Gianni Testa, 2. I recessi corruschi dell’Inferno, al Museo Crocetti

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa che espone al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022, 101 dipinti a olio, uno per ogni canto, cominciando dall’ Inferno: 34 dipinti con la forte intensità cromatica e materica propria dell’artista, ciascuno riferito a una terzina ispiratrice che viene indicata espressamente. E’ possibile acquistare due stampe numerate fino a 100. La mostra è organizzata da Chiara Testa, che l’ha anche curata, catalogo di  Gangemi Editore Internazionale, una straordinaria galleria dal forte cromatismo con il fascino della cornice nera e l’inquadramento nei Canti e nei versi ispiratori.

Canto 8°, versi 112-114

Raccontare la mostra – dopo averla inquadrata nel suo alto valore simbolico e artistico con riferimento all’eccezionalità del suo contenuto e delle sue motivazioni a chiusura del 7° centenario dalla morte di Dante – è come ripercorrere il viaggio dantesco degli anni di scuola attraverso i dipinti evocativi con i versi ispiratori che rappresentano vere e proprie didascalie, autore addirittura il sommo Poeta.

Ma non è solo emozione retrospettiva: nei due terzi dei dipinti sull’Inferno c’è una dominante rossa che incombe sulle figure di Dante e Virgilio, e su quelle ancora più inermi dei dannanti quando emergono dai recessi corruschi. Il pensiero va alle immagini quotidiane delle esplosioni dei missili e delle bombe sulle popolazioni delle città ucraine, lo stesso rosso violento sugli inermi, è come se l’artista avesse dipinto l’inferno di oggi.

Cominciamo dall’Inferno la nostra carrellata dantesca sui 34 dipinti con i versi ispiratori in corsivo, mentre gli altri versi in tondo hanno per lo più ispirato ulteriori dipinti dell’artista che espone un solo dipinto per Canto.

I Canti iniziali, dal 1° all’11°

Si inizia con l’ingresso di Dante, apertosi il varco tra un  intreccio  arboreo  con i colori che si avviluppano come liane;  al di là dell’apertura  ancora rischiarata dalla luce si sentono risuonare i  versi del  Canto 1°: “Nel mezzo del cammin di nostra vita/ mi ritrovai per una selva oscura/  ché la diritta via era smarrita” (vv. 1-3). Poi, mentre crede di poter ritrovare la giusta direttrice sul colle della purificazione, tre belve lo ostacolano e Virgilio, espressione della ragione, gli preannuncia che gli farà da guida in un lungo percorso, tra i dannati e i penitenti.  

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Canto 2°, vv 70-72

L’angosciosa oscurità della selva è rotta come per incanto da  un’immagine luminosa, “I’ son Beatrice che ti faccio andare;/ vegno del loco ove tornar disio:/: amor mi mosse, che mi fa parlare” (vv. 70-72): è il Canto 2°, la dolce figura femminile  ha le braccia  aperte nella sua bellezza eterea, il Poeta  la guarda trasognato mentre è circonfusa  di un cerchio di luce  tra il rosso incombente che accende il buio tutt’intorno di  bagliori fiammeggianti. E’ stata Beatrice a chiedere a Virgilio di accompagnare Dante, per il volere della Vergine Maria e l’intercessione di Santa Lucia.

Con la terza immagine la scena cambia, “Ed ecco verso noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: ‘Guai a voi, anime prave!’” (vv. 82-84). E’ il Canto 3°,  “Caròn dimonio dagli occhi di bragia” è  ritratto  in piedi sulla sua barca  mentre  i dannati  aspettano in lontananza di essere traghettati sul fiume Acheronte,  in un clima tempestoso, cupo e infiammato. Ci sono gli ignavi, con Celestino V, “che per viltade fece il gran rifiuto”, poi un terremoto scuote la terra.

Siamo ora al Canto 4°, il Poeta svetta con lo sguardo proteso su un panorama di anime vaganti, un’immagine spettacolare e nel contempo di grande intensità: “…e l’occhio riposato intorno mossi/ diritto levato, e fiso riguardai/ per conoscer lo loco dov’ io fossi” (vv. 4-6): è nel Limbo, dall’alto vede l’espressione del  “duol senza martiri” di chi “non aveva pianto mai che di sospiri”; tra le piccole figure che si muovono in basso ci sono  Omero e Orazio,  Ovidio e Lucano.

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Canto 3°, vv 82-84

E’ ’ sempre ritto come una statua nel  Canto 5°,  in un forte cromatismo contrastato tra il rosso  e il blu,  il bianco e l’azzurro. L’artista è ancora colpito dai versi che descrivono l’angoscia suscitata dall’ambiente infernale, “Io venni  in luogo d’ogni luce muto,/ che mugghia come fa mar per tempesta/ se da contrari venti è combattuto” (vv. 28-30). E’ il cerchio dei lussuriosi, ci sono Achille ed Elena, Cleopatra e Didone, e soprattutto Paolo e Francesca. L’artista non ritrae “quei due che ‘nsieme vanno/ e paiono sì al vento esser leggieri”,  ma li fa sentire con forme fluttuanti  che si intravedono in volo nell’atmosfera corrusca;  mentre il  Poeta non cade subito “come corpo morto cade”,  intanto si copre gli occhi perché non regge alla vista dopo la loro storia, come Ulisse si chiuse le orecchie per resistere al  canto delle sirene.

 Nel Canto 6°, “Cerbero, fiera crudele e diversa,/ con tre gole caninamente latra/ sopra la gente che quivi è sommersa” (vv. 13-15), è il cerchio dei golosi, il Poeta con Virgilio guarda, oltre a Cerbero,  abbacinato dalla luce in uno scenario di fuoco, uno dei peccatori a terra che gli dice “riconoscimi, se sai….”: è un fiorentino irriconoscibile nel fango, che gli parla della condanna all’Inferno dei politici della sua epoca e gli rivela il proprio nome nei versi 52-54: “Voi cittadini mi chiamaste Ciacco;/ per la dannosa colpa della gola,/ come tu vedi alla pioggia mi fiacco”.

Dai golosi ai prodighi e avari nel Canto7°,  con Pluto di guardia all’ingresso che spaventa Dante ma viene fatto tacere da Virgilio, non è questo che ispira l’artista e neppure i grossi massi che i dannanti devono rotolare, bensì i versi “ E io, che di mirare stavo inteso, vidi genti fangose in quel pantano, ignude tutte, con sembiante offeso” (v.v 109-111)Di qui le figure femminili rappresentate nude con i piedi nell’acqua che suscitano tenerezza per il pudore e la ricerca di calore stringendosi le une alle altre, le loro tinte delicate contrastano con il forte cromatismo che incombe sulla scena.   

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Canto 4°, vv 4-6

Dopo i prodighi e gli avari, ecco gli iracondi nel Canto 8°, ci sarà  Flegiàs, il traghettatore infernale che accetta di portare Dante e Virgilio nella sua barca sulla palude di Stige, e un cavaliere fiorentino, “messer Filippo Argenti” che cercherà di aggrapparsi alla loro barca e viene così descritto nel versi 52-54: “… Maestro, molto sarei vago/ di vederlo attuffare in questa broda / prima che noi uscissimo da lago”. L’artista si riferisce ad altri versi, “Udir non potti quello ch’a lor porse;/ ma ei non stette là con essi guari,/che ciascun dentro a pruova si ricorse” (vv. 112-114), e rappresenta la barca con sopra Dante in una stupenda distesa azzurra, senza entrare nel complicato dialogo tra Virgilio – che spiega come il poeta sia lì per volere divino – e chi non vuole  credergli ostinato nel male.

L’artista è colpito dall’apertura del Canto 9°, ”Quel color che viltà di fuor mi pinse/ veggendo il duca mio tornare in volta,/ più tosto dentro il suo novo ristrinse” (vv. 1-3), con la figura pallida del Poeta atterrito dai diavoli che vorrebbero impedire loro di proseguire entrando nella città di Dite, e Virgilio che si era allontanato torna indietro e lo rassicura. C’è l’apparizione  delle tre Furie, con la minaccia della Medusa, un  magma materico piove sul Poeta, questa volta lontano dalla sua guida.

Nel  Canto 10° vengono rappresentati di nuovo insieme, anzi per sottolineare lo scampato pericolo del distacco, figurano stretti l’uno all’altro mentre guardano dall’alto un fiume  rosso infuocato incanalato tra due rupi, che travolge i dannati:  “Ora sen va per un secreto calle/ tra ‘l muro de la terra e li martiri/ lu mio maestro , e io dopo le spalle” (vv. 1-3). Vengono evocate  le lotte tra Guelfi e Ghibellini,  è il canto con Cavalcanti e  Farinata  degli Uberti, però l’artista, come sempre, più che dal personaggio, “dalla cintola in su tutto il vedrai”,  è preso dall’ambiente. Siamo tra gli eretici.

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Canto 12°, vv 55-57

Muta  la scena,  eccoci al Canto 11°: “In  su l’estremità d’un’alta ripa/ che facevan gran pietre rotte in cerchio/ venimmo sopra più crudele stipa” (vv 1-3), vediamo  raffigurati il Poeta e la sua guida  non più ai piedi di una roccia ma sulla cima della rupe aguzza che sovrasta il settimo cerchio in una rappresentazione che fa sentire vertigine e solitudine e resta impressa per la sua forza. E’ il girone in cui viene punita l’usura, e poiché “l’usuriere altra via tiene,… poi ch’in altro pon la spene”, cioè devia dalla retta via e sfrutta il lavoro altrui, si trova tra i violenti.  C’è molta forza morale, anche contro i fraudolenti,  resa dall’immagine della vetta circonfusa di luce.

I Canti centrali, dal 12° al 22°

Con il  Canto 12°  dedicato ancora ai violenti, nei primi versi, 10-12,  ”‘n su la punta della rotta lacca/ l’infamia di Creti era distesa” (v. 10-12)  si incontra il Minotauro, ma non viene rappresentato dall’artista preso da un’altra immagine “… e tra ‘l piè della ripa ad essa in traccia/ corrien Centauri, armati di saette,/ come solìen nel mondo andare a caccia” (vv 55-57): sono quattro, in primo piano, rivediamo le sagome inconfondibili e il dinamismo dei  “bradi” scalpitanti del più celebre ciclo dell’artista; vorrebbero impedire il loro passaggio, poi Chirone li fa accompagnare da Nesso che indica loro famosi tiranni e predoni condannati alla pena eterna

Dai violenti ai violenti contro sé stessi nel Canto 13°, trasformati in sterpaglie dove si annidano le arpie, “Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:/  ben dovrebb’esser la tua man più pia,/se state fossimo anime di serpi” (vv 37-39), vediamo un viluppo di corpi con le braccia alzate immersi in una caligine livida nella  mutazione in sterpi evocando anche le serpi, sentiamo dei brividi…

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Canto 14°, vv 106-108.

L’immagine del  Canto 14°  è radicalmente diversa, torna il cromatismo infuocato: “La dolorosa selva  l’è ghirlanda/  intorno, come ’l fosso tristo ad essa:/ quivi fermammo i passi a randa a randa” (vv 10-12). E’ il  girone del violenti contro Dio, in particolare i bestemmiatori, come Capaneo, uno dei sette Re greci contro Tebe. L’artista presenta la “dolorosa selva”  disposta in cerchio, con una figura distesa sulla destra, il Poeta e Virgilio spiccano al centro di una scena di grande equilibrio compositivo.

Cromatismo attenuato nel Canto 15°  con i violenti contro natura tra cui Brunetto Latini che riconosce Dante suo discepolo con “qual meraviglia!”, si intrattiene a parlare di Firenze, poi raggiunge la teoria di bianche figure che salgono, più da anime penitenti che da dannati. Ed è la visione d’insieme più che il personaggio, che ha ispirato l’artista: “quando incontrammo d’anime una schiera,/che venian lungo l’argine, e ciascuna/ ci riguardava, come suol da sera…”  (vv 16-18) in una visione panoramica coinvolgente.

Torna il magma cromatico tra il bianco e rosso in alto e il celeste-blu in basso, nel Canto 16°:“Già ero in loco onde s’udìa ‘l rimbombo/ dell’acqua che cadea nell’altro giro,/  simile a quel che l’arnie fanno rombo” (vv 1-3), come la precedente la rappresentazione ambientale è spettacolare, ed è questa che impegna l’artista piuttosto che le figure dei sodomiti che vi sono puniti, tra cui Jacopo Rusticucci e i guelfi fiorentini. Più avanti ci sarà un altro fiume infernale, il Flegetonte. 

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Canto 26°, vv 55-57

Dai violenti contro natura  ai violenti nell’arte nel Canto 17°,  che l’artista interpreta con una immagine di grande equilibrio compositivo, Dante e Virgilio al centro perfetto con dietro una fascia scura, sopra il rosso incombente, sotto il chiarore delle acque evocate dalla terzina che lo ha ispirato: “”Io sentia già da la man destra il gorgo/ far sotto noi un orribile scroscio;/per che con li occhi ‘n giù la testa sporgo” (vv 118-120). E’ il baratro sopra il quale stanno i dannati, Dante e Virgilio saliranno poi sulle spalle di Gerione che li farà scendere nel cerchio successivo.

Altrettanto spettacolare l’immagine ispirata alla parte iniziale del  Canto 18°: “Quel cinghio che rimane adunque è tondo/ tra ‘l pozzo e ‘l piè dell’alta ripa dura,/ e ha distinto in dieci valli il fondo” (vv 7-9), la massa corrusca incombe dall’alto sulle due piccole figure, si intravvedono diversi piani e livelli.  Ci sono i  ruffiani e i seduttori, tra i quali Giasone, l’argonauta del “vello d’oro”, ma all’artista interessa evocare  l’ambiente.

Nell’ immagine del Canto 19°,  il Poeta e Virgilio guardano dalla riva del lago alle acque azzurro-blu le sagome dei papi simoniaci, come Niccolò III,  riuniti in cerchio nell’altra riva, mentre si preannuncia il prossimo arrivo di Bonifacio VIII, ancora in vita ma già “dannato”.  L’artista si ispira ai versi della parte conclusiva del canto:  “Di voi pastor s’accorse il Vangelista,/ quando colei che siede sopra l’acque/ puttaneggiar coi regi  a lui fu vista” (vv 106-108),  scende dall’alto una cascata d’acqua e di luce, con una figura bianca a braccia aperte che evoca  l’Evangelista. Il canto inizia con “O Simon mago, o miseri seguaci/ che le cose di Dio, che di bontate/  deon essere spose/ voi rapaci/per oro e per argento avolterate”.

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Canto 27°, vv 79-81

Nel  Canto 20° gli impostori che hanno professato l’arte divinatoria, condannati ad andare con la testa rivolta all’indietro, una specie di contrappasso rispetto alla visione del futuro che hanno spacciato in vita. Al centro della scena delle figure nude, alcune immerse nell’acqua, una fuori con le braccia alzate, Dante e Virgilio come il solito la contemplano da lontano: “Quindi passando, la vergin cruda / vide terra nel mezzo del pantano,/ senza coltura e d’abitanti nuda” (vv. 82-84), la pena per chi è stata spietata nei sortilegi.

Immersi nella pece bollente i barattieri degli uffici del Comune nel Canto 21° con i diavoli che li rigettano dentro quando cercano di uscirne: “Non altrimenti i cuoci a lor vassalli/ fanno attuffare in mezzo la caldaia/  la carne con li uncin, perché non galli” (vv 55-57), l’artista ne dà una rappresentazione fedele con la grande caldaia infuocata, i diavoli ai lati e le figure dei dannati appena delineate in un rosso fuoco.

Altri barattieri nel Canto 22°,  i trafficanti di grazie e giustizia nelle corti dei principi, qui tornano gli amati  “bradi” dell’artista, questa volta non più bianchi  ma di un intenso rosso con sfumature rosa e chiare, e senza  la variante dei Centauri, sempre dinamici e arrembanti intorno a una striscia bianca, evocano le cavalcate e i tornei dei versi del Poeta: “… corridor vidi per la terra vostra,/ o Aretini, e vidi gir gualdane,/ fedir torneamenti e correr  giostra” (vv 4-6).  Questo colpisce la fantasia e dà l’ispirazione, più che le schermaglie tra diavoli, con a capo Barbariccia,  e i dannati  nella bolgia, tra i quali Ciampolo di Navarra.

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Canto 28°, vv 79-81

I Canti finali, dal 23° al 34°

Dopo il rosso sfumato dei “bradi”, nel Canto 23° il rosso acceso con chiazze bianche che incombe su una teoria di dannati in fila l’uno dietro l’altro sotto pesanti cappe di piombo,  verso i quali Dante tende  la mano, dietro di lui  Virgilio appoggiato a una roccia: “Taciti, soli, senza compagnia,/ n’andavam, l’un dinanzi e l’altro dopo,/ come i frati minor vanno per via” (vv 1-3).  L’immagine che ritroviamo nel versi 61-63, “Elli avean cappe con cappucci bassi/ dinanzi alli occhi, fatte della taglia/ che in Clugnì per li monaci fassi”, non poteva non colpire l’artista che li ritrae sotto un addensarsi corrusco mentre in basso spunta addirittura un prato verde.  Sono gli ipocriti, con Caifa, il gran sacerdote degli ebrei che fece condannare Cristo.

Con il Canto 24° le tinte diventano chiare ma non per questo rasserenanti, tutt’altro, sembra una dissolvenza inquietante per rappresentare la pena inflitta ai ladri, che vengono morsicati da serpi orribili, bruciano e risorgono dalle loro ceneri, ecco perché il colore cenerino: “Con serpi le man dietro avean legate;/ quelle ficcavan per le ren la coda/ e ‘l capo, ed eran dinanzi aggrappate”. (vv 94-96). I corpi dei dannati si intravedono nel loro contorcersi e dissolversi.

Il rosa, con degli squarci bianchi, rischiara appena l’ambiente che resta oppressivo nell’immagine del Canto 25°, con le piccole figure di Dante e Virgilio in uno scenario lunare, monocromatico color terra,  siamo tra i bestemmiatori, tra i quali Vanni Fucci,  non appare il mostro sanguinario che lo insegue cui sono dedicati i versi danteschi: “Lo mio maestro disse: ‘Questi è Caco,/ che sotto il sasso di monte Aventino/ di sangue fece spesse volte laco (vv 25-27)”. Pur essendo un centauro, non si trova tra quelli che sorvegliano i violenti, punito per un furto di armenti e abbattuto da Ercole.

Canto 29°, vv 10-12

Altra indicazione virgiliana  che ha ispirato l’artista quella del Canto 26°,  Virgilio si rivolge a Dante: “Rispuose a me: ‘Là dentro si martira./ Ulisse e Diomede, e così insieme/ alla vendetta vanno come all’ira” (vv 55-57).  Colpito da questi versi immerge i due eroi greci in una nuvola rossa che quasi li nasconde alla vista del Poeta e della sua guida,  tenuti fuori dal clima infuocato come se si trovassero su una nuvola candida. Siamo tra i consiglieri fraudolenti, Ulisse sconta  l’inganno del cavallo di Troia, il tono si eleva con la nobile esortazione ai compagni: “Fatti non foste  a viver come bruti/ ma per seguir virtute e conoscenza”, poi l’esaltante partenza, “dei remi facemmo ali al folle volo”, quindi la successiva doccia fredda,  “noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto”, e infine l’epilogo nella tragedia, “… finché  il mar fu sopra noi richiuso”.

Altro consigliere fraudolento nel Canto 27°, Guido da Montefeltro, che gli chiede notizie dello stato di Romagna e gli rivela di averlo dato, sotto fede di assoluzione, addirittura a Bonifacio VIII. Troviamo di nuovo citato il pontefice odiato da Dante che gli ha già assegnato un posto nell’Inferno per motivi politico-religiosi, non per la scelleratezza di aver gettato in una fetida cella Pietro da Morrone dopo averlo indotto a fare “il gran rifiuto” al pontificato – cui era stato chiamato come Celestino V- per ritrovare la pace nel suo eremo mentre morì poco tempo dopo di stenti e malattie nella prigionia. Il verso che ha ispirato l’artista, nella confessione accorata di Guido,  è di portata generale: “Quando mi vidi giunto in quella parte/ di mia etade ove ciascun dovrebbe/ calar le vele e raccoglier le sarte” (vv 79-81), in realtà i beni mondani sviano dalla retta via: La metafora è colta nella barca affollata con le vele ancora alzate e una figura che si protende in basso verso le acque.

Un grande vascello per il Canto 28°, con i ricordi di guerre sanguinose e visioni orripilanti di corpi straziati, tra i “seminator di scandalo e di scisma”, fra i quali Maometto,   viene evocato un episodio drammatico: “… gittati saran fuor di lor vasello/ e mazzerati presso a la Cattolica/ per tradimento d’un cristiano fello” (vv 79-81): si tratta del “gran fallo”, il misfatto per cui i “due miglior da Fano”, Guido  e Angiolello, furono buttati fuori dal vascello dove li aveva attirati  l’inganno del tiranno Malatesta. Atmosfera tempestosa, con il cielo rosso fuoco e le acque  blu con il bianco spumeggiante. 

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Canto 31, vv 31-33

Il bianco è ancora più diffuso, pur se resta dominante il rosso, nell’immagine ispirata al  Canto 29°, e in particolare ai versi “E già la luna è sotto i nostri piedi;/ lo tempo è poco omai che n’è concesso,/ e altro è da veder che tu non vedi” (vv 10-12);  nella bolgia ci sono i seminatori di discordia e i falsari,  ma è la luna l’evento inatteso che rompe  la corrusca atmosfera infernale.

Atmosfera livida  nella visione  del Canto 30°  dove si trovano i falsari, della persona,  della moneta e della parola.  Ma l’artista è preso dalla tragica sorte della regina di Troia: ”Ecuba, trista misera e cattiva,/ poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva” (vv 16-18), segue che “forsennata latrò si come cane/; tanto il dolor le fè la mente torta”.  Si vede il corpo senza vita nell’acqua e il gruppo intorno alla regina che ha perso la ragione, non può esserci colore per esprimere tale dramma, ma un biancore diffuso per manifestare il doloroso raccoglimento che vediamo nella scena composta, del tutto inattesa dato il restante contenuto del canto.

Altrettanto inattesa, nel Canto 31°,  la vista dei giganti, che Dante da lontano scambia con delle torri, ma Virgilio gli spiega: “… sappi che non son torri, ma giganti;/ e son nel pozzo intorno dalla ripa/ da l’umbilico in giuso tutti quanti’” (vv 31-33). c’è Nembrot, ideatore della Torre di Babele, punito con la lingua incomprensibile, e Anteo che si presta a depositare Dante e Virgilio in fondo all’ultimo cerchio. L’artista presenta due figure, una chinata e l’altra eretta, in un ambiente oscuro, sono gli unici primi piani, a parte Dante e Virgilio, dell’intero “corpus”, è uno dei pochissimi dipinti di maggiori dimensioni, 80 x 80, gigante anch’esso… rispetto allo standard 60 x 60  degli altri.

,Canto 34° vv 28-30

L’atmosfera cambia, è come se tornasse la luce, lo vediamo nell’immagine ispirata al  Canto 32°: “Per ch’io mi volsi, e vidimi davante/, e sotto i piedi un lago, che per gelo/  avea di vetro e non d’acqua sembiante” (vv 22-24). Questa volta non è il riflesso della luce lunare ma il ghiaccio del fiume Cocito su cui camminano Dante e Virgilio, davanti a loro una sorta di roccia anch’essa bianca, è il gelo a creare questo, ma è anche l’artista alla ricerca della luce dopo tanta oscurità. Vi sono puniti i traditori dei parenti, i fratelli Alessandro e Napoleone degli Abati, e della patria, Bocca degli Abati per il tradimento nella battaglia di Montaperti. Sono conficcati nel ghiaccio infernale.

C’è  un ultimo episodio che lo fa ripiombare nell’atmosfera corrusca, anzi addirittura l’intera composizione si  tinge di rosso sanguigno. Siamo al Canto 33°, in cui ci sono i traditori della fiducia riposta in loro, l’artista si ispira ai versi “In picciol corso mi parìeno stanchi/ lo padre e’ figli, e con l’agute scane/ mi parea lor veder fender li fianchi” (vv 34-36). Nel sogno premonitore della tragedia del Conte Ugolino, i cani dai denti aguzzi addentano la preda. Non vediamo il conte mentre “la bocca sollevò dal fiero pasto”, e neppure “più che il dolor potè il digiuno”, ma delle figure su una sorta di  pavimento, una distesa a terra, l’altra protesa in un bacio con un bambino a fianco, una delle poche scene viste da vicino in un interno scuro indefinibile, prima della fine.  

Subito dopo  l’artista riprende quella luce accecante che  ha rischiarato le immagini del 29° e 32° Canto,  siamo al Canto 34°, l’ultimo dell’Inferno, con le figure di Dante e Virgilio  più piccole del solito, e sul bordo della composizione, dalla parte dell’osservatore, che guardano in alto una massa tenebrosa con delle lingue rosse che fanno piovere dal cielo gocce infuocate. Siamo sempre tra i traditori, questa volta è punito Lucifero, che ha nelle sue bocche Giuda, Bruto e Cassio.  E’ la libera interpretazione dell’artista,  Lucifero è descritto da questi versi: “Lo ‘mperador del doloroso regno/ da mezzo il petto uscìa fuor della ghiaccia;/ e più con un gigante io mi convegno/ che giganti non fan con le sue braccia” (vv 28-31). Le braccia sono dunque gigantesche, e così la testa,  mentre il ghiaccio viene rappresentato con il bianco accecante che copre  metà composizione.

Con il biancore che illumina di  luce  risplendente il primo piano dell’immagine, contrastando l’angosciosa massa scura che incombe grondando sangue,  anche l’artista che ha seguito Dante e Virgilio nel viaggio all’Inferno potrà dire con loro: ”….e quindi uscimmo a riveder le stelle”.  E così il visitatore che ha seguito l’itinerario poetico e pittorico della prima Cantica. Ma il suo e nostro viaggio è appena iniziato, come per Dante continua nel Purgatorio sempre con la guida di Virgilio, per ascendere infine al Paradiso con Beatrice. Proseguiremo il nostro racconto appassionato per i sentimenti che suscita la mostra prossimamente.

Inferno, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it.; www.giannitesta.it Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Nel sito giannitesta.it nella sezione “Opere – Divina Commedia” sono riportate tutte le immagini corredate da introduzione e versi ispiratori, e da note critiche sul’intera opera. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 23 marzo 2022, seguiranno i prossimi tre. Cfr. i nostri articoli in questo sito per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; sull’Inferno di Dante Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009.  

Inferno, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 11°, vv. 1-3

Foto

Le immagini dei dipinti dell’Inferno sono state fornite dall’organizzatrice e curatrice Chiara Testa che si ringrazia, insieme all’artista titolare dei diritti. Le ultime 3 immagini sono di Romano Maria Levante, quelle dei quadri dell’Inferno nella parete espositiva e del quadro 80 x 80 esposto su cavalletto nella mostra riprese al Museo Crocetti, l’immagine dell’artista con un quadro dell’Inferno ripresa nella sua casa-atelier nei pressi della Fontana di Trevi. In apertura, Canto 8° vv. 112-114, seguono, Canto 2° vv 70-72, e Canto 3° vv 82-84; poi, Canto 4° vv 4-6, e Canto 12° vv 55-57; quindi, Canto 14° vv 106-108 e Canto 26° vv 55-57; inoltre, Canto 27° vv 79-81 e Canto 28° vv 79-81; ancora, Canto 29° vv 10-12 e Canto 31° vv 31-33; continua, Canto 34° vv 28-30, e Inferno, uno scorcio della parete espositiva, tra le due file le terzine ispiratrici; infine , Inferno, quadro 80×80 esposto in mostra su cavalletto, Canto 11°, vv. 1-3; in chiusura, L’artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 11° vv. 1-3 dell’Inferno.

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L‘artista Gianni Testa nella casa-atelier mostra il suo quadro del Canto 11° vv.1-3 dell’Inferno

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Gianni Testa, 1. La Divina Commedia nel 7°centenario, una magia miracolosa di forme e colori

di Romano Maria Levante

Al Museo Crocetti a Roma, dal 1° al 31 marzo 2022,  la mostra-evento “La Divina Commedia raffigurata dal genio pittorico di Gianni Testa espone 101 dipinti a olio, uno per ciascun canto senza alcuna esclusione – 34 per l’Inferno, 33 per Purgatorio e Paradiso più uno per Dante – formato 60 x 60, alcuni 80 x 80. La mostra è organizzata e curata da Chiara Testa. E’ possibile acquistare due stampe numerate fino a 100, Claudio Strinati ha introdotto la mostra all’inaugurazione, madrina Isabel Russinova. Catalogo di Gangemi Editore Internazionale, con la straordinaria carrellata dei 101 dipinti in un cromatismo perfetto cui la cornice nera dà uno straordinario risalto creando l’atmosfera del viaggio dantesco, con una sobria brevissima presentazione di Claudio Strinati che fa risaltare ancora di più la magia delle immagini così splendidamente offerte creando emozione al lettore.

La locandina della mostra

Una mostra-evento nella storia di opere ispirate alla Commedia

I dipinti – salvo quelli più grandi collocati su cavalletti intorno alle colonne al centro delle sale – sono esposti sulle pareti in due file sovrapposte molto fitte, tra le quali i rispettivi versi ispiratori, con una successione incalzante – come i canti nel libro a stampa – che fa sentire il visitatore “in viaggio” con il sommo Poeta, spinto in avanti  da un dipinto all’altro in un crescendo fino al sollievo di ”riveder le stelle” nell’uscita dall’Inferno, all’emozione di sentirsi “pronto e disposto a salire a le stelle”  al termine del Purgatorio, alla folgorazione dinanzi a “l’amor  che move il sole e l’altre stelle” alla conclusione del Paradiso e della Commedia.

Abbiamo voluto definirla mostra-evento perché chiude le celebrazioni del 7.mo centenario della morte del sommo poeta con un qualcosa di assolutamente eccezionale, un “viaggio” pittorico durato un quarto di secolo che rappresenta un “unicum” nella lunga storia di opere ispirate alla Divina Commedia. E’ un “corpus” di dipinti  vasto e organico che si presta mirabilmente a illustrare il capolavoro dantesco corredandone i canti  immortali con immagini intense e suggestive. E’ come l’esplosione pirotecnica finale con il diapason del “botto” conclusivo nelle feste paesane, e qui si è trattato di una festa globale, il sommo poeta appartiene all’umanità intera e il 7.mo centenario della sua morte è una ricorrenza universale, le sedi dell’Associazione Dante Alighieri sono sparse per il mondo. E come nelle feste si supera la mezzanotte, così si è sconfinati nel 2022, in un eloquente splendido isolamento che ha coinciso con un inferno purtroppo vicino a noi, la guerra in Ucraina. Così Gianni Testa intervistato da Canale dieci che nelle sue news ha trasmesso per un’intera giornata l’ampio servizio sull’inaugurazione della mostra: “Sarebbe stato bello se non ci fosse la guerra. L’inferno è la guerra, non quella di Dante. Mi addolora molto”. Ma pur non essendo cetamente bello questo accostamento è simbolico, più di una coincidenza; tanto che la mostra precedente “L’Inferno” alle Scuderie del Quirinale aveva una sezione finale intitolata “L’inferno oggi: la guerra” ma riferita ad altre guerre, lontane nel tempo e nello spazio.

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Gianni Testa con la madrina Isabel Russinova all’inaugurazione della mostra

Anche la collocazione della mostra è eccezionale: non in un normale centro espositivo, ma nel Museo Crocetti, la casa-museo del grande scultore abruzzese – e da conterranei teramani lo sentiamo particolarmente vicino – celebre il suo “Il Giovane Cavaliere della Pace”  che fu esposto anche all’ONU, tanto di attualità oggi per l’auspicio della fine dell’“inutile strage” in Ucraina, nel cuore dell’Europa, come il suo “Monumento ai Caduti di tutte le guerre” a Teramo. E’ di Venanzo Crocetti  la “Porta dei Sacramenti” di San Pietro, oltre alla “Porta del Duomo” di Teramo, cosa che rende ancora più emblematica la collocazione della mostra sulla sacralità dantesca e  offre al visitatore l’occasione unica di abbinare alla vista della grande pittura la vista della grande scultura delle tante opere esposte nei piani della vasta casa-museo nonché dello studio d’artista dello scultore con un bozzetto della Porta di San Pietro, lasciato com’era, quasi si fosse solo allontanato, dinanzi è collocato il quadro testimonial della mostra. .  

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Intorno al quadro-testimonial

Le  101 spettacolari composizioni cromatiche a olio di Gianni Testa vengono dopo  i  ricami calligrafici delle  pergamene di Sandro Botticelli e  le  elaborate grafie a matita,  penna  e acquerello di  Federico Zuccari nel ‘500,   le  nitide incisioni di Gustave Dorè  e i marcati disegni preparatori di  Auguste Rodin sull’Inferno, le drammatiche tavole di William Blake e quelle accademiche di Francesco Scaramuzza nell’800; fino alle incantate visioni di Amos Nattini agli inizi del ‘900, per giungere ai disegni surrealisti di Salvador Dalì e ai realismi di Guttuso a metà degli anni ’50, arrivando alle più recenti illustrazioni di Dell’Otto e Mattotti, Barbieri e Madè. C’è stato anche lo scultore Benedetto con un’opera titanica, altri artisti si sono cimentati  in incursioni sporadiche; ricordiamo l’Inferno” di Roberta Coni.

A parte le xilografie e le sculture si è trattato per lo più di disegni o acquerelli e tavole illustrative,  spesso su commissione per edizioni a stampa della Divina Commedia,  perciò è un vero e proprio evento che un artista contemporaneo della caratura di Gianni Testa abbia rivisitato in 101 spettacolari dipinti a olio l’intera opera dantesca rendendone la magica suggestione con maestria cromatica e materica sostenuta e stimolata da una forte motivazione.

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Un itinerario d’arte e di vita

La caratura artistica: l’attività pittorica di Gianni Testa viene da lontano, già nel 1962 partecipò a una collettiva con Quaglia, Guttuso, Mazzacurati e Purificato, su invito di Levi che era stato colpito dal talento espresso nelle sue prime opere,  frequentò questo gruppo e anche Calabria e poi Pericle Fazzini. Ha esposto in ben 150 mostre in Italia e all’estero, fino a New York e Filadelfia,  e ha ricevuto molti riconoscimenti, dal primo nel 1970 vincitore del concorso “Brandy italiano” al  titolo di “Pittore di Marina” conferitogli nel 2016, al “Premio alla carriera” consegnatogli recentemente da Vittorio Sgarbi. Ha avuto popolarità anche presso il vasto pubblico televisivo con la partecipazione agli inizi degli anni ’90 per diversi anni, alla trasmissione quotidiana “Mattina 2”  come illustratore in diretta del fatto del giorno – “quadri senza prova d’appello” gli chiese l’autore Michele Guardì – chiamato dal direttore di Rai 2 Giampaolo Sodano. 

Fin dal 1968 ha partecipato alla Biennale di Roma, poi alla Triennale di Milano, dal 1975 alla Quadriennale di Roma, l’ultima grande mostra al Vittoriano nel 2014 con i suoi diversi cicli pittorici. Si è formato alla scuola di restauro nella Galleria Borghese diretta dalla prof.ssa Della Pergola studiando le tecniche dei grandi artisti del passato per tradurre visivamente i propri sentimenti e le proprie ispirazioni; con il maestro Bartolini ha approfondito anche la scultura.

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L’artista in … famiglia, con la moglie e la figlia Chiara organizzatrice e curatrice

La maestria cromatica e materica: da questa formazione nasce un uso del colore molto intenso, e uno spessore materico da cui sembra estrarre le forme in un “espressionismo onirico” in cui i diversi generi artistici lo hanno portato al suo inconfondibile stile personale. 

La sua forte motivazione: è stata diversa dal solito, come l’iter creativo, quasi inimmaginabili: nessun intento illustrativo né didattico, e tanto meno un programma  preordinato, bensì la manifestazione di un bisogno interiore nato sui banchi di scuola che ha trovato la forma per esprimersi in diverse fasi lungo la sua piena maturità artistica, fino al compimento definitivo. La rilettura della Divina Commedia lo ha accompagnato sempre, come “libro di compagnia” – nella definizione del giornalista “cronista d’arte” che lo conosce molto bene Vittorio Esposito – e di volta in volta si è tradotta in schizzi, disegni e tele secondo l’ispirazione del momento che ha stimolato il suo spirito creativo in modo inarrestabile. E che si tratti di una personalità forte, pronta a seguire fino in fondo le proprie spinte interiori, lo ha dimostrato quando lasciò la facoltà di Architettura pur avendo il massimo dei voti per dedicarsi completamente alla pittura. Dando sfogo a ciò che maturava dentro di lui dall’adolescenza,  non vede la Commedia dall’esterno ma  dall’interno, ogni volta che l’ispirazione preme riemergendo dal suo inconscio., e si è avuto per un quarto di secolo.

Come è avvenuto tutto questo? Così l’artista, sempre a Canale dieci: “C’è tutto il percorso di Dante. Si inizia con il capitolo in cui ci sono 300 versi, se ne sceglie uno. E uno di questi è un quadro. Poi c’è il trittico che è stato fatto all’ultimo”. E sull’interpretazione pittorica: “E’ stato uno sforzo notevole, tanto per fare i cromatismi, tanto per creare un catalogo importante, tanto per il tempo che ci è voluto. Venticinque anni”. Sull’esposizione: “E’ una mostra particolare, dove i quadri si vedono e si segnano attraverso il colore”.

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L’artista con due amiche e l’amico giornalista Vittorio Esposito

Il risultato: Claudio Strinati afferma: “Netto e indelebile è il Dante pensato da Testa e la sua pittura rientra a pieno titolo nella nobile storia del rapporto tra arte figurativa e pittura dantesca”. Per questo riteniamo che l’impiego illustrativo e didattico, anche se assente dalle sue intenzioni,  sarebbe quanto mai appropriato,  si sente l’autenticità dell’ispirazione che è stata una costante nella sua vita da studente prima, da artista poi; quindi la diffusione nelle scuole di una Divina  Commedia così riccamente illustrata potrebbe far sì che gli studenti prendano maggiore confidenza con i versi danteschi accompagnati dalla  magia dei colori e dall’intensità  materica ed espressiva delle forme.

Ma non solo. Ha detto Chiara Testa, organizzatrice e curatrice della mostra, sempre a Canale dieci: “Vogliamo trasmettere alle persone un invito a riscoprire la Divina Commedia di Dante. Attraverso le 101 opere vogliamo far tornare le persone indietro nella storia”. Ed effettivamente dopo aver visitato la mostra viene la voglia di riprendere in mano la Divina Commedia per rileggere fior da fiore le sue terzine immortali.

Da un quarto di secolo l’ispirazione e la spinta creativa dell’artista sono state alimentate dalle suggestioni della Commedia dantesca che, intendiamo sottolinearlo, riaffioravano  dall’inconscio dove erano sedimentate  sin dall’adolescenza. Risalgono al 1999  i suoi primi dipinti sulle tre Cantiche, con i quali  ai  cicli dei cavalli e dei paesaggi,  dei ritratti e delle nature morte, si aggiunse il ciclo della Divina Commedia,  che insieme al ciclo del sacro ha portato l’artista a misurarsi con il divino. Ma sono stati  interventi sporadici  e saltuari diluiti nel tempo fino al “rush”  finale che lo ha impegnato pienamente negli ultimi cinque anni.

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A parte la Commedia, un’incursione oltre il suo campo  stilistico: l’“espressionismo onirico” dalla tempesta cromatica si è trasferito ai “movimenti astratti”, alla cui base c’è addirittura un’immagine di Dante Alighieri che gli ha ispirato un  diverso percorso tradotto  in dipinti astrattisti  di numero pari a quelli sulla Commedia, in una misteriosa e arcana coincidenza.     

Tutto ciò ci porta a guardare  i  suoi dipinti  in modo diverso dalle altre opere sul tema dantesco e dalle manifestazioni artistiche in genere, considerando l’arte comunque tra le  forme più elevate e nobili dell’agire umano. Sentiamo che c’è di più, e di diverso,  nelle sue rappresentazioni, al di là del giudizio estetico e della valutazione critica, pur se di eccellenza.

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Siamo spinti a esplorare il  percorso interiore dell’artista, a penetrare nella sua visione della Commedia che ha fissato sulla tela  con dedizione: la chiamiamo così per rendere,  anche se in modo inadeguato, il suo  trasporto  appassionato per il capolavoro dantesco.

Più che i singoli personaggi è impressa nella sua memoria e nella sua sensibilità l’atmosfera dei diversi canti, che traduce nell’intenso cromatismo con tutte le infinite sfumature che rendono magici gli ambienti dell’Inferno, del Purgatorio, del Paradiso in una escalation di visione soprannaturale  che troviamo trasfigurata dai versi immortali alle mirabili tavole pittoriche. 

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All’autenticità dell’ispirazione, e alla spontaneità creativa, si deve che non tutti i canti erano stati rappresentati dall’artista, mentre  quelli che lo avevano più colpito gli avevano ispirato più raffigurazioni, non essendo il suo un impegno sistematico e programmato, ma solo istintivo; finché, vista la copertura quasi totale dei canti, ha completato  e sistematizzato il tutto.

I motivi interiori e le forme espressive

Tra i tanti giudizi manifestati dai  critici d’arte che hanno evidenziato gli aspetti salienti  della sua pittura, ne citiamo due, uno sui motivi interiori, l’altro sulle forme espressive.

L’aspetto più propriamente artistico è  strettamente connesso al suo peculiare atteggiamento che crea  le condizioni ottimali perché non vi sia iato e neppure diaframma tra ispirazione ed espressione, e la sua sperimentata cifra stilistica di altissimo livello ne è la garanzia assoluta.

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Giosuè Allegrini  ha sottolineato la rappresentazione interiore di stati d’animo, pensieri, emozioni, che va al di là della fisicità per una realtà immaginifica, riscontrando  una tensione emotiva verso il ricordo, la memoria, il mito, con una forte dinamicità intellettiva; e il fatto che la luce  e la materia nella sua pittura esprimono il dualismo tra il corpo  e l’anima, tra la materia e lo spirito, tra l’immanente e il trascendente, in un approccio maieutico, per un simbolismo etico universale.  

Si riferisce alla sua opera e alla sua  connotazione di artista,  non al “corpus” di  dipinti  sulla Divina Commedia, ma sono anche  gli elementi  da cui nasce il  fascino perenne del poema..  E  se questi  sono i motivi interiori  dell’artista che diventano ispirazione e spinta creativa per la Divina Commedia, le forme espressive trovano nel poema dantesco il loro sbocco ideale.

Le descrive Claudio Strinati – che ha presentato la mostra – anche in relazione all’opera  complessiva dell’artista nella quale  vede sprigionarsi  una  metaforica fiamma che forgia tutte le cose  con la sua carica di energia. E  ciò senza  vincolarsi a una forma precostituita dai contorni preordinati: l’artista mantiene libera di esprimersi  la propria tensione interna  partendo da una massa cromatica  indistinta dalla quale ricava la forma come lo scultore dal marmo, liberandola dal resto della materia informe. E   parla del modo in cui la luce e la materia diventano energia in un processo  che chiama einsteiniano e si manifesta nelle grandi masse di colori calate sulla tela in rutilanti contrasti e viluppi cromatici.

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Il momento delle dediche autografe

In tal modo si realizza un’ulteriore aderenza allo spirito della Commedia dantesca, in cui l’umano e il divino sono compresenti in una dimensione che Strinati evoca richiamando la “quintessenza”,  cioè le dimensioni fisica e metafisica che aleggiano nel poema;   l’artista le  visualizza con il virare del  colore verso tonalità sempre più sideree e della forma verso  una progressiva trasfigurazione.

Il “corpus” di dipinti, l’evocazione nelle tre Cantiche e l’emozione che suscita

L’elemento comune  che emerge  dal “corpus” di dipinti sulla Commedia, nel contesto creativo,  espressivo e stilistico così delineato, è la presenza di Dante nelle più varie situazioni ambientali, in assoluta coerenza con l’opera, ma anche  sintomo di qualcosa di più: la totale identificazione dell’artista con il sommo Poeta nel viaggio  fantasmagorico dove vuole essere presente in ogni momento e ogni luogo. 

Per questo motivo la sua figura  è compenetrata  nella sostanza cromatica come composta della stessa materia della visione evocata. Fino al Paradiso allorché le visioni celestiali occupano l’intera composizione, e non potrebbe essere altrimenti, Dante resta a contemplarle ma fuori di scena. 

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Un’altra dedica autografa a una delle stampe numrate fino a 100

Le anime sono evocate con discrezione nelle tre Cantiche, non è sui singoli personaggi che va l’attenzione dell’artista, ma sull’ambiente in cui vagano, tenebroso  o infuocato nella dominante rossa per l’Inferno, mentre nel Purgatorio la tempesta cromatica si sposta sui colori della terra e della natura, fino al Paradiso dove c’è anche il rosso, ma come glorificazione, mentre trionfa il sidereo celeste.

Così l’“espressionismo onirico” dell’artista lo porta  a trasmettere attraverso i dipinti le emozioni suscitategli dai diversi passi delle tre Cantiche, ispirate a terzine e versi da lui identificati con precisione, ma con questo non deve  confondersi l’espressione con l’illustrazione. Infatti, pur se  il suo intenso cromatismo ha componenti figurative, per lo più non ritrae sempre i personaggi ma rende l’atmosfera, a parte le figure appena delineate di Dante e Virgilio nell’Inferno e Purgatorio, e di Dante e Beatrice nel Paradiso, che sono una presenza frequente quanto discreta. E’ una rappresentazione pervasa di intensità mistica che stimola la mente  e la memoria, suscita emozioni e sentimenti, scuote nell’intimo.

Il Paradiso è  reso  non con astrazioni  impalpabili, ma con una forza cromatica non limitata all’azzurro e neppure al  blu intenso, ma estesa a un’ampia gamma, compreso il rosso, in un equilibrio nei colori con i quali sono state delineate in modo tangibile forme arcane, nella  peculiarità di stile e di contenuto dell’artista. Mentre del Purgatorio colpiscono i toni variegati nel passaggio dalla visione terrena a quella sempre più distaccata dalla materia con le bianche figure dei penitenti e gli angeli che le guidano.  Dell’Inferno restano impressi i toni corruschi e l’ambiente oscuro e spesso infiammato, tra acque tempestose, rocce aguzze, lande tormentate.

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Li descriveremo in una carrellata in cui, nell’accennare ai motivi dei singoli dipinti, inseriremo degli  accenni agli  episodi danteschi che li hanno ispirati per l’eccezionale peculiarità di questo ciclo pittorico che muove i tasti più reconditi. I  riferimenti ai canti richiamano alla mente  ricordi sedimentati dal tempo nel fondo  della memoria,  perché la Divina Commedia sin dal periodo scolastico è entrata nella vita di tutti, oltre ad essere patrimonio universale della letteratura  e,  per merito di coloro che l’hanno interpretata visivamente, anche dell’arte. 

Abbiamo detto che Gianni Testa  ha dato corpo e anima alle incomparabili visioni del poema dantesco spinto dal bisogno irresistibile di esprimere ciò che premeva in lui dai banchi della scuola. Perciò  i suoi  dipinti sono ben più di un ciclo pittorico di altissimo livello, si sente la sollecitazione intima  che impegna il cuore  oltre alla mente,  e va al di là del fatto estetico e stilistico, la forma e il contenuto.  La tempesta cromatica delle sue immagini  si traduce in una tempesta di emozioni ed evoca un vissuto personale rimasto nell’inconscio che riaffiora  dentro ciascuno di noi.

Le figure di Dante e Virgilio, nelle loro lunghe vesti rossa e blu, penetrano nell’intimo allorché si seguono  nella loro peregrinazione tra i sanguigni gironi dell’Inferno e  gli squarci di luce del Purgatorio;  la presenza luminosa  di Beatrice e la celestiale beatitudine del Paradiso fanno raggiungere  il massimo di emozioni in una indicibile suggestione.  Accostarsi al divino  nella sua espressione iperurania,  dopo averne sentito la compresenza con  le manifestazioni umane  in un processo di progressiva elevazione, è qualcosa di toccante  e indescrivibile.

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Collocazuione dei quadri di maggiore dimensione 80 x 80 intorno alla colonna

L’“espressionismo onirico” dell’artista – che ha trasfigurato  le immagini della realtà nelle intense visioni della sua rivoluzione cromatica – ha trovato un terreno per esprimere   le sue potenzialità in un mondo poetico  del quale il colore e la forma hanno  reso la dimensione sovrumana in cui si è trovato il Poeta  in una misura che investe l’umano e il divino.

Ripensiamo all’impressione avuta nell’adolescenza dinanzi alle tavole di Gustave Dorè che davano vita ai versi danteschi  con la nitida precisione delle xilografie  in cui i corpi in primo piano assumevano rilievi possenti, michelangioleschi. Ebbene, i dipinti di Gianni Testa  fanno provare un’emozione altrettanto forte: ci si sente  presi  dal suo vortice cromatico come da un turbinio soprannaturale che ha compenetrato  anche noi, ma le sue figure sono invece viste da lontano con discrezione e delicatezza, come la figura di Dante onnipresente, creando l’atmosfera di un magma indefinibile  in cui la dimensione terrena si  trasfigura nel  divino per effetto di quella che abbiamo definito “una magia miracolosa di  forme e colori”.

Per Claudio Strinati, “il suo Dante è un personaggio magmatico e incndescente che sembra, sulle tele del maestro, essere costituito della stessa materia con cui il pittore costituisce i diversi luoghi e le diverse situazioni del Poema. E’ fatto, il dante di Testa, della stessa sostanza. Anzi, nell’immaginazione del pittore, un’unica sotanza presiede a tutte le rappresentazioni e qui scatta la grandezza veramente dantesca del maestro”. La magia miracolosa nasce dalla “luce divina” che aleggia sempre, pervasa di poesia, come ha scritto Vittorio Esposito: “In ogni dipinto Gianni Testa evidenzia e scandisce il senso di spiritualità che pervade e rende immortale il fascino dei versi danteschi traducendoli da elaborato poetico a poesia dipinta”.

E’ giunto il momento di ripercorrerne il viaggio nel suggestivo itinerario della mostra attraverso la sequenza ininterrotta di immagini dei singoli canti, che rinnovano emozioni lontane alle quali danno vita le forme e i colori nella magistrale visione del Maestro. Lo faremo prossimamente in tre articoli dedicati all’Inferno, al Purgatorio, al Paradiso.

Il quadro testimonial della mostra di Gianni Testa davanti allo studio d’artista

Info

Museo Crocetti, Roma, via Cassia 492. Tel. 06.33711468, info@fondazionecrocetti.it; www.giannitesta.it. Dal lunedì al venerdì ore 11-13 e 15-19, sabato ore 11-19, domenica chiuso, ingresso gratuito. Catalogo: Gianni Testa: “La Divina Commedia”, a cura di Chiara Testa, Gangemi Editore, 2022, pp. 128, bilingue italiano-inglese, formato 24 x 28. Cfr. i nostri articoli in questo sito: per le precedenti  mostre di Testa: Antologica al Vittoriano 14 settembre 2014,  L’espressionismo astratto e La “perfetta armonia” all’Otium Hotel di Roma 8, 10 luglio 2019,  Il tour negli emirati arabi 14 marzo 2015,  Pittori di marina 6 artisti premiati 21 gennaio 2016; nei prossimi giorni usciranno gli altri 4 articoli sulla mostra. Per gli artisti citati:  Guttuso: Antologica al Vittoriano 25, 30 gennaio 2013, Realismo rivoluzionario alla GAM di Torino 14, 20, 30 luglio 2018, Innamorato alla Galleria Nazionale 16 ottobre 2017, Religioso al Quirinale 27 settembre, 2 e 4 ottobre 2016; Calabria: Antologica sul luogo dell’essere a Palazzo Cipolla 11 dicembre 2018, 4, 10 gennaio 2019; Levi Specchio della realtà, Pittura dionisiaca ed elegiaca alla  Galleria Russo 28 novembre, 3 dicembre 2014; Rodin all’Accademia di Spagna e Coni alla Galleria Russo su L’Inferno di Dante  20 febbraio 2014. Per una mostra su Dante:  L’esposizione, I protagonisti a Palazzo Incontro 9, 10 luglio 2011.   Per Crocetti, lo scultore nella cui casa-museo si svolge la mostra: Il ‘900 e il senso dell’antico a Palazzo Venezia 9 ottobre 2013, Il mondo di Venanzo Crocetti, tra Teramo e Roma 2 febbraio 2009. Mostre del passato nel Museo Crocetti recensite: Vanda Valente Pittura in difesa della natura 4 aprile 2014, Bergamini Il digitale pittorico 6 dicembre 2013, Sironi  in mostra 26 gennaio 2009. 

Lo studio d’artista dello scultore Venmanzo Crocetti

Foto

Le immagini dell’inaugurazione della mostra sono state fornite dalla organizzatrice e curatrice Chiara Testa che si ringrazia per la prontezza e la cortesia, ad eccezione delle n. 1, 10, 17 tratte rispettivamente dai siti di pubblico dominio lagone.it, canaledieci.it, vignaclarablog.it, dei quali si ringraziano i titolari per l’opportunità offerta, pronti a eliminarle qualora non ne risulti gradita questa pubblicazione che ovviamente non ha alcun intento economico ma solo illustrativo; la n. 16 è di Romano Maria Levante tratta dall’articolo su Crocetti citato in Info. In apertura, La locandina della mostra; seguono Gianni Testa con la madrina Isabel Russinova all’inaugurazione della mostra e Intorno al quadro-testimonial; poi, lo scorcio di una parete, L‘artista in … famiglia, con la moglie e la figlia Chiara organizzatrice e curatrice, e L‘artista con due amiche e l’amico giornalista Vittorio Esposito; quindi, altri due scorci di pareti e tra loro due immagini dell’artista con visitatori; inoltre, Il momento delle dediche autografe e Un’altra dedica autografa a una delle stampe numrate fino a 100; ancora, un’ulteriore scorcio di parete e Collocazione dei quadri di maggiore dimensione 80 x 80 intorno alla colonna; continua, Il quadro testimonial della mostra di Gianni Testa davanti allo studio d’artista, e Lo studio d’artista dello scultore Venmanzo Crocetti; in chiusura, Il Museo Crocetti, sulla dx “Il Giovane Cavaliere della Pace” .

Il Museo Crocetti, sulla sin. la scultura-simbolo “Il giovane Cavaliere della Pace”

Pasolini, 7. Nella 16^ Quadriennale di Roma le ultime 6 sezioni con Pasolini

Abbiamo celebrato il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini con 6 articoli ripubblicati dal 5 marzo 2022, giorno della ricorrenza, fino a ieri 10 marzo, usciti a suo tempo sulle mostre a lui dedicate visitate nel decennio scorso. In particolare abbiamo riproposto in successione il nostro articolo del 2012 sulla mostra di Monica Cillario che ha fotografato la sua prima abitazione romana, i due articoli del 2014 sulla mostra “Pasolini Roma” al Palazzo delle Esposizioni evocativi della sua figura di poeta e scrittore, saggista e regista, e della sua vita terminata tragicamente, l’articolo del 2015 sulla mostra “I tanti Pasolini” a “Spazio 5” con la sua immegine nelle fotografie di Carlo Riccardi, testimonianze di personaggi, e non solo, fino ai due articoli del 2012 sull’omaggio di 22 artisti ispiratisi alle sue poesie nella mostra a Palazzo Incontro che hanno concluso la nostra rievocazione basata sulle mostre ora citate. Oggi, in aggiunta ai 6 articoli sulle mostre a lui interamente dedicate, ripubblichiamo uno degli articoli del 2016 sulla “Quadriennale di Roma” che descrive, insieme ad altre, la sezione dell’esposizione dedicata alle opere di artisti ispiratisi alla sua “Orestiade”. Così termina la nostra personale celebrazione di una figura prima controversa ma ora universalmente esaltata e onorata.

Postato da arteculturaoggi.com [30/10/2016, 12,30]

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra “Altri tempi altri miti” della 16^ Quadriennale di Roma, al  Palazzo Esposizioni, dal  13 ottobre 2016 all’8 gennaio 2017, che torna dopo otto anni con 150 opere di 99  artisti  italiani contemporanei selezionati da 11 curatori, esposte in 10  sezioni sui temi intorno ai quali i curatori le hanno raggruppate spiegandone ampiamente le motivazioni. E’ stata organizzata dalla Fondazione della Quadriennale  presieduta da Franco Bernabè e dalla Azienda speciale Palaexpo cui fa capo il Palazzo Esposizioni con il commissario Innocenzo Cipolletta, istituzioni che hanno curato anche il Catalogo, e fornito la copertura finanziaria con il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. L’ENI è “main partner”della mostra, c’è una sua apposita installazione, mentre la BMW è “partner” con un’opera celebrativa, la “BMW Art Car” di Sandro Chia. .  

Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato ,2012-2016” Veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”,  settembre 2015,

Altre 3 sezioni,  “Orestiade italiana”, “Ad occhi chiusi ma aperti”, “De rerun rurale”,

Abbiamo già descritto le prime 4 sezioni della mostra, l’ultima delle quali ispirata a Tocqueville, e abbiamo anticipato  che un altro ispiratore  è Pier Paolo  Pasolini, nella sezione “Orestiade italiana”. Il curatore Simone Frangi si ispira  ai suoi  “Appunti per un’Orestiade africana”, analizzati per “recuperare il carattere propedeutico, ipotetico, di ricognizione e di risveglio politico”.  Di qui la scelta di artisti su temi come “studio dei conflitti latenti e della stasi europea; dinamiche turbo capitaliste e accelerazioniste; micro fascismi, normalizzazioni sociali; legami ambivalenti tra approccio documentario e orientalismo culturale e multiculturale in prassi antropologiche ed etnologiche” e altri sul colonialismo, fino ai “fenomeni migratori trans-continentali intereuropei”, al “sincretismo religioso”, alla “resistenza politica e simbolica”. 

Diego Tonus, “Il baro”, 2016

Non abbiamo la velleità di individuare  le opere riferite ai temi specifici così enunciati, citiamo  per prima la spettacolare immagine di una sorta di “cave” moderna, “Helicotrema, veduta di una sessione d’ascolto al festival dell’audio registrato”, di Blauer Hase e Giulia Morucchio; poi la foto di epoca coloniale sovrastata dalla grande scritta “Has the ‘new man’ moved on to colonise our memory?”, di Alessandra Ferrini, dal titolo “Negotiating Amnesia”, e “Il Baro”,  di Diego Tonus, altra immagine coloniale. Tra le altre ritroviamo Nicolò Degeorgis, con le immagini “Hidden Islam”Vincenzo Latronico e Armin Linkeo con foto in bianco e nero di un viaggio in Etiopia, Danilo Correale e Blauer Hase il primo con un “libro d’artista”, il secondo con la pubblicazione  “Paesaggio”. Per il resto filmati e video, da Riccardo Arena a Invernomuto, Maria Iorio e Raphael Cuomo, Giulio Squillacciotti e Camilla Insom, Carlo Gabriele Tribbioli e Federico Lodoli;  

E’ un‘Orestiade che si avvale di tutti i mezzi  per approfondire lo sguardo. In questo tourbillon video e sonoro spicca l’efficacia cartesiana dei 4 diagrammi ” dai titoli intriganti, “Analogia senza rimpatrio” e “Allegoria senza malinconia”, “Etica generica senza identità” e “Via d’uscita”  nel segno dell’innocenza e della fiducia, un finale positivo, dunque.

Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d.

Il personaggio, cui si ispira Luca Lo Pinto,  curatore della sezione “Ad occhi chiusi gli occhi sono straordinariamente aperti”, è Emilio Villa, che nel 1941 emise un giudizio sulla storia antitetico alla vulgata comune che “Historia est magistra vitae”, per lui “la Storia è uno sbaglio continuo che non si ferma e non si stanca mai di sbagliare, di rifare, di rivedersi, di ricredersi, di affermare oggi, per rimangiarsi tutto domani”. E non si è limitato ad affermarlo, ha cercato di cancellare ogni riferimento temporale nelle sue opere per impedirne la storicizzazione, ed evitare ad ogni costo di entrare nella storia facendo di tale atteggiamento un valore esistenziale.

Questa premessa per inquadrare la sezione,  imperniata sull’esigenza di non farsi mistificare da ciò che si vede, come avviene con i fatti storici,  ma di aprirsi, chiudendo gli occhi, al sogno e alla meditazione che portano a percezioni fuori dell’ordinario e rimuovono ogni contraddizione. In questo senso l’anima è nelle cose, e gli artisti nelle loro opere che ne sono espressione  rivelano “un modo personale di guardare al mondo, insieme singolare e universale”. Di qui una sezione “archeologica”, che parte da un frammento di vetro dipinto con l’immagine di una vergine e una scritta a pennarello di Villa, in un greco indecifrabile.  L’esposizione è concepita “come un dispositivo di visione in cui tutte le opere, chiuse come ricci, possano vedere lentamente la luce e guardare negli occhi chi le osserva”, in una speciale dimensione temporale. Per Giorgio Andreotta Calò questa dimensione è quella della clessidra, l’immagine fotografica nella doppia versione dello scatto e nella sua trasposizione  si specchia su se stessa rivelando una doppia identità, mettendo in relazione “il sensibile e l’intelligibile”, sono 4 località in dissolvenza.

Roberto Cuoghi, “Pazuzu”, 2014

Se questo appare criptico non lo è da meno il “Poggiaschiena” di Martino Gamper, “Back to Front Chair (Single)”, e così le tre opere “Senza Titolo” in gomma e altro materiale di Nicola Martini, e il totem “Pazuzu” di Roberto Cuoghi. Mentre “Le storie esistono solo nelle storie” di Rà di Martino è un documento vivo e animato, che dall’archeologia riporta alla realtà presente.

Le restanti 4 sezioni entrano  ancora di più nell’attualità, a dispetto dell’erraticità e irrazionalità della creatività ontemporanea: si va dai mutamenti dell’ambiente alla cibernetica passando per il riciclo e le periferie,  una rassegna dei disagi e delle opportunità dell’attuale fase storica. Ciò vale per le enunciazioni e le motivazioni dei curatori, e lo abbiamo già visto nella presentazione del 6 giugno, mentre per le interpretazioni degli artisti siamo sempre nell’indeterminato e inconoscibile.

Danilo Correale, “The Great Sleeper”, 2008

“De Rerum rurale” non si riferisce al mondo agricolo, come potrebbe sembrare, Matteo Lucchetti vi ricomprende quelle aree sempre più vaste in cui si perdono i confini tra città e campagna, come i centri commerciali e le villette con il verde ai margini delle città, le valli e i terreni di discarica, e quant’altro di urbanizzato al di fuori dei centri e in contatto con la campagna. Il terreno agricolo  è stato decimato dal consumo di suolo connesso alla cementificazione urbana, fino ad esporre il territorio ai rischi del dissesto, un “rurale continuo” che si sottrae ad ogni regola di protezione. 

La sezione ispirata  al “De rerum natura” di Lucrezio interpreta la natura in chiave rurale: “Come ambiente in crisi e biisognoso di nuove narrazioni, come luogo abitato da comunità in conflitto tra loro o, ancora, come spazio ibrido, in divenire, dove la metamorfosi tra stati è generativa di scenari inediti e trasformativi”. Ben 14 artisti sono mobilitati  intorno a questo tema, distribuiti in tre spazi nei quali l’allestimento passa dall’ordine all’accumulo e all’entropia, cioè dalla disciplina alla frenesia, seguendo Lucrezio secondo cui la natura prima crea e alimenta, poi accresce, infine distrugge.  Oltre agli oggetti semplici e ordinati di Anna Scafi Eghenter, tra cui una serie di righelli sagomati, le “Matrici irregolari”, e un contenitore di “acque internazionali”, “Res communis omnium”, vediamo evocati gli abusi delle multinazionali e le minacce al paesaggio. Di Adelina Husni-Bej, che ritroviamo nella sua terza sezione, un  manifesto recante una ideale convenzione sull’uso dello spazio con tante annotazioni colorate, frutto di approfondimenti del tema, cui accostiamo il racconto di due viaggi molto speciali  di Rossella Biscotti.  

Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”

Molto diverse  le opere di Valentina Vetturi sugli hacker,  installazione luminosa e “coro a cadenza casuale”, e di  Danilo Correale, che con il titolo “The Great Sleeper” presenta la figura di Edison addormentato tra strumenti di misura del riposo nello sfruttamento capitalistico del lavoro. Da un ordine così inquietante si passa alla formazione di comunità come difesa collettiva, che gli artisti presentano con  installazioni e performance, così Marzia Migliorai visualizza l’assenza con le pannocchie abbandonate,Elena Pugliese fa rivivere la storia estrema dell’imprenditore Isidoro Danza, rapinatore  per pagare i suoi operai, cui segue la storia  di Simone Pianetti che uccise i simboli del potere e divenne mito degli anarchici, nell’installazione di Riccardo Giacconi e Andrea Morbio. Più pacifiche le storie comunitarie di Beatrice Catanzaro, su un’associazione di donne per donne, e di Marinella Senatore, con i suoi strumenti  per stimolare la partecipazione, foto, collage, ecc.

Lo spazio del disordine entropico cerca di rendere i turbinosi cambiamenti nel mondo agricolo con riferimento anche alle antiche mitologie rurali. Queste sono evocate da Moira Ricci, in “Da buio a buio”, museo immaginario di immagini in bianco e nero dei contadini maremmani, mentre l’installazione di Leone Contini  celebra con vivace cromatismo “Un popolo di trasmigratori”. La varietà delle forme artistiche comprende il busto di un agronomo giapponese intitolato alla sua  “Rivoluzione del filo di paglia” con immagini di “Riso amaro”, di Michelangelo Consani, e un film di Nico Angiuli sulla “Cerignola di ieri dentro quella di oggi”, con lo sfruttamento dei migranti che cancella le lotte vittoriose del passato. Ai migranti si riferisce anche l’opera di Luigi Coppola, “Dopo un’epoca di riposo”, che documenta , con video e stendardi, la riqualificazione di aree degradate a discarica convertite con culture miste, “scelte dal terreno”  più che dall’agronomo, in un’integrazione naturale metafora di quella con i migranti.

Paolo Icaro, “Pile Up”, 2008 (1978)

Le ultime tre sezioni,  “Periferiche”, “La seconda volta” e “Cyphoria”

Dal rurale inteso anche come estensione abnorme dell’urbano alle “Periferiche”,  un tema che in passato ha interessato pittori come Mario Sironi il quale ha evocato le “periferie”  con intensi dipinti nei quali si sente la solitudine. La curatrice Doris Viva afferma che occorre sfatare l’illusione di una loro vitalità data da un policentrismo positivo, la globalizzazione schiaccia ogni cultura localizzabile e quindi identitaria. “Periferia, in una geografia ormai delocalizzata e interconnessa, non può che ritenersi quel luogo incapace di attrarre investimenti, privo di grande valore strategico e soggetto a fenomeni sociali, demografici e culturali tutt’altro che dinamici”; perciò si apre una “fase di riconfigurazione della quale è impossibile allo stato attuale prevedere il destino”.  Tutto questo si riflette anche sugli artisti, che vedono smarrire la loro identità nell’omologazione globale, ma possono anche “documentare o criticare tali processi, sollecitare discorsi di consapevolezza e di coscienza politica, oppure, a partire dalla scala della propria singolarità, tentare vie di mobilità e di emancipazione”. 

Gli 8 artisti prescelti hanno deciso di operare in periferia per ripararsi dalla globalizzazione e sentire la linfa della  loro eterogeneità, senza però ostentare questa posizione “dislocativa” che pure li alimenta.  Hanno in comune “la rivendicazione di un tempo più biologico e meditato” e “una forma di più radicale attenzione a un’antropologia del quotidiano, a un’umanità poco dinamica”,  la “vocazione della loro ricerca per la reiterazione”,  e “l’assoluta indifferenza per l’evoluzione tecnologica”.

Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim”, 2013

Colpisce  la lunga cassa coperta di riquadri ad uncinetto colorati, “coperta di lana e zucchero”, intitolata Sim Sala Bim”, di Giulia Pisciatelli,  e la catasta di travi di Michele Spanghero, “Listening is Making Sense”, la colonna piramidale in gesso di Paolo Icaro, “Pile Up”, e il trittico “Paesaggi” di Maria Elisabetta Novello.  Poi il bianco e nero “Volti dell’anonimo” di Paolo Gioli, che espone anche “Luminescenze”, fino al “Massimo Ritratto” e agli “Affreschi su Impressione” di Emanuele Becheri“Parte della superficie terrestre” di Carlo Guaita è una borsa sul pavimento, come se fosse smarrita o dismessa.

E così dalle “Periferiche” passiamo alla sezione “La seconda volta”, che essendo ispirata al riuso dei materiali scartati, in un certo senso si associa al senso di marginalità attribuito al periferico. Ma come le periferie diventano fondamentali in una visione equilibrata della città, così il riuso acquista un ruolo centrale nel riequilibrare gli eccessi del consumismo che distrugge risorse non sempre riproducibili. Gli scarti sono stati definiti “la faccia tragica del consumismo” e hanno attirato anche gli artisti nel riciclo e assemblaggio, tra loro  ricordiamo i legni abbandonati dell’americana Louise Nevelson,  i residui bellici del libico Wak Wak, i rifiuti da discaricadell”italiano Alessio Deli; ben prima, il riuso con finalità artistiche ha fatto nascere il collage, sin dai Futuristi,  e il “ready made”, Marcel Duchamp avanti a tutti. Ma a parte quest’ultimo, che ha nobilitato oggetti di uso comune, i materiali di recupero sono stati impiegati al servizio dell’arte soprattutto scultorea al posto  di quelli tradizionali. Invece,  i  5 artisti presentati nella sezione curata da Cristiana Perrella, non scolpiscono né dipingono, si avvicina al “ready made” Martino Gamper con le sue “100 sedie in 100 giorni” , “trovate, smontate e riconfigurate”; mentre un riuso originale di una statua classica, traducendo il marmo imperiale in poliuretano, lo troviamo in Francesco Vezzoli, che in “Metamorfosi (Autoritratto come Apollo che uccide il satiro Marsia)”,  ha sostituito con il calco del proprio volto il viso dell’Apollo del Belvedere mantenendo intatto il resto della statua. 

Lara Favaretto, “032-2012”, 2015

L’opposto fa Lara Favaretto che punta sulla cancellazione di un’opera, più che sulla reiterazione,  in forme transitorie  che ne fanno trasparire qualche traccia per farla riemergere in un ciclo reversibile, “Dipinti trovati, lana” sono tre tele rosse con dei contorni sottostanti appena delineati, come quelli di ripensamenti, ci tornano in mente il minimalismo con Rauschenberg e, in tutt’altro senso, le “cancellature”  di Isgrò. Mentre A1ek O. espone oggetti o materiali presi dalla quotidianità, in qualche caso anche personale o familiare, per dare loro una nuova vita che mantiene il retaggio di quella precedente con interventi minimali, spesso assemblaggi operati artigianalmente. Così nelle greche di “Tina” e in “E’ già mattino”, una parete derivata dai manifesti, foderata di celeste con applicazioni dai colori brillanti. Ma il più spettacolare, quanto più elementare, ci è sembrato  “Himalaya” di Marcello Maloberti, un giovane apollineo a torso nudo accovacciato a terra, vera scultura umana, intento a ritagliare dai libri d’arte le foto di sculture classiche, cosparse sul pavimento per essere calpestate e spostate dai visitatori: venendo mosse in modo casuale e continuo danno il senso dell’imprevedibilità della vita.

E siamo all’ultima sezione, nel nostro personale percorso non può che essere “Cyphoria”, dove il curatore Domenico Quaranta affronta il tema del futuro che è già iniziato. Quello della “disforia”, cioè il disagio  e l’insoddisfazione, applicata alla cibernetica, in particolare a Internet che ha stravolto tutti i campi e i momenti della vita diventando in molti casi quello che Gene McHugh ha definito “non un posto del mondo in cui rifugiarci, ma piuttosto quello stesso mondo da cui cercavamo rifugio”.  E’ stata così rapida e pervasiva la sua diffusione, anche con gli strumenti di comunicazione più avanzati che si sono moltiplicati, come i “social network”, che non si riesce a dominare un mondo virtuale dalle parvenze del reale né a decodificarne i linguaggi e a contenerne l’influenza.

Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto
come Apollo che uccide il satiro Marsia”)

Anche nell’arte questa nuova forma di espressione si è diffusa  come tecnologia innovativa; ma pochi, osserva il curatore, “realmente affrontano la questione di cosa significhi pensare, vedere e filtrare le emozioni attraverso il digitale”.  Tra loro, i 14 artisti  presenti in questa sezione della mostra, che esplorano la nuova sconvolgente condizione umana sotto diversi aspetti critici a livello pubblico e privato, passando dalle problematiche generali alle reazioni intime.

Sarebbe arduo cercare di descrivere le opere presentate, per lo più si tratta di video, film o di installazioni molto elaborate, ci limitiamo a citare dei titoli, in relazione ai temi esplorati. Eva e Franco Mattes con i video di “Befnoed”  parlano della “nuova schiavitù”  con lo sfruttamento del lavoro via Internet, tema trattato anche da Elisa Giardina Papa in “Technologies of Care”, un video sulle lavoratrici “on line”. Enrico Boccioletti in “Angelo Azzurro” entra, sempre con un video, nella disperazione generazionale, mentre della zona grigia tra arte e spazzatura mediale si occupa Roberto Fassone insieme a Valeria Mancinelli con l’archivio video “The Importance of Being Context”, al quale accostiamo il tema che il collettivo “Alterazione video” sviluppa con il turbo-film “Surfing With Satoshi” e l’installazione “Take Care of the One You Love”.  “Overexposed”, di Paolo Cirio e Giovanni Fredi, con i ritratti di membri della CIA viola il loro privato come l’agenzia di intelligence fa regolarmente nella sua attività spionistica, mentre Fredi presenta dei “selfi” che si moltiplicano sul web in “Everyone Has Something to Share”.

Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share”, 2015

Un approccio visivo delicato quello di Simone Monsi con la serie “Transparent Word Banners” e di Kamilia Kard con “Betrayal”, mentre in “My Love is Religious – The Three Graces” esplora l’amore “on line”.  Mara Oscar Cassiani con l’installazione “Eden” si cimenta sulla ricerca del relax, la cura dell’acqua e la mercificazione della cura del corpo, e Natàlia Trejbalovà con il video “Relax” e un’installazione denuncia i rischi ambientali e climatici a cui reagire con piccoli sistemi eco-domestici. Vi colleghiamo Marco Strappato che indaga sui cambiamenti dell’immagine del paesaggio e sul modo in cui le arti plastiche reagiscono con la forma-schermo, e lo fa in una stampa e armadietti con schermi dal titolo “Apollo and Daphne e Laocoon”, tema che troviamo in evidenza nella scultura di Quayola, “Laocoon”,  un clone dell’originale di grandi dimensioni, rispettoso dell’antico, con effetti di digitalizzazione; è una presenza spettacolare di forte rilievo scultoreo, come di  forte rilievo pittorico sono i quadri del ciclo “The Brotherhood” di Federico Solmi,  video animazioni di figure di leader dalle maschere grottesche come i generali di Enrico Baj, che nella loro vistosa presenza  disvelano quanto la  finta  fratellanza sia fonte di caos e degenerazione.

La “centesima” opera esposta, la “BMW Art Car” di Sandro Chia, con cui si celebra il centenario del gruppo automobilistco  e il mezzo secolo della sua presenza in Italia, è il fuoco d’artificio finale di una mostra che fa sentire proiettati nel futuro. L’arte associata alla tecnologia conclude un percorso in cui non è mancato l’elemento umano: anche figure umane maschili  e femminili accoccolate la cui serietà e compostezza nella postura allontana ogni possibile associazione con l’irridente scena delle “Vacanze intelligenti” di Alberto Sordi, in cui la “sua signora” seduta viene scambiata per una scultura vivente. 

Del resto anche così  l’arte contemporanea, che nella rutilante esposizione abbiamo visto declinata in un tourbillon di manifestazioni con l’impiego dei materiali più diversi e delle forme espressive più varie, fa riflettere seriamente sul futuro.

Ed è questo il merito della  mostra  nella prospettiva del  rilancio permanente della Quadriennale romana negli spazi ristrutturati del settecentesco  Arsenale Pontificio.    

Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces”

Info

Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Tutti i giorni, tranne il lunedì chiuso, apertura ore 10, chiusura ore 20 prolungata alle 22,30 il venerdì e sabato. Ingresso intero euro 10, ridotto euro 8, riduzioni a studenti e scuole, biglietteria aperta fino a un’ora prima della chiusura della mostra.  http://www.quadriennale16.it.  Catalogo “Q’ 16^ Altri tempi altri miti, Sedicesima Quadriennale d’arte”, La Quadriennale di Roma e Azienda Speciale Palaexpo, ottobre 2016, pp. 278, formato   23,5 x 30,5;  dal Catalogo è tratta la gran parte delle notizie e citazioni del testo. Gli altri 2 articoli  sulla mostra sono usciti in questo sito il  24 e  27 ottobre,  l’ultimo articolo, sul confronto tra curatori, uscirà  il 29 novembre 2016; l’articolo di presentazione della mostra è uscito il  16 giugno 2016. Per gli artisti citati cfr. i nostri articoli.  in questo sito,  su Pasolini, 16 novembre 2012, 27 maggio e 15 giugno 2014, 27 ottobre 2015, su Duchamp gennaio 2014, Nevelson 25 maggio 2013, Wak Wak 27 gennaio 2013, Deli  21 novermbre 2012 e 5 luglio 2013, Isgrò 16 settembre 2013, Sironi, 1, 14, 29 dicembre 2012, 7 gennaio e 2 novembre 2015; in “fotografia.guidadel consumatore.it”, per Pasolini  4 maggio 201, tale sito non è più raggiungibile, gli  articoli aaranno ricollocati.

Foto   

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella mostra al Palazzo Esposizioni o tratte dal Catalogo, si ringraziano la Fondazione della Quadriennale e l’Azienda Speciale Palaexpo per l’opportunità offerta. Sono 2 immagini per ogni sezione, riportate nell’ordine in cui le sezioni sono commentate nel testo. In apertura,  Blauer Haase-Giulia Morucchio, “Helicotrema, Festival dell’audio registrato 2012-2016”, veduta di una sessione d’ascolto, Forte Marghera”  settembre 2015, seguito da Diego Tonus, “Il baro” 2016; seguono, Emilio Villa “Testo manoscritto a pennarello su frammento di vetro dipinto”, s. d., e Roberto Cuoghi, “Pazuzu” 2014; quindi, Danilo Correale, “The Great Sleeper”, e Beatrice Catanzaro, “Fatima’s Chronicles-Wara’ Dawali”, inoltre, Paolo Icaro, “Pile Up” 2008 (1978), e Giulia Piscitelli, “Bim Sala Bim” 2013; ancora, Lara Favaretto, “032-2012”, 2015, e Francesco Vezzoli, “Metamorfosi (Autoritrtto come Apollo che uccide il satiro Marsia”, infine, Giovanna Fredi, “Untitled (Everyone Has Something to Share” 2015, e Kamilia Kard, “My Love is So Religious. The Three Graces” 2016; in chiusura, Marcello Maloberti, “Himalaya” 2012. 

Marcello Maloberti, “Himalaya”, 2012

Pasolini, 6. Altri 14 artisti per 7 sue poesie, al Palazzo Incontro

Si conclude la nostra personale celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini con l’ultimo dei 6 articoli che abbiamo ripubblicato sulle mostre a lui dedicate visitate nel decennio scorso, cominciando il 5 marzo, il giorno della ricorrenza nel quale abbiamo rievocato la mostra del 2012 di Monica Cillario – sulla sua prima abitazione romana – e proseguendo nei quattro giorni successivi con i nostri due articoli sulla mostra del 2014 “Pasolini Roma” al Palazzo delle Esposizioni – sulla sua figura di poeta e scrittore, saggista e regista, e le vicende della sua vita stroncata tragicamente – seguiti dall’articolo sulla mostra del 2015 “I tanti Pasolini” a “Spazio 5” – sulla sua immegine nelle fotografie di Carlo Riccardi, testimonianze di personaggi, e non solo – , fino al primo dei due articoli sull’omaggio di 22 artisti ispiratisi alle sue poesie nella mostra del 2012 a Palazzo Incontro al quale segue l’articolo odierno che conclude la nostra rievocazione sulle mostre a lui dedicate. Ma non finisce qui la nostra personale celebrazione, avrà un seguito domani con l’articolo che descrive, insieme ad altre, la sezione della “Quadriennale di Roma” del 2016 dedicata alle opere di artisti ispiratisi alla sua “Orestiade”.

Postato da arteculturaoggi.com [16/11/2012 00:42]

di Romano Maria Levante

Si conclude la nostra visita alla mostra  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini” al Palazzo Incontro di Roma dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,promossa dalla Provincia di Roma su progetto di “Teorema”, in collaborazione con “Civita”, con le opere di 22 artisti contemporanei ispirate ad 11 poesie di Pasolini esposte anch’esse al loro fianco . In precedenza abbiamo esposto le motivazioni della mostra presentata da Nicola Zingaretti con i realizzatori Gianni Borgna, Achille Bonito Oliva e Flavio Alivernini curatore anche del Catalogo.

L’opera di Veronica Botticelli  

Da “La religione del mio tempo” a “Marilyn”

Abbiamo già  descritto i primi 4 abbinamenti tra poesie e interpretazioni di una coppia di artisti ciascuna: il primo da “Le ceneri di Gramsci”, gli altri 3 da “La religione del mio tempo”, 1959-60, con 8 artisti impegnati a tradurre in immagini visive le espressioni poetiche dai forti contenuti.

Passiamo agli altri 7 abbinamenti, iniziando con  “Alla mia nazione” ,tratta  ancora da “La religione del mio tempo”, “Nuovi epigrammi”. Contiene un’altra aspra invettiva, dopo quella “A un papa” di cui abbiamo detto in precedenza. La nazione viene definita in termini severi, terra di “milioni di piccoli borghesi come milioni di porci”, i cui esponenti, dai governanti agli impiegati, dagli agrari ai prefetti, ai funzionari, sono “affamati, corrotti”. Per questo “proprio perché sei esistita, ora non esisti, proprio perché fosti cosciente, sei incosciente”.  E in quanto “colpa di ogni male”, da nazione cattolica, ecco l’invettiva: “Sprofonda in questo bel tuo mare, libera il mondo”.

Gianni Dessì, in “Lucciola” ne dà un’interpretazione enigmatica, una scultura in ceramica scura con due mani annodate che però non pregano, si stringono ma lasciano un varco, buono per la lucciola. Il “Campionario” di Elena Nonnis esprime la molteplicità dei soggetti evocati dalla poesia con 20 ritratti a penna e in filo nero su tela di lino, una scacchiera di tipi umani di ogni età e condizione.

Il “Frammento alla morte”, dalle “Poesie incivili”, del 1960,  è un’invocazione “vengo da te e torno a te” in cui ripercorre la sua vita “battezzato quando il vagito era gioia”, in un accavallarsi di sentimenti: “Ho camminato alla luce della storia, ma, sempre, il mio essere fu eroico, sotto il tuo dominio, intimo pensiero”. Le sue contraddizioni:  “La furia della confusione, prima, poi la furia della chiarezza; era da te che nasceva, ipocrita, oscuro sentimento!”. Con la morte che dà forza all’esistenza: “Tu mi isoli, mi dai la certezza della vita”.  Fino alla reazione alla nevrosi che “mi ramifica accanto, l’esaurimento mi inaridisce , ma non mi ha: al mio fianco ride l’ultima luce di gioventù”. E dopo tanto vissuto l’esclamazione finale: “Africa! Unica mia alternativa…”.

La seggiola dalla spalliera con la scritta “1922-1975”,di Veronica Botticelli è più di un epitaffio: la sedia è fragile per la sua esistenza precaria ma è da regista perché la sua opera ha lasciato il segno, è vuota per la perdita incolmabile. In “Senza titolo” di Nunzio, due corpi neri lignei sovrapposti sfalsati mostrano gli opposti confluiti nella sua poesia, che hanno però un sottile punto di incontro.

Resta la morte con “Marilyn”, del 1962,  la poesia è un inno accorato alla bellezza, di una “sorellina minore”  restata bambina: “Fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente”. E si approfittò delle sue debolezze: “Impudica per passività, indecente per obbedienza. L’obbedienza richiede molte lacrime inghiottite. Il darsi agli altri”.  Per questo “sparì, come una bianca ombra d’oro”, un “pulviscolo d’oro”. E “la tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne così un male” . Ma  “sei tu la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte”

Franco Gulino in “Pasolini”  interpreta la Marilyn del poeta così ricca di significati con una figura inquietante, un  corpo femminile dalle lunghe gambe inguainate esibito senz’anima né sesso, il belletto sul viso pasoliniano angosciato dà all’immagine un tono grottesco fra il trans e il clown triste.  Di Laura Canali “Alle radici dell’essenza”, una composizione di forme e colori mossa e vivace, che vorrebbe rendere il fluire dei moti dell’anima,  in una brillante  astrazione pittorica..

L’opera di Giosetta Fioroni

Da “Poesia in forma di rosa” a  “Transumar e organizzar”

In “Poesia in forma di rosa. La realtà” è contenuta  “Supplica a mia madre”, un’invocazione struggente in un rapporto assoluto, esclusivo: “Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore, ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore”. E aggiunge: “Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù”.  Insiste sulla forza di questo “impegno immenso”, che era “l’unico modo per sentire la vita” fino a quando questo è finito, con “la confusione di una vita rimasta fuori dalla ragione”.  Per questo ” è dannata alla solitudine la vita che mi hai data”.

“Gloria”  di Enzo Dubini rende questo sentimento esclusivo con nove elmetti militari sui quali sono delineati in pittura acrilica i contorni prenatali trasformando il simbolo della guerra in un sacco marsupiale protettivo. Giosetta Fioroni intitola con il verso del poeta “E’ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia” una scultura nera con una parte inferiore squadrata e una parte superiore informe e delle mani dorate che ne escono assicurando un approdo  e un contatto rassicuranti.

“La Guinea” è tratta dalla stessa raccolta, inizia con un omaggio alla poesia, “alle volte è dentro di noi qualcosa  di buio in cui si fa luminosa la vita”; diventa una visione onirica di ambienti esotici colorati con una negritudine che ha i caratteri della bellezza, poi il pensiero va al proprio mondo perduto,  la Grecia, Roma e “i piccoli centri immortali”, rispetto a “questo popolo ormai dissociato da secoli”  verso cui “la mia ingenua rabbia non è competitrice”.

Fino al risveglio in terra italiana con i prati  bianchi e i “ruderi consumati da rustiche piogge e liturgici soli”, che lo fa esclamare: “La Negritudine è in questi prati bianchi, tra i covoni dei mezzadri, nella solitudine delle piazzette, nel patrimonio dei grandi stili – della nostra storia”.  E splende anche il sole: “Un sole che morendo ritira la sua luce, certa allusione a un finito amore”.

Questo messaggio così intenso non arriva al destinatario, circostanza su cui  fa leva Giuseppe Pietroniro  interpretandolo come “Un messaggio mai recapitato”:  una busta con la parte trasparente dell’indirizzo dalla quale si intravede un contenuto affastellato di falci di luna e simulacri di vita, imprigionato nella lettera che a sua volta è chiusa nella cornice, in una doppia compressione. Mentre Nino Giammarco prende come titolo il verso “Io muoio, ed anche questo mi nuoce” in cui c’è la reazione all’indifferenza e all’insensibilità del nostro popolo anche di fronte alle tragedie, e lo declina in un un‘opera in ferro saldato a forma di tempio violentemente scoperchiato per liberarsi dalle false protezioni, superare stereotipi e tabù e liberarsi dal fardello di un passato ingombrante.

“La poesia della tradizione”  fa parte di “Transumar e organizzar”, in particolare dei “Poemi zoppicanti”.  Si rivolge alla “generazione sfortunata”  e alle sue illusioni rivoluzionarie in un mondo che chiedeva “ai suoi nuovi figli di aiutarlo a contraddirsi per continuare”: un  mondo “rinnovato attraverso le sue reazioni e repressioni, ma soprattutto attraverso voi che vi siete ribellati proprio come esso voleva”. Portando il giovane alla maturità e alla vecchiaia “senza aver goduto ciò che avevi diritto di godere e che non si gode senza ansia e umiltà”; con la disillusione “di aver servito il  mondo contro cui ‘portavi avanti la lotta’”. E dopo un’amara riflessione sull’autorità paterna, “oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano una meravigliosa vittoria che non esisteva!”.

“Il corvo” di Mauro Di Silvestro  incarna  le disillusioni per i simboli e gli ideali marxisti nel nero volatile di “Uccellacci e uccellini”, al centro di una tavola dipinta a scacchiera con cubi dalle facce nere, rosse e beige mentre una falce e martello capovolta visualizza la crisi dell’ideologia comunista e una scritta identifica il corvo nell’intellettuale di sinistra e rimanda alla morte di Togliatti.  Assenza di colore nella superficie bianca con testa in rilievo in “Conversazione” di Oliviero Rainaldi: è la perdita di valori, identità e possibilità di comunicare della “generazione sfortunata”, attraverso un calco facciale senza fisionomia, staccato dal corpo; quindi un intellettualismo sterile e impotente, senza gambe per  far camminare le idee, quasi un’impersonale maschera di attore.

Della stessa raccolta “Transumar e organizzar”, libro secondo “Charta (sporca)”,  abbiamo l’ultima poesia proposta agli artisti, “Versi del testamento”, una straordinaria riflessione fortemente autobiografica sulla solitudine, che porta agli incontri effimeri e illusori e anche alla solidarietà..

 “Bisogna essere forti per amare la solitudine”, perché spinge a girare senza sosta alla ricerca di un qualcosa che possa alleviarla. Non bastano i fugaci incontri, anche amorosi, “non sono che momenti della solitudine” e  la accentuano: “Chi poi se ne va  si porta dietro una giovinezza enormemente giovane; e in questo è disumano perché non lascia tracce”. Tanto più numerosi gli incontri quanto più si resta soli: “La solitudine è ancora più grande se una folla intera attende il suo turno”. Nel giovane “è il mondo che così arriva con lui, appare e scompare, come una forma che muta. Restano intatte tutte le cose”.  E al termine  un pensiero filosofico in cui la negazione diventa affermazione: “E allora cosa ti aspetta se ciò che non è considerato solitudine  è la solitudine vera, quella che non puoi accettare?”: la ricerca “senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”. Qui la solitudine diventa solidarietà, la vera ancora di salvezza.

Sono due opere fotografiche ad esprimere in linguaggio figurativo questi contenuti filosofici  e insieme personali. “Più caldo e vivo è il corpo gentile” è un verso con il quale Matteo Basile intitola l’immagine di una dolente figura femminile  con il viso sofferente dai lineamenti orientali avvolto da un fazzoletto rosso, lo sguardo a terra mentre spunta un seno dal corpo giovane  già molto vissuto. Sono questi gli incontri che si fanno con la soddisfazione di scoprire la solidarietà. La fotografia “Senza titolo” di Claudio Abate  raffigura la solitudine nell’uomo che fuma seduto dietro a un tavolino nella stanzetta in una specie di tunnel oscuro nel quale, però, non è del tutto solo:  gli fa compagnia la luce che spiove sul tavolo da una lampadina accesa e dà consistenza allo spazio, si irradia nelle volute di fumo che sembrano ectoplasmi emessi dai suoi pensieri; potrebbe essere l’immagine della sua stessa solitudine riscaldata dalle sue riflessioni profonde e illuminate.

L’opera di Oliviero Rainaldi

Cosa è rimasto oggi di quello che ha detto quando c’era

Abbiamo riportato alcuni  tratti essenziali delle poesie di Pasolini pur perdendone nell’estrema sintesi la verve polemica e la forza di una denuncia gridata con il cuore e l’anima, spesso con toni disperati. Sulle interpretazioni artistiche ci siamo limitati a render conto delle componenti visive, aggiungiamo che la qualità delle opere  è spesso notevole, così il loro grado di accuratezza.

Però non possiamo esimerci dal dare la nostra impressione complessiva sui contenuti:  ebbene, ci è parsa, nella gran parte delle opere, più una esercitazione artistica pur impegnativa e sentita che una immedesimazione autentica, non vi abbiamo visto riflessa la denuncia accorata del poeta, la sua rabbia esistenziale, il suo allarme epocale gridato a viva voce. Non crediamo sia stata mancanza di coraggio, bensì il venir meno della straordinaria spinta ideale e vitale legata all’unicità e singolarità del personaggio che sentiva sulla sua carne i morsi lancinanti di una realtà che respingeva. Questo non incide sulla caratura degli artisti e sul risultato dell’esperimento compiuto sotto il profilo della qualità espressiva; innalza invece ancora di più la statura e moltiplica il valore dell’opera di Pasolini che si conferma dopo questa verifica come irripetibile e ineguagliabile. Per cui le sue poesie e la sua stessa vita assurgono a testimonianze insostituibili di una presenza vitale perduta per sempre ma per la sua unicità divenuta una pietra miliare nella storia della nostra società e della nostra epoca.

All’interrogativo di Alivernini “cosa è rimasto oggi  di quello che ha detto quando c’era”  possiamo  dare quindi questa risposta: un convinto omaggio artistico di alta qualità al personaggio e alla sua battaglia civile, intriso di ammirazione oltre che di rispetto, ma con poca motivazione autentica e tanto meno mobilitazione sui temi che lo hanno visto mettere la propria vita in gioco, e diventare il “bersaglio emblematico”  di cui parla Bonito Oliva. Non a caso tra le più espressive ci sono apparse le interpretazioni della solitudine e della solidarietà con quelle del senso materno; tra le meno efficaci quelle sulle  materie in cui la sua vis polemica era stata  più sferzante fino a divenire feroce.

Detto questo come impressione generale, dobbiamo aggiungere che tra tutte ci è rimasta dentro la composizione funebre di Kounellis, la casacca sdrucita sulla fredda portantina a terra, triste  “monumento” funebre di tante morti di poveri emarginati e derelitti ed anche della sua fine solitaria e desolata quasi a volerle condividere: oscura ma illuminata dai fiori rossi dell’amore dei giusti.

Concludiamo il rapido excursus tra i suoi versi e la trasposizione artistica con la citazione molto appropriata  di Alivernini dal “Trattato della pittura”  di Leonardo da Vinci sul rapporto tra poesia e pittura: “La pittura è una poesia che si vede e non si sente, e la poesia è una pittura che si sente e non si vede”. Insieme “hanno scambiato i sensi, per i quali esse dovrebbero penetrare all’intelletto”. Ed è proprio quello che avviene con la mostra, nel segno del nume tutelare Pier Paolo Pasolini.

Info

Palazzo Incontro, Roma, via dei Prefetti, 22, dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,  martedì-domenica ore 11,00-18,00,  entrata fino alle 17,30, lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel.  Palazzo Incontro  06.97276614; “Teorema” 392.2984.600. Info@teoremacultura.com, http://www.teoremacultura.com/. Catalogo:  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, a cura di Flavio Alivernini, Fandango libri, Roma  ott. 2012, pp. 126 euro 20,00. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito l’11 novembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Incontro, si ringrazia la Provincia di Roma, “Teorema ” con Civita, Fandango e i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta. In apertura, l’opera di Veronica Botticelli, seguita dalle opere di  Giosetta Fioroni, poi di Oliviero Rainaldi; in chiusura l’opera di Claudio Abate.

L’opera di Claudio Abate

Pasolini, 5. Omaggio poetico-artistico, a Palazzo Incontro

Ci avviamo alla conclusione della nostra celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini ripubblicando oggi il primo dei nostri due articoli del 2012 sulla  mostra romana al Palazzo Incontro in cui furono presentate le opere di 22 artisti ispiratisi a 11 sue poesie, domani rpubblicheremo il secondo. I 4 articoli precedenti, usciti in successione su questo sito dal 5 marzo, giorno del centenario,  riguardano il primo la  mostra fotografica di Monica Cillario del 2012, i due scguenti la mostra “Pasolini Roma” del 2014 al Palazzo delle Esposizioni, il quarto la mostra “I tanti Pasolini”  di “Spazio 5” nel 2015. Il poeta e lo scrittore, il saggista e regista e anche la sua vicenda umana conclusa tragicamente vengono riproposti nella nostra narrazione di allora.

Postato da arteculturaoggi.com [11/11/2012 00:42]

di Romano Maria Levante

Una mostra  il cui titolo  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini” è in carattere con la natura del personaggio indomito e controcorrente, scomparso tragicamente nel 1975.  Promossa dalla Provincia di Roma su progetto di “Teorema”, in collaborazione con “Civita”, catalogo di Fandango libri, aperta al Palazzo Incontro di Roma dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012. La mostra, che comprende anche due giornate di approfondimento sulla sua poetica,  presenta le interpretazioni di 22 artisti su 11 sue poesie affiancate alle opere, 2 artisti ogni poesia.

Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva

Avevamo visto nel 2011 la mostra fotografica di Monica Cillario sull’abitazione di Pasolini a Roma, dall’atrio al gabbiotto del portiere, dalla tromba delle scale al campanello, fino al Cimitero degli inglesi che ispirò “Le ceneri di Gramsci”: sembrava di sentire i suoi passi.

Questa mostra ci riporta di nuovo la sua memoria attraverso  una selezione delle sue poesie e le opere che hanno ispirato ad artisti di due generazioni: quella che ha vissuto il suo stesso periodo e quella successiva che lo ha conosciuto per fama. Gli artisti hanno interpretato il suo pensiero poetico nel 2012 o  pochi anni addietro, quindi le loro opere sono uno segno di cosa è rimasto oggi della sua lezione civile quale alimento dell’arte contemporanea con motivi forti.  Sono i motivi della sua poesia civile che ha affiancato le altre forme artistiche e letterarie in cui si è cimentato.

Ne hanno parlato con accenti commossi alla presentazione il presidente della Provincia di Roma Nicola Zingaretti, che ha promosso la mostra, e i realizzatori:  Gianni Borgna, per la selezione poetica, il curatore Flavio Alivernini dell’associazione “Teorema”  nel cui  nome si ritrova  un suo film scomodo e inquietante, e il critico Achille Bonito Oliva che si è soffermato sulle diverse forme nelle quali Pasolini ha manifestato i sentimenti e la rabbia. E  una ricostruzione del film “La rabbia di Pasolini”, curata da Giuseppe Bertolucci da un’idea di Tati Sanguineti,  è in visione alla mostra.

Le forme artistiche di Pasolini per Bonito Oliva

Bonito Oliva trova nella forza della sua passione civile il motivo per esprimersi nei campi più disparati, dalla poesia al cinema, dalla narrativa alla pubblicistica, fino alle arti figurative. E questo per trovare spazi dove far passare le proprie istanze esistenziali prima che culturali, in una continua  sperimentazione che implicava la contaminazione e lo sconfinamento  tra varie forme espressive.

Forme diverse ma rivolte allo stesso obiettivo: marcare la propria presenza e la propria denuncia di una realtà afflitta da contraddizioni da decifrare con una ricerca instancabile esercitata su se stesso e con lo strumento della cultura come lente d’ingrandimento che ne rivelasse i guasti anche prima che fossero visibili. La sparizione delle lucciole è un’immagine simbolo di questa sua spasmodica attenzione nella quale non si è mai risparmiato ponendosi così come un “bersaglio emblematico”.

Delle forme artistiche utilizzate da Pasolini quella meno nota, la pittura e il disegno, viene analizzata da Bonito Oliva quasi a creare un collegamento con i dipinti esposti nella mostra in suo omaggio. Il critico lo associa al manierismo, “che esprimeva la posizione dolorosa e decentrata dell’artista”  il quale viveva in una realtà attraversata da “crisi religiose, economiche, scientifiche e morali che segnavano la fine del Rinascimento”; e questo perché sono “quelle crisi che attanagliano anche la nostra società contemporanea, ponendo l’artista fuori da qualsiasi certezza e portandolo ad adoperare l’arte come strumento d’affermazione della propria identità”.  Di qui un excursus sulla sua opera pittorica, dalle prime opere con un segno vicino a De Pisis, agli autoritratti, da quello con il fiore in bocca  alla Van Gogh, a quello dal volto verde marcio nello stile di Pontorno. In tutti deformava i propri tratti somatici mentre nei ritratti degli amici li ingentiliva. Pochi paesaggi o nature morte, nei ritratti non coglieva l’attimo ma ritraeva in posa per dare la “rappresentazione di uno stato interiore”  cioè “questa sorta di rallentamento e dilatazione di uno stato d’animo”.

In modo analogo nel suo cinema, legato alle arti figurative come lui le intendeva:  una narrazione lontana dal naturalismo per estraniarsi dalla realtà e soddisfare il suo “desiderio di contemplazione”; realizzata mediante “una sequenza di quadri staccati , di immagini splendidamente isolate tra loro”.

La sua poesia civile proposta agli artisti per il curatore Alivernini

E la poesia?  Una poesia civile come i suoi romanzi e la sua coraggiosa pubblicistica. Flavio  Alivernini parla di “totale immedesimazione fra la dimensione soggettiva, personale, oggettiva, storico culturale”.  Si tratta di “confessioni e testimonianze, psiche e realtà, poesia e storia: la ricerca spasmodica della verità, condotta con una ‘sincerità crudele'”.

Il suo è un “procedimento maieutico” in cui mette in gioco se stesso, l’immedesimazione diventa sofferenza: “Una poesia che è vita, ma lega l’esistenza alla realtà e si fa poema civile,  cercando il riscatto nella storia”.   Pasolini “bersaglio emblematico”, come lo ha definito Bonito Oliva,  per il curatore si espone a  “reazioni ostili, non solo dal punto di vista prettamente ideologico”,  e se ne rende conto lui stesso nell’introduzione del 1967 a una raccolta di poesie in cui commenta amaramente l’ “ingenuità” nello scrivere  versi “per chi non potesse volermi che un gran bene. Adesso capisco perché sono stato  tanto sospetto e odiato”.

Si è rivelato preveggente non solo con le lucciole, ma anche nella denuncia della violenza che si annidava nelle borgate e di questo odio verso la sua persona: vengono i brividi nel ripensare alla sua tragica fine in cui convergono queste sue sofferte visioni.  Nelle quali spicca la massificazione spietata che annulla l’autentica cultura.

Le visioni profetiche sono espresse nella sua poesia civile, e perciò proporre una scelta dei suoi componimenti poetici a un gruppo di qualificati artisti contemporanei è stato un modo magistrale di “tracciare un bilancio generazionale del lascito di Pasolini  alla nostra epoca”: così la sua  ispirazione poetica si incrocia con la creatività artistica dei contemporanei “in un continuo rimando di suggestioni, simboli, concetti  e creazioni estetizzzanti che si fanno impressioni e visione”.

L’opera di Maurizio Savini

Le prime 4  poesie con 8 artisti: da “Le ceneri di Gramsci” a “La religione del mio tempo”

E allora  guardiamo le 22 opere della mostra che rimandano alle 11 poesie esposte nelle rispettive stanze, nei due livelli espositivi di Palazzo Incontro, gli abbinamenti rispondono ai loro linguaggi. Il Catalogo di “Fandango libri”  riporta le une e le altre, con il “Punto di vista non autorizzato” di Elisa Santinelli, che le mette a raffronto, e la “Biografia degli artisti”, una documentazione preziosa.

Si inizia con “Le ceneri di Gramsci” del 1954, 5 ampi  testi poetici  accorati e sofferti in cui il pensiero rivolto alla memoria del personaggio dinanzi alla sua tomba  suscita profonde riflessioni su se stesso e sull’umanità. Già l’ideale al quale l’uomo politico ha sacrificato la vita, fortemente condiviso – “noi morti ugualmente con te”- sebbene “illumini questo silenzio” trova il vuoto intorno a sé, anche se il Cimitero degli inglesi, confinato e negletto dalla città, è l’ambiente adatto per questo isolamento non solo rispetto alla “noia patrizia” ma anche al lavoro operaio.

Del resto “caparbio l’inganno che attutiva la vita resta nella morte”, tutto è caduco , “scelte, dedizioni… altro suono non hanno che questo del giardino gramo”, dove aleggia un’atmosfera di malinconia che stempera le passioni: “Qui il silenzio della morte è fede di un  civile silenzio di uomini rimasti uomini, di un  tedio  che nel tedio del Parco, discreto muta”.

Ma presto si immerge in una sofferta introspezione sulle proprie esitazioni e contraddizioni: “Eppure senza il tuo rigore, sussisto perché non scelgo, vivo nel non volere: amando il mondo che odio”; fino al confronto impari:  “Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere”.  E alla vitale affermazione “Ma come io possiedo la storia, essa mi possiede; ne sono illuminato”, segue l’interrogativo: “Ma a che serve la luce?”.

Non è solo nelle sue ambasce sul senso della vita, ripensa a Shelley, esclama “io vivo, eludendo la vita, con nel petto il senso di una vita che sia oblio accorante, violento”. Scorrono immagini  della Maremma e della Versilia, delle “torride Apuane” e della Riviera che lo portano a dire: “Mi chiederai tu, morto  disadorno, d’abbandonare questa disperata passione d’essere nel mondo?”.

Fino all’ultimo brano in cui si accommiata: “Me ne vado, ti lascio nella sera che, benché triste, così dolce scende per noi viventi”. E si rivolge di nuovo alla vita cittadina nelle sue miserie che descrive impietoso e nelle sue illusioni: “E’ un brusio la vita, e questi persi in essa la perdono serenamente” per concludere con un dubbio esistenziale lacerante: “Ma io, con il cuore cosciente di chi soltanto nella storia ha vita, potrò mai più con pura passione operare, se so che la nostra storia è finita?”. E’ un  compito da far tremare le vene e i polsi esprimere nell’arte questa valanga di sentimenti.

Maurizio Savini  con “Il cammino è iniziato e il viaggio è già finito”  la traduce nel corvo di “Uccellacci e uccellini”, nell’ombrello e cappello con l’assegno che firmò al ristorante poco prima di trovare la morte nella desolazione dell’Idroscalo, evocazione di un evento angoscioso.  Invece Gianfranco Baruchello, con “Enfatiche ceneri”,  rimanda al poema con scritture e segni enigmatici.

L’excursus poetico passa a “La religione del mio tempo”, 1955-59, con cinque componimenti. In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive in modo impietoso nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

 L’opera di Pietro Ruffo

In “Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano” descrive nella loro miseria corporea prima che morale “questi uomini, educati ad altra vita che la mia: frutti di una storia tanto diversa, e ritrovati, quasi fratelli, qui, nell’ultima forma storica di Roma”.

La prima loro passione è “il desiderio di ricchezza,: sordido come le loro membra non lavate, nascosto, e insieme scoperto, privo di ogni pudore”.  E lo paragona al rapace “che svolazza pregustando chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno; così bramano soldi come zingari, mercenari, puttane”.  Ma poi sconsolato conclude: “Il loro desiderio di ricchezza è simile al mio. Ognuno pensa a sé, a vincere l’angosciosa scommessa, a dirsi: ‘E’ fatta’, con un ghigno di re…”.  Nella comune ossessione c’è solo una differenza: la speranza è “estetizzante in me, in essi anarchica”, il raffinato e il sottoproletario sono “entrambi fuori dalla storia”. Gli unici “varchi” sono “nei sensi. In cui la gioia è gioia, il dolore dolore”. Altra complessità dolente che è veramente arduo rappresentare.

Carla Accardi con “Bianca Ombra” traspone in forme e segni dai forti colori l’intreccio tra sete di ricchezza e sentimenti fino alla gioia e al dolore che trovano il loro equilibrio compositivo.   Sten & Lex, in “Ritratto anonimo”  danno un viso grigliato di donna, un grigio identikit dell’anonimato.

“Alla Bandiera rossa”  è un epigramma  che inizia con una forte legittimazione: “Per chi conosce solo il tuo colore, bandiera rossa, tu devi realmente esistere perché lui esista”.  Ma dinanzi alle sofferenze dei miseri “chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, sta per non conoscerti più, neanche coi sensi”.  Di qui l’esortazione: “Ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.

Un tema preciso, lo visualizza Giuseppe Capitano che in “Bandiera”  presenta un panno rustico senza colore su un’asta orizzontale, al centro un grumo di stoffa rappreso,  forse un simbolo di emarginati in lotta.  Michelangelo Pistoletto con “Presentazione” espone una stoffa a scacchi chiari e scuri tenuto da due mani, segno che  quando c’è chi lo agita tutto può diventare un simbolo.

Un  epigramma, “A un papa”, del 1958, suscitò forti reazioni, dopo la morte di Pio XII cui chiede ragione di una morte senza nome e di vite miserevoli “in vista della bella cupola di San Pietro”. Gli si rivolge così: “Pochi giorni prima che tu morissi, la morte aveva messo gli occhi su un tuo coetaneo”,  Zucchetto; e gli chiede il perché di tanta indifferenza rispetto alle intollerabili condizioni di vita degli emarginati: “Tu non ne sapevi niente: come non sapevi niente di tanti mille e mille cristi come lui”. Fino a confessare: “Forse io sono feroce a chiedermi per che ragione la gente come Zucchetto fosse indegna del tuo amore”.  Infine l’invettiva, dura come una maledizione o una bestemmia: “Lo sapevi, peccare non significa fare il male; non fare il bene, questo significa peccare. Quanto bene tu potevi fare! E non l’hai fatto: non c’è stato un peccatore più grande di te”.

Dinanzi a questa eretica sacra rappresentazione si aspettavano opere altrettanto trasgressive. Invece  Pietro Ruffo con “Pasolini” ha reso i due aspetti contrastanti di Roma incarnati nel volto del poeta su una pianta cittadina plastificata dai segni marcati, con dei chiodi di sofferenza conficcati nel suo volto. Il “Senza titolo” di Jannis Kounellis va oltre la dissacrazione e la denuncia evocando  la morte senza rispetto e senza nome con una casacca nera sdrucita a terra su una portantina di ferro, con a lato alcune rose appassite, uno struggente monumento funebre misero e intenso non solo a Zucchetto pianto dal poeta ma forse allo stesso Pasolini, alla cui tragica fine  da solo nel posto più desolato e inospitale fa ripensare,  come le rose fanno sentire il calore dell’amore di tanti per lui.

Altre salette, altre poesie, altre opere d’arte. La visita continua,  ne parleremo prossimamente.

Info

Palazzo Incontro, Roma, via dei Prefetti, 22, dal 30 ottobre al 23 dicembre 2012,  da martedì a domenica ore 11,00-18,00,  entrata fino alle 17,30, lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel.  Palazzo Incontro  06.97276614; “Teorema” 392.2984.600. Info@teoremacultura.com  –  http://www.teoremacultura.com/ Catalogo:  “PPP. Una Polemica inversa. Omaggio a Pier Paolo Pasolini”, a cura di Flavio Alivernini, Fandango libri, Roma  ott. 2012, pp. 126 euro 20,00.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra a Palazzo Incontro, si ringrazia la Provincia di Roma, “Teorema ” con Civita, Fandango e i titolari dei diritti, in particolare gli artisti, per l’opportunità offerta. In apertura, Zingaretti, alla sua sinistra Alivernini,  Borgna e Bonito Oliva; seguono le opere di Maurizio Savini, Pietro Ruffo e Jannis Kounellis.

 L’opera di Jannis Kounellis

Pasolini, 4. “I tanti Pasolini”, di Carlo Riccardi, canzoni e film, a “Spazio 5”

La nostra celebrazione del centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini il 5 marzo 2022 – iniziata con la ripubblicazione dell’articolo sulla mostra del 2012 di Monica Cillario che ha fotografato la sua prima abitazione a Roma, e proseguita il 6 e il 7 marzo ripubblicando l’articolo sulla mostra “Pasolini a Roma” del 2012 al Palazzo Esposizioni dedicata alla sua figura e alla sua attività di poeta e scrittore, regista e saggista – presenta oggi 8 marzo i “Tanti Pasolini” delle istantanee del celebre fotografo Carlo Riccardi e delle testimonianze di vari personaggi nel nostro articolo pubblicato nel 2012 sulla mostra a “Spazio 5”. Domani e dopodomani 9 e 10 marzo 14 artisti ispirati a 7 sue poesie in una mostra del 2012 a Palzzo Incontro.

Postato da arteculturaoggi.com [02/11/2015, 11,30]

di Romano Maria Levante

La  “maratona”  “I tanti Pasolini” a “Spazio 5”,  sede dell’Istituto Quinta Dimensione, nei pressi di piazza Risorgimento a Roma, dal 24 ottobre al 4 novembre 2015, a quarant’anni dalla morte,  espone 30 fotografie dei primi anni ’60 di Carlo Riccardi, con 30 testimonianze di personaggi di varia estrazione nel Catalogo. Nella serata inaugurale un concerto con le sue canzoni a cura di Irene Toppetta, voce di Marta la Noce, chitarra di Fabio Micalizzi. Sono intervenuti Luigina di Liegro assessore al Turismo di Roma Capitale,  Sabrina Alfonsi e Andrea Valeri del I Municipio. Nei giorni 27-29 ottobre  in programma a “Spazio 5”, i film di Pasolini regista “Uccellacci e uccellini”, “Accattone” e “Mamma Roma”, “Il gobbo” di Carlo Lizzani  con Pasolini attore e “Pasolini, la verità nascosta” con il regista Federico Bruno, e un incontro con Silvio Parrello, del film “Ragazzi di vita”, con Ilaria Parisella. Organizzato da “Archivio Riccardi” e  I Municipio, presentato dall’Istituto Quinta Dimensione  a “Spazio 5”. Mostra e Catalogo a cura di Maurizio Riccardi e Giovanni Currado.

La locandina della mostra con una foto del 1961,
alla conferenza stampa del Premio Strega

Abbiamo dato conto a suo tempo di altre mostre su Pierpaolo Pasolini,  da quella del 2011 di Monica Cillario, un reportage fotografico  sui luoghi della sua vita,  alla mostra al Palazzo Incontro del 2012  con le opere di 22 artisti ispirate alle sue poesie, fino alla grande mostra del 2014 al Palazzo Esposizioni su “Pasolini Roma”. La mostra organizzata da “Spazio 5″  nel quarantennale evoca, con una selezionata sintesi fotografica, i “tanti Pasolini”  nelle sue relazioni in vari momenti di quotidianità.

Prima dei “tanti Pasolini” non possiamo non accennare ai “tanti Riccardi”, anch’essi evocati. In realtà  sono due, Carlo Riccardi e Maurizio Riccardi che ne prosegue l’opera, ma ci riferiamo a Carlo, il maestro che in sessant’anni di attività ad alto livello si è moltiplicato nelle vicende della storia e del costume che ha documentato così da dar vita a “tanti Riccardi”, innumerevoli come gli eventi di cui ha fissato le testimonianze irripetibili negli “attimi fuggenti”  in cui si sono verificati.

I “tanti Riccardi”  e una sorpresa

Già da ragazzo Carlo Riccardi era vicino al fotografo di Mussolini, ricorda lui stesso, e non smetteva di scattare foto, poi si scatenerà  nella “Dolce vita”. Di lì tutti gli eventi: c’è il Riccardi del cinema e il Riccardi del  costume, il Riccardi delle  dive e il Riccardi  dei Pontefici, e potremmo continuare a lungo,  tutto e tutti troviamo nei milioni di fotografie dell'”Archivio Riccardi”, qualificato come Patrimonio di interesse nazionale dalla Soprintendenza archivistica del Lazio. 

Dall’archivio vengono  “i tanti Pasolini” .presentati nella mostra a ” Spazio 5″ dall’Istituto Quinta Dimensione,  una sede aperta alle iniziative culturali di cui Carlo con orgoglio ci racconta che era la libreria del padre, che fu chiusa per l’invadenza delle grandi librerie facenti capo alle case editrici, finché Maurizio non le ha dato la nuova destinazione. E’ un prezioso punto di riferimento, raccolto e accogliente, di un’istituzione che svolge un’attività meritoria di diffusione della cultura utilizzando in modo innovativo il linguaggio dell’arte come forma di comunicazione. 

A casa Bellonci per le cinquine dei finalisti del Premio Strega e
mentre depone la scheda nell’urna alla serata finale

Tanti Riccardi, dunque, ma la serata per Pasolini  ce ne ha presentato uno sconosciuto ai più, il Riccardi pittore,  una qualifica a cui tiene molto dicendoci che  ha dipinto da sempre anche se la fotografia è la sua forma espressiva più nota. E che pittore! Al termine dell’incontro la sorpresa: all’uscita, un “tazebao” su tela lungo quindici metri e alto un metro era disteso a terra sul marciapiede davanti all’ingresso, una specie di affresco di un cromatismo intenso, con una sequenza di immagini celebrative del Giubileo dall’apertura della Porta Santa, molte mani aperte nelle quali il riferimento ai graffiti primordiali si unisce all’espressione della fede. E’ stato il modo da lui scelto per celebrare i suoi novant’anni, realizzato  la sera prima, un miracolo incredibile di arte ed energia.

“I tanti Pasolini” nelle immagini scattate da Carlo Riccardi

“I tanti Pasolini” presentati nella mostra attengono alle diverse incarnazioni del poliedrico uomo di cultura di cui si celebra il quarantennale della morte violenta, sulla quale Carlo Riccardi ha delle idee ben precise, in controtendenza rispetto a quanto si ritiene generalmente sulla matrice dell’orrendo assassinio.  Ma il suo ricordo è sereno, nel rievocare il primo incontro sul set del “Gobbo” di Lizzani, in cui gli riservò “un interrogatorio particolare: condotto per tutto il tempo con il sorriso”; e aggiunge: “Pasolini parlava con chiunque. Era curioso, sempre interessato a qualsiasi cosa. Per me era come parlare con un amico sempre disposto a sapere cosa mi accadesse”. 

La selezione di 30 fotografie  coglie Pasolini in  diversi momenti in cui si è manifestata la sua multiforme attività di scrittore  e regista, attore e giornalista, poeta e drammaturgo.  L’obiettivo di Carlo Riccardi  ce lo mostra soprattutto agli inizi, perché il grande fotografo sa puntare su chi esploderà in seguito. Le immagini esposte risalgono alla prima metà degli anni 60, tranne due del 1969, ne documentano la partecipazione a diversi eventi relativi alla sua multiforme attività.

Nel 1960  vediamo Pasolini scrittore al Premio Strega con Laura Betti; Pasolini attore sul set  del “Gobbo” in 4 immagini, una con il registra Carlo Lizzani, due premonitrici, la morte violenta del personaggio di Leandro da lui interpretato; Pasolini sceneggiatore sul set del film  “Il bell”Antonio”  con Marcello Mastroianni e Pierre Brasseur.

Nel cinema nel 1960 già due Pasolini, nel 1961 il terzo e principale Pasolini  regista, Carlo Riccardi lo riprende in due immagini alla prima di “Accattone”, una con Franco Citti;  il Pasolini scrittore lo vediamo nello stesso anno al Premio Strega con Goffredo Parise e una dolcissima Laura Betti che si stringe affettuosamente a lui, l’istantanea  è riuscita a cogliere un momento di tenerezza; poi l’abile fotografo lo riprende mentre deposita  la scheda nell’urna e nella conferenza stampa.

Lo ritroviamo al Premio Viareggio nel 1962, seduto tra Giuseppe Ungaretti e Adriana Asti; e nel 1963 alla presentazione di un libro alla Libreria Einaudi a Roma.  E’ l’anno della foto di  Pasolini regista al Festival internazionale del cinema di Venezia  e del Pasolini perseguitato per i suoi film, lo documentano due immagini, la prima mentre si difende davanti al giudice  del Tribunale di Roma dall’accusa di vilipendio della religione per il film “La ricotta”, la seconda liberatoria all’uscita da Palazzo di Giustizia  scortato dagli amici Alberto Moravia e Dacia Maraini, Enzo Siciliano e Laura Betti; forse nella stessa occasione altre due immagini serene, al bar con Alberto Moravia e Laura Betti e un intenso primo piano con  questa sua grande amica, questa volta dall’espressione assorta.

Siamo nel 1964, ecco il Pasolini drammaturgo alla prima di uno spettacolo teatrale e il Pasolini scrittore e figliodurante la serata finale del Premio Strega con la madre Susanna Colussi.

Ancora al Premio Strega nel 1965 in quattro immagini, due a Casa Bellonci alla votazione della cinquina, con Arnoldo Mondadori e Maria Bellonci, due alla serata finale  in un insolito completo bianco, una con Paolo Volponi, l’altra con Isabella Barzini in abito da sera bianco a riquadri.

Del 1969 le due ultime foto,  all’aeroporto di Ciampino, in una bacia Maria Callas, la sua Medea.

Una galleria essenziale ed espressiva, alcuni dei “tanti Pasolini” ripresi con immediatezza.

Una foto del 1962 a Viareggio con Adriana Asti

La figura di Pasolini nelle testimonianze che accompagnano le immagini

Insieme a queste immagini  fissate dalla fotocamera  di Carlo Riccardi,  l’iniziativa di “Spazio 5” ha presentato anche i giudizi  di tanti personaggi che operano nei vari settori dei “tanti Pasolini”: alla galleria fotografica il Catalogo associa questa raccolta di testimonianze,   ciascuna  delle quali accompagna ogni singola fotografia.

Iniziamo con  la testimonianza del produttore cinematografico Manolo Bolognini, che ricorda la prontezza con cui, dopo soli venti giorni, consegnò l’intera sceneggiatura del “Bell’Antonio” diretto dal fratello Mauro Bolognini: “Era un uomo straordinario, uno scrittore, un poeta, un pittore e poi diventò anche un grande regista. I suoi problemi sono tutt’altra cosa”. E con la testimonianza di  Ilaria Parisella, Heritage manager: “Curiosità, passione, competenza, diversità sono le parole chiave con le quali Pasolini ha intrapreso sempre nuove incursioni in campi espressivi diversi, integrandoli  tra loro. Un uomo unico, dalle mani sempre ‘fredde’ e ‘sudate’, dalla voce sottile e soave, emaciato come se avesse già incise sul volto le ferite della vita e della morte”.

Innocenzo Cipolletta, ora commissario dell’Azienda speciale Palaexpo, ci riporta alla sua visione: “Da un lato ha provato nostalgia per un mondo ormai passato, ma dall’altro si è totalmente proiettato verso il futuro”. E aggiunge: “Per me la figura di Pasolini ha rappresentato l’occasione per riflettere sulla capacità di guardare alle cose nuove , valutandone, però, l’effettiva utilità”.

E’ una chiave per interpretare l’interesse unanime scattato oggi per un intellettuale ai suoi tempi molto  controverso , che lo storico dell’arte Costantino D‘Orazio  vede così: “Pasolini ha lasciato innumerevoli tracce del suo passaggio nella cultura contemporanea, forse anche più  di quanto lui stesso avrebbe immaginato… Ha creato un immaginario a cui l’arte contemporanea attinge continuamente, correndo spesso il rischio di tradire le sue idee, eppure attratta dalle sue atmosfere irrisolte e dalle sue provocazioni”.

Nel 1963 alla presentazione di un libro con Laura Betti

Altra chiave interpretativa è la sua capacità di anticipare gli eventi, la mostrò fin dal  1962 nella poesia “Alì dagli occhi azzurri” sugli arrivi degli africani in Calabria, tappa verso Marsiglia, come oggi con Lampedusa, tappa verso  la Germania, lo evoca il regista Enzo De Carolis: “E’ impossibile non ammirare la sua lungimiranza  che tutt’oggi ci aiuta a riflettere e per la quale non possiamo non essergli grati”. Il filosofo ed epistemiologo Giulio Giorello aggiunge: “Pasolini è stato un grande testimone del nostro tempo, che ha saputo cogliere con largo anticipo le contorsioni della politica, il ‘problema del palazzo’, la difficile condizione dei diversi. Ora sembra più facile, ma allora erano momenti duri, di censura della libera espressione”.  

Dallo scrittore Roberto Ippolito un’ulteriore angolazione, mentre ricorda  la risposta a Italo Calvino sulla vita  di studio, lavoro e relazioni di un intellettuale: “Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita’. E spiegò che quest’altra sua vita si svolgeva in mondi diversi, fra i contadini, i sottoproletari, gli operai”. Questo il commento: “Pasolini non è dunque e non vuole essere l’uomo di cultura  distaccato dalla realtà quotidiana. Non è arroccato nella cittadella di un’èlite che ostenta la propria superiorità, con un comportamento dannoso anche oggi.  Tocca invece con mano la diversità, è immerso dentro. la vive, anche esageratamente… Lui non si limita a guardare il panorama dalla torre, dall’alto in basso. In basso c’è.

E da quella posizione non si può restare nell’ortodossia, lo dice il maestro della fotografia  Ferdinando Scianna: “Pasolini è stato un personaggio di snodo della società italiana perché è stato quello che si definisce un ‘eretico’. Era, infatti, ‘eretico’ da diversi punti di vista: da quello della cultura religiosa, da quello della cultura italiana, dal partito comunista, dalla sessualità, dalla sua maniera di vivere le cose. In quanto tale, è stato un personaggio  portatore di scandalo”.

 All’esterno del Palazzo di Giustizia a Roma
con Dacia Maraini e Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Laura Betti

Queste le conclusioni che Filippo La Porta trae dalla carrellata di giudizi e dalla galleria  di fotografie “che lo ritraggono nei contesti più diversi e stranianti” nel piccolo ma denso Catalogo: “Ecco, la cosa che bisognerebbe dire di Pasolini è che amava la vita… Certo, la amava a modo suo, con quella furia e tensione totale, e a volte in modi decadenti, ma la amava, e amava di un amore straziante la cultura, la tradizione, la grande civiltà del  nostro paese, la felicità reale, e ancor di più le persone umili del popolo, quelle  che non sanno nemmeno di avere dei diritti”.

E’ un’immagine di vita che ce lo fa sentire vicino, come nel delicato pensiero della scrittrice Dacia Maraini che – con Alberto Moravia il quale pronunciò una commossa orazione funebre  alle sue esequie dopo la tragica fine nel giorno dei morti di quarant’anni fa – gli fu sempre vicina:  “Pasolini sarebbe ora qui al Premio Strega e avrebbe uno sguardo sempre più attento verso la realtà. Però avrebbe anche un sorriso dolcissimo, perché lui era così, un uomo mite e sorridente. Nonostante avesse dentro di sé vigore, sicurezza, decisione, determinazione, era poi anche molto capace di grande affetto”.

All’interno del Palazzo di Giustizia nell’interrogatorio davanti al giudice

Le sorprendenti canzoni di Pasolini in un concerto per voce e chitarra

Una commemorazione  con queste immagini e con queste parole sarebbe già di per sé meritevole. Ma a “Spazio 5” si è andati anche oltre. Per i prossimi giorni sono previste le proiezioni di alcuni film-cult con lui regista, “Uccellacci e uccellini”, “Accattone” e “Mamma Roma”,  con lui attore,  “Il gobbo” di Carlo Lizzani, con l’intensa ricerca diFederico Bruno,“Pasolini, la verità nascosta”.

E nella serata di inaugurazione della mostra e presentazione del Catalogo con  30  testimonianze tra le quali abbiamo colto fior da fiore quelle citate, c’è stata una sorpresa straordinaria, un altro Pasolini in aggiunta ai “tanti” evocati, scrittore e giornalista, regista e attore, poeta e drammaturgo: il Pasolini autore dei testi di canzoni musicate da alcuni dei più  famosi cantautori dell’epoca, come Sergio Endrigo e Domenico Modugno, e da musicisti del calibro di Piero  Umiliani, Piero Piccioni  ed Enni o Morricone.  

Le canzoni non solo sono state evocate, ma eseguite dal vivo in unvero concerto,  introdotte da Irene Toppetta, una studiosa colta e appassionata che si è dedicata alla riscoperta del repertorio musicale di Pasolini, sconosciuto anche ai tanti  che ne hanno seguito sia pure da lontano, sin dal suo nascere,  l’escalation culturale e artistica nonché le polemiche che l’hanno accompagnata.  La Toppetta ha sottolineato come le sue canzoni impegnate e di denuncia  fossero lontane dal clichè musicale sanremese e in un caso la Rai ne impedì la trasmissione per alcune immagini forti; e le ha presentate con  accuratezza e discrezione, affidandole alla voce di Marta La Noce accompagnata alla chitarra da  Fabio Micalizzi.

Così abbiamo ascoltato canzoni allora cantate da Laura Betti, che fu attrice nei suoi film .  “Macrì Teresa detta Pazzia”, dal tono sommesso che si eleva in un grido, i suoi versi musicati da Piero Umiliani,  “Cristo al Mandrione”,  dedicata alla vita di borgata con musica di Piero Piccioni, e “La sbronza” con la prostituta ubriaca che si illude di aver ritrovato la verginità. Fino a “Il soldato di Napoleone” con un’immagine forte che la Rai chiese di eliminare e ne ricevette un rifiuto, da Pasolini e da Sergio Endrigo, autore della musica;  e  alla canzone “Che cosa sono le nuvole?”, musica di Domenico Modugno: entrambe le canzoni con l’inconfondibile quanto diverso timbro musicale dei due cantautori  e l’altrettanto inconfondibile sigillo poetico di Pasolini. L’ultima canzone del concerto è stato un  pezzo difficile, “Danze della sera”, musica di Ettore de Carolis, un virtuosismo.  Non sono le uniche di Pasolini, ve ne sono altre, da “Valzer della toppa” e “Marylin”, cantate da Laura Betti,  a “Uccellacci e uccellini” cantata da Domenico Modugno. Vi sono delle raccolte in CD, anche con la consulenza artistica di Laura Betti,  contenenti  15 canzoni, il libretto dei testi poetici  e una “Meditazione orale” di Pasolini, .Sono stati fatti in passato dei concerti tra cui quello all'”Auditorium Parco della Musica”  con Aisha Cerami e Nuccio Siano.

Nel 1960,  la sequenza di “Il gobbo”  di Carlo Lizzani
in cui viene ucciso Leandro, da lui interpretato

Pasolini si cimentava anche in questo genere  ritenuto minore,  per la  penetrazione popolare che aveva la canzone e arrivava dove non  entravano  romanzo e poesia, cinema impegnato e  teatro. Perciò nel 1956 sulla rivista “Avanguardia” aveva scritto che era “sollecitabile e raccomandabile” l’intervento di un vero poeta nel campo della canzone. “Non vedo perché sia la musica che le parole delle canzonette non dovrebbero essere più belle”, aggiungendo: “Personalmente non mi è mai capitato di scrivere versi per canzoni…, non mi si è presentata l’occasione…, credo che mi interesserebbe e mi divertirebbe applicare dei versi a una bella musica”.   A questa prenotazione vera e propria  seguirono le canzoni cantate da Laura Betti in romanesco, poi negli anni ’60 le altre.  

Marta la Noce, con il magistrale accompagnamento “a memoria” di Fabio Micalizzi alla chitarra, ha interpretato con intensa immedesimazione il difficile repertorio creando un’atmosfera veramente suggestiva. L’impegno dei due interpreti e della “voce narrante” di Irene Toppetta, curatrice dello spettacolo, e la resa artistica inseriscono di diritto  la “performance” nel programma di celebrazioni dell’apposito Comitato  presieduto da Dacia Maraini costituito dal Ministero per i Beni e le Attività culturali, e presentato il 20 ottobre al Teatro India dal ministro Dario Franceschini che ha  lamentato “il colpevole ritardo nell’aver capito l’artista , cosa che invece ha fatto da subito il popolo italiano”,  affermando  esplicitamente che per questo la celebrazione “è anche un atto di scusa”. 

L’ultima immagine della mostra, nel 1969 all’Aeroporto
di Ciampino a ricevere la Callas, che bacia in un’altra immagine

E’ un programma sterminato, che si protrarrà per un intero anno:  comprende anche Bologna, Casarsa e Pordenone, città della sua biografia, e soprattutto Roma con la mobilitazione di primarie istituzioni culturali, come le Biblioteche e la  Casa della letteratura, teatrali e cinematografiche, compresa la Festa del cinema: sono previste tutte le forme di manifestazioni, readings  di poesie e prose, film e documentari, spettacoli teatrali e convegni, perfino installazioni e street art, una partita di calcio e un treno celebrativo, la Rai manderà in onda circa 30 trasmissioni nei diversi canali a tutte le ore, anche notturne.

Auspichiamo che in questo programma  altamente apprezzabile, ai concerti con le sue canzoni sia dato lo spazio che meritano, e vi  trovino posto  gli interpreti  ascoltati allo “Spazio 5”.  Così potrà essere valorizzata anche questa angolatura sorprendente e meno nota quanto preziosa nel rutilante caleidoscopio di espressioni culturali e artistiche dei  “tanti Pasolini”.

In questo modo viene celebrato a 360 gradi  un uomo di cultura, grande  artista  sensibile e ispirato, anticonformista e anticipatore coraggioso,  che subì l’aggressione di 33  processi penali  contro la sua libera espressione artistica, prima dell’aggressione mortale;  tutto questo gli è dovuto, è l'”atto di scusa” di cui ha parlato il Ministro, riparazione purtroppo tardiva, tanto alto è il prezzo che ha dovuto pagare alla violenza assassina. La sua eresia era a 360 gradi, non risparmiava nessuno nel dare “scandalo” rispetto al perbenismo corrente e alle ideologie,  anche a quelle ammiccanti al proletariato. 

Ha ragione Ferdinando Scianna  a concludere la sua testimonianza che abbiamo riportato, con le parole: “I portatori di scandalo hanno una tendenza a essere sacrificati: è successo anche a Cristo e a quasi tutti gli altri, le cui personalità sono state poi recuperate e divinizzate”. 

E’ venuto il momento di farlo, e farlo bene, con  impegno e convinzione, e sembra che ci siano tutte le premesse nella mobilitazione su un programma  ampio e coinvolgente. Non è mai troppo tardi viene da dire con commozione.

Un momento della serata, in controluce, al termine del loro concerto,
da sinistra Fabrizio Micalizzi, Marta La Noce, Irene Toppetta

Info

“Spazio 5”, via Crescenzio 99, Roma, pressi Piazza Risorgimento. Dal martedì alla domenica ore 15,00-20,00, ingresso gratuito, fino al 4 novembre.  Tel. 06.6876251, cell. 348.4814089; info@spazio5.com; www.spazio5.com. Catalogo: Maurizio Riccardi – Giovanni Currado, “I tanti Pasolini”, Fotografie di Carlo Riccardi, Archivio Riccardi, settembre 2015, pp.  80, formato 14,5 x 16. Il programma della “Maratona” di “Spazio 5” prevede alle ore 17 e 19 di martedì 27 ottobre i film “Uccellacci e uccellini” e “Pasolini, la verità nascosta” con il regista Federico Bruno; di mercoledì 28 ottobre  il film “Accattone” e l’incontro con Silvio Parrello, “er  Pecetto” di “Ragazzi di vita”. Alle ore 16 di giovedì 29 ottobre “Il gobbo” con lui attore e alle ore 18 “Mamma Roma”.  Per le altre mostre su Pasolini citate nel testo cfr.i nostri articoli: in questo sito, “Pasolini, la vita e l’arte al Palazzo Esposizioni”, 27 maggio 2014, e  “Pasolini, al Palazzo Esposizioni il suo rapporto con Roma”, 15 giugno 2014; “Pasolini, omaggio poetico-artistico a Palazzo Incontro”, 11 novembre 2012, e  “Pasolini, altri 14 artisti per 7 sue poesie a Palazzo Incontro”, 16 novembre 2012; in “fotografia.guidaconsumatore” “Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario”, maggio 2011, il sito ora citato non è più raggiungibile, l’articolo sarà trasferito prossimamente su questo sito. Cfr. anche, per le mostre fotografiche a “Spazio 5” ,  in questo sito il nostro articolo “Esposito, Carlo e Maurizio Riccardi ricordano i due Papi santi”, 4 luglio 2014.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella serata di inaugurazione della mostra con il concerto di canzoni di Pasolini, si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti,  l'”Archivio Riccardi” e in particolare il maestro Carlo Riccardi, anche per la disponibilità  nel rendere possibile la nostra difficile foto notturna sul  suo “tazebao” pittorico. In apertura, la locandina della mostra con una foto del 1961, alla conferenza stampa del Premio Strega; seguono un gruppo di immagini del 1961, 1964 e 1965  che lo vedono, tra l’altro, a casa Bellonci per le cinquine dei finalisti del Premio Strega e mentre depone la scheda nell’urna alla serata finale, e una foto del 1962 a Viareggio con Adriana Asti; poi nel 1963 alla presentazione di un libro con Laura Betti, all’esterno del Palazzo di Giustizia a Roma con Dacia Maraini e Alberto Moravia, Enzo Siciliano e Laura Betti, e all’interno del Palazzo di Giustizia nell’interrogatorio avanti al giudice; quindi, nel 1960,  la sequenza di “Il gobbo”  di Carlo Lizzani in cui viene ucciso Leandro, da lui interpretato; infine l’ultima immagine della mostra, nel 1969 all’Aeroporto di Ciampino a ricevere la Callas, che bacia in un’altra immagine; infine un momento della serata, in controluce, al termine del loro concerto, da sinistra Fabrizio Micalizzi, Marta La Noce, Irene Toppetta; in chiusura, Carlo Riccardi, “Il Giubileo”, “tazebao” pittorico di 15 metri dipinto il giorno prima: l’autore sta in piedi sulla lunga tela  piegandosi in avanti e verso il basso per cercare la luce e consentire la nostra difficile ripresa notturna. 

Pubblicato in www.arteculturaoggi.com il 10 ottobre 2015

Carlo Riccardi, “Il Giubileo”, “tazebao” pittorico di 15 metri dipinto il giorno prima: l’autore sta in piedi sulla lunga tela  piegandosi in avanti e verso il basso per cercare la luce e consentire la nostra difficile ripresa notturna

Pasolini, 3. Il suo rapporto con Roma, al Palazzo Esposizioni

Il 5 marzo 2022, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, con l’articolo sulla mostra di Monica Cillario che ne ha fotografato la prima abitazione, abbiamo iniziato a ripubblicare i nostri 6 articoli usciti nel decennio scorso, questo articolo è il secondo sulla mostra “Pasolini Roma” del 2014 al Palazzo delle Esposizioni. Seguiranno 3 articoli, il primo sempre sulla figura di Pasolini nelle fotografie di Carlo Riccardi nel 2015, gli ultimi due su 14 artisti ispiratisi a 7 sue poesie nella mostra a Palazzo Incontro del 2012.

Postato da arteculturaoggi.com [15/06/2014, 11,30]

di Romano Maria Levante

La mostra “Pasolini Roma”, aperta al  Palazzo Esposixzioni di Roma dal 15 aprile al 20 luglio 2014, un’iniziativa europea che vede insieme all’Azienda speciale Expo istituzioni culturali e cinematografiche di Barcellona, Parigi, Berlino,  ed è sostenuta dal  programma Cultura dell’Unione Europea. Curatori Alain Bergala, Jordi Bailò e Gianni Borgna, consulenza scientifica di Graziella Chiarcossi. Il  catalogo Skira-Palazzo Esposizioni contiene una vasta documentazione con testi di Pasolini, fotografie e documenti sulla sua vita, e un a serie di interviste sulla sua figura. E’ intervenuto alla presentazione, con l’assessore alla cultura della Regione Lazio Lidia Ravera, il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo, Franco Bernabè, con un saluto e un impegno.

Pasolini a Chia con la esidenza presso la torre di sfondo, 1973

Abbiamo ripercorso la prima parte del rapporto tra Pasolini e Roma, il suo arrivo con la madre e l’alloggio di fortuna vicino al ghetto, poi l’abitazione a Monteverde in via Fonteiana. In questo periodo scrive il poema “Le ceneri di Gramsci” e trova i primi successi letterari  con il romanzo “Una vita violenta” e poi  “I ragazzi di vita”, quindi quelli cinematografici  con “Accattone”  e “Mamma Roma”, fino alla trasgressione religiosa di “La ricotta” . Continuiamo a far scorrere  i fotogrammi della sua vita e della sua arte nell’allestimento della mostra, tra mappe e fotografie,  testi e documenti.

Iniziamo citando l’intensa poesia dedicata a “Marilyn”, si rivolge a lei “impudica per passività, indecente per obbedienza” commiserandola: “Fra te e la tua bellezza posseduta dal potere si mise tutta la stupidità e la crudeltà del presente”. E quindi “la tua bellezza sopravvissuta dal mondo antico, richiesta dal mondo futuro, posseduta dal mondo presente, divenne così un male”,  per questo “sei tu  la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte”. C’è una grande tenerezza, come verso l’emarginato della poesia “A un papa” che contrappone al pontefice, perché era anche questo l’aspetto saliente della sua sensibilità, al di là di ogni apparenza.

Dopo la trasgressiva “Ricotta” affronterà il tema religioso direttamente in “Il Vangelo secondo Matteo”, confrontandosi  con la figura di Cristo in modo rispettoso e suggestivo. 

 “Autoritratto con fiore in bocca”, 1947

1964, “Il Vangelo secondo Matteo; 1965 “Uccellacci e uccellini”

Nel 1963 torna in Africa, visitando il Kenya e il Ghana, va  nello Yemen e in Nigeria, poi compie un sopralluogo in Palestina per l’ambientazione del “Vangelo secondo Matteo”, il terzo mondo lo affascina, ma sceglie il Sud per le riprese, le grandi carte geografiche all’inizio della sezione evidenziano questa fase movimentata della sua vita. Ma percorre in lungo e in largo anche l’Italia in automobile  per il film-inchiesta “Comizi d’amore“, al microfono intervista la gente sulla propria idea di sessualità confrontando mentalità e pregiudizi e attirandosi violenti attacchi, nella mostra sono esposte le fotografie che lo vedono in azione come reporter in varie località, dal nord al sud.

Le maggiori possibilità economiche dopo i successi cinematografici gli consentono di acquistare un appartamento, lascia il centro, vuole avvicinarsi alla campagna romana pur se si rende conto che sta sparendo.  Nella poesia “Ricerca di una casa”, del gennaio 1962,  parlava della “casa della mia sepoltura”, dicendo “mi era sembrata sempre allegra questa zona dell’Eur, che ora è orrore e basta. Mi pareva abbastanza popolare”, e dinanzi alle “palazzine ‘di lusso’ per i dirigenti transustanziati in frontoni di marmo”, si chiede: “E dove, allora, trovarlo, il mio studio,calmo e vivace, il ‘sogno nitido dei miei poemi’ che curo in cuore come un pascoliano salmo?”-

Lo troverà proprio all’Eur, un appartamento col giardino per la madre che ama coltivare i fiori,  in via Eufrate, vicino alla basilica di san Pietro e Paolo,  da cui si vede il “Colosseo quadrato”, con le arcate alla De Chirico:  significativamente è esposto in mostra il quadro del pittore metafisico “Arrivo del trasloco”, riferito a quel periodo, precisamente il 1965 anche se è retrodatato 1951. La poesia “Supplica a  mia madre” dell’aprile 1962  rivela un  groviglio di sentimenti: “E’ dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia. Sei insostituibile. Per questo è dannata alla solitudine la vita che mi hai dato…. Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu sei mia madre e il tuo amore è la mia sc hiavitù”.  Scriverà anche una poesia alla morte di Pio XII, in cui l’intensità di contenuto è pari alla temeraria dissacrazione.

Pasolini con Totò

Dalla nuova abitazione, oltre all’edilizia littoria a alla campagna  si vedono anche i cantieri della periferia, metafora del rivolgimento urbanistico di quegli anni per i raccordi autostradali e le altre infrastrutture,  nonché  l’edificazione dei “palazzinari” romani.  In uno scenario simile è ambientato “Uccellacci e uccellini”, del 1965-66, con Totò e Ninetto Davoli, un film socio-politico  con metafore ideologiche sul marxismo impersonato da un  corvo: in uno scritto esposto in mostra  afferma di aver voluto “far coincidere il mio nuovo marxismo e il suo, ma al di là della mia inerte, e puramente negativa, esperienza degli ultimi anni”. Le foto di scena con Totò e a Totò sono  molto espressive, ma ve ne sono anche di tono familiare all’interno della sua casa all’Eur.

Nel 1964 aveva girato “Il Vangelo secondo Matteo”, ambientato nel sud,  per la figura di Cristo si era rivolto invano al poeta russo Evtuschenko, lo impersonò  lo spagnolo  Irazoqui, uno studente antifranchista a Roma per raccogliere fondi contro la dittatura del suo paese, dopo il film gli sarà ritirato il passaporto.

E’ esposto un testo in cui descrive l’errore iniziale nel girare la prima scena con la tecnica di “Accattone”: “Era chiaro che la sacralità tecnica, la figliale semplicità che scardinava dalla sua usuale (e convenzionale) semanticità la ‘materia’ delle borgate romane, diventava di colpo retorica e ovvia se applicata alla ‘materia’  di per sé sacra che stavo raccontando”.  Al punto da dire: “Quando, ora, quella scena  passa sullo schermo – per quanto corretta e accomodata in montaggio – me ne vergogno selvaggiamente”.  Si corregge e alla fine ottiene un film “dall’inaspettata purezza  di tratti, che livella beatamente tutte le mie punte magmatiche, espressionistiche, casuali, arbitrarie, asimmetriche, tutte le libertà di montaggio,tutte le mie irregolarità”.

Ha raggiunto quello che voleva, “una specie di normalità fatta di distacco e silenzio” . La sua appassionata descrizione si conclude così: “L’evocazione ora stranamente prevale sulla rappresentazione. Il caos ha ritrovato una imprevista pacificazione tecnica e stilistica. Me ne sto chiedendo il perché”. E in un colloquio con Sartre rivendica di aver ottenuto e accettato il Pemio dell’Ufficio cattolico per il Cinema.  Il film vince il premio della Giuria al Festival di Venezia, e viene proiettato anche nella cattedrale di Notre- Dame: è un periodo in cui sente molto vicino il mondo intellettuale parigino, è in  contatto con Sartre e Barthes, Metz e Godart, il regista che gli “presterà” gli attori per il film “Porcile”.

Un riquadro con tanti volti ripetuti di “Il Vangelo secondo Matteo” 

1966-68, dalla disillusione alla sfida ai borghesi nella contestazione studentesca

Nel 1966 diventa autore teatrale, sei tragedie in  versi scritte in un mese di convalescenza a casa. Ma vede Roma con occhi diversi, il sottoproletariato romano ha perduto l’ “innocenza”  che aveva descritto nei romanzi e nei film, corrotto dal consumismo piccolo borghese, gira il film “Edipo re” in Marocco, ambienta in  Lombardia le scene  autobiografiche del prologo. Eccolo a New York, in una foto davanti a un cinema dove si proietta “La gatta sul tetto che scotta” con Liz Taylor.  

Siamo al 1968, attacca le posizioni di sinistra libertaria  della contestazione. Con la poesia “Il PCI ai giovani!”  si rivolge ai contestatori dicendo: “Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo!), ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, e sicuri, prerogative piccolo-borghesi”  Per questo, aggiunge, “quando ieri a Valle Giulia avete fatto  a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri, vengono da periferie, contadine o urbane che siano”. Le foto  della “battaglia di Valle Giulia” , e di un’assemblea di giovani comunisti con  Gianni Borgna vicino a lui illustrano questo momento, li affronterà a Torino dove Laura Betti interpretava il suo dramma “Orgia”.

Sono esposte anche immagini  del film “Teorema”, del 1968, quelle misteriose ed esoteriche  di Laura Betti e quelle conturbanti della bellissima Silvana Mangano. Nel 1969 gira il film “Amore e rabbia”, lo vediamo fotografato con Ninetto Davoli, e “Medea”, interpretata da Maria Callas con cui ha una intensa relazione fatta di amicizia e di amore,  sono esposte foto in cui sono insieme  in Grecia e nel Mali. A lei dedica un disegno molto particolare, “Senza titolo”,  sei multipli alla Warhol del suo profilo a tratti sottili.

Pasolini in un’immagine di solitudine

1970-75,  l’ultima fase dalla “Trilogia della vita” alla tragica fine

Per un drammatico scherzo del destino dal 1970 al 1974, l’anno prima della morte, si impegna in un ciclo di film che chiama “Trilogia della vita”, perché va alla ricerca dell’innocenza perduta nel consumismo  immergendosi in un mondo mitico scomparso: gira il “Decameron”  nel Mezzogiorno d’Italia, va in Inghilterra per “I racconti di Canterbury” e in una serie di paesi africani ed asiatici per “Il fiore delle mille e una notte”, le mappe esposte in mostra rendono visivamente questo suo periplo. Ma la fuga dalla realtà non riesce, terminati i film ci sarà l’abiura dalla “Trilogia della vita”.

Viene presentata un’interessante intervista di Gianni Borgna in cui Ennio Morricone, parla del loro rapporto durante i  film  di cui ha scritto la colonna sonora, tra cui quelli appena citati oltre a “Uccellacci e uccellini”; vi abbiamo trovato lo stesso rispetto reciproco mostrato con Anna Magnani,  Pssolini aveva le sue idee ben precise e le esternava, a Morricone chiedeva di inserire o imitare musiche di autori classici da lui prescelti, ma alla sua replica che gli piaceva “scrivere musica, musica originale”, rispose: “E allora faccia pure come vuole”. Ma Morricone aggiunge che per i film della “Trilogia della vita” “ci fu come un regresso della mia aggressività creativa. Io mi arresi alal sua volontà. Poi, nel ‘Fiore delle Mille e una notte’, ci fu come una  mia piccola rivincita. Ripresi, infatti, a scrivere musica originale, tranne in qualche punto”.

Nel gennaio 1973  inizia la collaborazione fissa con il “Corriere della Sera”, il tono e contenuto emergeva subito dal primo articolo, “Contro i capelli lunghi”, i capelloni dei contestatori, sul piano nostalgico ci sarà il celebre articolo sulla “Scomparsa delle lucciole“,  sono i suoi “Scritti corsari”.

“lo non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.”.

In questa “scandalosa ricerca” non esita ad affermare: “”Forse qualche lettore troverà che dico delle cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io, purtroppo, sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano  ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio scandalo.”.

Quadeo rievocativo di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”

Ed ecco una selezione fior da fiore delle “cose banali” di cui ha scritto dal 1973 al 1975: ha sfidato i contestatori “dai capelli lunghi” e i dirigenti della televisione per l’assenza di cultura, gli intellettuali del ’68 tra manicheismo e ortodossia e la sacro Rota per il “vuoto di carità” e il “vuoto di cultura” delle sue sentenze, ha denunciato “il  vero fascismo” del potere senza volto  e “il fascismo degli antifascisti”, l’ignoranza vaticana e quella della borghesia per lanciarsi in previsioni indovinate, come quella sull’esito del referendum del divorzio perché avvertiva i mutamenti nella società, la fine del mondo contadino, di cui rimpiange “l’immensità”  con il corrispettivo naturale nella “scomparsa delle lucciole”. 

“Gli italiani non sono più quelli”  si intitolava  l’articolo sul “Corriere” del 10 giugno 1974, e il 1° marzo 1975 “Non aver paura di avere un cuore”. Gli verrà spezzato brutalmente nove mesi dopo.  

Roma, in cui continua a vivere, non lo appaga più,  tanto che per concentrarsi nello scrivere e nel  dipingere, che ha ripreso dopo trent’anni, si rifugia in un’abitazione che ha acquistato in campagna, addossata alle rovine medievali della Torre di Chia, presso Viterbo. Sono esposte grandi foto,  che lo ritraggono pensieroso al lavoro in suggestivi controluce, scattate poco tempo prima della morte, un documento straordinario coperto da un copyright così rigoroso che ci ha impedito di riprenderle, e non sono neppure in catalogo: lo rispettiamo  non citando neppure il nome del fotografo, mentre ci piace evidenziare l’immagine che lo vede nel 1973 in primo piano con la torre di Chia di sfondo.

Riquadro rievocativo di  “Io abiuro alla Trilogia della vita”

Siamo nel 1975, ha trascorso parte dell’estate nell’altra abitazione che ha voluto fuori Roma, insieme a Moravia con cui divide il giardino,  al mare di Sabaudia sulla duna litoranea, anche qui con grandi vetrate sulla natura. E’ impegnato nello scrivere “Petrolio”, che Gianni Borgna ha definito “una spietata riflessione sul Potere e la summa dell’intera opera pasoliniana: non meno di duemila pagine (ne riuscirà a scrivere soltanto seicento) intervallate  da fotografie, documenti d’epoca e persino filmati. Insomma, un romanzo davvero sui generis di cui difficilmente si potrebbe trovare l’eguale”, si direbbe “una sorta di Satyricon moderno”, anticipato nell’articolo “Il romanzo delle stragi” – stragi reali e metaforiche come il genocidio culturale –  punteggiato  da “io so

Resterà incompiuto mentre il film “Salò o le 120 giornate di Sodoma” lo terminò ma uscì nelle sale dopo la sua morte, che non gli risparmiò l’attacco giudiziario subito dagli altri suoi film. In mostra sono esposte molte immagini di questo film e dei tre della “trilogia” in una nudità integrale che  esprimeva, al di là della provocazione, quello che lui ha definito “il mondo della mia ingenuità”.

Un mondo spazzato via dalla brutale violenza che lo ha massacrato nello squallore dell’idroscalo di Ostia la notte del 2 novembre 1975,  in circostanze non mai chiarite nonostante la confessione dell’omicida che ha scontato la pena ritrattando poi e aprendo nuovi scenari che vanno esplorati. Al termine della mostra tutto questo viene documentato in modo impressionante.

Ma vogliamo concludere con immagini di vita, quelle del suo ritorno alla pittura: è del 1975  il profilo di “Roberto Longhi, Chia”, in versione singola e nel multiplo di 4 alla Warhol,  l’artista altrettanto iconoclasta che verso  il consumismo aveva l’atteggiamento opposto, di  mitizzazione portata fino all’esasperazione. Ricordiamo le parole di Alberto Moravia nell’orazione funebre presentata in un  video a chiusura della mostra: sono un ritratto commosso del grande amico scomparso tragicamente, pone l’accento su ciò che tutti hanno perduto: un uomo”profondamente  buono, mite e gentile”,  e poi “il diverso e il simile”, il romanziere e il regista, il poeta e lo scrittore, il saggista e il testimone che aveva  un’attenzione, definita “patriottica”, “per i problemi sociali del suo paese, per lo sviluppo di questo paese”.  In definitiva, “tutto questo l’Italia l’ha perduto, ha perduto un uomo prezioso nel fiore degli anni”.

Ha fatto un’opera meritoria la  mostra a ricordarlo, e in modo così appropriato, efficace e  suggestivo.

Riquadro rievocativo delle Persecuzioni giudiziarie

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie.  Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/. Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Pasolini  le  mostre contemporanee “Gli Etruschi e il Mediterraneo – La città di Cerveteri” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”, sulle quali cfr. i  nostri articoli: per la prima in questo sito l’8 giugno e 6 luglio e  in “www.antika.it; luglio 2014, per la seconda in  http://www.fotografarefacile.it/ marzo 2014.  Catalogo: “Pasolini Roma”, Skira-Palazzo delle Esposizioni, 2014, pp. 264, formato 18 x 24, con testi di Pasolini, , introduzioni dei capitoli di Alain Bergala, commenti ai documenti di Gianni Borgna, Alain  Bergala e Jordi Ballò, interviste con Arbasino e Bertolucci, Cerami e Davoli, Maraini, Morricone e Naldini, consulenza scientifica Graziella Chiarcossi. Cfr. infine  i nostri due articoli in questo sito per Guttuso, “Fuga dall’Etna”, il 25 e 30 gennaio 2013, e in “fotografarefacile.it” per le fotografie di  Henry Cartier Bresson.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo, in particolare l’ufficio Stampa, con gli altri organizzatori e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Pasolini a Chia con la sua residenza presso la torre sullo sfondo, 1973; seguono  “Autoritratto con fiore in bocca” 1947, e Pasolini con Totò, poi un riquadro con tanti volti ripetuti di “Il Vangelo secondo Matteo” e Pasolini in un’immagine di solitudine; quindi,   tre riquadri rievocativi di “Salò o le 120 giornate di Sodoma”,  di “Io abiuro alla Trilogia della vita”, e delle Persecuzioni giudiziarie; in chiusura, Pasolini con la madre nell’abitazione dell’Eur 1973.

Pasolini con la madre nell’abitazione dell’Eur, 1973

Pasolini, 2. La vita e l’arte, al Palazzo Esposizioni

Ieri 5 marzo, nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, abbiamo ripubblicato il nostro articolo del 2012 sulla mostra fotografica di Monica Cillario descrivendo la prima abitazione di Pasolini a Roma con un’iniziale inquadramento della sua figura. Oggi rupubblichiamo il primo dei due articoli – il secondo seguirà domani – sulla mostra del 2014 al Palazzo delle Esposizioni in cui anche con le immagini veniva ripercorso il suo intinerario di poeta e scrittore, saggista e regista, e la sua vita fino alla tragica conclusione.

Postato da arteculturaoggi.com [11/05/2014, 8:42]

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposixzioni di Roma, dal 15 aprile al 20 luglio 2014 la mostra “Pasolini Roma”, di respiro europeo, organizzata dall’Azienda speciale Expo con istituzioni culturali e cinematografiche di Barcellona, Parigi, Berlino,  e il sostegno del programma Cultura dell’Unione Europea. Con la consulenza scientifica di Graziella Chiarcossi,  curatori Alain Bergala, Jordi Bailò e Gianni Borgna, lo storico assessore alla Cultura del comune di Roma, animatore dell’iniziativa, scomparso meno di due mesi  prima dell’apertura della mostra. Catalogo Skira-Palazzo Esposizioni con  una accuratissima  documentazione di testi e fotografie sui diversi periodi della vita di Pasolini. Ha introdotto la mostra, con l’assessore alla cultura della Regione Lazio Lidia Ravera, il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpo Franco Bernabè, con dichiarazioni di intenti di notevole interesse data la sua caratura manageriale e imprenditoriale già sperimentata nell’arte e nella cultura, che è una sicura garanzia per l’attività dell’istituzione.  .

Pasolini mentre presenta il poema “Le ceneri di Gramsci”

La mostra celebra, a quasi quarant’anni dalla morte avvenuta il 2 novembre 1975, l’uomo di cultura inquieto  e preveggente, anche per questo scomodo e osteggiato dai cosiddetti benpensanti che si accanirono contro la sua “diversità”, umana e intellettuale, senza poter  impedire che la sua multiforme attività nei vari campi della cultura militante lasciasse il segno nella difesa dei deboli e  dei “diversi”, nella denuncia delle violenze del potere, politico, sociale, spirituale,  nel cogliere le inquietudini nascoste della società sempre dalla parte degli emarginati. Tutto questo visto nel suo rapporto speciale con Roma seguendone passo dopo passo il  multiforme itinerario di vita e d’arte.

Avevamo visto due mostre su Pasolini negli ultimi anni a Roma: a  Palazzo Incontro nel novembre 2012 la Provincia ha presentato una serie di opere di 22 artisti  ispirate ad 11 sue poesie, tra i curatori c’era anche Gianni Borgna;  nel maggio 2011 la galleria “Monserrato Arte 900”  aveva esposto le fotografie di Monica Cillario nella sua abitazione di via Fonteiana, esibite come un cimelio prezioso che ne rendeva la sottile atmosfera aprendo un ricordo che spaziava lontano.

Contenuto e impostazione della nostra

Questa mostra si colloca in una dimensione molto diversa, frutto di una ricerca accurata di tutto quanto potesse esprimere il suo rapporto con Roma e, più in generale,  con i vari campi della cultura e i diversi settori della società che nella capitale trovavano non solo un punto di osservazione privilegiato, ma anche il terreno ideale per una partecipazione diretta e, per così dire, militante. Di qui sono nati gli impulsi creativi che ne segnano l’arte, di qui  la tragica fine a contatto con quel mondo dei “ragazzi di vita” del quale aveva colto la vitalità e insieme la pericolosa trasformazione.

 Disegni di teste, 1943

La sua vita viene ripercorsa in senso cronologico attraverso tutto quanto ne possa rendere il senso e il valore in sei ricche sezioni, che corrispondono alle diverse fasi, nelle quali  è resa visivamente la sua presenza e nello stesso tempo la sua opera multiforme con una miriade di documenti: lettere e articoli, poesie e prose, sceneggiature cinematografiche e scritti di narrativa e di teatro; in parallelo l’impatto delle sue  anticipazioni, che apparivano provocazioni, su una società chiusa e sospettosa, il tutto con un’ambientazione spettacolare fatta di video e di carte geografiche, nonché di vere e proprie gallerie fotografiche sui quartieri dove abitava e sui molteplici set cinematografici.

Il Catalogo lo rende in modo efficace, in una forma inconsueta per sobrietà, quasi da “arte povera”  nella scelta della carta e dell’iconografia, cui corrisponde una completezza e profondità di contenuto nel documentare una vita e un’arte multiforme,  strumento prezioso di conoscenza e di memoria.

Visitare la mostra e scorrere il catalogo è come assistere a un film appassionante, un film su Pasolini che si aggiunge ai film di Pasolini  offerti al pubblico “a latere”  della mostra, insieme a 6 incontri per ricordarne la figura. Oltre a tali incontri,  le 24 serate dedicate alla proiezione di suoi film e filmati  su di lui, ben 33, nel sottolineare l’impegno profuso dagli organizzatori,  danno la misura di quanto multiforme e intensa fosse la sua attività, considerando anche la “persecuzione” giudiziaria  di ben 33 processi, e il fatto che il cinema fu una forma particolare di espressione  in aggiunta a quella di poeta e scrittore, saggista e osservatore della società con i suoi “scritti corsari”.

Decisivo è il ruolo di Roma, così i curatori: “Per il Pasolini polemico  che analizza l’evoluzione della società italiana, Roma è anche il principale oggetto di osservazione, il suo permanente campo di studio e di riflessione.  Pasolini non si è accontentato di usare la città come sfondo di romanzi e film; egli ha ‘rifondato’ Roma attraverso la letteratura e il cinema”. E precisano: “Per il Pasolini uomo come per il poeta, Roma ha una dimensione fisica,  carnale, passionale. Con la città vive una grande storia d’amore, in tutte le sue tappe”. E la mostra le ripercorre con cura in sei sezioni.

Figure

Le sezioni sono dunque in sequenza cronologica, introdotte da grandi mappe topografiche e da uno  schermo dove sono proiettate le immagini  dei luoghi, articolate in gallerie fotografiche, documenti originali, stampe,  che scandiscono il suo itinerario d’arte e di vita. Sono lo specchio di forti contenuti che i curatori riassumono così: “L’ardore e l’angoscia del primo incontro, le delusioni, i tradimenti, i sentimenti misti di odio e amore,le fasi di attrazione e di rifiuto, i momenti di allontanamento e di ritorno”.  Fino alla conclusione  nel segno della tragedia.

Ne daremo qualche scorcio, pur  consapevoli che solo la lettura dei testi  di cui è ricca la mostra, e puntualmente riprodotti nel Catalogo può  rendere la profondità di una storia e di una vita.

1950-55,  l’approdo a Roma e il successo letterario con “Ragazzi di vita”

La mostra ripercorre la vita di Pasolini dall’arrivo a Roma a 28 anni, il 28 gennaio 1950; è con la madre, hanno lasciato il padre a Casarsa, il primo alloggio è in centro nel ghetto presso amici dello zio, poi in periferia a Ponte Mammolo vicino al carcere di Rebibbia, in un’abitazione povera; trova lavoro come insegnante in un istituto privato all’Eur, tra i suoi allievi Vincenzo Cerami.  E’ “fuggito”  dal Friuli dopo il procedimento giudiziario  per essersi intrattenuto intimamente con degli adolescenti durante una sagra paesana, il Partito comunista lo espelle, ne soffrirà molto.

I suoi primi anni a Roma li descrive così: “Io vivevo come può vivere un condannato a morte/ sempre con quel pensiero come una cosa addosso, /disonore, disoccupazione, miseria”. Ma fa una scoperta che lo coinvolge totalmente, la vitalità dei ragazzi delle borgate, che diventeranno  i suoi ispiratori in campo letterario e cinematografico, conosce un giovane pittore edile, Franco Citti, .che diventerà prima il suo “dizionario parlante” in romanesco, poi il protagonista dei suoi film, e il poeta Sandro Penna, che descrive in versi i turbamenti amorosi verso i giovani che incontrano sulle rive del Tevere. Anche Pasolini scrive poesie che ottengono riconoscimenti letterari, conosce Ungaretti e frequenta scrittori  come  Carlo Emilio Gadda, Giorgio Caproni,Giorgio Bassani..

Mappa di Roma con i luoghi frequentati in una fase della vita

Sono esposte le immagini dei luoghi, oltre alle sue fotografie da ragazzo ed adolescente, nonché le lettere e gli scritti che esprimono  i suoi sentimenti  con degli “outing” rivelatori sulla sua omosessualità scoperta dal padre che gli faceva scrivere, già nel gennaio 1947. “Ho un desiderio assoluto di sincerità… Mi son domandato se questo è un desiderio di confessione, ma ho dovuto rispondermi che è di più. Certo, il pensiero di liberarmi, anche di fronte agli altri, permane” . Ancora non è andato a Roma, dello stesso 1947 il suo “Autoritratto con fiore in bocca” esposto in mostra con una serie di ritratti, abbozzati con maestria, del 1943, anno nel quale  scriveva: “Io leggo poco, dipingo molto in compenso. Ho raggiunto una tavolozza mia, e anche una mia maniera”.

Nel 1954 scrive “Le ceneri di Gramsci”, composto da undici poemetti, ispirato dalla tomba dell’intellettuale e politico nel Cimitero degli inglesi a Roma, vicina a quella di Shelley: ideologia e romanticismo  si uniscono in una  dolente elegia, si confronta con la nuova realtà romana, misura i cambiamenti rispetto alla Casarsa del suo Friuli  e anche rispetto al primo impatto con la capitale.

Nella poesia che ha il titolo della raccolta scrive: “Ed ecco qui me stesso… povero, vestito dei panni che i poveri adocchiano in vetrine dal rozzo splemdore”; nella poesia intitolata “Il pianto della scavatrice”: “Su tutto puoi scavare, tempo: speranze, passioni. Ma non su queste forme pure della vita… Si riduce ad esse l’uomo, quando colme siano esperienza e fiducia nel mondo…”  Ed esclama:  “Ah, giorni di Rebibbia, che io credevo persi in un a luce di necessità, ed ora so così liberi!”.  Perché “alla chiarezza, all’equilibrio, giungeva in quei giorni la mente… un uomo fioriva.”

Quadro rievocativo di “Mamma Roma”

Siamo ora al  1955, sono trascorsi cinque anni dall’arrivo a Roma, è l’anno dei “Ragazzi di vita”, il libro che porta gli umori e il linguaggio, la vitalità e la trasgressione del mondo di borgata da lui frequentato. Scalpore e scandalo, e anche un procedimento giudiziario addirittura su denuncia della presidenza del Consiglio, testimoni a suo favore i maggiori scrittori e il cattolico Carlo Bo, fu assolto. Seguirà “Una vita violenta”.  E’ nata una stella, entra nel mondo del cinema con sceneggiature per Fellini, Soldati, Bolognini e altri registi, nel mondo letterario con l’amicizia per Moravia ed Elsa Morante, con loro frequenta i  ritrovi caratteristici del centro di Roma, da piazza del Popolo a Piazza Navona.

Dal 1954, l’anno delle “Ceneri di Gramsci”,  ha lasciato l’abitazione di Rebibbia per trasferirsi con madre e padre a Monteverde, in via Fonteiana, dopo cinque anni si sposta in via Carini, nello stesso quartiere, in un palazzo dove abitava il poeta Attilio Bertolucci con la sua famiglia, la frequenta  e il figlio Bernardo Bertolucci diviene suo discepolo e poi assistente nel film “Accattone”; Bertolucci girerà il suo primo film a 21 anni su una sceneggiatura, “La commare secca”  che Pasolini aveva predisposto per sé e gli cedette avendovi rinunciato preso da altri progetti..

Al riguardo c’è un’illuminante intervista di Alain Bergala a Bernardo Bertolucci, che rievoca gli incontri con Pasolini, la prima volta che andò a trovarli mentre abitava ancora in via Fonteiana, il padre Attilio disse “Fallo entrare subito, Pasolini è un bravissimo poeta!”; sul film girato su soggetto di Pasolini che ci rinunciò essendosi “innamorato” di un altro soggetto, quello di “Mamma Roma”,  Bertolucci dice: “Quando mi è stato detto che avrei diretto ‘La commare secca’ sono andato quasi in trance. E sono rimasto in questo stato in tutte le riprese”,

Pasolini di giorno lavora e frequenta il centro di Roma con scrittori e registi, di notte vive  la  giovinezza  “al di là del confine della città, oltre i capolinea”,  così intensamente da averne paura. “Come andrà a finire, non lo so…”.

La sezione contiene una ricca documentazione di lettere, scritti e immagini fotografiche di questo periodo,  è ritratto con  Alberto Moravia ed Elsa Morante,  Carlo Levi e Goffredo Parise, Paolo Volponi e Mauro Bolognini. Marcello  Mastroianni e Laura Betti, a cui fu molto legato tanto da parlarne a Godart come della sua “moglie non carnale”; e anche tra le baracche della borgata del Mandrione, fotografato da Henri Cartier Bresson, o al Quarticciolo. Ci sono anche delle chicche inattese, due “Nature morte” di Giorgio Morandi,  “Il nudino rosa” di De Pisis, il celebre “Fuga dall’Etna” di Guttuso,“Fantasia” di Mafai e “La badiaccia” di Rosai; il “Paesaggio del Friuli” di Zigaina evoca visivamente le sue origini.

E’ del 1958 la morte di Pio XII, Pasolini scrive la poesia “A un papa”, contenuta nella raccolta “La religione del mio tempo”, in cui contrappone alla vita del principe della Chiesa quella ben più derelitta dell’emarginato morto negli stessi giorni e conclude con un’invettiva preceduta dalle parole “peccare non significa fare il male. Non fare il bene, questo significa peccare”.

Mappa  di alcuni viaggi all’estero

1961,  il cinema con “Accattone”; 1962, “Mamma Roma” e “La ricotta”

Dopo la partecipazione alla sceneggiatura di famosi registi entra nel cinema dalla porta principale con “Accattone”, nel 1961. Avviene dopo il rifiuto di Federico Fellini che sembrava interessato a produrlo ma non era stato convinto dai provini che gli aveva chiesto di girare, compie un viaggio in India e in Africa e si mette alla ricerca di un nuovo produttore. E’ esposto un suo suggestivo scritto, quasi una sceneggiatura, in cui racconta il contatto con Fellini sottolineando il grande impegno da lui messo nel girare le scene di prova e la delusione per le critiche al suo stile e al ritmo dal grande regista, al quale risponde orgogliosamente che “se dovesse rifare tutto da capo non cambierebbe neanche una virgola”: così farà con Alfredo Bini che oltre ad “Accattone” produrrà  i cinque suoi film successivi.  

Del 1961 leggiamo un brano tratto da “La religione del mio tempo”, intitolato “Il mio desiderio di ricchezza” in cui esclama: “Ah, uscire da questa prigione di miseria!” e rivela i “mille desideri” che accumunano gli uomini:” una camicia candida, delle scarpe buone, dei panni seri. E una casa, in quartieri abitati da gente che non dia pena”, con una terrazza. Lui la sogna  “sul Gianicolo, verde fino al mare; un attico, pieno del sole antico e sempre crudelmente nuovo di Roma”, e poi le vetrate, le tende, gli arredi, “un tavolo fatto fare apposta, leggero, con mille cassetti, uno per ogni manoscritto” e così via,  in un desiderio di normalità che intenerisce.

Le carte geografiche esposte in mostra evidenziano il suo giro nel terzo mondo prima di “Accattone”, che incise molto su di lui. Vi sono le foto di scena del film, con cui, nel riprendere il sottoproletariato delle borgate non si ispira al neorealismo che pure era stato vincente: non si tratta di povertà materiale ma di miseria spirituale, figlia del consumismo che cancella stili di vita.

Quadro rievocativo di “Il Vangelo secondo Matteo” e
“Uccellacci e uccellini”

Seguono  subito dopo, nel 1962,  “Mamma Roma” e “La Ricotta”, nel primo l’incontro con Anna Magnani, che aveva ammirato in “Roma città aperta” come popolana dal grande cuore in cui impersonare Roma, è molto espressivo il suo “diario al registratore” in cui dialoga con la Magnani su un’inquadratura da rifare e in generale sul loro rapporto di regista ed attrice: non da plasmare perché  non presa dalla strada come gli altri, ma con una propria visione del personaggio in cui si è calata e che quindi non può essere un “robot” che esegue meccanicamente gli ordini del regista. Però lei stessa riconosce i limiti nell’essere solo istintiva  senza avere coscienza di ciò che fa e lui ammette di avere torto nell’intervenire quando lei recita dicendole, ad esempio, “Ridi, ridi, Anna!”. Una  lezione  di tecnica cinematografica da Actor’s Studio.

Nel secondo film l’incontro casuale con un giovane apprendista falegname Ninetto Davoli, l’ “angelo riccioluto” che come Franco Citti sarà poi protagonista dei suoi film e gli starà sempre vicino. Le immagini esposte sui sopralluoghi per il film di Tazio Secchiaroli rendono l’ambientazione, mentre quelle con Fellini e Roberto Rossellini, Orson Welles e un giovanissimo Bernardo Bertolucci fanno rivivere l’atmosfera dei set. Alle fotografie di scena di “La ricotta”  si aggiungono quelle davanti al Tribunale di Roma che lo condannò a 4 mesi con la condizionale per vilipendio alla religione e il suo testo  nel quale si difende punto per punto dalle accuse che si erano fermate all’apparenza trasgressiva mentre lui aveva voluto “soltanto mettere a fuoco il problema del sottoproletariato senza fasulli misticismi”, sono le sue parole.

Tutti i suoi film  successivi, tranne “Il Vangelo secondo Matteo”, avranno problemi giudiziari, ma l’accanimento contro di lui si è già manifestato nel 1960-61 con denunce paradossali,  c’è in mostra un grande tabellone che elenca i 33 procedimenti dai quali si dovette difendere, fu sempre assolto. E’ il  seguito della mostra di cui parleremo presto completando l’excursus sulla vita di Pasolini.

Pasolini in un’istantanea

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194. Aperto da martedì a domenica ore 10,00-20,00,  il venerdì e il sabato chiusura ore 22,30, con 2 ore e 30 minuti di apertura in più degli altri giorni, lunedì chiuso; la biglietteria chiude un’ora prima. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 per minori di anni 26, maggiori di anni 65 e categorie tra cui insegnanti, gratuito per minori di 6 anni e particolari categorie. Tel. 06.39967506, http://www.palazzoesposizioni.it/ Con un unico ingresso è possibile visitare tutte le mostre nel Palazzo Esposizioni, attualmente oltre alla mostra su Pasolini  le  mostre contemporanee “Gli Etruschi e il Mediterraneo – La città di Cerveteri” e “National Geographic, 125 anni, la Grande Avventura”, sulle quali cfr. i  nostri articoli: per la prima in questo sito l’8 giugno e 6 luglio, e in “www.antika.it, luglio 2014; per la seconda in  http://www.fotografarefacile.it/, marzo 2014.  Catalogo: “Pasolini Roma”, Skira-Palazzo delle Esposizioni, 2014, pp. 264, formato 18 x 24, con testi di Pasolini, , introduzioni dei capitoli di Alain Bergala, commenti ai documenti di Gianni Borgna, Alain  Bergala e Jordi Ballò, interviste con Arbasino e Bertolucci, Cerami e Davoli, Maraini, Morricone e Naldini,consulenza scientifica Graziella Chiarcossi. Per le citazioni del testo cfr. i nostri articoli: in questo sito, “Pasolini, omaggio poetico e artistico a Palazzo Incontro”, 11 novembre 2012 e Pasolini, e altri 14 artisti per 7 sue poesie a Palazzo Incontro”, 16 novembre 2011. in http://www.fotografarefacile,it/  per “Pasolini, commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario”,maggio 2011.

Foto

Le immagini sono state riprese al Palazzo Esposizioni da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Palaexpo con gli altri organizzatori e i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura, Pasolini presenta il poema “Le ceneri di Gramsci”; seguono  Disegni di teste, 1943,  e Figure; poi,  Mappa di Roma con i luoghi frequentati in una fase della vita, e Quadro rievocativo di “Mamma Roma”; quindi, Mappa  di alcuni viaggi all’estero, e Quadro rievocativo di “Il Vangelo secondo Matteo” – “Uccellacci e uccellini”; ancora, Pasolini in un’istantanea e, in chiusura,   Pasolini con la madre nell’abitazione di via Chiarini, 1960.

Pasolini con la madre nell’abitazione di via Chiarini, 1960

Pasolini, 1. Commosso ricordo nella mostra fotografica di Monica Cillario

Oggi 5 marzo 2022 è il centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, poeta e scrittore, saggista e regista, un personaggio inquieto e controverso, del quale con il psssare del tempo rifulge sempre di più la grandezza. Alla sua celebrazione intendiamo partecipare con emozione autentica, ripubblicando i nostri articoli che nell’arco di oltre un decennio ne hanno ripercorso la parabola artistica e l’itinerario di vita prematuramente troncata dalla violenza che aveva profeticamente percepito e denunciato; e questo attraverso la narrazione delle mostre che si sono svolte sulla sua figura. Iniziamo con la mostra che nel 2011 ci ha fatto conoscere la sua prima abitazione a Roma, con le immagini della normalità quotidiana, fino al percorso sacrificale di una “vittima esemplare”, e poi al nostro ricordo, lo abbiamo seguito fino al luogo dove fu trovato senza vita. Una vita mai cancellata, perchè rinata con la rivalutazione della sua figura e delle sue opere in un diapason inarrestabile. Seguiranno nei prossimi giorni i nostri articoli, del 2014 sul suo rapporto con Roma, del 2015 sulla sua figura fino alla interpretazione di 14 artisti di 7 sue poesie nella mostra del 2012.

di Romano Maria Levante

Valeva la pena di attendere un’ora e mezza davanti alla galleria “Monserrato Arte 900” al numero 14 di via Monserrato a Roma per visitare la mostra fotografica su Pier Paolo Pasolini di Monica Cillario, torinese che vive tra la capitale e Montecarlo, aperta dal 3 maggio 2011. Nell’attesa, stando a sedere sui gradini del laboratorio artigiano-artistico che si trova di fronte, abbiamo scritto sul “notebook” il resoconto della presentazione avvenuta nella mattina dei “Tesori” della provincia di Roma al Tempio di Adriano. Poi abbiamo lasciato i tesori artistici e ambientali dell’hinterland romano per passare a un altro tesoro, un altro ambiente: il tesoro è Pier Paolo Pasolini, l’ambiente la sua prima residenza romana nel quartiere di Monteverde Vecchio dove visse dal 1955 al 1959.

L’ambiente evoca una persona, un’intelligenza, un’arte che si è espressa non solo nella scrittura, in prosa e in poesia, ma anche nel cinema. Proprio per questo è stato appropriato ricordarlo con immagini di per sé espressive nelle quali si sente l’amore della fotografa che le ha riprese con delicatezza e semplicità, senza strafare in scorci arditi e magari forzati, ma riproducendo una normalità piccolo-borghese dove sono nate “Le ceneri di Gramsci”, la sua raccolta di poemetti.

Per uno come lui non si potevano non accompagnare le immagini con le parole, sobrie anch’esse. La mostra lo fa con uno scrittore, Fulvio Abbate, nato a Palermo, nel 2005 autore, tra molti scritti, del libro “C’era una volta Pier Palo Pasolini”. Ha il tocco lieve, senza enfasi, le didascalie sono essenziali, la forza delle immagini è nel loro icastico bianco e nero che scolpisce una normalità dietro cui c’è l’inquietudine di una personalità incompresa e controversa, spesso anche contestata.

Le immagini della normalità quotidiana

Una normalità che inizia al numero 86 di Via Fonteiana, una “strada per ceti medi”, poco prima della borgata di Donna Olimpia, dove ambientò il romanzo “Ragazzi di vita”. L’edificio – scrive Abbate – è “un parallelepipedo intonacato d’ocra, senza particolari segni di estro architettonico, eppure dall’ingresso spazioso, luminoso”. In un quaderno delle elementari i cognomi dei coinquilini, al quarto piano, “accanto al numero dell’interno 26, appaiono le generalità di ‘Pasolini Carlo Alberto’, il padre dello scrittore, ufficiale di fanteria a riposo, ‘il Colonnello Attaccabottoni’ lo chiamava lo scrittore Carlo Emilio Gadda, vicino di caseggiato”. L’abitazione: “Appena due stanze, cucina, bagno e un balcone stretto che s’affaccia su via Innocenzo X, le mattonelle celesti adorate dai piastrellisti degli anni Cinquanta, gli infissi degli stessi tempi, un’aria immanente di ‘smorzo’”, così a Roma chiamano il deposito di materiali edili. Abbate ha scovato proprio nelle “Ceneri di Gramsci” questa descrizione dell’abitazione dove il libro fu scritto: “Ed ecco la mia casa, nella luce marina/ di via Fonteiana in cuore alla mattina”.  

Nel 2005, nel trentesimo anniversario della morte – anno in cui Abbate ha pubblicato il libro su di lui – i proprietari posero una targa di marmo a ricordo degli anni 1955-59 in cui vi abitò Pasolini, con i suoi versi “Com’era nuovo nel sole/ Monteverde Vecchio!”, gli stessi della targa posta dal Comune di Roma in via Giacinto Carini, sempre a Monteverde, dove si trasferì successivamente.

Monica Cillario ha fotografato i dettagli, ciò che resta di un ambiente semplice ma poetico per ciò che evoca, ha cercato di restituire un “cosmo condominiale” che ancora adesso suggerisce l’emozione dell’infanzia di un grande testimone del nostro paese, dalla vita inquieta e febbrile.

Da via Fonteiana si sposta al Cimitero degli inglesi, c’è la fotografia della tomba dove trasse l’ispirazione per “Le ceneri di Gramsci”, il libro è ripreso sul marmo, ed è edificante vedere la simbiosi con il grande intellettuale imprigionato per le sue idee che con le “Lettere dal carcere” ha lasciato un monumento di umanità e insieme di fede negli ideali. Gli undici poemetti raccolti nel libro ispirato a Gramsci hanno titoli intriganti, da “Appennino” del 1951 all’ultimo “La terra di lavoro” del 1956; in mezzo troviamo, tra gli altri, “Comizio” e “L’umile Italia”, “Picasso” e “Shelley”. E anche il poemetto del 1954 che ha dato il titolo alla raccolta.

Di Gramsci apprezzava, oltre all’ideologia, l’acutezza del pensiero e la forza morale che gli fece affrontare con coraggio la lunga prigionia senza il minimo cedimento. E forse lo aveva colpito in modo particolare l’espressione “Odio gli indifferenti”, dell’11 febbraio 1917 (è tornata di attualità rievocata nella manifestazione del 31 maggio 2010 al romano Teatro Quirino), così congeniale alle corde di Pasolini, combattente di tante battaglie: “Chi vive veramente, non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”. Gramsci conclude: “Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”. Parole che sembrano un identikit dello stesso Pasolini, e ci fa comprendere appieno l’ispirazione da lui colta sulla sua tomba; pensiamo che per il paese spaccato in due sul suo nome, tra memoria e indifferenza, avrebbe ripetuto l’anatema di Gramsci:“Odio gli indifferenti”.

E’ questa l’unica fotografia “costruita” per materializzare quanto si respira nell’atmosfera creata dalle immagini. Torna subito la quotidianità a dominare. L’androne spazioso e dignitoso, la guardiola del portiere al quale si rivolgeva con perentorie scampanellate al ritorno dalle sue ”notti brave” avendo dimenticato le chiavi a casa, finché cedette all’implorazione del malcapitato che gli chiedeva: “Signor Pasolini, la pregherei di non suonare più in piena notte, così facendo mi sveglia il bambino, grazie”. E poi le cassette delle lettere, le maniglie, anche lo zerbino, fino all’immagine che ci sembra rappresenti il culmine nello scorcio visivo e nella didascalia, evocando l’infinito: un’inquadratura da vertigini della tromba delle scale. Sembra una scena di Alfred Hitchcock sui labirinti interiori dell’inconscio, magari suggerita da Salvador Dalì come in “Io ti salverò”, il film cult con Ingrid Bergman e Gregory Peck, riferimento questo che sarebbe piaciuto a un uomo di cinema come lui. Con negli occhi e nel cuore l’“infinito” nelle scale e nel resto lasciamo la galleria.

Il nostro ricordo di Pasolini

Ci guardiamo intorno dopo la missione faticosamente compiuta; il prolungato black out elettrico che ha ritardato l’apertura si è protratto per tutta la nostra visita, creando un’atmosfera ancora più misteriosa, le fotografie nella loro livida chiarezza spiccavano  nella semi oscurità. Siamo usciti con la mente affollata dai ricordi legati a lui, ripensiamo alla sua attività intellettuale inquieta e tumultuosa, tra polemiche e attacchi di ogni tipo, anche giudiziari, per la sua “diversità” intesa in tutti i sensi, forse per la forza del suo pensiero e del suo coraggio civile.

Fu definito da Alberto Moravia “una figura centrale della nostra cultura, un poeta che aveva segnato un’epoca, un regista geniale, un saggista inesauribile”. E pensare che non si sentiva appagato, fino a scrivere: “Ebbene ti confiderò, prima di lasciarti, che io vorrei essere scrittore di musica, vivere con degli strumenti dentro la torre di Viterbo…nel paesaggio più bello del mondo… con tanta innocenza di querce, colli, acque e botti, e lì comporre musica, l’unica azione espressiva forse, alta, e indefinibile come le azioni della realtà”. Ed è bello sapere che è stato ricordato anche con la musica da musicisti italiani,  De Andrè e De Gregori, Roberto De Simone e Renato Zero; e stranieri.

E’ impressionante come la sua produzione letteraria spazi dalla poesia all’intero scibile letterario. Oltre a “Le ceneri di Gramsci” tra le tante raccolte poetiche citiamo “Il canto popolare” e “Poesia in forma di rosa”, “Poesia dimenticata” e “La meglio gioventù”, che sarà poi il titolo del noto film-evento di Marco Tullio Giordana; per il teatro “Affabulazione”, oltre alle traduzioni da Eschilo e Plauto, da testi greci e latini, anche francesi volti perfino in friulano. I suoi saggi si muovono tra la letteratura e la cultura, la politica e la società: non soltanto testi letterari come “Antologia di liriche pascoliane”, anche “Antologia di musica popolare, il canzoniere italiano,”; e non disdegnò collaborazioni giornalistiche che diventarono subito degli eventi, come gli “Scritti corsari” del 1973-75 sul “Corriere della Sera” premonitori dell’incattivirsi di quel volto della periferia romana da lui tanto amato in un identikit che doveva rivelarsi tristemente premonitore, la sua morte violenta venne subito dopo.

Ripensiamo alla narrativa, con “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”, “Il sogno di una cosa” e “Teorema”, fino al postumo “Petrolio”; e alla cinematografia, sua grande passione – aveva iniziato come comparsa a Cinecitta – con “La notte brava” e “Accattone”, “Mamma Roma” e “Il Vangelo secondo Matteo”, in cui affronta un tabù e lo supera con una struggente rivisitazione, “Uccellacci e uccellini”, lettura impietosa della crisi di un partito e di una politica anch’essa da lui amata ma che non riconosceva, ed “Edipo Re”, fino a “Porcile”. Creò un filone in costume, in mano ad altri presto scaduto in farsa erotica, con “Il Decameron” e “I racconti di Canterbury”, “Il fiore della Mille e una notet” e “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Anche la sua posizione ideologica aveva radici fortemente umane: “L’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io, ma sono gli altri che fanno la storia”, ha scritto, e anche per questo non si rinchiudeva nell’individualismo ma cercava la socialità.

Torna alla nostra mente la visita che facemmo qualche tempo fa all’Idroscalo di Ostia, dove andammo per cercare il luogo della sua morte. Avemmo la bella sorpresa di trovarvi un piccolo mausoleo di cui non conoscevamo l’esistenza: meritevole l’iniziativa, meno la scarsa diffusione della notizia, e ancora meno lo stato di totale abbandono in cui trovammo l’area pur se opportunamente attrezzata per la sosta dei visitatori, le erbacce l’avevano invasa ovunque deturpandola. Dovremo tornare all’Idroscalo dopo esser stati virtualmente in via Fonteiana portati dalle fotografie della Cillario. E speriamo ci vadano in tanti prima o dopo aver visitato la mostra.

Il percorso sacrificale di una “vittima esemplare”

Amava la vita, nelle “Ceneri di Gramsci” scrive: “Mi chiederai tu, morto disadorno,/ d’abbandonare questa disperata/ passione di essere nel mondo?” Una raccolta di suoi saggi dal 1948 al 1958 si intitola “Passione e ideologia”, le coordinate cartesiane della sua stessa esistenza.

Ripensiamo alla sua fine, tra l’1 e il 2 novembre 1975, il giorno dei morti, “festa triste e dolce insieme che ricorda tante cose al cuore d’ognuno”, era il titolo del tema che ci fu dato all’esame di ammissione alla scuola media. Federico Zeri la paragonò alla misteriosa morte di Caravaggio: “In tutti e due mi sembra che questa fine sia stata inventata, sceneggiata, diretta da loro stessi”. E Alberto Moravia: “Egli ne aveva già descritto, nelle sue opere, le modalità squallide e atroci”.

Lasciamo via Monserrato, adiacente a piazza Farnese con il grande palazzo monumentale. E’ una strada con laboratori e boutique d’arte, anche il piccolo bar ha una scultura nella vetrina. Ma non è tanto questo a rendere la sede appropriata per rendere onore a un grande come lui; ci colpisce la scritta sulla lapide posta nella facciata di un palazzo:“Carcere di Corte Savello, 11 settembre 1589: “Beatrice Cenci da qui mosse verso il patibolo/ vittima esemplare/di una giustizia ingiusta”.

Portare qui via Pompeiana con le fotografie di Monica Cillario è come aver accostato i due percorsi sacrificali, l’inizio di un itinerario che doveva concludersi altrettanto tragicamente: anche Pasolini è stata la “vittima esemplare” di un imbarbarimento tipico dei nostri tempi, ingiusto e spietato.

Ph: alcune immagini sono state riprese alla mostra da Romano Maria Levante, altre sono state fornite direttamente dall’autrice Monica Cillario che si ringrazia.

Autore: Romano Maria Levante – pubblicato in data 22 maggio 2011 su fotografia.guidaconsumatore.com. – Email levante@guidaconsumatore.com

Frida Kahlo, immagini serene di una vita tormentata, a Sansepolcro

di Romano Maria Levante

E’ inconsueto dedicare un articolo a una persona, ma in questo caso è qualcosa di più: si tratta di un’identificazione. Nell’ultimo anno  ha provato le inenarrabili sofferenze di Frida Kahlo,  con gli insopportabili dolori alla schiena, dopo aver subito anche  la gabbia del busto rigido toracico per una frattura a una vertebra con relativo intervento; poi l’emorragia massiva allo stomaco, fino alla positività al Covid nella clinica post-acuzie con il lieto fine della provvidenziale correzione in negativa dell’analisi nella verifica all’ingresso di un reparto Covid: cinque mesi in sei ospedali più una terapia intensiva, inframmezzati da due ritorni a casa tra tante sofferenze. In queste parentesi, anch’esse non certo liete, lei della sua eroina  ha di nuovo visto i film in Tv  sulla sua vita, riletto i cataloghi, finché è giunto il catalogo della mostra di Sansepolcro che ha guardato con grande interesse proprio mentre ne ripercorreva la vita. Ho scritto la recensione col cuore in gola nella settimna di passione dal 20 agosto scorso per un  imprevedibile repentino  precipitare della situazione.  Per questo intendo aprire il ricordo di Frida Kahlo con il  quadro “Le due Fride”,  opera dall’artista nel  1939,  del quale viene presentata la copia realizzata  in segno di omaggio dal pittore cinese Xu De Qi: in una delle “due Fride” vedo la persona che l’ha tanto amata e  ha provato in questi mesi le sue sofferenze mentre continuava a  interessarsi alla sua eroina, una  persona raffinata e sensibile che ha fatto della passione per l’arte e la cultura l’alimento della propria vita, insieme alla vicinanza agli ultimi, che ha aiutato come ha potuto con il suo spirito caritatevole.  E’ finalmente tornata a casa, nella sua Itaca, dopo l’inenarrabile odissea, superando mille avversità. Ho atteso questo momento felice e festoso per pubblicare l’articolo scritto nel momento più infelice e angoscioso della rianimazione. E anche  a lei rivolgo le parole per Frda Kahlo con cui concludo l’articolo,  “non la dimenticheremo”, “non dimenticherò”: non dimenticherò come hai lottato, la dedica di questo articolo è nulla rispetto a quanto meriti per la tua forza d’animo e il tuo coraggio, sorretta dall’amore per la cultura, mia carissima Rosemary,

“Le due Frida”, 1939, nella copia-omaggio del pittore cinese Nu De Qi

Al Museo civico di  Sansapolcro, Arezzo, dal 16 maggio al 13 ottobre 2021 la mostra “Frida Kahlo. Una vita per immagini” presenta un centinaio di fotografie, la maggior parte originali, dell’artista messicana, ripresa soprattutto da sola con i pittoreschi abiti del suo paese,  in alcune immagini con il celebre creatore di  “murales” Diego Rivera, che sposò, e anche altri, per lo più in posa ricercata a marcare la propria immagine di vita, più che la propria caratura di artista, anche per questo divenuta icona femminile inquieta e ammirata su scala mondiale. Promossa dal Comune di Sansepolcro, sindaco Mauro Cornioli, in collaborazione con Civita Mostre e Musei, presidente Alberto Rossetti, e con Diffusione Italia International Group, a cura di Vincenzo  Sanfo, presidente del Centro Italiano per le Arti e la Culttra, ha curato anche l’analoga mostra nel 2018 a Noto in Sicilia e nel 2014 a Barolo in Piemonte, portando le immagini della Kahlo in piccoli ma qualificati centri, come ora Sansepolcro. Catalogo Papino  Art, bilingue italiano-inglese, a cura di Vincenzo Sanfo.  

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Frida Kahlo a diciotto anni”, Messico 1926, di Guillermo Kahlo

“Delicato e martoriato il corpo,  fiero ed impetuoso lo spirito, una grande artista ed una grande donna, questo e molto altro è stata Frida Kahlo”, così si apre la presentazione di Alberto Rossetti, presidente di Civita Mostre Musei.  “Frida Kahlo non è solo un’artista, è ormai una sorta di leggenda, che ha travalicato la storia dell’arte per entrare nel mito”, commenta il curatore grande conoscitore della Kahlo Vincenzo Sanfo e aggiunge: “Un mito che si alimenta di un’aura misteriosa e terrifica nelle sue vicende umane che sono, in fondo, la parte più importante di un percorso  che attraversa è vero anche l’arte, ma che non ne costituisce l’aspetto principale”.  E il sindaco Alberto Rossetti: “Questa mostra intende ripercorrere la sua vicenda biografica  grazie alla straordinaria opportunità di compiere il viaggio con l’obiettivo di grandi fotografi, con alcuni dei quali  Frida ha avuto anche un rapporto sentimentale, da inquadrare nel rapporto turbolento con Diego Rivera, fatto di passioni e di reciproci tradimenti”.

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“Diego Rivera e la sua sposa”, Messico 1929, di Victor Reyes

Così ci sembra di aver inquadrato a nostra volta la mostra che, partendo dalle immagini di vita, suscita un vivo interesse ad approfondire i motivi della sua esistenza che ne hanno fatto un’icona mondiale. Abbiamo parlato della sua arte in tre articoli di commento alla mostra romana nel 2014 alle Scuderie del Quirinale, nella quale i suoi dipinti mostravano la traduzione a livello pittorico dei motivi esistenziali alcuni dei quali, particolarmente significativi, troviamo evoati nelle fotografie esposte in mostra; quindi non torniamo su quei temi, anche se faremo un breve excursus sui suoi dipinti e anche disegni maggiormente collegati alle vicende della sua vita.

La sua formazione

Prima di focalizzare i  principali morivi che ne caratterizzano il  percorso di vita, qualche accenno alla sua formazione scolastica e del carattere, come premessa di un’esistenza movimentata, dalle sofferenze per la salute minata da infortuni e malattie, all’impegno politico militante anch’esso agitato, agli amori nei quali pure si alternano gioie e dolori, con attaccamento e allontanamento dall’uomo della sua vita. 

“Frida Kahlo”, San Francisco 1930, di Edward Weston

La formazione del carattere l’ha avuta nella scuola tedesca che l’ha forgiata dandole  una evidente  resistenza ai colpi che subirà  nella sua vita; e non è stata singolare tale scelta del padre per una nata nel 1907 nei sobborghi di Città del Messico, trattandosi di Wilhelm Kahlo,  tedesco proveniente da  Baden Baden, che con l’aiuto del  proprio padre si era affermato come fotografo americanizzando il nome in  Guillermo. Da lui Frida  deve aver colto anche la  predilezione per certe pose plastiche, quasi scultoree,  sia quando viene ripresa da celebri fotografi, come si vede in mostra, sia quando dipinge gli Autoritratti. Frida  è  la 3^ figlia delle 4 avute da Guillermo dalla seconda moglie Matilde Calderòn y Gonzales – le altre sono Matilde, Adiana e Cristina – mentre la prima moglie, Maria Cardena, era morta dando alla luce la 2^ figlia Margarita dopo  Maria Luisa.

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“Frida Kahlo e Diego Rivera”, 1930, di Manuel Alvarez Bravo

Nella formazione scolastica superiore un’altra particolarità: nel 1922 viene ammessa alla prestigiosa scuola che immette all’università, la “Preparatoria”, su 2000 studenti è una delle 35 ragazze che ha come compagni  i rampolli  più brillanti della borghesia messicana, come i  Cachucas, con i quali si intende meglio degli altri. Non si impegna molto nello studio, ma i suoi interessi culturali e le sue qualità intellettuali le fanno avere ugualmente buoni risultati scolastici. Nella “Preparatoria”, nello stesso 1922,   l’incontro per lei decisivo.

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“Frida con Vaso Tehantepec sulla testa”, New York City 1932,
di Carl Van Vechten

La sua ricerca dell’amore

Da questo incontro  prendiamo l’avvio per entrare nel suo percorso di vita, passando dalla iniziale formazione all’esistenza, con i suoi amori,  soprattutto il suo grande amore: Diego Rivera, il celebre creatore di “murales” il quale,  incaricato di affrescare le pareti della “Preparatoria”, suscitò il suo interesse, immediatamente ricambiato. Scrive Rivera nella sua Autobiografia che lei, quindicenne, gli chiese: “Le do fastidio se la guardo lavorare?”, e lui, 36 enne, le rispose: “No, signorina, ne sarei incantato”, e lo fu veramente, tanto che la descrive così: “Aveva dignità e una sicurezza di sé del tutto insolite per una ragazza della sua età e negli occhi le brillava una strana luce”, e aggiunge: “La sua era una bellezza infantile eppure aveva seni ben sviluppati”.

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“Frida”, Messico 1932, di Guillermo Kahlo

Questa prima scintilla non ha un seguito immediato, ma accende il fuoco dell’amore nel secondo incontro con Rivera sei anni dopo nella sede del Partito comunista al quale lei si iscrive nel 1928 come tanti intellettuali tra cui il pittore di “murales”.  Si sposano l’anno successivo, il 21 agosto 1929. Lo segue  nel 1933 a New York dove lui è chiamato per realizzare delle opere  e per esporre al MoMA, ma dopo che nel 1934 lui ha  una relazione con la sua sorella minore Cristina Kahlo, nel 1935 se ne separa e lascia la “Casa Azul”, la sua “casa blu” a Coyoacàn, per vivere da sola. Però non riesce a dimenticarlo, neppure aiutata da una relazione con lo scultore nippo-americano, perché nel  1936 torna a vivere con lui nella “Casa Azul”.

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Frida morde la sua collana”, New York City 1933, di Lucienen Bloch

L’anno successivo vi ospitano Leon Trotsky e la moglie Natalia Sedava, esuli dalla Russia dove  il grande rivoluzionario sovietico è  caduto in disgrazia con Stalin; è il  1937, arrivano anche  André Breton e la moglie,  Jacqueline Lambda, fanno un viaggio nel Messico insieme, sembra che ci sia stata una relazione tra Frida e Trotsky.  Ma il 21 agosto 1940 il  rivoluzionario, che continuava a disturbare Stalin con il suo impegno politico pubblico, é assassinato nella abitazione da  Ramon Mercader, che si era guadagnata  la fiducia dell’entourage e di Trosky per entrare nella residenza superblindata e colpirlo a morte sulla fronte con una  piccozza. In questo 1940,  dal riavvicinamento e  la riconciliazione con Rivera arriva a un nuovo matrimonio con lui l’’8 dicembre, tornano a vivere nella “casa blu” di  Coyoacàn.  Una vita sentimentale movimentata la sua, non mancano gli amori  con grandi fotografi, come Nicholas Muray di cui sono esposte le fotografie fatte a lei.

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“Frida Kahlo e Diego Rivera nello studio di Diego”, Messico 1934, di Bernard Silberstein

La sua milizia politica

Intrecciato al rapporto di una vita con Diego Rivera, l’impegno  politico di Frida, da sola o con lui. Nel 1928, con l’iscrizione al Partito comunista – di cui  faceva parte l’artista dei “murales” insieme  al gruppo di intellettuali intorno a Tina Modotti, e Julio Antonio Mellas – l’incontro decisivo dopo la prima “scintilla” alla “Preparatoria” sei anni prima , come sopra ricordato.  Rivera la raffigura nell’affresco “La ballata della rivoluzione” come eroina-simbolo mentre dà le armi ai combattenti  con una stella sulla camicia rossa. Nell’agosto 1929 si sposano, lui ha ricevuto incarichi pubblici, tra cui dipinti per il Palacio National di Città del Messico, per la Secretaria de Salud  e per il Palacio de Cortés a Cuernavaca, e a settembre  viene espulso dal Partito comunista mssicano  con l’accusa di essere vicino  al governo che aveva messo fuori legge il partito. Successivamente anche lei ne uscirà, mentre nasce  il Partito nazionale rivoluzionario, fondato da Calles.

“Frida Kahlo all’uscita dalla chiesa”, Coyoacàn Messico 1937, di Fritz Herle

La troviamo impegnata nel 1936 a sostenere  la riforma agraria in Messico con l’esproprio dei latifondi, la distribuzione delle terre ai contadini e la nazionalizzazione di  importanti settori economici.   Viene  posta sotto  stretta sorveglianza dalla polizia nel 1940 perché conosceva l’assassino di Trosky, va a curarsi negli Stati Uniti, a San Francisco. Si avvicina di nuovo al Partito comunista, da cui era uscita,  nel 1941 quando  i tedeschi  invadono la Russia e Stalin si oppone fortemente a Hitler; fino a iscriversi di nuovo nel  1948.  

Intanto, nel 1947, per le grandi riforme e la modifica della Costituzione messicana, Rivera con altri fonda la Commissione per la pittura murale dell’Instituto Nacional de Bellas Artes, e nei suoi murales rappresenta Frida come vestale  e madre protettiva: nel murale “Sogno  di un domenica pomeriggio nel parco Alameda” la raffigura dietro di lui mentre gli appoggia la mano sulla spalla e tiene  nell’altra mano il simbolo Yin-Yang.”

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L’arrivo di Trotsky in Messico, accolto con la moglie da Frida Kahlo e Schachtman,
leader del Comitato Comunista Americano” ,Tampico Messico 1937, Bettmann/CORBIS

 Nel 1952 organizza una raccolta di firme a sostegno del Congresso internazionale della pace  contro gli esperimenti atomici.  Rivera inserisce la sua immagine nel murale realizzato quell’anno, “L’incubo della guerra e il sogno della pace”.  L’impegno e la militanza politica crescono negli  ultimi anni, con  vera devozione per il Partito nonostante i  contrasti del passato, lei vede nell’ideologia comunista una  spinta positiva per il futuro dell’umanità, e afferma: “Capisco il materialismo dialettico di Marx, Engels, Lenin, Stalin e Mao Tse Tung. Li amo perché sono i pilastri del nuovo mondo comunista”.

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“Frida con il globo“, Coyoacàn Messico 1938, di Manuel Alvarez Bravo

Per l’ammirazione che aveva di lui, la morte di Stalin il 4 marzo 1953 è un brutto colpo al suo equilibrio già instabile per le troppe sofferenze che dal corpo si sono trasferite allo spirito, non pitture ma disegni allucinati.  All’inizio del  1954 partecipa persino a una dimostrazione di solidarietà contro la destituzione del presidente del Guatemala Arbenz Guzmàn, mentre è ancora convalescente dopo una broncopolmonite. E’ l’ultima sua iniziativa politica, muore il 13 luglio di tale anno nella “Casa Azul” di Coyoàcan, a soli 47 anni.

Al Palazzo delle Belle Arti si svolge la veglia funebre con un picchetto d’onore e l’omaggio di amici e compagni che sfilano senza interruzione davanti alla bara coperta da una bandiera rossa con falce e martello all’interno di una stella bianca. Le ceneri sono conservate in un vaso precolombiano nella sua “Casa Azul”, che dal 1958 è un museo pubblico a lei dedicato.

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Frida e Diego con la maschera antigas“, Messico c.a 1938, di Nickolas Muray

La sua salute martoriata

La broncopolmonite del 1954 è l’ultimo momento, prima della morte, di un calvario iniziato nel 1913, a sei anni di età, con una poliomielite che la tenne per nove mesi a letto e le offese una gamba rendendola claudicante, i compagni di classe la soprannominarono  “Frida pata de palo”, cioè “gamba di legno”. 

Ma l’evento traumatico che incise  profondamente non solo sul suo fisico ma anche sulla sua psiche, lo ebbe il 17 settembre 1925, a 18 anni, quando fu coinvolta in un grave incidente sull’autobus in cui si trovava, investito da un tram, ci furono diversi morti. Lei lo ha descritto così: “In quel momento non mi resi conto dello shock, non riuscii nemmeno a piangere, l’urto ci catapultò tutti in avanti  e un corrimano mi trafisse la schiena allo stesso modo che una spada  trafigge il toro”.  Una lunga e dolorosa convalescenza la sua, durante la quale comincia a dipingere, iniziando la serie degli “Autoritratti”.

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“Frida con Granizo”, Messico c.a 1938, di Nickolas Muray

Anche i momenti felici dell’unione con Rivera – alternati a crisi e abbandoni reciproci – non vengono risparmiati dai suoi problemi fisici. Nel 1930 prima interruzione di gravidanza per postura scorretta delle ossa del bacino, è  l’anno del loro trasferimento a New York, seguita da un’altra interruzione nel 1932 a Detroit nell’Ospedale Henry Ford, cui dedica un dipinto.  Si sfoga così: “Nonostante tutto ho voglia di fare molte cose e non mi sento ‘delusa dalla vita’ come nei romanzi russi”. Terza interruzione di gravidanza nel 1934 con ulteriori complicazioni per la sua salute, e problemi personali: la relazione di Rivera con la propria sorella alla quale seguirà la separazione l’anno successivo, dopo la morte della madre nel settembre dell’anno precedente.

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Frida mentre dipinge ‘Le due Frida’”, Messico c.a 1938, di Nickolas Muray

Nel 1940  va di nuovo negli Stati Uniti, a San Francisco, per curarsi, lo prescrive il suo medico dott. Eloesser, ha una compensazione nel riconciliarsi con Rivera, ma l’anno successivo la morte del padre le arreca un nuovo dolore. Le sue condizioni di salute restano precarie al punto che  è costretta a tenere le lezioni della Scuola d’arte di cui ha avuto l’insegnamento non nella sede scolastica ma nella “Casa Azul”: un insegnamento innovativo il suo, non solo la parte tecnica ma lo stimolo alla creatività con autodisciplina unita ad autocritica, e dimostra l’una e l’altra impegnandosi nella pittura e nell’attività politica.

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Frida Kahlo” , Messico 1939, di Nickolas Muray

Operazione chirurgica alla colonna vertebrale nel 1946, ma  ancora una compensazione nel Premio nazionale di pittura che le viene conferito, partecipa alla premiazione con il corpo bloccato da un busto insopportabile.  “Peggioro ogni giorno di più – si legge nella sua lettera del 24 giugno al dott. Eloesser – all’inizio non riuscivo ad abituarmi perché è una cosa infernale adattarsi a questo apparecchio. Non riuscivo più a lavorare, perché anche i movimenti più insignificanti mi stremavano”. Segue un nuovo intervento  chirurgico alla colonna vertebrale, prende morfina per i dolori,  le dà  allucinazioni, ma continua a dipingere anche quando non può muoversi con opere che riflettono la sua sofferenza; continuerà con la morfina anche dopo.

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“Frida con oggetti di terracotta e pupazzi di Giuda”, Messico c.a 1940, di Bernard Silberstein

Ricoverata in ospedale per quasi 9 mesi nel 1940, subisce diversi interventi chirurgici ma non lascia la pittura: dopo il 6° intervento, dei 7 subiti,  ricomincia a dipingere per 4-5 ore, anche quadri sereni pur in una situazione di sofferenza: “Ho un busto di gesso che mi procura dei fastidi spaventosi, ma aiuta la mia spina dorsale a stare meglio, non ho dolori, ma sento una  grande stanchezza e disperazione” scrive, aggiungendo: “E’ un disperazione che non riesco a descrivere con le parole, ma nonostante tutto ho una grande voglia di vivere”.  E di  dedicarsi alla pittura: “Ho ricominciato a dipingere un piccolo quadro per il dottor Ferilli, e lo sto facendo con tutto l’affetto che provo per lui”. L’anno successivo può dipingere soltanto aiutandosi con antidolorifici e il suo tratto pittorico ne risente, colori più carichi, segno sfuggevole, minori dettagli.

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“Frida dipinge il suo autoritratto mentre Diego Rivera la guarda”,
Messico c.a 1940, di Bernard Silberstein

Nel 1953, pur immobilizzata a letto, non vuole mancare all’inaugurazione della sua prima grande personale  in Messico, organizzata da Lola Alvares Bravo, e si fa trasportare in barella fino a un letto in galleria, esiste solo una fotografia di lei in costume messicano con gioielli tipici circondata da amici, perché i fotografi commossi lasciano le fotocamere a terra e non hanno il coraggio di riprenderla così. Si aggrava il calvario, nel mese di agosto le viene amputata la gamba destra dopo dolori insopportabili, riesce a rimettersi in piedi con una protesi, ma la psiche vacilla: “Ho sempre il desiderio di uccidermi, solo Diego mi trattiene dal farlo.  Mi sono messa in testa che potrei mancargli, me l’ha detto lui e gli credo. Ma mai nella mia vita ho sofferto così tanto”. Però non manca il finale  meno disperato: “Aspetterò ancora un po’”. Infatti è capace ancora di dipingere.

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“Frida ad una mostra”, Messico c.a 1940, di Lola Alvarez Bravo

La sua arte

La sua arte non è oggetto della mostra che vuole evocare la sua vita con le immagini fotografiche, ma non possiamo mancare di citare alcune opere che segnano  i diversi momenti della sua esistenza, tra l’impegno politico e i problemi di salute.

Nel 1926, dopo il terribile incidente nell’autobus del settembre 1925, il suo primo quadro, un “Autoritratto” in vestito di velluto. Dopo la seconda interruzione di gravidanza in America del 1932 il  ben noto dipinto ”Ospedale Henry Ford”. Anche le traversie sentimentali le esprime in pittura,   dopo la prima separazione da Rivera del 1935 crea l’inquieto, definito “cruento”, “Qualche piccola punzecchiatura“. 

Grande successo in America nel 1938, con la prima personale alla Julien Levy Gallery di New York, vende quasi tutte le opere esposte e riceve commissioni, Clare Boothe Luce addirittura vuole che  ricordi con un dipinto l’attrice amica Dorothy Hale, suicidatasi. Nel 1939, dopo la seconda separazione da Rivera,  opere tormentate, “Le due Frida” e “L’Autoritratto con i capelli tagliati”, l’anno dopo risposerà Diego.

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“Frida Kahlo mentre dipinge ‘La tavola ferita“, Messico 1940, di Bernard Silberstein

Intanto nel 1939 espone a Parigi alla Gallerie Renou et Colle,  dopo i contatti con i Surrealisti anche tramite l’amico Marcel Duchamp, e il Louvre acquista il suo dipinto  “La cornice”.   Un’opera del 1941 marca due momenti angosciosi, l’invasione tedesca della Russia e la morte del padre:  in ”Autoritratto con Bonito” si ritrae in camicia nera in segno di lutto  per il padre e le vittime della guerra, la scimmia Bonito sulla sua spalla evoca la perdita dell’animale cui era legata.

Nel 1946 l’opera freudiana “Mosè”, che riceve il Premio internazionale di pittura, esprime la sua reazione alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki con un terzo occhio sulla fronte del piccolo salvato dalle acque, il segno di una saggezza probabilmente da recuperare. Realizza opere che riflettono i suoi travagli personali, in “La colonna rotta” il tormento del  busto rigido, ma anche “Albero della speranza mantieniti saldo”, e “Il cerbiatto” o “Il cervo ferito”.   E dopo la nuova operazione chirurgica alla colonna vertebrale a New York crea l’opera “Il sole e la vita” con una pianta i cui pistilli sono a forma di lacrime,  dov’è  un feto tra organi genitali: segno della maternità interrotta.

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“Frida Kahlo”, Xochimilco Messico 1941, di Leo Matiz

Esorcizza le sue sofferenze in alcune opere del 1948 e 1949, come “L’amoroso abbraccio dell’Universo. La terra”, il suo Messico del quale figurano elementi mitologici tradizionali, come il sole  e la luna, il giorno e la notte, la dea e la terra, e un cane mitico come simbolo della vita e della morte. Nell’ autoritratto “Diego e io”, c’è il simbolo della saggezza nell’occhio di Rivera sulla sua fronte, e l’angoscia nella tristezza del proprio volto e nei capelli che sembrano volerle stringere il collo per soffocarla.

Si è alla metà del secolo,  nel 1950 dopo i numerosi interventi alla spina dorsale dipinge l’”Autoritratto con il ritratto del dottor Farill”, che l’aveva curata in ospedale, e scrive: ”Ho ricominciato a dipingere un piccolo quadro per il dottor Farill, e lo sto facendo con tutto l’affetto che provo per lui”. Riprende anche un quadro abbandonato da anni, “La mia famiglia”, con gli  antenati e suoi attuali parenti, quasi per cercare una  protezione nella sua situazione angosciosa.

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Frida Kahlo indossa un corsetto di gesso decorato con falce e martello”,
Messico c.a 1941, di Florence Arquin

Nel 1951,  quando riesce a dipingere solo aiutandosi con antidolorifici, realizza la “Natura morta con ‘Viva la vita e il dottor Farill’”, fiori esotici su sfondo rosso  dinanzi a un cielo diviso tra giorno e notte, una anguria con la bandiera nazionale espressione del suo patriottismo, con davanti una colomba bianca che esprime il suo anelito alla pace; in “Angurie”, dipinto da Guttuso nel 1986 poco prima della morte avvenuta il 18 gennaio 1987, troviamo lo stesso frutto come inno alla vita, chissà se anche in lei dolorante abbia avuto tale significato! Non mancano neppure espressioni dell impegno politico diretto: “Il marximo guarirà gli infermi”, addirittura un  “Autoritratto con Stalin” e un “”Ritratto di Stalin” rimasto  incompiuto. E alla morte di Stalin nel 1953 disegni allucinati con lei divisa in due tra luce e ombra o con in mano la colomba della pace, la testa tra  linee come lance. In altri disegni ricorrono scritte  inneggianti alla pace rivoluzionaria e ai leader del comunismo da lei ammirati: “Pace, rivoluzione”, “Viva Stalin, viva Diego”, “Engels, Marx, Stalin, Lenin,  Mao”.

L’ultimo quadro che vogliamo citare è del 1954, l’anno in cui termina la sua  vita, dipinto con grandi sforzi:“Autoritratto con Diego sul petto e Maria tra le sopracciglia”, il segno è fuggevole per l’incertezza impressa dai  farmaci e dalle droghe. Sempre una grande artista che mette tutta se stessa nella pittura.

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“Frida sdraiata al sole“, Xochimilco Messico 1941, di Leo Matiz

La sua immagine

Non potevano esserci queste opere pittoriche nel centinaio di immagini della mostra fotografica, di cui una sessantina riprodotte nel Catalogo,  ma è come se fossero evocate dalle foto del suo itinerario di vita, e sono evocati altrettanto i suoi amori, i suoi impegni politici, i suoi problemi di salute,  per questo abbiamo voluto farne un’ampia ricostruzione. Quelle esposte in mostra sono immagini serene, la maggior parte delle quali nel costume messicano in tutta la sua forza identitaria, con lei in atteggiamenti che sono quasi pose in cui ostenta  sicurezza di sé, in alcune fierezza, in altre dolcezza; le sue sopracciglia non sono unite come nei suoi Autoritratti in cui ha accentuato la loro vicinanza facendone un segno distintivo, per non dire trasgressivo.

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“Frida Kahlo”, Messico 1941, di Bernard Silberstein

Tra quelle del Catalogo, soltanto in poche  fotografie  è ripresa in gruppi: dal padre Guillermo Kahlo nel 1928 in un ritratto di famiglia con  sei parenti;  da  Bettmann/CORBIS  nel 1933 con  Diego Rivera e altri tre visitatori  in smoking  a New York  a una mostra di ritratti di Lionel Reiss, nel 1937 mentre l’8 gennaio accoglie Trotsky con la moglie al loro arrivo in Messico a Tampico, con Schachtman, leader del Comitato Comunista Americano insieme a un quindicina di persone, e a Città del Messico lo stesso giorno solo con Schachman, nel 1944 semidistesa sul letto con la testa eretta, sul bordo un uomo che dorme, sono estranei e distaccati, completamente vestiti, è un’immagine ironica;  da Lola Alvarez Bravo nel 1940 davanti a due quadri mentre si rivolge a un giovane visitatore; da Leo Matiz  in 3 immagini, 2 del 1941, di cui una con Rosa e Cristina, l’altra con  Diego, Cristina e Miguel Covarrubias, una del 1943 con un venditore di tessuti; fino alla fotografia di Gisele Freund del 1951, insieme al dottor Farill e il quadro in cui lo ritrae con lei.  

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“Frida Kahlo e Diego a Casa Azul”, Coyoacàn Messico 1941, di Emmy Lou Packard;

Le altre fotografie in cui non è sola la mostrano con Diego Rivera, sono una diecina. Vengono  ritratti insieme da Victor Reyes nel 1929 dopo il matrimonio, lui corpulento in piedi, lei sottile seduta, sembrano proprio ’”l’elefante e la colomba”, come sono stati chiamati; da Manuel Alvarez Bravo nel 1930 seduti su due poltrone affiancate, lui tende la destra verso il braccio di lei, e nel 1939,  lei seduta su una poltrona e lui sul bracciolo che le cinge le spalle con il braccio sinistro; da Bernard  Silberstein nel 1934 seduti affiancati in posa rilassata, nello studio di Diego, nel 1940 mentre dipinge il suo “Autoritratto” con Rivera in piedi alle sue spalle che la guarda, e  il giorno delle loro seconde nozze, mentre lei tiene la mano destra sulla spalla di lui  che scrive, sono  seduti affiancati su un divano; Emmy Lou Packard li ritrae nel 1941 a “Casa Azul”  con lui seduto davanti a una tavola imbandita e lei in piedi che gli bacia amorevolmente la testa; citiamo qui, per vicinanza ideale,  l’unica fotografia scattata da Diego Rivera, forse lo stesso giorno, in cui Emmy Lou le cinge le spalle con un braccio mentre sono seduti nel giardino  della casa.

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Frida Kahlo a Casa Azul”, Coyoacàn Messico c.a 1941, di Leo Matiz”

Ed ora le immagini in cui è sola,  nel Catalogo sono circa 40,  una metà a mezzo busto, una diecina a figura intera, altre davanti a dei  quadri. La vediamo mentre dipinge “Le due Fride”  nella foto di Nickolas Murray del 1938, e nel dipingere  “La tavola ferita”  ripresa nel 1940 da Bernard Silbrstein  che  la fotografa anche davanti a una grande vetrina con oggetti e pupazzi di Giuda;  nel suo studio con le attrezzature per la pittura e “Le due Fride” nella parete di fondo, ripresa da Fritz Henle,  vi associamo 2 foto, entrambe a figura intera, di Manuel Alvarez Bravo del 1944 alla mostra di Picasso dinanzi a  due quadri dell’artista, lei è in piedi davanti al quadro di una figura femminile e seduta comodamente davanti a una figura in posa acrobatica, ironia forse? 

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Frida nel suo studio”, Messico c.a 1943, di Fritz Herle

Le foto a mezzo busto iniziano con quella scattata nel  1926 dal padre Guillermo Kahlo, che la ritrae altre due volte, la prima vestita in nero, la seconda in chiaro,  dopo la morte della madre nel 1932, anno in cui abbiamo anche una foto di Carl Van Vechten a New York con un vaso caratteristico sulla testa; del 1930, 2  foto a San Francisco, una  di Imogen Cunningham con un semplice scialle scuro, l’altra di Edward Weston  agghindata con al collo tre giri di una collana  molto grossa, mentre a è del 1933 la foto di  Lucienne  Bloch che la ritrae a New York mentre morde una collanina chiara, e le 2 della stessa fotografa, del 1935, con una bottiglia di Cinzano e un centrino in testa; compunte  le 2 ’immagini del 1937 di Fritz Hehle, che la riprende all’uscita dalla chiesa, in figura intera e in un primo piano del volto con lo scialle che le copre i capelli, dolcissima quella del 1938 mentre accarezza la sua capretta Granizo, di Nickolas Muray, che la ritrae nello stesso anno in una posa seducente; la capretta è con lei anche nella foto del 1940 di Bernard Silberstein che la mostra seduta in camera da letto con dietro il letto a baldacchino, mentre nel 1941 la riprende da vicino con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo verso sinistra, e non  frontale come di solito; nello stesso anno Florence Arquin immortala il corsetto di gesso da lei indossato con una vistosa falce e martello.

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Frida davanti al suo studio con una scimmia”, Messico 1943, di Fritz Herle

Del 1941 anche 4 foto di Leo Matiz, le più distensive perché la vedono sdraiata al sole su un prato con le braccia dietro la testa, l’ultima a figura intera. Dopo la foto davanti al suo studio con in braccio una scimmia – che troviamo  anche nei suoi dipinti – di Fritz Henle nel 1943, la vediamo con le trecce annodate sulla testa appoggiata al bracco sinistro e lo sguardo verso destra  nella  foto del 1944 di Bettmann/CORBIS,  altrettanto serena, come nella foto di  profilo di Sylvia Salmi dello stesso anno e in quella  del 1945 di Lola Alvares Bravo, un’altra in camera da letto, mentre nel 1946 Leo Matiz la riprende severa come una figura statuaria in un’immagine potente per il controluce e il taglio obliquo.  Nel 1949,  2 foto molto diverse: seduta nello studio con gli scaffali di libri e il telefono a muro nella foto serena di Mario Guzman; distesa mentre gioca con il suo cane, nella foto tenera di Hector Garcia, che l’anno dopo, nel 1950, la ritrae  invece scura nell’abito e nel viso.

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“Frida Kahlo”, Messico 1941, Bettmann/CORBIS

Le altre  fotografie  a figura intera oltre quelle  già citate,  la mostrano  in pittoreschi abiti del suo Messico,  così la riprende Manuel Alvarez Bravo nel 1938 con a lato il globo,  così Leo Matiz nel 1941 e nel 1943 e Juan Guzman nel 1950 con due colombe.

Concludiamo la galleria con due immagini simboliche, quella del 1950 di Juan Guzman distesa nel letto d’ospedale, ma non con le impressionanti allucinazioni di certi suoi dipinti e disegni, bensì con in mano uno specchio, simbolico omaggio alla femminilità, e quella del 1954 di Lola Alvarez Bravo nel letto di morte: chiudono un percorso evocativo quanto mai espressivo ed emozionante.

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“Frida Kahlo alla mostra di Picasso”, Messico 1944,
di Manuel Alvarez Bravo

Ma non vogliamo terminare con immagini angosciose,  bensì con le sue belle parole dopo la grande personale in Messico del 1953 alla quale si fece portare in barella nel letto in galleria contro il parere dei medici: “C’era tanta gente al vernissage e tante congratulazioni da tutti per la ‘chicua’, tra le altre un grande abbraccio da Juan Mirò e tante lodi per i miei quadri da Kandiskij, congratulazioni anche da Picasso e Tanguy, da Paalen  e dagli altri gran caca del surrealismo. Insomma, posso dire che è stato un successo e, tenendo conto della qualità del pubblico,  credo che tutto sia andato piuttosto bene. La vostra ‘chica’ che non vi scorda mai. Frida”.  

E nemmeno noi potremmo mai dimenticarla.

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Frida Kahlo”, Messico 1946, di Leo Matiz

Info

San Sepolcro, Arezzo, Museo Civico, via Niccolò Aggiunti 65. Orario giovedì-domenica, 10-13,30 e 14,30-19, biglietteria aperta  fino a 20 minuti prima della chiusura quotidiana. Ingresso, intero euro 12;  ridotti:  9 euro per gruppi oltre 10 persone, per età 19-25 anni; 5 euro  per età 11-18 anni;  gratis per under 10, disabili con  accompagnatore, e altre categorie.  Info e prenotazioni Tel. 0575.732218,   mostrasansepolcro@gmail.com.  Catalogo “Frida Kahlo. Una vita per immagini”, Papiro Art,  aprile 2021,  pp.48,   formato  17 x 24,  bilingue italiano-inglese, dal Catalogo sono tratte le citazioni e le notizie del testo. Cfr.  in www.arteculturaoggi.com i nostri articoli: per la  mostra romana delle opere di Frida Kahlo alle Scuderie del Quirinale, l 2 marzo, 12, 16 aprile 2014; per gli artisti citati nel testo,  Picasso, 5, 25 dicembre 2017, 6 gennaio 2018, Duchamp 16 gennaio 2014, Guttuso 20, 30 gennaio 2013, 25, 30 gennaio 2015, 27 settembre, 2, 4 ottobre 2016, 16 ottobre 2017, Mirò 15 ottobre 2012; in cultura.inabruzzo.it,  Dada e surrealisti 4, 7 gennaio 2010, Picasso 4 febbraio 2009 (quest’ultimo sito non è più raggiungibile, gli articoli, disponibili,  saranno trasferiti su altro sito).

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“Frida Kahlo nel letto di ospedale con in mano uno specchio”, Messico 1950,
di Juan Guzman

Foto

Le immagini delle fotografie esposte in mostra, che sono nserite nel testo in ordine cronologico e coprono un quarto di secolo dal 1926 al 1950, sono tratte dal Catalogo: si ringrazia l’Editore con  i titolari dei diritti e Civita Mostre Musei che lo ha cortesemente fornito, per l’opportunità offerta. In apertura,“Le due Frida” 1939, nella copia-omaggio del pittore cinese Nu De Qi; seguono, “Frida Kahlo a diciotto anni” Messico 1926 di Guillermo Kahlo, e “Diego Rivera e la sua sposa” Messico 1929 di Victor Reyes; poi, “Frida Kahlo” San Francisco 1930 di Edward Weston, e “Frida Kahlo e Diego Rivera” 1930 di Manuel Alvarez Bravo; quindi, “Frida conVaso Tehantepec sulla testa” New York City 1932 di Carl Van Vechten, e “Frida” Messico 1932 di Guillermo Kahlo; inoltre, “Frida morde la sua collana” New York City 1933 di Lucienen Bloch, e “Frida Kahlo e Diego Rivera nello studio di Diego” Messico 1934 di Bernard Silberstein; ancora, “Frida Kahlo all’uscita dalla chiesa” Coyoacàn Messico 1937 di Fritz Herle, e “L’arrivo di Trotsky in Messico, accolto con la moglie da Frida Kahlo e Schachtman, leader del Comitato Comunista Americano” Tampico Messico 1937 Bettmann/CORBIS; continua, “Frida con il globo” Coyoacàn Messico 1938 di Manuel Alvarez Bravo, e “Frida e Diego con la maschera antigas” Messico circa1938 di Nickolas Muray; prosegue, “Frida con Granizo” Messico c.a 1938 di Nickolas Muray, e “Frida mentre dipinge ‘Le due Frida’” Messico c.a 1938 di Nickolas Muray; poi, “Frida Kahlo” Messico 1939 di Nickolas Muray, e “Frida con oggetti di terracotta e pupazzi di Giuda” Messico c.a 1940 di Bernard Silberstein; quindi, “Frida dipinge il suo autoritratto mentre Diego Rivera la guarda” Messico c.a 1940 di Bernard Silberstein, e “Frida ad una mostra” Messico c.a 1940 di Lola Alvarez Bravo; inoltre, “Frida Kahlo mentre dipinge ‘La tavola ferita” Messico 1940 di Bernard Silberstein, e “Frida Kahlo” Xochimilco Messico 1941 di Leo Matiz; ancora, “Frida Kahlo indossa un corsetto di gesso decorato con falce e martello” Messico c.a 1941 di Florence Arquin, e “Frida sdraiata al sole” Xochimilco Messico 1941 di Leo Matiz; continua, “Frida Kahlo” Messico 1941 di Bernard Silberstein, e “Frida Kahlo e Diego a Casa Azul” Coyoacàn Messico 1941 di Emmy Lou Packard; prosegue,“Frida Kahlo a Casa Azul” Coyoacàn Messico c.a 1941 di Leo Matiz, e “Frida nel suo studio” Messico c.a 1943 di Fritz Herle; poi, “Frida davanti al suo studio con una scimmia” Messico 1943 di Fritz Herle, e “Frida Kahlo” Messico 1941 Bettmann/CORBIS; quindi, “Frida Kahlo alla mostra di Picasso” Messico 1944 di Manuel Alvarez Bravo, e “Frida Kahlo” Messico 1946 di Leo Matiz, infine, “Frida Kahlo nel letto di ospedale con in mano uno specchio” Messico 1950 di Juan Guzman e, in chiusura, “Frida Kahlo con due uccelli” Messico 1950 di Juan Guzman.

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Frida Kahlo con due uccelli”, Messico 1950, di Juan Guzman.