Lina Passalacqua, le quattro stagioni, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Vittoriano, lato Fori Imperiali, “Le quattro stagioni” di Lina Passalacqua, dal 19 aprile al 18 maggio 2013, 40 oli su tela che esprimono immagini e sensazioni legate alle diverse fasi del ciclo annuale: la  Primavera con il suo verde rinfrescante e l’Estate con il suo rosso arancio infuocato, l’Autunno con il suo giallo malinconico e l’Inverno con il suo freddo biancore, il tutto attraverso pitture molto nette nelle sciabolate di colori luminosi che tagliano le composizioni  policrome. A cura di  Maria Teresa Benedetti, realizzazione di “Comunicare organizzando”. Catalogo Gangemi, con particolari ingranditi dai forti colori che rendono il folgorante effetto visivo ben più delle normali fotografie ai dipinti esposti.  

Lina Passalacqua con due dipinti della serie Estate, da sin. “Tramonto a Nettuno”, 2012, e “Tramonto”, 2011

Il motivo delle quattro stagioni potrebbe essere la prima ispirazione per un artista, tanto è connaturato alla vita di ciascuno; ma può anche essere l’approdo nella maturità, questo è il caso di Lina Passalacqua, che ha dipinto i 40 oli di questo ciclo negli ultimi tre anni, al culmine di una vita artistica vissuta non soltanto sul fronte della pittura. La ripercorreremo tratteggiandone la cifra stilistica e rivelando l’origine del ciclo.

Una vita d’artista, “dalla parola al segno”

E’ stata artista di teatro da giovanissima, in un centro di avanguardia a Genova che rappresentava testi di Jonesco e Becket per la prima volta in Italia; lei stessa recitò Euripide e Goldoni, Bassano e Betti  con un gruppo di universitari al piccolo teatro Eleonora Duse di Genova, e alla IV Delphiade di Saarbruken. Preso l’abbrivio, recita nel “Faust” di Goethe e nel “Re Lear” di Shakesperare insieme a Memo Benassi e Annibale Ninchi; poi seguono altri spettacoli con nomi importanti, Umberto Spadaro e Turi Ferro. Intanto è attratta dai musei e disegna le opere di grandi maestri finché inizia a frequentare lo studio del pittore e incisore Petrucci ed esplode la sua vera vocazione.

Lascia il teatro per l’insegnamento del disegno, ma c’è ancora il cordone ombelicale, collabora alla rivista teatrale “Maschere”, questa volta come ritrattista e non come attrice: ha soltanto trent’anni, ha già vissuto una stagione da attrice, ne sta per iniziare un’altra da pittrice, passando per il disegno. Prima  personale a Frosinone con i disegni di“Gente di Ciociaria”, ha 34 anni, è l’apripista di innumerevoli mostre personali e collettive e anche di concorsi vinti, il primo a Roma per pannelli decorativi: sono “Frammenti nel tempo e nello spazio”, è il titolo del catalogo di una mostra del 1989 con testi di Mario Verdone.  Citiamo fior da fiore, nel 1991 “Lina Passalacqua, un autoritratto”,  mostra antologica ad Acquaviva Picena, a cura di Stefania Severi, nello stesso anno e nel 1992  anche un documentario premiato sul suo lavoro.

Una mostra a 60 anni, nel 1993,  ha un titolo autobiografico, “Dalla parola al segno”, nel 1996 è invitata al Premio Sulmona, nel catalogo la presenta Carlo Fabrizio Carli. Segue il ciclo “Vele” nel 1998, nello studio S Arte Contemporanea diretto da Carmine Siniscalco, le mostre “Palme d’artista” a Palermo, e “Mail Art” ad Ancona. E’ l’anno della consacrazione futurista nel premio “Città di Pizzo” conferitole con la motivazione: “…Lina Passalacqua è una delle pochissime figure del Secondo Futurismo, la cui opera andrà storicizzata nelle successioni del movimento”.

Inizia il nuovo secolo con la partecipazione al Forum dell’Unesco nel 2000 per una cultura di pace delle donne mediterranee, crea il collage “Costellazione Pace” come simbolo virtuale di dialogo tra le culture ebraica e mussulmana. Viene inserita nei volumi “Storia dell’Arte Italiana del 1900. Generazioni anni ‘30” di Giorgio di Genova e “Artisti del ‘900  a Roma” di Renato Civiello.

Si moltiplicano le partecipazioni alle mostre in Italia e anche in Egitto e Arzebajan, Libano e Marocco, quest’ultima a Casablanca sul tema “Cultures Solidaries”  a cura dell’Unesco.  Le mostre a Roma del 2006  “Segnali di primavera”, ad aprile nel Vittoriano, e “Primavera romana” a maggio nello Studio S Arte Contemporanea, come quelle al Museo Crocetti  del 2007, “Salone di Primavera – Ricerca ed elogio della forma” e dell’anno successivo “Primaverile 2008. Prendere posizione” evocano una delle stagioni, quasi una predestinazione per la mostra attuale.

“Fresie”, 2011, della serie Primavera

Ma non è ancora il momento delle “quattro stagioni”, viene pubblicato il catalogo “Voli” recante scritti dei critici Benedetti e Siniscalco, autori anche dei testi dell’attuale catalogo.  Viene inserita nei programmi internazionali “Artists  Viewing Program” del Moma di New York nel 2007 e del Guggenheim nel 2008 per facilitare lo scambio tra curatori e artisti a livello mondiale. Partecipa a un’esposizione internazionale in Francia dell’Ufacsi e  a una a Roma per l’8 marzo, “Donne  d’arte – Freedom”.

Siamo nel 2008, è invitata alla mostra “La continuità futurista nel primo centenario”, ai Dioscuri del Quirinale, per lei è il decennale dalla consacrazione del 1998, come allora al Premio di Pittura “Città di Pizzo” riceve una medaglia del Presidente della Repubblica  con una motivazione che riecheggia quella di dieci anni prima: “…Lina Passalacqua rappresenta una delle più illustri continuità del linguaggio futurista…”. Segue, nel febbraio 2009, il “Premio per il Neofuturismo”  alla Biennale d’Arte di Lamezia Terme ed è invitata  da Luigi Tallarico  all’importante mostra “Futurismo nel suo centenario, la continuità” a Lecce.

Non è solo per il filone futurista che la cercano,  2009 lo stesso Tallarico la invita a marzo alla “V Triennale d’Arte Sacra Contemporanea”, sempre a Lecce;  a novembre partecipa alla “V Biennale del Libro d’Artista Città di Cassino”, e a dicembre al “Premio internazionale Limen Arte”  a Vibo Valentia, ritroviamo Giorgio di Genova.  Viene organizzata a Roma una antologica delle sue opere grafiche  dal 1960 al 1990 , inserita nelle celebrazioni del centenario del Futurismo, il catalogo monografico dal titolo “Flash” contiene testi di Civello e Focarelli.

La sua attività espositiva prosegue nel 2010  ad aprile con la collettiva “11 Artisti presentati alla sesta Biennale del Libro d’Artista” allo Studio S di Roma, invitata da Siniscalco, a settembre alla mostra “Donna Oggi” a Roma, nella prestigiosa Biblioteca Casanatese e in altre città, la invita Stefani Severi. Nel 2011 a febbraio ancora Siniscalco la invita al suo Studio S per la mostra “S.O.S. Palma, Ventisei artisti al servizio della Società”,  a maggio è inserita nella sezione storica della Biennale d’Arte di Lamezia Terme e la invitano a partecipare alla Mostra internazionale di donne artiste in 14 paesi, a giugno ancora alla Biblioteca Casanatese a Roma la sua mostra “Flash – Grafiche 1960-1990” è inserita nelle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia.

E’ l’ultimo anno prima di questa mostra, il 2012, la sua attività non rallenta: Siniscalco la invita a maggio  alla mostra “Un’arte per la vita”  al Museo Crocetti, e lei destina tre opere in comodato al nucleo iniziale di un Museo permanente della Comunità di sant’Egidio; e a dicembre alla mostra “Dalla dolce vita alla vie en rose . Ventinove artisti… un fiore, un film e una canzone” allo Studio S più volte citato.

Finora ha esposto in 45 mostre personali e ha partecipato ad altre 80  collettive, in Italia e all’estero in vari paesi. Ed eccola al Vittoriano, qui con noi, è il 18 aprile 2013, espone il nuovo ciclo “Le quattro stagioni”: dopo una vita e un’attività così intensa ritrova la freschezza primigenia.

Ode all’estate”, 2010, della serie Estate

Motivi e ispirazione del ciclo “Le quattro stagioni”

“Ce l’ha fatta – scrive Carmine Siniscalco – Lina Passalacqua a realizzare il suo sogno: dipingere un ciclo concepito quale epilogo di una vita dedicata alla pittura per vizio e passione”. Una vita non facile per chi viene trapiantato dall’Aspromonte alla Liguria per poi approdare a Roma,  con difficoltà di varia natura e un impegno sociale e civile oltre che artistico, quest’ultimo come si è visto in una staffetta  tra l’attrice di teatro e la pittrice, legata al disegno anche come insegnante.

Un epilogo che è solo una nuova tappa, data la vitalità dell’artista e la sua storia personale che abbiamo  ricordato. Un tappa che chiude idealmente un ciclo dedicato ai valori primari della bellezza e della natura, insieme agli elementi primordiali aria e acqua, terra e fuoco. “Che l’ha portata – è sempre Siniscalco –  all’età della pensione, a dipingere queste sue stagioni con la maturità dell’artista ma non, come si potrebbe pensare, con la nostalgia del tempo che fu e la consapevolezza di un passato non rinnovabile ma con la freschezza e l’entusiasmo di una neofita che non rimpiange l’ieri ma vive il suo oggi guardando al domani…”. Come un giovane, anzi come un bambino.

Ed è questo il suo segreto, anzi non è neppure tale perché lo rivela lei stessa nel parlare della fonte della sua ispirazione, della folgorazione che l’ha portata a ideare il ciclo delle quattro stagioni.  Alla nipotina Sara che sorrideva nel guardare i fiori colorati del giardino mostrava come le rose gialle della bisnonna “sono qui, con noi, e ci sorridono”, una simbiosi tra l’innocenza infantile e la purezza della natura.  E le diceva: “Vedi, adesso siamo in estate, e i colori dell’estate sono bellissimi, poi verrà l’Autunno, queste foglie diventeranno gialle e in Inverno tutto morirà per poi rinascere in Primavera. E’ il miracolo delle Stagioni”.  Quindi una riflessione: “Già, le ‘Quattro Stagioni’. Perché non dipingerle?”  Questo avveniva tre anni fa, il dado era tratto, le parole di un sommo artista ne sono il sigillo: “Picasso diceva che ‘occorre una vita per diventare bambini’. Io con te lo sono diventata”, conclude rivolgendosi alla piccola, in realtà ci dà la chiave di lettura del ciclo pittorico.

Ricorderemo queste parole nel visitare la mostra, la freschezza e l’entusiasmo sprizza dai suoi dipinti nel cromatismo e nella forma compositiva che ne sono una esaltante conferma. Tanto più che su una parete all’ingresso della mostra il collega Vittorio Esposito ci ha fatto notare una serie di bozzetti dei suoi dipinti, 13 quadretti formati da collage di pezzetti colorati, assemblati con la pazienza, la meticolosità e la passione di un bambino; poi li tradurrà in grandi oli dal cromatismo rutilante, ma la matrice è lì, nella ricerca certosina con lo slancio infantile e la consapevolezza matura di voler penetrare l’essenza, le radici del creato per trovare la linfa vitale da cui nasce l’energia cosmica.

“Ottobre”, 2012, della serie Autunno

Le quattro stagioni in 40 dipinti

Delineata la figura dell’artista, lo stile e l’ispirazione, è il momento delle sue opere, un  tripudio di colori e di forme lancinanti che provocano un’esplosione di  sensazioni, percorse come sono da una vitalità travolgente, una passione irrefrenabile  per la bellezza e per la natura vissuta, lo ripetiamo.  con la profondità dell’età matura ma nel contempo con la freschezza e l’entusiasmo dell’età infantile.

L’opera dell’artista,  per usare il linguaggio teatrale, si sviluppa in 40 scene divise in 4 atti, corrispondenti alle stagioni, intorno a un motivo centrale, così definito da Siniscalco: “La storia della vita dal primaverile risveglio al niveo inverno attraversando la passionale estate e il pensieroso autunno. Quattro stagioni incarnate nel comune denominatore di un solo elemento, la foglia, declamato nei suoi variabili colori e mutevoli forme, mai olograficamente rappresentato, talvolta soltanto suggerito o accennato: quattro stagioni in finale ritratte, come in una foto di gruppo, in un’unica opera, di grande impatto e non solo di grande formato, una vera ‘summa’ di qualità pittorica, libera ispirazione, professionalità non didascalica, invenzione e poesia”. 

Guardiamo, dunque, i suoi quadri, dipinti tra il 2010 e il 2013, sono 10 per stagione, quasi tutti di forma rettangolare tranne alcuni rotondi, per lo più 70×100;  il quadro-sintesi “Le quattro stagioni” nei suoi 2 metri di altezza riassume l’intero ciclo nella successione delle stagioni dal basso in alto, con la primavera all’inizio e l’inverno al termine, come per la vita, ed è significativo che sia posto a introduzione alla mostra, quasi si volesse preparare all’analisi di ogni stagione. E’ del 2013, l’opera conclusiva, ed è altrettanto significativo che prima di questa siano esposti i 13 bozzetti-collage di cui si è detto, dai quali in definitiva tutto ha inizio. Una sorta di alfa e omega del ciclo pittorico sulle stagioni.

Il viaggio dell’artista nelle quattro stagioni comincia dalla Primavera, i quadri hanno il verde come colore dominante. Ci sono gli Anemoni  e i Germogli, dove irrompe anche il giallo arancio, l’Albero con rami spogli nell’azzurro del cielo, le Fresie con i fiori rosa che occhieggiano tra le foglie; e poi titoli legati alle sensazioni primaverili, “Sogno”  con delicate formazioni che attraversano la vegetazione, mentre in “Bagliore” un rosso violento sembra bucare il cerchio del fogliame; “Annuncio” e “Divenire”  mostrano motivi frastagliati, il primo su diverse tonalità di verde, il secondo con una sinfonia di colori. Il “Risveglio” è tranquillo, i toni sono delicati pur se il verde è sempre molto intenso.

Come nella realtà, così nella pittura della Passalacqua, il passaggio all’Estate è brusco e folgorante. Rossi e gialli intensi sostituiscono il verde della primavera, è un vero incendio di colore e di calore, pure “Tra le foglie” incendiate anch’esse. I fiori della stagione sono i “Girasoli”,  in primissimo piano la corolla con al centro i semi in una vera esplosione atomica, mentre i “Papaveri” sono un fondale rosso intenso con delle ombre scure. Poi “Gli Ibiscus del mio giardino”, quelli che piacevano alla nipotina, forse per questo il dipinto è una composizione più elaborata delle altre, nelle forme e nel cromatismo, di straordinaria raffinatezza e profondità. Introduce alle altre immagini corali, come “Meriggio” e “Tramonto a Nettuno”, “Cielo infuocato” e “I colori dell’estate”.  nelle quali l’incendio di colori e di calore è ancora più violento e intenso, si sente la forza dei raggi solari nei riflessi di una canicola che richiama i metalli incandescenti. Coaì nel rutilante “Ode all’estate”.

I colori con l’Autunno virano al giallo-marrone delle foglie secche,  il rosso resta in “Petali di rosa” come due piccole macchie in un intrico marrone e giallo, è l’unico fiore citato, gli altri dipinti sono ispirati dalle immagini della stagione. Si comincia con “Ricordi” e “Quiete”,  dalle tinte tenui come i titoli che ne segnano l’ispirazione; mentre “Fogliame” e “Larve” con le sciabolate di giallo-marrone rendono la svolta della stagione. In “Nuvole” e “Magia d’autunno” tornano colori forti, il rosso non vuole scomparire, in “Ottobre” cede al sopravvenire dell’ocra più spenta tipica della stagione, fino ad “Autunnale” e “Profumo della terra”, in cui questo colore copre la natura.

La virata cromatica è ancora più netta con l’Inverno, domina il bianco percorso da motivi azzurro-ghiaccio che accentuano la sensazione di freddo. Mentre  in “Alba gelida”, “Ragnatele d’ombra” e “Valanga” un biancore avvolge i residui segni dell’autunno, i tondi “Fiume in piena” e “Riflessi di ghiaccio”  fanno sentire il gelo della neve, come “Riflessi di ghiaccio”: si sente l’Artico più che l’inverno cittadino. “Bufera” e “Brezza” danno invece il senso del turbine, più che del freddo, come “La voce del vento”.  In “Le ultime foglie”  l’inverno espugna le ultime resistenze autunnali, foglioline secche arancione e filamenti verdi sono la premessa per il ritorno della primavera.

 “Le ultime foglie”, 2012, della serie Inverno

Il futurismo plastico e dinamico e l’astrattismo lirico dell’artista

Le varie forme che assume la realtà nel ciclo vitale delle stagioni vengono esplorate per penetrare i segreti della natura, la sua essenza, la sua dinamica nelle metamorfosi che assume. E nel contempo ci sono espressioni della sensibilità dell’artista e di tutti, dinanzi a questo spettacolo che si rinnova,  mentre se ne percepiscono i movimenti e i palpiti anche impercettibili che prendono forma pittorica.

Non c’è nessuna leziosità né cedimento a un classicismo elegante, lo spettacolo della natura viene reso nel suo realismo trasfigurato con altrettanta forza mediante uno stile maturo dai legami sicuri: “Grandi unità cromatiche si integrano in complessi ingranaggi espressivi – scrive Maria Teresa Benedetti, curatrice della mostra – determinazione e coraggio animano il lavoro che riflette, in modo autonomo, esperienze di avanguardie storiche, dal futurismo all’astrattismo”.

Così vengono individuate queste ascendenze: “L’eredità futurista si ritrova nell’energia plastica, nel fluire dinamico del segno, nell’eliminazione di strutture rigidamente prospettiche, nel tendere della visione all’infinito, nel premere di forze che sembrano volere uscire dal dipinto”. Il dinamismo e la vitalità si esprimono con le sciabolate di linee tipiche del futurismo in una sinfonia di colori. “L’adesione a un astrattismo di matrice lirica si manifesta nel senso di libertà del ‘ductus’ pittorico, nell’individuazione di una capacità espressiva che superi ogni suggestione naturalistica, nell’importanza attribuita allo spessore di un colore compatto e squillante, che riflette una risonanza interiore”.  Nella trasfigurazione del reale compiuta dall’artista nulla è figurativo ma neppure freddo astrattismo, per questo viene definito “di matrice lirica”,  una sinfonia che è la poesia della natura.

Non è un segno incorporeo il suo, ma plastico, non va per sintesi ma ricerca i particolari,  nei quali si sente l’immanenza della natura. Vediamo il ramo e la foglia, il volo e la nuvola che sono tracce del reale ma anche “voli dell’anima”, in un misto di reale e virtuale, sulle ali della fantasia stimolata dalla visione della natura nelle sue mutevoli espressioni, come è mutevole l’esistenza.

Il ciclo vitale che ne deriva è visto così dalla Benedetti: “Un senso panico della vita dall’imo pulsa nella Primavera, il canto alto e fondo, vibrante di colori accesi racconta l’Estate, il balugino segreto di una bellezza raccolta testimonia l’Autunno, la sinfonia dei bianchi abbaglianti ritma l’Inverno, una successione di immagini che trasmettono una profonda, seppure controllata emozione”.

Lo abbiamo visto e sentito anche noi così, presi dalla stessa profonda, seppur controllata emozione.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo. Tutti i giorni, domenica  e lunedì compresi, ore 9,30-19,30, ingresso gratuito. Tel. 06.6780664; http://www.linapassalacqua.com/, Catalogo: Lina Passalacqua, “Le quattro stagioni”, Gangemi Editore, pp. 64, formato 21×29,5.

Foto

Le immagini delle opere di Lina Passalacqua sono state riprese alla presentazione della mostra al Vittoriano da Romano Maria Levante,  si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta, in particolare l’artista Passalacqua che si è prestata gentilmente ad essere ritratta davanti ad alcune sue  opere. In apertura, l’artista davanti a due sui dipinti della serie Estate (da sin. “Tramonto a Nettuno”, 2012, e “Tramonto”, 2011); seguono, della serie Primavera, Fresie”, 2011, e della serie Estate, “Ode all’estate”, 2010; poi, della serie Autunno, “Ottobre”, 2012, e della serie Inverno “Le ultime foglie”, 2012; in chiusura, “Le quattro stagioni”, 2013.

Le quattro stagioni”, 2013
 

Roma, 4 imperatori dell’Età dell’Equilibrio, ai Musei Capitolini

di Romano Maria Levante

Una grande mostra di sculture romane ai Musei Capitolini dal 4 ottobre 2012 al 5 maggio 2013, esposti più di 160 pezzi pregiati che coprono ottant’anni di fervore artistico e di sviluppo nella pace dopo tanti conflitti, “L’Età dell’Equilibrio”  a cui è intitolata l’esposizione.  Sono i “felicia tempora” di quattro imperatori, che hanno regnato dal 98 al 180 d.C., Traiano e Adriano, Antonino Pio e Marc’Aurelio, dalle preclare qualità personali, scelti “per adozione”, non per diritto di nascita. Curata da Eugenio La Rocca e Claudio Parisi Presicce, con Annalisa Lo Monaco e l’allestimento di Francesco Stefanori e Andrea Pesce Delfino. Organizzazione Zètema Cultura.

L’“Età dell’equilibrio. Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marc’Aurelio” viene dopo l’ “Età della conquista, il fascino dell’arte greca  a Roma”, cui è stata dedicata la mostra del 2010, seguita nel 2011 dai “Ritratti, le tante facce del potere”  nel ciclo quinquennale intitolato “I giorni di Roma” che abbraccia 3 secoli. Proseguirà nel 2014 con “L’Età dell’angoscia. L’arte romana tra Marc’Aurelio e Diocleziano”, e nel 2015  con “Costruire un impero. L’architettura come rappresentazione di potere”.  La sede è d’eccezione, le sculture greche e romane permanentemente esposte ai Musei Capitolini fanno da cornice a quelle provenienti dai maggiori musei d’Europa. 

C’è della ricerca approfondita alla base delle scelte espositive, perché si vuol ricostruire il cammino dell’arte romana nell’affrancarsi dai modelli greci, quindi una scelta oculata per un percorso d’arte e di storia.  La cultura greca è entrata a far parte della romanità, con la sua raffinatezza ed eleganza, e si concilia con l’equilibrio e la pacatezza del “secolo d’oro”, fino alla svolta con Marc’Aurelio. “Graecia capta ferum victorem cepit” con l’attrazione irresistibile della sua arte e raffinatezza, ma anche la romanità ebbe modo di manifestarsi assorbendola nel richiamo alle antiche tradizioni.

Negli ottant’anni evocati dalla vasta esposizione statuaria si riflettono gli effetti positivi della fase precedente volta alla conquista, che estese notevolmente il dominio di Roma. Cessa l’emergenza militare con la sopraffazione violenta e quella tributaria con il fisco di rapina, si raccolgono i frutti e si organizza l’impero sempre più vasto con l’unificazione della moneta e delle leggi, del sistema giudiziario e dello stesso modello di vita romano che viene adottato anche nelle zone periferiche. Alla pace all’esterno si unisce il consenso all’interno, tra Imperatore e Senato al centro, tra amministratori imperiali  e  rappresentanze provinciali nei territori conquistati e assimilati.

I protagonisti, i 4 imperatori

Le 7 sezioni della mostra presentano al visitatore i frutti della ricerca culturale in un modo altamente spettacolare, articolando per reperti tangibili un racconto affascinante di vicende storiche ed espressioni artistiche.

Si inizia con “I protagonisti”, i 4 imperatori, vediamo busti e statue a figura intera che non si limitano a riprodurne le sembianze, ma manifestano con i cambiamenti nel tempo e tra un imperatore e l’altro l’evoluzione delle scelte volte ad esaltarne la potenza, che erano alla base delle raffigurazioni. L’arte ha avuto sempre, e soprattutto allora, la funzione di promozione ed esaltazione insita nelle committenze per trasmettere messaggi nel modo più suggestivo possibile. Non solo la forza del potere, ma anche il fascino della vita familiare con i ritratti delle loro spose e di altri membri della famiglia. Ma non mancano ritratti di semplici cittadini, assimilati a quelli imperiali.

Di Traiano sono esposti 3 busti e una statua, c’è anche un ritratto di Plotina, che lo sposò prima  che diventasse imperatore, fu sposa esemplare semplice e colta – frequentò la scuola di filosofia epicurea ad Atene – e gli sopravvisse, alla morte fu divinizzata. Traiano, nato in Spagna, nella Betica, nel 53 d. C., divenne imperatore a 45 anni, mentre era governatore della Germania superiore, adottato da Nerva; non venne subito a Roma per rendere prima sicuri i confini del Reno e del Danubio.  Fu benvoluto dai militari e dal popolo, ridusse le imposte anche vendendo beni imperiali accumulati dai predecessori; istituì gli “alimenta” per assistere i giovani indigenti e favorire l’agricoltura con prestiti agrari agevolati. Non evitò il ricorso alle armi, fu protagonista delle guerre vittoriose contro i Daci e i Parti; morì lontano da Roma  in Siria.

Alle guerre contro i Daci partecipò Adriano, il secondo del quartetto di imperatori. Figlio di un cugino di Traiano, l’imperatore lo adottò e alla sua morte divenne imperatore a 41 anni.  Nato anche lui in Spagna, ad Italica, nel 76 d. C., viaggiò nel suo vastissimo impero, dal 121 al 134 d. C. tra le province, dalla Gallia alla Britannia, andò in Africa ed Egitto, Spagna e Oriente, spesso ad Atene. Fu impegnato nel reprimere ribellioni, come quella ebraica di Kochba, il “figlio della stella” che si era proclamato re di Giudea e Messia, quasi volesse ripetere la vicenda di Cristo. Fu appassionato della filosofia platonica ed epicurea,  vicino allo spirito greco tanto da essere considerato il più filoelleno tra gli imperatori dell’Età dell’Equilibrio; al punto da fondare un’istituzione religiosa per le città greche, il Panhellenion, volta a restaurarne l’egemonia culturale.

Sono esposti 7 busti e ritratti in vari materiali e fogge: in basanite e loricato, tipo “Stazione Termini” e “Imperatori 32”,  in toga e con la corona civica. Oltre ai  suoi ritratti, 4 di Sabina in vari tipi, “principale” e “Plotina”, con caratteristiche diverse. Era la moglie di Adriano, anche lei lo aveva sposato prima che divenisse imperatore, ebbe il titolo di Augusta ma la sua vita fu ben più tormentata di quella di Plotina: morì avvelenata e Adriano ne fu sospettato. Del periodo adrianeo sono esposti anche 8 ritratti femminili e busti virili,  uno barbuto  e uno di  giovinetto.

Di Antonino Pio abbiamo 3 busti, uno con “paludamentum”, 2 della moglie Faustina Maggiore, sposa felice con 4 figli, ebbe il titolo di Augusta e alla morte fu divinizzata. Antonino Pio, nato a Lanuvio nell’86 d. C., divenne imperatore a 52 anni, adottato da Adriano, per la devozione verso di lui fu chiamato Pio, guadagnò poi l’aggettivo per il comportamento verso il popolo: alleggerì il peso fiscale e creò istituzioni benefiche e assistenziali, una delle quali intestata alla moglie morta.

Anche lui ebbe da fronteggiare ribellioni ma non fu difficile, si trattò di irruzioni di Mauri in Africa e di Briganti in Britannia. Su sollecitazione di Adriano adottò Marc’Aurelio,  che divenne poi imperatore e Lucio Aurelio Commodo, il Lucio Vero che lo affiancò nell’impero. Fu eretta una colonna in suo onore a Campo Marzio e intitolato a lui e alla moglie il “Tempio di Antonino e Faustina” al Foro Romano; come la moglie era stato divinizzato e il tempio li celebrò.

Il quarto imperatore dei “felicia tempora” fu Marc’Aurelio, l’unico nato a Roma, nel 121 d. C., molto colto per gli studi in lettere greche e latine, diritto ed eloquenza, filosofia – aderì allo stoicismo –  e perfino pittura.  Sposò la figlia di Antonino Pio, Faustina Minore, che gli diede 13 figli, e fu imperatore a 40 anni associando il fratello Lucio Vero.  Affrontò nuove rivolte e la peste, di cui restò vittima  nel 177 d. C. nei pressi dell’attuale Vienna. Il suo impero fu tormentato per i conflitti esterni, ma tranquillo all’interno, ebbe un atteggiamento benevolo verso gli schiavi e i minori, e fu contro gli abusi delle autorità, ma severo verso i cristiani che furono perseguitati.

Sono esposti 5 busti e ritratti di Marc’Aurelio, anche “loricato” e “con paludamentum frangiato”,  uno di Lucio Vero e uno di Commodo, poi 4 busti di Faustina Minore; inoltre 4 statue di satiro e filosofo, un ritratto virile e uno femminile.  Conclude la sfilata dei “personaggi” un cammeo di Marc’Aurelio e Faustina l’uno di fronte all’altro. Faustina nei 30 anni di matrimonio fu  molto “chiacchierata”, sul figlio Commodo nacquero storie che definiremmo boccaccesche o truculente, ma fu divinizzata  anche lei; l’imperatore istituì in suo onore l’assistenza per le fanciulle bisognose e diede il suo nome a una città in Cappadocia, Halala che chiamò Faustinopolis.

Il linguaggio artistico, le ville e dimore

La sezione sul “linguaggio artistico” mostra come il clima di equilibrio prevalente nel regno dei 4 imperatori, pur nel perdurare di conflitti,  si riflette nelle scelte dell’epoca, rivolte alla raffinatezza dell’arte ateniese che in Fidia e Policleto aveva avuto, nel V secolo a. C., i massimi esponenti  Soprattutto Adriano, di cui abbiamo ricordato la cultura e la vicinanza allo spirito greco,  favorì questa tendenza filoellenica; ad essa si affiancò la tendenza neo-attica,  ispirata all’età arcaica.

Esemplari di queste tendenze sono i 4 sarcofaghi esposti con 4 statue e dei ritratti. I sarcofaghi presentano soprattutto scene di battaglia, in particolare  tra Amazzoni e Greci e tra Romani e Barbari; le statue sono oltre i 160 cm fino ad oltre 2 metri: le meno alte di Arpocrate e Ninfa, le più grandi di Faustina Mggiore, 220 cm e la statua-ritratto della Grande Ercolanese (cd. Sabina); ad Antinoo sono dedicate 3 statue di varie dimensioni, la più piccola è Antinoo “Mondragone”, poco più di 1 metro, Antinoo danzante e Antinoo Capitolino tra 170 e 180 cm.  

Si entra nelle “ville e dimore” con la sezione  che presenta tre prospettive diverse: le residenze monumentali imperiali, come Villa Adriana di Tivoli, con arredi e pavimenti musivi; le residenze facoltose, come quella nel Peloponneso di Erode Attico, ricco senatore del periodo di Antonino, di cui sono esposte arredi decorativi; le residenze private, ville lussuose di cui sono presentate arredi e suppellettili di uso corrente, come argenteria e vasellame, candelabri e coppe.

Circa 40 reperti ne offrono un ampio panorama.  Cornici, fregi e rilievi  danno una prima idea dell’eleganza e raffinatezza: vediamo rilievi con il sacrificio ad Artemide e Salus assisa, Dioscuro e un’immagine eroica; frammenti di rivestimenti con ornati fitoformici e geometrici e di cornice mosaicata su piano marmoreo, fasce con ghirlanda di spine, figure di divinità e scene mitologiche.

Spiccano pure in questa sezione statue di grandi dimensioni, anche di 2 metri di altezza, come la Cariatide e la statua di Cariatide (copia Eretteo) dal canopo di Villa Adriana, nonché  l’Amazzone ferita nel tipo “Mattei”;  con lo stesso soggetto nel tipo “Sciarra” una statua più piccola, di 166 cm,  tutte provenienti da Villa Adriana a Tivoli; ancora più piccola, di 120 cm, la statua di Tyche, detta “Tyche di Monaco”,  esemplare dello stile arcaicistico rispetto a quello ellenistico più diffuso. Grandi statue sono Flora capitolina,  Satiro in riposo e Fauno ebbro in marmo rosso, circa 170 cm, poco più piccole  Psiche punita e Centauro giovane, di circa 150 cm, Centauro anziano di 134 cm.

Dalle grandi statue ai busti, come quello loricato di Lucio Vero e di Sacerdote egiziano,, di Erode Attico e di Polydeukion, tra i 50  e 60 cm, poi a elementi di dimensioni minime, come la Testa di statuetta femminile e il Braccio femminile con corona d’alloro, intorno ai 10 cm. 

Con gli elementi zoomorfi e gli elementi  di zodiaco, gli elementi di cratere e una tabella con iscrizione votiva passiamo a un‘altra categoria di reperti, sempre nella stessa sezione; a questa appartengono anche il grande Cratere a campana e la base di candelabro con simboli isiaci, entrambi sugli 80 cm, i più piccoli Oscillum con testa di Giove Ammone  e maschera teatrale, di 50 cm, l’elemento di pulvino di 36 cm e il minuscolo Skyphos in cristallo di rocca, di pochi centimetri.

Aderenti all’uso personale il Medaglione con busto virile e il recipiente a testa femminile, la patera con manico, fino ai tavoli “furietti” con piano in mosaico.

Dai rilievi storici alle tombe

Dagli arredi delle residenze alle celebrazioni dei grandi eventi nella sezione intitolata “I rilievi storici”. Riguardano i principali temi della vita pubblica, dai trionfi epici all’educazione giovanile, all’insegna di “mens sana in corpore sano”, e scene raffiguranti momenti di pubblico interesse

Ne sono esposti di grandi dimensioni: sono di circa 3 metri quelli che celebrano il trionfo dell’imperatore  e il sacrificio dell’imperatore a Giove capitolino, l’ingresso di Adriano a Roma e la sottomissione delle tribù barbare con la clemenza dell’imperatore, l’apoteosi di Sabina e il cosiddetto “rilievo alimnentationes”.  Mentre domina l’imponente Vittoria alata, un calco di frammento di quasi 10 metri per 1,5.

I “Vincitori e vinti” sono collegati strettamente alle celebrazioni storiche: è il titolo della penultima sezione. Vengono presentate scene di guerra in fregi e rilievi di monumenti, tenendo conto che l’impero con Traiano all’inizio del II secolo d.C. raggiunse la sua massima espansione, avendo soggiogato Daci e Parti dopo i conflitti cui si è accennato, eventi epici raffigurati nei fregi della Colonna Traiana.  Vediamo un frammento di rilievo con un barbaro e un soldato romano e un pettorale di cavallo con barbari e romani in guerra,  una grande statua di dace di quasi 2 m e una statuetta di prigioniero, poi 2 statue di Adriano, una “loricata” di oltre 260 cm e una tipo “Ares Borghese” di oltre 2 metri.

L’ultima sezione, sulle “Tombe”,  con i reperti delle necropoli presenta un panorama dei costumi funerari, tenendo conto che nel II secolo d.C. ci fu il passaggio dall’incinerazione all’inumazione.

Si inizia con le urne più antiche, 3 in alabastro a vaso o baccellata,una cilindrica di Egrilia Probiane, una a cassa di Onesa e Practice  e una di Titus Stabilius Aper e Orcivia Anthis.  Insieme a queste ,3 olle, due a doppia ansa e una vitrea ovoidale con coperchio.

Con l’inumazione abbiamo i sarcofaghi, ne sono esposti 4 con la morte di Creusa e il mito di Meleagro,  la corsa di eroti al circo e un corteo bacchico.

I sarcofaghi sono sempre più artistici nel passaggio dai primi dell’era di Adriano ai più sontuosi dell’era di  Antonino Pio. Nelle tombe del ceto medio  veniva spesso raffigurata l’attività svolta in vita.  Vediamo 2  rilievi con scene di macelleria e di bottega, e 2 con scene di fabbro ferraio, il banco di lavoro e la bottega. Non manca un rilievo funerario con scena di circo.  E delle statue, un ritratto femminile di oltre 2 metri e una più piccola di defunto su kline.

Spettacolare la ricostruzione, nella mostra, di due mausolei privati: il sepolcro degli Haterii e il mausoleo di Claudia Semne. Nel primo, rinvenuto a Roma sulla via Casilina, c’erano busti e rilievi, pilastri e lesene, rilevi con scene di costruzione di edifici; nel secondo statue di donne come dee insieme a statue dei figli dello scomparso in toga.  Questi materiali, custoditi nei Musei Vaticani e al Louvre, sono stati per la prima volta riuniti per la ricostruzione “in loco” delle due tombe monumentali.  L’effetto è particolarmente suggestivo.

Del sepolcro degli Haterii, 110-120 d. c. ricordiamo il bassorilievo con la raffigurazione degli edifici e un’iscrizione, nonché un busto femminile; del mausoleo di Claudia Semne il frontone di Aedicula e la lastra di timpano con il busto della scomparsa, un frammento di rilievo con figura femminile seduta, tipo “Penelope”, e il busto di Ulpius Crotonensis. Ma a parte questi  reperti, è l’intera ricostruzione che colpisce perché rende bene l’assetto funerario di quell’epoca lontana.

Il ritorno di Crepereia

C’è infine una sorpresa, per chi nel 1983 fece la fila alla mostra su Crepereia, la fanciulla nel cui sarcofago era stata trovata, tra oggetti di uso personale ed ornamenti,  la bambolina che intenerì tutti. E’ esposto proprio il sarcofago che reca le spoglie della fanciulla; e il corredo funerario di Crepereia Thryphaena: collana d’oro con pendagli di berillo e orecchini d’oro con perle; 3 anelli d’oro con diaspro rosso ed elitropio,  con cammeo in calcedonio-agata  e 2 anellini d’oro con chiave e due anelli uniti; un pettinino in avorio e 2 specchi in argento, una spilla d’oro e una conocchia, un cofanetto in avorio e una corona di foglie di mirto con fermaglio d’argento. Fino alla bambolina d’avorio, che nella mostra passata era il culmine del percorso emozionante in cui scorrevano suppellettili e ornamenti della fanciulla tra le bambole e i gioielli.

Finisce con una tenera immagine di vita, perché tale è l’evocazione degli ornamenti e della bambola di Crepereia dopo 2000 anni. L’Età dell’Equilibrio  ci ha dato non solo la raffinatezza del gusto filoellenico ma anche l’epica di un periodo non esente da conflitti; fino al momento emozionante che fa apparire le Barbie dei tempi moderni quanto mai fredde e artificiose rispetto all’immedesimazione nell’innocenza che sboccia alla vita della dolcissima Crepereia.

Info

Musei Capitolini, Roma, Piazza del Campidoglio,  da martedì a domenica ore 9,00-20,00, lunedì chiuso. Ingresso: intero euro 12, ridotto euro 10, ridottissimo euro 2, gratuito per alunni scuole medie ed elementari e portatori di handicap. Tel. 060608, http://www.museicomuneroma.it/, http://www.museicapitolini.org/. Catalogo MondoMostre.

Foto

Le immagini sono state riprese ai Musei Capitolini da Romano Maria Levante alle presentazione della mostra. Si ringraziano gli organizzatori con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. 

Accessible Art, il “Re-Cycle” scultoreo di Alessio Deli, a RvB Arts

di  Romano Maria Levante

Nel 2013 dopo la collettiva “City Life”, da noi già commentata,  la RvB Arts ha organizzato delle  mostre personali dove si è potuta approfondire la conoscenza di due artisti  presentati in precedenza. Esprimono forme diverse di arte muovendosi in modo innovativo nei generi tradizionali, lontani dalle più ardite installazioni. Per la pittura di Christina Thwaitesla mostra personale si è svolta  dal 22 marzo al 13 aprile,  ma le opere sono sempre visibili presso la galleria; di questa artista abbiamo già parlato nell’ambito delle mostre collettive, ci limitiamo ad aggiungere che nella recente personale i suoi dipinti hanno accresciuto di molto le dimensioni e resa più varia la composizione, ci sono rimasti impressi quei volti allineati tra l’assorto e l’allucinato, l’ironico e l’umoristico, immagini degli album di famiglia trasfigurate dall’artista, figure che non si dimenticano. Per la scultura di Alessio Deli la mostra “Re Cycle” è in corso presso  RvB Arts dal 18 aprile al 14 maggio 2013, sulle sue opere intendiamo soffermarci.

“Big Warrior” 

La formula di Accessible Art

Le esposizioni della RvB Arts sono mostre-mercato, è il caso di dire, perché le opere sono esposte con il rispettivo cartellino del prezzo, inserite in un ambiente caldo e accogliente, tra mobili anch’essi in vendita secondo la visione di Michele Von Buren, che ha lanciato la formula di “Accessible Art”, cioè un’arte che non resta chiusa nella torre d’avorio di pochi privilegiati ma si apre alla gente. Le opere esposte rispondono a due criteri, di cui abbiamo già parlato, riassunti nella parola “accessibilità”: sia nell’ adattamento agli ambienti domestici, quindi idonee ad inserirsi nell’ambito familiare, sia nella moderazione del prezzo in modo da essere alla portata delle famiglie anche sotto questo aspetto determinante, tanto più nei tempi difficili che stiamo attraversando.

Quindi né installazioni invadenti e debordanti quanto incomprensibili rispetto al sentire comune , né opere dalle quotazioni elevate, tali da restringere l’ambito degli interessati. Il tutto viene espresso nell’ambientazione nella galleria, collegata con l’Antiquariato Valligiano  che offre mobili di elevato livello qualitativo, legati ad antiche tradizioni e anch’essi accessibili. Un en plein, dunque.

In questo contesto va sottolineata la terza particolarità dell’impegno profuso da Michele Von Buren: la formazione di una squadra di artisti – al momento 36 tra pittori, scultori e fotografi – che continua a proporre anche dopo le mostre nelle quali ha presentato le loro opere e li ha fatti conoscere, attraverso un sito che fornisce le notizie utili ed è aperto i contatti. E’ un mecenatismo di nuovo tipo, collegato alle tradizioni di celebri gallerie che hanno sostenuto e  alimentato le avanguardie. Abbiamo già ricordato  Peggy Guggenheim che, seguendo lo zio Salomon, in un lungimirante mecenatismo creò intorno alla sua galleria una scuderia di giovani artisti dell’avanguardia americana in una escalation di creatività e di arte. Una galleria, la sua, parallela al grande museo di Salomon da cui vennero fuori artisti come Pollock, per citare una grande scoperta del Guggenheim.

Richiamate le caratteristiche salienti dell’iniziativa di Michele von Buren nelle mostre che si succedono nella galleria a un ritmo incalzante – è la sesta in meno di un anno – parliamo ora della mostra in corso dello scultore Alessio Deli,  ricca di stimoli e motivazioni creative di alto livello.

Warrier” 

Le sculture di Alessio Deli

Deli lo poniamo a simbolo di una scultura dalle radici antiche reinterpretata in chiave moderna con attenzione ai contenuti più profondi, anche se è la singolare scelta dei materiali che colpisce a prima vista; ma proprio da questi promana la linfa che dà vita alle sue composizioni, le rende vive e vitali. 

Nella sua mostra, aperta fino al 14 maggio,  spicca un pivot, per dirla in temine cestistico, un campione assoluto, come “Summer” lo era in una precedente mostra collettiva, dove spiccava per la sua imponenza austera e dominante: questa volta c’è ” Big Worrior”, una statua a grandezza naturale, di una forza plastica e di un’intensità espressiva che  nobilita il materiale di cui è formata,  anche perché da questo riceve l’energia che sprigiona: il risultato è una figura forte e gentile, diremmo per usare una definizione che da abruzzesi ci è cara. E’ un capolavoro il cui cartellino reca il prezzo di 5.000 euro, tra i più alti nelle mostre di Michele, ma di certo è modico rispetto al valore dell’opera, del resto è un’offerta riservata alla mostra, fuori di essa sarebbe di 7.000 euro.

“Summer” fu l’immagine di apertura del nostro  servizio su una precedente mostra collettiva di Michele, “Big Warrior” lo è per l’attuale mostra personale di Deli; intorno, nell’accogliente ambiente della galleria, una serie di creazioni adatte a inserirsi in tutti gli ambienti, di  varie fogge e  misure, molto curate, dalle quotazioni particolarmente accessibili, per lo più a partire da 1.000 euro, a seconda della dimensione e del pregio.  Sono esposte tra i mobili in vendita nella galleria, se ne può apprezzare la “resa” ornamentale nell’arredamento, in aggiunta al valore artistico che resta prevalente: con il prezzo sono le componenti dell’offerta di “Accessible Art”.

Le piccole sculture sono di figure intere e soprattutto di volti, originali anche nella forma:  oltre a teste e busti vediamo una sorta di calchi facciali molto espressivi, una serie è intestata a “Ulysses”, un’altra a “Warrier ; inoltre “Es” , statua in cui la classicità si sposa alla modernità, e i “Mirror”, volti incorniciati come allo specchio. Nei “Seagulls”, i  gabbianivediamo  un sigillo dell’artista, al punto da ideare una manifestazione con uno “stormo” collocato in un luogo simbolico: gli ripetiamo la nostra proposta di  farla sulla terrazza del Vittoriano, affiancandoli ai veri gabbiani appollaiati sulla balaustra con lo sfondo del  Colosseo e della romanità, molto adatta a un classico post moderrno come lui. Li considera “ideali di rinnovamento e sostenibilità”, li raffigura affamati alla ricerca di cibo, da salvaguardare con piccoli gesti. E poi ci sono i disegni, molti  preparatori di opere scultoree, e dei quadri che segnano il passaggio tra pittura e scultura, con elementi di rame e pigmenti su un fondo verde intenso, titoli “Cu 8, 9…

“Es”

L’utilizzo dei materiali di recupero

I materiali sono fondamentali non solo nello stile scultoreo bensì anche nell’ispirazione più profonda dell’artista. Si tratta di materiali  poveri, ma sarebbe inappropriato definirla “arte povera”. Perché non è tanto la loro intrinseca povertà ma la loro provenienza e la loro natura a qualificare la creazione artistica. L’artista va a reperirli nelle discariche dove recupera quanto viene abbandonato perché non più utilizzabile, e li assume quali strumenti della sua arte dimostrando come si possa fare bellezza senza mezzi:  al pari della spiritualità e della sensibilità, la bellezza e quindi l’arte non richiedono ricchezza e opulenza ma sono raggiungibili anche nella povertà, si pensi alla lezione del neorealismo cinematografico che nella miseria del dopoguerra surclassò i kolossal hollywoodiani.

Cosa c’è di più misero dei materiali abbandonati nelle discariche?  Nulla, come nulla è più emarginato del detenuto, soprattutto tenendo conto del degrado delle nostre carceri.  Ed è stato proprio l’incontro con i detenuti, nella discarica sociale che sono le carceri, a far avvicinare Deli alle discariche di materiali con i rifiuti della società dei consumi. Galeotto è stato un corso d’arte per detenuti, che gli  ha fatto capire come si può nobilitare il materiale di recupero. Del resto, è questo il percorso obbligato per i detenuti che utilizzano i  pochi materiali loro accessibili  nel crearsi degli spazi di libertà; i modelli di velieri costruiti  in carcere con un lavoro da certosini per riempire le lunghe ore di ozio forzato nascono dalle cassette di frutta abbandonate.

“Rifiuto, quindi, in stretta connessione con il rifiutato – dice lo stesso Deli –  E’ da questa umanità alla deriva che inizia la mia ricerca tra i rottami”. Che cosa cerca? “La ricerca di una bellezza particolare… quella del tempo”.  Per quale intento? “Testimoniare l’esistenza dell’uomo nel suo passaggio sulla terra. Procedere in questa direzione significa per me la riscoperta di un  archetipo”.  Con quali sensazioni? “Mentre cerco tra questi rottami mi sento vicino a quella magica dimensione di un pianeta  primordiale e fertile”.  Un percorso inconsueto e non casuale, da seguire con interesse.

E’ un ritorno all’archetipo, che porta Deli ad evocare le pitture rupestri, le più antiche testimonianze dell’uomo nelle caverne preistoriche dalle quali è nato tutto.”La nascita di un linguaggio, di uno stile, di una moda ha sempre alla base il recupero e la comprensione dl passato.”  Sentirlo dire da un giovane non può che confortare rispetto alle visioni iconoclaste che hanno contrassegnato certe avanguardie. E non si può negare che sia un’avanguardia  anche questa, è suscettibile di moltiplicarsi e, anche limitandoci al nostro artista, è in grado di moltiplicare temi e soggetti.

I materiali, altro paradosso, rappresentano il passato anche se sono parti o pezzi di oggetti di produzione recente, nell’obsolescenza programmata del sistema produttivo consumistico e nella assenza di riparazioni delle rotture, dato che avrebbero un costo troppo elevato rispetto al  riacquisto. Per cui i materiali vengono tolti dal circuito dell’utilizzazione in modo prematuro, quasi ibernandoli. E Deli li riporta alla vita facendone la matrice prima della propria creazione artistica.  

Sono materiali lignei e ferrosi, semplici come pezzi di legno e lamiere, chiodi e profilati; complessi  come marmitte e pezzi di apparecchiature scomposte o spezzettate:  “Il passato lo trovo ogni volta che mi trovo  a contatto con questi oggetti e con le immense discariche che li raccolgono”. Le discariche  esprimono platealmente, diremmo, il consumismo distruttore di risorse, come conseguenza del processo – che fu  descritto da Galbraith – dei consumi indotti dalla produzione, non solo moltiplicando quelli superflui, ma accelerando le sostituzioni con l’obsolescenza programmata prima citata. Deli non li riutilizza come ribellione al consumismo, vi vede “uno spaccato preciso dell’uomo contemporaneo, delle sue abitudini, dei suoi sogni, dei suoi viaggi”. Ma oltre ad esprimere questo, hanno una forza propria: “Una dirompente  forza plastica che riadatto  a parti anatomiche, armature e scudi di guerrieri post-atomici”. Di qui nascono le sue creazioni: “Animali, bestie, armi e macchine appartenenti ad una nuova civiltà senza tempo e senza nome”.

“Mirror”

Riferimenti ad altri artisti del “recupero” di materiali

E’ questo il mondo in cui si muove l’arte di Deli come materiali utilizzati e come fonti di ispirazione. Perché ne può nascere anche l’idea che si tradurrà in creazione artistica. Lo abbiamo chiesto direttamente a lui citando Michelangelo che vedeva l’opera d’arte risultato dell’ispirazione già all’interno del blocco di marmo, per cui doveva soltanto liberarlo dal materiale superfluo; ci ha risposto che non arriva a tanto, il riferimento al sommo non può che sconvolgere. Per lo più va nella discarica a cercare i materiali adatti alla composizione che ha già in mente, ma poi ne vede altri che gli ispirano, questa volta in modo autonomo, nuove creazioni. 

In effetti la sua ricerca si svolge tra cumuli di rottami, per questo ci piace immaginarlo mentre “libera”  i materiali prescelti dal groviglio spesso inestricabile, e la fatica è giustificata dal fatto che vi vede già parte dell’opera che ha in mente, come arti di un corpo che deve far rivivere nella sua creazione.  Un modo diverso di liberare la forma dalla materia – quello dei rottami rispetto al marmo – ma anche qui la spinta nasce dall’ispirazione artistica che diventa tanto più irrefrenabile quanto più è autentica la sua linfa creatrice.    

In certi casi la il materiale povero assume anche un valore politico. Lo dice espressamente per i 3 “Machine gun”, sculture che raffigurano dei mitra prodotte come le altre con materiali di recupero. Poveri come sono poveri i soldati costretti a usare le armi per una causa che non è la loro ma delle classi abbienti. E dato che parliamo di armi non possiamo non ricordare l’artista libico Wak Wak, che ha esposto al Vittoriano qualche mese fa un gran numero di sculture realizzate con materiali presi dai depositi di residuati bellici della guerra di Libia. Per lui si tratta di ridare la vita con la trasposizione artistica ad oggetti usati per dare la morte; e la vita si esprime in guerrieri e in grandi composizioni di denuncia della guerra, oltre che in una serie di animali che sono il volto della pace.

Un’altra associazione con l’opera di Deli viene dalla mostra della Fondazione Roma in corso al Palazzo Sciarra, dove è esposto un gran numero di opere di Loise Nevelson, l’artista russa emigrata negli Stati Uniti nel primo Novecento che ha espresso la sua arte attraverso materiali lignei raccolti per strada e poi assemblati in composizioni che hanno il suo sigillo nei moduli e volumi speciali. Le sculture della Nevelson sono in forma di pannelli per lo più neri, in qualche caso bianchi e dorati, con  una varietà di modulazioni, in un’impostazione unitaria di cui colpisce la costanza; utilizza qualche volta materiali metallici, sempre pezzi di risulta, uniti in composizioni astratte.

Entrambe le associazioni di idee nascono dall’utilizzo di materiali di risulta, anche se di provenienza diversa, ma  ispirazione e  risultati sono molto diversi. L’arte di Deli, in questo prestigioso contesto di grandi artisti internazionali, ha un’assoluta originalità e un intrinseco valore: alle sue sculture riesce a trasmettere un calore particolare, frutto di quella concezione di cui si è detto che sente i residuati delle discariche come espressione dell’uomo contemporaneo, delle sue abitudini, dei suoi sogni, dei suoi viaggi. Si vede, e soprattutto si sente, che nel costruire con tali materiali l’opera scultorea è come se recuperasse il tratto di vita che hanno percorso per un reincarnazione con la quale si prolunga un ciclo vitale interrotto, fino a perpetuarlo.

Machine Gun”

Giudizi ed emozioni suscitati dalle opere di Deli

Così ne parla Viviana Quattrini: ” Oscillando tra soluzioni nuove e ritorni alla tradizione, Deli elabora un’originale ricerca di nessi tra scultura e ambiente. Panneggi di lamiera corrosa dalla ruggine si modellano intorno a figure di resina che godono di quella naturale grazia che diventa elemento umanizzante”. E’ quasi la fotografia di Big Warrior”, in cui la lamiera di un vecchio barile diventa un abito in una posa dignitosa da suscitare ammirazione, come in “Summer” la lamiera dava “corpo” a una figura imponente da suscitare soggezione: “Nascono così – è sempre la Quattrini –  opere che esprimono allo stesso tempo fragilità e forza interiore. Figure solenni ed orgogliose di essere nate da materiali di recupero. Oggetti che hanno perso la loro utilità, si caricano di ricordi esteticamente fertili”. Non sono le iperboli che usa certa critica nel caricare di significati  le opere trasgressive quanto indecifrabili ai più,  siamo nel campo dell’ “Accessible Art”, questi  contenuti vengono percepiti dall’osservatore comune perché le opere suscitano tali emozioni.

C’è anche una spiegazione tecnica, che diventa artistica, nell’uso della resina come elemento  che salda e  trasforma nei soggetti della composizione le componenti povere dell’opera, dalle lamiere alle reti metalliche, dal legno alla carta, considerati “come fossili, testimonianza della nostra società consumistica”.  La metamorfosi viene completata dalla vernice, che rende omogenee le superfici delle sculture metalliche  compenetrando forma e volume in un qualcosa che rimanda alla bellezza solenne della classicità raggiunta trasformando la materia degradata e povera di cui si serve.

Si ha un’impressione di immediatezza dinanzi alle sue figure, accentuata dal materiale  di scarto inserito tal quale in un assemblaggio apparentemente spontaneo; c’è invece profonda riflessione e attenta ricerca testimoniata dai disegni preparatori che si traducono anche in  dipinti artistici. Alla base di tutto nelle sue corde c’è la classicità,  come adesione ideale e formazione, lo si vede dai  suoi studi all’Accademia di Belle Arti di Carrara, il tempio della scultura, dove si è diplomato con il massimo dei voti. Per poi  ricevere due primi premi per la scultura poco più che ventenne, e inanellare 19 mostre collettive e 8 mostre personali a tutt’oggi che è poco più che trentenne.  

La classicità delle sue forme crea quel collegamento con il passato che attraverso  i materiali dismessi della contemporaneità viene proiettato verso il futuro di un’arte eternatrice come la poesia. Con Deli abbiamo anche un collegamento tra pittura e scultura attraverso le sue opere pittoriche su tavola con elementi metallici  in alcune applicazioni e nei  pigmenti utilizzati, esposte in mostra.

Infine una sorpresa, la materializzazione del “Re-Cycle in una bicicletta – il Ciclo riciclato – a dimensioni naturali in pittura e in scultura, creata anch’essa con materiale di risulta. Ci ha colpito anche perché abbiamo visto di recente esposto nella mostra dedicata a Vittorio De Sica all’Ara Pacis, il celebre velocipede del film “Ladri di biciclette”,  dove era strumento di lavoro, quindi simbolo di vita, e  il suo furto getta nella disperazione il cittadino onesto fino a renderlo ladro.

“La bicicletta – si legge nella presentazione della Quattrini – è il simbolo di questa mostra di Alessio Deli che, grazie ad un gioco di parole, la pone all’inizio e alla fine di un cerchio che si ripete e si richiude continuamente – quello del riciclo”.  Per concludere: “Il lavoro dell’artista rimanda al modo di vivere nella nostra società dove oggetti come documenti sono il residuo immaginario o perturbante di questa visione”.

Crediamo che anche per noi queste parole possano chiudere il cerchio di una mostra tutta da vedere e sulla quale riflettere per i motivi che evoca e le emozioni che suscita. Le sue sculture dall’eleganza classica su materiali di scarto sono come dei fiori profumati recuperati dal fango.

Info

“RvB Arts”, di Michele Von Buren, via delle Zoccolette 28, Roma, presso Ponte Garibaldi, e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio, domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518; – info@ rvbarts.com., http://www.rvbarts.com/, con immagini delle opere di Deli e delle altre disponibili dei 36 artisti che fanno capo alla galleria. I 3 nostri articoli sulle precedenti mostre di “Accessible Art” sono in questo sito alle date del 21 novembre, 10 dicembre 2012 e 27 febbraio 2013. Per la citazione del Guggenheim si rinvia ai nostri 3 articoli in questo sito, sulla  mostra al Palazzo Esposizioni, il 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012; per  Wak Wak  al nostro articolo sulla sua mostra al Vittoriano, in questo sito, il 27 gennaio 2013. Gli articoli citati sono illustrati con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini selle opere di Alessio Deli ono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra alla galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele Von Buren con il titolare dei diritti, l’autore Alessio Deli, per l’opportunità offerta.  In apertura, “Big Warrior”, a grandezza naturale;  seguono la testa di “Warrier” e la statuetta di “Es”, poi dei volti allo specchio nei due “Mirror”, e i mitra di  “Machine Gun”, in chiusura i gabbiani di  “Seagul”

“Seagul”

Giappone, 70 anni di pitture e decori “nihonga”, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Dopo le esposizioni del 1911 e del 1930, torna a Roma la pittura e la decorazione  giapponese  con la mostra “Arte in Giappone, 1868-1945”, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 26 febbraio al 5 maggio 2013. Le  opere esposte sono ben 170,  di cui 111 pitture “nihonga”, cioè  nello “stile giapponese” in reazione allo “stile occidentale”  diffusosi  nei contatti con l’Europa; e 59 opere di arte decorativa. E’ organizzata dalla Gnam, sostenuta dall’Ambasciata del Giappone a Roma, realizzata da The Japan Foundation e dal Museo Nazionale d’Arte Moderna di Kyoto il cui direttore, Ozaki Masaaki, l’ha curata, con il Catalogo Electa,  insieme al “senior curator”  del museo, Matsubara Ryuichi.Commissario della mostra Stefania Frezzotti, curatore, della Gnam.  

Yushiko, Il dio del vento e il dio del tuono, 1929

L’Ambasciatore Kohno Masaharu ha ricordato che la mostra cade nel 400° anniversario della partenza di Hasekura Tsunenagana da Ishinomaki verso Italia e Spagna con l'”ambasceria verso l’Europa del periodo Keicho”, e ha auspicato che, nel celebrare tali ricorrenze, la mostra “possa costituire un’occasione per approfondire ulteriormente la comprensione reciproca tra i cittadini dei due paesi”. Rispetto al Giappone, come verso la Cina e l’India, .l’America e la Russia, l’arte si pone come strumento per le relazioni internazionali favorendo il dialogo  tra i popoli facendo conoscere le più alte espressioni delle rispettive culture, specchio della creatività e delle  tradizioni.

Così l’ambasciatore ha definito l’arco temporale: “Il periodo trattato dalla mostra è un’epoca di transizione che segna lo schiudersi dall’isolamento (sakoku) e l’inizio della modernizzazione…  Vi è un’esatta corrispondenza con il periodo in cui l’Italia, portando a compimento l’unificazione, si avviava verso l’attuale politica democratica”. Si va dalla nostra unità nazionale alla fine del secondo conflitto mondiale, epoca di forti cambiamenti dei quali possiamo vedere le manifestazioni in un mondo così legato alle tradizioni millenarie.

Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della Gnam, così l’ha presentata: “La pittura nihonga non fu tanto immune dagli influssi occidentali da non entrare in qualche modo nelle dinamiche del realismo, del simbolismo, dell’Art Nouveau”.  E  aggiunge che “oltre alle poetiche, sono le tecniche  a marcare la differenza rispetto all’arte occidentale. Materiali fragili come la seta e la carta, procedimenti delicati come la pittura a inchiostro e la lacca, sono parti essenziali di questo universo espressivo dal grande potere fascinatorio, nel quale molto diverso è il rapporto fra insieme e dettaglio”.  Le arti decorative rappresentate documentano, a loro volta, “il complesso intrecciarsi in quegli anni degli orientamenti artistici con gli interessi commerciali,  e dell’alternarsi di ripiegamenti isolazionistici e aperture di mercato”. Un insieme  di motivi che ci fanno entrare in un mondo lontano e diverso, che nell’arte esprime fascino e seduzione: cercheremo di evocarlo.

Caratteri della pittura “nihonga”

Cominciamo col dire che prima dell’avvento di questa pittura,  due erano le forme di espressione pittorica in Giappone: la “pittura giapponese” detta “Yamatoe”, e la “pittura cinese” detta “Kamga”; la pittura “nihonga” venne con il periodo Meiji, quando la modernizzazione fece sorgere la “pittura occidentale”, detta “Yoga”, alla quale si contrapponeva la “pittura autoctona”, appunto “nihonga”.

L’apertura all’Occidente in questo periodo fu notevole, attraverso la modernizzazione economica e l’arrivo delle correnti artistiche dall’Europa – impressionismo e tardo impressionismo, cubismo e futurismo –  che oltre a permeare l’arte ispirata allo stile occidentale non mancarono di influenzare la pittura “nihonga” che resisteva al realismo occidentale volendo esprimere lo spirito dell’artista.

Al contrario del realismo si voleva esprimere quella che Taikan ha chiamato “l’immaterialità del mondo spirituale”, in una diversa concezione della linea e dello spazio che portava a un diverso senso della realtà. Proviamo a fornire qualche elemento di un percorso molto complesso e profondo.

La linea non è semplicemente l’elemento che definisce la forma dell’oggetto, ma l’espressione simbolica della sua essenza. Mentre negli occidentali la linea per l’artista è il contorno della realtà che vuole rappresentare,  nella pittura giapponese è la sintesi di quanto di profondo la visione della realtà suscita nel suo spirito, spesso frutto di lunghe contemplazioni, al termine delle quali la linea  non è la riproduzione della realtà esterna ma il suo riflesso spirituale frutto di meditazioni.

Non viene disegnato un paesaggio reale ma il paesaggio interiore, come risultato di un processo di purificazione del quale l’anima del pittore svolge la funzione di filtro. Scrisse Kobayashi Kokei nel 1933: “La linea esprime quel che è celato all’interno delle cose e afferra la realtà dell’oggetto”. Per questo la linea non mostra mai i contorni di un determinato oggetto, ma è la sintesi delle  innumerevoli forme osservate nella realtà e rielaborate dallo spirito dell’artista.

Con la semplificazione e la stilizzazione si elimina il superfluo della raffigurazione per esaltare l’essenza e il dinamismo; l’influsso del realismo contrastò questa  caratteristica finché con il cubismo e le avanguardie entrò anche nella pittura occidentale e si rafforzò nello “nihonga” con il ritorno alla purezza tradizionale dopo qualche contaminazione: dai semplici particolari si estraggono forme universali, ma questo non vuol dire renderle uniformi, bensì coglierne l’essenza.  Essenza della natura non statica ma fatta di dinamismo e di azione,  Il pittore “nihonga” Kayama Matazo, che nel dopoguerra ha realizzato opere così ispirate, la chiama “stilizzazione dello spirito”.

Anche nella rappresentazione dello spazio le peculiarità dell’arte giapponese sono rilevanti. Nel periodo più antico della pittura “yamatoe” lo spazio risultava nelle visioni dall’alto di case scoperchiate ispirate alla pittura cinese a “volo d’uccello”, poi svanì nelle campiture piatte cromatiche dell’epoca Edo. Con la pittura “”nihonga” si cerca una sintesi con la prospettiva occidentale anche mediante l’uso dei colori al posto della linea: nel periodo Meliji si rappresentano l’aria e la luce, nubi e fenomeni meteorologiche con più realismo, ma si è ancora lontani dallo spazio occidentale; poi si cerca il senso tridimensionale tornando  alla tradizione “yamatoa”.

Kanzan, Cormorani e gabbiani,1901 (1° periodo)

Nel periodo successivo, la tarda epoca “taisho”, il compito di definire lo spazio e la distanza, i volumi e la prospettiva  è stato assegnato ai particolari della composizione e agli effetti di luce, sempre più legati alla realtà anche marcando lo spazio tra osservatore e oggetto. Le “nature morte” giapponesi, con fiori e uccelli, si differenziano da quelle occidentali che cercano di catturare le forme  e i colori della realtà; qui interessa l’energia spirituale dentro gli oggetti. Viene esemplificata da Kokei con il vassoio che non ha soltanto una presenza visiva ma anche un suono se toccato, lo stesso per i suoi kaki, frutti che oltre alla rotondità hanno una freschezza e un profumo. Il vero realismo, secondo questa impostazione, è rendere non solo l’aspetto esteriore, ma anche quel suono e quel profumo, che si diffondono nello spazio e assumono carattere universale.

In questo senso, anche i pittori giapponesi più influenzati dall’arte occidentale vedono il realismo come espressione dei loro sentimenti interiori che colgono l’essenza della natura. Ecco due pittori del ‘900: Yashushi: “Io voglio esprimere il mistero della natura intriso di bellezza  che pervade l’universo: non faccio altro  che andare nello spazio che vedo in sogno  per pre3ndere i vegetali e gli animali della mia anima”; Kaii: “”Il paesaggio non è la rappresentazione oggettiva della natura bensì il riflesso dello stato d’animo dell’artista”.

Il motivo di fondo resta immutato, pur nelle profonde trasformazioni della pittura “nihonga”  per effetto dei radicali mutamenti nella vita: l’urbanizzazione ha allontanato dalla natura, e negli assetti abitativi di tipo occidentale spariscono i paraventi per i tradizionali rotoli sostituiti dai quadri.   Cambia tutto, dunque,  nei generi e nelle forme espressive, ma non cambia lo spirito informatore.

Le arti decorative subirono anch’esse gli influssi della modernizzazione con l’apertura alle espressioni di tipo occidentale. Ci fu l’apporto fondamentale di un chimico tedesco, Gottfried Wagner, che contribuì alla profonda evoluzione  nelle ceramiche e porcellane giapponese con la decorazione applicata sotto la vetrina, mentre prima le pitture in superficie erano più difficili e inoltre si logoravano. Furono introdotte  tecniche nuove anche nelle pitture su tessuto.

Ci fu una forte influenza dello stile Liberty, nella linea fluida e nei soggetti, oltre alla natura  figure femminili ed altri temi. All’impostazione artigianale seguì l’ispirazione  artistica in un periodo in cui mentre si diffondeva il “giapponesismo” in Europa, in Giappone penetrava l’influsso europeo. Si può dire che il Liberty, con la sua raffinatezza ed eleganza, era congeniale ad integrarsi con le arti decorative giapponesi. Vi penetrò anche il Déco,  che a differenza dei soggetti tradizionali, come la natura, si ispirata a prodotti industriali, come treni, aerei e automobili, in una fusione tra arte e industria che alimentava una nuova arte creativa fonte di rivitalizzazione industriale.

L’evoluzione ulteriore, il modernismo, introdusse forme inconsuete per il Giappone negli oggetti oltre che nelle loro decorazioni, sempre su influenza occidentale, in una sorta di ribellione per affermare la libertà creativa e l’individualità contro i vincoli dell’arte tradizionale. 

Il Manifesto del Sekido, a Kyoto nel 1919,  intendeva rinnovare “l’arte ceramica sommersa dagli stili tradizionali” per forme nuove con le quali “ricercare con amore l’inesauribile bellezza della natura ed esprimere, attraverso l’arte della ceramica, una bellezza eterna e imperitura”. Nel 1927  un altro movimento innovatore, il  Mukei, riaffermava la ricerca della libertà espressiva nel suo stesso nome che significa “assenza di stampo”, di “forma predefinita”; ma è molto esplicito nel respingere la “nostalgia del passato, in cui i nobili passeggiavano sotto i ciliegi in fiore” e il conformismo,: “ogni artista è libero di adottare la forma  che gli sembrerà più adatta”. Purché, nella diversità di forme, ci sia “una catena invisibile che le collega: una passione accesa, una determinazione ferma, senza compromessi, una tenacia irremovibile e l’aspirazione  a un futuro migliore”.

Banka, “Le isolane”, 1916

Le opere pittoriche in mostra: tre periodi

Le trasformazioni radicali della pittura giapponese nell’epoca Meliji iniziarono nell’ultima fase dell’epoca Edo, con il declino delle  antiche scuole Kano, Tosa e Sumiyoshi.  Si tratta del 1° periododei tre in cui è articolata la mostra.  Alla testa della modernizzazione della pittura “nihonga” ci fu  Kakuzozui che propugnò anche l’introduzione di tecniche occidentali, cosa che portò alla creazione dell’Istituto d’arte di Tokyo e dell’Accademia giapponese d’arte: tra gli artisti più significativi di cui vediamo esposte le opere citiamo Taikan, Kanzan e Shunso.

Per mantenere vivo il  classicismo tradizionale l’associazione Kamgakai accolse grandi artisti della scuola Kano, come Hogai e Gaho. Di Hogai sono esposte due opere del 1880-85 intitolate “Paesaggio con rupe”, ben diverse dalla eleganza calligrafica del passato, sono immagini quasi dantesche. Anche “Paesaggio di autunno”, 1887,  di Gaho è tutt’altro che oleografico, mentre nell’altra opera esposta, “Il monaco Saigyo”, 1892, la figura assorta domina il paesaggio sfumato.  Ben delineati, e sempre raffinati, i due dipinti  di  Kansai, “Paesaggio montano d’estate”, 1863,  e “Uva e scoiattoli”, 1882.; l’eleganza e la delicatezza giapponese nella “Rappresentazione di fiori e insetti”, 1885, e “Peonie e uccellini”, 1905, di Keinen, mentre in “Tigri” , 1885, di  Chikudo, c’è il biancore di inizio ‘900. “Veduta del mare di Naruto”, 1886, di Bairei, presenta una sorta di mare di nuvole.  I due dipinti di Chokunyu, “Paesaggio con boschetto di bambù”, 1890, e “Paesaggio primaverile  paesaggio estivo”, 1901, presentano aree  marcate e zone fortemente ombreggiate, senza l’eleganza raffinata e leziosa, né l’atmosfera rarefatta, è un realismo di nuovo conio.

Vediamo poi il ben diverso  “stile indefinito” – che rinuncia all’uso della linea  al centro della pittura giapponese con significati diversi dall’Occidente –  nella rappresentazione di effetti atmosferici con luminescenze e sfumature, nubi ed effetti cromatici senza contorni nelle opere di grandi pittori “nihonga”: la profondità dello spazio nella “Cascata”, 1900, di Taikan, su due piani, mentre “Luna sulla riva del mare”, 1902, è la prospettiva obliqua di una superficie bianca con rilievi ai bordi, che non raffigura quanto è nel titolo; così “Oche selvatiche presso un lago”, 1902, di Shonso, dove non si vedono le oche ma anche qui biancore al centro e rilevi ai bordi. In “Tokiwazu Fusehime”, dello stesso Shonso, invece, al centro dello spazio rarefatto c’è una immagine quasi di madonna.  Altrettanto sfumati e con molto biancore i dipinti di Hobun, “Pioggia primaverile sul monte Yoshio”, 1897-1906 e di Kako, “Notte di luna”, 1912.

Nette e non più sfumate le figure di “Cormorani e gabbiani”, 1901, di Kanzan, il realismo occidentale si fa strada, mentre “Campo di zucche”, 1910, ha un carattere più lezioso e ornamentale.  Di grande impatto visivo “Le quattro stagioni”, 1913, di Shunkyo, 4 dipinti con vaste superfici cromatiche molto espressive.  

Assunse un rilievo particolare la città di Kyoto anche perché vi erano già correnti naturalistiche che resero meno traumatico l’impatto con le nuove forme espressive della modernizzazione. Tra l’altro Fenollosa, un occidentale a Tokyo, tenne delle lezioni che stimolarono i giovani artisti. Assunse particolare rilievo Seiho, di cui vediamo opere molto diverse: “Paesaggio estivo/Paesaggio invernale”, 1903, delle macchie appena distinguibili , “Mestizia (Salici lungo un corso d’acqua gelata)”,1904,  anch’esso sfumato, e “Leone d’oro”, 1906, invece definito e marcato. Come lo è “La vecchia della montagna con la luna del mattino” di Kokyo, 1907.  

Kokei, “Papaveri”, 1921 (2° periodo)

Il 2° periodo va dall’epoca Meiji all’epoca Taisho, la fase di massima apertura politica e culturale prima della seconda guerra mondiale, con la forte influenza dell’arte occidentale, dal Rinascimento agli impressionisti e oltre. Troviamo Shiko e Yukihiko, Kokei e Keisen, Seison e Usen, con opere innovative; a metà periodo si accentua il realismo reso anche da forti contrasti cromatici, ben diverso dalle atmosfere impalpabili e dal biancore dello “stile indefinito”.

Di Shiko  vediamo “La salita di Shiomi”, 1916, e “Albero di kaki in autunno”, 1915, dall’intenso  cromatismo, mentre con Keisen, “Il dio del tuono e il dio del vento”, 1917, torniamo alle atmosfere sfumate e impalpabili. Con Yukihiko, “L’ebbrezza dei fiori”, 1912, ed “Eclissi di sole”, 1925; abbiamo le figure umane, stile e soggetti innovativi.  Di Kokei sia la figura “Immortale sul monte Lolu”, 1920, sia i fiori, “Papaveri”, 1921, rossi e bianchi sopra una cascata di verde.

La galleria di immagini è vastissima, citiamo solo i dipinti che colpiscono maggiormente. Come “Frutta”, di Gyoshu, 1920, dove lo spazio è reso dal volume dei pomi sulla tovaglia di un rosso intenso quasi monocromatico; e “I monti di Hakone”, 1922, di Keisen, il monocromatismo è verde intenso; mentre ha un effetto impressionistico, ma senza la scomposizione, “Alberi autunnali”, 1821, di Kagaku.  C’è anche una “Composizione di fiori” , 1923, di Shiho, quasi di stile occidentale, e “Mare di primavera”, 1924, di Seiho, gli alberi che svettano su tre piani luminosi.

Concludiamo la rassegna di questo periodo con immagini di donne molto diverse: le nitidissime  e fortemente colorate “Le isolane”, 1916, di Banka, e “Figura femminile con pettine laterale”, 1918, di Tadaoto, da un lato; le evanescenti a tinte pastello in “Notte di eclisse lunare”, 1916, di Shoen.

Il 3° e ultimo periodo, dall’epoca Taisho all’epoca Showa, vede accelerare la modernizzazione ma nel contempo la crescita del nazionalismo con restrizioni interne e isolamento internazionale, con il rifiuto delle tendenze occidentali per un ritorno alla purezza dell’arte orientale autoctona.  Taikan e Gyokudo, attivi nell’epoca precedente, raggiungono la maturità. Del primo vediamo “Cascata”, in una nuova tecnica nell’uso dell’inchiostro, del secondo “Foschia mattutina”, in colori caldi e nitidi.

Sono presenti anche Gyoshu, Seiji e Kokei, che abbiamo già incontrato:  pur non rinunciando al realismo dei dettagli cercano di rifarsi all’arte tradizionale in una sintesi tra Oriente e Occidente.

Di Gyoshu sono esposti “La camelia dai petali cadenti”, di Seiji “Bosco nel gelo”, di Kokei “Koto”, opere raffinate e vibranti dove la descrizione realistica si associa a motivi ornamentali. Non si cerca di rendere la realtà ma l’universale, cioè l’essenza che l’artista rivela con un’elaborazione spirituale.

Tra le numerose opere esposte citiamo tre gruppi di soggetti. I paesaggi e ambienti, con il verde dominante di Somei in “Monti ammantati”, 1924, e “Carbonara”, 1930; le atmosfere sfumate di Gyokudo, “Foschia mattutina”, 1928, e “Paesaggio montano con nuvole  e pioggia”, 1929; i forti contrasti di luce e ombra di Takan in “Cascata” e “Genziana”, 1928; di Usen due dipinti monocromatici, “La furia delle onde”, 1929, e “L’arrivo dell’autunno sull’isola”, 1932. Il secondo gruppo sono gli animali molto sfumati in Shiho, “Leoni”, 1927, ben definiti nella forma, volume e cromatismo in Seiho, “Tigre”, 1930. L’altro gruppo da noi individuato è quello delle figure umane: la ragazza in piedi di “Frescura mattutina”, 1925, di Kyokata, di cui sono esposte anche sei “Storie di Onatsu e Seijuro; la ragazza seduta in “Lo stagno di Ikaho”, 1925, di Eikyu; i calligrafici “Il dio del vento e il dio del tuono”, 1929 e “Mazzo di fiori”, 1937, di Yukihito, fino a “L’ambasceria cristiana a Roma”, 1937. di Seison, di tipo cavalleresco,  ricorda “Guidoriccio da Fogliano” di Simone Martini; fino al suggestivo “Suddharta in meditazione sotto un albero”, 1933, di Kagaku, con cui ci piace concludere per l’alto valore spirituale che l’artista riesce a trasmettere.

Seison, “L’ambasceria cristiana a Roma”, 1927

Le arti decorative nell’epoca del “nihonga”

Le arti decorative subirono anch’esse gli influssi della modernizzazione e dell’apertura all’Occidente. Ci fu l’apporto fondamentale di un chimico tedesco, Gottfried Wagner, che contribuì alla profonda evoluzione nelle ceramiche e porcellane giapponese con la decorazione applicata sotto la vetrina, mentre prima le pitture in superficie erano più difficili e inoltre si logoravano. Furono introdotte  tecniche nuove anche nelle pitture su tessuto.

Penetrò in Giappone lo stile Liberty, anche per la raffinatezza e la dolcezza delle sue linee spesso ispirate alla natura e a soggetti floreali che richiamavano motivi tradizionali.  La produzione di oggetti decorativi divenne anche un fatto economico perché attivò un consistente flusso di esportazioni.  In Europa, infatti, l’interesse per le arti orientali creò un vero “giapponesismo”.

Dai lavori artigianali basati solo sull’abilità tecnica si passò a produzioni più propriamente artistiche, nei quali, pur se l’influsso europeo era evidente, risultavano evidenti gli apporti originali della nuova creatività giapponese. Non si trattava di imitazioni, anzi venivano inseriti motivi reperiti da accurate ricerche nella tradizione autoctona, come quelli della scuola classica Rinpa, del XVII secolo, come fecero  Chu e Sekka. Il Liberty giapponese ha avuto, quindi, forme del tutto particolari, come è stato per le ceramiche  di Hazan, con uno smalto opaco sull’intera superficie sopra ai disegni di un pigmento policromo.

Vi penetrò anche il Déco, che a differenza dei soggetti tradizionali, come la natura, si ispirava a prodotti industriali, come treni, aerei e automobili, in una fusione tra arte  e industria alimentando  una nuova arte creativa mente si operava una vera e propria rivitalizzazione industriale.

L’evoluzione ulteriore, il modernismo, introdusse anche forme inconsuete per il Giappone negli oggetti oltre che nelle loro decorazioni, sempre su influenza occidentale, in una sorta di ribellione per affermare la libertà creativa e l’individualità contro i vincoli dell’arte tradizionale. 

Il Manifesto del Sekido, a Kyoto nel 1919, intendeva rinnovare “l’arte ceramica sommersa dagli stili tradizionali” per forme nuove con le quali “ricercare con amore l’inesauribile bellezza della natura ed esprimere, attraverso l’arte della ceramica, una bellezza eterna e imperitura”. Nel 1927  un altro movimento innovatore, il  Mukei, riafferma la ricerca della libertà espressiva nel suo stesso nome che significa “assenza di stampo” , di “forma predefinita”; è molto esplicito nel respingere la “nostalgia del passato, in cui i nobili passeggiavano sotto i ciliegi in fiore” e il conformismo, “ogni artista è libero di adottare la forma che gli sembrerà più adatta”. Purché, nella diversità di forme, ci sia “una catena invisibile che le collega. Una passione accesa, una determinazione ferma, senza compromessi, una tenacia irremovibile e l’aspirazione a un futuro migliore”.

Sarebbe velleitario pretendere di descrivere il vastissimo assortimento di oggetti e tessuti artistici dei tre periodi, ci limitiamo a elencare alcune tipologie di quelli esposti. Brocche e vasi, scrigni e scatole, cesti e astucci, candelieri e orologi da parete, brucia incenso e scatole per tabacco, scatole da scrittura e contenitori per dolci,  cofanetti e portasigarette, mobiletti e ornamenti da parete, parati e poi kimono e tessuti. Le fogge sono le più svariate e così gli stili, l’alto artigianato diventa arte sopraffina. Dalla mera elencazione, benché molto parziale, si vede l’estrema varietà, non entriamo nei materiali e negli stili che sono i più diversi, l’esposizione è spettacolare.

Come nella pittura su seta o su carta speciale, così nelle arti decorative sui più diversi materiali, si esprime la multiforme ispirazione dell’arte giapponese, di cui abbiamo cercato di dare qualche lineamento. Per i tre periodi nei quali si è avuta un’evoluzione che ha fatto tesoro del realismo occidentale senza perdere la sottile magia dello spiritualismo orientale, la nostra ampia carrellata su  titoli e autori delle opere in mostra è di per sé eloquente nell’evocarne il fascino e la suggestione.

Info

Viale delle Belle Arti 131, Roma, da martedì a domenica ore 10,30-19,30, la biglietteria chiude alle 18,45. Lunedì chiuso. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 (cittadini UE tra 18  e 25 anni  e docenti scuole statali UE); ridotto speciale solo mostre euro 7,00 (minori 18 e maggiori 65 anni). Tel. 06.32298221, http://www.gnam.beniculturali.it/.  Catalogo: “Arte in Giappone, 1868-1945”,  a cura di Ozaki Masaaki e Matsubara Ryuichi, Electa, 1913, pp. 232,  formato 21×27.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Gnam alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione della Galleria con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura Yushiko, Il dio del vento e il dio del tuono, 1929; seguono Kanzan, Cormorani e gabbiani,1901 (1° periodo) e Banka, “Le isolane”, 1916, poi Kokei, “Papaveri”, 1921 (2° periodo) e  Seison, “L’ambasceria cristiana a Roma”, 1927; in chiusura Eiku, “Lo stagno di Ikaho”, 1925  (3° periodo).

Eiku, “Lo stagno di Ikaho”, 1925  (3° periodo)

Pistoletto, il Paradiso sulla terra, al Louvre

di Romano Maria Levante

Intrigante  l’invito al Macro di Via Nizza 138, a Roma, per la mostra  che si terrà a Parigi, al Louvre, dal 25 aprile al 2 settembre 2013, intitolata “Anno I, il paradiso sulla terra”,  dedicata a Michelangelo Pistoletto: le sue opere “in dialogo con le collezioni”, nei cosiddetti “Contrepoints”. Inoltre l’artista sarà protagonista di una serie di incontri culturali e didattici, dibattiti e performance all’Auditorium del Louvre e alle Tuileries. Curatori della mostra, realizzata con il supporto di Galleria Continua: Marie-Laure Bernadac, assistita da Pauline Guélaud  con la collaborazione di Ségolène Liautaud; ha curato la programmazione associata Marcella Lista assistita da Nanxi Cheng.

“Venere degli stracci”, 1967

La dimensione temporale e la condivisione sono alla base dell’opera dell’artista, giunto al traguardo della nuova era nella trasformazione a tutti i livelli,  umano e sociale, culturale e politico: lo esprime nelle installazioni e  performance ambientate nel grande museo del Louvre, dalla celebrazione del 21 dicembre 2012, in particolare nella Cour Napoleon, all’evento che si aprirà il 25 aprile.

Così l’introduzione dell’artista alla mostra:”I miei lavori sono collocati in diversi settori del museo e interagiscono con le opere conservate in ciascuno di essi. Il Louvre è di per se stesso un’ampia retrospettiva della società umana esibita attraverso la storia dell’arte e dei miti”. Ecco il significato: “La parte retrospettiva della mia mostra rispecchia direttamente le opere della collezione che a loro volta sono lo specchio del passato. I Quadri Specchianti non solo riflettono l’arte antica ma anche le persone viventi che si aggirano nelle sale del Louvre. Dunque, sia il passato che il presente sono contemporaneamente protagonisti nel riflesso di questi miei lavori”. Poi la prospettiva di fondo: “Ed è nell’oggi che avviene il passaggio verso un futuro che si chiama Terzo Paradiso”. Il Primo Paradiso è quello naturale delle origini, il secondo quello artificiale attuale, “nel Terzo Paradiso, di cui al Louvre celebriamo la nascita, si uniscono e si integrano i due precedenti”.

“Figura umana”, 1962 

La presentazione al Macro con l’artista

Lo ha precisato  nella presentazione della mostra del Louvre, avvenuta a Roma il 9 aprile 2013 al Macro, nella grande  bomboniera arancione sospesa che è l’avveniristica Sala conferenze, insieme al Direttore del Macro, Bartolomeo Pietromarchi, a Paolo Naldini, direttore di Cittadellarte, e a Mario Cristiani, uno dei tre fondatori, nel 1990, di “Galleria Continua”, che ha fornito supporto e collaborazione e dal 2007 ha uno spazio, “Le Moulin”, nella campagna parigina.

I tre tempi del “Paradiso in terra”  iniziano con il 1° tempo della non conoscenza e dell’irresponsabilità,  viene poi il 2°  tempo, quello della conoscenza, fino al 3° tempo, quello della responsabilità. Non contrasta con la libertà assoluta dell’artista, anzi ne è parte integrante, perché pur nell’autonomia “dobbiamo vedere cosa rappresentare con l’arte”, e a questo punto scatta la responsabilità: “L’arte è portatrice di libertà con la responsabilità che garantisce l’equilibrio”.

Visione questa coerente con la definizione che Pietromarchi ha dato dell’arte: “Un grande laboratorio di attività e di formazione”, per poi chiedere all’artista cosa lo ha stimolato di più nell’avviare il dialogo con le grandi opere esposte al Louvre. E’ stata “la grande galleria dell’arte italiana – ha risposto Pistoletto – dalle sculture classiche all’arte etrusca, che viene dal passato e tocca il presente, fino alla sala che ospita Monna Lisa”. A questo punto ha parlato dell’installazione-simbolo del Terzo Paradiso: “Un Obelisco di specchi, dove l’antico simbolo di potenza virile diviene trasparente con gli specchi che sono il lato femminile.

Rispondendo a una nostra domanda  sui rapporti tra arte e potere ha parlato di come da un committente “personalizzato” – categoria in cui rientra anche il mecenatismo  della Chiesa – si è passati alla committenza “impersonale” del mercato a seguito dell’impetuosa trasformazione del mondo, “dalle carrozze a cavalli ai cavalli vapore, fino alla speculazione finanziaria”. Lo specchio è un “elemento di verità, anche nelle sue deformazioni; consente di vedere ciò che c’è dietro e davanti in una prospettiva totale proiettata nel futuro ma che riflette  il passato alle nostre spalle”, da cui occorre partire per avere solide basi. 

Il logo della mostra è il “nuovo segno dell’infinito”, la rielaborazione del segno matematico con l’inserimento di un terzo cerchio tra i due opposti che indicano natura e artificio: “quello centrale – dice lui stesso – è la congiunzione dei due e rappresenta il grembo generativo del Terzo Paradiso”. E ci tiene a sottolineare  che al centro del cerchio centrale c’è l’ombelico del dipinto di sfondo. “Questo simbolo attraversa l’intero percorso espositivo e assume dimensione monumentale all’inizio e alla fine della mostra: nella connessione con la Piramide e nell’opera Obelisco e Terzo Paradiso realizzata per l’installazione al Louvre”. Ripensiamo alla Piramide di vetro, tutto si tiene. 

Paolo Naldini ha parlato delle committenze odierne che vengono dalle comunità senza che vi sia più l’antica distinzione dei ruoli, ci si mette in gioco insieme per realizzare l’opera: un processo di “attivazione” consente alle componenti della società di rendersi protagoniste attraverso l’arte. Le Gallerie ne fanno parte, e Mario Cristiani  ne ha evocato ruolo e problemi, anche rispetto ai rapporti tra arte e potere, concludendo che in mezzo alle difficoltà “bisogna sempre lavorare con coscienza”.

“L’Etrusco”, 1976

Il percorso artistico: dagli autoritratti, ai quadri specchianti, all’arte povera

Queste note sommarie su una discussione ben più approfondita servono a inquadrare la mostra al Louvre nella visione lungimirante di Pistoletto inserita in una prospettiva molto ampia di coinvolgimento della società che avviene attraverso iniziative concrete messe in atto dall’artista.

La sua forma espressiva iniziale – cominciò a 14 anni nell’atelier di restauro del padre – furono gli “Autoritratti”, nel 1960 ne realizza a dimensione reale su fondi monocromi oro, argento e rame, nel 1961 nella serie “Il Presente” la sua figura è su fondo nero riflettente. Sono sperimentazioni che nel 1962  approdano ai “Quadri Specchianti”, con una tecnica che fissa le immagini su una lastra di acciaio lucidato a specchio. Gli specchi riaprono la prospettiva e inseriscono lo spettatore nell’opera d’arte: dopo l’esposizione del 1963 alla Galleria Galatea partecipa a manifestazioni di Pop Art e Noveau Realisme, e a mostre in gallerie e musei in Europa e in America. Ha acquisito fama internazionale, gli specchi diventano la base della sua produzione artistica e della riflessione teorica.

Con “I Plexiglas”,  nel 1964, inserisce le sue opere nello spazio reale ed entra nella logica dell'”arte concettuale”; nel 1965-66  con gli “Oggetti in meno”  sviluppa la dimensione temporale  e lancia il principio delle differenze contro lo stile uniforme individuale. E’ la premessa per l’“Arte Povera”, teorizzata da Germano Celant, di cui è protagonista e animatore dal 1967: “Venere degli stracci” ne è un capolavoro.  Organizza manifestazioni  in cui cerca il più ampio coinvolgimento di artisti  e non solo, e nel 1968 alla Biennale di Venezia lancia il “Manifesto della collaborazione”.

Nel 1975-76 con “Le stanze” a Torino  presenta un’opera che si snoda in un anno attraverso 12 mostre, sviluppa questo concetto con i “Continenti di tempo”, e lo teorizza nello scritto “Cento mostre  nel mese di ottobre”, con altrettante idee maturate in quel breve spazio, che realizzerà nel tempo.  Organizza azioni fuori dagli spazi espositivi e con “lo Zoo”, gruppo interdisciplinare da lui formato, dà luogo  collaborazioni creative. In America, ad Atlanta, nel 1978-79,  con “Creative Collaboration”  coinvolge artisti di varie discipline e la comunità; lo farà in Liguria, a Corniglia, nel 1981, e lo tradurrà anche in uno spettacolo a Roma al Teatro Quirino, dal titolo “Anno Uno”.

Nel 1978 con le mostre “La divisione e moltiplicazione dello specchio”  e “L’arte assume la religione”  sviluppa ulteriormente le sue concezioni filosofico-artistiche.

All’inizio degli anni ’80 crea la prima scultura in poliuretano rigido del gruppo “La Natività”, che completerà a metà del decennio; nel 1984  realizza opere in marmo e nel 1985-89 con “L’arte dello squallore” grandi opere in materiale scuro e anonimo.  Poi, seguendo la linea dei “continenti nel tempo”  crea “Anno Bianco” nel 1989 e “Tartaruga felice” nel 1992. 

Negli anni ’90 le sue impostazioni teoriche sul coinvolgimento più ampio e sull’inserimento nella società trovano lo sbocco nel “Segno Arte” prima, nel “Progetto Arte”poi, infine in “Cittadellarte” con “Love Difference”,  fino al “Terzo Paradiso” con il Rebirth  Day del 21dicembre 2012, base di un’ampia serie di iniziative. Qui entriamo nel cuore della mostra di Parigi, ne parleremo tra poco.

I riconoscimenti all’artista sono numerosi, fino al Leone d’oro alla carriera nel 2003 della Biennale di Venezia alla quale ha partecipato per ben 12 volte; è stato docente d’arte e direttore artistico, le sue opere sono nei principali musei del mondo, dove ha esposto in innumerevoli mostre personali.

“Luci d’artista”, 2005

Cittadellarte, l’arte nella società alla mostra del Louvre

Abbiamo accennato all’escalation di iniziative degli anni ’90, che culmina nella creazione, a Biella , della “Cittadellarte-Fondazione Pistoletto”: con “Progetto Arte” si collega strettamente al tessuto sociale per renderlo protagonista attivo della “trasformazione responsabile della società”, nel “Segno dell’Arte”. Già la sua sede, in un’ex stabilimento laniero divenuto archeologia industriale, rientra nel collegamento con il passato cui l’artista si affida con fiducia; il nome coniuga “città” come apertura dell’arte al mondo e “cittadella” come difesa e protezione. Già dal 1982 con “Studio Azzurro” si cominciò ad esplorare “le possibilità poetiche ed espressive delle nuove culture tecnologiche”, e nel 1995 furono realizzati video-ambienti, sensibili ed interattivi, percorsi museali e performance teatrali in un’impostazione trasversale tra le discipline tradizionali.

Cittadellarte è “un nuovo modello di istituzione artistica e culturale e, come tale, si differenzia da accademie, gallerie e musei”. La sua attività si svolge in collegamento con istituzioni e centri culturali, artisti e studiosi, imprenditori e organizzazioni, e riguarda campagne di comunicazione ed interventi nel tessuto urbano, design di prototipi e prodotti industriali, eventi e programmi vari.   Vengono realizzati corsi di formazione e spettacoli, mostre  e installazioni artistiche.

Questi due ultimi tipi di iniziative  hanno accompagnato a Parigi la mostra delle opere di Pistoletto.  Si tratta dell’installazione interattiva “Les portes de Cittadellarte”,  con l’intento di far entrare lo spettatore nel “laboratorio di arte e vita” che è l’associazione; è collocata nell’area antistante la sala con le antichità egiziane, nel “Louvre Medieval”.

Si tratta di cinque schermi interattivi che riproducono ambienti e “nuclei operativi”  in cui si sviluppano la ricerca e i progetti che realizzano le finalità di operare la trasformazione della società attraverso l’arte entrando in ogni ambito sociale.  I campi investiti sono arte e politica, educazione e spiritualità, economia e produzione, architettura e comunicazione, moda e nutrimento.

Nello stesso settore espositivo del Louvre verrà presentata l’opera “Love difference”,  scritte luminose  multicolori al neon in diverse lingue, sulle vecchie mura medievali, che con l’invito reiterato ad “Amare le differenze” riflettono la preoccupazione di Pistoletto per i problemi relativi al multiculturalismo portato dalla globalizzazione, in particolare nel bacino del Mediterraneo  dal quale flussi migratori sempre più massicci richiedono un’integrazione senza pregiudizi. 

Per far fronte a questo problema, fin dal 2002 nella Cittadellarte della Fondazione Pistoletto è stato costituito il Movimento Artistico per una Politica Intermediterranea, dal nome “Love Difference”, con questa missione: “Promuovere il dialogo tra persone diverse per cultura, politica o religione per creare una rete robusta tra persone e istituzioni interessate  a risolvere i problemi sociali attraverso l’arte e la creatività”.

“Il tempo del Giudizio”, 2009 

I temi trattati dall’artista negli incontri associati alla mostra

Abbiamo detto che lo “sbarco” di Pistoletto al Louvre non si traduce soltanto nelle sue opere a contatto con le grandi collezioni  e nell’installazione sul Terzo Paradiso, che possiamo considerare epocale dato che l’artista stesso ne parla così: “L’Anno Uno è il primo, della terza fase della storia umana. L’arte, la cultura, la scienza, la tecnologia, l’economia e la politica assumono una nuova responsabilità dando speranza di sopravvivenza  all’umanità. Il 21-12-2012, in risposta ad ogni previsione di fine del mondo, si è celebrato il Rebirth Day e il 2013 è il primo anno della rinascita”.

Ci sono anche gli incontri nel corso dell’esposizione, che lo vedranno impegnato nell’Auditorium del Louvre sui grandi temi della sua concezione umana prima che artistica: si inizia con “Il Terzo Paradiso: visione e anticipazione”,  ne discuterà venerdì 17 maggio alle ore 18,30 con Nicola Setari; seguirà la proiezione del film di Marco Martins in cui appare lui stesso: “Twenty One: The Day the World Didn’t End”,  in cui ha lanciato  il Rebirth Day che abbiamo appena citato.  Dall’iniziale principio di “partecipazione” è passato al principio della “responsabilità dell’artista, messo in pratica con l’imponente numero di eventi di cui è stato protagonista. Cittadellarte docet!

Abbiamo detto che la prospettiva è triplice,  dopo l’artista viene lo spettatore, poi il futuro. Ne discuterà mercoledì 22 maggio alle 18,30 con lo scrittore Michel Butor, nell’incontro moderato dal critico d’arte Jean-Max Colard sul tema “La modificazione dello spettatore”.. E il contesto in cui ciò avviene? Sarà il tema della conversazione con l’astrofisico e filosofo Aurélien Barrau in cui verrà dato uno “Sguardo su un mondo in divenire”, giovedì 30 maggio alle 14,30.

Dopo tante parole  una performance teatrale dal titolo “Anno Uno (1981-2013)”,  frutto della collaborazione dell’artista con alcuni abitanti di Corniglia, quella che abbiamo ricordato, andata in scena per la prima volta al Quirino di Roma nel 1981 e per l’ultima volta  in occasione di Artissima Teatro nel 2009, prima assoluta per la Francia, sabato 1° giugno alle 20.

Il gran finale, non della mostra che chiude il 2 settembre, ma di queste iniziative che la accompagnano, è per il week end dell’8-9 giugno ai Giardini delle Tuileries: “Operazione Terzo Paradiso”, in collaborazione con Castello di Rivoli, alle ore 14,30  e 18.

Abbiamo evocato i motivi legati alla mostra, oltre il  rilevante evento artistico, che investono elevati concetti filosofici ed esistenziali sull’evoluzione della società e i suoi problemi ai quali l’artista non può ritenersi solo “partecipe” ma deve sentirsi “responsabile”, nella visione di Pistoletto.

Concludiamo con le sue parole che rendono omaggio alla prestigiosa sede espositiva: “In nessun altro luogo del mondo il simultaneo rispecchiamento del passato e del futuro avrebbe potuto avere il senso che assume nella mostra al Louvre”.  Dove il suo obelisco specchiato farà per qualche mese da contraltare alla Piramide altrettanto trasparente che ne è lo spettacolare simbolo.

Info

Museo del Louvre, Parigi, Sala della Maquette, Dipartimento dei Dipinti, Dipartimento di Antichità orientali, Dipartimento di Antichità greche, etrusche e romane, Giardino delle Tuileries. Catalogo: Michelangelo Pistoletto, Année I, le Paradis sur Terre,  testi di Henri Loyrette, Bernard Blisténe, Laure Bernadac, Marcella Lista, Paolo Naldini e Nicola Setari, coeditori Musée du Luvre Editions e Actes Sud, 2013, pp. 208, euro 39.  Dal 15 maggio il libro-intervista: Michelangelo Pistoletto, Alain Elkan, La voce di Pistoletto, Editore Bompiani, 2013, pp. 304 con 200 immagini su vita e opere.  Tel. Cittadellarte-Fondazione Pistoletto 01528400.; fondazione pistoletto@cittadellarte.it; www. cittadellarte.it

Foto

Le immagini delle opere di Pistoletto sono state fornite dall’organizzazione che si ringrazia, con i titolari dei diritti; l’immagine della conferenza stampa di presentazione al Macro è stata ripresa da Romano Maria Levante. In apertura “Venere degli stracci”, 1967, seguono “Figura umana”, 1962 e “L’Etrusco”, 1976, poi  “Luci d’artista”, 2005, e “Il tempo del Giudizio”, 2009; in chiusura, la conferenza stampa, al centro Michelangelo Pistoletto risponde al direttore Pietromarchi, tra Paolo Naldini, sulla sin., e Mario Cristiani, a dx.

La conferenza stampa, al centro Michelangelo Pistoletto risponde al direttore Pietromarchi, tra Paolo Naldini, sulla sin., e Mario Cristiani, a dx
 

Arte e potere, 2. Nella storia fino alle forme moderne

di Romano Maria Levante

Si conclude l’excursus dei rapporti tra arte e potere, un approfondimento stimolato dalla mostre su Alecsandr Deineka e sui “Realismi socialisti” e dalla rievocazione dei rapporti di D’Annunzio con il potere politico, religioso, spirituale, nel 150° dalla nascita. Dopo aver parlato dei rapporti arte-potere nei regimi dispotici, dagli egizi al nazismo, comunismo e fascismo, siamo passati al mecenatismo della Chiesa, richiamando anche la mostra pittorica “Il Potere e la Grazia” che ne ha dato ampia testimonianza. Ora accenniamo alle altre forme di mecenatismo fino ai tempi moderni con una conclusione di prospettiva.

Gerardo Dottori, “Polittico della Rivoluzione Fascista”, particolare (pannello centrale inferiore)

Il mecenatismo nelle Corti e nel Rinascimento, fino al ‘900

Neppure l’antica monarchia inglese è stata immune dall’utilizzazione dell’arte per ragioni di potere. Da Enrico VIII, che scoprì quanto il suo ritratto, chiamato “Great Picture”, poteva dare forza all’immagine di sovrano, agli altri sovrani della dinastia Tudor, soprattutto Elisabetta I, che promossero a questo fine anche l’arte funeraria, arrivando agli Stuart; nella storia il mecenatismo di Corte ha avuto l’obiettivo di glorificare e rafforzare la dinastia regnante.

Un discorso a parte merita il Rinascimento, un periodo in cui certamente non è mancato un potere forte: dall’Impero e dalle grandi dinastie nobiliari, al potere della Chiesa nella sua espressione massima, il Papato, e nel potente ceto cardinalizio, a sua volta legato alla nobiltà.

In fondo, tutta l’arte di un periodo così esaltante è stata alimentata dal mecenatismo dei depositari del potere, committenti della fioritura dei capolavori che l’epoca d’oro ha saputo donarci. Ma il rapporto tra committenti e artisti ora si svolge su un piano paritario, come avviene in particolare tra Carlo V e Tiziano, tra Giulio II e Michelangelo per citare i casi più eclatanti. Vengono superate le rigide regole invalse nel ‘400, allorché i contratti prefissavano non solo soggetto e prezzo, ma anche materie da impiegare e dimensioni dell’opera, limitando notevolmente l’autonomia dell’artista e quindi la libera espressione dell’arte; ricordando sempre che la Chiesa era un committente rigoroso.

Il nuovo corso è favorito dal formarsi di un mecenatismo molteplice, che dà agli artisti opportunità aggiuntive rispetto a quelle tradizionali legate ai grandi poteri del papato e dell’impero. Le sfarzose Corti europee attirano gli artisti e il re di Francia fa della sua reggia a Versailles un importante centro d’arte aperto alle maggiori personalità, soprattutto italiane; a Venezia oltre al Doge, per il quale lavora il Tintoretto, c’è una committenza privata con il Giorgione, mentre la potente aristocrazia cittadina si avvale del Palladio e del Veronese.

Con la controriforma, la committenza della Chiesa acquista nuova forza, per la reazione al protestantesimo che porta a erigere nuove chiese e ad adeguare quelle esistenti ai nuovi dettati liturgici del Concilio tridentino mobilitando gli artisti. Anche la nobiltà sviluppa l’arte sacra e sepolcrale nelle cappelle, oltre a dare vita ad un’intensa attività monumentale con l’edificazione di grandi palazzi adornati di opere d’arte.

Il mecenatismo torna a perseguire precisi obiettivi di potere nel seicento con l’Impero asburgico, che ne fa strumento di propaganda politica, e con il Regno di Francia, quando Luigi XIV tende a imporsi sulla produzione artistica, mentre il papato con Urbano VIII accentua la tendenza a usare l’arte per magnificare la supremazia della Chiesa cattolica e del suo Pontefice.

Si creano nuovi spazi, per l’emergere di una borghesia mercantile nel centro dell’Europa che fa nascere e affermare un libero mercato d’arte; in particolare nei Paesi Bassi dove la conquista dell’indipendenza fa nascere nel XVII secolo una “pittura civile” libera da committenze e aperta al mercato, Vermeer è tra i massimi esponenti. Inoltre si sviluppa il mecenatismo privato di nobili e alti funzionari le cui scelte artistiche sono autonome e ben diverse dalla committenza tradizionale.

Nel settecento non sorgono nuovi mecenati e si riducono quelli esistenti, mentre nell’ottocento e ancor più nella prima metà del novecento la società industriale impone le sue regole, con una committenza pubblica di pertinenza degli Stati che si allontana definitivamente dall’arte. E quando vuole utilizzarla lo fa per le finalità propagandistiche e di asservimento al potere prima ricordate, con le aberrazioni del regime nazista nel cuore dell’Europa e della dittatura comunista nei paesi di antica cultura dell’Est europeo; e con l’impronta littoria data all’arte dal regime fascista in Italia.

Aleksandr Deineka, “La difesa di Pietrogrado”, 1928

L’arte come atto creativo che non può essere imbrigliato dal potere

Con il mecenatismo illuminato, dunque, storicamente la committenza ha orientato la manifestazione artistica, ma non ha compresso l’estro creativo. Vale al riguardo la già citata espressione di Argan, che si è fatta l’arte con l’intenzione e la consapevolezza di fare arte e con la certezza di concorrere, facendo arte, a fare la civiltà o la storia.

L’arte ha potuto così esercitarsi con risultati che hanno retto al passare del tempo e al dilatarsi dello spazio; e la cui validità resta, non perché storicizzata rispetto alla propria epoca, come nel caso di arti antichissime legate alle etnie, ma per la sua valenza in assoluto.

Dal momento che l’arte immortale, autentica, non può nascere se non vi è libertà nella creazione, quando questa libertà sussiste essa per converso deve nascere. La poetessa Anna Manna ha descritto questo processo nel saggio “Il potere delle Nugae” (all’interno del  volume “Il poeta della ferriera”), commentando il poemetto latino “Ferraria” pubblicato nel 1933 a Parigi nella raccolta “Nugae” da Nicolas Bourbon che lo aveva composto nell’adolescenza per celebrare la ferriera di Vendeuvre e soprattutto la figura del padre che ne era il gestore; poemetto nato sotto i riflessi corruschi della fonderia, i cui bagliori si riverberano sull’arte letteraria non meno del potere del padrone della ferriera al centro dell’ispirazione: “L’atto creativo non può essere imbrigliato o imbrogliato – scrive la poetessa – E’ un atto naturale, come la forza delle tempeste, come i marosi, come i terremoti. Spacca ogni membrana, lacera ogni barriera, fischia come un vento di guerra per portare la pace. L’Arte è una delle voci terribili della natura. Una energia cosmica che urla la verità, anche quando si esprime con sussurri o bisbigli. Una verità incalzante, che non conosce limiti o maschere, storie o cronache, ruoli o fini. Il fine dell’Arte è l’Arte stessa…”

Prosegue così: “E quando l’artista cerca di indirizzare, raddrizzare, aggiustare, ad opera finita la verità balza all’improvviso e inaspettatamente in primo piano… L’Arte ti dice sempre la verità. Ma la verità dell’Arte non è quella dell’autore. Questo ogni artista lo sa… L’artista può mentire a se stesso, mai agli altri… L’Arte non sa mentire e l’atto creativo oltre a creare un alter, inchioda l’autore alla sua realtà. Così non basteranno i blasoni, i titoli, i premi a raccontare la pochezza di un’arte asservita, falsa, mirata…”.

Ecco la conclusione: “Non possiamo aver paura dell’Arte perché l’Arte non ha paura di noi. Nasce sempre e comunque, nei palazzi e nei tuguri, nel fango e tra le costellazioni. L’Arte c’è. L’Arte non è figlia nostra, caso mai il contrario. Come la Scienza non è il nostro prodotto, ma caso mai il contrario. E’ questa loro autonomia che le rende divine, importanti, impossibile imbavagliarle. Sono aquile libere. Volano alto. Soltanto loro sono capaci di volare sulle cime più alte, dove anche il difetto diventa purezza”.

Gerardo Dottori, “Polittico della Rivoluzione Fascista”, 1934

Questo sfogo spontaneo della poetessa – un’artista che parla per esperienza personale – fa capire meglio di autorevoli quanto asettici giudizi critici come la forza prorompente dell’arte possa spezzare i ceppi che vogliono imprigionarla, emendandosi con la sua intrinseca purezza dai difetti determinati dalla difficile convivenza con il potere. E rende evidente come sia il potere ad avere paura dell’arte perché essa con la sua forza evocatrice può aprire gli occhi a coloro che si cerca di asservire, ed emanciparli dando a ciascuno la consapevolezza della propria condizione e insieme dei propri diritti inalienabili di libertà.

Si tratta della libertà civile in cui si specchia e si riflette la libertà creativa che l’artista rivendica per sé, e difficilmente può essergli conculcata essendo la sua una ricerca individuale, senza limiti di tempo e di spazio; una ricerca interiore alimentata dalle profondità dell’animo come dagli infiniti scenari offerti dalla natura e dai mutevoli spaccati della società, dall’immanente e dal trascendente, dalla realtà come dal sogno, dalle certezze come dal mistero, in definitiva dalla vita scrutata da dentro in un viaggio nei suoi angoli più riposti e segreti.

E forse la lungimiranza dei mecenati del Rinascimento e di altri periodi toccati dal miracolo dell’arte sublime ha fatto sì che non venissero posti direttamente, e tanto meno imposti, ruoli o fini anche se erano insiti nella committenza. In tal modo l’artista era messo nelle migliori condizioni di operare per l’arte, in applicazione del principio appena evocato: il fine dell’Arte è l’Arte stessa.

Quindi nessuna regola imposta, al contrario di quanto ricordato sulla fissità dei canoni dell’arte egizia; per non parlare della glorificazione del popolo e della razza nell’arte nazista, cui si è assimilata nella somiglianza di intenti, pur se altrimenti mirata, l’arte sovietica nel periodo della dittatura comunista e, con le debite differenze, l’ostentazione di romanità e forza dell’arte fascista.

In senso lato anche il già ricordato mecenatismo rinascimentale, e non solo, si può considerare espressione di un potere avente propri fini, come accennato sopra. Ma questi fini non venivano sovrapposti all’espressione artistica svuotandola del suo autentico valore, si realizzavano automaticamente per il fatto stesso della magnificenza nell’ispirazione e nella realizzazione. La sua grandezza, intesa in tutti i sensi, si imponeva e sbalordiva il popolo, lasciato in condizioni di irrimediabile arretratezza economica e culturale dinanzi all’onnipotenza del sovrano; in questo modo si celebrava la glorificazione del mecenate committente, quindi del potere, e anche dell’artista che ne era il suggestivo tramite, ma senza ridurne la creatività.

Forse si può parlare di strumentalizzazione dell’arte rispetto al potere, non di asservimento, e non per mera generosità quanto per la lungimiranza e intelligenza del potere rinascimentale: se l’avesse asservita imponendo dei canoni l’avrebbe depauperata del suo più autentico contenuto sterilizzando l’impeto creativo degli artisti, come ha cercato di fare il potere ottuso, cieco e dispotico di epoche e regimi come quelli prima citati molto vicini a noi nel tempo.

Arthur Kampf, “30 gennaio 1933”, 1939

Le attuali forme di potere e le nuove condizioni per una ripresa dell’arte

Nell’epoca attuale nascono imperiosi interrogativi che riguardano l’essenza stessa dell’arte, la ragione del suo annichilimento fino all’annullamento, almeno nella percezione dei più.

Interrogandosi sulle cause, si pone il dilemma se vi è un potere nascosto così oppressivo da ridurre l’espressione artistica a movimenti isolati impedendo che si formi il “sistema” evocato da Argan; o se, al contrario, è la mancanza di un potere come quello rinascimentale, con i mecenati e le loro committenze, compresa quella della Chiesa, a isterilire le spinte propulsive che anche nell’epoca d’oro erano necessarie perché gli artisti potessero esprimere la loro forza creativa.

In altri termini ci si chiede se oggi il potere diffuso e frammentato corrisponde a un “non potere”, oppure se è un potere sprovvisto della lungimiranza e dell’intelligenza di un tempo. Ci si chiede inoltre perché, anche quando ci siano mezzi cospicui da investire nell’arte e volontà di farlo, ci si rivolga – salvo eccezioni meritorie per fortuna presenti – all’acquisto molto dispendioso di opere del passato piuttosto che alla promozione di un’arte nuova e originale che sia anche specchio dei tempi.

Qualcuno sostiene che nelle nazioni dove il potere si è affievolito fino ad annullarsi e confondersi in un declino trascinatosi nei secoli, anche l’arte e la cultura ne hanno sofferto allontanandosi progressivamente, quasi venisse a mancare il necessario alimento; si citano a riprova la crisi della Grecia prima, di Roma poi, e delle grandi civiltà orientali che in varie epoche sono state travolte da un’inarrestabile decadenza. Il contraccolpo sull’arte è stato attribuito al venir meno di mecenati diretti o indiretti non essendovi più nulla da celebrare dato l’immiserirsi dell’humus culturale ed economico per la carenza di risorse.

L’attuale frammentazione del potere, dunque, potrebbe spiegare la crisi dell’arte solo se si manifestasse a fronte di un rovinoso decadimento economico come è avvenuto nelle civiltà sepolte, non quando l’economia e la società continuano a svilupparsi e a rinnovarsi. Nelle nazioni più avanzate il progresso tecnologico e la spinta dei mercati con la globalizzazione imprimono un impulso alla crescita, pur se non mancano fasi cicliche di recessione con crisi e turbolenze improvvise come quella attraversata in Europa, dalla quale  l’Italia sembra ancora coinvolta.

E’ un contesto nel quale l’interdipendenza dei mercati e l’inarrestabile sviluppo delle comunicazioni si riflette anche sull’espressione artistica, soggetta essa stessa al mercato. Per cui si assiste a una sorta di paradosso: gli Stati Uniti, nazione giovane e per certi versi geneticamente poco sensibile alla cultura, si vengono a trovare al centro dei circuiti dell’arte e hanno soppiantato storici capisaldi della vecchia Europa che ha ben altre tradizioni e basi culturali, ma è divenuta meno competitiva.

In questa situazione, dove l’arte sembra destinata all’omologazione nel mercato, il potere frammentato, almeno quello economico, viene esercitato in forma di “sistema” e non in modo personalizzato, per cui viene meno la possibilità di un mecenatismo illuminato associato alla persona. Il mecenatismo tradizionale, peraltro, oltre ad essere personalizzato trovava nell’assetto elitario della società l’ambiente più adatto perché gli immensi divari economici e sociali fornivano risorse e motivazioni oggi non proponibili; e sono ben poca cosa i tentativi isolati, pur se meritevoli, di mobilitare interesse e risorse per l’arte cercando di coinvolgere nuove fasce di soggetti nella promozione di iniziative a committenza plurima e organizzata.

Detto questo, non bisogna rimpiangere le epoche passate come un’Atlantide irrimediabilmente scomparsa e irripetibile. Occorre fare tutto il possibile perché risorse ed energie tornino ad alimentare l’arte senza velleità di strumentalizzarla e tanto meno di asservirla, che ne sarebbe la negazione; anzi con l’intento di accelerare anche per suo tramite la crescita culturale e civile cui nel tempo presente manca questo stimolo del quale si ha molto bisogno.

Non è impossibile individuare le condizioni che possano favorire una nuova stagione dell’arte nella mutata situazione. La globalizzazione dei mercati e dell’economia, e la rapidità delle comunicazioni che si svolgono in tempo reale creando interrelazioni con ogni angolo della terra, realizzano veramente il tanto evocato villaggio globale. E nel far incontrare e interagire civiltà e culture diverse possono fornire nuovi stimoli all’arte alimentandola con questa nuova ispirazione planetaria; sicché dalle differenze e peculiarità messe a contatto e metabolizzate potrà trarre nuova linfa per una ripresa in grande stile del suo ruolo insostituibile. Nella cultura, nella vita e nella storia delle nazioni e del mondo. Senza il pesante fardello del potere.

Isaak Brodskij, “La cerimonia di apertura del II Congresso della Terza Internazionale”, 1921-24

Come “fare sistema” con l’arte e la creatività per una nuova rinascenza

Il potere democratico sotto questo profilo ha il vantaggio di non dover temere un’arte libera e senza controlli e di non avere orientamenti precostituiti. Infatti, al di là dei suoi tanti problemi, ha il pregio indiscutibile di non presentare il carattere oppressivo del potere assoluto, sempre condizionante anche se illuminato e non dispotico, e può fare ogni sforzo per promuovere un’arte veramente libera senza strumentalizzarla.

Quindi non vi sarà la tentazione di spegnere la creatività con canoni prefissati imposti dal potere, anche se democratico, per asservire l’arte ai propri fini. Essa potrà essere lasciata libera di esprimersi con la forza riconosciuta all’atto creativo che non può essere imbrigliato o imbrogliato, come è stato detto, senza paventare né l’effetto sul potere né la forza che può acquisirne l’artista, come avvenne tra D’Annunzio e il fascismo, risvolto non trascurabile da noi già commentato.

Per riavviare e dare forza a questo processo si tratta di mettere a disposizione dell’arte canali privilegiati che possano “fare sistema” e determinare una massa critica di risorse e di iniziative in grado di coinvolgere le energie della creatività individuale, altrimenti disperse. Con Internet e i “social network”  si dispone oggi di strumenti prima inimmaginabili molto potenti e pervasivi.

Vi sarebbe un nuovo condizionamento, quello del mercato, si potrebbe replicare, a vincolare comunque, pesantemente e negativamente, l’espressione artistica. Ma neutralizzerebbe i suoi effetti più pesanti e negativi la crescita della società che nell’epoca attuale non può non accompagnarsi alla ripresa dell’arte. A tal fine, anche con i nuovi strumenti citati, si possono attivare i corpi intermedi, l’associazionismo diffuso, mobilitare le forze vive in grado di reagire all’effetto paralizzante del decadimento culturale; respingere le lusinghe lassiste e gli esempi regressivi diffusi dai mass media, come la televisione che entra nelle case di tutti; impegnarsi dove si può esprimere la creatività, la cultura di un popolo, isolarne e rendere inoffensiva la parte decadente.

E’ un segno molto positivo il grande interesse della gente, e soprattutto dei giovani, verso le mostre d’arte, che vedono lunghe file di persone attendere pazientemente, a volte per ore, di fare il biglietto e visitarle per soddisfare un bisogno evidentemente pressante; e cancellano l’immagine opposta di alte “audience” degne di miglior causa.

Lascia ben sperare questa mobilitazione spontanea per l’arte, e non deve far disperare l’acquiescenza alle altre offerte di segno deteriore, imputabili a chi le promuove e non agli incolpevoli destinatari della pochezza culturale e delle ristrette vedute dei promotori, spesso privi del benché minimo barlume di creatività. Mentre, per un altro verso, fortunatamente non mancano prove di altissime “audience” ed elevatissimi gradimenti per qualche evento culturale di qualità lasciato isolato quasi si temesse di scoperchiare una pentola che si ha interesse a tenere chiusa per non rivelarne i veri contenuti; è una base su cui si può fare leva per dar vita a una reazione rispetto all’acquiescenza passiva che segni un’inversione di tendenza della quale tutti dovranno tenere conto e cerchi di ricostituire un tessuto fecondo sul piano civile e culturale.

In fondo, la risposta al declino del paese non richiede soltanto un nuovo impulso alla ricerca scientifica, all’innovazione; ma anche una ripresa delle coscienze che ne è il presupposto e la parallela fioritura delle arti che ne rappresenta il logico corollario. La creatività è la matrice comune della spinta al progresso, e se viene compressa non può manifestarsi a comando dove è richiesta per arrestare la perdita di competitività. E’ una carica potente che va innescata operando in profondità sulle solide basi del passato per dare dinamismo al presente con lo sguardo proiettato sul futuro.

In questa prospettiva la ripresa dell’arte può costituire l’innesco, il lievito di creatività che oggi sembra mancare: sia al nostro paese, che vi ha sempre trovato la sua maggiore forza, sia alla vecchia Europa. E una stagione di rinnovata creazione artistica potrà dare l’impulso decisivo a una nuova rinascenza, nello slancio innovativo e nell’attività economica, nel progresso scientifico e nella crescita civile e culturale. Come nel Rinascimento.

Non ha detto Argan, e lo abbiamo riportato all’inizio, che attraverso l’arte si ha la certezza di concorrere a fare la civiltà o la storia? E che questa consapevolezza è alla base delle relazioni tra l’attività artistica in generale e le altre attività attraverso i citati nessi culturali d’influenza, di reazione, di combinazione, di tangenza, di filtrazione e via dicendo? Con i quali si possono avere inattesi recuperi da culture che tutto avrebbe fatto credere ormai tramontate?

I fenomeni artistici devono essere collegati da un fattore comune in modo da “fare sistema”, vale a dire mettersi in relazione, in un processo da alimentare con i fermenti culturali che agitano il corpo vivo della società. Non mancano i presupposti, e ad alcuni di essi abbiamo fatto ora cenno. Ecco, con il “sistema” prefigurato da Argan si darebbe vita a un movimento ancora più vasto in grado di rianimare la società, nel quale l’arte avrebbe un ruolo fondamentale. E se ne ha molto bisogno nella grave crisi che attraversa l’Italia e l’Europa, e che richiede una nuova spinta per risollevarsi e ripartire.

L’intensificarsi dei nessi culturali con l’instaurarsi di relazioni profonde e lungimiranti nei diversi campi dell’attività umana darebbe frutti copiosi, al livello di un nuovo mecenatismo.

E con un potere illuminato di questo tipo la convivenza dell’arte non sarebbe certo difficile.

Info

Il primo articolo sul tema è uscito, in questo sito, il 31 marzo 2013, con 6 immagini. Per il rapporto tra arte e potere (politico, religioso, spirituale) riferito a D’Annunzio, cfr. i nostri sei articoli usciti, in questo sito, il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, ciascuno con 6 immagini. In merito alle mostre citate nel testo, cfr. i nostri articoli in “cultura.abruzzoworld.com”: per la “Pittura civile fiamminga”  il 9 febbraio 2009, per “Il Potere e la Grazia” i due articoli  il 28, 29 gennaio 2010 e  per “Realismi socialisti” i tre articoli tutti alla data del 31 dicembre  2011; e i nostri articoli in questo sito per  le mostre su “Vermeeer”  tre il 14, 20, 27 novembre 2012, per “Deineka”  treil 20, 21, 22 gennaio 2013, per “Guttuso” due  il 25, 30 gennaio 2013. 

Foto 

Le immagini riguardano l’arte nei poteri dispotici del ‘900, comunismo, fascismo, nazismo, tema trattato nell’articolo precedente . In apertura, il pannello centrale in basso del “Polittico della Rivoluzione Fascista”, di Gerardo Dottori; seguono Aleksandr Deineka, “La difesa di Pietrogrado”, 1928, e  l’opera completa di Gerardo Dottori, “Polittico della Rivoluzione Fascista”, 1934;poi   Arthur Kampf, “30 gennaio 1933”, 1939,  e Isaak Brodskij, “La cerimonia di apertura del II Congresso della Terza Internazionale”, 1921-24; in chiusura Renato Guttuso, “I funerali di Togliatti”, 1972. Le immagini dell’opera di Dottori sono state riprese alla Gnam da Romano Maria Levante, che ha ripreso anche le opere di Deineka e Guttuso  alle rispettive mostre sopracitate. Si ringraziano i soggetti organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. 

Renato Guttuso, “I funerali di Togliatti”, 1972

Cina, incontro all’ambasciata, di scena il Tibet

di Romano Maria Levante

Incontro il 18 marzo 2013 all’ambasciata della Cina in via Bruxelles a Roma con l’ambasciatore Ding Wei in un momento speciale per le istituzioni cinesi. Si è conclusa la nuova sessione plenaria dell’Assemblea del Popolo Cinese, svoltasi dal  5 al 17 marzo 2013, in cui sono state prese importanti decisioni: l’elezione del  nuovo presidente della Repubblica e del nuovo premier  con i nuovi ministri  della Repubblica Popolare Cinese;  la riduzione del numero dei Ministeri e la loro riorganizzazione per migliorarne la funzionalità, vengono citate come esempio l’eliminazione del Ministero delle ferrovie e l’incorporazione nel Ministero per la salute della Commissione per la politica familiare.

L’ambasciatore Ding Wei in testa al tavolo dell’incontro con i giornalisti  

Nel giorno successivo alla chiusura della sessione, il primo pomeriggio del 18 marzo, intorno al grande tavolo i giornalisti hanno ascoltato e posto domande, l’ambasciatore ha dato le sue risposte mostrando la volontà di lanciare una serie di messaggi sul punto di vista cinese.

Ne citiamo soltanto alcuni di carattere generale senza entrare nei temi specifici, a parte quello che a nostro avviso è stato un momento centrale dell’incontro, la situazione del Tibet. “L’Oriente – ha detto – dà più valore alla collettività, l’Occidente ne dà di più all’individuo”.  In Cina affrontano il problema dell'”equilibrio tra ricchi e poveri e tra una zona e l’altra del paese. E’ difficile soddisfare tutti gli interessi”.

Passando al presente ha aggiunto che “il 2013 è un anno importante per risolvere molti conflitti sociali”. Inoltre ha manifestato “vivo apprezzamento per le virtù del nuovo Papa vicino ai bisognosi e aperto agli ultimi”, spera che ci siano “riforme e novità nella vita della Chiesa. Il Vaticano è uno dei pochi paesi senza rapporti diplomatici con la Cina”,  auspica un “miglioramento dei rapporti bilaterali, però non si deve interferire negli affari cinesi”.

Le risposte dell’ambasciatore cinese sul Tibet e l’economia

A una domanda di un giornalista del settore sulle previsioni turistiche della Cina, in particolare sulla possibilità di promuovere il turismo religioso verso il Tibet, ha risposto che ci sono “molti malintesi sul Tibet”.  Poi è entrato nelle polemiche in atto,  aggiungendo di voler “sfatare quanto si dice sull’oppressione del Tibet e sulle sue condizioni”. Negli ultimi 50 anni nella regione si è sviluppata cultura ed economia e la vita media è raddoppiata passando da 35 a 70 anni; il 95%  della popolazione era analfabeta, oggi il 98 % dei bambini va a scuola. Sono stati costruiti 70 mila chilometri di strade, vi sono 1700 chiese con 50.000 monaci. E’ una regione autonoma con tutti i diritti. “I problemi esistenti vengono affrontati”.

Queste indicazioni non ci sono parse sufficienti, allora abbiamo ricordato il Simposio sul Tibet all’Auditorium di Roma nel 2011, quando i relatori cinesi parlarono di tutto meno che dei diritti umani, e i relatori italiani li sfiorarono, affermando anzi che ci sono molti stereotipi diffusi da chi non è stato mai nel paese, mentre conoscendolo si ha un giudizio più sereno e positivo; ma allora perché, abbiamo chiesto, si moltiplicano le accuse sull’oppressione del popolo tibetano  con una intensità tale da farne un simbolo di come si possa annientare un’etnia antichissima e orgogliosa?

La risposta è stata che “non tutti sono disposti a ragionare”, per cui va apprezzato il giudizio espresso dagli italiani nel convegno del 2011.  “Gli attacchi più aspri – ribadisce – vengono da persone che non sono mai state in Tibet, e che sono ostili ai cinesi per motivi ideologici.  Visitando il Tibet  si ha un’impressione del tutto diversa dalla propaganda, dai diari di viaggio emerge la realtà vera”. Alla base degli attacchi c’è la preclusione ideologica verso il Partito comunista cinese, mentre “è molto cambiato e si è rinnovato profondamente, non è vero che non c’è democrazia”.

Abbiamo chiesto anche qual è la risposta della Cina dinanzi alla crisi economica  dell’Europa, grande importatore dalla “fabbrica del mondo” che riduce drasticamente gli acquisti; per compensare le minori esportazioni viene sviluppato il consumo interno e con quali ripercussioni di natura sociale? La risposta è stata affermativa, “l’aumento della domanda interna diviene la forza trainante nello sviluppo del paese”, non va dimenticato che la Cina è anche il maggiore importatore del mondo, non solo esportatore. L’export cinese è diminuito ma crescono i consumi, “con l’aumento del reddito si punta sempre più sulla domanda interna. Non diminuisce l’importanza dell’export,  ma si investe di più nelle infrastrutture, il pilastro della politica economica cinese”.

Altre risposte hanno riguardato il notevole aumento delle spese militari, superiore al 10 per cento, lo ha spiegato con l’inquietudine dei paesi vicini in un’area molto instabile; comunque la Cina “segue la strada dello sviluppo pacifico all’esterno. All’interno il maggiore impegno della nuova leadership, oltre che sui problemi dell’economia, è nella soluzione dei  conflitti sociali interni.

Non manca l’apprezzamento finale per l’Italia, grande esportatore in Cina e meta di crescenti flussi di visitatori cinesi, per il patrimonio di cultura, storia e arte e per il ruolo primario che ha in Europa.

La modernizzazione del Tibet, nella scuola 

L’immagine data dai cinesi del Tibet nel simposio del 2011

A questo punto siamo tornati a rileggerci la cronaca del Simposio sul Tibet del 20 maggio 2011  all’interno della “Settimana della cultura tibetana” nell’ambito dell’“Anno della cultura cinese in Italia”. Il Simposio si svolse due mesi prima dell’incontro del Dalai Lama  con Obama  e il duro richiamo del capo religioso sul rispetto dei diritti umani.  Il giorno precedente, all’inaugurazione della settimana sul Tibet, era intervenuto l’ambasciatore Ding Wei, lo stesso dell’incontro attuale.

Il vicepresidente del Tibet Duoji Zeren disse espressamente che il destino della società tibetana è stato sempre legato alla patria Cina, e parlò dei profondi mutamenti  negli ultimi 60 anni, sui quali si è ora soffermato l’ambasciatore: la vita è migliorata in tutti gli aspetti, la Cina promuove lo sviluppo in campo culturale, come per le discipline tibetologiche, e valorizza le antiche tradizioni.

Ma rimase deluso chi, come noi, si aspettava di vedere affrontato il rispetto deidiritti civili e umani dei tibetani, con la risposta alle accuse di brutale oppressione. Il governatore del Tibet in generale, e poi i relatori cinesi in dettaglio, hanno parlato dei problemi dell’ecologia, peculiari data la  collocazione del territorio a 4000 metri, sul tetto del mondo, con situazioni speciali nella flora e nella fauna. Nel commentare tale impostazione, ricordammo la vecchia barzelletta sul siciliano che nel denunciare l’insopportabile problema che affligge la sua regione, invitato a indicarlo, dice che è il… traffico. Si attendeva che rispondesse “la mafia”, come qui i “diritti umani” più che l’ecologia.

Per questo le analisi dei cinesi sui problemi ambientali, pur di per sé di indubbio interesse, furono offuscate, per così dire, dall’assenza di ogni considerazione sui problemi dei diritti umani: le ombre sul piano umanitario non facevano apprezzare le luci sul piano ambientale. “Dobbiamo prendere cura di ogni montagna, ogni fiume, ogni albero del Tibet”  ha affermato il  presidente del Tibet; non fu fatta analoga affermazione per ogni persona umana dell’etnia tibetana.  Tutta l’attenzione perché  il ciclo ecologico tibetano entri nel circolo virtuoso della salvaguardia naturale a livello mondiale. “Questa è la nostra priorità assoluta, la nostra popolazione avrà una vita ancora più felice e più tranquilla, e si sarà aperti agli scambi per far conoscere quello che è un vero “sangri là”, il paradiso”.

Come si fa a dirlo e a crederci se non si diradano le ombre cupe che invece lo descrivono come l’inferno per i diritti umani e l’identità dell’etnia tibetana?  I  relatori italiani  sfiorarono questi problemi cruciali con un approccio molto comprensivo  verso la Cina da loro ben conosciuta.

 Il nuovo ruolo del Tibet negli assetti geopolitici mondiali

Gianni De Michelis, da politico navigato, non ignorò il tema, ne accennò all’interno di un ragionamento complessivo sui diversi e mutati assetti geopolitici dopo la fine della guerra fredda, nei quali sono divenuti centrali per l’equilibrio globale la Cina e l’India che sono il cuore dell’Asia.  La regione del Tibet assume un nuovo ruolo,  paragonabile, pur nei mutamenti epocali, a quello di un millennio fa, quando era alla pari con l’impero cinese. E’ un ruolo decisivo, come quello del Kashmir nell’Asia meridionale. “I rapporti con la popolazione tibetana in questa regione autonoma della Cina vanno visti rispetto agli equilibri complessivi, considerando alcuni aspetti centrali”.

E qui l’ex ministro degli esteri di un’altra stagione politica è entrato nel vivo: “Non si può mettere in discussione la sua appartenenza al territorio della Repubblica popolare cinese, molti fattori geografici e storici vanno in questa direzione. Noi europei abbiamo situazioni analoghe verso le quali abbiamo adottato uno speciale approccio, come per l’Italia l’Alto Adige, per la Spagna i Paesi Baschi, per il Regno Unito l’Irlanda del Nord.”. Ma se va preso atto dell’esigenza di  ” riconoscere il Tibet territorio inalienabile e integrante della Cina” va altrettanto “riconosciuto il diritto delle popolazioni all’identità culturale, alla libertà religiosa, allo sviluppo territoriale”.

Per il ruolo centrale dell’area nell’equilibrio geopolitico vi è un interesse comune alla riduzione delle tensioni,  per cui si può sperare che “il riconoscimento dei diritti fondamentali avvenga in modo pacifico. Noi italiani possiamo indicare il modello dell’Alto Adige: tutela dell’integrità del territorio e riconoscimento alle autonomie delle popolazioni nel territorio suddetto. In Tibet si sono fatti passi avanti sul piano economico e sociale, si spera che altrettanto avvenga per i diritti civili”.

La modernizzazione del Tibet, nell’agricoltura

L’autonomia nel Tibet nel sistema normativo cinese

Entrò nel tema  dei diritti civili della popolazione nell’ambito della posizione delle minoranze l’avvocato Alessandro Picozzi,  parlando dell’autonomia della regione. Lo ha fatto per esperienza diretta, lo studio legale Picozzi-Morigi ha sedi a Shangai e a Nanchino, disse che sperava di aprire presto una sede nel Tibet.  La Cina, la cui popolazione è di 1 miliardo e 350 milioni, riconosce 56 gruppi etnici, il 9% minoranze: l’etnia tibetana ha 4,5 milioni di abitanti in un territorio vastissimo.

La Costituzione cinese  pone tutte le etnie sullo stesso piano, non solo non ammette discriminazioni ma garantisce l’aiuto dello Stato. Una  minoranza consistente può ottenere l’autonomia con propri poteri e organi, non si ammette la secessione, ma c’è libertà nella lingua e negli usi di ogni  etnia.

La legge del 31 maggio 1984 sulle autonomie regionali delle minoranze etniche ha modificato il testo del primo Congresso del popolo del 1954 con precise regole sull’autonomia territoriale e i poteri di autogoverno, l’amministrazione della legge e della giustizia e i rapporti tra le varie nazionalità e quelli tra Stato e territori autonomi come le Regioni. Le istituzioni sono a tre livelli: Regione, Prefettura, Distretti autonomi. L’autonomia del Tibet inizia nel 1965, dopo che fu concessa alla Mongolia interna a nord, al Xinjiang a ovest, al Guangx a sud, al Ningxia al confine con la Mongolia interna. Vi sono 5 Regioni, 30 prefetture e 122 distretti. Le minoranze autonome sono il 70% delle minoranze, il territorio autonomo è il 64% del continente cinese. Ai gruppi troppo piccoli per avere l’autonomia dei più grandi, possono essere concesse forme speciali più limitate.

Picozzi ha anche descritto i contenuti delle autonomie territoriali: danno diritto alla propria lingua, alla base della comunicazione sia personale che istituzionale: i provvedimenti dello Stato sono nella lingua locale. Il  sistema educativo, con al centro la scuola, è competenza delle autonomie locali, i libri di testo sono per lo più nella lingua della minoranza anche se si deve favorire la conoscenza della lingua ufficiale. L’autonomia normativa consente di emettere leggi e regolamenti anche in deroga a leggi nazionali; sempre, però, con la supervisione dello Stato. Vi è anche l”autonomia fiscale per le esenzioni, si può esentare da tributi statali, non fare nuove imposizioni locali.

In questo sistema, la Regione autonoma del Tibet ha agevolazioni fiscali per incentivare gli investimenti: l’imposta sul reddito delle imprese invece che del 25% è del 15% , i diritti per l’uso del territorio sono ridotti del 50%, vi è l’esenzione dai diritti doganali sui macchinari.

La lingua tibetana non solo è riconosciuta dal governo ufficialmente anche negli atti legali, insieme alla lingua cinese, il mandarino; ma nel1988 è stato insediato un comitato per promuoverla. Gli insegnanti di lingue sono 15 mila e 10 mila per il  tibetano: è una lingua protetta, in cui pubblicano  9 case editrici e 20 riviste cinesi. Nella scuola del Tibet la Cina ha investito, dalla “rivoluzione pacifica” del 1952, 22 miliardi di yuan, e gli studenti tibetani sono esentati dalle tasse scolastiche dal 2007. Vi sono 1237 istituti di insegnamento e 6 college universitari; si è proceduto negli ultimi anni a un programma di ristrutturazione e ammodernamento delle strutture scolastiche tibetane. Questi dati vanno raffrontati alla popolazione, 4,5 milioni di abitanti, all’incirca come il Lazio.

Per le infrastrutture l’opera “monstre”  è  lalinea Pechino-Llasa, completata nel 2006, “la ferrovia del cielo”, lunga 1000 chilometri, che ha rotto l’isolamento del Tibet..

Nel ricordare gli elementi sulla situazione del Tibet sotto il profilo dell’autonomia dobbiamo citare anche la risposta che ci diede al termine della sua relazione  l’avvocato Picozzi alla nostra domanda se aveva illustrato il “dover essere o l’essere”, e questo perché l’immagine del Tibet presso l’opinione pubblica internazionale sulle persecuzioni  e le sofferenze dei tibetani è  ben altra.

Riportiamo le sue parole testuali: “E’ l’essere, sono leggi che non restano sulla carta, vengono applicate. Gli occidentali dovrebbero visitare il Tibet per rendersi conto di persona che la realtà è molto diversa da quella che viene rappresentata”, come ci ha ripetuto l’ambasciatore. Alla nostra insistenza,  ricordando le distruzioni dei monasteri e altre accuse alla Cina, rispose: “E’ un portato della rivoluzione culturale e ha investito l’intera Cina, dopo la parola d’ordine di Mao ‘bombardate il quartiere generale’ che ha fatto scatenare le ‘guardie rosse’ nell’eliminazione di una intera a classe dirigente. Da lì è nata la contestazione e la voglia di ribaltare gli equilibri esistenti”.

Tibet antico e moderno, la vecchia tibetana con il cellulare

Per autonomia e ambiente l’esperienza dell’Alto Adige

L’altro relatore italiano, Riccardo Scartezzinidell’Università di Trento portò l’esperienza dell’Alto Adige facendo un parallelo con il Tibet, in primo luogo per i problemi assimilabili dell’ambiente naturale montano sul piano infrastrutturale ed economico, sociale e culturale.

Al riguardo ha detto che l’esperienza delle Alpi, anche nella valorizzazione dei saperi e identità locali, può essere utile ai tibetani: in particolare per evitare lo spopolamento della montagna in alta quota con sostegni economici, ad esempio micro investimenti gestiti localmente, progetti di sviluppo per comunità che stimolano la partecipazione, incentivi anche modesti per la tutela dei boschi, piccole strade di montagna per poter vivere in quota, servizi cooperativi di raccolta del latte, scuolabus ecc. Nelle alte quote, cruciali per l’equilibrio dell’ecosistema, ci sono le sentinelle ecologiche del pianeta,  perciò le minoranze etniche che svolgono questo ruolo vanno tutelate nelle loro esigenze mutevoli, in un processo per il quale le rispettive esperienze sono di reciproca utilità.

Poi ha sfiorato il tema dell’autonomia del Tibet parlando dell’esperienza dell’Alto Adige, affermando che “l’autonomia non va vista in senso statico, rispetto alla Costituzione e alle norme giuridiche, deve maturare nella popolazione”, con una crescita che faccia tesoro delle esperienze di autoformazione. “L’autonomia è una conquista, più che una concessione, evolve con la capacità delle comunità di crescere culturalmente ed economicamente, contano molto educazione e scuola”.

Tibet antico e moderno, lo storico Monastero tra i fuochi d’artificio

L'”essere” e il “dover essere”, l’invito a un chiarimento

Tutto qui ciò che è emerso nel Simposio del 2011 che, ripetiamo, è stato al centro della “Settimana della cultura tibetana” – insieme a una grande mostra fotografica e a uno spettacolo dell’Opera cinese – il tutto inquadrato nell'”Anno culturale italo-cinese” con il simbolo della gondola veneziana intrecciata a uno strumento musicale cinese.  E’ stata presentata dai relatori cinesi la realtà multiforme del Tibet – e a suo tempo ne abbiamo dato conto – soprattutto negli aspetti naturalistici ed ambientali, economici ed energetici, artistici e religiosi – mentre i problemi delle minoranze sono stati solo sfiorati, come si è visto, dai relatori italiani.

L’ambasciatore cinese in Italia, Ding Wei, nell’inaugurare la manifestazione del 2011, disse: “Il Tibet è una regione dove i cittadini di diverse etnie convivono serenamente, il popolo tibetano e quello degli Han sono in pace e in amicizia e sviluppano insieme la società e l’economia. Credo che grazie alle variegate attività organizzate per la ‘Settimana della cultura tibetana’, gli amici italiani potranno conoscere maggiormente il vero Tibet”. Infatti questo è avvenuto per i tanti aspetti analizzati a fondo con ricchezza di documentazione e di immagini, salvo che per i diritti umani.

Già allora l'”altro Tibet”, rispetto all’immagine presentata dall’ambasciatore, emerse nella denuncia della violazione dei diritti umani nella regione lanciata in quei giorni dal Dalai Lama nell’incontro con il presidente americano che sfidò platealmente il duro ammonimento cinese nonostante l’interesse degli USA a non irritare la grande potenza asiatica che detiene più di mille miliardi di dollari di Buoni del tesoro del paese, quindi potrebbe fare azioni fortemente destabilizzanti.

Alla fine dell’incontro il Dalai Lama rivelò: “Obama ha naturalmente manifestato l’inquietudine sui valori umani fondamentali, i diritti dell’uomo, la libertà religiosa. Ha espresso un’inquietudine sincera sulle sofferenze in Tibet e nelle altre zone”. Nessuna rettifica venne dalla Casa Bianca, il cui comunicato fu un impegno, oltre che un monito: “L’incontro sottolinea il sostegno vigoroso del presidente a favore del mantenimento dell’identità religiosa, culturale e linguistica del Tibet e la tutela dei diritti umani per i tibetani”. E’ datato 16 luglio 2011, il Convegno è del  20 maggio.

Da allora le denunce non sono mancate, pertanto anche prendendo atto doverosamente delle risposte dataci dall’ambasciatore nell’incontro attuale, non possiamo esimerci dal rinnovare l’invito che avanzammo nel commentare il Convegno da noi rievocato, le cui conclusioni furono così riassunte da un dirigente cinese per definire la fase storica vissuta ora dal Tibet : “Una nuova era in cui si mantiene l’identità etnica, religiosa, nazionale, e insieme lo sviluppo rapido, economico e sociale”.

Il nostro invito è rafforzato dalle parole dell’ambasciatore e anche dalla sua volontà, emersa chiaramente, di parlarne senza reticenza, prendendo lo spunto dalle domande postegli. Si tratta di far luce definitivamente su una materia nella quale non ci si può trincerare dietro la non ingerenza negli affari interni, né l’ambasciatore ha mostrato di volerlo fare. E allora perché non fare un passo ulteriore? Con un incontro, nella forma preferita, dedicato a questo tema , per fornire notizie esaurienti supportate da adeguate prove e documentazione, sulla situazione effettiva. Cioè sull’“essere”nella realtà viva del territorio  rispetto al “dover essere” delle astrazioni normative.

Non ci sembra di chiedere troppo, proprio perché abbiamo fiducia nelle assicurazioni fornite. Soltanto – e lo abbiamo detto direttamente all’ambasciatore – dinanzi alle reiterate denunce ci sembra sia interesse della grande nazione Cina diradare i dubbi e ripristinare la verità, sempre che si tratti di quella presentata. E lo si può fare soltanto con un’informativa vasta, esauriente e veritiera.

Info

Per il Simposio sul Tibet citato, cfr. i nostri due articoli nel sito cultura.abruzzoworld.com, entrambi il 21 luglio 2011, mentre sull’Anno della cultura cinese in Italia cfr. il nostro articolo nel sito ora indicato il 26 ottobre 2010. Per la mostra “L’Aquila e il Dragone”  tenuta a Palazzo Venezia in tale ambito, cfr. i  nostri due articoli in notizie.antika.it  il 4-7 febbraio  2011.

Foto

Le immagini sono state riprese tutte da Romano Maria Levante, quelle in apertura e chiusura nel corso della conferenza stampa all’ambasciata cinese il 18 marzo 2013,  quelle intermedie alla Mostra fotografica sul Tbet che ha aperto la “Settimana della cultura tibetana” il 19 maggio 2011. In apertura, l’ambasciatore Ding Wei in testa al tavolo dell’incontro con i giornalisti; seguono due immagini  del Tibet che si ammoderna, nella scuola e nell’agricoltura, e due con il Tibet antico dinanzi alla modernità, nella vecchia col cellulare e nello storico Monastero tra i fuochi d’artificio; in chiusura il logo dell’incontro all’ambasciata.   

Il logo dell’incontro all’ambasciata
 

Arte e potere, 1. Dispotico o illuminato

di Romano Maria Levante

Abbiamo parlato dei rapporti tra arte e potere, nelle sue varie forme – politico, religioso, spirituale –   con riferimento a Gabriele dAnnunzio nel 150° della nascita. Ora intendiamo approfondire il tema in termini generali, dopo le mostre romane di Aleksandr Deineka e dei “Realismi socialisti” al Palazzo Esposizioni, da noi commentate a suo tempo con sei ampi articoli, che ci hanno fatto conoscere la sottomissione dell’arte alla propaganda del regime; anche se in Deineka c’era un’esaltazione del lavoro e della persona come valori universali pur se dal forte contenuto ideologico. Prendendo lo spunto da queste mostre trattiamo i rapporti tra arte e potere, ricostruendo la loro convivenza nel tempo per capire se e come l’opera degli artisti ne è condizionata o addirittura  compromessa.

“Libro dei morti dello scriba Hunefer”, 2400 a. C.,  pittura

L’arte nella società

Il binomio arte e potere fa parte dell’intreccio di rapporti che caratterizzano le società in ogni latitudine. Tra loro vi sono interrelazioni che ne qualificano la convivenza nelle varie epoche e nei singoli paesi e si presentano in modo mutevole nel tempo e nello spazio. D’altra parte non potrebbe essere altrimenti, dato che l’arte è anche il prodotto delle situazioni sociali, economiche e politiche sulle quali il potere ha un’incidenza diretta oltre ad agire indirettamente sulle loro trasformazioni.

Ne parla Giulio Carlo Argan nel suo saggio del 1969, “La storia dell’arte”, considerato un vero e proprio manifesto del grande critico, pubblicato sul primo numero della rivista “Storia dell’arte” da lui fondata: “La nostra cultura ha sostituito il concetto di arte con la nozione dell’intera serie fenomenica dell’arte: esiste dunque un piano sul quale tutti i fenomeni che chiamiamo artistici debbono apparirci collegati tra loro da un fattore comune e formare un sistema”. Pertanto occorre valutare non “un tipo di opera ma un tipo di processo, un modo di mettersi in relazione. In altre parole il dinamismo o la dialettica interna di una situazione culturale nella quale l’opera… si lega ad un contesto… In ogni oggetto artistico si riconosce facilmente un sedimento di nozioni che l’artista ha in comune con la società di cui fa parte”.

Argan indica “una lunga lista di nessi culturali: d’influenza, di reazione, di combinazione, di tangenza, di filtrazione e via dicendo”, tale che “accanto a sorprendenti anticipazioni, vi siano inattesi recuperi da culture che tutto avrebbe fatto credere ormai tramontate. Evidentemente la cultura artistica non si sviluppa secondo il diagramma paradigmatico di altre discipline, per le quali è essenziale la continuità ascendente del progresso”. Viene spiegato inoltre che “nell’ambito della civiltà europea, classico-cristiana, l’arte ha certamente avuto uno sviluppo storico corrispondente alla struttura storicistica di quella civiltà stessa. Si è fatta l’arte con l’intenzione e la consapevolezza di fare arte e con la certezza di concorrere, facendo arte, a fare la civiltà o la storia. L’intenzionalità e la consapevolezza delle funzione storica dell’arte sono indubbiamente i fattori principali della relazione che si stabilisce tra i fatti artistici di uno stesso periodo, tra i successivi periodi, tra l’attività artistica in generale e le altre attività dello stesso sistema culturale”.

Da queste chiare enunciazioni si può avvertire immediatamente l’incidenza che ha il modo di esplicarsi del potere sul fenomeno artistico come processo, al di là di isolate manifestazioni individuali. Perché il potere agisce sulla civiltà, sulla storia, su quanto concorre a formare il sistema che ne è l’espressione, sui nessi culturali come sopra definiti, d’influenza, di reazione, di combinazione, di tangenza, di filtrazione. Di qui le anticipazioni favorite dalle aperture e i recuperi resi possibili dall’allentarsi di vincoli preesistenti che il potere può aver costituito. E anche il fecondo contributo dell’arte alla civiltà e alla storia in un rapporto intenzionale e consapevole.

Quando si parla di potere ci si deve riferire a un’accezione ampia del termine, comprendendovi il potere delle forze economiche e delle aggregazioni sociali in grado di orientare le spinte culturali in un verso o nell’altro e quindi di influenzare indirettamente la produzione artistica. Ma ancora di più si deve prestare attenzione al potere che esercita la sua pressione direttamente sull’arte come strumento da utilizzare ai propri fini, e nei casi estremi da asservire.

Per meglio definire queste forme di pressione si possono citare diverse situazioni, nel tempo e nei contenuti, e gli effetti che ne sono derivati.

“Sarcofago di Maherpra”, 1500 a. C., pittura 

L’arte e il potere nell’antichità

Il primo riferimento è alla lontana arte egizia sviluppatasi sotto il potere assoluto dei Faraoni per più di tremila anni prima di Cristo. Ebbene, per questo lunghissimo periodo l’espressione artistica è rimasta immutabile e, caso forse unico nella storia umana, non si è evoluta restando legata ai canoni iniziali. Nessuno spazio alla creatività, anzi il valore dell’opera risiedeva nella sua conformità ai canoni prefissati. Che dal canto loro non lasciavano margini, essendo definiti con una precisione minuziosa: nella figura la fissità frontale del busto e degli occhi, l’immancabile visione di profilo nel viso e nelle braccia, il tutto con proporzioni fisse; nella scultura la forma eretta o seduta in posizioni e posture prestabilite anch’esse legate a canoni precisi. Mettendo a confronto dipinti o sculture a distanza di un millennio, dall’Antico Regno della IV dinastia, al Nuovo Regno della XVIII  dinastia, posizioni  e posture non mutano. 

Può darsi che in parte queste raffigurazioni esprimessero il rispetto che i soggetti rappresentati dovevano all’osservatore, sempre della casta dominante. Ma è ancora più vero che l’immutabilità della rappresentazione era di per sé legata a una precisa concezione del rapporto tra arte e potere. L’arte doveva esprimere l’immodificabilità nel tempo e nello spazio che il potere riaffermava costantemente perché non fosse messo in discussione il dominio assoluto del Faraone, in un regime dove al dispotismo del sovrano, capo religioso e dio in terra e poi nell’al di là, si saldava una casta religiosa altrettanto dispotica. Neanche a parlarne di libertà personale e di visioni individuali in un sistema arcaico intento a perpetuarsi nel tempo, e lo ha fatto per tre millenni senza nulla mutare, per cui l’arte diventava veicolo di un messaggio politico di potere e di controllo delle coscienze. Soltanto al di fuori dell’arte aulica anche nel rigido mondo egizio poteva spuntare qualche rara apertura nell’arte popolare al di fuori dei canoni imposti dalle rappresentazioni ufficiali.

Questa concezione che annulla la storia perché il potere non si affida alla celebrazione delle conquiste ma all’assoluta immodificabilità delle condizioni iniziali ha caratterizzato altre civiltà dell’Oriente e non solo quella egizia.

In Occidente si è avuto il fenomeno opposto: al consolidamento e alla perpetuazione del potere è stata funzionale la narrazione delle vicende storiche positive celebrate attraverso l’arte. E qui si deve accennare all’arte greca e soprattutto all’arte romana, alla celebrazione dei fatti epici e dei grandi personaggi con i poemi, gli archi trionfali e le colonne celebrative, i templi, le figure di condottieri immortalati per le loro imprese, più che per il potere trasmesso su basi dinastiche o di altro tipo. Le esemplificazioni non mancano, dalle omeriche Iliade e Odissea all’Eneide di Virgilio, con le loro rappresentazioni plastiche, per arrivare alla Colonna Traiana, con l’inanellarsi del racconto storico lungo le fasce del bassorilievo.

Il rapporto del potere con l’arte si esprimeva, appunto, nella valorizzazione dell’opera degli artisti in funzione di superiori esigenze apologetiche. Alla figura di Mecenate si fa risalire la creazione di un vero e proprio sistema celebrativo dell’ideologia augustea all’interno del principato, con la partecipazione dei maggiori intellettuali e artisti nell’elaborarla oltre che nel diffonderla.

Arte e potere nei dispotismi del ‘900

Ma torniamo alle rappresentazioni emblematiche dell’asservimento dell’arte al potere in senso stretto, passando a tempi recenti. E a questo riguardo nulla può essere così eloquente e di ammonimento come il nazismo  e la posizione di Hitler, che incarna il potere ottuso e assoluto. Nel 1935, al Congresso sulla cultura, lanciava l’avvertimento che “l’arte deve proclamare imponenza e bellezza e quindi rappresentare purezza e benessere”, un programma non ispirato di certo a criteri estetici e culturali, a stare alla cupa premessa che il regime nazionalsocialista avrebbe innovato e migliorato in poco tempo i risultati “degli ultimi anni del regime giudaico”. Dopo le parole, purtroppo i fatti: ottobre 1936, fu chiusa la Sezione di arte moderna della Galleria nazionale di Berlino e istituito un tribunale per il censimento e l’epurazione dell’arte definita “degenerata”. Poi, nel 1937, messe all’indice 16.000 opere ed epurate dai musei tedeschi 6.000 di esse, fu organizzata a luglio a Monaco la mostra “Entartete Kunst”, “Arte degenerata”, esponendo senza cornici 650 opere confiscate, di 110 autori quali Beckmann e Chagall, Dix e Grosz, Kandinsky e Kirchner, Klee e Munch, mentre Picasso veniva chiamato “il più degenerato degli artisti” (ed era l’anno di “Guernica”!).      

Josef Tharak, “Cameratismo”, 1937, scultura

In contemporanea, nella stessa sede, fu aperta la “Prima grande esposizione dell’arte tedesca”, tra colonne imponenti, introdotta dalla gigantesca scultura alta 7 metri, “Cameratismo”, di Josef Tharak. Con la superiore purezza delle opere classicheggianti ed apologetiche avrebbe dovuto schiacciare l'”arte degenerata” di espressionisti e cubisti, dadaisti, astrattisti e primitivi, esposti al ludibrio popolare con raggruppamenti tematici all’insegna del giudaismo, del bolscevismo e di altre falsificazioni, slogan e intitolazioni irridenti, fino ad affiancarli ai disegni di internati nelle case di cura psichiatriche chiamando “malati mentali” gli artisti d’avanguardia. Ebbene, con i suoi 400.000 visitatori la mostra dell’arte tedesca fu surclassata dalla straordinaria affluenza di pubblico alla mostra dell’arte “degenerata”, 2 milioni di persone che con le lunghe file dinanzi alla “Casa dell’arte” costrinsero a prolungarne l’apertura.

Nell’inaugurazione del 19 luglio, Hitler aveva tuonato il suo proclama: “La Germania nazionalsocialista vuole di nuovo un”arte tedesca’, ed essa deve essere e sarà, come tutti i valori creativi di un popolo, un’arte eterna. Se invece fosse sprovvista di un tale valore eterno per il nostro popolo, allora già oggi sarebbe priva di un valore superiore… Perché l’arte non trova fondamento nel tempo, ma in un popolo. L’artista perciò non deve innalzare un monumento al suo tempo, ma al suo popolo. Perché il tempo è qualcosa di mutevole, gli anni sopravvengono e passano. Ciò che vivesse solo in grazia di una determinata epoca dovrebbe decadere con essa”.

Chi sta pensando di trovare al massimo una somiglianza con la fissità e immutabilità dei Faraoni e lo considera ancora un punto di vista come un altro, nonostante la premessa del 1935, deve ricredersi, nel seguito del proclama c’è qualcosa di ben peggiore: “Sappiamo dalla storia del nostro popolo che esso si compone di un certo numero di razze più o meno differenziate, che nel corso dei secoli, sotto l’influsso plasmante di un nucleo razziale dominante, hanno prodotto quella mescolanza che oggi noi abbiamo dinanzi agli occhi appunto nel nostro popolo. Questa forza che un tempo plasmò il nostro popolo, che perciò tuttora agisce, risiede nella stessa umanità ariana che noi riconosciamo non solo quale depositaria della nostra cultura propria, ma anche delle antiche culture che ci hanno preceduto”. Fino all’escalation conclusiva: “Tuttavia noi, che viviamo nel popolo tedesco il risultato finale in questo graduale sviluppo storico, auspichiamo un’arte che anche al suo interno tenga sempre più conto del processo di unificazione di questa compagine razziale e di conseguenza assuma un indirizzo organico ed unitario”.

Con un brivido si scopre che, sotto l’ipocrisia del termine “auspichiamo” riferito all’eufemistico “indirizzo organico ed unitario”, nell’orribile razzismo che viene proclamato con la teorizzazione della superiore “umanità ariana” si profila la “soluzione finale” per l’arte, avviata con l’olocausto delle 6.000 opere soprattutto di stile espressionista confiscate, disperse e in parte bruciate sul rogo con la qualifica di “degenerate” essendo molte di esse di artisti ebrei; che ha anticipato, nel tempo e nell’ossessiva matrice ideologica, il ben più tragico e sconvolgente crimine dello spaventoso olocausto nei campi di sterminio.

Nello stesso periodo il fascismo in Italia ha cercato di diffondere le immagini di romanità e di forza date da un’arte soggiogata dallo stile littorio come strumento di propaganda e specchio della volontà di potenza; un’arte, però, non completamente degradata e in certi casi, come il Foro italico e l’E 42 per l’architettura e le opere di Sironi per la pittura, dotata di un’indubbia capacità evocativa e di un’intrinseca validità che ha resistito alla caduta del regime.

Mario Sironi, “Il soldato  e il lavoratore”, 1940

Della situazione sotto l’altro grande potere dispotico del novecento europeo insieme al nazismo e al fascismo – il comunismo in Unione sovietica – è interessante evidenziare alcuni connotati del tutto particolari che esprimono la forza incoercibile dell’arte. Il “Realismo socialista” – egregiamente rievocato nell’illustrazione della mostra al Vittoriano, con tanti dipinti monumentali – fu la cappa soffocante, il canone al quale nella Russia comunista l’arte dovette assoggettarsi diventando strumento celebrativo del regime: al Congresso degli scrittori nel 1934 Zhdanov impose alle arti un carattere partitico, un contenuto socialista e radici nazionali, con direttive che avrebbero dovuto trasformare gli artisti in propagandisti di Stato. Ma, al di là dell’adesione forzata, non sempre gli artisti si assoggettarono, ed emersero fulgidi esempi di coraggio e dedizione all’arte.

In campo letterario Pasternak fece uscire in Italia la sua opera, rifiutata dall’Unione degli scrittori russi come “libello” antisovietico, richiudendosi poi nel suo isolamento tra le persecuzioni del potere, Solgenitsin pagò di persona la sua protesta contro il potere dispotico con l’internamento nei gulag di cui denunciò tutti gli orrori, Sinjavskij e Daniel si opposero con fermezza al “Realismo socialista” difendendo strenuamente in tribunale l’autonomia dell’artista, e dell’opera d’arte, rispetto al potere e scontarono il carcere, fino a Evtushenko, il poeta del dissenso e poi del disgelo.

In campo figurativo, nel dilagare di opere del regime rigurgitanti di vigorosi eroi di guerra e operai, contadini e minatori, fino agli astronauti, tutti  con i volti assorti e lo sguardo rivolto lontano verso un orizzonte luminoso, emergevano immagini di ispirazione autentica, espressione di arte vera.

Ne ha parlato Astemio Serri, nel portare alla luce l’iceberg di creatività artistica rimasto vivo sotto quello che chiama “il contenitore del ‘Realismo socialista‘”, nel commento alla mostra “L’arte nell’URSS” organizzata a Bologna nel dicembre 2000: “Certo la Rivoluzione aveva trascinato nella discarica della storia tutto un mondo, aveva cambiato radicalmente tutto un popolo, ma era evidente anche da noi che non aveva distrutto del tutto la grande anima russa, le sue tradizioni, le sue capacità artistiche… tutto quello che sapevo, vedevo erano enormi opere celebrative, statuoni dei grandi del comunismo, manifesti di propaganda. Il mio occhio si infrangeva inesorabilmente contro il muro della denominazione: ‘Realismo socialista’. Ma dalle pieghe bronzee dei cappotti di Lenin, dalle mani dei minatori, dai Kalashnikov dei combattenti, dalle bocche dei piccoli Pionieri traeva forza la mia curiosità: chi c’era dietro quel loro essere così vive anche se immobilizzate dalle coordinate statali? Di chi erano le mani che servendosi di pennelli e spatole o plasmando la creta dei bozzetti, che manovrando gli strumenti dell’arte riuscivano a farlo in maniera tale da rendere artisticamente interessanti anche i proclami di quell’ideologia che, la Storia dimostrò poi, era destinata ad implodere e crollare sotto il peso dei propri fallimenti?”

Erano le mani degli artisti, e la scoperta anche delle “opere che gli artisti sovietici dipingevano per sé, ha permesso di far capire come quegli stessi autori che lavoravano per lo Stato fossero in realtà artisti completi, artisti veri, la cui sensibilità li rendeva simili all’idea che noi abbiamo di artista”.

Dalle opere emergono figure di “artisti certamente, quasi sempre sotto controllo, costretti da un regime ma pur sempre artisti e quindi capaci, nel privato che sveliamo, di essere liberi come l’arte, che non può essere di destra o di sinistra, ma solo arte, libera come solo l’arte sa essere”

Samuil Adivankin, “Uno dei nostri eroi (lavoratore d’assalto)”, 1930

L’arte e il potere illuminato: il mecenatismo

Ma al di là delle aberrazioni, ammonitrici per evidenziare fino a che punto il potere può colpire l’arte, va sottolineato che quando è stato esercitato senza dispotismo, pur se con mano ferma, non ha avuto effetti di compressione e di depauperamento dell’espressione artistica oltre il normale riflesso fisiologico.

Ricollegandoci a Mecenate, citato prima di descrivere le degenerazioni naziste e comuniste nel campo dell’arte, possiamo dire che il mecenatismo fu attuato su larga scala nel Medioevo da Carlo Magno, ispirandosi ai fasti augustei. La sua Corte divenne il luogo d’incontro di artisti e letterati d’ogni nazionalità, impegnati a promuovere la rinascita dei valori dell’antichità nelle lettere e nelle arti in modo da far emergere il ruolo che si era attribuito di erede degli antichi imperatori d’occidente. Le Corti furono così, anche nei secoli successivi, veri e propri centri di produzione artistica, intorno alla figura del sovrano che ne veniva nobilitata. L’arte era utilizzata orientandone contenuti e forme espressive alle superiori esigenze di dominio. Soprattutto nelle Corti europee del trecento era diretta emanazione del potere.

Altre forme di potere si aggiungeranno al potere imperiale e feudale: il potere ecclesiastico e della nobiltà; il potere delle confraternite e della borghesia. E il loro impatto sull’espressione artistica sarà molto diverso. L’artista avrà benefici variabili, da compensi modesti per una vita agiata e rispettata a gratificazioni notevoli, e la sua creatività potrà godere dei necessari margini di libertà per dar vita a vere opere d’arte senza vincoli paralizzanti e comunque senza imposizioni assolute.

L’Ariosto, che è stato in diverse Corti fino a quella di papa Leone X, nella prima delle “Satire” descrive con versi icastici i limiti entro i quali l’artista si mobilitava per la gloria del potente. Prima la disponibilità: “Io, stando qui, farò con chiara tromba/ il suo nome sonar forse tanto alto/ che tanto mai non si levò colomba”; poi l’orgogliosa riaffermazione della propria dignità: se “mi debba incatenare, schiavo tenermi/…non gli lasciate avere questa credenza:/ ditegli che più tosto ch’esser servo/ torrò la povertade in pazienza”; infine la sdegnata ribellione: “Or conchiudendo, dico che, se ‘l sacro/ Cardinal comprato avermi stima/ con li suoi doni, non mi è acerbo ed acro/ renderli, e tòr la libertà mia prima”.

Il mecenatismo della Chiesa

Si entra così nel potere della Chiesa sull’arte, un mecenatismo che ha prodotto l’universo di capolavori che tutti ammirano:  una committenza illuminata ma esigente e ben presente, spesso con delle specifiche precise e comunque con un controllo penetrante che fosse rispettato il messaggio da trasmettere, prima di ammettere l’opera nelle Chiese o nei sacri palazzi. Sono ben noti i “rifiuti” che dovette subire Caravaggio, per citare il più bersagliato, fino a rifacimenti completi dell’opera quando il suo realismo sublime portava a risultati ritenuti inaccettabili, come per i modelli utilizzati o le positure e altri aspetti della raffigurazione. “San Matteo e l’Angelo” dovette ridipingerlo del tutto perchè le gambe in vista del santo e l’angelo che gli teneva la mano nella scrittura gli toglievano la maestosità richiesta rendendolo simile  a un popolano; nel rifacimento tutto cambia, ma resta l’impronta inconfondibile di  Caravaggio.

Nel Cristianesimo il ruolo dell’arte è nella venerazione della divinità all’interno di case di Dio all’altezza della sua onnipotenza, dalle imponenti cattedrali alle chiesette di montagna, tutte impreziosite da dipinti, affreschi, statue: dalla crocifissione alla vita di Cristo, dalla Madonna alla Sacra famiglia, dalle figure dei Santi ai miracoli in una sconfinata produzione di opere. Le immagini dipinte e scolpite dovevano diffondere la conoscenza della dottrina cristiana e della storia biblica a plebi analfabete, con un ruolo quasi catechistico.

Tuttavia, il mecenatismo pontificio – che si è avvalso dei più grandi artisti nella pittura, scultura, architettura, fino all’apoteosi michelangiolesca – aveva anche e forse soprattutto lo scopo di rafforzare e imporre, con la suggestione e la grandiosità dell’espressione artistica, il potere della Chiesa e del papato per rivaleggiare con l’impero anche in questo campo; con l’arte sacra emanazione di un potere da riaffermare, oltre che di una fede da trasmettere e diffondere. Il risultato è stato, comunque, quello delineato da Argan, un contributo consapevole dell’arte alla civiltà e alla storia di cui il Cristianesimo è stato protagonista in Occidente, in particolare in Europa.

Anche la Chiesa d’Oriente ha raggiunto il culmine nella promozione del divino con le icone bizantine soprattutto nelle iconostasi, oggetti e luoghi di culto dove il potere religioso si unisce a quello politico nell’uso dell’arte mista a regalità e fede al fine di perpetuare la propria dominanza.La mostra a Palazzo Venezia alla fine del 2009, “Il Potere e la Grazia”, è stata illuminante nel testimoniare con le opere d’arte le molteplici  forme in cui tutto ciò si è manifestato nella storia della Chiesa, dedicando apposite sezioni alle singole fasi. Una di queste era dedicata ai “Cavalieri di Dio, Santi Regnanti  e Patroni d’Europa”, la quint’essenza del potere anche se commisto alla Grazia. 

Dopo questo accenno, forzatamente sommario, al tema vastissimo dell’arte legata alla Chiesa, ci proponiamo di tornare prossimamente sui rapporti dell’arte con i poteri dei nostri tempi, fino al potere democratico in una visione costruttiva per il futuro.  

Info

Il secondo e ultimo articolo sul tema uscirà, in questo sito, il 2 aprile 2013.  Per il rapporto tra arte e potere (politico, religioso, spirituale) riferito a D’Annunzio, cfr. i nostri sei articoli, usciti in questo sito, il 12, 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013, ciascuno con 6 immagini. In merito alle mostre citate nel testo, cfr. i nostri articoli in “cultura.abruzzoworld.com”: per “Il Potere e la Grazia” i due articoli  il 28, 29 gennaio 2010 e  per “Realismi socialisti” i tre articoli alla stessa data del 31 dicembre  2011; e i nostri tre articoli in questo sito per “Deineka” il 20, 21, 22 gennaio 2013. 

Foto 

In apertura, pittura dal “Libro dei morti dello scriba Hunefer”, 2400 a. C; seguono pittura dal ““Sarcofago di Maherpra”, 1500 a. C. e scultura di Josef Tharak, “Cameratismo”, 1937, poi Mario Sironi, “Il soldato  e il lavoratore”, 1940, e Samuil Adivankin, “Uno dei nostri eroi (lavoratore d’assalto)”, 1930;  in chiusura Caravaggio, “San Matteo e l’Angelo”, 1602, a sin. la prima versione rifiutata dal committente, a dx quella definitiva.  

Caravaggio, “San Matteo e l’Angelo”, 1602, a sin. la prima versione rifiutata dal committente, a dx quella definitiva

De Sica, le cinque vite del grande artista, all’Ara Pacis

di Romano Maria Levante

La mostra “Tutti De Sica”, al Museo dell’Ara Pacis a Roma, dall‘8 febbraio al 28 aprile 2013, presenta con dovizia di documenti e immagini, cimeli e fotografie, le cinque vite del grande artista: cantante e attore di rivista, attore di prosa e attore di cinema, soprattutto regista super premiato. Ne fa conoscere lati sconosciuti ai più e punta i riflettori sui tanti aspetti della sua arte che vengono approfonditi con molta attenzione dai curatori. Si sente la presenza dei figli Christian, Emi, Manuel e dell’associazione Amici di Vittorio De Sica che l’ha organizzata insieme a Zètema Progetto Cultura. E’ stata promossa da Roma Capitale con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

A Londra, anni ’50

Non è una mostra meramente celebrativa, ricostruisce una vita e una storia che ha attraversato diverse fasi del costume del Paese. Per l’altro campione nazionale Alberto Sordi – la cui mostra si svolge quasi in parallelo dal 15 febbraio al 31 marzo al Vittoriano – si è trattato della “storia di un italiano”, dai tempi confusi della fine della guerra a quelli del boom e degli anni di piombo, attraversando il carattere nostrano, più propriamente romano; per De Sica il discorso è più complesso, anche lui ha lasciato il segno sui momenti cruciali incrociando Sordi in molti film che li hanno visti insieme, ma ha coperto anche il periodo precedente, dagli anni ’30 e dall’anteguerra, e si è espresso con una gamma di mezzi molto ampia, da attore di varietà, prosa e cinema, alla regia.

Di qui le cinque vite, e le tante scoperte che offre la mostra al visitatore. La prima è che fu il primo divo italiano moderno dello schermo, al livello delle stelle americane dominanti dopo la crisi del cinema italiano degli anni ’20. Approda al cinema dal successo come cantante e attore di rivista, in ruoli leggeri, che riprenderà tra gli anni ’50 e ’60 dando vita a personaggi gustosi della commedia all’italiana.  Ma già alla fine della guerra la sua nuova vita di regista lo fa balzare alla ribalta con i capolavori del neorealismo che gli valsero due Oscar, reiterati molti anni dopo in due film  che con  toni e stili molto diversi  tornano sui danni non meno gravi del conflitto nella vita delle persone.

Cinque vite anche considerando i mezzi espressivi, teatro e stampa, cinema, radio e televisione, che lui stesso citava dicendo “io sono nato alla vita artistica almeno cinque volte”, in tutte lasciando un segno profondo con un’impronta prevalente: quella del grande attore che emergeva anche nella sua attività di regista quando – sia con i protagonisti presi dalla strada nel neorealismo, sia con gli attori professionisti – mimava le scene perché seguissero il più possibile la sua visione interpretativa.

A teatro, cantante e attore

In questo modo plasmava gli interpreti – nel neorealismo facendoli restare se stessi –  identificandosi nei personaggi anche da regista; era stata questa la molla che lo aveva spinto a passare dall’altra parte della macchina da presa, essere tutti i personaggi e recitarli senza risolversi in uno.

Scrive Gian Luca Farinelli, direttore della Fondazione Cineteca di Bologna, a proposito della sua capacità di passare da un ruolo all’altro, da un mezzo all’altro: “Ma tra i tanti esiste un vero De Sica? Pirandello ha introdotto la modernità e le inquietudini del Novecento nel teatro e nella cultura italiana. In un gioco di doppi e travestimenti, che lo ha accompagnato per tutta la carriera, De Sica è stato un grande interprete delle ossessioni pirandelliane, che proprio all’inizio degli anni Trenta conobbero un’ampia diffusione popolare, attraverso il teatro e il cinema”.

Questo “gioco di doppi e travestimenti” si rivive nelle 12 sezioni della mostra, collocate nei 4 vastissimi saloni del Museo dell’Ara Pacis, ai quali si accede al piano inferiore dopo aver attraversato la discussa “teca” di Mayer e ammirato lo splendore dello straordinario monumento augusteo.  Per la prima volta si è aperto l’archivio di famiglia, in particolare di Giuditta Rissone ed Emi De Sica, e vengono esposti documenti e manifesti originali dei film accompagnati da una copiosissima documentazione fotografica, oltre 400 immagini: sono pezzi unici che fanno rivivere la stessa creazione dei suoi film, dai provini alle immagini sul set e fuori. 

Lo smoking e il baule utilizzato nei viaggi

Molti gli “oggetti” evocativi dei suoi più celebri successi cinematografici, come i costumi e i “simboli”, dalla celebre bicicletta del capolavoro del neorealismo alle divise di “Pane, amore e…”, fino alla statuetta dell’Oscar; e i cimeli di natura personale, dalla valigetta “24 ore” nera tipo coccodrillo al baule porta-abiti, fino al suo smoking inappuntabile.

Si passa da una sezione all’altra come tra i diversi “quadri” di uno spettacolo teatrale,  la vita e l’arte in 12 atti: ognuno è introdotto da una sintetica nota illustrativa, oltre a documenti e foto, manifesti e scritti, oggetti e cimeli; la “scena” è ravvivata da video e veri schermi cinematografici che trasmettono brani dei suoi film senza interruzione. E’ un’immersione totale nel clima dell’epoca attraversata dalle creazioni, così rievocate, di un artista di grande fascino e insuperata maestria.

Per i grandi film rimasti nella memoria collettiva, tra i 157 girati tra gli anni ’20 e il 1974, più di qualunque altro in Italia – dato che Totò si è fermato a 107 e Sordi è arrivato a 151 – oltre ai grandi manifesti sono esposti i ritagli di stampa e moltissime foto di scena in cui si vede all’opera anche come regista mentre mima l’interpretazione che si attende per meglio incarnare il personaggio.

Cercheremo di darne il senso ripercorrendo le sue cinque vite soffermandoci soprattutto su quelle più vicine a noi e all’immaginario collettivo, legate al grande cinema che lo ha visto dominato

Fotogrammi di “Ladri di Biciclette” 

Le vite  meno vicine a noi: cantante e attore di teatro

Con la prima vita venne il successo nel grande pubblico. Già a 16 anni, nel 1917, appare nel film “Processo Clémenceau” di De Antoni,  poi a teatro nel 1923 nella compagnia di Tatiana Pavlova. Torna al cinema nel  1927-28  in “La bellezza del mondo”  e “La compagnia dei matti” di Almirante, ma sarà il teatro con Sergio Tofano e Giuditta Rissone, a lanciarlo definitivamente.

Arriva la grande depressione seguita al crollo del ’29, in più il nuovo cinema sonoro minaccia il teatro, gli spettacoli pur di alto livello degli “Artisti associati” vanno deserti, finché non irrompe “Za Bum” con Vittorio de Sica che oltre a recitare canta e balla nella sua compagnia di Mario Mattoli. Va in scena “Lucciole  della città”, dal film di Chaplin “Luci della città”, sugli schermi in quel periodo. In mostra immagini delle scene e dei ritagli di giornale raccolti dal padre Umberto, ne ritroveremo il nome nel titolo del grande film che chiuse la fase del neorealismo : “Il successo fu clamoroso e risolvemmo tutti i nostri guai. Quelli materiali, per lo meno”, commentò De Sica ricordando che lui e i suoi compagni rimpiangevano il “teatro ‘vero'”, così sembrava di “prostituirsi”.uesto pudore si è ripetuto nel tempo quando è andato oltre i successi cinematografici del momento, dai “telefoni bianchi” alla “commedia all’italiana”  per il “cinema vero” volendo fare una trasposizione con il giudizio appena riportato sul teatro. Fu la voce piuttosto che la recitazione a farlo “sfondare”, ponendolo come alternativa agli “chansonnier” del momento – francesi come Chevalier o americani come i jazzisti – che spopolavano anche nel cinema. Il suo modo di porgere da fine dicitore collaudato in teatro, la sua voce confidenziale ne fecero un divo internazionale.

La statuetta del premio Oscar

Il giovane attore teatrale sbarca nel cinema con il regista Mario Camerini, il quale lo aveva visto in “Za Bum”  e lo impose alla produzione di “Gli uomini che mascalzoni”, che trionfò alla mostra del cinema di Venezia e lanciò la canzone, divenuta il suo sigillo, “Parlami d’amore, Mariù”. Con Camerini girò altri quattro film di successo negli anni ’30; si ritrovarono insieme in altri tre film tra il 1955 e il 1971, quando De Sica tornò a questa “vita” scanzonata dopo temi drammatici e umani. Fino all’esordio alla regia, nel 1940, girerà 30 film,  in un vortice pirandelliano di personaggi e cambi di identità, impressi nell’immaginario collettivo con  il “Signor Max”  e il “Conte Max”.

Il manifesto di  “Miracolo a Milano” con la galleria fotografica

Non abbandona il teatro, per il pudore prima ricordato: il cinema gli sembra un ripiego, sia pure meglio pagato, rispetto all’impegno militante serale sulla scena in giro per l’Italia, con Giuditta Rissone, che sposerà e dalla quale avrà la figlia Emi, e Umberto Melnati.  Inoltre nella seconda metà degli anni ’30 si impongono nel cinema Amedeo Nazzari e Fosco  Giachetti come “tipici divi del regime”, l’osmosi tra  teatro e cinema fa prendere due piccioni con una fava, per così dire. E’ il  1940, viene portato dal teatro allo schermo “Due dozzine di rose scarlatte”, ne è il regista.

E’ l’inizio di una vicenda da autore che si intreccia con quella di attore in modo pirandelliano, anche per le resistenze alle sue scelte coraggiose che potevano disturbare i politici conservatori.  Ha anticipato i tempi con atteggiamenti scomodi, sul piano professionale è stato ostacolato dalla politica con “censure” ai suoi film, sul piano personale c’è stata perfino la scomunica della Chiesa.

Sin dalle prime regie è un innovatore. Il cinema italiano inizia con le “fanciulle in fiore”,  sdolcinate storie sentimentali in ambienti improbabili, per lo più all’estero: è il genere comico-sentimentale dei  “telefoni bianchi”.  “Maddalena zero in condotta” lo ambienta in Italia, fa debuttare  Carla Del Poggio, poi in “Teresa Venerdì” dà un ruolo importante ad Anna Magnani, è un film  realistico  in un orfanotrofio  rispetto agli ambienti irreali quanto divistici dell’epoca, inserisce nel parlato il dialetto proibito e cerca volti nuovi non professionisti: si vedrà come questo diventerà il punto di forza nel neorealismo. Poi con “Un garibaldino nel convento” entra nella storia senza retorica:  lo stile è realistico, nel contenuto denuncia gli opportunisti annidati dietro l’epopea garibaldina.

Con Cesare Zavattini

Secondo Carlo Lizzani furono “segnali nel buio ” colti dai critici dei “telefoni bianchi” che si radunavano intorno alla rivista “Cinema”.  Siamo negli anni 1940-44,  dai segnali nel buio, presto si passerà alla luce accecante dei film del neorealismo che segneranno una svolta epocale. 

 Il grande regista del neorealismo nel primo dopoguerra

La consacrazione del neorealismo si ha nel sodalizio con Cesare Zavattini, iniziato sin dal 1935 con un film di Camerini in cui l’uno era protagonista, l’altro soggettista. I due si riconoscono complementari: “Zavattini, un emiliano trasandato”, con tanti soggetti nel cassetto nei quali la lettura della realtà e l’irrazionale rompevano gli stereotipi del cinema italiano;  “De Sica laziale-napoletano, con l”istinto dell’ animale da palcoscenico – scrive Claudio G. Fava  –  che sapeva cogliere istintivamente la capacità di esistere di una scena e di un personaggio”.  Entrambi  affascinati dai film di Chaplin, “l’uno a proprio agio con la voce, l’altro con la scrittura”.

Disse Zavattini: “Noi due siamo come il cappuccino, che non si sa il latte qual è e qual è il caffè, ma c’è il cappuccino”. E spiegava: “Questo significa che c’è  stata una specie di vocazione a unirci, ci siamo uniti su una base reale, umana; e quando dico umana voglio dire certi valori espressivi che ci hanno trovato d’accordo subito in partenza, e vorrei dire, la semplicità, la chiarezza”.

Fotogrammi di “Umberto D”  

Quali sono questi valori espressivi? Il comportamento umano osservato nella sua realtà cruda, nelle sofferenze delle persone comuni come vittime designate del disagio sociale, rompendo i veli dell’ipocrisia delle classi dominanti. E qui la scoperta geniale degli attori non professionisti, presi dalla strada per rendere la realtà senza il diaframma dell’interpretazione: un’identificazione totale.

La prima collaborazione con Zavattini risale a “Teresa Venerdì”, diventa esplicita con “I bambini ci guardano”, del 1943, il cui pessimismo esprime il clima disperato dell’epoca. Nel primo dopoguerra esplode in “Sciuscià” nel 1946,  seguito da “Ladri di biciclette” nel 1948.  Il cinema internazionale e l’intero sistema culturale ne vengono scossi profondamente. Arrivano i  primi Oscar e Nastri d’argento.  “Sciuscià è il miglior film che abbia mai visto. Dovreste vergognarvi di non amare de Sica: magari potessimo riparlarne fra duecento anni”, disse Orson Welles rivolgendosi agli “intellettuali del cinema”. Mario Soldati, il 26 novembre 1948 dopo “Ladri di biciclette”, forse l’opera più celebre del neorealismo, gli scrive che non è andato a vederlo all’anteprima “perché avevo paura fosse troppo bello, Soffrivo d’invidia”. Poi va alla prima e nel lodarne la bellezza si esprime così: “Sei come Verdi e Chaplin, non ragioni: senti. Anni fa ti dissi che non capivi niente, e dissi che molte volte i geni non capiscono niente, perché sentono, perché vedono. Ora ti dirò una cosa sola. Tu ‘albeggi’. Noi (tutti noi registi italiani) ‘tramontiamo’”. Cesare Pavese, intervistato alla radio nel 1950 da Leone Piccioni disse: “Il maggior narratore contemporaneo è Thomas Mann e, tra gli italiani,Vittorio De Sica”. In entrambi si avverte la lotta degli umili per sopravvivere.

E’ straordinaria la documentazione che ne dà la mostra, ripetiamo, con manifesti, video e fotografie  di scena.  

Un video con sequenze dei film, si vede proiettata una scena del “Processo di Frine” con Gina Lollobrigida

Si esaurisce il neorealismo, torna l’attore

Seguiranno “Miracolo a Milano” nel 1950 e “Umberto D” nel 1952, ma il clima va cambiando, nel 1947 diviene sottosegretario Giulio Andreotti che intende rilanciare  il cinema italiano ma vuole che dia una visione edificante del Paese; la censura blocca i film non in linea, il 30% di quelli prodotti.

Ne soffre “Umberto D”, immagine dolente di un povero pensionato, al quale dà il nome del padre; il film si scontra con l’impostazione governativa e Andreotti accende una polemica con lui. In mostra sono riportate puntualmente l'”enciclica” andreottiana nella lettera a De Sica su “Libertas”  del 28 febbraio 1952, e la sua risposta argomentata con l’invito a incontrarsi per discuterne di persona.  E’ una vera lezione su come si guarda in profondità un film al di fuori delle impressioni superficiali.

Viene dato conto dell’amara reazione di De Sica all’insuccesso: “Confesso che, dopo il fiasco di ‘Umberto D’, Zavattini ed io ci smontammo. Eravamo stufi di lottare contro i mulini a  vento. Non avevamo la vocazione del genio incompreso” . A dicembre viene Charlie Chaplin a Roma all’uscita di “Luci della ribalta”,  lo accoglie De Sica,  André Bazin, dei “Cahiers du Cinema”, scrive nel 1953 che “nessuno oggi può, più di De Sica,  pretendere all’eredità di Chaplin…  l’umanità di Chaplin ” noi la ritroviamo in De Sica, ma universalmente ripartita”. 

I manifesti dei film “Pane, amore e fantasia” e “Pane, amore e gelosia” 

E’ un omaggio celebrativo di una stagione ormai finita. Dopo la “tetralogia”  neorealista”, scrive  Cosulich,  con“Italia mia”, da un soggetto di Zavattini, intendeva fare un ulteriore passo avanti, “raccontare la realtà come se fosse una storia” e “non inventare storie che somigliavano alla realtà”. Ma il film non fu realizzato, lo consigliarono di lasciare Zavattini, inviso al potere dominante, e andare in America. Lo fa veramente, ma negli Usa non va in porto il progetto offertogli del film “Miracle in the rain”,  tuttavia il grande produttore O’ Selznitz  gli affida “Stazione Termini” con i divi hollywwoodiani Jennifer Jones e Montgomery Clift.  Lo definì lui stesso  criticamente “una battuta d’arresto, vuole essere un film d’arte realizzato con intenti commerciali”. 

Entrata in crisi così la sua vita di regista,  riemerge però con forza la vita di attore.

Torna sullo schermo nell’interpretazione nel 1952 dell’episodio “Il processo di Frine”  in “Altri tempi” di Alessandro Blasetti, con la famosa scena dell’arringa in cui da avvocato gigione fa assolvere la prosperosa Frine-Gina Lollobrigida, nell’esilarante similitudine con i “minorati psichici” perché “maggiorata fisica”, termine che entrò nel costume italiano; segue “L’oro di Napoli”, nel 1954, nel quale è anche regista. Blasetti ricorda che dovette faticare per farlo accettare come attore in “Altri tempi”,  “lo consideravano finito”; sia da regista di una stagione esaurita sia da interprete dei film di Camerini, troppo “charmeur e leggero”.

Il  successo fu clamoroso, la nuova  vita di attore ne fa un personaggio di una “commedia all’italiana” diversa da quella di Sordi.  E, sono parole di Blasetti, sul set De Sica “si trasformava completamente”, altro che “leggero”! “Cambiava di colpo. Diventava improvvisamente profondo, assumeva una profondità che cinque minuti prima non gli avresti minimamente attribuito”.

Manifesti e costumi di film con Sophia Loren

Questa fase è stata definita di “neorealismo rosa”, senza messaggi evidenti o subliminali, all’insegna della comicità e della leggerezza . la serie iniziata nel 1953 con “Pane, amore e fantasia” in cui ritrova la Lollobrigida del “Processo di Frine”, è rimasta memorabile, per il successo di cassetta e l’impronta rimasta nell’immaginario collettivo dei suoi personaggi, “il Maresciallo Carotenuto” e “la bersagliera”, con il seguito di “Pane, amore e gelosia”.  De Sica però non si fossilizzò in questa vita anche se in grado di assicurargli popolarità e  successo. E anche come attore Rossellini lo dirigerà  nel 1959 nel ruolo drammatico  di “Il generale Della Rovere”, per lui insolito ma reso con grande intensità.

La mostra dà una spettacolare evidenza a tutto questo sempre con manifesti, foto di scena e filmati.

Di nuovo il regista, fino all’ultimo

Torna alla regia nel 1955 con “Il tetto”, sul problema sociale dell’abitazione, un tentativo di riprendere il neorealismo, nella mostra c’è la documentazione fotografica della ricerca di attori presi dalla strada, Poi il grande ciclo con Sophia Loren, che ha contribuito a forgiare,  con l’immagine di popolana già delineata in “L’oro di Napoli”, e rafforzata dopo  che è divenuta diva hollywoodiana: Ed ecco nel 1960 “La Ciociara” – per il quale l’attrice ebbe l’Oscar, il film il Nastro d’Argento,  e vinse il Festival di Cannes – e  nel 1961 “Il Giudizio universale”;  nel 1963 “Ieri, oggi, domani” e nel 1964 “Matrimonio all’italiana”. E’ un’altra “tetralogia” che lo proiettò di nuovo nell’olimpo come autore dopo esserci stato da interprete dopo la grande “tetralogia” del neorealismo. 

Con Gina Lollobrigida in “Pane, amore e gelosia”

E poi il quarto Oscar con “Il giardino dei Finzi Contini” nel 1971, dopo  “I sequestrati di Altona” del 1962 e “I girasoli” del 1969; Gli ultimi film da lui girati sono “Una breve vacanza” nel 1973 e “Il viaggio”, 1974, il cui titolo è premonitore dell’ultimo viaggio: la morte il 13 novembre 1974. 

Dal 1961 al 1974 sono 14 i film da lui realizzati più 3 episodi, oltre uno all’anno: tutte coproduzioni internazionali con grandi attori, basta citarli per avere dinanzi agli occhi una carrellata di immagini e di ricordi: Sophia Loren e Marcello Mastroianni, Silvana Mangano e Alberto Sordi, Nino Manfredi e Peter Sellers, Richard Burton e Clint Eastwood, Shirley Mc Laine e Faye Dunaway.

 “Si nasce, si lotta inutilmente, si soffre, si odia inutilmente, e poi ci si ritrova tutti allo stesso modo, ciascuno con il proprio copione sotto il braccio”, disse dinanzi alla morte. Con queste pensiero per i figli Emi, Manuel Christian, lo stesso che aveva avuto il padre per lui:”Vi lascio un grande patrimonio d’amore”.  Il giorno della sua morte, Zavattini scrisse: “Una grande parte della mia vita se ne va”, E dopo avere rievocato 35 anni di rapporti concluse: “Non andrà a dormire, aspetterà l’alba. Domani a Roma lui ritorna. Voglio esserci”.

E’ ritornato a Roma nella  mostra “Tutti De Sica”, con le sue cinque vite. Anche noi abbiamo voluto esserci, e così i tanti visitatori all’Ara Pacis. Tutti ammirati e commossi sul filo della memoria.

In “Il generale Della Rovere” di Roberto Rossellini

Info

Museo dell’Ara Pacis, Lungotevere in Augusta, Roma. Da martedì a domenica ore 9,00-19,00, ingresso fino alle ore 18,00; lunedì chiuso. Ingresso intero euro 11, ridotto euro 9, gratuito per le categorie previste dalle norme vigenti. Tel. 060808, http://www.arapacis.it/, http://www.museiincomuneroma.lt/, twitter #mostradesica. Per la mostra su Alberto Sordi, citata, cfr. il nostro articolo su questo sito al  13 febbraio 2013.      

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nel Museo dell’Ara Pacis alla presentazione della mostra, si ringraziano gli organizzatori e i titolari dei diritti, in particolare l’Associazione Amici di Vittorio De Sica e i figli Christian, Emi e Manuel per l’opportunità offerta. In apertura,  Vittorio De Sica a Londra, anni ’50; seguono Vittorio De Sica cantante e attore a teatro, e un angolo rievocativo con il suo smoking e il baule utilizzato nei viaggi; poi il quadro di fotogrammi di “Ladri di Biciclette” e la statuetta del premio Oscar, quindi il manifesto di  “Miracolo a Milano” con la galleria fotografica, e Vittorio De Sica con Cesare Zavattini; inoltre la bacheca con immagini di “Umberto D”  e  un video con sequenze dei film, si vede proiettata una scena del “Processo di Frine” con Gina Lollobrigida; ancora, i manifesti dei film “Pane, amore e fantasia” e “Pane, amore e gelosia”  e un angolo della mostra con manifesti e costumi di film con Sophia Loren; infine, con Gina Lollobrigida in “Pane, amore e gelosia”, Vittorio De Sica in “Il generale Della Rovere” di Rossellini; in chiusura, una bella immagine di Vittorio De Sica, il commiato.

Vittorio De Sica, commiato

D’Annunzio, 6. I dibattiti sulla fede, una conclusione

di Romano Maria Levante

Termina la nostra rievocazione dei rapporti di D’Annunzio con il potere, passata dal potere politico al potere religioso e a quello spirituale, inoltrandoci nel “mistero” della sua religiosità fino alla fede: il “D’Annunzio credente”. Abbiamo analizzato una vasta serie di “indizi”  a “carico” e a “discarico” in una sorta di “processo  a D’Annunzio”,  cercando di penetrare nel suo profilo interiore, anche con una testimonianza d’epoca rivelatrice raccolta da noi, che si aggiunge alla testimonianza di Nicodemi. Ora, sulla base dei dibattiti svoltisi in materia mezzo secolo fa, prima del silenzio, e di giudizi autorevoli  giungiamo alle conclusioni, invitando la Chiesa, nel 150° dalla sua nascita, a rivedere le proprie posizioni alla luce degli elementi emersi, come ha fatto meritoriamente con Galileo Galilei.

La conclusione della prima lettera di D’Annunzio a Ines Pradella, 31 (gennaio) 1930

I riscontri nei dibattiti di fine anni ’50 e ‘60

Il problema della religiosità di D’Annunzio si pone in termini diversi rispetto ad ogni altro grande personaggio, termini riassunti nella parola “mistero”; e proprio per questo, paradossalmente, è stato dibattuto come non mai a dispetto della sua volontà di sottrarsi ad ogni intollerabile invasione della sua sfera personale in un campo così delicato fino alla cappa di silenzio dell’ultimo mezzo secolo.

Vi furono, tra la fine degli  anni ’50 e gli anni ’60, dei dibattiti in particolare sulla “Collana di studi dannunziani” diretta da Regard e Gatti a base di saggi dai titoli inequivocabili come “D’Annunzio credente” (Mario Nanteli) al quale rispose “D’Annunzio credente?!” (Nino Regard),  “D’Annunzio e la Fede” (Curzia Ferrari”), “D’Annunzio e il mistero” (Giuseppe Pecci).

Nanteli rivela una circostanza in cui il Poeta avrebbe dichiarato la propria fede in Dio, lo ricorda in ginocchio con i legionari in preghiera a Drenova nella campagna fiumana e cita i brani di trasporto mistico della “Contemplazione della morte” e delle “Faville del maglio” nonché quelli di “In morte di un capolavoro” e conclude: “Dio… avrà certamente avuto pietà del nostro grande prodigo. Egli ha tenuto a fare una dichiarazione sincera quando affermò di avere sempre creduto in Dio”.

Ma è molto severo dal punto di vista morale, ponendo l’accento sugli “eccessi della carne, l’unica veramente colpevole di una fede senza le opere”, per cui si espone alla replica di mons. Manlio Maini sulla profondità del concetto di fede.

Anche Mario Zanchetti nel suo “Sensualismo e naturismo dannunziano” è particolarmente severo sull’immoralità del Poeta come logica conseguenza della sua sfrenata sensualità, tuttavia afferma: “D’Annunzio non solo non si rassegnò mai d’essere un sensuale, ma tentò disperatamente e sempre di liberarsi della sua sensualità”. Poi aggiunge:”E se egli non poté essere, come avrebbe voluto, uno spirituale, la sua opera acquistò, sia pure indirettamente e negativamente, valore e carattere di spiritualità. Perché è spiritualità il senso di stanchezza e di disgusto che gli dà la coscienza della sua sensualità, è spiritualità quel tendere continuamente alla purificazione, anche se la natura è così forte da impedirglielo”. E infine: “La spiritualità, che non poté entrare direttamente nelle sue opere, vi entrò indirettamente, sotto forma di tormentosa insoddisfazione e di ansia”.

La replica di Nanteli è diretta: “Parlare, come fa lo Zanchetti, di un misticismo dannunziano, è ozioso… la sua fede in Dio non ha nulla a che vedere con forme ‘autentiche o fasulle’ di misticismo… Misticismo in D’Annunzio? Ma non c’è ombra di esso né nella vita né nelle sue opere. Fatica sprecata quella di cercare un misticismo in D’Annunzio. Viceversa, la fede in Dio, senza misticismo e senza mistica, si può trovare in lui anche senza le opere”.

Stanza delle Reliquie, altare con reliquiari e simboli 

Curzia Ferrari, dopo un approfondito excursus sulla vita e sulle opere, ragiona così: “D’Annunzio non fu un ateo classicheggiante come il Carducci o un bestemmiatore come il Nietzsche, ma un ‘credente infedele’, capace di ‘amare’ ed anche di aspirare ad ‘accettare, praticare, servire’, qualità che renderebbero fattivi e attivi il suo culto e la professione di fede… perciò vien fatto di concludere che già molto egli amasse il suo Dio, non avrebbe avuto che a seguirlo, ma in lui pure, come nella gran parte degli uomini, la volontà ebbe parvenza di ramoscello spezzato nella tempesta”.

Regard dichiara che non vuol farsi influenzare dalla vita peccaminosa, mentre poi è questo l’elemento negativo di fondo su cui si basa il suo giudizio; e non si accontenta neppure del rispetto di D’Annunzio per la figura di Gesù affermando: “Dinanzi a Gesù (mai dinanzi a Dio!) D’Annunzio si pose come dinanzi ad un uomo da pari a pari, anzi addirittura con atteggiamento prevenuto, spavaldo, aggressivo: il che dimostra che egli non ebbe affatto animo, disposizione e volontà di credente”; e cita in negativo Il Vangelo secondo l’Avversario e la Contemplazione della morte senza peraltro marcare il carattere autobiografico e maturo del secondo, ricco di elementi spirituali con l’accostamento alla fede, rispetto a quello letterario e giovanile del primo, che era trasgressivo.

Parimenti dall’analisi delle opere l’autore trae una vasta messe di elementi di religiosità che definisce “incisi fuggevoli, frasi staccate, mere interiezioni, locuzioni ambigue, enunciazioni retoriche, frasi d’uso comune, costrutti fumosi, atteggiamenti esteriori” dichiarando “non valgono, non provano, non giovano”; mentre non si può negare che considerando unitariamente l’intero “corpus” di opere si ricava un vastissimo patrimonio di elementi religiosi che, anche nella loro cadenza temporale, danno un orientamento preciso sull’itinerario spirituale del Poeta.

Se le opere puramente letterarie risentono dell’indole dei personaggi, non sempre riconducibile all’autore, quelle autobiografiche sono una fonte inesauribile di sfoghi sinceri, di confessioni coraggiose, di introspezioni sofferte, che spesso culminano in slanci mistici inequivocabili.

Regard è coerente nella svalutazione dei segni di religiosità mostrati nei fatti, in particolare “anche l’atto materiale dell’inginocchiarsi è sempre e soltanto una manifestazione esteriore, se pure di non trascurabile importanza, quando non sia determinato e accompagnato da una commossa ragione interiore, spontanea e misticamente attiva che suggerisca anche quell’atto altrimenti – di per se stesso – non significante e, comunque, non probativo di una fede profondamente sentita e praticata”.

Ma proprio per questo gli altri segni della vita e delle opere vanno valutati unitariamente in modo che gli indizi convergenti assumano valore di prova; e le contraddizioni, le cadute, gli abbandoni stanno a dimostrare una maturazione, un processo interiore svoltosi  senza arretramenti su un terreno psicologico di alta spiritualità.

A questo si dedica Giuseppe Pecci con una minuziosa analisi della religiosità di D’Annunzio vista attraverso le opere letterarie che – pur lasciando aperto il “mistero”  –  ne evidenzia la straordinaria ricchezza. L’elemento religioso ha accompagnato tutta la sua produzione, sin dai primissimi scritti, pur permeati di panismo e decadentismo, in un’epoca materialista con i riflessi del romanticismo, allorché si diceva che l’unico scrittore cattolico fosse Manzoni. Ma è subentrata presto una sincera ricerca religiosa, quasi come reazione all’ateismo, anche se doveva fare i conti con la cultura imperante; lo sottolinea lui stesso nel vantarsi di aver creato, nonostante tutto, il dramma sacro.

I motivi dello scetticismo di Regard sulla religiosità dannunziana si basano su due considerazioni molto discutibili. La prima è che per spiriti eletti come D’Annunzio e Foscolo “è di sommo interesse accertare la loro posizione nel mondo dello spirito; ma attraverso una indagine diligente esigente industriosa, precisa, rigorosissima”, che però, aggiungiamo, non deve pretendere l’odore di santità piuttosto che la semplice fede richiesta per “stabilire se fossero credenti dei Carneadi qualsiasi”; perché a questo paradosso si giunge con la svalutazione sistematica di qualunque segno, atteggiamento, espressione, confessione positiva perché ritenuti insufficienti.

La seconda considerazione è che non c’è stata una repentina crisi di coscienza – come in Manzoni, Papini, Malaparte – ad attestare “un profondo ripiegamento dell’uomo su se stesso, quasi per un catartico riscatto da una precedente vita d’errore e di peccato, o per una subitanea illuminazione dello spirito…”; anche Zanchetti dice che non si è avuta quella conclusione che, al di là dello stesso pentimento, “può essere il primo passo verso la conversione, ma da solo non basta. Bisogna andare più oltre: giungere cioè al ravvedimento”. Altrimenti “che cosa autorizza a riconoscere nel D’Annunzio la fede del credente se ravvedimento non ci fu?”.

Una prima risposta a questo interrogativo e agli altri sopra accennati la dà padre Spiazzi: “…Se Papini, alla fine della vita, poté attribuirsi la ‘felicità dell’infelice’, non si dovrà riconoscere in D’Annunzio l’infelicità del Dioniso confutato e sconfitto? E in questa umana catastrofe non si sarà fatta strada la nostalgia del bene, il bisogno di Dio?”. Una seconda risposta viene da Carlo Bo: “Non gli sarebbe stato difficile operare una trasformazione, fare almeno quella ‘confessio oris’ rompendo gli indugi. Ma accade sovente a chi è ricco di fantasia, soprattutto a chi è padrone assoluto della parola, di provare un senso di smarrimento e di entrare in un dominio di pudore e di riserbo.

Una terza risposta proviamo a darla noi: non si è avuta la pubblica crisi di coscienza di altri illustri convertiti perché, come dice lui stesso, una fede religiosa l’ha sempre avuta, assorbita dalla sua terra, non solo nelle motivazioni ideali ma anche nei riti;e perché vi erano evidenti difficoltà ad assumere il ruolo pubblico di convertito.

Stanza delle Reliquie, le ‘immagini di tutte le credenze’, e, in alto, angeli e santi

Alcuni giudizi autorevoli

Ma torniamo al tema di fondo del D’Annunzio credente per concludere riportando alcuni giudizi autorevoli, improntati alla cautela ma indubbiamente aperti ad una valutazione positiva.

Piero Bargellini così si esprime: “Egli, come tutti gli uomini, come tutti i santi, ha cercato la felicità. E l’ha cercata, come la più parte degli uomini, nelle creature. Ma le creature sono vestite della felicità, come son vestite dell’amore: non sono né la felicità né l’amore. Immagini di bene, non bene”.  Per  concludere: “Chi può aver dato a D’Annunzio, se non il Cristianesimo, l’ansia di rinnovamento ch’egli esprime con le parole: ‘E’ necessario che io faccia luogo in me a ciò che sorgerà da quel risveglio'”, il risveglio della fede evocato nella Contemplazione della morte; lo stesso Bargellini, nel sottolineare che “come è stato attratto e respinto dalla morte, è stato attratto e respinto da Cristo” ricorda: “Non rare sono le dichiarazioni che hanno il sigillo intatto dell’anima cristiana”.

Francesco Flora dà un giudizio molto raffinato: “Un anelito di nuova morale, nella scontentezza dei limiti cristiani, risentiti e ricreati in noi quale intima legge del bene e del peccato, della gioia e del pentimento, del vero e del falso, tende ad un equilibrio tra l’anima e il corpo e vorremmo dire, se non fosse audace, ad una sintesi svelata di ellenismo eroico e di cristianesimo; una sintesi svelata degli estremi del senso come bellezza e dell’anima come coscienza di purificazione; una meta nuova e non quella che è nel comune moto della vita, pel quale nel nostro cristianesimo è già passata gran parte dell’ellenismo, come nella nostra spiritualità è filtrata tanta parte della carnalità primigenia.” Riferendosi più direttamente all’artista così conclude: “Ma l’al di là dannunziano, anche se il Poeta voglia illudersi che ciò non sia, è tutto di questo fisico mondo: coincide con la fede che non sa riconoscere altro mondo se non questo eterno della vita umana. Per lui lo spirito è la carne… la vita e la morte non sono che luci di questa carnalità che in lui coincide con la parola”.

Per Carlo Bo “D’Annunzio si è limitato a provocare la potenza misteriosa, il Dio, oppure ha modificato con gli anni il senso della corsa e alla fine ha potuto dare un nome a quell’ideale competitore, all’uomo segreto del confronto finale? D’Annunzio ha sentito la voce del Commendatore di pietra o la sua storia si è limitata alla preparazione della tragedia, si è arrestata sull’orlo della provocazione, ma prima dell’appuntamento fatale? Se sapessimo questo… sapremmo dire che nome aveva il suo Dio. Su questo terreno minato è difficile procedere con qualche speranza di successo”.

Stanza del Lebbroso, con il ‘letto delle due età’

Da Curzia Ferrari un giudizio positivo: “Gabriele brancica nel buio e in ogni forma terrestre e umana e comunque esteriore, ovunque la bellezza (ma quanto caduca) trionfa e gli sorride in un perfetto equilibrio di colori e dimensioni. Ma il suo Dio è pure il nostro, è quello di sua madre e della sua gente; tant’è ch’egli mai s’immaginò una divinità vera e operante aureolata di altri attributi che non fossero quelli di Cristo e della sua passione”.

Così conclude padre Spiazzi una complessa valutazione degli atteggiamenti e dei comportamenti: “Certo, Gabriele d’Annunzio non è un credente nel senso di un’adesione di pensiero e di vita alla rivelazione cristiana… Ma si può porre il problema di una sua fede, o almeno di una sua religiosità, nel senso di riconoscimento e accettazione di un assoluto trascendente, principio dell’essere e della vita, fine di ogni cosa, ragione di ogni bellezza e di ogni amore, mistero di ogni mistero e verità, di ogni verità: appunto quella che si chiama e si percepisce quasi istintivamente come realtà divina”.

L’“Enciclopedia cattolica”  denuncia l'”indulgere alla rappresentazione dell’immoralità”  nella sua produzione letteraria  definita “tanto lontana, nel suo contenuto, dall’ideologia e dall’etica cristiana”; nel  sottolineare che “si trovano nelle opere del D’A episodi e figure e riti sacri, ma sono assunti a pretesto creativo e si risolvono talora in profanazione e bestemmia” deve tuttavia ammettere “che non fanno, comunque, dimenticare quel reprimere diurno, a ‘denti serrati’, per paura di perdersi, qualche affioramento di preghiera a Cristo, il ‘bellissimo nemico’”. E  gli dà questo riconoscimento: “Ma seppe anche procedere oltre l’estetismo edonizzante e la vanagloria politica dell’egocentrismo tentando un’offerta di sé che, dove non si risolveva in autolatria, insisteva in una Macerazione quasi ascetica… il vertice di questa parabola è nella poesia del ‘Notturno’: la vita che, risolta in parola, si cercava nell’ombra e, alla luce, si dissolveva in polvere”.

A questi commenti elaborati e prestigiosi vogliamo accostare la glossa lapidaria che un ignoto lettore della copia del Libro segreto consultabile presso la Biblioteca Nazionale di Roma ha apposto dove il Poeta dà una suggestiva descrizione di se stesso prima e dopo la morte: “Venite a guardare il mio viso due o tre ore dopo la mia morte… Sino alla terza ora. Dopo, spezzate il gesso; troncate i polsi del formatore. Tacete, senza inginocchiarvi. non attendete alcun segno dal nulla”. Ebbene, la glossa anonima a margine dice: “Attendetevi tutti i segni dal Tutto”. Che sia questo il suo messaggio, la soluzione dell’enigma che D’Annunzio ha voluto lasciare fornendone la traccia quasi come in un crittogramma? D’Annunzio che scrive: “Se l’Italia m’è un enigma, non io sono un enigma per l’Italia?”. E poi: “Non voglio essere compreso. Nulla temo, ma sol temo di non essere incompreso”. E ammonisce: “La interpretazione di me diventa grossolana e goffa anche negli uomini più gentili e sottili…”.

Stanza del Lebbroso, S. Francesco abbraccia il Lebbroso con il volto di D’Annunzio

Conclusione

Facciamo tesoro dell’ammonimento e non abbiamo la presunzione di sfidare la profezia consegnata dall’Orbo veggente a Nicodemi: “Chi mai oggi e nei secoli, potrà indovinare quel che di me ho io voluto nascondere?”. La nostra ricerca ha manifestato una netta propensione per D’Annunzio credente basata sull’accurata verifica delle prove a carico e a discarico nel vero e proprio processo condotto con dovizia di circostanze, prove e testimonianze. Pur non avendo dubbi al riguardo, concludiamo con le stesse parole con cui più di quindici anni fa terminava il nostro ben più ampio e argomentato libro-inchiesta “D’Annunzio, l’uomo del Vittoriale”: “Ebbene, crediamo che l’interrogativo resti aperto. Ma abbiamo l’umiltà, e insieme l’orgoglio, di averlo riproposto”.

Termina così la nostra celebrazione del 150°  anniversario della nascita di D’Annunzio, che ha preso l’avvio con la rievocazione dei rapporti tra arte e potere attraverso la sua vita tra il patriottismo e l’impegno politico, dalla prima guerra mondiale all’impresa di Fiume, fino all’azione svolta prima della Marcia su Roma per un “governo di pacificazione nazionale” nel 1922.

Dai rapporti con il potere politico siamo passati a quelli con il potere religioso, in particolare all’accanimento della gerarchia ecclesiastica che mise all’indice per ben 4 volte le sue opere per il temuto “contagio delle giovani generazioni” con la sua letteratura sensuale-mistica. Mentre rispetto al potere spirituale, non solo ebbe grande attenzione, ma una adesione fino alla fede in Cristo.

Questo tema, che abbiamo sollevato nel 1997  con il nostro libro-inchiesta e reiterato nel 2009, subito dopo il 70°anniversario della morte, torniamo a riproporlo nel 150° anniversario della nascita, sperando che questa volta vi sia qualche eco. Abbiamo fornito, a diversi livelli di analisi e di sintesi, una massa di elementi per una valutazione serena, in grado almeno di aprire un dibattito al quale la Chiesa non dovrebbe restare estranea. E’ chiamata, anzi, a pronunciarsi dinanzi alle posizioni di suoi esponenti che hanno manifestato un’attenzione finora assente nella gerarchia.

Ci attendiamo che voglia dire finalmente la sua, come ha fatto con Galileo ritrattando le posizioni persecutorie in un’autocritica che le fa onore. E se un’attenta, acuta riflessione sul profilo interiore di D’Annunzio nel suo innegabile accostamento alla Fede modificherà l’atteggiamento basato sugli aspetti esteriori della sua vita, sarà una nuova conquista di un’Istituzione millenaria che deve saper tornare sui propri giudizi senza remore anche questa volta, per mantenersi al passo dei tempi.

Info

L’analisi dettagliata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta: Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118; la parte seconda su “Il personaggio”, pp. 119-293. Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi cinque articoli, dei sei del servizio, sono usciti,  in questo sito, il 12, 14, 16, 18 e 20 marzo 2013, ognuno con 6 immagini.  Cfr. intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in  http://www.100.newslibri.it/,  dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto

Le immagini sono tratte dal volume sopracitato dell’autore (pp. 82-104, 472-96), quelle delle Stanze del Vittoriale furono riprese appositamente per il volume da Ezio Bellot con l’autorizzazione della presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, La conclusione della prima lettera di D’Annunzio a Ines Pradella, 31 (gennaio) 1930; seguono, Stanza delle Reliquie, altare con reliquiari e simboli e Stanza delle Reliquie, le ‘immagini di tutte le credenze’, e, in alto, angeli e santi;poi Stanza del Lebbroso, in fondo il ‘letto delle due età’ e il quadro S. Francesco abbraccia il Lebbroso, il Lebbroso ha le sembianze di D’Annunzio: in chiusura,  L’ultima lettera di D’Annunzio a Fiammetta con l‘accorato indirizzo della busta, 23 (gennaio) 1937. 

 L’ultima lettera di D’Annunzio a Fiammetta con l‘accorato indirizzo della busta, 23 (gennaio) 1937