Gabriella Fabbri, dai microcosmi alle ombre in contro-luce

di Romano Maria Levante

A mostra chiusa, cosa può esserci di meglio che una visita virtuale attraverso il racconto dell’artista espositore per renderne il contenuto nell’interpretazione autentica dell’autore? E’ quello che è avvenuto con Gabriella Fabbri, incontrata a Roma dopo la chiusura della mostra svoltasi al Mediamuseum di Pescara dal 14 al 28 novembre 2012. Abbiamo parlato con lei a lungo visitando insieme tre mostre al Palazzo Esposizioni e al Vittoriano, un’esperienza inedita e stimolante. E non si è parlato soltanto della mostra di Pescara, l’ultima di una lunga serie, trattandosi di una piccola “antologica” che riassume motivi persistenti della sua vita artistica, iniziata molto presto. Sono opere pittoriche e installazioni, alcune con le melodie originali del musicista  Luca D’Alberto.

“Di nodo in nodo… di vita in vita”, particolare

I cicli della sua arte prima si esprimono attraverso i colori, dal “periodo verde” della paesaggistica nella seconda metà degli anni ’70 al “periodo blu” nel rapporto luce-ombra negli anni ’80, all’“acceso cromatismo” dalla metà degli anni ’90; poi in forme geometriche, dalla“sfera” simbolo di perfezione cosmica al “quadrato” di colore nero, l’origine di tutto, da cui si sviluppano tonalità cromatiche pure e derivate. Le forme espressive vanno dalla pittura alle installazioni, i motivi ispiratori da temi personali come “Conversazione” e “Incontro”, a  naturali come il tempo e le stagioni fino alla dimensione cosmica, nei microcosmi con cromatismo e forme geometriche.

Anche di questi abbiamo parlato nell’incontro con l’artista: l’inizio della conversazione è stato dedicato, e non poteva essere altrimenti, al motivo più recente, il tema dell’ombra, che peraltro viene da lontano, dal “periodo blu” degli anni ’80. Un ritorno dopo aver girovagato  nel cosmo? 

Di nodo in nodo, dall’ombra alla luce

Più propriamente è il rapporto luce-ombra al centro della sua più recente ricerca artistica, tra due realtà compresenti nella natura e nella vita di tutti i giorni: il loro è un “incontro”, anzi un “in-contro”  per sottolineare che si tratta di opposti. E viene espresso in un’installazione che nella mostra si snodava in una lunga parete del corridoio in un percorso espositivo nel quale si incontravano le altre opere dell’artista, in una “piccola antologica”, come dice lei stessa.

“Di nodo in nodo… di vita in vita” è il titolo dell’installazione, nella quale campeggiano grandi quadrati bianchi con all’interno dei rombi neri che hanno un significato nuovo rispetto alle analoghe forme nere precedenti – peraltro di dimensioni e collocazioni diverse, come diremo – rappresentando i momenti difficili della vita e nello stesso tempo le possibilità di alleggerirli fino a superarli, espresse da fili di collegamento che cambiano colore  via via che si dipana questo processo. I quadrati restano neri, è il filo colorato a segnare il percorso esistenziale con la presenza costante dell’ombra insieme alle forze vitali che la contrastano assumendo tutte le sfumature dell’iride partendo dal colore dell’oro prima di giungere al culmine liberatorio.  Tante vite, con i nodi che si sciolgono fino a  formarne nuovi per scioglierli ancora, con l’anima rigenerata nel ciclo della vita.

L’ombra è al centro della visione di Gabriella Fabbri, com’è al centro della vita sia nel suo aspetto naturalistico sia nella sua versione esistenziale. Non è un elemento negativo proprio perché in essa è insito il superamento che nasce dalla forza vitale, basta averne la consapevolezza e la forza di penetrare al suo interno. E’ uno stato dell’animo da analizzare e approfondire per sciogliere i nodi aggrovigliati e migliorarsi, come è uno stato di natura da scrutare per svelare ciò che nasconde.

D’altra parte l’ombra è l’altra faccia della luce, sia in senso letterale che figurato, se non ci fosse la luce non avrebbe la stessa forza rigeneratrice. In fondo il creato è un insieme di opposti, in ogni campo c’è un “in-contro”  inteso nei due sensi, sia negli aspetti materiali ed esteriori – il bello  e il brutto, il lungo e il corto, il grasso e il magro, e così via – sia in quelli spirituali e interiori, come il bene e il male. E qui ci fermiamo,  si andrebbe troppo lontano entrando nei grandi misteri della vita e dell’universo  e nei meccanismi che lo regolano: forze contrapposte in mirabile equilibrio.

 “Microcosmi. Del quadrato nero”  

I microcosmi, dal nero primordiale ai colori dlla vita

A questo punto il discorso torna alla visione cosmica, dalla quale l’artista è stata attratta da tempo con le sue elaborazioni pittoriche e cromatiche, stilistiche e concettuali dei “Microcosmi”. Sono stati oggetto di diverse esposizioni, anche a Roma alla Fondazione Crocetti nel 2011,  e non potevano non essere riproposti quando il microcosmo diventa l’animo umano con le sue ombre. Ma lo sono in una versione nuova, il titolo è “Microcosmi. Del quadrato nero”: resta il quadratino che esprime l’inizio, ora le proliferazioni cromatiche sono molteplici in una polifonia armoniosa ancora più ricca, la vita si apre di più. La forma geometrica rigorosa è regolata dal numero e suoi multipli.

Sono moduli numerici che esprimono l’equilibrio tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, regolati e correlati da precise leggi di cui non ci rendiamo conto ma che danno origine all’energia dell’universo, espressa da un equilibrio magistrale di colori, dai primari ai terziari. Sono gradazioni cromatiche di varie tonalità, con i possibili accostamenti sorretti da un ordine rigoroso che evita ogni sconfinamento dallo schema prefissato. L’artista deve resistere alle tentazioni dello spontaneismo informale per restare al rigore scientifico alla base della sua ricerca creativa.

Del resto – ce lo ha ripetuto lei stessa – fu una conferenza scientifica del prof. Corbucci  a farla entrare nell’infinitamente grande e nell’infinitamente piccolo e a farle penetrare l’origine prima. Lei lo esprime attraverso un quadratino nero, il vuoto iniziale origine della materia nel microcosmo, che diventa buco nero nel macrocosmo: evoca “la forza gravitazionale che risucchia e l’energia che dilata”  e i movimenti precisi e invisibili nell’infinitamente piccolo. In mezzo c’è l’essere umano che resta estraneo in questa visione, mentre diventa protagonista per i nodi da sciogliere nella vita nell’installazione di cui abbiamo appena parlato. Una lacuna colmata? No, un ciclo che va avanti nelle sue implicazioni, e non può prescindere dall’investigazione sull’origine, sull’inizio del tutto. 

A parte le interpretazioni sui significati, i “microcosmi” si rivelano come una sinfonia di colori, quadrati cromatici con in basso a sinistra un quadratino nero, l’elemento fisico di base. Ne derivano i colori puri, un trittico di intense tonalità,  rosso-giallo-blu – dal quale parte un processo  che si sviluppa nei colori complementari, derivati dai primari, e nei colori terziari. La forma quadrata è la costante, esprime la stabilità e, in ottica umana, la razionalità; il colore mutevole è la variabile, sono frammenti con incorporata la memoria genetica in cui risiede l’energia, la forza che muove la natura e l’essere umano e, in definitiva, anima gli elementi fondamentali.

La ricerca artistica della Fabbri non è di poco conto, penetra con l’arte oltre la soglia del visibile ed esprime con rigore geometrico e cromatico l’armonia delle leggi regolatrici dell’universo, nella compresenza del nero archetipo con i colori che ne derivano, della materia delle origini con l’energia che si sviluppa dal nucleo iniziale.

Il motivo dei “microcosmi” è espresso nella mostra di Pescara con varianti rispetto alle precedenti composizioni, un’evoluzione nell’evoluzione: ricordiamo i grandi quadrati elementari ognuno di un cromatismo diverso con il quadratino nero all’interno; e anche composizioni in cui erano aggregati nove quadrati più piccoli sempre con il sigillo dell’origine quantistica del tutto. I colori sono molteplici, ma l’artista non si è abbandonata al gusto delle sinfonia cromatica, è solo la prima impressione, i cambiamenti di colore rispondono a regole ferree, molto diversi nella parte centrale e negli angoli, simili ma non identici come sembrerebbe a prima vista lungo la diagonale, il tutto  secondo una successione calibrata quanto equilibrata. Non è espressionismo, è ricerca pittorica.

Il supporto in cui sono dipinti è una tela, avvicinandosi si vedeva  che sono staccabili, quasi si potesse variare la composizione dell’opera come, in tre dimensioni, avviene nel “cubo di Rubik”. Ci poniamo di nuovo l’interrogativo che esprimemmo su “cultura.inabruzzo.it”  dopo la mostra romana: cioè se tornando a ricercare a livello cosmico, l’artista possa fare il salto alla terza dimensione, dalla geometria piana alla geometria solida con ulteriori gradi di libertà  e di armonia.

“La città segreta”  

L’omaggio alle città amate

L’opera della Fabbri è calata anche nella realtà che la colpisce quanto più è viva e pressante. Così per il “Trittico per L’Aquila”, da lei definito “un atto d’amore e di speranza”. Il codice geometrico dei “microcosmi” in tre grandi quadrati formati da 99 piccoli quadrati, il numero è quello aquilano delle  99 cannelle; e il codice cromatico  con il primo quadrato nero per l’angoscia della tragedia e solo un quadratino colorato, il secondo dal cromatismo crescente fino al terzo quadrato, un’esplosione  di colori e di luce che esprime la ripresa: sono presenti i colori caldi del movimento operoso e i colori freddi della stagnazione e inerzia, il fervore e la fatica nel tormentato cammino della rinascita; c’è  sempre il quadratino nero che qui richiama non più l'”arché”  materico ma il persistere dell’incubo. Che si materializza  nelle musiche di Luca D’Alberto, dal brontolio del sisma alle melodie liberatorie, che si “accendono” con il quadratino nero in una coinvolgente interattività.

C’è poi Venezia, con due opere che hanno motivazioni  diverse. I “Supporti transitori” sono 22 fotografie – 16 di formato 20×30, quattro 50×60 – scattate al Magazzino del Sole alla Fondazione Vedova, come omaggio al grande pittore. Ci confida che, recatasi a visitare l’esposizione, fu colpita dal procedimento con cui un braccio meccanico prelevava le opere in modo da mutarne di volta in volta la collocazione rinnovandone quindi costantemente la visione; le ombre che si proiettavano a terra  aggiungevano un tassello alla sua ricerca, non potevano essere ignorate, l’impulso di fissarle con il mezzo fotografico fu irresistibile, di qui la serie esposta nella mostra. Siamo nell’arte concettuale, ci tornano in mente le serie fotografiche viste nel 2011 alla mostra sul “Guggenheim” al Palazzo Esposizioni, nelle quali il concetto di base veniva espresso da immagini in sequenza.

Su Venezia è stata esposta anche “La città segreta”, dal Premio Terna, riquadri a forma di rombo che evocano le decorazioni di Palazzo Ducale con inseriti dei cerchi come “oculi”: l’installazione comprende le luci che si accendono quando ci si avvicina, si vedono i motivi floreali, il panorama con il cielo, le gondole e i gabbiani, mentre si diffondono le musiche di Luca D’Alberto. Così l’artista cerca di penetrare  e far cogliere la bellezza segreta, dietro la facciata, della città lagunare.

 “Ecce…  monstrum” si ispira a un’altra città frequentata e amata dall’artista, Roma:  è un’installazione  che evoca il portale del Palazzetto Zuccari, a Trinità dei Monti.  Ci sono i rilievi che decorano le arcate e sono stati inseriti degli specchi: salendo su uno sgabello si possono vedere i propri occhi riflessi con effetti speciali nella percezione che ciascuno ha come unica e personale. In questo, ci dice la stessa autrice, “l’arte contemporanea rivela la sua vera essenza, qualcosa di vivo in cui anche l’osservatore può essere chiamato a partecipare in modo attivo alla creazione artistica”.

Le installazioni su grandi temi

Gabriella Fabbri non è solo l’artista del cosmo e delle ombre, immersa nella ricerca all’esterno sull’universo e all’interno sull’angoscia esistenziale; e non si limita ad un’attenzione che diventa omaggio per le città più care, da L’Aquila a Venezia e Roma. Apre la sua visione artistica ai grandi temi della vita, dalla libertà all’incontro tra mondi, con acuta sensibilità e forza espressiva.

Respinge decisamente la negazione dei diritti e l’oppressione mediante la “Denuncia degli occhi”: due cubi inscritti l’uno nell’altro  – a rete di ferro quello esterno, in plexiglass quello interno – con la serigrafia computerizzata degli occhi dell’autrice e una luce che si muove nei vari lati e colpisce: anche qui c’è molto di concettuale se il significato conduce ai diritti  denegati e all’oppressione che l’essere umano subisce – il cubo è come una prigione -e non riesce ad esprimersi liberamente.

Si dedica al tema sempre attuale del rapporto tra il mondo ideale e quello reale, che non dovrebbero entrare in conflitto. In “Incontro”, su due tele bianche utilizza due “scovoli”, le spazzole che usano gli spazzacamini, uno nuovo, l’altro usato con le setole scompigliate a rappresentare i due mondi: le luci che si accendono ad intermittenza  verso l’alto e verso il basso creano giochi di ombre – eccole di nuovo! – con distacchi e avvicinamenti, alla ricerca di un equilibrio. Abbiamo chiesto all’artista il perché di un attrezzo così insolito, ha risposto che è stata colpita dalla forma sobria con una sorta di raggiera che rispondeva ai motivi dell’opera, ne ha acquistati due, poi ne ha scompigliato uno.

Altri due mondi, entrambi reali e terreni, si incontrano in una installazione semplice e leggera nella concezione come è profonda nel significato e intensa nell’impatto visivo. E’ “Il Grande respiro”, realizzata per il 5° centenario del grande Matteo Ricci, astronomo- matematico e missionario-viaggiatore in Cina, un abbraccio che – per restare in carattere con gli altri motivi – potremmo definire cosmico, tra l’Oriente e l’Occidente: due emisferi  blu e giallo uniti dall’ideogramma cinese della parola “amico” e dal simbolo “ascii” del collegamento via internet, la cosiddetta “chiocciola”,  sigillo dei rapporti fecondi tra individui, popoli e civiltà uniti dalla moderna comunicazione .

Il nostro incontro con Gabriella Fabbri termina qui. Ci ha detto molte cose, e abbiamo visto insieme la mostra al Palazzo Esposizioni “Benedette foto!  Carmelo Bene visto da Claudio Abate”, il suo teatro ripreso in intensi chiaroscuri, tante ombre anche lì; poi  le due mostre al Vittoriano “I tesori del patrimonio culturale albanese”  dai reperti del Neolitico all’epoca pre-romana e romana fino alle pitture iconiche di Onofri, sfavillante di ori, e infine “Verso la Grande Guerra”, altre ombre anche se metaforiche, quelle che si addensavano sul mondo e portavano al primo conflitto mondiale. Nuovi tasselli, dal teatro e dalla storia, chissà se ne terrà conto nella sua ricerca “in-contro luce”.  Una ricerca ricca di molti motivi, come abbiamo visto, e in continua evoluzione spaziando su una gamma quanto mai ampia di contenuti e forme stilistiche anche molto avanzate.

E’ valsa la pena tornare sulla sua mostra perché l’arte non chiude mai: il valore delle esposizioni sta nel lasciare il segno ed essere ricordate con un’attenta riflessione. Quella di Gabriella Fabbri lo meritava senz’altro anche perché la sua ricerca artistica continua a un ritmo incalzante.

Info

Il nostro precedente articolo sull’artista, dal titolo “Microcosmi di Gabriella Fabbri in mostra a Roma al Museo Crocetti”, è uscito sul sito cultura.inabruzzo.it il 3 marzo 2011 (il sito non è più raggiungibile, gli articoli saranno trasferiti su altro sito, comunque sono disponibili).

Foto

Le immagini sono state fornite cortesemente dall’autrice Gabriella Fabbri che si ringrazia. In apertura, “Di nodo in nodo… di vita in vita”, particolare; seguono, “Microcosmi. Del quadrato nero”, poi “Microcosmi. Del quadrato nero”“La città segreta”; in chiusura, “Denuncia degli occhi”.

“Denuncia degli occhi” 

Deineka, 3. Dalla guerra agli anni ’60, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della la visita alla mostra su “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”  dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 a Roma, Palazzo Esposizioni, con la quale ripercorriamo un periodo cruciale nelle opere di un artista sovietico propagandista del regime ma che diede al “Realismo socialista” un’impronta personale di grande qualità. Dopo la prima fase degli anni ’20, la grafica e le tematiche degli anni ’30, sport vita all’aria aperta, e il viaggio in Occidente del 1935, ecco il ritorno a casa, gli anni della guerra e le altre espressioni artistiche nella scultura e nel mosaico fino agli anni ’50 e ’60  allorché termina la sua parabola di arte e vita.

“Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941

Il ritorno dopo il viaggio in Occidente

Nella seconda metà del 1935, dopo la parentesi del viaggio in Occidente, riprende subito contatto con il suo paesaggio in “Kolchosiana in bicicletta”:sempre l’uso del primo piano, qui una strada con la figura sul veicolo, non colpisce il viso scuro quanto la posizione armoniosa e la macchia rossa del vestito sul verde della campagna in diverse gradazioni con la straordinaria profondità data dalla via di penetrazione che l’attraversa per perdersi all’estremo del quadro. E poi “Ritratto di S.I.L. con cappello di paglia”, dove si sente l’atmosfera del ritratto alla “Parigina” nell’eleganza del cappellino e del colletto di pizzo sull’abito nero pur se il viso è più intenso e meno raffinato.

Del 1934 “Ritratto di ragazza con un libro”, in un interno la tazza sul tavolo e i fiori sul davanzale; è immersa nella lettura, ha posato come modella la sua compagna di allora, Serafima Lyceva.  In un  dipinto del 1937, “Ritratto di Irina Servinskaia”, la figura in abito nero seduta su una poltroncina di vimini,  rappresentata di profilo, ha il viso assorto e intenso, le guance accese e i capelli rossi.

L’anno precedente “Modella”, un nudo femminile disteso mollemente su un divano rosso davanti a una finestra dalla quale sporgono i piani superiori degli edifici di fronte; l’inquadratura è di schiena, la posizione estremamente sensuale, le forme morbide e armoniose, ben diverse da quelle tozze e robuste dipinte in “Giocando a palla”. L’armonia della classicità vista in Italia ha fatto scuola?

Un altro grande dipinto di nudo, 2,30 x 1,70 cm, completa questa parte:  “Dopo la lotta” mostra la schiena possente di un uomo seduto in primo piano; sembra attendere che si liberi un posto nelle docce in fondo con sei uomini nudi in piedi che scherzano o si muovono sotto i getti dell’acqua; così come sono allineati e sfumati sembrano un fregio classico.  E’ datato 1937-42,  pensiamo che sono destinati ad essere richiamati alle armi per combattere nel conflitto mondiale che Deineka  raffigura con scene molto espressive a Mosca e Sebastopoli, e come loro tutti gli uomini validi.

La guerra a Mosca e Sebastopoli

Con la guerra torna a dipingere l’acciaio nella sua forma più dura e tagliente, lo vediamo nei “cavalli di frisia” di “Regione di Mosca, novembre 1941”, un camion passa nella piana coperta di neve a lato delle abitazioni, è solo preparazione. Si entra nel cuore della battaglia in “La difesa di Sebastopoli”, 1942, l’acciaio è sulle baionette brandite nella carica dalle due parti a stretto contatto: scena altamente drammatica come era calma e tranquilla “Sebastopoli. Sera”, 1934, due marinai e una ragazza  camminano verso l’osservatore lungo una strada tranquilla, animata da altri viandanti, c’è pace; invece nel corpo a corpo tra sovietici in bianco e tedeschi in grigioverde c’è slancio ed eroismo, sotto un cielo corrusco, si ha la sensazione della resa dei conti in un momento veramente decisivo. Sebastopoli era una città amata dall’artista, e il quadro nasce dalla visione delle immagini della città bombardata in una sua visita al fronte: lo dipinse di slancio per esprimere la sua rabbia.

L’acciaio dei “cavalli di frisia” torna in “L’asso abbattuto”, 1943: si sente nel vivo l’impatto del pilota a testa in giù a pochi metri dal suolo, c’è pietà e tenerezza per come si tiene la testa, in un gesto quasi infantile, un ritorno all’età dell’innocenza nel momento supremo nel quale merita rispetto anche il nemico, chiamato non così ma con il riconoscimento che è stato abbattuto “l’asso”.

Rappresenterà ancora Mosca durante la guerra nel 1946-47  su carta con tempera e carboncino: in “Evacuazione del bestiame dal kolchoz” i “cavalli di frisia” di acciaio tagliente sono l’unico segno sinistro della guerra nella scena quasi bucolica dell’armento che si sposta lungo il fiume oltre il quale c’è un luogo quasi di fiaba con al centro un grappolo di cupole tipo Cremlino; in “Piazza Svedlov. Dicembre”,  la fontana monumentale e il palazzo neoclassico dall’imponente colonnato e trabeazione evocano la vita normale, se non ci fossero i palloni antiaerei in cielo e qualche militare armato; in “Sera. Stagni dei Patriarchi”, il solito pallone  antiaereo in alto con due militari sul bordo dello stagno ghiacciato dove i bambini giocano a polo;  in “Officina al fronte. Riparazione carri armati”  torna l’acciaio nelle strutture, una donna anziana è tra gli operai, l’impegno è corale.

Una parentesi quasi onirica, siamo ancora in guerra, in “Vasti spazi” , 1944, grande dipinto di quasi 3 x 2 metri, che richiama l’immagine di “Mezzogiorno” del 1932 nel movimento festoso delle ragazze verso l’osservatore: ora sono vestite e appena fuori dall’acqua del lago in basso, scena bucolica, né case coloniche né ciminiere, tanto verde in diverse tonalità oltre all’azzurro dell’acqua.

I primi dipinti del dopoguerra

Finalmente la guerra è finita, “La staffetta”,1947, dipinto altrettanto grande, torna come tema alle immagini sportive degli anni ’30, però con un carattere più fotografico senza le trasposizioni del realismo ideologico che dava potenza ai corpi. Il commento di Irina Vakar sugli anni del dopoguerra si attaglia a questo dipinto: “L’interesse primario di Deineka relativamente allo spazio riguarda la resa del paesaggio en plein air, pratica che lo appassiona da tempo: ritrarre un sole primaverile, delle ombre azzurrine sulla neve, l’aria verso cui i piani evaporano in lontananza”.

Non vogliamo concludere con queste visioni esteriori il racconto del cuore della mostra, bensì con tre opere dell’ultimo periodo, anch’esse esposte, che ci riportano alla sua dimensione umana.

La prima è “Regione di Kursk. Il fiume Tuskar”, 1945, la grande ansa del fiume nel verde vista dall’alto con le tre persone minuscole che camminano lungo la strada è quanto di più riposante si potesse concepire, un’immagine da prendere come simbolo della fine del conflitto mondiale, allorché la vita torna a fluire serena come il fiume nella campagna.

Poi, in  “Mattino”, 1947, un grande dipinto dove torna la ginnastica della ragazza in pantaloncini a seno nudo, sono le forme sode di allora, ma non c’è più l’austerità di un tempo, una tenda gialla istoriata e un tappeto a vari colori movimentano la scena.

Quindi “Bagnante”, 1951, nudo integrale frontale, si avvicina a “Mattino” nelle braccia in alto e nella solidità del corpo; e richiama “Bagnanti”, 1933, che abbiamo visto di grande delicatezza, con derivazioni da Gauguin, soprattutto nell’espressione del viso sorridente che guarda lontano; questo è di dimensioni maggiori, quasi 3 metri per 2, c’è determinazione e un senso di pace reso dalla scena bucolica dietro la figura, un corso d’acqua e sull’altra riva la contadina con bue e vitello.

“Vasti spazi”, 1944 

Sculture e opere in mosaico

Lo sport diventa oggetto anche di sculture in bronzo, nello stesso 1947 “Staffetta” e “Centometrista”, nel 1955 “Calciatori”; nel 1950 aveva realizzato il mosaico “Sciatori”  ripresi di profilo in tre colori, giallo, rosso e verde nel movimento del fondo. E dato che parliamo di mosaici non possiamo non ricordare i due monumentali “Soldato dell’Armata rossa”, 1948, alto 2 metri, e “Mungitrice”, 1952, alto 4 metri in quattro pannelli, collocato nella galleria centrale del Palazzo Esposizioni tra le arcate e la volta, veramente spettacolare: entrambi sono venuti dalla Pinacoteca statale di Kurst intitolata all’artista.  Queste due ultime opere sono il segno che il “Realismo socialista” torna a celebrare il lavoro e anche il nuovo mito dell’Armata rossa che ha respinto l’invasione nazista e ha conquistato Berlino fino ad espugnare il bunker del Reichstadt.

In mosaico anche lo straordinario contributo alla metropolitana di Mosca, precisamente nella “Stazione Majakovskaja”, dedicata al famoso poeta, reso in mostra da un esauriente filmato: 35 formelle che rappresentano un “capolavoro assoluto”, inserite soprattutto nella navata centrale della seconda tratta, inaugurata nel 1938, in una sequenza a doppie volte che le fa scoprire ad una ad una con un fattore-sorpresa. Nell’insieme, architettura e pittura, mosaici e affreschi, sculture e bassorilievi con elementi ornamentali di pregio, si fondono in una composizione coerente sotto il profilo costruttivo e funzionale e in linea con la motivazione e finalità politica, anzi ideologica.

Si pensi che i 35 mosaici di forma ovale sono nella sala sotterranea lunga 155 metri, con l’intento di dare leggerezza all’insieme mediante una sorta di apertura luminosa verso l’esterno irraggiungibile – si è a trentacinque metri di profondità –  in una sequenza quasi cinematografica con i colori dei tasselli vetrati in una successione così descritta da Alessandro De Magistris: ” Percorrendo questa da un estremo all’altro, colui che avesse rivolto lo sguardo verso l’alto, avrebbe ammirato, poco alla volta, stagliarsi contro il cielo illusoriamente riprodotto e reso vibrante dai tasselli vetrati, quasi fossero fotogrammi di un’opera cinematografica, i campi kolchosiani, le ciminiere di nuovi impianti industriali dell’industrializzazione forzata, le attività di lavoro e svago della gioventù comunista, la vita ideale della famiglia sovietica che nuove leggi cercavano di rafforzare dopo il collasso degli anni venti. Avrebbe potuto ammirare il lancio dei paracadutisti, gli aerei che solcavano i cieli della madrepatria, e ancora i nuovi mezzi di esplorazione che… anticipavano, nella ricerca di nuovi primati stratosferici, la conquista del cosmo degli anni del dopoguerra”.

Questi i contenuti, e l’effetto? “La vivacità cromatica dei mosaici, in cui si rifletteva la luce emessa dalle fonti… forse nei primi viaggiatori poteva veramente alimentare l’impressione di trovarsi in prossimità della superficie e del cielo aperto”. La metropolitana fu concepita come  un’imponente “città sotterranea” che doveva condizionare lo sviluppo urbanistico di superficie, un’opera del regime volta ad affermare la potenza tecnologica e a dare al popolo una sua reggia, frequentata quotidianamente, con le architetture e le ricchezze ornamentali non più destinate al palazzo degli Zar; i mosaici di Deineka come i grandi lampadari e il resto avevano questa ambiziosa finalità.

Gli anni ’50 e ‘60

Dopo le sculture e i mosaici sopra citati non abbiamo viste esposte opere degli anni successivi. Nel dopoguerra il Realismo socialista era divenuto un imperativo per gli artisti, dovevano celebrare l’ordinamento della società come si voleva che risultasse nella realtà in modo da delineare il domani preconizzato dall’ideologia. Perciò le immagini che ne risultavano erano artificiose e senza forza, e l’arte si riduceva ad una sterile accademia priva di vita. Deineka non poteva non risentirne.

Scrive Irina Lebedeva, che dirige la Galleria statale Tret’jacov” prestatrice di una parte rilevante delle opere di Deineka, riferendosi alla sua arte: “Essa risentì effettivamente del contesto dell’ideologia sovietica e per lunghi anni la si è interpretata esclusivamente come esaltazione della forza, come volontà di eroismo, come glorificazione della tecnica e dello sport”. Questo imponeva l’ideologia, e aggiunge: “Per l’artista furono decisive non tanto le direttive politiche quanto la percezione del mondo, delle persone, il tendere di un’intera generazione verso un ideale, il rapporto armonico tra l’uomo e un mondo che stava dinamicamente cambiando”. Ma quando si attenuarono le energie giovanili, mentre queste direttive venivano ribadite e rafforzate con l’accusa di “formalismo” deteriore ai presunti deviazionisti, tra i quali in qualche caso veniva annoverato, ecco che, potremmo dire evocando una nota espressione, si andò esaurendo la sua “spinta propulsiva”.

Per Elena Voronovic “negli anni Cinquanta e Sessanta perse ciò che di più sacro esiste per il talento di un artista: la fiducia nella realizzazione del sogno, della verità di ciò che crea. Il suo brillante e vigoroso talento non riuscì a trovare una via di uscita neanche nei lavori eseguiti per se stesso. Alla ricerca di un compromesso tra il proprio punto di vista e la committenza ufficiale alla fine della sua vita Alecsandr Deineka finì per perdere la libertà e la disinvoltura dei suoi anni giovanili”.

Ed è eloquente, anche se ha un suono paradossale, che si parli di “libertà” quando c’era lo stalinismo e di “perdita di libertà” quando dopo il XX Congresso del PCUS con Krushev e la “destalinizzazione” ci fu qualche apertura sul piano politico: ciò dimostra quanto possano, contro ogni oppressione, la determinazione e la forza ideale che sentiva nell’età giovanile e non ritrova in età avanzata. Anche questa è una lezione che viene da chi, pur con i vincoli del “Realismo socialista”, ci ha dato opere che sono espressione di vitalità e un inno alla vita per ogni latitudine.

Continua a ispirarsi ai giovani, allo sport e all’aria aperta ma non vi sono motivazioni nuove, sembrano fredde ripetizioni di momenti vissuti un tempo con slancio ed entusiasmo. Ma se l’attività artistica degli anni ’50 e ’60  è condizionata dalla disillusione, non è venuta meno l’attività istituzionale: la sua posizione nel campo delle arti dell’Unione sovietica è stata di assoluta preminenza, anche se fra alti e bassi nel suo rapporto con le autorità del regime.

Sono proseguite le mostre nelle quali è stato tra  gli espositori di punta e le sue partecipazioni a Conferenze ed Assemblee negli organismi ufficiali di cui faceva parte.  Nel 1958 il presidente dell’Unione moscovita degli artisti sovietici Dementij Smarinov gli diede questo attestato: “Il sentimento della contemporaneità, l’alta intransigenza, il legame della creazione dell’artista con il destino di un popolo infondono un importante contenuto alle sue opere”. E gli conferì, a nome del governo, il titolo di “personalità emerita delle arti”; un anno dopo ebbe il “titolo emerito di Artista Popolare”, nel 1960 la laurea d’onore “per l’impegno attivo nel solidificare la pace tra i popoli”, nel 1961 la Medaglia d’oro e la Laurea d’onore dell’Accademia Belle Arti; nel 1964 il “Premio Lenin”.

Nel 1969, il 5 giugno, ci fu a Mosca una sua personale con 250 lavori, poi venne spostata a Leningrado;  il 10 ricevette il titolo di “Eroe del Lavoro Socialista” e il conferimento dell'”Ordine di Lenin” e della medaglia d’oro “Falce e martello”, ma non se ne rese neppure conto, era in fin di vita. Morì nella notte tra l’11 e il 12 giugno, a 70 anni.

Il Fondo per gli artisti fece realizzare un monumento sepolcrale dallo scultore Rukavinsikov e dall’architetto Voskresenskij  sulla sua tomba a Mosca nel 1989; nel 1982 c’era stata la prima mostra fuori della Russia, a Dusserdolf. Dopo quella mostra, “all’Ovest niente di nuovo” fino alla meritoria mostra a Roma del 2011, al Palazzo Esposizioni.

I suoi rapporti con le istituzioni artistiche e politiche, nonostante la statura che appare anche da questi pochi accenni, non furono affatto tranquilli, per la sua forte personalità che lo portava all’indipendenza e all’insofferenza rispetto alle costrizioni imposte soprattutto ai “formalisti”. Proposte di onorificenza non accolte dalle autorità e sue dimissioni dagli incarichi non mancano.

Tutto questo viene espresso sinteticamente in un quadro che realizzò nel 1948, un anno particolare.

“Autoritratto”, 1948

L’Autoritratto dell’Eroe del lavoro e dell’umanità

Perciò l’immagine che poniamo come conclusione della nostra visita alle opere in mostra è questo quadro,  “Autoritratto”, 1948, che precede il dipinto “Bagnante”, 1951,ed ha pari forza espressiva mostrando un’energia repressa anche se rivolta a una direzione e in una prospettiva ben diverse. Un’inconsueta raffigurazione di sé in tenuta definita “pugilistica”, senza guantoni ma in vestaglia o accappatoio, asciugamano e scarpette, nella camera con una tela non dipinta appoggiata alla parete.

Dipinse lo speciale autoritratto in un momento negativo, non solo per lui, ma per l’arte in Unione Sovietica, durante la campagna contro il “formalismo”, in musica e in pittura, nel quale veniva compreso anche lui. Nel marzo di quello stesso anno, il 1948, fu sollevato dall’incarico di direttore del Corso di pittura monumentale “in seguito alle sue dimissioni”, aveva la schiena dritta; ma a settembre fu ammesso come membro del “Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Industria culturale”; in ottobre scrisse ai Compagni d’arte russa degli scultori  informandoli di aver conservato  plastici e progetti del monumento “Annientamento dei tedeschi vicino Mosca”, e lasciò la posizione di direttore  restando insegnante del Corso di scultura compositiva e decorazione; partecipò anche alla mostra “Pittura e grafica sovietica”  e lavorò ad alcuni dipinti, tra essi l'”Autoritratto”. Quell’immagine orgogliosa riafferma la sua dignità indomita, la sua volontà di battersi a mani nude e di reagire con i mezzi di cui disponeva contro la mortificazione dell’arte.

Abbiamo voluto ricordare le fasi movimentate del 1948 per inquadrare il dipinto in cui si ritrae: come segno di determinazione e volontà di lottare riprendendo la veste giovanile di pugile apprezzato da un grande allenatore di cui frequentava la palestra, che gli prediceva un luminoso avvenire nel pugilato se non ne avesse avuto uno ancora più fulgido nella pittura.

Ebbene, questo ricongiungersi delle due vocazioni di eccellenza della sua vita dopo la tragedia della guerra e gli sconvolgimenti conseguenti nella vita artistica e in quella quotidiana, ci appare rivelatore del suo essere sommo interprete del “Realismo socialista”,  ma nello stesso tempo essere espressione di un’arte molto personale che ha saputo nobilitare i temi propagandistici dando alle sue figure un forte spessore umano. Nel 1964 ha avuto, come abbiamo ricordato, il titolo di “Eroe del lavoro Socialista”. Un titolo lo merita anche nel mondo occidentale come “Eroe del lavoro” senza aggettivi; ma anche “Eroe dell’umanità” nei suoi momenti più vivi, il lavoro e il riposo, lo sport e il tempo libero, la guerra e la ripresa con vitalità e ottimismo: Per lui “l’arte è un po’ l’ideale, il desiderio di un poco di più di ciò che si vede, e di un po’ meglio di ciò che si vive” .

Per tutto questo  ci piace ricordare e celebrare di nuovo oggi la sua figura  di artista e di uomo.

Info

Catalogo“Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sono usciti, in questo sito, il  26 novembre e 1° dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, “Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941; seguono,  “Vasti spazi”, 1944, poi “Autoritratto”, 1948; in chiusura, “Mungitrice”, il mosaico alto 4 m nella galleria superiore del Palazzo Esposizioni.  

“Mungitrice”,  il mosaico monumentale 

di Romano Maria Levante

Si conclude il racconto della la visita alla mostra su “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”  dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 a Roma, Palazzo Esposizioni, con la quale ripercorriamo un periodo cruciale nelle opere di un artista sovietico propagandista del regime ma che diede al “Realismo socialista” un’impronta personale di grande qualità. Dopo la prima fase degli anni ’20, la grafica e le tematiche degli anni ’30, sport vita all’aria aperta, e il viaggio in Occidente del 1935, ecco il ritorno a casa, gli anni della guerra e le altre espressioni artistiche nella scultura e nel mosaico fino agli anni ’50 e ’60  allorché termina la sua parabola di arte e vita.

“Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941

Il ritorno dopo il viaggio in Occidente

Nella seconda metà del 1935, dopo la parentesi del viaggio in Occidente, riprende subito contatto con il suo paesaggio in “Kolchosiana in bicicletta”:sempre l’uso del primo piano, qui una strada con la figura sul veicolo, non colpisce il viso scuro quanto la posizione armoniosa e la macchia rossa del vestito sul verde della campagna in diverse gradazioni con la straordinaria profondità data dalla via di penetrazione che l’attraversa per perdersi all’estremo del quadro. E poi “Ritratto di S.I.L. con cappello di paglia”, dove si sente l’atmosfera del ritratto alla “Parigina” nell’eleganza del cappellino e del colletto di pizzo sull’abito nero pur se il viso è più intenso e meno raffinato.

Del 1934 “Ritratto di ragazza con un libro”, in un interno la tazza sul tavolo e i fiori sul davanzale; è immersa nella lettura, ha posato come modella la sua compagna di allora, Serafima Lyceva.  In un  dipinto del 1937, “Ritratto di Irina Servinskaia”, la figura in abito nero seduta su una poltroncina di vimini,  rappresentata di profilo, ha il viso assorto e intenso, le guance accese e i capelli rossi.

L’anno precedente “Modella”, un nudo femminile disteso mollemente su un divano rosso davanti a una finestra dalla quale sporgono i piani superiori degli edifici di fronte; l’inquadratura è di schiena, la posizione estremamente sensuale, le forme morbide e armoniose, ben diverse da quelle tozze e robuste dipinte in “Giocando a palla”. L’armonia della classicità vista in Italia ha fatto scuola?

Un altro grande dipinto di nudo, 2,30 x 1,70 cm, completa questa parte:  “Dopo la lotta” mostra la schiena possente di un uomo seduto in primo piano; sembra attendere che si liberi un posto nelle docce in fondo con sei uomini nudi in piedi che scherzano o si muovono sotto i getti dell’acqua; così come sono allineati e sfumati sembrano un fregio classico.  E’ datato 1937-42,  pensiamo che sono destinati ad essere richiamati alle armi per combattere nel conflitto mondiale che Deineka  raffigura con scene molto espressive a Mosca e Sebastopoli, e come loro tutti gli uomini validi.

La guerra a Mosca e Sebastopoli

Con la guerra torna a dipingere l’acciaio nella sua forma più dura e tagliente, lo vediamo nei “cavalli di frisia” di “Regione di Mosca, novembre 1941”, un camion passa nella piana coperta di neve a lato delle abitazioni, è solo preparazione. Si entra nel cuore della battaglia in “La difesa di Sebastopoli”, 1942, l’acciaio è sulle baionette brandite nella carica dalle due parti a stretto contatto: scena altamente drammatica come era calma e tranquilla “Sebastopoli. Sera”, 1934, due marinai e una ragazza  camminano verso l’osservatore lungo una strada tranquilla, animata da altri viandanti, c’è pace; invece nel corpo a corpo tra sovietici in bianco e tedeschi in grigioverde c’è slancio ed eroismo, sotto un cielo corrusco, si ha la sensazione della resa dei conti in un momento veramente decisivo. Sebastopoli era una città amata dall’artista, e il quadro nasce dalla visione delle immagini della città bombardata in una sua visita al fronte: lo dipinse di slancio per esprimere la sua rabbia.

L’acciaio dei “cavalli di frisia” torna in “L’asso abbattuto”, 1943: si sente nel vivo l’impatto del pilota a testa in giù a pochi metri dal suolo, c’è pietà e tenerezza per come si tiene la testa, in un gesto quasi infantile, un ritorno all’età dell’innocenza nel momento supremo nel quale merita rispetto anche il nemico, chiamato non così ma con il riconoscimento che è stato abbattuto “l’asso”.

Rappresenterà ancora Mosca durante la guerra nel 1946-47  su carta con tempera e carboncino: in “Evacuazione del bestiame dal kolchoz” i “cavalli di frisia” di acciaio tagliente sono l’unico segno sinistro della guerra nella scena quasi bucolica dell’armento che si sposta lungo il fiume oltre il quale c’è un luogo quasi di fiaba con al centro un grappolo di cupole tipo Cremlino; in “Piazza Svedlov. Dicembre”,  la fontana monumentale e il palazzo neoclassico dall’imponente colonnato e trabeazione evocano la vita normale, se non ci fossero i palloni antiaerei in cielo e qualche militare armato; in “Sera. Stagni dei Patriarchi”, il solito pallone  antiaereo in alto con due militari sul bordo dello stagno ghiacciato dove i bambini giocano a polo;  in “Officina al fronte. Riparazione carri armati”  torna l’acciaio nelle strutture, una donna anziana è tra gli operai, l’impegno è corale.

Una parentesi quasi onirica, siamo ancora in guerra, in “Vasti spazi” , 1944, grande dipinto di quasi 3 x 2 metri, che richiama l’immagine di “Mezzogiorno” del 1932 nel movimento festoso delle ragazze verso l’osservatore: ora sono vestite e appena fuori dall’acqua del lago in basso, scena bucolica, né case coloniche né ciminiere, tanto verde in diverse tonalità oltre all’azzurro dell’acqua.

I primi dipinti del dopoguerra

Finalmente la guerra è finita, “La staffetta”,1947, dipinto altrettanto grande, torna come tema alle immagini sportive degli anni ’30, però con un carattere più fotografico senza le trasposizioni del realismo ideologico che dava potenza ai corpi. Il commento di Irina Vakar sugli anni del dopoguerra si attaglia a questo dipinto: “L’interesse primario di Deineka relativamente allo spazio riguarda la resa del paesaggio en plein air, pratica che lo appassiona da tempo: ritrarre un sole primaverile, delle ombre azzurrine sulla neve, l’aria verso cui i piani evaporano in lontananza”.

Non vogliamo concludere con queste visioni esteriori il racconto del cuore della mostra, bensì con tre opere dell’ultimo periodo, anch’esse esposte, che ci riportano alla sua dimensione umana.

La prima è “Regione di Kursk. Il fiume Tuskar”, 1945, la grande ansa del fiume nel verde vista dall’alto con le tre persone minuscole che camminano lungo la strada è quanto di più riposante si potesse concepire, un’immagine da prendere come simbolo della fine del conflitto mondiale, allorché la vita torna a fluire serena come il fiume nella campagna.

Poi, in  “Mattino”, 1947, un grande dipinto dove torna la ginnastica della ragazza in pantaloncini a seno nudo, sono le forme sode di allora, ma non c’è più l’austerità di un tempo, una tenda gialla istoriata e un tappeto a vari colori movimentano la scena.

Quindi “Bagnante”, 1951, nudo integrale frontale, si avvicina a “Mattino” nelle braccia in alto e nella solidità del corpo; e richiama “Bagnanti”, 1933, che abbiamo visto di grande delicatezza, con derivazioni da Gauguin, soprattutto nell’espressione del viso sorridente che guarda lontano; questo è di dimensioni maggiori, quasi 3 metri per 2, c’è determinazione e un senso di pace reso dalla scena bucolica dietro la figura, un corso d’acqua e sull’altra riva la contadina con bue e vitello.

“Vasti spazi”, 1944 

Sculture e opere in mosaico

Lo sport diventa oggetto anche di sculture in bronzo, nello stesso 1947 “Staffetta” e “Centometrista”, nel 1955 “Calciatori”; nel 1950 aveva realizzato il mosaico “Sciatori”  ripresi di profilo in tre colori, giallo, rosso e verde nel movimento del fondo. E dato che parliamo di mosaici non possiamo non ricordare i due monumentali “Soldato dell’Armata rossa”, 1948, alto 2 metri, e “Mungitrice”, 1952, alto 4 metri in quattro pannelli, collocato nella galleria centrale del Palazzo Esposizioni tra le arcate e la volta, veramente spettacolare: entrambi sono venuti dalla Pinacoteca statale di Kurst intitolata all’artista.  Queste due ultime opere sono il segno che il “Realismo socialista” torna a celebrare il lavoro e anche il nuovo mito dell’Armata rossa che ha respinto l’invasione nazista e ha conquistato Berlino fino ad espugnare il bunker del Reichstadt.

In mosaico anche lo straordinario contributo alla metropolitana di Mosca, precisamente nella “Stazione Majakovskaja”, dedicata al famoso poeta, reso in mostra da un esauriente filmato: 35 formelle che rappresentano un “capolavoro assoluto”, inserite soprattutto nella navata centrale della seconda tratta, inaugurata nel 1938, in una sequenza a doppie volte che le fa scoprire ad una ad una con un fattore-sorpresa. Nell’insieme, architettura e pittura, mosaici e affreschi, sculture e bassorilievi con elementi ornamentali di pregio, si fondono in una composizione coerente sotto il profilo costruttivo e funzionale e in linea con la motivazione e finalità politica, anzi ideologica.

Si pensi che i 35 mosaici di forma ovale sono nella sala sotterranea lunga 155 metri, con l’intento di dare leggerezza all’insieme mediante una sorta di apertura luminosa verso l’esterno irraggiungibile – si è a trentacinque metri di profondità –  in una sequenza quasi cinematografica con i colori dei tasselli vetrati in una successione così descritta da Alessandro De Magistris: ” Percorrendo questa da un estremo all’altro, colui che avesse rivolto lo sguardo verso l’alto, avrebbe ammirato, poco alla volta, stagliarsi contro il cielo illusoriamente riprodotto e reso vibrante dai tasselli vetrati, quasi fossero fotogrammi di un’opera cinematografica, i campi kolchosiani, le ciminiere di nuovi impianti industriali dell’industrializzazione forzata, le attività di lavoro e svago della gioventù comunista, la vita ideale della famiglia sovietica che nuove leggi cercavano di rafforzare dopo il collasso degli anni venti. Avrebbe potuto ammirare il lancio dei paracadutisti, gli aerei che solcavano i cieli della madrepatria, e ancora i nuovi mezzi di esplorazione che… anticipavano, nella ricerca di nuovi primati stratosferici, la conquista del cosmo degli anni del dopoguerra”.

Questi i contenuti, e l’effetto? “La vivacità cromatica dei mosaici, in cui si rifletteva la luce emessa dalle fonti… forse nei primi viaggiatori poteva veramente alimentare l’impressione di trovarsi in prossimità della superficie e del cielo aperto”. La metropolitana fu concepita come  un’imponente “città sotterranea” che doveva condizionare lo sviluppo urbanistico di superficie, un’opera del regime volta ad affermare la potenza tecnologica e a dare al popolo una sua reggia, frequentata quotidianamente, con le architetture e le ricchezze ornamentali non più destinate al palazzo degli Zar; i mosaici di Deineka come i grandi lampadari e il resto avevano questa ambiziosa finalità.

Gli anni ’50 e ‘60

Dopo le sculture e i mosaici sopra citati non abbiamo viste esposte opere degli anni successivi. Nel dopoguerra il Realismo socialista era divenuto un imperativo per gli artisti, dovevano celebrare l’ordinamento della società come si voleva che risultasse nella realtà in modo da delineare il domani preconizzato dall’ideologia. Perciò le immagini che ne risultavano erano artificiose e senza forza, e l’arte si riduceva ad una sterile accademia priva di vita. Deineka non poteva non risentirne.

Scrive Irina Lebedeva, che dirige la Galleria statale Tret’jacov” prestatrice di una parte rilevante delle opere di Deineka, riferendosi alla sua arte: “Essa risentì effettivamente del contesto dell’ideologia sovietica e per lunghi anni la si è interpretata esclusivamente come esaltazione della forza, come volontà di eroismo, come glorificazione della tecnica e dello sport”. Questo imponeva l’ideologia, e aggiunge: “Per l’artista furono decisive non tanto le direttive politiche quanto la percezione del mondo, delle persone, il tendere di un’intera generazione verso un ideale, il rapporto armonico tra l’uomo e un mondo che stava dinamicamente cambiando”. Ma quando si attenuarono le energie giovanili, mentre queste direttive venivano ribadite e rafforzate con l’accusa di “formalismo” deteriore ai presunti deviazionisti, tra i quali in qualche caso veniva annoverato, ecco che, potremmo dire evocando una nota espressione, si andò esaurendo la sua “spinta propulsiva”.

Per Elena Voronovic “negli anni Cinquanta e Sessanta perse ciò che di più sacro esiste per il talento di un artista: la fiducia nella realizzazione del sogno, della verità di ciò che crea. Il suo brillante e vigoroso talento non riuscì a trovare una via di uscita neanche nei lavori eseguiti per se stesso. Alla ricerca di un compromesso tra il proprio punto di vista e la committenza ufficiale alla fine della sua vita Alecsandr Deineka finì per perdere la libertà e la disinvoltura dei suoi anni giovanili”.

Ed è eloquente, anche se ha un suono paradossale, che si parli di “libertà” quando c’era lo stalinismo e di “perdita di libertà” quando dopo il XX Congresso del PCUS con Krushev e la “destalinizzazione” ci fu qualche apertura sul piano politico: ciò dimostra quanto possano, contro ogni oppressione, la determinazione e la forza ideale che sentiva nell’età giovanile e non ritrova in età avanzata. Anche questa è una lezione che viene da chi, pur con i vincoli del “Realismo socialista”, ci ha dato opere che sono espressione di vitalità e un inno alla vita per ogni latitudine.

Continua a ispirarsi ai giovani, allo sport e all’aria aperta ma non vi sono motivazioni nuove, sembrano fredde ripetizioni di momenti vissuti un tempo con slancio ed entusiasmo. Ma se l’attività artistica degli anni ’50 e ’60  è condizionata dalla disillusione, non è venuta meno l’attività istituzionale: la sua posizione nel campo delle arti dell’Unione sovietica è stata di assoluta preminenza, anche se fra alti e bassi nel suo rapporto con le autorità del regime.

Sono proseguite le mostre nelle quali è stato tra  gli espositori di punta e le sue partecipazioni a Conferenze ed Assemblee negli organismi ufficiali di cui faceva parte.  Nel 1958 il presidente dell’Unione moscovita degli artisti sovietici Dementij Smarinov gli diede questo attestato: “Il sentimento della contemporaneità, l’alta intransigenza, il legame della creazione dell’artista con il destino di un popolo infondono un importante contenuto alle sue opere”. E gli conferì, a nome del governo, il titolo di “personalità emerita delle arti”; un anno dopo ebbe il “titolo emerito di Artista Popolare”, nel 1960 la laurea d’onore “per l’impegno attivo nel solidificare la pace tra i popoli”, nel 1961 la Medaglia d’oro e la Laurea d’onore dell’Accademia Belle Arti; nel 1964 il “Premio Lenin”.

Nel 1969, il 5 giugno, ci fu a Mosca una sua personale con 250 lavori, poi venne spostata a Leningrado;  il 10 ricevette il titolo di “Eroe del Lavoro Socialista” e il conferimento dell'”Ordine di Lenin” e della medaglia d’oro “Falce e martello”, ma non se ne rese neppure conto, era in fin di vita. Morì nella notte tra l’11 e il 12 giugno, a 70 anni.

Il Fondo per gli artisti fece realizzare un monumento sepolcrale dallo scultore Rukavinsikov e dall’architetto Voskresenskij  sulla sua tomba a Mosca nel 1989; nel 1982 c’era stata la prima mostra fuori della Russia, a Dusserdolf. Dopo quella mostra, “all’Ovest niente di nuovo” fino alla meritoria mostra a Roma del 2011, al Palazzo Esposizioni.

I suoi rapporti con le istituzioni artistiche e politiche, nonostante la statura che appare anche da questi pochi accenni, non furono affatto tranquilli, per la sua forte personalità che lo portava all’indipendenza e all’insofferenza rispetto alle costrizioni imposte soprattutto ai “formalisti”. Proposte di onorificenza non accolte dalle autorità e sue dimissioni dagli incarichi non mancano.

Tutto questo viene espresso sinteticamente in un quadro che realizzò nel 1948, un anno particolare.

“Autoritratto”, 1948

L’Autoritratto dell’Eroe del lavoro e dell’umanità

Perciò l’immagine che poniamo come conclusione della nostra visita alle opere in mostra è questo quadro,  “Autoritratto”, 1948, che precede il dipinto “Bagnante”, 1951,ed ha pari forza espressiva mostrando un’energia repressa anche se rivolta a una direzione e in una prospettiva ben diverse. Un’inconsueta raffigurazione di sé in tenuta definita “pugilistica”, senza guantoni ma in vestaglia o accappatoio, asciugamano e scarpette, nella camera con una tela non dipinta appoggiata alla parete.

Dipinse lo speciale autoritratto in un momento negativo, non solo per lui, ma per l’arte in Unione Sovietica, durante la campagna contro il “formalismo”, in musica e in pittura, nel quale veniva compreso anche lui. Nel marzo di quello stesso anno, il 1948, fu sollevato dall’incarico di direttore del Corso di pittura monumentale “in seguito alle sue dimissioni”, aveva la schiena dritta; ma a settembre fu ammesso come membro del “Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Industria culturale”; in ottobre scrisse ai Compagni d’arte russa degli scultori  informandoli di aver conservato  plastici e progetti del monumento “Annientamento dei tedeschi vicino Mosca”, e lasciò la posizione di direttore  restando insegnante del Corso di scultura compositiva e decorazione; partecipò anche alla mostra “Pittura e grafica sovietica”  e lavorò ad alcuni dipinti, tra essi l'”Autoritratto”. Quell’immagine orgogliosa riafferma la sua dignità indomita, la sua volontà di battersi a mani nude e di reagire con i mezzi di cui disponeva contro la mortificazione dell’arte.

Abbiamo voluto ricordare le fasi movimentate del 1948 per inquadrare il dipinto in cui si ritrae: come segno di determinazione e volontà di lottare riprendendo la veste giovanile di pugile apprezzato da un grande allenatore di cui frequentava la palestra, che gli prediceva un luminoso avvenire nel pugilato se non ne avesse avuto uno ancora più fulgido nella pittura.

Ebbene, questo ricongiungersi delle due vocazioni di eccellenza della sua vita dopo la tragedia della guerra e gli sconvolgimenti conseguenti nella vita artistica e in quella quotidiana, ci appare rivelatore del suo essere sommo interprete del “Realismo socialista”,  ma nello stesso tempo essere espressione di un’arte molto personale che ha saputo nobilitare i temi propagandistici dando alle sue figure un forte spessore umano. Nel 1964 ha avuto, come abbiamo ricordato, il titolo di “Eroe del lavoro Socialista”. Un titolo lo merita anche nel mondo occidentale come “Eroe del lavoro” senza aggettivi; ma anche “Eroe dell’umanità” nei suoi momenti più vivi, il lavoro e il riposo, lo sport e il tempo libero, la guerra e la ripresa con vitalità e ottimismo: Per lui “l’arte è un po’ l’ideale, il desiderio di un poco di più di ciò che si vede, e di un po’ meglio di ciò che si vive” .

Per tutto questo  ci piace ricordare e celebrare di nuovo oggi la sua figura  di artista e di uomo.

Info

Catalogo“Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due primi articoli sono usciti, in questo sito, il  26 novembre e 1° dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo Esposizioni alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, “Regione di Mosca. Novembre 1941”, 1941; seguono,  “Vasti spazi”, 1944, poi “Autoritratto”, 1948; in chiusura, “Mungitrice”, il mosaico alto 4 m nella galleria superiore del Palazzo Esposizioni.  

“Mungitrice”,  il mosaico monumentale 

Grande Guerra, immagini, cimeli e documenti, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

A Roma, Complesso del Vittoriano, la mostra “Verso la grande guerra. Storia e passioni d’Italia”, espone, dal 4 novembre 2012 al 6 gennaio 2013, fotografie e manifesti, documenti e cimeli, e anche dipinti,  sul  periodo cruciale che va dalla crisi di fine ottocento a D’Annunzio, spartiacque tra ‘800 e ‘900. E’ curata da Mario Pizzo, vicedirettore del Museo centrale del Risorgimento e da Romano Ugolini presidente dell’Istituto per la storia del Risorgimento, ha collaborato Bruno Vespa. Realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia. Vi è anche la ricostruzione della Cappella della Pace e della Vittoria  da Sant’Apollinare Nuovo, Ravenna,  decorata da dipinti in omaggio ai caduti della Grande Guerra, progettata e realizzata interamente da Carlo Donati. 

Anselmo Bucci, “2 luglio 1918”, 1918

Un’immagine sinistra viene evocata da Romano Ugolini nel presentare la mostra, quella del Titanic con l’orchestra che suona e la festa da ballo impazza  nell’imminenza della tragedia, tale poteva esser considerata la Parigi della ” Belle epoque”  e la Vienna absburgica  prima del conflitto mondiale del 1915-18. Ma precisa subito che “se il nostro sguardo si amplia al panorama internazionale, ci accorgiamo che l’orizzonte è denso di nuvole nere, il che rendeva ben incerto il futuro”.  Erano  venuti meno gli equilibri ottocenteschi e la formazione di nuovi comportava profondi mutamenti a livello economico-sociale nei vari stati e nuovi assetti a livello mondiale con l’ingresso degli Stati Uniti e del Giappone che incidevano sul ruolo dell’Europa.

La mostra nel programma che culmina nel 2014

Una crisi di crescita, comunque, se si ha a mente il passaggio dall’economia agricola a quella industriale con lo spostamento dal mondo rurale a quello urbano e lo sviluppo di edilizia, finanza e delle attività manifatturiere; processo accompagnato dall’impetuoso progredire della scienza e della tecnica. In questa fase nascono partiti e sindacati, “in pochi anni – afferma Ugolini – se ci riferiamo all’Italia avviene una rivoluzione epocale, in termini politici, economici, sociali e culturali”.

Di tutto questo dà conto la mostra prima di presentare le immagini della Grande Guerra, che, secondo Giuliano Amato, è “il punto in cui si incrinò definitivamente l’assetto economico e sociale dell’Ottocento e, in particolare per il caso italiano, del Risorgimento”. C’è quindi un’instabilità inquieta, espressa dal dipinto di Angelo Morelli “Asfissia!”, una natura morta che rende l’equilibrio instabile con la fine delle certezze del passato e le incognite del futuro pur se promettente.

La mostra non è isolata, ma si inserisce in un programma che ha presentato prima “il treno del Milite Ignoto” come momento simbolico del 150° anniversario dell’Unità nazionale, e culminerà nel 2014 – sono le parole di Alessandro Nicosia – “con una grande esposizione finale dedicata alla Grande Guerra in occasione dell’inizio del tragico conflitto. Questa prima esposizione vuole analizzare il contesto nazionale ed internazionale che portò alla guerra, le sue premesse storiche, sociali, economiche e culturali”. E lo fa presentando una varietà di elementi che fanno rivivere il clima dell’epoca: manifesti e locandine, documenti e proclami, opere d’arte e cimeli, notiamo tra gli altri una divisa e il tricolore, e anche tante fotografie: di queste abbiamo dato conto sulla rivista specializzata “guida fotografia.com”.  Il tutto collegato agli eventi e ai mutamenti del clima economico-sociale in base a una ricerca accurata.

Urbanizzazione e sviluppo industriale, l’età giolittiana

Si inizia con alcune testimonianze visive di questi mutamenti del clima con la corsa all’urbanizzazione che fa sorgere nuovi quartieri, case popolari e palazzine eleganti fino ai villini “liberty”,  lo stile che investe anche le arti figurative e altre forme di espressione verso il pubblico.  E soprattutto con il rapido sviluppo industriale, in particolare dell’industria meccanica con l’introduzione di macchinari e utensili  sempre più progrediti e nuove forme organizzative.  Sorgono le grandi famiglie di imprenditori, gli Agnelli a Torino, i Pirelli a Milano, i Perrone a Genova, i Florio a Palermo.  Olivetti crea l’industria di macchine da scrivere, si sviluppano anche il tessile e la chimica con la Montecatini, la Carlo Erba e la Schiaparelli. Manifesti pubblicitari dell’epoca rendono le sollecitazioni date dall’impetuoso sviluppo industriale, automobile in testa.

Il progresso è espresso dal dipinto di Giuseppe De Nittis, “Passa il treno”, il vapore che lascia invade i campi con due contadine al lavoro. Ma deve fare i conti con arretratezza e miseria, e le grandi disuguaglianze, rese dal dipinto di Emilio Longoni, “Le riflessioni di un affamato”; il  povero passante guarda dall’esterno di una vetrina la coppia benestante seduta al tavolino al’interno del caffè.  Vicino è esposto il dipinto di Achille Jemoli, “Ritratto di Castiglioni nello stabilimento Johnson”, la figura è imponente, esprime la nuova classe emergente del lavoro industriale.

Le parole della “Rerum Novarum” di Leone XIII “nel 1891 evidenziavano queste contraddizioni:”I portentosi progressi delle arti e i nuovi metodi dell’industria, le mutate relazioni tra padroni ed operai; l’essersi accumulata la ricchezza in poche mani e largamente estesa la povertà, il sentimento delle proprie forze divenuto nelle classi lavoratrici più vivo, questo insieme di cose con l’aggiunta dei peggiorato costumi, hanno fatto scoppiare il conflitto” e la Chiesa lo denunciava. Nel 1897 Andrea Costa denuncia il bellicismo e afferma con forza che l’onore di un  popolo si esprime “nella lotta per la libertà e l’emancipazione”, e non “in quei macelli stupidi e infami che sono le guerre”.

Nell’età giolittiana – dal 1903 al 1914 con l’interruzione tra il 1910 e il 1911 – si cerca di assecondare le spinte allo sviluppo migliorando al contempo le condizioni di vita delle classi popolari: si introducono norme per il lavoro femminile e minorile, gli infortuni e il riposo settimanale, nonché leggi per il Mezzogiorno, anche allora atavicamente arretrato, si introduce il suffragio universale  a 31 o 21 anni se militari o istruiti, cresce il risparmio e la lettura.

Non si deve dimenticare che il 1900 era iniziato con i colpi di pistola dell’anarchico Bresci che assassinò re Umberto I: è esposto come una reliquia profana un quadretto con le “piume dei pennacchi dei carabinieri presenti durante l’attentato di Monza al re Umberto I di Savoia”.  Inoltre c’era stata un’ondata di scioperi  tra il 1902 e il 1904 con alcune vittime che aveva fatto tornare lo spettro della repressione di Bava Beccaris a Milano nel 1898; con Pio X le deroghe al “non expedit” permisero ai cattolici di entrare in politica.  Anche questo è documentato in mostra da fotografie dei moti di piazza con le barricate e le truppe antisommossa schierate nelle strade di Milano. 

Ci fu poi il disastroso terremoto di Messina, documentato da immagini  del 1908-1909, con le distruzioni e la visita del Re nei luoghi del sisma; insieme a a fotografie del Vesuvio e di Pompei.

Giovanni Boldini, “Ritratto di Alaide Banti”, 1885


L’espansione coloniale e D’Annunzio

Negli stessi anni in Oriente c’è la rivolta dei boxers e il conflitto russo-giapponese, sono esposte anche queste immagini crude insieme con altre serene e delicate dai toni calligrafici.  Si guarda lontano come riflesso del colonialismo espansionista in Africa che all’inizio ha scarso successo. Anche di questa fase sono esposte foto suggestive: del 1895 la grande panoramica dell’entrata a Massaua del governatore, la commemorazione a Dogali, e fotografie in diverse località esotiche.

L’escalation con la spedizione in Libia del 1911 è espressa dall’appassionato discorso di Giovanni Pascoli il 21 novembre 2011, “La grande Proletaria si è mossa”:  di braccia di italiani il mondo “più ne aveva bisogno meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male…erano diventati un  po’ come i negri, in America e come i negri ogni tanto venivano messi fuori dalla legge e dalla umanità”.  Nelle terre coloniali d’Africa “là i lavoratori saranno, non l’opre, mal pagate mal pregiate mal nomate, degli stranieri, ma, nel senso più alto e forte delle parole, agricoltori sul suo, sul terreno della patria… vivranno liberi e sereni su quella terra che sarà una continuazione della terra nativa… Troveranno, come  in patria, ogni tanto le vestigia dei grandi antenati”.

Fotografie eloquenti sulla guerra italo-turca di quel periodo; anche le copertine dei quaderni di scuola inneggiavano all’evento con immagini esotiche  di soldati in azione tra cammelli e palme.

Il clima di inizi ‘900 viene reso anche attraverso una sezione dedicata a Gabriele d’Annunzio,  introdotta da una gigantografia della sua inconfondibile testa. Sono esposte fotografie e locandine delle sue opere teatrali e dei suoi libri, con una fotografia di Eleonora Duse  in “La città morta”; e un bozzetto per “La figlia di Jorio” di Francesco Paolo Michetti, il pittore-fotografo animatore del cenacolo dannunziano nel quale artisti come lo scultore Barbella, il pittore Michetti, il musicista Tosti,  il poeta-scrittore D’Annunzio si ispiravano a vicenda in un creativo  sodalizio culturale.

D’Annunzio è una miniera di immagini. Oltre al teatro l’impresa fiumana con la celebre fotografia al rientro dal volo su Vienna nell’agosto 1918 e quelle tra gli alpini e inginocchiato a  Fiume davanti ai legionari durante una commemorazione dei caduti nel 1919-20.  Inoltre lettere e diplomi,  proclami e volantini, quali “L’alalà funebre” e “Natale fiumano”, quest’ultimo firmato “Gabriele d’Annunzio mutilato di guerra”, citiamo il particolare come segno del clima. La galleria dannunziana comprende anche il”Ritratto di Alaide Banti” di Giovanni Boldini, una figura languida e invitante che evoca il lato mondano del Poeta; e si chiude con  lo squillante manifesto di “Cabiria”, del 1912., le braccia che innalzano il corpo tra le rosse lingue di fuoco in primo piano. 

Dipinto con il campo di battaglia cosparso di morti

Un primo assaggio della Grande Guerra

Per i fuochi di guerra si cambia livello, si va al piano dove è evocata la “Grande guerra”, pensiamo sia un assaggio in attesa dello sviluppo del programma che culminerà nella mostra del 1914. A questo riguardo va sottolineato l’immenso patrimonio documentario raccolto fin dal 1915 per iniziativa di Paolo Boselli, allora presidente del Comitato nazionale per la storia del Risorgimento, cominciando con i fascicoli personali dei “caduti sul campo dell’onore”. 

Del “Fondo guerra” fa parte  la copioso documentazione di sculture e targhe, monumenti ed epigrafi e soprattutto il vastissimo materiale iconografico delle fotografie  che si cominciarono a raccogliere sul fronte e nelle retrovie per comporre preziosi album con le relative didascalie. Va considerato che al fronte nel 1917 vi erano ben 600  foto-operatori che trasmettevano i loro scatti al Comando, per un totale di 150.000 lastre fotografiche.  La raccolta fu proseguita fino agli anni ’30 con immagini provenienti da donazioni e lasciti: più che scene cruente riguardano i momenti prima e dopo i combattimenti, e i loro effetti disastrosi sulle popolazioni e sui territori teatro di guerra.

E’ esposta una serie di fotografie tratte da quegli album originari, del 1915-18, sono impressionanti per come fanno vivere l’atmosfera delle  trincee e delle tende, l’attesa prima dell’attacco, il riposo, con immagini singole o corali di grande intensità. Ogni descrizione non potrebbe rendere l’effetto che trasmettono con la loro immediatezza le immagini di quei soldati dinanzi a qualcosa molto più grande di loro cui fanno fronte con coraggio rivelando una profonda umanità.

Vediamo i proclami, ci si rivolge alle “Donne del popolo!” e alle “Donne Italiane!”, “A voi, Soldati d’Italia” e “Agli operai di tutte le nazioni”, si chiede “Diamo oro alla patria!” e “Sottoscrivete il Prestito di Guerra!”: per quest’ultimo vi è una serie di manifesti  a colori molto espressivi rivolti a immedesimare nelle difficoltà da alleviare con la sottoscrizione; oppure a valorizzare il contenuto economico, come quello con la scritta “Il lavoro. Ecco il nuovo dovere!”; un altro manifesto reca una gru che solleva un immenso salvadanaio con scritto “Tutto il nostro risparmio alla patria”. 

Non è una documentazione solo italiana, sono esposti manifesti di altre nazioni che invitano alla sottoscrizione dei prestiti di guerra e rivolgono proclami. E vi sono immagini di soldati stranieri su altri fronti, quello austro-ungarico e quello albanese, con dei primi piani di volti, l’umanità è òa stessa senza confini. Si vede anche la cattedrale di Reims dopo il bombardamento del 1914.

Oltre al dramma la satira, sono tanti i cosiddetti “Giornali di trincea” presentati, notiamo “la Tradotta” e “Il Montello”, “Signorsì” e “San Marco”, “L’Astico” e “La Potenza”. E poi gli “spartiti musicali” con le copertine illustrate con il tricolore e disegn all’insegna del patriottismo, i titoli sono “Canti d’Italia” e “Valore italiano”,  ‘La canzone dell’Armata del Grappa”  e “Umili eroi”.

Infine, per finire con l’arte, una serie di dipinti di Anselmo Bucci, che trasferiscono in pittura scene di ambiente quasi fotografiche ma rese con figure sfumate molto espressive. Siamo nel 1915-18, vediamo gli olii “Soldati che leggono in trincea”, “Ritratti di soldati al fronte” e il “Ritratto di marinaio” su tavola. A carboncino “2 luglio 1918”, soldati ripresi di spalle mentre guardano lontano dall’interno della trincea, e “Cannoni-mitragliatrici”, una litografia che li vede in azione. E’ uno dei pittori-soldato,  sono esposti pure tre disegni di Italo Lunelli realizzati sul fronte del Grappa.

L’appello ai giovani per la riscoperta degli “archivi familiari e privati”

La documentazione disponibile, di cui sono presentati scampoli esemplificativi, pur nella sua ricchezza e vastità non rappresenta un museo imbalsamato ma è aperta a nuovi apporti che possono venire dalle tante famiglie le quali nei loro album hanno testimonianze e immagini d’epoca.  

C’è al riguardo un progetto europeo sul sito http://www.14-18.it/ che si rivolge soprattutto ai giovani, invitati a fornire il loro “contributo multimediale” a partire dal vasto “database” rappresentato dal sito: l’invito è a svolgere una ricerca sul territorio di origine e di residenza per riscoprire “archivi familiari o privati”, servendosi delle conoscenze acquisite, della propria creatività e delle nuove tecnologie disponibili. Il materiale reperito entrerà nel portale www.risorgimento,it/radici.

Nel periodo di intensa rievocazione che, come si è detto, culminerà nel 2014, è molto significativo che i giovani siano coinvolti in una mobilitazione tesa a riscoprire le proprie radici e valorizzarle unendole a quelle dei connazionali nel grande affresco della memoria nazionale.  L’invito che viene formulato con la mostra del Vittoriano è tale da meritare un accoglimento corale.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, Piazza dell’Ara Coeli, sala Zanardelli, dal 4 novembre 2912 al 6 gennaio 2013: aperto tutti i giorni, da lunedì a giovedì ore 9,30-18,30; da venerdì a domenica 9,30-19,30. Ingresso gratuito. Tel. 06..69202049.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano alla presentazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, per l’opportunità offerta.  In apertura   “2 luglio 1918” di Anselmo Bucci, 1918; seguono “Ritratto di Alaide Banti” di Giovanni Boldini, 1885, e un dipinto con il campo di battaglia cosparso di morti; in chiusura una divisa coloniale. 

Una divisa coloniale

Echaurren, 3. Dalle copertine e i fumetti alla Musica, a Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Si conclude l’excursus sull’arte di “Pablo Echaurren, Crhomo Sapiens”  nella mostra alla Fondazione Roma Museo nel Palazzo Cipolla a Via del Corso a Roma, che ne ha inaugurato il 18 dicembre 2010  la destinazione all’Arte contemporanea. Dopo il suo anticonformismo e il suo omaggio a Roma, abbiamo trattato della sua visione della natura e delle sue opere, fino alla ceramica; ora gli altri temi di questo artista eclettico oltre che “malinconico”. Concludiamo con la Musica nei dipinti dei suoi amati “bassi”, ricordando anche il suo iimpegno di illustratore di copertine e  manifesti, grafiche e  fumetti, che ci fa entrare nella vita dell’artista e dell’inquieta contemporaneità.

Sax machine”,  2007

Non chiamiamo “il resto” le sue opere di illustratore, ricorderebbe lo sbrigativo “bene gli altri” delle cronache teatrali. Eppure sono meno spettacolari delle pitture, vanno dalle carte e cartoni, alle  copertine e ai fumetti  nelle più diverse forme su tanti fronti, come una colonna grafica; cui si associa la colonna sonora  con la Musica nei suoistrumenti, i “bassi” dipinti nei quadri e vissuti da strumentista in un complesso rock di cui è stato componente appassionato; con in più il sentimento nel ricordo dei Ramones, i “Fast Four”  scomparsi che hanno segnato la beat generation.

Le copertine e le illustrazioni, i libri e i fumetti

C’è tutto un mondo nel quale non servono immagini allucinate per riempire il vuoto di conoscenza dell'”artista malinconico”, ed è quello della carta. E’ plasmabile  nelle sue mani, ovviamente ben  più della ceramica, la utilizza stampata o disegnata,  scritta o ad acquerello, ritagliata o incollata. “Editoria” si intitolava la sezione della mostra ad essa dedicata, si potrebbe chiamare “Fantasia”. 

E qui le espressioni usate dal presidente  Emanuele riportate all’inizio della visita alla mostra si ritrovano tutte. C’è la ricerca di strade espressive nuove  su contenitori e circuiti diversi, dal collage alla copertina, dal manifesto alla grafica in generale fino ad approdare al fumetto d’autore. Mai in modo asettico e occasionale, bensì in contesti impegnativi vissuti nella libertà da ogni pregiudizio ideologico per una sperimentazione sempre effervescente, senza adesioni pedisseque.

La coerenza nell’apparente incoerenza appare evidente nel suo incontro occasionale prima, epocale dopo, con Filippo Tommaso Marinetti, il padre del Futurismo che attirò il nostro artista sebbene si ponesse agli antipodi sul piano ideologico per un appartenente a “Lotta continua” e  poi agli “Indiani metropolitani”. Ma proprio l’anima libertaria di questi ultimi dava coerenza al paradosso di venire catturato da un’ideologia avversa, considerata addirittura “fascista” per lo spirito di allora rispetto a chi si sentiva puro e intransigente nella galassia ideologica a sinistra dei comunisti.

Abbiamo già accennato – lo ha detto lui stesso – che fu l’anticonformismo di Marinetti ad attirarlo e a fargli scoprire un movimento altrettanto fantasioso e irriverente, libertario e anarcoide in senso positivo, immaginifico e creativo. Rivoluzionario nella vita come nelle arti, tutte coinvolte. Non lo aveva capito neppure Bréton, l’alfiere del movimento dada-surrealista, che ebbe come epigono italiano Arturo Schwartz, al quale si era rivolto Baruchello, primo destinatario dei suoi disegnini ricevendo conferma della sua vena artistica. Abbiamo sentito Schwartz in occasione della grande mostra al Vittoriano rievocare la creatività di Dada e Surrealisti, ma nessun accenno al Futurismo che ne aveva anticipato i fermenti ideali e lo sbocco artistico con un’immaginazione senza freni.

La sfrenata creatività del Futurismo si rispecchiava nel suo desiderio di sperimentare vie sempre nuove senza limitazioni, e comincia a farlo con i collage, dove nella moda futurista compie i più bislacchi accostamenti.  E’ esposta una serie di collage dove le parole “F. T. Marinetti” o “futurista” compaiono come firme comunque apposte, per lo più sghembe, in composizioni dove si trova di tutto, compresi i personaggi di Walt Disney per i quali provava ben più di una simpatia superficiale.  E’ sintomatico vedervi la parola “fantasie” con lettere a stampa anche ritagliate dal giornale come suggeriva di fare il dadaista Tristan Tzara per comporre un’espressione estraendo a caso le singole lettere e affidando alla sorte la loro successione. Ma non era affidato al caso l’approfondimento che fece sul movimento con lo spirito dell’entomologo, raccogliendo e collezionando quanto poteva trovare con una ricerca appassionata, fino a possedere una delle raccolte più vaste e complete di quanto scritto e prodotto da e su questo movimento rivoluzionario. Che conteneva i germi e non poche espressioni di quella che nel 1968 fu l’immaginazione al potere.

Naturalmente un’immaginazione così stimolata ed esercitata si esprimeva sulla carta in forme nuove e contenuti innovativi. Ritroviamo i  quadratini di cui abbiamo parlato come prima manifestazione verso la natura del suo spirito di ricercatore e classificatore certosino. Ebbene, quella forma espressiva esternata dal 1973 troverà la sua consacrazione editoriale nella famosa copertina di “Porci con le ali“, dal sottotitolo “Diario sesso-politico di due adolescenti”, una sorta di manifesto della “beat generation”. E’ il 1976,  i 9 quadratini disegnati col segno calligrafico degli inizi contenevano immagini allora “shock” come la storia raccontata da “Rocco e Antonia”, che erano Marco Lombardo Radice  e Lidia Ravera divenuta una scrittrice impegnata. Seguirà nell’anno successivo la copertina della colonna sonora del film, al posto dei quadratini due grandi porci alati.

la copertina di Rocco e Antonia, “Porci con le ali”, 1976 

I quadratini proseguono nelle copertine di altri libri di Savelli, l’editore del best-seller “Porci con le ali”: li ritroviamo in “C’era una volta una gatta” sui “cantautori degli anni ‘60”, i 9 disegni sono altrettanti ritratti del felino di Gino Paoli in posizioni ed espressioni intriganti Abbiamo citato questa tra le tante sue copertine, perché evoca più di altre un periodo e un clima. E li troviamo anche nella copertina di “Rinascita” e in altre tipo “I love Paperino”.  Nella copertina di “Arezzo Wave”, “European Rock Festival” perdono l’aspetto calligrafico per il segno pesante del pittore, le 9 figure sono altrettante maschere che ricordano i grandi riquadri di “Volevo fare l’entomologo”.

La sua arte grafica tracima senza più quel modello stilistico che portò a raccogliere le copertine per farne un volume, più atteso e pregiato degli stessi libri tematici. Le copertine esposte sono molteplici, riguardano anche riviste con forte connotazione ideologica e satirica come “Frigidaire” e la raccolta dei numeri di “Tango”, “Linea d’ombra” e “Il complotto”. Ne abbiamo contato, nell’esposizione,  una cinquantina, con soggetti e stili diversissimi, sempre originali e creativi.

In alcuni manifesti del 1993 e 1998 tornano forme assemblate come nei quadratini degli anni ’70, ma lo stile è pittorico e non più grafico, i colori netti e decisi. Altri manifesti presentano invece una grande figura centrale come in “Pablo Echaurren per Rimini”  e nel “Festival internazionale del teatro per ragazzi”.  Particolarmente vistosi “Artigiano metropolitano” con le anfore come lettere I e le R retrattili come lingue e “Futurismo contro”, un triangolo rosso di fronte a un cerchio giallo.  C’è anche il manifesto-collage “Marinetti e il Futurismo”, per il 50° anniversario della morte, nel 1994-95, ricorda le recenti celebrazioni del centenario del Manifesto del Futurismo; e perfino un manifesto per il “48°  Festival  della Canzone Italiana di Sanremo”  del 1998. Un caleidoscopio di eventi, quelli da lui illustrati, che è anche un affresco sulla vita sociale e culturale contemporanea.

Leggerezza fino alla vacuità e alla dispersione, professionalità dissipata sul piano commerciale?  Non si direbbe, lo afferma il presidente Emanuele: “Libero da ogni pregiudizio su presunte gerarchie di generi, Echaurren non ha posto mai limiti alla sua potente energia creativa”.  Nicoletta Zanella, la curatrice, ribadisce “l’incapacità cronica a collocarsi in alto o in basso, a porsi in una posizione giudicante, considerandosi invece fuori da dentro, e dentro da fuori. Alto e basso permettono solo due direzioni, anzi sono i due estremi di un’unica linea, peraltro spesso a scorrimento veloce”. E se le ultime citate qualcuno volesse catalogarle nel “basso”, non sarebbe l’artista che non fa “gerarchia di generi”, dà pari dignità rispetto a pitture e sculture ceramiche.

Ma pure nella carta stampata si muove verso l’estremo superiore della linea  evocata dalla Zanella con i libri di cui non ha disegnato soltanto la copertina, ma ha scritto anche il contenuto. Sono tanti i temi, primi tra tutti quelli sull’arte, con i concetti ispiratigli nell’adolescenza dal citato  Gianfranco Baruchello, il suo primo gallerista che lo collegò a Schwartze  viene riscoperto come anticipatore di sperimentazioni contemporanee: abbiamo visto esposti “Dada con le zecche”“Impala l’arte”, “Il suicidio dell’arte” e “Controcultura in Italia”, “Vita di poeti”e  “Caffeina d’Europa”, “Vestire il Futuro” e “Futurocollezionismo”.  Temi impegnati in “Compagni” e “Non aprire, libro diseducativo”, fino alle “Fiabe di Esopo” e al giallo “Delitto d’autore”; temi leggeri  in “Diario culinario” e “Bianco rosso e Veronelli – Manuale per enodissidenti e gastroribelli” espressione  di un viaggio in un  mondo particolare con il noto personaggio che ricorda oggi con accenti commossi.

Da questo impegno a quello nei fumetti si va all’altro estremo della linea dell'”alto” e “basso”? Non si direbbe, l’assenza della “gerarchia di generi” si manifesta anche in questo campo. Le strisce ripropongono i suoi “quadratini” in orizzontale, e li applica a temi alti come le vite di Campana e Tzara, Picasso ed Ezra Pound, oltre a Marinetti, i due ultimi accomunati nell’ostracismo della sua parte politica e dalla sua assoluta indifferenza per la “patata bollente” che poteva scottargli le mani.

Nella forma del tutto nuova il suo è un metafumetto, all’insegna della semplicità fulminante del messaggio anche quando è complesso: come l’accostamento in “Terremoto Picasso” dell’artista spagnolo alla relatività di Einstein, che esprime avvicinandosi al cubismo picassiano; ed evoca  l’americano Roy Lichtenstein  con i campi cromatici ben definiti. La sua creatività, che si manifesta nella sperimentazione di forme inedite spesso legate ai contenuti, fa sì che venga chiamato ad esprimere la “new wave” del fumetto – come ricorda la Zanella  –  sulle  riviste impegnate già citate oltre che su “Linus” e “Comic Art”, “Frizzer”, “Zut” e “Il Sabato” aperte alle geniali innovazioni.

Nelle salette dedicate all’Editoria che si aprivano sul corridoio dei manifesti e dei collage, esplodevano le forme essenziali e fulminanti con i  colori intensi di una tavolozza potente, come lo sono i testi apparentemente disimpegnati ma  dai forti contenuti. Meriterebbero un’attenta lettura.

La serie pubblicata sul settimanale “Il Sabato”  è particolarmente espressiva. I protagonisti delle “Favole di Esopo” sono esilaranti nelle immagini “shock” con i testi lapidari alle pareti: come dimenticare  “Il Pavone” e “La rondine”, “Il coccodrillo” e “Il granchio”, fino a “I due galli“?

Su “Zut” notiamo “Teppista”; dove viene umanizzata un’automobile che “ha assassinato la notte con la lama tagliente dei propri fari” cui accostiamo l’apologia delle “Matite” su “Frigidaire” , che inizia “ma le matite hanno un’anima?” e termina dopo un lungo excursus imperdibile, “Dunque, cos’è mai la vita senza una matita?”. Su questa rivista anche fumetti impegnati come “Basta!”, una denuncia della decadenza dell’arte e “I diritti artistici” con la proposta di creare depositi di opere in cambio di risorse per poterle produrre; fino a “Muzic”, un fumetto le cui pagine sono veri quadri pittorici, i  testi disincantati evocano la contaminazione di generi, un “concerto di odori e profumi”.

“Love me Feder”, 2008, davanti l’artista

La Musica nella scrittura e nella pittura

Siamo nel campo della musica, la passione di Pablo Echaurren, per la quale si è esercitata anche la sua scrittura nei libri “Bassi istinti – Elogio del basso elettrico” e “Chiamatemi Pablo Ramone”: il primo sullo strumento di cui è stato valido esecutore in un complesso che si esibiva nei locali, il secondo per un gruppo per il quale ha sentito un attaccamento al di là di quello di “fan” pur acceso.

Con la scrittura anche l’arte grafica, e compositiva, soprattutto nei collage. Ce n’erano otto nella sezione dedicata alla “Musica”, realizzati tra il 2007 e il 2009: recanti uno o più strumenti musicali insieme ad altre figure accomunate alla moda futurista, però senza scritte disinibite e bislacche,  c’è molto rispetto anche nelle immagini associate, dai tulipani a figure femminili di sculture e pitture classiche oppure di giovani, mentre suonano o in riposo; si nota anche il Colosseo.

Il clou, naturalmente,  i grandi dipinti introdotti da una “scultura”  vera, “Pablo Bass”, lo strumento musicale, ne ha una vasta raccolta, anche qui da attivo collezionista come nel Futurismo: 7 dipinti sono alti oltre 1,5  e lunghi quasi 2,5  metri, due più grandi misurano 1,7 per 2,7 metri.

Come appaiono le composizioni sulla musica,  imperniate sui “Pablo Bass” e non solo? Vi abbiamo ritrovato la forma pittorica di alcuni dipinti sulla “Natura” e anche su “Roma”, in una continuità stilistica che coesiste con la variabilità del suo estro artistico. “Love me Fender”  con il basso elettrico nato nel suo stesso anno, in piena luce al centro tra altri strumenti nell’ombra, richiama pur nelle notevoli differenze la struttura di “The dark side of the light”. E’ scura , invece, la figura centrale, mentre tutt’intorno spiccano filamenti luminosissimi ed elettrizzati come scosse elettriche in “Le antenne del genio”. In un color oro su fondo blu “Sax machine”, composizione con  l’altro celebre strumento jazzistico, abbiamo contato 12 sassofoni in un disordine creativo.

Siamo alla “pioggia” di strumenti a corda bianchi di forme diverse su fondo rosso-nero in “White noise”, cui associamo analoga “pioggia” di bassi elettrici neri con punti bianchi al termine del braccio, come occhi  nel buio del fondale viola e nero  in “Il cuore & l’orecchio”;  strumenti rossi con evidenziate le parti bianche che spiccano nel fondale a intreccio rosso e viola in “Milaresol“.

Dalla “pioggia” di strumenti alla loro fluttuazione: lo si vede in “Crono sapiens”,  10 strumenti sul rosso e nero, posti in orizzontale, anche qui con parti bianche che illuminano la composizione contornata da una frangia anch’essa bianca dai due lati corti; al riguardo ci piace sottolineare questo titolo, che fa ritenere non infondata la nostra interpretazione del logo della mostra, in cui “Crhomo Sapiens”  non riguarda solo il “cromo” dei colori , ma perlomeno anche il “crono” del tempo, qui scandito dal cuore che pulsa e dal sistema venoso dove scorre il sangue rosso che alimenta  la vita.

Una fluttuazione quasi monocromatica blu  in “Linee andamentali di un giro di basso”,  dal titolo di derivazione futurista da Balla; la passione dell’esecutore  immagina gli strumenti tra rondini in volo, che si  moltiplicano come le note sul pentagramma. Questa immissione non è l’unica, nei dipinti citati si intravede in “Il cuore e l’orecchio”  una sagoma di pipistrello, in “Milaresol” delle figure animali a bocca spalancata, in “Crono sapiens”  il cuore palpitante: collocate in modo discreto al centro nel mare di strumenti, danno alle rispettive composizioni un che di enigmatico.

In “Sant’Eustachio. La visione elettrificante” –un dipinto nella tonalità tra l’oro e il bruno più chiara e luminosa delle precedenti – vi è un solo  basso al centro nella luce  come  in “Love me Fender”; ma mentre in quest’ultimo spiccava tra altri strumenti nel buio, qui è circondato da formazioni inquietanti, sembrano teste con  grandi occhi nelle più varie posizioni. In effetti immagina di porre il basso elettrico in cima alla chiesa imprimendo all’ambiente le scosse sonore.

Tornano gli incubi dell’“horror vacui” da esorcizzare con diaboliche figure che allontanano il maligno? Non possiamo dirlo, ci sembrava che la musica avesse scacciato questi pensieri molesti. Ma “The Big Bang” li riporta sul proscenio con i tre suonatori di basso quasi minacciati da viscide spire, e soprattutto da quattro bianche dentature di draghi spalancate pericolosamente, come quelle dell’acrilico su carta “Circolo prezioso” propedeutico alla ceramica. “The Big Bang”  è anteriore agli altri prima descritti, risale al 2005, ma è anche vero che il “Sant’Eustachio” è del 2009 e le forme con grandi occhi possono essere i dipinti della chiesa o altro, fino ai teschi.

Ce li ha fatti ricordare il più piccolo dipinto in mostra con i lati di metri 1,30, l’unico quadrato,  un altro paradosso dopo tanti “quadratini”, per tanto tempo la sua forma preferita. E’ “Silenzio sonoro”,  ben più di 100 strumenti musicali stilizzati, tipo basso, ammassati in un magma compatto; come il numero equivalente di teschi nel Catacombelicale” e  i pochi raccolti nell’“Umbilicus Urbis”; che nella ceramica  di “Il mio ombelisco” sono separati ed allineati in perfetta simmetria.

“Silenzio sonoro” è del 1991, gli strumenti ammassati compatti non permettevano intrusioni, l’“horror vacui” era esorcizzato dal “pieno” della musica, non serviva altro. Poi, evidentemente, anche l'”artista malinconico” ha sentito il bisogno degli esorcismi di “Sant’Ignazio” e degli altri.

Il cerchio dell’arte di Pablo Echaurren, prima sotteso tra “Roma” e la “Natura”, poi aperto alla ceramica di “Faenza”, si è chiuso con  la “Musica” e le altre espressioni di illustratore e fumettista di alto livello artistico. E’ un corpus tanto multiforme e variegato quanto coerente che abbiamo voluto esplorare collegando l’arte alla vita, e analizzando le sue opere nei dettagli  per  tentare di decifrarne gli intriganti misteri. Non pretendiamo di esserci riusciti, comunque è stata una ricerca appassionata e appassionante, nella quale abbiamo voluto coinvolgere i nostri lettori.

Info

Catalogo della mostra: “Pablo Echaurren. Chromo Sapiens”, a cura di Nicoletta Zanella, Skirà, 2010, pp. 164, formato cm. 24×28. I due articoli precedenti sono stati pubblicato il 23 e 30 novembre 2012, con la presentazione dell’artista e la descrizione dei temi “Roma” e l'”horror vacui”; “Natura” e “Faenza”, illustrati da 4 immagini per articolo.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia Civita, con la Fondazione Roma Museo,  gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; e soprattutto l’artista Pablo Echaurren che ha accettato di essere fotografato davanti alle sue opere con una disponibilità di cui gli siamo molto grati. In apertura “Sax machine”,  2007; seguono la copertina di Rocco e Antonia, “Porci con le ali”, 1976 e ““Love me Feder”, 2008; in chiusura l’inizio di tutto, gli acquerelli e china su carta “A Sir Tarzan, baronetto di sua maestà la regina d’Inghilterra”, 1972, e “Tra quarantatré secondi circa”, 1975.

“A Sir Tarzan, baronetto di sua maestà la regina d’Inghilterra”, 1972, a sin., e “Tra quarantatré secondi circa”, 1975. a dx
 

Albania, tesori di archeologia e arte, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra “I tesori del patrimonio culturale albanese”,  a Roma nel  Vittoriano, lato Ara Coeli,  dal 21 novembre 2012 al 6 gennaio 2013 e a Torino,  Palazzo Madama, dal 23 gennaio al 7 aprile 2013, celebra il centenario dell’indipendenza dell’Albania; nello stesso periodo al Quirinale con la mostra “Cipro, l’isola di Afrodite, si celebra la presidenza di turno dell’Unione Europea a Cipro. Due nazioni che fanno da cerniera tra Oriente ed Occidente, l’Albania nel continente europeo, Cipro nel Mediterraneo, celebrano eventi fondamentali con mostre nelle quali i patrimoni archeologici sono tesori da valorizzare, ambasciatori nel mondo portatori dell’identità nazionale e delle radici culturali. “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia ha realizzato entrambe le mostre.

Vaso votivo, neolitico

Grande mobilitazione al più alto livello istituzionale per la mostra sul patrimonio culturale albanese: presenti i Ministri degli Esteri e dei Beni culturali dei due paesi, Italia e Albania, che hanno molto in comune: dalla storia di ieri con la velleitaria unificazione nel “Regno d’Italia e d’Albania”, alla cronaca di oggi, con i cospicui flussi di immigrazione che entrano in Italia attraversato l’Adriatico. Ma non si tratta soltanto di rinsaldare rapporti antichi tra due nazioni divise da un ristretto braccio di mare e unite da forti legami storici ed economici oltre che geografici; l’Albania si presenta all’intero continente nella riscoperta delle proprie radici europee, culturali e non solo.  Curatore della mostra il Direttore dell’Istituto dei Monumenti Culturali d’Albania Apollon Bace.

I reperti millenari di un paese dalle forti radici europee

Il paese appare come un concentrato di Europa nel clima, che varia da una provincia all’altra passando dal temperato mediterraneo al freddo continentale; ed è variegato anche il paesaggio, dalle spiagge rocciose alle vallate, dalle colline alle montagne, dalle lagune ai fiumi; la costa si estende per 450 chilometri tra il mare Adriatico e il mar Jonio, la “Riviera albanese” è meta di turisti. La natura, quindi, e una storia millenaria che si riflette nei borghi medievali e nei siti archeologici.

Da questi proviene il patrimonio archeologico esposto nella Gipsoteca del Vittoriano insieme ad opere d’arte pittorica di grande valore, al quale hanno contribuito dagli anni ’20 i ritrovamenti di ricercatori italiani come Luigi Ugolini, a capo di una spedizione alla quale si devono importanti reperti in mostra. Un filmato dell’Istituto Luce che scorre su un monitor  fa vedere la missione archeologica italiana degli anni ’30 nei siti divenuti celebri di Butrinto a della necropoli di Fenik; altri importanti siti archeologici sono quelli di Apollonia e di Kruja. In essi si trovano testimonianze preziose perché un territorio crocevia di popoli ha conservato tracce profonde dei processi di civilizzazione e delle tradizioni che lo hanno attraversato fin dalle epoche remote della preistoria.

Nella preistoria ha inizio il percorso cronologico della mostra, che attraversa l’epoca antica, il periodo ellenistico, l’età romana fino all’Alto medioevo; oltre ai reperti archeologici sono esposte le preziose icone in stile bizantino di Onofri del XVI secolo a anonimi precedenti.  Sono millenni di storia e di arte riflessi nelle vetrinette e nelle pareti della Gipsoteca, uno spazio che si snoda senza interruzioni al pianterreno del grande Complesso del Vittoriano, il monumento simbolo dell’unità nazionale adatto per questo tipo di esposizioni, come hanno sottolineato anche le autorità albanesi.

Una sintesi efficace è quella di Alessandro Nicosia, che ha coordinato la realizzazione della mostra: “Vasellame e suppellettili, oggetti e strumenti di uso comune, elmi e scudi, monete e recipienti; ma anche gioielli e ornamenti, statue devozionali, ritratti e stele funerarie, icone e arredi sacri: un patrimonio materiale profondamente radicato in terra albanese , fatto di terracotta, ceramica, bronzo, rame, ferro, marmo, legno, pigmenti colorati, in grado però di raccontare non solo le pratiche quotidiane di un popolo, ma soprattutto le sue manifestazioni culturali ed estetiche, i suoi  costumi, le sue tradizioni e la sua vita spirituale”.

I reperti della preistoria

I reperti archeologici attestano come l’Albania fosse abitata sin dalla Preistoria. Si risale al Neolitico  fino al 6000 a. C., con tracce rinvenute a Korca e Kolonja; nell’Eneolitico tra il 2700 e il 2000 insediamenti di popoli della Balcania ed Anatolia in rapporto con quelli della Dalmazia.

Con l’Età del Bronzo, dal 2200 l’arrivo degli Illiri, di stirpe indoeuropea, che  stabilirono rapporti con i Miceni e gli Italici, nell’Età del ferro troviamo delle distinzioni nella produzione ceramica tra quella decorata al Nord e dipinta al Sud anche per l’influenza di altri popoli tra cui i Dauni emigrati in Italia meridionale dalle zone illiriche.

Il popolo degli Illiri era diffuso fino ai Balcani e al Danubio, dal secondo millennio avanti Cristo, e unì le tribù originarie in alleanze impegnate in scontri con gli altri popoli dai quali  uscirono vittoriosi e sempre più potenti: per le loro virtù militari furono chiamati “tigri della guerra”.

Nella prima vetrinetta della mostra sono esposti i reperti più antichi che risalgono a millenni prima di Cristo. I due più spettacolari vengono da Kamnik e da Pogradec. Il primo è un vaso di culto in ceramica di 32 cm, del tardo neolitico, tra il IV e il III millennio, ha una foggia totemica con disegni geometrici e due sporgenze come orecchie alla sommità che gli danno un vago profilo antropomorfico; il secondo, anch’esso in ceramica, è un vaso di uso comune, alto 13 cm, la sua forma circolare del diametro di 15 cm è regolare, come ciotole moderne, è decorato da triangolini con creste rosse, siamo al Neolitico antico.

Torna la foggia antropomorfa, questa volta molto spiccata, in un “Idolo” del V-IV millennio, del neolitico medio, mentre un altro “Idolo” è dell’Età del bronzo antico del 2100-1800 proveniente da Scutari. Del neolitico medio, tra il V e il IV secolo, una collana  di 26 cm e poi sigilli in miniature e vasetti antropomorfi del Neolitico tardo e medio, tra il V e il III millennio.

La seconda vetrinetta contiene dei vasi di piccole dimensioni, anche a forma duplice e triplice, siamo  al I millennio, sempre in ceramica con altezza fino a 20 cm compresi i manici. Della stessa epoca 2 fibule in bronzo e  2 gioielli a spirale in oro, nonché un diadema in bronzo del diametro di 20 cm e 2 spilloni anch’essi in bronzo, uno dei quali lungo oltre 40 cm.

Nella vetrinetta successiva oggetti primordiali in bronzo, asce e bipenne, punte di lancia dal XIV secolo al IV, ne abbiamo contati una quarantina con 3 spade rudimentali, coperte di patina verde.

Scultura con stele, periodo pre-romano 

Statue e armi, ornamenti e “olpe” del periodo pre-romano

Un salto nel tempo, al IV-V secolo, con la vetrinetta che espone 6 statuette con figure femminili, maschili, anche divinità: piccole dimensioni, fattura perfetta, in particolare il lanciatore di giavellotto del V secolo da Apollonia. Si entra così nel periodo pre-romano dopo la fondazione delle colonie corinzie, tra cui Apollonia e i primi insediamenti urbani illirici, che si sviluppano nel IV e III secolo con influssi dagli antichi abitatori di Siracusa e Taranto. Nel sud il regno Molosso dal quale partirono le campagne di Pirro in Italia, finché non divenne repubblica nel  234; a nord il regno illirico in guerra con la Macedonia dal 229 che termina con la fine del regno nel 168 a. C.

Ci richiama questa storia bellica la vetrina con il grande scudo, che ha al centro un cerchio con un viso sorridente, forse di divinità, e 3 elmi, nel verde ossidato dal tempo, siamo al V-IV secolo,la provenienza è ancora Apollonia. Ma poco più avanti la vetrinetta con gli ornamenti, che risalgono anche al VII-VI secolo: pendagli semplici e a forma di uccello, uno antropomorfo, fibule anche a disco, spille e cinture in bronzo, una collana in vetro e ambra di 40 cm, orecchini  d’osso.

Poi le spettacolari “olpe” in ceramica, sempre da Apollonia, sembrano anfore etrusche, figure umane e animali in color ocra rossiccio su fondo nero, la più grande è di 46 cm,  siamo nel 600 a. C. E’ solo l’inizio, un’altra vetrina presenta 10 vasi e anfore di diverse dimensioni, dal più piccolo di 7 cm al cratere dal diametro di 50 cm con figure solennemente assise, di splendida fattura. Tutto in ceramica salvo una coppa in bronzo, sono del IV secolo a. C. Il re di questi reperti è il grande cratere posto al centro dell’area espositiva in una vetrina esclusiva, tipo campana di vetro, è alto 58 cm con un diametro di 40, da un lato una figura alata con 3 figure stilizzate maschili e femminili, sul retro 2 figure maschili con barba in posizione simmetrica, veramente uno spettacolo.

Il III secolo è rappresentato da 9 statue di terracotta con figure animali e umane,  una con Zeus  dalle braccia protese, due con Afrodite, una seduta e l’altra in piedi alta 44 cm; poi figure femminili dal panneggio imponente. La bellezza muliebre viene già celebrata, ed entra in campo l’argento negli ornamenti, una vetrinetta espone bracciali e orecchini, fibule e spille in questo materiale e  nel più prezioso oro  del quale vediamo due collane con testine, anelli  e gioielli  anche con la corniola. Notiamo un piede di vaso a forma di sfinge, altezza 23 cm, con la particolarità che è una sfinge alata. Vicino sono esposte le monete in bronzo dell’epoca, distinte per provenienza.

Siamo alla statuaria, sempre del III.II secolo, anche qui soprattutto Apollonia è la sede dei ritrovamenti.  E’ una vera sfilata, le teste di Artemide e Demostene in marmo, le stele in pietra calcarea  con Atlante ed Ecate, le statue di Artemide ed Eros, la testa di Apollo in marmo.

Pannello di urna funeraria, periodo romano 

Il periodo romano

La storia corre, nel periodo romano è protagonista il mare Adriatico che unisce più che dividere le popolazioni sulle sue sponde. La comunicazione tra Illiri e Romani è agevolata dagli Italici che sono molto attivi, ma la politica espansionistica di Roma non risparmia gli Illiri con i quali vi fu una lunga guerra, dal 229 al 167 avanti Cristo, conclusa con la sconfitta di questo popolo che fu sottomesso mentre il suo territorio venne frazionato all’insegna del “divide et impera”. 

Con la divisione dell’impero tra Oriente e Occidente, nel 395 i territori illirici entrarono nell’Impero d’oriente, ma furono invasi dai barbari, come la Grecia e la Macedonia, in particolare dagli Unni, i Goti e i Visigoti, finché vi si insediarono popolazioni slave, in particolare i Serbi, con centri autonomi che incorporarono gli autoctoni cancellandone le tradizioni; nella parte meridionale resistettero e presero il nome di  “Albanoi”, successori degli Illiri nel territorio dell’odierna Albania.

Spicca la vetrinetta con 4 teste del I-II secolo,  un generale e Augusto, Agrippa e Psiche, poi Villia del 130 d.C. E poi le stele e le urne funerarie in pietra arenaria, la vetrina è veramente spettacolare con due bassorilievi dal fascino molto intenso, straordinaria la tenerezza della mamma con a fianco la propria creatura che sembra voglia imitarne posizione e movenze come fanno i piccoli.

Le pitture iconiche di Onofri

A un certo punto tutto cambia, il lungo spazio ricurvo della Gipsoteca diventa una galleria di pittura, spiccano tavole con ori e colori accesi, alcune di forma e tono spiccatamente iconico. Sono le pitture di Onofri, un grande artista albanese, che per la prima volta vengono esposte al pubblico e di Anonimi molto pregevoli di epoca anteriore. Al centro una Custodia del Vangelo del XVIII secolo e un prezioso paramento sacro di una cattedrale, intessuto con fili di seta, argento e rame di 2,50 m per 11,20, recante un grande Cristo al centro. Dall’ambiente preistorico, pre-romano e romano al clima devozionale delle pitture di stile bizantino, preziosa collezione di icone di fede.

Nel VI secolo il paese era cristianizzato e fu considerato uno scudo verso i confinanti. L’eroe nazionale Scanderbeg per 25 anni dal 1444 alla morte del 1468, si ribellò ai turchi ottomani ottenendo molti successi pur con forze esigue, e fu proclamato da papa Callisto III “Atleta di Cristo” e “Difensore  della fede”. La conquista ottomana è durata dal 1385 fino alla liberazione del 1912 di cui si celebra quest’anno il centenario, al quale si adatta l’espressione di Naim Frasheri, il più grande poeta e scrittore del Rinascimento albanese, “Il sole sorge là dove tramonta”, come simbolo della libertà che si può solo oscurare temporaneamente, ma giammai spegnere del tutto.

I dipinti spettacolari esposti ripercorrono motivi classici della fede cristiana, per metà sono di Anonimi del XII-XIV secolo, e per metà di Onofri, del XVI secolo. Di Anonimi dipinti molto pregevoli, san Nicola e l’Arcangelo san Michele, la Madre di Dio e 2 Annunciazioni, Sorgente di vita, e Santa Maria, mentre di un pittore del XVIII secolo un Cristo in trono.  Di Onofri una Porta reale e diverse immagini di Cristo, dalla Natività al Battesimo, dalla Presentazione al tempio alla Trasfigurazione; e poi Deesis, san Giovanni Battista, con le ali e atteggiamento che ricorda l'”Arcangelo san Michele” dell’Anonimo del XIII-XIV secolo, fino a san Giovanni prodromo. Colori vivaci, immagini di sapore arcaico con l’impatto devozionale delle espressioni iconiche.

E’ la conclusione di una mostra che con i reperti archeologici ricorda la lunga strada dell’uomo dalla preistoria alla classicità, e con le pitture iconiche di Onofri la devozione attraverso l’arte. Il tutto come espressione di un popolo, quello albanese, che celebra i 100 anni dall’indipendenza giustamente fiero della propria identità culturale che ha solide radici nell’Europa e ha scelto l’Italia, Roma e il Vittoriano in primis, poi Torino e Palazzo Madama, luoghi simbolo nel quali questa orgogliosa riaffermazione può maggiormente rifulgere. Ed essere di monito e di lezione a chi ignora tutto questo e non riserva agli albanesi che chiedono accoglienza  la considerazione che meritano.

Info

Complesso del Vittoriano, Roma, via del’Ara Coeli, dal lunedì al giovedì ore 9,30-18,30; dal venerdì alla domenica 9.30-19,30. Ingresso gratuito. Tel. 06.69202049. 

Foto 

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia e i titolari dei dioritti, in particolare l’Istituto dei Monumenti Culturali d’Albania. In apertura un vaso votivo del neolitico; seguono una scultura con stele del periodo pre-romano, poi un pannello di un’urna funeraria del periodo romano; in chiusura, una pittura iconica di stile bizantino della collezione di Onofri. 

Pittura iconica di stile bizantino, collezione di Onofri
 

Guggenheim, 3. Dal Minimalismo al Fotorealismo, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Illustrate le opere dall’ “Espressionismo astratto” alla “Pop Art” della  mostra  al Palazzo delle Esposizioni  dal 7 febbraio al 6 maggio 2012, “Il Guggenheim – L’avanguardia americana 1945-1980” concludiamo con le ultime 3 sezioni sul fervore creativo dell’arte moderna transoceanica in tale periodo: “Minimalismo” e “Post minimalismo”, “Arte concettuale” e  “Fotorealismo”. L’occasione  è la mostra sul ruolo di “Qui Arte contemporanea”  e della Galleria Nazionale d’Arte Moderna nell’emergere dell’ “Arte Astratta Italiana”  in corso alla Gnam nel 60° di Editalia; un ruolo di vero mecenatismo quello del Guggenheim,  che merita di essere ricordato e analizzato.

Robert Morris, Template”

Le tendenze dell’avanguardia americana dal dopoguerra al 1980 rappresentate nella vasta collezione del “Guggenheim” si sono sviluppate fino agli anni ’60 negli stili e contenuti di cui abbiamo già parlato. Dall’iniziale spontaneismo e gestualità senza limiti per far affiorare la psiche profonda fino all’inconscio dell’“Espressionismo astratto”, si è passati all’attenzione ai fondamentali di forma e colore nelle composizioni molto controllate dell’“Hard Edge”, per poi immergersi con la “Pop Art” nelle rutilanti suggestioni della società dei consumi desumendone stili e contenuti in una riproposizione ironica spesso paradossale seguendo una vocazione di arte popolare.

Il Minimalismo

Cambia di nuovo tutto nelle ulteriori tendenze in marcata opposizione con le precedenti, anche contemporanee come la “Pop Art”.  La prima è il “Minimalismo”, con 6 opere esposte nella 5^ sezione: c’è rottura con l’estetismo e l’espressionismo, forme geometriche di materiali industriali, “Specific objects”, con la produzione in serie dell’industria rimuovendo il concetto di arte singola.

Viene portato avanti il discorso del “Systemic Painting” approdando alla scultura non solo a semplici rilievi come i due pannelli monocromatici di Kelly commentati in precedenza. Il rilievo diventa elemento solido in legno, fibra di vetro e lacca in “Naxos” di McCracken,  mantenendo l’unità compositiva; si va oltre con Judd che crea solidi realizzati in legno o metallo secondo volumi geometrici come cubo e parallelepipedo in serie, sulla base di criteri rigorosi condividendo lo stesso spazio fisico del visitatore: “Senza titolo”,  1970, esposto in mostra, è una successione di segmenti solidi materiali in alluminio anodizzato trasparente e viola che riproducono nella loro progressione dimensionale la sequenza  matematica della cosiddetta “serie Fibonacci” in cui ogni numero è somma dei due precedenti, 0, 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, ecc.

Con Flavin questa forma di “scultura” fatta di oggetti si presenta con un altro “Senza titolo”, 1966, due normali tubi al neon di quelli prodotti dall’industria e in vendita, posti in una angolo della sala espositiva, per sorprendere il visitatore di fronte ad oggetti familiari utilizzati in modo inatteso e per mostrargli come con la loro luce immateriale modifichino l’ambiente architettonico.

Terza opera esposta di tale tendenza, di Andre, questa volta con un titolo pomposo, “Quinto triodo di rame”, 7 “unità” quadrate del colore del metallo di 50 cm di lato che formano una T di metri 2,50 x 1,50, quasi un pavimento in costruzione, l’invito al visitatore a “entrare” nell’arte.

Il “Minimalismo” in pittura si esprime in forme geometriche essenziali monocrome. Abbiamo traovato la forma quadrata in 3 opere: “Alleato” di  Ryman, e  “Senza titolo” di Marden, entrambi del 1966: il primo di  2 metri x 2, grigio chiaro uniforme, il secondo 1 metro x 1, nero, oltre all’olio è stata utilizzata la cera per renderlo più cupo; in “Fiore bianco” di Martin, 1960, la monocromia nocciola è attenuata da minuscoli riquadri rettangolari contornati di un filo bianco. Sia “Alleato” che “Fiore bianco” lasciano l’enigma del titolo, al quale non si trova alcun riscontro. E dichiarata invece  dal titolo la forma circolare, in “Cerchio 6” di  Mangold, 1973, diametro di oltre 180 cm, in marrone scuro con un leggerissimo filo bianco che contorna un quadrato inscritto nel cerchio ma di colore identico. Siamo alla semplificazione massima, nella forma geometrica e nel colore monocromatico: il “Minimalismo” si esprime così.

Robert Mangold, “Cerchio 6” , 1973,  a sin., e Brice Marden, “Senza titolo”, 1965-66, a dx

Post minimalismo e Arte concettuale

Le sorprese non sono finite qui, l’avanguardia americana ne ha altre e la mostra le ha presentate  nelle ultime due sale. Ma prima di soddisfare la curiosità di scoprirle citiamo il collezionista italiano che valorizzò le opere minimaliste e quelle di cui parleremo: il conte Giuseppe Panza di Biumoil quale, come abbiamo accennato nella presentazione, diede credito sin dall’inizio a queste tendenze acquistando sistematicamente in California le opere minimaliste e formando una raccolta molto vasta nella sua residenza di Varese. La curatrice Hinkson scrive che c’è voluto “da parte di Panza fede e coraggio non comuni” e aggiunge: “E’ una delle bizzarrie della storia dell’arte che le opere d’arte estreme, nate in gran parte nei loft sudici e disordinati di lower Manhattan, abbiano ben presto trovato casa in una villa idilliaca dell’Italia settentrionale”. Sono tornate a Manhattan, ma nella lussuosa Fifth Avenue, nel 1991, quando il Guggenheim Museum ha acquistato la collezione per colmare la lacuna nelle tendenze alle quali i curatori avevano creduto meno del conte italiano.

La collezione Panza non si limita al “Minimalismo”, è ricca anche di opere di “Post minimalismo” e“Arte concettuale”, tendenze che in parte si sovrappongono alla prima nell’ultima parte degli anni ’60 e negli anni ’70.  Qui la “fede e coraggio” di cui parla la Hinkson sono stati ancora maggiori per la svolta radicale impressa all’arte. Ci si interrogava sul valore e sul significato dell’arte? La risposta di queste due tendenze fu l’uso di mezzi espressivi diversi anche dalla pittura e dalla scultura del “Minimalismo”, sebbene vi sia il ricorso ai materiali: ma  non tradizionali per opere dichiaratamente concepite come “effimere”, cui si associava la critica ai musei permanenti.

Ne abbiamo visto esempi significativi in “Template” di Serra, 1967,  e “Feltro marrone” di Morris, 1973, il materiale nel primo è la gomma vulcanizzata, nel secondo il feltro di colore un po’ più scuro con simmetria nella ricaduta in basso delle frange del tessuto: entrambe misurano circa 2 metri, ma vengono dichiarate “dimensioni complessive variabili”, sono appese alla parete ed è la forza di gravità a dare loro la forma. Ci è venuto in mente l’italiano Sante Monachesi, del quale alla mostra della Fondazione Roma a Palazzo Cipolla nell’autunno 2010 sono state esposte, appese al soffitto, le “Evelpiume”, gomma piuma  modellata a volontà, e i “Perpex”, fogli di metacrilato che l’artista accartocciava in una scultura innovativa,  un “fai da te” dell’arte aperto a tutti. Si era tra il 1960 e il 1965, i due americani citati sono successivi, la logica è analoga.

La raccolta Panza offre altre opere sorprendenti del 1970, dove l'”Arte concettuale”  non si concentra sui materiali ma segue fino in fondo un’idea di base. Il grande riquadro nero “Intitolato (Arte come idea come idea) [Acqua]” di Kosuth  reca in caratteri bianchi la definizione da dizionario inglese di “water”, esprimendo in termini  semplificati il contenuto dell’idea di acqua.

Nell’opera di Huebler, “Durata # 5, Amsterdam, Olanda, gennaio 1970”, l’idea di base è la misura del tempo legata allo spazio fissata con riprese fotografiche in momenti prefissati. E’ una sequenza di fotografie in esterno che fissano un percorso scandito da tempi ben precisi,  lo spiega la “dichiarazione dattiloscritta” che fa parte dell’opera  con le “dodici stampe alla gelatina d’argento”: si tratta di  “un sistema temporale in cui ogni stadio successivo è la riduzione a metà del precedente”, una variante della  “serie Fibonacci” alla base dell’opera del minimalista Judd dove ogni stadio successivo, come si è visto, era dato dalla somma dei due precedenti. Le fotografie riprendono una strada con le auto e via via  gli alberi a lato, abitazioni e altro, sono scattate procedendo sempre nella stessa direzione, la seconda 30  minuti dopo la prima, la terza dopo 15′, la quarta dopo 7,5′, la quinta dopo 3,75′, la sesta dopo 1,88′ fino a 0,0087 minuti per la dodicesima. 

L’idea di base nell’opera di Nauman, “Corridoio con video con ripresa in diretta e registrata” è la partecipazione del visitatore all’opera d’arte di cui diviene co-artefice entrando fisicamente all’interno dello strettissimo cunicolo formato da pannelli: viene ripreso da una telecamera e  può vedere la propria immagine su un piccolo televisore posto in fondo. Confessiamo che oltre ad essere entrati nel corridoio della larghezza delle nostre spalle, lo abbiamo fotografato dall’interno con la nostra immagine sullo schermo, per cui possiamo dire di essere coautori dell’effimera opera d’arte che ne è derivata, fissata dalla registrazione. Anche questo fa parte della collezione del conte Panza che nel Catalogo è fotografato all’interno di un’installazione simile, il “Corridoio a luce verde”,  stretto come lo spessore del suo torace. Coraggioso, o almeno non clautrofobico di certo!

Resta da citare il concettuale “Disposizione di specchi nello Yucatan (1-9)”  di  Smithson,  9 “stampe cromogeniche da diapositive  35 mm”, a forma di quadrati con il lato di 60 cm, che riproducono  visioni ravvicinate del terreno con le sue scorie e una ripresa in campo lungo con un’insenatura: colori delicati, specchi di una terra lontana che vediamo essere mitica anche per l’Avanguardia americana oltre che per i lettori della “Capitana del Yucatan” di Emilio Salgari.

Robert Smithson, “Disposizione di specchi nello Yucatan” (1.9)” , 1969

Il Fotorealismo e l’ultimo messaggio

Di sorpresa in sorpresa, nell’ultima sala il settimo sigillo: come nel gioco dell’oca si torna alla casella di partenza qui si è andati ancora più indietro, si è approdati al figurativo che di più non si potrebbe dopo essersene allontanati come di più non si sarebbe potuto fare. Siamo rimasti sconcertati ulteriormente dall’avanguardia che riesce a superare se stessa in ogni direzione: è lo spirito di ricerca inesauribile unito a un coraggio sconfinato. E’ l’ultima fase anche cronologica documentata nella 7^ sezione della mostra:  sono gli anni ’70, con l’ultima opera si arriva al 1980.

Alle astrazioni teoretiche e non più pittoriche dell'”Arte concettuale” succede la rivincita della realtà concreta, oggetti presi dalla vita quotidiana  diventano protagonisti assoluti dell’opera d’arte.  Il “Fotorealismo” segna il ritorno della pittura in un precisionismo esasperato che si avvale della ripresa fotografica per riportare i dettagli più minuti dell’immagine su tele di grandi dimensioni, fino ai 2 metri di lunghezza. Si potrebbe dire che trasformando in gigantografia l’immagine fissata dall’obiettivo quasi utilizzando un pantografo, si recepisce l’automatismo del mezzo meccanico di ripresa senza la partecipazione emotiva dell’autore. I soggetti sono quelli del consumismo: dopo l’approccio ironico della “Pop Art” questo è documentario, con flash ingigantiti per la presenza dominante degli oggetti raffigurati. La fotografia non serve come  “modello” su cui esercitare  l’estro del pittore  reinterpretando e trasfigurando l’immagine fissata sulla stampa, è il mezzo usato dall’artista per riprodurre un automatismo che esclude qualunque partecipazione emotiva.

Esposti 7 quadri di grandi dimensioni con riprodotte nei particolari più minuti le fotografie: di un’automobile e di una motocicletta, rispettivamente “Buick 71″ di  Bechtle, 1972, e “Gold Wing del piccolo Roy”di Blackwell, 1977; di apparecchi  per la società dei consumi, il “Distributore di chewing gum n. 10” di Bell, 1975, e  “Big Foot Cross” di Kleeman, 1977-78; di un giovane con vitello e una pubblicità murale, rispettivamente in  “Medaglione” di McLean, 1974 e  “Tatuaggio” di  Cottingham, 1971, fino alla vista dell’edifico circolare del museo con tanto di auto in sosta e in transito,“Il Salomon R. Guggenheim Museum” di Estes, 1977.

Non è ancora finita, abbiamo trovato  l’ultima sorpresa,  al termine anche in senso cronologico: si tratta di “Stanley”, 1980-81, diClose, il gigantesco ritratto di un viso di 2 metri e 70 cm  per  2 metri e 10; è anch’esso su base fotografica ma la pittura non ne rappresenta la fedele riproduzione dato che è formato da una fitta griglia di minuscole celle astratte che nel loro insieme compongono il mosaico di un volto; riporta al divisionismo  e al puntinismo, sempre indietro nel tempo, quindi.

Uscendo dall’ultima delle 7 sale , siamo tornati nella grande rotonda centrale cui fanno corona. Alzando gli occhi per abbracciare la vastità della volta abbiamo letto il messaggio che citiamo come botto finale dello spettacolo pirotecnico al quale abbiamo assistito visitando le 7 sezioni sulle tendenze nei quarant’anni dell’avanguardia americana documentati dalla collezione del Guggenheim Museum: in tutte maiuscole “Terra alla terra  cenere alla cenere polvere alla polvere”: è l’opera puramente concettuale di  Weiner, in originale “Earth to earth ashes to ashes dust to dust”, 1970, che è  un ritorno ancora più indietro, alle origini, e nel riecheggiare il “quia pulvis es et in pulverem reverteris” vale da ammonimento.

Ebbene, anche questo artista concettuale fu sponsorizzato dal conte Panza, e l’opera ammonitrice  viene dalla sua collezione. “Fede e coraggio” veramente!

Info

Catalogo della mostra: “Il Guggenheim, l’Avanguardia americana 1945-1980”,  a cura di Lauren Hinkson, Ed. Guggenheim, Palazzo Esposizioni, Skirà, 2012, pp. 140, formato 28×30 cm.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  Le illustrazioni del presente articolo riguardano nell’ordine opere di Postminimalismo,  Minimalismo, Arte concettuale e Fotorealismo. I primi due articoli sulla mostra sono usciti, in questo sito, il 23 e 27 novembre 2012; nel primo articolo con l’excursus sulle tendenze, è stata inserita 1’immagine di fotorealismo oltre a 3 di altre tendenze; nel secondo articolo 4 immagini dall’Espressionismo astratto alla Pop Art.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo delle Esposizioni alla presentazione, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, il Guggenheim con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Template” di Robert Morris, seguono  la foto con  “Cerchio 6”  di Robert Mangold, 1973,  e “Senza titolo”  di  Brice Marden, 1965-66 e quella con “Disposizione di specchi nello Yucatan” (1.9)” di Robert Smithson, 1969; in chiusura “Buick ‘71” di Robert Bechtle, 1972.

“Buick ‘71” di Robert Bechtle, 1972

Accessible Art, la “Christmas Collection”, a RvB Arts

di Romano Maria Levante

Siamo tornati alla galleria “RvB Arts” in via delle Zoccolette 28 a Roma, con l’“Antiquariato valligiano” in via Giulia 193, per una nuova mostra dell’“Accessible Art” dopo le due di maggio e novembre 2012 di cui abbiamo dato conto di recente: “Christmas Collection”  si intitola la mostra natalizia aperta dal 6 dicembre 2012 al 5 gennaio 2013.  Può risultare una tappa interessante per tutti negli itinerari delle festività che vanno dallo shopping ai presepi alle mostre d’arte; questa è una mostra speciale che può fornire idee e soluzioni inattese per fare regali artistici a complemento dell’arredamento a se stessi o ad altri, comunque è piacevole visitarla per la sua qualità intrinseca.

 Janice James,  “Tribal Head: Surma”   

Anche questa volta l’impegno appassionato e la competenza diMichele von Burenhanno colto nel segno, anzi possiamo dire che ci sono stati notevoli passi avanti. Innanzitutto da 3 artisti per mostra si è passati a una collettiva di 13 espositori; inoltre, aspetto di particolare interesse, vi è un notevole assortimento di tecniche e materiali utilizzati, sempre nell’ottica speciale dell’“Accessible Art” intesa nei due sensi: la possibilità di inserire le opere in una normale abitazione e la sostenibilità economica della spesa.

Le opere esposte sono tutte corredate dal prezzo e, tranne che per due o tre, si sta entro i 700 euro, con occasioni speciali sotto i 100 euro: quotazioni accessibili anche in periodo di crisi tenendo conto del livello artistico, della versatilità tecnica e del fatto che possono validamente coniugarsi a scelte di arredamento nella stessa galleria. Le opere sono inserite nell’ambiente come possibile complemento a pezzi di antiquariato anch’essi accessibili, cosa che differenzia la mostra dalle esposizioni d’arte estranee alla dimensione domestica qui molto curata.

Abbiamo avuto la sorpresa di sapere che è stata venduta la grande scultura di  Deli con la quale abbiamo aperto il servizio sulla mostra precedente, e di conoscere l’acquirente: l'”Accessible Art”  ha superato dunque la dura prova delle difficoltà del mercato anche con un’opera così impegnativa.

I tre espositori delle mostre precedenti

Alessio Deli espone questa volta piccole sculture molto curate, sempre con materiali poveri di risulta che riesce a nobilitare con il tocco dell’arte:vediamo due piccole teste, “Mask I” e “Mask II”, di gesso, ferro e simili e “Warrior”, grande testa in ossido di rame, cemento e legno, la quotazione ovviamente sale; fino al “Bozzetto di ‘Summer'” in terracotta, bronzo e legno e “Robin”, piccola deliziosa composizione che suscita tenerezza, con l’uccellino appollaiato sopra un contenitore di ferro aperto sul davanti dove ha posto il nido: l’artista ci dice che è una cassetta per le munizioni acquistata al mercatino romano di Porta Portese, lo colleghiamo ai mitra della precedente esposizione fatti di materiali poveri come i malcapitati soldati che li impugnavano per una guerra non loro, questa volta il nido dell’uccellino fa nascere la vita dove si annida la morte, una variante artistica del “mettete i fiori nei vostri cannoni” di grande valore simbolico. Chiude la piccola “personale” il “Gabbiano”, appollaiato sopra un alto mobile di antiquariato. Michele ci dice che farà un’iniziativa con diecine di queste sculture, ormai un sigillo dell’artista; ripensiamo ai gabbiani della terrazza del Vittoriano con il Colosseo sullo sfondo e cerchiamo di immaginare l’incontro con i volatili veri, chissà se questi avrebbero verso i loro cloni artistici creati da Deli la stessa confidenza che mostrano con i visitatori nella balconata dalla vista mozzafiato su Roma!

Oltre a Deli ritroviamo, della prima mostra, Christina Thwaites, con la grande tela 165×220 cm “Mixed Hockey Team”, 11 componenti la squadra, uomini e donne in piedi e accosciati, solo i visi e le braccia e gambe della prima fila immersi nel bianco. Poi le figure, in inchiostro e acrilico su tela, di “Colette III” e “On a swing”, con la bambina sull’altalena: chiari e scuri su immagini diafane o marcate con alcuni tratti tra l’assorto e l’inquietante. La ritroviamo nell’altra sala con “Funny faces”, 16  ritratti in tecnica mista addirittura su carta vetrata, che conferisce una ruvidezza molto espressiva ai visi forti e intensi; e nel vicino “Antiquariato Valligiano” di via Giulia, collegato con la galleria “RvB Arts”, con un dipinto spettacolare di grandi dimensioni, 8 “Postmen” americani nella divisa a righe quasi da carcerati con le cartelle della posta a tracolla. Ricordiamo che l’artista si ispira agli album di famiglia, ma la sua biografia è tutt’altro che casalinga: nata a Sheffield, dopo gli studi ad Edimburgo si è perfezionata in Italia, è stata residente al Kanal 10 Guest Studio di Amsterdam dove ha esposto alla Dokhuis Galerie ed ha partecipato a un workshop internazionale in Palestina; a Roma prima di “RvB Arts” una collettiva al Palazzo Esposizioni e una mostra al Macro. 

L’altra conoscenza, dalla mostra precedente, è Luca Zarattini, che proviene dall’Accademia delle Belle Arti di Bologna. Questa volta espone un’opera in tecnica mista su tavola, tre esemplari diversi sotto il titolo “# 1”, una tappa della sua sperimentazione su materiali moderni con i quali realizza composizioni classiche, alla ricerca di un ponte tra presente e passato. Sono volti sbozzati come bassorilievi lignei, espressivi pur senza occhi e fattezze, e portano a interrogarsi sui significati e sui sentimenti che possono celarsi nell’assenza di lineamenti dietro la quale si avverte però la persona.

Roberto Fantini, dall’alto “Tornare a sognare” e “Cadeaux”, “Robe Orange” e “Silenzio”, “Due bambine” 

Le due artiste straniere

Il respiro internazionale della mostra, oltre che dal raggio d’attività di alcuni degli altri artisti espositori, è assicurato da due presenze prestigiose che operano con forme e contenuti diversissimi.

La gallese Janice James con la scultura “Tribal Head: Surma” declina un tema arcaico in una preziosa ceramica Raku di 46 cm, artisticamente screpolata. E’ un evento perché viene presentata per la prima volta in Italia in esclusiva da “RvB Arts”: l’artista nell’ultimo decennio ha partecipato a una trentina di mostre in Inghilterra e nel Galles, nel 2012 a Milano e Roma con “RvB Arts”. Il ciclo delle “Tribal Heads” completa la sua ricerca di fondere il disegno con la forma scultorea, e non è poco considerando che si ispira alla scultura classica, in particolare a quella in pietra, e anche alle opere essenziali di Modigliani e a quelle molto decorative di Klimt.

C’è  anche la sudcoreana Hyun Sook Lee: studi nel suo paese e formazione artistica in Italia dove ha esposto fin dal 1994, tra le altre mostre cui ha partecipato la “Biennale di Arte Internazionale di Roma” nel 2006; l’anno successivo ha realizzato una scenografia teatrale per Zeffirelli. L’apporto di una diversa cultura emerge dalle sue opere in tecnica mista su tessuto antico, come la tradizione che le ispira: taglia la tela e la ricuce con fili colorati che compongono forme arcaiche ma allusive a sensazioni e pulsioni quanto mai attuali. Ne sono esposte 3, intitolate “Wave”, un’onda cromatica con intarsi di pezzi di tessuto dai forti contrasti, nero e rosso, verde e grigio, le cuciture bene in evidenza. Per meglio apprezzarle vanno considerate nell’ambito del vasto ciclo di opere con gli stessi mezzi espressivi, denominate “Cicatrici”, identificate soltanto da un numero romano, in cui il titolo esprime il contenuto: sono le ferite che si ricompongono in un unico percorso in “L’albero della vita”, una successione di lacerazioni rimarginate nel lungo cammino nel magma esistenziale. Le cicatrici diventano forme di vita elementari in “La Genesi”,  una predestinazione al dolore, mentre nell’“Origine della vita” hanno una forma inequivocabile, la porta dell’esistenza da cui tutti passano per venire alla luce e per l’atto del concepimento. Nell’interpretare le tre piccole tele intessute esposte in mostra va tenuto conto di questo più ampio contesto di stile e di contenuti.

Gli altri otto italiani, cinque artisti e tre artiste

Ci attirano le figurette alla parete di Roberto Fantini, tecnica mista su tela, con titoli accattivanti: “Tornare a sognare” e “Cadeaux”, “Robe Orange” e “Silenzio”, “Due bambine” e “Ho sonno”. Le sagome delle bambine con la gonnellina a campana in un cromatismo semplice ed essenziale come la forma, ci hanno fatto pensare a un “naif” adulto: lo abbiamo detto allo stesso autore che ci ha indicato le “screpolature” sul fondo di tutti i dipinti da considerare come suo sigillo, e ci ha rivelato di essersi ispirato a fotografie molto particolari di tempi passati e di paesi lontani.  Cerchiamo di capirne di più dalla sua biografia di artista molto eclettico, è stato anche ballerino professionista e attore, oltre che pittore e scultore; e veniamo a sapere che ha viaggiato per 14 anni lontano dall’Italia soggiornando a lungo in Asia e in particolare nel Tibet, entrando in contatto con forme di arte primitive. Più che nelle suggestioni dell’infanzia il suo “naif” adulto ha le radici nei richiami primordiali, che lo portano all’essenza nella forma e nel contenuto. Che le “screpolature” siano i segni del tempo come sfondo ammonitore ad immagini spensierate e  leggiadre?

Dipinti anch’essi dal cromatismo semplice ed essenziale, pur se molto diversi,  quelli di Lorenzo Gasperini, tempera e acrilico su carta nelle 4“Figure in piedi su fondo verde”, la quinta è una “Figura che si piega”, sembrano evanescenti nel bianco latte con ombre grigie ma sono contornate e spiccano sul verde. Su un tavolino, davanti ai dipinti, tre piccole teste scolpite in gesso, “Frammenti” I-II-III, che sembrano l’espressione scultorea dei loro volti; più avanti sculture in resina acrilica e polvere di bronzo “Piccolo Zeus”, 30 cm di forma arcaica verticale alla Giacometti, e “Uomo piegato”, una posizione di equilibrio agile e forte insieme, due opere rimarchevoli. L’autore di queste molteplici espressioni di un’umanità vista da vicino è un artista eclettico, si è specializzato in scultura all’Accademia delle Belle Arti di Roma con il massimo dei voti, sin dal 1994 ha esposto all’estero, all’Emerson College dell’East Sussex in Inghilterra; dal 2001 le sue opere hanno fatto parte dello esposizione permanente dell’Opera Gallery di New York. Delle collettive in Italia citiamo la prima del 1996 all’Ambasciata d’Egitto per la “Rassegna internazionale di arte contemporanea”, l’ultima del 2012 a Roma al Museo Venanzo Crocetti, lo scultore abruzzese autore della porta di San Pietro e del “Giovane Cavaliere della Pace”. Il suo eclettismo non si ferma alle espressioni ora citate,  è esposta anche la sua “Sequenza polifonica”, microfusioni con figurine in miniatura in bronzo nel plexiglass, ne vediamo 3 con 6 figure ognuna.

Gianlorenzo Gasperini, 3 sculture “Frammenti I-II-III” sul tavolino, e “Figura che si piega” alla parete 

In un’ottica internazionale si pone anche Alvaro Petritoli, laureato al Central Saint Martins College of Art and Design di Londra, che vive e lavora ad Hastings, ed è impegnato in una continua sperimentazione con materiali tradizionali e tecniche nuove, come i “processi fotografici vittoriani”. Le 6 opere esposte sono in tecnica mista su carta fotografica, le visioni possono sembrare cosmiche o microscopiche, l’infinitamente grande spesso non si distingue dall’infinitamente piccolo, li accomunano le leggi e l’armonia della natura. Per l’artista, comunque, non sono aspetti naturalistici, ma è una “rappresentazione di paesaggi interiori. Chi guarda – sono sue parole – è invitato a trovare un percorso all’interno dell’immagine, attraverso la propria intelligenza e la propria sensibilità”.  I titoli sono invitanti: “Dandalion” e “Butterfly”, “Birch Trees” e “Light Bulb and Moths”.

In stampa digitale si cimenta Chiara Caselli, con 3 opere “Senza Titolo”: in due di esse le piante formano un ingresso promettente o, se viste dal basso, uno schermo protettivo con l’idea di apertura, il tutto in forme nette e incisive; nella terza immagine, la pianta isolata si rivela in tutta la sua bellezza con un delicatezza e precisione calligrafica, di tipo giapponese.

Anche  Barbara Duran va sul digitale, con elaborazioni  di fotogrammi estratte dal film: 25 “Waterframes”, dal cromatismo chiaroscurale quasi marmorizzato. Proviene dall’Accademia delle Belle Arti, con studi anche di tecniche pittoriche alla Scuola d’Arte ornamentali, specializzata in tecniche di animazione per il cinema, ha realizzato dei cortometraggi e ha lavorato nella scenografia del Teatro dell’Opera di Roma. Contribuisce alla proiezione internazionale della mostra il fatto che le sue opere sono nelle collezioni permanenti di due musei in Paraguay, oltre che della Galleria d’Arte Moderna Bellomo a Siracusa.

Si torna agli inchiostri su carta, calligrafici e dalle forme molto particolari, con Lorenzo Bruschini, le cui linee curve come vortici rendono i contenuti forti enunciati nei titoli, che  portano ad associazioni di idee immediate:  basta dire che nei cartellini delle opere è scritto “Caronte”, “Minotauro”, “Sua cuique persona”, le immagini sono di contorsioni oniriche, e la mente insegue i ricordi.  Epoche ben più remote della classicità italica e latina e dei miti sono evocate dalla scultura di Xeno, “Yoni” , due semi ellissi in travertino con  una fenditura in un insieme arcaico di tipo totemico, si inserisce perfettamente nella cassapanca su cui è poggiata. 

Concludiamo la rapida  rassegna con la giovanissima Annalisa Fulvi,che ha bruciato le tappe, laureata all’Accademia Belle Arti di era nel 2011 specializzandosi in pittura, ha vinto subito il premio Arte Giovani di Varese e in successione in questo 2012 è stata invitata come artist-in-residence a Bodrum in Turchia.  Delle opere esposte, in tecnica mista su tela, 8 hanno titoli quali “Passaggio” e “Studio”, “Composizione” ed “Etude de la Ville”, le altre 2 “Intersezioni”: questa denominazione esprime appieno la struttura compositiva dominata da linee che si intersecano e si fronteggiano. Su dominanti rosse o viola oppure verdi e celesti con diversi grigi e ocra, queste linee di forza si impongono come intelaiature che reggono la composizione in una solida architettura.

Buon Natale con la “Christmas Collection”

Il commiato da Michele von Buren e dagli autori con cui abbiamo parlato, Deli e Fantini, ci riporta alla realtà della galleria “RvB Arts” impegnata per la passione della titolare in una meritoria quanto difficile battaglia per valorizzare l’arte contemporanea e gli artisti, soprattutto giovani, avvicinando ad essa la sensibilità della gente comune, e soprattutto facendola entrare nelle case di tutti. Con una selezione attenta che la rende “accessibile”, come abbiamo detto, nel costo e nell’adattamento agli ambienti domestici.  Il numero di artisti e di opere esposte cresce di mostra in mostra, e anche opere impegnative come la grande scultura di Deli  che abbiamo ricordato all’inizio, hanno trovato un estimatore che l’ha accolta nella propria casa facendosi un grande regalo a dispetto della crisi.

Ci auguriamo che tanti si facciano il regalo di Natale di visitare la “Christmas Collection” alla “RvB Arts”, e nella varietà e – torniamo a sottolineare – accessibilità, dell’offerta espositiva possano trovare pure l’occasione e la spinta per farsi o fare per regalo di Natale un’opera d’arte.

Buon Natale, dunque, con la “Christmas Collection” di Michele von Buren.

Info

“RvB Arts”, Roma, via delle Zoccolette 28, presso Ponte Garibaldi, e “Antiquariato Valligiano”, via Giulia 193, dal martedì al sabato, orario negozio; domenica e lunedì chiuso. Aperture speciali nelle festività. Ingresso gratuito. Tel. 06.6869505, cell. 335.1633518; http://www.rvbarts,com/info@rvbarts.it  L’articolo precedente “Accessible Art, un programma innovativo, due mostre per sei artisti”, è stato pubblicato il 21 novembre 2012 con immagini di opere di Deli e Zarattini, Thwaites e Tindàr.

Foto

Le immagini delle opere anche nel loro inserimento ambientale sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia l’organizzazione, in particolare Michele von Buren, con gli artisti titolari dei diritti, per l’opportunità offerta.  In apertura, Janice James,  “Tribal Head: Surma”; seguono.Roberto Fantini, dall’alto “Tornare a sognare” e “Cadeaux”, “Robe Orange” e “Silenzio”, “Due bambine”, poi Gianlorenzo Gasperini, 3 sculture “Frammenti I-II-III” sul tavolino, e “Figura che si piega” alla parete; in chiusura, Hyun Sook Lee, “Wave”.

Hyun Sook Lee, “Wave”  

Aiardi, 3. L’ultimo libro sull’economia e la società del ‘900 a Teramo

di Romano Maria Levante

La “Breve storia economica e sociale della provincia di Teramo nel Novecento”, libro uscito nel gennaio 2012, si aggiunge alla storia pubblicata nel febbraio 2011, “L’Azione Cattolica a Teramo, 1919-1953”, dello stesso autore, Alberto Aiardi, che abbiamo ricordato ieri a sei mesi dalla sua scomparsa, avvenuta l’8 giugno 2012. Economista con un’intensa vita politica a livello prima locale poi nazionale, e uomo di cultura: tra l’altro fondatore e presidente dell’associazione culturale “Maritain”, già presidente del gruppo dei “Personalisti”,  ha dato alle stampe una serie di saggi sui tre filoni – economia, politica e società – nei quali si è esercitata la sua intensa azione politica e culturale sia  di amministratore e legislatore sia di studioso delle grandi problematiche del Paese.

La Copertina del libro

Uscito nel periodo in cui tutti erano impegnati a riempire i moduli del Censimento, il libro di Alberto Aiardi  mostra come si possano utilizzare i dati raccolti con le periodiche rilevazioni censuarie per ricostruire la storia di un territorio, in questo caso la provincia di Teramo.

Sono molte altre le fonti di cui si è avvalso nella sua analisi socio-economica del ‘900 teramano: pubblicazioni dense di dati dello stesso Istituto Centrale di Statistica e della Banca d’Italia, della Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Teramo e del Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, del Censis e del Centro regionale di Studi e Ricerche Economico-Sociali, oltre alle monografie e agli studi che hanno analizzato vari aspetti dell’economia e della società provinciale.

Un impegno notevole per misurare le profonde trasformazioni e il progresso a livello provinciale. Perché proprio a questo si è rivolta la sua ricostruzione storica e la valutazione dei risultati sul piano economico-sociale nelle varie fasi in cui viene diviso il percorso di un secolo movimentato: la prima metà da fine ‘800 alla 1^ guerra mondiale  e dal 1921 al secondo dopoguerra; la seconda metà del secolo dalla ricostruzione al boom economico, dalle crisi petrolifere alla globalizzazione.

Caratteristica peculiare, diremmo raro pregio del libro, è di inquadrare costantemente il microcosmo provinciale nel macrocosmo nazionale e non solo, con degli excursus evidenziati in corsivo che richiamano i grandi mutamenti dei quali si trovano i riflessi in diversa misura a livello locale.

Non è stato facile passare dall’accurata analisi dell’andamento delle variabili quantitative attraverso la dovizia di dati reperiti dalle diverse fonti utilizzate, alla valutazione della loro incidenza sul tessuto economico e sociale nella sua peculiare conformazione provinciale. L’evoluzione, nei radicali mutamenti, nei progressi e nelle battute d’arresto, è stata analizzata con puntuali riferimenti alle iniziative che hanno mutato il volto all’economia  e alla società teramana; in tal modo tutti possono ripercorrere quel cammino pescando nella propria memoria, aiutati da immagini fotografiche scelte con cura per segnare alcuni momenti di passaggio da una fase all’altra.

Gli inizi del ‘900, una struttura produttiva agricola arretrata

Si comincia con la fase più antica in cui la provincia di Teramo denominata “Abruzzo Ulteriore primo” comprendeva il circondario di Penne, fino all’istituzione della provincia di Pescara nel 1927, complicazione non da poco per l’omogeneità territoriale dei raffronti nel tempo, considerando che il circondario di Teramo nel 1901 era limitato a 39 comuni rispetto ai 35 di Penne con una popolazione non di molto maggiore. L’autore supera questo problema, ma abbiamo voluto citarlo per dare un’idea dell’itinerario accidentato quando ci sono variazioni anche nella base statistica.

Naturalmente i mutamenti economici sono ben più incisivi, basti pensare che prima dell’inizio del secolo il 90% della popolazione provinciale era dedito all’agricoltura, mentre un secolo dopo, nel 2001, tale percentuale  risulta inferiore al 6%. Aiardi accompagna il lettore nel ripercorrere questo cammino attraverso una puntigliosa documentazione statistica riportata con il rigore e la capacità interpretativa dell’economista e l’analisi accurata dei mutamenti nella società di cui la sensibilità del politico e la conoscenza del territorio consente di cogliere i movimenti più profondi.

Chiarisce subito come nel 1901, sulla popolazione di 204.000 abitanti, solo il 13,5%  gravitasse sull’industria, legata soprattutto all’attività agricola, che a sua volta rappresentava il 78,5% del totale: l’industria di allora era costituita in gran parte dai frantoi per l’olio, dai molini per il grano, e dalle officine per gli attrezzi agricoli; poi dolci e liquori, tessuti e  cordami, cave e fabbriche di laterizi, mobili e carrozze, saponi e farmaceutici, stoviglie e ceramiche. Nel 2001, alla fine del secolo, sull’industria gravita già il 44% della popolazione di 287.000 abitanti, aggiungendo ai settori tradizionali – trasformati notevolmente per portarli al passo dei tempi e sviluppati – quelli legati al progresso, come carta, stampa ed editoria, gomma e materie plastiche, abbigliamento, pelli e cuoio e prodotti in metallo, apparecchiature meccaniche, componentistica e impiantistica elettrica ed elettronica, quest’ultima tale da configurare un'”area della ‘meccatronica’” molto avanzata.

Del terziario di inizio secolo facevano parte le attività creditizie essenziali, il commercio limitato ai negozianti di cereali e bestiame, mugnai e pastai, venditori di cuoiami e bettolieri, farmacisti e droghieri, con una percentuale di popolazione addetta del 3,5%, più un altro 3,5%  per servizi e professioni e 1% per la  pubblica amministrazione. Un secolo dopo troviamo oltre al commercio al dettaglio e ingrosso, la logistica dei  trasporti, magazzinaggio e  comunicazioni, l’immobiliare di progettazione e consulenza, sanità e servizi sociali; e un settore creditizio molto sviluppato per l’alta propensione al risparmio. In complesso la popolazione addetta al terziario nel 2001 supera il 52%.

Con questo sommario “come eravamo”, non vogliamo di certo banalizzare l’analisi, al contrario sottolineare con degli elementi tangibili il cammino compiuto che trova una documentazione esauriente sul piano numerico e le relative spiegazioni sul piano dell’analisi socio-economica e della valutazione politica. L’interesse appare evidente dal momento che per ognuno dei periodi in cui viene articolato il Novecento si misura il cammino compiuto, nei progressi e nelle carenze, con riferimenti continui alla realtà esterna con la quale la provincia di Teramo viene posta a confronto e alle peculiarità del territorio con le sue vocazioni e suscettività ma anche le sue debolezze di fondo.  

Il reparto imbottigliamento  della ditta Gavini,
produttrice di gassose e bibite negli anni Venti

Dagli anni ’20  agli anni ‘70

Si ripercorrono così i momenti critici dei dopoguerra seguiti alle due guerre mondiali, con evidenziato il fenomeno dell’emigrazione, rispetto al quale Aiardi ha una particolare sensibilità e conoscenza dall’interno, per i ruoli di vertice avuti negli organismi impegnati in un campo dal quale pochi degli abitanti nella provincia di Teramo e nell’Abruzzo in complesso possono sentirsi estranei. Le sofferenze e i successi dei nostri emigranti sono un’epopea  il cui elevato valore identitario si avverte al di là dei dati statistici che danno la misura dei flussi epocali: la punta si riscontra nel 1960 con un saldo negativo di 3771 persone tra le 5786 uscite e le 2015 rientrate. Viene evidenziato che “l’emigrazione riversava qualche beneficio attraverso le rimesse” e che al termine del primo dopoguerra, agli inizi degli anni ’20, in provincia di Teramo c’era “una popolazione portatrice di una manifesta volontà di migliorare la realtà sociale”.

Nei decenni ’20 e ’30 questa volontà trova riscontro nei fatti, “in termini di benessere qualche passo in avanti si realizzava concretamente”, anche se al di sotto della media nazionale il cui reddito progrediva del 30%: Aiardi valuta la crescita provinciale non inferiore al 25%. I mutamenti nella struttura produttiva non sono rivoluzionari tra il 1920 e il 1936: dal 78 al 72% per la popolazione agricola, dal 15 al 17% per quella industriale, da meno del 7% a quasi il 10% nel terziario. La popolazione della provincia tra il ’21 e il ’31 era salita da meno di 220.000 a 236.000 abitanti.

Gli anni ’50 iniziano con una popolazione che ha superato i 270.000 abitanti, ancora legata all’agricoltura per una percentuale del  64%;  pertanto sale di poco, al  21%, quella gravitante sull’industria  e al 16%  quella sulle attività terziarie; nella graduatoria delle 92 province  Teramo ha l’80^ posizione, dietro alle altre province abruzzesi e ad alcune delle  regioni del Mezzogiorno.

Prosegue la minore velocità della crescita provinciale pur nelle positive benché limitate modifiche della struttura produttiva; mentre cresce il movimento migratorio fino a toccare il massimo, e si assiste all’insorgere di nuovi problemi: “Gli squilibri derivanti dalla differente crescita del territorio, la necessità di una sua più moderna apertura verso l’esterno con adeguati collegamenti viari, l’affermazione culturale e innovativa dei suoi rapporti sociali”.

Nella staffetta del tempo il “testimone”  passa agli anni ’60, quando la popolazione scende al di sotto dei 260.000 abitanti, in presenza di quelli che Aiardi chiama “importanti progressi con notevoli trasformazioni in una crescita economica di particolare importanza”; l’emigrazione diminuisce nel corso del decennio finché nel 1971  si inverte definitivamente il saldo migratorio con il prevalere dei rientri. Profonde modifiche nell’agricoltura con l’abbandono delle terre meno produttive e la fine della mezzadria: “Ma ormai sono gli altri settori che offriranno sempre maggiori occasioni occupazionali ed incrementi di produzione e di reddito”. Lo evidenziano i dati sulla percentuale di popolazione dedita alle varie attività: tra l’inizio e la fine degli anni ’60: nell’agricoltura scende  dal 46 al 28%, mentre nell’industria sale  dal 33 ad oltre il 41%, e nel terziario, comprendendo tutti i servizi, dal 21 al 30%, un vero balzo in avanti.

Nasce il Consorzio per il nucleo industriale  della Val Tordino e quello per il Centro ceramico di Castelli, cominciano gli investimenti dall’esterno lungo la costa e alcune vallate, si crea la concentrazione di iniziative nella confezione, abbigliamento, pelli e cuoio della Val Vibrata, divenuto un modello di “distretto industriale”, e nel mobilio a Mosciano S. Angelo; importanti insediamenti nelle confezioni a Roseto con la Monti e nei sanitari per l’edilizia a Teramo con la Spea, filiazione della Spica, impresa per la ceramica industriale costituita  dalla Simac di Castelli negli anni ’50 quando entrò in funzione il moderno zuccherificio della Sadam a Giulianova dove si insedia anche una fonderia; a Martinsicuro un’altra fonderia con la Veco e una fabbrica di spazzole e carboni per motori. Quindi altre aziende all’interno del nucleo industriale, nelle gomme e mobili in ferro, prefabbricati per l’edilizia, plastica e dolciaria; nell’alimentare, oltre allo sviluppo dei tradizionali pastifici, l’ortofrutta con i moderni surgelati, prodotti di liquerizia e di gelateria.

Cresce notevolmente l’attività alberghiera per lo sviluppo turistico soprattutto nella costa e vengono promosse iniziative per le aree interne e montane, come il Consorzio per la valorizzazione del Gran Sasso soprattutto per gli interventi nel comprensorio dei Prati di Tivo. Si opera attivamente per migliorare la viabilità minore, in specie montana, e iniziano i lavori per l’autostrada Roma-Adriatico con il traforo del Gran Sasso. Si sviluppano l’Università dell’Aquila creata nel 1959 e il consorzio delle Università nelle altre tre province, con i corsi riconosciuti alla metà degli anni ’60. 

Panoramica del nucleo industriale di Teramo

Dagli anni ’70 agli ultimi due decenni del secolo

L’accelerazione nel processo di sviluppo della provincia negli anni ‘70 riguarda più o meno tutti i settori e nel contempo si inverte il flusso migratorio, più rientri che uscite. Un andamento positivo ancora più rimarchevole in presenza della grave crisi petrolifera che minacciò lo stesso modello di sviluppo delle economie avanzate. Si inizia dalla popolazione, che inverte il trend tornando a salire a quasi 270.000 abitanti nel 1981; intanto l’incidenza della popolazione agricola sul totale quasi si dimezza tra il ‘71 e l’81  scendendo dal 28 al 15%, quella del terziario sale ancora dal 30 al 42% mentre la popolazione nell’industria ha un incremento contenuto passando dal 41 al 43%.

In questa fase, con la qualità del suo sviluppo industriale dopo gli insediamenti sopra citati, la provincia di Teramo diventa un modello di vitalità localistica nella direttrice adriatica, tanto che il Censis l’ha definita, riferendosi alla Val Vibrata, “la Milano del Sud”. Piccole e anche medie imprese nascevano “per iniziativa di uno spirito imprenditoriale di base, che aveva avuto modo di formarsi proprio dalle esperienze commerciali, artigianali e anche rurali della zona”.

Sottolineato questo dinamismo nell'”apporto equilibrato di tutti i settori, con nuovi rapporti di integrazione e scambio”, Aiardi precisa che “i problemi però non mancavano”, e li individua nelle produzioni soprattutto “mature” per consumi di base con scarsa diversificazione e specializzazione, nell’insufficiente innovazione e nella fragilità organizzativa esposta ai mutamenti del ciclo economico. E aggiunge: “Restava però la forza di reagire, espressione di quello spirito di iniziativa  che aveva prodotto l’avvio delle prime esperienze di imprenditorialità, anche artigianale”.

I due ultimi decenni del secolo si aprono con l‘esplosione del fenomeno dell’immigrazione, i cui primi segni si sono manifestati negli anni ’70 insieme con la fine dell’esodo. Un fatto positivo, una prova di vitalità contrapposta all’invecchiamento della popolazione e al continuo spopolamento della montagna, nonché all’accentuazione del grave problema della disoccupazione giovanile. 

Il sistema produttivo raggiunge l’equilibrio caratteristico delle economie avanzate mentre la popolazione cresce di 10.000 unità  fino a toccare quasi 280.000 abitanti nel 1991 e ad avvicinarsi ai 290.000 nel 2001, con 287.000 abitanti.  La percentuale impegnata nell’agricoltura, già pari al 9% nel 1991 – risultato di per sé ambizioso stando ai dati di partenza – scende nel 2001 al 5-6% ; quella nell”industria smette di crescere attestandosi al 42%, mentre la percentuale del terziario relativa ai servizi supera la metà della popolazione attiva raggiungendo il 52%,

Si rafforza la dotazione infrastrutturale, importante fattore di sviluppo, con l’apertura del traforo del Gran Sasso e di altre tratte e la realizzazione di reti metanifere per usi civili e industriali; emerge “una certa capacità di adattarsi alle nuove esigenze produttive e alle  moderne domande di tecniche di comunicazioni, di sistemi informatici, ecc.” . I risultati si vedono nella crescita delle esportazioni.

Questi elementi positivi, mentre mostrano “l’economia provinciale come una realtà non ferma, pur se non con un’accentuata dinamicità”, non sono però sufficienti “per quel salto di qualità necessario a consolidare il cammino finora realizzato e ad afferrare le opportunità dei nuovi percorsi”. Perché ad esse si associano le minacce crescenti che vengono dall’aspra competizione divenuta globale.

Ciò richiede quel più elevato tasso di innovazione tecnologica che è mancato per una serie di motivi. Tra questi Aiardi sottolinea  “la sottoterziarizzazione dell’economia locale, che produce un ritardo nella percezione dei processi innovativi e una conoscenza frammentaria degli stessi”, e cita la monografia del prof. Mauro sulla provincia di Teramo che analizza le “piccole imprese e distretti industriali”: “Ciò induce  a ritenere che talvolta l’innovazione è stata spesso attuata per adattamento, anziché con continuità e sistematicità”. Per questo motivo è al di sotto delle esigenze, è limitata ai processi produttivi e non innova nei prodotti, come è necessario per il salto di qualità.

Contro il declino, il ruolo di cerniera tra Sud e Centro

L’andamento del reddito negli ultimi decenni riflette queste difficoltà. Nel decennio 1980-90, con uno sviluppo superiore a quello nazionale, il reddito pro capite è cresciuto del 75%  superando nel 1991 i 28 milioni di lire a valori 2001, il 90% rispetto al livello medio del Paese e collocando la provincia al 60° posto tra quelle italiane; è il massimo avvicinamento di una lunga marcia che era riuscita a ridurre notevolmente la distanza, considerando che nel 1963 il reddito pro capite provinciale era il 60% di quello nazionale, percentuale salita al 73% nel 1975 e all’83% nel 1984.

Pur rilevando tale successo in 30 anni di crescita con fasi alterne, Aiardi evidenzia il peggioramento successivo: nel 1995 si scende all’85%, nel 2001 all’82% fino al 2010 nel quale il reddito pro capite provinciale, che raggiunge i 30 milioni di lire, si riduce all’80% di quello nazionale, e la posizione relativa tra le province arretra al 69° posto. Tra le cause la scarsa capacità innovativa, le carenze organizzative e nei servizi, le difficoltà di mercato che la globalizzazione ha accentuato.

Il Centro regionale di Studi e Ricerche Economico-Sociali, CRESA, nel rapporto del 1° trimestre del 2011 fa un’analisi impietosa della situazione abruzzese applicabile alla provincia di Teramo che dal 2002 è arretrata dal 2° al 3° posto nella graduatoria regionale del reddito pro capite: l’Abruzzo, si legge nel rapporto, è “pressoché fermo dalla seconda metà degli anni Novanta, pesantemente colpito dalla recessione mondiale del 2008-2009, che ne ha riportato indietro di dieci anni il livello di produzione, paralizzato da un terremoto da cui si cerca di uscire con lo stesso passo lento  con cui si cerca una via di uscita dalla crisi economica”. Le conseguenze? “Come per il Paese, l’insieme di questi fattori espone la sua economia al rischio di un progressivo declino”.

Al fine di fronteggiare tali tendenze, secondo Aiardi “è importante rendersi conto della necessità di intensificare gli sforzi per procedere nella introduzione regolare di modalità innovative per i sistemi produttivi e per le risposte ai mercati”.  Inoltre “è indispensabile riattivare quel clima di iniziativa e di entusiasmo imprenditoriale che si espresse al meglio dando vita al localismo emergente”.

Vengono citate le precise indicazioni degli studiosi Landini e Massimi, che in un saggio sulla geo-economia teramana richiamano l’attenzione sulla possibilità di valorizzare la posizione geografica della provincia dandole “quel ruolo di ‘cerniera’ che finora è stato genericamente attribuito all’intero Abruzzo”. Anche Giuseppe De Rita, dall’osservatorio del CENSIS, in un convegno a Teramo, nel vedere  “un ruolo moderno del territorio provinciale, in sinergia con quello ascolano”,   ha detto che “prospettive forti di sviluppo possono derivare da una linea articolata di interventi per esaltare la funzione di nodo scambiatore intermodale tra nord e sud e le sponde del mare Adriatico”.

Aiardi si collega a queste analisi convergenti e ricorda come la provincia veniva considerata “zona vera di passaggio dal Sud al Centro, con una linea di demarcazione che la attraversava nel mezzo del territorio”. E ne trae questa conclusione, con cui termina anche il nostro excursus sulla sua cavalcata nella storia economica e sociale del ‘900: “Il salto decisivo di qualità è quello di essere ‘cerniera attiva’, come realtà ormai facente parte a pieno titolo delle sinergie  dell’area centrale del Paese, con la capacità di guardare al nuovo secolo con rinnovato spirito di volontà ed intraprendenza”.

E’ il lascito di chi nel vecchio secolo tanto ha fatto per alimentare questo spirito. Per questo ci sembra significativo che l’immagine con cui chiudiamo il nostro ricordo lo veda alla presentazione del suo libro con lo sguardo sereno e fiducioso a lui proprio. Da non dimenticare. 

Info

Alberto Aiardi, Breve storia economica e sociale della provincia di Teramo nel Novecento, Galaad Edizioni, gennaio 2012, pp. 170, euro 10,00. Dal libro sono tratte le citazioni riportate nel testo. Il 3 novembre abbiamo pubblicato su questo sito l’articolo “Aiardi, un testamento spirituale negli ultimi due libri”; ieri 8 novembre 2012 abbiamo commentato il libro del 2011 con l’articolo “Aiardi, il penultimo libro sull’Associazione cattolica 1919-53 a Teramo”; oggi commentiamo singolarmente l’ultimo libro del 2012.  

Foto

In apertura la copertina del libro; seguono due immagini tratte dalle illustrazioni dello stesso libro: “Il reparto imbottigliamento  della ditta Gavini, produttrice di gassose e bibite negli anni Venti” e “Panoramica del nucleo industriale di Teramo“; in chiusura Alberto Aiardi alla presentazione del libro, si ringrazia “Il Centro”, nella persona del direttore Mauro Tedeschini, per la gentile concessione di un’immagine così bella ed espressiva. 

Alberto Aiardi alla presentazione del libro

Aiardi, 2. Il penultimo libro sull’Associazione cattolica 1919-53 a Teramo

“L’Azione Cattolica a Teramo, tra ventennio e ritorno alla democrazia (1919-1953)” si intitola il penultimo libro di Alberto Aiardi pubblicato nel febbraio 2011  prima dell’ultimo“Breve storia economica e sociale della provincia di Teramo nel Novecento” uscito nel gennaio 2012. L’excursus politico-religioso in questo libro del 2011 e quello  economico-sociale nel libro del 2012 toccano i diversi campi nei quali si è impegnato con la visione dell’uomo di cultura le cui riflessioni e analisi sono profonde. Con la sua scomparsa assumono il valore di un testamento spirituale, per questo  vogliamo ricordarle a sei mesi dall‘8 giugno 2012,  giorno nel quale Alberto Aiardi ci ha lasciato, considerando uno per volta i due libri in modo più esteso dopo averli riassunti insieme di recente.  Iniziamo dal primo libro, in cui si riflettono gli esordi della sua vita pubblica. 

La copertina del libro

Una storia personale e collettiva

Nel libro sull’Azione Cattolica l’autore, economista e uomo politico di lungo corso a livello locale e nazionale, racconta una storia tra la religione e la politica vissuta dal di dentro o ricostruita da fonti dirette. Tra il 1951 e il 1952 Alberto Aiardi è segretario dell’ufficio Aspiranti di Teramo, guidato da Berardo Cavarocchi, scomparso prematuramente nel 1959, vice Giuseppe Ammassari. Aiardi sarà poi presidente della Gioventù Italiana di Azione Cattolica dal 1958 al 1964, intanto lo vediamo fotografato nel gruppo di giovani dell’Azione Cattolica in gita all’Arapietra, dov’è la Madonnina del Gran Sasso, sopra ai Prati di Tivo di Pietracamela, con Cavarocchi, il presidente diocesano Walter Romani, l’assistente diocesano  don Giovanni Jobbi, e il vicepresidente Luigi  Pompa.

La foto fa parte di una galleria fotografica di 24 immagini che correda il libro riportandoci a tempi lontani e presentando figure del mondo cattolico, laico e religioso, ben note a Teramo: da Tommaso Sorgi  parlamentare a Carino Gambacorta sindaco, da don Tiberio Varani delegato diocesano a don Gaetano Cicioni segretario diocesano, da don Giovanni Jobbi assistente diocesano a mons. Adolfo Binni, delegato vescovile. In altre foto si vedono Arcangelo Di Paola, vicepresidente della giunta diocesana  e Giuliana Tribotti presidente della Gioventù femminile. La scena cattolica teramana è dominata dal vescovo Gilla Gremigni, che nel 1951 diventerà vescovo di Novara restando per qualche mese amministratore apostolico della diocesi di Teramo. Annuncerà la nomina del nuovo vescovo teramano, Stanislao Battistelli, il 20 febbraio 1952; il giorno dopo sarà annunciata la nomina di mons. Binni a Vescovo di Nola, consacrato nella Cattedrale dopo un mese, il 19 marzo.

I nomi che abbiamo citato, perché familiari alla nostra memoria, sono una parte minima della vastissima nomenclatura di persone che si sono avvicendate nei 20 anni considerati dal libro, nella costellazione di organismi cattolici che Aiardi descrive in modo molto dettagliato nella loro continua evoluzione e nell’attività svolta con tutti i nomi dei rispettivi responsabili, e sono tanti.

Non proviamo minimamente a ricostruirne la storia, è un groviglio tale che solo le 236 pur agili pagine del libro riescono a dipanare offrendo uno spaccato di vita e di attività operosa a livello provinciale nel quadro dei più vasti movimenti su scala nazionale nel mondo cattolico e non solo.

Un pregio del libro, oltre alla sua importanza documentaria per la storia del movimento cattolico, è di portare sulla scena un fervore di iniziative, una partecipazione appassionata e corale che non potevamo immaginare noi, come tanti altri, che ne eravamo fuori e non ci accorgevamo di cosa si muoveva nella terra di nessuno, o meglio di tutti, posta tra l’impegno religioso e quello politico.

In questo senso, pur fermandosi a sessant’anni fa, il libro è istruttivo per la prospettiva odierna: richiama l’attenzione su un mondo cattolico la cui vitalità, dinamismo e capacità di iniziativa spesso sono sottovalutati mentre basta porvi lo sguardo per avere delle sorprese. Del resto, le oceaniche adunate dei giovani nei Giubilei della gioventù, intorno a papa Giovanni Paolo II, che si ripetono con Benedetto XVI, rivelano una capacità di  mobilitare il mondo giovanile che vediamo 60 anni fa nel fervore associazionistico tradotto in iniziative formative e in un’azione diretta di forte impegno.

Ma perché Aiardi, presidente dei Giovani di Azione Cattolica dal 1958 al 1964, si è fermato al 1953, quando era  “aspirante” e quindi non può dare una testimonianza diretta dalle posizioni di responsabilità rivestite dopo? Spiega  che vi sono due ragioni, a parte l’evitare l’autocelebrazione: la prima ragione è voler ricordare il valore “dell’azione di apostolato laicale” quando il regime fascista faceva venire meno “la presenza del movimento strettamente politico dei cattolici”, dove “strettamente” sottintende che pure l’altra presenza fu politica in senso lato, anzi nobile, tanto più rispetto alle miserie della politica odierna; la seconda ragione è l’interesse a “verificare il suo ruolo al momento del ritorno alle libertà democratiche”, e cioè “la sua capacità di ripresa organizzativa e di promozione nel primo decennio di cammino nel nuovo clima politico e sociale”.

Aggiunge, dissimulandola in nota, “una terza motivazione strettamente personale”: quella, cioè, di rendere, nel ricordo, omaggio ad un gruppo numeroso di persone con le quali ho avuto il piacere e l’onore di incrociarmi per conoscenza e rapporti di impegno comune nel mio percorso di vita negli anni giovanili”. Da parte nostra abbiamo fatto la stessa cosa nel citare i pochi nomi conosciuti di persona; ma il “catalogo” di Aiardi è sterminato, non possiamo neppure scorrerlo per sommi capi.

Le prime due ragioni della scelta ci permettono di estrarre dell’ampia e documentata ricostruzione di trent’anni cruciali della storia nazionale alcuni elementi particolarmente illuminanti sul ruolo delle organizzazioni cattoliche nella vita politica e sociale e sui loro collegamenti con la Gerarchia. Faremo questo riferendoci prima alla prospettiva nazionale per quanto ha avuto immediate ricadute a livello diocesano e provinciale; poi alla sede locale in rapidi flash prescindendo dal “tourbillon” organizzativo e di personaggi troppo specifico e movimentato per essere anche solo accennato.

Un gruppo della GIAC in gita all’Arapietra, da sin. semichinato Walter Romani, Presidente Diocesano, don Giovanno Jobbi. Assistente Diocesano, Luigi Pompa, Vicepresidente, e chinati Alberto Aiardi e Berardo Cavarocchi

L’impegno dell’associazionismo cattolico tra religione e politica

Il libro inizia  molto indietro, con la fine del potere temporale della Chiesa che “rendeva sempre più viva l’esigenza di un associazionismo cattolico volto a farsi carico dell’animazione cristiana della società con un impegno specifico del laicato”. Nel 1867 nacque la “Società della Gioventù cattolica” che qualche anno dopo diede vita all’“Opera dei Congressi”, impegnata a organizzare, “in maniera unitaria, e subordinata alla Gerarchia, l’azione dei laici cattolici, nello spirito definito ‘intransigente'” del “non expedit”, il divieto pontificio ai cattolici di partecipare alla vita politica.

La sua azione, però, pur mossa da finalità religiose di apostolato per formare alla pratica di  fede, “non poteva  per forza di cose trascurare di operare sul terreno socio-politico”. Si sente l’esigenza che il movimento cattolico difenda la visione cristiana della vita anche per “contrapporsi alle ideologie dominanti nel campo sociale e politico, quali il liberalismo ed il marxismo”. In questa prospettiva c’era chi voleva restare con rigore nel campo religioso e sociale, e anche chi premeva per “un più diretto impegno nelle responsabilità politiche”.

Il divieto del “non expedit” si andò stemperando con la partecipazione alle istituzioni e alle amministrazioni locali: nacque l’“Unione elettorale” per coordinare il lavoro dei cattolici, singoli e associati, in tali sedi. Con la fondazione da parte di don Luigi Sturzo del Partito Popolare Italiano dopo l’appello “ai liberi e forti” del 18 gennaio 1919, fu passato il Rubicone della politica. L'”Unione elettorale” fu sciolta il 25 settembre, il 12 novembre venne dichiarato ufficialmente decaduto il “non expedit”. “Abbiamo un partito!” potevano dire i cattolici, ci si consenta la battuta.

E le organizzazioni cattoliche? “Proprio in questo periodo può affermarsi che nasce la vera e propria Azione Cattolica – scrive Aiardi – organizzazione con finalità prevalenti di apostolato. Veniva così a realizzarsi una chiara differenziazione tra l’organizzazione politica, aconfessionale per sua logica, e l’attività di apostolato, naturalmente apolitica”.  Per quest’ultima si chiedeva “un comune impegno del clero e del laicato”, il che comportava rapporti non sempre facili con le gerarchie religiose mentre ci si doveva differenziare dall’impegno politico svolto dai cattolici nel partito di Sturzo, operazione anche questa delicata che non sempre andò liscia.

Dagli anni del fascismo al dopoguerra fino al 1953

Con il fascismo i problemi si acuirono, il regime era sospettoso verso l’azione delle organizzazioni giovanili, anche cattoliche, fino a decretare il completo scioglimento il 31 maggio nel 1931 di tutte quelle non legate al Partito fascista e all’Opera Nazionale Balilla. La sola Azione Cattolica nella sua struttura complessiva ebbe “la possibilità di continuare la sua azione, pur fortemente ridimensionata e controllata”; un’attività di studio e riflessione ma non limitata agli aspetti religiosi. Fu  imposto di adeguare gli Statuti accentuando il carattere diocesano; i dirigenti erano nominati, non più eletti.

Dopo le leggi razziali del 1938 la vita dell’Azione Cattolica diviene ancora più difficile, ci si ritira sempre più sul piano religioso, anche per non fornire pretesti al regime che temeva potesse costituire il nucleo di un vero e proprio partito politico nei momenti difficili che era facile prevedere e ai quali ci si preparava. Nel 1940 vengono modificati di nuovo gli Statuti dando la responsabilità dell’organizzazione alla Gerarchia escludendo i laici dai vertici. Apparentemente nulla cambiò perché i laici, pur declassati, non lasciarono l’associazione.  “Di fatto, però, era stata aperta nel laicato una ferita che solo la riforma del 1946 e la rispettiva reintegrazione dei laici nei posti di responsabilità sarebbero riuscite a rimarginare”, commenta Aiardi citando Mario Casella.

Vi sono stati due modi opposti di giudicare i rapporti con il regime: “Una irriducibile incompatibilità di carattere nel campo morale e politico”, secondo il conte Dalla Torre; “una non accettabile acquiescenza” secondo Alcide De Gasperi. La tesi intermedia è un progressivo irrigidimento nei rapporti, dall'”attesa e riserbo” del 1922-25 alla collaborazione pur cauta nel 1929 con la Conciliazione, dal “sostanziale appoggio” dopo la crisi del 1931 al “raffreddamento e distacco” nell’ultima fase del regime.

Molti iscritti all’Azione Cattolica parteciparono attivamente alla Resistenza, “chi imbracciando il fucile chi adoperandosi nella rischiosa opera di protezione e di aiuto ai perseguitati politici”. L’associazione si mobilitò sul piano assistenziale in iniziative proprie o con le altre organizzazioni, e verso la fine del conflitto si impegnò sui problemi sociali per prepararsi agli sviluppi futuri.

Dopo l’8 settembre 1943 grande impegno sul piano associativo: si creano organizzazioni e movimenti a tutti i livelli, per età, categoria e attività; i nuovi Statuti del 1946 ripristinano la responsabilità dirigenziale dei laici abolita a favore della Gerarchia dagli Statuti del 1940; i movimenti operano su base diocesana avendo una certa autonomia rispetto all’Azione Cattolica  di cui sono le articolazioni. I principi sostenuti in base agli insegnamenti della Chiesa, ribaditi in una circolare del 1943 del Vicedirettore dell’Azione Cattolica, entreranno nella Costituzione italiana: libertà religiosa e giustizia sociale,  tutela della famiglia e del bene comune, pace e cooperazione a livello interno e internazionale. Nel 1948 gli iscritti all’Azione Cattolica sono 2.275.000, crescono ancora fino a 3.600.000 iscritti nel 1962; poi la discesa, 1.600.000 nel 1970 e 800.000 nel 1975.  

Negli anni seguenti la “scelta religiosa” è prevalente, si attuano le decisioni del Concilio e si procede a una profonda riorganizzazione. Ma siamo oltre il periodo analizzato da Aiardi, che ricorda il “cammino di generosa e leale presenza di animazione religiosa e di apostolato accanto alla Chiesa gerarchica”. E aggiunge: “L’Azione Cattolica ha avuto modo anche di approfondire il vero significato della scelta religiosa che non può essere distacco dai problemi complessi e tormentati della realtà sociale, che deve comunque essere animata dalla visione cristiana”.

Don Gaetano Cicioni, benedicente in una iniziativa pubblica,
da sin.,il sindaco Carino Gambacorta, don Domenico Taraschi e
sulla destra l’On. Tommaso Sorgi” 

L’Azione Cattolica nella diocesi di Teramo dal 1919 al 1953

E la diocesi di Teramo? Sempre fervore di iniziative formative, assistenziali, culturali. Citiamo, fior da fiore, per l’inizio del periodo considerato dal libro, il 1919, le conferenze di Passamonti alla presenza del Vescovo Zanecchia: sulla “Libertà d’insegnamento” e  su “Giosuè Borsi”, divenuto terziario francescano e caduto sul fronte dell’Isonzo, sulla “Gioventù nuova” e su “La donna e l’avvenire d’Italia”; tra gli organizzatori  don Gaetano Cicioni segretario della giunta diocesana.  

Vediamo don Cicioni nel 1923, anno di svolta, richiamare all’osservanza del “compito dei cattolici nell’ora presente: ognuno vede come i cattolici, senza entrare nell’azione politica, debbano interessarsi dello svolgersi della vita pubblica, facendo in modo che l’opinione sia permeata del nostro programma”. Si tratta di interessarsi non solo di formazione e preparazione religiosa, ma anche del benessere individuale, familiare e della nazione. Così commenta Aiardi: “Si manifestano, seppur in modo ovattato, i sintomi di quella conflittualità sui temi di principio nel rapporto tra ruolo politico e impegno di apostolato religioso e nei criteri educativi della gioventù”. Intensa l’attività in questo campo dell’“Unione femminile”, che dedicò  incontri di studio ai temi “Religione, base dell’educazione” e “Il nostro apostolato”.

Ma i rapporti con la politica come agitano le acque a livello nazionale così le muovono a livello diocesano. L'”Araldo Abruzzese”, citando l'”Osservatore Romano”,  lamenta che l’Azione Cattolica “alcuni vorrebbero confonderla, per buona o mala fede, con l’azione politica. Mentre imperversano le polemiche pro e contro i partiti politici, coloro che dirigono il movimento cattolico non possono mischiarsi nella lotta”. Dopo l’adeguamento degli Statuti del 1931, lo stesso giornale diocesano si fa interprete del pericolo di considerare l’Azione Cattolica assolutamente religiosa equiparandola a confraternite e congregazioni, sostenendo che sulla necessaria base confessionale deve continuare a  svolgere una funzione sociale: “La formazione di un’adeguata cultura, delle coscienze, per renderle atte alla soluzione di tutti i problemi che interessano il consorzio civile”.

Il commento di Aiardi prepara a ciò che avverrà dopo: “Proprio tali finalità, sempre difese, sarebbero state motivo di dissapore con l’autorità pubblica, in nome del diritto in particolare della educazione dei giovani”. Sebbene le iniziative riguardino soprattutto il campo religioso, si passa dai dissapori alla repressione: lo scioglimento, già ricordato, di tutte le organizzazioni giovanili comprese le cattoliche per l’accusa pretestuosa che “il movimento cattolico, soprattutto quello giovanile, facesse politica e che assumessero responsabilità uomini del trascorso Partito Popolare”.

L’Azione Cattolica di Teramo resiste a tale colpo, non dà più visibilità pubblica alle iniziative, peraltro lontane dal campo socio-politico – ci sono le “gare di religione” della Gioventù femminile – e il movimento giovanile addirittura si rafforza passando da meno di 280 mila soci nel 1934 a quasi 390 mila nel 1939.  “Di fatto l’ Azione Cattolica teramana – rileva Aiardi –  pur non esprimendo un manifesto e consapevole dissenso verso il regime ed il sistema locale, svolgeva con discrezione e costanza la sua attività”. E non solo: “L’organizzazione cattolica restava comunque, al di là delle strutture di regime, l’unico movimento non inquadrato che, pur nella logica della prevalente formazione di cultura religiosa, manteneva in vita possibilità di incontro e discussione, conservava desta una sensibilità di analisi critica, potendo affrontare sulla base dei documenti pontifici anche temi di carattere sociale non certo in linea con l’ideologia dominate”.

La nuova svolta del 1939-40 per rendere meno critici i rapporti con il regime mediante la “marcata clericalizzazione” che emarginava i laici rispetto ai religiosi viene accolta senza tensioni dalla diocesi teramana che attua le disposizioni pontificie con una nota vescovile secondo cui “i Vescovi  sono chiamati ad assumere personalmente la direzione dell’Azione Cattolica”. Con l’entrata in guerra il controllo del regime si esercita anche sull'”Araldo Abruzzese”, oltre che sull’attività dell’organizzazione; addirittura mons. Adolfo Binni viene portato  in tribunale dal segretario federale Morricone  che si era sentito offeso dalla sua replica in difesa della frase evangelica “beati i poveri di spirito” da lui dileggiata con la irridente quanto becera trasposizione in  “beati gli scemi”.

Ma la guerra sconvolge tutto con il suo carico di tragedie individuali e collettive, e impegna l’intero mondo cattolico in un’opera fattiva di assistenza. Aiardi riporta i ricordi di don Tiberio Varani e don Domenico Di Marco: “Secondo i periodi, si manifestava l’aiuto per i prigionieri, per gli sfollati e per gli stessi partigiani. Molte persone, prima ricercate dai neri e poi dai rossi, vennero nascoste in seminario. E poteva avvenire che di giorno si fornisse assistenza ai neri e di notte ai partigiani”.

Come in “La lunga notte del ‘43”, nel libro dopo il buio della guerra la scena cambia del tutto. Qui  lo stacco non è dato dalle note di “Il barattolo” di Gianni Meccia che irrompono nel film, gli “anni di ripresa democratica” si aprono con i nuovi Statuti del 1946  che segnano il  ritorno della responsabilità dell’organizzazione nelle mani dei laici. Nella stampa cattolica l'”Araldo Abruzzese” è di nuovo “settimanale politico religioso” e non solo confessionale, direttore diventa mons. Binni. Nel consiglio comunale di Teramo entra nel 1946 Tommaso Sorgi, presidente diocesano della Gioventù di Azione Cattolica, diventerà parlamentare con altri della stessa provenienza tra cui Alberto Aiardi che in sede locale sarà amministratore e vice-sindaco di Teramo, presidente del Consorzio industriale ecc., a livello nazionale deputato per cinque legislature, anche relatore della legge finanziaria, e sottosegretario al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica.

Si riprende un’intensa attività, in particolare negli organismi giovanili: convegni, giornate di studio, celebrazioni, incontri foraniali sono “momenti regolari che scandiscono la vita associativa”.  E qui il libro si diffonde in una dovizia di particolari citando anche i successivi organigrammi delle articolazioni nella struttura organizzativa. Aiardi così riassume questo impegno: “I compiti formativi dell’Azione Cattolica, pur rimanendo nella priorità quelli dell’educazione religiosa, sono rivolti ad impegnare il militante ad essere testimone negli ambienti di vita con comportamenti di correttezza, di impegno e di responsabilità come espressione di coerenza con la fede cristiana”. 

E’ il messaggio finale che vale anche per la moralità laica ed è tanto più significativo in questa fase di crisi della politica per il venir meno di tali comportamenti doverosi oltre che virtuosi.

In questo senso il libro di Aiardi mostra la vitalità di un associazionismo cattolico dalle radici profonde; e ripercorre gli itinerari di vita e di azione religiosa, sociale e politica di persone attivamente impegnate sin dall’età giovanile. Dovrebbe interessare anche chi, come noi, è restato estraneo a quel mondo e può trarne motivi di riflessione.  Un altro grazie ad Alberto Aiardi per averci fatto conoscere il modo con cui è stato fronteggiato dal mondo cattolico un periodo particolarmente critico per la vita nazionale.

E’ un lascito della sua cultura e fede profonda; come è un lascito della sua competenza di economista e dell’impegno di politico l’ultimo suo libro del 2012  su cui torneremo domani.

Info

Alberto Aiardi, “L’Azione Cattolica a Teramo, tra ventennio e ritorno alla democrazia (1919-1953)”, Galaad Edizioni, febbraio 2011, pp. 236, euro 14.  Dal libro sono tratte le citazioni riportate nel testo.  Il 3 novembre 2012 abbiamo pubblicato in questo sito l’articolo “Aiardi, un testamento spirituale negli ultimi due libri”: il penultimo libro viene qui commentato singolarmente; l’ultimo sarà commentato domani, 9 dicembre 2012.

Foto

In apertura la Copertina del libro; seguono due immagini tratte dalle illustrazioni dello stesso libro, “Gita all’Arapietra (Pietracamela) – Un gruppo della GIAC, dove si riconoscono da sinistra: semichinato Walter Romani, Presidente Diocesano, don Giovanno Jobbi. Assistente Diocesano, Luigi Pompa, vicepresidente, e chinati da sinistra, Alberto Aiardi, Berardo Cavarocchi, con copricapo bianco”, poi “Don Gaetano Cicioni, benedicente in una iniziativa pubblica, presenti da sinistra: il Sindaco Carino Gambacorta, don Domenico Taraschi e sulla destra l’On. Tommaso Sorgi”; in chiusura,  l’ultimo gruppo di diocesani di allora, che Alberto Aiardi volle riunire a Teramo il 7 aprile 2010 per celebrare il lungo cammino, con visita alle rovine di santa Maria Aprutiniense, e messa al Duomo. La foto è stata scattata sulla scalinata del Duomo al termine della messa, con la macchina fotografica di Romano Maria Levante, associato al gruppo come sodale di una vita da Aiardi, che è in seconda fila al centro dietro Beppe Ammassari. La 2^ e la 4^ foto, sulla gita all’Arapietra della GIAC e dopo la messa avanti al Duomo, segnano un coerente percorso di vita.    

I diocesani di allora, sulla scalinata del Duomo di Teramo,
Aiardi è in seconda fila al centro dietro Beppe Ammassari  

 

Dalì, 2. Surrealista, classicista e non solo, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Il surrealismo  è stato il cuore della mostra “Dalì, un artista, un genio”, svoltasi son grande successo di pubblico al Vittoriano dall’8 marzo al 1° luglio 2012, di cui vogliamo sottolineare la persistente validità per conoscere la sua complessa personalità. Ma ci sono state anche le tante altre manifestazioni della sua arte poliedrica che ha espresso, oltre che nei dipinti, in disegni e in forme scultoree, nella vita anticonformista e trasgressiva di personaggio e di artista con una forte base culturale e con una padronanza della tecnica pittorica  che ha attraversato i diversi stili del ‘900.

“Impressioni d’Africa”, 1938

Nella base culturale di Dalì c’era una forte attrazione per i classici del Rinascimento italiano che non vedeva chiusi in una torre d’avorio, ma attivi nella vita sociale con la loro creatività.  Lo riteneva – come scrive nel 1965 in “Diario di un genio” – “compito dell’artista, e senza dubbio il più grande merito dei Principi rinascimentali d’Italia è di aver capito questa cosa evidente e di aver affidato l’organizzazione delle loro feste a Vinci o a Brunelleschi”. Con questa citazione la curatrice della mostra Montse Aguer dà la chiave interpretativa delle incursioni di Dalì nella società in cui viveva, nella vita mondana e nelle più diverse discipline, scrittura e teatro, cinema e  pubblicità.

La creatività dell’artista calata nella realtà lo portava a reinterpretarla in un’ottica soggettiva, riplasmando e reinventando il mondo in cui viveva nel quale per questo amava immergersi imprimendovi la propria personalità nella vita come nell’arte. Così diviene artista “fine e principio della propria creazione”, vale a dire “mito e creatore di miti, come icona della cultura di massa”.

Il surrealismo, la forma in cui si è maggiormente manifestata la sua arte pittorica, incarna questa trasformazione della realtà a misura dei propri sogni e incubi, visioni e ossessioni, con immagini oniriche, dove la suggestione si unisce all’inquietudine perché scavano nell’inconscio. “Vedere il mondo sotto un’altra forma” è la sua dote che faceva risalire all’infanzia. Ma non si tratta di improvvisazioni estrose per non dire eccentriche, bensì l’approdo di un percorso nel quale la ricerca di uno stile personale partita dai classici tocca impressionismo e puntinismo, purismo e cubismo.

“Composizione con tre figure. ‘Accademia neocubista’”, 1926

Dalle opere nei vari stili del ‘900 a quelle del surrealismo

Del puntinismo vediamo “Bagnanti di Es Llaner”, 1923, una composizione con piccole figure quasi sospese nella scomposizione cromatica di quello stile, come del purismo c’è “Ritratto di mia sorella”, mentre in “Cadaqués vista dalla Torre di Capo Creus” combina diverse tendenze richiamandosi a una veduta di Cézanne e alle composizioni cubiste. Nelle sue opere si riflette anche la metafisica di de Chirico – pur se l’artefice di tale atmosfera  misteriosa lo definiva “l’antipittore per eccellenza” – con le ombre, gli orologi, il “tempo sospeso”.

In questo periodo dipinge “Partenza, Omaggio al Notiziario Fox”, lo presenta a Picasso che lo apprezza, nel 1926, in una visita  dalla quale trae spunti cubisti innestati sul realismo classicista che troviamo in opere dello stesso anno: “Tavolo di fronte al mare. Omaggio a Eric Satie, Figure distese sulla sabbia” e soprattutto  “Composizione con tre figure. ‘Accademia neocubista’” il riferimento è nello stesso titolo.

C’era già stato nel 1924 il “Primo Manifesto del surrealismo”, con l’invito a far incontrare due stati così diversi come il sogno e la realtà in una dimensione assoluta, la surrealtà. Dalì lo scopre nel 1929, quando la russa Gala lo affascina: le dedica, con le parole “Gala-Gradiva, colei che avanza”, il libro “La mia vita segreta” dove la paragona alle “serene perfezioni del Rinascimento” e  scrive: “Posso dire che Gala, seduta, somiglia perfettamente al tempietto del Bramante presso la chiesa di San Pietro in Montorio di Roma”. Lei lo introduce nel gruppo surrealista di Breton, eccola in “Inizio automatico di un ritratto di Gala”, 1933; la sposa, sarà la musa e la guida della sua vita.

Nel decennio 1929-39 fa parte del movimento surrealista con il suo “metodo paranoico-critico” ritenuto da Breton “uno strumento di prima linea”, come abbiamo ricordato nella presentazione della mostra. Tra le opere esposte, del 1931-32 “Il senso della velocità” e “Gradiva riscopre le rovine antropomorfiche (Fantasia retrospettiva”), entrambi con chiari richiami metafisici; il primo con lunghe ombre proiettate da un cipresso e da oggetti, tra cui un orologio con scarpa incorporata; il secondo con l’abbraccio di manichini inconfondibili come l’atmosfera misteriosa che li circonda.

Del 1934 “Lato occidentale dell’Isola dei morti”, “Eclissi e osmosi vegetale” con il cipresso e il cavallo, le ombre e la figurina lontana, elementi alla de Chirico in vasti spazi misteriosi, che diventano panorami lontani con in primo piano una sorta di due giganteschi ectoplasmi che sovrastano la minuscola figura umana in “‘Angelus architettonico di Millet”, ispirato a un quadro figurativo di Millet, rimasto impresso in lui dall’infanzia, trasfigurato per un effetto psicanalitico prima che pittorico.Mentre  in“Lo spettro del sex appeal”, del 1935, una figura umana altrettanto minuscola è schiacciata dalla gigantesca forma umana piegata sul ginocchio sinistro, sarebbe ispirata alla Venere di una celebre saliera di Benvenuto Cellini. Nel piccolo quadro c’è un paesaggio roccioso, che diventa pianeggiante in“Figura e drappeggio in paesaggio”, dove da una tenda appaiono dei rami e una figura umana senza volto mentre in lontananza forme minuscole, un uomo e un cipresso, proiettano lunghe ombre, anche qui l’associazione con de Chirico è immediata.

E che dire di “Singolarità”, del 1936, con le figure come manichini e gli orologi, e di “Composizione surrealista con figure invisibili”, del 1937, dove l’associazione è altrettanto immediata, questa volta per i mobili ripresi all’aperto? In  “Coppia con la testa piena di nuvole”, dello stesso anno, invece, l’originalità è assoluta, sono due tavole sagomate e dipinte, con la forma umana che nel corpo presenta il frequente paesaggio metafisico e nella testa rende onore al titolo.

Del 1938 ricordiamo  “Impressioni d’Africa”, che ha una lunga storia, fu dipinto in Italia dopo un viaggio in Sicilia “dove avevo trovato – scrive lui stesso in “La mia vita segreta” – reminiscenze della Catalogna e dell’Africa”; ma soprattutto dove era morto  suicida  lo scrittore francese Raymond Roussel autore nel 1910 di un’opera teatrale dal titolo che Dalì diede al quadro, ripetuto in un libro di poesie del 1932 illustrato da 59 tavole. In linea con la “patafisica” di Roussel, che univa nonsenso, assurdo e ironia, il quadro è, secondo la critica, “un vero trionfo dell’immagine doppia che sgorga per emersione spontanea dall’inconscio attraverso la prassi del metodo paranoico-critico”. In un paesaggio desertico  spuntano immagini con innestati in modo insensato elementi eterogenei in un clima surreale; mentre sulla sinistra in primo piano in stile figurativo c’è il cavalletto con l’artista intento a dipingere la cui mano destra è protesa verso l’osservatore.

Ci sarebbe tanto da dire su questo e sugli altri dipinti citati, unasuccessione di invenzioni pittoriche che lascia senza fiato, tra scomposizioni delle forme ed ectoplasmi, deformazioni paradossali di gambe sterminate filiformi e figure grottesche, visioni incantate di sogno fantastico come le “fanciulle in fiore” con i petali e i rami nei capelli o nei seni.

“‘Angelus’ architettonico di Millet”, 1933

ll ciclone americano: cinema e balletto, non solo pittura

Approdato negli Stati Uniti nel 1940 dopo aver lasciato Parigi occupata dai tedeschi, la sua pittura  si riporta a un classicismo reinterpretato e reinventato, mentre si lancia anche nel cinema e nel balletto continuando nel suo rapporto fecondo con la scrittura: ricordiamo l’autobiografia “La mia vita segreta”, oltre a innumerevoli saggi e articoli. Nel cinema sono suoi i piani inclinati attraversati da Gregory Peck e i vortici che attanagliano Ingrid Bergman nelle scene da incubo del film “Io ti salverò” di Hitchock; nel balletto suoi il libretto, le scene e i costumi di “Baccanale”, musica di Venusberg, nonché di “Labirinth”, musica di Schubert, e di “Mad Tristan. The first paranoiac ballet based on the eternal myth of love and death”, musica di Wagner: titoli con i motivi surrealisti, il labirinto dell’inconscio, il metodo paranoico-critico che conquistò subito Breton. Rappresentati al Metropolitan di New York nel 1939-45, tutti con  coreografie di Léonide Massine.  

In mostra tutto questo era evocato da fotografie e video, articoli e documenti, in una rivisitazione a tutto campo dell’artista, nella quale sono comprese anche incursioni singolari nell’oggettistica. Il fondale dipinto a olio di “Tristano e Isotta”, con il tema a lui consueto dei rami nei capelli di Isotta, e “Progetto per ‘Spellbound'”, entrambi del 1945, fanno calare in questa dimensione; del 1943 “Composition avec tour (Bozzetto per sipario di scena di ‘Café de Chinitas”, per uno spettacolo, riporta ancora a de Chirico, nell’atmosfera, nelle ombre e nella tipica arcata sulla destra.

tipici di questa fase il dipinto dal titolo ironico:  “Autoritratto molle con pancetta fritta”, 1941; una maschera drammatica con i suoi baffetti che sembra dissolversi sciogliendosi nel dolore tra le formiche che stanno per invaderla e delle improbabili grucce sparse a sostegno, anche qui si pensa a de Chirico. Infine  gli oli su masonite, “Telefono bianco e rovine”, “Grande  testa di dio greco” e l’acquerello “Struttura triangolare con fontana riflettente” dal comune titolo “Destino”, 1946.

La scienza e il misticismo nella sua pittura fino al ritorno ai classici

Una personalità così singolare che sfugge ad ogni classificazione, immersa nel delirio onirico  dell’inconscio, sembrerebbe lontana anni luce dalla visione scientifica. Anche in questo Dalì sorprende, fu sempre attento ai progressi scientifici in quanto espressione dell’uomo per il quale aveva grande curiosità. In un incontro a Londra mostrò a Freud un suo articolo sulla paranoia, si interessò alla quantistica di Plank e alla “divina proporzione” di Pacioli, alla “colla cosmica” di Heisenberg scrivendo nel catalogo di una mostra del 1958 a New York “voglio trovare la maniera di trasportare le mie opere nell’antimateria” e al DNA  con lo scopritore premio Nobel Watson.

Manifestò interesse anche per la fusione e fissione nucleare e non solo sotto il profilo scientifico. Dichiarò nelle  “Confessioni inconfessabili” a Parinaud: “L’esplosione atomica del 6 agosto 1945 mi ha provocato un brivido sismico. Da quel momento l’atomo è stato il mio argomento di riflessione preferito. Molti dei paesaggi dipinti in questo periodo esprimono la grande paura che ho provato alla notizia della deflagrazione”. Sono quadri composti da frammenti uniti da un’energia  che li compenetra tra loro e nel mondo circostante.

Non c’è solo il metodo “paranoico-critico” dinanzi agli incubi dell’olocausto nucleare: “Per penetrare nel cuore della realtà, ho l’intuizione geniale di disporre di un’arma straordinaria: il misticismo, ovvero l’intuizione profonda di ciò che è, la comunione immediata con tutto, la visione assoluta attraverso la grazia della verità, attraverso la grazia divina”. Verrebbe da non crederci,  ma sono sue parole testuali, tratte dal 2° volume della sua “Obra completa”

“Basta coi sogni e la psicopatologia – proclama – il futuro è tutto fissione, atomo, fisica e metafisica”, E con metafisica intende misticismo: nel “Manifesto mistico” scrive che gli artisti devono mettersi al passo con il progresso scientifico, ai mistici il compito di risolvere “le nuove sezioni auree dell’anima del nostro tempo” con una “potenza rinascente” che abbandoni “il più sordido materialismo”.

Troviamo i riflessi diretti di questa nuova visione in “Dematerializzazione vicino al naso di Nerone” ed “Equilibrio interatomico di una piuma di cigno”, 1947, in “Leda atomica”, 1949, e “Madonna di Port Lligat”, 1950: quest’ultimo, in cui impersona Gala nella Madonna, unisce la bellezza di Raffaello a un motivo di Piero della Francesca, l’uovo sospeso in alto, simbolo di “forma perfetta, essenziale, priva di principio e fine”, che contiene “qualcosa di segreto e non è riproducibile” in modo artificiale essendo opera della natura. Fino ai dipinti con la spirale doppia del codice della vita, la cui denominazione figura nell’interminabile titolo che inizia con “Galacida…”, e termina con ribonucleico, l’acido del DNA, l’anno è il 1963.

Si appassiona all’ottica, vediamo la tela “Studio per ’50 quadri astratti che si trasformano”: a 2 metri in 3 Lenin cinesi, a 6 metri nella testa di una tigre, stravagante e per questo intrigante; il numero 50 lo ritroviamo anche nel suo scritto “50 segreti magici per dipingere”. Studia immagini stereoscopiche, anche per dare l’illusione della terza dimensione, ecco “Il piede di Gala. Dipinto stereoscopico”, 1975-76, un’opera a due elementi in cui tenta un gioco tridimensionale.

Dall’ottica alla sua proiezione più avanzata, l’olografia dopo il Nobel per la fisica a Gabor per i lavori con il laser che dà l’effetto rilievo, dove lo porta il suo interesse anche filosofico a rendere le dimensioni di tempo e spazio in modo plastico. “Alla ricerca della quarta dimensione”, 1979, esprime questa sua ricerca; andrà ancora oltre nell’ultima fase della vita allorché la sua produzione si basa sullo studio della teoria delle catastrofi del matematico René Thom.

Ma le sue ultime opere più importanti, siamo negli anni ’80, segnano un ritorno all’antico in tutti i sensi, come classicismo e come iniziazione all’arte. Vediamo esposte  “La perla. Dall’‘Infanta Margherita di Velasquez” 1981, tema su cui si cimentò anche Picasso con innumerevoli versioni, ben 44. Ci interessano in modo speciale per il ritorno ai grandi maestri italici  “Eco geologica. La pietà”, “Senza titolo. Dal ‘Giorno’ di Michelangelo”, “Senza titolo. Dalla ‘Notte’ di Michelangelo“, tutti del 1982: dal Raffaello dell'”Autoritratto” innestato sul suo collo dei 17 anni,  alla reinterpretazione “d’aprés” michelangiolesca con gli stravolgimenti plastici dei 78 anni!

In mezzo i tanti anni in cui l’Italia ha avuto un ruolo di protagonista nella sua vita come nella sua arte, che si è manifestata nel nostro paese anche in altre forme. Le vedremo prossimamente rivivendo viaggi e permanenza a Venezia e Roma a conclusione di una mostra indimenticabile..

Info

Catalogo “Dalì. Un artista, un genio”, a cura di Montse Aguer e Lea Mattarella,  Skirà,  pp. 266, formato 24×28 cm; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il  primo articolo è uscito in questo sito il 28 novembre 2012, con la presentazione dell’artista e la prima fase del suo percorso artistico, il terzo e ultimo uscirà il 18 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese al Vittoriano alla presentazione della mostra da Romano Maria Levante; si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura “Impressioni d’Africa”, 1938; seguono “Composizione con tre figure. ‘Accademia neocubista’”, 1926 e “‘Angelus’ architettonico di Millet”, 1933; in chiusura “Autoritratto molle con pancetta fritta”, 1941.

“Autoritratto molle con pancetta fritta”, 1941