Arte salvata, la mostra nel 150° dell’Unità d’Italia, a Castel Sant’Angelo

di Romano Maria Levante

Per presentare la nuova mostra in corso a Castel Sant’Angelo dal 21 maggio al 5 novembre 2013, “Capolavori dell’archeologia. Recuperi, ritrovamenti, confronti” sui tesori salvati dalle forze dell’ordine, ci sembra interessante ricordare quella che nel 2011 ha celebrato il 150° dell’Unità d’Italia sotto il profilo artistico. Organizzata, come la mostra attuale e altre del passato sul tema, dal Centro Europeo per il Turismo, si è svolta nella stessa sede prestigiosa dal 20 aprile all’11 settembre 2011 con il titolo “Arte forza dell’Unità. Unità forza dell’Arte”, per sottolineare il cemento unitario dato al Paese dalle opere d’arte e la salvaguardia assicurata dall’impegno comune. Le opere, di grande valore artistico, hanno dato la misura della forza dell’arte coniugata all’unità.

Luca Signorelli, “Flagellazione”, XV-XVI sec., salvata da P. Rotondi

Analogamente alle altre mostre organizzate a Castel Sant’Angelo dal Centro Europeo per il Turismo – ricordiamo quella del 2009 sui “Tesori invisibili” – anche questa ha unito all’aspetto celebrativo un forte contenuto didattico; ci ha fatto ricordare e in qualche caso apprendere ciò di cui si parla poco, forse perché “il bene non fa notizia”, come scriveva Aldo Moro nell’ultimo editoriale su “Il Giorno”. Il bene è la salvaguardia, un lavoro oscuro e silenzioso, ma quanto mai efficace, spesso risolutivo. Ebbe a dire il  Segretario generale dell’Onu Kofi Annan nel 1999, riferendosi alla prevenzione, che “i benefici non sono visibili, essi sono i disastri che NON sono avvenuti”. Nel caso delle opere d’arte si tratta delle due linee di salvaguardia, quella dalle distruzioni e dalle spoliazioni della guerra e quella dai trafugamenti operati dalla criminalità; poi la terza, la tutela mediante il restauro che recupera l’opera impedendone il deterioramento.

A queste tre forme di salvaguardia erano dedicate le tre sezioni della mostra, ognuna ricca di opere di valore a testimonianza dei risultati tangibili del lavoro compiuto in modo spesso oscuro ma con successi che, come si vede, possono essere eclatanti. E siamo lieti che il bene possa fare notizia!

La salvaguardia dagli eventi bellici

“Uno Schlindler tutto italiano – esordì l’allora  sottosegretario ai Beni culturali Francesco Maria Giro nel presentare la mostra –  Così può essere definita la figura di Pasquale Rotondi, soprintendente della regione Marche il quale, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, ebbe il merito di preservare dalla distruzione e dal saccheggio più di 10.000 opere d’arte”.  Salvatore Giannella lo ha definito “salvatore dell’arte e dell’anima dell’Italia”, ed è stato giusto celebrarlo nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia.

Nominato soprintendente della Galleria delle Marche di Urbino il 1° ottobre 1939, scelse la Rocca di Sassocorvaro come deposito per custodire quella che definì  “la più grande concentrazione di opere d’arte mai messe insieme nella storia dell’umanità”,  5180 opere dai musei delle Marche,  1307 da Venezia, altre da Lagosta; nell’aprile 1943 aprì un nuovo deposito a Palazzo Carpegna per centinaia di opere da Venezia, da Roma e dal Lazio.

Non si trattò di un lavoro semplice considerando che c’erano anche molte opere di Raffaello e Piero della Francesca, Carpaccio e Giorgione, Bellini, Mantegna e Paolo Uccello, per citare i più celebri, che facevano gola agli occupanti e sarebbero andate irrimediabilmente perdute senza la sua azione efficace e coraggiosa; è rimasto il suo Diario”  a cui diede il titolo “Opere d’arte nella tempesta della guerra”, che descrive le  vicende romanzesche nel libro sulla sua storia “L’Arca dell’Arte”.

Hans Memling, “Ritratto d’uomo con lettera“, 1475-80, salvata da R. Siviero,

L’attività di salvataggio a Genova vede impegnato il soprintendente Antonio Morassi, in un’azione instancabile per individuare nuovi depositi in aggiunta a quelli insufficienti e in sostituzione di quelli inutilizzabili perché colpiti dai bombardamenti, come Palazzo Bianco; azione resa difficile anche per le resistenze  delle grandi famiglie a far portare via dai loro palazzi per metterle al sicuro le opere d’arte che vi erano contenute. Di tutto questo sono rimaste le lettere di Morassi al soprintendente del Piemonte, al Podestà di Genova e ad altre autorità, e le sue annotazioni nel cosiddetto “giornale degli sgomberi”: le opere “sfollate” venivano trasferite con automezzi e motobarconi anche nell’Isola Bella sul Lago Maggiore fino alla sospirata collocazione in luoghi relativamente sicuri. Per quest’ultimo salvataggio ci furono accordi di Morassi con i soprintendenti di Torino Aru e di Milano Pacchioni, sicché l’isola servì da ricovero per le opere delle  tre regioni.

Il soprintendente alle gallerie della Lombardia Guglielmo Pacchioni  fu tra coloro che si impegnarono maggiormente  nella conservazione delle opere, cominciando dai rifugi sotterranei milanesi, in particolare sotto il Castello Sforzesco e nel caveau della Cassa di Risparmio delle Province Lombarde; poi trasferendo in Umbria  una serie di capolavori di Raffaello e Piero della Francesca, Caravaggio e Gentile da Fabriano, Bramante e Mantegna, Bellini e Canaletto, tra i più famosi; e anche in ville isolate lontane da rischi bellici come Villa Fenaroli a Seniga d’Oglio.

Tra i soprintendenti citati – Morassi per Genova, Pacchioni per Milano, Rotondi per le Marche – più Sorrentino per Bologna, vi furono accordi volti a costituire una sorta di rete di depositi e rifugi per le opere d’arte, anche di grandi dimensioni, come la pala di San Bartolomeo del Lotto trasferita da Bergamo ad Arona e il Polittico Averoldi di Tiziano all’Isola Bella. La rimozione delle principali opere d’arte dai musei e dalle chiese lombarde fu ultimata nel giugno 1943, appena in tempo perché i bombardamenti di agosto colpirono  musei e chiese della regione distruggendone gran parte.

Altri nomi vanno additati alla riconoscenza nazionale per l’opera di salvataggio compiuta con spirito di abnegazione. Noemi Gabrielli, che operò tra la Liguria e il Piemonte, regioni in una prima fase con un soprintendente unico; Emilio Lavagnino che, pur non avendo incarichi ufficiali, fu determinante per il trasferimento di molte opere d’arte in Vaticano neutralizzando i tedeschi; Palma Bucarelli la quale capì come il rischio mortale per le opere d’arte si fosse aggravato dopo l’armistizio dell’8 settembre che poteva esporle al saccheggio dei tedeschi e si prodigò a Roma per scongiurarlo;  Bruno Molajoli, soprintendente a Napoli che riuscì a trasferire imballate 60.000 opere da una città tra le più colpite dai bombardamenti  che la distrussero per il 40%.

Armando Spadini, “La colazione”, 1911, salvata da P. Bucarelli

Dove l’azione dei soprintendenti non è riuscita ad evitare l’asportazione delle opere è intervenuta l’attività di recupero che ha avuto come ideatore e protagonista Rodolfo Siviero, un ufficiale del Servizio informazioni militari dell’esercito alla cui ispirazione di appassionato d’arte si deve la creazione nel 1943 dell’Ufficio per il recupero delle opere d’arte che alla fine del 1944 fu inquadrato nelle Forze armate italiane in fase di ricostituzione. In effetti, già con un’attenta raccolta di informazioni sugli spostamenti delle opere d’arte e sulle intenzioni dei tedeschi, Siviero riusciva a compiere salvataggi preventivi nascondendo le opere prima che fossero prelevate.

Le temute SS avevano costituito un ufficio alle dipendenze di Himmler che con il pretesto della “protezione” trasferiva al Nord Italia le opere per poi portarle in Germania. Ma l’attività informativa svolta anche attraverso l’intercettazione di messaggi, consentì di avere una mappa completa delle opere trasferite, e Siviero ottenne l’unica modifica al Trattato di pace con la sola forma di riparazione da parte della Germania: la restituzione di molte opere sottratte, avvenuta tra il 1947 e il 1953 alla missione italiana capeggiata da Siviero, e la loro attribuzione allo Stato italiano.

La sottrazione delle opere d’arte da parte degli eserciti stranieri non è nata di certo nella seconda guerra mondiale, non si possono dimenticare le razzie napoleoniche e, per restare nel  periodo delle celebrazioni del 150°, quelle degli austriaci nella Grande guerra e anche prima. Il recupero di queste ultime fu dovuto all’azione sagace ed energica di Roberto Segre, generale dell’esercito che guidò la missione  militare italiana a Vienna per il rispetto delle clausole dell’armistizio del 4 novembre 1918; le trattative svoltesi dal gennaio 1919, oltre alla restituzione dei prigionieri riguardarono il recupero delle opere d’arte: Segre fece un accurato inventario di tutte le opere portate via dagli austriaci e chiese con molta energia la restituzione integrale di quelle comprese nel suo lungo elenco, superando le resistenze dell’Austria sconfitta con la sua incrollabile determinazione.

Le opere esposte sono un campionario significativo dello sterminato patrimonio artistico recuperato.  Vediamo tra le altre la statua di Artemide tipo Versailles del II secolo dopo Cristo, mutila ma di notevole fascino e il marmo con San Giovannino di Gregorio Di Lorenzo, la terracotta smaltata e il marmo scolpito di due  Madonne col Bambino di Lorenzo Buglioli e di un anonimo scultore toscano, una Testa di Madonna in pietra e  una Croce reliquario di Bottega napoletana, un  Cofanetto nuziale in osso scolpito e  oggetti ornamentali della necropoli di Campo Consolino.

Il campionario di pitture presenta grandi nomi: lo spettacolare ovale di Tiepolo con il Trasporto della Santa Casa di Nazareth a Loreto e  Luca Signorelli con Flagellazione, Federico Barocci con San Girolamoe Berardo Cavallino con Santa Cecilia in estasi. Poi ecco due Ritratti femminili, uno di Bernardino Licinio, l’altro già attribuito a Raffaello, le ricche composizioni Betsabea al bagno di Jacopo Zucchi e il  Giudizio Universale di Palma il Giovane. Fino a tre dipinti accomunati dalla tecnica dello “sfuocato”nei contorni, come un “non finito”: “Una processione a Ponte Sant’Angelo” di Federico Faruffini, “Lo studio” di Antonio Mancini e “La colazione” di Armando Spadini, con effetti impressionistici.

Giovanni Boldini, “Il pianto (Ritratto di giovane donna)”, 2011, recuperata dai Carabinieri del Nucleo T.P.C.

Il recupero delle forze dell’ordine

L’altro fronte contro il nemico del patrimonio artistico è quello del trafugamento da parte della criminalità. Il contrasto delle forze dell’ordine, Carabinieri, Polizia e Guardia di Finanza, ottiene risultati spettacolari con il ritrovamento delle opere trafugate anche all’estero e la consegna alla giustizia degli autori dei furti. E’ un fenomeno di vasta portata, se si pensa al colpo avvenuto negli scorsi anni a Parigi con l’asportazione di parecchie importanti opere; che va indietro nel tempo, se pensiamo alla spoliazione delle tombe egizie, oltre alle normali necropoli; nei tempi moderni basta rifarsi al trafugamento della “Gioconda”, poi recuperata come molte delle opere sottratte.

Se n’è parlato in occasione di precedenti mostre a Castel Sant’Angelo dedicate proprio ai ritrovamenti, con l’esposizione del celeberrimo Vaso di Eufronio e anche della  ceramica con la “Madonna di Pompei”  trafugata a Castelli e ritrovata dopo molti anni allorché una vecchietta del paese che guardava in televisione un servizio sulle aste di Christie’s, la riconobbe, così si misero in moto i Carabinieri e riuscirono ad ottenerne la restituzione; e quando si sono avuti importanti ritrovamenti da parte del Nucleo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale, come i due paesaggi romani di Van Wittel e tante altre opere d’arte e reperti archeologici, successi documentati dalla relazione annuale sull’attività del nucleo suddetto.

E’ un’attività preventiva e repressiva, d’investigazione e di intervento diretto, di azione poliziesca e diplomatica, che s’innesca con la segnalazione dell’opera da chi l’ha scoperta: allora inizia il delicato lavoro del recupero presso gli effettivi possessori che cercano di resistere a oltranza.

Le opere esposte erano state selezionati nel repertorio vastissimo dei ritrovamenti in una sequenza che inizia con la “Statua di Giove”, del I secolo dopo Cristo in due versioni: in marmo dal torso nudo acefalo e il mantello dal morbido panneggio; in bronzo, ben conservata a parte la mutilazione del braccio destro e della mano; poi la “Statua della Fortuna”,  un tronco acefalo e mutilo.  Chiudevano la serie  due “Crocifissi” , uno del XII secolo in  stile arcaico, l’altro del XVI-XIX.

La pittura è sempre la regina delle arti: nelle opere esposte spiccavano tre “Madonne con Bambino”su tavola, due a tempera di Giovan Battista Cima e Jacopo Spinolotto, una a olio alla maniera di Giovanni Bellini. E tre trittici,  due su tavola, uno di pittore di scuola centro-meridionale  con l’icona della maternità nel pannello centrale del tabernacolo, e nei due sportelli laterali immagini della Crocifissione e di sette santi; l’altro, del Borgognone, con tre  imponenti figure di sante. Il terzo trittico, a olio,  di un allievo del Maratta, forse Chiari, era stato smembrato dai trafugatori  per commerciarlo più facilmente, in tre dipinti esposti affiancati, la Madonna con Bambino al centro, quattro santi nelle due parti laterali.  

Altri temi religiosi in opere dalle prestigiose attribuzioni:  “Cena in Emmaus” alla scuola di Dirk Von Baburen, “Noli me tangere”  a Pietro da Cortona, e “San Sebastiano curato dalle pie donne” a Francesco Rustici.  Concludiamo questa rassegna con dei temi profani:  “Atteone scopre Diana” di Ippolito Scarsella, dalla Collezione del Castello di Lanciano, e due raffigurazioni a mezzo busto, “Ritratto di Innocenzo IX” della bottega di Giovanni Maria Moranti e “Il pianto (Ritratto di giovane donna)” di Giovanni Boldini, un’immagine luminosa.

Erano esposti anche altri recuperi: la “Bandiera  di guerra” della Brigata “Calabria”  e cinque puntali in bronzo dorato, un prezioso Calice e una caratteristica scultura di Botero, “Gatto”.

Ogni opera era illustrata da un cartellino con indicata la forza dell’ordine che l’aveva recuperata, ne abbiamo contato 13 dei  Carabinieri, 7 della Guardia di Finanza, 3 della Polizia di Stato.

Guercino, “San Francesco riceve le stimmate”, 1633, recuperata dai Carabinieri del Nucleo T.P.C., restaurata dell’ISCR

La salvaguardia con il restauro

La sezione dedicata alla salvaguardia attraverso il restauro illustrava quest’attività meritoria svolta, insieme all’Opificio delle pietre dure fiorentino, dall’Istituto Superiore  per la Conservazione e il Restauro  fondato nel 1939 su progetto di Giulio Carlo Argan  e Cesare Brandi per dare basi scientifiche e metodologie unificate agli interventi conservativi sulle opere d’arte.

Carlo Emilio Gadda nel 1942 parlò di “chirurgia dei quadri”, una chirurgia conservativa senza interventi “ricostruttivi” e tanto meno le “addizioni” che invece furono la regola nei metodi di altre epoche, come si è visto nella mostra della Fondazione Roma su “Roma antica nella visione del ‘700”. L’attività formativa svolta nell’Istituto garantisce elevati livelli di qualificazione e rigoroso rispetto delle metodiche.

Per sottolineare l’importanza di quest’attività erano esposte soprattutto opere restaurate nell’ambito della didattica, evidenziando la versatilità oltre all’alta professionalità degli interventi su materiali molto diversi, illustrati anche nelle diverse fasi e nel confronto prima e dopo la “cura”.

Si andava dalla “ceramica archeologica figurata”  del “Cratere attico a figure nere” del 530  a. C. al vetro istoriato del  “Contenitore in vetro con decorazioni applicate serpentiformi” del III secolo d. C.; dal marmo bianco della scultura, seconda metà dell’‘800,  di Giuseppe Lazzerini, “Allegoria della Morte” allegno scolpito di due  “Madonne con Bambino” del XIV secolo, da quello istoriato di “Lanzichenecco che brinda”, XVI-XVII secolo, a quello inciso e punzonato del “Cassone nuziale” del XV secolo, dall’acciaio forgiato e laccato dell’“Elmo Suji Bachi Kabuto”, stessa epoca, al bronzo della scultura “Acquamanile con cavallo e cavaliere” del XIII secolo; dal cuoio  della “Portiera in cuoio dorato e dipinto” del XVI secolo a quello  conciato al vegetale dei “Sandali pontificali” del XIII. Tra tante opere anonime la  terracotta  invetriata del XV secolo, “Testa di giovinetto”,  spiccava per il suo  autore, nientemeno che Luca della Robbia,  e per la splendida fattura, dalla fisionomia realistica all’intensa caratterizzazione psicologica.

L’excursus sui materiali riconduce alle chiese con la terracotta smaltata della “Figura di angelo genuflesso”, inizi XVI secolo, e  le lamine d’argento decorate a motivi vegetali e araldici della “Stauroteca in argento dorato e cristallo di rocca”, XIII-XIV secolo;, il prezioso taffetas laminato-broccato della “Pianeta”  e  ricamato con seta delle “Mitrie”, tutti del XVIII secolo, fino alla maglia rasata delle  “Coppie di guanti”  del XVI-XVIII secolo.

Materiali preziosi come argento e oro, coralli e perle si trovavano insieme a legno e vetro, cristallo di rocca e tessuto di seta nel “Reliquario della testa di San Giovanni Battista”, fine XIV sec., alto quasi un metro e mezzo e largo 50 cm, una reliquia con corone, teche e un reliquario con pilastri e statuine, archetti e piccole cariatidi, nicchie e smalti con le storie del santo; un restauro didattico che è stato un cesello.  Ben diverso il legno intagliato e dipinto insieme al tessuto degli abiti di 5 statuette di 30-50 cm del “Presepio” di Imperia, della bottega di Anton Maria Maragliano .

Il loro effetto pittorico introduce ai due dipinti che chiudono questa carrellata:  la tempera su tavola fondo oro  “San Jacopo Maggiore in trono” di Lorenzo Monaco, XIV secolo , e l’olio su tela  “San Francesco riceve le stimmate”, del 1633, spettacolare nelle sue dimensioni, circa metri  2, 60  per 1,80  e nell’intensità del santo in ginocchio a braccia aperte  verso un cielo corrusco, a terra un frate dormiente e un libro aperto, il “Cantico delle Creature”.

Ci è sembrata la più bella immagine di chiusura di una cavalcata nell’arte recuperata, salvata e restaurata che la bella mostra di Castel Sant’Angelo ci ha offerto nel 150° dell’Unità d’Italia.  E anche la migliore premessa per la visita – e, da parte nostra, per il commento che faremo prossimamente – alla mostra nella stessa sede fino a novembre sui “Capolavori dell’archeologia”.  

Info

Catalogo: “Arte forza dell’Unità. Unità forza dell’Arte”, con il sottotitolo “Gesta e opere dei grandi salvatori dell’arte raccontati in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia”, De Luca Editori d’arte, 2011, pp. 224, formato 24×28, euro 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per la  mostre citate nel testo cfr. i nostri servizi:  in “cultura.abruzzoworld.com”  per la mostra del 2009 a Castel Sant’Angelo “I tesori invisibili” dello stesso Centro Europeo per il Turismo,il  10 luglio 2009; in “notizie.antika.it” per la mostra “Roma e l’antico. Arte e visione nel ‘700”  della Fondazione Roma il 3,4,5 marzo 2011, sito nel quale ci sono anche i nostri servizi sui recuperi delle forze dell’ordine, in particolare del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, il 12, 15 febbraio e 9 maggio 2010, il 12, 21 gennaio e 12 giugno 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese alla presentazione della mostra o fornite dall’organizzazione, il Centro Europeo per il Turismo, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. In apertura Luca Signorelli, “Flagellazione”, XV-XVI secolo, salvata da P. Rotondi; seguono Hans Memling, “Ritratto d’uomo con lettera“, 1475-80, salvata da R. Siviero, e Armando Spadini, “La colazione”, 1911, salvata da P. Bucarelli, poi Giovanni Boldini, “Il pianto (Ritratto di giovane donna)”, 2011, recuperata dai Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, e Guercino, “San Francesco riceve le stimmate”, 1633, recuperata dai Carabinieri del Nucleo e restaurata dell’ISCR; in chiusura Giambattista Tiepolo, “Trasporto della Santa Casa di Nazareth a Loreto”, XVIII secolo, salvata da P. Rotondi.

Giambattista Tiepolo, “Trasporto della Santa Casa di Nazareth a Loreto”, XVIII sec., salvata da P. Rotondi

Empire, l’arte americana oggi, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante 

Al Palazzo Esposizioni di Roma la mostra “Empire State. Arte a New York oggi”, dal 23 aprile al 21 luglio 2013, una rassegna intergenerazionale che presenta opere  recenti, molte create appositamente per la mostra, di ben 25 artisti newyorkesi contemporanei, tra emergenti e affermati, per rivedere il rapporto tra la comunità e la città, anche nelle sue reti di potere. Curata dall’americano Alex Gartenfeld, che da quest’anno cura il Museum of Contemporary Art di Miami, e dal curatore britannico, il critico Norman Rosenthal, i quali hanno curato anche il catalogo Skira. In collaborazione con “American Academy in Rome”, coproduzione con “Civita”.

Joyce Pensato, “TBT”, 2013, a destra a terra una scultura di Bjarne Melgaard, “Remake di Alles Jones”, 2013

I  curatori hanno tenuto a precisare che vi sarebbero stati almeno 100 diversi artisti degni di partecipare e la scelta non né stata un confronto tra artisti. L’americano Alex Gartenfeld ha spiegato nella presentazione che “ogni opera ha un potente significato allegorico che la pone in relazione con la città. E’ come un ‘carotaggio’ di New York dove risiede la più grande comunità artistica”.

Per la presidenza dell’Azienda Speciale Palaexpo Daniela Memmo D’Amelio ha sottolineato le difficoltà dell’allestimento, anche perché molte opere sono state concepite e realizzate nel corso della preparazione della mostra, poi ha citato i positivi risultati dell’Azienda, commentati anche con soddisfazione dall’assessore alle Politiche culturali Dino Gasperini. A sottolineare l’eccezionalità dell’evento la presenza del sindaco Gianni Alemanno che ha ribadito l’importanza dell’investimento culturale per lo sviluppo del Paese; sulla mostra dell’arte newyorkese a Roma ha detto che “oggi New York ha il ruolo nel mondo che aveva Roma”.

Sono pitture e sculture, fotografie e installazioni, e soprattutto video a rendere il ruolo di New York  nel contesto globale di forte cambiamento. Parallelamente alla  mostra, oltre alle consuete attività didattiche ad essa legate, una serie di iniziative su New York, che diviene il centro di un programma articolato in 7 incontri con esperti di chiara fama tra cui i curatori, 2 spettacoli musicali con Musica Nuda e Amedeo Pace, e 16 film dove la città è protagonista con i registi e le vicende più celebri.

Il titolo della mostra richiama l’attenzione sull’impero americano, cui si riferiva il trattato pubblicato nel 2000 da Antonio Negri e Michael Hardt sul capitalismo globale guidato dagli Stati Uniti. D’altra parte, l’artista americano Thomas Cole, nel ciclo pittorico “The Course of Empire”, raffigurò ascesa e declino di una città immaginaria, nella quale fu identificata Manhattan perché posta alla foce di un fiume; si era nel 1833-36, si è visto come quel declino non ci sia stato benché continui ad essere preconizzato pure nell’era della globalizzazione.

Anche se l’Empire State Building, che ne era il sigillo quando aveva il record di altezza, ora è sovrastato nel mondo da grattacieli molto più alti, resta sempre l’Empire, su cui Andy Warhol, 50 anni fa, fece una ripresa fissa a 16 mm della durata di otto ore, dal tramonto a notte fonda, per “vedere il tempo passare” nell’immobilità  più assoluta, che è una caratteristica dell’Impero.

Dopo Warhol citiamo l’Impero di cui parlava John Lennon nel 1980: “Se fossi vissuto in epoca romana, avrei abitato a Roma. E dove altrimenti? Oggi l’America è l’Impero Romano e New York è Roma”.  Parole così commentate dal curatore britannico  Rosenthal: “Nei ‘pochi’ anni trascorsi da allora non molto è cambiato, eppure è cambiato tutto – questo, ci auguriamo, è il messaggio di ‘Empire State'”.

Nella parete, Ryan Sullivan, “June 2012,  October e December 2011″, 2012 e 2011, in primo piano Uri Aran, “Untitled”, 2012 

New York, magnete e fucina  dell’arte contemporanea

Sotto il profilo artistico New York è una straordinaria concentrazione di artisti di tutte le tendenze e provenienze, di musei e gallerie, organizzazioni private e spazi pubblici, un crogiolo di creatività e di immaginazione che cerca, e trova nell’arte, i canali per confluire nell’intera comunità. Lo è oggi, lo è stato a cavallo dell’ultima guerra mondiale e negli anni ’50 e ’60, con le avanguardie divenute presto correnti artistiche affermate: basta citare l’espressionismo astratto e la pop art, il minimalismo e il post minimalismo, per non parlare degli artisti che attirò, come Marcel Duchamp.

La “Grande mela” è rimasta all’avanguardia anche negli anni ’70 e ’80 quando l’interesse per l’arte contemporanea è esploso nel mondo con musei e spazi dedicati, fenomeno tuttora in atto: a Roma ci sono tre grandi sedi espositive, il Maxxi a livello nazionale, e due sedi del Macro, in via Nizza e al Testaccio, a livello cittadino,  oltre alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna che ha aggiunto “e Contemporanea” alla sua denominazione. L’arte contemporanea è diventata una fiorente industria di dimensioni globali e viene utilizzata anche a fini di immagine positiva da diffondere all’estero.

Negli anni ’80 ne è venuto il messaggio che  Rosenthal così riassume: “L’artista poteva dipingere opere astratte o figurative, crearle usando film o fotografie; la scultura e l’arte ambientale non dovevano sottostare ad alcuna regola: Anche rispetto ai soggetti gli orizzonti si aprirono completamente”: il risultato fu che nonostante le proteste dei puristi, “il formalismo riduttivo che fino a quel momento aveva dettato legge in termini di qualità e stile morì per sempre”.

E’ evidente come si senta la forza dell'”Empire”, l’impero capitalistico con la concentrazione di ricchezza che insieme all’apertura e tolleranza per le diversità ne ha fatto il fulcro del mercato mondiale dell’arte, delle tendenze e del sistema di diffusione. a largo raggio tra organizzazioni, collezionisti e grande pubblico. Per questo “avere successo a un certo livello significa essere accettati dal pubblico e dalla critica newyorkesi”, mentre “l’effetto problematico di questo sviluppo è che risulta sempre più difficile, e inevitabilmente soggettivo, esprimere giudizi di qualità”.

Ne consegue la totale liberazione dell’arte contemporanea da vincoli esterni e la grande forza di attrazione di New York sugli artisti. Anche perché la sua stessa conformazione stimola incontri creativi tra le comunità, nel “melting pot” di nazionalità e religioni, posizioni sociali e censo. Non solo, ma determina possibilità di valorizzazione delle opere degli artisti nelle gallerie e spazi dedicati in un mecenatismo moderno che diventa esso stesso un business.

Pur nei suoi effetti positivi in termini di promozione e stimolo, questo determina effetti collaterali estranei all’arte in senso stretto e congeniali al potere: “Il vago termine ‘empire’ – è sempre Rosenthal – suggerisce qui un’arte che per certi versi imita il potere, anche se le sue realtà partecipative – in particolare nel campo del mecenatismo – fungono da riflessi del potere e delle sue strutture, piuttosto che depositari del potere stesso”. Inoltre si genera una sovraesposizione dell’aspetto economico e finanziario rispetto a quello artistico, ma è l’inevitabile segno dei tempi. Né questo vuol dire la “fine dell’arte” preconizzata dal filosofo newyorkese Danto, come Fukuyama aveva proclamato la “fine della storia”, l’una e l’altra proseguono in forme rinnovate.

Ha scritto l’americano Gartenfeld, che intervenendo alla presentazione come curatore ha definito la forza attrattiva di New York “il maggior magnete per gli artisti di tutta l’America e del mondo”: “L’imponente sistema di musei, gallerie e strutture private e non profit, malgrado la sua estensione, è spesso svilito dal valore reale e speculativo dell’arte, e ciò è dovuto anche alla vicinanza di un florido mercato” di fronte al quale gli artisti adottano la strategia di “interrogare le realtà socio-geografiche della città e i rapporti di potere che ne regolano e suddividono lo spazio”.

In queste realtà socio-geografiche ci sono gruppi di  artisti che hanno cercato di riprodurre il clima coinvolgente di trent’anni fa divenendo comunità, e affermandosi nella più ampia comunità locale attraverso l’impegno attivo nel campo dell’arte. “Oltre a contribuire al cambiamento urbano – soggiunge il britannico Rosenthal – l’arterispettaalcuni imperativi significativi. La stessa parola ‘imperativo’ fa riferimento alla costruzione di imperi e alla battaglia sulla diversità di stili, o meglio sui diversi modi di fare arte, che continua a caratterizzare l’universo artistico di oggi”. 

John Miller, “Middle of the Day”, 2013, wallpaper

La fantasmagorica galleria di 25 artisti di arte contemporanea

L’eterogeneità è il segno distintivo dell’esposizione, come dell’arte contemporanea in genere, nei materiali e nei linguaggi,. nei contenuti e nelle forme espressive . E’ una potente  forza creativa che si esprime liberamente senza limitazioni dando luogo ad opere e installazioni dinanzi alle quali ci si interroga sui motivi ispiratori e sui significati, il che accresce l’interesse del visitatore a tu per tu con manifestazioni singolari e indecifrabili. Ma questa è l’arte contemporanea, che nella mostra si esprime in una molteplicità di visioni, provenendo da ben 25 artisti di diversa estrazione e livello.

Riportiamo ora qualche impressione di una galleria  vasta e variegata, in un rapida rassegna di tutti gli espositori soffermandoci  sulle immagini che ci hanno colpito maggiormente. Iniziamo con le opere di tre artisti accomunati da uno spirito trasgressivo che si esprime in forme molto diverse.

Joyce Pensato mescola espressionismo astratto e Pop Art e fonde nel mostruoso “Duck Mouse”, Topolino e Paperino con dei grandi disegni a carboncino su carta dal segno greve e sfilacciato: sono figure oscure e tenebrose, quasi soffrissero per le insopportabili costrizioni del vuoto culturale.

Invece, di  Julian Schnabel vediamo 6 grandi composizioni in olio e inchiostro su poliestere, molto colorate e  spettacolari, 3 metri per 2,  dove con forti pennellate rende attuali le vicende storiche riprodotte sulla carta da parati di sfondo. Spicca George Washington con gli schieramenti di truppe e la bandiera americana nella battaglia vittoriosa contro gli inglesi a Yorktown. Il titolo è patriottico: “E c’era qualcuno che si asciugava le lacrime con la sua bandiera”.

Di Bjarne Melgaard, australiano a New York,  una “suite” di quattro figure sparse nel salone che rappresentano altrettante installazioni-sculture in resina di vetro e acciaio, capelli, pelle e simili, con la protagonista  in atteggiamenti disinibiti. Le figure sono un tavolo, una sedia, un attaccapanni, con una donna, il titolo è “Alles Jones Remakes”.

Poi una saletta con i video interattivi  di Tabor Robak: “Screen Peeking” presenta un video a 4 canali e 4 monitor, con altrettanti quadranti dei cibi diversi con formule visive differenti: “L’opera ci ricorda che non é mai possibile l’accesso all’oggetto in sé, ma solo  a una molteplicità di distorsioni ideologiche, e che le persone raramente condividono le stesse fantasie”, così Melissa Tuckman interpreta un video altrimenti indecifrabile.

Segue una saletta con dei contenitori per trasporto, poi dopo una tenda si entra in un altro andito oscuro camminando su un tappeto che riproduce il biglietto verde da 100 dollari. Usciti da tali ambiti raccolti e misteriosi si torna nella sala con 4 grandi lavagne da scuola allineate sull’intera parete: in ognuna c’è scritto 25 volte con il gesso “Everything will be taken away”, ricorda le punizioni scolastiche, forse ripetere che “Ogni cosa sarà portata via” sottende l’antico ammonimento “Ricordati che devi morire”, per tutti fonte di riflessione; autore Adrian Piper che ha creato varianti con le parole non ripetute così ma applicate su 4 basamenti posti nei marciapiedi.

Wade Guyton, “Untitled,” 2012

R. H. Quaytmanpresenta una sorta di agenda visiva ad olio, inchiostro serigrafato e gessi su legno, 14  ritratti di amici in luoghi che diventano elementi essenziali dell’opera come avviene nella vita.

Di Virginia Overton un lunghissimo tubo di acciaio “Untitled” in diagonale su un’intera grande parete, la sua concezione è usare “le forze dell’equilibrio e del bilanciamento”. Il tubo lo ha trovato a Roma, di solito cerca nel luogo delle mostre gli oggetti da integrare, in un “post ready made” volto a “riorganizzare la materia e dichiarare che si tratta di arte”, dice lei stessa: l’opera deve agire da “rivelatrice della propria storia” spiegando “come i materiali sono stati utilizzati”, e lei lo fa.

Le 6 grandi fotografie di La Toya Ruby Frazier, “Gray Area”, documentano le macerie e la desolazione per l’abbattimento del Braddok Hospital sostituito da un nuovo istituto nella città vicina: è palpabile l”incertezza che ne deriva per la popolazione del borgo, una vera ferita.

Con Ryan Sullivan ritroviamo l’espressione pittorica realizzata versando sulla tela vernice acrilica, olio,  lattice e cera e facendo essiccare con crepe che dipendono dalla diversa densità dei materiali. I 4 oli esposti sono identificati dalle date,  “la sua tavolozza – scrive Nicola Trezzi – riflette un tipo di natura che è profondamente artificiale e inequivocabilmente urbana. La sua posizione è peculiare e unica, si pone tra i sacchi di Burri, i tagli di Fontana e le tele strappate di Steven Parrino”.

Alcuni tavoli in mezzo al salone attirano la nostra attenzione, sono 4 cosparsi di oggetti e di materiali, autore Uri Aran, “Untitled”, un “ready made” molto colorito ed espressivo.

Di Michele Abeles vediamo cinque stampe molto particolari intitolate “Not so optimal”:su fondo rosa sono sovrimpressi in modo variegato riquadri e strisce celesti con piccole figure dall’alto, un vaso e un giornale, fino alla rosa rossa, frammenti di immagini in un sovvertimento artistico della fotografia. Sua anche la celebrazione della bandiera in “Flag Flag Flag”, con inserito il motivo della corda bianca a pezzi che costella il fondo rosa di “Not do optimsl”. Gartenfeld parla di  “una combinazione di strati visivi e watermarks inventati, ordinandoli in sequenza tra ritagli di altre immagini realizzate da lei stessa”, in un utilizzo della fotografia molto personale ed espressivo.

C’è un lungo video con sonoro di oltre un’ora, è “Les Goddesses” di Moyra Davey, le cui riprese dall’alto della sua finestra hanno “ammaliato” il curatore Rosenthal.

E, sempre nella quotidianità, l’opera di John Miller: 2 giganteschi “wallpaper”, murali che coprono l’intera parete, riproducono due fotografie della serie “Middle of the Day”, riprese passeggiando nel quartiere tra mezzogiorno e le due del pomeriggio, l’ora della pausa pranzo: .un’immagine ritrae da lontano persone tranquille, forse turisti, una versione del “panorama” in chiave borghese; l’altra riprende delle cartacce in primo piano, scarti di produzione che possono rivelarsi utili, viene ricordato che  Rauschenberg cercava i materiali per i “combinate paintings” tra i rifiuti.

Rob Pruitt, Dinosauri da “History of the World”, modelli in fibra di vetro 

Il grande “Untitled” di Wade Guyton, immagine a strisce rosse e verdi che occupa una parete con i suoi 15 metri di lunghezza per quasi 3 di altezza – viene detto che è ottenuto con una stampa a getto d’inchiostro su lino – ricorda, pur con tutte le differenze intuibili, le opere orizzontali di Sean Scully.

Di Nate Lowman ben 10 opere molto diverse tra loro, l’autore usa “collage” e una tecnica manuale di pittura serigrafica, utilizza anche immagini di tragedie e incidenti, spesso una banconota del dollaro piegata per alludere al crollo delle Torri Gemelle. Un titolo particolare, “Ciao Bella # 1”, identifica un fondo a macchie verdastre su cui è disegnato con una linea bianca il contorno di un nudo femminile; un’altra opera che colpisce è un grande olio di oltre 2 metri per 3 con un’infinità di faccine sorridenti, i suoi “smiley” con cui  riempì un’intera sala e che si accumulano nel suo studio.

Le 5 stampe giclée di Takeshi Murata contengono una serie di oggetti del consumismo, che secondo Dan Nadel “possono essere intesi come parti di un ‘pastiche’ nostalgico-adolescenziale di cui bisogna ancora trovare il significato filosofico ed estetico”.

Con Danny Mc Donaldsi entra nel mistero e nell’avventura, un’installazione video e altre postazioni connesse per le “storie di Mindy”, in cui si immedesima l’artista, che cerca di recuperare le perle usate per comprare Manhattan secondo una leggenda cui si intitola l’opera. C’è un’oscurità intrigante,  spicca lo scialle variopinto della protagonista, tra la fata e la strega benefica.

Una rapida citazione per gli altri artisti presenti con una sola opera: sono Darren Badercon i suoi animali e Keith Edmier con la sua visione spettacolare della “Penn Station”; Shadi Habib Allah con la sua ricostruzione  allusiva della vasca da bagno dove fu ucciso Marat e  Antoine Catala con il suo “Abracadabra”,  alluminio e gomma, motore ed elettronica, in vista una farfalla e  le parentesi.

Dopo tanti “ready made” e video, fotografie e pitture particolari, installazioni e quadri vogliamo concludere con due artisti che presentano opere figurative, l’unico punto in comune tra loro.

Il primo è Rob Pruitt, autore di una serie di modelli a grandi dimensioni di dinosauri in fibra di vetro cromata. Fanno parte dell’installazione “History of the World”, i giganteschi colossi fissano dipinti che raffigurano accumuli di spazzatura, hanno espressioni e atteggiamenti umani, quasi criticando con la loro superiore saggezza i nostri comportamenti dissennati. “Siamo noi – commenta  Miciah Hussey – la specie estinta: collezionisti incompetenti sepolti sotto le nostre monopolizzanti cianfrusaglie”. E ancora più chiaramente: “la popolazione di Jurassic può solo supporre cosa abbiano fatto quegli stupidi umani per scomparire dal pianeta”.

Non ai dinosauri preistorici, ma alla classicità greca fa appello Jeff Koons per ancorarsi a qualcosa di valido in assoluto e resistente al tempo. Ci riesce, la sua opera è spettacolare e coinvolgente. Soprattutto la grande statua “Metallic Venus”, acciaio inossidabile lucidato a specchio con vernice colorata trasparente  e pianta in fiore, alta oltre due metri e mezzo, svetta nel salone con la grazia seducente della sua bellezza nella policromia originaria, poi perduta, delle antiche sculture greche.

Accompagnano la statua dalle forme perfette, secondo la meticolosità dell’artista che si avvale delle tecniche più moderne per una riproduzione il più possibile fedele, due quadri della serie “Antiquity”:  rappresentano il gruppo marmoreo dell’isola di Delo in cui Afrodite, dea dell’amore, insidiata da Pan dal piede caprino, lo minaccia scherzando con un sandalo sotto lo sguardo di un putto, cui sono stati attribuiti riferimenti al sogno di perfezione che anima New York. Le immagini, riprese tecnologicamente, sono uguali ma su due sfondi diversi: uno puntinato, l’altro da cielo che rosseggia al tramonto, mentre vi sono tracciati in rosso granata dei segni dell’artista tra cui un sole.

Con questa immagine di bellezza trionfante si chiude la nostra visita alla mostra. Nell’avviarci all’uscita lungo l’ambulacro laterale guardiamo in alto e vediamo una serie di stendardi di colori diversi e accesi che sono appesi all’alto soffitto: pur con l’altezza della volta si distinguono bene le scritte, su ogni stendardo il nome di un personaggio per lo più  contemporaneo, anche se ci sono Matteo Ricci e Giovanbattista Vico, i più antichi, Antonio Gramsci vicino nel tempo. Vi sono scrittori come Italo Calvino e Primo Levi, registi cinematografici come Ermanno Olmi, Michelangelo Antonioni, Lina Wertmuller, lo scrittore- regista Pierpaolo Pasolini e altri nomi.

E’  la serie “Space Poem” di Renée Green, che, secondo Howie Chen, “mira a stabilire uno spazio soggettivo, che è parte dell’ambiente circostante sia in senso autonomo che costitutivo”. 

Per questo sono tutti italiani, lo spazio soggettivo di Green è parte del nostro ambiente. Roma torna così,, nell’opera dell’artista che si oppone ai miti dominanti, ad essere Impero. Una bella conclusione per la mostra “Empire State” che celebra, con l’arte di New York, l’incontrastato impero americano.

Info

Palazzo delle Esposizioni, via Nazionale 194, Roma.  Domenica e da martedì a giovedì dalle 10,00 alle 20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 12,50, ridotto 10,00, permette di visitare tutte le mostre in corso al Palazzo Esposizioni, tra le quali  la mostra fotografica “Helmut Newton”  anch’essa fino al 21 luglio 2013. Catalogo: “Empire State  – Arte a New York oggi”, a cura di  Alex Gartenfeld e Norman Rosenthal, Skira, aprile 2013, pp. 200, formato 22,5×30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per le correnti americane citate, espressionismo astratto e Pop Art, minimalismo e post minimalismo cfr. i nostri servizi sulle mostre allo stesso Palazzo Esposizioni in “cultura.abruzzoworld.com”  sullo “Stadel Mudeum” , tre tutti il 13 luglio 2011; e in questo sito sul “Guggenheim”,  il 22 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012, nonchè su Sean Scully alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna il 17 marzo 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’Azienda Speciale Expo con i titolari dei diritti  per l’opportunità offerta. In apertura, Joyce Pensato, “TBT”, 2013, a destra a terra si nota una delle 4 sculture-oggetti di Bjarne Melgaard, “Remake di Alles Jones”, 2013; seguono, nella parete di fronte 3 opere di  Ryan Sullivan, June 2012,  October e December 2011, 2012 e 2011, in primo piano una delle 4 opere esposte di Uri Aran, “Untitled”, 2012 e  John Miller, wallpaper “Middle of the Day”, 2013; poi Wade Guyton, “Untitled,” 2012,  e Rob Pruitt, modelli in fibra di vetro di dinosauri da “History of the World”; in chiusura, Jeff Koons, “Metallic Venus”, 2010-12. 

Jeff Koons, “Metallic Venus”, 2010-12
 

Nevelson, le grandi composizioni lignee, alla Fondazione Roma

di Romano Maria Levante

A Palazzo Sciarra, uno dei due spazi espositivi romani della Fondazione Roma, esposte dal 16 aprile al 21 luglio 2013  80 opere di “Louise Nevelson”, la scultrice americana autrice di imponenti composizioni con l’assemblaggio monocromatico di legno prodotto artigianalmente e già utilizzato, quindi “vissuto”, portato a nuova vita con significati tutti da decifrare  Il presidente della Fondazione Emmanuele F. M. Emanuele ha ricordato l’attenzione all’arte americana con le mostre sulla Collezione Ludwig, su Edward Hopper e Georgia O’ Keeffe; nello stesso filone americano il presidente ha promosso la mostra del “Guggenheim” al Palazzo Esposizioni e, con un’attenzione bipartizan, anche il filone sovietico dei “Realismi socialisti”  con il campione “Deineka” sempre al Pala Expo.  La mostra della Nevelson,  organizzata dalla Fondazione Roma Arte-Musei con Arthemisia, è a cura di Bruno Corà che ha curato anche il Catalogo  Skira. In parallelo vengono tenute 7 conferenze sulla Nevelson, di cui 4 in maggio e 2 in giugno.  

“Homage to the Universe”, 1968

Se conoscere l’artista prima di guardarne le opere è buona norma per apprezzarne meglio ispirazione e stile, nel caso di Louise Nevelson è doveroso perché si scoprono aspetti altrimenti non  percepibili. Le sue composizioni  monocromatiche, di solito nere, tranne serie minori bianche e  oro, fatte di legni assemblati, che si differenziano per dimensione e forma  egli scomparti, hanno molto da rivelare una volta che entrati nella  poetica dell’artista che ha precorso o affiancato svolte radicali nell’arte moderna. Ne daremo qualche cenno  prima di parlare delle sue opere. 

La formazione e le avanguardie

Di origine russa, nata presso Kiev nel 1899 ed emigrata negli Stati Uniti con la famiglia, aveva tenacia e  spirito femminista: suo l’orgoglio di esprimere la propria sensibilità femminile, quindi dichiaratamente diversa da quella maschile cui si contrapponeva al più alto livello artistico. Le sue parole: “Ritengo che le mie opere siano decisamente femminili… il mio lavoro è la creazione di una mente femminile, non c’è dubbio… Sono un artista a cui è capitato di essere donna”.

Il presidente Emanuele  ha ricordato che lei diceva di sentirsi “donna, tanto donna da non voler portare i pantaloni”, e sul lavoro: “In esso c’è tutta la mia vita, e tutta la mia vita è al femminile”. Non occorre sottolineare come fosse forte il pregiudizio sulla donna  in veste di artista. Per questo sia per la sua arte e le sue battaglie, sia per la sua vistosa presenza pubblica anticonformista e disinibita nell’abbigliamento e nei gesti, è  diventata una vera icona per il mondo femminile.

La prendevano momenti di inquietudini e sconforto, fino a meditare il ritiro dall’attività artistica, ma poi li superava  in virtù di un imperativo che poneva a se stessa, e chiamava “Blueprint”. Nel lavoro sentiva di realizzarsi e la emozionava  il fatto di “mettere insieme le cose” e come farlo. “Questo – diceva – lo chiamo energia del vivere o essenza della vitalità, perché si è pienamente vivi quando si lavora. Si toccano le vere fibre del significato della vita”.

Si è parlato di “sapienza alchemica” e di ritualità del Centro e Nord America per spiegare le sue espressioni artistiche e gli stessi comportamenti, dall’abbigliamento agli atteggiamenti  quanto mai estroversi. Richiama in qualche modo Georgia O’ Keeffe e la sua evasione creatrice nel New Mexico, come altre grandi donne  che hanno dato lustro al XX secolo.

“Royal Tide III“, 1960

Una formazione non solo nel disegno e nella pittura, ma anche nel canto,  teatro e danza, quest’ultima esperienza la si ritrova nella plasticità delle sue prime opere. Frequentò l’ambiente intorno all'”Art of  This Century” di Peggy Guggenheim , con i capifila del Dada e Surrealismo, da Duchamp a Ernst, da Man Ray a Picabia, con André Breton, tra ready made e collage, fotomontaggi e altre innovazioni, fino a Mondrian e al cubismo, soprattutto Picasso ebbe influenza su di lei; e a lei guardarono i minimalisti,  da Judd a Serra, dopo la Pop Art e il Nouveau Realisme.

Siamo, dunque, nel crocevia delle  avanguardie, e non dobbiamo dimenticarlo quando vediamo le sue opere, da quelle iniziali alle opere mature allorché affermò il suo stile personalissimo.

Del primo periodo sono esposte  le sculture in terracotta  e i disegni cubisti, con una plasticità che non troveremo più, almeno in questa forma: sono gli anni ’30  e’40.

Si tratta di 8 piccole sculture, tutte “Untitled”, di cui due in una forma totemica che vedremo anche in alcune opere in legno della sua produzione matura; nulla di figurativo e riconoscibile, la consistenza plastica è l’elemento tangibile che colpisce maggiormente.

I disegni esposti sono 7, tra il 1930 e il 1933, tutti intitolati “Female Nude”, di chiara ispirazione cubista:  la solidità delle forme  riafferma la sua sicurezza non solo a livello stilistico, le donne delineate sembrano avere la consapevolezza di una femminilità non sottomessa. Va sottolineato che, pur da grande scultrice, il disegno era per lei pratica quotidiana: “Non ho mai lasciato le due dimensioni – diceva –  Se esaminate attentamente le mie opere, vi potete trovare sempre il disegno”: la linea e il segno definiscono piani e forme.

“City Series”, 1974 e “Tropical Lanscape I”, 1975

Il  legno “vissuto” e la forma espressiva modulare dell’artista

Cambia tutto  nell’espressione artistica della Nevelson negli anni ’40 allorché inizia a usare il legno, dopo la terracotta e la ceramica. Non è soltanto un fatto materico, è una rivoluzione, non si tratta di modellare una materia diversa, bensì di riutilizzare il legno recuperato nelle strade che la affascina  per la sua valenza di “vissuto”. “Mio dio, è magnifico! Lo porterò a casa”, disse quando fu colpita dalla vista di un pezzo di legno abbandonato nel fango.  Forse il legno la attraeva per i ricordi d’infanzia, il nonno aveva boschi e legname in Russia e tra i primi lavori il padre, da emigrato negli Stati Uniti, faceva il taglialegna e il rigattiere.

Ma non è questa la “memoria” che l’artista trasmette con le sue opere, piuttosto è l’esperienza del suo “vissuto”, un mondo interiore che si proietta nello spazio e nel tempo con il recupero di oggetti la cui storia nascosta viene fatta rivivere  nel momento in cui li trasforma in opera d’arte.  Non si tratta della materia plasmata dall’artista, sono altri che l’hanno plasmata inizialmente, gli artigiani del legno, facendone cassapanche, cassetti, e altri oggetti d’uso comune, poi abbandonati dagli utilizzatori. Il “vissuto” di questi oggetti viene recuperato in forme nuove che superano quel passato per un presente quanto mai vivo e qualificato, senza escludere il futuro che l’arte saprà conquistare.

C’è un confronto serrato dell’artista con la materia, tanto che lei dice: “A volte il materiale prende il sopravvento, altre io. Permetto un gioco come un’altalena. Uso l’azione  e il contrappunto, come nella musica, per tutto il tempo. Azione e controazione”. Non c’è progettazione quanto volontà di trasformare la materia: l’impegno è nella trasformazione piuttosto che nel risultato compositivo.

Negli anni trenta – sono ancora le sue parole – la scultura era mettere  e togliere in tre dimensioni, la quarta dimensione, manca una definizione migliore, non è ciò che si vede ma la facoltà di completare ciò che si sta vedendo. Il cubismo ci ha dato tale dimensione e quindi le basi”.  Non per questo va nell’astrazione, resta legata alla realtà e aggiunge: “Non ho masi lasciato il mondo a due dimensioni. Se esaminate attentamente le mie opere vi potrete trovare sempre il disegno”.  

Ha scritto il curatore della mostra Bruno Corà: “Come un ‘minatore’ che scava per estrarre minerali preziosi e portarli alla luce, così la Nevelson trae dalla ‘massa del dimenticato’ non solo i reperti altrimenti destinati  all’oblio, ma soprattutto i loro segreti contenuti poetici.”.

Poi precisa: “Il lavoro più essenziale concepito e svolto dall’artista, insieme a quello del componimento dei frammenti necessari alla sua creazione pittorico-plastica, è il risveglio mnemonico esercitato su di sé e sulla coscienza collettiva”. Ecco come si svolge il processo creativo: prima il riconoscimento dei frammenti, cioè degli oggetti “vissuti” da utilizzare, quindi l’assemblaggio con una pittura monocromatica che li rende omogenei, fino alla composizione in forma verticale e frontale.

L’assemblaggio determina una geometria solida semplice ed essenziale. Con le forme scatolari vengono definiti moduli spaziali cui le ombre danno segretezza e intimità, accentuando l’aspetto di “vissuto” evocato dagli elementi lignei di base:  si tratta infatti di armadi e cassapanche, secretaire e cofanetti che per loro funzione rimandano a immagini di un uso molto personale. “Tutte le opere di Louise Nevelson – secondo il presidente Emanuele –sono accomunate dalla ricerca di armonia: l’occhio non è disturbato dalla folla di forme o oggetti  che popolano le sue scatole, scaffali o contenitori, ma viene rassicurato dall’equilibrio delle masse”.

Sono state accostate alle nature morte, sebbene non ci siano frutta né animali, vasi o bottiglie, perché le componenti lignee derivate dalla frammentazione di mobili e suppellettili fanno parte della natura, essendo il legno vegetale; e sono morte perché scartate e destinate alla distruzione prima di venire recuperate dall’artista che le salva e le fa rinascere a nuova vita Altri accostamenti vengono fatti tra i suoi assemblaggi e  le icone russe, e anche con gli antichi sistemi di memoria.

Non ci sono intenti simbolici, ma non si possono non sottolineare gli influssi della pittura metafisica, e del suo creatore, de Chirico, che ebbe ad osservare,: “Noi che conosciamo i segni dell’alfabeto metafisico sappiamo quali gioie e quali dolori si racchiudano entro un portico, l’angolo di una strada, o ancora in una stanza, sulla superficie di un tavolo, sui fianchi di una scatola”. Proprio le scatole assemblate dalla Nevelson che , come gli oggetti metafisici bidimensionali della pittura di de Chirico e Morandi o gli oggetti “ready made”, quindi reali, di Duchamp e Arp ,   nascono “nella dimensione della memoria trattandosi di oggetti obsoleti e dimenticati che l’atto artistico rivitalizza, immettendoli nell’opera “, così scrive  Corà:

Per i due italiani, de Chirico in particolare, gli oggetti rappresentati nella loro consistenza reale ma del tutto avulsi dal contesto naturale , per questa straniamento diventano elementi di un enigma. Mentre,  è sempre il curatore che parla, “le forme contenute nelle ‘cassette’ di legno della Nevelson, alla stregua di un linguaggio geroglifico ancora non svelato, conservano modi ‘memorabili’ che nessuno è in grado di decifrare e che malgrado il loro significato incognito si prestano a essere riempiti di senso dell’immaginario individuale”.

Tre  “Untitled”, anni ’80 

Le  opere degli anni  ’50 e ‘60

Abbiamo già commentato le prime opere in ceramica e i disegni cubisti, ora passiamo all’antologica delle sculture lignee di cui abbiamo cercato di esplorare motivazioni e forma espressiva. L’esposizione è cronologica, articolata per decenni nell’elaborata configurazione dello spazio espositivo di Palazzo Sciarra, tra corridoi, anditi di disimpegno e grandi sale in grado di accogliere opere monumentali, come alcune della Nevelson che vedremo.

Degli anni ’50 vediamo opere dalla struttura molto diversa, caratteristica che non si attenuerà in seguito quando la forma espressiva sarà stabilizzata. Prosegue nella lavorazione plastica dei materiali del decennio precedente ma inserisce sempre più frammenti già realizzati artigianalmente e da lei recuperati, in particolari rapporti pieno-vuoto e luci-ombre.

Così parla del colore nero: “Quando mi sono innamorata del nero, conteneva tutti i colori. Non era una negazione del colore, al contrario, era un’accettazione. Perché il nero comprende tutti i colori. E’ il colore più aristocratico di tutti. L’unico colore aristocratico. Per me è il massimo”.

Sono nere le opere che vediamo esposte della serie“Moon Spikes”, con punte aguzze che non ritroveremo; come “Moon Garden Reflections”, con elementi irregolari uniti in alveoli per formare una struttura regolare; e “Night Sun” nonché quelle “Untitled”: accomunate dall’essere costituite da elementi verticali a punta o parti ovali, sferiche e altre forme geometriche, poste su degli assi. Una “geometria solida a base lignea e dalle definizioni formali casuali, priva di ogni volontà simbolica, nonostante le titolazioni evocative di ciascuna opera”, scrive il curatore citando Mirò.

Ed ecco la sorpresa degli ultimi anni del decennio, compaiono  opere molto diverse, in verticale, di tipo totemico, ispirate alla cultura dei nativi d’America. Vediamo opere in bianco molto diverse dalle precedenti anche nella struttura. “Dawn Host”  è una sfera su una colonna liscia, che raccoglie elementi sempre lignei di varia forma, mentre le due “Column from Dawn’s Wedding”  sono alte quasi 2 metri e mezzo, formate da assemblaggi minuti come dei totem.  Facevano parte di una installazione celebrativa di grandi dimensioni lungo le pareti, la “Dawn’s Wedding Feast”  dedicata alle nozze, con le due colonne centrali come sole e luna. Con il monocromatismo bianco nuovi rapporti tra ombra e luce, la Nevelson  da “Architetto dell’ombra” diviene “Architetto della luce”.

Abbiamo riportato la sua definizione del nero, ora quella del bianco: “Il bianco è un colore più gioioso. Credo che i bianchi abbiamo contenuto il nero, che esprime maggiore libertà e non uno stato d’animo. Il bianco si muove un po’ più nello spazio cosmico”. Nella sua particolare visione rappresenta il “risveglio”, cioè l'”albedo” che segue la “nigredo”, la fase di morte della materia.

Con gli anni ’60 la sua scultura lignea viene ricoperta addirittura del colore dell’oro. Lei stessa  lo spiega così: “Volevo dimostrare che il legno recuperato nella strada può essere oro”, colore del quale dà questa definizione, completando il trittico cromatico: “L’oro è un metallo che riflette il grande sole… Di conseguenza penso che sia giunto naturalmente dopo il nero e il bianco. In realtà era per me un ritorno agli elementi naturali. Ombra, luce, il sole, la luna”.  L’ispirazione è nata dalle icone russe e dai riti ebraici, ma anche dalle leggende dell’emigrazione che favoleggiavano dei marciapiedi laminati d’oro nell’America dove il padre approdò dalla natia Russia. In mostra sono esposte tre opere, “Royal Winds” e due imponenti, “Golden Gate”, alta m 2,40,  e “The Golden Pearl”, alta 2 m, composta di 24 scomparti, ciascuno con assemblati elementi sferici o tondeggianti.

E’ l’inizio del decennio, non abbandona gli altri due colori, tutt’altro;  il suo studio è diviso in stanze dedicate al singolo colore del trittico, e così nelle mostre personali, parla di “environment”; alla XXXI Biennale d’Arte di Venezia nel 1962 nei tre spazi il bianco è al centro, ai lati nero e oro.

Le opere in nero esposte sono quasi tutte di dimensioni considerevoli, accomunate dalla forma scatolare in tanti comparti che in “Royal Tide”, “Dark Prescience” e “Untitled” sono a forma rettangolare ma sfalsati, mentre in “Ancien Secrets” e “Dark Sound” quadrati e allineati regolarmente come tanti ripiani dove collocare le proprie cose, nel primo senza che siano visibili. Sono alte oltre 2 metri, alcune per 2,5 di larghezza, ma “Homage to Universe” le supera tutte per dimensioni: quasi 3 metri di altezza per 9 metri di lunghezza, un’intera parete. In questa e nella altre Corà, riferendosi ai minimalisti,  vede “analoghe tensioni spaziali e costruttive, nonché equivalenti coefficienti di investimento plastico-ambientale”.

Due collages “Untitled”,  1980 circa 

Gli anni ’70 e ’80, fino ai collage e alle serigrafie

Altre sorprese negli anni ’70. Sul piano stilistico  abbandona la struttura scatolare e costruisce la composizione fissando su grandi supporti rettangolari una serie di elementi di forma e natura  diversa come fossero bassorilievi; è ben riconoscibile la loro origine, sono anche grandi, in qualche caso di spessore minimo per creare effetti calligrafici che sottolineano il disegno compositivo, il nero è predominante. E’ esposta la vasta serie di “Untitled”, 14 grandi opere tutte verticali alte oltre 2 metri, dove si distinguono bene arnesi meccanici inseriti sulla base, perfino una pala. Più 2 opere, altrettanto grandi, entrambe oltre 2 metri di altezza per 4 di larghezza:“Tropical Landscape”, con 24 scomparti appena delineati, e “City Series”, una sorta di alveare delicatissimo in rilievo.

Le  6 opere di dimensioni minori sono assimilabili a due  a due: “Sky Totem” e “Sky case” sono dei veri oggetti  identificati dal titolo, quasi “ready made”; , mentre “Sky-Zag” e “Open-Zag”  sembrano quasi dei meccanismi farraginosi con la ruota incorporata; infine i due “End of the day” richiamano l’immagine del pallottoliere.

Un’altra sorpresa sul piano della produzione artistica e della sua notorietà: supera l’ambito artistico per aprirsi al grande pubblico con le installazioni di opere gigantesche all’aperto, non più in legno ma in metallo. Un ampio filmato visibile in mostra riprende l’inaugurazione di “Sky Cathedral”, che si vede stagliarsi alto nello skyline di New York, e la preparazione, con gli assistenti ai quali dà indicazioni per il lavoro manuale ma chiede anche cosa ne pensano mentre crea la composizione.

Siamo agli anni ’80, l’ultimo periodo della sua vita artistica: ha raggiunto la fama, frequenta persone altrettanto famose, i suoi atteggiamenti anticonformisti, il suo modo di presentarsi, lo stesso abbigliamento estroso ne fanno un personaggio di spicco e un simbolo di libertà e di creatività. Le mostre personali e collettive si susseguono,  le sue opere sono nei principali musei del mondo.

Il suo stile si affina, nella costanza del legno dopo le esperienze con il metallo, e del nero dopo il trittico con il bianco e l’oro. Diventa più meditato, cerca maggiormente la forma rispetto all’impulso creativo di un tempo, alterna grandi dimensioni a formati piccoli e raccolti. Sono esposti i formati minori, 11 opere tutte “Untitled”, per lo più strette e mediamente alte. Non più i cassetti e scomparti, ci sono gli elementi fissati su un fondo, come bassorilievi.

Le ultime sorprese sono i “Collages” e le “Serigrafie” tra gli anni ’70 e l”80.

Nei “Collages” il legno resta come supporto ma compare la carta e frammenti di varia natura, inoltre sono bidimensionali o appena rilevati, sul nero della base di fonfo irrompono i colori originari degli elementi inseriti che non vengono omologati alla monocromia nera per conservare la propria. Perciò si creano diversi piani cromatici  e prospettici, con forme semplificate non più scatolari ed elementi  pittorici in un rapporto armonioso tra luci e ombre. Meno impeto creativo e più equilibrio compositivo, ne sono esposti 6, tutti “Untitled”, tra il 1975 e il 1980, sul legno dipinto incollate strisce od oggetti sottili.

Le “Serigrafie” in mostra sembrano una dissolvenza di riquadri neri contornati di un viola sfumato: una delle 3 esposte presenta uno squillante rettangolo rosa intenso sulla dissolvenza di fondo.

Ci piace vedervi l’orgogliosa reazione alla dissolvenza dell’arte e della vita dell’indomita eroina che aveva trovato nel lavoro artistico l’energia del vivere o essenza della vitalità”, toccando così “le vere fibre del significato della vita”, come emerge dalle sue parole di profondo contenuto poetico: “La ricerca completamente consapevole della mia vita  è stata quella di un nuovo modo di vedere, una nuova immagine, una nuova percezione. Questa ricerca non include solo l’oggetto, ma i luoghi ‘tra’. Le albe e i crepuscoli, il mondo oggettivo, le sfere celesti, i luoghi tra la terra e il mare”.

E’ quanto si deve leggere tra le fibre del suo legno “vissuto” che diviene monumento.

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Palazzo Sciarra, via Marco Minghetti 22, Roma. Da martedì a domenica ore 10,00-20,00, lunedì chiuso (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso: intero  euro 10,00, ridotto euro 8,00, scuole euro 4,50 ad alunno.  Tel. 06.69205060. http://www.fondazioneromamuseo.it/; www.louisenevelson.it. Catalogo: “Louise Nevelson”, a cura di Bruno Corà, Skira, aprile 2013, pp. 232, formato  25×30. Per le mostre con gli artisti citati cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com” : Picasso il  4 febbraio 2009 (con Bellini), de Chirico il  27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 e  l’8, 10, 11 luglio 2010 , Hopper  il 12 e 13 giugno 2010, Georgia O’Keeffe  due, entrambi il 6 febbraio 2012; i Dada e surrealisti il 30 settembre, 7 novembre,1° dicembre 2010 e il 6 – 7 febbraio sempre del 2010;  i capolavori dello Stadel Museum tre tutti il 13 luglio 2011; in questo sito per gli artisti di espressionismo astratto, Pop Art e minimalismo del Guggenheim  il 22 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012,  per Mirò il  15 ottobre 2012, per i Cubisti il  16 maggio 2013.  Per il richiamo al filone soviet€ico fatto all’inizio, cfr. i nostri articoli:  per i “Realismi socialisti” in “cultura.abruzzoworld.com”,  tre tutti il 31 dicembre 2011, e per “Deineka” in questo sito il 26 novembre, l’1 e il 16 dicembre 2012.

Foto

Le immagini delle opere di Louise Nevelson sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Sciarra alla presentazione della mostra. Si ringrazia la Fondazione Roma – Arte – Musei per l’opportunità offerta. In apertura, anni ’60, “Homage to the Universe”, 1968, seguono, “Royal Tide III“, 1960 e, anni ’70,  a  fronte “City Series”, 1974 e “Tropical Lanscape I”, 1975, poi, anni ’80,  tre “Untitled” e i due collages “Untitled”,  tutti 1980 circa;  in chiusura, “The  Golden Pearl” , 1962, con il presidente della Fondazione Roma Emanuele intervistato sulla mostra.   

“The  Golden Pearl” , 1962, con il presidente della Fondazione Roma Emanuele intervistato

Machiavelli, i 500 anni del Principe, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, salone centrale, lato Fori Imperiali, dal 22 aprile al 16 giugno 2013 la mostra “Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo, 1513-2013” celebra  i 500 anni della composizione dell’opera diffusa in tutto il mondo, con 6 sezioni nelle quali viene fatto conoscere al grande pubblico l’aspetto storico, politico e letterario, con materiali, documenti e cimeli, come le più antiche edizioni dell’opera, le sue traduzioni e quanto ne ha tratto ispirazione. Curata da Alessandro Campi in collaborazione con Marco Pizzo, realizzata da “Comunicare Organizzando”,  direzione e coordinamento generale del presidente Alessandro Nicosia. Catalogo dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, che ha promosso la mostra con l’Aspen Institute Italia. Patrocinato dal Mibac e da Roma Capitale con la Camera di Commercio, main partner ENI; altri partecipanti tra cui Zètema Progetto Cultura.

Antonio Maria Crespi detto il Bustino, Ritratto di Niccolò Machiavelli“, fine XVI-inizi XVII sec.

Il Principe, il primo trattato di politica moderna

Una preview stampa molto affollata, con Giuliano Amato, presidente dell’Istituto Enciclopedia Italiana, e  Giulio Tremonti, presidente dell’Aspen Institute Italia, che invece della prevista presentazione fanno una  visita prolungata alla mostra. E’ il giorno dell’incarico di governo, Amato è sommerso da microfoni e telecamere, poi si vedrà che non è lui il nuovo presidente del  Consiglio. Di certo la coincidenza della celebrazione fa risaltare la grande sfida che l’emergenza istituzionale ed economica lancia alla politica, chissà quali e quanti i “machiavellismi” già esperiti o in itinere!

Intanto la prima cosa da ricordare sul “Principe” è che è il primo vero trattato di politica moderna, ne vengono declinati ruoli e compiti in modo anche spregiudicato, con una forma saggistica rigorosa e intensa, dietro la quale si sente vibrare la passione. E’ una politica .che vede l’azione del Principe autonoma rispetto alla morale e alla religione, e  rivendica la libertà e l’autonomia rispetto al Papa e all’Imperatore: il Principe  deve conquistarsela con la propria virtù, espressa mediante intelligenza, energia e ardimento, senza confidare negli eventi del mondo esterno quali la fortuna.

Del resto l’opera nacque dalla reazione all’arresto e alla tortura che dovette subire nel 1512 dopo che il suo nome era comparso in una lista di congiurati contro i Medici, rientrati a Firenze dopo 18 anni riconquistando la Signoria che era stata rovesciata per un’esperienza repubblicana terminata tra l’agosto e il settembre 1512.  Rimesso in libertà perché estraneo ai fatti, non ebbe accesso alla famiglia regnante e si ritirò nella villa dell’Albergaccio, podere di Sant’Andrea in Percussina.

Nel suo ritiro si impegna alla scrittura del  capolavoro, “Il principe”, trattato di dottrina politica dedicato in un primo tempo a Giuliano de’ Medici, che è andato a Roma dal Papa, poi a Lorenzo de’ Medici al quale lo regala nel 1515 come dono prezioso, senza che questi ne colga l’importanza. L’opera, scritta come si è detto nel 1513, fu pubblicata solo nel 1532 dopo la sua morte.

L’autore si rivolge a Lorenzo de’ Medici invitandolo a leggere il suo scritto perché vi si trova “la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una ‘lunga esperienza delle cose moderne’ e una ‘continua lezione delle antique'”. Sono 26 capitoli nei  quali descrive le qualità del Principe per conquistare e dirigere lo Stato, in una visione realistica e disincantata rispetto all’oleografia che richiede di impegnarsi con energia e rigore per raggiungere il proprio obiettivo.

Una trattazione vasta e articolata per i diversi tipi di Principato, con l’analisi dei concetti di virtù e di fortuna, e dell’autonomia che la politica deve mantenere nei riguardi della morale e della Chiesa.

Proprio l’importanza della materia trattata  e la spregiudicatezza dell’analisi hanno comportato interpretazioni spesso di segno contrario, adesioni e opposizioni. Il fatto che sia, con “Pinocchio”, l’opera italiana più tradotta nel mondo , e che sia stata oggetto di tante interpretazioni e  critiche ne qualifica di per sé il livello e la grandezza: la lettura è affascinante per il linguaggio teso e preciso, senza giri di parole ma andando subito al centro del problema.

Giuliano Amato così riassume la “rivoluzione” di Machiavelli: “Era, a ben vedere, un portare i compromessi e le contraddizioni insite nell’agire individuale e sociale dal piano dei dati di fatto comunemente accettati a quello della riflessione teorica”: da qui le censure e le polemiche, ma anche le difese e le apologie. E Giulio Tremonti, citando Isahia Berlin, vi trova “non un realismo spietato inteso come sistematica prevalenza del fine sui mezzi, ma realismo come conoscenza delle ‘cose’ e in ispecie come analisi della ‘verità effettuale delle cose’. Analisi statica della realtà, m anche studio della cascata di fenomeni che, in forma dinamica, la compongono. Studio della catena dei vettori di forza che la muovono. In sintesi, certo, realismo, ma questo molto più che puro cinismo politico”.

Lo stesso Machiavelli critica coloro che scrivendo su questo tema “si erano “imaginati repubbliche  e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero”, mentre gli  interessa “la verità effettuale della cosa, non l’imaginazione di essa”. Del resto scambiare l’essere con il dover essere, e chiudere così gli occhi dinanzi a una realtà deludente, è un esercizio corrente, grande merito quindi a chi, sin dal ‘500, ha avuto il coraggio di togliere il velo e mostrare  la realtà, il re nudo.

In questo senso – come scrive Gennaro Sasso nel presentare la mostra – Machiavelli “è un testimone di verità scomode e, comunque lo si giudichi, alla fine ineludibili; ed è anche un grande scrittore che, come pochi altri, invita a riflettere sul senso della nostra storia”.

Una vetrinetta con pubblicazioni originali d’epoca

Il testo del “Principe”, il suo spirito e i suoi contenuti

L’interesse a riprendere contatto con il testo e i suoi contenuti diventa ancora più intenso, dopo queste premesse, in modo da prepararsi alla visita della mostra con lo spirito giusto. Tanto più che è “un testo – sottolinea il curatore Alessandro Campi – all’apparenza semplice e d’immediata comprensione, vergato con uno stile essenziale e di precisione all’apparenza chirurgica, ma che ad una lettura attenta si scopre essere complesso e stratificato, non esente da contraddizioni interne, strutturato in modo asimmetrico, capace di condensare in poche pagine una massa di suggestioni, argomenti e prospettive”.

Occorre innanzitutto liberarsi dalla sintesi semplicistica e fuorviante  che riassume il “Principe”  nel risaputo  “il fine giustifica i mezzi” – come invita a fare anche Tremonti – e ha portato ad un uso distorto dell’opera come ispiratrice di strategie militari e di marketing. In realtà Benedetto Croce gli attribuiva il merito  di aver scoperto – come ricorda Massimo Bray, direttore editoriale dell’Istituto Enciclopedia Italiana – la “categoria autonoma dell’utile, e quindi dell’autonomia della politica, distinta dalla morale e dalla religione”; e riteneva che il suo pensiero andasse integrato con quello di Vico, per il quale “al momento della politica seguivano quelli della giustizia e della moralità”.

Abbiamo detto del realismo che rifugge dalle raffigurazioni retoriche e astratte per calarsi nelle vicende tutt’altro che edificanti, dalle quali lui cerca di  uscire. “Il titanico sforzo in cui si cimenta Machiavelli – secondo Gian Mario Anselmi – è di liberare, in ultima istanza l’uomo, come individuo e come soggetto politico, dai pressanti condizionamenti, fisici, naturali, ideologici, oggettivi in altre parole, in cui è calato”. E come realizza questo nobile risultato? “La Virtù cara a Machiavelli è la scoperta sconvolgente e audace della politica come terreno in cui tentare di porre mano alla realtà per aggredirla e modificarsi, senza essere sopraffatti dal suo stesso dipanarsi”.  Pertanto, “se un senso fondante si volesse attribuire al pensiero di Machiavelli, andrebbe sicuramente identificato nella tensione liberatoria e liberatrice che lo attraversa”.

Mentre Dante ritiene che l’uomo usi male la libertà di cui dispone preso dagli istinti e dagli eventi, Machiavelli pensa che l’uomo non è libero, ma legato ai suoi istinti e al suo egoismo, come alle forze naturali, per cui la libertà deve conquistarsela; e può farlo attraverso la politica che con le leggi  e i saggi reggitori trasforma gli istinti negativi in energia positiva per se stessi e la società.

Per delineare il percorso da lui indicato, ci limitiamo a riportare i titoli dei 26 capitoli, la cui mera enunciazione dà già un’idea del contenuto presentando una vera escalation di analisi e argomenti.

Altobello Melone, Ritratto di gentiluomno (Cesare Borgia)“, XVI sec.

La prima parte,  che comprende i capitoli da 1 a 14, tratta dei vari tipi di Stati, nel funzionamento e nell’evoluzione storica, soprattutto nell’organizzazione politica, civile e militare. Inizia con “la natura dei principati e i modi di acquistarli”, per poi passare ai “principati ereditari” e ai “principati misti”. Va sul concreto chiedendosi “per qual motivo il regno di Dario di Persia, occupato da Alessandro, non si ribellò ai suoi successori dopo la sua morte”, e “in che modo si devono governare i Principati che, prima di essere occupati, fruivano di leggi proprie”. Di questi analizza distintamente “i Principati nuovi acquistati con l’arme proprie e con la virtù” e “i principati nuovi acquistati con le armi e la fortuna degli altri”.  Mette il dito nella piaga con “quelli che per scelleratezza arrivarono al Principato”, ma poi passa al “Principato civile” e ai “Principati ecclesiastici”, fino ai temi militari, dai “generi della milizia e dei mercenari”, ai “soldati ausiliari, misti  e propri”, per concludere con “quello che deve fare un Principe circa la milizia”.

Altrettanto densa la seconda parte,  dal capitolo 15  al 24, tratta delle doti che deve avere il Principe, per mantenere il potere per sé e la civiltà per i suoi governati, e tali doti sono la spregiudicatezza che gli è stata rimproverata come fosse istigazione all’immoralità politica, è questa la parte più bersagliata. Inizia con “le cose per le quali gli uomini e i Principi sono lodati o vituperati”, per poi descrivere “la “libertà e la parsimonia”, “la crudeltà e la pietà, se è meglio essere amato o temuto”; dopo l’analisi le indicazioni, “in che modo i Principi devono mantenere la parola data”, e “come sfuggire lo essere sprezzato ed odiato”; non solo, ma “se le fortezze et similia sono utili ai Principi oppure no” e soprattutto “cosa deve fare un Principe per essere stimato”.  Non basta, parla anche dei “segretari che i Principi hanno al loro seguito” e di “come si devono fuggire gli adulatori”; fino all’analisi impietosa “perché i Principi italiani persero i loro Stati”.

Siamo alla terza e ultima parte di questa carrellata di temi – che sono anche i titoli virgolettati dei singoli capitoli – è composta di due soli capitoli, 25 e 26, e conclude l’intera analisi con un messaggio positivo, di fiducia nelle capacità dell’uomo e in particolare dei reggitori da lui stimati, come Lorenzo de’ Medici che invita a mettersi alla testa della lotta per cacciare gli stranieri e far rinascere l’Italia. I titoli conclusivi sono “quanto possa la fortuna nelle vicende umane e come le si debba resistere” ed “esortazione a liberare l’Italia dalle mani dei barbari”. Inutile dire che a questa parte fece entusiastico riferimento il patriottismo rinascimentale e il nazionalismo.

Niccolò Machiavelli, “Historie fiorentine”, manoscritto

Le prime sezioni della mostra, l’opera nel suo tempo

Nella mostra si cerca di rendere l’epopea del “Principe” calandolo nella sua epoca, corredandolo di  elementi di contorno, come l’arte della guerra e il classicismo, fino agli usi e abusi più moderni.

Si inizia con la 1^ sezione intitolata  “Machiavelli e il suo tempo”: il periodo storico è complesso e ricco di colpi di scena, dalla “Congiura dei Pazzi”alla morte di Lorenzo il Magnifico, c’è la figura dirompente di Girolamo Savonarola e la Repubblica fiorentina seguita dal ritorno dei Medici.

Lo si rivive attraverso documenti come la sua Patente rilasciata dalla Repubblica di Firenze nel 1502 e la Lettera di Francesco Soderini ai Dieci di Balia della Repubblica di Firenze nello stesso anno, e soprattutto il Bando contro Niccolò Machiavelli del 19 febbraio 1513, parallelo alla composizione del “Principe”. E anche con opere d’arte e cimeli. Tre suoi ritratti a olio, di Cristofano dell’Altissimo, 1552-68, di Antonio Maria Crespi detto il Bustino, fine XVI secolo, e  di Stefano Ussi, 1894; un’acquaforte di Giuseppe Longhi  del 1820 e un’incisione del 1888. Infine due immagini sul letto di morte, un olio di Amos Cassioli, 1860, e una xilografia del 1882. Poi medaglie dell”800 con la sua effige e una fotografia  del 1935 dell’americano Mortensen  che ritrae un modello atteggiato  a Machiavelli. C’è anche una cassa nuziale con lo stemma della sua famiglia.

L’inquadramento storico con l’arte si ha attraverso una serie di dipinti ottocenteschi che vanno da scene della Congiura dei Pazzi – ritrovamento del corpo di Jacopo e il commiato di Raimondo dalla moglie – alla morte di Lorenzo il Magnifico, ai ritratti a olio di Savonarola, del quale ci sono alcuni cimeli, come il suo bastone e il collare del supplizio. E poi i grandi ritratti di papi, coevi,  il Ritratto di Leone X, di Jocopino del Conte, XVI secolo, e il celebre “Ritratto di Clemente VII”, di Sebastiano del Piombo; nonché ritratti  più piccoli ad Alessandro VI, di Cristofano dell’Altissimo, 1568, e a Giulio II.

Poi la 2^ sezione su “L’arte della guerra”, l’opera con tale titolo che, pur successiva al “Principe” essendo stata scritta tra il 1516 e il 1520,  fu pubblicata nel 1921, cioè 11 anni prima: il testo originale è esposto nella mostra, insieme a molte “cinquecentine” e a varie armature storiche;. una rotella da parata, una manopola da lancia, un elmetto, tutti risalgono tra il 1510 e il 1550.

E così si arriva alla 3^ sezione dedicata a “Il Principe”, con una documentazione quanto mai ricca di  testi dell’epoca. Ci sono le prime copie a stampa uscite a Firenze e Roma nel 1932, con un codice manoscritto: ne esistono solo 19 in tutto il mondo, è un documento raro che si può vedere in una delle tante vetrinette. Ma tanti ne sono esposti, da sfuggire alla nostra sommaria rassegna.

Vediamo anche preziose traduzioni in francese, inglese e latino, tra il ‘500 e il ‘600; e un video con l’attore Francesco Savino che legge  la lettera del 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori  in cui Machiavelli annuncia di aver compilato l’opera.

Anche qui l’arte è abbinata alla documentazione libraria: vediamo due ritratti  a olio di  Cesare Borgia., sempre del ‘500, e due dipinti ottocenteschi con la legazione di Machiavelli, segretario fiorentino, da  Cesare Borgia, e poi  Cesare Borgia che lascia il Vaticano. E’ Il Principe all’opera. 

Anonimo, “Ritratto di Girolamo Savonarola”,  ante 1521

Le ultime sezioni, fino all’attualità

“L’importanza dei classici nella sua formazione” è il tema della 4^ Sezione: vi sono esposti i “Discorsi” di Machiavelli  sulla prima decade di Tito Livio”, nonché testi di Livio e Virgilio, Svetonio e Cicerone,  in edizioni cinquecentesche. Per l’arte sono esposte due sculture, un “Ritratto di Caracalla“, 212-17 d. C., e un “Busto di Vespasiano”, 69-79 d. C.

Poi la “Fortuna e diffusione del Principe”, nella 5^ sezione sono esposte copie appartenute a celebrità della cultura e dell’arte, che ci riportano a importanti personaggi come Benedetto Croce;  così le interpretazioni, in particolare quella di Antonio Gramsci nei “Quaderni dal carcere”, del 1930-33. Vediamo anche alcuni commenti e annotazioni sul “Principe”, da parte di Cavour. Hanno provato interesse per Machiavelli personalità  come Mussolini e Gentile, e nella sezione questo viene documentato, vediamo la rivista  “Gerarchia” con un  “Preludio al ‘Machiavelli”.  C’è anche uno scritto di Craxi. Sono esposte molte  edizioni annotate dell’opera nei primi trent’anni del ‘900.  Una spettacolare esposizione delle moltissime edizioni in tutte le lingue corona questa sezione.

La mostra si conclude con un momento leggero, dopo tanta concentrazione culturale, la 6^ sezione sull’“Uso e abuso che si fa nel nostro tempo del ‘Principe'” e del suo autore. Ebbene, c’è di tutto, giochi da tavola e videogiochi, cartoline e francobolli, fino ai libri di marketing, che prendono  lo spunto dalla sua filosofia politica per trarne inopinate applicazioni. Comunque si voglia giudicarle, riflettono la grande notorietà dello scrittore e della sua opera, ben al di fuori degli addetti ai lavori.

Che dire per concludere? Dopo la  mostra si torna a casa e si va a cercare “Il Principe”. Con tanta voglia di rileggerlo, o di leggerlo se non lo si conosce, i suoi 500 anni non li dimostra di certo.

Info

Complesso del Vittoriano, Salone centrale, zona Fori imperiali,  via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, compresi domenica e lunedì, ore 9,30-19,30 (accesso consentito fino a 45 minuti prima della chiusura). Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664. Catalogo: “Il Principe di Niccolò Machiavelli e il suo tempo. 1513-2013”, a cura di Alessandro Campi con Marco Pizzo, edito dall’Istituto per l’Enciclopedia Treccani, 2013, pp. 511, formato 24×24, euro 39;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini riferite a Machiavelli sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, “Ritratto di Niccolò Machiavelli“, di Antonio Maria Crespi detto il Bustino, fine XVI-inizi XVII secolo, seguono una delle vetrinette con pubblicazioni originali  d’epoca e “Ritratto di gentiluomno (Cesare Borgia)“, di Altobello Melone, XVI secolo, poi “Historie fiorentine”, manoscritto di Niccolò Machiavelli, e “Ritratto di Girolamo Savonarola”, di Anonimo, ante 1521; in chiusura,  l’esposizione in mostra delle Edizioni contemporanee del “Principe” nelle diverse lingue.

  Le Edizioni contemporanee del “Principe”  esposte in mostra nelle diverse lingue

Cubisti cubismo, in pittura, arte e costume, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra “Cubisti Cubismo” espone al Vittoriano dall’8 marzo al 23 giugno 2013  oltre 100 opere cubiste, con i celebri quadri pittorici da Picasso e Braque a Leger e Greizes, da Gris e Metzinger a Severini e Soffici, in una straordinaria galleria di scomposizioni e sfaccettature di volumi che caratterizza lo stile cubista. Al piano superiore dell’esposizione dal cubismo si passa ai cubisti,.cioè alle diverse forme di arte oltre alla pittura con le quali il cubismo entrò nella vita della società del primo Novecento, dal balletto alla musica, dalla moda all’architettura, fino alla letteratura. Charlotte Eyerman ha curato la mostra pittorica e il Catalogo SkiràSimonetta Lux il cubismo nelle altre arti. 

Pablo Picasso, “Busto”, 1907-08

Dopo le mostre su impressionismo ed espressionismo, dadaismo e surrealismo al Vittoriano e la mostra sul futurismo al Palazzo Esposizioni Roma, l’attuale mostra sul cubismo completa la gamma di grandi esposizioni sui movimenti artistici entrati nella storia dell’arte e del costume del Novecento.  La spinta del movimento e del dinamismo e la sua diffusione pervasiva nella vita  dell’epoca richiama il fenomeno futurista, che nello stesso periodo in Italia sprigionò una forza quasi di portata rivoluzionaria, in tutti i campi, si pensi ai vari “Manifesti”, e nella vita,  le concezioni sulla guerra “igiene del mondo” portarono i futuristi ad andare al fronte da volontari .

Il cubismo, le matrici parigine di un movimento mondiale

Per il cubismo si deve parlare di movimento sopranazionale: nato in Francia, si diffuse a macchia d’olio non solo in Europa, dalla Spagna all’Italia,  dall’Inghilterra alla Cecoslovacchia; ma anche in America, dagli Stati Uniti al Messico. La mostra dà conto di questa dimensione internazionale con  le opere degli artisti di tali paesi ottenute da prestiti ottenuti dai musei più prestigiosi del mondo e da una serie di collezionisti privati; per questo motivo, pur essendo organizzata cronologicamente, ha sezioni nazionali oltre che tematiche.  

Ma quale fu la molla che diede al cubismo una così forte presa sul mondo del primo Novecento?  Forse il fatto che in un periodo di forti cambiamenti sul piano politico e sociale a livello mondiale  scomponeva le immagini fino ad allora statiche rendendole sfaccettate e mutevoli, come la realtà in movimento. Per questo ha dato la sua impronta anche ai periodi successivi, in particolare alla fotografia e  al cinema, oltre che alla pittura e scultura.

E questo attraverso “le forme spezzate, i piani sovrapposti, il dinamismo, la simultaneità e il collage, di cui il cubismo fece un uso pionieristico”, afferma la curatrice Charlotte Eyerman. Ma non era solo un nuovo stile compositivo, bensì  l'”espressione di un nuovo progetto di vita: il sogno di una vita collettiva nella metropoli moderna,  un inno all’esistenza primitiva e rurale, o una sintesi ideale tra estetica e quotidiano, ovvero l’unione di arte e vita”.   Si vuol rappresentare una visione nuova, la “coscienza collettiva”, che determina un atteggiamento molto diverso rispetto alla realtà, nella compenetrazione tra passato  e presente, di qui la scomposizione delle forme e dei volumi.

George Braque, “Parco a Carriéres Saint Denis”, 1909

A Parigi Picasso e Braque, Gris e Léger diedero avvio  a una visione nuova dell’arte pittorica, non più narrazioni eroiche o scene allegoriche, bensì brani di vita quotidiana, caffè e tavoli, bottiglie e bicchieri, giornali e arnesi vari, riprodotti  nelle loro sfaccettature spesso in monocromia, che racchiudevano di solito un enigma da decifrare. “I dipinti – scrive la Eyerman – fungevano da rifugi immaginari dalla vita alienante e dai ritmi forsennati della metropoli moderna, rappresentando un mondo ideale fondato sul piacere, il cameratismo, l’artigianalità e lo spirito di collaborazione”.  Picasso, rievocando questo inizio, ha detto: “Quando inventammo il cubismo lo facemmo sensa intenzione. Volevamo soltanto esprimere quello che avevamo dentro”.

Poi c’era il secondo gruppo parigino,con Gleizes, Metzinger e la Fauconnier, associati a una comunità utopistica, con la concezione che nella metropoli moderna era nata una nuova mentalità collettiva che l’arte doveva saper decifrare e interpretare.  Superamento dell’individualità per il nuovo pensiero comunitario, compenetrazione di passato e presente in nome della simultaneità.

Il padre del movimento è ritenuto Pablo Picasso, e il dipinto apripista “Le Demoiselles d’Avignon”, con la sua rappresentazione di prostitute in un bordello che diede scandalo. Era l’insofferenza per gli schemi tradizionali e la spinta verso il nuovo a rendere attraenti nuovi modelli, dalle maschere africane alle riflessioni di Cezanne su forma e colore alle semplificazioni di Henri Rousseau. A Picasso si associò subito Braque, preso dal fascino dell’opera ora citata di cui disse:”E’ come se uno avesse bevuto cherosene per sputare fuoco”,  la loro collaborazione si protrasse per sette anni, e Braque definì se stesso e il collega due alpinisti nella scalata in cordata. Picasso proseguì con spirito sempre rivoluzionario, Braque utilizzò un classicismo modernizzato attraverso la particolare visione innovatrice di Cezanne che fu  la matrice prima della svolta cubista.

Del secondo gruppo parigino il dipinto monstre fu “L’abbondanza” diLe  Fauconnier, che esprimeva il vitalismo, cioè la forza vitale  secondo il pensiero filosofico di Henri Bergson.  Gli altri artisti, in particolare Léger, Gleizer e Metzinger, svilupparono un cubismo fatto di contrasti di forme, linee e colori, vicino all’astrazione.

David Cottington riassume le due linee cubiste come cubismo delle gallerie  improntato a classicismo e riflessività il primo, con in testa Picasso e Braque; cubismo  dei Salon improntato al dinamismo della modernità il secondo, con i artisti appena citati.

Quindi Robert e Sonia Delaunay, sulla loro scia, si impegnarono nella sperimentazione in contatto con Klee e Kandinskji, arrivando all’astrattismo. Fernand Léger potò lo spirito cubista anche nel teatro.

Con queste note di inquadramento di un fenomeno vasto e complesso passiamo alle opere in mostra. E’ così  a l’esposizione che potremo  soffermarci poco sui grandi artisti, quelli sopra citati.

Auguste Herbin, “Mulattiera a casa a Céret”, 1913

Le opere esposte del grande cubismo, a partire da Picasso

L’ordine della mostra è sostanzialmente cronologico, con delle isole tematiche e nazionali, la percorreremo cercando di dare il senso dell’evoluzione dal 1909 al 1925 con le ultime del 1941-58.

Picasso lo troviamo all’inizio, alla fine e nella fase intermedia, da vero mattatore del cubismo. Inizia con “Busto”, 1907-08, e “Nudo”, 1909, non c’è ancora la sua tipica scomposizione dei volti , ma la matrice cubista è molto netta sin dall’inizio, il segno è marcato, le forme ben enucleaate.

Seguono 10 acqueforti di Braque, tra il 1907 e il 1912, hanno tratti delicati, una vera scuola di scomposizione cubista resa più didattica dal segno sottile, in due di esse la parola cubista compare nel titolo a fianco al soggetto raffigurato, “Nudo” e “Piccola chitarra”‘. Ritroviamo nei dipinti a olio “Un bicchiere di assenzio” e “Il violinista”, del 1911-12, la delicatezza dei disegni cubisti.

Dal cubismo delle gallerie dei due antesignani, a quello del Salon con il “Ritratto della signora Metzinger”, di Jean Metzinger, un vero archetipo di scomposizione di un viso e un busto, mentre per l’intera persona, dignitosamente seduta in abito e cravatta, c’è il “Ritratto di Jacques Nayral”, 1911, di Albert Gleizes, altrettanto espressivo ed eloquente. L’artista è curiosamente ripreso da Metzinger in una scomposizione ancora più pronunciata nel “Ritratto di Albeert Gleizes”, 1911-12.

Nel 1912 con “La processione, Siviglia”, di Francis Picabia, entra in campo il colore e ci si allontana del tutto dal figurativo, non si intravedono le figure originali nei tanti pezzi della scomposizione, come avviene per “Puteaux: fiuni e alberi in fiore”, di Jacques Villon; invece  “Tavolo e sedie”, di André Derain; e “Veduta di città”, di Jean Marchand, sono ancora legati al figurativo.

Una nuova spallata la dà Picasso, con “Chitarra e violino”, 1912-13, una scomposizione magistrale,cui fa eco “Paesaggio”, di Albert Gleizes, magistrale nel sezionare i grandi spazi.

Tornano immagini vagamente figurative in “Militare”, di Marsden Hartley e “Mulattiera a casa a Céret”, ma “Composizione”, di Wyndham Lewis è vicina all’astrazione, come del resto il titolo. Astrazione di matrice cubista cui perviene Hartley in “Movimento n. 8, Provincetown”. Ma ecco le due opere di Gino Severini, “Autoritratto con cappello di paglia”, e “Natura morta con la rivista ‘Lacerba’”, siamo sempre nel 1913, tinte pastello, inconfondibile raffinatezza intellettuale.

I giornali tornano con Ardengo Soffici, “Cocomero e liquori”, è il 1914, l’anno del quale sono esposti anche “Natura morta” di Diego Rivera, e “Ritratto di medico militare”, di Albert Gleizes, nel quale con la scomposizione cubista riesce a realizzare anche un sorprendente effetto umoristico. E il bronzo “Busto cubista”, di Otto Gutfreud, nonché l’olio  “New York”, di Max Weber.

Con il 1915 compare Fernand Léger, per ora con due disegni “Ricordo di guerra”,  frutto dell’esperienza personale di quattro anni trascorsi sotto le armi nella Grande Guerra, l’opera più significativa sarà “Partita a carte”, del 1917, con i motivi della guerra e del gioco in stile cubista. In mostra vediamo esposti “Movimento n. 8 , Provincetown”, 1916, e “Invenzione”, 1918, “Disco per la strada” e “L’autista negro”, 1919:  si nota subito la sua predilezione per il rosso, giallo e blu, colori primari che illuminano le sue forme metalliche, emblema della civiltà industriale.

Ardengo Soffici, “Cocomero e liquori”, 1914

Il 1919 è l’anno dei tre dipinti di Juan Gris, “Giornale”,  “Caraffa e ciotola” , “Chitarra e piatto di frutta”, scomposizioni pacate, si potrebbe dire, senza dinamismo né meccanicismo progressista. Come la “Natura morta con chitarra”, di Gino Severini, in una successione di piani compresenti.

Tra il 1919 e il 1922 torna Picasso, 10 piccoli “pochoir”, provenienti dal Gabinetto cantonale delle stampe  di Vevey, si vede la mano del grande Maestro ma in una forma espressiva inconsueta, molto bianco , celesti e rosa, ritagli di sagome posti come nei collage, E’ lontana la veemenza espressiva dei segni marcati di “Busto” e “Nudo” citati all’inizio, dieci anni dopo è un altro Picasso.

E’ come un “arrivano i nostri”, tornano anche Braque, Léger e Gris, con nature morte. Braque nel 1921, e la chiama “Natura morta cubista”, Léger e Gris nel 1922  solo “Natura morta”, ma non sono meno cubiste della prima, in Léger il solito meccanicismo metallico  in forte rilievo, negli altri due una scomposizione pittorica con gli elementi posti in ordine sul piano. Dello stesso 1922 il cubismo  di Jean Lurcat in “Composizione”, con diversi oggetti non scomposti ma assemblati, e quello di Ivon Hitchens, in “Il fienile curvo”, due casupole quasi figurative sommerse  da una foresta cubista.

E la figura umana? La ritroviamo nel “Ritratto di Dostoevskij”, di Frantisek Foltyn, impressionante immagine cubista che riesce a rendere i suoi personaggi allucinati nel volto del grande scrittore immerso in un ambiente al quale la scomposizione cubista dà l’impareggiabile fascino del mistero.

I “ritorni” non sono finiti, l’esposizione è cronologica, quindi li ritroviamo dopo tanto cammino compiuto. Ecco di nuovo  Gleizes in “Natura con sette elementi”, una grande tela di oltre 260 per 180 cm, spettacolare nella sua verticalizzazione con fasce di colori intensi e armoniosi, l’opera è datata 1924-34. Mentre è del 1925 “Composizione”, di Léger, quadri sovrapposti enigmatici, con una piccola siluette femminile, non c’è più il meccanicismo metallico di sempre.

La carrellata si chiude, sono trascorsi 18 anni dal primo “Busto” cubista di Picasso, e sappiamo che il grande Pablo porterà ancora molto avanti questo linguaggio con il suo ineguagliabile talento. E’ giusto che le ultime opere esposte siano le sue e non si fermino agli anni appena considerati.

Abbiamo  due dei soggetti che abbiamo incontrato finora, la natura morta e il ritratto di persona. Il primo è dl 1941, “Natura morta con fiori e limoni”, dove ritroviamo le linee marcate e il cromatismo deciso nella estrema semplificazione geometrica delle forme. L’altro è del 1958, “Donna accovacciata”, è il Picasso che conosciamo meglio, quello delle forme non solo scomposte ma spostate dalla loro posizione naturale con lo straordinario effetto di dinamismo che rende le figure ancora più reali perché viste non nell’attimo statico ma nella presenza mobile e dinamica.  

In fondo è la “quarta dimensione” evocata da  Apollinaire fin dal 1911 alla mostra dei cubisti alla Galerie d’Art ancien et contemporain” e negli scritti “La peinture nouvelle” del 1912 e “Les peintres cubistes” del 1913, quella cui erano giunte le più ardite concezioni scientifiche, così enunciate  da Poincaré fin dal 1902 in “La Science et l’Hypothése”: Dato che gli oggetti sono mobili, come lo è anche il nostro occhio, noi vediamo successivamente di uno stesso corpo diverse prospettive, prese da molteplici e diversi punti di vista. E’ in questo senso che è permesso dire che ci si potrebbe rappresentare la quarta dimensione”. Come ha fatto Picasso in modo ineguagliabile.

Frantisek Foltyn, “Ritratto di Dostoeskij”, 1922 

I cubisti nelle arti legate alla vita e al costume

Le motivazioni alla base del  cubismo trovarono modo di esprimersi  nelle forme d’arte diverse dalla pittura  ancora più legate al nuovo atteggiamento verso la vita, all’insegna di quella che, lo abbiamo ricordato, fu chiamata “coscienza collettiva. Simonetta Lux, curatrice della parte della mostra sui cubisti nelle altre arti, lo definisce “senso del movimento della coscienza e  della vita, interiore o meccanica, il trascinamento nel dinamismo della vita concreta ma anche del pensiero”.

E precisa: “”Non a caso soprattutto nelle arti performative e nel cinema, confluiscono i nodi del vitalismo, del parossismo psichico e fisico proprio del vissuto urbano o la trasformazione della cultura mistico-esoterica nella filosofia dell’unanimismo, nella quale la soggettività umana appare  dissolta nell’indistinta unità dell’individuo con gli altri e con l’ambiente”.  Con queste premesse “le incursioni degli artisti in questi ambiti nuovi o rinnovati del linguaggio raggiungono  quella intensità di comunicazione che era preclusa alla grande arte figurativa, se pure rinnovata”.

Saliamo al piano superiore dell’apparato espositivo centrale del Vittoriano e, superate  le interessanti vetrinette con documentate le incursioni del cubismo nella poesia e nella letteratura, siamo colpiti da due  ricostruzioni di figure teatrali  alte più di due metri, che si stagliano sul resto dell’esposizione..Sono due figure di scena per “Parade”, il balletto su tema di Jean Cocteau, con decorazioni e costumi di Pablo Picasso, entrambe inconfondibili, la prima è una figura umana interamente cubista, l’altra un cavallo  dalla forte dentatura in grande evidenza.

E chi ritroviamo ancora? Fernand  Léger, in schizzi di scenografie e  costumi, in grafite e acquerello, per i balletti “Skating Rink” “La création du monde”. Per il primo balletto le due scenografie sono molto colorate, alle figure sono mescolati elementi scomposti, l’insieme esprime forte dinamismo; mentre per il secondo nella scenografia c’è tutto il Léger dei forti contrasti di elementi metallici in una avveniristica “civiltà delle macchine”, I costumi  sono schematici, con tagli orizzontali o verticali, sono stati anche ricostruiti due abiti di “Staking Rink”, quasi a voler pareggiare, dimensioni a parte,  la ricostruzione dei due costumi di scena di Picasso per “Parade”. Non sono i soli schizzi esposti, vi sono anche quelli di Ljubov Popova per “Il magnifico cornuto”.

Oltre al  teatro i cubisti entrano nel cinema, e chi ritroviamo su questo versante? Leger, ancora lui. Addirittura come autore del film “Ballet macanique”, con Dudley Murphy, del 1924, oltre che della scenografia del film “L’hinumaine”, di Marcel L’Herbier, del 1925, vediamo esposta la locandina con due figure inquietanti in un ambiente  geometrico che le sovrasta. Sul “Ballet mananique” ha detto parole illuminanti sul rapporto tra le diverse forme di espressione cubista: “Il film è nato, in fondo, dalal mia pittura. A quel tempo realizzavo quadri con elementi animati, con oggetti liberati da ogni atmosfera,e ripuliti da ogni rapporto”.   

Attraverso l’arte i cubisti entravano nella vita, abbiamo visto i costumi di scena di Picasso e Léger, troviamo anche quelli di Sonia Delaunay per il teatro e il cinema, che nascevano a seguito di intense frequentazioni con i poeti, primo tra essi Apollinaire. Il suo “Atelier Simultané” era all’insegna del “vestire cubista”: non si trattava di moda, e si esprimeva nel cinema  e teatro, musica e balletto. Sono esposti una diecina di “Progetti di tessuto”, realizzati tra il 1923 e il 1932,  figure geometriche scomposte e  assemblate con forti  contrasti cromatici  tra rossi e neri, grigi e gialli.

Sono ancora tessuti prodotti soprattutto per lo spettacolo, ma i cubisti sono già entrati nella vita di tutti attraverso il design fin dal 1913. A tale anno risalgono, infatti, il “Tavolino da toilette” e il “Tavolo tondo”, la “Sedia” e il “Vassoio circolare con figure a intarsio di lottatori” in evidente stile cubista. Come i disegni in una serie di “Piatti”, geometrici e con figure, gli “Schizzi per tappeti”, fino alla “Scatola cubica” con disegni geometrici, e alle “Pantane per lampade” blu e arancione.

Con questi oggetti di uso comune, anche se per amatori, i cubisti entrano addirittura nelle case, non aspettano che si vada a teatro,  a cinema o a una mostra di pittura  Quindi siamo proprio nei salotti delle abitazioni, ma non basta. Scopriamo l’architettura cubista,  presentata  con gli schizzi dei progetti di Pavel Janak per la “Fara House” e di Josef Gocar per una “Scuola a Chatebor” e per l'”Arredamento della casa dell’attore Boleska”, sono figure del design e architettura della Cecoslovacchia.  Inoltre vediamo  immagini di realizzazioni, come la “Facciata della stazione termale di Bohadanec”, e “Arredamento cubista”, entrambi del citato Gocar, fino all’“Edificio residenziale” di Josef Chochol e alla “Maison Cubiste”, costruita da Raymond Duchamp-Villon.

Siamo intorno al 1912-14, la città è Praga, i progetti di “installazioni architettoniche cubiste” furono presentati nei saloni espositivi di allora, perfino a New York, poi Chicago e Boston. E’ difficile spiegare come in architettura si sia operata la scomposizione cubista , con timpani e vani finestre nei quali risaltano raggere e triangolazioni, forme geometriche come quadrati, ovali e trapezi-  Nella mostra lo si è potuto vedere nelle immagini di progetti e realizzazioni con il colpo da maestro finale costituito da plastici di case cubiste che fanno apprezzare come il cubismo entri  nell’architettura.

Uscendo dalla mostra ripensiamo a quanto scrisse Apollinaire:nei “Peintres cubistes”. Dopo aver premesso che “la geometria sta alle arti plastiche come la grammatica sta all’arte dello scrivere”, aggiunse: “Oggi gli scienziati non si attengono più alle tre dimensioni della geometria euclidea. Così, come si offre allo spirito, dal punto di vista plastico, la quarta dimensione sarebbe generata dalle tre dimensioni conosciute; essa rappresenta l’immensità dello spazio, che si eterna in tutte le dimensioni in un movimento determinato. E’ lo spazio stesso, la dimensione dell’infinito, e dà plasticità agli oggetti”.  

Dopo aver visitato l’esposizione tutto questo sembra ancora più vero. Diego Rivera ci fa capire come ciò avvenga: “Il cubismo ha scomposto forme esistite per secoli e ne ha utilizzato i frammenti per creare nuovi oggetti, nuovi modelli e, in definitiva, mondi nuovi”. E Pierre Reverdy ha detto: “Il cubismo è in pittura quello che la poesia è in letteratura”. Non è poco di certo.  

Info

Complesso del Vittoriano, lato Fori Imperiali, via San Pietro in carcere, Roma. Tutti i giorni, compresi domenica  lunedì, dalle ore 9,30 fino alle 19,30 da lunedì a giovedì, alle 23,30 venerdì e sabato, e 20,30 domenica (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,00. Tel. 06.6780664; fax 06.3224014. http://www.comunicareorganizzando.it/. Catalogo: “Cubisti Cubismo”, a cura di Charlotte Eyerman, Skira, 2013, pp. 280, formato  24×28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Sulle mostre delle diverse tendenze artistiche, cfr. i nostri servizi in “cultura.abruzzoworld.com” : per Picasso il  4 febbraio 2009 (con Bellini), de Chirico il  27 agosto, 23 settembre, 22 dicembre 2009 e  l’8, 10, 11 luglio 2010 ,  i Dada e surrealisti il 30 settembre, 7 novembre, 1° dicembre 2010 e il 6 – 7 febbraio sempre del 2010;  i capolavori dello Stadel Museum i tre articoli tutti il 13 luglio 2011; in questo sito per gli artisti di espressionismo astratto, Pop Art e minimalismo del Guggenheim  il 22 e 29 novembre e l’11 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia Comunicare Organizzando con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, Pablo Picasso, “Busto”, 1907-08; seguono George Braque, “Parco a Carriéres Saint Denis”, 1909, e Auguste Herbin, “Mulattiera a casa a Céret”, 1913, poi Ardengo Soffici, “Cocomero e liquori”, 1914, e   Frantisek Foltyn, “Ritratto di Dostoeskij”, 1922; in chiusura, Pablo Picasso, “Donna accovacciata”, 1958.

Pablo Picasso, “Donna accovacciata”, 1958
 

Tiziano, 2. I quattro periodi di vita artistica, alle Scuderie

Si conclude il nostro racconto della mostra “Tiziano”, alle Scuderie del Quirinale, dal 5 marzo al 16 giugno 2013. Dopo averne tratteggiato la vita artistica passiamo alle circa 40 opere esposte, in quattro sezioni: 1490-1518 la giovinezza, 1518-30 l’affermazione; 1530-50 la maturità; 1550-76 il Tiziano tardo. Sono presenti i tre tipi di opere: 16 sono di tema sacro, 14 ritratti e 9 di soggetto mitologico. Sarà una carrellata nell’espressione artistica delle quattro fasi della sua vita seguendo l’articolazione cronologica della mostra nella quale è costante la  tripartizione tematica. La mostra è il culmine di un ciclo di grandi esposizioni di sommi artisti alle Scuderie, aperto da Antonello da Messina, poi Bellini e Lorenzo Lotto, Tintoretto e Tiziano. 

“Danae e la pioggia d’oro”, 1544-45

La fase giovanile, fino al 1518

Nel periodo 1490-1518, la fase giovanile, nella sua formazione, come si è visto, ci furono i fratelli Bellini finché con Sebastiano del Piombo si accostò a Giorgione dalla cui riforma tonale  prese lo spunto per strutturare forme e volumi non più con il disegno ma con il colore modulato dalla luce. Le figure si stagliano nette, mentre anche nel paesaggio, se in “Orfeo ed Euridice” applica le nuove soluzioni di Bosch, in altre opere segue Giorgione che fa dialogare l’ambiente con i personaggi.

Roberto Longhi nel 1946 evidenzia così le novità dell’allievo rispetto a Giorgione: “Al contrario del colore fuso e vellutato , magicamente impastato d’ombra, di quest’ultimo, il Vecellio esordì con una pittura lucente, tanto libera  e quasi ferocemente astratta, quanto quella del suo maestro  voleva rendere la misteriosa realtà atmosferica della visione; dove la saturazione del colore suggeriva profondità e distanze, costruendo la superficie pittorica, come un mosaico, a castoni di colore”.

Dei 10 dipinti esposti 5 sono Opere sacre:  “Madonna col Bambino”, 1507,  e “Battesimo di Cristo”, 1512, “Il vescovo Jacopo Pesaro presentato a san Pietro da papa Alessandro VI”, 1512-13, e “La Madonna con il Bambino e i santi Caterina d’Alessandra e Domenico con il donatore”, 1523-14, fino a “Cristo porta croce con il manigoldo”, 1514: emerge,  pur in diversa misura, come dipinga senza disegno dando alla plasticità del  colore il compito di abbozzare forme e volumi.

Per gli altri temi 2 sono di Ritrattistica: “Il concerto interrotto”, 1512, con dinamismo e  intensità psicologica, e “Ritratto di giovane con cappello e guanti”, 1515, pervaso di malinconia e  inquietudine. E 3 dipinti assimilabili nella forma ai ritratti, , anche se su Soggetti  mitologici nei contenuti: “Giuditta” e “Salomè con la testa di Battista”,  1516,fino a “Flora”, 1517,  figure dalla carne morbida, la testa reclinata  e l’espressione languida. “Flora”, in particolare, è una luminosa immagine di bellezza femminile nella quale, osserva il curatore Villa, “già si intuisce la crepitante qualità dell’impasto cromatico che contraddistinguerà le scelte mature di Tiziano”, e le sue “Belle”.

Scrive Marco Lucco: “La fase del cromatismo cromatico di Tiziano si è definitivamente chiusa: da fenomeno veneziano, per quanto di notevole peso, egli diveniva ora di caratura internazionale, richiesto e ammirato ovunque, e pronto a essere conteso, a peso d’oro, da ogni sovrano d’Europa”.

“Ritratto di Carlo V con il cane”, 1533

L’affermazione tra il 1518  e il 1530

Del periodo nel quale si ha la sua affermazione, 1518-30,  nelle Opere sacre va oltre  lo stile di Bellini  valorizzando i dettagli del soggetto per dare un tono illusionistico, e questo con l’uso magistrale e innovativo di ombra e luce, insieme al colore.

Questa fase si apre con l'”Assunta”, 1518, la gigantesca pala d’altare della basilica veneziana di Santa Maria Gloriosa dei Frari, di cui Lodovico Dolce nel 1557 scriveva dopo quarant’anni dalla realizzazione, che era una miscela tra “la grandezza e la terribilità di Michel’Agnolo, la piacevolezza e venustà di Raffaello, e il colorito proprio della Natura”.

La mostra espone 4 dipinti. Due sono Opere sacre, precisamente “Vergine con il Bambino in gloria, con i santi Francesco e Biagio e il donatore Alvise Gozzi”, 1520,  e“Apparizione della Madonna con il Bambino ai santi Caterina di Alessandria, Nicola di Bari, Antonio da Padova, Francesco d’Assisi e Sebastiano, detta Madonna di san Niccolò dei Frari”, 1522-26.

Il primo dipinto richiama  l'”Assunta”:  in entrambi la Madonna è sospesa su una nuvola tra gli angioletti, e dal basso si rivolgono a lei, tra forti chiaroscuri.. Anche nel secondo dipinto è sulla nuvola e guarda verso la terra, i santi allineati sembrano meditare, non si protendono in alto come i precedenti, san Nicola rivolge gli occhi al cielo avvolto in un piviale reso prezioso dai particolari;  Goethe, su questa pala, scrisse: “Risplende ai miei occhi più di qualsiasi altro quadro veduto sino ad oggi. Non so distinguere se se ciò dipende dal fatto che il mio intelletto possiede  ormai più esperienza o se è perché è veramente il quadro più perfetto di quanti io abbia mai veduto”.

Le altre due opere sono Ritratti: “Tommaso (?) Mosti”, 1520, e “Uomo col guanto”, 1524-25. Tra i due soggetti c’è un’evoluzione nella figura e nell’abbigliamento:  nel secondo è raffigurato oltre la vita e si vedono le mani,  l’abito è più aderente e moderno, e c’è una certa introspezione psicologica che non vedremo nei successivi ritratti di corte dove teneva a sottolineare la posizione sociale.

“Ritratto di Paolo III senza camauro”, 1543

La maturità tra il 1530 e il 1550

Del terzo periodo, la maturità, tra il 1530  e il 1550,  sono esposti 13 dipinti, 5 Opere  sacre , 7 Ritratti e un’Opera mitologica. E’ considerata da alcuni la fase della “crisi manieristica”  nella quale, comunque, cresce  la fama per l’esclusiva sui propri ritratti datagli dall’imperatore Carlo V . L’influenza di  Michelangelo si fa sentire nella monumentalità delle composizioni, mentre si avverte un’evoluzione, così descritta da Miguel Falomir: “La tendenza incipiente a un uso più tonale e meno ricercato del colore e a una pennellata ‘disfatta’, che caratterizzerà il suo stile alla fine degli anni quaranta del secolo”.

Cominciamo dai Ritratti, c’è  la più ampia esposizione tra le diverse fasi, per cui si possono fare considerazioni complessive. La cura della composizione prevale sul cromatismo, c’è molta attenzione alla struttura della figurazione nell’aderenza alla realtà, ma ci si rivolge ai posteri.

Abbiamo appena citato due  ritratti tipici del periodo iniziale, nei quali l’espressione riflette l’intento della committenza non vincolata a posizioni auliche da privilegiare, come avverrà in questo periodo con i ritratti di grandi personaggi, in testa l’imperatore.  Per Carlo V era fondamentale diffondere nell’impero un’immagine adeguata alla sua potenza e insieme alla sua saggezza, c’è il ritratto con la spada alzata e quello di “Carlo V con il cane”, 1533:  ha anche una spada  e un pugnale ma sono poco visibili, più come parte dell’abbigliamento regale che come armi.  Il ritratto è a figura intera, un’immagine di forza tranquilla rassicurante per la pace dell’impero. C’era l’intento di dare al rapporto tra imperatore e artista lo stesso forte significato  del rapporto tra Alessandro Magno e Apelle, in una classicità  prestigiosa ed evocativa di grandezza.

“Giulio Romano”, 1536, viene ritratto con dinamismo mentre mostra un prospetto architettonico della sua professione, mentre  “Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino”, 1536-38, è chiuso in un’armatura da cavaliere mentre impugna il bastone di comando, con un’espressione in viso tesa e determinata.  Ben diversi i ritratti  di “Benedetto Varchi”, un giovane erudito vestito di nero con un libro in mano, e di “Ranuccio Farnese”, dalla giubba con riflessi rossi impreziosita d’oro, ritenuto un capolavoro della ritrattistica infantile, diremmo adolescenziale data la sua età.

Altrettanto impreziosito il “Ritratto del cardinal Bembo”, 1542,  realizzato in mosaico da Valerio Zuccato sul cartone di Tiziano: è spettacolare la testa dalla lunga barba bianca che riempie la scena, con il contrasto cromatico della mantella traslucida in raso cremisi e della cartella blu nelle mani. E’ dell’anno successivo il “Ritratto di Paolo III senza camauro”, 1543: anche qui la barba bianca ma non è la testa il particolare in evidenza, quanto la mantella  ugualmente cremisi, percorsa da riflessi di luce per dare movimento a una figura che mostra la sua vecchiezza, nel viso solcato da rughe, pur se gli  occhi  sono vivaci, e nella mano destra rinsecchita con le vene quasi scolpite.

“Deposizione di Cristo nel sepolcro“, 1559

Completa la sezione dei Ritratti  “La Bella”, 1936,  di cui Margaret Binotto scrive che “corrisponde perfettamente nei tratti fisionomici e nell’abbigliamento ai canoni della bellezza rinascimentale”: la veste blu è intessuta d’oro, la lunga collana  pende sul seno, che si intuisce sotto la veste e di cui risalta il biancore nella scollatura, mentre il viso è soffuso di rossore. 

A questo accostiamo  “Danae  e la pioggia di monete d’oro, una composizione alla quale  vengono attribuiti significati simbolici nelle monete che piovono dall’alto come trasformazione di Giove o riferimenti agli amori mercenari del cardinale Alessandro Farnese, nipote di Paolo III.  Per renderne l’aspetto spettacolare riportiamo i commenti citati dalla Binotto: Venturi ha scritto  nel 1928 che il colore, “perduta l’antica compattezza, brilla traverso il velo di un’atmosfera satura d’oro”; secondo Pallucchini nel 1969 e ’77 , “avviluppa la forma fino a farla partecipare all’atmosfera”, e più in generale “Tiziano ha sfrondato la composizione di tutti gli elementi inutili ed esornativi; l’ha scarnificata fino ad un’essenzialità che è certo uno dei caratteri più validi di un’opera d’arte”.

Dopo questa immagine coinvolgente passiamo alle Opere sacre del periodo scegliendo di cominciare da “Maddalena”, 1531-35,   simbolo di bellezza muliebre al punto che Fogolari nel 1935 ha scritto: “Tra Venere e Maddalena poca differenza”; e Rearick, nel 2001. sempre nelle citazioni colte della Binotto, sottolinea “il pentimento di una Maddalena con gli occhi sbarrati e intrisi di lacrime cristalline, le labbra tremanti, le mani atteggiate  in un gesto  di modestia e soprattutto uno strabiliante velo formato dalla chioma che copre la sua nudità”, il seno palpitante che si intravvede.

Anche “San Giovanni Battista nel deserto”, 1542, è un’opera sacra sui generis, sembra un ritratto nobiliare nella posa statuaria  e nel gesto, la  figura si staglia nella foresta  con un fisico michelangiolesco , quanto mai vigoroso. Zanetti nel 1771 scrisse che “questa sola figura contiene in sé tutte le bellezze dello stile di quel gran Pittore”;  e le trova nel vestimento e nelle membra di un uomo silvestre, come nel gesto e nella positura rivelatrice della santità del precursore di Cristo.

Troviamo il figlio di Dio annunciato dal Battista in una posa e una figura molto simile, nella “Resurrezione di Cristo”, 1542-44: si staglia in alto nel cielo con il gesto imperioso mentre i soldati restano tramortiti in basso. 

Con l”Annunciazione”, 1535,  concludiamo la carrellata sulle opere esposte per il terzo periodo. Fu  dipinta per la Scuola Grande di San Rocco a Venezia, la stessa che abbiamo visto in Tintoretto, con l’opera con cui si avviò a prendere la supremazia, cosa che Tiziano avvertì al suo ritorno a Venezia. E’ stata ammirata per la luminosità e per i significati allegorici e i simboli. Dolce nel 1557 scrisse che “non fu mai veduta cosa più bella né migliore, né di disegno, né di colorito”, ed è sorprendente che nell’elogio inserisca il disegno che in altri giudizi è l’unico suo limite rispetto all’eccellenza nel colore.  La figura “pomposamente decorativa” dell’angelo, come scrisse Pallucchini nel 1969, “in un cromatismo avviluppante e atmosferico”, con la vistosa tunica e i calzari preziosi evoca scene di corte;  mentre, osserva la Binotto,  i dettagli “portano l’attenzione del riguardante sugli aspetti più umani e commoventi del racconto” nella “pacata serenità della scena” con il viso e le mani della Vergine  che spiccano nel loro candore sul manto nerissimo.

“Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza”, 1565

Il tardo Tiziano, tra il  1550 e il 1576

Nel quarto periodo, il tardo Tiziano, tra il 1550  e il 1576, i dipinti esposti sono 11, di cui 5 Opere sacre, 3 Ritratti e 3 Opere mitologiche.  Si potrebbe pensare a un disimpegno nell’età avanzata, fino a 86 anni, invece continuò ad essere attivo ed ebbe un’evoluzione stilistica, quasi da sperimentatore.  Le pennellate diventano più grevi e scure, come sentisse il richiamo dell’ombra. Marco Boschini, già da noi citato all’inizio, precisa: “E così andava riducendo a perfezione le sue animate figure. Ed il Palma mi attestava, per verità, che nei finimenti dipingeva più con le dita che co’ pennelli”. lasciava il quadro a riposare a lungo, per fare a distanza di tempo gli ultimi ritocchi.

Le Opere sacre sono 3 “Crocifissioni”,  una “Deposizione nel sepolcro” e “Martirio di san Lorenzo”,  tra il 1547 e il 1560, l’ultima Crocifissione con “il buon ladrone” datata fino al 1570,  e “Annunciazione”, 1563-65.

Adolfo Venturi nel 1928 confronta il  “Cristo crocifisso” di san Lorenzo all’Escuriale con “La Crocifissione” di Ancona: “Grande, solenne, è l’immagine divina, che ad Ancona si perdeva, piccoletta e affusolata, nel vasto scenario del cielo; e il lume di luna si stende calmo sul torace possente, sulle minuscole braccia”, mentre l’ombra che i nembi proiettano sul volto “si ritrae dal corpo di Cristo”. Nell’altra opera, “il dominio è dato dall’ombra”, anzi segna il cambio di registro: la “Crocifissione” di Ancona “può considerarsi il punto di partenza di quest’ultima fase del gusto tizianesco, che è la più libera e la più ricca di avvenire”, il cromatismo di Tiziano “si scioglie nella luce, facendosi addirittura incandescente, dentro misteriosi e freddi scenari notturni”.

Il critico collega la “nuova oscurità” al “Martirio di san Lorenzo”, dove “le ombre s’d’addensano in un’allucinante visione di bagliori nella notte”. La terza “Crocifissione, con il buon ladrone”, attribuita con delle incertezze alla bottega, è incompiuta, le forme abbozzate con la materia greve dell’ultimo periodo. Luisa Accardi  la definisce “di forte impatto emotivo, esaltata dalla visione laterale di Cristo, che sottolinea un’angosciante indagine della sofferenza, e il costrutto è potente”.  

Così la “Deposizione nel sepolcro”, che Tiziano mandò a Filippo II  nel 1559 con una lettera in cui si manifestava molto soddisfatto per la riuscita dell’opera in cui si era impegnato per sostituire quella spedita due anni prima e perduta nel viaggio. E’ una composizione intensa, Pallucchini nel 1969 ha scritto che il corpo di Cristo “sembra trascinare con sé tutte le altre figure, tenute a stento nella cerniera del quadro” e aggiunge che “tutto nasce di getto, senza alcuna preoccupazione di armonia o di bellezza classica”. Figure abbozzate dai colori bagnati dalla luce.

“Annunciazione” è ricca di movimento, Roberto Longhi nel 1946 ha scritto che è avvolta da “un velame cosmico, caotico”,  è “uno dei dipinti più disperati dell’arte”,  con “un linguaggi fatto di tenebre lacerate da scoppii di luce, da fumiganti atmosfere”, in quella che Pallucchini nel 1969 ha definito “cosmica e panica espressione totale del suo sentimento”.

Tra le  Opere mitologiche, in “Venere benda Amore”, 1559-61, torna una maggiore luminosità, quasi che la classicità e la bellezza abbiano portato indietro le lancette del tempo;  mentre  “La punizione di Marsia”, 1570-76, mostra tutte le caratteristiche dell’impasto pittorico del tardo Tiziano, con le forme abbozzate e le caratteristiche “notturne” di cui si è detto per le Opere sacre, in cui  Longhi vede un “impressionismo magico”. E’ stata:definita “una delle immagini più terrificanti dell’arte”, pervasa da un “senso di cupo orrore”, un'”opera sanguinosa”, con crudeltà e brutalità. L’“Allegoria del  Tempo governato dalla Prudenza”, 1565, è un’immagine molto diversa, anch’essa allucinante: tre teste umane sopra e tre teste animali sotto, un concetto filosofico espresso in modo enigmatico, i visi sono appena definiti dalla luce che li fa balzare dallo sfondo scuro.

Il dipinto ci introduce ai Ritratti dell’ultimo periodo, dei dogi “Marcantonio Trevisan”, 1553-54, e “Francesco Venier”, 1555.  Sono molto diversi, il primo “par che parli, che pensi, et che respiri”, ha scritto Pietro Aretino, “lo spirto è, in lui, d’ossa e di carne cinto”, è una figura imponente che riempie l’inquadratura, l’espressione ferma e sicura, il mantello prezioso indossato con disinvoltura. Nel secondo il mantello è altrettanto prezioso, ma sembra opprimere la figura esile, il  volto è scarno e gli occhi lucidi quasi fosse malato: è l’ultimo suo ritratto di dogi e di regnanti, quasi il canto del cigno nella ritrattistica che lo porta a una straordinaria umanità e penetrazione interiore.

Ed eccoci alla conclusione, e non può che essere con il suo “Autoritratto”, 1562, del quale non possiamo che ripetere la descrizione di Venturi: “Tiziano mira all’energia della massa uscente dall’ombra nella veste d’argento. Sopra un fondo verdastro, spicca la testa accesa da un ultimo fuoco. Tutto il calore del quadro, tutta la forza, è nella testa di vecchio, sulla quale sembra passar una vampa… le mani sono appena indicate, e appena ne è determinato il gesto… Lo sguardo è intento; la posa quasi di sfida”.

Questa immagine, con la vampa che passa nella sua testa, la posa di sfida e lo sguardo intento, è il migliore commiato al grande Tiziano:  anche la mostra su Tintoretto si concludeva con il suo ultimo autoritratto, però spento e depresso come questo è energico e volitivo.

E’ come una rivincita postuma sul giovane impetuoso che osò sfidarlo a Venezia.

Info 

Scuderie del Quirinale, Roma, via XXIV Maggio 16. Da domenica a giovedì dalle 10,00 alle 22,00; venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30 (ingresso fino a un’ora prima della chiusura). Ingresso: intero euro 12,00; ridotto euro 9,50. Per le mostre citate all’inizio si rinvia ai nostri articoli: in “cultura.abruzzoworld.com” per Bellini  il  4 febbraio 2009  e per Lorenzo Lotto il  2 e 12 giugno 2011; in questo sito per Tintoretto il 25, 28 febbraio e  3 marzo 2013. Catalogo: “Tiziano”, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa, Silvana Editoriale, febbraio 2013, pp. 290, formato 23×28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il 10 maggio 2013, con 6 immagini dei primi due periodi della sua vita artistica. 

Foto

Le immagini delle opere di Tiziano sono state fornite dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. Riguardano i due ultimi periodi della sua vita artistica. In apertura “Danae e la pioggia d’oro”, 1544-45; seguono “Ritratto di Carlo V con il cane”, 1533, e “Ritratto di Paolo III senza camauro”, 1543, poi “Deposizione di Cristo nel sepolcro“, 1559, e “Allegoria del Tempo governato dalla Prudenza”, 1565;  in chiusura, “Autoritratto”, 1562.

 “Autoritratto”, 1562

Divino Amore, le opere di 30 artisti “oltre la notte”, al Santuario

di Romano Maria Levante

Al santuario romano della Madonna del Divino Amore, dal 20 ottobre 2012 al 2 giugno 2013 la mostra “Oltre la notte – Artisti romani per il Divino Amore “, 30 opere di altrettanti artisti cittadini in omaggio alla Madonna oggetto di grande devozione popolare, una brillante prova di come l’arte contemporanea possa confrontarsi con il sacro. Oltre all’iconografia della Madonna col Bambino, temi legati direttamente al Santuario come il pellegrinaggio notturno oltre agli ex voto e altre immagini evocative dei luoghi e della devozione. La mostra è a cura di Gabriele Simongini, Carlo Fabrizio Carli, Tiziana d’Achille, che hanno curato anche il Catalogo di Palombi Editore.

Alberto Sughi, “Virgo Lauretana”   

E’  un evento che va molto al di là di una pur prestigiosa esposizione artistica  perché ripropone in chiave contemporanea il rapporto tra arte e sacro,così fecondo nell’epoca d’oro delle grandi committenze religiose che hanno lasciato ai posteri i più grandi capolavori e i i più eccelsi maestri.

L’arte a contatto con il sacro nell’età contemporanea

Non si  tratta di  un rapporto semplice e scontato,come non lo è stato neppure in passato, se si considera che sin dal 1580 nel “Discorso intorno alle immagini sacre e profane” il cardinal Paleotti denunciava le carenze degli artisti nell’esprimere la devozione se non la sentivano nell’intimo. Nei tempi recenti spesso le opere  dedicate al sacro sono state ritenute inadeguate se non provocatorie.

Detto questo, va considerato che l’artista, nella sua creatività è quanto mai sensibile all’anelito verso una dimensione superiore che permea la trascendenza. Prove di questa sensibilità si trovano anche nelle avanguardie che si sono  ispirate all’arte sacra  fino a mutuare  forme di mistica medievale. Fu  Kandinsjij, da molti ritenuto padre dell’arte astratta, a teorizzare l’esigenza di riconciliarsi con la dimensione sacra,con il saggio filosofico-mistico “Lo spirituale nell’arte”.

A questo riguardo vanno considerate le innegabili difficoltà rappresentate da due ostacoli diversi ma ugualmente pesanti: l’elevatezza dei termini di confronto cui si espone l’artista che opera nel sacro, visti i sommi maestri che hanno creato capolavori ineguagliabili; la crisi dell’immagine e del figurativo in una sorta di spirito iconoclasta che ha contagiato l’arte nel secolo scorso e da cui sembra ci si stia riprendendo. D’altra parte, scrive Gabriele Simongini, “è stata la religione, la ricerca del trascendente, ad insegnare all’uomo la potenza dell’immagine”. Vanno recuperati anche i valori della bellezza, una bellezza che per essere piena deve avere anche un riferimento etico, nell’arte sacra che non per questo va considerata confessionale come sarebbe per quella definita “santa” in quanto legata al Cristianesimo: si parla più propriamente di immagini e figure spirituali. .

Sono motivi evocati da Carlo Federico Carli nel presentare la mostra, che appare per questo coraggiosa. Al riguardo lui stesso ricorda il coraggio con cui vennero affidati gli affreschi di Assisi a un artista innovatore com’era Giotto dal quale ci si potevano aspettare opere  non allineate ai canoni dell’epoca:  e così fu con i risultati prodigiosi da tutti ammirati nei secoli.

Questa associazione di idee, con tutte le incommensurabili differenze che si devono marcare, ci porta ad apprezzare ancora di più l’inserimento delle opere nel clima devozionale che pervade il Santuario, sospeso tra la tradizione e la modernità in un contrasto creativo, non stridente.

Alessandra Di Francesco, “Mater” 

Dal santuario settecentesco al nuovo santuario: la “grande grotta azzurra”

L’antico santuario settecentesco è stato conservato nella sua integrità e quello moderno che si è aggiunto nel 2000, all’inizio del terzo millennio,  è stato edificato al di sotto del poggio dove si trova il primo e quasi mimetizzato nella vasta campagna seguendo le ondulazioni del terreno e con la copertura trasformata in prato cosicché dall’alto non se ne scorge minimamente il volume.

E questo pur in dimensioni considerevoli, 1500 posti a sedere. Il progetto è del francescano Padre Costantino Ruggeri,di concezione moderna nell’architettura e negli arredi sacri; un anfiteatro che degrada dolcemente verso il presbiterio, l’altare è al centro di una congiunzione verso l’alto dove la modernità della struttura serve a valorizzare al massimo l’ascesa mistica e la discesa della luce.

Come appare  miracolosa la “scomparsa” della costruzione dentro il terreno per non fare ombra al piccolo Santuario soprastante, altrettanto miracolosa è la sensazione celestiale che si ha per la gigantesca vetrata azzurra che fa sentire immersi nel firmamento; mentre richiami cromatici  altrettanto intensi fanno sì che entri il sole e sia evocata la terra, con la presenza simbolica della Madonna che si impone in una grande iscrizione, oltre alla celeberrima piccola immagine pittorica.

Monsignor Pasquale Silla ha scritto che “chi vi entra ha la sensazione di trovarsi in una grande grotta azzurra”, aperta, aggiungiamo, sull’immensità del firmamento nel verde della campagna romana particolarmente dolce e quasi incorporata nella struttura con la copertura fatta  a prato.

In questo contesto si trova la sala con le circa 30 opere esposte, nelle quali sono rappresentati tre motivi fondamentali: l’iconografia sacra, più precisamente santa, legata direttamente alla Madonna col Bambino; la presa popolare che si manifesta con gli affollati  pellegrinaggi notturni settimanali; gli ex voto sulle pareti nel vecchio santuario nati dalla devozione per la Modonna del Divino Amore.

Sidival Fila, “Madonna del Divino Amore: Tras-figurata” 

L’iconografia sacra della Madonna

E’ questa la parte della mostra forse più difficile, perché  la Madonna con Bambino è il tema classico dei più grandi artisti della storia per le imponenti pale d’altare. Qui non si tratta di committenze religiose per cattedrali e chiese maestose, né per grandi cappelle: sono quadri di  misura  normale, aspetto che ne sottolinea l’ispirazione intima e diretta senza intenti celebrativi,come espressione spontanea dello spirito devoto. E quasi tutte datate 2012.

Mentre le grandi opere della lunga età dell’oro per l’arte erano offerte dalla Chiesa all’ammirazione e adorazione del popolo, per trasmettere messaggi di fede e di autorità religiosa, qui avviene l’inverso: è come se il popolo, di cui è parte l’artista, offra alla Chiesa una testimonianza personale.

La regina di queste icone contemporanee è di certo la “Virgo Lauretana”, un’opera del 1995 di Alberto Sughi, scomparso da poco dopo una vita nella quale si è interrogato sull’inquietudine  dell’uomo contemporaneo esplorando anche  il significato del sacro e delle immagini che lo rappresentano; al punto che il suo primo quadro, “La carità cristiana”,  rappresentava dei poveri sfamati dai frati. Il quadro ospite d’onore della mostra, proveniente da Loreto,  colpisce  per la forma  e il colore, per l’atteggiamento reciproco di Madonna e Bambino con la cupola sullo sfondo, nella penombra che rende il mistero, in uno sfondo reso luminoso dal  tripudio cromatico rosso- arancio. Dello stesso artista è esposta “L’immagine di Cristo”, del 2010, altrettanto notevole, per lo sguardo umanissimo dei grandi occhi spalancati di Gesù in un fondo oro da icona preziosa.

Altre due Madonne col Bambino ci danno immagini meno pittoriche e più reali, molto diverse tra loro: “Mater”,  di Alessandra Di Francesco, mostra una giovane di  etnia intrigante in una fisicità carnale, non si ricerca la bellezza spirituale della Vergine bensì la tenerezza della madre con il bimbo addormentato tra le braccia, il seno che lo ha allattato, un’immagine umbratile e pensosa.

Invece  “Madonna con Bambino”, di Massimo Campi, è solare, una madre di oggi, in piedi su un balcone con un bambino vispo tra le braccia, mentre dietro la ringhiera si distende il panorama di tetti della Roma del nostro tempo, all’orizzonte si stagliano i Colli Albani dov’è il santuario.

Vediamo anche una modernissima“Annunciazione”, di Bruno Ceccobelli, con un’esplosione di luce al centro: segna l’incontro tra l’angelo luminoso come un sole che irraggia attraverso le spirali simboliche dello Spirito Santo, e la Madonna, figura titubante e pudica avvolta nell’azzurro. E l’opera di Sidival Fila, “Madonna del Divino Amore: Tras-figurata”, la celebre immagine miracolosa viene quasi scomposta con effetti tridimensionali mediante un lino antico tessuto a mano e cucito attraversato da forti striature orizzontali.

Dall’effetto tridimensionale alla scultura. Ce ne sono due., la prima è  la “Madonna con Bambino”, di Tito (Amodei), alta ben 2 metri, in gesso con interventi di colore:  il Bambino siede sulle spalle della Madonna  e la sovrasta  cingendole la fronte con le mani, è un’immagine di grande forza plastica, lontana dalle immagini oleografiche, offre il Figlio all’umanità. Poi c’è la “Madonna del Divino Amore”, di Stefano Piali, in marmo,, alta 80 cm, nella quale il bambino è appoggiato al petto della madre, entrambi sono in piedi. Nella diversa posizione anche qui c’è tanta tenerezza.

Infine un “Progetto scultoreo per la Madonna del Divino Amore”, di Reinhard Pfingst, un disegno  a matita colorata e tempera su cartoncino con il simbolico  movimento a spirale

Ritroviamo la tenerezza  in “Divino Amore”, di Aurelio Bulzatti, due volti giovanissimi, quasi efebici, idealizzati, e la mano dell’uno che accarezza la testa dell’altro addormentato,: è  l’immagine dell’amore universale con un gesto caritatevole. Mentre l’altra opera dello stesso titolo “Il Divino Amore”, di Maurizio Pierfranceschi,  è una composizione  in cui la Madonna col Bambino è appena delineata tra soggetti evocativi, in una sorta di foresta incantata.

Stefania Fabrizi, “La mia Madonna” 

Le altre opere ispirate alla devozione per la Madonna

I soggetti diventano tante luci nel buio in “Processione notturna”, di Lucia Barbarini, bella raffigurazione del tradizionale pellegrinaggio romano che si svolge il sabato di ogni settimana dalla primavera all’autunno tra la città e i Colli Albani: alcune ore di marcia partendo da piazza di Porta Capena lungo le vie Appia e Ardeatina per arrivare all’alba al Santuario.

Una processione di corpi che piovono dall’alto è in “Il grido umano cade sempre dal cielo”, di Ennio Calabria, con l’immagine della Madonna, trasfigurata in un’ombra azzurra, che si delinea nel senso opposto: l’opera potrebbe essere vista anche al rovescio, con la massa di figure umane protesa verso l’alto, metafora sulla difficile comunicazione tra sfera mondana e sacra nel mondo d’oggi.

La meta del pellegrinaggio la vediamo in diverse opere: due con la visione notturna, come appare ai pellegrini in marcia, quella  di Andrea Aquilanti intitolata “Divino Amore”, è un’immagine sfumata,  molto da lontano;  quella di Andrea Lelario, “In controluce”, è più ravvicinata, nel buio si delinea la torre del miracolo. Un altro dipinto, ancora dal titolo “Divino Amore”, di Giuseppe Modica, ci dà un’immagine ripresa  più da vicino, è l’alba;  mentre in “La mia Madonna” di Stefania Fabrizi la teoria di pellegrini ha raggiunto il quadro miracoloso dopo la marcia notturna.

Una ardita trasposizione artistica la compie Sandro Sanna in “Origine.2”, non ci sono figure ma una frammentazione materica che alterna toni scuri a chiari quasi voler abbinare la notte e l’alba. Frammentazione anche in “Divino Amore” di Michele Cossyro, ma si tratta questa volta di frammenti d’oro in una composizione  intorno a una croce appena delineata con una colomba.

In “Ascesi”, Alessandra Giovannoni presenta dei fedeli che salgono la scalinata con la torre che si profila a lato, mentre Sergio Ceccotti, in “Divino Amore”, ci dà  la facciata settecentesca in piena luce, due fedeli a mani alzate dinanzi alla colomba evocatrice della sacralità. Un’immagine simbolica è quella di Claudio Marini, “Il cammino della speranza”, con le orme dei pellegrini in circolo intorno all’itinerario. Poi una visione aprica della  campagna con il sole che segna ombre profonde e nel bordo del quadro la torre del miracolo; è “Epifania” di Pierluigi Isola.

Il miracolo è rappresentato nell’immagine dove il realismo si associa all’ingenuità. Viene rievocato  da Stefano Di Stasio  “Il primo miracolo”, con il viandante assalito da cani inferociti vicino alla Torre del Castello, vede il quadro con l’immagine della Madonna, invoca il suo aiuto, la preghiera viene esaudita, i cani si allontanano, è salvo. E’ la primavera del 1740, nasce la devozione popolare che poi ha avuto importanti occasioni per riscontrare la benevolenza della Madonna per la città di Roma: prima fra tutte l’invocazione solenne rivoltale il 4 giugno 1944 per la salvezza della città e la pace nel mondo, esaudita con il ritiro dei tedeschi nella stessa serata, e  la domenica successiva, l’11 giugno, papa Pio XII proclamò la Madonna del Divino Amore “Salvatrice dell’Urbe”.

Andrea Volo, “Migranti” 

Il gran numero di ex voto che riempiono alcune pareti del santuario  ne è testimonianza. In “Divino Amore” Giovanni Arcangeli dà una visione figurativa degli ex voto su un muro all’esterno, mentre Giosetta Fioroni con “Ex voto manina ritrovata” dipinge un’ingenua dedica alla Madonna di un grande cuore e, appunto, una manina risanata.

Altri ex voto in Giorgio Galli, “Mi sussurra alzati!”, assemblaggio oggettuale e pittorico con una vera stampella, e in “Ex voto” di Paola Gandolfi, acquerello su carta con una bimba colpita da pietre, evidentemente sopravvissuta.

Una piccola immagine votiva della Madonna  sulla parete di una stanza con un vaso di fiori e una sedia vicino a una finestra aperta ci dà una dimensione  domestica della devozione non legata alla grazia ricevuta, è di Tito Rossini, “La luce della Fede genera la Speranza”,  mentre Vincenzo Scolamero con “Stupefacente amore” allinea una ventina di quadretti con fiori, collanine, virgulti e altre immagini devozionali.

Dopo tanta pittura, citate già le due sculture, è il momento di due opere materiche: “Senza titolo” di  Roberto Almagno, carbone, cenere  e tempera, sostanze vive come filamenti martellate sul supporto cartaceo; ed “Eclissi”, di Giovanni Albanese, del 2008 mentre quelle citate fin qui, lo ricordiamo, sono del 2012: abbiamo ferro, lampadine e fiamma con un grande globo sospeso in alto.

Ma vogliamo concludere con “Migranti” di Andrea Volo, perché dalla contemplazione ci chiama all’azione. Pone l’attenzione su un fenomeno quanto mai attuale: una donna con bambino, un cane e al centro un migrante con un vaso sulle spalle recante un arbusto, sullo sfondo immagini appena delineate tra cui una colomba. Ci sono molti simboli in una resa di alta qualità pittorica: nello schematismo compositivo e nel cromatismo di sfondo richiama la “Virgo Lauretana” di Sughi con cui abbiamo aperto la rassegna delle opere esposte.

Anche per questo è giusto il titolo dato alla mostra, “Oltre la notte”: non solo inteso come l’arrivo all’alba dopo la notte di pellegrinaggio, ma anche oltre la notte dei pregiudizi e delle chiusure, che come la notte della ragione genera mostri. “Oltre la notte”, dunque, per una vera integrazione nello spirito dell’apertura, anzi dell’accoglienza fraterna che deve finalmente trionfare.

Del resto, tutto il Nuovo Santuario va “oltre la notte” con il suo trionfo di colori nell’aura aprica dei Castelli romani, e il migliore sigillo si trova nelle  parole del progettista Padre Costantino Ruggeri, che poniamo a conclusione della nostra visita come Mons. Silla ha fatto nella sua presentazione.

Usciamo dalla sala della mostra a riveder non solo le stelle quanto la natura intera che fa da corona al Nuovo Santuario: “Ogni erba in  silenzio a fiorire inviti, il grande tetto verde della grotta,  in miriadi di splendide corolle”. E’ questo lo spettacolo permanente che accompagna la devozione.

Info

Nuovo Santuario del Divino Amore, Via del Santuario, 10  Roma, uscita 24 (Ardeatina) dal Grande Raccordo Anulare, Metro A e bus 702 o 044, oppure metro  B e bus 218, alla fermata Santuario Divino Amore, apertura sabato e domenica ore 10,30-12,30  e 16,00-19.00 oppure su appuntamento, Tel. 06.713518.  Catalogo: “Oltre la notte – Artisti romani per il Divino Amore”,  a cura di Carlo Fabrizio Carli, Tiziana d’Acchille, Gabriele Simongini,  Palombi Editore, ottobre 2012, pp. 88,  formato 24×28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

L’immagine di chiusura, con  l’interno del  Nuovo Santuario del Divino Amore, è stata ripresa da Romano Maria Levante durante una messa domenicale; quelle dei dipinti in mostra riprese dallo stesso autore nella sala espositiva, si ringrazia l’organizzazione, con i titolari dei diritti, per l’opportunità offerta. In apertura,  “Virgo Lauretana”  di Alberto Sughi; seguono “Mater” di Alessandra Di Francesco e “Madonna del Divino Amore: Tras-figurata” di Sidival Fila, poi  “La mia Madonna” di Stefania Fabrizi e “Migranti” di Andrea Volo; in chiusura, una panoramica dell’interno del Nuovo Santuario durante una messa la domenica mattina.  

L’interno del Nuovo Santuario durante un messa di domenica

Tiziano, 1. “La bandiera” della pittura italiana, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

La grande mostra  “Tiziano”, aperta alle Scuderie del Quirinale dal  5 marzo al 16 giugno 2013, è un’esposizione monografica della sua carriera lunga  60 anni, che fece del “dipintor” giovanile l'”eques caesareus” riverito a corte e all’estero, e gli consentì di instaurare il cosiddetto “sistema Tiziano”, un’organizzazione composta da allievi e collaboratori, divenuta industria pittorica che lo rese ricco e famoso premiandone l’ambizione e l’instancabile attività. In lui il colore prende il posto del disegno nella creazione artistica,   nel tempo diviene più sensibile alla luce. Giovanni C. F. Villa  ha curato la mostra e il prezioso Catalogo di Silvana Editoriale.

“Flora”, 1517

E’ di per sé un evento la mostra su Tiziano a Roma, che ha come unici precedenti italiani le mostre veneziane del 1935 a Ca’ Pesaro e del 1990 a Palazzo Ducale, assume un significato particolare se si considera che chiude un ciclo espositivo pluriennale alle Scuderie, iniziato con Antonello da Messina che portò sulla laguna la luce siciliana, proseguito con Giovanni Bellini e il suo continuo rinnovarsi, sviluppato nella ricerca e nell’inventiva di Lorenzo Lotto,  approdato alla creatività e alla furia pittorica di Tintoretto fino alla conclusione con Tiziano, “colui che tene la bandera” della grande pittura italiana,come ricorda Antonio Paolucci. Un ciclo, promosso e attuato dal past President dell’Azienda Speciale Expo, Emmanuele F. M. Emanuele, concluso ora da  Daniela Memmo d’Amelio che non ha mancato di ricordarlo, nel sottolineare l’impegno e i risultati. C’è stato successo di pubblico,  prima della fine di aprile i visitatori hanno superato i 100.000 con oltre 2.400 in media al giorno, a Pasqua 3800. Inoltre in occasione di questa e delle altre grandi mostre sì è dato luogo a importanti restauri e a  iniziative meritevoli per l’arte soprattutto verso la scuola. 

La vita d’artista e di protagonista

Tiziano fu “profeta in patria”, eccome, nell’atelier veneziano di Biri Grande il “sistema Tiziano”  costituiva  una vera industria pittorica  cui partecipavano, con il grande maestro,  allievi  e soprattutto parenti, di cui si fidava, che divennero artisti: Francesco Vecellio, il fratello, il cugino Cesare, il nipote Marco; e pittori noti, quali Gian Paolo Pace, Girolamo Dente, Polidoro da Lanciano, ed altri ignoti: una catena di montaggio artistica per il mercato e le committenze, con opere di vario livello reiterate con delle varianti,  a gradi differenti di  partecipazione del Maestro.

Divenne “dominus” del mercato, e anche un ribelle creativo come Tintoretto dovette adeguarsi alla sua formula nei ritratti, la sua specialità. Conquistò la nobiltà europea, i suoi quadri avevano alte quotazioni e accumulò una fortuna investendo i proventi  in  iniziative commerciali e finanziarie.

Ebbe accesso alle corti sovrane come Cavaliere imperiale e Conte palatino, le sue opere conquistarono l’imperatore Carlo V e il fratello re Ferdinando, il figlio Filippo II  e Maria d’Ungheria dei Paesi Bassi, Massimiliano re di Boemia e la dieta imperiale di Augsburgh; Alfonso d’Este e Federico Gonzaga, i Farnese e Maria d’Austria;  oltre al doge e agli oligarchi della Serenissima Repubblica, lo stesso Papa di Roma. Un sessantennio di successi.

Nato intorno al 1490, secondo la citazione del Dolci sugli affreschi dipinti nel 1508 quando aveva “allora neppure venti anni”,  o nel 1480-85 secondo altre ricostruzioni. Di certo ebbe una vita lunghissima, in una lettera a Filippo II in cui chiede il pagamento di alcuni quadri scrive di avere 95 anni nel 1571, ma forse si aumentò l’età per mettere fretta.

Nella sua formazione troviamo i grandi maestri affermati tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500, e anche il tedesco Durer, con il suo realismo espressionistico. Più direttamente Carpaccio,  i giovani Lorenzo Lotto e Sebastiano Luciani, che si chiamerà Del Piombo, i fratelli Bellini, Gentile e Giovanni, i quali lo accolsero nelle loro botteghe prima che iniziasse a lavorare con Giorgione.

Anche su questi riferimenti vi sono delle incertezze. Fatto si è che  la morte di Giorgione nel 1510 per la peste e la partenza di Sebastiano del Piombo per Roma nel 1511 fecero di lui il maggiore pittore moderno a Venezia. Sua  la maestria nel colore e nel movimento nelle opere sacre e profane e l’energia nei ritratti di personaggi.

La prima opera impegnativa avuta per commissione furono gli affreschi del 1507-08 sulla facciata del Fondaco de’ tedeschi, deteriorati dal tempo, solo alcuni frammenti sono stati conservati.

Nel 1513 la consacrazione: rifiutò di andare a Roma alla corte di papa Leone X  e ottenne lo stesso compenso di Giovanni Bellini, ottantenne, per il  telero sulla “Battaglia di Spoleto”  divenendo poi pittore ufficiale della Serenissima alla morte dell’anziano maestro, nel 1516.

“Il Concerto interrotto”, 1512

Sono anni intensi, riceve commissioni private per ritratti e soggetti mitologici, temi religiosi e composizioni allegoriche, dove eccelleva la sua bravura nei paesaggi; in seguito si aggiungono figure femminili  in omaggio alla bellezza, filone che curerà a lungo. Le tematiche filosofiche  e letterarie del tempo influenzano alcuni suoi dipinti, il suo stile è improntati a un classicismo cromatico che immette soggetti  gioiosi in un’atmosfera con toni brillanti e penombre.  I vantaggi economici connessi alla posizione di pittore ufficiale e le lucrose committenze, insieme al “sistema Tiziano” che moltiplicava la produzione artistica, ne fecero forse il più ricco artista della storia.

Le corti italiane ed europee si contendevano la sua opera e i suoi dipinti ad alte quotazioni. Era molto ricercato anche per le pale d’altare, ne realizzò alcune di qualità molto elevata. Viene chiamato a Ferrara alla corte degli Estensi, a Mantova dai Gonzaga, poi lavora alla “renovatio urbis Venetiarum”, con il Sansovino e  Pietro Aretino, che svolse un’intensa promozione a suo favore nelle corti;  il Doge gli affidò opere per il palazzo Ducale; nel 1525 le nozze, ebbe tre figli. Ebbe modi aristocratici e tratti signorili, abilità nei rapporti e ambizione, incontrò la rivalità di pittori  contemporanei come Lorenzo Lotto, Pordenone Tintoretto che ne minacciarono la preminenza.

Nel 1529  il contatto a Bologna con l’imperatore Carlo V, così iniziò un rapporto durato 45 anni. Tiziano con i suoi ritratti coniugava classicità a modernità, in un linguaggio percepito dai sudditi dell’immenso impero, ai quali comunicava  forza e saggezza, spirito pacifico e giustizia del sovrano. In questo fu un modello per i ritratti di Velasquez e Goya, Rubens e Rembrandt. I ritratti  celebrarono anche dinastie come i Della Rovere e i Gonzaga,  a Urbino dipinse anche la famosissima “Venere”; e,  naturalmente, molti nobili sulla scia di committenze così prestigiose.

Per questo, pur essendo pittore ufficiale della Serenissima, lavorava molto in proprio con il “sistema Tiziano” di cui si è detto, suscitando lamentele che nel 1537 portarono alla sospensione degli emolumenti pubblici. Con la diffusione a Venezia del “manierismo” di Salviati e Vasari, Tiziano – che aveva sostituito il colore alla preminenza del disegno – cercò un compromesso, al quale del resto si era già adattato rispetto a Michelangelo e Raffaello, cercando una sintesi tra il cromatismo veneto e il disegno toscano. Ma pur se permeabile alle influenze mantenne le sue forti peculiarità.

“Vergine con il Bambino in gloria , con i santi Francesco e Biagio e il donatore Alvise Gozzi“, 1520

A Roma nel 1545, ospite del papa Paolo III e del cardinale Alessandro Farnese, nipote, si confrontò con Michelangelo il quale aveva da poco terminato il “Giudizio Universale” ed elogiò l’arte del colore di Tiziano lamentando, però, come ha scritto il Vasari, “che a Vinezia non s’imparasse da principio a disegnare bene”. Lo stesso Vasari nota con piacere l’evoluzione nello stile di Tiziano che dalle intense macchie di colore degli anni giovanili è passato a plasmare il cromatismo in uno stile più curato, “riformando quelle figure, le riduceva nella più perfetta simmetria che potesse rappresentare il bello della natura, e dell’arte”. Lo si vede nei Ritratti ai Farnese e negli altri ritratti di corte a sovrani e papi, cardinali e principi,  condottieri e dignitari.

Sono ripresi sempre su fondo scuro, in pose diverse, a figura intera o mezzo busto, di fronte o a tre quarti, in atteggiamenti solenni o familiari, secondo il messaggio che si voleva trasmettere, privilegiando la fisionomia rispetto ai sentimenti e dando particolare rilievo all’abbigliamento come segno della posizione del soggetto. Perché l’immagine era affidata alla posterità. Diverso il Tintoretto, in una prima fase, ma poi  aderì allo “stile Tiziano” che nella ritrattistica era  dominante.

Il rilievo dato al ritratto non deve far trascurare le Opere sacre: “Annunciazione” e “Maria Maddalena penitente”, “Cristo e il cireneo” e “San Girolamo”, “Martirio di san Lorenzo” e “Crocifissione”,  “Deposizione nel sepolcro”, e la “Pietà” dell’ultimo periodo. Né le Opere di soggetto mitologico: le “Veneri” e “Adone”, “Andromeda” e “Amor sacro e amor profano”.

Tornato a Venezia dove si sta affermando Tintoretto, con la sua travolgente energia dopo avere realizzato lo straordinario “Miracolo di san Marco”; e dove la committenza apprezza anche Paolo Veronese, deve ridurre forzatamente il suo impegno veneziano, ma lo assorbono del tutto le committenze spagnole dell’imperatore Carlo V e poi del figlio Filippo II, al quale in occasione delle nozze fece avere una delle 6 versioni della “Danae”, nell’uso di replicare le opere con  varianti.

L’ultima fase artistica vede l’evoluzione cromatica verso tinte smorzate e pennellate  con gamme di colori neutri pastosi, che ne fanno l’anticipatore di Rubens e Rembrandt, Velasquez e Delacroix.

Muore di peste nel 1576, un mese dopo la morte del figlio Orazio, dopo una vita al più alto livello nello splendore delle Corti e nell’attività febbrile della sua fiorente industria pittorica.

“Uomo con il guanto”, 1524-25

I quattro periodi di vita artistica

Sono quattro le fasi nelle quali viene articolata la sua vita artistica, puntualmente riflessa nelle  corrispondenti sezioni della mostra: li riepiloghiamo per  concludere con la sua “magia del colore”.

Nel primo periodo, fino al 1518, dopo il cromatismo classico di Bellini,  aderisce alla riforma tonale di Giorgione suo maestro, con la luce che modula il colore il quale dà forma e volume alla composizione, senza l’uso del disegno. Seguirà la ricerca di dinamismo e di resa plastica.

Il secondo periodo, dal 1518 al 1530, segna la sua affermazione nelle corti nobiliari, regnanti e imperiali, che ne fecero la figura artistica dominante per un lungo periodo di tempo dato che – come si è detto – la sua attività copre un sessantennio e  non operò da isolato ma con la bottega artistica, quasi una vera impresa, che diede luogo al “sistema Tiziano” di continua promozione.

Con il terzo periodo, dal 1530 al 1550, quello della maturità, influenze esterne e l’interesse per Michelangelo incisero sul suo stile: si è parlato anche di “crisi manieristica”, ma Gentili nel 1990 ha scritto che il “manierismo” di Tiziano non va considerato “un incidente, una svolta, una crisi, né dipende soltanto dalle dirette occasioni veneziane: è piuttosto l’attraversamento  sperimentale  delle esperienze e dei linguaggi d’attualità , prestissimo avviato e regolarmente praticato, e il riversamento di quelle esperienze e quei linguaggi, come strumenti di aggiornamento culturale e di arricchimento espressivo, nella consolidata prassi della tradizione pittorica veneziana”.

Sul quarto periodo, dal 1550 al 1576, Marco Boschini citava nel 1674 la testimonianza dell’ultimo allievo, Palma il Giovane: “Abbozzava i suoi quadri con tal massa di colori che servivano, per così dire, per far letto”, dava “colpi risoluti, con pennellate massiccie di colore, alle volte d’uno striscio di terra rossa schietta, e gli serviva (come a dire) per mezza tinta; altre volte con una pennellata di biacca, con lo stesso pennello, tinto di rosso, di nero e di giallo, formava il rilievo d’un chiaro”.  Così il vecchio artista  “faceva comparire in quattro pennellate la promessa d’una rara figura”.

Nel riportare la citazione, Roberto Contini commenta: “Senza un tale precedente non si sarebbero dati, o si sarebbero dati magari in tutt’altra forma un Rembrandt, un Turner, un Degas, un  Renoir”.  Tutto questo accresce l’interesse per le opere dell’ultimo periodo esposte nella mostra.

Corrado Cagli ha scritto: “Dalle opere giovanili alla ultima sua incompiuta, Tiziano continuamente si rinnova, con impeto e vigore crescente; così nella spanna della sola vita umana, sia pure longeva, occupa con la sua libertà profonda lo spazio di cinque secoli almeno  e per ora”.  E lo spiega: “In anticipo sulla crisi del tempo di Rubens, in anticipo di circa trecento anni sugli impressionisti francesi, Tiziano convocava dal nulla, se non dal profondo del suo inconscio collettivo, la diaspora di Fidia e di Prassitele a splendere sulla laguna”.

“Maddalena”, 1531

La magia del colore nei giudizi critici di ieri e di oggi

Si è già accennato alla magia del colore di Tiziano e alla sua evoluzione fino all’età più matura. Il curatore Villa cita l’espressione di Piero Aretino nel presentare a Carlo V il ritratto della defunta moglie Isabella: “L’ha in maniera resuscitata col fiato dei colori, che una possiede Iddio e l’altra Carlo”; e ricorda  “il tratto essenziale” del pittore riconosciutogli dai contemporanei: “Un’abilità coloristica che faceva vibrare l’immagine, la rendeva d’una autenticità viva, coglieva mutazioni di luce che andavano oltre lo sfumato, oltre la nota creazione veneziana del colore tonale”.

Antonio Paolucci ricorda  che Piero Aretino  si entusiasmava  alle vedute tizianesche del Canal Grande: “Oh con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel far dei paesi”, mentre descrive l’aria “in alcun luogo pura e viva, in altra parte torbida e smorta”, con “i nuvoli” dei più diversi colori, alcuni “erano di uno sfumato pendente in bigio nero,… i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare e i più lontani rosseggiavano di un ardore di minio”.  E cita  Giorgio Vasari, che nel 1568  dopo lo scontato appunto critico al disegno carente, vedeva le ultime opere di Tiziano “condotte di colpi, tirate via di grosso e con macchie di maniera che da presso non si possono vedere e da lontano appariscono perfette”, e concludeva: “E questo modo si fatto è giudizioso, bello e stupendo, perché fa parer vive le pitture e fatte con grande arte, nascondendo le fatiche”.

Un secolo dopo, nel 1674,  Marco Boschini ne descrive l’avvicinarsi alle “meze tinte, ed unendo una tinta con l’altra; altre volte con uno struscio delle dita ponendo un colpo d’oscuro in qualche angolo, per rinforzarlo, altre qualche striscio di rossetto, qualche gocciola di sangue,che invigoriva alcun sentimento superficiale, e così andava riducendo a perfezione le sue animate figure”.

Passa un altro secolo, e Antonio Maria Zanetti nel 1771 scrive: “”Pochi e comuni colori erano su la tavolozza di Tiziano: onde la maggior vaghezza  de’ dipinti suoi nasceva da’ contrapposti. Questo effetto si vede costantemente in natura… Quindi fu che la vaghezza delle opere di Tiziano mai non oltrepassò la verità; e tanto più era ed è universalmente gradita, quanto più congiunta al gran principio della natura”.

Siamo alla fine del 1700, l’abate Luigi Lanzi, nel confermare questo giudizio, spiega così la tecnica tizianesca: “”Posto replicatamente colore sopra colore  fa l’effetto come di un velo trasparente, e rende saporite non meno che lucide le sue tinte… Non avea nella tavolozza se non pochi e semplici colori; ma sapea scerre quelli che maggior varietà distingue e distacca, e conosceva i gradi e i momenti favorevoli delle loro opposizioni”.  Con questo risultato: “Nulla perciò vi è in esse di violento, la varietà de’ colori, che nelle sue pitture campeggiano l’un sopra l’altro, sembra accidente naturale, ed è effetto dell’arte la più disinvolta”.

E la critica moderna?  Dopo aver riportato alcune loro citazioni di critici del passato ecco i giudizi del curatore della mostra e del Direttore dei Musei Vaticani.

Villa scrive della modernità di Tiziano espressa “in un superamento del classicismo e del manierismo, affermando su tutti la supremazia di quel colore che riusciva impossibile da decifrare nell’impasto originario, e determinava forma e movimento anche per l’arditezza degli accostamenti.” Aggiunge che “non tradì mai la sua vocazione, fu sempre pittore veneziano e fu sempre uno straordinario sperimentatore, fino all’ardimentosa e visionaria vecchiaia”.

Paolucci lo definisce così: “Tiziano Vecellio o della pittura pura, la pittura che racconta l’infinita, tumultuosa, commovente bellezza del mondo visibile e di questo si appaga, la pittura che ha in se stessa la sua ragion d’essere, che scalda il cuore, libera la mente e rende leggeri e felici”.

E questa ci sembra possa essere la più degna conclusione al nostro excursus nel mondo di Tiziano.

Racconteremo prossimamente la visita alla mostra, dove questi canoni di stile e contenuto trovano espressione nelle opere in quattro sezioni corrispondenti alle fasi della sua lunga vita artistica.

Info 

Scuderie del Quirinale, Roma, via XXIV Maggio 16. Da domenica a giovedì dalle 10,00 alle 22,00; venerdì e sabato dalle 10,00 alle 22,30 (ingresso fino a un’ora prima della chiusura). Ingresso: intero euro 12,00; ridotto euro 9,50. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà, in questo sito, il  15 maggio 2013. Per le mostre citate all’inizio si rinvia ai nostri articoli: in “cultura.abruzzoworld.com” per Bellini  il  4 febbraio 2009  e per Lorenzo Lotto il  2 e 12 giugno 2011; in questo sito per Tintoretto il 25, 28 febbraio e  3 marzo 2013. Catalogo, dal quale sono tratte alcune delle citazioni del testo: “Tiziano”, a cura di Giovanni Carlo Federico Villa, Silvana Editoriale, febbraio 2013, pp. 290, formato 23×28.

Foto

Le immagini sono state fornite dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia, con i titolari dei diritti. Riguardano i primi due periodi della sua vita artistica, nel prossimo articolo le immagini dei due ultimi periodi. In apertura “Flora”, 1517; seguono “Il Concerto interrotto”, 1512, e “Vergine con il Bambino in gloria , con i santi Francesco e Biagio e il donatore Alvise Gozzi“, 1520,  poi “Uomo con il guanto”, 1524-25, e “Maddalena”, 1531; in chiusura, “Annunciazione”, 1535.

“Annunciazione”, 1535

Imu, la voce della cultura contro l’ideologia

di Romano Maria Levante

Ideologia e cultura, quanta e quale differenza! Dal superamento delle ideologie del ‘900 ci si poteva attendere una maggiore apertura alla valutazione serena senza contrapposizioni muro contro muro rese cieche dai pregiudizi ideologici. Illusione svanita come si può verificare nei dibattiti in corso, resi ancora più laceranti dalla crisi economica che aggrava i contrasti e rende ancora più ciechi.

Sorprende, ma non troppo, come anche chi è estraneo alle dispute ideologiche se ne faccia  catturare e si unisca ai corifei dell’una o dell’altra fazione trascurando i dati ineludibili della realtà. E allora la voce della cultura deve farsi sentire senza poter essere tacitata, per questo trattiamo un tema inconsueto e può sembrare che usciamo dal seminato, fatto di mostre d’arte ed eventi culturali. Lo facciamo perché siano superate le ideologie che accecano:  nel nome della logica, cioè della cultura.

Un esempio lampante di tutto questo si vive giornalmente nelle dispute sull’IMU. S’ode a destra uno squillo di tromba: la casa di abitazione è il fulcro dell’esistenza, quindi non si può tassare  perché è sacra per gli italiani; a sinistra risponde uno squillo: in tutti i paesi europei c’è  tale imposta, al massimo si può “rimodulare” sulla base del reddito o del valore per equità sociale. 

Sono questi gli unici concetti declinati invariabilmente senza un minimo di apertura mentale ai dati della realtà che danno alla questione contorni ben diversi, non ideologici ma terribilmente concreti.

Quali sono, dunque, i veri termini del problema con i quali confrontarsi? I termini con i quali hanno avuto a che fare gli italiani da quando questo inaudito aggravio è piombato su di loro? Perché è così, le medie di 280 euro a famiglia o giù di lì sono come i polli di Trilussa, ingannevoli e dannose per la vera comprensione dell’incidenza del tributo. Che ha colpito ben più duramente le famiglie.

Non ci si può limitare a considerare soltanto le prime case, perché il ceto medio ha anche le seconde case senza essere l’odioso padrone delle ferriere,  e questo in virtù, è il caso di dirlo, dell’elevata propensione al risparmio che ci ha sempre distinti positivamente dagli altri paesi. Prime e seconde case acquistate sottoponendosi a balzelli, in termini di imposte di registro, ipotecarie, ecc.,  inesistenti negli altri paesi che pure tassano tutti la casa, come viene superficialmente ricordato; inoltre l’imposta colpisce capannoni ed edifici industriali, beni strumentali per la produzione.

Arrivare, come fa la Commissione Europea, a chiedere lo spostamento della fiscalità sugli immobili, è un arbitrio inaccettabile, perchè il sistema fiscale è assestato su certi equilibri in base ai quali si sono investiti i risparmi – altro che rendite! – e non si possono capovolgere brutalmente, altrimenti si va incontro ai pesantissimi contraccolpi cui stiamo assistendo; è come se negli Usa si portasse la tassazione sui carburanti ai livelli italiani, cosa accadrebbe all’industria automobiloistica e non solo?  

Tornando all’IMU, l’intero gettito nel 2012 è stato superiore ai 24 miliardi di euro, con alcuni miliardi di gettito in più rispetto a quello previsto mentre, come è noto, il gettito dell’IMU sulle prime case è di 4 miliardi di euro, quindi altri 20 miliardi gravano sull’edilizia. Si parla soltanto delle prime case negli scontri in atto, e la contrapposizione ideologica è tale da passar sopra anche al gettito non rilevante, se si consideri che la stessa cifra è stata messa a disposizione del Monte Paschi di Siena per rimediare alla sua dissennata gestione e che soltanto per affitti di sedi l’amministrazione pubblica, che pure ha un rilevante patrimonio immobiliare,  spende 12 miliardi di euro l’anno. Ma non è questo che ci interessa mettere in evidenza, bensì altri dati reali.

Il primo dato ben noto è che solo l’IMU per le prime case è stata reintrodotta dopo che il governo Berlusconi l’aveva abolita, l’IMU per le seconde case esisteva già. Ma cos’è avvenuto?  Per le prime case da nessuna imposizione si è passati al ritorno alla preesistente ICI ma di entità doppia, per l’effetto congiunto dell’aumento delle rendite catastali del 60% e delle aliquote più elevate applicate dai Comuni; per le seconde case e gli edifici industriali e commerciali lo stesso fenomeno ma più accentuato, aumento delle rendite catastali del 60% e aliquote quasi dappertutto raddoppiate.

E’ stata la Capitale a dare il via al gravoso aumento delle aliquote posizionandosi subito sui massimi per la prima e la seconda casa, un esempio negativo seguito da gran parte dei comuni italiani; tra le lodevoli eccezioni ci piace segnalare Pietracamela, un paese alle falde del Gran Sasso, che ha mantenuto le aliquote al livello preesistente per il 2012 e per il 2013. Il sindaco di Roma Alemanno è stato punito dagli elettori che gli hanno negato la riconferma; al sindaco di Pietracamela Di Giustino non possiamo che formulare apprezzamento ed auguri.

Tornando al quadro generale, rispetto al 2011 il peso sui proprietari per le prime case da zero è diventato quasi doppio rispetto all’ICI; per le seconde case si è più che raddoppiato rispetto al 2011.  Il ceto medio che dispone anche di seconde case ha visto quadruplicare l’onere dal 2011 al 2012 per l’effetto congiunto della reintroduzione ma di entità doppia dell’ICI prime case e del raddoppio e oltre dell’ICI seconde case. Il calcolo fatto dalla stampa per le case di Monti e signora recava proprio il quadruplicarsi dell’onere per entrambi, una verifica diretta dei parametri reali anche se nella circostanza non si tratta di ceto medio ma alto.

A questo punto, perché nessuno si pone una domanda elementare? Quale imposta da un anno all’altro viene mai raddoppiata, e diventa quadrupla per effetto del reinserimento doppio per le prime case in aggiunta al raddoppio per le seconde case, e si tratta di imposte con diversi zeri quindi con un onere che incide pesantemente?  In quale altro caso si è fatto gravare così pesantemente su una categoria di contribuenti e su un settore vitale l’onere del risanamento che andava invece meglio ripartito su una platea più vasta? Per quanto l’ideologia possa accecare si dovrebbe rispondere a questa domanda e chiedersi in base a quale aberrazione si è compiuto un eccesso di dimensioni che pensiamo non abbia precedenti.

Ma si potrebbe obiettare che l’emergenza può giustificare anche questi eccessi, il fine giustifica i mezzi, e il fine era il “salva Italia”. Abbiamo visto come nelle pensioni la stessa furia riformatrice della tecnica non assistita dalla sana politica abbia creato il “mostro” degli “esodati”, 300.000 il cui onere è tale da assorbire gran parte delle risorse derivanti dalla riforma, ma questa è un’altra storia.

Una storia, però, non troppo estranea perché anche nel caso dell’IMU i danni collaterali, per usare un eufemismo, sono stati tali da vanificare gli stessi effetti positivi in termini di gettito anche se iniqui  e odiosi. Questi danni risiedono in modo evidente a tutti nella crisi dei consumi  dovuta alla stretta che il prelievo ha provocato, data la sua entità, raddoppiato oddirittura o quadruplicato da un anno all’altro, lo ripetiamo, per il ceto medio con cifre rilevanti; e colpire così il ceto medio nell’anno in cui Obama ha inaggiato il ben noto braccio di ferro con il Congresso repubblicano per tutelarlo è anche antistorico oltre che iniquo e controproducente per l’economia del Pese. 

La crisi dei consumi ha provocato effetti a catena, chiusura di esercizi commerciali,  di imprese e attività produttive, peraltro colpiti direttamente con l’Imu di loro competenza, per carenza di domanda, con disoccupazione, cassa integrazione e quindi oneri per lo Stato in ammortizzatori sociali e altre provvidenze  assistenziali, lo si vede dall’esigenza di nuovi stanziamenti per la “cassa in deroga” di cui si discute, in parte dovuti alla caduta della domanda.

A questi gravi effetti sul versante della domanda se ne sono  aggiunti altri ancora più rilevanti sul versante produttivo per la crisi verticale in cui è piombato l’intero settore edile. Un settore ad alta intensità di lavoro, nel quale si sono avuti centinaia di migliaia di nuovi disoccupati per il blocco assoluto delle vendite e delle costruzioni dato dall’azione negativa congiunta della reintroduzione doppia per le prime case e del raddoppio e oltre per le seconde case. Come i soggetti colpiti non potevano reggere a un aumento così gigantesco dell’imposizione – si ripete, quadruplicata per il ceto medio – così il settore produttivo non poteva non riceverne un colpo mortale, e così è stato.

Ne è risultata  una manovra a tenaglia dal lato della domanda e dell’offerta degna di von Clausevitz, se fosse stata consapevole, è come se si fossero volute  spezzare le reni a un settore che, oltre alla sua  diffusione  capillare e la sua alta intensità di lavoro, ha una caratteristica peculiare: è legato da una fitta rete di interdipendenze a gran parte degli altri settori produttivi. Per questo si dice che “quando l’edilizia va, tutto va”, basta consultare la tavola delle interdipendenze strutturali dei settori produttivi per verificarlo e poterlo quantificare. Il crollo del PIL e dell’occupazione vi trovano la chiara origine che pochi hanno indicato, mentre è l’aspetto chiave.  Il numero di 500.000 disoccupati è una stima per difetto.

Il giudizio diventa ancora più severo se si considera che si sono colpite le imprese domestiche, per lo più piccole, di un settore dove non c’è il rischio della “delocalizzazione” e dove predomina la domanda interna, quasi si volesse approfittare di questo radicamento per non avere come risposta l’esodo in massa. Invece proprio questo settore va sostenuto per il valore che assumono le sue peculiarità nazionali. 

Perciò diciamo che la soluzione del problema dell’IMU non può venire dalla contrapposizione tra le diverse visioni ideologiche ma dall’analisi dei dati della realtà che evidenziano anomalie agghiaccianti: la reintroduzione doppia per le prime case e il quadruplicare l’imposta per il ceto medio per il più che raddoppio per le seconde case, un aggravio fiscale gigantesco, insopportabile per la categoria di contribuenti che, tra l’altro, è  già colpita da imposte sulla casa altrove inesistenti; la mazzata insostenibile a un settore produttivo con alta occupazione e diffusione che ha subito un crollo verticale con centinaia di migliaia di disoccupati diretti e altrettanti indiretti nei settori legati dalle interdipendenze anch’essi colpiti gravemente. L’effetto congiunto dei danni arrecati dal lato della domanda e dell’offerta supera di molto la crescita del gettito in quanto si è tradotta in caduta del PIL e in erogazioni per ammortizzatori sociali e altro che hanno assottigliato i vantaggi monetari.

Il gigantesco  extra gettito del 2012 rispetto a quello del 2011 dovuto all’abnorme raddoppio impositivo, mai verificato per nessun’altra imposta, si ribadisce, è stato pagato duramente dall’economia italiana messa letteralmente a terra, e non poteva essere altrimenti. Giustamente si paventa l’aumento di 1 o 2 punti di Iva rispetto al 20%, quindi del 5 -10%, cosa si direbbe se venisse ipotizzato un raddoppio dell’imposizione, come avvenuto per le abitazioni, prime case (da nulla al doppio) e seconde case che siano?  Si dovrà tornare a livelli compatibili con quelli del 2011, con un incremento d’imposta, dovuto all’emergenza, fisiologico, ma non patologico e quindi controproducente, anzi autolesionistico come si è visto nel 2012: quindi con un aumento dell’imposizione rispetto al 2011 che si misuri in termini percentuali su una cifra, e non sul 100%  con cui è stato colpito il settore, e per il ceto medio ancora oltre.

Quindi il problema non riguarda solo le prime case, 4 miliardi di euro, ma anche il resto dell’IMU, per altri 20 miliardi, da ricondurre a dimensioni compatibili con il sistema economico e produttivo del Paese: e non può risultare compatibile, per quanto detto, aver più che raddoppiato l’imposizione.

Non c’è nulla di ideologico in tutto questo, sono dati reali che potrebbero essere quantificati con precisione senza le medie da polli di Trilussa per i contribuenti colpiti e senza la cecità che ha preso gli osservatori dinanzi alla crisi di un settore portante per l’economia del Paese. Se l’emergenza ha indotto  a concentrare il prelievo su un settore che poteva assicurare un gettito sicuro in tempi precisi per coprire il “buco” finanziario, superato questo momento si deve riconsiderare il tutto per ripartire l’onere e ricondurre a dimensioni fisiologiche e soprattutto sostenibili l’imposizione lievitata in modo anomalo. Non si ricorse alla tassa eccezionale per l’Europa, unico prelievo possibile nella situazione di urgenza all’entrata nell’euro? Ma poi è stata restituita per ristabilire la situazione di normalità che l’emergenza aveva fatto destabilizzare in modo, peraltro, molto meno dirompente di quanto avvenuto nel 2012 nella proprietà immobiliare, e quindi nella vita delle famiglie italiane.

Sembra che sia stata dimenticata la selva di elemetti di edili che riempì un piazzale davanti a una sede istituzionale, sembravano lapidi di un cimitero di guerra. Vittime della guerra dell’IMU scatenata da una cecità colpevole alla quale dovrà seguire  un ripensamento operoso basato sui dati di una realtà che deve essere rovesciata: perché  si scoprano quelle tombe, si levino quei morti, l’edilizia torni a produrre, le famiglie a consumare, il Paese risorga a nuova vita. Su questo il governo dovrà impegnarsi ripartendo dalla tassazione 2011 con l’incremento ragionevole che ci si può attendere dalle imposte in momenti difficili e non l’iperbolico moltiplicatore che le ha portate alle stelle.

Le misure compensative del gettito si trovano, basta cercarle dove non producono danni a settori vitali – com’è avvenuto per l’aberrante vessazione sull’edilizia che ha portato al crollo di domanda e offerta – e dove possono ripartirsi su una platea di contribuenti tanto vasta da non pesare in modo così abnorme sui singoli.

Info

Le immagini sono state riprese, nell’ordine, dai siti web seguenti: Iorio immobiliare, Public policy e Hd healthdesk, che si ringraziano per l’opportunità offerta.

Brueghel, arte e dinastia, al Chiostro del Bramante

di Romano Maria Levante

La mostra “Brueghel. Meraviglie dell’Arte fiamminga”, è giunta a Roma dopo Como e Tel Aviv, rinnovata e accresciuta di 20 dipinti, nel  Chiostro del Bramante, che dopo aver ospitato il moderno Mirò offre a una pittura aderente alla propria epoca i suoi ambienti prestigiosi immersi in una penombra suggestiva. Programmata dal 18 dicembre 2012 al 2 giugno 2013, è stata prorogata fino al 7 luglio per le molte prenotazioni in essere e il grande successo di pubblico, oltre 200 mila visitatori. Organizzata da “Arthemisia” con Dart – Chiostro del Bramante,  a cura di Sergio Gaddi e Doron J. Lurie, conservatore dei dipinti antichi al Tel Aviv Museum of Art, che hano curato anche il Catalogo bilingue “Brueghel. La dinastia” della Silvana Editoriale.

Pieter Brueghel il Giovane, “Danza nuziale all’aperto”, 1610 

Le due chiavi di lettura, l’arte fiamminga e la dinastia

Una doppia chiave di lettura della mostra: da un lato i Brueghel” sono le “Meraviglie dell’Arte fiamminga”, come nel titolo, dall’altro sono “La dinastia Brueghel”, come si intitola il Catalogo.

L’Arte fiamminga la troviamo declinata in alcuni dei suoi aspetti più caratteristici: la vita quotidiana nella vivacità delle scene popolari con qualche interno familiare e l’ambiente naturale con visioni arcadiche e allegoriche, i fiori e le nature morte, fino alle farfalle  Temi declinati nell’arco di 150 anni dalla dinastia di pittori che seguivano canoni affini, pur nelle differenze stilistiche e di qualità, tanto che si parlò di uno “stile Brueghel”, una specie di sigillo comune che indusse molti discendenti a seguire la strada della pittura, e si trattava di famiglie numerose, anche con dieci figli.

I due figli di Pieter il Vecchio si differenziano notevolmente: Pieter il Giovane si muove sulle orme paterne nel  tema da lui prediletto, quello della vita popolare, anche con copie e imitazioni fedeli, mentre Jan il Vecchio punta al rinnovamento dello stile. Viene poi Jan il Giovane, presente in mostra con ben 30 dipinti, e poi ancora il fratello Ambrosius, soprattutto con opere sulla natura  fino all’ultimo erede Abraham, che introduce le nature morte,  e ai due artisti legati a Jan il Giovane , David Teniers il Giovane che ne sposò la sorella Anna, in lui i motivi del mondo contadino cari al capostipite, e Kessel il Vecchio figlio di un’altra sorella, Paschasia, nel quale troviamo pressoché tutti i temi, dalla natura arcadica ai fiori, dalle nature morte fino alla sua specialità, le farfalle.

Da questo sommario excursus si può percepire appena la complessità e l’estensione dell’albero  genealogico della dinastia; per farsene un’idea  si pensi che Jan il Giovane era il primo di 10 fratelli ed ebbe 11 figli, di cui 5 pittori. Per questo  non ci avventuriamo nella storia dei singoli artisti, altrimenti ci allontaniamo troppo dalla loro produzione pittorica che ci accingiamo a visitare. Ne parleremo, quindi, in relazione alle  loro composizioni esposte nelle cinque sezioni  della mostra.

Jan Brueghel il Vecchio, “Riposo durante la fuga in Egitto”, 1602-05

Dalla vita contadina alla natura, il capostipite

Si inizia con un video nell’apposita saletta, fa vedere ciò che nella mostra non c’è, la vasta produzione pittorica del capostipite Pieter il Vecchio sul mondo contadino o comunque sulla vita quotidiana, con la sua inconfondibile cifra stilistica delle piccole figure in un formicolio popolare con i gesti più diversi, le espressioni e i costumi quanto mai caratteristici. Si resta incantati dinanzi allei immagini che ci immergono nella realtà civile dei Paesi Bassi, quella che i pittori potevano dipingere non essendovi le grandi committenze imperiali  o ecclesiastiche, per l’autonomia  assunta dalle provincie olandesi, riflessa in un’arte libera offerta sul mercato alla borghesia emergente.

Il filmato è un susseguirsi di visioni coinvolgenti, alle quali però non segue un riscontro nei dipinti esposti, dato che di Pieter il Vecchio ce ne sono pochissimi, e per di più su temi religiosi  come “La Resurrezione”, 1563. E’ importante, quindi, il suo disegno “Festa di contadini”,  fine 1500,  la gente al lavoro in una vivace composizione tra casupole e carri, le  scene  animate da armigeri e figure festose che fanno il girotondo, ci sembra sia esplicativa della poetica popolare di Brueghel.

Si sente la mancanza dei dipinti di Pieter il Vecchio visti nel filmato, ma viene alleviata dal celebre “I sette peccati capitali”, di Hieronymus Bosch, intorno al 1500, e dalla “Danza nuziale” di Maarten van Cleve, del 1570-80,  con  figure popolari del tipo di quelle che si trovano in Pieter.

Maximiliaan Martens nel suo accurato studio dal titolo  “Pieter Brueghel, un ‘secondo Bosch'”ricorda come Karel van Mander, nella sua “Vita degli illustri pittori olandesi e tedeschi”, scrisse: di  Brueghel: “Si era ispirato spesso alle opere di Jeroon van den Bosch, e dipingeva figure mostruose e caricaturali alla maniera di Bosch, tanto da essere soprannominato ‘Pier den Drol [Pietro il Buffo]. Infatti sono pochi i quadri che l’osservatore riesce a contemplare senza ridere, anche la persona più seria non riesce a trattenere almeno un sorriso”. Sembra rispondergli Renzo Villa: “Pieter Brueghel è stato soprannominato variamente ‘il Vecchio’ per distinguerlo dal figlio, ma anche ‘il Contadino’ o ‘il Buffo’. In realtà il suo mondo è tutt’altro che ‘rustico’ o ‘buffo'”.

Prosegue Martens: “La raffigurazione di mostri, creature ibride e scene fantastiche veniva considerata una fonte d’intrattenimento, perfino in dipinti a carattere religioso, e nel caso di Brueghel questa considerazione vale anche a proposito delle rappresentazioni di proverbi e scene di vita contadina”.  Fino a contrapporre tale argomento agli ” osservatori moderni,portati tendenzialmente ad attribuire significati simbolici  a ogni singolo dettaglio di un’opera”.

Detto questo, non si deve neppure banalizzare, perché. – come scrive Klaus Ertz – “le sue raffigurazioni di paesaggi animati da popolani e le scene di vita agreste propongono una critica graffiante dei vizi e delle follie umane”; a questo fine “illustra proverbi e detti popolari in modo realistico, riflessivo, provocatorio, tagliente, anche se non sempre di immediata lettura, dando origine a un’opera ricca anche di contenuti morali”.

E comunque, secondo Sergio Gaddi, uno dei due curatori della mostra, la sua è “una straordinaria e visionaria rappresentazione di mondi inimmaginabili e fantasiosi”, mentre per altro verso rivolge la sua attenzione “alla cosiddetta vita bassa, lo sguardo indulgente e spesso partecipe su una quotidianità con risvolti goffi e disarmanti, e proprio perciò intensamente, integralmente umani”.  Con l’ulteriore caratteristica che le sue opere sono prive di solennità e retorica. “A essere maestosa e trionfale è solo la natura che assume la dignità di soggetto – e non più solo di sfondo –  della rappresentazione pittorica e che, con la sua sola presenza, soverchia apertamente l’uomo, ne ridimensiona le proporzioni e soprattutto l’importanza”.

Jan Brueghel il Giovane, “Allegoria dell’udito”, 1645-50

I due figli, Pieter il Giovane e Jan il Vecchio

L’assenza di opere di Pieter Brueghel il Vecchio dalla mostra  non fa venir meno l’interesse ad averne delineato il carattere, perché come capostipite ha influenzato l’intera dinastia. Direttamente il  figlio Pieter Brueghel il Giovane, i cui dipinti nello stile e nei temi proseguono il suo discorso: anche se in chiave più leggera, senza la severità che molti vedono in Brueghel padre. Di Pieter il Giovane vogliamo segnalare soprattutto  “Danza nuziale all’aperto”, 1610, autentica scena bruegheliana di vita contadina e “Le sette opere di misericordia”, quasi la risposta ai “Sette peccati capitali” di Bosch; poi,  in misura minore, in “Predicazione di san Giovanni Battista”, 1620. Pure i precedenti “Paesaggio invernale con trappola per uccelli”,  il simile “Trappola per uccelli”, 1605, e “Il censimento di Betlemme”, 1610, sono animati  dalle tipiche figure popolari del padre,  però in lui acquista rilievo preminente la natura.

Diventa protagonista assoluto lo spettacolo naturale in Jan Brueghel il Vecchio, l’altro figlio che segue  una strada diversa, e si guadagna l’appellativo di “Jan dei velluti” per il tocco raffinato. Ci sono 20 opere in mostra, molte delle quali aggiunte rispetto alle esposizioni precedenti. Ne citiamo  due di paesaggi con figure piccolissime che fanno risaltare la vastità dello scenario, fatto  di  casette tra gli alberi, un corso d’acqua tranquilla e lo sguardo che si perde lontano: “Paesaggio fluviale con bagnanti”, 1595-1600, e  “Villaggio con contadini e animali”, 1609, e; due con figure in primo piano, ma sovrastate da un albero imponente, con lo stesso titolo, “Riposo durante la fuga in Egitto”, 1595 e 1602-05,  ben diverso dal celebre dipinto caravaggesco, qui nessun dramma, siamo in Arcadia. Una scena serena nel verde è anche “La tentazione di sant’Antonio nel bosco”,1595.

Si passa, quindi, a due dipinti di fiori, “Natura morta con tulipani e rose”, 1610, e “Madonna col Bambino in una ghirlanda di fiori”, 1616-18, che aprono un discorso più ampio su questo  tema..

La pittura floreale e allegorica, Jan il Giovane

Ci riferiamo ora alla pittura floreale, divenuta una caratteristica dell’arte fiamminga dopo che Jan Brueghel il Vecchio  ne fu antesignano. Non si tratta di mere riproduzioni della realtà da “natura morta”,  nei vasi di fiori spesso venivano inserite le più disparate varietà floreali, e con una precisione e competenza da potersi  distinguere ben 58 specie diverse  in un dipinto dell’artista.

“I fiori – scrive Doron J. Lurie, l’altro curatore della mostra – simboleggiavano qualcosa di bello ma transitorio, un concetto adatto ad esprimere l’idea di vanitas: ‘ogni cosa bella è destinata a perire’. Prova del fatto che questi dipinti non erano una rappresentazione innocente e realistica di un vaso di fiori,  è che spesso ritraggono varietà che non fioriscono nello stesso periodo dell’anno” Richiamano  momenti transitori della natura, come la primavera, e della vita, come la giovinezza; spesso valori religiosi o morali: il giglio l’amore e la rosa bianca la purezza, la viola del pensiero la divinità e il giglio di sabbia la grazia; nel garofano veniva vista l’incarnazione di Cristo. 

Si arricchiva il simbolismo inserendo altri elementi nelle composizioni floreali in vasi e cestini: la farfalla come ascesa dell’anima e la lumaca come inesorabile scorrere del tempo,  fino alla formica come preparazione al futuro, mentre ai fiori recisi venivano accostati fiori vivi, altra compresenza simbolica. I vasi erano oggetto di particolare attenzione, con vetri intagliati o rilievi classici.

Gli stessi santi venivano incorniciati di fiori, come nella “Madonna col Bambino in una ghirlanda di fiori”, appena citato,  di Jan il Vecchio, e in “Sacra famiglia circondata da una ghirlanda di fiori”,  1620-25,che ci fa fare la conoscenza di Jan Brueghel il Giovane, il quale  lo dipinse con Bartolomeo Cavarozzi, secondo una consuetudine che abbinava l’artista specializzato nelle figure, l’altro nella resa dei fiori, dato che erano richieste approfondite conoscenze botaniche.

Ed ecco la vasta sezione della mostra dedicata a Jan il Giovane, di cui citiamo prima degli altri i dipinti floreali: Due “Nature morte con fiori in vaso di vetro o intagliato”,  1630-40,  sono spettacolari, la prima per il vastissimo assortimento di fiori, la seconda per la loro imponenza, e poi lo scenografico “Fiori in un cesto e in un vaso d’argilla”, 1640-45, e i due “Bouquet corona imperiale in un vaso dipinto con manici”, 1620-22, e “Mazzo di fiori con gigli rossi in un vaso sferico dipinto”, i cui titoli da soli rendono l’accuratezza con cui sono resi fiori e vasi contenitori.

Ma Jan il Giovane non si segnala soltanto per la pittura floreale, nella quale ci sono tanti simbolismi, e ne abbiamo fatto cenno. Sono sue le allegorie, immagini che definiremmo arcadiche, ninfe seminude danzanti e sognanti in un ambiente naturale rigoglioso, con i riferimenti al tema allegorico  come in un proscenio teatrale, è facile identificarli. Vediamo  l’allegoria “dei quattro elementi” e “dell’acqua”, “di fuoco e  aria”, tutti del 1630, “della guerra” e “della pace”, 1640, “dell’amore”, “dell’olfatto” e “dell’udito”,1645-50. Si viene portati, quasi rapiti,  in un’atmosfera arcadica suggestiva e ricca di stimoli, con una qualità stilistica raffinata e insieme intensa.

Dello stesso tipo  “Contadini di ritorno dal mercato” e “Animali che si abbeverano lungo una strada di campagna”,  “Vertunmo e Pomona” e “Paradiso terrestre” dal 1620 al ’35, come i religiosi  “Visione di sant’Umberto”, 1630, e “Paesaggi con la Madonna e il Bambino”: ce  ne sono tre in mostra, dipinti a distanza di vent’anni, tra il 1525 e il ’45, due nel bosco con le piccole figure nell’ombra folta della vegetazione, uno in un ambiente naturale con una cascata di fiori che risplende dando luminosità alla scena. Guardare questi dipinti è emozionante, si è come presi in un vortice di elementi naturali in perfetta simbiosi con il messaggio spirituale di serenità e letizia.

Ambrosius Brueghel, “Mazzo di fiori in un vaso di vetro”, 1650-60

Ambrosius,  Jan Pieter e Abraham, si chiude la discendenza

La dinastia prosegue per generazioni, in un intrico di prime e seconde nozze con nidiate di figli, a questo punto raccolsero il “testimone” dello “stile Brueghel” il fratello e il figlio di Jan il Giovane, rispettivamente Ambrosius e Jan Pieter Brueghel. Ed è uno stile, lo abbiamo visto, che si nutre di contenuti come le allegorie e i simboli floreali.

I dipinti di fiori di Ambrosius  presentano vasi di vetro o di argilla sovrastati da corolle turgide  come  frutti, forse per questo sono chiamati “Nature morte: ne vediamo 5  spettacolari, del 1660-65, su sfondo scuro nel quale si stagliano  cascate di colore. Come è incisivo il tratto e deciso il colore nei dipinti floreali, così è delicato e sfumato nelle quattro “Allegorie degli elementi”,  1645, dove le figure di ninfe e putti, che abbiamo imparato a conoscere dai primi  della dinastia, sono immerse in un’atmosfera onirica appieno che rende  il contenuto allusivo della composizione.

In Jan Pieter il fondale diventa ancora più scuro, il vaso quasi scompare e così il piano dove è appoggiato, è come se i fiori bucassero le ombre per illuminare la scena, tale è “Mazzo di fiori in un vaso”, 1654, e “Natura morta con fiori”, 1661.

Alla magnificenza della natura  non c’è mai fine. Finora l’abbiamo vista rappresentata in scenari in cui è protagonista il verde e l’ambiente, dove la persona umana è comprimario, e nel tripudio rigoglioso di fiori pur se recisi con i gambi in un vaso sovrastato dalle corolle turgide e sgargianti.

Con Abraham esplode ancora più opulenta e opima nelle “nature morte” gravide di frutta. Si sente il peso della materia, lo stile è molto diverso da quello calcolato e  “vellutato” del nonno, forse per questo fu chiamato “il fracassoso”. I  6 dipinti  sono uno più lussureggiante dell’altro, se così si può dire per l’effetto  dei pomi e dei grappoli, da soli o con fiori, uccelli o cacciagione. Realizzati tra il 1670 e il 1690, il tempo scorre:  i titoli esplicitano l'”ospite” della “Natura morta con frutta”: in  due di loro c’è anche un vaso in bella vista, sommerso di fiori e frutta, negli altri la composizione è  densa di elementi, quella con la cacciagione è ravvivata dal rosso di un cocomero aperto a metà.

Abraham Brueghel, “Fiori e frutta”, 1675

Con Teniers e van Kessel il mondo contadino e le farfalle

Abbiamo detto che non ci saremmo avventurati nelle complesse genealogie, ma non possiamo evitare di dar conto di due pittori della dinastia che presentano delle sorprese rispetto ai motivi e contenuti dello “stile Brueghel” di cui abbiamo parlato, che dopo il capostipite sono natura e fiori..

Il primo, David Teniers il Giovane, figlio del pittore David Teniers il Vecchio – entrato per così dire nella dinastia sposando Anna, figlia di Jan Brueghel il Vecchio e sorella di Ambrosius – ci fa ritrovare addirittura i motivi del mondo contadino del capostipite Pieter il Vecchio, portati avanti dal figlio Pieter il Giovane ma trascurati dai discendenti,  a partire dall’altro figlio Jan il Vecchio.

Non c’è, però, l’umanità delle piccole figure che si muovono come in un formicaio trasmettendo attività, energia e sentimento del vivere. Sono scene di vita in due diversi tipi di composizione. Quelle  riprese da lontano: come “La raccolta delle mele” e “Paesaggio fluviale con maniero e un viaggiatore esausto”, tra il 1645 e il 1650,  i titoli dicono il contenuto, le tinte sono pastello, sfumate, le figure piccole ma come  in primo piano, tale è la gestualità che le rende così espressive.

Le scene riprese da vicino, invece, sono in interni, e si inseriscono nel filone della pittura civile, quella attenta alla quotidianità della vita senza volontà celebrativa ma con l’intento di rappresentare una realtà che l’autonomia della provincia olandese rendeva sensibile al gusto dei nuovi tempi, anche perché le opere venivano offerte sul mercato senza le ricche committenze. Sono esposti “Corpo di guardia con soldati che giocano a carte”, 1644, e “Contadina in una taverna”, 1655-60, il primo illuminato dalla giubba chiara della persona che volge le spalle all’osservatore, il secondo quasi come velato, tale è la morbidezza dei toni, il senso di  riservatezza della scena. “Paesaggio con pastori”, 1640-45, è immerso in un’atmosfera onirica, con due figure appena delineate in un contesto molto sfumato e anticipatore, un “en plein air” quasi impressionistico.

Se  Teniers fa riscoprire alla dinastia la vita contadina,  Jan van Kessel il Vecchio – figlio di Paschasia,  sorella di  Jan il Giovane come lo era Anna,.moglie di Teniers – ci fa scoprire le farfalle. Non è una boutade,  né si tratta di una stravaganza estemporanea, una sala della mostra è dedicata alle composizioni di farfalle e insetti, da soli oppure insieme a conchiglie e fiori primaverili. Più che  quadri pittorici sembrano raccolte di entomologi, farfalle e insetti sono così precisi e definiti da dare l’impressione che siano conservati in teca  e non dipinti: ne vediamo 6 di quadri-teche, in ciascuno le farfalle allineate in perfetto ordine, come rispondenti a una precisa classificazione.

Ci torna in mente  il riquadro quasi  miniaturizzato di quadratini del pittore contemporaneo Sebastian Echaurren “Volevo fare l’entomologo”, qui von Kessel lo fa veramente, alla grande competenza floreale che la dinastia ha messo in campo nelle sue perfette raffigurazioni si aggiunge la competenza per una specie che di fiori si nutre suggendone il polline.

Oltre alla sorpresa l’artista dà una conferma, riguarda il tema delle allegorie, caro a Jan Brueghel il Giovane: c’è l’“Allegoria della terra e dell’estate”  e l'”Allegoria delle quattro stagioni”, 1670-75.

Jan von Kessel il Giovane va ancora oltre nell’attenzione alle farfalle, questa volta non con la precisione dell’entomologo ma con la sublimazione: “Farfalle e  insetti inquadrati in una ghirlanda di fiori”, 1665-70, sono due dipinti che ne rappresentano la consacrazione, dato che Jan Brueghel il Vecchio vi inquadrava la Madonna col Bambino; per fare questo la ghirlanda circonda una sorta di teca, o  finestrella dietro cui quegli esseri si librano intorno a un albero senza foglie. Lo stesso artista ci riporta le nature morte in versioni composite, con delle forme più leggere e ariose di quelle gravide e opime di Abraham: come  “Natura morta con frutta e tulipani” e “Natura morta con fiori, frutta e selvaggina”, 1675-78, c’è  luce e  movimento sul tavolo che ne è ricoperto..

Così si conclude la grande mostra sulla Dinastia dei Brueghel a rappresentare le meraviglie dell’Arte fiamminga. un’occasione unica di vedere riunite  opere provenienti da un gran numero di musei internazionali e  da molte collezioni private i cui prestiti hanno consentito l’esposizione.

Si esce sotto un duplice effetto, rasserenati dalle visioni  arcadiche degli innumerevoli scenari naturali,  pur con gli enigmi delle allegorie tutti da interpretare; e  quasi storditi dall’immersione nelle rutilanti serie floreali. Per le scene di vita contadina del capostipite, che danno il tocco del grottesco simbolico e ammonitore, ha sopperito il video iniziale alla mancanza di dipinti.

Abituati a seguire le tante dinastie che sono state determinanti nella storia, per la prima volta facciamo la conoscenza diretta di una dinastia determinante nella pittura. E per di più nella pittura fiamminga. Anche per questo la mostra è un evento da non perdere.

Info

Chiostro del Bramante, Roma,  via della Pace, tutti i giorni  dalle 10,00 alle 20,00, sabato e domenica dalle 10,00 alle 21,00 (la biglietteria chiude  un’ora prima).  Ingresso intero euro  12, ridotto euro 10 (fino  a18 anni e oltre 65, più particolari categirie), ridotto gruppi euro 10 e gruppi scuole euro 5 (min 15 max 25 con prenotazine). Tel. 06.68809036;   info@chiostrodelbramante.it. Catalogo: “Brueghel. La dinastia”, a cura di Sergio Gaddi e Gordon J. Lurie, Silvana Editoriale, marzo 2012, pp. 240, bilingue (italiano e inglese) formato 24×27, euro 49,95;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per i riferimenti a Caravaggio ed Echaurren, si rimanda ai nostri servizi sulle rispettive mostre:  Caravaggio  in “cultura.abruzzoworld.com”  nel 2010,  il 21, 22, 23 gennaio per la mostra con Bacon, il 23 febbraio per le iniziative del 500°, l’8 e 11 giugno per la mostra alle Scuderie del Quirinale, in “guidafotografia.com”  il 13 aprile 2011 per la mostra “La bottega del genio” a Palazzo Venezia;  Echaurren  in questo sito il 23, 30 novembre e 14 dicembre 2012.   

Foto

Le immagini sono state fornite da Arthemisia che si ringrazia, con Dart  e i titolari dei diritti. In apertura, Pieter Brueghel il Giovane, “Danza nuziale all’aperto”, 1610; seguono Jan Brueghel il Vecchio, “Riposo durante la fuga in Egitto”, 1602-05, e Jan Brueghel il Giovane, “Allegoria dell’udito”, 1645-50; poi Ambrosius Brueghel, “Mazzo di fiori in un vaso di vetro”, 1650-60, e Abraham Brueghel, “Fiori e frutta”, 1675;  in chiusura, Jan van Kessel il Vecchio, “Ampio studio di farfalle, insetti e conchiglie”, 1671.

Jan van Kessel il Vecchio, “Ampio studio di farfalle, insetti e conchiglie”, 1671