Carracci, 2. I seguaci a Roma fino ai primi caravaggeschi, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Dopo aver presentato la mostra “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630”,  tenutasi  a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012cheesponeva 140 dipinti dei seguaci di Caravaggio e Annibale Carracci,raccontiamo la visita soffermandoci sui principali artisti delle due “squadre” nelle sezioni dedicate alle rispettive committenze pubbliche e private. Risalta il  delicato classicismo dei seguaci di Carracci e il forte realismo dei caravaggeschi in un confronto inedito che accresce l’interesse  oltre a quello dovuto al valore delle opere, molte mai esposte prima.

Carlo Saraceni, “Santa Cecilia e l’angelo”, 1610

Abbiamo già descritto il folgorante ingresso alla mostra con il confronto ravvicinato sulla raffigurazione della “Madonna di Loreto” rispettivamente di Annibale Carracci e Caravaggio che marcava visivamente le impressionanti differenze stilistiche e di contenuto sullo stesso tema.

Ora entriamo  nel vivo del confronto tra le “squadre” di seguaci, nello spettacolare allestimento di Pier Luigi Pizzi che valorizzava lo speciale spazio espositivo di Palazzo Venezia i cui saloni evocavano le navate delle cattedrali nelle opere di committenza pubblica;  mentre richiamavano le più discrete sale nobiliari per le opere di committenza privata. Nelle prime un fondale rosso e altari virtuali con sopra le grandi tele, nelle seconde un sobrio  fondale bianco, la moquette sempre rossa.

L’alternativa a Caravaggio degli epigoni di Carracci, 1600-1630

Cominciamo la rassegna richiamando  “La Madonna di Loreto” posta all’inizio della mostra  nelle due interpretazioni di  Annibale Carracci e Caravaggio, di analogo soggetto ma diversissimo contenuto. L’artista bolognese sfodera il suo classicismo con un’immagine maestosa e ispirata, quasi assunta in cielo con gli angeli che portano la Santa casa in un volo divino: l’artista lombardo esprime invece la profonda umanità della Vergine, in un realismo che ignora ogni elemento miracolistico e sottolinea il carattere popolare della Madonna e dei due  pellegrini, poveri e devoti.

Nessun altro raffronto diretto, di Caravaggio era esposto solo il “Sant’Agostino” di cui abbiamo già parlato, in uno splendido isolamento, anche perché era fresco di attribuzione  non ancora pacifica. Di Annibale Carracci due grandi tele: in “San Diego di Alcalà intercede per Diego Enriquez de Herrera” alla figura del santo e del suo protetto si aggiunge il Cristo in alto sopra una nuvola sorretto dagli angeli com’era la Madonna di Loreto in volo sulla Santa casa; in “Santa Margherita”, una sola figura nel paesaggio con  vegetazione, il classicismo è nel soggetto, mentre l’ambiente è improntato al naturalismo di matrice lombarda e veneta. “Lo stile, scrive  nel Catalogo Barbara Guelfi citando Dempsey, è quello caratteristico della maniera romana di Annibale, e prova come egli stesso stesse rielaborando le idee bolognesi alla luce delle esperienze romane”.

Ed ora la carica dei “bolognesi” che seguirono Carracci a Roma, nella sezione dedicata alla committenza pubblica, la più spettacolare di questa categoria e delle altre corrispettive, per la grande dimensione dei dipinti e la loro collocazione monumentale.

Il primo è Antonio Carracci, con “San Giovanni Battista nel deserto”,  per il quale vi è qualche incertezza nell’attribuzione; al riguardo Alessandro Zuccari, dopo numerosi raffronti con le tante opere sullo stesso personaggio “precursore” che con il dito alzato indica la venuta di Cristo,  afferma che la ripulitura del restauro “permette ora di apprezzare la qualità del dipinto sia sul piano compositivo sia nell’impostazione luministica  e cromatica, così da rendere più probabile l’attribuzione ad Antonio Carracci”.

Ma il più grande è forse Guido Reni, il cui “Martirio di santa Caterina” richiama nella composizione i motivi di Carracci, con gli angeli che la assistono dall’alto, c’è anche qualcosa di Cavaraggio. La Guelfi lo individua così: “Se elementi caravaggeschi sono particolarmente evidenti nella figura del carnefice, nella robustezza dell’angelo e nei decisi contrasti di luce e ombra, questi sono tuttavia ricomposti all’interno del vocabolario reniano, che ingentilisce le forme in una preziosa tessitura cromatica”.

Altrettanto il dipinto di Giovanni Lanfranco, “La Vergine col Bambino sulle nuvole con i santi Carlo Borromeo, Caterina d’Alessandria e Agostino”  per la maestosità della Madonna sospesa al centro della scena richiama il “caposcuola”, per i tratti del volto e le due sfere il Correggio “in una felicità cromatica che è tipicamente lanfranchiana”, commenta  la  studiosa ora citata.

In “Santa Maria Maddalena e due angeli”  il Guercino (al secolo Giovan Francesco Barbieri),presenta le figure angeliche non più ascetiche e sospese in alto ma vicine alla santa appoggiata a un tavolo come persone amiche, in un’atmosfera umbratile che la stessa studiosa  chiama  “romanticismo pittorico”.  Del Guercino, nei vicini Musei Capitolini  c’è stabilmente una vasta esposizione culminante nel gigantesco “La sepoltura di Petronilla”, in un’apposita sala all’ingresso della straordinaria galleria d’arte. Tornano ad essere puttini in volo come in una nuvola gli angeli che recano ghirlande per “I santi Domitilla, Nereo e Achilleo”, del Pomarancio (al secolo Cristiano Roncalli),  al centro Domitilla nella luce con lo sguardo verso l’alto, come la “Santa Cecilia” di Raffaello,  ai lati i due santi nell’oscurità.

Dai bolognesi ai fiorentini e, più in generale ai toscani. Ritroviamo il motivo degli angeli putti sulla nuvola  in Agostino Ciampelli, “Pietà con angeli” , un motivo di gloria inconsueto nella tragica scena che sembra richiamarsi a Michelangelo, vi si trova  “il classicismo bolognese di matrice carraccesca – commenta  Giorgio Leone – e la luce di matrice caravaggesca”.  

Non sono scene di “Pietà”, ma pur sempre di martirio cristiano, quelle di Passignano (al secolo Domenico Cresti), “Lucina recupera il corpo di san Sebastiano nella Cloaca Maxima”  e di Giovanni Billivert, “Martirio di san Callisto”: Il Passignano, citiamo le parole di Federica Gasparrini, nella solidità delle figure “sembra risentire delle ultime istanze del naturalismo classico, e, in particolare, carraccesco”. Anche in Bilivert, che ha contrasti chiaroscurali, gli elementi di classicismo  sono nella ricerca di plasticità; Adriano Amendola, cita  “Hongewerff   che vi ravvisò una mancata comprensione del lessico caravaggesco”.

Del tutto diverso “San Gregorio Magno benedicente” di Anastasio Fontebuoni, che viene collegato a Ciampelli e Passignano: fu affascinato dalla rivoluzione di Caravaggio, e se ne vedono chiari segni nella figura sbalzata dal buio con forti effetti di luce, ma segue canoni classici tardo-manieristi  di cui, secondo Consuelo Lollobrigida, “recupera la stessa magniloquente solennità”

Arthemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni”, 1610

A Roma, la “calata” degli emiliani e dei toscani andava ad invadere un campo dove operano due grandi dell’epoca, celebri per diversi motivi: Il Cavalier D’Arpino e Giovanni Baglione.

Del Cavalier d’Arpino (al secolo Giuseppe Cesari), era esposto il dipinto  “Santa Barbara riceve dall’angelo il vestito bianco”,  in un’immagine delicata, la santa martire con lo sguardo in alto verso l’angelo in un’atmosfera assorta e luminosa, il corpo dalle forme morbide e modellate in una posa quasi sensuale in quella che Valeria Merino chiama “quella ricorrente oscillazione di Cesari tra fascino terrestre ed estasi celeste”. Per la studiosa, “è  universalmente annoverato tra i capolavori del Cavalier d’Arpino, realizzato in un periodo particolarmente fecondo di committenze pubbliche e private che portano l’artista a raggiungere il culmine della  sua intensa a attività creativa”.

Giovanni Baglione  era presente con “Apparizione dell’anglo a san Giuseppe” , “un’opera di transizione in cui prolungamenti di pittura figurativa tardo-manierista convivono accanto a nuove sollecitazioni di mitigato naturalismo”; scrive Guendalina Serafinelli;  e cita le parole di Morandotti  che lo raffronta all’angelo del celebre “Riposo durante la fuga in Egitto” come “una delle prime attestazioni della fortuna di Caravaggio nella Roma degli artisti”.

Alcuni di questi artisti si incontravano ancora nella sezione dedicata alle “opere private”, di minori dimensioni, collocate semplicemente nelle pareti su fondo bianco i cui temi erano mitologici o eroici, oltre che religiosi. Primo tra loro il Cavalier d’Arpino, in “David con la testa di Golia”, figura delicata, fasciata da una luce dorata, il cui viso innocente contrasta con  l’espressione disperata della maschera che regge con la sinistra.  

Tra i bolognesi,  dopo un “Tabernacolo portatile” di Annibale Carracci e la sua scuola, le opere su temi profani proseguivano con l’ovale di Lanfranco, “Alessandro Magno rifiuta l’acqua da bere offertagli da un solfato”, una composizione classica di esaltazione del personaggio come tramite per esaltare il committente, cardinale Peretti Montalto. 

Abbiamo ritrovato anche il Pomarancio,  in “Sacra Famiglia con angeli”, nel quale Marco Pupillo vede “un intento narrativo e non semplicemente devozionale” e cita Ileana Chiappino di Sorio  secondo cui “elementi in primo piano fanno pensare che la raffigurazione alluda al ‘Riposo nella fuga in Egitto'”, un richiamo caravaggesco, quindi.

Di nuovo i fiorentini,  Ciampelli con  “Cristo e la Maddalena”,  nella sua classicità  rituale, “completamente privo di qualsiasi enfasi drammatica, questo dipinto ha più il carattere devoto delle sacre rappresentazioni”, commenta  Federica Gasparrini.  La studiosa ci dà anche un preciso inquadramento del dipinto di Passignano, “Cristo nel sepolcro”,  nel  quale “la nobiltà d’ispirazione e l’associazione di un colorito cupo, intenso, e di una fattura controllata e ampia dimostrano un debito del pittore nei confronti del classicismo monumentale ed eclettico dei bolognesi a Roma”. Certo l’influenza della scuola di Annibale Carracci si fa sentire.

Tra i nomi che abbiamo incontrato per la prima volta nelle opere private, il bolognese  Domenichino (al secolo Domenico Zampieri), con “Sibilla cumana”,  che  secondo la critica richiama la Santa Cecilia di Raffaello, modello anche di Guido Reni. Barbara Guelfi cita Spear secondo cui “Domenichino vivacizza  la sua eroina col contrapporsi dei movimenti del corpo, l’aria vigile ed effetti chiaroscurali chiaramente accentuati”; effetti di luce chiaravaggeschi anche in “San Pietro liberato dal carcere da un angelo”, copia da un dipinto dello stesso autore.

E il fiorentino Ludovico Cardi, detto il Cigoli, con due opere esposte, “Sacrificio di Isacco” ed “Ecce Homo”,  temi dipinti anche dal Caravaggio, anzi il secondo fu commissionato dal cardinale Massimi al Cigoli, al Passignano e a Caravaggio, e sembra che il primo prevalesse nel giudizio. Di Cigoli Elisa Acanfora  sottolinea il classicismo ma anche “la distanza profonda con il patetismo del tardo Annibale Carracci”  e aggiunge che “si coglie altresì la diversità radicale rispetto all’andamento serrato e concatenato, nell’azione violenta, con cui Merisi aveva rappresentato l’analogo soggetto”.

Non si esauriva negli artisti citati la vasta galleria delle due sezioni della mostra dedicate ai pittori bolognesi e toscani al seguito o epigoni di Annibale Carracci.  C’erano anche  Savonanzi e Cagnacci, Vanni e  Fontebuoni,  Ciarpi e  Pietro da Cortona  – al quale, ricordiamo, nel Musei Capitolini è dedicata una vasta sala  –  Lilio e  Badalocchio. Quanto abbiamo riportato dà, comunque un’idea anche della complessità dei riferimenti per cui ritenerli un'”alternativa al Caravaggio”  è in qualche caso riduttivo perché l’influsso del Merisi si nota in diversi casi.

Domenichino, “Sibilla cumana”, 1617

I primi caravaggeschi romani

Si tratta degli influssi iniziali del primo decennio del ‘600, quando il grande artista era ancora in vita. Ne fu preso anche Paul Rubens, di cui la mostra esponeva  “Adorazione dei pastori“, dove gli effetti di luce sul gruppo della natività e sugli angeli in volo sono impressionanti. Scrive Barbara Guelfi , citando Probaska: “L’imponenza e la solidità delle figure tengono conto dei personaggi caravaggeschi  e anche l’impianto luministico, ricco di contrasti, è in linea con le opere del lombardo viste a Roma”.

Meno pronunciati gli effetti luminosi nel toscano Orazio Gentileschi, “San Michele Arcangelo e il diavolo”, . di cui Massimo Francucci scrive:: “Colpito dai  modi caravaggeschi, riesce a prender parte al successo crescente della pittura naturalista, pur declinandola secondo la propria propensione al raffinato e all’elegante che nel ‘San Michele’ si evidenzia nella resa materica dei tessuti e degli oggetti metallici, condotta ai limiti dell’inganno ottico”.

Tornavano prepotenti gli effetti luminosi in Orazio Borgianni, “Sacra Famiglia  con angelo musico, santa Elisabetta e Giovannino”,  e richiamavano quelli visti nel dipinto di Rubens; si tratta di un’opera dalle vicende misteriose, di cui Marco Gallo dopo molti raffronti e una descrizione minuziosa scrive: “Nella pala, Borgianni attese a rendere in linguaggio corrente ‘caravaggesco’ , avvalendosi di stilemi meridiani apparenti ma non sostanziali, ciò che in realtà è una sapiente costruzione di  richiami iconografici (e tematici) al mondo di Raffaello”. Di Borgianni c’era anche  “Visione di san Francesco”, con intensi effetti di luce caravaggeschi e dolci figure raffaellesche.

Per il veneziano Carlo Saraceni in “Madonna  con Bambino e Sant’Anna”, Laura Bartoni parla di “avvicinamento alla poetica caravaggesca, ma l’interpretazioen di Saraceni è originale: i particolari anatomici della Vergine e del bambino, colpiti dalla luce diretta, diventano ‘pure forme geometriche’ assumendo un particolare rilievo”. Suo anche  “Predica di  san Raimondo Nonnato”,dove più che la luce, abbastanza uniforme, colpisce il realismo: secondo Marco Gallo “produce una perfetta  metafora del vecchio ‘locus communis’ della ‘pittura parlante’, che è invece muta per natura, e il silenzio che si fa eloquente”, il santo predica con la bocca sigillata dagli infedeli. Di Gerrith van Honthors, detto Gerardo delle notti, “Derisione di Cristo” è un’esplosione di luce caravaggesca  che rompe le  tenebre, recata da una torcia dentro il  dipinto.

Siamo alle opere di committenza privata, abbiamo ritrovato Gentileschi, Borgianni e Saraceni. Di Gentileschi  una “Madonna con Bambino” e “David che contempla la testa di Golia,: attribuiti all’inizio allo stesso Caravaggio, tale è l’effetto della luce che piove sulle carni e il realismo delle figure; ma poi, scrive Massimo Francucci citando Mancini, gli è stata riconosciuta, con la paternità delle opere, “una piena libertà d’azione e l’indipendenza dal retaggio caravaggesco”.  C’erano anche due opere della figlia Artemisia Gentileschi, “Madonna con Bambino” e “Susanna e i vechioni” quest’ultimo  definito da Rossella Vodret “sensazionale, dipinto nel 1610 a soli 17 anni”.

Il dipinto di  Borgianni, “David in preda all’ira decapita Golia” è stato visto come allegoria dell’ira, tale è la violenza nelle espressioni e nell’intera composizione, accentuata dalla luce altrettanto caravaggesca. Marco Gallo .fa rilevare come “il pittore proponesse un’interpretazione divergente da quella praticata dai Cavaraggeschi cosiddetti ortodossi”. Ben diverso  “Santa Cecilia e l’angelo” di Saraceni, ,del quale Laura Bartoni  parla di “interpretazione lirica del realismo caravaggesco, cui partecipano il luminismo e la raffinata croma della tela”.

Centrali in questa sezione erano i tre dipinti di Giovanni Baglione, il grande rivale che diviene caravaggesco: Sia in “San Giovanni Battista” che in “Estasi di san Francesco d’Assisi” l’influsso della luce e del realismo di Caravaggio sono evidenti.  Il primo, secondo Vittoria Markowa, “è forse una delle opere più caravaggesche risalente all’intermezzo caravaggesco che Baglione visse all’inizio del secolo”, prima dello scontro polemico e giudiziario tra i due; il secondo, un tema dipinto anche da Caravaggio, mostra forti differenze e una ripresa dal basso che rappresenta, scrive Michele Nicolaci, un “retaggio manieristico”. “Amor sacro e Amor profano”  è ritenuto “il capolavoro del cosiddetto ‘intermezzo caravaggesco’ di Baglione, e fu tale – ricorda lo studioso – da “suscitare la preoccupazione e lo sdegno di Caravaggio, non solo per l’esplicita imitazione del suo stile, ma anche per il rischio insito nell’insediarsi del rivale nell’elitario circuito di mercato”.

Le due opere esposte di Cecco del Caravaggio (al secolo Francesco Boneri), mostrano il forte influsso del maestro. Per la “Caduta di Cristo sulla via del Calvario”  nei “corpi bagnati dalla luce, muscolarmente scolpiti”; per “Martirio di san Sebastiano”, con “il sorprendente anticonformismo di Boneri, che si mostra anche più audace di Merisi nel rinnovare le iconografie”,  nelle frecce che trafiggono il santo impugnate in modo ambiguo da un “riflessivo soldato. Malinconico e dandy”,  come osserva Gianni Papi, che trova in Cecco “forti rapporti stilistici  con le più precoci espressioni del naturalismo partenopeo e con le opere lasciate da Caravaggio a  Napoli”.

Se Boneri  ha preso il nome di Caravaggio, Hendrick ter Brugghen  si è cimentato con “La Buona Ventura”, fatto inconsueto nei caravaggeschi, l’unica opera che l’artista dipinse in Italia. “Il contrasto tra il volto della giovane e quello della vecchia accostata è un ‘topos’  della pittura caravaggesca”, commenta Mina Gregori, sottolineando anche “la diversità di espressione e di significati”.  La studiosa ricorda che un simile soggetto fu trattato anche dal francese  Vouet in un dipinto della Galleria Barberini nel cui retro la Vodret in sede di restauro ha visto nome e data 1617.

Dopo l’olandese, due spagnoli.In “San Pietro penitente” di Luis Tristàn, una pianta dalle foglie grandi è stata definita da Roberto Longhi “una commovente cifra caravaggista”; mentre, per Leticia Ruiz Gòmez, “più legata ancora a Caravaggio è la collocazione dell’apostolo, seduto in primo piano e fortemente illuminata su uno sfondo scuro, le gambe accavallate e scoperte, come i piedi, e dipinte con un realismo puntiglioso che ricrea i muscoli, le vene e altri dettagli dell’epidermide”.

“Adorazione dei pastori”  di Juan Bautista Maìno rientra in quella che Mina Gregori chiama  “la pittura italianizzante di Maino” il quale trasse “diretta ispirazione dai modelli conosciuti nel giovanile soggiorno italiano: Caravaggio, Borgianni, Gentileschi, Annibale Carracci e Guido Reni”.

Infine un francese, che peraltro appartiene al secondo decennio, è Nicolas Régnier, il tema  “David con la testa di Golia”, i contrasti di luce sono caravaggeschi, ma non c’è la violenza dell’omonima opera del Merisi prima citata, il volto è “compiaciuto e amareggiato insieme”; e nel cogliere “l’intimità dell’animo con disinvoltura” – osserva Maria Lucrezia Vicini – l’artista appare “interprete maturo del caravaggismo del suo tempo che trova in Bartolomeo Manfredi il suo massimo seguace”.  Entriamo così nel secondo decennio, quando esplode il caravaggismo. Ne parleremo prossimamente concludendo con il terzo decennio quando il caravaggismo si estingue.

Info

Catalogo:” Roma al tempo di Caravaggio,1600-1630,  Opere”, a cura di Rossella Vodret, Skirà, Milano novembre 2011, pp. 406, formato 24 x 30;  dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il 5 febbraio, il terzo e ultimo uscirà il 9 febbraio 2013, con 4 immagini ciascuno.

Foto

Le immagini sono state fornite alla presentazione della mostra dall’associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Soprintendenza per il polo storico-artistico e museale di Roma e ai titolari dei diritti. In apertura Carlo Saraceni, “Santa Cecilia e l’angelo”, 1610; seguono Arthemisia Gentileschi, “Susanna e i vecchioni”, 1610,  e Domenichino, “Sibilla cumana”, 1617;  in chiusura Orazio Gentileschi, “David contempla la testa di Golia”, 1610-12.

Orazio Gentileschi, “David contempla la testa di Golia”, 1610-12.
 

Israel now, 24 artisti israeliani, al Macro Testaccio

di Romano Maria Levante

Un evento la mostra  “Israel Now” sul tema “Reinventare il futuro” al Macro Testaccio, a Roma, dal 1° febbraio al 17 marzo 2013. Lo è per numero di espositori, ben 24, e per la vitalità espressa nelle opere che attengono ai diversi filoni della contemporaneità, dalle installazioni alla fotografia, dai video alla pittura e grafica. Il filo conduttore è il dinamismo di Israele, che oltre alla tecnologia, ricerca e progresso scientifico, si manifesta anche nell’arte investita dalle innovazioni nei materiali e nei mezzi espressivi. Patrocinata delle più alte istituzioni, sostenuta dall’Ambasciata di Israele in Italia e dalla nuova Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti, è curata da Micol Di Veroli.

Una foto della serie “My mother and I” di Elinor Carucci

Il presidente della Fondazione Italia-Israele per la Cultura e le Arti, Piergaetano Marchetti, si è soffermato sul dinamismo di Israele e sulla collaborazione con l’Italia in campo scientifico cui deve aggiungersi quella in campo artistico.

Si potranno rimuovere  così le inerzie esistenti con la spinta che può venire da un paese giovane, ricco di energie e creatività che sono un potente fattore di crescita. Non solo operando sull’arte contemporanea, naturalmente, ma sull’insieme di valori e tradizioni, storia e cultura per creare importanti sinergie. C’è il progetto di esporre nei principali musei israeliani  capolavori di Botticelli, Caravaggio ed altri grandi maestri per trasmettervi e condividere la nostra cultura e la nostra storia. La capacità di Israele di avere una visione proiettata nel futuro trova basi solide nella riflessione sul comune patrimonio culturale.

Particolarmente significativo che la mostra si apra subito dopo il Giorno della Memoria per riaffermare la volontà di guardare avanti con il propellente costituito dall’arte. E’ la prima mostra del genere in Italia, e nel tema “Reinventare il futuro” c’è tutta la forza di volontà di un popolo giovane e vitale con il ricco retroterra storico e culturale della sua multi etnicità e integrazione.

L’addetta culturale dell’Ambasciata di Israele Ofra Fahri, nel sottolineare il ruolo primario assegnato alla cultura e all’arte, ha ricordato che le principali istituzioni israeliane in questo campo precedono la creazione dello stato di Israele, la Bezalel Academy of Arts è addirittura del 1906, il Museo d’Arte di Tel Aviv del 1932. “Insomma Israele è il Paese – ha affermato – che ha fatto fiorire il deserto grazie alla forza dei suoi sogni, e lo ha anche reso uno dei luoghi più vivaci e culturalmente stimolanti al mondo, grazie alla sua fiducia nella cultura e nel futuro”. Gli artisti espositori sono di varia estrazione, dalle grandi città ai piccoli kibbuz, di diversa fama, dai più celebri agli sconosciuti, di diverse età e forme espressive. Lo stato israeliano sostiene l’arte.

Il direttore del Macro, Bartolomeo Pietromarchi ha inquadrato la mostra negli eventi internazionali a largo raggio che impegnano lo spazio romano per il contemporaneo, dando alla mostra sull’arte israeliana un rilievo particolare essendo tra quella meno conosciute dell’Occidente soprattutto nei suoi aspetti non legati al conflitto che è talmente dominante da oscurarne le altre potenzialità. Ha definito la mostra “un’occasione preziosa di riflessione su un fare artistico in cui tradizione e sperimentazione, Oriente e Occidente, passato e futuro, coesistono in un equilibrio in costante rinegoziazione”. E’ questa la migliore premessa alla visita alle opere dei 24 artisti  nei due vastissimi ambienti del Macro Testaccio, i cui spazi sono la migliore cornice per il contemporaneo: sembra di essere nei giganteschi hangar degli aerei, circondati da un fluire di immagini e visioni.

Le installazioni

Il filo conduttore della mostra, come ha detto la curatrice Micol Di Veroli, è la visione del futuro in un allestimento che fa pensare ai diversi quadri di una rappresentazione con una varietà di mezzi e forme espressive che è essa stessa un’idea di futuro. Ma non manca il difficile presente inquieto e minacciato, come non mancano riferimenti al passato ma senza angosce e inquietudini troppo accentuate, piuttosto con l’apertura alla speranza.

Per i mezzi e le forme espressive, partendo dalle più innovative, abbiamo le installazioni, come i componenti elettricidel “Campo 1666”  e “Campo 4011”, 2009-10, di Shay Frisch, elementi modulari generatori di energia, qui linearmente disposti sul pavimento e collocati a corona circolare nella parete, a costituire campi elettromagnetici fonti di stimoli percettivi e sensoriali. Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna i moduli occupavano intere pareti all’ultimo piano, e Achille Bonitoliva aveva dedicato loro una valutazione critica ampia e circostanziata da par suo.

Con Tamar Harpaz l’installazione “Two Rode Together”, 2008, è una fonte di luce e movimento, “The Horse in motion” è l’immagine di un cavaliere che percorre le pareti tutt’intorno, ottenuta con un procedimento meccanico-visivo mentre l’immagine di un treno crea un contraltare: due “linee temporali” si toccano senza congiungersi, nella scena si è coinvolti visivamente ed emotivamente.

Simbolica la video.installazione di Dani Gal, “Zen for TV…”, 2010, ispirata da un film per la televisione tratto da un romanzo di autore israeliano del 1940 che fu bloccato dalla censura prima della messa in onda nel febbraio 1978 perché poneva in cattiva luce l’esercito di Israele a causa dell’espulsione degli arabi palestinesi dal loro villaggio; nonostante il forte spirito nazionale degli israeliani, il mondo della cultura reagì con forza a questa limitazione alla libertà di espressione.

Due porte fluttuanti formano l’installazione di Yifat Bezalel, diversi titoli a forme contemporanee ed avanzate create nel 2012 per esprimere un concetto antico: il superamento del mondo materiale per una dimensione spirituale in un’atmosfera rarefatta; addirittura sono ripresi due salmi di Davide in un insieme modernissimo.

GuyZagursky, con“Follow the White Rabbit”, 2008, presenta una sorta di plastico che raffigura un conglomerato urbano immerso in una luce bluastra, come fosse un acquario, quasi ad esprimere la tensione di una comunità oppressa dalla difficile realtà  verso la suggestione di un  sogno che tutto avvolge in un’atmosfera protettiva.

Ancora più geometrica l’installazione di Nshum Tevet, “Islands”,  2012, anch’essa protesa verso una realtà alternativa rispetto a quella rappresentata da moduli definiti “costantemente in bilico tra presenza scultorea ed architettonica”.  Siamo nella trasfigurazione materiale, ogni oggetto assume un’essenza diversa da quella presente, reale e tangibile.

Sono opere enigmatiche, come lo è “Moving”, 2003, di Maya Attoun, che a prima vista sembra riferita a planisferi e orbite celesti con i grovigli disegnati sulla parete; poi ci si accorge che c’è anche la musica e la scultura, il “ready made” e il “wall paper”, in una convergenza di linguaggi senza alcuna logica apparente.  Giorgia Calò interpreta così quei disegni: “Tendono piuttosto a scandire lo spazio, mappando la relazione tra il prima  e il dopo, l’ordine e il disordine, rifiutando qualsiasi tipo di lettura consequenziale”.  La cercheremo  cominciando dalle fotografie.

Una foto della serie “Orthodox Eros” di Lea Golda Holterman 

Le sequenze fotografiche

Ce ne sono in sequenza, come fotogrammi di storie da raccontare in immagini ferme, quasi per imprimere un messaggio forte. Le serie fotografiche sono cinque, solo in una si tratta di temi privati, nelle altre quattro le immagini toccano temi più generali e inquietudini diffuse.

Entra nel privato Elinor Carucci, “My Mother and I”, 2003,  rappresenta la vita familiare nell’alternanza di amore e gioia, dolore e comprensione; ma sono i sentimenti di tutti, per questo la visione si allarga al contesto sociale, e l’universalità dei sentimenti sembra essere il messaggio finale, mentre gli stupendi occhi del bambino possono essere presi a simbolo  di un popolo giovane che guarda lontano con l’innocenza e insieme la determinazione ad andare avanti.. Per questo abbiamo scelto questa immagine come apertura..

Lea Golda Holterman affronta orgogliosamente il tema dell’identità, il bambino è cresciuto. “Orthodox Eros”, 2009-11, pone a raffronto le immagini stereotipate dell’ebreo ortodosso con grandi modelli del passato presi dalla mitologia e dalla Bibbia. E’ una galleria di figure che supera i cliché abusato  con la comparazione.

Già nelle fotografie appena commentate emerge una sottile inquietudine legata all’identità. L’inquietudine cresce nelle sequenze legate allo stato di nazione assediata vissuto da Israele.

Shai Kremer lo esprime scavando nella memoria storica con immagini di fortezze militari abbandonate nella terra di Israele, titoli come “Kalya”, 2009,  richiamano le località. Sono vestigia di antichi conflitti in un paesaggio che da un lato ne trasmette la memoria, dall’altro la supera testimoniando “la caducità di ogni creazione dell’uomo”.

Dalla memoria storica si passa all’attualità dei conflitti con le fotografie di Michel Chelbin: “Young Prisoners”, anche “Lena e Katya”, della Russia e dell’Ucraina, 2009, non sono immagini violente ma apparentemente calme, però si sente serpeggiare la paura in un’atmosfera che comunque  si apre anche alla normalità e quindi alla speranza.

Questo sentimento appare evidente nelle immagini di vita militare contemporanea di Adl Nes, “Soldiers”, 1994-2000, dove quotidianità e serenità contrastano con l’aggressività legata a questi ambienti e con la visione eroica, per riportare in una dimensione di normalità con l’umana debolezza al posto dell’eroismo.

Un  fotogramma del video “Butterfly  di Leigh Orpaz 

I video 

L’allestimento nei due vastissimi ambienti del Macro Testaccio valorizza i video, intervallati dalle installazioni e sequenze fotografiche. Si può dire che dominano la mostra esprimendo vivacità e inventiva. Forse anche in queste scelte c’è una idea di futuro fatta di movimento e dinamismo.

Iniziamo con il video più sorprendente, corredato da due piccole sculture di precursori etnici: è il documentario di Boaz Arad,intitolato “Zefil Tefish”, 2005, su una performance culinaria che, richiamandosi alle tradizioni diventa un’esplorazione sociologica sull’identità etnica di Israele. Si risale all’est europeo, agli Ashkenazi, per approdare alla società multiculturale contemporanea, il tutto tra lazzi e ironie. In primo piano l’artista nel privato,  con le scherzose quanto provocatorie  domande che rivolge  alla madre.

Nel video di Ofri Cnaani la dimensione privata riguarda due sorelle legate da un rapporto quasi di simbiosi, che vengono rappresentate in forme aperte a diverse percezioni e interpretazioni. Immagini come quella con le due figure assorte in piedi in una specie di fondo di piscina senz’acqua mentre sul bordo si affollano belle ragazze in accappatoio bianco restano impresse. E’ la ricostruzione di un testo del Talmud, così anche la fede risulta evocata.  Il titolo è “The Sota Project”, 2011.

Keren Cytter si ispira al documentario antropologico tra realtà e finzione con sfumature sociologiche e addirittura filosofiche. Nulla di cerebrale, le immagini parlano al sentimento comune, vanno dalla figura della ragazza impegnata alla scrivania alle lavoratrici chine sulla riva del fiume nel loro faticoso lavoro, dando corpo al titolo “The hottest day of the year”, 2011.

Non c’è calore, invece,  nella Wall Street di Orit Ben-Shitrit. Il video “Vive le Capital”, 2012, scava nei rapporti con il denaro attraverso le immagini più diverse, monologhi seri e scene paradossali e trasgressive, con salti temporali all’epoca di Cosimo dei Medici e di Luigi XIV, un happening incalzante.

Il calore torna con una visione del futuro che accende la speranza nel video “Mary Koszmary”, 2007, la trilogia filmica di Yael Bartana: dalle tre pareti del box ricavato nello spazio espositivo i video presentano le immagini del Movimento per il rinascimento ebraico in Polonia, folle immedesimate in un sogno nazionalistico che rovescia il tradizionale miraggio della terra promessa, qui sembra esserlo la madre patria Polonia, la nuova forma del futuro è anche un ritorno al passato.

Il freddo penetra nella pelle con “Level One” e “Butterfly”, 2012, video di Leigh Orpaz: viene dai tre momenti raggelanti collegati, due tracciati autostradali nella neve e il gerontocomio con lo spaesamento e l’abbandono. Dopo il sogno polacco, è come se la memoria collettiva si perdesse nel freddo esteriore e interiore,  quasi che l’esperienza umana avesse trovato il suo triste compimento.

Ma le immagini di Yehudit Sasportas mostrano un approdo ben diverso. In “The Lightworkers”, 2010, alla neve e alla desolazione si sostituisce una foresta che si apre a poco a poco tra squarci di luce e acque sorgive;  nella bellezza della natura si sente pulsare la vita, è questo il futuro a cui ci piace pensare.

Poi irrompe la scienza, che è l’anima e la generatrice di un futuro sempre diverso e sorprendente. Uri Nir ci rende partecipi di un processo vitale attuato iniettando del sangue nel tessuto di una medusa per creare una nuova realtà organica e quindi una nuova forma: il tutto reso visivamente da pulsazioni che rimandano anche allo scorrere del tempo, intrinseco alla creazione e alla vita. Il titolo è in carattere con l’esperimento scientifico scandito dal tempo: “00.02.09””, 2007.

Michal Rovner ricorre a un paradosso visivo per esprimere il caotico movimento della società odierna verso un progresso che porta invece ad una regressione primordiale;  “Culture Plate # 7”, 2009-11, è una apparente coltura di batteri rossi che si muovono in modo incessante e confuso, ma si rivela essere formata da esseri umani ripresi dall’alto  rimpiccioliti al punto di sembrare microbi: un modo per richiamare l’essere umano alla sua misera consistenza organica.

La parte pittorica e grafica

Non è finita la mostra, c’è anche una parte pittorica e grafica, come nell’opera  di Gal Weinstein: sembrano fotografie di una terra arida e brulla, mentre  si tratta di tavole dalla superficie ruvida e graffiata come una lana d’acciaio. Una superficie extraterrestre, “Rusted Planet (Mars)”, 2012, il pianeta rosso è carico di mistero su ciò che può celarsi al di sotto. E’ qui il futuro da reinventare?

Un collegamento con il passato della realtà presente è operato da Meital Katz-Minerbio che dipinge oggetti prodotti in periodi di ottimismo per il futuro, come telefoni d’epoca e altri marchingegni quali  “Black box”, 2010, con la testa  di “Il visionario”, 2009,  posta su un vassoio.

A queste immagini a cavallo tra passato e presente affianchiamo quelle primitive disegnate da Shahar Yahalom che chiudono il ciclo riproponendo la potenza della natura al di sopra di ogni altra forza. “Waterfull” e “Face in the Mud”, 2012, sono grafiche espressive della presenza dominante del paesaggio e del mondo animale che sovrasta l’essere umano.  Non si attenua la spinta al futuro, ma è un richiamo alle superiori leggi naturali.

Ci sembra possa essere la morale da trarre nel “reinventare il futuro” senza alterare gli equilibri né trascurare le forze endogene che hanno fatto la storia della terra e reggono le sorti dell’umanità. In questa cornice si collocano le vicende e i sentimenti, i  sogni e le aspirazioni per un futuro migliore.

Abbiamo visto le forme espressive di 24 artisti di estrazione e fama molto diversa. I più conosciuti sono, oltre a Frish che lavora e vive a Roma,  Bartana e Nes, Rovner, Sasportas e Tevet; i più giovani Cnaani, Gal e Cytter. Esprimono l’impegno nella cultura e nell’arte dello stato di Israele e sono accomunati dalla visione comune di “Reinventare il futuro”.

Diamo il dovuto riconoscimento a Micol Di Veroli  che nel selezionarli ha interpretato il tema in senso lato, dando modo agli artisti di esprimere liberamente i loro sentimenti senza vincolarli troppo al soggetto proposto. Risultato raggiunto.Info

MACRO, Museo d’Arte Contemporanea di Roma: Testaccio, Piazza Orazio Giustiniani 4, ore 16,00-22,00, la biglietteria chiude mezz’ora prima,  da martedì a domenica, chiuso il lunedì; ingresso intero euro 6, ridotto 4. Testaccio + via Nizza, valido 7 giorni: intero euro 14,50, ridotto 12,50. Per i residenti un euro in meno in Via Nizza e nel cumulativo, gratuità e riduzioni secondo la normativa vigente; prenotazioni gruppi, visite guidate. Tel. 06.671070400, call center 06.06.08. http://www.museomacro.org/. Catalogo della mostra: “Israel Now. Reinventing the Future”, Editore Drago, 2013, pp. 120,    formato 15 x 23,5. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia il Macro con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura  una foto della serie “My mother and I” di Elinor Carucci;  seguono  una foto della serie “Orthodox Eros” di Lea Golda Holterman e  un fotogramma del video “Butterfly  di Leigh   Orpaz; in chiusura l’installazione “Follow the White Rabbit” di Guy  Zagursky.   

L’installazione “Follow the White Rabbit” di Guy  Zagursky 

Caravaggio, Carracci, 1. Maestri e seguaci a Roma, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Una grande mostra merita di essere rievocata a un anno esatto dalla sua chiusura, si tratta di “Roma al tempo di Caravaggio 1600-1630” tenuta a Palazzo Venezia dal 16 novembre 2011 al 5 febbraio 2012:una carrellata sulla temperie artistica romana dei primi tre decenni del 1600 con i “compagni di strada” e i seguaci di due grandi artisti, Caravaggio e Annibale Carracci. Il  realismo dell’uno e il classicismo dell’altro riflessi in 140 dipinti, nella spettacolare scenografia di Pier Luigi Pizzi.  Ne ripercorriamo la visita con lo spirito di allora  tornando virtualmente in quelle sale come a teatro.

Caravaggio (attr.), “Sant’Agostino”, inizi 1600

La mostra è stata ideata e curata, con il monumentale Catalogo Skirà, da Rossella Vodret, allora soprintendente per il patrimonio storico-artistico e il polo museale di Roma; hanno partecipato all’organizzazione l’associazione “Civita” e “Munus”, con il sostegno della Fondazione Roma – Arte – Musei e il contributo di Banca Etruria ed Ericsson, realizzando un modello di apporto di privati che andrebbe sviluppato sempre più, data l’entità dei costi da sostenere. Nella presentazione si è parlato di 900 mila euro per la mostra, cui vanno aggiunte le ulteriori spese  per la promozione. Straordinaria la presenza di opere di circa 30 chiese romane, oltre che di 60 musei e sedi pubbliche.

L’importanza della mostra

Desideriamo sottolineare questi apporti perché hanno consentito, in un periodo di crisi e tagli alla cultura, di dare vita ad una “sacra rappresentazione” intensa e suggestiva, non ci viene di definire altrimenti la forza scenica che si sprigionava dall’allestimento d’autore della mostra. Il fatto che fosse contemporanea all’esposizione quella a Palazzo Sciarra, nello spazio per l’antico della Fondazione Roma-Museo,  “Il Rinascimento a Roma  nel segno di Michelangelo e Raffaello”,dal 25 ottobre 2011 al  12 febbraio 2012, ne accresceva la portata culturale e la carica spettacolare.

A poche diecine di metri di distanza – tanti  ne corrono tra via del Plebiscito angolo Piazza Venezia, e via del Corso prima di largo Chigi – scorrevano i periodi cruciali di due secoli portentosi: il ‘500 con i due numi tutelari, il “Sacco di Roma” e la folgorante ripresa; e i primi tre decenni del ‘600, con il fascino magnetico di altri due grandissimi. Quelli che avevano visitato“Roma e l’Antico, realtà e visione nel ‘700”, con cui la Fondazione Roma Museo aveva inaugurato il nuovo spazio espositivo  di Palazzo Sciarra, hanno potuto  fare l'”en plein” di tre secoli  mirabili, ai quali si aggiunge il ‘400, il secolo cui la Fondazione dedicò un’altra grande mostra più indietro nel tempo.

Il presidente della Fondazione Emmanuele F. M. Emanuele ha parlato di “continuazione ideale di un percorso storico-artistico e culturale e di una felice coincidenza”, tale da dare a Roma “la concretezza del ruolo di Capitale d’Italia e della cultura italiana”. E’ stato un modo di celebrare i 150 anni dell’Unità d’Italia, dato che la mostra “individua il nucleo storico da cui si dipana gran parte delle correnti artistiche italiane e straniere del XVII secolo: primo fenomeno culturale di respiro veramente europeo destinato a segnare una svolta epocale nella storia della civiltà”.

Tutto questo non ha intimidito il visitatore, la mostra ha proposto un altro approccio, più vicino al sentire comune, quello della competizione. Due i grandi capiscuola dalle diversissime qualità stilistiche: Caravaggio con il suo realismo crudo e Annibale Carracci con il suo classicismo delicato. Si confrontavano all’ingresso della mostra sullo stesso soggetto, la Madonna di Loreto, e la “disfida” proseguiva nell’esposizione con i seguaci che si cimentavano sui temi sacri come due squadre in competizione al seguito dei rispettivi capitani. Nel paese di Coppi e Bartali e delle curve nord e sud questo interesse si è aggiunto all’elevato valore culturale e alla forza spettacolare.

Anche nella mostra parallela a Palazzo Sciarra c’era un motivo affine: la ricerca degli influssi di Michelangelo o di Raffaello nei singoli artisti, e anche la compresenza dei motivi di entrambi nelle composizioni degli autori che mettevano nello stesso dipinto gli elementi caratteristici dell’arte di ciascuno. Una sorta di “caccia al tesoro” che continuava nei 140 dipinti del ‘600 a Palazzo Venezia.

Il set teatrale di “storie bellissime”

Nella presentazione  è stato sottolineato come i quadri esposti – spesso poco noti e alcuni in mostra per la prima volta – hanno dietro  “storie bellissime”; e mentre  il ‘600 a Napoli  e in Umbria è stato raccontato, di  Roma si è parlato poco, eppure c’erano 2000  pittori su una popolazione in aumento dai 50 ai 100 mila abitanti dopo il sacco della città del 1527.  A un grande Caravaggio si affianca un grande Carracci, che celebra il trionfo della pittura come immaginazione in un secolo complesso nei temi e negli autori; un secolo agitato dalla questione religiosa e dalla pretesa contraddizione tra il realismo di Caravaggio e il bello di Carracci, mentre tra loro non mancavano le convergenze.

Il ‘600 è un’epoca di multiculturalismo, alimentato dalla mescolanza di artisti con le esperienze  più varie, le vite avventurose e turbolente, la voglia di confrontarsi. Se oggi alcuni possono sembrare minori, allora erano vere  “star”. Nel 1600 vi fu il grande Giubileo con 2-3 milioni di pellegrini, era stata sconfitta la paura del luteranesimo, ma c’era un debito pubblico enorme, pari alle entrate di un quarto di secolo, un terzo del debito era dovuto agli interessi; colpisce la somiglianza con i problemi attuali. Si è ricordato che il primo palazzo a Piazza Navona fu costruito solo alla metà del ‘500.

Rossella Vodret  ha sottolineato l’interesse di una mostra diversa “dopo l’overdose di Caravaggio”, cui già aveva  partecipato in modo originale con le mostre di Palazzo Venezia  “La bottega del Genio” e “La Cappella Contarelli”  in aggiunta alla grande mostra “Caravaggio” alle Scuderie.

Roma era diventata, anche con le ricche committenze papali, la capitale d’Europa per l’arte, e reagiva alla paura riformista con restauri e arredi finemente decorati. Vi lavoravano artisti affluiti da altri paesi, soprattutto Francia e Olanda, che potevano scambiare le esperienze delle rispettive scuole, in un processo di rinnovamento rapido e coinvolgente. Così dopo il Rinascimento romano del ‘500 con i due numi tutelari Michelangelo e Raffaello, nel primo trentennio del ‘600 da un altro sommo, Caravaggio, “prese il via – sono parole della Vodret – la più straordinaria rinascita artistica della Città eterna, i cui esiti saranno percepiti in tutta Europa fino alla fine del XVII secolo”.

La mostra ha raccontato quel periodo nelle sue sezioni per lo più cronologiche, dove hanno trovato spazio gli autori stranieri: spagnoli, fiamminghi, francesi. La città assorbiva  l’arrivo di nobili  come i Barberini, Ludovisi, Borboni, le nuove committenze venivano da loro e dalla Chiesa. Nella sfilata dei quadri non c’erano paesaggi, l’uomo sempre al centro nel dare alla pittura il senso del dramma, perché  lasciato solo, le figure spesso dolorose, le solitudini angosciose. Il visitatore veniva portato dentro i personaggi e le loro solitudini, e le 7 sezioni, espressive al pari di altrettanti film, mostravano come le diverse personalità di artisti avessero recepito gli stimoli in modo differente.

Dopo questi brevi accenni che fanno entrare nell’atmosfera del tempo, rievochiamo la visita alla mostra calandoci nel set teatrale progettato da Pier Luigi Pizzi. Il rosso intenso della moquette del  pavimento accoglieva e, in qualche modo, accompagnava il visitatore. La galleria era imponente, Pizzi aveva riservato per le grandi tele di committenza religiosa collocazioni in altari ben delineati sul fondale rosso che facevano sentire il fascino del sacro, le luci e ombre dell’ambientazione nelle chiese prestatrici. Per le opere della committenza privata invece spazi spartani, spiccavano nel bianco delle pareti come appese nel salone nobiliare. Una dicotomia che tornava  nell’alternanza reiterata tra committenza pubblica e privata per i seguaci  di Carracci prima, di Caravaggio poi.

Annibale Carracci, “Madonna di  Loreto”, 1604-05 

I due grandi Maestri a confronto

La mostra parallela di Palazzo Sciarra  si dipanava tra le committenze dei papi fino a Paolo III, con cui fu superato il trauma del sacco della città, quella di Palazzo Venezia si sviluppava tra quattro pontefici, Clemente VIII Aldobrandini e Paolo V Borghese, Gregorio XIV Boncompagni e Urbano VIII Barberini. Veniva superato un altro trauma, quello luterano e andava in scena il primo trentennio, che pose le basi dello sviluppo artistico nell’intero ‘600.

I primi anni del XVII secolo furono segnati dal confronto tra due grandissimi della pittura italiana: Annibale Carracci, capofila della corrente classicista, e Michelangelo Merisi, Caravaggio, dal realismo rivoluzionario. Scomparvero entrambi prematuramente nel mese di luglio: nel 1609 Carracci a 49 anni, nel 1610 Caravaggio a 38 anni. Un fatale parallelismo, quasi coincidenza,  come nel realizzare entrambi, intorno al 1605,  le due “Madonna di Loreto” che aprivano la mostra.

Questo raffronto diretto diventa l’archetipo dei confronti che si potevano fare tra i loro seguaci, quindi è bene parlarne in modo circostanziato. Ma prima di “gustarlo”, va sottolineato come l’impronta  dello stile dei due Maestri fosse molto diversa. Annibale Carracci era ispirato al classicismo di derivazione raffaellesca, con immagini idealizzate, Caravaggio invece introdusse un realismo naturalistico crudo con immagini forti, anche violente.  Il confronto, nelle parole della Vodret “da solo, vale più di mille parole per le differenze abissali che caratterizzano i due dipinti”.

Seguiamo l’allora soprintendente, ideatrice e curatrice della mostra, nella sua analisi molto dettagliata: il suo è un modo di accostare opere e stili al quale è stato utile ispirarsi nei numerosi confronti possibili tra le opere dei seguaci dei due maestri su temi simili o suscettibili di raffronti.

Annibale Carracci imposta la scena su uno schema simmetrico”, e si tratta di una scena miracolosa, due angeli incoronano la Madonna con Bambino su una nuvola  poggiata sulla Santa casa di piccole dimensioni con portale, finestra e tetto spiovente, sorretta in volo da tre angeli, su un cielo luminoso, una “luce universale”, e in basso un paesaggio oscuro. Luigi Spezzaferro  ha visto l’immagine “come un emblema, o forse meglio un’icona” trovandovi due mani, pittoriche, una più leggera nella Madonna, l’altra negli angeli “più solidi e disegnati, nonché più memori di Raffaello”. A parte questo riferimento al lavoro della “bottega”, tutti i volti sono idealizzati e così i corpi ispirati alle forme classiche nelle vesti e nelle proporzioni non mostrano tensioni né la fatica di reggere la Santa casa in volo. La Madonna è come in trono, ricorda la gloria dell’Ascensione in cielo, la terra in basso è oscura e lontana, è un altro mondo ben diverso da quello del miracolo.

Nel dipinto di Caravaggio tutto cambia, la scena è rivoluzionata, non c’è la Santa casa che pure nel culto della Madonna di Loreto è al centro della venerazione trattandosi dell’evento miracoloso. La Madonna è appoggiata a uno stipite sopra a uno scalino, dettagli che si possono ricondurre alla  Santa casa soltanto perché il titolo del dipinto lo suggerisce, nulla farebbe pensare che è  scesa dal cielo, tanto meno portata da angeli che non ci sono. E non c’è nulla di miracoloso, la luce non è “universale”, da sinistra provengono le tipiche bordate luminose dell’artista, che mettono in risalto aspetti realistici e umani dei due gruppi a sinistra e a destra della composizione, lungo una diagonale che lascia vuota, anzi buia, la parte centrale. Molto umana la Madonna, una venere popolana con il bambino; poi i due pellegrini, lei con la cuffia sdrucita, lui dai piedi sporchi e gonfi.

Proprio questi particolari hanno fatto definire il dipinto “La Madonna dei pellegrini”: la devozione che li ha spinti al lungo cammino sostituisce il miracolo che ha fatto volare la Santa casa, c’è tanta umanità nella loro preghiera e nel capo dell’umile Madonna reclinato verso di loro. Come c’era tanta maestà nella Madonna di Carracci al centro di una simmetria costruita sui cinque angeli che circoscrivono la composizione senza che vi sia alcuna presenza umana, neppure secondaria.

Ad Annibale Carracci fu commissionata dal cardinal Madruzzo per la chiesa di Sant’Onofrio al Gianicolo dov’era la Cappella dedicata alla Madonna di Loreto, starebbe a rappresentare la preghiera della Vergine per la salvezza delle anime del Purgatorio; a Caravaggio dalla vedova del marchese Cavalletti, già membro della confraternita  Santissima Trinità dei Pellegrini per la chiesa di Sant’Agostino molto frequentata dai pellegrini. Forse in queste diverse committenze e destinazioni si può trovare un motivo dell’interpretazione opposta dello stesso soggetto; ma solo come spunto iniziale, il resto sta nel diverso stile e nella peculiare attitudine dei due artisti. Anche nei riferimenti religiosi si possono vedere i differenti versanti, quello ortodosso e classico della chiesa trionfante nella sua gloria in Carracci; quello spiritualista di ispirazione francescana della chiesa povera che non evoca la gloria dei cieli ma l’umiltà e l’umana comprensione in Caravaggio.

Abbiamo citato la chiesa di Sant’Agostino come sede del dipinto di Caravaggio; ebbene, una sorpresa della mostra è stata la presentazione di un dipinto del 1600 che raffigura “Sant’Agostino”  attribuitogli di recente anche se non c’è unanimità; per questo nell’ambito della mostra c’è stato un confronto tra i critici su diverse posizioni a questo riguardo. Per parte nostra abbiamo ammirato l’opera, esposta da sola in un piccolo ambiente: è un dipinto di 1 metro per 1,20, la figura del santo seduto che legge un libro posto sul tavolo a sinistra e scrive su un foglio sulla destra è nell’oscurità; la luce spiove sul volto, il libro e la mano, un’atmosfera suggestiva di meditazione e raccoglimento.

Caravaggio, “Madonna di Loreto” (o “Madonna dei pellegrini”), 1605

Dai “campioni” alle due “squadre” di artisti

Così abbiamo presentato i “campioni”,  capitani delle due squadre composte da artisti di valore i cui 140 dipinti esposti costituivano una galleria d’arte spettacolare. L’esposizione ripercorreva  i primi tre decenni del 1600 separando committenze pubbliche e private per le due “squadre”. Iniziava con la “squadra” di Annibale  Carracci, del quale erano esposte varie opere: si trattava di artisti bolognesi suoi seguaci, Domenichino e Guido Reni, Albani e Lanfranco; e di toscani che erano già arrivati a  Roma come Passignano e Fontebuoni, Ciampelli e BiIlivert.  Nella città eterna c’era la presenza dominante del Cavalier d’Arpino e di  Baglione, il rivale-biografo di Caravaggio.

Ai seguaci di Caravaggio era dedicata la parte prevalente della mostra, pur se si cercava di mantenere il parallelismo evocato dalla comparazione iniziale dei dipinti dei due Maestri con il raffronto dei dipinti degli allievi. Non erano giustapposti, ma si potevano confrontare per la contiguità delle rispettive sezioni finché, divenuti più numerosi i caravaggeschi, era naturale  fare il confronto tra loro, alla ricerca degli elementi tratti dallo stile e dai contenuti del grande Maestro. Tra questi  anche Rubens, che cercava di riproporne gli  effetti di luce e lo stesso  Baglione, il rivale che si ispirava al suo stile quando era ancora in vita nel primo decennio del secolo. A questo periodo appartengono Orazio Gentileschi e Borgianni, Saraceni e gli spagnoli Maino e Tristan.  

Tra il 1610 e il 1620 soprattutto Manfredi lanciò una vera e propria “moda caravaggesca” che attirava i giovani artisti francesi, affluiti in gran numero a Roma: tra loro Regnier, Valentin e Vouet. Divennero caravaggeschi pittori spagnoli come De Ribera,  fiamminghi e olandesi, come Seghers e Giusto fiammingo, Baburen e De Haan, in testa Gerardo delle notti, al secolo Gerrit van Honthors. Gli italiani hanno varie provenienze: con Artemisia Gentileschi figlia di Orazio c’è Caracciolo di Napoli e Cavarozzi di Viterbo, Turchi di Verona e Strozzi di Genova, Spada di Bologna e Guerrieri delle Marche, un campionario degli artisti di tutta Italia presi dal genio di  Caravaggio.

Entrando nel terzo decennio, scomparsi i capiscuola nel diffondere lo stile caravaggesco e tornati nelle loro città i maggiori epigoni, questo movimento si attenuò e il caravaggismo divenne solo una componente dei nuovi orientamenti stilistici del classicismo e soprattutto del barocco, che il papato adottò e sponsorizzò con le sue committenze per i trionfo del cattolicesimo sull’eresia luterana.

Ne dava un valido esempio il quadro posto simbolicamente a chiusura della mostra, opera del francese Valentin, definito dalla Vodret “l’ultimo caravaggesco rimasto a Roma, dove morirà nel 1632”: è stato dipinto nel 1629, il titolo è “Allegoria d’Italia”, cosa di meglio nella celebrazione del 150° dell’Unità di questa premonizione?  Tanto più nel difficile momento attraversato dal Paese.

Non si può non citare, dopo il significato e l’impostazione della mostra, lo sterminato “albo dei prestatori”, ben 86  tra cui le 30 chiese di cui si è detto, a riprova dell’enorme sforzo organizzativo; e l’intenso lavoro di restauro che ha impegnato una ventina di soggetti e istituti specializzati.

Il monumentale Catalogo

Degli artisti citati parleremo direttamente in riferimento alle opere esposte delle quali cercheremo di dare una carrellata raccontando la visita che è stata istruttiva  e insieme emozionante. E’ inconsueto  trovare riunite tante opere inedite sotto il profilo espositivo accostate in base alle loro peculiarità, stilistiche e di contenuto,  molto spiccate e riconoscibili. Se poi sono inserite in un allestimento teatrale di rara suggestione si può dire che è stato un evento meritevole di essere ricordato.

C’è un altro elemento che vogliamo sottolineare, il monumentale  Catalogo, curato dalla stessa Vodret, per la sua particolarità. Le parti introduttive sono ridotte al minimo, due pagine di presentazione, una  del presidente Emanuele, l’altra del Ministro dei Beni culturali e due pagine di inquadramento di Rossella Vodret dal titolo “Non solo Caravaggio”; le  400 pagine che seguono sono tutte dedicate ai dipinti, sottotitolo dell’intestazione “Roma al tempo di Caravaggio, 1600-1630, Opere”. Per ciascuna di esse una sontuosa riproduzione a piena pagina e soprattutto una scheda critica di straordinaria ampiezza e profondità. Sono stati mobilitati ben 54 critici, tra cui la stessa curatrice di mostra e Catalogo, con la loro guida si può penetrare all’interno di ogni opera. Lo abbiamo fatto e nella rievocazione della visita citeremo quello che dei loro commenti ci ha aiutato a  capire meglio il singolo dipinto; soprattutto per gli aspetti relativi alla vicinanza o meno ai due maestri di riferimento Carracci e Caravaggio prima, il solo Caravaggio poi. Si potrà notare che anche i seguaci di Carracci e del classicismo non restano insensibili alla rivoluzione caravaggesca.

Un’ultima cosa desideriamo far notare: per molte opere l’attribuzione  è frutto di assegnazioni precedenti ad altri artisti, Caravaggio compreso, e di ripensamenti. Ciò conferma l’intensa temperie artistica e le contaminazioni stilistiche di scuole diverse che richiedono una speciale attenzione nell’applicare la chiave di lettura caravaggesca ad opere dalla fisionomia perlomeno complessa.

In fondo, aver rinunciato a ricostruzioni e interpretazioni d’insieme dei caravaggeschi nelle tre fasi individuate e descritte nel sintetico inquadramento della Vodret porta a cercare una propria interpretazione di opere e artisti, e a questo fine le indicazioni dei critici si rivelano fondamentali.  Perciò si raccomanda questo catalogo come memoria storica di un approfondimento epocale.

E’ stato un cammino esaltante, lo rivivremo prossimamente rievocando la visita alla mostra che si articolerà nelle sezioni che scandiscono i primi tre decenni del 1600.

Info

Catalogo:” Roma al tempo di Caravaggio,1600-1630,  Opere”, a cura di Rossella Vodret, Skirà, Milano, novembre 2011, pp. 406, formato 24 x 30 cm; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I successivi due articoli sulla mostra usciranno,  in questo sito, il 7 e 9 febbraio 2013.

Foto

Le immagini sono state fornite alla presentazione della mostra dall’associazione “Civita” che si ringrazia insieme alla Soprintendenza per il polo storico-artistico e museale di Roma e ai titolari dei diritti. In apertura Caravaggio (attr.), “Sant’Agostino”, inizi 1600; seguono Annibale Carracci, “Madonna di Loreto”, 1604-05, e Caravaggio, “Madonna di Loreto” (o “Madonna dei pellegrini”), 1605; in chiusura, Pieter Paul Rubens, “Adorazione dei pastori”, 1608.

Pieter Paul Rubens, “Adorazione dei pastori”, 1608

Guttuso, 2. le 100 opere di un lungo percorso, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La rievocazione della vita e dell’arte, da noi fatta nella presentazione dei giorni scorsi,  prepara la visita alla mostra “Guttuso 1912-2012”,  in corso a Roma, al Vittoriano, dal 12 ottobre 2012 al 10 febbraio 2013, con 100 dipinti che consentono di ripercorrerne le diverse fasi. E’ stata una vita così intensa con il suo impegno nella realtà civile, sociale e politica del paese, da costituire il riferimento costante del suo realismo pittorico legato alle persone e agli oggetti, ai luoghi e alla società. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando”, coordinata e diretta dal presidente Alessandro Nicosia, è stata curata, con il catalogo Skirà, da Fabio Carapezza Guttuso e da Enrico Crispolti.

Sala dei Grandi Dipinti,  a sin. “I funerali di Togliatti”,1972,  a dx “Vucciria”, 1974 

Il percorso della mostra

L’allestimento al Vittoriano ha la forma di un percorso, le opere sono collocate lungo un itinerario cronologico e di vita che diventa anche stilistico e di arte. Dopo la gigantografia in bianco e nero del suo volto severo, che accoglie al sommo dello scalone, l’“Autoritratto”  a forti colori del 1975 introduce  in una carrellata di immagini: dai piccoli quadri a tonalità scure della formazione, all’aprirsi alla luce e al colore, mentre le composizioni prendono forme stilistiche diverse, anche post cubiste ma sempre improntate a un realismo che non ha mai cedimenti verso l’astrazione.

Si è presi da un vortice cromatico e stilistico, di forme e contenuti, fino a restare senza fiato nel crescendo che, dopo la “La fuga dall’Etna” e la “Crocifissione”, presenta i quattro dipinti “clou” nella sala quadrata dei “Grandi Ritratti”: dal centro dell’ambiente si possono  centellinare le tante figure e situazioni di queste opere memorabili, che vanno dall’impegno politico e sociale di “I funerali di Togliatti” e “La zolfatara”, alla nota di costume di “Sulla spiaggia” e “Vucciria”. E’ difficile lasciare la sala, si è calamitati a restarvi a lungo, come fanno tutti i visitatori,  scoprendo nuovi particolari man mano che si guardano meglio dipinti così pieni di vita nel loro realismo.

La mostra ha ancora tanto da offrire, all’ordine cronologico si unisce quello tematico nel lungo salone con le nature morte sulla destra e le visioni dei luoghi amati di Roma e della sua Sicilia a sinistra; poi si va al piano superiore dove si trovano grandi quadri come “Discussione”, “Convivio” e “Caffè Greco”, tra  ritratti di personaggi amici e scene familiari. Fino alla parte “notturna” nell’ultima fase, che evoca ambienti e momenti colmi di mistero,  nel crepuscolo della vita.

Un “corpus” pittorico vario e vasto preceduto dai suoi disegni molto densi ed elaborati da sembrare dipinti, in  due “enclave” all’inizio della mostra, e concluso dalle sue opere scenografiche teatrali: sono le due forme d’arte che hanno sempre accompagnato la sua pittura, per il  teatro c’è a fianco un video che trasmette filmati delle opere con le scene da lui create i cui bozzetti sono esposti  lì vicino. C’è anche il sonoro a fare sentire la vita attraverso il teatro, come la si sente  attraverso i suoi dipinti “scolpiti” in un realismo intenso e profondo che lascia un segno forte nel visitatore.

L’itinerario fino alla “Crocifissione” del 1941

Nell’esposizione delle opere il criterio cronologico,oltre ad assicurare il carattere antologico alla mostra, ha una notevole resa spettacolare dando luogo a un crescendo sotto l’aspetto visivo.

Dopo il primo contatto con l’arte matura di Guttuso nell’“Autoritratto” del 1975, il corridoio iniziale presenta le opere della “formazione”. Dai 18 ai 25 anni, tra il 1930 e il 1933, il campionario dei suoi temi “privati”: il ritratto (“Ritratto del padre” e “Ritratto di Boyer (da Cezanne)”, la sua immagine (“Autoritratto con sciarpa e ombrello” e “Autoritratto”); la natura morta con oggetti (“Natura morta con lume, piatto, bottiglie” e “Natura morta con scarpe”), la donna (“Donna del marinaio” e “Il racconto del marinaio”), figure speciali (“Cavallo pazzo” e “Bambini in festa”).

Sono immagini  scure che si vanno illuminando con il passare degli anni. Uno dei due curatori, Enrico Crispolti, definisce la sua prima “identità immaginativa” come “una possibile dimensione di ‘mito mediterraneo'”, con “recuperi d’ottica di remota matrice ‘metafisica’” insieme a “proiezioni picassiane”;  e sottolinea che pur con questi influssi – comprese “suggestioni sia pompeiane che napoletane” – “intuitivamente egli sospingeva identitariamente verso una propria specificità etnico-paesistica siciliana”.  Resterà anche negli anni maturi, con i dipinti sulla terra siciliana d’origine.

Già a 26 anni, nel 1938, esce dai temi “privati” per quelli ispirati dalla sua sensibilità per i temi politici e sociali, con due opere straordinarie: “Fucilazione in campagna”,  per l’uccisione di Garcia Lorca, su influsso di Goya ma con il proprio sigillo nella dignità severa della vittima rispetto all’aggressività degli uccisori; e “Fuga dall’Etna”, un quadro di metri 1,5 per 2,5 con influssi picassiani, affresco pittorico coinvolgente con la fuga concitata dal terremoto di donne seminude, uomini, animali. Nello stesso anno anche quadri “privati”,  sui temi a lui cari prima citati, come “Mele e fiori” e “Mano di Mimise”, “Ritratto di Eugenio Montale” e “Gente nello studio”.

Questi temi si infittiscono negli anni immediatamente successivi: dal 1939 al 1941 immagini dallo  studio: “Cesto, forbici e limoni” e “Gabbia bianca  e foglie”, “Nudo sdraiato” e “Ritratto di Mimise”, “La bottiglia di Madera” e “Natura morta con lampada”, “La finestra blu” e “Arance”, fino a “Paesaggio”. I contrasti di colore e le forme nette acquistano una forza sempre maggiore.  Si conferma il suo interesse per i soggetti presi dalla vita e nello stile c’è un’evoluzione. Crispolti  lo vede liberato dalle prime suggestioni e sospinto verso “una concretezza di interessi esistenziali, e infine una fisicità persino di impressiva percezione organolettica”.  E’ il realismo pittorico che essendo radicato nell’esistenza concreta è percorso dall’inquietudine che ne deriva, individuale e collettiva.  Per il critico “ormai scavalca l’originale riferimento a una propria matrice etnico-culturale, siciliana, per darsi a viso aperto, senza più alcun appiglio particolare, a un confronto con lo spessore esistenziale della realtà morale, sociale, politica del tempo”.

E’ l’inquietudine diffusa che pervade  “Crocifissione”, il dipinto 2 metri per 2 posto alla svolta della galleria pittorica della prima fase, è anche una svolta per Guttuso che deve affrontare la reazione violenta della Chiesa, tanto che, come abbiamo ricordato a suo tempo, la mostra in cui era stato premiato fu chiusa in anticipo e poi cessò anche il Premio Bergamo. L’influsso picassiano è evidente nella testa del cavallo bianco e nella figura del torturatore sul cavallo nero, d’altro canto c’era l’intento di attualizzare il sacrificio facendone un simbolo, per cui l’angoscia di “Guernica” era la trasposizione giusta. Guttuso disse che l’aveva pensata “come un supplizio”  da rappresentare in un interno come le torture agli arrestati politici. La trasgressione che colpì maggiormente fu la Maddalena nuda oltre alle croci spostate:  fu definito dall'”Osservatore Romano” un  “baccanale orgiastico”, il vescovo di Bergamo  vietò ai parroci di visitarla pena la “sospensione ‘a divinis'” e ordinò loro di sconsigliarla ai fedeli. Il quadro è uno straordinario specchio dell’inquietudine collettiva attraversata dall’Europa, e Crispolti lo definisce: “Un significativo fortissimo manifesto di questa profonda, corale, percezione di crisi, di tragedia incombente, in percezione europea”.

“Crocifisssione”, 1940-41

La sala dei Grandi Dipinti

“Fuga dall’Etna” e “Crocifissione” con le loro dimensioni e l’impianto narrativo preparano all’impatto con i quattro “Grandi Dipinti” che circondano il visitatore appena entrato all’interno dell’apposita sala, dominata dalla balconata che permette di averne una visione d’insieme dall’alto. Viene  interrotta la sequenza cronologica per raggrupparli  in un quadrilatero la cui presa spettacolare e  forza evocativa crediamo non abbiano precedenti per intensità. La cronologia alterna le tematiche, dalla narrazione socio-politica a quella privata anche se collettiva.

Il primo è  “Zolfara”, 1953, 2,50 metri per 3, dove c’è quella che Crispolti definisce “epica di ‘racconto popolare'”:  nei lavori quotidiani  “raccontando”  ambienti e consuetudini, gesti ed azioni,  dal lavoro femminile organizzato, come dattilografe e cucitrici, al lavoro maschile di contadini, pescatori, operai e minatori. Qui rappresenta la miniera di zolfo in un realismo sociale che diventa drammatico nell’assimilazione delle figure nude di ogni età stremate dalla fatica mescolate e quasi assimilate alle colate di zolfo in una visione apocalittica da inferno dantesco, che evoca la lotta dell’uomo contro la natura ostile in una condizione disumana di segregazione e sfruttamento. In basso la figura di un ragazzo dal corpo scarnito che si piega per sollevare una cesta, richiama l’immagine del quadro dell’anno precedente “Zolfatorello ferito”, altrettanto fragile e tormentata.

Passano soltanto due anni da “Solfara” ed ecco un racconto popolare di segno opposto, “La Spiaggia”, 1955-56, dimensioni  maggiori, 3 metri per 4,5,  il realismo questa volta si concentra  sulla gente che si affolla nel litorale di Ostia, il verbo rende bene la scena, che è di massa. Né il cielo né il mare entrano nel campo visivo, carne al sole nelle più diverse posizioni, figure in piedi o sdraiate, maschili e femminili, bambini che giocano anche qui in una mescolanza dove le figure sono evidenziate da colori accesi, mentre la sabbia su cui poggiano è evanescente fino a sollevarsi  in nuvole come di vapore che velano le immagini lontane tra riflessi di luce abbaglianti.  Ci si sente immersi in questa realtà vacanziera dove non si avverte la gioia di vivere quanto la celebrazione del rito del nuovo benessere, officiato dalla figura di Picasso al centro con “citazioni” di sue immagini.

Il terzo grande dipinto è “I funerali di Togliatti”, 1972, ancora più grande, 3,40 metri per 4,40, il racconto popolare si sposta su un tema politico, e assume un aspetto ancora diverso nella composizione pittorica. La scena di massa non mostra viluppi di corpi – come quelli tormentati dalla fatica nel primo dipinto o abbandonati  e gaudenti del secondo, e neppure uniti nel dolore  –  bensì una serie di ritratti dei dirigenti del partito, perfettamente riconoscibili, e altre figure di militanti e familiari, dai contorni appena delineati su un biancore intervallato dal rosso squillante delle bandiere, peraltro senza i simboli del partito a cui l’artista era tanto legato, che celebra le esequie del leader storico. Il suo viso esanime è un ritratto come gli altri circondato da una ghirlanda di fiori. Sembra che il rosso delle bandiere si trasmetta attraverso le figure, e anche il cielo venato di rosso si unisca alla celebrazione funebre. In alto a sinistra l’interno del Colosseo che Cesare Brandi vede “come un ossario, dove il passato è morte”, e a destra  alcuni operai su una passerella “col pugno alzato, dove chiaramente il presente è vita”: passato e presente uniti per l’eternità?

Chiude il magico quadrilatero dei Grandi Dipinti “La Vucciria”, 1974, 3 metri per 3, si torna al racconto popolare di costume imperniato sul grande mercato di Palermo nel quale si incontrano persone  e cose, colori e umori della sua Sicilia, quasi in una magica alchimia. Il nome del mercato significa “confusione”, nel dipinto la merce esposta – dagli ortaggi al formaggio, dalla carne al pesce – pur se in modo ordinato, è affastellata in tutta la superficie, lascia solo uno stretto varco al centro dove passano gli acquirenti, con la figura femminile dall’abito chiaro ripresa di spalle in primo piano. Lo ha definito lui stesso “una grande natura morta con in mezzo un cunicolo nel quale la gente scorre e si incontra”, e ci sembra che meglio non si potrebbe descrivere. E come nelle nature morte, da lui rappresentate in ogni fase della sua vita, sono gli oggetti i protagonisti, riprodotti con estrema precisione figurativa. La sua “idea di mercato”, sempre per l’artista,  “è un oggetto, da trattare come tale e percepibile, visibile da ogni parte” anche sentendone gli umori  e i rumori.  Carapezza Guttuso ricorda le parole di Leonardo Sciascia, che lo conosceva bene: “E’ una visione, un sogno, un miraggio, un mangiar visuale: e con effetti di appagamento e delizia…”.

“Discussione”, 1959-60

L’itinerario dal dopoguerra agli anni ‘70

Si lascia a fatica una sala che magnetizza e fa restare ancorati al centro spostando lo sguardo ora sull’uno ora sull’altro dei quattro capolavori posti nelle pareti del quadrato magico. Il seguito dell’itinerario è avvincente, e poi si sa che si troveranno altre opere di notevoli dimensioni anche se minori, come si sono trovate prima dei “Grandi dipinti”, come “Fuga dall’Etna” e “Crocifissione”.

Avvince la prosecuzione, anche se su piccole misure, dei temi sociali, siamo nel dopoguerra, dal 1946 ai primi anni del 1950 :  vediamo “Retata” e “Occupazione delle terre”, il già citato “Zolfatorello ferito” e “Lotta di minatori francesi”, “Massacro di agnelli” e  uno “Studio per la ‘Battaglia di ‘Ponte dell’Ammiraglio'”, il grande dipinto che si può ammirare nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna. La sua intesa attività legata all’impegno civile e politico, si manifesta  anche nei dibattiti del mondo artistico in cui si batte per il realismo contro le suggestioni astratte. Intanto il suo stile si sposta verso un post cubismo con forte ancoraggio alla realtà, tali appaiono le opere citate nel segno di una netta evoluzione stilistica rispetto al passato. Ma, come di consueto, coesistono temi personali: i ritratti (“Ritratto di Antonio Santangelo”, “Autoritratto”, “Ritratto di Mimise”), gli oggetti (“Bottiglia e barattolo”, “Ricci”), i luoghi (“Paesaggio”, “Il merlo”).

In un’altra svolta nell’allestimento scenografico della mostra spicca un’opera spettacolare, “La pesca del pesce spada”, 1949, di 2 metri per 1,50, un postcubismo lineare e dinamico. Tre anni dopo, nel 1953, l’anno di “Zolfara”, “L’eroe morto”, figurativo senza tratti di realismo marcato, spunta appena il viso nel biancore della fasciatura e delle lenzuola che lo avvolgono, straziante!

Ma nell’ispirazione e nell’arte di Guttuso preme la realtà quotidiana, che pulsa  nel suo studio e nella città dove vive, e c’è anche la memoria, e con essa la sua terra. Per questo di nuovo dai forti temi sociali si torna ai più leggeri tempi privati;  siamo giunti alla seconda metà degli anni ’50.

La mostra presenta, nell’ultima sala lunga del piano inferiore, dipinti che arrivano agli anni ’70. Sulla destra  oggetti e nature morte come  “Damigiane e bottaccino” e “Natura morta con fornello elettrico”, “Fichi d’India”, “Cesto di castagne”  e “Girasoli”;  figure come “Ragazzi in Vespa” del 1958, ricordo della scena di “Vacanze romane” partita proprio dall’edificio in via Margutta dove aveva lo studio, e il tormentato “Donna nuda nello studio”; dalla forma contorta, che precede di tre anni il “Nudo trasversale” del 1962, ancora più scavato. E sulla sinistra una carrellata di immagini di luoghi a lui cari,  romani e siciliani, come “Tetti di Roma” e “Colosseo”, “Vecchie case a Palermo” e “Muri di Erice”, fino a “Tetti a Velate d’inverno”.

Siamo giunti alla scalinata che porta al piano superiore, dove ci saranno altre sorprese ma sempre in una coerenza contenutistica ed espositiva che alterna temi impegnati a temi leggeri; del resto il realismo che si ispira ai motivi esistenziali è anche questo, l’impegno sofferto e il quotidiano. Prima di salire guardiamo i due ultimi dipinti del piano che stiamo per lasciare: “Ritratto del padre agrimensore” e “Trionfo della guerra”, entrambi del 1966,  che sintetizzano  quanto appena detto, il primo un ritratto in piedi quieto e solenne, il secondo una denuncia allucinata alla “Guernica”.

Le testimonianze allegoriche e il mistero, fino al trionfo della vita

Il piano superiore non contiene i “residui”, come spesso avviene, ma altre opere fondamentali per i contenuti di testimonianza e l’espressione stilistica in dimensioni notevoli;  e quelle dell’ultimo periodo, anni ’80, in cui affiora un clima misterioso, forse per i dilemmi anche spirituali,  come sempre insieme a quadri  apparentemente minori che documentano il suo “quotidiano”.

Si comincia con le testimonianze allegoriche, è stata giusta la scelta di arricchire l’itinerario finale in modo da ripartire i dipinti di maggiori dimensioni lungo tutto il percorso. La prima è “La discussione”,1959-60, 2,20 metri per 2,50, testimonia il fervore di dibattiti in cui lui stesso era impegnato: una composizione con un taglio da fotoreporter che riprende di schiena i convenuti mentre di fronte c’è il tavolo della “presidenza”, con carte e giornali, una riunione di sezione del Pci? Anche in “Il Convivio”, 1973, metri 1,50 per oltre 2,20, c’è una riunione, me è conviviale intorno al tavolo con spaghetti, pesce e vino, al centro Picasso, quasi come evocato dall’al di là,  ed è volutamente in uno stile che richiama il suo cubismo anche in certe figure picassiane. La terza è “Caffè Greco”, 1976, circa metri 1,90 per 2,40, questa volta la testimonianza riguarda il ritrovo frequentato da artisti e intellettuali, anche qui visione realistica dell’ambiente in cui si riconoscono chiaramente de Chirico, abituè, e Buffalo Bill, una testa sembra di D’Annunzio, il tutto tra l’affollarsi di persone in periodi temporali molto diversi. Viene definito “realismo allegorico” come “incontro di reciprocamente incongrui personaggi storici, al di là dei nessi temporali”.

Anche questa è quotidianità, ma assurge ad evento. Mentre quella a lui abituale la ritroviamo nei  ritratti a personaggi amici (“Ritratto di Giorgio Amendola” e “Ritratto di Moravia”, con cui ebbe uno stretto sodalizio, tra gli anni ’70 e ’80, cui sono affiancati “Ritratto di Mario Alicata”, “Ritratto di Anna Magnani”, “Ritratto di Mario Schifano” e “Autoritratto con maglione”, tra il 1955 e il 1969), e nature morte (“Bucranio, mandibola di pescecane”, 1984).

Si caricano di significati profondi e del senso del mistero le  due opere del 1980, precedute da “Il sonno”, 1979, un corpo nella sua povera nudità stremato anche nello spirito. Sono due “notturni”, “Sera a Velate” e “La visita della sera”, figurazioni definite “allegorie visionarie” a cui vengono accostate “Cena ad Emmaus”, 1981 e “Allegoria della sera” non esposta. E’ la “malinconia che, come una  linfa sotterranea, pervade le opere di Guttuso” negli ultimi anni – commenta Carapezza Guttuso   è la nera compagna con cui da tempo dialoga l’artista che proietta la sua ombra sui luoghi familiari”: Velate e il giardino del Palazzo del Grillo in cui abita, dove si sentono presenze inquietanti, evocate nel primo dalla luce gialla che fende la penombra, nel secondo dalla tigre che passa nel suo “hortus conclusus”, in cui si crea “un’atmosfera sospesa che, avvolgendo progressivamente il paesaggio, gli oggetti, le piante, rende tutto più evanescente, magico e fatale”.

Ma non è questa la conclusione che vogliamo dare alla nostra visita alla mostra. Ci piace fermarci su due dipinti, “Due donne sdraiate”,del 1982, in cui Carapezza vede “la metafora dell’erotismo, più guardato che vissuto, sospeso in un’atmosfera che comunica qualcosa di tragico”, ma conferma il suo interesse per “l’altra metà del cielo” con un realismo coinvolgente; e “Angurie”, del 1986, in cui poco prima della morte, che ricordiamo avvenuta il 18 gennaio 1987, ci regala un’esplosione di colori, tra il rosso squillante del frutto e il verde delle foglie, in cui lo sentiamo lanciare un trionfale inno alla vita. E’ la compresenza di motivi intensi e motivi leggeri, che rende il senso della vita.

Non è la sola immagine lieta con cui si lascia la mostra, la cui visita è iniziata con le due “enclave” recanti esposti i suoi straordinari disegni, che lo hanno accompagnato tutta la vita, così densi di materia ed elaborati nella composizione da potersi equiparare ai dipinti: sono circa 25 e riguardano tutti i suoi temi, da quelli politici e sociali a quelli quotidiani e  personali,  L’ultima immagine di vita è quella del suo teatro, la scenografia teatrale è stata l’altra costante oltre al disegno: sono esposti parecchi bozzetti, da “Baccanti” a “Carmen”, da “Machbeth” a “La forza del destino”. Vicino ai bozzetti c’è un video che trasmette immagini degli spettacoli nei teatri con il sonoro.

Ebbene, vedere le scenografie da lui disegnate e realizzate, dove si muovono i personaggi, e sentire il canto lirico dà la sensazione della presenza dell’artista. E’ merito dei curatori aver concluso la mostra con immagini di vita che esprimono il valore perenne dell’arte, eternatrice come la poesia.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali).Tutti i giorni: da lunedì a giovedì 9,30-19,30; venerdì e sabato 9,30-23,30; domenica 9,30-20,30 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. http://www.comunicareorganizzando.it/ Tel. 06.6780664;  prevendite 199.747554 http://www.ticketone.it/. Catalogo: “Guttuso 1912-2012”, a cura di Fabio Carapezza Guttuso ed Enrico Crispolti, Editore Skira, pp. 224, formato 24 x 28, euro 39,00; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito,  il 25 gennaio 2013, con 4 immagini,  un’inquadratura della sala dei Grandi Dipinti con  “La Spiaggia” e “Zolfara”, poi “Occupazione delle terre”, “Trionfo della guerra”, “Autoritratto”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti e in particolare Fabio Carapezza Guttuso. In apertura  un’altra inquadratura della sala dei Grandi Dipinti con a sinistra”I funerali di Togliatti”,1972,  a destra “Vucciria”, 1974; seguono “Crocifisssione”, 1940-41, e “Discussione”, 1959-60; in chiusura “Angurie”,  1986.

“Angurie”,  1986

Wak Wak, lo scultore libico dei residuati bellici, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Presentata solennemente in Campidoglio, alla Sala delle Bandiere, la mostra “Anime di materia. La Libia di Alì Wak Wak”, dal 16 gennaio al 28 febbraio 2013 alla Gipsoteca del Vittoriano, p.zza Ara Coeli: 40 sculture di grandi dimensioni realizzate dopo la rivolta libica, all’aprile 2011, trasformando i residuati bellici – elmetti e armi, munizioni e utensili – in figure antropomorfe  e di animali. La mostra, realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, è promossa da “Health Ricerca e Sviluppo”, in collaborazione con la Camera di Commercio di Roma,,  e sostenuta dall’Eni .

“Milite ignoto”,  all’ingresso della mostra

Ha il patrocinio dei  Ministeri degli Esteri e dei Beni culturali di Italia e Libia, nonché della Regione Lazio, di Roma Capitale e di istituzioni libiche, il Charity Libyan Disable e il King Senussi’s  Castle Museum di Bengasi. Curatrice della mostra e del Catalogo Gangemi, Elena Croci. 

Il “parterre de roi” dei patrocinanti fa capire che  è qualcosa di più di un’esposizione artistica; è un evento di rilevanza anche economica e politica perché tende a rafforzare i molteplici collegamenti tra il nostro paese e la nuova Libia.  

Un evento tra arte, politica ed economia 

Ne ha parlato il presidente della Camera di Commercio di Roma Giancarlo Cremonesi  che, riferendosi ai rapporti economici e all’l’importanza della cultura, ha auspicato che “Roma diventi la capitale del Mediterraneo cominciando dall’accoglienza”. 

Molto politico l’intervento della rappresentante libica Kanoun che ha ringraziato l’Italia a nome del suo governo “per la vicinanza e l’aiuto” in nome dell’aspirazione comune “alla pace e al benessere”; ha rivendicato la “lotta contro l’oppressione” del suo popolo “che non ha piegato la schiena” e l’importanza del programma di “riconciliazione e unificazione”  per un  “paese aperto”.  “E’ stata fatta la rivoluzione per avere la pace – ha concluso – la guerra non fa parte della nostra cultura”.

Il sindaco Gianni Alemanno ha collegato alla mostra i vari aspetti, economico e politico, ribadendo la “vocazione mediterranea di Roma” e l’impegno comune che “il Mediterraneo non sia più un’area di scontri e conflitti ma di cooperazione per lo sviluppo e la crescita culturale.  Ricordiamo  gli anni terribili di Gheddafi con i sentimenti antitaliani per le passate vicende coloniali – ha detto – ora i rapporti tra i nostri popoli possono essere diversi, non più sentimenti di odio e rancore ma sentimenti di pace e tolleranza e di vicinanza nel superare le rispettive difficoltà”.  Rapporti di vicinanza che vanno rafforzati  per consolidare i successi raggiunti dal movimento di liberazione libico. “Avevamo seguito la guerra civile nelle cronache – ha esclamato –  ma ora”la mostra ce ne fa cogliere ancora di più la drammaticità con i materiali bellici utilizzati dallo scultore, che danno una sensazione analoga a quella provata nelle visite ai ‘luoghi della memoria’.  L’arte consente di approfondire gli eventi della storia e lascia un segno nella memoria collettiva”. 

Dell’autore delle opere esposte ha parlato Alessandro Nicosia, insistendo sul fatto che è riuscito ad esprimere nell’arte le sollecitazioni di una vita intensa, segnata dalla sofferenza per drammi personali e familiari dovuti anche alle persecuzioni politiche, è stato in carcere, ha perduto un figlio. “Ha tradotto nell’arte i suoi dolori attraverso la trasformazione in vita del ferro dei residuati bellici.” Un’operazione questa di profondo significato umano che va anche oltre l’aspetto artistico. L’artista Ali Wak Wak, intervenendo alla presentazione, ne ha dato diretta conferma e ha voluto precisare che rispetto alle richieste da altri paesi per questa prima esposizione fuori dalla Libia ha preferito l’Italia per la vicinanza e amicizia dei popoli e per l’alto valore simbolico del Vittoriano.

“Il Riposo del Guerriero”

Motivi e contenuti della mostra 

La curatrice Elena Croci è entrata nei contenuti della mostra, sottolineando alcuni aspetti e significati di portata ancora più ampia: la cultura che diventa un traduttore di concetti complessi e veicolo di dialogo, la pace è un ponte, la materia riprende a vivere trasformandosi da materia di morte a materia di vita; viene reinventata e  rivive come strumento di comunicazione, “c’è una colla che riassembla la materia creando armonia”; inoltre “non bisogna capire con l’intelletto ma essere aperti a sentire con la percezione e seguire la spinta per l’armonia”; infine si deve riflettere sulla “differenza tra continuare e ricominciare”, nel primo caso si conservano i pesi del passato, nel secondo ci si muove  in modo innovativo in un nuovo inizio.

Ce n’è quanto basta per analizzare più da vicino la complessa operazione dell’artista libico nel trasformare residuati bellici, che ci sembra di sentire ancora caldi per le recenti operazioni militari, in figure umane e animali che l’evidenza dei materiali utilizzati fa diventare “testimonial” muti  di un messaggio di pace. Con l’ulteriore effetto dato dalla ruggine, così descritto dalla Croci: “”Il ferro arrugginito manifesta il simbolo di un passato, di un tempo che si vuol dimenticare”, e questo si riferisce alla tragedia della guerra libica. “Ma la ruggine delle sculture di Alì è come una pelle vissuta; l’ossidazione ne rivela  la condizione, le rughe, l’esperienza”, e questo riguarda la condizione umana in ogni epoca e latitudine.

L’utilizzo del ferro recuperato dagli ordigni di guerra lo avevamo visto di recente nella mostra al “Macro” dell’iracheno Hiwa K che ha esposto, oltre al “calco” in sabbia di un “cassettone” del Pantheon, dei residuati bellici delle guerre del Golfo fusi con metodi arcaici dal connazionale Nazhad. Era simbolico, per la piccola dimensione del prodotto finale e il suo carattere non propriamente scultoreo. Qui nella scelta dei materiali  c’è un significato ulteriore: si tratta per lo più di armamenti distrutti delle forze di Gheddafi presi nelle basi intorno a Bengasi dopo i bombardamenti della Nato o delle forze rivoluzionarie; ebbene, gli stessi mezzi prodotti e usati per distruggere e dare la morte sono plasmati per ricostruire e dare la vita, ciò che è negativo e dannoso può riconvertirsi a un impiego positivo e benefico, una lezione di vita che va anche oltre l’antitesi tra pace e guerra. 

La mostra del Vittoriano espone 40 delle 275 sculture metalliche create dall’artista dall’aprile 2011, dopo due mesi dalla fine della guerra civile libica che gli ha dato l’ispirazione, con l’aiuto di due assistenti Muftah e Naser, aiuto  necessario per l’enorme lavoro meccanico di demolizione e saldatura, oltre che artistico. 

E’ giunto a questo importante traguardo un itinerario di vita che lo ha visto iniziare a 13 anni nel 1960 aiutando il padre nei lavori artigianali in legno, poi questo materiale è divenuto per lui mezzo di espressione artistica finché nel 2006 non è passato al ferro che nel 2011 diviene quello dei residuati bellici della guerra civile, le armi usate da Gheddafi contro il suo popolo trasformate in opere d’arte e messaggeri di pace: la migliore rivincita contro il tiranno  dopo la condanna nel 1989 a 7 anni di prigionia, di cui 2 trascorsi  in carcere fino al rilascio per buona condotta, per essersi rifiutato di combattere contro il Ciad; e l’arresto negli anni successivi del fratello e del figlio ventenne, con l’accusa di essere fondamentalisti islamici, rinchiusi nella prigione di Abu Slim fino alla liberazione da parte degli insorti nel 2011. Di qui una nuova energia  e una forte ispirazione ideale con motivi  di rinascita morale e civile,  sociale e politica del suo paese e di riscossa personale.

Al di là di questa spinta data dagli eventi drammatici, c’è alla base della sua espressione artistica una visione filosofica che laCroci  definisce così: “Alì Wak Wak da sempre si serve del legno e del ferro per raccontare la sua passione, il suo pathos in senso aristotelico, la sua affezione dell’anima che trova corpo per mezzo della materia”.  E prosegue: “Alì si avvale dell’arte quale arma universale, inattaccabile, e non smette di sognare e sperare, facendo anche lui la sua guerra personale, una lotta forse ancora più difficile e silenziosa”. La curatrice non si linita alla guerra libica: “Per tanti anni egli ha coltivato quella che oggi lui chiama ‘l’accettazione di una vita piena, colma, sia di gioia sia di dolore”,  e se riferisce all’artista termini come “arma” e “guerra” lo fa perchè lui li ha usati come un vaccino bnefico, trasformandoli con la sua arte in messaggi di pace e di vita. . 

Quindi  nel guardare le sue opere non si deve avere in mente soltanto il riferimento alla guerra che ha dato i materiali utilizzati per la trasposizione dalla morte alla vita, dalla distruzione alla ricostruzione; ma si deve pensare alla base filosofica più profonda, che attiene alla condizione umana, al valore dell’anima che emerge dalla materia più dura e ostile.

“Giraffa”

Le opere scultoree dai residuati bellici della guerra libica

Si tratta di figure semplici ed essenziali, costruite con l’assemblaggio di parti meccaniche residui di armi, macchine e meccanismi di varia natura, coperte da una ruggine carica dei significati prima evocati. E’ come se l’artista ci volesse dare l’essenza materiale dei soggetti rappresentati, privi di qualunque sovrastruttura od orpello, quasi una radiografia del loro scheletro originario; è un modo per avvicinarsi all’anima la cui riscoperta attraverso la materia è, in fondo, il suo obiettivo? 

All’ingresso della mostra accoglie una figura imponente, con le braccia  aperte, il fucile nella sinistra e la bandoliera di cartucce, scarna nelle sue componenti metalliche assemblate, è al centro della sala che in una parete reca la pianta geografica del bacino del Mediterraneo. Pensiamo sia proprio il “Milite ignoto”,  che sede più appropriata non poteva trovare per l’esposizione, nella scultura di Wak Wak è bellicoso, mentre  al Vittoriano è nel sacello dove fu traslata la salma da Aquilei con grande solennità, rivissuta nella mostra del 2011 e nel treno commemorativo che ha ripercorso l’itinerario di allora.

Dall’immagine epica del “milite ignoto” si passa a un’immagine angosciosa: un ampio tratto della parete destra nella Gipsoteca è coperto di elmetti forati con dei volti abbozzati, l’opera è intitolata “Il muro dell’identità”: gli elmetti sono più di 500, si estendono per 15 metri con utensili e armi che spuntano in alto, è sembrata la denuncia più forte, dietro ogni elmetto non una ma tante vittime. Poi “Soldato on line” e “Tamburino”, “Derviscio” e “Bambini soldato”, e immagini legate direttamente all’ispirazione militare come “Invalido di guerra” e “Il riposo del guerriero”: il primo, alto più di tre metri, è un  assemblaggio rigido e statuario di una miriade di cartucce e proiettili, nel secondo grandi molle di acciaio compongono  una figura seduta, ma sempre con il suo elmetto. Fino a “Freedom”, dove l’accozzaglia di ferraglia con le braccia in alto esprime la grande gioia della libertà riconquistata, ed è straordinario come con una materia così fredda e brutale  esprima sensimenti così caldi ed elevati. 

Non solo figure militari, anche altre di tipo opposto, come “Coppia di innamorati” e “Il pensatore di Rodin”, “Bob Marley”  e “Marziano”, “Cavaliere” e “Natività”.  Scompaiono gli elmetti fin qui onnipresenti, per una maggiore leggerezza.  

Le due ultime sculture ci introducono all’altro grande settore della mostra e dell’arte di Wak Wak, il mondo degli animali, nel quale la materia ferrosa dà vita a uno zoo il cui significato rimanda al richiamo della natura che gli uomini troppo spesso dimenticano minacciandone l’equilibrio e violandone le leggi: “Alì penetra queste leggi – commenta  la Croci –  le rende materia”, traendone un messaggio: “Questo zoo è un’allegoria di una trasformazione sempre latente, ancora possibile. Accettare i difetti che sono parte dell’umanità ma allo stesso tempo esercitare quella parte di noi ancora bambina che riesce a stupirsi di fronte all’immensità di un elefante ma anche al volo di un piccolo insetto”.

Scoprire la “parte ancora bambina” di un artista segnato duramente dalla vita nella persona e negli affetti, nonché nella propria terra, la cui figura forte e imponente con il viso incorniciato dalla barba lo avvicina piuttosto  a un profeta, rivela la sua anima, oltre quella che riesce a far emergere dalla materia nelle sue sculture. 

Il suo zoo è fatto di animali grandi e piccoli, che però non mostrano istinti di predatori anche se il più grande, un “Ragno” gigantesco alto 2 metri e largo 4 reca sulla groppa visibili gli elmetti forati che ne richiamano lo spirito aggressivo.  Molto grandi, ma aggraziati, anche la “Giraffa”  e il “Fenicottero”, quasi 2 metri l’uno, mentre di dimensioni minori lo “Sciacallo” e il “Granchio”, il “Millepiedi”  e il “Baby millepiedi”, un diminutivo dal quale traspare la tenerezza dell’artista verso questo mondo; anche la “Civetta” ha una grazia che contraddice la fama di menagramo affibbiatale da certa superstizione.

E’ “una primavera della natura, un percorso attraverso animali grandi e piccoli, insetti e mammiferi che si manifestano in tutta la loro essenza”, così la Croci definisce lo zoo di Wak Wak. Nella  primavera, aggiungiamo, non può mancare il “Sole”, e l’artista lo presenta, fatto sempre di materiale bellico, quasi una fusione. Il valore simbolico è evidente, soprattutto riferito alle parole di Benedetto XVI: “Gli occhi riconoscono gli oggetti quando questi sono illuminati dalla luce. Da qui il desiderio di conoscere la luce stessa, che fa brillare le cose del mondo e con esse accende il senso della bellezza”.  Il sole è la fonte della luce.

Terminata la parte scultorea la mostra riserva la sala finale a una panoramica fotografica delle due Libie: quella degli importanti reperti archeologici da Apollonia a Cirene,  e quella delle nuove costruzioni, dagli obelischi moderni ai ponti avveniristici. Ci sono anche immagini della natura, con i tramonti dal Lungomare di Bengasi sul Mediterraneo.

Salvatore Santangelo aderisce alla definizione di Matvejevic “mare della vicinanza”  affermando: “Infatti, più che una frontiera le acque del Mediterraneo hanno spesso costituito una via di passaggio e di comunicazione , la piattaforma ideale e concreta su cui questi due Paesi hanno spesso  edificato un destino storico condiviso”. 

E’ la cultura il collante per far sì che questa costruzione investa l’economia e la politica, e di certo con le opere di Wak Wak è intervenuta la cultura come la definisce la Croci: “la Cultura con la C maiuscola perché, anche se non capita, questa risvegli quel pezzo di anima incrostata su di un corpo arrugginito da una vita annoiata”. Anima e incrostazioni, corpo e ruggine: sono proprio gli ingredienti  i cui valori simbolici abbiamo visto esaltati  nella mostra “Anime di materia. La Libia di Wak Wak”.

Info

Complesso del Vittoriano, Gipsoteca, Roma, piazza dell’Ara Coeli, 1. Aperto tutti i giorni: da lunedì a giovedì ore 9,30-18,30; da venerdì a domenica  ore 9,30-18,30. Ingresso gratuito  (fino a 45 minuti prima dell’orario di chiusura: Tel. 06.69202049. Catalogo: “Anime di materia. La Libia di Wak Wak”, a cura di Elena Croci, bilingue italiano-inglese, Gangemi Editore, gennaio 2013, pp. 254, formato 21 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. 

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  alla presentazione della mostra, precisamente al Vittoriano per le sculture e al Campidoglio per la conferenza stampa, si ringrazia Comunicare Organizzando di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura la grande scultura “Milite ignoto” all’ingresso della mostra; seguono “Il Riposo del Guerriero” e “Giraffa”; in chiusura uno scorcio del  tavolo degli oratori durante l’intervento di  Wak Wak  mentre l’interprete traduce, alla sua sinistra la rappresentante libica Kanoun e ancora sulla sinistra il sindaco di Roma Gianni Alemanno.

Wak Wak  al centro, alla sua sin. la rappresentante libica Kanoun con alla  sin. il sindaco di Roma Gianni Alemanno 

Creatività, il premio 2012 a 4 studenti, di cui 2 aquilani, alla Biblioteca Nazionale di Roma

di Romano Maria Levante

Alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma una folla festosa di studenti  la mattina del 22 gennaio 2013: nella Sala Conferenze è stato conferito il Premio Creatività 2012 agli allievi di scuole secondarie italiane per i campi in cui questa capacità innovativa si esprime: a Bianca Di Giovanni per l’Opera cinematografica e a Davide Contu per l’Opera musicale, entrambi del liceo classico “D. Cotugno” dell’Aquila; a Chiara Ceccarelli di Cortona per l’Opera della Scultura e arti figurative  e a Forese Crinò di Prato per l’Opera letteraria.

Foto di gruppo dei premiati e altri, al centro la responsabile del servizio organizzatore Maria Concetta Cassata   

Non è facile far rivivere la scena in cui è avvenuta la premiazione per chi non conosce l’ambiente, un vero “campus” di quelli che gli studenti sognano: l’esterno della struttura con la vasta area e i gradoni per la sosta a formare una piccola cavea, i  vasti ambulacri interni fino alla Sala Conferenze con la sua modernissima struttura resa calda e accogliente dal soffitto a lamelle lignee. Ma anche chi conosce la struttura non ha visto le figure scultoree di marca ecologica fatte da sagome di cartone pressato, che segnano l’itinerario verso la sala  dove alle forme umane si aggiungono “installazioni” apposite per ognuna delle opere premiate. Un’idea brillante che ci ha ricordato la mostra in quel giorno ancora aperta –  si è chiusa il  27 gennaio –  alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna dove le sagome scultoree di Gino Marotta, in esposizione, erano distribuite su un itinerario che “guidava” il visitatore di sala in sala.  Si trattava di metacrilato dai colori brillanti, laddove qui è stata usata la materia povera del cartone pressato, ma la familiarità ispirata dal percorso guidato era la stessa.

Le autorità e la nostra proposta per L’Aquila

Non solo giovani e arte nella cerimonia, anche autorità a livelli elevati, a partire dal ministro per la Pubblica Amministrazione e la Semplificazione Filippo Patroni Griffi, con il sottosegretario per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca e il capo di gabinetto del Ministro per la coesione territoriale, nonché il Direttore della Biblioteca nazionale Centrale Osvaldo Avallone. Con loro i promotori del Premio, la Direzione generale per le Biblioteche, gli istituti Culturali e il Diritto d’Autore con il direttore Rossana Rummo  – in platea il precedente direttore Maurizio Fallace – e la dirigente del Servizio per il Diritto d’Autore Maria Concetta Cassata; e l’ente che ha dato un importante supporto anche mediante il premio in denaro di 500 euro ai vincitori, il Formez con il presidente Carlo Flamment.  Naturalmente erano con i loro studenti i dirigenti degli istituti scolastici premiati ma c’è stata una sorpresa: l’Assessore alla cultura del Comune dell’Aquila Stefania Pezzopane ha voluto accompagnare i due giovani aquilani ai quali sono andati due dei quattro premi in palio, e ha sottolineato esplicitamente questo fatto sorprendente con legittima soddisfazione.

E’ stata una circostanza straordinaria che ha fatto collegare questo risultato alla volontà di ripresa della città devastata dal terremoto del 6 aprile 2009 andando oltre il pur rilevante valore culturale. Di qui la definizione di “emozionante” data dalla Pezzopane alla cerimonia, e la sua affermazione che oltre a mostrare il loro talento, i due studenti premiati esprimono “il coraggio e la speranza dei giovani aquilani per il futuro”.

Al termine l’abbiamo avvicinata e le abbiamo ricordato la nostra proposta di esprimere simbolicamente la volontà di rinascita prendendo a simbolo la scultura  “Vivere insieme”, che ha rappresentato l’Italia all’Expo di Siviglia del 1992: un ragazzo felice a braccia aperte e protese in groppa a un’aquila in volo, rispetto a lui i due giovani aquilani premiati sono cresciuti, ma il senso è lo stesso, quello espresso dalle parole della Pezzopane sopra riportate. L’autrice della scultura fu definita “artista di valore” dal presidente francese Mitterand che le conferì la Legion d’Onore, altra assonanza nella premiazione, è Gina Lollobrigida, che ha trovato una seconda giovinezza dedicandosi all’arte dopo i successi da diva internazionale che non le hanno fatto dimenticare la sua vocazione primaria: un esempio  della spinta dei valori culturali che tornano dopo esperienze pur eclatanti.

Torniamo sull’arte nel parlare dell’Aquila ricordando le recenti presentazioni a Roma del restauro dei due dipinti di Giacinto Brandi, a Palazzo Barberini  il 23 ottobre 2012 con lo stesso assessore Pezzopane, e del progetto per il restauro del santuario della chiesa di Santa Maria della Croce a Roio, finanziato dalla regione Liguria, presso il Ministero per il Beni e le Attività Culturali il 17 gennaio 2013 con il presidente della regione Chiodi. Siamo felicemente a livello di rinascita dopo le commoventi mostre sull'”arte ferita” e il “S.O.S. Abruzzo” tenutesi negli ultimi anni a Palazzo Montecitorio e a Castel Sant’Angelo.

Il premio “Creatività 2012”

Dopo la suggestione aquilana qualche notizia sul premio dalle parole del Direttore generale per le Biblioteche Rossana Rummo che ne ha ricordato l’intento: fornire uno stimolo ai giovani per diventare autori, quindi protagonisti della creazione di un’opera invece di limitarsi ad essere semplici fruitori passivi di contenuti creativi.  E’ un passaggio impegnativo, “il valore del lavoro creativo” finale è notevole, ma prima c’è “la fatica dell’espressione artistica”; in questo modo “attraverso la creazione si possono veicolare le proprie emozioni e i propri pensieri”, cosa importante nel mondo giovanile attraversato da ansie e inquietudini. La Rummo ha inserito anche il tema della legalità, con la promozione della cultura del diritto d’autore nel “Registro pubblico delle opere protette” a tutela dell’espressione artistica che impegna ingegno e anche fatica, perciò  deve essere tutelata.

Il Premio ha anche altri intenti, evidenziati dal presidente del Formez Carlo Flamment: in particolare “è un’occasione per avvicinarsi al mondo dei nostri figli e ai loro desideri inespressi o spesso sopiti; un momento per liberare la creatività e migliorare insieme, imparando dal confronto delle differenze”.  Che i ragazzi abbiano talento e si interessino a forme d’arte come la musica e il cinema è cosa nota, ma il Premio ha fatto emergere un altro aspetto rilevante: “Dalle loro opere emerge una lucida volontà di comunicare le proprie emozioni, con gli occhi curiosi ed attenti tipici dell’adolescenza”.  In altri termini  “la voglia dei ragazzi di ‘esserci’, qui ed ora, cioè in questo mondo con tutte le sue contraddizioni, portandovi slancio, coraggio, e voglia di fare”.  E’ proprio questo il motivo che ha spinto noi a proporre il ragazzo felice proteso verso il futuro in groppa all’aquila, che vorremmo con la maiuscola, come simbolo della rinascita della città ferita con una portata ancora più vasta.

Il concorso era aperto agli “studenti della scuola secondaria di secondo grado (cd. scuola superiore) che abbiano compiuto sedici anni di età alla data di scadenza prevista per la presentazione del Modulo di iscrizione al Concorso”; scadeva il 23 aprile 2012, poi è stato prorogato al 7 giugno. Anche le scuole sono state interessate, infatti ogni studente ha dovuto far vistare e timbrare il Modulo di iscrizione al Concorso dal proprio Istituto scolastico. 

Erano indicate le categorie a concorso, i premi sono stati conferiti per “Opera cinematografica (cortometraggi)” e “Opera musicale”, “Opera di scultura e arti figurative” e “Opera letteraria”.  Oltre al primo obiettivo di “incoraggiare i giovani alle opere d’ingegno” nel bando di concorso era indicato l’altro obiettivo, “far conoscere ed appassionare le giovani generazioni alla ‘cultura’ del diritto di autore”.  Non è un riflusso burocratico come potrebbe sembrare:”il rispetto dei diritti morali e patrimoniali”   viene collegato semplicemente alla creazione artistica mediante il conferimento ai vincitori “di una pergamena attestante la paternità dell’opera e la sua pubblicazione a seguito della registrazione della stessa nel registro suindicato”. Un modo soft per ricordare che il “Premio Creatività 2012”  si svolge all’interno  dell’iniziativa “Registro Pubblico generale delle opere protette dalla legge sul diritto d’autore, una prova in più per la  creatività”, collegando creatività e tutela.  Viene promossa la “Guida al deposito delle opere per la registrazione a tutela dei relativi diritti”, e si dà un esempio con la registrazione delle opere premiate.

Ed ecco ora, “dulcis in fundo”, i premiati, che abbiamo avvicinato ad uno ad uno al termine della cerimonia per farci illustrare ulteriormente le rispettive opere, delle quali avevano parlato nel ricevere premio e pergamena. Sono stati disponibili e brillanti, felici del risultato. Per primi i due studenti aquilani, l’alto valore simbolico del successo da loro ottenuto è stato sottolineato  anche dagli altri intervenuti, non solo dall’Assessore alla Cultura dell’Aquila.

Bianca Di Giovanni  per l'”Opera cinematografica” 

Bianca Di Giovanni per il Cinema e Davide Contu per la Musica

Il capoluogo abruzzese non irrompe con la forza della tragedia, ma entra “In  punta di piedi”,  il titolo dell’opera di Bianca Di Giovanni – del liceo dell’Aquila” D. Cotugno”  – cui è andato il premio  nella sezione “Opera cinematografica (cortometraggi)”. E’ il  clima di tensione seguito al tremendo sisma a fare da sfondo alla scena che si svolge all’aperto, nella zona rossa del centro cittadino. Una “trappola mortale”  in cui i teatri sono stati devastati ma che può offrire un “teatro all’aperto” inedito con le sue piazze e i suoi viali. Sulla scena la ballerina danza in una piazza transennata e in un viale con le case puntellate, tra cartelli di pericolo, la accompagna la melodia di una chitarra classica suonata da un ragazzo; insieme sono usciti all’aperto salendo dal sottosuolo, quasi che traversato l’inferno del sisma tornassero “a riveder le stelle”.

La danza classica avviene sulle punte, allegoria appropriata per il dopo terremoto, allorché – ed è questa la motivazione dell’opera – “… la gente faceva attenzione  a pestare piano i sampietrini incrinati, quasi camminando ‘in punta di piedi’”. Come si fa quando si passa su qualcosa di fragile e si “cammina sulle uova” con circospezione, a L’Aquila si “camminava sui sampietrini” nello stesso modo titubante e timoroso sebbene sembrino indistruttibili; ma nulla è più sicuro dopo i crolli rovinosi di tante abitazioni e le devastazioni nei palazzi secolari del centro storico. Bianca è una ragazza pacata e tranquilla, con semplicità ci dice che l’idea alla base della sua opera le è venuta osservando come camminavano le persone, “un po’ per prudenza, un po’ per rispetto verso coloro che nei crolli erano morti”. E aggiunge che “l’arte deve entrare in sintonia con il contesto sociale” per esprimerne le inquietudini e riaprirlo alla speranza.

L’autrice non manca di precisare che lei ha dato corpo alle osservazioni fatte allorché erano le inquietudini a dominare, e  anche dopo la riapertura del centro storico “solo poche anime osavano tornare tra quei vicoli stretti”. Adesso invece può dire che c’è il ritorno alla speranza: “Oggi, a più di tre anni dal terremoto, è ancora tutto lì: transenne, polvere e calcinacci. Ma la buona notizia è che la diffidenza ha ceduto il passo a un notevole spirito d’iniziativa, soprattutto tra i giovani”. Questo il commento di Rosanna Rummo: “Le scene che si susseguono senza parole, ma solo attraverso movimenti delicati della ballerina, lasciano al posto della tristezza la voglia di ricominciare, la voglia di tornare a sognare, la voglia di tornare a creare”. Il tutto “con una leggerezza piena di significati”,  ha aggiunto Carlo Flamment.  

Davide Contu per l'”Opera musicale” 

Abbiamo detto che la ballerina nel cortometraggio era accompagnata nella danza dal suono della chitarra di un ragazzo, entrato in scena con lei:  è l’altro studente aquilano che ha vinto il premio per la sezione “Opera musicale”, Davide Contu, dello stesso liceo “D. Cotugno”. Anche qui la paura, però, almeno a prima vista, non per il terremoto ma per la coscienza che  la felicità è transitoria  e precaria, per cui si deve temere in quanto prelude al ritorno ad una condizione deprimente. “Paura d’esser felici”  è lo stato d’animo posto al confine di opposti sentimenti, e viene espresso – così la motivazione dell’opera – con “… la musica, la più labile ed effimera tra le arti, che si dissolve nota dopo nota…” e riflette ciò che avviene anche nell’animo umano. Secondo Davide, la felicità nella vita è  “altrettanto labile della musica perché incombe il ritorno alla normalità fino alla noia”. 

Un richiamo leopardiano, appropriato per uno studente del classico? Crediamo ci sia altro, anche perché il ragazzo ci è parso estroverso e sicuro di sé; pensiamo piuttosto che le onde sismiche oltre ad incrinare i sampietrini nella realtà e nella percezione della gente, abbiano potuto incidere nell’animo giovanile minandone le certezze o comunque introducendo elementi di riflessione che fanno guardare oltre il momento contingente con una maturità acquisita di colpo, e non ci riferiamo al prossimo esame di Stato. E’ qualcosa di diverso dall’inquietudine giovanile, che spesso impedisce di provare felicità piena, ma quando il giovane la conquista non è così effimera. Ancora la paura incombe su L’Aquila, e il giovane musicista che ha composto l’opera premiata è lo stesso, in tutti i sensi – lo ricordiamo – che accompagna la ballerina nel cortometraggio di Bianca; ci piace pensare a una continuità ideale tra le due opere, la prima su una realtà tesa e inquieta, questa sull’animo ancora ferito.

Davide dice che l’opera si ispira alla “fugacità e alla caducità di gran parte delle sensazioni piacevoli, in una realtà dove tutto ha una genesi e una fine”, e parla di “incorporeità del piacere che perfettamente si identifica con la musica”. Non è un filosofo, è un giovane musicista con al suo attivo studi al Conservatorio, ha vinto dei primi premi in concorsi musicali a 15 e 17 anni, è eclettico nelle forme musicali, dal jazz al pop, dal finger style al blues, come strumento principe la chitarra, sia moderna che classica, sia acustica che elettrica. Ma è pur sempre un giovane della città ferita dal terremoto in cui se si aveva paura di camminare sui sampietrini perché insicuri si può ora avere paura anche della felicità.

 Chiara Ceccarelli per l'”Opera della scultura”  

Chiara Ceccarelli  per la Scultura e Forese Crinò per la Letteratura

Con il premio all’“Opera della scultura, pittura e arti figurative…” si esce dall’Aquila, epicentro questa volta positivo della creatività, e si va a Cortona con Chiara Ceccarelli, dell’istituto Luca Signorelli, ma non si lascia la musica che abbiamo visto pervadere le due opere  fin qui illustrate:“La musica colora il mondo”, infatti, è il titolo dell’opera premiata in questa categoria perché è costituita da una chitarra artisticamente elaborata. E’ dipinta all’esterno su un  fondo nero con dei colori, prima in forme intrecciate, poi lasciati colare come facevano le avanguardie americane da Pollock in poi, su delle sagome di casette applicate in una sorta di collage: i colori pastello sono rosa, giallo, blu. Una scultura, dunque, che diventa pittura e musica, anzi strumento protagonista della performance artistica alla pari del musicista e non mero mezzo meccanico di propagazione delle note.

“Anche uno strumento ha un’anima come una persona – dice Chiara  – sennò come potete pensare che possa produrre un suono così bello come la musica?”.  E più precisamente: “Il musicista mette in gioco la sua bravura ma lo strumento è l’altra faccia della  medaglia che collabora con lui per dar vita a qualcosa di spettacolare”. Umanizzata così la chitarra  “non è strumento passivo, non è vuota all’interno”, per questo l’autrice vi ha scavato dentro e l’ha dipinta fuori, per rendere ciò che racchiude: “Le emozioni  e le sensazioni che non riguardano solo il musicista ma anche l’ascoltatore”.   Il mondo che ha sentito di voler portare alla luce è quello risvegliato dal suono della chitarra, che emette “una cascata di colori”, ad ognuno dei quali “corrisponde un’emozione, un sentimento”.  

Da brava studentessa  ricorda che Socrate chiedeva agli artisti di esprimere“i travagli dell’anima attraverso i colori”, e così definisce quelli da lei utilizzati per dare vita al mondo della chitarra: rosa è gioventù, freschezza, futuro; giallo è luce, crescita, felicità; blu è armonia, calma, lealtà. Per questo il mondo da lei evocato non è sfiorato dalla paura, i tre colori della magica chitarra le fanno sentire “un futuro felice, armonioso e leale”.  Anche per Pablo Echaurren la chitarra, o meglio il  “basso” che suonava lui stesso e che ha reso protagonista delle sue pitture sulla musica, era molto più di uno strumento musicale, lo ha esposto nella mostra svoltasi alla Fondazione Roma tra il  2010 e il 2011; lo diciamo a Chiara la cui ispirazione è stata però autentica e personale, non derivata. Nella sua opera c’è tutta la felicità che l’arte – qui la musica e i colori – può dare ai giovani e non solo.

Forese Crinò per l'”Opera letteraria”

Concludiamo la  carrellata con il vincitore della sezione “Opera letteraria”, in realtà posto in testa nell’ordine ufficiale, ma abbiamo voluto dare la precedenza ai due aquilani per il significato che assume la creatività nella loro speciale situazione; così viene a trovarsi alla fine nel momento culminante, e lo merita. E’ Forese Crinò, dell’istituto Cicognini di Prato, contiguo almeno nel nome con il collegio dannunziano, ricordiamo una dedica del Poeta sopra l’immagine da adolescente con  gli alamari sulla giubba firmata “… il Collegiale di Prato mai uscito dal Collegio della Cicogna”.  L’opera premiata si intitola “Poesia adolescenziale”, ci confida Forese che nasce da una sfida a se stesso sin da quando il suo professore delle medie disse che “nessuno scriverebbe usando solo dei participi”. Per questo ha motivato con le parole “… audace, colui che osa…”  5 quadri di un’opera di marca teatrale con le parti introduttive in una prosa dove i verbi sono tutti in forma di participi.

Non si tratta di cabaret e neppure di commedia, le cinque scene poetiche sono estremamente serie, anche drammatiche, e in quest’alternanza di motivi e di umori il riferimento dannunziano non è peregrino. Parla della “città dai due volti, divisa in quattro parti, sotto un unico cielo”,  nientemeno che Gerusalemme,  e tutti sappiamo quale groviglio di problemi vi sia. Poi dell'”iceberg”  della vita, in cui domina l’incomunicabilità, si vedono tante persone delle più diverse origini e condizioni, e si è visti da loro, ma con quale effettivo contenuto? “Loro vedono me? Possono capirmi? Sanno che so? Sanno che vedo , che li ho capiti? Cosa pensano di me, cosa sono io per loro?”. Quindi le occasioni mancate e la frustrazione di “desidero tutto , desidero niente”, se mancano i sogni è come “morire ogni giorno”.

Il ripiegamento su se stessi nella “notte in città”  fa sentire “un freddo interiore mentre l’anima è altrove”, e ci si risveglia tra il senso del tempo perso quando “la vita è tempo”, e la realtà del momento è nelle bollicine del sapone che “come ballerine elle danzan, dimentiche del mondo e di ciò che lo move”. Torniamo alla danza con cui è iniziata la rassegna, siamo passati dai sampietrini alle bollicine.

Forma espressiva e contenuto, capacità creativa e proprietà lessicale per la Rummo;  capacità di interrogarsi “sulle occasioni che si presentano nella vita e su quanto esse incidano sul futuro” per Flamment.  Per noi qualcosa di più, potremmo selezionare tante espressioni di straordinaria intensità, ma quello che ci ha colpito è l’impianto di un’opera che resta enigmatica con tutto il fascino dei misteri irrisolti di un giovane estroso e creativo.

Gli altri riconoscimenti del “Premio creatività 2012” sono stati tre menzioni speciali  per l’“Opera cinematografica” a “Il silenzio delle onde”, autori i 17 studenti della IV D nella scuola C. Cavour di Roma; per l’“Opera musicale”  a “23 maggio”, autori i 13 studenti della scuola Ipsia – U. Pomilio di Chieti, per l’“Opera della letteratura” a “Storia di Sherry”, autore Riccardo Spaccapeli  della Cicognini Rosari di Prato.

Una bella prova di creatività dalla scuola e dai giovani! Che hanno dimostrato, come ha commentato Flamment, la “voglia dei ragazzi di esserci”, portando la loro “voglia di fare”, e lo abbiamo sottolineato all’inizio. Ma la conclusione del presidente del Formez ci piace riservarla al nostro commiato perché lancia un messaggio che non può e non deve restare inascoltato. Eccolo: “Una voglia che deve contagiare la comunità e le istituzioni: tocca  a loro consolidare l’idea che solo apprendendo dalle difficoltà, dal confronto tra gli individui, dall’ascolto dei giovani e dei loro desideri, si può creare una cultura civile condivisa, vitale, impregnata di valori e fiducia nel futuro”. Ora sono loro a dover superare la prova dei fatti.

Info

Abbiamo avanzato la proposta di adottare come simbolo di rinascita dell’Aquila la scultura “Vivere insieme” di Gina Lollobrigida per la prima volta il 3 settembre 2009 in “Perdonanza 2009, un pellegrinaggio per ricordare e riflettere”, su “cultura.abruzzoworld.com”, l’abbiamo reiterata negli articoli pubblicati il 27 ottobre 2012 “Roma. A Palazzo Barberini due dipinti dell’Aquila restaurati” sul sito sopra citato e il 28 ottobre “L’Aquila, due restauri a Palazzo Barberini e una proposta” su questo sito, con l’immagine della scultura in chiusura; fino a “L’Aquila, parte il restauro del santuario di Roio”, pubblicato il 18 gennaio 2013 in “cultura.abruzzoworld.com”, dove apparve la proposta iniziale, e “L’Aquila, il santuario di Roio e il simbolo della rinascita”, su questo sito con l’immagine della scultura “Vivere insieme” riprodotta in apertura.

Foto

Le immagini  sono state riprese da Romano Maria Levante al “Premio creatività 2012”  nella Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, ciascuno dei premiati è dinanzi all’installazione in cartone pressato creata per presentare la sua opera. In apertura foto di gruppo dei premiati con diversi intervenuti, al centro la responsabile del servizio organizzatore Maria Concetta Cassata che ringraziamo;  seguono  Bianca Di Giovanni  per l'”Opera cinematografica” e Davide Contu per l'”Opera musicale”,  Chiara Ceccarelli per l'”Opera della scultura” e Forese Crinò per l'”Opera letteraria”; in chiusura la più grande delle installazioni in cartone pressato ecologico realizzate per la manifestazione. Si ringraziano i vincitori del “Premio creatività 2012”  per aver accettato di posare per noi.

La più grande delle installazioni in cartone pressato ecologico realizzate per la manifestazione

Guttuso, 1. Nel centenario mostra antologica, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, a Roma dove l’artista siciliano visse 50 anni, la mostra nel suo centenario, “Guttuso 1912-2012”, dal 12 ottobre 2012 al 10 febbraio 2013: esposti 100 dipinti nella successione delle varie fasi in modo da esprimere l’intero arco della sua vita artistica. E’ curata, con il catalogo Skirà, da Fabio Carapezza Guttuso, presidente degli “Archivi Guttuso” e da Enrico Crispolti, direzione e coordinamento generale di Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando”, che l’ha realizzata con prestiti di grandi musei e apporti della collezione privata.

Sala dei Grandi Dipinti, a sin. “La spiaggia”, 1955-56, a dx “Zolfara”, 1953 

La mostra “Guttuso 1912-2012” è stata definita da Alessandro Nicosia “una mostra importante,  per rendere il legame forte che ha avuto con la città nei suoi luoghi caratteristici, le osterie e gli altri ambienti da lui frequentati”. Per questo è stata posta una targa commemorativa della sua presenza nella città eterna. E’ in effetti una “mostra unica”, diversa da quelle svoltesi in Germania, Inghilterra e anche in Italia, ideata per celebrare il centenario della nascita del grande artista.

Il presidente Giorgio Napolitano all’anteprima della mostra ha ricordato che quando visitava i musei e le esposizioni con Guttuso, l’artista gli diceva che si poteva essere veloci senza soffermarsi perché se vi è arte il quadro deve colpire subito; poi ricordava perfettamente tutte le opere viste.

Crispolti ha affermato che Guttuso vuol essere “testimone del proprio tempo, un tempo collettivo e anche politico”, che racconta in immagini forti.  La mostra documenta sin dall’inizio mezzo secolo di pittura, con una dinamica interna molto interessante, dato che approda già negli anni ’40 ad una pittura realista. “La volontà di racconto, quindi di comunicazione, orienta anche l’evoluzione dei mezzi pittorici, era tra i più vicini a Picasso nel modo di vedere la realtà. L’impegno politico e sociale appare prepotente, si creò un antagonismo non politico ma ideologico e culturale con le tendenze figurative dell’epoca”. Dopo i piccoli quadri degli anni ’30 le dimensioni si sono dilatate, quattro quadri imponenti di periodi diversi documentano la sua volontà di racconto. Va poi oltre il “realismo ideologico” per il “realismo esistenziale” finché negli anni ’60 entra in una nuova dimensione autobiografica, che infine si apre alla libertà espressiva.

Fabio Carapezza Guttuso,Presidente degli Archivi Guttuso a Roma, lo ricorda come “un incantatore”, e parla del suo amore per la città. Rivela la preoccupazione nel cercare di fare una mostra antologica fedele della sua arte. Una delle sue frasi era “Ho sentito il bisogno di dipingere il mio tempo, è il pittore della narrazione, si avvicina agli scrittori, Moravia, Pasolini, Ungaretti, che hanno raccontato i grandi momenti collettivi”. Parla della Crocifissione che precorreva i tempi, troppo complessa da capire in quegli anni, lui esprimeva più della realtà che vedeva; fa un altro parallelo con Andrea Camilleri che è penetrato nel quadro della “Vucciria” scavandovi dentro.

La vita e l’arte fino al dopoguerra

Prima della visita alla mostra, ricca di immagini suggestive, va ripercorso l’itinerario artistico e di vita di Guttuso, fuso nel suo senso esistenziale e nella sua sensibilità politica ai movimenti popolari e ai valori civili. Ne fa una ricostruzione particolareggiata Carapezza Guttuso rievocando la sua vita, dalle prime esperienze siciliane al trasferimento nel continente, ai viaggi, alle attività: una riflessione attenta e anche accorata da figlio adottivo, ne citeremo virgolettati i titoli dei capitoli.

A Bagheria, in provincia di Palermo, dove era nato nel 1912, Guttuso resta impressionato dalle immagini realistiche molto colorate dipinte sui carretti siciliani da un pittore di cui frequenta la bottega. Ma lascerà presto la Sicilia, pur restandovi legato, per Roma, dopo il “viaggio iniziatico” da Palermo alla città eterna nel 1924 a 13 anni, e la “prima Quadriennale”, cui partecipò nel 1931 a 19 anni stringendo rapporti con la “Scuola romana” di tendenza antinovecentista. Il “fascino della capitale” lo colpì subito, ma nel 1934 non potette resistere alla “tentazione milanese” restando nel  capoluogo lombardo fino al 1937 dopo avervi terminato il servizio militare attratto dall’intenso fervore culturale: entrò in contatto con gli artisti Birolli e Sassu, Manzù e Treccani, gli scrittori Gatto e Quasimodo, Sinigalli e Vittorini, i critici De Grada e Persico. I sodalizi culturali furono una costante della sua vita, il suo studio romano diventerà uno dei centri intellettuali più vivaci.

“Il primo studio romano”, scrive lui stesso, nel 1937 “fu al sesto piano di un falansterio delle case popolari, in piazza Melozzo da Forlì”, in condizioni di fortuna; già nel 1938 “la Galleria della Cometa”, un vero cenacolo di artisti e intellettuali – come Cagli e Afro, Savinio e Moravia – ospita la sua prima personale. Ma le leggi razziali del 1938 costrinsero a chiudere la galleria, Cagli e la famiglia Pecci Blunt, che ne era proprietaria, dovettero lasciare l’Italia per gli Stati Uniti. Guttuso si dedicò a dipingere gli interni del suo studio e i paesaggi, oggetti di uso quotidiano e nudi femminili, nei quadri si avverte un’evidente inquietudine. Nello stesso anno dinanzi agli eventi drammatici della guerra di Spagna dipinge “La fucilazione in campagna”, dall’uccisione di Garcia Lorca.

Incontra “Mimise, la donna della sua vita”, cui dedica una serie di ritratti; e partecipa al movimento di artisti sorto nel 1938 intorno alla rivista “Corrente”, per reagire anche politicamente alla mistica di regime oltre che al crescente formalismo. Seguirà sul piano politico la partecipazione attiva alla lotta partigiana dal 1943 e l’adesione al partito comunista; sul piano artistico il “realismo sociale” che comincia a manifestarsi sin dal 1938-39 nel grande dipinto “La fuga dall’Etna”.

Nel 1940 trasferisce in via Pompeo Magno lo studio che diventa un cenacolo di intellettuali come Alicata e Trombadori, Amendola e Vittorini, Moravia e Santangelo e una base per la loro attività clandestina antifascista, c’era anche un ciclostile per la stampa, poi gettato nel Tevere per prudenza. Fissa i volti degli amici nei “Ritratti” che sono espressione di realismo nella concentrazione – come ha scritto Testori –  “sull’oggetto, sulla cosa”, qui la persona, “in quanto oggetto e cosa fossero pure pezzi di carne guance menti” sono per lui “la verità ultima, estrema”. Lavora alle scenografie per il Teatro delle Arti:“Histoire du Soldat” con il grande coreografo Aurel Millos, poi “Torneo notturno” di Malipiero, molto apprezzate: sarà un suo impegno costante anche in seguito.

Viene fondata la rivista “Primato Lettere e Arti d’Italia” cui collaborerà intensamente, e istituito il Premio Bergamo dove presenterà le sue opere, tra le quali nel 1942 la trasgressiva “Crocifissione”, che ebbe il secondo premio e provocò aspre reazioni della Chiesa e di esponenti fascisti con la chiusura anticipata della mostra e la fine del Premio Bergamo di cui fu l’ultima edizione.

“La fuga da Roma e il rifugio di Quarto” furono la sua difesa dalla polizia politica che faceva retate negli studi degli artisti sospettati di cospirare contro il regime: irruzioni da Manzù e Sassu, arrestato con Franchina e Migneco e condannato, Carlo Levi mandato al confino; furono arrestati Trombadori e Alicata che lo avvertì dei sospetti della polizia consigliandolo di lasciare Roma.

A Quarto crea opere drammatiche, dalle battaglie alle nature morte, seguendo i criteri del realismo pittorico come strumento dell’impegno civile esposti nel suo articolo “Pensieri della pittura”: sottolineava la drammaticità delle guerre e delle stragi e l’imperativo morale degli artisti di esprimere la loro “collera” senza trincerarsi in “un astratto regno di colore, di forme, di parole, di suoni”. Non riteneva necessario che il pittore facesse politica, guerra o rivoluzione ma “è’ necessario che egli agisca, nel dipingere, come agisce chi fa una guerra o una rivoluzione”. In realtà, caduto il fascismo, non si limita ad agire come artista. Torna a Roma, partecipa al Comitato di accoglienza degli antifascisti liberati dal confino o dal carcere e rientranti dall’estero, si unisce il 10 settembre 1943 alla resistenza armata contro i tedeschi a Porta San Paolo, con Trombadori e Colorni; poi svolge attività clandestina entrando nella Resistenza, con il nome di “Giovanni” e facendo da collegamento tra il CLN e i reparti partigiani nella Marsica. In uno studio clandestino di Roma nasce la serie di disegni “Gott mit Uns”, il sinistro motto nazista “Dio è con noi” in 24 tavole sulla loro barbarie cui si contrappone la dignità delle vittime straziate dalle torture.

“Occupazione delle terre”, 1947

Il dopoguerra fino al 1950

“La Roma del dopoguerra” lo vede impegnato, sin dal dicembre 1944 con un articolo su “Il Cosmopolita” intitolato “Crisi di rinnovamento” nel quale ribadisce il concetto che “l’arte non è un’accademia”, ma “un rinnovamento non può procedere da una ‘tabula rasa’”. E lo spiega così: “Chiediamo di vivere (e lo chiediamo a noi stessi) facendo il nostro mestiere di pittori, di scultori, di scrittori, come gli altri uomini, combattendo il vecchio mondo ed aiutando ad edificare il nuovo”.

Partecipa alla costituzione dei gruppi di artisti che si andavano formando intorno alle idee a lui care. Nasce la “Nuova Secessione Artistica Italiana”, nell’ottobre 1946, con un manifesto firmato Guttuso e Birolli, Cassinari e Carlo Levi, Morlotti e Pizzinato, Santomaso e Turcato; Vedova e Viani nel quale si dice esplicitamente che pittura e scultura “aumenteranno sempre più la frequenza con la realtà”, l’arte è “la storia stessa che degli uomini non può fare a meno”. Il gruppo nel gennaio 1947 prenderà il nome di “Fronte Nuovo delle Arti”, la componente romana avrà la maggioranza.

Trasferisce lo studio in via Margutta e a Parigi conosce Picasso che avrà una forte influenza su di lui sotto il profilo umano e artistico. Si ispira a lui nell’adottare un linguaggio post cubista, ma senza appiattire l’immagine, e sottoscrive nel gennaio 1947 il “Manifesto del neocubismo”; dipinge nel nuovo stile “Retata” e “Ritratto di Mimise”, “Massacro degli Agnelli” e “Merlo”. Resta sempre il suo realismo pittorico, lo scrive a Ernesto Nathan: “Ho sempre fatto quel che ho sentito…  come si suol dire, ma per me sentire qualche cosa è sempre stato nell’ordine di cercare la ‘realtà'”.

Intanto lo scontro tra “realisti e astrattisti a Roma ” si fa sempre più aspro. Il ritorno nella capitale dopo un nuovo viaggio a Parigi lo fa trovare dinanzi al fatto compiuto: gli artisti che lo frequentavano hanno fondato a marzo dello stesso 1947 la rivista “Forma” in cui si proclamano “formalisti e marxisti” rimarcando che i progressisti non dovevano “adagiarsi nell’equivoco di un realismo spento e conformista”. Guttuso vede la posizione – che è la premessa per la svolta astrattista – in antitesi rispetto ai propri principi e reagisce con forza: “Ho parlato sempre di realismo e di cubismo, sono antiastratto, antidecorativo, antiformalista”; spiega che l’influsso dei cubisti va visto come “educazione che riconducesse all’oggetto, ne agevolasse la identificazione. Se sono caduto in errori di semplicismo è stato sempre in senso realistico mai in senso astrattista”. Di “Forma” facevano parte Ugo e Carla Accardi, Dorazio e Consagra, Guerrini e Perilli, Sanfilippo e Turcato, tutti assidui frequentatori dello studio di Guttuso che anche per questo si sentì tradito.

Nel “Fronte Nuovo delle Arti” si crea una spaccatura tra i seguaci dell’una e dell’altra linea con accuse reciproche, polemiche e scontri pubblici sui giornali e nei caffè, nelle trattorie e nelle gallerie. Carapezza  Guttuso ricorda che “a Piazza del Popolo i due diversi caffè indicano due diverse appartenenze. Il caffè Rosati ospita gli astrattisti, il Canova i realisti”.  Anche i critici si schierano e Guttuso fa vignette satiriche su Lionello Venturi, “il critico divenuto il vate degli astrattisti”. Lo scontro si infiammò dopo l’aspra critica da parte di Palmiro Togliatti alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea del 1948 a Bologna, che parlava delle due strade aperte ai giovani artisti “quella dell’astrattismo da un lato e quella del realismo dall’altro”, stroncando la prima. Ci ha ricordato l’aspra reazione di Krushev contro le deviazioni dal realismo socialista nel 1962 dopo la visita a una mostra di Mosca in cui una sala era dedicata al nuovo “stile severo”, con forme semplificate e sfondi sfumati. L’ideologia entra nel dibattito artistico, altra benzina sul fuoco, finché nel marzo 1950 il “Fronte Nuovo delle Arti” cessa di esistere. La mostra “Arte Astratta Italiana” alla Galleria nazionale d’Arte Moderna fino al 27 gennaio 2013, da noi commentata di recente, ha esposto 50 opere con un’accurata analisi della costituzione e composizione dei vari gruppi.

L’arte di Guttuso si  esprime ora con opere di taglio narrativo come “La pesca del pesce spada” e “Ricci” e opere di forte impegno sociale e storico, da “Occupazione delle terre incolte in Sicilia” a “Battaglia di ponte dell’Ammiraglio”, un quadro di grandi dimensioni di cui dice espressamente: “In un momento in cui infuriava l’arte astratta, ho pensato fosse giusto fare un quadro storico”.

“Trionfo della guerra”, 1966  

Dal 1950 al 1970

Nel 1950 “il matrimonio e la nuova casa”: sposa Mimise, testimone Pablo Neruda esule dal Cile, lo aiuta con Trombadori, Moravia e la Morante a divincolarsi alla stazione Termini dalla polizia che voleva espellerlo, e gli dedicherà un ritratto al quale il poeta risponderà con l’intensa poesia “A Gutusso de Italia”. Dipinge “La zolfara”, 1953, con le figure dei lavoratori stravolti dalla fatica, scena  ben più drammatica di quella del quadro del 1947 “L’occupazione delle terre”.

Coesistono con questo impegno su temi sociali “le affollate solitudini romane, La spiaggia, i Balli popolari, La gita in vespa”: sono altrettanti titoli di suoi dipinti di questo periodo: dopo “Ballo popolare”, del 1945, la gente lo attira nei momenti collettivi di svago, dello stesso 1953 è “Boogie Woogie”, del 1955 “La Spiaggia”, del 1958 “La gita in vespa”, nel ricordo del film “Vacanze romane”, girato cinque anni prima con i protagonisti partiti per il celebre giro della città sullo scooter dallo stesso edificio di via Margutta dove Guttuso aveva allora lo studio.

Al “quartiere Monti i nuovi studi e la casa della vita”: da Villa Massimo, destinata al governo tedesco, a via di Santa Maria Maggiore nel 1956 e a via Cavour nel 1960, con una veduta panoramica che tradurrà in dipinti come “Tetti di via Leonina” e “Tetti di Roma”. La repressione della rivolta d’Ungheria del 1956 gli creerà un dramma sul piano politico per il contrasto tra l’ideologia del suo partito e gli ideali di libertà, farà un album di disegni con interrogativi  come “Erano veramente colpevoli? Restano solo i morti”.  Le sue opere riflettono i dibattiti politici, come “Discussione”, del 1960, dove compaiono ritagli di stampa e visi di militanti,  Ma come sempre alterna opere di altra natura, in particolare l’illustrazione della Divina Commedia.

La nuova casa in cui si trasferisce dopo quella molto piccola alla Suburra è nel Palazzo del Grillo, decorata di statue e stucchi, ma lui riempirà lo studio degli oggetti familiari nei quali troverà nuova fonte di ispirazione con opere quali “Damigiane e  bottaccino”, 1959, e “Natura morta con fornello elettrico”, 1961. “A me interessa trarre da ciò che vivo giornalmente  – ebbe a dire – l’elemento per dire qualcosa sulla realtà nella quale vivo, che mi circonda”, il suo realismo segue ora questa massima: “Dipingi quello che hai davanti,  con cui sei in intimità, che conosci bene perché ci stai insieme. Negli oggetti, nelle persone, nelle cose, si riflette quello che è il movimento generale della realtà”.  Oltre alla realtà segue la memoria, con opere sulla sua vita, come  il ciclo “Autobiografia” e “Il Padre agrimensore”, inoltre su eventi da cui era stato colpito,  “Incendio alla cancelleria apostolica” e “Paracadutista”, fino a “Il trionfo della guerra”, tutti del 1966.

“Il sessantotto, I funerali di Togliatti, il Caffè Greco, la Vucciria” sono tradotti in altrettante opere: il primo in “Giornale Murale. Maggio 1968”, gli altri in dipinti con quei titoli negli anni ’70.

Gli anni ’70 fino alla scomparsa nel gennaio 1987

Nei “Funerali di Togliatti” le bandiere rosse spiccano su uno sfondo di ritratti realistici, nel “Caffè Greco” si riflette la presenza con de Chirico, Palazzetti e de Pisis nel caffè di D’Annunzio e Buffalo Bill. La “Vucciria” è la memoria della sua Sicilia vista nel grande mercato ricco di persone e cose.

E’ il 1974, l’anno dopo inizia la politica nelle istituzioni per il Partito comunista, prima consigliere comunale a Palermo, poi “il Senato”, eletto per due legislature nel 1976 e nel 1979. Il quadro “Comizio di quartiere”, 1975, nasce dal suo impegno alle elezioni, come ricordava Paolo Bufalini.

“La vita a Palazzo del Grillo” era regolare e metodica, molto laboriosa, tra la scrittura al mattino, il disegno e la pittura nel pomeriggio in due studi su due piani diversi; inoltre gli incontri con gli amici, come Trombadori e Bufalini, Sapegno e il vescovo Angelini, perfino Giulio Andreotti.

Nelle “Allegorie” e “Il sonno”, 1979-80, irrompe un’immagine pessimistica e oscura, che si andrà stemperando in una visione più intima e misteriosa, come in “Tigre che entra nel mio giardino”.

“Il giardino incantato nel centro di Roma”  – quello del Palazzo del Grillo dove ha studio e casa – è stato definito da Carapezza Guttuso un “hortus conclusus”, uno “spazio sacro”  dove vive “l’ora della malinconia, la nera compagna con cui da tempo dialoga l’artista che proietta la sua ombra su luoghi familiari riempiendoli di oscuri presagi”. Così prosegue: “Ed è quindi la Melanconia che, come una linfa sotterranea, pervade le opere di Guttuso ultimo, come testimoniano le sue letture, il suo rivisitare con insistenza gli antichi maestri, i significati misteriosi delle sue pitture”. Questo  in “La visita della sera” e “Sera a Velate”, del 1980; e nell'”allegoria visionaria” dalle nature morte del 1984, come “Bucranio”, “Mandibola di pescecane”, “Drappo nero contro il cielo”, fino ai nudi di donna con “qualcosa di tragico” più che erotici, come “Ginecei” e “Due donne sdraiate”.

“La morte e il grande funerale romano”: è il 1986, stanco e malato vede solo pochi amici, ma intraprende un’opera di grande formato intitolata con le parole di Eliot “Nella stanza le donne vanno e vengono/parlando di Michelangelo”, otto donne su tacchi altissimi in un ambiente. Il 5 ottobre muore l’amata Mimise, di cui scrive ai coniugi Carapezza: “Mimise non fu solo mia compagna. Fu una cosa della mia vita, parte della mia carne, della mia mente”, poi aggiunge con pudore “della mia cultura”. La sua scomparsa accelera il percorso spirituale che alla morte, avvenuta dopo  tre mesi, il 18 gennaio 1987, gli vedrà impartiti i conforti religiosi dall’amico cardinale Angelini. Grande folla ai funerali, dopo la camera ardente al Senato, orazioni funebri di Moravia e Carlo Bo, oltre che del vertice del Partito comunista, poi cerimonia religiosa del cardinale Angelini che nell’omelia disse: “L’eternità della sua arte è anch’essa momento e segno dello spirito che accomuna tutti gli uomini e che li predispone al mistero”.

Così Carapezza Guttuso conclude la sua commossa rievocazione della vita e dell’arte di Renato Guttuso, che gli fu così vicino da adottarlo. L’abbiamo seguita solo per sommi tratti riportando tra virgolette i suoi capitoli, ma anche dai nostri brevi accenni se ne coglie l’intensità e la vitalità.

E’ un’immagine forte calata in una realtà che nel tempo ha assunto molte facce. Ci prepariamo a visitare le 100 opere esposte per ritrovare l’artista e i tratti del mondo in cui è stato protagonista senza rinchiudersi nella torre d’avorio dell’arte. Racconteremo la mostra prossimamente dopo questa preparazione volta ad apprezzarne i contenuti umani, sociali e civili oltre che artistici.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via San Pietro in Carcere (Fori Imperiali).Tutti i giorni: da lunedì a giovedì 9,30-19,30; venerdì e sabato 9,30-23,30; domenica 9,30-20,30 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 12,00, ridotto euro 9,00. http://www.comunicareorganizzando.it/ Tel. 06.6780664;  prevendite 199.747554 http://www.ticketone.it/. Catalogo: “Guttuso 1912-2012”, a cura di Fabio Carapezza Guttuso ed Enrico Crispolti, Editore Skira, pp. 224, formato 24 x 28, euro  39,00, dal Catalogo sono tratte le citazioni riportate nel testo. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà, in questo sito, il  30 gennaio 2013. Il nostro servizio sulla mostra “Arte Astratta Italiana” è uscito, in questo sito, il 6 novembre 2012; per i “Realismi socialisti” si rinvia ai nostri tre articoli usciti su “cultura.abruzzoworld.com”  il 31 dicembre 2011; inoltre ai tre articoli del nostro servizio su “Deineka” , su questo sito, il 26 novembre, 1 e 14 dicembre 2012.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra al Vittoriano, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti e in particolare Fabio Carapezza Guttuso per l’opportunità offerta. In apertura un’inquadratura della sala dei Grandi Dipinti, a sinistra  “La spiaggia”, 1955-56, a destra “Zolfara”, 1953; seguono  “Occupazione delle terre”, 1947,  e “Trionfo della guerra”, 1966; in chiusura “Autoritratto”, 1975.

“Autoritratto”, 1975 

Di Tonno, intimità a teatro, i nudi onirici. al Teatro Quirino

di Romano Maria Levante

“Intimità a teatro”, al Teatro Quirino di Roma dall’11 ottobre al 23 novembre 2011,non era il titolo di uno dei tanti spettacoli in un cartellone ricco, nel quale “La stagione del sorriso” appena iniziata con la direzione di Geppy Gleijeses, prestigioso attore, regista e imprenditore teatrale di successo, era stata preceduta  da “Mad Revolution”, l’avanguardia di Lorenzo Gleijeses, e da “Autogestito” di Marianella Bargilli;  in più il  “Teatro per i ragazzi” e “Diversamente in scena”, disabili ed emarginati  resi attori con la Fondazione Roma- Terzo settore. Si è trattato invece di una mostra di pittura molto particolare di Michele Di Tonno, a cura di Teresa Emanuele. Ci torniamo a distanza di oltre un anno non avendo dimenticato fascino e sensualità delle sue figure femminili. Poche parole di presentazione, preferiamo lasciare il posto ad immagini ben più eloquenti.

L’autore davanti a due sue opere

La prima particolarità della mostra è stata la sede, il “Foyer” del “Quirino”, anzi un angolo raccolto del “Bistrot”che Gleijeses ha voluto introdurre come parte integrante di un teatro totale, aperto 320 giorni l’anno e 18 ore al giorno, con i tavolini  davanti a pesanti tendaggi, basta spostarli e si scopre la platea, magari gli artisti che stanno provando, lo abbiamo visto tornando alla mostra; e poi la biblioteca e la visione di filmati e video con possibili incontri a sorpresa. Ma soprattutto sono stati molto particolari i dipinti esposti in un allestimento sobrio ed efficace: quadri senza cornice  in due pareti ad angolo su fondo azzurro, quasi una sequenza di immagini che scorrevano in un cielo terso.

L’autore, del 1966, come pittore è più giovane dell’anagrafe, dipinge dal 2005, in acquerello e tempera, acrilico e olio. Dopo essersi formato alla Rufa, “Rome University of  Fine Arts”, la prima personale a Roma nel dicembre  2007,  “Conoscenze” a Palazzo Scapucci, un percorso nella mente; con “Poeticamente immaginiamo”,  mostra del novembre 2008 a Viterbo,  il percorso entra nell’anima. Poi le collettive del 2008,  a Roma “Nua,  fare arte” al Circolo degli artisti  e “Flussi di marea” al Palazzo Medici Ciarelli,  vicino Pesaro alla “10^ Edizione artisti della Carpegna”; nel 2009 le mostre a Roma “Bideceinge”  all’Isa e “Preludio a un bacio” a Palazzo Valentini.

Quest’ultimo titolo segna il passaggio dalle conoscenze e dall’immaginazione poetica delle prime due personali all’“Intimità a teatro” della mostra al “Quirino”, che è sembrata preludere idealmente al bacio cui aveva intitolato la mostra precedente appena citata. Le immagini esposte colpivano i sensi e penetravano  nell’anima disvelandone l’immaginario e i sogni che riportano alla donna, l’altra metà del cielo, forse per questo s’inserivano bene nel fondale azzurro come la volta celeste.

Ha scritto la curatrice Teresa Emanuele che il suo è “un figurativo sempre rivolto alla dimensione degli affetti, raccontando la donna, sua musa”. E lo fa con “la rappresentazione di un mondo interno che muove un sentire profondo, attraverso immagini femminili immerse in uno scenario nebuloso e irreale”. E’ il risultato di una “ricerca artistica delle forme dell’anima”.

Vogliamo sottolineare che le raggiunge attraverso le forme del corpo, con un figurativo moderno da cui traspare, citiamo un’altra nota critica, “un sentire interno, la ricerca di stati d’animo ed emozioni nel rapporto uomo-donna”.

Con gli occhi del cronista piuttosto che del critico possiamo convenire con queste visioni per l’emozione che l’artista è riuscito a trasferire al visitatore. L’eterno femminino – così lo si chiamava una volta – è stato riproposto in una forma che ci è apparsa doppiamente seducente: l’artista sembra sedotto dall’immagine della donna dei suoi sogni, ma viene sedotto anche il visitatore, preso dalla sequenza di forme sempre più definite ed eloquenti scorrendo i quadri esposti da sinistra a destra.

Le forme sono definite da linee curve morbide e dolci, che evocano tenerezze antiche ma sono di una assoluta modernità; ed esprimono una faccia della luna, la femminilità in termini di seduzione e di intimità, che vediamo troppo spesso mortificata dalla volgarità odierna. Invece è giusto che venga valorizzata appieno  in questa forma moderna che riecheggia una classicità non dimenticata e merita di essere portata alla ribalta. Resta nascosta l’altra faccia della luna, l’identità personale, l’artista inquadra le figure di schiena, quindi con i volti completamente nascosti. Mentre abbiamo presente un suo dipinto del 2008, non esposto al “Quirino”, dal titolo “L’amore fugge”, che raffigura  un intenso volto femminile,segno che la  concentrazione sul corpo è frutto di una scelta ben precisa.

Era il punto di arrivo del momento, dato che tutte le opere esposte – ci disse lui stesso – erano del 2011.  La sua scelta non vuole ridurre la donna a un corpo solo da desiderare, anzi l’assenza del volto porta a dare a quei corpi l’identità voluta, a farne archetipi di natura onirica che ognuno può “rivestire” con i volti dei propri sogni, e non solo di quelli erotici: non sono nudi  presi di fronte, quindi non nascondono solo il volto della donna, anche se ne mostrano tutta la carica di seduzione.

L’artista ci rivelò che non si era avvalso di modelle, aveva voluto esprimere il proprio “sentire profondo”  e lo aveva fatto “raccontando la donna, sua musa”, per ripetere le parole di Teresa Emanuele. Possiamo dire che tali sentimenti è riuscito a trasmetterli plasticamente con i tratti delicati della sua pittura. Quei corpi sembrano invitare alle carezze, diventano un’offerta visiva  tangibile che ha dato calore al “Bistrot” nel mese e mezzo di mostra rendendo ancora più attraente l’area aperta al pubblico  per 18 ore al giorno nello storico  teatro “Quirino”. Averli ricordati dopo un anno è la prova del loro fascino persistente e della loro validità artistica.

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Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra al foyer del teatro “Quirino-Vittorio Gassman”, si  ringrazia l’artista con la direzione del teatro per l’opportunità offerta. In apertura l’autore ritratto davanti a due sue opere, anche di questa disponibilità lo ringraziamo; seguono due tipiche sue figure di corpi femminili; in chiusura una visione del lato del foyer con le sue opere in mostra.

Akbar, 2. L’India, visita alla mostra, a Palazzo Sciarra

di Romano Maria Levante

La visita alla mostra  alla Fondazione  Roma Museo, Palazzo Sciarra, dal 23 ottobre 2012 al 3 febbraio 2013, fa rivivere l’età d’oro della dinastia Moghul, cioè il regno di  “Akbar. Il grande imperatore dell’India”: un re battagliero tra conquiste militari, congiure e guerre intestine e al tempo stesso illuminato per le innovazioni urbanistiche e architettoniche, il mecenatismo nelle arti  e il sincretismo religioso. Ne danno testimonianza  130 opere  in 5 sezioni: due dedicate alla vita di corte e alle azioni militari, tre all’urbanistica, all’arte e alla religione. Un affresco spettacolare! Organizzata con “Arthemisia Group” curata con il prezioso Catalogo Skirà, da Gian Carlo Calza .

“Akbar a caccia vicino a Palam nei pressi di Delhi”,1590-95

Dopo aver ripercorso la telenovela epica della vita di “Akbar, il più grande”, sottolineando oltre alle virtù politiche e militari quelle in campo civile e culturale, visitiamo la mostra con le manifestazioni artistiche, espressione di questa temperie storica e culturale di un grande paese come l’India. L’ingresso è folgorante, accoglie il visitatore una struttura in legno, dal classico profilo orientale dietro cui un video proietta sulle pareti immagini spettacolari da cinemascope di città e piazze, affreschi avvolgenti e scene pittoresche tra luci intermittenti;  si procede sotto archetti a cuspide.

Le immagini sulle vicende di corte e le avventure militari

Si entra così nella prima sezione sulla “vita di corte, governo e politica”, che fa rivivere la telenovela epica di cui abbiamo parlato nella presentazione della mostra ripercorrendone per sommi capi le fasi tormentate, con immagini sulla vita pubblica e privata dell’imperatore.

Vediamo esposte immagini in inchiostro e acquerello opaco molto raffinate, dal segno sottile e netto di marca orientale, in un cromatismo leggero, spesso impreziosite e incorniciate nell’oro, tratte da libri preziosi dell’epoca.  Nelle illustrazioni del “libro di Akbar” – per lo più di 37 per 24 cm  su carta –  la vita di corte con i suoi rituali alimenta le immagini più spettacolari, come quella per la “Nascita di Salim”, e “Akbar in pellegrinaggio ad Ajmer per la nascita di Salim”, siamo nel 1590; nel “libro di Babur” si torna al fondatore della dinastia in “Babur attraversa il fiume Son” e “Babur celebra la nascita di Humayum”, padre di Akbar, siamo intorno al 1600. 

Altre illustrazioni  mostrano il “Ritratto di Akbar a cavallo accompagnato da un porta stendardo” e “Akbar con un gioiello da turbante”, e ci fanno vedere da vicino ambienti e personaggi  come  “Principe che cavalca un cavallo impennato” e “Ritratto equestre di Zain Khan Koka”, “Un sovrano incontra un nobile” e “Giovane deccano esamina un volatile”.  Non manca una “Coppia di viaggiatori europei”, con libro e gagliardetto in un minuscolo acquerello del 1580. Le monete d’oro e d’argento con scritte in rilievo nella grafia locale esposte con la loro tangibile consistenza materiale danno un tocco di realtà alle immagini di un mondo vero ma dai contorni mitici.

E poi la sorpresa dei “Rivestimenti parietali”,  scene molto delicate su più livelli, tinte pastello, linee ancora più sottili ed eleganti, anche qui architetture dell’epoca, un caleidoscopio di figure, situazioni e ambienti, in miniature moghol riunite su cartigli di legno di speciali forme orientali.  L’ambiente di questi rivestimenti è la “Stanza del Milione”, sono stati realizzati tra il 1740 e il 1760, non possiamo negare che il collegamento con il nostro grande Marco Polo ci ha inorgogliti.

Dopo le virtù politiche, nelle celebrazioni e nella vita di corte, siamo andati alla ricerca delle virtù militari, sempre seguendo il filo rosso della rievocazione fatta in precedenza della sua intensa vita di sovrano tra le delizie e gli intrighi di una corte orientale, le guerre di conquista e quelle intestine: la quarta sezione della mostra è dedicata appunto a “guerra, battaglia e caccia”.

E’ ricca non solo di immagini epiche ma anche di una serie di preziosi esemplari di armi, da combattimento e da parata, evidentemente oggetto di doni o prodotte proprio per il sovrano e i dignitari.  Soprattutto “Pugnali”,  l’arma  tradizionale degli intrighi di corte… Ne  sono esposti una diecina, con o senza fodero, ciascuno impreziosito in modo diverso: con rivestimenti in oro, perfino nella lama oltre che nell’impugnatura. Questa assume le forme più diverse che vanno fino alla scultura in bronzo dorato di un pugnale della seconda metà del XV secolo, dalla lama particolarmente lunga, ben 40 cm. Oltre ai pugnali, un’“Elsa di spada, cappa e puntale”, l’oggetto più prezioso, interamente rivestita in oro con incastonati diamanti, rubini e smeraldi, tra il XVI e il XVII secolo, da “mille e una notte”. Del resto la storia da noi riferita racconta che il capostipite Humayun fu accolto dallo Shah dell’Iran, dal quale ricevette addirittura un esercito, quindi si poté riunire al piccolo Akbar suo figlio, dietro donazione del famoso diamante Koh-i-Noor. Poi diverse “Scimitarre  a un taglio con fodero”, lama in acciaio, legno e velluto per la lunga custodia.   Fino a due “Scudi”del tardo XVI secolo, uno in acciaio damaschinato, l’altro formato da vari materiali dall’acciaio al cuoio, dai vimini al velluto che viene dal Museo del Bargello di Firenze.

Le immagini epiche iniziano con altre illustrazioni del “libro di Akbar” in cui “Akbar ringrazia per la notizia della vittoria in Bengala” e dove si celebra “L’entrata al forte di Ranthambhor nel marzo 1969”, sempre del 1590-95. Sono accompagnate, nello stesso libro ed esposte a fianco nella mostra, da scene dello stesso  “Akbar a caccia vicino  a Palam nei pressi di Delhi” e “L’avventura di Akbar con l’elefante”.  Questi grandi animali si vedono impegnati nei conflitti con “Elefanti addestrati uccidono i seguaci di Khan Zaman”, mentre le scene sono violente in “L’esecuzione di Shaah Abu’l Ma’ali a Kabul nel 1564” e macabre in “Tayang Khan con la testa del capo mongolo Ong Khan”.

Procedendo nella visita, le immagini diventano più grandi, i colori più forti, le figure e le composizioni meno raffinate e più intense, pittoriche e non solo decorative. Sono le illustrazioni da “Le avventure di Hamza (Hamzanama)”,  70 per 55 cm, inchiostro e acquerello opaco e oro.  E’ una grande impresa artistica affidata dal re, pur essendo impegnato nelle guerre e alleanze per consolidare la dinastia, tradotta in 1400 fogli di pitture su cotone e non su carta in 15 anni. Sono nell’insolito formato verticale di derivazione persiana, mentre in India vigeva quello orizzontale;  affiora una leggera prospettiva e un’attenzione naturalistica che dà rilievo alle figure nell’ambiente fatto anche di rocce e piante oltre che di architetture, sempre con linee delicate e tonalità leggere.

E’ una storia avventurosa  che fissa la tradizione orale in una serie di “quadri”  con una vicenda fatta di scontri e sortite, di incursioni e fughe, di intrighi e situazioni carambolesche, di sconfitte del nemico fino alla capitolazione; con dei protagonisti che si succedono nei titoli delle composizioni. “Arghan Dev porta la cassa delle armi a Amir Hamza” e “Hamza uccide il capo del popolo con le orecchie d’elefante”, “Hamza tenta di aiutare Omar ma scopre che si tratta di un impostore” e “Gettato dalle mura  della fortezza, Omar rimane illeso”. Stesso volo dall’alto di un altro protagonista: “Mahiya e Zambur stordiscono Ghazanfar e lo gettano in mare dalla fortezza”, non conosciamo la sua sorte, ma vediamo la fine di altri: “Hamid lascia la città Hamraq eTamraq lo seguono e vengono uccisi”. Nuovi personaggi: “Baba Junaid aiuta i sostenitori di Hamza e respinge Shahrashob”  mentre “Tu Zangi e Farrukhsuwar sono catturati da Tahmasp”; in altre immagini “L’Amir prende la regina di Zarduhust e la fa musulmana” e “Malak Malik  entra nottetempo nell’accampamento musulmano, vede Said  Farrukhnizhad e se ne innamora”.  Al culmine della carrellata si incontra lo Shah: vediamo che  “Omar porta  a Hamza l’anello di Zumurud Shah”; poi “Zumurud Shah riceve i suoi alleati dopo una serie di sconfitte”, per finire con “”La caduta di Zumurud Shah”. Amore e morte, nella vicenda  epica e avventurosa che fa immergere sempre più nell’India misteriosa nell’epoca in cui dominava un’area sempre più vasta, comprendente i paesi limitrofi, e fa conoscere meglio un’arte pittorica  straordinaria fatta di immagini e colori dalla perfezione formale con una grande capacità narrativa da lasciare incantato l’osservatore.

“Coppia di Teste di leoni”,particolare, 2^ metà XVI sec.

Le testimonianze su  arte e artigianato,  città e ambiente

Siamo nel campo dell’arte oltre alla documentazione storica, e abbiamo detto nella presentazione di Akbar  del suo amore per le arti e la cultura che il padre gli trasmise dopo averlo assorbito dalla civiltà persiana:  riuscì a far realizzare le 1400 tavole delle “Avventure di Hamza” avendo impiantato l’atelier con un centinaio dei migliori artisti e dei loro aiutanti.

Sulla pittura  non poteva esserci dimostrazione più spettacolare di quella delle illustrazioni dei libri che abbiamo sintetizzato trattandola come documentazione storica, ma è una grande manifestazione artistica. Nella sezione sulle “arti e artigianato” si privilegia questo secondo aspetto, a parte gli acquerelli sull’arte della musica, come “Musicista in un paesaggio” e “Anziano flautista”, in cui si vedono i musicisti impegnati nel suonare i loro strumenti, a corde il primo, a fiato il secondo.

Figure di animali in due tappeti del 1600 circa, a trama di lana e cotone con nodo asimmetrico, su un rosso intenso, intitolato il primo “Tappeto con coppie di uccelli in un paesaggio” dove le coppie sono inserite fra motivi floreali a diversi livelli; il secondo “Frammento di tappeto” con fiere riconoscibili e figure fantastiche di animali in cui il più grosso cerca di divorare il più piccolo.

Sono forti e ben evidenziate nella trama, mentre sono piccole e delicatamente istoriate le immagini in tessuti speciali: “Telo ricamato” di poco successivo, quasi una filigrana di cavalieri, guerrieri, persone, animali; mentre la “Tenda di coperta”  in cotone e seta ha un fondo marmorizzato di  ricami di seta molto fitti, entrambi i tessuti sono in Italia, il primo viene da Firenze l’altro è a Roma. A loro sono accostati dei fogli: il “Foglio destro di una doppia pagina di calligrafia” e l'”Esempio di calligrafia”,  in inchiostro e oro su carta e cartone con scritture persiane, quasi due piccoli tappeti.

L’artigianato artistico presenta preziosi mobiletti:  un “Armadietto su base di tavolino” e uno “con apertura a ribalta”, un “Tavolo da gioco” e un “Cofanetto”:  tutti in legno di ebano o tek, finemente intarsiati  in avorio, micro mosaico o madreperla.  E poi dei vasi  molto particolari: un “Contenitore per l’acqua”, di Lahore, in ottone fuso con decorazione incisa riempita di impasto nero; e un “Serbatoio per pipa  ad acqua”, di Deccan, in lamina d’oro sbalzato,  punzonato e puntinato con ceselli, non serve aggiungere altro, si comprende l’arte raffinata con cui è stato creato. Così  per il “Mescitoio”,  basta dire che è interamente rivestito di madreperla sul rame dorato, con pietre dure e preziose.  Una “Scatola circolare” in rame dorato, gemme e madreperla, miniata internamente,  completa questa “batteria” di oggetti domestici di grande pregio e valore. C’è anche una coppia di “Teste di leone” in bronzo dorato.

E gli oggetti personali? Non mancano, la mostra ne espone alcuni particolarmente preziosi: vediamo la  “Coppia di ornamenti per orecchi” e il “Pendente di un amuleto”, in oro con incastonati  rubini, diamanti e smeraldi, poi  una “Coppetta” intagliata in cristallo di smeraldo e un “Manico per bastone” che è quanto di più prezioso si possa immaginare, con l’oro coperto di rubini nei 10 cm di lunghezza, e con smeraldi e brillanti sul pomo a testa di animale.

Abbiamo detto nella presentazione come il sovrano fosse molto attento alle esigenze abitative e architettoniche, al punto di costruire la “Città della Vittoria”, Sikri,  nello stato di Gujarat cui si unirà poi il Bengala, mentre veniva completata la capitale; e di metterla al centro di una rete di villaggi in una concezione urbanistica del territorio lungimirante. L’architettura urbana della nuova città unisce solidità a leggerezza da campo nomade, in una provvisorietà peraltro ben radicata volta a mantenere il senso dello spostamento, che mise in pratica lasciandola dopo 14 anni.

Tornano le deliziose illustrazioni formato  37 per 24 cm di inchiostro e acquerello opaco su carta  del “Libro di Akbar”  a documentare tale aspetto fondamentale del regno di Akbar. Dobbiamo limitarci ai titoli, anche se non possono rendere la ricchezza di queste raffigurazioni dove intorno o all’interno dell architetture brulica un’umanità pittoresca  fatta di lavoratori e popolani, dignitari e principi. Ecco “La costruzione della città di Sikri” e “La costruzione del forte di Agra” in due immagini ciascuna, poi “Akbar ispeziona la costruzione di Fathpur Sikri”. Ritroviamo anche il “Libro di Babur” , dove “Babur ispeziona la costruzione di un bacino d’acqua a Istalf, vicino a Kabul”.  Torna pure “Le avventure di Hamza (Hamzanama)”  con “Albero sull’argine del fiume”, al quale seguono altre immagini di fonti diverse sugli animali che popolano l’ambiente naturale dove sono insediate le città:  “Il corvo indice un’assemblea degli animali” e “Elefanti”, “Il Leone e Shahzabah il Bue”. Sono esposte anche sculture in bronzo dorato, precisamente una spettacolare  “Coppia di teste di leoni” .Sembra poco per dare un’idea della città e della sua architettura, urbanistica e ambiente: non lo è per la ricchezza visiva ed evocativa delle immagini.

 “Arghan Dev porta la cassa delle armi ad Amir Hamza “, 1558-73 

Dal mito alla religione con la sorpresa finale

E’ una ricchezza espressiva che troviamo anche nella sezione “la religione e il mito”,  dove viene data una testimonianza ancora più complessa: dal mito alla spiritualità dell’islamismo e induismo nel clima di tolleranza e rispetto per le libertà di culto voluto da Akbar e messo in pratica di persona prendendo come consiglieri e mogli appartenenti ad altre religioni. Il suo sincretismo religioso, lo abbiamo detto nella presentazione, lungi dall’imporre una fede ricercava l’essere superiore che le accomuna tutte.  Si tratta sempre di illustrazioni di libri, altri si aggiungono a quelli citati, ma le immagini questa volta recano lunghe iscrizioni come spiegazione del contenuto e messaggio: in “Giardino delle rose” le immagini sono piccole, perché la scritta occupa gran parte dello spazio.

Come immagini mitiche ricordiamo “Ambika incenerisce il demone Dhumralochana” e “Dei e Asura burrificano l’oceano di latte”, “Nobile che massacra un  mostro” e “”Il re Salya si reca in visita da Kala Yavana”, “Rama e Lakshman vengono a conoscenza del completamento del ponte di Lanka da Sugriva, re delle scimmie” e “Siva offre frutta a Rama nella foresta di Dandaka”.  L’immagine di un “Elefante composto con demoni” chiude simbolicamente questo spazio

Dai personaggi mitici ai religiosi: “Asceta itinerante con tridente” e “Devoti in visita a un asceta presso un piccolo tempio”, “Derviscio itinerante con bastone” e “Mulla in conversazione”, “Un europeo incontra un asceta hindu” e “Prete in lettura”. Alla fede più diffusa ci si avvicina con le illustrazioni in cui “Studiosi hindu e  musulmani  traducono il Mahabharata dal sanscrito al persiano” e “Una donna illustra il suo problema a un maullana”.

L’immagine che mostra “Il giovane asceta Rishyashringa sedotto da un gruppo di donne incantevoli inviate dal re di Anga” ci fa ripensare alla nostra religione in cui le tentazioni avvengono nel deserto. Qui vediamo invece che “Akbar si perde nel deserto mentre caccia asini selvatici”.

Non è peregrina come potrebbe sembrare questa associazione di idee, infatti  troviamo subito  “Il profeta Elia in soccorso del principe Nur al-Dahr”. E soprattutto con grande sorpresa vediamo riprodotte, siamo sempre intorno al 1600, le immagini canoniche del cristianesimo: “Natività” e “Vergine e bambino”, “Sacra famiglia” e “Gesù e la Samaritana”,  fino al clou di “Scena della Crocifissione” e “La deposizione dalla Croce”.

Si conclude il viaggio fantasmagorico nelle meraviglie e nei misteri dell’età d’oro dell’impero di Akbar, tra la vita di corte con i suoi intrighi,  le guerre intestine e di conquista, la costruzione di città in una concezione architettonica e urbanistica avanzata, le opere dell’arte e dell’artigianato indiano. E cosa troviamo al termine? Le icone più caratteristiche della nostra fede, fedelmente trasposte  da questi artisti indiani, di cui abbiamo ammirato la produzione che spazia per tutti i grandi temi della storia e della cultura  del loro paese lasciandoci una preziosa testimonianza.

La mostra ha il pregio di averci presentato tutto ciò, in una sinfonia di forme e colori con immagini preziose e suggestive, facendoci entrare nel mondo affascinante di “Akbar, il più grande”, fino a ritrovarci nel nostro mondo con i segni della nostra fede per il suo rispetto verso le altre religioni.

Per questo vogliamo concludere il racconto della nostra visita alla mostra che ne celebra la grandezza citando per ultime due immagini, “Angelo che suona il flauto in un paesaggio” e “Angelo in conversazione con un gruppo di europei”: ci piace immaginarci tra questi europei  e pensare di aver incontrato nel regno di Akbar  l’Angelo custode che stiamo ancora cercando in Occidente.

Info

Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, Roma ingresso in via Marco Minghetti 22 (traversa di via del Corso). Tutti i giorni, tranne il lunedì della chiusura settimanale, dalle ore 10,00 alle 20,00 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 10,00  ridotto 8,00 (fino a 26 anni e oltre 65 anni più militari, studenti, docenti facoltà artistiche e dipendenti Ministero beni culturali; e per gruppi obbligo prenotazione) per visite da martedì a venerdì, sabato e domenica tariffa intera; scuole euro 4,50. Omaggio: bambini fino a 6 anni, accompagnatore gruppi prenotati, giornalisti, soci Icom, Confesercenti, federagit, guide turistiche Roma. www.fondazioneromamuseo.it. Tel.  06.697645598. Info e prenotazioni 06.39967888 (lun.-ven. ore 9-18; sabato 9-14). Catalogo della Fondazione Roma Museo: “Akbar, il grande imperatore dell’India”, a cura di Gian Carlo Calza, Editore Skira, pp. 286, formato 24 x 28; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Il primo articolo sulla mostra, con 4 immagini delle opere esposte, è uscito in questo sito il 18 gennaio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Sciarra alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Roma Museo con Arthemisia e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Akbar a caccia vicino a Palam nei pressi di Delhi”, 1590-95; seguono:  particolare da “Coppia di Teste di leoni”, 2^ metà XVI secolo e “Arghan Dev porta la cassa delle armi ad Amir Hamza “; in chiusura “Il profeta Ilyas (Elia) in soccorso del principe Nur al Dahr”,  i due ultimi acquerelli sono del 1558-73.

“Il profeta Ilyas (Elia) in soccorso del principe Nur al Dahr”, 1558-73  

Tumminello, la gaussiana in scultura ‘”arché” della vita, a “On Piece Art”

di Romano Maria Levante

Nella mostra di  Sergio Tumminello, “Res Omnis” a Roma, galleria “On Piece Art” , in via Margutta, dal 17 maggio al 27 luglio 2012 sono stati esposti disegni, bassorilievi e sculture, il tutto  incentrato su una forma archetipa, biomorfa. E’ motivo costante nelle opere dell’artista ispirate alla curva di Gauss che  prende la forma di “omini” primordiali, quasi totem preistorici: delle gaussiane utilizzate, tre sono per lo spazio e una per il tempo, definiscono i contorni degli omini, braccia, testa e gambe. L’originalità  di opere la cui forma ricalca la sinusoide della distribuzione statistica degli eventi è tale che vogliamo riproporle all’attenzione dei lettori a sei mesi dalla chiusura della mostra: con qualche commento esplicativo ma soprattutto con immagini eloquenti.

E’ stato l’autore in persona a svelarci che le curvature seguono la sinusoide gaussiana onnipresente in tutte le rilevazioni sulla distribuzione statistica dei diversi fenomeni, fino alla recente “piramide di Yale” il cui grafico sull’andamento borsistico mondiale nell’arco di due secoli ha la forma di una gaussiana. La dimensione spazio-temporale è tutta all’interno di tale distribuzione e averne fatto l’archetipo  umano è una idea moltointeressante che si affianca, pur nella totale diversità, alle forme primordiali della “Genesi” di De Redia, viste nel giugno 2009 al Palazzo delle Esposizioni, al  Foro romano e in altri luoghi aperti della Capitale. Lì era la sfera che si dipanava in forme accucciate in sequenza, in  Tumminello l'”omino” è una forma stabile, l’evoluzione l’abbiamo trovata nella grande scultura ancora più antropomorfa, avvitata su se stessa, che dominava la mostra.

Ma torniamo all’interpretazione delle opere ricomprese sotto il titolo di “Res omnis”, ecco come l’artista ne ha parlato intervistato da Barbara Martusciello: “In tutti i miei lavori c’è una forma costante, biomorfa, una sorta di omino, un lemma formale che ogni volta incarna e rimanda una storia a se stante, un’indagine continua”. L’ha descritta così: “E’ una forma archetipa, paradigma di una personale ricerca sull’Origine, intesa sia come origine dell’opera d’arte sia in senso ampio”.  L’averci rivelato che è fatta di quattro gaussiane unite, la qualifica ulteriormente aggiungendo la dimensione spazio-temporale legata alla distribuzione ineludibile dei fenomeni ripetitivi.

Le opere in marmo le ha realizzate in un recente soggiorno a Pietrasanta,  due sculture sono del 2008, una di esse è entrata nel “Fondo comune della costituenda fondazione Teatro Valle”, e ci piace sottolineare questo contributo dell’arte scultorea a quella teatrale in lotta per la sopravvivenza di uno storico teatro come il Valle, precipitato in una crisi profonda che lo ha visto chiudere dopo lo scioglimento dell’Eti, fino alla maratona di solidarietà degli artisti. I bassorilievi di Tumminello sono entrati lo scorso anno nell’evento “Paturnio”, svoltosi in diversi siti a Roma, con la presentazione di Achille Bonito Oliva. 

E’ un artista, quindi, inserito nel mondo artistico in fermento, dopo essersi formato presso la Nuova Scuola Romana di scultura, quella di San Lorenzo; negli ultimi cinque anni ha esplorato diversi temi, con evoluzioni e spostamenti, continuità e ripensamenti, in un inesausto spirito di ricerca.  

Nei primi gessi monumentali la ricerca esteriore riguardava i materiali e la scenografia, la gestualità e l’aggressività; quella interiore il lato oscuro della mente per giungere all’archetipo e alla memoria collettiva.  Su di lui si legge che “l’elaborazione di una teoria in cui il canone di bellezza classica è trasfigurato in un codice matematico-statistico trova già una matura formulazione”, crediamo che questo codice sia decrittato nella curva di Gauss anzidetta.

Il suo passaggio dai gessi alla ceramica e poi al marmo dà alla forma maggiore linearità e stabilità,  richiami medioevali e rinascimentali sono inseriti in una espressione assolutamente contemporanea. All'”omino” si aggiunge il satellite Saturno, soggetti diventano l’Ombra e i Quattro elementi primordiali. In questa evoluzione raggiunge un  equilibrio e una misura che fanno tesoro dell’esperienza precedente dandogli pur nella giovane età una indiscutibile maturità artistica. 

Info

Galleria “On Piece Art”, via Margutta, 53/b, Roma, Orario: da martedì a venerdì ore 16-19,30, per la mattina e il sabato su appuntamento, ingresso gratuito; tel e fax 05.32651919.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante  nella galleria all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione con i titolari dei diritti, in particolare Sergio Tumminello.