Deineka, 2. Il 1930-35 con il viaggio in Occidente, al Palazzo Esposzioni

di Romano Maria Levante

Continua il resoconto della visita alla  mostra su “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”  tenuta dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 a Roma, Palazzo Esposizioni, un artista che diede al “Realismo socialista” un’impronta personale di grande qualità in vari campi figurativi , dalla pittura alla grafica, dalla scultura fino al mosaico. Abbiamo raccontato la prima fase degli anni ’20, lo sport e la vita all’aria aperta negli anni ’30,  restiamo in questo decennio di sua  massima espressione artistica, nel quale si manifestano i temi peculiari del “Realismo socialista”, in termini personali e collettivi, con il linguaggio del corpo e il sogno del volo. Nel 1935 i sei mesi del  suo viaggio in Occidente, che vedono l’artista sovietico onorato in America, a Parigi e a Roma.

In primo piano “Corsa”, in secondo piano “Ginnastica mattutina”, in fondo “Giocando a palla”, tutti del 1932-33

La grafica propagandistica del 1930-33

Anche nel 1930 abbiamo opere grafiche molto significative, come “Chi più, chi meglio” : calligrafico e cromatico, diviso in due da una strada con un operaio che separa due mondi diversi: a destra due coppie di cavalli trainano leggeri “sulkj” per diporto, nell’altro uno dei due “sulkj” è di dimensioni doppie perché usato per trasporto, ed è trainato da un trattore. E poi grandi progetti per  manifesti propagandistici dai colori e contenuti violenti: “La Cina in marcia per la liberazione”, . il pugno sferrato dal rivoluzionario proletario al cinese oppressore con i “piedi sulla città” e le cannoniere anglo-americane e giapponesi sullo sfondo; “Lavoratore esemplare,sii uno sportivo!”, due alte figure in tuta blu, una lavora al tornio, l’altra fa ginnastica con le braccia larghe.

Lo stesso invito dalla fabbrica alla campagna in “Kolchosiano, sii uno sportivo!” , questa volta  tre figure in primo piano di ambo i sessi, con le braccia in alto nella ginnastica, un trattore sullo sfondo: colori pastello, una grande scritta rossa sulla destra, anche più vistosa nella litografia  “Meccanizziamo Donbass”,a dividere due cunicoli bui nella miniera, sopra con la perforatrice manuale, sotto con un mezzo meccanico, è l’esaltazione del progresso per alleviare la fatica umana.

Dello stesso anno due libri d’artista:  “Elettricista”, dalla copertina ai disegni nelle pagine interne un’epopea, dalla lampadina a tralicci e reti elettriche; e “Parata dell’Armata Rossa”, dai trombettieri in copertina alle illustrazioni nel testo con mezzi e uomini che sfilano.

Oltre a questi “ultimi fuochi” grafici del 1930 sono stati esposti pochi altri disegni propagandistici del regime: due progetti di manifesto del 1931, “A tutto vapore”, con l’esaltazione dei treni, locomotive disegnate in varie posizioni e angolature; e“Diamo personale proletario a Ural-Kusbass”, con i  proletari dalle spalle larghe, imponenti e statuari, in marcia in folti gruppi ripresi anch’essi in diverse posizioni e angolature.

Fino all’ultima immagine grafica in mostra, la litografia multicolore su carta “Lavorare, costruire e non lamentarsi!”, una rara eccezione del 1933: un’imponente atleta femminile in primo piano lancia il disco dal cerchio regolamentare, dietro c’è un tiratore disteso con la carabina, in terzo piano una corsa podistica, più lontano una corsa motociclistica. Lo sport nelle sue espressioni come stimolo e cura: nei quattro sport raffigurati una sorta di “tetra farmaco” del “Realismo socialista”.

Immagini personali e collettive negli anni ‘30

Nello sport abbiamo visto come negli anni ’30 la sua pittura acquisisca colore e profondità, mentre  la componente emozionale affiora con sempre maggiore evidenza, anche se i volti restano quelli di modelli poco differenziati ma con la tensione del movimento e della gara. Al carattere monumentale e severo del primo periodo si associa e in parte si sostituisce l’aspetto idealistico e ottimistico caratteristico dell’arte celebrativa dei destini luminosi, ma con libertà nei temi e nell’espressione.

La stessa logica si applica alle situazioni domestiche come “Sul balcone”, 1931, originale scorcio con un corpo femminile nella sua nudità salutare sulla sinistra, un asciugamano bianco steso mosso dal vento con il mare nello sfondo dietro la ringhiera dove ritroviamo l’acciaio degli anni ’20 ma come ornamento e non come struttura di telai e macchinari. Irina Vakar  vi vede la capacità “di creare, in alcuni quadri, una ‘materia fluida’ e luminosamente aerea, un ambiente astratto in cui le figure letteralmente evaporano”; in particolare “nel dipinto ‘Sul balcone’  la stessa materia fluida è resa come se fosse luce e parte della figura scompare proprio sotto gli occhi dello spettatore”.

Nell’intenso “Madre”, 1932, abbiamo visto una straordinaria inquadratura di schiena con il viso del bimbo addormentato e il profilo della donna che lo guarda stringendolo in un primo piano, un simbolo dell’amore materno. Non c’è profondità ma colore e le figure spiccano sullo sfondo, il braccio destro del bimbo abbandonato con il volto reclinato nel sonno e la mano sinistra al collo della madre suscitano una straordinaria tenerezza; l’ambiente non conta, praticamente non esiste, si vuol dare il senso della profonda bellezza anche interiore,  e l’artista ci riesce egregiamente.

Dello stesso anno due momenti ricreativi che fanno pensare ai dipinti sullo sport. In “Giocando a palla”, tre ragazze dal corpo nudo del quale è esaltata la possanza e non l’armonia, quasi fossero le “Tre Grazie” del classicismo rivisitate dal “Realismo socialista”  con forme massicce e sgraziate: lo spazio, prima piatto ed evanescente, acquista un proprio rilievo, accentuato dal colore carne sul verde scuro della vegetazione e dalla posizione di spalle della figura in primo piano che dà profondità alla scena. Nell’altro dipinto, “Mezzogiorno”, cinque figure femminili dai corpi nudi accorrono festose su uno specchio d’acqua con dietro casette di campagna e qualche albero e con sullo sfondo un treno fumante e alcune ciminiere, del tipo di quelle che abbiamo visto dietro gli sciatori: qui c’è la profondità su tre piani fino all’orizzonte, con vari colori pastello e figure di corpi nudi ben più piccoli di “Giocando a palla”, mentre i volti tornano ad essere del tutto indistinti. 

Le casette di campagna danno l’dea di un intervallo ludico, la scena è di riposo; come in “Bagnante”, 1933, un florido nudo femminile in primissimo piano, il volto ci dà finalmente una bella espressione; dietro ben visibile un altro corpo femminile mentre il viso è nascosto dalla camicia che sta infilando nella testa. Entrambi i corpi sono curati, non la forza sportiva ma la grazia armoniosa; lo specchio d’acqua a lato, la campagna con casette sullo sfondo, anche qui colore e profondità. Si avverte l’influenza di Gauguin, notata anche da Matisse  che lo apprezzava molto.

C’è un che di intimo in questa scena, e ancora di più in “Ginnastica mattutina”, 1932,  due figure  distese che fanno esercizi con due grandi palle scure, che sia il  pesantissimo “pallone medicinale”?  Profondità e colore anche se l’intimità della scena è resa dalla discrezione dei toni. Così per “Bambino addormentato con fiordalisi”, stesso anno, posizione fetale di assoluto riposo, la carne del corpo spicca sul bianco del giaciglio, la profondità è data dal primissimo piano del vaso di fiori di un blu che fa pensare agli “Iris ” di Van Gogh, con un notevole spicco non solo cromatico.

Non finisce qui la sua poetica intimamente umana, all’insegna di una vitalità spesso resa in termini collettivi, ma che esprimeva sentimenti personali con il linguaggio del corpo e non con quello del volto. Sentimenti che appaiono ancora più evidenti quando proiettano in alto e lontano, lo vediamo subito con il sogno del volo in pittura, lo vedremo successivamente nei dipinti politici e in  quelli sulla guerra:  c’è sempre una profonda umanità che si manifesta nell’attività lavorativa e nel tempo libero come nei momenti della politica e in quelli tumultuosi e tragici del conflitto mondiale.

“Colloqui di una brigata kolchoziana”, 1934

Il sogno del volo

Tra le immagini più significative un bambino in posizione vigile, “Pioniere”, 1934, raffigurato di profilo con lo sguardo lontano, intento a seguire due piccoli aerei affiancati in volo. E’ un motivo che nello stesso anno si ritrova in “Dinamo. Sebastopoli”, dove il volo di due aerei ancora più piccoli ai margini della composizione è seguito da bagnanti di ambo i sessi e nelle diverse pose – in piedi, seduti e sdraiati –  dalla struttura monumentale di uno stabilimento balneare; mentre  in “Sebastopoli. Stabilimento balneare ‘Dinamo’”, i bagnanti guardano un tuffatore, in volo anche lui, posti di schiena dinanzi al mare. Inquadratura simile  in “Futuri aviatori”, 1938,  tre ragazzi anch’essi di schiena dinanzi al mare aperto guardano il volo di un aeroplano, simbolo ideale di radiose prospettive. Questi dipinti compongono un trittico del sogno del volo, antico quanto l’uomo.

Prima, nel 1932, aveva dipinto  “In aria”, stupenda agiografia del volo, un aereo con le ali rosse plana sul mare di nuvole sfiorando la cima innevata di un monte che ne emerge possente, non è vista come un pericolo,  ma sembra quasi un castello fiabesco da sogno; nel 1933 abbiamo “Bouquet autunnale”, un vaso in primo piano e un uccello nel cielo,  in volo come un aereo.

Al di là dell’aspetto apologetico c’è alla base il suo slancio verso la modernità che anche altri artisti cercavano di trasmettere, ma lui in modo particolare per l’impressione che gli aveva fatto il  primo volo in aereo al punto di fargli provare quella che nel libro “La mia attività professionale” del 1961 definì “amore per l’aviazione” con questi effetti sull’espressione artistica: “L’aviazione mi ha costretto a riconsiderare i canoni spaziali in pittura e l’ha arricchita sul piano della scienza e dell’estetica”. E questo sia nella composizione che nella tecnica: “Gli scorci inattesi in cui la terra appare dalla cabina di un aeroplano rompono i modi consueti di rendere la prospettiva”; inoltre “i piani pittorici necessitano di correttivi e di nuovi capitoli sullo studio dei piani in aria”.

Elena Voronovic, nel riportare queste citazioni, ricorda la pittura aerea dei futuristi in Italia degli anni 1929-31, e in effetti l’aerofuturismo sposta nel cielo il mito della velocità prima riferito alla terra sostituendosi all’automobile negli scorci inconsueti derivanti dalle deformazioni ottiche delle visioni prospettiche dall’alto e di quelle con cui venivano visti gli aerei nei voli acrobatici: Prendiamo atto di questo riferimento all’aerofuturismo italiano della curatrice, ma non ne abbiamo trovato i segni in mostra con gli aerei lontani nel cielo in un sereno e tranquillo volo orizzontale.

Gli altri temi classici del “Realismo socialista” fino al 1935

Tutta nello sport, nella cura del fisico e nel sogno del volo la pittura di Deineka negli anni ’30? Certamente no, 6 dipinti ci hanno ricordato altri temi del “Realismo socialista”. 

In 2 dipinti del 1932, se li contrapponiamo, si vede un confronto vincente per la società sovietica.

“Chi prevale?” presenta operai imponenti e statuari che avanzano verso l’osservatore, segno di forza e di fermezza; sulla sinistra un’assemblea di fabbrica e scene di massa e di movimento per momenti esaltanti della storia nazionale, dalla presa del Palazzo d’Inverno all’industrializzazione. Invece Disoccupate a Berlino”  mostra su una panchina tre donne nell’indigenza più cupa: a sinistra con un bimbo sulle ginocchia, quella al centro con il viso espressivo rischiarato dalla luce sembra implorare solidarietà e aiuto in una semitrasparenza che dà un senso irreale; la donna a destra è chiusa in se stessa, il fondo marrone scuro tracima nelle figure e sembra voglia risucchiarle.

Nel raffronto, queste donne di Berlino sembrano fantasmi disperati rispetto alla solidità  dei lavoratori della Russia sovietica del primo dipinto, il cui modello è raffigurato come ben superiore.

Poi due quadri bellicosi del 1933: “Mercenario degli occupanti”,  tre corpi stesi a terra e l’implacabile esecutore in piedi con il fucile che guarda spietato l’eccidio compiuto; “Stato maggiore dei Bianchi. Interrogatorio”  esprime un altro modo in cui il nemico può essere spietato, i capi gozzovigliano mentre, pur minacciato delle pistole, il prigioniero spicca per la dignità di fronte agli aguzzini; c’è la ricerca di profondità con il tavolo bianco in primo piano e l’inquadratura  rimarchevole di spalle rispetto a due figure e frontale rispetto alle altre, con il controluce di sfondo.

Quindi due dipinti che riportavano alla vita contadina. “Paesaggio agreste con mucche”, 1933, della serie “Foglie secche”, ci ha dato non solo questa dimensione ma anche quella intima e domestica con l’accorgimento dell’inquadratura dall’interno di una finestra aperta, un vaso di fiori e la vista che si apre sulle mucche con la contadine e lo sfondo di case coloniche.  Oltre alla dimensione agreste e a quella domestica, abbiamo visto la dimensione collettiva in “Colloqui della brigata kolchoziana”, 1934: un gruppo di una quindicina di persone, un bimbo in braccio,  in piedi e seduti dietro un tavolo, con l’anziano del kolchoz che legge disposizioni o resoconti.

Siamo alla vigilia dell’evento nella vita artistica di Deineka, il viaggio di sei mesi in Occidente.

“Strada romana”, 1935

1935: Deineka in America, poi Parigi e Roma

Il viaggio non fu un’iniziativa personale, andò in America come rappresentante ufficiale dell’Urss per la mostra “The Art of Soviet Russia”, aperta a Filadelfia e poi itinerante per altre 17  città dall’inizio del 1935 alla fine del 1936. Furono esposte opere soprattutto personali degli artisti sovietici, quindi non erano solo propagandistiche ma trattavano liberamente anche temi tradizionali: questo fece avere alla mostra successo di pubblico e di critica, tanto che il critico del New York Times vi vide l’espressione  “di un popolo libero, finalmente, di scaldarsi al fuoco della pace”. In effetti, la resistenza dei musei e delle istituzioni a prestare le opere più affermate fece fare “di necessità virtù” esponendo un’arte sovietica più eclettica di quella ufficiale, quindi portatrice della tradizione e del modernismo e meno soggetta al “Realismo socialista” intriso di ideologia.

Deineka fu attirato dalla comunità afro-americana, dipinse “Giovane negro” e “Concerto negro”, immagini pensose di grande dignità: rimarchevole nel secondo la profondità data dal muretto cui si appoggia il cantante dietro cui c’è una pianista anch’essa di colore che lo accompagna. Un effetto simile in un altro dipinto di quell’anno, “Notte”: una figura in piedi di fronte allo specchio ripresa da dietro, il viso riflesso in secondo piano con un incrocio delle braccia sopra la graziosa mensola. Mentre “Strada a Mout Vernon” è un timido “road show” di allora dell’America con le automobili.

Ma torniamo al suo viaggio, allorché vi fu il corale apprezzamento del mondo dell’arte americano. Il suo apprezzamento non lo rivolse al gruppo comunista del John Reed Club, al quale attribuiva le schematizzazioni propagandistiche, sempre da sinistra, del gruppo Rapp, l’Associazione di scrittori proletari in Urss: anche in Usa “il borghese si disegna così, e il lavoratore schiavizzato in quest’altro modo”, mentre loro sovietici erano andati molto oltre, come disse alla conferenza del maggio 1935 a Mosca alla Casa centrale degli artisti. Christina Kiaer aggiunge che invece apprezzò i “regionalisti americani”, in testa Thomas Hart Benton; e pur ritenendolo politicamente reazionario lo definiva “come ‘terribilmente  attivo’ e ‘terribilmente  fertile’, capace di produrre grandi opere”.

L’apprezzamento per l’arte americana fu ben superiore a quello per l’arte francese, come disse nella stessa conferenza: “Si pensa che arrivati in America non ci sia nulla da vedere, che si riesca a vedere tutto senza problemi, mentre a Parigi c’è talmente tanto che non ci si riuscirà mai. Questa impressione è tutto il contrario della verità”.  Lo colpì comunque la vita all’aperto fuori dai locali, come si vede in “Parigi. Al caffè”, interessante inquadratura con l’elegante donna seduta in primo piano e lo scorcio prospettico degli edifici con la stretta scalinata in cui salgono due persone: una di spalle vicina al primo piano, con un effetto di profondità e poco colore. Inoltre notò l’eleganza femminile:  oltre che nel dipinto citato, in “Parigina” spicca la raffinatezza del cappellino dalla piuma in tinta e stile con l’abito dal collo plissettato, in un sorprendente rosso intenso e il viso dove si nota la delicatezza dell’incarnato e dell’espressione  in un’immagine di autentica bellezza,

E’ un rosso che si ritrova in “Strada romana”, nelle lunghe tonache di due religiosi i quali stanno per scendere una scalinata monumentale con una figura scura in primo piano sulla destra, che dà profondità al quadro e fa da pendant con la grande statua sulla sinistra prima del muro giallo di fronte.  Siamo a Roma, l’immagine felliniana in grande anticipo ci immerge subito nel clima della Città Eterna al quale portano anche due dipinti monumentali: con “Piazza romana”, in realtà è un palazzo il vero soggetto raffigurato, c’è un carabiniere in alta uniforme in primo piano a dare profondità al piazzale bianco con un minuscolo calesse, un palcoscenico con l’edifico monumentale a fare da fondale, in una metafisica tutta particolare. Come “Stadio romano”, la monumentalità è nella grande statua in primo piano, ben più imponente del carabiniere del quadro precedente, e intorno c’è l’anfiteatro di statue di cui si avverte l’imponenza pur se sono viste da lontano

Roma la preferì a Parigi ancora di più di come era stato per l’America: “Diavolo che città!  Altro che Parigi!- scrisse alla compagna Serafica Lyceva – e non intendo riferirmi a Michelangelo o agli altri grandi… Qui si guarda avanti”.  Così descrive  la visita Matteo Lafranconi: “Deineka non si stanca di percorrere la città a piedi, quasi incredulo di fronte al moltiplicarsi delle sorprese urbanistiche, ai continui scarti tra vecchio e nuovo, al nesso costante tra architettura, monumento e decorazione; ma è l’immagine contemporanea a colpirlo in modo speciale”, soprattutto lo “Stadio Mussolini”, che raffigurò nel quadro appena citato: l’attuale “Stadio dei marmi” era simbolo di un regime molto diverso ma nell’esaltazione delle virtù del proprio popolo e della forza dei propri ideali nazionalisti gli estremi si toccano; non apprezzo però l’arte del littorio  “completamente uniformata dal fascismo”, lamentando che “la gioia del lavoro del pittore è stata  sostituita dalla severa disciplina militare della dittatura”. Però ammirò la grafica e la pittura murale pubblica, e i manifesti – “Se ne incontrano di assai buoni, realizzati con gusto” – mentre disdegnò i musei  per la loro patina “grigia e polverosa”; il “maestro sovietico della modernità” si esprimeva anche così.

A Roma in quel periodo c’era una mostra molto importante: in una sala dedicata ai futuristi si celebrava l’esaltazione del movimento e del gesto sportivo, con espressioni di un forte realismo, su temi a lui familiari, e con una rassegna completa dell’arte contemporanea italiana.  Osserva Lanfranconi; “E’ impensabile che Deineka non abbia visitato la seconda Quadriennale di Roma che dal febbraio precedente aveva invaso, con più di settecento espositori, l’intero Palazzo delle Esposizioni in via Nazionale”. Ebbene, la mostra del 201 è stato un suo gradito ritorno.

La sua arte si esprime in altre direzioni, con lo scorrere del tempo. C’è la guerra e il dopoguerra, le sue opere legate alla realtà hanno lasciato il segno in questi momenti epocali. Ne parleremo prossimamente.

Info

Catalogo“Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. Il primo articolo, nel quale sono inserite 4 immagini dei quadri dell’artista fino agli anni ‘30, è uscito, in questo sito, il 26 novembre 2012; il terzo articolo uscirà il 16 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura, la parete di una sala espositiva con in primo piano “Corsa”, in secondo piano “Ginnastica mattutina”, si intravede in fondo “Giocando a palla”, tutti del 1932-33; seguono  “Colloqui di una brigata kolchoziana”, 1934, e “Strada romana”, 1935; in chiusura “Futuri aviatori”, 1938.

“Futuri aviatori”, 1938

Echaurren, 2. La natura e la ceramica, a Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Continua l’excursus sull’arte espressa dalla mostra, svoltasi dal 18 dicembre 2010  al 13 marzo 2011, di “Pablo Echaurren, Crhomo Sapiens”, a Palazzo Cipolla, a cura della Fondazione Roma Museo, che iniziando con questo artista ha riservato la sua storica sede espositiva all’Arte contemporanea, mentre all’Arte antica è stato destinato Palazzo Sciarra posto di fronte sull’altro lato di Via del Corso. Dopo aver parlato del suo anticonformismo trasgressivo, delle opere su Roma, e dell’horror vacui, ora la natura e l’arte ceramica; in seguito avremo la musica e il resto.

“Il mio ombelisco”, 2004, con davanti l’artista

La natura vista da chi voleva fare l’entomologo

Abbiamo parlato dell’approdo del suo inquieto itinerario di vita e di arte ad alcune certezze o almeno conferme; ora le cerchiamo nella sua pittura, in un percorso che non segue quello della mostra. Dopo Roma parliamo della sua natura, per seguire l’idea personale che ci siamo fatta.

Iniziamo dal più “antico” dei suoi dipinti esposti, “Volevo fare l’entomologo”, 1991,  un quadro con una trentina di riquadri colorati in acrilico su carta, quasi la trasposizione dei quadratini in acquerello che furono l’inizio della sua avventura grafica e sono anch’essi esposti, datati dal 1973 al 1976:  una bella coerenza nell‘”incoerenza”, più di quindici anni dopo. Rispetto ai quadratini di allora la forza subentra alla raffinatezza, “non fa” l’entomologo, ci ha rinunciato da tanto tempo, perciò intitola al passato “volevo fare”; quelle del 1991 sono figure inquietanti, sembrano insetti che diventano maschere rituali in varie pose e colori. I riquadri che compongono il quadro, di 20 cm di lato, si differenziano dai quadratini disegnati tanti anni prima, di 4 cm di lato, non solo perché non c’è più tratteggio tra un riquadro e l’altro – il segno distintivo dei fumetti quando si pensa e non si parla – ma perché immagini quasi da incubo hanno dilatato i primi ricami grafici di tipo giapponese.

L’aspirante entomologo classificava e raffigurava, nel 1973-75,  ne vediamo stupende immagini in 6 riquadri con lati di 9 per 6 quadratini, 24 x 18 cm, sul verde e sul rosso, sul bianco e sul blu, precisi e calligrafici: si resta incantati nell’osservare la vegetazione o i vulcani, i monti o gli astri,  quasi fossero fotogrammi da mettere in sequenza per dare il movimento mentre hanno raffigurazioni diversissime tra loro, con scrupolo certosino e maestria grafica, anzi calligrafica, stupefacente. Dei titoli fantasiosi citiamo quello del riquadro sul rosso, “Tra quarantatré secondi circa”. Nel 1972 il riquadro con 12 per 11 quadratini, 33 x 41 cm, la tinta pastello ocra e celeste con un po’ di nero per  “Il masso delle formiche a forma di cetaceo raggiunge la  rupe del cigno fossile”: grandioso e delicato nella composizione, fantastico e arguto nel titolo.

Invece l’entomologo mancato quasi venti anni dopo scolpisce i suoi incubi, sembrano api guerriere nelle proprie celle pronte a balzare fuori all’arrivo del maligno. Sono anch’esse la sua difesa contro l'”horror vacui”:  nel 1991 lo esorcizzava così, poi ci saranno degli sviluppi, seguiamoli.

“La pelle di Argo, 1993

La natura nei colori e negli incubi

Siamo ora nel 1995, proseguono gli incubi di vita: in “I doni del cielo” una pioggia  corrusca su un viluppo verde, una massa infuocata che si rovescia dall’alto come il magma incandescente di un’eruzione vulcanica. E  nel dipinto dello stesso anno,  “La pelle di Argo”, troviamo la cerniera tra i quadrati inquietanti con le maschere schierate nello loro celle  e i teschi che incontreremo dopo: 25 grandi occhi dalle forme e colori variati, con l’enorme pupilla su un verde quasi monocromatico. I teschi compaiono con occhi che non sono più liberi come nel dipinto precedente, ma nella cavità del cranio in “Il mio bosco genealogico” : sono in 14,  in  un viluppo rosso e verde  quasi a difesa. 

Nel successivo “The dark side of the light”, 2007,  non il teschio ma un grande ragno crociato al centro con un’aureola di luce su un magma rossastro non vulcanico, vegetale e animale: farfalle e insetti attratti dalla luce e presi nella sua ragnatela, commisti a steli in un viluppo di vegetazione quasi metallica e, per il colore, asfissiante come un’invasione di cavallette rimaste intrappolate.

Finché  nel 2010  troviamo i teschi per la natura  in “La consapevolezza della morte ci condanna alla vita”, bel titolo filosofico, Echaurren è anche questo:sono 14 che circondano, come “body guard” protettive, tre rose fragranti tenute in alto dai fili d’erba, ben difese; è come se i teschi dell'”Umbilicus urbis” del 2006 e quelli “Catacombelicali” del 2009 si fossero scrollati dal loro cerchio magico di ingresso all’Ade e dagli strati sovrapposti e fossero accorsi a proteggerne la vita che sarebbe stata aggredita: il maligno qui non verrà, evita i suoi simili, ce lo ha detto luistesso.

Con un passo indietro al 2009 la natura trionfa nel verde della vegetazione e dei frutti in “Pomo sapiens”  con mele, pere e altro su due colonne di quattro piani con due frutti a piano:  sono castelli di frutta su cui soffia da più lati un teschio sogghignante, l’“horror vacui” di nuovo esorcizzato.

Ma non è sempre presente in modo così vistoso, il 2007 è un anno di composizioni in cui trionfa la natura senza incubi, a parte qualche vaga presenza esorcizzante di ectoplasmi con occhi  indagatori nel monocromatismo verde “Il mio germe solitario/Allergia sul Tevere”. E’ di un verde che vira nel nero “Il vestito della festa”, ci sono le grandi ali di una farfalla al centro – che ha disseminato pezzi di ali smesse per indossare quelle della festa, come si faceva decenni fa con il “vestito della domenica” – tra fili verdi, ben più rassicurante dalla farfalla vista prima nel magma rossastro.

Nella natura irrompe “Colore e calore”, pioggia infuocata di rosse emissioni filiformi su una zona centrale oscura contornata di luce, un esplodere a terra di focolai luminosi. Come in “Pitture di spore” dove il tripudio di vita si esprime in una sinfonia di effluvi di forme vegetali variopinte, qualcuna con cerchi bianchi, soli senza raggi oppure occhi vigilanti, una sembra antropomorfa.

Ci piace chiudere il 2007, e con esso la “natura” di Echaurren, con l’esplosione di fiori della “Cattedrale vegetale” tra i 9 arbusti allineati come un colonnato di piante: sono 7 fiori così luminosi e irraggianti da sembrare altrettanti soli come quelli visti nei dipinti su Roma, un’esplosione di giallo e di rosso nel verde. Non servono protezioni scaramantiche esorcizzanti dal maligno, una natura così luminosa e florida è tanto forte da non temere minacce dall’esterno.

I colori sono commisti senza dominanze nell’inattesa quanto originale digressione nella materia. L’artista, dopo carta e cartone, tela e ceramica di cui diremo più avanti, utilizza la stoffa in composizioni fortemente colorate. E’ del 2001 il trittico in tarsia di stoffe imbottite “Con occhi di crisopa”: nel secondo e ancor più nel terzo pezzo tornano i grandi occhi che abbiamo visto  nel dipinto del 1993; sono delle specie di arazzi moderni dai 90 ai 130 cm circa. La mostra espone anche un intarsio di stoffe del 2010, il “Lessico terrestre”, molto più grande, 2 metri per 1 metro: su una base verde esprime un forte cromatismo nelle lingue colorate gialle e rosse che si innalzano per raggiungere l’azzurro del cielo; un’eruzione di colori anche questa, su stoffa e non su carta o su tela. 

E così abbiamo chiuso quello che per noi è il cerchio di Pablo Echaurren nel suo “horror vacui” e nell’esorcismo dei teschi e delle figure inquietanti che intervengono per Roma  e per la natura: vista in espressioni contrastanti, ma capace alla fine di liberarsi con i suoi colori da presenze oppressive.

Vi sono altri motivi nella sua arte poliedrica: uno contingente, le Ceramiche; l’altro persistente, la sua Musica; che ci riporta alla vita dove troviamo anche l’illustrazione irridente  e il  fumetto.

“La consapevolezza della morte ci condanna alla vita”, 2010

L'”horror vacui” nelle ceramiche monumentali

“Faenza”  è la terra della ceramica,  ruolo che condivide con  Castelli per l’Abruzzo,  e Vietri in Campania. Echaurrenvi fu chiamato nel 1991 per la collettiva “L’apprendista stregone”; in un certo senso lo è stato, ha appreso un’arte molto particolare fatta di pitture e anche di cotture, di artisti e di artigiani, di tradizione e di bisogno di innovazione. Lo chiamarono per portare novità in quel mondo tradizionale e non si fece pregare studiandone i risvolti tecnici ma anche i modelli artistici. Come l’entomologo per gli insetti e le farfalle – e lui voleva farlo, lo abbiamo visto –  così per le ceramiche compulsa archivi e codici, studia musei e chiese alla ricerca dell’ispirazione.

L’“eureka!” premia la sua ricerca, ha imparato l’arte della ceramica tradizionale e la metterà da parte, farà la “grottesca”. Nella bottega faentina Gatti, dove produrrà le opere in ceramica, è passato Balla, e sulle orme del grande futurista ci sono stati Baj e Ontani, Paladino e lui stesso. Andiamo alla ricerca delle opere del 1991, tra quelle esposte, una si intitola  proprio  “Grottesco”,  ci sono anche “Il tempo circolare” e “Il divoratore di se stesso”. Non è ancora ceramica, ma acrilico su carta da trasferire poi nella materia plasmabile che indurisce alle alte temperature dopo la pittura: in  tutti e tre, anelli uniti o intersecati negli occhi di maschere o teschi, in percorsi allucinati.

Il risultato non è da poco se Antonio Pennacchi; in una gustosissima presentazione, paragona le sue alle ceramiche di Luca e Andrea Della Robbia al santuario della Verna, sopra Chiusi. E non le ricordano i temi, religiosi quelli, profani questi, “ma proprio i materiali , i colori, i cromatismi, i nitori, lo splendore. Tale e quale ai Della Robbia i materiali. Ma le emozioni che ne partono – se mi si consente – sono le stesse. Intuizioni liriche, le chiama Croce”.

Vediamo i temi, che riprendono il “grottesco” prima citato dell’acrilico su carta nella preparazione, declinato in motivi più ordinati e stilizzati. Si comincia con  “Manimula”, del 1992, dalla carta alla “scultura maiolicata  in berettino, decorazione a grottesche in monocromia blu con lumeggiature”; dello stesso anno “Dal berettino risorti”,  con lo humor  per intitolare una scatola maiolicata e “Ce ci n’est pas une pipe”, stesse caratteristiche della prima, così descritta dalla curatrice Nicoletta Zanella: “Una grande mano, appunto, animata da serpi e rettili, moderni Quetzalcoatl, intrecciati in un melting pot di draghi del Mesozoico, serpenti piumati atzechi e mostri”.  Le dentature aperte dei draghi poste nella punta delle dita aggiungono l’esorcismo dell’artista all’effetto ornamentale.

Nel 1993 intitola “Bar-rito” l’alzata maiolicata con la coppa retta a mo’ di cariatide dalla proboscide che scopre un’imponente dentatura, lo humor non è solo nel gioco di parole del titolo; nel 1994 in “Nana blu” il “grottesco” prende la forma di una grande stella a cinque punte di 70 cm “scolpita” in maiolica; la colonna alta circa 80 cm dal titolo “Il custode” reca dipinte sul fustocinque teste di drago dentate dalle dimensioni crescenti e dalle espressioni inquietanti, completa l’idea della vigilanza la figura in piedi antropomorfa  con lunghe corna, l’incubo prende forma.

Saltiamo al 1999, le “grottesche” dei draghi, o meglio delle loro dentature spiccano nell’acrilico su carta  “Circolo prezioso” come tagliole in un viluppo inestricabile dove il viola si aggiunge al blu faentino; in tale anno il grande piatto maiolicato di 75 cm  “La pelle di Faenza 1” in una “grottesca” che ritroviamo nel 2003 con motivi diversi ma dello stesso tono in “La pelle di Faenza 2”;  è del 2006 la “Fontana muta”,elegante soprammobile di 36 cm  che reca incorporato un vaso in terracotta tra due code di animale marino e sotto un occhio indagatore, motivo che ritorna.

Ed eccoci al 2010, l’incursione nella ceramica lo accompagna ancora ed è passato un decennio dal colpo di fulmine a Faenza. Vediamo esposte due sculture maiolicate sempre in berettino, “The house of Ashes”, una  piccola casetta di stile infantile con decorazioni laterali e mostri quasi preistorici al centro, e “Il vuoto come cibo” , una grande sfera dal diametro di 50 cm con le dentature di teste di drago su corpi con le spire dei serpenti.

Tutto questo fa corona alla monumentale scultura  posta al centro della sala dedicata a “Faenza”, è tanto vistosa da calamitare subito l’attenzione, le opera descritte fin qui le fanno degna corona, è la protagonista, la star; e come le star l’abbiamo presentata in ultimo, qui andrebbe “bene gli altri”. Si tratta di un vero monumento, nella stessa ceramica fin qui descritta,  titolo “Il mio ombelisco”,del2004, la monumentalità non impedisce allo humor dell’artista di contrarre ombelico e obelisco,  L’obelisco  è sulla groppa di un elefante – pardon un rinoceronte, l’elefante è nell’ “originale” antico della “Minerva” del Bernini – qui non ha la proboscide ma il corno trasformato in un piccolo obelisco, figura già notata nel dipinto “I vertici azzurri di Roma”  in una pioggia di obelischi.

Che dire di una scultura blu “lumeggiata” alta quasi 2 metri e mezzo, lunga oltre 1 metro e mezzo e profonda 60 cm? Si resta colpiti dalla sua imponenza e dalla sua eleganza, e anche dall’intrico di draghi dalle dentature ancora più evidenti, con due novità rispetto ai “grotteschi” visti fin qui:

La prima è che nel bordo della base su cui poggia il rinoceronte ci sono sei animali con lunghe zanne alla carica per ognuno dei due lati lunghi e anche in quelli corti, come una barriera difensiva.

Ma è la seconda quella più interessante per noi: sulla gualdrappa del rinoceronte dove poggia l’obelisco ci sono i teschi finora non apparsi nelle ceramiche, ma visti nella prima parte della visita, sul “Catacombelicale” e sull’“Umbilicus Urbis”. Il titolo “Il mio ombelisco” indica che l'”Umbilicus urbis coincide con il proprio, e vi sono anche qui i teschi che esorcizzano il maligno.

Il cerchio di Echaurren , che abbiamo visto nella prima parte sotteso tra Roma e la natura, si chiude  per ora nella ceramica di Faenza, all’insegna dell’esorcismo verso un “horror vacui” temuto e sfidato; lo riapriremo prossimamente con la musica e gli altri temi della sua arte versatile e poliedrica.

Info

Catalogo della mostra: “Pablo Echaurren. Chromo Sapiens”, a cura di Nicoletta Zanella, Skirà, 2010, pp. 164, formato cm. 24×28. L’articolo precedente è stato pubblicato il 23 novembre 2012, con la presentazione dell’artista e la descrizione del primo tema, “Roma” e l'”horror vacui”; inserite tre immagini di opere sul tema e del grande mosaico visibile nell’accesso da Piazza di Spagna alla Metropolitana di Roma.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante all’inaugurazione della mostra, si ringrazia Civita, con la Fondazione Roma Museo,  gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta; e soprattutto l’artista Pablo Echaurren che ha accettato di essere fotografato davanti alle sue opere con una disponibilità di cui gli siamo molto grati. In apertura “Il mio ombelisco”, 2004, seguono   “La pelle di Argo, 1993, e “La consapevolezza della morte ci condanna alla vita”, 2010;  in chiusura “Lessico terrestre”, 2010.

“Lessico terrestre”, 2010, con davanti l’artista
 

Guggenheim, 2. Dall’Espressionismo astratto alla Pop Art, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

Abbiamo commentato – sulla scia della mostra celebrativa della rivista “Qui Arte Contemporanea” e del ruolo della Galleria Nazionale d’Arte moderna nell’astrattismo italiano in corso alla Gnam –  il mecenatismo lungimirante di Salomon e Peggy emerso con forza, al Palazzo delle Esposizioni “, nella mostra “Il Guggenheim – L’avanguardia americana 1945-1980”, dal 7 febbraio al 6 maggio 2012,  sul museo che ha promosso forme avanzate di sperimentazione artistica negli Stati Uniti.

Frank Stella, “Harran II”, 1967 

Vale la pena di ripercorrere la mostra che ha presentato  60 opere tra dipinti, oggetti scultorei,  sequenze fotografiche nelle 7 sale, in altrettante  sezioni  dedicate ai  momenti cruciali dell’arte  contemporanea americana tra il 1945 e il 1980. Dopo aver dato conto dell’istituzione raccontiamo attraverso le opere esposte le Avanguardie dall’Espressionismo alla Pop Art, con la Scuola di New York e l’“Hard Edge”. Tratteremo prossimamente le sezioni dal Minimalismo al Fotorealismo.

Abbiamo ricordato come gli sviluppi dell’arte contemporanea nel fervore creativo delle avanguardie  negli Stati Uniti coincidano con l’azione di Salomon Guggenheim e della nipote Peggy i quali favorirono il movimento di forte innovazione che dall’Europa si trasferì nel nuovo mondo attraverso gli artisti che, come fu per Peggy, dovettero abbandonare il vecchio continente per l’occupazione nazista. Ne fa fede la stessa denominazione iniziale del Museo istituito nel 1939, che solo nel 1959 ha assunto il nome del suo fondatore,  per vent’anni si è chiamato “Museum of Non-Objective Painting”, cioè della pittura non-oggettiva, ispirata all’arte astratta del russo Kandinsky.

L'”Espressionismo astratto”

La mostra è iniziata con l’“Espressionismo astratto”, denominazione che identifica una serie di tendenze pittoriche sviluppatesi nel dopoguerra dai primi impulsi europei verso direzioni originali. Viene aperta, nel 1942, da parte di Peggy Guggenheim, una galleria-museo dedicata all’arte contemporanea, “Art of This Century”, con il programma di “servire il futuro anziché documentare il passato”  per offrire non solo una sede espositiva che realizzava  mostre d’avanguardia, ma anche un centro di incontro e discussione, confronto ed elaborazione artistica; e mediante  acquisti  e speciali contratti, come con Pollock,  prestava i mezzi di sussistenza ai giovani artisti emergenti.

Nasce la New York School, che dopo il realismo sociale promuove la pittura astratta passando per l’espressionismo: attinge all’inconscio per portare alla luce ciò che ristagna nella psiche profonda con lo spontaneismo e la gestualità, in una soggettività opposta all’oggettività preesistente.

Con la mostra del 1943 “Spring Salon for Young Artists”, tra i 33 pittori selezionati fu “scoperto” il valore di Pollock, segnalato da Mondrian, membro della giuria con Duchamp ed Ernst.  Tra le 13 opere esposte nella 1^ sala, datate per lo più nella prima metà degli anni ‘40, ne abbiamo viste 3 di questo artista caratterizzate da una “caotica profusione di linee e di colori contrastanti”, secondo le parole di Lauren Hinkson, che dirige il Peggy Museum di Venezia ed è curatrice della mostra. I titoli:  “Circoncisione”, “La donna luna” e “Senza titolo”, tra il 1942 e il 1946. La sua “pittura sgocciolata” rendeva massimi spontaneismo e gestualità, lui stesso sul numero unico della rivista “Possibilities” dell’inverno 1947-48 scrisse che dipingeva con la tela a terra per sentirsi “letteralmente in essa” e spiegò: “Quando sono nella mia pittura non so esattamente cosa stia facendo. E solo dopo un certo periodo di contatto con essa mi accorgo del punto in cui sono. E non ho paura di apportare cambiamenti, di distruggere l’immagine o altro, perché la pittura vive di una vita propria. Voglio che questa vita affiori”.

Un concetto analogo lo troviamo sulla stessa rivista nelle parole di Rothko che scrisse di pensare ai suoi dipinti “come a opere teatrali”, di cui “non è possibile prevedere e descrivere in anticipo quale sarà l’azione e chi saranno gli attori”.  Lo stesso spaesamento di Pollock: “Tutto ha inizio come in un’avventura sconosciuta, in un mondo mai veduto prima”. Il risultato? “E’ solo nel momento del compimento di questa avventura che ci rendiamo conto, come per un’illuminazione improvvisa, che ciò che si è concretizzato sulla scena è proprio quello che deve concretizzarsi”.

Una vera e propria trance creativa senza temi e soggetti emerge dalle parole dei due artisti dell’espressionismo astratto di cui danno l’interpretazione autentica. Daniela  Lancioni, nel riportare queste citazioni, precisa che, a differenza dell’astrattismo italiano, grazie al “filtro del surrealismo” anche nella pittura astratta di Pollock e Rothko emergono vaghe immagini che riportano alla pittura figurativa come “la Medusa e altre terrifiche presenze”, sagome  che rimandano a qualcosa. Così anche in “Senza Titolo” di Gorky e“In un luogo indeterminato” di Tanguy, con una serie di oggetti in un’atmosfera metafisica,  che accostiamo a “Luce buia” di “Sebastiàn Matta Echaurren cogliendovi alcune evidenti analogie compositive; e in “I paracadutisti”, di Baziotes, si intravedono le sagome dei paracadute. Così l’espressionismo filtra l’astrattismo puro nella formula americana dell’Espressionismo astratto.

Prosegue nella  2^ sezione con 10 opere soprattutto degli anni ’50 nelle quali la transizione appare superata per un  astrattismo senza riferimenti e richiami, molto coloristico. La fa di nuovo Pollock con 3 opere esposte, “Argento verde”, “Numero 18” e “Grigiore dell’oceano”: nella prima si vede chiaramente l’effetto della “pittura sgocciolata”, i colori sono stesi come macchie e scie, mentre negli altri due si avverte una maggiore presenza sotto il profilo compositivo, in un crescendo anche cronologico dal 1949 al 1953. In  “Senza titolo”, 1949, di  Rotko, vediamo un’evoluzione in senso cromatico rispetto alle altre due sue  opere del 1942 “Senza titolo” e del 1946 “Sacrificio”, di tonalità chiare e smorte: qui ci sono colori forti, marrone e rosso prevalenti con macchie di un blu molto intenso. Colori forti e rosso dominante anche in “Composizione, diDe Koonig,, e in“Dipinto giallo” di Reinhardt, dove domina il colore del titolo,  mentre in “Rosso e nero” di Francis, il giallo è accennato tra macchie rosse molto più grandi sotto un’oppressiva cascata di macchie nere. Il  nero profondo incombe con le cupe barriere in “Elegia per la Repubblica spagnola n. 110”  di Motherwell; mentre  contorna come un nastro la schematica geometria rettangolare con angolo in “Senza Titolo”. di Kline, e interrompe con piccole macchie l’ocra sbiadito in “Guerriero” di  Marca-Relli.  Grande varietà cromatica, quindi, oltre che compositiva.

Jackson Pollock, “Grigiore  dell’oceano”, 1953

L'”Hard Edge”

Cambia tutto con l’“Hard Edge” negli anni ’60, l’astrazione pura si afferma con uno stile “post pittorico”, in forme geometriche su superfici di colore piatte. Il nome della tendenza,  “bordo rigido”, riflette la “fredda precisione” nelle parole della Hlnkson, è l’opposto dell’immediatezza e della spontaneità gestuale di Pollock. Nella 3^ sezione sono esposte 7 opere dai forti colori.

Siamo nel 1959-60: in “Il cancello” di  Hofmann, si vedono due riquadri giallo e rosso con fondo striato di verdi intensi, e in “Senza titolo” di Held ai due quadrati, questa volta bordati, si aggiunge un cerchio con forti contrasti di colori puri.

Nello stesso periodo nasce l’attenzione per l’ambiente architettonico superando la bidimensionalità pittorica  con il “Systemic Painting”: in “Rilievo rosso arancio” di Kelly il quadrato diviso a metà dai due colori affiancati è reso da due pannelli uniti aggettanti rispetto alla parete che costituiscono “un rilievo non figurativo”. Altra particolarità nel 1962, con “I 68” di  Louis la policromia a strisce verticali è data da un metodo che ricorda la pittura “sgocciolata” ma è controllato, si tratta del “soak stain”, “macchia per assorbimento”: il colore diluito viene fatto colare dall’alto in basso. Con “Lunga marcia II” di Youngerman, del 1964,  torniamo al monocromatico, un rosso cremisi intenso appena sfumato in un quadrato frastagliato.

Il clou sono due artisti molto diversi nella fase della maturità della tendenza, il 1967-69, con la loro ricerca sui fondamentali della pittura, linea e colore, campitura e forma: di Stella con “Harran II” viene presentata un’opera spettacolare, una tela fluorescente di 3 metri per 6, con sezioni curvilinee contrapposte dai colori contrastanti accostati in una sorta di arcobaleni in successione; di Noland è esposto “Canzone di aprile”,  una tela lunga 3 metri in un campo unico giallo intenso con  piccole bordature variopinte ai margini superiori e inferiori. Sembra di essere giunti all’essenziale, vedremo in seguito che si può ancora semplificare.

La “Pop Art”

L’ulteriore semplificazione verrà con il “Minimalismo”, ma prima la 4^ sezione presenta un’altra tendenza, la “Pop Art”, che all’inizio coesiste con l'”Hard Edge”. E’ una sorta di reazione dell’arte alla società dei consumi resa sempre più invadente dalla crescita economica, come accennato nella presentazione della mostra: non chiudendosi in una elitaria torre d’avorio, bensì compenetrandosi nel consumismo e facendo uscire l’arte popolare dal ghetto del genere “basso”. Ne viene assecondata solo in apparenza la deriva culturale ispirandosi ai mass media della pubblicità commerciale a imitazione delle tecniche di produzione industriale da cui si desumono metodi e soggetti e la produzione seriale contro lo spontaneismo estetico. Non più espressioni del sentire interiore ma riflessi del mondo esterno in chiave commerciale, pubblicitaria e mediatica; spesso con l’accentuazione caricaturale dei toni e dei motivi che rende il prodotto così concepito una critica ironica e graffiante.  Sono esposte 7 opere di tre grandi, molto diverse per stile e contenuto.

Di Warhol  c’è “Disastro arancione n. 5”, 1963, una composizione fotografica con 15 immagini di una piccola sedia elettrica  in un ambiente spoglio in cui il nero si aggiunge al colore, peraltro cupo anch’esso, indicato nel titolo. Sono affiancate come fotogrammi in sequenza nella rappresentazione seriale dell’orrore e anche del suo sfruttamento scandalistico. La ripetitività è insita nelle comunicazione pubblicitaria e commerciale cui si ispira la “Pop Art”, Warhol ne farà un sigillo personale anche nei ritratti di personaggi popolari reiterati affiancati con colori diversi, persino i manichini metafisici di De Chirico. Questo aspetto – scrive la  Hinkson “sembra svuotarla di ogni significato e contenuto emotivo”. Aggiunge, citando lo storico dell’arte Thomas Crow, che “allo stesso tempo, mentre affronta gli orrori nascosti sotto la superficie della società contemporanea, il quadro allude all’ethos populista del giornalismo scandalistico”; la critica ironica diventa denuncia.

James Rosenquist, “Il nuotatore dell’Econo-mist (dipinto 3)”, 1997-98

Assemblando un’accozzaglia di fotografie in bianco e nero  Rauschenberg, nel 1962-63, ha composto in sole 24 ore la sua tela lunga quasi 10 metri per 2, “Chiatta”, una sorta di arca di Noè con le immagini e gli oggetti più disparati, dallo svincolo autostradale a quadrifoglio alla partita di baseball, dallo scaffale  all’ombrello aperto, dal camion al traliccio, dal dipinto classico di nudo al solido geometrico,  tra striature di vernice sgocciolata.  Con l’altra sua opera esposta, Senza titolo”, compie nello stesso anno un diverso assemblaggio di immagini fotografiche, con bottiglie e figure, in un forte cromatismo, a differenza del precedente: è un impasto pittorico su elementi di metallo e plastica, di 2 metri di altezza per 1,20 di larghezza, con chiazze di intensi colori dal blu al rosso.

Radicalmente diverso Lichtenstein, con due opere anch’esse dissimili tra loro. In ordine cronologico viene prima “In”,  1962, lettere in caratteri cubitali gialli a rilievo su fondo cremisi, un olio su tela che per pochi centimetri non arriva ad 1,5 metri di altezza  per 2 di lunghezza. Stesse misure, ma a posizioni invertite, per “Grrrrrrrrrrr!!”, 1965, grugnito dell’animale in posizione frontale aggressiva e minacciosa; una tigre di carta, ci verrebbe di dire, un ironico innocuo bau bau.

Sono esposte anche le opere di due artisti che 35 anni dopo, alle soglie del 2000, fanno rivivere la “Pop Art”.  Sono Ruscha con Parking for Tower Rcds. Book Soup”, titolo sovrimpresso a una foto di montagna innevata, e Rosenquist con “Il nuotatore nell’Econo-mist”, dipinto  monumentale di 4 metri per 6 che occupa la parete di fondo della 4^ sala espositiva: superfici e punte inossidabili con un inquietante rosso violento sparso, quasi l’apertura di un vaso di Pandora.

Siamo nel 1997-99, i temi da Pop Art riaffiorano dopo le altre tendenze affermatesi nella variegata avanguardia americana. Ad esse sono dedicate le ultime 3 sezioni della mostra, Minimalismo e Post minimalismo, Concettualismo e Fotorealismo. Ne parleremo prossimamente.

Info

Catalogo della mostra: “Il Guggenheim, l’Avanguardia americana 1945-1980”,  a cura di Lauren Hinkson, Ed. Guggenheim, Palazzo Esposizioni, Skirà, 2012, pp. 140, formato 28×30 cm; dal Catalogo sono tartte le citazioni del testo. Il primo articolo sulla mostra è uscito in questo sito il 22 novembre, il terzo e ultimo uscirà l’11 dicembre 2012.  Le illustrazioni del presente articolo riguardano opere di espressionismo astratto, hard edge e pop art; immagini di queste tendenze, e delle altre descritte nel terzo e ultimo articolo,  sono state inserite nel primo articolo nel quale si descrive la genesi della prestigiosa istituzione e si fa un excursus completo delle principali  correnti artistiche nell’Avanguardia americana.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo delle Esposizioni alla presentazione, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, il Guggenheim con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura, Frank Stella, “Harran II”, 1967, m 3,05×6,10; seguono, Jackson Pollock,“Grigiore  dell’oceano”, 1953, m 1,47×2,30, poi James Rosenquist, “Il nuotatore dell’Econo-mist (dipinto 3)”, 1997-98, m 4,01×6,10; in chiusura, Roy Lichtenstein, “Grrrrrrrrrrr!!”, 1965, m 1,73×1,42.

Roy Lichtenstein, “Grrrrrrrrrrr!!”,1965
 

Dalì, 1. Il grande artista tra genio e sregolatezza, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

Chi si sentirebbe di accostare Vermeer, la cui mostra è  in corso alle “Scuderie del Quirinale” dal 27 settembre 2012 al 20 gennaio 2013, a Dalì, la cui mostra si è chiusa da cinque mesi? Eppure Dalì aveva tale considerazione del maestro spagnolo da porlo al primo posto nell’arte pittorica insieme a Raffaello. Ne parleremo nel ripercorrere la  mostra “Dalì, un artista, un genio”  svoltasi al Vittoriano dall’8 marzo al 1° luglio 2012, dopo quasi 60 anni dall’ultima a Roma, a Palazzo Rospigliosi.  E’ stata una rassegna multiforme come il personaggio: dipinti e disegni, fotografie e filmati, documenti e lettere, oggetti e performance. Ha richiamato una straordinaria folla di visitatori, il fascino dell’uomo e dell’artista non si è attenuato cessato il clamore delle cronache.

“Ritratti di Dalì” , di Philippe Halsman, successione di gigantografie

Per questo raccontiamo ora la mostra la cui ricerca sul personaggio non deve andare dispersa con la chiusura,  conservando intatto il suo interesse: ha fatto emergere oltre all’artista e al genio l’uomo, la sua inquietudine trasfusa nell’arte e le sue bizzarrie e trovate istrioniche che, ben prima di Andy Warhol, lo hanno reso protagonista. Anche in Dalì l’artista è soggetto e oggetto della propria arte.

La mostra è stata curata da Montse Aguer, direttrice del Centro per gli studi daliniani della Fondaciò Gala-Salvador Dalì, massima prestatrice, e da Lea Mattarella, docente alle Belle Arti di Napoli, con il coordinamento generale di Alessandro Nicosia, presidente di “Comunicare Organizzando” che l’ha realizzata. Nella presentazione questi tre artefici dell’iniziativa ne hanno tratteggiato i contorni sottolineando in particolare di aver voluto evidenziare i rapporti con l’Italia nella scelta e collocazione del materiale espositivo, fino a dedicarvi la terza sezione, ben distinta dalle prime due.

Non si è trattato di un riflesso campanilistico, l’Italia è la chiave per entrare in un personaggio così complesso. Perché è la terra dei grandi autori classici ai quali si è lungamente ispirato, da Raffaello a Michelangelo, anche al Palladio, fino ai suoi contemporanei quali Morandi e Casorati, Savinio e de Chirico, oltre allo spagnolo Velasquez. Ed è la terra dei suoi viaggi non solo da turista alla scoperta di luoghi d’eccezione a Venezia e a Roma, fino a Bomarzo  con i giardini popolati da statue di mostri; ma anche da protagonista della intensa vita artistica e mondana, con i grandi registi, quali Luchino Visconti e Federico Fellini, attori come Anna Magnani, industriali con cui condivise campagne pubblicitarie ed editori per i quali illustrò libri e riviste con disegni artistici.

L’uomo  e le sue inquietudini: Dalì surrealista

La mostra ha presentato subito l’uomo, o meglio il personaggio, e Nicosia lo ha rivendicato come una precisa scelta citando le sue stesse parole: “La divisa è essenziale per vincere. Rarissime, nella mia vita, le occasioni in cui mi sono degradato a indossare abiti borghesi. Vesto sempre l’uniforme di Dalì”. Siamo entrati nel lungo corridoio con ai due lati 13 gigantografie del suo viso appuntito con gli inconfondibili baffi ritorti e le espressioni serie e argute, ammiccanti e assorte; prima dell’ingresso l’immensa faccia di Dalì in campo rosso come sigillo e testimonial della mostra.

Sono gli scatti del fotografo americano Philippe Halsman che, sempre secondo Nicosia, “ha contribuito a creare l’‘icona Dalì'”, resa visivamente nella camera oscura posta dopo la galleria con otto video collocati in modo asimmetrico nelle pareti in funzione alternata rimandando la sua figura e la voce nei momenti più diversi: una presenza viva e in una certa misura inquietante. Perché in Dalì si sono sovrapposte  arte e vita e l’eccentricità della sua figura e dei suoi comportamenti  si è fusa e anche confusa con un’espressione artistica originale nelle forme e profonda nei contenuti.

Bizzarrie e trovate anche eclatanti nelle varie parti del mondo: a Parigi si presentò alla Sorbona in una Roll Royce bianca con 1000 cavolfiori, nel 1958 si è ripetuto alla Fiera con una “baguette” lunga 12 metri;  a New York era sbarcato in uno scafandro da palombaro d’oro, a Roma  si fece portare in giro per la città in un cubo per uscirne in segno di rinascita, a Venezia nel 1961 giunse al Festival in carrozza brandendo una pistola, e poi le esibizioni a Bomarzo  e con il rinoceronte; voleva consegnare a Luis Bunuel il Leone d’oro alla carriera approdando a Venezia su un galeone d’oro con un mappamondo in mano, ma il regista suo grande amico non volle e dovette  rinunciarvi.

Le opere di una personalità così singolare, oltre a sorprendere fanno sentire qualcosa di inquietante, le visioni e i sogni, gli incubi e le ossessioni  che popolano l’inconscio e l’artista riesce ad esprimere  trasformandoli in immagini e composizioni percorse nella forma e nel colore da un brivido sottile. E’ ciò che proviamo risvegliandoci dagli incubi che sconvolgono il riposo con presenze ossessive e cerchiamo invano di evocare; l’artista ci riesce proiettandosi in una dimensione dantesca.

Per inquadrarne l’opera si fa riferimento al surrealismo, il movimento che, come scriveva André Breton nel “Manifesto” del 1924,  si proponeva di scandagliare le profondità dello spirito: “Io credo nell’incontro futuro di questi due stati in apparenza così contraddittori che sono il sogno e la realtà in una specie di realtà assoluta, di surrealtà”. Dalì, in contatto con i surrealisti, il cui esponente Breton apprezzava la sua carica innovativa, scrisse: “Pensai che mi si offrisse una sorta di rinascita. Il gruppo surrealista era per me una specie di pianta nutrice, e credevo nel surrealismo come nelle tavole della legge. Lo spirito del movimento corrispondeva al mio intimo modo di essere”.  

Con il suo “metodo di interpretazione paranoico-critico” – che la curatrice Montse Aguer ricorda come “combinazione di pensiero e immagine in cui il delirio interpretativo va oltre la sua conoscenza” –  dà un apporto decisivo al movimento, salutato così da Breton: “Non c’era stata una rivoluzione simile dalle opere di Max Ernst del 1923-24 e da quelle di Mirò del 1924: Per un certo periodo, Dalì è passato di conquista in conquista”; aggiungendo che “Dalì ha fornito al surrealismo uno strumento di prima linea”; per concludere che “lo straordinario fuoco interiore di Dalì ha costituito in tutto questo periodo un fermento di incalcolabile valore per il surrealismo”.

Tutto bene, dunque? Non sarebbe Dalì se non creasse problemi, ne prende le distanze e arriva a dire: “La differenza tra me e i surrealisti è che io sono surrealista”  e anche “Il surrealismo sono io”.  Ha anche detto: “Ho sempre visto cose che gli altri non vedevano, e quello che vedevano io non lo vedevo”. Forse quest’affermazione è la più aderente alla sua arte singolare e unica, vi si legge la “doppia visione”, lo “sguardo duplice” dove una cosa contiene l’altra, come nell’inconscio.

“Autoritratto con il collo di Raffaello”, 1921

La ricerca di uno stile personale e il classicismo persistente

Tutto questo non è frutto solo di stravaganze irrefrenabili di un geniaccio trasgressivo, anche se la sregolatezza rientra nei suoi  aspetti esteriori più appariscenti. Il suo percorso artistico lo ha visto alla ricerca di uno stile personale sin dagli anni della formazione nell’Accademia delle Belle Arti,, quando aveva come modelli gli impressionisti francesi e sentiva il fascino dei classici dell’arte italiana: la mostra espone il suo “Autoritratto con collo di Raffaello”, del 1921, a 17 anni, in cui cerca un’identificazione anche fisica con quello che definisce “genio quasi divino”; scopre in lui, al di là della grazia, armonia e bellezza, un mistero superiore anche a quello proprio e scrive che si faceva crescere i capelli e gli piaceva assumere la stessa espressione malinconica per assomigliare all'”Autoritratto” di Raffaello, esposto alla mostra “Roma e l’antico” della Fondazione Roma.

La sua precoce identificazione  non rientra negli atteggiamenti  tra il surreale e lo stravagante che gli divennero abituali con il crescere della fama;  è la conclusione di un ragionamento di chi – scrive Lea Mattarella l’altra curatrice della mostra – “spia Raffaello dall’inizio alla fine della sua carriera”,  come provano le sue parole dei“50 segreti magici per dipingere”: “Ingres aspirava a dipingere come Raffaello e dipinse come Ingres; Raffaello aspirava a dipingere come gli antichi e li superò; io sono colui che è maggiormente in grado di fare quello che vuole  e forse un giorno sarò considerato,senza essermelo prefisso, il Raffaello della mia epoca”. 

Nella “Tabella comparativa dei valori secondo l’analisi daliniana elaborata nell’arco di dieci anni” attribuisce la valutazione più alta nei parametri pittorici dalla tecnica all’ispirazione, dal colore al disegno, a Raffaello e Vermeer, come abbiamo ricordato; mentre pone al primo posto Raffaello nel “mistero”  superiore anche alla propria valutazione in quella che era la categoria primaria per i surrealisti. Sempre la curatrice commenta: “Quindi Raffaello mette in moto qualcosa di oscuro, di ambiguo, di non riconducibile semplicemente a una realtà di armonia idealizzata e resa attraverso una fattura preziosa”.  E cita lo scrittore Ramòn Gomez de la Serna il quale ha rivelato  che Dalì gli disse: “Ora si tratta di  cercare il cosciente nei surrealisti e l’incosciente in Raffaello”.

D’altra parte Dalì stesso, intervistato dalla Tv italiana nel 1959, disse che Raffaello aveva insegnato molto ai surrealisti e anche ai futuristi, citando in particolare Boccioni.  In “La mia vita segreta” aveva usato un gioco di parole per ribadire l’ammirazione per l’urbinate: “Raffaello: ecco un pittore futurista se per futurista si intende colui che continuerà a esercitare con sempre maggiore forza un’influenza sul futuro”.

Alla “Madonna in trono” di Raffaello si ispira direttamente nella sua “Madonna di Port Lligat”, in cui inserisce anche elementi da Piero della Francesca in un impianto surreale, colloca il tempietto  bramantesco dello “Sposalizio della Vergine” come minuscolo sfondo lontano di un bozzetto surrealista con immagini allucinate, per citare i più evidenti.  Scrive: “M’inginocchio ancora una volta per ringraziare Dio che Gala sia un essere così bello come quelli di Raffaello”.

Ammirava molto anche Michelangelo  e la sua arte scultorea, tanto che nel 1982, a 78 anni, ne reinterpreterà  opere celebri come “la Pietà”, il “Giorno” e la “Notte”  veri “d’aprés”  in stile cubista-daliniano – dichiarando: “La mia non è più un’immaginazione al servizio del capriccio e dei sogni né dell’automatismo. Adesso dipingo immagini significative tratte direttamente dalla mia personale esistenza, dalla mia malattia o dai miei ricordi più presenti”. Intenerisce questo ripiegamento interiore  sulla realtà vista com’è senza il “doppio” della trasfigurazione onirica  che per tanti anni ne aveva alimentato l’arte inconfondibile.

Un surrealismo, il suo, nutrito dall’amore per i classici. Anche per questo era in continua polemica con l’astrattismo mentre, tra i contemporanei, era affascinato dall’afflato onirico della pittura di de Chirico, che pure arrivò a definirlo “l’antipittore per eccellenza”; condividevano nella vita le asprezze polemiche e il gusto per i travestimenti e nell’arte molti soggetti evocativi del mistero: cavalli e torri, mobili e orologi per il tempo sospeso, figure enigmatiche abbracciate.

Dopo il classicismo e prima del surrealismo, nel periodo parigino dal 1926 al 1940  ha sperimentato l’impressionismo e altre forme stilistiche: il cubismo dopo l’incontro con Picasso e il purismo, il futurismo e il puntinismo, prova di una ricerca che va ben oltre il suo ostentato “spirito paranoico” se visto in termini limitativi. D’altra parte definiva la paranoia “come un’illusione sistematica di interpretazione. Questa illusione sistematica costituisce, in uno stato più o meno morboso, la base del fenomeno artistico in generale, e del mio genio magico per trasformare la realtà in particolare”.  

Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1940 per l’occupazione di Parigi da parte dei tedeschi, torna al classicismo che lo ha  accompagnato nella vita anche se nella forma particolare da lui definita “daliniana”; e dichiara di sentirsi “capace di portare avanti la conquista dell’irrazionale”  in modo diverso dal passato, trasformandosi “semplicemente in un classico”. Non un arretramento bensì una mutazione molto ambiziosa che doveva manifestarsi “proseguendo la ricerca della Divina Proporzione, interrotta dopo il Rinascimento”. Torna l’uomo Dalì, il personaggio sfrontato che non ha esitato a dire: “Le due cose più fortunate che possono accadere a un pittore sono: primo, essere spagnolo e, secondo, chiamarsi Dalì. Queste due cose fortunate sono successe a me”.

“La Madonna di port Lligat” (prima versione), 1949

Le “cose fortunate” per i visitatori della mostra

Anche ai visitatori della mostra sono capitate delle “cose fortunate”. La prima fortuna vedere come il complesso dei motivi che abbiamo cercato di delineare trovino espressione artistica nei dipinti esposti; e non è da poco trattandosi da un lato di sogni e visioni, incubi e ossessioni da psicanalisi freudiana; dall’altro di composizioni classicistiche di alta ispirazione rivisitate da un grande artista.

Un’altra fortuna  ripercorrere, attraverso fotografie e  video, lettere e documenti le cronache di una vita frenetica sotto il fuoco dei riflettori, da New York, a contatto con grandi nomi come Charlie Chaplin e  i fratelli Marx, Helena Rubinstein e Alfred Hitchchock, con lui lavorò alla scenografia del film “Io ti salverò” – con Gregory Peck e Ingrid Bergman,  ricordiamo la vertigine dei piani inclinati e dei vortici negli incubi onirici – a Venezia e Roma, dove è entrato in contatto con i personaggi citati, Luchino Visconti e Federico Fellini, Anna Magnani e gli imprenditori che ne fecero un’icona della pubblicità,  poi la vita mondana scossa dalle sue continue eccentricità.

Ma di tutto questo parleremo prossimamente, per ora ci basta aver delineato alcuni tratti dell’artista e del genio nella straordinaria sostanza umana che ne fa un personaggio unico e inconfondibile.

Info

Catalogo della mostra: “Dalì. Un artista, un genio”, a cura di Montse Aguer e Lea Mattarella,  Skirà,  pp. 266, formato 24×28 cm: dal Catalogo sono tratte le citaziooni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 2 e 18 dicembre 2012.

Foto

Le immagini sono state riprese al Vittoriano il giorno della presentazione della mostra da Romano Maria Levante; si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. In apertura alcune gigantografie della serie dei “Ritratti di Dalì”  del fotografo  Philippe Halsman ; seguono, di Dalì, “Autoritratto con il collo di Raffaello”, 1921,  e “La Madonna di port Lligat” (prima versione), 1949; in chiusura  “Eco geologica. La Pietà”, 1982.

“Eco geologica. La Pietà”, 1982
 

Vermeer, 3. Ritratti di donne e ambienti, alle Scuderie

i Romano Maria Levante

Termina la nostra visita alla  mostra in corso a Roma, alle Scuderie del Quirinale, dal 27 settembre 2012 al 20 gennaio 2013, “Vermeeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”.Dopo aver parlato della vita e dell’arte di Vermeer, nella temperie artistica del “secolo d’oro olandese”, e aver raccontato la visita alle prime cinque sale, con gli esterni di Delft e la vita quotidiana nelle case, passiamo alle opere esposte nelle restanti cinque sale in modo da completare la rassegna di 50 dipinti di artisti olandesi a lui vicini che fanno corona a 8 opere di Vermeer, preziose presenze delle 35 esistenti.

Vermeer, “Giovane donna seduta al virginale”, 1670-72

Il fascino sottile di  Vermeer sul visitatore

Nella mostra di Vermeer  abbiamo visitato le prime cinque sale, ne restano altre cinque.  Per rientrare nell’atmosfera,  oltre a far riferimento ai giudizi citati in precedenza – quelli dello scrittore e del poeta, poi dei realizzatori della mostra – riportiamo il pensiero di uno dei tre curatori, del quale oltre alle espressioni già ricordate, ci ha colpito quella che segue. Perché è rivolta alla percezione del visitatore, quindi è adatta per proseguire la visita con lo spirito giusto.

 “Il fascino durevole delle immagini vermeeriane  – scrive Wheelock Jr.-  non è riconducibile al loro apparente realismo, ma all’atmosfera serena e fuori dal tempo che ne determina la straordinaria dignità artistica”.  E’ un aspetto particolare dell'”atemporalità” che si aggiunge a quelli già ricordati: “Queste opere sono permeate di significati che spesso rimangono avvolti nel mistero: l’artista spiega raramente il contesto in cui si muovono i suoi soggetti, né descrive le emozioni umane tramite gesti o espressioni particolari, preferisce lasciare che ciascuno interpreti la scena a modo suo. Facendolo, ognuno arriva inevitabilmente a una comprensione profonda dei propri sentimenti e rapporti con gli altri”.  Un effetto psicanalitico se non catartico, dunque,  non ci resta che verificarlo mettendoci direttamente alla prova del confronto con la visione delle restanti opere.

I ritratti del secolo d’oro e la “Donna con il cappello rosso”

Riprendiamo il tour nella 6^ sala, con le “tronie”,  ritratti all’epoca molto diffusi creati non per somigliare al soggetto per lo più anonimo ma come opere di immaginazione per tipi esemplari.

Caratteristico al riguardo “Ritratto di fanciullo con cappello” di Sweerts,  il volto è verso l’osservatore ma non lo sguardo, sembra che Vermeer conoscesse le sue opere.  “Artista nel suo atelier”” diVan Musscher oltre che del pittore raffigurato dà un ritratto esemplare del suo studio assurto a simbolo  della nobiltà dell’arte.

Ma sono i due dipinti di Fabritius che attirano maggiormente, essendo stato allievo di Rembrandt e iniziatore della scuola di Delft, con  notevole influenza su Vermeer, soprattutto nell’uso della luce,  fino alla morte a 32 anni nell’esplosione cui si riferisce il quadro di Van der Poel citato all’inizio. Sono esposti un “Autoritratto”  che come atteggiamento e stile richiama Rembrandt, e “Donna con orecchino di perla”, che Vermeer forse ha posseduto o almeno visto e al quale potrebbe essersi ispirato nel quadro dallo stesso titolo e con lo stesso atteggiamento, il grande assente nella mostra  dove  tuttavia ne vedremo altri che ne ricordano l’intensa e insieme delicata suggestione.

Ed ecco l’opera forse più celebrata di Vermeer, dopo la “Ragazza dall’orecchino di perle”, si tratta della “Ragazza con il cappello rosso”,non serve cercarla, ha sempre un capannello di visitatori intorno. In dimensioni minute, 23 per 18 centimetri, riesce a concentrare un’intensità espressiva straordinaria. E’ uno studio del volto con effetti di luce e di colore, chiari e scuri con aloni sfuocati tali da far pensare a una camera oscura, che all’epoca veniva spesso utilizzata. Oltre a questo aspetto stilistico, è lo sguardo limpido verso l’osservatore che attrae con il suo magnetismo. E’ un primissimo piano di un viso pulito che rende sfuocato e indistinto l’ambiente in cui si trova, facendo venir meno un primo indizio per penetrare nella psicologia del soggetto che appare inafferrabile sebbene sembra che la ragazza guardi proprio l’osservatore girando il viso verso di lui al di sopra della spalla: l’osservatore siamo noi che ci sentiamo nel contempo presi da quello sguardo insistente e messi in soggezione dalla sua espressione tranquilla che non merita curiosità indiscrete.

Ormai in ogni sala troveremo un Vermeer, nella 7^  c’è “La suonatrice di liuto”,  con notevole ricorso  alle ombre che completano la prospettiva e un uso della luce che crea contrasti tra zone scure e zone luminose in modo da far convergere l’attenzione sulla donna. Suona oppure accorda lo strumento ma senza guardarlo, il suo viso è rivolto verso la finestra quasi attendesse qualcuno, cosa che crea un’atmosfera di sospensione.  Si scopre la psicologia più intima tutt’uno con l’ambiente raccolto, un’altra manifestazione della capacità dell’artista di coinvolgere nei suoi bozzetti di vita.

Oltre al liuto c’è a terra una viola, un altro strumento nel quadro di Dou, “Donna al Clavicordo”, mentre Schalcken  in “Concerto di famiglia”  e Netscher in “Compagnia musicale” raffigurano  la consuetudine diffusa nel ‘600 soprattutto nell’alta borghesia di riunirsi all’insegna della musica per sfuggire alla noia della vita quotidiana e coltivare rapporti raffinati, eleganti, anche corteggiamenti.

Nella sala vediamo scene di vita comune, “Donna con bambino che fa le bolle di sapone in giardino”, di Van der Burch, ispirato a De Hooch, e “Giovane donna con piatto di limoni” di Van der Neer, ispirato a Ter Borch e Netscher. Nei quadri di Vermeer troviamo assonanze compositive.

Quirijn van Brekelenkam, “Conversazione sentimentale”, 1661-62 

Altri temi al femminile, fino alle due “Donne al virginale”

Le sale seguenti, l’8^ e la 9^, contengono una carrellata di ben 17 opere di artisti olandesi a lui vicini, che fanno corona a due suoi capolavori.  Citiamo i temi espressi dai titoli e gli autori:  la “Donna che beve vino” di Ter Borch e la “Donna che dà da mangiare al pappagallo” di Van Mieris, la “Donna che dà una frittella a un cane” di Metsu di cui abbiamo già citato la “Donna che legge una lettera”; suoi anche “Uomo che scrive una lettera” e “Donna che scrive  una lettera” l’unico in cui il soggetto guarda l’osservatore, insieme a “La mangiatrice di ostriche” di Steen. In tutti gli altri le donne sono impegnate nelle loro attività oppure assorte, con una netta differenza rispetto ai quadri di  Vermeer su soggetti analoghi ma in atteggiamenti molto diversi.

“Giovane donna con perle” di Van Mieris, con uno sguardo esitante, è un tema molto condiviso  declinato da Vermeer in modo sublime nel quadro ricordato al culmine dell’arte e della celebrità. 

Altri soggetti, oltre quello prevalente della  donna, sono “Il pescivendolo” diOchtervelt  e “Astronomo a lume di candela” di Dou, poi scene come  “Interno con uomo, donna che legge e cameriera”di Elinga e “La visita del dottore” di Van Mieris fino a “Conversazione sentimentale”  diVan Brekelenkam. Sono ricchi di particolari ambientali, fanno sentire l’osservatore all’interno della stanza in cui si svolge la scena, in qualche caso movimentata, in altri statica e tranquilla.

La  musica torna in “Il concerto” di Ochtervelt, “Donna che suona la tiorba in un interno” di Van der Neere  “Coppia elegante con strumenti musicali in un interno” diVerkolje: il primo riflette l’immagine della musica legata all’intrattenimento amoroso, anzi si spinge fino alla seduzione pur non essendovi figure maschili ma soltanto la donna in posa quanto mai languida e sensuale con generoso decolletè; gli altri, come quelli citati in precedenza di Schalcken e Netscher, rendono invece l’immagine dell’intrattenimento privato nell’ambito soprattutto familiare.

Ma siamo giunti ai due straordinari capolavori di Vermeer, “Giovane donna seduta al virginale” e  “Giovane donna in piedi al virginale”.

Sono entrambi dell’ultimo periodo in cui ha dipinto altre giovani donne nell’atto di suonare uno strumento, anzi possono essere state realizzati per essere appesi l’uno vicino all’altro, è quasi una sequenza; anche l’abito di raso sembra simile pur essendo molto diverso lo scialle, giallo nella prima, azzurro nella seconda. Le donne sono in posizione laterale ma rivolgono il viso e lo sguardo all’osservatore, secondo i significati dati alle opere con la musica, in cui chi osserva la scena corteggia la donna mentre lei distoglie gli occhi dalla tastiera continuando a suonare e risponde con lo sguardo. Più intenso nella “donna seduta”, in un ambiente più intimo senza la dispersione dei  particolari di arredamento: solo la pianola, la parete è senza quadri,  effetti di luce e di ombra rendono la scena raccolta, il quadro è delle piccole dimensioni della “Donna con il cappello rosso”.

Nel dipinto con la “donna in piedi”, di dimensioni doppie, la composizione è geometrica con la luce che anche qui crea solchi e zone d’ombra ma senza la morbidezza dell’altro, i particolari abbondano – dai due quadri alle pareti, alla sedia in primo piano, ai disegni del pavimento – lo sguardo è più distaccato. E’ come se il momento magico fosse passato  e la donna stesse per accomiatarsi.  Il quadro nel quadro, appeso alla parete, che raffigura Cupido con un verso che esalta la fede, suggerisce alla critica che “l’immagine di Vermeer sembra sostenere l’ideale di amore puro e armonioso: un sentimento incarnato dalla chiarezza e perfetta armonia della composizione stessa”. 

Vermeer, “Giovane donna in piedi al virginale”, 1670-72

La conclusione con l'”Allegoria delle Fede”

Siamo ora alla 10^ e ultima sala, nel piano superiore delle Scuderie troviamo due quadri, i “Giocatori di scacchi” di De Man, con la ricerca della prospettiva ma poco in comune con Vermeer, e “Il bicchiere rifiutato” di De Jongh, che si ispira a due dipinti di Vermeer del quale scrisse, dopo averne visitato lo studio, che della sua arte “l’aspetto più straordinario e maggiormente curioso consiste nella prospettiva”. Abbiamo visto come la “Giovane donna con bicchiere di vino”  di Vermeer accetti invece il bicchiere anche se distoglie lo sguardo non si sa con quale intenzione.

Di Vermeer il quadro che conclude la mostra,  ma non è in continuità con i precedenti. E’ una sorpresa, si tratta dell’“Allegoria della Fede”, un tema religioso molto raro in lui, l’unico esposto oltre “Santa Prassede”, di cui ripete le dimensioni maggiori: la Chiesa cattolica è rappresentata da una figura femminile che ha “il mondo ai suoi piedi”, come nel testo “Iconologia” di Cesare Ripa  pubblicato ad Amsterdam nel 1644, Vermeer rende il mondo con un globo olandese  del 1618.

E’ un’immagine non convenzionale, non si tratta di un soggetto devozionale, tipo Madonna col Bambino, pur se nella parete si vede una Crocifissione dipinta;  per questo e per la composizione  il quadro non si addice a una chiesa normale, ma alla  “chiesa nascosta” creata dai cattolici in  una casa comune, ben diversa dai templi. Lo dimostra l’ambiente domestico, il pavimento a piastrelle da casa privata e il soffitto a cassettoni, nonché l’altare improvvisato;  la tenda-arazzo, inoltre, visualizza la clandestinità e insieme la rivelazione, non ci sono effetti naturalistici per rendere appieno il contenuto simbolico. La figura della Madonna, in veste bianca simbolo di purezza e celeste dal colore del Paradiso, ha una solennità che contrasta con l’ambientazione modesta. 

E’ un’idealizzazione che la porta al di sopra della realtà, cosa che conferma la duttilità stilistica e contenutistica dell’artista, del quale dello stesso periodo abbiamo conosciuto “Giovane donna in piedi al virginale” e “Giovane donna seduta al virginale” dalla forte presa psicologica.

Sono i due ultimi dipinti ora citati il vero clou della mostra, anche se la visita termina in gloria con l’esibizione conclusiva del dipinto sulla Chiesa. Molto diverso dagli altri, non può far dimenticare la  stupenda ambientazione, l’atmosfera di incredibile suggestione di soggetti indimenticabili come la “Donna dal cappello rosso”. Anche la “Ragazza con l’orecchino di perle”,  assente giustificata nella mostra,  è presente nella mente e nel cuore del visitatore con le 8 opere del grande artista.

Ne abbiamo ricordato il valore prima della visita, aggiungiamo in conclusione che Salvador Dalì, nella sua “Tabella comparativa dei valori ” in pittura, dava a Vermeer – insieme a Raffaello con il quale da giovane aveva cercato di identificarsi – la valutazione massima nella tecnica e ispirazione, colore e disegno. Abbiamo visto come tutto questo si manifesti e abbiamo cercato di raccontarlo. Speriamo di aver trasmesso qualcosa dell’emozione provata.

Info

Roma, Scuderie del Quirinale, Via XXIV Maggio 16, Roma. Domenica-giovedì ore 10,00-20,00; venerdì-sabato ore 10,00-22,30, lunedì chiuso, la biglietteria chiude un’ora prima.  Ingresso: intero euro 12,00, ridotto euro  9,50. Tel. 06.39967500. http://www.scuderiequirinale.it/; http://www.mondomostre.it/.  Catalogo “Vermeer. Il secolo d’oro dell’arte olandese”, a cura di Sandrina Bandera, Walter Liedtke, Arthur K. Wheelock Jr., Skira 2012, pp. 248, formato 24×28, euro 38; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo.  I primi due articoli sulla mostra sono usciti in questo sito il 14 e  20 novembre 2012. Nel primo erano riportate le immagini di “La stradina” e “Santa Prassede” di Vermeer, “Veduta di Delft con l’esplosione del 1654” di Van der Poel e “La camera da letto” di  De Hooch; nel secondo “Ragazza con il cappello rosso”, “La suonatrice di liuto” e “Giovane donna con bicchiere di vino” di Vermeer, “Donna che legge una lettera” di Metsu.

Foto

Le immagini sono state fornite dalle Scuderie del Quirinale, si ringrazia  l’Ufficio stampa con i titolari dei diritti per la cortese concessione. In apertura, Vermeer, “Giovane donna seduta al virginale”, di Vermeer, 1670-72; seguono,  Quirijn van Brekelenkam, “Conversazione sentimentale”, 1661-62 e Vermeer, “Giovane donna in piedi al virginale”, 1670-72; in chiusura, Vermeer, “Allegoria della fede”, 1670-72 

Vermeer, “Allegoria della fede”, 1670-72

Deineka, 1. Arte e ideologia fino agli anni ’20, al Palazzo Esposizioni

di Romano Maria Levante

La mostra sull'”Arte Astratta Italiana”, aperta fino al 27 gennaio 2013 alla Gnam, nell’evocare il “realismo” italiano e i laceranti dibattiti sul rapporto tra arte e ideologia sfociati in scissioni dei gruppi di avanguardia,  ci ha riportato alla mente il “Realismo socialista”. Il Palazzo Esposizioni gli ha dedicato nel 2011 una grande mostra, dopo quella al suo maggiore esponente che dal 19 febbraio al 1° maggio 2011 ha aperto l’Anno dei rapporti italo-russi nella cultura e nella lingua, inaugurata dai Ministri della Cultura dei due paesi, in un trittico che ha compreso il celebre fotografo Rodcenko: si tratta di “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”.

“Portiere”, 1934

La mostra ha fatto ripercorere il periodo storico del “Realismo socialista” nei rapporti tra politica e ideologia da un lato e arte e cultura dall’altro; e ha presentato un artista che nulla nasconde delle sue posiziorrere il periodo storico del “Realismo socialistaW” ni ideologiche e degli stimoli ideali dietro le sue espressioni  artistiche d’eccellenza. E Ha costituito un importante momento di riflessione  su un periodo della nostra vita e della storia dell’umanità nel quale il rapporto dell’arte con il potere è stato molto delicato, per usare un eufemismo. Emmaneele F. M. Emanulele, l’allorapresidente dell’Azienda speciale Palaexpo sede della mostra, ha rivelato di averla voluta fortemente “in una espressa volontà di innovazione culturale e nell’intento di superare quelle barriere ideologiche che hanno a lungo impedito di riconoscere con obiettività i risultati di una civiltà figurativa di sorprendente qualità artistica, anche laddove concettualmente controversa”.  E il termine “controversa”  si riferisce non solo agli aspetti stilistici e al valore delle opere ma anche al sottofondo ideologico che può inquinarne il giudizio.

Le barriere ideologiche

Ricordiamo la mostra “L’arte nell’Urss” che visitammo a Bologna nel dicembre 2000, nella quale erano esposte, oltre alle opere di regime, quelle che gli artisti creavano per se stessi, la cui scoperta, scriveva Astemio Serri, il curatore,  “ha permesso di far capire come quegli stessi autori che lavoravano per lo Stato fossero in realtà artisti completi, artisti veri, la cui sensibilità li rendeva simili all’idea che noi abbiamo di artista… artisti certamente, quasi sempre sotto controllo, costretti da un regime ma pur sempre artisti e quindi capaci, nel privato che sveliamo, di essere liberi come l’arte, che non può essere di destra o di sinistra, ma solo arte libera come solo l’arte sa essere”.

La mostra su Deineka non è stata “catacombale” per così dire, non ci ha rivelato l’artista “segreto” di cui parlava Serri, che esprime nel privato quanto ha represso nel pubblico, non contrappone immagini interiori e dimesse a quelle esteriori e spettacolari imposte o forzate dall’ideologia di regime. E’ stata una rassegna di 80 opere che ne ha ripercorso l’intera storia artistica nei vari periodi cronologici: gli anni ’20 e ’30, gli anni della guerra, e gli anni ’40 e 50, attraverso dipinti, opere monumentali e una grafica ricca di disegni e manifesti, libri e riviste. I temi sono stati approfonditi in tre incontri sul dinamismo sportivo impersonato dal “Portiere”, sul confluire di realismo e tradizione classica nel suo viaggio all’estero, a Roma,  e sui mosaici della Metropolitana di Mosca.

E’ evidente che il primo aspetto da considerare riguarda le “barriere ideologiche”  cadute con l’abbattimento del muro di Berlino e della “cortina di ferro” e la fine del regime in Russia che ha diviso la stessa Unione sovietica in stati indipendenti; barriere cadute  da una parte e dall’altra, per cui si può valutare serenamente un’opera marcata dall’ideologia trattandosi della produzione pubblica secondo le linee del regime. Non è un Pasternak o un Solgenitsin e neppure un Sinjavskij o Daniel, che opposero al “realismo socialista” le ragioni dell’autonomia dell’artista e della sua opera nei diversi campi, dalla letteratura alle arti figurative, tutt’altro: Deineka è stato un militante che ancora nel 1964, poco prima della morte, ebbe il Premio Lenin come “Eroe del lavoro Socialista”.

Ma non si può dire che seguì le regole del regime, anzi fu un profondo innovatore nello stile e nel linguaggio, e se incarnò i valori ideali del realismo socialista lo fece perché corrispondevano alla propria visione che ne faceva valori universali: L’uomo veniva visto nel suo “divenire sociale”  e questo non lo considerava imposto e neppure superato, anzi quando venne in Europa considerava sorpassato il “formalismo occidentale” in quanto non  vi trovava quello che è stato definito come suo carattere peculiare: “lo slancio verso un fine molto più elevato e più profondo”  che sentiva  nel suo paese ed esprimeva con un realismo moderno, innovatore e rinnovatore di valori neoclassici.

Costanti della pittura di Deineka

Si tratta di una semplificazione di sintesi, che si basa sulle diverse fasi della sua vita artistica e della milizia nel movimenti. Nella celebre scuola d’Arte  a Mosca, che frequentò per seguire la propria vocazione di pittore, Vladimir Favorskij gli fu maestro nella classicità e nell’universalità della cultura contribuendo alla formazione del suo stile personalissimo. La prima fase, gli anni ’20, lo vede tra i fondatori della “Società dei pittori del cavalletto” (OST), reazione alle forme fluttuanti di Malevic, e alle macchie cromatiche di Kandinskij  ritenuta arte di “élite” non comprensibile alle masse che andavano avvicinate con un figurativo chiaro nella scelta del soggetto, nella forma stilistica e nella composizione.  Di qui la concentrazione sui temi del lavoro edello sport, della tecnica edella produzione, mettendo in evidenza movimento e ritmo con semplicità compositiva.

In questa impostazione spiccano elementi costanti interpretati in modo particolarissimo dall’artista sotto l’influenza di Favorskij. Il corpo negli anni ’20 è visto da Deineka nella sua entità volumetrica e nel movimento, come scriveva il maestro: “Bisogna rendere la figura umana a tutti i costi nuova, affilata, sensorialmente irritante. E’ come se l’uomo si trasformasse in un oggetto capace di colpire per la propria stessa fattura”. Quindi plasticità e concretezza.

“Nel muoversi, camminare o fermarsi – scrive Irina Vakar nel bel Catalogo Skirà dopo aver citatoFavorskij –  tutti i suoi personaggi sono diversi e ogni loro azione è sempre resa in maniera espressiva. Hanno un’andatura diffusamente cadenzata e goffa i suoi lavoratori coi valenski (stivali di feltro) ai piedi…arranca divaricando le gambe una modesta sciatrice, mentre una militante dai capelli rasati ascolta un discorso durante una riunione, e una non più giovane operaia in un angolo alza le spalle incrociando le braccia … Descrive con evidente piacere degli energici minatori, calmi, incupiti nei loro movimenti misurati, ritmati”.

l tutto senza evidenziare il lato psicologico, a differenza della tendenza dei pittori e grafici russi della rivista “Il Mondo dell’Arte” che negli anni ’20 esaltavano, sì, la bellezza del corpo e l’armonia delle forme, ma con la differenza rispetto a Deineka sottolineata dalla Vakar: “In tutti gli artisti appena menzionati la ‘corporeità veniva immancabilmente controbilanciata dall’attenzione riservata al volto umano e dalla capacità di caratterizzarne i tratti; non è un caso che tra di loro fosse molto diffuso il genere del ritratto’… In sostanza Deineka ruppe con quella tradizione”. Cioè  si stacca dallo  “psicocentricmo, dal culto del volto come specchio dell’anima, nel quale si riflette l’essenza spirituale di una personalità”. Non puntavano a questo i “valori universali” dell’artista, al contrario a mettere al centro l’azione e il movimento di un soggetto ignoto che doveva annullarsi nella massa per  meglio evidenziare i valori come patrimonio generale e non legato al singolo individuo.

“Prima della discesa in miniera”, 1925

La prima fase, gli anni ‘20

Guardiamo le prime opere degli anni ’20 che acquisirono una certa ufficialità perché presentate a grandi mostre celebrative: da “Sul cantiere di nuovi reparti” a quella dell’Associazione Ost del 1926; da“Operaie tessili” alla manifestazione del 1927 per il Decimo anniversario della Rivoluzione d’ottobre,  dalla Difesa di Pietrogrado” al Decennale dell’Armata rossa degli operai e dei contadini  nel 1928.  E’ importante, quindi,  soffermarsi su di esse anche perché  l’artista sperimenta speciali soluzioni compositive per esprimere appieno i valori del “Realismo socialista”.

In senso cronologico sono precedute da “Ragazza seduta su una sedia“, 1924, una fisicità che sembra attendere di esprimersi sul lavoro, nessun altro elemento dell’ambiente che è uno spazio vuoto; e seguiti da “Autunno”, 1928, un dipinto calligrafico in cui i due buoi con la contadina di cui spicca il fazzoletto bianco in testa sono visti in primo piano nel loro riflesso sull’acqua, e solo in secondo piano nella loro realtà corporea, soluzione compositiva che ci è sembrata straordinaria.

Ed ora andiamo ai tre dipinti delle celebrazioni. “Sul cantiere di nuovi reparti”, 1926, raffigura  due  figure femminili dominanti ai due lati del dipinto che aprono al centro uno spazio  dove si profila un paesaggio industriale idealizzato nella razionalità delle strutture in acciaio che si innalzano sulla ferrovia: la pesante figura a destra spinge a fatica un carrello e guarda sulla sinistra una figura leggera e chiara che le si rivolge con un’espressione  gioiosa. Scrive Kirill Svetljacov: “Sembra che nella luminosa e radiosa ragazza ella veda se stessa, trasfigurata e libera. Così unitamente alla piatta resa delle immagini, il quadro raffigurante una scena di vita di contenuto sociale acquisisce il significato di ‘icona proletaria’ sul tema della ‘gioia del lavoro liberatorio'”.

In Operaie tessili”, 1927,ci sono due figure femminili ai bordi e una al centro all’interno di un ambiente chiaro di cui sono visibili due delle tre pareti di una sala, in quella frontale si colloca il punto di vista dell’osservatore: “Le tre ragazze scalze ricordano le tre Moire dell’antichità classica – è sempre Svetljacov – dalle quali dipendono i fili delle umane vite, e lo sforzo di Deineka è quello di trovare l’equivalente ‘produttivo’ di quanto rappresentato dal mito”.

Dal mito della produzione a quello della storia con “La difesa di Pietrogrado”, 1928: E’ costituito da uomini ma anche da strutture e da armi,  quasi una simbiosi tra le figure  forti e determinate che sfilano impettite e i fucili in spalla le cui canne si stagliano nel fondo bianco in basso, sono i soldati che vanno al fronte; nonché la passerella di metallo dalla struttura solida e insieme leggera in alto dove passano i reduci dal fronte, incurvati e dimessi. Svetljacov lo vede così: “E un vero e proprio quadro storico, privo di enfasi e con la dominante di un’unica struttura spaziale, che ricorda la struttura compositiva a più livelli delle icone antico-russe. Possiamo considerare ‘La difesa di Pietrogrado’ l’ultimo tentativo di Deineka di creare un’‘icona proletaria’, la quale, però, non sarebbe rientrata negli schemi della futura cultura dei palazzi staliniani”. Venne infatti ritenuta espressione di un “formalismo” astratto che tradiva il “Realismo socialista”.

Abbiamo voluto riportare l’interpretazione autentica del critico russo  che sottolinea aspetti simbolici dei dipinti. La loro importanza risiede anche in un  elemento chiave della composizione, lo spazio. Per dare più rilevo alla corporeità dei protagonisti, è visto come un’astrazione geometrica, un vuoto convenzionale che non limita minimamente i liberi movimenti  in modo che possano esprimere l’energia e la bellezza di cui i corpi sono portatori.  Inoltre c’è un ulteriore elemento caratteristico della sua pittura, oltre al colore qui  ancora quasi assente: il metallo considerato una vera struttura della composizione che, in quanto tale, figura riprodotto nella sua essenza, con linee rettilinee e angolari senza arrotondamenti ornamentali.

La mistica proletaria torna in “Prima della discesa in miniera”, 1926.  “I suoi minatori – scrive Elena Voronovic –  non sono delle vittime, quali li avevano sempre raffigurati i pittori del XIX secolo, sono dei lavoratori pieni di dignità e di un sentimento di sicurezza. Ed è questa una tipologia umana molto acutamente colta dall’osservazione della vita reale: quella dell’uomo fisicamente forte robusto, aduso a lavori di questo genere”. La composizione molto scura nella zona centrale con tre minatori dalle figure forti e pesanti dà un senso di oppressione,  alleggerito dalle siluette di tre figure leggere ai bordi che si stagliano di profilo nel controluce di una grata e nel biancore di una parete; che sia una proiezione ideale come si è visto nel dipinto  “Sul cantiere dei nuovi reparti”?.

Nelle grafiche dello stesso periodo troviamo i tre elementi sopra descritti: il corpo, lo spazio, il metallo,  anzi si può dire che erano i dipinti ad essere fortemente influenzati dalla forma espressiva e stilistica delle grafiche per le illustrazioni, che erano la sua attività prevalente e molto intensa.

Si tratta di composizioni sul tema del lavoro operaio forte e dignitoso, “A Donbass” e “In un reparto di meccanica”,  fino a “Martello a vapore nella fabbrica Kolomanskij”: sono i corpi, maschili e femminili, i veri protagonisti, i volti non si vedono o non contano, lo spazio è appiattito, ridotto a un vuoto dove spiccano le figure solide e potenti;  il metallo delle strutture e dei macchinari è l’altro protagonista, né colore né altri elementi fuori dalla simbiosi uomo-macchina.

Le grafiche ci fanno scoprire l’altro tema fondamentale di Deineka, lo sport. E non è di poco conto se si considera l’importanza che questa forma espressiva ha avuto nella sua formazione artistica. Anzi l’OST, il primo gruppo a cui aderì, assegnava alla grafica addirittura la priorità nel favorire il rinnovamento pittorico e nell’orientare il linguaggio figurativo; e lui stesso, come ricorda Jurij Gercuk, scrisse anni dopo:  “Comprendo la pittura, la pittura sottile, ma prediligo il disegno, la forma”.  E fu attivissimo da illustratore e cartellonista, come la mostra documenta .

Per tornare al tema, lo sport è stato per lui importante anche nella vita, avendo praticato oltre a calcio e nuoto, anche pugilato e con successo nel circolo del famoso allenatore Aleksandr Get, il quale  riteneva che potesse diventare un pugile eccellente. Il soggetto non era l’incontro o la manifestazione sportiva raffigurata, quanto il dinamismo che esprimeva, con la plasticità del corpo umano in moto attraverso il quale, e non con lo sguardo, comunicavano le figure rappresentate.

Abbiamo soprattutto copertine o illustrazioni:  due con “Sciatori”, visione collettiva  sulla pista che è il solito spazio indistinto dietro il quale si profilano delle ciminiere di fabbriche dalle quali sembrano partire gli sciatori verso l’osservatore;  e “Sulla pista di pattinaggio”, un primo piano di quattro pattinatrici che in “Pattini” si allarga ad una composizione festosa nella quale sembra di vedere Matisse, peraltro molto stimato da Deineka, che teneva sue litografie esposte nello studio, stima ricambiata dal grande pittore che in una dichiarazione sui pittori russi ebbe a dire: “Deineka mi sembra il più dotato di tutti e colui che si è spinto più avanti nel proprio cammino artistico”.

In una illustrazione della rivista “L’ateo alla macchina” è raffigurato un saggio ginnico con l’istruttore dietro a un crocifisso dove protende le mani un prete in tonaca dalla barba bianca; in un’altra rivista un’illustrazione spettacolare, “Dimostrazione”, il corteo a braccia alzate con le bandiere passa sotto una serie di balconi su più piani colmi di persone plaudenti a braccia protese.

Ma c’è anche “Riposo”, un pannello di oltre 4 metri per più di 2 e mezzo che si trova al Museo Statale russo di San Pietroburgo: esprime il rilassamento dei corpi abbandonati sulle sedie a sdraio, i visi sono indefiniti, lo spazio è vuoto ed evanescente, si conferma l’impostazione dei dipinti.

“Sul cantiere di nuovi reparti”,  1926


Lo sport dipinto negli anni ’30, e i conflitti nel mondo artistico

Per trovare lo sport come soggetto dei dipinti si deve andare nella sezione del 1930, cominciando dal calligrafico “Sciatori” con grande senso del movimento su sci ridotti a linee e spazio ancora inesistente. In “Corsa”, 1931, c’è un  effetto prospettico tutto particolare tra le atlete con il costume bianco sulla pista rossa riprese frontalmente su due livelli in gruppo e le due che le precedono riprese mentre svoltano sulla sinistra su un terzo livello in  primo piano; lo spazio comincia ad esserci, e così il colore. L’altro dipinto “Corsa”, 1932,  mostra cinque atleti di profilo con una spettatrice nel bordo destro della pista che contribuisce a dare profondità allo spazio non più piatto.

Poi il calcio, con il “Calciatore”, 1932, che colpisce il pallone di destro verso l’alto, tiro chiamato “campanile”: chissà se per questo motivo raggiunge la punta di un grande campanile, che ha dietro  le cupolette come sopra al Cremlino. E soprattutto vediamo “Portiere”, 1934, imponente figura di oltre 3,5 metri per 1,20  disteso in volo plastico per afferrare il pallone, in un potente gesto atletico 

Dello sport, che conosceva bene da praticante, poteva mettere in evidenzia le particolarità che sfuggono agli osservatori dall’esterno, sempre nell’esaltazione  della fisicità come  valore universale, legata ad aspetti come equilibrio e armonia, movimento e ritmo,  bellezza e salute.

Non si  creda che il clima artistico e culturale nonché quello politico ad esso collegato fosse tranquillo al punto di potersi astrarre nelle raffigurazioni sportive; al contrario, all’inizio degli anni ‘30 divenne particolarmente agitato. Già nell’anno di passaggio, il 1929, con l’innesco della grave crisi economica vi fu quello che viene definito il culmine dell'”inasprimento della lotta di classe sul fronte delle arti”: gli artisti venivano stanati dalle loro “nicchie borghesi e individualiste”, accusati di pavidità e conformismo e sfidati a prendere contatto con fabbriche e cantieri, cioè a immergersi nel “Realismo socialista” del lavoro per poterlo meglio rappresentare nelle opere. A ciò si contrapponevano  coloro che puntavano sui temi ritenuti più espressivi dei nuovi valori e quelli che puntavano sulla produzione, e non solo per motivi artistici ma anche per le committenze statali.

Si delinearono le due correnti definite in modo grossolano di artisti “borghesi” e “proletari”: questi ultimi, ritenendosi i soli portatori dell’ortodossia ideologica, costituirono l'”Associazione russa degli artisti proletari” che promosse una sorta di “tribunali speciali” e campagne di stampa contro altre associazioni di artisti; nel 1931 vi aderì Deineka, pensando che rispondesse a esigenze sentite.

I conflitti si accentuarono e il regime ne approfittò per  procedere, nel 1932,  alla “ristrutturazione delle organizzazioni letterarie e artistiche”, cioè all’unificazione di tutte le associazioni e organizzazioni artistiche nell’“Unione degli artisti sovietici dell’Urss”, con la sottosezione “Unione moscovita”. Nel 1934, al Congresso degli scrittori, Zhdanov impose alle arti un carattere ideologico a contenuto socialista, con precise direttive per trasformarli in propagandisti di Stato.

In questo clima abbiamo le migliori opere di Deineka, che si concentra nella pittura tralasciando le illustrazioni nelle riviste, e questo segna una svolta secondo Elena Voronovic: “Se i lavori degli anni Venti sono influenzati dalla grafica e dal manifesto, i quadri degli anni Trenta acquistano volume e colore, profondità spaziale e una componente emozionale”.  Una vera rivoluzione culturale e non solo stilistica, perché mutano le forme espressive e si approfondiscono i contenuti.

Degli anni ’30 finora abbiamo avuto solo un assaggio, ne riparleremo prossimamente  raccontando la visita all’ampia galleria di opere di “realismo socialista” nella sua speciale interpretazione, oltre alle opere da lui create a seguito del viaggio in Occidente del 1935: America, Parigi e Roma.

Info

Catalogo “Aleksandr Deineka, il maestro sovietico della modernità”,  Skirà 2011,  pp. 214, formato 24×28, euro 39; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I due successivi articoli sulla mostra usciranno, in questo sito, il 1° e 16 dicembre 2012.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia l’azienda Palaexpo con gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura “Portiere”, 1934; seguono “Prima della discesa in miniera”, 1925 e “Sul cantiere di nuovi reparti”,  1926; in chiusura “Operaie tessili”, 1927.

“Operaie tessili”, 1927

Sannino, “Undressed ” l’essenza di città e natura, al Vittoriano

di Romano Maria Levante

La mostra romana del pittore napoletano Antonio Sannino al Vittoriano dal 15 novembre al 9 dicembre 2012 presenta 20 grandi quadri con il titolo intrigante “Undressed”, città e natura spogliate della presenza umana e riportate alla loro essenza archetipa per rivelarne il fascino nascosto dal movimento e dal rumore. E’ stata realizzata da “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, e curata da Maria Cristina Bettini, Il Catalogo è di Gangemi Editore.

“Undressed I (Roma)”

“Paesaggi dell’anima” li definisce Alessandro Nicosia, perché “nulla è contaminato dalla piccolezza del quotidiano, tutto è sublimato in un flusso costante e diretto tra l’anima e la tela”.  E nell’aspetto visivo “un’esplosione cromatica, un senso della natura vibrante dalla risonanza antica  ma, allo stesso tempo, dalla valenza modernissima”.  Vittorio Sgarbi ne parla così: “Un colore puro, caldo, senza il tormento del dubbio. Estasi cromatiche, immersioni nel paesaggio sembrano  essere una prerogativa di una ricerca non compromessa, guidata dall’istinto della pittura… E’ un’euforia di testa, razionale, che tiene lontano l’istinto”. Istinto della pittura sì, istinto nell’ispirazione no, trattandosi di euforia razionale?

Al  dilemma delle parole di Sgarbi sembrano rispondere quelle che lo stesso artista pone a sigillo della mostra: “Parto da una visione onirica dell’elemento della natura che  vorrei rappresentare, il colore mi è suggerito da un’emozione visiva.  Il tratto quasi sempre da un atto istintivo”.  Sogno più che istinto nell’ispirazione, emozione nella scelta cromatica, istinto nel tratto pittorico. Il risultato? “Felice il segno, felice il colore”, conclude Sgarbi con un ossimoro parlando di “libertà e ordine nella visione”: in realtà i due  elementi apparentemente contraddittori come l’istinto e la razionalità trovano la loro sintesi nell’origine onirica ed emozionale.

L’energia e gli elementi primordiali fino all’atmosfera metafisica

L’artista li riassume in un fattore che li ricomprende tutti, l’energia. Ce ne ha parlato lui stesso alla presentazione: “La capto nei miei viaggi, la accumulo  e torno  carico e pronto a riversarla nella pittura”.  E’ un napoletano che ha girato il mondo, è vissuto a lungo in Gran Bretagna e ha visitato le grandi città da New York a Tokio, da Parigi a Madrid sempre alla ricerca dell’ispirazione che per lui consiste nell’immagazzinare energia.

Nel trasferire sulla tela le sue emozioni ricorre agli elementi primordiali perché la tecnica sia coerente con l’ispirazione.

Il primo problema, quello di “rendere la natura la più dinamica possibile”, lo affronta predisponendo un supporto a base di gesso sul quale con un pennello grande crea forme geometriche, come cerchi e sinusoidi, che si intersecano con giochi di colore che, nel dipingere la natura, richiamano il sole. “Questi raggi di sole vicini al ‘fuoco’ hanno da sempre catturato la mia attenzione”, rivela.

E poi l'”acqua”: la trasparenza e il colore “donano all’opera una  percezione di purezza estremamente vitale, lasciando negli occhi dello spettatore uno specchio di vita incontaminata”.

Sugli altri due elementi primordiali  ecco cosa scrive. La “terra”: “Vivo sulla terra  e dipingo ciò che vive su di essa”. L'”aria”: “Io dipingo ciò che respiro”.

Sono altrettanti sigilli alla sua arte che si riferiscono innanzitutto alla natura, alla quale ha dedicato  i 30 dipinti di “Naturae Res” esposti nella personale del 2010  al Museo Castel Nuovo di Napoli. La natura è presente anche nell’attuale mostra in inquadrature insolite che ne scavano l’essenza: il  mare attraverso la trasparenza con i raggi che penetrano scoprendo i fondali, gli alberi nel loro intrico vitale. La luce, il colore e i riflessi del cielo sottolineano gli elementi essenziali, il paesaggio è “undressed”, svestito dalle aggiunte che potrebbero distrarre.

Concetto fondante, questo, della sua visione artistica, ancora più evidente nei dipinti sulle città, che rappresentano la novità di questa mostra con circa 20 grandi tele. Le città sono soffocate dal traffico e da tante altre presenze invasive, comprese quelle umane, che impediscono di coglierne l’essenza, spesso di riconoscerne l’identità sommersa dall’omologazione; vederle “undressed”, spogliate di tutto questo, è come tornare alle origini negli elementi costitutivi. E’ un’operazione più complessa di quella operata con il paesaggio perché le immissioni e sovrapposizioni di elementi estranei, dai veicoli alla gente, sono connaturate con l’abitato e la vita cittadina da sembrare inscindibili.

Sannino  riesce a scinderle raggiungendo un risultato che definiremmo “metafisico” anche se la sua è una rappresentazione urbana lontanissima dalle piazze di de Chirico. Aleggia, però, un’atmosfera simile,  “avere l’illusione di lasciare tutto così com’è; di fermare il tempo ed aspettare”, in modo da “temporeggiare e riappropriarsi”, ce lo dice lui stesso, di quanto sentiamo estraneo per le adulterazioni che ha subito e alle quali l’artista non si rassegna. L’opposto della “Pop Art” che si arrendeva al consumismo e alle sue degenerazioni celebrandole, non solo nella forma ma anche nei contenuti. C’è una forte base culturale di chi risale alla storia degli insediamenti per rappresentarla incorporata nelle pietre dei muri e nel selciato delle strade, nelle strutture dei ponti e delle stazioni.

“Undressed 5 (Napoli Via Nilo)”

Le tre città “undressed” come metafora dell’esistenza

Le città che ci presenta sono tre, che lo hanno colpito per motivi diversi. Roma, New York e Napoli. Ce ne parla direttamente accennando anche a Tokyo, “dove c’è molto rispetto per l’artista, ma è una città in un paese stressato”, e cita come esempio i centri commerciali fantasmagorici e alienanti.

Invece Roma “è terapeutica, si avverte l’energia nelle sue pietre, è una città ricca di storia e intrisa d’energia”, cita Trastevere e Campo de’ Fiori come esempio positivo dopo la citazione negativa dei “megastore” giapponesi.  E chi può apprezzarla meglio di lui che viaggia per immagazzinare l’energia da tradurre sulla tela? Scrive che a Roma “un giorno non è mai uguale all’altro, richiami sacri e profani echeggiano nell’aria e ti attraversano come dolci melodie”. Si badi bene, “ti attraversano”, come le onde invisibili emanate da un campo magnetico, penetrano  corpo e anima.

Napoli “è una miscellanea di suoni e di colori”, altro campo magnetico di energia pura per l’udito e la vista, ma non solo; è “misteriosa, esoterica”, sede di popolazioni diverse ha accumulato strati multiculturali e multietnici che le danno una storia e una vitalità ricca e speciale. Ad essa dedica parole da innamorato, forse tradito, di qui qualche amarezza: “La mia città, intrigante, martoriata, scucita e ricucita, fatta di miele e sale, nutrice di poteri occulti, bella da suscitare l’interesse di Re e Imperatori, madre generosa di artisti di ogni genere, ma avara con i suoi stessi figli”.

Mentre New York è una metropoli senza storia, ma non è povera di sensazioni, tutt’altro: emana energia il suo “mondo frenetico e del tutto nuovo”  che ha un impatto molto forte sul visitatore. Ci racconta la sua emozione dinanzi ai grattacieli di Manhattan, “vorresti volare per toccare con mano quei giganti, non si godono dal basso ma occorre dominarli dal grattacielo più elevato con una vista mozzafiato”. Ricordiamo la nostra emozione la prima volta, calamitati come eravamo dal basso a guardare con il naso all’insu le cime che si inseguivano vertiginose nel cielo in una sorta di gara.

Quale significato comune si può ricavare dalla rappresentazione di queste tre città così diverse alla ricerca degli elementi primordiali, da quelli naturali fuoco e terra, acqua e aria, a quelli  più direttamente inerenti ai singoli soggetti?  Nicosia vi vede “metafore dell’esistenza in cui ognuno di noi è calato quasi senza rendersene conto”. I dipinti dell’artista “costruiscono paesaggi urbani  privi della presenza dell’uomo, ‘undressed’, appunto, denudati, nella loro universale quotidianità, spogliati dell’esistenza di macchine, pedoni, oggetti, autobus, per assurgere ad una dimensione assoluta,  globale, nella quale la struttura del quadro è scarnificata e diviene ‘essenziale'”.

Di “metafore esistenziali” parla anche Angelo Calabrese, le vede “dipinte come visioni di impatto ed ebbrezze sospese, fervori sentimentali, ansie di quiete”. E descrive così l’impatto su ognuno di noi cui si riferisce Nicosia: “Sa cogliere passioni raggianti e respiri desiderati per sempre o per un attimo. Ci dona visioni che sono  nostre, per appartenenza, nei momenti di associazioni di idee”. 

Non resta che passare alla visita alla mostra per verificare come questo emerga dai  dipinti esposti.

Undressed 8 (Manhattan evening)” 

I venti grandi dipinti “undressed” e la sinfonia della natura

La metafora esistenziale calza in modo speciale nei dipinti sulle tre città, viste in scorci insoliti e con un impasto materico nello stesso tempo corposo  e trasparente; le sue pennellate sembrano grevi ma rivelano una sorta di luce interna che le fa divenire impalpabili alla vista. C’è la luminosità data dalla trasparenza e insieme l’ombrosità data dalla pesantezza materica, un magico ossimoro visivo.

Di Roma due immagini molto diverse, Undressed I (Roma) una visione dall’alto dei tetti della città con le sue presenze monumentali  e Undressed 5 (Roma Termini) dal basso con la fuga di binari della Stazione Termini.

Su Napoli visioni più ravvicinate delle pietre considerate quali accumulatori di energia dall’artista: Da “Undressed 14 (Napoli Palazzo Carafa)” con un primissimo piano dell’angolo smussato con rinforzi di ferro a “Undressed 15 (Napoli Via Nilo)”la parete di pietre in  una suggestiva fuga prospettica. Il primo piano al selciato in “Undressed 16 (Napoli Porto San Giovanni)” con sullo sfondo le strutture portuali, e in “Undressed 17 (Napoli street seen)”, una strada con alti palazzi ai lati che quasi convergono nella prospettiva.

Una inquadratura che richiama quella dell’ultimo dipinto apre la carrellata su New York, “Undressed 6 (Manhattan)”  i grandi edifici ai lati sono maggiormente delineati nella loro consistenza, mentre in “Undressed 10 (Harlem) , “Undressed 13 (Soho)” e “Undressed 11 (Rainy Day)in primo piano torna  il selciato con i muri ai alti più o meno delineati e sfumati; anche qui una composizione con delle strutture ma ravvicinate,“Undressed 9 (Towards Brooklyn)”). Con Undressed 7 (N.Y.C.) l’artista presenta un panorama newyorkese dall’alto a somiglianza di quello romano, in entrambi un’arteria centrale taglia come una fenditura l’agglomerato, in quello americano si intravedono dei grandi edifici, ma non i grattacieli. Che sono in evidenza in “Undressed 8 (Manhattan evening)”, sono in primo piano sulla sinistra nella baia in cui si intravede Ellis Island con la Statua della Libertà, è una visione dall’alto, come dall’ Empire State Building. Infine “Undressed 12 (Sunset)” e “Undressed 18 (Early morning)” ci riportano alla natura che però non sfugge al grigiore materico che dà alle visioni cittadine l’atmosfera di sospensione e di attesa.

La natura esplode nella sua trasparenza cristallina e nei suoi colori in “Undressed 3 (Capri)”, e in “Undressed 4 (Positano)”, un risarcimento per la terra di Napoli del grigiore nelle immagini cittadine: dal colore dorato dei riflessi del sole (il “fuoco”  di cui si è detto), al verde e blu traslucido dell'”acqua”, fino al gioco di luce e di viluppi dell’albero trafitto dai raggi del sole nelle foglie e negli arbusti, la “terra” con l'”aria” che si sente circolare come una brezza. Poi un’escursione con “Undressed 2 (Isola di Malta)”  nella simbiosi tra acqua, rocce e vegetazione marina.

Nell’altra serie “Wet” non presente in mostra ma ben rappresentata nel bel Catalogo della Gangemi, l’esplorazione  nelle acque del mare delle simbiosi naturali è resa da 17 dipinti dal cromatismo delicato e insieme intenso che riesce ad esprimere colori decisi e trasparenze impalpabili con una ispirazione profonda unita a una tecnica sopraffina utilizzata con maestria. Sono immagini che assumono un valore liberatorio tanto più dopo il grigiore sospeso della metafisica cittadina. Di questa serie “bagnata” dall’acqua, vogliamo sottolineare l’ultimo, il “Wet 17” per il tocco impressionistico che riporta alla ninfee di Monet.

La natura è fata anche di piante, il catalogo ne dà conto nella serie “Shot”, 14 opere, il “colpo” dopo il “bagnato”  è forte, soprattutto nei colori che diventano decisi: i gialli squillanti  e i rossi brillanti, i verdi e i viola di foglie nelle diverse stagioni e di arbusti, tronchi e sottobosco in una visione d’insieme fantasmagorica, una vera  e propria “sinfonia della natura”. Era questo il titolo della mostra dedicata al tema per gli impressionisti nello stesso Vittoriano, che ha riferito alla natura anche la mostra su van Gogh; al Palazzo Esposizioni lo si è fatto per de Chirico. Il tutto è avvenuto nel 2010.  Con i suoi dipinti intensi e  spettacolari Sannino si iscrive con merito a questo club prestigioso.

Una conclusione si può trarre considerando anche le opere sulla natura non presenti in mostra, a parte quelle su Capri, Positano e Malta. L’effetto  liberatorio c’è anche nell’artista, l’energia delle  pietre captata nelle città la ritrasmette con l’impasto materico e cromatico loro proprio, che mantiene una certa pesantezza pur alleggerita dal tratto e da una certa trasparenza. Mentre l’energia della natura esplode nei colori e anche nelle forme in una vera sinfonia che ne esprime l’anima.

Perciò concordiamo con Barbara Genio che scrive: “Nella trama pittorica di Sannino c’è la magia del tempo che attraversa l’arte. L’arte sa dove vuole andare, ma se ne sente sempre la sua anima”.

Info

Complesso del Vittoriano, Sala Giubileo, lato Fori Imperiali,  Via S. Pietro in Carcere – Roma. Tutti i giorni, compresi domenica e lunedì, ore 9,30-19,30. Ingresso gratuito. Tel. 06.6780664. http://www.antoniosannino.it/  Catalogo della mostra: “Antonio Sannino. Undressed”, Gangemi Editore, luglio 2012,  pp.160, formato 24×30 cm.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Vittoriano, alla presentazione della mostra, si ringrazia “Comunicare Organizzando” di Alessandro Nicosia, con i titolari dei diritti, per l’opportunità  offerta. Un ringraziamento particolare all’artista Antonio Sannino che ha accettato di posare per noi davanti a un suo dipinto. In apertura “Undressed I (Roma)”, 200×250 cm; seguono “Undressed 5 (Napoli Via Nilo)”, 90×150 cm e “Undressed 8 (Manhattan evening)”, 150×180 cm; in chiusura “Undressed 4 (Positano), 200×450 cm, con al lato l’artista.

“Undressed 4 (Positano), a sin. l’artista

 

Weishan, 30 sculture della Cina moderna, a Palazzo Venezia

di Romano Maria Levante

Una presentazione all’altezza dell’evento quella della mostra romana a Palazzo Venezia, aperta dal 14 novembre al 16 dicembre 2012 dal titolo eloquente “Wu Weishan. Scolpire l’anima di una nazione”, promossa  dai Ministeri della cultura di Cina e Italia e dall’Ambasciata cinese, organizzata dal’Accademia  Nazionale d’Arte cinese con la soprintendenza  del polo museale romano, il coordinamento di MondoMostre e supporti prestigiosi come due grandi Musei Nazionali cinesi. Curatore lo stesso artista  Wu Weishan: 30 sculture in bronzo, alcune di grandi dimensioni.

“Un’ipotetica Conversazione tra Leonardo da Vinci ed il Grande Pittore Cinese Qi Baishi”, la testa del genio italiano

Le opere esposte esprimono la capacità dell’artista di interpretare la sua epoca richiamandosi alla classicità e alla tradizione,  con una qualità e cifra stilistica elevata e una profondità di introspezione che riflette – come ha detto il Segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon in occasione della mostra  tenuta all’Onu quest’anno –  “non solo la cultura di un paese, anche l’anima di tutta l’umanità”.

Palazzo Venezia, con la nuova soprintendente Daniela Porro, prosegue nella sua attenzione alla cultura cinese, manifestata in passato con la mostra “Oltre la tradizione. I maestri della pittura moderna cinese” e con la mostra sul’arte antica “I due imperi. L’Aquila e il Dragone”. Alla presentazione la soprintendente ha sottolineato questo interesse, mentre i rappresentanti delle istituzioni cinesi, in particolare il Museo Nazionale che ha partecipato alla realizzazione della mostra, ne hanno illustrato i principali aspetti, con il protagonista Wu Weishan dalla straordinaria disponibilità e simpatia, fino ad offrire artistiche medaglie di Confucio e accompagnare nella visita.

Un artista del dialogo con l’Occidente, tra la tradizione e la modernità

L’artista è una grande realtà dell’arte cinese contemporanea e insieme un simbolo dei risultati estremamente positivi in campo artistico dell’apertura della Cina negli anni ’80, periodo della sua formazione. Fin dal 1898 le sue sculture sono state esposte in Oriente, Corea, Giappone e perfino Taiwan, oltre che in Cina, e in Occidente, Stati Uniti e Canada, Gran Bretagna e Olanda. Un ponte tra Oriente e Occidente può essere definita la sua scultura, nella quale la tradizione cinese, nelle forme più diverse dall’arte antica a quella popolare, dalla calligrafia alla pittura, incontra i motivi dell’arte occidentale dal classicismo al realismo e all’espressionismo nella forma scultorea.

Si vedono chiaramente i riflessi dei suoi viaggi in Occidente, ma rispondendo  a una domanda ha tenuto a riaffermare che al di là degli aspetti personali lo spirito della tradizione aleggia sempre nelle opere degli artisti, per cui si può ben parlare di “arte orientale” per il comune denominatore che collega i diversi autori. Per quanto lo riguarda in prima persona, dice chiaramente: “Con la scultura tento di portare avanti lo spirito della cultura cinese attraverso forme d’arte più innovative”.  Sentiamo influssi lontani e vicini, da Michelangelo a Bernini, da Marino Marini a Manzù, con la presenza di Leonardo quale nume tutelare. Noi abbiamo trovato anche un riferimento a Giacometti, in due opere in mostra, lo abbiamo detto all’artista e ci ha risposto di conoscerlo bene e ammirarlo.

Il suo stile è molto personale, lo definiscono “impressionismo moderno” ma la sua opera viene chiamata anche “scultura espressionista”. Al di là delle definizioni vi è la fusione tra elementi antichi e nuovi e tra quelli del mondo orientale ed occidentale in una concezione che va altre la sfera artistica: il suo amore per l’umanità lo porta a considerare basilare la fusione delle due culture.

Come si esprime tutto questo? ´In taluni casi le figure umane si fondono con i contorni  naturali, come le montagne, in una sorta di assimilazione panica che riconduce alla natura,  alla quale sono intitolate alcune sue opere; le figure isolate vengono modellate in una pesante consistenza corporea con la capacità di esprimerne la spiritualità e l’anima che dà vita e respiro ai corpi.

L’artista produce anche opere monumentali per esterni, alte parecchi metri, la più spettacolare “Armonia tra Uomo e Natura – Laozi”, alta l8 metri, un abbraccio protettivo della natura che diviene antropomorfa e accoglie nell’altissima grotta ricavata nel mantello aperto; un motivo molto diverso in “Rovina  e morte”, 15 metri di una figura che urla al cielo la sua disperazione.  Un filmato in mostra lo ritrae mentre è impegnato nelle sue creazioni esterne di grandi dimensioni.

Nelle opere per interni va dalla monumentalità di figure alte oltre i 2 metri a sculture più piccole, dai grandi personaggi della cultura e dell’arte a persone comuni, fino al dramma della guerra. Temi espressi in tre sezioni: la prima  sui “Dialoghi con i Grandi Maestri”, la seconda sul “Dialogo con la Realtà”, la terza sul “Dialogo con il Popolo in Sofferenza”. E’ il momento di vederle da vicino.

“Confucio: Una Montagna Torreggiante” , 2012

I Dialoghi con i Grandi Maestri

I “Dialoghi con i Grandi Maestri” sono la sezione più corposa, con 15 sculture di grande forza espressiva, tanto intenso è il pensiero che intendono trasmettere. L’apertura della mostra è inattesa e travolgente, all’ingresso riconosciamo il volto con la barba fluente di Leonardo da Vinci nella grande scultura alta oltre 2 metri, con il dito sollevato in alto, affiancata da un‘altra scultura della stessa altezza con un celebre artista cinese moderno, anch’egli dalla lunga barba, che solleva una pertica. E’ “Un’ipotetica Conversazione tra Leonardo da Vinci ed il grande pittore cinese Qi Baishi”, avviene tra due statue separate fisicamente ma collegate idealmente dal fluido sottile del pensiero.

Abbiamo chiesto a Wu Weishan di prestarsi ad essere fotografato da noi tra le statue dei due Maestri come a fare da tramite della loro “conversazione” ed ha accettato subito, come è stato disponibile alle domande. L’insieme è di grande effetto, i corpi sono abbozzati, spiccano i volti da pensatori e grandi Maestri. Le stesse figure, ma alte solo 10 cm, sono poste agli estremi di un lungo bilanciere leggermente ricurvo  nell’opera recentissima del 2012 dal titolo “Da Vinci e Qi Baishi nel sogno”  quasi indicassero la via e si equilibrassero l’uno con l’altro nella guida magistrale di Occidente e Oriente.

Qi Baishi era uno dei grandi maestri della pittura moderna cinese” della mostra del 2011 nello stesso Palazzo Venezia, anche in lui lo spirito di innovazione  oltre la tradizione ma nel suo solco, con dipinti raffinati su rotoli di carta all’uso antico. Altre sculture sono dedicate a questo maestro ritenuto forse il più celebre in assoluto, dopo le due citate che lo accomunano a Leonardo: “Qi Bashi con la Barba Lunga”  in cui il corpo praticamente scompare, i 130 cm di altezza culminano nella testa del pittore che è il vero soggetto sostenuto da un lungo supporto sottile; ritroviamo un’analoga struttura in “Il Musicista Cieco . A Bing (Hua Yan jun)”.  Ci ha fatto pensare allo scultore  Giacometti per la verticalità della forma, esasperata nel ridursi all’essenza nel culmine.

L’altro grande Maestro è Laozi, mitico filosofo cinese dell’antichità, il simbolo dell’“Armonia tra l’Uomo e la Natura”, un bronzo di 83 cm che sembra il bozzetto della grande opera all’esterno di 18 metri di cui si è detto, con l’accoglienza nel mantello aperto, anche questo è del 2012. Ci ha ricordato la scultura su papa Wojtila nel piazzale dinanzi alla Stazione Termini con il mantello aperto in un vano che vorrebbe essere accogliente, giustamente contestata perché suggerisce più una garitta per la vigilanza che un’apertura per l’accoglienza: prova che non basta l’idea, l’opera di  Weishan rispetta appieno il motivo ispiratore, fa sentire l’abbraccio della natura sia nella grande versione esterna in cui si entra fisicamente sia nella piccola in cui riesce a rendere l’armonia.

Laozi ha avuto un’esistenza tormentata, ha dovuto andare via dal suo paese. Ed ecco il simbolo dell’armonia con la natura raffigurato in momenti tormentati: “Laozi lascia il passo Hangu”, chino sulla groppa del suo bufalo che lo porta lontano; “Suono nella valle vuota: Laozi lascia la Vina”  in cui lo stesso motivo è ripetuto in una forma filiforme  come l’eco della più corposa immagine precedente, una trasposizione rimpicciolita analogamente a quella su Leonardo e Qi Baishi.

Dello stesso tipo sono anche le due figure ancora più alte, addirittura 2 metri e 60, di “Chiedere la Via: Incontro di Confucio con Laozi”, che pur nella loro materialità scultorea perdono la corporeità, quasi rugosi tronchi arborei, mentre l’espressione del viso è di straordinaria intensità. Il grande mito della religione e della cultura orientale è raffigurato nel bronzo verde “Confucio: Una Montagna Torreggiante” , a differenza di quella appena citata è compatta in una corporeità massiccia come la solidità del suo pensiero che domina simile a una torre o a una  montagna, o ad entrambe insieme.

Figure di Maestri anch’essi indicati espressamente come simbolo di categorie della cultura sono “Lo scrittore –  Lu Xun” e “Il  matematico- Zu Chongzhi”, “Il Monaco – Hongyi” e “Il navigatore – Zheng He”. Sculture di 60-70 cm di altezza, con  il linguaggio dei corpi –  a differenza delle altre in cui tutto si riassume nei volti – esprimono visivamente l’archetipo dei maestri: la staticità dello scrittore e la complessità del matematico, la calma del monaco e il movimento del navigatore.

Completano la sezione la “Statua di Antico Soldato in Cina”, che nella potente forma del corpo reca il simbolo della sua forza esplosiva piuttosto che nell’arma che stringe con la destra. E “Io Propongo Un Brindisi alla Luna – Il Poeta Li Bai”, qui più che l’archetipo del personaggio conta il messaggio, non è scolpita un’immagine figurativa ma una sorta di slancio mentale e fisico insieme.

“Anziano della Minoranza Qing”, 1998

I Dialoghi con la Realtà e con il Popolo in Sofferenza

Dai grandi Maestri alla gente comune nel “Dialogo con la Realtà” con alcune figure simbolo. Le teste delicate di “Il Bambino” e “Ragazza cinese”, piccole sculture in marmo bianco dai lineamenti delicatissimi dopo i bronzi imponenti. Sono eccezioni, torna il bronzo in“Bambino Dormiente”,  dai tratti più marcati. Leggiadra la figura sottile di  “Bambina con Trecce”, alta oltre un metro e della più corposa ma piccolissima “Brezza di primavera”, 15 cm nei quali la figura sembra mossa dal vento: è del 1994 e precede quasi di dieci anni l’altra del 2003,  ma ci piace vederla in successione. Ancora più mossi i “Tre Dei della Musica”, si prendono per mano come per ballare.

Nessun adulto in questa semplice realtà? Non c’è questa lacuna, abbiamo “Un Anziano della Minoranza”, del 1998, che rappresenta il popolo paziente in una solidità corporea molto espressiva. 

 “L’invocazione dell’umanità – Gruppo di sculture delle vittime del Massacro di Nanchino -. La fuga” chiude la potente galleria scultorea di  Wu Weishan: dal messaggio di pace e di cultura dei grandi Maestri, attraverso la vita normale nell’innocenza dei piccoli e nella pazienza dei grandi, si giunge agli orrori della guerra da cui nasce un  altro messaggio che diventa invocazione. E’ il “Dialogo con il Popolo in Sofferenza” ispirato dalla tragedia del tremendo massacro di Nanjing, cioè Nanchino, l’antica capitale della Cina la cui popolazione fu soggetta a violenze inenarrabili e uccisioni in massa da parte dell’esercito giapponese che la occupò dopo un breve assedio il 13 dicembre 1937 scatenandosi in una vendicativa follia omicida: tra 100 mila e 200-300 mila le vittime, tra cui molte donne e bambini. Il gruppo scultoreo è composto da figure di bronzo alte oltre 2 metri, riprese in fuga in atteggiamenti drammatici: dalla madre che stringe a sé il suo bambino facendogli scudo con il suo corpo alla figura con il busto proteso in avanti nella corsa disperata per la sopravvivenza, fino alla persona che si china su qualcosa a terra e il titolo “calmare l’animo”.

E’ una sequenza di straordinaria efficacia che ci riporta ai drammi senza fine della guerra e della violenza in tutte le epoche anche se le sue sculture si riferiscono direttamente alla tragedia del massacro cinese. Ma quanti massacri in ogni  tempo e latitudine vengono perpetrati?

Due simboli e un appello

Ci torna alla mente il “Giovane Cavaliere della Pace” dello scultore abruzzese Venanzo Crocetti, anche quest’opera ha fatto un tour mondiale, esposta nella sede dell’ONU come simbolo di un valore permanente da perseguire con indomita perseveranza. Il gruppo di Weishan esprime l’altra faccia, le vittime della cieca violenza, un monito da affiancare al simbolo dell’aspirazione alla pace.

L’apprezzamento del segretario generale dell’ONU – che, come abbiamo ricordato, vede riflessa nelle sue sculture “anche l’anima di tutta l’umanità” – comprova una capacità di coinvolgere  tale da diventare messaggio globale in una produzione variegata ma sempre dai profondi connotati simbolici. Anche in Crocetti abbiamo trovato questa visione lungimirante e profonda.

Nella sala del Vittoriano, allorché usciti tutti  ci siamo trovati da soli circondati dalle sculture di Wu Weishan, abbiamo provato la stessa sensazione avuta nel Museo Crocetti sulla via Cassia a Roma, in una sala analoga popolata delle sue sculture. Con i due approdi diversi ma complementari, al simbolo della pace e al simbolo contro gli orrori della guerra, due invocazioni compresenti e perenni dell’umanità. Dai “due imperi” ai due messaggi: le due nazioni di più antica civiltà dell’Oriente e dell’Occidente, Cina e Italia, accomunate nell’arte per un mondo migliore. Che questo venga dopo l’anno culturale che ha visto insieme i due paesi in tante celebrazioni è molto positivo, come lo sono le ulteriori iniziative preannunciate e in parte realizzate su presenze stabili.

Ed è proprio l’importanza dell’evento a far ritenere troppo breve il periodo della mostra, appena tre settimane, senza dubbio non per sottovalutazione della sensibilità dei romani e italiani in genere dinanzi a una simile offerta di alto valore culturale e umano, ma per gli impegni successivi nel tour delle opere. Non chiediamo il lungo arco di tempo per esposizioni di questo livello, ma lanciamo un appello per il prolungamento che copra almeno le feste natalizie. Farla terminare prima, come previsto, sarebbe interrompere un’emozione collettiva, impedire che venga condivisa . La simpatia e la disponibilità di Weishan e la sensibilità della Soprintendenza museale romana, ne siamo certi, non lo permetteranno.

Info

Palazzo Venezia, Antico Refettorio Quattrocentesco, Via del Plebiscito Roma, dal martedì alla domenica ore 10,00-19.00, lunedì chiuso. Ingresso gratuito.. http://www.mondomostre.it/.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante a Palazzo Venezia alla presentazione della mostra, si ringrazia la Soprintendenza museale romana, con MondoMostre e i titolari dei diritti; in particolare il maestro Wu Weishan anche per la disponibilità ad essere fotografato da noi tra le due sculture del “dialogo” tra Leonardo e Qi Baishi. In apertura il particolare di “Un’ipotetica Conversazione tra Leonardo da Vinci ed il Grande Pittore Cinese Qi Baishi” con la testa del genio italiano; seguono “Confucio: Una Montagna Torreggiante” , 2012,e “Anziano della Minoranza Qing”, 1998;  in chiusura l’autore Wu Weishan ha posato per noi  tra le  due statue di Leonardo e Qi Bashi del suo “Un’ipotetica Conversazione tra Leonardo da Vinci ed il Grande Pittore Cinese Qi Bashi”.

Wu Weishan  tra le  due statue di Un’ìpotetica Conversazione  tra Leonardo da Vinci e il Grande Pittore Cinese Qi Bashi” 
 

Echaurren, 1. Roma e l'”horror vacui”, a Palazzo Cipolla

di Romano Maria Levante

Un  mosaico di quasi 13 metri di lunghezza per 1,75 di altezza è posto all’interno della  stazione di Piazza di Spagna della Metropolitana di Roma: entrando dal vicolo del Bottino si incontra dopo una cinquantina di metri sulla sinistra nel lungo tunnel che porta ai treni. Superate le prime vetrinette pubblicitarie luminose si presentano,  con la luce delle sue tessere bianche e celesti, i preziosi ghirigori nei quali si intravvedono dei motivi che ci richiamano qualcosa. E ne abbiamo conferma quando leggiamo il nome di Massa Echaurren indicato a lato del mosaico, con aggiunta la parola “donazione”. E’ datato 2000,  lo abbiamo notato e ci ha fatto ripensare alla mostra di Pablo Echaurren, il figlio dell’autore di questo mosaico, a cura della Fondazione Roma Museo svoltasi dal 18 dicembre 2010 al 13 marzo 2011 a Palazzo Cipolla. 

“La Grande Cipolla”, 2010

l mosaico, notato per caso, pur se del padre, ci ha fatto ricordato l’artista che ci aveva colpito per la versatilità e profondità dell’ispirazione, cui si è unita la disponibilità a parlare e ad essere fotografato con le sue opere. A quasi due anni di distanza raccontiamo la visita all’esposizione che mantiene tutta la sua validità, per i tanti motivi di interesse da sottolineare.

La mostra, dal 18 dicembre 2010  al 13 marzo 2011, era intitolata “Pablo Echaurren, Crhomo Sapiens”: veniva  inaugurata la nuova destinazione di Palazzo Cipolla all’Arte Contemporanea; nello stesso periodo l’inaugurazione di  Palazzo Sciarra  destinato all’Arte antica con “Roma e l’antico, visione e realtà nel ‘700”, di cui abbiamo scritto a suo tempo. Queste prestigiose sedi espositive, entrambe della Fondazione Roma Museo, sono di fronte sui due lati di Via del Corso, vicino a Piazza Venezia, prima di Largo Chigi: un’accoppiata di grande valore proiettata nel futuro.

E’ stata una dedica corale senza tempo alla Città Eterna, con la visione classica e settecentesca di Roma nel primo, quella contemporanea nell’altro dove Roma era rappresentata con i “Colossei” di Echaurren da sfogliare strato per strato:, uno si intitola “La grande Cipolla”: e quale migliore omaggio si poteva fare al palazzo di questo nome con la visione romana del terzo millennio?

Non solo per questo motivo riteniamo abbia fatto bene il presidente della Fondazione Roma  Emmanuele M. Emanuele ad ospitare l’opera di Pablo Echaurren per un momento così solenne come la consacrazione dello spazio espositivo alla nuova destinazione all’Arte contemporanea. Il motivo che ci sembra prevalente è che questo artista fa entrare nel mondo contemporaneo in tutta la sua complessità e molteplicità di stimoli e di fermenti senza lo shock delle installazioni più avanzate e trasgressive, preparando ai successivi sviluppi con un inizio graduale e istruttivo. Palazzo Cipolla ha poi continuato creandosi un proprio spazio, ben distinto dal Maxxi e dal Macro.

La trasgressione vitale del contemporaneo

La mostra, realizzata con “Civita”, ha inaugurato la nuova destinazione dello spazio espositivo con il suo anticonformismo spinto fino alla trasgressione, nell’arte e nella vita:  ha preso parte attiva a movimenti estremisti e trasgressivi come Lotta continua e gli Indiani metropolitani e ha  “trasgredito” loro avvicinandosi a Marinetti divenuto una icona coltivata con un collezionismo accanito che fa possedere ad Echaurren una raccolte completa sul futurismo. Perché si è avvicinato tanto a Marinetti collocato com’era nell’ultrasinistra? Vide in lui la trasgressione nell’ideologia e nell’arte unita all’intelligenza, e sentì di compiere una trasgressione egli stesso; ci vengono in mente, mutatis mutandis, le situazioni del film “La patata bollente” con Renato Pozzetto e Massimo Ranieri, il fervente comunista attratto dal “diverso” assolutamente impresentabile.

La trasgressione rispetto alle convenzioni nella vita e nell’arte è stata il pane per Pablo Echuarren fin dal rapporto con il “padre trasparente”, il famoso pittore espressionista Sebastian Motta, al cui stile non si è ispirato quando ha capito di avere vocazione per l’arte, ma ha seguito una propria strada apertasi nei banchi di liceo quando i suoi disegnini furono apprezzati e retribuiti da un gallerista, che li vide per caso; nell’arte ha trasgredito ai canoni elitari combinando varie forme espressive senza distinguere tra “alta” e “bassa”,  passando dall’una all’altra in un continuum vitale.

Merito della mostra – curata da Nicoletta Zanella insieme al Catalogo di Skirà – è stato rendere conto in modo equanime dei momenti della poliedrica attività artistica di Echaurren, in un arco di quarant’anni, facendo scoprire risvolti suggestivi e ripercorrere un ciclo di vita contemporanea.

E’ stato questo mondo il protagonista della mostra, come il mondo antico lo è stato in quella dirimpetto: in entrambe, le opere esposte come testimoni, e alcune anche testimonial, di passaggi importanti nella civiltà delle due epoche: a Palazzo Sciarra il fervore per l’Antico nelle varie espressioni, le antichità con le copie e i falsi, le decorazioni e l’emulazione degli artisti, con centro su Roma; a Palazzo Cipolla il fervore per il nuovo, dall’editoria “seria” ai fumetti e ai manifesti, dalla pittura alla ceramica e stoffa, dalla musica alla natura, anche qui con centro su Roma.

Abbiamo visitato a suo tempo la mostra attirati dai termini usati da Emanuele nella presentazione, e sappiamo che non usa la retorica: ne riportiamo un florilegio, eclettismo e strade espressive sempre nuove, effervescente sperimentazione e libertà da ogni pregiudizio, vivace curiosità e spirito di osservazione, vena originalissima e taglio ironico, semplicità di linguaggio e immediatezza espressiva, grande vitalità e potente energia creativa che pervade come elettrizzandola ogni creazione. Li abbiamo allineati testualmente per farne un elenco – è una forma di moda –  delle qualità riconosciute a  Echaurren che, in definitiva, sono i requisiti del vero artista contemporaneo.

Sono proprio tali termini a farci ricercare una lettura particolare della mostra che faccia emergere tutti questi aspetti nello spigolare sui momenti di vita personale e insieme di vita contemporanea.  La sua arte ci sembra proceda per accumulazione: dai primi riusciti tentativi giovanili sulla carta a forme più compiute professionali, anzi nel vivo del mercato e del dibattito non solo e non tanto artistico, quanto politico e sociale; fino all’esplosione nella pittura, una vera eruzione vulcanica. Ne siamo stati travolti senza aver potuto dare ordine al nostro percorso dopo il primo shock iniziale; ora raccontiamo la visita al presente, trasmettendo al lettore le nostre emozioni con immediatezza.

I vertici azzurri di Roma” 2010

Roma, l'”Umbelicus Urbis” et orbis

In effetti il primo shock lo dà il titolo, quel “Crhomo Sapiens” bifronte, chiaro nell’homo sapiens, un ritorno alle origini, forse all’arte o all’anima primigenia; ma il Cr che precede?  Nicoletta Zanella lo riferisce al “cromatismo”, e l’interpretazione autentica della curatrice della mostra  si deve comunque accettare, del resto lo stesso artista parla di “cromoterapia” come rimedio alle ansie; noi ci aggiungeremmo un riferimento al tempo, al dio Crono, che sentiamo pervadere la sua opera sia nel fissare sul calendario le opere datate sia nel dare il respiro dell’eternità a tante altre.

Superato lo shock intellettuale – la sfida a “decifrare” l’insolito titolo  – ecco lo shock visivo, l’eruzione vulcanica. Parliamo della prima sala, talmente nell’ombra  che si vede a stento la pedana centrale nera intorno all’Umbilicus Urbis”; un’ombra fitta solcata alle pareti dai bagliori di forme e colori che sembrano piovere dall’eruzione vulcanica di una pittura esplosiva: un’eruzione di Roma su Roma, non è un’altra Pompei, il magma che cala dall’alto prende forme ben delineate dai colori netti e decisi quanto enigmatici, sarà stato così l’antro della Sibilla? La sala è molto vasta, notevoli le dimensioni dei dipinti alle pareti in acrilico su tela: 2,5  metri di lunghezza per oltre 1,5 di altezza, in 9 grandi pannelli che bucano il buio formando una cintura luminosa e colorata.

I primi a piovere dal cielo spiccando nella suggestiva oscurità sono i “Colossei”: “La Grande Cipolla – The Big Onion” mostra 7 riproduzioni dell’Anfiteatro Flavio che sembrano planare per essere sbucciate strato per strato, così le stratificazioni di Roma; per New York, che non ne ha, “La Grande Mela-The big Apple” si può solo mordere, come fa la celebre “Apple” nel proprio marchio. C’è tanto oro oltre al marrone delle arcate e al verde dei contorni centrali, con del blu tutt’intorno.

Ma è un bordo sottile, il blu diventa il colore dominante, con una tonalità particolarmente intensa, in “I vertici azzurri di Roma”: una pioggia di 15 obelischi, ciascuno con il suo sole sulla punta, al centro l’obelisco sull’elefante della Minerva del Bernini, che diventa un rinoceronte il cui corno è fatto anch’esso ad obelisco. Dagli obelischi ai templi, li porta l’“Alba mammifera”:  nella pioggia di 9 cupole dal cielo l’oro è dominante nei contorni e nei soli, in alto al centro una mano aperta; e dai templi alle croci in “Il sangue e l’oro”, titolo che esprime il cromatismo prevalente. Ancora la Città Eterna in “Il cielo sopra Roma”,  questa volta come Aquila imperiale, su un trono con aureole dorate, è il simbolo dell’impero:ci fa ripensare alla mostra romana di Palazzo Venezia “I due imperi, l’Aquila  il Dragone”, l’impero romano e quello cinese. Intorno alla grande Aquila fluttuano nell’aria inquietanti figure di lugubri uccelli neri dall’occhio rosso, traspare il lato oscuro dell’artista con le immagini angosciose, anche qui l’atmosfera da incubo è rotta dai soli dorati.

In “Liquide effusioni” non c’è Roma ma le figure inquietanti che fluttuano sì, non hanno più forme di uccelli, sembrano animali acquatici che si contorcono e si avviluppano, nel fondo sul verde, blu e nero c’è sempre l’oro a dare il senso della vita.

[4  IMMAGINE CD n. 3]  Finché morte non ci unisca, 2009.

Dalle figure fluttuanti alle mani misteriose, l’una diversa dall’altra e ugualmente inquietanti come lo è il titolo: “Finché morte non ci unisca”, in controtendenza sul noto “finché morte non ci separi”; è un tripudio di colori e di simboli, sulla punta delle dita nella grande mano scheletrita spiccano anche qui i soli dorati, il più grande al centro sul dito ammonitore di una mano blu, che  sembra  la gigantesca mano marmorea dal pugno chiuso e dito alzato di Costantino ai Musei Capitolini; un grande occhio indagatore sulla sinistra del quadro, l’unica forma diversa dalle 10 mani dipinte.

Alla pioggia e all’ammonimento si accompagna  qualcosa di ancora più diretto in “Guardia e Ladra”, irrompe lo scheletro con una spada fiammeggiante tra una pioggia di obelischi e colonne, monumenti ed edifici antichi: l’incubo ha preso una forma che evoca la morte. E prosegue con l’accumulo di teschi, ne abbiamo contati 150, stratificati in tre livelli dal viola al giallo al rosso, in “Catacombelicale”, un’inquietante adunata con espressioni diverse, quasi una muta assemblea; il titolo rimanda al cordone ombelicale della nascita mentre i teschi esprimono per tutti la morte.

Il richiamo catacombale riporta a Roma, a quell'”Umbilicus Urbis”, già citato, che merita di essere descritto nella conformazione e nell’origine. Si tratta di un cerchio di 1 metro in mosaico di marmo bianco, con punti d’oro nei 19 teschi aggregati nella composizione circolare, spicca luminoso sul pavimento al centro della sala come al centro ideale di Roma, nel Foro Romano, al “Mundus”, il varco dell’Ade riservato a Proserpina, inizio e fine nello stesso tempo, il vortice di alfa e omega. Precorre anche temporalmente la pioggia di Colossei e obelischi, cupole e croci, l’autore ha concepito e realizzato l’Umbilicus nel 2006, tutti gli altri sono stati ideati e dipinti nel 2009 e 2010, alcuni per la mostra che così alla contemporaneità ha aggiunto l’immediatezza, la “premiére”.

Queste immagini per Roma tornano anche nelle piccole preziose sculture della stessa sala, “In bocca alla lupa”,  con due teschi al posto dei gemelli e “Parva larva”, uno scheletro inginocchiato che reca  uno specchio barocco sfidando a guardare la propria immagine; “My Navona”, con l’obelisco della fontana dei “Quattro fiumi” tra pietre  bagnate dalla luce  nelle spire di un rettile e “I sette de-collati”, una colonna dal capitello ionico con 7  “pietre” costituite da teschi in argento.  Segni inquietanti meno evidenti in eleganti oggetti e gioielli con materiali pregiati, come “Le Api Barberini” e “Happy New Ear”, “Gioielleria sottomarina” e “Vedi alla lettera C“: c’è qualcosa di allucinato nell’Ape, come nel gioiello a polipo e nella spilla a forma di pesce pronto a scattare.

Questo merita una riflessione, anche se ci piace notare subito come i titoli anche dissacranti aiutino a superare l’atmosfera certamente non gioiosa che alcune immagini creano. Ma l’arte non è fatta per gioire, e quella contemporanea a differenza dal classicismo non va alla ricerca del bello, forse piuttosto del brutto della realtà e dei propri incubi. Lo fa anche Echaurren, e  capiremo perché.

“Finché morte non ci unisca”, 2009

L’esorcismo dell’horror vacui

Nel suo animo c’è qualcosa che nasce dai limiti della condizione umana di “insuperabile ignoranza”: invece di dargli la serena consapevolezza socratica del “so di non sapere” lo rende “artista malinconico” come lui stesso si definisce. Questo qualcosa gli ha dato una spinta verso la catalogazione e il collezionismo, una bramosia di “sapere tutto” di una certa materia e raccoglierlo, possederlo quasi temesse di perdere anche questa limitata sicurezza. “Volevo fare l’entomologo”, dice, oltre che suonare il basso, e si è accostato al mondo di Marinetti scoprendo il futurismo, un trittico di cui lo vediamo protagonista attivo: ha esplorato, scritto e collezionato sul mondo degli insetti, è stato suonatore di basso in un complesso e colleziona tale strumento musicale, è uno dei maggiori collezionisti del futurismo: tutte e tre le cose sono confluite nelle opere della sua arte.

La sua curiosità non si è esaurita nella ricerca teorica e astratta, ha avuto lo spirito dell’esploratore  che percorre in lungo e in largo il territorio di suo interesse e ne diventa protagonista. Così nella sua vita oltre a Lotta continua e gli Indiani Metropolitani abbiamo anche Marinetti e il Futurismo, mondi opposti uniti dalla comune trasgressione che per lui è stata una potente molla di creatività e innovazione. Nessun opportunismo o convenienza lo ha fermato, ha fatto le contaminazioni impossibili tra la sinistra extraparlamentare e la destra futurista, la pittura seria e i manifesti dissacranti, le copertine colte e i fumetti disinibiti, la stoffa e la ceramica. E non in periodi successivi, anche contemporaneamente senza far scacciare la moneta buona  da quella “cattiva”.

Eclettico e poliedrico, quasi inafferrabile, la sua continuità e coerenza forse si può trovare nella discontinuità e nell’incoerenza in un modo nobilitato dall’arte che ironizza anche su se stessa, e non solo nei titoli di molte opere. Ha ragione Emanuele quando nota “un vivace estro ludico, elemento più intimo dell’artista”: emerge prepotente da un corpus di opere vastissimo nel quale il segno distintivo sembra essere la leggerezza anche quando appare greve, per chi sa leggere in quei teschi e in quegli scheletri che possono diventare ossessivi se non si guardano nel modo giusto. La chiave di lettura è quella dell'”horror vacui”  – ce lo ha detto proprio lui – derivante dalla consapevolezza del vuoto incolmabile di conoscenza, una notte della ragione che genera mostri, si potrebbe dire.

Lui stesso esorcizza questi mostri portando sul proscenio i suoi teschi e scheletri, i suoi animali inquietanti: siano raffigurati in volo o in acqua allontanano il maligno proprio perché ne sono l’immagine. “Il male va dove c’è il bene – ci ha detto – non va a trovare se stesso, quindi non viene dove ci sono queste figure”. L’orrore del vuoto si colma riempiendolo di spaventa-passeri, cioè spaventa-maligno, in un esorcismo pittorico che è un punto di arrivo: sono degli ultimi anni le espressioni più inquietanti per chi non ha la rassicurante chiave di lettura; vuol dire che la lunga esplorazione di quarant’anni di “ricerca sul campo” è approdata a certezze o almeno conferme.

Ma la sua leggerezza sfiora tanti altri temi e si serve di tanti altri mezzi e stili. Ne parleremo prossimamente raccontando la sua visione della natura e le altre sue espressioni multiformi.

Info

Catalogo della mostra: “Pablo Echaurren. Chromo Sapiens”, a cura di Nicoletta Zanella, Skirà, 2010, pp. 164, formato cm. 24×28.

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante alla presentazione della mostra, si ringrazia la Fondazione Roma Museo, con Civita, gli organizzatori e i titolari dei diritti per l’opportunità offerta.  In apertura “La Grande Cipolla”, 2010; seguono “I vertici azzurri di Roma” 2010 e “Finché morte non ci unisca”, 2009: in chiusura il mosaico di cui è autore il padre dell’artista, ripreso da Romano Maria Levante nel tunnel della stazione Metro di Piazza di Spagna a Roma.

Il mosaico di cui è autore il padre dell’artista, nel tunnel della stazione Metro di Piazza di Spagna a Roma

Guggenheim, 1. Il museo dell’avanguardia americana, al Palazzo Esposizioni

i Romano Maria Levante

Nel commentare la mostra sull'”Arte Astratta Italiana” con la celebrazione di “QUI Arte contemporanea” nel 60° di Editalia in corso alla  Gnam  fino al 27 gennaio 2013, abbiamo sottolineato il ruolo della rivista e della Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel dare visibilità al nascente astrattismo italiano. Al riguardo abbiamo evocato il ruolo del Guggenheim nell’escalation  dell’astrattismo americano attraverso un vero e proprio mecenatismo, ruolo  documentato nella mostra romana svoltasi dal 7 febbraio al 6 maggio 2012 al Palazzo delle Esposizioni, “Il Guggenheim – L’avanguardia americana 1945-1980”,  che merita di essere ricordata.

Richard Estes, “The Salomon Guggenhein Museum”, 1979 

Sono state esposte  60 opere tra dipinti, sculture e foto dalla celebre collezione, ordinate in 7 sezioni sulle tendenze nell’arte moderna  transoceanica tra il 1945 e il 1980: Espressionismo astratto e Hard Edge, Pop Art e Minimalismo, Post minimalismo e Arte concettuale fino al Fotorealismo.

E’ stato un evento vedere opere di un’istituzione che rappresenta molto più di una rinomata sede espositiva o di una preziosa collezione di opere d’arte. Il celebre museo nasce dall’impegno per l’arte moderna del ricco uomo d’affari Salomon Guggenheim, espresso in un’instancabile attività di collezionista dall’inizio degli anni ’30, nell’omonima Fondazione istituita nel 1937 per “la promozione, lo sviluppo e l’educazione in campo artistico e l’istruzione del pubblico”, e nel  “Museum of Non-Objective Painting” di New York creato nel 1939 che già nella denominazione si orientava verso un’arte non-oggettiva, vale a dire non tradizionale e figurativa ma tendenzialmente astratta. E questo con un linguaggio svincolato dall’oggettività per esprimere valori spirituali.

L’apporto di Peggy Guggenheim

Imperniato all’inizio sulle opere di Kandinsky che incarnava questa tendenza innovativa, creò il collegamento decisivo tra gli artisti europei fuorusciti negli Usa per sfuggire all’occupazione nazista e i giovani artisti americani. A questo riguardo fu fondamentale la nipote di Salomon, Peggy Guggenheim, che risiedeva in Europa occidentale dove aveva già formato un’ampia collezione di arte moderna nei suoi viaggi attuando, tra il 1938 e il 1941, il programma di “comprare un quadro al giorno” a contatto con gli ambienti parigini, in particolare con Duchamp e i surrealisti; tra l‘altro sposò Max Ernst. Anche Peggy lasciò l’Europa per New York nel 1941 prima dello scoppio della guerra con la collezione che aveva messo insieme e nel 1942 aprì una sede di arte contemporanea, “Art of This Century”, con il programma di “servire il futuro anziché documentare il passato”. 

Non era un museo come il “Non-Objective Painting” dello zio, ma un centro di incontri e iniziative tra artisti e critici, curatori e collezionisti; organizzava mostre per opere selezionate da una giuria con Duchamp ed Ernst, Mondrian e i curatori; fu scoperto così, proprio nel 1942, segnalato da Mondrian, Pollock, legato subito per contratto al centro che gli organizzò quattro mostre personali lanciandolo nell’olimpo dell’arte. Peggy acquistò molte opere delle mostre che organizzava e ampliò la raccolta anche dopo che il centro fu chiuso nel 1947 per il suo ritorno in Europa.  Il “Museum of Non-Objective Painting” di Salomon era cresciuto e nel 1959 assunse il nome di “Salomon Guggenheim Museum”  nella Fifth Avenue in un edificio dell’architetto Wright dalle forme curvilinee nel panorama squadrato geometricamente dei grattacieli di Manhattan: doveva essere il “tempio dello spirito”. Nel 1976 vi confluì la collezione di Peggy, vastissima anch’essa.

Jackson Pollock, “Argento verde”, 1949 

L’evoluzione dell’arte attraverso il Guggenheim Museum

Il raggio d’azione si era ampliato al di là della pittura “non-oggettiva” iniziale. Divenne fondamentale l’espressionismo astratto alimentato dall’inconscio, poi con la New York School si diffuse l’automatismo in un’arte che rifuggiva dalla riflessione costante e consapevole. Pollock ne è grande esponente per la sua capacità di esprimere il conflitto interiore mediante immagini astratte.  

Nel 1962 divenne curatore del Guggenheim il critico inglese Alloway, a lui si deve il termine “Pop Art”  come espressione della cultura popolare nei suoi aspetti creativi ritenuti fino ad allora minori, come pubblicità, fumetti e cinema.  Nel 1958 aveva scritto: “Il nuovo ruolo delle belle arti è di essere una delle forme possibili di comunicazione, in un quadro che si allarga sempre più a includere le arti di massa”. Mise in pratica questa concezione nella mostra del 1963 “Six Painters and the Object”con Dine e Johns, Lichtenstein e Rauschenberg, Rosenquist e Warhol. che passano dai conflitti interiori a quelli inerenti la vita urbana riflessi attraverso i mass media  e li esprimono  in forme meno personali più vicine ai processi industriali che ai lavori artistici tradizionali.

La dissacrazione procede, dopo la “Pop Art” il distacco emotivo dell’artista prende anche la strada del Fotorealismo  che traduce l’immagine fotografica in una pittura meticolosa con un precisionismo meccanico volto a dare la perfetta verosimiglianza: i soggetti sono quelli della vita quotidiana, come nella “Pop Art”. Alloway parla  di “immagine raddoppiata”, il dipinto e la fotografia di base, ne sono esponenti Bechtle, Blackwell e Close.

Alloway non si arresta, e con lui l’avanguardia americana: Siamo alla “Systemic Painting”, nome di una mostra del 1966 e della relativa tendenza: resta il non espressionismo della “Pop Art”  ma astraendosi dai temi dei mass media e concentrandosi sui problemi di linea, colore e forma della tela. I colori puri e le forme astratte lo fecero definire “Hard Edge”, tra gli artisti Stella e Noland.

Si va ancora oltre, si esplorano i rapporti tra gli oggetti d’arte e gli ambienti architettonici, si  annulla il confine tra pittura bidimensionale e scultura tridimensionale con Kelly, troviamo scultori come Judd con i suoi cubi e le sue forme rettangolari, e Flavin con i tubi fluorescenti. Al  Minimalismo, Post minimalismo e Arte concettuale fu dedicata una mostra con 21 artisti di 8 nazioni nel 1971 e una installazione luminosa di Flavin.  Nel 1991 il Guggenheim acquistò gran parte della collezione del conte Giuseppe Panza di Biumo che aveva raccolto molte di queste opere.

Al Held, “Senza titolo Y”,1960   

Il significato della mostra tra le recenti esposizioni di arte americana e russa

Ci fermiamo qui in una storia nella quale le iniziative del Museo e l’opera dei curatori hanno contribuito allo sviluppo artistico dell’Avanguardia americana. Alla presentazione della mostra sono intervenuti il direttore del Guggenheim di New York Richard Armstrong e quello della Peggy Guggenheim Collection di Venezia, Lauren Hinkson, che ne è la curatrice. Oltre alla grande sede newyorkese nella Fifth Avenue, ve ne sono tre europee, a Venezia sul Canal Grande, a Berlino e a Bilbao, in varie forme legate alla prima; è stata annunciata una sede in Abu Dhabi.

In tale contesto, la mostra del Palazzo Esposizioni ha assunto un significato diverso dalle  esposizioni di grandi artisti con tanti musei prestatori; rispecchia l’impulso dato dal “Guggenheim Museum” all’arte in un’epoca di straordinario fervore innovativo, come ha sottolineato Emmanuele F. M. Emanuele, allora presidente dell’Azienda speciale Expo: “La mostra documenta i formidabili slanci creativi dell’avanguardia artistica statunitense, in un percorso che rappresenta un’esperienza visuale ed emozionale di forte impatto e che al contempo consente di inquadrare storicamente opere, artisti e movimenti decisivi per la formazione della sensibilità culturale occidentale”. 

Una precisazione a questo riguardo: Emanuele è rimasto fortemente colpito dall’arte pittorica americana, tanto che ha portato a Roma  nella sede espositiva della Fondazione Roma di Palazzo Cipolla al Corso, diffondendone la conoscenza in Italia, Edward Hopper nel 2010 e  Georgia O’ Keeffe nel 2011, due visioni artistiche di una contemporaneità diversa da quella che ci ha proposto con le raccolte dell’avanguardia del Guggenheim. Lo stesso Emanuele ha fatto conoscere  nel 2011, l’anno della cultura russa in Italia, al Palazzo Esposizioni, l’arte della parte del mondo che ne era l’antagonista  frontale nella guerra fredda, i “Realismi socialisti” della Russia di Stalin, Krushev e Brehznev,  in una importante mostra a ottobre accompagnata dalla personale di “Rodcenko”, il fotografo dell’Avanguardia russa oppresso dal regime, preceduta a febbraio da una personale su “Deineka”, tra i grandi del “Realismo”. E’ una visione a largo raggio di una modernità dalle tante facce, ciascuna con aspetti peculiari: dalle opere del Guggenheim emerge la ricerca degli artisti dell’Avanguardia di aderire ai mutamenti della società e del mondo in cui vivono oltre a manifestare la propria creatività, e per questo rifuggono dai vincoli per esprimersi in piena libertà.

Seguiamo l’itinerario indicato nelle 7 sale che fanno corona alla rotonda centrale del Palazzo delle Esposizioni, un ambiente descritto così dal direttore del Guggenheim Armtrong: “In quanto istituzione culturale d’eccellenza in Italia, il Palazzo delle Esposizioni è la sede ideale per esporre l’avanguardia artistica del dopoguerra americano: Con i suoi spazi monumentali e le spettacolari prospettive interne, il palazzo offre un luogo d’eccezione per la presentazione dei capolavori di Jackson Pollock, Robert Rauschenberg, Chuck Close e molti altri ancora”. Prossimamente  il resoconto della  visita: dopo la breve storia che abbiamo premesso la parola passa alle opere d’arte.

Info

Catalogo della mostra: “Il Guggenheim, l’Avanguardia americana 1945-1980”,  a cura di Lauren Hinkson, Ed. Guggenheim, Palazzo Esposizioni, Skirà, 2012, pp. 140, formato 28×30 cm.; dal Catalogo sono tratte le citazioni del testo. I prossimi due articoli sulla mostra usciranno in questo sito il 29 novembre e 11 dicembre 2012. Le illustrazioni dell’articolo riguardano opere  rispettivamente di fotorealismo, espressionismo astratto e hard hedge, pop art: tendenze  che vengono analizzate nei due articoli successivi con immagini di altre opere esposte in aggiunta a quelle di introduzione  generale di cui sotto si danno le didascalie.  

Foto

Le immagini sono state riprese da Romano Maria Levante al Palazzo delle Esposizioni alla presentazione, si ringrazia l’Ufficio stampa del Palaexpo, il Guggenheim con i titolari dei diritti per l’opportunità offerta. – In  apertura, Richard Estes,
The Salomon Guggenhein Museum”, 1979; seguono, Jackson Pollock, “Argento verde” , 1949, poi  Al Held, “Senza titolo Y”  1960;  in chiusura, Andy Warhol, “Disastro arancione n. 5” , 1963..

Andy  Warhol, “Disastro arancione n. 5” , 1963