D’Annunzio, 2. L’arte contro il potere, fino all’esilio in patria al Vittoriale

di Romano Maria Levante

Nel 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio, avvenuta il 12 marzo 1863, ne ricordiamo la figura inimitabile seguendo il filo rosso dei rapporti tra arte e potere, evocati dalle mostre romane sui “Realismi socialisti” e “Deineka”. Abbiamo già parlato dell’artista superuomo nell’umiltà, con la gente che “s’ingigantiva” in lui; quindi del suo carisma, per la forza trascinatrice del pensiero e della parola, attraverso la sua partecipazione attiva alla prima guerra mondiale e l’impresa di Fiume; infine dell’artista osservato speciale, l’ispirazione e l’azione sotto gli occhi del potere. Dopo i suoi primi accenni alla pacificazione davanti alle vittime negli scontri fratricidi a Fiume, si passa al suo disegno per l’Italia ispirato alla pacificazione nazionale. Ne parliamo adesso, anche nei suoi rapporti con Benito Mussolini, fino all’esilio dorato al Vittoriale sul Lago di Garda.

In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani

Conclusa la prova di Fiume, il vero confronto tra arte e potere si ebbe nei riguardi del movimento fascista, non ancora entrato nelle istituzioni, ma sempre più minaccioso, aggressivo e impaziente.

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

D’Annunzio, che si trovava a Milano per motivi editoriali presso l’albergo Cavour, il 3 agosto ‘22 fu chiamato perché parlasse dal balcone di Palazzo Marino dai fascisti che avevano occupato il Municipio nella mobilitazione contro lo sciopero generale; Finzi e Teruzzi, racconta Umberto Foscanelli, lo convinsero dicendo: “Non siamo noi che vi reclamiamo, ma il popolo milanese, Comandante”. Tenne il discorso “Agli uomini milanesi per l’Italia degli italiani”: “O fratelli, siete l’unanimità del fervore innumerevole; siete la concordia del consenso innumerevole. Mentre la passione di parte tuttavia arde, mentre tuttavia fumano le arsioni e sanguinano le ferite, mentre il volto della Patria è tuttavia velato, noi qui invochiamo la pace e onoriamo la bontà. Sento fremere intorno a me la giovinezza generosa che tende la mano aperta non più in atto di sfida ma in atto di promessa, non più in atto di minaccia ma in atto di protezione. Quando mai, nel travaglio del mondo, la bontà ebbe forza e pregio come in questa nostra vigilia tormentosa e turbinosa?” E ancora: “La bontà ha le sue faville, e tutte le faville secondano la fiamma grande. Vedo in voi sfavillare la bontà efficace e militante, la bontà affermatrice e creatrice, la bontà dei lottatori e dei costruttori: la bontà vittoriosa”. “La folla – si legge nel “Libro ascetico” – dopo un grido confuso e prolungato… erompe in acclamazioni senza fine. Tutte le bandiere e tutti i gagliardetti si agitano”.

Sono bandiere e gagliardetti fascisti trascinati verso un itinerario di “bontà vittoriosa” che non era solo un messaggio spirituale da artista sognatore, quanto un disegno lungimirante di pacificazione nazionale inserito in un progetto politico non inerte e imbelle, dato che pensava di realizzarlo con la spinta di un’adunanza di ex-combattenti di ogni parte politica: “Essi imporranno al Paese – diceva – la loro volontà di unione e di pace. Dove? Quando? Fra due mesi, forse. Vi saranno migliaia di bandiere. Tenetevi pronti. E poi? Un governo provvisorio, la fine della guerra civile, le elezioni in un regime di libertà. ‘Sine strage vici'”. Per questo disegno tesseva una trama complessa della quale citiamo due aspetti in cui spicca l’impronta dell’artista insieme alla strategia del politico.

Il primo aspetto sono riguarda gli obiettivi, così definiti da Paolo Alatri: “Ciò a cui D’Annunzio mirava era di porsi come pacificatore al di fuori della mischia, che in quel periodo, con l’offensiva squadristica, era feroce… quest’opera di pacificazione implicava il coinvolgimento del mondo del lavoro e delle sinistre, quindi una presa di contatto con i loro rappresentanti, il che spiega i colloqui dell’aprile-maggio ’22 [con gli esponenti della Confederazione generale del lavoro, Valdesi in aprile e D’Aragona in maggio] e, subito dopo, la protezione accordata alla Federazione italiana lavoratori del mare di Giulietti”; e, forse, spiega anche l’incontro del 27-28 maggio dello stesso anno con Cicerin, il Commissario agli esteri della Russia, che dopo il colloquio disse: “Fui sorpreso di trovare in D’Annunzio un sentimento vivo di simpatia per le lotte sociali degli oppressi”.

L’altro aspetto riguarda i modi con cui intendeva attuare questo disegno, e basta riportare quanto scrive Foscanelli: “Il rifugio di D’Annunzio a Cargnacco era diventato una specie di tempio delfico cui si accostavano tutti coloro che sentivano come il fascismo si facesse ogni giorno più forte e aggressivo”. Sembra addirittura che, prendendo atto della situazione, lo stesso Mussolini lo sollecitasse a un impegno politico diretto. Lui accoglie soltanto l’invito che veniva da Nitti per promuovere l'”unione delle forze più sane” della democrazia, del socialismo, del fascismo nella linea della pacificazione nazionale, antitetica alla linea perseguita dal fascismo: “Tu vedi il pericolo e tu puoi agire sulla gioventù, infiammarla e riportarla sul buon sentiero”, gli scriveva Nitti proponendo un “programma di salvezza per l’Italia” e superando il risentimento per le vicende di Fiume dove il Comandante gli aveva rifilato l’epiteto dispregiativo di “Cagoja”.

Con Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia, in visita al Vittoriale, maggio 1922 

Un primo successo del potere: il progetto di pacificazione è neutralizzato

Ora la parola passa alla dura logica dei fatti, a una realtà che sconvolge tutti i programmi. Mussolini mostrò di aderire al progetto di pacificazione, presumibilmente per controllarlo e cercare di vanificarlo come aveva fatto con l’impresa di Fiume, chiedendo solo che prima dell’intesa a tre si incontrassero Nitti e D’Annunzio. Questo incontro, fissato per il 15 agosto ‘22, non ci fu mai. Mentre Nitti stava partendo per l’appuntamento con un salvacondotto di Mussolini a protezione dalle violenze squadriste, alle ore 23 del giorno 13, praticamente la vigilia di ferragosto, ecco il “deus ex machina”: la misteriosa caduta dalla finestra che tenne D’Annunzio per molti giorni tra la vita e la morte per le ferite alla testa, descritte poi in modo romanzato nel “Libro segreto”.

Non ci soffermiamo sulle versioni e le ipotesi fiorite intorno a questo giallo, dalla caduta accidentale al gioco erotico alla baruffa per questioni di gelosia; e neppure sulle conclusioni – “casualità” senza escludere il “fatto colposo” – dell’indagine del Commissario Dosi, spacciatosi da pittore di farfalle e paesaggi per entrare al Vittoriale e gratificato dell’appellativo di “lurido sbirro” appena la sua identità fu scoperta. Nino Valeri si è chiesto: “Fu un gioco del caso? Ancor oggi gli elementi non ci consentono di dar corpo alle ombre accumulatesi sul fosco episodio”. E questo per la cronaca può bastare.

Dal nostro angolo di visuale ci interessano le parole, riportate nel “Libro ascetico”, che l’artista scrive nel “Commento meditato a un discorso improvviso”: “C’è chi tuttora allude, presso il mio letto… non già a una mia caduta mistica di arcangelo esiliato o d’angelo mutilato ma a non so qual mia caduta d’uomo”, che più avanti definisce causata “da non so che tradimento o da non so che provvidenza”; e le parole scritte nel “Diario della volontà delirante e della memoria preveggente”: “Veramente io sono stato precipitato dalla rupe tarpea. E la lupa capitolina non ha forzato le sbarre della sua gabbia, né Marco Aurelio è disceso dal suo cavallo e dal suo piedistallo”. Alla data del 20 agosto descrive la sua caduta così: “Non sono caduto come un arcangelo folle né come un angelo stanco. L’Italia m’ha gettato dalla rupe tarpea, m’ha precipitato dal monte della cieca giustizia”, frase riferita anche da Tom Antongini che la sentì pronunziata da lui “nei primissimi giorni della convalescenza presenti almeno una ventina di persone”.

Fatto si è che per la conquista del potere da parte del fascismo la neutralizzazione dell’artista che ne stava sconvolgendo le mire, e quindi il sabotaggio al suo disegno, fu provvidenziale. Tre giorni prima, il 10 agosto, c’era stata la drammatica denuncia di Treves alla Camera: “Il fascismo vuole il potere, tutto il potere. Mentre dice che non ha ancora risoluto l’equivoco, se esso è totalitario o insurrezionale, l’insurrezione è vittoriosa. Può darsi che oggi o domani si decida a violare le porte del Parlamento come ha violato quelle dei Municipi”. Quasi a volergli rispondere, in un’intervista pubblicata l’11 agosto sul “Mattino” di Napoli, Mussolini definì un’eventuale “marcia su Roma… non ancora, politicamente, inevitabile e fatale… Che il fascismo voglia diventare ‘Stato’ è certissimo, ma non è altrettanto certo che per raggiungere tale obiettivo si imponga il colpo di Stato. Bisogna però noverare questa tra le possibili eventualità di domani”.

E il domani, anzi il dopodomani essendo il 13 agosto, dopo la richiesta al Governo del Comitato centrale del partito fascista di sciogliere le Camere per convocare le elezioni, Mussolini dichiara: “Per diventare Stato noi abbiamo due mezzi: il mezzo legale delle elezioni e il mezzo extralegale della insurrezione. Bisogna ponderare prima di prendere una decisione e questa decisione non potrà essere presa che tenendo conto di molti fattori di ordine pratico, politico, ed anche degli imponderabili. Il momento è molto delicato, e occorre pensare bene a tutte le evenienze”.

Nella tarda serata dello stesso giorno si verificò l'”imponderabile”, l'”evenienza” della caduta dalla finestra che impedì l’incontro di D’Annunzio con Nitti bloccando il disegno di pacificazione nazionale e di unione delle forze sane sotto la guida dell’artista. Nino D’Aroma scrive che D’Annunzio aveva confidato a lui, parecchio tempo dopo, che in quel fatale agosto ’22 Mussolini gli aveva proposto di “capeggiare tutte le forze nazionali e di dare insieme vita e sostegno a un governo nuovo che raccogliesse tutte le correnti politiche di buona volontà”; e che lo stesso Mussolini aveva rivelato, sempre a lui, incontrandolo a Piazza Venezia all’indomani della morte di D’Annunzio, che prima dell’estate ’22 gli aveva detto: “Noi siamo fortissimi oggi, ebbene andiamo al governo con i socialisti più comprensivi e, con le leve del potere, imporremo sicuramente, in quarantott’ore, la pace a tutti, rinnovando con adeguate riforme le vacillanti e tarlate strutture dello Stato. Voi dovreste prendere la Presidenza e l’iniziativa, noi vi seguiremo, assistiti questa volta da una nostra forza immensa pronta a tutto!”.

Con Mussolini nella visita del maggio 1925, con loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara

La vittoria definitiva del potere: la pax romana della Marcia su Roma

Una pace siffatta, imposta “in quarantott’ore”, non può essere che una “pax romana”, il contrario della pacificazione perseguita da D’Annunzio, imperniata sulla fraternità; e simile invece a quella evocata da Mussolini rivolgendosi ai fascisti il 24 agosto ’22, con l’artista ancora in gravi condizioni: “Il momento per noi è propizio anzi direi fortunato. Se il governo sarà intelligente ci darà il potere pacificamente; se non sarà intelligente lo prenderemo con la forza. Dobbiamo marciare su Roma per toglierlo ai politici imbelli ed inetti”.

Pur con questi precisi intendimenti la strategia dei fascisti resta accorta e attendista, cerca di prendere tempo e di controllare le mosse degli altri due protagonisti: il barone Avezzana in una lettera a Nitti del 26 settembre conferma la disponibilità di Mussolini ad un incontro a tre, sempre dopo un preventivo colloquio di Nitti con D’Annunzio, già d’accordo, anzi assicura una scorta per proteggere il viaggio del primo dalle violenze squadriste; il 14 ottobre Schiff Giorgini scrive a Nitti che Mussolini, alla presenza di Tom Antongini in rappresentanza di D’Annunzio, ha precisato che gli incontri fra loro tre si sarebbero potuti tenere tra il 25 e il 30 ottobre dello stesso 1922.

Il 20 ottobre, però, Mussolini si esprimeva con queste parole incompatibili con quelle di una settimana prima: “O il fascismo si afferma e allora sarà un bene per il Paese. O non saremo capaci di affermarci e allora il pallone fascista sarà sgonfiato e il paese troverà un’altra via”. Un’alternativa che Roberto Farinacci traduce in termini di emergenza: “Dunque, bisogna far presto, bisogna cogliere l’attimo felice perché questo stato di eccezionale favore del popolo italiano per il fascismo e di sfavore per il governo e per il regime non può durare a lungo”.

D’Annunzio con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 

La rottura degli indugi da parte di Mussolini, trascorso qualche altro giorno, sembra fosse dovuta al timore che il carisma di D’Annunzio desse la spinta decisiva per una inarrestabile marcia su Roma quasi a ripetere quella su Fiume. L’evento avrebbe potuto verificarsi il 4 novembre, sull’onda del discorso celebrativo del quarto anniversario della vittoria che, con l’accordo del governo, l’Associazione dei mutilati alla cui testa c’era il grande mutilato Carlo Delcroix aveva chiesto all’artista di tenere nell’adunata di ex-combattenti che sarebbe culminata con la sfilata dei mutilati.

D’Annunzio, in  mezzo a pressioni da ogni parte, già il 25 ottobre, dopo quattro giorni dal solenne annuncio del 21 ottobre, aveva rinunciato  alla manifestazione per non essere strumentalizzato; la notizia della rinuncia fu diffusa il 27 ottobre, ma sin dall’adunata fascista a Napoli del 24 ottobre sembra che Mussolini avesse deciso di anticipare la Marcia su Roma per prevenire la temuta iniziativa dannunziana del 4 novembre, e la rinunzia non cambiò il programma. Oreste Cimoroni  fu molto esplicito: “I fascisti saputo ciò che si svolgeva attorno a Gardone, chiusero bruscamente il congresso di Napoli e precipitarono la Marcia su Roma. Cadeva così il Ministero Facta e Mussolini assumeva il potere”.

D’Annunzio fu avvertito a cose fatte soltanto il 28 ottobre, sebbene la marcia fosse iniziata il giorno prima in Emilia e Lombardia, Toscana e Umbria, con un messaggio perentorio di Mussolini, in palese contrasto con quanto era intercorso nei colloqui per combinare l’incontro a tre all’insegna della pacificazione nazionale e dell’unione delle forze sane: “I giornali e il latore vi diranno tutto. Abbiamo dovuto mobilitare le nostre forze per troncare una situazione ‘miserabile’: Siamo padroni di gran parte d’Italia, completamente e in altre parti abbiamo occupato i nervi essenziali della nazione”. Poi le espressioni ultimative: “Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco – il che ci gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la ‘vostra’ e nostra Italia. Leggete il proclama! In un secondo tempo, Voi avrete certamente una grande parola da dire”.

Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932 

Il prezzo della vittoria del potere sull’arte: il regime, l’esilio al Vittoriale

D’Annunzio rispose lo stesso giorno, insistendo sul disegno di pacificazione che gli sembrava soltanto interrotto: “E’ necessario radunare tutte le forze sincere… Dalla pazienza maschia e non dall’impazienza irrequieta, a noi verrà la salute. I messaggeri vi riferiranno i miei pensieri e i miei propositi, immuni da ogni ombra e da ogni macchia”. Una rassicurazione, seguita da una presa di distanza: “Il Re sa che io sono tuttavia il più devoto e il più volenteroso combattente d’Italia. Rimanga egli tuttavia levato contro le sorti avverse, che debbono essere affrontate e superate. La vittoria ha gli occhi chiari di Pallade. Non la bendate. ‘Sine strage vincit – Strepitu sine ullo'”.

Torna a farsi sentire l’artista, e il 1° dicembre ‘22 scrive che “dopo otto anni di azione dura” è “ripreso da un glorioso amore delle belle idee e della mia arte”.Il suo “sono pronto a dare l’opera mia, il mio colpo di spalla risoluto e robusto” va riferito sempre al suo disegno, ben diverso da quello del fascismo: “Prima di ritirarmi vorrei offrire alla Patria l’unione vasta e divota di ‘tutti i lavoratori'”. E richiamava Mussolini al mantenimento degli impegni di fraterna pacificazione (“iuratae foedus amicitiae”) assunti con il Patto marinaro, chiedendogli di liberarsi “dei consigli ‘avversi’, quasi tutti impuri” con una conclusione eloquente: “Io nulla chiedo, e nulla voglio per me. Intendi? Nulla. Se non potrai togliermi da questa tristezza e da questo disagio spirituale, con fraterna sollecitudine, io me ne andrò nuovamente in esilio, come nel 1912. Preferisco l’esilio allo strazio cotidiano. ‘Non veder, non udir…'”.

E andò effettivamente nell’esilio dorato nella  villa Cragnacco  posta in alto sul Lago di Garda,  che trasformò radicalmente portandovi i suoi cimeli e i suoi simboli, e creando il Vittoriale, che definì, sin dal 22 giugno 1923, scrivendo a Giuriati, “Italia degli Italiani più che qualunque altra terra”.

Il potere si era imposto, ma l’artista non si era arreso, aveva salvato i lari e i penati come Enea che lasciò Troia per una nuova sfida su un campo ancora più vasto. All’inizio dell’“Atto di donazione al popolo italiano” si legge: “Prendo possesso di questa terra votiva che m’è data in sorte, e qui pongo i segni che recai meco, le mute potenze che qui mi condussero”.  Nella “Premessa”  scrive: “Già vano celebratore di palagi insigni e di ville sontuose, io son venuto a chiudere la mia tristezza e il mio silenzio in questa vecchia casa colonica, non tanto per umiliarmi, quanto per porre a più difficile prova la mia virtù di creazione e di trasfigurazione. Tutto, infatti, è qui da me creato e trasfigurato”.  Parla anche di “rivelazione spirituale” e di “testimonianza di dritta e invitta fede”, perché c’è un altro “potere” con cui si confronterà sempre di più, ne parleremo prossimamente. 

Info

L’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di  Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293, e la parte prima su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118;  la parte terza è su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527. Ciascuna delle tre parti  del libro inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.Il primo dei sei articoli del nostro servizio è uscito, in questo sito, il 12 marzo, con 6 immagini, gli altri  quattro articoli usciranno il 16, 18, 20, 22 marzo 2013, con altre 6 immagini ciascuno. Cfr., inoltre,  l’intervista di Anna Manna a Romano Maria Levante, l’11 marzo 2013, in http://www.100newslibri.it/, dal titolo “Gabriele d’Annunzio, il poeta della perenne inquietudine. A 150 anni dalla nascita”. 

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal volume sopracitato dell’autore (pp. 284-289) che le ebbe dalla Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura, In divisa da generale di aviazione con il pugnale dei Legionari fiumani;seguono,  Visita a D’Annunzio di Cicerin, Commissario agli Affari Esteri della Russia nel maggio 1922 al Vittoriale e Con Mussolini durante la visita a d’Annunzio nel maggio 1925, insieme a loro l’on. Alessandro Chiavolini e, al balcone, Luisa Baccara; poi, Con il gen. Italo Balbo al campo di aviazione di Desenzano nel 1927 e Con Mussolini nell’ultima visita del novembre 1932; in chiusura, Sul MAS-96 nel 1925.

Il Comandante sul MAS-96 nel 1925 

Istanbul, 2. Il negoziato con l’UE e la storica visita del Papa

di Romano Maria Levante

Abbiamo colto l’occasione della mostra “La Via della Seta”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2012, terminata con l’arrivo alla “porta dell’Oriente”, per raccontare il nostro viaggio reale a Istanbul, svolto prima di quello virtuale con la mostra. Dopo aver rivissuto l’arrivo nel mezzo della festa religiosa del Ramadan a piazza Sulthanamet, siamo andati sulle tracce dell’antica Costantinopoli cominciando dagli obelischi fino alla basilica di Santa Sofia con i simboli delle due religioni, assurta a simbolo di tolleranza e compresenza delle fedi e delle culture. Per questo, prima di proseguire il racconto della visita alla ricerca dei reperti della romanità oltre che delle attrazioni cittadine, vogliamo riflettere su questo aspetto cruciale fissando l’attenzione sul negoziato per l’ingresso della Turchia nell’UE e soprattutto sulla visita a Istanbul di Benedetto XVI nel 2006, un ricordo di viva attualità ora che il Pontefice ha lasciato il magistero papale. Come è di viva attualità la meta turistica Istanbul, insignita da “Consumers Choice” come “The Best European Destination 2013”.

Moschea Blu dall’alto

Riflettendo sui problemi e sulla posizione della Turchia odierna

Iniziamo con il dire che il fondamentalismo non sembra essere l’aspetto prevalente  della Turchia di oggi, nonostante il partito islamico sia al potere dalla fine del 2002, e non manchino tentativi di ripristino di forme finora vietate, come il velo e l’accesso degli studenti delle scuole vocazionali all’università. Ma la Corte costituzionale boccia le leggi contrarie ai principi laici dello Stato.

Resta il laicismo di fondo, retaggio delle lotte religiose combattute nei secoli per un dio dal nome diverso ma sempre nel segno dell’Assoluto, che hanno portato alla svolta epocale di Ataturk, il padre della Turchia moderna, alla fine dell’impero ottomano verso l’inizio degli anni venti. La svolta che fu impressa verso l’assoluta laicità, venne sancita nella Costituzione e nelle leggi ordinarie, con l’esercito a tutela dell’indipendenza del potere statuale da quello religioso e della sua autonomia nella guida del paese. Da allora è stato bandito il velo sul viso, sicché le tradizionaliste si sono dovute limitare alle lunghe vesti e al velo annodato al collo come un foulard che fascia i capelli e incornicia il volto; ma con l’avvento al potere di Erdogan, islamico moderato che ha indebolito il potere dei militari, la First lady usa il velo anche dove non potrebbe indossarlo.  

Le donne che incontravamo in gran numero nelle strade di Istanbul erano di ogni età, soprattutto giovani, a fianco di compagne e amiche in minigonna e abbigliamento ultramoderno. E’ un dettaglio, ma evidenzia la compresenza di antico e moderno nella società turca e ne divide in modo netto anche il territorio. Sono profondamente radicate le differenze tra la parte asiatica tradizionalista – si pensi all’Anatolia e alle zone più arretrate – e la parte europea più aperta alla modernità, tra le città della zona europea e le campagne e montagne, tra le coste e l’interno, differenze presenti in molti stati, che qui acquistano maggiore spessore per la posizione di frontiera.

Fino a quando potranno convivere aspetti così diversi di cultura e costume nell’era della globalizzazione, che tutto appiattisce, è un mistero affascinante che solo il tempo potrà svelare.

I lunghi anni di negoziato per l’atteso e insieme temuto ingresso nell’Unione Europea, con i loro “stop and go”, serviranno forse anche a questo, come alle altre forme di omologazione ben più importanti per il rispetto dei diritti umani; molti passi sono ancora da compiere sulla strada della modernizzazione, la Turchia si muove da tempo in questa direzione pur se segnali altalenanti e il permanere di posizioni ritenute da molti illiberali, intolleranti e fortemente nazionaliste, oltre alla questione di Cipro, hanno rallentato la lentissima marcia di avvicinamento fino ad arrestarla.

Il Rapporto della Commissione dell’UE che fu presentato nel novembre 2003 è significativo perché dopo il primo anno di negoziato fotografò la situazione di partenza. E denunciò la distanza su cinque punti ritenuti irrinunciabili per il proseguimento del cammino verso l’adesione: dalle intromissioni delle forze armate in politica estera e interna, nella questione curda e tra religione e Stato, agli ostacoli nella libertà di espressione e di opinione fino alla mancata tutela delle minoranze con l’uso della tortura sui prigionieri politici; dall’irrisolta questione di Cipro con il mancato riconoscimento turco della parte dell’isola a etnia greca già entrata a pieno diritto nell’UE, la chiusura di porti e aeroporti turchi ai greco-ciprioti e il veto all’ingresso di Cipro negli organismi internazionali, alla corruzione nel settore pubblico e nel sistema giudiziario che non è indipendente. Inoltre si denunciavano le pratiche discriminatorie sulle donne e l’insufficienza dei diritti sindacali, le limitazioni di fatto alla libertà religiosa e il divieto per gli enti ecclesiastici di possedere proprietà.

Panoramica su Topkapi

Sono aspetti rilevanti per i quali il governo turco ha sempre sottolineato di muoversi secondo un percorso di assimilazione che si è impegnato a portare a compimento con segnali significativi già all’inizio dei negoziati, come la nomina di un civile a capo del Consiglio di sicurezza nazionale prima riservato ai militari, la disponibilità a riconoscere Cipro o comunque ad aprirsi di più in condizioni di reciprocità rispetto alla parte turca dell’isola, l’impegno a combattere le deviazioni riscontrate in concreto rispetto al sistema costituzionale e al quadro normativo nel campo dei diritti umani, della tutela delle minoranze e della corruzione pubblica e giudiziaria.

I tempi e i termini stringenti posti dalla Commissione UE hanno compromesso l’andamento del negoziato, ben presto sospeso per una serie di otto punti importanti mentre è continuato sugli altri venti e più punti; sospeso parzialmente non vuol dire interrotto e tanto meno cancellato, ma il duro Rapporto, insieme all’opposizione di grandi paesi come la Francia, Germania e Grecia, oltre al piccolo Cipro, che fa parte del’UE nella sua componente greca, ha rappresentato una doccia fredda per la popolazione che dall’entusiastica scelta dell’adesione è caduta su posizioni di scetticismo diffuso se non di contrarietà. La Commissione è stata considerata come burocratica e liquidatoria, perché a pressioni costruttive ha sostituito le accuse dei perduranti ritardi nel senso dell’esclusione.

E’ evidente come dietro i pur comprensibili e legittimi paletti posti al negoziato possano esserci motivi più profondi che attengono alla “diversità” sul piano religioso e, più in generale, sul modello di civiltà che crea inquietudini e timori inconfessati. Si tratta, infatti, di un grande paese che verrebbe ad eleggere più parlamentari europei di quanti ne ha la maggiore nazione dell’unione, la Germania, e porterebbe i confini dell’Unione Europea sulle frontiere scottanti di Iran, Siria ed Irak.

Questi timori sono agitati non soltanto a livello politico ma anche sul piano pratico: si è sempre pensato che il divario di reddito farebbe riversare sui più ricchi paesi europei quelle masse di immigrati turchi fermatesi finora in Germania. Ma il divario si è ridotto negli ultimi anni di crisi economica della zona euro mentre la Turchia si è sviluppata ad un ritmo notevole, basti pensare che – a parte il rallentamento nel 2012, ma sempre con un incremento del PIL del 3,5% quando noi abbiamo avuto una flessione quasi del 2,5% – il suo sviluppo procede a tassi cinesi, anzi nel 2011 è stato dell’8,5%, superiore a quello della Cina, e negli ultimi anni ha creato 4,5 milioni di nuovi posti di lavoro, su una popolazione di 75 milioni di abitanti. Per questo la spinta all’emigrazione tende ad esaurirsi, mentre il peso internazionale del paese cresce, e non solo sul piano politico e militare, da membro della Nato in posizione strategica: ne fanno fede le candidature, con buone probabilità di successo, all’Expo e alle Olimpiadi del 2020, due grandi eventi che ne consacrerebbero l’ascesa.

Oltre a questi aspetti economici, sul piano politico vanno  sottolineati fattori speculari a quelli prima richiamati: la creazione sulla frontiera più calda, con un alleato così forte militarmente, di un contrappeso all’inquieto mondo arabo e mussulmano che comunque sarebbe sempre lo scomodo vicino  dell’UE; e l’opportunità di dare una scossa vitale all’economia europea, così depressa, con un paese dall’elevatissimo potenziale di crescita, non a caso chiamato “la Cina d’Europa”.

La stessa sfida culturale dell’integrazione tra una grande nazione islamica ma laica e le grandi democrazie europee è quanto mai stimolante. Occorrerebbe, però, una effettiva coesione all’interno dell’UE per raccogliere la sfida e tradurre le minacce in opportunità. D’altra parte, fin dall’inizio del negoziato con la Turchia i risultati negativi dei referendum in Francia ed Olanda bloccarono la Costituzione europea rendendo incerta l’identità e la fisionomia nella costruzione dell’Europa, in bilico tra l’unione politica e la zona di libero scambio, tra forme crescenti di integrazione a tutto campo e mere cooperazioni rafforzate per aree particolari.

Moschea Ortakoy dal mare 

Questo problema è esploso nella crisi in atto e continua a rappresentare una pesante incognita sulle prospettive dell’UE. Soprattutto per la zona euro, direttamente colpita dato che sulla moneta unica senza una politica economica comune e senza una Banca centrale con tutti i poteri necessari a fronteggiare gli attacchi della speculazione finanziaria sui singoli paesi – presi ad uno ad uno come tra Orazi e Curiazi – si scaricano queste e altre insufficienze nella costruzione europea.

Il viaggio in Grecia di Angela Merkel potrebbe preludere ad una ripresa effettiva del negoziato, formalmente in corso ma praticamente bloccato. La cancelliera tedesca si è dichiarata disponibile ad aprire un nuovo capitolo nelle trattative, dicendo che prevede “un lungo cammino di negoziato”. E ha precisato: “Anche se sono scettica sull’esito sono d’accordo nel continuarlo”. A questo fine è stata reiterata la richiesta di rimuovere il blocco degli scali nella parte turca di Cipro verso i greci e i greco-ciprioti, dato che nell’Unione c’è l’obbligo dell’apertura a tutti gli stati membri; da parte della Turchia si è risposto che dipende dai turco-ciprioti e che si adopererà  al riguardo. Il primo ministro Erdogan ha detto: “Le discussioni devono procedere passo dopo passo, non conosco le intenzioni del nuovo presidente turco-cipriota, comunque la Turchia farà il possibile per risolvere il problema dell’apertura degli scali”.

Il grave problema dei diritti umani è stato sollevato di nuovo per i 76 giornalisti turchi incarcerati, tra cui 71 per motivi politici; problema che potrebbe porsi anche per le associazioni religiose. Erdogan ha negato intenti illiberali e persecutori definendo i giornalisti incarcerati appartenenti a sette eversive e terroristiche. Ma intanto due tra i maggiori giornalisti turchi, Can Dundar e Hassan Cemal, sono stati sospesi per due settimane per aver rivelato trattative segrete con i separatisti curdi del Pkk, lo scrittore Rakip Zarakoglu è perennemente sotto processo e minacciato di morte, anche Pamuk è stato minacciato. Mentre i procedimenti contro l’organizzazione Ergenekon, accusata di golpe, e il Kck, accusato di terrorismo separatista, sono stata l’occasione, secondo alcuni il pretesto, per rese dei conti con i militari e per grandi retate tra la gente comune, con 10 mila arresti in tre anni. Non è certo poca cosa per l’accettazione del paesi dell’UE se non si fa subito chiarezza.

La posizione della Germania è condizionata anche dalle elezioni politiche del prossimo settembre, tenendo conto che dal sondaggio pubblicato da un giornale tedesco alla vigilia del viaggio ad Ankara è risultato che il 70% della popolazione resterebbe contraria all’ingresso della Turchia nell’UE; la maggioranza dei contrari motiva la sua avversità con la preoccupazione per il forte sviluppo economico e la potenza militare turca. In effetti la Turchia non è più “il malato d’Europa” né il “malato del Bosforo” come era definito; ma dinanzi a tale cambiamento epocale è paradossale che sia temuta la sua forza oggi nella stessa misura in cui era temuta la sua debolezza ieri.

E’una novità da accogliere con favore, comunque, la disponibilità espressa dalla Merkel intanto per la riapertura del negoziato; e il mutamento in senso favorevole, con Hollande, dell’orientamento francese prima arroccato sulla netta opposizione di Sarkozy. Il mutamento del clima, e non solo, è reso dalla dichiarazione attribuita al commissario tedesco dell’Energia dell’UE: “Fra dieci anni Germania e Francia dovranno pregare in ginocchio la Turchia di entrare nell’Unione Europea”.

Un mosaico del Choro Museum

Benedetto XVI nella Moschea Blu

Il  viaggio del Papa in Turchia alla fine del novembre 2006 fu un evento di portata storica che illuminò, come mai in precedenza, sullo stato di allora e sulle prospettive dei rapporti con questa grande realtà sul piano culturale e politico oltre che su quello essenzialmente religioso. Rievocarlo meno di due settimane dopo che Benedetto XVI ha lasciato il sommo magistero pontificio, nel giorno della fumata bianca al Conclave, lo riteniamo importante per sottolineare in un momento cruciale il coraggio del Papa divenuto emerito: coraggio manifestato ora con la rinuncia per il bene della Chiesa, allora con un’iniziativa di portata simbolica e pratica in una situazione difficile e rischiosa.

Nel 2006 ci fu l’apertura dell’opinione pubblica turca più avveduta, andata ben oltre la cautela del governo che paventava strumentalizzazioni tanto da negare inizialmente l’incontro con il primo ministro Erdogan, per poi ripiegare su una rapida ma significativa accoglienza all’aeroporto, tra l’arrivo del Pontefice e la partenza del premier per il vertice della Nato. Timori derivanti dal clima di ostilità seguito alla “lectio magistralis” papale di Ratisbona, per la citazione dotta ritenuta offensiva da parte del mondo mussulmano, più che dalla contrapposizione tra le due grandi religioni: Paolo VI e Giovanni Paolo II erano andati in Turchia l’uno nel 1967, l’altro nel 1989 e Angelo Roncalli,  futuro Giovanni XXIII, vi risiedette dal 1935 al 1944 come Delegato apostolico.

I due papi precedenti incontrarono le autorità statali, quelle islamiche e il Patriarca ortodosso, massimo esponente della confessione cristiana più diffusa, che è la fede degli Armeni vittime di persecuzioni degenerate in eccidi denunciati come genocidio, peraltro mai ammesso dai turchi. E’ una ferita non ancora rimarginata, come non lo è neppure quella delle violenze e dell’oppressione lamentata dai curdi, minoranza islamica dell’antico Kurdistan, con la lotta del partito irredentista.

Anche Benedetto XVI –  che volle andare nella casa dove abitò Roncalli e volle celebrare nella sua parrocchia di allora una messa solenne – ebbe a Istanbul gli incontri dei due predecessori: dal patriarca ortodosso Bartolomeo I che partecipò alla funzione religiosa conclusiva – Paolo VI aveva aperto la strada con lo storico abbraccio con Atenagora – al Gran Muftì della città, Mustafa Cagrici, con cui pregò nella Moschea Blu. .

Ma le maggiori difficoltà della visita apostolica in un momento di crisi nei rapporti interreligiosi – e con i turchi scottati dagli ostacoli all’ingresso nell’UE fatti risalire anche alle riaffermazioni delle radici cristiane dell’Europa con relativa presunta opposizione dei cattolici – accrebbero l’importanza del successo di una missione coraggiosa. Il papa operò un’inattesa apertura all’ingresso della Turchia nell’UE, addirittura “auspicato”, dando torto alle fazioni estremiste. Del resto le autorità islamiche turche hanno ribadito il carattere “misericordioso” del Corano e della loro fede, come del loro Dio, e le schegge impazzite che incitano alla violenza nascono da interpretazioni arbitrarie.

Così il Papa, rinunciando alle sue stesse posizioni sostenute da cardinale, vide nell’Europa non più la cittadella cristiana arroccata nella propria identità contro l’assedio islamico, ma il terreno propizio per una maggiore apertura, attraverso il dialogo interreligioso e la convivenza civile.

Vogliamo ricordare che superò brillantemente la rischiosa prova del fuoco il cui esito positivo non va sottovalutato neppure oggi, dopo cinque anni con tanti problemi ancora aperti. Nei giorni della visita pontificia, pur vissuti in una comprensibile tensione, oltre ai gesti politici vi furono momenti di elevato valore non solo simbolico: dall’incontro con il Patriarca ortodosso per la convergenza delle fedi cristiane nell’impegno solennemente consacrato da un documento congiunto; alle visite parallele insieme al Gran Muftì della basilica di Santa Sofia e della Moschea Blu.

A Santa Sofia fu rispettato scrupolosamente il carattere laico datole da Ataturk con la trasformazione in museo; nella Moschea Blu il Papa, invitato alla meditazione comune dal Gran Muftì, “sostando qualche minuto in raccoglimento in quel luogo di preghiera” – sono le parole da lui usate nell’udienza generale tornato a Roma – si è “rivolto all’unico Signore del cielo e della terra, Padre misericordioso dell’intera umanità”, dimostrando in modo spettacolare e toccante, per chi pone mente alle travagliate vicende storiche, la possibilità, anzi la necessità, di una pacifica convivenza che si è realizzata in modi nuovi e nel momento più difficile.

Papa Benedetto XVI nella Moschea Blu con il muftì Mustafa Cagrici 

Oltre agli sviluppi del dialogo interreligioso, sono stati promossi quei passi in avanti, sul piano civile, per  migliorare i comportamenti effettivi al di là delle norme astratte che sanciscono la libertà religiosa e l’uguaglianza dei cittadini senza distinzioni di fede. Sono state spesso lamentate forme di controllo sociale e disposizioni amministrative che tendono a discriminare i cristiani e ad emarginarli di fatto. Il loro numero è molto ridotto, sono circa 80 mila ortodossi e 40 mila cattolici concentrati soprattutto a Istanbul, su 75 milioni di abitanti che Erdogan vorrebbe far arrivare a 80 milioni con una politica demografica di incentivo alle nascite e la limitazione agli aborti. Che questo avvenga nella terra di Paolo di Tarso e della storica diocesi di Antiochia, dove i cristiani nell’antichità erano una parte consistente della popolazione, è più eloquente di ogni commento.

La scristianizzazione, dopo la caduta dell’impero ottomano, è avvenuta con l’espulsione dei greci ortodossi e la liquidazione degli Armeni, prima che Ataturk imponesse lo stato laico in una nazione ormai quasi totalmente islamica, fino a vietare l’uso in pubblico di vesti religiose. Una storia di crisi violente, con l’ultimo conato della rivoluzione dei “giovani turchi” prima della normalizzazione laica imposta dai militari, i soli che hanno potuto opporsi con successo ai fondamentalisti: sono precedenti che hanno reso le autorità turche timorose del proselitismo e dell’evangelizzazione dato che la Costituzione non vieta le conversioni dall’Islam al Cristianesimo proibite negli altri stati islamici; per cui i miglioramenti attesi e reclamati dalle autorità dell’UE saranno solo graduali.

La visita del Papa fu preceduta da episodi di grave intolleranza, sul piano individuale (il crudele omicidio del sacerdote cattolico don Andrea Santoro a Trebisonda) e collettivo (l’irruzione di marca  anticristiana in Santa Sofia, pochi giorni prima, di un gruppo di fondamentalisti richiamatisi al “Lupi grigi” ai quali apparteneva anche Alì Agca, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II). Mentre fallì la manifestazione di protesta degli estremisti che invece del preannunciato milione di partecipanti raccolse nella grande Istanbul soltanto poche migliaia di adepti. Erano riapparsi lugubri fantasmi, che vanno sempre scacciati considerando che estremisti violenti si trovano dappertutto e che le autorità turche non hanno mancato di isolarli, contrastarli e combatterli con decisione e durezza; ma la migliore risposta la diede l’accoglienza della popolazione che dopo aver disertato le manifestazioni di protesta mostrò verso il Papa attenzione e rispetto senza alcun segno di ostilità, risultato ragguardevole per una popolazione islamica per più del 97% e con i precedenti ben noti di contrapposizione frontale e confronto diretto (si pensi che proprio per questo la Moschea Blu fu costruita vicinissima alla chiesa di Santa Sofia nel Piazzale Sultanahmed).  

Riflettere sui problemi e le prospettive di una situazione così complessa non trova riferimenti immediati e di validità generale in una città cosmopolita dove tutto sembra fugare ogni paura, per il  fascino di una realtà viva e stimolante, e dove le pur evidenti diversità appaiono un valore. Dall’integrazione con un paese islamico moderno può venire un modello di laicità e democraticità per tutto il mondo mussulmano, un esempio da seguire per la stabilizzazione dell’intera regione.

La stessa integrazione europea non fu vista anche come superamento della secolare ostilità tra Francia e Germania e come antidoto sicuro ai rigurgiti bellicisti nel vecchio continente? E si vide giusto. Non sarebbe di importanza incalcolabile la sconfitta delle posizioni estremiste la cui radicalizzazione porta allo scontro di civiltà e di culture religiose, che dà alimento al terrorismo?

Pensiamo a questo parlando di Istanbul, anche se la porta dell’Oriente non è l’intera Turchia, bensì soltanto l’ingresso europeo alla Turchia asiatica: luminoso e suggestivo come un tramonto sul Bosforo, che nelle viscere profonde e oscure di un grande paese così eterogeneo e diverso da noi nasconde quanto può turbare un continente e lo rende molto cauto ad aprirsi all’adesione turca.   

Il racconto della nostra visita a Istanbul non è finito, dopo Santa Sofia ci sono le tante meraviglie della città e soprattutto prosegue la nostra ricerca dell’antica Costantinopoli fino ad approdare dove sono i resti di quello che fu il cuore della capitale imperiale; il palazzo reale di Costantino. Continueremo il racconto prossimamente sul filo della memoria e della persistente suggestione.

Info

Il primo articolo sul nostro viaggio a Istanbul è uscito, in questo sito, il 10 marzo con 6 immagini, il terzo e ultimo articolo uscirà il  15 marzo 2013 con altre 6 immagini. Per la mostra “La Via della Seta” citata all’inizio, cfr. in questo sito i nostri  tre articoli del 19, 21, 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti. In apertura, la Moschea Blu dall’alto; seguono, una panoramica su Topkapi e la Moschea Ortakoy dal mare, poi un mosaico del Choro Museum e papa Benedetto XVI nella Moschea Blu con il muftì Mustafa Cagrici; in chiusura,  la Torre di Leandro al tramonto.

Torre di Leandro al tramonto.
 

D’Annunzio, 1. Nel 150° della nascita, arte e potere, in un libro-inchiesta

di  Romano Maria Levante

Oggi 12 marzo 2013, l’apertura di un Conclave straordinario, dopo secoli con il papa dimissionario e in vita, coincide con il 150° anniversario della nascita di Gabriele d’Annunzio: un parallelointrigante alla luce dei suoi tormentati rapporti con la Chiesa, che mise i suoi scritti all’Indice per ben 4 volte. La Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani” lo celebra nel Convegno di studi “D’Annunzio 150”, all’Aurum di Pescara. Noi lo ricordiamo per i rapporti tra arte e potere, rimessi in gioco dalle mostre del 2010  al Palazzo Esposizioni di Roma sui “Realismi socialisti” e il loro esponente “Deineka”; all’inizio del terzo millennio  c’è stata la mostra “L’uomo, l’eroe, il poeta”, alla Fondazione Roma al Corso nel 2001, per celebrare un protagonista del “novismo” del ‘900.. Nella prospettiva arte-potere rievochiamo l’uomo e l’eroe, gli aspetti personali e politici, senza quelli letterari, in fasi cruciali.

Il Poeta-soldato, 1916, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara” durante la prima Guerra mondiale

Per D’Annunzio non si deve parlare di influsso del potere sull’arte, come è avvenuto nella storia umana: dai remoti egizi ai tempi antichi con i mecenati e le committenze, ai tempi moderni con i regimi dittatoriali,  nazismo e comunismo. Anzi, è avvenuto il contrario: l’artista diventa protagonista politico e con il suo carisma fa tremare il nuovo potere mentre si va affermando.  .

Infatti, sebbene il fascismo influisse notevolmente sull’arte, in questo caso abbiamo avuto piuttosto l’influsso dell’arte sul potere: lo si vede nei rapporti di D’Annunzio con il regime e con Mussolini, in Italia l’incarnazione del potere assoluto. Rievochiamo questi rapporti e le vicende anteriori e successive inquadrandoli nella sua figura, in una sequenza che è un pezzo di storia d’Italia.

La difficile convivenza tra arte e potere – che tratteremo in generale  prossimamente,  al termine della rievocazione dannunziana – con lui assume aspetti del tutto peculiari. Ci riferiamo all’ombra che può dare al potere la presa dell’artista sul popolo, in un confronto nel quale il sistema, se è assoluto e dispotico, invece di valorizzarne il contributo cerca di neutralizzarlo per il pericolo che nasca o si rafforzi un potenziale concorrente. Ben diversa la situazione nel sistema democratico in cui tutto deve svolgersi alla luce del sole in modo trasparente ed è, o dovrebbe essere, sottoposto al controllo popolare contro ogni tentativo di  prevaricazione.

In D’Annunzio l’immagine di artista era resa ancora più luminosa dalle prove di ardimento fornite, già prima dell’impresa fiumana, come poeta-soldato impegnato in pericolose missioni nella guerra 1915-18: in particolare in montagna, sul Veliki e sul Faìti; in mare, sulla silurante “Impavido” fino al MAS della Beffa di Buccari; in aria, nelle ricognizioni sul Carso e sulla Bainsizza, su Parenzo e su Pola, su Trieste e nel bombardamento sulle Bocche di Cattaro fino al volo di sfida su Vienna.

Sono prove di ardimento che davano corpo ai suoi motti, da “Memento audere semper” a “Più alto più oltre”, da “Ardisco non ordisco” a “Sufficit animus”, da “Semper adamas”  a “Prima squdriglia navale, Il Comandante”; e lo immergevano in un clima eroico tra l’angoscia per i caduti – tra essi i piloti più amati, Bailo e Barbieri, Bresciani e Prunas, su tutti Locatelli e Miraglia per lui “dimidium animi” – e l’umanità dei commilitoni, ai quali era unito dalla solidarietà in trincea e negli assalti nel fuoco nemico o nell’orrore della decimazione, nel filo della fraternità con gli umili fanti..

D’Annunzio a Gradisca, ottobre 1915  

L’artista superuomo nell’umiltà, le gente “s’ingigantisce” in lui

Ne sono testimonianza gli episodi riportati nei suoi scritti autobiografici.

Ecco dal Libro segreto: “Che mi vale ogni specie di gloriola? Qual lode gretta e guardinga può rivelare me a me stesso, in confronto dei riscontri improvvisi che mi vengono dai miei pari noti e ignoti?” Alcuni  riscontri sono nel Libro Ascetico, quando dice al mutilato: “Come te, io sono minore della Patria; e sono minore di te, minore di tutti… Le lacrime chiamano le lacrime. La pietà chiama la pietà. La bontà chiama la bontà”. Si dipana “il filo della fraternità umana” dalla deposizione dalla Croce con Giuseppe d’Arimatea, di cui vanta le stesse iniziali, alle trincee del Carso: nell’episodio dei due fanti che sotto le granate gli offrono da bere le poche gocce d’acqua piovana raccolte con un filo di paglia, rievocato con toni commossi; e in quello del  fante abruzzese che gli dice “”E chi sti’ fa a ècche? Vàttene! Vàttene!  Si i’ me more, n’n è niende. Ma si tu te more, chi t’arrefà?”. Dalla “Licenza” della “Leda”, il fante che si schermisce dicendo: “L’aije muccicate, ‘gnore tenende” nel dargli un pezzo di pane, che lui chiama “il miglior pane ch’io abbia mangiato , in verità, da che ho denti d’uomo. E’ il pane dell’umiltà e della fraternità insieme”.

Ancora nel Libro Ascetico, dinanzi all’uccisione di tanti commilitoni scrive: “Credo che oggi potrei chiamarmi il primogenito dei morti. Da più settimane io vivo con loro, vivo morendo e risuscitando in loro, rimango coricato presso di loro”; lo ripete dinanzi all’orrore della decimazione. E nelle ultime pagine si congeda da loro con queste parole: “Tutto quel che di me non può perire, ad essi io lo debbo. E tutto quel che di più divinamente umano in me vive, da essi ha origine”.  Nel suo letto di degente dopo la caduta dell’agosto 1922, mentre gli antichi commilitoni, anche feriti e mutilati, chiedono di fargli visita, esclama: “Vogliono entrare? vogliono guardarmi? vogliono riconoscermi? Lasciali entrare. Accompagnali al mio capezzale. Il miracolo si snoda”.  Li riconosce ad uno ad uno: “Sono anch’io della medesima razza, della medesima fede, del medesimo comandamento”. 

Scrive anche “e più mi umilio in me e più la mia gente s’ingigantisce in me”, espressione che può essere il sigillo della forza che  può rendere l’artista protagonista attivo e non sottomesso al potere 

Le ferite di guerra, con la perdita dell’occhio destro in una missione aerea, e le medaglie al valore completavano questo quadro che si riflette con immagini suggestive come quelle evocate, dove l’arte raggiunge livelli altissimi di commozione autentica e coinvolgimento corale. L’elemento religioso si unisce a quello eroico e patriottico, con l’aggiunta della fraternità e generosità umana riassunta nel motto “Io ho quel che ho donato”, in una miscela dalla carica travolgente per forza evocativa e capacità espressiva: dai “Taccuini” al “Notturno”, dal “Libro ascetico” al “Libro segreto”, dalle “Preghiere”, di Doberdò, Sernaglia, Aquileia, a “Per la più grande Italia”.

Questo gli diede un forte carisma, espresso in una escalation di proclami e messaggi, invocazioni, e soprattutto azioni che sembrava inarrestabile, fino all’impresa fiumana e  alle iniziative successive. Nella prospettiva dei suoi rapporti con il potere ci piace chiamarlo artista invece che Poeta, l’espressione più usata sul versante letterario o Comandante, la più usata per l’aspetto militare.

Sul Faiti, mentre tiene un discorso, 1917

Il carisma dell’artista: la forza trascinatrice del pensiero e della parola

Abbiamo riportato sopra alcune sue espressioni suggestive in cui trovare le fonti della presa dell’artista sulla gente che si “ingigantisce” in lui. Nel “Notturno” lui stesso descrive come questo carisma si manifestò sin dalla sua orazione davanti alla folla romana in Campidoglio, ancora prima che le imprese eroiche ne accrescessero la portata e la presa popolare. Inizia con l’esaltazione personale: “Vivo alfine il mio ‘Credo’, in ispirito e in sangue. Non sono più ebro di me ma di tutta la mia stirpe”; segue l’esaltazione collettiva: “Il tumulto ha il fiato di una fornace, l’ànsito di un cratere vorace, il croscio di un incendio selvaggio. Trascino e sono trascinato. Salgo per incoronare e salgo per incoronarmi. Una primavera epica mi solleva e mi rapisce… E’ come il dolore di una creazione, è come l’angoscia di una nascita. La folla urla in travaglio. La folla urla e si torce per generare il suo destino… Vedo mille e mille e mille volti, e un volto solo: un volto di passione e di aspettazione, di volontà e di riscossa… La folla è come una colata incandescente. Tutte le bocche della forma sono aperte. Una statua gigantesca si fonde… Tutto è ardore e clamore, creazione ed ebrezza, minaccia e vittoria, sotto un cielo afoso di battaglie ove stride il saettìo delle rondini…”.

Ne ha una conferma esaltante a Fiume, come ricorda nel “Libro segreto”: “In Fiume d’Italia ho conosciuta intera la diversità fra l’orazione scritta e l’orazione improvvisa… Il popolo tumultuava e urlava chiamandomi, sotto le mie finestre la disumanata massa umana estuava ribolliva ristoppiava come la materia in fusione. io dovevo rispondere alla sua angoscia, dovevo esaltare la sua speranza, dovevo rendere sempre più cieca la sua dedizione, sempre più rovente il suo amore a me, a me solo. e questo con la mia presenza, con la mia voce, col mio gesto… Senza determinare la mia eloquenza e il mio accento, accordavo a quel diffuso e confuso clamore non so qual clangore della volontà, non so quali squilli dell’imperio… Una forza non più contenibile mi saliva allora al sommo del petto, mi anelava nella gola…”.

Il D’Annunzio fiumano era tenuto sotto osservazione dal sorgente movimento fascista, e non sfugge all’analisi interessata di Roberto F arinacci che nella “Storia della rivoluzione fascista” ne analizza il grande ascendente: “Egli li agita, questi giovani, e li ricompone in una più alta visione; egli li provoca alla passione e all’azione, e li rivela a loro stessi, li educa a contemplarsi ed a scoprire la bellezza delle loro stesse immagini e dei loro gesti, delle canzoni e dei motti, delle insegne e dei simboli, delle gare e delle cerimonie, anche delle cerimonie religiose, ch’egli suscita e inventa per elevarli, per affinarli, per farli arditi e splendidi”.

Il fascismo ne fu così colpito da emularlo, dal Fascio littorio all’inno “Giovinezza” e al saluto romano che il movimento prese dagli Arditi di Fiume, la camicia azzurra diventa nera e il grido dannunziano  “eia eia alalà”, dall'”alalazo” greco, entra a vele spiegate nel rituale fascista. Con le deformazioni provocate dal potere ogni volta che vuole confrontarsi con l’arte e la cultura.

Lo emulò lo stesso Mussolini, e Paolo Alatri lo dice chiaramente: “L’oratoria dannunziana… si rinvigorì e uscì allo scoperto nella campagna del 1915 per l’intervento e trovò la sua massima manifestazione durante l’occupazione di Fiume. Quella oratoria inaugurò un nuovo stile e una nuova tecnica, che poi, nel regime mussoliniano, domineranno in Italia per oltre un ventennio. Essa non è più diretta a persuadere, ma si rivolge a chi è già convinto e non chiede che un rito collettivo di esaltazione: non fa più ricorso ad alcun tentativo di discorso razionale, ma si appella al sentimento all’istinto alla reazione epidermica. Instaura il dialogo diretto tra l’oratore e la folla che viene chiamata a partecipare a una cerimonia di carattere mistico se non religioso”.

Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi all’aereo Caproni, ottobre 1917

L’artista nella politica: ispirazione e azione sotto gli occhi del potere

Su quest’onda montante conquistò un forte ascendente personale, che rappresentava già di per sé una minaccia per le mire egemoniche del fascismo. Tanto più che non restava chiuso nella torre d’avorio dell’arte, come di regola avviene, nel qual caso la convivenza con il potere emergente sarebbe stata meno difficile. Sconfinava in un ruolo politico sempre più attivo senza perdere lo spirito creativo e la forza morale, l’ispirazione dell’artista e la sua intensa espressione letteraria.

Renzo De  Felice, riferendosi in particolare al periodo fiumano, osserva che riuscì “grazie alla sua sensibilità di vero poeta, ad aprirsi come nessun altro ad un eccezionale sforzo di comprensione del travaglio morale e sociale, ancor prima che politico, del momento, e dischiudersi alle nuove realtà, ai nuovi problemi, alle nuove soluzioni umane e sociali e, dunque, politiche, confusi quant’altri mai, ma che erano comuni a vasti settori degli ex-combattenti e della gioventù… e sia pur marginalmente, anche ad altri gruppi sociali… in nome di nuovi valori che non si sapeva bene individuare e definire, ma di cui si sentiva la necessità”.

E se la sensibilità di poeta gli faceva avvertire la necessità di nuovi valori, gli dava anche l’impeto creativo e la forza trascinatrice, ancora una volta colta dall’attento Farinacci: “D’Annunzio esaltava la ribellione, educava e formava fra i suoi un’anima di guerra contro l’Italia ufficiale, suscitava in loro la gioia, anzi l’orgoglio di aver violentato la tradizione e la legalità, rompeva quell’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata che sempre aveva permesso al Governo in Italia di essere il despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà”.

Pietro Badoglio, nelle sue “Rivelazioni su Fiume” dove ne era stato l’antagonista, nel constatare che “era un gran suscitatore di energie, un prodigioso eccitatore di masse”, pur osservando che “egli era poi sensibilissimo all’applauso rumoroso ottenuto nell”arengo’, e l’urlo della folla gli menomava il senso della compostezza nelle parole e quello dell’equilibrio nelle decisioni”, riconosceva che “lontano dalla massa degli esaltati, egli ragionava con grande acume, con visione netta della realtà e, soprattutto, con cuore di grandissimo italiano”.

Del resto a Fiume ci fu un’esperienza di governo piena, con l’adozione della Carta del Carnaro che, come ha rilevato Nicola Francesco Cimmino, fu “concepita e impostata da Alceste De Ambris e scritta da D’Annunzio che le dette forma, creando per la prima volta – e forse per l’ultima – un documento di diritto che è, al tempo stesso, una pagina di poesia”. Si sente la mano dell’artista che mette a frutto il proprio carisma per realizzare un disegno complesso e ambizioso sul piano politico e sociale: “Già a Fiume, osserva ancora Cimmino, nella lotta – talora sorda, talora palese – che nella città si facevano sindacalisti e nazionalisti, egli fu per i primi, ma assorbendo nelle loro aspirazioni sociali le istanze della nazione”.

L’avventura di Fiume è istruttiva sia per l’artista sia per il potere emergente, che voleva fare tesoro a proprio vantaggio della prova generale rappresentata dal dannunzianesimo fiumano. Per D’Annunzio si trattò di una verifica sul campo, portata fino all’azione di governo, della carica rivoluzionaria e trascinatrice delle sue idee e del suo carisma; per i fascisti fu un prezioso insegnamento su come si poteva rompere l’abito italiano di obbedienza passiva e rassegnata e dare la spallata decisiva al governo, definito despota impunito di ogni compromesso e di ogni viltà.

Intanto, nel timore che la valanga dannunziana divenisse inarrestabile, il fascismo della prima ora, ancora fuori dalle stanze del potere costituito, diede solo un tiepido sostegno all’amministrazione provvisoria di Fiume, sfruttando sul piano politico l’indebolimento del governo centrale ma guardandosi bene dal rafforzare la posizione di D’Annunzio, anzi dando il colpo decisivo per affondarlo al momento opportuno. Che si ebbe con il Trattato di Rapallo, concluso il 12 novembre e approvato dalla Camera il 27 novembre del ‘20 con pochissimi voti contrari, accettato da Mussolini riconoscendo “la dolorosissima rinuncia” della Dalmazia, nonostante fosse stato respinto da D’Annunzio tanto da occupare, il 13 novembre, le isole di Arbe e Veglia andate alla Jugoslavia.

Fu una prova generale non solo per l’insegnamento ricavato dal fascismo, ma anche per il modo con cui il movimento fascista concorse all’affossamento, con l’intento di impedire al protagonista dell’avventura fiumana di puntare a un ruolo ugualmente decisivo a livello nazionale.

Durante l’impresa fiumana

Il confronto tra artista e potere emergente: il disegno di pacificazione nazionale

Benito Mussolini inizialmente minimizzava pensando che a Fiume vi fosse “più Rinascimento che Risorgimento”, e chiedendosi se in D’Annunzio “vi fosse più desiderio e amore di una vita eroica o di una immagine bella dell’eroismo”. Ma non poteva chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e sottovalutare l’impatto che tutte queste cose insieme potevano avere, perché al di là dei reali contenuti della vita eroica non si poteva dubitare sulla capacità di darne, con la forza della creazione artistica, un’immagine in grado di coinvolgere le masse sul piano dell’azione rivoluzionaria e anche dei contenuti, ispirati a idee evocative e coinvolgenti. Scontrandosi per ciò stesso con il potere costituito e con chi voleva far prevalere il proprio potere. E c’era Farinacci a ricordare  che “D’Annunzio era un uomo di guerra e di azione e sapeva parlare in modo che i legionari l’avrebbero seguito fino al sangue, fino a più vasta guerra civile”.

Ecco come aveva parlato con loro nell’ultimo appello prima dell’abbandono: “Dal primo all’ultimo siete tutti eroi… il mio Dio, il vostro Dio, sia ringraziato… Mi sembrate creature del mio spirito. Ed ora mi apparite più belle delle mie creature”. Mentre nell’allocuzione del 2 gennaio ’21, davanti ai corpi dei morti delle due parti nel cimitero di Cosàla,  disse che se Cristo come con Lazzaro li avesse risuscitati “su dai coperchi non inchiodati ancora, io credo che essi non si leverebbero se non per singhiozzare e per darsi perdono e per abbracciarsi”. E’ il tema della pacificazione, che sarà un discorso politico per una sfida al potere sul campo già coltivato con le intense parole dell’artista.

Se Fiume è stata la prova generale, per il vero confronto tra arte e potere emergente occorre fare un salto in avanti di quasi due anni, allorché la vicendadannunziana avrà come palcoscenico la politica nazionale, sempre sotto l’attenta vigilanza fascista. Ma di questo parleremo prossimamente

InfoL’analisi molto accurata e documentata da citazioni e testimonianze d’epoca è contenuta nel libro inchiesta di Romano M. Levante, “D’Annunzio l’uomo del Vittoriale”, Andromeda Editrice, Colledara (Te), 1998, pp.530, cfr. in particolare la parte seconda, “Il personaggio”, pp. 119-293; la parte prima è su “L’ambiente”, il Vittoriale, pp. 15-118, la parte terza su “Il mistero”, la religiosità, pp. 293-470.  Seguono le “lettere inedite” in facsimile d’autografo, pp. 472-514 e Bibliografia più Indice dei nomi, pp. 515-527.  Ciascuna delle tre parti inizia con la testimonianza, prosegue con l’approfondimento, si conclude con il colloquio di riscontro; in  ognuna c’è un ampio corredo di immagini.Iniziamo oggiun servizio in sei articoli sui principali motivi dannunziani, i successivi 5 articoli usciranno, in questo sito, il 14, 16, 18, 20, 22 marzo 2013. Cfr. l’intervista di Anna Manna all’autore  del libro citato per il 150° dalla nascita di D’Annunzio, l’11 marzo 2013, in  http://www.100newslibri.it/.

Foto 

Le immagini sono foto d’epoca riprese dal libro-inchiesta sopracitato di Romano Maria Levante (pp. 272-280) che le ebbe dalla  Presidenza della Fondazione “Il Vittoriale degli italiani”, cui si rinnovano i ringraziamenti. In apertura: Il Poeta-soldato, in divisa da tenente dei “bianchi lancieri di Novara” durante la prima guerra mondiale nel 1916; seguono A Gradisca nell’ottobre 1915Un discorso sul Faiti nel 1917; poi Dopo le  imprese di Cattaro e Pola, dinanzi al Caproni, nell’ottobre 1917 e Il Comandante durante l’impresa fiumana; in chiusura la Copertina del  citato libro-inchiesta dell’autore. 

Copertina del libro-inchiesta dell’autore

Istanbul, 1. Viaggio nella “nuova Roma”

di Romano Maria Levante

La mostra “La Via della Seta”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013, termina oggi con l’approdo a Istanbul la “porta dell’Oriente”, una città cosmopolita con tanti motivi di interesse legati alla sua storia millenaria e al tradizionale ruolo di cerniera tra Oriente e Occidente. Prima di tornarci virtualmente con la mostra romana c’eravamo stati di persona e fummo presi dal fascino dei suoi simboli storici e artistici e di quelli religiosi, le moschee con le loro cupole e il senso del sacro che eleva lo spirito al di là della fede di appartenenza. Il nostro viaggio è stato alla ricerca delle tracce della romanità, un motivo appassionante; e al di là di questi aspetti ci ha colpito la gente che nel Ramadan si affollava nelle moschee e dopo l’imbrunire si radunava nelle tavolate all’aperto; e i giovani, la loro carica di energia e l’entusiasmo. Ne faremo un ampio racconto prolungando idealmente la mostra dopo la chiusura con l’evocazione della realtà. E’ ancora più attuale parlarne ora che Istanbul ha avuto da “Consumers Choice” il riconoscimento di “The Best European Destination 2013”. 

Una panoramica della zona di Sultanahmet  

E’ sempre emozionante andare sulle tracce di antiche civiltà. Recarsi nel lontano Oriente, nell’Asia sconfinata, fa provare l’ansia di trovarsi di fronte a realtà esotiche, a scoperte sorprendenti, a presenze sconvolgenti, anche se oggi tutto è sotto i riflettori. Andare a Istanbul dà un’emozione diversa, forse ancora più acuta. Perché l’antica Bisanzio, la Costantinopoli dei primi libri di storia evoca una folla di eventi e di sentimenti gemellati alla nostra vita e alla nostra cultura: è stata la capitale dell’Impero romano d’Oriente come Roma lo è stata dell’Impero romano d’Occidente; con la differenza, che incute una sorta di soggezione, di un millennio in più di dominio imperiale, dato che quello di Roma è caduto nel 476 per le invasioni barbariche e gli ultimi imperatori dissoluti, mentre Bisanzio è durata fino al 1576 quando la capitale dell’impero fu conquistata dagli Ottomani. A questo si aggiunge l’ansia della riscoperta, una sorta di “agnitio”: è la Costantinopoli della nostra cultura storica e religiosa che vogliamo ritrovare, alla ricerca delle sue vestigia come un gemello va alla ricerca dell’altro se stesso dal quale è stato separato da sempre.

La “nuova Roma” come la immaginiamo

La città fu chiamata “la nuova Roma” per il ruolo preminente svolto come capitale imperiale e la posizione unica a cavallo di due continenti, Europa e Asia, separati dal Bosforo sulle cui rive si estende con la parte europea divisa in due dal Corno d’oro; e se l’ubicazione di Roma dipese dalla sua posizione sul Tevere, quella dell’antica Bisanzio aveva motivazioni e basi ancora più fondate.

Dunque, forte emozione nell’arrivare a Istanbul per riscoprire i segni di una storia e di un potere che dall’Oriente ebbe la capacità di far impallidire quello d’Occidente e di sopravvivere alla grande Roma. Ma andare sulle tracce di una civiltà sepolta vuol dire pure districarsi nella civiltà viva e presente di oggi, in questo caso con un nesso particolare che suscita ulteriore interesse.

La città è l’ingresso di un paese che si è affacciato sull’Unione Europea e preme per farne parte, integrarsi con essa con le sue peculiarità e diversità non solo religiose; mentre l’UE allargata a ventisette paesi, pur non volendo perdere l’occasione unica di aprire la porta dell’Oriente nell’era della globalizzazione che supera barriere e confini, si ritrae per i timori suscitati da una prospettiva di integrazione e cambiamento che rinnova antiche paure; di qui l’estenuante negoziato senza fine.

Non si può certo vedere nell’ingresso della Turchia nell’UE il ricongiungimento di due imperi anche se decaduti, ben altre sono oggi le superpotenze; ma non si può neppure sottovalutare il significato della spinta europeistica che ha portato il paese a chiedere l’adesione da lungo tempo pur se questa attrazione si associa a una diversità nettamente superiore a quella tra gli altri stati membri.

Del resto, sappiamo che si tratta di una megalopoli di quindici milioni di abitanti, divisa in due parti ben distinte, e quella occidentale è una città europea nella conformazione urbana e nell’architettura degli edifici, non vi è traccia di quel tanto di moresco che si associa generalmente alle immagini dei sultani e degli ottomani.

Neppure nel palazzo del Sultano l’impronta orientale è particolarmente vistosa. Poi c’è la parte asiatica che ha connotati diversi. Ma in generale nella vita civile e nelle istituzioni l’impronta europea da Ataturk in poi è molto marcata. Sappiamo anche che l’anima orientale è nella gente vivacissima, nei bazar coloratissimi che fanno pensare al mondo delle “mille e una notte” – anche se non vi sono più harem – con i loro sapori, le loro tentazioni che prendono i sensi e accendono la fantasia; nonché nell’altra straordinaria diversità di questa metropoli, cioè nelle grandi moschee, templi carichi di spiritualità che fanno sentire al cospetto di qualcosa che coinvolge e sovrasta.

Sono aspetti già a prima vista segno di una separatezza da cui traspare l’altra faccia della medaglia, l’immagine che ci inquieta e ci turba anche per retaggi ancestrali; ma non dobbiamo averne paura, forti come siamo di una radicata e sicura identità che va oltre le radici cristiane inglobando anche i valori della ragione, dall’Illuminismo alla Rivoluzione francese alla Riforma, che si aggiungono ai valori della fede in una netta separazione tra Chiesa e Stato; separazione, peraltro, qui voluta e ottenuta da Ataturk in una realtà ben più critica e complessa della nostra.

Ma per restare all’immagine, vivacità e colori, sapori e tentazioni che accendono la fantasia non ci colpiscono, per fare un nome, anche nella nostra Napoli così pittoresca, viva e vitale? E la religiosità che si respira nelle moschee non la ritroviamo nelle nostre cattedrali anche se le divinità cui sono dedicate hanno nomi diversi ma pur sempre evocano l’Assoluto?

Allora torniamo ad immergerci in una realtà il cui passato e presente sono carichi di suggestioni e di significati, cercando di orientarci nel labirinto di una ricerca che segue percorsi inusitati. Non siamo turisti, ma viaggiatori nel tempo della storia e della nostra vita: dove spicca l’immagine  della croce di Costantino con su scritto “in hoc signo vinces”: una sorta di “arrivano i nostri”, il “Settimo cavalleggeri” che ha illuminato l’infanzia ed ora ci si ripropone con la stessa forte carica simbolica. Né la revisione storica della figura di Costantino riesce a cancellare questi sentimenti istintivi.

L’esterno di Santa Irene (Hagia Irini) 

Il labirinto della modernità

Il primo labirinto nel quale ci siamo dovuti districare è stato quello della modernità. Una modernità che balza subito addosso nel grande aeroporto con gli interminabili corridoi per i terminali, dotati di velocissimi tapis roulant; e soprattutto con le immense superfici lucide come degli specchi di una perfezione quasi imbarazzante, sembrava un’immagine virtuale mentre era reale e tangibile. “Mamma li turchi!” viene subito dimenticato, si è accolti dal volto moderno, occidentale, Roma non è lontana. Anzi, sembrava di essere nelle sue periferie sulla strada che dall’aeroporto entra in città, ci è venuta incontro una successione di edifici con i balconi chiusi da serramenti, così diffusi da sembrare di progetto, se l’irregolarità delle chiusure e la loro fattura non ne rivelassero la matrice alterata. Come a Roma, più che a Roma?  Dunque Italian style, almeno nell’arte di arrangiarsi?

Abbiamo raggiunto la parte vecchia di Istanbul, con le casette caratteristiche, i vicoli che s’inerpicano  ripidi e tortuosi, sui quali il pulmino dell’albergo faceva una vera e propria gimkana: a prima vista non sembrerebbe molto dissimile, pur con le sue evidenti peculiarità, dalle zone  più antiche delle città europee nelle parti non toccate dall’arte e dalla storia. Ma quello che fa la differenza sono le imponenti moschee che si intravedono con i minareti svettanti verso il cielo in uno skyline che marca di primo acchito una fisionomia particolare, e non solo religiosa. Un divario che si disvela in tutto il suo spessore al calar della sera appena giunti nel cuore della città.

Siamo arrivati al trentesimo giorno del Ramadan, il passaggio all’ultima parte del periodo di astinenza con .la visita alla moschea e poi l’abbondante consumazione del pasto dopo il tramonto, scattato il termine del digiuno giornaliero. Il momento tanto atteso è segnato da una festa, si sciama nelle moschee senza separazioni e tanto meno divieti, basta togliersi le scarpe per camminare sui tappeti che coprono i pavimenti; si dileguano le ombre salgariane sui temibili misteri di questi templi, per nulla preclusi agli “infedeli”. E si può partecipare al festoso happening che si svolge intorno alla Moschea Blu, nel  Piazzale Sultanahmet dove si affaccia la basilica, ora museo, di Santa Sofia.

E’ stato il nostro primo approccio con la vita della città, avvenuto nel vivo della festa religiosa e civile che ci ha fatto misurare subito il divario con i modelli prevalenti in Europa. Un divario grande e insieme colmabile, che abbiamo scoperto presi dal vortice popolare all’esterno nel piazzale e all’interno nel vasto chiostro e nell’ingresso della grande moschea sospinti, quasi travolti dalla fiumana di gente.

Non era un’adunata di fondamentalisti né di pellegrini carichi di fervore religioso, tipo visita alla Mecca per intenderci, altrimenti sarebbero scattati i divieti per gli “infedeli”. E non era neppure un afflusso di turisti e visitatori indifferenti, il sentimento religioso c’era, intenso quanto composto: lo testimoniava la distesa di schiene prostrate all’aperto come al chiuso al richiamo lamentoso del muezzin o della voce cantilenante che veniva dall’altoparlante, in un rito che impegna il corpo oltre che lo spirito.

Lo sciamare festoso tra i moltissimi stand che fanno corona all’immenso piazzale su cui si affaccia la moschea aveva un carattere autenticamente popolare. C’era di tutto, soprattutto cibo preparato con bracieri, spiedi e grigliati ai bordi della strada, giganteschi coni di kebab ruotanti offerti alle gente che passava, mentre i tavoli e le panche su cui sedersi per consumare i grandi arrosti erano sul retro, invisibili dall’esterno: un rito laico “coram populo” con il pudore di celare alla vista i destinatari di questa profana comunione collettiva.

Oltre al rito del cibo declinato in mille modi, con il fuoco bene in vista quasi fosse purificatore, un vastissimo campionario di arti e mestieri sciorinato nella moltitudine di stand per una folla eccitata e festosa che si lasciava andare terminata l’attesa.

E qui dal labirinto di sollecitazioni emotive è venuta una prima risposta. E’ un popolo giovane, un popolo vivace, un popolo religioso, di una religione a noi lontana, che non si inginocchia ma si prostra, obbedisce ai dettami di un credo severo e da noi temuto come si teme l’ignoto, come si diffida dello sconosciuto; un popolo del quale possono inquietare i tanti abiti lunghi, con una severità invero ingentilita dai colori, e il velo a fasciare i capelli lasciando scoperto il volto di stuoli di ragazze. Sembravano madonne, forse perché anche la nostra iconografia religiosa ha posto un velo sui capelli della madre di Cristo, ma ciò che incantava era la gioia espressa da quegli occhi resi più grandi e profondi nel viso incorniciato dalla stoffa leggera; era come se esibissero il vestito della festa, felici di esserci, di aver superato la boa del Ramadan, di mostrarsi così come si sentivano, nelle vesti e nella disposizione dell’animo. Una semplicità senza ombra di fondamentalismo, o almeno non ce n’era di più che nei nostri pellegrini ai santuari, almeno quelli di un tempo con le cotte bianche alle processioni e i canti strascicati nelle lente cantilene rituali.

Questi giovani sono la punta avanzata di un popolo fiero della propria diversità rispetto ai popoli europei con i quali persiste a volersi integrare nonostante gli venga chiusa la porta in faccia allorché sembra avvicinarsi il momento delle decisioni e il punto di non ritorno; un popolo consapevole del ruolo strategico che può svolgere nel crocevia di civiltà e di religioni, forte della propria laicità nel segno dell’opera rivoluzionaria svolta da Kemal Ataturk in un difficile crinale pur nelle ferme convinzioni religiose ancorate alla fede mussulmana ma senza sconfinamenti temporali; e la festa del 24 ottobre nel nome di Ataturk ne è il contraltare laico, con il rifiuto di ogni fanatismo.

Sono considerazioni che non provengono da analisi politologiche o sociologiche, ma da mere notazioni di cronisti, anzi da semplici impressioni di turisti. Trascinati dal fervore di gioventù che ci circondava, pur se il momento era in qualche modo rituale e non ludico, ne avvertiamo la profonda differenza rispetto alle sembianze della vecchia Europa: anche nel ricordo ci sentiamo intimoriti e nello stesso tempo attratti da questa forza della natura, una gente giovane e determinata così diversa da noi e insieme così desiderosa di unirsi a noi; e siamo stretti tra due spinte contrapposte che rischiano di paralizzarci, ma finiscono per accostarci a un disegno di integrazione che è insieme una scommessa e una sfida da vincere.

Né i gravi episodi verificatisi in diverse circostanze tragiche e dolorose, per lo più singoli e isolati, possono stravolgere questo quadro d’assieme anche se inducono alla cautela verso l’ingresso della Turchia nell’UE da molti ritenuto ancora prematuro. E tra l’altro in questi ultimi tempi non più sollecitato come negli anni scorsi dagli stessi turchi che di certo non possono sentirsi incoraggiati a entrare in un’unione nei morsi della recessione con la moneta che la soffoca.

L’esterno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Sulle tracce del passato

Il mattino dopo il nostro arrivo ci trovavamo di nuovo nel piazzale Sultanahmet. Venditori ambulanti non mancavano, c’era persino chi offriva un rudimentale servizio con vecchie macchine da scrivere per compilare lettere su richiesta; nell’era del computer portatile ci faceva sorridere, e forse oggi, trascorsi del tempo dal nostro viaggio, non ci sono più, ma esprimeva  i divari  esistenti che non possono essere celati dalla modernità della città. C’è la Turchia arretrata dell’interno, dei villaggi di montagna, delle campagne; e con  inquietudine riflettiamo che è quella la vera Turchia con cui confrontarsi per l’ingresso nell’UE, ben diversa dal cosmopolitismo della porta d’Oriente.

I due Obelischi, con il Bassorilievo di Teodosio alla base di uno di essi, ci hanno riportato all’altro itinerario, quello della memoria, che abbiamo potuto percorrere dopo esserci districati nel labirinto della modernità. Siamo andati alla ricerca dei segni dell’antica Bisanzio e poi Costantinopoli, la culla di una  raffinata e potentissima civiltà, la capitale dell’impero d’Oriente che, lo ripetiamo a noi stessi, è sopravvissuto per un millennio alla caduta dell’impero romano d’Occidente.

Questi primi reperti sono stati per noi una scoperta preziosa, le tracce iniziali da seguire nel lungo cammino di una città crocevia di due continenti e delle loro civiltà millenarie. La Colonna serpentina, insieme all’Obelisco egiziano portato da Teodosio con il Bassorilievo romano del quarto secolo che ne celebrava le gesta, e all’Obelisco di Costantino, detto anche l’Obelisco di ottone dal metallo che per un certo periodo lo rivestiva, ci hanno riportato all’epoca remota in cui la vita ruotava intorno all’Ippodromo di cui restano questi soli componenti con il segno di Roma.

Fu inaugurato nel 330 per le corse di carri ma per oltre un millennio fu sede dei maggiori eventi pubblici, vero fulcro della vita di Costantinopoli; della sua grandiosità resta solo la caratteristica forma a ellisse, tipo Circo Massimo, che ci richiama la corsa delle bighe alla Ben Hur, mentre i quattro grandi cavalli di bronzo che ne erano il simbolo furono portati a Venezia come trofei dai temporanei conquistatori e spiccano sulla Basilica di San Marco. Immagine che ha suscitato  in noi pensieri inquieti , ma non ci hanno colpito gli obelischi, a Roma sono familiari, quanto la Colonna serpentina che si materializza dal terreno con le tre teste di serpente poste alla sua sommità. 

Abbiamo seguito la traccia del Bassorilievo di Teodosio spostandoci di poco nello spazio ma proseguendo il viaggio nel tempo, anzi nel tempio. Perché siamo passati davanti alla antichissima Santa Irene (Hagia Irini), la prima chiesa cristiana prima della grande basilica di Santa Sofia (Hagia Sophia)dal turco la “divina sapienza”. Questa fu costruita nel VI secolo in soli cinque anni e dieci mesi impiegando diecimila persone e utilizzando i marmi pregiati e i materiali più preziosi che l’imperatore Giustiniano poté prelevare spogliando i monumenti pagani nonché gli edifici pubblici e privati in tutta l’Asia minore avvalendosi dell’indiscussa potestà imperiale; i costi furono altissimi e l’economia imperiale ne risentì: per la costruzione del solo pulpito fu speso l’equivalente delle tasse pagate dall’Egitto in cinque anni.

Purtroppo nulla è rimasto dei pavimenti musivi, dell’iconostasi d’argento, dell’altare in oro massiccio tempestato di pietre preziose e degli affreschi, preda delle razzie perpetrate soprattutto dai cristiani iconoclasti della quarta Crociata, però nessuno ha potuto depredare il tempio della sua maestosità solenne che fa sentire nell’intimo una profonda suggestione. C’è una colonna con la proprietà di esaudire i desideri espressi infilando un dito in una cavità e disegnando un cerchio con il palmo della mano; lo abbiamo fatto sia pure distrattamente, ci emozionava piuttosto ricollegare la chiesa all’indimenticabile, per la nostra generazione, “in hoc signo vinces”, da cui venne la decisione di Costantino, il costruttore dell’originaria Santa Sofia, tre secoli prima, di eleggere la già rinomata Bisanzio a capitale dell’Impero d’Oriente con il nome di Costantinopoli.

Un interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Santa Sofia, cristiana e musulmana, ora laica

Questa basilica cristiana, la più grande al mondo fino alla costruzione di San Pietro, era una chiesa così importante che nel periodo di maggior fulgore vide la presenza stabile di ben novecento sacerdoti. Venne realizzata su due chiese ancora più antiche, la prima fatta costruire proprio da Costantino e consacrata nel 360 sotto il regno del figlio Costanzo, l’altra edificata sulle sue rovine da Teodosio e terminata nel 415. La basilica fu voluta da Giustiniano dopo i tumulti che distrussero la chiesa preesistente; l’intento era rivaleggiare con il mitico tempio di Salomone, tanto che secondo la leggenda l’imperatore il giorno dell’inaugurazione ebbe a dire: “O Salomone, ti ho superato!”.

Affascina il rosa sfumato dell’esterno, la grande cupola dal diametro di trentadue metri e alta cinquantasei metri, proporzioni che simboleggiano la “Divina Armonia”, con quaranta finestre tutt’intorno concepite per far entrare la luce della divina sapienza, e tante cupole minori insolite in un tempio cristiano; colpisce la grandiosità del tempio con una navata centrale di ottanta metri per settanta e due navate laterali divise da un colonnato di ventiquattro colonne su due piani.

Si raggiunge la galleria superiore salendo la rampa che sembra un sentiero acciottolato a massi come una strada romana, e in fondo lo è anche se ci troviamo agli antipodi dell’Occidente, nel lontano Oriente. L’ampia balconata è rivestita di marmi preziosi,  nella balaustra ornamenti a forma di lance che erano croci così modificate nel periodo ottomano. La vista dall’alto fa risaltare l’imponenza del tempio, che appare del tutto degno della sua storia e dei simboli evocati. E non solo per l’architettura, la forma e i volumi ma anche per i marmi e i mosaici bizantini, una vera ricchezza che i secoli hanno accumulato e anche dissipato con i saccheggi.

Nella galleria posteriore spiccano i mosaici con le figure di Cristo tra la Madonna e Giovanni Battista al centro, non lontano Cristo Pantocratore tra l’imperatrice Zoe e Costantino IX, poi la Madonna col Bambino tra l’imperatore Giovanni II e l’imperatrice Irene; sopra l’arco del portone il mosaico con la Vergine Maria tra Giustiniano e Costantino; c’è anche l’arcangelo Gabriele oltre a Teodosio e a diversi santi, da sant’Ignazio il Giovane a san Giovanni Crisostomo e sant’Ignazio Teodoforo; mosaici dorati anche in parte della cupola.  Aggiungiamo per inciso che una dovizia di mosaici è affreschi è nell’antica chiesa di San Salvatore, oggi Chora Museum, che fu costruita fuori dalle mura originarie di Cistantinopoli. 

Si tratta di immagini familiari nell’iconografia cristiana, ma i mosaici di Santa Sofia sono all’altezza di quelli di Ravenna, e trovarli sopravvissuti nella terra dell’Islam come segno della continuità nei secoli dell’ispirazione cristiana produce emozione. Che sia una presenza miracolosa lo rivela la storia della basilica, con i vandalismi e le rapine sui preziosi simboli cristiani. Nella visita abbiamo saputo che i sacri mosaici rinvenuti in epoca recente si sono salvati perché nascosti dall’intonaco apposto all’atto dell’occupazione ottomana; e che la basilica fu trasformata in moschea dai vincitori nel quindicesimo secolo, se ne vedono segni vistosi all’interno nei sei grandi tondi del diametro di otto metri inneggianti ad Allah, nel pulpito mussulmano e nella loggia del Sultano, e all’esterno nei quattro svettanti minareti che la circondano.

Un altro interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

La compresenza dei simboli delle due religioni da quando non è più luogo di culto per nessuna di loro, assurge ad emblema del superamento di contrasti assurdi se acuiti dall’intolleranza fondamentalista, non per un utopistico sincretismo ma per una convivenza pacifica sempre più necessaria. Vedere inneggiare ad Allah dov’è l’immagine di Cristo, trovare sotto lo stesso tetto, o meglio sotto la stessa cupola, vestigia delle due fedi fa ribaltare tanti giudizi sull’inconciliabilità di credi così diversi ma rivolti entrambi a un essere superiore, in una visione monoteistica con non pochi elementi in comune, da Abramo alla Madonna, fino a Cristo riconosciuto e rispettato anche dai mussulmani come profeta, quindi nella natura umana che rappresenta il cuore del cattolicesimo.

Non è senza significato che alla fine nessuna delle due religioni succedutesi nella basilica abbia prevalso nella destinazione finale. Fu adibita a museo nel 1935 per ordine di Ataturk, che eliminò la moschea ritenuta per secoli un vero affronto al cristianesimo e vietò ogni forma di preghiera all’interno, con la consacrazione di fatto della compresenza delle fedi in un tempio divenuto laico, espressione della memoria; è stata la vittoria del rispetto e della tolleranza sul fanatismo, sulla cancellazione quasi sempre violenta dell’altro di sé, che resta dopo le barbare distruzioni di segno opposto, dai mussulmani ai Crociati.

Sono stati sconfitti gli iconoclasti cattolici che spogliarono la chiesa senza riuscire a intaccarne il valore storico, artistico e religioso; sono stati sconfitti altresì i fondamentalisti islamici che la trasformarono in moschea violentandone la natura cristiana ma mantenendone la destinazione a luogo di culto con l’imposizione delle aggiunte sopra ricordate.

Mentre il contrappasso ha fatto sì che l’umiliante copertura con l’intonaco dei mosaici cristiani più pregiati li abbia salvati dalla distruzione cui sono stati assoggettati gli altri simboli, dando così un valore salvifico a una profanazione che, ribaltando le intenzioni,  ha consentito l'”happy end” del ritrovamento in tempi nei quali – e questa ne è stata una prova ulteriore – i valori dell’arte riescono spesso a prevalere sull’intolleranza. Almeno se a vincere non è il fondamentalismo nella sua ottusità, come quando in Afghanistan i talebani distrussero le gigantesche statue rupestri di Buddha. Nulla di più lontano da visioni estremiste e intolleranti appare, sul piano dei principi, l’islamismo in Turchia: il gran Muftì di Istanbul ha affermato che il Libro sacro dell’Islam, il Corano, riconosce il Vangelo e la Bibbia come Libri sacri del Cristianesimo e dell’Ebraismo, nel comune riferimento alle grandi figure di Mosè, Abramo, Cristo oltre a Maometto; e ha detto che questi tre Libri sacri lo accompagnano sempre nella sua giornata, come riferimento e guida costante.

Termina il ricordo della la visita a Santa Sofia, ma la rievocazione della visita a Istanbul continua. Ne parleremo prossimamente.

Info

I prossimi due articoli su Istanbul usciranno, in questo sito, il 13 e 15 marzo 2013. Per la mostra “La Via della Seta” citata all’inizio, cfr., in questo sito, i nostri tre articoli del 19, 21, 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. 

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti.  In apertura, una panoramica della zona di Sultanahmet; seguono gli esterni di Santa Irene (Hagia Irini) e di Santa Sofia (Hagia Sophia); poi due interni di Santa Sofia; in chiusura una visione panoramica al tramonto. 

Una visione panoramica al tramonto
 

Tintoretto, 3. Grandi pale d’altare, pitture sacre e votive, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Si conclude, a un anno dall’apertura,  la nostra rievocazione della visita alla grande mostra “Tintoretto” , svoltasi alle Scuderie del Quirinale  dal 25 febbraio al 10 giugno 2012,  con esposti 50 quadri, di cui 35 dell’artista i cui tratti salienti sono riassunti in tre parole: teatralità, gigantismo, arditezza. Il “clou” sono le opere su temi sacri, dipinti di dimensioni notevoli con un’impostazione teatrale negli spazi e nelle architetture, resa mediante drammaticità e realismo compositivo, scorci arditi, effetti di luce. Dopo aver tratteggiato la sua figura e averne descritto  la ritrattistica e le opere profane, ci immergiamo nel cuore della sua attività artistica, le grandi pitture sacre.

“Miracolo dello schiavo”, 1547-48

La mostra inquadrava la sua opera nella Venezia del tempo, “crocevia di genti, lingue, idee”, capitale di uno stato piccolo ma al centro di traffici di merci pregiate, sede di industrie e con un grande prestigio. In questa Venezia aveva un ruolo di spicco il suo carattere libero e ribelle, la sua arte spettacolare e insieme penetrante, innovativa rispetto allo stile tizianesco e al mero manierismo.

Il primo “colpo di teatro” lo dava, all’inizio della visita, la grande tela che impresse il più forte impulso alla sua vita artistica, il “Miracolo dello schiavo”, 1547-48, di circa 4 metri per 5,50. L’irruzione dall’alto della  figura di San Marco che salva dalla morte lo schiavo a lui devoto sottoposto al supplizio è di un realismo onomatopeico, se ne avverte quasi il rombo di tuono, la scenografia è monumentale e drammatica, la luce ne marca con i suoi guizzi i diversi momenti.

Qui inizia la nostra rassegna delle pitture sacre di Tintoretto nella ricerca concreta degli elementi caratteristici che abbiamo sottolineato nel presentare “il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”. Dopo i pittori veneti si ispirò a Parmigianino e Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano, ma con uno stile del tutto personale che lo allontanò dal Tiziano imperante e dal manierismo puro.

Prima dell’opera appena citata ne abbiamo una giovanile, La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, non meno straordinaria, e non solo perché aveva 22 anni ma per la composizione su molti piani prospettici, quasi in un imbuto spaziale dove gli imponenti primi piani laterali che fanno da quinta sono di figure secondarie mentre la figura principale, Gesù, è in un piano lontano sia pure al centro, tra colonne e pulpiti, in una scenografia fantasmagorica.

Ma fu il “Miracolo dello schiavo” a lanciarlo verso le grandi commissioni; fino ad allora aveva prodotto soprattutto dipinti ornamentali minori, di cui erano esposti in mostra due “ottagoni” pregevoli. Gli anni ’50 del 1500  lo vedono impegnato sui temi sacri, come “Sant’Agostino risana gli sciancati”, 1549-50,  e “La creazione degli animali”,1550-53: nel primo la luce sembra portare in alto il santo e il Padreterno su campi lunghi per la profondità e l’altezza, nel secondo  vi sono livelli scenici successivi con figure michelangiolesche in primo piano.

Poi nel 1553-55 due opere: “Il viaggio di sant’Orsola”, a differenza degli altri di forma alta e stretta, con la santa librata in cielo e il corteo delle vergini vestite in un opulento sfarzo orientale, disposte in file che vanno verso l’osservatore discese dalle lontane navi alla fonda, è cinema da mille e una notte  più che teatro; e “San Giorgio  uccide il drago”, anche qui effetti di luce e il primo piano della fanciulla salvata che corre verso l’osservatore, mentre il santo a cavallo in lotta con la fiera è in secondo piano in uno scenario fiabesco, una reiterazione della brillante idea compositiva che inverte la posizione dei soggetti.

“La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41

I dipinti per le Scuole Grandi, Piccole e Devozionali

Sia pure a distanza di 14 anni dall’exploit del “Miracolo dello schiavo”, nel 1562 arriva la commissione di un medico mecenate per una delle “Scuole Grandi” – che avevano funzione assistenziale e politica in termini di potere finanziario dei confratelli benestanti – quella di San Marco: i risultato è la grande tela del “Trafugamento del corpo di san Marco”, dove colpisce la straordinaria scenografia architettonica, quasi un fondale teatrale con tanti livelli prospettici e un primo piano in cui il corpo nudo del santo e chi lo sostiene per le gambe sono rischiarati dalla luce.

Ad una “Scuola Grande” era dedicata un’apposita sezione, tanto che Melaina Mazzucco chiama “l’avventura della scuola di San Rocco” un episodio singolare ma espressivo della sua personalità: quando la scuola chiese a 4 pittori – Tintoretto, Paolo Veronese, Zuccari, Salviati – un bozzetto per l’ovato del soffitto nella sala dell’Albergo, lui presentò a sorpresa il dipinto ultimato esprimendo l’intenzione di donarlo alla scuola, facendo così annullare il concorso; ebbe poi altre committenze.

Di queste, svoltesi tra il 1565 e il 1567 per una sala con il ciclo della Passione e tra il 1575 e il 1588 per altre sale, erano esposte due grandi tele, restaurate per l’occasione, di dimensioni inconsuete, alte più di 4 metri e larghe poco più di 2 metri dipinte nell’ultima fase, il 1582-83, che la Mazzucco definisce “uno dei frutti estremi, il più intimo e lirico di questa monumentale impresa” nella quale, conclude, “ha consegnato il suo capolavoro d’artista”. Sono “La Vergine Maria in meditazione” e “La Vergine Maria in lettura”,  gemelle anche come cromatismo e composizione: ambiente naturale scuro con alti alberi e prospettiva, la Vergine è una piccola figura in entrambe le tele, scolpita dalla luce come i contorni delle piante e alcuni particolari del paesaggio con un lirismo riposto e sommesso, per cui l’immersione nella natura sembra proteggere il raccoglimento.

Ma se le “Scuole Grandi” erano le più ambite per l’importanza della committenza, fu molto attivo anche con le “Scuole Piccole”: a Venezia erano cento, formate dai  membri di arti e mestieri – tintori e acquaioli, sarti e tessitori – che mettevano a concorso la  pala d’altare della loro chiesa. Tra i suoi dipinti per loro la Benedizione dell’agnello pasquale”  e la “Comunione di san Pietro”.

Anche le “Scuole devozionali del Santissimo Sacramento” commissionavano dipinti, in particolare “Ultime cene” per far rivivere il momento eucaristico. Tintoretto fece una diecina di Cenacoli, tra il 1547 e il 1592, dei quali ne erano esposti due di grandi dimensioni, oltre due metri di altezza per 4-5 di larghezza, del periodo intermedio, a distanza di circa dieci anni.  L’“Ultima Cena”  per la chiesa di san Trovaso è del 1561-62, quella per la chiesa di san Polo è del 1574-75.  Nel primo la mensa a forma di losanga è al centro della sacra rappresentazione dello sconcerto degli apostoli espresso nel dinamismo delle posizioni dei loro corpi, che però restano ancorati ai posti intorno alla tavola  con al centro Cristo la cui figura è incorniciata dalla luce e da una fuga di colonne, il solo elemento composto in un ambiente in cui anche gli oggetti sono investiti dalla concitazione. Il secondo dipinto, al dinamismo delle posizioni sostituisce il convulso protendersi delle figure, con il Cristo tutt’altro che composto: apre le braccia prefigurando la croce mentre gli altri si affollano in piedi in una scena altamente drammatica dove ci sono anche la carità al povero, il paesaggio e l’architettura; è sconvolgente la raffigurazione in un cromatismo intenso con sciabolate di luce.

Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582

Le pitture votive e il culmine spirituale: il Paradiso e Cristo nel sepolcro

Continuò a dipingere per la Scuole Piccole e Devozionali con un linguaggio semplice e un forte realismo per avvicinarsi alla sensibilità della gente comune anche dopo aver avuto le importanti committenze della  Scuola Grande di San Rocco ed essere divenuto pittore della Repubblica veneta, ritrattista del Doge, impegnato nei grandi dipinti con eventi storici e opere votive per Palazzo Ducale, sede del Doge e del Governo e per i palazzi dei Ministeri, in particolare il Palazzo dei Camerlenghi, nei quali venivano inseriti anche personaggi del momento.

Ci sono i “camerlenghi”, cioè tesorieri,  raffigurati mentre venerano la Madonna con Bambino e dei santi, nella “Madonna dei Tesorieri”, 1566-67, un esempio di pittura votiva e insieme celebrativa del potere. I tre tesorieri sono visti come una reincarnazione dei Magi, recano un sacco gonfio, forse di monete d’oro; diversamente dalla natività la Madonna ha un Bambino cresciuto in braccio, a fianco san Sebastiano trafitto, san Teodoro in armatura e san Marco in tunica rosa, come nel “Miracolo dello schiavo”; la luce dipinge i contorni e rischiara l’ambiente e lo sfondo in modo suggestivo.

L’opera a cui teneva tanto, per la Sala del Maggior Consiglio, era “L’incoronazione della Vergine o Paradiso”:  al concorso del 1582 gli era stato preferito Paolo Veronese, che però morì nel 1588. Fu richiamato, ma per la tarda età il grande dipinto venne consegnato dal figlio Domenico, con notevoli differenze rispetto all’idea originaria, avendo eliminato ciò che non si adattava più a un ambiente modificato e ciò che non era stato accettato. In mostra era esposto non questo dipinto, ma quello del 1564, di cui nella presentazione dell’artista abbiamo rievocato la storia, con i ritocchi e le modifiche del 1582; non è un bozzetto, misura m 1,70 di altezza per 3,60 di larghezza: Si resta senza fiato dinanzi a una composizione e una forma espressiva diverse da tutte le altre sue e di qualunque artista. Non ci sono primi e secondi piani, l’effetto prospettico è superato da una dimensione arcana con le figure immerse in un moto avvolgente che sembra elevarle da un livello all’altro nei cerchi ascendenti di un empireo dantesco fino alla dissolvenza verso un qualcosa che risucchia in alto, sempre più in alto. L’artista riesce a evocare la magica fascinazione del  Paradiso.

Termina il “flash back” sugli anni ruggenti del Tintoretto e le sue opere maggiori. Vi era un ultimo passaggio a conclusione della mostra. Nella sezione “il commiato”  la “Deposizione di Cristo nel sepolcro”, un “compianto” struggente: siamo nel 1594, l’anno della morte, è una sacra rappresentazione in tre atti, momenti collegati da due diagonali che dal corpo di Cristo in primo piano rimandano alla Madonna con le pie donne in secondo piano, entrambi accomunati dalle braccia aperte, con le croci del Golgota nello sfondo lontano; c’è la figura di Giuseppe d’Arimatea in cui dei critici hanno visto l’autoritratto del Tintoretto, identificazione contestata da altri ma la cui ipotesi, almeno sotto il profilo simbolico, ci fa considerare il dipinto un vero testamento pittorico.

E’ proprio il commiato di un grande artista poliedrico, fortemente ancorato alla pittura religiosa nella quale ci ha dato delle “sacre rappresentazioni” nel significato stesso del termine. Per questo il titolo che dà Vittorio Sgarbi al proprio commento di presentazione della mostra da lui curata, “Tintoretto regista”, rende bene il senso della sua  opera pittorica di impostazione teatrale.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti,  in questo sito,  il 25 e 28 febbraio u.s. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Miracolo dello schiavo”, 1547-48; seguono  “La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, e “Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582; in chiusura “Autoritratto”, 1588-89.

 “Autoritratto”, 1588-8

Marinetti, disegni e quadri futuristi, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Inaugurazione  in grande stile della mostra “Marinetti chez Marinetti”, aperta alla Galleria Russo a Roma dal 15 febbraio al 15 marzo 2013, con esposte oltre 40 opere della collezione privata di Filippo Tommaso Marinetti, il padre del Futurismo, e di altre collezioni: dipinti di Giacomo Balla e Gerardo Dottori,  Gino Galli e Tullio Crali, Antonio Marasco  e Renato Di Bosso, Luigi Russolo e Benedetta,  Mino Delle Site e Rougena Zàtkovà; disegni, anche di Ardengo Soffici, e schizzi, fotografie e manifesti, che fanno rivivere una stagione creativa per la società italiana. Molte delle opere sono eccezionalmente in vendita, un’occasione da non perdere. La mostra è stata curata da Maurizio Calvesi e così il Catalogo di Palombi Editore, con un testo di Beatrice Buscaroli.

Gerardo Dottori, “La famiglia Marinetti”, 1930-32

Va ricordato che il futurismo, oltre che movimento artistico di rottura fu un fenomeno dirompente nei vari aspetti della vita con una carica innovativa e un dinamismo senza sosta e senza freni. Lo ha rievocato Maurizio Calvesi, in una dotta esposizione nel vicinissimo “Centro Eventi”, basata sulla sua competenza e su testimonianze dirette: lo vide l’ultima volta in una “serata futurista” del 1941. Ha parlato anche Beatrice Buscaroli, mentre l’artista Roberto Floreani ha letto testi futuristi. Filmati d’epoca molto interessanti hanno animato l’intera serata, sia riempiendo le fasi di attesa con il sonoro in funzione, sia come sfondo visivo quanto mai stimolante nel corso degli interventi.

Ha concluso la manifestazione, presentato da Fabrizio Russo per l’occasione maestro di cerimonie, Nicola Zingaretti il cui intervento non è stato rituale: da candidato alla presidenza della Regione Lazio ha esposto il suo programma imperniato sulla valorizzazione dei beni culturali come motore di un nuovo modello di sviluppo, essendosi esaurito quello basato su settori industriali in cui l’Italia ha perduto competitività;  mentre nessuno può toglierci la preminenza nel campo nel quale il nostro paese detiene la maggiore concentrazione al mondo di risorse artistiche e culturali, storiche e ambientali. Mancavano soltanto dieci giorni alle votazioni, l’elezione di Zingaretti ha dato poi al programma esposto nella serata futurista il valore di un impegno da rispettare nel prossimo futuro

Marinetti, e l’equazione futurista tra arte e vita

L’allestimento della mostra è tale da rivelare a poco a poco le espressioni del Futurismo della collezione Marinetti e dalla altre collezioni che hanno prestato le loro opere. Dopo i quadri nelle prime due stanze e nelle vetrine ci  sono i disegni e i documenti soprattutto nell’ultima stanza.

Cominciamo da questi per entrare gradualmente nella temperie artistica del Futurismo che rivoluzionò un’epoca  giustamente celebrata dopo una lunga fase in cui, se non di rimozione per un distorto ostracismo dovuto a malintesi di marca politica, si è trattato di sottovalutazione; come per D’Annunzio, che è stato al fine “sdoganato” dopo un lungo oblio. Le celebrazioni del centenario nel 2011 con mostre e manifestazioni a tutto campo hanno rappresentato un risarcimento dovuto, dopo il periodo di oscuramento,  a un movimento squisitamente italiano, dove i fermenti e le avanguardie soprattutto nella pittura erano state di marca straniera, a parte la metafisica di De Chirico.

Qualche accenno alla figura di Marinetti va premesso, preparandoci ad entrare nella sua Collezione privata, quindi nelle sue scelte,  espressione di un personalità eccentrica e di un animo volitivo. Il manifesto del Futurismo da lui promosso, lanciava un programma rivoluzionario che chiudeva con il passato, o meglio con ciò che era passatista, per aprirsi al futuro, mediante la velocità e il dinamismo, la distruzione creatrice e l’innovazione radicale. L’inizio fu la fondazione da parte sua, che ne era anche il finanziatore, nel 1905, della rivista “Poesia”, che fece conoscere  autori simbolisti francesi e belgi, e nel 1911 divenne l’organo ufficiale del movimento poetico futurista.

C’era stato il Manifesto del Futurismo pubblicato a Parigi su “le Figaro” il 20 febbraio 1909:  poi una valanga, con i  Manifesti della pittura  e del cinema, della letteratura e dell’architettura, della musica e del teatro.  Il Futurismo permeò anche gli altri aspetti,  come la cucina e lo stile di vita, la moda e la pubblicità, c’erano le Serate Futuriste, in cui si metteva in pratica il nuovo verbo in esibizioni che si trasformavano in happening con il pubblico scatenato.

 A queste serate con Marinetti partecipavano, oltre al poeta Palazzeschi, i pittori Boccioni, Carrà e Russolo, di quest’ultimo vedremo anche delle opere in mostra. L’equazione tra arte e vita portava a mettere in pratica i dettami del Futurismo non solo nelle espressioni artistiche ma anche nelle azioni pratiche, con totale sprezzo del pericolo.  Così Marinetti accorre in Libia  nella guerra italo-turca come corrispondente di guerra, siamo nel 1911, due anni dopo il Manifesto. Segue il proclama delle “Parole in libertà”,  la distruzione di sintassi e punteggiatura che portò Palazzeschi a lasciare il movimento insieme a  Govoni. Ma arriva il sostegno della rivista Lacerba di Papini e Soffici.

Luigi Russolo, “Ritratto di fanciulla”, 1921

Il primo conflitto mondiale non poteva non vedere interventista e volontario chi aveva definito la guerra “la sola igiene del mondo”: ferito, torna al fronte, a Caporetto e poi a Vittorio Veneto tocca l’abisso della disfatta e la vetta del trionfo, ci sono delle descrizioni intense dei compagni in prima linea con lui; entra anche nell’avventura fiumana con D’Annunzio  contro la “vittoria mutilata”.

Trasforma, nel 1919, il movimento futurista in partito politico; è tra i “sansepolcristi” che fondarono il fascismo nel quale confluì il partito futurista; ma già nel 1920 se ne distacca, reagendo a quella che riteneva una svolta reazionaria e sostenendo la necessità di “svaticanare l’Italia”  e abolire la monarchia. Si rifugia nella letteratura, e pensa all’evoluzione multisensoriale del Futurismo nel Tattilismo con la sua compagna Benedetta Cappa  di cui troveremo testimonianze in mostra.

Il fascismo va al potere e lo chiama, lancia il Manifesto degli intellettuali fascisti, diventa ambasciatore in Sudamerica e Spagna, nel 1929 entra nella nuova prestigiosa Accademia d’Italia. Trasforma il futurismo in una scuola poetica di cui è il massimo esponente , presenta nel 1930 il Manifesto della fotografia futurista.

L’equazione arte-vita, come coerenza di comportamenti rispetto alle enunciazioni  artistiche, è l’imperativo assoluto: la visione della guerra considerata “la sola igiene del mondo” lo porta  come volontario nella spedizione in Etiopia del 1936 e nella disastrosa spedizione in Russia con l’Armir, a ben 66 anni.  Sopravvive, anche se malato; la passione politica non è venuta meno, aderisce alla RSI  che mette in atto i suoi ideali repubblicani; nel 1938 aveva criticato il regime sulla rivista futurista Artecrazia”  con articoli avversi alle leggi razziali e all’antisemitismo. Muore nel 1944.

I disegni conservati nella collezione di Marinetti

Sono soltanto accenni, scampoli colti in un’esistenza movimentata e complessa, il libro di Giordano Bruno Guerri sulla sua vita ne dà un quadro affascinante; pensiamo a questo nello scorrere i preziosi disegni e documenti esposti nelle pareti in gruppi omogenei di otto in bell’evidenza.

Intanto ci fanno conoscere più da vicino il personaggio Marinetti del quale visitiamo la Collezione. Ci sono due fotografie che lo ritraggono con una persona e con un quadro futurista. In una foto è in piedi, in abito nero con papillon, con a lato il quadro della Zàtkovà. “Sole Marinetti“, nell’altra e seduto nel suo studio con alle spalle il grande quadro di Dottori, “La famiglia Marinetti”, il “clou” della mostra, a lato il bozzetto in gesso di Antonio Carminati. alto 50 cm,  che lo raffigura giovane ed elegante con soprabito e cappello, mani in tasca quasi per sfida, è datato tra il 1904 e il 1908, l’anno prima del Manifesto futurista. Non fu mai fuso in bronzo, l’amministrazione capitolina intenderebbe realizzare la statua per collocarla nei giardini di Castel Sant’Angelo dinanzi a Piazza Adriana dove abitava. E’ straordinario che sia il bozzetto che i due quadri siano esposti in mostra-

Vediamo poi 4 schizzi a matita che lo raffigurano, 3 nel volto, uno nella figura intera, con firme e sigle di autori sconosciuti, due sono posteriori al 1920. E’ invece conosciuto l’autore di uno schizzo che lo ritrae, sempre a matita, e ne coglie lo spirito arguto: si tratta di Leo Longanesi,  è del 1922 allorché iniziò a collaborare con la rivista su cui scriveva anche Marinetti. Un altro schizzo a inchiostro colorato, di Francesco Cangiullo,  è  intitolato “Marinetti ferito”, ritratto “parolibero”, su “Italia Futurista” del 1917, il viso è creato con una ardita composizione di lettere e numeri.

Di particolare interesse l’acquarello di Nikolaj Ivanovic Kulbin che ne evoca il viso con un contorno squadrato, dal titolo “F. T. Marinetti. Etude d’interference”, lo ritrae al volo mentre sta declamando;  Kulbin lo aveva invitato nel 1914 in Russia, dove soggiornò nel cabaret artistico “Cane randagio”, ritrovo dell’avanguardia russa da lui fondato. C’è anche un “Autoritratto a matita”, di Kulbin, sul cui retro è applicato nientemeno che il disegno a china di Giacomo Balla, “Sfera della morte . Costellazioni del genio”: un cerchio in cui sono delineate configurazioni celesti che ricordano i cristalli di neve, l’universo sembra aprirsi all’ “infinito” con una profonda frattura.

Giacomo Balla, “Compenetrazione (Ritratto di Benedetta)”, 1951

L'”Autoritratto di Kulbin” inizia la serie dei ritratti degli amici. Tra questi la foto di Palazzeschi  con dedicadue schizzi del contorno del viso, autore Ardengo Soffici, del 1914,  l’anno dopo l’uscita della rivista “Lacerba”, incollati su una pagina dell’ “Avanti” del 2011. E la foto di Paolo Buzzi a lui dedicata, più un ritratto a china del poeta con dense macchie di inchiostro.

Non è un semplice disegno, ma un viso trasfigurato dall’espressionismo deformante, il “Ritratto di Giosuè Carducci” di Romolo Romani, pubblicato sul recto della copertina di “Poesia” nel numero del 2007 celebrativo della morte del poeta, considerato da Marinetti tra i numi tutelari del Risorgimento italiano.

La galleria grafica comprende anche le “linee simpatiche di un viso”, con larghe pennellate a inchiostro nero, di Gino Galli, 1919, un artista che collaborava con “Italia Futurista” e “Roma Futurista”; ritroviamo Cangiullo, una veduta a china del Golfo di Napoli è dell’artista napoletanoche aderì al Futurismo e collaborò a varie testate tra cui “Lacerba”; reca la cosiddetta “firma panoramica” e una scritta di saluto nella parte superiore.

Di un altro collaboratore di “Italia Futurista” è il disegno a matita “Movimento e rumore di una stazione ferroviaria”:  Achille Lega, che nella Grande Esposizione Nazionale Futurista del 1919 a Milano espose opere sui tram nelle strade e sugli aeroplani. I temi del futurismo sono visibili anche nei 2 disegni in stile cubista di Ugo Giannattasio, “Baracche- tende- fumo”  e “Volumi in velocità”, intorno al 1920, quando l’artista pubblicò il disegno “Autovelocità + strada”.

I 4 disegni esposti di Lucio Venna segnano una storia personale e artistica: itre a inchiostro su carta ocra, prima del 1920, “Piani di una testa”, “Barche” e “Ricerche di movimento”, hanno le forme scomposte in modo geometrico; mentre nell’acquerello “Figure”, dopo il 1920, si manifesta l’abbandono del futurismo e un “nuovo ritorno all’ordine”, è una composizione austera con forme rigide e severe. Anche su carta ocra i 3 disegni a matita  di Giorgio  Forlai, due con la scritta “Il discobolo” e “L’ufficiale e la cocotte”, il terzo “Senza Titolo”, i temi e lo stile  sono futuristi. Come “Figura che corre”, una suggestiva immagine di dinamismo in inchiostro e acquerello; e “Bozzetto per Teatro circolare“, una delle visioni di architettura futurista di Virgilio Marchi.

I bozzetti di 3 copertine completano la galleria grafica: il primo è di Enrico Sacchetti per il poema in prosa “L’esilio” di Paolo Buzzi, che abbiamo già incontrato; gli altri due sono destinati alla raccolta di poesie “Le ranocchie turchine” di Enrico Cavacchioli, per le edizioni futuriste di “Poesia”,  la rivista di Marinetti di cui abbiamo parlato  nei brevi tratti sulla sua vita.

E’ esposto qualche lavoro di Marinetti?  Viene spontaneo chiederlo, e la risposta non si fa attendere. Ecco il riquadro alla parete con alcune sue grafiche molto significative che ne fanno sentire la presenza: il “Bombardamento aereo”, 1015-16, con le “parole in libertà”, o meglio le lettere che diventano bombe e aerei, così in “Donna con cane”, e “Difesa montana”, linee e file di parole su più livelli; mentre “Numeri” e “Parole libere” sono semplici annotazioni di cifre e linee, fino alle note musicali, che diventano arte e storia come primarie espressioni futuriste. Mentre il disegno  a matita “Dimostrazione interventista”, in parole libere e le scritte “Viva Marinetti”  e il cubitale “Marinetti” è firmato “Acciaio”, un suo pseudonimo, ma sembra solo come omaggio a lui.

Una sua lettera autografa in francese, con la richiesta di recensire un numero di “Poesia”  sulla rivista parigina “Revue des Revues du Mercure” del 1905,  completa l’immersione in un’epoca inimitabile, i cui  impulsi creativi sono espressi nel Manifesti del Futurismo, esposti in originale.

Benedetta, “Luci + rumori di treno notturno”, 1924

I  quadri di pittori futuristi  

C’è una vera e propria escalation nei quadri esposti, nei temi e negli autori. Iniziamo con i supporti inconsueti. Le  tarsie in panno di  “Figura maschile” e “Figura femminile”, originali e spiritose, ne è autore un grande del Futurismo, Fortunato Depero; poi l’impressione su carta da matrice di argilla  di Arturo Martini con le forme fluttuanti nello spazio monocromatiche di “Sogno”, 1914, e la tecnica mista su carta di Mario Mirko Vucetich,  una fitta composizione dal cromatismo acceso di “Macchinisti in velocità”, 1919.

Ed ecco finalmente gli olii su tela o tavola, i dipinti che rappresentano il “clou” della mostra  dal punto di vista spettacolare, anche se grande valore hanno i disegni e l’altro materiale fin qui illustrato per il loro valore documentario legato alla figura di Marinetti. Li ricolleghiamo idealmente a quelli esposti nella grande mostra da noi vista a Roma al Palazzo Esposizioni, nel centenario del Manifesto, relativa soprattutto alla prima fase del Futurismo;  e all’altra, piccola ma significativa esposizione, sull’aerofuturismo, visitata nello stesso anno a Giulianova, sul litorale abruzzese.

In stile cubista ma aderente al soggetto in un acceso cromatismo, è “Strade di paese di sera”, 1917, di Antonio Marasco,  collaboratore di “Lacerba” e compagno di Marinetti in Russia  e in Germania. Mentre “Golfo della Spezia”, 1933, di Renato Di Bosso, fondatore del Gruppo Futurista a Verona, è una composizione quasi onirica su più piani,tra il celeste e il verde, con le qualità attribuitegli da Marinetti: “Eccelle nell’organizzare simultaneità di concreto-astratto, veduto-sognato, lontano-vicino, con un’affascinante varietà di trasparenze, compenetrazioni evanescenti e quarti di profilo”. 

I temi futuristi irrompono in “II Squadra Atlantica SV Chicago”, 1933, di Alfredo G. Ambrosi, sulla trasvolata organizzata da Italo Balbo nello stesso anno:  i grattacieli visti dall’alto divaricati con gli aerei  in dissolvenza sono una visione veramente emozionante; come lo è quella, sempre dall’alto, in “Gran volta rovesciata (Giro della morte”, 1938, di Tullio Crali, anche qui la prospettiva è deformata dalla visione aerea, edifici e tetti sembrano risucchiati dalla velocità.  E’ esposto anche il piccolo dipinto “Forze nell’infinito”, 1932, dello stesso autore, dedicato a Marinetti, chiamato “genio-faro dell’arte moderna”, il quale rispose con la foto dedicata al suo “impegno futurista”;  è una composizione geometrica di forme che convergono in una freccia piegata nella punta, ad esprimere visivamente le forze contrapposte tra velocità del mezzo e resistenza dell’aria.

La velocità è una manifestazione del movimento, e questo abbinato alla forza trova un suo simbolo futurista nel cavallo, al quale si ispira il quadro “Trotto galoppo”,1916, di Gino Galli: un insieme di linee e forme arrotondate e avvolgenti, meno riconoscibile del “Dinamismo meccanico-animale” che l’autore dipinse nello stesso anno.  Sempre di Galli vediamo “La danza della mitragliatrice”, post 1917, 5 disegni a matita con striature rosse e celesti, una sequenza con l’eroe alla conquista della donna-mitragliatrice che lo abbatte in una danza di immagini delicate nonostante il soggetto.

Di Luigi Russolo l’intenso “Ritratto di fanciulla”, 1921, dopo l’esperienza futurista conclusa nel 1913, in uno stile sobrio ed essenziale, dai contorni netti e cromatismo brillante con ombre e chiaroscuri. Esposte anche le minuscole acqueforti “Donna con cappello” e “Fanciulla”, 1906, a quest’ultimo, che raffigura la sorella Tina, il dipinto ora citato, successivo di 15anni, si ispira chiaramente. Mentre l’incisione “Trionfo della morte (I vinti)“, 1908-09, è un’opera simbolista, con dei raggi che piovono su due figure a terra, in un’atmosfera spiritualista ma da inferno dantesco.

Mino Delle Site, “Futurismo Fascismo”, 1935

Entriamo nella cerchia intima di Marinetti con il dipinto di Giacomo Balla, “Compenetrazione (Ritratto di Benedetta)”, 1951.  Raffigura Benedetta Cappa Marinetti, che era stata sua allieva, giovane ed elegante quasi sovrapposta al paesaggio e al cielo con nuvole in dissolvenza, veramente suggestiva. Mentre di Benedetta, che usava il solo nome, abbiamo l’ olio e collage su tela “Luci + rumori di treno notturno”, 1924, con l’uso di vari materiali in un’immagine quasi onomatopeica. Cinque anni dopo, nel 1929, lei promuoverà, con altri artisti, il Manifesto Futurista sull’Aeropittura.  

Il più grande dei dipinti esposti, circa m 1,80 per 1,40, è di Gerardo Dottori e raffigura “La famiglia Marinetti”, 1932: è l’unico ritratto con la moglie Benedetta Cappa, e le figlie Vittoria, Ala e Luce, quest’ultima la terzogenita neonata aggiunta alla precedente versione del 1930 con altre modifiche nel paesaggio e nelle immagini di progresso sullo sfondo. Sono suggestivi i tre piani con altrettanti livelli cromatici, dalla “placenta” celeste di Luce alla luminosità di Vittoria e Ala in piedi, alla posa statuaria dei genitori Filippo Tommaso  e Benedetta che dominano nella penombra.

Dopo essere penetrati addirittura all’interno della sua famiglia nel momento più intimo, la nascita della terzogenita, torniamo alla sua dimensione esterna, veramente globale. Il dipinto “Futurismo Fascismo”, 1935, di Mino Delle Site, iscrive nella sagoma del suo volto due figure imponenti, forse espressive dei due movimenti, su uno sfondo avveniristico di navi, edifici e aerei in volo, tra modulazioni di azzurro. Mentre “Sole Marinetti”, 1920,  di Rougena Zàtkovà, ne celebra l’apoteosi associandone l’immagine a quella solare, simbolo di vita ed energia: il rosso e il giallo dominano nel grande viso che sprigiona vitalità tra squarci dell’azzurro del cielo dal quale si irraggia.

Ci sembra l’immagine migliore per concludere il nostro viaggio  attraverso la mostra “Marinetti chez Marinetti”, che ci ha fatto attraversare il mondo del grande personaggio con quanto aveva raccolto e conservato nella sua dimensione privata. E ci ha riportato a una dimensione pubblica di tale ampiezza da ricomprendere le immagini del progresso, poi addirittura la visione solare che esprime il calore e la forza, la vitalità e la costanza della sua azione creatrice nell’arte e nella vita.

Info

Galleria Russo, Via Alibert 20, Roma, pressi Piazza di Spagna. Lunedì ore 16,30-19,30, da martedì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, tel e fax 06.69920692, info@galleriarusso.com; http://www.galleriarusso.com/. Catalogo: Maurizio Calvesi, “Marinetti chez Marinetti”, Palombi Editore,  Roma, gennaio 2013, pp.120, formato 22 x 22.  Per le mostre sul Futurismo citate si rinvia ai nostri servizi su “cultura.abruzzoworld.com”: “La mostra del futurismo a Roma”, 30 aprile 2009, e “A Giulianova un ferragosto futurista”, 1° settembre 2009.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Russo  all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, Gerardo Dottori, “La famiglia Marinetti”; 1930-32, seguono Luigi Russolo, “Ritratto di fanciulla”, 1921,e Giacomo Balla, “Compenetrazione (Ritratto di Benedetta)”, 1951,poi  Benedetta, “Luci + rumori di treno notturno”, 1924, e Mino Delle Site, “Futurismo Fascismo”, 1935;in chiusura  Rougena Zàatkovà. “Sole Marinetti“, 1920.

  Rougena Zàatkovà. “Sole Marinetti“, 1920

Tintoretto, 2. Le opere profane e i ritratti, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

A un anno dall’apertura della mostra su Tintoretto, svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, rievochiamo la visita iniziando dalle opere meno appariscenti perché di dimensioni più contenute, e meno celebrate ma molto significative per segnarne la caratura di artista innovativo in due settori particolari: le  opere profane e i ritratti. Temi su cui i pittori, peraltro, si sono cimentati,  “a latere” dell’impegno per lo più prevalente nelle committenze ecclesiastiche per le grandi pitture sacre, che in Tintoretto hanno l’aspetto di scenografie teatrali segnate dalla luce. La normale visita alla mostra iniziava dalla grande esposizione delle opere sacre nell’intero primo piano dello spazio espositivo, le cui sale erano introdotte dai commenti della scrittrice Melania Mazzucco, che nei suoi testi ha ricostruito l’ambiente e l’opera del Tintoretto. Un fondale rosso per scenografia, le grandi tele della pittura sacra riempivano di per se stesse gli ambienti. Ma il resoconto della nostra visita vogliamo iniziarlo dalla parte meno spettacolare, che si trovava al piano superiore, quella dei ritratti e delle opere profane, minori come dimensioni e notorietà.

“Susanna e i vecchioni”, 1555-56

Le ragioni della disposizione in mostra risiedono nelle caratteristiche degli spazi espositivi ai due livelli, perché la maggiore altezza del primo piano si presta alle grandi pale d’altare, e nel voler colpire subito con le opere di più forte impatto. Nella nostra scelta, le opere sacre sono il “clou” di un artista che predilige composizioni teatrali e cinematografiche, e le “star” a teatro entrano dopo i comprimari, va preparato il loro ingresso con l’ansia dell’attesa: qui le “star” sono le grandi tele.

Ma chiamare comprimari i ritratti e le opere profane  non va considerato riduttivo; anche in senso cronologico i vari generi coesistono: Tintoretto dipinse ritratti, opere  allegoriche e mitologiche per tutta la vita insieme alle pur prevalenti opere sacre. Stilisticamente in lui e negli altri artisti c’era comunicazione tra i diversi generi, le soluzioni stilistiche venivano trasferite dall’uno all’altro.

I ritratti

I ritratti a Venezia erano diffusi nelle categorie sociali elevate ma non solo nobiliari: i patrizi volevano celebrare i fasti familiari e le classi agiate il loro ruolo nella città pur se escluse dalla politica; i commercianti ne facevano un segno distintivo della crescita sociale e i forestieri della loro stessa identità. Tintoretto attribuiva molta importanza ai ritratti perché lo mettevano in contatto con personaggi influenti che gli potevano aprire la strada alle grandi committenze.

Nella fase iniziale cercò di differenziarsi, i ritratti dei primi anni ’40  non comprendevano  le mani per concentrare l’attenzione sul volto: così nell’“Autoritratto”, 1546-47, si vede solo il suo viso  rischiarato dalla luce, il resto è oscuro, a parte una sottile striscia bianca nel colletto.

Presto capì che nel presentarsi sul mercato della ritrattistica doveva fare tesoro dell’opera del grande Tiziano che lo dominava: dagli anni ’50 i suoi ritratti hanno anche le mani pur se concentra sempre l’attenzione sul volto servendosi della luce e non del colore, molto sobrio e scuro, in assenza dello spazio. Esclude elementi diversivi nell’abbigliamento, indistinguibile, e nello sfondo oscuro nel quale pone il personaggio a mezzo busto di tre quarti o di profilo. Di questo tipo sono “Ritratto di gentiluomo”, 1548-50  e “Ritratto di gentiluomo con la catena d’oro”, 1555-56, due posizioni diverse con le stesse tinte scure nel vestito e nello sfondo, a parte la striscia più chiara del colletto e dell’orlo dell’abito nel primo o della catena d’oro nel secondo. Invece nel “Ritratto di gentildonna”, 1550,  l’abbigliamento è ricercato e impreziosito da ornamenti, pur nella consueta sobrietà e oscurità cromatica, mentre la posizione frontale esprime determinazione.

 “Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80 

A parte questa eccezione – pochi sono i ritratti femminili pervenutici, ma tutti di grande intensità –  anche negli anni ’60 del XVI secolo prosegue nell’evidenziare i volti con la luce che li colpisce, e anche le mani, per indagarne carattere e sentimenti interiori, mentre tutto il resto è in ombra: il corpo è tutt’uno con lo sfondo nero in “Ritratto d’uomo con la barba bianca”, 1562-64 e “Ritratto di Alvise Cornaro”, 1562-65; mentre nel precedente “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561, per caratterizzare il  collezionista introduce in alto la base dei capitelli, in basso la testa di una statua su cui appoggia la mano sinistra. Anche nel “Ritratto di Jacopo Sansovino”, 1566, per caratterizzarlo gli fa tenere un compasso nella mano, appena percepibile, l’espressione del volto scolpita dalla luce è particolarmente intensa, viene ritenuto un capolavoro della ritrattistica.

Nel “Ritratto di giovane uomo”, 1565, la figura è pressoché intera, l’abito non solo è distinguibile, ma prevale sul viso, pur fermo e deciso. L’attenzione all’abito è ancora maggiore nei ritratti successivi degli anni ’70: lo stile è cambiato, non più l’oscurità consueta da cui emerge solo il volto con una mano, ma la figura in luce con ricco abbigliamento ed elementi di sfondo. Così nei due quadri intitolati entrambi “Ritratto di procuratore di San Marco”:  nel primo, 1570,  una figura dal viso in piena luce con un lussuoso abito di velluto, nel secondo, 1573-75, l’abito diventa dominante con il ricco tendaggio, la luce valorizza i segni della carica più che l’espressione del volto.

Fino al “Ritratto di Sebastiano Venier con un paggio”, 1577-78, dove  la mutazione nella sua  ritrattistica, morto Tiziano, raggiunge il culmine: è una composizione con le due figure  in piena luce, molto ricca sia nel mantello e nella corazza, sia nella scena sullo sfondo, la battaglia navale di cui il Venier fu protagonista, aiutato dall’arcangelo Michele con la spada e da Cristo dal cielo.

Con l'”Autoritratto” del 1588-89 c’è un ritorno alle origini, agli anni ’40: si vede solo il volto, le mani di nuovo scomparse, il vestito torna ad essere tutt’uno con lo sfondo nero, il volto è cascante, le palpebre appese, l’espressione stanca e sofferta, lo sguardo depresso  ben diverso da quello volitivo dell’età giovanile e non solo per ragioni anagrafiche, bensì per motivi psicologici.

Danae”, 1577-80

Le opere profane e  la bellezza femminile

Dopo la ritrattistica abbiamo trovato il “Tintoretto profano” nelle opere allegoriche e mitologiche, che non sono molto frequenti per lui almeno in forma di dipinti. Su questi temi fu più presente negli affreschi, perchè la sua prontezza nel dipingere lo rendeva molto adatto alle grandi superfici; inoltre la sua abilità negli scorci aderiva all’esigenza di procedere alle pitture murali in soffitti dalle speciali conformazioni e il dinamismo della sua pittura ben si prestava alla visione dal basso.

A parte questo, la sua scarsa propensione ai dipinti mitologici e allegorici derivava dalla lontananza dalla stile classicista, ritenuto più adatto a questo tipo di contenuti. All’inizio aderì alla tradizione locale e si avvicinò a Giulio Romano e Schiavone per l’approccio alla tematica classica: poi se ne allontanò per un approccio parodistico e ironico che banalizzava i miti classici  riducendoli ad episodi giocosi, in linea con la  tendenza dei “poligrafi” dell’epoca.

Ci fu un’interruzione di due decenni prima che tornasse ai temi mitologici dopo il 1576 per la morte di Tiziano che lasciava un grande spazio a lui e a Paolo Veronese, divenuti veri e propri  sostituti del Maestro scomparso in questo tipo di committenze di privati facoltosi, aristocratici, prelati e mercanti; perciò, come nei ritratti, se ne doveva seguire la linea stilistica.

Tintoretto, peraltro,  per la sua indipendenza, cercò temi diversi da quelli congeniali al grande Tiziano, in modo da non esserne condizionato, anche se nel colore ci fu un indubbio avvicinamento. Questo non va necessariamente riferito a periodi diversi, ma piuttosto  si deve parlare di una varietà di approcci anche in relazione alle diversità di committenze e di destinazioni delle opere profane.

La mostra presentava gli ottagoni del 1541-42, “Deucalione e Pirra” e  “Apollo e Dafne”,  parte di una serie di 14 tavole dipinte per il soffitto di Palazzo Pisani a Venezia: la conformazione delle figure viste dal retro è particolare, sembrano deformate dalle torsioni che danno loro un  dinamismo accentuato dall’angolo di visuale dal basso al quale erano destinate.

Quello che interessa sottolineare a questo punto è la sua visione della bellezza femminile – così si intitolava l’apposita sezione della mostra – evidente anche in “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1552-55, dove la donna tenta il santo in un nudo molto eloquente. I nudi dei quadri mitologici e allegorici venivano richiesti per allietare le stanze private dei committenti, sono accarezzati dalla luce, la figura morbida è sempre al centro della scena, carica di sensualità e di erotismo.

Un’opera molto significativa in questo senso è “Susanna e i vecchioni“, 1555, tema classico per i pittori dell’epoca, che lui declina dando una posizione dominante al corpo nudo di Susanna, accarezzato dalla luce, una vera corazza di carne che sembra proteggerla. Anche in “Danae”, di 25 anni dopo, il corpo nudo della donna concupita da Giove in forma di pioggia d’oro è al centro della scena, in una composizione rivolta allegoricamente anche alle cortigiane veneziane.

Tornando al 1555, in “Vulcano, Venere e Marte” la sensualità del corpo abbandonato di Venere  prevale sulla stessa bellezza; mentre sul dramma dell’irruzione di Vulcano che scopre il tradimento prevalgono elementi giocosi come la testa di Marte che spunta da sotto il letto, il cagnolino e  Cupido che dorme beato, una situazione da “cielo, mio marito!” in una lussuosa stanza veneziana. . In “Venere, Vulcano e Cupido“, 1560, cinque anni dopo, gli stessi nell’intimità familiare, lei è nuda, un ricco tendaggio e un paesaggio invece della misera grotta in una sorta di natività profana.

Con questa attenzione alla bellezza muliebre ci piace concludere il viaggio nel Tintoretto profano, prima di passare alle opere sacre dove alla bellezza del corpo si sostituisce quella dello spirito nelle immagini cariche di realismo ma insieme di un’elevata spiritualità con al culmine lo straordinario dipinto dalla doppia vita artistica “Incoronazione della Vergine o Paradiso”. Da qui, in senso cinematografico, parte il nostro “flash back” che ci riporta al suo massimo fulgore, alle pale e telere religiose. Ne parleremo presto, il “trailer” del prossimo “film” è nella presentazione da noi fatta dell’artista prima di entrare nel suo mondo dall’ingresso secondario dei ritratti e opere profane.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Susanna e i vecchioni”, 1555-56; seguono”Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80, e “Danae”, 1577-80; in chiusura,  “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561.

“Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561

di Romano Maria Levante

A un anno dall’apertura della mostra su Tintoretto, svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, rievochiamo la visita iniziando dalle opere meno appariscenti perché di dimensioni più contenute, e meno celebrate ma molto significative per segnarne la caratura di artista innovativo in due settori particolari: le  opere profane e i ritratti. Temi su cui i pittori, peraltro, si sono cimentati,  “a latere” dell’impegno per lo più prevalente nelle committenze ecclesiastiche per le grandi pitture sacre, che in Tintoretto hanno l’aspetto di scenografie teatrali segnate dalla luce. La normale visita alla mostra iniziava dalla grande esposizione delle opere sacre nell’intero primo piano dello spazio espositivo, le cui sale erano introdotte dai commenti della scrittrice Melania Mazzucco, che nei suoi testi ha ricostruito l’ambiente e l’opera del Tintoretto. Un fondale rosso per scenografia, le grandi tele della pittura sacra riempivano di per se stesse gli ambienti. Ma il resoconto della nostra visita vogliamo iniziarlo dalla parte meno spettacolare, che si trovava al piano superiore, quella dei ritratti e delle opere profane, minori come dimensioni e notorietà.

“Susanna e i vecchioni”, 1555-56

Le ragioni della disposizione in mostra risiedono nelle caratteristiche degli spazi espositivi ai due livelli, perché la maggiore altezza del primo piano si presta alle grandi pale d’altare, e nel voler colpire subito con le opere di più forte impatto. Nella nostra scelta, le opere sacre sono il “clou” di un artista che predilige composizioni teatrali e cinematografiche, e le “star” a teatro entrano dopo i comprimari, va preparato il loro ingresso con l’ansia dell’attesa: qui le “star” sono le grandi tele.

Ma chiamare comprimari i ritratti e le opere profane  non va considerato riduttivo; anche in senso cronologico i vari generi coesistono: Tintoretto dipinse ritratti, opere  allegoriche e mitologiche per tutta la vita insieme alle pur prevalenti opere sacre. Stilisticamente in lui e negli altri artisti c’era comunicazione tra i diversi generi, le soluzioni stilistiche venivano trasferite dall’uno all’altro.

I ritratti

I ritratti a Venezia erano diffusi nelle categorie sociali elevate ma non solo nobiliari: i patrizi volevano celebrare i fasti familiari e le classi agiate il loro ruolo nella città pur se escluse dalla politica; i commercianti ne facevano un segno distintivo della crescita sociale e i forestieri della loro stessa identità. Tintoretto attribuiva molta importanza ai ritratti perché lo mettevano in contatto con personaggi influenti che gli potevano aprire la strada alle grandi committenze.

Nella fase iniziale cercò di differenziarsi, i ritratti dei primi anni ’40  non comprendevano  le mani per concentrare l’attenzione sul volto: così nell’“Autoritratto”, 1546-47, si vede solo il suo viso  rischiarato dalla luce, il resto è oscuro, a parte una sottile striscia bianca nel colletto.

Presto capì che nel presentarsi sul mercato della ritrattistica doveva fare tesoro dell’opera del grande Tiziano che lo dominava: dagli anni ’50 i suoi ritratti hanno anche le mani pur se concentra sempre l’attenzione sul volto servendosi della luce e non del colore, molto sobrio e scuro, in assenza dello spazio. Esclude elementi diversivi nell’abbigliamento, indistinguibile, e nello sfondo oscuro nel quale pone il personaggio a mezzo busto di tre quarti o di profilo. Di questo tipo sono “Ritratto di gentiluomo”, 1548-50  e “Ritratto di gentiluomo con la catena d’oro”, 1555-56, due posizioni diverse con le stesse tinte scure nel vestito e nello sfondo, a parte la striscia più chiara del colletto e dell’orlo dell’abito nel primo o della catena d’oro nel secondo. Invece nel “Ritratto di gentildonna”, 1550,  l’abbigliamento è ricercato e impreziosito da ornamenti, pur nella consueta sobrietà e oscurità cromatica, mentre la posizione frontale esprime determinazione.

 “Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80 

A parte questa eccezione – pochi sono i ritratti femminili pervenutici, ma tutti di grande intensità –  anche negli anni ’60 del XVI secolo prosegue nell’evidenziare i volti con la luce che li colpisce, e anche le mani, per indagarne carattere e sentimenti interiori, mentre tutto il resto è in ombra: il corpo è tutt’uno con lo sfondo nero in “Ritratto d’uomo con la barba bianca”, 1562-64 e “Ritratto di Alvise Cornaro”, 1562-65; mentre nel precedente “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561, per caratterizzare il  collezionista introduce in alto la base dei capitelli, in basso la testa di una statua su cui appoggia la mano sinistra. Anche nel “Ritratto di Jacopo Sansovino”, 1566, per caratterizzarlo gli fa tenere un compasso nella mano, appena percepibile, l’espressione del volto scolpita dalla luce è particolarmente intensa, viene ritenuto un capolavoro della ritrattistica.

Nel “Ritratto di giovane uomo”, 1565, la figura è pressoché intera, l’abito non solo è distinguibile, ma prevale sul viso, pur fermo e deciso. L’attenzione all’abito è ancora maggiore nei ritratti successivi degli anni ’70: lo stile è cambiato, non più l’oscurità consueta da cui emerge solo il volto con una mano, ma la figura in luce con ricco abbigliamento ed elementi di sfondo. Così nei due quadri intitolati entrambi “Ritratto di procuratore di San Marco”:  nel primo, 1570,  una figura dal viso in piena luce con un lussuoso abito di velluto, nel secondo, 1573-75, l’abito diventa dominante con il ricco tendaggio, la luce valorizza i segni della carica più che l’espressione del volto.

Fino al “Ritratto di Sebastiano Venier con un paggio”, 1577-78, dove  la mutazione nella sua  ritrattistica, morto Tiziano, raggiunge il culmine: è una composizione con le due figure  in piena luce, molto ricca sia nel mantello e nella corazza, sia nella scena sullo sfondo, la battaglia navale di cui il Venier fu protagonista, aiutato dall’arcangelo Michele con la spada e da Cristo dal cielo.

Con l'”Autoritratto” del 1588-89 c’è un ritorno alle origini, agli anni ’40: si vede solo il volto, le mani di nuovo scomparse, il vestito torna ad essere tutt’uno con lo sfondo nero, il volto è cascante, le palpebre appese, l’espressione stanca e sofferta, lo sguardo depresso  ben diverso da quello volitivo dell’età giovanile e non solo per ragioni anagrafiche, bensì per motivi psicologici.

Danae”, 1577-80

Le opere profane e  la bellezza femminile

Dopo la ritrattistica abbiamo trovato il “Tintoretto profano” nelle opere allegoriche e mitologiche, che non sono molto frequenti per lui almeno in forma di dipinti. Su questi temi fu più presente negli affreschi, perchè la sua prontezza nel dipingere lo rendeva molto adatto alle grandi superfici; inoltre la sua abilità negli scorci aderiva all’esigenza di procedere alle pitture murali in soffitti dalle speciali conformazioni e il dinamismo della sua pittura ben si prestava alla visione dal basso.

A parte questo, la sua scarsa propensione ai dipinti mitologici e allegorici derivava dalla lontananza dalla stile classicista, ritenuto più adatto a questo tipo di contenuti. All’inizio aderì alla tradizione locale e si avvicinò a Giulio Romano e Schiavone per l’approccio alla tematica classica: poi se ne allontanò per un approccio parodistico e ironico che banalizzava i miti classici  riducendoli ad episodi giocosi, in linea con la  tendenza dei “poligrafi” dell’epoca.

Ci fu un’interruzione di due decenni prima che tornasse ai temi mitologici dopo il 1576 per la morte di Tiziano che lasciava un grande spazio a lui e a Paolo Veronese, divenuti veri e propri  sostituti del Maestro scomparso in questo tipo di committenze di privati facoltosi, aristocratici, prelati e mercanti; perciò, come nei ritratti, se ne doveva seguire la linea stilistica.

Tintoretto, peraltro,  per la sua indipendenza, cercò temi diversi da quelli congeniali al grande Tiziano, in modo da non esserne condizionato, anche se nel colore ci fu un indubbio avvicinamento. Questo non va necessariamente riferito a periodi diversi, ma piuttosto  si deve parlare di una varietà di approcci anche in relazione alle diversità di committenze e di destinazioni delle opere profane.

La mostra presentava gli ottagoni del 1541-42, “Deucalione e Pirra” e  “Apollo e Dafne”,  parte di una serie di 14 tavole dipinte per il soffitto di Palazzo Pisani a Venezia: la conformazione delle figure viste dal retro è particolare, sembrano deformate dalle torsioni che danno loro un  dinamismo accentuato dall’angolo di visuale dal basso al quale erano destinate.

Quello che interessa sottolineare a questo punto è la sua visione della bellezza femminile – così si intitolava l’apposita sezione della mostra – evidente anche in “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1552-55, dove la donna tenta il santo in un nudo molto eloquente. I nudi dei quadri mitologici e allegorici venivano richiesti per allietare le stanze private dei committenti, sono accarezzati dalla luce, la figura morbida è sempre al centro della scena, carica di sensualità e di erotismo.

Un’opera molto significativa in questo senso è “Susanna e i vecchioni“, 1555, tema classico per i pittori dell’epoca, che lui declina dando una posizione dominante al corpo nudo di Susanna, accarezzato dalla luce, una vera corazza di carne che sembra proteggerla. Anche in “Danae”, di 25 anni dopo, il corpo nudo della donna concupita da Giove in forma di pioggia d’oro è al centro della scena, in una composizione rivolta allegoricamente anche alle cortigiane veneziane.

Tornando al 1555, in “Vulcano, Venere e Marte” la sensualità del corpo abbandonato di Venere  prevale sulla stessa bellezza; mentre sul dramma dell’irruzione di Vulcano che scopre il tradimento prevalgono elementi giocosi come la testa di Marte che spunta da sotto il letto, il cagnolino e  Cupido che dorme beato, una situazione da “cielo, mio marito!” in una lussuosa stanza veneziana. . In “Venere, Vulcano e Cupido“, 1560, cinque anni dopo, gli stessi nell’intimità familiare, lei è nuda, un ricco tendaggio e un paesaggio invece della misera grotta in una sorta di natività profana.

Con questa attenzione alla bellezza muliebre ci piace concludere il viaggio nel Tintoretto profano, prima di passare alle opere sacre dove alla bellezza del corpo si sostituisce quella dello spirito nelle immagini cariche di realismo ma insieme di un’elevata spiritualità con al culmine lo straordinario dipinto dalla doppia vita artistica “Incoronazione della Vergine o Paradiso”. Da qui, in senso cinematografico, parte il nostro “flash back” che ci riporta al suo massimo fulgore, alle pale e telere religiose. Ne parleremo presto, il “trailer” del prossimo “film” è nella presentazione da noi fatta dell’artista prima di entrare nel suo mondo dall’ingresso secondario dei ritratti e opere profane.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Susanna e i vecchioni”, 1555-56; seguono”Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80, e “Danae”, 1577-80; in chiusura,  “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561.

“Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561

Accessible Art, con City Life innovazione e continuità, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Quarto appuntamento in nove mesi negli spazi di “Accessible Art” di RvB Arts , in via delle Zoccolette 28, con un pertinenza in via Giulia 193, dov’è l’Antiquariato Valligiano. E’ nata una nuova mostra, che dal “vernissage” del 21 febbraio resterà aperta fino al 16 marzo 2013, questa volta con 3 artisti come nelle prime due esposizioni, di maggio-giugno e novembre-dicembre 2012, dopo i 12 artisti della mostra dicembre 2012- gennaio 2013. Il nuovo titolo è “City Life”, e suscita interesse per il modo con cui viene interpretata la vita cittadina da giovani artisti contemporanei.

Annalisa Fulvi, “Il cantiere di san Pietro oggi”, a sin.

E’ una mostra-mercato con le opere in vendita secondo la filosofia alla base di “Accessible Art”, insita nella stessa denominazione: avvicinare all’arte contemporanea la gente comune, che in genere diserta le gallerie, con una proposta basata sui due criteri utilizzati nella selezione: opere integrabili nell’arredamento domestico corrente e raggiungibili dalla più larga fascia sociale sotto il profilo economico. Così l’arte contemporanea diviene “accessibile”: non più riservata ad una cerchia ristretta e ad ambienti eccentrici, ma aperta a un pubblico più vasto e in grado di entrare nella vita familiare rompendo il diaframma che la tiene lontana dalla gente comune.

Come l’arte contemporanea è resa “accessibile”

Conoscendo l’arte contemporanea e il relativo mercato non è una selezione agevole né riguardo alla tipologia artistica né a quella economica. Sono escluse le installazioni ingombranti e le opere imbarazzanti per chi non ha la fantasiosa creatività di certa critica sofisticata, oltre che quelle troppo costose per il programma di diffusione a largo raggio che si propone.

Ma non per questo si va sul convenzionale,  la contemporaneità e il tocco dell’arte sono assicurati dall’attenta e sensibile selezionatrice, Michele Von Buren, che ricerca artisti con le formule e i mezzi espressivi più diversi e non si limita a questo, perché non li “lascia”, una volta presentati in mostra. Continua a seguirli, ad ospitarli nella galleria, per cui già nel giro di un anno o poco più è riuscita a creare una nutrita scuderia di artisti sempre presenti che fanno corona con le loro opere – mantenute visibili  e disponibili per i potenziali clienti – agli artisti presentati ex novo. 

Per questo parliamo di innovazione e continuità: l’innovazione è nella formula, ai suoi primi passi, oltre che nelle “nuove proposte”,  per usare un termine sanremese; la continuità nel persistere nella linea  d’azione innestando le “nuove proposte”  nella “scuderia”  creata dalla galleria.  Nel presentare per la prima volta Michele Von Buren abbiamo evocato la figura di Peggy Guggenheim, la cui attività ha contribuito non poco all’emergere di grandi artisti della contemporaneità statunitense del dopoguerra; lo fece con le mostre di giovani sconosciuti nei quali sentiva il tocco dell’arte in forme inusuali, e con un mecenatismo di acquisti per la propria collezione ed altro.

Qui c’è la selezione e la promozione di giovani artisti relativamente sconosciuti, anche se hanno all’attivo studi nelle Accademie d’arte e premi, mostre personali e collettive.  La Von Buren si prodiga per togliere loro la “s”, e ci scusiamo per l’ulteriore evocazione canora, ma evidentemente c’è qualcosa che suscita in noi questa ricorrente associazione di idee; e li promuove nella forma più promettente per loro e per l’arte contemporanea, cioè l’ampliamento della penetrazione nelle famiglie comuni.

 I due criteri di selezione sono fondamentali per il successo del progetto. Sull’accessibilità economica non serve aggiungere molto, tanto più in una fase di crisi economica e di ridotte disponibilità di spesa come quella attuale. L’orientamento che ci fu indicato all’atto della prima mostra dalla Von Buren fu di tenersi entro i 5.000 euro per le opere più impegnative, come le grandi statue, con un’offerta per lo più tendente a una media di 1.000-1.500 euro o meno per quelle corrent, fino a 200-400 euroi. In questi termini le opere sono “abbordabili”, e soprattutto diventano impieghi con promettenti potenzialità di crescita e rivalutazione venendo selezionate anche in base a questo aspetto. Con il “tetto di spesa” legato al potenziale di crescita l’accessibilità diventa convenienza, e la spesa, oltre ad inserirsi nei costi per l’arredo domestico, diventa un vero e proprio investimento.  

Rispetto alla compatibilità con l’arredo domestico di abitazioni comuni, requisito anch’esso fondamentale per l’allargamento della platea degli interessati, va precisato un elemento non trascurabile: il fatto che la galleria d’arte sia legata all’antiquariato è decisivo, e se ne ha la prova tangibile nella mostra dove le opere esposte sono inserite in arredamenti da abitazioni, come esempio di inserimento organico dell’arte contemporanea nell’ambiente  familiare.  

Per questo la galleria dell'”Accessible Art” non è pretenziosa, nel qual caso sarebbe asettica e fredda, ma calda e accogliente riproducendo il  clima domestico cui le opere sono destinate nella visione che non riteniamo utopistica, ma innovativa e meritevole di un crescente successo.

All’apertura della prima mostra la Von Buren ci disse che le opere di arte contemporanea da lei selezionate devono essere  “comprensibili con  la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo”; requisito questo per “far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare”. I termini “diffidenza” e “linguaggio enigmatico”  sono eufemismi per espressioni artistiche tanto lontane dalla sensibilità popolare da alimentare ironie  dissacranti: chi non ricorda il film con le “vacanze intelligenti” di Alberto Sordi e signora, scambiata per un’opera d’arte contemporanea perché  seduta a occhi chiusi per riposarsi?

Questo non vuol dire che tutta l’arte contemporanea deve essere comprensibile e neppure che va accettata soltanto se può entrare a far parte dell’arredamento domestico, ci mancherebbe! I grandi spazi espositivi del Maxxi e del Macro a Roma sono stati creati appositamente per accogliere le installazioni più invasive che sembrano stravaganti almeno nell’accezione comune, ma la critica è pronta a consacrarne il livello artistico creando essa stessa contenuti non percepibili nell’opera.

E’ un mondo diverso da quello di “Accessible Art”, del tutto separato,  come l’elite si è separata  storicamente dalla massa in ogni campo; ma nell’epoca contemporanea non ci sono più aree riservate, se non quelle del lusso smodato non invidiabile per la sua vacuità spesso becera. Per questo anche l’arte dei tempi nuovi  deve poter penetrare tra la gente, entrare nelle sue abitazioni.

La Von Buren non si è limitata a lanciare l’idea e provarne la fattibilità con una mostra dimostrativa. Continua a seguire questa strada con la quarta  mostra in nove  mesi e un’offerta la cui accessibilità è evidente:  le nuove opere esposte sono per lo più comprese nei 1.500 euro ciascuna.

Fabio Imperiale, “In assenza di titolo”, a sin.

Tre artisti sul tema “City Life”

L’accogliente galleria presenta le opere della mostra d’arte “City Life”, aperta alla visita incuriosita o culturale  come all’acquisto, in un ambiente reso familiare dai mobili  che indicano in pratica come possano inserirsi in una normale abitazione; l’accoppiata quadro-mobile conferma la bontà dell’idea di base che, ripetiamo, è l’integrazione dell’arte contemporanea nell’ambiente familiare.

Una certa atmosfera più che la vita nella città è resa da Nanni Mannolino con una serie di  stampe fotografiche in plastificazione lucida dal titolo “Apparizioni e Dissolvenze”, dove abbina il paesaggio urbano ad altri motivi come il nudo femminile. Sono immagini sovrapposte che perdono qualsiasi sembianza figurativa, anche se lo sfondo è dato da fotografie di antiche mura, in cui il tempo segna la storia cittadina, a cui si sovrappongono come delle impronte sottili visioni sensuali quanto sfuggenti: I  titoli sono  “La dama in grigio” e “Spalle nude”, “Abbandono” e “La ferita mel muro”, “Il drappo” e “Il tulle nero e la macchia azzurra”..

In quarant’anni di attività fotografica, iniziata da giovanissimo nel 1970, l’autore ha sperimentato e approfondito l’impiego di tutti i processi, dalle stampe in camera oscura alle nuove forme digitali. E’ giunto a un livello di astrazione che fa perdere ogni riferimento alla fotografia per un’arte senza classificazione, secondo una tendenza ormai inarrestabile: conta l’emozione che l’opera suscita.

Gli altri due espositori presentano la vita cittadina in una diecina di opere ciascuno cogliendone  i due aspetti compresenti: la presenza umana e le strutture materiali.

Per la presenza umana sono quanto mai espressive le forme sulla tela di Fabio Imperiale, dai titoli intriganti: da “In assenza di titolo” a “Strappo alla regola”, da “Periferia 18,40″ a ““Soldatino in Accorso”. Sono figure di persone, in vario numero e in diverse posizioni nei dipinti, viste di spalle ferme o in movimento, ciascuna rinchiusa in se stessa come una “monade”, pur essendo  in ordine sparso come folla o come gruppi. Uno specchio  dell’alienazione cittadina dove alla moltitudine che circola nelle strade non corrisponde una comunità ma individui isolati e sperduti nella loro solitudine. Sono figure dignitose, vestite di scuro, su sfondo chiaro, in una landa abbacinata che ricorda,  “mutatis mutandis”, alcune sceme del “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica: lì il gelo era nell’ambiente invernale,  mentre nelle immagini del nostro artista è nell’animo delle persone, senza vitalità né spinta interna. E’ il rovescio del “Quarto Stato” di Pellizza De Volpedo, non perché lì sono di fronte e qui sono visti dal di dietro, ma perché lì incedono come un tutt’uno  spinti da un’identità di classe e di lotta sociale  che qui manca, come se la città li avesse omologati in un’identità da automi o fantasmi di se stessi.

Alcuni elementi grafici e testuali vengono inseriti  dall’autore come sigillo a testimonianza della precedente attività pubblicitaria, ma il suo approdo alla  pittura è pieno e definitivo: partecipa a mostre collettive dal 2006, nel 2011  ha ricevuto un primo e un terzo premio, ha esposto in una mostra personale in una galleria romana seguita da un’altra mostra l’anno successivo.

Mentre la presenza umana è evocata da Imperiale nell’atmosfera rarefatta di un  ambiente completamente vuoto,  la visione di Annalisa Fulvi è speculare: riempie l’ambiente cittadino di strutture molto elaborate nella dominante delle linee che le segnano con forza insieme a macchie di colore discrete a sottolineare determinati componenti:  come il marrone dei tetti di “Strutture metamorfiche” o l’azzurro dell’acqua  di “L’incanto del lago” insieme a leggeri richiami figurativi come nel colonnato appena delineato sullo sfondo di“Il cantiere di san Pietro oggi”; ve ne sono altre senza riferimenti particolari, ma con un intreccio serrato di linee insieme a motivi delicati come un ricamo, così “Impalcatura in transito” e “Nuovi multipli”,  mentre “Visione frontale” e “Doppio tempo”  presentano la prima diversi piani prospettici molto ben integrati,  e la seconda due strutture separate, a destra l’impalcatura, a sinistra l’imponente edificio,  però  non sembrano in sequenza ma tali, comunque, da evocare l’altra dimensione oltre lo spazio, quella temporale.

E’ una giovane artista della quale abbiamo già ricordato, in occasione dell’ultima mostra, la formazione all’Accademia di Brera e una recente esperienza pittorica in Turchia. Dopo le prime espressioni  artistiche con questa impostazione, presentate nella mostra precedente,  ha sviluppato di molto le dimensioni dei suoi dipinti,  prima in formato-studi,  per affinare la tecnica veramente sopraffina:  avevano titoli come “Etude de la Ville”, “Composizioni” e soprattutto “Intersezioni”, denominazione che rivela la ricerca della linea nelle combinazioni con altre linee. Dei nuovi dipinti esposti, il più grande è lungo circa 2 metri per 1,25 di altezza, gli altri sono di poco più piccoli.

Nei quadri di Imperiale si è presi dall’alienazione umana, qui domina l’agilità delle strutture con le loro linee cartesiane e oblique. La pittrice ha colto questo elemento come nervatura della stessa struttura cittadina, fatta di edifici e di complessi urbani  dei quali oltre alla massa e al volume colpiscono le linee di forza. Abbiamo ripensato ad alcuni dipinti del grande artista russo Alecsandr Deineka,  le sue strutture metalliche esprimevano i contenuti riferiti di volta in volta alla guerra oppure al lavoro, con linee rettilinee e angolature senza arrotondamenti nè ornamenti; qui le linee segnano architetture che  riempiono non solo il vuoto materiale ma anche quello ideale. Ma nello stesso tempo possono esprimere un’altra alienazione, quella dell’urbanesimo selvaggio, congestionato e soffocante: due estremi che tendono a saldarsi nel degrado cittadino.

Nanni Manolino, “La Dama in grigio“, a dx 

La continuità con Zarattini, Thwaites , Deli

Si può parlare di continuità nell’innovazione   per rimarcare l’aspetto dell’attività di Michele Von Buren che ci ha fatto evocare Peggy Guggenheim: il fatto che continua a seguire e ad ospitare gli artisti che presenta via via nelle mostre. Così abbiamo visto di nuovo alcune loro opere  già esposte nella galleria, divenute una presenza familiare, e ne abbiamo trovato altre degli stessi artisti mai esposte prima che riguardano temi non contemplati dalla nuova mostra.

E’ stata una piacevole sorpresa vedere nuove opere di  Luca  Zarattini, appartenenti a una serie di espressioni molto intense,  in tecnica mista su tavola:  notiamo l’evoluzione verso lavori  diversificati nei temi dell’artista che utilizza un impasto di materiali grevi e pesanti in forme alle quali riesce a dare contorni classici e un che di misterioso. Le serie vanno da quelle con nomi, “Mohammed”” e “Carl”, “Pablo” e “Claude”, a “Flesso” e “Riflesso”, a quelle intitolate con semplici numeri in successione.:  

Ritroviamo le figure di Christina Thwaites che abbiamo imparato a conoscere, schierate frontalmente come nelle foto di famiglia cui si ispirano, le ricolleghiamo idealmente a quelle di Imperiale di cui ci sembra possano rappresentare l’equivalente domestico.  In realtà, considerate a sé stanti, queste trasposizioni dell’album di famiglia possono sembrare confuse nei contorni per la lontananza nel tempo, dato che i volti sono appena abbozzati; ma ci piace collegarle alle figure in piedi degli “esterni” di Imperiale immaginando che siano le stesse, prima isolate e sperdute negli spazi cittadini, poi altrettanto attonite e assenti nei “ritratti di famiglia in un interno”.  Questo, come il parallelo precedente, è una licenza del cronista  che ne chiede venia agli artisti: è una prova  ulteriore di come sia stimolante l’offerta visiva e culturale della mostra di Michele Von Buren.

Nessuno di questi paralleli interni alla galleria è possibile con “Summer” di Alessio Deli, una grande scultura alta 180 centimetri:  l’artista, al centro di una mostra precedente, riesce a dare un senso ieratico a un’opera realizzata con materiale metallico di risulta, preso nelle demolizioni; nella testa di “Summer” notiamo due grandi molle, forse di ammortizzatori o altro, e qui scatta un  collegamento con un artista di altra estrazione ma convergente nei materiali e nell’idea di base.

Intere figure scultoree- anch’esse a grandezza naturale come “Summer” – sono realizzate in tutto o in parte con molle dello stesso tipo e altro materiale metallico di recupero, questa volta da residuati bellici della guerra di Libia, dallo scultore libico Wak Wak  – le cui opere sono state esposte per la prima volta fuori dal suo paese al Vittoriano dal 16 gennaio al 28 febbraio 2013 – come risposta alla guerra distruttiva della vita che invece viene fatta risorgere utilizzando gli stessi strumenti di morte. Ricordiamo i due mitra “scolpiti” da Deli con materiale di demolizione,  la protesta veniva da materiali poveri come sono poveri i militari in tutto il mondo e in tutte le epoche, arruolati a forza, poi mandati ad uccidere e a morire per cause cui sono stati sempre estranei, essendo in genere proprio gli interessi inconfessabili delle stesse classi che in pace li hanno sempre sfruttati. Anche per Deli non abbiamo resistito al parallelo, questa volta con l’esterno, ma ci è venuto spontaneo.

Nel commentare le precedenti mostre della galleria “RvB Arts” dicevamo che avremmo seguito il progetto di Michele Von Buren, alla base di “Accessible Art”, per i suoi aspetti innovativi  sia nella diffusione della’arte contemporanea sia nello “scouting” e promozione degli artisti in una forma nuova.  Abbiamo potuto constatare come gli artisti della “scuderia” crescono di numero e moltiplicano l’impegno: sono quasi 20 pittori, 4 scultori e oltre 10 fotografi, una bella squadra!

Innovazione e continuità, dunque, lo ripetiamo, Non è un ossimoro. bensì  la migliore garanzia per l’ulteriore sviluppo del progetto.  Questo è anche il nostro augurio.

Info

“RvB Arts”, via delle Zoccolette 28, Roma, presso Ponte Garibaldi,  e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio, domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505,  cell. 335.1633518; – info@ rvbarts.com.,  http://www.rvbarts.com/, con tutte le immagini e relativi prezzi delle opere esposte e delle altre disponibili dei 35 artisti circa che fanno capo alla galleria. I nostri 2 articoli sulle precedenti mostre di “Accessible Art” sono in questo sito alle date del  21 novembre e 10 dicembre 2012. Per la citazione di Peggy Guggenheim si rinvia ai nostri 3 articoli in questo sito il 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012; per Deineka ai nostri 3 articoli (in particolare al 1°) sulla sua mostra al Palazzo Esposizioni, in questo sito, il 26 novembre, 1 e 16  dicembre 2012; per  Wak Wak al nostroarticolo sulla sua mostra al Vittoriano, in questo sito, il 27 gennaio 2013.  Gli articoli sono illustrati con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra alla galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele Von Buren con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta.  Sono riportate due opere per ogni autore, inquadrate nell’arredamento in cui sono ionserite in mostra. In apertura,di Annalisa Fulvi, a sinistra “Il cantiere di san Pietro oggi”;  seguono, di Fabio Imperiale,  a sinistra “In assenza di titolo”, di Nanni Manolino, a destra  “La Dama in grigio;  in chiusura,  di Luca Zarattini. a sinistra “Mohammed”.  

 Luca Zarattini, “Mohammed”.a sin.  

Tintoretto, 1. “Il più terribile cervello” della pittura, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Un anno fa, esattamente il 25 febbraio 2012, veniva aperta, fino al 10 giugno, alle Scuderie del Quirinale, una grande mostra sul Tintoretto, con 50 opere esposte, molte di grandi dimensioni, tra cui 15 di altri grandi artisti del tempo:  una mostra biografica nella quale si è ripercorsa la vita artistica di un pittore che anticipando il Caravaggio introdusse un forte realismo in composizioni dalla tensione drammatica espressa in scorci e inquadrature architettoniche e scenografiche di tipo teatrale e cinematografico. Curata da Vittorio Sgarbi, il bel Catalogo Skirà  ne reca il ricco repertorio iconografico e critico. “Un mostra scientificamente ineccepibile e al contempo spettacolare per allestimento e percorso”,  così l’ha  presentata Emmanuele F. M. Emanuele, allora presidente dell’Azienda Expò, cioè “Scuderie del Quirinale” e Palazzo delle Esposizioni; in effetti ha fornito il filo d’Arianna per orientarsi nel labirinto compositivo di un artista poliedrico e fecondo, molto discusso nella sua epoca e dopo.

“Autoritratto”, 1546-47

L’anticonformismo caratteriale e artistico

Fu discusso nella sua epoca per l’anticonformismo caratteriale e stilistico che gli fece affibbiare una serie di epiteti, e non ci riferiamo al soprannome che proviene dall’attività di tintore del padre e dalla sua bassa statura; anche il cognome Robusti derivava dal soprannome del padre e dello zio, lo utilizzò prima da solo con il nome Jacopo, poi affiancandovi il proprio soprannome che ebbe infine il sopravvento. Ricordiamo che lo hanno definito “arrischiato” e “spericolato”, “ghiribizzoso”  e “il più terribile cervello che abbia avuto la pittura” – queste ultime sono parole di Pietro Aretino – per il carattere talentuoso e ribelle. Non ha lasciato lettere né appunti, ma ci sono state note biografiche  d’epoca che ne hanno tramandato i tratti salienti. Già a 18 anni, nel 1537  – era nato nel 1519 a Venezia – poté iscriversi come Maestro nella “Fraglia dei Pittori”, partecipava ai dibattiti artistici e teologici e frequentava gli ambienti della cultura e delle professioni: fu un uomo libero al punto di rifiutare l’onorificenza di Cavaliere per non inginocchiarsi davanti al Re di Francia Enrico III.

Nello stile si era allontanato da quello di Tiziano allora dominante, la sua pittura era ritenuta “sconveniente”, e così anche il suo modo di dipingere “con la solita prestezza”, come scrisse Giorgio Vasari sottolineando la rapidità che lo portava a finire l’opera quando gli altri “attendevano a fare con ogni diligenza i loro disegni”; fonte di attacchi ai quali  rispondeva  “che quello era il suo modo di disegnare, che non sapeva fare altrimenti, e che i disegni e i modelli dell’opera dovevano essere in quel modo per non ingannare nessuno; e finalmente che, se non volevano pagare l’opera per le sue fatiche, che la donava loro, e così dicendo”.

Si riferiva alla grande opera del 1564 per la Scuola Grande di San Rocco: partecipò al concorso con l’opera finita e non con il bozzetto richiesto, donando il dipinto alla scuola che per statuto non poteva rifiutarlo; fu uno sgarbo agli altri artisti che però gli procurò non solo l’incarico di dipingere il soffitto e una grandissima Crocifissione, ma anche l’accoglienza come “confratello”. Nella Scuola di San Marco, invece, dove presentò un bozzetto, la sua candidatura non venne accettata.

Lavorava gratis o solo con un rimborso spese se voleva fortemente eseguire delle opere, e questo non solo nei primi tempi ma anche tra il 1556 e il 1561, quando oltre ai quadri e le portelle per un organo dipinse due teleri alti 14 metri nella Madonna dell’Orto per il solo costo di tele e colori; strategia vincente per avere committenze prestigiose come quella di San Rocco appena ricordata.

E’ discusso anche dalla critica relativamente recente: Vittorio Sgarbi ricorda il contrasto tra  Roberto Longhi e Rodolfo Pallucchini che ha scritto un libro su “La giovinezza di Tintoretto” dopo che Longhi aveva ritenuto tale fase “il tempo più vivo del Tintoretto, proprio perché il meno furioso”; e dava un valore negativo al “titanismo tecnico” che faceva passare “l’Accademia sotto una specie di furia”, ma riconoscendogli “una natura geniale, colma in principio di idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti”.

“Deucalione e Pirra”, 1541-42

Sgarbi polemizza aspramente con Longhi per il suo giudizio nel complesso negativo, ma le parole scritte dall’altro critico nel 1946, appena riportate, ci sembrano richiamare aspetti positivi del Tintoretto da lui stesso valorizzati: “E’ il teatro a dominare la sua mente e le mille e varie soluzioni scenografiche lo spingono, come nessun pittore, neppure Caravaggio, verso un linguaggio cinematografico”. E non c’è solo “teatro, grande scenografia”, l’artista a volte va anche oltre: “Tintoretto entra in uno spazio onirico, in una dimensione visionaria, e pur prospetticamente rigorosa”; la sua composizione “definisce non solo uno spazio fisico, ma uno spazio psichico”.

Entrano in campo le sue “luci striscianti”, e “contro la luce si stampano le ombre”, il suo impianto scenico è investito dai guizzi della luce che è protagonista della sua arte con il cromatismo plastico. Suoi i dipinti “di pura luce”, dalle forme indefinite. Così, ancora per Sgarbi, “Tintoretto ha trasfigurato la pittura in un sogno o in un incubo, trasferendo la realtà in un’altra dimensione”.

In definitiva, uno spirito libero nella vita e nella pittura, che lo fece affrancare dall’influsso di Tiziano fin dalle opere giovanili, del resto si dubita sia vera la “vulgata” che il pittore dominante lo allontanò dalla propria bottega geloso del suo talento, nel qual caso ci sarebbero state tracce nei dipinti agli esordi. Li troviamo in diretto contrasto nel 1556 allorché Tiziano escluse Tintoretto nella scelta degli artisti per decorare il soffitto della Libreria Marciana, e nel 1564  quando, dipinta l'”Allegoria della Sapienza”, premiò con una catena d’oro Paolo Veronese indicandolo suo erede.

Tutto questo è collegato alla diffusione del manierismo toscano unito al primato michelangiolesco anche a Venezia, nella fase della formazione pittorica del Tintoretto . Nel 1548 Paolo Pino scriveva  che chi fosse stato capace di coniugare “il disegno di  Michelangelo e il colore di Tiziano” sarebbe divenuto “il dio della pittura”; e Carlo Ridolfi ha affermato che nello studio di Tintoretto c’era un cartiglio con il motto “il disegno di Michelangelo e il colore di Giotto”. Ebbene, nonostante questo, trovò una strada molto personale nell’epoca del manierismo: “Nessuna soggezione nei confronti del Michelangelo e del Vasari – osserva sempre Sgarbi – Tintoretto è più mimetico, più etereo, e soprattutto meno ‘ingrippato’ di Tiziano”. Anche i suoi accostamenti alla scuola romana, a Giulio Romano e a Giorgio Vasari allora preminente, “sono una febbre passeggera. E quel gusto non è affar suo. Con Tintoretto, libero da questa soggezione, la pittura a Venezia riprenderà il suo corso, rallentato e deviato proprio da Tiziano”, è la lapidaria affermazione di Sgarbi. Che conclude: “Tintoretto non è solo; e per arrivare a questo risultato si guarderà intorno, misurandosi con artisti curiosi come Bonifacio de’ Pitati detto Veronese, Andrea Schiavone, Lambert Sustris”, sono esposte 15 opere loro e di Parmigianino ed El Greco, Jacopo Bassano e Domenico Tintoretto.

“San Giorgio uccide il drago”, 1553-54

La carrellata di artisti coevi

E’ una carrellata di grandi artisti che Vittorio Sgarbi ha proposto, in un’ottica simile a quella con cui aveva concepito la mostra “Gli occhi di Caravaggio” con i pittori che ebbero influenza nella formazione milanese del Merisi prima di esplodere a Roma, tra i quali si possono cogliere dei prodromi nei  tentativi di un uso diverso della luce e di una visione realistica nella composizione. Negli artisti presentati con Tintoretto interessano le dissomiglianze oltre alle somiglianze, perché Tintoretto se ne distaccò presto con il suo stile pittorico e le sue scelte compositive molto personali.

Di Tiziano era esposto il “Ritratto del comandante Gabriele Tadino”. 1538, per la sua influenza sulla ritrattistica di Tintoretto, ma oltre a questo la fantasia di Sgarbi proponeva delle sculture: due  busti di Alessandro Vittoria, tra cui quello in terracotta su “Sebastiano Venier”, ritratto anche da Tintoretto in un quadro esposto a figura intera con un paggio, “per l’uomo e per gli artisti – ecco il commento del curatore – il confronto in mostra sarà certamente utile”.

Sempre della fase formativa un nutrito gruppo di opere : del 1530-32 la “Madonna con Bambino  e santi”  del Parmigianino e la “Sacra conversazione” di  Giovanni De Mio,  del 1535-40 la “Sacra famiglia con un angelo e santi”  di Bonifacio Veronese. Della fase iniziale nel  1551 Il Buon Governo” di Paolo Veronese,  nel  1557 l’“Adorazione del Bambino e gli angeli con gli strumenti della passione”  enel 1558  di nuovo Tiziano con “Annunciazione”, immagini sfumate con cui “si rigenera dunque Tiziano, ma non nel senso della ricomposizione ma della decomposizione, della disgregazione di quei ‘bei contornoni’, di quelle ‘gran forme'”.  Le opere di Tintoretto in questo periodo sono diversissime, lo si vedrà nel nostro resoconto della visita.

Facevano parte di questa  sezione due opere di Lambert Sustris, olandese che è stato ad Augusta fino al 1553, “Mida e Bacco” e soprattutto “Salita di Cristo al Calvario”  che  riportano al Tintoretto per diversi aspetti: lo spazio prospettico e la luce, il dinamismo e le forme oblique. Mentre al periodo più avanzato, 1570-75, appartiene “La guarigione del cieco nato”,  anch’esso esposto, un piccolo quadro con la quale El Greco  cerca di conciliare il cromatismo manieristico di Tiziano con  la scenografia  teatrale del Tintoretto, quest’ultima addirittura su più piani prospettici.

Tale conclusione della  galleria coeva  al Tintoretto preparava alla visita delle sue opere, perché il livello e la complessità di un artista così creativo e originale possono essere apprezzati meglio avendone conosciuto i connotati salienti. Racconteremo la visita prossimamente partendo dai ritratti e dalle opere profane per poi raggiungere il culmine con le opere  sacre, grandi in tutti i sensi.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I prossimi due articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 25 febbraio e il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte di dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Autoritratto”, 1546-47; seguono “Deucalione e Pirra”, 1541-42,  e “San Giorgio uccide il drago”, 1553-54; in chiusura, “Il trafugamento del corpo di san Marco”,  1562-66.

lI trafugamento del corpo di san Marco”,  1562-66

Via della Seta, 3. Baghadad e Istanbul, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude il viaggio virtuale che fa compiere la mostra “La Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente ed Occidente”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre al 10 marzo 2013.  Dopo aver dato conto della genesi, anche attraverso le testimonianze dei viaggiatori veneziani e genovesi, e delle tre prime tappe di Xi’an, la città della pace, Turfan, l’oasi nel deserto, e Samarcanda, la città di mercanti, approdiamo a Baghdad, la città della sapienza e a Istanbul, la porta dell’Oriente, di cui ripercorreremo la storia  anche con i reperti di oggetti dell’artigianato e dell’arte, che ne rendono la grandezza. Viaggio che proseguirà prossimamente con la nostra visita effettiva e non più solo virtuale, a Istanbul, sulle tracce dei reperti dell’antica Costantinopoli di “in hoc signo vinces”.

Buddha Tejaprabha, ovvero della Luce splendente, 897, dipinto

Baghdad,  “città della sapienza”, non delle “mille e una notte”

La città che fa pensare alle “mille e una notte” viene presentata come “città di studiosi”, la rivale in Occidente della capitale imperiale Xi’an, situata strategicamente tra il fiume Tigri e l’Eufrate, quindi lungo le rotte commerciali fluviali, verso il mare e l’Asia. Viene rievocato il periodo d’oro, tra il 762 e il 1258, quando dopo essere stata fondata  dal califfo abbaside Al Mansur,  prosperò sotto di lui e i “califfi” seguenti, il cui mecenatismo fece sviluppare lettere e arti, scienza e filosofia.

Era chiamata “città circolare” per la sua forma ad anelli concentrici, ispirati alla sfericità della terra,  intorno alla moschea centrale e al Palazzo d’oro, sede del califfo, con gli insediamenti  residenziali, commerciali e militari all’interno delle mura; era una innovazione derivata da influssi persiani  rispetto all’urbanistica greca  e romana dell’epoca,  dalla struttura quadrata o rettangolare e strade ad angolo retto. I migliori costruttori dell’Asia furono mobilitati con migliaia di operai.

Il califfo abbaside costruì la “Casa della sapienza”, un centro culturale con un’enorme biblioteca, per unire la tradizione araba-islamica all’influsso persiano; nella nuova istituzione volle approfondire lo studio dei testi antichi e delle nuove discipline con le migliori menti dell’epoca.

La città divenne meta di letterati e studiosi da ogni parte, vi trasmisero la cultura indiana e greca. Nella fase di maggiore sviluppo raggiunse i 2 milioni di abitanti, oggi ne ha oltre 7 milioni.

Fu conquistata dai mongoli, precisamente da Haligu Khan, nipote di Gengis Khan, che regnò tra il 1217  e il 1265; l’evento, passato alla storia come la “presa di Baghdad”, portò  alla fine del califfato e di tante sue opere, come la struttura urbana e il sistema di irrigazione, oltre ai massacri.

Dopo un secolo e mezzo nuovo saccheggio e massacri con Tamerlano nel 1401; seguirà, nel 1534, la conquista dei turchi ottomani in guerra con la Persia, fino al 1917 allorché fu occupata dagli inglesi nella 1^ guerra mondiale, costituendo nel 1921 il Regno dell’Iraq sotto il loro protettorato.

L’indipendenza fu raggiunta tra il 1932 e il 1946  e la monarchia fu deposta nel 1958. Il resto è storia contemporanea e tragica attualità, l’antico splendore è solo un ricordo.

Tornando al ruolo che ebbe nell’epoca della Via della Seta, sul piano culturale, va sottolineato l’impegno negli studi di matematica e ingegneria, geografia e astronomia,  anche sui testi indiani più avanzati dai quali fu tratto, tra l’altro, il sistema dei numeri arabi con dieci simboli di Al-Khuwarizmi; mentre prima, anche a Roma oltre che a Baghdad, si utilizzavano lettere dell’alfabeto.

Nell’osservazione delle stelle veniva usato l’astrolabio che registrava spazio e tempo come una calcolatrice permettendo di determinare l’ora in base alla posizione del sole e delle stelle. “Il libro delle stelle e delle costellazioni” del persiano Ar Rahman, adottato per secoli come manuale di astronomia, descriveva nei particolari oltre un migliaio di stelle. Un apposito angolo della mostra è riservato a un vero astrolabio,  si può manovrare per cercare l’ora regolando il meccanismo rispetto alle costellazioni sullo sfondo. Di questo apparecchio ne sono esposti due esemplari, uno in metallo dell’Iran, 1730-75, l’altro in lega di rame dal Marocco, 1750. E’ esposta anche una sfera celeste in bronzo e argento del 1645 e un Trattato astronomico illustrato, del 1569,  da La Mecca.

Ma tanti furono gli strumenti ingegnosi escogitati, come una ruota misura del tempo e un orologio ad acqua: un esemplare in vetro, metallo e plastica è esposto in mostra.

Soprattutto il vetro ebbe molti impieghi, modellato a soffio fin dal 100 a. C. si sviluppò  nell’Islam da Baghdad verso la Cina trasportato con precauzioni particolari data la sua fragilità; venivano adottati svariati accorgimenti tecnici per modellarlo in decorazioni a rilievo o farvi incisioni artistiche. Venivano prodotti pure  semilavorati che poi gli artigiani plasmavano.

Sono esposti una pipa in ferro per soffiare il vetro e una serie di oggetti vitrei; un frammento semilavorato del 200 a. C. e uno stampo del 1000-1300,  una brocca piriforme dell’800-1000 e una bottiglia  con figura di animale, una coppa con “decorazione pizzicata” e una coppa “con punti di rilievo” dell’800-1000.  Inoltre oggetti a pasta vitrea, come una scodella turchese del IX-X secolo, e in terracotta invetriata, una piastrella  del 1000, una ciotola con decorazione dell’800-1000, e una piastrella in ceramica invetriata. Quindi un piatto decorato in terracotta smaltata e una coppa in ceramica decorata, fino al calamaio e coperchio del 1100-1200 in bronzo e argento.

L’argento ebbe un ruolo importante nella dinastia dei Sasanidi, innanzitutto per la coniazione  di monete in questo metallo per la circolazione generale, mentre il bronzo, rame e piombo erano destinati alla circolazione regionale; l’oro era riservato alle emissioni speciali. In argento le produzioni di alta qualità con le quali si celebravano i fasti della dinastia mediante piatti, coppe  e brocche decorate con immagini simboliche o allegoriche, e altri oggetti di valore artistico, esemplari pregiati sono stati reperiti in scavi archeologici in nell’Asia centrale, particolarmente in Iran,

Anche nella medicina erano all’avanguardia, con le pratiche di Al-Razi sui rapporti tra salute e pulizia, ben prima della scoperta di batteri e microbi: scrisse 200 manoscritti sui vari malanni e un  manuale medico le cui indicazioni  sono state adottate in Europa per secoli. Fu tradotto in arabo “De materia medica”, un manuale sulle piante officinali del medico greco Dioscoride, del 40-90 d. C.

Per la scrittura abbiamo citato Samarcanda, terra della carta su cui venivano creati documenti e libri.  A Baghdad la scrittura divenne arte con la calligrafia dell’alfabeto arabo utilizzato in copie artistiche del Corano. L’inchiostro era prodotto da varie fonti, si mescolava anche all’oro e alla polvere di vetro, venivano inserite iscrizioni con massime anche nei piatti e nei vasi islamici.

Abbiamo tanto parlato di mercanti e mercati, ebbene a Baghdad all’inizio del XIII secolo c’era un fiorente mercato di libri, con 100 librerie e 36 biblioteche pubbliche; in una delle più celebri appartenente all’Università Mustansiriya veniva fornita carta e penna per poter copiare i libri, oltre a un’assistenza completa. E’ ben giustificato chiamare la Baghdad di allora “città della sapienza”.

I mongoli invadono Baghdad nel 1258

Istanbul, la porta dell’Oriente, e il mare

La marcia verso l’Occidente sulla Via della Seta ha la sua tappa finale ad Istanbul, l’antica Costantinopoli,  definita “la porta dell’Oriente” con il suo Corno d’oro, che ne segna i confini.  Altri 1600 chilometri di percorso, dopo gli 8000 già percorsi nelle immensità asiatiche e mediorientali.

Entrò a far parte dell’Impero romano nel I secolo a. C., Costantino la eresse a capitale del suo impero nel 330  costruendo palazzi imponenti in stile romano e dandole il suo nome.  Dopo il 395, con Teodosio I, diventò capitale del più limitato impero romano d’Oriente, l’impero bizantino. Per la posizione di cerniera divenne un centro commerciale e culturale, distrutta nel 532 fu ricostruita con splendidi edifici culminati nella costruzione di Santa Sofia, la basilica della chiesa ortodossa.

Le vicissitudini di Santa Sofia riflettono quelle della città, al centro di scontri con persiani, arabi e Crociati, che nelle sorti alterne provocarono distruzioni delle architetture e saccheggi della città e delle opere d’arte, nonché il decadimento economico e la diminuzione della popolazione.

Dopo l’impero bizantino venne l’impero turco ottomano, con la conquista della città nel 1453 dopo due mesi di assedio, e la morte dell’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI: il sultano Maometto II ne fece la capitale dell’impero e le cambiò nome in Istanbul.  Secondo le barbare consuetudini dell’epoca furono dati tre giorni di libertà di saccheggio all’esercito ottomano, Santa Sofia fu saccheggiata e trasformata nella più grande moschea della regione;  la città divenne un centro culturale islamico.

Il sultano cercò di riportarla all’antico splendore: per questo fu incline alla tolleranza e al multiculturalismo e aprì la città al ritorno dei credenti di altre fedi, cristiani compresi. 

Fu creato il Gran Bazar, uno dei maggiori al mondo,  e fu costruito il palazzo di Topkapi come residenza del sovrano dove risedettero i sultani per quattro secoli. Con Solimano il Magnifico fu costruita la grande moschea con il suo nome e furono promosse altre realizzazioni di opere d’arte e di architettura: si diede impulso all’arte della ceramica, calligrafia e miniatura. Nel 1800 raggiunse un milione di abitanti, e successivamente si aprì all’Occidente anche con la costruzione dei ponti sul Corno d’oro che collegarono idealmente i due versanti per unirli fisicamente e culturalmente.

La storia moderna la vede nel crogiuolo della prima guerra mondiale e dei conflitti che portarono alla fine dell’impero ottomano e alla Repubblica turca, che assunse come capitale Ankara.

Istanbul, oltre che alla Via della Seta, di cui è il terminale, è legata strettamente alle comunicazioni marittime, che nel commercio furono un’alternativa ai traffici terrestri.  Spezie e sete cinesi, ma soprattutto ceramica, di difficile trasporto via terra per la sua fragilità, furono le merci  più diffuse. La ceramica più pregiata era la porcellana, proveniente dalla Cina e realizzata partendo dal caolino,  usata per oggetti ornamentali anche finemente decorati; veniva prodotta anche una ceramica ordinaria con la terracotta rivestita da uno strato bianco per farla somigliare alla porcellana.

Tre tipi di ceramica erano molto richiesti nel Medioevo con provenienza dalla Cina, e Istanbul era la porta dell’Oriente:  verde, policroma e bianca. E’ una produzione sviluppatasi tra la fine della dinastia Han e la fase iniziale del dominio mongolo, quindi tra il III e il XIII secolo d. C.  I primi vasi cinesi in ceramiche dure risalgono al primo millennio a. C., mentre nel III secolo d. C. compaiono le ceramiche Yue, colorate in verde; nel IV secolo  fu introdotta la decorazione in fiore di loto e nel VI secolo fu perfezionata la produzione di ceramiche Yue; dal VII secolo le ceramiche invetriate a vari colori. Segue la ricerca stilistica e decorativa anche per soddisfare la domanda esterna alimentata dallo sviluppo dei traffici marittimi.

Astrolabio,  funzionante in mostra

In Europa le ceramiche cinesi approdarono solo nel XIII secolo, con la “pax tartarica” seguita alle conquiste mongole; tra il XIII e il XVI secolo questi prodotti erano considerati un segno di distinzione per le classi elevate, e utilizzati nei “doni principeschi” di sovrani e diplomatici.

Di recente è stato recuperato il cargo di un bastimento arabo affondato in Indonesia nell’826, proveniente dalla Cina, che ha fornito un’idea di queste esportazioni del IX secolo: sulla nave erano caricate circa 60.000 ceramiche , soprattutto vasellame dipinto ma economico, oltre a prodotti  più pregiati di porcellana bianca, tra cui rari piatti decorati; erano stipate in grande giare di grès. 

Le rotte marittime dalla Cina erano lunghe oltre 8000 chilometri, percorsi in media in sei mesi, mentre per via di terra si impiegava anche un anno tra maggiori difficoltà, a parte il pericolo dei pirati , ma anche negli itinerari terrestri c’erano i banditi.

Venivano utilizzate imbarcazioni di teak o palma di cocco unite con filamenti e saldate con resine senza l’uso di chiodi, un portento!  Nell’Oceano indiano i monsoni soffiavano in inverno da nordest e in estate da sudovest, cosa conosciuta che rendeva le condizioni del mare sufficientemente prevedibili per avventurarsi nel viaggio scegliendo al rotta più adatta.

I “sambuchi”  erano imbarcazioni leggere  e veloci, con la vela latina, si faceva il “punto”  della posizione con uno strumento rudimentale ma efficace, il Kamal, piastra e cordino per allinearsi alla stella polare. Solo nel IX secolo il commercio marittimo divenne un’alternativa a quello terrestre sebbene la Cina avesse una lunga tradizione nei viaggi per mare che risale a due millenni fa; si dovette attendere l’XI secolo perché i transiti per mare superassero quelli per terra. Marco Polo fece i due percorsi, andò per terra nel 1200 sulla Via della Seta, tornò per mare a tappe.

Un’apposita sezione della mostra è dedicata alle rotte marittime, con esposta una carta nautica di Pietro Vesconte, 1311, e un modello di imbarcazione  recente ma che riproduce  le navi dell’epoca.  Vediamo anche una serie di oggetti a documentazione di ciò che veniva prodotto ed utilizzato anche nelle traversate marittime: maioliche e mattonelle, vasi e ciotole, piatti e coppe, bottiglie e brocche.

Con l’approdo via mare o l’arrivo via terra ad Istanbul si conclude la parte asiatica della Via della Seta, al tratto europeo abbiamo fatto riferimento all’inizio allorché abbiamo parlato dei rapporti tra Oriente ed Occidente e il ruolo di Venezia e Genova, citando anche i manufatti esposti in mostra.

Possiamo concludere quindi anche il nostro viaggio virtuale sulla Via della Seta condotto attraverso le suggestioni di una storia ricca e avvincente e le evidenze dei reperti esposti nelle sette gallerie corrispondenti ad altrettante sezioni nel Palazzo Esposizioni.  Siamo investiti da sensazioni e da immagini, il fascino dell’Oriente con i suoi misteri e le sue meraviglie si fa sentire, ed è il grande merito della mostra averlo saputo evocare con il dosaggio di notizie e di evidenze tangibili.

Finisce qui il resoconto della mostra, ma non il nostro viaggio. Questa volta da virtuale diverrà reale, racconteremo prossimamente una nostra visita a Istanbul alla ricerca delle vestigia dell’antica Costantinopoli.  La rievocazione del viaggio effettivo sarà un immergersi direttamente e di persona nel mondo cosmopolita e intrigante dell’ultima tappa dell’itinerario asiatico sulla Via della Seta.

Info

Palazzo Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Martedì e mercoledì, giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso;  accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 10,50, ridotto 7,50, scuole 4 euro a studente, gruppi tra 10 e 25, martedì e venerdì- Con il biglietto si vedono tutte le mostre del Palazzo Esposizioni.  Tel . 06.39967500, mailto:info.pde@palaexpo.it.  Catalogo: “Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente”, Palazzo Esposizioni e Codice Edizioni, ottobre 2012, pp. 296, formato 20 x 24, euro 26; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il 19 e  21 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Esposizioni, e in parte dal Catalogo, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, Dipinto dell’897 raffigurante il Buddha Tejaprabha, ovvero della Luce splendente;  seguono, I mongoli invadono Baghdad nel 1258, e Astrolabio funzionante in mostra;  in chiusura, una Mappa di Costantinopoli che ne mostra la posizione ideale (Corbis).

Mappa di Costantinopoli che ne mostra la posizione ideale (Corbis)