Akbar, 1. L’età d’oro dell’India, al Palazzo Sciarra

di Romano Maria Levante

Alla Fondazione  Roma Museo, Palazzo Sciarra, in via del Corso, la mostra “Akbar. Il grande imperatore dell’India”, dal 23 ottobre 2012 al 3 febbraio 2013, oltre 130 opere in un allestimento che fa entrare nell’Oriente misterioso. E’ organizzata con “Arthemisia Group”, a cura di Gian Carlo Calza che ha curato anche il Catalogo Skira, nel quale si ripercorre la storia della dinastia Moghul, stirpe di conquistatori del periodo d’oro dell’India, con un corredo di immagini splendide per raffinatezza formale e delicatezza cromatica: memoria preziosa di una mostra altrettanto preziosa.

“Ritratto di Akbar a cavallo accompagnato da un porta stendardo”, 1585 

Una “total immersion” nell’India misteriosa la mostra al Palazzo Sciarra  sull’imperatore della dinastia dei Moghul che ha segnato una stagione fulgida, dal nome “Akbar, il più grande”, appellativo che nell’Islam è riservato a Dio.

La Fondazione Roma continua la sua “esplorazione” dello sconfinato Oriente, dopo la Cina dell’imperatore Qianlong nella grandiosa mostra del 2007-08, e il Giappone di Hiroshige nella mostra nel 2009. E non a caso, la visione lungimirante del presidente Emmanuele F. M. Emanuele la pone in una prospettiva ben più vasta del pur rilevante fatto storico-artistico: “Sono paesi – afferma –  la cui crescita fa da protagonista nell’economia e nella politica contemporanea e con i quali è auspicabile dialogare intensamente sulla base della conoscenza delle reciproche culture e del reciproco rispetto”. E precisa: “Il dialogo e la tolleranza per le diversità sia di credo che di appartenenza etnica, centrali nella politica di Akbar, ancor più oggi si dimostrano quali pilastri per un mondo maturo e cosmopolita , che sappia accogliere le trasformazioni storiche e culturali con tolleranza e sappia gestire la complessità che ormai caratterizza la società contemporanea”.

Un’immersione favorita dall’allestimento suggestivo, sembra di muoversi nei meandri del palazzo imperiale, in un labirinto di sorprese che rende la mostra diversa dalle consuete esposizioni di opere d’arte. Queste non mancano, sono 130 le testimonianze, per lo più illustrazioni grafiche contrassegnate da  una straordinaria eleganza calligrafica, vivezza cromatica e preziosità. Ma oltre a questi pregi stilistici che si apprezzano di primo acchito, colpisce il mondo raffigurato, l’India nel XVI secolo, che rivela tanti motivi di interesse anche attuale da acuire ancor più l’attenzione.

Per apprezzare il contenuto della mostra prima della visita è bene conoscere cosa c’è dietro le espressioni d’arte portate a testimonianza, un mondo che in tempi lontani ha trovato delle direttrici e dei motivi ispiratori  rimasti dopo quattro secoli come modello di umanità, per quei fattori di pace e progresso evidenziati da Emanuele che emergono pur nelle tempeste politiche e militari dell’epoca.

Akbar viene infatti da una dinastia di conquistatori  e lui stesso è stato protagonista di vicende personali tempestose e campagne militari molto aspre che lo hanno portato a stabilire la potestà imperiale su un territorio più vasto dell’India odierna, includendo anche la Persia. Ma questo accresce il merito della visione illuminata in molteplici campi che ha fatto di quel periodo un’età d’oro, e porta ad approfondirne  i principali aspetti  per poter dare il giusto significato alla fioritura artistica esposta in mostra.

La telenovela epica della vita di Akbar

Come in un romanzo di appendice, cominciamo facendo un passo indietro, tornando alle origini della dinastia dei Moghul, della quale è stato il terzo. Il nonno era Babur, discendente per parte di padre da Genghis Kahn e di madre dal Tamerlano, il che è tutto dire;  il padre Humayun  vive vicende da tragedia greca, in lotta con i due fratellastri Kamran Mirza e Askari Mirza, costretto alla fuga con il  piccolo Akbar mentre alla morte del padre nel 1530 era andata  a lui l’India, cui aspirava uno dei fratelli confinato nell’Afghanistan, una fuga cui il piccolo a un annodi età  non sarebbe sopravvissuto, perciò fu lasciato a Kandahar in un accampamento dove lo trovò lo zio nemico. Qui il romanzo d’appendice prende corpo nelle parole del curatore della mostra Gian Carlo Calza: “Questa vicenda avrebbe potuto condurre alla fine dell’avventura imperiale di padre e figlio  e forse anche alle loro esistenze. Eppure, proprio nel punto più basso di quello che sembrava un destino ormai segnato, la loro storia prese una piega che avrebbe influito profondamente sui destini dei Moghul e in  particolare di Akbar”. Cosa avvenne, dunque? “Il bimbo fu risparmiato e accudito dalla sposa di Askari, probabilmente come ostaggio potenziale. Humayun fu accolto in Iran dallo Shah non come fuggiasco, ma da pari  e ne ricevette sostegno e protezione”. A questo forse non fu estraneo il munifico dono che fece del famoso diamante Koh-i-Noor, lo Shah gli fornì addirittura un esercito di 12.000 cavalieri con il quale si riunì al figlio Akbar di 3 anni. Si era nel febbraio 1545.

Un “happy end”  alla Noè salvato dalle acque per il piccolo, mentre il lieto fine per il padre  si avrà nel 1555 quando torna in India con il figlio allorché un generale valente e fidato, Bayram Khan, riconquista le province, prende Lahore e il trono di Delhi. Non sarebbe una storia da romanzo di appendice se non ci fosse un colpo di scena: la morte del padre dopo meno di un anno, per una banale infortunio nel gennaio 1546, cade rovinosamente dalle scale inciampando sulla veste.

Sale al trono Akbar a soli 13 anni con la tutela per le questioni militari del generale che mise subito a frutto la sua valentia riconquistando Delhi dopo che alla morte di Humayun era stata presa da Hemu, il quale schierò 1500 elefanti in tenuta da guerra, ma fu ferito a un occhio e poi decapitato.  Una sorta di reggenza fu quella della nutrice Mahaman Anga che in esilio lo aveva allevato come una mamma, ma si rivelò dispotica e in seguito fu al centro di intrighi di corte: un fratello di latte, Adham Kahan, cospirò, con la madre sua nutrice, contro di lui uccidendo il primo ministro che gli era fedele e subì la legge del taglione, la madre ne morì.

A questo momento viene ricondotta la sua emancipazione, ha 18 anni; poi si sposerà, avrà dei figli, con Selim nel 1600 la cruenta telenovela iniziale sembrò ripetersi, il figlio fece uccidere il suo consigliere più fidato, ma vi fu la riconciliazione alla morte della madre di Akbar nel 1604 e l’accettazione dell’idea della successione al trono da parte di Selim nel 1605 alla morte dell’altro figlio Danyal poco più che trentenne.  Sono le ultime battute, Akbar muore  per dissenteria.

Queste tormentate vicende intestine non impedirono ad Akbar di estendere il suo regno a dimensioni inusitate, con annessioni territoriali che accorparono all’India gli attuali Afghanistan e Pakistan.  Era addestrato alla lotta, si impegnava personalmente  nella battaglia, comandando le cariche, come faceva nella caccia, sapeva domare bestie feroci. Era coraggioso e determinato, ma anche meditativo e religioso.

“Pugnali, Scimitarre e Scudi” 

L’arte e i valori civili

Ci siamo soffermati sulla telenovela epica della sua vita per fare apprezzare ancora di più  i fattori dominanti del suo regno che sembrano di tutt’altro  segno, come il dialogo e la tolleranza citati da Emanuele; e il suo amore per la cultura che si tradusse nella fioritura artistica documentata dalla mostra, nonostante fosse privo di istruzione.  Questo per le vicende tempestose della sua adolescenza, ma anche per la sua ritrosia verso gli studi che viene riferita al fatto che “il disegno fosse che tale signore dalla sapienza sublime e allievo speciale di Dio non dovesse essere implicato in un apprendimento umano comune, così che potesse diventare chiaro per l’umanità che la conoscenza di questo re dei sapienti rientrasse nella natura del dono e non dell’acquisizione”. 

Le idee innate, dunque, tali che sebbene non imparasse a leggere e scrivere fu, dice Calza, “uno  dei più grandi sostenitori delle lettere di ogni tempo, poeta egli stesso e amante delle arti e della musica”. Il padre Humayun aveva assorbito la cultura e la raffinatezza artistica e letteraria nonché i valori etici della Persia, e da uomo di lettere ne fece tesoro trasferendoli al figlio. Il quale poi creò un vero e proprio centro  di arti per artisti e pittori con oltre cento aiutanti, una  istituzione di autentico  mecenatismo, senza imposizioni né vincoli, che produsse opere di straordinaria bellezza.

Promosse la pittura nella quale si riversavano le scoperte che venivano fatte nei viaggi dei sovrani in mondi per loro sconosciuti  misteriosi: di qui oltre ai motivi decorativi astratti o floreali, una ricchezza di immagini dalla flora alla fauna,  in composizioni anche ardite, con dignitari, armati e gente comune immersi in ambienti fantastici dalla precisione grafica e delicatezza cromatica. I libri illustrati con queste preziose pitture sono una fonte anche documentaria oltre che artistica di valore eccezionale, la mostra è in gran parte basata sulle straordinarie immagini in essi contenute.

L’impegno del sovrano nel promuovere le arti, pur  tra le gravose incombenze del suo regno, viene così riassunto da Jorrit Britschgi: “Oltre che a grandi battaglie finalizzate all’integrazione dei principi locali dei regni confinanti, o alla costruzione di strutture difensive come il forte di Agra, Akbar dedicò come nessun altro prima di lui consistenti risorse alla realizzazione di armi artistiche, opere toreutiche, splendidi tessuti, alla traduzione e trascrizione di testi che venivano poi illustrati nelle botteghe di corte”.  Seguendo questi indirizzi: “Come nell’architettura, attraverso la fusione di diversi stili, Akbar diede vita a un vocabolario che riuniva linguaggi stranieri e locali, allo stesso modo delle botteghe di pittura della sua corte si formò uno stile che si distaccò nettamente dalle radici persiane e pre-moghul e che improntò i successivi sviluppi della pittura moghul”.

Il suo spirito innovativo  emerge  anche da altre iniziative da lui intraprese come sovrano di un impero che cresceva a dismisura. Decise di costruire una nuova città imperiale prima che venisse completata, nel 1573,  la capitale Agra. Sorge così a Sikri la “Città della Vittoria”,  nel ricco stato del Gujarat cui si aggiungerà il Bengala tre anni dopo, nella località dove il nonno Babur, nel 1526, aveva  sconfitto Rana Sanga legittimando la dinastia moghul.  La città è al centro di un sistema a rete di villaggi e città che potenziò ed estese facendo costruire, tra il 1568 e il 1585, 15 nuove città in un disegno di gestione del territorio finalizzato anche alla produzione e raccolta di rendite.

Alla divisione amministrativa in province aggregate in distretti e in più circoscrizioni più ampie corrispondeva una configurazione territoriale geometrica con una pianificazione regionale su tre livelli: villaggi preislamici, alla distanza media di 3 chilometri, che erano la base produttiva; città intermedie per lo scambio dei prodotti dell’agricoltura, poste a 25-30 chilometri e in grado di riempire i vuoti del reticolo; la capitale come baricentro dell’intero sistema. Attilio Petruccioli, che ne fa un’analisi accurata, aggiunge: “Questo sistema gerarchico e reticolare apparentemente rigido era in realtà molto flessibile per il suo impiego in tutte le direzioni cardinali, appunto come una scacchiera, né contrastava con l’istintiva mobilità della corte moghul”. Con questa possibilità: “Di fatto, muovendosi a piacimento nella scacchiera, il re poteva dichiarare capitale il luogo in cui di volta in volta fossero state innalzate le insegne imperiali”.  La capitale effettiva rimase ad Agra,ben fortificata, mentre Sikri, dalle esili mura, era una sede residenziale, da abbandonare se attaccati.  

Sikri è un esempio di architettura urbana e di assetto territoriale: alla struttura del palazzo imperiale con spazi pubblici, semipubblici e riservati fino all’harem si ispireranno i palazzi dei successori nelle capitali Lahore, Agra e Delhi; così per i collegamenti con il sistema urbano. Per Calza, ” è soprattutto un capolavoro dello spirito fatto materia dove la forza dell’architettura indiana si fonde con la lievità degli accampamenti nomadici. La struttura leggera del campo, indipendentemente dalle sue dimensioni, il sentimento del movimento, dello spostarsi di luogo in luogo, diventa realtà architettonica di mattone e arenaria rossa quando anche non di marmo bianco”. Dopo 14 anni la lascerà come fosse l’accampamento “non capriccio sconfinato di un grande signore in un momento di tedio, ma il gesto consapevole di un grande servitore all’interno di un disegno divino”.

Akbar ispeziona la costruzione di Fathpur Sikri” ,1590-95

Il  sincretismo religioso e la tolleranza

Nella sua visione di interprete di un disegno divino, si proclamò “arbitro supremo” nelle questioni religiose islamiche con un editto del 1579.  Verrebbe fatto di pensare a un fondamentalismo imposto alle altre religioni, tutt’altro:  accolse nella sua corte esponenti dei vari credi, e valorizzò la fede hindu tradizionale alleandosi con questa antica stirpe di guerrieri e sposandone una esponente, prendendo i suoi parenti hindu come consiglieri; tra le sue mogli ce n’erano anche di altre etnie e religioni. Applicò dunque in pratica, con chiari esempi personali,  il rispetto per le altre fedi  e per le etnie che le professavano. 

Puntò a un  sincretismo che fondesse induismo e Islam, diede un forte segnale eliminando la tassa che gravava sui non musulmani.   Nel 1582 presentò il suo disegno della “Fede divina”, frutto delle discussioni decennali e delle meditazioni in cui si impegnava personalmente alla ricerca della retta via. Il rapporto con il divino era basato sul sincretismo, non proponeva una religione come alternativa rispetto alle altre che si imponesse con la forza dell’impianto dottrinario o il mistero  della rivelazione o cercasse proseliti: “Propugnava la necessità di leggere all’interno di ogni religione la presenza di un’unica realtà divina, la stessa che dichiarava presente in ciascun uomo ma di cui solo pochissimi diverrebbero veramente consapevoli”. Ecco il risultato: “Con queste caratteristiche forse la fede divina appare una scuola spirituale, una difficile e selettiva via iniziatica che non una nuova forma di religione che fondesse tutte le altre”. Tale concezione finì con lui, la lezione fu dimenticata, anche oggi vediamo come sia rara quanto preziosa la tolleranza religiosa.

Alla base della sua concezione non c’era solo una genuina apertura spirituale, ma anche una chiara visione politica per organizzare e gestire un territorio in forte espansione per le sue conquiste.  Così Elisa Gagliardi Mangilli: “Attratto dall’infinita varietà di stimoli che lo circondava, egli comprese che le diverse componenti etnico-religiose, che ormai erano parte integrante del suo variegato impero, per potersi amalgamare e integrare dovevano avere tutte un ruolo attivo nella costruzione della nuova cultura moghul, a partire dal credo religioso, tanto che fondò una religione sincretica nella quale confluirono componenti musulmane, hindu e cristiane”.

Ma non impose il nuovo credo, la libertà religiosa da lui assicurata creò spazi per tutte le fedi, soprattutto quella cristiana: “Testimoni attivi nella composizione degli elementi cardine di questo nuovo credo furono i gesuiti che vennero invitati a corte a illustrare, spiegare e sostenere dibattiti sui caratteri salienti del cristianesimo”.  La Mangilli riporta la testimonianza del gesuita Ridolfo Acquaviva, invitato a corte nella nuova capitale Sikri, il 27 febbraio 1580, con il confratello Monserrate, in cui descrive con i dettagli più minuziosi dell’abbigliamento e delle armi, la figura dell’imperatore seduto “all’usanza dei Mori, rilevato sopra un gran cuscino di velluto a fregi d’oro”.

Il valore della tolleranza permeò la sua azione anche nel campo civile, strettamente collegato a quello religioso per quanto si è accennato. Era  alla base del suo disegno politico e amministrativo, sociale e culturale di sovrano illuminato che fece vivere al suo popolo, sul  territorio in continua espansione per le sue conquiste,  una fase di prosperità economica,  di fervore artistico e culturale.

Akbar, un esempio e un simbolo

Abbiamo detto che Akbar non imparò a leggere e scrivere per le vicende della vita ma anche per quello che è stato definito un disegno divino. Emanuele cita al riguardo le parole del mahatma Gandhi come chiave interpretativa  e sintesi della sua personalità: “Non è la letteratura né il vasto sapere che fa l’uomo, ma la sua educazione alla vita reale. Che importanza avrebbe che noi fossimo arche di scienza se poi non sapessimo vivere in fraternità con il nostro prossimo?”. 

Un  senso di fraternità Akbar lo mostrò anche nei momenti critici della sua esistenza, quando fece costruire il mausoleo per il fratello di latte Adham Khan e la madre sua nutrice che avevano cospirato contro di lui. Osserva Calza: “Si possono qui riconoscere alcuni tratti della comprensione verso le persone a cui lo legavano vincoli familiari, sentimenti di riconoscenza o di affetto, così come il padre gli aveva insegnato con la propria tolleranza verso i fratelli, anche se infidi”.

Il curatore  ricorda ancora “come la sua vita e la sua opera siano diventate simbolo del livello più alto del governare, e infine come egli sia entrato nell’immaginario collettivo a esempio sommo di capacità strategica, acutezza diplomatica, saggezza amministrativa, nonché promozione dell’arte, della cultura e dello sviluppo urbano, ma soprattutto di tolleranza, creatività e pietas religiosa”.   E conclude dicendo che è proprio questo l’oggetto della mostra.

Vedremo prossimamente nella visita alla mostra come riesca ad esprimere i contenuti così profondi di una civiltà lontana dalla nostra che sentiamo vicina per i valori coltivati in modo esemplare nell’arte e nella vita.

Info

Fondazione Roma Museo, Palazzo Sciarra, Roma ingresso in via Marco Minghetti 22 (traversa di via del Corso). Tutti i giorni, tranne il lunedì della chiusura settimanale, dalle ore 10,00 alle 20,00 (la biglietteria chiude un’ora prima). Ingresso intero euro 10,00  ridotto 8,00 (fino a 26 anni e oltre 65 anni più militari, studenti, docenti facoltà artistiche e dipendenti Ministero beni culturali; e per gruppi obbligo prenotazione) per visite da martedì a venerdì, sabato e domenica tariffa intera; scuole euro 4,50. Omaggio: bambini fino a 6 anni, accompagnatore gruppi prenotati, giornalisti, soci Icom, Confesercenti, federagit, guide turistiche Roma. www.fondazioneromamuseo.it. Tel. Tel. 06.697645598. Info e prenotazioni 06.39967888 (lun.-ven. ore 9-18; sabato 9-14). Catalogo della Fondazione Roma Museo: “Akbar, il grande imperatore dell’India”, a cura di Gian Carlo Calza, Editore Skira, pp. 286, formato 24 x 28 cm; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Sciarra alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Roma Museo con Arthemisia e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Ritratto di Akbar a cavallo accompagnato da un porta stendardo”, 1585; seguono,  vetrina di armi con “Pugnali, Scimitarre e Scudi” e  “Akbar ispeziona la costruzione di Fathpur Sikri”,  in chiusura “Akbar si perde nel deserto mentre caccia asini selvatici nel 1570″, i due ultimi acquerelli sono del 1590-95.

Akbar si perde nel deserto mentre caccia asini selvatici nel 1570″, 1590-95 

Romania, la pittura del ‘900 valore culturale e civile, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La Romania è la nazione che dà il maggior numero di immigrati al nostro paese, e Roma la città che ne ospita un’alta percentuale. A parte i legami storici, questa circostanza rende di particolare importanza due mostre sull’arte antica e moderna in tale paese svoltesi a Roma, perché ne hanno presentato la ricchezza culturale. Dopo  gli “Ori di Romania”, i preziosi reperti di antiche necropoli esposti nel 2010 ai Mercati Traianei, sono approdati nella capitale “I colori delle Avanguardie. Arte in Romania 1910-1950”, con la mostra al Vittoriano dal 3 settembre al 15 ottobre 2011  realizzata da Comunicare Organizzando  di Alessandro Nicosia per l’Ambasciata di Romania e  curata da Erwin Kessler: 74 dipinti di 24 artisti. Ne parliamo, a oltre un anno dalla chiusura, per il valore civile dell’immagine del paese che si riflette in positivo sui tanti immigrati.

Camil Ressu, Funerali in campagna, 1911 

Le opere esposte seguivano gli stili più diversi  mescolati tra loro dato che erano raggruppate in sezioni  tematiche. Per questo l’interesse della mostra è accresciuto dal valore storico e sociale che si aggiunge a quello artistico, dato che i temi sono legati allo spirito di un intero popolo che dobbiamo conoscere meglio nelle sue radici culturali, condividendo l’appartenenza all’Unione Europea e ospitando la maggiore percentuale di immigrati romeni rispetto alle altre nazionalità.

Motivi della pittura romena nella prima metà del  ‘900

Abbiamo visto dipinti post-impressionisti vicino ad espressionisti, dadaisti e cubisti, surrealisti e simbolisti, tradizionalisti e astratti, ispirati al futurismo e allo stile metafisico, al costruttivismo e anche al realismo socialista essendo un paese dell’Est a lungo sotto l’egida  dell’Unione sovietica.

La matrice comune di questa eterogeneità stilistica è la spinta al modernismo nella quale le Avanguardie convivono con le correnti tradizionali in un periodo così tormentato sul piano politico, civile e sociale come quello drammatico tra le due guerre mondiali.  E la commistione è tale che invece di  raggruppare le Avanguardie separandole dalle opere tradizionali si è preferito comporre un affresco per temi: “Più che una mostra d’arte – afferma esplicitamente il curatore Erwin Kessler nel Catalogo di Gangemi Editore- è una mostra di storia”. E precisa: “Le principali caratteristiche dell’arte moderna in Romania nella prima metà del XX secolo evidenziate in ‘I Colori dell’Avanguardia’, sono lo sviluppo ellittico e contraddittorio, l’ibridizzazione, il compromesso tra le diverse pratiche e il desiderio di riflettere l’andamento culturale e sociale dell’epoca”.  

Questo processo caotico ma ricco di stimoli e fermenti ha una base precisa: “Lo stato di giubilo e stupore artistico e superficiale accomuna i modernismi romeni indipendentemente dal loro rito e dal loro orientamento ideologico”. Elemento comune “il trionfale uso del colore che rende possibile la proliferazione cerimoniale di opere e oggetti artistici di fattura eccelsa, soprattutto dipinti”:  attività che  esprime “un ruolo sociale, una fonte di continua responsabilità ma anche di orgoglio”.

Di qui la posizione peculiare delle Avanguardie  romene rispetto a quelle di altri paesi: non di rottura radicale ma di “compimento ultimo del modernismo, della modernizzazione sociale”, fenomeno portato avanti anche dagli altri movimenti artistici  con punti di rottura diversi.

E’ un processo alimentato da tre stati d’animo: entusiasmo, scetticismo, accettazione formale.

L’entusiasmoè rivolto all’industrializzazione, spinta dalla meccanica e dalla tecnologia, e vi aggiunge lo sport dinamico e vitale; in questa linea si collocano le opere di Brauner,  Maxi e Iancu, dove ricorrono temi legati ad automobili e aeroplani,  ascensori e le gru, elettricità e  motori.

Rovescio della medaglia  è lo scetticismo che condanna l’industrializzazione per esaltare i valori tradizionali della civiltà contadina,  statica ma dove il lavoratore dei campi è l’eroe coraggioso contro la disintegrazione individualista:  Ressu e Siratu, Ghiaja e Theodorescu-Sion. gli artisti.

Intermedia l’accettazione  formale della modernizzazione in atto nella società senza mostrare entusiasmo né scetticismo ma accogliendo serenamente i nuovi valori  per farli coesistere senza conflitti con quelli preesistenti: la troviamo nelle opere di Pallady e Michailescu, Phoebus ed Elder.

Con in mente queste posizioni possiamo ripercorrere idealmente le quattro sezioni dedicate  a “Il pathos poetico dei temi sociali”,  e “Le utopie dell’identità”, “Angosce e sogni urbani” e “La fine del viaggio”, osservando che gli ossimori  dei titoli esprimono le contraddizioni dei contenuti. Per cui le inquietudini del pathos, utopie e incubi coesistono con le aperture poetiche,  identità e sogni.

Corneliu Michailescu, La Madonna dei marinai, 1920 

Il pathos poetico dei temi sociali

I temi sociali sono visti con il pathos del dramma unito alla sublimazione della poesia. Lo stile è figurativo e spazia dal modernismo classico all’Avanguardia, i contenuti progressisti in senso ideologico vanno dal socialismo romantico all’anarchia critica. Si usciva dalla prima guerra mondiale, quindi ai residui motivi di ansia e pessimismo della società preesistente si sovrapponevano i fermenti di ricostruzione e rinascita che fanno leva sulla borghesia.  Di qui le raffigurazioni che vanno dalla tragedia della guerra con il suo carico di lutti alla ripresa della vita cittadina con lo sviluppo delle attività industriali e immagini aperte e festose come quelle sportive.

Il trauma della prima Grande guerra fu profondo nel popolo romeno sia per i lutti, sia per il cambiamento epocale determinato nella società; nell’arte si espresse con il polarizzarsi su forme nazionali come portato del nazionalismo legato ai nuovi stati sorti in base al principio dell’autodeterminazione. Artisti come Tonitzu e Michailescu avevano partecipato direttamente al conflitto, ma è di Hans Eder “La ritirata delle truppe austro-ungariche”, 1914, che ricorda le immagini della prima guerra mondiale pubblicate sulla “Tradotta”, drammatiche nel loro realismo.

All’inizio del secolo“I vagabondi”, di Apcar Baltazar, 1907, quattro volti di donna forti e decisi mentre, a ridosso del conflitto, “Porto di Constantia”, 1913-16,  di Marius Bunescu, con la vita produttiva: fabbriche e navi, binari e treni, stazione e viaggiatori, gli spettatori su un’alta torre.

Con la guerra tutto cambia, nelle cose e nelle persone. Nicolae Tonitza evidenzia questo dramma nella profonda tristezza sui volti di “Donne al cimitero” e “Nel ricovero”, 1920-21;  di Camil Ressuin“Funerali in campagna”, 1911, prima del conflitto, con il Pope e il popolo.  

Invece  Corneliu Michailescu esprime il sentimento religioso nel dipinto del 1920-21 “La Madonna dei marinai”,  con l’icona cristiana che si muove nella barca venerata sulla riva. A Ventotene nella festa della patrona,  Santa Candida viene portata in processione sulla barchetta il 20 settembre di ogni anno, tra la devozione popolare, ed è come se il quadro di Michailescu si animasse nella realtà o la processione si fissasse sulla tela; anche se nel dipinto c’è la Madonna col Bambino e non la santa martire il messaggio è molto simile. Dello stesso autore “Angelus”, 1926, con le due suore omologate nelle sembianze e nell’atteggiamento. In questo  intervallo  troviamo “Paesaggio italiano” e “I guardiani del castello”  con cui la sua pittura si apre a nuovi temi fino a “Interno del castello”, 1930,  dai colori e dallo stile moderni ed espressivi. In stile impressionista “La Fiera di Eldermen”, 1933,  giostre e tripudio di colori.

L’ambiente trionfa in “Paesaggio marino”di Marcel Iancu, 1925-30,  che lo anima con  “Nudi sulla spiaggia”; e in “Vecchio paesaggio di Bucarest” di Alexandru Phoebus, 1943,  definito “impressionante, potente e tragico”, l’artista adotta un cubismo umanizzato dal rilievo dato alla figura umana, in questo quadro è una sagoma in primo piano molto scura che dà la sua impronta.

Prima Max Herman Maxy aveva espresso con pari rigore il piacere del divertirsi in “Biliardo”, sei sagome di giocatori dietro il tavolo verde con birilli e boccette in primo piano. Ma l’immagine più moderna della sezione era “Testa e due pugili” di Victor Brauner, presa a testimonial della mostra per il modo in cui porta in primo piano la scena centrale in una sorta di rete geometrica di un costruttivismo pittorico applicato allo sport come valore della modernità.

Le utopie dell’identità

Nella seconda sezione era sviluppato in modo più compiuto il racconto popolare di una nazione fiera della propria identità.  Si trova espressa ai primi del secolo nei quattro volti maschili fermi e fieri di Baltazar in “Contadini”, 1907-09, gli stessi anni in cui dipingeva i quattro volti femminili già citati; prosegue prima della guerra con le immagini nei costumi tradizionali “Contadine in chiesa” di Ressue “Contadini da Abud” di Ion Theodorescu-Sion, 1911-13,  autore anche di “I pastori”, 1914-16  assorti e impettiti con il lungo bastone e le pelli di pecora, la divisa di una milizia secolare e “Composizione- Due contadine”, costumi tradizionali con la brocca dell’acqua in testa alla fonte, bella composizione su due livelli con tinte pastello. 

L’epopea della civiltà contadina prosegue negli anni 1925-26 con Stefan Dimitrescu in“Contadine a Saliste” ed Elena Popea in “Contadina con secchi”, una composizione sfumata che evoca il cubismo, più marcato nel “Ritratto di contadino”, 1931, di Maxy, che abbiamo già incontrato e ritroveremo ancora, essendo la mostra ordinata per temi e non per stili o autori, lo ripetiamo; in lui un ritorno alla tradizione e alla critica sociale dopo l’incontro con la metropoli moderna a Berlino.

Con l’“Interno contadino” di Ion Tuculescu si arriva al decennio 1940-50, si vede dall’ambiente non solo dignitoso ma quasi opulento per colori e arredi schizzati con forti pennellate. Nessuno dei quadri esposti dava il senso della vita misera e del lavoro duro dei campi, come nei quadri del “realismo sociale” dei pittori abruzzesi dell’800 della mostra “Gente d’Abruzzo”. Alle figure in costume tradizionale da parata folcloristica segue l’abitazione all’altezza di  questa sublimazione; vi accostiamo il “Matrimonio tartaro” di Magdalena Radulescu, degli stessi anni, una sorta di icona quasi di taglio religioso, con le cinque damigelle in costume che fanno corona alla sposa.

Tuculescu allarga l’orizzonte all’ambiente, fortemente caratterizzato da pennellate e colori violenti con il verde dominante nei due “Paesaggi” dell’inizio del  periodo:  hanno la figura umana in primo piano, con la casa e la vegetazione tagliata da una strada bianca, poi “Marina di Mangalia”, 1957, nel segno e nel colore intermittenti esprime la sua inquietudine e incertezza personale.

Fermo e incisivo è il tratto pittorico di Alexandru Ziffer, in “L’inverno sulla strada dei minatori” con il bianco prevalente, e “Il parco della scuola di pittura di Baia Mare”, con il verde dominante, tra il 1920 e il 1930, segni e colori ancora più decisi di quelli del primo Tuculescu.  Quest’ultima località ha ispirato pure Szolnay Sandor, in “Veduta di Baia  Mare”, 1927, in un forte giallo ocra.

Non è facile discernere dov’è l’utopia e dove la vera identità, passando dall’esaltazione della vita contadina all’idealizzazione dell’ambiente naturale.“Il venditore di tappeti”, 1926, di Francisc Sirato, dà un’immagine borghese dopo quella contadina, mentre le maschere di Michailescu  intitolate  “Motivi romeni”, 1934, danno il senso della tradizione.

Max Herman Maxy, Nudo disteso, 1928 

Angosce e sogni urbani

Nel cambiamento epocale dal mondo statico della civiltà tradizionale verso le forme moderne di un industrialismo dinamico e alienante si alternano speranze e delusioni, certezze e timori. Il riflesso di questi turbamenti  si trova nei tre “Ritratti maschili”di Eder, immutabili nel ventennio 1917-39; come nei due Autoritratti” di Phoebus, del 1942-47, simili nell’espressione, diversi nella forma.  

L’ambiente è reso da due dipinti prosecuzione l’uno dell’altro che riprendono dal basso la curva di un  ponte,  entrambi“Veduta di Resitia”, uno di Stefan Popescu, 1927, l’altro di Jean Al. Steriadi, 1947; e da “La notte delle acacie”, di Tuculescu, impressionista nel tratto e nei colori.

A questo punto c’era quasi una personale di Michailescu, già citato all’inizio. Si tratta di dipinti dai quali traspare  l’oscillazione stilistica di una forma che va verso l’astrazione. Infatti tra i figurativi “Dopo il ballo”, 1926, e “Sul balcone”, 1929, era esposto il metafisico“Interno di studio”, 1928; con dominanti grigio e  celeste; all’inizio degli anni ’30 evolve verso forme indefinite se non astratte senza dimenticare la figura umana ma incapsulandola in composizioni tra il cubismo e il surrealismo: così “Composizione” e “Un’anima è salita in cielo”, 1930,  realizzate tra “Natura morta”, 1929, e “La leggenda”, 1932, che estende il motivo onirico di “Composizione”. Con “Carro nero”, 1950-55,  supera il figurativo nell’impianto e nell’impasto cromatico del tutto nuovi.

Seguivano le opere di due artisti diversissimi nello stile e nei contenuti: i nudi femminili di  Pallady,  e le astrazioni coloristiche di Teutsch;poi dipinti anche su questo tema di Maxy e Brauner.

Theodor Pallady utilizza una gamma di colori raffinati le cui tonalità quasi immateriali sono ravvivate da bagliori luminosi; i motivi sono quelli della vita urbana, panorami e interni, anche autoritratti e nature morte. Erano esposti  4 “Nudi” di fattura simile sebbene realizzati tra il 1929 e il 1947, in interni chiusi con tende e suppellettili: si tratta, scrive Ioana Vlasiu, di “figure femminili sognanti, in un certo modo inaccessibili nel loro abbandono”,  è come compiere i “viaggi intorno alla stanza” di cui parla l’artista, “questo tipo d’immagini sono stati d’animo, metafore dell’interiorità” di marca simbolista. La giovane donna la troviamo nuda in poltrona e a terra con un libro, in piedi davanti alla toilette o distesa sul divano appoggiata a un’altra donna anch’essa nuda; è vicina e tangibile ma inafferrabile, come altri sogni urbani. Sul divano ricordiamo il “Nudo disteso” di Maxy, 1928, marcato nei colori e nell’atteggiamento; mentre “Paesaggio con nudo”, 1931, sempre suo, trascolora nei riflessi sull’acqua con un bell’effetto.

Di Hans Mattis Teutsch citiamo innanzitutto il diversissimo nudo di “Composizione”, 1929, proiezione in primo piano di una piccola figura femminile posta sul fondo, stilizzata ed elegante; si differenzia molto dai dipinti del 1915- 25 con tale titolo,  o intitolati “Fiori dell’animo” e “Pace”,accomunati dai colori violenti e contrastanti il cui effetto cromatico sembra esserne il soggetto.

“La  fiamma blu” di Brauner, 1934, con la sua atmosfera metafisica, resta il migliore sigillo al dilemma tra angosce e sogni, che spesso convivono perché il sogno non realizzato dà angoscia.

La fine del viaggio e il nuovo inizio

Arreca sogno o angoscia la fine del viaggio?  ci siamo chiesti nella visita alla mostra dinanzi al titolo della quarta sezione.  Possiamo rispondere oggi come allora che arreca angoscia se si intende il viaggio delle Avanguardie, perché è terminato quando con la fine della seconda guerra mondiale poteva divenire aperto e liberatorio. Ma venne l’oppressione comunista  dell’Unione sovietica,  si diffuse il “Realismo socialista” e si interruppe  la diffusione delle principali  correnti artistiche.

Tra i maggiori artisti delle Avanguardie alcuni,  come Michailescu e Pallady,  si ritirarono in silenzio, altri rimasero sulla scena artistica con atteggiamenti molto diversi: ci fu chi cercò di integrarsi nel “Realismo socialista” utilizzando i  rigidi modelli tradizionalisti prima rifiutati per le esigenze propagandistiche di regime; e chi, convinto dell’inizio di una nuova era, tentò di creare un nuovo modello di eroe a difesa di valori che l’artista in buona fede credeva autentici e da sostenere.

La mostra ne dava conto presentando opere che si inquadrano in questi due atteggiamenti. Per i neo-tradizionalisti il dipinto di Maxy, “Minatori al carrello”, 1945,  che riprende stereotipi di contadini ma quasi in dissolvenza; per i neofiti convinti il dipinto di Teutsch, “L’ammalata”, 1950, che scade in uno stile detto “realismo esanime”: i medici hanno lo sguardo più spento della malata.

In questo clima di disarmo stilistico e debolezza di contenuti irrompe  il vigore nella forma e la forza nei colori di Tuculescu, la cui pittura rilanciò i temi dell’Avanguardia senza rinnegare la tradizione  di cui utilizza il linguaggio simbolico perfino con forme arcaiche. Si vede in “C’era una volta” e in “Visione”, 1950-55,  pittura “potentemente oscura e drammatica”, e nel più luminoso e totemico “Alberi al sole”.  Di lui abbiamo già ricordato l’inquietudine e l’incertezza, ora vogliamo sottolineare l’energia, così descritta dalla Vlasiu: “La sonorità dei colori, la brutale irruzione del nero e la violenza gestuale delle pennellate  rendono drammaticamente allucinati gli strumenti della sua pittura.”.  Di qui è ripartita la pittura romena agganciandosi alla tradizione.

Ci permettiamo, dunque, di fare una aggiunta al titolo della quarta sessione, in analogia con gli ossimori delle altre sezioni. Con “la fine del viaggio”  delle Avanguardie c’è “il nuovo inizio” dell’arte.  Le immagini forti di Tuculescu legate alle radici popolari sono aperte al futuro.

Info

Catalogo  “I Colori delle Avanguardie. Arte in Romania 1910-1950”, a cura di Erwin Kessler, Gangemi Editore, settembre 2011, pp. 128, italiano-inglese,  formato 21 x 30; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo..

Foto

Le immagini della mostra sono state riprese all’inaugurazione da Romano Maria Levante, si ringraziano l’Ambasciata romena e “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia  con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura:  Camil Ressu, Funerali in campagna, 1911; seguono Corneliu Michailescu, La Madonna dei marinai, 1920  e Max Herman Maxy, Nudo disteso, 1928; in chiusura Victor Brauner, La fiamma blu, 1934. 

 Victor Brauner, La fiamma blu, 1934

Klee, 2. I suoi rapporti con l’Italia in 5 sezioni, alla Gnam

di Romano Maria Levante 

La mostra “Paul Klee e l’Italia”  espone alla Galleria nazionale d’Arte Moderna di Roma, dal 9 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013, circa 100 opere, di cui oltre 30 di Klee, e le altre di artisti italiani e stranieri raggruppate in 5 sezioni tematiche volte ad esprimere l’influsso dell’Italia sulla sua arte attraverso le opere esposte e l’analisi delle curatrici Tulliola Sparagni e Mariastella Margozzi che ne hanno dato conto nel Catalogo con saggi critici particolarmente approfonditi.  Le sezioni sono “Il viaggio in Italia 1901-02” e “Tra espressionismo e futurismo”; “Le vacanze d’artista 1924-32” e  “Gli anni della nostalgia. L’opera tarda 1934-40”. L’ultima sezione si intitola “L’Italia e Klee”.

“Mazzarò”, 1924

Dopo aver tratteggiato in termini generali lo stile pittorico di Klee e il suo percorso di vita e di arte, nel racconto della visita all’esposizione si possono evidenziare in modo particolare i rapporti con l’Italia. Infatti la mostra si articola in 5 distinte sezioni in cui sono collocate le 30 sue opere esposte insieme a quelle di altri artisti e degli ambienti da lui frequentati nel nostro paese.  Seguiremo questa ripartizione che consente di mettere in luce gli aspetti specifici della sua arte nei diversi momenti collegati all’influenza che ha avuto su di lui l’Italia con la sua cultura e la sua gente.

E’ bene premettere, come fanno le curatrici della mostra, che solo 100 delle opere di Klee sono riconducibili direttamente all’Italia, mentre il numero aumenta considerando gli effetti indiretti, come quelli legati all’archeologia e al classicismo della Magna Grecia da lui ammirato in Sicilia. Il “solo” si riferisce all’immenso suo “corpus” di opere, circa 10.000, e fa un certo effetto pensare che di Vermeer sono note meno di 50 opere, di cui 8 esposte nella mostra in corso in questo  stesso periodo alle Scuderie del Quirinale. Due grandi artisti, così diversi in tutto, così simili nella fama.

I riferimenti diretti riguardano soprattutto il paesaggio dei luoghi visitati, in particolare la Sicilia, mentre nei diversi viaggi ha toccato tutte le principali città artistiche, dal Nord al Sud d’Italia. Ma proprio questo aspetto accentua l’interesse: “In definitiva Klee non ha illustrato l’Italia, come non ha illustrato la Francia (altra meta ricorrente dei suoi viaggi) – affermano le curatrici della mostra e quindi la suggestione del nostro paese è da ricercare in un percorso interiore e di meditazione in generale sull’arte e sulla cultura italiane”; e nel rapporto con la gente italiana che “trova probabilmente riscontro nell’animazione teatrale delle sue figure”; un rapporto all’inizio di diffidenza, poi di ammirazione per un popolo dalla natura “potente e misteriosa al  tempo stesso”.

Le opere legate al primo viaggio in Italia (1901-02) e al futurismo

E’ un viaggio di formazione umanistica, con l’amico Haller, mentre quello di formazione artistica lo farà in Francia nel 1905. Segue l’itinerario di Buckhardt, che nel 1837 era entrato  dal Gottardo, per cui incontra per prime Milano e Genova; mentre Goethe – il suo “Viaggio in Italia” è un prezioso vademecum per Klee – era entrato dal Brennero visitando per prima Verona. Di Genova lo colpiscono l’impianto urbanistico e il porto, con la vita che vi si svolge, e il mare di notte. Visitata Roma farà delle comparazioni tra le due città,Genova drammatica, moderna  e visiva; Roma epica, storica, narrativa. Ma Napoli, pur “degenerata”, le supera entrambe per vitalità: “Napoli ha tutto: splendore e miseria, vita portuale e vita mondana, addirittura un pezzo di Roma, il Museo  nazionale. La sua natura è paradisiaca”. A Firenze lo colpisce la grande pittura rinascimentale e il Teatro della Pergola con due danzatrici famose, e anche la vita ben più tranquilla che a Roma.

Di questo viaggio sono rimasti alcuni disegni e schizzi con riferimenti espliciti in particolare a Roma: era ancora incerto sulla via da intraprendere  e cercava idee e motivi su cui lavorare innanzitutto sul piano teorico, come risulta dai “Diari”.  Dall’anno successivo al ritorno a casa si vedono gli effetti nelle “Invenzioni”, una serie di incisioni su zinco di carattere satirico create tra il 1903 e il 1905 ed esposte a Monaco nel 1906  al suo debutto artistico. Sono incentrate su 4 temi: la donna e l’artista, le relazioni sociali e la condizione umana. La mostra ne presenta alcune, dal tono fortemente satirico, le figure sono deformate e in atteggiamenti eccessivamente caricati.

Vediamo  “Vergine sull’albero”, figura contorta adagiata su rami altrettanto contorti e “Donna e animale”, figura eretta e rivolta all’indietro con la mano verso il muso dell’animale che la segue, slanciato come il levriero di cui fece lo schizzo a Roma. Poi“Comico”,  una testa allucinata  con casco e maschera e “Due uomini, reputando ognuno l’altro di rango superiore, s’incontrano” sprofondati in un inchino reciproco: qui oltre alla satira c’è il suo senso teatrale e il gusto per l’intitolazione. Sono tutti creati nel 1903 anche se “Donna e animale” e “Comico” vengono ultimati nel 1904. Del 1905 “Eroe con l’ala”, che lui stesso definì “un nuovo antico Don Chisciotte”, visto come simbolo della sua condizione sociale, nella figura immaginaria – monumentale ma mutilata – con le ali del mondo animale e la gamba arborea del mondo vegetale.

L’attenzione di Klee per il futurismo è un altro legame con l’Italia: non solo ne visitò le mostre, compresa la grande collettiva  del 1913 in tournée europea tra Germania, Francia e Olanda;  ma ne incontrò alcuni esponenti e  questo avveniva nella fase iniziale della sua ascesa artistica in cui, tra l’altro, scrisse “La confessione creatrice”. Conosceva l’impostazione futurista, radicalmente diversa dalla sua perché basata sul vitalismo e sul movimento, ma c’erano punti in comune nell’uso della linea. Così nel manifesto al pubblico dei grandi futuristi italiani, testo riportato sul catalogo della mostra in Germania: “Nella descrizione pittorica dei diversi stati d’animo di uno stesso tipo linee verticali ondulate, attaccate qui  e là a silhouette di vuoti corpi esprimono facilmente la nostalgia e la mancanza di coraggio. Linee confuse, sussultanti, rette o curve che si fondono con gesti appena abbozzati, di richiamo e di fretta, esprimeranno un’agitazione caotica  di sentimenti. Linee orizzontali, sfuggenti,  rapide e convulse, appena interrotte, che taglino brutalmente visi dai profili vaghi e lembi di campagne balzanti, daranno l’emozione plastica che suscita in noi colui che parte”.

Tulliola Sparagni, nel riportare questa citazione, ricorda che il critico Nordhausen “lo commenta ironicamente evocando una ‘misteriosa stenografia, una stenografia futurista del sentimento'”; e aggiunge che  “l’equivalenza del disegno come trascrizione immediata dell’emozione attraverso il movimento del polso era un tema assai vicino a Klee che già nel 1908 aveva teorizzato la linea ‘come zona originaria dell’improvvisazione psichica’”. L’assonanza è evidente, e già abbiamo visto l’importanza centrale della linea nelle sue opere. Sempre la Sparagni ne trae le conseguenze: “Sotto l’impulso delle scomposizioni cubiste e delle linee frammentate futuriste Klee abbandona le lunghe linee ricurve delle illustrazioni per il ‘Candide’ a favore di nuove ricerche lineari che privilegiano soluzioni appuntite e frantumate. Anche nei soggetti è possibile rintracciare un’eco, fors’anche ironica, del futurismo”.

Lo si vede nelle opere esposte, soprattutto acqueforti, nelle quali la linea ha caratteristiche di questo tipo, con un’associazione tra impressionismo, cubismo ed espressionismo, in qualche caso verso l’astrazione. Così “Piccolo mondo”, e “Astratto guerresco”, entrambi del 1914: nel secondo l’associazione della guerra all’astrazione la spiega lo stesso artista scrivendo nel 1915: “Tanto più è spaventoso questo mondo, come oggi, tanto più astratta è l’arte”.  Il motivo è il seguente: “In questo mondo in rovina vivo soltanto nel ricordo, siccome capita di pensare al passato. Perciò sono ‘astratto nei ricordi’”. La guerra mondiale era alle porte, eviterà il fronte e disegnerà nelle retrovie.

Non più astrazione ma figurativo essenziale con linee assolutamente dominanti, rette e spezzate in “Paesaggio con canale”, 1917, linee anche ricurve in “Suonatore di fagotto”, 1918. Dello stesso anno “Americano-giapponese”, alle linee si aggiunge una tonalità giallo pastello di fondo, che sarà più accentuata in “Scena fiabesca alla Hoffmann”, 1921.

Dalle linee si passa ai piccoli riquadri con esplosione di colori già nel 1919 in “Composizione urbana con finestre gialle”,  l’architettura futurista c’entra senz’altro come anche il viaggio in Tunisia in cui lo colpirono le case squadrate e colorate; ci piace pensare che alla svolta cromatica oltre che geometrica non fu estranea la reazione gioiosa alla fine della guerra.  In “Aiuola colorata”, 1923, vediamo una conferma di questa nuova forma espressiva: i fiori diventano tessere di vari colori e tonalità intense, il giardino una sorta di scacchiera colorata a tinte forti e omogenee.

“La raccolta dei limoni”,1937 

Le opere nelle “vacanze d’artista” (1924-32) e negli anni della nostalgia (1934-40)

Sono periodi molti diversi quelli delle due ultime sezioni cronologiche della mostra, prima di quella conclusiva sull’attenzione che l’Italia ha dedicato a Klee con particolare riguardo alla Gnam.

I periodi che sono definiti “vacanze d’artista”, riguardano i soggiorni estivi e i viaggi che la posizione acquisita  nel Bauhaus e il crescente successo gli consentivano; erano momenti di serenità dalle pressanti incombenze di insegnante che terminarono nel 1930 divenendo incompatibili con gli impegni artistici; gli anni della nostalgia vengono quasi in sequenza, sono quelli della fuoriuscita dalla Germania nel 1933 per la persecuzione nazista fino alla malattia e alla morte nel 1940.

Le sue vacanze, come quelle di altri artisti, avvenivano sulla costa baltica,  in località tipo Baltrum che già in passato avevano ispirato pittori, come Kirchner, autori di apprezzati paesaggi marini. E’  il 1923, ecco come Klee descrive l’ambiente: “Alberi non ce n’erano,  Piccoli giardini, profondamente nascosti nella sabbia. Montagne in miniatura e valli – dune e sempre una sabbia fine senza pace. La spiaggia era tutta per noi e offriva uno spettacolo impressionante”.  E aggiunge: “Il bagno però non era piacevole… di nuotare poi non se ne parlava”.

Anche per questo già l’anno successivo la sua vacanza si sposta verso le terre più calde della Sicilia, incurante della distanza, a dieci anni dalla sosta del 1914 rientrando da Tunisi; ci tornerà  nel 1931.

La vacanza del 1924 dura sei settimane  con soste all’andata a Genova e Napoli e al ritorno  a Roma, per nove giorni,  e a Milano per due.  E’ tutto preso dall’ambiente siciliano e dalla natura, come si vede dalle testimonianze pittoriche, mentre mancano quelle scritte, a differenza di altri viaggi come quello del 1901 in Italia e del 1914 in Tunisia. “Mazzarò”, 1924, intitolato alla località balneare più rinomata, ci mostra subito il luogo dove soggiornò, in uno stile figurativo con gli alberi e il villino, la giara e la vegetazione ben riconoscibili, sembra dipinto “in strada”. Così “La costa meridionale di sera”, 1925, ha una precisione quasi fotografica nella raffigurazione, i colori ci riportano al trasferimento notturno in nave tra Napoli e la Sicilia. In altri invece  torna alle sue astrazioni grafiche, lo vediamo in “Alberi coltivati”, 1924, dove case e alberi sono compenetrati, e in due acquerelli non in  mostra ma molto significativi, “Sicilia”  e “Paesaggio siciliano”, entrambi del 1924, fatti di tasselli dal cromatismo delicato con poche tessere che evocano visivamente case e vegetazione.  La linea torna dominante in “Con il serpente” – è curva per il rettile e la palma – e in “Facciata”,  un fitto intarsio di linee che disegnano finestre e arcate: sono entrambi a penna e inchiostro su carta. Un intarsio più raffinato di fregi in “Quartiere di ville ‘fiorentino'”, 1926, in un fondo dal cromatismo variegato e leggero. Fin qui nessuna figura umana, la troviamo in “Ritratto della signora P. al sud”, 1924, una  “bambolina” – titolo di un’altra sua opera – dai  tratti primitivi.

Nel 1931 è preso dai reperti della classicità, il nuovo viaggio diventa “archeologico”  alla riscoperta della Magna Grecia e di Bisanzio tra Agrigento e Siracusa, Gela e Ragusa, Palermo e Monreale. Era già stato nel 1926 a Ravenna, folgorato dai mosaici che lo avevano già interessato nel gruppo del “Cavaliere azzurro”, e lì il suo stile aveva preso un deciso orientamento “pointillista”, i suoi quadratini cromatici si erano ridotti a punti colorati vicini, come si vede in “Croci e colonne”, 1931. Nel 1929, invece, in “Costruzioni portuali” – il ricordo del porto di Genova – la penna  su carta segue una precisa grafica fatta di cubi e parallelepipedi; che aveva prodotto l’anno precedente, quella volta su fondo ocra di varie tonalità, “Prospettiva di città”, non in mostra.

C’è anche il soggiorno a Viareggio, tra spiaggia e pineta,  e a Venezia, tra i ponti e le calli. Vediamo esposto “Angolo di castello”, 1932, dove l’atmosfera veneziana si sente nei forti colori con insoliti contrasti che prevalgono sull’architettura, ridotta a sezioni cromatiche dalla geometria variabile. Infine “Arlecchino addormentato”, 1933, gessetti con  colori scuri e freddi, tema cui ha dedicato  acquerelli nel 1920-23 e prima della scomparsa nel 1940; qui la maschera è presa da stanchezza, simbolo delle preoccupazioni dell’artista nell’anno in cui il nazismo lo costrinse ad espatriare.

“Pesce asello del fango”, 1940

Gli anni definiti della nostalgia vengono subito dopo, tra il 1934 e il 1940. La nostalgia del Sud è nei diversissimi “Ulivo”, 1934, e “La raccolta dei limoni”, 1937; il primo un viluppo di linee arrotondate sul celeste, nel secondo invece, il ritorno dei segni grafici tra l’infantile  e il primitivo. Ancora segni in “Rannuvolato”, 1934, e “Foglio d’album per Y”;  mentre in “E’ ardente”, 1939, e “Pesce asello nel fango”, 1940, i segni diventano strisce nere su cromatismi opposti: caldo il primo, freddo  il secondo. “Sibilla”, 1934,  ricorda “Arlecchino addormentato” dell’anno precedente, però in un colore rossastro caldo con una scomposizione cubista.  Dedica altre grafiche  alla Sibilla, forse come retaggio del viaggio nel napoletano dove si trova l’antro della Sibilla cumana, e all’Inferno dantesco, con i 16 disegni di “Parco inferno”,1939,viluppi grotteschi di animali, vegetali e minerali; fino a “Torso ed i suoi con la luna piena”, dello stesso anno, il ritorno alla luce dopo le tenebre con i corpi abbozzati in forme stilizzate e mitiche.

Dalla luce sia pure lunare si torna nella penombra con “Un parco la sera tardi”, 1940: nel suo verde cupo con i pesanti volumi e il suo senso di oppressione rimanda alla meditazione sulla morte, Conclude la Sparagni: “Un parco solitario e deserto dove in breve apparirà l’immagine della morte è un dipinto incompiuto e senza titolo che Klee non ebbe il tempo di inventariare”.

L’Italia verso Klee, termina la carrellata di opere

L’ultima sezione  ripercorre i rapporti tra l’Italia e Klee sotto il profilo dell’attenzione riservatagli fino alla mostra alla Galleria nazionale d’Arte Moderna nel 1970. Si ricorda che fu la celebre rivista “Valori plastici”  – tra i fondatori  De Chirico e Carrà – a presentarlo nel nostro paese nel 1920.  Nel dopoguerra ebbe la piena consacrazione alla Biennale di Venezia del 1948, otto anni dopo la sua morte, con l’esposizione di una diecina di acquerelli di diversi periodi della vita artistica e di due opere della collezione del Guggenheim, la Galleria ne acquistò due, “Afide gigante” e “Con la lampada a gas”, ora esposti in mostra. Nel Catalogo,  così Giulio Carlo Argan parlava della sua tendenza all’astrazione: “La si raggiunge attraverso un processo interiore, cioè attraverso il superamento graduale e controllato della nozione storica e naturalistica”. La “sottile ricerca di Klee” veniva così descritta: “Trascrive nella dialettica di segno e colore, nel loro reciproco determinarsi, gli episodi della vita interiore”. Il pensiero torna al segno futurista nella pittura degli stati d’animo.

La Margozzi compie un’accurata rassegna delle attenzioni della critica italiana a Klee, ricorda anche la “Mostra didattica Klee” della Gnam tra l’ottobre 1959 e il febbraio 1960 e quella parallela al Goethe Institut, poi la pubblicazione del suo libro “Teoria della forma  e della figurazione” e dei  “Diari di Paul Klee” nel luglio 1960, fino a “Klee. Studio biografico-critico” di Nello Ponente nel 1968. Arriviamo così alla  grande mostra della Gnam nell’aprile 1970 con 136 opere della collezione privata del figlio dell’artista Felix, più 62 da un museo di Dusserdolf, 198 opere dal 1901 al 1940, l’intero arco della vita artistica.  Con accurata introduzione tematica di Palma Bucarelli.

Non aggiungiamo altro, se non il rapido resoconto delle opere esposte in questa sezione della mostra, quasi una summa della sua arte. Si va dalla grafica sottile di “Spiriti di galli”, 1919, a quella più elaborata di “Afide gigante”, 1920, a quella a sagoma di burattino in “Più liberamente in precisa ripartizione”.  Dai colori contrastanti ma leggeri di “Con la lampada  a gas”, 1915, si passa al cromatismo intenso e uniforme di “Festa notturna”, 1921; fino alle due opere più nette e definite, “Superscacco”, 1937, con forti contrasti tra le caselle della scacchiera, e “Mimica di uno sguardo”, 1939, il segno marcato per una tenera figura infantile tra volti da cui traspare tristezza.

E’ l’anno prima della morte, seguiranno altre opere, ma quest’ultima immagine con “Il parco la sera tardi” del 1940 dà il senso dell’addio: nell’ombra tenebrosa del parco da lui amato, ma con la tenerezza di uno sguardo timido e sereno, che sembra rifugiarsi nell’innocenza dell’infanzia,  tra gli occhi abbassati e la testa china di chi resta. Così l’abbiamo sentita al termine della visita, dopo l’immersione nella sua vita e nelle sue opere: in un’arte del tutto particolare, unica e coinvolgente.

Info

Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma, Viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica ore 10,30-19,30; la biglietteria chiude alle 18,45. Lunedì chiuso. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50 (cittadini UE tra 18 e 25 anni e docenti scuole statali); ridotto speciale solo mostre euro 7,00 (minori di 18 anni e maggiori di 65), Gratuito museo: minori di 18 e maggiori di 65 anni. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali,it/. Catalogo “Paul Klee e l’Italia”, a cura di Tulliola Sparagni e Mariastella Margozzi,  Electa, 2012, pp. 184, formato 21×27, euro 25; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito, in questo sito, il 1° gennaio 2013 con le immagini delle opere di Klee “Ritratto della signora P. al sud” e “Composizione urbana con finestre gialle”,  “Croci e colonne” e “Il Torso ed i suoi con la luna piena”.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Gnam. Si ringrazia l’Ufficio stampa della Galleria con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Mazzarò”, 1924; seguono  “La raccolta dei limoni”, 1937, e  “Pesce asello del fango”, 1940. In chiusura,“Mimica di uno sguardo”, 1939. 

“Mimica di uno sguardo”, 1939

6Artista, il concorso 2012, i vincitori del 2011, Moscardini e Fonassi, al Macro

di Romano Maria Levante

Un’occasione si presenta ai giovani artisti: visitare la mostra dei vincitori del concorso del 2011 e poter decidere per tempo di partecipare al nuovo concorso del 2012-13. L’occasione la offre l’iniziativa “6ARTISTA”, alla quarta edizione, con l’avvio del nuovo concorso avvenuto il 22 dicembre, dieci giorni dopo l’apertura, il 13 dicembre, della mostra delle opere  realizzate nel 2012  dai vincitori precedenti esposte nella sede romana di arte contemporanea, il Macro di via Nizza 138.I due eventi terminano entrambi in febbraio, il concorso scade il giorno 4, la mostra chiude il giorno 13; sono promossi da Civita con la Fondazione Pastificio Cerere per sostenere la crescita professionale di giovani talenti, italiani e stranieri, purché residenti in Italia. Il concorso è intitolato “L’arte che forma l’arte”, programma di residenze per giovani artisti; i vincitori del concorso 2011 sono Margherita Moscardini e Francesco Fonassi. Il racconto della visita alla loro mostra è preceduto dalle notizie sulla nuova edizione del concorso per i potenziali partecipanti, che hanno il tempo di farsene un’idea andando a vedere le opere dei due ultimi premiati esposte al Macro; e la vasta offerta espositiva di mostre speciali, anche etniche e rievocative,  cui accenneremo al termine.

Hiwa K, “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”, con a sin. l’artista

La nuova edizione del premio “6ARTISTA”

Il premio, più precisamente, ha “l’obiettivo specifico di offrire un’esperienza lavorativa e formativa qualificata ai giovani artisti italiani”. La nuova edizione è sostenuta dalla Camera di Commercio di Roma edalla Fondazione Roma ed ha un’apertura internazionale tale da rafforzare l’immagine della creatività italiana all’estero. Com’è avvenuto nelle edizioni precedenti verrà facilitato l’inserimento professionale nel circuito dell’arte contemporanea dei giovani artisti vincitori del concorso.

Nell’edizione attuale viene offerto ai due vincitori “un periodo di formazione di nove mesi caratterizzato da un’intensa attività di produzione, affiancato da lectures, studio visit, con galleristi, curatori e collezionisti”. La residenza è inizialmente a Roma, nella sede della Fondazione presso la struttura industriale dismessa del Pastificio Cerere, dove risiede il “Gruppo di San Lorenzo”, con studi d’artista, scuole di fotografia e attività culturali come mostre e iniziative per la città con riguardo agli studenti del quartiere di San Lorenzo, confinante con l’Università “La Sapienza”. Poi  tre mesi a Parigi, nella Cité Internationale des Arts – istituto che promuove l’internazionalizzazione delle arti con più di 300 studi d’artista – in un apposito “atelier” d’arte: in questo periodo, insieme al costante monitoraggio di esperti di Civita e della Fondazione, sono previsti incontri formativi con critici, galleristi, curatori. Al termine del periodo di residenza, con il coordinamento del curatore scientifico dell’iniziativa, viene realizzato un progetto espositivo presso uno spazio  romano, utilizzando un apposito budget. Per gli artisti vincitori è previsto inoltre uno stipendio mensile .

Sono ammessi al concorso i giovani artisti italiani o stranieri residenti in Italia, di età compresa tra i 21 e i 30 anni, compiuti alla data di chiusura del bando, formatisi sulle arti visive negli istituti italiani come Università e Accademie di Belle Arti, Danza, Teatro, Cinema, Conservatori e Scuole di Design. La selezione tra le domande presentate avverrà tenendo conto dei curriculum, da parte del Comitato scientifico composto da esperti di arte contemporanea in istituzioni pubbliche e private, rispetto ai seguenti elementi: “Per la capacità di utilizzare modalità espressive legate alla cultura contemporanea, per la qualità estetica delle loro opere, per il livello d’innovazione e sperimentazione del linguaggio espressivo usato, per l’originalità della ricerca artistica, per il valore della loro poetica, per la capacità di utilizzo dei diversi linguaggi in maniera trasversale”.

Il Comitato scientifico, presieduto da Marcello Smarrelli direttore artistico della Fondazione Pastificio Cerere, per l’edizione 2012 è composto da Ginevra Elkann presidente della Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino, Ilaria Gianni direttore artistico della Nomas Foundation di Roma, Federica Guida responsabile delle residenze a Parigi per gli Incontri Internazionali d’Arte, Luca Lo Pinto curatore, Nunzio artista, Bartolomeo Pietromarchi direttore del Macro di Roma.

Le indicazioni operative per la partecipazione al concorso e il materiale da utilizzare sono sul sito web “www.6artista.it“: Ci limitiamo a specificare che “il materiale dovrà essere consegnato entro e non oltre il 4 febbraio 2013, ore 17.30”, nella segreteria dal lunedì al venerdì dalle 9.00 – 13.00 e dalle 14.30 – 17.30. Viene precisato: “Non farà fede il timbro postale ma l’effettiva consegna”. La segreteria 6ARTISTA è presso Civita Servizi, piazza Venezia 11, 00187 Roma. Per informazioni: 6artista@civita.it; Chiara Caporilli, tel. 06 692050282; Pina Brancati, tel. 081 4976128.

Margherita Moscardini“1XUnknown”  un monolite

“Unknown” di Margherita Moscardini: volumi con video

Dalla burocrazia delle notizie sul nuovo concorso alla cronaca d’arte delle opere degli ultimi due vincitori, che espongono al Macro il frutto della loro formazione di “artisti in residenza” in una mostra curata da Michele D’Aurizio, “curatore in residenza” del 2012, perché anche l’attività curatoriale rientra nella formazione, anche rispetto al vasto programma espositivo della Fondazione.

Cominciamo con Margherita Moscardini, con “1XUnknown”, un’opera da scatole cinesi, che va aperta per esplorarne l’interno con la pazienza richiesta alla ricerca. La pazienza che ha avuto lei nelle sue peregrinazioni alla caccia dei resti del “Vallo Atlantico”, la linea difensiva lungo le coste dell’oceano dalla Francia alla Norvegia formata da migliaia di bunker fortificati. L’artista analizza a fondo questi particolari siti, scrive che “ogni bunker è un modulo architettonico senza ricerca estetica”, il cui sistema di produzione standardizzato “restituisce  figure archetipe, non localizzabili in alcun modo e tempo determinato”. Aggiunge: “Il processo erosivo a cui sono soggette le fortificazioni sembra realizzare il loro disegno progettuale: concepiti per mimetizzarsi nel contesto, i bunker dell’Atlantic Wall sono inizialmente sottoposti a camuffamenti macchinosi, modellati dall’azione del vento e delle maree che agiscono su di loro come sul paesaggio intorno”.

Le vede come “sculture” del tutto particolari, che “finiscono con il somigliare alla materia prima  estratta e impiegata nella loro edificazione: la sabbia, prelevata sul posto per la produzione del calcestruzzo”. E conclude: “Ma nonostante questa forma di appartenenza al paesaggio ogni bunker resta un monolite”. 

Il titolo “1XUnknown” è la convenzione adottata all’epoca per classificare i bunker della stessa batteria ma senza identificarne tipologia e funzione. La Moscardini nel resoconto della sua ricerca sul campo – è il caso di dire – descrive le spiagge battute dal vento ad una ad una, con i bunker nelle condizioni più diverse, più o meno interrati, alcuni  coperti di graffiti. Poi si sposta  al Parco degli Acquedotti di Roma dove trova altri monoliti  e alla Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi per consultare dagli archivi il “corpus” di grandi disegni architettonici di Boullée; a Bracciano in una cava di basalto nello stesso 2012, richiama anche le numerose esperienze degli anni precedenti.

Come viene riportato al Macro tutto questo lavoro? In modo poco appariscente, la sala che contiene i risultati non li esibisce in modo vistoso, vanno ricercati. Ecco come ne parla Marcello Smarrelli, il già citato direttore artistico della Fondazione e del Comitato scientifico selezionatore:”Margherita Moscardini ha ideato una serie di volumi che raccolgono video di monoliti, manifestazione di un interesse verso moduli architettonici che nonostante il loro carattere di estraneità al contesto hanno raggiunto un grado di appartenenza al paesaggio”. Appunto, i bunker erosi da sabbia e maree.

“Kollaps, Aufstieg” di Francesco Fonassi: un video enigmatico

Ancora meno vistosa l’opera di Francesco Fonassi, “Kollaps, Aufstieg” realizzata anch’essa nel periodo di formazione come “artista in residenza”: nella sala solo uno schermo che trasmette un filmato senza interruzione e un piccolo monitor a terra che in alcuni momenti aggiunge il suo video. La raccontiamo come l’abbiamo vista, entrando nella sala senza la minima conoscenza preventiva.

Come quando si entra a cinema a metà e si cerca di capire l’intreccio del film interpretando gli indizi in senso retrospettivo, così la vista di una donna in nero che emetteva suoni lamentosi in un ambiente disadorno ci ha fatto pensare a una storia di solitudine, calamitati da un’atmosfera di sospensione e ansiosi di vederne gli sviluppi fino all’epilogo. E quanto più si prolungava il triste lamento – così almeno suonava alle nostre orecchie ignare – tanto più cresceva l’attesa per un tempo non breve fino al cambiamento di scena, per immergersi in ambienti diversi tra loro e da quello iniziale. La donna entra in una galleria oscura con pietre aguzze che sporgono, si muove lentamente, è un tunnel da incubo nel quale il lamento ha risonanze profonde, va avanti, torna indietro, si cerca di capire cosa c’è alla fine del tunnel, forse la luce? In effetti la terza scena è “en plein air”, l’ossessione claustrofobica lascia il posto ad una opposta, ampi spazi aprichi con una collina verso la quale la donna si dirige muovendosi a zig zag, come se fosse incerta sul da farsi, avanza e torna indietro, senza una direzione precisa, entra nel campo visivo un gregge di pecore, si cambia scena. La donna torna al chiuso, questa volta in una stanza con dei pannelli alle pareti, sono del tipo fonoassorbente, è la chiave dell’enigma che ci ha tenuti in “suspence” per l’intero lungo filmato.

Il curatore Michele D’Aurizio, citando Daniel Birnbaum, scrive che “gli artisti ‘fanno mondi’, e tali ‘mondi’ sono tanto più immanenti, decifrabili, autentici, quanto più i sistemi simbolici sui quali si fondano sono ‘spontanei’, condivisi, tali da stimolare l’emersione di scenari di comunione, empatia e fiducia reciproca”. E aggiunge che “la ricerca di Francesco Fonassi è un esempio efficace di tale concezione della produzione artistica , in quanto l’artista si avvicina all’opera proprio in virtù della sua capacità di creare  uno ‘spazio spirituale'”. Perfino quando si crea l’equivoco del lamento di una donna nella solitudine mentre è una cantante professionista la cui voce serve alla ricerca sul suono che si svolge in diversi ambienti, in particolare nei cunicoli sotterranei della Piramide del Sole, rinvenuta nel 2005 a Visoko in Bosnia Erzegovina, e in un laboratorio di ricerca sul rumore.

Ed ecco, dopo la “storia” proveniente dallo spettatore ignaro, nella circostanza il cronista, nessuna ansia per un lamento che non è tale, ma altrettanta tensione: “Non si conta su di una voce, ma attraverso di essa. Tentare di osservarla nell’arco della sua estensione, riprenderla, sezionarla, testare la sua resistenza, evocarne lo spostamento e la variazione”. Dice anche: “Ambisco a vedere la voce impossessarsi dei luoghi  che andremo a sondare, disegnarne i confini, rintracciarne i punti cardinali, crollare”. E’ la visione scientifica dove si cercava di trovare del sentimento, perché si era creato quello “spazio spirituale” delineato da D’Aurizio. Una voce che evocava l’uno e l’altro,come la Piramide del Sole evoca qualcosa di ben più profondo che una mera cassa di risonanza acustica. Smarrelli scrive: “Fonassi ha condotto una ricerca sulla voce umana quale primo strumento  musicale dato all’uomo”; di qui la profondità  sonora e psicologica che rimanda  a epoche ancestrali.

La cantante protagonista, Letizia Fiorenza Sautter, ne parla con toni intensi:. “Il respiro che diventa voce mette in vibrazione tutto il corpo e lo spazio interno che a sua volta dà forma al respiro e conferisce alla voce il suo timbro, il suo colore, anche la sua qualità emotiva, implicita o esplicita che sia. Cantando lo spazio interno entra in risonanza con lo spazio esterno”. Dalla voce passa alla sua emissione: “Mettendoci in uno stato di raccoglimento possiamo percepire il movimento del respiro che non si limita ai polmoni, ma che pervade e coinvolge tutto il corpo, se questo glielo permette”, Tra l’inspiro e l’espiro, “la pausa è il momento del nulla, un nulla però ricco, carico dell’attesa del nuovo impulso vitale”.  Nel quale “nessun movimento, nessuna direzione e perciò assenza di tempo, minuscolo ‘nirvana’, ‘instant illumination’; uno spiraglio sull’eternità. Un attimo dopo lo squilibrio ricrea il movimento, la polarità, il flusso potenzialmente continuo che invece , a strappi e strattoni, è la nostra realtà”. E questi “attimi di completo equilibrio tra dentro e fuori”  vengono visti come “attimi di riconciliazione con il mondo”. Nei quattro ambienti l’impatto sonoro è del tutto diverso, com’è l’impatto emotivo nel vedere la donna che vaga emettendo suoni lamentosi alla ricerca di qualcosa che non si può capire prima di aver decifrato l’enigma. Ma in definitiva le parole della cantante fanno tornare allo spazio spirituale che ci ha preso come visitatori ignari ma resta intatto, sia pure con diversi significati, a enigma risolto.

Francesco Fonassi, “Kollaps, Aufstieg”, un fotogramma

Le sorprese del Macro di via Nizza

Andare al Macro per vedere le opere dei premiati  al concorso “6ARTISTA”  vuol dire entrare nel paese dei balocchi dell’arte contemporanea, uno spazio dove da ogni parte incalzano le sorprese, senza che ci sia nessun Mangiafuoco. Citiamo solo alcune mostre speciali, a parte quella in chiusuradi Turcato e le visioni pittoriche-luminose nella terrazza tra i tetti di Roma, la “Urban Arena”.

La prima è la ricostruzione, in un modulo di sabbia, di uno dei tanti componenti la cupola del Pantheon – il ben noto cassettone sagomato – fatta da un artista iracheno in “residenza” al Macro. Hiwa K ha composto sul pavimento una delle apposite “tessere” quadrate del soffitto dalla struttura leggera, nelle misure reali di tre metri di lato, ben più grandi di quelle visibili rimpicciolite dall’altezza; il tutto in base a uno studio accurato dei profili con metodi antichi, appena visibile nelle pareti. Il titolo dell’opera è “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”, a memoria della loro spoliazione dei bronzi del Pantheon fusi per fabbricare cannoni, oltre al Baldacchino dell’altare di San Pietro; fa un parallelo con lo stesso procedimento arcaico di fusione del bronzo, ma all’inverso, dell’iracheno Nazhad sui residuati bellici delle guerre del Golfo e di altri conflitti, di cui sono esposti esemplari. Un messaggio di pace e insieme di culto dell’antico, entrambi meritori.

Dall’antico all’esotico, nella sala Enel il “Secret Garden”, dal29 novembre 2012 al 10 febbraio 2013.Espone Pascale Marthine Tayou, l’autrice di “Plastic Bags”, l’installazione fatta di migliaia dei sacchetti ora banditi dai supermercati, al centro del cortile di ingresso, e di “Crazy Wall. The Red Line” della mostra “Neon”. Nel vastissimo ambiente è ricostruito un mondo etnico, pittoresco e affascinante, con l’intensa vitalità di colori e di forme anche primitive aggressive. Sagome scultoree in legno di grandi dimensioni, oggetti in gran numero di una cultura diversa dalla nostra che ci attira per la sua qualità artistica, oltre che per l’artigianato di eccellenza, tavole apparecchiate, tutto un mondo che si può toccare da vicino come se si fosse varcato il Mediterraneo per l’altra sponda.

Un’altra grande sorpresa per la sua  ampiezza e il suo contenuto, è la mostra “Ritratto di una città. Arte e Roma 1960-2001”, dal 29 novembre 2012 al 26 maggio 2013. Un vero “atlante visivo”, che si sviluppa lungo un itinerario fatto di oltre 50 opere d’arte e di una teoria di fotografie e manifesti, documenti e video lungo le pareti della sala più grande lunga 45 metri, che danno sostanza alla cronologia divisa per i singoli anni in un tragitto che ripercorre la nostra vita. Sono 40 anni di storia cittadina, non solo artistica ma anche culturale e di costume, in cui ciascuno può ritrovare tanti momenti vissuti e rimasti finora sepolti nella memoria, che riaffiorano con forza.

A questa associamo “Streets of Rome and Other Stories”, di Jimmie Durham, aperta nello stesso periodo, curata dal direttore del Macro Bartolomeo Pietromarchi, che presenta le sue opere più significative degli ultimi dieci anni, istallazioni, video e disegni, sulla città in cui è vissuto dal 2007  e a cui si riferiscono lavori come “Templum; il sacro il profano ed altro”.

Sono sorprese che ci hanno colpito in modo particolare quando siamo andati alla presentazione dei lavori dei giovani premiati in “6ARTISTA”, di cui abbiamo dato conto; non potevamo passare sotto silenzio queste altre esposizioni che rendono la visita al Macro quanto mai intensa e suggestiva.

Info

Macro, via Nizza 138, Roma. Da martedì a domenica ore 11,00-19,00, sabato fino alle 22,00 (la biglietteria chiude un ‘ora prima). Lunedì chiuso. Ingresso intero euro 12,50; ridotto 10,50 (per i residenti 1 euro in meno). Ingresso cumulativo con il Macro Testaccio, p.zza O. Giustiniani 4, intero 14,50; ridotto 12,50 (per i residenti 1 euro in meno). Tel. 06.671070400; http://www.museomacro.org/. Cataloghi: Fondazione Pastificio Cerere, Programmazione 2012, Postcard from… II Edizione, Pastificio Lab, 2012, pp. 80; 6Artista, testi di Maccanico, Smarelli, Dal Boni, Pietromarchi;  Kollaps, Aufstieg, di Francesco Fonassi, testi di D’Aurizio, De Bertolis, Sautter, Macioce, 2012, pp. 80; dai Cataloghi sono tratte le citazioni del testo.Foto 

Le immagini sono state riprese al Macro di via Nizza alla presentazione della mostra sui vincitori di “6ARTISTA”, si ringrazia Civita con l’organizzazione e i titolari dei diritti, soprattutto il Macro, per l’opportunità offerta. In apertura l’opera di Hiwa K, “Ciò che non fecero i barbari fecero i Barberini”, con a lato l’artista che ringraziamo di aver posato per noi; seguono immagini staccate dalle opere dei due premiati a “6ARTISTA”, la foto di un monolite da “1XUnknown” di Margherita Moscardini e un fotogramma da “Kollaps, Aufstieg” di Francesco Fonassi; in chiusura un’immagine da “Secret Garden”,di Pascale Marthine Tayou.

Pascale Marthine Tayou, “Secret Garden”,un’immagine

Abate, le foto a Carmelo Bene, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Al Palazzo Esposizioni di Roma, dal 4 dicembre 2012 al 3 febbraio 2013, la mostra “Benedette foto! Carmelo Bene visto da Claudio Abate”, 120 fotografie di 10 spettacoli del grande uomo di teatro,  “Cristo ‘63” e “Salomè da e di Oscar Wilde”, “Faust o Margherita” e “Pinocchio ‘66”, “Il Rosa e il Nero” e ” Nostra Signora dei Turchi”,  “Salvatore Giuliano” e “Arden of Feversham”, “Don Chisciotte” e “Salomè”, per l’ultimo tutto a colori, per gli altri il bianco e nero con poche eccezioni.

Carmelo Bene in “Faust e Margherita”

Un grande fotografo che ha scelto l’arte e un grande uomo di teatro che ha scelto l’invenzione continua ed esasperata fino alla trasgressione: dal loro incontro è nato un “corpus” fotografico di tremila scatti, il fondo di Claudio Abate dedicato al teatro di Carmelo Bene, dal quale sono state selezionate le 120 immagini della mostra al Palazzo delle Esposizioni, curata da Daniela Lancioni con Francesca Rachele Oppedisano.  Che presentano una caratteristica: non sono soltanto immagini del teatro, sono teatro esse stesse; non si limitano a riprodurre momenti toccati dall’arte, sono arte esse stesse con una propria autonomia, che prescinde dalla loro origine documentaria.

L’incontro tra il fotografo d’arte e il mattatore nel teatro d’avanguardia

L’arte fotografica è stata indubbiamente aiutata dall’arte teatrale: le scene di Carmelo Bene, secondo Claudio Abate, presentavano “grandi squilibri e grandi differenze tra il buio  e le luci”, peculiarità valorizzata dalla maestria del fotografo: “Ma questa oscurità – scrive la curatrice della mostra Daniela Lancioni – tradotta in fotografia diventa qualcosa d’altro. Il nero che avvolge le figure, e che la stampa analogica restituisce in tutta la sua brillantezza, sembra svolgere la stessa funzione dello sbalzo d’oro o d’argento che nelle icone bizantine isola e magnifica i volti sacri”.

Nascevano così delle sacre rappresentazioni anche nei temi profani, mentre quelli sacri erano percorsi da ardite trasgressioni, che nel caso di “Cristo 63” portarono all’incriminazione di Carmelo Bene, poi prosciolto per la prove a favore costituite dalle fotografie scattate con il flash da Abate su una scena, definita “delirio destruens”, che in teatro era stata oscurata spegnendo le luci per sottrarla alla vista del pubblico. Una sezione della mostra espone 9 preziose fotografie del 1963 recuperate da un foglio di provini a contatto scampato dal sequestro della magistratura che chiuse il “Teatro Laboratorio” il primo giorno, il 4 gennaio. Il titolo ripete l’esclamazione dell’autobiografia “Il  Cristo che fui”: “Benedette foto! Causa della mia assoluzione per non aver commesso il fatto”.

Si tratta di immagini da “reportage”, cosa che Abate non gradiva preferendo la fotografia d’arte con pose studiate. Diceva che a teatro occorre attendere due “possibilità”: “Prima si individua la scena che piace, poi bisogna stare attenti che i personaggi non si muovano più di tanto”. 

Nel caso di “Cristo 63” l’emergenza lo portò a scatti improvvisati, perciò le foto sono meno curate delle altre, ma hanno il pregio di documentare un evento irripetibile. Ci sono la mangiatoia e il crocifisso, nonché la nudità sotto la cintola dell’apostolo Giovanni che fu il vero protagonista dello scandalo teatrale con atti ritenuti sacrileghi in particolare verso l’Ultima cena e comunque osceni e scurrili verso il pubblico; Carmelo Bene impersona Cristo che nell’indifferenza della gente alla fine cerca di crocifiggersi da solo. Al finale si arrivò per le richieste del pubblico dopo l’oscuramento e l’interruzione per l’offesa al’ambasciatore d’Argentina seduto in prima fila nel piccolissimo teatro in un’ex falegnameria, dove il pubblico veniva “maltrattato” per scelta anche con lunghe attese.

Il fotografo che gli avrebbe portato le foto “a discarico” aveva incontrato 4 anni prima l’attore quando era ventiduenne, esattamente nel 1959 in un bar romano tra Piazza di Spagna e Piazza del Popolo, ritrovo di artisti della vicina via Margutta e nottambuli. Abate aveva solo 16 anni ma già aveva aperto uno studio fotografico in via Margutta, frequentava Pericle Fazzini e lavorava per lui e  altri scultori e pittori. Si serviva delle luci esistenti per non alterare le condizioni nelle quali l’opera  era stata realizzata; continuerà a farlo coerente con il suo rispetto dell’autenticità dell’immagine.

Solo nel 1963, a quanto si conosce, con “Cristo”  cominciò a fotografare il teatro di Carmelo Bene, in un periodo in cui questa forma di spettacolo attraversava un periodo felice, come espressione di  libertà e nello stesso tempo di adesione alla realtà.  Venivano rotti schemi e convenzioni: all’estero con il “Living Theatre”, che abbattendo le barriere tra palco e platea intendeva fare lo stesso tra arte e vita; in Italia con  la “scrittura scenica”, secondo cui la scena aveva il rilievo assoluto  come “immagine-azione”,  lo scrisse Giuseppe Bartolucci, lo mise in pratica Carmelo Bene.  Abate cominciò a fotografare il teatro da indipendente vendendo le immagini alla rivista “Sipario”.  Nel 1969 fotografò il mitico “Living Theatre” a Roma realizzando effetti di sovrimpressione in un rullino con doppia esposizione che rese la scena ancora più affollata ed evidenziando in tal modo la filosofia di questo teatro in cui gli attori si confondevano con gli spettatori per sollecitarli.

Nel rispetto dell’ambiente, e avvicinandosi in questo alla logica del “reportage” per altro verso, fotograferà gli spettacoli teatrali con la Leica senza cavalletto, per essere più libero nelle inquadrature e non dare fastidio nei piccoli teatri; data la semioscurità usava tempi di posa prolungati, fino a un quinto e un ottavo di secondo, e portava la pellicola a 3000 ASA. I sui servizi li farà di norma con il pubblico per rendere l’atmosfera dell’incontro con gli spettatori. Sviluppava, stampava e ritoccava le fotografie manualmente la sera stessa per vedere subito i risultati, e poterle esporre nelle vetrine del teatro il giorno dopo. Anche qui agiva senza volerlo come un “reporter”!

Che dire di Carmelo Bene, il soggetto prediletto dell’arte fotografica di Abate?  Ad introdurne la figura bastano le parole di Jean-Paul Manganaro: “I numerosi episodi che riferiscono della beatificazione e dell’agiografia di C. B. riportano, al di là della sua precocità nel fatto teatrale, di una forma estrema d’aristocrazia che sconfina con un certo dandismo, che diventerà col tempo aristocrazia d’artista”. Non era interessato  alla realtà umana nella sua essenza profonda, ma alla posizione dell’uomo, quindi alla sua “messa in scena”, che viene spiegata così: “Le modalità del vivere non sono che un’‘illusione’ di cui il corpo  è situazione  e luogo – il tempo  e lo spazio, se si preferisce – cioè la scena. Solo quest’ultima è irriducibile, il resto è e diventa il ‘resto’, ovvero la banalità di ogni biografia”. Per finire: “La scrittura, la poesia e qualsiasi altra forma non sono più che funzioni subalterne, piegate a quest’invasione totale della scena, e del teatro, al fine di farne risaltare la funzione principale – perché la più illusoria e inafferrabile – ovvero l’attore”. Di qui il suo protagonismo assoluto, come il titolo impagabile del suo libro “Sono apparso alla Madonna”.

Aveva fatto bene Abate a individuare in lui il mattatore della scena a cui dedicarsi nell’intero decennio 1963-1973. Lo fa negli spettacoli sempre a Roma, in diversi teatri fino al “Teatro Carmelo Bene” che fu un  approdo per il grande artista. Di eccezionale è proprio la scena, dove si sviluppa la ricerca costante delle forme e del loro apparire, tra luci e ombre caravaggesche, mentre la “macchina attoriale” recita con una voce modulata da strumento musicale nei falsetti e nelle variazioni tonali: Un sigillo inconfondibile, un “unicum”! Come è un “unicum ” la rappresentazione delle fotografie di Abate, un’autentica reinterpretazione di un teatro e di un mondo da ricordare.

Carmelo Bene con Ornella Ferrari in “Il Rosa e il Nero da di a G. M. Lewis” 

Salomè di Wilde, Faust e Pinocchio

Dopo il primo “servizio”  su “Cristo 63” – di cui abbiamo ricordato la storia tutta particolare, con immagini di grande intensità scattate in condizioni di emergenza e recuperate dopo il sequestro – ecco nell’anno successivo “Salomè da e di Oscar Wilde” al Teatro delle Muse dal 2 al 10 marzo 1964 che lui definì “partorita da spensierata sofferenza”. Una scena affollata di oggetti e ospiti come in una festa, la protagonista una “bambina caratteriale, volubile, ninfomane” e capricciosa  con l’ossessione di volere in dono la testa del Battista. Nelle 5 immagini esposte, sul nero del fondale spicca Carmelo Bene come Erode con la testa coronata e, di volta in volta, Vincenti nei panni di Erodiade e la Scerrino come Salomè. Franco Citti interpreta Jokanaan, suggestiva l’immagine in cui lui a torso nudo e Carmelo Bene in casacca scura sono ripresi in primo piano fino alla cintola con una lampada bianca sopra la testa di Citti che proietta la luce sulla sua figura.

Trascorrono quasi due anni, dal 3 al 30 gennaio 1966 va in scena al Teatro dei Satiri “Faust o Margherita”, le 7 immagini di Abate devono rendere “un Faust ispirato ai fumetti. Mefisto era l’Uomo mascherato. Un disgraziato a cui non gliene va bene una”, sono le parole di Franco Cuomo  che collaborò con Carmelo Bene nella scrittura del testo. Non vendeva l’anima al diavolo, lo aveva già fatto, cercava di riaverla indietro dando in cambio Margherita che lo amava ignara.  E’ esposto un primo piano del viso allucinato di Carmelo Bene come Faust, poi immagini tagliate oblique alla Rodcenko, eccezionalmente riprese durante le prove nella sua abitazione mentre abbraccia un manichino; ci sono poi  Lydia Mancinelli in Margherita, che ritroveremo in tutti gli spettacoli,  e Tempesta. Non sono le abituali foto durante lo spettacolo con il fondale scuro, il taglio delle luci e le altre suggestioni di una ripresa da foto artistica, a parte il viso allucinato di Faust; ma hanno un valore documentario anche per la presenza di inquadrature dal taglio inconsueto. Su un’altra immagine di scena la Lancioni osserva che “il bacio tra Faust e Margherita è un’apparizione che il nero tutto intorno fa lievitare”, e “risucchia” il vestito di lei in uno dei noti effetti caravaggeschi.

Dal dramma alla favola si passa dopo solo un mese e mezzo con “Pinocchio ‘66” al Teatro Centrale, dal 17 marzo al 20 maggio 1966: la parola nella forma spontanea popolare con scarsa aderenza alla sintassi diventa un teatro in cui si rovesciano i valori tradizionali. In primo piano vanno quelli del burattino che difende i diritti dell’infanzia rispetto agli schemi perbenistici dei doveri da libro Cuore. E come in De Amicis si celebra la morte del ragazzo per la patria, così il finale di “Pinocchio” segna la morte della fanciullezza nel tripudio generale. E’ un momento fondamentale  nel teatro di Carmelo Bene che diceva: “Tutti i miei spettacoli sono versioni di un Pinocchio, anche Amleto”. In una delle 8 immagini esposte la Lancioni ritrova l’effetto notato nel “Faust”: “Pinocchio compiange i suoi piedi bruciati, risucchiati nella fotografia dal nero che li avvolge“. Le altre sono spettacolari, alcune con l’insolita coloritura in rosso di Carmelo Bene come Pinocchio dal lungo naso posticcio: il fondale è nero, la luce punta sull’icona del burattino. Sono in bianco Florio nei panni di Geppetto, Mezzanotte come Lucignolo  e la Mancinelli nella Fatina dai capelli turchini. Pinocchio torna ragazzo con un Carmelo Bene giovane compunto tra i tricolori.

Carmelo Bene con Margherita Puratich in “Nostra Signora dei Turchi

Il Rosa e il Nero, Nostra Signora dei Turchi e Salvatore Giuliano

Con “Il Rosa e il Nero da di a G. M. Lewis”, versione teatrale n. 1 da “Il Monaco”, al Nuovo Teatro delle Muse dal 7 al 31 ottobre 1966, il teatro innovativo di Carmelo Bene prende quota come “sfogo dell’inconscio”, ma dietro il disordine apparente c’è, nelle sue parole, un “disegno geometrico” che emerge all’improvviso mantenendo al suo interno “spazi irrisolti molto ampi”.  Per cui ne sottolinea involontariamente gli intenti espliciti  – lo sradicamento dalla realtà quotidiana – la critica che lo accusa di essere un “collage di brani letterari sconnessi e incomprensibili”: Ennio Flaiano parla di un insieme convulso di “travestimenti, pratiche magiche, incesti, matricidi, processi, appuntamenti notturni, apparizioni di fantasmi”. Ebbene, le 13 fotografie di Abate rendono l’atmosfera in cui – come scrive Carmelo Bene – “la luce filtrava attraverso gli spiragli di due portali a lato del boccascena come se ogni scena fosse spiata da qualcuno. Lame di luce come sguardi umani”. Effetti speciali ottenuti con l’accorgimento di non mettere in sala alcun riflettore. Le immagini sono di un classicismo elegante e raffinato nelle figure con ampio panneggio da statuaria antica di Carmelo Bene come Ambrosio con la Mancinelli come Matilda o con la Monti come Agnese e la Ferrari come Antonia, il bacio con quest’ultima sembra una statua di Canova. E in volti in primissimo  piano dei protagonisti con forti chiaro-scuri che ne marcano i connotati e anche con perline colorate che, secondo Manganaro, “li squamano, conferendogli qualcosa di animalesco”.  Sono immagini ravvicinate riprese nelle prove, solo così i visi potevano essere isolati dal resto.

Dopo soltanto un mese, dal 1° dicembre 1966 al 16 gennaio 1967, al Teatro Beat 72, “Nostra Signora dei Turchi”, che ripeterà 6 anni dopo dal 10 ottobre al 4 novembre 1973.  E’ l’opera in cui l’arte di Carmelo Bene si esercita sui tre versanti della scrittura, del teatro e del cinema. Ugo Volli, nell’introdurre la riedizione del libro, lo considera “una grande metafora del teatro, di quell’impasto di follia, imbroglio consapevole, destrutturazione della realtà, ironia, ciarlataneria, trucco  esplicito e magia che è il teatro secondo Carmelo Bene”.  Lo spettatore è sconcertato dall’assenza di trama, secondo la coprotagonista Mancinelli “l’idea centrale è quella di una quarta parete, chiusa, in vetro, oltre la quale il pubblico spia”. La documentazione fotografica è ricca di 16 immagini soprattutto di Carmelo Bene con la Mancinelli come santa Margherita, in primi piani intensi e riprese da lontano, sempre nella caratteristica immersione nel buio sottolineata dalla Lancioni: “Il nero isola ed esalta il bel volto di Lydia Mancinelli in alcuni scatti”.  Ce ne sono alcuni a colori, straordinario quello in cui Carmelo Bene si china sul corpo nudo di Isabella Russo distesa su un letto dalla coperta celeste con la testa reclinata e le braccia che si aprono all’indietro come in croce.

Scarna ed essenziale la foto story di “Salvatore Giuliano. Vita di una rosa rossa”,  al Teatro Beat 72  tre mesi dopo, dall’11 al 18 aprile 1967.  Carmelo Bene è regista e voce fuori campo mentre Giuliano è interpretato in scena da Luigi Mezzanotte e la madre da Lydia Mancinelli. “E’ la prima volta che allestisco uno spettacolo senza cambiare una virgola dal testo”, dice lui stesso; mentre Nino Massari, che lo ha scritto dopo una ricerca di sette anni, aggiunge: “E’ spettacolo e basta. Ma è anche uno spettacolo che vuole rompere  con certi miti su questo ‘eroe’alimentati dai giornali. I rischi sono molti, l’unica garanzia che ho è l’autenticità della mia documentazione”; i giornali creatori del mito Giuliano sono chiamati “detriti di una alluvione di notizie futili e durevoli”. Una normalizzazione del teatro di Carmelo Bene su un testo non suo? Tutt’altro, se la critica sottolineerà “una gran concitazione di ‘a solo’, di duetti e terzetti con frequenti attacchi epilettici del fuori legge e assiduo martirio per le orecchie degli spettatori percosse così dal dialogo diretto come dalla sua registrazione su nastro, tra reciproci rinforzi e interazioni”, Carmelo Bene è sempre lui. Nelle 5 immagini i protagonisti sulla scena si muovono in fondali con i giornali dai titoli forti ed esaltati.

Arden, Don Chisciotte e Salomè a colori

Da un dramma inglese del 1500, “Arden of Feversham”, dal 13 al 28 gennaio 1968 nel nuovo “Teatro di Carmelo Bene”, descritto dalla  critica come “una cripta avvolta nell’oscurità”.  L’artista descriverà la storia imperniata sulla crisi del pittore Clarke come una “pattumiera  deprimente, ossessiva e traboccante di passioni, amorazzi, tradimenti coniugali e delittuosi”. Le citazioni di Oscar Wilde, Schopenhauer  e di Schiller rendono la problematicità dei rapporti tra soggetto e oggetto, spazio e tempo, tale che Carmelo Bene arriva ad affermare che con lo spettacolo si è verificata l’impossibilità del teatro “e dell’unica possibilità rimasta di raccontarne l’impossibilità”.  Delle 11 immagini esposte 4 sono primi piani di volti, c’è una statuaria Kell come Susanna e – per la Lancioni – “in una foto in posa, la stessa Lydia Mancinelli, ieratica, con il volto tagliato da una lamina di luce, si scaglia sul nero del fondo”. In un’altra scena “l’accoppiamento tra la giovane donna dall’incarnato latteo (Lydia Mancinelli) e il vecchio canuto (Franco Gulà) affiora con diamantina incisività dal buio della scena”. I contrasti luminosi sono prodotti con un cono di luce che penetra da uno spiraglio a destra del palcoscenico e in un’immagine “coglie e rivela l’affinità della scena con quella dipinta da Caravaggio nella Vocazione di san Matteo“. Il massimo dell’arte!

Nello stesso 1968, dal 26 ottobre, nel Teatro Carmelo Bene, è in scena “Don Chisciotte”,  liberamente tratto da Cervantes in collaborazione con Leo De Berardinis. La critica restò delusa non trovandovi la dissacrazione né la “geniale carica di irriverenza”, ma una “esasperazione fonetica”  con interpreti che “masticano  triturano e salivano e inghiottono”, in uno “spettacolo-concerto-narrazione” ridotto a “pura concitazione verbale”.  Si è trattato di un “racconto di piazza alla maniera popolare” , secondo Faldini, nel “confuso accavallarsi delle due parti narrate da Leo e Bene”, il primo sul piano musicale, il secondo sul “bestiale farfugliamento della ragione che alla razionalità tende con tutte le sue forze”. Le 4 immagini esposte sono spettacolari, una rende la scena in campo lungo,  le altre in pose ravvicinate della Colosimo e D’Arpe con un primo piano di Carmelo Bene come Don Chisciotte, colto con gli occhi spalancati  e la  bocca aperta.

Infine la nuova “Salomè” cinematografica, un lungometraggio del 1972, in seimila inquadrature. Le fotografie esposte sono diapositive a colori, circa 20 sulle 500 presenti nella raccolta di Abate dopo le copiose vendite ai giornali data la presenza delle top model del momento Veruschka e Donyale Luna. Piacque ai pittori De Chirico e Turcato oltre a Flaiano ed Arbasino, il regista vince la “scommessa del colore”. Così parla la Lancioni delle foto di Claudio Abate: “Restituiscono con generosità il tripudio di piume, di fiori e piante finti, dei vetri colorati e dei metalli di cui son fatti bicchieri, coppe, vasi e vassoi, delle mani ingioiellate, dei capi coperti dai cilindri inghirlandati, dei volti trasfigurati dalle maschere mosaicate di bigiotteria, tutto espresso con un registro di toni che eccedono per intensità e brillantezza quelli che generalmente percepiamo a occhio nudo”. In questo caleidoscopio spiccano i corpi nudi di Verushka e Donyale Luna come delle opere d’arte.

E’ una sorta di batteria pirotecnica finale multicolore nei fuochi d’artificio, prima in bianco  e nero, della mostra di Claudio Abate. Abbiamo ripercorso, con le sue fotografie, il tragitto del teatro di Carmelo Bene cercando di rendere alcuni dei motivi prevalenti dei suoi spettacoli, la cui complessità e problematicità non può essere neppure sfiorata. Ulteriore merito della mostra è aver consentito questo tuffo nel recente passato in un’arte teatrale d’avanguardia, unica e irripetibile.

Info

Palazzo delle Esposizioni, Roma, Via Nazionale 194, domenica e da martedì a giovedì ore 10,00-20,00, venerdì e sabato 10,00-22,30, lunedì chiuso. Ingresso intero euro 12,50, ridotto 10,00,  consente di visitare tutte le mostre in corso nel Palazzo Esposizioni, come la contemporanea  “La via della seta”. Biglietto integrato con le Scuderie del Quirinale; intero euro 20,00, ridotto 16,00. Prenotazioni 06.39967500, scuole 848082408. Info.pde@palaexpo.ir, http://www.palazzoesposizioni.it/.

Catalogo “Benedette foto! Carmelo Bene visto da Claudio Abate”, a cura di Daniela Lancioni con Francesca Rachele Oppedisano, Skirà, novembre 2012, pp. 128, formato 24×24 cm; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  

Foto

Le immagini sono state riprese nel Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, con l’organizzazione e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura Carmelo Bene in “Faust e Margherita”; seguono sue immagini con Ornella Ferrari in “Il Rosa e il Nero da di a G. M. Lewis”, e con Margherita Puratich in “Nostra Signora dei Turchi“; in chiusura Carmelo Bene con Veruschka in “Salomè”.  

Carmelo Bene con Veruschka in “Salomè”

Klee, 1. La sua arte e l’Italia, alla Gnam

di Romano Maria Levante

Alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, dal 9 ottobre 2012 al 27 gennaio 2013, la mostra “Klee e l’Italia” espone circa 100 opere, di cui oltre 30 di Klee, e le altre di artisti italiani e stranieri come Kandinsky e Nagy,  Licini e Soldati, Perilli e Novelli, per non parlare dei reperti classici. La mostra segue i percorsi dei suoi viaggi in Italia analizzando l’influenza ricevuta in quattro momenti della sua biografia artistica, nel tempo e negli stili pittorici, che corrispondono ad altrettante sezioni della mostra curata da Tulliola Sparagni e Mariastella Margozzi.  Produzione e comunicazione: Civita, Arthemisia, “24 Ore Cultura”, Electa,  editrice del Catalogo. 

“Ritratto della signora P. al  sud”, 1924

Una mostra su Paul Klee è un evento – quella precedente c’è stata sempre alla Gnam 30 anni fa, organizzata da Palma Bucarelli – e lo è in particolare questa per l’accurata ricerca su cui si basa, volta ad esplorare i suoi percorsi italiani in modo da approfondire l’influenza del nostro paese nell’evoluzione della sua arte. Non si è trattato di mettere insieme le opere riferite esplicitamente all’Italia, non ce ne sono se non per i paesaggi siciliani; ma di tracciare un itinerario artistico legato ai ripetuti viaggi di Klee nella penisola in alcune fasi cruciali della sua vita, fin dal 1901 a 22 anni.

La linea senza peso, elemento tipico della sua arte

L’arte è legata alle esperienze personali e agli ambienti dove l’artista è vissuto e si è mosso. Per Klee l’atmosfera provinciale che lo circondava non è estranea alla sua pittura semplice e minuta,  cui il cubismo doveva dare l’occasione per fare a meno della profondità prospettica e sfruttare appieno la superficie piana liberandosi dal vincolo naturalistico.  Lo aiutarono in questo affrancarsi dall’arte rinascimentale ed europea i contatti con la pittura francese d’avanguardia, che accettava forme d’arte diverse e con l’arte africana ed islamica nei suoi viaggi nel Mediterraneo, in Tunisia.

Da questa apertura la gamma dei segni, ideogrammi e geroglifici per comporre le sue figurazioni  fatte di linee con divisioni e interruzioni senza dare corpo alla forma né marcare contorni.

E’ la linea l’elemento leggero che dà sostanza senza avere peso, collega e divide, allaccia e scioglie; lui la utilizza come nell’arte primitiva facendosi portare dal segno e passando dallo scarabocchio all’immagine in un processo spontaneo, ben diverso da quello espressionista.

Così lo descrive Clement Greenberg: “Egli incominciava a disegnare senza avere in mente alcun soggetto preciso, e lasciava che il segno si muovesse spontaneamente  finché non era colpito, il segno stesso, da accidentali rassomiglianze; a questo punto tali rassomiglianze potevano essere sottolineate, elaborate. Una rassomiglianza, magari, ne suggeriva una seconda; la seconda una terza, e così via.  A poco a poco l’artista scopriva il soggetto, la scena o l’aneddoto, e con essi il titolo del dipinto”. Soltanto negli ultimi anni “la linea perde l’antica spontaneità calligrafica, diviene più pesante e ferma, è condotta in maniera stilizzata”, anche per la malattia, e spesso è “soltanto e gravemente ornamentale”.

Nella mostra un’apposita sala è stata adibita all’applicazione da parte dei visitatori di questo metodo creativo, con due postazioni, una per adulti, l’altra per bambini, nelle quali si producono disegni alla Klee. Tutto questo facendosi portare dalla linea nel disegnare figurazioni che assumono un significato quando si determinano e rivelano assonanze e somiglianze fino a dar luogo a composizioni degne di essere esposte al pubblico. Le pareti sono ricoperte dei disegni così ottenuti.

Il risultato raggiunto da Klee è un’arte intima e privata,  che si apre alla comunicazione semplice ma ricca di contenuti, li vediamo anche nei titoli tanto elaborati quanto i soggetti sono essenziali. Non manca una vena d’umorismo  e di ironia però senza cinismo o nichilismo: “Lungi dal costituire una protesta contro il mondo – è ancora Greenberg – la sua arte è un tentativo di adattarlo a sé; prima lo respinge; poi, dopo averlo reso innocuo mediante la negazione, lo richiama amorosamente. Non dimentichiamo che l’ironia di Klee  non è mai amara, mai spietata”.

La fase iniziale con il primo viaggio in Italia

Come si inseriscono i viaggi in Italia nel percorso esistenziale ed artistico di Klee?  Basta ripercorrere  le principali fasi della sua vita per metterne a fuoco il ruolo e l’importanza.

I suoi precoci interessi andavano dal disegno alla musica alla scrittura autobiografica espressa nei “Diari”  scritti dai 18 ai 38 anni.  Ma nonostante la passione, i suoi risultati nel disegno della figura all’inizio non furono positivi, tanto che in un primo tempo non fu ammesso  all’Accademia e si iscrisse a una scuola privata; è un periodo di formazione importante dove dà sfogo allo spirito umoristico  e ricerca un proprio stile basato sulla linea e non sul colore manifestando personalità artistica e forza inventiva. Dalla Svizzera all’Austria il passo è breve, sono i suoi primi viaggi; nel 1900 viene ammesso all’Accademia, tra gli allievi suoi compagni di studi c’è Kandinsky.

Subito dopo il primo viaggio in Italia, sulle orme di Goethe e Burckhardt: tra il 1901 e il 1902  visita Genova e Milano, Pisa e Livorno, Firenze e Roma arrivando fino a Napoli. A Firenze il contatto con il ‘400 di Botticelli, a Roma l’arte antica e quella cristiana nei Musei vaticani, nonché il primo contatto con le opere grottesche di Rodin, esposte alla Galleria nazionale d’Arte Moderna che ospita la sua mostra 110 anni dopo. Molti schizzi e disegni sui taccuini in questo viaggio.

Tra il 1903 e il 1905 le prime vere opere d’arte, 15 incisioni  del ciclo “Invenzioni” – ce ne sono alcune in mostra – con figurazioni deformate, in parte reali e in parte immaginarie, di satira alla società borghese. Altri viaggi, tra cui quello del 1905 a Parigi nel quale fa conoscenza del mondo degli impressionisti, mentre a Monaco studia le opere di Goya.  Vi si trasferisce nel 1906 dopo il matrimonio in un appartamento di sole tre stanze, dove la cucina diventa il suo laboratorio: alla mancanza di spazio vengono fatte risalire le piccole dimensioni dei suoi quadri. C’è molta vita artistica, a Monaco visita la nostra di Van Gogh e conosce le opere di Cezanne scomparso da tre anni: tra il 1908 e il 1911 la sua pittura “en plein air” diventa “neo impressionista”, i tratti spezzati e i colori puri. Dopo una serie di incisioni sul “Candide” di Voltaire le prime mostre personali. 

Termina l’isolamento e Klee si apre alle avanguardie, in un viaggio a Parigi ne conosce le opere più importanti, da Braque a Picasso, da Delaunay a Matisse. Sono di questo periodo i disegni del “Candide” di Voltaire  e la formazione di un gruppo con Schiele e Kubin  per riportare all’essenziale l’espressione artistica. Si avvicina, con Macke e Kandinsky al gruppo la “Nuova associazione artistica monacense”,  impegnato nell’almanacco “Il Cavaliere azzurro” che terrà  una mostra che Klee recensisce senza parteciparvi,  apprezzandone il carattere primitivo  con il ritorno alla purezza dell’infanzia; è ammesso alla seconda mostra del “Cavaliere azzurro” con 17 opere.

“Composizione urbana con finestre gialle”, 1919 

La fase centrale con il nuovo viaggio in Italia

E’ una fase fondamentale nella quale è preso da diverse sollecitazioni stilistiche e di contenuti, dall’espressionismo al cubismo, compreso il futurismo di origine italiana. Dei primi due movimenti prenderà molti stimoli e motivi, mentre sono estranei alla sua visione i motivi ispiratori del futurismo, dal vitalismo esasperato alla ribellione, dal meccanicismo al movimento; ma ne condivide l’interesse per l’architettura urbana e gli spazi, nonché le concezioni base sul valore del segno per esprimere anche gli stati d’animo, reso esplicito nelle chiare enunciazioni futuriste.

Nel 1914 un viaggio di due settimane in Tunisia con due artisti amici, Moillier e Macke, con i suoi colori naturali e le architetture delle case  lo porta a rinnovare il suo stile nel cromatismo e nella  struttura compositiva:  i colori diventano tenui e gli accostamenti su linee frammentate e forme geometriche mostrano una certa tendenza all’astrazione.

Fa una minuziosa catalogazione delle proprie opere quasi per dare una sistemazione alle sperimentazioni compiute fino ad allora.  Con Kandinsky, Kokoscha ed altri si avvia  il progetto ambizioso di illustrare la Bibbia, lui sceglie i Salmi. Siamo al 1915, le guerra mondiale allontana gli artisti suoi amici, il re di Baviera lo esenta dal fronte e nelle retrovie continua a dipingere in uno stile vicino agli ideogrammi; nel 1916 e 1917 due sue mostre hanno molto successo.

In questi anni scrive un testo pubblicato nel 1920 considerato un suo manifesto artistico, “Confessione creatrice”, secondo cui “l’arte non restituisce il visibile. Rende visibile”. Massimiliano De Serio ricorda come per Klee “il visibile non è che un elemento tra i tanti di cui il reale si compone”. Anche gli altri elementi devono entrare nella rappresentazione artistica: “Il piano, il segno, lo spazio e la linea sono gli elementi che l’artista ha a disposizione per tradurre in linguaggio grafico le sensazioni fisiche e psichiche dell’uomo”. E’ fotografata così l’arte di Klee.

Nel 1921 viene incaricato dal fondatore Gropius dell’insegnamento di disegno presso la scuola  Bauhaus di Weimar, la cui idea di base era la fusione delle varie discipline, artistiche ma anche artigianali,  in una visione unica secondo il concetto di “arte totale”. Non trasmette indirizzi stilistici vincolanti, e spinge verso l’apertura al mondo scientifico e alle leggi della natura di cui l’uomo  è un “frammento”. L’importanza di questa scuola nella sua vita  e nella sua arte è notevole, nella  mostra  viene ricordata in un’apposita sala con una gigantografia celebrativa.

La sua ricerca dell’essenziale lo porta nel 1923 ai “quadrati magici”,  ai quali approdava anche Mondrian che aveva attraversato tutti i principali stili pittorici della sua epoca, dal realismo al cubismo passando per il “pointillisme”; in Klee c’era anche l’influsso del costruttivismo di Nagy, insegnante al Bauhaus. In questo periodo le sue opere si ispirano pure al ritmo musicale.

Nel 1924 torna in Italia e visita la Sicilia, dipingerà la località della vacanza, “Mazzarò”, e diversi paesaggi siciliani con titolazioni esplicite.  

“Croci e colonne”, 1931

L’ultimo quindicennio, di nuovo in Italia più volte

Nel 1926 ecco il nuovo viaggio in Italia, oltre a Firenze e Pisa visita Ravenna, ed è colpito dai mosaici bizantini fortemente colorati, tanto che ad essi si fa risalire la fase divisionista della sua pittura che inizia intorno al 1930.

L’anno successivo va in Egitto, visita Il Cairo e Tebe, Alessandria e Assuan ma resta deluso, a differenza del viaggio in Tunisia del 1914: “Di Tunisi ho serbato tutt’altre impressioni – disse – sono convinto che Tunisi sia molto più pura”. Un effetto si nota, comunque, nella sua pittura che diventa ancora più geometrica e astratta, accentuando la tendenza seguita al viaggio in Tunisia.

Intensifica l’attività artistica, nel 1929 espone più di 100 acquerelli a Dresda, la mostra si trasferisce poi a  Parigi e a Berlino. Sempre più impegnato, entra in contrasto con la direzione del  Bauhaus per l’impossibilità di garantire una presenza assidua; nel 1930 passa all’Accademia di Dusserdolf con meno vincoli.  Nello stesso anno torna in Italia a Viareggio e due anni dopo, nel 1932, di nuovo nel nostro paese, visita Venezia.  Nel 1931 aveva interrotto i rapporti con il Bauhaus. La pittura diviene divisionista, ma senza l’approccio scientifico di Seurat nell’accostare i punti di colore.

L’avvento di Hitler al potere in Germania – divenne Cancelliere nel gennaio 1933 – lo espone a pressioni e persecuzioni, per l’accusa di giudaismo a cui reagisce con forza, alla moglie scrive che non abbandonerebbe mai la sua opinione, allora coraggiosa  “secondo la quele un ebreo e uno straniero in quanto tali non sono di valore inferiore a un tedesco originario di questo paese”. Si trasferisce in Svizzera dopo un viaggio in Francia: torna a Berna la città della sua infanzia. A questo punto le sue opere catalogate si avvicinano al numero di 500.

Nel 1934, mentre in Germania i nazisti sequestrano il libro di Grohmann sui suoi disegni tra il 1921 e il 1930, espone a Londra alla Mayor Gallery; mostre e consensi crescenti anche in Francia e Belgio, e pure negli Stati Uniti, espone a Berna nel 1935 con una grande mostra.

La sua produzione pittorica continua, tuttavia sente la mancanza di quanto lo gratificava in Germania, inoltre si ammala di una malattia progressiva, la sclerodermia, che lo limita notevolmente, impedendogli anche di suonare il violino, sua grande passione. I suoi quadri, che continua a dipingere, tendono ad esprimere in varie forme il senso della morte; i segni rimandano a una realtà riconoscibile e le composizioni sono più unitarie e meno frammentate.

L’ostracismo nazista diventa sempre più paranoico, vengono espulse le sue opere da tutti i musei della Germania, e 17 di esse sono esposte nell’irridente mostra del 1937 sull'”Arte degenerata”. Non gli manca la solidarietà degli artisti, come Picasso e Braque che lo visitano a Berna, e dopo un breve rallentamento del 1936 riprende la produzione in modo frenetico: nel 1939  effettuerà 1200 disegni. La sua pittura aggiunge i “colori a colla”, su supporti dalla carta al cartone alle stoffe.

Muore nel giugno 1940, sei mesi dopo la scomparsa del padre, mentre a Zurigo venivano esposte oltre 200 sue opere degli ultimi cinque anni.

Un percorso di vita e di arte che andava ricordato, sia pure molto sommariamente,  in alcuni tratti salienti per meglio inquadrare i suoi rapporti con l’Italia cui è dedicata la mostra alla Gnam. Li analizzeremo prossimamente nella visita alla mostra articolata in cinque sezioni che raggruppano i dipinti esposti in base alle fasi  cronologiche in cui questi rapporti possono essere considerati.

Info

Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, Roma, Viale delle Belle Arti 131, da martedì a domenica ore 10,30-19,30; la biglietteria chiude alle 18,45. Lunedì chiuso. Ingresso intero euro 12,00, ridotto 9,50 (cittadini UE tra 18 e 25 anni e docenti scuole statali); ridotto speciale solo mostre euro 7,00 (minori di 18 anni e maggiori di 65), Gratuito museo: minori di 18 e maggiori di 65 anni. Tel. 06.32298221; http://www.gnam.beniculturali,it/. Catalogo “Paul Klee e l’Italia”, a cura di Tulliola Sparagni e Mariastella Margozzi,  Electa, 2012, pp. 184, formato 21×27, euro 25; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il secondo e ultimo articolo sulla mostra uscirà,  in questo sito, il 5 gennaio 2013.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra alla Gnam, Si ringrazia l’Ufficio stampa della Galleria con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Ritratto della signora P. al  sud”, 1924; seguono  “Composizione urbana con finestre gialle”,  1919, e “Croci e colonne”, 1931. In chiusura  “Il Torso ed i suoi con la luna piena”, 1939.

Il Torso ed i suoi con la luna piena”, 1939

Ellenico plurale, 25 artisti greci moderni, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Al Complesso del Vittoriano, dal 28 novembre 2012 all’11 gennaio 2013, la mostra  “Ellenico Plurale. Dipinti della Collezione Sotiris Felios”: 88 opere pittoriche di 25 artisti greci delle due ultime generazioni scelte in una raccolta di oltre 700 pezzi seguendo come criterio guida la figura umana. La mostra, promossa dalla Fondazione “L’altra Arcadia” con la collaborazione dell’Ambasciata di Grecia in Italia, è stata realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con l’apporto diretto di Cristina Bettini e di Sophia Hiniadau Cambanis. L’ha curata Giuliano Serafini con il Catalogo edito dalla Fondazione i cui proventi saranno devoluti al finanziamento della cattedra di studi neo-ellenici nell’Università romana di Tor Vergata.

Da sin., Makrìs “Barca”, 2010, e “Maik”, 2011,  Papacostas “Premono il mio cuore”, 2006, e “Senza titolo”, 2002-03

Una presentazione “politica” oltre che artistica per la mostra “Ellenico plurale”,  alla quale l’ambasciata greca ha dato un apporto  definito “indispensabile” da Alessandro Nicosia, che ha sottolineato “la sensibilità e l’impegno personale dell’ambasciatore Michael Cambanis”. L’intervento dell’ambasciatore ha accennato, con riserbo  diplomatico, al “valore simbolico di tenere al Vittoriano una mostra sull’arte di una Grecia che non è solo classica ma anche contemporanea per distogliere da una quotidianità stressante e spesso spiacevole”.  Eufemismo riferito, crediamo, non solo ai gravi sacrifici ma anche ai pesanti giudizi lanciati sul suo paese.

L’alto messaggio politico-culturale di Louis Godart

E’ stato il consigliere per il patrimonio culturale del presidente Napolitano Louis Godart a rendere onore al paese che è stato maltrattato per la crisi economica senza che il mondo della cultura finora abbia trovato modo di reagire all’ignobile imbarbarimento cui si è dovuto assistere nei suoi confronti. Non citiamo,per amor di patria europea, il trattamento imposto dalla troika Ue, Bce e Fmi, dopo il diniego di quella solidarietà che con interventi modesti avrebbe potuto bloccare sul nascere la crisi greca. Ci riferiamo all’atteggiamento delle più alte autorità politiche del nostro paese – con poche eccezioni tra le quali il presidente Napolitano – che hanno fatto della Grecia il “vade retro Satana” ripetendo, come si fa evocando l’orco per i bambini, lo spauracchio del “finire come la Grecia”, offendendo così in modo sommario e ingiusto un popolo, una storia, una cultura. 

Ed ecco cosa ha detto Godart con l’autorevolezza della sua posizione e con una formazione culturale e un’attenzione costante  che lo lega alla Grecia, culla della civiltà, da oltre 50 anni:  “Ogni cittadino del mondo ha nel suo cuore una porzione di Grecia. L’Europa non può fare a meno della Grecia come la Grecia non può fare a meno dell’Europa, come il presidente Napolitano ha detto nella visita di Stato a Parigi. Questo significa che l’Europa ha dei doveri nei confronti della Grecia come la Grecia nei confronti dell’Europa. Ora l’Europa deve capire che in una situazione economica difficile la Grecia va aiutata. E’ anche il sentimento profondo del Presidente che ha dato il suo alto patrocinio alla mostra”.

A questa forte affermazione politica Godart ha fatto precedere una premessa culturale e artistica: “Parlando dell’arte greca si pensa a quella del passato, ma va considerata un punto di partenza dell’avventura meravigliosa di un popolo  che ha trasmesso all’Europa e al mondo il messaggio civilizzatore di Atene”.  Ed ecco le parole rivelatrici nei confronti di questo popolo che non merita le umiliazioni subite; e la mostra, a nostro sommesso parere, va letta anche in questa chiave: “Le radici del popolo greco affondano nel passato, ma la realtà si esprime nel presente. Le opere esposte sono un emblema della Grecia eterna; contemplandole si ha la possibilità di entrare in comunione con un paese la cui storia millenaria ha illuminato l’Europa e il mondo”. Non serve aggiungere commenti, una simile introduzione fornisce le coordinate giuste per inquadrare la visita alla mostra.

Da sin., Daskalàkis “Anna con i guanti” 2009, “Myrtò con l’abito a righe” e “Ioanna con la borsa” 2004, “Natalia”, 2009 

L’arte greca contemporanea nella collezione Sotiris Felios

Il curatore Giuliano Serafini ha voluto sfatare il pregiudizio che nel 1994 – confida lui stesso – portò Pupi Avati a rivolgergli questa domanda, in occasione di una mostra di artisti greci a Bologna: “Ma oggi c’è un’arte greca?”. E’ il destino comune alle grandi civiltà del passato che oscurano il presente. Si può dire per la Grecia che “l’arte non ha tempo anche se le vicende storiche del paese hanno impedito che il suo corso fosse regolare. Sta di fatto che nessun paese occidentale ha avuto come la Grecia un approccio altrettanto conflittuale e anomalo con il rinnovamento delle arti figurative”. Del resto non è facile esprimere un codice genetico classico nella contemporaneità.

E’ una specie di “complesso del passato” che ha reso difficile il passaggio alla modernità, ma oggi c’è una vera arte contemporanea greca con un linguaggio suo proprio “attraverso apporti stilistici che toccano, sfiorano e magari passano oltre le tendenze del momento: dalla pop art al minimalismo e al concettuale, fino all’arte povera e ai medi informatici e all’arte ambientale”. Così scrive nel Catalogo Serafini che a voce nella presentazione ne ha precisato  i contenuti: “Ne viene fuori l’immagine di una civiltà figurativa assolutamente originale. Nella sua concezione antropomorfa c’è una sorta di religiosità delle cose”, con la “vicinanza tra dimensione fisica e metafisica” e la “continuità tra due visioni apparentemente antitetiche, spirito e materia”; è stata citata anche un’espressione famosa, “l’odore della materia è quello dello spirito”.

La Collezione è stata messa insieme in 30 anni di rapporti fecondi degli artisti con Sotiris Felios – intervenuto alla Presentazione – una sorta di moderno mecenate nativo di Tripolis, capoluogo dell’Arcadia nel Peloponneso. Gli artisti greci hanno quasi tutti formazione cosmopolita, dalla Scuola Superiore delle Belle Arti di Atene agli studi e alle attività all’estero, soprattutto a Parigi; e pur nella contemporaneità hanno tenuto fermo il valore della pittura figurativa legata ad una visione comune antropomorfica in cui il corpo  umano è sempre protagonista nelle più diverse atmosfere, reali o oniriche, coinvolgendo anche la psiche.

Le acquisizioni di 700 opere, pur se necessariamente a “carattere rabdomante e frammentario”, hanno messo insieme un “materiale compatto e omogeneo” in quanto la scelta del collezionista si è concentrata su generazioni di artisti formatisi alla metà degli anni ’80, quindi in un contesto socio-culturale comune e con una “generale opzione figurativa” incentrata sulla prevalente “immagine antropomorfica”,  ma in grado di manifestare “il più ampio registro possibile di diversità espressive”. La collezione si è formata con l’ispirazione personale in sequenza, di quadro in quadro: “E così di seguito, secondo una catena di rimandi che col tempo ha finito per fissare il carattere e l’identità dell’intera raccolta”.

Il curatore, nel ripercorrere questo processo, rivela il criterio fondamentale della propria selezione per la mostra, 88 opere tra le 700 della Collezione Sotiris Felios, “una scelta su una scelta precedente”: ha seguito filoni di linguaggio e concettuali differenti intorno al motivo antropomorfo di base, espressi nelle 7 sezioni della mostra – tra 1 e 8 gli artisti selezionati per i singoli temi –  cercando di renderne le peculiarità in modo da non venir meno allo spirito della Collezione.

Ci sono “presenze storiche” della pittura greca contemporanea, come Mòralis e Tsarouchosis, Tetsis e Fassianòs, e quello che viene definito il “tessuto connettivo della pittura di rappresentazione dell’ultimo trentennio in Grecia”, come Daskalàkis e Rorris, Filopoùlou e Sacaillàn. Ma non vengono proposti in modo omogeneo, alcuni compaiono con più opere altri con una, dipende anche dai temi trattati, in un figurativo che li qualifica in modo speciale, sempre secondo Serafini: “Sono artisti che sembrano sperimentare la figurazione come una scommessa, con fierezza acritica, quasi a provocare lo spirito del tempo e l’inconsistenza dei suoi feticci ideologici travestiti da scetticismo”.

E’ la scelta di un amatore che ha realizzato una collezione privata di tale rilievo da diventare “creazione autonoma, opera fatta di opere altrui”: sono parole del curatore della mostra che nella sua scelta ulteriore ha realizzato un’altra opera fatta di opere altrui.  Sotiris Felios si è sentito gratificato dalla libertà di collezionista privato non legato agli obblighi delle raccolte pubbliche che gli ha consentito di “innamorarsi” delle opere scelte di volta in volta. Non senza lungimiranza, se si sente di poter riferire ai suoi quadri le parole di Isaaac Newton “Io ho visto più lontano perché sono montato sulle spalle degli altri”. Serafini nel ricordarlo spiega che “le ‘spalle’ di Felios sono i suoi quadri, quelli che ha messo insieme in trent’anni di ‘incontri'”, casuali ma accomunati dalla”presa di coscienza globale di quell’‘altro’ sempre difficile, problematico e imprevedibile che è l’artista”  dando corpo alle parole di Oscar Wilde: “Rivelare l’opera e nascondere l’artista, ecco lo scopo dell’arte”.  Alle quali dà una risposta Gyorgy Lukacs che si pone nella posizione dell’osservatore: “L’opera deve produrre sul soggetto ricettivo questo preciso effetto: deve suscitare in lui la sensazione di trovarsi all’improvviso  di fronte ad un mondo dischiusosi appositamente per lui, un mondo assolutamente nuovo…”.

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Bòtsoglou, “Una Nekyia personale (26 dipinti)”, 1993-2000

Le 7 sezioni della mostra

E’ proprio quella ora evocata la sensazione che prova il visitatore della mostra: dinanzi a lui non sfilano i 25 autori, ciascuno con le rispettive opere, e sono ben 88 dipinti; ma si apre la visione di un mondo nuovo rappresentato in una serie di quadri di impronta teatrale rispondenti alle sue connotazioni e raggruppati in 7 sezioni: Tra memoria e realtà e Il corpo estremo, Viaggio oltre e Metafisica dell’essere, L’opera selvaggia e Perversione della rappresentazione, “Natura ritrovata”. .

Fa storia a sé un artista al di fuori della collocazione nelle sezioni, definito dal curatore “presenza storica dell’arte greca moderna e contemporanea”: Yannis Mòralis, per 25 anni docente con la cattedra di pittura alla Scuola Superiore di Belle Arti di Atene. E’ chiamato dal curatore il “‘convitato di pietra’ nel contesto di Ellenico plurale”, al suo insegnamento si è formata la gran parte degli altri artisti tra cui i “nomi eccellenti dell’arte greca nel secondo dopoguerra”.

L’unica sua opera esposta, “Erotikò”, viene definita “immagine tutelare della mostra”, è un nudo fortemente stilizzato in tinte scure tra forme geometriche bianche che riflette il suo percorso artistico tra pittura e grafica, pittura murale e scenografia, rendendo con intensità la figura femminile da lui prediletta, “tema complementare e antinomico a quello tutto al maschile di Tsarouchis”.  Una figura che, nella sua rappresentazione, evolve verso una stilizzazione sempre maggiore, con richiami a Matisse percepibili chiaramente anche nell’opera esposta. Il suo è un approdo a una sorta di astrattismo fatto di ritagli di colore e di piani architettonici che annullano la terza dimensione valorizzando la pittura come massima forma espressiva.

Ma passiamo alle sezioni tematiche della mostra, nella prima sezione “Tra memoria e realtà”  un realismo di base che si stempera nei ricordi, tra miti personali e citazioni culturali, con l’affiorare della psiche:  8 artisti danno ritratti e immagini le più diverse della figura femminile; come anche della figura maschile. Di Argyris “Mediterraneo”, un nudo di donna seduto in riva al mare, ricorda la “Sirenetta di Copenhagen”, a parte le forme ben più generose; di Papanikolàou il“Ritratto di Julia”, figura evanescente,  e 3 “Ritratti” maschili  veri o immaginari; della Assargiotàki  2 ritratti suggestivi di “Maria Polydouri”  e uno di “Gelsomina”.  Con Bitzàkis figure soprattutto orizzontali con nudi per lo più maschili, uno crocifisso. Anche in Levidis nudi maschili, non integrali in atmosfera metafisica, in “Bagnanti” la schiena nuda in primo piano ricorda quella di “Dopo la lotta” di Deineka, c’è Bagnanti” al femminile con le donne in corsa sulla spiaggia ma vestite. Di Papacostas sono esposti 3 “Senza titolo” con visi che guardano fisso e il dipinto “Premono il mio cuore”, dove chi guarda è una figura in dissolvenza. Infine il forte “Autoritratto” di Kerestetzise i due diversissimi dipinti di Makrìs, “Barca” dalle pesanti pennellate con contrasti cromatici e  “Maik” figura scura in piedi.

Con la sezione “Il corpo estremo”, tema identitario per la pittura greca, la figura femminile è vista nelle sue forme meno gratificanti. Daskalàkis esprime la rassegnazione in 4 immagini in cui volti dallo sguardo assente sono su corpi goffi, contenitori di un’esistenza in solitudine; Rorris lo fa in 4 nudi in ambienti ancora più squallidi con le figure “vestite della loro nudità”, come scrisse l’artista: immagini impietose di un erotismo malato che diviene “patologia dei sensi”, espressione di  “una carne che non sa più esultare, che ha dimenticato lo sfogo e la salvezza del piacere, carne prostrata da uno sfinimento che è osceno solo perché infierisce su quella che è innanzitutto una creatura”, così le vede Serafini. Entrambi gli autori intitolano con i nomi: “Myrtò” e “Anna”,”Natalia” e “Ioanna” Dascalàkis,  indicando i particolari dell’abbigliamento; “Yianna”, “Alexandra” ed “Elisabeth” Rorris, Un bel nudo acefalo in torsione è la visione onirica in “Senza Titolo” di Karràs, mentre Psichopèdis in “Bagnanti” rappresenta due nudi femminili distesi con scaglie cromatiche lamellari disgregate che sembrano riaggregarsi tra il primitivismo e la moderna solarizzazione.

Seguono tre sezioni con un unico espositore, la prima è “Viaggio oltre”,con  7 dipinti di Bòtsoglou, da “Una Nekyia personale (26 dipinti)”, su persone da lui amate,  inquietanti  per la sofferenza che esprimono nella loro consistenza evanescente, quasi ectoplasmi subliminali.  E’ una discesa nel regno delle ombre, che Marina  Lambraki-Plaka definisce “rito della memoria, tributo espiatorio  a chi ha lasciato un’impronta nella vita dell’artista”; è un’esperienza spirituale basata sul richiamo all’Odissea omerica.

In “Metafisica dell’essere”, al contrario, vediamo opere eterogenee dello stesso artista, Bokòros, che si propone di rivelare l’intrinseca spiritualità della materia,  una sorta di “religione della cosa”,  in forme espressive diverse e soggetti che si pongono come enigmi da decifrare: si va dalla grande croce di “Exodus” all’“Uovo in scatola di metallo”, dal “Tovagliolo piegato” alla donna“Myrsini”, dal buio di “Candela  e luna” alle“Luci policrome”, fino a “L’ombra scura dell’uomo illuminata”, un trittico con l’immagine che si dissolve “di un corpo e della sua sindone”.

Il terzo “one man show” è di Mantzavinos nella sezione “L’opera selvaggia”in cui, come dice il titolo, molteplici elementi, figure, paesaggio, cose, sono fissati sulla tela con forza espressionistica e vivacità cromatica in un primitivismo irruente con radici antiche fuori dagli stili correnti. Ci sono “Enea” e “Arciere”, “La regina nera” e “Alessandro e il drago, “Intorno al serpente” con Adamo ed Eva nell’Eden in posa quasi pompeiana e “Ritratto del pittore al luna Park”, il viso con una raggiera nel caos festoso. 

Con “Perversione della rappresentazione” si torna alla “collettiva”. Sono 6 gli artisti che declinano la figura umana in varie espressioni anche trasgressive verso “altri” lidi  e limiti, dall’intimità disinibita alla fissità o deformazione dei volti ripresi da vicino fino alle scene collettive. Si inizia con la “geometria dei gesti e positure” dei corpi negli “intrighi di coppia” di Manoussàkasis  in carboncini colorati molto espliciti, poi Missouras ci porta in un mondo domestico infantile con i suoi 3 inquietanti “Senza Titolo”, figure compresse o instabili. Diventano quasi deformati o  allucinati i primi piani dei 5 “Senza Titolo”  di Katsipànos, fino a “Il fantasma della nostalgia”, il viso pulito alla Pat Boon degli anni ’50, quanto inespressivo, di un giovane assorto il quale sembra ignorare il corpo nudo femminile che si libra sulla sinistra del dipinto come un’apparizione evocata dalla sua nostalgia. Sono di Sacaillàn immagini affollate con il malessere dell’alienazione e dell’incomunicabilità, da “Ascensore”con 3 figure, a “Studentesse e caleidoscopio” con 12 visi, a “Passeggiata notturna” con la folla come in “Passeggeri di nave”. Chiudono la sezione, di Siskos “Top model”, la ragazza in topless e gonna con i “mickey mouse” e di Bitzikas gli inquietanti “Senza Titolo” e “P-RP2011”.  

La sezione finale è sulla vita all’aria aperta dopo il chiuso delle angosce e perversioni: in “Natura ritrovata”3 artisti presentano scene con alberi e corsi d’acqua,  cielo e vegetazione. Quest’ultima scena è nel dipinto della Tsakàli, “Agosto”, mentre Papanikolàou ci dà 3 immagini alberate e 2 luoghi abitati visti dall’esterno, con una “Donna al balcone” stile Hopper; e poi uno straordinario “Funerale” ripreso da lontano, dall’alto di un ambiente naturale – alberi e lago – che fa dimenticare il soggetto luttuoso. Ma sono i 2 dipinti della Filopoulou  che fanno concludere la visita alla mostra con lo spirito sollevato allontanando le immagini sempre problematiche e talvolta inquietanti finora citate. Il più spettacolare è “Nuotatrici sott’acqua”, con i corpi che fluttuano ripresi dal basso nel verde delle profondità marine.  E ci sono anche le chiare, fresche e dolci acque di sapore petrarchesco, con le belle membra di “Iniziati” che vi si immergono  tra cascate e vegetazione. L’Arcadia di Sotiris Felios, che dà il nome alla Fondazione, sembra essersi materializzata nei due dipinti conclusivi.

Lasciamo la mostra con il pensiero rivolto alla Grecia. Il dramma attraversato dalla sua economia  nella colpevole assenza di una risolutiva solidarietà europea è per ora lontano dalla nostra mente. Dopo le parole di Louis Godart sulla culla della civiltà per cui ogni cittadino del mondo reca nel cuore una porzione di Grecia, l’evidenza di un percorso vitale che continua nell’arte contemporanea ci ha fatto sentire ancora più solidali e vicini a un popolo il cui tributo all’arte e alla cultura non si è mai interrotto. E’ vero ciò che l’ambasciatore Cambanis ha scritto: “Anche in questi tempi tanto difficili, la Grecia riesce a essere culturalmente creativa. Si direbbe, anzi, con maggior tenacia e ispirazione”.  E si deve dar ragione ancora a lui quando aggiunge: “Sono certo che il pubblico romano, amante e conoscitore dell’arte e della gioia che essa sa con generosità offrire, farà suo questo messaggio di ottimismo che viene dalla Grecia”. Tanto più in queste festività che la crisi non deve intristire.

Info

Complesso del Vittoriano, Salone centrale, via San Pietro in Carcere, lato Fori Imperiali, tutti i giorni (compresi domenica e lunedì), ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito fino a 45 minuti dall’orario di chiusura. Tel 06.6780664; “L’altra Arcadia”, Atene, tel. 0030 2108824681, e mail:  info@felioscollection.gr. Catalogo bilingue italiano/inglese “Ellenico plurale. Dipinti della Collezione Sotiris Felios”, a cura di Giuliano Serafini, Peak Publishing per la Fondazione “L’altra Arcadia”, pp 208, formato 21×29.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra. Si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con la Fondazione “L’altra Arcadia” per l’opportunità offerta. In apertura , dalla sezione “Tra memoria e realtà”  di Makrìs “Barca”, 2010, e “Maik”, 2011, di Papacostas “Premono il mio cuore”, 2006, e “Senza titolo”, 2002-03; seguono, dalla sezione “”Il corpo estremo”, di Daskalàkis “Anna con i guanti“, 2009, “Myrtò con l’abito a righe”, 2004, “Ioanna con la borsa”, 2004, e “Natalia”, 2009, e dalla sezione “Viaggio oltre”, di Bòtsoglou 7 pastelli a olio di “Una Nekyia personale (26 dipinti)”, 1993-2000; in chiusura, dalla sezione  “L’opera selvaggia”, di Mantzavinos  “Ritratto del pittore al luna Park”, 2003-04, “La regina nera”, 2010, e “Arciere”, anni ’90. 

Da sin., Mantzavinos,“Ritratto del pittore al luna Park”, 2003-04, “La regina nera”, 2010, e “Arciere”, anni ’90
 

Dalì,3. l’Italia da Venezia a Roma, al Vittoriano

i Romano Maria Levante

Si conclude il nostro racconto della visita all’affollata  mostra  “Dalì, un artista, un  genio”,   al Vittoriano dall’8 marzo al 1° luglio 2012,  che trascorsi diversi mesi mantiene vivo l’interesse per conoscere il personaggio e l’artista. Dopo i dipinti della sua formazione nei vari stili e quelli surrealisti che sono il cuore della sua opera artistica fino al classicismo rivisitato negli ultimi anni – di cui abbiamo parlato – l’esposizione ha illustrato lo stretto rapporto di Dalì con l’Italia. Non solo la sua passione per i grandi artisti del classicismo e i contemporanei italiani, ma la scintillante serie di sue “performance” nella vita mondana e le sue espressioni artistiche originali e innovative.

Dematerializzazione vicino al naso di Nerone”, 1947 

Questa parte conclusiva della mostra si è sviluppata  nel piano superiore del Vittoriano in senso cronologico, rievocando i momenti dei suoi viaggi in Italia e le fasi delle lunghe permanenze nel nostro paese; il tutto illustrato con una dovizia di documenti visivi,  video, articoli e lettere, documenti e fotografie, quadri e disegni; inoltre opere frutto di ardite incursioni in vari campi.

E’ emerso il legame profondo con l’Italia, non solo per l’attrazione esercitata dal classicismo – soprattutto Raffaello e Michelangelo – ma per qualcosa di intrigante dell'”Italia plurale”, come la definisce  Lea Mattarella,  curatrice della mostra con Monste Aguer: “Il Bel Paese per Dalì è anche mistero, luogo ideale per provare il ‘fenomeno dell’estasi’ teorizzato fin dal 1933 come ‘lo stato vitale più sconvolgente fra i fantasmi  e le rappresentazioni psichiche’ in cui ogni senso e significato contengono il loro contrario”; il fascino dell’Italia esercitato anche su Picasso.

Già nel 1920, da studente, Dalì annotava nel diario: “Vincerò una borsa di studio per andare quattro anni a Roma e al ritorno sarò un genio, il mondo mi ammirerà. O forse sarò disprezzato e incompreso, ma sarò un genio, un grande genio”; nel 1964 si immedesimerà con le parole di Goethe che giunto a Roma disse: “Finalmente, sto per rinascere”.

Ancora prima della sua intensa frequentazione dell’Italia non mancavano  rapporti con i pittori italiani anche contemporanei, non soltanto con i grandi classici. Seguiva la rivista “Valori Plastici”, alcune sue figure femminili richiamano quelle di Casorati e di altri italiani. Marinetti gli attribuiva caratteri di futurista anche se operava scomposizioni cubiste e non aveva il culto della velocità  né esaltava il movimento, tutt’altro: gli orologi di Dalì sono liquidi e molli e si sciolgono nell’aria, ma alludono al tempo preso di mira dai futuristi. E certi atteggiamenti quanto mai estrosi collimavano.

Gli anni ’60:  il “Don Chisciotte”,  Fellini e Visconti

Il nostro iter italiano comincia dalla fine, il 1964 anno delle 130 tavole in bianco e nero e a colori  del “Don Chisciotte di Cervantes”:  la mostra ha esposto, oltre a istantanee di Dalì, 32  originali dei fascicoli settimanali sul “Tempo” destinati ad essere rilegati, una esaltante cavalcata di immagini nelle quali le deformazioni della sua visione della realtà non tolgono nulla alla resa figurativa, anzi rendono in modo plastico il carattere del personaggio raffigurato. La televisione trasmise un documentario dal titolo “Salvador Dalì. Il mestiere del genio”, quest’ultima parola che lui scriveva per sé già nel 1920 è riapparsa nel titolo di questa mostra nella “sua” Roma novant’anni dopo.

Sono state esposte le fotografie scattate da Frontoni a Dalì con Fellini e al modello americano Rothlein coni i curiosi baffetti ritorti  per un provino nella parte di Dalì giovane nell’ipotizzato film biografico cui teneva molto la moglie Gala, ma non si fece; l’incontro con Fellini lasciò una traccia nel “Libro dei sogni” del  regista, in mostra era aperto alle due grandi pagine in cui sogna Dalì.

Luchino Visconti  era amico suo e di Gala, a lei deve l’incontro fatale con Helmut Berger; nel film  “Ludwig” del 1973, le inquadrature di Berger che naviga nelle grotte di stalattiti su una barca a forma di conchiglia con i cigni intorno richiamano dipinti di Dalì degli anni ’40.  Del resto il re di Baviera era stato il protagonista di un balletto wagneriano nell’opera “Bacchanale” di cui a New York gli erano state affidate le scenografie, fu la prima da lui realizzata in America. Molto espressivo il “Bozzetto di scena per Bacchanale” del 1939 con il grande cigno in primo piano, nell’ottica italiana va sottolineato  il tempietto del Bramante in lontananza in cima al monte ma riconoscibile come derivazione da “Lo sposalizio della Vergine” di Raffaello, che come abbiamo visto era la sua grande passione fino all’identificazione anche fisica nell’età giovanile.

Dalì scrisse il soggetto di un film  “neomistico”, con la storia surreale di una donna paranoica la quale identifica la persona amata scomparsa in una carriola, e per questo se ne innamora fino a renderla di carne in una sorta di reincarnazione: di qui il titolo  “La carriola di carne”; interprete prescelta Anna Magnani, ma il progetto non andò in porto.

I suoi contatti con il mondo artistico non si limitano a questi, sono senza limiti di generi; ma coltiva sempre la pittura partecipando alla mostra di Milano per 8 pittori surrealisti, Brauner e Dalì, Ernst e Lam, Magritte e Matta, Picabia e Tanguy esponendo la propria opera “Composizione surrealista”.

Intermezzo veneziano nel 1961, sono state esposte 12 fotografie che lo ritraggono in gondola e  in vari luoghi veneziani. Insieme a queste  molte altre immagini fotografiche, anche raggruppate in grandi collage che lo presentano in tante situazioni, dal barbiere, al bar e altrove.

“Bozzetto di scena per ‘Bacchanale'”, 1939 

Gli anni ’50: il “Rinoceronte” e la “Divina Commedia”

Nella nostra marcia all’indietro siamo ora nel 1959, è la rivoluzione del Rinoceronte,  proclamato da Dalì l'”ispiratore ideologico” di una nuova rivista culturale che esce veramente. Afferma che “nell’incrocio delle spirali del girasole c’è evidentemente la sagoma perfetta del rinoceronte”, definisce la punta  del suo corno arrotondata e rivolta verso la terra o il cielo di una “perfezione assoluta”. Non lo ritiene “d’origine romantica o dionisiaca. Al contrario è apollineo”, sono le sue parole. Allo Zoo di Roma una sua “performance” con l’imponente animale, dopo  quella di diversi anni prima nel “Giardino dei mostri” di Bomarzo. Le fotografie in mostra ricordavano l’evento.

Nel 1954, dieci anni prima delle 130 tavole del “Don Chisciotte”, espose a Palazzo Rospigliosi  oltre a 28 dipinti e 17 acquerelli e disegni, 102 illustrazioni della “Divina Commedia “; 24 di queste andranno poi alla XXVII Biennale di Venezia. Alla presentazione romana fece scalpore un’altra sua “performance” stravagante: si fece trasportare per le vie cittadine da due coppie di incappucciati in un “cubo metafisico” dal quale spuntò all’interno del palazzo per pronunciare un discorso in latino. Alla X Triennale di Milano furono esposti 21 gioielli disegnati da lui dai titoli particolarmente espressivi: “L’occhio del tempo”, “Il cuore reale”, “Labbra di rubino”.

Gli anni ’40 e ’30: Il Palladio e Visconti, i mostri di Bomarzo  e Ravello

Il nostro percorso del gambero nella vicenda italiana di Dalì rievocata nella mostra ci porta ora più indietro, al 1948, al termine degli otto anni trascorsi in America. Due suoi dipinti della collezione di Peggy Guggenheim furono esposti al padiglione greco della XXIV Biennale di Venezia, sono “Donna addormentata in un paesaggio” e “Nascita dei desideri liquidi”. Lui con Gala è ospite vicino Vicenza del marchese Roi, un mecenate discendente di Fogazzaro che nella villa ha ambientato parte di “Piccolo mondo antico”. Studia le strutture del Palladio delle quali trasferisce la “divina proporzione” nella sua “architettura antropomorfa”: i “corpi abitati” da fossili e altro sono una sua costante fino ai quasi “d’aprés”  di Michelangelo  che abbiamo trattato nella prima parte.

Scrive il primo capitolo di un romanzo;  la campagna vicentina lo affascina. Lavora a “La Madonna di Port Lligat”,  che abbiamo descritto a suo tempo citando le ispirazioni classiche, in particolare da Piero della Francesca; e alla “Leda atomica”, di cui è stato esposto uno studio preliminare, datato 1947, con chiaro riferimento alla “Leda” di Leonardo da Vinci. Le due opere finite sono in data posteriore, 1949. Del 1947 è “Dematerializzazione vicino al naso di Nerone”, la cui struttura  anticipa  quella della “Madonna di Port Lligat”, per l’arco e la trabeazione classica vitruviana come simbolo di “perfezione celeste” sopra alla figura – qui  un busto dell’imperatore – oltre che per riferimenti simbolici.  Sono tre opere su cui si riflette l’impressione prodotta dalla prima esplosione atomica, nel periodo  di “misticismo nucleare”, nel 1951 ci sarà il “Manifesto mistico”. Queste citazioni molto sommarie stanno a indicare che l’Italia si fa sentire anche nella sua arte, non è soltanto lo sfondo dell’instancabile protagonismo mondano nel nostro paese.

In quel periodo trascorre una settimana a Venezia dove incontra l’architetto Clerici e gli chiede di affiancarlo nella scenografia che sta preparando per Luchino Visconti, regista dello spettacolo teatrale “Rosalinda o Come vi piace” di Shakespeare in scena a Roma nell’autunno. Scrive al riguardo: “Le mie scene si ispirano a un mimetismo autunnale, ammoniacale, sterilizzatissimo; i miei costumi sono morfologici, e, per meglio servire i miei spettatori,  anche profetici”.  Alla Galleria dell’Obelisco il giorno dopo la prima furono esposti i suoi bozzetti per le scene e i costumi. Spicca in modo particolare il bozzetto intitolato “Progetto per Rosalinda o Come vi piace”,  che raffigura due elefanti, con un obelisco sulla groppa, dalle lunghissime zampe filiformi da insetti, quasi dei trampoli, ai margini di un paesaggio sotto un cielo rosso fuoco.La Mattarella osserva che animali simili sono presenti in altri due dipinti  del 1944 (“Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melograna, prima del risveglio”) e del 1946 (“Le tentazioni di Sant’Antonio”); del 1946 è  il disegno in mostra  “Elefante con obelisco”, a conferma che l’ispirazione berniniana era precedente.  A corredo è stata esposta una lettera  a Visconti  in cui Dalì si preoccupa di “coordinare le luci in rapporto alla tensione drammatica del testo”; e nella scena finale crea “con un abile gioco di luci e ombre, un’atmosfera ‘crepuscolare’, che coincide con il ‘settecento autunnale’ voluto da Visconti”.

Dalla capitale a Bomarzo il passo è breve, a novembre visita il “Giardino dei mostri” con le statue surrealiste ante-litteram di Pirro Logorio, e si esibisce nella “performance”  da cui la nota fotografia, esposta in mostra, che lo ritrae con una candela accesa entro le fauci dell’Orco scolpito.

Nel cammino a ritroso tra le sue esperienze italiane arriviamo al 1935, l’anno in cui soggiornò nel mese di ottobre a Ravello con Gala su invito del poeta e collezionista inglese Edward James.  Doveva essere con loro anche Garcia Lorca, che Dalì, suo grande amico, rivide dopo sette anni: era stato invitato ma non poté raggiungerli; qualche mese dopo fu assassinato nella guerra civile spagnola, lasciando in Dalì il rimpianto che se fosse andato in Italia con loro si sarebbe salvato.

“Progetto per ‘Rosalinda o Come vi piace”,  1948 

Altre provocazione: gli “oggetti inutili” e la pubblicità

La stravaganza anche trasgressiva non toglie umanità al nostro personaggio;  del resto genio e sregolatezza sono abbinati, e in lui entrambi evidenti, spesso amplificati dall’uso dell’immagine dell’artista come soggetto e oggetto della sua stessa opera, anticipando la moda di Andy Warhol.

Sul piano artistico cerca di esprimersi anche in opere diverse da dipinti, disegni e acquerelli, come alcune sculture e la provocazione dei cosiddetti “oggetti inutili”: è stata esposta in mostra la lamiera di acciaio con all’esterno mollette dei panni e all’interno ami da pesca. Non esita a concedersi alla pubblicità con le fotografie a colori che lo ritraggono in posa a fianco di pneumatici Pirelli, le bottiglie celesti con disegni daliniani e altri lavori per “Rosso Antico”. E’ stato esposto anche  il suo scooter, la  “Vespa”  verde 150 S, con tanto di scritta personalizzata e targa AB 14142.

Abbiamo pescato “fior da fiore” dall’accurata cronologia “Salvador Dalì in Italia” – redatta dalla Fundaciò Gala-Salvador Dalì, cui si devono molti prestiti della mostra – che ha trovato rispondenza nelle tante istantanee esposte a conclusione della rassegna con un abbraccio del nostro paese cui è stato così legato. Ce lo hanno mostrato nei momenti quotidiani, con grandi personaggi oppure con gente comune, in situazioni normali o in atteggiamenti fantasiosi. Ma poi abbiamo sentito  il bisogno di tornare all’icona della sua arte, che è la grande immagine del suo viso tagliente, gli occhi grifagni, i baffetti ritorti in modo inverosimile. Siamo scesi al piano inferiore, abbiamo ripercorso la galleria dei suoi dipinti fino al corridoio dove si passava scortati dalle 13 gigantografie del fotografo americano Philippe Halsaman che abbiamo descritto all’inizio della visita. Al sommo della scalinata, il grande viso su sfondo rosso ci ha salutato di nuovo.  Dalì era proprio tornato a Roma!

Info

Catalogo della mostra: “Dalì. Un artista, un genio”, a cura di Montse Aguer e Lea Mattarella,  Skirà,  pp. 266, formato 24×28 cm. Nei due precedenti articoli, pubblicati il 20 e 26 novembre 2012, si è descritta la sua formazione, con il classicismo e i vari stili, fino all’approdo al surrealismo. Sono stati illustrati il primo con i Ritratti di Halsman e “Autoritratto con il collo di Raffaello”, “La Madonna di Port Lligat” ed “Eco geologica. La Pietà”; il secondo con “Impressioni d’Africa” e “Composizione con tre figure. ‘Accademia neocubista’”, “‘Angelus’ architettonico di Millet” e “Autoritratto molle con pancetta fritta”.

Foto

Le prime 3 immagini sono state tratte dal Catalogo della mostra fornito cortesemente da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia che si ringrazia con i titolari dei diritti, in particolare la Fundaciò Gala-Salvador Dalì. In apertura “Dematerializzazione vicino al naso di Nerone”, 1947;  seguono “Bozzetto di scena per ‘Bacchanale'”, 1939,  poi “Progetto per ‘Rosalinda o Come vi piace”,  1948; in chiusura, la foto “Dalì e il Rinoceronte “, del 1959, ripresa da Romano Maria Levante al Vittoriano  alla presentazione della mostra.

“Dalì e il Rinoceronte “, 1959

Gabriella Fabbri, dai microcosmi alle ombre in contro-luce

di Romano Maria Levante

A mostra chiusa, cosa può esserci di meglio che una visita virtuale attraverso il racconto dell’artista espositore per renderne il contenuto nell’interpretazione autentica dell’autore? E’ quello che è avvenuto con Gabriella Fabbri, incontrata a Roma dopo la chiusura della mostra svoltasi al Mediamuseum di Pescara dal 14 al 28 novembre 2012. Abbiamo parlato con lei a lungo visitando insieme tre mostre al Palazzo Esposizioni e al Vittoriano, un’esperienza inedita e stimolante. E non si è parlato soltanto della mostra di Pescara, l’ultima di una lunga serie, trattandosi di una piccola “antologica” che riassume motivi persistenti della sua vita artistica, iniziata molto presto. Sono opere pittoriche e installazioni, alcune con le melodie originali del musicista  Luca D’Alberto.

“Di nodo in nodo… di vita in vita”, particolare

I cicli della sua arte prima si esprimono attraverso i colori, dal “periodo verde” della paesaggistica nella seconda metà degli anni ’70 al “periodo blu” nel rapporto luce-ombra negli anni ’80, all’“acceso cromatismo” dalla metà degli anni ’90; poi in forme geometriche, dalla“sfera” simbolo di perfezione cosmica al “quadrato” di colore nero, l’origine di tutto, da cui si sviluppano tonalità cromatiche pure e derivate. Le forme espressive vanno dalla pittura alle installazioni, i motivi ispiratori da temi personali come “Conversazione” e “Incontro”, a  naturali come il tempo e le stagioni fino alla dimensione cosmica, nei microcosmi con cromatismo e forme geometriche.

Anche di questi abbiamo parlato nell’incontro con l’artista: l’inizio della conversazione è stato dedicato, e non poteva essere altrimenti, al motivo più recente, il tema dell’ombra, che peraltro viene da lontano, dal “periodo blu” degli anni ’80. Un ritorno dopo aver girovagato  nel cosmo? 

Di nodo in nodo, dall’ombra alla luce

Più propriamente è il rapporto luce-ombra al centro della sua più recente ricerca artistica, tra due realtà compresenti nella natura e nella vita di tutti i giorni: il loro è un “incontro”, anzi un “in-contro”  per sottolineare che si tratta di opposti. E viene espresso in un’installazione che nella mostra si snodava in una lunga parete del corridoio in un percorso espositivo nel quale si incontravano le altre opere dell’artista, in una “piccola antologica”, come dice lei stessa.

“Di nodo in nodo… di vita in vita” è il titolo dell’installazione, nella quale campeggiano grandi quadrati bianchi con all’interno dei rombi neri che hanno un significato nuovo rispetto alle analoghe forme nere precedenti – peraltro di dimensioni e collocazioni diverse, come diremo – rappresentando i momenti difficili della vita e nello stesso tempo le possibilità di alleggerirli fino a superarli, espresse da fili di collegamento che cambiano colore  via via che si dipana questo processo. I quadrati restano neri, è il filo colorato a segnare il percorso esistenziale con la presenza costante dell’ombra insieme alle forze vitali che la contrastano assumendo tutte le sfumature dell’iride partendo dal colore dell’oro prima di giungere al culmine liberatorio.  Tante vite, con i nodi che si sciolgono fino a  formarne nuovi per scioglierli ancora, con l’anima rigenerata nel ciclo della vita.

L’ombra è al centro della visione di Gabriella Fabbri, com’è al centro della vita sia nel suo aspetto naturalistico sia nella sua versione esistenziale. Non è un elemento negativo proprio perché in essa è insito il superamento che nasce dalla forza vitale, basta averne la consapevolezza e la forza di penetrare al suo interno. E’ uno stato dell’animo da analizzare e approfondire per sciogliere i nodi aggrovigliati e migliorarsi, come è uno stato di natura da scrutare per svelare ciò che nasconde.

D’altra parte l’ombra è l’altra faccia della luce, sia in senso letterale che figurato, se non ci fosse la luce non avrebbe la stessa forza rigeneratrice. In fondo il creato è un insieme di opposti, in ogni campo c’è un “in-contro”  inteso nei due sensi, sia negli aspetti materiali ed esteriori – il bello  e il brutto, il lungo e il corto, il grasso e il magro, e così via – sia in quelli spirituali e interiori, come il bene e il male. E qui ci fermiamo,  si andrebbe troppo lontano entrando nei grandi misteri della vita e dell’universo  e nei meccanismi che lo regolano: forze contrapposte in mirabile equilibrio.

 “Microcosmi. Del quadrato nero”  

I microcosmi, dal nero primordiale ai colori dlla vita

A questo punto il discorso torna alla visione cosmica, dalla quale l’artista è stata attratta da tempo con le sue elaborazioni pittoriche e cromatiche, stilistiche e concettuali dei “Microcosmi”. Sono stati oggetto di diverse esposizioni, anche a Roma alla Fondazione Crocetti nel 2011,  e non potevano non essere riproposti quando il microcosmo diventa l’animo umano con le sue ombre. Ma lo sono in una versione nuova, il titolo è “Microcosmi. Del quadrato nero”: resta il quadratino che esprime l’inizio, ora le proliferazioni cromatiche sono molteplici in una polifonia armoniosa ancora più ricca, la vita si apre di più. La forma geometrica rigorosa è regolata dal numero e suoi multipli.

Sono moduli numerici che esprimono l’equilibrio tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, regolati e correlati da precise leggi di cui non ci rendiamo conto ma che danno origine all’energia dell’universo, espressa da un equilibrio magistrale di colori, dai primari ai terziari. Sono gradazioni cromatiche di varie tonalità, con i possibili accostamenti sorretti da un ordine rigoroso che evita ogni sconfinamento dallo schema prefissato. L’artista deve resistere alle tentazioni dello spontaneismo informale per restare al rigore scientifico alla base della sua ricerca creativa.

Del resto – ce lo ha ripetuto lei stessa – fu una conferenza scientifica del prof. Corbucci  a farla entrare nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo e a farle penetrare l’origine prima. Lei lo esprime attraverso un quadratino nero, il vuoto iniziale origine della materia nel microcosmo, che diventa buco nero nel macrocosmo: evoca “la forza gravitazionale che risucchia e l’energia che dilata”  e i movimenti precisi e invisibili nell’infinitamente piccolo. In mezzo c’è l’essere umano che resta estraneo in questa visione, mentre diventa protagonista per i nodi da sciogliere nella vita nell’installazione di cui abbiamo appena parlato. Una lacuna colmata? No, un ciclo che va avanti nelle sue implicazioni, e non può prescindere dall’investigazione sull’origine, sull’inizio del tutto. 

A parte le interpretazioni sui significati, i “microcosmi” si rivelano come una sinfonia di colori, quadrati cromatici con in basso a sinistra un quadratino nero, l’elemento fisico di base. Ne derivano i colori puri, un trittico di intense tonalità,  rosso-giallo-blu – dal quale parte un processo  che si sviluppa nei colori complementari, derivati dai primari, e nei colori terziari. La forma quadrata è la costante, esprime la stabilità e, in ottica umana, la razionalità; il colore mutevole è la variabile, sono frammenti con incorporata la memoria genetica in cui risiede l’energia, la forza che muove la natura e l’essere umano e, in definitiva, anima gli elementi fondamentali.

La ricerca artistica della Fabbri non è di poco conto, penetra con l’arte oltre la soglia del visibile ed esprime con rigore geometrico e cromatico l’armonia delle leggi regolatrici dell’universo, nella compresenza del nero archetipo con i colori che ne derivano, della materia delle origini con l’energia che si sviluppa dal nucleo iniziale.

Il motivo dei “microcosmi” è espresso nella mostra di Pescara con varianti rispetto alle precedenti composizioni, un’evoluzione nell’evoluzione: ricordiamo i grandi quadrati elementari ognuno di un cromatismo diverso con il quadratino nero all’interno; e anche composizioni in cui erano aggregati nove quadrati più piccoli sempre con il sigillo dell’origine quantistica del tutto. I colori sono molteplici, ma l’artista non si è abbandonata al gusto delle sinfonia cromatica, è solo la prima impressione, i cambiamenti di colore rispondono a regole ferree, molto diversi nella parte centrale e negli angoli, simili ma non identici come sembrerebbe a prima vista lungo la diagonale, il tutto  secondo una successione calibrata quanto equilibrata. Non è espressionismo, è ricerca pittorica.

Il supporto in cui sono dipinti è una tela, avvicinandosi si vedeva  che sono staccabili, quasi si potesse variare la composizione dell’opera come, in tre dimensioni, avviene nel “cubo di Rubik”. Ci poniamo di nuovo l’interrogativo che esprimemmo su “cultura.inabruzzo.it”  dopo la mostra romana: cioè se tornando a ricercare a livello cosmico, l’artista possa fare il salto alla terza dimensione, dalla geometria piana alla geometria solida con ulteriori gradi di libertà  e di armonia.

“La città segreta”  

L’omaggio alle città amate

L’opera della Fabbri è calata anche nella realtà che la colpisce quanto più è viva e pressante. Così per il “Trittico per L’Aquila”, da lei definito “un atto d’amore e di speranza”. Il codice geometrico dei “microcosmi” in tre grandi quadrati formati da 99 piccoli quadrati, il numero è quello aquilano delle  99 cannelle; e il codice cromatico  con il primo quadrato nero per l’angoscia della tragedia e solo un quadratino colorato, il secondo dal cromatismo crescente fino al terzo quadrato, un’esplosione  di colori e di luce che esprime la ripresa: sono presenti i colori caldi del movimento operoso e i colori freddi della stagnazione e inerzia, il fervore e la fatica nel tormentato cammino della rinascita; c’è  sempre il quadratino nero che qui richiama non più l'”arché”  materico ma il persistere dell’incubo. Che si materializza  nelle musiche di Luca D’Alberto, dal brontolio del sisma alle melodie liberatorie, che si “accendono” con il quadratino nero in una coinvolgente interattività.

C’è poi Venezia, con due opere che hanno motivazioni  diverse. I “Supporti transitori” sono 22 fotografie – 16 di formato 20×30, quattro 50×60 – scattate al Magazzino del Sole alla Fondazione Vedova, come omaggio al grande pittore. Ci confida che, recatasi a visitare l’esposizione, fu colpita dal procedimento con cui un braccio meccanico prelevava le opere in modo da mutarne di volta in volta la collocazione rinnovandone quindi costantemente la visione; le ombre che si proiettavano a terra  aggiungevano un tassello alla sua ricerca, non potevano essere ignorate, l’impulso di fissarle con il mezzo fotografico fu irresistibile, di qui la serie esposta nella mostra. Siamo nell’arte concettuale, ci tornano in mente le serie fotografiche viste nel 2011 alla mostra sul “Guggenheim” al Palazzo Esposizioni, nelle quali il concetto di base veniva espresso da immagini in sequenza.

Su Venezia è stata esposta anche “La città segreta”, dal Premio Terna, riquadri a forma di rombo che evocano le decorazioni di Palazzo Ducale con inseriti dei cerchi come “oculi”: l’installazione comprende le luci che si accendono quando ci si avvicina, si vedono i motivi floreali, il panorama con il cielo, le gondole e i gabbiani, mentre si diffondono le musiche di Luca D’Alberto. Così l’artista cerca di penetrare  e far cogliere la bellezza segreta, dietro la facciata, della città lagunare.

 “Ecce…  monstrum” si ispira a un’altra città frequentata e amata dall’artista, Roma:  è un’installazione  che evoca il portale del Palazzetto Zuccari, a Trinità dei Monti.  Ci sono i rilievi che decorano le arcate e sono stati inseriti degli specchi: salendo su uno sgabello si possono vedere i propri occhi riflessi con effetti speciali nella percezione che ciascuno ha come unica e personale. In questo, ci dice la stessa autrice, “l’arte contemporanea rivela la sua vera essenza, qualcosa di vivo in cui anche l’osservatore può essere chiamato a partecipare in modo attivo alla creazione artistica”.

Le installazioni su grandi temi

Gabriella Fabbri non è solo l’artista del cosmo e delle ombre, immersa nella ricerca all’esterno sull’universo e all’interno sull’angoscia esistenziale; e non si limita ad un’attenzione che diventa omaggio per le città più care, da L’Aquila a Venezia e Roma. Apre la sua visione artistica ai grandi temi della vita, dalla libertà all’incontro tra mondi, con acuta sensibilità e forza espressiva.

Respinge decisamente la negazione dei diritti e l’oppressione mediante la “Denuncia degli occhi”: due cubi inscritti l’uno nell’altro  – a rete di ferro quello esterno, in plexiglass quello interno – con la serigrafia computerizzata degli occhi dell’autrice e una luce che si muove nei vari lati e colpisce: anche qui c’è molto di concettuale se il significato conduce ai diritti  denegati e all’oppressione che l’essere umano subisce – il cubo è come una prigione -e non riesce ad esprimersi liberamente.

Si dedica al tema sempre attuale del rapporto tra il mondo ideale e quello reale, che non dovrebbero entrare in conflitto. In “Incontro”, su due tele bianche utilizza due “scovoli”, le spazzole che usano gli spazzacamini, uno nuovo, l’altro usato con le setole scompigliate a rappresentare i due mondi: le luci che si accendono ad intermittenza  verso l’alto e verso il basso creano giochi di ombre – eccole di nuovo! – con distacchi e avvicinamenti, alla ricerca di un equilibrio. Abbiamo chiesto all’artista il perché di un attrezzo così insolito, ha risposto che è stata colpita dalla forma sobria con una sorta di raggiera che rispondeva ai motivi dell’opera, ne ha acquistati due, poi ne ha scompigliato uno.

Altri due mondi, entrambi reali e terreni, si incontrano in una installazione semplice e leggera nella concezione come è profonda nel significato e intensa nell’impatto visivo. E’ “Il Grande respiro”, realizzata per il 5° centenario del grande Matteo Ricci, astronomo- matematico e missionario-viaggiatore in Cina, un abbraccio che – per restare in carattere con gli altri motivi – potremmo definire cosmico, tra l’Oriente e l’Occidente: due emisferi  blu e giallo uniti dall’ideogramma cinese della parola “amico” e dal simbolo “ascii” del collegamento via internet, la cosiddetta “chiocciola”,  sigillo dei rapporti fecondi tra individui, popoli e civiltà uniti dalla moderna comunicazione .

Il nostro incontro con Gabriella Fabbri termina qui. Ci ha detto molte cose, e abbiamo visto insieme la mostra al Palazzo Esposizioni “Benedette foto!  Carmelo Bene visto da Claudio Abate”, il suo teatro ripreso in intensi chiaroscuri, tante ombre anche lì; poi  le due mostre al Vittoriano “I tesori del patrimonio culturale albanese”  dai reperti del Neolitico all’epoca pre-romana e romana fino alle pitture iconiche di Onofri, sfavillante di ori, e infine “Verso la Grande Guerra”, altre ombre anche se metaforiche, quelle che si addensavano sul mondo e portavano al primo conflitto mondiale. Nuovi tasselli, dal teatro e dalla storia, chissà se ne terrà conto nella sua ricerca “in-contro luce”.  Una ricerca ricca di molti motivi, come abbiamo visto, e in continua evoluzione spaziando su una gamma quanto mai ampia di contenuti e forme stilistiche anche molto avanzate.

E’ valsa la pena tornare sulla sua mostra perché l’arte non chiude mai: il valore delle esposizioni sta nel lasciare il segno ed essere ricordate con un’attenta riflessione. Quella di Gabriella Fabbri lo meritava senz’altro anche perché la sua ricerca artistica continua a un ritmo incalzante.

Info

Il nostro precedente articolo sull’artista, dal titolo “Microcosmi di Gabriella Fabbri in mostra a Roma al Museo Crocetti”, è uscito sul sito cultura.inabruzzo.it il 3 marzo 2011 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque sono disponibili).

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’autrice Gabriella Fabbri che si ringrazia. In apertura, “Di nodo in nodo… di vita in vita”, particolare; seguono, “Microcosmi. Del quadrato nero”, poi “Microcosmi. Del quadrato nero”“La città segreta”; in chiusura, “Denuncia degli occhi”.

“Denuncia degli occhi” 

Deineka, 3. Dalla guerra agli anni ’60, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della la visita alla mostra su “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”  dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 a Roma, Palazzo Esposizioni, con la quale ripercorriamo un periodo cruciale nelle opere di un artista sovietico propagandista del regime ma che diede al “Realismo socialista” un’impronta personale di grande qualità. Dopo la prima fase degli anni ’20, la grafica e le tematiche degli anni ’30, sport vita all’aria aperta, e il viaggio in Occidente del 1935, ecco il ritorno a casa, gli anni della guerra e le altre espressioni artistiche nella scultura e nel mosaico fino agli anni ’50 e ’60  allorché termina la sua parabola di arte e vita.

“Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941

Il ritorno dopo il viaggio in Occidente

Nella seconda metà del 1935, dopo la parentesi del viaggio in Occidente, riprende subito contatto con il suo paesaggio in “Kolchosiana in bicicletta”:sempre l’uso del primo piano, qui una strada con la figura sul veicolo, non colpisce il viso scuro quanto la posizione armoniosa e la macchia rossa del vestito sul verde della campagna in diverse gradazioni con la straordinaria profondità data dalla via di penetrazione che l’attraversa per perdersi all’estremo del quadro. E poi “Ritratto di S.I.L. con cappello di paglia”, dove si sente l’atmosfera del ritratto alla “Parigina” nell’eleganza del cappellino e del colletto di pizzo sull’abito nero pur se il viso è più intenso e meno raffinato.

Del 1934 “Ritratto di ragazza con un libro”, in un interno la tazza sul tavolo e i fiori sul davanzale; è immersa nella lettura, ha posato come modella la sua compagna di allora, Serafima Lyceva.  In un  dipinto del 1937, “Ritratto di Irina Servinskaia”, la figura in abito nero seduta su una poltroncina di vimini,  rappresentata di profilo, ha il viso assorto e intenso, le guance accese e i capelli rossi.

L’anno precedente “Modella”, un nudo femminile disteso mollemente su un divano rosso davanti a una finestra dalla quale sporgono i piani superiori degli edifici di fronte; l’inquadratura è di schiena, la posizione estremamente sensuale, le forme morbide e armoniose, ben diverse da quelle tozze e robuste dipinte in “Giocando a palla”. L’armonia della classicità vista in Italia ha fatto scuola?

Un altro grande dipinto di nudo, 2,30 x 1,70 cm, completa questa parte:  “Dopo la lotta” mostra la schiena possente di un uomo seduto in primo piano; sembra attendere che si liberi un posto nelle docce in fondo con sei uomini nudi in piedi che scherzano o si muovono sotto i getti dell’acqua; così come sono allineati e sfumati sembrano un fregio classico.  E’ datato 1937-42,  pensiamo che sono destinati ad essere richiamati alle armi per combattere nel conflitto mondiale che Deineka  raffigura con scene molto espressive a Mosca e Sebastopoli, e come loro tutti gli uomini validi.

La guerra a Mosca e Sebastopoli

Con la guerra torna a dipingere l’acciaio nella sua forma più dura e tagliente, lo vediamo nei “cavalli di frisia” di “Regione di Mosca, novembre 1941”, un camion passa nella piana coperta di neve a lato delle abitazioni, è solo preparazione. Si entra nel cuore della battaglia in “La difesa di Sebastopoli”, 1942, l’acciaio è sulle baionette brandite nella carica dalle due parti a stretto contatto: scena altamente drammatica come era calma e tranquilla “Sebastopoli. Sera”, 1934, due marinai e una ragazza  camminano verso l’osservatore lungo una strada tranquilla, animata da altri viandanti, c’è pace; invece nel corpo a corpo tra sovietici in bianco e tedeschi in grigioverde c’è slancio ed eroismo, sotto un cielo corrusco, si ha la sensazione della resa dei conti in un momento veramente decisivo. Sebastopoli era una città amata dall’artista, e il quadro nasce dalla visione delle immagini della città bombardata in una sua visita al fronte: lo dipinse di slancio per esprimere la sua rabbia.

L’acciaio dei “cavalli di frisia” torna in “L’asso abbattuto”, 1943: si sente nel vivo l’impatto del pilota a testa in giù a pochi metri dal suolo, c’è pietà e tenerezza per come si tiene la testa, in un gesto quasi infantile, un ritorno all’età dell’innocenza nel momento supremo nel quale merita rispetto anche il nemico, chiamato non così ma con il riconoscimento che è stato abbattuto “l’asso”.

Rappresenterà ancora Mosca durante la guerra nel 1946-47  su carta con tempera e carboncino: in “Evacuazione del bestiame dal kolchoz” i “cavalli di frisia” di acciaio tagliente sono l’unico segno sinistro della guerra nella scena quasi bucolica dell’armento che si sposta lungo il fiume oltre il quale c’è un luogo quasi di fiaba con al centro un grappolo di cupole tipo Cremlino; in “Piazza Svedlov. Dicembre”,  la fontana monumentale e il palazzo neoclassico dall’imponente colonnato e trabeazione evocano la vita normale, se non ci fossero i palloni antiaerei in cielo e qualche militare armato; in “Sera. Stagni dei Patriarchi”, il solito pallone  antiaereo in alto con due militari sul bordo dello stagno ghiacciato dove i bambini giocano a polo;  in “Officina al fronte. Riparazione carri armati”  torna l’acciaio nelle strutture, una donna anziana è tra gli operai, l’impegno è corale.

Una parentesi quasi onirica, siamo ancora in guerra, in “Vasti spazi” , 1944, grande dipinto di quasi 3 x 2 metri, che richiama l’immagine di “Mezzogiorno” del 1932 nel movimento festoso delle ragazze verso l’osservatore: ora sono vestite e appena fuori dall’acqua del lago in basso, scena bucolica, né case coloniche né ciminiere, tanto verde in diverse tonalità oltre all’azzurro dell’acqua.

I primi dipinti del dopoguerra

Finalmente la guerra è finita, “La staffetta”,1947, dipinto altrettanto grande, torna come tema alle immagini sportive degli anni ’30, però con un carattere più fotografico senza le trasposizioni del realismo ideologico che dava potenza ai corpi. Il commento di Irina Vakar sugli anni del dopoguerra si attaglia a questo dipinto: “L’interesse primario di Deineka relativamente allo spazio riguarda la resa del paesaggio en plein air, pratica che lo appassiona da tempo: ritrarre un sole primaverile, delle ombre azzurrine sulla neve, l’aria verso cui i piani evaporano in lontananza”.

Non vogliamo concludere con queste visioni esteriori il racconto del cuore della mostra, bensì con tre opere dell’ultimo periodo, anch’esse esposte, che ci riportano alla sua dimensione umana.

La prima è “Regione di Kursk. Il fiume Tuskar”, 1945, la grande ansa del fiume nel verde vista dall’alto con le tre persone minuscole che camminano lungo la strada è quanto di più riposante si potesse concepire, un’immagine da prendere come simbolo della fine del conflitto mondiale, allorché la vita torna a fluire serena come il fiume nella campagna.

Poi, in  “Mattino”, 1947, un grande dipinto dove torna la ginnastica della ragazza in pantaloncini a seno nudo, sono le forme sode di allora, ma non c’è più l’austerità di un tempo, una tenda gialla istoriata e un tappeto a vari colori movimentano la scena.

Quindi “Bagnante”, 1951, nudo integrale frontale, si avvicina a “Mattino” nelle braccia in alto e nella solidità del corpo; e richiama “Bagnanti”, 1933, che abbiamo visto di grande delicatezza, con derivazioni da Gauguin, soprattutto nell’espressione del viso sorridente che guarda lontano; questo è di dimensioni maggiori, quasi 3 metri per 2, c’è determinazione e un senso di pace reso dalla scena bucolica dietro la figura, un corso d’acqua e sull’altra riva la contadina con bue e vitello.

“Vasti spazi”, 1944 

Sculture e opere in mosaico

Lo sport diventa oggetto anche di sculture in bronzo, nello stesso 1947 “Staffetta” e “Centometrista”, nel 1955 “Calciatori”; nel 1950 aveva realizzato il mosaico “Sciatori”  ripresi di profilo in tre colori, giallo, rosso e verde nel movimento del fondo. E dato che parliamo di mosaici non possiamo non ricordare i due monumentali “Soldato dell’Armata rossa”, 1948, alto 2 metri, e “Mungitrice”, 1952, alto 4 metri in quattro pannelli, collocato nella galleria centrale del Palazzo Esposizioni tra le arcate e la volta, veramente spettacolare: entrambi sono venuti dalla Pinacoteca statale di Kurst intitolata all’artista.  Queste due ultime opere sono il segno che il “Realismo socialista” torna a celebrare il lavoro e anche il nuovo mito dell’Armata rossa che ha respinto l’invasione nazista e ha conquistato Berlino fino ad espugnare il bunker del Reichstadt.

In mosaico anche lo straordinario contributo alla metropolitana di Mosca, precisamente nella “Stazione Majakovskaja”, dedicata al famoso poeta, reso in mostra da un esauriente filmato: 35 formelle che rappresentano un “capolavoro assoluto”, inserite soprattutto nella navata centrale della seconda tratta, inaugurata nel 1938, in una sequenza a doppie volte che le fa scoprire ad una ad una con un fattore-sorpresa. Nell’insieme, architettura e pittura, mosaici e affreschi, sculture e bassorilievi con elementi ornamentali di pregio, si fondono in una composizione coerente sotto il profilo costruttivo e funzionale e in linea con la motivazione e finalità politica, anzi ideologica.

Si pensi che i 35 mosaici di forma ovale sono nella sala sotterranea lunga 155 metri, con l’intento di dare leggerezza all’insieme mediante una sorta di apertura luminosa verso l’esterno irraggiungibile – si è a trentacinque metri di profondità –  in una sequenza quasi cinematografica con i colori dei tasselli vetrati in una successione così descritta da Alessandro De Magistris: ” Percorrendo questa da un estremo all’altro, colui che avesse rivolto lo sguardo verso l’alto, avrebbe ammirato, poco alla volta, stagliarsi contro il cielo illusoriamente riprodotto e reso vibrante dai tasselli vetrati, quasi fossero fotogrammi di un’opera cinematografica, i campi kolchosiani, le ciminiere di nuovi impianti industriali dell’industrializzazione forzata, le attività di lavoro e svago della gioventù comunista, la vita ideale della famiglia sovietica che nuove leggi cercavano di rafforzare dopo il collasso degli anni venti. Avrebbe potuto ammirare il lancio dei paracadutisti, gli aerei che solcavano i cieli della madrepatria, e ancora i nuovi mezzi di esplorazione che… anticipavano, nella ricerca di nuovi primati stratosferici, la conquista del cosmo degli anni del dopoguerra”.

Questi i contenuti, e l’effetto? “La vivacità cromatica dei mosaici, in cui si rifletteva la luce emessa dalle fonti… forse nei primi viaggiatori poteva veramente alimentare l’impressione di trovarsi in prossimità della superficie e del cielo aperto”. La metropolitana fu concepita come  un’imponente “città sotterranea” che doveva condizionare lo sviluppo urbanistico di superficie, un’opera del regime volta ad affermare la potenza tecnologica e a dare al popolo una sua reggia, frequentata quotidianamente, con le architetture e le ricchezze ornamentali non più destinate al palazzo degli Zar; i mosaici di Deineka come i grandi lampadari e il resto avevano questa ambiziosa finalità.

Gli anni ’50 e ‘60

Dopo le sculture e i mosaici sopra citati non abbiamo viste esposte opere degli anni successivi. Nel dopoguerra il Realismo socialista era divenuto un imperativo per gli artisti, dovevano celebrare l’ordinamento della società come si voleva che risultasse nella realtà in modo da delineare il domani preconizzato dall’ideologia. Perciò le immagini che ne risultavano erano artificiose e senza forza, e l’arte si riduceva ad una sterile accademia priva di vita. Deineka non poteva non risentirne.

Scrive Irina Lebedeva, che dirige la Galleria statale Tret’jacov” prestatrice di una parte rilevante delle opere di Deineka, riferendosi alla sua arte: “Essa risentì effettivamente del contesto dell’ideologia sovietica e per lunghi anni la si è interpretata esclusivamente come esaltazione della forza, come volontà di eroismo, come glorificazione della tecnica e dello sport”. Questo imponeva l’ideologia, e aggiunge: “Per l’artista furono decisive non tanto le direttive politiche quanto la percezione del mondo, delle persone, il tendere di un’intera generazione verso un ideale, il rapporto armonico tra l’uomo e un mondo che stava dinamicamente cambiando”. Ma quando si attenuarono le energie giovanili, mentre queste direttive venivano ribadite e rafforzate con l’accusa di “formalismo” deteriore ai presunti deviazionisti, tra i quali in qualche caso veniva annoverato, ecco che, potremmo dire evocando una nota espressione, si andò esaurendo la sua “spinta propulsiva”.

Per Elena Voronovic “negli anni Cinquanta e Sessanta perse ciò che di più sacro esiste per il talento di un artista: la fiducia nella realizzazione del sogno, della verità di ciò che crea. Il suo brillante e vigoroso talento non riuscì a trovare una via di uscita neanche nei lavori eseguiti per se stesso. Alla ricerca di un compromesso tra il proprio punto di vista e la committenza ufficiale alla fine della sua vita Alecsandr Deineka finì per perdere la libertà e la disinvoltura dei suoi anni giovanili”.

Ed è eloquente, anche se ha un suono paradossale, che si parli di “libertà” quando c’era lo stalinismo e di “perdita di libertà” quando dopo il XX Congresso del PCUS con Krushev e la “destalinizzazione” ci fu qualche apertura sul piano politico: ciò dimostra quanto possano, contro ogni oppressione, la determinazione e la forza ideale che sentiva nell’età giovanile e non ritrova in età avanzata. Anche questa è una lezione che viene da chi, pur con i vincoli del “Realismo socialista”, ci ha dato opere che sono espressione di vitalità e un inno alla vita per ogni latitudine.

Continua a ispirarsi ai giovani, allo sport e all’aria aperta ma non vi sono motivazioni nuove, sembrano fredde ripetizioni di momenti vissuti un tempo con slancio ed entusiasmo. Ma se l’attività artistica degli anni ’50 e ’60  è condizionata dalla disillusione, non è venuta meno l’attività istituzionale: la sua posizione nel campo delle arti dell’Unione sovietica è stata di assoluta preminenza, anche se fra alti e bassi nel suo rapporto con le autorità del regime.

Sono proseguite le mostre nelle quali è stato tra  gli espositori di punta e le sue partecipazioni a Conferenze ed Assemblee negli organismi ufficiali di cui faceva parte.  Nel 1958 il presidente dell’Unione moscovita degli artisti sovietici Dementij Smarinov gli diede questo attestato: “Il sentimento della contemporaneità, l’alta intransigenza, il legame della creazione dell’artista con il destino di un popolo infondono un importante contenuto alle sue opere”. E gli conferì, a nome del governo, il titolo di “personalità emerita delle arti”; un anno dopo ebbe il “titolo emerito di Artista Popolare”, nel 1960 la laurea d’onore “per l’impegno attivo nel solidificare la pace tra i popoli”, nel 1961 la Medaglia d’oro e la Laurea d’onore dell’Accademia Belle Arti; nel 1964 il “Premio Lenin”.

Nel 1969, il 5 giugno, ci fu a Mosca una sua personale con 250 lavori, poi venne spostata a Leningrado;  il 10 ricevette il titolo di “Eroe del Lavoro Socialista” e il conferimento dell'”Ordine di Lenin” e della medaglia d’oro “Falce e martello”, ma non se ne rese neppure conto, era in fin di vita. Morì nella notte tra l’11 e il 12 giugno, a 70 anni.

Il Fondo per gli artisti fece realizzare un monumento sepolcrale dallo scultore Rukavinsikov e dall’architetto Voskresenskij  sulla sua tomba a Mosca nel 1989; nel 1982 c’era stata la prima mostra fuori della Russia, a Dusserdolf. Dopo quella mostra, “all’Ovest niente di nuovo” fino alla meritoria mostra a Roma del 2011, al Palazzo Esposizioni.

I suoi rapporti con le istituzioni artistiche e politiche, nonostante la statura che appare anche da questi pochi accenni, non furono affatto tranquilli, per la sua forte personalità che lo portava all’indipendenza e all’insofferenza rispetto alle costrizioni imposte soprattutto ai “formalisti”. Proposte di onorificenza non accolte dalle autorità e sue dimissioni dagli incarichi non mancano.

Tutto questo viene espresso sinteticamente in un quadro che realizzò nel 1948, un anno particolare.

“Autoritratto”, 1948

L’Autoritratto dell’Eroe del lavoro e dell’umanità

Perciò l’immagine che poniamo come conclusione della nostra visita alle opere in mostra è questo quadro,  “Autoritratto”, 1948, che precede il dipinto “Bagnante”, 1951,ed ha pari forza espressiva mostrando un’energia repressa anche se rivolta a una direzione e in una prospettiva ben diverse. Un’inconsueta raffigurazione di sé in tenuta definita “pugilistica”, senza guantoni ma in vestaglia o accappatoio, asciugamano e scarpette, nella camera con una tela non dipinta appoggiata alla parete.

Dipinse lo speciale autoritratto in un momento negativo, non solo per lui, ma per l’arte in Unione Sovietica, durante la campagna contro il “formalismo”, in musica e in pittura, nel quale veniva compreso anche lui. Nel marzo di quello stesso anno, il 1948, fu sollevato dall’incarico di direttore del Corso di pittura monumentale “in seguito alle sue dimissioni”, aveva la schiena dritta; ma a settembre fu ammesso come membro del “Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Industria culturale”; in ottobre scrisse ai Compagni d’arte russa degli scultori  informandoli di aver conservato  plastici e progetti del monumento “Annientamento dei tedeschi vicino Mosca”, e lasciò la posizione di direttore  restando insegnante del Corso di scultura compositiva e decorazione; partecipò anche alla mostra “Pittura e grafica sovietica”  e lavorò ad alcuni dipinti, tra essi l'”Autoritratto”. Quell’immagine orgogliosa riafferma la sua dignità indomita, la sua volontà di battersi a mani nude e di reagire con i mezzi di cui disponeva contro la mortificazione dell’arte.

Abbiamo voluto ricordare le fasi movimentate del 1948 per inquadrare il dipinto in cui si ritrae: come segno di determinazione e volontà di lottare riprendendo la veste giovanile di pugile apprezzato da un grande allenatore di cui frequentava la palestra, che gli prediceva un luminoso avvenire nel pugilato se non ne avesse avuto uno ancora più fulgido nella pittura.

Ebbene, questo ricongiungersi delle due vocazioni di eccellenza della sua vita dopo la tragedia della guerra e gli sconvolgimenti conseguenti nella vita artistica e in quella quotidiana, ci appare rivelatore del suo essere sommo interprete del “Realismo socialista”,  ma nello stesso tempo essere espressione di un’arte molto personale che ha saputo nobilitare i temi propagandistici dando alle sue figure un forte spessore umano. Nel 1964 ha avuto, come abbiamo ricordato, il titolo di “Eroe del lavoro Socialista”. Un titolo lo merita anche nel mondo occidentale come “Eroe del lavoro” senza aggettivi; ma anche “Eroe dell’umanità” nei suoi momenti più vivi, il lavoro e il riposo, lo sport e il tempo libero, la guerra e la ripresa con vitalità e ottimismo: Per lui “l’arte è un po’ l’ideale, il desiderio di un poco di più di ciò che si vede, e di un po’ meglio di ciò che si vive” .

Per tutto questo  ci piace ricordare e celebrare di nuovo oggi la sua figura  di artista e di uomo.

Info

Catalogo“Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sono usciti, in questo sito, il  26 novembre e 1° dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, “Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941; seguono,  “Vasti spazi”, 1944, poi “Autoritratto”, 1948; in chiusura, “Mungitrice”, il mosaico alto 4 m nella galleria superiore del Palazzo Esposizioni.  

“Mungitrice”,  il mosaico monumentale 

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della la visita alla mostra su “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”  dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 a Roma, Palazzo Esposizioni, con la quale ripercorriamo un periodo cruciale nelle opere di un artista sovietico propagandista del regime ma che diede al “Realismo socialista” un’impronta personale di grande qualità. Dopo la prima fase degli anni ’20, la grafica e le tematiche degli anni ’30, sport vita all’aria aperta, e il viaggio in Occidente del 1935, ecco il ritorno a casa, gli anni della guerra e le altre espressioni artistiche nella scultura e nel mosaico fino agli anni ’50 e ’60  allorché termina la sua parabola di arte e vita.

“Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941

Il ritorno dopo il viaggio in Occidente

Nella seconda metà del 1935, dopo la parentesi del viaggio in Occidente, riprende subito contatto con il suo paesaggio in “Kolchosiana in bicicletta”:sempre l’uso del primo piano, qui una strada con la figura sul veicolo, non colpisce il viso scuro quanto la posizione armoniosa e la macchia rossa del vestito sul verde della campagna in diverse gradazioni con la straordinaria profondità data dalla via di penetrazione che l’attraversa per perdersi all’estremo del quadro. E poi “Ritratto di S.I.L. con cappello di paglia”, dove si sente l’atmosfera del ritratto alla “Parigina” nell’eleganza del cappellino e del colletto di pizzo sull’abito nero pur se il viso è più intenso e meno raffinato.

Del 1934 “Ritratto di ragazza con un libro”, in un interno la tazza sul tavolo e i fiori sul davanzale; è immersa nella lettura, ha posato come modella la sua compagna di allora, Serafima Lyceva.  In un  dipinto del 1937, “Ritratto di Irina Servinskaia”, la figura in abito nero seduta su una poltroncina di vimini,  rappresentata di profilo, ha il viso assorto e intenso, le guance accese e i capelli rossi.

L’anno precedente “Modella”, un nudo femminile disteso mollemente su un divano rosso davanti a una finestra dalla quale sporgono i piani superiori degli edifici di fronte; l’inquadratura è di schiena, la posizione estremamente sensuale, le forme morbide e armoniose, ben diverse da quelle tozze e robuste dipinte in “Giocando a palla”. L’armonia della classicità vista in Italia ha fatto scuola?

Un altro grande dipinto di nudo, 2,30 x 1,70 cm, completa questa parte:  “Dopo la lotta” mostra la schiena possente di un uomo seduto in primo piano; sembra attendere che si liberi un posto nelle docce in fondo con sei uomini nudi in piedi che scherzano o si muovono sotto i getti dell’acqua; così come sono allineati e sfumati sembrano un fregio classico.  E’ datato 1937-42,  pensiamo che sono destinati ad essere richiamati alle armi per combattere nel conflitto mondiale che Deineka  raffigura con scene molto espressive a Mosca e Sebastopoli, e come loro tutti gli uomini validi.

La guerra a Mosca e Sebastopoli

Con la guerra torna a dipingere l’acciaio nella sua forma più dura e tagliente, lo vediamo nei “cavalli di frisia” di “Regione di Mosca, novembre 1941”, un camion passa nella piana coperta di neve a lato delle abitazioni, è solo preparazione. Si entra nel cuore della battaglia in “La difesa di Sebastopoli”, 1942, l’acciaio è sulle baionette brandite nella carica dalle due parti a stretto contatto: scena altamente drammatica come era calma e tranquilla “Sebastopoli. Sera”, 1934, due marinai e una ragazza  camminano verso l’osservatore lungo una strada tranquilla, animata da altri viandanti, c’è pace; invece nel corpo a corpo tra sovietici in bianco e tedeschi in grigioverde c’è slancio ed eroismo, sotto un cielo corrusco, si ha la sensazione della resa dei conti in un momento veramente decisivo. Sebastopoli era una città amata dall’artista, e il quadro nasce dalla visione delle immagini della città bombardata in una sua visita al fronte: lo dipinse di slancio per esprimere la sua rabbia.

L’acciaio dei “cavalli di frisia” torna in “L’asso abbattuto”, 1943: si sente nel vivo l’impatto del pilota a testa in giù a pochi metri dal suolo, c’è pietà e tenerezza per come si tiene la testa, in un gesto quasi infantile, un ritorno all’età dell’innocenza nel momento supremo nel quale merita rispetto anche il nemico, chiamato non così ma con il riconoscimento che è stato abbattuto “l’asso”.

Rappresenterà ancora Mosca durante la guerra nel 1946-47  su carta con tempera e carboncino: in “Evacuazione del bestiame dal kolchoz” i “cavalli di frisia” di acciaio tagliente sono l’unico segno sinistro della guerra nella scena quasi bucolica dell’armento che si sposta lungo il fiume oltre il quale c’è un luogo quasi di fiaba con al centro un grappolo di cupole tipo Cremlino; in “Piazza Svedlov. Dicembre”,  la fontana monumentale e il palazzo neoclassico dall’imponente colonnato e trabeazione evocano la vita normale, se non ci fossero i palloni antiaerei in cielo e qualche militare armato; in “Sera. Stagni dei Patriarchi”, il solito pallone  antiaereo in alto con due militari sul bordo dello stagno ghiacciato dove i bambini giocano a polo;  in “Officina al fronte. Riparazione carri armati”  torna l’acciaio nelle strutture, una donna anziana è tra gli operai, l’impegno è corale.

Una parentesi quasi onirica, siamo ancora in guerra, in “Vasti spazi” , 1944, grande dipinto di quasi 3 x 2 metri, che richiama l’immagine di “Mezzogiorno” del 1932 nel movimento festoso delle ragazze verso l’osservatore: ora sono vestite e appena fuori dall’acqua del lago in basso, scena bucolica, né case coloniche né ciminiere, tanto verde in diverse tonalità oltre all’azzurro dell’acqua.

I primi dipinti del dopoguerra

Finalmente la guerra è finita, “La staffetta”,1947, dipinto altrettanto grande, torna come tema alle immagini sportive degli anni ’30, però con un carattere più fotografico senza le trasposizioni del realismo ideologico che dava potenza ai corpi. Il commento di Irina Vakar sugli anni del dopoguerra si attaglia a questo dipinto: “L’interesse primario di Deineka relativamente allo spazio riguarda la resa del paesaggio en plein air, pratica che lo appassiona da tempo: ritrarre un sole primaverile, delle ombre azzurrine sulla neve, l’aria verso cui i piani evaporano in lontananza”.

Non vogliamo concludere con queste visioni esteriori il racconto del cuore della mostra, bensì con tre opere dell’ultimo periodo, anch’esse esposte, che ci riportano alla sua dimensione umana.

La prima è “Regione di Kursk. Il fiume Tuskar”, 1945, la grande ansa del fiume nel verde vista dall’alto con le tre persone minuscole che camminano lungo la strada è quanto di più riposante si potesse concepire, un’immagine da prendere come simbolo della fine del conflitto mondiale, allorché la vita torna a fluire serena come il fiume nella campagna.

Poi, in  “Mattino”, 1947, un grande dipinto dove torna la ginnastica della ragazza in pantaloncini a seno nudo, sono le forme sode di allora, ma non c’è più l’austerità di un tempo, una tenda gialla istoriata e un tappeto a vari colori movimentano la scena.

Quindi “Bagnante”, 1951, nudo integrale frontale, si avvicina a “Mattino” nelle braccia in alto e nella solidità del corpo; e richiama “Bagnanti”, 1933, che abbiamo visto di grande delicatezza, con derivazioni da Gauguin, soprattutto nell’espressione del viso sorridente che guarda lontano; questo è di dimensioni maggiori, quasi 3 metri per 2, c’è determinazione e un senso di pace reso dalla scena bucolica dietro la figura, un corso d’acqua e sull’altra riva la contadina con bue e vitello.

“Vasti spazi”, 1944 

Sculture e opere in mosaico

Lo sport diventa oggetto anche di sculture in bronzo, nello stesso 1947 “Staffetta” e “Centometrista”, nel 1955 “Calciatori”; nel 1950 aveva realizzato il mosaico “Sciatori”  ripresi di profilo in tre colori, giallo, rosso e verde nel movimento del fondo. E dato che parliamo di mosaici non possiamo non ricordare i due monumentali “Soldato dell’Armata rossa”, 1948, alto 2 metri, e “Mungitrice”, 1952, alto 4 metri in quattro pannelli, collocato nella galleria centrale del Palazzo Esposizioni tra le arcate e la volta, veramente spettacolare: entrambi sono venuti dalla Pinacoteca statale di Kurst intitolata all’artista.  Queste due ultime opere sono il segno che il “Realismo socialista” torna a celebrare il lavoro e anche il nuovo mito dell’Armata rossa che ha respinto l’invasione nazista e ha conquistato Berlino fino ad espugnare il bunker del Reichstadt.

In mosaico anche lo straordinario contributo alla metropolitana di Mosca, precisamente nella “Stazione Majakovskaja”, dedicata al famoso poeta, reso in mostra da un esauriente filmato: 35 formelle che rappresentano un “capolavoro assoluto”, inserite soprattutto nella navata centrale della seconda tratta, inaugurata nel 1938, in una sequenza a doppie volte che le fa scoprire ad una ad una con un fattore-sorpresa. Nell’insieme, architettura e pittura, mosaici e affreschi, sculture e bassorilievi con elementi ornamentali di pregio, si fondono in una composizione coerente sotto il profilo costruttivo e funzionale e in linea con la motivazione e finalità politica, anzi ideologica.

Si pensi che i 35 mosaici di forma ovale sono nella sala sotterranea lunga 155 metri, con l’intento di dare leggerezza all’insieme mediante una sorta di apertura luminosa verso l’esterno irraggiungibile – si è a trentacinque metri di profondità –  in una sequenza quasi cinematografica con i colori dei tasselli vetrati in una successione così descritta da Alessandro De Magistris: ” Percorrendo questa da un estremo all’altro, colui che avesse rivolto lo sguardo verso l’alto, avrebbe ammirato, poco alla volta, stagliarsi contro il cielo illusoriamente riprodotto e reso vibrante dai tasselli vetrati, quasi fossero fotogrammi di un’opera cinematografica, i campi kolchosiani, le ciminiere di nuovi impianti industriali dell’industrializzazione forzata, le attività di lavoro e svago della gioventù comunista, la vita ideale della famiglia sovietica che nuove leggi cercavano di rafforzare dopo il collasso degli anni venti. Avrebbe potuto ammirare il lancio dei paracadutisti, gli aerei che solcavano i cieli della madrepatria, e ancora i nuovi mezzi di esplorazione che… anticipavano, nella ricerca di nuovi primati stratosferici, la conquista del cosmo degli anni del dopoguerra”.

Questi i contenuti, e l’effetto? “La vivacità cromatica dei mosaici, in cui si rifletteva la luce emessa dalle fonti… forse nei primi viaggiatori poteva veramente alimentare l’impressione di trovarsi in prossimità della superficie e del cielo aperto”. La metropolitana fu concepita come  un’imponente “città sotterranea” che doveva condizionare lo sviluppo urbanistico di superficie, un’opera del regime volta ad affermare la potenza tecnologica e a dare al popolo una sua reggia, frequentata quotidianamente, con le architetture e le ricchezze ornamentali non più destinate al palazzo degli Zar; i mosaici di Deineka come i grandi lampadari e il resto avevano questa ambiziosa finalità.

Gli anni ’50 e ‘60

Dopo le sculture e i mosaici sopra citati non abbiamo viste esposte opere degli anni successivi. Nel dopoguerra il Realismo socialista era divenuto un imperativo per gli artisti, dovevano celebrare l’ordinamento della società come si voleva che risultasse nella realtà in modo da delineare il domani preconizzato dall’ideologia. Perciò le immagini che ne risultavano erano artificiose e senza forza, e l’arte si riduceva ad una sterile accademia priva di vita. Deineka non poteva non risentirne.

Scrive Irina Lebedeva, che dirige la Galleria statale Tret’jacov” prestatrice di una parte rilevante delle opere di Deineka, riferendosi alla sua arte: “Essa risentì effettivamente del contesto dell’ideologia sovietica e per lunghi anni la si è interpretata esclusivamente come esaltazione della forza, come volontà di eroismo, come glorificazione della tecnica e dello sport”. Questo imponeva l’ideologia, e aggiunge: “Per l’artista furono decisive non tanto le direttive politiche quanto la percezione del mondo, delle persone, il tendere di un’intera generazione verso un ideale, il rapporto armonico tra l’uomo e un mondo che stava dinamicamente cambiando”. Ma quando si attenuarono le energie giovanili, mentre queste direttive venivano ribadite e rafforzate con l’accusa di “formalismo” deteriore ai presunti deviazionisti, tra i quali in qualche caso veniva annoverato, ecco che, potremmo dire evocando una nota espressione, si andò esaurendo la sua “spinta propulsiva”.

Per Elena Voronovic “negli anni Cinquanta e Sessanta perse ciò che di più sacro esiste per il talento di un artista: la fiducia nella realizzazione del sogno, della verità di ciò che crea. Il suo brillante e vigoroso talento non riuscì a trovare una via di uscita neanche nei lavori eseguiti per se stesso. Alla ricerca di un compromesso tra il proprio punto di vista e la committenza ufficiale alla fine della sua vita Alecsandr Deineka finì per perdere la libertà e la disinvoltura dei suoi anni giovanili”.

Ed è eloquente, anche se ha un suono paradossale, che si parli di “libertà” quando c’era lo stalinismo e di “perdita di libertà” quando dopo il XX Congresso del PCUS con Krushev e la “destalinizzazione” ci fu qualche apertura sul piano politico: ciò dimostra quanto possano, contro ogni oppressione, la determinazione e la forza ideale che sentiva nell’età giovanile e non ritrova in età avanzata. Anche questa è una lezione che viene da chi, pur con i vincoli del “Realismo socialista”, ci ha dato opere che sono espressione di vitalità e un inno alla vita per ogni latitudine.

Continua a ispirarsi ai giovani, allo sport e all’aria aperta ma non vi sono motivazioni nuove, sembrano fredde ripetizioni di momenti vissuti un tempo con slancio ed entusiasmo. Ma se l’attività artistica degli anni ’50 e ’60  è condizionata dalla disillusione, non è venuta meno l’attività istituzionale: la sua posizione nel campo delle arti dell’Unione sovietica è stata di assoluta preminenza, anche se fra alti e bassi nel suo rapporto con le autorità del regime.

Sono proseguite le mostre nelle quali è stato tra  gli espositori di punta e le sue partecipazioni a Conferenze ed Assemblee negli organismi ufficiali di cui faceva parte.  Nel 1958 il presidente dell’Unione moscovita degli artisti sovietici Dementij Smarinov gli diede questo attestato: “Il sentimento della contemporaneità, l’alta intransigenza, il legame della creazione dell’artista con il destino di un popolo infondono un importante contenuto alle sue opere”. E gli conferì, a nome del governo, il titolo di “personalità emerita delle arti”; un anno dopo ebbe il “titolo emerito di Artista Popolare”, nel 1960 la laurea d’onore “per l’impegno attivo nel solidificare la pace tra i popoli”, nel 1961 la Medaglia d’oro e la Laurea d’onore dell’Accademia Belle Arti; nel 1964 il “Premio Lenin”.

Nel 1969, il 5 giugno, ci fu a Mosca una sua personale con 250 lavori, poi venne spostata a Leningrado;  il 10 ricevette il titolo di “Eroe del Lavoro Socialista” e il conferimento dell'”Ordine di Lenin” e della medaglia d’oro “Falce e martello”, ma non se ne rese neppure conto, era in fin di vita. Morì nella notte tra l’11 e il 12 giugno, a 70 anni.

Il Fondo per gli artisti fece realizzare un monumento sepolcrale dallo scultore Rukavinsikov e dall’architetto Voskresenskij  sulla sua tomba a Mosca nel 1989; nel 1982 c’era stata la prima mostra fuori della Russia, a Dusserdolf. Dopo quella mostra, “all’Ovest niente di nuovo” fino alla meritoria mostra a Roma del 2011, al Palazzo Esposizioni.

I suoi rapporti con le istituzioni artistiche e politiche, nonostante la statura che appare anche da questi pochi accenni, non furono affatto tranquilli, per la sua forte personalità che lo portava all’indipendenza e all’insofferenza rispetto alle costrizioni imposte soprattutto ai “formalisti”. Proposte di onorificenza non accolte dalle autorità e sue dimissioni dagli incarichi non mancano.

Tutto questo viene espresso sinteticamente in un quadro che realizzò nel 1948, un anno particolare.

“Autoritratto”, 1948

L’Autoritratto dell’Eroe del lavoro e dell’umanità

Perciò l’immagine che poniamo come conclusione della nostra visita alle opere in mostra è questo quadro,  “Autoritratto”, 1948, che precede il dipinto “Bagnante”, 1951,ed ha pari forza espressiva mostrando un’energia repressa anche se rivolta a una direzione e in una prospettiva ben diverse. Un’inconsueta raffigurazione di sé in tenuta definita “pugilistica”, senza guantoni ma in vestaglia o accappatoio, asciugamano e scarpette, nella camera con una tela non dipinta appoggiata alla parete.

Dipinse lo speciale autoritratto in un momento negativo, non solo per lui, ma per l’arte in Unione Sovietica, durante la campagna contro il “formalismo”, in musica e in pittura, nel quale veniva compreso anche lui. Nel marzo di quello stesso anno, il 1948, fu sollevato dall’incarico di direttore del Corso di pittura monumentale “in seguito alle sue dimissioni”, aveva la schiena dritta; ma a settembre fu ammesso come membro del “Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Industria culturale”; in ottobre scrisse ai Compagni d’arte russa degli scultori  informandoli di aver conservato  plastici e progetti del monumento “Annientamento dei tedeschi vicino Mosca”, e lasciò la posizione di direttore  restando insegnante del Corso di scultura compositiva e decorazione; partecipò anche alla mostra “Pittura e grafica sovietica”  e lavorò ad alcuni dipinti, tra essi l'”Autoritratto”. Quell’immagine orgogliosa riafferma la sua dignità indomita, la sua volontà di battersi a mani nude e di reagire con i mezzi di cui disponeva contro la mortificazione dell’arte.

Abbiamo voluto ricordare le fasi movimentate del 1948 per inquadrare il dipinto in cui si ritrae: come segno di determinazione e volontà di lottare riprendendo la veste giovanile di pugile apprezzato da un grande allenatore di cui frequentava la palestra, che gli prediceva un luminoso avvenire nel pugilato se non ne avesse avuto uno ancora più fulgido nella pittura.

Ebbene, questo ricongiungersi delle due vocazioni di eccellenza della sua vita dopo la tragedia della guerra e gli sconvolgimenti conseguenti nella vita artistica e in quella quotidiana, ci appare rivelatore del suo essere sommo interprete del “Realismo socialista”,  ma nello stesso tempo essere espressione di un’arte molto personale che ha saputo nobilitare i temi propagandistici dando alle sue figure un forte spessore umano. Nel 1964 ha avuto, come abbiamo ricordato, il titolo di “Eroe del lavoro Socialista”. Un titolo lo merita anche nel mondo occidentale come “Eroe del lavoro” senza aggettivi; ma anche “Eroe dell’umanità” nei suoi momenti più vivi, il lavoro e il riposo, lo sport e il tempo libero, la guerra e la ripresa con vitalità e ottimismo: Per lui “l’arte è un po’ l’ideale, il desiderio di un poco di più di ciò che si vede, e di un po’ meglio di ciò che si vive” .

Per tutto questo  ci piace ricordare e celebrare di nuovo oggi la sua figura  di artista e di uomo.

Info

Catalogo“Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sono usciti, in questo sito, il  26 novembre e 1° dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, “Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941; seguono,  “Vasti spazi”, 1944, poi “Autoritratto”, 1948; in chiusura, “Mungitrice”, il mosaico alto 4 m nella galleria superiore del Palazzo Esposizioni.  

“Mungitrice”,  il mosaico monumentale