Istanbul, 1. Viaggio nella “nuova Roma”

di Romano Maria Levante

La mostra “La Via della Seta”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre 2012 al 10 marzo 2013, termina oggi con l’approdo a Istanbul la “porta dell’Oriente”, una città cosmopolita con tanti motivi di interesse legati alla sua storia millenaria e al tradizionale ruolo di cerniera tra Oriente e Occidente. Prima di tornarci virtualmente con la mostra romana c’eravamo stati di persona e fummo presi dal fascino dei suoi simboli storici e artistici e di quelli religiosi, le moschee con le loro cupole e il senso del sacro che eleva lo spirito al di là della fede di appartenenza. Il nostro viaggio è stato alla ricerca delle tracce della romanità, un motivo appassionante; e al di là di questi aspetti ci ha colpito la gente che nel Ramadan si affollava nelle moschee e dopo l’imbrunire si radunava nelle tavolate all’aperto; e i giovani, la loro carica di energia e l’entusiasmo. Ne faremo un ampio racconto prolungando idealmente la mostra dopo la chiusura con l’evocazione della realtà. E’ ancora più attuale parlarne ora che Istanbul ha avuto da “Consumers Choice” il riconoscimento di “The Best European Destination 2013”. 

Una panoramica della zona di Sultanahmet  

E’ sempre emozionante andare sulle tracce di antiche civiltà. Recarsi nel lontano Oriente, nell’Asia sconfinata, fa provare l’ansia di trovarsi di fronte a realtà esotiche, a scoperte sorprendenti, a presenze sconvolgenti, anche se oggi tutto è sotto i riflettori. Andare a Istanbul dà un’emozione diversa, forse ancora più acuta. Perché l’antica Bisanzio, la Costantinopoli dei primi libri di storia evoca una folla di eventi e di sentimenti gemellati alla nostra vita e alla nostra cultura: è stata la capitale dell’Impero romano d’Oriente come Roma lo è stata dell’Impero romano d’Occidente; con la differenza, che incute una sorta di soggezione, di un millennio in più di dominio imperiale, dato che quello di Roma è caduto nel 476 per le invasioni barbariche e gli ultimi imperatori dissoluti, mentre Bisanzio è durata fino al 1576 quando la capitale dell’impero fu conquistata dagli Ottomani. A questo si aggiunge l’ansia della riscoperta, una sorta di “agnitio”: è la Costantinopoli della nostra cultura storica e religiosa che vogliamo ritrovare, alla ricerca delle sue vestigia come un gemello va alla ricerca dell’altro se stesso dal quale è stato separato da sempre.

La “nuova Roma” come la immaginiamo

La città fu chiamata “la nuova Roma” per il ruolo preminente svolto come capitale imperiale e la posizione unica a cavallo di due continenti, Europa e Asia, separati dal Bosforo sulle cui rive si estende con la parte europea divisa in due dal Corno d’oro; e se l’ubicazione di Roma dipese dalla sua posizione sul Tevere, quella dell’antica Bisanzio aveva motivazioni e basi ancora più fondate.

Dunque, forte emozione nell’arrivare a Istanbul per riscoprire i segni di una storia e di un potere che dall’Oriente ebbe la capacità di far impallidire quello d’Occidente e di sopravvivere alla grande Roma. Ma andare sulle tracce di una civiltà sepolta vuol dire pure districarsi nella civiltà viva e presente di oggi, in questo caso con un nesso particolare che suscita ulteriore interesse.

La città è l’ingresso di un paese che si è affacciato sull’Unione Europea e preme per farne parte, integrarsi con essa con le sue peculiarità e diversità non solo religiose; mentre l’UE allargata a ventisette paesi, pur non volendo perdere l’occasione unica di aprire la porta dell’Oriente nell’era della globalizzazione che supera barriere e confini, si ritrae per i timori suscitati da una prospettiva di integrazione e cambiamento che rinnova antiche paure; di qui l’estenuante negoziato senza fine.

Non si può certo vedere nell’ingresso della Turchia nell’UE il ricongiungimento di due imperi anche se decaduti, ben altre sono oggi le superpotenze; ma non si può neppure sottovalutare il significato della spinta europeistica che ha portato il paese a chiedere l’adesione da lungo tempo pur se questa attrazione si associa a una diversità nettamente superiore a quella tra gli altri stati membri.

Del resto, sappiamo che si tratta di una megalopoli di quindici milioni di abitanti, divisa in due parti ben distinte, e quella occidentale è una città europea nella conformazione urbana e nell’architettura degli edifici, non vi è traccia di quel tanto di moresco che si associa generalmente alle immagini dei sultani e degli ottomani.

Neppure nel palazzo del Sultano l’impronta orientale è particolarmente vistosa. Poi c’è la parte asiatica che ha connotati diversi. Ma in generale nella vita civile e nelle istituzioni l’impronta europea da Ataturk in poi è molto marcata. Sappiamo anche che l’anima orientale è nella gente vivacissima, nei bazar coloratissimi che fanno pensare al mondo delle “mille e una notte” – anche se non vi sono più harem – con i loro sapori, le loro tentazioni che prendono i sensi e accendono la fantasia; nonché nell’altra straordinaria diversità di questa metropoli, cioè nelle grandi moschee, templi carichi di spiritualità che fanno sentire al cospetto di qualcosa che coinvolge e sovrasta.

Sono aspetti già a prima vista segno di una separatezza da cui traspare l’altra faccia della medaglia, l’immagine che ci inquieta e ci turba anche per retaggi ancestrali; ma non dobbiamo averne paura, forti come siamo di una radicata e sicura identità che va oltre le radici cristiane inglobando anche i valori della ragione, dall’Illuminismo alla Rivoluzione francese alla Riforma, che si aggiungono ai valori della fede in una netta separazione tra Chiesa e Stato; separazione, peraltro, qui voluta e ottenuta da Ataturk in una realtà ben più critica e complessa della nostra.

Ma per restare all’immagine, vivacità e colori, sapori e tentazioni che accendono la fantasia non ci colpiscono, per fare un nome, anche nella nostra Napoli così pittoresca, viva e vitale? E la religiosità che si respira nelle moschee non la ritroviamo nelle nostre cattedrali anche se le divinità cui sono dedicate hanno nomi diversi ma pur sempre evocano l’Assoluto?

Allora torniamo ad immergerci in una realtà il cui passato e presente sono carichi di suggestioni e di significati, cercando di orientarci nel labirinto di una ricerca che segue percorsi inusitati. Non siamo turisti, ma viaggiatori nel tempo della storia e della nostra vita: dove spicca l’immagine  della croce di Costantino con su scritto “in hoc signo vinces”: una sorta di “arrivano i nostri”, il “Settimo cavalleggeri” che ha illuminato l’infanzia ed ora ci si ripropone con la stessa forte carica simbolica. Né la revisione storica della figura di Costantino riesce a cancellare questi sentimenti istintivi.

L’esterno di Santa Irene (Hagia Irini) 

Il labirinto della modernità

Il primo labirinto nel quale ci siamo dovuti districare è stato quello della modernità. Una modernità che balza subito addosso nel grande aeroporto con gli interminabili corridoi per i terminali, dotati di velocissimi tapis roulant; e soprattutto con le immense superfici lucide come degli specchi di una perfezione quasi imbarazzante, sembrava un’immagine virtuale mentre era reale e tangibile. “Mamma li turchi!” viene subito dimenticato, si è accolti dal volto moderno, occidentale, Roma non è lontana. Anzi, sembrava di essere nelle sue periferie sulla strada che dall’aeroporto entra in città, ci è venuta incontro una successione di edifici con i balconi chiusi da serramenti, così diffusi da sembrare di progetto, se l’irregolarità delle chiusure e la loro fattura non ne rivelassero la matrice alterata. Come a Roma, più che a Roma?  Dunque Italian style, almeno nell’arte di arrangiarsi?

Abbiamo raggiunto la parte vecchia di Istanbul, con le casette caratteristiche, i vicoli che s’inerpicano  ripidi e tortuosi, sui quali il pulmino dell’albergo faceva una vera e propria gimkana: a prima vista non sembrerebbe molto dissimile, pur con le sue evidenti peculiarità, dalle zone  più antiche delle città europee nelle parti non toccate dall’arte e dalla storia. Ma quello che fa la differenza sono le imponenti moschee che si intravedono con i minareti svettanti verso il cielo in uno skyline che marca di primo acchito una fisionomia particolare, e non solo religiosa. Un divario che si disvela in tutto il suo spessore al calar della sera appena giunti nel cuore della città.

Siamo arrivati al trentesimo giorno del Ramadan, il passaggio all’ultima parte del periodo di astinenza con .la visita alla moschea e poi l’abbondante consumazione del pasto dopo il tramonto, scattato il termine del digiuno giornaliero. Il momento tanto atteso è segnato da una festa, si sciama nelle moschee senza separazioni e tanto meno divieti, basta togliersi le scarpe per camminare sui tappeti che coprono i pavimenti; si dileguano le ombre salgariane sui temibili misteri di questi templi, per nulla preclusi agli “infedeli”. E si può partecipare al festoso happening che si svolge intorno alla Moschea Blu, nel  Piazzale Sultanahmet dove si affaccia la basilica, ora museo, di Santa Sofia.

E’ stato il nostro primo approccio con la vita della città, avvenuto nel vivo della festa religiosa e civile che ci ha fatto misurare subito il divario con i modelli prevalenti in Europa. Un divario grande e insieme colmabile, che abbiamo scoperto presi dal vortice popolare all’esterno nel piazzale e all’interno nel vasto chiostro e nell’ingresso della grande moschea sospinti, quasi travolti dalla fiumana di gente.

Non era un’adunata di fondamentalisti né di pellegrini carichi di fervore religioso, tipo visita alla Mecca per intenderci, altrimenti sarebbero scattati i divieti per gli “infedeli”. E non era neppure un afflusso di turisti e visitatori indifferenti, il sentimento religioso c’era, intenso quanto composto: lo testimoniava la distesa di schiene prostrate all’aperto come al chiuso al richiamo lamentoso del muezzin o della voce cantilenante che veniva dall’altoparlante, in un rito che impegna il corpo oltre che lo spirito.

Lo sciamare festoso tra i moltissimi stand che fanno corona all’immenso piazzale su cui si affaccia la moschea aveva un carattere autenticamente popolare. C’era di tutto, soprattutto cibo preparato con bracieri, spiedi e grigliati ai bordi della strada, giganteschi coni di kebab ruotanti offerti alle gente che passava, mentre i tavoli e le panche su cui sedersi per consumare i grandi arrosti erano sul retro, invisibili dall’esterno: un rito laico “coram populo” con il pudore di celare alla vista i destinatari di questa profana comunione collettiva.

Oltre al rito del cibo declinato in mille modi, con il fuoco bene in vista quasi fosse purificatore, un vastissimo campionario di arti e mestieri sciorinato nella moltitudine di stand per una folla eccitata e festosa che si lasciava andare terminata l’attesa.

E qui dal labirinto di sollecitazioni emotive è venuta una prima risposta. E’ un popolo giovane, un popolo vivace, un popolo religioso, di una religione a noi lontana, che non si inginocchia ma si prostra, obbedisce ai dettami di un credo severo e da noi temuto come si teme l’ignoto, come si diffida dello sconosciuto; un popolo del quale possono inquietare i tanti abiti lunghi, con una severità invero ingentilita dai colori, e il velo a fasciare i capelli lasciando scoperto il volto di stuoli di ragazze. Sembravano madonne, forse perché anche la nostra iconografia religiosa ha posto un velo sui capelli della madre di Cristo, ma ciò che incantava era la gioia espressa da quegli occhi resi più grandi e profondi nel viso incorniciato dalla stoffa leggera; era come se esibissero il vestito della festa, felici di esserci, di aver superato la boa del Ramadan, di mostrarsi così come si sentivano, nelle vesti e nella disposizione dell’animo. Una semplicità senza ombra di fondamentalismo, o almeno non ce n’era di più che nei nostri pellegrini ai santuari, almeno quelli di un tempo con le cotte bianche alle processioni e i canti strascicati nelle lente cantilene rituali.

Questi giovani sono la punta avanzata di un popolo fiero della propria diversità rispetto ai popoli europei con i quali persiste a volersi integrare nonostante gli venga chiusa la porta in faccia allorché sembra avvicinarsi il momento delle decisioni e il punto di non ritorno; un popolo consapevole del ruolo strategico che può svolgere nel crocevia di civiltà e di religioni, forte della propria laicità nel segno dell’opera rivoluzionaria svolta da Kemal Ataturk in un difficile crinale pur nelle ferme convinzioni religiose ancorate alla fede mussulmana ma senza sconfinamenti temporali; e la festa del 24 ottobre nel nome di Ataturk ne è il contraltare laico, con il rifiuto di ogni fanatismo.

Sono considerazioni che non provengono da analisi politologiche o sociologiche, ma da mere notazioni di cronisti, anzi da semplici impressioni di turisti. Trascinati dal fervore di gioventù che ci circondava, pur se il momento era in qualche modo rituale e non ludico, ne avvertiamo la profonda differenza rispetto alle sembianze della vecchia Europa: anche nel ricordo ci sentiamo intimoriti e nello stesso tempo attratti da questa forza della natura, una gente giovane e determinata così diversa da noi e insieme così desiderosa di unirsi a noi; e siamo stretti tra due spinte contrapposte che rischiano di paralizzarci, ma finiscono per accostarci a un disegno di integrazione che è insieme una scommessa e una sfida da vincere.

Né i gravi episodi verificatisi in diverse circostanze tragiche e dolorose, per lo più singoli e isolati, possono stravolgere questo quadro d’assieme anche se inducono alla cautela verso l’ingresso della Turchia nell’UE da molti ritenuto ancora prematuro. E tra l’altro in questi ultimi tempi non più sollecitato come negli anni scorsi dagli stessi turchi che di certo non possono sentirsi incoraggiati a entrare in un’unione nei morsi della recessione con la moneta che la soffoca.

L’esterno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Sulle tracce del passato

Il mattino dopo il nostro arrivo ci trovavamo di nuovo nel piazzale Sultanahmet. Venditori ambulanti non mancavano, c’era persino chi offriva un rudimentale servizio con vecchie macchine da scrivere per compilare lettere su richiesta; nell’era del computer portatile ci faceva sorridere, e forse oggi, trascorsi del tempo dal nostro viaggio, non ci sono più, ma esprimeva  i divari  esistenti che non possono essere celati dalla modernità della città. C’è la Turchia arretrata dell’interno, dei villaggi di montagna, delle campagne; e con  inquietudine riflettiamo che è quella la vera Turchia con cui confrontarsi per l’ingresso nell’UE, ben diversa dal cosmopolitismo della porta d’Oriente.

I due Obelischi, con il Bassorilievo di Teodosio alla base di uno di essi, ci hanno riportato all’altro itinerario, quello della memoria, che abbiamo potuto percorrere dopo esserci districati nel labirinto della modernità. Siamo andati alla ricerca dei segni dell’antica Bisanzio e poi Costantinopoli, la culla di una  raffinata e potentissima civiltà, la capitale dell’impero d’Oriente che, lo ripetiamo a noi stessi, è sopravvissuto per un millennio alla caduta dell’impero romano d’Occidente.

Questi primi reperti sono stati per noi una scoperta preziosa, le tracce iniziali da seguire nel lungo cammino di una città crocevia di due continenti e delle loro civiltà millenarie. La Colonna serpentina, insieme all’Obelisco egiziano portato da Teodosio con il Bassorilievo romano del quarto secolo che ne celebrava le gesta, e all’Obelisco di Costantino, detto anche l’Obelisco di ottone dal metallo che per un certo periodo lo rivestiva, ci hanno riportato all’epoca remota in cui la vita ruotava intorno all’Ippodromo di cui restano questi soli componenti con il segno di Roma.

Fu inaugurato nel 330 per le corse di carri ma per oltre un millennio fu sede dei maggiori eventi pubblici, vero fulcro della vita di Costantinopoli; della sua grandiosità resta solo la caratteristica forma a ellisse, tipo Circo Massimo, che ci richiama la corsa delle bighe alla Ben Hur, mentre i quattro grandi cavalli di bronzo che ne erano il simbolo furono portati a Venezia come trofei dai temporanei conquistatori e spiccano sulla Basilica di San Marco. Immagine che ha suscitato  in noi pensieri inquieti , ma non ci hanno colpito gli obelischi, a Roma sono familiari, quanto la Colonna serpentina che si materializza dal terreno con le tre teste di serpente poste alla sua sommità. 

Abbiamo seguito la traccia del Bassorilievo di Teodosio spostandoci di poco nello spazio ma proseguendo il viaggio nel tempo, anzi nel tempio. Perché siamo passati davanti alla antichissima Santa Irene (Hagia Irini), la prima chiesa cristiana prima della grande basilica di Santa Sofia (Hagia Sophia)dal turco la “divina sapienza”. Questa fu costruita nel VI secolo in soli cinque anni e dieci mesi impiegando diecimila persone e utilizzando i marmi pregiati e i materiali più preziosi che l’imperatore Giustiniano poté prelevare spogliando i monumenti pagani nonché gli edifici pubblici e privati in tutta l’Asia minore avvalendosi dell’indiscussa potestà imperiale; i costi furono altissimi e l’economia imperiale ne risentì: per la costruzione del solo pulpito fu speso l’equivalente delle tasse pagate dall’Egitto in cinque anni.

Purtroppo nulla è rimasto dei pavimenti musivi, dell’iconostasi d’argento, dell’altare in oro massiccio tempestato di pietre preziose e degli affreschi, preda delle razzie perpetrate soprattutto dai cristiani iconoclasti della quarta Crociata, però nessuno ha potuto depredare il tempio della sua maestosità solenne che fa sentire nell’intimo una profonda suggestione. C’è una colonna con la proprietà di esaudire i desideri espressi infilando un dito in una cavità e disegnando un cerchio con il palmo della mano; lo abbiamo fatto sia pure distrattamente, ci emozionava piuttosto ricollegare la chiesa all’indimenticabile, per la nostra generazione, “in hoc signo vinces”, da cui venne la decisione di Costantino, il costruttore dell’originaria Santa Sofia, tre secoli prima, di eleggere la già rinomata Bisanzio a capitale dell’Impero d’Oriente con il nome di Costantinopoli.

Un interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

Santa Sofia, cristiana e musulmana, ora laica

Questa basilica cristiana, la più grande al mondo fino alla costruzione di San Pietro, era una chiesa così importante che nel periodo di maggior fulgore vide la presenza stabile di ben novecento sacerdoti. Venne realizzata su due chiese ancora più antiche, la prima fatta costruire proprio da Costantino e consacrata nel 360 sotto il regno del figlio Costanzo, l’altra edificata sulle sue rovine da Teodosio e terminata nel 415. La basilica fu voluta da Giustiniano dopo i tumulti che distrussero la chiesa preesistente; l’intento era rivaleggiare con il mitico tempio di Salomone, tanto che secondo la leggenda l’imperatore il giorno dell’inaugurazione ebbe a dire: “O Salomone, ti ho superato!”.

Affascina il rosa sfumato dell’esterno, la grande cupola dal diametro di trentadue metri e alta cinquantasei metri, proporzioni che simboleggiano la “Divina Armonia”, con quaranta finestre tutt’intorno concepite per far entrare la luce della divina sapienza, e tante cupole minori insolite in un tempio cristiano; colpisce la grandiosità del tempio con una navata centrale di ottanta metri per settanta e due navate laterali divise da un colonnato di ventiquattro colonne su due piani.

Si raggiunge la galleria superiore salendo la rampa che sembra un sentiero acciottolato a massi come una strada romana, e in fondo lo è anche se ci troviamo agli antipodi dell’Occidente, nel lontano Oriente. L’ampia balconata è rivestita di marmi preziosi,  nella balaustra ornamenti a forma di lance che erano croci così modificate nel periodo ottomano. La vista dall’alto fa risaltare l’imponenza del tempio, che appare del tutto degno della sua storia e dei simboli evocati. E non solo per l’architettura, la forma e i volumi ma anche per i marmi e i mosaici bizantini, una vera ricchezza che i secoli hanno accumulato e anche dissipato con i saccheggi.

Nella galleria posteriore spiccano i mosaici con le figure di Cristo tra la Madonna e Giovanni Battista al centro, non lontano Cristo Pantocratore tra l’imperatrice Zoe e Costantino IX, poi la Madonna col Bambino tra l’imperatore Giovanni II e l’imperatrice Irene; sopra l’arco del portone il mosaico con la Vergine Maria tra Giustiniano e Costantino; c’è anche l’arcangelo Gabriele oltre a Teodosio e a diversi santi, da sant’Ignazio il Giovane a san Giovanni Crisostomo e sant’Ignazio Teodoforo; mosaici dorati anche in parte della cupola.  Aggiungiamo per inciso che una dovizia di mosaici è affreschi è nell’antica chiesa di San Salvatore, oggi Chora Museum, che fu costruita fuori dalle mura originarie di Cistantinopoli. 

Si tratta di immagini familiari nell’iconografia cristiana, ma i mosaici di Santa Sofia sono all’altezza di quelli di Ravenna, e trovarli sopravvissuti nella terra dell’Islam come segno della continuità nei secoli dell’ispirazione cristiana produce emozione. Che sia una presenza miracolosa lo rivela la storia della basilica, con i vandalismi e le rapine sui preziosi simboli cristiani. Nella visita abbiamo saputo che i sacri mosaici rinvenuti in epoca recente si sono salvati perché nascosti dall’intonaco apposto all’atto dell’occupazione ottomana; e che la basilica fu trasformata in moschea dai vincitori nel quindicesimo secolo, se ne vedono segni vistosi all’interno nei sei grandi tondi del diametro di otto metri inneggianti ad Allah, nel pulpito mussulmano e nella loggia del Sultano, e all’esterno nei quattro svettanti minareti che la circondano.

Un altro interno di Santa Sofia (Hagia Sophia)

La compresenza dei simboli delle due religioni da quando non è più luogo di culto per nessuna di loro, assurge ad emblema del superamento di contrasti assurdi se acuiti dall’intolleranza fondamentalista, non per un utopistico sincretismo ma per una convivenza pacifica sempre più necessaria. Vedere inneggiare ad Allah dov’è l’immagine di Cristo, trovare sotto lo stesso tetto, o meglio sotto la stessa cupola, vestigia delle due fedi fa ribaltare tanti giudizi sull’inconciliabilità di credi così diversi ma rivolti entrambi a un essere superiore, in una visione monoteistica con non pochi elementi in comune, da Abramo alla Madonna, fino a Cristo riconosciuto e rispettato anche dai mussulmani come profeta, quindi nella natura umana che rappresenta il cuore del cattolicesimo.

Non è senza significato che alla fine nessuna delle due religioni succedutesi nella basilica abbia prevalso nella destinazione finale. Fu adibita a museo nel 1935 per ordine di Ataturk, che eliminò la moschea ritenuta per secoli un vero affronto al cristianesimo e vietò ogni forma di preghiera all’interno, con la consacrazione di fatto della compresenza delle fedi in un tempio divenuto laico, espressione della memoria; è stata la vittoria del rispetto e della tolleranza sul fanatismo, sulla cancellazione quasi sempre violenta dell’altro di sé, che resta dopo le barbare distruzioni di segno opposto, dai mussulmani ai Crociati.

Sono stati sconfitti gli iconoclasti cattolici che spogliarono la chiesa senza riuscire a intaccarne il valore storico, artistico e religioso; sono stati sconfitti altresì i fondamentalisti islamici che la trasformarono in moschea violentandone la natura cristiana ma mantenendone la destinazione a luogo di culto con l’imposizione delle aggiunte sopra ricordate.

Mentre il contrappasso ha fatto sì che l’umiliante copertura con l’intonaco dei mosaici cristiani più pregiati li abbia salvati dalla distruzione cui sono stati assoggettati gli altri simboli, dando così un valore salvifico a una profanazione che, ribaltando le intenzioni,  ha consentito l'”happy end” del ritrovamento in tempi nei quali – e questa ne è stata una prova ulteriore – i valori dell’arte riescono spesso a prevalere sull’intolleranza. Almeno se a vincere non è il fondamentalismo nella sua ottusità, come quando in Afghanistan i talebani distrussero le gigantesche statue rupestri di Buddha. Nulla di più lontano da visioni estremiste e intolleranti appare, sul piano dei principi, l’islamismo in Turchia: il gran Muftì di Istanbul ha affermato che il Libro sacro dell’Islam, il Corano, riconosce il Vangelo e la Bibbia come Libri sacri del Cristianesimo e dell’Ebraismo, nel comune riferimento alle grandi figure di Mosè, Abramo, Cristo oltre a Maometto; e ha detto che questi tre Libri sacri lo accompagnano sempre nella sua giornata, come riferimento e guida costante.

Termina il ricordo della la visita a Santa Sofia, ma la rievocazione della visita a Istanbul continua. Ne parleremo prossimamente.

Info

I prossimi due articoli su Istanbul usciranno, in questo sito, il 13 e 15 marzo 2013. Per la mostra “La Via della Seta” citata all’inizio, cfr., in questo sito, i nostri tre articoli del 19, 21, 23 febbraio 2013, ciascuno con 6 immagini. 

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’ufficio “Cultura e Informazioni” della Turchia (Roma, piazza della Repubblica 55-56, tel. 06.4871190-1393, turchia@turchia.it, http://www.turchia.it/), che si ringrazia, insieme ai titolari dei diritti.  In apertura, una panoramica della zona di Sultanahmet; seguono gli esterni di Santa Irene (Hagia Irini) e di Santa Sofia (Hagia Sophia); poi due interni di Santa Sofia; in chiusura una visione panoramica al tramonto. 

Una visione panoramica al tramonto
 

Tintoretto, 3. Grandi pale d’altare, pitture sacre e votive, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Si conclude, a un anno dall’apertura,  la nostra rievocazione della visita alla grande mostra “Tintoretto” , svoltasi alle Scuderie del Quirinale  dal 25 febbraio al 10 giugno 2012,  con esposti 50 quadri, di cui 35 dell’artista i cui tratti salienti sono riassunti in tre parole: teatralità, gigantismo, arditezza. Il “clou” sono le opere su temi sacri, dipinti di dimensioni notevoli con un’impostazione teatrale negli spazi e nelle architetture, resa mediante drammaticità e realismo compositivo, scorci arditi, effetti di luce. Dopo aver tratteggiato la sua figura e averne descritto  la ritrattistica e le opere profane, ci immergiamo nel cuore della sua attività artistica, le grandi pitture sacre.

“Miracolo dello schiavo”, 1547-48

La mostra inquadrava la sua opera nella Venezia del tempo, “crocevia di genti, lingue, idee”, capitale di uno stato piccolo ma al centro di traffici di merci pregiate, sede di industrie e con un grande prestigio. In questa Venezia aveva un ruolo di spicco il suo carattere libero e ribelle, la sua arte spettacolare e insieme penetrante, innovativa rispetto allo stile tizianesco e al mero manierismo.

Il primo “colpo di teatro” lo dava, all’inizio della visita, la grande tela che impresse il più forte impulso alla sua vita artistica, il “Miracolo dello schiavo”, 1547-48, di circa 4 metri per 5,50. L’irruzione dall’alto della  figura di San Marco che salva dalla morte lo schiavo a lui devoto sottoposto al supplizio è di un realismo onomatopeico, se ne avverte quasi il rombo di tuono, la scenografia è monumentale e drammatica, la luce ne marca con i suoi guizzi i diversi momenti.

Qui inizia la nostra rassegna delle pitture sacre di Tintoretto nella ricerca concreta degli elementi caratteristici che abbiamo sottolineato nel presentare “il più terribile cervello che abbia mai avuto la pittura”. Dopo i pittori veneti si ispirò a Parmigianino e Michelangelo, Raffaello e Giulio Romano, ma con uno stile del tutto personale che lo allontanò dal Tiziano imperante e dal manierismo puro.

Prima dell’opera appena citata ne abbiamo una giovanile, La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, non meno straordinaria, e non solo perché aveva 22 anni ma per la composizione su molti piani prospettici, quasi in un imbuto spaziale dove gli imponenti primi piani laterali che fanno da quinta sono di figure secondarie mentre la figura principale, Gesù, è in un piano lontano sia pure al centro, tra colonne e pulpiti, in una scenografia fantasmagorica.

Ma fu il “Miracolo dello schiavo” a lanciarlo verso le grandi commissioni; fino ad allora aveva prodotto soprattutto dipinti ornamentali minori, di cui erano esposti in mostra due “ottagoni” pregevoli. Gli anni ’50 del 1500  lo vedono impegnato sui temi sacri, come “Sant’Agostino risana gli sciancati”, 1549-50,  e “La creazione degli animali”,1550-53: nel primo la luce sembra portare in alto il santo e il Padreterno su campi lunghi per la profondità e l’altezza, nel secondo  vi sono livelli scenici successivi con figure michelangiolesche in primo piano.

Poi nel 1553-55 due opere: “Il viaggio di sant’Orsola”, a differenza degli altri di forma alta e stretta, con la santa librata in cielo e il corteo delle vergini vestite in un opulento sfarzo orientale, disposte in file che vanno verso l’osservatore discese dalle lontane navi alla fonda, è cinema da mille e una notte  più che teatro; e “San Giorgio  uccide il drago”, anche qui effetti di luce e il primo piano della fanciulla salvata che corre verso l’osservatore, mentre il santo a cavallo in lotta con la fiera è in secondo piano in uno scenario fiabesco, una reiterazione della brillante idea compositiva che inverte la posizione dei soggetti.

“La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41

I dipinti per le Scuole Grandi, Piccole e Devozionali

Sia pure a distanza di 14 anni dall’exploit del “Miracolo dello schiavo”, nel 1562 arriva la commissione di un medico mecenate per una delle “Scuole Grandi” – che avevano funzione assistenziale e politica in termini di potere finanziario dei confratelli benestanti – quella di San Marco: i risultato è la grande tela del “Trafugamento del corpo di san Marco”, dove colpisce la straordinaria scenografia architettonica, quasi un fondale teatrale con tanti livelli prospettici e un primo piano in cui il corpo nudo del santo e chi lo sostiene per le gambe sono rischiarati dalla luce.

Ad una “Scuola Grande” era dedicata un’apposita sezione, tanto che Melaina Mazzucco chiama “l’avventura della scuola di San Rocco” un episodio singolare ma espressivo della sua personalità: quando la scuola chiese a 4 pittori – Tintoretto, Paolo Veronese, Zuccari, Salviati – un bozzetto per l’ovato del soffitto nella sala dell’Albergo, lui presentò a sorpresa il dipinto ultimato esprimendo l’intenzione di donarlo alla scuola, facendo così annullare il concorso; ebbe poi altre committenze.

Di queste, svoltesi tra il 1565 e il 1567 per una sala con il ciclo della Passione e tra il 1575 e il 1588 per altre sale, erano esposte due grandi tele, restaurate per l’occasione, di dimensioni inconsuete, alte più di 4 metri e larghe poco più di 2 metri dipinte nell’ultima fase, il 1582-83, che la Mazzucco definisce “uno dei frutti estremi, il più intimo e lirico di questa monumentale impresa” nella quale, conclude, “ha consegnato il suo capolavoro d’artista”. Sono “La Vergine Maria in meditazione” e “La Vergine Maria in lettura”,  gemelle anche come cromatismo e composizione: ambiente naturale scuro con alti alberi e prospettiva, la Vergine è una piccola figura in entrambe le tele, scolpita dalla luce come i contorni delle piante e alcuni particolari del paesaggio con un lirismo riposto e sommesso, per cui l’immersione nella natura sembra proteggere il raccoglimento.

Ma se le “Scuole Grandi” erano le più ambite per l’importanza della committenza, fu molto attivo anche con le “Scuole Piccole”: a Venezia erano cento, formate dai  membri di arti e mestieri – tintori e acquaioli, sarti e tessitori – che mettevano a concorso la  pala d’altare della loro chiesa. Tra i suoi dipinti per loro la Benedizione dell’agnello pasquale”  e la “Comunione di san Pietro”.

Anche le “Scuole devozionali del Santissimo Sacramento” commissionavano dipinti, in particolare “Ultime cene” per far rivivere il momento eucaristico. Tintoretto fece una diecina di Cenacoli, tra il 1547 e il 1592, dei quali ne erano esposti due di grandi dimensioni, oltre due metri di altezza per 4-5 di larghezza, del periodo intermedio, a distanza di circa dieci anni.  L’“Ultima Cena”  per la chiesa di san Trovaso è del 1561-62, quella per la chiesa di san Polo è del 1574-75.  Nel primo la mensa a forma di losanga è al centro della sacra rappresentazione dello sconcerto degli apostoli espresso nel dinamismo delle posizioni dei loro corpi, che però restano ancorati ai posti intorno alla tavola  con al centro Cristo la cui figura è incorniciata dalla luce e da una fuga di colonne, il solo elemento composto in un ambiente in cui anche gli oggetti sono investiti dalla concitazione. Il secondo dipinto, al dinamismo delle posizioni sostituisce il convulso protendersi delle figure, con il Cristo tutt’altro che composto: apre le braccia prefigurando la croce mentre gli altri si affollano in piedi in una scena altamente drammatica dove ci sono anche la carità al povero, il paesaggio e l’architettura; è sconvolgente la raffigurazione in un cromatismo intenso con sciabolate di luce.

Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582

Le pitture votive e il culmine spirituale: il Paradiso e Cristo nel sepolcro

Continuò a dipingere per la Scuole Piccole e Devozionali con un linguaggio semplice e un forte realismo per avvicinarsi alla sensibilità della gente comune anche dopo aver avuto le importanti committenze della  Scuola Grande di San Rocco ed essere divenuto pittore della Repubblica veneta, ritrattista del Doge, impegnato nei grandi dipinti con eventi storici e opere votive per Palazzo Ducale, sede del Doge e del Governo e per i palazzi dei Ministeri, in particolare il Palazzo dei Camerlenghi, nei quali venivano inseriti anche personaggi del momento.

Ci sono i “camerlenghi”, cioè tesorieri,  raffigurati mentre venerano la Madonna con Bambino e dei santi, nella “Madonna dei Tesorieri”, 1566-67, un esempio di pittura votiva e insieme celebrativa del potere. I tre tesorieri sono visti come una reincarnazione dei Magi, recano un sacco gonfio, forse di monete d’oro; diversamente dalla natività la Madonna ha un Bambino cresciuto in braccio, a fianco san Sebastiano trafitto, san Teodoro in armatura e san Marco in tunica rosa, come nel “Miracolo dello schiavo”; la luce dipinge i contorni e rischiara l’ambiente e lo sfondo in modo suggestivo.

L’opera a cui teneva tanto, per la Sala del Maggior Consiglio, era “L’incoronazione della Vergine o Paradiso”:  al concorso del 1582 gli era stato preferito Paolo Veronese, che però morì nel 1588. Fu richiamato, ma per la tarda età il grande dipinto venne consegnato dal figlio Domenico, con notevoli differenze rispetto all’idea originaria, avendo eliminato ciò che non si adattava più a un ambiente modificato e ciò che non era stato accettato. In mostra era esposto non questo dipinto, ma quello del 1564, di cui nella presentazione dell’artista abbiamo rievocato la storia, con i ritocchi e le modifiche del 1582; non è un bozzetto, misura m 1,70 di altezza per 3,60 di larghezza: Si resta senza fiato dinanzi a una composizione e una forma espressiva diverse da tutte le altre sue e di qualunque artista. Non ci sono primi e secondi piani, l’effetto prospettico è superato da una dimensione arcana con le figure immerse in un moto avvolgente che sembra elevarle da un livello all’altro nei cerchi ascendenti di un empireo dantesco fino alla dissolvenza verso un qualcosa che risucchia in alto, sempre più in alto. L’artista riesce a evocare la magica fascinazione del  Paradiso.

Termina il “flash back” sugli anni ruggenti del Tintoretto e le sue opere maggiori. Vi era un ultimo passaggio a conclusione della mostra. Nella sezione “il commiato”  la “Deposizione di Cristo nel sepolcro”, un “compianto” struggente: siamo nel 1594, l’anno della morte, è una sacra rappresentazione in tre atti, momenti collegati da due diagonali che dal corpo di Cristo in primo piano rimandano alla Madonna con le pie donne in secondo piano, entrambi accomunati dalle braccia aperte, con le croci del Golgota nello sfondo lontano; c’è la figura di Giuseppe d’Arimatea in cui dei critici hanno visto l’autoritratto del Tintoretto, identificazione contestata da altri ma la cui ipotesi, almeno sotto il profilo simbolico, ci fa considerare il dipinto un vero testamento pittorico.

E’ proprio il commiato di un grande artista poliedrico, fortemente ancorato alla pittura religiosa nella quale ci ha dato delle “sacre rappresentazioni” nel significato stesso del termine. Per questo il titolo che dà Vittorio Sgarbi al proprio commento di presentazione della mostra da lui curata, “Tintoretto regista”, rende bene il senso della sua  opera pittorica di impostazione teatrale.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti,  in questo sito,  il 25 e 28 febbraio u.s. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Miracolo dello schiavo”, 1547-48; seguono  “La disputa di Gesù con i dottori nel tempio di Gerusalemme”, 1540-41, e “Incoronazione della Vergine o Paradiso”, 1564 con modifiche 1582; in chiusura “Autoritratto”, 1588-89.

 “Autoritratto”, 1588-8

Marinetti, disegni e quadri futuristi, alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Inaugurazione  in grande stile della mostra “Marinetti chez Marinetti”, aperta alla Galleria Russo a Roma dal 15 febbraio al 15 marzo 2013, con esposte oltre 40 opere della collezione privata di Filippo Tommaso Marinetti, il padre del Futurismo, e di altre collezioni: dipinti di Giacomo Balla e Gerardo Dottori,  Gino Galli e Tullio Crali, Antonio Marasco  e Renato Di Bosso, Luigi Russolo e Benedetta,  Mino Delle Site e Rougena Zàtkovà; disegni, anche di Ardengo Soffici, e schizzi, fotografie e manifesti, che fanno rivivere una stagione creativa per la società italiana. Molte delle opere sono eccezionalmente in vendita, un’occasione da non perdere. La mostra è stata curata da Maurizio Calvesi e così il Catalogo di Palombi Editore, con un testo di Beatrice Buscaroli.

Gerardo Dottori, “La famiglia Marinetti”, 1930-32

Va ricordato che il futurismo, oltre che movimento artistico di rottura fu un fenomeno dirompente nei vari aspetti della vita con una carica innovativa e un dinamismo senza sosta e senza freni. Lo ha rievocato Maurizio Calvesi, in una dotta esposizione nel vicinissimo “Centro Eventi”, basata sulla sua competenza e su testimonianze dirette: lo vide l’ultima volta in una “serata futurista” del 1941. Ha parlato anche Beatrice Buscaroli, mentre l’artista Roberto Floreani ha letto testi futuristi. Filmati d’epoca molto interessanti hanno animato l’intera serata, sia riempiendo le fasi di attesa con il sonoro in funzione, sia come sfondo visivo quanto mai stimolante nel corso degli interventi.

Ha concluso la manifestazione, presentato da Fabrizio Russo per l’occasione maestro di cerimonie, Nicola Zingaretti il cui intervento non è stato rituale: da candidato alla presidenza della Regione Lazio ha esposto il suo programma imperniato sulla valorizzazione dei beni culturali come motore di un nuovo modello di sviluppo, essendosi esaurito quello basato su settori industriali in cui l’Italia ha perduto competitività;  mentre nessuno può toglierci la preminenza nel campo nel quale il nostro paese detiene la maggiore concentrazione al mondo di risorse artistiche e culturali, storiche e ambientali. Mancavano soltanto dieci giorni alle votazioni, l’elezione di Zingaretti ha dato poi al programma esposto nella serata futurista il valore di un impegno da rispettare nel prossimo futuro

Marinetti, e l’equazione futurista tra arte e vita

L’allestimento della mostra è tale da rivelare a poco a poco le espressioni del Futurismo della collezione Marinetti e dalla altre collezioni che hanno prestato le loro opere. Dopo i quadri nelle prime due stanze e nelle vetrine ci  sono i disegni e i documenti soprattutto nell’ultima stanza.

Cominciamo da questi per entrare gradualmente nella temperie artistica del Futurismo che rivoluzionò un’epoca  giustamente celebrata dopo una lunga fase in cui, se non di rimozione per un distorto ostracismo dovuto a malintesi di marca politica, si è trattato di sottovalutazione; come per D’Annunzio, che è stato al fine “sdoganato” dopo un lungo oblio. Le celebrazioni del centenario nel 2011 con mostre e manifestazioni a tutto campo hanno rappresentato un risarcimento dovuto, dopo il periodo di oscuramento,  a un movimento squisitamente italiano, dove i fermenti e le avanguardie soprattutto nella pittura erano state di marca straniera, a parte la metafisica di De Chirico.

Qualche accenno alla figura di Marinetti va premesso, preparandoci ad entrare nella sua Collezione privata, quindi nelle sue scelte,  espressione di un personalità eccentrica e di un animo volitivo. Il manifesto del Futurismo da lui promosso, lanciava un programma rivoluzionario che chiudeva con il passato, o meglio con ciò che era passatista, per aprirsi al futuro, mediante la velocità e il dinamismo, la distruzione creatrice e l’innovazione radicale. L’inizio fu la fondazione da parte sua, che ne era anche il finanziatore, nel 1905, della rivista “Poesia”, che fece conoscere  autori simbolisti francesi e belgi, e nel 1911 divenne l’organo ufficiale del movimento poetico futurista.

C’era stato il Manifesto del Futurismo pubblicato a Parigi su “le Figaro” il 20 febbraio 1909:  poi una valanga, con i  Manifesti della pittura  e del cinema, della letteratura e dell’architettura, della musica e del teatro.  Il Futurismo permeò anche gli altri aspetti,  come la cucina e lo stile di vita, la moda e la pubblicità, c’erano le Serate Futuriste, in cui si metteva in pratica il nuovo verbo in esibizioni che si trasformavano in happening con il pubblico scatenato.

 A queste serate con Marinetti partecipavano, oltre al poeta Palazzeschi, i pittori Boccioni, Carrà e Russolo, di quest’ultimo vedremo anche delle opere in mostra. L’equazione tra arte e vita portava a mettere in pratica i dettami del Futurismo non solo nelle espressioni artistiche ma anche nelle azioni pratiche, con totale sprezzo del pericolo.  Così Marinetti accorre in Libia  nella guerra italo-turca come corrispondente di guerra, siamo nel 1911, due anni dopo il Manifesto. Segue il proclama delle “Parole in libertà”,  la distruzione di sintassi e punteggiatura che portò Palazzeschi a lasciare il movimento insieme a  Govoni. Ma arriva il sostegno della rivista Lacerba di Papini e Soffici.

Luigi Russolo, “Ritratto di fanciulla”, 1921

Il primo conflitto mondiale non poteva non vedere interventista e volontario chi aveva definito la guerra “la sola igiene del mondo”: ferito, torna al fronte, a Caporetto e poi a Vittorio Veneto tocca l’abisso della disfatta e la vetta del trionfo, ci sono delle descrizioni intense dei compagni in prima linea con lui; entra anche nell’avventura fiumana con D’Annunzio  contro la “vittoria mutilata”.

Trasforma, nel 1919, il movimento futurista in partito politico; è tra i “sansepolcristi” che fondarono il fascismo nel quale confluì il partito futurista; ma già nel 1920 se ne distacca, reagendo a quella che riteneva una svolta reazionaria e sostenendo la necessità di “svaticanare l’Italia”  e abolire la monarchia. Si rifugia nella letteratura, e pensa all’evoluzione multisensoriale del Futurismo nel Tattilismo con la sua compagna Benedetta Cappa  di cui troveremo testimonianze in mostra.

Il fascismo va al potere e lo chiama, lancia il Manifesto degli intellettuali fascisti, diventa ambasciatore in Sudamerica e Spagna, nel 1929 entra nella nuova prestigiosa Accademia d’Italia. Trasforma il futurismo in una scuola poetica di cui è il massimo esponente , presenta nel 1930 il Manifesto della fotografia futurista.

L’equazione arte-vita, come coerenza di comportamenti rispetto alle enunciazioni  artistiche, è l’imperativo assoluto: la visione della guerra considerata “la sola igiene del mondo” lo porta  come volontario nella spedizione in Etiopia del 1936 e nella disastrosa spedizione in Russia con l’Armir, a ben 66 anni.  Sopravvive, anche se malato; la passione politica non è venuta meno, aderisce alla RSI  che mette in atto i suoi ideali repubblicani; nel 1938 aveva criticato il regime sulla rivista futurista Artecrazia”  con articoli avversi alle leggi razziali e all’antisemitismo. Muore nel 1944.

I disegni conservati nella collezione di Marinetti

Sono soltanto accenni, scampoli colti in un’esistenza movimentata e complessa, il libro di Giordano Bruno Guerri sulla sua vita ne dà un quadro affascinante; pensiamo a questo nello scorrere i preziosi disegni e documenti esposti nelle pareti in gruppi omogenei di otto in bell’evidenza.

Intanto ci fanno conoscere più da vicino il personaggio Marinetti del quale visitiamo la Collezione. Ci sono due fotografie che lo ritraggono con una persona e con un quadro futurista. In una foto è in piedi, in abito nero con papillon, con a lato il quadro della Zàtkovà. “Sole Marinetti“, nell’altra e seduto nel suo studio con alle spalle il grande quadro di Dottori, “La famiglia Marinetti”, il “clou” della mostra, a lato il bozzetto in gesso di Antonio Carminati. alto 50 cm,  che lo raffigura giovane ed elegante con soprabito e cappello, mani in tasca quasi per sfida, è datato tra il 1904 e il 1908, l’anno prima del Manifesto futurista. Non fu mai fuso in bronzo, l’amministrazione capitolina intenderebbe realizzare la statua per collocarla nei giardini di Castel Sant’Angelo dinanzi a Piazza Adriana dove abitava. E’ straordinario che sia il bozzetto che i due quadri siano esposti in mostra-

Vediamo poi 4 schizzi a matita che lo raffigurano, 3 nel volto, uno nella figura intera, con firme e sigle di autori sconosciuti, due sono posteriori al 1920. E’ invece conosciuto l’autore di uno schizzo che lo ritrae, sempre a matita, e ne coglie lo spirito arguto: si tratta di Leo Longanesi,  è del 1922 allorché iniziò a collaborare con la rivista su cui scriveva anche Marinetti. Un altro schizzo a inchiostro colorato, di Francesco Cangiullo,  è  intitolato “Marinetti ferito”, ritratto “parolibero”, su “Italia Futurista” del 1917, il viso è creato con una ardita composizione di lettere e numeri.

Di particolare interesse l’acquarello di Nikolaj Ivanovic Kulbin che ne evoca il viso con un contorno squadrato, dal titolo “F. T. Marinetti. Etude d’interference”, lo ritrae al volo mentre sta declamando;  Kulbin lo aveva invitato nel 1914 in Russia, dove soggiornò nel cabaret artistico “Cane randagio”, ritrovo dell’avanguardia russa da lui fondato. C’è anche un “Autoritratto a matita”, di Kulbin, sul cui retro è applicato nientemeno che il disegno a china di Giacomo Balla, “Sfera della morte . Costellazioni del genio”: un cerchio in cui sono delineate configurazioni celesti che ricordano i cristalli di neve, l’universo sembra aprirsi all’ “infinito” con una profonda frattura.

Giacomo Balla, “Compenetrazione (Ritratto di Benedetta)”, 1951

L'”Autoritratto di Kulbin” inizia la serie dei ritratti degli amici. Tra questi la foto di Palazzeschi  con dedicadue schizzi del contorno del viso, autore Ardengo Soffici, del 1914,  l’anno dopo l’uscita della rivista “Lacerba”, incollati su una pagina dell’ “Avanti” del 2011. E la foto di Paolo Buzzi a lui dedicata, più un ritratto a china del poeta con dense macchie di inchiostro.

Non è un semplice disegno, ma un viso trasfigurato dall’espressionismo deformante, il “Ritratto di Giosuè Carducci” di Romolo Romani, pubblicato sul recto della copertina di “Poesia” nel numero del 2007 celebrativo della morte del poeta, considerato da Marinetti tra i numi tutelari del Risorgimento italiano.

La galleria grafica comprende anche le “linee simpatiche di un viso”, con larghe pennellate a inchiostro nero, di Gino Galli, 1919, un artista che collaborava con “Italia Futurista” e “Roma Futurista”; ritroviamo Cangiullo, una veduta a china del Golfo di Napoli è dell’artista napoletanoche aderì al Futurismo e collaborò a varie testate tra cui “Lacerba”; reca la cosiddetta “firma panoramica” e una scritta di saluto nella parte superiore.

Di un altro collaboratore di “Italia Futurista” è il disegno a matita “Movimento e rumore di una stazione ferroviaria”:  Achille Lega, che nella Grande Esposizione Nazionale Futurista del 1919 a Milano espose opere sui tram nelle strade e sugli aeroplani. I temi del futurismo sono visibili anche nei 2 disegni in stile cubista di Ugo Giannattasio, “Baracche- tende- fumo”  e “Volumi in velocità”, intorno al 1920, quando l’artista pubblicò il disegno “Autovelocità + strada”.

I 4 disegni esposti di Lucio Venna segnano una storia personale e artistica: itre a inchiostro su carta ocra, prima del 1920, “Piani di una testa”, “Barche” e “Ricerche di movimento”, hanno le forme scomposte in modo geometrico; mentre nell’acquerello “Figure”, dopo il 1920, si manifesta l’abbandono del futurismo e un “nuovo ritorno all’ordine”, è una composizione austera con forme rigide e severe. Anche su carta ocra i 3 disegni a matita  di Giorgio  Forlai, due con la scritta “Il discobolo” e “L’ufficiale e la cocotte”, il terzo “Senza Titolo”, i temi e lo stile  sono futuristi. Come “Figura che corre”, una suggestiva immagine di dinamismo in inchiostro e acquerello; e “Bozzetto per Teatro circolare“, una delle visioni di architettura futurista di Virgilio Marchi.

I bozzetti di 3 copertine completano la galleria grafica: il primo è di Enrico Sacchetti per il poema in prosa “L’esilio” di Paolo Buzzi, che abbiamo già incontrato; gli altri due sono destinati alla raccolta di poesie “Le ranocchie turchine” di Enrico Cavacchioli, per le edizioni futuriste di “Poesia”,  la rivista di Marinetti di cui abbiamo parlato  nei brevi tratti sulla sua vita.

E’ esposto qualche lavoro di Marinetti?  Viene spontaneo chiederlo, e la risposta non si fa attendere. Ecco il riquadro alla parete con alcune sue grafiche molto significative che ne fanno sentire la presenza: il “Bombardamento aereo”, 1015-16, con le “parole in libertà”, o meglio le lettere che diventano bombe e aerei, così in “Donna con cane”, e “Difesa montana”, linee e file di parole su più livelli; mentre “Numeri” e “Parole libere” sono semplici annotazioni di cifre e linee, fino alle note musicali, che diventano arte e storia come primarie espressioni futuriste. Mentre il disegno  a matita “Dimostrazione interventista”, in parole libere e le scritte “Viva Marinetti”  e il cubitale “Marinetti” è firmato “Acciaio”, un suo pseudonimo, ma sembra solo come omaggio a lui.

Una sua lettera autografa in francese, con la richiesta di recensire un numero di “Poesia”  sulla rivista parigina “Revue des Revues du Mercure” del 1905,  completa l’immersione in un’epoca inimitabile, i cui  impulsi creativi sono espressi nel Manifesti del Futurismo, esposti in originale.

Benedetta, “Luci + rumori di treno notturno”, 1924

I  quadri di pittori futuristi  

C’è una vera e propria escalation nei quadri esposti, nei temi e negli autori. Iniziamo con i supporti inconsueti. Le  tarsie in panno di  “Figura maschile” e “Figura femminile”, originali e spiritose, ne è autore un grande del Futurismo, Fortunato Depero; poi l’impressione su carta da matrice di argilla  di Arturo Martini con le forme fluttuanti nello spazio monocromatiche di “Sogno”, 1914, e la tecnica mista su carta di Mario Mirko Vucetich,  una fitta composizione dal cromatismo acceso di “Macchinisti in velocità”, 1919.

Ed ecco finalmente gli olii su tela o tavola, i dipinti che rappresentano il “clou” della mostra  dal punto di vista spettacolare, anche se grande valore hanno i disegni e l’altro materiale fin qui illustrato per il loro valore documentario legato alla figura di Marinetti. Li ricolleghiamo idealmente a quelli esposti nella grande mostra da noi vista a Roma al Palazzo Esposizioni, nel centenario del Manifesto, relativa soprattutto alla prima fase del Futurismo;  e all’altra, piccola ma significativa esposizione, sull’aerofuturismo, visitata nello stesso anno a Giulianova, sul litorale abruzzese.

In stile cubista ma aderente al soggetto in un acceso cromatismo, è “Strade di paese di sera”, 1917, di Antonio Marasco,  collaboratore di “Lacerba” e compagno di Marinetti in Russia  e in Germania. Mentre “Golfo della Spezia”, 1933, di Renato Di Bosso, fondatore del Gruppo Futurista a Verona, è una composizione quasi onirica su più piani,tra il celeste e il verde, con le qualità attribuitegli da Marinetti: “Eccelle nell’organizzare simultaneità di concreto-astratto, veduto-sognato, lontano-vicino, con un’affascinante varietà di trasparenze, compenetrazioni evanescenti e quarti di profilo”. 

I temi futuristi irrompono in “II Squadra Atlantica SV Chicago”, 1933, di Alfredo G. Ambrosi, sulla trasvolata organizzata da Italo Balbo nello stesso anno:  i grattacieli visti dall’alto divaricati con gli aerei  in dissolvenza sono una visione veramente emozionante; come lo è quella, sempre dall’alto, in “Gran volta rovesciata (Giro della morte”, 1938, di Tullio Crali, anche qui la prospettiva è deformata dalla visione aerea, edifici e tetti sembrano risucchiati dalla velocità.  E’ esposto anche il piccolo dipinto “Forze nell’infinito”, 1932, dello stesso autore, dedicato a Marinetti, chiamato “genio-faro dell’arte moderna”, il quale rispose con la foto dedicata al suo “impegno futurista”;  è una composizione geometrica di forme che convergono in una freccia piegata nella punta, ad esprimere visivamente le forze contrapposte tra velocità del mezzo e resistenza dell’aria.

La velocità è una manifestazione del movimento, e questo abbinato alla forza trova un suo simbolo futurista nel cavallo, al quale si ispira il quadro “Trotto galoppo”,1916, di Gino Galli: un insieme di linee e forme arrotondate e avvolgenti, meno riconoscibile del “Dinamismo meccanico-animale” che l’autore dipinse nello stesso anno.  Sempre di Galli vediamo “La danza della mitragliatrice”, post 1917, 5 disegni a matita con striature rosse e celesti, una sequenza con l’eroe alla conquista della donna-mitragliatrice che lo abbatte in una danza di immagini delicate nonostante il soggetto.

Di Luigi Russolo l’intenso “Ritratto di fanciulla”, 1921, dopo l’esperienza futurista conclusa nel 1913, in uno stile sobrio ed essenziale, dai contorni netti e cromatismo brillante con ombre e chiaroscuri. Esposte anche le minuscole acqueforti “Donna con cappello” e “Fanciulla”, 1906, a quest’ultimo, che raffigura la sorella Tina, il dipinto ora citato, successivo di 15anni, si ispira chiaramente. Mentre l’incisione “Trionfo della morte (I vinti)“, 1908-09, è un’opera simbolista, con dei raggi che piovono su due figure a terra, in un’atmosfera spiritualista ma da inferno dantesco.

Mino Delle Site, “Futurismo Fascismo”, 1935

Entriamo nella cerchia intima di Marinetti con il dipinto di Giacomo Balla, “Compenetrazione (Ritratto di Benedetta)”, 1951.  Raffigura Benedetta Cappa Marinetti, che era stata sua allieva, giovane ed elegante quasi sovrapposta al paesaggio e al cielo con nuvole in dissolvenza, veramente suggestiva. Mentre di Benedetta, che usava il solo nome, abbiamo l’ olio e collage su tela “Luci + rumori di treno notturno”, 1924, con l’uso di vari materiali in un’immagine quasi onomatopeica. Cinque anni dopo, nel 1929, lei promuoverà, con altri artisti, il Manifesto Futurista sull’Aeropittura.  

Il più grande dei dipinti esposti, circa m 1,80 per 1,40, è di Gerardo Dottori e raffigura “La famiglia Marinetti”, 1932: è l’unico ritratto con la moglie Benedetta Cappa, e le figlie Vittoria, Ala e Luce, quest’ultima la terzogenita neonata aggiunta alla precedente versione del 1930 con altre modifiche nel paesaggio e nelle immagini di progresso sullo sfondo. Sono suggestivi i tre piani con altrettanti livelli cromatici, dalla “placenta” celeste di Luce alla luminosità di Vittoria e Ala in piedi, alla posa statuaria dei genitori Filippo Tommaso  e Benedetta che dominano nella penombra.

Dopo essere penetrati addirittura all’interno della sua famiglia nel momento più intimo, la nascita della terzogenita, torniamo alla sua dimensione esterna, veramente globale. Il dipinto “Futurismo Fascismo”, 1935, di Mino Delle Site, iscrive nella sagoma del suo volto due figure imponenti, forse espressive dei due movimenti, su uno sfondo avveniristico di navi, edifici e aerei in volo, tra modulazioni di azzurro. Mentre “Sole Marinetti”, 1920,  di Rougena Zàtkovà, ne celebra l’apoteosi associandone l’immagine a quella solare, simbolo di vita ed energia: il rosso e il giallo dominano nel grande viso che sprigiona vitalità tra squarci dell’azzurro del cielo dal quale si irraggia.

Ci sembra l’immagine migliore per concludere il nostro viaggio  attraverso la mostra “Marinetti chez Marinetti”, che ci ha fatto attraversare il mondo del grande personaggio con quanto aveva raccolto e conservato nella sua dimensione privata. E ci ha riportato a una dimensione pubblica di tale ampiezza da ricomprendere le immagini del progresso, poi addirittura la visione solare che esprime il calore e la forza, la vitalità e la costanza della sua azione creatrice nell’arte e nella vita.

Info

Galleria Russo, Via Alibert 20, Roma, pressi Piazza di Spagna. Lunedì ore 16,30-19,30, da martedì a sabato ore 10,00-19,30, domenica chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6789949, tel e fax 06.69920692, info@galleriarusso.com; http://www.galleriarusso.com/. Catalogo: Maurizio Calvesi, “Marinetti chez Marinetti”, Palombi Editore,  Roma, gennaio 2013, pp.120, formato 22 x 22.  Per le mostre sul Futurismo citate si rinvia ai nostri servizi su “cultura.abruzzoworld.com”: “La mostra del futurismo a Roma”, 30 aprile 2009, e “A Giulianova un ferragosto futurista”, 1° settembre 2009.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla Galleria Russo  all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, Gerardo Dottori, “La famiglia Marinetti”; 1930-32, seguono Luigi Russolo, “Ritratto di fanciulla”, 1921,e Giacomo Balla, “Compenetrazione (Ritratto di Benedetta)”, 1951,poi  Benedetta, “Luci + rumori di treno notturno”, 1924, e Mino Delle Site, “Futurismo Fascismo”, 1935;in chiusura  Rougena Zàatkovà. “Sole Marinetti“, 1920.

  Rougena Zàatkovà. “Sole Marinetti“, 1920

Tintoretto, 2. Le opere profane e i ritratti, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

A un anno dall’apertura della mostra su Tintoretto, svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, rievochiamo la visita iniziando dalle opere meno appariscenti perché di dimensioni più contenute, e meno celebrate ma molto significative per segnarne la caratura di artista innovativo in due settori particolari: le  opere profane e i ritratti. Temi su cui i pittori, peraltro, si sono cimentati,  “a latere” dell’impegno per lo più prevalente nelle committenze ecclesiastiche per le grandi pitture sacre, che in Tintoretto hanno l’aspetto di scenografie teatrali segnate dalla luce. La normale visita alla mostra iniziava dalla grande esposizione delle opere sacre nell’intero primo piano dello spazio espositivo, le cui sale erano introdotte dai commenti della scrittrice Melania Mazzucco, che nei suoi testi ha ricostruito l’ambiente e l’opera del Tintoretto. Un fondale rosso per scenografia, le grandi tele della pittura sacra riempivano di per se stesse gli ambienti. Ma il resoconto della nostra visita vogliamo iniziarlo dalla parte meno spettacolare, che si trovava al piano superiore, quella dei ritratti e delle opere profane, minori come dimensioni e notorietà.

“Susanna e i vecchioni”, 1555-56

Le ragioni della disposizione in mostra risiedono nelle caratteristiche degli spazi espositivi ai due livelli, perché la maggiore altezza del primo piano si presta alle grandi pale d’altare, e nel voler colpire subito con le opere di più forte impatto. Nella nostra scelta, le opere sacre sono il “clou” di un artista che predilige composizioni teatrali e cinematografiche, e le “star” a teatro entrano dopo i comprimari, va preparato il loro ingresso con l’ansia dell’attesa: qui le “star” sono le grandi tele.

Ma chiamare comprimari i ritratti e le opere profane  non va considerato riduttivo; anche in senso cronologico i vari generi coesistono: Tintoretto dipinse ritratti, opere  allegoriche e mitologiche per tutta la vita insieme alle pur prevalenti opere sacre. Stilisticamente in lui e negli altri artisti c’era comunicazione tra i diversi generi, le soluzioni stilistiche venivano trasferite dall’uno all’altro.

I ritratti

I ritratti a Venezia erano diffusi nelle categorie sociali elevate ma non solo nobiliari: i patrizi volevano celebrare i fasti familiari e le classi agiate il loro ruolo nella città pur se escluse dalla politica; i commercianti ne facevano un segno distintivo della crescita sociale e i forestieri della loro stessa identità. Tintoretto attribuiva molta importanza ai ritratti perché lo mettevano in contatto con personaggi influenti che gli potevano aprire la strada alle grandi committenze.

Nella fase iniziale cercò di differenziarsi, i ritratti dei primi anni ’40  non comprendevano  le mani per concentrare l’attenzione sul volto: così nell’“Autoritratto”, 1546-47, si vede solo il suo viso  rischiarato dalla luce, il resto è oscuro, a parte una sottile striscia bianca nel colletto.

Presto capì che nel presentarsi sul mercato della ritrattistica doveva fare tesoro dell’opera del grande Tiziano che lo dominava: dagli anni ’50 i suoi ritratti hanno anche le mani pur se concentra sempre l’attenzione sul volto servendosi della luce e non del colore, molto sobrio e scuro, in assenza dello spazio. Esclude elementi diversivi nell’abbigliamento, indistinguibile, e nello sfondo oscuro nel quale pone il personaggio a mezzo busto di tre quarti o di profilo. Di questo tipo sono “Ritratto di gentiluomo”, 1548-50  e “Ritratto di gentiluomo con la catena d’oro”, 1555-56, due posizioni diverse con le stesse tinte scure nel vestito e nello sfondo, a parte la striscia più chiara del colletto e dell’orlo dell’abito nel primo o della catena d’oro nel secondo. Invece nel “Ritratto di gentildonna”, 1550,  l’abbigliamento è ricercato e impreziosito da ornamenti, pur nella consueta sobrietà e oscurità cromatica, mentre la posizione frontale esprime determinazione.

 “Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80 

A parte questa eccezione – pochi sono i ritratti femminili pervenutici, ma tutti di grande intensità –  anche negli anni ’60 del XVI secolo prosegue nell’evidenziare i volti con la luce che li colpisce, e anche le mani, per indagarne carattere e sentimenti interiori, mentre tutto il resto è in ombra: il corpo è tutt’uno con lo sfondo nero in “Ritratto d’uomo con la barba bianca”, 1562-64 e “Ritratto di Alvise Cornaro”, 1562-65; mentre nel precedente “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561, per caratterizzare il  collezionista introduce in alto la base dei capitelli, in basso la testa di una statua su cui appoggia la mano sinistra. Anche nel “Ritratto di Jacopo Sansovino”, 1566, per caratterizzarlo gli fa tenere un compasso nella mano, appena percepibile, l’espressione del volto scolpita dalla luce è particolarmente intensa, viene ritenuto un capolavoro della ritrattistica.

Nel “Ritratto di giovane uomo”, 1565, la figura è pressoché intera, l’abito non solo è distinguibile, ma prevale sul viso, pur fermo e deciso. L’attenzione all’abito è ancora maggiore nei ritratti successivi degli anni ’70: lo stile è cambiato, non più l’oscurità consueta da cui emerge solo il volto con una mano, ma la figura in luce con ricco abbigliamento ed elementi di sfondo. Così nei due quadri intitolati entrambi “Ritratto di procuratore di San Marco”:  nel primo, 1570,  una figura dal viso in piena luce con un lussuoso abito di velluto, nel secondo, 1573-75, l’abito diventa dominante con il ricco tendaggio, la luce valorizza i segni della carica più che l’espressione del volto.

Fino al “Ritratto di Sebastiano Venier con un paggio”, 1577-78, dove  la mutazione nella sua  ritrattistica, morto Tiziano, raggiunge il culmine: è una composizione con le due figure  in piena luce, molto ricca sia nel mantello e nella corazza, sia nella scena sullo sfondo, la battaglia navale di cui il Venier fu protagonista, aiutato dall’arcangelo Michele con la spada e da Cristo dal cielo.

Con l'”Autoritratto” del 1588-89 c’è un ritorno alle origini, agli anni ’40: si vede solo il volto, le mani di nuovo scomparse, il vestito torna ad essere tutt’uno con lo sfondo nero, il volto è cascante, le palpebre appese, l’espressione stanca e sofferta, lo sguardo depresso  ben diverso da quello volitivo dell’età giovanile e non solo per ragioni anagrafiche, bensì per motivi psicologici.

Danae”, 1577-80

Le opere profane e  la bellezza femminile

Dopo la ritrattistica abbiamo trovato il “Tintoretto profano” nelle opere allegoriche e mitologiche, che non sono molto frequenti per lui almeno in forma di dipinti. Su questi temi fu più presente negli affreschi, perchè la sua prontezza nel dipingere lo rendeva molto adatto alle grandi superfici; inoltre la sua abilità negli scorci aderiva all’esigenza di procedere alle pitture murali in soffitti dalle speciali conformazioni e il dinamismo della sua pittura ben si prestava alla visione dal basso.

A parte questo, la sua scarsa propensione ai dipinti mitologici e allegorici derivava dalla lontananza dalla stile classicista, ritenuto più adatto a questo tipo di contenuti. All’inizio aderì alla tradizione locale e si avvicinò a Giulio Romano e Schiavone per l’approccio alla tematica classica: poi se ne allontanò per un approccio parodistico e ironico che banalizzava i miti classici  riducendoli ad episodi giocosi, in linea con la  tendenza dei “poligrafi” dell’epoca.

Ci fu un’interruzione di due decenni prima che tornasse ai temi mitologici dopo il 1576 per la morte di Tiziano che lasciava un grande spazio a lui e a Paolo Veronese, divenuti veri e propri  sostituti del Maestro scomparso in questo tipo di committenze di privati facoltosi, aristocratici, prelati e mercanti; perciò, come nei ritratti, se ne doveva seguire la linea stilistica.

Tintoretto, peraltro,  per la sua indipendenza, cercò temi diversi da quelli congeniali al grande Tiziano, in modo da non esserne condizionato, anche se nel colore ci fu un indubbio avvicinamento. Questo non va necessariamente riferito a periodi diversi, ma piuttosto  si deve parlare di una varietà di approcci anche in relazione alle diversità di committenze e di destinazioni delle opere profane.

La mostra presentava gli ottagoni del 1541-42, “Deucalione e Pirra” e  “Apollo e Dafne”,  parte di una serie di 14 tavole dipinte per il soffitto di Palazzo Pisani a Venezia: la conformazione delle figure viste dal retro è particolare, sembrano deformate dalle torsioni che danno loro un  dinamismo accentuato dall’angolo di visuale dal basso al quale erano destinate.

Quello che interessa sottolineare a questo punto è la sua visione della bellezza femminile – così si intitolava l’apposita sezione della mostra – evidente anche in “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1552-55, dove la donna tenta il santo in un nudo molto eloquente. I nudi dei quadri mitologici e allegorici venivano richiesti per allietare le stanze private dei committenti, sono accarezzati dalla luce, la figura morbida è sempre al centro della scena, carica di sensualità e di erotismo.

Un’opera molto significativa in questo senso è “Susanna e i vecchioni“, 1555, tema classico per i pittori dell’epoca, che lui declina dando una posizione dominante al corpo nudo di Susanna, accarezzato dalla luce, una vera corazza di carne che sembra proteggerla. Anche in “Danae”, di 25 anni dopo, il corpo nudo della donna concupita da Giove in forma di pioggia d’oro è al centro della scena, in una composizione rivolta allegoricamente anche alle cortigiane veneziane.

Tornando al 1555, in “Vulcano, Venere e Marte” la sensualità del corpo abbandonato di Venere  prevale sulla stessa bellezza; mentre sul dramma dell’irruzione di Vulcano che scopre il tradimento prevalgono elementi giocosi come la testa di Marte che spunta da sotto il letto, il cagnolino e  Cupido che dorme beato, una situazione da “cielo, mio marito!” in una lussuosa stanza veneziana. . In “Venere, Vulcano e Cupido“, 1560, cinque anni dopo, gli stessi nell’intimità familiare, lei è nuda, un ricco tendaggio e un paesaggio invece della misera grotta in una sorta di natività profana.

Con questa attenzione alla bellezza muliebre ci piace concludere il viaggio nel Tintoretto profano, prima di passare alle opere sacre dove alla bellezza del corpo si sostituisce quella dello spirito nelle immagini cariche di realismo ma insieme di un’elevata spiritualità con al culmine lo straordinario dipinto dalla doppia vita artistica “Incoronazione della Vergine o Paradiso”. Da qui, in senso cinematografico, parte il nostro “flash back” che ci riporta al suo massimo fulgore, alle pale e telere religiose. Ne parleremo presto, il “trailer” del prossimo “film” è nella presentazione da noi fatta dell’artista prima di entrare nel suo mondo dall’ingresso secondario dei ritratti e opere profane.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Susanna e i vecchioni”, 1555-56; seguono”Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80, e “Danae”, 1577-80; in chiusura,  “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561.

“Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561

di Romano Maria Levante

A un anno dall’apertura della mostra su Tintoretto, svoltasi alle Scuderie del Quirinale dal 25 febbraio al 10 giugno 2012, rievochiamo la visita iniziando dalle opere meno appariscenti perché di dimensioni più contenute, e meno celebrate ma molto significative per segnarne la caratura di artista innovativo in due settori particolari: le  opere profane e i ritratti. Temi su cui i pittori, peraltro, si sono cimentati,  “a latere” dell’impegno per lo più prevalente nelle committenze ecclesiastiche per le grandi pitture sacre, che in Tintoretto hanno l’aspetto di scenografie teatrali segnate dalla luce. La normale visita alla mostra iniziava dalla grande esposizione delle opere sacre nell’intero primo piano dello spazio espositivo, le cui sale erano introdotte dai commenti della scrittrice Melania Mazzucco, che nei suoi testi ha ricostruito l’ambiente e l’opera del Tintoretto. Un fondale rosso per scenografia, le grandi tele della pittura sacra riempivano di per se stesse gli ambienti. Ma il resoconto della nostra visita vogliamo iniziarlo dalla parte meno spettacolare, che si trovava al piano superiore, quella dei ritratti e delle opere profane, minori come dimensioni e notorietà.

“Susanna e i vecchioni”, 1555-56

Le ragioni della disposizione in mostra risiedono nelle caratteristiche degli spazi espositivi ai due livelli, perché la maggiore altezza del primo piano si presta alle grandi pale d’altare, e nel voler colpire subito con le opere di più forte impatto. Nella nostra scelta, le opere sacre sono il “clou” di un artista che predilige composizioni teatrali e cinematografiche, e le “star” a teatro entrano dopo i comprimari, va preparato il loro ingresso con l’ansia dell’attesa: qui le “star” sono le grandi tele.

Ma chiamare comprimari i ritratti e le opere profane  non va considerato riduttivo; anche in senso cronologico i vari generi coesistono: Tintoretto dipinse ritratti, opere  allegoriche e mitologiche per tutta la vita insieme alle pur prevalenti opere sacre. Stilisticamente in lui e negli altri artisti c’era comunicazione tra i diversi generi, le soluzioni stilistiche venivano trasferite dall’uno all’altro.

I ritratti

I ritratti a Venezia erano diffusi nelle categorie sociali elevate ma non solo nobiliari: i patrizi volevano celebrare i fasti familiari e le classi agiate il loro ruolo nella città pur se escluse dalla politica; i commercianti ne facevano un segno distintivo della crescita sociale e i forestieri della loro stessa identità. Tintoretto attribuiva molta importanza ai ritratti perché lo mettevano in contatto con personaggi influenti che gli potevano aprire la strada alle grandi committenze.

Nella fase iniziale cercò di differenziarsi, i ritratti dei primi anni ’40  non comprendevano  le mani per concentrare l’attenzione sul volto: così nell’“Autoritratto”, 1546-47, si vede solo il suo viso  rischiarato dalla luce, il resto è oscuro, a parte una sottile striscia bianca nel colletto.

Presto capì che nel presentarsi sul mercato della ritrattistica doveva fare tesoro dell’opera del grande Tiziano che lo dominava: dagli anni ’50 i suoi ritratti hanno anche le mani pur se concentra sempre l’attenzione sul volto servendosi della luce e non del colore, molto sobrio e scuro, in assenza dello spazio. Esclude elementi diversivi nell’abbigliamento, indistinguibile, e nello sfondo oscuro nel quale pone il personaggio a mezzo busto di tre quarti o di profilo. Di questo tipo sono “Ritratto di gentiluomo”, 1548-50  e “Ritratto di gentiluomo con la catena d’oro”, 1555-56, due posizioni diverse con le stesse tinte scure nel vestito e nello sfondo, a parte la striscia più chiara del colletto e dell’orlo dell’abito nel primo o della catena d’oro nel secondo. Invece nel “Ritratto di gentildonna”, 1550,  l’abbigliamento è ricercato e impreziosito da ornamenti, pur nella consueta sobrietà e oscurità cromatica, mentre la posizione frontale esprime determinazione.

 “Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80 

A parte questa eccezione – pochi sono i ritratti femminili pervenutici, ma tutti di grande intensità –  anche negli anni ’60 del XVI secolo prosegue nell’evidenziare i volti con la luce che li colpisce, e anche le mani, per indagarne carattere e sentimenti interiori, mentre tutto il resto è in ombra: il corpo è tutt’uno con lo sfondo nero in “Ritratto d’uomo con la barba bianca”, 1562-64 e “Ritratto di Alvise Cornaro”, 1562-65; mentre nel precedente “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561, per caratterizzare il  collezionista introduce in alto la base dei capitelli, in basso la testa di una statua su cui appoggia la mano sinistra. Anche nel “Ritratto di Jacopo Sansovino”, 1566, per caratterizzarlo gli fa tenere un compasso nella mano, appena percepibile, l’espressione del volto scolpita dalla luce è particolarmente intensa, viene ritenuto un capolavoro della ritrattistica.

Nel “Ritratto di giovane uomo”, 1565, la figura è pressoché intera, l’abito non solo è distinguibile, ma prevale sul viso, pur fermo e deciso. L’attenzione all’abito è ancora maggiore nei ritratti successivi degli anni ’70: lo stile è cambiato, non più l’oscurità consueta da cui emerge solo il volto con una mano, ma la figura in luce con ricco abbigliamento ed elementi di sfondo. Così nei due quadri intitolati entrambi “Ritratto di procuratore di San Marco”:  nel primo, 1570,  una figura dal viso in piena luce con un lussuoso abito di velluto, nel secondo, 1573-75, l’abito diventa dominante con il ricco tendaggio, la luce valorizza i segni della carica più che l’espressione del volto.

Fino al “Ritratto di Sebastiano Venier con un paggio”, 1577-78, dove  la mutazione nella sua  ritrattistica, morto Tiziano, raggiunge il culmine: è una composizione con le due figure  in piena luce, molto ricca sia nel mantello e nella corazza, sia nella scena sullo sfondo, la battaglia navale di cui il Venier fu protagonista, aiutato dall’arcangelo Michele con la spada e da Cristo dal cielo.

Con l'”Autoritratto” del 1588-89 c’è un ritorno alle origini, agli anni ’40: si vede solo il volto, le mani di nuovo scomparse, il vestito torna ad essere tutt’uno con lo sfondo nero, il volto è cascante, le palpebre appese, l’espressione stanca e sofferta, lo sguardo depresso  ben diverso da quello volitivo dell’età giovanile e non solo per ragioni anagrafiche, bensì per motivi psicologici.

Danae”, 1577-80

Le opere profane e  la bellezza femminile

Dopo la ritrattistica abbiamo trovato il “Tintoretto profano” nelle opere allegoriche e mitologiche, che non sono molto frequenti per lui almeno in forma di dipinti. Su questi temi fu più presente negli affreschi, perchè la sua prontezza nel dipingere lo rendeva molto adatto alle grandi superfici; inoltre la sua abilità negli scorci aderiva all’esigenza di procedere alle pitture murali in soffitti dalle speciali conformazioni e il dinamismo della sua pittura ben si prestava alla visione dal basso.

A parte questo, la sua scarsa propensione ai dipinti mitologici e allegorici derivava dalla lontananza dalla stile classicista, ritenuto più adatto a questo tipo di contenuti. All’inizio aderì alla tradizione locale e si avvicinò a Giulio Romano e Schiavone per l’approccio alla tematica classica: poi se ne allontanò per un approccio parodistico e ironico che banalizzava i miti classici  riducendoli ad episodi giocosi, in linea con la  tendenza dei “poligrafi” dell’epoca.

Ci fu un’interruzione di due decenni prima che tornasse ai temi mitologici dopo il 1576 per la morte di Tiziano che lasciava un grande spazio a lui e a Paolo Veronese, divenuti veri e propri  sostituti del Maestro scomparso in questo tipo di committenze di privati facoltosi, aristocratici, prelati e mercanti; perciò, come nei ritratti, se ne doveva seguire la linea stilistica.

Tintoretto, peraltro,  per la sua indipendenza, cercò temi diversi da quelli congeniali al grande Tiziano, in modo da non esserne condizionato, anche se nel colore ci fu un indubbio avvicinamento. Questo non va necessariamente riferito a periodi diversi, ma piuttosto  si deve parlare di una varietà di approcci anche in relazione alle diversità di committenze e di destinazioni delle opere profane.

La mostra presentava gli ottagoni del 1541-42, “Deucalione e Pirra” e  “Apollo e Dafne”,  parte di una serie di 14 tavole dipinte per il soffitto di Palazzo Pisani a Venezia: la conformazione delle figure viste dal retro è particolare, sembrano deformate dalle torsioni che danno loro un  dinamismo accentuato dall’angolo di visuale dal basso al quale erano destinate.

Quello che interessa sottolineare a questo punto è la sua visione della bellezza femminile – così si intitolava l’apposita sezione della mostra – evidente anche in “Giuseppe e la moglie di Putifarre”, 1552-55, dove la donna tenta il santo in un nudo molto eloquente. I nudi dei quadri mitologici e allegorici venivano richiesti per allietare le stanze private dei committenti, sono accarezzati dalla luce, la figura morbida è sempre al centro della scena, carica di sensualità e di erotismo.

Un’opera molto significativa in questo senso è “Susanna e i vecchioni“, 1555, tema classico per i pittori dell’epoca, che lui declina dando una posizione dominante al corpo nudo di Susanna, accarezzato dalla luce, una vera corazza di carne che sembra proteggerla. Anche in “Danae”, di 25 anni dopo, il corpo nudo della donna concupita da Giove in forma di pioggia d’oro è al centro della scena, in una composizione rivolta allegoricamente anche alle cortigiane veneziane.

Tornando al 1555, in “Vulcano, Venere e Marte” la sensualità del corpo abbandonato di Venere  prevale sulla stessa bellezza; mentre sul dramma dell’irruzione di Vulcano che scopre il tradimento prevalgono elementi giocosi come la testa di Marte che spunta da sotto il letto, il cagnolino e  Cupido che dorme beato, una situazione da “cielo, mio marito!” in una lussuosa stanza veneziana. . In “Venere, Vulcano e Cupido“, 1560, cinque anni dopo, gli stessi nell’intimità familiare, lei è nuda, un ricco tendaggio e un paesaggio invece della misera grotta in una sorta di natività profana.

Con questa attenzione alla bellezza muliebre ci piace concludere il viaggio nel Tintoretto profano, prima di passare alle opere sacre dove alla bellezza del corpo si sostituisce quella dello spirito nelle immagini cariche di realismo ma insieme di un’elevata spiritualità con al culmine lo straordinario dipinto dalla doppia vita artistica “Incoronazione della Vergine o Paradiso”. Da qui, in senso cinematografico, parte il nostro “flash back” che ci riporta al suo massimo fulgore, alle pale e telere religiose. Ne parleremo presto, il “trailer” del prossimo “film” è nella presentazione da noi fatta dell’artista prima di entrare nel suo mondo dall’ingresso secondario dei ritratti e opere profane.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 25 febbraio, il terzo e ultimo articolo uscirà il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte dei dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Susanna e i vecchioni”, 1555-56; seguono”Incontro di Tamara e Giuda”, 1575-80, e “Danae”, 1577-80; in chiusura,  “Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561.

“Ritratto di Giovanni Paolo Cornaro, delle Anticaglie”, 1561

Accessible Art, con City Life innovazione e continuità, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Quarto appuntamento in nove mesi negli spazi di “Accessible Art” di RvB Arts , in via delle Zoccolette 28, con un pertinenza in via Giulia 193, dov’è l’Antiquariato Valligiano. E’ nata una nuova mostra, che dal “vernissage” del 21 febbraio resterà aperta fino al 16 marzo 2013, questa volta con 3 artisti come nelle prime due esposizioni, di maggio-giugno e novembre-dicembre 2012, dopo i 12 artisti della mostra dicembre 2012- gennaio 2013. Il nuovo titolo è “City Life”, e suscita interesse per il modo con cui viene interpretata la vita cittadina da giovani artisti contemporanei.

Annalisa Fulvi, “Il cantiere di san Pietro oggi”, a sin.

E’ una mostra-mercato con le opere in vendita secondo la filosofia alla base di “Accessible Art”, insita nella stessa denominazione: avvicinare all’arte contemporanea la gente comune, che in genere diserta le gallerie, con una proposta basata sui due criteri utilizzati nella selezione: opere integrabili nell’arredamento domestico corrente e raggiungibili dalla più larga fascia sociale sotto il profilo economico. Così l’arte contemporanea diviene “accessibile”: non più riservata ad una cerchia ristretta e ad ambienti eccentrici, ma aperta a un pubblico più vasto e in grado di entrare nella vita familiare rompendo il diaframma che la tiene lontana dalla gente comune.

Come l’arte contemporanea è resa “accessibile”

Conoscendo l’arte contemporanea e il relativo mercato non è una selezione agevole né riguardo alla tipologia artistica né a quella economica. Sono escluse le installazioni ingombranti e le opere imbarazzanti per chi non ha la fantasiosa creatività di certa critica sofisticata, oltre che quelle troppo costose per il programma di diffusione a largo raggio che si propone.

Ma non per questo si va sul convenzionale,  la contemporaneità e il tocco dell’arte sono assicurati dall’attenta e sensibile selezionatrice, Michele Von Buren, che ricerca artisti con le formule e i mezzi espressivi più diversi e non si limita a questo, perché non li “lascia”, una volta presentati in mostra. Continua a seguirli, ad ospitarli nella galleria, per cui già nel giro di un anno o poco più è riuscita a creare una nutrita scuderia di artisti sempre presenti che fanno corona con le loro opere – mantenute visibili  e disponibili per i potenziali clienti – agli artisti presentati ex novo. 

Per questo parliamo di innovazione e continuità: l’innovazione è nella formula, ai suoi primi passi, oltre che nelle “nuove proposte”,  per usare un termine sanremese; la continuità nel persistere nella linea  d’azione innestando le “nuove proposte”  nella “scuderia”  creata dalla galleria.  Nel presentare per la prima volta Michele Von Buren abbiamo evocato la figura di Peggy Guggenheim, la cui attività ha contribuito non poco all’emergere di grandi artisti della contemporaneità statunitense del dopoguerra; lo fece con le mostre di giovani sconosciuti nei quali sentiva il tocco dell’arte in forme inusuali, e con un mecenatismo di acquisti per la propria collezione ed altro.

Qui c’è la selezione e la promozione di giovani artisti relativamente sconosciuti, anche se hanno all’attivo studi nelle Accademie d’arte e premi, mostre personali e collettive.  La Von Buren si prodiga per togliere loro la “s”, e ci scusiamo per l’ulteriore evocazione canora, ma evidentemente c’è qualcosa che suscita in noi questa ricorrente associazione di idee; e li promuove nella forma più promettente per loro e per l’arte contemporanea, cioè l’ampliamento della penetrazione nelle famiglie comuni.

 I due criteri di selezione sono fondamentali per il successo del progetto. Sull’accessibilità economica non serve aggiungere molto, tanto più in una fase di crisi economica e di ridotte disponibilità di spesa come quella attuale. L’orientamento che ci fu indicato all’atto della prima mostra dalla Von Buren fu di tenersi entro i 5.000 euro per le opere più impegnative, come le grandi statue, con un’offerta per lo più tendente a una media di 1.000-1.500 euro o meno per quelle corrent, fino a 200-400 euroi. In questi termini le opere sono “abbordabili”, e soprattutto diventano impieghi con promettenti potenzialità di crescita e rivalutazione venendo selezionate anche in base a questo aspetto. Con il “tetto di spesa” legato al potenziale di crescita l’accessibilità diventa convenienza, e la spesa, oltre ad inserirsi nei costi per l’arredo domestico, diventa un vero e proprio investimento.  

Rispetto alla compatibilità con l’arredo domestico di abitazioni comuni, requisito anch’esso fondamentale per l’allargamento della platea degli interessati, va precisato un elemento non trascurabile: il fatto che la galleria d’arte sia legata all’antiquariato è decisivo, e se ne ha la prova tangibile nella mostra dove le opere esposte sono inserite in arredamenti da abitazioni, come esempio di inserimento organico dell’arte contemporanea nell’ambiente  familiare.  

Per questo la galleria dell'”Accessible Art” non è pretenziosa, nel qual caso sarebbe asettica e fredda, ma calda e accogliente riproducendo il  clima domestico cui le opere sono destinate nella visione che non riteniamo utopistica, ma innovativa e meritevole di un crescente successo.

All’apertura della prima mostra la Von Buren ci disse che le opere di arte contemporanea da lei selezionate devono essere  “comprensibili con  la vocazione ad integrarsi come complemento scenografico d’arredo”; requisito questo per “far superare la diffidenza che l’arte contemporanea, attraverso un linguaggio enigmatico, può generare”. I termini “diffidenza” e “linguaggio enigmatico”  sono eufemismi per espressioni artistiche tanto lontane dalla sensibilità popolare da alimentare ironie  dissacranti: chi non ricorda il film con le “vacanze intelligenti” di Alberto Sordi e signora, scambiata per un’opera d’arte contemporanea perché  seduta a occhi chiusi per riposarsi?

Questo non vuol dire che tutta l’arte contemporanea deve essere comprensibile e neppure che va accettata soltanto se può entrare a far parte dell’arredamento domestico, ci mancherebbe! I grandi spazi espositivi del Maxxi e del Macro a Roma sono stati creati appositamente per accogliere le installazioni più invasive che sembrano stravaganti almeno nell’accezione comune, ma la critica è pronta a consacrarne il livello artistico creando essa stessa contenuti non percepibili nell’opera.

E’ un mondo diverso da quello di “Accessible Art”, del tutto separato,  come l’elite si è separata  storicamente dalla massa in ogni campo; ma nell’epoca contemporanea non ci sono più aree riservate, se non quelle del lusso smodato non invidiabile per la sua vacuità spesso becera. Per questo anche l’arte dei tempi nuovi  deve poter penetrare tra la gente, entrare nelle sue abitazioni.

La Von Buren non si è limitata a lanciare l’idea e provarne la fattibilità con una mostra dimostrativa. Continua a seguire questa strada con la quarta  mostra in nove  mesi e un’offerta la cui accessibilità è evidente:  le nuove opere esposte sono per lo più comprese nei 1.500 euro ciascuna.

Fabio Imperiale, “In assenza di titolo”, a sin.

Tre artisti sul tema “City Life”

L’accogliente galleria presenta le opere della mostra d’arte “City Life”, aperta alla visita incuriosita o culturale  come all’acquisto, in un ambiente reso familiare dai mobili  che indicano in pratica come possano inserirsi in una normale abitazione; l’accoppiata quadro-mobile conferma la bontà dell’idea di base che, ripetiamo, è l’integrazione dell’arte contemporanea nell’ambiente familiare.

Una certa atmosfera più che la vita nella città è resa da Nanni Mannolino con una serie di  stampe fotografiche in plastificazione lucida dal titolo “Apparizioni e Dissolvenze”, dove abbina il paesaggio urbano ad altri motivi come il nudo femminile. Sono immagini sovrapposte che perdono qualsiasi sembianza figurativa, anche se lo sfondo è dato da fotografie di antiche mura, in cui il tempo segna la storia cittadina, a cui si sovrappongono come delle impronte sottili visioni sensuali quanto sfuggenti: I  titoli sono  “La dama in grigio” e “Spalle nude”, “Abbandono” e “La ferita mel muro”, “Il drappo” e “Il tulle nero e la macchia azzurra”..

In quarant’anni di attività fotografica, iniziata da giovanissimo nel 1970, l’autore ha sperimentato e approfondito l’impiego di tutti i processi, dalle stampe in camera oscura alle nuove forme digitali. E’ giunto a un livello di astrazione che fa perdere ogni riferimento alla fotografia per un’arte senza classificazione, secondo una tendenza ormai inarrestabile: conta l’emozione che l’opera suscita.

Gli altri due espositori presentano la vita cittadina in una diecina di opere ciascuno cogliendone  i due aspetti compresenti: la presenza umana e le strutture materiali.

Per la presenza umana sono quanto mai espressive le forme sulla tela di Fabio Imperiale, dai titoli intriganti: da “In assenza di titolo” a “Strappo alla regola”, da “Periferia 18,40″ a ““Soldatino in Accorso”. Sono figure di persone, in vario numero e in diverse posizioni nei dipinti, viste di spalle ferme o in movimento, ciascuna rinchiusa in se stessa come una “monade”, pur essendo  in ordine sparso come folla o come gruppi. Uno specchio  dell’alienazione cittadina dove alla moltitudine che circola nelle strade non corrisponde una comunità ma individui isolati e sperduti nella loro solitudine. Sono figure dignitose, vestite di scuro, su sfondo chiaro, in una landa abbacinata che ricorda,  “mutatis mutandis”, alcune sceme del “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica: lì il gelo era nell’ambiente invernale,  mentre nelle immagini del nostro artista è nell’animo delle persone, senza vitalità né spinta interna. E’ il rovescio del “Quarto Stato” di Pellizza De Volpedo, non perché lì sono di fronte e qui sono visti dal di dietro, ma perché lì incedono come un tutt’uno  spinti da un’identità di classe e di lotta sociale  che qui manca, come se la città li avesse omologati in un’identità da automi o fantasmi di se stessi.

Alcuni elementi grafici e testuali vengono inseriti  dall’autore come sigillo a testimonianza della precedente attività pubblicitaria, ma il suo approdo alla  pittura è pieno e definitivo: partecipa a mostre collettive dal 2006, nel 2011  ha ricevuto un primo e un terzo premio, ha esposto in una mostra personale in una galleria romana seguita da un’altra mostra l’anno successivo.

Mentre la presenza umana è evocata da Imperiale nell’atmosfera rarefatta di un  ambiente completamente vuoto,  la visione di Annalisa Fulvi è speculare: riempie l’ambiente cittadino di strutture molto elaborate nella dominante delle linee che le segnano con forza insieme a macchie di colore discrete a sottolineare determinati componenti:  come il marrone dei tetti di “Strutture metamorfiche” o l’azzurro dell’acqua  di “L’incanto del lago” insieme a leggeri richiami figurativi come nel colonnato appena delineato sullo sfondo di“Il cantiere di san Pietro oggi”; ve ne sono altre senza riferimenti particolari, ma con un intreccio serrato di linee insieme a motivi delicati come un ricamo, così “Impalcatura in transito” e “Nuovi multipli”,  mentre “Visione frontale” e “Doppio tempo”  presentano la prima diversi piani prospettici molto ben integrati,  e la seconda due strutture separate, a destra l’impalcatura, a sinistra l’imponente edificio,  però  non sembrano in sequenza ma tali, comunque, da evocare l’altra dimensione oltre lo spazio, quella temporale.

E’ una giovane artista della quale abbiamo già ricordato, in occasione dell’ultima mostra, la formazione all’Accademia di Brera e una recente esperienza pittorica in Turchia. Dopo le prime espressioni  artistiche con questa impostazione, presentate nella mostra precedente,  ha sviluppato di molto le dimensioni dei suoi dipinti,  prima in formato-studi,  per affinare la tecnica veramente sopraffina:  avevano titoli come “Etude de la Ville”, “Composizioni” e soprattutto “Intersezioni”, denominazione che rivela la ricerca della linea nelle combinazioni con altre linee. Dei nuovi dipinti esposti, il più grande è lungo circa 2 metri per 1,25 di altezza, gli altri sono di poco più piccoli.

Nei quadri di Imperiale si è presi dall’alienazione umana, qui domina l’agilità delle strutture con le loro linee cartesiane e oblique. La pittrice ha colto questo elemento come nervatura della stessa struttura cittadina, fatta di edifici e di complessi urbani  dei quali oltre alla massa e al volume colpiscono le linee di forza. Abbiamo ripensato ad alcuni dipinti del grande artista russo Alecsandr Deineka,  le sue strutture metalliche esprimevano i contenuti riferiti di volta in volta alla guerra oppure al lavoro, con linee rettilinee e angolature senza arrotondamenti nè ornamenti; qui le linee segnano architetture che  riempiono non solo il vuoto materiale ma anche quello ideale. Ma nello stesso tempo possono esprimere un’altra alienazione, quella dell’urbanesimo selvaggio, congestionato e soffocante: due estremi che tendono a saldarsi nel degrado cittadino.

Nanni Manolino, “La Dama in grigio“, a dx 

La continuità con Zarattini, Thwaites , Deli

Si può parlare di continuità nell’innovazione   per rimarcare l’aspetto dell’attività di Michele Von Buren che ci ha fatto evocare Peggy Guggenheim: il fatto che continua a seguire e ad ospitare gli artisti che presenta via via nelle mostre. Così abbiamo visto di nuovo alcune loro opere  già esposte nella galleria, divenute una presenza familiare, e ne abbiamo trovato altre degli stessi artisti mai esposte prima che riguardano temi non contemplati dalla nuova mostra.

E’ stata una piacevole sorpresa vedere nuove opere di  Luca  Zarattini, appartenenti a una serie di espressioni molto intense,  in tecnica mista su tavola:  notiamo l’evoluzione verso lavori  diversificati nei temi dell’artista che utilizza un impasto di materiali grevi e pesanti in forme alle quali riesce a dare contorni classici e un che di misterioso. Le serie vanno da quelle con nomi, “Mohammed”” e “Carl”, “Pablo” e “Claude”, a “Flesso” e “Riflesso”, a quelle intitolate con semplici numeri in successione.:  

Ritroviamo le figure di Christina Thwaites che abbiamo imparato a conoscere, schierate frontalmente come nelle foto di famiglia cui si ispirano, le ricolleghiamo idealmente a quelle di Imperiale di cui ci sembra possano rappresentare l’equivalente domestico.  In realtà, considerate a sé stanti, queste trasposizioni dell’album di famiglia possono sembrare confuse nei contorni per la lontananza nel tempo, dato che i volti sono appena abbozzati; ma ci piace collegarle alle figure in piedi degli “esterni” di Imperiale immaginando che siano le stesse, prima isolate e sperdute negli spazi cittadini, poi altrettanto attonite e assenti nei “ritratti di famiglia in un interno”.  Questo, come il parallelo precedente, è una licenza del cronista  che ne chiede venia agli artisti: è una prova  ulteriore di come sia stimolante l’offerta visiva e culturale della mostra di Michele Von Buren.

Nessuno di questi paralleli interni alla galleria è possibile con “Summer” di Alessio Deli, una grande scultura alta 180 centimetri:  l’artista, al centro di una mostra precedente, riesce a dare un senso ieratico a un’opera realizzata con materiale metallico di risulta, preso nelle demolizioni; nella testa di “Summer” notiamo due grandi molle, forse di ammortizzatori o altro, e qui scatta un  collegamento con un artista di altra estrazione ma convergente nei materiali e nell’idea di base.

Intere figure scultoree- anch’esse a grandezza naturale come “Summer” – sono realizzate in tutto o in parte con molle dello stesso tipo e altro materiale metallico di recupero, questa volta da residuati bellici della guerra di Libia, dallo scultore libico Wak Wak  – le cui opere sono state esposte per la prima volta fuori dal suo paese al Vittoriano dal 16 gennaio al 28 febbraio 2013 – come risposta alla guerra distruttiva della vita che invece viene fatta risorgere utilizzando gli stessi strumenti di morte. Ricordiamo i due mitra “scolpiti” da Deli con materiale di demolizione,  la protesta veniva da materiali poveri come sono poveri i militari in tutto il mondo e in tutte le epoche, arruolati a forza, poi mandati ad uccidere e a morire per cause cui sono stati sempre estranei, essendo in genere proprio gli interessi inconfessabili delle stesse classi che in pace li hanno sempre sfruttati. Anche per Deli non abbiamo resistito al parallelo, questa volta con l’esterno, ma ci è venuto spontaneo.

Nel commentare le precedenti mostre della galleria “RvB Arts” dicevamo che avremmo seguito il progetto di Michele Von Buren, alla base di “Accessible Art”, per i suoi aspetti innovativi  sia nella diffusione della’arte contemporanea sia nello “scouting” e promozione degli artisti in una forma nuova.  Abbiamo potuto constatare come gli artisti della “scuderia” crescono di numero e moltiplicano l’impegno: sono quasi 20 pittori, 4 scultori e oltre 10 fotografi, una bella squadra!

Innovazione e continuità, dunque, lo ripetiamo, Non è un ossimoro. bensì  la migliore garanzia per l’ulteriore sviluppo del progetto.  Questo è anche il nostro augurio.

Info

“RvB Arts”, via delle Zoccolette 28, Roma, presso Ponte Garibaldi,  e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio, domenica e lunedì chiuso. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505,  cell. 335.1633518; – info@ rvbarts.com.,  http://www.rvbarts.com/, con tutte le immagini e relativi prezzi delle opere esposte e delle altre disponibili dei 35 artisti circa che fanno capo alla galleria. I nostri 2 articoli sulle precedenti mostre di “Accessible Art” sono in questo sito alle date del  21 novembre e 10 dicembre 2012. Per la citazione di Peggy Guggenheim si rinvia ai nostri 3 articoli in questo sito il 22, 29 novembre e 11 dicembre 2012; per Deineka ai nostri 3 articoli (in particolare al 1°) sulla sua mostra al Palazzo Esposizioni, in questo sito, il 26 novembre, 1 e 16  dicembre 2012; per  Wak Wak al nostroarticolo sulla sua mostra al Vittoriano, in questo sito, il 27 gennaio 2013.  Gli articoli sono illustrati con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra alla galleria RvB Arts, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele Von Buren con i titolari dei diritti,  per l’opportunità offerta.  Sono riportate due opere per ogni autore, inquadrate nell’arredamento in cui sono ionserite in mostra. In apertura,di Annalisa Fulvi, a sinistra “Il cantiere di san Pietro oggi”;  seguono, di Fabio Imperiale,  a sinistra “In assenza di titolo”, di Nanni Manolino, a destra  “La Dama in grigio;  in chiusura,  di Luca Zarattini. a sinistra “Mohammed”.  

 Luca Zarattini, “Mohammed”.a sin.  

Tintoretto, 1. “Il più terribile cervello” della pittura, alle Scuderie

di Romano Maria Levante

Un anno fa, esattamente il 25 febbraio 2012, veniva aperta, fino al 10 giugno, alle Scuderie del Quirinale, una grande mostra sul Tintoretto, con 50 opere esposte, molte di grandi dimensioni, tra cui 15 di altri grandi artisti del tempo:  una mostra biografica nella quale si è ripercorsa la vita artistica di un pittore che anticipando il Caravaggio introdusse un forte realismo in composizioni dalla tensione drammatica espressa in scorci e inquadrature architettoniche e scenografiche di tipo teatrale e cinematografico. Curata da Vittorio Sgarbi, il bel Catalogo Skirà  ne reca il ricco repertorio iconografico e critico. “Un mostra scientificamente ineccepibile e al contempo spettacolare per allestimento e percorso”,  così l’ha  presentata Emmanuele F. M. Emanuele, allora presidente dell’Azienda Expò, cioè “Scuderie del Quirinale” e Palazzo delle Esposizioni; in effetti ha fornito il filo d’Arianna per orientarsi nel labirinto compositivo di un artista poliedrico e fecondo, molto discusso nella sua epoca e dopo.

“Autoritratto”, 1546-47

L’anticonformismo caratteriale e artistico

Fu discusso nella sua epoca per l’anticonformismo caratteriale e stilistico che gli fece affibbiare una serie di epiteti, e non ci riferiamo al soprannome che proviene dall’attività di tintore del padre e dalla sua bassa statura; anche il cognome Robusti derivava dal soprannome del padre e dello zio, lo utilizzò prima da solo con il nome Jacopo, poi affiancandovi il proprio soprannome che ebbe infine il sopravvento. Ricordiamo che lo hanno definito “arrischiato” e “spericolato”, “ghiribizzoso”  e “il più terribile cervello che abbia avuto la pittura” – queste ultime sono parole di Pietro Aretino – per il carattere talentuoso e ribelle. Non ha lasciato lettere né appunti, ma ci sono state note biografiche  d’epoca che ne hanno tramandato i tratti salienti. Già a 18 anni, nel 1537  – era nato nel 1519 a Venezia – poté iscriversi come Maestro nella “Fraglia dei Pittori”, partecipava ai dibattiti artistici e teologici e frequentava gli ambienti della cultura e delle professioni: fu un uomo libero al punto di rifiutare l’onorificenza di Cavaliere per non inginocchiarsi davanti al Re di Francia Enrico III.

Nello stile si era allontanato da quello di Tiziano allora dominante, la sua pittura era ritenuta “sconveniente”, e così anche il suo modo di dipingere “con la solita prestezza”, come scrisse Giorgio Vasari sottolineando la rapidità che lo portava a finire l’opera quando gli altri “attendevano a fare con ogni diligenza i loro disegni”; fonte di attacchi ai quali  rispondeva  “che quello era il suo modo di disegnare, che non sapeva fare altrimenti, e che i disegni e i modelli dell’opera dovevano essere in quel modo per non ingannare nessuno; e finalmente che, se non volevano pagare l’opera per le sue fatiche, che la donava loro, e così dicendo”.

Si riferiva alla grande opera del 1564 per la Scuola Grande di San Rocco: partecipò al concorso con l’opera finita e non con il bozzetto richiesto, donando il dipinto alla scuola che per statuto non poteva rifiutarlo; fu uno sgarbo agli altri artisti che però gli procurò non solo l’incarico di dipingere il soffitto e una grandissima Crocifissione, ma anche l’accoglienza come “confratello”. Nella Scuola di San Marco, invece, dove presentò un bozzetto, la sua candidatura non venne accettata.

Lavorava gratis o solo con un rimborso spese se voleva fortemente eseguire delle opere, e questo non solo nei primi tempi ma anche tra il 1556 e il 1561, quando oltre ai quadri e le portelle per un organo dipinse due teleri alti 14 metri nella Madonna dell’Orto per il solo costo di tele e colori; strategia vincente per avere committenze prestigiose come quella di San Rocco appena ricordata.

E’ discusso anche dalla critica relativamente recente: Vittorio Sgarbi ricorda il contrasto tra  Roberto Longhi e Rodolfo Pallucchini che ha scritto un libro su “La giovinezza di Tintoretto” dopo che Longhi aveva ritenuto tale fase “il tempo più vivo del Tintoretto, proprio perché il meno furioso”; e dava un valore negativo al “titanismo tecnico” che faceva passare “l’Accademia sotto una specie di furia”, ma riconoscendogli “una natura geniale, colma in principio di idee bellissime per favole drammatiche da svolgersi entro la scenografia di luci e ombre rapidamente viranti”.

“Deucalione e Pirra”, 1541-42

Sgarbi polemizza aspramente con Longhi per il suo giudizio nel complesso negativo, ma le parole scritte dall’altro critico nel 1946, appena riportate, ci sembrano richiamare aspetti positivi del Tintoretto da lui stesso valorizzati: “E’ il teatro a dominare la sua mente e le mille e varie soluzioni scenografiche lo spingono, come nessun pittore, neppure Caravaggio, verso un linguaggio cinematografico”. E non c’è solo “teatro, grande scenografia”, l’artista a volte va anche oltre: “Tintoretto entra in uno spazio onirico, in una dimensione visionaria, e pur prospetticamente rigorosa”; la sua composizione “definisce non solo uno spazio fisico, ma uno spazio psichico”.

Entrano in campo le sue “luci striscianti”, e “contro la luce si stampano le ombre”, il suo impianto scenico è investito dai guizzi della luce che è protagonista della sua arte con il cromatismo plastico. Suoi i dipinti “di pura luce”, dalle forme indefinite. Così, ancora per Sgarbi, “Tintoretto ha trasfigurato la pittura in un sogno o in un incubo, trasferendo la realtà in un’altra dimensione”.

In definitiva, uno spirito libero nella vita e nella pittura, che lo fece affrancare dall’influsso di Tiziano fin dalle opere giovanili, del resto si dubita sia vera la “vulgata” che il pittore dominante lo allontanò dalla propria bottega geloso del suo talento, nel qual caso ci sarebbero state tracce nei dipinti agli esordi. Li troviamo in diretto contrasto nel 1556 allorché Tiziano escluse Tintoretto nella scelta degli artisti per decorare il soffitto della Libreria Marciana, e nel 1564  quando, dipinta l'”Allegoria della Sapienza”, premiò con una catena d’oro Paolo Veronese indicandolo suo erede.

Tutto questo è collegato alla diffusione del manierismo toscano unito al primato michelangiolesco anche a Venezia, nella fase della formazione pittorica del Tintoretto . Nel 1548 Paolo Pino scriveva  che chi fosse stato capace di coniugare “il disegno di  Michelangelo e il colore di Tiziano” sarebbe divenuto “il dio della pittura”; e Carlo Ridolfi ha affermato che nello studio di Tintoretto c’era un cartiglio con il motto “il disegno di Michelangelo e il colore di Giotto”. Ebbene, nonostante questo, trovò una strada molto personale nell’epoca del manierismo: “Nessuna soggezione nei confronti del Michelangelo e del Vasari – osserva sempre Sgarbi – Tintoretto è più mimetico, più etereo, e soprattutto meno ‘ingrippato’ di Tiziano”. Anche i suoi accostamenti alla scuola romana, a Giulio Romano e a Giorgio Vasari allora preminente, “sono una febbre passeggera. E quel gusto non è affar suo. Con Tintoretto, libero da questa soggezione, la pittura a Venezia riprenderà il suo corso, rallentato e deviato proprio da Tiziano”, è la lapidaria affermazione di Sgarbi. Che conclude: “Tintoretto non è solo; e per arrivare a questo risultato si guarderà intorno, misurandosi con artisti curiosi come Bonifacio de’ Pitati detto Veronese, Andrea Schiavone, Lambert Sustris”, sono esposte 15 opere loro e di Parmigianino ed El Greco, Jacopo Bassano e Domenico Tintoretto.

“San Giorgio uccide il drago”, 1553-54

La carrellata di artisti coevi

E’ una carrellata di grandi artisti che Vittorio Sgarbi ha proposto, in un’ottica simile a quella con cui aveva concepito la mostra “Gli occhi di Caravaggio” con i pittori che ebbero influenza nella formazione milanese del Merisi prima di esplodere a Roma, tra i quali si possono cogliere dei prodromi nei  tentativi di un uso diverso della luce e di una visione realistica nella composizione. Negli artisti presentati con Tintoretto interessano le dissomiglianze oltre alle somiglianze, perché Tintoretto se ne distaccò presto con il suo stile pittorico e le sue scelte compositive molto personali.

Di Tiziano era esposto il “Ritratto del comandante Gabriele Tadino”. 1538, per la sua influenza sulla ritrattistica di Tintoretto, ma oltre a questo la fantasia di Sgarbi proponeva delle sculture: due  busti di Alessandro Vittoria, tra cui quello in terracotta su “Sebastiano Venier”, ritratto anche da Tintoretto in un quadro esposto a figura intera con un paggio, “per l’uomo e per gli artisti – ecco il commento del curatore – il confronto in mostra sarà certamente utile”.

Sempre della fase formativa un nutrito gruppo di opere : del 1530-32 la “Madonna con Bambino  e santi”  del Parmigianino e la “Sacra conversazione” di  Giovanni De Mio,  del 1535-40 la “Sacra famiglia con un angelo e santi”  di Bonifacio Veronese. Della fase iniziale nel  1551 Il Buon Governo” di Paolo Veronese,  nel  1557 l’“Adorazione del Bambino e gli angeli con gli strumenti della passione”  enel 1558  di nuovo Tiziano con “Annunciazione”, immagini sfumate con cui “si rigenera dunque Tiziano, ma non nel senso della ricomposizione ma della decomposizione, della disgregazione di quei ‘bei contornoni’, di quelle ‘gran forme'”.  Le opere di Tintoretto in questo periodo sono diversissime, lo si vedrà nel nostro resoconto della visita.

Facevano parte di questa  sezione due opere di Lambert Sustris, olandese che è stato ad Augusta fino al 1553, “Mida e Bacco” e soprattutto “Salita di Cristo al Calvario”  che  riportano al Tintoretto per diversi aspetti: lo spazio prospettico e la luce, il dinamismo e le forme oblique. Mentre al periodo più avanzato, 1570-75, appartiene “La guarigione del cieco nato”,  anch’esso esposto, un piccolo quadro con la quale El Greco  cerca di conciliare il cromatismo manieristico di Tiziano con  la scenografia  teatrale del Tintoretto, quest’ultima addirittura su più piani prospettici.

Tale conclusione della  galleria coeva  al Tintoretto preparava alla visita delle sue opere, perché il livello e la complessità di un artista così creativo e originale possono essere apprezzati meglio avendone conosciuto i connotati salienti. Racconteremo la visita prossimamente partendo dai ritratti e dalle opere profane per poi raggiungere il culmine con le opere  sacre, grandi in tutti i sensi.

Info

Catalogo: “Tintoretto”, a cura di Vittorio Sgarbi, Skirà, febbraio 2012, pp. 254, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I prossimi due articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 25 febbraio e il 3 marzo 2013. 

Foto

Le immagini, tutte di dipinti di Tintoretto, sono state fornite cortesemente dall’Ufficio stampa delle Scuderie del Quirinale, che si ringrazia con gli organizzatori della mostra e i titolari dei diritti. In apertura, “Autoritratto”, 1546-47; seguono “Deucalione e Pirra”, 1541-42,  e “San Giorgio uccide il drago”, 1553-54; in chiusura, “Il trafugamento del corpo di san Marco”,  1562-66.

lI trafugamento del corpo di san Marco”,  1562-66

Via della Seta, 3. Baghadad e Istanbul, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude il viaggio virtuale che fa compiere la mostra “La Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente ed Occidente”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre al 10 marzo 2013.  Dopo aver dato conto della genesi, anche attraverso le testimonianze dei viaggiatori veneziani e genovesi, e delle tre prime tappe di Xi’an, la città della pace, Turfan, l’oasi nel deserto, e Samarcanda, la città di mercanti, approdiamo a Baghdad, la città della sapienza e a Istanbul, la porta dell’Oriente, di cui ripercorreremo la storia  anche con i reperti di oggetti dell’artigianato e dell’arte, che ne rendono la grandezza. Viaggio che proseguirà prossimamente con la nostra visita effettiva e non più solo virtuale, a Istanbul, sulle tracce dei reperti dell’antica Costantinopoli di “in hoc signo vinces”.

Buddha Tejaprabha, ovvero della Luce splendente, 897, dipinto

Baghdad,  “città della sapienza”, non delle “mille e una notte”

La città che fa pensare alle “mille e una notte” viene presentata come “città di studiosi”, la rivale in Occidente della capitale imperiale Xi’an, situata strategicamente tra il fiume Tigri e l’Eufrate, quindi lungo le rotte commerciali fluviali, verso il mare e l’Asia. Viene rievocato il periodo d’oro, tra il 762 e il 1258, quando dopo essere stata fondata  dal califfo abbaside Al Mansur,  prosperò sotto di lui e i “califfi” seguenti, il cui mecenatismo fece sviluppare lettere e arti, scienza e filosofia.

Era chiamata “città circolare” per la sua forma ad anelli concentrici, ispirati alla sfericità della terra,  intorno alla moschea centrale e al Palazzo d’oro, sede del califfo, con gli insediamenti  residenziali, commerciali e militari all’interno delle mura; era una innovazione derivata da influssi persiani  rispetto all’urbanistica greca  e romana dell’epoca,  dalla struttura quadrata o rettangolare e strade ad angolo retto. I migliori costruttori dell’Asia furono mobilitati con migliaia di operai.

Il califfo abbaside costruì la “Casa della sapienza”, un centro culturale con un’enorme biblioteca, per unire la tradizione araba-islamica all’influsso persiano; nella nuova istituzione volle approfondire lo studio dei testi antichi e delle nuove discipline con le migliori menti dell’epoca.

La città divenne meta di letterati e studiosi da ogni parte, vi trasmisero la cultura indiana e greca. Nella fase di maggiore sviluppo raggiunse i 2 milioni di abitanti, oggi ne ha oltre 7 milioni.

Fu conquistata dai mongoli, precisamente da Haligu Khan, nipote di Gengis Khan, che regnò tra il 1217  e il 1265; l’evento, passato alla storia come la “presa di Baghdad”, portò  alla fine del califfato e di tante sue opere, come la struttura urbana e il sistema di irrigazione, oltre ai massacri.

Dopo un secolo e mezzo nuovo saccheggio e massacri con Tamerlano nel 1401; seguirà, nel 1534, la conquista dei turchi ottomani in guerra con la Persia, fino al 1917 allorché fu occupata dagli inglesi nella 1^ guerra mondiale, costituendo nel 1921 il Regno dell’Iraq sotto il loro protettorato.

L’indipendenza fu raggiunta tra il 1932 e il 1946  e la monarchia fu deposta nel 1958. Il resto è storia contemporanea e tragica attualità, l’antico splendore è solo un ricordo.

Tornando al ruolo che ebbe nell’epoca della Via della Seta, sul piano culturale, va sottolineato l’impegno negli studi di matematica e ingegneria, geografia e astronomia,  anche sui testi indiani più avanzati dai quali fu tratto, tra l’altro, il sistema dei numeri arabi con dieci simboli di Al-Khuwarizmi; mentre prima, anche a Roma oltre che a Baghdad, si utilizzavano lettere dell’alfabeto.

Nell’osservazione delle stelle veniva usato l’astrolabio che registrava spazio e tempo come una calcolatrice permettendo di determinare l’ora in base alla posizione del sole e delle stelle. “Il libro delle stelle e delle costellazioni” del persiano Ar Rahman, adottato per secoli come manuale di astronomia, descriveva nei particolari oltre un migliaio di stelle. Un apposito angolo della mostra è riservato a un vero astrolabio,  si può manovrare per cercare l’ora regolando il meccanismo rispetto alle costellazioni sullo sfondo. Di questo apparecchio ne sono esposti due esemplari, uno in metallo dell’Iran, 1730-75, l’altro in lega di rame dal Marocco, 1750. E’ esposta anche una sfera celeste in bronzo e argento del 1645 e un Trattato astronomico illustrato, del 1569,  da La Mecca.

Ma tanti furono gli strumenti ingegnosi escogitati, come una ruota misura del tempo e un orologio ad acqua: un esemplare in vetro, metallo e plastica è esposto in mostra.

Soprattutto il vetro ebbe molti impieghi, modellato a soffio fin dal 100 a. C. si sviluppò  nell’Islam da Baghdad verso la Cina trasportato con precauzioni particolari data la sua fragilità; venivano adottati svariati accorgimenti tecnici per modellarlo in decorazioni a rilievo o farvi incisioni artistiche. Venivano prodotti pure  semilavorati che poi gli artigiani plasmavano.

Sono esposti una pipa in ferro per soffiare il vetro e una serie di oggetti vitrei; un frammento semilavorato del 200 a. C. e uno stampo del 1000-1300,  una brocca piriforme dell’800-1000 e una bottiglia  con figura di animale, una coppa con “decorazione pizzicata” e una coppa “con punti di rilievo” dell’800-1000.  Inoltre oggetti a pasta vitrea, come una scodella turchese del IX-X secolo, e in terracotta invetriata, una piastrella  del 1000, una ciotola con decorazione dell’800-1000, e una piastrella in ceramica invetriata. Quindi un piatto decorato in terracotta smaltata e una coppa in ceramica decorata, fino al calamaio e coperchio del 1100-1200 in bronzo e argento.

L’argento ebbe un ruolo importante nella dinastia dei Sasanidi, innanzitutto per la coniazione  di monete in questo metallo per la circolazione generale, mentre il bronzo, rame e piombo erano destinati alla circolazione regionale; l’oro era riservato alle emissioni speciali. In argento le produzioni di alta qualità con le quali si celebravano i fasti della dinastia mediante piatti, coppe  e brocche decorate con immagini simboliche o allegoriche, e altri oggetti di valore artistico, esemplari pregiati sono stati reperiti in scavi archeologici in nell’Asia centrale, particolarmente in Iran,

Anche nella medicina erano all’avanguardia, con le pratiche di Al-Razi sui rapporti tra salute e pulizia, ben prima della scoperta di batteri e microbi: scrisse 200 manoscritti sui vari malanni e un  manuale medico le cui indicazioni  sono state adottate in Europa per secoli. Fu tradotto in arabo “De materia medica”, un manuale sulle piante officinali del medico greco Dioscoride, del 40-90 d. C.

Per la scrittura abbiamo citato Samarcanda, terra della carta su cui venivano creati documenti e libri.  A Baghdad la scrittura divenne arte con la calligrafia dell’alfabeto arabo utilizzato in copie artistiche del Corano. L’inchiostro era prodotto da varie fonti, si mescolava anche all’oro e alla polvere di vetro, venivano inserite iscrizioni con massime anche nei piatti e nei vasi islamici.

Abbiamo tanto parlato di mercanti e mercati, ebbene a Baghdad all’inizio del XIII secolo c’era un fiorente mercato di libri, con 100 librerie e 36 biblioteche pubbliche; in una delle più celebri appartenente all’Università Mustansiriya veniva fornita carta e penna per poter copiare i libri, oltre a un’assistenza completa. E’ ben giustificato chiamare la Baghdad di allora “città della sapienza”.

I mongoli invadono Baghdad nel 1258

Istanbul, la porta dell’Oriente, e il mare

La marcia verso l’Occidente sulla Via della Seta ha la sua tappa finale ad Istanbul, l’antica Costantinopoli,  definita “la porta dell’Oriente” con il suo Corno d’oro, che ne segna i confini.  Altri 1600 chilometri di percorso, dopo gli 8000 già percorsi nelle immensità asiatiche e mediorientali.

Entrò a far parte dell’Impero romano nel I secolo a. C., Costantino la eresse a capitale del suo impero nel 330  costruendo palazzi imponenti in stile romano e dandole il suo nome.  Dopo il 395, con Teodosio I, diventò capitale del più limitato impero romano d’Oriente, l’impero bizantino. Per la posizione di cerniera divenne un centro commerciale e culturale, distrutta nel 532 fu ricostruita con splendidi edifici culminati nella costruzione di Santa Sofia, la basilica della chiesa ortodossa.

Le vicissitudini di Santa Sofia riflettono quelle della città, al centro di scontri con persiani, arabi e Crociati, che nelle sorti alterne provocarono distruzioni delle architetture e saccheggi della città e delle opere d’arte, nonché il decadimento economico e la diminuzione della popolazione.

Dopo l’impero bizantino venne l’impero turco ottomano, con la conquista della città nel 1453 dopo due mesi di assedio, e la morte dell’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI: il sultano Maometto II ne fece la capitale dell’impero e le cambiò nome in Istanbul.  Secondo le barbare consuetudini dell’epoca furono dati tre giorni di libertà di saccheggio all’esercito ottomano, Santa Sofia fu saccheggiata e trasformata nella più grande moschea della regione;  la città divenne un centro culturale islamico.

Il sultano cercò di riportarla all’antico splendore: per questo fu incline alla tolleranza e al multiculturalismo e aprì la città al ritorno dei credenti di altre fedi, cristiani compresi. 

Fu creato il Gran Bazar, uno dei maggiori al mondo,  e fu costruito il palazzo di Topkapi come residenza del sovrano dove risedettero i sultani per quattro secoli. Con Solimano il Magnifico fu costruita la grande moschea con il suo nome e furono promosse altre realizzazioni di opere d’arte e di architettura: si diede impulso all’arte della ceramica, calligrafia e miniatura. Nel 1800 raggiunse un milione di abitanti, e successivamente si aprì all’Occidente anche con la costruzione dei ponti sul Corno d’oro che collegarono idealmente i due versanti per unirli fisicamente e culturalmente.

La storia moderna la vede nel crogiuolo della prima guerra mondiale e dei conflitti che portarono alla fine dell’impero ottomano e alla Repubblica turca, che assunse come capitale Ankara.

Istanbul, oltre che alla Via della Seta, di cui è il terminale, è legata strettamente alle comunicazioni marittime, che nel commercio furono un’alternativa ai traffici terrestri.  Spezie e sete cinesi, ma soprattutto ceramica, di difficile trasporto via terra per la sua fragilità, furono le merci  più diffuse. La ceramica più pregiata era la porcellana, proveniente dalla Cina e realizzata partendo dal caolino,  usata per oggetti ornamentali anche finemente decorati; veniva prodotta anche una ceramica ordinaria con la terracotta rivestita da uno strato bianco per farla somigliare alla porcellana.

Tre tipi di ceramica erano molto richiesti nel Medioevo con provenienza dalla Cina, e Istanbul era la porta dell’Oriente:  verde, policroma e bianca. E’ una produzione sviluppatasi tra la fine della dinastia Han e la fase iniziale del dominio mongolo, quindi tra il III e il XIII secolo d. C.  I primi vasi cinesi in ceramiche dure risalgono al primo millennio a. C., mentre nel III secolo d. C. compaiono le ceramiche Yue, colorate in verde; nel IV secolo  fu introdotta la decorazione in fiore di loto e nel VI secolo fu perfezionata la produzione di ceramiche Yue; dal VII secolo le ceramiche invetriate a vari colori. Segue la ricerca stilistica e decorativa anche per soddisfare la domanda esterna alimentata dallo sviluppo dei traffici marittimi.

Astrolabio,  funzionante in mostra

In Europa le ceramiche cinesi approdarono solo nel XIII secolo, con la “pax tartarica” seguita alle conquiste mongole; tra il XIII e il XVI secolo questi prodotti erano considerati un segno di distinzione per le classi elevate, e utilizzati nei “doni principeschi” di sovrani e diplomatici.

Di recente è stato recuperato il cargo di un bastimento arabo affondato in Indonesia nell’826, proveniente dalla Cina, che ha fornito un’idea di queste esportazioni del IX secolo: sulla nave erano caricate circa 60.000 ceramiche , soprattutto vasellame dipinto ma economico, oltre a prodotti  più pregiati di porcellana bianca, tra cui rari piatti decorati; erano stipate in grande giare di grès. 

Le rotte marittime dalla Cina erano lunghe oltre 8000 chilometri, percorsi in media in sei mesi, mentre per via di terra si impiegava anche un anno tra maggiori difficoltà, a parte il pericolo dei pirati , ma anche negli itinerari terrestri c’erano i banditi.

Venivano utilizzate imbarcazioni di teak o palma di cocco unite con filamenti e saldate con resine senza l’uso di chiodi, un portento!  Nell’Oceano indiano i monsoni soffiavano in inverno da nordest e in estate da sudovest, cosa conosciuta che rendeva le condizioni del mare sufficientemente prevedibili per avventurarsi nel viaggio scegliendo al rotta più adatta.

I “sambuchi”  erano imbarcazioni leggere  e veloci, con la vela latina, si faceva il “punto”  della posizione con uno strumento rudimentale ma efficace, il Kamal, piastra e cordino per allinearsi alla stella polare. Solo nel IX secolo il commercio marittimo divenne un’alternativa a quello terrestre sebbene la Cina avesse una lunga tradizione nei viaggi per mare che risale a due millenni fa; si dovette attendere l’XI secolo perché i transiti per mare superassero quelli per terra. Marco Polo fece i due percorsi, andò per terra nel 1200 sulla Via della Seta, tornò per mare a tappe.

Un’apposita sezione della mostra è dedicata alle rotte marittime, con esposta una carta nautica di Pietro Vesconte, 1311, e un modello di imbarcazione  recente ma che riproduce  le navi dell’epoca.  Vediamo anche una serie di oggetti a documentazione di ciò che veniva prodotto ed utilizzato anche nelle traversate marittime: maioliche e mattonelle, vasi e ciotole, piatti e coppe, bottiglie e brocche.

Con l’approdo via mare o l’arrivo via terra ad Istanbul si conclude la parte asiatica della Via della Seta, al tratto europeo abbiamo fatto riferimento all’inizio allorché abbiamo parlato dei rapporti tra Oriente ed Occidente e il ruolo di Venezia e Genova, citando anche i manufatti esposti in mostra.

Possiamo concludere quindi anche il nostro viaggio virtuale sulla Via della Seta condotto attraverso le suggestioni di una storia ricca e avvincente e le evidenze dei reperti esposti nelle sette gallerie corrispondenti ad altrettante sezioni nel Palazzo Esposizioni.  Siamo investiti da sensazioni e da immagini, il fascino dell’Oriente con i suoi misteri e le sue meraviglie si fa sentire, ed è il grande merito della mostra averlo saputo evocare con il dosaggio di notizie e di evidenze tangibili.

Finisce qui il resoconto della mostra, ma non il nostro viaggio. Questa volta da virtuale diverrà reale, racconteremo prossimamente una nostra visita a Istanbul alla ricerca delle vestigia dell’antica Costantinopoli.  La rievocazione del viaggio effettivo sarà un immergersi direttamente e di persona nel mondo cosmopolita e intrigante dell’ultima tappa dell’itinerario asiatico sulla Via della Seta.

Info

Palazzo Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Martedì e mercoledì, giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso;  accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 10,50, ridotto 7,50, scuole 4 euro a studente, gruppi tra 10 e 25, martedì e venerdì- Con il biglietto si vedono tutte le mostre del Palazzo Esposizioni.  Tel . 06.39967500, mailto:info.pde@palaexpo.it.  Catalogo: “Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente”, Palazzo Esposizioni e Codice Edizioni, ottobre 2012, pp. 296, formato 20 x 24, euro 26; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il 19 e  21 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Esposizioni, e in parte dal Catalogo, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, Dipinto dell’897 raffigurante il Buddha Tejaprabha, ovvero della Luce splendente;  seguono, I mongoli invadono Baghdad nel 1258, e Astrolabio funzionante in mostra;  in chiusura, una Mappa di Costantinopoli che ne mostra la posizione ideale (Corbis).

Mappa di Costantinopoli che ne mostra la posizione ideale (Corbis)

Anna Manna, il viaggio dell’anima di una scrittrice neoromantica

di Romano Maria Levante

A Roma, nella sede della Società Umanitaria in via Aldrovandi, la mattina del 3 febbraio 2013 si è concluso l’intenso week end letterario “Viaggio tra le Vie dell’Arte”, con il motto “Regala una parola”, di “amore, fiducia, tolleranza, empatia, rispetto”. Sabato 2 febbraio, interventi sul valore dei libri, come semina e bellezza, sfogo e verità, chiusura di Anna Manna su “Un viaggio nel mondo della poesia, dei sentimenti e della solidarietà”; domenica 3 febbraio, incontro con gli autori di Akkauria, presentati dal presidente dell’associazione Vera Ambra, e Reading poetico, Premiazione al Concorso nazionale Fantasy Way e conclusione con il libro appena uscito di Anna Manna, Una città, un racconto, presentato da Daniela Fabrizi e Gilberto Mazzoleni, un racconto è stato letto dall’attrice Maria Concetta Liotta. Poi Anna Manna e Daniela Fabrizi hanno lanciato il Manifesto dei Neoromantici per un Nuovo Umanesimo, ideato con Elio Pecora ed Elisa Manna. E’ intervenuta Neria Di Giovanni, Presidente dell’Associazione Internazionale di Critici Letterari.

Anna Manna presenta il Manifesto,sedute Vera Ambra e Daniela Fabrizi

Il fitto programma del week end ci limitiamo a ricordarlo, mentre intendiamo segnalare il Manifesto dei Neoromantici per un Nuovo Umanesimo lanciato al termine e parlare diffusamente del nuovo libro di Anna Manna cui è stata dedicata la parte conclusiva della manifestazione. La stessa Anna Manna ha rivelato che l’idea del Manifesto è nata da una sua intervista un anno fa ad Elio Pecora, che le parlava della “poesia come educazione  al sentimento”. Di lì considerazioni sconfortate sul divario tra “la freschezza delle sensazioni ed emozioni che poeti, artisti e studiosi possono comunicarsi con uno sguardo; e la tristezza per un mondo che scivola verso il basso, l’umanità senza emozioni umane, senza racconti dell’animo, solo numeri, solo sofferenza, solo ferite”.

Come comporre questo divario? Elio Pecora all’inizio era pessimista: “Anna, ma non puoi parlare di neoromanticismo in un mondo che va a rotoli. Non ti sentiranno, non hanno orecchie per sentire”. Poi l’idea è andata avanti negli incontri poetici e culturali con Daniela Fabrizi ed Elisa Manna, è trascorso un anno di maturazione in cui ha trovato conferme e incoraggiamenti da parte di “tutti i poeti che si sentono trapassati dal dolore per questa società che ha dimenticato l’anima”.

Anna Manna lo ha lanciato, Daniela Fabrizi lo ha illustrato, l’indomani  è stato annunciato che nel primo giorno il Manifesto ha avuto adesioni significative, oltre che di Elio Pecora, di Corrado Calabrò e Silvia Costa, Iole Chessa Olivares e il pittore Fabio Piscopo. L’ideatrice ha dichiarato:  “Quel movimento è stato compresso per circa un anno, poi è esploso domenica mattina”. Una  mattinata di sole con il clima propizio alla spinta decisiva, a coronamento dell’intenso week end culturale.

Una fase della Premiazione con Vera Ambra

“Una città, un racconto”, il libro di Anna Manna

Parliamo ora del libro che è stato presentato con un’ampia analisi di Daniela Fabrizi, entrata nei dettagli, diremmo nelle viscere dei racconti, e una sintesi colta di Gilberto Mazzoleni. Da parte nostra racconteremo le impressioni, o meglio le emozioni suscitate da una lettura particolare, nelle circostanze che diremo al termine e ci hanno fatto sentire in viaggio anche noi come l’autrice.

Anna Manna è poetessa, scrittrice e attivissima operatrice culturale: è presente in molte antologie poetiche, ha pubblicato  7 libri di poesia, un romanzo e un libro di racconti, libri di interviste e antologie, saggi ed articoli; ha fondato e presiede premi letterari, “Fiore di roccia” sin dal 1995, e “Rosse pergamene”. Premiata ripetutamente per le poesie e i racconti, le antologie e la saggistica.

Il libro appena uscito contiene 12  racconti, ambientati in altrettante città, di qui il titolo “Una città un racconto”. Formano una storia unica, il libro potrebbe intitolarsi “una donna, una storia” che si dispiega nei tanti luoghi dove manifesta la sua inquietudine, alla ricerca di se stessa in un fluire di sentimenti alimentati dagli stimoli suscitati dagli ambienti che ne sono lo sfondo. Tante sono le corde che fanno vibrare, ma tutte rimandano ad una sensibilità che si rivela a poco  a poco.

Sorpresa e “suspence” suscitano questi racconti. I bozzetti di vita e di ambiente si aprono a soluzioni inattese e inconsuete degli intrecci che nascono sul piano psicologico e nella realtà: di qui la sorpresa. C’è anche l’ansia di conoscere il finale delle storie, mai semplice né scontato: di qui la “suspence”. Per questo ci si trova avvinti dalla lettura senza potersi staccare prima di essere giunti all’ultima pagina. Eppure sono racconti distinti, ogni volta si apre uno scenario diverso con un nuovo protagonista, e questo dovrebbe dare un certo distacco. Sarebbe così se non ci fosse la sorpresa delle sorprese accennata all’inizio, tante città e tanti racconti per un’unica vera storia: l’anima errante alla ricerca di se stessa di città in città, di luogo in luogo, di scoperta in scoperta.

Nei luoghi più diversi incontra persone reali e spesso evoca figure immaginarie che entrano in sintonia con la sua sensibilità: dal pittoresco basso di Napoli all’austero Archivio di Stato, dal dolce litorale di Gaeta a quello  ardente di San Felice Circeo, dall’Urbino di Raffaello alla Spoleto teatrale, dalla silenziosa Mantova alla Varenna lacustre, fino alle colline serene di Spineto e alla tragica concitazione dell’Aquila, non manca il ritorno alla terra d’origine a Tocco Casauria.

Quessto “viaggio in Italia” è soprattutto un itinerario interiore del quale le sollecitazioni esteriori accrescono la profondità e l’autenticità. C’è identificazione e mimetismo, il reale e l’immaginario si sovrappongono confondendosi fino a diventare indistinguibili: ma non è questa la sostanza della vita quando il sogno arriva a sembrare realtà e la realtà delle volte è tale da non sembrare vera? Non è nella forza dei sentimenti una delle chiavi per interpretare eventi altrimenti inspiegabili quando i loro esiti risultano sovrumani? Su tutto questo si riflette durante la lettura, mentre scorrendo le righe fino a divorarle si è presi dalle storie narrate, ansiosi di passare alla successiva e gustarla fino in fondo, e poi ancora e ancora. L’ansia di andare avanti risiede nel fatto che la storia in definitiva è unica, e ci si immedesima nell’anima errante in cerca di un approdo.

Un’anima femminile, a stare alla protagonista che quasi sempre è una donna, nella quale spesso l’autrice appare in prima persona; e a stare al pulsare dei sentimenti con la dolcezza e insieme la forza incontenibile della femminilità. Ma la loro profondità è tale da superare i confini di genere, è l’umanità più autentica che si presenta senza veli e pudori nella sua intrinseca essenza.

Ci sono anche le città, scenario di un’Odissea sentimentale alla ricerca di se stessi che favorisce l’emergere delle pulsioni più riposte, con i valori sottesi dalla loro storia e dai loro ambienti.

Una spontamea osmosi con i sentimenti della protagonista, che resta se stessa anche quando si incarna in sembianze maschili, è un’altra peculiarità rimarchevole di un’opera che non cade nel folklore e nel pittoresco nel descrivere i luoghi, ma vi scava nello stesso modo in cui penetra nell’anima; e trova in ognuno di essi una corrispondenza con quel lato dell’anima più vulnerabile, che la apre a sbocchi imprevisti e inattesi. Sono queste le sorprese che tengono aperta la “suspence” in ogni storia.

La “suspence” resta tesa nell’intero percorso che si snoda tra i tanti “travestimenti”, apparenti e temporanei, della protagonista che sembra nascondersi dietro personaggi diversi, tutti alla ricerca di un qualcosa che è se stessa, la risposta alle inquietudini dell’anima, l’approdo alla sua Itaca. Per scoprire che forse quest’Itaca non c’è, la vita è inquietudine tra i tanti sussulti che le circostanze, e le tappe del viaggio regalano, neppure la bellezza può garantire l’amore se rimane chiusa l’anima.

Anna Manna con il suo libro, “Una città, un racconto”

Le singole tappe del viaggio dell’anima

Si può restare sconosciuti anche se non c’è stato il bisturi chirurgico dell’ultimo racconto, è sempre possibile una cesura nell’anima. “La sconosciuta” non è la protagonista, che la studia da lontano; ma in quel “come faccio ad amarti se io sono … nessuna” si sente anche la sua angoscia, l’angoscia di un’umanità esposta all’alienazione e allo straniamento. E’ la sensibilità femminile sollecitata dalla dolcezza delle colline senesi di Spineto a far emergere l’atavico timore che la bellezza del corpo soverchi la profondità dell’anima: “L’anima di una donna è uno scrigno”  dentro l’involucro del corpo, “che rimane chiuso”  tanto più quanto questo è attraente. “La mia bellezza? E’ un sortilegio… cosa ami di me?”. La Maga Circe aleggia in queste parole e per ora si ferma la ricerca di Itaca. Ma fino a quando? Il viaggio continua, altre città, altre pulsioni attendono di venire alla luce in una ricerca di se stessi che in ogni tappa riserva delle sorprese come avviene nella vita.

Quando la realtà è sospesa in un clima assorto irrompe il sogno e la fantasia, che è la valvola attraverso cui le pulsioni hanno modo di esprimersi liberamente, superando remore e tabù; e nel viaggio della protagonista vi sono tante occasioni di disvelare quanto l’inconscio protegge e non verrebbe fuori senza l’immersione in una dimensione irreale e magica.

“La Famelica di Napoli” – il racconto insignito del Premio Teramo con Michele Prisco presidente della giuria – dà inizio al viaggio abbinando due opposti, in una trasposizione di immagini e sensazioni così immediate da investire il tatto e l’olfatto e confondersi con i sapori e gli odori dei bassi napoletani. Ripugnanza e bellezza nella stessa persona, o meglio nella stessa immagine che tende a sdoppiarsi: “Enorme… In realtà era una bestia che occupava una stalla di olezzi, sudori, madidi affanni”; e poi “il corpo fresco sotto le lenzuola candide. Era bellissima. Ma come era possibile?” Enigmatico, pur nella sua natura schiettamente popolare, con la fuga nella fantasia così spontanea da confondere il sogno irrealizzabile con la realtà ossessionante, indica una via d’uscita dai labirinti impossibili. Ci è tornato in mente un vecchissimo film, “Sogno di prigioniero”, Gary Cooper nella fetida cella immaginava di incontrare la sua donna su un poggio fatato, vestiti da principi, e questo sogno ad occhi aperti si confondeva con la realtà, la superava fino a sublimarla.

Il sogno interviene anche nell’austero Archivio di Stato,“L’inquietante profumo della polvere”, o piuttosto degli effluvi culturali di vecchi manoscritti, stordisce con la scoperta di in un’antica storia che assume i contorni di un giallo con il finale a sorpresa, anzi con una successione di sorprese dalle quali l’anima femminile ne esce con un alone di eroismo. “Quando si legge un libro, una storia, si conoscono i fatti, ma la trama sottile del cuore dove si nasconde, come stanare la verità dell’animo dietro le carte e i certificati della vita?”. Vale per questo moderno libro di racconti come per l’antico manoscritto su “Donna Vittoria”. C’è la “suspence” del giallo,  in una complicità tutta femminile che coinvolge in un’atmosfera alla Dan Brown: “Era un fantasma, un’allucinazione, era la droga della ricerca. Era una sensazione bellissima e me la tenevo anche se fosse stato il sortilegio di un implacabile illusionista”. Il racconto ha meritato l’inserimento nel saggio di Di Rienzo-Marchi, dal titolo su misura “Olfatto e profumo tra storia, scienza ed arte”. Il finale è una delle tante sorprese che spuntano come dei funghi succulenti quanto improvvisi nei boschi delle storie narrate.

L’irrealtà assume contorni reali anche in “Ninetta”, la leggendaria figura che aleggia a Gaeta animando la fantasia con la sua immagine di bellezza e felicità; l’atmosfera del litorale, “dolce e morbido”, favorisce questa trasposizione delle speranze nell’evocare le proprie memorie. Perché nella fanciulla incontrata in treno che stravede per Ninetta si incarna la nonna nell’accogliere la protagonista che torna nei luoghi dell’infanzia, e nel darle lezioni di vita, fino a provocarne l’immersione nel lavacro del mare; per salire nella nave del re e poi di nuovo sulla spiaggia nell’incontro virtuale con la mitica figura ma in effetti con se stessa. Dove “niente diventa reale. Sarà per sempre quell’attimo meraviglioso dell’intuizione della felicità, quell’illusione che tutto possa avvenire senza cambiare nulla”. Ma anche l’illusione da gattopardesca può diventare “una cosa che non è più illusione o sogno ma una realtà indistruttibile”, diventare roccia. E’ l’Itaca della protagonista? No, “sembra di roccia ma potrebbe sciogliersi come un cuore di neve al sole”.

Abbiamo citato, oltre Itaca, la maga Circe, si incontra veramente nei “Miraggi estivi” a San Felice Circeo: la protagonista è turbata dalla sua storia, la vede povera e indifesa rispetto al re potente, preso dalle sue grazie e non dalle sue inesistenti magie, anche se sono l’arma usata contro chi come lei aveva solo una colpa: “Aver stordito Ulisse il re del mare”. Anche qui sogno e immaginazione sono confusi con la realtà, fatta della solitudine, il suo “uomo importante” è rimasto a Roma lasciandola sola, poi si materializza vicino a lei. O si tratta di Ulisse? E’ un’altra la sorpresa da lei non voluta, è stata svegliata in spiaggia da una persona e le si era appoggiata un attimo, ora c’è chi ne vuole approfittare come il re del mare con la maga, il tutto in sedicesimo. Non sveliamo il finale, diciamo solo che nella dura realtà l’uomo è cacciatore.

Gilberto Mazzoleni interviene sul libro di Anna MannaUn altro cacciatore con finale shock a Mantova, dove la storia mitica di Federico e Isabella dà anima e corpo, si direbbe, al dilemma tra le incomprensioni con Giovanni e il fascino del violino di Giancesare: nell’abbandono notturno finiscono per confondersi fino a non poter distinguere gli “occhi di allora di Giovanni” dagli “occhi nuovi di oggi” di Giancesare. Gli uni e gli altri sono “gli occhi di un cacciatore innamorato della sua preda”, come nella storia del Circeo. “Il lupo di Mantova” si materializza sulla porta della stanza, “senza nome, senza ruolo. Senza senso e senza motivo. Il desiderio è come un lupo nella notte incantata”. Anche qui la sorpresa ma anche la morale finale: “Dopo sei la preda del lupo. E nient’altro. E ne sei felice, almeno fino all’alba. Quando la luce ti riveste di domande, di dubbi, di storia”. Itaca si allontana ancora di più.

Ritroviamo un “Suonatore di violino” a Spoleto, dove l’incontro di una notte con la protagonista sembra preludere a una storia; intanto è l’occasione di un sfogo sulla vita familiare e le sue delusioni ma finisce tutto lì, non sa se fare “la ninna nanna o la serenata” a chi non vede ancora la vita ma “soltanto un incontro ieri sera, poi questa notte e poi cosa pretendi?”.  Passano i mesi nel silenzio, poi gli anni, la magia della musica tornerà con una serenata, questa volta vera, e non di un musicista errante e deluso: “La mia vita l’ho trovata… me l’ha insegnata intera il mio violino. Alla fine ho seguito lui, l’ho ascoltato e lui mi ha regalato l’armonia”.  Nella famiglia e nel ricordo sereno di una notte. Per trovare poi un nuovo inizio.

Dalla musica alla pittura, due quadri alimentano l’immaginazione e scuotono i sentimenti della protagonista. Il primo quadro è “La Muta”, al centro del viaggio a Urbino, iniziato con sentimenti alterni: “Nell’animo di Eleonora c’è come uno scollamento pericoloso tra la terra ed il cielo. Un momento di evanescente assenza che la gente chiama tristezza. Ma il giorno dopo, il mattino pieno di luce porta di nuovo l’allegria per tutti”. Per tutti la spensieratezza, mentre lei si isola, “cammina nel mondo sola ma in compagnia di un segreto. Custodisce quel silenzioso segreto nel cuore”.  Nella città ducale “lei sola e distante da tutti, vuole dialogare con l’arte. Un dialogo col silenzio dell’arte”. E’ catturata dalla “Muta”  di Raffaello, “un incredibile miraggio”, che si anima:  “La fanciulla non è più dipinta, sembra una presenza vera, il suo silenzio è fruscio di parole pensate, ma  non svelate”. Per Eleonora “la Muta vive”. E allora cade la “barriera insopportabile” del silenzio, che “demolisce ma ricostruisce anche”. Le parole tanto pensate vengono svelate, il “silenzioso segreto” esce dal cuore, lo grida dinanzi al ritratto che sente come un giudice muto quanto severo. Non lo riveliamo, diciamo solo che un poeta la fa riflettere, “se parli, se sveli, è forse un atto d’egoismo” che può rovinare più di una vita. L’arte come l’ha spinta a rompere il silenzio e confessare, le saprà “regalare la soluzione, un altro silenzio”. E’ la vocazione di Urbino, “silenziosa e sacra cristallizzata nell’eternità dell’arte a custodire inviolabili segreti messaggi, con le nuvole come vele verso il divino”.

Il secondo quadro raffigura una nobildonna o una madre superiora, “Dominia Reverenda Eleonora”, ha una capacità magnetica da sconvolgere il conte:”Ne era affascinato. Ore ed ore a contemplarla”, fino ad esserne ossessionato e a doversi rifugiare in un matrimonio forzato, con “una disgraziata senz’anima” e senza qualità, “altro che il rigore di Dominia Reverenda Eleonora”.  Poi la doppia vita, “un gioco squallido” dal quale cerca di uscire appellandosi ai ricordi, li trova nei libriccini della comunione in soffitta, divenuta “l’angolo del mondo che somigliava alla sua infanzia”, dove fa portare il quadro di Dominia, con cui torna a confidarsi “accarezzando i messalini”. Alla prima comunione di Giovannina, la figlia della domestica Manuela, trova la saldatura tra le memorie e il presente, “quando quel quadro divenne realtà la follia si cangiò in ammirazione”. Ed ecco la sorpresa, c’è un enigma risolto che non sveliamo, diciamo solo che riguarda Giovannina: “I miracoli dei messalini a volte avvengono”.

L’infanzia riemerge ancora più direttamente nel ricordo di Torre Casuria, nel ritorno al paese di origine si sente anche il “vento di Tremonti che raccontava favole e sortilegi”, c’è la “piazza della cultura” intitolata a Gennaro Manna – lo scrittore e poeta di cui l’autrice è figlia d’arte – c’è “un mondo sotterraneo” di ricordi. E poi c’è Pinuccio, “Il pastorello del vento”, con le  sue nuove pecore, le pale dell’eolico “che girano lucide, pulite, simpatiche. Sembrano girandole festose quando il cielo è azzurro e anche quando è nuvoloso”. A noi non sono mai sembrate così, quelle che abbiamo visto finora non sono a Tocco Casauria e feriscono l’ambiente come tante spine nel corpo vivo della natura. Ma chi non si intenerirebbe dinanzi al pastorello che “studia, prepara il suo futuro felice in mezzo alle pale che ama già come fossero il suo gregge”? Il racconto è dedicato al figlio Alessandro, che “da grande voleva fare il pastorello del presepe”. Non certo delle pale, ma questa licenza poetica ci può stare benissimo, di invettive contro l’eolico, motivate dai danni all’ambiente  per non parlare di abusi e peggio ancora, ce ne sono, e tante, ben venga anche questa visione liliale.

Anche perché l’Abruzzo è evocato dai toni drammatici di “Il bacio” che scuote l’anima con le immagini shock del terremoto dell’Aquila: due studenti reduci da una “duplice disfatta” nella loro ricerca di lavoro, il concorso andato male per entrambi, che somatizzano la delusione in incomprensioni e frustrazioni reciproche, fino al momento in cui l’improvvisa “agnitio” dei sentimenti li unisce in un bacio mentre si scatena l’inferno del terremoto. Prima di rileggerlo, lo avevamo ascoltato  nell’intensa lettura di Maria Concetta Liotta con la percussione onomatopeica delle parole divenute scosse telluriche e crolli, grida e trambusto nella sala della presentazione; l’attrice si è così immedesimata nella drammaturgia del racconto da riportare ai momenti tragici del 6 aprile 2009. Per i due giovani la riscoperta di se stessi e del mondo: “Possiamo ricominciare perché siamo diversi… indietro non si torna mai… Se la vita riprende è perché sono morti i nostri fantasmi, i nostri bagagli, le nostre corazze le ha portate via il terremoto”. Tutto è distrutto, anche “la vecchia quercia squarciata”.  Ma timida come il loro bacio, “una piccola inerme pratolina” torna a fiorire: “La natura aveva scelto l’angolo più buio e più stupido del prato per risorgere”.  E’ il solo finale che citiamo, come auspicio che i timidi fiori sbocciati possano dare frutti sempre più copiosi. 

La Copertina del libro di Anna Manna

L’ispirazione dello scrittore nell’autenticità del racconto

Sentimenti e ricordi, sogni e realtà, il “viaggio in Italia” si è dipanato di sorpresa in sorpresa, e non manca neppure un incontro, misterioso e suggestivo come tanti, ma dove più che in altri troviamo la fusione tra l’ambiente e i pensieri che suscita. Nell’“Inseguimento a Varenna” vediamo come “la baldanza del sogno cede il posto ad uno sguardo sulla realtà. Le mie prigioni di parole si spaccano all’improvviso alla dolcezza di questo tramonto sul lago”. E c’è l’apparizione: “Ma eccola… eccola… eccola! E’ lei!”.  Una visione bellissima, poi svanisce, resta il suo profumo, non si lascia raggiungere, eppure tra le immagini e i sogni se ne sente la presenza trasfigurata: “E’ una volpe bianchissima, argentata, che mi guarda di sbieco, no, ecco è una farfalla che mi svolazza intorno, oppure, mio dio, è una lupa famelica che mi scruta benigna ma è pronta a divorarmi”. Il lupo di Mantova riappare al femminile, ma qui non si tratta del desiderio. E’ il tormento e l’estasi dell’ispirazione dello scrittore: “E’ lei il mio personaggio”.

Un personaggio in cerca di autore che lo ha trovato, come gli altri, nella protagonista alla ricerca di se stessa per le vie d’Italia dove sente gli stimoli per rivelare pulsioni recondite. Abbiamo compiuto il suo percorso immersi in queste storie in un itinerario romano tutto particolare, andata e ritorno dalla Montagnola alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna per la mostra sulle “nature morte” apertasi il 18 febbraio. Dieci mezzi pubblici per una lettura avvincente che ci ha fatto apprezzare le attese di bus e metro, tanto più quanto sono state lunghe, perché ci hanno permesso di restare legati ai personaggi, alle loro vicende e soprattutto a quel sottile filo conduttore che è l’anima dell’autrice. In mezzo alle tante storie della natura umana, le “nature morte” pittoriche ci sono apparse ancora di più senza vita, del resto non c’erano quelle di De Chirico che le vedeva come espressione della “natura silente”, e Achille Bonito Oliva ha ribattezzato in “natura viva”,

Abbiamo letto il libro in movimento, accompagnando idealmente la protagonista nel suo viaggio appassionato, che riesce a far rivivere con una prosa suggestiva, nelle descrizioni degli ambienti come degli stati d’animo, ravvivate dal tocco del mistero e dalla “suspence” fino alla sorpresa finale. Pregi letterari che non sta a noi sottolineare nei racconti di una scrittrice superpremiata nei quali l’ispirazione raggiunge accenti così autentici da assurgere alla confessione personale.

Una confessione della scrittrice, ma forse più propriamente dell’animo umano che trova nella sua prosa le parole giuste e i toni appropriati per sprigionare il suo caleidoscopio di umori e sentimenti.-

Info

Anna Manna, Una città, un racconto, Prefazione di Neria De Giovanni, Edizioni Nemapress, novembre 2012, pp. 104, euro 18.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante presso la Società Umanitaria, in Via Aldrovandi 16 a Roma, alla presentazione del libro di Anna Manna e alle Premiazioni, si ringrazia l’organizzazione per l’opportunità offerta. In apertura Anna Manna presenta il Manifesto,sedute Vera Ambra e Daniela Fabrizi; seguono una fase della Premiazione con Vera Ambra, poi Anna Manna con il suo libro,  l”intervento di Gilberto Mazzoleni sullo stesso libroe la suacopertina; in chiusura i Premiati del Concorso nazionale Fantasy Way sulla terrazza della sede.

I Premiati del Concorso nazionale Fantasy Way sulla terrazza della sede

Via della Seta, 2. Le prime tappe, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Dopo aver fatto conoscere la Via della Seta nella sua genesi, anche attraverso le testimonianze dei viaggiatori veneziani e genovesi, con le merci che la attraversavano tra Oriente ed Occidente nei due sensi, la mostra “La Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente ed Occidente”, al Palazzo Esposizioni di Roma dal 27 ottobre al 10 marzo 2013, fa compiere un viaggio virtuale nelle principali località dell’Oriente dove approdavano gli occidentali in uno scambio fecondo di prodotti e tecniche, fedi e conoscenze: sono Xi’an e Turfan, Samarcanda e Baghdad fino ad Istambul.

Pittura d’epoca di Cavaliere

Il viaggio virtuale si svolge nelle gallerie che fanno corona alla grande rotonda centrale del Palazzo Esposizioni, è il cuore della mostra che all’inizio e alla fine presenta le testimonianze e le evidenze sui traffici tra Oriente ed Occidente di cui abbiamo già dato conto nella presentazione.

Xi’an, città della pace

La prima tappa è Xi’an, “la città della pace”, con il massimo splendore sotto la dinastia Tang, dal 618 al 907 d. C., meta di mercanti con un milione di abitanti, un’urbanistica di palazzi imperiali, templi e mercati. Risalgono all’XI secolo a. C. le prime notizie come centro culturale e politico, all’epoca della dinastia Zhou, 1045-256 a. C. Dalla dinastia Sui, dal 581 al 618 d. C., divenne la capitale, estesa su 84 chilometri quadrati circondati da mura. Alla fine della dinastia Tang fu distrutta e gli abitanti emigrarono, finché nel XIV secolo con la dinastia Ming fu ricostituito un abitato molto più ristretto, 12 chilometri quadrati, di cui ci sono pervenuti i resti. Oggi ha 8 milioni di abitanti, moderno centro di produzione di petrolio e carbone, oggetto di attenzione degli archeologi di tutto il mondo e di flussi turistici.

Vi è tuttora una fiorente sericoltura dall’epoca del fulgore della Via della Seta. La produzione di seta prende l’avvio dal ciclo vitale del baco che si conclude con l’intervento umano per interrompere il processo prima che si schiuda il bozzolo in modo da poter raccogliere i preziosi filamenti con i quali viene prodotto un tessuto dalle straordinarie caratteristiche: resistente  e robusto, nel contempo morbido ed elegante, fresco d’estate e caldo d’inverno, sembrava “magico”.

Ma, a parte l’importantissima seta, Xi’an con l’afflusso di viaggiatori e mercanti che influenzavano ogni aspetto della vita, era un crocevia di tradizioni e culture, e anche di fedi religiose. Vediamo un catino d’argento del ‘700 proveniente dalla Persia, una coppa a forma di corno, il “rhyton”, realizzata in Asia orientale e portata in Cina dai viaggiatori; facciamo la conoscenza anche del mercante di vino,  una figuretta ugualmente originaria dell’Asia centrale.

Di particolare interesse le religioni che si incrociavano nella  capitale, portate dai mercanti e viaggiatori insieme alle proprie merci e tradizioni; lungo la Via della Seta venivano costruiti templi religiosi oltre ai luoghi di sosta e ristoro che si trasformavano in vasti abitati. Erano rappresentate le principali fedi dell’epoca, favorite dalla tolleranza religiosa di alcune dinastie cinesi,  come quella dei Tang: buddhismo e  zoroastrismo, taoismo e  confucianesimo,  cristianesimo nestoriano ed ebraismo, islamismo e manicheismo. Il buddhismo, nato in India con Siddhartha  Gautama nel 450 a. C., all’insegna del raggiungimento del “nirvana”  con la libertà dalla sofferenza, si sviluppò attraverso il proselitismo dei suoi monaci che nella Via della Seta promettevano la protezione divina ai viaggiatori:  nel 500 d. C. in Cina vi erano 2 milioni di buddhisti.

Di Xi’an viene ricordato che era un approdo anche dal punto di vista musicale per chi percorreva la Via della Seta: la musica era utilizzata nelle cerimonie religiose e delle comunità, inoltre era un linguaggio comprensibile alle varie lingue ed etnie e uno strumento di diffusione della fede e dei valori della tradizione. I primi strumenti avevano fili di seta intrecciati con bacchette di  bambù.

Resta un’immagine cosmopolita in cui i commerci si intrecciano alle fedi, le merci alle culture, le melodie lamentose della tradizione ai profumi esotici. Da qui la Via della Seta attraversava il deserto di Taklimakan per giungere alla seconda tappa, l’oasi lussureggiante di Turfan.

Pannello di marmo che raffigura  danzatori sogdiani

L’oasi di Turfan

Per entrare nello spirito dei viaggiatori di allora basta considerare che l’oasi dista 2500 chilometri da Xi’an, un deserto arido tra dune altissime fino alle Montagne Fiammeggianti, chiamate così perché infuocate dal sole. Il viaggio a dorso di cammello richiedeva mesi e l’arrivo alla vegetazione e all’acqua dell’oasi, in un’area posta al centro del bacino montuoso, doveva essere una liberazione, Veniva coltivata frutta e verdura in grande varietà con sistemi di irrigazione che convogliano l’acqua raccolta dalle piogge e dai rilievi montuosi, attraverso i canali sotterranei del cosiddetto “karez”, portandola per chilometri sui campi, come avviene tuttora.  La mostra “fa entrare” nell’oasi con un pergolato che rende in modo tangibile quell’ambiente fresco e accogliente.

Queste caratteristiche veramente preziose nella terra desertica sono alla base della storia tormentata della località, presa di  mira dai popoli limitrofi e dalle tribù turche, fino alla riconquista da parte della dinastia Tang, tra il 618 e il 907 d. C.; poi tra il VII e il IX secolo ripresero gli scontri tra cinesi, tibetani e turchi per il dominio sull’oasi e la città di Turfan.  Anche i mongoli, dei quali abbiamo ricordato la forza espansionistica, dominarono su Turfan dal 1209 al 1389. Poi ci fu il dominio di piccoli stati  nei loro rapporti complessi e agitati con la dinastia cinesi dei Ming, dal 1384 al 1644, verso cui il sovrano locale Yunus Khan arrivò a dichiarare guerra, dopo il 1465,  allorché furono introdotti forti limiti all’invio di delegazioni, ma ne fu sconfitto. Seguì la dinastia dei  Qing, dal 1644 al 1912, con la quale ci avviciniamo ai giorni nostri. Oggi Turfan è una “città giardino” di mezzo milione di abitanti, meta di turisti,  per i suoi vigneti è detta  “valle dell’uva”.

Ma tornando ai traffici sulla Via della Seta, l’oasi oltre a luogo di sosta e ristoro diventava un mercato fiorente e affollato, anche con prodotti di lusso come pelli pregiate e pietre preziose.

Spiccavano le pellicce, e anche le code di animali e le piume d’uccello a scopo ornamentale, nelle cerimonie imperiali venivano usate centinaia di ventagli con penne di pavone. E c’erano i tessuti non solo di seta, ma anche di lana, presa da cammelli, yak e pecore; e cotone, che cominciò a essere prodotto a Turfan nel 700 d. C, con lino, canapa e altre fibre tessili.

Le pietre preziose venivano dall’Afghanistan e dal Vietnam, arrivavano in Cina e in Persia, spesso venivano donate dagli ambasciatori ai regnanti; tra loro i lapislazzuli, di cui anche oggi sono i maggiori fornitori, con il loro colore blu che evocava l’acqua così preziosa nel deserto.

A Turfan si produceva  soprattutto frutta, con particolare riguardo all’uva  che cominciò ad essere trasformata in vino con la dinastia di Tangn, che lo conobbe nel VII secolo espandendosi verso Occidente; prima c’erano bevande ottenute dalla fermentazione di orzo e riso.  Il primo assaggio di vino fu dell’imperatore Mu Zong, che regnò solo tre anni, tra l’821 e l’824, e definì la bevanda “principe della grande tranquillità”, fu profetico, doveva trovarla poco dopo con la morte.

Non solo piante per l’alimentazione, anche piante aromatiche, sostanze medicinali  e pigmenti a Turfan: si citano il “sale inglese” e l’incenso, precisando che vi era un confine molto sottile tra la cura del corpo e il godimento dei sensi, per cui la stessa sostanza veniva usata come farmaco o come fonte di sensazioni piacevoli indipendentemente dalla cura dei malanni.

Le sostanze di origine vegetale erano  la corteccia della cassia e le alghe marine, i semi di ricino e lo zafferano, la menta e il rabarbaro; quelle di altra origine i capelli umani e le corna di rinoceronte. C’erano poi sostanze come il “bezoario”, cibo non digerito di certi animali, usato per curare dei disturbi ma con proprietà descritte così da un medico cinese: “Rappacifica l’anima celeste e rafforza quella terrena. Libera dagli spiriti maligni e libera dal male interiore”. Le fragranze più in uso erano il legno di sandalo e la canfora, l’ambra e l’incenso, l'”agarwood” e la corteccia di storace.

Si lascia l’oasi con le sue fragranze per inoltrarsi nel deserto seguito dai monti del Tian, la meta è affascinante, addirittura la mitica Samarcanda.

Ciotola, ottone ageminato  in argento e oro, Fars (Iran), XIV sec.

La mitica Samarcanda

Si arriva a Samarcanda dopo altri 2500 chilometri, attraversando la catena del Tian e scendendo nella profonda valle di Fergana. E’ una città antichissima, con più di 2500 anni di vita, ora fa parte dell’Uzbekistan, il nome viene dall’unione della parola persiana “asmara” cioè pietra o roccia, e “quando”, città,  fu occupata da Alessandro Magno che  rimase impressionato dalla sua bellezza di capitale di una satrapia dell’impero persiano, Sogdiana,  chiamata Marakanda dai greci.

Era in una posizione strategica sulla Via della Seta, a metà strada tra Xi’an e l’allora Costantinopoli, a ovest della città c’è Baghdad. Nell’VIII secolo fu presa dagli arabi e nei due secoli successivi divenne un centro di civiltà islamica; nel Medioevo  era una metropoli che attirava i mercanti e quindi centro di  commerci, vi si produceva seta e carta di elevata qualità, oltre ai metalli.

Nel 1220  fu occupata e distrutta da Gengis Kahn, e nel 1270 subì una nuova distruzione dal sovrano mongolo Khan Baraq. Ma non finì così, al termine del XIII secolo tornò a fiorire, tanto che Marco Polo la descrisse come “una città enorme e splendida”.  A farla rinascere fu il conquistatore mussulmano Tamerlano, vissuto tra il 1336 e il 1405, fu la capitale del suo impero dall’India alla Turchia; fece costruire palazzi,  moschee e giardini, e la popolazione raggiunse 150.000 abitanti.ù

Ma con i successori, i Timuridi, ci fu la disgregazione dell’impero e la città decadde, finché cessata questa dinastia, fu annessa all’emirato di Bukhara; nel 1886, dopo essere entrata vent’anni prima nell’orbita della Russia, divenne la capitale del Turkestan, e due anni dopo dell’Uzbekistan, fino al 1930 quando le subentrò Tashkent.  La sua posizione sulla Via della Seta si riflette tuttora nella sua produzione serica  e cotoniera,  e in quella dei metalli secondo le antiche tradizioni, nonché nei prodotti alimentari dal grano al vino e al tè. Tra i metalli c’era anche oro e argento, che venivano plasmati per produrre oggetti ornamentali, anche combinandoli e decorandoli; l’argento di Samarcanda veniva usato per coniare monete dei regni arabi ne persiani, oltre che del sogdiano.

All’epoca della Via della Seta vi si trovavano tutte le merci con le quali i mercanti trafficavano sulle direttrici dei commerci che avevano come fulcro quell’itinerario, si pensi che nella zona intorno a Samarcanda ogni località aveva locande per i viaggiatori: il geografo arabo Ibn Hawqal parla di “duemila caravanserragli e locande dove chiunque arrivi può trovare cibo sufficiente per sé e foraggio per gli animali”. I  mercanti usavano tutti i mezzi, anche presentandosi come cammellieri e guide per le carovane, che erano composte di pellegrini, viaggiatori e mendicanti.  Come bestie da soma nella Via della Seta erano impiegati i cammelli, capaci di portare carichi fino a 350 chili, in grado di cibarsi di piante desertiche e di restare diversi giorni senza bere. Le abitazioni dei commercianti erano lussuose, perfino con dipinti murali all’esterno

A Samarcanda, in particolare, si sviluppò la produzione di carta: la leggenda tramanda che il segreto fu carpito alla Cina dagli islamici nel 751 dopo la vittoriosa battaglia di Talas, nell’Asia centrale, in cui furono fatti prigionieri molti artigiani cinesi.  “Di tutti i tesori che percorsero la Via della Seta nessuno fu più potente della carta”, scrivono nel Catalogo della mostra Norel, Leidy e Ross.

In effetti dalla carta alla scrittura con inchiostro il passo fu breve: fu utilizzata  subito per lettere di credito e simili in modo da non portare denaro, in documenti ufficiali e poi nella letteratura; favorì molto lo sviluppo della cultura e delle scienze. Gli islamici a lungo furono diffidenti, tanto che il Corano fu scritto su pergamena e non su carta fino al X secolo, allorché nel 971-72  fu copiato su  carta dal calligrafo Al Razi, e fu avviato un nuovo stile di scrittura, il corsivo dopo i caratteri cufici. Si fa osservare che sin dall’848 a. C. vi fossero libri completamente realizzati con la carta.

Per raggiungere Baghdad, la quarta tappa sulla Via della Seta, si attraversa il fiume Amu Darya, tra i più lunghi dell’Asia centrale, poi si costeggia il Grande deserto salato iraniano,  per passare nei valichi dei monti Zagros, fino a raggiungere le pianure irachene. L’avventura continua, racconteremo prossimamente le ultime due tappe: Baghdad, la città della sapienza,  e Istanbul,  la porta dell’Oriente.

Info

Palazzo Esposizioni, Via Nazionale 194, Roma. Martedì e mercoledì, giovedì e domenica ore 10,00-20,00, venerdì e sabato fino alle 22,30, lunedì chiuso;  accesso fino a un’ora prima della chiusura. Ingresso intero euro 10,50, ridotto 7,50, scuole 4 euro a studente, gruppi tra 10 e 25, martedì e venerdì- Con il biglietto si vedono tutte le mostre del Palazzo Esposizioni.  Tel . 06.39967500, mailto:info.pde@palaexpo.it.  Catalogo: “Via della Seta. Antichi sentieri tra Oriente e Occidente”, Palazzo Esposizioni e Codice Edizioni, ottobre 2012, pp. 296, formato 20 x 24, euro 26; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo è uscito, in questo sito, il 19 febbraio, il terzo e ultimo uscirà il 23 febbraio 2013. con 4 immagini ciascuno. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Palazzo Esposizioni, e in parte dal Catalogo, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura una pittura d’epoca di Cavaliere, seguono Pannello di marmo che raffigura  danzatori sogdiani e Ciotola, ottone ageminato  in argento e oro, Fars (Iran), XIV secolo; in chiusura Produzione del vetro rappresentata in un manoscritto d’epoca.

“Produzione del vetro” , in un manoscritto d’epoca

Inferno di Dante, Rodin all’Accademia di Spagna, Roberta Coni alla Galleria Russo

di Romano Maria Levante

Una grande mostra su “L’Inferno di Dante”del celebre scultore Auguste Rodin alla Real Accademia di Spagna a Roma, che espone dal 29 gennaio al 10 marzo 2013 ben 129 “disegni neri”  dell’opera grafica “album Fenaille”, definita “monumento alla bibliofilia”, stampata dalla Casa Goupil, innovatrice nelle tecniche di riproduzione e diffusione delle opere artistiche. Presentiamo anche l’opera del tutto diversa sul tema “Inferno”, di Roberta Coni, alla Galleria Russo a Roma, dal 16 novembre al 7 dicembre 2012, 25 grandi pitture con il titolo “Tentar la carne – Inferno I”.

Stampa di disegno di Auguste Rodin

L’abbinamento non vuole accostare né i due “corpus” di opere, i cui generi sono diversissimi, dalla resa spettacolare non comparabile; né gli autori, ovviamente lontanissimi nel tempo e nella caratura artistica, che nel grande Rodin è incommensurabile. Intendiamo solo far seguire all’interpretazione di fine ‘800 di Auguste Rodin, che si dedicò per decenni al tema dell’Inferno dantesco, quella attuale della pittrice Roberta Comi che si è accostata al I canto con ammirevole slancio e costanza.

I disegni del grande Auguste Rodin

Le stampe dei disegni sono chiamate “album Fenaille”, dal nome del mecenate, oppure “album Goupil” dal nome dell’editore, la Casa Goupil fondata nel 1850 a Parigi da Adolphe Goupil, che si estese in Europa con sedi a Londra e Berlino, Bruxelles e Vienna, in America a New York e anche in Australia. Ora la “Collezione Goupil” – cioè le opere grafiche prodotte dalla casa – si trova nel Museo d’Aquitaine di Bordaux, al quale si deve la mostra.

Rodin realizzò i suoi disegni nel 1897, mentre era impegnato nella famosa opera scultorea ” Le Porte dell’Inferno”, alla quale lavorò senza concluderla tra il 1880 e il 1917, anno della morte; le vicissitudini della committenza – prima per le porte del Museo delle Arti Decorative, poi trasferita alle porte del Louvre quando tale museo non venne più realizzato e sembrava volessero insediarlo nella grande sede parigina, infine annullata – non dissuasero l’autore, che si impegnò per decenni  realizzando una vasta serie di singole sculture riunite in composizioni. Il calco in gesso fu esposto in una mostra francese dell’epoca, e solo dopo la sua morte ci furono alcune fusioni in bronzo.

Questo per l’opera scultorea, mentre i disegni furono regolarmente stampati e l’album che li raccoglieva divenne celebre. Le prove di stampa, “Bon a tirer” – cioè i suoi “Visto si stampi” – hanno il pregio aggiuntivo di recare le preziose annotazioni correttive per migliorarne la resa, apportate dall’artista che seguì personalmente la stampa. Il procedimento seguito era della “fotoincisione”, creato dal direttore artistico della stessa casa Goupil, impressa ad incavo su fogli di rame, il colore veniva dato “a tampone” con diversi inchiostri sulle singole tavole.

I disegni hanno la stessa ispirazione delle sculture sul tema, l’Inferno dantesco, ma vennero concepiti in assoluta autonomia, non sono studi preliminari; e come nei disegni di Michelangelo, le forme impresse hanno una plasticità scultorea impressionante.

La spiegazione si trova nelle parole di Octave Mirbeau, lo scrittore e critico morto nel 1917, pochi mesi prima di Rodin al quale dedicò l’appassionato omaggio da cui le abbiamo tratte: “Basterebbero questi disegni per la gloria di un artista, perché hanno tutto ciò che costituisce la  bellezza: l’invenzione e la forma. Eppure, la maggior parte sono soltanto il germe dell’opera futura, e il sogno dell’opera futura, che la mano riporta sulla carta, con la punta di una matita o di una penna, prima di fissarli nella materia dura dove s’incarneranno, rendendoli immortali”. E ancora più direttamente: “Con questi disegni, assistiamo giorno dopo giorno e per così dire, disegno dopo disegno, alla creazione di questi innumerevoli poemi che compongono la Porta dell’inferno”. Non si poteva esprimere meglio il rapporto tra disegno e scultura, tra ispirazione ed espressione artistica. 

Stampa di disegno di Auguste Rodin

Le 129 stampe esposte sono divise in tre gruppi: 82 sull’Inferno, 31 sul Limbo, e 16 su soggetti biblici e su opere di Michelangelo; alcune vengono collegate ad opere su temi analoghi di Goya e Rembrandt, come ai disegni di Victor Hugo, che Rodin conosceva dalla mostra di Parigi del 1888.

Nei cosiddetti “disegni neri” l’inchiostro è usato con abbondanza e intensità, per raffigurare una vasta serie di personaggi della cantica dantesca, con particolare attenzione per le furie, gli spettri, i demoni. Dell’Inferno ricordiamo la Barca di Caronte e Cerbero, Minosse e Maometto, Paolo e Francesca, il Conte Ugolino in più disegni, gli Eretici e i Gruppi di condannati; del Limbo Dante e Virgilio oltre a molti disegni di Bambini e di Anime in attesa; dei temi mitologici il Centauro che rapisce due donne, Castore e Polluce, Icaro e Fetonte, è ritratto anche Michelangelo.

Le prove di stampa dei disegni sono nette, di piccole dimensioni; riflettono inquietudini e speranze, passioni e sensualità, senso della vita e paura della morte nella visione di un sommo artista che, sempre nelle parole di Mirbeau, si esprime “meglio di un poeta, meglio che con le parole, con le forme. Con lui nasce uno stile, è stato il grande riformatore della statuaria che gli deve un certo modellato, un movimento, una passione, e cioè una comunione più intima dell’arte con la natura o, se preferiamo, con l’amore umano che possiede la natura in modo più completo, più virile”.

Proprio questo esprimono i suoi disegni, forme scultoree ispessite dal segno forte e dall’uso di un inchiostro pesante e invasivo, ma raffinato nelle linee, sono “un’opera gloriosa e rara e nel contempo toccante”.

E’ come una mostra teatrale – aggiungiamo noi – bozzetti di scenografie espressivi e coinvolgenti.

Stampa di disegno di Auguste Rodin


I dipinti di Roberta Coni

Nessun contemporaneo  si potrebbe accostare a un artista che lo stesso Mirbeau definisce “la più alta coscienza e la gloria più pura dei nostri tempi”, motivando così il suo giudizio: “L’anima, che dall’antico Egitto e dalla Grecia può attraversare i secoli per fecondarli, la ritrovo in lui, in tutta la giovinezza della sua eternità”. Perciò quello con Roberta Conti è un accostamento riferito essenzialmente al tema dantesco e all’impegno appassionato, esulando ogni parallelo artistico improponibile per quanto si è detto. Anche l’approccio all’opera è diverso e ne parleremo presto.

Prima, però, qualche notizia sulla pittrice, diplomata in pittura all’Accademia delle Belle Arti di Roma nel 1999, con un cursus honorum fitto di mostre personali e collettive e di riconoscimenti.  La sua ricerca pittorica – scrive Beatrice Buscaroli – è un’introspezione “raccontandosi nel profondo, mettendo a nudo le sue debolezze e le sue ossessioni, dichiarandosi allo specchio senza alcun filtro, senza alcuna protezione”. Lo abbiamo visto in altre sue opere dal 2009 al 2012, l’Autoritratto e intensi volti soprattutto femminili e di altre etnie, come La Vergine di ferro e Ragazza indiana con corona tradizionale, Ragazza dello Sri Lanka e la serie dedicata a Osas,un trittico e più di 20 ritratti alla ragazza con turbante. C’è tanta Intensità e introspezione.

Con le pitture sull’Inferno dantesco si ha un salto di qualità, ben più dell’apertura di un’altra pagina. Lei stessa ci ha detto di persona che intende continuare su questa strada, esplorando i singoli canti della Commedia, come ha fatto per il I Canto cui era dedicata la mostra. Alla Galleria Russo veniva distribuito ai visitatori un foglio recante le 45 terzine del canto , con i 136 versi complessivi.

I titoli delle singole pitture rimandano ai rispettivi versi, si va dai 7 dipinti  della serie Le disperate strida ai 3 con La perduta gente eai 2 di La seconda morte ciascun grida; dai dittici di La lonza, La lupa, Il leone alle opere singole, La caduta e Le genti dolorose, Eran dannati i peccator carnali e Le fangose genti, Le segrete cose e Dentro le segrete cose, fino al più tragico, La belletta negra.

Dipinto di Roberta Comi

Tutte le pitture esprimono una intensa carnalità, nella forma e nel colore, accentuata dalle grandi dimensioni, alcune anche lunghe 3 metri; i dittici sono 2 metri per 2 con figure corpose che nella “Lupa” diventano aggressive, in “Le tre fiere”, 2 metri per 1,40,  visi allucinati; nelle altre, in varie misure, masse di corpi avvinghiati o travolti dal turbine infernale con evidenti i  visi disperati.

L’osservatore ha la sensazione, nelle parole della Buscaroli, di essere “risucchiato all’interno della scena dipinta in tutte le sue sfumature, in tutta la sua forza evocatrice”. E più in particolare: “Le urla, gli stridii, gli arti contratti, le proporzioni enfiate come in scolpiti ruderi trecenteschi, le smorfie, i ghigni, le costole, il sangue, il sangue, il sangue”; e ancora: “Gorghi tondi di forme attorte e contratte, ritagliate spesso in forme tonde da anamorfosi allucinate , senz’aria e senza speranza”.

E’ una perfetta riproduzione a parole delle immagini dipinte, che la Buscaroli legge al femminile, ma che incarnano l’umanità senza distinzioni di genere: questa è stata la nostra sensazione.

Del resto l’artista interpreta la sua opera come “un viaggio di speranza e riaffermazione dell’umano e del divino”, rivolto all’oggi e al domani, allorché si ripropongono con forza crescente le paure per le incertezze e le precarietà del futuro, e con esse gli interrogativi sul “bene e il male, il giusto e l’ingiusto, la salvezza e la dannazione”. 

Commenta così la Buscaroli: “Quella che interessa l’artista è l’‘alta speranza’, il messaggio salvifico insito nel racconto della pittura e nella sua possibilità evocatrice, all’interno di una presa di coscienza della reale portata della pittura, in grado di accompagnare e redimere”. Mentre la poesia è stata vista come eternatrice, qui la pittura diventa un mezzo di conforto e salvezza. Tanto più se riferita alla Divina Commedia di Dante , che dopo l’Inferno ha il Purgatorio e il Paradiso.

Dipinto di Roberta Comi


Info

La mostra di Auguste Rodin è aperta fino al 4 marzo 2013 presso la Reale Accademia di Spagna al Gianicolo, piazza San Pietro in Montorio 3, tutti i giorni tranne il martedì dalle ore 10,30 alle 19,30,  ingresso gratuito. Tel. 06.5812806. Per la mostra di Roberta Coni, che si è chiusa il 7 dicembre 2012 alla Galleria Russo di Roma, via Alibert 20, il Catalogo: Roberta Coni, Tentar la carne, a cura di Beatrice Buscaroli, ottobre 2012, Palombi Editori, pp. 80, formato 22 x 22.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante, per la mostra di Rodin alla Reale Accademia di Spagna il giorno dell’inaugurazione; per la mostra della Coni alla Galleria Russo il giorno della chiusura. Si ringraziano gli organizzatori e i titolari dei diritti delle due mostre per l’opportunità offerta.

Dipinto di Roberta Comi