzo Incontro”, 11 novembre 2012, e  “Pasolini, altri 14 artisti per 7 sue poesie a Palazzo Incontro”, 16 novembre 2012; in “fotografia.guidaconsumatore” “Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario”, maggio 2011, il sito ora citato non è più raggiungibile, l’articolo sarà trasferito prossimamente su questo sito. Cfr. anche, per le mostre fotografiche a “Spazio 5” ,  in questo sito il nostro articolo “Esposito, Carlo e Maurizio Riccardi ricordano i due Papi santi”, 4 luglio 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella serata di inaugurazione della mostra con il concerto di canzoni di Pasolini, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti,  l'”Archivio Riccardi” e in particolare il maestro Carlo Riccardi, anche per la disponibilità  nel rendere possibile la nostra difficile foto notturna sul  suo “tazebao” pittorico. In apertura, la locandina della mostra con una foto del 1961, alla conferenza stampa del Premio Strega; seguono un gruppo di immagini del 1961, 1964 e 1965  che lo vedono, tra l’altro, a casa Bellonci per le cinquine dei finalisti del Premio Strega e mentre depone la scheda nell’urna alla serata finale, e una foto del 1962 a Viareggio con Adriana Asti; poi nel 1963 alla presentazione di un libro con Laura Betti, all’esterno del Palazzo di Giustizia a Roma con Dacia Maraini e Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Laura Betti, e all’interno del Palazzo di Giustizia nell’interrogatorio avanti al giudice; quindi, nel 1960,  la sequenza di “Il gobbo”  di Carlo Lizzani in cui viene ucciso Leandro, da lui interpretato; infine l’ultima immagine della mostra, nel 1969 all’Aeroporto di Ciampino a ricevere la Callas, che bacia in un’altra immagine; infine un momento della serata, in controluce, al termine del loro concerto, da sinistra Fabrizio Micalizzi, Marta La Noce, Irene Toppetta; in chiusura, Carlo Riccardi, “Il Giubileo”, “tazebao” pittorico di 15 metri dipinto il giorno prima: l’autore sta in piedi sulla lunga tela  piegandosi in avanti e verso il basso per cercare la luce e consentire la nostra difficile ripresa notturna. 

Pubblicato in www.arteculturaoggi.com il 10 ottobre 2015

Carlo Riccardi, “Il Giubileo”, “tazebao” pittorico di 15 metri dipinto il giorno prima: l’autore sta in piedi sulla lunga tela  piegandosi in avanti e verso il basso per cercare la luce e consentire la nostra difficile ripresa notturna

Pasolini, 3. Il suo rapporto con Roma, al Palazzo Esposizioni

Il 5 marzo 2022, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, con l’articolo sulla mostra di Monica Cillario che ne ha fotografato la prima abitazione, abbiamo iniziato a ripubblicare i nostri 6 articoli usciti nel decennio scorso, questo articolo è il secondo sulla mostra “Pasolini Roma” del 2014 al Palazzo delle Esposizioni. Seguiranno 3 articoli, il primo sempre sulla figura di Pasolini nelle fotografie di Carlo Riccardi nel 2015, gli ultimi due su 14 artisti ispiratisi a 7 sue poesie nella mostra a Palazzo Incontro del 2012.

Postato da arteculturaoggi.com [15/06/2014, 11,30]

di Romano Maria Levante

La mostra “Pasolini Roma”, aperta al  Palazzo Esposixzioni di Roma dal 15 aprile al 20 luglio 2014, un’iniziativa europea che vede insieme all’Azienda speciale Expo istituzioni culturali e cinematografiche di Barcellona, Parigi, Berlino,  ed è sostenuta dal  programma Cultura dell’Unione Europea. Curatori Alain Bergala, Jordi Bailò e Gianni Borgna, consulenza scientifica di Graziella Chiarcossi. Il  catalogo Skira-Palazzo Esposizioni contiene una vasta documentazione con testi di Pasolini, fotografie e documenti sulla sua vita, e un a serie di interviste sulla sua figura. E’ intervenuto alla presentazione, con l’assessore alla cultura della Regione Lazio Lidia Ravera, il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, Franco Bernabè, con un saluto e un impegno.

Pasolini a Chia con la esidenza presso la torre di sfondo, 1973

Abbiamo ripercorso la prima parte del rapporto tra Pasolini e Roma, il suo arrivo con la madre e l’alloggio di fortuna vicino al ghetto, poi l’abitazione a Monteverde in via Fonteiana. In questo periodo scrive il poema “Le ceneri di Gramsci” e trova i primi successi letterari  con il romanzo “Una vita violenta” e poi  “I ragazzi di vita”, quindi quelli cinematografici  con “Accattone”  e “Mamma Roma”, fino alla trasgressione religiosa di “La ricotta” . Continuiamo a far scorrere  i fotogrammi della sua vita e della sua arte nell’allestimento della mostra, tra mappe e fotografie,  testi e documenti.

Iniziamo citando l’intensa poesia dedicata a “Marilyn”, si rivolge a lei “impudica per passività, indecente per obbedienza” commiserandola: “Fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente”. E quindi “la tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne così un male”,  per questo “sei tu  la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte”. C’è una grande tenerezza, come verso l’emarginato della poesia “A un papa” che contrappone al pontefice, perché era anche questo l’aspetto saliente della sua sensibilità, al di là di ogni apparenza.

Dopo la trasgressiva “Ricotta” affronterà il tema religioso direttamente in “Il Vangelo secondo Matteo”, confrontandosi  con la figura di Cristo in modo rispettoso e suggestivo. 

 “Autoritratto con fiore in bocca”, 1947

1964, “Il Vangelo secondo Matteo; 1965 “Uccellacci e uccellini”

Nel 1963 torna in Africa, visitando il Kenya e il Ghana, va  nello Yemen e in Nigeria, poi compie un sopralluogo in Palestina per l’ambientazione del “Vangelo secondo Matteo”, il terzo mondo lo affascina, ma sceglie il Sud per le riprese, le grandi carte geografiche all’inizio della sezione evidenziano questa fase movimentata della sua vita. Ma percorre in lungo e in largo anche l’Italia in automobile  per il film-inchiesta “Comizi d’amore“, al microfono intervista la gente sulla propria idea di sessualità confrontando mentalità e pregiudizi e attirandosi violenti attacchi, nella mostra sono esposte le fotografie che lo vedono in azione come reporter in varie località, dal nord al sud.

Le maggiori possibilità economiche dopo i successi cinematografici gli consentono di acquistare un appartamento, lascia il centro, vuole avvicinarsi alla campagna romana pur se si rende conto che sta sparendo.  Nella poesia “Ricerca di una casa”, del gennaio 1962,  parlava della “casa della mia sepoltura”, dicendo “mi era sembrata sempre allegra questa zona dell’Eur, che ora è orrore e basta. Mi pareva abbastanza popolare”, e dinanzi alle “palazzine ‘di lusso’ per i dirigenti transustanziati in frontoni di marmo”, si chiede: “E dove, allora, trovarlo, il mio studio,calmo e vivace, il ‘sogno nitido dei miei poemi’ che curo in cuore come un pascoliano salmo?”-

Lo troverà proprio all’Eur, un appartamento col giardino per la madre che ama coltivare i fiori,  in via Eufrate, vicino alla basilica di san Pietro e Paolo,  da cui si vede il “Colosseo quadrato”, con le arcate alla De Chirico:  significativamente è esposto in mostra il quadro del pittore metafisico “Arrivo del trasloco”, riferito a quel periodo, precisamente il 1965 anche se è retrodatato 1951. La poesia “Supplica a  mia madre” dell’aprile 1962  rivela un  groviglio di sentimenti: “E’ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai dato…. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia sc hiavitù”.  Scriverà anche una poesia alla morte di Pio XII, in cui l’intensità di contenuto è pari alla temeraria dissacrazione.

Pasolini con Totò

Dalla nuova abitazione, oltre all’edilizia littoria a alla campagna  si vedono anche i cantieri della periferia, metafora del rivolgimento urbanistico di quegli anni per i raccordi autostradali e le altre infrastrutture,  nonché  l’edificazione dei “palazzinari” romani.  In uno scenario simile è ambientato “Uccellacci e uccellini”, del 1965-66, con Totò e Ninetto Davoli, un film socio-politico  con metafore ideologiche sul marxismo impersonato da un  corvo: in uno scritto esposto in mostra  afferma di aver voluto “far coincidere il mio nuovo marxismo e il suo, ma al di là della mia inerte, e puramente negativa, esperienza degli ultimi anni”. Le foto di scena con Totò e a Totò sono  molto espressive, ma ve ne sono anche di tono familiare all’interno della sua casa all’Eur.

Nel 1964 aveva girato “Il Vangelo secondo Matteo”, ambientato nel sud,  per la figura di Cristo si era rivolto invano al poeta russo Evtuschenko, lo impersonò  lo spagnolo  Irazoqui, uno studente antifranchista a Roma per raccogliere fondi contro la dittatura del suo paese, dopo il film gli sarà ritirato il passaporto.

E’ esposto un testo in cui descrive l’errore iniziale nel girare la prima scena con la tecnica di “Accattone”: “Era chiaro che la sacralità tecnica, la figliale semplicità che scardinava dalla sua usuale (e convenzionale) semanticità la ‘materia’ delle borgate romane, diventava di colpo retorica e ovvia se applicata alla ‘materia’  di per sé sacra che stavo raccontando”.  Al punto da dire: “Quando, ora, quella scena  passa sullo schermo – per quanto corretta e accomodata in montaggio – me ne vergogno selvaggiamente”.  Si corregge e alla fine ottiene un film “dall’inaspettata purezza  di tratti, che livella beatamente tutte le mie punte magmatiche, espressionistiche, casuali, arbitrarie, asimmetriche, tutte le libertà di montaggio,tutte le mie irregolarità”.

Ha raggiunto quello che voleva, “una specie di normalità fatta di distacco e silenzio” . La sua appassionata descrizione si conclude così: “L’evocazione ora stranamente prevale sulla rappresentazione. Il caos ha ritrovato una imprevista pacificazione tecnica e stilistica. Me ne sto chiedendo il perché”. E in un colloquio con Sartre rivendica di aver ottenuto e accettato il Pemio dell’Ufficio cattolico per il Cinema.  Il film vince il premio della Giuria al Festival di Venezia, e viene proiettato anche nella cattedrale di Notre- Dame: è un periodo in cui sente molto vicino il mondo intellettuale parigino, è in  contatto con Sartre e Barthes, Metz e Godart, il regista che gli “presterà” gli attori per il film “Porcile”.

Un riquadro con tanti volti ripetuti di “Il Vangelo secondo Matteo” 

1966-68, dalla disillusione alla sfida ai borghesi nella contestazione studentesca

Nel 1966 diventa autore teatrale, sei tragedie in  versi scritte in un mese di convalescenza a casa. Ma vede Roma con occhi diversi, il sottoproletariato romano ha perduto l’ “innocenza”  che aveva descritto nei romanzi e nei film, corrotto dal consumismo piccolo borghese, gira il film “Edipo re” in Marocco, ambienta in  Lombardia le scene  autobiografiche del prologo. Eccolo a New York, in una foto davanti a un cinema dove si proietta “La gatta sul tetto che scotta” con Liz Taylor.  

Siamo al 1968, attacca le posizioni di sinistra libertaria  della contestazione. Con la poesia “Il PCI ai giovani!”  si rivolge ai contestatori dicendo: “Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo!), ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, e sicuri, prerogative piccolo-borghesi”  Per questo, aggiunge, “quando ieri a Valle Giulia avete fatto  a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri, vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Le foto  della “battaglia di Valle Giulia” , e di un’assemblea di giovani comunisti con  Gianni Borgna vicino a lui illustrano questo momento, li affronterà a Torino dove Laura Betti interpretava il suo dramma “Orgia”.

Sono esposte anche immagini  del film “Teorema”, del 1968, quelle misteriose ed esoteriche  di Laura Betti e quelle conturbanti della bellissima Silvana Mangano. Nel 1969 gira il film “Amore e rabbia”, lo vediamo fotografato con Ninetto Davoli, e “Medea”, interpretata da Maria Callas con cui ha una intensa relazione fatta di amicizia e di amore,  sono esposte foto in cui sono insieme  in Grecia e nel Mali. A lei dedica un disegno molto particolare, “Senza titolo”,  sei multipli alla Warhol del suo profilo a tratti sottili.

Pasolini in un’immagine di solitudine

1970-75,  l’ultima fase dalla “Trilogia della vita” alla tragica fine

Per un drammatico scherzo del destino dal 1970 al 1974, l’anno prima della morte, si impegna in un ciclo di film che chiama “Trilogia della vita”, perché va alla ricerca dell’innocenza perduta nel consumismo  immergendosi in un mondo mitico scomparso: gira il “Decameron”  nel Mezzogiorno d’Italia, va in Inghilterra per “I racconti di Canterbury” e in una serie di paesi africani ed asiatici per “Il fiore delle mille e una notte”, le mappe esposte in mostra rendono visivamente questo suo periplo. Ma la fuga dalla realtà non riesce, terminati i film ci sarà l’abiura dalla “Trilogia della vita”.

Viene presentata un’interessante intervista di Gianni Borgna in cui Ennio Morricone, parla del loro rapporto durante i  film  di cui ha scritto la colonna sonora, tra cui quelli appena citati oltre a “Uccellacci e uccellini”; vi abbiamo trovato lo stesso rispetto reciproco mostrato con Anna Magnani,  Pssolini aveva le sue idee ben precise e le esternava, a Morricone chiedeva di inserire o imitare musiche di autori classici da lui prescelti, ma alla sua replica che gli piaceva “scrivere musica, musica originale”, rispose: “E allora faccia pure come vuole”. Ma Morricone aggiunge che per i film della “Trilogia della vita” “ci fu come un regresso della mia aggressività creativa. Io mi arresi alal sua volontà. Poi, nel ‘Fiore delle Mille e una notte’, ci fu come una  mia piccola rivincita. Ripresi, infatti, a scrivere musica originale, tranne in qualche punto”.

Nel gennaio 1973  inizia la collaborazione fissa con il “Corriere della Sera”, il tono e contenuto emergeva subito dal primo articolo, “Contro i capelli lunghi”, i capelloni dei contestatori, sul piano nostalgico ci sarà il celebre articolo sulla “Scomparsa delle lucciole“,  sono i suoi “Scritti corsari”.

“lo non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.”.

In questa “scandalosa ricerca” non esita ad affermare: “”Forse qualche lettore troverà che dico delle cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io, purtroppo, sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano  ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio scandalo.”.

Quadeo rievocativo di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”

Ed ecco una selezione fior da fiore delle “cose banali” di cui ha scritto dal 1973 al 1975: ha sfidato i contestatori “dai capelli lunghi” e i dirigenti della televisione per l’assenza di cultura, gli intellettuali del ’68 tra manicheismo e ortodossia e la sacro Rota per il “vuoto di carità” e il “vuoto di cultura” delle sue sentenze, ha denunciato “il  vero fascismo” del potere senza volto  e “il fascismo degli antifascisti”, l’ignoranza vaticana e quella della borghesia per lanciarsi in previsioni indovinate, come quella sull’esito del referendum del divorzio perché avvertiva i mutamenti nella società, la fine del mondo contadino, di cui rimpiange “l’immensità”  con il corrispettivo naturale nella “scomparsa delle lucciole”. 

“Gli italiani non sono più quelli”  si intitolava  l’articolo sul “Corriere” del 10 giugno 1974, e il 1° marzo 1975 “Non aver paura di avere un cuore”. Gli verrà spezzato brutalmente nove mesi dopo.  

Roma, in cui continua a vivere, non lo appaga più,  tanto che per concentrarsi nello scrivere e nel  dipingere, che ha ripreso dopo trent’anni, si rifugia in un’abitazione che ha acquistato in campagna, addossata alle rovine medievali della Torre di Chia, presso Viterbo. Sono esposte grandi foto,  che lo ritraggono pensieroso al lavoro in suggestivi controluce, scattate poco tempo prima della morte, un documento straordinario coperto da un copyright così rigoroso che ci ha impedito di riprenderle, e non sono neppure in catalogo: lo rispettiamo  non citando neppure il nome del fotografo, mentre ci piace evidenziare l’immagine che lo vede nel 1973 in primo piano con la torre di Chia di sfondo.

Riquadro rievocativo di  “Io abiuro alla Trilogia della vita”

Siamo nel 1975, ha trascorso parte dell’estate nell’altra abitazione che ha voluto fuori Roma, insieme a Moravia con cui divide il giardino,  al mare di Sabaudia sulla duna litoranea, anche qui con grandi vetrate sulla natura. E’ impegnato nello scrivere “Petrolio”, che Gianni Borgna ha definito “una spietata riflessione sul Potere e la summa dell’intera opera pasoliniana: non meno di duemila pagine (ne riuscirà a scrivere soltanto seicento) intervallate  da fotografie, documenti d’epoca e persino filmati. Insomma, un romanzo davvero sui generis di cui difficilmente si potrebbe trovare l’eguale”, si direbbe “una sorta di Satyricon moderno”, anticipato nell’articolo “Il romanzo delle stragi” – stragi reali e metaforiche come il genocidio culturale –  punteggiato  da “io so

Resterà incompiuto mentre il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” lo terminò ma uscì nelle sale dopo la sua morte, che non gli risparmiò l’attacco giudiziario subito dagli altri suoi film. In mostra sono esposte molte immagini di questo film e dei tre della “trilogia” in una nudità integrale che  esprimeva, al di là della provocazione, quello che lui ha definito “il mondo della mia ingenuità”.

Un mondo spazzato via dalla brutale violenza che lo ha massacrato nello squallore dell’idroscalo di Ostia la notte del 2 novembre 1975,  in circostanze non mai chiarite nonostante la confessione dell’omicida che ha scontato la pena ritrattando poi e aprendo nuovi scenari che vanno esplorati. Al termine della mostra tutto questo viene documentato in modo impressionante.

Ma vogliamo concludere con immagini di vita, quelle del suo ritorno alla pittura: è del 1975  il profilo di “Roberto Longhi, Chia”, in versione singola e nel multiplo di 4 alla Warhol,  l’artista altrettanto iconoclasta che verso  il consumismo aveva l’atteggiamento opposto, di  mitizzazione portata fino all’esasperazione. Ricordiamo le parole di Alberto Moravia nell’orazione funebre presentata in un  video a chiusura della mostra: sono un ritratto commosso del grande amico scomparso tragicamente, pone l’accento su ciò che tutti hanno perduto: un uomo”profondamente  buono, mite e gentile”,  e poi “il diverso e il simile”, il romanziere e il regista, il poeta e lo scrittore, il saggista e il testimone che aveva  un’attenzione, definita “patriottica”, “per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese”.  In definitiva, “tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso nel fiore degli anni”.

Ha fatto un’opera meritoria la  mostra a ricordarlo, e in modo così appropriato, efficace e  suggestivo.

Riquadro rievocativo delle Persecuzioni giudiziarie

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie.  Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/. Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Pasolini  le  mostre contemporanee “Gli Etruschi e il Mediterraneo – La città di Cerveteri” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”, sulle quali cfr. i  nostri articoli: per la prima in questo sito l’8 giugno e 6 luglio e  in “www.antika.it; luglio 2014, per la seconda in  http://www.fotografarefacile.it/ marzo 2014.  Catalogo: “Pasolini Roma”, Skira-Palazzo delle Esposizioni, 2014, pp. 264, formato 18 x 24, con testi di Pasolini, , introduzioni dei capitoli di Alain Bergala, commenti ai documenti di Gianni Borgna, Alain  Bergala e Jordi Ballò, interviste con Arbasino e Bertolucci, Cerami e Davoli, Maraini, Morricone e Naldini, consulenza scientifica Graziella Chiarcossi. Cfr. infine  i nostri due articoli in questo sito per Guttuso, “Fuga dall’Etna”, il 25 e 30 gennaio 2013, e in “fotografarefacile.it” per le fotografie di  Henry Cartier Bresson.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, in particolare l’ufficio Stampa, con gli altri organizzatori e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Pasolini a Chia con la sua residenza presso la torre sullo sfondo, 1973; seguono  “Autoritratto con fiore in bocca” 1947, e Pasolini con Totò, poi un riquadro con tanti volti ripetuti di “Il Vangelo secondo Matteo” e Pasolini in un’immagine di solitudine; quindi,   tre riquadri rievocativi di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”,  di “Io abiuro alla Trilogia della vita”, e delle Persecuzioni giudiziarie; in chiusura, Pasolini con la madre nell’abitazione dell’Eur 1973.

Pasolini con la madre nell’abitazione dell’Eur, 1973

Pasolini, 2. La vita e l’arte, al Palazzo Esposizioni

Ieri 5 marzo, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, abbiamo ripubblicato il nostro articolo del 2012 sulla mostra fotografica di Monica Cillario descrivendo la prima abitazione di Pasolini a Roma con un’iniziale inquadramento della sua figura. Oggi rupubblichiamo il primo dei due articoli – il secondo seguirà domani – sulla mostra del 2014 al Palazzo delle Esposizioni in cui anche con le immagini veniva ripercorso il suo intinerario di poeta e scrittore, saggista e regista, e la sua vita fino alla tragica conclusione.

Postato da arteculturaoggi.com [11/05/2014, 8:42]

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposixzioni di Roma, dal 15 aprile al 20 luglio 2014 la mostra “Pasolini Roma”, di respiro europeo, organizzata dall’Azienda speciale Expo con istituzioni culturali e cinematografiche di Barcellona, Parigi, Berlino,  e il sostegno del programma Cultura dell’Unione Europea. Con la consulenza scientifica di Graziella Chiarcossi,  curatori Alain Bergala, Jordi Bailò e Gianni Borgna, lo storico assessore alla Cultura del comune di Roma, animatore dell’iniziativa, scomparso meno di due mesi  prima dell’apertura della mostra. Catalogo Skira-Palazzo Esposizioni con  una accuratissima  documentazione di testi e fotografie sui diversi periodi della vita di Pasolini. Ha introdotto la mostra, con l’assessore alla cultura della Regione Lazio Lidia Ravera, il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo Franco Bernabè, con dichiarazioni di intenti di notevole interesse data la sua caratura manageriale e imprenditoriale già sperimentata nell’arte e nella cultura, che è una sicura garanzia per l’attività dell’istituzione.  .

Pasolini mentre presenta il poema “Le ceneri di Gramsci”

La mostra celebra, a quasi quarant’anni dalla morte avvenuta il 2 novembre 1975, l’uomo di cultura inquieto  e preveggente, anche per questo scomodo e osteggiato dai cosiddetti benpensanti che si accanirono contro la sua “diversità”, umana e intellettuale, senza poter  impedire che la sua multiforme attività nei vari campi della cultura militante lasciasse il segno nella difesa dei deboli e  dei “diversi”, nella denuncia delle violenze del potere, politico, sociale, spirituale,  nel cogliere le inquietudini nascoste della società sempre dalla parte degli emarginati. Tutto questo visto nel suo rapporto speciale con Roma seguendone passo dopo passo il  multiforme itinerario di vita e d’arte.

Avevamo visto due mostre su Pasolini negli ultimi anni a Roma: a  Palazzo Incontro nel novembre 2012 la Provincia ha presentato una serie di opere di 22 artisti  ispirate ad 11 sue poesie, tra i curatori c’era anche Gianni Borgna;  nel maggio 2011 la galleria “Monserrato Arte 900”  aveva esposto le fotografie di Monica Cillario nella sua abitazione di via Fonteiana, esibite come un cimelio prezioso che ne rendeva la sottile atmosfera aprendo un ricordo che spaziava lontano.

Contenuto e impostazione della nostra

Questa mostra si colloca in una dimensione molto diversa, frutto di una ricerca accurata di tutto quanto potesse esprimere il suo rapporto con Roma e, più in generale,  con i vari campi della cultura e i diversi settori della società che nella capitale trovavano non solo un punto di osservazione privilegiato, ma anche il terreno ideale per una partecipazione diretta e, per così dire, militante. Di qui sono nati gli impulsi creativi che ne segnano l’arte, di qui  la tragica fine a contatto con quel mondo dei “ragazzi di vita” del quale aveva colto la vitalità e insieme la pericolosa trasformazione.

 Disegni di teste, 1943

La sua vita viene ripercorsa in senso cronologico attraverso tutto quanto ne possa rendere il senso e il valore in sei ricche sezioni, che corrispondono alle diverse fasi, nelle quali  è resa visivamente la sua presenza e nello stesso tempo la sua opera multiforme con una miriade di documenti: lettere e articoli, poesie e prose, sceneggiature cinematografiche e scritti di narrativa e di teatro; in parallelo l’impatto delle sue  anticipazioni, che apparivano provocazioni, su una società chiusa e sospettosa, il tutto con un’ambientazione spettacolare fatta di video e di carte geografiche, nonché di vere e proprie gallerie fotografiche sui quartieri dove abitava e sui molteplici set cinematografici.

Il Catalogo lo rende in modo efficace, in una forma inconsueta per sobrietà, quasi da “arte povera”  nella scelta della carta e dell’iconografia, cui corrisponde una completezza e profondità di contenuto nel documentare una vita e un’arte multiforme,  strumento prezioso di conoscenza e di memoria.

Visitare la mostra e scorrere il catalogo è come assistere a un film appassionante, un film su Pasolini che si aggiunge ai film di Pasolini  offerti al pubblico “a latere”  della mostra, insieme a 6 incontri per ricordarne la figura. Oltre a tali incontri,  le 24 serate dedicate alla proiezione di suoi film e filmati  su di lui, ben 33, nel sottolineare l’impegno profuso dagli organizzatori,  danno la misura di quanto multiforme e intensa fosse la sua attività, considerando anche la “persecuzione” giudiziaria  di ben 33 processi, e il fatto che il cinema fu una forma particolare di espressione  in aggiunta a quella di poeta e scrittore, saggista e osservatore della società con i suoi “scritti corsari”.

Decisivo è il ruolo di Roma, così i curatori: “Per il Pasolini polemico  che analizza l’evoluzione della società italiana, Roma è anche il principale oggetto di osservazione, il suo permanente campo di studio e di riflessione.  Pasolini non si è accontentato di usare la città come sfondo di romanzi e film; egli ha ‘rifondato’ Roma attraverso la letteratura e il cinema”. E precisano: “Per il Pasolini uomo come per il poeta, Roma ha una dimensione fisica,  carnale, passionale. Con la città vive una grande storia d’amore, in tutte le sue tappe”. E la mostra le ripercorre con cura in sei sezioni.

Figure

Le sezioni sono dunque in sequenza cronologica, introdotte da grandi mappe topografiche e da uno  schermo dove sono proiettate le immagini  dei luoghi, articolate in gallerie fotografiche, documenti originali, stampe,  che scandiscono il suo itinerario d’arte e di vita. Sono lo specchio di forti contenuti che i curatori riassumono così: “L’ardore e l’angoscia del primo incontro, le delusioni, i tradimenti, i sentimenti misti di odio e amore,le fasi di attrazione e di rifiuto, i momenti di allontanamento e di ritorno”.  Fino alla conclusione  nel segno della tragedia.

Ne daremo qualche scorcio, pur  consapevoli che solo la lettura dei testi  di cui è ricca la mostra, e puntualmente riprodotti nel Catalogo può  rendere la profondità di una storia e di una vita.

1950-55,  l’approdo a Roma e il successo letterario con “Ragazzi di vita”

La mostra ripercorre la vita di Pasolini dall’arrivo a Roma a 28 anni, il 28 gennaio 1950; è con la madre, hanno lasciato il padre a Casarsa, il primo alloggio è in centro nel ghetto presso amici dello zio, poi in periferia a Ponte Mammolo vicino al carcere di Rebibbia, in un’abitazione povera; trova lavoro come insegnante in un istituto privato all’Eur, tra i suoi allievi Vincenzo Cerami.  E’ “fuggito”  dal Friuli dopo il procedimento giudiziario  per essersi intrattenuto intimamente con degli adolescenti durante una sagra paesana, il Partito comunista lo espelle, ne soffrirà molto.

I suoi primi anni a Roma li descrive così: “Io vivevo come può vivere un condannato a morte/ sempre con quel pensiero come una cosa addosso, /disonore, disoccupazione, miseria”. Ma fa una scoperta che lo coinvolge totalmente, la vitalità dei ragazzi delle borgate, che diventeranno  i suoi ispiratori in campo letterario e cinematografico, conosce un giovane pittore edile, Franco Citti, .che diventerà prima il suo “dizionario parlante” in romanesco, poi il protagonista dei suoi film, e il poeta Sandro Penna, che descrive in versi i turbamenti amorosi verso i giovani che incontrano sulle rive del Tevere. Anche Pasolini scrive poesie che ottengono riconoscimenti letterari, conosce Ungaretti e frequenta scrittori  come  Carlo Emilio Gadda, Giorgio Caproni,Giorgio Bassani..

Mappa di Roma con i luoghi frequentati in una fase della vita

Sono esposte le immagini dei luoghi, oltre alle sue fotografie da ragazzo ed adolescente, nonché le lettere e gli scritti che esprimono  i suoi sentimenti  con degli “outing” rivelatori sulla sua omosessualità scoperta dal padre che gli faceva scrivere, già nel gennaio 1947. “Ho un desiderio assoluto di sincerità… Mi son domandato se questo è un desiderio di confessione, ma ho dovuto rispondermi che è di più. Certo, il pensiero di liberarmi, anche di fronte agli altri, permane” . Ancora non è andato a Roma, dello stesso 1947 il suo “Autoritratto con fiore in bocca” esposto in mostra con una serie di ritratti, abbozzati con maestria, del 1943, anno nel quale  scriveva: “Io leggo poco, dipingo molto in compenso. Ho raggiunto una tavolozza mia, e anche una mia maniera”.

Nel 1954 scrive “Le ceneri di Gramsci”, composto da undici poemetti, ispirato dalla tomba dell’intellettuale e politico nel Cimitero degli inglesi a Roma, vicina a quella di Shelley: ideologia e romanticismo  si uniscono in una  dolente elegia, si confronta con la nuova realtà romana, misura i cambiamenti rispetto alla Casarsa del suo Friuli  e anche rispetto al primo impatto con la capitale.

Nella poesia che ha il titolo della raccolta scrive: “Ed ecco qui me stesso… povero, vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrine dal rozzo splemdore”; nella poesia intitolata “Il pianto della scavatrice”: “Su tutto puoi scavare, tempo: speranze, passioni. Ma non su queste forme pure della vita… Si riduce ad esse l’uomo, quando colme siano esperienza e fiducia nel mondo…”  Ed esclama:  “Ah, giorni di Rebibbia, che io credevo persi in un a luce di necessità, ed ora so così liberi!”.  Perché “alla chiarezza, all’equilibrio, giungeva in quei giorni la mente… un uomo fioriva.”

Quadro rievocativo di “Mamma Roma”

Siamo ora al  1955, sono trascorsi cinque anni dall’arrivo a Roma, è l’anno dei “Ragazzi di vita”, il libro che porta gli umori e il linguaggio, la vitalità e la trasgressione del mondo di borgata da lui frequentato. Scalpore e scandalo, e anche un procedimento giudiziario addirittura su denuncia della presidenza del Consiglio, testimoni a suo favore i maggiori scrittori e il cattolico Carlo Bo, fu assolto. Seguirà “Una vita violenta”.  E’ nata una stella, entra nel mondo del cinema con sceneggiature per Fellini, Soldati, Bolognini e altri registi, nel mondo letterario con l’amicizia per Moravia ed Elsa Morante, con loro frequenta i  ritrovi caratteristici del centro di Roma, da piazza del Popolo a Piazza Navona.

Dal 1954, l’anno delle “Ceneri di Gramsci”,  ha lasciato l’abitazione di Rebibbia per trasferirsi con madre e padre a Monteverde, in via Fonteiana, dopo cinque anni si sposta in via Carini, nello stesso quartiere, in un palazzo dove abitava il poeta Attilio Bertolucci con la sua famiglia, la frequenta  e il figlio Bernardo Bertolucci diviene suo discepolo e poi assistente nel film “Accattone”; Bertolucci girerà il suo primo film a 21 anni su una sceneggiatura, “La commare secca”  che Pasolini aveva predisposto per sé e gli cedette avendovi rinunciato preso da altri progetti..

Al riguardo c’è un’illuminante intervista di Alain Bergala a Bernardo Bertolucci, che rievoca gli incontri con Pasolini, la prima volta che andò a trovarli mentre abitava ancora in via Fonteiana, il padre Attilio disse “Fallo entrare subito, Pasolini è un bravissimo poeta!”; sul film girato su soggetto di Pasolini che ci rinunciò essendosi “innamorato” di un altro soggetto, quello di “Mamma Roma”,  Bertolucci dice: “Quando mi è stato detto che avrei diretto ‘La commare secca’ sono andato quasi in trance. E sono rimasto in questo stato in tutte le riprese”,

Pasolini di giorno lavora e frequenta il centro di Roma con scrittori e registi, di notte vive  la  giovinezza  “al di là del confine della città, oltre i capolinea”,  così intensamente da averne paura. “Come andrà a finire, non lo so…”.

La sezione contiene una ricca documentazione di lettere, scritti e immagini fotografiche di questo periodo,  è ritratto con  Alberto Moravia ed Elsa Morante,  Carlo Levi e Goffredo Parise, Paolo Volponi e Mauro Bolognini. Marcello  Mastroianni e Laura Betti, a cui fu molto legato tanto da parlarne a Godart come della sua “moglie non carnale”; e anche tra le baracche della borgata del Mandrione, fotografato da Henri Cartier Bresson, o al Quarticciolo. Ci sono anche delle chicche inattese, due “Nature morte” di Giorgio Morandi,  “Il nudino rosa” di De Pisis, il celebre “Fuga dall’Etna” di Guttuso,“Fantasia” di Mafai e “La badiaccia” di Rosai; il “Paesaggio del Friuli” di Zigaina evoca visivamente le sue origini.

E’ del 1958 la morte di Pio XII, Pasolini scrive la poesia “A un papa”, contenuta nella raccolta “La religione del mio tempo”, in cui contrappone alla vita del principe della Chiesa quella ben più derelitta dell’emarginato morto negli stessi giorni e conclude con un’invettiva preceduta dalle parole “peccare non significa fare il male. Non fare il bene, questo significa peccare”.

Mappa  di alcuni viaggi all’estero

1961,  il cinema con “Accattone”; 1962, “Mamma Roma” e “La ricotta”

Dopo la partecipazione alla sceneggiatura di famosi registi entra nel cinema dalla porta principale con “Accattone”, nel 1961. Avviene dopo il rifiuto di Federico Fellini che sembrava interessato a produrlo ma non era stato convinto dai provini che gli aveva chiesto di girare, compie un viaggio in India e in Africa e si mette alla ricerca di un nuovo produttore. E’ esposto un suo suggestivo scritto, quasi una sceneggiatura, in cui racconta il contatto con Fellini sottolineando il grande impegno da lui messo nel girare le scene di prova e la delusione per le critiche al suo stile e al ritmo dal grande regista, al quale risponde orgogliosamente che “se dovesse rifare tutto da capo non cambierebbe neanche una virgola”: così farà con Alfredo Bini che oltre ad “Accattone” produrrà  i cinque suoi film successivi.  

Del 1961 leggiamo un brano tratto da “La religione del mio tempo”, intitolato “Il mio desiderio di ricchezza” in cui esclama: “Ah, uscire da questa prigione di miseria!” e rivela i “mille desideri” che accumunano gli uomini:” una camicia candida, delle scarpe buone, dei panni seri. E una casa, in quartieri abitati da gente che non dia pena”, con una terrazza. Lui la sogna  “sul Gianicolo, verde fino al mare; un attico, pieno del sole antico e sempre crudelmente nuovo di Roma”, e poi le vetrate, le tende, gli arredi, “un tavolo fatto fare apposta, leggero, con mille cassetti, uno per ogni manoscritto” e così via,  in un desiderio di normalità che intenerisce.

Le carte geografiche esposte in mostra evidenziano il suo giro nel terzo mondo prima di “Accattone”, che incise molto su di lui. Vi sono le foto di scena del film, con cui, nel riprendere il sottoproletariato delle borgate non si ispira al neorealismo che pure era stato vincente: non si tratta di povertà materiale ma di miseria spirituale, figlia del consumismo che cancella stili di vita.

Quadro rievocativo di “Il Vangelo secondo Matteo” e
“Uccellacci e uccellini”

Seguono  subito dopo, nel 1962,  “Mamma Roma” e “La Ricotta”, nel primo l’incontro con Anna Magnani, che aveva ammirato in “Roma città aperta” come popolana dal grande cuore in cui impersonare Roma, è molto espressivo il suo “diario al registratore” in cui dialoga con la Magnani su un’inquadratura da rifare e in generale sul loro rapporto di regista ed attrice: non da plasmare perché  non presa dalla strada come gli altri, ma con una propria visione del personaggio in cui si è calata e che quindi non può essere un “robot” che esegue meccanicamente gli ordini del regista. Però lei stessa riconosce i limiti nell’essere solo istintiva  senza avere coscienza di ciò che fa e lui ammette di avere torto nell’intervenire quando lei recita dicendole, ad esempio, “Ridi, ridi, Anna!”. Una  lezione  di tecnica cinematografica da Actor’s Studio.

Nel secondo film l’incontro casuale con un giovane apprendista falegname Ninetto Davoli, l’ “angelo riccioluto” che come Franco Citti sarà poi protagonista dei suoi film e gli starà sempre vicino. Le immagini esposte sui sopralluoghi per il film di Tazio Secchiaroli rendono l’ambientazione, mentre quelle con Fellini e Roberto Rossellini, Orson Welles e un giovanissimo Bernardo Bertolucci fanno rivivere l’atmosfera dei set. Alle fotografie di scena di “La ricotta”  si aggiungono quelle davanti al Tribunale di Roma che lo condannò a 4 mesi con la condizionale per vilipendio alla religione e il suo testo  nel quale si difende punto per punto dalle accuse che si erano fermate all’apparenza trasgressiva mentre lui aveva voluto “soltanto mettere a fuoco il problema del sottoproletariato senza fasulli misticismi”, sono le sue parole.

Tutti i suoi film  successivi, tranne “Il Vangelo secondo Matteo”, avranno problemi giudiziari, ma l’accanimento contro di lui si è già manifestato nel 1960-61 con denunce paradossali,  c’è in mostra un grande tabellone che elenca i 33 procedimenti dai quali si dovette difendere, fu sempre assolto. E’ il  seguito della mostra di cui parleremo presto completando l’excursus sulla vita di Pasolini.

Pasolini in un’istantanea

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie. Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/ Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Pasolini  le  mostre contemporanee “Gli Etruschi e il Mediterraneo – La città di Cerveteri” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”, sulle quali cfr. i  nostri articoli: per la prima in questo sito l’8 giugno e 6 luglio, e in “www.antika.it, luglio 2014; per la seconda in  http://www.fotografarefacile.it/, marzo 2014.  Catalogo: “Pasolini Roma”, Skira-Palazzo delle Esposizioni, 2014, pp. 264, formato 18 x 24, con testi di Pasolini, , introduzioni dei capitoli di Alain Bergala, commenti ai documenti di Gianni Borgna, Alain  Bergala e Jordi Ballò, interviste con Arbasino e Bertolucci, Cerami e Davoli, Maraini, Morricone e Naldini,consulenza scientifica Graziella Chiarcossi. Per le citazioni del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, “Pasolini, omaggio poetico e artistico a Palazzo Incontro”, 11 novembre 2012 e Pasolini, e altri 14 artisti per 7 sue poesie a Palazzo Incontro”, 16 novembre 2011. in http://www.fotografarefacile,it/  per “Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario”,maggio 2011.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con gli altri organizzatori e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Pasolini presenta il poema “Le ceneri di Gramsci”; seguono  Disegni di teste, 1943,  e Figure; poi,  Mappa di Roma con i luoghi frequentati in una fase della vita, e Quadro rievocativo di “Mamma Roma”; quindi, Mappa  di alcuni viaggi all’estero, e Quadro rievocativo di “Il Vangelo secondo Matteo” – “Uccellacci e uccellini”; ancora, Pasolini in un’istantanea e, in chiusura,   Pasolini con la madre nell’abitazione di via Chiarini, 1960.

Pasolini con la madre nell’abitazione di via Chiarini, 1960