Santo Stefano, 2. Le storie dei reclusi nel penitenziario-teatro

di Romano Maria Levante

“Per un’Europa più libera e unita” nel nome di David Sassoli

Facendo seguito a quanto anticipato ieri con riferimento all’onorificenza conferita dall’Unione europea un mese fa al Manifesto di Ventotene “Per un’Europa libera e unita”, ripubblichiamo il nostro secondo articolo sul Carcere dell’isola di Santo Stefano – che visitammo nel viaggio a Ventotene sulla barca “Luna” dell’amico Ciro Soria – nel quale sarà insediata la “Scuola di alti pensieri” destinata ai giovani europei da formare in nome degli ideali di David Sassoli cui sarà intitolata dopo la proposta, avanzata dalla Commissaria straordinaria del Governo Silvia Costa d’intesa con il Ministro  della Cultura Dario Franceschini accolta con favore dal nostro Presidente del Consiglio.  Mario Draghi  – quasi anticipando letteralmente l’onorificenza venuta quattro mesi dopo – ha sottolineato “la profondità del suo impegno a favore di una Europa più unita e più libera, come nelle intenzioni dei padri fondatori”, considerandolo “un modo per tracciare una linea ideale con il passato, tra due momenti di rinascita del progetto europeo, di cui David Sassoli è stato appassionato protagonista”.

David Sassoli

La Commissaria Costa nella proposta approvata ha citato, di Sassoli,  la “sintesi di ‘idealità e mediazione’ alla luce dei suoi saldi valori cattolico-democratici e delle sue forti istanze di solidarietà, giustizia sociale, partecipazione civica e dialogo”. Per questo intitolando a lui la “Scuola di Alti pensieri”, “la testimonianza e l’esempio di Sassoli resteranno anche nel cuore di tanti giovani che ci stanno inviando toccanti messaggi e che in questi anni lo hanno sentito vicino e attento alle loro richieste”. E si tratta dei giovani europei ai quali è rivolta la scuola “che accolga tutte le migliori esperienze formative sui diritti umani, la dignità della persona, la giustizia, la solidarietà, il ruolo della cultura e della sostenibilità per la costruzione della libertà, della democrazia e della solidarietà in Europa e nel Mediterraneo.” Ed ecco il lsecondo e conclusivo articolo sul Carcere dell’isola di Santo Stefano ripubblicato oggi 3 giugno 2022, mentre domani sarà ripubblicato l’articolo su Ventotene, in omaggio alla località  del celebre “Manifesto” che ha avuto il prestigioso riconoscimento della Commissione europea:      

La storia patria si intreccia con la vicenda carceraria

La nostra immersione nell’archeologia carceraria del penitenziario di Santo Stefano prosegue con un’immersione nella storia evocata dalle vicende dei reclusi nel carcere borbonico che dal Regno di Napoli e poi dal Regno delle due Sicilie viene adottato anche dal Regno d’Italia e dal regime fascista fino alla Repubblica italiana che negli anni ’60 ne decretò la chiusura.

                                             Veduta frontale del carcere risalendo il sentiero dal lato anteriore.

Fu da subito reclusorio per ergastolani, autori dei delitti più efferati, ma anche politici condannati all’ergastolo, nei tempi passati, soprattutto per commutazione della pena di morte. Non potevano sperare nella grazia che interveniva per i detenuti comuni dopo trent’anni di buona condotta, avendone già usufruito con la commutazione. Ma la loro speranza era nei rivolgimenti storici..

Già nel 1799, dopo i moti di Napoli, i primi detenuti politici si aggiunsero alla “parte marcia della società” che vi era rinchiusa, tra loro Giuseppe Settembrini, padre di Luigi Settembrini. Nel 1806, per resistere ai francesi, il re di Napoli accetta l’aiuto di Fra Diavolo che viene nominato generale e arruola i detenuti con la promessa della grazia, il suo tentativo fallisce e viene giustiziato; in quegli anni la stessa cosa avviene per Matteo Manodoro di Pietracamela, anche lui ritenuto bandito nella visione dei giacobini vicini ai francesi, patriota in quella di parte borbonica.

E siamo al 1848, dopo la sconfitta di Murat tornano i Borboni e si costituisce il Regno delle due Sicilie, nel 1817 viene riaperto il carcere di Santo Stefano. Nuovi moti a Napoli, le speranze dei liberali che si affidavano alla Costituzione vengono calpestate, Luigi Settembrini e Silvio Spaventa sottoposti a un processo-farsa, il primo arrestato il 23 giugno 1849 e accusato, come documenta in modo minuzioso lui stesso, di essere capo settario, autore di un proclama e detentore di stampe vietate. L’assurda accusa può essere facilmente smontata ma nel processo del 16 settembre viene sostenuta dalla testimonianza altrettanto assurda – strappata con “stolte e crudeli sevizie” ai compagni di detenzione – che Settembrini aveva ordito in carcere un complotto con una setta rivoluzionaria per uccidere un ministro, il prefetto e il presidente della Corte.

Risultato: condanna a morte, e dopo i drammatici “tre giorni in cappella” – la cella della morte dell’epoca in attesa dell’esecuzione da un momento all’altro – ecco la commutazione delle pena per grazia reale nel carcere a vita al penitenziario di Santo Stefano per intervento del cardinale Cosenza, arcivescovo di Capua, su preghiera della moglie Giulia rivoltasi al vescovo di Caserta.

Un bel salto nella storia ci porta alla reclusione degli anarchici che dopo diversi attentati andati a vuoto riescono ad assassinare Umberto I con i colpi di pistola di Bresci. mandato all’ergastolo di Santo Stefano e dopo quattro mesi trovato impiccato in cella nonostante l’avancorpo militare incaricato di vigilarlo a vista: più che un suicidio forse fu un’esecuzione, ne abbiamo viste simulate in forme analoghe anche nei tempi moderni. Il suo corpo fu seppellito nel piccolo cimitero.

Altro capitolo la detenzione politica degli antifascisti nel ventennio dopo che fu dato alle commissioni provinciali il potere di punire i reati di opinione con diversi gradi di sanzioni, dalla semilibertà al confino nelle isole, dalla sorveglianza speciale al carcere a Porto Longone e Fossombrone, Volterra e Santo Stefano: in questi casi nessun lavoro esterno, cella e ora d’aria con in più misure speciali di isolamento per impedire i contatti: dopo tre anni di segregazione se c’era il ravvedimento si passava alla semilibertà, altrimenti reclusione per altri tre anni

Così a Santo Stefano, oltre ai patrioti del Risorgimento sono stati segregati anche quelli definiti sovversivi nel regime fascista, tra loro Amendola e Pertini il quale ultimo vi soggiornò poco, fu spostato ad altre carceri, tra condanne ed evasioni in Italia, Francia e Svizzera: c’è una lapide all’ingresso del penitenziario che ne ricorda la detenzione nell’isola nel 1929 per tre mesi , cella 36 terzo livello. Anche Terracini, presidente della Costituente, e Scoccimarro, vi furono detenuti.

Alla fine della guerra l’ingresso degli alleati che liberano i detenuti politici, non quelli comuni che fanno una rivolta con a capo Mariani nel novembre 1943, prendono ostaggi 64 agenti di custodia.

Poi nella storia del carcere non più politici ma solo detenuti comuni e il grande esperimento umanitario di Perucatti imperniato su fiducia e rispetto, lavoro per tutti, incontri con le famiglie prolungati per intere ventiquattr’ore, tutela dei carcerati anche rispetto agli stessi agenti di custodia oltre alle strutture ricreative di cui si è detto nella I parte, per la socializzazione e il recupero..

La vita dei detenuti, la memoria diviene storia

Sulle condizioni dei detenuti per il primo periodo della sua storia, quello del Regno di Napoli e poi delle due Sicilie, c’è il diario particolareggiato di Luigi Settembrini a descriverla dall’interno come partecipe di quella sofferenza estrema e insieme osservatore, tanto si sentiva estraneo a una punizione così atroce che molti condannati pluriomicidi sentivano come dovuta e anche meritata.

                                                            Una visione dell’anfiteatro carcerario

Il suo racconto è impressionante, riguarda tanti momenti e situazioni. Tutto è sentito come oppressione, anche “il cielo che è terminato dalle alte mura dell’ergastolo, e che come un immenso coverchio di bronzo ricopre il tristo edifizio e ti pesa sull’anima. Se passa volando qualche uccello, oh come lo riguardi con invidia, e lo segui col pensiero e con la speranza stanca, e con esso voli alla tua patria, alla tua famiglia, ai tuoi cari, ai tuoi giorni di gioia e di amore che sempre ti tornano in mente per sempre tormentarti”. E’ solo un piccolo scampolo di miriadi di espressioni altrettanto toccanti, nelle quali non c’è nulla di stantio, è il reportage spontaneo e genuino dall’interno di una realtà nella quale le reazioni non sono scontate, è un terribile esperienza che sorprende anche lui.

A cominciare dalla minuziosa descrizione dei diversi tipi di condanna, se ai ferri o all’ergastolo, indica anche il numero di maglie della catena e la palla di ferro o il puntale legato agli anelli o alle sbarre. La promiscuità è insopportabile, si è a stretto contatto con gente di ogni risma: oltre al compagno di cella di cui abbiamo detto all’inizio, in fondo incolpevole del delitto commesso dal padrone e dai suoi sgherri, c’erano dei veri assassini. Si formavano dei clan spesso di matrice regionale e rischiava anche l’inoffensivo appartenente alla regione di cui ci si voleva vendicare. Misure di afflizione corporale erano previste con fustigazione sotto gli occhi dei reclusi, ma non servivano da monito per tutti, al contrario facevano gioire la fazione avversa al fustigato.

“Ma neppure puoi star molto su questa loggia ingombra di masserizie e di uomini che ti urtano, gridano, vantano, bestemmiano, accendono fuoco, fendono legne: e poi nel cortile non vedi che condannati trascinare penosamente le sonanti catene, spesso vedi lo scanno sul quale si danno le battiture, spesso la barella con entro cadaveri di uccisi. il vento ti molesta, il sole ti brucia, la pioggia ti contrista, tutto che vedi o che odi ti addolora, e devi ritirarti nella cella”.

Dalla padella alla brace, potremmo dire, perché nello spazio di “sedici palmi quadrati, e ce ne ha di più strette”, vi sono nove, dieci e più reclusi: “Sono nere e affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo”. E qui la minuta descrizione dei “letti squallidi, coperti di cenci” con un piccolo spazio residuo e le pareti nere dove sono affastellate le “povere e sudice masserizie; una seggiola è arnese raro, un tavolino rarissimo, è vietato ogni arnese di ferro” e così via, tutto è indicato con precisione in un’atmosfera da tregenda: “pochi fanno comunanza, perché il delitto li rende cupi e solitari: spesso ciascuno accende il suo fuoco, onde esce un fumo densissimo che ingombra tutta la cella e le vicine, ti spreme le lagrime, ti fa uscire disperatamente su la loggia, dove trovi altre fornacette accese che fumano, ed invano cerchi un luogo non contristato dal fumo, che esce dalle porte, dalle finestre, da ogni parte”. E non è tutto: “Qui si vive a discrezione de’ venti e del mare, divisi dall’universo, e soffrendo tutti i dolori che l’universo racchiude”.

Questo per le condizioni materiali, e quelle psicologiche? Anche peggiori, tra urla e grida “che fieramente echeggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse”, gemiti e strida con i cadaveri nelle barelle. Fino all’agghiacciante conclusione: “Quando stanco d’ozio, d’inerzia e di noia cerchi un po’ di riposo e di solitudine sul duro e strettissimo letto, mentre dimenticando per poco gli orrori del luogo corri dolcemente col pensiero alla tua donna, ai tuoi figlioletti, al padre, alla madre, ai fratelli, alle persone care all’anima tua, senti il fetido respiro dell’assassino che ti dorme accanto, e sognando rutta e bestemmia”. L’unica salvezza é nella fede: “O mio Dio,quante volte ti ho invocato in quelle ore di angosce inesplicabili; quante notti con gli occhi aperti nel buio io ho vegliato sino a giorno fra pensieri tanto crudeli, che io stesso ora mi spavento a ricordarli”.

Presto interviene la comprensione per i delinquenti e gli assassini con cui deve forzatamente convivere, perché “non sanno quello che fanno” si potrebbe dire, non sono responsabili di azioni frutto dell’ignoranza e della degradazione che sono colpe gravi di chi li ha tenuti in quelle condizioni: “Quando entrai nell’ergastolo gli uomini che qui sono mi facevano orrore, dopo alquanti giorni mi fecero pietà. Sono scellerati, sì, ma perché sono scellerati? Ma essi solo sono scellerati?”

E rivolgendosi a coloro che fanno le leggi e giudicano gli uomini chiede: “Prima che costoro fossero caduti nel delitto, che avete fatto voi per essi? avete voi educata la loro fanciullezza, e consigliata la loro gioventù? avete sollevato la loro miseria? li avete educati col lavoro? avete voi insegnato ad essi i doveri del loro stato? avete loro spiegato le leggi?”. Fino ad esclamare: “Non dite che alcuni uomini non possono correggersi: ma voi li avete prima educati, avete fatto nulla per impedire i delitti? E dopo i delitti avete tentato alcun mezzo per correggerli? Pane e lavoro sono gli elementi di ogni educazione, i mezzi per domare ogni durezza, per mansuefare ogni fierezza”.

Una lezione di alta civiltà raccolta da Perucatti che vi imperniò l’intero suo sistema carcerario, valida tuttora che l’abbiamo vista riemergere come un reperto prezioso dall’archeologia carceraria.

L’altra grande sofferenza morale è quella della lontananza dai propri cari, per di più in una segregazione senza speranza. Anche qui si nota un’evoluzione quanto mai eloquente, con il tempo lo spirito di sopravvivenza prevale sulla disperazione, pur in un carcere così oppressivo trova il modo di trasmettere e ricevere messaggi segreti dalla moglie, lettere con inchiostro simpatico ed altri accorgimenti, fino alla progettazione di un’evasione mancata a cura del fuoruscito Panizzi.

Torneremo al termine sulla vicenda romanzesca che a un certo punto gli apre le porte della libertà. Ora vorremmo sottolineare che la sofferenza morale la supera nel trasmettere sentimenti in cui l’affetto è un balsamo per le ferite morali nello stesso tempo in cui è una ferita esso stesso.

                                                                       Una struttura accessoria

L’assenza dei propri cari la sente come un dolore lancinante, si rivolge a loro con toni toccanti nel diario e nelle lettere, percorrono l’intera sua vicenda carceraria, sono innumerevoli le espressioni d’amore per moglie e figli negli otto anni di detenzione. Ne riportiamo soltanto una del 17 aprile 1854, dopo i primi quattro lunghi anni da recluso a Santo Stefano: “Ho baciato il tuo ritratto, o mia diletta, ma l’ho baciato segretamente. Gli uomini tra cui sono, se m’avessero veduto m’avrebbero deriso, perché non conoscono la virtù e l’amore. Che nuovo tormento è questo di dover tenere celato come delitto il più sacro, il più casto degli affetti? Ho baciato il tuo ritratto, ho riveduto gli occhi tuoi, ma non sono dessi, non hanno quella luce e quell’amore. Gli occhi tuoi li ho qui nell’anima mia, e qui scintillano come due stelle, e mi spandono una luce soave per tutta l’anima”.

Con il Regno d’Italia le condizioni migliorano, si dimezza la dimensione delle celle e in ognuna un solo recluso, i detenuti sono ammessi a lavorare nel carcere. Dalla promiscuità che generava incidenti anche mortali all’isolamento il miglioramento c’è, pur se si diffonde la depressione.

                                                                    Il piccolo cimitero del carcere

Questa esperienza si protrasse per alcuni anni, tra contrasti e polemiche di ogni tipo dall’esterno, senza che vi fosse neppure il pieno sostegno del personale di custodia che non aveva più la licenza di comportarsi con la durezza di sempre verso i detenuti. Per cui la prima evasione dell’agosto 1956 gli fu addebitata anche se riuscì a superare la crisi, avvenne dal settore lavorazioni, per quindici giorni ricerche infruttuose a Ventotene dove il fuggiasco era approdato a nuoto nascondendosi tra gli scogli, poi l’arresto mentre cercava di lasciare l’sola su un’imbarcazione. Ma Perucatti non superò la seconda evasione dopo due anni, quando i due detenuti evasi non furono ritrovati, anche se si pensa che forse morirono annegati nel tentativo. Il nuovo direttore reintrodusse le severe misure di massima sicurezza ma dinanzi a un carcere ingestibile dovette incentivare la buona condotta: “Il carcere è cambiato, non si torna più indietro”, commenta la guida Salvatore.

La chiusura comincerà nel 1962 e sarà lunga fino all’accelerazione che avvenne alla morte di tre detenuti impegnati a scaricare la merce nell’approdo più periglioso dell’isola; nel 1965 era già semivuota, a parte pochi detenuti per le operazioni di chiusura completate solo nel 1975.

Il carcere fu lasciato incustodito, con l’arrembaggio dei soliti vandali per sottrarre quanto ritenuto utile, le porte furono divelte. Ha bruciato le tappe nel subire la sorte comune ai reperti archeologici, risultati di spoliazioni che nelle antichità hanno riguardato gli stessi materiali da costruzione.

Chiuso e di fatto abbandonato, salvo le visite guidate che ne mostrano al pubblico la deplorevole fatiscenza e rivelano anche per questo verso la scarsa cura che si ha per tutto quanto è storia da rispettare, almeno attraverso un’efficace manutenzione e custodia, e memoria da valorizzare.

                                                                 Il lato posteriore del carcere

Da Santo Stefano a Ventotene, tra la storia e la natura

La nostra guida Salvatore ha le sue idee in proposito, e le abbiamo riportate all’inizio. Ci auguriamo che qualche idea l’abbia anche chi può porre rimedio a una situazione paradossale: si mostra doverosamente a tutti un pezzo di storia patria e nel fare questo si scopre la scarsità di risorse destinate ai beni culturali e l’assenza di iniziative che possano convogliarvi risorse esterne.

Scendiamo il ripido sentiero verso un approdo diverso da quello dal quale siamo sbarcati con il gommone della barca “Luna” del nostro amico Ciro: questo attracco è più scosceso e periglioso. Ci troviamo ora sull’imbarcazione a motore che si lascia alle spalle Santo Stefano e punta su Ventotene. Al timone Francesco detto Spadino in una fiammante maglietta rossa, a lui ci affida Salvatore che dopo due ore di spiegazioni mantiene tutta la cortesia mostrata nella mattinata.

Ci sembra di rivedere la scena con cui si apre il film di D’Alatri “Sul mare” girato proprio a Ventotene, del quale abbiamo parlato nel servizio del 24 luglio scorso sulla rivista consorella www.amalarte.it. Il motoscafo divora le onde, il porto romano si avvicina. Siamo tornati nell’isola principale, in passato terra di confino per centinaia di perseguitati politici. Il continente è ancora lontano ma non sentiamo il bisogno di tornarci, tanto è bella la natura da queste parti.

E poi si respira la storia ed è un tonico potente, anche nel caldo mese di agosto quando si cerca soprattutto riposo e disimpegno. Ma allorché alla bellezza della natura si aggiunge la suggestione della memoria si può dire di aver fatto il pieno di emozioni. E allora non ci resta che andare nella piazza principale di Ventotene alla libreria “Ultima  spiaggia” per prendere il libro di Luigi Settembrini,“L’ergastolo di Santo Stefano”: è la lettura dei giorni che hanno lasciato il segno.

                                        Il sentiero percorso in discesa nel lasciare il carcere dal lato posteriore

Spes contra spem

Questa lettura ci permette di non chiudere la nostra descrizione dell’archeologia carceraria nel segno della reclusione senza speranza, bensì della riacquisita libertà. Che non è stata quella effimera dei detenuti fuggiti alla “Papillon” e poi ripresi oppure scomparsi, ma una libertà vera che venne dal non essersi lasciato piegare dall’inedia cui condannavano i reclusi avendo mantenuto la mente vigile e lo spirito attivo non solo nella traduzione dal greco dei “Dialoghi” di Luciano, pur disponendo soltanto di un minuscolo dizionarietto, ma anche nel descrivere impietosamente le condizioni inumane del carcere e nel tentare, riuscendovi, di trasmettere all’esterno il suo diario insieme alle lettere colme di sentimenti per la propria famiglia, in particolare la moglie e il figlio.

Nelle lettere c’è l’organizzazione del tentativo di fuga cui abbiamo accennato con l’amico Panizzi fuoruscito a Londra dove si era occupato del figlio Raffaele, avviato tra incertezze e contrasti alla carriera di ufficiale di marina; un tentativo al quale il soggiorno nell’infermeria di Santo Stefano forniva punti di riferimento perché poteva vedere il mare e quindi l’eventuale “vapore” liberatore.

Ma soprattutto il suo diario generò un movimento di opinione all’estero contro le condizioni inumane di vita dei reclusi politici, per cui le pressioni di governi quale quello inglese indussero il sovrano a commutare la pena nell’esilio in Argentina per le nozze del figlio Francesco, l’erede.

Si protrasse per due anni questo tira e molla in un’alternanza di speranze e delusioni e anche tra i problemi sollevati dalla compatibilità dell’esilio con le convinzioni politiche: lui non ha dubbi, sarebbe poi ritornato. Finché si imbarca con gli altri esiliati sul vapore che fa scalo a Cadice dove resta a lungo in attesa della nave americana dove avrebbe fatto la seconda parte del viaggio, si parla di almeno 60 giorni di navigazione che era arduo superare nelle condizioni in cui si svolgevano.

Qui la realtà romanzesca prende corpo in una inattesa visita sulla nave di Raffaele nell’elegante divisa da ufficiale di marina: dice di aver saputo per una provvidenziale coincidenza che incrociava nello stesso porto il vapore dei deportati in Argentina ed era venuto a salutare il padre. Sarebbe già molto dopo la reclusione a Santo Stefano, ma è solo l’inizio. Perché non è il caso che lo ha portato a Cadice, e non si trova più sul veliero dal quale era sceso per far visita al genitore allorché salpa sotto lo sguardo triste di Luigi Settembrini che lo vede partire senza sapere quando rivedrà il figlio.

Se lo ritrova tra le braccia appena la nave che lo porterà in Argentina lascia Cadice, e non più come visitatore, ma come finto cameriere che si è fatto assumere con l’intento di dirottarla. E lo fa con determinazione e abilità, usa argomenti molto convincenti non escluso il ricorso alla forza se necessario. Il comandante deve cedere, la nave invece che in Argentina approda in Inghilterra, la terra della libertà. Lui vi si ferma un anno prima di rientrare in patria, la sua odissea è terminata con un dirottamento che anticipa quelli vissuti negli anni recenti, ma allora con alte finalità morali.

Dove nel crocevia di motivazioni generali e personali, politiche e sentimentali, in cui si incrociano i valori etici di libertà con i più puri affetti familiari, la storia di Luigi Settembrini riesce a produrre un capolavoro letterario di umanità e insieme di giustizia in un “happy end” esaltante.

E abbiamo voluto che fosse pure l’“happy end” della nostra visita. Anche da un penitenziario così arcigno e protetto il recluso ingiustamente può trovare la forza e i mezzi per uscire. Il vecchio film francese di Robert Bresson, “Un condannato a morte è fuggito”, lo esprimeva attraverso la ricerca spasmodica senza speranza ma poi coronata dal successo con l’apertura della breccia nella cella impenetrabile; in Settembrini la chiave è stata la forza morale nella resistenza e nella denuncia, con l’aiuto della cultura alla quale non ha rinunciato mai, dai “Dialoghi” di Luciano al diario della vita carceraria nel quale sfogava indignazione e sofferenza, e si rifugiava nei ricordi familiari.

Un insegnamento per tutti. E una conferma, che ci viene dall’immersione nell’archeologia carceraria, della validità del motto che invita a non disperare mai: “Spes contra spem”.

Ph. Romano Maria Levante, tutte.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 8 ottobre 2010 – Email levante@archart.it

Santo Stefano, 1. Archeologia carceraria del penitenziario-teatro

di Romano Maria Levante

A David Sassoli la “Scuola di alti pensieri” nel carcere di Santo Stefano

Poco più di un mese fa, il 28 aprile 2022,  l’annuncio della Commissaria Europea per l’Innovazione, la ricerca e la cultura, Mariya Gabriel, del conferimento dell’onorificenza al Manifesto di Ventotene “Per un’Europa libera e unita”, commentato così dal nostro Ministro della Cultura Dario Fraceschini: “Il riconoscimento del Manifesto di Ventotene, insignito oggi del marchio di patrimonio europeo, assurge a simbolo dell’Unione il contributo ideale di tre grandi italiani: Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, che lo redassero in confino nel 1941, e Eugenio Colorni, che ne curò la pubblicazione nel 1944 poco prima di essere trucidato a Roma dalla milizia fascista. A conferma di come nei momenti più bui la forza delle idee sappia portare la luce di cui ha bisogno l’umanità”. Anche quello attuale è un momento buio nel quale i valori dell’ “Europa libera  e unita”  sembrano messi a rischio dall’insensata aggressione della Russia all’Ucraina che ha riportato la guerra in Europa dopo quasi 80 anni di pace e il superamento della stessa “guerra fredda” per una coesistenza che sembrava definitivamente pacifica, anzi amichevole. Sono valori perseguiti nei tempi più recenti da David Sassoli e messi in atto come Presidente del Parlamento europeo prima dell’improvvisa prematura scomparsa, per questo ci sentiamo di aggiungere il suo nome ai tre del “Manifesto di Ventotene”. E  lo ricordiamo oggi 2 giugno, solenne Festa della Repubblica,  considerando che David Sassoli sarebbe stato tra i candidati alla Presidenza della Repubblica come ha affermato Enrico Letta,  segretario del suo partito, il PD, nel celebrarne la nobile figura.     

David Sassoli forever…

Il profilo ufficiale di David Sassoli ne ricorda i  valori  – “lealtà, coerenza, educazione, rispetto”  – gli insegnamenti – “mai fingere né alimentare polemiche, spirali, pregiudizi, pettegolezzi, meschinità’ – l’atteggiamento – “stile, riservatezza, sobrietà” – la credenza “nella politica nella sua accezione più nobile e nell’Europa baluardo dei diritti e delle opportunità, nell’impegno a difesa delle persone deboli e indifese, nella lotta contro ogni  forma di ingiustizia e prevaricazione”, e questo “sempre con il sorriso” –  il suo sorriso in apertura della nobile rievocazione conclusa con le parole: “Bello fossero tantissimi sorrisi”.

Ebbene, saranno tantissimi i sorrisi dei giovani europei che  lo ricorderanno in un luogo simbolo dell’ideale europeo con i  valori in lui impersonati. E’ stata annunciata  il 17 gennaio l’intestazione a David Sassoli della “Scuola di Alti pensieri” insediata nello storico Carcere di Santo Stefano appena realizzato il recupero con il “Progetto Ventotene” nome della località – dinanzi alla quale c’è l’isola di Santo Stefano con il carcere –  dove Altiero Spinelli con Ernesto Rossi redasse il Manifesto per l’unità europea.

Abbiamo visitato il carcere di Santo Stefano più di dieci anni fa, in un viaggio a Ventotene sulla barca “Luna” dell’amico Ciro Soria. “Archeologia carceraria”, un sito in abbandono ma altamente simbolico. Pertanto, in omaggio alla prestigiosa intestazione della “Scuola di alti pensieri” che vi sarà insediata, ripubblichiamo oggi e domani, 2 e 3 giugno, il nostro reportage sul carcere uscito in due articoli il 2 e il 10 ottobre 2010 su www.archeorivista.it. per rievocare e far rivivere l’emozione di allora in un complesso nel quale è racchiusa tanta memoria storica e umana; sarà seguito il 4 giugno da un terzo articolo sulla visita a Ventotene, a Villa Giulia. . Ecco il primo articolo, che ripubblichiamo tal quale come faremo domani e dopodomani con gli altri due articoli a seguire.

La visita al penitenziario, l'”Alcatraz” italiano

Con la ripresa dopo la pausa estiva dei “giovedì di Santa Marta” – gli incontri letterari settimanali al Collegio romano promossi dal ministro per i Beni e le Attività Culturali Sandro Bondi ai quali ci siamo ispirati per i nostri 20 incontri archeologici settimanali dal febbraio scorso – riprendono anche i “venerdì di Archeorivista”, che raccontano visite a siti e musei archeologici o temi assimilabili.

Ieri giovedì 30 settembre nella Sala Convegni dell’ex chiesa di Santa Marta in piazza del Collegio Romano è stata presentata la rivista trimestrale “Accademie e biblioteche d’Italia” con un affollato incontro coordinato dal Direttore generale per le Biblioteche, gli istituti culturali e il diritto d’autore del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Maurizio Fallace. E’ stata una vera celebrazione del libro, con le appassionate letture di Manzoni da parte di Pamela Villoresi e di Calvino da parte di Mattia Ruspoli Sbragia e la poetica esaltazione della bellezza del libro e della lettura del Consigliere del Ministro Giuseppe Benelli. Ma ecco la sorpresa, il “giovedì di Santa Marta” si è concluso con una visita alla cripta dell’antica chiesa, guidata dall’archeologa Angela Maria Ferroni che ne ha inquadrato le origini nella storia di Campo Marzio e ha mostrato, in un percorso che si è snodato tra antichi ambienti a volta, il pavimento romano alla profondità di cinque metri. Abbiamo preso questa coincidenza ipogeica, del tutto inattesa in una presentazione di libri, non solo come un segno beneaugurante ma come un gemellaggio ideale con la nostra iniziativa parallela.

Tornando a noi, riprendiamo i racconti delle visite agli ipogei anche virtuali con l’archeologia carceraria, uno scavo nella storia della nostra umanità se è vero che dalle carceri si misura la civiltà di un popolo. E imperniamo il nostro racconto su un libro, coincidenza fortuita anche questa, che dà al gemellaggio ideale appena evocato un rapporto biunivoco, non ricercato ma determinatosi nella realtà. Detto questo, chiamare teatro il penitenziario di Santo Stefano – che possiamo definire “l’Alcatraz italiano” non è solo metafora: lo vedremo dall’architettura e soprattutto dalla condizione carceraria.

                                                          Visione di una parte dell’anfiteatro carcerario

L’archeologia carceraria è storia da rispettare e memoria da valorizzare

Luigi Settembrini, che vi fu rinchiuso per otto anni, scrive che quando vi entrò tra i suoi cinque compagni di cella c’era “un abruzzese di un villaggio presso Teramo, e chiamasi Giovanni”, condannato per complicità in undici omicidi, compiuti dal “signore suo padrone” e dai suoi sgherri, aveva solo bussato alla porta eseguendo l’ordine ricevuto, un superstite dell’eccidio lo denunciò e lui fece i nomi dei colpevoli: sei di loro e il padrone impiccati, “egli con altri dannato all’ergastolo, dove è giunto da pochi mesi”. Questa “ouverture” ci introduce al “teatro” di Santo Stefano.

Ha la forma e la struttura di un vero teatro, la sua planimetria rimpicciolita è perfettamente sovrapponibile a quella del San Carlo di Napoli. I tre ordini di palchi diventano celle poste a semicerchio nella concezione “panottica” tipica del teatro, che assicura visione totale della scena da ogni punto.

Ma mentre nel teatro la scena è al centro dove convergono gli sguardi dai palchi tutt’intorno, nel carcere è l’opposto, gli sguardi delle sentinelle poste al centro devono potersi diramare verso le celle, tutte sotto continua sorveglianza. Al motivo funzionale di praticità ed efficacia per la vigilanza se ne aggiungeva uno quasi subliminale nella concezione di quell’epoca che per recuperare i detenuti occorreva che le loro menti fossero dominate, e questa struttura lo consentiva; ci volle il direttore Perucatti, del quale parleremo, per sovvertire questi concetti.

Il genio italico ha anticipato il trattato che nel 1791 uscì in Inghilterra sulla concezione “panottica” a visione totale del carcere: la progettazione fu dei due principali tecnici dei Borboni, Francesco Caffi ingegnere con Antonio Winspeare maggiore del genio, che avevano partecipato al progetto urbanistico di Ventotene, per il porto, le rampe di accesso e la strada fino al Forte. Il progetto, iniziato nel 1786, si concluse nel 1790 con la costruzione durata 7 anni; nel 1797 fu inaugurato ufficialmente, ma l’utilizzazione iniziò subito con la manodopera carceraria impegnata nei lavori.

Queste sono le prime notizie che ci dà la nostra guida, Salvatore Schiano di Colella, in una visita di due ore che diventa una carrellata su quasi due secoli di storia patria, il carcere è stato chiuso negli anni sessanta dopo le evasioni degli ultimi anni degne di Papillon utilizzate anche come pretesto per estromettere il direttore che aveva ispirato la sua gestione all’umanità e al dettato costituzionale.

E’ un vero viaggio nel tempo dove la storia si collega alla sociologia, la politica al costume, nelle parole della guida dalle quali traspare partecipazione personale e, perché no, affetto per quel pezzo di storia d’Italia che mostra anche – questo l’esordio di Salvatore – come “da un ordine e una pulizia estrema si può passare a un disordine e un degrado altrettanto estremi”.

Ci sentiamo di fare una denuncia e insieme un appello: come viene rispettata e valorizzata l’archeologia industriale – il “Lingotto” di Torino è solo il più evidente di una miriade di esempi – così non si giustifica il colpevole abbandono dell’archeologia carceraria, una struttura che oltre al doveroso rispetto per la storia in essa racchiusa è meritevole, oltre che suscettibile, di valorizzazione sul piano culturale, come altre strutture dismesse, da Procida all’Asinara che non vanno abbandonate, e non si accampi la solita scusante della carenza di risorse  adeguate.  Con le sponsorizzazioni potrebbero affluire in modo adeguato, basta uscire dall’inerzia e produrre idee costruttive; crediamo che non tarderebbero risposte in grado di tradursi in iniziative concrete o di proporre altre soluzioni.

Per Santo Stefano, alla guida Salvatore le idee non mancano e lo dice senza esitazioni pressappoco così: “Potrebbe divenire un grande museo sull’evoluzione dei diritti umani. In aggiunta potrebbero esservi ospitati laboratori di ricerca, la piccola isola è una riserva naturale dove si possono rivitalizzare le colture. Una foresteria per ricercatori e personale e anche un piccolo albergo dov’era la residenza del direttore sono ulteriori componenti di questa o di altre idee per utilizzare una così grande struttura carica di storia che va salvata dal degrado”.

Ci espone queste idee al termine della visita, mentre con una accorta regia mostra grandi fotografie di quando il penitenziario era in attività, veramente “ordine e pulizia estrema” almeno esteriore, muri bianchi con le arcate in vista e la disposizione degli altri blocchi oltre al ferro di cavallo del carcere simili a quelle residenze coloniali viste in molti film di ambiente esotico.

E non abbiamo ancora parlato dello spettacolo incantevole che si gode dello sperone su cui si vede “grandeggiare l’ergastolo, che per la sua figura quasi circolare sembra da lungi un’immensa forma di cacio posta su l’erba”, scriveva Luigi Settembrini raccontando minuziosamente il suo approdo nel 1851: ”Per iscendere sull’isola si deve saltare su uno scoglio coperto d’alga e sdrucciolevole. Cominciando a salire per una stradetta erta e scabrosa”.

Segue la descrizione di un’isola che non c’è più, non soltanto nel negativo del penitenziario ora chiuso e in rovina, ma neppure nel positivo delle coltivazioni, tornata com’è allo stato di abbandono preesistente al carcere: “Sino a pochi anni addietro l’isola era tutta selvaggia ed aspra; ora è coltivata, tranne una ghirlanda intorno, dove tra gli sterpi e le erbacce pascono le capre pendenti dalle rocce, sotto di cui si rompe il mare e spumeggia. Su la parte più larga e piana del monte sorge l’ergastolo”, scrive sempre Settembrini.

Avevano diversi approdi – dice la guida Salvatore – il Marinella per i velieri e le barche che portavano merci, e il n. 4 per i detenuti e persone con merci alla rinfusa. Poi tre di emergenza, un porticciolo non agibile, la “vasca azzurra” nella roccia vulcanica, l’“approdo del burrone”.

                                                          Uno scorcio ravvicinato dell’anfiteatro

L’arrivo nel penitenziario

Ci guardiamo intorno, cerchiamo di immedesimarci nell’arrivo dei condannati, la scena che si presentava loro è la stessa a parte il colore del muro, oggi annerito: “Il gran muro esterno dipinto di bianco e senza finestre, è sparso ordinatamente di macchiette nere, che sono buchi a guisa di strettissime feritoie, che danno luogo solo al trapasso dell’aria”.

Il condannato non poteva godere dello spettacolo della natura, e noi che abbiamo di fronte la bellezza del mare e la nera sagoma del penitenziario possiamo apprezzare le parole di Settembrini: “Non si può dire che tumulto d’affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrà più rivedere; con che frequenza respira e beve per l’ultima volta quell’aria pura; con che desiderio cerca di suggellarsi nella mente l’immagine degli oggetti che gli sono intorno”.

Quindi la descrizione degli edifici dopo la “terribile porta”: un casolare sulle rovine della Villa Giulia di Santo Stefano, dependance della grande Villa Giulia che a Ventotene divenne quasi un carcere a sua volta, o meglio un luogo di espiazione per le imperatrici cadute in disgrazia in un vero paradiso della natura; un recinto con le croci del “cimitero dei condannati”; la “casetta del tavernaio divenuto coltivatore dell’isola”; e poi, “un edificio quadrangolare sta innanzi l’ergastolo, e ad esso è unito dal lato posteriore”.

Due torrette agli angoli, cinque finestre e la porta di ingresso con la sentinella, dove non c’è scritto “perdete ogni speranza o voi che entrate”, non sono degni neppure di questo, ci si rivolge alla società affermando che “finché la santa Legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo Stato e la proprietà”, e lo si fa in latino: “Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis vincta tenet, stat res, stat tibi tuta domus”. Commenta amaramente Settembrini: “Parole non lette o non capite dai più che entrano, ma che stringono il cuore del condannato politico e lo avvertono che entra in un luogo di dolore eterno, fra gente perduta, alla quale egli viene assimilato. Bisogna avere gran fede in Dio e nella virtù per non disperarsi”.

                                                                   Le singole arcate con le celle

Poi un cortile quadrilatero circondato dalle abitazioni dei sorveglianti, con magazzino, forno e taverna: Settembrini descrive il personale, oltre al comandante, ufficiale di marina e al suo aiutante detto “comite”, “pochi caporali, e bastevol numero di aguzzini; un altro ufficiale comanda un drappello di soldati, i quali guardano l’esterno. Vi sono anche due preti, due medici,un chirurgo e tre loro aiutanti; v’è il provveditore e il tavernaio”. Un microcosmo che si è profondamente modificato nel tempo, ma di cui è illuminante riscoprire la consistenza nella fase storica iniziale.

La descrizione dell’ingresso nel carcere si fa incalzante: gli “agozzini coi loro fieri ceffi” perquisiscono e tolgono la catena ai condannati all’ergastolo, la controllano ai condannati ai ferri, poi la registrazione e le prescrizioni del comandante “dopo averti biecamente squadrato da capo a piè”, se si violano “vi sono le battiture e la segreta”. Si attraversa un secondo androne, un custode apre il cancello sul ponte levatoio che fa superare il muro con la palizzata e il fossato, “varchi il ponte ed eccoti nell’ergastolo. Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi,che sono i tre piani delle celle dei condannati; immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro… che nel mezzo di esso muro in alto sta una loggia coverta, che comunica con l’edificio esterno, e su la quale sta sempre una sentinella che guarda, e domina tutto in giro questo teatro; e più su in questa gran tela di muro sono molte feritoie volte ad ogni punto. Così avrai l’idea di questo vasto edificio”.

Abbiamo voluto descrivere l’impressione provata entrando nel complesso con le parole di Settembrini nelle quali l’ansia e l’angoscia non celano lo stupore. Lo stesso devono aver provato, pur se si sono aggiunte costruzioni e si sono modificati gli accessi, i detenuti delle epoche successive, in particolare i politici dinanzi all’iscrizione all’ingresso e alla spettacolare scenografia dell’anfiteatro carcerario di forma teatrale. In noi non c’è l’ansia e l’angoscia nell’entrare ma certamente lo stupore. Ansia e angoscia verranno dinanzi ai particolari della vita carceraria.

C’erano 99 celle, 33 per ognuno dei tre piani, tutte per gli ergastolani tranne metà delle celle del primo piano per “un centinaio di condannati ai ferri -scrive Settembrini – nell’altra metà del primo piano i più discoli, nel secondo i meno tristi, nel terzo quelli che han dato pruova di essere rassegnati”, il pensiero va alle tre cantiche dantesche. In alto “una loggia scoperta che gira innanzi tutte le celle”, invece dei trentatre archi di ciascuno dei due piani inferiori; nel terzo piano le undici ultime celle sono per l’infermeria “e queste sole invece di buchi esterni hanno finestrelle ferrate, dalle quali si può vedere un po’ di verde e la vicina Ventotene, hanno invetriate e pareti bianchi”.

Un paradiso che Settembrini dopo essere stato all’“inferno” poté sperimentare descrivendo in modo straordinario ciò che vedeva, fino a scrutare il mare in attesa del vapore che “deve il giorno prefisso comparire da Capo Circiello, accostarsi a Ventotene. Se viene da altra parte non possiamo vederlo”, questo nel progetto della fuga non avvenuta, la liberazione avverrà in modo altrettanto romanzesco.

E’ il momento di entrare nell’anfiteatro, all’interno dello spettacolare ferro di cavallo; prima occorre superare l’ingresso dov’era la recinzione con il ponte levatoio che veniva alzato un’ora prima del tramonto dando la sensazione del totale isolamento, “un’isola nell’isola”, la definisce Settembrini che aggiunge: “Quando è abbassato sempre aspetti e sempre speri, alzato non più aspetti né speri”.

Non è soltanto la prima impressione, se l’8 febbraio 1955, dopo quattro anni di reclusione, scriveva: “Oh come mi ha trasfigurato l’ergastolo! Alle pene fisiche mi sono già abituato: alle pene morali non mi abituerò giammai, soccomberò sì ma combatterò sempre, mi difenderò sempre il cuore, che è la mia rocca, la mia inespugnabile fortezza. Oh povera mente, povero cuore mio, quanti nemici assaltano l’uno e l’altra! Mi viene a piangere quando riguardo me stesso, e miro la mia mentale e morale . No, no, non mi vincerete: io combatterò sino all’ultimo , finché mi palpiterà il cuore. Oh tremendo ergastolo! Oh angoscioso ergastolo che mi squarci tutte le fibre della vita. Oh, mi si spezzasse il petto, e la finissi una volta per sempre!”. Disperazione che supera ogni qualvolta si ripresenta in un percorso psicologico e umano esemplare e illuminante.

In ogni cella erano rinchiusi da 6 a10 ergastolani, negli 11 metri quadrati e anche meno di superficie dovevano restarci per l’intera giornata, a parte l’ora d’aria nella quale potevano vedere soltanto il cielo e non l’esterno. Quindi le 99 celle contenevano 900-1000 detenuti che potevano cucinare all’interno della cella con le fornacette, la conseguenza era un denso fumo nero che la particolare struttura riversava tutto all’interno rendendo l’aria irrespirabile, ci torneremo.

La finestra con le sbarre si trovava sopra la porta e non c’era, quindi, circolazione d’aria. Soltanto una parte delle celle all’ultimo piano aveva l’apertura sull’altra parete, ma era in alto e a bocca di lupo per cui non si poteva vedere l’esterno; quelle dell’infermeria, con la vista sull’esterno verso Ventotene erano l’eccezione, e abbiamo detto che Settembrini vi soggiornò per un breve periodo.

L’evoluzione nel tempo del carcere per ergastolani

Regno di Napoli, poi delle due Sicilie, e Regno d’Italia, regime fascista e Repubblica italiana, la storia fa passi da gigante e il penitenziario di Santo Stefano non rimane fermo. Non solo nella struttura, con molte aggiunte e modifiche, ma soprattutto nel trattamento dei detenuti. E di questo vogliamo parlare mantenendo sullo sfondo i mutamenti epocali che si sono verificati nel tempo.

                                                            Padiglioni per la direzione e il personalee

L’interesse per l’isoletta, come per Ventotene, risale ai tentativi di colonizzare le isole pontine a cominciare da Ponza dove nel 1738 Carlo III insedia coloni per sottrarla allo Stato Pontificio; per Ventotene si tentò l’“esperimento Russeaux”, nel 1768 vi furono insediati 200 uomini e donne di malaffare secondo la teoria del “buon selvaggio”, ma fu dichiarato fallito dal vescovo di Gaeta nel 1771 perché “vivevano in nequizia” una “vita libertina”, sono rispediti a continuarla nei luoghi di origine. “Tre anni sono troppo pochi per un simile esperimento, e poi non è il vescovo il più adatto a giudicare”, così il commento di buon senso di Salvatore. Il sovrano non demorde, nel 1772 un Editto reale trasferisce a Ventotene contadini e pescatori di Napoli.

Ma torniamo a Santo Stefano, la decisione del 1786 di progettare un carcere per portarvi la “parte marcia della società” deriva anche dalla sua conformazione vulcanica con le coste scoscese, facile da controllare. La struttura “panottica” faceva il resto, con una torretta al centro dove c’è anche una cappellina. Nell’avancorpo gli ambienti per la guarnigione militare, la costruzione originale senza aggiunte è in rosa, vivevano in locali così ristretti che la condizione dei custodi non era molto diversa da quella dei detenuti. Già con il Regno delle due Sicilie si provvide ad ampliare alcune strutture per renderle meno invivibili.

Fu con il Regno d’Italia che si concessero maggiori spazi a tutti e le condizioni di vita divennero meno severe, gli agenti di custodia potevano anche recarsi a Ventotene, dove peraltro non c’erano particolari diversivi. Furono fatti numerosi lavori edili, che vengono descritti uno ad uno dalla guida Salvatore, ma si tratta di aggiunte e modifiche a

una struttura che resta la stessa. In particolare garitte per le sentinelle, prima c’era l’anomalia che i sorveglianti dovevano stare all’addiaccio mentre i detenuti erano al coperto in celle prima comuni poi dimezzate e singole.

Con la Repubblica italiana negli anni ’50 si compie un vero balzo in avanti, arriva un direttore così illuminato da fornire il carcere di servizi ricreativi che non c’erano neppure a Ventotene: una sala cinema, poi anche una sala Tv, un campo di calcio, fino alla pista per go kart. L’approvvigionamento di acqua con navi cisterna era così regolare e abbondante che paradossalmente da Ventotene ci si rivolgeva spesso a Santo Stefano.

                                                       Il campo di calcio realizzato dal direttore Perucatti

Una figura di direttore illuminato rischiara per un po’ l’immagine cupa del carcere, si chiamava Eugenio Perucatti, e le sue non erano iniziative estemporanee. Ne avremo la prova nella libreria “Ultima spiaggia” della piazza di Ventotene, che espone in una valigia di fibra, con libri rari d’epoca non in vendita, un vero trattato di 560 pagine edito dallo stesso Perucatti nel 1956 dal titolo di per sé eloquente “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”, che descrive analiticamente il suo “metodo”.

La valigia è alla sommità di una preziosa isola libraria con le memorie dei condannati al confino nell’isola, primo tra essi Altiero Spinelli e il suo “Manifesto di Ventotene” con Ernesto Rossi e altri; e anche con scritti sul carcere di Santo Stefano, in particolare quello dell’anarchico Alberto Marini e del patriota Luigi Settembrini, entrambi pubblicati meritoriamente nel 2009 e 2010 dalla libreria a cura dell’Editrice omonima “Ultima spiaggia”. C’è pure un voluminoso tomo su Gaetano Bresci, autore dell’attentato riuscito alla vita di Umberto I .

Abbiamo detto dei servizi ricreativi introdotti da Perucatti, e come abbiamo citato all’inizio il cartello ricordato da Luigi Settembrini non possiamo non citare quelli introdotti dal direttore umanitario. In progressione si incontrano le scritte “Questo è un luogo di Dolore”, poi “Questo è un luogo di Espiazione”, infine “Questo soprattutto è un luogo di Redenzione”. Finché si giunge a “Piazza della Redenzione”, c’erano anche immagini del Redentore e di san Giuseppe. “Ogni luogo e ogni tempo sono adatti ad adoperarsi nel bene” si legge, il carcere con Perucatti ha cambiato davvero pelle in omaggio al dettato costituzionale dell’articolo 27 che ne fa un mezzo per la rieducazione del condannato possibile pure in una struttura creata con l’impostazione opposta.

Salvatore si diffonde sulla questione della coltivazione dell’isola, dal 1832 per conto della Real Marina fino al 1931 allorché fu data in enfiteusi a due famiglie di contadini con la relativa casa colonica: si produceva per l’autoconsumo anche con il lavoro dei detenuti, la manodopera carceraria a basso costo rendeva economica la produzione; ora non é più così, già prima della definitiva chiusura del carcere i quasi 30 ettari dell’isola sono tornati incolti, destino del resto comune a tanta parte delle nostre campagne. Si parla di una richiesta di 22 milioni di euro, rimasta senza seguito, l’handicap è la mancanza di sorgenti d’acqua e anche un eventuale dissalatore richiederebbe di rifare il sistema idrico a costi proibitivi; quando l’isola era in attività sopperiva con una-due navi cisterna al giorno e con due grandi cisterne che raccoglievano l’acqua piovana.

La visita prosegue nelle strutture esterne all’anfiteatro, vediamo dov’era lo spaccio e dove le visite dei familiari, la chiesetta e la cupoletta. Si stringe il cuore nel vedere l’orto botanico divenuto un intrico di vegetazione selvaggia e il campo di calcio irriconoscibile per le erbacce che lo hanno invaso, si distingue per gli alti muri che lo circondano, immaginiamo avesse fatto la gioia dei detenuti. Poi il cimitero che guarda verso Ventotene, ci sono 47 tombe con le salme non richieste dalle famiglie, certo nel passato meno vicino non avveniva mai, spesso ai carcerati non restava nessuno e comunque la traslazione era difficile e costosa, anche Bresci sembra vi sia sepolto.

Ma non è questo il vero contenuto della visita. Come in ogni visita archeologica – e lo è anche l’approdo a Santo Stefano – ciò che conta è soprattutto quello che non si vede e si deve ricostruire, evocato dai resti in evidenza. Ebbene, c’è tanto da ricostruire ed evocare, in termini di storia patria e di umanità senza tempo e senza confini. Proseguiremo nel prossimo “venerdì di Archeorivista”.

Ph. Romano Maria Levante, tutte.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 2 ottobre 2010 – Email levante@archart.it

Ritratti di Poesia, 15^, 2. Il pomeriggio, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante 

Prosegue, e si conclude, la narrazione della maratona poetica “Ritratti di poesia”, svoltasi venerdì 8 aprile a Roma, all’Auditorium della Conciliazione, con il resoconto delle sezioni pomeridiane sulla poesia italiana con “Di penna in penna”, internazionale con “Poesia sconfinata”, degli Editori di libri di poesie con “Idee di carta”, di altri interventi poetici e al termine un “recital” di Lina Sastri, che unendo  confidenze e  poesie alle canzoni ha creato un’atmosfera suggestiva. La manifestazione, giunta alla 15^ edizione, è stata ideata, fortemente voluta dal 2006 e promossa dal presidente onorario della Fondazione Roma Emmanuele F. M. Emanuele, poeta egli stesso, realizzata  e curata come sempre  da Vincenzo Mascolo, organizzata dalla Fondazione Roma in collaborazione con Inventa Eventi.

Vincenzo Mascolo, nella conduzione della maratona poetica

Alla ripresa pomeridiana, nella 3^ parte di Idee di carta,  viene presentata  AV, con tre direttori che l’hanno creata nel segno dell’amicizia, Massimo Morasso, Roberto Pietrosanti, Andrea Valcalda. Ha una “doppia anima”-  dicono a Mascolo che li intervista –  rivista e  monografia, con testi inediti spesso diversissimi tra loro per genere, forma e contenuto, collegati  a testi  appositamente concepiti, pubblicata in piccola tiratura non in commercio per biblioteche,  centri di cultura e… amici. E’ al 4° numero, dedicato all’Italia, esplora il rapporto tra l’homo italicus e la sua terra alla ricerca dell’italianità ideale.

Idee di carta” 3^ parte,   Massimo Morasso di AV con Vincenzo Mascolo

Poi i “Ricordi della villeggiatura”  di Cecco Mariniello,  lo presenta sempre Mascolo. E’ illustratore di libri e si è dedicato alla “pittura di confine”, in un “altrove”  rispetto al caos della vita, i suoi sono paesaggi inventati, fantastici ma familiari, mediterranei, con la realtà fisica in qualche modo estraniata. Un quarto di secolo di mestiere illustrativo come vignettista, autore di fumetti,  illustratore e anche con la vena poetica, poi la pittura, con la scrittura insieme all’illustrazione. Da “Che farò senza Euridice”:   “In quale inabissata ansa del tempo, su quale sperduta sponda ancora mi aspetti, Euridice?/ Di nuovo specchia la tua immagine Acheronte  e dietro la porta a vetri, sul piano di marmo in cucina./ Persefone impasta con l’acqua la sua farina”.  

“Ricordi della villeggiatura”, Cecco Mariniello con Vincenzo Mascolo

Siamo  alla 2^ parte di “Poesia sconfinata”, cioè internazionale, con Kate Clanchy, scozzese che risiede in Inghilterra a Oxford, la presenta la  traduttrice Giorgia Sensi: è romanziera da 20 anni con un manuale sulla carriera di insegnante premiato, nella sua pubblicazione c’è una selezione di poesie e brani in prosa sul  laboratorio di poesia con rifugiati di cui abbiamo detto all’inizio, presentando con lei Shukria Rezaei, e “Le colombe di Damasco”. Ha letto anche una poesia inedita. Da “La testa di Shakila”, 2019: “Mi lascio in giro, da sciattona,/ pezzi di me, momenti che ho amato:/li lascio lì dove/ cadono, si stropiccino, se vogliono./ So come farli camminare/ e respirare di nuovo…/ … gli alberi in fiore, leggeri,/ leggeri e festosi. Rimettiti/ in sesto, dicono, giustamente,/ ma è testarda, la ragazza,/ quell’ottimista che continua a camminare”.  

“Poesia sconfinata” 2^ parte, la scozzese Kate Clanchy

Di nuovo la  poesia italiana, addirittura la “Vita nova”, nell’incontro di Mascolo con Stefano Carrai,  poeta e professore, filologo e traduttore, Alcuni suoi versi da “Equinozio”, 2021: “Paradosso della fotografia/ essere testimonianza di vita/ e anche certificato/ di morte/ lo stesso della poesia”. E’ dantista, parla dell’edizione della “Vita nova” di Dante commentata, e del rapporto con la “Divina Commedia”, proprio al termine del 7.mo centenario dantesco. E’ un rapporto molto stretto, la “Vita nova” racconta l’amore terreno che ha un seguito nel viaggio nell’al di là,  quando ritrova Beatrice nel paradiso terrestre; sono due momenti diversi di una stessa storia con l’amore infelice della “Vita nova”  sublimato nella visione celeste della “Divina Commedia”. Anche senza la “Divina Commedia” Dante sarebbe rimasto nella storia per la “Vita nova”, di straordinaria originalità allora e modernità oggi.  E’ il primo libro di poesia, misto con prosa, originale perché prima l’amore era sentito come desiderio e passione dei sensi – la  malattia d’amore –  mentre con la “Vita nova” la poesia d’amore cambia, vi entra il concetto dell’amore spirituale idealizzato, premessa del viaggio ultraterreno, si concilia la passione erotica con il concetto cristiano dell’amore. Beatrice era morta veramente, e questo  gli fa trasformare l’amore terreno della “Vita nova”  nella sublimazione celeste della “Divina Commedia”.  La modernità è nel riconoscimento dell’amore senza speranza – dato che Beatrice era promessa sposa – l’amore infelice di tanti ragazzi – la lingua arcaica  è uno scoglio  soltanto apparente. Con la lettura del celebre sonetto si conclude la rievocazione: “Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia, quand’ella altrui saluta,/ ch’ogne lingua devèn, tremando, muta,/ e li occhi no l’ardiscon di guardare…”, è la prima quartina, anche il resto nessuno lo ha dimenticato… 

“Vita nova”, Stefano Carrai,  con Vincenzo Mascolo

Segue la 3^ parte di “Di penna in penna, con Annalisa Comes, introdotta da Anna Toscano, che scrive – anche in francese dopo dieci anni vissuti in Francia, e in inglese – poesie nate da un dialogo, poesie brevi da ebraico biblico che evocano i racconti brevi di Kafka, e brevi prose con andamento poetico. Si vola sull’airone, in continui spostamenti tra cielo e terra. Da “Alberi a fronte, Versi-segni”, 2018: “Saremo ancora dopo il gelo e la tempesta/ dopo la solitudine e il deserto/ saremo ancora fioritura piena/… e dove il buio incide nell’alba/ saremo ventre e radici/ germogli per le generazioni a venire”.  Poi Gianni Montieri presenta Piero Simon Ostan, interessato al paesaggio, ricorda gli anni universitari quando un libro gli ha aperto gli occhi, usa mischiare italiano e dialetto per avvicinarsi al paesaggio nel modo più familiare. Da “Il verde che viene ad aprile”, 2019, ecco l’”Autoritratto”: “E’ il taglio degli occhi di mio padre/ non il suo colore/ l’attaccatura bassa dei capelli/ quasi piatti i piedi e lo stesso stampo delle mani/ o forse è lo stare scorretto della schiena/… Sarà poi un giorno mio figlio/ e il figlio di mio figlio/ sarà l’aggirarsi nello stesso buio delle strade/ ad aspettare che venga il vento giusto/ e il chiaro dentro gli occhi”.    

“Di penna in penna” 3^ parte, Annalisa Comes, a sin. in fondo Anna Toscano

La   “Poesia sconfinata”, 3^ parte, ci fa conoscere lo spagnolo José Carlos Rosales, presentato dal suo traduttore Damiano Sinfonico,  racconta la storia di uno che lascia la casa e scompare sentendosi  distante dal mondo al punto di voler sparire.  Da “Se volessi potresti alzarti e volare”, 2021: “Sarai così stanco che ti senti leggero,/ così leggero/ che anche ora potresti alzarti e volare/ non pesi più, non peserai più come prima,/ pesi davvero così poco/ che il mondo ti sembra lontano/ anche la stanchezza ti sembra lontana,/ è evaporata all’improvviso,/ ciò che pesa a volte evapora/ e anche ora potresti alzarti e volare,/ non lo fai, non lo fai, e non/ perché il peso del corpo o la tua volontà/ potrebbero impedirlo, / non lo fai/ perché non c’è nessun posto/ dove vorresti tornare,/ un luogo perduto o ignorato,/ il posto dove potresti entrare e dissolverti,/ sdraiarti con le ali piegate,/ quelle ali giganti che ti impediscono di vivere”.  Abbiamo riportato interamente la non brevissima poesia perché ci ha fatto ripensare a “Miracolo a Milano”, quando al  canto “ci  basta una capanna/ per vivere e dormir/ ci basta un po’ di terra/ per vivere e morir…”,  si sono alzati in volo  leggeri verso un posto “dove buongiorno vuol dire veramente buongiorno” : forse quel posto perduto e ignorato, dove entrare  e riposarsi, che il poeta sembra non aver ancora trovato.

“Poesia sconfinata”3^ parte, lo spagnolo José Carlos Rosales, a sin. in fondo Damiano Sinfonico

Nella poesia italiana – siamo alla 4^ parte di “Di penna in penna” – siamo stati colpiti da Alessandra Carnaroli che cita tentativi di suicidi e oggetti contundenti, legati alla cronaca di una realtà lucida e dissacratoria senza sentimentalismi. Presentata da Anna Toscano,  parla di storie che nascono ispirate dall’osservazione esterna e dall’esperienza personale, con cadute, ferite, emarginati, ci siamo tutti in queste storie nate dalla quotidianità. E’ come una voce che chiama alla vita o rende muta e ci coinvolge dicendo chi siamo e cosa possiamo fare per  cambiare la situazione. I versi sono scanditi dalla poetessa con una cadenza quasi da automa, cita anche la fine tragica del piccolo Samuele a Cogne, una cronaca terribile che torna. Da “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”, 2021:  “Dentro il garage/ dove ho passato l’infanzia/ a separare i chiodi dalle viti/ per mostrare  a mio padre di valere/ almeno quanto gomma/ da bagnato mclaren/ abbassare il finestrino/ sgasare”, è tutto… Elisa Donzelli, che viene presentata da Mascolo, dirige la Collana di poesie dell’omonima casa editrice, insegna letteratura contemporanea e svolge attività di critica, il suo recente libro di poesia contiene  un insieme di  ricordi pubblici o privati. Al pari dell’album di fotografie unisce frammenti di memoria, lo ha scritto a quarant’anni e accortasi che le vicende personali si intrecciavano a vicende del Paese ha voluto ricostruire la  formazione di una coscienza privata singola ma anche collettiva. Per la sua età si è sentita sospesa tra la contestazione del 1968 e il riflusso degli anni ’80 in una città come Torino dove dominava il conflitto di classe, evoca l’inizio della guerra del Golfo del 2 agosto 1990 e il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009.  Da “Album”, 2021, alcuni versi del “Sonetto per Hevrin”, attivista dei diritti delle donne e segretaria generale del Partito siriano del futuro” uccisa nel nord della Siria il 12 ottobre 2019: “Ma oggi che apro l’immagine alla notizia/ ancora ti vedo al mattino bronzea Nefertiti/ stringere alta sul capo l’acconciatura/ di tremila anni sorella mostrare e punire/ la minaccia alla troppa bellezza”. Segue, presentata ancora da Mascolo, Claudio Pozzani, che ha iniziato con la musica ed è organizzatore di tanti eventi sulla poesia, direttore artistico del Festival di poesia di Genova  “Parole spalancate”, aggettivo associato alle parole che il titolo del suo libro associa agli spazi, dando al  termine “spalancato” il significato suo proprio di molto aperto. Le poesie lette ripercorrono il percorso esistenziale dalla nascita. Da “Spalancati spazi. Poesie 1995-2006”,  2017: “Sono l’apostolo lasciato fuori dall’Ultima cena,/ Sono il garibaldino arrivato troppo tardi allo scoglio di Quarto/ Sono il Messia di una religione in cui nessuno crede/ Io sono l’escluso, l’outsider, il maledetto che non cede”, e così per altre tre quartine da “outsider”.

tre, “Di penna in penna” 4^ parte, Alessandra Carnaroli, a sin. in fondo Anna Toscano

Incalza la “Poesia sconfinata”, 4^ parte, viene presentato dal traduttore Simone Sibilio  il palestinese Najwan Darwish, sentiamo in luil’odissea di un popolo tormentato dalla lotta atavica  con Israele, con cui condivide una storia millenaria, pensiamo alla “spianata delle Moschee” e alla storia di Cristo, vi si ispira il poeta nella parte in cui presenta simboli religiosi per esprimere le difficili condizioni del suo popolo. Redattore della pagina culturale di un giornale arabo e interessato alla poesia italiana, il suo libro  “Più nulla da perdere” fu scritto prima in inglese poi in arabo e uscì con il titolo “Un giorno ci svegliammo in Paradiso”. Erede della grande tradizione della poesia palestinese politicamente impegnata legata al passato impresso nella coscienza araba, se ne distacca e rielabora sovvertendo con una riscrittura  in cui esprime le preoccupazioni della sua terra e delle altre comunità oppresse in silenzio, con sguardo disilluso e ironia pungente. Nelle sue poesie sulle città, come Gerusalemme, si sente un afflato lirico profondo ma emergono anche le contraddizioni. Da Più nulla da perdere”, 2011, la poesia “Gerusalemme”: “Ci fermammo sul monte/ per offrirti un sacrificio/ e al vedere le nostre mani levarsi, vuote/ capimmo di essere noi il tuo sacrificio”/…resterai per sempre/ un confuso pellegrinaggio/ di gente di passaggio/ ma a te cosa importa?/…”.

“Poesia sconfinata” 4^ parte, il palestinese Najwan Darwish, a sin. in fondo Simone Sibilio

Torniamo alla poesia italiana nella 5^ parte di “Di penna in penna”, con un poeta e una poetessa, entrambi  introdotti da Gianni Montieri. Il primo è  Flavio Santi,  friulano, quindi di terra di confine, poeta, traduttore, romanziere, il suo libro con le poesie dal 1999 al 2019, è fatto di  frammenti: sono importanti gli oggetti nel rapporto con il tempo, in una archeologia postmoderna, con i televisori prima ingombranti, ora sempre più sottili, erano presenze fisiche e familiari nelle case di tutti. E’ un modo per recuperare quell’Italia degli anni ’70, un tempo vissuto quasi in seduta psicanalitica. Da “Quanti”, 2021, la poesia “Luce”: “Mentre guardavo/ la foto di te, Lucia, a un mese di vita, mi dicevo che la Natura/ deve avere uno strano senso dell’umorismo/… crea esseri luminosi come te/ e poi questo COVID 19./ Che poi nemmeno lui – o lei o esso -/  dev’essere cattivo/a di per sé, sai?”.  Lo strano senso dell’umorismo, diremmo macabro conoscendo l’interminabile catena di lutti portati dal COVID, sembrerebbe del poeta, chiamiamola … licenza poetica, allude forse al fatto che il virus non ha la benché minima consistenza fisica e tanto meno psichica; è una considerazione spontanea, ovviamente non vogliamo commentare l’immagine poetica che è personale e assolutamente legittima.  Sara Ventroni ha in comune con Santi il fatto di essere poliedrica, ha scritto per il teatro, la radio e la Televisione, i libri più recenti sono “La sommersione” e “Le relazioni”. Le nostre relazioni hanno a che fare con la storia,  cosa ci succede e cosa non ci succede e ciò che non riusciamo a cogliere; “La sommersione” si apre con le parole  “Adesso che si rompono le cose…” ce ne accorgiamo solo quando vanno in frantumi e rischiamo di perderle, e vediamo quello che ci interessa e prima ignoravamo.  È necessario l’incanto, non si può fare senza, questo cerchiamo nella poesia,  ci fa vedere le cose meglio di come non le abbiamo mai viste. Da “Le relazioni”, 2019: “Prima di essere santi ci piace la materia/risucchio di luce nel buco/ in cui si cade: materia che ruba la luce/ per cui siamo vivi, che tira come un metallo al magnete/ nel punto in cui il tempo è movimento/ capovolto/… (all’occhio manca la luce/ che la materia trattiene)”.  

“Di penna in penna” 5^ parte, Sara Ventroni, a sin. in fondo Gianni Montieri

David Riondino, introdotto da Nicola Butrini,  presenta le “Variazioni in versi”, è un artista eclettico che spazia in diversi campi, scrittore e drammaturgo, attore e regista, perfino autore di canzoni e cantante, con dischi pubblicati e un laboratorio  video di canzoni originali ispirate a fatti di cronaca. Attivo nel teatro e nel cinema,  nella televisione in trasmissioni leggere  e nella radio anche in programmi  impegnati su Boccaccio e soprattutto su Dante – i “Tipi danteschi” del 2021 seguono nel 2022 i “Tipi pasoliniani” – ha  una vena satirica che si è espressa nelle apposite riviste e in spettacoli con Paolo Rossi,  ha pubblicato nel 2019 scritti satirici in versi nel “Sussidiario”. La sua è una sperimentazione continua, che mescola generi e forme espressive diverse, con una forte base culturale. E’ anche poeta tra i poeti in controtendenza, la sua poesia ha una forma chiusa, adotta una metrica rigorosa, in questo  sembra fuori tempo; è uno schema seguito fin da ragazzo, con  le terzine incatenate dalla forma che dà maggiore concretezza perchè la rima porta alla concretizzazione, non è autocostrizione ma senso di esattezza, la forma chiusa lo rende libero. Non è più tempo di rivoluzione né di palingenesi terzomondista,  la palingenesi è inesistente, fino all’affermazione sui due ultimi sindaci di Roma, che  le “buche della Raggi” da ieri diventano le “buche di Gualtieri”. Gustoso e profondo.      

“Variazione in versi”, David Riondino

Ed ora una delle due attrazioni dato il momento che stiamo vivendo con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia appoggiata dalla Bielorussia. Nella “Poesia sconfinata”, 5^ parte, presentata da Moira Egan, con i due poeti intrattenuti insieme – una eccezione alla formula consueta – la bielorussa Valzhina Mort parla del lascito nella sua eredità, ma lei non ha un lascito – la Bielorussia è nata dall’ex Unione Sovietica – per l’impossibilità di usare un linguaggio  appropriato. Due poetesse russe sono state le pietre angolari della sua generazione, una di loro partigiana voleva fare la narratrice ma non era possibile dinanzi a una realtà inimmaginabile.  Attraverso le testimonianze si può capire la tragedia dell’Ucraina e quella della Bielorussa sotto Lukashenko, ora non sa se il suo lascito e anche la sua vita saranno influenzati da questi  eventi, si dedicherà alla poesia postbellica. Da “Freeman’s amore”, 2021: “Ho preso il tuo libro dallo scaffale di Sandeep/ la biografia del poeta diceva: ‘vive e insegna.’/ Anche se il libro era piuttosto recente non era più vero./… Ora i treni stanno di ghiaccio nella bufera invernale,/  e io li compatisco/ come fossero farfalle scosse da brividi,/ uno stormo intero, l’ultimo del genere,/ bloccato in una neve che l’Inghilterra non ha mai visto/… Il tuo libro nelle mie mani bruciate dal gelo”. L’americano Ishion Hutchinson alla  domanda sul lascito dell’eredità risponde che è difficile perché la vita si sviluppa con gli eventi che accadono, ne sottolinea le contraddizioni;  proviene dai Caraibi, terra in cui si sente la spinta alla riconciliazione ma anche la resistenza all’influenza del  colonizzatore.  Attraverso la poesia cerca di superare le contraddizioni, adora i poeti caraibici e vuole consolidarne la tradizione. Da “Nuova poesia americana – Volume III”, 2021: “La bellezza degli alberi la quieta,/ lei è quiete che fissa le foglie,/ immobili e verdi, che reggono il cielo/… gli occhi che fissano sbarrati, fondi, silenziosi/ fissi sugli alberi e sulla bellezza/ del cielo, del verde, delle foglie”.

“Poesia sconfinata” 5^ parte, la bielorussa Valzhina Mort“,
a dx in fondo l’americano Ishion Hutchinson.

Di nuovo la poesia italiana con la 6^ parte di “Di penna in penna”, Edoardo Albinati,  romanziere vincitore nel 2016 del Premio Strega con “La scuola cattolica”, una storia dell’Italia degli anni ’70,  autore anche di libri di poesia,  introdotto da Mascolo. Dopo un lungo silenzio è tornato molto di recente alla poesia con una sorta di  canzoniere erotico: si pone la domanda se è più forte il desiderio poetico o quello del corpo. Mentre  la prosa avrebbe diluito i concetti,  la poesia con i suoi versi è vista come lente per concentrare.   Non c’è qualcosa di più profondo del centro della terra dove dovrebbe cessare la forza di gravità. Il sesso rende anonimi coloro che lo praticano…. “Afferrata, posseduta, trafitta, respinta, abbandonata”, ecco alcune espressioni che rendono la forza della sua visione erotica. Da “La tua bocca  è la mia religione”, 2022: “… un corpo nudo dev’essersi infilato/ accanto a me nel letto, gelido come il ghiaccio/ … prima le gambe/ poi la schiena premute per scaldarsi contro di me/ che non capivo niente, non sentivo nulla…/ … Sei tu? Nel buio della semincoscienza ho allungato/ le mani: il morbido del seno, i capezzoli dritti”.

“Di penna in penna” 6^ parte, Edoardo Albinati

Ancora la “Poesia sconfinata”, siamo alla 6^ parte,  con la  tedesca Susan  Stephan,  anche scrittrice di prosa e saggi. La presenta Paola del Zoppo, parlando del senso della memoria e di come l’arte può essere trasmessa, vissuta  e percepita tramite il vivere, nella prima sezione del suo libro la ballata con poesie su compositori quali Schubert e Chopin,  nelle altre sezioni visite a Roma quando si è trovata di fronte a cosa vuol dire percepire la storia passata con arte e memoria e con la musealizzazione che vale per ogni altra arte. Anche la memoria funebre è coniugata alla possibilità della narrazione poetica avendo la capacità di non distogliere lo sguardo: l’ultima immagine è focalizzata su ciò che la poetessa vede non restringendola a percezione immediata ma per poter raccontare l’indicibile. Da “Manovra d’autunno”, 2016: “Il portale ben chiuso/ ma di lato una finestra in frantumi./ Un’immagine di cose abbandonate velate di polvere,/ vecchi strumenti elettrici/ … Sull’altare un silenzio troppo breve”.

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Poesia sconfinata” 6^ parte, la tedesca Susan Stephan, a dx, con Paola Del Zoppo

Si conclude l’alternanza tra poeti italiani  e poeti stranieri con la 7^ parte delle due ultime sezioni. In “Di penna in penna”  due poetesse italiane, la prima, Maura Del Serra,  è narratrice e traduttrice, autrice di “L’opera del vento” , editore Marsilio, premio Montale 1995. Mascolo nel presentarla la interroga sull’idea di poesia come conoscenza, risponde che  ha una funzione conoscitiva ed è  conoscenza essa stessa come diceva Pasternak. Ci fa cercare la luce e tanto più in  tempi come questi permette di superare la violenza in cui siano imprigionati nella nostra realtà materiale mediante la congiunzione tra bellezza e verità; non c’è passività nel farsi parola, coscienza e conoscenza, la sua funzione attiene all’essere in quanto creatura, voce, coscienza intima civile e cosmica. Bisogna pensare all’assoluto invisibile come nostra dimensione teleologica senza mai dimenticarlo, siamo immersi nel cosmo di essenze invisibili e le portiamo con la poesia nella vita quotidiana:  questa la funzione conoscitiva. Attraverso la parola poetica si può penetrare l’esistenza nel cosmo, non narcisismo e potere ma poesia a testimonianza individuale e collettiva.  Il discorso poi va verso il sole e la notte, si estende all’agonia degli elementi acqua aria fuoco terra, fino ai profumi e agli affetti. C’è anche un omaggio a Umberto Saba. Da “Taccuini di certezza. Poesie 1999-2009”, 2010: “Tu dall’alto di un jet puoi contemplare/ tutte le strade per salire in vetta/ ma i tuoi piedi non possono percorrerne che una./ … L’arte può farti vivere ogni vita, scagliarti negli abissi o nella luna/ ma di una sola vita tu puoi testimoniare,/ sentirla eterna./…  e quella/ per te è la storia, e niente la cancella”. Dell’altra poetessa, Maria Luisa Vezzali,  introdotta da Fabrizio Fantoni, viene sottolineato lo sconfinamento dall’intimità all’esterno, nel movimento verso il paesaggio concepito come compenetrazione tra dentro e fuori; la vita si fa largo,  il vento porta con se l’eco dello stare al mondo. Nello spettro di casa le scie di calore restano come funi tese tra le pareti, i giorni si arrampicano sul tetto, si avvolgono intorno al camino… serve calore. La camera da letto cigola…  Uno sguardo all’angolo fuori tra gli infissi della finestra fa capire come la poesia nasca dalla percezione dello stare  e posizionarsi e il continuo desiderio di sconfinamento; dalle coordinate temporali non viene nulla di certo,  neanche la memoria,  occorre disciplina ma è doloroso e si scivola nel  passato e futuro mentre c’è da ancorarsi nel presente. Nell’orizzontalità della parola  e nella verticalità della percezione poetica si coglie il senso della vita. DaTutto quanto”, 2018: “Non è vero che non siamo stati felici, abbiamo avuto leggende manifesti confusi  tra case spezzate e chiglie gelide, venti radicali, onde senza compensi, infastiditi indocili come canne occhiute nell’immenso fogliame… / …..abbiamo   avuto lettere piene di mattino, un paesaggio di corpi possibili./… Ma ora un logorio diverso di guerre che sembrano uguali. E non sappiamo che farmaco ci addormenta la notte”.

“Di penna in penna” 7^ parte, Maria Luisa Vezzali, a sin. in fondo Fabrizio Fantoni

Nella “Poesia sconfinata”, parte 7^, la seconda attrazione dopo la poetessa bielorussa, è l’ucraino Ilya  Kaminski, introdotto da Giorgia Sensi. La sua opera in versi è originale, racconta una storia con tono narrativo, in un testo di tipo teatrale ibrido con personaggi che non parlano in prima persona: sono due atti, un narratore nel primo atto, e un altro nel secondo atto, è la storia violenta e drammatica di un paese invaso da un esercito, è del 2019, sembra una premonizione.  Cosa l’ha spinto, cosa gli ha dato l’ispirazione? Nel 1993 la sua famiglia fuggì dinanzi a un esercito invasore, lui rifugiato negli Stati Uniti non voleva parlare di guerra di invasione e di rifugiati, il suo scritto, ricco di immagini del mondo abbandonato, è un ponte tra il mondo lasciato e il nuovo mondo trovato negli Usa. Da “Repubblica sorda”, 2021: “Ora ciascuno di noi è/ testimone./ Vasenska ci guarda guardare quattro soldati che buttano Alfonso Barabinski sul marciapiede./ Glielo lasciamo prendere. Siamo tutti codardi./ Ciò che non diciamo/ ce lo portiamo in valigia, in tasca, nelle narici./ Dalla strada lo investono con cannoni ad acqua. Lui grida,/ poi smette./…  Sotto un sole così forte/ ciascuno di noi/ è testimone/ prendono Alfonso/ e nessuno si fa avanti. Il nostro silenzio si fa avanti per noi”. La realtà attuale nell’Ucraina è ben diversa, contro l’invasore gli ucraini non sono testimoni muti ma combattenti, l’opposto dei codardi della poesia che descrive altre situazioni. Gli ucraini si sono battuti e si battono da eroi!

“Poesia sconfinata” 7^ parte, l’ucraino Ilya Kaminski, a sin. in fondo Giorgia Sensi

Ed ora … “la musica è finita”, anzi si può dire che “la poesia è finita”  al termine di una giornata così intensa; ma gli amici non “se ne vanno”, è in scena Lina Sastri con il fascino sottile e insieme intenso della sua sensibilità artistica in un crescendo in cui poesia e canzone si intrecciano in storie evocate con toni accorati e insieme delicati. Il titolo “Appunti di viaggio”, il viaggio della sua vita, ben si collega a quello della manifestazione, “In viaggio con la poesia” come sottolinea Mascolo nell’accoglierla. E’ in  completo pantalone nero su camicia bianca, al collo una sciarpa rossa lunga fino alle ginocchia,  inizia dichiarando di sentirsi fuori posto senza il riflettore  che isola sul palcoscenico,  per di più in un incontro di poeti, non in uno spettacolo, anche se “la musica è poesia” e lei ha scritto delle poesie. Parla della madre con commozione, poi una carrellata sui grandi incontri della sua vita artistica, da Eduardo a Patroni Griffi, alternando l’italiano al napoletano in una narrazione suggestiva accompagnata dagli accordi della chitarra di Maurizio Pica che hanno dato un’eco profonda alle sue parole; e lei alla fine darà atto ai musicisti come lui che hanno valorizzato il suo teatro-canzone fatto anche di riflessioni a cuore aperto: citazioni teatrali seguite da poesie, canzoni seguite da confidenze e condivisioni di sentimenti. 

“Appunti di viaggio”, Lina Sastri

Da “Lo suldato ‘nammurato” – che ha ricordato, come intensità pur nella  diversità, la grande Anna Magnani –   a “Reginella” fino a  “Mala Femmena” con tante altre canzoni e al bis finale di “Terra mia” nel quale ha raggiunto il diapason canoro e interpretativo. E’ stata più di mezz’ora di magica suggestione, con il suo viso acceso nelle espressioni più vive – dolce e aggressiva, compunta e sorridente, febbrile e ispirata –  e  Mascolo al termine l’ha fatta aprire ancora alle confidenze sulla sua vita: una giovinezza presa dalla voglia di cambiare il mondo come i giovani di allora, quindi teatro di ricerca e di rottura in italiano, il napoletano legato alla tradizione non poteva esprimere la ribellione. Poi il cambiamento,  “il tempo ci regala la possibilità di liberarci dalle cose inutili”, il suo teatro diventa napoletano, conosce Eduardo, scopre Filumena Marturano che fa di tutto per rivendicare la famiglia e l’appartenenza. Segue il cinema, a partire da “Mi manda Picone”,  altri film per sette-otto anni, e finalmente la musica con il canto, prima non prevista, ed è quella che rimane stabilmente nel suo impegno artistico. Parla infine dei suoi programmi, uno spettacolo al Teatro dell’Opera della Crimea – dopo la poetessa bielorussa e il poeta ucraino un’altra evocazione dello stesso segno –  ed è allo studio un film la cui sceneggiatura già scritta è tratta da un suo libro in ricordo della madre. Mascolo le fa gli “auguri per tutto” e a questo punto un gustosissimo siparietto, lei si agita ed esclama allarmata “auguri mai, perché porta male!”, e lui subito muta l’augurio in “in bocca al lupo”; ma lei non lo recepisce, si piega su se stessa e le scappa un  “mannaggia” inquieto, Mascolo premuroso e imbarazzato dice “mannaggia, non lo devo dire, non lo dovevo dire” e lei “aspetta”, mentre  lui preoccupato “che dobbiamo fare?” con lei che insiste “ha detto auguri.. .”, lui  ripete “che dobbiamo fare ora?” e lei “dica in bocca al lupo”. Mascolo lo aveva già detto ma lo dice di nuovo per sentire la risposta rassicurata di lei “crepi il lupo, anzi viva il lupo”, quasi che con entrambe le opposte formule volesse garantirsi meglio, e per noi ha fatto bene, da abruzzesi che di lupi se ne intendono preferiamo la seconda.  “Bene, perfetto!”, il commento di Mascolo, ed è così: è stata una prova inattesa di napoletanità genuina e verace, con  Mascolo quasi da “spalla”, involontaria quanto efficace, in un duetto imperdibile, nell’autenticità spontanea che chiude “bene” e in modo “perfetto”  la lunga giornata di serissima poesia come il botto finale dei  fuochi di artificio nelle feste paesane.  

Lina Sastri con Vincenzo Mascolo

Così la sfilata dei 50 poeti si è conclusa in maniera scoppiettante dopo la magica atmosfera creata da quest’artista così sensibile e appassionata. La maratona poetica è finita e anche la nostra narrazione. Il  sigillo finale lo abbiamo trovato nei versi dell’ideatore e realizzatore da 15 anni della manifestazione, Emmanuele F. M. Emanuele, per l’apertura alla vita in questi momenti drammatici del passaggio dall’angoscia della pandemia, pur ancora presente, a quella della guerra di aggressione della Russia che il 24 febbraio ha invaso l’Ucraina. Dalla poesia “Vivere nel sole” che ha dato il titolo all’ultima raccolta pubblicata nel 2021 e apre il Catalogo della 15^ edizione dei “Ritratti di poesia”: “Ne ho sempre sentito la presenza,/ anche nei giorni più scuri e tristi,/ e ha illuminato, con il suo fulgore,/ il mio vivere./ Come una corazza e uno scudo/ ha protetto il mio essere/ e il divenire di ciò che è stato/ è dipeso dallo stare dentro di me/ dando vigore al mio pensiero/ e ai miei passi./ E oggi ancora lo guardo/ sebbene con occhi socchiusi,/ al mattino e sera,/ all’alba e al tramonto,/ considerandolo/ il protettore del mio esistere”. Un luminoso esempio per tutti.

Il pubblico del recital finale

Info

Auditorium della Conciliazione, via della Conciliazione 4,  Roma. Il primo articolo sulla manifestazione è uscito in questo sito il 22 maggio 2022.  Cfr. in questo sito i nostri articoli, sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di poesia”  12 marzo 2020, 17 febbraio 2019, 1°, 5 marzo 2018,  10 marzo 2017, 10 febbraio 2016, 15 febbraio 2013, 9 maggio 2011; su Emmanuele F.M. Emanuele   22 ottobre 2019, 14, 20 aprile 2019; sulla citazione di Pasolini, gli articoli nel centenario della nascita il 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 marzo 2022; sulla citazione di Dante. gli articoli sulla recente mostra del pittore Gianni Testa sulla “Divina Commedia” il 23, 28, 29 marzo e 3 aprile 2022, sulle mostre “L’Inferno” di Rodin e di Roberta Coni 20 febbraio 2014, su una collezione dantesca 9, 10 luglio 2011. .   

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Una visione d’insieme della sala

Foto

Le immagini sono state tratte dalla pagina “Facebook” dei “Ritratti di Poesia”, si ringrazia l’organizzazione di Inventa Eventi, e in particolare Carla Caiafa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Vincenzo Mascolo, nella conduzione della maratona poetica; seguono, Idee di carta” 3^ parte,   Massimo Morasso di AV con Vincenzo Mascolo, e “Ricordi della villeggiatura”, Cecco Mariniello con Vincenzo Mascolo; poi, “Poesia sconfinata” 2^ parte, la scozzese Kate Clanchy, e “Vita nova”, Stefano Carrai,  con Vincenzo Mascolo; quindi, “Di penna in penna” 3^ parte, Annalisa Comes, a sin. in fondo Anna Toscano, e  “Poesia sconfinata” 3^ parte, lo spagnolo José Carlos Rosales, a sin. in fondo Damiano Sinfonico; inoltre, “Di penna in penna” 4^ parte, Alessandra Carnaroli, a sin. in fondo Anna Toscano, e “Poesia sconfinata” 4^ parte, il palestinese Najwan Darwish, a sin. in fondo Simone Sibilio; ancora, “Di penna in penna” 5^ parte, Sara Ventroni, a sin. in fondo Gianni Montieri, e “Variazione in versi”, David Riondino; continua, “Poesia sconfinata” 5^ parte, la bielorussa Valzhina Mort“, a dx in fondo l’americano Ishion Hutchinson, e “Di penna in penna” 6^ parte, Edoardo Albinati; prosegue, Poesia sconfinata” 6^ parte, la  tedesca Susan  Stephan, a dx, con Paola Del Zoppo, “Di penna in penna”  7^ parte, Maria Luisa Vezzali, a sin. in fondo Fabrizio Fantoni, “Poesia sconfinata” 7^ parte, l’ucraino Ilya  Kaminski, a sin. in fondo Giorgia Sensi; poi, “Appunti di viaggio”, Lina Sastri, e Lina Sastri con Vincenzo Mascolo; quindi, Il pubblico del recital finale, e una visione d’insieme della sala; in chiusura, il palco vuoto al termine della maratona poetica.

Il palco vuoto al termine della maratona poetica

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Ritratti di Poesia, 15^, 1. La mattinata, all’Auditorium della Conciliazione

di Romano Maria Levante 

Si è svolta, nella giornata di venerdì 8 aprile 2022, a Roma, all’Auditorium della Conciliazione – per la seconda volta dopo le 13 edizioni precedenti al Tempio di Adriano –  la 15^ edizione di “Ritratti di poesia” , la maratona poetica a livello nazionale e internazionale con spazi per gli Editori dei libri di poesia, e il finale spettacolare  di Lina Sastri. Come sempre Vincenzo Mascolo curatore, conduttore e intervistatore della manifestazione con un programma di 50 presenze di poeti scandito nei tempi dall’indicatore luminoso posto in alto –  10 minuti per gli italiani, 15 per gli stranieri – i quali dopo una breve introduzione hanno letto alcune loro poesie, come gli studenti di “Caro poeta”, e i vincitori del premio “Ritratti di poesia”  nazionale e internazionale e di due premi per poesia breve di 280 caratteri e per la prima pubblicazione. Quest’anno c’è stato l’anteprima “Ritratti di poesia . Il podcast”, 7 appuntamenti di 20 minuti dal 23 febbraio al 6 aprile visibili gratis sulle principali piattaforme di streaming audio – Sportify e Google Podcasts, Apple Podcasts e Amazon Music – ognuno dedicato a un tema in forma di dialogo con i poeti e poetesse ospiti che hanno letto dei loro testi. “Ritratti di poesia“ è una macchina complessa promossa e organizzata, in collaborazione con Inventa Eventi, dalla  Fondazione Roma – che ritorna dopo gli anni del  Terzo Pilastro-Mediterraneo –  con la Presidenza onoraria del suo ideatore e realizzatore, già storico Presidente.

Emmanuele F. M. Emanuele, nell’intervento introduttivo della premiazione

Emmanuele F. M. Emanuele “cursus honorum” ineguagliabile di eminente studioso e docente universitario, a livelli di vertice manageriale e imprenditoriale in importanti settori, scrittore e poeta autore di raccolte premiate – l’ha ideata e realizzata 15 anni fa considerando la poesia la più nobile e antica espressione dell’animo umano da coltivare e diffondere alla pari delle  altre arti nel mondo contemporaneo che sembra allontanarsene ma solo in apparenza.  E la manifestazione ne è una prova con la mobilitazione poetica in campo nazionale e internazionale, che vede anche i giovanissimi impegnati con entusiasmo nelle loro scuole affiancati da grandi poeti.

Uno scorcio della scenografia

La cornice scenografica mostra ragazzi che chiamano con le mani intorno alla bocca o con un  megafono, una “vox clamantis in deserto”? E tanti cerchi concentrici, l’amplificazione della voce come i cerchi nell’acqua intorno al sasso quando viene lanciato, è l’ immaginazione di Enrico Miglio dopo  quella del riscaldamento globale nel 2020 che non sembrerebbe il problema più immediato e assillante oggi, dato che se ne sono aggiunti altri  più urgenti. Ancora più impellente la necessità di “far sentire la nostra voce, la vostra voce – ha detto Vincenzo Mascolo ai ragazzi –  per la pace, la speranza, la libertà di tutti”  e i pannelli scenografici intorno alla sala sembrano  fare eco.

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“Caro poeta”, gli studenti dei 4 llicei romani

I ragazzi sono i protagonisti della parte iniziale della maratona nella sezione “Caro Poeta”,  gli studenti venuti da quattro licei romani – N. Machiavelli, V. Colonna,  G. De  Sanctis e e M. Hack – si esibiscono al microfono sul palco con il rispettivo poeta “tutor” e testimone del loro impegno poetico, sono i poeti  Claudio Damiani, Elio Pecora, Maria Teresa Carbone, e Lidia Riviello.  I compagni  affollano la platea con un tifo da stadio, e vederlo per la poesia e non per il calcio e gli idoli canori è una consolazione pensando a quanto si dice dei giovani di oggi sviati dai “social”, ma vedremo che anche i discussi “social” possono diventare terreno favorevole per la poesia.

Per il N. Machiavelli,  Claudio Damiani, dopo aver rievocato i suoi trascorsi liceali  in un istituto vicino introduce le prime due studentesse, Miriam e Alice, che hanno messo in pratica il rapporto tra poesia e musica e “cantano” una sua poesia con una musica contemporanea, quasi ne fosse il paroliere, seguono altre suggestive recitazioni canore. Nel V. Colonna, Elio Pecora ha lasciato un segno profondo negli studenti che al microfono condividono quanto hanno interiorizzato dalla sua testimonianza sul valore della poesia. Si parla della poesia vista come cambiamento, espressione di sentimento e risentimento, metafora e conoscenza. E’ una forma di conoscenza elevatissima, un modo per conoscere sé stessi e gli altri: quindi “la poesia esiste, i poeti sono vivi e lo dimostrano oggi”, ha esclamato Mascolo con legittima soddisfazione. E’ il turno poi del G. De Sanctis con Maria Teresa Carbone, gli studenti non si sono limitati alle 11 poesie che leggono al microfono ma ne hanno composte molte altre, un bell’incitamento per i coetanei.  Infine per il M. Hack, la “veterana” Lidia Riviello, ricordando le sue precedenti partecipazioni a “Caro Poeta”, sottolinea che “Ritratti di poesia” è uno scambio generazionale, un viaggio che si rinnova continuamente nel tempo e nello spazio, e nell’inatteso; rispetto alla poesia parla di mutazione e di preparazione ad altri linguaggi, con l’importanza della parola che ha una sua “memorabilità” perciò va ricercata quella giusta, come quando una studentessa ha espresso  la sua stanchezza con la parola “stressata”, dopo altri termini che sentiva non appropriati; entra in gioco anche l’identificazione, come il sonetto “A se stesso” che viene recitato dalla studentessa Asia, seguono altre recitazioni.  

“Caro poeta”, uno studente legge la sua poesia, con il poeta Elio Pecora

Dopo “Caro poeta” ancora i giovani alla ribalta con la premiazione della vincitrice del “Premio Ritratti di poesia 280”, il numero di battute su  “Twitter” – alla prima edizione erano 140 come allora sul “social” –  la sintesi icastica lascia spazio sufficiente anche alla Poesia, d’altra parte “M’illumino d’immenso” era ben più breve, addirittura fulminante! E’ Irene Schiesaro, la presentano Nicola Bultrini, Elio Pecora e Sara Ventroni, i poeti tradizionali e la forma poetica al passo con la tecnologia comunicativa più avanzata amata dai giovani.  

“Premio Ritratti di poesia 280”, la premiata Irene Schiesaro
con i membri della giuria Sara Ventroni, Nicola Bultrini, Elio Pecora

Suggestiva la presentazione di “Le colombe di Damasco”, un laboratorio di poesia con profughi  immigrati divenuto libro di successo, ne parla la traduttrice, Giorgia Sensi, con la scozzese  Kate Clanchy che ritroveremo, e la protagonista, l’afghana Shukria Rezaei, appartenente a un gruppo etnico perseguitato dai talebani – il pensiero va agli occhi spauriti della “afghana girl” di Steve McCurry – era fuggita dieci anni fa con il padre, impiegarono tre anni per raggiungere il Regno Unito,  lei senza conoscere una parola di inglese, quindi una antologia di poesie in inglese: un miracolo della volontà e del talento.  Da “Le colombe di Damasco, poesie da una scuola inglese”, 2020: “Voglio una poesia/ con i ghirigori di un colino/ sulla sfoglia/… Che tutta la tua poesia/ dia alla pagina bianca la forma/ di un prisma che rifrange la luce./ Non andartene senza averne visto tutti i colori”. 

“Le colombe di Damasco”, l’afghana Shukria Rezaei

Mascolo ci fa co­­­­­­noscere l’autrice dei pannelli  molto colorati, “Terra!”,posti sul retro, che aggiungono un altro elemento pittorico alla scenografia. E’  Valentina De Martini, passata dalla decorazione alla pittura nel 2002 con successo ma poi, delusa dalle regole del mercato, dal 2014 si ritira in campagna dedicandosi alle rose, fino alla svolta del gennaio 2020 quando tornata a Roma intraprende il nuovo percorso artistico di cui vediamo i risultati. Lo definisce “progetto da ampliare”, è il trionfo di un  mondo animale, essenza di natura e vita, con l’ elefante rosa visto su Internet che l’ha ispirata, poi tigri, ippopotami e giraffe e anche pecore e galline: sono colori vibranti staccati dalla realtà per evocarne l’essenza poi immersa nella giungla fantastica,  con bellezza e purezza insieme.  Si legge la scritta  ”For life” , è un  inno alla vita, come nella scenografia si grida per la vita, osserva Mascolo, non solo pianeta  e ambiente ma umanità…

Inizia la sfilata dei poeti nelle sezioni classiche loro dedicate, ne daremo conto spigolando anche tra le loro poesie per dare qualche scampolo fior da fiore dei rispettivi versi, dalla selezione riportata nel Catalogo della manifestazione con una poesia rappresentativa di ognuno, ma senza alcuna pretesa, la sterminata “maratona” non ci permette di approfondire, ci soffermeremo su ciò che ci ha colpito con i  limiti, le semplificazioni ed inesattezze di cronisti dinanzi a un evento così particolare svoltosi durante una intera giornata.  

“Terra!”,  Valentina De Martini con Vincenzo Mascolo

La 1^ parte di “Di penna in penna” sulla  Poesia Italiana, presenta tre  poeti i quali, come gli altri che seguiranno, vengono introdotti prima di leggere le loro poesie.  Rompe il ghiaccio Gianni Montieri che introduce Marco Corsi, classico e contemporaneo insieme, parla di come si attraversa il dolore, tanto da voler morire prima dei più cari, e del linguaggio, uno strumento per consegnare un messaggio a chi se ne va. Da “La materia dei giorni”, 2021: “…mi chiedo, cuore mio, perché ancora/ ti spauri dinanzi alla fine naturale/ delle cose, perché non ti rassegni/ a chiudere gli occhi insieme/ alle persone care, perché mai/ ti tradisci gonfiando d’aria/ l’impressione di non aver più,/ non aver mai, non aver sempre?”. In Flaminia Cruciani  – introdotta da Fabrizio Fantoni – che con “Lezioni di immortalità” ha vinto il Premio  Montale – convivono registri differenti di poesia e prosa in un interrogarsi febbrile tra pensiero ed esperienza che penetra nell’inconscio quasi fosse un archeologo. La poesia come scavo per il ritorno al luogo di origine, e in questo la poetessa ha messo a frutto la sua esperienza nell’archeologia, ha partecipato anche a una importante missione di scavo in Siria. C’è un rapporto tra archeologia e poesia: entrambe scavano nel profondo per portare alla luce ciò che vi si trova, l’”arché” dell’origine nella radice di “archeologia”, penetrando nella imprevedibilità alla ricerca di ciò che è  segreto e sepolto, tra visibile e invisibile, tra altra vita e altro mondo, un frammento di altrove. Scuotere il cielo è compito del poeta, scuotere la terra impegno dell’ archeologo alla ricerca di qualche frammento. Da Semeiotica del male”, 2016:  “Ho partorito l’umanità/ nei boschi dell’indifferenza/ quando rovistavo nella vertigine del cielo/ come in un cassonetto./ Poi ci sorprese l’amore/ e sotto quel cielo guasto/ noi tacevamo nella stessa lingua”.  Maria Grazia Calandrone presenta Graziano Graziani che divide la propria opera in sezioni come nel cimitero, in cui si trova la tomba di famiglia con i fornetti e il resto, compresa l’ombra del cipresso. La droga e il carcere, l’anima sputata via, c’è anche Stefano Cucchi, morto un’altra volta…   Solo la morte è ferma… Nella pesciarola  si materializza l’espressione “il  pesce puzza sempre dalla testa”, c’è un triste destino per chi vive in basso. Fino al sacrario dei morti. Da “er Corvaccio e li morti”, 2022: “Ero statista, e ne gestivo a frotte/ de ‘mpicci vari, de bajocchi e gente,/ ma quello che volevo veramente/ è l’immortalità, gloria a strafotte”.

“Di penna in penna” 1^parte, Marco Corsi, a sin., con Gianni Montieri

Nella 1^ parte dell’’intermezzo editoriale, “Idee di carta”,  Mascolo incontra Angela Grasso e Luca  Rizzatello dell’Ophelia Borghesan,  realizzatori di un progetto oltre i canali classici dell’editoria, di natura multimediale con i  contenuti seriali di un Catalogo in cui c’è la poesia con altre categorie, mantenendo uno stretto  contatto con il pubblico.  La  realtà editoriale costituita dalla  collana di poesie fa porre a Mascolo la domanda se c’è spazio per tali collane, e se la poesia ha uno spazio editoriale. Inequivocabile la risposta affermativa, spazio c’è perché  scrivere poesia è innato e finché si produce si trovano gli spazi sgomitando, la poesia gode ottima salute. Andrebbe favorita la lettura di poesie di poeti attuali  nelle scuole, con la sezione “Caro poeta” si cerca di farlo spiegandolo agli studenti, la poesia  è viva,  i poeti sono tra noi. E’ un piccolo editore indipendente che riunisce poeti diversi con una forte idea di fondo: alta qualità dei testi e scritti  introduttivi autorevoli, con la ricerca del linguaggio poetico, la scelta della parola, dei significati da attribuire ad essa. La poesia è un filo continuo per saldare le diverse parti di noi anche quando è difficile. E’ inutile chiedersi se siamo quelli che eravamo, non guardiamo indietro, siamo su un’asse di equilibrio in alto mare, dobbiamo guardare avanti e continuare…

“Idee di carta” 1^ parte  Angela Grasso e Luca  Rizzatello dell’Ophelia Borghesan
con Vincenzo Mascolo

E’ il turno della 1^ parte di “Poesia sconfinata”, cioè internazionale, il suo traduttore Fabio Scotto presenta la poetessa francese Sylvie Fabre. E’ legata all’Italia anche per le origini familiari, narratrice e saggista, la giovinezza impegnata nei collettivi femministi, ha pubblicato tardi, la sua opera viene definita “saggezza inquieta”, nella “meditazione lirica e introspezione”, un ponte tra oriente  occidente, in lei la grande scrittura del paesaggio e l’estasi lirica dei mistici non in senso confessionale ma nella sacralità della poesia. Nella sua evoluzione poetica il pathos emotivo passionale, con un linguaggio amoroso, non si arrende all’inevitabilità della perdita di cui ha avuto dolorose esperienze. Apre la lettura poetica con “La disperata passione di essere al mondo” un’”Ode a Pasolini e alla Morante” nel centenario pasoliniano. Da “Frère humain, L’Amourier”, 2013:  “Quando pronuncerai/ la parola di silenzio/ tu che più non sei corpo dei corpi del mondo/ … creatura di respiro e di fumo/ d’antico inchiostro, di segni e ricordi/  prova a parlare/ le parole sono enigmi/ nessuna decifrazione ma una scia di tempo/ forse hai vissuto, fratello umano/ come tutti i tuoi prima di te/  senza mai sapere quale sia la tua voce e dove vada/ solo l’ebbrezza/ e l’estinzione”.  

“Poesia sconfinata” 1^ parte, la francese Sylvie Fabre, con Fabio Scotto

Poi il momento più solenne, i premi “Ritratti di poesia” conferiti dal presidente Emmanuele F. M. Emanuele, li introduce confidando che per lui si tratta di un momento di gioia tra le ansie e le preoccupazioni che angosciano in questa fase così difficile, gli è sembrato di rivivere i timori provati da ragazzo dinanzi alla guerra vista da vicino, che si spera possa essere oggi scongiurata. La gioia la dà la poesia, che da sempre scaturisce dalla mente e dal cuore senza aver bisogno di strumenti per esprimersi, come invece avviene per le altre arti, dalla musica alla scultura e alla pittura, occorre solo sensibilità per trasmettere ciò che l’anima e la mente ispirano. E sono sentimenti contrastanti,  felicità o dolore, entusiasmo o angoscia, e anche memoria della propria gioventù soprattutto se si torna nei luoghi in cui la si è vissuta, e si può rivivere la felicità perduta, come avviene a lui stesso quando torna nella sua Sicilia e il cuore gli detta i versi poetici che ne esprimono le forti emozioni. Un momento toccante, lo supera con il riconoscimento a Vincenzo Mascolo e alla consorte del grande merito di aver dato corpo in modo egregio per 15 anni, e di continuare nel futuro, alla sua idea di far uscire all’aperto la poesia dandole uno spazio adeguato come quello riservato alle altre arti; li chiama e li stringe a sé con un gesto di riconoscenza che accompagna la sincerità delle sue parole, Mascolo nel ringraziare sembra arrossire….

“Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello nazionale,
 il premiato Maurizio Cucchi  con Emmanuele F. M. Emanuele che legge la motivazione del premio, sulla sinistra Vincenzo Mascolo

Ed ecco la proclamazione del vincitore del   “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello nazionale, è  Maurizio Cucchi  che nella motivazione letta da Emanuele è definito uno dei maggiori  interpreti della contemporaneità di cui sa raccontare esiti e mutamenti con un linguaggio essenziale  e nitido che ha anticipato le nuove modalità espressive; un precursore poeta della realtà che si muove nel paesaggio urbano con il suo pulviscolo per metterne a fuoco gli aspetti di quotidianità nei minimi dettagli dell’intera esperienza del vivere umano che continua ad esplorare.

Maurizio Cucchi  con il premio tra gli applausi di Emmanuele F. M. Emanuele e Vincenzo Mascolo

Il premiato si dice convinto che la poesia abbia la funzione essenziale di portare il pensiero entro il reale e di cercarne la complessità, e ricorda le parole del grande Mario Luzi secondo cui il poeta deve pescare nel profondo senza darlo a vedere, quindi senza sottolineature enfatiche; la poesia inoltre deve essere al servizio della nostra lingua soprattutto in questi tempi difficili in cui subisce violenza, per questo deve difenderla dagli stereotipi esteri ripescandone i valori.  DaSindrome del distacco e tregua”, 2019:  “La poesia ha parole pesanti/ che in queste strane pagine/ sembrano morbide e leggere/ Viaggiano quasi imprendibili,/ cangianti e disorientano/ la nostra vecchia mente di carta/… la poesia/ chiede di spargersi e andare/ lieve e piana nel mondo,/ che forse non lo sa/ però la sta aspettando”.    

“Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello internazionale,
il premiato Titos Patrikios nel suo intervento in collegamento

Il “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello internazionale  viene conferito a Titos Patrikios che la motivazione letta da Emanuele definisce uno dei maggiori poeti del secondo ‘900 impegnato nella ricerca inesausta di verità mediante il fondere esperienze collettiva e individuale con il valore testimoniale di congiungere memoria a coscienza del  tempo presente, anche nei suoi esiti tragici, con uno  sguardo compassionevole sulle  vicende umane. Significatici al riguardo i versi della poesia “La porta dei leoni” nella raccolta “La resistenza dei fatti”, 2007: “Spaventa sempre il nostro grave passato, spaventa il racconto degli eventi/ nella scritta incisa sull’architrave/ della porta che attraversiamo tutti i giorni”. Donatella Puliva lo presenta  sottolineandone la creatività come sua cifra fondamentale, nel senso etimologico della parola poeta, mentre il premiato, in collegamento, esprime la soddisfazione di poter comunicare insieme alla tristezza di non essere presente per il Covid, Roma è per lui un importante itinerario, ricchissimo e variegato, il suo tratto poetico è la fedeltà a se stesso e  alla realtà esistente.

Emmanuele F. M. Emanuele consegna il premio alla rappresentante del premiato Titios Patrikios

Legge proprie poesie antiche e recenti che aprono alla speranza considerando che un ultra 90enne ha lo sguardo giovane nel passare il testimone alle nuove generazioni. Eccone alcuni versi, preceduti da eloquenti titoli icastici: “Amici”: “Non è il ricordo di amici uccisi/  a straziarmi le viscere… ma degli amici sconosciuti/  che diedero la vita per me”;  “Debito”: “…per la vita che è un dono/  tra tanta morte uccisioni e guerre/… dono della sorte/ se non furto della vita,/ tempo che resta regalato dai morti/ per narrare la loro storia”. “Metrò”: “Tutto dimenticato/… tranne quando ti aggrappasti/ al mio braccio”. “Poesia per Rena”, moglie molto amata, scomparsa: “Passò come un fulmine…  ma trova sempre modi la luce/ per ritornare a illuminare”.  “La strada e la vita”, ultima scritta: “Tutto ciò che viviamo/… altri ora piccoli/….. rivivranno tormenti, gioie e strade nuove/ partendo da nostra vita dai mille volti/, vita unica vita nostra e degli altri”. Infine “La speranza”: “Che sia passeggero il dolore/ e sia eterno l’amore”, la scrisse sullo scontrino di un ristorante per la figlia di un amico che gli chiese di dedicarle dei versi. Ed è la speranza il suo messaggio poetico tra tante angosce attuali.

Sonia Caporossi, a dx, con Maria Grazia Calandrone

La poesia italiana torna nella 2^ parte di “Di penna in penna” , con tre poetesse. Inizia Sonia Caporossi, presentata da Maria Grazia Calandrone che ne sottolinea il talento multiforme, come musicista,  poetessa, critica letteraria, riconosciuto da premi ed espresso anche nella direzione di Collane e altro ancora. Sua la recente trilogia dei “Taccuini”,  dell’urlo, della madre, della cura.   Sembrerebbe un diario con la lettura della propria esistenza, e in parte lo è, ma ne è anche una lettura filosofica, nella forma accosta parole simili oppure opposte con effetto a volte straniante. Da “Taccuino della cura”, 2021:  “Ricordamelo tu, se proprio vuoi, chi sono/ la nudità dell’essere invoca l’apparire/ il vuoto dello specchio mi assiste incuriosito/ mentre distillo in pianto le mie perplessità./  cos’è la (nostalgia), necrosi di un istante/…che cosa è la sostanza di un riconoscimento/… e nonostante il sole che circoscrive il volto/ sebbene il suo calore ci riconosca vivi/ rimane solo il (gelo) che di umano non ha nulla…”.  Poi Anna Toscano presenta Anna Maria Curci, insegnante di tedesco e traduttrice in diverse lingue, la lingua è fondamentale per lei, concepisce la poesia come accoglimento della parola e poi testimonianza.  Torna il concetto di “cura” dopo la poetessa precedente, la poesia come cura anche nella traduzione definita “pratica devozionale”.  Da “Opera incerta”, 2020: “e notti e giorni/ e scostano le albe/ le cicatrici/ e le ferite fresche/ la cura si rinnova/ e la chiamano cruccio/ la coccoliamo come Sommo Dolore/ innamorati noi di noi dolenti/ bizzarra prescrizione un tempo aliena/ dischiude il senso allora/ travalica il confine/ quel sorriso che piangevi perduto”.  Pure Cetta Petrolio, introdotta anch’essa da Anna Toscano, come la Caporossi è direttrice di Collane e ha altre importanti attività. E’ come se nella sua poesia ci fosse non solo lei, la sente come raddoppiamento nel senso anche di accrescimento; è un filo continuo per saldare le varie parti di sé  in lei che scrive e spera che questa saldatura avvenga pure in chi la ascolta. Da “Giochiamo a contarci le dita”, 2022:  “Mi porto dietro il mio passato/ con qualche tarlo antico/ che a ogni primavera si rinnova/ sottotraccia il profumo nella casa/ di quando noi eravamo./ ….. Ancora trent’anni al secolo/ (già sorpassato/ da questo tavolino d’antiquariato)”.  

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“Idee di carta” 2^ parte Cristina Babino di “Vydia” con Vincenzo Mascolo

Segue la casa editrice “Vydia” nella 2^ parte di  “Idee di carta”,  che offre un Catalogo a largo spettro, con Collane che vanno dalla narrativa alla saggistica, dall’inchiesta giornalistica alle tradizioni locali e ai libri per l’infanzia, con un posto importante per la poesia. Ne parla  Mascolo con Luca Bartoli, l’imprenditore editoriale che la fondò nel 2011 il quale sottolinea la ricerca della qualità come criterio basilare. Dal 2018 il catalogo si è arricchito con la collana di poesie “Nereidi”, ideata e diretta da Cristina Babino, la quale spiega come siano ospitati poeti sia nuovi sia affermati con scritti introduttivi particolarmente autorevoli.  

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“Ritratti di poesia si stampi”, la premiata Diletta D’Angelo
con i componenti della giuria Alberto Bertani, Stefano Carrai, Carmen Gallo

Nella sezione “Ritratti di poesia si stampi”  il riconoscimento della prima pubblicazione – nella giuria Alberto Bertani, Stefano Carrai, Carmen Gallo, sono presenti Interno poesia e Andrea Cati – a  Diletta D’Angelo, per “L’Anamnesi”,  intesa come antecedente necessario alla diagnosi, la poetessa raccoglie i  ricordi  della sua famiglia con aspetti fisiologici  e patologici, fino alle radici del dolore e della violenza di generazione in generazione.

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Diletta D’Angelo legge dei versi dalla sua “Anamnesi”dopo la premiazione

Con la fine della mattinata  termina la prima parte della manifestazione, una breve pausa poi un pomeriggio altrettanto intenso, le maratone sono interminabili, quella poetica non fa eccezione;  nel suo campo invece è un’eccezione, un impegno poetico tanto prolungato appare veramente unico. Presto racconteremo la seconda parte con il finale emozionante del recital di Lina Sastri.

Emmanuele F.M. Emanuele con Vincenzo Mascolo e consorte

Info

Auditorium della Conciliazione, via della Conciliazione 4,  Roma. L’intera giornata è stata trasmessa in “streaming” su Rai Cultura e Rai Scuola ed è raggiungibile su Rai Play, le singole parti sono raggiungibili su youtube. Il 2°  e ultimo articolo sulla manifestazione uscirà in questo sito domani 21 maggio 2022.  Cfr. in questo sito i nostri articoli, sulle precedenti edizioni dei “Ritratti di poesia”  12 marzo 2020, 17 febbraio 2019, 1° e 5 marzo 2018,  10 marzo 2017, 10 febbraio 2016, 15 febbraio 2013, 9 maggio 2011 ; su Emmanuele F.M. Emanuele   22 ottobre 2019, 14, 20 aprile 2019; sulle citazioni, di Steve MCurry e l’”afghana girl”   7, 10 gennaio, 17 marzo  2012, di  Pasolini gli articoli nel centenario della nascita il 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 marzo 2022.    

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Uno scorcio della sala

Foto

Le immagini sono state tratte dalla pagina “Facebook” dei “Ritratti di Poesia”, si ringrazia l’organizzazione di Inventa Eventi, e in particolare Carla Caiafa, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Emmanuele F. M. Emanuele nell’intervento introduttivo della premiazione; seguono, uno scorcio della scenografia e “Caro poeta”, gli studenti dei 4 licei ; poi, “Caro poeta”, uno studente legge la sua poesia, con il poeta Elio Pecora, e “Premio Ritratti di poesia 280”, la vincitrice Irene Schiesaro con i membri della giuria, Sara Ventroni, Nicola Bultrini, Elio Pecora; quindi, “Le colombe di Damasco”, l’afghana Shukria Rezaei, e “Terra!”,  Valentina De Martini con Vincenzo Mascolo; inoltre, “Di penna in penna” 1^ parte, Marco Corsi, a sin,. con Gianni Montieri, “Idee di carta” 1^ parte  Angela Grasso e Luca  Rizzatello dell’Ophelia Borghesan, con Vincenzo Mascolo, e “Poesia sconfinata” 1^ parte, la francese Sylvie Fabre.con Fabio Scotto; ancora, “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello nazionale,  il premiato Maurizio Cucchi  con Emmanuele F. M. Emanuele che legge la motivazione del premio, a sin. Vincenzo Mascolo, e  Maurizio Cucchi  con il premio tra gli applausi di Emmanuele F. M. Emanuele e Vincenzo Mascolo; continua, “Premio Fondazione Roma – Ritratti di poesia” a livello internazionale, il premiato Titos Patrikios nel suo intervento in collegamento, e Emmanuele F. M. Emanuele consegna il premio alla rappresentante del premiato Titos Patrikios; prosegue, Sonia Caporossi, a dx, con Maria Grazia Calandrone, e “Idee di carta” 2^ parte Cristina Babino di “Vydia” con Vincenzo Mascolo: poi, “Ritratti di poesia si stampi”, la premiata Diletta D’Angelo con i componenti della giuria Alberto Bertani, Stefano Carrai, Carmen Gallo, e Diletta D’Angelo legge dei versi dalla sua “Anamnesi” dopo la premiazione; quindi, Emmanuele F.M. Emanuele con Vincenzo Mascolo e consorte, poi uno scorcio della sala; in chiusura, la strumentazione della regia con trasmissione in streaming.

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la strumentazione della regia con trasmissione in streaming

Gianni Testa, 4. Le eterne Beatitudini nelle visioni celestiali del Paradiso, al Museo Crocetti

Romano Maria Levante

Si conclude la nostra carrellata sulla mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto delle tre Cantiche. Dopo l‘Inferno e il Purgatorio siamo al Paradiso, con i 33 dipinti riferiti, come per le altre Cantiche, ciascuno a una terzina ispiratrice che riportiamo in corsivo, mentre sono in chiaro i versi ispiratori di altri dipinti dell’artista non esposti per il limite di un dipinto ogni canto. Si possono acquistare due stampe numerate fino a 100. Curatrice della mostra Chiara Testa, che l’ha realizzata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale con splendide riproduzioni dei dipinti incorniciati in nero e inquadrati nei Canti e versi ispiratori .

Canto 1°, vv. 88-90

La terza Cantica nella sua arcana astrazione è una sfida sovrumana, l’artista si cimenta nelle raffigurazioni dei 33 canti elevandosi al di sopra della materia per raggiungere l’Empireo dantesco, e non deve essergli risultato naturale dato che lo spessore materico e l’intensità cromatica sono stati sempre la sua cifra e forza espressiva, qui si è trattato invece di alleggerire, schiarire e rarefare.

Come  interpreta la magia del Paradiso Gianni Testa?  Le sue sono  immagini che, come in un ideale  caleidoscopio,  mutano conformazione nell’incanto di  figurazioni altamente ispirate: una sequenza  di colorazioni sull’azzurro, che porta in un ‘atmosfera celestiale, è seguita da una sinfonia di colori in un tripudio  sfolgorante, fino all’alternanza cromatica altrettanto simbolica che sostanzia la sublimazione soprannaturale unita a persistenti richiami terreni. Anche qui i dipinti in mostra, uno per canto, sono una selezione dei tanti realizzati, gli altri sono evocati solo dalla citazione dei versi  non in corsivo come quelli ispiratori dei dipinti selezionati, ma non vengono descritti.  

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Testa  Ultimo Paradiso 21470 Entrando nel  Paradiso, con i suoi nove Cieli dalla Luna al Primo Mobile e i Beati a diversi livelli fino all’Empireo, c’è da esprimere visivamente nientemeno che  “la gloria di colui che tutto move/ per l’universo penetra e risplende/ in una parte più e meno altrove”, questo l’inizio del Canto 1°. L’artista è ispirato dall’ammonimento di Beatrice a Dante sui limiti della visione terrena rispetto a quella celeste che è la vera dimensione in cui collocarsi:  “e cominciò: ‘Tu stesso ti fai grosso/ col falso imaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti se l’avessi scosso” (vv. 88-90), pensare cose sbagliate ottunde la mente e non  fa vedere ciò che altrimenti sarebbe chiaro.  Cosa vedrà chiaro il Poeta lo dice nei versi successivi:”Tu non se’ in terra, sì come tu credi;/ ma folgore, fuggendo il proprio sito,/ non corse come tu ch’ad esso riedi”, l’immagine è folgorante, la proiezione verso il Paradiso veloce come il fulmine è resa con una raggiera celeste intorno alla meta suprema al centro. Anche l’artista si colloca in un’altra dimensione, “scuotendo” da sé le consuete forme espressive.

Canto 3°, vv. 88-90

La raggiera celeste diventa come un vortice avvolgente nell’immagine sul Canto 2°. I versi ispiratori, “O voi che siete in piccioletta barca/ desiderosi d’ascoltar, seguiti/ dietro al mio legno che cantando varca” (vv. 1-3), rimandano all’ammonimento su quanto sia complesso ciò che seguirà per la sua altezza sublime, e la vediamo nel centro del vortice verso cui tende insieme agli Angeli che gli sono più vicini, Dante ancora lontano. Arriveranno al cielo della Luna, “in una nube lucida spessa solida  e pulita” come un diamante che risplende al sole, e avvolge anche Dante pur con la sua  natura corporea:  ne resta affascinato e sente di adorare la grazia di Dio che gli ha concesso un privilegio sublime. Poi  prevale il raziocinio,  con le disquisizioni sull’annoso problema delle  macchie lunari e le influenze celesti, scienza e fede insieme. L’artista non segue la ragione ma l’ispirazione celestiale, raffigura nei cerchi concentrici un volo di angeli che si librano con le ali aperte  in modo leggiadro; rende appieno la “mirabil cosa” che, dice il Poeta,  “mi torse il viso a sé”, distogliendolo  dalla vista di Beatrice. Poco dopo continua la metafora marinara, pur entrando nei cieli del Paradiso: “metter potete ben per l’altro sale/ vostro navigio, servando mio solco/ dinanzi all’acqua che ritorna equale” . Dirà, ai versi 106-111, che non c’è da meravigliarsi dinanzi al portentoso, come fu per gli Argonauti, e fa seguire più avanti l’inimmaginabile:  “Or come ai colpi de li caldi rai/ de la neve riman nudo il soggetto/ e dal colore e dal freddo primai,/ così rimaso te ne l’intelletto/ voglio informar di luce sì vivace,/ che ti tremolerà nel suo aspetto”-

Nel Canto 3°  Dante comincia a capire: “Chiaro mi fu allor come ogne dove/ in cielo è paradiso, etsi la grazia/  del sommo ben d’un modo non vi piove” (vv. 88-90), l’artista lo segue con l’identificazione del Paradiso in un cielo dal celeste al blu con angeli in volo che diffondono un biancore luminoso. Cosa vede chiaro il Poeta lo ha già fatto capire nei versi precedenti, la spiritualità s’innalza con i versi 52-54: “Li  nostri affetti che solo infiammati/ son nel piacer de lo Spirito Santo/, letizian del suo ordine formati”  e ancora con i versi 76-78 ”che vedrai non capére in  questi giri,/ s’essere in carità è qui necesse,/ e se la sua natura ben rimiri”.

Canto 8°, vv 16-18

Beatrice parla dell’ordinamento dell’universo, con al centro Dio, della predestinazione  degli uomini con il libero arbitrio e la volontà divina; si incontrano le prime anime elette, tra cui Piccarda, nel cielo con le beatitudini ancora al livello inferiore.

La visione celeste si eleva con i cerchi concentrici visti da vicino, l’artista presenta la visione ingrandita di metà della loro circonferenza, fino al culmine del centro, si ispira ai versi del  Canto 4°: “S’elli intende tornare a queste rote/ l’onor de la influenza e ‘l‘biasmo, forse/ in alcun vero suo arco percuote” (v. 58-60) che si richiamano alla tesi platonica sugli influssi buoni  e cattivi di quei cieli, li interpreta con motivi rossi che si aggiungono a quelli chiari nel piovere sulla terra, mentre Dante e Beatrice si godono lo spettacolo. Ci sono elevati discorsi teologici e filosofici, sulla violenza cui hanno ceduto le anime che non può scusarle appieno perché “volontà se non vuol non s’ammorza”, si parla di Piccarda e del velo monacale. La beatitudine è eterna e senza limiti di tempo, a differenza della tesi platonica di periodi limitati delle anime che tornavano alle stelle. Così ne parla ai versi 31-33: “ Non hanno in altro cielo i loro scanni/ che questi spirti  che mo t’appariro,/ né hanno a l’esser lor più o meno anni”. Ci sono i  Serafini, l’ordine più alto degli Angeli, si parla della Vergine, dei  maggiori profeti Abramo e Samuele, dei  santi Giovanni, Battista ed Evangelista, tutti uniti nell’eternità, sembrano riferirsi a loro le vaghe forme che si vedono fluttuare.

Nel Canto 5° la visione dell’artista diviene ancora più penetrante, il celeste diventa blu attraversato da forme indistinte che forse evocano la complessità dottrinale, anche se al termine si eleva. L’artista è colpito dalla terzina iniziale: “”Io veggio ben sì come già resplende/ ne l’intelletto tuo l’eterna luce,/ che, vista, sola e sempre amore accende” (vv. 7-9), cui segue ai versi  16-18 la precisazione: “Sì cominciò Beatrice questo canto;/ e sì com’uom che suo parlar non spezza,/ continuò così ‘l processo santo”. La luce divina suscita amore perenne, Beatrice non si interrompe, le sue parole sono sull’amore terreno e  la verità divina, le buone azioni e le manchevolezze umane, i voti e il libero arbitrio. Ai versi 103-105 la visione poetica si accende: “si vid’io ben più di mille splendori/ trarsi vèr noi, ed in ciascun s’udìa:/ ‘Ecco chi crescerà li nostri amori’”.

Canto 10°, vv. 139-141

Sorprende l’immagine sul Canto 6°, incendiata di rosso e arancio, anche se si intravvedono angeli in volo, ma è presto spiegata, si ispira ai versi che aprono il canto: “Poscia che Costantin l’aquila volse/ contro al corso del ciel, che la seguio/ dietro a l’antico che Lavinia tolse…” (v. 1-3):  le insegne imperiali e l’evocazione di Enea riportano alle fiamme delle guerre e all’incendio di Troia, l’anima che ricorda la storia dell’impero romano da Costantino in poi si presenta così:  “Cesare fui e son Giustiniano”, è il cielo di Mercurio,  ancora inferiore rispetto all’Empireo, con le anime che pur operando bene, sono state  mosse dalla ricerca di gloria e di fama piuttosto che del bene assoluto. 

Ancora rosso e arancio nell’interpretazione del Canto 7° ispirata dalla terzina”’Tu dici: ‘Io veggio  l’acqua, io veggio il fuoco,/ l’aere e la terra e tutte lor misture/ venire a corruzione e durar poco…’” (vv. 124-126), l’immagine è molto contrastata nel suo cromatismo, a  differenza delle tinte celestiali consuete, ma si tratta della corruttibilità degli elementi naturali fino a giungere alla resurrezione dei corpi. E poi tornano le complicazioni dottrinali – come il sacrificio di Cristo e le colpe degli uomini con la punizione degli ebrei – evocate dai dubbi di Dante sulle apparenti contraddizioni che vengono sciolte prontamente. La conclusione è sulla bontà divina, sul riscatto con il sacrificio di Cristo dal peccato dell’uomo di aver abusato della libertà  donatagli da Dio, un bene sacro per gli angeli e anche per gli uomini immortali,  come gli angeli.

Torna la visione celestiale nel Canto 8°, con la terzina ispiratrice “E come in fiamma favilla si vede,/ e come in voce voce si discerne,/ quand’una è ferma e l’altra va e riede” (v. 16-18), torna il blu e il celeste in una visione dal basso del rincorrersi evocato da queste parole, con  Dante e Beatrice che guardano  un cielo dal quale scendono raggi fino al culmine dei cerchi concentrici verso la sommità. E’ il cielo di Venere, degli “spiriti amanti”, con Beatrice “ch’i vidi far più bella”, c’è Carlo Martello che disquisisce sulla buona e “mala segnorìa” in Sicilia e non solo dei D’Angiò e degli Aragonesi.

Canto 14°, vv. 31-33

L’atmosfera si accende nel Canto 9°  con un cromatismo intenso sul rosso in tre masse distinte e un blu che tende al nero, la terzina ispiratrice ha come protagonista  Cunizza, ultima dei figli di Ezzelino II da Romano, tiranno della marca trevigiana, che dopo una vita  traviata dalle passioni, diventa fervente di carità e amore celeste, per questo è tra i beati al livello minore, Dante  ne descrive l’apparizione così: ”Ed ecco un altro di quegli splendori/ ver’ me si fece , e il suo voler piacermi / significan nel chiarir di fiori” (vv. 13-15). La rappresentazione tempestosa sembra evocare le sventure che lei  predice  e il tradimento del vescovo di Feltre; ma anche nello squarcio azzurro la diversa evocazione di Falchetto di Marsiglia, con l’anima risplendente di Raab che aiutò gli Ebrei nella riconquista della Terra santa,

Nel  Canto 10° l’ispirazione viene dal sublime richiamo soprannaturale: “Indi, come orologio che ne chiami/ ne l’ora che la sposa di Dio surge/ a mattinar lo sposo perché l’ami” (v. 139-141),  l’immagine con il blu intenso e il celeste evoca la profondità  spirituale, ma non manca il riferimento a qualcosa di terreno nel resto della composizione, il verde in una sorta di corona circolare. I versi richiamano la messa mattutina, quindi c’è anche questo motivo quotidiano. Siamo nel Cielo del Sole con le anime dei sapienti che \si dispongono in cerchio, il Poeta ringrazia Dio sì chè “Beatrice eclissò ne l’oblio”.

Blu con  formazioni vaganti e striature bianche luminose l’immagine sul Canto 11°, l’artista è ispirato da due straordinarie figure di santi: “L’un fu tutto serafico  in ardore; / l’altro per sapienza in terra fue/ di cherubica luce uno splendore” (vv. 37-39). Si tratta di san Francesco e di san Domenico che, secondo le parole di san Tommaso, nel disegno della Provvidenza erano stati  mandati da Dio per rinnovare la comunità cristiana, san Francesco nella povertà e nell’umiltà, san Domenico in altre virtù, in cielo con i serafini e i cherubini vengono riconciliati i due ordini che in terra si contrapponevano sul piano dottrinale e dell’azione pratica, contemplativa nei francescani votati alla povertà, attiva nei domenicani sui beni materiali, per questo entrarono in decadenza nelle parole di san Tommaso che all’elogio di san Francesco unisce la critica ai domenicani.

Canto 15°, vv 70-72

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Nel  Canto 12°,  il francescano san Bonaventura loda san Domenico,  nell’alternanza simbolica con la lode del domenicano san Tommaso a san Francesco, e anche in questo caso termina con l’aspra  critica alla decadenza dei francescani con le loro deviazioni, divisi tra i fedeli seguaci della rigida regola e i trasgressori per una vita più facile e rilassata.  L’artista presenta un’esplosione cromatica come una festa celebrativa con i fuochi d’artificio dei due campioni, ispirandosi a una terzina  festosa “Più che ‘l tripudio e l’altra festa grande,/ sì del cantare e sì del fiammeggiarsi/ luce con  luce gaudiose e blande”(vv. 22-24) preceduta da versi altrettanto eloquenti “… così di quelle sempiterne rose/ volgiensi circa noi le due ghirlande,/ e sì l’estrema e l’intima rispose”, .

 Resta il rosso, sfumato nel rosa arancio, nell’immagine ispirata alla terzina  del Canto  13°  “imagini la bocca di quel corno/ che si comincia in punta de lo stelo/ a cui la prima rota va dintorno” (v. 10-12): siamo nella costellazione dell’Orsa Minore, di qui la visione celestiale dei cerchi concentrici questa volta in un colore insolito;  forse perché i carri con la stella polare sono una visione frequente anche dalla terra la  scena si tinge di tonalità terrene. Il Poeta descrive la danza dei beati nelle due ghirlande con degli esempi, poi tornano le disquisizioni teologiche, questa volta su Adamo e Gesù Cristo, con gli ammonimenti sui giudizi umani incauti ed erronei. Al centro sempre san Tommaso, con l’elogio della sapienza politica di Salomone.    

Salomone interviene direttamente nel Canto 14°, rispondendo a Beatrice che subentra a san Tommaso rivelando un dubbio di  Dante sulla luce irradiata negli spiriti beati anche dopo la resurrezione dei corpi. Descrive la carità come una veste luminosa tanto più intensa quanto maggiore è il suo ardore che dipende  dalla visione di Dio legata alla grazia soprannaturale aggiunta ai meriti che con la resurrezione farà raggiungere la perfezione dell’integrità con la beatitudine, quindi una visione di Dio ancora maggiore  con carità più intensa  e luce più fulgida, è il Sommo bene. La terzina alla quale si ispira l’artista introduce questa esplosione di spiritualità resa con un volo di bianche figure in una porzione ravvicinata del cerchio celestiale con sfumature dall’azzurro luminoso al blu nella visione avvolgente di una ascesa  concentrica irresistibile. “tre volte era cantato da ciascuno/ di quelli spirti con tal melodia,/ ch’ad ogne merto saria giusto muno”  (vv. 31-33), è il canto degli spiriti  in omaggio alla Trinità, i meriti avranno la loro ricompensa.

Canto 17°, vv 121-123

Con il Canto 15° il cromatismo si fa variegato, con il giallo e il rosso nella fascia centrale, le bianche figure in volo dominano anche qui  la scena, “Io mi volsi a Beatrice e quella udio/ pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno/ che fece crescer l’ali al voler mio” (vv. 70-72),, le ali metaforiche sembrano materializzarsi  nell’atmosfera appena descritta con una sottile pioggia bianca di purezza divina. L’assenza di Beatrice sembra in contrasto con i versi ispiratori, ma  è solo apparente, si parla dei Beati, nei quali la visione di Dio mette sullo stesso piano intelligenza e sentimento, del “sol che v’allumò e arse”, perciò la visione diventa  solo celestiale. Parla Cacciaguida trisavolo del Poeta, alla sua nascita Firenze era  piccola  ma onesta e pura nei costumi mentre poi si è ingrandita e corrotta, lui è morto combattendo in Terrasanta, è l’occasione per una disamina sull’antica moralità e il vizio odierno, fino all’antitesi tra la terra e il cielo. All’inizio del canto, ai versi 19-21,  una spettacolare visione celeste: “… tale dal corno che ‘n destro si stende/ a piè di quella croce corse un astro/ de la costellazion che lì resplende”.

Non c’è né il celeste né il blu del firmamento, la raggiera è insolitamente scura, sempre le candide  figure in volo con al centro  delle forme bianche indistinte, su un fondo chiaro che illumina la scena. Siamo al Canto 16°, Cacciaguida ancora protagonista, Dante gli fa delle domande cui risponde parlando della propria famiglia e delle famiglie fiorentine decadute, la terzina ispiratrice è una delle frequenti metafore dantesche: “Come s’avviva allo spirar di venti/ carbone in fiamma, così vid’io quella/ luce risplendere a’ miei blandimenti” (vv.28-30), la trasposizione pittorica è conseguente.

La luce è al centro  anche dell’interpretazione del Canto 17°, ancora in modo metaforico, immersa in un cromatismo verde-azzurro, come per il canto precedente emergeva da una raggiera scura: “La luce in che rideva il mio tesoro/ ch’io trovai lì, si fa prima corrusca,/ quale a raggio di sole specchio d’oro” (vv. 121-123). Si riferisce a Cacciaguida, che scuote Dante con la profezia della persecuzione dei suoi nemici e dell’esilio presso gli Scaligeri, e della fama imperitura che lo attende esortandolo  a raccontare tutto senza esitare, con una grande tensione morale.

Canto 19 °, vv 4-6

 Beatrice  all’inizio del Canto 18° lo riscuote dai pensieri sulla sorte futura a lui profetizzata ricordandogli che la presenza di Dio, riflessa in lei risplendente di luce, fa sopportare e raddrizza ogni torto subito. Cacciaguida presenta le altre anime celebri che sono in una croce luminosa, Giosuè e Maccabeo, Carlo Magno e Orlando, Goffredo di Buglione e Roberto il Guiscardo, quindi si entra nel cielo di Giove  con coloro che in vita operarono secondo giustizia. L’artista si è ispirato a una delle ultime terzine, idealmente conclusiva di un  incontro così intenso: “O milizia del ciel  cu’ io contempli,/ adora per color che sono in terra / tutti sviati dietro il malo esempio” (vv.  124-126. L’invocazione alla corte celeste di pregare per riportare sulla retta via segue quella sulla giustizia umana che “effetto sia del ciel”. Nell’immagine troviamo la compresenza del blu profondo con il rosso altrettanto intenso e un verde chiaro che dà luce, per esprimere la convivenza dei due motivi, quello celeste, ”la milizia del ciel”, e quello terreno, “il malo esemplo”.

La corona circolare ruotante del canto 14° lo ritroviamo non più nell’azzurro celestiale, ma  in un rosso tendente al rosa al centro, tra un estremo scuro e uno chiaro e luminoso. Siamo al Canto 19°, la terzina ispiratrice è ancora una metafora: “parea ciascuna rubinetto in cui/ raggio di sole ardesse sì acceso/  che ne’ miei occhi rifrangesse lui” (vv. 4-6), ogni anima appare come un rubino acceso dalla luce del sole, che l’artista ha prefigurato con un cromatismo inconsueto. Nell’Aquila che campeggia nel cielo di Giove si trovano le anime luminose unite nella sua figura che diventa un simbolo al di là delle componenti, in una astrazione sempre maggiore dopo le terrene rievocazioni di Cacciaguida, l’Aquila parla della  giustizia di Dio e della dottrina della salvezza, ma non manca “in cauda venenum”, l’invettiva contro i cattivi regnanti che pagheranno nel giorno del giudizio.

Ancora la corona circolare ruotante ma questa volta nel suo colore celestiale nell’immagine del Canto 20° ispirata a una delle prime terzine: “però che tutte quelle vive luci/ vie più lucendo, cominciaron canti/ da mia memoria labili e caduci”  (vv. 10-12). E’ il canto dei Beati dopo l’invettiva dell’Aquila, simbolo della Giustizia nel cui occhio c’è Davide, nel ciglio Traiano, Ezechia, Costantino, Guglielmo d’Altavilla, il troiano Rifeo, tra cui due pagani ugualmente beati. Viene data risposta allo sconcerto di Dante per concludere con la predestinazione, la figura appena accennatA dall’artista al centro della sua rappresentazione sembra evocare la giustizia divina.

Canto 21°, vv 31-33

Cambia tutto con l’immagine riferita al Canto 21°, la più “terrena”  tra quelle del Paradiso: un picco   altissimo coperto di verde vegetazione che sembra bucare il cielo, in sostituzione dei lumi evocati dai versi, che si riferiscono alla scala d’oro che si percorre  nella vita contemplativa: “Vidi  anche per li gradi scender giuso/ tanti splendor, ch’io pensai ch’ogni lume/ che par nel ciel quindi fosse diffuso” (v. 31-33). La similitudine immediatamente successiva del movimento delle cornacchie riporta sulla terra, come  l’invettiva di san Pier Damiano contro la corruzione della Chiesa, il picco verde che punta in alto sembra segnare il  passaggio al cielo di Saturno con il richiamo terreno.

Per il Canto 22°  una sorta di ruota  dai forti tratti con figure appena delineate in basso,  siamo fuori dalla visione celestiale, evoca la sfera terrestre con la stessa circolarità ma dalla forma  e  dal cromatismo ben diversi: “Col viso ritornai per tutte quante/ le sette sfere e vidi questo globo/ tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante”  (vv. 133-135). Come è ben diverso il globo terrestre dalle sette sfere nel suo “vil sembiante” a fronte della grandezza dell’universo. La figura dominante è san Benedetto da Norcia, fondatore dell’ordine di cui lamenta la decadenza, come era avvenuto per francescani e domenicani.

I Canti finali, dal 23° al 33°

Dopo le due immagini  “terrene” si torna alla visione celestiale con figure in volo bianche e blu immerse in un celeste chiarissimo quanto mai luminoso. Siamo al Canto 23°, nella terzina ispiratrice “Perché la faccia mia  si t’innamora/ che tu non ti rivolgi al bel giardino/  che sotto i raggi di Cristo s’infiora?” (vv. 70-72) il dolce invito di Beatrice di distogliere lo sguardo da lei per rivolgerlo ai cori dei Beati che si accendono alla luce di Cristo, come i fiori ai raggi del sole, l’immagine esprime nella leggerezza cromatica e delle forme quanto di più spirituale si possa concepire. C’è nel canto il trionfo di Cristo e il trionfo di Maria, fino alla dolce melodia del “Regina coeli”.

Canto 23,°, vv 70-72

Entriamo nel Canto 24°, in un cromatismo più intenso, con il celeste che vira al blu in una esplosione di macchie candide  con un delicato intreccio di linee avvolgenti che evocano l’immagine della terzina ispiratrice: “Così Beatrice, e quelle anime liete/ si fero sapere sopra fissi poli,/ fiammando, volte, a guisa di comete”   (vv. 10-12). Tutto ruota intorno a un asse immobile, gli spiriti beati come costellazioni. Alla preghiera di Beatrice agli Apostoli di porgere  a Dante l’acqua della vita eterna risponde san Pietro e lei lo invita ad esaminare  Dante sulla fede, la prima virtù teologale, sostanza delle cose sperate e argomento di quelle che non si vedono, si parla anche dei miracoli  riscuotendo al termine  l’approvazione del principe degli Apostoli.

Dall’esame sulla fede a quello sulla speranza, la seconda virtù teologale, nel Canto 25°, la terzina ispiratrice è la prima con quella che è stata definita tra le note più umane di tutto il poema in quanto trasforma l’esame in una consacrazione, le note personali sulla sua opera diventano missione universale. : “Se mai costringa che ‘l poema sacro/ al quale ho posto mano e cielo e terra,/ sì che m’ha fatto per molti anni macro” (vv. 1-3). E sebbene sia stato logorato dalla sua nobile fatica è stato posto a bando dalla sua città per l’odio dei concittadini. Per questo l’interpretazione dell’artista è un’immagine da Purgatorio, quasi volesse richiamare la parte che precede del “poema sacro”, mentre la figura bianca protesa in alto, oltre che un’anima penitenziale, può impersonare la “sposa tacita e immota” che appare tra le splendide scene nel poetico esame di Dante sulla speranza.

L’esame di Dante sulla terza virtù teologale, la carità, che segue logicamente nel Canto 26°, rimanda all’oggetto primario dell’amore che la anima, l’infinita grandezza e bontà di Dio al quale tendono le anime. Riprende l’uso pieno della vista, prima simbolicamente annebbiata, mentre si eleva il canto del Sanctus e vede la luce della  prima anima creata da Dio, quella di Adamo che risponde alle sue domande  confidandosi sulla sua permanenza nel paradiso terrestre e sulla lingua. L’artista si ispira alla terzina “Tu vuogli udir quant’è che Dio mi puose/ ne l’eccelso giardino, ove costei/ a così lunga scala ti dispuose”  (vv. 109-111), e rappresenta una scala quasi indistinguibile immersa in un verde veramente terreno, il “giardino” con la bianche sagome delle anime in volo.

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Canto 26°, vv. 109-111

Il  rosso-arancio che vediamo nella parte sinistra del’immagine ispirata al Canto 27°, sembra esprimere i motivi terreni nell’invettiva di san Pietro contro il malcostume di Bonifacio VIII che ha corrotto la Chiesa e l’intera città di Roma superati per il calore dell’amore divino; mentre l’azzurro e il viola, con le sfumature celestiali e gli angeli in volo, rimandano all’intervento salvifico della Provvidenza evocato dall’apostolo, cui fa eco Beatrice:  “e questo cielo non ha altro dove/ che la mente divina, in che s’accende/ l’amor che il  volge e la virtù ch’ei piove” (v. 109-111), è la terzina cui si è ispirato l’artista, il cielo dove si trovano non rientra in altri luoghi celesti ma nell’Empireo dove lo fa girare l’ardente amore e la virtù  che trasmette alle sfere sottostanti. Si sale al Primo Mobile. Anche in questo canto nelle parole di Beatrice c’è la deplorazione dell’umanità corrotta dall’errore e dalla colpa, ma anche la promessa di una nuova stagione di onestà e di giustizia.     

Nel Canto 28°  spicca  un punto molto luminoso insostenibile alla vista e  nove cerchi di fuoco, da quel punto nel quale si trova Dio dipendono il cielo e la natura, i cerchi rappresentano le gerarchie angeliche che a loro volta animano a diversi livelli le sfere celesti secondo principi  collegati alle virtù; il  cielo più grande, il Primo Mobile dove si trovano, corrisponde al cerchio angelico più vicino a Dio. “Li cerchi corporai sono ampi e arti/ secondo il più e il men de la virtude/ che si distende per tutte le lor parti”(vv. 64-66). L’artista interpreta questa terzina ponendo Dante e Beatrice  sulla sinistra al cospetto di una visione non più nel cromatismo celestiale  ma in un’ocra alquanto variegata mentre le bianche sagome in volo mantengono viva la presenza delle anime al di là delle complesse architetture in cui si pongono le gerarchie celesti. Beatrice spiega l’ordine celeste anche rispetto all’ordine del mondo, ma nell’immagine non si stacca da Dante. 

All’opposto trionfa il rosso brillante come non mai nell’interpretazione  della terzina del Canto 29° “La prima luce, che tutta la raia, per tanti modi in essa si recepe,/ quanti son li splendori a chi s’appaia” (vv. 136-138).  La corona circolare da celeste diviene infuocata, percorsa da tratti che sembrano evocare le divisioni e le gerarchie, e il fatto che la luce di Dio mentre irraggia i cieli angelici viene ricevuta in tanti modi diversi  quanti sono i loro splendori, ogni angelo riceve la luce della grazia e il dono della visione di Dio con una intensità differente. Nella spiegazione di Beatrice dell’ordine celeste non manca la rampogna per l’ordine terreno, contro i preti i quali dimenticano che la predicazione deve persuadere ad essere cristiani e i frati impostori che spacciano favole e finte indulgenze alla gente semplice per dei bassi interessi personali.  

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Canto 30°, vv 97-99

L’invocazione del Canto 30°, “O isplendor di Dio, per cu’ io vidi/ l’alto triunfo del regno verace/, dammi virtù a dir com’io il vidi!” (v. 97-99), l’artista sembra farla propria, rappresenta la mirabile elevazione dal turbinio di colori della terra al celeste e al blu iperuranio fino a sollevarsi  in una piramide che raggiunge il cerchio divino posto al culmine, dove arde l’amore divino, nell’’Empireo dove si trovano Dio con gli Angeli e i Beati uniti nell’eterna beatitudine. L’immagine  evoca anche la visione dei fiori, che vediamo intorno a Dante e Beatrice sotto la pioggia  di luce, un “umbrifero prefazio”, come dice Beatrice, una meraviglia inaccessibile alla mente umana. L’occhio spazia dal generale al particolare, nella città celeste ci sono i “corpi gloriosi”, gli scanni dove siedono i giusti, quasi tutti già occupati, vi è il “trono” ancora vuoto in attesa di Arrigo VII, che verrà in Italia per ripristinare ordine e giustizia, ma troverà la terra impreparata e sarà ostacolato dal papa Clemente V, per questo finito poi all’Inferno tra i simoniaci.

E’ l’ultima nota terrena, ora  siamo al Canto 31°,  gli Angeli volano avanti e indietro tra Dio e i Beati  per comunicare  pace e amore, e  scendendo “di banco in banco” con il loro volo  non impediscono  “la vista e lo splendore”,  “… chè la luce divina è penetrante/ per l’universo secondo ch’è degno,/  sì che nulla le puote essere ostante” (v. 22-24). Lo vediamo nelle macchie luminose che costellano la composizione tra il blu e il celeste con grandi squarci bianchi in un’immersione totale nell’Empireo iperuranio.  Viene evocata così l’immensa rosa candida costituita dai santi che si mostrano a Dante  immerso nella contemplazione, passando da un “gradino” all’altro, tra i visi accesi dall’amore e dalla carità. Intanto Beatrice si dilegua, al suo posto c’è san Bernardo di Chiaravalle,  il grande mistico fervente apostolo del culto di Maria, che mostra a Dante Beatrice andata a sedersi sul proprio trono nel terzo gradino, lontanissima da lui che la vede distintamente e le rivolge un elogio riconoscente per i benefici di grazia e di virtù che gli ha dato dandogli speranza e liberandolo dalla schiavitù del peccato. Poi la contemplazione della Vergine per prepararsi alla visione di Dio.

Nel  Canto 32° san Bernardo spiega la disposizione dei beati nella “candida rosa” con al culmine la Vergine e ai suoi piedi Eva,  “vo per la rosa giù di foglia in foglia”, e poi dirimendo del fior tutte le chiome”, fino a  “’l fiore è maturo di tutte le sue foglie”, mentre “da l’altra parte onde sono intercisi/ di vòti  i semicircoli, si stanno/ quei ch’a Cristo venuto ebber li visi.   Alla sinistra di Maria i credenti nel Cristo “venturo”, alla sua destra i credenti nel Cristo “venuto”,  l’artista rappresenta l’immagine  di Cristo con una grande figura veramente toccante, su uno sfondo che evoca la profondità celeste, il corpo quasi connaturato con le nuvole del cielo. La terzina “Così ricorsi ancora a la dottrina/ di colui ch’abbelliva di Maria,/  come del sole stella mattutina” (vv. 106-108) rimanda a san Bernardo su cui si riflette la luce di Maria, la “vergine madre figlia del tuo figlio” così magistralmente raffigurato dall’artista che anticipa l’inizio sfolgorante dell’ultimo canto. San Bernardo esorta Dante a contemplare la Vergine per prepararsi alla visione di Dio, mentre l’Arcangelo Gabriele intona “Ave Maria, gratia plena…”

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Canto 33, vv. 142-144

Si è giunti  così al punto più alto  del viaggio artistico di Gianni Testa  che accompagna il viaggio poetico di Dante Alighieri: è il Canto 33°, a chiusura della  cantica e dell’intera  Commedia, si apre con l’invocazione di san Bernardo alla Madonna, i suoi accenti sono tali da toccare il cuore ogni volta che si ricordano:“Vergine madre, figlia del tuo figlio,/ umile e alta più che creatura,/ termine fisso d’eterno consiglio,…” . L’artista ha interpretato queste parole memorabili con un’immagine che vede la Madonna vicina al vertice celeste con i raggi che partono dalla sua figura sospesa in alto e scendono fino a diventare una grande nuvola che raggiunge Dante, spettatore ammirato; è tra i tanti dipinti non compresi tra quelli in mostra, ma non abbiamo potuto astenerci dal descriverlo – a differenza di tutti gli altri assenti per i quali abbiamo citato soltanto i versi ispiratori non mettendoli in corsivo –  per la straordinaria forza espressiva nella traduzione pittorica dell’invocazione. Il canto si chiude con i versi che ispirano l’artista nella sua conclusione pittorica coincidente con la conclusione poetica: “A l’alta fantasia qui mancò possa;/ ma già volgeva il mio disìo e il velle,/ sì come rota ch’igualmente è mossa,/ l’amor che move il sole  e l’altre stelle” (v. 142-145).  Siamo al momento supremo, la contemplazione di Dio cui Dante è pronto essendosi purificato  passando dall’Inferno al Purgatorio poi, di cielo in cielo nel Paradiso  fino alla sommità dell’Empireo. Viene reso con i cerchi concentrici, i “tre giri”,  e la convergenza verso il centro più alto posto al culmine. Rispetto all’immagine ispirata dal Canto 1°  si nota un’analoga convergenza verso l’alto, ma in quella raffigurazione tutto era più marcato, le linee ascendenti come il centro coperto da una macchia rossa, qui tutto è sfumato, il centro è ora scoperto, un bianco ingresso a un infinito  imperscrutabile.

Dove c’era tensione ora c’è pace, la sete di Dio è stata placata, nell’animo si è diffusa l’armonia che regna nei Beati: questo avviene nel cuore del Poeta al termine del viaggio, questo è avvenuto nel cuore dell’artista che lo ha accompagnato, lo abbiamo visto dall’ultima immagine che trascolora, ispirata ai versi conclusivi della Commedia dantesca, questo sentiamo anche dentro di noi dopo la totale immersione pittorica e poetica che abbiamo narrato.

Il racconto del nostro viaggio pittorico e anche poetico nella Divina Commedia termina qui. Ci sentiamo di dire senza presunzione ma come moto spontaneo, che la riteniamo  un’opera  meritevole di essere associata  al testo dantesco nelle scuole e nei “Dantedì” da poco istituiti. Sarebbe un bel modo perché il 7° centenario di Dante lasci un segno nell’immaginario collettivo oltre che nel mondo degli appassionati alle “lecturae Dantis”.   

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Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

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Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. I primi tre articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 23, 25, 29 marzo 2022. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 24°, vv. 10-12

Foto

Le immagini dei dipinti del Paradiso sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice o prese dal Catalogo Si ringrazia Chiara Testa, insieme all’Editore e a Gianni Testa, l’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri del Purgatorio nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro del Paradiso ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 1° vv. 88-90, seguono, Canto 3° vv 88-90 e Canto 8° vv 16-18; poi, Canto 10° vv. 139-141, e Canto 14° vv 31-33; quindi, Canto 15° vv 70-72 e Canto 17° vv 121-123; inoltre, Canto 19 ° vv 4-6 e Canto 21° vv 31-33; ancora, Canto 23° vv 70-72 e Canto 26° vv 109-111; conrinua, Canto 30° vv 97-993, e Canto 33 vv. 142-144; infine, Paradiso, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici e Paradiso, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto Canto 24° vv. 10-12; in chiusura, L‘artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14° vv. 31-33 del Paradiso.

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L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 14°, vv. 31-33 del Paradiso

Gianni Testa, 3. Le anime penitenti nell’ascesa del Purgatorio, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Passiamo al Purgatorio dopo aver percorso le 34 “stazioni” dell’Inferno dantesco nella mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto. Sono 33 dipinti anch’essi, come per le altre Cantiche, riferiti ciascuno a una terzina ispiratrice. Si possono acquistare due stampe numerate fino a 100. Curatrice della mostra Chiara Testa, che l’ha realizzata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale con riproduzioni dei dipinti corredate dall’ inqudramento dei Canti e dai versi ispiratori, in una cornice nera che ne fa risaltare l’intenso cromatismo.

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Canto 3° vv. 58-60

Le  33 rappresentazioni del  Purgatorio esprimono il senso di liberazione dopo i recessi corruschi dell’Inferno, con la luce, i colori e l’apertura degli spazi dove  si muovono Dante e Virgilio. Nelle sue plaghe si purgano i peccati commessi dei quali coloro che scontano la pena si pentono sinceramente. Nella nostra carrellata, i versi ispiratori dei quadri esposti sono in corsivo, i versi in tondo per lo più hanno ispirato altri dipinti dell’artista non esposti.

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Con l’Antipurgatorio, nella prima immagine dell’artista ci sono i colori rossastri, l’Inferno è ancora vicino: la barca dove si trovano Dante e Virgilio si muove nelle acque agitate con gli spruzzi che li bagnano mentre seduti sono impegnati a  reggersi per restare a bordo.  Si ispira ai versi iniziali del Canto 1°, visualizzandone la similitudine: “Per correr miglior acque alza le vele/ ormai la navicella del mio ingegno,/ che lascia dietro di sé mar sì crudele” (vv. 1-3).   Poi viene l’incontro con Catone, simbolo di integrità morale, penitente per il suicidio cui ricorse nell’anelito di libertà.  

Nel  Canto 2°,  con i peccatori per vanità, una navicella porta le anime biancovestite, c’è un grande angelo con le ali aperte ad accoglierle sulla riva, le guardano due figure, una eretta vestita di bianco, l’altra di marrone accoccolata a terra, potrebbero essere  Dante e Virgilio che hanno dismesso i panni blu e rosso, così in Dante si ha la piena immedesimazione con le anime. Casella intonerà poi  il  canto. “amor che nella mente mi ragiona”, con le parole del “Convivio” dantesco,  fino al brusco richiamo di Catone “Che è ciò, spiriti lenti?”.  Questi i versi del Poeta che hanno ispirato l’artista: “Da poppa stava il celestial nocchiero,/ tal che faria beato pur descripto;/ e più di cento spirti entro sediero” (vv. 43-45). 

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, Canto 5° vv 22-24

Entriamo  ancora di più nel vivo con il Canto 3°, vi sono i defunti per morte violenta che  non si sono potuti pentire e gli scomunicati, una lunga schiera di anime biancovestite: “da man sinistra m’apparì una gente, che movieno o piè ver’ noi,/ e non pareva, sì venian lente” (vv. 55-60). L’immagine ne dà una visione corale di grande intensità, la fila di penitenti sul crinale del monte guidata dall’angelo dall’alto, li guardano Dante e  Virgilio che si rivolge a loro con le parole “ben finiti, spiriti eletti”. Dopo si parlerà del peccato originale, di Aristotele e Platone, ci sarà  l’incontro con gli scomunicati, tra cui  Manfredi, “nipote di Costanza imperatrice”, che  rivela come in punto di morte si rivolse “a quei che volentier perdona”, e il suo appello alla misericordia divina lo salvò dalla pena infernale.

Nel Canto 4° – dove di trovano i negligenti che sono stati sorpresi dalla morte prima di confessarsi –   l’artista non si è ispirato direttamente ai versi 31-33 “Noi salivam per entro il sasso rotto,/ e d’ogni lato ne stringea lo stremo,/ e piedi e man volea il suol di sotto”, tanto che Dante e Virgilio sono quasi indistinguibili, ma a una terzina più avanti: “ch’a lui fu giunta alzò la testa  appena,/ dicendo: ‘Hai ben veduto come il sole / da l’omero sinistro il carro mena?” (vv. 118-120) e non poteva essere altrimenti: l’immagine, infatti,  rappresenta  un sole rosso sulla sinistra  di una montagna aguzza, e ha colpito l’artista più che l’ascesa pura e semplice, inoltre evoca le questioni astronomiche del  canto, con i penitenti idealmente presenti in tracce bianche anche nel cielo.

La natura trionfa nei suoi colori, dal verde della vegetazione al  bianco luminoso dei raggi del sole che bucano le rosse nuvole nell’incontro con le anime di altri negligenti verso Dio che hanno subito ingiurie, sono stati vendicativi ma nel morire  di morte violenta solo all’ultimo si sono pentiti e hanno perdonato, chiedono  a Dante e Virgilio  di ricordarli ai congiunti  appena tornati nel mondo.  E’ il Canto 5°, “E ‘ntanto per la costa di traverso/ venivan genti innanzi a noi un poco,/ cantando ‘Miserere’ a verso a verso” (vv. 22-24).  Poi sentiranno  “io fui da Montefeltro, io son Bonconte”,  una voce che confida  la sua tragica fine  nella consolazione del  perdono divino,   fino alla tenera espressione  “Ricorditi di me che son la Pia” seguita dal ricordo nefasto “Siena mi fe’, disfecemi Maremma”. Le emozioni continuano, mnemoniche e visive, nello scorrere la galleria pittorica.

Canto 8° vv 22-24

Nel Canto 6°, ancora con i peccatori di negligenza morti tragicamente che per vendicarsi hanno omesso di confessare i loro peccati, un penitente si rivolge a Virgilio con il sole che  continua a dardeggiare i suoi raggi nella sinfonia di colori caratteristica dell’artista: ”Surse vér lui del loco ove pria stava/, dicendo : ‘O Mantovano, io son Sordello/ de la tua terra !’E l’un l’altro abbracciava” (vv. 73-75). Segue la denuncia: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta…”..

Torna la splendida moltitudine nel Canto 7° – sono sempre negligenti, questi hanno indebitamente tardato di confessarsi – le anime biancovestite ritratte in basso protese,  con  Sordello che  si offre come guida, nel tripudio della natura: “’Salve Regina in sul verde e ‘n su’ fiori,/ quindi seder cantando anime vidi,/ che per la valle non parean di fori” ( vv. 82-84). Ci sono i principi e i sovrani, anch’essi negligenti, ne viene ricordata la vita, sono citati gli avi e i successori.  Sembra di intravvedere Nino de’ Visconti e Malaspina risplendenti nel  loro biancore quasi in punta di piedi in una enclave rocciosa sotto un cielo nel quale appare l’azzurro con figure fluttuanti di angeli in volo.

Le bianche figure sono erette su un pianoro circondato da monti nell’immagine  del Canto 8°, che inizia “Era già l’ora che volge il disio/ ai navicanti e  ‘ntenerisce il core”. L’artista si ispira ai versi: “Io vidi quello esercito gentile/ tacito poscia riguardare in sue,/ quasi aspettando, palido e umile” (v. 22-24). Si vede che ne arrivano molti in una lunga teoria in dissolvenza, scontano la negligenza di aver trascurato i loro doveri morali, come la confessione,  per l’esercizio del potere o per avidità.  Nel canto sono protagonisti Nino Visconti, Corrado Malaspina, e soprattutto le tre virtù teologali..

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Canto 10° vv 73-75

Ed ecco, terminato l’Antipurgatorio, si apre la porta del Purgatorio, in uno sfondo bianco e celeste. Siamo al  Canto 9°,  approdano su una barchetta  in un ambiente raccolto,  protendono le braccia in un saluto al grande angelo che dinanzi alla porta che si vede dopo alcuni scalini, ha le ali aperte  come in un abbraccio: “…in sogno mi parea veder sospesa/ un’aguglia nel ciel con penne d’oro,/ con l’ali aperte e a calar intesa” (v. 19-21). L’artista è colpito da questi versi premonitori, e nella sua interpretazione unisce la visione del sogno all’arrivo che il Poeta descrive nei versi 76-77 dicendo”… vidi una porta, e tre gradi di sotto per gire ad essa…”.

C’è un’altra immagine, ancora più aperta e luminosa, per il  Canto 10°: come nell’Inferno ritroviamo i  suoi splendidi “bradi “, ma qui sono come nuvole bianche con dei cavalieri, riproducono una delle storie scolpite su dei bassorilievi nello zoccolo roccioso, quella di Traiano imperatore, con delle colonne sullo sfondo,  mentre  Dante e Virgilio ammirano la scena spettacolare: “Quiv’era storiata l’alta gloria/ del roman principato, il cui valore/ mosse Gregorio e la sua gran vittoria” (vv. 73-75)  è la terzina ispiratrice, ma di certo si è aggiunta anche quella appena successiva dei versi 79-81: “Intorno a lui parea calcato e pieno/ di cavalieri, e l’aguglie ne l’oro/ sovr’essi in vista al vento si movieno”.  Siamo nel primo girone del Purgatorio, con i superbi, la lunghezza della pena è commisurata al peccato di vanità, ci sono anche esempi preclari di umiltà. .

Luminosa nella metà superiore con un cielo dall’azzurro variegato di bianco tendente all’arancio l’immagine del Canto 11° nel quale ci sono i superbi per vanagloria, tra cui Liberto da Santafiore e il senese Provenzano Salvani.  La parte inferiore  è una terra brulla che si innalza  in una rupe sotto la quale si intravedono appena delle figure quasi compenetrate in essa  cui si rivolgono Dante e Virgilio visti da dietro. La terzina ispiratrice,  “Oh vana gloria de l’unmane posse com’ poco verde in su la cima dura,/ se non è  giunta da l’etati grosse!”(vv. 91-93) si riferisce alla caducità del successo, Cimabue fu oscurato da Giotto, Guinizelli da Cavalcanti, il “poco verde” è usato in senso metaforico, e la sua assenza totale nel dipinto ne è la trasposizione pittorica, come lo è la compenetrazione delle figure nella terra fino quasi a scomparire, altro che “lumane posse”.

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Canto 11° vv 91-93

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Dal celeste con bianco-arancio al blu molto intenso che scolora nel bianco nel Canto 12°,  nel girone  sono puniti i superbi presi dalla vanità delle glorie mondane. condannati a portare dei pesi sulle spalle: “Di pari, come buoi che vanno a giogo,/ m’andava io con quell’anima carca,/ fin che ‘l sofferse il dolce pedagogo” (vv. 1-3).  Dante non affianca più Oderisi da Gubbio che sconta la sua superbia con il carico opprimente ma guarda, con Virgilio, i  penitenti raffigurati nel suolo, ne vediamo  tre con i carichi e due stremati a terra, sono tra le poche figure restate “umane” ritratte dall’artista. L’ambiente sembra scolpito, con la parete rocciosa di un intenso cromatismo rossastro scuro, e la grande fenditura in cui entrano il blu e il bianco altrettanto intensi, il suolo chiaro come le figure, anche qui in una  compenetrazione cromatica significativa, anzi simbolica.

La già intensa tempesta cromatica si accentua, sopra alla mesta teoria di penitenti chini e incappucciati, che non hanno sembianze umane, anime protese nell’ascesa lenta ma continua, le figure di Dante e Virgilio che sembrano attenderli più in alto sono appena percepibili. Siamo  nel  Canto  13°, dove si trovano gli invidiosi. Nei primi tre versi si legge “Noi eravamo al sommo de la scala/ dove secondamente  si risega/ lo monte che, salendo, altrui dismala”, nei versi 58-60 “Di vil cilicio mi parean coperti,/ e l’un sofferìa l’altro  con la spalla,/ e tutti da la ripa eran sofferti”, tutto questo è reso nel dipinto che però  si ispira direttamente a un’altra terzina sempre descrittiva ma più personale: “Allora più che prima li occhi apersi;/ guarda’mi innazi , e vidi ombre con manti/ al color de la pietra non diversi”  (vv. 46-49).

Fa quasi “pendant” con questo cromatismo, quello  dell’immagine del Canto 14°, con ancora gli invidiosi tra cui Rinieri  da Calvoli.  Sullo sfondo della tempesta rossa e corrusca con squarci bianchi, si vede uno specchio d’acqua dove spiccano due grandi forme indistinte agli estremi: “infin la ve’ si rende per ristoro/ di quel che ‘l ciel de la marina asciuga,/ ond’hanno i fiumi ciò che va con loro” (vv.34-36). Si tratta dell’acqua dei fiumi che va alla foce per gettarsi nel mare e dargli “ristoro” compensando ciò che gli viene tolto dall’evaporazione causata dai raggi del sole. Un procedimento naturale al quale potrebbero alludere in modo criptico le forme indistinte.

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Canto 12° vv 1-3

Ancora più netto il contrasto di masse cromatiche avvolgenti per il  Canto 15°,  con chi si è fatto attrarre troppo dai beni terreni,  Dante e Virgilio – in basso a destra nel dipinto –  sono separati dal piccolo gruppo di penitenti alla metà della composizione. L’artista si ispira ai versi che  ricordano la lapidazione di Santo Stefano da parte della folla adirata, il santo potrebbe identificarsi nella piccola figura in alto: “Poi vidi genti accese in foco d’ira/ con pietre un giovinetto ancider, forte/ gridando   a sé pur: ‘Martira, martira!” (v. 106-108).

Nel  Canto 16°,  dove sono gli iracondi, con Marco Lombardo,  avvolti nel fumo, l’artista rappresenta la grande croce nel cielo che in una intensa sinfonia cromatica sovrasta Dante e Virgilio con gli occhi rivolti in alto: “Io sentia voci, e ciascuna pareva/ pregar per pace e per misericordia/ l’Agnel di Dio  che le peccata leva” (vv. 15-19) è la terzina di riferimento. I versi successivi, 25-27,  completano la scena: “Poi  piovve dentro a l’alta fantasia/ un crocifisso, dispettoso e fero/ ne la sua vista, e cotal si morìa” (vv. 25-27). E’ la punizione del ministro persiano che preso dall’ira condannò alla crocifissione un ebreo, perché non aveva adorato il Re, e i correligionari, poi fu crocifisso lui dal Re con un atto di giustizia  riparatrice. Si condanna la corruzione morale e politica.

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Canto 16° vv 16-18

Una figura che li guarda molto dal basso in una invocazione con le braccia aperte è nel dipinto del Canto 17°, nel girone dei colpevoli di ira punita, per converso segue l’Angelo della Pace e la dottrina dell’amore, principio di ogni virtù. Sull’alta rupe che sovrasta la figura invocante si vedono le sagome piccolissime di Dante e Virgilio con sullo sfondo il tramonto descritto nella terzina che ha ispirato l’artista: “e fia la tua imagine leggera/ in giugnere a veder com’io rividi/ lo sole in pria, che già nel corcar era” (vv. 7-9).

Ai piedi di alberi dai rami spogli li vediamo nel Canto 18° dove viene punita, anzi “purgata”, l’accidia: “Poi, come  l’foco movesi in altura/ per la sua forma  ch’è nata  a salire/ là dove più in sua matera fura” (vv. 28-30) sono i versi ispiratori. La metafora della tensione dello spirito verso l’alto come il fuoco la vediamo  tradotta negli alberi altissimi con il fuoco che sale, in un impasto cromatico particolarmente intenso.

Distesi sul terreno i penitenti del Canto 19°, tra le poche figure umane ritratte, che Dante e Virgilio guardano vicino a loro, scontano  la penitenza per l’avarizia o prodigalità, mescolati alla terra da cui non hanno saputo liberarsi. L’immagine lo rende con la coloritura giallastra in un ambiente desertico: “Sì come l’occhio nostro non s’aderse/ in alto, fisso a le cose terrene,/ così giustizia qui a terra  il merse” (v. 118-120). Poco dopo,  l’incontro con Ottobuono de’ Fieschi, divenuto  papa  Adriano V, si rese conto che i beni mondani sono ingannevoli e la felicità è data solo dai beni spirituali, il suo papato fu brevissimo, di 38 giorni.

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Canto 17 °, vv 7-9

Ancora gli avari e i prodighi  nel Canto 20°,  torna il clima tempestoso, masse cromatiche si incrociano, chiare ma agitate sulla sinistra, scure e distese sulla destra, in primo piano degli arbusti in una  desolata solitudine, con al margine le sagome minuscole di Dante e Virgilio. La terzina ispiratrice evoca  Carlo d’Angiò che, catturato  dopo una battaglia navale, fa sposare sua figlia per interesse a un marchese ricchissimo: “L’altro, che già uscì preso di nave,/ veggio vender sua figlia e patteggiarne,/ come fanno i corsar de l’altre schiave” (v. 79-81).. Sono ricordati  nel canto i misfatti di Carlo di Valois e di Filippo il Bello, i casi di avarizia puniti di Mida e Licinio Crasso, Eliodoro e Pigmalione, finché un  terremoto scuote il suolo,  le anime allora cantano un inno in gloria di Dio.

La sete di conoscenza di Dante viene soddisfatta nel Canto 21°, l’immagine dell’artista  è  ancora densa di masse cromatiche, nel girone ci sono i penitenti per prodigalità, ed è dominato dalla figura di Stazio che spunta fuori all’improvviso  “già surto fuor de la sepulcral buca / ci apparve un’ombra, e dietro a noi venia,/ dal piè guardando la turba che giace” (vv. 9-11), si vedono figure distese a terra. Il suolo si muove quando un’anima ha terminato la sua espiazione, ed è Stazio, che si dichiara discepolo di Virgilio senza averlo riconosciuto, fino all’”agnitio” in umiltà reciproca.

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Canto 19° vv 118-120

Torna la scalinata, contornata di bianco con l’azzurro del cielo sulla sinistra,  nell’immagine sul  Canto 22°, ai piedi della quale ci sono Dante e Virgilio, con dei rami leggeri che fanno da cornice in primo piano: “E io più lieve che per l’altre foci/ m’andava, sì che senz’alcun labore/ seguiva in su li spiriti veloci” (v. 7-9), si parla delle beatitudini, in particolare della temperanza, con l’Angelo che la impersona,  e la scala che sale verso l’alto sembra evocarle.

I Canti finali, dal 23° al 33°

Nel Canto 23°  le candide figure dei penitenti – questa volta i golosi tra cui l’amico di un tempo, Forese Donati, irriconoscibile per la magrezza della pena – sono in un ambiente quasi terreno, una radura amena, dietro una rupe, attraversata da un rivolo bianco, con un albero e l’azzurro del cielo.

Rende visivamente i versi: “Chi crederebbe che l’odor d’un pomo/ si governasse, generando brama,/ e quel d’un’acqua, non sappiendo como?” (v. 34-36): odori, frutta, acqua, gli umori della natura, l’essere umano è stato evocato nei versi che precedono,  “chi nel viso de li uomini legge ‘omo’/ben avria quivi conosciuta l’emme”, con gli zigomi uniti dalle sopracciglia a formare la “m”.

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Canto 22° vv 7-9

La terzina ispiratrice del  Canto 24° , sempre con i golosi, si riferisce a Firenze: “Però che ‘l loco u’ fui a viver posto,/ di giorno in giorno più di ben si spolpa,/ e a trista ruina par disposto” (vv. 79-81). Il responsabile della  “ruina” della sua città natale è Corso Donati, capo dei Guelfi neri,  di cui viene prefigurata da Forese Donati la morte violenta.  Al  centro della scena Dante e Virgilio con un corpo disteso a terra, l’atmosfera è cupa nel cromatismo scuro mentre in alto l’azzurro con squarci bianchi è percorso da misteriose forme oscure quasi presagio di sventura. Poi ci sarà l’incontro con Bonaggiunta, che riconosce in Dante l’autore  dei versi  “Donne ch’avete intelletto d’amore”, inizio della “Vita nova” e parla con lui dello “stil novo”; e  anche celebri esempi di gola punita

Una apertura luminosa di bianco e celeste tra due rupi, con un  lago dalle acque arrossate su cui passa una barchetta di penitenti, mentre  Dante e Virgilio si fermano, alle prese con la difficoltà del cammino: è  il Canto 25°, l’ispirazione viene dalla terzina“E già venuto a l’ultima tortura/ s’era per noi, e volto a la man destra,/ ed eravamo attenti ad altra cura” (v. 109-111).  Prima di questo momento che precede l’incontro con i lussuriosi, c’è stata la lunga disquisizione di Stazio sull’evoluzione dell’essere umano, fino alla trasmigrazione dell’anima nel luogo assegnato da Dio.

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Canto 25° vv 109-111

Sono  su una grande rupe all’inizio del  Canto 26°,  continuano le difficoltà, dalla “tortura” (la cornice), all’ “orlo”, con i consigli di Virgilio: “Mentre che sì  per  l’orlo, uno innanzi altro,/ ce n’andavamo, e spesso il buon maestro/ diceva: ‘Guarda: giovi ch’io ti scaltro’” (vv. 1-3). Sorge il sole e rischiara un lato della rupe, il resto ancora in ombra è il lato oscuro dopo gli squarci luminosi visti in precedenza. I lussuriosi incontrano i sodomiti, si rievocano Sodoma e Gomorra,  e Pasifae, poi il tono si eleva incontrando lo stilnovista Guido Guinizellii e il provenzale Arnaldo Daniello.

Nel Canto 27° torna la scalinata dove salgono i penitenti nelle loro sagome bianche tutte uguali, questa volta Dante e Virgilio li attendono al culmine, lo sfondo è di un blu variegato con grandi squarci bianchi, la terzina ispiratrice contiene altri particolari : “’Lo sol sen va, soggiunse, ne vien la sera; / non v’arrestate, ma studiate il passo,/ mentre che l’occidente non si annera’” (vv. 61-63). E’ una voce che li esorta  a procedere verso la sommità del monte, hanno incontrato l’Angelo della castità, e attraversato il muro di fuoco, li aspetta l’Eden e si avvicina il commiato di Virgilio.

Si entra nell’Eden con il Canto 28°, l’artista è ispirato dalla prima terzina “Vago già di cercar  dentro e dintorno/ la divina foresta spessa e viva,/ ch’a li occhi temperava il novo giorno” (vv. 1-3) e rappresenta  la foresta incantata con un tripudio luminoso che accoglie Dante e Virgilio. Ci sarà poi il fiume da non oltrepassare e la dolcissima fanciulla, Matilda, che al di là del fiume gli parla di quel nuovo luogo e scioglie i suoi dubbi, gli dice che il fiume Lete dà l’oblio del peccato e che forse l’età dell’oro preconizzata è proprio l’Eden, il paradiso terrestre.

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Canto 27° vv 61-63

Luminosità e verde splendente nell’interpretazione del paradiso terrestre da parte dell’artista per il Canto 29°,  c’è la processione delle bianche figure dei penitenti nel tripudio della natura: “dinanzi a noi, tal quale un foco acceso,/ ci si fe’   l’aere sotto i verdi rami;/ e ‘l dolce suon per canti era già inteso“ (v. 34-36), il Poeta invoca le Muse per “forti cose a pensar metter in versi”, avanza un carro trionfale con il grifone. Dante e Virgilio tendono le braccia dinanzi a tale  spettacolo, le strisce rosse sono simbolo della carità, il bianco della fede, il verde della speranza, 

L’atmosfera si fa celestiale nell’immagine per il Canto 30°, bianche figure in volo con le ali aperte,  sono gli angeli che accompagnano Beatrice mentre scende dal cielo, Virgilio scompare, la sua missione è terminata, Beatrice è la nuova guida di Dante e inizia subito a rimproverarlo per le sue deviazioni dalla retta via, poi: “Ella si tacque e li angeli  cantaro/  di subito ‘In te, Domine, speravi’:/ ma oltre’pedes meos’ non passaro” (vv. 82-84), è un salmo sulla misericordia di Dio .

Dagli angeli in volo alle ninfe del Canto 31°, che ispirano l’artista in una immagine in cui la dominante verde dell’intenso cromatismo è interrotta da un rivolo bianco che separa la scena in due parti, a destra l’ospite, a sinistra quattro figure candide: “’Noi siam qui ninfee nel ciel siamo stelle;/ pria che Beatrice discendesse al mondo,/ fummo ordinate a lei per sue ancelle” (vv. 106-108). Oltre questa interpretazione pittorica, il viaggio poetico continua con Beatrice che non smette di ricordare a Dante i suoi errori, lui si pente e si sente mancare, poi  ecco Matilde e l’immersione purificatrice nel Lete, le 4 virtù morali e le 3 virtù teologali, fino al disvelamento di Beatrice.

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Canto 33, vv. 88-90

L’albero di Adamo, dove si dirige “la santa schiera”, è al centro del Canto 32° come simbolo sia della storia dell’uomo che di quella della Chiesa dopo il peccato originale: “Io sentì mormorare atutti; ‘Adamo’,/ poi cechiaro una pianta dispogliata / di foglie e d’altra fronda in ciascun ramo” . (vv. 37-39) . Viene interpretato dall’artista in una intensa raffigurazione proiettata verso l’alto, con Dante quasi connaturato nella sostanza terrena che sembra elevarsi verso un cielo anche qui con la dominante verde tra bagliori luminosi. Avviene di tutto intorno all’albero, dove restano Dante, che  si addormenta al canto dei beati,  e Beatrice circondata da sette donne; irrompono animali fino a un drago, nel dipinto c’è un qualcosa di recesso e misterioso, è l’ultimo di sapore terreno.

Siamo alla raffigurazione finale, sul Canto 33°   conclusivo della Cantica, porta già “in più spirabil aere”, la figura di Dante  emerge dall’ombra con lo sfondo di un cielo sfolgorante di azzurro e di un bianco luminoso dove angeli in volo emergono dalle nuvole, una vera liberazione: “e veggi vostra via da la divina/ distar contanto, quanto si discorsa/ da terra il ciel che più alto festina” (vv. 88-90), la scienza umana distante dalla sapienza divina come la terra dal cielo, Ci saranno i quattro fiumi del Paradiso, e Dante potrà elevarsi verso il cielo della terza Cantica, dopo la richiesta di Beatrice di scrivere ciò che ha visto e un nuovo bagno purificatore, questa volta nell’Eunoè. Così è “puro e  disposto a salir alle stelle”.

Ed è disposto a salir alle stelle anche chi ha ripercorso il viaggio del Poeta attraverso le immagini dell’Artista attraversando le plaghe del Purgatorio come prima ha fatto con i recessi corruschi dell’Inferno. Lo aspettano, anzi ci aspettano, le stelle dell’infinito, con l’incommensurabile che l’artista interpreta visivamente in una “missione impossibile” che  diviene “missione compiuta”. Lo vedremo prossimamente con la nostra narrazione dantesca che  attraverserà i cieli del Paradiso fino a  raggiungere il culmine, l’Empireo, nella magica trasposizione pittorica di Gianni Testa.

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Purgatorio, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 23 e 25 marzo 2022, prossimamente l’ultimo articolo. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Purgatorio, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 2° vv 43-45

Foto

Le immagini dei dipinti del Purgatorio sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice o prese dal Catalogo Si ringrazia Chiara Testa, insieme all’Editore e a Gianni Testa, l’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri del Purgatorio nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro del Purgatorio ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 3° vv. 58-60, seguono, Canto 5° vv 22-24 e Canto 8° vv 22-24; poi, Canto 10° vv 73-75, e Canto 11° vv 91-93; quindi, Canto 12° vv 1-3 e Canto 16° vv 16-18; inoltre, Canto 17 ° vv 7-9 e Canto 19° vv 118-120; ancora, Canto 22° vv 7-9 e Canto 25° vv 109-111; conrinua, Canto 27° vv 61-63, e Canto 33, vv. 88-90; infine, Purgatorio, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici, e Purgatorio, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto Canto 2°, vv. 43-45; in chiusura, L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 27° vv. 61-63 del Purgatorio.

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L’artista Gianni Testa nella casa.-atelier mostra il suo quadro del Canto 27° vv. 61-63 del Purgatorio

Gianni Testa, 2. I recessi corruschi dell’Inferno, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto, cominciando dall’ Inferno: 34 dipinti con la forte intensità cromatica e materica propria dell’artista, ciascuno riferito a una terzina ispiratrice che viene indicata espressamente. E’ possibile acquistare due stampe numerate fino a 100. La mostra è organizzata da Chiara Testa, che l’ha anche curata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale, una straordinaria galleria dal forte cromatismo con il fascino della cornice nera e l’inquadramento nei Canti e nei versi ispiratori.

Canto 8°, versi 112-114

Raccontare la mostra – dopo averla inquadrata nel suo alto valore simbolico e artistico con riferimento all’eccezionalità del suo contenuto e delle sue motivazioni a chiusura del 7° centenario dalla morte di Dante – è come ripercorrere il viaggio dantesco degli anni di scuola attraverso i dipinti evocativi con i versi ispiratori che rappresentano vere e proprie didascalie, autore addirittura il sommo Poeta.

Ma non è solo emozione retrospettiva: nei due terzi dei dipinti sull’Inferno c’è una dominante rossa che incombe sulle figure di Dante e Virgilio, e su quelle ancora più inermi dei dannati quando emergono dai recessi corruschi. Il pensiero va alle immagini quotidiane delle esplosioni dei missili e delle bombe sulle popolazioni delle città ucraine, lo stesso rosso violento sugli inermi, è come se l’artista avesse dipinto l’inferno di oggi.

Cominciamo dall’Inferno la nostra carrellata dantesca sui 34 dipinti con i versi ispiratori in corsivo, mentre gli altri versi in tondo hanno per lo più ispirato ulteriori dipinti dell’artista che espone un solo dipinto per Canto.

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Si inizia con l’ingresso di Dante, apertosi il varco tra un  intreccio  arboreo  con i colori che si avviluppano come liane;  al di là dell’apertura  ancora rischiarata dalla luce si sentono risuonare i  versi del  Canto 1°: “Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura/  ché la diritta via era smarrita” (vv. 1-3). Poi, mentre crede di poter ritrovare la giusta direttrice sul colle della purificazione, tre belve lo ostacolano e Virgilio, espressione della ragione, gli preannuncia che gli farà da guida in un lungo percorso, tra i dannati e i penitenti.  

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Canto 2°, vv 70-72

L’angosciosa oscurità della selva è rotta come per incanto da  un’immagine luminosa, “I’ son Beatrice che ti faccio andare;/ vegno del loco ove tornar disio:/: amor mi mosse, che mi fa parlare” (vv. 70-72): è il Canto 2°, la dolce figura femminile  ha le braccia  aperte nella sua bellezza eterea, il Poeta  la guarda trasognato mentre è circonfusa  di un cerchio di luce  tra il rosso incombente che accende il buio tutt’intorno di  bagliori fiammeggianti. E’ stata Beatrice a chiedere a Virgilio di accompagnare Dante, per il volere della Vergine Maria e l’intercessione di Santa Lucia.

Con la terza immagine la scena cambia, “Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: ‘Guai a voi, anime prave!’” (vv. 82-84). E’ il Canto 3°,  “Caròn dimonio dagli occhi di bragia” è  ritratto  in piedi sulla sua barca  mentre  i dannati  aspettano in lontananza di essere traghettati sul fiume Acheronte,  in un clima tempestoso, cupo e infiammato. Ci sono gli ignavi, con Celestino V, “che per viltade fece il gran rifiuto”, poi un terremoto scuote la terra.

Siamo ora al Canto 4°, il Poeta svetta con lo sguardo proteso su un panorama di anime vaganti, un’immagine spettacolare e nel contempo di grande intensità: “…e l’occhio riposato intorno mossi/ diritto levato, e fiso riguardai/ per conoscer lo loco dov’ io fossi” (vv. 4-6): è nel Limbo, dall’alto vede l’espressione del  “duol senza martiri” di chi “non aveva pianto mai che di sospiri”; tra le piccole figure che si muovono in basso ci sono  Omero e Orazio,  Ovidio e Lucano.

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Canto 3°, vv 82-84

E’ ’ sempre ritto come una statua nel  Canto 5°,  in un forte cromatismo contrastato tra il rosso  e il blu,  il bianco e l’azzurro. L’artista è ancora colpito dai versi che descrivono l’angoscia suscitata dall’ambiente infernale, “Io venni  in luogo d’ogni luce muto,/ che mugghia come fa mar per tempesta/ se da contrari venti è combattuto” (vv. 28-30). E’ il cerchio dei lussuriosi, ci sono Achille ed Elena, Cleopatra e Didone, e soprattutto Paolo e Francesca. L’artista non ritrae “quei due che ‘nsieme vanno/ e paiono sì al vento esser leggieri”,  ma li fa sentire con forme fluttuanti  che si intravedono in volo nell’atmosfera corrusca;  mentre il  Poeta non cade subito “come corpo morto cade”,  intanto si copre gli occhi perché non regge alla vista dopo la loro storia, come Ulisse si chiuse le orecchie per resistere al  canto delle sirene.

 Nel Canto 6°, “Cerbero, fiera crudele e diversa,/ con tre gole caninamente latra/ sopra la gente che quivi è sommersa” (vv. 13-15), è il cerchio dei golosi, il Poeta con Virgilio guarda, oltre a Cerbero,  abbacinato dalla luce in uno scenario di fuoco, uno dei peccatori a terra che gli dice “riconoscimi, se sai….”: è un fiorentino irriconoscibile nel fango, che gli parla della condanna all’Inferno dei politici della sua epoca e gli rivela il proprio nome nei versi 52-54: “Voi cittadini mi chiamaste Ciacco;/ per la dannosa colpa della gola,/ come tu vedi alla pioggia mi fiacco”.

Dai golosi ai prodighi e avari nel Canto7°,  con Pluto di guardia all’ingresso che spaventa Dante ma viene fatto tacere da Virgilio, non è questo che ispira l’artista e neppure i grossi massi che i dannanti devono rotolare, bensì i versi “ E io, che di mirare stavo inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso” (v.v 109-111)Di qui le figure femminili rappresentate nude con i piedi nell’acqua che suscitano tenerezza per il pudore e la ricerca di calore stringendosi le une alle altre, le loro tinte delicate contrastano con il forte cromatismo che incombe sulla scena.   

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Canto 4°, vv 4-6

Dopo i prodighi e gli avari, ecco gli iracondi nel Canto 8°, ci sarà  Flegiàs, il traghettatore infernale che accetta di portare Dante e Virgilio nella sua barca sulla palude di Stige, e un cavaliere fiorentino, “messer Filippo Argenti” che cercherà di aggrapparsi alla loro barca e viene così descritto nel versi 52-54: “… Maestro, molto sarei vago/ di vederlo attuffare in questa broda / prima che noi uscissimo da lago”. L’artista si riferisce ad altri versi, “Udir non potti quello ch’a lor porse;/ ma ei non stette là con essi guari,/che ciascun dentro a pruova si ricorse” (vv. 112-114), e rappresenta la barca con sopra Dante in una stupenda distesa azzurra, senza entrare nel complicato dialogo tra Virgilio – che spiega come il poeta sia lì per volere divino – e chi non vuole  credergli ostinato nel male.

L’artista è colpito dall’apertura del Canto 9°, ”Quel color che viltà di fuor mi pinse/ veggendo il duca mio tornare in volta,/ più tosto dentro il suo novo ristrinse” (vv. 1-3), con la figura pallida del Poeta atterrito dai diavoli che vorrebbero impedire loro di proseguire entrando nella città di Dite, e Virgilio che si era allontanato torna indietro e lo rassicura. C’è l’apparizione  delle tre Furie, con la minaccia della Medusa, un  magma materico piove sul Poeta, questa volta lontano dalla sua guida.

Nel  Canto 10° vengono rappresentati di nuovo insieme, anzi per sottolineare lo scampato pericolo del distacco, figurano stretti l’uno all’altro mentre guardano dall’alto un fiume  rosso infuocato incanalato tra due rupi, che travolge i dannati:  “Ora sen va per un secreto calle/ tra ‘l muro de la terra e li martiri/ lu mio maestro , e io dopo le spalle” (vv. 1-3). Vengono evocate  le lotte tra Guelfi e Ghibellini,  è il canto con Cavalcanti e  Farinata  degli Uberti, però l’artista, come sempre, più che dal personaggio, “dalla cintola in su tutto il vedrai”,  è preso dall’ambiente. Siamo tra gli eretici.

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Canto 12°, vv 55-57

Muta  la scena,  eccoci al Canto 11°: “In  su l’estremità d’un’alta ripa/ che facevan gran pietre rotte in cerchio/ venimmo sopra più crudele stipa” (vv 1-3), vediamo  raffigurati il Poeta e la sua guida  non più ai piedi di una roccia ma sulla cima della rupe aguzza che sovrasta il settimo cerchio in una rappresentazione che fa sentire vertigine e solitudine e resta impressa per la sua forza. E’ il girone in cui viene punita l’usura, e poiché “l’usuriere altra via tiene,… poi ch’in altro pon la spene”, cioè devia dalla retta via e sfrutta il lavoro altrui, si trova tra i violenti.  C’è molta forza morale, anche contro i fraudolenti,  resa dall’immagine della vetta circonfusa di luce.

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Con il  Canto 12°  dedicato ancora ai violenti, nei primi versi, 10-12,  ”‘n su la punta della rotta lacca/ l’infamia di Creti era distesa” (v. 10-12)  si incontra il Minotauro, ma non viene rappresentato dall’artista preso da un’altra immagine “… e tra ‘l piè della ripa ad essa in traccia/ corrien Centauri, armati di saette,/ come solìen nel mondo andare a caccia” (vv 55-57): sono quattro, in primo piano, rivediamo le sagome inconfondibili e il dinamismo dei  “bradi” scalpitanti del più celebre ciclo dell’artista; vorrebbero impedire il loro passaggio, poi Chirone li fa accompagnare da Nesso che indica loro famosi tiranni e predoni condannati alla pena eterna

Dai violenti ai violenti contro sé stessi nel Canto 13°, trasformati in sterpaglie dove si annidano le arpie, “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:/  ben dovrebb’esser la tua man più pia,/se state fossimo anime di serpi” (vv 37-39), vediamo un viluppo di corpi con le braccia alzate immersi in una caligine livida nella  mutazione in sterpi evocando anche le serpi, sentiamo dei brividi…

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Canto 14°, vv 106-108.

L’immagine del  Canto 14°  è radicalmente diversa, torna il cromatismo infuocato: “La dolorosa selva  l’è ghirlanda/  intorno, come ’l fosso tristo ad essa:/ quivi fermammo i passi a randa a randa” (vv 10-12). E’ il  girone del violenti contro Dio, in particolare i bestemmiatori, come Capaneo, uno dei sette Re greci contro Tebe. L’artista presenta la “dolorosa selva”  disposta in cerchio, con una figura distesa sulla destra, il Poeta e Virgilio spiccano al centro di una scena di grande equilibrio compositivo.

Cromatismo attenuato nel Canto 15°  con i violenti contro natura tra cui Brunetto Latini che riconosce Dante suo discepolo con “qual meraviglia!”, si intrattiene a parlare di Firenze, poi raggiunge la teoria di bianche figure che salgono, più da anime penitenti che da dannati. Ed è la visione d’insieme più che il personaggio, che ha ispirato l’artista: “quando incontrammo d’anime una schiera,/che venian lungo l’argine, e ciascuna/ ci riguardava, come suol da sera…”  (vv 16-18) in una visione panoramica coinvolgente.

Torna il magma cromatico tra il bianco e rosso in alto e il celeste-blu in basso, nel Canto 16°:“Già ero in loco onde s’udìa ‘l rimbombo/ dell’acqua che cadea nell’altro giro,/  simile a quel che l’arnie fanno rombo” (vv 1-3), come la precedente la rappresentazione ambientale è spettacolare, ed è questa che impegna l’artista piuttosto che le figure dei sodomiti che vi sono puniti, tra cui Jacopo Rusticucci e i guelfi fiorentini. Più avanti ci sarà un altro fiume infernale, il Flegetonte. 

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Canto 26°, vv 55-57

Dai violenti contro natura  ai violenti nell’arte nel Canto 17°,  che l’artista interpreta con una immagine di grande equilibrio compositivo, Dante e Virgilio al centro perfetto con dietro una fascia scura, sopra il rosso incombente, sotto il chiarore delle acque evocate dalla terzina che lo ha ispirato: “”Io sentia già da la man destra il gorgo/ far sotto noi un orribile scroscio;/per che con li occhi ‘n giù la testa sporgo” (vv 118-120). E’ il baratro sopra il quale stanno i dannati, Dante e Virgilio saliranno poi sulle spalle di Gerione che li farà scendere nel cerchio successivo.

Altrettanto spettacolare l’immagine ispirata alla parte iniziale del  Canto 18°: “Quel cinghio che rimane adunque è tondo/ tra ‘l pozzo e ‘l piè dell’alta ripa dura,/ e ha distinto in dieci valli il fondo” (vv 7-9), la massa corrusca incombe dall’alto sulle due piccole figure, si intravvedono diversi piani e livelli.  Ci sono i  ruffiani e i seduttori, tra i quali Giasone, l’argonauta del “vello d’oro”, ma all’artista interessa evocare  l’ambiente.

Nell’ immagine del Canto 19°,  il Poeta e Virgilio guardano dalla riva del lago alle acque azzurro-blu le sagome dei papi simoniaci, come Niccolò III,  riuniti in cerchio nell’altra riva, mentre si preannuncia il prossimo arrivo di Bonifacio VIII, ancora in vita ma già “dannato”.  L’artista si ispira ai versi della parte conclusiva del canto:  “Di voi pastor s’accorse il Vangelista,/ quando colei che siede sopra l’acque/ puttaneggiar coi regi  a lui fu vista” (vv 106-108),  scende dall’alto una cascata d’acqua e di luce, con una figura bianca a braccia aperte che evoca  l’Evangelista. Il canto inizia con “O Simon mago, o miseri seguaci/ che le cose di Dio, che di bontate/  deon essere spose/ voi rapaci/per oro e per argento avolterate”.

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Canto 27°, vv 79-81

Nel  Canto 20° gli impostori che hanno professato l’arte divinatoria, condannati ad andare con la testa rivolta all’indietro, una specie di contrappasso rispetto alla visione del futuro che hanno spacciato in vita. Al centro della scena delle figure nude, alcune immerse nell’acqua, una fuori con le braccia alzate, Dante e Virgilio come il solito la contemplano da lontano: “Quindi passando, la vergin cruda / vide terra nel mezzo del pantano,/ senza coltura e d’abitanti nuda” (vv. 82-84), la pena per chi è stata spietata nei sortilegi.

Immersi nella pece bollente i barattieri degli uffici del Comune nel Canto 21° con i diavoli che li rigettano dentro quando cercano di uscirne: “Non altrimenti i cuoci a lor vassalli/ fanno attuffare in mezzo la caldaia/  la carne con li uncin, perché non galli” (vv 55-57), l’artista ne dà una rappresentazione fedele con la grande caldaia infuocata, i diavoli ai lati e le figure dei dannati appena delineate in un rosso fuoco.

Altri barattieri nel Canto 22°,  i trafficanti di grazie e giustizia nelle corti dei principi, qui tornano gli amati  “bradi” dell’artista, questa volta non più bianchi  ma di un intenso rosso con sfumature rosa e chiare, e senza  la variante dei Centauri, sempre dinamici e arrembanti intorno a una striscia bianca, evocano le cavalcate e i tornei dei versi del Poeta: “… corridor vidi per la terra vostra,/ o Aretini, e vidi gir gualdane,/ fedir torneamenti e correr  giostra” (vv 4-6).  Questo colpisce la fantasia e dà l’ispirazione, più che le schermaglie tra diavoli, con a capo Barbariccia,  e i dannati  nella bolgia, tra i quali Ciampolo di Navarra.

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Canto 28°, vv 79-81

I Canti finali, dal 23° al 34°

Dopo il rosso sfumato dei “bradi”, nel Canto 23° il rosso acceso con chiazze bianche che incombe su una teoria di dannati in fila l’uno dietro l’altro sotto pesanti cappe di piombo,  verso i quali Dante tende  la mano, dietro di lui  Virgilio appoggiato a una roccia: “Taciti, soli, senza compagnia,/ n’andavam, l’un dinanzi e l’altro dopo,/ come i frati minor vanno per via” (vv 1-3).  L’immagine che ritroviamo nel versi 61-63, “Elli avean cappe con cappucci bassi/ dinanzi alli occhi, fatte della taglia/ che in Clugnì per li monaci fassi”, non poteva non colpire l’artista che li ritrae sotto un addensarsi corrusco mentre in basso spunta addirittura un prato verde.  Sono gli ipocriti, con Caifa, il gran sacerdote degli ebrei che fece condannare Cristo.

Con il Canto 24° le tinte diventano chiare ma non per questo rasserenanti, tutt’altro, sembra una dissolvenza inquietante per rappresentare la pena inflitta ai ladri, che vengono morsicati da serpi orribili, bruciano e risorgono dalle loro ceneri, ecco perché il colore cenerino: “Con serpi le man dietro avean legate;/ quelle ficcavan per le ren la coda/ e ‘l capo, ed eran dinanzi aggrappate”. (vv 94-96). I corpi dei dannati si intravedono nel loro contorcersi e dissolversi.

Il rosa, con degli squarci bianchi, rischiara appena l’ambiente che resta oppressivo nell’immagine del Canto 25°, con le piccole figure di Dante e Virgilio in uno scenario lunare, monocromatico color terra,  siamo tra i bestemmiatori, tra i quali Vanni Fucci,  non appare il mostro sanguinario che lo insegue cui sono dedicati i versi danteschi: “Lo mio maestro disse: ‘Questi è Caco,/ che sotto il sasso di monte Aventino/ di sangue fece spesse volte laco (vv 25-27)”. Pur essendo un centauro, non si trova tra quelli che sorvegliano i violenti, punito per un furto di armenti e abbattuto da Ercole.

Canto 29°, vv 10-12

Altra indicazione virgiliana  che ha ispirato l’artista quella del Canto 26°,  Virgilio si rivolge a Dante: “Rispuose a me: ‘Là dentro si martira./ Ulisse e Diomede, e così insieme/ alla vendetta vanno come all’ira” (vv 55-57).  Colpito da questi versi immerge i due eroi greci in una nuvola rossa che quasi li nasconde alla vista del Poeta e della sua guida,  tenuti fuori dal clima infuocato come se si trovassero su una nuvola candida. Siamo tra i consiglieri fraudolenti, Ulisse sconta  l’inganno del cavallo di Troia, il tono si eleva con la nobile esortazione ai compagni: “Fatti non foste  a viver come bruti/ ma per seguir virtute e conoscenza”, poi l’esaltante partenza, “dei remi facemmo ali al folle volo”, quindi la successiva doccia fredda,  “noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto”, e infine l’epilogo nella tragedia, “… finché  il mar fu sopra noi richiuso”.

Altro consigliere fraudolento nel Canto 27°, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie dello stato di Romagna e gli rivela di averlo dato, sotto fede di assoluzione, addirittura a Bonifacio VIII. Troviamo di nuovo citato il pontefice odiato da Dante che gli ha già assegnato un posto nell’Inferno per motivi politico-religiosi, non per la scelleratezza di aver gettato in una fetida cella Pietro da Morrone dopo averlo indotto a fare “il gran rifiuto” al pontificato – cui era stato chiamato come Celestino V- per ritrovare la pace nel suo eremo mentre morì poco tempo dopo di stenti e malattie nella prigionia. Il verso che ha ispirato l’artista, nella confessione accorata di Guido,  è di portata generale: “Quando mi vidi giunto in quella parte/ di mia etade ove ciascun dovrebbe/ calar le vele e raccoglier le sarte” (vv 79-81), in realtà i beni mondani sviano dalla retta via: La metafora è colta nella barca affollata con le vele ancora alzate e una figura che si protende in basso verso le acque.

Un grande vascello per il Canto 28°, con i ricordi di guerre sanguinose e visioni orripilanti di corpi straziati, tra i “seminator di scandalo e di scisma”, fra i quali Maometto,   viene evocato un episodio drammatico: “… gittati saran fuor di lor vasello/ e mazzerati presso a la Cattolica/ per tradimento d’un cristiano fello” (vv 79-81): si tratta del “gran fallo”, il misfatto per cui i “due miglior da Fano”, Guido  e Angiolello, furono buttati fuori dal vascello dove li aveva attirati  l’inganno del tiranno Malatesta. Atmosfera tempestosa, con il cielo rosso fuoco e le acque  blu con il bianco spumeggiante. 

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Canto 31, vv 31-33

Il bianco è ancora più diffuso, pur se resta dominante il rosso, nell’immagine ispirata al  Canto 29°, e in particolare ai versi “E già la luna è sotto i nostri piedi;/ lo tempo è poco omai che n’è concesso,/ e altro è da veder che tu non vedi” (vv 10-12);  nella bolgia ci sono i seminatori di discordia e i falsari,  ma è la luna l’evento inatteso che rompe  la corrusca atmosfera infernale.

Atmosfera livida  nella visione  del Canto 30°  dove si trovano i falsari, della persona,  della moneta e della parola.  Ma l’artista è preso dalla tragica sorte della regina di Troia: ”Ecuba, trista misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva” (vv 16-18), segue che “forsennata latrò si come cane/; tanto il dolor le fè la mente torta”.  Si vede il corpo senza vita nell’acqua e il gruppo intorno alla regina che ha perso la ragione, non può esserci colore per esprimere tale dramma, ma un biancore diffuso per manifestare il doloroso raccoglimento che vediamo nella scena composta, del tutto inattesa dato il restante contenuto del canto.

Altrettanto inattesa, nel Canto 31°,  la vista dei giganti, che Dante da lontano scambia con delle torri, ma Virgilio gli spiega: “… sappi che non son torri, ma giganti;/ e son nel pozzo intorno dalla ripa/ da l’umbilico in giuso tutti quanti’” (vv 31-33). c’è Nembrot, ideatore della Torre di Babele, punito con la lingua incomprensibile, e Anteo che si presta a depositare Dante e Virgilio in fondo all’ultimo cerchio. L’artista presenta due figure, una chinata e l’altra eretta, in un ambiente oscuro, sono gli unici primi piani, a parte Dante e Virgilio, dell’intero “corpus”, è uno dei pochissimi dipinti di maggiori dimensioni, 80 x 80, gigante anch’esso… rispetto allo standard 60 x 60  degli altri.

,Canto 34° vv 28-30

L’atmosfera cambia, è come se tornasse la luce, lo vediamo nell’immagine ispirata al  Canto 32°: “Per ch’io mi volsi, e vidimi davante/, e sotto i piedi un lago, che per gelo/  avea di vetro e non d’acqua sembiante” (vv 22-24). Questa volta non è il riflesso della luce lunare ma il ghiaccio del fiume Cocito su cui camminano Dante e Virgilio, davanti a loro una sorta di roccia anch’essa bianca, è il gelo a creare questo, ma è anche l’artista alla ricerca della luce dopo tanta oscurità. Vi sono puniti i traditori dei parenti, i fratelli Alessandro e Napoleone degli Abati, e della patria, Bocca degli Abati per il tradimento nella battaglia di Montaperti. Sono conficcati nel ghiaccio infernale.

C’è  un ultimo episodio che lo fa ripiombare nell’atmosfera corrusca, anzi addirittura l’intera composizione si  tinge di rosso sanguigno. Siamo al Canto 33°, in cui ci sono i traditori della fiducia riposta in loro, l’artista si ispira ai versi “In picciol corso mi parìeno stanchi/ lo padre e’ figli, e con l’agute scane/ mi parea lor veder fender li fianchi” (vv 34-36). Nel sogno premonitore della tragedia del Conte Ugolino, i cani dai denti aguzzi addentano la preda. Non vediamo il conte mentre “la bocca sollevò dal fiero pasto”, e neppure “più che il dolor potè il digiuno”, ma delle figure su una sorta di  pavimento, una distesa a terra, l’altra protesa in un bacio con un bambino a fianco, una delle poche scene viste da vicino in un interno scuro indefinibile, prima della fine.  

Subito dopo  l’artista riprende quella luce accecante che  ha rischiarato le immagini del 29° e 32° Canto,  siamo al Canto 34°, l’ultimo dell’Inferno, con le figure di Dante e Virgilio  più piccole del solito, e sul bordo della composizione, dalla parte dell’osservatore, che guardano in alto una massa tenebrosa con delle lingue rosse che fanno piovere dal cielo gocce infuocate. Siamo sempre tra i traditori, questa volta è punito Lucifero, che ha nelle sue bocche Giuda, Bruto e Cassio.  E’ la libera interpretazione dell’artista,  Lucifero è descritto da questi versi: “Lo ‘mperador del doloroso regno/ da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia;/ e più con un gigante io mi convegno/ che giganti non fan con le sue braccia” (vv 28-31). Le braccia sono dunque gigantesche, e così la testa,  mentre il ghiaccio viene rappresentato con il bianco accecante che copre  metà composizione.

Con il biancore che illumina di  luce  risplendente il primo piano dell’immagine, contrastando l’angosciosa massa scura che incombe grondando sangue,  anche l’artista che ha seguito Dante e Virgilio nel viaggio all’Inferno potrà dire con loro: ”….e quindi uscimmo a riveder le stelle”.  E così il visitatore che ha seguito l’itinerario poetico e pittorico della prima Cantica. Ma il suo e nostro viaggio è appena iniziato, come per Dante continua nel Purgatorio sempre con la guida di Virgilio, per ascendere infine al Paradiso con Beatrice. Proseguiremo il nostro racconto appassionato per i sentimenti che suscita la mostra prossimamente.

Inferno, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 23 marzo 2022, seguiranno i prossimi tre. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Inferno, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 11°, vv. 1-3

Foto

Le immagini dei dipinti dell’Inferno sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice Chiara Testa che si ringrazia, insieme all’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri dell’Inferno nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro dell’Inferno ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 8° vv. 112-114, seguono, Canto 2° vv 70-72, e Canto 3° vv 82-84; poi, Canto 4° vv 4-6, e Canto 12° vv 55-57; quindi, Canto 14° vv 106-108 e Canto 26° vv 55-57; inoltre, Canto 27° vv 79-81 e Canto 28° vv 79-81; ancora, Canto 29° vv 10-12 e Canto 31° vv 31-33; continua, Canto 34° vv 28-30, e Inferno, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici; infine , Inferno, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 11°, vv. 1-3; in chiusura, L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 11° vv. 1-3 dell’Inferno.

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L‘artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 11° vv.1-3 dell’Inferno

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Gianni Testa, 1. La Divina Commedia nel 7°centenario, una magia miracolosa di forme e colori, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022,  la mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa espone 101 dipinti a olio, uno per ciascun canto senza alcuna esclusione – 34 per l’Inferno, 33 per Purgatorio e Paradiso più uno per Dante – formato 60 x 60, alcuni 80 x 80. La mostra è organizzata e curata da Chiara Testa. E’ possibile acquistare due stampe numerate fino a 100, Claudio Strinati ha introdotto la mostra all’inaugurazione, madrina Isabel Russinova. Catalogo di Gangemi Editore Internazionale, con la straordinaria carrellata dei 101 dipinti in un cromatismo perfetto cui la cornice nera dà uno straordinario risalto creando l’atmosfera del viaggio dantesco, con una sobria brevissima presentazione di Claudio Strinati che fa risaltare ancora di più la magia delle immagini così splendidamente offerte creando emozione al lettore.

La locandina della mostra

Una mostra-evento nella storia di opere ispirate alla Commedia

I dipinti – salvo quelli più grandi collocati su cavalletti intorno alle colonne al centro delle sale – sono esposti sulle pareti in due file sovrapposte molto fitte, tra le quali i rispettivi versi ispiratori, con una successione incalzante – come i canti nel libro a stampa – che fa sentire il visitatore “in viaggio” con il sommo Poeta, spinto in avanti  da un dipinto all’altro in un crescendo fino al sollievo di ”riveder le stelle” nell’uscita dall’Inferno, all’emozione di sentirsi “pronto e disposto a salire a le stelle”  al termine del Purgatorio, alla folgorazione dinanzi a “l’amor  che move il sole e l’altre stelle” alla conclusione del Paradiso e della Commedia.

Abbiamo voluto definirla mostra-evento perché chiude le celebrazioni del 7.mo centenario della morte del sommo poeta con un qualcosa di assolutamente eccezionale, un “viaggio” pittorico durato un quarto di secolo che rappresenta un “unicum” nella lunga storia di opere ispirate alla Divina Commedia. E’ un “corpus” di dipinti  vasto e organico che si presta mirabilmente a illustrare il capolavoro dantesco corredandone i canti  immortali con immagini intense e suggestive. E’ come l’esplosione pirotecnica finale con il diapason del “botto” conclusivo nelle feste paesane, e qui si è trattato di una festa globale, il sommo poeta appartiene all’umanità intera e il 7.mo centenario della sua morte è una ricorrenza universale, le sedi dell’Associazione Dante Alighieri sono sparse per il mondo. E come nelle feste si supera la mezzanotte, così si è sconfinati nel 2022, in un eloquente splendido isolamento che ha coinciso con un inferno purtroppo vicino a noi, la guerra in Ucraina. Così Gianni Testa intervistato da Canale dieci che nelle sue news ha trasmesso per un’intera giornata l’ampio servizio sull’inaugurazione della mostra: “Sarebbe stato bello se non ci fosse la guerra. L’inferno è la guerra, non quella di Dante. Mi addolora molto”. Ma pur non essendo cetamente bello questo accostamento è simbolico, più di una coincidenza; tanto che la mostra precedente “L’Inferno” alle Scuderie del Quirinale aveva una sezione finale intitolata “L’inferno oggi: la guerra” ma riferita ad altre guerre, lontane nel tempo e nello spazio.

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Gianni Testa con la madrina Isabel Russinova all’inaugurazione della mostra

Anche la collocazione della mostra è eccezionale: non in un normale centro espositivo, ma nel Museo Crocetti, la casa-museo del grande scultore abruzzese – e da conterranei teramani lo sentiamo particolarmente vicino – celebre il suo “Il Giovane Cavaliere della Pace”  che fu esposto anche all’ONU, tanto di attualità oggi per l’auspicio della fine dell’“inutile strage” in Ucraina, nel cuore dell’Europa, come il suo “Monumento ai Caduti di tutte le guerre” a Teramo. E’ di Venanzo Crocetti  la “Porta dei Sacramenti” di San Pietro, oltre alla “Porta del Duomo” di Teramo, cosa che rende ancora più emblematica la collocazione della mostra sulla sacralità dantesca e  offre al visitatore l’occasione unica di abbinare alla vista della grande pittura la vista della grande scultura delle tante opere esposte nei piani della vasta casa-museo nonché dello studio d’artista dello scultore con un bozzetto della Porta di San Pietro, lasciato com’era, quasi si fosse solo allontanato, dinanzi è collocato il quadro testimonial della mostra. .  

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Intorno al quadro-testimonial

Le  101 spettacolari composizioni cromatiche a olio di Gianni Testa vengono dopo  i  ricami calligrafici delle  pergamene di Sandro Botticelli e  le  elaborate grafie a matita,  penna  e acquerello di  Federico Zuccari nel ‘500,   le  nitide incisioni di Gustave Dorè  e i marcati disegni preparatori di  Auguste Rodin sull’Inferno, le drammatiche tavole di William Blake e quelle accademiche di Francesco Scaramuzza nell’800; fino alle incantate visioni di Amos Nattini agli inizi del ‘900, per giungere ai disegni surrealisti di Salvador Dalì e ai realismi di Guttuso a metà degli anni ’50, arrivando alle più recenti illustrazioni di Dell’Otto e Mattotti, Barbieri e Madè. C’è stato anche lo scultore Benedetto con un’opera titanica, altri artisti si sono cimentati  in incursioni sporadiche; ricordiamo l’Inferno” di Roberta Coni.

A parte le xilografie e le sculture si è trattato per lo più di disegni o acquerelli e tavole illustrative,  spesso su commissione per edizioni a stampa della Divina Commedia,  perciò è un vero e proprio evento che un artista contemporaneo della caratura di Gianni Testa abbia rivisitato in 101 spettacolari dipinti a olio l’intera opera dantesca rendendone la magica suggestione con maestria cromatica e materica sostenuta e stimolata da una forte motivazione.

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Un itinerario d’arte e di vita

La caratura artistica: l’attività pittorica di Gianni Testa viene da lontano, già nel 1962 partecipò a una collettiva con Quaglia, Guttuso, Mazzacurati e Purificato, su invito di Levi che era stato colpito dal talento espresso nelle sue prime opere,  frequentò questo gruppo e anche Calabria e poi Pericle Fazzini. Ha esposto in ben 150 mostre in Italia e all’estero, fino a New York e Filadelfia,  e ha ricevuto molti riconoscimenti, dal primo nel 1970 vincitore del concorso “Brandy italiano” al  titolo di “Pittore di Marina” conferitogli nel 2016, al “Premio alla carriera” consegnatogli recentemente da Vittorio Sgarbi. Ha avuto popolarità anche presso il vasto pubblico televisivo con la partecipazione agli inizi degli anni ’90 per diversi anni, alla trasmissione quotidiana “Mattina 2”  come illustratore in diretta del fatto del giorno – “quadri senza prova d’appello” gli chiese l’autore Michele Guardì – chiamato dal direttore di Rai 2 Giampaolo Sodano. 

Fin dal 1968 ha partecipato alla Biennale di Roma, poi alla Triennale di Milano, dal 1975 alla Quadriennale di Roma, l’ultima grande mostra al Vittoriano nel 2014 con i suoi diversi cicli pittorici. Si è formato alla scuola di restauro nella Galleria Borghese diretta dalla prof.ssa Della Pergola studiando le tecniche dei grandi artisti del passato per tradurre visivamente i propri sentimenti e le proprie ispirazioni; con il maestro Bartolini ha approfondito anche la scultura.

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L’artista in … famiglia, con la moglie e la figlia Chiara organizzatrice e curatrice

La maestria cromatica e materica: da questa formazione nasce un uso del colore molto intenso, e uno spessore materico da cui sembra estrarre le forme in un “espressionismo onirico” in cui i diversi generi artistici lo hanno portato al suo inconfondibile stile personale. 

La sua forte motivazione: è stata diversa dal solito, come l’iter creativo, quasi inimmaginabili: nessun intento illustrativo né didattico, e tanto meno un programma  preordinato, bensì la manifestazione di un bisogno interiore nato sui banchi di scuola che ha trovato la forma per esprimersi in diverse fasi lungo la sua piena maturità artistica, fino al compimento definitivo. La rilettura della Divina Commedia lo ha accompagnato sempre, come “libro di compagnia” – nella definizione del giornalista “cronista d’arte” che lo conosce molto bene Vittorio Esposito – e di volta in volta si è tradotta in schizzi, disegni e tele secondo l’ispirazione del momento che ha stimolato il suo spirito creativo in modo inarrestabile. E che si tratti di una personalità forte, pronta a seguire fino in fondo le proprie spinte interiori, lo ha dimostrato quando lasciò la facoltà di Architettura pur avendo il massimo dei voti per dedicarsi completamente alla pittura. Dando sfogo a ciò che maturava dentro di lui dall’adolescenza,  non vede la Commedia dall’esterno ma  dall’interno, ogni volta che l’ispirazione preme riemergendo dal suo inconscio., e si è avuto per un quarto di secolo.

Come è avvenuto tutto questo? Così l’artista, sempre a Canale dieci: “C’è tutto il percorso di Dante. Si inizia con il capitolo in cui ci sono 300 versi, se ne sceglie uno. E uno di questi è un quadro. Poi c’è il trittico che è stato fatto all’ultimo”. E sull’interpretazione pittorica: “E’ stato uno sforzo notevole, tanto per fare i cromatismi, tanto per creare un catalogo importante, tanto per il tempo che ci è voluto. Venticinque anni”. Sull’esposizione: “E’ una mostra particolare, dove i quadri si vedono e si segnano attraverso il colore”.

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L’artista con due amiche e l’amico giornalista Vittorio Esposito

Il risultato: Claudio Strinati afferma: “Netto e indelebile è il Dante pensato da Testa e la sua pittura rientra a pieno titolo nella nobile storia del rapporto tra arte figurativa e pittura dantesca”. Per questo riteniamo che l’impiego illustrativo e didattico, anche se assente dalle sue intenzioni,  sarebbe quanto mai appropriato,  si sente l’autenticità dell’ispirazione che è stata una costante nella sua vita da studente prima, da artista poi; quindi la diffusione nelle scuole di una Divina  Commedia così riccamente illustrata potrebbe far sì che gli studenti prendano maggiore confidenza con i versi danteschi accompagnati dalla  magia dei colori e dall’intensità  materica ed espressiva delle forme.

Ma non solo. Ha detto Chiara Testa, organizzatrice e curatrice della mostra, sempre a Canale dieci: “Vogliamo trasmettere alle persone un invito a riscoprire la Divina Commedia di Dante. Attraverso le 101 opere vogliamo far tornare le persone indietro nella storia”. Ed effettivamente dopo aver visitato la mostra viene la voglia di riprendere in mano la Divina Commedia per rileggere fior da fiore le sue terzine immortali.

Da un quarto di secolo l’ispirazione e la spinta creativa dell’artista sono state alimentate dalle suggestioni della Commedia dantesca che, intendiamo sottolinearlo, riaffioravano  dall’inconscio dove erano sedimentate  sin dall’adolescenza. Risalgono al 1999  i suoi primi dipinti sulle tre Cantiche, con i quali  ai  cicli dei cavalli e dei paesaggi,  dei ritratti e delle nature morte, si aggiunse il ciclo della Divina Commedia,  che insieme al ciclo del sacro ha portato l’artista a misurarsi con il divino. Ma sono stati  interventi sporadici  e saltuari diluiti nel tempo fino al “rush”  finale che lo ha impegnato pienamente negli ultimi cinque anni.

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A parte la Commedia, un’incursione oltre il suo campo  stilistico: l’“espressionismo onirico” dalla tempesta cromatica si è trasferito ai “movimenti astratti”, alla cui base c’è addirittura un’immagine di Dante Alighieri che gli ha ispirato un  diverso percorso tradotto  in dipinti astrattisti  di numero pari a quelli sulla Commedia, in una misteriosa e arcana coincidenza.     

Tutto ciò ci porta a guardare  i  suoi dipinti  in modo diverso dalle altre opere sul tema dantesco e dalle manifestazioni artistiche in genere, considerando l’arte comunque tra le  forme più elevate e nobili dell’agire umano. Sentiamo che c’è di più, e di diverso,  nelle sue rappresentazioni, al di là del giudizio estetico e della valutazione critica, pur se di eccellenza.

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Siamo spinti a esplorare il  percorso interiore dell’artista, a penetrare nella sua visione della Commedia che ha fissato sulla tela  con dedizione: la chiamiamo così per rendere,  anche se in modo inadeguato, il suo  trasporto  appassionato per il capolavoro dantesco.

Più che i singoli personaggi è impressa nella sua memoria e nella sua sensibilità l’atmosfera dei diversi canti, che traduce nell’intenso cromatismo con tutte le infinite sfumature che rendono magici gli ambienti dell’Inferno, del Purgatorio, del Paradiso in una escalation di visione soprannaturale  che troviamo trasfigurata dai versi immortali alle mirabili tavole pittoriche. 

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All’autenticità dell’ispirazione, e alla spontaneità creativa, si deve che non tutti i canti erano stati rappresentati dall’artista, mentre  quelli che lo avevano più colpito gli avevano ispirato più raffigurazioni, non essendo il suo un impegno sistematico e programmato, ma solo istintivo; finché, vista la copertura quasi totale dei canti, ha completato  e sistematizzato il tutto.

I motivi interiori e le forme espressive

Tra i tanti giudizi manifestati dai  critici d’arte che hanno evidenziato gli aspetti salienti  della sua pittura, ne citiamo due, uno sui motivi interiori, l’altro sulle forme espressive.

L’aspetto più propriamente artistico è  strettamente connesso al suo peculiare atteggiamento che crea  le condizioni ottimali perché non vi sia iato e neppure diaframma tra ispirazione ed espressione, e la sua sperimentata cifra stilistica di altissimo livello ne è la garanzia assoluta.

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Giosuè Allegrini  ha sottolineato la rappresentazione interiore di stati d’animo, pensieri, emozioni, che va al di là della fisicità per una realtà immaginifica, riscontrando  una tensione emotiva verso il ricordo, la memoria, il mito, con una forte dinamicità intellettiva; e il fatto che la luce  e la materia nella sua pittura esprimono il dualismo tra il corpo  e l’anima, tra la materia e lo spirito, tra l’immanente e il trascendente, in un approccio maieutico, per un simbolismo etico universale.  

Si riferisce alla sua opera e alla sua  connotazione di artista,  non al “corpus” di  dipinti  sulla Divina Commedia, ma sono anche  gli elementi  da cui nasce il  fascino perenne del poema..  E  se questi  sono i motivi interiori  dell’artista che diventano ispirazione e spinta creativa per la Divina Commedia, le forme espressive trovano nel poema dantesco il loro sbocco ideale.

Le descrive Claudio Strinati – che ha presentato la mostra – anche in relazione all’opera  complessiva dell’artista nella quale  vede sprigionarsi  una  metaforica fiamma che forgia tutte le cose  con la sua carica di energia. E  ciò senza  vincolarsi a una forma precostituita dai contorni preordinati: l’artista mantiene libera di esprimersi  la propria tensione interna  partendo da una massa cromatica  indistinta dalla quale ricava la forma come lo scultore dal marmo, liberandola dal resto della materia informe. E   parla del modo in cui la luce e la materia diventano energia in un processo  che chiama einsteiniano e si manifesta nelle grandi masse di colori calate sulla tela in rutilanti contrasti e viluppi cromatici.

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Il momento delle dediche autografe

In tal modo si realizza un’ulteriore aderenza allo spirito della Commedia dantesca, in cui l’umano e il divino sono compresenti in una dimensione che Strinati evoca richiamando la “quintessenza”,  cioè le dimensioni fisica e metafisica che aleggiano nel poema;   l’artista le  visualizza con il virare del  colore verso tonalità sempre più sideree e della forma verso  una progressiva trasfigurazione.

Il “corpus” di dipinti, l’evocazione nelle tre Cantiche e l’emozione che suscita

L’elemento comune  che emerge  dal “corpus” di dipinti sulla Commedia, nel contesto creativo,  espressivo e stilistico così delineato, è la presenza di Dante nelle più varie situazioni ambientali, in assoluta coerenza con l’opera, ma anche  sintomo di qualcosa di più: la totale identificazione dell’artista con il sommo Poeta nel viaggio  fantasmagorico dove vuole essere presente in ogni momento e ogni luogo. 

Per questo motivo la sua figura  è compenetrata  nella sostanza cromatica come composta della stessa materia della visione evocata. Fino al Paradiso allorché le visioni celestiali occupano l’intera composizione, e non potrebbe essere altrimenti, Dante resta a contemplarle ma fuori di scena. 

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Un’altra dedica autografa a una delle stampe numrate fino a 100

Le anime sono evocate con discrezione nelle tre Cantiche, non è sui singoli personaggi che va l’attenzione dell’artista, ma sull’ambiente in cui vagano, tenebroso  o infuocato nella dominante rossa per l’Inferno, mentre nel Purgatorio la tempesta cromatica si sposta sui colori della terra e della natura, fino al Paradiso dove c’è anche il rosso, ma come glorificazione, mentre trionfa il sidereo celeste.

Così l’“espressionismo onirico” dell’artista lo porta  a trasmettere attraverso i dipinti le emozioni suscitategli dai diversi passi delle tre Cantiche, ispirate a terzine e versi da lui identificati con precisione, ma con questo non deve  confondersi l’espressione con l’illustrazione. Infatti, pur se  il suo intenso cromatismo ha componenti figurative, per lo più non ritrae sempre i personaggi ma rende l’atmosfera, a parte le figure appena delineate di Dante e Virgilio nell’Inferno e Purgatorio, e di Dante e Beatrice nel Paradiso, che sono una presenza frequente quanto discreta. E’ una rappresentazione pervasa di intensità mistica che stimola la mente  e la memoria, suscita emozioni e sentimenti, scuote nell’intimo.

Il Paradiso è  reso  non con astrazioni  impalpabili, ma con una forza cromatica non limitata all’azzurro e neppure al  blu intenso, ma estesa a un’ampia gamma, compreso il rosso, in un equilibrio nei colori con i quali sono state delineate in modo tangibile forme arcane, nella  peculiarità di stile e di contenuto dell’artista. Mentre del Purgatorio colpiscono i toni variegati nel passaggio dalla visione terrena a quella sempre più distaccata dalla materia con le bianche figure dei penitenti e gli angeli che le guidano.  Dell’Inferno restano impressi i toni corruschi e l’ambiente oscuro e spesso infiammato, tra acque tempestose, rocce aguzze, lande tormentate.

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Li descriveremo in una carrellata in cui, nell’accennare ai motivi dei singoli dipinti, inseriremo degli  accenni agli  episodi danteschi che li hanno ispirati per l’eccezionale peculiarità di questo ciclo pittorico che muove i tasti più reconditi. I  riferimenti ai canti richiamano alla mente  ricordi sedimentati dal tempo nel fondo  della memoria,  perché la Divina Commedia sin dal periodo scolastico è entrata nella vita di tutti, oltre ad essere patrimonio universale della letteratura  e,  per merito di coloro che l’hanno interpretata visivamente, anche dell’arte. 

Abbiamo detto che Gianni Testa  ha dato corpo e anima alle incomparabili visioni del poema dantesco spinto dal bisogno irresistibile di esprimere ciò che premeva in lui dai banchi della scuola. Perciò  i suoi  dipinti sono ben più di un ciclo pittorico di altissimo livello, si sente la sollecitazione intima  che impegna il cuore  oltre alla mente,  e va al di là del fatto estetico e stilistico, la forma e il contenuto.  La tempesta cromatica delle sue immagini  si traduce in una tempesta di emozioni ed evoca un vissuto personale rimasto nell’inconscio che riaffiora  dentro ciascuno di noi.

Le figure di Dante e Virgilio, nelle loro lunghe vesti rossa e blu, penetrano nell’intimo allorché si seguono  nella loro peregrinazione tra i sanguigni gironi dell’Inferno e  gli squarci di luce del Purgatorio;  la presenza luminosa  di Beatrice e la celestiale beatitudine del Paradiso fanno raggiungere  il massimo di emozioni in una indicibile suggestione.  Accostarsi al divino  nella sua espressione iperurania,  dopo averne sentito la compresenza con  le manifestazioni umane  in un processo di progressiva elevazione, è qualcosa di toccante  e indescrivibile.

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Collocazuione dei quadri di maggiore dimensione 80 x 80 intorno alla colonna

L’“espressionismo onirico” dell’artista – che ha trasfigurato  le immagini della realtà nelle intense visioni della sua rivoluzione cromatica – ha trovato un terreno per esprimere   le sue potenzialità in un mondo poetico  del quale il colore e la forma hanno  reso la dimensione sovrumana in cui si è trovato il Poeta  in una misura che investe l’umano e il divino.

Ripensiamo all’impressione avuta nell’adolescenza dinanzi alle tavole di Gustave Dorè che davano vita ai versi danteschi  con la nitida precisione delle xilografie  in cui i corpi in primo piano assumevano rilievi possenti, michelangioleschi. Ebbene, i dipinti di Gianni Testa  fanno provare un’emozione altrettanto forte: ci si sente  presi  dal suo vortice cromatico come da un turbinio soprannaturale che ha compenetrato  anche noi, ma le sue figure sono invece viste da lontano con discrezione e delicatezza, come la figura di Dante onnipresente, creando l’atmosfera di un magma indefinibile  in cui la dimensione terrena si  trasfigura nel  divino per effetto di quella che abbiamo definito “una magia miracolosa di  forme e colori”.

Per Claudio Strinati, “il suo Dante è un personaggio magmatico e incndescente che sembra, sulle tele del maestro, essere costituito della stessa materia con cui il pittore costituisce i diversi luoghi e le diverse situazioni del Poema. E’ fatto, il dante di Testa, della stessa sostanza. Anzi, nell’immaginazione del pittore, un’unica sotanza presiede a tutte le rappresentazioni e qui scatta la grandezza veramente dantesca del maestro”. La magia miracolosa nasce dalla “luce divina” che aleggia sempre, pervasa di poesia, come ha scritto Vittorio Esposito: “In ogni dipinto Gianni Testa evidenzia e scandisce il senso di spiritualità che pervade e rende immortale il fascino dei versi danteschi traducendoli da elaborato poetico a poesia dipinta”.

E’ giunto il momento di ripercorrerne il viaggio nel suggestivo itinerario della mostra attraverso la sequenza ininterrotta di immagini dei singoli canti, che rinnovano emozioni lontane alle quali danno vita le forme e i colori nella magistrale visione del Maestro. Lo faremo prossimamente in tre articoli dedicati all’Inferno, al Purgatorio, al Paradiso.

Il quadro testimonial della mostra di Gianni Testa davanti allo studio d’artista

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Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it; www.giannitesta.it. Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; nei prossimi giorni usciranno gli altri 4 articoli sulla mostra. Per gli artisti citati:  Guttuso: Antologica al Vittoriano 25, 30 gennaio 2013, Realismo rivoluzionario alla GAM di Torino 14, 20, 30 luglio 2018, Innamorato alla Galleria Nazionale 16 ottobre 2017, Religioso al Quirinale 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016; Calabria: Antologica sul luogo dell’essere a Palazzo Cipolla 11 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019; Levi Specchio della realtà, Pittura dionisiaca ed elegiaca alla  Galleria Russo 28 novembre, 3 dicembre 2014; Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo su L’Inferno di Dante  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009. Mostre del passato nel Museo Crocetti recensite: Vanda Valente Pittura in difesa della natura 4 aprile 2014, Bergamini Il digitale pittorico 6 dicembre 2013, Sironi  in mostra 26 gennaio 2009. 

Lo studio d’artista dello scultore Venmanzo Crocetti

Foto

Le immagini dell’inaugurazione della mostra sono state fornite dalla organizzatrice e curatrice Chiara Testa che si ringrazia per la prontezza e la cortesia, ad eccezione delle n. 1, 10, 17 tratte rispettivamente dai siti di pubblico dominio lagone.it, canaledieci.it, vignaclarablog.it, dei quali si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, pronti a eliminarle qualora non ne risulti gradita questa pubblicazione che ovviamente non ha alcun intento economico ma solo illustrativo; la n. 16 è di Romano Maria Levante tratta dall’articolo su Crocetti citato in Info. In apertura, La locandina della mostra; seguono Gianni Testa con la madrina Isabel Russinova all’inaugurazione della mostra e Intorno al quadro-testimonial; poi, lo scorcio di una parete, L‘artista in … famiglia, con la moglie e la figlia Chiara organizzatrice e curatrice, e L‘artista con due amiche e l’amico giornalista Vittorio Esposito; quindi, altri due scorci di pareti e tra loro due immagini dell’artista con visitatori; inoltre, Il momento delle dediche autografe e Un’altra dedica autografa a una delle stampe numrate fino a 100; ancora, un’ulteriore scorcio di parete e Collocazione dei quadri di maggiore dimensione 80 x 80 intorno alla colonna; continua, Il quadro testimonial della mostra di Gianni Testa davanti allo studio d’artista, e Lo studio d’artista dello scultore Venmanzo Crocetti; in chiusura, Il Museo Crocetti, sulla dx “Il Giovane Cavaliere della Pace” .

Il Museo Crocetti, sulla sin. la scultura-simbolo “Il giovane Cavaliere della Pace”

Pasolini, 7. Nella 16^ Quadriennale di Roma le ultime 6 sezioni con Pasolini

Abbiamo celebrato il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini con 6 articoli ripubblicati dal 5 marzo 2022, giorno della ricorrenza, fino a ieri 10 marzo, usciti a suo tempo sulle mostre a lui dedicate visitate nel decennio scorso. In particolare abbiamo riproposto in successione il nostro articolo del 2012 sulla mostra di Monica Cillario che ha fotografato la sua prima abitazione romana, i due articoli del 2014 sulla mostra “Pasolini Roma” al Palazzo delle Esposizioni evocativi della sua figura di poeta e scrittore, saggista e regista, e della sua vita terminata tragicamente, l’articolo del 2015 sulla mostra “I tanti Pasolini” a “Spazio 5” con la sua immegine nelle fotografie di Carlo Riccardi, testimonianze di personaggi, e non solo, fino ai due articoli del 2012 sull’omaggio di 22 artisti ispiratisi alle sue poesie nella mostra a Palazzo Incontro che hanno concluso la nostra rievocazione basata sulle mostre ora citate. Oggi, in aggiunta ai 6 articoli sulle mostre a lui interamente dedicate, ripubblichiamo uno degli articoli del 2016 sulla “Quadriennale di Roma” che descrive, insieme ad altre, la sezione dell’esposizione dedicata alle opere di artisti ispiratisi alla sua “Orestiade”. Così termina la nostra personale celebrazione di una figura prima controversa ma ora universalmente esaltata e onorata.

Postato da arteculturaoggi.com [30/10/2016, 12,30]

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Altri tempi altri miti” della 16^ Quadriennale di Roma, al  Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, che torna dopo otto anni con 150 opere di 99  artisti  italiani contemporanei selezionati da 11 curatori, esposte in 10  sezioni sui temi intorno ai quali i curatori le hanno raggruppate spiegandone ampiamente le motivazioni. E’ stata organizzata dalla Fondazione della Quadriennale  presieduta da Franco Bernabè e dalla Azienda speciale Palaexpo cui fa capo il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, istituzioni che hanno curato anche il Catalogo, e fornito la copertura finanziaria con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. L’ENI è “main partner”della mostra, c’è una sua apposita installazione, mentre la BMW è “partner” con un’opera celebrativa, la “BMW Art Car” di Sandro Chia. .  

Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato ,2012-2016” Veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”,  settembre 2015,

Altre 3 sezioni,  “Orestiade italiana”, “Ad occhi chiusi ma aperti”, “De rerun rurale”,

Abbiamo già descritto le prime 4 sezioni della mostra, l’ultima delle quali ispirata a Tocqueville, e abbiamo anticipato  che un altro ispiratore  è Pier Paolo  Pasolini, nella sezione “Orestiade italiana”. Il curatore Simone Frangi si ispira  ai suoi  “Appunti per un’Orestiade africana”, analizzati per “recuperare il carattere propedeutico, ipotetico, di ricognizione e di risveglio politico”.  Di qui la scelta di artisti su temi come “studio dei conflitti latenti e della stasi europea; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioniste; micro fascismi, normalizzazioni sociali; legami ambivalenti tra approccio documentario e orientalismo culturale e multiculturale in prassi antropologiche ed etnologiche” e altri sul colonialismo, fino ai “fenomeni migratori trans-continentali intereuropei”, al “sincretismo religioso”, alla “resistenza politica e simbolica”. 

Diego Tonus, “Il baro”, 2016

Non abbiamo la velleità di individuare  le opere riferite ai temi specifici così enunciati, citiamo  per prima la spettacolare immagine di una sorta di “cave” moderna, “Helicotrema, veduta di una sessione d’ascolto al festival dell’audio registrato”, di Blauer Hase e Giulia Morucchio; poi la foto di epoca coloniale sovrastata dalla grande scritta “Has the ‘new man’ moved on to colonise our memory?”, di Alessandra Ferrini, dal titolo “Negotiating Amnesia”, e “Il Baro”,  di Diego Tonus, altra immagine coloniale. Tra le altre ritroviamo Nicolò Degeorgis, con le immagini “Hidden Islam”Vincenzo Latronico e Armin Linkeo con foto in bianco e nero di un viaggio in Etiopia, Danilo Correale e Blauer Hase il primo con un “libro d’artista”, il secondo con la pubblicazione  “Paesaggio”. Per il resto filmati e video, da Riccardo Arena a Invernomuto, Maria Iorio e Raphael Cuomo, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom, Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli;  

E’ un‘Orestiade che si avvale di tutti i mezzi  per approfondire lo sguardo. In questo tourbillon video e sonoro spicca l’efficacia cartesiana dei 4 diagrammi ” dai titoli intriganti, “Analogia senza rimpatrio” e “Allegoria senza malinconia”, “Etica generica senza identità” e “Via d’uscita”  nel segno dell’innocenza e della fiducia, un finale positivo, dunque.

Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d.

Il personaggio, cui si ispira Luca Lo Pinto,  curatore della sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti”, è Emilio Villa, che nel 1941 emise un giudizio sulla storia antitetico alla vulgata comune che “Historia est magistra vitae”, per lui “la Storia è uno sbaglio continuo che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedersi, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani”. E non si è limitato ad affermarlo, ha cercato di cancellare ogni riferimento temporale nelle sue opere per impedirne la storicizzazione, ed evitare ad ogni costo di entrare nella storia facendo di tale atteggiamento un valore esistenziale.

Questa premessa per inquadrare la sezione,  imperniata sull’esigenza di non farsi mistificare da ciò che si vede, come avviene con i fatti storici,  ma di aprirsi, chiudendo gli occhi, al sogno e alla meditazione che portano a percezioni fuori dell’ordinario e rimuovono ogni contraddizione. In questo senso l’anima è nelle cose, e gli artisti nelle loro opere che ne sono espressione  rivelano “un modo personale di guardare al mondo, insieme singolare e universale”. Di qui una sezione “archeologica”, che parte da un frammento di vetro dipinto con l’immagine di una vergine e una scritta a pennarello di Villa, in un greco indecifrabile.  L’esposizione è concepita “come un dispositivo di visione in cui tutte le opere, chiuse come ricci, possano vedere lentamente la luce e guardare negli occhi chi le osserva”, in una speciale dimensione temporale. Per Giorgio Andreotta Calò questa dimensione è quella della clessidra, l’immagine fotografica nella doppia versione dello scatto e nella sua trasposizione  si specchia su se stessa rivelando una doppia identità, mettendo in relazione “il sensibile e l’intelligibile”, sono 4 località in dissolvenza.

Roberto Cuoghi, “Pazuzu”, 2014

Se questo appare criptico non lo è da meno il “Poggiaschiena” di Martino Gamper, “Back to Front Chair (Single)”, e così le tre opere “Senza Titolo” in gomma e altro materiale di Nicola Martini, e il totem “Pazuzu” di Roberto Cuoghi. Mentre “Le storie esistono solo nelle storie” di Rà di Martino è un documento vivo e animato, che dall’archeologia riporta alla realtà presente.

Le restanti 4 sezioni entrano  ancora di più nell’attualità, a dispetto dell’erraticità e irrazionalità della creatività ontemporanea: si va dai mutamenti dell’ambiente alla cibernetica passando per il riciclo e le periferie,  una rassegna dei disagi e delle opportunità dell’attuale fase storica. Ciò vale per le enunciazioni e le motivazioni dei curatori, e lo abbiamo già visto nella presentazione del 6 giugno, mentre per le interpretazioni degli artisti siamo sempre nell’indeterminato e inconoscibile.

Danilo Correale, “The Great Sleeper”, 2008

“De Rerum rurale” non si riferisce al mondo agricolo, come potrebbe sembrare, Matteo Lucchetti vi ricomprende quelle aree sempre più vaste in cui si perdono i confini tra città e campagna, come i centri commerciali e le villette con il verde ai margini delle città, le valli e i terreni di discarica, e quant’altro di urbanizzato al di fuori dei centri e in contatto con la campagna. Il terreno agricolo  è stato decimato dal consumo di suolo connesso alla cementificazione urbana, fino ad esporre il territorio ai rischi del dissesto, un “rurale continuo” che si sottrae ad ogni regola di protezione. 

La sezione ispirata  al “De rerum natura” di Lucrezio interpreta la natura in chiave rurale: “Come ambiente in crisi e biisognoso di nuove narrazioni, come luogo abitato da comunità in conflitto tra loro o, ancora, come spazio ibrido, in divenire, dove la metamorfosi tra stati è generativa di scenari inediti e trasformativi”. Ben 14 artisti sono mobilitati  intorno a questo tema, distribuiti in tre spazi nei quali l’allestimento passa dall’ordine all’accumulo e all’entropia, cioè dalla disciplina alla frenesia, seguendo Lucrezio secondo cui la natura prima crea e alimenta, poi accresce, infine distrugge.  Oltre agli oggetti semplici e ordinati di Anna Scafi Eghenter, tra cui una serie di righelli sagomati, le “Matrici irregolari”, e un contenitore di “acque internazionali”, “Res communis omnium”, vediamo evocati gli abusi delle multinazionali e le minacce al paesaggio. Di Adelina Husni-Bej, che ritroviamo nella sua terza sezione, un  manifesto recante una ideale convenzione sull’uso dello spazio con tante annotazioni colorate, frutto di approfondimenti del tema, cui accostiamo il racconto di due viaggi molto speciali  di Rossella Biscotti.  

Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”

Molto diverse  le opere di Valentina Vetturi sugli hacker,  installazione luminosa e “coro a cadenza casuale”, e di  Danilo Correale, che con il titolo “The Great Sleeper” presenta la figura di Edison addormentato tra strumenti di misura del riposo nello sfruttamento capitalistico del lavoro. Da un ordine così inquietante si passa alla formazione di comunità come difesa collettiva, che gli artisti presentano con  installazioni e performance, così Marzia Migliorai visualizza l’assenza con le pannocchie abbandonate,Elena Pugliese fa rivivere la storia estrema dell’imprenditore Isidoro Danza, rapinatore  per pagare i suoi operai, cui segue la storia  di Simone Pianetti che uccise i simboli del potere e divenne mito degli anarchici, nell’installazione di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio. Più pacifiche le storie comunitarie di Beatrice Catanzaro, su un’associazione di donne per donne, e di Marinella Senatore, con i suoi strumenti  per stimolare la partecipazione, foto, collage, ecc.

Lo spazio del disordine entropico cerca di rendere i turbinosi cambiamenti nel mondo agricolo con riferimento anche alle antiche mitologie rurali. Queste sono evocate da Moira Ricci, in “Da buio a buio”, museo immaginario di immagini in bianco e nero dei contadini maremmani, mentre l’installazione di Leone Contini  celebra con vivace cromatismo “Un popolo di trasmigratori”. La varietà delle forme artistiche comprende il busto di un agronomo giapponese intitolato alla sua  “Rivoluzione del filo di paglia” con immagini di “Riso amaro”, di Michelangelo Consani, e un film di Nico Angiuli sulla “Cerignola di ieri dentro quella di oggi”, con lo sfruttamento dei migranti che cancella le lotte vittoriose del passato. Ai migranti si riferisce anche l’opera di Luigi Coppola, “Dopo un’epoca di riposo”, che documenta , con video e stendardi, la riqualificazione di aree degradate a discarica convertite con culture miste, “scelte dal terreno”  più che dall’agronomo, in un’integrazione naturale metafora di quella con i migranti.

Paolo Icaro, “Pile Up”, 2008 (1978)

Le ultime tre sezioni,  “Periferiche”, “La seconda volta” e “Cyphoria”

Dal rurale inteso anche come estensione abnorme dell’urbano alle “Periferiche”,  un tema che in passato ha interessato pittori come Mario Sironi il quale ha evocato le “periferie”  con intensi dipinti nei quali si sente la solitudine. La curatrice Doris Viva afferma che occorre sfatare l’illusione di una loro vitalità data da un policentrismo positivo, la globalizzazione schiaccia ogni cultura localizzabile e quindi identitaria. “Periferia, in una geografia ormai delocalizzata e interconnessa, non può che ritenersi quel luogo incapace di attrarre investimenti, privo di grande valore strategico e soggetto a fenomeni sociali, demografici e culturali tutt’altro che dinamici”; perciò si apre una “fase di riconfigurazione della quale è impossibile allo stato attuale prevedere il destino”.  Tutto questo si riflette anche sugli artisti, che vedono smarrire la loro identità nell’omologazione globale, ma possono anche “documentare o criticare tali processi, sollecitare discorsi di consapevolezza e di coscienza politica, oppure, a partire dalla scala della propria singolarità, tentare vie di mobilità e di emancipazione”. 

Gli 8 artisti prescelti hanno deciso di operare in periferia per ripararsi dalla globalizzazione e sentire la linfa della  loro eterogeneità, senza però ostentare questa posizione “dislocativa” che pure li alimenta.  Hanno in comune “la rivendicazione di un tempo più biologico e meditato” e “una forma di più radicale attenzione a un’antropologia del quotidiano, a un’umanità poco dinamica”,  la “vocazione della loro ricerca per la reiterazione”,  e “l’assoluta indifferenza per l’evoluzione tecnologica”.

Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim”, 2013

Colpisce  la lunga cassa coperta di riquadri ad uncinetto colorati, “coperta di lana e zucchero”, intitolata Sim Sala Bim”, di Giulia Pisciatelli,  e la catasta di travi di Michele Spanghero, “Listening is Making Sense”, la colonna piramidale in gesso di Paolo Icaro, “Pile Up”, e il trittico “Paesaggi” di Maria Elisabetta Novello.  Poi il bianco e nero “Volti dell’anonimo” di Paolo Gioli, che espone anche “Luminescenze”, fino al “Massimo Ritratto” e agli “Affreschi su Impressione” di Emanuele Becheri“Parte della superficie terrestre” di Carlo Guaita è una borsa sul pavimento, come se fosse smarrita o dismessa.

E così dalle “Periferiche” passiamo alla sezione “La seconda volta”, che essendo ispirata al riuso dei materiali scartati, in un certo senso si associa al senso di marginalità attribuito al periferico. Ma come le periferie diventano fondamentali in una visione equilibrata della città, così il riuso acquista un ruolo centrale nel riequilibrare gli eccessi del consumismo che distrugge risorse non sempre riproducibili. Gli scarti sono stati definiti “la faccia tragica del consumismo” e hanno attirato anche gli artisti nel riciclo e assemblaggio, tra loro  ricordiamo i legni abbandonati dell’americana Louise Nevelson,  i residui bellici del libico Wak Wak, i rifiuti da discaricadell”italiano Alessio Deli; ben prima, il riuso con finalità artistiche ha fatto nascere il collage, sin dai Futuristi,  e il “ready made”, Marcel Duchamp avanti a tutti. Ma a parte quest’ultimo, che ha nobilitato oggetti di uso comune, i materiali di recupero sono stati impiegati al servizio dell’arte soprattutto scultorea al posto  di quelli tradizionali. Invece,  i  5 artisti presentati nella sezione curata da Cristiana Perrella, non scolpiscono né dipingono, si avvicina al “ready made” Martino Gamper con le sue “100 sedie in 100 giorni” , “trovate, smontate e riconfigurate”; mentre un riuso originale di una statua classica, traducendo il marmo imperiale in poliuretano, lo troviamo in Francesco Vezzoli, che in “Metamorfosi (Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia)”,  ha sostituito con il calco del proprio volto il viso dell’Apollo del Belvedere mantenendo intatto il resto della statua. 

Lara Favaretto, “032-2012”, 2015

L’opposto fa Lara Favaretto che punta sulla cancellazione di un’opera, più che sulla reiterazione,  in forme transitorie  che ne fanno trasparire qualche traccia per farla riemergere in un ciclo reversibile, “Dipinti trovati, lana” sono tre tele rosse con dei contorni sottostanti appena delineati, come quelli di ripensamenti, ci tornano in mente il minimalismo con Rauschenberg e, in tutt’altro senso, le “cancellature”  di Isgrò. Mentre A1ek O. espone oggetti o materiali presi dalla quotidianità, in qualche caso anche personale o familiare, per dare loro una nuova vita che mantiene il retaggio di quella precedente con interventi minimali, spesso assemblaggi operati artigianalmente. Così nelle greche di “Tina” e in “E’ già mattino”, una parete derivata dai manifesti, foderata di celeste con applicazioni dai colori brillanti. Ma il più spettacolare, quanto più elementare, ci è sembrato  “Himalaya” di Marcello Maloberti, un giovane apollineo a torso nudo accovacciato a terra, vera scultura umana, intento a ritagliare dai libri d’arte le foto di sculture classiche, cosparse sul pavimento per essere calpestate e spostate dai visitatori: venendo mosse in modo casuale e continuo danno il senso dell’imprevedibilità della vita.

E siamo all’ultima sezione, nel nostro personale percorso non può che essere “Cyphoria”, dove il curatore Domenico Quaranta affronta il tema del futuro che è già iniziato. Quello della “disforia”, cioè il disagio  e l’insoddisfazione, applicata alla cibernetica, in particolare a Internet che ha stravolto tutti i campi e i momenti della vita diventando in molti casi quello che Gene McHugh ha definito “non un posto del mondo in cui rifugiarci, ma piuttosto quello stesso mondo da cui cercavamo rifugio”.  E’ stata così rapida e pervasiva la sua diffusione, anche con gli strumenti di comunicazione più avanzati che si sono moltiplicati, come i “social network”, che non si riesce a dominare un mondo virtuale dalle parvenze del reale né a decodificarne i linguaggi e a contenerne l’influenza.

Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto
come Apollo che uccide il satiro Marsia”)

Anche nell’arte questa nuova forma di espressione si è diffusa  come tecnologia innovativa; ma pochi, osserva il curatore, “realmente affrontano la questione di cosa significhi pensare, vedere e filtrare le emozioni attraverso il digitale”.  Tra loro, i 14 artisti  presenti in questa sezione della mostra, che esplorano la nuova sconvolgente condizione umana sotto diversi aspetti critici a livello pubblico e privato, passando dalle problematiche generali alle reazioni intime.

Sarebbe arduo cercare di descrivere le opere presentate, per lo più si tratta di video, film o di installazioni molto elaborate, ci limitiamo a citare dei titoli, in relazione ai temi esplorati. Eva e Franco Mattes con i video di “Befnoed”  parlano della “nuova schiavitù”  con lo sfruttamento del lavoro via Internet, tema trattato anche da Elisa Giardina Papa in “Technologies of Care”, un video sulle lavoratrici “on line”. Enrico Boccioletti in “Angelo Azzurro” entra, sempre con un video, nella disperazione generazionale, mentre della zona grigia tra arte e spazzatura mediale si occupa Roberto Fassone insieme a Valeria Mancinelli con l’archivio video “The Importance of Being Context”, al quale accostiamo il tema che il collettivo “Alterazione video” sviluppa con il turbo-film “Surfing With Satoshi” e l’installazione “Take Care of the One You Love”.  “Overexposed”, di Paolo Cirio e Giovanni Fredi, con i ritratti di membri della CIA viola il loro privato come l’agenzia di intelligence fa regolarmente nella sua attività spionistica, mentre Fredi presenta dei “selfi” che si moltiplicano sul web in “Everyone Has Something to Share”.

Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share”, 2015

Un approccio visivo delicato quello di Simone Monsi con la serie “Transparent Word Banners” e di Kamilia Kard con “Betrayal”, mentre in “My Love is Religious – The Three Graces” esplora l’amore “on line”.  Mara Oscar Cassiani con l’installazione “Eden” si cimenta sulla ricerca del relax, la cura dell’acqua e la mercificazione della cura del corpo, e Natàlia Trejbalovà con il video “Relax” e un’installazione denuncia i rischi ambientali e climatici a cui reagire con piccoli sistemi eco-domestici. Vi colleghiamo Marco Strappato che indaga sui cambiamenti dell’immagine del paesaggio e sul modo in cui le arti plastiche reagiscono con la forma-schermo, e lo fa in una stampa e armadietti con schermi dal titolo “Apollo and Daphne e Laocoon”, tema che troviamo in evidenza nella scultura di Quayola, “Laocoon”,  un clone dell’originale di grandi dimensioni, rispettoso dell’antico, con effetti di digitalizzazione; è una presenza spettacolare di forte rilievo scultoreo, come di  forte rilievo pittorico sono i quadri del ciclo “The Brotherhood” di Federico Solmi,  video animazioni di figure di leader dalle maschere grottesche come i generali di Enrico Baj, che nella loro vistosa presenza  disvelano quanto la  finta  fratellanza sia fonte di caos e degenerazione.

La “centesima” opera esposta, la “BMW Art Car” di Sandro Chia, con cui si celebra il centenario del gruppo automobilistco  e il mezzo secolo della sua presenza in Italia, è il fuoco d’artificio finale di una mostra che fa sentire proiettati nel futuro. L’arte associata alla tecnologia conclude un percorso in cui non è mancato l’elemento umano: anche figure umane maschili  e femminili accoccolate la cui serietà e compostezza nella postura allontana ogni possibile associazione con l’irridente scena delle “Vacanze intelligenti” di Alberto Sordi, in cui la “sua signora” seduta viene scambiata per una scultura vivente. 

Del resto anche così  l’arte contemporanea, che nella rutilante esposizione abbiamo visto declinata in un tourbillon di manifestazioni con l’impiego dei materiali più diversi e delle forme espressive più varie, fa riflettere seriamente sul futuro.

Ed è questo il merito della  mostra  nella prospettiva del  rilancio permanente della Quadriennale romana negli spazi ristrutturati del settecentesco  Arsenale Pontificio.    

Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces”

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni a studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.  Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5;  dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Gli altri 2 articoli  sulla mostra sono usciti in questo sito il  24 e  27 ottobre,  l’ultimo articolo, sul confronto tra curatori, uscirà  il 29 novembre 2016; l’articolo di presentazione della mostra è uscito il  16 giugno 2016. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli.  in questo sito,  su Pasolini, 16 novembre 2012, 27 maggio e 15 giugno 2014, 27 ottobre 2015, su Duchamp gennaio 2014, Nevelson 25 maggio 2013, Wak Wak 27 gennaio 2013, Deli  21 novermbre 2012 e 5 luglio 2013, Isgrò 16 settembre 2013, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2012, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in “fotografia.guidadel consumatore.it”, per Pasolini  4 maggio 201, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli aaranno ricollocati.

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 2 immagini per ogni sezione, riportate nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo. In apertura,  Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato 2012-2016”, veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”  settembre 2015, seguito da Diego Tonus, “Il baro” 2016; seguono, Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d., e Roberto Cuoghi, “Pazuzu” 2014; quindi, Danilo Correale, “The Great Sleeper”, e Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”, inoltre, Paolo Icaro, “Pile Up” 2008 (1978), e Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim” 2013; ancora, Lara Favaretto, “032-2012”, 2015, e Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto come Apollo che uccide il satiro Marsia”, infine, Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share” 2015, e Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces” 2016; in chiusura, Marcello Maloberti, “Himalaya” 2012. 

Marcello Maloberti, “Himalaya”, 2012

Pasolini, 6. Altri 14 artisti per 7 sue poesie, al Palazzo Incontro

Si conclude la nostra personale celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini con l’ultimo dei 6 articoli che abbiamo ripubblicato sulle mostre a lui dedicate visitate nel decennio scorso, cominciando il 5 marzo, il giorno della ricorrenza nel quale abbiamo rievocato la mostra del 2012 di Monica Cillario – sulla sua prima abitazione romana – e proseguendo nei quattro giorni successivi con i nostri due articoli sulla mostra del 2014 “Pasolini Roma” al Palazzo delle Esposizioni – sulla sua figura di poeta e scrittore, saggista e regista, e le vicende della sua vita stroncata tragicamente – seguiti dall’articolo sulla mostra del 2015 “I tanti Pasolini” a “Spazio 5” – sulla sua immegine nelle fotografie di Carlo Riccardi, testimonianze di personaggi, e non solo – , fino al primo dei due articoli sull’omaggio di 22 artisti ispiratisi alle sue poesie nella mostra del 2012 a Palazzo Incontro al quale segue l’articolo odierno che conclude la nostra rievocazione sulle mostre a lui dedicate. Ma non finisce qui la nostra personale celebrazione, avrà un seguito domani con l’articolo che descrive, insieme ad altre, la sezione della “Quadriennale di Roma” del 2016 dedicata alle opere di artisti ispiratisi alla sua “Orestiade”.

Postato da arteculturaoggi.com [16/11/2012 00:42]

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini” al Palazzo Incontro di Roma dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,promossa dalla Provincia di Roma su progetto di “Teorema”, in collaborazione con “Civita”, con le opere di 22 artisti contemporanei ispirate ad 11 poesie di Pasolini esposte anch’esse al loro fianco . In precedenza abbiamo esposto le motivazioni della mostra presentata da Nicola Zingaretti con i realizzatori Gianni Borgna, Achille Bonito Oliva e Flavio Alivernini curatore anche del Catalogo.

L’opera di Veronica Botticelli  

Da “La religione del mio tempo” a “Marilyn”

Abbiamo già  descritto i primi 4 abbinamenti tra poesie e interpretazioni di una coppia di artisti ciascuna: il primo da “Le ceneri di Gramsci”, gli altri 3 da “La religione del mio tempo”, 1959-60, con 8 artisti impegnati a tradurre in immagini visive le espressioni poetiche dai forti contenuti.

Passiamo agli altri 7 abbinamenti, iniziando con  “Alla mia nazione” ,tratta  ancora da “La religione del mio tempo”, “Nuovi epigrammi”. Contiene un’altra aspra invettiva, dopo quella “A un papa” di cui abbiamo detto in precedenza. La nazione viene definita in termini severi, terra di “milioni di piccoli borghesi come milioni di porci”, i cui esponenti, dai governanti agli impiegati, dagli agrari ai prefetti, ai funzionari, sono “affamati, corrotti”. Per questo “proprio perché sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente”.  E in quanto “colpa di ogni male”, da nazione cattolica, ecco l’invettiva: “Sprofonda in questo bel tuo mare, libera il mondo”.

Gianni Dessì, in “Lucciola” ne dà un’interpretazione enigmatica, una scultura in ceramica scura con due mani annodate che però non pregano, si stringono ma lasciano un varco, buono per la lucciola. Il “Campionario” di Elena Nonnis esprime la molteplicità dei soggetti evocati dalla poesia con 20 ritratti a penna e in filo nero su tela di lino, una scacchiera di tipi umani di ogni età e condizione.

Il “Frammento alla morte”, dalle “Poesie incivili”, del 1960,  è un’invocazione “vengo da te e torno a te” in cui ripercorre la sua vita “battezzato quando il vagito era gioia”, in un accavallarsi di sentimenti: “Ho camminato alla luce della storia, ma, sempre, il mio essere fu eroico, sotto il tuo dominio, intimo pensiero”. Le sue contraddizioni:  “La furia della confusione, prima, poi la furia della chiarezza; era da te che nasceva, ipocrita, oscuro sentimento!”. Con la morte che dà forza all’esistenza: “Tu mi isoli, mi dai la certezza della vita”.  Fino alla reazione alla nevrosi che “mi ramifica accanto, l’esaurimento mi inaridisce , ma non mi ha: al mio fianco ride l’ultima luce di gioventù”. E dopo tanto vissuto l’esclamazione finale: “Africa! Unica mia alternativa…”.

La seggiola dalla spalliera con la scritta “1922-1975”,di Veronica Botticelli è più di un epitaffio: la sedia è fragile per la sua esistenza precaria ma è da regista perché la sua opera ha lasciato il segno, è vuota per la perdita incolmabile. In “Senza titolo” di Nunzio, due corpi neri lignei sovrapposti sfalsati mostrano gli opposti confluiti nella sua poesia, che hanno però un sottile punto di incontro.

Resta la morte con “Marilyn”, del 1962,  la poesia è un inno accorato alla bellezza, di una “sorellina minore”  restata bambina: “Fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente”. E si approfittò delle sue debolezze: “Impudica per passività, indecente per obbedienza. L’obbedienza richiede molte lacrime inghiottite. Il darsi agli altri”.  Per questo “sparì, come una bianca ombra d’oro”, un “pulviscolo d’oro”. E “la tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne così un male” . Ma  “sei tu la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte”

Franco Gulino in “Pasolini”  interpreta la Marilyn del poeta così ricca di significati con una figura inquietante, un  corpo femminile dalle lunghe gambe inguainate esibito senz’anima né sesso, il belletto sul viso pasoliniano angosciato dà all’immagine un tono grottesco fra il trans e il clown triste.  Di Laura Canali “Alle radici dell’essenza”, una composizione di forme e colori mossa e vivace, che vorrebbe rendere il fluire dei moti dell’anima,  in una brillante  astrazione pittorica..

L’opera di Giosetta Fioroni

Da “Poesia in forma di rosa” a  “Transumar e organizzar”

In “Poesia in forma di rosa. La realtà” è contenuta  “Supplica a mia madre”, un’invocazione struggente in un rapporto assoluto, esclusivo: “Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore”. E aggiunge: “Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”.  Insiste sulla forza di questo “impegno immenso”, che era “l’unico modo per sentire la vita” fino a quando questo è finito, con “la confusione di una vita rimasta fuori dalla ragione”.  Per questo ” è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”.

“Gloria”  di Enzo Dubini rende questo sentimento esclusivo con nove elmetti militari sui quali sono delineati in pittura acrilica i contorni prenatali trasformando il simbolo della guerra in un sacco marsupiale protettivo. Giosetta Fioroni intitola con il verso del poeta “E’ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia” una scultura nera con una parte inferiore squadrata e una parte superiore informe e delle mani dorate che ne escono assicurando un approdo  e un contatto rassicuranti.

“La Guinea” è tratta dalla stessa raccolta, inizia con un omaggio alla poesia, “alle volte è dentro di noi qualcosa  di buio in cui si fa luminosa la vita”; diventa una visione onirica di ambienti esotici colorati con una negritudine che ha i caratteri della bellezza, poi il pensiero va al proprio mondo perduto,  la Grecia, Roma e “i piccoli centri immortali”, rispetto a “questo popolo ormai dissociato da secoli”  verso cui “la mia ingenua rabbia non è competitrice”.

Fino al risveglio in terra italiana con i prati  bianchi e i “ruderi consumati da rustiche piogge e liturgici soli”, che lo fa esclamare: “La Negritudine è in questi prati bianchi, tra i covoni dei mezzadri, nella solitudine delle piazzette, nel patrimonio dei grandi stili – della nostra storia”.  E splende anche il sole: “Un sole che morendo ritira la sua luce, certa allusione a un finito amore”.

Questo messaggio così intenso non arriva al destinatario, circostanza su cui  fa leva Giuseppe Pietroniro  interpretandolo come “Un messaggio mai recapitato”:  una busta con la parte trasparente dell’indirizzo dalla quale si intravede un contenuto affastellato di falci di luna e simulacri di vita, imprigionato nella lettera che a sua volta è chiusa nella cornice, in una doppia compressione. Mentre Nino Giammarco prende come titolo il verso “Io muoio, ed anche questo mi nuoce” in cui c’è la reazione all’indifferenza e all’insensibilità del nostro popolo anche di fronte alle tragedie, e lo declina in un un‘opera in ferro saldato a forma di tempio violentemente scoperchiato per liberarsi dalle false protezioni, superare stereotipi e tabù e liberarsi dal fardello di un passato ingombrante.

“La poesia della tradizione”  fa parte di “Transumar e organizzar”, in particolare dei “Poemi zoppicanti”.  Si rivolge alla “generazione sfortunata”  e alle sue illusioni rivoluzionarie in un mondo che chiedeva “ai suoi nuovi figli di aiutarlo a contraddirsi per continuare”: un  mondo “rinnovato attraverso le sue reazioni e repressioni, ma soprattutto attraverso voi che vi siete ribellati proprio come esso voleva”. Portando il giovane alla maturità e alla vecchiaia “senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere e che non si gode senza ansia e umiltà”; con la disillusione “di aver servito il  mondo contro cui ‘portavi avanti la lotta’”. E dopo un’amara riflessione sull’autorità paterna, “oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano una meravigliosa vittoria che non esisteva!”.

“Il corvo” di Mauro Di Silvestro  incarna  le disillusioni per i simboli e gli ideali marxisti nel nero volatile di “Uccellacci e uccellini”, al centro di una tavola dipinta a scacchiera con cubi dalle facce nere, rosse e beige mentre una falce e martello capovolta visualizza la crisi dell’ideologia comunista e una scritta identifica il corvo nell’intellettuale di sinistra e rimanda alla morte di Togliatti.  Assenza di colore nella superficie bianca con testa in rilievo in “Conversazione” di Oliviero Rainaldi: è la perdita di valori, identità e possibilità di comunicare della “generazione sfortunata”, attraverso un calco facciale senza fisionomia, staccato dal corpo; quindi un intellettualismo sterile e impotente, senza gambe per  far camminare le idee, quasi un’impersonale maschera di attore.

Della stessa raccolta “Transumar e organizzar”, libro secondo “Charta (sporca)”,  abbiamo l’ultima poesia proposta agli artisti, “Versi del testamento”, una straordinaria riflessione fortemente autobiografica sulla solitudine, che porta agli incontri effimeri e illusori e anche alla solidarietà..

 “Bisogna essere forti per amare la solitudine”, perché spinge a girare senza sosta alla ricerca di un qualcosa che possa alleviarla. Non bastano i fugaci incontri, anche amorosi, “non sono che momenti della solitudine” e  la accentuano: “Chi poi se ne va  si porta dietro una giovinezza enormemente giovane; e in questo è disumano perché non lascia tracce”. Tanto più numerosi gli incontri quanto più si resta soli: “La solitudine è ancora più grande se una folla intera attende il suo turno”. Nel giovane “è il mondo che così arriva con lui, appare e scompare, come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose”.  E al termine  un pensiero filosofico in cui la negazione diventa affermazione: “E allora cosa ti aspetta se ciò che non è considerato solitudine  è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?”: la ricerca “senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”. Qui la solitudine diventa solidarietà, la vera ancora di salvezza.

Sono due opere fotografiche ad esprimere in linguaggio figurativo questi contenuti filosofici  e insieme personali. “Più caldo e vivo è il corpo gentile” è un verso con il quale Matteo Basile intitola l’immagine di una dolente figura femminile  con il viso sofferente dai lineamenti orientali avvolto da un fazzoletto rosso, lo sguardo a terra mentre spunta un seno dal corpo giovane  già molto vissuto. Sono questi gli incontri che si fanno con la soddisfazione di scoprire la solidarietà. La fotografia “Senza titolo” di Claudio Abate  raffigura la solitudine nell’uomo che fuma seduto dietro a un tavolino nella stanzetta in una specie di tunnel oscuro nel quale, però, non è del tutto solo:  gli fa compagnia la luce che spiove sul tavolo da una lampadina accesa e dà consistenza allo spazio, si irradia nelle volute di fumo che sembrano ectoplasmi emessi dai suoi pensieri; potrebbe essere l’immagine della sua stessa solitudine riscaldata dalle sue riflessioni profonde e illuminate.

L’opera di Oliviero Rainaldi

Cosa è rimasto oggi di quello che ha detto quando c’era

Abbiamo riportato alcuni  tratti essenziali delle poesie di Pasolini pur perdendone nell’estrema sintesi la verve polemica e la forza di una denuncia gridata con il cuore e l’anima, spesso con toni disperati. Sulle interpretazioni artistiche ci siamo limitati a render conto delle componenti visive, aggiungiamo che la qualità delle opere  è spesso notevole, così il loro grado di accuratezza.

Però non possiamo esimerci dal dare la nostra impressione complessiva sui contenuti:  ebbene, ci è parsa, nella gran parte delle opere, più una esercitazione artistica pur impegnativa e sentita che una immedesimazione autentica, non vi abbiamo visto riflessa la denuncia accorata del poeta, la sua rabbia esistenziale, il suo allarme epocale gridato a viva voce. Non crediamo sia stata mancanza di coraggio, bensì il venir meno della straordinaria spinta ideale e vitale legata all’unicità e singolarità del personaggio che sentiva sulla sua carne i morsi lancinanti di una realtà che respingeva. Questo non incide sulla caratura degli artisti e sul risultato dell’esperimento compiuto sotto il profilo della qualità espressiva; innalza invece ancora di più la statura e moltiplica il valore dell’opera di Pasolini che si conferma dopo questa verifica come irripetibile e ineguagliabile. Per cui le sue poesie e la sua stessa vita assurgono a testimonianze insostituibili di una presenza vitale perduta per sempre ma per la sua unicità divenuta una pietra miliare nella storia della nostra società e della nostra epoca.

All’interrogativo di Alivernini “cosa è rimasto oggi  di quello che ha detto quando c’era”  possiamo  dare quindi questa risposta: un convinto omaggio artistico di alta qualità al personaggio e alla sua battaglia civile, intriso di ammirazione oltre che di rispetto, ma con poca motivazione autentica e tanto meno mobilitazione sui temi che lo hanno visto mettere la propria vita in gioco, e diventare il “bersaglio emblematico”  di cui parla Bonito Oliva. Non a caso tra le più espressive ci sono apparse le interpretazioni della solitudine e della solidarietà con quelle del senso materno; tra le meno efficaci quelle sulle  materie in cui la sua vis polemica era stata  più sferzante fino a divenire feroce.

Detto questo come impressione generale, dobbiamo aggiungere che tra tutte ci è rimasta dentro la composizione funebre di Kounellis, la casacca sdrucita sulla fredda portantina a terra, triste  “monumento” funebre di tante morti di poveri emarginati e derelitti ed anche della sua fine solitaria e desolata quasi a volerle condividere: oscura ma illuminata dai fiori rossi dell’amore dei giusti.

Concludiamo il rapido excursus tra i suoi versi e la trasposizione artistica con la citazione molto appropriata  di Alivernini dal “Trattato della pittura”  di Leonardo da Vinci sul rapporto tra poesia e pittura: “La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede”. Insieme “hanno scambiato i sensi, per i quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto”. Ed è proprio quello che avviene con la mostra, nel segno del nume tutelare Pier Paolo Pasolini.

Info

Palazzo Incontro, Roma, via dei Prefetti, 22, dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,  martedì-domenica ore 11,00-18,00,  entrata fino alle 17,30, lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel.  Palazzo Incontro  06.97276614; “Teorema” 392.2984.600. Info@teoremacultura.com, http://www.teoremacultura.com/. Catalogo:  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, a cura di Flavio Alivernini, Fandango libri, Roma  ott. 2012, pp. 126 euro 20,00. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito l’11 novembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Incontro, si ringrazia la Provincia di Roma, “Teorema ” con Civita, Fandango e i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’opera di Veronica Botticelli, seguita dalle opere di  Giosetta Fioroni, poi di Oliviero Rainaldi; in chiusura l’opera di Claudio Abate.

L’opera di Claudio Abate