Micucci. la ricerca pittorica dal Dna al Borromini “occulto”, al Vittoriano

Romano Maria LevanteIl Borromini occulto è stato evocato nella mostra “Luce, spazio, armonia il Divino”, di Laura Gabriella Micucci, svoltasi al Vittoriano, sala Giubileo,  dal 10 al 15 settembre 2011, con due nuove opere aggiunte a quelle esposte  dal 4 al 28 maggio nell’ anteprima al Chiostro di san Carlino alle Quattro Fontane, nel cuore della chiesa la cui facciata è del grande architetto. Altre sue opere insigni san Giovanni in Laterano e sant’Andrea delle Fratte, l’Oratorio e il Convento dei Filippini, sant’Ivo e  La Sapienza, i Palazzi Carpegna e Confalonieri, Spada e Propaganda Fide. Vale la pena tornare sulla mostra dopo oltre due anni per i motivi e significati non solo pittorici che ha evidenziato.

“Stella Danzante  (tò àstron orchoùmenon)”

“La mia è la ricerca di qualcosa che vada oltre il terreno, in una prospettiva di più mondi”, ci disse l’autrice prima della presentazione, parlandoci anche di Dna che si diversifica e rappresenta “il ceppo dell’Universo”.  La sua ispirazione è stata il simbolismo del Borromini, alchimista e astronomo oltre che architetto dal forte senso religioso, portato ad “andare oltre” con i suoi simboli e le sue forme espressive protese verso qualcosa  di superiore come si vede nelle sue chiese.

Ascoltando queste parole e ci guardammo intorno, le opere dominavano la sala, ci attirarono tre scritte: “Bisogna avere il caos in sé per partorire una stella danzante”, ha scritto Nietsche; a questo messaggio se ne aggiungeva uno altrettanto misterioso: “La verità non è venuta nuda in questo mondo, ma in simboli”, è tratta dal Vangelo di S. Giovanni.  Fino all’espressione del Borromini, che ne dà l’interpretazione autentica: “Tutto ciò che disegno e creo porta il sigillo dell’essere mio. Se sai quel che fai puoi essere beato”. Per lui è valso anche l’inverso, l’inattività e il disorientamento della vecchiaia lo portò all’opposto, la disperazione, di qui la morte che si diede trafiggendosi con una spada. Ma nulla di tutto questo traspare dalla magnificenza delle sue opere che hanno ispirato i quadri dell’artista Micucci, rivolti verso altri mondi in una sublimazione festosa e spettacolare.

“Spazio (tò diàstema)”e “Luce (tò phos)”

L’immagine della spirale della vita e il Dna

L’intervento di Claudio Strinati  preparò all’interpretazione delle opere esposte spaziando dall’occulto del Borromini a Mondrian della cui mostra romana abbiamo dato conto a suo tempo.  Il Borromini  era stato  protagonista assoluto nella suggestiva anteprima al Chiostro di san Carlino in cui si era materializzata una simbiosi tra l’architettura e la pittura della Micucci che ad essa si ispira; al Vittoriano  le opere hanno avuto una dimensione autonoma in un  contenitore museale neutro, senza essere sovrastate dalla spettacolare architettura del grande maestro del barocco.

Obiettivo dell’artista è stato legare all’opera di un architetto la propria opera pittorica moderna. . Il punto comune è il senso di ascesa verso qualcosa che va oltre e ci sovrasta, una visione metafisica alla base dell’ispirazione. Ha utilizzato una tecnica molto particolare, ridando vita all’encausto e servendosi di molti materiali;  lo stile creativo si vede anche nella forma delle opere, molto diverse, dal quadrato esposto con gli angoli come fosse un rombo, all’ottagono, fino alla stella ed altre configurazioni che danno il senso dello spazio multiforme.  “Approfondire e innovare nella tecnica, prestare attenzione alla forma esteriore, alle posizioni, tener conto di tanti influssi, dal caso alla necessità”, questo ha fatto l’artista, disse Strinati.  E citò Mondrian, nella  sua evoluzione, non per creare un rapporto diretto con lui, ma per richiamarne il rigore geometrico che alla fine evolve in una nuova percezione della forma: dai compartimenti e dalla staticità della prima fase a un dinamismo che si può ricondurre perfino alle meditazioni dei mistici olandesi.  Il dinamismo si vede nelle opere della Micucci, sembrano lanci di oggetti rotanti, in una visione cosmica che porta “oltre”, una pulsazione che eleva l’opera d’arte verso una suprema armonia.

La pianta delle chiese del Borrominigenera delle immagini inserite nei quadri dell’artista, del resto il grande architetto si ispirò anche a Michelangelo. “La storia dell’arte  è come una corsa a staffetta, concluse Strinati, ognuno raccoglie e porta avanti qualcosa dei predecessori, questo è un bell’esempio di un’artista che ha raccolto il testimone e si è messo a correre sui sentieri dell’arte”.

Affermò anche : “La suprema meditazione genera la forma e porta verso l’alto con la spirale della vita senza fine”. Colleghiamo queste parole  a ciò che ci aveva detto l’artista sul Dna “ceppo dell’universo”. Ebbene, l’immagine del Dna è la doppia elica, rivelata per la prima volta da Rosalind Franklin con la celebre “fotografia  51”,  che diede la conferma decisiva a Watson e  Crick,  insigniti con Wilkins per  la loro scoperta  del Premio Nobel  nel 1961 a lei negato dalla morte prematura del 1958, senza neppure una citazione.  La doppia elica del Dna evocato dalla Micucci corrisponde alla spirale della vita senza fine di Strinati: tutto si tiene in questa assonanza di temi e di motivi.  Che ci fa ripensare alle opere esposte con  interesse misto a soggezione perché fanno penetrare il mistero delle origini della vita proiettandolo negli immensi spazi dell’universo.

“Luce (tò phos)”

Il simbolismo del Borromini  cui si ispira la Micucci

Claudio Strinati  ha indicato la direzione giusta per interpretare le opere della Micucci. Completiamo l’inquadramento con l’analisi della simbologia borrominiana compiuta da Leros Pittoni  nel libro “Francesco Borromini, l’architetto occulto del barocco”,al quale si è ispirata l’artista: “Il simbolo è legato all’uomo che ha bisogno di simboli per mettere la creatività  e la conoscenza in relazione al trascendente”. Per Borromini era complesso e aveva valore teleologico, alimentato dalla sua vasta cultura che spaziava tra astronomia e filologia,  fisica e musica, geografia ed egittologia; e dalla sua osservanza religiosa, al punto di essere definito “ascetico”.

Per questo la sua architettura ha una forza ascensionale che esprime l’elevazione dell’uomo verso Dio e il suo ritorno sull’uomo, “non fa pesare la materia che adopera ma l’alleggerisce al limite dello stabile, quasi a filtrare la luce”,  in modo che “entrando nel tempio si debba lasciare ogni ombra per sentirsi leggeri”.  E ancora: “Tutte le religioni hanno attribuito alla luce l’ascensione verso la divinità”, fino alle parole del filosofo gnostico Proclo: “Vita e luce sono unite , allora è nato il numero dell’Unità dello Spirito”. L’illuminazione non ha soltanto il valore intellettuale dei platonici, ma anche un valore profondamente spirituale che avvicina al divino: “Nelle sue cupole troviamo la costante discesa di una dynamis, un ‘processo’ d’illuminazione che vuole coincidere con l’acquisizione della Rivelazione”.

Su questa base filosofica e teologica così ricostruita da Pittoni,il grande architettoha fondato i suoi simboli geometrici, il cerchio che rappresenta l’infinito, l’eterno e porta al divino; il quadrato che esprime “la materializzazione dell’Idea” e riconduce all’uomo; e la stella a cinque e più  punte. “La croce è normalmente iscritta in un quadrato e contenuta in un cerchio”, mentre “tre cerchi saldati tra loro evocano la Trinità”, al centro Borromini colloca il sole.

E poi i simboli delle palme come “durata nel tempo” e sono il segno dell'”operosità che lascia l’uomo, quella ispirata dal Cristo risorgente”,  mentre i petali dei rosoni “sono il simbolo della durata terrestre, quindi breve”, e le melograne simboli di fede. Gli angeli onnipresenti,cherubini e serafini,  con le ali spiegate sono, nelle sue parole, “conservatori immutati della propria luce, del proprio potere d’illuminazione  per la facoltà di respingere e di abolire ogni tenebra offuscatrice”.

“Armonia (tò àrma)”

Le opere di Laura Gabriella Micucci

Come si cala tutto questo nelle opere della Micucci?  La storica dell’arte Chiara Proietti  le ha analizzate osservando innanzitutto che la luce porta a “comporre la tela come fosse un mosaico. Pensarla come un insieme di tessere, scoprire che dentro ognuna di esse ne esiste sempre un’altra”, come le figure geometriche iscritte nel cerchio con i raggi “simbolo del Cristo che discende nella materia”. Nello spazio, tra turchese, viola e striature bianche  si vede “fissare nelle costellazioni celesti la dolcezza delle linee curve volute da Borromini per le sue chiese romane”.   I pianeti e le galassie  tinte di azzurro esprimono l’armonia universale. Fino al divino, nella “comunione di due mondi, legati tra loro dalla presenza dell’occhio divino, dallo sguardo di Dio”.

Una visione laica, come quella espressa dal latinista-grecista  Gianluca Sarapo, il quale vede nella luce anche “l’irraggiamento universale che dal mondo superiore informa di sé ogni elemento sottostante”, nello spazio l’elemento intermedio per cui “chiunque può abbracciarlo con la mente e con i sensi”, nell’armonia ” la “simbiosi e sintesi di umano e divino”, nel divino un “elemento dinamico, in perenne movimento” e non solo “ciò che sta semplicemente al di sopra”.

Con queste visioni nella mente, parliamo ora delle opere, realizzate nel 2011 in tecnica mista su tela, con vari materiali, acrilico e vinavil, lana di vetro e paste vitree, titanio al laser e oro zecchino, fino all’encausto su cera, che riporta all’antico. Come fanno i titoli, in greco antico per esprimere  con vocaboli di genere neutro la dimensione universale e l’estraneità rispetto a ogni appartenenza.

“Il Divino (tò théion)”

Cominciamo con la serie intitolata allo Spazio (tò diastema)”, il marrone terrestre è segnato dalla pianta delle chiese del Borromini, quasi  astronavi lanciate nell’universo.,

Poi il dipinto intitolato alla Luce (tò phos)”,, una tela ad ottagono irregolare con al centro il cerchio che irraggia in cui è iscritto il triangolo,  su un fondo variegato tra il giallo e l’amaranto in una finissima lavorazione quasi a mosaico.

Ed ecco le opere sull’“Amonia (tò àrma)”, dei quadrati con i vertici come basi,  di un  celeste siderale nel quale galleggiano pianeti e costellazioni.

Il “Divino (tò théion)” è rappresentato in una tela a ottagono irregolare divisa da uno scettro nella sfera terrena, con segni cuneiformi di civiltà del passato, e nella sfera divina con un Angelo la cui ala visibile è costituita da una miriade di  doppie eliche del Dna,  considerato da Strinati “cellula divina che tutto genera”  con questo significato: “L’idea di fondo è quella della cellula da cui l’immensità dell’Universo trae origine” precisa lo studioso.

Fino alla “Stella Danzante”  (tò àstron orchoùmenon)”  l’ottagono della forma del dipinto è arrotondato, “le comete convergono verso l’idea del Divino”: sono tre in una composizione spettacolare con forme rosse e gialle sullo sfondo celeste.

Non finisce qui,  l’esposizione del Vittoriano ha aggiunto a quella del chiostro di San Carlino un nuovo tema, connesso ai precedenti  ma espresso per la prima volta direttamente in due dipinti,  Il primo è “Lo scudo di Atena (e aspìs tès Athenàs”, con la forma di ottagono regolare, reca al centro un’eclisse di sole con l’alone intorno e filamenti di eliche di Dna mentre lo “scudo” è percorso da costellazioni legate ad Atena, dalla forma ben definita.

Il secondo, “L’arco della Sapienza (tò tòxon tès Sophias)”, a triangolo rovesciato, mostra due archi dorati, mentre all’interno di un viluppo di eliche di Dna c’è il serpente simbolo di continuità infinita, che si guarda riflesso in uno specchio di zirconio”

Come concludere questa  coinvolgente immersione nelle immensità cosmiche legate a spazio, luce, e armonia in termini fortemente terreni?  Dopo avere evocato il divino torniamo all’umano con l’espressione posta da Pittoni a sigillo delle sue considerazioni sulla simbologia di Borromini. E’ una citazione del “Corpus Hermeticum”, la poniamo a sigillo della nostra riflessione sulla mostra della Micucci perché è il messaggio che ne abbiamo tratto in un dimensione universale: “L’uomo, da vita e luce, divenne anima e intelletto, dalla Vita originandosi l’Anima e dalla luce l’Intelletto”.

Info

Per la mostra su Mondrian al Vittoriano, citata nel testo, cfr. in questo sito, i  nostri 2 articoli: “Mondrian. Il percorso d’arte e di vita” il 13 novembre  2013e “Mondrian. L’approdo nell’‘armonia perfetta’”  il 18 novembre.

Foto

Le immagini delle opere, tutte del 2011, sono state  fornite dall’Ufficio stampa di “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia che si ringrazia con i titolari dei diritti, in particolare l’artista Laura Gabriella Micucci.  In apertura, “Stella Danzante  (tò àstron orchoùmenon)”;seguono “Spazio (tò diàstema)”e “Luce (tò phos)”, poi “Armonia (tò àrma)” e “Il Divino (tò théion)”;in chiusura “L’arco della Sapienza (tò tòxon tès Sophias)”.

“L’arco della Sapienza (tò tòxon tès Sophias)”

Unità e regioni, 2. Amministrazione, forze armate, lingua, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Si conclude il nostro resoconto del convegno “Le ragioni dello stare insieme: le istituzioni, le politiche, le regole dell’unità nazionale”  svoltosi al Vittoriano il 23 giugno 2011. Promosso dal Ministero per i rapporti con le regioni e curato da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, già impegnato oltre che nelle mostre celebrative, in convegni di approfondimento come “Il Viaggio in Italia, 150 anni di emozioni” e la vera e propria lezione dello storico Lucio Villari. Dopo gli interventi del ministro Raffaele Fitto e di Ernesto Longobardi del Ministero abbiamo riferito delle relazioni di Giuliano Amato sulla Carta costituzionale e di Francesco Margiotta Broglio sui rapporti tra Stato e Chiesa. Ora le relazioni di Vincenzo Cerulli Irelli sulla Pubblica amministrazione, di Paolo La Rosa  sulle Forze armate e infine di Paolo Peluffo sulla Lingua italiana, che hanno completato il quadro ampio e organico dei fattori di unità nella diversità.

Parla il relatore sulla Pubblica Amministrazione, Vincenzo Cerulli Irelli 

La Pubblica amministrazione secondo Cerulli Irelli

Vincenzo Cerulli Irelli, l’illustre amministrativista abruzzese, precisamente teramano – citiamo volentieri il dato regionale –  docente a “La Sapienza” di Roma,  ha compiuto un’ampia e dettagliata ricognizione sul cammino compiuto dalla macchina amministrativa dal momento dell’Unità, allorché erano solo 5 mila i dipendenti, con poche funzioni, divenuti  100 mila già alla fine degli anni ’70, poi 300 mila al tempo di Giolitti con funzioni accresciute perché lo Stato si fa carico dei principali servizi, ferrovie e poste, con forte impiego di personale; nascono i grandi enti pubblici. Dopo la prima guerra mondiale erano 500 mila stabili fino agli anni ’30; nella seconda fase del fascismo, dopo i blocchi delle assunzioni, il numero crebbe fino a superare il milione di addetti.

E’ un corpo intermedio tra politica e società, e “ha un rapporto ambiguo e conflittuale con la politica che non può non interessarsi dell’amministrazione su cui si gioca il successo del Governo”. Ma è distinta dalla politica, e nella nostra vicenda unitaria la legge 1853, madre di tutte le leggi in materia, stabilì che “il ministro rispondeva di tutti gli atti dell’amministrazione, quindi  ne doveva avere il maneggio”; soppresse le aziende e i corpi tecnici e instaurò il sistema secondo cui tutti gli atti erano imputati al Ministro, creando una commistione tra politica e amministrazione.

La situazione si stempera con lo Statuto giuridico della funzione pubblica che regola i procedimenti sotto il profilo della discrezionalità, nonché il controllo giurisdizionale. Viene introdotta la distinzione nella disciplina della funzione ma resta la commistione con gli organi politici. Questa situazione si protrae per l’intera storia unitaria ma sul piano organizzativo i pubblici funzionari prima erano sottoposti al potere politico senza garanzie; fu Giolitti ad introdurre lo Statuto con le relative garanzie. In  tempi molto recenti l’amministrazione ha provato a staccarsi dalla politica, e con la legge Amato del 1993 la separazione tra politica e amministrazione diviene fatto compiuto: l’indirizzo e la programmazione agli organi politici, la gestione alla responsabilità dei funzionari.

A questo punto il discorso si è fatto complesso, Cerulli Irelli ha messo a confronto differenti modelli di responsabilità rispetto ai diversi ambiti in cui si manifesta: “Per l’art.  95 della Costituzione il Ministro è responsabile di tutti gli atti”. Il quadro si complica ulteriormente nei rapporti tra centro e periferia, in un’ottica di accentramento o decentramento la cui alternanza caratterizza la nostra storia unitaria. All’inizio la scelta fu di un accentramento amministrativo di tipo francese applicato nel Regno di Sardegna: a livello locale  poca autonomia, funzioni per lo più obbligatorie e poche facoltative, presenza forte dello Stato con il Prefetto, organo periferico con penetranti  poteri di indirizzo, controllo e tutela collegato al Governo centrale.

Non basta, dal 1912 lo Stato entra nell’economia come grande imprenditore, esplode il fenomeno dei servizi pubblici locali, il Comune diventa centro di produzione di beni per i cittadini, e pur con la sua ferrea struttura il sistema si frammenta: “Sul versante dello Stato si accentua la presenza, su quello della periferia cresce la frammentazione; si creano amministrazioni periferiche che dipendono dai rispettivi Ministri, il Prefetto perde la rappresentanza unica del potere centrale”.

L’ordinamento regionale, con autonomia e potere legislativo, deve convivere con l’unitarietà. Per 30 anni non cambia nulla, poi con il radicamento delle Regioni cessa il controllo prefettizio. Le modifiche costituzionali equiparano il livello della pluralità dei centri istituzionali. “In questo quadro i problemi nascono nel trovare elementi di unità, in una rete istituzionale che deve riportare unitarietà nelle grandi scelte di un paese dalle istituzioni frammentate”. L’istituto prefettizio assume la nuova veste di  “mediatore delle istanze autonomistiche”, ci sono anche la Conferenza Stato-Regioni, le Sezioni regionali della Corte dei Conti, in un quadro molto incerto e articolato che fa riflettere su come le ragioni unitarie possano comunque prevalere nella crescente frammentazione.

La carrellata  nei meandri della Pubblica Amministrazione ha fatto vivere la complessità dei meccanismi istituzionali calati nella realtà viva del paese in un processo evolutivo che trova ora un’ulteriore fase di complessità, questa volta inedita e imprevedibile, data dal federalismo.

Ma non c’è  stato tempo di applicare quanto si è ascoltato “de iure condito” al “de iure condendo” della nuova forma federale dello Stato il cui iter è appena agli inizi. Incalzavano altri temi e ne diamo conto, sono fondamentali anch’essi: si tratta delle  Forze armate e della Lingua italiana.

Le Forze armate che mantengono l’Italia unita

L’allora consigliere militare del Ministro della Difesa, Paolo De Rosa, ha parlato del coronamento di un processo storico plurisecolare che ha unificato comunità già in qualche modo omogenee; di qui radici nazionali alla base del Risorgimento, come le antiche virtù guerriere, che pongono le Forze armate tra i fattori della continuità istituzionale. Sono state dure le prove  per completare il processo risorgimentale fino alla Grande guerra. “La strategia di Cavour collegava le forze armate all’industria, le  forze navali alla cantieristica”, parole che ci fanno pensare al complesso industriale-militare di cui si è detto tanto nei tempi moderni per le maggiori potenze mondiali.

Intorno all’arsenale di Taranto nacque un polo industriale, e anche se non si risolse in positivo prova la corrispondenza delle vicende militari con quelle industriali; nel 1875 fu inaugurata la fabbrica di armi a Terni, che divenne un polo della siderurgia. Ma la Grande guerra, considerata l’ultima guerra di indipendenza, vide una partecipazione popolare di massa, da ogni parte del territorio, nei combattimenti a fianco a fianco che forgiarono un’unica comunità nazionale. L’esercito è stato una scuola di civiltà e con la leva di massa obbligatoria fino ad epoca recente un grande educatore nella formazione di una coscienza collettiva unitaria; nel periodo dell’esteso analfabetismo anche un efficace diffusore della lingua italiana, e nelle situazioni di isolamento ed emarginazione ha segnato la socializzazione e l’apertura. “Vieni in Marina e girerai il mondo” è uno slogan che esprime l’emancipazione con l’arruolamento di chi non era mai uscito di casa.

Non possiamo seguire il relatore nella sua ricostruzione dei fasti delle nostre Forze armate e anche dei momenti critici, mentre sullo schermo scorrevano le immagini più significative delle gesta dei soldati e degli armamenti: dalle nostre Alpi alle montagne balcaniche, dalle sabbie africane alle steppe russe come teatri di guerra; dall’offensiva alla disgregazione e allo sbandamento come momenti culminanti nei due sensi. Viene ricordata la presa di distanza da parte della popolazione dal mondo militare: è storia passata, la situazione è del tutto rovesciata oggi che si sono affermati i valori portanti delle virtù militari. Anche perché con il ripudio costituzionale della guerra si esprimono in difesa della pace nel mondo e in soccorso delle popolazioni nelle calamità naturali. 

Le Forze armate sono sempre più parte integrante di una comunità di cui condividono ed esprimono i valori, anche nella modernità: e si è materializzata sullo schermo l’immagine dei due astronauti italiani in orbita – Nespoli ufficiale dell’Esercito e Vittori dell’Aeronautica –  che nobilitano la divisa in continuità con l’impegno scientifico e tecnologico dell’Italia  sin dal 1964 nel progetto San Marco; non è mancato il ricordo della prima traversata aerea transoceanica di Italo Balbo.

Dopo la parentesi spaziale si è tornati sulla terra, in un mondo tormentato, dalla guerra asimmetrica contro il terrorismo all’inasprirsi dei conflitti locali; con le aperture alla speranza date ieri dalla primavera della libertà nell’Est europeo, poi dalla primavera araba contro i regimi dispotici, peraltro oggi alquanto offuscata. La chiusura di questo affresco sulle virtù militari al giorno d’oggi non poteva che essere sui nostri militari all’estero nella frontiera della pace e su quelli che all’interno proteggono i cittadini nelle calamità naturali e operano per la sicurezza contro ogni minaccia e pericolo, venga dalla criminalità  come da emergenze ambientali, dai “vespri siciliani” agli interventi della protezione civile. “L’esercito – ha concluso De Rosa con le parole di Settembrini –  è il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la mantiene unita”. 

La Lingua italiana, fattore di unità

A Paolo Peluffo, consulente del Presidente del Consiglio per le celebrazioni del 150°,il compito di mettere la ciliegina sulla torta parlando dell’unificazione con la Lingua italiana. Lo stesso Mazzini all’epoca del giuramento della Giovane Italia nel 1831 scrisse che era giunto il  momento di promuovere l’unificazione linguistica. Con il Risorgimento la lingua diviene questione centrale e rivoluzionaria anche perché ancora nel 1861 solo il 2,5 %  della popolazione parlava la lingua comune mentre  il 97,5%  si esprimeva nei dialetti italiani. Un paese povero, senza infrastrutture, con gli Stati componenti debolissimi, a scuola li chiamavamo “staterelli”; non si confederarono per questo,  e “la lingua fu una conquista di chi parlava qualcosa che aveva a che fare con l’Italiano”.

Sono stati citati Ugo Foscolo e Vittorio Imbriani – che raccolse canti popolari nei dialetti irpino e lombardo – impegnati in  questo campo, e i tentativi dopo il 1861 di arricchire la lingua con i contributi regionali. I più grandi scrittori dell”800 sono “regionali”, basta ricordare Verga e Manzoni, mentre Tommaseo si impegnò in un notevole ampliamento del dizionario dell’Accademia della Crusca che rappresentava l'”ancien regime” linguistico da superare; con i suoi appunti a margine superò il lessico ristretto della cultura di élite aprendo alle regioni. L’impegno civile per un vocabolario più esteso si unì a quello patriottico, è stata ricordata la liberazione con Daniele Manin nel 1848;di cui ricordiamo  il quadro celebrativo alla mostra “Pittori del Risorgimento“. L’excursus non finisce qui, c’è D’Annunzio e l’orazione dei Mille a Quarto, e ancora il Dizionario.

Il grande affresco del convegno si è concluso in gloria, con l’unificazione della lingua italiana. Nell’insieme è stato un approccio originale, con una riflessione approfondita che ha dato spessore alle manifestazioni celebrative del 150°. Del resto a “Palazzo Incontro” c’è stata una mostra su Dante, l’unificatore “ante litteram” della lingua italiana, per di più basata sulla collezione di un privato cittadino, Livio Ambrogio, un emigrato con questa forte passione. Tutto concorre ad una visione a 360 gradi che si è precisata sempre di più dando il senso vero dello spirito unitario.

Info

La prima parte del resoconto del Convegno al Vittoriano si trova nell’articolo in questo sito il 4 giugno 2013, dal titolo “Unità nazionale, lo scenario, la Costituzione, Stato-Chiesa”.

Foto

L’immagine in apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante al Vittoriano, parla il relatore sulla pubblica amministrazione Vincenzo Cerulli Irelli, a dx. .

De Chirico, 2. I ritratti classici, a Montepulciano

di Romano Maria Levante

Visitiamo la mostra “De Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, aperta nella storica Fortezza di Montepulciano dall’8 giugno al 30 settembre 2013, con 68 opere esposte, di cui 44 dipinti, 7 sculture e 17 opere su carta. Si  propone come un momento fondamentale nella ricerca inesausta dei motivi insiti nell’opera di de Chirico, passando dalle piazze ai ritratti, dall’atmosfera inquieta e misteriosa dell’ambiente alla non meno inquieta e misteriosa essenza del soggetto e dell’esistenza. Ne abbiamo già  delineato l’impostazione e i contenuti e descritto la cornice ambientale, passiamo ora alle singole opere della sezione con i ritratti classici, seguiranno i ritratti fantastici.

“Autoritratto nel parco con costume del Seicento”, 1959

L’ingresso della  Fortezza e la sua architettura fanno entrare nell’atmosfera dell’antico, si passa sotto una loggia con un leggero rilievo di merli e cuspidi, tra due alberi dalle folte chiome, il cortile con due ordini di archi è impreziosito da una ringhiera in pietra come un ricamo; la fuga delle mura della Fortezza con  lo squarcio paesaggistico della vallata evoca sfondi lontani anche dechirichiani.

E’ il grande salone la “location”, ma la sua ampiezza  e quadratura geometrica ha reso necessario creare un percorso con uno speciale allestimento: si è ricavato un primo “rettilineo” con una lunga paratia in rosso intenso, è l’inizio della parte dedicata al “ritratto classico”; poi, dopo la svolta marcata dai due dipinti di maggiori dimensioni, un andamento sinuoso con delle “enclaves” corrispondenti alle varie sezioni. Ricorda l’itinerario per Montepulciano, prima i rettilinei autostradali o ferroviari, poi il percorso collinare  ondulato e raccolto. Non sappiamo se questo motivo sia stato alla base della scelta dell’architetto, oltre alla corretta scansione di stili e periodi. Ci piace pensare che sia così.

Il “rettilineo” iniziale, l’autoritratto

E allora eccoci sul “rettilineo” iniziale, un lungo corridoio che va percorso lentamente, dato che le opere esposte non sono spettacolari come quelle successive metafisiche, ma vanno analizzate con attenzione, e la curatrice Katherine Robinson è prodiga di indicazioni preziose  sugli elementi che possono sfuggire a un’osservazione superficiale.

Si comincia con gli autoritratti, un genere da lui molto frequentato, sembra che ne abbia dipinto un centinaio. Qui c’è l'”Autoritratto giovanile”, 1932-33, seguito da un “Autoritratto piccolissimo” degli anni ’40 e dai successivi “Autoritratto nudo” e “Autoritratto con corazza”.  Significativo che gli ultimi due siano rispettivamente del 1945 e del 1948, la nudità è nell’anno in cui terminava la seconda guerra, con il suo tremendo carico di lutti e di rovine,  diviene corazza tre anni dopo, a ricostruzione materiale e morale già avviata, modello il Filippo II di Velasquez. 

Ripensiamo alla mostra di Paolini nel 2010 al Palazzo Esposizioni di Roma, parallela a quella su “De Chirico e la natura”, nella stessa sede: un altro “Autoritratto nudo” del  ’45 era al termine  di un percorso virtuale  di visitatori anch’essi virtuali in un avvicinamento visivo fino alla rivelazione finale dell'”enigma dell’ora”.

Per la curatrice, “de Chirico si mette a nudo come artista e come uomo, l’Autoritratto nudo è un manifesto dell’uomo in arte e in vita”.  Ma non si può fare a meno di citare i due “Portrait de l’artiste”  del 1911 e 1913, non presenti in mostra, entrambi “ritratti alla finestra”: il primo riprende la posa meditativa della nota fotografia di Nietzsche con la testa appoggiata alla mano e una serie di elementi, dalla direzione dello sguardo al colore di sfondo, oltre naturalmente al’iscrizione “Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, che ne fanno la pietra miliare di un inizio folgorante; l’autoritratto di due anni dopo lo vede rivolto in direzione opposta,  la testa è eretta e non si appoggia più meditabonda, l’espressione è tesa e decisa, si staglia nel cielo. Nei  ritratti di personaggi come Paul Guillaume e Carlo Cirelli, tra il 1913 e il 1915,  torna la mano vicina al volto, le figure si stagliano nel vano-finestra con forte determinazione, lo spirito giovanile dell’artista si proietta sui soggetti. Al riguardo non possiamo non ricordare il celebre “Ritratto di  Guillaume Apollinaire”, che non è la figura in piena luce del primo piano, una statua con occhiali neri, ma il profilo scuro  sul fondo verde con un cerchio premonitore nel punto dove il poeta sarà ferito in guerra anni dopo; anche una conchiglia e un pesce fanno parte di una composizione molto ammirata dai surrealisti.

Con l'”Autoritratto giovanile” del 1932-33, prima citato, il volto diventa morbido pur se in una tensione che viene meno  in “Autoritratto con pullover nero”, 1957,  in uno sfondo paesaggistico che evoca evasione. Vicino a questo dipinto è esposta la “Natura morta con autoritratto”, 1972, dietro i pomi in bell’evidenza, il “quadro nel quadro” è l’Autoritratto ora descritto appeso alla parete dell’interno raffigurato.

“Autoritratto nudo”, 1945

I disegni dei volti e la mano dell’artista

La mostra risale ancora più indietro, agli anni ’20, con i disegni su carta, due ritraggono la prima moglie: “Raissa”, 1925,  e “Ritratto di Raissa”,  1927. Teste molto diverse come impostazione, esempi dei due modi di ritrattistica che, come  abbiamo detto, vengono illustrati dalla mostra: il ritratto classico e quello fantastico. La curatrice descrive nei dettagli le differenze nel tratto e nei lineamenti: nel primo il segno sottile delinea un viso delicato con espressione serena, i capelli appena accennati, la testa piegata e gli occhi dolcemente rivolti in basso in una pudica posa classica; nel secondo ritratto il segno è forte e il tratto energico, l’espressione intensa con qualche segno di disagio, “qui è la linea a costituire il vero soggetto dell’opera, mentre la figura diventa personaggio, intrappolata tra l’idea dell’artista e il suo universo del segno”.

Del 1927 anche una “Testa di donna” e una “Moglie del filosofo”, nonché “Gladiatore” e “Studio per Gladiateurs et philosophe”, fanno parte dello studio sul volto umano cui l’artista dedicò  molti schizzi. Il segno è ancora più sottile, nessuna ombreggiatura né ricerca di rilievo e profondità, l’attenzione sembra concentrata sulla ricerca della fisionomia, dal profilo del viso al rapporto tra i lineamenti – gli occhi, il naso, la bocca – e la struttura della testa – mento e fronte, guancia e collo.

Considerando anche una serie di altri disegni oltre quelli esposti, la Robinson commenta così: “Quello che colpisce nell’insieme dei disegni dei volti degli uomini, giovani e vecchi, è la capacità dell’artista di trasmettere uno stato d’animo, anzi di crearlo”. E cita il saggio di Jole De Sanna sul disegno: “Far corrispondere a uno stato mentale uno stato dell’immagine e un’impronta dello sguardo è il compimento dei Gladiatori nei dipinti e nei disegni”; lo si vede nei due disegni ad essi dedicati esposti in mostra.

Nella stessa logica della ricerca si pone l’analisi estremamente accurata dei ritratti dei grandi maestri che de Chirico iniziò a fare presto impegnandosi in copie d’autore attraverso i “d’aprés”.

Sono raggruppati  nella parete di fronte ai ritratti, quasi per una  corrispondenza speculare, dinanzi al “ritratto” di “Baby”, 1934, l’amato cane, e a “La mano del Maestro”, anni ’40, in due versioni: a matita e acquerello su carta mentre stringe un drappo, a olio su tela mentre impugna due pennelli.   Opere definite “un ritratto del proprio mestiere d’artista”, di un periodo nel quale allo studio dei maestri antichi univa un’intensa attività di saggistica pittorica, cui appartiene il suo saggio “Il cervello e la mano (sul disegno)”, nel quale descrive  “l’alleanza del cervello con la mano”,  precisamente “tra il cervello che può ideare e la mano che può creare cioè che materializza l’idea”.

E’ una visione che rovescia la concezione secondo cui la creatività è della mente, alla quale segue una mera esecuzione materiale; invece ritiene questo “il fattore che ha reso possibile il sorgere delle nostre civiltà e il sorgere di tante opere tra cui autentici capolavori, quindi la nascita ed esistenza dell’Arte”. L’atto creativo è della mano, collegato all’esecuzione artistica, il momento ideativo è della mente ed è collegato al sapere. Per questo la sua attenzione alla “materialità” è massima, e cerca di scoprire dai grandi maestri i segreti della loro abilità nel disegno, che per lui ha un ruolo centrale; ed esorta gli uomini pur nella civiltà meccanizzata, a “conservare  l’abilità delle loro mani e l’agilità delle loro dita”.

“La bella italiana”, 1948

I d’aprés dei grandi Maestri

Tre dei “d’aprés” esposti sono da Rubens, “Testa di donna piangente”, “Doppio ritratto, bimba e gentiluomo”, 1955, e “Bambino con colomba”, 1960. Altri tre sono “Testa di giovane donna”, 1944, da Fragonard,  “Testa di uomo”, 1945, da Tiziano, e  “Ritratto di gentiluomo”, 1968, da Franz Hals.

E’ la sintesi di un’attività che lo ha accompagnato dal 1919, allorché fu “folgorato” da un quadro di Tiziano, poi dal “Tondo Doni” di Michelangelo nel 1920, ne ammirava l’aspetto cromatico e materico, la luce e la forma, al punto da essere impegnato in un nuovo “d’aprés” alla sua morte.  Oltre a questi artisti, ricordiamo i “d’aprés”  su Durer e Raffaello, Tintoretto e Veronese, Poissin e Velasquez, Ingres e Delacroix: dai sommi maestri più antichi, ad artisti del ‘700 ed ‘800. Diceva di farlo per “scoprire il loro segreto”, dalla “solidità pittorica” alla “bellezza nitida dell’impianto” compositivo, fino a studiare trattati e pubblicare saggi su “Valori Plastici”, “Il Convegno” e altre riviste.

E lo faceva anche nelle gallerie romane e fiorentine, dinanzi ai capolavori perché, nota la Noel-Johnson, “scegliendo di copiare direttamente dall’originale, de Chirico poteva non soltanto vivere in prima persona il senso di rivelazione trasmesso dall’opera, ma anche capire più a fondo l’utilizzo del colore e della tecnica”. 

Lui stesso scrive che “un quadro debba essere sempre il riflesso di una sensazione profonda, e che profondo vuol dire strano, e che strano vuol dire poco comune o del tutto sconosciuto”; e sulla rivelazione, che ha “un ruolo fondamentale”, aggiunge che “un quadro ci si rivela senza che vediamo niente, e nemmeno pensiamo ad alcunché, ed è anche possibile che la vista di qualcosa ci riveli un quadro”.

Anche  nel ritratto classico, dunque, aleggia l’enigma, d’altra parte la “sensazione rivelatoria” viene trasmessa dalle piazze come dai volti raffigurati nei quali ricercava la somiglianza come facevano gli antichi maestri. Ma senza dimenticare, e lo scrive nei “Ritratti”, che “nella grande pittura esiste sempre la spiritualità come fenomeno naturalmente inseparabile dall’arte. Un fenomeno che piglia forme multiple, data la varietà e la complessità del fenomeno stesso dello spirito”.  I ritratti antichi “sono la più alta espressione della spiritualità”  e in quanto tali “capolavori”, pur se “assomigliavano perfettamente alle persone ritratte”; definizione valida per il ritratto classico su soggetti definiti, estensibile al ritratto fantastico su soggetti indefiniti perché universali.

“Isa con cappello di piume”, 1954

La prima “enclave” del “ritratto classico”

Il “rettilineo” iniziale  è chiuso in modo spettacolare da “Autoritratto nel parco con costume del Seicento”,  1959, un olio che lo vede in piedi con la mano sinistra sulla spada nella sontuosa veste seicentesca presa in prestito al teatro dell’Opera e da lui indossata per riprendersi “dal vero”.

A lato, altro grande dipinto, “Bagnanti (con drappo rosso nel paesaggio)”, 1945, nudo della moglie Isabella in posa classica e ambiente arcadico, ispirato a “La grande Odalisca” di Ingres: non è un “d’aprés” per il diverso ambiente, qui siamo in campagna, ma la posa è la stessa.  Il rosso si trova nei drappi di opere molto diverse, con le donne e i cavalli, i manichini e i gladiatori; e accende l’abito di “La Spagnola”, 1934, con il colore squillante della maglietta sotto il manto nero, l’espressione quieta e dimessa.

Si svolta  nella prima “enclave” del percorso “collinare”, dominata dai “Ritratti di Isa”. Si fronteggiano due dipinti dai toni caldi, anzi accesi, “Testa di Isa”, 1933, e “Ritratto di Isa con spalliera rossa”, 1936, entrambi molto intensi,  il primo per la  Robinson “‘arde’ come braci su un fondo indefinito”, in un’esecuzione sperimentale non più praticata pur se molto espressiva, nel secondo l’atteggiamento è di riposo, ma lo sguardo è fisso e penetrante.

A questi ritratti si possono accostare i visi altrettanto in primo piano di “Testa di fanciulla”, 1948, e “Annunciazione”, 1954: si va da un’apparizione da sogno tra cielo e terra ad una visione molto umana incentrata sui volti con un’espressione celestiale.

Di Isa, oltre ai volti intensi,  la figura a mezzo busto o intera in due dipinti dai toni freddi pur se con un cromatismo vivace, dove l’abbigliamento prevale sul ritratto: “Ritratto di Isa, vestito rosa e nero”, 1934, e  “Isa con cappello di piume”,  1954.  Il primo negli anni ’30  dopo averla conosciuta, l’altro negli anni ’50, quando era divenuta sua moglie e compagna inseparabile: il viso con i grandi occhi sembra più giovanile di quello del dipinto di quindici anni prima, come dei due del 1935, non in mostra, “Ritratto di Isa in abito nero”  e “L’autunno”, quest’ultimo dall’espressione così malinconica da essere un’allegoria della stagione.

Ancora più dominante l’abbigliamento nelle opere sulla bellezza muliebre tra il mito e la realtà, con cui culmina il ritratto classico. Può sembrare paradossale in “Le tre Grazie”, 1954, dato che sono riprese nella loro ben nota nudità, ma spiccano i panneggi a forti tinte contrastanti, che ruotano intorno alle loro forme trasmettendo il movimento all’ambiente circostante; mentre in “La bella italiana”, 1948, il ricco drappeggio della veste sontuosa ne accompagna la prorompente bellezza che rifulge in uno sfondo ambientale dove ritroviamo elementi tipici del paesaggio italiano. 

“Le Sibille”, 1960

Un’ultima opera riconducibile a questa sezione è “Le Sibille”, 1960, due figure femminili imponenti, coperte fino alle spalle nude da panneggi dal cromatismo vistoso segnati dalle nette ombre scure delle pieghe, che fanno quasi da pendant a capigliature altrettanto vistose. Una striscia blu di acqua in basso, l’angolo di un tempio sulla destra, siamo entrati in pieno ambiente metafisico. Anche per questo l’opera travalica la parte dedicata al “ritratto classico”, e la troviamo al termine del percorso metafisico con la scultura che ne ripete la composizione. La svolta  si preannuncia spettacolare, la prossima “enclave” è dedicata alla ripresa metafisica degli anni ’70, per essere seguita da un’altra “enclave”, la Neometafisica dell’ultimo periodo. Come non emozionarsi?

Per prepararci a questo spettacolo  riepiloghiamo la sequenza stilistica e di contenuti dell’artista, sviluppata anche attraverso il ritratto. I ritratti metafisici sono negli anni ’10 dei precursori che torneranno in seguito, negli anni ’20 prevalgono i  ritratti classici, c’è poi il realismo degli anni ’30 e l’inesausta ricerca pittorica anche nel segno dei  grandi Maestri con cui si arriva agli anni ’40, fino alle opere più tarde dove torna con prepotenza la Metafisica con le mutazioni della Neometafisica.

Sono cicli non solo stilistici: dal soggetto chiuso in se stesso e delineato con tratti netti che  non lascia trasparire emozioni, al manichino metafisico senza fisionomia né identità, che tuttavia – sono parole della Robinson – “brilla di espressione luminosa e del pathos dell’essere: una commozione universale ed eterna, espressa dall’inclinazione della testa e dalla positura corporea”;  fino a riportare il manichino, dall’astrazione massima delle superfici lisce e delle squadre lignee, all’umanità espressa dalla carne di cui tornano ad essere fatti gli arti e altre parti del corpo.  E che l’ultima svolta coincida con la fase più avanzata della vita è un aspetto che riesce  a commuovere.

Lo vedremo prossimamente descrivendo il “ritratto fantastico” intimamente connesso ai soggetti metafisici nelle loro molteplici espressioni, di cui la mostra espone opere molto significative.

Info

Fortezza di Montepulciano. Lunedì ore 16,00-20,00; da martedì a domenica 10.00-22,00 (ultimo ingresso ore 21,15). Ingresso intero 7 euro, under 25 ridotto 5 euro, under 12 gratuito. On line su circuito prevendita http://www.vivaticket.it/, tel. 0578. 757007. Catalogo bilingue, italiano e inglese, dal quale sono tratte le citazioni del testo: “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, a cura di Katherine Robinson, Maretti Editore, giugno 2013, pp. 192, formato 23×28, euro 30. Il precedente articolo sulla mostra di Montepulciano, con 6 immagini, è in questo sito il 20 giugno 2013. Per alcune mostre precedenti su de Chirico cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com”: nel 2009 “I disegni di de Chirico e la magia della linea” il 27 agosto, “A Teramo de Chirico” ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre, “De Chirico e il Museo, il lato nascosto dell’artista incompreso” il 22 dicembre; nel 2010 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio; per la mostra di Paolini citata nel testo, “L’enigma dell’ora”, cfr. il nostro articolo nel sito citato, il 10 luglio 2010.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fortezza di Montepulciano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, per l’opportunità offerta. In apertura, “Autoritratto nel parco con costume del Seicento”, 1959; seguono “Autoritratto nudo”, 1945, e “La bella italiana”, 1948, poi “Isa con cappello di piume”, 1954, e “Le Sibille”, 1960; in chiusura, il “rettilineo” espositivo dei ritratti, in primo piano “Autoritratto con pullover nero”, 1957, segue “Natura morta con autoritratto”, 1972.

“Autoritratto con pullover nero”, 1957, sn primo piano, segue “Natura morta con autoritratto”, 1972
 

Cina, la pittura moderna “oltre la tradizione”, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Dopo aver commentato la mostra del 2012 sullo scultore cinese Weishan, rievochiamo la mostra che è stata aperta fino al 15 settembre  2011, sempre a Roma, a Palazzo Venezia,  dove ora si sta svolgendo la mostra sulla “Cina arcaica”, che commenteremo prossimamente. Si intitolava “Oltre la tradizione, i  Maestri della pittura moderna cinese”. tra loro Qi Baishi cui Weishan ha dedicato una statua affiancata a quella di Leonardo da Vinci. Per la prima volta  in Italia esposte 100 opere delNational Art Museum of Cina di Pechino presentate nell’Anno della cultura cinese in Italia che fu inaugurato dalla mostra “I due Imperi, l’Aquila e il Dragone” e ha visto la “Settimana del Tibet” con un convegno e una mostra fotografica, nonché spettacoli  di arte tra cui l’opera Qin Tang. Quattro anni fa l’Anno della cultura italiana in Cina ha fatto conoscere il nostro paese ai cinesi, con questa mostra la Cina ha iniziato a mostrare la sua arte che cerca di andare “oltre la tradizione”.

Un’opera di Ren Bojan

Intento della mostra è stato descrivere visivamente il percorso della pittura cinese dalla tradizione alla modernità attraverso le opere di sei grandi maestri moderni: le 100 opere esposte hanno intanto la forma della tradizione, quasi tutti rotoli verticali con figure a inchiostro nero in qualche caso rischiarate da colori tenui, oppure da un rosso molto intenso. L'”automodernizzazione” si esprime attraverso innovazioni che possono sembrare impercettibili a chi è estraneo a questo ambito culturale e tradizionale, ma vengono sottolineate con precisione per i singoli artisti.

L’allestimento determinava una “total immersion” in un ambiente e un mondo tanto diverso dal nostro. Si entrava avvolti dal rosso dei pannelli all’ingresso e del “red carpet” a terra,  poi  questo colore restava solo nei cartelli con il volto e la storia dei sei maestri; l’ambiente dove erano collocati alle pareti i rotoli verticali protetti dal vetro appariva sobrio, ci si sentiva subito a proprio agio, tale era la delicatezza delle immagini e la familiarità dei soggetti: natura e piante, animali e persone. L’atmosfera poetica prendeva  nel passaggio da una sala all’altra, fino a sentirsi parte di quel mondo, evocato anche da disegni appropriati nei punti di passaggio e da altre ambientazioni.

Un’opera di Qi Baishi

La pittura trasmissione del pensiero

Non si è trattato solo di un fatto artistico, la pittura è il mezzo con cui viene trasmesso il pensiero filosofico, che va oltre le idee estetiche, in termini diversi da quelli propri dell’Occidente. Sin dai tempi passati, mentre la pittura classica europea raffigurava la natura come si presenta nella realtà e nello spazio, la pittura cinese esprimeva i sentimenti da essa suscitati con un linguaggio simbolico.

Ciò non vuol dire che le due visioni sono rimaste contrapposte: la pittura occidentale è stata “scossa” dall’arte moderna, spostandosi essa stessa sui sentimenti dell’artista andando oltre il figurativo; la pittura cinese, dopo duemila anni di immobilismo, nel ‘900 è stata “scossa” dall’influenza della pittura occidentale. Qui s’inserisce l’azione dei sei maestri, che hanno innovato con graduali e armoniosi innesti dei derivati della cultura occidentale nelle espressioni della tradizione locale. Non sono rivoluzionari ma neppure conservatori, approfondiscono la tradizione ma non ne restano imprigionati, accolgono gli influssi occidentali ma selezionandoli con rigore.

Dato che la pittura è un veicolo del pensiero, la nuova creatività di questi maestri non esprime soltanto un diverso linguaggio artistico ma anche un diverso modo di pensare. Le profonde trasformazioni nella società cinese non hanno impedito agli artisti di continuare a esprimersi con spirito aperto senza rinunciare all’ideale dell’arte pur nelle evidenti difficoltà  anche politiche. Ma ci sembra che, almeno in questi sei maestri,  nulla ci sia di assimilabile al “Realismo socialista” che ha rappresentato una cappa ideologica sull’espressione del comunismo reale nell’Europa sovietica.

Con il titolo “Oltre la tradizione”  si è voluta considerare la rassegna dei sei grandi maestri  come “punto di partenza” per un’arte visiva protesa al rinnovamento “che spinge la visione al futuro”.

Si restava colpiti dall’omogeneità di fondo di temi e soggetti, forme espressive e stili; ma non si tratta di omologazione, è la stessa che appare nei tratti somatici dai quali non risaltano subito le differenze quanto le affinità; dopo questa prima impressione a ben guardare si notano le differenze di stile anche nei medesimi soggetti legati alla natura, piante e animali, e alle persone. Comune a tutti è la semplicità compositiva e la leggerezza del tratto e del disegno, anche quando il nero o il colore si addensano non riempiono mai la superficie, resta tanto spazio libero e quindi apertura.

Un’opera di Huong Binhong

I tre maestri tra l’800 e il ‘900

Ren Bonjan (1840-95) è l’unico dell’800, gli altri sono tutti del ‘900. E’ di un’epoca di transizione, riflette la Shangai chiassosa per i commerci e insieme vitale e dinamica,  in uno stile molto personale focalizzato su soggetti ben definiti tratti dalla vita cittadina. Versatile e aperto all’influsso occidentale nell’aggiunta dell’acquerello al segno a inchiostro, in una prima fase esprime il ritratto borghese, in seguito lo spirito delle masse. Da lui una galleria di personaggi, più che persone reali riproducono i diversi caratteri . Lo stile è calligrafico, il segno sottile e netto. Oltre a titoli come “Su Wu pascola le pecore” e “Viaggiare in autunno” ve ne erano di  originali  come “Godendo il fresco a pancia  scoperta” e “Essere prescelto come genero”, “Cercare fiori di susino dopo una nevicata” e “Godere di una vista primaverile sul fiume”,  oppure ricchi di “humor”  come “Osservare altri coltivare la terra”  e “Trascorrere l’estate in un  boschetto di bambù”. C’era anche un’immagine mitica, “Il ritratto dello studioso Zhong”,  che scaccia diavoli e spiriti maligni.

A cavallo tra l”800 e il ‘900 Qi Baishi (1864-1957), personaggio celebre nel mondo, tra i più richiesti nelle aste delle opere d’arte; immortalato dallo scultore Weishan, come si è detto, in una statua simbolica abbinata a Leonardo da Vinci, che troneggia ora all’ingresso della mostra “La Cina arcaica” nello stesso Palazzo Venezia. Il pittore è divenuto leggendario nonostante la sua semplicità, nato da una famiglia povera economicamente ma ricca di affetti che esprimerà in pittura e in poesia. Contadino e falegname, trarrà da queste sue esperienze l’amore per la natura  che viene riprodotta con cura e precisione. Letterato e artista completo, dal carattere popolare ma di cultura accademica, con spirito moderno e democratico e una profonda umanità.  Il suo stile sa essere  realistico e sobrio, con attenzione ai particolari, oppure simbolico e sintetico; spesso le due tendenze si intrecciano dando luogo a una pittura fresca e vivace. L’amore per la natura e la vita in campagna lo manifesta con i soggetti che la popolano unendo spesso fiori deliziosi e piccoli animali: così “Fiori di susino e farfalla” e “Fiori e libellule“, “Anatra e fiore di loto” e “Ibisco e anatra”,  “Baccelli di loto e libellule” e “Foglie e cicale in autunno”. Poi singoli animali, “Pesci” e “Gru”,  “Granchi” e “Rane”,  anche un’“Aquila”. Una tradizione che si rinnova in toni freschi e delicati.

Contemporaneo di Baishi è Huong Binhong (1865-1955), il cui spirito viene  riassunto nelle parole “servire la patria tramite il sapere”. Di qui le sue ricerche sulla cultura tradizionale per esaltare la gloria del proprio paese e stimolare l’amore per la patria. Anche lui unisce alla passione per la cultura popolare della tradizione una personalità accademica. Il suo ideale estetico diventa simbolo dell’identità nazionale e dello spirito popolare cinese, “solenne e vigoroso, magnifico e prosperoso”. Ma questo non si esprime in forme potenti come nel “Realismo socialista” europeo, bensì nella forma tradizionale con qualche aspetto che ricorda l’impressionismo europeo. E’ stato un teorico della pittura, su cui ha scritto molto, in una lunga vita dedita a dipingere, fare ricerche, scrivere. Per questo è un modello additato alle  nuove generazioni, in lui il pensiero tradizionale si rinnova e rigenera. La sua pittura è  rivolta all’ambiente, non isola singoli soggetti ma rappresenta il paesaggio. I toni sono scuri e addensati, nulla di calligrafico bensì segno carico e intenso. Qualche titolo: “Dirupi scoscesi e cielo blu” e “Fiumi e nuvole tra le montagne”, “Profondità del monte e ruscelli” e “Case sul lago”, “Scala di 100 gradini” fino alla “Vetta” del monte.

Un’opera di Pan Tianshou 

I tre maestri del ‘900

Entriamo di fatto nel ‘900 con Pan Tianshou (1897-1971), siamo nel pieno del confronto tra civiltà e stili pittorici, l’artista sostiene che “la pittura cinese e quella occidentale devono distanziarsi, per garantire l’indipendenza dello stile nazionale della tradizione”. E propugna anche l’esigenza di una “modernizzazione selezionando  gli elementi della pittura tradizionale da assorbire e trasformare”.  Oltre  al pittore troviamo in lui l’incisore e il calligrafo, il letterato e il poeta. Eccelle nel paesaggio come nel ritratto, del tutto peculiare la sua tecnica di  dare l’inchiostro con le dita, cercava le grandi dimensioni unendo diverse pitture; utilizza anche diversi tipi di pennellate mantenendo sempre un rigore compositivo assoluto nel quale movimento e quiete, paesaggio e suoi abitanti sono in perfetto equilibrio e riflettono vitalità e armonia. In tal modo esprime una straordinaria “tensione visuale”  attraverso elementi anche molto diversi visti spesso con ironia  e disincanto. I soggetti sono per lo più singoli, legati alla natura che appare l’elemento dominante, quindi piante o animali, ma vi sono anche scene d’ambiente. Erano esposti  “Fiore di loto rosso” e “Palma”, “Martin pescatore” e “Gallo dormiente”, poi “Foschia e rugiada” e ” Schiarita dopo la pioggia”.

Nasce  nel XX secolo  Jiang Zhaohe (1904-1986), il suo è un realismo critico che rappresenta la vita: l’esistenza umana può vedere le distruzioni, ma poi afferma valori come la verità, la bontà, la bellezza. Questi due momenti corrispondono a due fasi della sua vita artistica: quella precedente il 1949  segnata da un forte senso del dolore e del triste destino degli umili, con la distruzione dei valori dell’esistenza e il conseguente spirito di ribellione; la fase successiva al 1949 vede la rinascita dello Stato e del popolo, la ricostruzione che porta all’elogio della bellezza e della vita.  L’influenza dell’Occidente si sente nella creazione di nuovi modelli figurativi e nelle stesse pennellate. I suoi soggetti sono  persone rappresentate nella loro umanità, c’è stata anche la tragedia della guerra, con i suoi lutti e  le sue miserie, la esprime in dipinti di grande efficacia come “Dopo il bombardamento” e “Accattonaggio sulla strada”; ma anche squarci di luce in “Scrivono allo zio soldato i propri successi scolastici”. Scene tenerissime in “Leggere il giornale per il nonno”, ancora più piccoli “Bambino e piccioni” e  “Bimbo e pulcini”.  Poi una galleria di venditori in “Vendere violini neri” e “Vendere filati”,  “Contadino” e tanti altri, fiorai e mendicanti, un’umanità che ha conosciuto da vicino nella società in profondo mutamento con il passaggio alla Repubblica Popolare Cinese. L’artista tocca tutte le corde dell’anima, non più piante, fiori e animali, ma figure che esprimono i sentimenti interiori e la loro condizione sociale.

Un’opera di Jiang Zhaohe

Coevo di Zhaohe nella contemporaneità l’ultimo maestro in esposizione, Li Keran (1907-1989), un grande riformatore della  pittura cinese che si è avvicinato all’Occidente anche attraverso lo studio di Leonardo e Michelangelo. Il suo  motto era: “Immergersi nella tradizione con il massimo impegno e distaccarsene con il massimo coraggio”: lo fa restando nello spirito della classicità cinese  serena e luminosa, ma utilizzando tecniche artistiche occidentali. Dipinge dal vivo entrando nella vita delle persone e  nella natura, nell’ambiente, integrando lo stile classico con quello moderno e realistico, ricorrendo anche al linguaggi simbolico. Inserisce il chiaroscuro e la luce della pittura occidentale, che sembra venire dall’interno delle scene rappresentate; le sue forti pennellate superano quelle leggere ed eleganti dello stile tradizionale. La forza espressiva del chiaroscuro  si vede in  titoli come “Dopo la pioggia le cime degli alberi si tingono di scuro e lo scrosciare della cascata risuona nella silente montagna”, quella del colore in “Mille foglie rosse sui monti arrossano gli alberi…“:  La pioggia torna in “Pioggia primaverile sul fiume” e anche “sul monte ” e “Villaggio di pescatori dopo la pioggia”. C’è anche il “Fiume azzurro” a completare lo spettacolo della natura, che ha qualcosa di veramente poetico.

Ripensare ai nostri poeti che hanno descritto la pioggia come qualcosa di vivo e vitale che si trasmette dalla natura ai suoi abitanti sembrerebbe di maniera. Nell’Anno della cultura cinese in Italia,l’accostamento viene spontaneo, la “Quiete dopo la tempesta” di Leopardi  e la “Pioggia nel pineto” di D’Annunzio  trovano  raffinate rappresentazioni pittoriche in questo maestro cinese che più si è ispirato alla  pittura occidentale. E perché no anche alla poesia?  Un bel gemellaggio che proponiamo nel rievocare una mostra istruttiva, ma soprattutto emozionante e suggestiva.

Info

Palazzo Venezia, Via del Plebiscito, Roma, da lunedì a domenica ore 8,30-19,30, la biglietteria chiude un’ora prima, lunedì chiuso. Ingresso euro 4,00. Tel. 06.699941. sapsae-rm.mpv@beniculturali.it.

Foto

Le immagini presentano un’opera per ciascuno dei sei maestri in mostra, nell’ordine cronologico in cui sono citati nel testo, e cioè: In apertura Ren Bojan, seguono Qi Baishi e Huong Binhong, poi Pan Tianshou e Jiang Zhaohe; in chiusura Li Keran.

Un’opera di Li Keran
 

Filippino Lippi, con Botticelli, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

La mostra, aperta alle Scuderie del Quirinale dal 5 ottobre 2011 al 15 gennaio 2012,era  intitolata “Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del ‘400”, ma la presenza del più celebrato maestro va vista più come riferimento costante per la sua influenza su Lippi, che come mostra paritetica: erano soltanto cinque i dipinti di Botticelli esposti, e di piccole dimensioni  rispetto alle spettacolari pale e tondi di Filippino Lippi,  una sorta di risarcimento al pittore meno considerato. Torniamo sulla mostra a un anno e mezzo dalla chiusura per il suo valore permanente in assoluto.

Filippino Lippi,“Madonna in adorazione del Bambino”, ante 1478

L’ombra, o meglio la luce di Sandro Botticelli aleggiava per l’intera mostra, con singole opere a testimonianza del padre Filippo Lippi, di Raffaellino del Garbo e Pietro Cosimo.  E’stata  curata daAlessandro Cecchi, direttore della galleria Palatina di Firenze, e così lo straordinario Catalogo  di “24 Ore Cultura” che ne valorizza i pregi artistici sul piano iconografico e la ricerca nei commenti di insigni studiosi nei quali si trovano aspetti reconditi, che citeremo come riferimento prezioso.

Che l’intento della mostra fosse dare uno spicco inedito a Filippino Lippilo hanno lasciato capire le parole dell’allora presidente delle “Scuderie”, Emmanuele F. M. Emanuele: “Sino ad oggi è mancata un’esposizione che rendesse pienamente merito a questo nobile artista e mostrasse al grande pubblico la sua indiscussa grandezza che sarà, dal confronto con Sandro Botticelli, pienamente inverata”. Il più famoso maestro posto come termine di confronto per far risaltare l’artista meno celebrato e il loro intreccio di vita e anche di espressione artistica in un’epoca straordinaria: un’impostazione meritoria che invita ad approfondirne i percorsi paralleli.

Non è stata un’iniziativa episodica, rientrava nella strategia di Emanuele volta a portare alla luce eccellenze dell’arte trascurate, sia per artisti poco considerati, sia per artisti noti di cui sono conosciuti solo dei capolavori: Filippino Lippi  tutto da scoprire, Botticelli al di là della “Primavera” e della “Nascita di Venere”: l’allievo alla fine era ben più lanciato del maestro in crisi.

Il periodo giovanile dell'”amico di Sandro”

L’intreccio di vita e di arte inizia con il padre Filippo Lippi, frate carmelitano e pittore che lo aveva avuto nel 1457 da una relazione con la monaca agostiniana Lucrezia Buti; Sandro Botticelli ne  era stato “il più promettente allievo” e ne fu influenzato nelle opere giovanili,  ma presto se ne distaccò con uno stile personale. Filippino ebbe i primi rudimenti dal padre, poi alla sua morte, dopo un periodo con Fra Diamante che ne aveva rilevato la bottega, entrò in quella di Botticelli assumendo presto una propria personalità che lo distingueva dagli altri allievi avvicinandolo al maestro. Con Botticelli fece opere “a due mani”  e in collaborazione, al punto che il critico Bernard Berenson  ne fu colpito e definì all’inizio l’autore “amico di Sandro” prima di identificarlo con il suo nome.

La mostra iniziava con questo inquadramento, presentando il grande tondo del padre Filippo Lippi  “Madonna col  bambino e storie di Sant’Anna”, 1452-53, una composizione complessa con in primo piano l’icona sacra dietro la quale le scene sono articolate in interni posti su più livelli. Della sua collaborazione con l’ultimo lavoro del padre nel Duomo di Spoleto  ci sono prove nei registri: altro pregio della mostra, la documentazione con i manoscritti originali esposti nelle vetrinette. E’ tutto un mondo che si apre, l’epoca rinascimentale con la presenza congiunta di sommi artisti, non manca Leonardo da Vinci, a cui  si ispirò Filippino Lippi sin da giovane,  divenendo artista del disegno; è stato un periodo anche tormentato, in particolare per lui entrato nell’orbita dei Medici ma suggestionato dalla predicazione di Savonarola che avversava anche le opere dei loro artisti.

Facevano parte dell’inquadramento il piccolo dipinto giovanile di Botticelli nel quale viene vista l’influenza di Filippo Lippi, “Ritratto di fanciullo con mazzocchio”, 1470, lo sguardo rivolto in basso, tre forti colori, l’azzurro del cielo, il marrone-viola  scuro del copricapo, il rosso scuro della veste; e soprattutto  l’opera di  Filippino Lippi-Botticelli, “Storia di Ester”, 1475 circa, con immagini di Ester e dello zio Mardocheo, un racconto biblico con colori pastello molto delicati, a riprova del livello raggiunto da Lippi nella bottega di Botticelli, fino a dipingere “a due mani”.

Filippino Lippi, “Madonna col Bambino e storie di sant’Anna”, 1452

Le abbiamo viste a confronto, ci sono molte somiglianze nello spazio diviso in tre parti – rapimento, processo, uccisione – e negli atteggiamenti; ma l’architettura è molto diversa, un lungo portico all’aperto per Lippi, un tempio chiuso con cupola interna per Botticelli, le figure che si muovono nell’ambiente sono in tutto il fronte per entrambi, ma nel primo sono distanziate le une dalle altre e in tinte chiare quasi pastello, mentre nel secondo sono addensate con colori scuri e intensi. Si pensa, quindi, che o Lippi si è ispirato a un disegno di Botticelli di venti anni prima oppure che questo avesse dipinto una versione ora perduta: “Questa ipotetica ricostruzione dell’interazione tra i due pittori – afferma Jonathan K. Nelson  – spiegherebbe le somiglianze e anche l’uso molto diverso dell’architettura nelle due coppie di dipinti”.

Altra somiglianza  nella figura centrale di “I tre arcangeli e Tobiolo”, 1477-78, quindi dipinto nell’anno delle  storie di Lucrezia e Virginia, e precisamente nell’arcangelo Raffaele che – come scrive Alessandro Cecchi – “incede a passo di danza come la “Giuditta” del Filipepi agli Uffizi”. Nell’arcangelo Gabriele e arcangelo Michele ai lati, “le figure sono come in posa, distaccate l’una dall’altra, con un certo impaccio nella composizione dovuto alla giovane età dell’artista”.

Una comparazione diretta si aveva subito dopo nell’“Adorazione dei Magi”:  erano  esposti di fronte i dipinti dei due artisti, entrambi del periodo giovanile. Ebbene, ci è sembrato di trovare un riferimento diretto nelle pietre della costruzione diroccata e nella composizione: le pietre sono molto simili, quasi dei pannelli posti in verticale con le stesse modalità e materiali, e lo è anche il gruppo della Madonna con Bambino, S. Giuseppe e figura adorante al centro, con il popolo ai lati, Botticelli vi mise dei dignitari con in testa Cosimo dei Medici in ginocchio e i figli Pietro, Giovanni e Lorenzo. Ma mentre lui presenta la capanna diroccata in primo piano, Filippino Lippi la inserisce in uno sfondo roccioso che, scrive  Nicoletta Pons, “manifesta il tributo del pittore al padre, cioè la ripresa dalle ‘Storie di san Giovanni Battista nel deserto’  dipinte da frate Filippo  nella cattedrale pratese con un fondale analogo”.  Le figure in Lippi sono sempre distribuite, in Botticelli addensate.

Dopo queste composizioni affollate colpiva la “Madonna in adorazione del Bambino”, 1478, “opera di grandissima soavità”, un grande primo piano con una sfondo paesistico.  La studiosa appena citata vi trova una relazione con il “Tondo di Piacenza” di Botticelli del 1475-80, sia  per il bambino adagiato a terra su un lembo del manto sia “per la visione ravvicinata del gruppo sacro sullo sfondo di un paesaggio”, ma con  “maggior interesse paesistico rispetto al maestro Sandro”.

La comparazione diretta tra i due grandi artisti si svolgeva nella mostra anche attraverso i disegni e gli studi, che ne sono un’importante componente. Di questo periodo  “Due studi di figure maschili nude “ di Botticelli, “Foglio di studi con due gambe maschili” e “Tre figure panneggiate” di Lippi, le gambe a confronto. Di Lippi anche “Studio di figura femminile con cuffia”, senz’altro una Madonna, attribuito prima a Botticelli  poi da Berenson all'”Amico di Sandro” che è proprio lui,  per “la combinazione di motivi lippeschi e di istanze botticelliane”, commenta Lorenza Melli.

Tante le considerazioni che si potrebbero fare, per l’intreccio indefinibile  del padre Filippo  e del maestro Botticelli che dal padre con cui aveva lavorato aveva tratto l’eleganza della linea. Ma seguiamo la mostra: Filippino diventa indipendente, dopo verrà protetto da Lorenzo il Magnifico. 

Filippino Lippi, “I tre Arcangeli e Tobiolo”, 1473

La prima attività indipendente, quindi Lorenzo il Magnifico

La cronologia scorreva nel passaggio alla sala su “la prima attività indipendente, poi Lorenzo il Magnifico”.  Filippino si guarda intorno,  nel 1478, a 25 anni  inizia con una pala d’altare  a Pistoia l’intensa attività che lo porta fuori di Firenze, mentre fervevano a Roma i lavori della Cappella Sistina con i maggiori artisti fiorentini e umbri del tempo. Il lavoro di grande prestigio per lui fu completare gli affreschi della Cappella Brancacci incompiuti dopo Masaccio e Masolino, lo fece con maestria raccordandosi bene alle composizioni preesistenti,  nel convento dove il padre  era divenuto frate. E’ di questo periodo lo spettacolare “Madonna e Bambino con san Giovanni Battista e angeli”, 1481-82,  detto “Tondo Corsini”, in cui secondo Jonathan K. Nelson, “benché l’atmosfera richiami quella di certi tondi di Botticelli degli anni ottanta, la composizione segue una logica molto diversa”: con l’architettura e il pavimento Lippi non asseconda la forma del tondo.

Abbiamo trovato le sue consuete figure distanziate come nei “Tre arcangeli a Tobiolo”, in “I santi Rocco, Sebastiano, Girolamo ed Elena (Altare Magrini)”, 1481-82 per una chiesa di Lucca, in una delle tante escursioni fuori da Firenze: l’originalità, per Cecchi,  sta nell’assenza della Madonna con il Bambino, di solito al centro tra le figure di santi, nei panneggi elaborati e  nei gesti delle mani.

Due tondi con le figure dell’“Annunciazione”, 1483-84,  in uno l’Angelo rivolto a destra, nell’altro la Madonna rivolta a sinistra, dipinti per la sala delle Udienze del Palazzo comunale di San Gimignano. Sembra ispirarsi all’affresco di Botticelli dello stesso periodo  per “la posa insolita  e la risposta fortemente emotiva della Vergine”-  scrive Nelson – ma “diversamente da Botticelli  Filippino raffigura Gabriele già a terra, inginocchiato e nell’atto di alzare la mano”.

E due ritratti, un “Ritratto di uomo” di Raffaellino Del Garbo, suo allievo così fedele che l’attribuzione ha oscillato tra allievo e maestro finché lo ha fatto attribuire al primo l’affermazione del Vasari, riportata da Elena Capretti,  secondo cui, lasciato il maestro “rindolcì la maniera assai ne’ panni e fe’ più morbidi i capegli e l’arie delle teste”. E un “Ritratto di Musico” di Lippi, 1483-85, per il quale, come per il Caravaggio di un secolo dopo, c’è stata la caccia all’identificazione del soggetto; Mc Gee ha anche ipotizzato un autoritratto con strumenti musicali trovati nell’elenco dei suoi beni, invece che con i pennelli; mentre  Nelson, nel citarlo, riporta anche altri possibili soggetti, come Cristoforo Fiorentino. E se fosse, come per Caravaggio, una figura presa a simbolo?

Il dipinto “Apparizione della Vergine a san Bernardo”, 1484-85, di circa 2 metri per 2, concludeva in modo spettacolare questa sezione e il primo piano dell’esposizione: c’è la sua tipica finezza di tratti nell’immagine principale ma anche il mistero e l’inquietudine nelle figure circostanti. Del quadro Vasari scrive che “la qual pittura in alcune cose è tenuta mirabile, come sassi, erbe e simili cose che dentro vi fece, oltreché vi ritrasse esso Francesco Pugliese di naturale tanto bene che non pare che gli manchi se non la parola”; Cecchi, nel riportare questo giudizio, precisa che in realtà il personaggio sarebbe Francesco, lo zio di Piero. Vicino è esposto il disegno con lo “Studio per la figura di san Bernardo”, il disegno è pregevole,  una grande cura nel panneggio come altri esposti : “Due figure maschili ammantate, una seduta e una di spalle”, e “Due figure maschili ammantate, stanti di profilo”; più  “Studio per una figura di Petrarca”, figura statuaria su carta tinta in rosa.

Filippino Lippi, “Storie di Virginia”, 1470-80 

Le grandi committenze: la Cappella Strozzi e la Cappella Carafa

Al piano superiore delle Scuderie si evocava  l’ “escalation” di Filippino Lippi, con le due committenze quasi contemporanee da parte di Filippo Strozzi, per la propria cappella in Santa Maria Novella a Firenze nel 1487, di cui è esposto il contratto; e da parte del cardinal Carafa alla Minerva a Roma, sollecitata da Lorenzo il Magnifico nel 1488, di cui è esposta una lettera del cardinale che esalta il “nuovo Apelle”. Lo portò a Roma dove il contatto con l’antichità fu sconvolgente: ne derivò una svolta nel dipingere, dagli abiti alle architetture con influssi classici anche da sculture. Sono esposti molti studi e disegni per le cappelle, una galleria nella galleria.

La Cappella Strozzi  fu completata solo a quindici anni dall’incarico, nel 1502, il committente era morto nel 1491, due anni dopo la lettera di Lippi che gli assicurava di riprendere il lavoro il 24 giugno 1489, per la festa del patrono di Firenze Giovanni Battista. Tra i disegni  lo “Studio per una figura di giovane nudo con asta”, e “Studio per un portatore di catafalco”, poi due versioni di “Studio di mostro alato  con le zampe anteriori su un elmo”, tra il 1493 e il 1502. .

Poi era esposto il quadro “Musa Erato”, 1500 circa,  a fianco alla “Liberazione di Andromeda” di Piero di Cosimo, dipinto anch’esso per Filippo Strozzi, come scrive il Vasari, il lavoro di ricerca del curatore non ha trascurato neppure questo particolare.  Più avanti  la “Madonna con Bambino (Madonna  Strozzi)”, forse 1485-87, dipinta prima della sua partenza per Roma, colori brillanti e dolcezza  espressiva con dei particolari come il libro e la lampada nella nicchia, e lo sfondo che si apre dietro un loggiato sulla vista di un abitato con scenette di vita: c’è un ponte con delle persone.

Ma eccolo a Roma per la Cappella Carafa:  le architetture  e sculture dei Fori imperiali, i fregi e le lesene,  furono per lui nuova fonte di ispirazione e di soluzioni stilistiche.  Ne dava conto la mostra con diversi disegni dal 1488 al 1494  a partire da “Studi di grottesche del criptoportico della Domus Aurea”, seguito da “Due studi per decorazione a grottesca” e da studi per varie figure:  “Una sibilla con due angeli”e “Un angelo per l’Assunzione della Vergine e per una figura femminile”, “Re in ginocchio per una ‘Adorazione dei Magi’ e “San Tommaso per il ‘Trionfo'”. Si tratta di opere delicate, ma dove troviamo anche il tentativo di esprimere un forte dinamismo.

Il “clou” della sezione era la “Madonna con Bambino, i santi Giovannino, Martino, Caterina e i donatori Tanai de’ Nerli e Nanna Capponi”, 1493-95,  realizzato per la Cappella del Santo Spirito di Firenze dopo il ritorno da Roma: gli ornamenti dei pilastri e del trono ricordano fregi romani.

Filippino Lippi, “Cristo morto compianto da Giuseppe d’Arimatea e due angeli”, 1500

Gli ultimi intensi anni

Entriamo  negli ultimi anni, “fra fantasie mitologiche e pittura devota”, tra il 1494 e il 1504.  Ancora “grottesche”, Due centauri marini” e “Due tritoni” con una lucerna; e disegni su  temi mitici,“Morte di Meleagro” e “Studio per la figura di Meleagro morente”,  e religiosi, “Cristo nel sepolcro con quattro angeli” e “San Francesco consegna la regola dell’Ordine terziario”.

In materia religiosa erano esposti “San Girolamo”, 1493-95, e i due simmetrici “San Giovanni Battista” e “Santa Maria Maddalena”, 1498-500, tutti e tre dolenti e quasi lividi, anche nel colore, con un senso di ansia febbrile e di forza spirituale data dall’intensità religiosa. Nel primo, scrive Nelson, si crea “un senso di tormentata devozione”; gli ultimi due  “nelle loro nicchie sembrano sculture dipinte”,  con “un senso di fragilità e pathos”.  Vicino il tondo di “San Girolamo in penitenza” di Piero di Cosimo, altro affiancamento che immergeva ancora di più nel suo mondo.

La  pittura devozionale si esprimeva in piccoli dipinti  di 30 per 30 centimetri, sua caratteristica:  dalla “Comunione di San Girolamo”, 1496-97, a “Cristo incontra la Samaritana al pozzo” e “Cristo risorto incontra Maddalena”, laterali del “Volto di Cristo tra due angeli” del Maestro della leggenda di Sant’Orsola; da “Cristo crocifisso” a “Compianto su Cristo morto”, del 1504-05. 

Ma anche con grandi composizioni, che continuò a dipingere fin o all’ultimo, mentre Botticelli ne fu impedito dalla grave crisi mistica ed esistenziale che lo vide morire in povertà.  Di Lippi, oltre al già commentato “Storia di Virginia”,  tra il 1502 e il 1503 era esposta la “Madonna  con Bambino e i santi Stefano e Giovanni Battista  (Pala dell’Udienza)”,  figura umile in “una visione nuova di bellezza, frutto di una sensibilità inquieta e saturnina”, scrive Maria Pia Mannini; e lo spettacolare “Matrimonio mistico di santa Caterina con i santi”,  in “una chiostra serrata di corpi che circonda la Madonna e santa Caterina stabilendo un equilibrio pieno di ritmo che sarà capace di parlare ad Andrea del Sarto e al giovane Raffaello”. commenta Patrizia Zambrano.

Ci sembra che questi commenti sulle opere terminali della sua vita, diano la misura dell’importanza di una artista finora troppo trascurato. E finalmente portato sul proscenio tra il 2011 e il 2012 per merito della mostra alle “Scuderie del Quirinale”, con Sandro Botticelli quasi un comprimario rispetto all'”Amico di Sandro”, Filippino Lippi che riuscì ad oscurarne la grande fama con un travolgente “rush” finale. Ricordarlo con un resoconto puntuale della mostra visitata un anno e mezzo fa ci è sembrato doveroso.

Info

Catalogo: “Filippino Lippi e Sandro Botticelli nella Firenze del ‘400”, a cura di Alessandro Cecchi, “W”4 Ore Cultura”, ottobre 2011, pp. 206, formato 25,5×28,5, euro 49; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. Di Filippino Lippi: in apertura,“Madonna in adorazione del Bambino”, ante 1478; seguono  “Madonna col Bambino e storie di sant’Anna”, 1452, e  “I tre Arcangeli e Tobiolo”, 1473, poi “Storie di Virginia”, 1470-80, e “Cristo morto compianto da Giuseppe d’Arimatea e due angeli”, 1500;  in chiusura, di Sandro Botticelli, “Storie di Virginia”, 1498.

Sandro Botticelli, “Storie di Virginia”, 1498 

Accessible Art, il Full Circle di Nicola Pucci, alla RvB Arts

di Romano Maria Levante

Allagalleria romana RvB Arts, Michele von Buren  presenta Nicola Pucci,  nei dipinti della serie “Full Circle”,  un percorso di trasformazione e anche di formazione al termine del quale si torna al punto di partenza ma su basi nuove più  e mature; una continuità nel mutamento, dunque, in opere percorse da solitudine e incomunicabilità. La mostra, aperta dal 13 al 23 giugno 2013 , si inserisce nel programma  di “Accessible Art”: avvicinare all’arte contemporanea fasce sempre più ampie di estimatori sia per le caratteristiche dell’offerta, adatta all’inserimento negli ambienti domestici, sia per il prezzo contenuto entro livelli accessibili.

L’artista davanti alla sua opera “Torero”

 La formula di “Accessible Art”

Non manchiamo di ricordare la formula di “Accessible Art” ogni volta che Michele Von Buren organizza una nuova mostra, personale o collettiva, inquadrata in questo programma, come avviene da diverso tempo. Perché riteniamo un impegno meritevole, quindi da incoraggiare e sostenere, cercare di conciliare con l’arte contemporanea strati più vasti, e questo si può fare superando due ostacoli: il primo riguarda la forma delle opere, delle quali va assicurata la fruibilità da parte delle famiglie nel senso di poterle inserire negli ambienti domestici tra il normale arredamento; il secondo ostacolo riguarda il prezzo che spesso è tale da scoraggiare anche gli appassionati mentre deve essere ricondotto a quotazioni che possano essere affrontate da normali budget familiari.

Rispettare questi due requisiti è l’impegno della curatrice, titolare e animatrice di RvB Arts, Michele von Buren  che seleziona gli artisti sulla base di tali parametri, ed è riuscita a creare una vera scuderia, con 20 pittori, 4 scultori e 13 fotografi, sempre presenti nell’offerta della galleria.

“Sala d’attesa”  

I circoli e gli incontri di Nicola Pucci

Di volta in volta le mostre, personali o collettive, li mettono in luce, e questa volta il protagonista è Nicola Pucci: un artista palermitano che era molto considerato da Carlo Bilotti, il grande collezionista d’arte al quale è dedicato l’omonimo museo romano a  Villa Borghese;  e da Larry Gagosian, il celebre commerciante d’arte americano.

Il suo  carnet di mostre va dal 1993 al 2013, ne abbiamo contate 14 personali e 19 collettive. Le personali  dalla Andipa Gallery alla galleria “Il Ponte contemporanea”,  dalla Tecnè alla Hall & Knight Gallery, la prima mostra alla Galleria Psssepartout, nel 2008 al museo Carlo Bilotti, presso l’Aranciera di Villa Borghese a Roma; tra le collettive dopo il 2010 due curate da Vittorio Sgarbi al Palazzo Pianciani per il Festival dei due mondi e al  Museo dei Bretti,  e una nella Galleria Mediterranea, al centro culturale francese e alla galleria Scoglio di Quarto, ha esposto anche al “Macro future” nel Museo d’arte contemporanea. Le sue opere sono nei musei Carlo Bilotti e Arte contemporanea Sicilia e nelle collezioni private di Carlo Bilotti e Larry Gagosian, dei quali abbiamo citato l’interesse per l’artista,  Philippe Daverio e Carla Fendi.

Partenza nuoto”

E’  duplice la prospettiva di Nicola Pucci, riassunta nelle parole i “Circoli” e gli “Incontri” che segnano la particolare formula della sua espressione artistica. Dietro al suo figurativo sfumato e quasi evanescente c’è una visione personale che va oltre l’apparenza per scavare nei meccanismi psichici tra le persone che si incontrano senza vedersi o almeno senza guardarsi, in una percezione della realtà che riporta ai surrealisti; è la condizione umana il soggetto della sua ricerca artistica.

Attraverso i contorni sfumati e l’atmosfera rarefatta trasmette quella che Viviana Quattrini definisce “un’atmosfera di sospensione, isolamento o minaccia”, specchio di una realtà “volutamente distorta dove qualcosa sta per accadere ma viene costantemente bloccata in una dispersione spazio-temporale”.

Sembra una descrizione delle piazze metafisiche, ma qui non vi sono i grandi spazi desolati né le lunghe ombre, bensì figure umane non deformate come i “ritratti metafisici” che abbiamo rivisto in questi giorni nella bella mostra “De Chirico. Il ritratto, figura e forma” a Montepulciano.

“Tuffatori” 

Il Full Circle

Le sue figure sono immediatamente percepibili nella loro qualità umana data da un figurativo che non distorce le immagini, ma le carica di contenuti trasmessi dall’angolazione in cui sono viste e dai loro atteggiamenti, nonché da posizioni surreali: di qui la solitudine e l’incomunicabilità anche con presenze diverse nello stesso ambiente, di qui l’introspezione. Alcuni corpi nudi li abbiamo associati a quelli di Aleksandr Deineka, l’esponente del “Realismo socialista”  che ha celebrato la fisicità nello sport e nel tempo libero, ricordiamo la mostra a Roma nel 2011 al Palazzo Esposizioni.

Spesso alla figura umana sono collegati animali, vediamo il toro, i galli e vari volatili: l’artista al quale ne chiediamo il motivo si definisce scherzando “un contadino”, ma se ne serve per esprimere visivamente l’idea di libertà, un altro dei simboli che vanno recepiti nelle atmosfere velate cariche di mistero. Il grigio dominante le rende evanescenti, a volte l’irruzione del rosso riporta alla realtà.

“Il cerchio – è ancora la Quattrini – che solitamente evoca armonia, incontro e comunicabilità, in questo caso nasconde malessere, scontro e indecifrabilità”.  Di qui “associazioni che trasmettono particolari stati emotivi dove è sempre presente quel sottile e fragile confine con il sogno”.

Nell’espressione “Full Circle” che dà il nome alla mostra, c’è anche qualcosa di personale. “To come full circle” vuol dire – precisa con la sua competenza anche linguistica Michele von Buren – “completare un ciclo di trasformazione, tornando  al punto in cui uno ha iniziato dopo aver acquisito esperienza e maturità”: per questo la mostra è anche una rivisitazione del suo percorso artistico in un ciclo di sette anni, giunto a un approdo che lo ricongiunge all’avvio mostrandone l’evoluzione.

A questo punto la parola va alle opere, nulla è più eloquente dei dipinti inseriti nell’accogliente interno della galleria, tra mobili di antiquariato e altre proposte di arredamento coinvolgenti.  L’asticella dell’accessibilità economica è a livello più elevato del consueto, ma siamo sempre all’interno della formula di “Accessible Art” che presenta giustamente diverse gradazioni.

“Controllori di volo”

Le figure umane e animali del figurativo surreale

In ogni dipinto il figurativo velato e sfumato della forma si associa al surrealismo dell’azione rappresentata. Così “Torero”  non mostra una scena dell’arena, ma un’improbabile attacco del toro che carica a testa bassa il torero seduto con la testa tra le mani in fondo a una scala elicoidale in un ambiente ristretto, l’opposto dei vasti spazi della “plaza de toros”.  E in “Sala d’attesa”  una scena  altrettanto improbabile, l’ambiente è tutt’altro che destinato a tali evoluzioni spericolate, sono salti per tuffi  carpiati come dal trampolino ma su sgabelli senza possibilità che vadano a buon fine. Sono dipinti di  grandi dimensioni, quasi 2 m per 1,50.

Lo stesso negli altri due dipinti “natatori”, “Partenza nuoto” e “Tuffatori”, che completano il trittico: nel primo la piscina della presumibile gara è un riquadro minuscolo, anche nel secondo il tuffo dovrebbe avvenire  in un pertugio molto ristretto. Sono questi corpi nudi che ci hanno fatto pensare a Deineka, in particolare “Partenza nuoto” ci ha ricordato, pur nella totale diversità, la fisicità vista di schiena nel dipinto dell’artista russo “Dopo la lotta”, del 1937-42.

I “Controllori di volo” all’interno del grande cerchio sul pavimento sono alle prese con dei volatili, qui il surrealismo è nel titolo, quasi una battuta, forse a sottolinearne la non controllabilità, come per le ali della libertà; infatti sono i volatili padroni del campo, altro che controllati! Un altro dipinto presenta un “Gallo con vaso”,  composizione in cui il gallo sovrasta le bamboline intorno a un vaso di cristallo; poi “Lezione di volo”, tre ragazze sedute con gli occhi in alto a guardare i volatili sopra le loro teste, impareranno a fa “volare” i loro sogni?  Due gigantesche figure di “Galli” in una parete concludono queste presenze animali nei dipinti esposti.

Una figura umana isolata è “Marco”, abbandonato su una poltrona sotto a una sorta di baldacchino; mentre due “Volti”  allineati, con lo schermo di un tratteggio verticale, danno un’immagine molto particolare; il pensiero va all'”Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza” di Tiziano, con tre volti allineati sopra a tre teste di aninali, chissà quale sarò l’allegoria del nostro artista? 

Non si resta indifferenti dinanzi a queste immagini sia per la loro resa figurativa sia per gli interrogativi che si aprono dinanzi a pose e situazioni surreali.  E’ una realtà “volutamente distorta”, come dice la Quattrini, ma non con il ricorso all’astrazione o alle trasposizioni surreali, bensì con la definizione figurativa di azioni impossibili eppure consegnate alla tela. Per far discutere e far riflettere fino a pensare alla condizione umana. E non è poco.

Info

“RvB Arts”, di Michele Von Buren, via delle Zoccolette 28, Roma, presso Ponte Garibaldi, e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio, domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518; – info@rvbarts.com., http://www.rvbarts.com/, con immagini delle opere di Pucci e delle altre disponibili dei 36 artisti che fanno capo alla galleria. I 4 nostri articoli sulle precedenti mostre di “Accessible Art”sono in questo sito alle date del 21 novembre e 10 dicembre 2012, 27 febbraio e 26 aprile 2013. Per la mostra citata sul ritratto in de Chirico a Mntepulciano, cfr. il nostro servizio in questo sito in 3 articoli, il primo ieri 20 giugno 2013; per la citazione di Aleksandr Deineka cfr. in questo sito i nostri 3 articoli, sulla mostra al Palazzo Esposizioni, il 26 novembre 2011, l’1 e il 16 dicembre 2012; per la citazione di Tiziano cfr. in questo sito il secondo dei nostri 2 articoli dedicati alla sua mostra, il 10 e 15 maggio 2013. Tutti gli articoli citati sono illustrati da immagini.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla galleria RvB Arts all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con i titolari dei diritti, soprattutto Nicola Pucci, per l’opportunità offerta. In apertura l’artista, al quale siamo grati per essersi fatto riprendere da noi, dinanzi alla sua opera “Torero”; seguono  “Sala d’attesa”  e “Partenza nuoto”, poi “Tuffatori” e  “Controllori di volo”; in chiusura “Volti”.

“Volti”

De Chirico, 1. L’enigma del ritratto, a Montepulciano

di Romano Maria Levante

La mostra “Giorgio de Chirico –  Il ritratto figura e forma”, a Montepulciano dall’8 giugno al 30 settembre 2013, propone un enigma diverso da quello consueto delle piazze metafisiche: l’enigma del ritratto, un genere  che dovrebbe essere rivelatore piuttosto che misterioso, ma non in de Chirico che copre un arco quanto mai vasto di forme espressive nelle quali la mostra scava in profondità.  Le opere esposte, della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, sono state selezionate dalla curatrice della mostra,  Katherine Robinson, che ha curato anche il Catalogo bilinguedi Marietti Editore, con un suo saggio sul tema che rappresenta una vera  e propria teoria del ritratto dechirichiano, approfondita e analitica, da meditare per  cogliere appieno l’essenza della mostra.

“Autoritratto giovanile”, 1932-33

L’aspetto monografico della ritrattistica come filo conduttore dell’esposizione e motivo centrale della ricerca trova nell’allestimento un’espressione quasi didattica: il visitatore è portato dal percorso espositivo  a seguire un racconto per immagini e per suggestioni, in  un’escalation di sorprese e di emozioni. Dal carattere inedito di molte opere, selezionate tra il gran numero custodito dalla Fondazione, nascono le sorprese; le emozioni dalla visione legata alla ricerca culturale del ritratto nelle varie forme. Una formula da ripetere pescando nella raccolta della Fondazione le opere che evidenziano singoli aspetti analizzati con approfondimenti tematici.

Dall’enigma delle piazze al mistero dell’essere

I risultati della ricerca della Robinson, confluiti nella mostra ed esposti nell’accurata nota critica, consentono di introdurre la nostra visita alle opere esposte, che ha avuto la stessa curatrice come prestigiosa guida; ne daremo per sommi capi i contenuti salienti, per il resto cercheremo di riprodurre il  “racconto per immagini”  nel quale si dipana l’enigma dechirichiano del ritratto.  Si muove tra due poli, il ritratto classico e quello fantastico, un’alternativa che torna ripetutamente.

Il ritratto classico presenta elementi caratteristici, con le positure tipo finestra dai contorni evocativi di spazi e prospettive, su uno sfondo cromatico omogeneo pur esso carico di significati; per poi esplodere negli autoritratti in costume, dove la classicità si fonde con la fantasia anche se sono ripresi dal vero, indossando l’artista costumi dell’Opera di Roma.

Mentre il ritratto fantastico si apre alle tante varianti della  poliedricità di de Chirico, in cui la metafisica irrompe con tutti i suoi misteri. Non è la metafisica delle piazze ma quella dei manichini dalle teste ad uovo a dare il tono al ritratto fantastico, con l’ardire assolutamente inedito di cancellare gli elementi essenziali della fisionomia, cioè i segni del viso, per dare qualcosa di più e di diverso, l’universalità dell’essere umano, al di là dei caratteri individuali. Anche nelle sue impostazioni teoriche l’artista ha sottolineato questo aspetto, addirittura propugnando il ritratto di una statua rispetto a quello di un modello vivente, per non essere sviati da elementi personali transitori e potersi concentrarsi su quelli permanenti ed eterni: le teste ad uovo in questa spersonalizzazione sono perfette ma poi, evoluzione nell’evoluzione, con la neometafisica torna la carne viva ad umanizzare i freddi manichini.

I contenuti sottesi al ritratto cercano così nuove forme espressive, le stesse figure  degli archeologi e di personaggi mitici, dagli argonauti ai centauri, accolgono visivamente elementi che rimandano al loro vissuto, e al vissuto dell’umanità nella sua evoluzione storica; mentre altre figure esprimono la profondità dell’ispirazione negli stessi titoli, il “Pensatore”  e il “Meditatore”, il “Contempl,atore” e il “Poeta”, e se c’è in loro un’universalità non è distaccata e astratta ma viva e reale.

Lorenzo Canova sottolinea la compresenza degli opposti, “il volto e lo spettro”, cosa che gli fa ritenere come “il de Chirico sia rimasto sempre metafisico e che il suo era lo sguardo del vaticinatore che scopre realtà ignote non solo nelle cose, ma anche negli stessi esseri umani” trasformandoli “in  statue e spettri” . E nel dire questo il critico cita lo stesso de Chirico che nello scritto “Riflessioni sulla pittura antica” ha sottolineato i due aspetti della realtà, “quello che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l’altro lo spettrale o metafisico, che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza e di astrazione metafisica”.

La Robinson sottolinea a sua volta l’aspetto della fantasia, che porta l’artista alla visione propria delle cose, diversa da quella corrente. E cita le parole con cui Courbet, nel 1924, nega che fantasia sia immaginare cose non viste: “A un  pittore e un artista in genere  la fantasia, più che a immaginare il non visto, serve a trasformare ciò che vede” anche perché la sfera visibile confina con la banalità. Invece, conclude la Robinson, “attraverso una traiettoria temporale e plastica, fatta di figure e forme, di immagini, spazio e materia, de Chirico ci avvicina al grande mistero dell’esistenza e della creazione: la rivelazione delle idee, lo spazio come forma poetica, il mistero della fusione tra luce e materia in pittura e il forte pathos della stessa esistenza delle cose”.

“Ritratto di Isa con spalliera rossa”, 1936

Il ritratto classico e fantastico, paradigma dell’esistenza

Seguiamo idealmente il percorso ideato dalla curatrice e realizzato con un allestimento magistrale, prima di farlo praticamente nella visita alla mostra con il filo d’Arianna del suo approfondimento critico. Che è il percorso ideale dell’artista, e parte dal primo autoritratto, quando vi scrive Et quid amabo nisi quod aenigma est?”, rivelando di essere attirato dal ritratto più che per le sembianze esteriori, per l’anima interiore, intanto la propria per poi passare all’anima universale: è del 1911, l’anno dopo l’esplosione metafisica, l’enigma diventa centrale anche nel ritratto oltre che negli esterni. E rappresentandosi nella posa di una nota foto di Nietzsche crea “un doppio ritratto di sé e del filosofo” prediletto, fornendo una chiave di lettura tutta proiettata all’introspezione.

Aver dato un messaggio di questa forza e contenuto in un autoritratto apparentemente tradizionale è un’indicazione preziosa a guardare i ritratti con spirito investigativo e di ricerca come ha fatto la Robinson, rivelando nessi reconditi tra opere diverse stilisticamente e nei contenuti, prodotte nelle varie fasi della sua vita artistica. Molto differenziato, infatti, è lo stesso ritratto classico, dal modello rinascimentale a quello barocco, dall’attenzione all’anatomia a quella alla fisionomia. E lo è ancora di più il ritratto fantastico, al quale la metafisica porta le sue innovazioni rivoluzionarie che cancellano la fisionomia per i contenuti universali, dal manichino con la testa ad uovo agli archeologi ed altri soggetti nei quali è evidenziato visivamente il vissuto della società.

In questa situazione, è quanto mai complesso ma nel contempo intrigante l’intento della curatrice: “Il problema che si presenta è quello di indagare sul ruolo che la figura umana, o umanizzata, gioca nella costruzione dell’universo iconografico e pittorico di de Chirico, e di capire quali sono i meccanismi che la sua maestria visionaria scatena sul piano sensoriale  e intuitivo dell’osservatore”.

L’indagine inizia dal disegno, alla base del ritratto, secondo i principi teorici enunciati dall’artista nel “Ritorno del mestiere” del 1919: “I nostri maestri, prima di ogni altra cosa, c’insegnarono il disegno; il disegno, l’arte divina, base di ogni costruzione plastica, scheletro di ogni opera buona, legge eterna che ogni artefice deve seguire”. Mette in pratica questi dettami con i “d’aprés” iniziati nei musei romani e fiorentini nello stesso anno, che lo accompagneranno sempre: l’ultimo lavoro in cui era impegnato prima della scomparsa è un nuovo “d’après”, incompiuto, anzi appena delineato, del michelangiolesco “Tondo Doni”, riprodotto già nel 1920. 

Poi “l’artista doppio, triplo, quadruplo, il de Chirico multidimensionale”, viene esplorato dalla curatrice nella “pluridirezionalità” della sua opera, sottolineando come il ritratto affianchi la sua produzione di esterni e interni metafisici con un evidente parallelismo. Infatti alla figura umana si affianca quella universale senza lineamenti né identità, altrettanto inquietante, spesso anche nel titolo, delle lunghe ombre negli spazi assolati tra solitudine e attesa.

“Il pittore di cavalli”, 1974

L’esplorazione si addentra nel ritratto classico, e mostra la passione con cui l’artista vi si dedica attraverso una serie di “d’apres”  nei quali recepisce le scelte stilistiche e di contenuto di grandi del passato quasi identificandosi in loro ma sempre con il proprio segno personale, in una vera simbiosi.

A questo riguardo Victoria Noel Johnson si chiede “quale obiettivo si prefiggeva l’artista” e se riuscì a raggiungerlo; e cerca di indagare se si concentrasse sempre su un elemento – tra stile e tecnica, disegno e colore, composizione e soggetto –  oppure se avesse “di volta in volta priorità diverse”. Trova la risposta nel fatto che le priorità variavano in relazione con la sua visione metafisica del momento, tenendo conto che i grandi da lui prediletti erano uniti dal genere del ritratto, e dal suo “obiettivo tradizionale: rendere visibile l’essenza universale delle cose”. E questa si esprime nella metafisica che vuole evocare “ciò che esiste oltre questa sfera, al di là dei limiti di tempo e spazio”; quali che siano i contenuti, “sono sostanzialmente sospesi nello spazio e nel tempo. La loro essenza è elevata a un punto di animazione perpetua, inalterata da fattori cronologici o fisiologici”.  Anche la sua “ritrattistica storica” può rientrare in questa visione.

Ma è il ritratto fantastico la sua rivoluzione, che parte dalla prima fase metafisica, dagli anni ’10 – in mostra opere dalla metà degli anni ’20 – e riprende nella neometafisica fino al 1976, due anni prima della morte. E’ forse la fase più coinvolgente, l’artista ha ottant’anni e riprende i suoi soggetti dai Manichini agli Archeologi, dalle Muse ai Gladiatori: con una minore inquietudine rispetto alle opere della prima metafisica, le luci sono più intense, i colori più vivi, e questo rende l’atmosfera più serena.

La galleria della ritrattistica di de Chirico è molto ricca: da soggetti familiari, soprattutto la moglie Isa, ad altri personaggi, ma soprattutto si alimenta di una vasta serie di autoritratti che, commenta Lorenzo Canova, sono “legati al mascheramento, al doppio, all’epigrafica comunicazione di messaggi”. Il volto, secondo il critico, “scomparirà e riapparirà”, assumerà tante sembianze, anche di figure marmoree e di ruderi antichi, con “una costante comune: quell’aspetto spettrale delle persone e delle cose che, secondo de Chirico, solo l’artista metafisico col dono della profezia è capace di cogliere”. 

“Gladiatori dopo il combattimento”, 1968

Perché a Montepulciano: l’invitante cornice della mostra

Una domanda ci siamo posti prima di visitare la mostra entrando nella storica Fortezza: perché a Montepulciano? Dalle parole della curatrice ci è parso di capire che è stata un’iniziativa locale, ha visto come promotori personalità appassionate che hanno spinto Rotary Club e Comune  a proporre la mostra alla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico;l’accettazione è stata entusiasta, con l’idea di imperniarla sul ritratto, figura e forma. In fase operativa si è aggiunta la locale Fondazione Cantiere Internazionale d’Arte. 

Questo prima di visitare Montepulciano. Dopo aver percorso il paese e averne ammirato i tesori possiamo dire che è stata una felice intuizione, la “location” è quanto mai adatta a un artista come il grande de Chirico, che nella storia e nella configurazione della sua Valos ha trovato tanti motivi  di ispirazione. Di lì gli argonauti e le altre figure mitologiche, la classicità e anche tanti spunti metafisici.  Lorenzo Canova con il suo ” Nelle ombre lucenti di de Chirico” del 2010, addirittura ha voluto rivivere di persona nella realtà quegli scenari e quegli ambienti descrivendone la suggestione che ha portato alla naturale trasposizione nelle opere dell’artista. Ora Roberto Longi in occasione della mostra ha compiuto un’operazione diversa ma per certi versi speculare, ha descritto una visita immaginaria di de Chirico a Montepulciano, come “un enigma, un po’ dechirichiano'”.

E allora vediamo come l’ambiente calzi a pennello, per usare un modo di dire evocativo: dalle “panoramiche uscite prospettiche, che guardano all’infinito”, con gli sfondi del paesaggio collinare toscano visibili negli squarci tra i palazzi rinascimentali che fanno quasi da quinta teatrale, alla straordinaria Piazza Grande, dove si avverte un’atmosfera di sospensione, “quel senso di estraniamento che egli riporterà con sublime acutezza nelle tante vedute delle sue Piazze d’Italia”; dallo “spazio urbano di radice storica particolarmente amato e fonte di ispirazione per buoe della poetica dechirichiana” alle raccolte museali che avrebbero fatto sentire a casa propria un appassionato come lui, che frequentava i musei di Roma e Firenze per dipingere i “d’aprés” dall’originale, tanto più per la mostra con riferimento alla ricca ritrattistica della raccolta Crociani.

A questi spunti che Longi propone “tra realtà e ipotesi” vogliamo aggiungerne uno del tutto personale, una scoperta che forse sarebbe piaciuta anche a de Chirico ma che è certamente preziosa per il visitatore: le Cantine storiche dove sono stipate ordinatamente le botti del “vino nobile di Montepulciano” denominazione che risale al 1787, e ha avuto i massimi sigilli di qualità dei DOCG, “denominazione d’origine controllata e garantita”.

Ebbene, l’appassionante circuito delle cantine storiche l’abbiamo iniziato dalla sconfinata Cantina Contucci a Piazza Grande, sotto il palazzo cinquecentesco di Antonio da Sangallo, nel cui salone c’è un grande affresco, insolito in un edificio privato. Siamo scesi nelle viscere del palazzo in una inattesa statuaria vinicola, fatta di botti di ogni dimensione, fino a quasi 40 ettolitri, allineate sui piedistalli come in una foresta pietrificata, ce ne sono più di 100 nel piano visibile, sotto ci si dice vi sono altri tre piani sotterranei dove si procede anche alla vinificazione: che, è un vero miracolo, avviene  nel cuore del centro storico. E uno spettacolo offerto ai visitatori, insieme alle degustazioni e al contatto con la produzione vinicola di eccellenza; un omaggio a Bacco che consolò l’Arianna malinconica delle piazze metafisiche.

Scendendo lungo il Corso, tra la casa natale di Angelo Poliziano, il teatro a lui intitolato e altri antichi edifici, c’è una vera e propria teoria di cantine che invitano alla visita, i sotterranei sono più piccoli e limitati, le botti degradano fino ai 2 ettolitri, gli ambienti sempre caratteristici ma più vicini all’immagine di pur grandi cantine tradizionali che a quella di Contucci che evoca, non nelle proporzioni ma nell’immaginario, la “Cisterna Basilica” di Istanbul: la foresta pietrificata di colonne che si ergono sull’acqua, qui ci è piaciuto immaginare il mare di vino con le colonne trasmutate nelle botti lignee. 

Il titolare dell’Azienda Contucci ha una posizione di rilievo nel Rotary Club promotore della mostra: Alamanno Contucci ne è un  attivo consigliere, e dal prossimo luglio sarà anche assistente del Governatore per l’area toscana; con il socio Marcello Berna ha coadiuvato nell’organizzarla l’ideatore Gianluigi Matturri. E la Fortezza, sede della mostra, è da anni sede dell'”Anteprima del Vino Nobile”, manifestazione dei produttori locali che hanno dato un contributo decisivo al restauro costato 2, 5 milioni di euro. Nello storico edificio vengono concentrate  le molteplici attività “enoculturali” di Montepulciano e dal 2014 vi andranno gli uffici del Consorzio del Vino Nobile con una enoliteca consortile,  “La Casa del Vino Nobile”.

“Vita silente metafisica con busto di Minerva”, 1973

Di de Chirico c’è una raffigurazione enogastronomica in mostra, con l’uva bianca e nera della “natura morta”, anzi “vita silente metafisica” del quadro che reca la testa di Minerva. Nessun “Bacco” né “Bacchino malato” caravaggesco, ma molte Arianne, poste al centro delle sue piazze metafisiche come simbolo della malinconia esistenziale; un tema in lui ricorrente, vi identificava la malinconia italiana, considerata “carattere predominante della nostra razza”. Dieci anni fa c’è stata a Londra una mostra sulle Arianne abbandonate.

Ma se nella pittura si ferma a questo punto del mito, nelle scene e costumi per il teatro celebrò l’intero mito di “Bacco e Arianna”, il dio del vino che intervenne con tutta la sua vitalità per consolare Arianna lasciata da Teseo dopo che il suo filo lo aveva fattouscire dal labirinto. Per questo collegamento con Bacco, e per il suo ben noto interesse agli aspetti mercantili dell’arte alimentati dalla cultura, il gemellaggio con il mondo del vino nobile non gli dispiacerebbe.

E, di certo, l’eccellenza vinicola e le altre meraviglie del delizioso centro toscano con i suoi ipogei di “vita silente”, sono ulteriori motivi in più per visitare la mostra anche venendo da lontano. Le  meraviglie delle opere di de Chirico le descriveremo prossimamente, raccontando la visita alla mostra dopo che ne abbiamo delineato i contenuti alla luce  della ricerca svolta dalla curatrice Robinson,  per noi una guida preziosa lungo tutto il percorso espositivo.

Provare per credere, noi lo abbiamo fatto venendo a Montepulciano, e ci piace renderne partecipi i nostri lettori.

Info

Fortezza di Montepulciano. Lunedì ore 16,00-20,00; da martedì a domenica 10.00-22,00 (ultimo ingresso ore 21,15). Ingresso intero 7 euro, under 25 ridotto 5 euro, under 12 gratuito. On line su circuito prevendita http://www.vivaticket.it/, tel. 0578. 757007. Catalogo bilingue, italiano e inglese: “Giorgio de Chirico. Il Ritratto, figura e forma”, a cura di Katherine Robinson, Maretti Editore, giugno 2013, pp. 192, formato 23×28, euro 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I successivi due articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 26 giugno e 1° luglio 2013, con altre 6 immagini ciascuno. Per alcune mostre precedenti su de Chirico cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com”: nel 2009 “I disegni di de Chirico e la magia della linea” il 27 agosto, “A Teramo de Chirico” ed altri grandi artisti italiani del ‘900 il 23 settembre, “De Chirico e il Museo, il lato nascosto dell’artista incompreso” il 22 dicembre; nel 2010 “De Chirico e la natura. O l’esistenza?”, tre articoli l’8, il 10 e l’11 luglio. Per la citazione della Cisterna Basilica cfr. i nostri 3 articoli sul “Viaggio a Istanbul”,  in questo sito il  10, 13 e 15 marzo 2013. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Fortezza di Montepulciano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, per l’opportunità offerta. In apertura “Autoritratto giovanile”, 1932-33; seguono  “Ritratto di Isa con spalliera rossa”, 1936, e “Il pittore di cavalli”, 1974, poi “Gladiatori dopo il combattimento”, 1968, e “Vita silente metafisica con busto di Minerva”, 1973; in chiusura l’ingresso della Fortezza di Montepulciano, a sin. in alto sopra il portale è visibile il  manifesto della mostra.

 L’ingresso della Fortezza di Montepulciano, a sin. in alto sopra il portale  il  manifesto della mostra. 

Caravaggio, il San Matteo Contarelli radiografato, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Il ciclo di San Matteo diCaravaggioalla Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma ha rivelato i suoi segreti nella mostra ideata da Rossella Vodret che ha presentato al pubblico, dal 10 marzo al 15 ottobre 2011  a Palazzo Venezia, le sofisticate indagini sui tre dipinti facendo rivivere il momento creativo con radiografie che hanno evidenziato i ripensamenti e le incisioni operate dal sommo artista: una ricerca all’interno di capolavori, pietre miliari dell’arte, che ripercorriamo due anni dopo.

Autoritratto dal “Martirio di San Matteo”, indagini diagnostiche 2009

Un nuovo suggestivo capitolo nel disvelare i momenti  e le tappe del processo creativo di Caravaggio, tutt’altro che “pittore maledetto” in preda all’impulso irrefrenabile dell’arte senza la mediazione della razionalità e della tecnica. Con la mostra sulla “Bottega del genio”  nello stesso Palazzo Venezia era  stato esplorato in profondità il suo modo di dipingere  in uno studio trasformato in “camera oscura” con pertugi che facevano penetrare il raggio di luce secondo un percorso  di ottica selettiva e specchi orientati per trasmettere sulla superficie piana le immagini riflesse dal vero, secondo un procedimento fotografico.

Nella mostra sulla “Cappella Contarelli”  l’allora  soprintendente museale e “domina” di Palazzo Venezia Rossella Vodret, è andata oltre la mostra ora citata da lei stessa ideata, con l’anatomia di tre opere magistrali, quelle che Michelangelo Merisi realizzò a Roma tre anni dopo il suo arrivo da Milano.  Aveva già dipinto su temi religiosi  “Maddalena” e lo straordinario “Riposo durante la fuga in Egitto”, ma soprattutto opere  “di genere”, allegoriche e mitiche: “Bacchino malato”  e “Buona ventura” e i due ultra celebri “Canestro di frutta”  e “Ragazzo con il canestro di frutta”.

“Chiamata di San Matteo”

Le vicissitudini dell’incarico per la Cappella Contarelli

Dopo questi dipinti di carattere non religioso,  nessuno dei quali di committenza pubblica, venne l’incarico ben remunerato per la Cappella Contarelli, le cui circostanze pongono l’interrogativo cui non è stata data una risposta univoca: perché con tanti celebri pittori a Roma legati alla Chiesa l’incarico per opere così impegnative come quelle del ciclo di san Matteo è finito a un giovane venuto da Milano  senza precedenti specifici nella committenza pubblica e nella pittura religiosa?

Ripercorrere le vicende legate ai dipinti della Cappella può contribuire e dare questa risposta evocando il mondo e l’ambiente nel quale si è manifestata la sua arte con una forza dirompente.

Il primo incarico per le opere su san Matteo fu dato dallo stesso cardinale Contarelli al pittore di Brescia Gerolamo Muziano con indicazioni molto precise sul contenuto dei dipinti da realizzare, dopo che nel 1565 la cappella della chiesa di San Luigi dei Francesi gli era stata affidata dallo stato transalpino. Alla sua morte nel 1585 nulla era stato realizzato, per questo nel 1587 il curatore testamentario assegnò l’incarico per l’altare al fiammingo Jacob Cornelisz Cobaert, un gruppo marmoreo al posto del dipinto previsto, ma non fece nulla per i due dipinti laterali.  Soltanto quattro anni dopo, nel 1591, lo stesso curatore, dichiarata decaduta per inadempienza la committenza a Muziano, la assegnò al Cavaliere d’Arpino,  l’affermato Giuseppe Cesari, aggiungendo ai due dipinti laterali  quello del soffitto,  il  Miracolo di San Matteo e i Profeti, al compenso di 650 scudi.

Soltanto il dipinto del soffitto fu ultimato entro il 1593 e pagato dal figlio del curatore nel frattempo deceduto, mentre non furono eseguiti né i dipinti laterali affidati a Cesari né il gruppo marmoreo per l’altare affidato ancora a Cobaert.  La Congregazione di San Luigi dei Francesi cominciò a premere su papa Clemente VII perché contestasse in giudizio le inadempienze al curatore testamentario, finché nel 1597 ottenne che la ricca eredità di Contarelli fosse affidata  alla Fabbrica di San Pietro sottraendola agli eredi del curatore per poter realizzare il progetto del Cardinale.

L’organismo religioso si mosse con decisione, rinnovò l’incarico al Cesari per i dipinti laterali ma fissando il termine perentorio di un anno.  Anche questa volta, però, l’impegno fu disatteso ma la fabbrica di San Pietro con il suo deputato padre Berlinghiero fu altrettanto decisionista revocando l’incarico e sparigliando completamente. Infatti lo affidò a sorpresa a Michelangelo Merisi.

Testa del Cristo”, particolare

La “missione impossibile” affidata a Caravaggio con successo

Ecco, quindi, entrare in scena, inaspettato, Caravaggio al quale fu assegnato un termine ancora più ristretto: doveva realizzare i due dipinti “entro l’anno”. Il contratto fu firmato il 23 luglio 1599, quindi aveva soltanto cinque mesi di tempo; e il compenso restò elevato, 400 scudi.  C’era un motivo ulteriore per l’urgenza, l’Anno Santo del 1600, ma questo non riduce lo spazio del mistero: un incarico remunerato all’altezza del celebre Cesari a un giovane di 28 anni non addentro all’ambiente ecclesiastico, nuovo a incarichi di tale natura e poco esperto di  temi religiosi.

I biografi di Caravaggio danno due spiegazioni a questo mistero. Baglione nel 1642 attribuisce la committenza alla protezione esercitata su di lui dal cardinal Del Monte, vicino ai membri della fabbrica di San Pietro,  Bellori nel 1672 parla dei buoni uffici del poeta Giovan Battista Marino molto vicino a sua volta alla famiglia dell’esecutore testamentario; che era Virgilio Crescenzi, cui succedette il figlio ed erede, l’abate Giacomo. Sia stato il cardinale Del Monte a premere sulla fabbrica di San Pietro come dice Baglione, o il poeta Marino a farlo sui Crescenzi, evidentemente ancora con voce in capitolo su questa materia, come dice Bellori, questa volta la committenza andò a buon fine pur nei tempi molto più ristretti imposti dalle circostanze.

Il “pittore maledetto” appare come benedetto: non solo riesce nella missione impossibile di realizzare due dipinti di quasi 3 metri e mezzo per 3 in cinque mesi, ma vince anche la sfida successiva di dipingere due anni dopo la grande tela per l’altare centrale in sostituzione del gruppo marmoreo di Cobaert: il tutto nel tempo record intercorrente tra il 7 febbraio 1601, data della firma del successivo contratto, e il 23 maggio dello stesso anno, giorno di Pentecoste, l’occasione obbligata per presentarlo al pubblico come prima era stato l’Anno Santo.

L’exploit fu tale che non ci si deve stupire dell’escalation successiva: seguiranno la Crocifissione di san Pietro e la Conversione di Paolo, la Madonna dei Pellegrini e la Madonna dei Palafrenieri, la Deposizione e la Morte della Vergine, per restare alle più note del periodo. Dopo il 1606, com’è noto, l’uccisione in una rissa di Ranuccio Tommasoni lo fece peregrinare dal Lazio ospite dei Colonna a Napoli, da Napoli a Malta, da Malta alla Sicilia, tutte località dove si impegnò in grandi opere di pittura nonostante la precarietà della condizione fino al drammatico ritorno, sembra dopo aver ottenuto il  perdono papale con i noti colpi di scena: la partenza senza di lui della feluca con i suoi quadri e la tragica conclusione a Porto Ercole per il morbo contratto nell’affannosa rincorsa.

“Martirio di San Matteo” 

Le scoperte del visitatore alla mostra di Palazzo Venezia

Per tutto questo il ciclo delle tre opere per la Cappella Contarelli (Chiamata di san Matteo, Martirio di san Matteo e San Matteo e l’Angelo) è fondamentale nel suo percorso artistico, e i risultati delle analisi molto approfondite compiute vanno ben oltre i dipinti a cui si riferiscono. Di qui l’importanza di averli messi a disposizione del pubblico attraverso una mostra che ha fatto penetrare nella creazione artistica. E questo in aggiunta alle spiegazioni dei pannelli, con la tecnologia del “touch screen” che ha personalizzato la ricognizione nel campo degli addetti ai lavori: in questo caso sono i restauratori e gli analisti, gli storici e gli esperti documentalisti.

Ripercorriamo,  dunque, questa ricognizione limitandoci  a qualche riscontro, fermo restando che dopo la visione diretta con i supporti visivi e tecnologici della mostra è rimasto il prezioso Catalogo edito dalla Munus  che ne dà conto con analisi specialistiche e circa 100 riproduzioni visive.

Il primo riscontro dei risultati della ricerca è la precedente “stesura” del quadro “Martirio di san Matteo”, che non rivela ripensamenti parziali, come spesso accade, ma un rifacimento totale del dipinto sopra quello steso inizialmente in modo completo. C’era anche un’architettura che delimitava lo spazio, oltre a molte piccole figure il cui affollarsi rischiava di nascondere o comunque oscurare l’immagine del santo, motivo per cui l’artista pensò di cambiare totalmente. Nella stesura definitiva, ridipinta sopra uno strato neutro posto a copertura della prima raffigurazione, le figure sono invece quelle da lui predilette nel suo realismo a grandezza naturale. Interessanti comparazioni visive mostrano nella figura statuaria dell’uccisore del santo le reminiscenze michelangiolesche del Torso del Belvedere e classiche del Discobolo di  Mirone. Appare  evidenziato il grafico dei ripensamenti con i contorni  sostituiti da nuove delimitazioni.

Così andiamo alla seconda evidenza emersa dai rilievi radiografici e spettrografici. Non c’erano dei disegni di base a guidare la pittura di Caravaggio, ma piuttosto incisioni dei contorni delle figure, che si trovano anche se poi non le ha dipinte, come l’arto non realizzato ma solo delimitato. Il procedimento della Cappella Contarelli sarà utilizzato anche nelle opere successive.

E’ stato rivelato o confermato, soprattutto nella “Chiamata di san Matteo”,  l’uso del compasso  per disegnare dei cerchi in modo da assicurare l’equilibrio compositivo che è uno dei pregi peculiari dell’arte di Caravaggio, soprattutto rispetto alla successione di luci ed ombre. Questo vale sia per il Martirio di san Matteo  che per la Chiamata del santo: i cerchi concentrici fissano nelle corone circolari  le aree di addensamento delle ombre o di fulgore delle luci e anche particolari soluzioni riguardo la forma dei soggetti e la composizione dell’insieme.

Per San Matteo e l’Angelo è la documentazione storica e artistica piuttosto che l’analisi tecnica a dare conto di una precedente raffigurazione, questa volta su un altro quadro finito nella collezione Giustiniani a seguito del rifiuto vero o temuto da parte dei committenti per il carattere troppo dimesso del santo. E questo sebbene l’artista avesse seguito con scrupolo le prescrizioni del cardinale sul soggetto da rappresentare; ma l’esigenza di dare al santo l’autorevolezza necessaria fece sì che da contadino la sua figura divenisse di un saggio con vesti e atteggiamento solenni.

“Testa del Diacono”, particolare

La ricerca degli equilibri compositivi era  sostenuta dal supporto della tecnica più raffinata con un’assoluta  razionalità d’impostazione. Anche a tale riguardo, come per l’immagine di “pittore maledetto”, la ricerca ha rovesciato quanto si potrebbe ritenere a seguito di una visione superficiale e di maniera.  E’ stata dunque meritoria l’iniziativa della Vodret che ha fatto entrare il pubblico nel “sancta sanctorum” mettendolo a diretto contatto con le conoscenze necessarie  per accostarsi ai capolavori caravaggeschi con maggiore consapevolezza. Ne ha guadagnato non soltanto la cultura ma anche la fruizione delle opere, guardate con occhi diversi, e più interessati, dopo aver conosciuto più da vicino ed apprezzato l’impegno creativo. 

Ma non si pensi che l’approccio dellaVodret in questa riscoperta del Caravaggio segreto sia stato di tipo tecnicistico, tutt’altro.  La mostra ha rivelato l’impegno a tutto campo che collega la tecnica e la razionalità all’estro creativo senza trascurare gli aspetti umani. Infatti sono stati esplorati anche con un‘altra iniziativa della soprintendente, il vero e proprio pellegrinaggio  a Roma nei luoghi frequentati dall’artista nel suo decennio nella città eterna: “Sulle orme di Caravaggio” si chiamavano le visite guidate da marzo a giugno 2011 con inizio a Palazzo Madama, dove risiedeva il cardinal Del Monte e visse lui stesso; poi a piazza Navona, dove fu protagonista di aggressioni e arresti, a piazza san Luigi dei Francesi per la Cappella Contarelli e alla chiesa di Sant’Agostino perla “Madonna dei Pellegrini”; a via della Scrofa  dove frequentava botteghe di artigiani, e a via del Corso  dov’è la chiesa dei santi Ambrogio e Carlo; poi a san Lorenzo in Lucina sede di aggressioni e a piazza della Torretta dove fu apprendista, per finire ai luoghi della sua vita violenta, vicolo del Divino Amore e piazza Firenze, via della Maddalena, piazza della Minerva e piazza del Gesù. I temi: i committenti  e le opere, l’apprendistato e la vita violenta, la vita quotidiana e gli amori.

E’  un tour importante al quale si possono collegare virtualmente, i percorsi caravaggeschi nella tenuta laziale dei Colonna, a Napoli e in Sicilia per non parlare di Malta. La ricostruzione della vita  in contatto con i luoghi in cui si è svolta nella realtà si è  unita così alla ricostruzione degli aspetti peculiari della sua arte. E il suo spessore umano va oltre la pur straordinaria valorizzazione delle opere in atto da tempo.

Quanto più si conosce la ricostruzione della sua vita e della sua arte tanto più acquista rilievo la sua figura. Michelangelo Merisi, il Caravaggio, per quello che ha fatto ed è stato, lo merita eccome.

“San Matteo  e l’Angelo”

Info

Catalogo: “Caravaggio, la Cappella Contarelli”, a cura di Marco Cardinali, Maria Beatrice De Ruggeri, Ed. Munus, marzo 2011, pp. 150, formato 14×28.

Foto

Le immagini dei dipinti di Caravaggio nella Cappella, con i relativi particolari, del 1599-1600, sono state fornite dalla soprintendenza museale di Palazzo Venezia che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura, autoritratto dal “Martirio di San Matteo”, indagini diagnostiche 2009; seguono “Chiamata di San Matteo”, e particolare della “testa del Cristo”, poi  “Martirio di San Matteo” e particolare della “testa del Diacono”; infine “San Matteo  e l’Angelo” e, in chiusura, particolare della “testa di San Matteo”.

“Testa di San Matteo”, particolare

Unità e regioni, 1. Scenario, Costituzione, Stato e Chiesa, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Il  convegno “Le ragioni dello stare insieme: le istituzioni, le politiche, le regole dell’unità nazionale”  svoltosi a Roma al Vittoriano il 23 giugno 2011 e aperto dall’allora  ministro Raffaele Fitto e da Ernesto  Longobardi del Ministero per i rapporti con le Regioni che lo ha promosso e curato, ha avuto come relatori Giuliano Amato per “La Carta Costituzionale”, Francesco Margiotta Broglio  per “I rapporti tra Stato e Chiesa”, Vincenzo Cerulli Irelli per “La Pubblica amministrazione”, Paolo La Rosa  per “Le Forze armate” e Paolo Peluffo per “La lingua italiana”. Realizzato da “Comunicare organizzando” di Alessandro Nicosia, già  impegnato nelle mostre celebrative, come l’esposizione “Regioni e Testimonianze d’Italia”, e nelle esposizioni permanenti “Museo centrale del Risorgimento di Roma” e  “Museo dell’Emigrazione”,  tutte al Vittoriano; oltre a convegni come  “Il  Viaggio in Italia, 150 anni di emozioni” a metà giugnoe la conversazione di Lucio Villari all’inizio di luglio 2011.

Al microfono il ministro Raffaele Fitto 

Il denso programma di celebrazioni spaziava nei diversi campi delle tradizioni e della cultura, si è espresso in mostre di artisti dell’epoca in “Pittori del Risorgimento” alle Scuderie del Quirinale e di grandi del ‘400 nel Palazzo presidenziale con le “Madonne Rinascimentali al Quirinale”. Nel Vittoriano e in altri siti monumentali c’è stata la mostra “Regioni e testimonianze d’Italia”, una vasta esposizione delle tradizioni e delle eccellenze nei territori del Paese. A Palazzo Venezia l’esposizione laziale del “Padiglione Italia”, l’innovativa  ricognizione di Vittorio Sgarbi sull’arte contemporanea con un centinaio di opere di artisti locali del primo decennio del 2000. Oltre al nuovo allestimento e ampliamento della mostra del “Museo centrale del Risorgimento”.

Il convegno – ha detto l’allora ministro Raffaele Fitto – ha voluto dare il senso dell’unità raggiunta in un lungo processo storico valorizzando le diversità regionali come fattore di forza e non di divisione.  Lo ha promosso il suo Ministero – curatore  Ernesto Longobardi – che ha cambiato più volte  denominazione aggiungendo nel 2010 la “coesione territoriale” ai “Rapporti con le regioni”.

Lo sviluppo delle autonomie nello spirito unitario è un sentimento diffuso nella gente prima che nelle istituzioni; nelle quali le Regioni non sono state presenti dal 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione, ma un ventennio più tardi. Otto secoli di divisione politica e territoriale e il carattere tardivo dell’Unità potevano scoraggiare l’articolazione regionale anche se ne erano un  presupposto.

Ma già al primo cinquantenario, nel 1911, le regioni furono rappresentate in un concerto unitario; anche nel 1961, al centenario svoltosi in un a fase di crescita ma con la spaccatura tra Nord e Sud e con la polemica sulla mancata attuazione della Carta costituzionale, la prevalenza del carattere aggregativo sulla divisione regionale derivò dall’antica cultura unitaria. “Il sentimento che ha costruito istituzioni e regole anche nelle autonomie è stato unitario  – ha concluso la premessa il ministro Fitto –  e viene espresso abbinando i rapporti con le Regioni alla coesione territoriale”.

Lo scenario unitario di un processo faticoso

Ernesto Longobardi ha parlato di un esame di coscienza collettivo nella ricerca della verità storica senza enfasi apologetiche, come ha auspicato il presidente Giorgio Napolitano, e ha sottolineato come le celebrazioni superavano le attese con tanti momenti di approfondimento, e “uno sguardo più profondo al passato”. Entrando nello specifico ha richiamato due aspetti del dibattito in corso.

Il primo tema è stato il federalismo, nelle aspettative di coloro che avevano aderito ai moti unitari;  poi prevalse l’accentramento, e c’è chi sostiene che si poteva percorrere una strada diversa senza l’accelerazione del 1861: “unione doganale e poi federazione”, cioè gli Stati esistenti che si mettono insieme senza perdere la propria identità. Perché non si è costituito sin da allora lo Stato federale? Con Lucio Villari  ha sostenuto che non era possibile, c’era la debolezza istituzionale di alcuni Stati troppo piccoli, quindi senza una forte coesione unitaria sarebbero prevalse le forze centrifughe.

Un secondo tema è stato il nesso tra unificazione e modernità, secondo studi di storia economica che misurano il benessere con indicatori diversi dallo sviluppo del PIL; come lo stato della sanità e il livello dei consumi. All’indomani dell’Unità la speranza di vita alla nascita era di 30 anni – che non si riscontra neppure nei paesi più poveri – mentre oggi è tra le più alte; la mortalità infantile di 200 su 1000, l’analfabetismo al Sud toccava l’84 per cento. Il processo di crescita è stato discontinuo e disuguale, con il divario Nord-Sud, ma si è diffuso  nel territorio in senso unitario.

E’ vasto lo scenario nel quale si sono inseriti i singoli aspetti di questo processo, a  prescindere dal dato strettamente  economico. Li ha citati anche come curatore del Convegno per il Ministero: la Costituzione e la Pubblica amministrazione, Stato e Chiesa e le Forze armate, la Lingua. Ha evocato l’espressione “fatta l’Italia si devono fare gli italiani”. L’azione delle istituzioni in  campi diversi ma convergenti è stata rivolta proprio a questo, se ci è riuscita è un giudizio storico che va posto al centro delle riflessioni e degli approfondimenti di una celebrazione non retorica.

La Carta Costituzionale, la parola a Giuliano Amato

Politico di lungo corso nelle posizioni di più alta responsabilità ed esperto costituzionalista, uomo di cultura ebrillante conferenziere, Giuliano Amato, Presidente del Comitato dei garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ha iniziato rilevando che “siamo capaci più di eccitarci per le ragioni del non stare insieme che dello stare insieme. Lo consideriamo retorica patriottica, lontana dalla realtà dove contano le diversità, le cui  ragioni risalgono nella storia”. E lo ha spiegato con il senso di inferiorità  rispetto ad altri paesi dal sentimento nazionale più antico: “Quando vinciamo siamo sorpresi al punto di esaltarci oltre misura di strappare un primato che davamo agli altri”.

Siamo un paese in cui “la classe dirigente ha sempre assunto la modernizzazione come il mezzo per colmare il divario rispetto agli altri e raggiungerli. Ci ha permesso di crescere il concetto unitario di storia comune della quale fanno parte le diversità, come la capacità di tradurle in unità.” Artusi ha presentato le tante cucine regionali come varianti della cucina italiana; come Dante promosse l’unificazione linguistica dalla molteplicità dei dialetti. “Insistiamo sulle diversità come se fossero più forti dell’unità”, del resto l’Economist nel servizio dedicato al nostro Risorgimento ha sostenuto che sull’unità hanno prevalso le diversità regionali; nel Regno Unito le tensioni regionali sono più forti “ma non mettono in discussione la loro identità nazionale, la Britishness”.

Come si colloca in tutto questo la nostra Costituzione? La Carta Costituzionale interviene come esempio di capacità di mettere insieme le prospettive diverse in un orizzonte comune, “è  la carta dello stare insieme”. In un storia unitaria così difficile, come ha detto Villari, “la Costituzione dovette essere centralista altrimenti non ci sarebbe stata per le forze centrifughe, aveva ragione Mazzini e non Gioberti”; la questione meridionale è dovuta anche a questo. I padri costituenti, politicamente divisi ma uniti dalla lotta comune pur se con prospettive diverse, “cercavano di capire la posizione dell’altro per trovare una sintesi, oggi si va nell’opposta direzione della delegittimazione reciproca”.

L’articolo 1 che fonda la Repubblica “sul lavoro” si deve all’insistenza di Mortati che volle legare la legittimazione all’attività lavorativa  e non allo status, vennero di conseguenza i Cavalierati del lavoro al posto dei titoli nobiliari aboliti dalla disposizione transitoria.

“Con l’articolo 7 non è stato costituzionalizzato il Concordato, ma si è istituzionalizzato il principio concordatario”, cioè i rapporti tra Stato e Chiesa regolati bilateralmente: per modificarli occorre una norma costituzionale, principio esteso alle altre confessioni dopo la revisione del 1984. L’iniziativa economica è riferita ai programmi nel senso di Einaudi e non a criteri di pianificazione.

Nella Costituzione, l’unità e indivisibilità della Repubblica viene sancita solennemente insieme a un regionalismo dotato di potere legislativo; il federalismo di Cattaneo non metteva in discussione l’italianità, nel 1848 nel Consiglio milanese tutti i provvedimenti furono presi in nome dell’Italia, e Amato ha citato “L’alfabeto italiano”, il volume da lui presentato. Al primo posto le libertà individuali, poi famiglia e scuola, quindi economia e infine politica e organizzazione dello Stato: la sequenza, basata su un’idea di Moro, fu adottata con un lavoro animato da  comprensione e condivisione spontanea pur nella guerra fredda e poco dopo l’esclusione dal governo della sinistra. “Se ignoriamo la forza della coesione e sopravvalutiamo le differenze – ha concluso Amato – siamo noi a creare un problema che  non c’è, essendo prevalente nel Paese il sentimento unitario”.

Stato e Chiesa, i due ordini sovrani che devono dialogare

Con Francesco Margiotta Broglio, docente all’Università di Firenze, sono si è entrati nei rapporti tra Stato e Chiesa come componente della vicenda postunitaria: iniziano dal conflitto con il Papa, che era sovrano temporale di uno Stato da debellare, e hanno trovato lo sbocco nella soluzione concordataria e poi nelle intese regionali su temi di interesse comune come i beni culturali. Dopo il 1848 si è accentuato il dissidio tra la Chiesa come società perfetta e lo Stato liberale che voleva acquisire competenze che fino ad allora le erano attribuite. Di qui una carrellata sulla separazione Stato-Chiesa e la  secolarizzare delle società religiose; il mantenimento del Concordato dopo la caduta del fascismo per non riaprire la questione romana, l’influenza della Chiesa attraverso il partito cattolico superiore per tanti versi al vecchio potere temporale, l’indebolimento del ruolo politico dopo la sconfitta nei referendum su divorzio e aborto, la fine dell’unità politica dei cattolici con la seconda Repubblica.

Scorrevano nelle sue parole i 150 anni dalla monarchia di Vittorio Emanuele II, da Cavour e Giolitti a Mussolini, poi a De Gasperi e al primo centrosinistra, fino ai tempi d’oggi con il bipolarismo destra-sinistra, il comunista D’Alema alla presidenza del Consiglio e l’italiano Prodi al vertice della Commissione europea. Dieci pontefici fino al primo papa non italiano dopo oltre quattro secoli, Giovanni Paolo II,  seguito da un altro papa straniero, Benedetto XVI, ancora non c’era Papa Francesco.

Nel corso di questa complessa vicenda storica si è posto il problema di armonizzare l’intero sistema di rapporti con i principi costituzionali: le relazioni tra i due ordini, Stato e Chiesa, autonomi e sovrani, sono disciplinate da regole conformi a tali principi, tra i quali la libertà nei riguardi della società civile. Dal Concordato con lo stato totalitario si è passati dopo il 1984  a forme di collaborazione anche a livello regionale per equilibri e interessi reciproci. Il dialogo ecumenico anche con le altre religioni e la missione pastorale hanno  sostituito i precedenti arroccamenti della Chiesa. La commemorazione comune dei caduti di entrambe le parti il 20 settembre 2010  a Porta Pia – che è il simbolo della fine del potere temporale – da parte delle autorità dello Stato e della  Chiesa, al livello di Segretario di Stato, è stato un momento molto significativo. Come lo era stata la rinuncia nel 1984 al carattere “sacro” di Roma, divenuto carattere ” particolare”; che di recente ha assunto altri aspetti con il riconoscimento di “Roma Capitale” sul piano istituzionale.

Dai temi più generali della Costituzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa – l’architettura dello Stato unitario – il Convegno è  entrato negli argomenti più specifici nell’ottica dell’Unità del Paese: la Pubblica amministrazione e le Forze armate, fino a La lingua fattore di unificazione: ne parleremo prossimamente. La mattinata si è conclusa sulla terrazza del Vittoriano con la vista mozzafiato dello skyline della Capitale, a coronare e stimolare la riflessione  per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Info

Il secondo e ultimo articolo sul Convegno al Vittoriano uscirà, in questo sito, il 28 giugno 2013, con il titolo “L’Unità nazionale nella diversità regionale: amministrazione, forze armate, lingua”.

Foto

L’immagine in apertura è stata ripresa da Romano Maria Levante al Vittoriano, parla il ministro Raffaele Fitto, al centro. 

Salgado, “Genesi” in 200 fotografie, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

All’Ara Pacis, la mostra fotografica “Genesis” espone 200 grandi fotografie di Sebastião Salgado dal 15 maggio al 15 settembre 2013, dove l’aggettivo “grandi” non si riferisce soltanto alla dimensione delle foto ingrandite quanto al loro valore storico ed artistico. Storico perché in esse si trova la storia della natura come creazione di ambienti dalla bellezza sconvolgente, la cui incalzante sequenza mostra un patrimonio di valore inestimabile che dobbiamo custodire e valorizzare; artistico perché i suoi bianco e nero raggiungono livelli pittorici di straordinaria qualità. Curata da Leila Wanick Salgado, realizzata da Amazonas Images, con Contrasto e Zètema, Catalogo Taschen.

La mostra di Salgado è situata nello spazio espositivo dell’Ara Pacis, che ha una propria autonomia rispetto al celebre monumento della romanità, in quanto si trova nell’ala posta al piano inferiore del vasto quanto contestato  contenitore dell’archistar Meyer, e si accede alla mostra senza passare per l’Ara. Ma non è possibile ignorarla, tanto è il suo fascino, e poi i fregi floreali che ne decorano un lato sono quanto mai in carattere con il trionfo della vegetazione fissato dall’obiettivo del fotografo. Vedere file di persone ammirare questi fregi floreali monumentali, magari dopo avere ammirato i fregi floreali naturali è stato uno spettacolo nello spettacolo; un coinvolgimento a vasto raggio, dalla natura all’arte che rimanda alla natura, nel tempo infinito della storia: dell’umanità come del creato.

Che questo sia suscitato da un fotografo può sorprendere solo se non se ne conosce la vita: lui si è immerso nella natura non solo per fotografarla, ma per farla rivivere, valorizzarla e farla rispettare.

Salgado fa rivivere la natura, non si limita a fotografarla

Una breve nota biografica perché chi non lo conosce possa inquadrarne l’opera nella vita. Sebastião Salgado, nato in Brasile nel 1944, nello stato di Minas Gerais, poi trasferito nel 1960 a Vitoria, sposa nel 1967 Léila Deluiz Wanick, con la quale si trasferisce a Parigi, quindi a Londra dove lavora come economista all’Organizzazione internazionale del caffè. Torna a Parigi e diventa fotografo professionista, compie reportage di denuncia, come quelli sui diritti dei lavoratori, sulla miseria e i danni provocati dall’economia di mercato nei paesi sottosviluppati; un celebre reportage denuncia le condizioni inumane dei lavoratori nella miniera d’oro brasiliana della Serra Pelada, l’immagine con migliaia di nuovi schiavi su scale a pioli carichi di sacchi di fango ricorda le Piramidi egizie.

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Poi cambia tutto: nel 1994, a 50 anni, fonda, con Léila, una propria agenzia, Amazonas images, avente una matrice ben precisa. Dall’inizio degli anni ’90. infatti, viveva con Léila un’esperienza unica, che ne ha cambiato la vita e la professione. La grandissima fazenda dove è nato, prima coperta da foreste al 50%, la eredita con sette sorelle arida e incolta, solo lo 0,5% è vegetazione. E allora la moglie lo incoraggia ad intraprendere un progetto titanico, riforestare e ripristinare la flora originaria, ponendo a dimora centinaia di specie vegetali e piante in una fascia forestale atlantica, si sarebbero dovuti impiantare milioni di alberi. Chiede e ottiene aiuti da ogni parte del mondo, e si verifica un fenomeno naturale che lo ha conquistato definitivamente: la foresta rinasceva, si moltiplicavano le piante, diventavano migliaia, poi centinaia di migliaia, milioni. E con la flora tornava la fauna, un paradiso perduto rifioriva sotto i suoi occhi. Ne è nata una riserva naturale.

A questo punto, racconta lui stesso, ha sentito un’attrazione fortissima per le bellezze della natura, ha smesso di fare servizi fotografici di denuncia sugli sfruttamenti e sugli attentati a queste bellezze e ha girato il mondo alla loro ricerca. Viaggia per oltre cento paesi, dall’America all’Africa, dall’Artide all’Antardide, e realizza reportage fotografici di elevato valore: documentario e artistico

Nel 1998 con Leila ha fondato nello stato natio di Minas Gerais l’Instituto Terra, per riforestare e conservare l’ambiente: è stata restituita alla foresta equatoriale una vasta area, impiantati milioni di nuovi alberi, la natura è rifiorita, l’Istituto è diventato un’impresa e un quotato centro culturale.

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 Molti sono i libri fotografici prodotti con questa instancabile attività: citiamo, nel 1986, Othern Americas e Sahel: l’homme en détresse, il primo sugli  indios e i contadini dell’America Latina, l’altro sulla carestia in Africa alla metà degli anni Ottanta; seguirà Sahel: el fin del camino nel 1988.  Con  La Mano dell’uomo nel 1993-94  documenta la fine della manodopera industriale su larga scala. Dopo Terra del 1997,  con “In cammino” e “Ritratti di bambini”, nel 2000, le grandi migrazioni di poveri, rifugiati politici, e di immigrati nelle megalopoli del Terzo mondo.

L’uscita dei suoi libri è stata accompagnata da mostre fotografiche itineranti, per i due ultimi citati anche a Roma, alle Scuderie del Quirinale, e a Milano, all’Arengario di Palazzo Reale. Il libro più recente prima di “Genesi” è stato “Africa” nel 2007. L’attuale mostra, il cui progetto risale al 2004, dopo nove anni viene presentata in contemporanea a Londra, Rio de Janeiro, Toronto oltre che a Roma, dopo andrà a Parigi e in altre città francesi, negli Stati Uniti e in Svezia:  anch’essa ha dato luogo al libro monumentale, dello stesso titolo dell’esposizione.

Sono arrivati i premi e le onorificenze: è  stato nominato Goodwill Ambassador dell’Unicef e membro onorario dell’Accademia di Arti e Scienze degli Stati Uniti.

La sua tecnica fotografica è tradizionale, pellicola in bianco e nero e una normale macchina da 35 millimetri, preferibilmente Leica per la qualità degli obiettivi, portatile e non ingombrante. Resta un’immagine nitida nei dettagli con gli ingrandimenti per la perfezione della ripresa;  nella stampa usa accorgimenti per evitare contrasti troppo netti e ombre eccessive, dati gli ambienti delle riprese.

Il progetto “Genesi”, “un tributo visivo a un pianeta fragile”

E’ in carattere con la storia del protagonista la finalità del progetto “Genesi” dal quale nasce la mostra e il monumentale libro fotografico: “Lo scopo di questo progetto – ha detto lo stesso Salgado – è di ricongiungerci con il mondo com’era prima che l’uomo lo modificasse fino quasi a sfigurarlo”. Un accenno, questo, all’esigenza di difendere il pianeta con iniziative eco sostenibili e rispettando la natura per raggiungere una nuova armonia, ma senza i luoghi comuni dell’ambientalismo meno avveduto, lui stesso auspica un risveglio del vero ambientalismo.

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Non c’è tanto volontà di denuncia quanto di contemplazione, non c’è voglia di contestazione bensì di conoscenza, la natura vista come risorsa da proteggere ma soprattutto bellezza da ammirare, e maestra di vita: “Con massimo rispetto mi sono avvicinato alle altre specie, animali, vegetali, minerali – dice ancora – e ho compreso che tutto ciò che esiste di utile, di importante, di essenziale nel nostro mondo, esisteva già in un tempo anche lontano. Nelle società così dette primitive esisteva già un’idea di solidarietà, di società, di amore. Esisteva l’assistenza, le medicine, perfino gli antibiotici e gli antinfiammatori. Noi non abbiamo fatto altro che sistematizzare”. Per concludere: “In fondo, noi facciamo parte del pianeta, e non siamo che una parte della natura e dovremmo cercare di non andare così veloci come invece facciamo. Forse, qualche passo indietro ci permetterebbe di comprendere che anche noi facciamo parte di un tutto”: da rispettare e tutelare.

La curatrice, Lélia Wanick Salgado – la sua fedele compagna di vita, un vero “alter ego” – ha dato questa definizione: “Genesiè la ricerca del mondo delle origini, come ha preso forma, si è evoluto, è esistito per millenni prima che la vita moderna accelerasse i propri ritmi e iniziasse ad allontanarci dall’essenza della nostra natura”; titolo è lo stesso delle forme primordiali dello scultore De Redia, che in occasione della mostra al Palazzo Esposizioni furono esposte al Foro romano e al Colosseo.

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Di Leila una sintesi quanto mai efficace della mostra: “È un viaggio attraverso paesaggi terrestri e marini, alla scoperta di popolazioni e animali scampati all’abbraccio del mondo contemporaneo. La prova che il nostro pianeta include tuttora vaste regioni remote, dove la natura regna nel silenzio della sua magnificenza immacolata; autentiche meraviglie nei Poli, nelle foreste pluviali tropicali, nella vastità delle savane e dei deserti roventi, tra montagne coperte dai ghiacciai e nelle isole solitarie. Regioni troppo fredde o aride per qualsiasi cosa salvo per le forme di vita più resistenti, aree che ospitano specie animali e antiche tribù la cui sopravvivenza si fonda proprio sull’isolamento”. Tale precisazione consente di dare il giusto significato agli aborigeni che vivono in condizioni primordiali ma possono farlo proprio perché non raggiunti dalla nostra civiltà che ha omologato usi e costumi e modi di vita.

Infine la sua interpretazione autentica: “Fotografie, quelle di ‘Genesi’, che aspirano a rivelare tale incanto; un tributo visivo a un pianeta fragile che tutti abbiamo il dovere di proteggere”.

E’ un riferimento ambientalista necessario, che non sposta lo spirito della mostra – intende essere, appunto, un “tributo visivo” alla bellezza della natura – ma l’appello a difenderla è conseguente. Lo ha raccolto l’Assessore alla cultura di Roma Capitale, che ha dato il patrocinio alla mostra, affermando che l’opera di Salgado è “non solo un lavoro artistico ma qualcosa che va oltre, superando la proposta documentaria e autoriale, per approdare a una più ampia visione filosofica e farsi addirittura campagna, monumentale stimolo di riflessione e monito da diffondere nel mondo”. A questo fine – ha aggiunto – “Roma si propone come punto di partenza, promotore e diffusore di un messaggio internazionale, che nella tradizionale ‘apertura’ della Capitale come primo punto della sua stessa cultura, trova il giusto teatro e la più larga eco”, definendo la mostra e i rapporti con Salgado “non un evento spot, ma un vero e proprio legame”.

La magia in bianco e nero della galleria fotografica

Le 200 fotografie esposte  documentano l’incomparabile patrimonio naturale di cui siamo depositari e che dobbiamo proteggere e valorizzare. Ci sono voluti otto anni di lavoro per trenta reportage nelle zone più estreme del pianeta, documentati nelle splendide immagini in bianco e nero. Abbiamo ripensato alla “magia verde” di Folco Quilici, il colore della natura sembrerebbe l’ingrediente essenziale per renderne il fascino in modo spettacolare, Salgado ci rinuncia, il suo è un bianco e nero intenso che diventa pittorico nei pur tenui e controllati contrasti di luce e di forme.

Si snoda nelle sale espositive dell’Ara Pacis in 5 sezioni, che corrispondono alle aree geografiche dove le immagini sono state riprese. Le fotografie sono collocate alle pareti su fondali di colori diversi, sempre pastello, a seconda della sezione: vediamo Il Pianeta Sud e I Santuari della Natura, l’Africa e Il grande Nord, l’Amazzonia e il Pantanàl.

Il “Pianeta Sud” comprende l’Argentina e l’Antartico con le sue isole;  i “Santuari del Pianeta” sono isole ricche di biodiversità, come il Madagascar, la Nuova Guinea; l'”Africa” fa storia a sé, sul suo fondale lilla; “Il grande Nord” comprende le regioni artiche e anche il Colorado; fino alla sezione sull'”Amazzonia” brasiliana e venezuelana, e il Pantanal con una fauna tutta speciale.

  Si va, dunque, dai ghiacciai dell’Antartide alle foreste tropicali dell’Amazzonia e del Congo, dall’Indonesia e Nuova Guinea ai deserti africani, dal gelo dell’Alaska alle catene montuose dell’America, del Cile e della Siberia: motivo comune la ricerca della bellezza della natura nelle aree incontaminate, in cui i tre soggetti – natura,  animali e uomo – vivono in perfetta armonia.

In tutte le sezioni troviamo grandiose scene paesaggistiche, è l’ambiente incontaminato dove le varie componenti sono in equilibrio. L’ambiente si anima con fenomeni naturali o con i suoi abitanti, soprattutto animali ripresi nel loro habitat, ma anche esseri umani nella loro espressione primordiale, che ci piace chiamare primigenia.

Tra gli ambienti che ci presenta le isole Galapagos, rivelatrici per Darwin, Salgado vi trova tartarughe giganti, iguana e leoni marini, poi vediamo le zebre e gli altri animali selvatici che migrano attraversando il Kenya e la Tanzania. Ecco le  tribù native: i Yanomami e i Cayapó dell’Amazzonia brasiliana; i Pigmei delle foreste equatoriali del Congo e i Boscimani del deserto del Kalahari in Sudafrica; le tribù Himba del deserto della Nabibia e quelle della  Nuova Guinea.,

Per realizzare immagini così naturali e ravvicinate, in grado di esprimere l’armonioso convivere con l’ambiente,  Salgado ha vissuto per dei  mesi con le popolazioni  indigene  delle diverse aree. E’ stata come una missione, alla scoperta delle bellezze nascoste e dell’umanità che vi alberga: il risultato è una galleria di ritratti straordinari, con inquadrature dall’ispirazione poetica.

 Tale galleria l’hanno definita “una grande antropologia planetaria”, con “un grido di allarme per il nostro pianeta”; a noi piace considerarla un inno alla  natura e alla sua bellezza. L’intento dell’autore è eloquente: “Personalmente vedo questo progetto come un percorso potenziale verso la riscoperta del ruolo  dell’uomo in natura. L’ho chiamato ‘Genesi’perché, per quanto possibile, desidero tornare alle origini del pianeta: all’aria, all’acqua e al fuoco da cui è scaturita la vita; alle specie animali che hanno resistito all’addomesticamento; alle remote tribù dagli stili di vita cosiddetti primitivi e ancora incontaminati; agli esempi esistenti di forme primigenie di insediamenti e organizzazione umane”. Da questa ricognizione appassionata una visione serena: “Nonostante tutti i danni già causati all’ambiente, in queste zone si può ancora trovare un mondo di purezza, perfino d’innocenza. Con il mio lavoro intendo testimoniare com’era la natura senza uomini e donne, e come l’umanità e la natura per lungo tempo siano coesistite in quello che oggi definiamo equilibrio ambientale”.

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Una carrellata di immagini coinvolgenti

E’ il momento di citare a memoria una serie di luoghi e di immagini che ci hanno particolarmente colpito, cominciando dal “Pianeta Sud”. Come non restare ammirati dinanzi alla foto degli elefanti marini della baia di Saint Andrews, nella Georgia del Sud, uno dei quali in primissimo piano sfoggia un bel sorriso? E davanti alle numerose immagini che riprendono i pinguini nell’Antartide, in lunghe file che si stagliano oppure in vastissime adunate? Poi la balena australe, sempre nell’Antartide, ed altri elefanti marini, questa volta senza la star di Saint Andrews, non manca la foca e l’otaria. L’ambiente è altrettanto spettacolare, ghiacciai e iceberg, monti e distese  sconfinate.

Le Galapagos ci riportano a Darwin che sulle diversità delle specie individuate e selezionate nel territorio fondò la sua celebre teoria: vediamo leoni marini e una tartaruga gigante in primo piano, l’etichetta precisa che è lunga un metro e mezzo, pesa 250 chili e vive 150 anni: numeri da record.

Nei “Santuari della natura” troviamo una fitta vegetazione di alghe e altre piante, in zone popolate da albatros e gabbiani, mentre nelle acque ci sono ancora leoni marini; compare in primo piano l’iguana, con la sua lunga zampa rugosa; svettano gli agili fenicotteri.

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Cominciamo a fare la conoscenza delle popolazioni aborigene di cui abbiamo parlato: sono uomini Yali  e Korowai, colpisce la fierezza del loro portamento nell’aspetto primitivo.

Ancora avanti, i baobab del Madagascar e gli uccelli acquatici del Mato Grosso, un’area che ha dato  a Salgado molti soggetti, ambientali e umani con le sue tribù primitive. Vediamo la “Trace dance” dei Boscimani, le bellissime donne indigene, poi la popolazione Zo’e del Venezuela cui sono dedicate immagini incredibili dei volti con i dischi labiali, il labbro inferiore trafitto da un’applicazione che accompagna e tormenta la crescita, una pratica primordiale sconvolgente.

L'”Africa” si presenta con un vulcano dell’Uganda poi con il primo piano di un gorilla, del Sudan del Sud molte immagini, così delle tribù rimaste isolate con i loro costumi primitivi, alcuni ritratti colpiscono per la forza espressiva dei soggetti fotografati. Anche il Congo è ben presente.

Dal grande caldo al grande freddo degli “Spazi del nord”, c’è molta Russia ma anche l’America del Gran Canyon del Colorado e una spettacolare visione dell’Utah, perfino la ben nota Monument Valley . Vediamo le canne d’organo di basalto e le tribù Yali, con il gonnellino per la donna e l’astuccio penico per il maschio.

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Infine l'”Amazzonia e Pantanal”, lo spettacolo della natura è teatrale, si moltiplicano le immagini pittoriche, c’è dovizia di documentazione artistica anche per la fauna e gli aborigeni.

La galleria umana è particolarmente ricca, ci restano impressi i dischi labiali delle donne Mursi e i tanti ritratti di indigeni non deformati da questa pratica primordiale, ma ci piace concludere questa rassegna basata sul ricordo con la festa di presentazione delle donne, una bellissima immagine.

Nella mostra c’è anche un video con il film “Sebastião Salgado. Fotografie”, reca le immagini di alcuni dei principali lavori realizzati prima di Genesi. Le fotografie del film sono tratte dai progetti confluiti nei libri prima citati, la musica è di Henyk Górocki, Sinfonia n.3, del 1976.

Possiamo dire che non manca nulla per godere della magia in bianco e nero di un grande artista della fotografia. Salgado ci dà una natura che non sapevamo di avere e alla quale non possiamo non appassionarci: per ammirarla e soprattutto difenderla.

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Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Da martedì a domenica ore 9.00-19.00, chiuso il lunedì (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso,  solo mostra, intero euro 10,00, ridotto 8, speciale scuola 4. Biglietto integrato museo/mostra, intero euro 16, ridotto 12, gratuito per speciali categorie. Tel. 0600608, www.arapacis.it, www.museiincomuneroma.it Catalogo monumentale: “Genesi”, Taschen Editore, 2013; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per i citati  Darwin e De Redia, cfr. i nostri servizi sulle loro mostre al Palazzo Esposizioni in “cultura.abruzzoworld.com” del 2009, per Darwin  il  28 aprile, per De Redia il 10 agosto.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia Contrasto e Zétema con i titolari dei diritti, in particolare l’autore Salgado, per l’opportunità offerta. Sono state scelte delle immagini per ciascuno dei tre soggetti del “trittico”, descrittomnjel testo, animali, natura,  uomo.