Alessandra Zorzi, Arcani e tarocchi, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Circa 40 dipinti e arazzi di Alessandra Zorzi in mostra al Vittoriano, lato Fori Imperiali, dal titolo “Il matto la morte  e il diavolo”, ispirato sotto il profilo letterario al noto libro di Mario Praz,  “La carne, la morte e il diavolo” e sotto il profilo artistico all’incisione di Durer “Il Cavaliere, la morte e il diavolo”. Ma il suo  riferimento è all’aspetto  popolare e simbolico dei tarocchi. Realizzata  da “Comunicare Organizzando”, è curata, con il Catalogo di Canova Edizioni, da Claudio Strinati.

Alessandra Zorzi davanti a una sua opera, “Il diavolo”,2012

L’ingresso alla mostra – di cui è responsabile Maria Cristina Bettini – è spettacolare, per gli Arazzi che pendono dal soffitto in teli di tre metri per uno e si attraversano, come la “Foresta di menta” alla mostra di Gino Marotta alla Gnam. E’ l'”ouverture”  di un mondo di magie e di favole, tormentato da figure da incubo, e non a caso nel titolo si evocano il matto, la morte e il diavolo.  Non è entrata nella narrazione né nell’interpretazione dei tarocchi, dove –  ha detto l’artista – sono presenti elementi “alti” ed elementi popolari, aspetti favolistici e fantasiosi, attese e paure; essi “colgono l’espressione dell’emotività umana”, ed è questa che ha cercato di tradurre nei suoi dipinti.

Il percorso artistico e l’approdo attuale

Rispetto ai riferimenti letterario e artistico ha sostituito il primo termine, “la carne” in Praz e “il Cavaliere” in Durer con “il matto”, gli altri due sono gli stessi, “la morte e il diavolo”. I dipinti della mostra così intitolata sono  luminosi, netti e precisi; anche quando in immagini che, in una diversa interpretazione, sarebbero immerse in una nebbia che qui non offusca mai la visione. D’altra parte l’artista ha una vita professionale da architetto, che vuol dire chiarezza e precisione;  ha cultura – lo ha detto Strinati alla presentazione – per le tante letture di maestri; e questo appare dai riferimenti impliciti, a cominciare dall’opera intitolata “Il Diavolo”  con 4 figure che sono altrettante citazioni.

Il suo percorso artistico, iniziato alla fine degli anni ’80, ha una prima tappa nella mostra di esordio a Treviso, quando si ispira al volo e alla relatività della visione, come specchio della realtà che stava vivendo con il brevetto di pilota; poi è attirata dalla ricerca sul’arte rinascimentale e si esprime in una cristologia surreale; gli aspetti surreali e grotteschi si rafforzano nella mostra su “Babelopoli” del 2003-05, e si appassiona al mezzo tecnologico con l’animazione digitale, Nella mostra attuale c’è un video che propone i suoi filmati favolistici e surreali. Nel 2007 la visione diventa pessimistica, i quadri detti “organici” mostrano la disgregazione dell’esistenza; poi, in tre mostre nel 2010-11 la visione si ispira al genere, femminismo e anche femminilità come “cultura della differenza”,  con le angherie subite dal maschio dominante. Pochissimi i quadri in mostra di questo periodo, quasi tutti sono del 2012 e concentrati sull’emozione che proviene dai tarocchi.

“La morte”, 2012

Strinati ha sottolineato la sua capacità di “estrarre” figure, immagini e componenti e introdurle nelle proprie composizioni, quasi “postandole” in modo meccanico,  come “post it”  o con i “post” del web; cambia però il contesto in cui viene inserita l’immagine con un criterio critico ed estetico.  In tal modo immagini favolose vengono utilizzate per sottolineare profonde realtà dell’essere umano.

La raffigurazione è “in bilico tra evidenze naturalistiche e favole figurative, collegata  a stimoli di carattere simbolico e psicanalitico che fanno entrare anche nel suo mondo personale”. Non manca, nell’analisi del critico, un riferimento alla grafica del “Yellow Submarine”,  che immergeva i Beatles in un’atmosfera surreale per partendo da un’immagine realistica. Ma non c’è solo favola, l’immagine tragica delle donne massacrate prova la consapevolezza della realtà in cui l’artista vive, pur nella visione fantastica  e disincantata del mondo che emerge dai suoi dipinti.

Viene evidenziata la compresenza di elementi della realtà e della fantasia, della vita e della favola. I dipinti, pur nella loro assoluta autonomia, si presentano agli occhi del visitatore come altrettanti fotogrammi di un’unica rappresentazione, come tappe di un viaggio fantastico che si svolge nell’inconscio. Non diciamo nei labirinti dei sogni perché, su nostra precisa domanda, l’artista ha negato questo riferimento. Eppure Strinati scrive nel Catalogo che “c’è in lei una strana e acutissima idea di razionale e irrazionale che si contemperano e si riflettono l’uno nell’altro attraverso un processo visivo che può essere letto come un vero  e proprio fenomeno onirico trasferito in immagini completamente sganciate da riferimenti realistici eppure nel contempo cariche di percezione e di evocazione  di percezioni assolutamente ‘vere'”. Il “fenomeno onirico” rimanda ai sogni, l’artista può non percepirlo perché si muove “su un terreno impervio e fascinoso, alla prima di difficile comprensione e di arduo approccio, per rivelarsi poi nitidissimo, chiaro e coerente”.

“Il matto”, 2012

La galleria degli “Arcani”

Vediamo, dunque, la galleria delle opere esposte, quasi tutte salvo poche eccezioni, del 2012, i cui soggetti non vanno visti per se stessi, ma nel contesto favolistico in cui sono immersi, con larga presenza di animali; e quando c’è la figura umana si tratta di immagini da incubo o di magia. 

L’immagine forse più angosciosa  è nel dipinto “La Torre”, 2012, atmosfera di tregenda, l’edificio ha la verticalità dei fari di Mondrian, ma non la solidità, svetta su un mare in tempesta con il cielo percorso da saette, mentre una donna scalza è sospesa nel vuoto aggrappata ai merli che si stanno sgretolando come la punta del “faro”, crollata al suolo insieme a un uomo il cui corpo è disteso a terra.  Philippe Saverio  vi vede rappresentata “lei sicuramente autoritratta”, e  “la condizione della mente creativa in un mondo che ha perso ogni riferimento”.

Torna l’angoscia, a dispetto del titolo, in “Le Stelle”, 2012, di umano ci sono soltanto le gambe che spuntano dal corpo peloso di un lupo che ulula nella notte serena: è l’incubo del licantropo che ha tormentato l’immaginazione collettiva con le paure ancestrali che assillano la mente e i sogni.

Rassicurante è, invece, “La Temperanza”,  con la fanciulla nuda che si stringe  al collo del cerbiatto, forse per avere protezione dalla pioggia battente con una quinta di alberi da sfondo. Come lo è “Gli innamorati”,non ci sono figure umane, ma un assemblaggio di torri e castelli, cabine e soprattutto arcate alla De Chirico che pongono l’enigma metafisico irrisolto nel titolo: innamorati sono gli edifici stretti fra loro come amanti, o le persone invisibili che li abitano, e non possono che essere innamorate, tale è il clima da poema cavalleresco che aleggia dalla bella composizione.

“Il Faro”, 2012 

scendenze metafisiche anche in “L’Eremita”, dove però nella piazza di cui si vede un angolo con strutture laterali ma senza arcate regna l’oscurità e non il sole del meriggio, rotta dal fascio di luce della lampada tascabile proiettato sulla giovane donna dal viso ispirato. E’ come se le due consuete figurine dechirichiane, dal centro della piazza dove si vedevano da lontano, con la notte si fossero perdute e l’uomo cercasse la compagna con la torcia elettrica come Diogene con la lanterna.

Realistico quanto mai “Il Carro”,  su uno sfondo rosso acceso che ricorda una celebre sequenza di  “Via col vento”,  una donna anziana trascina a fatica un  macabro contenitore di teste umane. All’orrore non c’è mai fine, così l’artista in “127” celebra le vittime del “femminicidio”  perpetrato nell’anno raffigurandole in una piramide di corpi rosa che ricorda le spaventose immagini dei lager. Questo quadro è della serie, di cui parleremo, più avanti  “Al di qua del bene e del male”, come “Grida”,  del 2011, dove le teste riempiono il quadro completamente, vive, unite nella protesta

Il dipinto “L’imperatore” può rappresentare il simbolo della violenza belluina che ha portato alle teste caricate nel “carro” e ai corpi ammucchiati nella piramide, su un trono rosso bordato d’oro siede tronfio e spietato uno scimmione con lo scettro in mano, è il male e la violenza sanguinaria.

C’è una giustizia dinanzi a queste efferatezze? L’artista la raffigura in un dipinto surreale con tanti riferimenti simbolici, intitolato proprio “La Giustizia”: alcune delle cabine di “Gli innamorati” sembrano prese come  “set”  di una visione fantastica con corvi e in lontananza donne velate di nero, una leggiadra siluette in volo, l’asse di equilibrio dove il peso schiacciante maschile prevale sulla leggerezza femminile – non ci sarò mai giustizia per il “femminicidio”? – e, in primo piano due  figure dominanti dalla testa di animali in un profilo di marca egizia. Inquietante!

La serie “Al di qua del Bene e del Male”

Vario il panorama immaginifico di questa serie, oltre ai due dipinti realistici prima citati  per collegarli all’immagine più cruda degli “Arcani”.  “Le Parche”  e “Il sogno del Bosco” , “Messaggera” e “Nemesi”, “Attesa”, “Anab”  e “Trofeo” sono anch’esse angoscianti, ma in un dimensione favolosa, mentre in “Babau”  l’incubo onirico è addolcito dalla tenerezza dell’immagine e in “Piccoli Fratelli” la figuretta inseguita dai pesci volanti evoca il “Signor Bonaventura”.

Tenerissime le immagini dei “Neonati morti dei maya”, che succhiano il latte dalle mammelle dell’albero della vita,  giocosa “La ruota della fortuna”, ingegnosa nel rappresentare  le opposte situazioni dalla posizione delle persone sulla ruota, che è poi la giostra della vita, un circo, come quello a cui fanno pensare “Rhino”, con la cavallerizza  in piedi sul rinoceronte in corsa, e “Cha Bu”, in rosso e nero una figura nel cerchio ripresa dall’alto, mentre la nave nell’immaginifica navigazione tra gli alberi ci ha ricordato l’apparizione magica del  Rex di Fellini,

Nel “tourbillon” di immagini spiccano le due composizioni più complesse, “Guerre intestine”, del 2011, un groviglio in cui si distinguono appena alcuni corpi umani  tra gi animali delle specie più diverse che si scontrano ferocemente; e “Studio per Centaure”,  l’originale femminilizzazione è resa con le figure scalpitanti che si affrontano in un clima ben diverso, aperto e luminoso.

“La Giustizia”, 2012 

Il matto, la morte  e il diavolo

Abbiamo lasciato per ultimi i tre dipinti che illustrano, visti in sequenza, il titolo della mostra, sono molto nitidi, come gli altri del resto, ma qui oltre alla forma stilistica c’è la chiarezza compositiva, nessun enigma.  “Il Matto”  è reso con la figura maschile che fugge, ‘impazzimento è reso dalla testa scoperchiata da cui fuoriescono i parassiti che l’hanno invasa; corre su un alastra di ghiaccio che si va spezzando, cosa c’è di peggio?  Forse c’è “La Morte”, il bacio della figura nera al vecchio inanimato nel letto, in un ambiente asettico e gelido, è quanto di più terribilmente realistico si possa rappresentare del momento estremo. Ed è quanto di più temuto “Il Diavolo”, in quattro figure diverse, prese da altrettante fonti con Lucifero in volo, riunite come nell’attesa.

Esorcizziamo il collegamento con un’altra attesa, anzi “Indugio”, la donna seduta a lata ad un tavolini che aspetta. Forse che,  dinanzi alle violenze atroci,  l’altalena sbilanciata sul versante maschile che abbiamo visto nel dipinto prima commentato, torni in equilibrio e si dia vera giustizia.

Ma vogliamo concludere con i dipinti più lontani dalla realtà odierna e anche dalla favola, quelli ispirati alla storia. Che segna la rivincita delle donne, anche se con eccezioni che ripropongono l’attesa. Si tratta di “Katerina”, “Maria Teresa” ed “Elisabetta”, imponenti figure nei sontuosi abiti imperiali dell’epoca poste su piedistalli opulenti. Ma l’inquietudine non è scomparsa, del resto è il destino dell’umanità, qui evocato in “La buona signora Lot” unendo, almeno nella nostra personalissima interpretazione, la statua di sale dell’antica leggenda con il fungo della bomba atomica della realtà di ieri, che nella guerra fredda era l’incubo del domani. Che può tornare.

E’ vero ciò che dice Strinati:  muovendosi nell’inconscio impenetrabile, è come entrare, e lo abbiamo fatto seguendo il percorso della mostra, nei “‘buchi neri’ del Cosmo che, mentre li si esplora, dilatano i confini delle nostre presunte certezze  sprofondandosi nell’Ignoto e spostando così costantemente in avanti i limiti del possibile”. Noi vi abbiamo trovato l’incubo atomico, perché siamo della generazione cresciuta nella guerra fredda. Ma sappiamo che è il limite dell’impossibile.

Info

Via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, Sala Giubileo, tutti i giorni, compresi domenica  lunedì, ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664. Catalogo:  Alessandra Zorzi: Il matto, la morte e il diavolo, a cura di Claudio Strinati, Canova Edizioni, pp. 96 formato 24 x 21, euro 10,00; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Per Mario Praz cfr. i nostri due articoli sulla mostra fotografica alla sua casa museo romana in questo sito il 17 febbraio e in “guida fotografia.com” il 22 febbraio 2013.  Per Mondrian cfr. i nostri due articoli, in questo sito, il  13 e 18 novembre 2012,  a commento della mostra al Vittoriano.

Foto

Le immagini delle opere di Alessandra Zorzi sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta, in particolare l‘artista che ha accettato di essere fotografata da noi davanti a una sua opera. In  apertura  l’artista dinanzi a “Il diavolo”; seguono “La morte” e “Il matto”, poi “La Giustizia”  e “Il Faro”; in chiusura “Gli Innamorati”, tutti del 2012. 

“Gli Innamorati”, 2012 
 

D’Annunzio, 4. Il potere religioso e il potere spirituale

di Romano Maria Levante

Sui rapporti di Gabriele d’Annunzio con il potere religioso abbiamo già ricordato la condanna per ben quattro volte all’Indice dei Libri proibiti di tutte le sue opere con un particolare accanimento che ebbe due momenti “clou”: il  divieto al “Martirio di san Sebastiano”  nel febbraio 2011 al solo annuncio, precedendo l’Indice e prima addirittura che fosse rappresentato; la condanna all’Indice del “Solus ad Solam” dopo la morte dell’artista. Lo chiamiamo così e non Poeta o Comandante perché la nostra rievocazione nel 150° della sua nascita avviene nell’ottica dei rapporti tra arte e potere. Proseguiamo il ricordo con l’atteggiamento verso il mondo ecclesiastico e i simboli del Cristianesimo, per circoscrivere la contrapposizione ed evidenziare la sua adesione.

A Drenova, 1° agosto 1920

Nel suo libro su “Gabriele d’Annunzio e l’Indice dei libri proibiti . Da Leone XIII a Pio XI”, Ferdinando Gerra parla di “vera crociata antidannunziana”, per cui è interessante – sempre nell’ottica dei rapporti tra artista e potere –  ricordare l’aspra reazione, che non si fece attendere dopo la seconda condanna; mentre per la prima, intervenuta con Pio X, a firma del cardinale Della Volpe, abbiamo riportato  la dolente risposta del febbraio 2011 al divieto del “Martirio di san Sebastiano”, che l’aveva preceduta e forse originata, sull’intensa religiosità dell’opera. In quest’occasione D’Annunzio aveva detto  anche: “Ai tempi di Leone XIII non ho mai avuto il più lieve conflitto con la Chiesa. Leone XIII era il più fine umanista e per molti anni mi ha protetto”. 

In “Ne laedat cantus”  faceva dell’ironia sulla “persecuzione clericale” che gli aveva preparato “dinanzi al teatro la catasta  di Arnaldo congegnata con più improba ira”, aggiungendo: “Non è certo che  on sieno domattina scomunicati anco i meravigliosi  intagli… e avori e bronzi senza numero nel non purgato Museo Cristiano”.  Rincarava la dose  rinfacciando a Pio XI di aver custodito da cardinale, nella Biblioteca Ambrosiana, “il pallore de’ capelli di Lucrezia Borgia”. Fu ironico anche nel 1927 nei cartoncini con la scritta: “Dal giorno 11 di questo giugno al giorno di Ognissanti resterà chiuso nella sua Officina  dove il suo diurno e notturno lavoro non potrà essere interrotto se non dall’infallibilissima Congregazione dell’Indice con  anticipati fulmini”.

Come nei film sui penitenziari famigerati, nei titoli di coda ci sono le notizie o le immagini della chiusura intervenuta quasi a marcarne il fallimento, così per l’Indice dei libri proibiti c’è stata l’abolizione con il Motu proprio  del 7 dicembre 1965, che ha fissato nuove norme per la Congregazione della dottrina della fede, subentrata alla temuta Congregazione del Sant’Uffizio.  A sancire questa vittoria dell’arte sul potere è stato Paolo VI, successore ideale di Paolo V che nel suo pontificato, sebbene contrario al metodo copernicano, fu benevolo con Galileo, il quale racconta l’invito che vivesse “con l’animo riposato” e che “(vivente lui) io potevo esser sicuro”. Si limitò all’ammonizione, mentre Urbano VIII lo processò con relativa condanna e richiesta di abiura.

L’atteggiamento verso la Chiesa non clericale

Se vi fu un’aspra reazione alla gerarchia clericale, ben diverso fu l’atteggiamento verso il mondo della chiesa che sentiva vicino alla sua sensibilità e che non era certo “potere religioso”.

La sua predilezione per i frati di Barbarano e la sua vicinanza al parroco di Gardone don Fava, con il quale era prodigo di offerte, sono ben note, ma possono essere ritenute espressione di animo generoso piuttosto che di religiosità. Però attese la visita del vescovo di Brescia monsignor Tredici nella parrocchia con grande ansia e scrisse al parroco: “Sento già l’aura dell’Angelo che dalla tua bontà fu mandato a custodire la mia casa tanto triste”; né fece gesti scaramantici come quelli che lo portavano ad evitare il numero tredici anche nella numerazione delle pagine. Si era a un anno dalla morte, con il senno del poi la scaramanzia serviva eccome! Sei mesi dopo venne chiamato al Vittoriale don Riboldi dei domenicani di Milano “per conversazioni di salute e di anima”.

Particolarmente toccante l’ultima visita ai frati di Barbarano quasi presagisse la fine prossima, che giunse inattesa la sera del 1° marzo 1938 alle ore 8 e 5 minuti. Don Fava nel chiedere al Vescovo l’autorizzazione per il funerale religioso, prontamente concessa da Roma, assicurò che “da quando aveva conosciuto D’Annunzio, questi aveva mostrato di volgersi alla Chiesa. ‘Quell’anima avanzava verso Dio'”. Lui stesso gli aveva dato l’assoluzione “sub conditione”, l’Estrema Unzione e l’indulgenza plenaria e disse: “Io corsi al Vittoriale ‘chiamato'”.

A Cosàla, nel cimitero dinanzi ai caduti delle due parti, 2 gennaio 1921 

Non va sottovalutato il significato degli affreschi delle sante che dovevano assisterlo nella solitudine nel soffitto della “Stanza del Lebbroso”,  santa Elisabetta d’Ungheria e Sibilla di Fiandra, Giuditta di Polonia e Odila d’Alsazia fino a santa Caterina, scelte per la loro assistenza ai lebbrosi con un straordinaria competenza dato che alcune non sono citate nelle apposite fonti.   

La stessa Chiesa, pur nella sua intransigenza, non poteva ignorare questi  e altri  segni di attenzione per la religione e i religiosi. Il suo amore per San Francesco era straordinario, tradotto in un francescanesimo devoto che si esprime nei comportamenti e negli scritti. In uno dei “Taccuini”, nel 1917,  si trova la celebre espressione in cui lo definisce “Il più santo degli Italiani, il più italiano dei Santi”,  sentiva che la sua personalità, come scrive Curzia Ferrari, “spogliata di certi attributi divini, si rifà in lui terrena, quasi umanamente eroica, più accessibile alla  mente dell’uomo”.  Secondo Regard lo attirava  perché il santo “ha scontato di persona – in umiltà e sottomissione – la sua conversione, la bruciante sua conversione all’apostolato”,  in una sorta di identificazione espressa nel motto “Io ho quel che ho donato”.  Era affascinato dagli aspetti esteriori ma ne sentiva anche il dramma interiore: nella visita al roveto incarna le tentazioni  nel percorso tormentato del fiumicello Tescio,  con le parole ispirate in nei “Taccuini” del 1887 e nelle “Faville del maglio”: “E questo fiume – conclude – è quanto di più umano  e più vicino a me io trovi in tutto il paesaggio”.

Voleva scrivere un’opera mistica ed eroica per il settimo centenario della morte del Santo, “La Vergine e la Città”, una lauda drammatica in forme moderne su santa Chiara di cui aveva definito il contenuto sulla base di antichi testi sacri, lo ha ricordato l’allora sindaco di Assisi Arnaldo Fortini nel suo “D’Annunzio e il francescanesimo”. Particolarmente toccante la cronaca dei “Taccuini”  dei giorni 22 settembre-4 ottobre 1917 in cui rievoca il volo su Cattaro con accenti ispirati rivolti a san Francesco a cui rivolge “la più infiammata preghiera”, fino a immaginare che darà “del suo cappuccio un’ala”. Nel volo sentirà di trovarsi “nel ‘Terzo Luogo’ al di là della vita e al di là della morte” fino ad esclamare: “Ecco il luogo altissimo, ecco il luogo profondissimo dove ci abito, ecco il luogo segreto mistico ed ardente, dove ci respiro”.

Ebbe vivo interesse per san Gabriele dell’Addolorata, assisiate dal nome Francesco Possenti morto giovanissimo che diventerà patrono d’Abruzzo, da lui chiamato “lu Checchino nostro abruzzese”. Il destino volle che la notizia della morte di D’Annunzio piombasse sulle celebrazioni del centenario della nascita del santo a Isola del Gran Sasso con Fortini, sindaco di Assisi. E non mancò la ricerca di Padre Pio, l’attesa dello “spiritual dono” della Provvidenza per un “incontro col mirabil uomo”, che non avvenne, o avvenne solo virtualmente, nonostante la volontà dei protagonisti; una vicenda misteriosa, una missiva che un messo doveva recapitare e ne fu impedito, riapparsa dopo decenni.

Il funerale religioso, immortalato da eloquenti immagini con i preti e chierichetti in cotta bianca in testa al corteo diretto verso la chiesa e il crocifisso sulla bara, non ci sarebbe potuto essere se l’artista lo avesse escluso. E’ vero che aveva detto a un amico di Salò tre mesi prima della morte: “Ho orrore di pensare prima ai miei funerali. Ma credi che debba proprio ammettere la pretaglia che mi ha condannato e diffamato per tutta la vita dietro la mia salma?” Tuttavia le disposizioni date a Maroni sono chiare, come riferisce D’Aroma: “Sono stato battezzato. E tu sai quello che devi fare”.

Le esequie di D’Annunzio,  (3 marzo 1938). Il feretro con il crocifisso seguito dalla moglie Maria Hardouin di Gallese , dai figli Mario e Gabriellino, e da Mussolini

Non furono più esplicite perché voleva evitare che il confronto tra arte e potere religioso ponesse condizioni inaccettabili per lui, come artista e come uomo; certamente don Fava non andava confuso con la “pretaglia”; mentre nei riti funebri aveva reso sempre onore e rispetto in occasione della morte dei commilitoni e così nelle cerimonie religiose in generale. Ricorda Ugo Ojetti quanto  il cardinale Costantini gli aveva confidato, che D’Annunzio, in una funzione di suffragio per la propria madre, “genuflesso ha seguito la messa sopra un messale, sulla messa dei morti che… è la più semplice e la più bella e la più antica delle nostre messe”; il suo attendente Romagnoli  ha detto che, entrando in chiesa, si faceva sempre il segno della croce; e quando fu trasferita la salma di Giovanni Randaccio nella basilica di Aquileia, “ascoltò la messa inginocchiato per tutto il tempo”.

Il suo rito funebre a Gardone fece dire ad Ojetti: “D’Annunzio in chiesa, benedetto con l’aspersorio e l’incensiere, davanti alla croce di Gesù: ecco l’altra novità inaspettata e questa ci annunciava l’eterna pace”. D’altra parte i momenti di raccoglimento più intenso, davanti ai caduti di Fiume o davanti al feretro dei suoi più cari avieri commilitoni, morti da eroi, lo trovano sempre in ginocchio, manifestazione nella quale può esserci molto di più che il semplice rispetto.

Le faville di religiosità seminate da D’Annunzio sono dunque numerose, insieme ad altrettante manifestazioni di segno opposto: la condotta “immorale” che gli veniva contestata e, negli scritti, la letteratura sensuale-mistica ritenuta corruttrice dei giovani per il grande ascendente che aveva su di loro. Francesco Flora, critico di lui in età matura, scrisse che “deve avere il segno intimidatore della grandezza un uomo che ha fatto impallidire d’attesa i giovani rapiti da lui, e noi con essi, e il ricordo ci riempie di appassionata nostalgia”. Tutto questo concorse alla messa all’Indice da parte della Congregazione del Sant’Uffizio per ben quattro volte, di cui abbiamo già parlato, ma senza che fosse scomunicato l’uomo e anche questo merita di essere sottolineato.

Passando dal potere religioso a quello che potremmo definire potere spirituale, cioè la forza del messaggio soprannaturale e salvifico il discorso si fa ben più complesso.

Non crediamo che queste possano essere considerate prove sufficienti di una sua autentica credenza che andasse oltre la generica spiritualità o la religiosità legata all’esaltazione panica, con il “dio della natura”, o eroica, con il “dio degli eserciti”. Per quest’ultima ci sono le pagine sulla missione aerea alla bocche di Cattaro affidata alla protezione di San Francesco e tutta percorsa da richiami religiosi fino alla percezione, nel momento del pericolo, del “terzo luogo”, una plaga tra la vita e la morte dove raggiunge un’altissima spiritualità;  come quando si trova “sull’orlo della vita nell’accezione di Dante” con riferimenti inequivocabili all’al di là e al destino ultimo dell’uomo.

Va operata una precisa delimitazione – raccomandava mons. Manlio Maini nel 1957 – tra “spiragli di vita religiosa in un segreto capitolo di vita” e la credenza che avrebbe assorbito dalla sua terra, così definita: “Questa credenza si può dire fede quando si attiene alle linee precise di una Religione (nel nostro caso della religione cattolica), linee di Verità e di Precetti. Troppe e troppo gravi cose sono chiamate dunque in causa dal concetto di Fede”. Ma nel 1965 padre Raimondo Spiazzi poteva affermare che “si può porre il problema di una sua fede, o almeno di una sua religiosità, nel senso di riconoscimento e accettazione di un assoluto trascendente, quella che si chiama e si percepisce quasi istintivamente come realtà divina”.

Il corteo funebre con i sacerdoti sosta sulla nave Puglia

E nel 1991 padre Ferdinando Castelli di “Civiltà cattolica”, pur partendo da un giudizio molto severo dell'”incontro di D’Annunzio col bellissimo nemico” in opere giovanili trasgressive se non blasfeme, resta colpito da una sua “vecchia preghiera, vergata a 23 anni, che è nello stesso tempo confessione e pentimento” e si chiede, dinanzi al “ferale taedium vitae” dell’uomo chiuso nel Vittoriale, se in prossimità della morte “ebbe il tempo e la grazia di ripetere qualcuna di quelle parole così vivide di umiltà e di speranza”.

Scriveva Giuseppe Pecci nel 1969, nel suo “D’Annunzio e il mistero”, che era lungi da lui “l’idea di fare del D’Annunzio, anche vecchio, anche negli ultimi tormentati giorni, un asceta o un santo e nemmeno un cristiano convinto”. E concludeva che egli “portò con sé il suo mistero” ponendo l’ interrogativo: “Possiamo però pietosamente chiederci se, in definitiva, abbia prevalso in lui, negli ultimi istanti, la dura lucidità del suo cervello o il cristiano respiro di sua madre”, che egli chiamava “la mia madre santa”.

Piero Bargellini, nel sottolineare “il tormento della sua anima” affermava: “Che il goditore pagano abbia incontrato il Cristo, è un fatto per me certissimo. Ma non è detto che un incontro o una nostalgia siano sufficienti a fare un cristiano. Che il D’Annunzio abbia lottato con l’Angiolo è, sempre secondo me, dimostrabile. Quale sia stato l’esito della lotta resta un mistero che l’uomo s’è portato nella morte. E’, del resto, il mistero di tutti gli uomini”.

Questi due autori ponevano con forza l’ interrogativo sulla sua religiosità e sul suo approdo finale. Il dilemma di Pecci richiama la lettera scritta dall’artista il 25 marzo 1937, un anno prima della morte, a Maroni, il suo braccio destro al Vittoriale, nella quale si confidava così: “In uno dei miei libri io mi dicevo ‘mistico senza Dio’, ma col passar degli anni mi sono riconosciuto – pur contro la lucidità del mio cervello – sempre più inclinato a un misticismo visionario e più segretamente trepido al soffio del Soprannaturale”. E concludeva: “Ormai da venti anni io vivo nel respiro di mia madre vivente e presente e, come più gli anni passano, più la presenza diventa reale e attiva”. La risposta autentica la dà lo stesso D’Annunzio in un altro scritto: “E oggi ritrovo le impronte delle ginocchia materne… nella solitudine del mio muto eroismo da cui dovrò dipartirmi…  E nell’una e nell’altra impronta oggi ritrovo il pensiero che condurrà la mia devozione e il pensiero che mi salverà l’anima”. Parole eloquenti che tuttavia non sono risolutrici del mistero.

Nel 150° dalla sua nascita vogliamo riproporre – partendo dai rapporti tra l’artista  e il  potere religioso,  che diviene potere spirituale – l’interrogativo sul D’Annunzio credente dando una risposta, motivata e speriamo appropriata, in una sorta di “processo” con prove precise e verificabili: un processo non a D’Annunzio ma a coloro che hanno fatto prevalere altri aspetti più evidenti e superficiali rispetto alla sua profonda spiritualità che si traduce in religiosità e fede.

Il corteo funebre esce dal Vittoriale per il funerale religioso nella chiesa di S. Nicolò;   in chiusura, “Un mistero che l’uomo s’è portato nella morte” (P. Bargellini).

Una chiave interpretativa nel libro-confessione

In fondo, una chiave per interpretare tante esitazioni ed incertezze nel percorso spirituale di D’Annunzio si può trovare nel libro-confessione “Contemplazione della morte” dove – dinanzi all’agonia di Adolphe Bermond, il fervido credente proprietario dello chalet di Arcachon dove soggiornava – manifesta il bisogno di “accendere l’altra lampada”, quella della fede, “ma senza spegnere la prima”, quella della poesia che si nutre dei forti richiami della natura umana: cioè della carne in perenne lotta con lo spirito, in quella che lui chiamava “la lotta dell’Angiolo”. Ma è proprio “la forza ascendente e molteplice”, la “sostanza rinnovellata per alimentare la divinità futura” che gli fa superare il dilemma tra accendere la nuova lampada e spegnere quella antica: in questa, anzi, ha “rifuso un più ricco olio perché riardesse”.

Nella “Contemplazione della morte” la religiosità autentica espressa senza remore veniva a scontrarsi con l’osservanza esteriore e con le sue regole, perciò era portato a distinguere nettamente i vari piani: continuava nelle opere e nella vita a manifestare la vitalità della sua natura ma senza dimenticare la matrice religiosa della sua terra (“sono di una terra nativamente religiosa”) e di se stesso. Come si riscontra in altre opere autobiografiche dinanzi alle quali si rimane sbalorditi per la straordinaria ricchezza interiore che sfiora la religiosità e spesso si avvicina alla fede.

Pecci fa un’accurata analisi della sua produzione letteraria sin dalle opere giovanili e ne emerge un’evoluzione costante verso forme di spiritualità religiosa che si lasciano alle spalle le forme espressive e i contenuti del decadentismo in un’epoca materialistica in cui perduravano i riflessi del romanticismo. Si vede come dall’atteggiarsi irridente della prima fase si passa a una visione più serena fino agli atteggiamenti profondamente religiosi dell’ultimo periodo, quello “notturno”.

Negli scritti autobiografici è animato da religiosità autentica e si potrebbe riportare una serie lunghissima di espressioni, ambientazioni, citazioni bibliche anche se spesso questi contenuti sono stati fraintesi alla ricerca accanita di una vena pagana. Mentre si trattava di eccessi passionali dovuti alla sua natura che non lo allontanava, nonostante tutto, dal richiamo religioso.

L’assimilazione della morale cristiana alla castità faceva sì che tutti gli altri aspetti positivi della sua vita fossero oscurati da quel pregiudizio. Ed è probabile che fu questo motivo ad allontanarlo da una decisione chiara in materia di fede, per il timore di sentirsi chiedersi di abiurare a ciò che era stato ed era, nella vita e nell’opera artistica (“spegnere l’altra lampada”), come avvenne allorché cercò di incontrare il Papa. “Quante volte ho tentato di morire perché gli uomini non più mi giudicassero – scrisse ad Antonio Bruers, “il dotto bibliotecario” del Vittoriale – Quanti giudici! Quanti giudici! Ci sarà anche un convegno di vermi giudicanti sul mio cadavere?”.

In questo quadro variegato di indizi, dove però le luci prevalgono sulle ombre, una parola risolutiva crediamo possa venire dalle testimonianze dirette “ex ore suo”. Ne parleremo prossimamente. 

Info

L’analisi dettagliata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta: Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118; la parte seconda  su “Il personaggio”, pp. 119-293.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi  tre articoli, dei sei del servizio, sono usciti, in questo sito, il 12, 14 e 16 marzo, gli ultimi due usciranno il 20 e 22 marzo 2013, tutti con 6 immagini ciascuno. Cfr. intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013,  in http://www.100.newslibri.it/, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca prese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 272-280) che le ebbe dalla presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: A  Drenova il 1° agosto 1920 ; seguono  Al cimitero di Cosàla dinanzi ai caduti delle due parti il 2 gennaio 1921 e  Le esequie (3 marzo 1938). Il feretro con il crocifisso seguito dalla moglia Maria Hardouin di Gallese , dai figli Mario e Gabriellino, da Mussolini, poi  Il corteo funebre con i sacerdoti sosta sulla nave Puglia e  Il corteo esce dal Vittoriale per il funerale religioso nella chiesa di S. Nicolò;   in chiusura, “Un mistero che l’uomo s’è portato nella morte” (P. Bargellini).

 “Un mistero che l’uomo s’è portato nella morte” (P. Bargellini).

Scully, minimalismo e sentimento, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Essenziale e istruttiva la mostra “Sean Scully: Change and Horizontals” in corso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dal 14 marzo al 9 giugno 2013. La mostra, realizzata da Joanna Kleinberg e Brett Littman per il “Drawing Center” di New York dove andrà dal 26 settembre al 10 novembre 2013, a Roma è curata da Peter Benson Miller dopo le esposizioni a Londra, Middlesbrough e Monaco di Baviera. Il Catalogo è edito da Drago. Sono esposte circa 20 opere e una ricca serie di Schizzi in fogli sparsi e 60 pagine del Notebook che mostrano come fissasse su carta gli impulsi spontanei destinati ad essere poi tradotti nelle sue composizioni con nastro adesivo e griglie, divenute “orizzontali” nel passaggio da Londra a New York ed esplosi infine a Roma in forme intensamente colorate. Tutte opere del 1975, tranne tre del 2005 realizzate a Roma.

Scully  davanti alla sua opera “Untitled”

La mostra è essenziale perché con poche opere esposte marca con precisione ed efficacia uno stile e un’evoluzione; istruttiva  in quanto consente di esplorare il mondo misterioso dell’arte astratta, qui nel versante ancora più indecifrabile del minimalismo, cercando di coglierne la cifra espressiva.

Una prima chiave di lettura ce l’ha data lo stesso artista allorché gli abbiamo chiesto se e come si differenzia dal minimalismo: ci ha parlato di sentimento, dopo aver ricordato che il minimalismo viene come reazione alla Pop Art e all’espressionismo, nella ricerca della pulizia, dell’essenza. Ha espresso quel “qualcosa di invisibile che resta nell’animo”, trovando l’essenza nelle griglie di un cromatismo delicato riflesso della situazione ambientale dalla quale trae impulsi e ispirazione.

Sulla profondità culturale europea, dalla nativa Irlanda alla Londra della sua formazione, si è innestata quella che ha chiamato “l’organizzazione formale americana” e il suo dinamismo:  da un lato l’influsso dei grandi artisti – ha citato Cimabue e Tiziano, Velasquez e Goya – dall’altro il ritmo prodotto anche dalla musica, e in questo viene spontaneo il riferimento al Mondrian anche lui approdato nella terra del Jazz e del Rhytm  and Blues: ricordiamo nella mostra al Vittoriano la varietà dei motivi musicali che accompagnavano l’esposizione dei dipinti della “perfetta armonia”. Sente molto la dialettica tra vecchio e nuovo mondo, l’incrocio e la sintesi dei loro caratteri.

Prima di passare alle sue opere è bene conoscerlo meglio, cominciando dalla biografia. Londra, dove è vissuto a lungo, la sente “grigia, dura e spiritualmente vuota”, laurea in Belle Arti all’università di Newcastle, borsa di studio ad Harward nel periodo del minimalismo, quando inizia con il nastro adesivo, le linee verticali e orizzontali con rare diagonali e colori altrettanto rari. Ed è significativo che nel trasferimento a New York  scompaiano le griglie restando le sole orizzontali.  

Ascoltiamo la sua intervista del gennaio 2013,  proposta in un video molto istruttivo della mostra: “Il mio modo di dipingere è semplice, si trova ‘quasi’ ovunque, ma il ‘quasi’ è fondamentale”. E’ una definizione valida per quella parte dell’arte contemporanea che si traduce in opere basate su un’idea brillante che non richiedono abilità realizzativa; non è il caso di Scully, quel “quasi” è tutto.

Rivendica la sincerità della sua arte e confida di aver lasciato Londra perché cercava maggiore chiarezza, ma a New York si è sentito immerso ancora di più in quei fattori di confusione che lo opprimevano nella City. Però vi ha trovato un’assoluta libertà, che gli ha dato maggiore apertura mentale tradotta nell’evoluzione stilistica: ha ridotto il colore e gli elementi decorativi, eliminando le linee verticali, di qui il titolo della mostra, “cambiamento e orizzontali”, siamo sempre nel 1975.

Pur nell’astrazione formale, vuol mantenere il contatto con la realtà tangibile, per questo utilizza il nastro adesivo che gli fa sentire la materia, unendolo all’acrilico, quasi come un alchimista. Gli piace dipingere per se stesso e conservare le proprie opere, espressione della sua struttura mentale.  Un’altra confessione è che vorrebbe mostrare di più la propria abilità di disegnatore, e che dietro le sue opere c’è un processo profondo di ricerca dell’essenza partendo dagli stimoli della realtà.  Chiama “gioiosi” i Taccuini e i fogli con i suoi “schizzi”, spesso conti dei ristoranti, sono griglie di linee:  “Mi piace appiccicarli come fanno i bambini sugli album, quasi giocando – sono sue parole – ma penso all’arte ed è per me un antidoto. Ho un modo di disegnare semplice e sincero”.

“Le persone tendono  a pensare l’astrazione come astratta” –  aggiunge giocando con le parole in una chiara lettura dell’indecifrabile – Ma nulla è astratto: è un autoritratto. Un ritratto della propria condizione”.  E ritraggono la sua condizione – “qualcosa di visto e qualcosa di sentito” – le sue opere, dietro le quali vanno percepite le ben diverse atmosfere di Londra, New York e Roma.

“Change # 7”, 1975

Il “Change”  londinese

Non si tratta di una mostra antologica, quindi non è rappresentativa dell’intera vita artistica di Scully, però è particolarmente significativa perché coglie, nel 1974-75, lo snodo del passaggio da Londra a New York con le opere dei due versanti nella loro evoluzione non solo stilistica. E nei tre dipinti del 2005 eseguiti durante il soggiorno romano a Villa Massimo coglie l’influenza diretta di una città come Roma, solare e luminosa, da lui ritenuta coinvolgente dal punto di vista psicologico “per la magnificenza della sua storia e della sua arte e per essere il centro del cattolicesimo”.

La soprintendente della Gnam, Maria Vittoria Marini Chiarelli, scrive che “questa fase iniziale della carriera dell’artista – che comunque getta le basi degli sviluppi successivi – è dominata dal pattern geometrico delle verticali e orizzontali e da una gamma ristretta di colori freddi: principalmente grigi, azzurri e verdi”. In effetti sono tali quelli della serie “Change” identificati solo da un numero, precisamente 1  e 8, 22 e 24, 35 e 42; mentre il n. 5 e soprattutto il n. 7 hanno toni caldi, il secondo un intenso rosso; “Untitled”  è in terra di Siena di 4 riquadri con altrettante tonalità,  che si stemperano in Grey red grey, due parti, una griglia tenue e  un fondo a tinta unica. Le varianti tonali nella stessa composizione spesso evocano echi della realtà, come nel n. 24 le rotaie dei treni inglesi. Per questo i curatori americani Joanna Kleinberg e Brett Littman dicono: “Scully concepisce un’astrazione che giustappone alla purezza della geometria  le associazioni implicate nella memoria e nella percezione visiva di ciascuno”.

Non è superficiale trovarvi assonanze con i tessuti, potrebbero essere alla base dell’ispirazione, dato che in un viaggio a Fez e Marrakesh – secondo i curatori  – “è rimasto affascinato dalla sensualità e la particolarità tattile dei tessuti a righe marocchini”; oltre che dall’architettura e dall’ambiente, aspetti di cui diremo più oltre. Lo stesso fu per Paul Klee, dopo il viaggio a Tunisi e altri artisti. Lo stile è astratto, ma le “linee e le angolature esagerate rivelano gradualmente infinitesime variazioni di formato, di tavolozza e di ritmi.  Scully capì che usando lo stesso motivo più volte si apriva a svariate profondità emotive e altrettante gamme interpretative”. Come sono le gamme cromatiche.

“I disegni che presentiamo partono dalla semplificazione minimalista – precisa la Chiarelli – ma approdano a una dimensione meno astratta e impersonale, perché il rigore è addolcito  dalla levità vaporosa delle tinte”. L’artista ha parlato di sentimento e di sincerità, come abbiamo visto, e la soprintendente la vede così: “La spersonalizzazione cede il posto a una forma temperata di lirismo, perché nelle griglie di Scully si depositano ascendenza, ricordi, echi di una formazione personale complessa”. Ma è difficile decifrarli: “Una visione più profonda non vuol dire necessariamente più limpida. Sembra, invece, che dall’interiorità si sprigioni  una nebbia capace di rendere indeterminata anche la determinatezza geometrica”.

“Horizontals # 10”, 1975

Gli “Horizontals” newyorkesi

Diviene ancora più essenziale la determinatezza geometrica dopo il suo trasferimento a New York,  dove abitò con il pittore Natkin a Manhattan, nell’Upper West Side, l’ambiente è importante per lui; ma vedremo che viene ancora di più offuscata dalla nebbia proveniente dal suo sentire interiore.

I suoi lavori li intitola “Horizontals,  anch’essi identificati da un numero, sono esposti i n.  1 e 3, 5 e 6, 8 e 10, l’evoluzione è definita dal titolo della serie. Così l’artista: “Quando ho lasciato Londra per New York ho rotto una griglia… la mia griglia, non era più incrociata. Sembrava caricata psicologicamente. Lasciai l’Europa e il suo ordine, per una New York in cui non comparivano più verticali stabilizzanti Semplicemente erano scomparse. Ho eliminato il verticale, ero rimasto solo con l’orizzontale. E così potei iniziare il mio viaggio lungo di esso”.

Potrebbe sembrare strano che abbia eliminato il verticale proprio nella città dei grattacieli, lo ha fatto per togliere dei vincoli, il riferimento ambientale è all’ordine geometrico stradale newyorkese, come si vede nei n. 6 e 8 dove – secondo la Kleinberg e Littman – “bande orizzontali alternate si espandono e ricordano le strade della città, e le sfumature sulla superficie di carta suggeriscono costruzioni architettoniche, giochi di luce che filtra fra grattacieli e corpi d’acqua”.

Ma non sempre mantiene il rigore lineare, si apre a campiture compatte rigorosamente squadrate, nei n. 6 e 8, in uno dei due grigi alternati nella composizione di fasce orizzontali; e a campiture di tonalità cromatica diversa, quasi una sintesi delle due alternate, nel n. 10.  La sua libertà stilistica rispetto al minimalismo rigoroso non finisce qui, irrompe la nebbia cui si accennava prima, che proietta la sua ombra nella trama orizzontale delle fasce alternate, quasi un viluppo o una macchia, nei n. 3 e 5. I curatori notano che “le estremità ammorbidite sono maggiormente sensibili alle imperfezioni della mano dell’artista, un’estensione necessaria della sua condizione mentale e del cambio d’ambiente”; Si sono aggiunti i viaggi nel determinare in lui un'”esplosione di creatività”.

“Roma”, 2005

I “Colored Walls” romani

La mostra, nel passaggio all’ultima sala, fa fare un balzo di 30 anni nel tempo, ed attraversare l’oceano per tornare addirittura a Roma. Le tre opere del 2005 – molto diverse dalla produzione esposta, londinese e newyorkese del 1975 – sono  state create durante il suo soggiorno a Villa Massimo, nell’Accademia tedesca, e riflettono la solarità e i muri cittadini. Sono acquerelli, quello intitolato Roma mostra due pile di diversa dimensione con forme rettangolari sovrapposte di vari colori, dal nero al giallo brillante, dai contorni irregolari.

Il curatore della mostra romana Peter Benson Miller vi vede “quella caratteristica dei mattoni romani, a esempio quelli usati per il Pantheon, il che lascia pensare che Scully stesse dedicando, nel corso del suo soggiorno, parecchia attenzione alla muratura antica della Città Eterna”.  Non è una sorpresa, anche nel viaggio in Marocco oltre che dai tessuti rimase impressionato dalle architetture e dalle facciate colpite dalla luce, e così a Barcellona  e in Messico, lo provano tante fotografie.  Siamo ancora nella struttura orizzontale, sia pure non geometrica né ripetitiva come forma e cromatismo, ma a Roma la supera dipingendo piccoli blocchi intersecati orizzontali e verticali.

Lo vediamo nei due dipinti intitolati Colored Wall in cui – nelle parole immaginifiche del curatore – “le bande luminose dei pigmenti colorati sono compresse in unità più piccole, come panetti di burro che si sciolgono lentamente l’uno dentro l’altro”. Infatti i  contorni dei “panetti” sfumano i quelli successivi, creando quello che Armin Zweite definisce un “duplice movimento paradossale”:  contrasti netti e campi di colore da un lato, effetti cromatici dall’altro, in una “congiunzione di opposti che permea ogni forma e sfumatura di colore”.  

Questo segna il superamento del minimalismo per avvicinarsi ad artisti come Kelly e Rothko, Mondrian, addirittura fino a Monet; ma soprattutto viene evocato Giorgio Morandi, su cui Scully scrisse nel 2005 un saggio come tributo. Vengono sottolineati gli aspetti paradossali che li accomunano, alla frontiera tra astrattismo e figurativo. Nelle “bottiglie” di Morandi – spesso sopra blocchi geometrici che somigliano a quelli degli acquerelli romani di Scully – nonostante l’apparenza figurativa viene vista una forma di astrazione, nel disegno, nel cromatismo e negli accostamenti; così nei blocchi apparentemente astratti di Scully si vede l’espressione figurativa dei mattoni della Città Eterna.  Benson Miller usa addirittura l’espressione in politichese  “convergenze parallele”  per descrivere come due percorsi senza punti di contatto possano convergere nei risultati pratici, così per astrattismo e figurativo. 

“Colored Wall”, 2005

Gli “schizzi” dei Taccuini e Notebook

Non possiamo concludere senza soffermarci sugli “schizzi”  esposti in mostra, in oltre 50 pagine di Taccuini e fogli di “Notebook”.  La maggior parte sono griglie in inchiostro nero con il motivo ricorrente di essere divise in riquadri, oppure, quando sono solo linee orizzontali, essere affiancate da campiture con una diversa geometria; ve ne sono anche quasi in miniatura, e colorate in inchiostro rosso o blu. Alcune di queste composizioni schizzate le abbiamo viste realizzate nelle opere esposte. E’ difficile descrivere l’impatto dei grandi quadri allineati sulla parete del corridoio che porta alle ulteriori sale della mostra, con esposti questi schizzi; si guardano  sentendo di penetrare nell’intimo dell’artista perché sono espressioni spontanee di un momento del tutto personale, nel quale è nato l‘impulso a tratteggiare dei segni divenuti documenti importanti.

Maria Giuseppina Di Monte ne parla così: “Nei disegni di piccole dimensioni e nell’inedito album di sketches troviamo l’alfabetico segnico che compone la sua  pittura in una versione quasi domestica… per non dire degli studi del Notebook  che vengono per la prima volta esposti in occasione della mostra e rivelano, usando una scala minima, com’è ovvio, il peculiare uso della griglia che Scully non ha mai abbandonato dagli anni ’70 ad oggi, ma ne ha variato dimensioni, intensità ed espressività”. Senza mantenere fino in fondo la “modularità”, ma inserendovi  dei “distruttori”: “Le finestre che si aprono spesso fra le bande e i quadrati interrompendo i ritmi e fornendo allo sguardo la possibilità di riorientarsi sulla ‘parte’ piuttosto che sul ‘tutto'”.

Nasce qui la forma espressiva di Scully, di cui abbiamo commentato le opere del 1975 e del 2005. Attraverso disegni vergati d’impulso tesse la tela della sua arte, che si esprime  tra le griglie, le verticali ed orizzontali, i cromatismi soprattutto freddi, ma anche rossi e terra di Siena, nelle loro modulazioni cromatiche, viste “in una sorprendente gamma di sotto-toni e sopra-toni”. E, sono le parole della Di Monte con cui ci piace concludere, “condensa la sua poetica, costruendo reticolati che sembrano arazzi ed evocando atmosfere  e sapori di luoghi esotici e lontani”.

Info

Viale delle Belle Arti 131, Roma, da martedì a domenica ore 10,30-19,30, la biglietteria chiude alle 18,45. Lunedì chiuso. Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,50 (cittadini UE tra 18  e 25 anni  e docenti scuole statali UE); ridotto speciale solo mostre euro 7,00 (minori 18 e maggiori 65 anni). Tel. 06.32298221, http://www.gnam.beniculturali.it/. Catalogo: Sean Scully, Change and Horizontals, Drago Editore, pp. 112,  formato 15,5 x 23. Per le citazioni riportate nel testo cfr.  su questo sito i nostri servizi: per il Minimalismo, Kelly, Rothko, sulla mostra del Guggenheim al Palazzo Esposizioni, articoli del 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012; per Mondrian, sulla mostra al Vittoriano, articoli del  13 e 18 novembre 2012; per Klee, sulla mostra alla Gnam, articoli dell’1 e 5 gennaio 2013. Per Monet, i nostri articoli sulla mostra al Vittoriano in “cultura.abruzzoworld.com” del 27 e 29 giugno 2010.   

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna alla presentazione della mostra, si ringrazia la direzione della Gnam con i titolari dei diritti per l’opportunità concessa, e in particolare l’artista Scully anche per essersi fatto fotografare da noi davanti a una sua opera. In apertura l’artista davanti a “Untitled”; seguono “Change # 7” e “Horizontals # 10”, tutti del 1975, poi “Roma” e “Colored Wall”, entrambi del 2005; in chiusura “Schizzi” dal Notebook, 1974-75.

“Schizzi” dal Notebook, 1974-75

D’Annunzio, 3. Il potere politico e il potere religioso contro il Vate

Romano Maria Levante

Prosegue la rievocazione di Gabriele d’Annunzio, nel 150° anniversario della nascita,  ripercorrendone la vita nei rapporti tra arte e potere. Dopo averne ricordato a figura eroica e insieme umile nel crogiuolo della prima guerra mondiale e di Fiume con il suo carisma e la forza trascinatrice del pensiero e della parola, abbiamo parlato  del disegno politico, nato dalla sua mente di artista, di pacificazione nazionale, neutralizzato con la “pax romana” imposta dalla marcia su Roma. Il prezzo della vittoria del potere fu il regime e l’esilio al Vittoriale. Accenniamo agli ultimi aspri confronti con il potere politico fino all’altro intrigante rapporto dell’artista con un potere penetrante dal duplice aspetto: il potere religioso legato all’alta gerarchia ecclesiastica e il potere spirituale..

D’Annunzio notturno al Vittoriale

Al Vittoriale D’Annunzio è solo con se stesso e i suoi fedeli, i Legionari fiumani tra i primi. Ormai è rimasto soltanto l’artista che volta le spalle al potere. Fino all’ultima sfida, dopo le espressioni irridenti contenute nella lettera di Mussolini dell’inizio del ‘23 in una fase in cui continuava a lottare per la gente del mare: “Attendo i tuoi libri e ti ricordo che gli italiani attendono da te la poesia”, alla quale rispose tra l’altro: “Nessuno può influire… sopra la minima delle mie opinioni e delle mie risoluzioni. Fin dalla nascita io sono il solo conduttore di me stesso”. L’aspro contrasto culmina nella dura lettera del 23 aprile ‘24: “Fui tratto in inganno, di frode in frode, d’ipocrisia in ipocrisia, per due anni, quasi. Fu simulata la ‘firma’ del Patto marino; e nessuna applicazione, nessuna conciliazione, nessuna pacificazione fu compiuta”. La conclusione è secca e sdegnata: “Basta. Rimani dall’altra parte. Io resto di qua. E tu sai – come il mondo intiero sa – che io ho nel mio cuore e nel mio cervello ‘ogni specie di coraggio’. M’avevi promesso la tregua… M’imponi la lotta. Ma tutto ricada su di te, anche il sangue”.

E’ il grido dell’artista che rifugge dai compromessi e dai sotterfugi della politica e si oppone al potere, armato solo del suo orgoglio e della sua volontà. Lo fa quando, dopo le elezioni dell’aprile ‘24, il fascismo dilaga dopo avergli dato ipocritamente, il 15 marzo, il titolo platonico di “Principe di Montenevoso”. In questo anno cruciale, che vede la sua Fiume annessa all’Italia, con il delitto Matteotti del mese di giugno il potere getta la maschera dando la spallata decisiva alle istituzioni in senso autoritario. D’Annunzio si ritira definitivamente nella “gabbia d’oro” del Vittoriale attuando il proposito espresso nell’orgogliosa lettera a Mussolini del 1° dicembre ’22: “Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio… Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

Il volontario esilio è vissuto con la sua arte e i suoi cimeli, che evocano le imprese e l’impegno patriottico, fin dall’inizio assoluto e rigoroso: “Io sono ridivenuto il solitario ed orgoglioso artista dell”11 e per fermo proposito non mi curo di sapere quel che accade fuori del Vittoriale. Scrivermi è inutile, venire alla mia porta è inutile”, risponderà il 2 settembre dello stesso anno al direttore della “Provincia di Brescia” per smentire la sua adesione a una “Lega italica antifascista”. Intendimento che ribadirà il 28 maggio ’25, a conclusione della visita di Mussolini in occasione della donazione del Vittoriale agli Italiani: “Nel Vittoriale un uomo si è rinchiuso a riscolpire crudamente e pazientemente se stesso… Il motto ‘suis viribus pollens’ oggi deve essere resuscitato e rinnovellato. Aspettando questa concordia, ogni italiano deve rinnovellarsi e riscolpire se stesso. Io do l’esempio. Io ho strappato dalle mie caviglie le catene dell’azione e sono ritornato alla mia arte”. E il messaggio del ritorno definitivo all’arte la getta proprio in faccia al potere!

Nino D’Aroma commenta così: “Ora accadeva – e si può capirne l’amarezza – che il padre, il suggeritore autentico di quest’Italia vittoriosa dopo la Marcia, era costretto – non certo dagli uomini che lo amavano – ma dalla stessa essenza delle cose, a viverne lontano e separato, poiché una collocazione, nello Stato o nel nuovo regime che s’insediava, per D’Annunzio era assai difficile, per non dire impossibile”.

Quanto ciò gli costasse lo mostra la “tristezza color di cenere” delle sue giornate al Vittoriale, pur tra le spericolate corse nel lago sul MAS 96 della Beffa di Buccari, che Mussolini gli fece avere il 27 gennaio ‘25, seguito due mesi dopo dall’idrovolante. In una lettera del 16 febbraio ‘32 ad Alfredo Felici confidava di provare “la più cupa malinconia, che gli studi gravi o sottili non alleviano”, definendola così: “Questa forzata clausura è la più miserevole delle condizioni per un Italiano che fu l’interprete sommo della bellezza d’Italia”. Fino allo sfogo che ne svela la triste condizione di esiliato: “Perché non posso correre per una via piana, attraversare una città popolosa, entrare in una biblioteca o in una pinacoteca, sostare in meditazione o in estasi dinanzi alle opere che illustrai ed amai?”. Ricorda con nostalgia il profeta Giona e la Sibilla dèlfica nella Cappella Sistina, la “cornucopia simbolica” del console Flavio Aerobindo nel Duomo di Lucca, l’Annunciazione di Donatello a Siracusa, il pulpito di Giovanni Pisano in Sant’Andrea a Pistoia, Guidarello Guidarelli a Ravenna che “qui nell’angusto letto funebre del Lebbroso raffigura l’effigie della mia ultima pace”. Per rivederli, è la conclusione, “darei questo avanzo di vita solinga”.

L”arrivo  a Cargnacco

Arte e potere a confronto: la conclusione più amara

Così anche l’arte veniva mortificata nel confronto impari con il potere. Era stato emarginato brutalmente chi avrebbe potuto far valere ancora il suo carisma di artista con l’aggiunta dell’animo e della figura di soldato, un poeta-soldato dalla forza trascinatrice che faceva ombra al fascismo.

Forse in D’Annunzio si è consumata la possibilità che l’arte riesca a convivere serenamente con il potere nella sua espressione autoritaria; e in determinate condizioni possa essere chiamata a prenderne il posto per il bene della nazione. D’Annunzio, delineata la sua costruzione a Fiume nella Carta del Carnaro, iniziò a svilupparla sul piano politico ricercando l’unione delle forze sane e la pacificazione nazionale. Non si pensi alle costruzioni fantasiose della “Repubblica” di Platone, della “Città del sole” di Tommaso Campanella, di “Utopia” di Tommaso Moro; non si tratta di sogni e fantasie letterarie, bensì di un progetto lucido e concreto che avrebbe evitato al Paese la dittatura.

Così arte e potere a conclusione della vicenda politica dannunziana rimasero separati. Il potere aveva vinto. E non fu certo un bene, fu un danno per tutti.

Anche se con il senno del poi, e dando corpo a ipotesi precluse allo storico ma non al cronista, lo si può affermare con una certa consapevolezza e a ragion veduta. Perché la pacificazione nazionale con l’unione delle forze sane, proclamata e ricercata concretamente nell’intreccio dei contatti politici da D’Annunzio, avrebbe potuto sbarrare la strada al fascismo proprio nel fatale 1922. E avrebbe fatto il resto il suo feroce spirito antihitleriano, il totale disprezzo per Hitler definito fin dagli inizi “un ridicolo nibelungo truccato alla Charlot”, poi “despoto plebeo” e bersaglio di irrisioni tra il 1933 e il 1934: “Su l’acciaio dell’elmo ti gocciola il pennello d’imbianchino dai di bianco all’umano et al divino”.

E’ un disprezzo manifestato pubblicamente con espressioni quali “il marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce o di colla ond’egli aveva zuppo il pennello, o la pennellessa, in cima alla canna, o alla pertica, divenùtagli scettro di pagliaccio feroce non senza ciuffo prolungato alla radice del suo naso ‘nazi'” (lettera a Mussolini del 9 ottobre ‘33) e con epiteti come “Attila imbianchino” e “Attila della pennellessa” (telegramma ad Alfredo Felici e lettera a Riccardo Gigante dell’agosto ‘34). Questa profonda avversione lo avrebbe tenuto certamente mille miglia lontano dall’Asse Roma-Berlino del 24 ottobre ‘36, e successivamente dal Patto d’acciaio con la Germania hitleriana, per la quale sentiva la stessa avversione che verso il “Fuhrer”.

Con i membri del Comitato nazionale dell’Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio nel 1936, a sin. Tommaso Monicelli

La prova regina è l’estremo tentativo che fece recandosi alla stazione di Verona il 30 settembre ‘37 per incontrare Mussolini di passaggio sul treno che lo riportava in Italia dopo i cinque giorni di colloqui con Hitler, iniziati il 25 a Monaco e conclusi a Berlino. Accolto freddamente dal Duce, “attaccò con voce ferma qualunque legame con la Germania”, ha scritto Maroni nella sua relazione; chissà se ricorse anche alle espressioni usate dopo il precedente incontro di Venezia del giugno ‘34, sempre tra Hitler e Mussolini, allorché, come ricorda Momigliano, “a Rizzo che gli chiedeva per conto di Mussolini quale fosse la sua impressione aveva risposto: ‘Mussolini dovrà ben lavarsi le mani prima che possa incontrarmi con lui, ma fortunatamente ben scarso è stato l’entusiasmo del popolo veneziano per quell’incontro, per evitare che il leone di San Marco dovesse arrossire'”.

Sebbene fosse malato, e morirà dopo appena cinque mesi il 1° marzo ’38, era andato a incontrare Mussolini impegnandosi strenuamente per dissuaderlo dall’alleanza con la Germania; nel fare ciò confidava nell’antico ascendente che aveva su di lui e nell’adesione data all’espansione coloniale con messaggi esaltanti, culminati nell’aprile ’37, cinque mesi prima dell’incontro a Verona, quando gli aveva scritto: “Il Vittoriale è tuo. Di qui si partirono verso di te le prime grandi profezie della tua grandezza e della tua gloria. Di qui si partirono le prime parole degne delle tue sorti. Non dimenticare quel che fu bello, e coraggioso e verace. Caro caro, sempre più caro compagno, a te raccomando ogni mio bene ideale”.

L’intervento in extremis su Mussolini fu l’ultimo atto politico nel confronto dell’artista con il potere, l’ultimo gesto generoso animato dal suo grande amor di patria. Nonostante gli si fosse riavvicinato il tentativo risultò vano, il Duce proseguì imperterrito per la sua strada che inesorabilmente doveva portare all’epilogo tragico: trascorso poco più di un mese dall’incontro, il 6 novembre, firma il “patto anticominform” con Germania e Giappone; dopo un altro mese, l’11 dicembre, l’Italia esce dalla Società delle nazioni; i rapporti con la Germania di Hitler si faranno sempre più stretti fino al Patto d’acciaio del 22 maggio ’39; poi la catastrofe della guerra, in una drammatica, inarrestabile sequenza.

La conclusione più amara del confronto tra arte e potere nella vicenda dannunziana è che il potere aveva prevalso anche questa volta. Altrimenti la storia del nostro paese forse avrebbe potuto avere un altro corso. Forse…

Con Tazio Nuvolari nella Piazzetta Dalmata

Il confronto con il potere religioso: 4 volte all’Indice

Furono ben quattro i decreti di condanna  che misero le sue opere nell’“Indice dei libri proibiti”, il primo dei quali, dell’8 maggio 1911, relativo a “Romanzi e Novelle e tutte le opere drammatiche e le poesie scelte”; severità inconsueta dato che  veniva condannata una sola opera (“Leila” per Fogazzaro), mentre ne rimanevano fuori il Decamerone e i sonetti del Belli,  Stecchetti e Carducci. Dopo 17 anni, il 27 giugno  ’28, alle opere vietate con il primo decreto furono aggiunte tutte quelle scritte successivamente, elencando “tragedie, commedie, misteri, romanzi, novelle, poesie”., ritenute “offensive  della fede e dei costumi”. Tracorrono 7 anni, e il 3 luglio ’35  viene inserito il “Libro segreto”, perché in esso “gareggia la sfrontatezza della immoralità con affermazioni di errori spesso empi e blasfemi”.  Fino alla condanna postuma  del “Solus ad solam”, comminata il 21 giugno ’39, più di un anno dopo la sua morte.

L’accanimento è evidente, dato che oltre alla condanna postuma ci fu quella preventiva del “Martirio di san Sebastiano”,  all’origine della prima condanna del 1911, pur se generalizzata; infatti  il divieto intervenne all’annuncio dell’opera il 2 febbraio e la condanna all’Indice 14 giorni prima della sua rappresentazione a Parigi avvenuta il 22 maggio. “Civiltà Cattolica” il 4 febbraio l’aveva definita  “insulto sanguinoso non solo alla coscienza morale, ma a quanto vi è di più delicato nella coscienza religiosa”, proclamandone il boicottaggio  con parole di fuoco: “Nessuna donna italiana assista a questa degradazione morale, camuffata di misticismo; e si vergogni, e esca col marchio della pubblica riprovazione colei, se pure vi sarà, che oserà intervenire”.

L’artista si difende come può dinanzi alla violenza del potere, questa volta religioso, usando la forza della parola. Con Debussy, autore della musica, dichiarò: “Quest’opera, profondamente religiosa, è la glorificazione lirica, non soltanto del meraviglioso atleta di Cristo, ma di tutto l’eroismo cristiano”. E aggiunse: “Ho voluto che neppure un particolare avesse ad offendere il più fedele cattolico… nessun a opera è più puramente mistica e più semplicemente ortodossa della mia… Ripeto, il mio ‘Mistero’ è percorso in ogni scena da un ardentissimo soffio di vita. Vi è continua la presenza invisibile di Cristo”. Fino allo sfogo sul periodico francese “Comoedia” : “E ora, proprio quando il mio spirito si volge al Cristianesimo, quando sto per realizzare il mio sogno, accarezzato per molti anni, di esprimere tutta la mia fede, ora si vieta il San Sebastiano”.

Non vogliamo dire che fosse giusto ritenerla degna dell’Imprimatur, come lui afferma citando l’approvazione di “un ecclesiastico”. Tra le luci e ombre che vengono evidenziate, Giuseppe Pecci pone in rilievo che  “la sensualità e la lussuria hanno una evidente prevalenza sullo spirito”, mentre il cattolico Eugenio Coselschi  scrive che “è un’opera di profondo senso e ritmo religioso” e vi trova “sublimi slanci di religiosità e spiritualità come l’appassionata invocazione a Cristo”.

Nella Piazzetta antistante il Vittoriale  ai piedi del palo Dalmata nel 1925 

Era l’inizio di una vera crociata che il 3 ottobre ‘27 si tradusse nell’ostracismo dell'”Ossevatore Romano” con l’articolo su “L’arte dannunziana e le nuove generazioni”, e la successiva messa all’Indice dopo l’“Istruzione contro la letteratura sensuale e sensuale-mistica” emanata dal cardinale Merry del Val, nella quale queste opere venivano definite “facili calici di veleno”.

D’Annunzio fu preso di mira direttamente con l’“Allocuzione” del Pontefice  ai predicatori della quaresima ed ai parroci di Roma del 20 febbraio ’28, quattro mesi prima della nuova messa all’Indice, che condannava “l’apoteosi libraria a un autore, del qual già tanti libri sono espressamente condannati dalla Chiesa, e tanti altri sono già condannati per sé stessi, ad un  autore che, è triste dirlo (tanto più triste quanto meno si possono negare i tanti doni che dalle mani di Dio gli furono concessi di ingegno, di fantasia, di fecondità creatrice) è passato per tante materie e tanti campi raramente non lasciando qualche brutta traccia di empietà, di blasfemia, di profanazione delle cose anche più sacre, forse in parte inconsapevole (giova sperarlo a diminuzione della sua responsabilità)  o di una sensualità spesso rivoltante”.

Non basta, la requisitoria è spietata: “E quando non è l’uno o l’altro di tal genere di cose, quando non si offende un a determinata categoria di moralità, scalza le basi della moralità stessa praticando quella – se tale può dirsi – dottrina di superumanità, di superomismo che lascia la moralità ai piccoli mortali, agli uomini comuni, per riservare ai superuomini di crearsela loro la moralità che risponda alla loro superumanità”.

Eppure cinque anni prima, il 7 febbraio ’23, il cardinal Gasparri, cui aveva  inviato una foto con dedica, gli aveva scritto che ricambiava “pregando il Signore che le sue annunziate ascensioni spirituali lo innalzino  dalle immagini del  bene e del bello fugace  alla pienezza del bene e del bello infinito ed eterno!”.  Piero Bargellini, scrittore cattolico di vite di santi, gli rende merito affermando: “Forse bisognerà dimenticare l’epiteto di poeta della lussuria, che non gli risponde a pieno. D’Annunzio si è valso della lussuria per una sorta di conoscenza e una sorta d’ascesi. Quel che per altri è piacere, per lui è sacrificio e conoscimento… ‘La carne, non è se non uno spirito devoto alla morte”. Tanto che la cita e la indaga nei suoi “libri erotici. E ha temuto la morte”.

Sono soltanto degli scampoli su temi molto vasti e profondi che richiederebbero di penetrare nel suo profilo interiore, dove si trova l’opposto di tante ingenerose e immeritate accuse: la bontà e l’umiltà, l’angoscia esistenziale, il timore della malattia e il senso della morte rispetto al superomismo al di là del bene e del male che gli viene superficialmente rinfacciato; l’intensa spiritualità, rispetto al materialismo della carne e della sensualità fine a se stessa espresse dalla vita libera e libertina.

Abbiamo voluto evocare lo scontro dell’artista con un potere diverso da quello politico, il potere religioso delle gerarchie ecclesiastiche, che dopo l’Indice dei libri proibiti cercarono invano di impedire la pubblicazione dell'”Opera Omnia” nelle edizioni popolari dell’ “Oleandro” nel 1930.

Quali le ferite rimaste e quelle risanate in chi è stato colpito d’incontro proprio quando –  ripetiamo le sue parole del 1911 – “il mio spirito si volge al Cristianesimo”?  Ne parleremo prossimamente.

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte terza, “Il mistero”, sulla religiosità, pp. 293-470; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.I primi due articoli, dei sei del servizio, sono usciti, in questo sito, il 12 e il 14 marzo , ciascuno con 6 immagini, i successivi tre articoli usciranno il 18, 20, 22 marzo 2013, con 6 immagini ciascuno. Cfr, .inoltre, l’ intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, in http://www.100.newslibri.it/,  l’11 marzo 1913, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 272-280) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: D’Annunzio notturno al Vittoriale; seguono D’Annunzio nell’arrivo a Cargnacco e D’Annunzio con i membri del Comitato nazionale dell’Istituto nazionale per la pubblicazione di tutte le opere di Gabriele d’Annunzio nel 1936; poi, D’Annunzio con Tazio Nuvolari nella Piazzetta Dalmata, e D’Annunzio nlla Piazzetta antistante il Vittoriale  ai piedi del palo Dalmata nel 1925; in chiusura D’Annunzio con i suoi levrieri sulla terrazza del belvedere nei giardini del Vittoriale nel 1932.

Con i suoi levrieri sulla terrazza del belvedere nei giardini del Vittoriale nel 1932

Istanbul, 3. Alla ricerca di Costantinopoli

di Romano Maria Levante

Termina la rievocazione della nostra visita a Istanbu, mentre si è appena chiusa la mostra “La Via della Seta”, aperta al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013 e c’èstato il riconoscimento di “Consumers Choice” alla città come “The Best European Destination 2013. Concludiamo con un tourbillon finale: la “caccia al tesoro” delle ulteriori preesistenze romane tra le attrazioni sacre delle straordinarie moschee e quelle profane dei palazzi del Sultano, come il famoso Topkapi. Fino al culmine della nostra ricerca dell’antica Costantinopoli: lo straordinario pavimento a mosaico divenuto museo nel luogo del rinvenimento, cioè quanto è rimasto del grande palazzo di Costantino.

Basilica di Solimano, l’interno

Alla ricerca di Costantinopoli

Un ricordo di Istanbul: dal balcone del nostro piccolo albergo, il Turkmen Hotel, ci godevamo lo spettacolo delle luci riflesse sul Mar di Marmara; il cielo di un nero profondo trapunto di stelle quanto mai brillanti si stendeva sulle cupole illuminate delle moschee. La millenaria basilica di Santa Sofia era stata prodiga di sensazioni e di emozioni forti, soprattutto per il suo impressionante carico di storia. Nella Moschea Blu avevamo sentito il sapore popolare della fede mussulmana, dell’Islam impersonato da quella distesa di schiene che si sollevavano all’unisono, da quel raccoglimento veramente religioso nel senso più pieno del termine, nell’ora del sollievo per la fine del digiuno al calar della sera.

Comportamenti composti e devoti, si trattava della moschea che fino al diciannovesimo secolo è stata la base di partenza dei pellegrinaggi alla Mecca. Però la grande folla ci aveva distolto dal percepire quanto di più profondo può cogliere chi è alla ricerca delle motivazioni autentiche al di sotto della superficie. Ci tornammo di primo mattino, prima dell’onda dei turisti e degli stessi fedeli.

Entrammo all’ora esatta dell’apertura, la grande moschea era tutta per noi, o quasi. Verso il cielo svettavano i sei minareti, lo stesso numero della Ka’ba alla Mecca che fece gridare al sacrilegio finché il Sultano non dotò il cuore dell’Islam di un settimo minareto. Ci prese un’emozione che penetrava nell’anima, veniva da quei volumi, da quegli spazi, da quei colori. I grandi cerchi si inseguivano nelle cupole, fino a comporre sfere ideali che sembravano ricongiungersi al cielo toccato dai minareti: un cielo tangibile, vicino all’uomo che lo tiene stretto a sé per confondersi in esso; sfere celesti senza delimitazioni geografiche di Oriente e Occidente e senza distinzioni religiose, che portavano il nostro animo in alto come magiche mongolfiere.

Ci sentimmo immersi in un colore ceruleo tenero e delicato, che veniva dalle preziose piastrelle di Iznik, l’antica Nicea, bianche, azzurre e verdi opera di un artigianato artistico sopraffino, e creava un clima di profonda spiritualità. Si avvertiva e si vedeva il colore della spiritualità, la forma della spiritualità, il volume della spiritualità: una spiritualità religiosa, ma di una religione senza nome e senza età, la religione dello spirito al di sopra del tempo e dello spazio, dei popoli e delle civiltà.

E’ la spiritualità dell’Assoluto che in quanto tale non ammette limiti, condizionamenti né esclusive, penetra nel cuore di ciascuno quale ne sia la nazionalità, la fede, la natura; una spiritualità che  prende nell’anima in quel clima magico. Guardare in alto la cascata di cupole e semicupole non era dissimile dall’ammirare le cupole di Michelangelo e del Brunelleschi, con la differenza che nelle grandi cattedrali cristiane la cupola se c’è è una parte della chiesa, pur importantissima; mentre qui la cupola è la stessa chiesa, e non è mai isolata, ce ne sono altre minori. Apre l’animo, come la verticalità delle cattedrali gotiche trasmette una lancinante spiritualità con la spinta in alto degli angoli acuti e delle linee vertiginose; l’opposto delle rotondità delle cupole ma con lo stesso effetto.

Il senso dell’Assoluto, dunque, si raggiunge in modi differenti e anche opposti sullo slancio di motivazioni e ispirazioni interiori che hanno uguale intensità umana. E’ lo slancio che ha portato gli architetti delle cattedrali e moschee, come degli eremi più remoti, a trovare la formula per tradurre queste motivazioni e ispirazioni in spazi e volumi, linee e colori, creando un circuito spirituale in grado di restituirle facendo nascere nei religiosi e nei pellegrini le meditazioni più elevate.

Nella Moschea Blu avevamo sentito l’essenza arcana dell’Empireo dantesco, si erano rivelati a noi i cerchi concentrici, le sublimi architetture del Paradiso; avevamo visto specchiarsi nella nostra anima i colori del cielo divenuti l’incarnazione pura e vibrante dello spirito.

Moschea Blu vista da lontano

Alla grande Moschea di Solimano dove ci siamo recati subito dopo, abbiamo chiesto una conferma delle nostre sensazioni. All’esterno ci ha accolto il “caravanserraglio”, che riuniva il complesso di servizi, si direbbe con il linguaggio odierno, predisposto per i pellegrini venuti da lontano e i poveri; abbondavano punti di ristoro e di cura, cucine, rivendite. Superato il chiostro e il portico sorretto da colonne provenienti dall’antico Ippodromo, senza soffermarci su quei reperti, abbiamo cercato di ritrovare l’itinerario della spiritualità senza appartenenze, la spiritualità dell’Assoluto.

Non c’era la soffusa luce cerulea della Moschea Blu, l’intensità luminosa veniva dai raggi che filtrano dalle 138 finestre in un tripudio di riflessi. Si formavano i cerchi concentrici dell’Empireo, la sfera delle cupole portata in alto dalla magica mongolfiera aveva dimensioni ancora maggiori, la superficie coperta dai tappeti per le preghiere era sconfinata, ci trovavamo nella più grande moschea di Istanbul. Un senso di armonia era trasmesso dai grandi spazi e dalla pace che regnava nel tempio; l’altezza della cupola dal pavimento è il doppio del suo diametro, sembravano materializzarsi le proporzioni dantesche. Il Paradiso si rivelava anche qui negli spazi e nei volumi, nelle recondite armonie della spiritualità senza confini né aggettivi, ispirata dalla contemplazione.

Uscimmo confusi e presi nell’intimo, poi la vista della città dall’alto della collina dove sorge la moschea ci riportò alla realtà intorno a noi. Ma il fascino delle moschee ci prese, eravamo sicuri di non saper più resistere alla tentazione di entrare in quelle che avremmo incontrato, per ritrovare quegli spazi e quei volumi pur di dimensioni minori, sempre all’insegna di un equilibrio arcano. 

Un altro monumento ci ricondusse alla nostra ricerca delle tracce del passato: la Colonna di Costantino del 330, lo stesso anno dell’Ippodromo e dell’obelisco omonimo, rinforzata da un cerchiaggio in acciaio, con una storia complessa fatta di incendi e gravi mutilazioni -in origine era sormontata addirittura da una grande statua dell’imperatore su un capitello corinzio – e di leggende intriganti: alla base, poi ricoperta da una grossa pietra, sarebbero state custodite reliquie preziose, dall’ascia usata da Noè per costruire l’arca, al fiasco dell’olio della Maddalena, fino addirittura ai resti del pane con cui Gesù sfamò le moltitudini. Più che per queste credenze il monumento suscitò il nostro interesse per le origini costantiniane. Vicinissimi, i famosi bagni turchi di Cemberlitas, della fine del sedicesimo secolo, erano vicini ad evocare quelli dell’antica Roma dai quali derivano, con la differenza che manca la vasca d’acqua fredda in cui i romani facevano l’immersione finale.

Resistemmo alla tentazione della sauna calda e dei massaggi al corpo, ci allontanammo anche dai luoghi dello spirito e della memoria per immergerci nelle rinomate attrazioni profane di Istanbul: i sontuosi palazzi e i fantasmagorici mercati traboccanti di merce e di una pittoresca umanità.

Cisterna Basilica, l’interno

L’immersione nelle attrazioni profane

Per prima cosa visitammo il Palazzo Dolmabahce, la più recente delle residenze del Sultano, del 1856, sontuoso e opulento da dimora regale. E’ sul mare, ne ammirammo grandiosità e ricchezze, ma ci lasciò freddi, non vi sentimmo il soffio della storia e neppure il fascino della leggenda.

Ci attirava di più Topkapi, il palazzo del sultano Mehemet del 1460, nel promontorio boscoso del “Serraglio”, con l’Harem e i suoi padiglioni nei quattro grandi cortili che riproducono i caratteristici accampamenti ottomani; e il Gran Bazar, l’immenso suk dove esplode la gioia di vivere, di fare acquisti, di godere. Dallo spirito alla carne, nelle espressioni dalle più contenute alle più sfrenate.

Restammo delusi dalla visita all’Harem, forse perché non ha il contenuto di trasgressione e di conturbante raffinatezza orientale che ci aspettavamo. Innanzitutto va ridimensionato il mito delle mille concubine, pur favoleggiate nella fase di massimo fulgore, nell’ultimo periodo non superavano il numero delle dita di una mano ed erano sottoposte al controllo delle mogli del Sultano, finché nel 1909 l’Harem venne chiuso. Ma soprattutto le immagini piccanti evocate dalla nostra fantasia non si ritrovavano minimamente in quelle stanzette grigie e spoglie, fredde e povere, che convergevano in punti di riunione più aperti ma ugualmente spartani.

Invece i quartieri del Sultano brillavano di sfarzo e opulenza da ogni parte, con i motivi riccamente istoriati nelle vetrate e nei pavimenti, nelle pareti e negli arredi preziosi. I tesori erano pur essi attraenti, il  pugnale favoloso del film “Topkapi” con il furto rocambolesco era uno dei tanti pezzi in esposizione ma ci deluse, del resto non era valorizzato come ci attendevamo data la sua rinomanza.

La nostra tappa successiva fu il Gran Bazar, che a differenza del palazzo Topkapi superava ogni immaginazione. Un dedalo di stradine animate e variopinte con un’infinità di botteghe e bancarelle (dicono 5000)  e i tipici venditori levantini. C’era il Bedesten, il nucleo più antico conservato per memoria all’interno dell’inestricabile intrico del suk, peraltro quanto mai ordinato e preciso. La merce – che non poteva essere più copiosa, assortita e multiforme – era esposta agli occhi del pubblico, in tanti settori per le più svariate aree merceologiche, dalle spezie ai tappeti in una offerta policroma e pittoresca, dai gioielli agli ori risplendenti in vetrine rutilanti di una ricchezza abbagliante, questa sì degna delle “mille e una notte”. Vi ritrovammo, identici, gli anellini d’oro con quattro piccoli rubini, e le scacchiere in legno ripiegate a metà, che avevamo acquistato in quel luogo  quarant’anni prima; ci sembrò che il tempo si fosse fermato, ma era l’unico nesso con i nostri ricordi del passato, si era trattato di una fugace e superficiale gita collettiva vissuta con altro spirito.

Non sembrava credibile un simile addensamento di ogni ben di dio, come lo definiamo pur essendo nella terra di un dio diverso al quale però la spiritualità delle moschee ci ha riconciliato. I moderni centri commerciali delle nostre città non richiamano queste strutture animate e pittoresche, di origini remote, dove non si va solo per comperare ma per  intrattenersi, incontrarsi e conoscersi?

Il Gran Bazar, in fondo, con i suoi percorsi labirintici in cui è facile perdersi, in tutti i sensi e non solo nel senso logistico, è una metafora: evoca il labirinto della modernità tentatrice, opulenta, eccessiva, che può far dimenticare i veri valori da non ricercare al di fuori ma dentro se stessi.

Facemmo questa riflessione per poi riscuoterci, tornare alla realtà, vedere con stupore misto a smarrimento quanto ci eravamo allontanati dalla nostra ricerca, quella delle radici di Istanbul in una Costantinopoli cresciuta nella fantasia all’insegna dei valori scolpiti sin dall’infanzia.

Dovevamo tornare sui nostri passi, ricercare le antiche origini, lasciare le tentazioni che ci avevano sviato nella visita all’Harem di Topkapi e nell’immersione nel paese dei balocchi del Gran Bazar, depurare il nostro spirito anche dalle contaminazioni delle moschee. Cosa c’era di meglio della visita alla Cisterna Basilica? Evoca le catacombe con la sua profondità sotterranea, per di più è immersa nell’acqua purificatrice, un lavacro dell’anima di cui sentivamo il bisogno. E soprattutto ci riportava sulla dritta via, alla ricerca delle tracce dell’antica romanità.

Infatti fu costruita proprio da Costantino per garantire l’approvvigionamento di acqua al Gran Palazzo, residenza sua e degli imperatori bizantini e ingrandita durate l’impero di Giustiniano nel 532; tutto sembra fuorché una cisterna con le sue trecentotrentasei imponenti colonne alte più di otto metri in dodici file, due terzi delle quali visibili, è quasi un tempio, una suggestiva foresta pietrificata sotterranea. Novanta capitelli corinzi e altri di diversi stili si riaccostano all’arte classica, le due grandi teste di Medusa che fanno da capitello rovesciato alle colonne terminali ne sono una testimonianza. Mentre altri due elementi ci colpirono per il loro significato: gli occhi di pavone iscritti nel fusto di alcune colonne, come segno augurale riprodotto in tanti oggetti che ci avevano incuriosito nel Gran Bazar e nelle botteghe con souvenir; e soprattutto la croce di Cristo rintracciata in una colonna seminascosta, con l’orgoglio di avere ritrovato un segno prezioso che non è stato cancellato né profanato trasformandolo in motivo ornamentale, anche se per salvarlo non c’è voluto il provvidenziale strato di intonaco come per i mosaici cristiani di Santa Sofia.

E’ questa la scoperta che ci mise le ali ai piedi per l’ultimo miglio del nostro itinerario fino all’approdo del viaggio  compiuto alla ricerca delle radici della città, e forse anche di noi stessi.

Gran Bazaar, uno scorcio 

L’approdo al Gran Palazzo dell’antica Costantinopoli

L’approdo è stato nientemeno ciò che resta del Gran Palazzo di Costantinopoli. Non potevamo rassegnarci al pensiero che i reperti da noi tanto ricercati si limitassero alla Colonna serpentina e al Bassorilievo romano di piazzale Sultanahmet – dove era iniziato il nostro percorso nell’antichità e nella modernità di Istanbul – alla Colonna di Costantino e a quanto evoca la Cisterna Basilica, oltre a Santa Sofia. Ci districammo nel Bazar che stavamo attraversando,  una miniatura rispetto al Gran Bazar, ma tale da concentrare essenze e profumi, colori e sapori, in una confusione festosa e non invadente come i suk di altri paesi. La nostra meta era all’interno del Bazar, ma per isolarci da esso.

Non ci aspettava il fastoso palazzo imperiale, non ci pensavamo affatto, ma non ne trovammo neppure i ruderi come avevamo sperato. Siamo troppo abituati ai resti della romanità, dal Foro romano alle ville di Tiberio e Nerone, Cicerone e Adriano a Tivoli, che hanno lasciato reperti in grado di evocarne la grandiosità, la pianta, gli ambienti, per non parlare dei resti di Pompei e delle necropoli che ne rendono compiutamente l’antico assetto e gli splendori nascosti.

Lì non c’erano sono resti, tutto era stato cancellato quasi ci fosse passato sopra un rullo compressore più distruttivo del tempo, quello del fondamentalismo millenario. Ci chiediamo ancora oggi come ciò possa essere avvenuto, il Gran Palazzo aveva dimensioni sconfinate, occupava il piazzale sterminato di Sultanahmet, con gli ampliamenti successivi si estendeva dall’Ippodromo fino al porto imperiale sul Mar di Marmara; gli appartamenti reali, i saloni di rappresentanza (con la Sala dell’oro), le chiese (dei Santi Pietro e Paolo e la Nea Ekklesia), i palazzi (il Daphne, il Bucoleon, il Magnaura, l’Hormisdas), le piazze (l’Augusteum col grande porticato), i cortili, le terrazze, i giardini erano oggetto di ammirazione di tutto il mondo di allora. Stando così le cose continuiamo a chiederci come – a parte la grande e intatta Santa Sofia posta fuori della cinta del Gran Palazzo – siano sopravvissuti solo l’Obelisco con il Bassorilievo romano e la Colonna serpentina oltre alla Colonna di Costantino; forse le ridotte dimensioni hanno salvato questi  reperti.

La lingua batte dove il dente duole, siamo tornati sulle tracce del passato con l’ansia della scoperta che avevamo all’inizio, prima di essere presi dalla spiritualità della Istanbul delle moschee e dai richiami profani di Topkapi e del Gran Bazar. E ci siamo posti gli stessi interrogativi, stretti dalla medesima delusione. Ora eravamo alla meta, l’approdo lo avevamo trovato, ed era suggestivo.

Non si trattava di ruderi né reperti di statue e oggetti, era qualcosa di comune e insieme insolito, emozionante perché ci riportava all’epoca che cercavamo di evocare. Era un pavimento quello offerto alla nostra vista, un pavimento romano con la composizione a mosaico in piccole tessere dai colori tenui: il Pavimento del Gran Palazzo di Costantinopoli, la reggia di Costantino il Grande.

Un intero museo, il “Mosaic Museum” è stato realizzato ponendo un tetto su questo pavimento dal valore evocativo incalcolabile dove è stato rinvenuto, in corrispondenza della Sala dell’oro. Risale al quinto secolo ed è di dimensioni consistenti, oltre 200 metri quadrati con 150 figure in mosaico che danno un effetto-rilievo; mentre nulla è rimasto purtroppo dei mosaici d’oro che impreziosivano le centinaia di stanze del Gran Palazzo, tutte dissolte. Percorremmo le passerelle che permettono una vista ravvicinata delle raffigurazioni: scene di lavoro e di caccia, di vita bucolica, serena, agreste da giardino dell’Eden e scene di ragazzi che giocano; motivi mitologici ed elementi naturali con rocce e colline, boschi e alberi singoli, campi e fontane, animali che evocano terre favolose e bestie feroci come tigri, leoni, leopardi, e anche gazzelle. Tutto un mondo riviveva con la sottile suggestione di un traguardo raggiunto, di una ricerca coronata: la nostra ricerca, il nostro traguardo.

L’immagine di Dioniso, i due giovani che con una picca colpiscono la tigre, il leone dalle fauci spalancate, le due fiere che si azzannano, i fregi eleganti che adornano e circondano le scene si animavano: ci sembrava di sentire il rumore di passi cadenzati, lo strisciare di morbidi calzari sul pavimento; nell’aria le grida gioiose dei momenti festosi, le chiacchiere distensive dei momenti di riposo, i secchi ordini dei momenti decisivi; in lontananza il rumore di carri, il nitrire di cavalli.

La croce di “in hoc signo vinces” sembrava risplendere su quel grande pavimento. Lo percorremmo più volte con gli occhi e con l’anima, come se si fosse materializzato perché voluto fortemente dalla nostra ricerca. E’ giusto che gli abbiano dedicato il museo inserito nel Bazar in una fusione di antichità e modernità; e noi facemmo bene a riservargli il momento culminante del nostro viaggio.

Pavimento del Grand Palace al Mosaic Museum,una porzione

L’uscita dai labirinti di Istanbul

I labirinti che avevamo  esplorato rischiando di smarrirci non avevano più misteri, una volta  seguito il filo di Arianna che ci ha guidato fino alla conclusione del viaggio. Un viaggio nella Istanbul di ieri e di oggi alla ricerca di qualcosa di non scontato; un viaggio per conoscere la porta dell’Oriente, che ci ha fatto capire meglio anche noi stessi. E la breve crociera sul Bosforo che abbiamo voluto porre a sigillo di questo suggestivo percorso è stata liberatoria, ci ha fatto uscire a riveder le stelle dopo l’immersione nei misteri di una città millenaria.

Ci trovavamo nel cuore del Corno d’oro, il collegamento tra Oriente e Occidente con l’istmo dove sorge la città, il grande ponte sospeso sul Bosforo; il nostro traghetto sfilava dinanzi al palazzo Dolmabahce già visitato, che visto dal mare rivelava ancora di più la sua imponenza; c’era la Fortezza d’Europa, il complesso di torri eretto dal sultano Mehemet nel 1452 per la conquista di Costantinopoli nella parte più stretta del Bosforo; ammiravamo le ridenti ville sulle rive alle quali si mescolavano antichi tuguri in cortecce di legno scuro restati come memoria storica.

Il sole del tramonto si specchiava nelle acque con riflessi dorati i cui bagliori portati dalle onde accompagnavano i moti dell’anima liberata dai troppi pensieri.

Tornammo in albergo, l’indomani saremmo ripartiti per Roma e non a mani vuote: avevamo compiuto la missione che ci eravamo riproposti nella Istanbul della modernità alla ricerca delle tracce di un’antichità quanto mai prestigiosa e suggestiva, carica di significati e di richiami.

L’ultima immagine che abbiamo portato con noi di questa straordinaria città cosmopolita sospesa tra l’Oriente e l’Occidente, oggi come ieri, è quella dal balcone del nostro albergo dove ci eravamo emozionati sin dalla prima sera contemplando le luci sul Mar di Marmara. Nel momento del commiato non abbiamo guardato lontano sulla destra verso il mare, ma alla nostra sinistra in basso verso le cupole, che spiccavano vicinissime, della Moschea di Sokollu, dov’è la piccola pietra sacra proveniente dalla Mecca; moschea già da noi visitata per ammirare le ceramiche pregiate di Iznik che rivestono l’interno e la rendono unica per l’intensità del loro colore blu;  molto più forte rispetto al  delicato ceruleo della ben più grande Moschea Blu, ma tale da evocare di nuovo il suo splendore.

Un volo di gabbiani s’incastonò nello scenario dinanzi alla nostra vista. “Fuga di mezzanotte”, il film con le agghiaccianti immagini delle violenze nelle carceri turche e non solo, era dimenticato. Le ali della libertà si erano materializzate in un mattino sereno, l’antica Costantinopoli e la moderna Istanbul si specchiavano nel cielo terso dove i gabbiani volavano lontano. 

Presto li avremmo seguiti, il volo Alitalia ci attendeva per riportarci a Roma. Con quanto di prezioso e indimenticabile era stato acquisito dalla nostra mente, con quanto di bello e profondo si era impresso nella nostra anima. “Lascio un po’ del mio cuore a Istanbul”, disse Benedetto XVI  nel ripartire per Roma, e ci piace ricordarlo con commozione alla vigilia dell’elezione del suo successore.  Ebbene, lo confessiamo, “si parva licet comparare magnis”: è successo anche a noi.

Info

I primi due articoli sul nostro viaggio a Istanbul sono usciti in questo sito, il  10 e 13  marzo 2013, ciascuno con 6 immagini. Per la mostra “Le Vie della Seta” citata all’inizio, cfr., in questo sito, i nostri tre articoli del 19, 21 e 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. 

Foto

Le prime 3 immagini e la 6^ sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti; la 4^ e la 5^ sono tratte rispettivamente dai siti http://www.ilpost.it/ e “istanbul.for91days.com”che si ringraziano per l’opportunità offerta. In apertura, l’interno della Basilica di Solimano; seguono la Moschea Blu da lontano e l’interno della Cisterna Basilica, poi un angolo del Gran Bazaar  e una porzione del pavimento del Grand Palace al Mosaic Museum; in chiusura una visione di moschee al tramonto. 

Moschee al tramonto.

D’Annunzio, 2. L’arte contro il potere, fino all’esilio in patria al Vittoriale

di Romano Maria Levante

Nel 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio, avvenuta il 12 marzo 1863, ne ricordiamo la figura inimitabile seguendo il filo rosso dei rapporti tra arte e potere, evocati dalle mostre romane sui “Realismi socialisti” e “Deineka”. Abbiamo già parlato dell’artista superuomo nell’umiltà, con la gente che “s’ingigantiva” in lui; quindi del suo carisma, per la forza trascinatrice del pensiero e della parola, attraverso la sua partecipazione attiva alla prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume; infine dell’artista osservato speciale, l’ispirazione e l’azione sotto gli occhi del potere. Dopo i suoi primi accenni alla pacificazione davanti alle vittime negli scontri fratricidi a Fiume, si passa al suo disegno per l’Italia ispirato alla pacificazione nazionale. Ne parliamo adesso, anche nei suoi rapporti con Benito Mussolini, fino all’esilio dorato al Vittoriale sul Lago di Garda.

In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani

Conclusa la prova di Fiume, il vero confronto tra arte e potere si ebbe nei riguardi del movimento fascista, non ancora entrato nelle istituzioni, ma sempre più minaccioso, aggressivo e impaziente.

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

D’Annunzio, che si trovava a Milano per motivi editoriali presso l’albergo Cavour, il 3 agosto ‘22 fu chiamato perché parlasse dal balcone di Palazzo Marino dai fascisti che avevano occupato il Municipio nella mobilitazione contro lo sciopero generale; Finzi e Teruzzi, racconta Umberto Foscanelli, lo convinsero dicendo: “Non siamo noi che vi reclamiamo, ma il popolo milanese, Comandante”. Tenne il discorso “Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani”: “O fratelli, siete l’unanimità del fervore innumerevole; siete la concordia del consenso innumerevole. Mentre la passione di parte tuttavia arde, mentre tuttavia fumano le arsioni e sanguinano le ferite, mentre il volto della Patria è tuttavia velato, noi qui invochiamo la pace e onoriamo la bontà. Sento fremere intorno a me la giovinezza generosa che tende la mano aperta non più in atto di sfida ma in atto di promessa, non più in atto di minaccia ma in atto di protezione. Quando mai, nel travaglio del mondo, la bontà ebbe forza e pregio come in questa nostra vigilia tormentosa e turbinosa?” E ancora: “La bontà ha le sue faville, e tutte le faville secondano la fiamma grande. Vedo in voi sfavillare la bontà efficace e militante, la bontà affermatrice e creatrice, la bontà dei lottatori e dei costruttori: la bontà vittoriosa”. “La folla – si legge nel “Libro ascetico” – dopo un grido confuso e prolungato… erompe in acclamazioni senza fine. Tutte le bandiere e tutti i gagliardetti si agitano”.

Sono bandiere e gagliardetti fascisti trascinati verso un itinerario di “bontà vittoriosa” che non era solo un messaggio spirituale da artista sognatore, quanto un disegno lungimirante di pacificazione nazionale inserito in un progetto politico non inerte e imbelle, dato che pensava di realizzarlo con la spinta di un’adunanza di ex-combattenti di ogni parte politica: “Essi imporranno al Paese – diceva – la loro volontà di unione e di pace. Dove? Quando? Fra due mesi, forse. Vi saranno migliaia di bandiere. Tenetevi pronti. E poi? Un governo provvisorio, la fine della guerra civile, le elezioni in un regime di libertà. ‘Sine strage vici'”. Per questo disegno tesseva una trama complessa della quale citiamo due aspetti in cui spicca l’impronta dell’artista insieme alla strategia del politico.

Il primo aspetto sono riguarda gli obiettivi, così definiti da Paolo Alatri: “Ciò a cui D’Annunzio mirava era di porsi come pacificatore al di fuori della mischia, che in quel periodo, con l’offensiva squadristica, era feroce… quest’opera di pacificazione implicava il coinvolgimento del mondo del lavoro e delle sinistre, quindi una presa di contatto con i loro rappresentanti, il che spiega i colloqui dell’aprile-maggio ’22 [con gli esponenti della Confederazione generale del lavoro, Valdesi in aprile e D’Aragona in maggio] e, subito dopo, la protezione accordata alla Federazione italiana lavoratori del mare di Giulietti”; e, forse, spiega anche l’incontro del 27-28 maggio dello stesso anno con Cicerin, il Commissario agli esteri della Russia, che dopo il colloquio disse: “Fui sorpreso di trovare in D’Annunzio un sentimento vivo di simpatia per le lotte sociali degli oppressi”.

L’altro aspetto riguarda i modi con cui intendeva attuare questo disegno, e basta riportare quanto scrive Foscanelli: “Il rifugio di D’Annunzio a Cargnacco era diventato una specie di tempio delfico cui si accostavano tutti coloro che sentivano come il fascismo si facesse ogni giorno più forte e aggressivo”. Sembra addirittura che, prendendo atto della situazione, lo stesso Mussolini lo sollecitasse a un impegno politico diretto. Lui accoglie soltanto l’invito che veniva da Nitti per promuovere l'”unione delle forze più sane” della democrazia, del socialismo, del fascismo nella linea della pacificazione nazionale, antitetica alla linea perseguita dal fascismo: “Tu vedi il pericolo e tu puoi agire sulla gioventù, infiammarla e riportarla sul buon sentiero”, gli scriveva Nitti proponendo un “programma di salvezza per l’Italia” e superando il risentimento per le vicende di Fiume dove il Comandante gli aveva rifilato l’epiteto dispregiativo di “Cagoja”.

Con Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia, in visita al Vittoriale, maggio 1922 

Un primo successo del potere: il progetto di pacificazione è neutralizzato

Ora la parola passa alla dura logica dei fatti, a una realtà che sconvolge tutti i programmi. Mussolini mostrò di aderire al progetto di pacificazione, presumibilmente per controllarlo e cercare di vanificarlo come aveva fatto con l’impresa di Fiume, chiedendo solo che prima dell’intesa a tre si incontrassero Nitti e D’Annunzio. Questo incontro, fissato per il 15 agosto ‘22, non ci fu mai. Mentre Nitti stava partendo per l’appuntamento con un salvacondotto di Mussolini a protezione dalle violenze squadriste, alle ore 23 del giorno 13, praticamente la vigilia di ferragosto, ecco il “deus ex machina”: la misteriosa caduta dalla finestra che tenne D’Annunzio per molti giorni tra la vita e la morte per le ferite alla testa, descritte poi in modo romanzato nel “Libro segreto”.

Non ci soffermiamo sulle versioni e le ipotesi fiorite intorno a questo giallo, dalla caduta accidentale al gioco erotico alla baruffa per questioni di gelosia; e neppure sulle conclusioni – “casualità” senza escludere il “fatto colposo” – dell’indagine del Commissario Dosi, spacciatosi da pittore di farfalle e paesaggi per entrare al Vittoriale e gratificato dell’appellativo di “lurido sbirro” appena la sua identità fu scoperta. Nino Valeri si è chiesto: “Fu un gioco del caso? Ancor oggi gli elementi non ci consentono di dar corpo alle ombre accumulatesi sul fosco episodio”. E questo per la cronaca può bastare.

Dal nostro angolo di visuale ci interessano le parole, riportate nel “Libro ascetico”, che l’artista scrive nel “Commento meditato a un discorso improvviso”: “C’è chi tuttora allude, presso il mio letto… non già a una mia caduta mistica di arcangelo esiliato o d’angelo mutilato ma a non so qual mia caduta d’uomo”, che più avanti definisce causata “da non so che tradimento o da non so che provvidenza”; e le parole scritte nel “Diario della volontà delirante e della memoria preveggente”: “Veramente io sono stato precipitato dalla rupe tarpea. E la lupa capitolina non ha forzato le sbarre della sua gabbia, né Marco Aurelio è disceso dal suo cavallo e dal suo piedistallo”. Alla data del 20 agosto descrive la sua caduta così: “Non sono caduto come un arcangelo folle né come un angelo stanco. L’Italia m’ha gettato dalla rupe tarpea, m’ha precipitato dal monte della cieca giustizia”, frase riferita anche da Tom Antongini che la sentì pronunziata da lui “nei primissimi giorni della convalescenza presenti almeno una ventina di persone”.

Fatto si è che per la conquista del potere da parte del fascismo la neutralizzazione dell’artista che ne stava sconvolgendo le mire, e quindi il sabotaggio al suo disegno, fu provvidenziale. Tre giorni prima, il 10 agosto, c’era stata la drammatica denuncia di Treves alla Camera: “Il fascismo vuole il potere, tutto il potere. Mentre dice che non ha ancora risoluto l’equivoco, se esso è totalitario o insurrezionale, l’insurrezione è vittoriosa. Può darsi che oggi o domani si decida a violare le porte del Parlamento come ha violato quelle dei Municipi”. Quasi a volergli rispondere, in un’intervista pubblicata l’11 agosto sul “Mattino” di Napoli, Mussolini definì un’eventuale “marcia su Roma… non ancora, politicamente, inevitabile e fatale… Che il fascismo voglia diventare ‘Stato’ è certissimo, ma non è altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato. Bisogna però noverare questa tra le possibili eventualità di domani”.

E il domani, anzi il dopodomani essendo il 13 agosto, dopo la richiesta al Governo del Comitato centrale del partito fascista di sciogliere le Camere per convocare le elezioni, Mussolini dichiara: “Per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extralegale della insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione e questa decisione non potrà essere presa che tenendo conto di molti fattori di ordine pratico, politico, ed anche degli imponderabili. Il momento è molto delicato, e occorre pensare bene a tutte le evenienze”.

Nella tarda serata dello stesso giorno si verificò l'”imponderabile”, l'”evenienza” della caduta dalla finestra che impedì l’incontro di D’Annunzio con Nitti bloccando il disegno di pacificazione nazionale e di unione delle forze sane sotto la guida dell’artista. Nino D’Aroma scrive che D’Annunzio aveva confidato a lui, parecchio tempo dopo, che in quel fatale agosto ’22 Mussolini gli aveva proposto di “capeggiare tutte le forze nazionali e di dare insieme vita e sostegno a un governo nuovo che raccogliesse tutte le correnti politiche di buona volontà”; e che lo stesso Mussolini aveva rivelato, sempre a lui, incontrandolo a Piazza Venezia all’indomani della morte di D’Annunzio, che prima dell’estate ’22 gli aveva detto: “Noi siamo fortissimi oggi, ebbene andiamo al governo con i socialisti più comprensivi e, con le leve del potere, imporremo sicuramente, in quarantott’ore, la pace a tutti, rinnovando con adeguate riforme le vacillanti e tarlate strutture dello Stato. Voi dovreste prendere la Presidenza e l’iniziativa, noi vi seguiremo, assistiti questa volta da una nostra forza immensa pronta a tutto!”.

Con Mussolini nella visita del maggio 1925, con loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara

La vittoria definitiva del potere: la pax romana della Marcia su Roma

Una pace siffatta, imposta “in quarantott’ore”, non può essere che una “pax romana”, il contrario della pacificazione perseguita da D’Annunzio, imperniata sulla fraternità; e simile invece a quella evocata da Mussolini rivolgendosi ai fascisti il 24 agosto ’22, con l’artista ancora in gravi condizioni: “Il momento per noi è propizio anzi direi fortunato. Se il governo sarà intelligente ci darà il potere pacificamente; se non sarà intelligente lo prenderemo con la forza. Dobbiamo marciare su Roma per toglierlo ai politici imbelli ed inetti”.

Pur con questi precisi intendimenti la strategia dei fascisti resta accorta e attendista, cerca di prendere tempo e di controllare le mosse degli altri due protagonisti: il barone Avezzana in una lettera a Nitti del 26 settembre conferma la disponibilità di Mussolini ad un incontro a tre, sempre dopo un preventivo colloquio di Nitti con D’Annunzio, già d’accordo, anzi assicura una scorta per proteggere il viaggio del primo dalle violenze squadriste; il 14 ottobre Schiff Giorgini scrive a Nitti che Mussolini, alla presenza di Tom Antongini in rappresentanza di D’Annunzio, ha precisato che gli incontri fra loro tre si sarebbero potuti tenere tra il 25 e il 30 ottobre dello stesso 1922.

Il 20 ottobre, però, Mussolini si esprimeva con queste parole incompatibili con quelle di una settimana prima: “O il fascismo si afferma e allora sarà un bene per il Paese. O non saremo capaci di affermarci e allora il pallone fascista sarà sgonfiato e il paese troverà un’altra via”. Un’alternativa che Roberto Farinacci traduce in termini di emergenza: “Dunque, bisogna far presto, bisogna cogliere l’attimo felice perché questo stato di eccezionale favore del popolo italiano per il fascismo e di sfavore per il governo e per il regime non può durare a lungo”.

D’Annunzio con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 

La rottura degli indugi da parte di Mussolini, trascorso qualche altro giorno, sembra fosse dovuta al timore che il carisma di D’Annunzio desse la spinta decisiva per una inarrestabile marcia su Roma quasi a ripetere quella su Fiume. L’evento avrebbe potuto verificarsi il 4 novembre, sull’onda del discorso celebrativo del quarto anniversario della vittoria che, con l’accordo del governo, l’Associazione dei mutilati alla cui testa c’era il grande mutilato Carlo Delcroix aveva chiesto all’artista di tenere nell’adunata di ex-combattenti che sarebbe culminata con la sfilata dei mutilati.

D’Annunzio, in  mezzo a pressioni da ogni parte, già il 25 ottobre, dopo quattro giorni dal solenne annuncio del 21 ottobre, aveva rinunciato  alla manifestazione per non essere strumentalizzato; la notizia della rinuncia fu diffusa il 27 ottobre, ma sin dall’adunata fascista a Napoli del 24 ottobre sembra che Mussolini avesse deciso di anticipare la Marcia su Roma per prevenire la temuta iniziativa dannunziana del 4 novembre, e la rinunzia non cambiò il programma. Oreste Cimoroni  fu molto esplicito: “I fascisti saputo ciò che si svolgeva attorno a Gardone, chiusero bruscamente il congresso di Napoli e precipitarono la Marcia su Roma. Cadeva così il Ministero Facta e Mussolini assumeva il potere”.

D’Annunzio fu avvertito a cose fatte soltanto il 28 ottobre, sebbene la marcia fosse iniziata il giorno prima in Emilia e Lombardia, Toscana e Umbria, con un messaggio perentorio di Mussolini, in palese contrasto con quanto era intercorso nei colloqui per combinare l’incontro a tre all’insegna della pacificazione nazionale e dell’unione delle forze sane: “I giornali e il latore vi diranno tutto. Abbiamo dovuto mobilitare le nostre forze per troncare una situazione ‘miserabile’: Siamo padroni di gran parte d’Italia, completamente e in altre parti abbiamo occupato i nervi essenziali della nazione”. Poi le espressioni ultimative: “Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco – il che ci gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la ‘vostra’ e nostra Italia. Leggete il proclama! In un secondo tempo, Voi avrete certamente una grande parola da dire”.

Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932 

Il prezzo della vittoria del potere sull’arte: il regime, l’esilio al Vittoriale

D’Annunzio rispose lo stesso giorno, insistendo sul disegno di pacificazione che gli sembrava soltanto interrotto: “E’ necessario radunare tutte le forze sincere… Dalla pazienza maschia e non dall’impazienza irrequieta, a noi verrà la salute. I messaggeri vi riferiranno i miei pensieri e i miei propositi, immuni da ogni ombra e da ogni macchia”. Una rassicurazione, seguita da una presa di distanza: “Il Re sa che io sono tuttavia il più devoto e il più volenteroso combattente d’Italia. Rimanga egli tuttavia levato contro le sorti avverse, che debbono essere affrontate e superate. La vittoria ha gli occhi chiari di Pallade. Non la bendate. ‘Sine strage vincit – Strepitu sine ullo'”.

Torna a farsi sentire l’artista, e il 1° dicembre ‘22 scrive che “dopo otto anni di azione dura” è “ripreso da un glorioso amore delle belle idee e della mia arte”.Il suo “sono pronto a dare l’opera mia, il mio colpo di spalla risoluto e robusto” va riferito sempre al suo disegno, ben diverso da quello del fascismo: “Prima di ritirarmi vorrei offrire alla Patria l’unione vasta e divota di ‘tutti i lavoratori'”. E richiamava Mussolini al mantenimento degli impegni di fraterna pacificazione (“iuratae foedus amicitiae”) assunti con il Patto marinaro, chiedendogli di liberarsi “dei consigli ‘avversi’, quasi tutti impuri” con una conclusione eloquente: “Io nulla chiedo, e nulla voglio per me. Intendi? Nulla. Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio, come nel 1912. Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

E andò effettivamente nell’esilio dorato nella  villa Cragnacco  posta in alto sul Lago di Garda,  che trasformò radicalmente portandovi i suoi cimeli e i suoi simboli, e creando il Vittoriale, che definì, sin dal 22 giugno 1923, scrivendo a Giuriati, “Italia degli Italiani più che qualunque altra terra”.

Il potere si era imposto, ma l’artista non si era arreso, aveva salvato i lari e i penati come Enea che lasciò Troia per una nuova sfida su un campo ancora più vasto. All’inizio dell’“Atto di donazione al popolo italiano” si legge: “Prendo possesso di questa terra votiva che m’è data in sorte, e qui pongo i segni che recai meco, le mute potenze che qui mi condussero”.  Nella “Premessa”  scrive: “Già vano celebratore di palagi insigni e di ville sontuose, io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi, quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e di trasfigurazione. Tutto, infatti, è qui da me creato e trasfigurato”.  Parla anche di “rivelazione spirituale” e di “testimonianza di dritta e invitta fede”, perché c’è un altro “potere” con cui si confronterà sempre di più, ne parleremo prossimamente. 

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di  Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte prima su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;  la parte terza è su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti  del libro inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.Il primo dei sei articoli del nostro servizio è uscito, in questo sito, il 12 marzo, con 6 immagini, gli altri  quattro articoli usciranno il 16, 18, 20, 22 marzo 2013, con altre 6 immagini ciascuno. Cfr., inoltre,  l’intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in http://www.100newslibri.it/, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”. 

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 284-289) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani;seguono,  Visita a D’Annunzio di Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia nel maggio 1922 al Vittoriale e Con Mussolini durante la visita a d’Annunzio nel maggio 1925, insieme a loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara; poi, Con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 e Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932; in chiusura, Sul MAS-96 nel 1925.

Il Comandante sul MAS-96 nel 1925 

Istanbul, 2. Il negoziato con l’UE e la storica visita del Papa

di Romano Maria Levante

Abbiamo colto l’occasione della mostra “La Via della Seta”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2012, terminata con l’arrivo alla “porta dell’Oriente”, per raccontare il nostro viaggio reale a Istanbul, svolto prima di quello virtuale con la mostra. Dopo aver rivissuto l’arrivo nel mezzo della festa religiosa del Ramadan a piazza Sulthanamet, siamo andati sulle tracce dell’antica Costantinopoli cominciando dagli obelischi fino alla basilica di Santa Sofia con i simboli delle due religioni, assurta a simbolo di tolleranza e compresenza delle fedi e delle culture. Per questo, prima di proseguire il racconto della visita alla ricerca dei reperti della romanità oltre che delle attrazioni cittadine, vogliamo riflettere su questo aspetto cruciale fissando l’attenzione sul negoziato per l’ingresso della Turchia nell’UE e soprattutto sulla visita a Istanbul di Benedetto XVI nel 2006, un ricordo di viva attualità ora che il Pontefice ha lasciato il magistero papale. Come è di viva attualità la meta turistica Istanbul, insignita da “Consumers Choice” come “The Best European Destination 2013”.

Moschea Blu dall’alto

Riflettendo sui problemi e sulla posizione della Turchia odierna

Iniziamo con il dire che il fondamentalismo non sembra essere l’aspetto prevalente  della Turchia di oggi, nonostante il partito islamico sia al potere dalla fine del 2002, e non manchino tentativi di ripristino di forme finora vietate, come il velo e l’accesso degli studenti delle scuole vocazionali all’università. Ma la Corte costituzionale boccia le leggi contrarie ai principi laici dello Stato.

Resta il laicismo di fondo, retaggio delle lotte religiose combattute nei secoli per un dio dal nome diverso ma sempre nel segno dell’Assoluto, che hanno portato alla svolta epocale di Ataturk, il padre della Turchia moderna, alla fine dell’impero ottomano verso l’inizio degli anni venti. La svolta che fu impressa verso l’assoluta laicità, venne sancita nella Costituzione e nelle leggi ordinarie, con l’esercito a tutela dell’indipendenza del potere statuale da quello religioso e della sua autonomia nella guida del paese. Da allora è stato bandito il velo sul viso, sicché le tradizionaliste si sono dovute limitare alle lunghe vesti e al velo annodato al collo come un foulard che fascia i capelli e incornicia il volto; ma con l’avvento al potere di Erdogan, islamico moderato che ha indebolito il potere dei militari, la First lady usa il velo anche dove non potrebbe indossarlo.  

Le donne che incontravamo in gran numero nelle strade di Istanbul erano di ogni età, soprattutto giovani, a fianco di compagne e amiche in minigonna e abbigliamento ultramoderno. E’ un dettaglio, ma evidenzia la compresenza di antico e moderno nella società turca e ne divide in modo netto anche il territorio. Sono profondamente radicate le differenze tra la parte asiatica tradizionalista – si pensi all’Anatolia e alle zone più arretrate – e la parte europea più aperta alla modernità, tra le città della zona europea e le campagne e montagne, tra le coste e l’interno, differenze presenti in molti stati, che qui acquistano maggiore spessore per la posizione di frontiera.

Fino a quando potranno convivere aspetti così diversi di cultura e costume nell’era della globalizzazione, che tutto appiattisce, è un mistero affascinante che solo il tempo potrà svelare.

I lunghi anni di negoziato per l’atteso e insieme temuto ingresso nell’Unione Europea, con i loro “stop and go”, serviranno forse anche a questo, come alle altre forme di omologazione ben più importanti per il rispetto dei diritti umani; molti passi sono ancora da compiere sulla strada della modernizzazione, la Turchia si muove da tempo in questa direzione pur se segnali altalenanti e il permanere di posizioni ritenute da molti illiberali, intolleranti e fortemente nazionaliste, oltre alla questione di Cipro, hanno rallentato la lentissima marcia di avvicinamento fino ad arrestarla.

Il Rapporto della Commissione dell’UE che fu presentato nel novembre 2003 è significativo perché dopo il primo anno di negoziato fotografò la situazione di partenza. E denunciò la distanza su cinque punti ritenuti irrinunciabili per il proseguimento del cammino verso l’adesione: dalle intromissioni delle forze armate in politica estera e interna, nella questione curda e tra religione e Stato, agli ostacoli nella libertà di espressione e di opinione fino alla mancata tutela delle minoranze con l’uso della tortura sui prigionieri politici; dall’irrisolta questione di Cipro con il mancato riconoscimento turco della parte dell’isola a etnia greca già entrata a pieno diritto nell’UE, la chiusura di porti e aeroporti turchi ai greco-ciprioti e il veto all’ingresso di Cipro negli organismi internazionali, alla corruzione nel settore pubblico e nel sistema giudiziario che non è indipendente. Inoltre si denunciavano le pratiche discriminatorie sulle donne e l’insufficienza dei diritti sindacali, le limitazioni di fatto alla libertà religiosa e il divieto per gli enti ecclesiastici di possedere proprietà.

Panoramica su Topkapi

Sono aspetti rilevanti per i quali il governo turco ha sempre sottolineato di muoversi secondo un percorso di assimilazione che si è impegnato a portare a compimento con segnali significativi già all’inizio dei negoziati, come la nomina di un civile a capo del Consiglio di sicurezza nazionale prima riservato ai militari, la disponibilità a riconoscere Cipro o comunque ad aprirsi di più in condizioni di reciprocità rispetto alla parte turca dell’isola, l’impegno a combattere le deviazioni riscontrate in concreto rispetto al sistema costituzionale e al quadro normativo nel campo dei diritti umani, della tutela delle minoranze e della corruzione pubblica e giudiziaria.

I tempi e i termini stringenti posti dalla Commissione UE hanno compromesso l’andamento del negoziato, ben presto sospeso per una serie di otto punti importanti mentre è continuato sugli altri venti e più punti; sospeso parzialmente non vuol dire interrotto e tanto meno cancellato, ma il duro Rapporto, insieme all’opposizione di grandi paesi come la Francia, Germania e Grecia, oltre al piccolo Cipro, che fa parte del’UE nella sua componente greca, ha rappresentato una doccia fredda per la popolazione che dall’entusiastica scelta dell’adesione è caduta su posizioni di scetticismo diffuso se non di contrarietà. La Commissione è stata considerata come burocratica e liquidatoria, perché a pressioni costruttive ha sostituito le accuse dei perduranti ritardi nel senso dell’esclusione.

E’ evidente come dietro i pur comprensibili e legittimi paletti posti al negoziato possano esserci motivi più profondi che attengono alla “diversità” sul piano religioso e, più in generale, sul modello di civiltà che crea inquietudini e timori inconfessati. Si tratta, infatti, di un grande paese che verrebbe ad eleggere più parlamentari europei di quanti ne ha la maggiore nazione dell’unione, la Germania, e porterebbe i confini dell’Unione Europea sulle frontiere scottanti di Iran, Siria ed Irak.

Questi timori sono agitati non soltanto a livello politico ma anche sul piano pratico: si è sempre pensato che il divario di reddito farebbe riversare sui più ricchi paesi europei quelle masse di immigrati turchi fermatesi finora in Germania. Ma il divario si è ridotto negli ultimi anni di crisi economica della zona euro mentre la Turchia si è sviluppata ad un ritmo notevole, basti pensare che – a parte il rallentamento nel 2012, ma sempre con un incremento del PIL del 3,5% quando noi abbiamo avuto una flessione quasi del 2,5% – il suo sviluppo procede a tassi cinesi, anzi nel 2011 è stato dell’8,5%, superiore a quello della Cina, e negli ultimi anni ha creato 4,5 milioni di nuovi posti di lavoro, su una popolazione di 75 milioni di abitanti. Per questo la spinta all’emigrazione tende ad esaurirsi, mentre il peso internazionale del paese cresce, e non solo sul piano politico e militare, da membro della Nato in posizione strategica: ne fanno fede le candidature, con buone probabilità di successo, all’Expo e alle Olimpiadi del 2020, due grandi eventi che ne consacrerebbero l’ascesa.

Oltre a questi aspetti economici, sul piano politico vanno  sottolineati fattori speculari a quelli prima richiamati: la creazione sulla frontiera più calda, con un alleato così forte militarmente, di un contrappeso all’inquieto mondo arabo e mussulmano che comunque sarebbe sempre lo scomodo vicino  dell’UE; e l’opportunità di dare una scossa vitale all’economia europea, così depressa, con un paese dall’elevatissimo potenziale di crescita, non a caso chiamato “la Cina d’Europa”.

La stessa sfida culturale dell’integrazione tra una grande nazione islamica ma laica e le grandi democrazie europee è quanto mai stimolante. Occorrerebbe, però, una effettiva coesione all’interno dell’UE per raccogliere la sfida e tradurre le minacce in opportunità. D’altra parte, fin dall’inizio del negoziato con la Turchia i risultati negativi dei referendum in Francia ed Olanda bloccarono la Costituzione europea rendendo incerta l’identità e la fisionomia nella costruzione dell’Europa, in bilico tra l’unione politica e la zona di libero scambio, tra forme crescenti di integrazione a tutto campo e mere cooperazioni rafforzate per aree particolari.

Moschea Ortakoy dal mare 

Questo problema è esploso nella crisi in atto e continua a rappresentare una pesante incognita sulle prospettive dell’UE. Soprattutto per la zona euro, direttamente colpita dato che sulla moneta unica senza una politica economica comune e senza una Banca centrale con tutti i poteri necessari a fronteggiare gli attacchi della speculazione finanziaria sui singoli paesi – presi ad uno ad uno come tra Orazi e Curiazi – si scaricano queste e altre insufficienze nella costruzione europea.

Il viaggio in Grecia di Angela Merkel potrebbe preludere ad una ripresa effettiva del negoziato, formalmente in corso ma praticamente bloccato. La cancelliera tedesca si è dichiarata disponibile ad aprire un nuovo capitolo nelle trattative, dicendo che prevede “un lungo cammino di negoziato”. E ha precisato: “Anche se sono scettica sull’esito sono d’accordo nel continuarlo”. A questo fine è stata reiterata la richiesta di rimuovere il blocco degli scali nella parte turca di Cipro verso i greci e i greco-ciprioti, dato che nell’Unione c’è l’obbligo dell’apertura a tutti gli stati membri; da parte della Turchia si è risposto che dipende dai turco-ciprioti e che si adopererà  al riguardo. Il primo ministro Erdogan ha detto: “Le discussioni devono procedere passo dopo passo, non conosco le intenzioni del nuovo presidente turco-cipriota, comunque la Turchia farà il possibile per risolvere il problema dell’apertura degli scali”.

Il grave problema dei diritti umani è stato sollevato di nuovo per i 76 giornalisti turchi incarcerati, tra cui 71 per motivi politici; problema che potrebbe porsi anche per le associazioni religiose. Erdogan ha negato intenti illiberali e persecutori definendo i giornalisti incarcerati appartenenti a sette eversive e terroristiche. Ma intanto due tra i maggiori giornalisti turchi, Can Dundar e Hassan Cemal, sono stati sospesi per due settimane per aver rivelato trattative segrete con i separatisti curdi del Pkk, lo scrittore Rakip Zarakoglu è perennemente sotto processo e minacciato di morte, anche Pamuk è stato minacciato. Mentre i procedimenti contro l’organizzazione Ergenekon, accusata di golpe, e il Kck, accusato di terrorismo separatista, sono stata l’occasione, secondo alcuni il pretesto, per rese dei conti con i militari e per grandi retate tra la gente comune, con 10 mila arresti in tre anni. Non è certo poca cosa per l’accettazione del paesi dell’UE se non si fa subito chiarezza.

La posizione della Germania è condizionata anche dalle elezioni politiche del prossimo settembre, tenendo conto che dal sondaggio pubblicato da un giornale tedesco alla vigilia del viaggio ad Ankara è risultato che il 70% della popolazione resterebbe contraria all’ingresso della Turchia nell’UE; la maggioranza dei contrari motiva la sua avversità con la preoccupazione per il forte sviluppo economico e la potenza militare turca. In effetti la Turchia non è più “il malato d’Europa” né il “malato del Bosforo” come era definito; ma dinanzi a tale cambiamento epocale è paradossale che sia temuta la sua forza oggi nella stessa misura in cui era temuta la sua debolezza ieri.

E’una novità da accogliere con favore, comunque, la disponibilità espressa dalla Merkel intanto per la riapertura del negoziato; e il mutamento in senso favorevole, con Hollande, dell’orientamento francese prima arroccato sulla netta opposizione di Sarkozy. Il mutamento del clima, e non solo, è reso dalla dichiarazione attribuita al commissario tedesco dell’Energia dell’UE: “Fra dieci anni Germania e Francia dovranno pregare in ginocchio la Turchia di entrare nell’Unione Europea”.

Un mosaico del Choro Museum

Benedetto XVI nella Moschea Blu

Il  viaggio del Papa in Turchia alla fine del novembre 2006 fu un evento di portata storica che illuminò, come mai in precedenza, sullo stato di allora e sulle prospettive dei rapporti con questa grande realtà sul piano culturale e politico oltre che su quello essenzialmente religioso. Rievocarlo meno di due settimane dopo che Benedetto XVI ha lasciato il sommo magistero pontificio, nel giorno della fumata bianca al Conclave, lo riteniamo importante per sottolineare in un momento cruciale il coraggio del Papa divenuto emerito: coraggio manifestato ora con la rinuncia per il bene della Chiesa, allora con un’iniziativa di portata simbolica e pratica in una situazione difficile e rischiosa.

Nel 2006 ci fu l’apertura dell’opinione pubblica turca più avveduta, andata ben oltre la cautela del governo che paventava strumentalizzazioni tanto da negare inizialmente l’incontro con il primo ministro Erdogan, per poi ripiegare su una rapida ma significativa accoglienza all’aeroporto, tra l’arrivo del Pontefice e la partenza del premier per il vertice della Nato. Timori derivanti dal clima di ostilità seguito alla “lectio magistralis” papale di Ratisbona, per la citazione dotta ritenuta offensiva da parte del mondo mussulmano, più che dalla contrapposizione tra le due grandi religioni: Paolo VI e Giovanni Paolo II erano andati in Turchia l’uno nel 1967, l’altro nel 1989 e Angelo Roncalli,  futuro Giovanni XXIII, vi risiedette dal 1935 al 1944 come Delegato apostolico.

I due papi precedenti incontrarono le autorità statali, quelle islamiche e il Patriarca ortodosso, massimo esponente della confessione cristiana più diffusa, che è la fede degli Armeni vittime di persecuzioni degenerate in eccidi denunciati come genocidio, peraltro mai ammesso dai turchi. E’ una ferita non ancora rimarginata, come non lo è neppure quella delle violenze e dell’oppressione lamentata dai curdi, minoranza islamica dell’antico Kurdistan, con la lotta del partito irredentista.

Anche Benedetto XVI –  che volle andare nella casa dove abitò Roncalli e volle celebrare nella sua parrocchia di allora una messa solenne – ebbe a Istanbul gli incontri dei due predecessori: dal patriarca ortodosso Bartolomeo I che partecipò alla funzione religiosa conclusiva – Paolo VI aveva aperto la strada con lo storico abbraccio con Atenagora – al Gran Muftì della città, Mustafa Cagrici, con cui pregò nella Moschea Blu. .

Ma le maggiori difficoltà della visita apostolica in un momento di crisi nei rapporti interreligiosi – e con i turchi scottati dagli ostacoli all’ingresso nell’UE fatti risalire anche alle riaffermazioni delle radici cristiane dell’Europa con relativa presunta opposizione dei cattolici – accrebbero l’importanza del successo di una missione coraggiosa. Il papa operò un’inattesa apertura all’ingresso della Turchia nell’UE, addirittura “auspicato”, dando torto alle fazioni estremiste. Del resto le autorità islamiche turche hanno ribadito il carattere “misericordioso” del Corano e della loro fede, come del loro Dio, e le schegge impazzite che incitano alla violenza nascono da interpretazioni arbitrarie.

Così il Papa, rinunciando alle sue stesse posizioni sostenute da cardinale, vide nell’Europa non più la cittadella cristiana arroccata nella propria identità contro l’assedio islamico, ma il terreno propizio per una maggiore apertura, attraverso il dialogo interreligioso e la convivenza civile.

Vogliamo ricordare che superò brillantemente la rischiosa prova del fuoco il cui esito positivo non va sottovalutato neppure oggi, dopo cinque anni con tanti problemi ancora aperti. Nei giorni della visita pontificia, pur vissuti in una comprensibile tensione, oltre ai gesti politici vi furono momenti di elevato valore non solo simbolico: dall’incontro con il Patriarca ortodosso per la convergenza delle fedi cristiane nell’impegno solennemente consacrato da un documento congiunto; alle visite parallele insieme al Gran Muftì della basilica di Santa Sofia e della Moschea Blu.

A Santa Sofia fu rispettato scrupolosamente il carattere laico datole da Ataturk con la trasformazione in museo; nella Moschea Blu il Papa, invitato alla meditazione comune dal Gran Muftì, “sostando qualche minuto in raccoglimento in quel luogo di preghiera” – sono le parole da lui usate nell’udienza generale tornato a Roma – si è “rivolto all’unico Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità”, dimostrando in modo spettacolare e toccante, per chi pone mente alle travagliate vicende storiche, la possibilità, anzi la necessità, di una pacifica convivenza che si è realizzata in modi nuovi e nel momento più difficile.

Papa Benedetto XVI nella Moschea Blu con il muftì Mustafa Cagrici 

Oltre agli sviluppi del dialogo interreligioso, sono stati promossi quei passi in avanti, sul piano civile, per  migliorare i comportamenti effettivi al di là delle norme astratte che sanciscono la libertà religiosa e l’uguaglianza dei cittadini senza distinzioni di fede. Sono state spesso lamentate forme di controllo sociale e disposizioni amministrative che tendono a discriminare i cristiani e ad emarginarli di fatto. Il loro numero è molto ridotto, sono circa 80 mila ortodossi e 40 mila cattolici concentrati soprattutto a Istanbul, su 75 milioni di abitanti che Erdogan vorrebbe far arrivare a 80 milioni con una politica demografica di incentivo alle nascite e la limitazione agli aborti. Che questo avvenga nella terra di Paolo di Tarso e della storica diocesi di Antiochia, dove i cristiani nell’antichità erano una parte consistente della popolazione, è più eloquente di ogni commento.

La scristianizzazione, dopo la caduta dell’impero ottomano, è avvenuta con l’espulsione dei greci ortodossi e la liquidazione degli Armeni, prima che Ataturk imponesse lo stato laico in una nazione ormai quasi totalmente islamica, fino a vietare l’uso in pubblico di vesti religiose. Una storia di crisi violente, con l’ultimo conato della rivoluzione dei “giovani turchi” prima della normalizzazione laica imposta dai militari, i soli che hanno potuto opporsi con successo ai fondamentalisti: sono precedenti che hanno reso le autorità turche timorose del proselitismo e dell’evangelizzazione dato che la Costituzione non vieta le conversioni dall’Islam al Cristianesimo proibite negli altri stati islamici; per cui i miglioramenti attesi e reclamati dalle autorità dell’UE saranno solo graduali.

La visita del Papa fu preceduta da episodi di grave intolleranza, sul piano individuale (il crudele omicidio del sacerdote cattolico don Andrea Santoro a Trebisonda) e collettivo (l’irruzione di marca  anticristiana in Santa Sofia, pochi giorni prima, di un gruppo di fondamentalisti richiamatisi al “Lupi grigi” ai quali apparteneva anche Alì Agca, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II). Mentre fallì la manifestazione di protesta degli estremisti che invece del preannunciato milione di partecipanti raccolse nella grande Istanbul soltanto poche migliaia di adepti. Erano riapparsi lugubri fantasmi, che vanno sempre scacciati considerando che estremisti violenti si trovano dappertutto e che le autorità turche non hanno mancato di isolarli, contrastarli e combatterli con decisione e durezza; ma la migliore risposta la diede l’accoglienza della popolazione che dopo aver disertato le manifestazioni di protesta mostrò verso il Papa attenzione e rispetto senza alcun segno di ostilità, risultato ragguardevole per una popolazione islamica per più del 97% e con i precedenti ben noti di contrapposizione frontale e confronto diretto (si pensi che proprio per questo la Moschea Blu fu costruita vicinissima alla chiesa di Santa Sofia nel Piazzale Sultanahmed).  

Riflettere sui problemi e le prospettive di una situazione così complessa non trova riferimenti immediati e di validità generale in una città cosmopolita dove tutto sembra fugare ogni paura, per il  fascino di una realtà viva e stimolante, e dove le pur evidenti diversità appaiono un valore. Dall’integrazione con un paese islamico moderno può venire un modello di laicità e democraticità per tutto il mondo mussulmano, un esempio da seguire per la stabilizzazione dell’intera regione.

La stessa integrazione europea non fu vista anche come superamento della secolare ostilità tra Francia e Germania e come antidoto sicuro ai rigurgiti bellicisti nel vecchio continente? E si vide giusto. Non sarebbe di importanza incalcolabile la sconfitta delle posizioni estremiste la cui radicalizzazione porta allo scontro di civiltà e di culture religiose, che dà alimento al terrorismo?

Pensiamo a questo parlando di Istanbul, anche se la porta dell’Oriente non è l’intera Turchia, bensì soltanto l’ingresso europeo alla Turchia asiatica: luminoso e suggestivo come un tramonto sul Bosforo, che nelle viscere profonde e oscure di un grande paese così eterogeneo e diverso da noi nasconde quanto può turbare un continente e lo rende molto cauto ad aprirsi all’adesione turca.   

Il racconto della nostra visita a Istanbul non è finito, dopo Santa Sofia ci sono le tante meraviglie della città e soprattutto prosegue la nostra ricerca dell’antica Costantinopoli fino ad approdare dove sono i resti di quello che fu il cuore della capitale imperiale; il palazzo reale di Costantino. Continueremo il racconto prossimamente sul filo della memoria e della persistente suggestione.

Info

Il primo articolo sul nostro viaggio a Istanbul è uscito, in questo sito, il 10 marzo con 6 immagini, il terzo e ultimo articolo uscirà il  15 marzo 2013 con altre 6 immagini. Per la mostra “La Via della Seta” citata all’inizio, cfr. in questo sito i nostri  tre articoli del 19, 21, 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti. In apertura, la Moschea Blu dall’alto; seguono, una panoramica su Topkapi e la Moschea Ortakoy dal mare, poi un mosaico del Choro Museum e papa Benedetto XVI nella Moschea Blu con il muftì Mustafa Cagrici; in chiusura,  la Torre di Leandro al tramonto.

Torre di Leandro al tramonto.
 

D’Annunzio, 1. Nel 150° della nascita, arte e potere, in un libro-inchiesta

di  Romano Maria Levante

Oggi 12 marzo 2013, l’apertura di un Conclave straordinario, dopo secoli con il papa dimissionario e in vita, coincide con il 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio: un parallelointrigante alla luce dei suoi tormentati rapporti con la Chiesa, che mise i suoi scritti all’Indice per ben 4 volte. La Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” lo celebra nel Convegno di studi “D’Annunzio 150”, all’Aurum di Pescara. Noi lo ricordiamo per i rapporti tra arte e potere, rimessi in gioco dalle mostre del 2010  al Palazzo Esposizioni di Roma sui “Realismi socialisti” e il loro esponente “Deineka”; all’inizio del terzo millennio  c’è stata la mostra “L’uomo, l’eroe, il poeta”, alla Fondazione Roma al Corso nel 2001, per celebrare un protagonista del “novismo” del ‘900.. Nella prospettiva arte-potere rievochiamo l’uomo e l’eroe, gli aspetti personali e politici, senza quelli letterari, in fasi cruciali.

Il Poeta-soldato, 1916, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara” durante la prima Guerra mondiale

Per D’Annunzio non si deve parlare di influsso del potere sull’arte, come è avvenuto nella storia umana: dai remoti egizi ai tempi antichi con i mecenati e le committenze, ai tempi moderni con i regimi dittatoriali,  nazismo e comunismo. Anzi, è avvenuto il contrario: l’artista diventa protagonista politico e con il suo carisma fa tremare il nuovo potere mentre si va affermando.  .

Infatti, sebbene il fascismo influisse notevolmente sull’arte, in questo caso abbiamo avuto piuttosto l’influsso dell’arte sul potere: lo si vede nei rapporti di D’Annunzio con il regime e con Mussolini, in Italia l’incarnazione del potere assoluto. Rievochiamo questi rapporti e le vicende anteriori e successive inquadrandoli nella sua figura, in una sequenza che è un pezzo di storia d’Italia.

La difficile convivenza tra arte e potere – che tratteremo in generale  prossimamente,  al termine della rievocazione dannunziana – con lui assume aspetti del tutto peculiari. Ci riferiamo all’ombra che può dare al potere la presa dell’artista sul popolo, in un confronto nel quale il sistema, se è assoluto e dispotico, invece di valorizzarne il contributo cerca di neutralizzarlo per il pericolo che nasca o si rafforzi un potenziale concorrente. Ben diversa la situazione nel sistema democratico in cui tutto deve svolgersi alla luce del sole in modo trasparente ed è, o dovrebbe essere, sottoposto al controllo popolare contro ogni tentativo di  prevaricazione.

In D’Annunzio l’immagine di artista era resa ancora più luminosa dalle prove di ardimento fornite, già prima dell’impresa fiumana, come poeta-soldato impegnato in pericolose missioni nella guerra 1915-18: in particolare in montagna, sul Veliki e sul Faìti; in mare, sulla silurante “Impavido” fino al MAS della Beffa di Buccari; in aria, nelle ricognizioni sul Carso e sulla Bainsizza, su Parenzo e su Pola, su Trieste e nel bombardamento sulle Bocche di Cattaro fino al volo di sfida su Vienna.

Sono prove di ardimento che davano corpo ai suoi motti, da “Memento audere semper” a “Più alto più oltre”, da “Ardisco non ordisco” a “Sufficit animus”, da “Semper adamas”  a “Prima squdriglia navale, Il Comandante”; e lo immergevano in un clima eroico tra l’angoscia per i caduti – tra essi i piloti più amati, Bailo e Barbieri, Bresciani e Prunas, su tutti Locatelli e Miraglia per lui “dimidium animi” – e l’umanità dei commilitoni, ai quali era unito dalla solidarietà in trincea e negli assalti nel fuoco nemico o nell’orrore della decimazione, nel filo della fraternità con gli umili fanti..

D’Annunzio a Gradisca, ottobre 1915  

L’artista superuomo nell’umiltà, le gente “s’ingigantisce” in lui

Ne sono testimonianza gli episodi riportati nei suoi scritti autobiografici.

Ecco dal Libro segreto: “Che mi vale ogni specie di gloriola? Qual lode gretta e guardinga può rivelare me a me stesso, in confronto dei riscontri improvvisi che mi vengono dai miei pari noti e ignoti?” Alcuni  riscontri sono nel Libro Ascetico, quando dice al mutilato: “Come te, io sono minore della Patria; e sono minore di te, minore di tutti… Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà”. Si dipana “il filo della fraternità umana” dalla deposizione dalla Croce con Giuseppe d’Arimatea, di cui vanta le stesse iniziali, alle trincee del Carso: nell’episodio dei due fanti che sotto le granate gli offrono da bere le poche gocce d’acqua piovana raccolte con un filo di paglia, rievocato con toni commossi; e in quello del  fante abruzzese che gli dice “”E chi sti’ fa a ècche? Vàttene! Vàttene!  Si i’ me more, n’n è niende. Ma si tu te more, chi t’arrefà?”. Dalla “Licenza” della “Leda”, il fante che si schermisce dicendo: “L’aije muccicate, ‘gnore tenende” nel dargli un pezzo di pane, che lui chiama “il miglior pane ch’io abbia mangiato , in verità, da che ho denti d’uomo. E’ il pane dell’umiltà e della fraternità insieme”.

Ancora nel Libro Ascetico, dinanzi all’uccisione di tanti commilitoni scrive: “Credo che oggi potrei chiamarmi il primogenito dei morti. Da più settimane io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro”; lo ripete dinanzi all’orrore della decimazione. E nelle ultime pagine si congeda da loro con queste parole: “Tutto quel che di me non può perire, ad essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine”.  Nel suo letto di degente dopo la caduta dell’agosto 1922, mentre gli antichi commilitoni, anche feriti e mutilati, chiedono di fargli visita, esclama: “Vogliono entrare? vogliono guardarmi? vogliono riconoscermi? Lasciali entrare. Accompagnali al mio capezzale. Il miracolo si snoda”.  Li riconosce ad uno ad uno: “Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento”. 

Scrive anche “e più mi umilio in me e più la mia gente s’ingigantisce in me”, espressione che può essere il sigillo della forza che  può rendere l’artista protagonista attivo e non sottomesso al potere 

Le ferite di guerra, con la perdita dell’occhio destro in una missione aerea, e le medaglie al valore completavano questo quadro che si riflette con immagini suggestive come quelle evocate, dove l’arte raggiunge livelli altissimi di commozione autentica e coinvolgimento corale. L’elemento religioso si unisce a quello eroico e patriottico, con l’aggiunta della fraternità e generosità umana riassunta nel motto “Io ho quel che ho donato”, in una miscela dalla carica travolgente per forza evocativa e capacità espressiva: dai “Taccuini” al “Notturno”, dal “Libro ascetico” al “Libro segreto”, dalle “Preghiere”, di Doberdò, Sernaglia, Aquileia, a “Per la più grande Italia”.

Questo gli diede un forte carisma, espresso in una escalation di proclami e messaggi, invocazioni, e soprattutto azioni che sembrava inarrestabile, fino all’impresa fiumana e  alle iniziative successive. Nella prospettiva dei suoi rapporti con il potere ci piace chiamarlo artista invece che Poeta, l’espressione più usata sul versante letterario o Comandante, la più usata per l’aspetto militare.

Sul Faiti, mentre tiene un discorso, 1917

Il carisma dell’artista: la forza trascinatrice del pensiero e della parola

Abbiamo riportato sopra alcune sue espressioni suggestive in cui trovare le fonti della presa dell’artista sulla gente che si “ingigantisce” in lui. Nel “Notturno” lui stesso descrive come questo carisma si manifestò sin dalla sua orazione davanti alla folla romana in Campidoglio, ancora prima che le imprese eroiche ne accrescessero la portata e la presa popolare. Inizia con l’esaltazione personale: “Vivo alfine il mio ‘Credo’, in ispirito e in sangue. Non sono più ebro di me ma di tutta la mia stirpe”; segue l’esaltazione collettiva: “Il tumulto ha il fiato di una fornace, l’ànsito di un cratere vorace, il croscio di un incendio selvaggio. Trascino e sono trascinato. Salgo per incoronare e salgo per incoronarmi. Una primavera epica mi solleva e mi rapisce… E’ come il dolore di una creazione, è come l’angoscia di una nascita. La folla urla in travaglio. La folla urla e si torce per generare il suo destino… Vedo mille e mille e mille volti, e un volto solo: un volto di passione e di aspettazione, di volontà e di riscossa… La folla è come una colata incandescente. Tutte le bocche della forma sono aperte. Una statua gigantesca si fonde… Tutto è ardore e clamore, creazione ed ebrezza, minaccia e vittoria, sotto un cielo afoso di battaglie ove stride il saettìo delle rondini…”.

Ne ha una conferma esaltante a Fiume, come ricorda nel “Libro segreto”: “In Fiume d’Italia ho conosciuta intera la diversità fra l’orazione scritta e l’orazione improvvisa… Il popolo tumultuava e urlava chiamandomi, sotto le mie finestre la disumanata massa umana estuava ribolliva ristoppiava come la materia in fusione. io dovevo rispondere alla sua angoscia, dovevo esaltare la sua speranza, dovevo rendere sempre più cieca la sua dedizione, sempre più rovente il suo amore a me, a me solo. e questo con la mia presenza, con la mia voce, col mio gesto… Senza determinare la mia eloquenza e il mio accento, accordavo a quel diffuso e confuso clamore non so qual clangore della volontà, non so quali squilli dell’imperio… Una forza non più contenibile mi saliva allora al sommo del petto, mi anelava nella gola…”.

Il D’Annunzio fiumano era tenuto sotto osservazione dal sorgente movimento fascista, e non sfugge all’analisi interessata di Roberto F arinacci che nella “Storia della rivoluzione fascista” ne analizza il grande ascendente: “Egli li agita, questi giovani, e li ricompone in una più alta visione; egli li provoca alla passione e all’azione, e li rivela a loro stessi, li educa a contemplarsi ed a scoprire la bellezza delle loro stesse immagini e dei loro gesti, delle canzoni e dei motti, delle insegne e dei simboli, delle gare e delle cerimonie, anche delle cerimonie religiose, ch’egli suscita e inventa per elevarli, per affinarli, per farli arditi e splendidi”.

Il fascismo ne fu così colpito da emularlo, dal Fascio littorio all’inno “Giovinezza” e al saluto romano che il movimento prese dagli Arditi di Fiume, la camicia azzurra diventa nera e il grido dannunziano  “eia eia alalà”, dall'”alalazo” greco, entra a vele spiegate nel rituale fascista. Con le deformazioni provocate dal potere ogni volta che vuole confrontarsi con l’arte e la cultura.

Lo emulò lo stesso Mussolini, e Paolo Alatri lo dice chiaramente: “L’oratoria dannunziana… si rinvigorì e uscì allo scoperto nella campagna del 1915 per l’intervento e trovò la sua massima manifestazione durante l’occupazione di Fiume. Quella oratoria inaugurò un nuovo stile e una nuova tecnica, che poi, nel regime mussoliniano, domineranno in Italia per oltre un ventennio. Essa non è più diretta a persuadere, ma si rivolge a chi è già convinto e non chiede che un rito collettivo di esaltazione: non fa più ricorso ad alcun tentativo di discorso razionale, ma si appella al sentimento all’istinto alla reazione epidermica. Instaura il dialogo diretto tra l’oratore e la folla che viene chiamata a partecipare a una cerimonia di carattere mistico se non religioso”.

Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi all’aereo Caproni, ottobre 1917

L’artista nella politica: ispirazione e azione sotto gli occhi del potere

Su quest’onda montante conquistò un forte ascendente personale, che rappresentava già di per sé una minaccia per le mire egemoniche del fascismo. Tanto più che non restava chiuso nella torre d’avorio dell’arte, come di regola avviene, nel qual caso la convivenza con il potere emergente sarebbe stata meno difficile. Sconfinava in un ruolo politico sempre più attivo senza perdere lo spirito creativo e la forza morale, l’ispirazione dell’artista e la sua intensa espressione letteraria.

Renzo De  Felice, riferendosi in particolare al periodo fiumano, osserva che riuscì “grazie alla sua sensibilità di vero poeta, ad aprirsi come nessun altro ad un eccezionale sforzo di comprensione del travaglio morale e sociale, ancor prima che politico, del momento, e dischiudersi alle nuove realtà, ai nuovi problemi, alle nuove soluzioni umane e sociali e, dunque, politiche, confusi quant’altri mai, ma che erano comuni a vasti settori degli ex-combattenti e della gioventù… e sia pur marginalmente, anche ad altri gruppi sociali… in nome di nuovi valori che non si sapeva bene individuare e definire, ma di cui si sentiva la necessità”.

E se la sensibilità di poeta gli faceva avvertire la necessità di nuovi valori, gli dava anche l’impeto creativo e la forza trascinatrice, ancora una volta colta dall’attento Farinacci: “D’Annunzio esaltava la ribellione, educava e formava fra i suoi un’anima di guerra contro l’Italia ufficiale, suscitava in loro la gioia, anzi l’orgoglio di aver violentato la tradizione e la legalità, rompeva quell’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata che sempre aveva permesso al Governo in Italia di essere il despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà”.

Pietro Badoglio, nelle sue “Rivelazioni su Fiume” dove ne era stato l’antagonista, nel constatare che “era un gran suscitatore di energie, un prodigioso eccitatore di masse”, pur osservando che “egli era poi sensibilissimo all’applauso rumoroso ottenuto nell”arengo’, e l’urlo della folla gli menomava il senso della compostezza nelle parole e quello dell’equilibrio nelle decisioni”, riconosceva che “lontano dalla massa degli esaltati, egli ragionava con grande acume, con visione netta della realtà e, soprattutto, con cuore di grandissimo italiano”.

Del resto a Fiume ci fu un’esperienza di governo piena, con l’adozione della Carta del Carnaro che, come ha rilevato Nicola Francesco Cimmino, fu “concepita e impostata da Alceste De Ambris e scritta da D’Annunzio che le dette forma, creando per la prima volta – e forse per l’ultima – un documento di diritto che è, al tempo stesso, una pagina di poesia”. Si sente la mano dell’artista che mette a frutto il proprio carisma per realizzare un disegno complesso e ambizioso sul piano politico e sociale: “Già a Fiume, osserva ancora Cimmino, nella lotta – talora sorda, talora palese – che nella città si facevano sindacalisti e nazionalisti, egli fu per i primi, ma assorbendo nelle loro aspirazioni sociali le istanze della nazione”.

L’avventura di Fiume è istruttiva sia per l’artista sia per il potere emergente, che voleva fare tesoro a proprio vantaggio della prova generale rappresentata dal dannunzianesimo fiumano. Per D’Annunzio si trattò di una verifica sul campo, portata fino all’azione di governo, della carica rivoluzionaria e trascinatrice delle sue idee e del suo carisma; per i fascisti fu un prezioso insegnamento su come si poteva rompere l’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata e dare la spallata decisiva al governo, definito despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà.

Intanto, nel timore che la valanga dannunziana divenisse inarrestabile, il fascismo della prima ora, ancora fuori dalle stanze del potere costituito, diede solo un tiepido sostegno all’amministrazione provvisoria di Fiume, sfruttando sul piano politico l’indebolimento del governo centrale ma guardandosi bene dal rafforzare la posizione di D’Annunzio, anzi dando il colpo decisivo per affondarlo al momento opportuno. Che si ebbe con il Trattato di Rapallo, concluso il 12 novembre e approvato dalla Camera il 27 novembre del ‘20 con pochissimi voti contrari, accettato da Mussolini riconoscendo “la dolorosissima rinuncia” della Dalmazia, nonostante fosse stato respinto da D’Annunzio tanto da occupare, il 13 novembre, le isole di Arbe e Veglia andate alla Jugoslavia.

Fu una prova generale non solo per l’insegnamento ricavato dal fascismo, ma anche per il modo con cui il movimento fascista concorse all’affossamento, con l’intento di impedire al protagonista dell’avventura fiumana di puntare a un ruolo ugualmente decisivo a livello nazionale.

Durante l’impresa fiumana

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

Benito Mussolini inizialmente minimizzava pensando che a Fiume vi fosse “più Rinascimento che Risorgimento”, e chiedendosi se in D’Annunzio “vi fosse più desiderio e amore di una vita eroica o di una immagine bella dell’eroismo”. Ma non poteva chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e sottovalutare l’impatto che tutte queste cose insieme potevano avere, perché al di là dei reali contenuti della vita eroica non si poteva dubitare sulla capacità di darne, con la forza della creazione artistica, un’immagine in grado di coinvolgere le masse sul piano dell’azione rivoluzionaria e anche dei contenuti, ispirati a idee evocative e coinvolgenti. Scontrandosi per ciò stesso con il potere costituito e con chi voleva far prevalere il proprio potere. E c’era Farinacci a ricordare  che “D’Annunzio era un uomo di guerra e di azione e sapeva parlare in modo che i legionari l’avrebbero seguito fino al sangue, fino a più vasta guerra civile”.

Ecco come aveva parlato con loro nell’ultimo appello prima dell’abbandono: “Dal primo all’ultimo siete tutti eroi… il mio Dio, il vostro Dio, sia ringraziato… Mi sembrate creature del mio spirito. Ed ora mi apparite più belle delle mie creature”. Mentre nell’allocuzione del 2 gennaio ’21, davanti ai corpi dei morti delle due parti nel cimitero di Cosàla,  disse che se Cristo come con Lazzaro li avesse risuscitati “su dai coperchi non inchiodati ancora, io credo che essi non si leverebbero se non per singhiozzare e per darsi perdono e per abbracciarsi”. E’ il tema della pacificazione, che sarà un discorso politico per una sfida al potere sul campo già coltivato con le intense parole dell’artista.

Se Fiume è stata la prova generale, per il vero confronto tra arte e potere emergente occorre fare un salto in avanti di quasi due anni, allorché la vicendadannunziana avrà come palcoscenico la politica nazionale, sempre sotto l’attenta vigilanza fascista. Ma di questo parleremo prossimamente

InfoL’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, cfr. in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118, la parte terza su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527.  Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.Iniziamo oggiun servizio in sei articoli sui principali motivi dannunziani, i successivi 5 articoli usciranno, in questo sito, il 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013. Cfr. l’intervista di Anna Manna all’autore  del libro citato per il 150° dalla nascita di D’Annunzio, l’11 marzo 2013, in  http://www.100newslibri.it/.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal libro-inchiesta sopracitato di Romano Maria Levante (pp. 272-280) che le ebbe dalla  Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: Il Poeta-soldato, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara” durante la prima guerra mondiale nel 1916; seguono A Gradisca nell’ottobre 1915Un discorso sul Faiti nel 1917; poi Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi al Caproni, nell’ottobre 1917 e Il Comandante durante l’impresa fiumana; in chiusura la Copertina del  citato libro-inchiesta dell’autore. 

Copertina del libro-inchiesta dell’autore

Istanbul, 1. Viaggio nella “nuova Roma”

di Romano Maria Levante

La mostra “La Via della Seta”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013, termina oggi con l’approdo a Istanbul la “porta dell’Oriente”, una città cosmopolita con tanti motivi di interesse legati alla sua storia millenaria e al tradizionale ruolo di cerniera tra Oriente e Occidente. Prima di tornarci virtualmente con la mostra romana c’eravamo stati di persona e fummo presi dal fascino dei suoi simboli storici e artistici e di quelli religiosi, le moschee con le loro cupole e il senso del sacro che eleva lo spirito al di là della fede di appartenenza. Il nostro viaggio è stato alla ricerca delle tracce della romanità, un motivo appassionante; e al di là di questi aspetti ci ha colpito la gente che nel Ramadan si affollava nelle moschee e dopo l’imbrunire si radunava nelle tavolate all’aperto; e i giovani, la loro carica di energia e l’entusiasmo. Ne faremo un ampio racconto prolungando idealmente la mostra dopo la chiusura con l’evocazione della realtà. E’ ancora più attuale parlarne ora che Istanbul ha avuto da “Consumers Choice” il riconoscimento di “The Best European Destination 2013”. 

Una panoramica della zona di Sultanahmet  

E’ sempre emozionante andare sulle tracce di antiche civiltà. Recarsi nel lontano Oriente, nell’Asia sconfinata, fa provare l’ansia di trovarsi di fronte a realtà esotiche, a scoperte sorprendenti, a presenze sconvolgenti, anche se oggi tutto è sotto i riflettori. Andare a Istanbul dà un’emozione diversa, forse ancora più acuta. Perché l’antica Bisanzio, la Costantinopoli dei primi libri di storia evoca una folla di eventi e di sentimenti gemellati alla nostra vita e alla nostra cultura: è stata la capitale dell’Impero romano d’Oriente come Roma lo è stata dell’Impero romano d’Occidente; con la differenza, che incute una sorta di soggezione, di un millennio in più di dominio imperiale, dato che quello di Roma è caduto nel 476 per le invasioni barbariche e gli ultimi imperatori dissoluti, mentre Bisanzio è durata fino al 1576 quando la capitale dell’impero fu conquistata dagli Ottomani. A questo si aggiunge l’ansia della riscoperta, una sorta di “agnitio”: è la Costantinopoli della nostra cultura storica e religiosa che vogliamo ritrovare, alla ricerca delle sue vestigia come un gemello va alla ricerca dell’altro se stesso dal quale è stato separato da sempre.

La “nuova Roma” come la immaginiamo

La città fu chiamata “la nuova Roma” per il ruolo preminente svolto come capitale imperiale e la posizione unica a cavallo di due continenti, Europa e Asia, separati dal Bosforo sulle cui rive si estende con la parte europea divisa in due dal Corno d’oro; e se l’ubicazione di Roma dipese dalla sua posizione sul Tevere, quella dell’antica Bisanzio aveva motivazioni e basi ancora più fondate.

Dunque, forte emozione nell’arrivare a Istanbul per riscoprire i segni di una storia e di un potere che dall’Oriente ebbe la capacità di far impallidire quello d’Occidente e di sopravvivere alla grande Roma. Ma andare sulle tracce di una civiltà sepolta vuol dire pure districarsi nella civiltà viva e presente di oggi, in questo caso con un nesso particolare che suscita ulteriore interesse.

La città è l’ingresso di un paese che si è affacciato sull’Unione Europea e preme per farne parte, integrarsi con essa con le sue peculiarità e diversità non solo religiose; mentre l’UE allargata a ventisette paesi, pur non volendo perdere l’occasione unica di aprire la porta dell’Oriente nell’era della globalizzazione che supera barriere e confini, si ritrae per i timori suscitati da una prospettiva di integrazione e cambiamento che rinnova antiche paure; di qui l’estenuante negoziato senza fine.

Non si può certo vedere nell’ingresso della Turchia nell’UE il ricongiungimento di due imperi anche se decaduti, ben altre sono oggi le superpotenze; ma non si può neppure sottovalutare il significato della spinta europeistica che ha portato il paese a chiedere l’adesione da lungo tempo pur se questa attrazione si associa a una diversità nettamente superiore a quella tra gli altri stati membri.

Del resto, sappiamo che si tratta di una megalopoli di quindici milioni di abitanti, divisa in due parti ben distinte, e quella occidentale è una città europea nella conformazione urbana e nell’architettura degli edifici, non vi è traccia di quel tanto di moresco che si associa generalmente alle immagini dei sultani e degli ottomani.

Neppure nel palazzo del Sultano l’impronta orientale è particolarmente vistosa. Poi c’è la parte asiatica che ha connotati diversi. Ma in generale nella vita civile e nelle istituzioni l’impronta europea da Ataturk in poi è molto marcata. Sappiamo anche che l’anima orientale è nella gente vivacissima, nei bazar coloratissimi che fanno pensare al mondo delle “mille e una notte” – anche se non vi sono più harem – con i loro sapori, le loro tentazioni che prendono i sensi e accendono la fantasia; nonché nell’altra straordinaria diversità di questa metropoli, cioè nelle grandi moschee, templi carichi di spiritualità che fanno sentire al cospetto di qualcosa che coinvolge e sovrasta.

Sono aspetti già a prima vista segno di una separatezza da cui traspare l’altra faccia della medaglia, l’immagine che ci inquieta e ci turba anche per retaggi ancestrali; ma non dobbiamo averne paura, forti come siamo di una radicata e sicura identità che va oltre le radici cristiane inglobando anche i valori della ragione, dall’Illuminismo alla Rivoluzione francese alla Riforma, che si aggiungono ai valori della fede in una netta separazione tra Chiesa e Stato; separazione, peraltro, qui voluta e ottenuta da Ataturk in una realtà ben più critica e complessa della nostra.

Ma per restare all’immagine, vivacità e colori, sapori e tentazioni che accendono la fantasia non ci colpiscono, per fare un nome, anche nella nostra Napoli così pittoresca, viva e vitale? E la religiosità che si respira nelle moschee non la ritroviamo nelle nostre cattedrali anche se le divinità cui sono dedicate hanno nomi diversi ma pur sempre evocano l’Assoluto?

Allora torniamo ad immergerci in una realtà il cui passato e presente sono carichi di suggestioni e di significati, cercando di orientarci nel labirinto di una ricerca che segue percorsi inusitati. Non siamo turisti, ma viaggiatori nel tempo della storia e della nostra vita: dove spicca l’immagine  della croce di Costantino con su scritto “in hoc signo vinces”: una sorta di “arrivano i nostri”, il “Settimo cavalleggeri” che ha illuminato l’infanzia ed ora ci si ripropone con la stessa forte carica simbolica. Né la revisione storica della figura di Costantino riesce a cancellare questi sentimenti istintivi.

L’esterno di Santa Irene (Hagia Irini) 

Il labirinto della modernità

Il primo labirinto nel quale ci siamo dovuti districare è stato quello della modernità. Una modernità che balza subito addosso nel grande aeroporto con gli interminabili corridoi per i terminali, dotati di velocissimi tapis roulant; e soprattutto con le immense superfici lucide come degli specchi di una perfezione quasi imbarazzante, sembrava un’immagine virtuale mentre era reale e tangibile. “Mamma li turchi!” viene subito dimenticato, si è accolti dal volto moderno, occidentale, Roma non è lontana. Anzi, sembrava di essere nelle sue periferie sulla strada che dall’aeroporto entra in città, ci è venuta incontro una successione di edifici con i balconi chiusi da serramenti, così diffusi da sembrare di progetto, se l’irregolarità delle chiusure e la loro fattura non ne rivelassero la matrice alterata. Come a Roma, più che a Roma?  Dunque Italian style, almeno nell’arte di arrangiarsi?

Abbiamo raggiunto la parte vecchia di Istanbul, con le casette caratteristiche, i vicoli che s’inerpicano  ripidi e tortuosi, sui quali il pulmino dell’albergo faceva una vera e propria gimkana: a prima vista non sembrerebbe molto dissimile, pur con le sue evidenti peculiarità, dalle zone  più antiche delle città europee nelle parti non toccate dall’arte e dalla storia. Ma quello che fa la differenza sono le imponenti moschee che si intravedono con i minareti svettanti verso il cielo in uno skyline che marca di primo acchito una fisionomia particolare, e non solo religiosa. Un divario che si disvela in tutto il suo spessore al calar della sera appena giunti nel cuore della città.

Siamo arrivati al trentesimo giorno del Ramadan, il passaggio all’ultima parte del periodo di astinenza con .la visita alla moschea e poi l’abbondante consumazione del pasto dopo il tramonto, scattato il termine del digiuno giornaliero. Il momento tanto atteso è segnato da una festa, si sciama nelle moschee senza separazioni e tanto meno divieti, basta togliersi le scarpe per camminare sui tappeti che coprono i pavimenti; si dileguano le ombre salgariane sui temibili misteri di questi templi, per nulla preclusi agli “infedeli”. E si può partecipare al festoso happening che si svolge intorno alla Moschea Blu, nel  Piazzale Sultanahmet dove si affaccia la basilica, ora museo, di Santa Sofia.

E’ stato il nostro primo approccio con la vita della città, avvenuto nel vivo della festa religiosa e civile che ci ha fatto misurare subito il divario con i modelli prevalenti in Europa. Un divario grande e insieme colmabile, che abbiamo scoperto presi dal vortice popolare all’esterno nel piazzale e all’interno nel vasto chiostro e nell’ingresso della grande moschea sospinti, quasi travolti dalla fiumana di gente.

Non era un’adunata di fondamentalisti né di pellegrini carichi di fervore religioso, tipo visita alla Mecca per intenderci, altrimenti sarebbero scattati i divieti per gli “infedeli”. E non era neppure un afflusso di turisti e visitatori indifferenti, il sentimento religioso c’era, intenso quanto composto: lo testimoniava la distesa di schiene prostrate all’aperto come al chiuso al richiamo lamentoso del muezzin o della voce cantilenante che veniva dall’altoparlante, in un rito che impegna il corpo oltre che lo spirito.

Lo sciamare festoso tra i moltissimi stand che fanno corona all’immenso piazzale su cui si affaccia la moschea aveva un carattere autenticamente popolare. C’era di tutto, soprattutto cibo preparato con bracieri, spiedi e grigliati ai bordi della strada, giganteschi coni di kebab ruotanti offerti alle gente che passava, mentre i tavoli e le panche su cui sedersi per consumare i grandi arrosti erano sul retro, invisibili dall’esterno: un rito laico “coram populo” con il pudore di celare alla vista i destinatari di questa profana comunione collettiva.

Oltre al rito del cibo declinato in mille modi, con il fuoco bene in vista quasi fosse purificatore, un vastissimo campionario di arti e mestieri sciorinato nella moltitudine di stand per una folla eccitata e festosa che si lasciava andare terminata l’attesa.

E qui dal labirinto di sollecitazioni emotive è venuta una prima risposta. E’ un popolo giovane, un popolo vivace, un popolo religioso, di una religione a noi lontana, che non si inginocchia ma si prostra, obbedisce ai dettami di un credo severo e da noi temuto come si teme l’ignoto, come si diffida dello sconosciuto; un popolo del quale possono inquietare i tanti abiti lunghi, con una severità invero ingentilita dai colori, e il velo a fasciare i capelli lasciando scoperto il volto di stuoli di ragazze. Sembravano madonne, forse perché anche la nostra iconografia religiosa ha posto un velo sui capelli della madre di Cristo, ma ciò che incantava era la gioia espressa da quegli occhi resi più grandi e profondi nel viso incorniciato dalla stoffa leggera; era come se esibissero il vestito della festa, felici di esserci, di aver superato la boa del Ramadan, di mostrarsi così come si sentivano, nelle vesti e nella disposizione dell’animo. Una semplicità senza ombra di fondamentalismo, o almeno non ce n’era di più che nei nostri pellegrini ai santuari, almeno quelli di un tempo con le cotte bianche alle processioni e i canti strascicati nelle lente cantilene rituali.

Questi giovani sono la punta avanzata di un popolo fiero della propria diversità rispetto ai popoli europei con i quali persiste a volersi integrare nonostante gli venga chiusa la porta in faccia allorché sembra avvicinarsi il momento delle decisioni e il punto di non ritorno; un popolo consapevole del ruolo strategico che può svolgere nel crocevia di civiltà e di religioni, forte della propria laicità nel segno dell’opera rivoluzionaria svolta da Kemal Ataturk in un difficile crinale pur nelle ferme convinzioni religiose ancorate alla fede mussulmana ma senza sconfinamenti temporali; e la festa del 24 ottobre nel nome di Ataturk ne è il contraltare laico, con il rifiuto di ogni fanatismo.

Sono considerazioni che non provengono da analisi politologiche o sociologiche, ma da mere notazioni di cronisti, anzi da semplici impressioni di turisti. Trascinati dal fervore di gioventù che ci circondava, pur se il momento era in qualche modo rituale e non ludico, ne avvertiamo la profonda differenza rispetto alle sembianze della vecchia Europa: anche nel ricordo ci sentiamo intimoriti e nello stesso tempo attratti da questa forza della natura, una gente giovane e determinata così diversa da noi e insieme così desiderosa di unirsi a noi; e siamo stretti tra due spinte contrapposte che rischiano di paralizzarci, ma finiscono per accostarci a un disegno di integrazione che è insieme una scommessa e una sfida da vincere.

Né i gravi episodi verificatisi in diverse circostanze tragiche e dolorose, per lo più singoli e isolati, possono stravolgere questo quadro d’assieme anche se inducono alla cautela verso l’ingresso della Turchia nell’UE da molti ritenuto ancora prematuro. E tra l’altro in questi ultimi tempi non più sollecitato come negli anni scorsi dagli stessi turchi che di certo non possono sentirsi incoraggiati a entrare in un’unione nei morsi della recessione con la moneta che la soffoca.

L’esterno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Sulle tracce del passato

Il mattino dopo il nostro arrivo ci trovavamo di nuovo nel piazzale Sultanahmet. Venditori ambulanti non mancavano, c’era persino chi offriva un rudimentale servizio con vecchie macchine da scrivere per compilare lettere su richiesta; nell’era del computer portatile ci faceva sorridere, e forse oggi, trascorsi del tempo dal nostro viaggio, non ci sono più, ma esprimeva  i divari  esistenti che non possono essere celati dalla modernità della città. C’è la Turchia arretrata dell’interno, dei villaggi di montagna, delle campagne; e con  inquietudine riflettiamo che è quella la vera Turchia con cui confrontarsi per l’ingresso nell’UE, ben diversa dal cosmopolitismo della porta d’Oriente.

I due Obelischi, con il Bassorilievo di Teodosio alla base di uno di essi, ci hanno riportato all’altro itinerario, quello della memoria, che abbiamo potuto percorrere dopo esserci districati nel labirinto della modernità. Siamo andati alla ricerca dei segni dell’antica Bisanzio e poi Costantinopoli, la culla di una  raffinata e potentissima civiltà, la capitale dell’impero d’Oriente che, lo ripetiamo a noi stessi, è sopravvissuto per un millennio alla caduta dell’impero romano d’Occidente.

Questi primi reperti sono stati per noi una scoperta preziosa, le tracce iniziali da seguire nel lungo cammino di una città crocevia di due continenti e delle loro civiltà millenarie. La Colonna serpentina, insieme all’Obelisco egiziano portato da Teodosio con il Bassorilievo romano del quarto secolo che ne celebrava le gesta, e all’Obelisco di Costantino, detto anche l’Obelisco di ottone dal metallo che per un certo periodo lo rivestiva, ci hanno riportato all’epoca remota in cui la vita ruotava intorno all’Ippodromo di cui restano questi soli componenti con il segno di Roma.

Fu inaugurato nel 330 per le corse di carri ma per oltre un millennio fu sede dei maggiori eventi pubblici, vero fulcro della vita di Costantinopoli; della sua grandiosità resta solo la caratteristica forma a ellisse, tipo Circo Massimo, che ci richiama la corsa delle bighe alla Ben Hur, mentre i quattro grandi cavalli di bronzo che ne erano il simbolo furono portati a Venezia come trofei dai temporanei conquistatori e spiccano sulla Basilica di San Marco. Immagine che ha suscitato  in noi pensieri inquieti , ma non ci hanno colpito gli obelischi, a Roma sono familiari, quanto la Colonna serpentina che si materializza dal terreno con le tre teste di serpente poste alla sua sommità. 

Abbiamo seguito la traccia del Bassorilievo di Teodosio spostandoci di poco nello spazio ma proseguendo il viaggio nel tempo, anzi nel tempio. Perché siamo passati davanti alla antichissima Santa Irene (Hagia Irini), la prima chiesa cristiana prima della grande basilica di Santa Sofia (Hagia Sophia)dal turco la “divina sapienza”. Questa fu costruita nel VI secolo in soli cinque anni e dieci mesi impiegando diecimila persone e utilizzando i marmi pregiati e i materiali più preziosi che l’imperatore Giustiniano poté prelevare spogliando i monumenti pagani nonché gli edifici pubblici e privati in tutta l’Asia minore avvalendosi dell’indiscussa potestà imperiale; i costi furono altissimi e l’economia imperiale ne risentì: per la costruzione del solo pulpito fu speso l’equivalente delle tasse pagate dall’Egitto in cinque anni.

Purtroppo nulla è rimasto dei pavimenti musivi, dell’iconostasi d’argento, dell’altare in oro massiccio tempestato di pietre preziose e degli affreschi, preda delle razzie perpetrate soprattutto dai cristiani iconoclasti della quarta Crociata, però nessuno ha potuto depredare il tempio della sua maestosità solenne che fa sentire nell’intimo una profonda suggestione. C’è una colonna con la proprietà di esaudire i desideri espressi infilando un dito in una cavità e disegnando un cerchio con il palmo della mano; lo abbiamo fatto sia pure distrattamente, ci emozionava piuttosto ricollegare la chiesa all’indimenticabile, per la nostra generazione, “in hoc signo vinces”, da cui venne la decisione di Costantino, il costruttore dell’originaria Santa Sofia, tre secoli prima, di eleggere la già rinomata Bisanzio a capitale dell’Impero d’Oriente con il nome di Costantinopoli.

Un interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Santa Sofia, cristiana e musulmana, ora laica

Questa basilica cristiana, la più grande al mondo fino alla costruzione di San Pietro, era una chiesa così importante che nel periodo di maggior fulgore vide la presenza stabile di ben novecento sacerdoti. Venne realizzata su due chiese ancora più antiche, la prima fatta costruire proprio da Costantino e consacrata nel 360 sotto il regno del figlio Costanzo, l’altra edificata sulle sue rovine da Teodosio e terminata nel 415. La basilica fu voluta da Giustiniano dopo i tumulti che distrussero la chiesa preesistente; l’intento era rivaleggiare con il mitico tempio di Salomone, tanto che secondo la leggenda l’imperatore il giorno dell’inaugurazione ebbe a dire: “O Salomone, ti ho superato!”.

Affascina il rosa sfumato dell’esterno, la grande cupola dal diametro di trentadue metri e alta cinquantasei metri, proporzioni che simboleggiano la “Divina Armonia”, con quaranta finestre tutt’intorno concepite per far entrare la luce della divina sapienza, e tante cupole minori insolite in un tempio cristiano; colpisce la grandiosità del tempio con una navata centrale di ottanta metri per settanta e due navate laterali divise da un colonnato di ventiquattro colonne su due piani.

Si raggiunge la galleria superiore salendo la rampa che sembra un sentiero acciottolato a massi come una strada romana, e in fondo lo è anche se ci troviamo agli antipodi dell’Occidente, nel lontano Oriente. L’ampia balconata è rivestita di marmi preziosi,  nella balaustra ornamenti a forma di lance che erano croci così modificate nel periodo ottomano. La vista dall’alto fa risaltare l’imponenza del tempio, che appare del tutto degno della sua storia e dei simboli evocati. E non solo per l’architettura, la forma e i volumi ma anche per i marmi e i mosaici bizantini, una vera ricchezza che i secoli hanno accumulato e anche dissipato con i saccheggi.

Nella galleria posteriore spiccano i mosaici con le figure di Cristo tra la Madonna e Giovanni Battista al centro, non lontano Cristo Pantocratore tra l’imperatrice Zoe e Costantino IX, poi la Madonna col Bambino tra l’imperatore Giovanni II e l’imperatrice Irene; sopra l’arco del portone il mosaico con la Vergine Maria tra Giustiniano e Costantino; c’è anche l’arcangelo Gabriele oltre a Teodosio e a diversi santi, da sant’Ignazio il Giovane a san Giovanni Crisostomo e sant’Ignazio Teodoforo; mosaici dorati anche in parte della cupola.  Aggiungiamo per inciso che una dovizia di mosaici è affreschi è nell’antica chiesa di San Salvatore, oggi Chora Museum, che fu costruita fuori dalle mura originarie di Cistantinopoli. 

Si tratta di immagini familiari nell’iconografia cristiana, ma i mosaici di Santa Sofia sono all’altezza di quelli di Ravenna, e trovarli sopravvissuti nella terra dell’Islam come segno della continuità nei secoli dell’ispirazione cristiana produce emozione. Che sia una presenza miracolosa lo rivela la storia della basilica, con i vandalismi e le rapine sui preziosi simboli cristiani. Nella visita abbiamo saputo che i sacri mosaici rinvenuti in epoca recente si sono salvati perché nascosti dall’intonaco apposto all’atto dell’occupazione ottomana; e che la basilica fu trasformata in moschea dai vincitori nel quindicesimo secolo, se ne vedono segni vistosi all’interno nei sei grandi tondi del diametro di otto metri inneggianti ad Allah, nel pulpito mussulmano e nella loggia del Sultano, e all’esterno nei quattro svettanti minareti che la circondano.

Un altro interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

La compresenza dei simboli delle due religioni da quando non è più luogo di culto per nessuna di loro, assurge ad emblema del superamento di contrasti assurdi se acuiti dall’intolleranza fondamentalista, non per un utopistico sincretismo ma per una convivenza pacifica sempre più necessaria. Vedere inneggiare ad Allah dov’è l’immagine di Cristo, trovare sotto lo stesso tetto, o meglio sotto la stessa cupola, vestigia delle due fedi fa ribaltare tanti giudizi sull’inconciliabilità di credi così diversi ma rivolti entrambi a un essere superiore, in una visione monoteistica con non pochi elementi in comune, da Abramo alla Madonna, fino a Cristo riconosciuto e rispettato anche dai mussulmani come profeta, quindi nella natura umana che rappresenta il cuore del cattolicesimo.

Non è senza significato che alla fine nessuna delle due religioni succedutesi nella basilica abbia prevalso nella destinazione finale. Fu adibita a museo nel 1935 per ordine di Ataturk, che eliminò la moschea ritenuta per secoli un vero affronto al cristianesimo e vietò ogni forma di preghiera all’interno, con la consacrazione di fatto della compresenza delle fedi in un tempio divenuto laico, espressione della memoria; è stata la vittoria del rispetto e della tolleranza sul fanatismo, sulla cancellazione quasi sempre violenta dell’altro di sé, che resta dopo le barbare distruzioni di segno opposto, dai mussulmani ai Crociati.

Sono stati sconfitti gli iconoclasti cattolici che spogliarono la chiesa senza riuscire a intaccarne il valore storico, artistico e religioso; sono stati sconfitti altresì i fondamentalisti islamici che la trasformarono in moschea violentandone la natura cristiana ma mantenendone la destinazione a luogo di culto con l’imposizione delle aggiunte sopra ricordate.

Mentre il contrappasso ha fatto sì che l’umiliante copertura con l’intonaco dei mosaici cristiani più pregiati li abbia salvati dalla distruzione cui sono stati assoggettati gli altri simboli, dando così un valore salvifico a una profanazione che, ribaltando le intenzioni,  ha consentito l'”happy end” del ritrovamento in tempi nei quali – e questa ne è stata una prova ulteriore – i valori dell’arte riescono spesso a prevalere sull’intolleranza. Almeno se a vincere non è il fondamentalismo nella sua ottusità, come quando in Afghanistan i talebani distrussero le gigantesche statue rupestri di Buddha. Nulla di più lontano da visioni estremiste e intolleranti appare, sul piano dei principi, l’islamismo in Turchia: il gran Muftì di Istanbul ha affermato che il Libro sacro dell’Islam, il Corano, riconosce il Vangelo e la Bibbia come Libri sacri del Cristianesimo e dell’Ebraismo, nel comune riferimento alle grandi figure di Mosè, Abramo, Cristo oltre a Maometto; e ha detto che questi tre Libri sacri lo accompagnano sempre nella sua giornata, come riferimento e guida costante.

Termina il ricordo della la visita a Santa Sofia, ma la rievocazione della visita a Istanbul continua. Ne parleremo prossimamente.

Info

I prossimi due articoli su Istanbul usciranno, in questo sito, il 13 e 15 marzo 2013. Per la mostra “La Via della Seta” citata all’inizio, cfr., in questo sito, i nostri tre articoli del 19, 21, 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. 

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti.  In apertura, una panoramica della zona di Sultanahmet; seguono gli esterni di Santa Irene (Hagia Irini) e di Santa Sofia (Hagia Sophia); poi due interni di Santa Sofia; in chiusura una visione panoramica al tramonto. 

Una visione panoramica al tramonto
 

Tintoretto, 3. Grandi pale d’altare, pitture sacre e votive, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Si conclude, a un anno dall’apertura,  la nostra rievocazione della visita alla grande mostra “Tintoretto” , svoltasi alle Scuderie del Quirinale  dal 25 febbraio al 10 giugno 2012,  con esposti 50 quadri, di cui 35 dell’artista i cui tratti salienti sono riassunti in tre parole: teatralità, gigantismo, arditezza. Il “clou” sono le opere su temi sacri, dipinti di dimensioni notevoli con un’impostazione teatrale negli spazi e nelle architetture, resa mediante drammaticità e realismo compositivo, scorci arditi, effetti di luce. Dopo aver tratteggiato la sua figura e averne descritto  la ritrattistica e le opere profane, ci immergiamo nel cuore della sua attività artistica, le grandi pitture sacre.

“Miracolo dello schiavo”, 1547-48

La mostra inquadrava la sua opera nella Venezia del tempo, “crocevia di genti, lingue, idee”, capitale di uno stato piccolo ma al centro di traffici di merci pregiate, sede di industrie e con un grande prestigio. In questa Venezia aveva un ruolo di spicco il suo carattere libero e ribelle, la sua arte spettacolare e insieme penetrante, innovativa rispetto allo stile tizianesco e al mero manierismo.

Il primo “colpo di teatro” lo dava, all’inizio della visita, la grande tela che impresse il più forte impulso alla sua vita artistica, il “Miracolo dello schiavo”, 1547-48, di circa 4 metri per 5,50. L’irruzione dall’alto della  figura di San Marco che salva dalla morte lo schiavo a lui devoto sottoposto al supplizio è di un realismo onomatopeico, se ne avverte quasi il rombo di tuono, la scenografia è monumentale e drammatica, la luce ne marca con i suoi guizzi i diversi momenti.

Qui inizia la nostra rassegna delle pitture sacre di Tintoretto nella ricerca concreta degli elementi caratteristici che abbiamo sottolineato nel presentare “il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”. Dopo i pittori veneti si ispirò a Parmigianino e Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano, ma con uno stile del tutto personale che lo allontanò dal Tiziano imperante e dal manierismo puro.

Prima dell’opera appena citata ne abbiamo una giovanile, La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, non meno straordinaria, e non solo perché aveva 22 anni ma per la composizione su molti piani prospettici, quasi in un imbuto spaziale dove gli imponenti primi piani laterali che fanno da quinta sono di figure secondarie mentre la figura principale, Gesù, è in un piano lontano sia pure al centro, tra colonne e pulpiti, in una scenografia fantasmagorica.

Ma fu il “Miracolo dello schiavo” a lanciarlo verso le grandi commissioni; fino ad allora aveva prodotto soprattutto dipinti ornamentali minori, di cui erano esposti in mostra due “ottagoni” pregevoli. Gli anni ’50 del 1500  lo vedono impegnato sui temi sacri, come “Sant’Agostino risana gli sciancati”, 1549-50,  e “La creazione degli animali”,1550-53: nel primo la luce sembra portare in alto il santo e il Padreterno su campi lunghi per la profondità e l’altezza, nel secondo  vi sono livelli scenici successivi con figure michelangiolesche in primo piano.

Poi nel 1553-55 due opere: “Il viaggio di sant’Orsola”, a differenza degli altri di forma alta e stretta, con la santa librata in cielo e il corteo delle vergini vestite in un opulento sfarzo orientale, disposte in file che vanno verso l’osservatore discese dalle lontane navi alla fonda, è cinema da mille e una notte  più che teatro; e “San Giorgio  uccide il drago”, anche qui effetti di luce e il primo piano della fanciulla salvata che corre verso l’osservatore, mentre il santo a cavallo in lotta con la fiera è in secondo piano in uno scenario fiabesco, una reiterazione della brillante idea compositiva che inverte la posizione dei soggetti.

“La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41

I dipinti per le Scuole Grandi, Piccole e Devozionali

Sia pure a distanza di 14 anni dall’exploit del “Miracolo dello schiavo”, nel 1562 arriva la commissione di un medico mecenate per una delle “Scuole Grandi” – che avevano funzione assistenziale e politica in termini di potere finanziario dei confratelli benestanti – quella di San Marco: i risultato è la grande tela del “Trafugamento del corpo di san Marco”, dove colpisce la straordinaria scenografia architettonica, quasi un fondale teatrale con tanti livelli prospettici e un primo piano in cui il corpo nudo del santo e chi lo sostiene per le gambe sono rischiarati dalla luce.

Ad una “Scuola Grande” era dedicata un’apposita sezione, tanto che Melaina Mazzucco chiama “l’avventura della scuola di San Rocco” un episodio singolare ma espressivo della sua personalità: quando la scuola chiese a 4 pittori – Tintoretto, Paolo Veronese, Zuccari, Salviati – un bozzetto per l’ovato del soffitto nella sala dell’Albergo, lui presentò a sorpresa il dipinto ultimato esprimendo l’intenzione di donarlo alla scuola, facendo così annullare il concorso; ebbe poi altre committenze.

Di queste, svoltesi tra il 1565 e il 1567 per una sala con il ciclo della Passione e tra il 1575 e il 1588 per altre sale, erano esposte due grandi tele, restaurate per l’occasione, di dimensioni inconsuete, alte più di 4 metri e larghe poco più di 2 metri dipinte nell’ultima fase, il 1582-83, che la Mazzucco definisce “uno dei frutti estremi, il più intimo e lirico di questa monumentale impresa” nella quale, conclude, “ha consegnato il suo capolavoro d’artista”. Sono “La Vergine Maria in meditazione” e “La Vergine Maria in lettura”,  gemelle anche come cromatismo e composizione: ambiente naturale scuro con alti alberi e prospettiva, la Vergine è una piccola figura in entrambe le tele, scolpita dalla luce come i contorni delle piante e alcuni particolari del paesaggio con un lirismo riposto e sommesso, per cui l’immersione nella natura sembra proteggere il raccoglimento.

Ma se le “Scuole Grandi” erano le più ambite per l’importanza della committenza, fu molto attivo anche con le “Scuole Piccole”: a Venezia erano cento, formate dai  membri di arti e mestieri – tintori e acquaioli, sarti e tessitori – che mettevano a concorso la  pala d’altare della loro chiesa. Tra i suoi dipinti per loro la Benedizione dell’agnello pasquale”  e la “Comunione di san Pietro”.

Anche le “Scuole devozionali del Santissimo Sacramento” commissionavano dipinti, in particolare “Ultime cene” per far rivivere il momento eucaristico. Tintoretto fece una diecina di Cenacoli, tra il 1547 e il 1592, dei quali ne erano esposti due di grandi dimensioni, oltre due metri di altezza per 4-5 di larghezza, del periodo intermedio, a distanza di circa dieci anni.  L’“Ultima Cena”  per la chiesa di san Trovaso è del 1561-62, quella per la chiesa di san Polo è del 1574-75.  Nel primo la mensa a forma di losanga è al centro della sacra rappresentazione dello sconcerto degli apostoli espresso nel dinamismo delle posizioni dei loro corpi, che però restano ancorati ai posti intorno alla tavola  con al centro Cristo la cui figura è incorniciata dalla luce e da una fuga di colonne, il solo elemento composto in un ambiente in cui anche gli oggetti sono investiti dalla concitazione. Il secondo dipinto, al dinamismo delle posizioni sostituisce il convulso protendersi delle figure, con il Cristo tutt’altro che composto: apre le braccia prefigurando la croce mentre gli altri si affollano in piedi in una scena altamente drammatica dove ci sono anche la carità al povero, il paesaggio e l’architettura; è sconvolgente la raffigurazione in un cromatismo intenso con sciabolate di luce.

Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582

Le pitture votive e il culmine spirituale: il Paradiso e Cristo nel sepolcro

Continuò a dipingere per la Scuole Piccole e Devozionali con un linguaggio semplice e un forte realismo per avvicinarsi alla sensibilità della gente comune anche dopo aver avuto le importanti committenze della  Scuola Grande di San Rocco ed essere divenuto pittore della Repubblica veneta, ritrattista del Doge, impegnato nei grandi dipinti con eventi storici e opere votive per Palazzo Ducale, sede del Doge e del Governo e per i palazzi dei Ministeri, in particolare il Palazzo dei Camerlenghi, nei quali venivano inseriti anche personaggi del momento.

Ci sono i “camerlenghi”, cioè tesorieri,  raffigurati mentre venerano la Madonna con Bambino e dei santi, nella “Madonna dei Tesorieri”, 1566-67, un esempio di pittura votiva e insieme celebrativa del potere. I tre tesorieri sono visti come una reincarnazione dei Magi, recano un sacco gonfio, forse di monete d’oro; diversamente dalla natività la Madonna ha un Bambino cresciuto in braccio, a fianco san Sebastiano trafitto, san Teodoro in armatura e san Marco in tunica rosa, come nel “Miracolo dello schiavo”; la luce dipinge i contorni e rischiara l’ambiente e lo sfondo in modo suggestivo.

L’opera a cui teneva tanto, per la Sala del Maggior Consiglio, era “L’incoronazione della Vergine o Paradiso”:  al concorso del 1582 gli era stato preferito Paolo Veronese, che però morì nel 1588. Fu richiamato, ma per la tarda età il grande dipinto venne consegnato dal figlio Domenico, con notevoli differenze rispetto all’idea originaria, avendo eliminato ciò che non si adattava più a un ambiente modificato e ciò che non era stato accettato. In mostra era esposto non questo dipinto, ma quello del 1564, di cui nella presentazione dell’artista abbiamo rievocato la storia, con i ritocchi e le modifiche del 1582; non è un bozzetto, misura m 1,70 di altezza per 3,60 di larghezza: Si resta senza fiato dinanzi a una composizione e una forma espressiva diverse da tutte le altre sue e di qualunque artista. Non ci sono primi e secondi piani, l’effetto prospettico è superato da una dimensione arcana con le figure immerse in un moto avvolgente che sembra elevarle da un livello all’altro nei cerchi ascendenti di un empireo dantesco fino alla dissolvenza verso un qualcosa che risucchia in alto, sempre più in alto. L’artista riesce a evocare la magica fascinazione del  Paradiso.

Termina il “flash back” sugli anni ruggenti del Tintoretto e le sue opere maggiori. Vi era un ultimo passaggio a conclusione della mostra. Nella sezione “il commiato”  la “Deposizione di Cristo nel sepolcro”, un “compianto” struggente: siamo nel 1594, l’anno della morte, è una sacra rappresentazione in tre atti, momenti collegati da due diagonali che dal corpo di Cristo in primo piano rimandano alla Madonna con le pie donne in secondo piano, entrambi accomunati dalle braccia aperte, con le croci del Golgota nello sfondo lontano; c’è la figura di Giuseppe d’Arimatea in cui dei critici hanno visto l’autoritratto del Tintoretto, identificazione contestata da altri ma la cui ipotesi, almeno sotto il profilo simbolico, ci fa considerare il dipinto un vero testamento pittorico.

E’ proprio il commiato di un grande artista poliedrico, fortemente ancorato alla pittura religiosa nella quale ci ha dato delle “sacre rappresentazioni” nel significato stesso del termine. Per questo il titolo che dà Vittorio Sgarbi al proprio commento di presentazione della mostra da lui curata, “Tintoretto regista”, rende bene il senso della sua  opera pittorica di impostazione teatrale.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti,  in questo sito,  il 25 e 28 febbraio u.s. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Miracolo dello schiavo”, 1547-48; seguono  “La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, e “Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582; in chiusura “Autoritratto”, 1588-89.

 “Autoritratto”, 1588-8